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G.

Di Fazio

Appunti di Analisi Matematica II

• Successioni di funzioni
• Calcolo Differenziale negli Spazi Normati
• Funzioni implicite
• Spazi Metrici e Spazi Normati
• Estremi relativi di funzioni su spazi metrici
• Curve in Rn
• Equazioni Differenziali
• Serie di Fourier
• Teoria dell’integrazione
• Sistemi Autonomi e stabilità
1. Successioni di funzioni

1.1 Definizioni e varie nozioni di convergenza

Sia fn : (a, b) → R ∀n ∈ N. La corrispondenza che associa ad ogni n ∈ N la funzione fn (x) si


dice successione di funzioni di termine generale fn (x) e si denota con il simbolo {fn }, n = 1, 2, . . . , .
Definizione 1.1 La successione {fn }, n = 1, 2, . . . , converge puntualmente in (a, b) se, comunque
si fissi x̄ ∈ (a, b) la successione numerica {fn (x̄)}, n = 1, 2, . . . ,è convergente. In tal caso è possibile
definire una funzione f (x) in (a, b) associando ad ogni x ∈ (a, b) il numero f (x) = limn→∞ fn (x).
Quindi la definizione è equivalente a dire che

∀x ∈ (a, b) ∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν |fn (x) − f (x)| < ε

Esempio 1.1 La successione {xn }, n = 1, 2, . . . , converge in [0, 1] alla funzione


(
0 0 ≤ x < 1;
f (x) =
1 x = 1.

Definizione 1.2 Sia {fn }, n = 1, 2, . . . , convergente (puntualmente) ad f (x) in (a, b). Diciamo che
converge uniformemente in (a, b) alla funzione f (x) se

∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν |fn (x) − f (x)| < ε ∀x ∈ (a, b)

e tale circostanza sarà indicata con la notazione fn →


→ f.

Teorema 1.1 (caratterizzazione della convergenza uniforme) Sia {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , una suc-
cessione di funzioni definite in (a, b) convergente ad una funzione f (x). fn →
→ f in (a, b) se e solo se
:
1) an ≡ sup |fn (x) − f (x)| < ∞ per n sufficientemente grande;
(a,b)
(1.1)
2) lim an = 0.
n→∞

Dim. Se fn →
→ f allora dalla definizione segue che

∀ε > 0 ∃ν ∈ N : an ≤ ε < ∞

e, allo stesso tempo, abbiamo la 1) e la 2).


Viceversa, dalla 2), usando la definizione di limite, segue la convergenza uniforme.
Esempio 1.2 La successione {xn }, n = 1, 2, . . . , non converge uniformemente in [0, 1].
Infatti se cosı̀ fosse avremmo

∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν |xn − f (x)| < ε ∀x ∈ [0, 1]


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ma questo implicherebbe
1 = sup |xn − f (x)| < ε ∀ε > 0
[0,1]

Esempio 1.3 La successione { n1 sen nx}, n = 1, 2, . . . , converge uniformemente in R alla funzione


identicamente nulla.
Infatti
1
sen nx ≤ 1 ∀x ∈ R

n n

e quindi
1
∃ν ∈ N : ∀n > ν sen nx ≤ ε ∀x ∈ R.


n
n
Esempio 1.4 La successione { xn! }, n = 1, 2, . . . , converge alla funzione identicamente nulla in
R ma la convergenza non è ivi uniforme. Tuttavia risulta uniforme in ogni intervallo del tipo
[−k, k] ∀k > 0.
Infatti n
x |x|n
an = sup = sup = +∞ ∀n ∈ N
x∈R n! x∈R n!

mentre, per il teorema di Weierstrass,

|x|n |xk |n
∃xk ∈ [−k, k] : a(k)
n ≡ sup =
x∈[−k,k] n! n!

(k)
e quindi, siccome an → 0, la convergenza è uniforme in [−k, k].

nx
Esempio 1.5 La successione { 1+n 2 x2 }, n = 1, 2, . . . , converge alla funzione identicamente nulla in

R ma la convergenza non è uniforme. Infatti,


 
1 1
an = sup |fn (x) − f (x)| = max |fn (x)| = fn =
R R n 2

che non converge a zero.

Esempio 1.6 La successione {nxn (1−x)}, n = 1, 2, . . . , converge alla funzione identicamente nulla
in [0, 1] ma la convergenza non è ivi uniforme. Infatti, posto fn (x) = nxn (1 − x), si ha:
   n  
n n n 1
an = sup |fn (x) − f (x)| = fn =n 1− → 6= 0
[0,1] n+1 n+1 n+1 e

e quindi la convergenza non è uniforme in [0, 1].

Definizione 1.3 Denotiamo con il simbolo C 0 ([a, b]) l’insieme delle funzioni continue nell’ intervallo

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chiuso e limitato [a, b].


Ponendo (
(f + g) (x) = f (x) + g(x) ∀x ∈ [a, b], ∀f, g ∈ C 0 ([a, b]);
(αf ) (x) = αf (x) ∀x ∈ [a, b], ∀α ∈ R, ∀f ∈ C 0 ([a, b]);

l’ insieme C 0 ([a, b]) diventa uno spazio vettoriale reale che si può rendere normato, ad esempio,
ponendo
kf k = max |f (x)| (1.2)
[a,b]

Teorema 1.2 (criterio di Cauchy per la convergenza puntuale) Sia {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , una
successione di funzioni definite in (a, b). La successione {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , è convergente, in
(a, b) se e solo se

∀x ∈ (a, b) ∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n, m > ν |fn (x) − fm (x)| < ε (1.3)

Dim. La dimostrazione è immediata conseguenza della definizione di convergenza e del criterio


di Cauchy per le successioni numeriche.

Teorema 1.3 (criterio di Cauchy per la convergenza uniforme) Sia {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , una
successione di funzioni definite in (a, b) convergente, in (a, b), ad una funzione f (x). Allora fn →
→f
in (a, b) se e solo se

∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n, m > ν |fn (x) − fm (x)| < ε ∀x ∈ (a, b). (1.4)

Dim. Infatti, se la successione converge uniformemente in (a, b) allora

|fn (x) − fm (x)| ≤ |fn (x) − f (x)| + |fm (x) − f (x)| ≤ ε ∀n, m > ν ∀x ∈ (a, b).

Viceversa se vale la (1.4), di certo la successione è puntualmente convergente per il teorema prece-
dente. Passando al limite per m → ∞ nella (1.4) si ha

an ≤ ε

e quindi la convergenza uniforme.

Teorema 1.4 (di continuità) Sia {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , una successione di funzioni in (a, b) continue
in un punto x0 ∈ (a, b) ed uniformemente convergente ad una funzione f (x) nell’ intervallo (a, b).
Allora la funzione limite f (x) è continua nel punto x0 .

Dim. Ricordiamo che, dalla caratterizzazione della convergenza uniforme


ε
∀ε > 0 ∃ν > 0 : an < ∀n > ν.
3

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Allora

|f (x) − f (x0 )| ≤ |f (x) − fν+1 (x)| + |fν+1 (x) − fν+1 (x0 )| + |fν+1 (x0 ) − f (x0 )|
≤ 2aν+1 + |fν+1 (x) − fν+1 (x0 )|

< + |fν+1 (x) − fν+1 (x0 )|
3

Siccome la funzione fν+1 è continua nel punto x0 esiste δ > 0 tale che, se |x − x0 | < δ, l’ultimo
addendo si può rendere minore di 3ε e quindi la tesi.

Osservazione 1.1 La convergenza di una successione {fn }, n = 1, 2, . . . , di elementi di C 0 ([a, b]),


nel senso della norma (1.2), coincide con la convergenza uniforme della successione di funzioni
continue {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , .

Infatti, se la successione di funzioni continue {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , converge uniformemente


in [a, b] la funzione limite è continua per il teorema di continuità e, per la caratterizzazione della
convergenza uniforme, si ha la convergenza nel senso della norma. Il viceversa è ovvio.

Osservazione 1.2 Mediante il teorema di continuità si può verificare che la convergenza nell’
esempio 1.2 non è uniforme. Infatti, se la convergenza fosse uniforme, la funzione limite dovrebbe
essere continua in [0, 1].

Teorema 1.5 (passaggio al limite sotto il segno di integrale) Sia {fn }, n = 1, 2, . . . , una successione
di funzioni continue in [a, b] ed uniformemente convergente in [a, b] ad una funzione (continua) f (x).
Allora vale la formula Z b Z b
lim fn (x)dx = f (x)dx. (1.5)
n→∞ a a

Dim. Si ha
Z Z
b Z b b
fn (x)dx − f (x)dx ≤ |fn (x) − f (x)| dx ≤ an (b − a) < ε.


a a a

Esempio 1.7 La successione {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , definita ponendo

1


 4n2 x ; 0≤x≤ ;


 2n
1 1

fn (x) = −4n2 x + 4n ; ≤x≤ ;

 2n n
1


0 ≤ x ≤ 1.


n

converge alla funzione identicamente nulla nell’ intervallo [0, 1] ma non converge uniformemente
perchè non vale la (1.5). La successione dell’ esempio 1.3 invece verifica la (1.5) però non converge

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uniformemente.

Teorema 1.6 (di derivabilità) Sia {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , una successione di funzioni di classe
C 1 (a, b) con (a, b) intervallo limitato. Supponiamo inoltre che:

i) fn0 g in (a, b);

ii) ∃x0 ∈ (a, b) : {fn (x0 )}, n = 1, 2, . . . , converge.

Allora : →
1) fn f in (a, b);

2) f ∈ C 1 (a, b) e f 0 = g.

Dim. Per il teorema di continuità g ∈ C 0 (a, b). Dal teorema fondamentale del calcolo
Z x
fn (x) = fn0 (t)dt + fn (x0 ) ∀x ∈ (a, b) ∀n ∈ N.
x0

Per l’ipotesi i) ed il teorema di passaggio al limite sotto il segno di integrale dall’ ultima eguaglianza
si deduce che fn (x) converge, in (a, b) ad una certa funzione f (x). Passando quindi al limite per
n → ∞ si ha: Z x
f (x) = g(t)dt + f (x0 ) ∀x ∈ (a, b)
x0

da cui si ha f ∈ C 1 . Derivando, infine segue

f 0 (x) = g(x) ∀x ∈ (a, b).

Proviamo adesso che fn →


→ f. Infatti, per la i), abbiamo: (supponiamo x > x0 )
Z x
|fn (x) − f (x)| ≤ |fn (x0 ) − f (x0 )| + |fn0 (t) − f 0 (t)| dt
x0
ε
≤ + |x − x0 | sup |fn0 (x) − f 0 (x)|
2 (a,b)
ε
≤ + (b − a) sup |fn 0 − f 0 | < ε.
2
x
R.

Esempio 1.8 Studiamo la convergenza della successione fn (x) = sen n in
Si ha:  x 
1
0
|fn (x)| = cos ≤ 1 ∀x ∈ R
n n n

→ 0 in qualsiasi compatto K ⊂ R. Per il corollario al teorema di derivazione, fn → 0 in


e quindi, fn0 → →

ogni compatto K ⊂ R. La successione data non converge uniformemente in R. Infatti, altrimenti si


avrebbe:
x 1
∃ν ∈ N : ∀n > ν sen < ∀x ∈ R


n 2
e quindi
sen x < 1 ∀x ∈ R.

ν + 1 2

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π
+ 2nπ si trova 1 < 12 .

Scegliendo x = (ν + 1) 2

2
Esempio 1.9 La successione di termine generale fn (x) = e−nx converge, ma non uniformemente
in R.
Infatti, la funzione limite è (
0 x 6= 0;
f (x) =
1 x=0

che non è continua in R. Proviamo adesso che la convergenza è uniforme in |x| ≥ k ∀k > 0. Infatti,
2 2
|fn (x)| = |e−nx | ≤ e−nk |x| ≥ k

e quindi
2
−nk
a(k)
n = sup |fn (x)| ≤ e → 0.
|x|≥k

Esempio 1.10 La successione di termine generale fn (x) = e−nx cos nx converge, ma non uniforme-
mente in [0, 2π].
Infatti, la funzione limite è (
0 x ∈]0, 2π];
f (x) =
1 x=0

che non è continua in x = 0. Proviamo adesso che la convergenza è uniforme in [k, 2π] ∀k ∈]0, 2π[.
Infatti,
|fn (x) − f (x)| = e−nx | cos nx| ≤ e−nk ∀x ∈ [k, 2π]
e quindi,
−nk
a(k)
n = sup |fn (x) − f (x)| ≤ e → 0.
[k,2π]

Esempio 1.11 La successione di termine generale fn (x) = e−nx sen nx converge, alla funzione
identicamente nulla in [0, 2π].
Stavolta non possiamo usare il teorema di continuità per stabilire che la convergenza non è uniforme.
Osserviamo che
   
1 1 −1
an = sup |fn (x) − f (x)| ≥ fn
−f = e sen 1
[0,2π] n n

e quindi an non tende a zero e la convergenza non è uniforme. Ragionando come nell’esempio
precedente si vede che la convergenza è uniforme in [k, 2π] ∀k ∈]0, 2π[. Infatti,

|fn (x) − f (x)| = e−nx | sen nx| ≤ e−nk ∀x ∈ [k, 2π]

e quindi,
−nk
a(k)
n = sup |fn (x) − f (x)| ≤ e → 0.
[k,2π]

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Esempio 1.12 La successione di termine generale fn (x) = nx sen nx converge, alla funzione identi-
camente uguale ad 1 in R \ {0} ma la convergenza non è uniforme.
Infatti, dire che la successione converge uniformemente significa che
n x
∀ε > 0 ∃ν ∈ N : sen − 1 < ε ∀n > ν ∀x 6= 0.


x n
sen t
Ricordiamo che limt→0 t = 1 ovvero

1
∀ε > 0 ∃δ > 0 : sen t − 1 < ε
0 < |t| < δ.
t

Se esiste x
ν∈N : <δ ∀n > ν ∀x 6= 0

n

allora la convergenza è uniforme, altrimenti non lo è. Siccome limx→+∞ nx = +∞, ciò non è
possibile.

Adesso vediamo qualche applicazione agli spazi metrici e agli spazi normati.
Teorema 1.7 (completezza di C 0 ([a, b])) Lo spazio C 0 ([a, b]) risulta completo rispetto alla norma
(1.2).

Dim. Sia {fn }, n = 1, 2, . . . , una successione di Cauchy di elementi di C 0 ([a, b]). Allora

∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n, m > ν kfn − fm k∞ < ε.

Per definizione di (1.2)

∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n, m > ν |fn − fm | < ε ∀x ∈ [a, b].

Per il criterio di Cauchy relativo alla convergenza uniforme, fn → → f e per il teorema di continuità
f ∈ C 0 . Per l’osservazione 1.1 abbiamo infine la tesi.
Nello spazio C 0 ([a, b]) si può introdurre anche la seguente norma integrale
! p1
Z b
kf kp = |f (x)|p dx 1<p<∞ (1.6)
a

Lo spazio però non risulta completo rispetto alla norma integrale (1.6) come mostra il seguente
esempio.
Esempio 1.13 La successione {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , definita dalla legge

1


 1 ≤ x ≤ 1;


 n
1 1

fn (x) = nx − ≤x≤ ;

 n n
1


 −1

−1≤x≤− ;
n

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è una successione di Cauchy secondo la norma (1.6) ma non è convergente.


Infatti, se n > m ∈ N si ha:
Z 1 Z n1 Z m1
|fn (x) − fm (x)|p dx ≤ 2(n − m)p xp dx + 2 |mx − 1|p dx
1
−1 0 n

(n − m)p

1 1
≤2 + 2 −
(p + 1)np+1 m n

2 1 1 1
≤ + 2 − < ε n, m > ν.
p+1n m n
Analogamente, se 
 1
 0 < x ≤ 1;
f (x) = 0 x = 0;

−1 −1≤x<0

abbiamo Z 1
2
|fn (x) − f (x)|p dx = → 0.
−1 n(p + 1)
Proviamo che {fn }, n = 1, 2, . . . , non converge nel senso della norma (1.6). Supponiamo, per
assurdo, che esista una funzione f ∗ ∈ C 0 ([−1, 1]) limite nel senso della norma (1.6) della successione
{fn }, n = 1, 2, . . . , . Allora
Z 1  p1 Z 1  p1
∗ p
|f − f | dx ≤ p
|f − fn | dx + kfn − f ∗ kp → 0
−1 −1

e quindi avremmo f ≡ f ∗ ma f ∈ / C 0 ([−1, 1]) che è assurdo.


Definizione 1.4 Da ora in avanti sarà
C 1 ([a, b]) = f : [a, b] → R : ∃ f 0 ∈ C 0 ([a, b])


normato ponendo
kf kC 1 ≡ kf kC 0 + kf 0 kC 0 = max |f (x)| + max |f 0 (x)| (1.7)
[a,b] [a,b]

Teorema 1.8 Lo spazio C 1 ([a, b]) è completo rispetto alla norma (1.7).

Dim. Infatti, sia {fn }, n = 1, 2, . . . , una successione di Cauchy in C 1 ([a, b]). Allora,
∀ε > 0 ∃ ν ∈ N : kfn − fm kC 1 < ε ∀ n, m > ν
e quindi (
kfn − fm kC 0 < ε
kfn0 − fm
0
kC 0 < ε.
Siccome C 0 ([a, b]) è completo esistono f, g ∈ C 0 ([a, b]) :
kfn − f kC 0 → 0 kfn0 − gkC 0 → 0.
Per il corollario al teorema di derivazione ∃f 0 = g e quindi
kfn − f kC 1 → 0.

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2. Serie di funzioni

2.1 Definizioni e varie nozioni di convergenza

Sia {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , P


una successione di funzioni definite in (a, b) a valori reali e sia

x0 ∈ (a, b). Se la serie numerica n=1 fn (x0 ) risulta convergente diremo che la serie di funzioni

X
fn (x) (1.1)
n=1

converge in x0 . Se questo accade per ogni x ∈ (a, b) allora diremo che la serie (1.1) converge
puntualmente in (a, b). Ovvero
n
∀x ∈ (a, b) ∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν
X
fk (x) − f (x) < ε. (1.2)


k=1

Se invece n
∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν
X
fk (x) − f (x) < ε ∀x ∈ (a, b) (1.3)


k=1
P∞
diremo allora che la serie n=1 fn (x) converge uniformemente ad f (x) in (a, b). In maniera simile
a quanto visto per le successioni di funzioni, anche per le serie abbiamo i criteri di convergenza di
Cauchy

P∞
Teorema 1.1 (criterio di Cauchy per la convergenza puntuale). La serie n=1 fn (x) converge
puntualmente in (a, b) se e solo se
n+p
∀x ∈ (a, b) ∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν ∀p ∈ N
X
fk (x) < ε (1.4)



k=n+1

Dim. Basta applicare il criterio di Cauchy alla successione di funzioni sn (x).

P∞
Teorema 1.2 (criterio di Cauchy per la convergenza uniforme). La serie n=1 fn (x) converge
uniformemente in (a, b) se e solo se
n+p
∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν ∀p ∈ N
X
f (x) < ε ∀x ∈ (a, b) (1.5)

k

k=n+1

Dim. Basta applicare il criterio di Cauchy relativo alla convergenza uniforme alla successione
di funzioni sn (x).

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P∞
Definizione 1.1 (convergenza totale) La serie n=1 fn (x) converge totalmente in (a, b) se

+∞
X
sup |fn (x)| < +∞
n=1 (a,b)

Teorema 1.3 (Test di Weierstrass) La convergenza totale implica la convergenza assoluta ed


uniforme.

Dim. Usiamo il criterio di Cauchy per la convergenza uniforme. Posto Mn ≡ sup(a,b) |fn (x)|
∀n ∈ N si ha:
n+p n+p n+p
X X X
fk (x) ≤ |fk (x)| ≤ sup |fk (x)| < ε, ∀x ∈ (a, b).



k=n+1

k=n+1 (a,b)
k=n+1

In generale il viceversa e’ falso (vedi piu’ avanti, dopo il teorema di Abel).

Esempio 1.1 Consideriamo le serie


∞ ∞ ∞
X X xn X sen(nx)
xn ; 2
; 2
.
n=0 n=1
n n=1
n

La prima è la serie geometrica di ragione x. Converge puntualmente in ] − 1, 1[ ma la convergenza


non è uniforme e si vede applicando il criterio di Cauchy. La seconda serie è convergente in [−1, 1]
e la convergenza è totale perchè
n
x
≤ 1 ∀x ∈ [−1, 1].
n2 n2

Infine la terza serie è totalmente convergente in R perchè



sen(nx) 1
n2 ≤ n2
∀x ∈ R, ∀n ∈ N.

P∞
Teorema 1.4 (continuità) Sia n=1 fn (x) una serie di funzioni continue in x0 ∈ (a, b) uniforme-
mente convergente alla funzione f (x) in (a, b). Allora f (x) è continua in x0 .

Dim. Applicare il teorema di continuità alla successione {sn (x)}, n = 1, 2, . . . , delle somme
parziali.

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Appunti di Analisi Matematica II

P∞
Teorema 1.5 (derivabilità) Sia n=1 fn (x) una serie di funzioni di classe C 1 (a, b) con (a, b) inter-
vallo limitato. Supponiamo inoltre che:

X
∃x0 ∈ (a, b) : fn (x0 ) converge;
n=1

X
fn0 (x) converge uniformemente a g(x)in (a, b).
n=1
P∞
Allora la serie n=1 fn (x) converge uniformemente in (a, b) e, detta f (x) la funzione somma, f (x)
risulta di classe C 1 ed inoltre f 0 (x) = g(x) ∀x ∈ (a, b).

Dim. Applicare il teorema di derivabilità alla successione {sn (x)}, n = 1, 2, . . . , delle somme
parziali.

P∞
Teorema 1.6 (Integrazione per serie) Sia n=1 fn (x) una serie di funzioni continue in [a, b] uni-
formemente convergente alla funzione f (x) in [a, b]. Allora vale la formula
∞ Z
X b Z b
fn (x)dx = f (x)dx.
n=1 a a

Dim. Applicare il teorema di passaggio al limite sotto il segno di integrale alla successione
{sn (x)}, n = 1, 2, . . . , delle somme parziali.

P∞
Esempio 1.2 Calcolo della somma della serie n=1 nxn .
Applicando il teorema di derivazione si ha:
∞ ∞ ∞
0
X X X
nxn = x(xn )0 = x (xn )
n=1 n=1 n=1

!0  0
X
n x
=x x =x
n=1
1−x
x
= , ∀x ∈] − 1, 1[.
(1 − x2 )

Esempio 1.3 Studio della convergenza puntuale ed uniforme in R della serie



x
x ∈ R.
X
,
n=1
2 + 3n4 x2

Studiamo la convergenza puntuale: Per x = 0 la serie è ovviamente convergente. Sia x 6= 0. Poichè



4
x = 1 6= 0

lim n 4 2
n→∞ 2 + 3n x 3|x|

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la serie è convergente in R per il criterio di confronto con la serie armonica generalizzata.


Per studiare la convergenza uniforme proviamo che la serie converge totalmente in R. Infatti
si ha: r
x 1 2 1
sup =
R 2 + 3n4 x2 4 3 n2
e quindi, essendo convergente la serie dei sup, la serie data converge totalmente in R.
2.2 Serie di potenze
P+∞
In questo paragrafo considereremo serie di funzioni della forma n=0 an (z − z0 )n dove {an }
è una successione di numeri complessi. Tali serie vengono dette serie di potenze di coefficienti
{an }, n = 1, 2, . . . , e centro z0 . (*) La cosa che distingue le serie di potenze tra le serie di funzioni
è la struttura dell’ insieme di convergenza. Qualunque serie di potenze converge nel suo centro.
Risulta quindi non vuoto il seguente insieme
( +∞
)
z∈C: an (z − z0 ) ∈ C .
X
n
C≡
n=0

P+∞
Osserviamo sin da adesso che, posto ω = z − z0 ci si può ridurre a studiare la serie n=0 an ω n che
è centrata nell’ origine. Per cominciare dimostriamo il seguente

P+∞
Lemma 2.1 (Abel) Sia n=0 an z n una serie di potenze. Allora:

P+∞
1) Se esiste z0 6= 0 : n=0 an z n converge in z0 , la serie converge assolutamente ∀z : |z| < |z0 |
ovvero B|z0 | (0) ⊆ C. Inoltre la serie converge totalmente in Bδ (0), ∀δ < |z0 |.
P+∞
2) Se esiste z0 6= 0 : n=0 an z n non converge in z0 , la serie non converge ∀z : |z| > |z0 | ovvero
C \ B|z0 | (0) ⊂ C \ C.

Dim.
Proviamo la 1). Sia z0 ∈ C. Allora |an z0n | → 0 e quindi ∃M : |an z0n | ≤ M Allora, se |z| < |z0 |
n n n
z
n
|an z0n | ≤M z ≤M δ

|an z | = ∀z ∈ Bδ (0)
z0 z0 z0

e quindi la 1).

P+∞
Proviamo la 2). Per assurdo, se ∃z : |z| > |z0 | e n=0 an z n converge, allora per la 1) la serie
converge (assolutamente) in z0 .

(*) Conveniamo di porre 00 = 1

12
Appunti di Analisi Matematica II

Definizione 2.1 Data una serie di potenze n=0 an z n , sia Ra ≡ % ≡ sup |z| : n=0 an z n ∈ C .
P+∞ n P+∞ o

In generale % può essere un numero non negativo oppure +∞.

Esempio 2.1 Le serie


+∞ +∞ n ∞
X X z X
n!z n ; ; zn.
n=0 n=0
n! n=0

hanno raggio di convergenza % = 0; % = +∞; % = 1 rispettivamente.


La prima serie converge solo per z = 0 perchè

(n + 1)!|z|n+1
= (n + 1)|z| → +∞ ∀z 6= 0.
n!|z|n

La seconda serie converge in C. Infatti, per z 6= 0 si ha:


n!|z|n+1 |z|
= → 0.
(n + 1)!|z|n (n + 1)

La terza è la serie geometrica e quindi converge solo per |z| < 1.

Nello studio di una serie di potenze è di fondamentale importanza conoscere il raggio di con-
vergenza. Questo è lo scopo dei prossimi teoremi.

Teorema 2.1 Per ogni serie di potenze di raggio % si ha: B% (0) ⊆ C ⊆ B% (0)

Dim.
Sia |z| < %. Usando la seconda proprietà dell’estremo superiore si trova z ∗ ∈ C : |z| < |z ∗ | < %
da cui, per il Lemma di Abel segue che z ∈ C e quindi B%(0) ⊆ C. Sia adesso z ∈ / B%(0) ovvero
/ C ovvero C \ B%(0) ⊆ C \ C.
|z| > %. Per la prima proprietà dell’ estremo superiore si ha che z ∈
Inoltre si ha:
Teorema 2.2 Sia r ∈ R̃ : Br (0) ⊆ C ⊆ Br (0) Allora r = %.

Dim. Infatti, se r > % esiste z : % < |z| < r : z ∈ C contro la prima proprietà dell’estremo
superiore. Se invece r < %, poichè C ⊆ Br (0), in B% (0) \ Br (0) non si ha convergenza ovvero non vi
sono elementi di C. Ma questo va contro la seconda proprietà dell’estremo superiore quindi la tesi.

Diamo adesso un metodo per il calcolo esplicito del raggio di convergenza.

P+∞ p
Teorema 2.3 (Calcolo del raggio) Sia data la serie di potenze n=0 an z n . Se maxlimn→∞ n
|an | =
l ∈ [0, +∞] si ha % = 1l .

Dim. Supponiamo l > 0. Applicando il criterio della radice abbiamo che, se |z| < 1l allora
z ∈ C mentre se |z| > 1l la serie diverge assolutamente. Allora, B 1l (0) ⊆ C ⊆ B 1l (0) da cui la tesi.

13
G.Di Fazio

P∞ P∞
Esempio 2.2 n=0 z 2n . Si può porre w = z 2 ed applicare il teorema alla serie n=0 wn .
In modo simile si può dimostrare il seguente teorema

P+∞
n an+1 1
Teorema 2.4 Sia data la serie di potenze n=0 an z . Se lim supn an = l allora % = l .

Da tutto quello che abbiamo sinora visto possiamo concludere che la conoscenza del raggio
di convergenza dice quasi tutto sul comportamento della serie. L’unico dubbio concerne il com-
portamento della serie sulla frontiera dell’ insieme di convergenza. A tal proposito dimostriamo il
seguente

P+∞
Teorema 2.5 (Abel) Sia data la serie di potenze n=0 an z n con % > 0. Se la serie converge in un
P+∞
punto z0 della frontiera dell’insieme di convergenza allora la serie n=0 an z n converge uniforme-
|z−z0 |
mente in ogni sottoinsieme del cerchio di convergenza in cui la funzione |z|−|z0|
è limitata.

Dim. Non è restrittivo supporre che % = 1 e che z0 = 1. Usando il fatto che la serie converge
nel punto z = 1 si ha:

n+k−1
X j n n+1
) + (an + an+1 )(z n+1 − z n+2 ) + (an + an+1 + an+2 )(z n+2 − z n+3 )+

a j z = an (z − z


j=n
· · · + (an + an+1 + · · · + an+k−1 )z n+k−1

≤ |an ||z n ||1 − z| + |an + an+1 ||z n+1 ||1 − z| + |an + an+1 + an+2 ||z n+2 ||1 − z|+
· · · + |an + an+1 + · · · + an+k−1 ||z n+k−1 |
|1 − z|
≤ |1 − z| 1 + |z| + · · · + |z|k−2 < 

1 − |z|
e la tesi segue dal criterio di Cauchy relativo alla convergenza uniforme.

Introduciamo adesso il concetto di derivazione complessa. Sia z0 ∈ Ω ⊂ C e sia f : Ω → C.


Diciamo che f è derivabile nel punto z0 in senso complesso se esiste (in C) il seguente limite:
f (z) − f (z0 )
lim = f 0 (z0 ).
z→z0 z − z0
Si può facilmente dimostrare che una funzione derivabile è anche continua e, similmente al caso
della derivazione reale si dimostrano i teoremi sulla derivata di una somma, di un prodotto, di
un quoziente e della funzione composta. Tuttavia, il concetto di derivazione in senso complesso è
profondamente diverso dal suo analogo in campo reale. A titolo di esempio verifichiamo che, anche
funzioni molto semplici possono risultare non derivabili in alcun punto.

Esempio 2.3 Consideriamo la funzione f : C → C definita dalla legge f (z) = z̄.


Sia z0 ∈ C. Verifichiamo che f non è derivabile in z0 . Si ha:
f (z) − f (z0 ) z̄ − z¯0 w̄
lim = lim = lim .
z→z0 z − z0 z→z0 z − z0 w→0 w

14
Appunti di Analisi Matematica II

Il limite non esiste. Infatti, considerando la restrizione all’asse reale si ha:

w̄ x
lim = lim = 1,
w→0 w x→0 x

mentre considerando la restrizione all’asse immaginario,

w̄ −iy
lim = lim = −1.
w→0 w y→0 iy
P+∞ P+∞
Data la serie di potenze n=0 an z n , la serie n=1 nan z n−1 si chiama serie derivata. Si ha

P+∞ n
P∞ n−1
Teorema 2.6 Sia data la serie di potenze n=0 an z con % > 0 e sia n=1 nan z la serie
0 0
derivata con raggio di convergenza % . Allora % = % .

Dim. Sia |z1 | < % e z : |z1 | < |z| < %. Allora,


n n
nan z n−1 = n |an z n | z1 ≤ M n z1 ≡ M 0 nq n ,

1 ∀|q| < 1
|z1 | z |z1 | z

e quindi z1 ∈ C 0 da cui % ≤ %0 . Viceversa, sia |z1 | < %0 Allora, definitivamente si ha:

|z1 |
|an z1n | = nan z1n−1 ≤ n|an z1n−1 |

n

da cui z1 ∈ C e quindi %0 ≤ % e,come volevasi % = %0 .

P+∞
Teorema 2.7 La serie n=0 an z n è derivabile in senso complesso e si ha:

+∞
! +∞
d X X
an z n = nan z n−1 , ∀z : |z| < %.
dz n=0 n=1

Dim. Sia z0 ∈ C. Proviamo che la serie è derivabile in z0 . Proviamo perciò che:


+∞

f (z) − f (z ) X
0 n−1
∀ > 0 ∃ δ > 0 : ∀z =
6 z0 , |z − z0 | < δ ⇒ − nan z0 < .

z − z0
n=1

Si ha:
+∞
X +∞
X n
X
f (z) − f (z0 ) = an (z − n
z0n ) = an (z − z0 ) z n−j z0j−1
n=1 n=1 j=1

15
G.Di Fazio

e quindi,
+∞  n 
f (z) − f (z ) X+∞ X +∞
0
X X
n−1 n−j j−1  n−1

− nan z0 = an z z0 − nan z0

z − z0


n=1 n=1 j=1 n=1
 
+∞ n
X
X j−1
n−j n−1

= an  z z0 − nz0 
n=1 j=1
 
N n
X X
n−j j−1 n−1

≤ an  z z0 − nz0 
n=1 j=1
 
+∞ n
X
X j−1
n−j n−1

+ an  z z0 − nz0 
n=N +1 j=1
= I + II.

Ovviamente, limz→z0 I = 0. Per quanto riguarda II, siano |z|, |z0 | < r < %. Si ha:
 
+∞ n +∞
X X X 
|II| ≤ |an |  |z|n−j |z0 |j−1 + n|z0 |n−1  ≤ 2 n|an |rn−1 <
j=1
2
n=N +1 n=N +1

per N maggiore di un conveniente N . Ciò è possibile perchè l’ultimo termine è resto di una serie
convergente e la convergenza è assicurata dal fatto che la serie delle derivate ha lo stesso raggio di
convergenza della serie data. In conclusione si ha:

f (z) − f (z ) X+∞
0
maxlimz→z0 − nan z0n−1 ≤ maxlimz→z0 |I| +  = , ∀ > 0

z − z0
n=1

da cui si ottiene la tesi.

A questo punto possiamo notare che una funzione che si possa esprimere come somma di una
serie di potenze è in realtà una funzione di classe C ∞ e ciò si vede applicando ripetutamente il
teorema appena dimostrato. Più precisamente dimostriamo quanto segue:

P+∞
Teorema 2.8 (sulla regolarità delle serie di potenze) Sia f (z) = n=0 an z n definita in B% (0).
Allora:
1) f ∈ C ∞ (B% (0));
2) f (k) (0) = k!ak ∀k ∈ N.

Dim. La funzione f (z) è derivabile all’interno del cerchio di convergenza grazie al teorema
appena dimostrato. Si ha:

f (z) = a0 + a1 z + · · · + an z n + · · · , f (0) = a0
0
f (z) = a1 + 2a2 z + · · · + nan z n−1
+ ···, f 0 (0) = a1

16
Appunti di Analisi Matematica II

e, continuando in questo modo si trova

f (k) (0) = k!ak ∀k ∈ N

da cui si ha che f ∈ C ∞ (B% (0)) ed inoltre



X f (n) (0) n
f (z) = z .
n=1
k!

P+∞
Teorema 2.9 (Unicità dello sviluppo in serie di potenze) Sia f (z) = n=0 an z n e f (z) =
P+∞ n
n=0 bn z ∀z ∈ B% (0). Allora:
an = b n ∀n ∈ N.

P∞ Dim. n DaPquanto

visto nella dimostrazione
n
P∞ del teorema P
n
precedente, se esistessero due serie
∞ n
n=0 an z e n=0 bn z tali che f (z) = n=0 a n z e f (z) = n=0 bn z allora dovrebbe risultare

f (k) (0) = k!ak ∀k ∈ N

e contemporaneamente
f (k) (0) = k!bk ∀k ∈ N
da cui l’ unicità dello sviluppo.

Definizione 2.2 Sia f ∈ C ∞ (Ω), z0 ∈ Ω ⊆ C. Diciamo che f è sviluppabile in serie di Taylor in Ω


se vale la seguente eguaglianza

+∞ (n)
X f (0)
f (z) = (z − z0 )n ∀z ∈ Ω. (2.1)
n=0
n!

Da questo momento in poi decidiamo di occuparci della versione reale delle serie di Taylor riman-
dando lo studio nel campo complesso per la mancanza di strumenti adatti a tale indagine. Diremo
quindi che una funzione reale è sviluppabile in serie di Taylor di centro x0 (oppure che è analitica
reale) se vale la (2.1) in un intorno (⊂ R) di x0 . Dalla definizione è evidente che una funzione
analitica risulta di classe C ∞ . In generale, non è vero il viceversa come mostra il seguente esempio
dovuto a Cauchy.
Esempio 2.4 La funzione f : R → R definita dalla legge
( 1
e− x2 x 6= 0
f (x) =
0 x=0

risulta di classe C ∞ (R) e, precisamente f (n) (0) = 0 ∀n ∈ N. Da questo segue che la serie di Mac
Laurin relativa ad f è identicamente nulla e quindi non può convergere alla funzione assegnata.

17
G.Di Fazio

Si può ancora affermare che, in generale la convergenza della (2.1) non è assicurata nemmeno
in un punto (a parte il centro!). Ciò è conseguenza del seguente risultato dovuto a Borel:

Teorema 2.10 Data una successione {cn } a termini reali esiste una funzione f ∈ C ∞ (R) tale che
f (n) (0) = cn ∀n ∈ N.

Quindi scegliendo cn = (n!)2 si ottiene una serie che converge soltanto in x = 0.

Teorema 2.11 (Condizione sufficiente per l’ analiticità) Sia f ∈ C ∞ (] − %, %[), % > 0. Supponiamo
che
M n!
∃ν ∈ N, ∃M ≥ 0 : sup |f (n) | ≤ n ∀n > ν.
]−%,%[ %

Allora f è analitica in ] − %, %[.

Dim. Sia |x| < %. Per fissare le idee supponiamo x ∈]0, %[. Dalla formula di Mac Laurin
arrestata all’ ordine n si ha che
n−1
X f (k) (0) k f (n) (ξ) n f (n) (ξ) n
∃ξ ∈]0, x[: f (x) = x + x = sn (x) + x (2.2)
k! n! n!
k=0

e quindi, usando (2.2)



n−1
X f (k) (0)
k
|f (x) − sn (x)| ≡ f (x) − x

k!
k=0
(n)  n
|x|n

f (ξ) n |x|
= x ≤ sup |f (n) (x)| ≤M → 0.
n! (a,b) n! %

Corollario 2.1 (Condizione sufficiente per l’ analiticità) Sia f ∈ C ∞ (] − %, %[) % > 0. Supponiamo
che esista
∃ν ∈ N, ∃M ≥ 0 : sup |f (n) | ≤ M ∀n > ν.
]−%,%[

Allora f è analitica in (a, b).

Dim. La tesi segue dal fatto che


n!
lim = +∞
n→∞ %n
e quindi, per definizione di limite,

n!
∃ν ∈ N : >1 ∀n > ν.
%n

2.3 Sviluppi notevoli

18
Appunti di Analisi Matematica II

Adesso, a titolo di esempio, prendiamo in esame il problema della analiticità di alcune funzioni.

1) Serie esponenziale

1 n
∀x ∈ R.
X
ex = x (3.1)
n=0
n!

Infatti, fissato % > 0, si ha

|Dn ex | ≤ e% ∀x ∈] − %, %[, ∀n ∈ N

e quindi, per il corollario, la formula (3.1) vale in ]−%, %[. Sia %1 > %. Per l’unicità dello sviluppo
in serie di potenze si ha che la stessa formula (3.1) deve essere valida anche in ] − %1 , %1 [. Poichè
%1 è arbitrario, la formula (3.1) vale in R. Esaminiamo un caso particolare. Ponendo x = 1
nella (3.1) si ottiene

X 1
e= (3.2)
n=0
n!

La serie risulta a termini positivi quindi diamo una valutazione diretta dell’ errore commesso
approssimando la somma della serie con una somma parziale. Si ha
∞  
X 1 1 1 1
e − sn = = 1+ + + ···
k! n! n + 1 (n + 1)(n + 2)
k=n
∞  k
1 X 1 1 n+1 1 n2 − 1
≤ = =
n! n+1 n! n (n − 1)!(n − 1) n2
k=0
1
< ∀n ∈ N.
(n − 1)!(n − 1)

2)

(−1)n
∀x ∈ R.
X
sen x = x2n+1 (3.3)
n=0
(2n + 1)!

Infatti, si ha
|Dn sen x| ≤ 1 ∀x ∈ R ∀n ∈ N
e per il corollario si ha la (3.3).

3)

(−1)n 2n
∀x ∈ R.
X
cos x = x (3.4)
n=0
(2n)!

La formula (3.4) si deduce dalla (3.3) applicando il teorema di derivazione per serie.

4)

x2n+1
∀x ∈ R.
X
senh x = (3.5)
n=0
(2n + 1)!

19
G.Di Fazio

Sfruttando la formula (3.1) si ha

∞ ∞
!
ex − e−x 1 X 1 n X (−1)n n
senh x = = x − x =
2 2 n=0
n! n=0
n!
∞ ∞
1 X [1 − (−1)n ] n X x2n+1
= x = ∀x ∈ R.
2 n=0 n! n=0
(2n + 1)!

5)

x2n
∀x ∈ R.
X
cosh x = (3.6)
n=0
(2n)!

Si ottiene derivando la formula (3.5).

6) Prima serie logaritmica



X xn+1
log(1 − x) = − ∀x ∈ [−1, 1[. (3.7)
n=0
n+1

Si ha

1 X
= tn , ∀t ∈] − 1, 1[. (3.8)
1 − t n=0

Fissato x ∈]0, 1[, poichè il raggio di convergenza della serie (3.8) è 1, nell’ intervallo [0, x]
abbiamo convergenza totale e quindi, integrando per serie, dalla (3.8) otteniamo
Z x Z xX∞
1
− log(1 − x) = dt = tn dt
0 1 − t 0 n=0
∞ x ∞
xn+1
X Z X
= tn dt =
n=0 0 n=0
n+1

e quindi abbiamo la (3.7) per x ∈]0, 1[. Se x = 0 la (3.7) è ovvia; se x ∈] − 1, 0] si ragiona


analogamente al caso x ∈ [0, 1[; se x = 1 la (3.7) non può valere. Esaminiamo il caso x = −1.
La serie che figura a secondo membro nella (3.7) converge per x = −1 grazie al teorema di
Leibnitz e quindi la serie di potenze (3.7) converge uniformemente in [−1, 0] per il teorema di
Abel perciò la serie (3.7) definisce una funzione continua in [−1, 0], in particolare, continua in
x = −1. Possiamo passare al limite per x → −1+ ottenendo che la formula (3.7) vale anche in
x = −1 ed inoltre

X (−1)n+1
log 2 = − (3.9)
n=0
n+1

che potrebbe essere usata per il calcolo approssimato del numero log 2. La formula (3.9) però
non è molto utile ai fini della determinazione delle cifre decimali di log 2. Infatti, utilizzando
il teorema di Leibniz si ha che, per ottenere una approssimazione con errore minore di 10−2
bisogna utilizzare almeno 100 termini della serie. Più avanti vedremo che il calcolo può essere
portato avanti in modo più efficiente utilizzando un’ altra serie la cui somma è log 2.

20
Appunti di Analisi Matematica II

7) Seconda serie logaritmica



X (−1)n n+1
log(1 + x) = x ∀x ∈] − 1, 1]. (3.10)
n=0
n+1

Si ottiene dalla (3.7) sostituendo x con −x.

8) Terza serie logaritmica



1+x X x2n+1
log =2 ∀x ∈] − 1, 1[. (3.11)
1−x n=0
2n + 1

Utilizzando le formule (3.7) e (3.10) abbiamo


∞ ∞
1+x X (−1)n n+1 X xn+1
log = log(1 + x) − log(1 − x) = x +
1−x n=0
n+1 n=0
n+1
∞ ∞
X xn+1 X x2n+1
= ((−1)n + 1) =2 , ∀x ∈] − 1, 1[.
n=0
n+1 n=0
2n + 1

Esaminiamo un caso particolare della formula (3.11). Se si pone x = 1


m con m ∈ N, m 6= 1 si
ha

m+1 X 1 1
log =2 2n+1
(3.12)
m−1 n=0
2n + 1 m
che, per esempio, per m = 2 fornisce

X 1 1
log 3 = (3.13)
n=0
2n + 1 4n

La serie (3.13) è a termini positivi quindi per determinare un valore approssimato della sua
somma bisogna procedere ad un’ analisi diretta stimando l’errore (per difetto) commesso ap-
prossimando log 3 con la somma dei primi n termini. Si ha
n−1 ∞ ∞
X 1 1 X 1 1 1 X 1
log 3 − = ≤
2k + 1 4k 2k + 1 4k 2n + 1 4k
k=0 k=n k=n
1 1 1 1 1 1
= 1 = ∀n ∈ N.
2n + 1 4n 1 − 4
3 2n + 1 4 n−1

Scegliendo n = 3 si ottiene quindi un’ approssimazione per difetto con errore minore di un
centesimo. Precisamente
1 1 263
log 3 ∼ 1 + + = = 1, 0 · · ·
12 80 240
Si può procedere similmente nel caso m = 3 ottenendo un valore approssimato di log 2. E’ utile
confrontare con la formula (3.9). Per m = 3 la (3.12) fornisce

X 1 1
log 2 = 2 2n+1
n=0
2n + 1 3

21
G.Di Fazio

e quindi

n−1 ∞
X 1 1 X 1 1
log 2 − 2k+1
= 2 2k+1

2k + 1 3 2k + 1 3
k=0 k=n
∞ ∞
X 1 1 2 1X 1
≤ = =
2n + 1 32k+1 2n + 1 3 32k
k=n k=n
2 1 1 1 3 1 1 1
= 1 = < .
2n + 1 3 9n 1 − 9
4 2n + 1 9 n 100

Ad esempio, scegliendo n = 2, si ottiene

2 2 1 56
log 2 ∼ + = = 0, 691 . . .
3 3 33 81

9)

X (−1)n 2n+1
arctang x = x ∀|x| ≤ 1. (3.14)
n=0
2n + 1

Ragioniamo in modo simile a quando abbiamo dimostrato la (3.7). Si ha


∞ ∞
1 X
2 n
X
= (−t ) = (−1)n t2n , ∀|t| < 1. (3.15)
1 + t2 n=0 n=0

Sia x ∈]0, 1[. Poichè il raggio di convergenza della (3.15) è 1, in [0, x] abbiamo convergenza
totale e quindi, integrando per serie la (3.15) abbiamo la (3.14) per x ∈]0, 1[. Similmente si
procede per x ∈] − 1, 0[ essendo ovvia per x = 0. La formula (3.14) è valida anche nei punti
x = 1, x = −1 e ciò si dimostra come è stato fatto in 6). A questo punto però notiamo
che l’eguaglianza (3.14) è stata dimostrata soltanto nell’ intervallo [−1, 1] mentre la funzione
arctang x è di classe C ∞ (R). Il raggio di convergenza della serie che compare nella formula
(3.14) è 1 quindi, per l’ unicità dello sviluppo in serie di potenze la (3.14) esprime l’ unico
sviluppo possibile (in serie di Mac Laurin) della funzione arctang x.

10) Serie binomiale


∞  
X α
(1 + x)α = xn ∀x ∈] − 1, 1[ (3.16)
n=0
n

dove αk ≡ α(α−1)···(α−k+1)

e, per convenzione 0! = 1. La serie si dice binomiale perchè, oltre
al fatto che i coefficienti binomiali compaiono esplicitamente nello sviluppo, se α ∈ N, la (3.16)
k!

restituisce la formula del binomio di Newton.

Infatti, se α ∈ N si ha:
α α(α − 1) · · · (α − n + 1)
= =0 ∀α ≤ n − 1
n n!

22
Appunti di Analisi Matematica II

α

e quindi n 6= 0 solo se α > n − 1 ovvero n ≤ α e perciò
α  
α
∀x ∈ R
X
α
(1 + x) = xn (∗)
n=0
n

Se α ∈ N la (*) rappresenta un polinomio e quindi % = +∞. Se invece α ∈ R \ N allora % = 1 e la


convergenza agli estremi dell’ intervallo si può studiare mediante il criterio di Raabe.

11)

X (2n − 1)!! x2n+1
arcsen x = x + , ∀|x| ≤ 1. (3.17)
n=1
(2n)!! 2n + 1

La (3.17) si ottiene integrando l’ eguaglianza fornita dalla (3.16) per x = −t2 , α = − 12 . Nei
punti estremi dell’ intervallo si ha convergenza e si vede con il criterio di Raabe.

2.4 Sviluppi dedotti da quelli notevoli

In questo paragrafo vengono dedotti sviluppi di altre funzioni ricavati a partire da quelli
notevoli.

x
1) Sviluppare in serie di Mac Laurin la funzione x2 +4 precisando il più ampio intervallo in cui lo
sviluppo è valido.
∞   2  n
x x 1 x X x
= = −
x2 + 4 4 1 + ( x2 )2 4 n=0 2
∞ 2n ∞
x X nx
X (−1)n 2n+1
= (−1) n = x ∀|x| < 2.
4 n=0 4 n=0
4n+1

L’ intervallo trovato non si può estendere. Infatti, se la funzione data fosse sviluppabile in
un intervallo più ampio, diciamolo ] − %̄, %̄[, dall’ unicità dello sviluppo in serie di potenze,
avremmo che lo sviluppo in ] − 2, 2[, dovrebbe coincidere con lo sviluppo in ] − %̄, %̄[, ma ciò
sarebbe impossibile perchè la serie trovata dovrebbe avere raggio di convergenza maggiore di
2.
2
x
2) Sviluppare in serie di Mac Laurin la funzione x2 −5x+6 precisando il più ampio intervallo in cui
lo sviluppo è valido.

x2
 
2 1 1
=x · − + =
x2 − 5x + 6 x−2 x−3
1/2 1 1
= x2 − x2
1 − x2 3 1 − x3
∞ ∞
1 X xn 1 2 X xn
= x2 − x
2 n=0 2n 3 n=0 3n
∞  
X 1 1
= n+1
− n+1 xn+2 , |x| < 2.
n=0
2 3

23
G.Di Fazio

1
3) Sviluppare in serie di Mac Laurin la funzione (x−2)2 precisando il più ampio intervallo in cui
lo sviluppo è valido.

1
Sfruttiamo il fatto che la funzione da sviluppare è la derivata di − x−2 .

1 1 1 1 X xn
=− x =−
x−2 2 1− 2 2 n=0 2n

X xn
= − , |x| < 2
n=0
2n+1

Derivando per serie si ottiene:



1 X n n−1
2
= n+1
x , ∀x ∈] − 2, 2[.
(x − 2) n=1
2

4) Sviluppare in serie di Mac Laurin la funzione sen2 x precisando il più ampio intervallo in cui
lo sviluppo è valido.

Sviluppiamo la derivata di sen2 x cioè sen 2x.



(−1)n
∀x ∈ R.
X
sen 2x = (2x)2n+1
n=0
(2n + 1)!

Integrando per serie si ottiene



22n+1 x2n+2
∀x ∈ R.
X
2
sen x = (−1)n
n=0
(2n + 1)! 2n + 2

5) Sviluppare in serie di Mac Laurin la funzione cos2 x precisando il più ampio intervallo in cui
lo sviluppo è valido.

Sviluppiamo la derivata di cos2 x cioè − sen 2x.



(−1)n+1
∀x ∈ R.
X
− sen 2x = (2x)2n+1
n=0
(2n + 1)!

Integrando per serie si ottiene



22n+1
∀x ∈ R.
X
cos2 x = 1 + (−1)n+1 x2n+2
n=0
(2n + 2)!

p
6) Dire quali delle seguenti funzioni |x|, |x|, |x|2 sono sviluppabili in serie di Mac Laurin e
scriverne lo sviluppo precisando il più ampio intervallo in cui esso è valido.

24
Appunti di Analisi Matematica II

p
Le funzioni |x|, |x| non sono derivabili nell’ origine e quindi non sono analitiche mentre

|x|2 = x2 = 0 + 0 · x + x2 + 0 · x3 + · · · ∀x ∈ R

lo è.

7) Data la funzione
2
x4 + (1 + x2 )ex
f (x) =
x2 + 1
calcolare f (vi) (0).

Per il legame che esiste tra i coefficienti della serie di Mac Laurin e le derivate della funzione
somma nell’ origine (vedi teorema sulla regolarità delle serie di potenze) è sufficiente valutare il
coefficiente di x6 nello sviluppo di Mac Laurin. Per |x| < 1 si ha
2 ∞ ∞
x4 + (1 + x2 )ex 4
X
n 2n
X x2n
= x (−1) x +
x2 + 1 n=0 n=0
n!
∞ ∞
X
n 2n+4
X x2n
= (−1) x +
n=0 n=0
n!
∞ 
x2 X

k 1
=1+ + (−1) + x2k .
2! k!
k=2

1

e quindi la derivata richiesta vale 6! −1 + 3! = −240.

8) Calcolare il numero 101 con errore minore di 10−5 .

Osserviamo che, usando la serie binomiale, si ha


∞ 1

r
1 X
2 1
101 = 10 1+ = 10
100 n=0
n 100n

Calcolando i coefficienti binomiali abbiamo,


1 1
2 2 1
=1 =
0 1 2
1 1
− 1 · · · 12 − (n − 1)
1  
· (2n − 3)!!
2 =2 2
= (−1)n−1 ; n≥2
n n! (2n)!!

e quindi
∞ ∞

1
1 X 1 1 X (2n − 3)!! 1
101 = 10 + + 2 = 10 + + (−1)n−1 .
20 n=2 n 102n−1 20 n=2 (2n)!! 102n−1

25
G.Di Fazio

La serie ottenuta soddisfa le ipotesi del teorema di√Leibniz sulla convergenza delle serie di segno
alterno e quindi l’ errore ottenuto approssimando 101 con la somma dei primi n termini della
serie risulta minore di

(2(n + 2) − 3)!! 1 (2n − 1)!! 1


an+2 = 2(n+2)−1
= 2n+3
(2(n + 2))!! 10 (2n + 4)!! 10

Scegliendo n = 1 si trova a3 < 10−5 e quindi


√ 1 1 1 80.000 + 400 − 1 80.399
101 ∼ 10 + − 3
= = ∼ 10, 00498
20 4!! 10 8.000 8.000

a meno di 10−5 .

9) Calcolare il numero 24 con errore minore di 10−3 , .

Similmente all’ esercizio precedente utilizzando la serie binomiale abbiamo


∞  1  n ∞

r
1 X 1 X (−1)n−1 (2n − 3)!!
24 = 5 1− =5 2 − =5+ 2n−1
· (−1)n
25 n=0
n 25 n=1
5 (2n)!!

X (2n − 3)!! 1
=5− .
n=1
(2n)!! 52n−1

Siccome la serie ottenuta risulta a termini positivi dobbiamo procedere ad una diretta valutazione
dell’ errore. L’errore è dato dalla serie resto di posto n + 1. Precisamente (*)
∞ ∞  k
X (2k − 3)!! 1 X 1 1 1 1 1 1
2k−1
<5 = 5 n+1 1 = 2n−1
<
k=n+1
(2k)!! 5
k=n+1
25 25 1 − 25 24 5 1000

Scegliendo n = 2 si ha


 
1 1 1 1 4899
24 ∼ 5 − · + · = = 4, 899
2 5 4!! 53 1000

a meno di 10−3 . Siccome la serie approssimante è a termini positivi l’ errore commesso è certamente
per difetto e dell’ ordine di 10−3 . Se la terza cifra decimale fosse sbagliata, poichè 4, 899 + 0, 001 =
4, 900 varierebbe la cifra dei centesimi, che invece sappiamo essere corretta. Quindi la terza cifra
decimale del numero 4, 899 è corretta.
R1 sen x2
10) Calcolare il numero 0 x dx con un errore minore di 10−2 .

La funzione integranda è generalmente continua e limitata in [0, 1] quindi ivi sommabile. Se


x 6= 0 si ha

sen x2 X (−1)n 4n+1
= x ≡ ϕ(x), ∀x = 6 0.
x n=0
(2n + 1)!

P+∞ qk
(*) Ricorda che n=k qn = 1−q , ∀q ∈] − 1, 1[.

26
Appunti di Analisi Matematica II

La funzione ϕ è somma di una serie di potenze con raggio % = +∞ quindi risulta analitica in R
ed in particolare è continua in 0. Possiamo dire che ϕ è il prolungamento analitico di senxx ad R.
2

Quindi,
Z 1 Z 1 Z 1 Z 1X ∞
sen x2 (−1)n 4n+1
dx = lim ϕ(x)dx = ϕ(x)dx = x dx
0 x ε→0 ε 0 0 n=0 (2n + 1)!

X (−1)n 1
= .
n=0
(2n + 1)! 4n + 2

L’integrazione per serie è lecita per il teorema del raggio (% = +∞). Per il criterio di Leibniz
l’errore commesso approssimando la somma della serie con la somma dei primi n termini è minore
di
1 1
(2n + 1)! 4n + 2
che, per n = 2, è minore di 10−2 e quindi
1
sen x2
Z
dx ∼ 0, 4
0 x

a meno di 10−2 .
1
dx
con un errore minore di 10−3 .
R
11) Calcolare il numero 0
4
x2 +1

La funzione integranda è continua in [0, 14 ] quindi ivi sommabile. Si ha


Z 1 Z 1 ∞
4 dx 4 X
2
= (−1)n x2n dx
0 x +1 0 n=0
∞ Z 1 ∞
X
n
4 X 1 1
= (−1) x2n dx = (−1)n
n=0 0 n=0
42n+1 2n + 1

L’integrazione per serie è lecita grazie al teorema del raggio (% = 1). Per il teorema di Leibniz
l’errore risulta minore di
1 1
42n+1 2n + 1
che, per n = 2, risulta minore di 10−3 e quindi

1 1 1 1
arctang ∼ − 3 ∼ 0, 24
4 4 4 3

a meno di 10−3 .
R1
12) Calcolare il numero 0
arctang x2 dx con un errore minore di 10−2 .

La funzione integranda è continua in [0, 1] quindi ivi sommabile. Si ha



X (−1)n 4n+2
arctang x2 = x ∀|x| ≤ 1.
n=0
2n + 1

27
G.Di Fazio

La serie ottenuta ha raggio di convergenza % = 1 e siccome converge in x = 1, converge uniforme-


mente in [0, 1] per il teorema di Abel. E’ lecito dunque integrare per serie ottenendo

1 ∞
(−1)n
Z X 1
arctang x2 dx = .
0 n=0
2n + 1 4n + 3

Per il teorema di Leibniz, scegliendo n = 3, l’errore commesso è minore di 10−2 , quindi


Z 1
arctang x2 dx ∼ 0, 2
0

a meno di 10−2 .
R2
sen x1 − 1
dx con un errore minore di 10−2 .

13) Calcolare il numero 1 x

La funzione integranda è continua in [1, 2] quindi ivi sommabile. Si ha


Z 2   Z 2 Z 1
1 1 1 sen x
sen − dx = sen dx − log 2 = dx − log 2
1 x x 1 x 1
2
x2
∞ Z 1
X (−1)n
= x2n−1 dx − log 2
n=0
(2n + 1)! 1
2

X (−1)n 1 − 41n 1
= ∼ a1 = − ∼0
n=1
(2n + 1)! 2n 16

a meno di 10−2 .
R1 √
14) Calcolare il numero 0
cos xdx con un errore minore di 10−3 .

La funzione integranda è continua in [0, 1] quindi ivi sommabile. Si ha

1 ∞
1X ∞
1X
√ (−1)n √ 2n (−1)n n
Z Z Z
cos xdx = ( x) dx = x dx
0 0 n=0
(2n)! 0 n=0
(2n)!
∞ n
X (−1) 1
=
n=0
(2n)! n + 1

l’integrazione per serie essendo lecita perchè la serie ha raggio % = +∞. Per il criterio di Leibniz si
ha Z 1

cos xdx ∼ 0, 76
0

a meno di 10−3 .
1
x15 arctang xdx con un errore minore di 10−7 .
R
15) Calcolare il numero 0
2

28
Appunti di Analisi Matematica II

La funzione integranda è continua in [0, 12 ] quindi ivi sommabile. Si ha


1 1∞
(−1)n 2n+1
Z 2
Z 2
X
15
x arctang xdx = x15 x dx
0 0 n=0
2n + 1
∞ Z 12
X (−1)n
= x2n+16 dx
n=0
2n + 1 0

X (−1)n 1 1
= 2n+17
.
n=0
2n + 1 2 2n + 17

Per il teorema di Leibniz,


Z 1
2 1
x15 arctang xdx ∼ a0 = ∼0
0 2.228.224

a meno di 10−7 . Infatti, se n = 1, l’errore commesso è minore di 1


29.884.416 < 1
107 .

16) Dire quali delle seguenti funzioni



senh( x2 )5 ; arcsen(1 − x); (1 − x)−3 ; | sen x|

sono sviluppabili in serie di Mac Laurin ed, in caso affermativo, scriverne lo sviluppo.

La funzione senh( x2 )5 non è di classe C ∞ (]−δ, δ[) ∀δ > 0. La funzione arcsen(1−x) è definita
in [0, 2] che non è un intorno completo di zero. La funzione (1 − x)−3 è la derivata seconda della
1
funzione 1−x e quindi per il teorema di derivazione per serie,

∞ ∞
1 d2 X n X n(n − 1) n−2
= 2 x = x ∀|x| < 1.
(1 − x)3 dx n=0 n=2
2

Infine la funzione | sen x| non è di classe C ∞ in alcun intorno dell’ origine.

29
1. Calcolo Differenziale negli Spazi Normati

1.1 Derivate e differenziale

Siano X, Y due spazi normati su un campo K. Sia Ω un aperto non vuoto di X e sia f : Ω →
Y, x0 ∈ Ω. Fissato v ∈ X, poichè il punto x0 è interno all’ insieme Ω, esiste δ > 0 : x0 + tv ∈
Ω ∀t ∈]0, δ[ e quindi risulta definito, per t 6= 0, il rapporto incrementale

f (x0 + tv) − f (x0 )


(1.1)
t

nella direzione v, relativo al punto x0 . Se il rapporto (1.1) risulta convergente, al tendere di t a 0, la


funzione f si dice parzialmente derivabile nella direzione v nel punto x0 . Il limite di tale rapporto
si chiama derivata direzionale secondo la direzione v, della funzione f nel punto x0 ∈ Ω e si pone

∂f f (x0 + tv) − f (x0 )


(x0 ) ≡ fv (x0 ) = lim . (1.2)
∂v t→0 t

Esempio 1.1 Sia f : Ω ⊂ Rn → R. Nel caso in cui la funzione è derivabile lungo la direzione del
vettore v = ei i = 1, . . . , n la funzione f si dice parzialmente derivabile rispetto ad xi e la derivata
∂f
∂ei si chiama derivata parziale della funzione f rispetto alla variabile xi nel punto x0 e si denota
con
∂f ∂f
(x0 ) ≡ (x0 ) ≡ fxi (x0 ). (1.3)
∂ei ∂xi
Se f è parzialmente derivabile rispetto a tutte le variabili x1 , . . . , xn da cui dipende, si pone

∇f (x0 ) = (fx1 (x0 ), . . . , fxn (x0 )) (1.4)

ed il vettore cosı̀ definito si chiama vettore gradiente di f nel punto x0 .


Contrariamente al caso delle funzioni di una sola variabile, una funzione può essere derivabile in
ogni direzione senza essere continua come mostra il seguente

Esempio 1.2 Sia f : R2 → R definita ponendo


(
1 x · y = 0;
f (x, y) =
0 x · y 6= 0.

La funzione è discontinua in (0, 0) perchè limx→0 f (x, x) = 0 mentre f (0, 0) = 1. La funzione è


parzialmente derivabile in (0, 0). Infatti,

f (t, 0) − f (0, 0) 1−1


fx (0, 0) = lim = lim =0
t→0 t t→0 t
e, similmente,
f (0, t) − f (0, 0) 1−1
fy (0, 0) = lim = lim =0
t→0 t t→0 t
G.Di Fazio

e quindi esiste il gradiente in (0, 0) e si ha: ∇f (0, 0) = (0, 0).

Definizione 1.1 Sia Ω ⊂ X un aperto non vuoto e sia f : Ω → Y, x0 ∈ Ω. Diciamo che f è


differenziabile in x0 se esiste una applicazione lineare e continua f 0 (x0 ) ∈ L(X, Y ) tale che

f (x0 + h) − f (x0 ) − f 0 (x0 )(h)


lim =0 (1.5)
h→0 khk

ed in tal caso f 0 (x0 ) si dice differenziale di f in x0 .

Teorema 1.1 Sia Ω ⊂ X un aperto non vuoto e sia f : Ω → Y, x0 ∈ Ω differenziabile in x0 . Allora


f è derivabile lungo qualsiasi direzione e si ha:

∂f
(x0 ) = f 0 (x0 )(v).
∂v

Dim. Usando la definizione (1.5) ed il fatto che il differenziale è un’ applicazione lineare, si ha:

f (x0 + tv) − f (x0 ) f (x0 + tv) − f (x0 ) − f 0 (x0 )(tv) + f 0 (x0 )(tv)
lim = lim =
t→0 t t→0 t
f (x0 + tv) − f (x0 ) − f 0 (x0 )(tv)
= lim + f 0 (x0 )(v) = f 0 (x0 )(v).
t→0 t

In generale, il viceversa è falso come mostra il seguente

Esempio 1.3 Sia f : R2 → R definita ponendo

x2 y

 , (x, y) 6= (0, 0);
f (x, y) = x2 + y 2

0 (x, y) = (0, 0).

La funzione è derivabile in ogni direzione. Infatti sia v = (v1 , v2 ) ∈ R2 . Si ha:

f (tv) − f (0) v 2 v2
lim = 21 2
t→0 t v1 + v2

mentre f non risulta differenziabile in (0, 0) perchè l’espressione trovata non è lineare in v.

Esempio 1.4 (differenziale di funzioni scalari)


Sia f : Ω ⊂ Rn → R. Se f è differenziabile in x0 ∈ Ω, per il teorema precedente

∂f
(x0 ) = f 0 (x0 )(v).
∂v

2
Appunti di Analisi Matematica II

D’altra parte sappiamo dalla geometria che se l’ applicazione f 0 (x0 ) è lineare, esiste un vettore
a ∈ Rn tale che f 0 (x0 )(h) = a · h ∀h ∈ Rn e quindi

∂f
a · v = f 0 (x0 )(v) = (x0 )
∂v
e, scegliendo v = e1 , v = e2 , . . . , v = en si trova

∂f
a · ei = f 0 (x0 )(ei ) = (x0 ) i = 1, . . . , n
∂xi
∂f
da cui ai = ∂x i
(x0 ) i = 1, . . . , n ovvero a = ∇f (x0 ) e quindi si rappresenta il differenziale
attraverso il vettore gradiente, cioè

df (x0 )(h) = ∇f (x0 ) · h ∀h ∈ Rn . (1.6)

Teorema 1.2 Sia Ω ⊂ X un aperto non vuoto e sia f : Ω → Y, x0 ∈ Ω differenziabile in x0 . Allora


f risulta continua in x0 .

Dim. Sia δ > 0 : x0 + h ∈ Ω, ∀h : khk < δ. Allora

f (x) − f (x0 ) − f 0 (x0 )(x − x0 )


f (x) − f (x0 ) = kx − x0 k + f 0 (x0 )(x − x0 )
kx − x0 k

e quindi, ricordando che il differenziale è continuo,

lim f (x) − f (x0 ) = lim f 0 (x0 )(x − x0 ) = 0


x→x0 x→x0

e quindi
lim f (x) − f (x0 ) = 0.
x→x0

Il viceversa, in generale, è falso come mostra il seguente

p
Esempio 1.5 La funzione f : R2 → R definita ponendo f (x, y) = |xy| è continua ma non è
differenziabile nell’ origine.
Infatti dalla definizione segue
∂f ∂f
(0, 0) = (0, 0) = 0.
∂x ∂y
D’altra parte, come è stato già osservato, il limite
s
f (x, y) |xy|
lim p = x→0
lim
x→0
y→0 x2 + y 2 y→0
x2+ y2

non esiste.

3
G.Di Fazio

Una condizione sufficiente per la differenziabilità è la seguente:


Teorema 1.3 (del differenziale totale) Se f 0 è continuo in x0 allora f è differenziabile in x0 .

Dim. Omessa.
Esempio 1.6 La funzione f (x, y) = arctang xy è di classe C 1 nell’insieme Ω = R2 \ {x = 0}.
Infatti la funzione è definita per x 6= 0 e risulta derivabile dove è definita. Si ha:
1 −y y
fx (x, y) = y 2
· =− 2 ;
x2 x + y2

1+ x
1 1 x
fy (x, y) = y 2
· = 2 ,
x x + y2

1+ x

e siccome le derivate sono continue in ogni punto di Ω, la funzione risulta di classe C 1 (Ω) e quindi
ivi differenziabile.

Esempio 1.7 Calcoliamo le derivate parziali della funzione f (x, y) = log(x2 + y 2 ).


La funzione è definita nell’insieme Ω = {(x, y) ∈ R2 : (x, y) 6= (0, 0)} e risulta ivi parzialmente
derivabile. Si ha:
2x 2y
fx (x, y) = , fy (x, y) = , ∀(x, y) 6= (0, 0)
x2 + y2 x2 + y2

e siccome le derivate sono continue in ogni punto di Ω, la funzione risulta di classe C 1 (Ω), quindi
differenziabile.

Esempio 1.8 Differenziale di una funzione vettoriale


Sia Ω un aperto di Rn , f : Ω → Rm , x0 ∈ Ω. In questo caso f 0 (x0 ) ∈ L(Rn , Rm ) ∼ Rm,n e quindi
il differenziale si può rappresentare attraverso una matrice Jf (x0 ) di tipo m × n. Per individuare
la matrice Jf (x0 ) notiamo che f 0 (x0 )(ei ) = Jf (x0 ) · ei che è la i -esima colonna di Jf (x0 ). Quindi,
∂f1 ∂f1 ∂f1
∂x1 (x0 ) ∂x2 (x0 ) . . . ∂x (x0 )
   
n h1
∂f2 ∂f2 ∂f2
∂x1 (x0 ) ∂x2 (x0 ) . . . ∂x (x )
0  h2 
  
n
df (x0 )(h) =  · .  = Jf (x0 ) · h

..   .. 
 .
∂fm ∂fm ∂fm hn
∂x1 (x0 ) ∂x2 (x0 ) . . . ∂xn (x0 )

e la matrice Jf (x0 ) si dice matrice Jacobiana della funzione f nel punto x0 ovvero la matrice
Jacobiana è la matrice le cui righe sono i gradienti delle componenti della funzione data.

Esempio 1.9

1. f : (a, b) → R, x0 ∈ (a, b). In questo caso n = m = 1 e quindi Jf (x0 ) = f 0 (x0 ).


 
∂f ∂f
2. f : Ω ⊂ Rn → R, x0 ∈ Ω. In questo caso m = 1 e quindi Jf (x0 ) = ∂x1 (x0 ), . . . , ∂xn (x0 ) =
∇f (x0 ).

4
Appunti di Analisi Matematica II

3. f : (a, b) → Rm , x0 ∈ (a, b). In questo caso n = 1 e quindi Jf (x0 ) = T ( f10 (x0 ) . . . 0


fm (x0 ) ) .
Se f : Ω ⊂ Rn → Rm , x0 ∈ Ω, è differenziabile in x0 ∈ Ω allora

kf (x0 + h) − f (x0 ) − Jf (x0 ) · hkm


lim =0
h→0 khkn
ovvero
f (x0 + h) − f (x0 ) − Jf (x0 ) · h
lim =0
h→0 khkn
e questo significa,
f (x0 + h) = f (x0 ) + Jf (x0 ) · h + o(khkn ), h → 0.
Ponendo h = x − x0 si trova

f (x) = f (x0 ) + Jf (x0 ) · (x − x0 ) + o(kx − x0 kn ), x → x0 .

Teorema 1.4 Sia g : Ω ⊂ Rn → Rm , f : A ⊂ Rm → Rp e sia g(Ω) ⊂ A ⊂ Rm . Sia infine


x0 ∈ Ω, y0 = f (x0 ). Allora, se g è differenziabile in x0 ed f è differenziabile in g(x0 ), la funzione
H : Ω → Rp definita dalla legge H(x) = f (g(x)), è differenziabile in x0 e si ha JH (x0 ) = Jf (g(x0 )) ·
Jg (x0 ).

Dim. Omessa.

1.2 Differenziali di ordine superiore

Sia f : Ω ⊂ X → Y , Ω aperto non vuoto, x0 ∈ Ω. Supponiamo f differenziabile in Ω. Poichè


L(X, Y ) è normato ci si può chiedere se la funzione f 0 : Ω ⊂ X → L(X, Y ) che associa a x ∈ Ω il
differenziale nel punto f 0 (x) sia, a sua volta, differenziabile nel punto x0 . In tal caso diremo che la
funzione f è due volte differenziabile nel punto x0 . Naturalmente si ha: f 00 (x0 ) ∈ L(X, L(X, Y )).
Si ha:
f 00 (x0 )(v) ∈ L(X, Y ) ∀v ∈ X
e
f 00 (x0 )(v)(u) ∈ Y ∀u ∈ X.
Studiamo l’azione del differenziale secondo. Si ha:

f 0 (x0 + tv) − f 0 (x0 ) f 0 (x0 + tv)u − f 0 (x0 )u


f 00 (x0 )(v)(u) = lim u = lim
t→0 t t→0 t
∂u f (x0 + tv) − ∂u f (x0 ) ∂2f
= lim = ∂v ∂u f (x0 ) = (x0 )
t→0 t ∂v∂u

Ricordiamo il seguente risultato di carattere geometrico.

Teorema 2.1 Siano X1 , X2 , Y tre spazi normati su un campo K. Allora lo spazio L(X2 , L(X1 , Y ))
2
è isometricamente isomorfo allo spazio L(X1 × X2 , Y ) delle forme bilineari e continue da X1 × X2

5
G.Di Fazio

in Y.

In virtù di questo risultato possiamo quindi pensare al differenziale secondo come ad una forma
bilineare continua che associa alla coppia di vettori (u, v) il valore del differenziale f 00 (x0 )(v)(u) =
∂2f
∂v∂u (x0 ).

Esempio 2.1 Sia f : Ω ⊂ Rn → R, x0 ∈ Ω. In tal caso la forma bilineare è definita in Rn × Rn


a valori in R e quindi, come è noto dall’algebra lineare, si può associare a tale forma bilineare la
matrice quadrata di ordine n nella quale l’elemento di posto i, j è il valore della forma sulla coppia
di vettori (ei , ej ). In definitiva abbiamo:

∂2f
f 00 (x0 )(ei )(ej ) = (x0 ) = fxi xj (x0 ).
∂ei ∂ej

La matrice individuata si chiama matrice Hessiana della funzione f nel punto x0 e si indica con il
simbolo Hf (x0 ).

In generale non c’è alcuna ragione per pensare che la forma bilineare sia simmetrica come
mostra il seguente esempio.

Esempio 2.2 Consideriamo la funzione



 0 (x, y) = (0, 0);
f (x, y) = 2 2
 xy x − y (x, y) 6= (0, 0).
x2 + y 2

Calcolando le derivate fxy , fyx si vede che fxy (0, 0) 6= fyx (0, 0).

Tuttavia sussiste il seguente

Teorema 2.2 (Schwarz sull’inversione dell’ordine di derivazione) Sia f : Ω ⊂ X → Y, Ω aperto non


vuoto e sia x0 ∈ Ω. Supponiamo che esistono

∂u f (x0 ), ∂v f (x0 ), ∂u ∂v f (x0 ), ∂v ∂u f (x0 )

e che siano continue in x0 . Allora

∂u ∂v f (x0 ) = ∂v ∂u f (x0 ).

6
Appunti di Analisi Matematica II

Osservazione 2.1 Nel caso in cui f : Ω ⊂ Rn → R e la funzione soddisfa al teorema di Schwarz,


la matrice Hessiana risulta simmetrica e quindi induce una forma quadratica, definita ponendo

q(x) = T (x − x0 )Hf (x0 )(x − x0 ) ∀x ∈ Rn .

In modo analogo si possono definire i differenziali di ordine superiore al secondo.

1.3 La Formula di Taylor

Teorema 3.1 (Formula di Taylor al primo ordine con resto nella forma di Lagrange) Sia f : Ω ⊂
X → R, x0 ∈ Ω. Supponiamo la funzione f differenziabile in Ω. Allora, per ogni x ∈ Ω tale che il
segmento di estremi x0 e x sia contenuto in Ω esiste ξ ∈ seg]x0 , x[ tale che

f (x) = f (x0 ) + f 0 (ξ)(x − x0 )

Dim Il segmento di estremi x0 , x si può rappresentare come x(t) = tx + (1 − t)x0 , t ∈ [0, 1].
Consideriamo la funzione F : [0, 1] → R definita ponendo F (t) = f (x(t)). Si ha:

F (0) = f (x(0)) = f (x0 ) F 0 (t) = f 0 (x(t))(x − x0 )

Applicando la formula di Mac Laurin alla funzione F (t), si trova

F (1) = F (0) + F 0 (t∗ )

ovvero
f (x) = f (x0 ) + f 0 (x0 + t∗ (x − x0 ))(x − x0 ) = f (x0 ) + f 0 (ξ)(x − x0 ).

Teorema 3.2 (Formula di Taylor al primo ordine con resto nella forma di Peano.) Se f ∈ C 1 (Ω)
allora si ha
f (x) = f (x0 ) + f 0 (x0 )(x − x0 ) + o(kx − x0 k)

Teorema 3.3 (Formula di Taylor al secondo ordine con resto nella forma di Lagrange) Sia f : Ω ⊂
X → R, x0 ∈ Ω. Supponiamo la funzione f differenziabile due volte in Ω. Allora, per ogni x ∈ Ω
tale che il segmento di estremi x0 e x sia contenuto in Ω esiste ξ ∈ seg]x0 , x[ tale che

1
f (x) = f (x0 ) + f 0 (x0 )(x − x0 ) + f 00 (ξ)(x − x0 )(x − x0 )
2

7
G.Di Fazio

Dim Procediamo come nel caso precedente. Si ha:

F (0) = f (x(0)) = f (x0 ), F 0 (t) = f 0 (x(t))(x − x0 ), F 00 (t) = f 00 (x(t))(x − x0 )(x − x0 ).

Applicando la formula di Mac Laurin al secondo ordine alla funzione F (t), si trova

1
F (1) = F (0) + F 0 (0) + F 00 (t∗ )
2

da cui la tesi.

Teorema 3.4 Se f ∈ C 2 (Ω) allora si ha

1
f (x) = f (x0 ) + f 0 (x0 )(x − x0 ) + f 00 (x0 )(x − x0 )(x − x0 ) + o(kx − x0 k2 )
2
per ogni x ∈ Ω tale che il segmento di estremi x, x0 sia contenuto in Ω.

Teorema 3.5 (Funzioni con gradiente nullo) Sia Ω un aperto connesso di X e sia f : Ω → R tale
che f 0 (x) = 0 ∀x ∈ Ω. Allora f è costante in Ω.

Dim Sia x0 ∈ Ω, e siano

Ω1 = {x ∈ Ω : f (x) = f (x0 )} Ω2 = {x ∈ Ω : f (x) 6= f (x0 )}

Ovviamente Ω1 ∪ Ω2 = Ω, Ω1 ∩ Ω2 = ∅ ed inoltre Ω1 6= ∅ perchè contiene almeno x0 . Se proviamo


che Ω1 , Ω2 sono entrambi aperti, usando la connessione avremo che Ω2 = ∅ e quindi avremo la tesi.

Ω1 è aperto.

Infatti sia x̄ ∈ Ω1 ⊂ Ω. Allora ∃δ > 0 : B(x̄, δ) ⊂ Ω ed inoltre ∀x ∈ B(x̄, δ) ∃ξ ∈ seg(x, x̄) :


f (x) = f (x̄) + f 0 (ξ)(x − x̄) = f (x̄) = f (x0 ) perchè x̄ ∈ Ω1 e quindi B(x̄, δ) ⊂ Ω1 .

Ω2 è aperto.

Sia x̄ ∈ Ω2 . Allora f (x̄)−f (x0 ) 6= 0 e, per il teorema di permanenza del segno, f (x)−f (x0 ) 6= 0
in un intorno di x̄.

1.4 Funzioni omogenee

Definizione 4.1 Sia C ⊂ X. Diciamo che C è un cono in X se

∀x ∈ C ⇒ λx ∈ C ∀λ > 0.

8
Appunti di Analisi Matematica II

Se f : C ⊂ X → Y con C cono di X, diciamo che f è positivamente omegenea di grado α ∈ R se

f (λx) = λα f (x) ∀x ∈ C, ∀λ > 0

Esempio 4.1

|xy|
1) La funzione f (x, y) = arctang x2 +y 2 , ∀(x, y) 6= (0, 0) è omogenea di grado zero;

ai1 ...in xα αn
P
2) La funzione f (x1 , . . . , xn ) = |α|=k 1 . . . xn è un polinomio di grado k ed è omogenea
1

di grado k.

Teorema 4.1 Sia f : Ω ⊆ X → Y positivamente omogenea di grado α ∈ R nel cono aperto Ω e


supponiamo che esista la derivata fu in Ω. Allora fu è positivamente omogenea di grado α − 1 in
Ω.

Dim. Sia x̄ ∈ Ω. Si ha:

f (λx̄ + hu) − f (λx̄)


fu (λx̄) = lim
h→0 h
f (λ(x̄ + λh u)) − f (λx̄)
= lim =
h→0 h
f (x̄ + λh u) − f (x̄)
= lim λα−1 h
= λα−1 fu (x̄).
h→0
λ

Teorema 4.2 (Identità di Eulero) Sia Ω un cono aperto di X e sia f : Ω → R differenziabile in


Ω. Condizione necessaria e sufficiente affinchè f sia positivamente omogenea di grado α ∈ R è che
valga l’eguaglianza
∇f (x) · x = αf (x) ∀x ∈ Ω.

Dim. Infatti, se f è α−omogenea, f (λx) = λα f (x) da cui, derivando rispetto a λ, si ottiene:

∇f (λx) · x = αλα−1 f (x), ∀λ > 0

e, per λ = 1, si ha
∇f (x) · x = αf (x).
Viceversa, posto Φ(λ) = λ−α f (λx) si vede che Φ0 (λ) = 0, ∀λ > 0 e quindi la funzione Φ(λ) risulta
costante, da cui Φ(λ) = Φ(1) = f (x) ∀λ > 0 che è la tesi.

9
G.Di Fazio

Osservazione 4.1 In Rn tutte le norme sono equivalenti

Infatti, se N1 , N2 sono due norme in Rn il loro rapporto è una funzione omogenea di grado
zero. La funzione F (x) ≡ N 1 (x)
N2 (x) è limitata nell’insieme

{x ∈ Rn : N2 (x) = 1}

e quindi - per omogeneità - in Rn \ {0}. La funzione F (x) risulta inoltre continua e quindi, posto
c1 = min F (x), c2 = max F (x) segue

c1 N2 (x) ≤ N1 (x) ≤ c2 N2 (x) ∀x ∈ Rn .

10
1. Funzioni implicite

1.1 Il caso scalare

Sia X ⊂ R2 e sia f : X → R. Una funzione y : (a, b) → R si dice definita implicitamente


dall’equazione f (x, y) = 0 in (a, b) quando:

1. (x, y(x)) ∈ X ∀x ∈ (a, b);

2. f (x, y(x)) = 0 ∀x ∈ (a, b).

In generale una equazione in due variabili non definisce alcuna funzione implicita e, nel caso
in cui la definisca, non è detto che sia unica.
2 2
Esempio 1.1 Consideriamo √ l’equazione f (x, y) = x + y − 4 = 0. La funzione y : [−2, 2] → R
definita dalla legge y(x) = 4 − x2 è funzione implicita relativa all’equazione f (x, y) = 0.

Esempio 1.2 L’equazione f (x, y) = x4 + y 4 = 0 non definisce alcuna funzione implicita.


Una condizione sufficiente affinchè una equazione definisca una funzione implicita è espressa dal
seguente
Teorema 1.1 (U.Dini) Sia Ω ⊆ R2 un aperto e sia f : Ω → R una funzione continua in Ω. Sia
P0 = (x0 , y0 ) ∈ Ω tale che f (P0 ) = 0, f è differenziabile in P0 e si abbia ∂f
∂y (P0 ) 6= 0. Allora,
∃ δ, k > 0 tali che nell’intervallo [x0 − δ, x0 + δ] si può definire almeno una funzione implicita
y : [x0 − δ, x0 + δ] → [y0 − k, y0 + k] relativa all’equazione f (x, y) = 0. Per ogni funzione y(x)
definita implicitamente si ha:

1. y(x0 ) = y0 ;

2. y(x) è continua in x0 ;

3. y(x) è derivabile in x0 e si ha: y 0 (x0 ) = − ffyx(P


(P0 )
0 ).

Dim. Per fissare le idee supponiamo che fy (x0 , y0 ) > 0. Allora, per definizione di derivata,
esiste k > 0 tale che
f (x0 , y)
>0 ∀y ∈ [y0 − k, y0 + k], y 6= y0 .
y − y0
In particolare si ha f (x0 , y0 − k) < 0, f (x0 , y0 + k) > 0. Per il teorema di permanenza del segno è
possibile determinare δ > 0 tale che

f (x, y0 − k) < 0, f (x, y0 + k) > 0 ∀x ∈ [x0 − δ, x0 + δ].

Per ogni x ∈ [x0 − δ, x0 + δ] sia y(x) una delle soluzioni dell’equazione f (x, y) = 0. Dalla costruzione
è evidente che ogni funzione y(x) definita implicitamente soddisfa la 1). Proviamo che verifica
anche la 2) della tesi. Dobbiamo provare che

∀ε > 0 ∃σ > 0 : |x − x0 | < σ ⇒ |y(x) − y0 | < ε


G.Di Fazio

ma questo è evidente se si osserva che è lecito prendere k ≤ ε. Per completare la dimostrazione


proviamo che ogni funzione definita implicitamente è differenziabile in x0 . Per il fatto che f è
differenziabile nel punto (x0 , y0 ) si ha:

f (x, y) = f (x0 , y0 ) + fx (x0 , y0 )(x − x0 ) + fy (x0 , y0 )(y − y0 ) + o(|x − x0 | + |y − y0 |).

Ponendo y = y(x) segue

fx (x0 , y0 )
y(x) = y0 − (x − x0 ) + σ(x)(|x − x0 | + |y − y0 |), σ(x) → 0.
fy (x0 , y0 )

In un opportuno intorno di x0 si ha:

|y(x) − y0 | − |fy−1 (P0 )fx (P0 )(x − x0 )| ≤ |y(x) − y0 | − |fy−1 (P0 )fx (P0 )(x − x0 )|

≤ |y(x) − y0 − fy−1 (P0 )fx (P0 )(x − x0 )|


1
≤ σ(x)(|x − x0 | + |y − y0 |) ≤ (|x − x0 | + |y − y0 |)
2
e quindi,
1 1
|y(x) − y0 | ≤ |x − x0 | + |fy−1 (P0 )fx (P0 )(x − x0 )|
2 2
da cui
|y(x) − y0 | ≤ |x − x0 | 1 + 2|fy−1 (P0 )fx (P0 )| .


Allora, possiamo dire che

|y(x) − y0 + fy−1 (P0 )fx (P0 )(x − x0 )| = σ(x)(|x − x0 | + |y − y0 |)


≤ 2σ(x)|x − x0 |(1 + |fy−1 (P0 )fx (P0 )|) = o(|x − x0 |)

ovvero
y(x) − y0 fx (x0 , y0 )
x − x0 + fy (x0 , y0 ) ≤ σ(x) → 0

quindi la tesi.

Osservazione 1.1 Se l’ipotesi di differenziabilità vale in tutto Ω e se il differenziale è diverso da


zero in Ω allora la funzione implicita è unica e la formula di derivazione vale in tutto l’intervallo di
definizione. Infatti, nella costruzione precedente si ottiene che l’equazione f (x, y) = 0 ha una sola
soluzione y(x) per ogni x nell’intervallo considerato.

Il teorema precedente si estende al caso di funzioni di più variabili a valori reali.

Teorema 1.2 Sia Ω ⊆ Rn+1 un insieme aperto, (x0 , y0 ) ≡ (x0,1 , x0,2 , . . . , x0,n , y0 ) ∈ Ω e sia
f : Ω → R una funzione continua in Ω. Supponiamo che f (x0 , y0 ) = 0 e che f sia differenziabile nel
punto (x0 , y0 ) e supponiamo risulti ∂f
∂y (x0 , y0 ) 6= 0. Allora, esistono δ, k > 0 in modo che l’equazione
Qn
f (x, y) = 0 definisce almeno una funzione implicita y : j=1 [x0,j − δ, x0,j + δ] → [y0 − k, y0 + k].
Per ogni funzione implicita si ha inoltre:

2
Appunti di Analisi Matematica II

1. y(x0 ) = y0 ;

2. y(x) è continua in x0 ;
∂f
∂y ∂xj (x0 ,y0 )
3. y(x) è differenziabile in x0 e si ha: ∂xj (x0 ) =− ∂f
∂yn (x0 ,y0 ).

Osservazione 1.2 Nel caso che la funzione implicita esiste ed è unica, dalla formula di derivazione
si deduce che, se la funzione f è di classe C k (Ω) allora la funzione implicita è di classe C k nel suo
campo di definizione.

1.2 Il caso vettoriale

Generalizziamo quanto visto per una sola equazione al caso di un sistema di equazioni.

Incominciamo generalizzando il concetto di derivata direzionale. Vogliamo derivare - piuttosto


che rispetto ad una direzione - rispetto ad un gruppo di direzioni indipendenti tra loro e cioè rispetto
allo spazio vettoriale generato da queste direzioni. Diciamo quindi v1 , . . . , vn le date direzioni ed
indichiamo con V lo spazio generato da v1 , . . . , vn .

Definizione 2.1 Sia f : Ω ⊆ Rn → Rm , x0 ∈ Ω e poniamo Ωx0 = {h ∈ V : x0 + h ∈ Ω}.


Diciamo che f è differenziabile nel punto x0 rispetto al sottospazio V = L(v1 , v2 , . . . , vp ) se la
funzione g(h) = f (x0 + h) : Ωx0 → Rm è differenziabile per h = 0. Conveniamo di indicare questo
∂f
differenziale con il simbolo ∂V (x0 ).

Per conoscere il differenziale di f rispetto al sottospazio V bisogna conoscere il differenziale


della funzione g(h) = f (x0 + h) nel punto h = 0 che risulta quindi una matrice di tipo m × p.
Precisamente si tratta della matrice Jacobiana della funzione f rispetto alle direzioni che generano
V. Nel caso particolare che V = L(e1 , . . . , ep ) allora è la matrice Jacobiana della funzione f rispetto
alle variabili x1 , . . . , xp .

Esempio 2.1 Sia f : Ω ⊆ R4 → R2 , x0 ∈ Ω. Sia V = {t = 0} ≡ R3 . Differenziamo f rispetto a V.


Si ha: g 0 (0) : V → R2 ovvero g 0 (0) = Jg (0) ∈ R2,3 e quindi
 ∂f1 ∂f1 ∂f1 
∂f ∂x ∂y ∂z
(x0 ) = g 0 (0) = ∂f2 ∂f2 ∂f2
∂R3 ∂x ∂y ∂z

Dopo avere introdotto il concetto di derivata rispetto ad un sottospazio possiamo formulare la


generalizzazione del teorema della funzione implicita nel caso dei sistemi di equazioni.

Definizione 2.2 Sia f : Ω ⊂ Rn × Rm → Rn , con Ω insieme aperto in Rn × Rm . Data l’equazione


f (x, y) = 0 diciamo che y : A ⊆ Rn → Rm è una funzione implicita relativa all’equazione f (x, y) = 0

3
G.Di Fazio

se

1. (x, y(x)) ∈ Ω ∀x ∈ A;

2. f (x, y(x)) = 0 ∀x ∈ A.

Enunciamo adesso e dimostriamo il teorema del Dini nel caso dei sistemi.

Teorema 2.1 Sia f : Ω ⊆ Rn ×Rm → Rn una funzione continua, (x0 , y0 ) ∈ Ω tale che f (x0 , y0 ) = 0.
∂f
Supponiamo la funzione f (x, y) differenziabile in (x0 , y0 ). Supponiamo ancora che ∂R m (x0 , y0 ) sia

un isomorfismo di R in sè. Allora, esistono U intorno di x0 in R e V intorno di y0 in Rm tali


n n

che si può definire almeno una funzione implicita relativa all’equazione f (x, y) = 0, y : U → V. Per
ogni funzione implicita definita dall’ equazione f (x, y) = 0 risulta:

1. y(x0 ) = y0 ;

2. y(x) è continua nel punto x0 ;


 −1
∂f (x0 , y0 ) ∂f (x0 , y0 )
3. y è differenziabile in x0 e si ha: y 0 (x0 ) = − ◦
∂y ∂x
Una importante applicazione di questo caso si ha in Meccanica Razionale riguardo ai parametri
Lagrangiani o gradi di libertà di un sistema fisico.

Esempio 2.2 Dato il sistema 


x3 − 3xy 2 + z 3 + 1 = 0
x − 2y 2 − 3z 2 + 4 = 0
provare che y, z si possono esplicitare rispetto a x e poi, calcolare y 0 (1), z 0 (1).

Il problema si inquadra nel caso generale considerando la funzione

f : R × R 2 → R2 f (x, (y, z)) = (x3 − 3xy 2 + z 3 + 1, x − 2y 2 − 3z 2 + 4)

da cui  
∂f ∂f −6xy 3z 2
= =
∂R2 ∂(y, z) −4y −6z
Poichè il determinante della matrice è non nullo, si ha l’isomorfismo richiesto nell’ipotesi e quindi,
dal teorema del Dini segue la locale esplicitabilità. Per calcolare le derivate richieste basta derivare
membro a membro rispetto ad x le equazioni del sistema e poi valutarle nel punto x = y = z = 1.

Osservazione 2.1 Nel caso di un sistema lineare il teorema del Dini restituisce parzialmente il

4
Appunti di Analisi Matematica II

teorema di Rouchè - Capelli. Il vantaggio del teorema di Rouchè - Capelli è che fornisce risolubilità
globale. Lo svantaggio consiste nel fatto che il teorema di Rouché - Capelli si può applicare soltanto
al caso lineare.

Dimostriamo adesso il teorema.

Dim. Per semplicità possiamo supporre n = 2, m = 1. La dimostrazione si ripete inalterata


nella sostanza nel caso generale. Il sistema che vogliamo considerare si presenta dunque nella forma
seguente: (
f1 (x, y1 , y2 ) = 0
f2 (x, y1 , y2 ) = 0
A causa dell’ipotesi sullo Jacobiano possiamo dire che, fissata una colonna del determinante - ad
esempio la prima - almeno uno dei complementi algebrici relativi agli elementi della colonna fissata
∂f1
risulta diverso da zero. Supponiamo per esempio che sia ∂y 2
(P0 ) 6= 0. Allora è possibile esplicitare
la variabile y2 dalla prima equazione cioè possiamo scrivere y2 = ϕ(x, y1 ) in un conveniente intorno
di x0 . Quindi, in un intorno di x0 abbiamo
(
y2 = ϕ(x, y1 )
f2 (x, y1 , y2 ) = 0

Verifichiamo adesso che nella seconda equazione è possibile esplicitare la variabile y1 . Per questo
basta garantire che

f2 (x, y1 , ϕ(x, y1 )) 6= 0
∂y1
condizione senz’altro verificata grazie all’ipotesi sullo Jacobiano. Infatti, ponendo per comodità
F (y1 ) = f2 (x, y1 , ϕ(x, y1 )) si ha:

∂ ∂f2 ∂x ∂f2 ∂y1 ∂f2 ∂ϕ


F 0 (y1 ) = ∇f2 (x, y1 , ϕ(x, y1 )) · (x, y1 , ϕ(x, y1 )) = + +
∂y1 ∂x ∂y1 ∂y1 ∂y1 ∂y2 ∂y1
∂f1
!
∂f2 ∂f2 ∂y
= + − ∂f11
∂y1 ∂y2 ∂y2
 −1    −1 ∂f1 ∂f1
∂f1 ∂f1 ∂f2 ∂f1 ∂f2 ∂f1 ∂y1 ∂y2
= − = 2 ∂f2 =
∂f 6 0
∂y1 ∂y2 ∂y1 ∂y1 ∂y2 ∂y1 ∂y1 ∂y2

In conclusione, in un conveniente intorno del punto x0 possiamo scrivere


(
y1 = ϕ1 (x)
y2 = ϕ2 (x)

che è quanto si voleva. Proviamo adesso la formula di derivazione. Dal fatto che f (x, y) è differen-
ziabile nel punto (x0 , y0 ) si ha:
p
f (x, y) = f (x0 , y0 ) + Jf (x0 , y0 )(x − x0 , y − y0 )T + o( (x − x0 )2 + (y − y0 )2 )

e quindi, ponendo y = y(x) si ottiene:


p
0 = Jf (x0 , y0 )(x − x0 , y − y0 )T + o( (x − x0 )2 + (y − y0 )2 )

5
G.Di Fazio

Ricordando che la funzione f è una funzione di m + n variabili ad n componenti, il suo Jacobiano


è una matrice di tipo n × n + m cioè:
∂f1 ∂f1 ∂f1 ∂f1 ∂f1
... ...
 
∂x1 ∂x2 ∂xm ∂y1 ∂yn
Jf (x0 , y0 ) =  ...
 

∂fn ∂fn ∂fn ∂fn ∂fn
∂x1 ∂x2 ... ∂xm ∂y1 ... ∂yn

da cui
∂f ∂f
Jf (x0 , y0 )(x − x0 , y − y0 )T = (x0 , y0 )(x − x0 )T + (x0 , y0 )(y − y0 )T
∂x ∂y
quindi,

∂f ∂f p
0= (x0 , y0 )(x − x0 )T + (x0 , y0 )(y − y0 )T + o( (x − x0 )2 + (y − y0 )2 )
∂x ∂y

per cui, ricordando che det ∂f


∂y (x0 , y0 ) 6= 0, si ha;

 −1  
T ∂f ∂f
y (x) = y0T − (x0 , y0 ) (x0 , y0 ) (x − x0 )T + o(kx − x0 k).
∂y ∂x

Osservazione 2.2 Naturalmente vale quanto detto nel caso scalare e cioè che, se lo Jacobiano è
diverso da zero in tutto l’aperto allora la soluzione del sistema è unica.

Corollario 2.1 (Inversione locale) Sia f : Ω ⊆ Rn → Rn una funzione continua e differenziabile


nell’aperto Ω e supponiamo che in un punto x0 ∈ Ω si abbia f 0 (x0 ) 6= 0. Allora, f è localmente
invertibile in x0 ed inoltre, posto y0 = f (x0 ), si ha:
−1
∂f −1
  
∂f
= .
∂y y0 ∂x x0

Dim. basta applicare il teorema del Dini all’equazione F (x, y) = y − f (x). In particolare, posto
x = f −1 (y) si ha:
−1 −1  −1
∂f −1
 
∂F ∂F ∂f ∂y ∂f
=− =− − =
∂x ∂x ∂y ∂x ∂y ∂x

6
Appunti di Analisi Matematica II

1.3 Alcuni cambi di variabili

Come applicazione del teorema del Dini e dell’inversione locale studiamo alcuni cambi di vari-
abile che saranno utili durante lo studio dell’ integrazione.

Esempio 3.1 Coordinate polari nel piano


Sia p : S0 → R2 \ L0 dove S0 =]0, +∞[×] − π, π[ e L0 = {(x, y) ∈ R2 : y = 0, x ≤ 0}. Posto
p(r, θ) = (x, y) = (r cos θ, r sen θ)
vogliamo studiare il problema dell’inversione di p. Si ha:
 
∂(x, y) cos θ −r sen θ
=
∂(r, θ) sen θ r cos θ
p
e quindi si ha esplicitabilità. Dalla definizione di p si ricava facilmente r = x2 + y 2 . La de-
terminazione di θ è un pochino più laboriosa. Eseguendo i calcoli si ottiene θ(x, y) = arg(x, y)
dove:  y
 arctang x x>0
x
arg(x, y) = − arctang y x < 0, y > 0;
arctang xy − π x < 0, y < 0.

Esempio 3.2 Coordinate cilindriche in R3


Consideriamo la funzione
k : R2 × R → R3 k(r, θ, ϕ) = (r cos θ, r sen θ, ϕ).
Si ha:  
cos θ −r sen θ 0
∂(x, y, z) 
= sen θ r cos θ 0
∂(r, θ, ϕ)
0 0 1
e si procede come nel caso delle coordinate polari nel piano.

Esempio 3.3 Coordinate polari in R3


Consideriamo la funzione
P :]0, +∞[×R × R → R3 P (r, θ, ϕ) = (r sen θ cos ϕ, r sen θ, sen ϕ, r cos θ).
Si ha:  
sen θ cos ϕ r cos θ cos ϕ −r sen θ sen ϕ
∂(x, y, z) 
= sen θ sen ϕ r cos θ sen ϕ r sen θ cos ϕ 
∂(r, θ, ϕ)
cos θ −r sen θ 0
e il determinante risulta r2 sen θ che è nullo soltanto se θ = kπ, k ∈ Z. Possiamo quindi considerare
una restrizione di P che può essere invertita. Precisamente, consideriamo
P :]0, +∞[×]0, π[×] − π, π[→ R3 \ {(x, 0, z) : x ≤ 0}
Sfruttando i risultati conseguiti negli esempi precedenti si ottiene:
P −1 : R3 \ {(x, 0, z) : x ≤ 0} →]0, +∞[×]0, π[×] − π, π[
!
p z x y
P −1 (x, y, z) = (r, θ, ϕ) = x2 + y 2 + z 2 , arccos p , arg( , )
x2 + y 2 + z 2 sen θ sen θ

7
1. Spazi Metrici e Spazi Normati

1.1 Definizioni ed esempi

Definizione 1.1 Sia S 6= ∅ un insieme. Una funzione d : S × S → R si dice distanza o metrica in


S se verifica i seguenti requisiti:

1) d(x, y) ≥ 0 ∀x, y ∈ S;

2) d(x, y) = 0 se e solo se x = y;

3) d(x, y) = d(y, x) ∀x, y ∈ S;

4) d(x, y) ≤ d(x, z) + d(z, y) ∀x, y, z ∈ S.

In tal caso la coppia ordinata (S, d) si dice spazio metrico.

Esempio 1.1 Qualsiasi insieme S non vuoto può essere reso spazio metrico. Infatti basta porre
(
1 x 6= y;
d(x, y) =
0 x = y.

P 1/2
n
Esempio 1.2 (Cn , d) dove d(x, y) = j=1 |xj − y j |2
.
L’ unica proprietà che necessita di spiegazione è la 4). Infatti, usando la diseguaglianza di Cauchy
- Schwarz si ottiene
n
X n
X
2 2
d (x, y) = |xj − yj | = |(xj − zj ) + (zj − yj )|2
j=1 j=1
n
X n o
= d2 (x, z) + d2 (z, y) + 2 Re (xj − zj )(zj − yj )
j=1
Xn
≤ d2 (x, z) + d2 (z, y) + 2 |xj − zj | |zj − yj |
j=1
2
≤ d2 (x, z) + d2 (z, y) + 2d(x, z) d(z, y) = (d(x, z) + d(z, y)) .

Esempio 1.3 Sia C 0 ([a, b]) ≡ {f : [a, b] → R continua in [a, b]} . L’insieme C 0 ([a, b]) diventa uno
spazio metrico ponendo

d∞ (f, g) = max |f (x) − g(x)|, ∀f, g ∈ C 0 ([a, b]).


[a,b]
G.Di Fazio

Lo stesso insieme si può rendere metrico anche ponendo


!1/p
Z b
p
dp (f, g) = |f (x) − g(x)| dx ∀f, g ∈ C 0 ([a, b])
a

dove p ≥ 1.
Per verificare che quest’ ultima è una metrica su C 0 ([a, b]) proviamo il seguente

Teorema 1.1 (disuguaglianza di Hölder) Siano f, g ∈ C 0 ([a, b]) e siano p, q > 1 due numeri tali
che p1 + 1q = 1. Si ha:

!1/p !1/q
Z b Z b Z b
|f (x)g(x)| dx ≤ |f (x)|p dx |g(x)|q dx .
a a a

Dim. Usiamo la disuguaglianza numerica

ap bq
0 ≤ ab ≤ +
p q
con
|f (x)|
a=  1/p
Rb
a
|f (x)|p dx
e
|g(x)|
b=  1/q .
Rb
a
|g(x)|q dx

Integrando la disugualianza

|f (x)g(x)| 1 |f (x)|p 1 |g(x)|q


1/p R 1/q ≤ p R b + Rb
|f (x)|p dx q a |g(x)|q dx
R
b b
a
|f (x)|p dx a
|g(x)|q dx a

si ottiene immediatamente la tesi.

Teorema 1.2 (Disuguaglianza di Minkowsky) Per ogni f, g ∈ C 0 ([a, b]), p ≥ 1 si ha:


!1/p !1/p !1/p
Z b Z b Z b
|f (x) + g(x)|p dx ≤ |f (x)|p dx + |g(x)|p dx
a a a

2
Appunti di Analisi Matematica II

Dim. Se p = 1 non c’ è nulla da dimostrare e quindi supponiamo p > 1. Usando la disug-


uaglianza di Hölder otteniamo:
Z b Z b
p
|f (x) + g(x)| dx = |f (x) + g(x)|p−1 |f (x) + g(x)| dx
a a
Z b Z b
p−1
≤ |f (x) + g(x)|
|f (x)| dx + |f (x) + g(x)|p−1 |g(x)| dx
a a
Z b ! p−1
p
 !1/p !1/p 
 Z b Z b 
≤ |f (x) + g(x)|p dx |f (x)|p dx + |g(x)|p dx
a  a a 

da cui la tesi.

A questo punto possiamo verificare la proprietà triangolare che rende C 0 ([a, b]) spazio metrico
rispetto alla metrica dp . Infatti,
!1/p
Z b
dp (f, g) = |f (x) − g(x)|p dx
a
!1/p
Z b
≤ (|f (x) − h(x)| + |h(x) − g(x)|)p dx
a
!1/p !1/p
Z b Z b
≤ |f (x) − h(x)|p dx + |h(x) − g(x)|p dx
a a

= dp (f, h) + dp (h, g)

Definizione 1.2 Sia r > 0 e x0 ∈ S. L’insieme Br (x0 ) = {y ∈ S : d(x0 , y) < r} si chiama sfera
aperta di centro x0 e raggio r. Diciamo che X ⊂ S è un intorno di x0 se esiste δ > 0 tale che
Bδ (x0 ) ⊂ X.

Definizione 1.3 Dato x0 ∈ S la classe di tutti gli intorni di x0 si dice la famiglia degli intorni di
x0 . Sia X ⊂ S, x0 ∈ X. Diciamo che x0 è interno all’insieme X se esiste un intorno U di x0 tale
che x0 ∈ U ⊂ X. Un insieme A ⊂ S si dice aperto se ogni suo punto è interno. La classe di tutti
gli aperti di S si dice la famiglia degli aperti di S o la topologia di S indotta dalla metrica.

Definizione 1.4 Sia X ⊂ S e sia x0 ∈ S. Diciamo che x0 è un punto di accumulazione per X


se comunque si assegna un intorno U di x0 si ha: (U \ {x0 }) ∩ X 6= ∅. L’insieme dei punti di
accumulazione di X si chiama derivato di X e si indica con DX. Infine l’insieme X ∪ DX è sempre
chiuso e si chiama la chiusura dell’ insieme X.

Definizione 1.5 Sia V uno spazio vettoriale su un campo K. Per fissare le idee possiamo pensare
al campo dei reali oppure dei complessi. Sia N : V → R una funzione tale che

3
G.Di Fazio

1) N (x) ≥ 0 ∀x ∈ V ;

2) N (x) = 0 =⇒ x = 0V ;

3) N (αx) = |α|N (x) ∀α ∈ C, ∀x ∈ V ;

4) N (x + y) ≤ N (x) + N (y) ∀x, y ∈ V.

Da ora in poi una tale funzione si dirà una norma su V e la coppia ordinata (V, N ) si dirà uno
spazio normato. Nel seguito, per brevità sarà N (x) = kxk.

Teorema 1.3 (V, k · k) è uno spazio metrico ponendo d(x, y) = kx − yk ∀x, y ∈ V.

Esempio 1.4 Sia p ≥ 1. Rn si può normare ponendo


 1/p
Xn
kxkp =  |xj |p  ∀x ∈ Rn
j=1

oppure ponendo
kxk∞ = max |xj | ∀x ∈ Rn .
1≤j≤n

In maniera analoga a quanto visto in C 0 ([a, b]), si possono provare facilmente i seguenti risultati:

1 1
Teorema 1.4 (Hölder discreto) Se p + q = 1 allora
 1/p  1/q
n
X n
X Xn
|xj yj | ≤  |xj |p  ·  |yj |q  , ∀n ∈ N.
j=1 j=1 j=1

Teorema 1.5 (Minkowsky discreto) Se p ≥ 1 allora


 1/p  1/p  1/p
Xn Xn n
X
 |xj + yj |p  ≤ |xj |p  +  |yj |p  , ∀n ∈ N.
j=1 j=1 j=1

Il teorema che segue mette in relazione le norme su introdotte.


Teorema 1.6 Siano 1 ≤ p ≤ q < +∞. Allora esistono costanti c1 , c2 , c3 ≥ 0 dipendenti solo da
n, p, q tali che:
kxk1 ≤ c1 kxkp ≤ c2 kxkq ≤ c3 kxk∞ ∀x ∈ Rn .

4
Appunti di Analisi Matematica II

n
X n
X
1/p 1/p
Dim. Infatti kxkp = (kxj kp ) = (1 · kxj kp ) da cui applicando la disuguaglianza di
j=1 j=1
Hölder si ha:
kxkp ≤ n1/p kxkq .
D’altra parte,
 1/q
Xn
kxkq ≤  kxkq∞  = n1/q kxk∞
j=1

Definizione 1.6 Sia {xj } una successione di punti in uno spazio metrico (S, d). Diciamo che la
successione converge ad un punto x0 ∈ S secondo la metrica d se limj→∞ d(xj , x0 ) = 0.

Teorema 1.7 Sia {xj } una successione di punti in Rn . Allora limj→∞ xj = x0 ∈ Rn se e solo se
limj→∞ xhj = xh0 ∈ R, ∀h = 1, . . . , n.

Dim. La dimostrazione segue subito dal teorema precedente. Infatti,

|xhj − xh0 | ≤ kxj − x0 k1 ≤ nkxj − x0 k → 0

implica
|xhj − xh0 | → 0 ∀h = 1, . . . , n.
Il viceversa segue subito dalla disuguaglianza,

kxj − x0 k ≤ nkxj − x0 k∞ → 0.

1.2 Completezza

Definizione 2.1 Sia S uno spazio metrico con metrica d. Una successione di punti di S si dice di
Cauchy se
∀ > 0 ∃ν ∈ N : ∀n, m > ν ⇒ d(xn , xm ) < .

Definizione 2.2 Lo spazio metrico S si dice completo quando ogni successione di Cauchy è
convergente ad un elemento di S.

Esempio 2.1 Lo spazio metrico Rn è completo con la metrica usuale.

5
G.Di Fazio

Esempio 2.2 Lo spazio Q reso metrico dalla metrica indotta da R non è completo.
Per mostrare questo, consideriamo una successione di numeri razionali convergente ad un numero
irrazionale. Tale successione, in quanto convergente, è di Cauchy in R e quindi in Q. Se la successione
fosse convergente in Q dovrebbe avere come limite un numero razionale e perciò avrebbe due limiti
distinti in R.

Esempio 2.3 Lo spazio C 0 ([a, b]) è completo con la metrica d∞ (f, g).

Esempio 2.4 Lo spazio C 0 ([a, b]) non è completo con le metriche dp (f, g), p ≥ 1.

Esempio 2.5 Lo spazio C 1 ([a, b]) è completo con la metrica d(f, g) = d∞ (f, g) + d∞ (f 0 , g 0 ).

Naturalmente quanto detto per gli spazi metrici vale per gli spazi normati che sono particolari
spazi metrici. Uno spazio normato che risulti completo rispetto alla distanza che induce la norma
si chiama uno spazio di Banach.

1.3 Funzioni tra spazi metrici

Siano (S, d), (S1 , d1 ) due spazi metrici e sia f : X ⊂ S → S1 . Se x0 è un punto di accumulazione
per X e y0 ∈ Y allora diciamo che limx→x0 f (x) = y0 se

∀ > 0 ∃ δ > 0 : x ∈ X, x 6= x0 d(x, x0 ) < δ ⇒ d1 (f (x), y0 ) < .

Esempio 3.1 Se S = S1 = R si ottiene la definizione di limite classica per funzioni reali di una
variabile reale.

Esempio 3.2 Sia f : R2 → R definita ponendo

x2 y
f (x, y) = .
x2 + y 2

Verifichiamo che
lim f (x, y) = 0.
(x,y)→(0,0)

Infatti,
xy |x|
|f (x, y)| = |x| ≤ →0
x2 +y 2 2
perché (x, y) → (0, 0) equivale a dire che x → 0 e y → 0.

6
Appunti di Analisi Matematica II

Nel caso in cui S1 = R diremo che limx→x0 f (x) = +∞ se

∀K > 0 ∃ δ > 0 : x ∈ X, x 6= x0 d(x, x0 ) < δ ⇒ f (x) > K.

Similmente diremo che limx→x0 f (x) = −∞ se

∀K > 0 ∃ δ > 0 : x ∈ X, x 6= x0 d(x, x0 ) < δ ⇒ f (x) < −K.

Teorema 3.1 Sia f : X ⊂ S → S1 , x0 ∈ DX. Allora ∃ limx→x0 f (x) = y0 se e solo se per ogni
Y ⊂ X tale che x0 ∈ DY si ha x→x
lim f (x) = y0 .
0
x∈Y

Dim. La condizione è ovviamente necessaria. Proviamo la sufficienza. Ragionando per assurdo,


si ha:
1
∀n ∈ N ∃xn ∈ X, xn 6= x0 : d(xn , x0 ) < , d1 (f (xn ), y0 ) ≥ ε̄.
n
A questo punto la contraddizione è evidente se si sceglie Y = {xn }.

Nel caso particolare che S1 = Rm possiamo scrivere,

f (x) = (f1 (x), . . . , fm (x)) ∀x ∈ X ⊂ S.

Teorema 3.2 f : X ⊂ S → Rm , x0 ∈ DX, y0 ∈ Rm . Allora, ∃ limx→x0 f (x) = y0 se e solo se


∃ limx→x0 fj (x) = y0j , ∀j = 1, . . . , m.

Dim. È conseguenza immediata della disuguaglianza

1 √
kxk1 ≤ kxk ≤ mkxk∞ .
m

Teorema 3.3 (di passaggio) Sia f : X ⊂ S → S1 , x0 ∈ DX. Allora ∃ limx→x0 f (x) = y0 se e solo
se per ogni successione {xn } ⊂ X tale che xn 6= x0 , xn → x0 si ha limn→∞ f (xn ) = y0 .

Dim. Segue immediatamente dal teorema sui limiti delle restrizioni.

Definizione 3.1 Sia f : X ⊂ S → S1 , x0 ∈ X. Diciamo che f è continua in x0 quando:

∀ > 0 ∃ δ > 0 : x ∈ X, d(x, x0 ) < δ ⇒ d1 (f (x), f (x0 )) < .

Notiamo che se x0 è un punto isolato per X ogni funzione risulta ivi continua. Se invece x0 è un
punto di accumulazione per X allora la definizione è equivalente al fatto che limx→x0 f (x) = f (x0 ).

1.4 Compattezza

Definizione 4.1 Sia X ⊂ S. Diciamo che X è sequenzialmente compatto quando ogni successione

7
G.Di Fazio

{xn } di elementi di X ammette una successione estratta {xkn } convergente, nel senso della metrica
d, ad un elemento x∗ ∈ X.

In seguito, per brevità diremo compatto invece di sequenzialmente compatto.

Teorema 4.1 Sia (S, d) uno spazio metrico e sia X ⊂ S compatto in S. Allora X è chiuso e
limitato.

Dim. La dimostrazione è identica a quella fatta in R con la metrica usuale. Contrariamente


al caso S = R notiamo che, in un arbitrario spazio metrico il viceversa è falso.

Esempio 4.1 In Q con la metrica indotta da R una successione convergente ad un numero ir-
razionale è un esempio di insieme chiuso e limitato (in Q è discreto!) ma non sequenzialmente
compatto.

Esempio 4.2 In C 0 ([0, 1]) con la metrica d∞ X = {xn } risulta chiuso e limitato ma non compatto.

Teorema 4.2 (Heine - Borel) X ⊂ Rn è compatto se e solo se è chiuso e limitato.

Dim. La condizione è necessaria in qualsiasi spazio metrico. Proviamo la sufficienza. Sia perciò
{xj } una successione di punti di X. Siccome X è limitato, la successione, e quindi le sue componenti
{xhj } sono limitate in R. Consideriamo una sottosuccessione convergente di {x1j } che chiamiamo
{x1kj } → x10 . Consideriamo adesso la successione estratta da {x2j } prendendo gli stessi indici usati per
l’estratta precedente. Da questa successione possiamo estrarne una convergente, diciamo {x2lj } →
x20 . Continuando in questo modo si costruisce una sottosuccessione della successione originaria che
risulta convergente. Siccome X è chiuso il limite sta in X provando che X è compatto.

Teorema 4.3 Sia f : Rn → R una funzione continua. Sia limx→∞ f (x) = l. Se λ ∈ f (Rn ), λ 6= l
allora l’insieme
E = {x ∈ Rn : f (x) = λ}
è compatto.

Dim. Proviamo che E è chiuso. Sia x0 ∈ DE e sia {xn } una successione di punti di E
convergente a x0 . Per continuità f (xn ) → f (x0 ) ma d’altra parte f (xn ) = λ ∀n ∈ N quindi
f (x0 ) = λ da cui x0 ∈ E. Proviamo che E è limitato. Supponiamo l ∈ R. Allora,

∀ε > 0 ∃δ > 0 : ∀x ∈ Rn kxk > δ ⇒ |f (x) − l| < ε

Sia x ∈ E. Dalla definizione di limite segue immediatamente che kxk < δ e quindi E ⊂ Bδ (0)
ovvero E è limitato.

8
Appunti di Analisi Matematica II

Notiamo che, nel caso λ = l l’insieme E può essere non limitato.

Esempio 4.3 Usando il teorema appena dimostrato si riconosce subito che {(x, y) ∈ R2 : x4 + y 4 +
24xy − 128 = 0} è compatto.

1.5 Connessione

Definizione 5.1 Sia A ⊂ S, A aperto. Diciamo che A è un aperto connesso se non è possibile
trovare due insiemi A1 , A2 con i seguenti requisiti:

1. A1 , A2 ⊂ A, aperti non vuoti;

2. A1 ∩ A2 = ∅ ;

3. A1 ∪ A2 = A.

Definizione 5.2 In Rn un aperto si dice connesso per spezzate se comunque si assegnino due suoi
punti è possibile trovare una poligonale contenuta nell’ insieme, congiungente i due punti.
In Rn si ha la seguente caratterizzazione di cui omettiamo la dimostrazione.

Teorema 5.1 In Rn un aperto A è connesso se e solo se è connesso per spezzate.

Teorema 5.2 Sia A un aperto connesso di uno spazio metrico (S, d) e sia f : A → R una funzione
continua in A. Supponiamo che ∃x1 ∈ A : f (x1 ) > 0, ∃x2 ∈ A : f (x2 ) < 0. Allora esiste un punto
di A in cui la funzione è nulla.

Dim. La dimostrazione usa in maniera determinante il concetto di insieme connesso. D’altra


parte, come già accadeva nel caso delle funzioni di una variabile, il teorema è falso se l’insieme non
è connesso. Siano quindi

A1 ≡ {x ∈ A : f (x) > 0}, A2 ≡ {x ∈ A : f (x) < 0}.

Proviamo che A1 , A2 sono insiemi aperti. Siccome A è connesso sarà A1 ∪ A2 ⊂ A ma A1 ∪ A2 6= A.


I punti di A \ (A1 ∪ A2 ) sono tutti punti che soddisfano la tesi. Proviamo quindi che A1 è aperto.
Sia x0 ∈ A1 . Per permanenza del segno la funzione f è positiva in un intorno di x0 . Tale intorno
risulta allora contenuto in A1 mostrando in tal modo che x0 è interno ad A1 .

9
G.Di Fazio

Teorema 5.3 (Weierstrass) Sia f : K ⊂ S → R una funzione continua sull’ insieme compatto K.
Allora la funzione ammette massimo e minimo in K.

Definizione 5.3 Sia f : X ⊂ S → S1 . La funzione si dice uniformemente continua in X se

∀ > 0 ∃δ > 0 : d(x1 , x2 ) < δ ⇒ d1 (f (x1 ), f (x2 )) < .

Vale il teorema di Cantor


Teorema 5.4 Sia f : K ⊂ S → S1 una funzione continua in K compatto. Allora f è uniformemente
continua in K.

Definizione 5.4 Sia f : X ⊂ S → S1 . Diciamo che f è Lipschitziana di costante k ≥ 0 in X se

d1 (f (x), f (y)) ≤ k d(x, y) ∀x, y ∈ X.

Conseguenza immediata della definizione è il seguente

Teorema 5.5 Sia f : X ⊂ S → S1 . Se f è Lipschitziana in X allora è ivi uniformemente continua.

Definizione 5.5 Una funzione f : X ⊂ S → X Lipschitziana con costante k ∈ [0, 1[ si dice una
contrazione in X.

Dimostriamo il seguente risultato

Teorema 5.6 (delle contrazioni o di Banach - Caccioppoli) Sia S uno spazio metrico completo con
metrica d. Sia inoltre f : S → S una contrazione in S. Allora esiste uno ed un sol punto x∗ ∈ S
tale che f (x∗ ) = x∗ .

Dim. Fissiamo, ad arbitrio, un punto x0 ∈ S. Definiamo quindi una successione in maniera ricorsiva
ponendo
x1 = x0 ; xn+1 = f (xn ) ∀n ∈ N.
Per provare che la successione {xn } è convergente in S proviamo che è di Cauchy. Per ogni n ∈ N
abbiamo:

d(xn+1 , xn ) = d(f (xn ), f (xn−1 )) ≤ kd(xn , xn−1 ) = kd(f (xn−1 ), f (xn−2 ))


≤ k 2 d(xn−1 , xn−2 ) ≤ · · · ≤ k n−1 d(x2 , x1 ) ∀n ∈ N

10
Appunti di Analisi Matematica II

Usando la disuguaglianza appena dimostrata possiamo quindi affermare che

d(xn+p , xn ) ≤ d(xn+p , xn+p−1 ) + d(xn+p−1 , xn+p−2 ) + · · · + d(xn+1 , xn )


≤ d(x2 , x1 ) k n−1 + k n + · · · + k n+p−2


X k n−1
≤ d(x2 , x1 ) k j = d(x2 , x1 ) →0 ∀p ∈ N.
j=n−1
1−k

Quindi la successione è di Cauchy e, grazie alla completezza dello spazio, risulta anche convergente
in S. Sia x∗ = limn→∞ xn . Proviamo che f (x∗ ) = x∗ . Infatti, ricordando che f è continua, passando
al limite nella legge che definisce la successione si ottiene quanto voluto. Mostriamo adesso che il
punto fisso x∗ trovato è unico. Supponiamo per assurdo che x̄ sia punto fisso per f. Allora,

d(x∗ , x̄) = d(f (x∗ ), f (x̄)) ≤ k d(x∗ , x̄)

da cui d(x∗ , x̄) = 0 e quindi x∗ = x̄.

Esempio 5.1 Definiamo una contrazione in C 0 ([0, 1]) con la metrica d∞ ponendo
Z 1
F (f )(x) = 1 + ye−xy f (y) dy.
0

Per verificare che F è una contrazione cominciamo osservando che


Z 1
|F (f1 )(x) − F (f2 )(x)| ≤ d(f1 , f2 ) ye−xy dy
0

Utilizzando la convessità della funzione e−t nell’intervallo [0, 1] otteniamo


Z 1 Z 1
−xy 1 x −1 1
ye dy ≤ (y + xy 2 )(e−1 − 1) dy = + (e − 1) ≤ ∀x ∈ [0, 1].
0 0 2 3 2

Da questo segue immediatamente

1
|F (f1 )(x) − F (f2 )(x)| ≤ d(f1 , f2 ) ∀f1 , f2 ∈ C 0 ([0, 1]).
2

1.6 Distanza tra sottoinsiemi di uno spazio metrico

Definizione 6.1 Siano X, Y ⊂ S. Chiamiamo distanza tra gli insiemi X, Y il numero

d(X, Y ) = inf{d(x, y) : x ∈ X, y ∈ Y }.

Ovviamente, se X ∩ Y 6= ∅ si ha d(X, Y ) = 0. Può accadere tuttavia che la distanza sia nulla anche
quando l’intersezione tra X e Y è vuota. In tal caso i due insiemi si dicono asintotici. Per esempio

11
G.Di Fazio

si può pensare al digramma di una funzione ed un suo asintoto. Dimostriamo il seguente risultato
relativo al concetto di distanza appena introdotto.

Teorema 6.1 Siano X, Y sottoinsiemi di S e supponiamo X compatto e Y chiuso. Allora d(X, Y ) =


0 se e soltanto se X ∩ Y 6= ∅.

Dim. Supponiamo che d(X, Y ) = 0. Usando la definizione di distanza possiamo costruire due
successioni {xn } ⊂ X e {yn } ⊂ Y tali che d(xn , yn ) < n1 . Siccome X è compatto è possibile estrarre
xkn → x∗ ∈ X. Proviamo che x∗ ∈ Y. Per questo dimostriamo che ykn → x∗ . Infatti,

1
d(ykn , x∗ ) ≤ d(ykn , xkn ) + d(xkn , x∗ ) ≤ + d(xkn , x∗ ) → 0
kn

e siccome Y è chiuso, x∗ ∈ Y.

Corollario 6.1 Siano Y = {x0 } e X chiuso in S. Allora d({x0 }, X) > 0 se e solo se x0 ∈


/ X.

Sia X ⊂ S. Possiamo definire una funzione F : S → R ponendo F (x) = d(x, X). Una proprietà
della funzione appena definita è la seguente

Teorema 6.2 La funzione F : S → R definita ponendo F (x) = d(x, X) è Lipschitziana in S.

Dim. Infatti, siano x1 , x2 ∈ S. Usando la disuguaglianza triangolare si ha:

d(x1 , x) ≤ d(x1 , x2 ) + d(x2 , x) ∀x ∈ X

e quindi
d(x1 , X) ≤ d(x1 , x2 ) + d(x2 , X).
Scambiando tra loro x1 , x2 si ottiene

d(x2 , X) ≤ d(x1 , x2 ) + d(x1 , X)

da cui
|d(x1 , X) − d(x2 , X)| ≤ d(x1 , x2 ).
Sia X ⊂ S. Chiamiamo diametro dell’ insieme X l’estremo superiore dell’ insieme numerico
{d(x, y) : x, y ∈ X} .

Teorema 6.3 L’insieme X ⊂ S è limitato se e solo se diam X < +∞.

Dim. Se X è limitato esiste δ > 0 ed esiste x0 ∈ X tale che X ⊂ Bδ (x0 ) e si ha:

d(x, y) ≤ d(x0 , x) + d(x0 , y) ≤ 2δ x, y ∈ X

12
Appunti di Analisi Matematica II

quindi diam X ≤ 2δ.

Viceversa, fissato x0 ∈ X abbiamo d(x, x0 ) ≤ diamX ∀x ∈ X da cui segue X ⊂ Bdiam X (x0 ).

Teorema 6.4 Sia X ⊂ S. Allora diam X̄ = diam X.

Dim. Dal fatto che X ⊂ X̄ segue che diam X ≤ diam X̄. Per provare la disuguaglianza contraria
siano x̄, ȳ ∈ X̄ e siano {xn }, {yn } due successioni di punti di X convergenti rispettivamente a
x̄, ȳ. Allora, d(xn , yn ) ≤ diam X ∀n ∈ N e quindi, passando al limite, d(x̄, ȳ) ≤ diam X e, per
l’arbitrarietà dei punti scelti, diam X̄ ≤ diam X.

13
1. Estremi relativi di funzioni su spazi metrici

1.1 Estremi liberi

Definizione 1.1 Sia X uno spazio normato e sia A ⊂ X e sia f : A → R. Diciamo che x0 ∈ A è
un punto di minimo relativo per f se ∃ δ > 0 tale che

f (x0 ) ≤ f (x) ∀x ∈ A ∩ Bδ (x0 ).

Similmente si da la definizione di massimo relativo. Una prima condizione necessaria è la seguente:

Teorema 1.1 (Fermat) Sia Ω ⊂ X un aperto si X, f : Ω → R, e sia x0 un punto di estremo relativo


per f e sia u ∈ X \ {0}. Se f è derivabile nella direzione di u allora ∂u f (x0 ) = 0.
∂f
Dim. Basta osservare che ∂u (x0 ) è la derivata della funzione ϕ(t) = f (x0 + tu) in t = 0 e ϕ(t)
ha estremo relativo per t = 0.

Esempio 1.1 Consideriamo la funzione f : R2 → R definita dalla legge f (x, y) = x2 +y 2 . Si verifica


direttamente che (0, 0) è punto di minimo relativo (anzi assoluto). Di conseguenza, f 0 (0, 0) ≡ 0.

Esempio 1.2 Consideriamo la funzione f : R2 → R definita dalla legge f (x, y) = x2 − y 2 . Si


verifica direttamente che (0, 0) non è punto di estremo relativo. Tuttavia, f 0 (0, 0) ≡ 0.

Teorema 1.2 Sia A ∈ Rn,n : A = T A. Si ha:

λkxk2 ≤ (Ax, x) ≤ Λkxk2 ∀x ∈ Rn

dove λ, Λ sono rispettivamente il minimo ed il massimo degli autovalori di A.

Dim. Consideriamo la funzione F : Rn \ {0} → R definita dalla legge F (x) = (Ax,x)


kxk2 Notiamo
n
che F è omogenea di grado zero quindi F (R \ {0}) = F (∂B1 (0)). Poichè ∂B1 (0) è compatto in
Rn , per il teorema di Weierstrass esistono due punti x0 , x1 ∈ ∂B1 (0) tali che

F (x0 ) ≤ F (x) ≤ F (x1 ) ∀x ∈ ∂B1 (0)

e, grazie all’omogeneità
F (x0 ) ≤ F (x) ≤ F (x1 ) ∀x 6= 0.
G.Di Fazio

Siccome x0 , x1 sono interni al campo di esistenza di F ne segue ∇F (x0 ) = ∇F (x1 ) = 0. Tenendo


x
presente che ∇(Ax, x) = 2Ax e che ∇(kxk) = kxk , si ha:
 
1 2 x
∇F (x) = 2Axkxk − (Ax, x)2kxk , ∀x 6= 0
kxk4 kxk

che è nullo se e solo se


Ax = F (x)x
ovvero se x0 , x1 sono autovettori della matrice A ed F (x0 ), F (x1 ) rispettivi autovalori. Da tutto
questo si ottiene,
F (x0 )kxk2 ≤ (Ax, x) ≤ F (x1 )kxk2 ∀x 6= 0
ovvero F (x0 ) ed F (x1 ) sono rispettivamente il massimo ed il minimo degli autovalori di A.

Se A è una matrice simmetrica, la forma quadratica indotta q(x) = (Ax, x) è una funzione
omogenea di grado 2. Dal teorema precedente si ha che q assume solo valori positivi se λ > 0,
assume solo valori negativi se Λ < 0 mentre assume qualsiasi valore reale se λ < 0, Λ > 0. Diremo
perciò la forma quadratica definita positiva, definita negativa oppure non definita rispettivamente
nei tre casi.

Teorema 1.3 Sia f : Ω ⊆ X → R, x0 punto di estremo relativo per f in Ω aperto di X e sia


u 6= 0, u ∈ X. Se f è due volte differenziabile allora la forma quadratica f 00 (x0 )(u, u) è semidefinita.
Precisamente, se x0 è punto di minimo la forma è semidefinita positiva mentre se x0 è punto di
massimo la forma è semidefinita negativa.

Dim. Basta osservare che, se x0 è punto di minimo relativo per f allora la funzione ϕ(t) =
f (x0 + tu) ha, nell’origine, un punto di minimo relativo. Similmente si procede per il massimo.

Teorema 1.4 Sia f : Ω ⊂ X → R due volte differenziabile in Ω aperto. Supponiamo inoltre che
la forma quadratica f 00 (x0 )(u, u) sia semidefinita positiva in Ω e che, in un punto x0 ∈ Ω risulti
f 0 (x0 ) = 0. Allora x0 è un punto di minimo relativo per f in Ω.

Dim. Poichè x0 è interno all’insieme Ω è possibile trovare δ > 0 in modo che Bδ (x0 ) ⊂ Ω.
Preso un punto x ∈ Bδ (x0 ) applichiamo la formula di Taylor al secondo ordine con il resto nella
forma di Lagrange. Allora esiste ξ appartenente al segmento di estremi x0 , x tale che:

1
f (x) = f (x0 ) + f 0 (x0 )(x − x0 ) + f 00 (ξ)(x − x0 )(x − x0 )
2

e, ricordando che f 0 (x0 ) ≡ 0, e che la forma è semidefinita positiva,

1
f (x) = f (x0 ) + f 00 (ξ)(x − x0 )(x − x0 ) ≥ f (x0 ), ∀x ∈ Bδ (x0 )
2

da cui la tesi.

2
Appunti di Analisi Matematica II

Teorema 1.5 Sia f : Ω ⊂ X → R di classe C 2 in Ω aperto. Supponiamo inoltre che la forma


quadratica f 00 (x0 )(u)(u) sia definita positiva e che, f 0 (x0 ) ≡ 0. Allora x0 è un punto di minimo
relativo per f in Ω.

Dim. Procediamo in maniera simile al teorema precedente usando la formula di Taylor con il
resto nella forma di Peano. Allora,

1 00
f (x) − f (x0 ) = f (x0 )(x − x0 )(x − x0 ) + o(kx − x0 k2 )
2  00
1 f (x0 )(x − x0 )(x − x0 ) o(kx − x0 k2 )

2
= kx − x0 k + ≥0
2 kx − x0 k2 kx − x0 k2

in un opportuno intorno di x0 da cui la tesi.

In modo del tutto simile si dimostra che


Teorema 1.6 Sia f : Ω ⊂ X → R di classe C 2 in Ω aperto. Supponiamo inoltre che la forma
quadratica f 00 (x0 )(u)(u) sia definita negativa e che, f 0 (x0 ) ≡ 0. Allora x0 è un punto di massimo
relativo per f in Ω.

Esempio 1.3 Sia f : R2 → R definita dalla legge f (x, y) = x2 + y 2 . Il gradiente si annulla soltanto
nell’origine ed inoltre risulta  
2 0
Hf (x, y) = >0
0 2
perchè gli autovalori sono tutti positivi.

Esempio 1.4 Sia f : R2 → R definita dalla legge f (x, y) = x2 − y 2 . Il gradiente si annulla soltanto
nell’origine ed inoltre risulta  
2 0
Hf (x, y) =
0 −2
e la forma è indefinita perchè gli autovalori sono di segno opposto.

Esempio 1.5 Sia f : R2 → R definita dalla legge f (x, y) = x3 − y 2 . Il gradiente si annulla soltanto
nell’origine ed inoltre risulta  
6x 0
Hf (x, y) =
0 −2
La matrice Hessiana, in un intorno dell’origine è indefinita. Inoltre la Matrice Hessiana nell’origine
è semidefinita negativa e quindi, i teoremi sin qui provati non ci dicono nulla. Tuttavia, per via
elementare, si riconosce che la funzione non ha segno costante in alcun intorno dell’origine.

Esempio 1.6 Sia f : R4 → R definita dalla legge f (x, y, z, t) = x2 + y 2 − z 2 + t. la funzione non ha


estremi relativi perchè il gradiente non si annulla in alcun punto.

Esempio 1.7 Sia f : R3 → R definita dalla legge f (x, y, z) = xy − z 2 . Il gradiente si annulla solo

3
G.Di Fazio

nell’origine e applicando alla matrice l’algoritmo di Gauss - Lagrange si vede che la segnatura della
forma quadratica è + − −. Infatti,
     
0 1 0 1 1 0 2 1 0
R +R2 →R1 2 →C1
Hf (0, 0, 0) =  1 0 0  1 −→  1 0 0  C1 +C−→ 1 0 0 
0 0 −2 0 0 −2 0 0 −2
   
2 1 0 2 0 0
R1 −2R2 →R2
−→  0 1 0  C1 −2C−→2 →C2
 0 −2 0 
0 0 −2 0 0 −2

quindi l’origine non è estremo relativo.

Esempio 1.8 Studiare gli estremi relativi ed assoluti della funzione f : R3 → R definita ponendo
2
f (x, y, z) = x2 + xy − z + e−(x +xy−z) .
La funzione assegnata è composta da g : R3 → R definita da g(x, y, z) = x2 +xy −z e dalla funzione
ϕ : R → R definita da ϕ(t) = t + e−t . Incominciamo cercando gli estremi relativi ed assoluti della
funzione g. La funzione è regolare e quindi gli estremi relativi vanno cercati tra i punti stazionari.
Si ha:
∇g(x, y, z) = (2x + y, x, −1) 6= 0
quindi g non ha estremi relativi. Cerchiamo adesso gli estremi assoluti. Poichè

lim g(x, 0, 0) = +∞, lim g(0, 0, z) = −∞


x→+∞ z→+∞

e la funzione g è continua si ha: g(R3 ) = R. Adesso studiamo la funzione ϕ in R. La funzione


ammette minimo relativo ed assoluto per t = 0 e ϕ(0) = 1. Inoltre limt→+∞ ϕ(t) = +∞ e quindi

sup f (x, y, z) = +∞, inf3 f (x, y, z) = min f (x, y, z) = 1


R3 R

ed il minimo viene assunto sui punti della superfice x2 + xy − z = 0.

Esempio 1.9 Studiare gli estremi relativi ed assoluti della funzione f : R2 → R definita ponendo
2 2
f (x, y) = x2 y 2 e−(2x +3y ) .
La funzione è continua e non negativa in R2 . Inoltre si ha: f (0, 0) = 0 e quindi minR2 f (x, y) = 0.
Inoltre, lim(x,y)→∞ f (x, y) = 0. Infatti,

x2 y 2 2 2
f (x, y) = (2x2 + 3y 2 )2 e−(2x +3y ) → 0.
(2x2 + 3y 2 )2

Sia adesso P0 un punto di R2 non appartenente agli assi coordinati. Usando la definizione di limite
si ha che 0 < f (x, y) < 12 f (P0 ) fuori di un opportuno cerchio. Poichè il cerchio è compatto la
funzione ammette massimo nel cerchio e tale massimo non è assunto sulla frontiera perchè il valore
sulla frontiera del cerchio è la metà di f (P0 ). Annulliamo quindi il gradiente per determinare il
punto di massimo. Si ha:
2 2
fx = 2xy 2 (1 − 2x2 )e−(2x +3y )

2 2
fy = 2yx2 (1 − 3y 2 )e−(2x +3y )

4
Appunti di Analisi Matematica II
 
L’unico punto stazionario, a meno di simmetrie, è P ∗ = √1 , √1
2 3
e, in virtù del ragionamento
precedente, risulta punto di massimo.

Esempio 1.10 Studiare gli estremi relativi ed assoluti della funzione f : R3 → R definita ponendo
f (x, y, z) = x3 − y 2 + xyz.
Annullando il gradiente si trova che i soli punti stazionari sono i punti (0, 0, z) ∀z ∈ R. Notiamo
che f (0, 0, z) = 0. Inoltre f (x, 0, z) = x3 e quindi i punti trovati sono tutti punti di sella.

Esempio 1.11 Studiare gli estremi relativi ed assoluti della funzione f : R2 \ {(0, 0)} → R definita
1
ponendo f (x, y) = √
3 2 2
x +xy+y .
La funzione risulta composta da g : R2 \ {(0, 0)} → R definita da g(x, y) = x2 + xy + y 2 e da
1
ϕ(t) = √ 3 . Si vede facilmente che il gradiente do g è sempre diverso da zero. Inoltre la funzione g
t
converge a zero al tendere di (x, y) all’origine e quindi inf g = 0. Infine sup g = +∞ e quindi usando
il fatto che ϕ(t) è monotona in ]0, +∞[ si trova inf f (x, y) = 0 e sup f (x, y) = +∞.

Osservazione 1.1 Sia f : Ω ⊆ X → R, e sia ϕ : T → X continua in T. Se x0 = ϕ(t0 ) è un punto


di estremo relativo per f allora t0 è estremo relativo per f ◦ ϕ.

Esempio 1.12 Studiamo gli estremi relativi della funzione f : R2 → R definita dalla legge f (x, y) =
sen(x2 − y 2 ) + cos(x2 + y 2 ).
Posto u = x2 − y 2 v = x2 + y 2 si ha: ∂(u,v)
∂(x,y) = 8xy e quindi si ha invertibilità locale fuori dagli
assi coordinati. Studiare la funzione F (u, v) = f (ϕ(u, v)) = sen u + cos v è molto semplice. I punti
stazionari sono π 
Ph,k = + kπ, hπ k ∈ Z, k ∈ N
2
e si vede con chiarezza che, nel caso h, k entrambi pari il punto Ph,k è di massimo relativo, nel caso
di h, k entrambi dispari il punto Ph,k è di minimo relativo mentre negli altri casi il punto è di sella.
Invertendo si trova
rπ r !
2 + kπ + hπ hπ − π2 − kπ
Qh,k = , k ∈ Z, k ∈ N
2 2

Rimangono da studiare i punti degli assi coordinati che si studiano facilmente.

2 2
Esempio 1.13 Studiare gli estremi relativi della funzione f (x, y) = (x2 − y 2 )e(x +y ) .
Ragionando come nell’ esempio precedente si trova F (u, v) = uev che non ammette estremi relativi.
Rimangono da studiare i punti degli assi coordinati che si studiano facilmente.
Esempio 1.14 Studiare gli estremi relativi ed assoluti della funzione f : R2 → R definita ponendo

x2 y 2 |x + y − 1|
f (x, y) = arcsen
x4 y 4 (x + y − 1)2 + 1

5
G.Di Fazio

La funzione è composta attraverso la funzione g : R2 → R definita dalla legge g(x, y) = x2 y 2 (x +


y − 1) e la funzione ϕ : R → R definita dalla legge ϕ(t) = arcsen t2|t| +1 . Studiamo la funzione g(x, y).
Annullando il gradiente si trova che i punti stazionari sono i punti degli assi coordinati ed il punto
P0 = (4, −2). Poichè la funzione è nulla sugli assi coordinati si ricava che tali punti sono di sella
per g. Studiando la forma Hessiana nel punto P0 si trova infine che anche il punto P0 è di sella per
g. È facile infine trovare delle restrizioni di g dalle quali vedere che la funzione non è limitata. Da
tutto questo segue che g(R2 ) = R.

Studiamo adesso la funzione ϕ(t). La funzione presenta minimo assoluto in t = 0 dove vale 0,
massimo assoluto in t = 1 dove vale π6 e non ha altri punti di estremo relativo. Da questo segue
che maxR2 f (x, y) = ϕ(1) = π6 e che minR2 f (x, y) = ϕ(0) = 0.

1.2 Varietà Differenziabili

Definizione 2.1 Un insieme M ⊆ Rn si dice varietà (differenziabile) p-dimensionale di classe C k


se per ogni x ∈ M esiste un aperto U ⊆ Rn contenente x ed una funzione f : U → Rn−p di classe
C k (U) tale che
{x ∈ Rn : f (x) = 0} = U ∩ M
ed inoltre rango(f 0 (x)) = n − p.

Esempio 2.1 La circonferenza di R2 centrata nell’ origine avente raggio unitario è una varietà di
dimensione 1.
Infatti, poniamo
M = {(x, y) ∈ R2 : x2 + y 2 = 1} ⊂ R2 .
In questo caso U = R2 mentre f : R2 → R è la funzione f (x, y) = x2 + y 2 − 1. Inoltre ∇f (x, y) =
(2x, 2y) 6= (0, 0) in M e quindi M risulta una varietà di dimensione 1 e di classe C ∞ in R2 .

Definizione 2.2 Sia h ∈ Rn \ {0}. Diciamo che h è tangente alla varietà M nel punto x0 ∈ M se
esiste una funzione ψ : ]t0 − δ, t0 + δ[→ M tale che

ψ(t0 ) = x0 , ψ 0 (t0 ) = h.

Esempio 2.2 Sia M la circonferenza dell’esempio precedente. Consideriamo la funzione ψ : ]t0 −


δ, t0 + δ[→ M definita dalla legge ψ(t) = (cos t, sen t). Si ha: ψ 0 (t0 ) = (− sen t0 , cos t0 ) ≡ h.

Definizione 2.3 Sia M una varietà p-dimensionale di classe C k in Rn e sia x0 ∈ M. L’insieme


Mx0 dei vettori di Rn tangenti alla varietà M nel punto x0 si dice spazio tangente alla varietà M
nel punto x0 . Per ragioni di comodità aggiungiamo a tale insieme il vettore nullo continuando a
chiamare spazio tangente il nuovo insieme.

Si ha:

6
Appunti di Analisi Matematica II

Teorema 2.1 Sia M una varietà p-dimensionale di classe C k in Rn e sia x0 ∈ M. Lo spazio tangente
alla varietà M nel punto x0 è uno spazio vettoriale di dimensione p e, se f = 0 è un’equazione
locale della varietà M in un intorno si x0 risulta Mx0 = kerf 0 (x0 ).

Esempio 2.3 Consideriamo

M = {(x, y, z) ∈ R3 : x2 + y 2 = 1} ⊂ R3 .

È facile riconoscere che M è una varietà 2-dimensionale di classe C ∞ in R3 . Precisamente si tratta


di un cilinfro nello spazio ordinario. Per il teorema precedente sappiamo che lo spazio tangente ad
M in un suo punto P0 = (x0 , y0 , z0 ) è uno spazio vettoriale di dimensione 2. Si tratta quindi di un
piano. Per determinare l’equazione del piano - usando il teorema precedente - bisogna determinare
kerf 0 (P0 ). Poiché f (x, y, z) = x2 + y 2 − 1 allora f 0 (P0 ) = (2x0 , 2y0 , 0) e quindi l’equazione di MP0 è

f 0 (P0 )(P − P0 ) = ∇(P0 ) · (P − P0 ) = 0

ovvero
x0 (x − x0 ) + y0 (y − y0 ) = 0.

In generale se
M = {(x0 , xn ) ∈ Rn : xn = f (x0 )}
allora, posto F (x0 , xn ) = xn − f (x0 ) si ha:
n−1
X ∂f 0
Mx0 = {h ∈ Rn : h ⊥ (−∇f (x00 ), 1)} = { hj (x ) = hn }
j=1
∂xj 0

Teorema 2.2 Sia M una varietà p-dimensionale di classe C k in Rn e sia x0 ∈ M. Sia f = 0


un’equazione locale di M in x0 . Allora

L(∇f1 (x0 ), . . . , ∇fn−p (x0 )) = Mx⊥0 .

Nel caso in cui sia nota una parametrizzazione ϕ di M, se ϕ(t0 ) = x0 allora

∂ϕ
Mx⊥0 = {h ∈ Rn : < (t0 ), h >= 0, j = 1, . . . , p}.
∂tj

Esempio 2.4 Consideriamo una funzione f : D ⊆ R2 → R di classe C k sull’aperto D. Poniamo

M = {(x, y, z) ∈ R3 : (x, y) ∈ D, z = f (x, y)}.

M è una varietà bidimensionale in R3 .


Infatti, una sua equazione locale è F (x, y, z) = z−f (x, y) = 0. Dato P0 = (x0 , y0 , z0 ) ∈ M, lo spazio

7
G.Di Fazio

tangente alla varietà M nel punto P0 è il piano la cui giacitura è ortogonale a (∇f (x0 , y0 ), 1) =
∇F (x0 , y0 , z0 ) ovvero

(x − x0 )fx (x0 , y0 ) + (y − y0 )fy (x0 , y0 ) + z − z0 = 0.

1.3 Estremi locali condizionati

Sia f : X ⊆ Rn → R e sia M una varietà differenziabile di dimensione p in Rn di equazione


locale g = 0. Ci poniamo il problema di determinare gli eventuali estremi della funzione f che
soddisfano la condizione g = 0 ovvero determinare gli estremi della funzione f ristretta alla varietà
M.
Definizione 3.1 Un punto x0 ∈ M si dice di minimo condizionato o vincolato per la funzione f se
esiste un intorno U ⊆ Rn tale che

f (x0 ) ≤ f (x) ∀x ∈ U ∩ X ∩ M.

Esempio 3.1 Data la varietà M = {(x, y) ∈ R2 : y − x2 = 0} ⊂ R2 e data la funzione f (x, y) =


y + |x| il punto P0 = (0, 0) è punto di minimo condizionato per f.

Una condizione necessaria perché un punto sia di estremo relativo vincolato è data dal seguente
teorema dei moltiplicatori di Lagrange:
Teorema 3.1 (di Lagrange) Sia Ω ⊆ Rn un insieme aperto e sia f : Ω → R una funzione di classe
C 1 (Ω). Sia M una varietà p dimensionale in Rn e sia x0 un punto di M che è estremo relativo
condizionato per f. Allora esiste λ0 ∈ Rn−p tale che:

∇f (x0 ) = λ0 · ∇g(x0 ).

Dim. Se x0 ∈ M è di estremo - per esempio di minimo - per f su M allora f (x) ≤ f (x0 ) in un


intorno di x0 su M e quindi sia ψ :]t0 − δ, t0 + δ[→ M tale che ψ(t0 ) = x0 . Allora, in particolare si
ha:
f (ψ(t)) ≤ f (ψ(t0 )), ∀t ∈]t0 − δ, t0 + δ[
e quindi la funzione H :]t0 − δ, t0 + δ[→ R definita ponendo H(t) = f (ψ(t)) ha minimo relativo nel
punto t0 da cui
0 = H 0 (t0 ) = f 0 (ψ(t0 ))ψ 0 (t0 ) = f 0 (x0 )(h) = ∇f (x0 ) · h
ovvero
∇f (x0 ) · h = 0 ∀h ∈ Mx0 = kerg 0 (x0 ) = L(∇g(x0 ))
e quindi ∇f (x0 ) ⊥ Mx0 che significa ∇f (x0 ) ∈ L(∇g(x0 )). Ma allora deve esistere λ0 ∈ Rn−p tale
che
∇f (x0 ) = λ0 · ∇g(x0 ).

8
Appunti di Analisi Matematica II

Osservazione 3.1 La condizione espressa dal teorema di può formulare anche in termini della
funzione
F (x, λ) = f (x) − λg(x)
che si dice funzione Lagrangiana osservando che in tal caso si ha:

∇F (x0 , λ0 ) = 0.

Il teorema di Lagrange - nel caso di estremi condizionati - fa le veci del teorema di Fermat
nel caso degli estremi liberi. In modo simile a quanto visto nel caso degli estremi liberi, anche in
questo caso ci sono condizioni sufficienti per l’esistenza di punti di estremo condizionato.

Precisamente, abbiamo
Teorema 3.2 Sia f : Ω ⊆ Rn → R una funzione regolare e sia M una varietà differenziabile
di dimensione p in Rn di equazione locale g = 0. Se (x0 , λ0 ) ∈ M × Rn−p è stazionario per la
Lagrangiana ed inoltre
T
h (Hf (x0 ) − λ0 ∇g(x0 )) h > 0 ∀h ∈ Mx0 , h 6= 0

allora il punto x0 è punto di minimo relativo per f con vincolo g = 0.

Dim. Applichiamo la formula di Taylor con resto nella forma di Lagrange alla funzione La-
grangiana scegliendo come punto iniziale il punto (x0 , λ0 ). Si ha:

1T
F (x, λ0 ) = F (x0 , λ0 ) + ∇F (x0 , λ0 ) + (x − x0 )HF (ξ, λ0 )(x − x0 ), ∀x ∈ M ∩ U ∩ Ω
2
e, tenuto conto che x ∈ M otteniamo
1T
f (x) = f (x0 ) + (x − x0 )(Hf (ξ) − λ0 Hg(ξ))(x − x0 ),
2
in particolare se x ∈ {x0 + L(∇g(x0 ))} si ha quanto si voleva.

2
Esempio 3.2 Estremi della funzione f (x, y) = x2 + y 2 + xy con il vincolo g(x, y) = x2 +y 2 −1 =
0.
Applicando il teorema di Lagrange abbiamo:

 2x + y + 2λx = 0

2y + x + 2λy = 0

 2
x + y2 − 1 = 0

da cui, eliminando il parametro λ si trova x = y = 12 e x = −y = 12 . D’altra parte la funzione f


risulta continua nell’ insieme
 chiuso
 e limitato g = 0 e quindi ammette massimo e minimo.
 Abbiamo

quindi che nel punto √12 , √12 viene assunto il valore massimo mentre nel punto √12 , − √12 viene
assunto il valore minimo.

9
G.Di Fazio

Esempio 3.3 Determinare il rettangolo, con i lati paralleli agli assi, inscritto nell’ ellisse di
equazione
x2 y2
2
+ 2 =1 (a, b > 0)
a b
che abbia area massima.
Consideriamo la funzione
f : R2 → R f (x, y) = xy
ed il vincolo
x2 y2
g : R2 → R g(x, y) = + − 1 = 0.
a2 b2
Il problema dato è equivalente a massimizzare la funzione f sotto il vincolo g = 0. Applicando il
teorema di Lagrange abbiamo:
 2λx
 Fx = y + 2 = 0
a




2λy

Fy = x + 2 = 0

 b
2
y2


 x
F =
λ + − 1 = 0.
a2 b2
 
Ragionando come nell’ esempio precedente si trova che il massimo è assunto nel punto √a2 , √b2 .
 
r √r
Se a = b = r (cerchio) abbiamo √
2
, 2 e la risposta è data dal quadrato.

1.4 Alcune proprietà isoperimetriche

Diamo in questo paragrafo alcuni esempi con applicazioni di interesse geometrico.

Esercizio 1. Siano dati s > 0, α1 , . . . , αn > 0 (|α| ≡ α1 + · · · + αn , n ≥ 2). Consideriamo la


funzione
f : [0, s]n → R f (x1 , . . . , xn ) = xα αn
1 · · · xn .
1

Determiniamo il massimo della funzione f soggetta al vincolo


n
X
g(x1 , . . . , xn ) = xj − s = 0.
j=1

Applicando il teorema di Lagrange abbiamo:

fxi + λgxi = 0 i = 1, . . . , n

ovvero
i −1 α α
αi xα
i xα1 α2 i−1 i+1 αn
1 x2 . . . xi−1 xi+1 . . . xn + λ = 0

e quindi
αi
f (x) + λ = 0 i = 1, . . . , n
xi
da cui si ricava
x1 x2 xn
= = ··· =
α1 α2 αn

10
Appunti di Analisi Matematica II

che ci fornisce le coordinate del punto di massimo. Infatti si ha


 α1
x1 = x1
α1





 α2
 x2 = x1


α1
 ..
.




 xn = αn x1



α1
da cui, sommando membro a membro, si determinano le coordinate del punto di massimo che sono
αj
xj = s j = 1, . . . , n.
|α|

Il massimo di f quindi è
 |α|
s
(α1α1 · · · αnαn ) .
|α|
Esercizio 2. Dati α1 , . . . , αn , p > 0 (n ≥ 2) determiniamo il minimo della funzione
n
X
n
f : [0, +∞[ → R f (x) = xi
i=1

soggetta al vincolo
α
g(x) = Πnj=1 xj j − p = 0.
Il minimo esiste per il teorema di Weierstrasse generalizzato (il massimo non esiste). Ragionando
come nell’ esempio precedente si trova
x1 x2 xn
= = ··· =
α1 α2 αn
che ci fornisce le coordinate del punto di minimo. Infatti si ha
 α1
x1 = x1
α1





 α2
 x2 = x1


α1
 ..
.




 xn = αn x1



α1
da cui, moltiplicando membro a membro, si determinano le coordinate del punto di minimo che
sono
αj 1
xj = 1 p
|α| j = 1, . . . , n.
(Πni=1 αiαi ) |α|
Quindi il valore minimo è
1
! |α|
p
|α| α .
Πnj=1 αj j

11
G.Di Fazio

Dagli esempi appena svolti si possono ricavare alcune interessanti conseguenze di carattere geomet-
rico (proprietà isoperimetriche).

1) Triangolo di perimetro assegnato ed area massima.


Dette a, b, c le lunghezze dei lati del triangolo da determinare poniamo a+b+c = 2p. Utilizziamo
la formula di Erone p
s = p(p − a)(p − b)(p − c)
per esprimere l’area s in funzione dei lati e del semiperimetro p. Ponendo

x = p − a, y = p − b, z =p−c

il problema si riduce a massimizzare il prodotto p x y z con il vincolo x + y + z = p (esercizio


1). Il massimo si ha quindi per
x=y=z
ovvero quando il triangolo è equilatero.

2) Triangolo di perimetro minimo ed area data s.


Dalla formula di Erone si trova

s2 = 3xyzt 2p = a + b + c

e quindi ponendo
p
x= , y = p − a, z = p − b, t=p−c
3
si ricava
s2 4
x·y·z·t= e x+y+z+t= p
3 3
e applicando il risultato dell’ esercizio 2 si trova che ancora una volta la soluzione è data dal
triangolo equilatero.

3) Parallelepipedo di volume massimo tra quelli di superficie totale data s.


Indicando con a, b, c le dimensioni del parallelepipedo abbiamo

2(ab + ac + bc) = s

e ponendo
x = ab y = ac z = bc
s
il problema consiste nel massimizzare il prodotto xyz soggetto al vincolo x + y + z = 2 e dall’
esercizio 1 segue che la risposta è fornita dal cubo.

4) Dato l’ ellissoide
x2 y2 z2
Σ: + + =1
a2 b2 c2

12
Appunti di Analisi Matematica II

determinare il parallelepipedo rettangolo Π con facce parallele ai piani coordinati e vertici


appartenenti a Σ che abbia volume massimo.
Sia P = (α, β, γ) il vertice di Π che giace nel primo ottante. Ponendo

α2 β2 γ2
λ= , µ= , ν=
a2 b2 c2
si tratta di massimizzare il prodotto λµν con il vincolo λ + µ + ν = 1. Dall’ esercizio 1 segue
che il massimo si ottiene quando

a b c
α= √ , β=√ , γ=√ .
3 3 3

Nel caso particolare che a = b = c = r che è quello in cui Σ è una sfera di raggio r, il problema
è risolto dal cubo.

13
1. Curve in Rn

1.1 Definizioni

Definizione 1.1 Sia γ ⊂ Rn , n ≥ 2 e sia r(t) : (a, b) → Rn una funzione continua in (a, b) tale che
r(a, b) = γ. In tal caso diremo che r è una parametrizzazione di γ e la coppia (γ, r) si dirà curva in
Rn .

Definizione 1.2 Sia (γ, r) una curva in Rn .

1) Se r(t) è iniettiva la curva si dice semplice;

2) Se esiste un piano π che contiene γ, la curva si dice piana;

3) Se r(a) = r(b) la curva si dice chiusa;

4) In caso di curva chiusa, essa si dirà semplice se r(t) è iniettiva in [a, b[;

Teorema 1.1 (di Jordan) Ogni curva piana, semplice e chiusa è la completa frontiera di due aperti
connessi; uno è limitato e si chiama interno di γ, uno è non limitato e si chiama esterno di γ.

Definizione 1.3 Una curva piana, semplice e chiusa si dice curva di Jordan.

Definizione 1.4 Una curva (γ, r) si dice regolare se:

1) r ∈ C 1 ([a, b]);

2) r0 6= 0, ∀t ∈ [a, b];

3) r pone [a, b] e γ in corrispondenza biunivoca (se la curva è chiusa si richiede la corrispondenza


biunivoca tra [a, b[ e γ).

Esempio 1.1 (grafici di funzioni regolari) Sia f : [a, b] → R una funzione di classe C 1 ([a, b]) e sia
γ il grafico di f. Poniamo r(t) = (t, f (t)) ∀t ∈ [a, b].
La curva cosı̀ definita è ovviamente regolare.
Definizione 1.5 Data una curva (γ, r) regolare il vettore

r0 (t)
T : [a, b] → Rn , T (t) = , ∀t ∈ [a, b]
kr0 (t)k

si chiama versore tangente alla curva nel punto r(t).


0
Nel caso dell’ esempio precedente risulta T (t) = √(1,f (t))
02
∀t ∈ [a, b].
1+f (t)
n
Esempio 1.2 (segmento) Siano P1 , P2 ∈ R , P1 6= P2 e sia

r : [0, 1] → Rn r(t) = tP2 + (1 − t)P1 .


G.Di Fazio

P2 −P1
Risulta, r0 (t) = P2 − P1 6= 0 e la curva è regolare. Il versore tangente è T (t) = kP2 −P1 k .

Definizione 1.6 Sia (γ, r) una curva in Rn . Se è possibile suddividere l’intervallo [a, b] in un nu-
mero finito di sottointervalli in modo che la restrizione di r a ciascuno di essi dia luogo ad una
curva regolare allora la curva si dirà generalmente regolare.

Esempio 1.3 Sia r : [−1, 1] → R2 r(t) = (t, |t|). La curva è generalmente regolare. In-
fatti possiamo decomporre l’intervallo [−1, 1] pensandolo come unione di [−1, 0] e [0, 1]. Le curve
(γ1 , r1 ), (γ2 , r2 ) dove r1 , r2 sono rispettivamente le restrizioni di r agli intervalli [−1, 0] e [0, 1] sono
entrambe regolari perchè grafici di funzioni regolari.

Definizione 1.7 Sia (γ, r) una curva regolare, r : [a, b] → Rn e sia ϕ : [a0 , b0 ] → [a, b] tale che
ϕ ∈ C 1 ([a0 , b0 ]), ϕ0 (t) 6= 0 ∀t ∈ [a0 , b0 ].
Sia
r̄ : [a0 , b0 ] → Rn r̄(τ ) = r(ϕ(τ )) ∀τ ∈ [a0 , b0 ].
Poichè
r̄0 = r0 (ϕ(τ ))ϕ0 (τ )
la nuova curva è regolare. Tale curva si dice equivalente alla curva data. La funzione ϕ induce
una relazione di equivalenza nell’ insieme delle curve in Rn ed identificando tra loro tutte le curve
equivalenti ad una data otteniamo due classi di equivalenza a seconda del segno della funzione ϕ0 .
Queste due classi si denotano con γ + , γ − e quando si sceglie una di queste due classi si dice che
è stato scelto un verso di percorrenza sulla curva. La curva, munita in tal modo di un verso di
percorrenza, si dice orientata.

Esempio 1.4 Sia (γ, r) una curva regolare e sia ϕ(t) = b + a − t. La curva
r̄(t) = r(ϕ(t)) = r(b + a − t) ∀t ∈ [a, b]
si dice curva opposta a γ e si denota con il simbolo −γ.

Definiamo lunghezza di un segmento di estremi P1 , P2 il numero kP2 − P1 k e lunghezza di una


poligonale la somma delle lunghezze dei suoi lati. Sia adesso (γ, r) una curva e sia
∆ ≡ {a ≡ t0 < t1 < . . . < tn−1 < tn ≡ b}
una decomposizione di [a, b]. I punti r(t0 ), . . . , r(tn ) individuano una poligonale π i cui vertici
Pn−1
appartengono a γ. La lunghezza di tale poligonale è lπ = i=0 kr(ti+1 ) − r(ti )k. Se l’insieme
numerico descritto da lπ al variare, in tutti i modi possibili delle decomposizioni ∆ di [a, b] è
limitato superiormente diremo che la curva è rettificabile e l’estremo superiore di tale insieme
numerico si dirà lunghezza della curva γ. In caso contrario la curva si dirà non rettificabile.

Esempio 1.5 (di curva non rettificabile)


Sia r(t) = (t, ϕ(t)) dove
 t sen π

t ∈]0, 1];
ϕ(t) = 2t
 0 t = 0.

2
Appunti di Analisi Matematica II

Proviamo che tale curva non è rettificabile. Infatti, poniamo


 
1 1 1 1
∆n ≡ 0, , ,..., , ,1 n ∈ N.
2n + 1 2n − 1 5 3

Si ha
n−1
X n−1
X
ln = kr(tj+1 ) − r(tj )k ≥ kr(tj+1 ) − r(tj )k =
j=0 j=1
s
n−1 2  2
X 1 1 1 π 1 π
= − + sen (2j + 1) − sen (2j − 1) ≥
j=1
2j + 1 2j − 1 2j + 1 2 2j − 1 2
n−1
X (−1)j n−1 n−1
(−1)j−1 X 1 1 X 4j
≥ 2j + 1 − 2j − 1 =

2j + 1 + 2j − 1 = → +∞
j=1 j=1 j=1
4j 2 − 1

P∞ 4n
perchè la serie n=1 4n2 −1 diverge.

Siano r1 : [a, b] → Rn , r2 : [b, c] → Rn e (γ1 , r1 ), (γ2 , r2 ) due curve tali che r1 (b) = r2 (b). Allora,
posto (
r1 (t) t ∈ [a, b];
r(t) =
r2 (t) t ∈ [b, c]

e γ = γ1 ∪ γ2 la curva (γ, r) si dice la curva unione delle due curve date. In generale la curva
unione di due curve regolari non è regolare. Dalla definizione di lunghezza di una curva, segue
immediatamente
Teorema 1.2 Sia γ = γ1 ∪ . . . ∪ γN e supponiamo γi rettificabile di lunghezza li , i = 1, . . . , N.
Allora γ è rettificabile e, detta l la sua lunghezza, si ha l = l1 + · · · + lN .

Il prossimo teorema da una formula per il calcolo della lunghezza.


Teorema 1.3 Sia γ una curva di classe C 1 . Allora γ è rettificabile e, detta l la sua lunghezza, si
ha Z b
l= kr0 (t)kdt.
a

Osservazione 1.1 Curve equivalenti hanno equale lunghezza

Sia (γ, r̄) una curva equivalente a (γ, r) e, per fissare le idee, sia ϕ0 > 0 (ϕ : [a0 , b0 ] → [a, b] è la
funzione che stabilisce l’equivalenza). Allora, integrando per sostituzione (t = ϕ(τ )) si ottiene
Z b Z b0 Z b0 Z b0
l= 0
kr (t)kdt = 0 0
kr (τ )kϕ (τ )dτ = 0 0
kr (τ )ϕ (τ )kdτ = kr̄0 (τ )kdτ = ¯l.
a a0 a0 a0

Sia (γ, r) una curva regolare di lunghezza l > 0. Poniamo


Z t
s(t) = kr0 (u)kdu ∀t ∈ [a, b].
a

3
G.Di Fazio

La funzione s è crescente perchè s0 (t) = kr0 (t)k > 0 ∀t ∈ [a, b] ed il codominio di s è [0, l]. Sia
t : [0, l] → [a, b] la funzione inversa si s(t). La curva r̃(s) = r(t(s)) è equivalente alla curva data e la
funzione r̃ si chiama equazione naturale della curva data o rappresentazione in funzione dell’ ascissa
curvilinea. Naturalmente il discorso fatto sin qui si può ripetere fissando un punto t0 ∈]a, b] invece
di a. Ciò consente di stabilire un sistema di riferimento intrinseco sulla curva in cui r(t0 ) = O sarà
l’origine.

Esempio 1.6 Se γ è il segmento di estremi P0 , P1 di equazione r(t) = tP1 + (1 − t)P0 t ∈ [0, 1]


allora Z t
s(t) = kr0 (u)kdu = tkP1 − P0 k.
0

Esempio 1.7 Se γ è la circonferenza di equazione r(t) = (% cos t, % sen t) t ∈ [0, 2π] allora
Z t Z t
0
s(t) = kr (u)kdu = % du = t%;
0 0

1.2 Integrali curvilinei

Sia γ una curva generalmente regolare contenuta in Ω con Ω sottoinsieme aperto di Rn e sia
f : Ω → Rn una funzione continua. Se γ è regolare poniamo, per definizione,
Z Z b
f ds = f (r(t))kr0 (t)kdt
γ a

che si chiama integrale curvilineo, esteso alla curva γ, della funzione f. P


Se γ è Rgeneralmente regolare
R N
sia γ = γ1 ∪ · · · ∪ γN dove le γi sono curve regolari. Si pone γ f ds = j=1 γj f ds

Teorema 2.1 (Proprietà dell’ integrale curvilineo) Siano γ, γ1 , γ2 ⊂ Ω ⊂ Rn curve generalmente


regolari. Allora Z Z Z
(αf + βg) ds = α f ds + β gds ∀α, β ∈ R;
γ γ γ
Z Z Z
f ds = f ds + f ds;
γ1 ∪γ2 γ1 γ2
Z Z
f ds = f ds; γ1 ∼ γ2
γ1 γ2

Esempio 2.1 Applicazione: Calcolo di baricentri


Data una curva generalmente regolare (γ, r) di lunghezza l, il punto P̄ di coordinate
Z
1
x̄j ≡ xj ds j = 1, . . . , n
l γ

4
Appunti di Analisi Matematica II

si chiama baricentro della curva. Calcoliamo il baricentro della curva di equazioni parametriche

r(t) = %(cos t, sen t) t ∈ [−α, α] 0 < α ≤ π.

Sappiamo che, in questo caso, l = 2α% e quindi


Z Z α
1 1 % sen α
x̄ = x ds = %2 cos t dt = (sen α − sen(−α)) = % ;
2α% γ 2α% −α 2α α
Z Z α
1 %
ȳ = y ds = sen t dt = 0.
2α% γ 2α −α

5
G.Di Fazio

2. Forme Differenziali

2.1 Definizioni

Sia Ω ⊂ Rn un aperto non vuoto e sia f : Ω → R differenziabile in Ω. Il differenziale f 0 come


funzione di x è
df = f 0 : Ω → L(Rn , R) = (Rn )∗ ∼ R1,n .
Sia e1 , . . . , en la base canonica di Rn . Le funzioni xi : Rn → R i = 1, . . . , n costituiscono una
n ∗
base di (R ) detta base duale della base canonica quindi, possiamo scrivere
n
X
f 0 (x) = fxi (x)dxi ∀x ∈ Ω.
i=1

Definizione 1.1 Sia ω : Ω ⊆ Rn → (Rn )∗ . Una tale funzione si chiamerà una forma differenziale
lineare su Ω oppure una 1-forma.

Definizione 1.2 Se esiste una funzione differenziabile U : Ω → R tale che U 0 = ω in Ω allora U si


dice potenziale o primitiva della forma ω.

Definizione 1.3 Data una curva regolare (γ, r) con γ ⊂ Ω ⊂ Rn , r : [a, b] → Rn e ω =< f , dx >
poniamo
Z Z b
ω= < f (r(t)), r0 (t) > dt
γ a

che si chiama integrale curvilineo, preso lungo la curva γ della forma differenziale ω.

L’integrale che abbiamo appena definito differisce dall’ integrale curvilineo di una funzione
definito in precedenza. Le differenze sono evidenziate dal seguente teorema. Si ha

Teorema 1.1 (Proprietà dell’ integrale) Siano ω, ω1 , ω2 forme differenziali di classe C 1 (Ω) e siano
γ, γ1 , γ2 ⊂ Ω curve generalmente regolari. Allora
Z Z Z
(αω1 + βω2 ) = α ω1 + β ω2 ∀α, β ∈ R;
γ γ γ
Z Z
ω= ω; γ1 ∼ γ2
γ1 γ2
Z Z
ω = − ω.
−γ γ
Z Z Z
ω= ω+ ω;
γ1 ∪γ2 γ1 γ2

6
Appunti di Analisi Matematica II

Definizione 1.4 Orientamento delle curve di Jordan


Sia (γ, r) una curva di Jordan. Se γ è regolare esiste T (t) ∀t ∈ [a, b]. Il versore Ni (t) ortogonale a
T (t) diretto verso l’interno di γ si chiama normale interna a γ nel punto r(t). Orientiamo la coppia
(T, Ni ) in modo tale che sia concorde alla coppia (e1 , e2 ). In tal caso la curva si dirà orientata
positivamente. Se r(s) è la rappresentazione di γ in funzione dell’ ascissa curvilinea allora risulta,

T (s) = r0 (s) Ni (s) = (−r20 (s), r10 (s)); s ∈ [0, l].

xi
Esempio 1.1 Sia F : R3 → R3 , r ≡ kxk ∀x ∈ R3 e sia FRi (x) = − Gm r2 r i = 1, 2, 3; dove G, m
sono costanti positive e ω =< F, dx > . Calcoliamo L ≡ γ ω. L rappresenta il lavoro compiuto
dalla forza F per spostare il suo punto di applicazione lungo la curva γ. Si ha
b b
r0 (t)
Z Z Z  
0 1 1
L= ω= < F (r(t)), r (t) > dt = −Gm dt = Gm − .
γ a a r2 (t) r(b) r(a)

Osserviamo che il risultato rimane inalterato purchè la curva abbia sempre gli stessi estremi.

Esempio 1.2 Sia u : R2 → R2 un campo di velocità e sia γ una curva di Jordan. L’integrale
I
−u2 dx + u1 dy
γ

rappresenta il flusso di fluido che passa attraverso la sezione di contorno γ per unità di tempo.

2.2 Potenziale di una forma differenziale

Definizione 2.1 Sia ω una forma differenziale di classe C 0 in un aperto Ω ⊂ Rn . Se esiste una
funzione U parzialmente derivabile in Ω tale che dU = ω allora la forma differenziale si dice esatta
in Ω e la funzione U si dice un potenziale per ω.

Teorema 2.1 Se ω ∈ C 0 (Ω) è esatta in Ω ed U è un suo potenziale allora:

1) U + c è un potenziale ∀c ∈ R;

2) Se Ω è connesso due potenziali della stessa forma differenziale differiscono per una costante.

Dim. Dalla formula d(U + c) = dU = ω segue immediatamente la 1). Siano ora U1 , U2 due
potenziali di ω. Se Ω è connesso la funzione U1 − U2 è costante perchè il suo gradiente è nullo.
Infatti,
∇(U1 − U2 ) = ∇U1 − ∇U2 = F − F = 0.

7
G.Di Fazio

Teorema 2.2 Sia ω una forma differenziale esatta di classe C 0 in un aperto connesso Ω ⊂ Rn e
sia U un suo potenziale. Allora, per ogni curva generalmente regolare contenuta in Ω si ha:
Z
ω = U(r(b)) − U(r(a)).
γ

Dim. Supponiamo per semplicità che γ sia regolare. Il potenziale è di classe C 1 (Ω) quindi è
differenziabile. La funzione r(t) è derivabile per la regolarità della curva. Possiamo quindi applicare
il teorema di derivazione delle funzioni composte ottenendo

d
U(r(t)) =< ∇U(r(t)), r0 (t) >=< F (r(t)), r0 (t) > ∀t ∈ [a, b]
dt
e quindi,
Z Z b Z b
0 d
ω= < F (r(t)), r (t) > dt = U(r(t))dt = U(r(b)) − U(r(a)).
γ a a dt
In realtà è valido anche il viceversa.

n 1
RTeorema 2.3 Sia Ω ⊂ R un aperto connesso, ω ≡< f , dr >∈ C (Ω). Supponiamo che l’integrale
γ
ω dipenda soltanto dagli estremi di γ e non da γ. Allora ω è esatta in Ω.

Dim. Per provare il teorema costruiamo un potenziale della forma ω. Fissato x0 ∈ Ω definiamo
una funzione ϕ : Ω → R ponendo Z
ϕ(x) = ω
γ

dove γ è una curva generalmente regolare, con sostegno contenuto in Ω congiungente i punti x0 , x.
Osserviamo che, a causa dell’ ipotesi l’integrale non dipende dalla particolare scelto del cammino
seguito per andare da x0 a x ma soltanto dagli estremi di tale cammino e quindi ϕ è una funzione
che dipende soltanto dal punto x ∈ Ω. Proviamo che

ϕxi (x) = fi (x) ∀i = 1, . . . , n ∀x ∈ Ω.

Per esempio, supponiamo i = 1. Siccome il punto x è interno ad Ω supponiamo che ∃ δ > 0 ⊂ Ω.


Sia Γ una curva congiungente i punti x0 , x + δe1 . Sia infine S il segmento di estremi x + δe1 , x
ovvero S(t) = (1 − t)(x + δe1 ) + tx, t ∈ [0, 1]. Poichè
Z Z
ϕ(x) = ω+ ω
Γ(x0 ,x+δe1 ) S(x+δe1 ,x)

per provare il teorema sarà sufficiente provare che


Z

ω = f1 (x).
∂x1 S(x+δ,x)

8
Appunti di Analisi Matematica II

Applicando il teorema di derivazione sotto il segno di integrale, e successivamente integrando per


parti, si ha:
Z Z 1
∂ ∂
ω= f (tx + (1 − t)x̄) · (x − x0 ) dt
∂x1 S(x+δe1 ,x) 0 ∂x 1
Z 1X n  
∂fj
= tδ1j (xj − x̄j ) + fj (tx + (1 − t)x̄)δj1 dt
0 j=1 ∂x1
Z 1
∂f1
= t (x1 − x̄1 ) + f1 (tx + (1 − t)x̄) dt
0 ∂x1
Z 1 Z 1
d
= t f1 (tx + (1 − t)x̄) dt + f1 (tx + (1 − t)x̄) dt =
0 dt 0
Z 1 Z 1
1
= [tf (tx + (1 − t)x̄)]0 − f (tx + (1 − t)x̄) dt + f (tx + (1 − t)x̄) dt =
0 0
= f1 (x).

2.3 Forme differenziali chiuse e forme differenziali esatte

Sia Ω ⊂ Rn , ω ≡< F, dr > una forma differenziale di classe C 1 (Ω). Se le relazioni (condizioni
di simmetria)
∂Fi ∂Fj
= i, j = 1, . . . , n ∀x ∈ Ω (3.1)
∂xj ∂xi
sono verificate, diremo che la forma ω è chiusa in Ω. Nel caso particolare in cui n = 3, definiamo

e1 e2 e3      
∂F3 ∂F2 ∂F1 ∂F3 ∂F2 ∂F1
rot F = ∂x ∂y ∂z =
− e1 + − e2 + − e3 .
F1 F2 F3 ∂y ∂z ∂z ∂x ∂x ∂y

In tal caso le condizioni (3.1) sono equivalenti a dire che rot F = 0.

Osservazione 3.1 La definizione di forma differenziale chiusa potrebbe dipendere dalla scelta del
sistema di riferimento. Mostriamo che essa è equivalente ad una definizione che è invariante per
trasformazioni ortogonali.
Pn
Sia quindi ω : Ω ⊂ Rn → (Rn )∗ , ω(x) = j=1 aj (x)dxj e supponiamo le funzioni aj differen-
ziabili in Ω. Allora
2
ω 0 (x) : Ω → L(Rn , (Rn )∗ ) = L(Rn × Rn , R)
definita dalla legge
ω 0 (x)(h, k) = (ω 0 (x)(h))(k), ∀h, k ∈ Rn .
Poniamo
dex ω(x)(h, k) = ω 0 (x)(h, k) − ω 0 (x)(k, h), ∀h, k ∈ Rn

9
G.Di Fazio

notando che dex è bilineare antisimmetrica. Si ha:


n n n
X ∂aj X ∂aj X ∂aj
dex ω(x)(h, k) = (x)hj ki − (x)kj hi = (x)(hj ki − hi kj )
i,j=1
∂x i i,j=1
∂x i i,j=1
∂xi
 
X n X ∂ai X ∂ai
=  (x)(hj ki − hi kj ) + (x)(hj ki − hi kj )
i=1 j<i
∂xj i<j
∂x j

n X
X ∂ai
= (x)(dxj ⊗ dxi − dxi ⊗ dxj )(h, k)+
i=1 j<i
∂xj
n X
X ∂ai
+ (x)(dxj ⊗ dxi − dxi ⊗ dxj )(h, k)
i=1 j>i
∂xj
 
Xn X ∂ai X ∂ai
=  (x)(dxj ∧ dxi )(h, k) + (x)(dxj ∧ dxi )(h, k)
i=1 j<i
∂x j j>i
∂xj

n X 
X ∂ai ∂aj
= − (dxj ∧ dxi )(h, k).
i=1 j<i
∂xj ∂xi

Da questo segue immediatamente che la forma ω è chiusa se e solo se il suo differenziale esterno
dex ω è la forma nulla.

Teorema 3.1 Sia ω ∈ C 1 (Ω), una forma differenziale esatta in Ω. Allora ω è chiusa in Ω.

Dim. Sia U un potenziale di ω. Allora ∇U = F ovvero Uxi = Fi i = 1, . . . , n e quindi


∂Fi ∂F
Uxi xj = ∂x j
. Similmente Uxj = Fj j = 1, . . . , n e quindi Uxj xi = ∂xji e, per il teorema di Schwarz
sull’ inversione dell’ ordine di derivazione, si hanno le (3.1).

In generale il viceversa è falso come mostra il seguente esempio.


Esempio 3.1 La forma differenziale
y x
ω=− dx + 2 dy, Ω = R2 \ (0, 0)
x2 +y 2 x + y2
è chiusa ma non è esatta. Per provare che non è esatta osserviamo che detta γ la circonferenza di
centro (0, 0) e raggio 1, si ha: I
ω = 2π 6= 0.
γ

Tuttavia vedremo che, sotto opportune condizioni di tipo geometrico su Ω, ogni forma chiusa
risulta esatta.
Definizione 3.1 Sia Ω ⊂ Rn un aperto e sia x0 ∈ Ω. Se per ogni x ∈ Ω,

tx + (1 − t)x0 ∈ Ω ∀t ∈ [0, 1]

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Appunti di Analisi Matematica II

Ω si dice stellato rispetto a x0 .

Osservazione 3.2 Ogni aperto convesso è stellato rispetto a qualsiasi suo punto.

Teorema 3.2 (Poincaré) Sia Ω un aperto stellato e sia ω =< F, dr > una forma differenziale
chiusa, di classe C 1 in Ω. Allora ω è esatta in Ω.

Dim. Basta verificare che


Z
ϕ : Ω → R, ϕ= ω
S(x0 ,x)

è un potenziale della forma differenziale ω.

Un’ altra condizione di tipo geometrico sull’ aperto Ω è data dalla nozione di semplice connes-
sione.
Definizione 3.2 Sia Ω un aperto connesso e siano γ1 , γ2 ⊂ Ω due curve regolari tali che r1 (a) =
r2 (a) r1 (b) = r2 (b). Le due curve si dicono Omotope se esiste una funzione F : [a, b] × [0, 1] → Ω
continua e tale che:
1)F (t, 0) = r1 (t) ∀t ∈ [a, b];
2)F (t, 1) = r2 (t) ∀t ∈ [a, b];
3)F (a, λ) = r1 (a) ∀λ ∈ [0, 1];
4)F (b, λ) = r1 (b) ∀λ ∈ [0, 1].

Definizione 3.3 Sia Ω un aperto connesso e siano γ1 , γ2 ⊂ Ω due curve regolari qualsiasi tali che
r1 (a) = r2 (a) r1 (b) = r2 (b). Se due curve siffatte risultano omotope allora Ω si dice semplicemente
connesso.

Esempio 3.2 Sia Ω un aperto stellato. Allora è semplicemente connesso.


Infatti se Ω è stellato rispetto a x0 ∈ Ω allora la funzione F è

F (t, λ) = λx0 + (1 − λ)r(t).

Osservazione 3.3 Esistono insiemi semplicemente connessi ma non stellati. Per esempio, nel piano
si può considerare un insieme a forma di G.

Esempio 3.3 In R2 una corona circolare oppure il piano bucato Ω = R2 \ {(0, 0)} non sono
semplicemente connessi.
Infatti, se cosı̀ non fosse la forma differenziale
y x
ω=− dx + 2 dy
x2 +y 2 x + y2
sarebbe esatta mentre sappiamo che cosı̀ non è. Quindi il concetto di aperto semplicemente connesso
è più generale di quello di aperto stellato. Si può dimostrare il seguente teorema che ci limitiamo
ad enunciare.

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G.Di Fazio

Teorema 3.3 Se Ω è un aperto semplicemente connesso ed ω è una forma differenziale chiusa in


Ω, allora ω è esatta in Ω.

2.4 Domini normali e teorema di Gauss

Definizione 4.1 Siano f, g : [a, b] → R due funzioni tali che

1)f (x) < g(x) ∀x ∈]a, b[;


2)f (a) ≤ g(a), f (b) ≤ g(b);
3)f, g ∈ C 1 ([a, b]).

L’insieme
∆ ≡ {(x, y) ∈ R2 : a ≤ x ≤ b, f (x) ≤ y ≤ g(x)}
si chiama dominio normale rispetto all’ asse ~x. In maniera analoga si da la nozione di dominio
normale rispetto all’ asse ~y . Siano date p + 1 curve di Jordan (p ∈ N0 ), γ0 , γ1 , . . . , γp tali che

1) int(γj ) ⊆ int(γ0 ) j = 1, . . . , p;
2) int(γi ) ∩ int(γj ) = ∅ i 6= j.
T 
p
Allora, la chiusura dell’ insieme j=1 est(γ j ) ∩ int(γ0 ) si dice dominio regolare a p + 1 contorni.

Teorema 4.1 Ogni dominio regolare a p contorni è internamente connesso e si può pensare come
unione finita di domini normali regolari, a due a due privi di punti interni comuni.

Teorema 4.2 (di Gauss) Sia T ⊆ R2 un dominio regolare a p contorni e sia f ∈ C 1 (T ). Allora:
Z Z
1) fx (x, y)dxdy = f (x, y)dy;
ZT +∂T
Z
2) fy (x, y)dxdy = − f (x, y)dx
T +∂T

Data f : T ⊆ R2 → R la funzione
∂f1 ∂f2
div f = +
∂x ∂y
si chiama divergenza della funzione f .

Teorema 4.3 (della divergenza)Sia f : T ⊆ R2 → R una funzione di classe C 1 (T ) con T dominio


regolare a p contorni. Allora,
Z Z
div f (x, y)dxdy = − < f , Ni > ds
T ∂T

12
Appunti di Analisi Matematica II

dove Ni denota la normale interna alla frontiera ∂T.

Osservazione 4.1 Calcolo dell’ area di un dominio regolare. Scegliendo f ≡ 1 si trova


Z Z Z
∂x
|T | = 1 dxdy = dxdy = x dy
T T ∂x +∂T

e Z Z Z
∂y
|T | = 1 dxdy = dxdy = − y dx
T T ∂y +∂T

e quindi Z
1
|T | = −y dx + x dy.
2 +∂T

Osservazione 4.2 Se, γ è un segmento della retta y = mx, allora


Z
−ydx + xdy = 0.
γ

Esempio 4.1 Consideriamo l’ellisse di equazioni


(
x = a cos θ;
γ 0 ≤ θ ≤ 2π.
y = b sen θ

Consideriamo la porzione di ellissi che si ottiene facendo variare il parametro θ nell’ intervallo [0, α]
con α ∈]0, 2π[. Allora,
Z Z
1 1 ab
|T | = −ydx + xdy = −ydx + xdy = α.
2 +∂T 2 γ 2

Teorema 4.4 Sia T ⊂ Ω ⊂ R2 un dominio regolare a p contorni e sia ω = f1 dx + f2 dy una forma


differenziale in Ω. Allora
Z   Z
∂f2 ∂f1
− dxdy = f1 (x, y)dx + f2 (x, y)dy.
T ∂x ∂y +∂T

Dim. Immediata conseguenza del teorema di Gauss.

Teorema 4.5 Sia Ω ⊂ R2 un aperto semplicemente connesso e sia P0 ∈ Ω. Sia ω ∈ C 1 (Ω \H P0 ) una


forma differenziale chiusa in Ω\P0 e sia, infine, γ una curva di Jordan tale che P0 ∈ int(γ) : γ ω = 0.

13
G.Di Fazio

Allora ω è esatta in Ω \ P0 .

Dim. Sia Γ una circuitazione contenuta in Ω \ P0 . Se P0 è esterno a Γ possiamo pensare Γ


contenuta
H in un insieme semplicemente connesso contenuto in Ω \ P0 dove ω è chiusa e quindi
Γ
ω = 0. Se invece P0 è interno a Γ allora applichiamo il teorema precedente al dominio regolare
T che ha per frontiera γ ∪ Γ. Quindi,
Z   Z Z Z Z
∂f2 ∂f1
0= − dx dy = ω= ω− ω=− ω
T ∂x ∂y +∂T γ Γ Γ

da cui Z
ω=0
Γ

e, per il primo criterio di integrabilità ω è esatta in Ω \ P0 .

Esempio 4.2 Mostrare che la forma differenziale

2x2
 
2 2 2xy
ω= log(x + y ) + 2 dx + dy
x + y2 x2+ y2

è esatta in R2 \ {(0, 0)}.


Basta applicare il teorema precedente.
R La forma è chiusa in Ω0 = Ω\{(0, 0)} e, se γ è la circonferenza
di centro (0, 0) e raggio 1 si ha γ ω = 0.

14
Appunti di Analisi Matematica II

3. Cenni di geometria differenziale delle Superficie

3.1 Definizioni ed esempi

Definizione 1.1 Sia T ⊂ R2 tale che A ⊆ T ⊆ Ā con A, aperto internamente connesso contenuto
in R2 ; sia
r : T → R3 , Σ ≡ im(r)
una funzione continua in T. Allora r si dice una parametrizzazione di Σ e la coppia (Σ, r) si dice
superficie in R3 .

Definizione 1.2 Una superficie (Σ, r) si dice regolare quando:

1) r ∈ C 1 (A);

2) La matrice  ∂r1
  ∂r2 ∂r3 
ru (u, v) ∂u ∂u ∂u
≡ ∂r1 ∂r2 ∂r3
rv (u, v) ∂v ∂v ∂v

ha caratteristica 2 in ogni punto (u, v) ∈ A (ovvero ru , rv sono linearmente indipendenti o,


equivalentemente, ru ∧ rv 6= 0);

3) r è una corrispondenza biunivoca tra A e Σ.

Se (u, v) ∈ T, il punto r(u, v) si dice interno a Σ mentre se (u, v) ∈ ∂T, il punto r(u, v) si dice
appartenente al bordo di Σ, ∂Σ.

Esempio 1.1 Superficie cartesiane. Sia Ω ⊂ R2 un aperto e sia f ∈ C 1 (Ω). Poniamo

r(u, v) = (u, v, f (u, v)) ∀(u, v) ∈ Ω, Σ ≡ im(r).

Si verifica che (Σ, r) è regolare e si chiama superficie cartesiana di equazione z = f (x, y) e Σ coincide
con il grafico di f.

Esempio 1.2 Superficie conica. Dato un piano π, sia γ ⊂ π una curva regolare di equazione
r = r(t). Fissato P ∈/ π scegliamo il sistema di riferimento in modo che P ≡ (0, 0, h) con h 6= 0.
Posto Q = Q(t) = (x(t), y(t), 0) ∈ γ ∀t ∈ [a, b] l’unione delle rette passanti per i punti P, Q al
variare di Q ∈ γ si dice superficie conica.
Una sua parametrizzazione è 
 x(t, λ) =λx(t)

y(t, λ) =λy(t)

z(t, λ) =(1 − λ)h

Si verifica che la superficie è regolare se γ lo è e se h 6= 0.

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G.Di Fazio

Esempio 1.3 Superficie cilindrica


In modo simile a quanto visto per le superfici coniche, se P è il punto improprio dell’ asse ~z,
l’unione delle rette P Q al variare di Q ∈ γ si dice superficie cilindrica. Una sua parametrizzazione
è 
 x(t, z) =x(t)

y(t, z) =y(t)

z(t, z) =z

Si verifica che la superficie è regolare se γ lo è.

Esempio 1.4 Superficie di rotazione


Siano ϕ, ψ : [a, b] → R, ϕ(t) > 0 ∀t ∈ [a, b]. La parametrizzazione

 x(t, θ) =ϕ(t) cos θ

y(t, θ) =ϕ(t) sen θ

z(t, θ) =ψ(t)

definisce una superficie che risulta regolare se γ lo è. Geometricamente, Σ è costituita dalle circon-
ferenze descritte da Q attorno all’ asse ~z.

3.2 Piano tangente ad una superficie regolare

Sia (Σ, r) una superficie regolare e sia γ ⊆ T una curva regolare. La curva (γ̃, r̃) dove r̃ = r(γ)
è ancora una curva regolare e si dice la curva tracciata da γ su Σ. Infatti,

r̃0 (t) = ru (u(t), v(t))u0 (t) + rv (u(t), v(t))v 0 (t) ∀t ∈ [a, b] (∗)

e quindi r̃0 (t) = 0 se e solo se u0 (t) = v 0 (t) = 0 perchè i vettori ru , rv sono linearmente indipendenti.
Ma, per la regolarità della curva γ, ciò non è possibile. Dalla (*) segue che r̃0 (t) giace sul piano
individuato da ru , rv e questo piano è lo stesso per tutte le curve γ passanti per un punto assegnato
Q0 ∈ T. Il piano indivivuato da ru , rv e passante per P0 = r(Q0 ) ∈ Σ si dice piano tangente a Σ
nel punto Q0 e la sua equazione è

< P − P0 , ru (P0 ) ∧ rv (P0 ) >= 0.


∧rv
Il versore n = krruu ∧r vk
si dice versore normale alla superficie Σ nel punto r(u, v). Se (Σ, r) è una
superficie regolare e P0 ∈ Σ, P0 = r(u0 , v0 ), sia γ = r(u(t), v(t)) una curva chiusa passante per P0 .
Se per ogni curva di questo tipo si ha: n(a) = n(b) allora la superficie Σ si dirà orientabile.

Se Σ è una superficie regolare le curve r(u, ·) e r(·, v) si chiamano rispettivamente paralleli e


meridiani oppure linee coordinate.
Esempio 2.1 Ellissoide
Consideriamo la superficie di equazione cartesiana

x2 y2 z2
+ + =1
a2 b2 c2

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Appunti di Analisi Matematica II

oppure nella forma parametrica seguente:

r(θ, ψ) = (a sen ψ cos θ, b sen ψ sen θ, c cos ψ), 0 ≤ θ ≤ 2π, 0 ≤ ψ ≤ π.

Si ha:

i j