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G.

Di Fazio

Appunti di Analisi Matematica II

• Successioni di funzioni
• Calcolo Differenziale negli Spazi Normati
• Funzioni implicite
• Spazi Metrici e Spazi Normati
• Estremi relativi di funzioni su spazi metrici
• Curve in Rn
• Equazioni Differenziali
• Serie di Fourier
• Teoria dell’integrazione
• Sistemi Autonomi e stabilità
1. Successioni di funzioni

1.1 Definizioni e varie nozioni di convergenza

Sia fn : (a, b) → R ∀n ∈ N. La corrispondenza che associa ad ogni n ∈ N la funzione fn (x) si


dice successione di funzioni di termine generale fn (x) e si denota con il simbolo {fn }, n = 1, 2, . . . , .
Definizione 1.1 La successione {fn }, n = 1, 2, . . . , converge puntualmente in (a, b) se, comunque
si fissi x̄ ∈ (a, b) la successione numerica {fn (x̄)}, n = 1, 2, . . . ,è convergente. In tal caso è possibile
definire una funzione f (x) in (a, b) associando ad ogni x ∈ (a, b) il numero f (x) = limn→∞ fn (x).
Quindi la definizione è equivalente a dire che

∀x ∈ (a, b) ∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν |fn (x) − f (x)| < ε

Esempio 1.1 La successione {xn }, n = 1, 2, . . . , converge in [0, 1] alla funzione


(
0 0 ≤ x < 1;
f (x) =
1 x = 1.

Definizione 1.2 Sia {fn }, n = 1, 2, . . . , convergente (puntualmente) ad f (x) in (a, b). Diciamo che
converge uniformemente in (a, b) alla funzione f (x) se

∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν |fn (x) − f (x)| < ε ∀x ∈ (a, b)

e tale circostanza sarà indicata con la notazione fn →


→ f.

Teorema 1.1 (caratterizzazione della convergenza uniforme) Sia {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , una suc-
cessione di funzioni definite in (a, b) convergente ad una funzione f (x). fn →
→ f in (a, b) se e solo se
:
1) an ≡ sup |fn (x) − f (x)| < ∞ per n sufficientemente grande;
(a,b)
(1.1)
2) lim an = 0.
n→∞

Dim. Se fn →
→ f allora dalla definizione segue che

∀ε > 0 ∃ν ∈ N : an ≤ ε < ∞

e, allo stesso tempo, abbiamo la 1) e la 2).


Viceversa, dalla 2), usando la definizione di limite, segue la convergenza uniforme.
Esempio 1.2 La successione {xn }, n = 1, 2, . . . , non converge uniformemente in [0, 1].
Infatti se cosı̀ fosse avremmo

∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν |xn − f (x)| < ε ∀x ∈ [0, 1]


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ma questo implicherebbe
1 = sup |xn − f (x)| < ε ∀ε > 0
[0,1]

Esempio 1.3 La successione { n1 sen nx}, n = 1, 2, . . . , converge uniformemente in R alla funzione


identicamente nulla.
Infatti
1
sen nx ≤ 1 ∀x ∈ R

n n

e quindi
1
∃ν ∈ N : ∀n > ν sen nx ≤ ε ∀x ∈ R.


n
n
Esempio 1.4 La successione { xn! }, n = 1, 2, . . . , converge alla funzione identicamente nulla in
R ma la convergenza non è ivi uniforme. Tuttavia risulta uniforme in ogni intervallo del tipo
[−k, k] ∀k > 0.
Infatti n
x |x|n
an = sup = sup = +∞ ∀n ∈ N
x∈R n! x∈R n!

mentre, per il teorema di Weierstrass,

|x|n |xk |n
∃xk ∈ [−k, k] : a(k)
n ≡ sup =
x∈[−k,k] n! n!

(k)
e quindi, siccome an → 0, la convergenza è uniforme in [−k, k].

nx
Esempio 1.5 La successione { 1+n 2 x2 }, n = 1, 2, . . . , converge alla funzione identicamente nulla in

R ma la convergenza non è uniforme. Infatti,


 
1 1
an = sup |fn (x) − f (x)| = max |fn (x)| = fn =
R R n 2

che non converge a zero.

Esempio 1.6 La successione {nxn (1−x)}, n = 1, 2, . . . , converge alla funzione identicamente nulla
in [0, 1] ma la convergenza non è ivi uniforme. Infatti, posto fn (x) = nxn (1 − x), si ha:
   n  
n n n 1
an = sup |fn (x) − f (x)| = fn =n 1− → 6= 0
[0,1] n+1 n+1 n+1 e

e quindi la convergenza non è uniforme in [0, 1].

Definizione 1.3 Denotiamo con il simbolo C 0 ([a, b]) l’insieme delle funzioni continue nell’ intervallo

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chiuso e limitato [a, b].


Ponendo (
(f + g) (x) = f (x) + g(x) ∀x ∈ [a, b], ∀f, g ∈ C 0 ([a, b]);
(αf ) (x) = αf (x) ∀x ∈ [a, b], ∀α ∈ R, ∀f ∈ C 0 ([a, b]);

l’ insieme C 0 ([a, b]) diventa uno spazio vettoriale reale che si può rendere normato, ad esempio,
ponendo
kf k = max |f (x)| (1.2)
[a,b]

Teorema 1.2 (criterio di Cauchy per la convergenza puntuale) Sia {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , una
successione di funzioni definite in (a, b). La successione {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , è convergente, in
(a, b) se e solo se

∀x ∈ (a, b) ∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n, m > ν |fn (x) − fm (x)| < ε (1.3)

Dim. La dimostrazione è immediata conseguenza della definizione di convergenza e del criterio


di Cauchy per le successioni numeriche.

Teorema 1.3 (criterio di Cauchy per la convergenza uniforme) Sia {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , una
successione di funzioni definite in (a, b) convergente, in (a, b), ad una funzione f (x). Allora fn →
→f
in (a, b) se e solo se

∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n, m > ν |fn (x) − fm (x)| < ε ∀x ∈ (a, b). (1.4)

Dim. Infatti, se la successione converge uniformemente in (a, b) allora

|fn (x) − fm (x)| ≤ |fn (x) − f (x)| + |fm (x) − f (x)| ≤ ε ∀n, m > ν ∀x ∈ (a, b).

Viceversa se vale la (1.4), di certo la successione è puntualmente convergente per il teorema prece-
dente. Passando al limite per m → ∞ nella (1.4) si ha

an ≤ ε

e quindi la convergenza uniforme.

Teorema 1.4 (di continuità) Sia {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , una successione di funzioni in (a, b) continue
in un punto x0 ∈ (a, b) ed uniformemente convergente ad una funzione f (x) nell’ intervallo (a, b).
Allora la funzione limite f (x) è continua nel punto x0 .

Dim. Ricordiamo che, dalla caratterizzazione della convergenza uniforme


ε
∀ε > 0 ∃ν > 0 : an < ∀n > ν.
3

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Allora

|f (x) − f (x0 )| ≤ |f (x) − fν+1 (x)| + |fν+1 (x) − fν+1 (x0 )| + |fν+1 (x0 ) − f (x0 )|
≤ 2aν+1 + |fν+1 (x) − fν+1 (x0 )|

< + |fν+1 (x) − fν+1 (x0 )|
3

Siccome la funzione fν+1 è continua nel punto x0 esiste δ > 0 tale che, se |x − x0 | < δ, l’ultimo
addendo si può rendere minore di 3ε e quindi la tesi.

Osservazione 1.1 La convergenza di una successione {fn }, n = 1, 2, . . . , di elementi di C 0 ([a, b]),


nel senso della norma (1.2), coincide con la convergenza uniforme della successione di funzioni
continue {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , .

Infatti, se la successione di funzioni continue {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , converge uniformemente


in [a, b] la funzione limite è continua per il teorema di continuità e, per la caratterizzazione della
convergenza uniforme, si ha la convergenza nel senso della norma. Il viceversa è ovvio.

Osservazione 1.2 Mediante il teorema di continuità si può verificare che la convergenza nell’
esempio 1.2 non è uniforme. Infatti, se la convergenza fosse uniforme, la funzione limite dovrebbe
essere continua in [0, 1].

Teorema 1.5 (passaggio al limite sotto il segno di integrale) Sia {fn }, n = 1, 2, . . . , una successione
di funzioni continue in [a, b] ed uniformemente convergente in [a, b] ad una funzione (continua) f (x).
Allora vale la formula Z b Z b
lim fn (x)dx = f (x)dx. (1.5)
n→∞ a a

Dim. Si ha
Z Z
b Z b b
fn (x)dx − f (x)dx ≤ |fn (x) − f (x)| dx ≤ an (b − a) < ε.


a a a

Esempio 1.7 La successione {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , definita ponendo

1


 4n2 x ; 0≤x≤ ;


 2n
1 1

fn (x) = −4n2 x + 4n ; ≤x≤ ;

 2n n
1


0 ≤ x ≤ 1.


n

converge alla funzione identicamente nulla nell’ intervallo [0, 1] ma non converge uniformemente
perchè non vale la (1.5). La successione dell’ esempio 1.3 invece verifica la (1.5) però non converge

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uniformemente.

Teorema 1.6 (di derivabilità) Sia {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , una successione di funzioni di classe
C 1 (a, b) con (a, b) intervallo limitato. Supponiamo inoltre che:

i) fn0 g in (a, b);

ii) ∃x0 ∈ (a, b) : {fn (x0 )}, n = 1, 2, . . . , converge.

Allora : →
1) fn f in (a, b);

2) f ∈ C 1 (a, b) e f 0 = g.

Dim. Per il teorema di continuità g ∈ C 0 (a, b). Dal teorema fondamentale del calcolo
Z x
fn (x) = fn0 (t)dt + fn (x0 ) ∀x ∈ (a, b) ∀n ∈ N.
x0

Per l’ipotesi i) ed il teorema di passaggio al limite sotto il segno di integrale dall’ ultima eguaglianza
si deduce che fn (x) converge, in (a, b) ad una certa funzione f (x). Passando quindi al limite per
n → ∞ si ha: Z x
f (x) = g(t)dt + f (x0 ) ∀x ∈ (a, b)
x0

da cui si ha f ∈ C 1 . Derivando, infine segue

f 0 (x) = g(x) ∀x ∈ (a, b).

Proviamo adesso che fn →


→ f. Infatti, per la i), abbiamo: (supponiamo x > x0 )
Z x
|fn (x) − f (x)| ≤ |fn (x0 ) − f (x0 )| + |fn0 (t) − f 0 (t)| dt
x0
ε
≤ + |x − x0 | sup |fn0 (x) − f 0 (x)|
2 (a,b)
ε
≤ + (b − a) sup |fn 0 − f 0 | < ε.
2
x
R.

Esempio 1.8 Studiamo la convergenza della successione fn (x) = sen n in
Si ha:  x 
1
0
|fn (x)| = cos ≤ 1 ∀x ∈ R
n n n

→ 0 in qualsiasi compatto K ⊂ R. Per il corollario al teorema di derivazione, fn → 0 in


e quindi, fn0 → →

ogni compatto K ⊂ R. La successione data non converge uniformemente in R. Infatti, altrimenti si


avrebbe:
x 1
∃ν ∈ N : ∀n > ν sen < ∀x ∈ R


n 2
e quindi
sen x < 1 ∀x ∈ R.

ν + 1 2

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π
+ 2nπ si trova 1 < 12 .

Scegliendo x = (ν + 1) 2

2
Esempio 1.9 La successione di termine generale fn (x) = e−nx converge, ma non uniformemente
in R.
Infatti, la funzione limite è (
0 x 6= 0;
f (x) =
1 x=0

che non è continua in R. Proviamo adesso che la convergenza è uniforme in |x| ≥ k ∀k > 0. Infatti,
2 2
|fn (x)| = |e−nx | ≤ e−nk |x| ≥ k

e quindi
2
−nk
a(k)
n = sup |fn (x)| ≤ e → 0.
|x|≥k

Esempio 1.10 La successione di termine generale fn (x) = e−nx cos nx converge, ma non uniforme-
mente in [0, 2π].
Infatti, la funzione limite è (
0 x ∈]0, 2π];
f (x) =
1 x=0

che non è continua in x = 0. Proviamo adesso che la convergenza è uniforme in [k, 2π] ∀k ∈]0, 2π[.
Infatti,
|fn (x) − f (x)| = e−nx | cos nx| ≤ e−nk ∀x ∈ [k, 2π]
e quindi,
−nk
a(k)
n = sup |fn (x) − f (x)| ≤ e → 0.
[k,2π]

Esempio 1.11 La successione di termine generale fn (x) = e−nx sen nx converge, alla funzione
identicamente nulla in [0, 2π].
Stavolta non possiamo usare il teorema di continuità per stabilire che la convergenza non è uniforme.
Osserviamo che
   
1 1 −1
an = sup |fn (x) − f (x)| ≥ fn
−f = e sen 1
[0,2π] n n

e quindi an non tende a zero e la convergenza non è uniforme. Ragionando come nell’esempio
precedente si vede che la convergenza è uniforme in [k, 2π] ∀k ∈]0, 2π[. Infatti,

|fn (x) − f (x)| = e−nx | sen nx| ≤ e−nk ∀x ∈ [k, 2π]

e quindi,
−nk
a(k)
n = sup |fn (x) − f (x)| ≤ e → 0.
[k,2π]

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Esempio 1.12 La successione di termine generale fn (x) = nx sen nx converge, alla funzione identi-
camente uguale ad 1 in R \ {0} ma la convergenza non è uniforme.
Infatti, dire che la successione converge uniformemente significa che
n x
∀ε > 0 ∃ν ∈ N : sen − 1 < ε ∀n > ν ∀x 6= 0.


x n
sen t
Ricordiamo che limt→0 t = 1 ovvero

1
∀ε > 0 ∃δ > 0 : sen t − 1 < ε
0 < |t| < δ.
t

Se esiste x
ν∈N : <δ ∀n > ν ∀x 6= 0

n

allora la convergenza è uniforme, altrimenti non lo è. Siccome limx→+∞ nx = +∞, ciò non è
possibile.

Adesso vediamo qualche applicazione agli spazi metrici e agli spazi normati.
Teorema 1.7 (completezza di C 0 ([a, b])) Lo spazio C 0 ([a, b]) risulta completo rispetto alla norma
(1.2).

Dim. Sia {fn }, n = 1, 2, . . . , una successione di Cauchy di elementi di C 0 ([a, b]). Allora

∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n, m > ν kfn − fm k∞ < ε.

Per definizione di (1.2)

∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n, m > ν |fn − fm | < ε ∀x ∈ [a, b].

Per il criterio di Cauchy relativo alla convergenza uniforme, fn → → f e per il teorema di continuità
f ∈ C 0 . Per l’osservazione 1.1 abbiamo infine la tesi.
Nello spazio C 0 ([a, b]) si può introdurre anche la seguente norma integrale
! p1
Z b
kf kp = |f (x)|p dx 1<p<∞ (1.6)
a

Lo spazio però non risulta completo rispetto alla norma integrale (1.6) come mostra il seguente
esempio.
Esempio 1.13 La successione {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , definita dalla legge

1


 1 ≤ x ≤ 1;


 n
1 1

fn (x) = nx − ≤x≤ ;

 n n
1


 −1

−1≤x≤− ;
n

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è una successione di Cauchy secondo la norma (1.6) ma non è convergente.


Infatti, se n > m ∈ N si ha:
Z 1 Z n1 Z m1
|fn (x) − fm (x)|p dx ≤ 2(n − m)p xp dx + 2 |mx − 1|p dx
1
−1 0 n

(n − m)p

1 1
≤2 + 2 −
(p + 1)np+1 m n

2 1 1 1
≤ + 2 − < ε n, m > ν.
p+1n m n
Analogamente, se 
 1
 0 < x ≤ 1;
f (x) = 0 x = 0;

−1 −1≤x<0

abbiamo Z 1
2
|fn (x) − f (x)|p dx = → 0.
−1 n(p + 1)
Proviamo che {fn }, n = 1, 2, . . . , non converge nel senso della norma (1.6). Supponiamo, per
assurdo, che esista una funzione f ∗ ∈ C 0 ([−1, 1]) limite nel senso della norma (1.6) della successione
{fn }, n = 1, 2, . . . , . Allora
Z 1  p1 Z 1  p1
∗ p
|f − f | dx ≤ p
|f − fn | dx + kfn − f ∗ kp → 0
−1 −1

e quindi avremmo f ≡ f ∗ ma f ∈ / C 0 ([−1, 1]) che è assurdo.


Definizione 1.4 Da ora in avanti sarà
C 1 ([a, b]) = f : [a, b] → R : ∃ f 0 ∈ C 0 ([a, b])


normato ponendo
kf kC 1 ≡ kf kC 0 + kf 0 kC 0 = max |f (x)| + max |f 0 (x)| (1.7)
[a,b] [a,b]

Teorema 1.8 Lo spazio C 1 ([a, b]) è completo rispetto alla norma (1.7).

Dim. Infatti, sia {fn }, n = 1, 2, . . . , una successione di Cauchy in C 1 ([a, b]). Allora,
∀ε > 0 ∃ ν ∈ N : kfn − fm kC 1 < ε ∀ n, m > ν
e quindi (
kfn − fm kC 0 < ε
kfn0 − fm
0
kC 0 < ε.
Siccome C 0 ([a, b]) è completo esistono f, g ∈ C 0 ([a, b]) :
kfn − f kC 0 → 0 kfn0 − gkC 0 → 0.
Per il corollario al teorema di derivazione ∃f 0 = g e quindi
kfn − f kC 1 → 0.

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2. Serie di funzioni

2.1 Definizioni e varie nozioni di convergenza

Sia {fn (x)}, n = 1, 2, . . . , P


una successione di funzioni definite in (a, b) a valori reali e sia

x0 ∈ (a, b). Se la serie numerica n=1 fn (x0 ) risulta convergente diremo che la serie di funzioni

X
fn (x) (1.1)
n=1

converge in x0 . Se questo accade per ogni x ∈ (a, b) allora diremo che la serie (1.1) converge
puntualmente in (a, b). Ovvero
n
∀x ∈ (a, b) ∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν
X
fk (x) − f (x) < ε. (1.2)


k=1

Se invece n
∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν
X
fk (x) − f (x) < ε ∀x ∈ (a, b) (1.3)


k=1
P∞
diremo allora che la serie n=1 fn (x) converge uniformemente ad f (x) in (a, b). In maniera simile
a quanto visto per le successioni di funzioni, anche per le serie abbiamo i criteri di convergenza di
Cauchy

P∞
Teorema 1.1 (criterio di Cauchy per la convergenza puntuale). La serie n=1 fn (x) converge
puntualmente in (a, b) se e solo se
n+p
∀x ∈ (a, b) ∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν ∀p ∈ N
X
fk (x) < ε (1.4)



k=n+1

Dim. Basta applicare il criterio di Cauchy alla successione di funzioni sn (x).

P∞
Teorema 1.2 (criterio di Cauchy per la convergenza uniforme). La serie n=1 fn (x) converge
uniformemente in (a, b) se e solo se
n+p
∀ε > 0 ∃ν ∈ N : ∀n > ν ∀p ∈ N
X
f (x) < ε ∀x ∈ (a, b) (1.5)

k

k=n+1

Dim. Basta applicare il criterio di Cauchy relativo alla convergenza uniforme alla successione
di funzioni sn (x).

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P∞
Definizione 1.1 (convergenza totale) La serie n=1 fn (x) converge totalmente in (a, b) se

+∞
X
sup |fn (x)| < +∞
n=1 (a,b)

Teorema 1.3 (Test di Weierstrass) La convergenza totale implica la convergenza assoluta ed


uniforme.

Dim. Usiamo il criterio di Cauchy per la convergenza uniforme. Posto Mn ≡ sup(a,b) |fn (x)|
∀n ∈ N si ha:
n+p n+p n+p
X X X
fk (x) ≤ |fk (x)| ≤ sup |fk (x)| < ε, ∀x ∈ (a, b).



k=n+1

k=n+1 (a,b)
k=n+1

In generale il viceversa e’ falso (vedi piu’ avanti, dopo il teorema di Abel).

Esempio 1.1 Consideriamo le serie


∞ ∞ ∞
X X xn X sen(nx)
xn ; 2
; 2
.
n=0 n=1
n n=1
n

La prima è la serie geometrica di ragione x. Converge puntualmente in ] − 1, 1[ ma la convergenza


non è uniforme e si vede applicando il criterio di Cauchy. La seconda serie è convergente in [−1, 1]
e la convergenza è totale perchè
n
x
≤ 1 ∀x ∈ [−1, 1].
n2 n2

Infine la terza serie è totalmente convergente in R perchè



sen(nx) 1
n2 ≤ n2
∀x ∈ R, ∀n ∈ N.

P∞
Teorema 1.4 (continuità) Sia n=1 fn (x) una serie di funzioni continue in x0 ∈ (a, b) uniforme-
mente convergente alla funzione f (x) in (a, b). Allora f (x) è continua in x0 .

Dim. Applicare il teorema di continuità alla successione {sn (x)}, n = 1, 2, . . . , delle somme
parziali.

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Appunti di Analisi Matematica II

P∞
Teorema 1.5 (derivabilità) Sia n=1 fn (x) una serie di funzioni di classe C 1 (a, b) con (a, b) inter-
vallo limitato. Supponiamo inoltre che:

X
∃x0 ∈ (a, b) : fn (x0 ) converge;
n=1

X
fn0 (x) converge uniformemente a g(x)in (a, b).
n=1
P∞
Allora la serie n=1 fn (x) converge uniformemente in (a, b) e, detta f (x) la funzione somma, f (x)
risulta di classe C 1 ed inoltre f 0 (x) = g(x) ∀x ∈ (a, b).

Dim. Applicare il teorema di derivabilità alla successione {sn (x)}, n = 1, 2, . . . , delle somme
parziali.

P∞
Teorema 1.6 (Integrazione per serie) Sia n=1 fn (x) una serie di funzioni continue in [a, b] uni-
formemente convergente alla funzione f (x) in [a, b]. Allora vale la formula
∞ Z
X b Z b
fn (x)dx = f (x)dx.
n=1 a a

Dim. Applicare il teorema di passaggio al limite sotto il segno di integrale alla successione
{sn (x)}, n = 1, 2, . . . , delle somme parziali.

P∞
Esempio 1.2 Calcolo della somma della serie n=1 nxn .
Applicando il teorema di derivazione si ha:
∞ ∞ ∞
0
X X X
nxn = x(xn )0 = x (xn )
n=1 n=1 n=1

!0  0
X
n x
=x x =x
n=1
1−x
x
= , ∀x ∈] − 1, 1[.
(1 − x2 )

Esempio 1.3 Studio della convergenza puntuale ed uniforme in R della serie



x
x ∈ R.
X
,
n=1
2 + 3n4 x2

Studiamo la convergenza puntuale: Per x = 0 la serie è ovviamente convergente. Sia x 6= 0. Poichè



4
x = 1 6= 0

lim n 4 2
n→∞ 2 + 3n x 3|x|

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la serie è convergente in R per il criterio di confronto con la serie armonica generalizzata.


Per studiare la convergenza uniforme proviamo che la serie converge totalmente in R. Infatti
si ha: r
x 1 2 1
sup =
R 2 + 3n4 x2 4 3 n2
e quindi, essendo convergente la serie dei sup, la serie data converge totalmente in R.
2.2 Serie di potenze
P+∞
In questo paragrafo considereremo serie di funzioni della forma n=0 an (z − z0 )n dove {an }
è una successione di numeri complessi. Tali serie vengono dette serie di potenze di coefficienti
{an }, n = 1, 2, . . . , e centro z0 . (*) La cosa che distingue le serie di potenze tra le serie di funzioni
è la struttura dell’ insieme di convergenza. Qualunque serie di potenze converge nel suo centro.
Risulta quindi non vuoto il seguente insieme
( +∞
)
z∈C: an (z − z0 ) ∈ C .
X
n
C≡
n=0

P+∞
Osserviamo sin da adesso che, posto ω = z − z0 ci si può ridurre a studiare la serie n=0 an ω n che
è centrata nell’ origine. Per cominciare dimostriamo il seguente

P+∞
Lemma 2.1 (Abel) Sia n=0 an z n una serie di potenze. Allora:

P+∞
1) Se esiste z0 6= 0 : n=0 an z n converge in z0 , la serie converge assolutamente ∀z : |z| < |z0 |
ovvero B|z0 | (0) ⊆ C. Inoltre la serie converge totalmente in Bδ (0), ∀δ < |z0 |.
P+∞
2) Se esiste z0 6= 0 : n=0 an z n non converge in z0 , la serie non converge ∀z : |z| > |z0 | ovvero
C \ B|z0 | (0) ⊂ C \ C.

Dim.
Proviamo la 1). Sia z0 ∈ C. Allora |an z0n | → 0 e quindi ∃M : |an z0n | ≤ M Allora, se |z| < |z0 |
n n n
z
n
|an z0n | ≤M z ≤M δ

|an z | = ∀z ∈ Bδ (0)
z0 z0 z0

e quindi la 1).

P+∞
Proviamo la 2). Per assurdo, se ∃z : |z| > |z0 | e n=0 an z n converge, allora per la 1) la serie
converge (assolutamente) in z0 .

(*) Conveniamo di porre 00 = 1

12
Appunti di Analisi Matematica II

Definizione 2.1 Data una serie di potenze n=0 an z n , sia Ra ≡ % ≡ sup |z| : n=0 an z n ∈ C .
P+∞ n P+∞ o

In generale % può essere un numero non negativo oppure +∞.

Esempio 2.1 Le serie


+∞ +∞ n ∞
X X z X
n!z n ; ; zn.
n=0 n=0
n! n=0

hanno raggio di convergenza % = 0; % = +∞; % = 1 rispettivamente.


La prima serie converge solo per z = 0 perchè

(n + 1)!|z|n+1
= (n + 1)|z| → +∞ ∀z 6= 0.
n!|z|n

La seconda serie converge in C. Infatti, per z 6= 0 si ha:


n!|z|n+1 |z|
= → 0.
(n + 1)!|z|n (n + 1)

La terza è la serie geometrica e quindi converge solo per |z| < 1.

Nello studio di una serie di potenze è di fondamentale importanza conoscere il raggio di con-
vergenza. Questo è lo scopo dei prossimi teoremi.

Teorema 2.1 Per ogni serie di potenze di raggio % si ha: B% (0) ⊆ C ⊆ B% (0)

Dim.
Sia |z| < %. Usando la seconda proprietà dell’estremo superiore si trova z ∗ ∈ C : |z| < |z ∗ | < %
da cui, per il Lemma di Abel segue che z ∈ C e quindi B%(0) ⊆ C. Sia adesso z ∈ / B%(0) ovvero
/ C ovvero C \ B%(0) ⊆ C \ C.
|z| > %. Per la prima proprietà dell’ estremo superiore si ha che z ∈
Inoltre si ha:
Teorema 2.2 Sia r ∈ R̃ : Br (0) ⊆ C ⊆ Br (0) Allora r = %.

Dim. Infatti, se r > % esiste z : % < |z| < r : z ∈ C contro la prima proprietà dell’estremo
superiore. Se invece r < %, poichè C ⊆ Br (0), in B% (0) \ Br (0) non si ha convergenza ovvero non vi
sono elementi di C. Ma questo va contro la seconda proprietà dell’estremo superiore quindi la tesi.

Diamo adesso un metodo per il calcolo esplicito del raggio di convergenza.

P+∞ p
Teorema 2.3 (Calcolo del raggio) Sia data la serie di potenze n=0 an z n . Se maxlimn→∞ n
|an | =
l ∈ [0, +∞] si ha % = 1l .

Dim. Supponiamo l > 0. Applicando il criterio della radice abbiamo che, se |z| < 1l allora
z ∈ C mentre se |z| > 1l la serie diverge assolutamente. Allora, B 1l (0) ⊆ C ⊆ B 1l (0) da cui la tesi.

13
G.Di Fazio

P∞ P∞
Esempio 2.2 n=0 z 2n . Si può porre w = z 2 ed applicare il teorema alla serie n=0 wn .
In modo simile si può dimostrare il seguente teorema

P+∞
n an+1 1
Teorema 2.4 Sia data la serie di potenze n=0 an z . Se lim supn an = l allora % = l .

Da tutto quello che abbiamo sinora visto possiamo concludere che la conoscenza del raggio
di convergenza dice quasi tutto sul comportamento della serie. L’unico dubbio concerne il com-
portamento della serie sulla frontiera dell’ insieme di convergenza. A tal proposito dimostriamo il
seguente

P+∞
Teorema 2.5 (Abel) Sia data la serie di potenze n=0 an z n con % > 0. Se la serie converge in un
P+∞
punto z0 della frontiera dell’insieme di convergenza allora la serie n=0 an z n converge uniforme-
|z−z0 |
mente in ogni sottoinsieme del cerchio di convergenza in cui la funzione |z|−|z0|
è limitata.

Dim. Non è restrittivo supporre che % = 1 e che z0 = 1. Usando il fatto che la serie converge
nel punto z = 1 si ha:

n+k−1
X j n n+1
) + (an + an+1 )(z n+1 − z n+2 ) + (an + an+1 + an+2 )(z n+2 − z n+3 )+

a j z = an (z − z


j=n
· · · + (an + an+1 + · · · + an+k−1 )z n+k−1

≤ |an ||z n ||1 − z| + |an + an+1 ||z n+1 ||1 − z| + |an + an+1 + an+2 ||z n+2 ||1 − z|+
· · · + |an + an+1 + · · · + an+k−1 ||z n+k−1 |
|1 − z|
≤ |1 − z| 1 + |z| + · · · + |z|k−2 < 

1 − |z|
e la tesi segue dal criterio di Cauchy relativo alla convergenza uniforme.

Introduciamo adesso il concetto di derivazione complessa. Sia z0 ∈ Ω ⊂ C e sia f : Ω → C.


Diciamo che f è derivabile nel punto z0 in senso complesso se esiste (in C) il seguente limite:
f (z) − f (z0 )
lim = f 0 (z0 ).
z→z0 z − z0
Si può facilmente dimostrare che una funzione derivabile è anche continua e, similmente al caso
della derivazione reale si dimostrano i teoremi sulla derivata di una somma, di un prodotto, di
un quoziente e della funzione composta. Tuttavia, il concetto di derivazione in senso complesso è
profondamente diverso dal suo analogo in campo reale. A titolo di esempio verifichiamo che, anche
funzioni molto semplici possono risultare non derivabili in alcun punto.

Esempio 2.3 Consideriamo la funzione f : C → C definita dalla legge f (z) = z̄.


Sia z0 ∈ C. Verifichiamo che f non è derivabile in z0 . Si ha:
f (z) − f (z0 ) z̄ − z¯0 w̄
lim = lim = lim .
z→z0 z − z0 z→z0 z − z0 w→0 w

14
Appunti di Analisi Matematica II

Il limite non esiste. Infatti, considerando la restrizione all’asse reale si ha:

w̄ x
lim = lim = 1,
w→0 w x→0 x

mentre considerando la restrizione all’asse immaginario,

w̄ −iy
lim = lim = −1.
w→0 w y→0 iy
P+∞ P+∞
Data la serie di potenze n=0 an z n , la serie n=1 nan z n−1 si chiama serie derivata. Si ha

P+∞ n
P∞ n−1
Teorema 2.6 Sia data la serie di potenze n=0 an z con % > 0 e sia n=1 nan z la serie
0 0
derivata con raggio di convergenza % . Allora % = % .

Dim. Sia |z1 | < % e z : |z1 | < |z| < %. Allora,


n n
nan z n−1 = n |an z n | z1 ≤ M n z1 ≡ M 0 nq n ,

1 ∀|q| < 1
|z1 | z |z1 | z

e quindi z1 ∈ C 0 da cui % ≤ %0 . Viceversa, sia |z1 | < %0 Allora, definitivamente si ha:

|z1 |
|an z1n | = nan z1n−1 ≤ n|an z1n−1 |

n

da cui z1 ∈ C e quindi %0 ≤ % e,come volevasi % = %0 .

P+∞
Teorema 2.7 La serie n=0 an z n è derivabile in senso complesso e si ha:

+∞
! +∞
d X X
an z n = nan z n−1 , ∀z : |z| < %.
dz n=0 n=1

Dim. Sia z0 ∈ C. Proviamo che la serie è derivabile in z0 . Proviamo perciò che:


+∞

f (z) − f (z ) X
0 n−1
∀ > 0 ∃ δ > 0 : ∀z =
6 z0 , |z − z0 | < δ ⇒ − nan z0 < .

z − z0
n=1

Si ha:
+∞
X +∞
X n
X
f (z) − f (z0 ) = an (z − n
z0n ) = an (z − z0 ) z n−j z0j−1
n=1 n=1 j=1

15
G.Di Fazio

e quindi,
+∞  n 
f (z) − f (z ) X+∞ X +∞
0
X X
n−1 n−j j−1  n−1

− nan z0 = an z z0 − nan z0

z − z0


n=1 n=1 j=1 n=1
 
+∞ n
X
X j−1
n−j n−1

= an  z z0 − nz0 
n=1 j=1
 
N n
X X
n−j j−1 n−1

≤ an  z z0 − nz0 
n=1 j=1
 
+∞ n
X
X j−1
n−j n−1

+ an  z z0 − nz0 
n=N +1 j=1
= I + II.

Ovviamente, limz→z0 I = 0. Per quanto riguarda II, siano |z|, |z0 | < r < %. Si ha:
 
+∞ n +∞
X X X 
|II| ≤ |an |  |z|n−j |z0 |j−1 + n|z0 |n−1  ≤ 2 n|an |rn−1 <
j=1
2
n=N +1 n=N +1

per N maggiore di un conveniente N . Ciò è possibile perchè l’ultimo termine è resto di una serie
convergente e la convergenza è assicurata dal fatto che la serie delle derivate ha lo stesso raggio di
convergenza della serie data. In conclusione si ha:

f (z) − f (z ) X+∞
0
maxlimz→z0 − nan z0n−1 ≤ maxlimz→z0 |I| +  = , ∀ > 0

z − z0
n=1

da cui si ottiene la tesi.

A questo punto possiamo notare che una funzione che si possa esprimere come somma di una
serie di potenze è in realtà una funzione di classe C ∞ e ciò si vede applicando ripetutamente il
teorema appena dimostrato. Più precisamente dimostriamo quanto segue:

P+∞
Teorema 2.8 (sulla regolarità delle serie di potenze) Sia f (z) = n=0 an z n definita in B% (0).
Allora:
1) f ∈ C ∞ (B% (0));
2) f (k) (0) = k!ak ∀k ∈ N.

Dim. La funzione f (z) è derivabile all’interno del cerchio di convergenza grazie al teorema
appena dimostrato. Si ha:

f (z) = a0 + a1 z + · · · + an z n + · · · , f (0) = a0
0
f (z) = a1 + 2a2 z + · · · + nan z n−1
+ ···, f 0 (0) = a1

16
Appunti di Analisi Matematica II

e, continuando in questo modo si trova

f (k) (0) = k!ak ∀k ∈ N

da cui si ha che f ∈ C ∞ (B% (0)) ed inoltre



X f (n) (0) n
f (z) = z .
n=1
k!

P+∞
Teorema 2.9 (Unicità dello sviluppo in serie di potenze) Sia f (z) = n=0 an z n e f (z) =
P+∞ n
n=0 bn z ∀z ∈ B% (0). Allora:
an = b n ∀n ∈ N.

P∞ Dim. n DaPquanto

visto nella dimostrazione
n
P∞ del teorema P
n
precedente, se esistessero due serie
∞ n
n=0 an z e n=0 bn z tali che f (z) = n=0 a n z e f (z) = n=0 bn z allora dovrebbe risultare

f (k) (0) = k!ak ∀k ∈ N

e contemporaneamente
f (k) (0) = k!bk ∀k ∈ N
da cui l’ unicità dello sviluppo.

Definizione 2.2 Sia f ∈ C ∞ (Ω), z0 ∈ Ω ⊆ C. Diciamo che f è sviluppabile in serie di Taylor in Ω


se vale la seguente eguaglianza

+∞ (n)
X f (0)
f (z) = (z − z0 )n ∀z ∈ Ω. (2.1)
n=0
n!

Da questo momento in poi decidiamo di occuparci della versione reale delle serie di Taylor riman-
dando lo studio nel campo complesso per la mancanza di strumenti adatti a tale indagine. Diremo
quindi che una funzione reale è sviluppabile in serie di Taylor di centro x0 (oppure che è analitica
reale) se vale la (2.1) in un intorno (⊂ R) di x0 . Dalla definizione è evidente che una funzione
analitica risulta di classe C ∞ . In generale, non è vero il viceversa come mostra il seguente esempio
dovuto a Cauchy.
Esempio 2.4 La funzione f : R → R definita dalla legge
( 1
e− x2 x 6= 0
f (x) =
0 x=0

risulta di classe C ∞ (R) e, precisamente f (n) (0) = 0 ∀n ∈ N. Da questo segue che la serie di Mac
Laurin relativa ad f è identicamente nulla e quindi non può convergere alla funzione assegnata.

17
G.Di Fazio

Si può ancora affermare che, in generale la convergenza della (2.1) non è assicurata nemmeno
in un punto (a parte il centro!). Ciò è conseguenza del seguente risultato dovuto a Borel:

Teorema 2.10 Data una successione {cn } a termini reali esiste una funzione f ∈ C ∞ (R) tale che
f (n) (0) = cn ∀n ∈ N.

Quindi scegliendo cn = (n!)2 si ottiene una serie che converge soltanto in x = 0.

Teorema 2.11 (Condizione sufficiente per l’ analiticità) Sia f ∈ C ∞ (] − %, %[), % > 0. Supponiamo
che
M n!
∃ν ∈ N, ∃M ≥ 0 : sup |f (n) | ≤ n ∀n > ν.
]−%,%[ %

Allora f è analitica in ] − %, %[.

Dim. Sia |x| < %. Per fissare le idee supponiamo x ∈]0, %[. Dalla formula di Mac Laurin
arrestata all’ ordine n si ha che
n−1
X f (k) (0) k f (n) (ξ) n f (n) (ξ) n
∃ξ ∈]0, x[: f (x) = x + x = sn (x) + x (2.2)
k! n! n!
k=0

e quindi, usando (2.2)



n−1
X f (k) (0)
k
|f (x) − sn (x)| ≡ f (x) − x

k!
k=0
(n)  n
|x|n

f (ξ) n |x|
= x ≤ sup |f (n) (x)| ≤M → 0.
n! (a,b) n! %

Corollario 2.1 (Condizione sufficiente per l’ analiticità) Sia f ∈ C ∞ (] − %, %[) % > 0. Supponiamo
che esista
∃ν ∈ N, ∃M ≥ 0 : sup |f (n) | ≤ M ∀n > ν.
]−%,%[

Allora f è analitica in (a, b).

Dim. La tesi segue dal fatto che


n!
lim = +∞
n→∞ %n
e quindi, per definizione di limite,

n!
∃ν ∈ N : >1 ∀n > ν.
%n

2.3 Sviluppi notevoli

18
Appunti di Analisi Matematica II

Adesso, a titolo di esempio, prendiamo in esame il problema della analiticità di alcune funzioni.

1) Serie esponenziale

1 n
∀x ∈ R.
X
ex = x (3.1)
n=0
n!

Infatti, fissato % > 0, si ha

|Dn ex | ≤ e% ∀x ∈] − %, %[, ∀n ∈ N

e quindi, per il corollario, la formula (3.1) vale in ]−%, %[. Sia %1 > %. Per l’unicità dello sviluppo
in serie di potenze si ha che la stessa formula (3.1) deve essere valida anche in ] − %1 , %1 [. Poichè
%1 è arbitrario, la formula (3.1) vale in R. Esaminiamo un caso particolare. Ponendo x = 1
nella (3.1) si ottiene

X 1
e= (3.2)
n=0
n!

La serie risulta a termini positivi quindi diamo una valutazione diretta dell’ errore commesso
approssimando la somma della serie con una somma parziale. Si ha
∞  
X 1 1 1 1
e − sn = = 1+ + + ···
k! n! n + 1 (n + 1)(n + 2)
k=n
∞  k
1 X 1 1 n+1 1 n2 − 1
≤ = =
n! n+1 n! n (n − 1)!(n − 1) n2
k=0
1
< ∀n ∈ N.
(n − 1)!(n − 1)

2)

(−1)n
∀x ∈ R.
X
sen x = x2n+1 (3.3)
n=0
(2n + 1)!

Infatti, si ha
|Dn sen x| ≤ 1 ∀x ∈ R ∀n ∈ N
e per il corollario si ha la (3.3).

3)

(−1)n 2n
∀x ∈ R.
X
cos x = x (3.4)
n=0
(2n)!

La formula (3.4) si deduce dalla (3.3) applicando il teorema di derivazione per serie.

4)

x2n+1
∀x ∈ R.
X
senh x = (3.5)
n=0
(2n + 1)!

19
G.Di Fazio

Sfruttando la formula (3.1) si ha

∞ ∞
!
ex − e−x 1 X 1 n X (−1)n n
senh x = = x − x =
2 2 n=0
n! n=0
n!
∞ ∞
1 X [1 − (−1)n ] n X x2n+1
= x = ∀x ∈ R.
2 n=0 n! n=0
(2n + 1)!

5)

x2n
∀x ∈ R.
X
cosh x = (3.6)
n=0
(2n)!

Si ottiene derivando la formula (3.5).

6) Prima serie logaritmica



X xn+1
log(1 − x) = − ∀x ∈ [−1, 1[. (3.7)
n=0
n+1

Si ha

1 X
= tn , ∀t ∈] − 1, 1[. (3.8)
1 − t n=0

Fissato x ∈]0, 1[, poichè il raggio di convergenza della serie (3.8) è 1, nell’ intervallo [0, x]
abbiamo convergenza totale e quindi, integrando per serie, dalla (3.8) otteniamo
Z x Z xX∞
1
− log(1 − x) = dt = tn dt
0 1 − t 0 n=0
∞ x ∞
xn+1
X Z X
= tn dt =
n=0 0 n=0
n+1

e quindi abbiamo la (3.7) per x ∈]0, 1[. Se x = 0 la (3.7) è ovvia; se x ∈] − 1, 0] si ragiona


analogamente al caso x ∈ [0, 1[; se x = 1 la (3.7) non può valere. Esaminiamo il caso x = −1.
La serie che figura a secondo membro nella (3.7) converge per x = −1 grazie al teorema di
Leibnitz e quindi la serie di potenze (3.7) converge uniformemente in [−1, 0] per il teorema di
Abel perciò la serie (3.7) definisce una funzione continua in [−1, 0], in particolare, continua in
x = −1. Possiamo passare al limite per x → −1+ ottenendo che la formula (3.7) vale anche in
x = −1 ed inoltre

X (−1)n+1
log 2 = − (3.9)
n=0
n+1

che potrebbe essere usata per il calcolo approssimato del numero log 2. La formula (3.9) però
non è molto utile ai fini della determinazione delle cifre decimali di log 2. Infatti, utilizzando
il teorema di Leibniz si ha che, per ottenere una approssimazione con errore minore di 10−2
bisogna utilizzare almeno 100 termini della serie. Più avanti vedremo che il calcolo può essere
portato avanti in modo più efficiente utilizzando un’ altra serie la cui somma è log 2.

20
Appunti di Analisi Matematica II

7) Seconda serie logaritmica



X (−1)n n+1
log(1 + x) = x ∀x ∈] − 1, 1]. (3.10)
n=0
n+1

Si ottiene dalla (3.7) sostituendo x con −x.

8) Terza serie logaritmica



1+x X x2n+1
log =2 ∀x ∈] − 1, 1[. (3.11)
1−x n=0
2n + 1

Utilizzando le formule (3.7) e (3.10) abbiamo


∞ ∞
1+x X (−1)n n+1 X xn+1
log = log(1 + x) − log(1 − x) = x +
1−x n=0
n+1 n=0
n+1
∞ ∞
X xn+1 X x2n+1
= ((−1)n + 1) =2 , ∀x ∈] − 1, 1[.
n=0
n+1 n=0
2n + 1

Esaminiamo un caso particolare della formula (3.11). Se si pone x = 1


m con m ∈ N, m 6= 1 si
ha

m+1 X 1 1
log =2 2n+1
(3.12)
m−1 n=0
2n + 1 m
che, per esempio, per m = 2 fornisce

X 1 1
log 3 = (3.13)
n=0
2n + 1 4n

La serie (3.13) è a termini positivi quindi per determinare un valore approssimato della sua
somma bisogna procedere ad un’ analisi diretta stimando l’errore (per difetto) commesso ap-
prossimando log 3 con la somma dei primi n termini. Si ha
n−1 ∞ ∞
X 1 1 X 1 1 1 X 1
log 3 − = ≤
2k + 1 4k 2k + 1 4k 2n + 1 4k
k=0 k=n k=n
1 1 1 1 1 1
= 1 = ∀n ∈ N.
2n + 1 4n 1 − 4
3 2n + 1 4 n−1

Scegliendo n = 3 si ottiene quindi un’ approssimazione per difetto con errore minore di un
centesimo. Precisamente
1 1 263
log 3 ∼ 1 + + = = 1, 0 · · ·
12 80 240
Si può procedere similmente nel caso m = 3 ottenendo un valore approssimato di log 2. E’ utile
confrontare con la formula (3.9). Per m = 3 la (3.12) fornisce

X 1 1
log 2 = 2 2n+1
n=0
2n + 1 3

21
G.Di Fazio

e quindi

n−1 ∞
X 1 1 X 1 1
log 2 − 2k+1
= 2 2k+1

2k + 1 3 2k + 1 3
k=0 k=n
∞ ∞
X 1 1 2 1X 1
≤ = =
2n + 1 32k+1 2n + 1 3 32k
k=n k=n
2 1 1 1 3 1 1 1
= 1 = < .
2n + 1 3 9n 1 − 9
4 2n + 1 9 n 100

Ad esempio, scegliendo n = 2, si ottiene

2 2 1 56
log 2 ∼ + = = 0, 691 . . .
3 3 33 81

9)

X (−1)n 2n+1
arctang x = x ∀|x| ≤ 1. (3.14)
n=0
2n + 1

Ragioniamo in modo simile a quando abbiamo dimostrato la (3.7). Si ha


∞ ∞
1 X
2 n
X
= (−t ) = (−1)n t2n , ∀|t| < 1. (3.15)
1 + t2 n=0 n=0

Sia x ∈]0, 1[. Poichè il raggio di convergenza della (3.15) è 1, in [0, x] abbiamo convergenza
totale e quindi, integrando per serie la (3.15) abbiamo la (3.14) per x ∈]0, 1[. Similmente si
procede per x ∈] − 1, 0[ essendo ovvia per x = 0. La formula (3.14) è valida anche nei punti
x = 1, x = −1 e ciò si dimostra come è stato fatto in 6). A questo punto però notiamo
che l’eguaglianza (3.14) è stata dimostrata soltanto nell’ intervallo [−1, 1] mentre la funzione
arctang x è di classe C ∞ (R). Il raggio di convergenza della serie che compare nella formula
(3.14) è 1 quindi, per l’ unicità dello sviluppo in serie di potenze la (3.14) esprime l’ unico
sviluppo possibile (in serie di Mac Laurin) della funzione arctang x.

10) Serie binomiale


∞  
X α
(1 + x)α = xn ∀x ∈] − 1, 1[ (3.16)
n=0
n

dove αk ≡ α(α−1)···(α−k+1)

e, per convenzione 0! = 1. La serie si dice binomiale perchè, oltre
al fatto che i coefficienti binomiali compaiono esplicitamente nello sviluppo, se α ∈ N, la (3.16)
k!

restituisce la formula del binomio di Newton.

Infatti, se α ∈ N si ha:
α α(α − 1) · · · (α − n + 1)
= =0 ∀α ≤ n − 1
n n!

22
Appunti di Analisi Matematica II

α

e quindi n 6= 0 solo se α > n − 1 ovvero n ≤ α e perciò
α  
α
∀x ∈ R
X
α
(1 + x) = xn (∗)
n=0
n

Se α ∈ N la (*) rappresenta un polinomio e quindi % = +∞. Se invece α ∈ R \ N allora % = 1 e la


convergenza agli estremi dell’ intervallo si può studiare mediante il criterio di Raabe.

11)

X (2n − 1)!! x2n+1
arcsen x = x + , ∀|x| ≤ 1. (3.17)
n=1
(2n)!! 2n + 1

La (3.17) si ottiene integrando l’ eguaglianza fornita dalla (3.16) per x = −t2 , α = − 12 . Nei
punti estremi dell’ intervallo si ha convergenza e si vede con il criterio di Raabe.

2.4 Sviluppi dedotti da quelli notevoli

In questo paragrafo vengono dedotti sviluppi di altre funzioni ricavati a partire da quelli
notevoli.

x
1) Sviluppare in serie di Mac Laurin la funzione x2 +4 precisando il più ampio intervallo in cui lo
sviluppo è valido.
∞   2  n
x x 1 x X x
= = −
x2 + 4 4 1 + ( x2 )2 4 n=0 2
∞ 2n ∞
x X nx
X (−1)n 2n+1
= (−1) n = x ∀|x| < 2.
4 n=0 4 n=0
4n+1

L’ intervallo trovato non si può estendere. Infatti, se la funzione data fosse sviluppabile in
un intervallo più ampio, diciamolo ] − %̄, %̄[, dall’ unicità dello sviluppo in serie di potenze,
avremmo che lo sviluppo in ] − 2, 2[, dovrebbe coincidere con lo sviluppo in ] − %̄, %̄[, ma ciò
sarebbe impossibile perchè la serie trovata dovrebbe avere raggio di convergenza maggiore di
2.
2
x
2) Sviluppare in serie di Mac Laurin la funzione x2 −5x+6 precisando il più ampio intervallo in cui
lo sviluppo è valido.

x2
 
2 1 1
=x · − + =
x2 − 5x + 6 x−2 x−3
1/2 1 1
= x2 − x2
1 − x2 3 1 − x3
∞ ∞
1 X xn 1 2 X xn
= x2 − x
2 n=0 2n 3 n=0 3n
∞  
X 1 1
= n+1
− n+1 xn+2 , |x| < 2.
n=0
2 3

23
G.Di Fazio

1
3) Sviluppare in serie di Mac Laurin la funzione (x−2)2 precisando il più ampio intervallo in cui
lo sviluppo è valido.

1
Sfruttiamo il fatto che la funzione da sviluppare è la derivata di − x−2 .

1 1 1 1 X xn
=− x =−
x−2 2 1− 2 2 n=0 2n

X xn
= − , |x| < 2
n=0
2n+1

Derivando per serie si ottiene:



1 X n n−1
2
= n+1
x , ∀x ∈] − 2, 2[.
(x − 2) n=1
2

4) Sviluppare in serie di Mac Laurin la funzione sen2 x precisando il più ampio intervallo in cui
lo sviluppo è valido.

Sviluppiamo la derivata di sen2 x cioè sen 2x.



(−1)n
∀x ∈ R.
X
sen 2x = (2x)2n+1
n=0
(2n + 1)!

Integrando per serie si ottiene



22n+1 x2n+2
∀x ∈ R.
X
2
sen x = (−1)n
n=0
(2n + 1)! 2n + 2

5) Sviluppare in serie di Mac Laurin la funzione cos2 x precisando il più ampio intervallo in cui
lo sviluppo è valido.

Sviluppiamo la derivata di cos2 x cioè − sen 2x.



(−1)n+1
∀x ∈ R.
X
− sen 2x = (2x)2n+1
n=0
(2n + 1)!

Integrando per serie si ottiene



22n+1
∀x ∈ R.
X
cos2 x = 1 + (−1)n+1 x2n+2
n=0
(2n + 2)!

p
6) Dire quali delle seguenti funzioni |x|, |x|, |x|2 sono sviluppabili in serie di Mac Laurin e
scriverne lo sviluppo precisando il più ampio intervallo in cui esso è valido.

24
Appunti di Analisi Matematica II

p
Le funzioni |x|, |x| non sono derivabili nell’ origine e quindi non sono analitiche mentre

|x|2 = x2 = 0 + 0 · x + x2 + 0 · x3 + · · · ∀x ∈ R

lo è.

7) Data la funzione
2
x4 + (1 + x2 )ex
f (x) =
x2 + 1
calcolare f (vi) (0).

Per il legame che esiste tra i coefficienti della serie di Mac Laurin e le derivate della funzione
somma nell’ origine (vedi teorema sulla regolarità delle serie di potenze) è sufficiente valutare il
coefficiente di x6 nello sviluppo di Mac Laurin. Per |x| < 1 si ha
2 ∞ ∞
x4 + (1 + x2 )ex 4
X
n 2n
X x2n
= x (−1) x +
x2 + 1 n=0 n=0
n!
∞ ∞
X
n 2n+4
X x2n
= (−1) x +
n=0 n=0
n!
∞ 
x2 X

k 1
=1+ + (−1) + x2k .
2! k!
k=2

1

e quindi la derivata richiesta vale 6! −1 + 3! = −240.

8) Calcolare il numero 101 con errore minore di 10−5 .

Osserviamo che, usando la serie binomiale, si ha


∞ 1

r
1 X
2 1
101 = 10 1+ = 10
100 n=0
n 100n

Calcolando i coefficienti binomiali abbiamo,


1 1
2 2 1
=1 =
0 1 2
1 1
− 1 · · · 12 − (n − 1)
1  
· (2n − 3)!!
2 =2 2
= (−1)n−1 ; n≥2
n n! (2n)!!

e quindi
∞ ∞

1
1 X 1 1 X (2n − 3)!! 1
101 = 10 + + 2 = 10 + + (−1)n−1 .
20 n=2 n 102n−1 20 n=2 (2n)!! 102n−1

25
G.Di Fazio

La serie ottenuta soddisfa le ipotesi del teorema di√Leibniz sulla convergenza delle serie di segno
alterno e quindi l’ errore ottenuto approssimando 101 con la somma dei primi n termini della
serie risulta minore di

(2(n + 2) − 3)!! 1 (2n − 1)!! 1


an+2 = 2(n+2)−1
= 2n+3
(2(n + 2))!! 10 (2n + 4)!! 10

Scegliendo n = 1 si trova a3 < 10−5 e quindi


√ 1 1 1 80.000 + 400 − 1 80.399
101 ∼ 10 + − 3
= = ∼ 10, 00498
20 4!! 10 8.000 8.000

a meno di 10−5 .

9) Calcolare il numero 24 con errore minore di 10−3 , .

Similmente all’ esercizio precedente utilizzando la serie binomiale abbiamo


∞  1  n ∞

r
1 X 1 X (−1)n−1 (2n − 3)!!
24 = 5 1− =5 2 − =5+ 2n−1
· (−1)n
25 n=0
n 25 n=1
5 (2n)!!

X (2n − 3)!! 1
=5− .
n=1
(2n)!! 52n−1

Siccome la serie ottenuta risulta a termini positivi dobbiamo procedere ad una diretta valutazione
dell’ errore. L’errore è dato dalla serie resto di posto n + 1. Precisamente (*)
∞ ∞  k
X (2k − 3)!! 1 X 1 1 1 1 1 1
2k−1
<5 = 5 n+1 1 = 2n−1
<
k=n+1
(2k)!! 5
k=n+1
25 25 1 − 25 24 5 1000

Scegliendo n = 2 si ha


 
1 1 1 1 4899
24 ∼ 5 − · + · = = 4, 899
2 5 4!! 53 1000

a meno di 10−3 . Siccome la serie approssimante è a termini positivi l’ errore commesso è certamente
per difetto e dell’ ordine di 10−3 . Se la terza cifra decimale fosse sbagliata, poichè 4, 899 + 0, 001 =
4, 900 varierebbe la cifra dei centesimi, che invece sappiamo essere corretta. Quindi la terza cifra
decimale del numero 4, 899 è corretta.
R1 sen x2
10) Calcolare il numero 0 x dx con un errore minore di 10−2 .

La funzione integranda è generalmente continua e limitata in [0, 1] quindi ivi sommabile. Se


x 6= 0 si ha

sen x2 X (−1)n 4n+1
= x ≡ ϕ(x), ∀x = 6 0.
x n=0
(2n + 1)!

P+∞ qk
(*) Ricorda che n=k qn = 1−q , ∀q ∈] − 1, 1[.

26
Appunti di Analisi Matematica II

La funzione ϕ è somma di una serie di potenze con raggio % = +∞ quindi risulta analitica in R
ed in particolare è continua in 0. Possiamo dire che ϕ è il prolungamento analitico di senxx ad R.
2

Quindi,
Z 1 Z 1 Z 1 Z 1X ∞
sen x2 (−1)n 4n+1
dx = lim ϕ(x)dx = ϕ(x)dx = x dx
0 x ε→0 ε 0 0 n=0 (2n + 1)!

X (−1)n 1
= .
n=0
(2n + 1)! 4n + 2

L’integrazione per serie è lecita per il teorema del raggio (% = +∞). Per il criterio di Leibniz
l’errore commesso approssimando la somma della serie con la somma dei primi n termini è minore
di
1 1
(2n + 1)! 4n + 2
che, per n = 2, è minore di 10−2 e quindi
1
sen x2
Z
dx ∼ 0, 4
0 x

a meno di 10−2 .
1
dx
con un errore minore di 10−3 .
R
11) Calcolare il numero 0
4
x2 +1

La funzione integranda è continua in [0, 14 ] quindi ivi sommabile. Si ha


Z 1 Z 1 ∞
4 dx 4 X
2
= (−1)n x2n dx
0 x +1 0 n=0
∞ Z 1 ∞
X
n
4 X 1 1
= (−1) x2n dx = (−1)n
n=0 0 n=0
42n+1 2n + 1

L’integrazione per serie è lecita grazie al teorema del raggio (% = 1). Per il teorema di Leibniz
l’errore risulta minore di
1 1
42n+1 2n + 1
che, per n = 2, risulta minore di 10−3 e quindi

1 1 1 1
arctang ∼ − 3 ∼ 0, 24
4 4 4 3

a meno di 10−3 .
R1
12) Calcolare il numero 0
arctang x2 dx con un errore minore di 10−2 .

La funzione integranda è continua in [0, 1] quindi ivi sommabile. Si ha



X (−1)n 4n+2
arctang x2 = x ∀|x| ≤ 1.
n=0
2n + 1

27
G.Di Fazio

La serie ottenuta ha raggio di convergenza % = 1 e siccome converge in x = 1, converge uniforme-


mente in [0, 1] per il teorema di Abel. E’ lecito dunque integrare per serie ottenendo

1 ∞
(−1)n
Z X 1
arctang x2 dx = .
0 n=0
2n + 1 4n + 3

Per il teorema di Leibniz, scegliendo n = 3, l’errore commesso è minore di 10−2 , quindi


Z 1
arctang x2 dx ∼ 0, 2
0

a meno di 10−2 .
R2
sen x1 − 1
dx con un errore minore di 10−2 .

13) Calcolare il numero 1 x

La funzione integranda è continua in [1, 2] quindi ivi sommabile. Si ha


Z 2   Z 2 Z 1
1 1 1 sen x
sen − dx = sen dx − log 2 = dx − log 2
1 x x 1 x 1
2
x2
∞ Z 1
X (−1)n
= x2n−1 dx − log 2
n=0
(2n + 1)! 1
2

X (−1)n 1 − 41n 1
= ∼ a1 = − ∼0
n=1
(2n + 1)! 2n 16

a meno di 10−2 .
R1 √
14) Calcolare il numero 0
cos xdx con un errore minore di 10−3 .

La funzione integranda è continua in [0, 1] quindi ivi sommabile. Si ha

1 ∞
1X ∞
1X
√ (−1)n √ 2n (−1)n n
Z Z Z
cos xdx = ( x) dx = x dx
0 0 n=0
(2n)! 0 n=0
(2n)!
∞ n
X (−1) 1
=
n=0
(2n)! n + 1

l’integrazione per serie essendo lecita perchè la serie ha raggio % = +∞. Per il criterio di Leibniz si
ha Z 1

cos xdx ∼ 0, 76
0

a meno di 10−3 .
1
x15 arctang xdx con un errore minore di 10−7 .
R
15) Calcolare il numero 0
2

28
Appunti di Analisi Matematica II

La funzione integranda è continua in [0, 12 ] quindi ivi sommabile. Si ha


1 1∞
(−1)n 2n+1
Z 2
Z 2
X
15
x arctang xdx = x15 x dx
0 0 n=0
2n + 1
∞ Z 12
X (−1)n
= x2n+16 dx
n=0
2n + 1 0

X (−1)n 1 1
= 2n+17
.
n=0
2n + 1 2 2n + 17

Per il teorema di Leibniz,


Z 1
2 1
x15 arctang xdx ∼ a0 = ∼0
0 2.228.224

a meno di 10−7 . Infatti, se n = 1, l’errore commesso è minore di 1


29.884.416 < 1
107 .

16) Dire quali delle seguenti funzioni



senh( x2 )5 ; arcsen(1 − x); (1 − x)−3 ; | sen x|

sono sviluppabili in serie di Mac Laurin ed, in caso affermativo, scriverne lo sviluppo.

La funzione senh( x2 )5 non è di classe C ∞ (]−δ, δ[) ∀δ > 0. La funzione arcsen(1−x) è definita
in [0, 2] che non è un intorno completo di zero. La funzione (1 − x)−3 è la derivata seconda della
1
funzione 1−x e quindi per il teorema di derivazione per serie,

∞ ∞
1 d2 X n X n(n − 1) n−2
= 2 x = x ∀|x| < 1.
(1 − x)3 dx n=0 n=2
2

Infine la funzione | sen x| non è di classe C ∞ in alcun intorno dell’ origine.

29
1. Calcolo Differenziale negli Spazi Normati

1.1 Derivate e differenziale

Siano X, Y due spazi normati su un campo K. Sia Ω un aperto non vuoto di X e sia f : Ω →
Y, x0 ∈ Ω. Fissato v ∈ X, poichè il punto x0 è interno all’ insieme Ω, esiste δ > 0 : x0 + tv ∈
Ω ∀t ∈]0, δ[ e quindi risulta definito, per t 6= 0, il rapporto incrementale

f (x0 + tv) − f (x0 )


(1.1)
t

nella direzione v, relativo al punto x0 . Se il rapporto (1.1) risulta convergente, al tendere di t a 0, la


funzione f si dice parzialmente derivabile nella direzione v nel punto x0 . Il limite di tale rapporto
si chiama derivata direzionale secondo la direzione v, della funzione f nel punto x0 ∈ Ω e si pone

∂f f (x0 + tv) − f (x0 )


(x0 ) ≡ fv (x0 ) = lim . (1.2)
∂v t→0 t

Esempio 1.1 Sia f : Ω ⊂ Rn → R. Nel caso in cui la funzione è derivabile lungo la direzione del
vettore v = ei i = 1, . . . , n la funzione f si dice parzialmente derivabile rispetto ad xi e la derivata
∂f
∂ei si chiama derivata parziale della funzione f rispetto alla variabile xi nel punto x0 e si denota
con
∂f ∂f
(x0 ) ≡ (x0 ) ≡ fxi (x0 ). (1.3)
∂ei ∂xi
Se f è parzialmente derivabile rispetto a tutte le variabili x1 , . . . , xn da cui dipende, si pone

∇f (x0 ) = (fx1 (x0 ), . . . , fxn (x0 )) (1.4)

ed il vettore cosı̀ definito si chiama vettore gradiente di f nel punto x0 .


Contrariamente al caso delle funzioni di una sola variabile, una funzione può essere derivabile in
ogni direzione senza essere continua come mostra il seguente

Esempio 1.2 Sia f : R2 → R definita ponendo


(
1 x · y = 0;
f (x, y) =
0 x · y 6= 0.

La funzione è discontinua in (0, 0) perchè limx→0 f (x, x) = 0 mentre f (0, 0) = 1. La funzione è


parzialmente derivabile in (0, 0). Infatti,

f (t, 0) − f (0, 0) 1−1


fx (0, 0) = lim = lim =0
t→0 t t→0 t
e, similmente,
f (0, t) − f (0, 0) 1−1
fy (0, 0) = lim = lim =0
t→0 t t→0 t
G.Di Fazio

e quindi esiste il gradiente in (0, 0) e si ha: ∇f (0, 0) = (0, 0).

Definizione 1.1 Sia Ω ⊂ X un aperto non vuoto e sia f : Ω → Y, x0 ∈ Ω. Diciamo che f è


differenziabile in x0 se esiste una applicazione lineare e continua f 0 (x0 ) ∈ L(X, Y ) tale che

f (x0 + h) − f (x0 ) − f 0 (x0 )(h)


lim =0 (1.5)
h→0 khk

ed in tal caso f 0 (x0 ) si dice differenziale di f in x0 .

Teorema 1.1 Sia Ω ⊂ X un aperto non vuoto e sia f : Ω → Y, x0 ∈ Ω differenziabile in x0 . Allora


f è derivabile lungo qualsiasi direzione e si ha:

∂f
(x0 ) = f 0 (x0 )(v).
∂v

Dim. Usando la definizione (1.5) ed il fatto che il differenziale è un’ applicazione lineare, si ha:

f (x0 + tv) − f (x0 ) f (x0 + tv) − f (x0 ) − f 0 (x0 )(tv) + f 0 (x0 )(tv)
lim = lim =
t→0 t t→0 t
f (x0 + tv) − f (x0 ) − f 0 (x0 )(tv)
= lim + f 0 (x0 )(v) = f 0 (x0 )(v).
t→0 t

In generale, il viceversa è falso come mostra il seguente

Esempio 1.3 Sia f : R2 → R definita ponendo

x2 y

 , (x, y) 6= (0, 0);
f (x, y) = x2 + y 2

0 (x, y) = (0, 0).

La funzione è derivabile in ogni direzione. Infatti sia v = (v1 , v2 ) ∈ R2 . Si ha:

f (tv) − f (0) v 2 v2
lim = 21 2
t→0 t v1 + v2

mentre f non risulta differenziabile in (0, 0) perchè l’espressione trovata non è lineare in v.

Esempio 1.4 (differenziale di funzioni scalari)


Sia f : Ω ⊂ Rn → R. Se f è differenziabile in x0 ∈ Ω, per il teorema precedente

∂f
(x0 ) = f 0 (x0 )(v).
∂v

2
Appunti di Analisi Matematica II

D’altra parte sappiamo dalla geometria che se l’ applicazione f 0 (x0 ) è lineare, esiste un vettore
a ∈ Rn tale che f 0 (x0 )(h) = a · h ∀h ∈ Rn e quindi

∂f
a · v = f 0 (x0 )(v) = (x0 )
∂v
e, scegliendo v = e1 , v = e2 , . . . , v = en si trova

∂f
a · ei = f 0 (x0 )(ei ) = (x0 ) i = 1, . . . , n
∂xi
∂f
da cui ai = ∂x i
(x0 ) i = 1, . . . , n ovvero a = ∇f (x0 ) e quindi si rappresenta il differenziale
attraverso il vettore gradiente, cioè

df (x0 )(h) = ∇f (x0 ) · h ∀h ∈ Rn . (1.6)

Teorema 1.2 Sia Ω ⊂ X un aperto non vuoto e sia f : Ω → Y, x0 ∈ Ω differenziabile in x0 . Allora


f risulta continua in x0 .

Dim. Sia δ > 0 : x0 + h ∈ Ω, ∀h : khk < δ. Allora

f (x) − f (x0 ) − f 0 (x0 )(x − x0 )


f (x) − f (x0 ) = kx − x0 k + f 0 (x0 )(x − x0 )
kx − x0 k

e quindi, ricordando che il differenziale è continuo,

lim f (x) − f (x0 ) = lim f 0 (x0 )(x − x0 ) = 0


x→x0 x→x0

e quindi
lim f (x) − f (x0 ) = 0.
x→x0

Il viceversa, in generale, è falso come mostra il seguente

p
Esempio 1.5 La funzione f : R2 → R definita ponendo f (x, y) = |xy| è continua ma non è
differenziabile nell’ origine.
Infatti dalla definizione segue
∂f ∂f
(0, 0) = (0, 0) = 0.
∂x ∂y
D’altra parte, come è stato già osservato, il limite
s
f (x, y) |xy|
lim p = x→0
lim
x→0
y→0 x2 + y 2 y→0
x2+ y2

non esiste.

3
G.Di Fazio

Una condizione sufficiente per la differenziabilità è la seguente:


Teorema 1.3 (del differenziale totale) Se f 0 è continuo in x0 allora f è differenziabile in x0 .

Dim. Omessa.
Esempio 1.6 La funzione f (x, y) = arctang xy è di classe C 1 nell’insieme Ω = R2 \ {x = 0}.
Infatti la funzione è definita per x 6= 0 e risulta derivabile dove è definita. Si ha:
1 −y y
fx (x, y) = y 2
· =− 2 ;
x2 x + y2

1+ x
1 1 x
fy (x, y) = y 2
· = 2 ,
x x + y2

1+ x

e siccome le derivate sono continue in ogni punto di Ω, la funzione risulta di classe C 1 (Ω) e quindi
ivi differenziabile.

Esempio 1.7 Calcoliamo le derivate parziali della funzione f (x, y) = log(x2 + y 2 ).


La funzione è definita nell’insieme Ω = {(x, y) ∈ R2 : (x, y) 6= (0, 0)} e risulta ivi parzialmente
derivabile. Si ha:
2x 2y
fx (x, y) = , fy (x, y) = , ∀(x, y) 6= (0, 0)
x2 + y2 x2 + y2

e siccome le derivate sono continue in ogni punto di Ω, la funzione risulta di classe C 1 (Ω), quindi
differenziabile.

Esempio 1.8 Differenziale di una funzione vettoriale


Sia Ω un aperto di Rn , f : Ω → Rm , x0 ∈ Ω. In questo caso f 0 (x0 ) ∈ L(Rn , Rm ) ∼ Rm,n e quindi
il differenziale si può rappresentare attraverso una matrice Jf (x0 ) di tipo m × n. Per individuare
la matrice Jf (x0 ) notiamo che f 0 (x0 )(ei ) = Jf (x0 ) · ei che è la i -esima colonna di Jf (x0 ). Quindi,
∂f1 ∂f1 ∂f1
∂x1 (x0 ) ∂x2 (x0 ) . . . ∂x (x0 )
   
n h1
∂f2 ∂f2 ∂f2
∂x1 (x0 ) ∂x2 (x0 ) . . . ∂x (x )
0  h2 
  
n
df (x0 )(h) =  · .  = Jf (x0 ) · h

..   .. 
 .
∂fm ∂fm ∂fm hn
∂x1 (x0 ) ∂x2 (x0 ) . . . ∂xn (x0 )

e la matrice Jf (x0 ) si dice matrice Jacobiana della funzione f nel punto x0 ovvero la matrice
Jacobiana è la matrice le cui righe sono i gradienti delle componenti della funzione data.

Esempio 1.9

1. f : (a, b) → R, x0 ∈ (a, b). In questo caso n = m = 1 e quindi Jf (x0 ) = f 0 (x0 ).


 
∂f ∂f
2. f : Ω ⊂ Rn → R, x0 ∈ Ω. In questo caso m = 1 e quindi Jf (x0 ) = ∂x1 (x0 ), . . . , ∂xn (x0 ) =
∇f (x0 ).

4
Appunti di Analisi Matematica II

3. f : (a, b) → Rm , x0 ∈ (a, b). In questo caso n = 1 e quindi Jf (x0 ) = T ( f10 (x0 ) . . . 0


fm (x0 ) ) .
Se f : Ω ⊂ Rn → Rm , x0 ∈ Ω, è differenziabile in x0 ∈ Ω allora

kf (x0 + h) − f (x0 ) − Jf (x0 ) · hkm


lim =0
h→0 khkn
ovvero
f (x0 + h) − f (x0 ) − Jf (x0 ) · h
lim =0
h→0 khkn
e questo significa,
f (x0 + h) = f (x0 ) + Jf (x0 ) · h + o(khkn ), h → 0.
Ponendo h = x − x0 si trova

f (x) = f (x0 ) + Jf (x0 ) · (x − x0 ) + o(kx − x0 kn ), x → x0 .

Teorema 1.4 Sia g : Ω ⊂ Rn → Rm , f : A ⊂ Rm → Rp e sia g(Ω) ⊂ A ⊂ Rm . Sia infine


x0 ∈ Ω, y0 = f (x0 ). Allora, se g è differenziabile in x0 ed f è differenziabile in g(x0 ), la funzione
H : Ω → Rp definita dalla legge H(x) = f (g(x)), è differenziabile in x0 e si ha JH (x0 ) = Jf (g(x0 )) ·
Jg (x0 ).

Dim. Omessa.

1.2 Differenziali di ordine superiore

Sia f : Ω ⊂ X → Y , Ω aperto non vuoto, x0 ∈ Ω. Supponiamo f differenziabile in Ω. Poichè


L(X, Y ) è normato ci si può chiedere se la funzione f 0 : Ω ⊂ X → L(X, Y ) che associa a x ∈ Ω il
differenziale nel punto f 0 (x) sia, a sua volta, differenziabile nel punto x0 . In tal caso diremo che la
funzione f è due volte differenziabile nel punto x0 . Naturalmente si ha: f 00 (x0 ) ∈ L(X, L(X, Y )).
Si ha:
f 00 (x0 )(v) ∈ L(X, Y ) ∀v ∈ X
e
f 00 (x0 )(v)(u) ∈ Y ∀u ∈ X.
Studiamo l’azione del differenziale secondo. Si ha:

f 0 (x0 + tv) − f 0 (x0 ) f 0 (x0 + tv)u − f 0 (x0 )u


f 00 (x0 )(v)(u) = lim u = lim
t→0 t t→0 t
∂u f (x0 + tv) − ∂u f (x0 ) ∂2f
= lim = ∂v ∂u f (x0 ) = (x0 )
t→0 t ∂v∂u

Ricordiamo il seguente risultato di carattere geometrico.

Teorema 2.1 Siano X1 , X2 , Y tre spazi normati su un campo K. Allora lo spazio L(X2 , L(X1 , Y ))
2
è isometricamente isomorfo allo spazio L(X1 × X2 , Y ) delle forme bilineari e continue da X1 × X2

5
G.Di Fazio

in Y.

In virtù di questo risultato possiamo quindi pensare al differenziale secondo come ad una forma
bilineare continua che associa alla coppia di vettori (u, v) il valore del differenziale f 00 (x0 )(v)(u) =
∂2f
∂v∂u (x0 ).

Esempio 2.1 Sia f : Ω ⊂ Rn → R, x0 ∈ Ω. In tal caso la forma bilineare è definita in Rn × Rn


a valori in R e quindi, come è noto dall’algebra lineare, si può associare a tale forma bilineare la
matrice quadrata di ordine n nella quale l’elemento di posto i, j è il valore della forma sulla coppia
di vettori (ei , ej ). In definitiva abbiamo:

∂2f
f 00 (x0 )(ei )(ej ) = (x0 ) = fxi xj (x0 ).
∂ei ∂ej

La matrice individuata si chiama matrice Hessiana della funzione f nel punto x0 e si indica con il
simbolo Hf (x0 ).

In generale non c’è alcuna ragione per pensare che la forma bilineare sia simmetrica come
mostra il seguente esempio.

Esempio 2.2 Consideriamo la funzione



 0 (x, y) = (0, 0);
f (x, y) = 2 2
 xy x − y (x, y) 6= (0, 0).
x2 + y 2

Calcolando le derivate fxy , fyx si vede che fxy (0, 0) 6= fyx (0, 0).

Tuttavia sussiste il seguente

Teorema 2.2 (Schwarz sull’inversione dell’ordine di derivazione) Sia f : Ω ⊂ X → Y, Ω aperto non


vuoto e sia x0 ∈ Ω. Supponiamo che esistono

∂u f (x0 ), ∂v f (x0 ), ∂u ∂v f (x0 ), ∂v ∂u f (x0 )

e che siano continue in x0 . Allora

∂u ∂v f (x0 ) = ∂v ∂u f (x0 ).

6
Appunti di Analisi Matematica II

Osservazione 2.1 Nel caso in cui f : Ω ⊂ Rn → R e la funzione soddisfa al teorema di Schwarz,


la matrice Hessiana risulta simmetrica e quindi induce una forma quadratica, definita ponendo

q(x) = T (x − x0 )Hf (x0 )(x − x0 ) ∀x ∈ Rn .

In modo analogo si possono definire i differenziali di ordine superiore al secondo.

1.3 La Formula di Taylor

Teorema 3.1 (Formula di Taylor al primo ordine con resto nella forma di Lagrange) Sia f : Ω ⊂
X → R, x0 ∈ Ω. Supponiamo la funzione f differenziabile in Ω. Allora, per ogni x ∈ Ω tale che il
segmento di estremi x0 e x sia contenuto in Ω esiste ξ ∈ seg]x0 , x[ tale che

f (x) = f (x0 ) + f 0 (ξ)(x − x0 )

Dim Il segmento di estremi x0 , x si può rappresentare come x(t) = tx + (1 − t)x0 , t ∈ [0, 1].
Consideriamo la funzione F : [0, 1] → R definita ponendo F (t) = f (x(t)). Si ha:

F (0) = f (x(0)) = f (x0 ) F 0 (t) = f 0 (x(t))(x − x0 )

Applicando la formula di Mac Laurin alla funzione F (t), si trova

F (1) = F (0) + F 0 (t∗ )

ovvero
f (x) = f (x0 ) + f 0 (x0 + t∗ (x − x0 ))(x − x0 ) = f (x0 ) + f 0 (ξ)(x − x0 ).

Teorema 3.2 (Formula di Taylor al primo ordine con resto nella forma di Peano.) Se f ∈ C 1 (Ω)
allora si ha
f (x) = f (x0 ) + f 0 (x0 )(x − x0 ) + o(kx − x0 k)

Teorema 3.3 (Formula di Taylor al secondo ordine con resto nella forma di Lagrange) Sia f : Ω ⊂
X → R, x0 ∈ Ω. Supponiamo la funzione f differenziabile due volte in Ω. Allora, per ogni x ∈ Ω
tale che il segmento di estremi x0 e x sia contenuto in Ω esiste ξ ∈ seg]x0 , x[ tale che

1
f (x) = f (x0 ) + f 0 (x0 )(x − x0 ) + f 00 (ξ)(x − x0 )(x − x0 )
2

7
G.Di Fazio

Dim Procediamo come nel caso precedente. Si ha:

F (0) = f (x(0)) = f (x0 ), F 0 (t) = f 0 (x(t))(x − x0 ), F 00 (t) = f 00 (x(t))(x − x0 )(x − x0 ).

Applicando la formula di Mac Laurin al secondo ordine alla funzione F (t), si trova

1
F (1) = F (0) + F 0 (0) + F 00 (t∗ )
2

da cui la tesi.

Teorema 3.4 Se f ∈ C 2 (Ω) allora si ha

1
f (x) = f (x0 ) + f 0 (x0 )(x − x0 ) + f 00 (x0 )(x − x0 )(x − x0 ) + o(kx − x0 k2 )
2
per ogni x ∈ Ω tale che il segmento di estremi x, x0 sia contenuto in Ω.

Teorema 3.5 (Funzioni con gradiente nullo) Sia Ω un aperto connesso di X e sia f : Ω → R tale
che f 0 (x) = 0 ∀x ∈ Ω. Allora f è costante in Ω.

Dim Sia x0 ∈ Ω, e siano

Ω1 = {x ∈ Ω : f (x) = f (x0 )} Ω2 = {x ∈ Ω : f (x) 6= f (x0 )}

Ovviamente Ω1 ∪ Ω2 = Ω, Ω1 ∩ Ω2 = ∅ ed inoltre Ω1 6= ∅ perchè contiene almeno x0 . Se proviamo


che Ω1 , Ω2 sono entrambi aperti, usando la connessione avremo che Ω2 = ∅ e quindi avremo la tesi.

Ω1 è aperto.

Infatti sia x̄ ∈ Ω1 ⊂ Ω. Allora ∃δ > 0 : B(x̄, δ) ⊂ Ω ed inoltre ∀x ∈ B(x̄, δ) ∃ξ ∈ seg(x, x̄) :


f (x) = f (x̄) + f 0 (ξ)(x − x̄) = f (x̄) = f (x0 ) perchè x̄ ∈ Ω1 e quindi B(x̄, δ) ⊂ Ω1 .

Ω2 è aperto.

Sia x̄ ∈ Ω2 . Allora f (x̄)−f (x0 ) 6= 0 e, per il teorema di permanenza del segno, f (x)−f (x0 ) 6= 0
in un intorno di x̄.

1.4 Funzioni omogenee

Definizione 4.1 Sia C ⊂ X. Diciamo che C è un cono in X se

∀x ∈ C ⇒ λx ∈ C ∀λ > 0.

8
Appunti di Analisi Matematica II

Se f : C ⊂ X → Y con C cono di X, diciamo che f è positivamente omegenea di grado α ∈ R se

f (λx) = λα f (x) ∀x ∈ C, ∀λ > 0

Esempio 4.1

|xy|
1) La funzione f (x, y) = arctang x2 +y 2 , ∀(x, y) 6= (0, 0) è omogenea di grado zero;

ai1 ...in xα αn
P
2) La funzione f (x1 , . . . , xn ) = |α|=k 1 . . . xn è un polinomio di grado k ed è omogenea
1

di grado k.

Teorema 4.1 Sia f : Ω ⊆ X → Y positivamente omogenea di grado α ∈ R nel cono aperto Ω e


supponiamo che esista la derivata fu in Ω. Allora fu è positivamente omogenea di grado α − 1 in
Ω.

Dim. Sia x̄ ∈ Ω. Si ha:

f (λx̄ + hu) − f (λx̄)


fu (λx̄) = lim
h→0 h
f (λ(x̄ + λh u)) − f (λx̄)
= lim =
h→0 h
f (x̄ + λh u) − f (x̄)
= lim λα−1 h
= λα−1 fu (x̄).
h→0
λ

Teorema 4.2 (Identità di Eulero) Sia Ω un cono aperto di X e sia f : Ω → R differenziabile in


Ω. Condizione necessaria e sufficiente affinchè f sia positivamente omogenea di grado α ∈ R è che
valga l’eguaglianza
∇f (x) · x = αf (x) ∀x ∈ Ω.

Dim. Infatti, se f è α−omogenea, f (λx) = λα f (x) da cui, derivando rispetto a λ, si ottiene:

∇f (λx) · x = αλα−1 f (x), ∀λ > 0

e, per λ = 1, si ha
∇f (x) · x = αf (x).
Viceversa, posto Φ(λ) = λ−α f (λx) si vede che Φ0 (λ) = 0, ∀λ > 0 e quindi la funzione Φ(λ) risulta
costante, da cui Φ(λ) = Φ(1) = f (x) ∀λ > 0 che è la tesi.

9
G.Di Fazio

Osservazione 4.1 In Rn tutte le norme sono equivalenti

Infatti, se N1 , N2 sono due norme in Rn il loro rapporto è una funzione omogenea di grado
zero. La funzione F (x) ≡ N 1 (x)
N2 (x) è limitata nell’insieme

{x ∈ Rn : N2 (x) = 1}

e quindi - per omogeneità - in Rn \ {0}. La funzione F (x) risulta inoltre continua e quindi, posto
c1 = min F (x), c2 = max F (x) segue

c1 N2 (x) ≤ N1 (x) ≤ c2 N2 (x) ∀x ∈ Rn .

10
1. Funzioni implicite

1.1 Il caso scalare

Sia X ⊂ R2 e sia f : X → R. Una funzione y : (a, b) → R si dice definita implicitamente


dall’equazione f (x, y) = 0 in (a, b) quando:

1. (x, y(x)) ∈ X ∀x ∈ (a, b);

2. f (x, y(x)) = 0 ∀x ∈ (a, b).

In generale una equazione in due variabili non definisce alcuna funzione implicita e, nel caso
in cui la definisca, non è detto che sia unica.
2 2
Esempio 1.1 Consideriamo √ l’equazione f (x, y) = x + y − 4 = 0. La funzione y : [−2, 2] → R
definita dalla legge y(x) = 4 − x2 è funzione implicita relativa all’equazione f (x, y) = 0.

Esempio 1.2 L’equazione f (x, y) = x4 + y 4 = 0 non definisce alcuna funzione implicita.


Una condizione sufficiente affinchè una equazione definisca una funzione implicita è espressa dal
seguente
Teorema 1.1 (U.Dini) Sia Ω ⊆ R2 un aperto e sia f : Ω → R una funzione continua in Ω. Sia
P0 = (x0 , y0 ) ∈ Ω tale che f (P0 ) = 0, f è differenziabile in P0 e si abbia ∂f
∂y (P0 ) 6= 0. Allora,
∃ δ, k > 0 tali che nell’intervallo [x0 − δ, x0 + δ] si può definire almeno una funzione implicita
y : [x0 − δ, x0 + δ] → [y0 − k, y0 + k] relativa all’equazione f (x, y) = 0. Per ogni funzione y(x)
definita implicitamente si ha:

1. y(x0 ) = y0 ;

2. y(x) è continua in x0 ;

3. y(x) è derivabile in x0 e si ha: y 0 (x0 ) = − ffyx(P


(P0 )
0 ).

Dim. Per fissare le idee supponiamo che fy (x0 , y0 ) > 0. Allora, per definizione di derivata,
esiste k > 0 tale che
f (x0 , y)
>0 ∀y ∈ [y0 − k, y0 + k], y 6= y0 .
y − y0
In particolare si ha f (x0 , y0 − k) < 0, f (x0 , y0 + k) > 0. Per il teorema di permanenza del segno è
possibile determinare δ > 0 tale che

f (x, y0 − k) < 0, f (x, y0 + k) > 0 ∀x ∈ [x0 − δ, x0 + δ].

Per ogni x ∈ [x0 − δ, x0 + δ] sia y(x) una delle soluzioni dell’equazione f (x, y) = 0. Dalla costruzione
è evidente che ogni funzione y(x) definita implicitamente soddisfa la 1). Proviamo che verifica
anche la 2) della tesi. Dobbiamo provare che

∀ε > 0 ∃σ > 0 : |x − x0 | < σ ⇒ |y(x) − y0 | < ε


G.Di Fazio

ma questo è evidente se si osserva che è lecito prendere k ≤ ε. Per completare la dimostrazione


proviamo che ogni funzione definita implicitamente è differenziabile in x0 . Per il fatto che f è
differenziabile nel punto (x0 , y0 ) si ha:

f (x, y) = f (x0 , y0 ) + fx (x0 , y0 )(x − x0 ) + fy (x0 , y0 )(y − y0 ) + o(|x − x0 | + |y − y0 |).

Ponendo y = y(x) segue

fx (x0 , y0 )
y(x) = y0 − (x − x0 ) + σ(x)(|x − x0 | + |y − y0 |), σ(x) → 0.
fy (x0 , y0 )

In un opportuno intorno di x0 si ha:

|y(x) − y0 | − |fy−1 (P0 )fx (P0 )(x − x0 )| ≤ |y(x) − y0 | − |fy−1 (P0 )fx (P0 )(x − x0 )|

≤ |y(x) − y0 − fy−1 (P0 )fx (P0 )(x − x0 )|


1
≤ σ(x)(|x − x0 | + |y − y0 |) ≤ (|x − x0 | + |y − y0 |)
2
e quindi,
1 1
|y(x) − y0 | ≤ |x − x0 | + |fy−1 (P0 )fx (P0 )(x − x0 )|
2 2
da cui
|y(x) − y0 | ≤ |x − x0 | 1 + 2|fy−1 (P0 )fx (P0 )| .


Allora, possiamo dire che

|y(x) − y0 + fy−1 (P0 )fx (P0 )(x − x0 )| = σ(x)(|x − x0 | + |y − y0 |)


≤ 2σ(x)|x − x0 |(1 + |fy−1 (P0 )fx (P0 )|) = o(|x − x0 |)

ovvero
y(x) − y0 fx (x0 , y0 )
x − x0 + fy (x0 , y0 ) ≤ σ(x) → 0

quindi la tesi.

Osservazione 1.1 Se l’ipotesi di differenziabilità vale in tutto Ω e se il differenziale è diverso da


zero in Ω allora la funzione implicita è unica e la formula di derivazione vale in tutto l’intervallo di
definizione. Infatti, nella costruzione precedente si ottiene che l’equazione f (x, y) = 0 ha una sola
soluzione y(x) per ogni x nell’intervallo considerato.

Il teorema precedente si estende al caso di funzioni di più variabili a valori reali.

Teorema 1.2 Sia Ω ⊆ Rn+1 un insieme aperto, (x0 , y0 ) ≡ (x0,1 , x0,2 , . . . , x0,n , y0 ) ∈ Ω e sia
f : Ω → R una funzione continua in Ω. Supponiamo che f (x0 , y0 ) = 0 e che f sia differenziabile nel
punto (x0 , y0 ) e supponiamo risulti ∂f
∂y (x0 , y0 ) 6= 0. Allora, esistono δ, k > 0 in modo che l’equazione
Qn
f (x, y) = 0 definisce almeno una funzione implicita y : j=1 [x0,j − δ, x0,j + δ] → [y0 − k, y0 + k].
Per ogni funzione implicita si ha inoltre:

2
Appunti di Analisi Matematica II

1. y(x0 ) = y0 ;

2. y(x) è continua in x0 ;
∂f
∂y ∂xj (x0 ,y0 )
3. y(x) è differenziabile in x0 e si ha: ∂xj (x0 ) =− ∂f
∂yn (x0 ,y0 ).

Osservazione 1.2 Nel caso che la funzione implicita esiste ed è unica, dalla formula di derivazione
si deduce che, se la funzione f è di classe C k (Ω) allora la funzione implicita è di classe C k nel suo
campo di definizione.

1.2 Il caso vettoriale

Generalizziamo quanto visto per una sola equazione al caso di un sistema di equazioni.

Incominciamo generalizzando il concetto di derivata direzionale. Vogliamo derivare - piuttosto


che rispetto ad una direzione - rispetto ad un gruppo di direzioni indipendenti tra loro e cioè rispetto
allo spazio vettoriale generato da queste direzioni. Diciamo quindi v1 , . . . , vn le date direzioni ed
indichiamo con V lo spazio generato da v1 , . . . , vn .

Definizione 2.1 Sia f : Ω ⊆ Rn → Rm , x0 ∈ Ω e poniamo Ωx0 = {h ∈ V : x0 + h ∈ Ω}.


Diciamo che f è differenziabile nel punto x0 rispetto al sottospazio V = L(v1 , v2 , . . . , vp ) se la
funzione g(h) = f (x0 + h) : Ωx0 → Rm è differenziabile per h = 0. Conveniamo di indicare questo
∂f
differenziale con il simbolo ∂V (x0 ).

Per conoscere il differenziale di f rispetto al sottospazio V bisogna conoscere il differenziale


della funzione g(h) = f (x0 + h) nel punto h = 0 che risulta quindi una matrice di tipo m × p.
Precisamente si tratta della matrice Jacobiana della funzione f rispetto alle direzioni che generano
V. Nel caso particolare che V = L(e1 , . . . , ep ) allora è la matrice Jacobiana della funzione f rispetto
alle variabili x1 , . . . , xp .

Esempio 2.1 Sia f : Ω ⊆ R4 → R2 , x0 ∈ Ω. Sia V = {t = 0} ≡ R3 . Differenziamo f rispetto a V.


Si ha: g 0 (0) : V → R2 ovvero g 0 (0) = Jg (0) ∈ R2,3 e quindi
 ∂f1 ∂f1 ∂f1 
∂f ∂x ∂y ∂z
(x0 ) = g 0 (0) = ∂f2 ∂f2 ∂f2
∂R3 ∂x ∂y ∂z

Dopo avere introdotto il concetto di derivata rispetto ad un sottospazio possiamo formulare la


generalizzazione del teorema della funzione implicita nel caso dei sistemi di equazioni.

Definizione 2.2 Sia f : Ω ⊂ Rn × Rm → Rn , con Ω insieme aperto in Rn × Rm . Data l’equazione


f (x, y) = 0 diciamo che y : A ⊆ Rn → Rm è una funzione implicita relativa all’equazione f (x, y) = 0

3
G.Di Fazio

se

1. (x, y(x)) ∈ Ω ∀x ∈ A;

2. f (x, y(x)) = 0 ∀x ∈ A.

Enunciamo adesso e dimostriamo il teorema del Dini nel caso dei sistemi.

Teorema 2.1 Sia f : Ω ⊆ Rn ×Rm → Rn una funzione continua, (x0 , y0 ) ∈ Ω tale che f (x0 , y0 ) = 0.
∂f
Supponiamo la funzione f (x, y) differenziabile in (x0 , y0 ). Supponiamo ancora che ∂R m (x0 , y0 ) sia

un isomorfismo di R in sè. Allora, esistono U intorno di x0 in R e V intorno di y0 in Rm tali


n n

che si può definire almeno una funzione implicita relativa all’equazione f (x, y) = 0, y : U → V. Per
ogni funzione implicita definita dall’ equazione f (x, y) = 0 risulta:

1. y(x0 ) = y0 ;

2. y(x) è continua nel punto x0 ;


 −1
∂f (x0 , y0 ) ∂f (x0 , y0 )
3. y è differenziabile in x0 e si ha: y 0 (x0 ) = − ◦
∂y ∂x
Una importante applicazione di questo caso si ha in Meccanica Razionale riguardo ai parametri
Lagrangiani o gradi di libertà di un sistema fisico.

Esempio 2.2 Dato il sistema 


x3 − 3xy 2 + z 3 + 1 = 0
x − 2y 2 − 3z 2 + 4 = 0
provare che y, z si possono esplicitare rispetto a x e poi, calcolare y 0 (1), z 0 (1).

Il problema si inquadra nel caso generale considerando la funzione

f : R × R 2 → R2 f (x, (y, z)) = (x3 − 3xy 2 + z 3 + 1, x − 2y 2 − 3z 2 + 4)

da cui  
∂f ∂f −6xy 3z 2
= =
∂R2 ∂(y, z) −4y −6z
Poichè il determinante della matrice è non nullo, si ha l’isomorfismo richiesto nell’ipotesi e quindi,
dal teorema del Dini segue la locale esplicitabilità. Per calcolare le derivate richieste basta derivare
membro a membro rispetto ad x le equazioni del sistema e poi valutarle nel punto x = y = z = 1.

Osservazione 2.1 Nel caso di un sistema lineare il teorema del Dini restituisce parzialmente il

4
Appunti di Analisi Matematica II

teorema di Rouchè - Capelli. Il vantaggio del teorema di Rouchè - Capelli è che fornisce risolubilità
globale. Lo svantaggio consiste nel fatto che il teorema di Rouché - Capelli si può applicare soltanto
al caso lineare.

Dimostriamo adesso il teorema.

Dim. Per semplicità possiamo supporre n = 2, m = 1. La dimostrazione si ripete inalterata


nella sostanza nel caso generale. Il sistema che vogliamo considerare si presenta dunque nella forma
seguente: (
f1 (x, y1 , y2 ) = 0
f2 (x, y1 , y2 ) = 0
A causa dell’ipotesi sullo Jacobiano possiamo dire che, fissata una colonna del determinante - ad
esempio la prima - almeno uno dei complementi algebrici relativi agli elementi della colonna fissata
∂f1
risulta diverso da zero. Supponiamo per esempio che sia ∂y 2
(P0 ) 6= 0. Allora è possibile esplicitare
la variabile y2 dalla prima equazione cioè possiamo scrivere y2 = ϕ(x, y1 ) in un conveniente intorno
di x0 . Quindi, in un intorno di x0 abbiamo
(
y2 = ϕ(x, y1 )
f2 (x, y1 , y2 ) = 0

Verifichiamo adesso che nella seconda equazione è possibile esplicitare la variabile y1 . Per questo
basta garantire che

f2 (x, y1 , ϕ(x, y1 )) 6= 0
∂y1
condizione senz’altro verificata grazie all’ipotesi sullo Jacobiano. Infatti, ponendo per comodità
F (y1 ) = f2 (x, y1 , ϕ(x, y1 )) si ha:

∂ ∂f2 ∂x ∂f2 ∂y1 ∂f2 ∂ϕ


F 0 (y1 ) = ∇f2 (x, y1 , ϕ(x, y1 )) · (x, y1 , ϕ(x, y1 )) = + +
∂y1 ∂x ∂y1 ∂y1 ∂y1 ∂y2 ∂y1
∂f1
!
∂f2 ∂f2 ∂y
= + − ∂f11
∂y1 ∂y2 ∂y2
 −1    −1 ∂f1 ∂f1
∂f1 ∂f1 ∂f2 ∂f1 ∂f2 ∂f1 ∂y1 ∂y2
= − = 2 ∂f2 =
∂f 6 0
∂y1 ∂y2 ∂y1 ∂y1 ∂y2 ∂y1 ∂y1 ∂y2

In conclusione, in un conveniente intorno del punto x0 possiamo scrivere


(
y1 = ϕ1 (x)
y2 = ϕ2 (x)

che è quanto si voleva. Proviamo adesso la formula di derivazione. Dal fatto che f (x, y) è differen-
ziabile nel punto (x0 , y0 ) si ha:
p
f (x, y) = f (x0 , y0 ) + Jf (x0 , y0 )(x − x0 , y − y0 )T + o( (x − x0 )2 + (y − y0 )2 )

e quindi, ponendo y = y(x) si ottiene:


p
0 = Jf (x0 , y0 )(x − x0 , y − y0 )T + o( (x − x0 )2 + (y − y0 )2 )

5
G.Di Fazio

Ricordando che la funzione f è una funzione di m + n variabili ad n componenti, il suo Jacobiano


è una matrice di tipo n × n + m cioè:
∂f1 ∂f1 ∂f1 ∂f1 ∂f1
... ...
 
∂x1 ∂x2 ∂xm ∂y1 ∂yn
Jf (x0 , y0 ) =  ...
 

∂fn ∂fn ∂fn ∂fn ∂fn
∂x1 ∂x2 ... ∂xm ∂y1 ... ∂yn

da cui
∂f ∂f
Jf (x0 , y0 )(x − x0 , y − y0 )T = (x0 , y0 )(x − x0 )T + (x0 , y0 )(y − y0 )T
∂x ∂y
quindi,

∂f ∂f p
0= (x0 , y0 )(x − x0 )T + (x0 , y0 )(y − y0 )T + o( (x − x0 )2 + (y − y0 )2 )
∂x ∂y

per cui, ricordando che det ∂f


∂y (x0 , y0 ) 6= 0, si ha;

 −1  
T ∂f ∂f
y (x) = y0T − (x0 , y0 ) (x0 , y0 ) (x − x0 )T + o(kx − x0 k).
∂y ∂x

Osservazione 2.2 Naturalmente vale quanto detto nel caso scalare e cioè che, se lo Jacobiano è
diverso da zero in tutto l’aperto allora la soluzione del sistema è unica.

Corollario 2.1 (Inversione locale) Sia f : Ω ⊆ Rn → Rn una funzione continua e differenziabile


nell’aperto Ω e supponiamo che in un punto x0 ∈ Ω si abbia f 0 (x0 ) 6= 0. Allora, f è localmente
invertibile in x0 ed inoltre, posto y0 = f (x0 ), si ha:
−1
∂f −1
  
∂f
= .
∂y y0 ∂x x0

Dim. basta applicare il teorema del Dini all’equazione F (x, y) = y − f (x). In particolare, posto
x = f −1 (y) si ha:
−1 −1  −1
∂f −1
 
∂F ∂F ∂f ∂y ∂f
=− =− − =
∂x ∂x ∂y ∂x ∂y ∂x

6
Appunti di Analisi Matematica II

1.3 Alcuni cambi di variabili

Come applicazione del teorema del Dini e dell’inversione locale studiamo alcuni cambi di vari-
abile che saranno utili durante lo studio dell’ integrazione.

Esempio 3.1 Coordinate polari nel piano


Sia p : S0 → R2 \ L0 dove S0 =]0, +∞[×] − π, π[ e L0 = {(x, y) ∈ R2 : y = 0, x ≤ 0}. Posto
p(r, θ) = (x, y) = (r cos θ, r sen θ)
vogliamo studiare il problema dell’inversione di p. Si ha:
 
∂(x, y) cos θ −r sen θ
=
∂(r, θ) sen θ r cos θ
p
e quindi si ha esplicitabilità. Dalla definizione di p si ricava facilmente r = x2 + y 2 . La de-
terminazione di θ è un pochino più laboriosa. Eseguendo i calcoli si ottiene θ(x, y) = arg(x, y)
dove:  y
 arctang x x>0
x
arg(x, y) = − arctang y x < 0, y > 0;
arctang xy − π x < 0, y < 0.

Esempio 3.2 Coordinate cilindriche in R3


Consideriamo la funzione
k : R2 × R → R3 k(r, θ, ϕ) = (r cos θ, r sen θ, ϕ).
Si ha:  
cos θ −r sen θ 0
∂(x, y, z) 
= sen θ r cos θ 0
∂(r, θ, ϕ)
0 0 1
e si procede come nel caso delle coordinate polari nel piano.

Esempio 3.3 Coordinate polari in R3


Consideriamo la funzione
P :]0, +∞[×R × R → R3 P (r, θ, ϕ) = (r sen θ cos ϕ, r sen θ, sen ϕ, r cos θ).
Si ha:  
sen θ cos ϕ r cos θ cos ϕ −r sen θ sen ϕ
∂(x, y, z) 
= sen θ sen ϕ r cos θ sen ϕ r sen θ cos ϕ 
∂(r, θ, ϕ)
cos θ −r sen θ 0
e il determinante risulta r2 sen θ che è nullo soltanto se θ = kπ, k ∈ Z. Possiamo quindi considerare
una restrizione di P che può essere invertita. Precisamente, consideriamo
P :]0, +∞[×]0, π[×] − π, π[→ R3 \ {(x, 0, z) : x ≤ 0}
Sfruttando i risultati conseguiti negli esempi precedenti si ottiene:
P −1 : R3 \ {(x, 0, z) : x ≤ 0} →]0, +∞[×]0, π[×] − π, π[
!
p z x y
P −1 (x, y, z) = (r, θ, ϕ) = x2 + y 2 + z 2 , arccos p , arg( , )
x2 + y 2 + z 2 sen θ sen θ

7
1. Spazi Metrici e Spazi Normati

1.1 Definizioni ed esempi

Definizione 1.1 Sia S 6= ∅ un insieme. Una funzione d : S × S → R si dice distanza o metrica in


S se verifica i seguenti requisiti:

1) d(x, y) ≥ 0 ∀x, y ∈ S;

2) d(x, y) = 0 se e solo se x = y;

3) d(x, y) = d(y, x) ∀x, y ∈ S;

4) d(x, y) ≤ d(x, z) + d(z, y) ∀x, y, z ∈ S.

In tal caso la coppia ordinata (S, d) si dice spazio metrico.

Esempio 1.1 Qualsiasi insieme S non vuoto può essere reso spazio metrico. Infatti basta porre
(
1 x 6= y;
d(x, y) =
0 x = y.

P 1/2
n
Esempio 1.2 (Cn , d) dove d(x, y) = j=1 |xj − y j |2
.
L’ unica proprietà che necessita di spiegazione è la 4). Infatti, usando la diseguaglianza di Cauchy
- Schwarz si ottiene
n
X n
X
2 2
d (x, y) = |xj − yj | = |(xj − zj ) + (zj − yj )|2
j=1 j=1
n
X n o
= d2 (x, z) + d2 (z, y) + 2 Re (xj − zj )(zj − yj )
j=1
Xn
≤ d2 (x, z) + d2 (z, y) + 2 |xj − zj | |zj − yj |
j=1
2
≤ d2 (x, z) + d2 (z, y) + 2d(x, z) d(z, y) = (d(x, z) + d(z, y)) .

Esempio 1.3 Sia C 0 ([a, b]) ≡ {f : [a, b] → R continua in [a, b]} . L’insieme C 0 ([a, b]) diventa uno
spazio metrico ponendo

d∞ (f, g) = max |f (x) − g(x)|, ∀f, g ∈ C 0 ([a, b]).


[a,b]
G.Di Fazio

Lo stesso insieme si può rendere metrico anche ponendo


!1/p
Z b
p
dp (f, g) = |f (x) − g(x)| dx ∀f, g ∈ C 0 ([a, b])
a

dove p ≥ 1.
Per verificare che quest’ ultima è una metrica su C 0 ([a, b]) proviamo il seguente

Teorema 1.1 (disuguaglianza di Hölder) Siano f, g ∈ C 0 ([a, b]) e siano p, q > 1 due numeri tali
che p1 + 1q = 1. Si ha:

!1/p !1/q
Z b Z b Z b
|f (x)g(x)| dx ≤ |f (x)|p dx |g(x)|q dx .
a a a

Dim. Usiamo la disuguaglianza numerica

ap bq
0 ≤ ab ≤ +
p q
con
|f (x)|
a=  1/p
Rb
a
|f (x)|p dx
e
|g(x)|
b=  1/q .
Rb
a
|g(x)|q dx

Integrando la disugualianza

|f (x)g(x)| 1 |f (x)|p 1 |g(x)|q


1/p R 1/q ≤ p R b + Rb
|f (x)|p dx q a |g(x)|q dx
R
b b
a
|f (x)|p dx a
|g(x)|q dx a

si ottiene immediatamente la tesi.

Teorema 1.2 (Disuguaglianza di Minkowsky) Per ogni f, g ∈ C 0 ([a, b]), p ≥ 1 si ha:


!1/p !1/p !1/p
Z b Z b Z b
|f (x) + g(x)|p dx ≤ |f (x)|p dx + |g(x)|p dx
a a a

2
Appunti di Analisi Matematica II

Dim. Se p = 1 non c’ è nulla da dimostrare e quindi supponiamo p > 1. Usando la disug-


uaglianza di Hölder otteniamo:
Z b Z b
p
|f (x) + g(x)| dx = |f (x) + g(x)|p−1 |f (x) + g(x)| dx
a a
Z b Z b
p−1
≤ |f (x) + g(x)|
|f (x)| dx + |f (x) + g(x)|p−1 |g(x)| dx
a a
Z b ! p−1
p
 !1/p !1/p 
 Z b Z b 
≤ |f (x) + g(x)|p dx |f (x)|p dx + |g(x)|p dx
a  a a 

da cui la tesi.

A questo punto possiamo verificare la proprietà triangolare che rende C 0 ([a, b]) spazio metrico
rispetto alla metrica dp . Infatti,
!1/p
Z b
dp (f, g) = |f (x) − g(x)|p dx
a
!1/p
Z b
≤ (|f (x) − h(x)| + |h(x) − g(x)|)p dx
a
!1/p !1/p
Z b Z b
≤ |f (x) − h(x)|p dx + |h(x) − g(x)|p dx
a a

= dp (f, h) + dp (h, g)

Definizione 1.2 Sia r > 0 e x0 ∈ S. L’insieme Br (x0 ) = {y ∈ S : d(x0 , y) < r} si chiama sfera
aperta di centro x0 e raggio r. Diciamo che X ⊂ S è un intorno di x0 se esiste δ > 0 tale che
Bδ (x0 ) ⊂ X.

Definizione 1.3 Dato x0 ∈ S la classe di tutti gli intorni di x0 si dice la famiglia degli intorni di
x0 . Sia X ⊂ S, x0 ∈ X. Diciamo che x0 è interno all’insieme X se esiste un intorno U di x0 tale
che x0 ∈ U ⊂ X. Un insieme A ⊂ S si dice aperto se ogni suo punto è interno. La classe di tutti
gli aperti di S si dice la famiglia degli aperti di S o la topologia di S indotta dalla metrica.

Definizione 1.4 Sia X ⊂ S e sia x0 ∈ S. Diciamo che x0 è un punto di accumulazione per X


se comunque si assegna un intorno U di x0 si ha: (U \ {x0 }) ∩ X 6= ∅. L’insieme dei punti di
accumulazione di X si chiama derivato di X e si indica con DX. Infine l’insieme X ∪ DX è sempre
chiuso e si chiama la chiusura dell’ insieme X.

Definizione 1.5 Sia V uno spazio vettoriale su un campo K. Per fissare le idee possiamo pensare
al campo dei reali oppure dei complessi. Sia N : V → R una funzione tale che

3
G.Di Fazio

1) N (x) ≥ 0 ∀x ∈ V ;

2) N (x) = 0 =⇒ x = 0V ;

3) N (αx) = |α|N (x) ∀α ∈ C, ∀x ∈ V ;

4) N (x + y) ≤ N (x) + N (y) ∀x, y ∈ V.

Da ora in poi una tale funzione si dirà una norma su V e la coppia ordinata (V, N ) si dirà uno
spazio normato. Nel seguito, per brevità sarà N (x) = kxk.

Teorema 1.3 (V, k · k) è uno spazio metrico ponendo d(x, y) = kx − yk ∀x, y ∈ V.

Esempio 1.4 Sia p ≥ 1. Rn si può normare ponendo


 1/p
Xn
kxkp =  |xj |p  ∀x ∈ Rn
j=1

oppure ponendo
kxk∞ = max |xj | ∀x ∈ Rn .
1≤j≤n

In maniera analoga a quanto visto in C 0 ([a, b]), si possono provare facilmente i seguenti risultati:

1 1
Teorema 1.4 (Hölder discreto) Se p + q = 1 allora
 1/p  1/q
n
X n
X Xn
|xj yj | ≤  |xj |p  ·  |yj |q  , ∀n ∈ N.
j=1 j=1 j=1

Teorema 1.5 (Minkowsky discreto) Se p ≥ 1 allora


 1/p  1/p  1/p
Xn Xn n
X
 |xj + yj |p  ≤ |xj |p  +  |yj |p  , ∀n ∈ N.
j=1 j=1 j=1

Il teorema che segue mette in relazione le norme su introdotte.


Teorema 1.6 Siano 1 ≤ p ≤ q < +∞. Allora esistono costanti c1 , c2 , c3 ≥ 0 dipendenti solo da
n, p, q tali che:
kxk1 ≤ c1 kxkp ≤ c2 kxkq ≤ c3 kxk∞ ∀x ∈ Rn .

4
Appunti di Analisi Matematica II

n
X n
X
1/p 1/p
Dim. Infatti kxkp = (kxj kp ) = (1 · kxj kp ) da cui applicando la disuguaglianza di
j=1 j=1
Hölder si ha:
kxkp ≤ n1/p kxkq .
D’altra parte,
 1/q
Xn
kxkq ≤  kxkq∞  = n1/q kxk∞
j=1

Definizione 1.6 Sia {xj } una successione di punti in uno spazio metrico (S, d). Diciamo che la
successione converge ad un punto x0 ∈ S secondo la metrica d se limj→∞ d(xj , x0 ) = 0.

Teorema 1.7 Sia {xj } una successione di punti in Rn . Allora limj→∞ xj = x0 ∈ Rn se e solo se
limj→∞ xhj = xh0 ∈ R, ∀h = 1, . . . , n.

Dim. La dimostrazione segue subito dal teorema precedente. Infatti,

|xhj − xh0 | ≤ kxj − x0 k1 ≤ nkxj − x0 k → 0

implica
|xhj − xh0 | → 0 ∀h = 1, . . . , n.
Il viceversa segue subito dalla disuguaglianza,

kxj − x0 k ≤ nkxj − x0 k∞ → 0.

1.2 Completezza

Definizione 2.1 Sia S uno spazio metrico con metrica d. Una successione di punti di S si dice di
Cauchy se
∀ > 0 ∃ν ∈ N : ∀n, m > ν ⇒ d(xn , xm ) < .

Definizione 2.2 Lo spazio metrico S si dice completo quando ogni successione di Cauchy è
convergente ad un elemento di S.

Esempio 2.1 Lo spazio metrico Rn è completo con la metrica usuale.

5
G.Di Fazio

Esempio 2.2 Lo spazio Q reso metrico dalla metrica indotta da R non è completo.
Per mostrare questo, consideriamo una successione di numeri razionali convergente ad un numero
irrazionale. Tale successione, in quanto convergente, è di Cauchy in R e quindi in Q. Se la successione
fosse convergente in Q dovrebbe avere come limite un numero razionale e perciò avrebbe due limiti
distinti in R.

Esempio 2.3 Lo spazio C 0 ([a, b]) è completo con la metrica d∞ (f, g).

Esempio 2.4 Lo spazio C 0 ([a, b]) non è completo con le metriche dp (f, g), p ≥ 1.

Esempio 2.5 Lo spazio C 1 ([a, b]) è completo con la metrica d(f, g) = d∞ (f, g) + d∞ (f 0 , g 0 ).

Naturalmente quanto detto per gli spazi metrici vale per gli spazi normati che sono particolari
spazi metrici. Uno spazio normato che risulti completo rispetto alla distanza che induce la norma
si chiama uno spazio di Banach.

1.3 Funzioni tra spazi metrici

Siano (S, d), (S1 , d1 ) due spazi metrici e sia f : X ⊂ S → S1 . Se x0 è un punto di accumulazione
per X e y0 ∈ Y allora diciamo che limx→x0 f (x) = y0 se

∀ > 0 ∃ δ > 0 : x ∈ X, x 6= x0 d(x, x0 ) < δ ⇒ d1 (f (x), y0 ) < .

Esempio 3.1 Se S = S1 = R si ottiene la definizione di limite classica per funzioni reali di una
variabile reale.

Esempio 3.2 Sia f : R2 → R definita ponendo

x2 y
f (x, y) = .
x2 + y 2

Verifichiamo che
lim f (x, y) = 0.
(x,y)→(0,0)

Infatti,
xy |x|
|f (x, y)| = |x| ≤ →0
x2 +y 2 2
perché (x, y) → (0, 0) equivale a dire che x → 0 e y → 0.

6
Appunti di Analisi Matematica II

Nel caso in cui S1 = R diremo che limx→x0 f (x) = +∞ se

∀K > 0 ∃ δ > 0 : x ∈ X, x 6= x0 d(x, x0 ) < δ ⇒ f (x) > K.

Similmente diremo che limx→x0 f (x) = −∞ se

∀K > 0 ∃ δ > 0 : x ∈ X, x 6= x0 d(x, x0 ) < δ ⇒ f (x) < −K.

Teorema 3.1 Sia f : X ⊂ S → S1 , x0 ∈ DX. Allora ∃ limx→x0 f (x) = y0 se e solo se per ogni
Y ⊂ X tale che x0 ∈ DY si ha x→x
lim f (x) = y0 .
0
x∈Y

Dim. La condizione è ovviamente necessaria. Proviamo la sufficienza. Ragionando per assurdo,


si ha:
1
∀n ∈ N ∃xn ∈ X, xn 6= x0 : d(xn , x0 ) < , d1 (f (xn ), y0 ) ≥ ε̄.
n
A questo punto la contraddizione è evidente se si sceglie Y = {xn }.

Nel caso particolare che S1 = Rm possiamo scrivere,

f (x) = (f1 (x), . . . , fm (x)) ∀x ∈ X ⊂ S.

Teorema 3.2 f : X ⊂ S → Rm , x0 ∈ DX, y0 ∈ Rm . Allora, ∃ limx→x0 f (x) = y0 se e solo se


∃ limx→x0 fj (x) = y0j , ∀j = 1, . . . , m.

Dim. È conseguenza immediata della disuguaglianza

1 √
kxk1 ≤ kxk ≤ mkxk∞ .
m

Teorema 3.3 (di passaggio) Sia f : X ⊂ S → S1 , x0 ∈ DX. Allora ∃ limx→x0 f (x) = y0 se e solo
se per ogni successione {xn } ⊂ X tale che xn 6= x0 , xn → x0 si ha limn→∞ f (xn ) = y0 .

Dim. Segue immediatamente dal teorema sui limiti delle restrizioni.

Definizione 3.1 Sia f : X ⊂ S → S1 , x0 ∈ X. Diciamo che f è continua in x0 quando:

∀ > 0 ∃ δ > 0 : x ∈ X, d(x, x0 ) < δ ⇒ d1 (f (x), f (x0 )) < .

Notiamo che se x0 è un punto isolato per X ogni funzione risulta ivi continua. Se invece x0 è un
punto di accumulazione per X allora la definizione è equivalente al fatto che limx→x0 f (x) = f (x0 ).

1.4 Compattezza

Definizione 4.1 Sia X ⊂ S. Diciamo che X è sequenzialmente compatto quando ogni successione

7
G.Di Fazio

{xn } di elementi di X ammette una successione estratta {xkn } convergente, nel senso della metrica
d, ad un elemento x∗ ∈ X.

In seguito, per brevità diremo compatto invece di sequenzialmente compatto.

Teorema 4.1 Sia (S, d) uno spazio metrico e sia X ⊂ S compatto in S. Allora X è chiuso e
limitato.

Dim. La dimostrazione è identica a quella fatta in R con la metrica usuale. Contrariamente


al caso S = R notiamo che, in un arbitrario spazio metrico il viceversa è falso.

Esempio 4.1 In Q con la metrica indotta da R una successione convergente ad un numero ir-
razionale è un esempio di insieme chiuso e limitato (in Q è discreto!) ma non sequenzialmente
compatto.

Esempio 4.2 In C 0 ([0, 1]) con la metrica d∞ X = {xn } risulta chiuso e limitato ma non compatto.

Teorema 4.2 (Heine - Borel) X ⊂ Rn è compatto se e solo se è chiuso e limitato.

Dim. La condizione è necessaria in qualsiasi spazio metrico. Proviamo la sufficienza. Sia perciò
{xj } una successione di punti di X. Siccome X è limitato, la successione, e quindi le sue componenti
{xhj } sono limitate in R. Consideriamo una sottosuccessione convergente di {x1j } che chiamiamo
{x1kj } → x10 . Consideriamo adesso la successione estratta da {x2j } prendendo gli stessi indici usati per
l’estratta precedente. Da questa successione possiamo estrarne una convergente, diciamo {x2lj } →
x20 . Continuando in questo modo si costruisce una sottosuccessione della successione originaria che
risulta convergente. Siccome X è chiuso il limite sta in X provando che X è compatto.

Teorema 4.3 Sia f : Rn → R una funzione continua. Sia limx→∞ f (x) = l. Se λ ∈ f (Rn ), λ 6= l
allora l’insieme
E = {x ∈ Rn : f (x) = λ}
è compatto.

Dim. Proviamo che E è chiuso. Sia x0 ∈ DE e sia {xn } una successione di punti di E
convergente a x0 . Per continuità f (xn ) → f (x0 ) ma d’altra parte f (xn ) = λ ∀n ∈ N quindi
f (x0 ) = λ da cui x0 ∈ E. Proviamo che E è limitato. Supponiamo l ∈ R. Allora,

∀ε > 0 ∃δ > 0 : ∀x ∈ Rn kxk > δ ⇒ |f (x) − l| < ε

Sia x ∈ E. Dalla definizione di limite segue immediatamente che kxk < δ e quindi E ⊂ Bδ (0)
ovvero E è limitato.

8
Appunti di Analisi Matematica II

Notiamo che, nel caso λ = l l’insieme E può essere non limitato.

Esempio 4.3 Usando il teorema appena dimostrato si riconosce subito che {(x, y) ∈ R2 : x4 + y 4 +
24xy − 128 = 0} è compatto.

1.5 Connessione

Definizione 5.1 Sia A ⊂ S, A aperto. Diciamo che A è un aperto connesso se non è possibile
trovare due insiemi A1 , A2 con i seguenti requisiti:

1. A1 , A2 ⊂ A, aperti non vuoti;

2. A1 ∩ A2 = ∅ ;

3. A1 ∪ A2 = A.

Definizione 5.2 In Rn un aperto si dice connesso per spezzate se comunque si assegnino due suoi
punti è possibile trovare una poligonale contenuta nell’ insieme, congiungente i due punti.
In Rn si ha la seguente caratterizzazione di cui omettiamo la dimostrazione.

Teorema 5.1 In Rn un aperto A è connesso se e solo se è connesso per spezzate.

Teorema 5.2 Sia A un aperto connesso di uno spazio metrico (S, d) e sia f : A → R una funzione
continua in A. Supponiamo che ∃x1 ∈ A : f (x1 ) > 0, ∃x2 ∈ A : f (x2 ) < 0. Allora esiste un punto
di A in cui la funzione è nulla.

Dim. La dimostrazione usa in maniera determinante il concetto di insieme connesso. D’altra


parte, come già accadeva nel caso delle funzioni di una variabile, il teorema è falso se l’insieme non
è connesso. Siano quindi

A1 ≡ {x ∈ A : f (x) > 0}, A2 ≡ {x ∈ A : f (x) < 0}.

Proviamo che A1 , A2 sono insiemi aperti. Siccome A è connesso sarà A1 ∪ A2 ⊂ A ma A1 ∪ A2 6= A.


I punti di A \ (A1 ∪ A2 ) sono tutti punti che soddisfano la tesi. Proviamo quindi che A1 è aperto.
Sia x0 ∈ A1 . Per permanenza del segno la funzione f è positiva in un intorno di x0 . Tale intorno
risulta allora contenuto in A1 mostrando in tal modo che x0 è interno ad A1 .

9
G.Di Fazio

Teorema 5.3 (Weierstrass) Sia f : K ⊂ S → R una funzione continua sull’ insieme compatto K.
Allora la funzione ammette massimo e minimo in K.

Definizione 5.3 Sia f : X ⊂ S → S1 . La funzione si dice uniformemente continua in X se

∀ > 0 ∃δ > 0 : d(x1 , x2 ) < δ ⇒ d1 (f (x1 ), f (x2 )) < .

Vale il teorema di Cantor


Teorema 5.4 Sia f : K ⊂ S → S1 una funzione continua in K compatto. Allora f è uniformemente
continua in K.

Definizione 5.4 Sia f : X ⊂ S → S1 . Diciamo che f è Lipschitziana di costante k ≥ 0 in X se

d1 (f (x), f (y)) ≤ k d(x, y) ∀x, y ∈ X.

Conseguenza immediata della definizione è il seguente

Teorema 5.5 Sia f : X ⊂ S → S1 . Se f è Lipschitziana in X allora è ivi uniformemente continua.

Definizione 5.5 Una funzione f : X ⊂ S → X Lipschitziana con costante k ∈ [0, 1[ si dice una
contrazione in X.

Dimostriamo il seguente risultato

Teorema 5.6 (delle contrazioni o di Banach - Caccioppoli) Sia S uno spazio metrico completo con
metrica d. Sia inoltre f : S → S una contrazione in S. Allora esiste uno ed un sol punto x∗ ∈ S
tale che f (x∗ ) = x∗ .

Dim. Fissiamo, ad arbitrio, un punto x0 ∈ S. Definiamo quindi una successione in maniera ricorsiva
ponendo
x1 = x0 ; xn+1 = f (xn ) ∀n ∈ N.
Per provare che la successione {xn } è convergente in S proviamo che è di Cauchy. Per ogni n ∈ N
abbiamo:

d(xn+1 , xn ) = d(f (xn ), f (xn−1 )) ≤ kd(xn , xn−1 ) = kd(f (xn−1 ), f (xn−2 ))


≤ k 2 d(xn−1 , xn−2 ) ≤ · · · ≤ k n−1 d(x2 , x1 ) ∀n ∈ N

10
Appunti di Analisi Matematica II

Usando la disuguaglianza appena dimostrata possiamo quindi affermare che

d(xn+p , xn ) ≤ d(xn+p , xn+p−1 ) + d(xn+p−1 , xn+p−2 ) + · · · + d(xn+1 , xn )


≤ d(x2 , x1 ) k n−1 + k n + · · · + k n+p−2


X k n−1
≤ d(x2 , x1 ) k j = d(x2 , x1 ) →0 ∀p ∈ N.
j=n−1
1−k

Quindi la successione è di Cauchy e, grazie alla completezza dello spazio, risulta anche convergente
in S. Sia x∗ = limn→∞ xn . Proviamo che f (x∗ ) = x∗ . Infatti, ricordando che f è continua, passando
al limite nella legge che definisce la successione si ottiene quanto voluto. Mostriamo adesso che il
punto fisso x∗ trovato è unico. Supponiamo per assurdo che x̄ sia punto fisso per f. Allora,

d(x∗ , x̄) = d(f (x∗ ), f (x̄)) ≤ k d(x∗ , x̄)

da cui d(x∗ , x̄) = 0 e quindi x∗ = x̄.

Esempio 5.1 Definiamo una contrazione in C 0 ([0, 1]) con la metrica d∞ ponendo
Z 1
F (f )(x) = 1 + ye−xy f (y) dy.
0

Per verificare che F è una contrazione cominciamo osservando che


Z 1
|F (f1 )(x) − F (f2 )(x)| ≤ d(f1 , f2 ) ye−xy dy
0

Utilizzando la convessità della funzione e−t nell’intervallo [0, 1] otteniamo


Z 1 Z 1
−xy 1 x −1 1
ye dy ≤ (y + xy 2 )(e−1 − 1) dy = + (e − 1) ≤ ∀x ∈ [0, 1].
0 0 2 3 2

Da questo segue immediatamente

1
|F (f1 )(x) − F (f2 )(x)| ≤ d(f1 , f2 ) ∀f1 , f2 ∈ C 0 ([0, 1]).
2

1.6 Distanza tra sottoinsiemi di uno spazio metrico

Definizione 6.1 Siano X, Y ⊂ S. Chiamiamo distanza tra gli insiemi X, Y il numero

d(X, Y ) = inf{d(x, y) : x ∈ X, y ∈ Y }.

Ovviamente, se X ∩ Y 6= ∅ si ha d(X, Y ) = 0. Può accadere tuttavia che la distanza sia nulla anche
quando l’intersezione tra X e Y è vuota. In tal caso i due insiemi si dicono asintotici. Per esempio

11
G.Di Fazio

si può pensare al digramma di una funzione ed un suo asintoto. Dimostriamo il seguente risultato
relativo al concetto di distanza appena introdotto.

Teorema 6.1 Siano X, Y sottoinsiemi di S e supponiamo X compatto e Y chiuso. Allora d(X, Y ) =


0 se e soltanto se X ∩ Y 6= ∅.

Dim. Supponiamo che d(X, Y ) = 0. Usando la definizione di distanza possiamo costruire due
successioni {xn } ⊂ X e {yn } ⊂ Y tali che d(xn , yn ) < n1 . Siccome X è compatto è possibile estrarre
xkn → x∗ ∈ X. Proviamo che x∗ ∈ Y. Per questo dimostriamo che ykn → x∗ . Infatti,

1
d(ykn , x∗ ) ≤ d(ykn , xkn ) + d(xkn , x∗ ) ≤ + d(xkn , x∗ ) → 0
kn

e siccome Y è chiuso, x∗ ∈ Y.

Corollario 6.1 Siano Y = {x0 } e X chiuso in S. Allora d({x0 }, X) > 0 se e solo se x0 ∈


/ X.

Sia X ⊂ S. Possiamo definire una funzione F : S → R ponendo F (x) = d(x, X). Una proprietà
della funzione appena definita è la seguente

Teorema 6.2 La funzione F : S → R definita ponendo F (x) = d(x, X) è Lipschitziana in S.

Dim. Infatti, siano x1 , x2 ∈ S. Usando la disuguaglianza triangolare si ha:

d(x1 , x) ≤ d(x1 , x2 ) + d(x2 , x) ∀x ∈ X

e quindi
d(x1 , X) ≤ d(x1 , x2 ) + d(x2 , X).
Scambiando tra loro x1 , x2 si ottiene

d(x2 , X) ≤ d(x1 , x2 ) + d(x1 , X)

da cui
|d(x1 , X) − d(x2 , X)| ≤ d(x1 , x2 ).
Sia X ⊂ S. Chiamiamo diametro dell’ insieme X l’estremo superiore dell’ insieme numerico
{d(x, y) : x, y ∈ X} .

Teorema 6.3 L’insieme X ⊂ S è limitato se e solo se diam X < +∞.

Dim. Se X è limitato esiste δ > 0 ed esiste x0 ∈ X tale che X ⊂ Bδ (x0 ) e si ha:

d(x, y) ≤ d(x0 , x) + d(x0 , y) ≤ 2δ x, y ∈ X

12
Appunti di Analisi Matematica II

quindi diam X ≤ 2δ.

Viceversa, fissato x0 ∈ X abbiamo d(x, x0 ) ≤ diamX ∀x ∈ X da cui segue X ⊂ Bdiam X (x0 ).

Teorema 6.4 Sia X ⊂ S. Allora diam X̄ = diam X.

Dim. Dal fatto che X ⊂ X̄ segue che diam X ≤ diam X̄. Per provare la disuguaglianza contraria
siano x̄, ȳ ∈ X̄ e siano {xn }, {yn } due successioni di punti di X convergenti rispettivamente a
x̄, ȳ. Allora, d(xn , yn ) ≤ diam X ∀n ∈ N e quindi, passando al limite, d(x̄, ȳ) ≤ diam X e, per
l’arbitrarietà dei punti scelti, diam X̄ ≤ diam X.

13
1. Estremi relativi di funzioni su spazi metrici

1.1 Estremi liberi

Definizione 1.1 Sia X uno spazio normato e sia A ⊂ X e sia f : A → R. Diciamo che x0 ∈ A è
un punto di minimo relativo per f se ∃ δ > 0 tale che

f (x0 ) ≤ f (x) ∀x ∈ A ∩ Bδ (x0 ).

Similmente si da la definizione di massimo relativo. Una prima condizione necessaria è la seguente:

Teorema 1.1 (Fermat) Sia Ω ⊂ X un aperto si X, f : Ω → R, e sia x0 un punto di estremo relativo


per f e sia u ∈ X \ {0}. Se f è derivabile nella direzione di u allora ∂u f (x0 ) = 0.
∂f
Dim. Basta osservare che ∂u (x0 ) è la derivata della funzione ϕ(t) = f (x0 + tu) in t = 0 e ϕ(t)
ha estremo relativo per t = 0.

Esempio 1.1 Consideriamo la funzione f : R2 → R definita dalla legge f (x, y) = x2 +y 2 . Si verifica


direttamente che (0, 0) è punto di minimo relativo (anzi assoluto). Di conseguenza, f 0 (0, 0) ≡ 0.

Esempio 1.2 Consideriamo la funzione f : R2 → R definita dalla legge f (x, y) = x2 − y 2 . Si


verifica direttamente che (0, 0) non è punto di estremo relativo. Tuttavia, f 0 (0, 0) ≡ 0.

Teorema 1.2 Sia A ∈ Rn,n : A = T A. Si ha:

λkxk2 ≤ (Ax, x) ≤ Λkxk2 ∀x ∈ Rn

dove λ, Λ sono rispettivamente il minimo ed il massimo degli autovalori di A.

Dim. Consideriamo la funzione F : Rn \ {0} → R definita dalla legge F (x) = (Ax,x)


kxk2 Notiamo
n
che F è omogenea di grado zero quindi F (R \ {0}) = F (∂B1 (0)). Poichè ∂B1 (0) è compatto in
Rn , per il teorema di Weierstrass esistono due punti x0 , x1 ∈ ∂B1 (0) tali che

F (x0 ) ≤ F (x) ≤ F (x1 ) ∀x ∈ ∂B1 (0)

e, grazie all’omogeneità
F (x0 ) ≤ F (x) ≤ F (x1 ) ∀x 6= 0.
G.Di Fazio

Siccome x0 , x1 sono interni al campo di esistenza di F ne segue ∇F (x0 ) = ∇F (x1 ) = 0. Tenendo


x
presente che ∇(Ax, x) = 2Ax e che ∇(kxk) = kxk , si ha:
 
1 2 x
∇F (x) = 2Axkxk − (Ax, x)2kxk , ∀x 6= 0
kxk4 kxk

che è nullo se e solo se


Ax = F (x)x
ovvero se x0 , x1 sono autovettori della matrice A ed F (x0 ), F (x1 ) rispettivi autovalori. Da tutto
questo si ottiene,
F (x0 )kxk2 ≤ (Ax, x) ≤ F (x1 )kxk2 ∀x 6= 0
ovvero F (x0 ) ed F (x1 ) sono rispettivamente il massimo ed il minimo degli autovalori di A.

Se A è una matrice simmetrica, la forma quadratica indotta q(x) = (Ax, x) è una funzione
omogenea di grado 2. Dal teorema precedente si ha che q assume solo valori positivi se λ > 0,
assume solo valori negativi se Λ < 0 mentre assume qualsiasi valore reale se λ < 0, Λ > 0. Diremo
perciò la forma quadratica definita positiva, definita negativa oppure non definita rispettivamente
nei tre casi.

Teorema 1.3 Sia f : Ω ⊆ X → R, x0 punto di estremo relativo per f in Ω aperto di X e sia


u 6= 0, u ∈ X. Se f è due volte differenziabile allora la forma quadratica f 00 (x0 )(u, u) è semidefinita.
Precisamente, se x0 è punto di minimo la forma è semidefinita positiva mentre se x0 è punto di
massimo la forma è semidefinita negativa.

Dim. Basta osservare che, se x0 è punto di minimo relativo per f allora la funzione ϕ(t) =
f (x0 + tu) ha, nell’origine, un punto di minimo relativo. Similmente si procede per il massimo.

Teorema 1.4 Sia f : Ω ⊂ X → R due volte differenziabile in Ω aperto. Supponiamo inoltre che
la forma quadratica f 00 (x0 )(u, u) sia semidefinita positiva in Ω e che, in un punto x0 ∈ Ω risulti
f 0 (x0 ) = 0. Allora x0 è un punto di minimo relativo per f in Ω.

Dim. Poichè x0 è interno all’insieme Ω è possibile trovare δ > 0 in modo che Bδ (x0 ) ⊂ Ω.
Preso un punto x ∈ Bδ (x0 ) applichiamo la formula di Taylor al secondo ordine con il resto nella
forma di Lagrange. Allora esiste ξ appartenente al segmento di estremi x0 , x tale che:

1
f (x) = f (x0 ) + f 0 (x0 )(x − x0 ) + f 00 (ξ)(x − x0 )(x − x0 )
2

e, ricordando che f 0 (x0 ) ≡ 0, e che la forma è semidefinita positiva,

1
f (x) = f (x0 ) + f 00 (ξ)(x − x0 )(x − x0 ) ≥ f (x0 ), ∀x ∈ Bδ (x0 )
2

da cui la tesi.

2
Appunti di Analisi Matematica II

Teorema 1.5 Sia f : Ω ⊂ X → R di classe C 2 in Ω aperto. Supponiamo inoltre che la forma


quadratica f 00 (x0 )(u)(u) sia definita positiva e che, f 0 (x0 ) ≡ 0. Allora x0 è un punto di minimo
relativo per f in Ω.

Dim. Procediamo in maniera simile al teorema precedente usando la formula di Taylor con il
resto nella forma di Peano. Allora,

1 00
f (x) − f (x0 ) = f (x0 )(x − x0 )(x − x0 ) + o(kx − x0 k2 )
2  00
1 f (x0 )(x − x0 )(x − x0 ) o(kx − x0 k2 )

2
= kx − x0 k + ≥0
2 kx − x0 k2 kx − x0 k2

in un opportuno intorno di x0 da cui la tesi.

In modo del tutto simile si dimostra che


Teorema 1.6 Sia f : Ω ⊂ X → R di classe C 2 in Ω aperto. Supponiamo inoltre che la forma
quadratica f 00 (x0 )(u)(u) sia definita negativa e che, f 0 (x0 ) ≡ 0. Allora x0 è un punto di massimo
relativo per f in Ω.

Esempio 1.3 Sia f : R2 → R definita dalla legge f (x, y) = x2 + y 2 . Il gradiente si annulla soltanto
nell’origine ed inoltre risulta  
2 0
Hf (x, y) = >0
0 2
perchè gli autovalori sono tutti positivi.

Esempio 1.4 Sia f : R2 → R definita dalla legge f (x, y) = x2 − y 2 . Il gradiente si annulla soltanto
nell’origine ed inoltre risulta  
2 0
Hf (x, y) =
0 −2
e la forma è indefinita perchè gli autovalori sono di segno opposto.

Esempio 1.5 Sia f : R2 → R definita dalla legge f (x, y) = x3 − y 2 . Il gradiente si annulla soltanto
nell’origine ed inoltre risulta  
6x 0
Hf (x, y) =
0 −2
La matrice Hessiana, in un intorno dell’origine è indefinita. Inoltre la Matrice Hessiana nell’origine
è semidefinita negativa e quindi, i teoremi sin qui provati non ci dicono nulla. Tuttavia, per via
elementare, si riconosce che la funzione non ha segno costante in alcun intorno dell’origine.

Esempio 1.6 Sia f : R4 → R definita dalla legge f (x, y, z, t) = x2 + y 2 − z 2 + t. la funzione non ha


estremi relativi perchè il gradiente non si annulla in alcun punto.

Esempio 1.7 Sia f : R3 → R definita dalla legge f (x, y, z) = xy − z 2 . Il gradiente si annulla solo

3
G.Di Fazio

nell’origine e applicando alla matrice l’algoritmo di Gauss - Lagrange si vede che la segnatura della
forma quadratica è + − −. Infatti,
     
0 1 0 1 1 0 2 1 0
R +R2 →R1 2 →C1
Hf (0, 0, 0) =  1 0 0  1 −→  1 0 0  C1 +C−→ 1 0 0 
0 0 −2 0 0 −2 0 0 −2
   
2 1 0 2 0 0
R1 −2R2 →R2
−→  0 1 0  C1 −2C−→2 →C2
 0 −2 0 
0 0 −2 0 0 −2

quindi l’origine non è estremo relativo.

Esempio 1.8 Studiare gli estremi relativi ed assoluti della funzione f : R3 → R definita ponendo
2
f (x, y, z) = x2 + xy − z + e−(x +xy−z) .
La funzione assegnata è composta da g : R3 → R definita da g(x, y, z) = x2 +xy −z e dalla funzione
ϕ : R → R definita da ϕ(t) = t + e−t . Incominciamo cercando gli estremi relativi ed assoluti della
funzione g. La funzione è regolare e quindi gli estremi relativi vanno cercati tra i punti stazionari.
Si ha:
∇g(x, y, z) = (2x + y, x, −1) 6= 0
quindi g non ha estremi relativi. Cerchiamo adesso gli estremi assoluti. Poichè

lim g(x, 0, 0) = +∞, lim g(0, 0, z) = −∞


x→+∞ z→+∞

e la funzione g è continua si ha: g(R3 ) = R. Adesso studiamo la funzione ϕ in R. La funzione


ammette minimo relativo ed assoluto per t = 0 e ϕ(0) = 1. Inoltre limt→+∞ ϕ(t) = +∞ e quindi

sup f (x, y, z) = +∞, inf3 f (x, y, z) = min f (x, y, z) = 1


R3 R

ed il minimo viene assunto sui punti della superfice x2 + xy − z = 0.

Esempio 1.9 Studiare gli estremi relativi ed assoluti della funzione f : R2 → R definita ponendo
2 2
f (x, y) = x2 y 2 e−(2x +3y ) .
La funzione è continua e non negativa in R2 . Inoltre si ha: f (0, 0) = 0 e quindi minR2 f (x, y) = 0.
Inoltre, lim(x,y)→∞ f (x, y) = 0. Infatti,

x2 y 2 2 2
f (x, y) = (2x2 + 3y 2 )2 e−(2x +3y ) → 0.
(2x2 + 3y 2 )2

Sia adesso P0 un punto di R2 non appartenente agli assi coordinati. Usando la definizione di limite
si ha che 0 < f (x, y) < 12 f (P0 ) fuori di un opportuno cerchio. Poichè il cerchio è compatto la
funzione ammette massimo nel cerchio e tale massimo non è assunto sulla frontiera perchè il valore
sulla frontiera del cerchio è la metà di f (P0 ). Annulliamo quindi il gradiente per determinare il
punto di massimo. Si ha:
2 2
fx = 2xy 2 (1 − 2x2 )e−(2x +3y )

2 2
fy = 2yx2 (1 − 3y 2 )e−(2x +3y )

4
Appunti di Analisi Matematica II
 
L’unico punto stazionario, a meno di simmetrie, è P ∗ = √1 , √1
2 3
e, in virtù del ragionamento
precedente, risulta punto di massimo.

Esempio 1.10 Studiare gli estremi relativi ed assoluti della funzione f : R3 → R definita ponendo
f (x, y, z) = x3 − y 2 + xyz.
Annullando il gradiente si trova che i soli punti stazionari sono i punti (0, 0, z) ∀z ∈ R. Notiamo
che f (0, 0, z) = 0. Inoltre f (x, 0, z) = x3 e quindi i punti trovati sono tutti punti di sella.

Esempio 1.11 Studiare gli estremi relativi ed assoluti della funzione f : R2 \ {(0, 0)} → R definita
1
ponendo f (x, y) = √
3 2 2
x +xy+y .
La funzione risulta composta da g : R2 \ {(0, 0)} → R definita da g(x, y) = x2 + xy + y 2 e da
1
ϕ(t) = √ 3 . Si vede facilmente che il gradiente do g è sempre diverso da zero. Inoltre la funzione g
t
converge a zero al tendere di (x, y) all’origine e quindi inf g = 0. Infine sup g = +∞ e quindi usando
il fatto che ϕ(t) è monotona in ]0, +∞[ si trova inf f (x, y) = 0 e sup f (x, y) = +∞.

Osservazione 1.1 Sia f : Ω ⊆ X → R, e sia ϕ : T → X continua in T. Se x0 = ϕ(t0 ) è un punto


di estremo relativo per f allora t0 è estremo relativo per f ◦ ϕ.

Esempio 1.12 Studiamo gli estremi relativi della funzione f : R2 → R definita dalla legge f (x, y) =
sen(x2 − y 2 ) + cos(x2 + y 2 ).
Posto u = x2 − y 2 v = x2 + y 2 si ha: ∂(u,v)
∂(x,y) = 8xy e quindi si ha invertibilità locale fuori dagli
assi coordinati. Studiare la funzione F (u, v) = f (ϕ(u, v)) = sen u + cos v è molto semplice. I punti
stazionari sono π 
Ph,k = + kπ, hπ k ∈ Z, k ∈ N
2
e si vede con chiarezza che, nel caso h, k entrambi pari il punto Ph,k è di massimo relativo, nel caso
di h, k entrambi dispari il punto Ph,k è di minimo relativo mentre negli altri casi il punto è di sella.
Invertendo si trova
rπ r !
2 + kπ + hπ hπ − π2 − kπ
Qh,k = , k ∈ Z, k ∈ N
2 2

Rimangono da studiare i punti degli assi coordinati che si studiano facilmente.

2 2
Esempio 1.13 Studiare gli estremi relativi della funzione f (x, y) = (x2 − y 2 )e(x +y ) .
Ragionando come nell’ esempio precedente si trova F (u, v) = uev che non ammette estremi relativi.
Rimangono da studiare i punti degli assi coordinati che si studiano facilmente.
Esempio 1.14 Studiare gli estremi relativi ed assoluti della funzione f : R2 → R definita ponendo

x2 y 2 |x + y − 1|
f (x, y) = arcsen
x4 y 4 (x + y − 1)2 + 1

5
G.Di Fazio

La funzione è composta attraverso la funzione g : R2 → R definita dalla legge g(x, y) = x2 y 2 (x +


y − 1) e la funzione ϕ : R → R definita dalla legge ϕ(t) = arcsen t2|t| +1 . Studiamo la funzione g(x, y).
Annullando il gradiente si trova che i punti stazionari sono i punti degli assi coordinati ed il punto
P0 = (4, −2). Poichè la funzione è nulla sugli assi coordinati si ricava che tali punti sono di sella
per g. Studiando la forma Hessiana nel punto P0 si trova infine che anche il punto P0 è di sella per
g. È facile infine trovare delle restrizioni di g dalle quali vedere che la funzione non è limitata. Da
tutto questo segue che g(R2 ) = R.

Studiamo adesso la funzione ϕ(t). La funzione presenta minimo assoluto in t = 0 dove vale 0,
massimo assoluto in t = 1 dove vale π6 e non ha altri punti di estremo relativo. Da questo segue
che maxR2 f (x, y) = ϕ(1) = π6 e che minR2 f (x, y) = ϕ(0) = 0.

1.2 Varietà Differenziabili

Definizione 2.1 Un insieme M ⊆ Rn si dice varietà (differenziabile) p-dimensionale di classe C k


se per ogni x ∈ M esiste un aperto U ⊆ Rn contenente x ed una funzione f : U → Rn−p di classe
C k (U) tale che
{x ∈ Rn : f (x) = 0} = U ∩ M
ed inoltre rango(f 0 (x)) = n − p.

Esempio 2.1 La circonferenza di R2 centrata nell’ origine avente raggio unitario è una varietà di
dimensione 1.
Infatti, poniamo
M = {(x, y) ∈ R2 : x2 + y 2 = 1} ⊂ R2 .
In questo caso U = R2 mentre f : R2 → R è la funzione f (x, y) = x2 + y 2 − 1. Inoltre ∇f (x, y) =
(2x, 2y) 6= (0, 0) in M e quindi M risulta una varietà di dimensione 1 e di classe C ∞ in R2 .

Definizione 2.2 Sia h ∈ Rn \ {0}. Diciamo che h è tangente alla varietà M nel punto x0 ∈ M se
esiste una funzione ψ : ]t0 − δ, t0 + δ[→ M tale che

ψ(t0 ) = x0 , ψ 0 (t0 ) = h.

Esempio 2.2 Sia M la circonferenza dell’esempio precedente. Consideriamo la funzione ψ : ]t0 −


δ, t0 + δ[→ M definita dalla legge ψ(t) = (cos t, sen t). Si ha: ψ 0 (t0 ) = (− sen t0 , cos t0 ) ≡ h.

Definizione 2.3 Sia M una varietà p-dimensionale di classe C k in Rn e sia x0 ∈ M. L’insieme


Mx0 dei vettori di Rn tangenti alla varietà M nel punto x0 si dice spazio tangente alla varietà M
nel punto x0 . Per ragioni di comodità aggiungiamo a tale insieme il vettore nullo continuando a
chiamare spazio tangente il nuovo insieme.

Si ha:

6
Appunti di Analisi Matematica II

Teorema 2.1 Sia M una varietà p-dimensionale di classe C k in Rn e sia x0 ∈ M. Lo spazio tangente
alla varietà M nel punto x0 è uno spazio vettoriale di dimensione p e, se f = 0 è un’equazione
locale della varietà M in un intorno si x0 risulta Mx0 = kerf 0 (x0 ).

Esempio 2.3 Consideriamo

M = {(x, y, z) ∈ R3 : x2 + y 2 = 1} ⊂ R3 .

È facile riconoscere che M è una varietà 2-dimensionale di classe C ∞ in R3 . Precisamente si tratta


di un cilinfro nello spazio ordinario. Per il teorema precedente sappiamo che lo spazio tangente ad
M in un suo punto P0 = (x0 , y0 , z0 ) è uno spazio vettoriale di dimensione 2. Si tratta quindi di un
piano. Per determinare l’equazione del piano - usando il teorema precedente - bisogna determinare
kerf 0 (P0 ). Poiché f (x, y, z) = x2 + y 2 − 1 allora f 0 (P0 ) = (2x0 , 2y0 , 0) e quindi l’equazione di MP0 è

f 0 (P0 )(P − P0 ) = ∇(P0 ) · (P − P0 ) = 0

ovvero
x0 (x − x0 ) + y0 (y − y0 ) = 0.

In generale se
M = {(x0 , xn ) ∈ Rn : xn = f (x0 )}
allora, posto F (x0 , xn ) = xn − f (x0 ) si ha:
n−1
X ∂f 0
Mx0 = {h ∈ Rn : h ⊥ (−∇f (x00 ), 1)} = { hj (x ) = hn }
j=1
∂xj 0

Teorema 2.2 Sia M una varietà p-dimensionale di classe C k in Rn e sia x0 ∈ M. Sia f = 0


un’equazione locale di M in x0 . Allora

L(∇f1 (x0 ), . . . , ∇fn−p (x0 )) = Mx⊥0 .

Nel caso in cui sia nota una parametrizzazione ϕ di M, se ϕ(t0 ) = x0 allora

∂ϕ
Mx⊥0 = {h ∈ Rn : < (t0 ), h >= 0, j = 1, . . . , p}.
∂tj

Esempio 2.4 Consideriamo una funzione f : D ⊆ R2 → R di classe C k sull’aperto D. Poniamo

M = {(x, y, z) ∈ R3 : (x, y) ∈ D, z = f (x, y)}.

M è una varietà bidimensionale in R3 .


Infatti, una sua equazione locale è F (x, y, z) = z−f (x, y) = 0. Dato P0 = (x0 , y0 , z0 ) ∈ M, lo spazio

7
G.Di Fazio

tangente alla varietà M nel punto P0 è il piano la cui giacitura è ortogonale a (∇f (x0 , y0 ), 1) =
∇F (x0 , y0 , z0 ) ovvero

(x − x0 )fx (x0 , y0 ) + (y − y0 )fy (x0 , y0 ) + z − z0 = 0.

1.3 Estremi locali condizionati

Sia f : X ⊆ Rn → R e sia M una varietà differenziabile di dimensione p in Rn di equazione


locale g = 0. Ci poniamo il problema di determinare gli eventuali estremi della funzione f che
soddisfano la condizione g = 0 ovvero determinare gli estremi della funzione f ristretta alla varietà
M.
Definizione 3.1 Un punto x0 ∈ M si dice di minimo condizionato o vincolato per la funzione f se
esiste un intorno U ⊆ Rn tale che

f (x0 ) ≤ f (x) ∀x ∈ U ∩ X ∩ M.

Esempio 3.1 Data la varietà M = {(x, y) ∈ R2 : y − x2 = 0} ⊂ R2 e data la funzione f (x, y) =


y + |x| il punto P0 = (0, 0) è punto di minimo condizionato per f.

Una condizione necessaria perché un punto sia di estremo relativo vincolato è data dal seguente
teorema dei moltiplicatori di Lagrange:
Teorema 3.1 (di Lagrange) Sia Ω ⊆ Rn un insieme aperto e sia f : Ω → R una funzione di classe
C 1 (Ω). Sia M una varietà p dimensionale in Rn e sia x0 un punto di M che è estremo relativo
condizionato per f. Allora esiste λ0 ∈ Rn−p tale che:

∇f (x0 ) = λ0 · ∇g(x0 ).

Dim. Se x0 ∈ M è di estremo - per esempio di minimo - per f su M allora f (x) ≤ f (x0 ) in un


intorno di x0 su M e quindi sia ψ :]t0 − δ, t0 + δ[→ M tale che ψ(t0 ) = x0 . Allora, in particolare si
ha:
f (ψ(t)) ≤ f (ψ(t0 )), ∀t ∈]t0 − δ, t0 + δ[
e quindi la funzione H :]t0 − δ, t0 + δ[→ R definita ponendo H(t) = f (ψ(t)) ha minimo relativo nel
punto t0 da cui
0 = H 0 (t0 ) = f 0 (ψ(t0 ))ψ 0 (t0 ) = f 0 (x0 )(h) = ∇f (x0 ) · h
ovvero
∇f (x0 ) · h = 0 ∀h ∈ Mx0 = kerg 0 (x0 ) = L(∇g(x0 ))
e quindi ∇f (x0 ) ⊥ Mx0 che significa ∇f (x0 ) ∈ L(∇g(x0 )). Ma allora deve esistere λ0 ∈ Rn−p tale
che
∇f (x0 ) = λ0 · ∇g(x0 ).

8
Appunti di Analisi Matematica II

Osservazione 3.1 La condizione espressa dal teorema di può formulare anche in termini della
funzione
F (x, λ) = f (x) − λg(x)
che si dice funzione Lagrangiana osservando che in tal caso si ha:

∇F (x0 , λ0 ) = 0.

Il teorema di Lagrange - nel caso di estremi condizionati - fa le veci del teorema di Fermat
nel caso degli estremi liberi. In modo simile a quanto visto nel caso degli estremi liberi, anche in
questo caso ci sono condizioni sufficienti per l’esistenza di punti di estremo condizionato.

Precisamente, abbiamo
Teorema 3.2 Sia f : Ω ⊆ Rn → R una funzione regolare e sia M una varietà differenziabile
di dimensione p in Rn di equazione locale g = 0. Se (x0 , λ0 ) ∈ M × Rn−p è stazionario per la
Lagrangiana ed inoltre
T
h (Hf (x0 ) − λ0 ∇g(x0 )) h > 0 ∀h ∈ Mx0 , h 6= 0

allora il punto x0 è punto di minimo relativo per f con vincolo g = 0.

Dim. Applichiamo la formula di Taylor con resto nella forma di Lagrange alla funzione La-
grangiana scegliendo come punto iniziale il punto (x0 , λ0 ). Si ha:

1T
F (x, λ0 ) = F (x0 , λ0 ) + ∇F (x0 , λ0 ) + (x − x0 )HF (ξ, λ0 )(x − x0 ), ∀x ∈ M ∩ U ∩ Ω
2
e, tenuto conto che x ∈ M otteniamo
1T
f (x) = f (x0 ) + (x − x0 )(Hf (ξ) − λ0 Hg(ξ))(x − x0 ),
2
in particolare se x ∈ {x0 + L(∇g(x0 ))} si ha quanto si voleva.

2
Esempio 3.2 Estremi della funzione f (x, y) = x2 + y 2 + xy con il vincolo g(x, y) = x2 +y 2 −1 =
0.
Applicando il teorema di Lagrange abbiamo:

 2x + y + 2λx = 0

2y + x + 2λy = 0

 2
x + y2 − 1 = 0

da cui, eliminando il parametro λ si trova x = y = 12 e x = −y = 12 . D’altra parte la funzione f


risulta continua nell’ insieme
 chiuso
 e limitato g = 0 e quindi ammette massimo e minimo.
 Abbiamo

quindi che nel punto √12 , √12 viene assunto il valore massimo mentre nel punto √12 , − √12 viene
assunto il valore minimo.

9
G.Di Fazio

Esempio 3.3 Determinare il rettangolo, con i lati paralleli agli assi, inscritto nell’ ellisse di
equazione
x2 y2
2
+ 2 =1 (a, b > 0)
a b
che abbia area massima.
Consideriamo la funzione
f : R2 → R f (x, y) = xy
ed il vincolo
x2 y2
g : R2 → R g(x, y) = + − 1 = 0.
a2 b2
Il problema dato è equivalente a massimizzare la funzione f sotto il vincolo g = 0. Applicando il
teorema di Lagrange abbiamo:
 2λx
 Fx = y + 2 = 0
a




2λy

Fy = x + 2 = 0

 b
2
y2


 x
F =
λ + − 1 = 0.
a2 b2
 
Ragionando come nell’ esempio precedente si trova che il massimo è assunto nel punto √a2 , √b2 .
 
r √r
Se a = b = r (cerchio) abbiamo √
2
, 2 e la risposta è data dal quadrato.

1.4 Alcune proprietà isoperimetriche

Diamo in questo paragrafo alcuni esempi con applicazioni di interesse geometrico.

Esercizio 1. Siano dati s > 0, α1 , . . . , αn > 0 (|α| ≡ α1 + · · · + αn , n ≥ 2). Consideriamo la


funzione
f : [0, s]n → R f (x1 , . . . , xn ) = xα αn
1 · · · xn .
1

Determiniamo il massimo della funzione f soggetta al vincolo


n
X
g(x1 , . . . , xn ) = xj − s = 0.
j=1

Applicando il teorema di Lagrange abbiamo:

fxi + λgxi = 0 i = 1, . . . , n

ovvero
i −1 α α
αi xα
i xα1 α2 i−1 i+1 αn
1 x2 . . . xi−1 xi+1 . . . xn + λ = 0

e quindi
αi
f (x) + λ = 0 i = 1, . . . , n
xi
da cui si ricava
x1 x2 xn
= = ··· =
α1 α2 αn

10
Appunti di Analisi Matematica II

che ci fornisce le coordinate del punto di massimo. Infatti si ha


 α1
x1 = x1
α1





 α2
 x2 = x1


α1
 ..
.




 xn = αn x1



α1
da cui, sommando membro a membro, si determinano le coordinate del punto di massimo che sono
αj
xj = s j = 1, . . . , n.
|α|

Il massimo di f quindi è
 |α|
s
(α1α1 · · · αnαn ) .
|α|
Esercizio 2. Dati α1 , . . . , αn , p > 0 (n ≥ 2) determiniamo il minimo della funzione
n
X
n
f : [0, +∞[ → R f (x) = xi
i=1

soggetta al vincolo
α
g(x) = Πnj=1 xj j − p = 0.
Il minimo esiste per il teorema di Weierstrasse generalizzato (il massimo non esiste). Ragionando
come nell’ esempio precedente si trova
x1 x2 xn
= = ··· =
α1 α2 αn
che ci fornisce le coordinate del punto di minimo. Infatti si ha
 α1
x1 = x1
α1





 α2
 x2 = x1


α1
 ..
.




 xn = αn x1



α1
da cui, moltiplicando membro a membro, si determinano le coordinate del punto di minimo che
sono
αj 1
xj = 1 p
|α| j = 1, . . . , n.
(Πni=1 αiαi ) |α|
Quindi il valore minimo è
1
! |α|
p
|α| α .
Πnj=1 αj j

11
G.Di Fazio

Dagli esempi appena svolti si possono ricavare alcune interessanti conseguenze di carattere geomet-
rico (proprietà isoperimetriche).

1) Triangolo di perimetro assegnato ed area massima.


Dette a, b, c le lunghezze dei lati del triangolo da determinare poniamo a+b+c = 2p. Utilizziamo
la formula di Erone p
s = p(p − a)(p − b)(p − c)
per esprimere l’area s in funzione dei lati e del semiperimetro p. Ponendo

x = p − a, y = p − b, z =p−c

il problema si riduce a massimizzare il prodotto p x y z con il vincolo x + y + z = p (esercizio


1). Il massimo si ha quindi per
x=y=z
ovvero quando il triangolo è equilatero.

2) Triangolo di perimetro minimo ed area data s.


Dalla formula di Erone si trova

s2 = 3xyzt 2p = a + b + c

e quindi ponendo
p
x= , y = p − a, z = p − b, t=p−c
3
si ricava
s2 4
x·y·z·t= e x+y+z+t= p
3 3
e applicando il risultato dell’ esercizio 2 si trova che ancora una volta la soluzione è data dal
triangolo equilatero.

3) Parallelepipedo di volume massimo tra quelli di superficie totale data s.


Indicando con a, b, c le dimensioni del parallelepipedo abbiamo

2(ab + ac + bc) = s

e ponendo
x = ab y = ac z = bc
s
il problema consiste nel massimizzare il prodotto xyz soggetto al vincolo x + y + z = 2 e dall’
esercizio 1 segue che la risposta è fornita dal cubo.

4) Dato l’ ellissoide
x2 y2 z2
Σ: + + =1
a2 b2 c2

12
Appunti di Analisi Matematica II

determinare il parallelepipedo rettangolo Π con facce parallele ai piani coordinati e vertici


appartenenti a Σ che abbia volume massimo.
Sia P = (α, β, γ) il vertice di Π che giace nel primo ottante. Ponendo

α2 β2 γ2
λ= , µ= , ν=
a2 b2 c2
si tratta di massimizzare il prodotto λµν con il vincolo λ + µ + ν = 1. Dall’ esercizio 1 segue
che il massimo si ottiene quando

a b c
α= √ , β=√ , γ=√ .
3 3 3

Nel caso particolare che a = b = c = r che è quello in cui Σ è una sfera di raggio r, il problema
è risolto dal cubo.

13
1. Curve in Rn

1.1 Definizioni

Definizione 1.1 Sia γ ⊂ Rn , n ≥ 2 e sia r(t) : (a, b) → Rn una funzione continua in (a, b) tale che
r(a, b) = γ. In tal caso diremo che r è una parametrizzazione di γ e la coppia (γ, r) si dirà curva in
Rn .

Definizione 1.2 Sia (γ, r) una curva in Rn .

1) Se r(t) è iniettiva la curva si dice semplice;

2) Se esiste un piano π che contiene γ, la curva si dice piana;

3) Se r(a) = r(b) la curva si dice chiusa;

4) In caso di curva chiusa, essa si dirà semplice se r(t) è iniettiva in [a, b[;

Teorema 1.1 (di Jordan) Ogni curva piana, semplice e chiusa è la completa frontiera di due aperti
connessi; uno è limitato e si chiama interno di γ, uno è non limitato e si chiama esterno di γ.

Definizione 1.3 Una curva piana, semplice e chiusa si dice curva di Jordan.

Definizione 1.4 Una curva (γ, r) si dice regolare se:

1) r ∈ C 1 ([a, b]);

2) r0 6= 0, ∀t ∈ [a, b];

3) r pone [a, b] e γ in corrispondenza biunivoca (se la curva è chiusa si richiede la corrispondenza


biunivoca tra [a, b[ e γ).

Esempio 1.1 (grafici di funzioni regolari) Sia f : [a, b] → R una funzione di classe C 1 ([a, b]) e sia
γ il grafico di f. Poniamo r(t) = (t, f (t)) ∀t ∈ [a, b].
La curva cosı̀ definita è ovviamente regolare.
Definizione 1.5 Data una curva (γ, r) regolare il vettore

r0 (t)
T : [a, b] → Rn , T (t) = , ∀t ∈ [a, b]
kr0 (t)k

si chiama versore tangente alla curva nel punto r(t).


0
Nel caso dell’ esempio precedente risulta T (t) = √(1,f (t))
02
∀t ∈ [a, b].
1+f (t)
n
Esempio 1.2 (segmento) Siano P1 , P2 ∈ R , P1 6= P2 e sia

r : [0, 1] → Rn r(t) = tP2 + (1 − t)P1 .


G.Di Fazio

P2 −P1
Risulta, r0 (t) = P2 − P1 6= 0 e la curva è regolare. Il versore tangente è T (t) = kP2 −P1 k .

Definizione 1.6 Sia (γ, r) una curva in Rn . Se è possibile suddividere l’intervallo [a, b] in un nu-
mero finito di sottointervalli in modo che la restrizione di r a ciascuno di essi dia luogo ad una
curva regolare allora la curva si dirà generalmente regolare.

Esempio 1.3 Sia r : [−1, 1] → R2 r(t) = (t, |t|). La curva è generalmente regolare. In-
fatti possiamo decomporre l’intervallo [−1, 1] pensandolo come unione di [−1, 0] e [0, 1]. Le curve
(γ1 , r1 ), (γ2 , r2 ) dove r1 , r2 sono rispettivamente le restrizioni di r agli intervalli [−1, 0] e [0, 1] sono
entrambe regolari perchè grafici di funzioni regolari.

Definizione 1.7 Sia (γ, r) una curva regolare, r : [a, b] → Rn e sia ϕ : [a0 , b0 ] → [a, b] tale che
ϕ ∈ C 1 ([a0 , b0 ]), ϕ0 (t) 6= 0 ∀t ∈ [a0 , b0 ].
Sia
r̄ : [a0 , b0 ] → Rn r̄(τ ) = r(ϕ(τ )) ∀τ ∈ [a0 , b0 ].
Poichè
r̄0 = r0 (ϕ(τ ))ϕ0 (τ )
la nuova curva è regolare. Tale curva si dice equivalente alla curva data. La funzione ϕ induce
una relazione di equivalenza nell’ insieme delle curve in Rn ed identificando tra loro tutte le curve
equivalenti ad una data otteniamo due classi di equivalenza a seconda del segno della funzione ϕ0 .
Queste due classi si denotano con γ + , γ − e quando si sceglie una di queste due classi si dice che
è stato scelto un verso di percorrenza sulla curva. La curva, munita in tal modo di un verso di
percorrenza, si dice orientata.

Esempio 1.4 Sia (γ, r) una curva regolare e sia ϕ(t) = b + a − t. La curva
r̄(t) = r(ϕ(t)) = r(b + a − t) ∀t ∈ [a, b]
si dice curva opposta a γ e si denota con il simbolo −γ.

Definiamo lunghezza di un segmento di estremi P1 , P2 il numero kP2 − P1 k e lunghezza di una


poligonale la somma delle lunghezze dei suoi lati. Sia adesso (γ, r) una curva e sia
∆ ≡ {a ≡ t0 < t1 < . . . < tn−1 < tn ≡ b}
una decomposizione di [a, b]. I punti r(t0 ), . . . , r(tn ) individuano una poligonale π i cui vertici
Pn−1
appartengono a γ. La lunghezza di tale poligonale è lπ = i=0 kr(ti+1 ) − r(ti )k. Se l’insieme
numerico descritto da lπ al variare, in tutti i modi possibili delle decomposizioni ∆ di [a, b] è
limitato superiormente diremo che la curva è rettificabile e l’estremo superiore di tale insieme
numerico si dirà lunghezza della curva γ. In caso contrario la curva si dirà non rettificabile.

Esempio 1.5 (di curva non rettificabile)


Sia r(t) = (t, ϕ(t)) dove
 t sen π

t ∈]0, 1];
ϕ(t) = 2t
 0 t = 0.

2
Appunti di Analisi Matematica II

Proviamo che tale curva non è rettificabile. Infatti, poniamo


 
1 1 1 1
∆n ≡ 0, , ,..., , ,1 n ∈ N.
2n + 1 2n − 1 5 3

Si ha
n−1
X n−1
X
ln = kr(tj+1 ) − r(tj )k ≥ kr(tj+1 ) − r(tj )k =
j=0 j=1
s
n−1 2  2
X 1 1 1 π 1 π
= − + sen (2j + 1) − sen (2j − 1) ≥
j=1
2j + 1 2j − 1 2j + 1 2 2j − 1 2
n−1
X (−1)j n−1 n−1
(−1)j−1 X 1 1 X 4j
≥ 2j + 1 − 2j − 1 =

2j + 1 + 2j − 1 = → +∞
j=1 j=1 j=1
4j 2 − 1

P∞ 4n
perchè la serie n=1 4n2 −1 diverge.

Siano r1 : [a, b] → Rn , r2 : [b, c] → Rn e (γ1 , r1 ), (γ2 , r2 ) due curve tali che r1 (b) = r2 (b). Allora,
posto (
r1 (t) t ∈ [a, b];
r(t) =
r2 (t) t ∈ [b, c]

e γ = γ1 ∪ γ2 la curva (γ, r) si dice la curva unione delle due curve date. In generale la curva
unione di due curve regolari non è regolare. Dalla definizione di lunghezza di una curva, segue
immediatamente
Teorema 1.2 Sia γ = γ1 ∪ . . . ∪ γN e supponiamo γi rettificabile di lunghezza li , i = 1, . . . , N.
Allora γ è rettificabile e, detta l la sua lunghezza, si ha l = l1 + · · · + lN .

Il prossimo teorema da una formula per il calcolo della lunghezza.


Teorema 1.3 Sia γ una curva di classe C 1 . Allora γ è rettificabile e, detta l la sua lunghezza, si
ha Z b
l= kr0 (t)kdt.
a

Osservazione 1.1 Curve equivalenti hanno equale lunghezza

Sia (γ, r̄) una curva equivalente a (γ, r) e, per fissare le idee, sia ϕ0 > 0 (ϕ : [a0 , b0 ] → [a, b] è la
funzione che stabilisce l’equivalenza). Allora, integrando per sostituzione (t = ϕ(τ )) si ottiene
Z b Z b0 Z b0 Z b0
l= 0
kr (t)kdt = 0 0
kr (τ )kϕ (τ )dτ = 0 0
kr (τ )ϕ (τ )kdτ = kr̄0 (τ )kdτ = ¯l.
a a0 a0 a0

Sia (γ, r) una curva regolare di lunghezza l > 0. Poniamo


Z t
s(t) = kr0 (u)kdu ∀t ∈ [a, b].
a

3
G.Di Fazio

La funzione s è crescente perchè s0 (t) = kr0 (t)k > 0 ∀t ∈ [a, b] ed il codominio di s è [0, l]. Sia
t : [0, l] → [a, b] la funzione inversa si s(t). La curva r̃(s) = r(t(s)) è equivalente alla curva data e la
funzione r̃ si chiama equazione naturale della curva data o rappresentazione in funzione dell’ ascissa
curvilinea. Naturalmente il discorso fatto sin qui si può ripetere fissando un punto t0 ∈]a, b] invece
di a. Ciò consente di stabilire un sistema di riferimento intrinseco sulla curva in cui r(t0 ) = O sarà
l’origine.

Esempio 1.6 Se γ è il segmento di estremi P0 , P1 di equazione r(t) = tP1 + (1 − t)P0 t ∈ [0, 1]


allora Z t
s(t) = kr0 (u)kdu = tkP1 − P0 k.
0

Esempio 1.7 Se γ è la circonferenza di equazione r(t) = (% cos t, % sen t) t ∈ [0, 2π] allora
Z t Z t
0
s(t) = kr (u)kdu = % du = t%;
0 0

1.2 Integrali curvilinei

Sia γ una curva generalmente regolare contenuta in Ω con Ω sottoinsieme aperto di Rn e sia
f : Ω → Rn una funzione continua. Se γ è regolare poniamo, per definizione,
Z Z b
f ds = f (r(t))kr0 (t)kdt
γ a

che si chiama integrale curvilineo, esteso alla curva γ, della funzione f. P


Se γ è Rgeneralmente regolare
R N
sia γ = γ1 ∪ · · · ∪ γN dove le γi sono curve regolari. Si pone γ f ds = j=1 γj f ds

Teorema 2.1 (Proprietà dell’ integrale curvilineo) Siano γ, γ1 , γ2 ⊂ Ω ⊂ Rn curve generalmente


regolari. Allora Z Z Z
(αf + βg) ds = α f ds + β gds ∀α, β ∈ R;
γ γ γ
Z Z Z
f ds = f ds + f ds;
γ1 ∪γ2 γ1 γ2
Z Z
f ds = f ds; γ1 ∼ γ2
γ1 γ2

Esempio 2.1 Applicazione: Calcolo di baricentri


Data una curva generalmente regolare (γ, r) di lunghezza l, il punto P̄ di coordinate
Z
1
x̄j ≡ xj ds j = 1, . . . , n
l γ

4
Appunti di Analisi Matematica II

si chiama baricentro della curva. Calcoliamo il baricentro della curva di equazioni parametriche

r(t) = %(cos t, sen t) t ∈ [−α, α] 0 < α ≤ π.

Sappiamo che, in questo caso, l = 2α% e quindi


Z Z α
1 1 % sen α
x̄ = x ds = %2 cos t dt = (sen α − sen(−α)) = % ;
2α% γ 2α% −α 2α α
Z Z α
1 %
ȳ = y ds = sen t dt = 0.
2α% γ 2α −α

5
G.Di Fazio

2. Forme Differenziali

2.1 Definizioni

Sia Ω ⊂ Rn un aperto non vuoto e sia f : Ω → R differenziabile in Ω. Il differenziale f 0 come


funzione di x è
df = f 0 : Ω → L(Rn , R) = (Rn )∗ ∼ R1,n .
Sia e1 , . . . , en la base canonica di Rn . Le funzioni xi : Rn → R i = 1, . . . , n costituiscono una
n ∗
base di (R ) detta base duale della base canonica quindi, possiamo scrivere
n
X
f 0 (x) = fxi (x)dxi ∀x ∈ Ω.
i=1

Definizione 1.1 Sia ω : Ω ⊆ Rn → (Rn )∗ . Una tale funzione si chiamerà una forma differenziale
lineare su Ω oppure una 1-forma.

Definizione 1.2 Se esiste una funzione differenziabile U : Ω → R tale che U 0 = ω in Ω allora U si


dice potenziale o primitiva della forma ω.

Definizione 1.3 Data una curva regolare (γ, r) con γ ⊂ Ω ⊂ Rn , r : [a, b] → Rn e ω =< f , dx >
poniamo
Z Z b
ω= < f (r(t)), r0 (t) > dt
γ a

che si chiama integrale curvilineo, preso lungo la curva γ della forma differenziale ω.

L’integrale che abbiamo appena definito differisce dall’ integrale curvilineo di una funzione
definito in precedenza. Le differenze sono evidenziate dal seguente teorema. Si ha

Teorema 1.1 (Proprietà dell’ integrale) Siano ω, ω1 , ω2 forme differenziali di classe C 1 (Ω) e siano
γ, γ1 , γ2 ⊂ Ω curve generalmente regolari. Allora
Z Z Z
(αω1 + βω2 ) = α ω1 + β ω2 ∀α, β ∈ R;
γ γ γ
Z Z
ω= ω; γ1 ∼ γ2
γ1 γ2
Z Z
ω = − ω.
−γ γ
Z Z Z
ω= ω+ ω;
γ1 ∪γ2 γ1 γ2

6
Appunti di Analisi Matematica II

Definizione 1.4 Orientamento delle curve di Jordan


Sia (γ, r) una curva di Jordan. Se γ è regolare esiste T (t) ∀t ∈ [a, b]. Il versore Ni (t) ortogonale a
T (t) diretto verso l’interno di γ si chiama normale interna a γ nel punto r(t). Orientiamo la coppia
(T, Ni ) in modo tale che sia concorde alla coppia (e1 , e2 ). In tal caso la curva si dirà orientata
positivamente. Se r(s) è la rappresentazione di γ in funzione dell’ ascissa curvilinea allora risulta,

T (s) = r0 (s) Ni (s) = (−r20 (s), r10 (s)); s ∈ [0, l].

xi
Esempio 1.1 Sia F : R3 → R3 , r ≡ kxk ∀x ∈ R3 e sia FRi (x) = − Gm r2 r i = 1, 2, 3; dove G, m
sono costanti positive e ω =< F, dx > . Calcoliamo L ≡ γ ω. L rappresenta il lavoro compiuto
dalla forza F per spostare il suo punto di applicazione lungo la curva γ. Si ha
b b
r0 (t)
Z Z Z  
0 1 1
L= ω= < F (r(t)), r (t) > dt = −Gm dt = Gm − .
γ a a r2 (t) r(b) r(a)

Osserviamo che il risultato rimane inalterato purchè la curva abbia sempre gli stessi estremi.

Esempio 1.2 Sia u : R2 → R2 un campo di velocità e sia γ una curva di Jordan. L’integrale
I
−u2 dx + u1 dy
γ

rappresenta il flusso di fluido che passa attraverso la sezione di contorno γ per unità di tempo.

2.2 Potenziale di una forma differenziale

Definizione 2.1 Sia ω una forma differenziale di classe C 0 in un aperto Ω ⊂ Rn . Se esiste una
funzione U parzialmente derivabile in Ω tale che dU = ω allora la forma differenziale si dice esatta
in Ω e la funzione U si dice un potenziale per ω.

Teorema 2.1 Se ω ∈ C 0 (Ω) è esatta in Ω ed U è un suo potenziale allora:

1) U + c è un potenziale ∀c ∈ R;

2) Se Ω è connesso due potenziali della stessa forma differenziale differiscono per una costante.

Dim. Dalla formula d(U + c) = dU = ω segue immediatamente la 1). Siano ora U1 , U2 due
potenziali di ω. Se Ω è connesso la funzione U1 − U2 è costante perchè il suo gradiente è nullo.
Infatti,
∇(U1 − U2 ) = ∇U1 − ∇U2 = F − F = 0.

7
G.Di Fazio

Teorema 2.2 Sia ω una forma differenziale esatta di classe C 0 in un aperto connesso Ω ⊂ Rn e
sia U un suo potenziale. Allora, per ogni curva generalmente regolare contenuta in Ω si ha:
Z
ω = U(r(b)) − U(r(a)).
γ

Dim. Supponiamo per semplicità che γ sia regolare. Il potenziale è di classe C 1 (Ω) quindi è
differenziabile. La funzione r(t) è derivabile per la regolarità della curva. Possiamo quindi applicare
il teorema di derivazione delle funzioni composte ottenendo

d
U(r(t)) =< ∇U(r(t)), r0 (t) >=< F (r(t)), r0 (t) > ∀t ∈ [a, b]
dt
e quindi,
Z Z b Z b
0 d
ω= < F (r(t)), r (t) > dt = U(r(t))dt = U(r(b)) − U(r(a)).
γ a a dt
In realtà è valido anche il viceversa.

n 1
RTeorema 2.3 Sia Ω ⊂ R un aperto connesso, ω ≡< f , dr >∈ C (Ω). Supponiamo che l’integrale
γ
ω dipenda soltanto dagli estremi di γ e non da γ. Allora ω è esatta in Ω.

Dim. Per provare il teorema costruiamo un potenziale della forma ω. Fissato x0 ∈ Ω definiamo
una funzione ϕ : Ω → R ponendo Z
ϕ(x) = ω
γ

dove γ è una curva generalmente regolare, con sostegno contenuto in Ω congiungente i punti x0 , x.
Osserviamo che, a causa dell’ ipotesi l’integrale non dipende dalla particolare scelto del cammino
seguito per andare da x0 a x ma soltanto dagli estremi di tale cammino e quindi ϕ è una funzione
che dipende soltanto dal punto x ∈ Ω. Proviamo che

ϕxi (x) = fi (x) ∀i = 1, . . . , n ∀x ∈ Ω.

Per esempio, supponiamo i = 1. Siccome il punto x è interno ad Ω supponiamo che ∃ δ > 0 ⊂ Ω.


Sia Γ una curva congiungente i punti x0 , x + δe1 . Sia infine S il segmento di estremi x + δe1 , x
ovvero S(t) = (1 − t)(x + δe1 ) + tx, t ∈ [0, 1]. Poichè
Z Z
ϕ(x) = ω+ ω
Γ(x0 ,x+δe1 ) S(x+δe1 ,x)

per provare il teorema sarà sufficiente provare che


Z

ω = f1 (x).
∂x1 S(x+δ,x)

8
Appunti di Analisi Matematica II

Applicando il teorema di derivazione sotto il segno di integrale, e successivamente integrando per


parti, si ha:
Z Z 1
∂ ∂
ω= f (tx + (1 − t)x̄) · (x − x0 ) dt
∂x1 S(x+δe1 ,x) 0 ∂x 1
Z 1X n  
∂fj
= tδ1j (xj − x̄j ) + fj (tx + (1 − t)x̄)δj1 dt
0 j=1 ∂x1
Z 1
∂f1
= t (x1 − x̄1 ) + f1 (tx + (1 − t)x̄) dt
0 ∂x1
Z 1 Z 1
d
= t f1 (tx + (1 − t)x̄) dt + f1 (tx + (1 − t)x̄) dt =
0 dt 0
Z 1 Z 1
1
= [tf (tx + (1 − t)x̄)]0 − f (tx + (1 − t)x̄) dt + f (tx + (1 − t)x̄) dt =
0 0
= f1 (x).

2.3 Forme differenziali chiuse e forme differenziali esatte

Sia Ω ⊂ Rn , ω ≡< F, dr > una forma differenziale di classe C 1 (Ω). Se le relazioni (condizioni
di simmetria)
∂Fi ∂Fj
= i, j = 1, . . . , n ∀x ∈ Ω (3.1)
∂xj ∂xi
sono verificate, diremo che la forma ω è chiusa in Ω. Nel caso particolare in cui n = 3, definiamo

e1 e2 e3      
∂F3 ∂F2 ∂F1 ∂F3 ∂F2 ∂F1
rot F = ∂x ∂y ∂z =
− e1 + − e2 + − e3 .
F1 F2 F3 ∂y ∂z ∂z ∂x ∂x ∂y

In tal caso le condizioni (3.1) sono equivalenti a dire che rot F = 0.

Osservazione 3.1 La definizione di forma differenziale chiusa potrebbe dipendere dalla scelta del
sistema di riferimento. Mostriamo che essa è equivalente ad una definizione che è invariante per
trasformazioni ortogonali.
Pn
Sia quindi ω : Ω ⊂ Rn → (Rn )∗ , ω(x) = j=1 aj (x)dxj e supponiamo le funzioni aj differen-
ziabili in Ω. Allora
2
ω 0 (x) : Ω → L(Rn , (Rn )∗ ) = L(Rn × Rn , R)
definita dalla legge
ω 0 (x)(h, k) = (ω 0 (x)(h))(k), ∀h, k ∈ Rn .
Poniamo
dex ω(x)(h, k) = ω 0 (x)(h, k) − ω 0 (x)(k, h), ∀h, k ∈ Rn

9
G.Di Fazio

notando che dex è bilineare antisimmetrica. Si ha:


n n n
X ∂aj X ∂aj X ∂aj
dex ω(x)(h, k) = (x)hj ki − (x)kj hi = (x)(hj ki − hi kj )
i,j=1
∂x i i,j=1
∂x i i,j=1
∂xi
 
X n X ∂ai X ∂ai
=  (x)(hj ki − hi kj ) + (x)(hj ki − hi kj )
i=1 j<i
∂xj i<j
∂x j

n X
X ∂ai
= (x)(dxj ⊗ dxi − dxi ⊗ dxj )(h, k)+
i=1 j<i
∂xj
n X
X ∂ai
+ (x)(dxj ⊗ dxi − dxi ⊗ dxj )(h, k)
i=1 j>i
∂xj
 
Xn X ∂ai X ∂ai
=  (x)(dxj ∧ dxi )(h, k) + (x)(dxj ∧ dxi )(h, k)
i=1 j<i
∂x j j>i
∂xj

n X 
X ∂ai ∂aj
= − (dxj ∧ dxi )(h, k).
i=1 j<i
∂xj ∂xi

Da questo segue immediatamente che la forma ω è chiusa se e solo se il suo differenziale esterno
dex ω è la forma nulla.

Teorema 3.1 Sia ω ∈ C 1 (Ω), una forma differenziale esatta in Ω. Allora ω è chiusa in Ω.

Dim. Sia U un potenziale di ω. Allora ∇U = F ovvero Uxi = Fi i = 1, . . . , n e quindi


∂Fi ∂F
Uxi xj = ∂x j
. Similmente Uxj = Fj j = 1, . . . , n e quindi Uxj xi = ∂xji e, per il teorema di Schwarz
sull’ inversione dell’ ordine di derivazione, si hanno le (3.1).

In generale il viceversa è falso come mostra il seguente esempio.


Esempio 3.1 La forma differenziale
y x
ω=− dx + 2 dy, Ω = R2 \ (0, 0)
x2 +y 2 x + y2
è chiusa ma non è esatta. Per provare che non è esatta osserviamo che detta γ la circonferenza di
centro (0, 0) e raggio 1, si ha: I
ω = 2π 6= 0.
γ

Tuttavia vedremo che, sotto opportune condizioni di tipo geometrico su Ω, ogni forma chiusa
risulta esatta.
Definizione 3.1 Sia Ω ⊂ Rn un aperto e sia x0 ∈ Ω. Se per ogni x ∈ Ω,

tx + (1 − t)x0 ∈ Ω ∀t ∈ [0, 1]

10
Appunti di Analisi Matematica II

Ω si dice stellato rispetto a x0 .

Osservazione 3.2 Ogni aperto convesso è stellato rispetto a qualsiasi suo punto.

Teorema 3.2 (Poincaré) Sia Ω un aperto stellato e sia ω =< F, dr > una forma differenziale
chiusa, di classe C 1 in Ω. Allora ω è esatta in Ω.

Dim. Basta verificare che


Z
ϕ : Ω → R, ϕ= ω
S(x0 ,x)

è un potenziale della forma differenziale ω.

Un’ altra condizione di tipo geometrico sull’ aperto Ω è data dalla nozione di semplice connes-
sione.
Definizione 3.2 Sia Ω un aperto connesso e siano γ1 , γ2 ⊂ Ω due curve regolari tali che r1 (a) =
r2 (a) r1 (b) = r2 (b). Le due curve si dicono Omotope se esiste una funzione F : [a, b] × [0, 1] → Ω
continua e tale che:
1)F (t, 0) = r1 (t) ∀t ∈ [a, b];
2)F (t, 1) = r2 (t) ∀t ∈ [a, b];
3)F (a, λ) = r1 (a) ∀λ ∈ [0, 1];
4)F (b, λ) = r1 (b) ∀λ ∈ [0, 1].

Definizione 3.3 Sia Ω un aperto connesso e siano γ1 , γ2 ⊂ Ω due curve regolari qualsiasi tali che
r1 (a) = r2 (a) r1 (b) = r2 (b). Se due curve siffatte risultano omotope allora Ω si dice semplicemente
connesso.

Esempio 3.2 Sia Ω un aperto stellato. Allora è semplicemente connesso.


Infatti se Ω è stellato rispetto a x0 ∈ Ω allora la funzione F è

F (t, λ) = λx0 + (1 − λ)r(t).

Osservazione 3.3 Esistono insiemi semplicemente connessi ma non stellati. Per esempio, nel piano
si può considerare un insieme a forma di G.

Esempio 3.3 In R2 una corona circolare oppure il piano bucato Ω = R2 \ {(0, 0)} non sono
semplicemente connessi.
Infatti, se cosı̀ non fosse la forma differenziale
y x
ω=− dx + 2 dy
x2 +y 2 x + y2
sarebbe esatta mentre sappiamo che cosı̀ non è. Quindi il concetto di aperto semplicemente connesso
è più generale di quello di aperto stellato. Si può dimostrare il seguente teorema che ci limitiamo
ad enunciare.

11
G.Di Fazio

Teorema 3.3 Se Ω è un aperto semplicemente connesso ed ω è una forma differenziale chiusa in


Ω, allora ω è esatta in Ω.

2.4 Domini normali e teorema di Gauss

Definizione 4.1 Siano f, g : [a, b] → R due funzioni tali che

1)f (x) < g(x) ∀x ∈]a, b[;


2)f (a) ≤ g(a), f (b) ≤ g(b);
3)f, g ∈ C 1 ([a, b]).

L’insieme
∆ ≡ {(x, y) ∈ R2 : a ≤ x ≤ b, f (x) ≤ y ≤ g(x)}
si chiama dominio normale rispetto all’ asse ~x. In maniera analoga si da la nozione di dominio
normale rispetto all’ asse ~y . Siano date p + 1 curve di Jordan (p ∈ N0 ), γ0 , γ1 , . . . , γp tali che

1) int(γj ) ⊆ int(γ0 ) j = 1, . . . , p;
2) int(γi ) ∩ int(γj ) = ∅ i 6= j.
T 
p
Allora, la chiusura dell’ insieme j=1 est(γ j ) ∩ int(γ0 ) si dice dominio regolare a p + 1 contorni.

Teorema 4.1 Ogni dominio regolare a p contorni è internamente connesso e si può pensare come
unione finita di domini normali regolari, a due a due privi di punti interni comuni.

Teorema 4.2 (di Gauss) Sia T ⊆ R2 un dominio regolare a p contorni e sia f ∈ C 1 (T ). Allora:
Z Z
1) fx (x, y)dxdy = f (x, y)dy;
ZT +∂T
Z
2) fy (x, y)dxdy = − f (x, y)dx
T +∂T

Data f : T ⊆ R2 → R la funzione
∂f1 ∂f2
div f = +
∂x ∂y
si chiama divergenza della funzione f .

Teorema 4.3 (della divergenza)Sia f : T ⊆ R2 → R una funzione di classe C 1 (T ) con T dominio


regolare a p contorni. Allora,
Z Z
div f (x, y)dxdy = − < f , Ni > ds
T ∂T

12
Appunti di Analisi Matematica II

dove Ni denota la normale interna alla frontiera ∂T.

Osservazione 4.1 Calcolo dell’ area di un dominio regolare. Scegliendo f ≡ 1 si trova


Z Z Z
∂x
|T | = 1 dxdy = dxdy = x dy
T T ∂x +∂T

e Z Z Z
∂y
|T | = 1 dxdy = dxdy = − y dx
T T ∂y +∂T

e quindi Z
1
|T | = −y dx + x dy.
2 +∂T

Osservazione 4.2 Se, γ è un segmento della retta y = mx, allora


Z
−ydx + xdy = 0.
γ

Esempio 4.1 Consideriamo l’ellisse di equazioni


(
x = a cos θ;
γ 0 ≤ θ ≤ 2π.
y = b sen θ

Consideriamo la porzione di ellissi che si ottiene facendo variare il parametro θ nell’ intervallo [0, α]
con α ∈]0, 2π[. Allora,
Z Z
1 1 ab
|T | = −ydx + xdy = −ydx + xdy = α.
2 +∂T 2 γ 2

Teorema 4.4 Sia T ⊂ Ω ⊂ R2 un dominio regolare a p contorni e sia ω = f1 dx + f2 dy una forma


differenziale in Ω. Allora
Z   Z
∂f2 ∂f1
− dxdy = f1 (x, y)dx + f2 (x, y)dy.
T ∂x ∂y +∂T

Dim. Immediata conseguenza del teorema di Gauss.

Teorema 4.5 Sia Ω ⊂ R2 un aperto semplicemente connesso e sia P0 ∈ Ω. Sia ω ∈ C 1 (Ω \H P0 ) una


forma differenziale chiusa in Ω\P0 e sia, infine, γ una curva di Jordan tale che P0 ∈ int(γ) : γ ω = 0.

13
G.Di Fazio

Allora ω è esatta in Ω \ P0 .

Dim. Sia Γ una circuitazione contenuta in Ω \ P0 . Se P0 è esterno a Γ possiamo pensare Γ


contenuta
H in un insieme semplicemente connesso contenuto in Ω \ P0 dove ω è chiusa e quindi
Γ
ω = 0. Se invece P0 è interno a Γ allora applichiamo il teorema precedente al dominio regolare
T che ha per frontiera γ ∪ Γ. Quindi,
Z   Z Z Z Z
∂f2 ∂f1
0= − dx dy = ω= ω− ω=− ω
T ∂x ∂y +∂T γ Γ Γ

da cui Z
ω=0
Γ

e, per il primo criterio di integrabilità ω è esatta in Ω \ P0 .

Esempio 4.2 Mostrare che la forma differenziale

2x2
 
2 2 2xy
ω= log(x + y ) + 2 dx + dy
x + y2 x2+ y2

è esatta in R2 \ {(0, 0)}.


Basta applicare il teorema precedente.
R La forma è chiusa in Ω0 = Ω\{(0, 0)} e, se γ è la circonferenza
di centro (0, 0) e raggio 1 si ha γ ω = 0.

14
Appunti di Analisi Matematica II

3. Cenni di geometria differenziale delle Superficie

3.1 Definizioni ed esempi

Definizione 1.1 Sia T ⊂ R2 tale che A ⊆ T ⊆ Ā con A, aperto internamente connesso contenuto
in R2 ; sia
r : T → R3 , Σ ≡ im(r)
una funzione continua in T. Allora r si dice una parametrizzazione di Σ e la coppia (Σ, r) si dice
superficie in R3 .

Definizione 1.2 Una superficie (Σ, r) si dice regolare quando:

1) r ∈ C 1 (A);

2) La matrice  ∂r1
  ∂r2 ∂r3 
ru (u, v) ∂u ∂u ∂u
≡ ∂r1 ∂r2 ∂r3
rv (u, v) ∂v ∂v ∂v

ha caratteristica 2 in ogni punto (u, v) ∈ A (ovvero ru , rv sono linearmente indipendenti o,


equivalentemente, ru ∧ rv 6= 0);

3) r è una corrispondenza biunivoca tra A e Σ.

Se (u, v) ∈ T, il punto r(u, v) si dice interno a Σ mentre se (u, v) ∈ ∂T, il punto r(u, v) si dice
appartenente al bordo di Σ, ∂Σ.

Esempio 1.1 Superficie cartesiane. Sia Ω ⊂ R2 un aperto e sia f ∈ C 1 (Ω). Poniamo

r(u, v) = (u, v, f (u, v)) ∀(u, v) ∈ Ω, Σ ≡ im(r).

Si verifica che (Σ, r) è regolare e si chiama superficie cartesiana di equazione z = f (x, y) e Σ coincide
con il grafico di f.

Esempio 1.2 Superficie conica. Dato un piano π, sia γ ⊂ π una curva regolare di equazione
r = r(t). Fissato P ∈/ π scegliamo il sistema di riferimento in modo che P ≡ (0, 0, h) con h 6= 0.
Posto Q = Q(t) = (x(t), y(t), 0) ∈ γ ∀t ∈ [a, b] l’unione delle rette passanti per i punti P, Q al
variare di Q ∈ γ si dice superficie conica.
Una sua parametrizzazione è 
 x(t, λ) =λx(t)

y(t, λ) =λy(t)

z(t, λ) =(1 − λ)h

Si verifica che la superficie è regolare se γ lo è e se h 6= 0.

15
G.Di Fazio

Esempio 1.3 Superficie cilindrica


In modo simile a quanto visto per le superfici coniche, se P è il punto improprio dell’ asse ~z,
l’unione delle rette P Q al variare di Q ∈ γ si dice superficie cilindrica. Una sua parametrizzazione
è 
 x(t, z) =x(t)

y(t, z) =y(t)

z(t, z) =z

Si verifica che la superficie è regolare se γ lo è.

Esempio 1.4 Superficie di rotazione


Siano ϕ, ψ : [a, b] → R, ϕ(t) > 0 ∀t ∈ [a, b]. La parametrizzazione

 x(t, θ) =ϕ(t) cos θ

y(t, θ) =ϕ(t) sen θ

z(t, θ) =ψ(t)

definisce una superficie che risulta regolare se γ lo è. Geometricamente, Σ è costituita dalle circon-
ferenze descritte da Q attorno all’ asse ~z.

3.2 Piano tangente ad una superficie regolare

Sia (Σ, r) una superficie regolare e sia γ ⊆ T una curva regolare. La curva (γ̃, r̃) dove r̃ = r(γ)
è ancora una curva regolare e si dice la curva tracciata da γ su Σ. Infatti,

r̃0 (t) = ru (u(t), v(t))u0 (t) + rv (u(t), v(t))v 0 (t) ∀t ∈ [a, b] (∗)

e quindi r̃0 (t) = 0 se e solo se u0 (t) = v 0 (t) = 0 perchè i vettori ru , rv sono linearmente indipendenti.
Ma, per la regolarità della curva γ, ciò non è possibile. Dalla (*) segue che r̃0 (t) giace sul piano
individuato da ru , rv e questo piano è lo stesso per tutte le curve γ passanti per un punto assegnato
Q0 ∈ T. Il piano indivivuato da ru , rv e passante per P0 = r(Q0 ) ∈ Σ si dice piano tangente a Σ
nel punto Q0 e la sua equazione è

< P − P0 , ru (P0 ) ∧ rv (P0 ) >= 0.


∧rv
Il versore n = krruu ∧r vk
si dice versore normale alla superficie Σ nel punto r(u, v). Se (Σ, r) è una
superficie regolare e P0 ∈ Σ, P0 = r(u0 , v0 ), sia γ = r(u(t), v(t)) una curva chiusa passante per P0 .
Se per ogni curva di questo tipo si ha: n(a) = n(b) allora la superficie Σ si dirà orientabile.

Se Σ è una superficie regolare le curve r(u, ·) e r(·, v) si chiamano rispettivamente paralleli e


meridiani oppure linee coordinate.
Esempio 2.1 Ellissoide
Consideriamo la superficie di equazione cartesiana

x2 y2 z2
+ + =1
a2 b2 c2

16
Appunti di Analisi Matematica II

oppure nella forma parametrica seguente:

r(θ, ψ) = (a sen ψ cos θ, b sen ψ sen θ, c cos ψ), 0 ≤ θ ≤ 2π, 0 ≤ ψ ≤ π.

Si ha:

i j k

rθ ∧ rψ = −a sen ψ sen θ b sen ψ cos θ 0 =0

a cos ψ cos θ b cos ψ sen θ −c sen ψ
soltanto per sen ψ = 0.
Esempio 2.2 Toro
La superficie di equazione cartesiana
p
( x2 + y 2 − a)2 + z 2 = b2

oppure esprimibile nella forma parametrica seguente:

r(u, v) = ((a + b sen u) cos v, (a + b sen u) sen v, b cos u) 0 ≤ u, v ≤ 2π.

Esempio 2.3 Nastro di Möbius


La superficie espressa parametricamente nella forma:

θ θ θ
r(θ, t) = (2 cos θ + t cos θ cos , 2 sen θ + t sen θ cos , t sen ) 0 ≤ θ ≤ 2π, −1 < t < 1.
2 2 2

Questa superficie differisce dalle precedenti per una sua caratteristica notevole. È un esempio di
superficie non orientabile. Infatti, n(0, 0) = −e3 mentre

θ θ θ
rθ (θ, 0) = (−2 sen θ, 2 cos θ, 0) rt (θ, 0) = (cos θ cos , sen θ sen , −2 cos )
2 2 2
e quindi
θ θ θ
n(θ, 0) = (cos θ sen , sen θ sen , − cos )
2 2 2
da cui si ottiene
lim n(θ, 0) = e3 6= n(0, 0)
θ→2π −

quindi la superficie risulta non orientabile.

3.3 Metrica su una superficie

Sia (Σ, r) una superficie regolare in R3 . Se (γ, (u(t), v(t))) è una curva rettificabile in T la sua
immagine (γ̃, r̃) su Σ è ancora rettificabile e la lunghezza della curva su Σ è
Z t Z tp
lγ̃ (t) = kr̃(λ) dλ = E 2 v 0 2 + 2F u0 v 0 + Gv 0 2 dλ
a a

dove si è posto
E = kru k2 , F = ru · rv , G = krv k2 .

17
G.Di Fazio

La funzione
2 2
R(u, v) = E 2 v 0 + 2F u0 v 0 + Gv 0
si chiama metrica Riemanniana su Σ.
Esempio 3.1 Sia Σ la superficie grafico di una funzione f : A ⊂ R2 → R di classe C 1 (A). In tal
caso R(x, y) = 1 + |∇f (x, y)|2 .

Sia Σ una superficie regolare. L’insieme Σ è un connesso in R3 in quanto immagine continua


di un connesso e quindi, se p, q ∈ Σ allora si possono congiungere con una curva γ su Σ. Poniamo
d(p, q) = inf γ l(γ(p, q)). Con questa definizione Σ diventa uno spazio metrico e d si chiama una
metrica sulla superficie Σ. In generale l’estremo inferiore che figura nella definizione non è minimo.
Se esiste una curva per la quale l’estremo inferiore è minimo allora tale curva si dice la geodetica
per p e q.
Definizione 3.1 Sia (Σ, r) una superficie regolare in R3 . Il numero
Z
a(Σ) = kru ∧ rv k dudv
T

si chiama area della superficie Σ.

Esempio 3.2 Formula di Guldino per l’area di una superficie di rotazione


In tal caso Z b q
2 2
a(Σ) = 2π ϕ(u) ϕ0 (u) + ψ 0 (u) du.
a

Supponiamo che la superficie sia generata dalla rotazione di una curva γ di equazioni r(t) =
(0, ϕ(t), ψ(t)), t ∈ [a, b] di lunghezza l contenuta nel piano ~y~z. Detto P0 = (0, y0 , z0 ) il baricentro
della curva γ si ha:
Z Z b
a(Σ)
q
2 2
ly0 = y ds = ϕ(t) ϕ0 (t) + ψ 0 (t) dt =
γ a 2π
da cui:
a(Σ) = 2πy0 l
ovvero

Teorema 3.1 (Guldino) L’area di una superficie di rotazione ottenuta ruotando una curva gen-
eralmente regolare γ attorno ad un asse è uguale al prodotto tra la lunghezza della curva rotante
per il cammino percorso dal baricentro.

Definizione 3.2 Sia (Σ, r), Σ ⊂ Ω una superficie regolare in R3 e sia f : Ω → R una funzione
continua in Ω. Poniamo
Z Z
f (x, y, z) dσ = f (r(u, v))kru ∧ rv k dudv.
Σ T

Sussiste il seguente

18
Appunti di Analisi Matematica II

Teorema 3.2 (Stokes) Sia Σ una superficie regolare orientabile in R3 e sia f : A ⊂ R3 → R3 una
funzione continua in A dove A è un aperto contenente Σ. Allora,
Z Z
< rot f , n > dσ = < f , dr > .
Σ +∂Σ

Dim. Omessa.
Esempio 3.3 Calcoliamo l’integrale
Z
x dx + z dy + x dz
C

dove C è data dalle seguenti equazioni

C = {x2 + y 2 = 1 z = xy}

utilizzando il teorema di Stokes.


Si ha: C = + ∂Σ dove Σ è la superficie cartesiana z = xy. Allora, per il teorema di Stokes, abbiamo
Z Z Z
x dx + z dy + x dz = < rot f , n > dσ = (x + y)dx dy = 0.
C Σ B1 (0)

19
1. Equazioni Differenziali

1.1 Il Problema di Cauchy

Definizione 1.1 Sia Ω ⊂ Rn+1 e sia (x0 , y0 ) ∈ Ω. Consideriamo una funzione f : Ω → Rn . Il


problema di trovare tutte le eventuali funzioni y(x) : (a, b) → Rn derivabili in (a, b) tali che:

(x, y(x)) ∈ Ω ∀x ∈ (a, b); y 0 (x) = f (x, y(x)) ∀x ∈ (a, b), y(x0 ) = y0

si dice Problema di Cauchy relativo all’equazione differenziale

y 0 = f (x, y)

in Ω con dato iniziale (x0 , y0 ) e si scrive


(
y 0 = f (x, y)
(1.1)
y(x0 ) = y0 .

Esempio 1.1 Consideriamo la funzione ϕ : R → R definita ponendo


 x
 x 6= 0
ϕ(x) = |x|
0 x = 0.

Il problema di Cauchy (
y 0 = ϕ(x)
y(0) = 0
non ha soluzioni.

Esempio 1.2 Il problema di Cauchy ( p


y 0 = |y|
y(0) = 0
ha infinite soluzioni. Infatti, oltre alla funzione identicamente nulla, anche le funzioni,
 2
 x+c

x ≥ −c;
y(x) = 2

0 x ≤ −c

c ∈ R, sono soluzioni.

Esempio 1.3 Il problema di Cauchy (


y 0 = f (x, y)
y(0) = 0
G.Di Fazio

dove
 2x sen 1 − cos 1

x 6= 0, ∀y ∈ R;
f (x, y) = x x
0 x = 0, ∀y ∈ R

ammette la funzione
 x2 sen 1

x 6= 0,
y(x) = x
0 x=0

come soluzione.

Gli esempi precedenti mostrano come la continuità di f (x, y) non sia affatto necessaria per
l’esistenza di soluzioni. Si potrebbe dimostrare che

Teorema 1.1 (di Peano) Sia (x0 ,Q y0 ) ∈ Ω ⊂ Rn+1 , e sia f (x, y) : Ω → Rn . Supponiamo che esiste
n
un intervallo ∆ ≡ [x0 −a, x0 +a]× j=1 [y0,j −b, y0,j +b] in cui f (x, y) è continua. Allora, ∃ δ > 0 :
nell’intervallo [x0 − δ, x0 + δ] si può definire almeno una soluzione di (1.1).

Tuttavia, per semplicità, assumeremo f (x, y) continua in Ω.


Lemma 1.1 Sia f : Ω ⊂ Rn+1 → Rn una funzione continua in Ω. Allora il problema di Cauchy
(1.1) è equivalente al problema della ricerca delle funzioni continue y : (a, b) → Rn tali che:

y(x0 ) = y0 ; (x, y(x)) ∈ Ω ∀x ∈ (a, b)

e tali inoltre che Z x


y(x) = y0 + f (t, y(t))dt ∀x ∈ (a, b). (1.2)
x0

Dim. Infatti, se y(x) è una soluzione del problema di Cauchy (1.1), y è ovviamente continua e
applicando il teorema di Torricelli segue che l’equazione di Volterra (1.2) è soddisfatta. Viceversa,
se y(x) è una funzione continua verificante l’equazione di Volterra (1.2), risulta derivabile in virtù
dell’eguaglianza (1.2). Derivando, per il teorema fondamentale del calcolo, segue la (1.1).

Definizione 1.2 Sia f : Ω ⊂ Rn+1 → R. Se esiste un intorno di x0 nel quale si può definire una
soluzione del problema (1.1), la soluzione si dice locale.

Definizione 1.3 Diciamo che la funzione f : Ω ⊂ Rn+1 → Rn è Lipschitziana nella variabile y


uniformemente rispetto alla variabile x, se

∃ L ≥ 0 : kf (x, y1 ) − f (x, y2 )k ≤ L ky1 − y2 k ∀ (x, y1 ), (x, y2 ) ∈ Ω. (1.3)

) ∈ Ω ⊂ Rn+1 , e sia f (x, y) : Ω → Rn . Supponiamo che esiste un intervallo


Teorema 1.2 Sia (x0 , y0Q
n
∆ ≡ [x0 − a, x0 + a] × j=1 [y0,j − b, y0,j + b] in cui f (x, y) è continua e verifica (1.3). Allora,

2
Appunti di Analisi Matematica II

∃ δ > 0 : nell’intervallo [x0 − δ, x0 + δ] si può definire una ed una sola soluzione di (1.1).

Dim. Incominciamo provando l’esistenza di una soluzione di (1.1) provando l’esistenza di una
soluzione di (1.2). La tecnica consiste nel vedere la soluzione come punto fisso di un operatore
di contrazione. Ciò proverà che il punto fisso è soluzione dell’equazione integrale di Volterra e
quindi del problema di Cauchy (1.1). Sia M = max∆ |f (x, y)|. Se M = 0 la soluzione (unica) di
(1.1) è la funzione costante y : [x0 − a, x0 + a] → Rn y(x) = y0 . Supponiamo M > 0 e scegliamo
b 1
δ < min(a, M , L ). Lo spazio metrico

X = y ∈ C 0 ([x0 − δ, x0 + δ]) : ky − y0 k∞ ≤ b ⊂ C 0 ([x0 − δ, x0 + δ])




è completo nella norma Lagrangiana. Sia T : X → X definita da


Z x
T y(x) = y0 + f (t, y(t))dt ∀y ∈ X.
x0

Proviamo che T (X) ⊆ X. Si ha:


Z x Z x

kT y(x)−y0 k =


f (t, y0 )dt kf (t, y0 )kdt ≤ M |x−x0 | ≤ M δ ≤ b. ∀x ∈ [x0 −δ, x0 +δ]
x0 x0

e quindi
kT y − y0 k∞ ≤ b
ovvero T y ∈ X. Proviamo adesso che T è una contrazione in X. Se y1 , y2 ∈ X si ha:
Z x Z x

kT y1 (x) − T y2 (x)k ≤
kf (t, y1 (t)) − f (t, y2 (t))kdt ≤ L
ky1 (t) − y2 (t)kdt
x0 x0
≤ L|x − x0 |ky1 − y2 k∞ ≤ Lδky1 − y2 k∞ ∀x ∈ [x0 − δ, x0 + δ]

e quindi
kT y1 − T y2 k∞ ≤ Lδky1 − y2 k∞ ∀y1 , y2 ∈ X,
da cui la T è una contrazione perchè Lδ < 1. In virtù del teorema delle contrazioni, esiste uno ed
un solo punto fisso in X che risulta pertanto soluzione dell’equazione integrale (1.2) e quindi del
problema di Cauchy (1.1) nell’intervallo [x0 − δ, x0 + δ]. Naturalmente, in generale non sappiamo
se a priori le soluzioni di (1.1) appartengono allo spazio X e quindi bisogna discutere il problema
dell’unicità. Sia quindi (a, b) un intervallo contenente il punto x0 . Se u, v sono due soluzioni del
problema di Cauchy in (a, b), esse banalmente coincidono nel punto x0 . Le due funzioni sono
soluzioni dell’equazione integrale di Volterra e quindi si ha:
 Z x


 u(x) = y 0 + f (t, u(t))dt
x0
Z x ∀x ∈ (a, b)

 v(x) = y0 +
 f (t, v(t))dt
x0

da cui, sottraendo membro a membro, segue:


Z x
u(x) − v(x) = (f (t, u(t)) − f (t, v(t))) dt.
x0

3
G.Di Fazio

Poniamo
x1 = sup{x ∈ [x0 , b) : u(t) = v(t) ∀t ∈ [x0 , x]}.
Preso σ > 0 in modo che x1 + σ < b, per ogni x ∈]x1 , x1 + σ[ usando l’ipotesi di Lipschizianità, si
ha: Z x1 Z x1 +σ

ku(x) − v(x)k ≤
f (t, u(t)) − f (t, v(t))dt +
f (t, u(t)) − f (t, v(t))dt

x0 x1
Z
x1 +σ

Z x1 +σ
=
f (t, u(t)) − f (t, v(t))dt
≤ L ku(t) − v(t)k dt
x1 x1
≤ Lσ max ku(x) − v(x)k
[x1 ,x1 +σ]

e quindi
max ku(x) − v(x)k ≤ Lσ max ku(x) − v(x)k
[x1 ,x1 +σ] [x1 ,x1 +σ]
da cui
1 ≤ Lσ
che è assurda per σ → 0+ .

Osservazione 1.1 Si può vedere che, se T è una contrazione di costante L allora T j è contrazione
di costante Lj ed ammette lo stesso punto fisso di T. Ciò implica che il numero δ fornito dal teorema
precedente può essere scelto in modo indipendente da L.

Nel caso in cui, attraverso il teorema precedente, si riesca a stabilire l’esistenza e l’unicità di
una soluzione locale, ci si può chiedere se essa si possa poi estendere ad una funzione che risulta
soluzione in un intervallo più ampio. Quest’ultimo intervallo può coincidere o essere contenuto
nell’intervallo risultante dalla proiezione di Ω sull’asse ~x. A tal proposito risulta utile il seguente

Teorema 1.3 (di esistenza ed unicità globale) Supponiamo che Ω = (a, b)×Rn sia aperto, (x0 , y0 ) ∈
Ω, f ∈ C 0 (Ω) ed inoltre verifica la (1.3) in [α, β] × Rn per ogni sottointervallo [α, β] contenente x0
con costante di Lipschitz eventualmente dipendente da [α, β]. Allora esiste una ed una sola soluzione
del problema di Cauchy (1.1) definita in (a, b).

Dim. Identica alla precedente.

Corollario 1.1 Siano A : (a, b) → Rn,n , B : (a, b) → Rn due funzioni continue in (a, b), x0 ∈
(a, b), y0 ∈ Rn . Il problema di Cauchy
(
y 0 = A(x)y + B(x)
y(x0 ) = y0
ammette una ed una sola soluzione in (a, b).

Dim. Infatti, in tal caso si ha:



∂(A(x)y + B(x))
≤ max |A(x)| ∀x ∈ [α, β], ∀y ∈ Rn
∂y [α,β]
verificando cosı̀ le ipotesi del teorema di esistenza ed unicità globale.

4
Appunti di Analisi Matematica II

Teorema 1.4 (dipendenza continua dai dati) Siano dati un insieme aperto Ω ⊂ Rn+1 , (x0 , y0 ) un
punto di Ω, y0,j una successione di elementi di Rn convergente in Rn ad un vettore y0 . Sia inoltre
fj (x, y) una successione di funzioni continue uniformemente convergente su tutti i sottoinsiemi
compatti K ⊂ Ω ad una funzione (continua) f (x, y). Supponiamo ancora che per ogni compatto K
di Ω esista una costante L tale che

kfj (x, y1 ) − fj (x, y2 )kRn ≤ Lky1 − y2 kRn ∀(x, y1 ), (x, y2 ) ∈ K ∀j ∈ N.

Sia yj la soluzione del problema di Cauchy (P C)j in cui il termine noto è fj e il dato iniziale è y0,j .
Allora,esiste δ > 0 tale che la successione yj converge uniformemente in [x0 − δ, x0 + δ] e, detta y
la funzione limite, essa è l’unica soluzione del problema di Cauchy (P C)0 in cui f è il termine noto
e y0 è il dato iniziale.
Qn
Dim. Consideriamo il problema (PC)0 e poniamo K = [x0 − δ, x0 + δ] × j=1 [yj,0 − b, yj,0 + b].
Proviamo che la successione yj converge uniformemente a y in [x0 − δ, x0 + δ]. Sottraendo membro
a membro nelle rispettive equazioni integrali di Volterra, si ha:
Z x

kyj (x) − y(x)k ≤ ky0,j − y0 k +
kfj (t, yj (t)) − f (t, y(t))k dt
x
Z x0 Z x

≤ ky0,j − y0 k +
kfj (t, yj (t)) − fj (t, y(t))k dt + kfj (t, y(t)) − f (t, y(t))k dt
x0 x0
Z x

≤ ky0,j − y0 k + Lkyj − yk|x − x0 | + kfj (t, y(t)) − f (t, y(t))k dt
x0

e quindi si ha:

kyj (x) − y(x)k ≤ ky0,j − y0 k + Lkyj − yk∞ |x − x0 | + kfj − f k∞ δ


≤ ky0,j − yk + Lδkyj − yk∞ + kfj − f k∞ δ ∀x ∈ [x0 − δ, x0 + δ]
1
e visto che δ < L,

1 δ
kyj − yk∞ ≤ ky0,j − y0 kRn + kfj − f k∞
1 − Lδ 1 − Lδ
da cui segue facilmente la tesi.

1.2 Sistemi lineari

Sia A : (a, b) → Rn,n . Il sistema


y 0 = A(x)y (2.1)
si dice Sistema lineare omogeneo di coefficienti A(x). Nell’ ipotesi A ∈ C 0 (a, b) qualsiasi Problema
di Cauchy associato al sistema (2.1) ammette una ed una sola soluzione globale. Studiamo adesso
in maniera più dettagliata l’insieme S delle soluzioni di (2.1).

Teorema 2.1 L’insieme S è uno spazio vettoriale di dimensione n.

5
G.Di Fazio

Dim. Si ha:
0
(αy1 + βy2 ) = αy10 + βy20 = αAy1 + Aβy2 = A (αy1 + βy2 ) ∀y1 , y2 ∈ S ∀α, β ∈ R

e quindi S è un sottospazio vettoriale di C 1 ((a, b), Rn ). Per provare che dimS = n facciamo vedere
che è isomorfo a Rn . Fissato x0 ∈ (a, b), definiamo pertanto una applicazione

T : S → Rn

mediante la legge
T (y(x)) = y(x0 ) ∀x ∈ (a, b).
Applicando il teorema di esistenza ed unicità in grande si prova che T è una corrispondenza biuni-
voca. Il fatto che T sia lineare poi è evidente. Quindi S ha dimensione n.

Allora, per determinare le soluzioni di un sistema lineare sarà sufficiente conoscerne n soluzioni
indipendenti.

Teorema 2.2 Siano y1 , . . . , yk ∈ S e sia x̄ ∈ (a, b) : y1 (x̄), . . . , yk (x̄) siano linearmente dipendenti
in Rn . Allora le funzioni y1 , . . . , yk sono linearmente dipendenti in S.

Dim. Ovvia dal teorema precedente

Definizione 2.1 Siano y1 , . . . , yn ∈ S. La matrice che ha per colonne tali vettori si dice matrice
Wronskiana delle n soluzioni y1 , . . . , yn . Nel seguito indicheremo con W (x) la matrice Wronskiana
e con |W (x)| il suo determinante.
Dal teorema precedente è immediato riconoscere che si ha: |W (x)| = 0 ∀x ∈ (a, b) oppure |W (x)| 6=
0 ∀x ∈ (a, b). Nel caso in cui |W (x)| = 6 0 lo spazio generato dalle colonne di W (x) è S.

Sia B : (a, b) → Rn . Il sistema


y 0 = A(x)y + B(x)
si dice lineare non omogeneo e la funzione B si dice termine noto del sistema. In questo caso
l’insieme delle soluzioni S̄ non è uno spazio vettoriale ma uno spazio affine. Precisamente si ha:
Teorema 2.3 Se ȳ è una soluzione del sistema non omogeneo e A, B sono continue si ha:

S̄ = ȳ + S.

Dim. È sufficiente far vedere che una qualsiasi soluzione ϕ ∈ S̄ è del tipo ȳ + y per una
opportuna funzione di S. Ma questo è abbastanza ovvio perché ϕ− ȳ ∈ S e quindi ∃y ∈ S : ϕ− ȳ = y
da cui ϕ = ȳ + y ∈ ȳ + S.

6
Appunti di Analisi Matematica II

Osservazione 2.1 Fissato t0 ∈ (a, b) sia ϕ(t, t0 , y0 ) = y(t) l’unica soluzione del sistema y 0 = A(t)y
tale che y(t0 ) = y0 . In questo modo abbiamo definito un’applicazione

ϕ : (a, b) × (a, b) × Rn → Rn

ponendo
ϕ(t, t0 , y0 ) = y(t).
Fissati t, t0 ∈ (a, b), la funzione ϕ è lineare da Rn in sé e quindi esiste una matrice R(t, t0 ) ∈ Rn
tale che
ϕ(t, t0 , y) = R(t, t0 )y ∀y ∈ Rn .
Naturalmente R(t0 , t0 ) = In ed inoltre si ha:

R(t2 , t1 ) R(t1 , t0 ) y = R(t2 , t1 )ϕ(t1 , t0 , y) = R(t2 , t1 )y(t1 ) = R(t2 , t0 )y

Guardando adesso a ϕ come funzione della t si ha:

d
R(t0 , t) y = ϕ0 (t, t0 , y0 ) = y00 (t) = A(t)y0 (t) = A(t)ϕ(t, t0 , y0 )
dt
e quindi
d
R(t0 , t) = A(t)R(t0 , t)
dt
e quindi abbiamo dimostrato il seguente

Teorema 2.4 La matrice R(t, t0 ) è soluzione del sistema matriciale

X 0 = A(t)X

nel senso che ogni sua colonna è soluzione del sistema assegnato.

Da ora in poi chiameremo R(t0 , t) una matrice risolvente o una matrice Wronskiana per il
sistema assegnato.

Supponiamo adesso di conoscere n elementi indipendenti di S ovvero una matrice risolvente.


A partire da questa possiamo determinare una soluzione del sistema - non omogeneo -

y 0 = A(t)y + B(t).

Il metodo che permette questo è conosciuto col nome di variazione della costante arbitraria ed è
dovuto a Lagrange. Detta W (x) la matrice Wronskiana di n soluzioni indipendenti cerchiamo una
funzione γ : (a, b) → Rn in modo che la funzione W (x)γ(x) sia soluzione del sistema non omogeneo.
Allora
(W (x)γ(x))0 = A(x)W (x)γ(x) + B(x) ∀x ∈ (a, b)
ovvero
W 0 (x)γ(x) + W (x)γ 0 (x) = A(x)W (x)γ(x) + B(x) ∀x ∈ (a, b)

7
G.Di Fazio

e, utilizzando il teorema precedente,

W (x)γ 0 (x) = B(x) ∀x ∈ (a, b)

da cui, per il fatto che le soluzioni sono indipendenti,

γ 0 (x) = W −1 (x)B(x) ∀x ∈ (a, b)

e quindi la soluzione cercata è


Z x
W (x) W −1 (t)B(t)dt ∀x ∈ (a, b)
x0

e l’integrale generale (cioè l’insieme S̄) del sistema non omogeneo è


Z x
W (x) · C + W (x) W −1 (t)B(t)dt, ∀x ∈ (a, b), ∀C ∈ Rn .
x0

Rimane il problema di determinare n elementi indipendenti di S che, in generale è impossibile.

Osservazione 2.2 Nel caso di una equazione differenziale lineare di ordine n > 1, se y1 , . . . , yn
sono soluzioni, il loro Wronskiano è
 y1 y2 ··· yn 
 y10 y20 ··· yn0 
W (x) =  .. .. .. .. 
. . . .
 
(n−1) (n−1) (n−1)
y1 y2 · · · yn

e la funzione γ = (γ1 , . . . , γn ) che si trova ricorrendo al metodo di Lagrange ha componenti che


sono soluzione del sistema,

y1 γ10 + · · · + yn γn0 = 0



0 0 0 0

 y1 γ1 + · · · + yn γn = 0


..


 .

 (n−1) 0

y1 γ1 + · · · + yn(n−1) γn0 = B(x)

dove B(x) è il termine noto (scalare) dell’equazione differenziale assegnata.

Esempio 2.1 Il problema  00


y + y = x

y(0) = 0
 0

y (0) = 1
è equivalente al sistema lineare in cui si ha:
   
0 1 0
A(x) = , B(x) = .
−1 0 x

8
Appunti di Analisi Matematica II

1.3 Sistemi lineari a coefficienti costanti

Data A ∈ Rn,n consideriamo il sistema lineare y 0 = Ay. Pensando alla dimostrazione del
teorema delle contrazioni otteniamo

 y0 (x) = y0
Z x
 yj+1 (x) = y0 + Ayj (t) dt.
0

e quindi
j ∞
X xk X xk
yj (x) = Ak y0 → Ak y0 ≡ eAx y0 ∀x ∈ R
k! k!
k=0 k=0

e la soluzione - unica - del sistema assegnato è

y(x) = eAx y0 ∀x ∈ R.

Siano adesso λ ∈ R e y ∈ Rn . La funzione ϕ(x) = eλx y è soluzione del sistema se λ è autovalore


della matrice A e y è autovettore associato a λ. Il problema che rimane da affrontare quindi è quello
della indipendenza lineare delle soluzioni. Il primo caso, e il più semplice, è quello in cui la matrice
A ammette n autovalori reali e distinti λ1 , . . . , λn . In questo caso le n soluzioni corrispondenti sono
yj (x) = eλj x e sono indipendenti perché si ha:

|W (0)| = |col(y1 , . . . , yn )| =
6 0

perché gli autovettori sono linearmente indipendenti. I problemi nascono nel caso in cui la ma-
trice abbia autovalori multipli. Senza addentrarci nei dettagli del metodo chiariamo la situazione
attraverso qualche esempio.

Esempio 3.1 Risolviamo il sistema y 0 = Ay in cui la matrice A è


 
1 0 2
0 1 1
2 1 0

In tal caso gli autovalori sono tutti reali e distinti e si ha:


√ √
1− 21 1+ 21
λ1 = 1, λ2 = , λ3 =
2 2
e, denotata con u1 , u2 , u3 una base di autovettori, si ha:
√ √
1− 21 1− 21
y(x) = c1 ex u1 + c2 e 2 x
u2 + +c3 e 2 x
u3 ∀x ∈ R.

9
G.Di Fazio

Osservazione 3.1 nel caso in cui si abbia una equazione differenziale di ordine n ed il termine noto
sia del tipo e(α+ıβ)x P (x) con P polinomio, un integrale particolare della equazione completa si può
cercare sotto la forma e(α+ıβ)x xp Q(x) dove p è la molteplicità algebrica dell’ autovalore α + ıβ e Q
è un polinomio dello stesso grado di P.

Osservazione 3.2 Sia λ ∈ R un autovalore di A ∈ Rn,n , A = T A e sia u1 un autovettore di A


associato a λ. Allora, determiniamo u2 ∈ Rn in modo che la funzione

ϕ(x) = (xu1 + u2 )eλx

sia una soluzione del sistema y 0 = Ay. Sostituendo nel sistema si ottiene:
(
Au1 = λu1
(A − λI)u2 = u1

e quindi, a partire dall’autovalore λ otteniamo le soluzioni

u1 eλx , (xu1 + u2 )eλx .

Verificare che le soluzioni ottenute sono indipendenti equivale a dimostrare che i vettori u1 , u2 sono
indipendenti in Rn . Questo è ovvio perché mentre u1 è autovettore di A relativo a λ, u2 non lo è.

Esempio 3.2 Risolviamo il sistema y 0 = Ay in cui la matrice A è


 
1 1 0
 0 0 1
−1 −1 3

Stavolta abbiamo un autovalore λ1 = 0 semplice ed un autovalore λ2 = 2 di molteplicità algebrica


pari a 2. Un autovettore associato a λ1 è u1 = (1, −1, 0)T e la soluzione corrispondente è eλ1 x u1 =
u1 . Dobbiamo trovare due soluzioni indipendenti a partire dall’ autovalore λ2 . Cerchiamo due vettori
u2 , u3 in modo che la funzione (u2 x + u3 )e2x sia soluzione del sistema. Allora, u2 deve essere un
autovettore e u3 deve essere soluzione del sistema lineare (A − 2I)u3 = u2 . Posto u2 = (a, b, c)T si
ha:      
−1 1 0 a −1 1 0 a −1 1 0 a
 0 −2 1 b  →  0 −2 1 b  →  0 −2 1 b 
−1 −1 1 c 0 2 −1 a − c 0 0 0 a+b−c
quindi deve essere a + b − c = 0, per esempio a = 1, b = 0, c = 1, da cui u2 = (1, 0, 1)T , e u3
soluzione del corrispondente sistema. Una di tali soluzioni è u3 = (0, 1, 2)T per cui si ha:

y(x) = c1 u1 + c2 u2 e2x + c3 (u2 x + u3 )e2x ∀x ∈ R

che è la soluzione generale del sistema dato.

10
Appunti di Analisi Matematica II

Esempio 3.3 Risolviamo il sistema y 0 = Ay in cui la matrice A è


 
4 3 1
 −4 −4 −2 
8 12 6

La matrice ha un autovalore - λ = 2 - di molteplicità algebrica pari a 3 mentre la dimensione


topologica del medesimo autovalore è 2. Dobbiamo trovare tre soluzioni indipendenti a partire dall’
Detto u un autovettore cerchiamo altri due vettori non nulli w1 , w2 con il criterio seguente:

(A − 2I)w1 = u; (A − 2I)w2 = w1 .

In tal modo, le funzioni


ue2x , w1 xe2x , w2 x2 e2x
saranno soluzioni indipendenti del sistema. Allora, u2 deve essere un autovettore e u3 deve essere
soluzione del sistema lineare (A − 2I)u3 = u2 . Posto w1 = (α, β, γ)T si ha:
     
−1 1 0 α −1 1 0 α −1 1 0 α
 0 −2 1 β  →  0 −2 1 β  →  0 −2 1 β 
−1 −1 1 γ 0 2 −1 α − γ 0 0 0 α+β−γ

quindi deve essere α + b2 − γ = 0, per esempio a = 1, b = 0, c = 1, da cui u2 = (1, 0, 1)T , e u3


soluzione del corrispondente sistema. Una di tali soluzioni è u3 = (0, 1, 2)T per cui si ha:

y(x) = c1 u1 + c2 u2 e2x + c3 (u2 x + u3 )e2x ∀x ∈ R

che è la soluzione generale del sistema dato. Adesso - a titolo di esempio - esaminiamo alcune
procedure che permettono la risoluzione di alcuni tipi di equazioni differenziali.

Equazioni a variabili separabili Consideriamo due funzioni

a:I⊂R→R b:J ⊂R→R

continue nei rispettivi intervalli di definizione. Il problema della ricerca di tutte le funzioni

y : (α, β) → R

derivabili nell’ intervallo (α, β) tali che:

1) y(x) ∈ J ∀x ∈ (α, β);

2) y 0 (x) = a(x) b(y(x)) ∀x ∈ (α, β).

si chiama equazione differenziale del primo ordine a variabili separabili e si indica con la
scrittura
y 0 = a(x) b(y) (3.1)

11
G.Di Fazio

Per risolvere l’equazione (3.1) si incomincia cercandone le eventuali soluzioni costanti. Se una
funzione che assume costantemente il valore k ∈ R in (α, β) soddisfa la (3.1) deve risultare b(k) =
0 e quindi le eventuali soluzioni costanti sono tutte e sole soluzioni dell’ equazione b(k) = 0.
Proseguiamo la ricerca con funzioni che non assumono alcuno degli eventuali valori k determinati
in precedenza. Se y(x) è una siffatta funzione risulta b(y(x)) 6= 0 ∀x ∈ (α, β) e quindi

y 0 (x)
= a(x) ∀x ∈ (α, β).
b(y(x))

Indichiamo con A(x), B(y) rispettivamente una primitiva della funzione a(x) ed una primitiva della
1
funzione b(y) . Per una conseguenza del teorema di Lagrange esiste k ∈ R :

B(y(x)) = A(x) + k ∀x ∈ (α, β).

La derivata della funzione B(y) è continua e non nulla e quindi, per continuità, ha segno costante.
Ciò assicura l’invertibilità della funzione B(y). Applicando l’ inversa ad ambo i membri otteniamo

y(x) = B −1 [A(x) + k] ∀x ∈ (α, β) (3.2)

Verifichiamo adesso che la (3.2) fornisce una soluzione dell’ equazione (3.1). Infatti, per il teorema
di derivazione delle funzioni inverse,

d −1 1
B (x) = 0
dx B (y) y=B −1 (x)

e quindi
d
y 0 (x) = B −1 [A(x) + k]

dx
0
= b B −1 [A(x) + k] (A(x) + k) = a(x)b(y(x))

∀x ∈ (α, β).
Potrebbe esistere qualche soluzione non costante della (3.1) che tuttavia assume qualcuno dei valori
k determinati in precedenza. In generale non esistono metodi per determinare queste soluzioni di
tipo misto. La situazione può essere resa più chiara mediante qualche esempio.

Esempio 3.4 Risolvere l’equazione differenziale

|y| − y
y0 =
x

L’equazione si pone nell’ intervallo ] − ∞, 0[ oppure nell’ intervallo ]0, +∞[. Le soluzioni costanti,
in ogni caso, sono
y(x) = k ∀k ≥ 0 ∀x ∈ (α, β)
Cerchiamo adesso soluzioni non costanti che non assumono alcuno dei valori k determinati in
precedenza. In questo caso ciò significa cercare eventuali soluzioni negative. Procedendo nel modo
prima illustrato si trova
1
y(x) = −ek 2 ∀x ∈ (α, β)
x

12
Appunti di Analisi Matematica II

dove k è una costante fornita dal teorema di Lagrange e (α, β) coincide con l’intervallo ] − ∞, 0[
oppure ]0, +∞[.
In questo caso non esistono soluzioni di tipo misto. Infatti sia y(x) in soluzione di tipo misto che, in
un punto x̄ ∈ (α, β) assume un valore k ≥ 0. Allora il problema di Cauchy relativo all’ equazione che
stiamo studiando con il dato iniziale y(x̄) = k non avrebbe unicità. Questo contrasterebbe con il
teorema di esistenza ed unicità in piccolo in quanto la funzione f (x, y) = |y|−y
x risulta lipschitziana
in un conveniente intorno del punto (x̄, k). Infatti,

f (x, y1 ) − f (x, y2 ) = 1 |y1 | − y1 − |y2 | + y2 ≤ 2 |y1 − y2 |.



|x| |x|

Esempio 3.5 Dire per quali λ ∈ R il problema di Cauchy


( p
y 0 = 1 − y 2 ≡ f (x, y)
y(0) = λ

Innanzitutto, affinchè il problema abbia significato, è necessario che |λ| ≤ 1. Se |λ| < 1 la funzione
|fy (x, y)| = − √ y 2 è limitata in un intorno di (0, λ) e quindi il problema ha esistenza ed unicità.

1−y
Si verifica direttamente che nel caso λ = 1 la funzione

y(x) = 1 ∀x ∈ R

è una soluzione del problema. Determiniamo la soluzione nel caso |λ| < 1. Supponiamo y(x) 6=
1 ∀x ∈ (α, β). Allora
y 0 (x)
p =1 ∀x ∈ (α, β).
1 − y2
π
Affinchè l’ultima eqguaglianza scritta abbia significato deve essere x ∈] − 2 − k, π2 − k[ ed inoltre
0 ∈] − π2 − k, π2 − k[ da cui |k| < π2 . Allora, usando il dato iniziale,

arcsen λ = arcsen y(0) = k

ovvero
π π
arcsen y(x) = x + arcsen λ ∀x ∈ (α, β) ⊆] − − k, − k[
2 2
ed in definitiva otteniamo
π π
y(x) = sen (x + arcsen λ) ∀x ∈] − − arcsen λ, − arcsen λ[ ≡ (α, β)
2 2
e questa è l’unica soluzione grazie al teorema di esistenza ed unicità. Da un esame dei grafici delle
soluioni appena trovate appare chiaro che il problema, per λ = 1, non ha unicità in quanto la
funzione 
 cos x
 x ∈] − π, 0[;
y(x) = −1 x ∈] − ∞, −π];

1 x ∈ [0, +∞[

è soluzione del problema in R. In realtà il problema, in questo caso, ammette infinite soluzioni che,
a questo punto, sono facilmente determinabili. Il caso λ = −1 si discute in maniera simile.

13
G.Di Fazio

Esempio 3.6 Risolvere l’equazione differenziale

y 0 = xey

In questo caso l’equazione non ammette soluzioni costanti e quindi, ovviamente, non ammette
soluzioni di tipo misto. Procedendo nella solita maniera troviamo che, se y(x) è una soluzione
allora
x2
−e−y(x) = +k ∀x ∈ (α, β)
2
e ciò ha senso se
x2
+ k < 0.
2
Quindi

  2 
x
y(x) = − log − +k ∀x : |x| < −2k.
2

Esempio 3.7 Risolvere l’equazione differenziale


p
0 1 − y2
y = −√ ≡ f (x, y).
1 − x2

Le soluzioni costanti sono

y(x) = 1 e y(x) = −1 ∀x ∈] − 1, 1[.

Sia y(x) una soluzione tale che |y(x)| < 1 ∀x ∈ (α, β) ⊆]−1, 1[. Separando le variabili ed integrando
si trova
arcsen y(x) = − arcsen x + k.
Per la validità di quest’ ultima eguaglianza deve essere
π π
k− < arcsen x < k + . (3.3)
2 2
Per k = 0 la (3.3) fornisce |x| < 1. Per k > 0 la (3.3) fornisce x ∈] − cos k, 1[ e 0 < k < π. Per k < 0
la (3.3) fornisce x ∈] − 1, cos k[ e −π < k < 0. Quindi

y(x) = sen(k − arcsen x) ∀x ∈ (α, β).

Da un esame dei grafici di tali soluzione si deduce che, anche in questo caso, esistono soluzioni di
tipo misto. Per esempio la funzione
(
1 x ∈] − 1, cos k[;
y(x) =
sen(k − arcsen x) x ∈ [cos k, 1[.

Esempio 3.8 Risolvere l’equazione differenziale

y(1 + y 2 )
y0 =
x
14
Appunti di Analisi Matematica II

nell’ intervallo ]0, +∞[.


L’unica soluzione costante è la funzione identicamente nulla nell’ intervallo ]0, +∞[. Separando le
variabili ed integrando si trova
y(x)
p = kx
1 + y 2 (x)
dove la soluzione ha lo stesso segno della costante k ∈ R. Esplicitando

y 2 (x)(1 − k 2 x2 ) = k 2 x2 (> 0)

ovvero
kx 1
y(x) = √ ∀x ∈]0, [
1 − k 2 x2 |k|
dove la costante k ha lo stesso segno della soluzione. Non esistono soluzioni di tipo misto.

Equazioni di tipo omogeneo Consideriamo una funzione

f : (a, b) ⊂ R → R

continua nel suo intervallo di definizione. Il problema della ricerca di tutte le funzioni

y : (α, β) → R

derivabili nell’ intervallo (α, β) tali che:

1) 0 ∈
/ (α, β);

y(x)
2) x ∈ (a, b) ∀x ∈ (α, β);
 
y(x)
3) y 0 (x) = f x ∀x ∈ (α, β)

si chiama equazione differenziale del primo ordine di tipo omogeneo e si indica con la scrittura
y
y0 = f (3.4)
x

Per risolvere l’equazione (3.4) poniamo

y(x)
z : (α, β) → R z(x) = (3.5)
x

Se y(x) è una soluzione di (3.4), dalla (3.5) si ha che

1) z(x) è derivabile in (α, β);

2) z(x) ∈ (a, b) ∀x ∈ (α, β);

15
G.Di Fazio

3) z 0 (x) = 1
x (f (z) − z) ∀x ∈ (α, β).

ovvero z è soluzione dell’ equazione a variabili separabili

1
z0 = (f (z) − z) (3.6)
x

e viceversa, se z(x) è soluzione di (3.6) allora la funzione y(x) definita dalla (3.5) è soluzione dell’
equazione (3.4).

Esempio 3.9 Risolvere l’equazione


x−y
y0 = .
x+y

Studiamo l’equazione in ]0, +∞[. Lo studio si effettua in maniera simile in ] − ∞, 0[. Procedendo
come è stato illustrato sopra si ha che la funzione z definita dalla (3.5) risolve l’ equazione

1 (z + 1)2 − 2
z0 = −
x z+1

che si risolve con i metodi visti nel paragrafo precedente. Le soluzioni costanti sono
√ √
z(x) = −1 + 2 z(x) = −1 − 2 ∀x ∈]0, +∞[.

Le soluzioni non costanti sono (k > 0)


r
k
z(x) = −1 + 2+ 2 ∀x ∈]0, +∞[;
x
r
k
z(x) = −1 − 2 + 2 ∀x ∈]0, +∞[;
x
r r
k k
z(x) = −1 + 2 − 2 ∀x ∈] , +∞[;
x 2
r r
k k
z(x) = −1 − 2 − 2 ∀x ∈] , +∞[;
x 2

e non ci sono soluzioni di tipo misto. Mediante la posizione (3.5) si ottengono le soluzioni dell’
equazione di partenza.

Consideriamo l’equazione
y 0 = f (ax + by) b 6= 0 (3.7)
con f : (γ, δ) → R funzione continua. Risolvere la (3.7) significa trovare tutte le funzioni y :
(α, β) → R derivabili tali che:

1) ax + by(x) ∈ (γ, δ) ∀x ∈ (α, β);

16
Appunti di Analisi Matematica II

2) y 0 (x) = f (ax + by(x)) ∀x ∈ (α, β).

Consideriamo la funzione

z : (α, β) → R z(x) = ax + by(x).

Se y è una soluzione dell’ equazione (3.7) allora la funzione z risulta una soluzione dell’ equazione

z 0 = a + bf (z)

a variabili separabili.
Esempio 3.10 Risolvere il problema di Cauchy
( p
y 0 = 1 + |y − x|
y(1) = 1
Ponendo u(x) = y(x) − x il problema diventa
( p
u0 = |u|
u(1) = 0

che si risolve con i metodi visti nel paragrafo precedente. Il problema ammette infinite soluzioni e
sono:
u(x) ≡ 0 ∀x ∈ R;
 2
 x+c

x > −c;
u(x) = 2

0 x ≤ −c.

  2
− x + c

x < −c;
u(x) = 2

0 x ≥ −c.

Esempio 3.11 Risolvere l’equazione

y 0 = (y − x)2 .
Ragionando come nell’ esempio precedente si trova:

1 + ke2x √
u(x) = x < − log k;
1 − ke2x
1 + ke2x √
u(x) = x > − log k;
1 − ke2x
1 − ke2x
u(x) = ∀x ∈ R.
1 + ke2x

Equazioni di tipo omogeneo generalizzato Sono equazioni del tipo


 
0 ax + by + c
y =f
a1 x + b1 y + c1

17
G.Di Fazio

con f funzione continua. Per la risoluzione consideriamo due casi:


Se risulta
a b
a1 b1 = 0

a b
posto λ = a1 = b1 l’ equazione diventa
 
0 λc1 + c
y =f λ− ≡ g(a1 x + b1 y)
a1 x + b1 y + c1

che si riconduce facilmente ad un’ equazione a variabili separabili ponendo a1 x + b1 y = u.


Se invece risulta
a b
a1 b1 6= 0

il sistema (
ax + by = −c
a1 x + b1 y = −c1

ha una ed una sola soluzione (x0 , y0 ). Risulta allora


(
ax0 + by0 = −c
(3.8)
a1 x0 + b1 y0 = −c1

Poniamo
η(ξ) = y(ξ + x0 ) − y0
Ovviamente η risulta derivabile ed, utilizzando le (3.8) si trova
 
0 0 a(ξ + x0 ) + by(ξ + x0 ) + c
η (ξ) = y (ξ + x0 ) = f
a1 (ξ + x0 ) + b1 y(ξ + x0 ) + c1
 
aξ + bη(ξ)
=f
a1 ξ + b1 η(ξ)

che è di un tipo precedentemente considerato.


Esempio 3.12 Risolvere l’equazione
x−y
y0 = .
x+y−2
Il punto (x0 , y0 ) in questo caso è il punto (1, 1). Procedendo come sopra illustrato si ottiene l’
equazione
ξ−η
η0 =
ξ+η
che è già stata risolta in precedenza.
Esempio 3.13 Risolvere il problema di Cauchy

 y0 = x + 2 y

y x
y(1) = 1

18
Appunti di Analisi Matematica II

y(x)
Ponendo u(x) = x il problema si riduce al seguente

u2 + 1
 
 0 1
 u =
x u

 u(1) = 1

Risolvendo quest’ ultimo problema e sostituendo si trova che l’ unica soluzione del problema asseg-
nato è la funzione p 1
y(x) = x 2x2 − 1 ∀x > √ .
2

Esempio 3.14 Risolvere il problema di Cauchy

 y 0 = 2xy

x2 − y 2
y(1) = 2

y(x)
Ponendo u(x) = x il problema si riduce al seguente

u u2 + 1

 u0 =
x 1 − u2

u(1) = 2

Possiamo supporre u > 1. Separando le variabili ed integrando si trova



1+ 1 − 4k 2 x2 1 1
u(x) = x ∈]1, [ 0<k<
2kx 2k 2
e non ci sono altre soluzioni grazie al teorema di esistenza ed unicità.
Esempio 3.15 Risolvere l’equazione
p
xy 0 = y + x2 + y 2
Se x > 0, risolviamo l’equazione r
y  y 2
0
y = + 1+
x x
che è di tipo omogeneo e, procedendo come nell’ esempio precedente, si trova

1 2 1
y(x) = kx − , x > 0, k > 0.
2 2k
Se x < 0, otteniamo l’equazione r
y  y 2
0
y = − 1+
x x
le cui soluzioni sono
x2 k
y(x) = − + , x < 0, k > 0.
2k 2

19
G.Di Fazio

Esempio 3.16 Risolvere il problema di Cauchy

 y 0 = y 1 + log y
  
x x
 y(1) = e

Procedendo come negli esempi precedenti si trova

y(x) = xex ∀x > 0.

Equazioni differenziali di Bernoulli Siano p, q : (a, b) → R due funzioni continue in (a, b) e sia
m ∈ R. L’equazione differenziale
y 0 + p(x)y = q(x)y m (3.9)
si chiama equazione differenziale di Bernoulli. Se m = 0 oppure m = 1 l’equazione (3.9) è lineare
quindi non è restrittivo supporre m 6= 0, 1. Cerchiamo le soluzioni positive di (3.9). Dividendo per
y m e ponendo u(x) = y 1−m (x) si trova

u0 + (1 − m)p(x)u = (1 − m)q(x). (3.10)

Quindi, se y(x) è una soluzione positiva della (3.9) allora u(x) è una soluzione positiva della (3.10)
e viceversa.

p
1) Se 1 − m è pari allora y(x) = ± 1−m u(x) possono essere soluzioni;
p
2) Se 1 − m non è un intero pari allora y(x) = 1−m
u(x) è una soluzione positiva.

Esempio 3.17 Risolvere l’equazione y 0 = xy + xy 3 .


1
In questo caso m = 3 e y ≡ 0 è soluzione in R. Sia y(x) > 0 ∀x ∈ (a, b). Poniamo u(x) = y 2 (x) ∀x ∈
(a, b). Ragionando come in precedenza si trova

u0 + 2xu = −2x ∀x ∈ (a, b)

che è un’ equazione lineare il cui integrale generale è


2
u(x) = −1 + ke−x k ∈ R.

Imponendo u(x) > 0 si trova |x| < log k e quindi le soluzioni dell’ equazione di Bernoulli sono

1 p
y(x) = ± √ |x| < log k.
ke−x2 − 1

Non ci sono altre soluzioni. Infatti il problema di Cauchy


(
y 0 = xy + xy 3
y(x̄) = 0

20
Appunti di Analisi Matematica II

ha unicità in piccolo ∀x ∈ R.

Esempio 3.18 Risolvere l’equazione y 0 = xy + x y.
1
In questo caso m = 2 e y ≡ 0 è soluzione in R. Sia y(x) > 0 ∀x ∈ (a, b). Poniamo u(x) =
p
y(x) ∀x ∈ (a, b). Ragionando come in precedenza si trova
x x
u0 − u=
2 2
il cui integrale generale è
x2
u(x) = −1 + ke 4 , k > 0.
Imponendo che u(x) > 0 si trovano le soluzioni dell’ equazione di Bernoulli assegnata che sono:
 x2
2
y(x) = −1 + ke 4 ∀x ∈ R k ≥ 1;
 x2
2 p
y(x) = −1 + ke 4 ∀x ∈]2 − log k, +∞[ 0 < k < 1;
 x2
2 p
y(x) = −1 + ke 4 ∀x ∈] − ∞, −2 − log k[ 0 < k < 1.

Questa volta ci sono soluzioni miste. Esse sono



x2
2



 −1 + k̄e 4 x > x̄;

y(x) = 0 ¯ ≤ x ≤ x̄;


  2  2
 −1 + k̄¯e x4

 ¯;
x < x̄

con k̄, k̄¯ < 1.


Esempio 3.19 Risolvere il problema di Cauchy
( √
y 0 = xy + x 4 y
y(1) = 1.
3
Cerchiamo soluzioi positive in un intorno di x = 1. Ponendo u(x) = y 4 (x) si ha:

3 3
u0 = xu + x
4 4
il cui integrale generale è
3 2
u(x) = −1 + ke 8 x k ∈ R.
Imponendo la condizione u(x) > 0 in (a, b) si trova:
 3 2
 43
y(x) = −1 + ke 8 x ∀x ∈ (a, b)
q q
dove (a, b) = R se k ≥ 1 mentre (a, b) =] − 83 log k, +∞[ oppure (a, b) =] − ∞, − − 83 log k[ se
0 < k < 1. Imponendo la condizione di Cauchy si trova che l’ unica soluzione del problema è
 3 2
 43
y(x) = −1 + 2e 8 (x −1) ∀x ∈ R.

21
G.Di Fazio

Esempio 3.20 Risolvere l’equazione

1 e2 sen x 3
y 0 + y cos x + y = 0.
2 x3 − 1
Osserviamo che m = 3 quindi y ≡ 0 ∀x ∈ R è soluzione e che se una funzione positiva è soluzione
allora risulta soluzione anche la sua opposta. Procedendo come negli esempi precedenti, ponendo
u = y12 , si trova
e2 sen x
u0 − 2 cos xu = 3
x −1
il cui integrale generale è
u(x) = e2 sen x (k + γ(x))
1
dove γ(x) è una primitiva di x3 −1 , ovvero


 
1 1 1 2 2 1
γ(x) = log |x − 1| − log(x + x + 1) + 3 arctang √ (x + )
3 3 2 3 2

ed x è scelto in modo che risulti γ(x) + k > 0.


Allora:

1) se x > 1, detto x̄ l’unico punto tale che γ(x̄) = −k, risulta (a, b) =]x̄, +∞[.

π ¯ [ mentre se k ≤ π
2) se x < 1, k > √
2 3
risulta (a, b) =] − ∞, x̄ √
2 3
non ci sono soluzioni.

In definitiva le soluzioni sono: La funzione identicamente nulla e

e− sen x
y(x) = ± p
γ(x) + k

¯ [ se k > π
in ]x̄, +∞[, x̄ > 1 ∀k ∈ R oppure ] − ∞, x̄ √
2 3
e non ci sono altre soluzioni.

Equazioni del secondo ordine. Alcuni casi particolari Sia f : Ω → R, Ω ⊂ R3 e sia


(x0 , y0 , y00 ) ∈ Ω. Il problema
y 00 = f (x, y, y 0 )



y(x0 ) = y0
 0
y (x0 ) = y00

è equivalente al problema
y0 = u



u0 = f (x, y, u)



 y(x0 ) = y0

u(x0 ) = y00

e le questioni di esistenza ed unicità si possono discutere facendo riferimento alla teoria dei sistemi
di equazioni differenziali.
Esaminiamo alcuni casi particolari.

22
Appunti di Analisi Matematica II

1) La funzione f dipende soltanto da y.

y 00 = f (y)



y(x0 ) = y0
 0
y (x0 ) = y00

In tal caso l’ equazione si abbassa di ordine moltiplicando per 2y 0 ed integrando. Detta F una
primitiva di f si trova
(y 0 )2 = 2F (y) + c c∈R

2) La funzione f dipende soltanto da y 0 .

y 00 = f (y 0 )



y(x0 ) = y0
 0
y (x0 ) = y00

In questo caso è sufficiente porre u = y 0 come è stato osservato in precedenza.

Equazioni differenziali di Eulero Siano dati a1 , . . . , an ∈ R ed una funzione f : (a, b) → R.


L’equazione
a1 an−1 an
y (n) + y (n−1) + · · · + n−1 y 0 + n y = f (x) (3.11)
x x x
si chiama equazione di Eulero ed è assegnata in ] − ∞, 0[ oppure in ]0, +∞[. L’equazione (3.11)
è lineare a coefficienti variabili. Illustriamo adesso un procedimento mediante il quale essa si
riconduce ad una equazione lineare a coefficienti costanti. Supponiamo, per semplicità, n = 2. Se
x > 0, poniamo x = et . La (3.11) scritta per x = et fornisce allora

e2t y 00 (et ) + a1 et y 0 (et ) + a2 y(et ) = e2t f (et ) ∀t ∈ R. (3.12)

Adesso poniamo u(t) = y(et ), deriviamo due volte e sostituiamo nella (3.12) che diventa

u00 + (a1 − 1)u0 + a2 u = e2t f (et ) ∀t ∈ R.

Se x < 0 ci si riconduce facilmente al caso precedente ponendo x = −t.


Esempio 3.21 Risolvere l’equazione

x2 y 00 + 3xy 0 + y = 0.
Se x > 0, abbiamo
u00 + 2u0 + u = 0
il cui integrale generale è

u(t) = (c1 + c2 t) e−t ∀t ∈ R ∀c1 , c2 ∈ R

e quindi
1
y(x) = (c1 + c2 log x) ∀x > 0.
x

23
G.Di Fazio

Si procede similmente per x < 0.


Esempio 3.22 Risolvere il problema
 2 00 0
 x y − xy + y = 2x

y(1) = 0
y 0 (1) = 1

Procedendo esattamente come nell’ esempio precedente si trova


 00 0 t
 u − 2u + u = 2e

u(0) = 0
u0 (0) = 1

che ammette la funzione


u(t) = t(1 + t)et ∀t ∈ R
come soluzione e quindi l’unica soluzione del problema assegnato è

y(x) = log x(1 + log x)x ∀x > 0.

Esempio 3.23 Risolvere l’equazione

x2 y 00 − xy 0 − 3y = 0.
Se x > 0, abbiamo
u00 − 2u0 − 3u = 0
il cui integrale generale è
u(t) = c1 e3t + c2 e−t ∀t ∈ R
1
y(x) = c1 x3 + c2 ∀x > 0.
x
Se x < 0, si ottiene  
3 1
y(x) = − c1 x + c2 ∀x > 0.
x

Esempio 3.24 Risolvere l’equazione

x2 y 00 + xy 0 + 4y = 0.
Se x > 0, si riduce a
u00 + 4u = 0
il cui integrale generale è
u(t) = c1 sen 2t + c2 cos 2t ∀t ∈ R
y(x) = c1 sen(2 log x) + c2 cos(2 log x) ∀x > 0
mentre se x < 0, si ottiene

y(x) = c1 sen(2 log |x|) + c2 cos(2 log |x|) ∀x < 0.

24
Appunti di Analisi Matematica II

Equazione differenziale di Clairaut Sia ψ : (α, β) → R una funzione derivabile in (α, β). L’
equazione
y = xy 0 + ψ(y 0 ) (3.13)
si dice di Clairaut. É un’ equazione del primo ordine in forma non normale (cioè non risolta rispetto
alla derivata prima). Cerchiamo eventuali soluzioni della (3.13) che siano di classe C 2 . Derivando
la (3.13) si trova
y 00 (x + ψ 0 (y 0 )) = 0
e quindi y(x) = ax + ψ(a) e x + ψ 0 (y 0 ) (integrale singolare).
Esempio 3.25 Risolvere l’equazione
2
y = xy 0 + y 0 .
Procedendo come illustrato sopra si trova

x2
y(x) = ax + a2 e y(x) = − .
4

Esempio 3.26 Risolvere l’equazione


0
y = xy 0 + ey .
Procedendo come illustrato sopra si trova

y(x) = ax + ea e y(x) = x log(−x) − x ∀x < 0.

Esempio 3.27 Risolvere l’equazione


q
0
y = xy + 1 − y 0 2 .
Procedendo come illustrato sopra si trova
p p
y(x) = ax + 1 − a2 |a| < 1 e y(x) = 1 + x2 ∀x ∈ R.

Equazioni differenziali esatte Sia Ω un aperto semplicemente connesso di R2 ed

ω ≡ P (x, y)dx + Q(x, y)dy

una forma differenziale chiusa di classe C 0 (Ω) tale che Q(x, y) 6= 0 ∀(x, y) ∈ Ω. Allora l’equazione

P (x, y)
y0 = − (3.14)
Q(x, y)

si dice equazione differenziale esatta del primo ordine. Dimostriamo che, l’integrale generale dell’
equazione (3.14) è dato dalla formula

U(x, y(x)) = c c∈R (3.15)

dove U è una funzione potenziale della forma differenziale ω.

25
G.Di Fazio

Infatti, se y(x) è una funzione implicita definita dall’ equazione U(x, y) − c = 0, per il teorema
del Dini,
Ux (x, y(x)) P (x, y(x))
y 0 (x) = − =−
Uy (x, y(x)) Q(x, y(x))
ovvero, y(x) è una soluzione dell’equazione (3.14). Viceversa, se y(x) è una soluzione dell’ equazione
(3.14), allora
d
U(x, y(x)) = Ux (x, y(x)) + Uy (x, y(x))y 0 (x) = P (x, y(x)) + Q(x, y(x))y 0 (x) = 0
dx
e quindi U(x, y(x)) = c per qualche c ∈ R.

Quindi, l’equazione (3.14) si può risolvere completamente nell’ ipotesi che la forma differenziale
ω ≡ P (x, y)dx + Q(x, y)dy
sia esatta. Tuttavia, nelle applicazioni, questo non sempre accade. In tal caso si può però deter-
minare una funzione µ(x, y) detta fattore integrante in maniera tale che la forma µω risulti esatta.
La determinazione di tale funzione, in generale è molto difficile e quindi in pratica si tenta di trovare
fattori integranti di tipo particolare.
Esempio 3.28 Determinare una funzione ϕ ∈ C 1 (]0, +∞[) in modo che la forma differenziale
ω = (x3 + y 3 )ϕ(x)dx + (−xy 2 ϕ(x))dy
risulti esatta in Ω =]0, +∞[×R. Risolvere poi il problema
3 3
 y0 = x + y

xy 2

y(1) =1

In questo caso la forma differenziale


(x3 + y 3 )dx + (−xy 2 )dy
non è esatta in Ω perchè non è chiusa. La funzione ϕ(x) è un fattore integrante per tale forma
ma, come si può notare, è di tipo particolare perchè dipende soltanto dalla variabile x. Essendo Ω
semplicemente connesso (è convesso) basterà imporre che ω sia chiusa. Imponendo le condizioni di
simmetria si trova
3y 2 ϕ(x) = −y 2 (ϕ(x) + xϕ0 (x)) ∀(x, y) ∈ Ω
ovvero
xϕ0 (x) = −4ϕ(x) ∀x > 0
e quindi la funzione ϕ(x) è una soluzione dell’ equazione lineare omogenea
4
ϕ0 = − ϕ
x
1
in ]0, +∞[. Risolvendo l’ equazione differenziale si trova che ϕ(x) = x4 . Trovata la funzione ϕ(x)
determiniamo un potenziale di ω. Si trova
y3 1
U(x, y) = − + log x +
3x3 3

e quindi, risolvendo rispetto ad y, y(x) = x 3 3 log x + 1 che è la soluzione del problema di Cauchy
assegnato. La soluzione è unica per il teorema di esistenza ed unicità in piccolo.

26
1. Serie di Fourier

1.1 Serie di Fourier in L2 ([a, b]).

Definizione 1.1 Una successione {ϕj } di elementi di L2 si dice sistema ortonormale in L2 ([a, b])
se: Z b
< ϕ i , ϕj > ≡ ϕi (x)ϕj (x) dx = δij ∀i, j ∈ N.
a

Definizione 1.2 Fissato un sistema ortonormale e una funzione f ∈ L2 ([a, b]) la successsione
numerica cj =< f, ϕj > si dice successione dei coefficienti di Fourier di f rispetto al sistema
ortonormale {ϕj }.

Teorema 1.1 Sia {ϕj } un sistemo ortonormale in L2 ([a, b]) e sia f ∈ L2 ([a, b]). Se {cj } è la
successione dei coefficienti di Fourier di f, e {γj } una successione arbitraria, poniamo
n n
∀n ∈ N.
X X
sn (x) = cj ϕj (x), tn (x) = γj ϕj (x),
j=1 j=1

Allora,
kf − sn k2 ≤ kf − tn k2 , ∀n ∈ N
e il minimo dell’espressione a secondo membro si ha quando γj = cj , ∀j ∈ N.

Dim. Calcoliamo kf − tn k22 . Usando la definizione di sistema ortonormale si ha:


Z b Z b Z b
kf − tn k22 = (f − tn )(f − tn ) dx = kf k22 + ktn k22 − f tn dx − f tn dx.
a a a

Ma Z b Z n
bX n
X n
X
ktn k22 = tn tn dx = γj ϕj (x) γi ϕi (x) dx = |γj |2
a a j=1 i=1 j=1

e anche
Z b Z b n
X n
X Z b n
X
f (x)tn (x) dx = f (x) γj ϕj (x) dx = γj f (x)ϕj (x) dx = cj γj
a a j=1 j=1 a j=1

e quindi,
n
X n
X n
X
kf − tn k22 = kf k22 + |γj |2 − cj γj − cj γj
j=1 j=1 j=1
n n n
∀n ∈ N
X X X
= kf k22 + 2
|γj − cj | − 2
|cj | ≥ kf k22 − |cj |2
j=1 j=1 j=1
G.Di Fazio

e la tesi a questo punto è evidente.


Corollario 1.1 (Disuguaglianza di Bessel) Per ogni f ∈ L2 ([a, b]) si ha:
 1/2

X
 |cj |2  ≤ kf k2 .
j=1

Dim. Basta porre γj = cj nell’ultima disuguaglianza della precedente dimostrazione. Si ottiene


n
∀n ∈ N
X
0 ≤ kf − sn k22 = kf k22 − |cj |2
j=1

e, passando al limite per n → ∞ si ha la disuguaglianza della tesi.


Corollario 1.2 limn→∞ cn = 0.

Dim. Ovvia.

Definizione 1.3 Un sistema ortonormale in L2 ([a, b]) si dice completo se cj = 0 ∀j ∈ N ⇒ f = 0.

Teorema 1.2 (Formula di Parseval) Se {ϕj } è un sistema ortonormale completo, si ha:


 1/2

X
 |cj |2  = kf k2 .
j=1

Dim. Per provare la tesi sarà sufficiente dimostrare che limn ksn − f k2 = 0 e per questo basterà
provare che la successione sn è una successione di Cauchy nella norma di L2 . Pertanto, usando la
disuguaglianza di Bessel ed il fatto che {ϕj } è ortonormale, si ha:
2
n+p Z b n+p n+p
X X X
2

ksn+p − sn k2 =
cj ϕj =
cj ϕj (x) ci ϕi (x) dx
j=n+1 a j=n+1 i=n+1
Z b n+p n+p
∀n > ν, ∀p ∈ N.
X X
= ci cj ϕj (x)ϕi (x) dx = |cj |2 < ε
a i,j=n+1 j=n+1

Per la completezza di L2 esiste una funzione u ∈ L2 ([a, b]) tale che limn ksn − uk2 = 0. Adesso
vogliamo provare che u = f nel senso di L2 ovvero che ku − f k2 = 0. Per fare questo usiamo la
completezza del sistema {ϕj }. Proviamo quindi che la funzione u ha gli stessi coefficienti di Fourier
della funzione f.
n
X
< u, ϕj > = < u − sn , ϕj > + < sn , ϕj >= < u − sn , ϕj > + ci < ϕi , ϕj >
i=1
= < u − sn , ϕj > +cj ∀j, n ∈ N.

2
Appunti di Analisi Matematica II

Applicando la disuguaglianza di Cauchy - Schwarz, si ottiene:

|< u − sn , ϕj >| ≤ ku − sn k2 kϕj k2 = ku − sn k2 → 0

da cui
< u, ϕj >= cj ∀j ∈ N
e, per la completezza del sistema {ϕj } si ha u = f in L2 da cui u = f q.o.. Da questo si ha

lim ksn − f k2 = 0
n

e quindi l’eguaglianza di Parseval.

1.2 Convergenza puntuale delle Serie di Fourier.

Sia f : R → R una funzione periodica di periodo 2π. Poniamo


Z π
1 1
cn = < f, eınx >= f (x)e−ınx dx, ∀n ∈ N0
2π 2π −π
e,
c−n = cn , ∀n ∈ N.
Inoltre sia,
n
X
sn (x) = ch eıhx , ∀x ∈ [−π, π[.
h=−n

La serie di Fourier di f è allora,


+∞
X
ch eıhx . (2.1)
h=−∞

Sebbene la (2.1) sia molto maneggevole, talvolta è utile anche la forma reale di (2.1). A tal fine
posto
 a0
 c0 = ;


 2
ah − ıbh
c = , h ∈ N;
 h
 2
h∈N


c−h = ch ,
si ha:

a0 X
f (x) = + (an cos nx + bn sen nx) (2.2)
2 n=1

Vogliamo, in questo paragrafo, indagare su alcune condizione che possano garantire la convergenza
puntuale della serie (2.1), ovvero della serie (2.2). Una prima ovvia condizione che assicura la
convergenza (totale) della (2.2) è
X∞
(|an | + |bn |) < ∞.
n=1

Naturalmente si ha: Z π
f (x) cos mxdx = πam ∀m ∈ N0 (2.3)
−π

3
G.Di Fazio

e Z π
f (x) sen mxdx = πbm ∀m ∈ N (2.4)
−π

Osservazione 2.1 Gli integrali in (2.3) e (2.4) possono essere estesi ad un intervallo qualsiasi di
lunghezza pari al periodo.

Osservazione 2.2 Se la funzione f (x) è pari, dalle (2.3) e (2.4) si ha bn = 0 mentre

2 π
Z
an = f (x) cos nxdx.
π 0

Similmente se f (x) è dispari, sempre dalle (2.3) e (2.4) si ha an = 0 mentre

2 π
Z
bn = f (x) sen nxdx.
π 0

Osservazione 2.3 Se la funzione f (x) è periodica di periodoT 6= 2π allora tutto quello che
abbiamo detto sin qui si ripete sostituendo sen nx con sen 2πn 2πn

T x e cos nx con cos T x .

In ogni caso i numeri an , bn si dicono coefficienti di Fourier della funzione f (x).


Esempio 2.1 (Onda a dente di sega) La serie di Fourier relativa alla funzione f (x) = x − [x]
periodica di periodo T = 1 in R è

1 1X1
− sen(2nπx).
2 π n=1 n

Studiamo adesso il problema della convergenza puntuale delle serie di Fourier. Poniamo
n
X
Dn = eıhx
h=−n

che si dice nucleo di Dirichlet di ordine n. Possiamo esprimere sn (x) in funzione di Dn (x). Si ha:
n Z π n
X 1 X
sn (x) = ch e ıhx
= f (t) e−ıht dteıhx
2π −π
h=−n h=−n
Z π n Z π
1 X
ıh(x−t) 1
= f (t) e dt = f (t)Dn (x − t) dt
2π −π 2π −π
h=−n

e quindi,
Z π Z π
1 1
sn (x) − f (x) = f (t)Dn (x − t) dt − f (x) = f (x − t)Dn (t) dt − f (x)
2π −π 2π −π
Z π
1
= (f (x − t) − f (x))Dn (t) dt
2π −π

4
Appunti di Analisi Matematica II

Supponiamo adesso che, per ogni x ∈ R ∃δ > 0, M ≥ 0 : |f (x − t) − f (x)| ≤ M |t| ∀t ∈] − δ, δ[.


Allora,
Z π Z π
1 f (x − t) − f (x) 1 1 1
|sn (x) − f (x)| ≤
sen(n + 2 )t dt ≡ 2π
|g(t)| sen(n + )t dt

2π −π sen 2t −π 2
Z π Z π
1 t 1 t
≤ |g(t)| sen nt cos dt + |g(t)| cos nt sen dt
2π −π 2 2π −π 2
Z π Z π
1 1
≤ |g(t)|| sen nt| dt + |g(t)|| cos nt| dt → 0.
2π −π 2π −π

Infatti, g ∈ L2 ([−π, π]) e quindi gli integrali tendono a zero per il corollario alla disuguaglianza di
Bessel del paragrafo precedente. Abbiamo quindi provato che

Teorema 2.1 Sia f : R → R una funzione periodica di periodo 2π e localmente integrabile.


Supponiamo che, per ogni x ∈ R ∃δ > 0, M ≥ 0 : |f (x − t) − f (x)| ≤ M |t| ∀t ∈] − δ, δ[. Allora, la
serie di Fourier converge alla funzione f (x) in [−π, π[.

Più in generale si potrebbe dimostrare che

Teorema 2.2 Sia f : R → R una funzione periodica di periodo 2π, limitata in ] − π, π[ e monotona.
Supponiamo che, per ogni x ∈ R ∃δ > 0, M ≥ 0 : |f (x − t) − f (x)| ≤ M |t| ∀t ∈] − δ, δ[. Allora, la
+
(x− )
serie di Fourier converge, alla funzione mf (x) ≡ f (x )+f
2 in [−π, π[.

Esempio 2.2 Sviluppare la funzione f (x) = x − [x] periodica in R di periodo T = 1.

La funzione data è periodica di periodo T = 1 e verifica le ipotesi del teorema di sviluppabilità


e si trova Z 1
cn = xe−2nπıx dx
0
1 1
e−2nπıx
 Z
1 ı
= x − e−2nπıx dx = ∀n ∈ N,
−2nπı 0 −2nπı 0 2nπ
mentre Z 1
1
c0 = x dx =
0 2
e quindi la serie di Fourier di f (x) è

1 ı X 1 2nπıx 1 1X1
+ e = − sen 2nπx
2 2π n 2 π n=1 n
n6=0

che converge alla funzione mf (x) in R. Osserviamo che, ponendo x = 2π1 si ottiene,

X sen n π−1
= .
n=1
n 2

5
G.Di Fazio

Esempio 2.3 Sviluppare la funzione


(
x2 |x| ≤ π;
f (x) =
f (x + 2π) x ∈ R.

periodica in R di periodo T = 2π.

La funzione data è continua in R e 2π− periodica. Inoltre è monotona decrescente in [−π, 0]


e monotona crescente in [0, π] quindi per il teorema di Dirichlet è sviluppabile e la serie di Fourier
converge ad f (x) in R. Abbiamo:
π
π2
Z
1
c0 = x2 dx =
2π −π 3
( )
π 2 −nıx π Z π −nıx
Z 
1 1 x e e
cn = x2 e−nıx dx = − 2x dx
2π −π 2π −ın −π −π −ın
Z π
ı 2
=− xe−nıx dx = (−1)n 2 ∀n 6= 0
nπ −π n

quindi,

π2 X (−1)n π2 (−1)n
∀x ∈ R.
X
ınx
f (x) = +2 e = + 4 cos nx
3 n2 3 n=1
n2
n6=0

In particolare, se x = 0 otteniamo

π2 X (−1)n−1
=
12 n=1 n2
mentre, se x = π,

π2 X 1
= .
6 n=1
n2

Quest’ ultima va sotto il nome di formula di Eulero. Inoltre, dalla formula di Eulero possiamo
dedurre che

X 1 π2
2
= .
n=0
(2n + 1) 8

Infatti,
∞ ∞ ∞
X 1 X 1 X 1
2
= 2
+
n=1
n n=0
(2n + 1) n=1
(2n)2
∞ ∞
X 1 1X 1
= +
n=0
(2n + 1)2 4 n=1 n2

e quindi
∞ ∞
X 1 3X 1 π2
= = .
n=0
(2n + 1)2 4 n=1 n2 8

6
Appunti di Analisi Matematica II

Esempio 2.4 Sviluppare la funzione


(
x4 |x| ≤ π;
f (x) =
f (x + 2π) x ∈ R.

periodica in R di periodo T = 2π.

La funzione data è continua in R e 2π− periodica. Inoltre è monotona decrescente in [−π, 0]


e monotona crescente in [0, π] quindi per il teorema di Dirichlet è sviluppabile e la serie di Fourier
converge ad f (x) in R. Abbiamo:
π
π4
Z
1
c0 = x4 dx =
2π −π 5
Z π
4 π 3 −ınx
 4 −ınx  Z 
1 4 −ınx 1 x e
cn = x e dx = + x e dx
2π −π 2π −ın ın −π
Z π
2 4π 2 24
x3 e−ınx dx = (−1)n 2 − (−1)n 4 ∀n 6= 0.
ınπ π n n

Quindi

π4 X 2
π4 X 2
   
n 4π n 24 n 8π n 48
f (x) = + (−1) − (−1) 4 e ınx
= + cos nx (−1) − (−1) 4 ∀x ∈ R.
5 n2 n 5 n=1 n2 n
n6=0

Se x = π si trova

π4 X 1
= .
90 n=1 n4

Osservazione 2.4 Il valore della somma dell’ultima serie si pup̀ ottenere anche applicando la
formula di Parseval allo sviluppo della funzione x2 .

Esempio 2.5 Sviluppare la funzione


(
ex x ∈ [−π, π[;
f (x) =
f (x + 2π) x ∈ R.

periodica in R di periodo T = 2π.

La funzione è sviluppabile e si ha:


Z π
1 cosh π
c0 = ex dx =
2π −π π
Z π Z π
1 x −ınx 1 senh π 1 + ın
cn = e e dx = ex(1−ın) dx = (−1)n ∀n 6= 0.
2π −π 2π −π π 1 + n2

7
G.Di Fazio

quindi,
+∞
senh π X 1 + ın ınx
f (x) = (−1)n e ∀x ∈ R.
π n=−∞ 1 + n2

Se x = π si trova
+∞
π X senh π 1 + ın
= (−1)n
tangh π n=−∞ π 1 + n2

da cui,
+∞  
X 1 1 π
2
= −1 ,
n=1
1+n 2 tangh π

mentre se x = 0, si trova
+∞
X 1 1 π 
(−1)n = − 1 .
n=1
1 + n2 2 senh π

8
1. Teoria dell’integrazione

1.1 Integrazione secondo Riemann

Definizione 1.1 Un intervallo n-dimensionale è un sottoinsieme di Rn prodotto di n intervalli


unidimensionali, detti componenti. Cioè, ∆ ⊆ Rn è intervallo n-dimensionale se si può scrivere
n
Y
∆ = [a1 , b1 ] × [a2 , b2 ] × . . . × [an , bn ] = (bj − aj ) : aj ≤ bj ∀j = 1, . . . , n.
j=1

Definizione 1.2 Se ∆ ⊆ Rn è un intervallo, diciamo sua misura elementare n-dimensionale, il


numero
n
Y n
Y
λn (∆) = (bj − aj ) = λ1 (∆j ).
j=1 j=1

per n = 2 la misura 2-dimensionale è detta area; per n ≥ 3 volume.


Notiamo che l’intersezione di due n−intervalli è un n−intervallo, prodotto delle intersezioni dei
singoli componenti ovvero
Yn
0 00
∆0i ∩ ∆00j

∆ ∩∆ =
i,j=1

Definizione 1.3 Una funzione a scalino f : Rn → R, è una combinazione lineare finita a coefficienti
reali di funzioni caratteristiche di intervalli di Rn ,
n
∀x ∈ Rn .
X
f (x) = cj χEj (x),
j=1

Una decomposizione associata ad una funzione a scalino è una decomposizione di Rn in intervalli


(E1 , . . . , Ep ) tale che f sia costante su ciascun Ej ; cioè gli Ej sono intervalli n-dimensionali disgiunti
la cui unione è Rn , ed f è costante su ciascun Ej . Ogni funzione a scalino ha una decomposizione
associata, e l’insieme S(Rn ) delle funzioni a scalino è sottospazio vettoriale di RR .
n

Definizione 1.4 Data f : Rn → R diciamo supporto della funzione f l’insieme

supp f = { x ∈ Rn : f (x) 6= 0}

Ovviamente le funzioni a supporto compatto sono quelle identicamente nulle al di fuori di un


sottoinsieme limitato di Rn . La classe delle funzioni a scalino a supporto compatto si indica con
Sc (Rn ).
È evidente che esse sono quelle funzioni che, in ogni decomposizione associata, sono identicamente
nulle sugli intervalli illimitati della decomposizione, e sono combinazioni lineari finite di funzioni
caratteristiche di intervalli limitati di Rn . Se f è a scalino a supporto compatto, ed ha (E1 , ..., Ep )
G.Di Fazio

come decomposizione associata, e se E1 , ..., Em sono gli intervalli limitati della suddivisione, ed
f (Ej ) = aj , si ha
m
∀x ∈ Rn
X
f= aj χEj (x),
j=1

e quest’ ultima si dice calittura in forma ridotta di f.

Definizione 1.5 Data f ∈ Sc (Rn ), f =


Pm
j=1 aj χEj (x), poniamo:

Z m
X
f dx = aj λn (Ej ).
Rn j=1

Osservazione 1.1 L’integrale non dipende dalla decomposizione scelta.

Teorema 1.1 Sia f ∈ Sc (R2 ), f (x) = R2 .


Pm
j=1 aj χAj (x) essendo Aj intervalli limitati di Allora

1) fx ≡ f (x, ·) ∈ Sc (R) per ogni x ∈ R;

2) ϕ(x) ≡ R f (x, y)dy ∈ Sc (R);


R

R R
3) R ϕ(x)dx = R2 f (x, y)dxdy.

Dim. Sia Aj = Ej × Fj , con gli Ej , Fj intervalli unidimensionali. Fissato x ∈ R si ha, per la


x-sezione:
Xm
fx (y) = aj χEj (x)χFj (y)
j=1

cioè
m
X
f (x, · ) = aj χEj (x)χFj (·).
j=1

Essendo questa una combinazione lineare di funzioni caratteristiche di intervalli limitati, sta in
Sc (R); inoltre
Z Xm
ϕ(x) = fx (y)dy = aj χEj (x)λ1 (Fj )
R j=1

ovvero
m
(aj λ1 (Fj ))χEj (x) ∈ Sc (R)
X
ϕ(x) =
j=1

e quindi
Z m
X m
X Z
ϕ(x)dx = aj λ1 (Fj )λ1 (Ej ) = aj λ2 (Aj ) = f (x, y)dxdy
R j=1 j=1 R2

2
Appunti di Analisi Matematica II

Teorema 1.2 Sia


m
aj χAj (x) ∈ Sc (Rn × Rm )
X
f (x) =
j=1

essendo Aj intervalli limitati di Rn . Allora


1) f (x, · ) ∈ Sc (Rm ) ∀x ∈ Rn ;

2) ϕ(x) ≡ Rm f (x, y)dy ∈ Sc (Rn ) ∀x ∈ Rn ;


R

R R
3) Rn ϕ(x)dx = Rn ×Rm f (x, y)dxdy.

Dim. Identica alla precedente.

Teorema 1.3 (della linearità) Siano f, g ∈ Sc (Rn ) e λ, µ ∈ R. Allora:


Z Z Z
(λf (x) + µg(x)) dx = λ f (x)dx + µ g(x)dx.
Rn Rn Rn

Dim. Proviamo la formula per n = 2. Sfruttando la formula di riduzione otteniamo


Z Z Z 
(λf (x, y) + µg(x, y)) dxdy = (λf (x, y) + µg(x, y))dx dy
R2 R R 
Z Z Z
= λ f (x, y)dx + µ g(x, y)dx dy
R R  R
Z Z Z Z 
=λ f (x, y)dx dy + µ g(x, y)dx dy
ZR R Z R R
=λ f (x, y)dxdy + µ g(x, y)dxdy.
R2 R2

Teorema 1.4 Sia f ∈ Sc+ (Rn ), cioè f ≥ 0. Allora Rn f (x) dx ≥ 0.


R

Dim. Per un x0 ∈ Rn fissato risulta


m
X m
X
f (x0 ) = aj χAj (x0 ) ⇒ 0 ≤ f (x0 ) = aj χAj (x0 ) = aj
j=1 j=1

in quanto, fissato un x0 , esso apparterrà ad uno degli intervalli Aj , per il quale la funzione carat-
teristica non si annulla, mentre il suo contributo per gli altri intervalli è nullo. Nella somma dei
precedenti termini, quindi, l’unico non nullo è quello in cui la funzione caratteristica viene calcolata
nell’intervallo contenente l’x0 considerato; questo implica che gli aj sono positivi, e
Z m
X Z
f (x)dx = aj λn (Aj ) ≥ 0 ⇒ f (x)dx ≥ 0
Rn j=1 Rn

3
G.Di Fazio

Teorema 1.5 (Isotonia) Siano f, g ∈ Sc (Rn ) e λ, µ ∈ R. Supponiamo f (x) ≤ g(x) ∀x ∈ Rn . Allora:


Z Z
f (x) dx ≤ g(x) dx.
Rn Rn

Teorema 1.6 Per ogni funzione f ∈ Sc (Rn ), si ha:


Z Z

f dx ≤ |f | dx.
R Rn
n

Dim. Se f ∈ Sc (Rn ), allora anche |f | ∈ Sc (Rn ); inoltre, vale la disuguaglianza

−|f (x)| ≤ f (x) ≤ |f (x)| ∀x ∈ Rn

integrando la quale si ottiene:


Z Z Z Z Z

−|f (x)| dx ≤ f (x) dx ≤ |f (x)| dx ⇒ f dx ≤ |f | dx
Rn Rn Rn Rn

Rn

Definizione 1.6 Dato un insieme X ⊂ Rn , ed una funzione f : X → R positiva, si chiama


trapezoide di f l’insieme Trap f di X × R:

Trap f = { (x, y) ∈ X × R : 0 ≤ y ≤ f (x) }

Definizione 1.7 Un insieme P ⊆ Rn si dice pluriintervallo se, detti Ej intervalli di Rn , non


necessariamente limitati, risulta:
k
[
P = Ej
j=1

Teorema 1.7 P è pluriintervallo di Rn se e solo se la funzione caratteristica di P , χP sta in S(Rn )

Dim. Ovvia.

Definizione 1.8 Dato P pluriintervallo di Rn , si pone


Z
λn (P ) = χP (x) dx
Rn

4
Appunti di Analisi Matematica II

Teorema 1.8 Sia f ∈ Sc+ (Rn ), cioè f ≥ 0; allora


Z
λn+1 (Trap f ) = f (x)dx
Rn

Dim. Dalla definizione di f


m
∀x ∈ Rn
X
f (x) = aj χEj (x),
j=1

da cui, integrando si ottiene:


Z m
X m
X Z
f (x)dx = aj λn (Ej ) = aj λn+1 ([0, aj ] × Ej ) = λn+1 (Trap f ) = f (x)dx
Rn j=1 j=1 Rn

Teorema 1.9 (Disuguaglianza di Tschebicev) - Sia f ∈ Sc (Rn ), α ≥ 0. Allora:


Z
1
λn ({ x ∈ R : |f (x)| ≥ α}) ≤
n
|f (x)| dx
α Rn

Dim.
Z m
X m 0
X
|f (x)| dx = |aj |λn (Aj ) ≥ |aj |λn (Aj )
Rn j=1 j=1
Pm 0
dove il simbolo j=1 rappresenta la somma di tutti i |aj |λn (Aj ) tali che aj > α. Quindi,
Z m
X m 0
X m 0
X
|f (x)| dx = |aj |λn (Aj ) ≥ |aj |λn (Aj ) ≥ α λn (Aj )
Rn j=1 j=1 j=1

da cui Z
αλn ({ x ∈ Rn : |f (x)| ≥ α}) ≤ |f (x)| dx.
Rn

La disuguaglianza fornisce una stima della misura dell’insieme di ”sopralivello” di una funzione.

Definizione 1.9 Data una funzione f : Rn → R, si pone

S∗ f = { u ∈ Sc (Rn ) : u ≤ f ∀x ∈ Rn }

l’insieme delle u a scalino a supporto compatto che sono minoranti di f ; si vede subito che S∗ f
non è vuoto se e solo se f è limitata inferiormente, e positiva al di fuori di un compatto di Rn ;
analogamente
S ∗ f = { v ∈ Sc (Rn ) : v ≥ f ∀x ∈ Rn }

5
G.Di Fazio

indica l’insieme delle funzioni a scalino, a supporto compatto, che maggiorano f ; tale insieme non
è vuoto se e solo se f è limitata superiormente, ed è negativa fuori di un compatto di Rn . Ne viene
che S∗ f , S ∗ f sono entrambi non vuoti se e solo se f è limitata e a supporto compatto. Si pone
poi Z Z 
f (x)dx = sup u(x)dx : u ∈ S∗ f
∗ Rn Rn

Z  Z 

f (x)dx = inf v(x)dx : v ∈ S f
Rn Rn
che si chiamano rispettivamente integrale inferiore ed integrale superiore di f . Ovviamente si ha:
Z Z ∗
f (x)dx ≤ f (x)dx
∗ Rn Rn
Se vale l’eguaglianza , si dice che f è integrabile secondo Riemann, e tale comune valore si indica
con Z Z Z ∗ Z
f (x) dx ≡ f (x)dx = f (x)dx = f (x)dx.
Rn ∗ Rn Rn Rn

Dalla definizione si evince che:

Teorema 1.10 Condizione necessaria perchè f sia integrabile secondo Riemann è che sia limitata
e a supporto compatto.

Definizione 1.10 Un sottoinsieme E ⊆ Rn , limitato, è detto misurabile secondo Peano-Jordan


(PJ-misurabile) se la sua funzione caratteristica χE è integrabile secondo Riemann. In questo caso,
il numero Z
λn (E) = χE (x)dx
Rn
si chiama misura di E.

L’esistenza di insiemi non misurabili è equivalente all’esistenza di funzioni non integrabili


secondo Riemann.

Esempio 1.1 Sia E = Q2 ∩ [0, 1]2 , l’insieme dei punti a coordinate entrambe razionali nel quadrato
[0, 1] × [0, 1] (χE è l’analogo bidimensionale della funzione di Dirichlet); mostriamo che χE non è
Riemann-integrabile, equivalentemente E non è misurabile secondo Peano-Jordan.
Poichè E è privo di punti interni, ogni intervallo contenuto in E è necessariamente degenere; ne
segue che ogni pluriintervallo contenuto in E ha misura nulla, essendo unione di intervalli degeneri.
Pertanto, Z
χE (x) dx = 0.
∗R n

D’altra parte se P è un pluriintervallo contenente E, passando alle chiusure si ha: [0, 1]2 = Ē ⊂ P
e quindi

Z
χE (x) dx = 1
Rn

6
Appunti di Analisi Matematica II

da cui quanto affermato.

Teorema 1.11 Se A, B ⊆ Rn sono pluriintervalli, allora A ∪ B, A \ B, A ∩ B sono ancora pluriin-


tervalli. Inoltre risulta
λn (A ∪ B) + λn (A ∩ B) = λn (A) + λn (B)

Dim. Omessa.

Corollario 1.1 Se A1 , A2 , ..., Am sono pluriintervalli, allora risulta

Sm Pm o o
1) λn ( j=1 Aj ) = j=1 λn (Aj ) seAi ∩ Aj = ∅;
Sm Pm
2) λn ( j=1 Aj ) ≤ j=1 λn (Aj );

3) SeA ⊆ B ⇒ λn (A) ≤ λn (B).

Definizione 1.11 Un sottoinsieme T ⊂ Rn si dice di misura n-dimensionale nulla nel senso di


Lebesgue se, per ogni ε > 0, esiste una successione {Ej } di pluriintervalli che copre T , cioè T ⊆
S∞ P∞
j=1 Ej , e tale che j=0 λn (Ej ) < ε.

Teorema 1.12 (completezza) Sia T ⊆ Rn un insieme di misura nulla nel senso di Lebesgue; allora
ogni sottoinsieme X ⊆ T ha misura nulla.

Dim. Ovvia.
Esempio 1.2 Dimostriamo che l’insieme E = Q ∩ [0, 1] ⊂ R ha misura nulla secondo Lebesgue.

E = Q ∩ [0, 1] = {rn }
[
⇒ E⊆ [rn − δ, rn + δ]
n=1

ε
Scegliendo δ = 2n ,

∞ ∞ ∞
X 2ε X 1 1 X
n
= ε n−1
=ε 1 ⇒ λn (Ej ) = 2ε
n=1
2 n=1
2 1− 2 j=1

Definizione 1.12 Sia E un insieme limitato e misurabile secondo Peano-Jordan e sia D un’altro
insieme contenente E. Una funzione f : E ⊆ D → R, si dice integrabile secondo Riemann su E se,
la funzione fE : Rn → R definita ponendo
(
f (x) x∈E
fE (x) =
0 x 6∈ E

7
G.Di Fazio

risulta integrabile secondo Riemann ed in tal caso si pone:


Z Z
f (x) dx = fE (x) dx.
E Rn

Teorema 1.13 Siano µ, ν ≥ 1 due interi; Supponiamo f : Rµ × Rν → R integrabile secondo


Riemann. Allora, per λµ -quasi ogni x ∈ Rµ , la funzione
Z
ϕ(x) = f (x, y)dλν (y)

è integrabile in Rn secondo Riemann e si ha


Z Z
ϕ(x)dλµ (x) = f (x, y)dλµ+ν (x, y)
Rµ Rµ ×Rν

che si scrive anche


Z Z  Z
f (x, y)dλν (y) dλµ (x) = f (x, y)dλµ+ν (x, y)
Rµ Rν R µ ×R ν

Dim. Per semplicità, supponiamo µ = ν = 1 e poniamo


Z Z ∗
ϕ∗ (x) = f (x, y)dy, ϕ∗ (x) = f (x, y)dy, x ∈ R.
∗ R R

Siano u ∈ S∗ f , v ∈ S ∗ f. Poichè,

u(x, y) ≤ f (x, y) ≤ v(x, y) ∀(x, y) ∈ R2 ,

si ha:
u(x, · ) ∈ S∗ f v(x, · ) ∈ S ∗ f ∀x ∈ R
ovvero, la x-sezione di u è una funzione a scalino maggiorata dalla x-sezione di f , ed analogamente
per la v da cui segue
Z Z Z ∗ Z
u(x, y)dy ≤ f (x, y)dy ≤ f (x, y)dy ≤ v(x, y)dy.
R ∗ R R R

Adesso, il primo e l’ultimo integrale sono funzioni di Sc (R), dato che la prima appartiene a S∗ ϕ∗ e
la seconda appartiene a S ∗ ϕ∗ , per ogni x ∈ R, quindi
Z Z  Z Z  Z ∗ Z ∗  Z Z 
u(x, y)dy dx ≤ f (x, y)dy dx ≤ f (x, y)dy dx ≤ v(x, y)dy dx
R R ∗ R ∗ R R R R R
ovvero Z Z  Z
u(x, y)dy dx ≤ ϕ∗ (x)dx
R R ∗ R

8
Appunti di Analisi Matematica II

e Z ∗ Z Z 

ϕ (x)dx ≤ v(x, y)dy dx
R R R
Ricordiamo adesso che per le funzioni a scalino il teorema è già stato dimostrato e quindi
Z Z  Z
u(x, y)dy dx = u(x, y)dxdy
R R R2
e Z Z  Z
v(x, y)dy dx = v(x, y)dxdy
R R R2
da cui segue Z Z Z ∗ Z

u(x, y)dxdy ≤ ϕ∗ (x)dx ≤ ϕ (x)dx ≤ v(x, y)dxdy
R2 ∗ R R R2
ma per come sono state scelte u e v si ottiene
Z Z Z Z ∗
u(x, y)dxdy ≤ f (x, y)dxdy ≤ ϕ∗ (x)dx ≤ ϕ∗ (x)dx
R2 Z∗ ∗R
2
Z ∗R R
≤ f (x, y)dxdy ≤ v(x, y)dxdy.
R2 R2

Sfruttando infine l’ipotesi di integrabilità della funzione f , il secondo e il quinto integrale della
precedente catena coincidono, quindi coincidono anche il terzo e il quarto
Z Z ∗
ϕ∗ (x)dx = ϕ∗ (x)dx
∗ R R

da cui Z Z
f (x, y)dxdy = ϕ(x)dx.
R2 R

Teorema 1.14 (Vitali-Lebesgue) Sia f : Rn → R, limitata e a supporto compatto. Allora f è


integrabile secondo Riemann se e solo se l’insieme delle sue discontinuità ha misura nulla secondo
Lebesgue.

Dim.

Esercizio 1.1 Calcolare il seguente integrale:


Z
A = (x, y) ∈ R2 : 0 ≤ x ≤ 2; 0 ≤ y ≤ 2x − x2

xy dxdy
A

La funzione è continua, nel compatto A , per cui è integrabile secondo Riemann.

9
G.Di Fazio

Quindi
2 2x−x2
!
2 2x−x2
y2
Z Z Z Z 
xy dxdy = xydy dx = x dx
A 0 0 0 2 0
2
1 2
Z Z
1 2 2
= x(2x − x ) dx = (4x3 + x5 − 4x4 )dx
2 0 2 0
 6
2  
1 4 x 4 5 1 64 4 104
= x + − x = 16 + − 32 = .
2 6 5 0 2 6 5 15

Esercizio 1.2 Calcolare il baricentro del dominio

T ≡ {(x, y) ∈ R2 : |x| ≤ 1, x2 ≤ y ≤ 1}

Ricordiamo che il baricentro di T è


Z Z 
1
G≡ x dxdy, y dxdy .
λ2 (T ) T T
R R
Per simmetria si ha: T
x dxdy = 0 quindi calcoliamo T y dxdy. Applicando la formula di riduzione
si ha: Z 1 Z 1
1 1  2 1
Z  Z
y dxdy = ydy dx = y x2 dx
T −1 x2 2 −1
Z 1
1 2
= (1 − x2 )dx = 1 − = .
0 3 3
In modo simile,
Z Z 1 Z 1  Z 1
4
λ2 (T ) = dxdy = dy dx = 2 (1 − x2 ) dx =
T −1 x2 0 3

quindi si ottiene G = (0, 12 ).

Teorema 1.15 Sia f : Rn → R una funzione limitata a supporto compatto e positiva. Il suo
trapezoide è misurabile secondo Peano-Jordan in Rn+1 se e solo se f è integrabile secondo Riemann
in Rn e in tal caso si ha: Z
λn+1 (Trap(f )) = f (x)dx.
Rn

Dim. Supposto che T ≡ Trap(f ) ⊆ Rn+1 sia misurabile secondo PJ, la x-sezione di χT è
esattamente χ[0,f (x)[ , definita in R a valori in R, che ovviamente è integrabile secondo Riemann. Si
ha, quindi, dalla formula di riduzione, che f è integrabile secondo Riemann, e
!
Z Z Z  Z Z f (x) Z
χT (x, t) dxdt = χT (x, t)dt dx = χT (x, t)dt dx = f (x)dx.
Rn+1 Rn R Rn 0 Rn

10
Appunti di Analisi Matematica II

Viceversa, se f è integrabile
R secondo Riemann, preso ε > 0, siano u ∈ S∗ f , v ∈ S ∗ f , tali che
0 ≤ u ≤ f ≤ v, con Rn (v − u)dx ≤ ε; e quindi

Trap(u) ⊆ Trap(f ) ⊆ Trap(v)

ma Trap(u) e Trap(v) sono pluriintervalli di Rn+1 , e quindi si ha


λn+1 (Trap(v) \ Trap(u)) =λn+1 (Trap(v)) − λn+1 (Trap(u))
Z Z Z
= v dx − u dx = (v − u)dx ≤ ε
Rn Rn Rn

quindi Trap(f ), è misurabile.

Teorema 1.16 Un sottoinsieme E ⊆ Rn limitato è misurabile secondo P J se e solo se la sua


frontiera ha misura nulla secondo P J.

Dim. Omessa.

Teorema 1.17 Sia f : Rn → R una funzione limitata a supporto compatto, integrabile secondo
Riemann. Allora il suo grafico è misurabile secondo Peano - Jordan e la sua misura è nulla.

Dim. Omessa.

1.2 Integrazione delle funzioni a valori complessi

Data f : Rn → C diciamo che è integrabile secondo Riemann se e solo se tali sono la sua parte
reale e la sua parte immaginaria , ed in tal caso poniamo
Z Z Z
f (x)dx = Re f (x)dx + i Im f (x)dx.
Rn Rn Rn

Teorema 2.1 Se f : Rn → C è una funzione integrabile secondo Riemann, allora lo è anche la


funzione modulo, |f | : Rn → R, e si ha:

Z Z

f (x)dx ≤ |f (x)|dx
Rn Rn

Dim. Osserviamo che, innanzitutto, ogni f integrabile per Riemann è limitata e a supporto com-
patto, ed ha un insieme di punti di discontinuità che è l’unione dei punti di discontinuità di Re f
ed Im f , di misura nulla. Ne segue che
p
|f | = (Re f )2 + (Im f )2

11
G.Di Fazio

ha un insieme di punti di discontinuità di misura nulla, è limitata e a supporto compatto, quindi


Riemann-integrabile. Resta da dimostrare la disuguaglianza.
Z Z


f (x)dx = e f (x)dx
Rn Rn
e quindi
Z Z Z Z
= e−iθ −iθ
Re(e−iθ f (x))dx

f (x)dx f (x)dx = e f (x)dx =
R R R R
n n n n
Z Z
−iθ
≤ e f (x)dx = |f (x)|dx.
Rn Rn

Teorema 2.2 La misura elementare di Peano-Jordan è numerabilmente additiva, ovvero se {Ej }


èSuna successione di insiemi misurabili secondo Peano - Jordan tale che Ei ∩ Ej = ∅, ∀i 6= j e

j=0 Ej risulti ancora misurabile secondo Peano - Jordan allora
 

[ X∞
λn  Ej  = λn (Ej ).
j=0 j=0

Dim. Omessa.

Conseguenza immediata della proprietà di numerabile additività è il seguente


Teorema 2.3 (della convergenza monotòna) Sia fj : Rn → R una successione di funzioni integrabili
secondo Riemann tali che 0 ≤ fj+1 (x) ≤ fj (x) convergente a zero quasi ovunque. Allora
Z
lim fj = 0.
j→∞ Rn

Dim. Sia Ej = Trap fj . Dalla monotonia segue



Ej+1 ⊆ Ej , ∀j ∈ N,
\
Ej = ∅.
j=1

Inoltre, si ha:
E1 = (E1 \ E2 ) ∪ (E2 \ E3 ) ∪ . . . ∪ (Ej \ Ej+1 ) ∪ . . .
e usando la numerabile additività,

λn+1 (Ek \ Ek+1 ) ∈ R.
X
λn+1 (E1 ) =
k=1

Quindi la successione dei resti è infinitesima ovvero,



X ∞
X Z
lim λn+1 (Ek \ Ek+1 ) = lim (λn+1 (Ek ) − λn+1 (Ek+1 )) = lim λn+1 (Ej ) = lim fj dx
j→∞
k=j
j→∞
k=j
j→∞ j→∞ Rn
da cui la tesi.

12
Appunti di Analisi Matematica II

Similmente si ha:
Teorema 2.4 (della convergenza monòtona per gli integrali di Riemann) Se f, fj sono integrabili
secondo Riemann su Rn , ed fj converge puntualmente ad f , con f monotona, allora
Z Z
lim fj dx = f dx.
j→∞ Rn Rn

Dim. Supponiamo la successione {fj } crescente. Basta allora porre gj = f − fj e applicare il


teorema precedente.

13
G.Di Fazio

2. Integrazione secondo Lebesgue

2.1 Integrale di Lebesgue per funzioni positive

Sia f : Rn → [0, +∞[. Se f ∈ Sc+ (Rn ) l’integrale secondo Lebesgue è, per definizione, l’integrale
secondo Riemann; nel caso in cui la funzione invece risulti limite di una successione monotona di
funzioni fj ∈ Sc+ (Rn ) poniamo, per definizione:
Z Z
f (x) dx = lim fj (x) dx.
Rn j→∞ Rn

Diciamo che una funzione v ∈ S σ (Rn ) se esiste una successione di funzioni a scalino a supporto
compatto e positive che converge crescendo alla funzione v. Similmente diciamo che una funzione
u ∈ Sδ (Rn ) se esiste una successione di funzioni a scalino a supporto compatto e positive che
converge decrescendo alla funzione u. Sia adesso f : Rn → [0, +∞[ tale da non rientrare nei casi
precedenti. Posto

Sδ f = {u ∈ Sδ (Rn ) : u ≤ f } S σ f = {v ∈ S σ (Rn ) : f ≤ u}

diciamo Z Z 
f (x) dx = sup u(x)dx : u ≤ f, u ∈ Sδ (R ) n
∗ Rn Rn
integrale inferiore e
Z ∗ Z 
f (x)dx = inf v(x)dx : f ≤ v, v ∈ S (R ) σ n
Rn Rn

integrale superiore. Ovviamente si ha:


Z Z ∗
f (x)dx ≤ f (x)dx.
∗Rn Rn

Nel casoR in cui i due integrali sono uguali si dice che la funzione è integrabile secondo Lebesgue e
si pone Rn f (x) dx per il comune valore dei due integrali. Se f è integrabile ed ha integrale finito
si dice sommabile secondo Lebesgue.

Osservazione 1.1 Notiamo che


Z Z Z ∗ Z ∗
(R) f (x)dx ≤ (L) f (x)dx ≤ (L) f (x)dx ≤ (R) f (x)dx
∗ Rn ∗ Rn Rn Rn

dove (R) e (L) denotano rispettivamente i gli integrali di Riemann e di Lebesgue. Da ciò segue
che, se una funzione è integrabile secondo Riemann, lo è anche secondo Lebesgue, e i due integrali
coincidono.

14
Appunti di Analisi Matematica II

Teorema 1.1

1) Siano f, g : Rn → R, tali che 0 ≤ f ≤ g. Supponiamo


R gRintegrabile secondo Lebesgue. Allora
f è integrabile secondo Lebesgue e si ha: Rn f (x)dx ≤ Rn g(x)dx;
R
2) SeR è λ > 0 ed f è integrabile secondo Lebesgue, allora lo è anche λf e risulta: Rn λf (x)dx =
λ Rn f (x)dx;

3) Se f, g sono integrabili secondo Lebesgue, allora lo è anche f + g e risulta


Z Z Z
(f (x) + g(x)) dx = f (x) dx + g(x) dx
Rn Rn Rn

4) Se f, g sono integrabili secondo Lebesgue, allora lo sono anche min(f, g) e max(f, g).

Dim. Dimostrare la proprietà 3). Proviamo anzi che,


Z Z Z
f (x) dx + g(x) dx ≤ (f (x) + g(x)) dx.
∗Rn ∗Rn ∗R n

Dalla definizione di integrale inferiore, applicando la seconda proprietà dell’estremo inferiore, si ha:
Z Z Z Z
f (x) dx < uε (x) dx + ε, g(x) dx < vε (x) dx + ε
∗R n Rn ∗Rn Rn
per opportune funzioni uε , vε da cui
Z Z Z
f (x) dx + g(x) dx < (uε (x) + vε (x)) dx + 2ε.
∗R n ∗Rn ∗R n

Poichè
uε (x) = lim ϕj (x) ≤ f (x), ϕj ∈ Sc+ , ϕj & uε
j
e
vε (x) = lim ψj (x) ≤ g(x), ψj ∈ Sc+ , ψj & vε
j

allora
uε (x) + vε (x) = lim ϕj (x) + ψj (x) ≤ f (x) + g(x), ϕj + ψj ∈ Sc+ , ϕj + ψj & uε + vε
j

e quindi Z Z
(uε (x) + vε (x)) dx ≤ (f (x) + g(x)) dx + 2ε
Rn ∗Rn
da cui Z Z Z
f (x) dx + g(x) dx ≤ (f (x) + g(x)) dx + 2ε
∗Rn ∗R n ∗Rn
e la tesi segue facendo tendere ε a zero. In maniera simile si dimostra che
Z ∗ Z ∗ Z ∗
(f (x) + g(x)) dx ≤ f (x) dx + g(x) dx
Rn Rn Rn
e quindi la proprietà 3) segue nel caso che le funzioni f, g siano integrabili.

15
G.Di Fazio

Definizione 1.1 Diciamo che v ∈ S σ (Rn ) quando esiste una successione {ψj } tale che: ψj ∈
Sc+ (Rn ), ψj % v. Similmente, diciamo che u ∈ Sδ (Rn ) quando esiste una successione {ϕj } tale che:
ϕj ∈ Sc+ (Rn ), ϕj & u.

Teorema 1.2 Sia {v j } una successione di funzioni tale che vj ∈ S σ (Rn ) : vj % v. Allora,
v ∈ S σ (Rn ) e si ha: Rn vj dx % Rn v dx.
R R

Teorema 1.3 Sia fj : Rn → [0, +∞[ ∀j ∈ N. Allora


∞ Z
X Z ∞
X Z ∞
∗ X ∞ Z
X ∗
fj dx ≤ fj dx ≤ fj dx ≤ fj dx.
j=0 ∗ Rn ∗ Rn j=0 Rn j=0 j=0 Rn

Dim. Si ha:
N Z Z N Z ∞
∀N ∈ N
X X X
fj dx ≤ fj dx ≤ fj dx
j=0 ∗ Rn ∗ Rn j=0 ∗Rn j=0

e quindi, per monotonia,


∞ Z
X Z ∞
X Z ∞
∗ X
fj dx ≤ fj dx ≤ fj dx.
j=0 ∗ Rn ∗Rn j=0 Rn j=0

R∗
Quanto all’ultima disuguaglianza da dimostrare, se qualche Rn fj dx è infinito, non c’è niente da
provare. Altrimenti, fissato j ∈ N e preso ad arbitrio ε > 0, sia vj ∈ S σ fj , tale che
Z Z ∗
ε
vj ≤ fj dx + .
Rn Rn 2j+1

Poichè vj ∈ S σ fj , ∀j ∈ N si ha v ≡
P∞ P 
σ ∞
j=0 vj , ∈ S j=0 fj . Ma allora

Z ∞
∗ X Z ∞ Z
X ∞ Z
X ∗
fj dx ≤ v dx = vj dx ≤ ε + fj dx
Rn j=0 Rn j=0 Rn j=0 Rn

e la tesi segue dall’arbitrarietà di ε.

Corollario 1.2 (Integrazione per serie) Se fj è una successione di funzioni positive integrabili
secondo Lebesgue, allora
Z X ∞ X∞ Z
fj dx = fj dx.
Rn j=0 j=0 R
n

16
Appunti di Analisi Matematica II

Definizione 1.2 Sia f : Rn → R. Diciamo che f è sommabile secondo Lebesgue su Rn , se f + , f −


sono sommabili e, in tal caso poniamo
Z Z Z
f (x)dx ≡ f + (x) dx − f − (x) dx.
R n R n R n

Se f : Rn → C diremo che f è sommabile se lo sono la parte reale e la parte immaginaria. In


quest’ultimo caso si pone:
Z Z Z
f (x) dx = Ref (x) dx + i Imf (x) dx.
Rn Rn Rn

In seguito, gli insiemi delle funzioni sommabili a valori reali o complessi saranno denotati rispet-
tivamente con L1 (Rn , R), L1 (Rn , C).

Teorema 1.4 Sia f : Rn → C. Allora f è sommabile se e solo se lo è |f |.

Dim. Supponiamo inizialmente f reale. Se |f | ∈ L1 (Rn ) allora, per confronto, lo sono f + , f −


quindi lo è f. Viceversa, se f ∈ L1 (Rn , R) allora per definizione lo sono f + , f − quindi lo è f + +f − =
|f | da cui la tesi. Inoltre si ha
Z Z Z Z Z
+ − + −

f (x)dx = f (x)dx − f (x)dx ≤ f (x)dx + f (x)dx
Rn ZR ZR Z R Rn
n n n
Z
+ − + −

= f (x)dx + f (x)dx = f (x) + f (x) dx = |f (x)| dx.
Rn Rn Rn Rn

Supponiamo adesso f a valori complessi. Se f ∈ L1 (Rn , C) allora Ref, Imf ∈ L1 (Rn , R) e quindi
|Ref |, |Imf | ∈ L1 (Rn , R). Da ciò segue che

|Ref |2 + |Imf |2 ≤ |Ref | + |Imf | ∈ L1 (Rn , R).


p
|f | =

Viceversa, se |f | ∈ L1 allora

|Ref |2 + |Imf |2 = |f | ∈ L1 (Rn , R)


p
|Ref |, |Imf | ≤

e quindi f ∈ L1 (Rn , C). In questo caso si ha:


Z Z Z Z
f (x)dx = e−iθ (e−iθ f (x)) dx ≤ Re(e−iθ f (x)) dx

f (x)dx =
R R R R
n n n n
Z Z
≤ |e−iθ f (x)| dx = |f (x)| dx
Rn Rn

17
G.Di Fazio

Teorema 1.5 (Beppo-Levi) Sia data una successione {fj } di funzioni integrabili secondo Lebesgue
in Rn tale che 0 ≤ fj+1 (x) ≤ fj (x) ∀j ∈ N, q.o.x ∈ Rn e supponiamo fj → f. Allora si ha:
Z Z
f (x)dx = lim fj (x)dx.
Rn j→∞ Rn

Dim. Integrando la relazione



X
f (x) = f1 (x) + (fj+1 − fj ) = f1 (x) + (f2 − f1 ) + (f3 − f2 ) + . . . + (fj+1 − fj ) + . . .
j=1

si ha: Z ∞ Z
X Z  Z
f1 (x)dx + fj+1 (x)dx − fj (x)dx = f (x)dx
Rn j=1 Rn Rn Rn
ovvero
Z Z N
X −1 Z Z  Z
f (x) dx = f1 (x)dx + lim fj+1 (x)dx − fj (x)dx = lim fN (x)dx
Rn Rn N →+∞
j=1 Rn Rn N →+∞ Rn

quindi la tesi.

Osservazione 1.2 Il teorema rimane vero anche se la successione è decrescente. Inoltre rimane
vero senza l’ipotesi di segno applicandolo alla successione f − fj .

Teorema 1.6 (Lebesgue) Sia fj : Rn → C una successione di funzioni integrabili convergente q.o.
ad una funzione f. Sia g ∈ L1 (Rn ) tale che |fj | ≤ g q.o. in Rn , per ogni j ∈ N. Allora
Z Z
lim fj (x)dx = f (x)dx.
j→∞ Rn Rn

Dim. Omessa.

Teorema 1.7 Gli spazi vettoriali Lp (Rn , R) e Lp (Rn , C) in cui si identifichino due funzioni uguali
quasi ovunque, dotati della norma
Z  p1
p
kf kp = |f (x)| dx , 1 ≤ p < +∞
Rn
sono completi.

Dim. Omessa.

18
Appunti di Analisi Matematica II

Teorema 1.8 (Disuguaglianza di Tschebicev) Sia f ∈ L1 (Rn , C), per ogni α > 0 l’insieme {|f | > α}
è misurabile e di misura finita. Inoltre si ha
Z
1 1
λn ({|f | > α}) ≤ ||f ||1 = |f (x)|dx
α α Rn

Dim. Omessa.
Definizione 1.3

1) Sia f : Rn → [0, +∞[. Diciamo che è misurabile secondo Lebesgue se min(f, g) ∈ L1 (Rn , R)
per ogni g ≥ 0 sommabile;

2) Sia f : Rn → R. Diciamo che è misurabile secondo Lebesgue se e solo se f − ed f − sono


misurabili;

3) Sia f : Rn → C. Diciamo che è misurabile secondo Lebesgue se e solo se Re(f ) ed Im(f ) sono
misurabili;

4) Diciamo che un sottoinsieme E ⊆ Rn è misurabile secondo Lebesgue se la sua funzione carat-


teristica è misurabile.

Osservazione 1.3 Ogni funzione positiva sommabile è misurabile; lo sono anche le funzioni q.o.
nulle e da ciò segue subito che, alterando una funzione misurabile su un insieme di misura nulla,
essa resta misurabile. Sono misurabili le funzioni di S σ (Rn ) e quelle di Sδ (Rn ). Tutte le funzioni
di L1 (Rn , R) e di L1 (Rn , C) sono chiaramente misurabili.

Definizione 1.4 Indichiamo con M(Rn , R) o M(Rn , C) gli insiemi delle funzioni misurabili a
valori rispettivamente reali o complessi; M+ (Rn ) indica l’insieme delle funzioni misurabili reali
positive.

2.2 Integrazione in spazi prodotto e cambio di variabili

Si hanno i seguenti importanti teoremi di cui, per brevità, non si riporta la dimostrazione.

Teorema 2.1 (Fubini) Se f ∈ L1 (Rn × Rm ) allora;

1) La funzione fx ≡ f (x, · ) ∈ L1 (Rm );

2) La funzione ϕ(x) = Rm f (x, y)dy ∈ L1 (Rn );


R

19
G.Di Fazio

3) si ha Z Z
f (x, y)dxdy = ϕ(x)dx.
R n ×R m Rn

Teorema 2.2 (Tonelli) Sia f : Rn × Rm → [0, +∞[ misurabile secondo Lebesgue. Allora
Z Z Z 
f (x, y)dxdy = f (x, y)dy dx.
R n ×R m Rn Rm

Osservazione 2.1 Per applicare il teorema di riduzione relativo all’integrale di Riemann occorre
sapere, a priori, che la funzione in esame sia integrabile. Non c’è nessuna speranza di ricavare
informazioni sull’integrabilità di f dal comportamento delle sue sezioni. Quindi, il buon comporta-
mento delle sezioni non implica l’integrabilità di f , nel caso di integrali di Riemann. Uno dei van-
taggi dell’integrale di Lebesgue è, invece, la possibilità di dedurre l’integrabilità di f dall’esistenza
dell’integrale iterato delle sue sezioni sapendo a priori qualcosa di non molto restrittivo per f .
ovvero la misurabilità di f.

Teorema 2.3 (cambio di variabili) Siano X, Y ⊆ Rn due aperti, g : X → Y diffeomorfismo di


classe C 1 . Allora f : E ⊆ Y → R è sommabile su E se e solo se f ◦ g |det Jg | è sommabile su
g − 1(E), ed in tal caso risulta
Z Z
f (y)dy = f (g(x)) |det Jg |dx
E g − 1(E)

Esempio 2.1 (Omotetia)


Sia
g : Rn → Rn , g(x1 , . . . , xn ) = (a1 x1 , . . . , an xn )
con a = (a1 , . . . , an ) ∈ Rn vettore assegnato in modo tale che aj 6= 0, ∀j = 1, . . . , n. Tale trasfor-
mazione si dice Omotetia ed il vettore a si chiama fattore di dilatazione. Ovviamente l’ applicazione
è lineare e la matrice associata è
a1 0 . . . 0
 
 0 a2 . . . 0 
Ag =  ... .. .. 
. . 
0 0 ... an

mentre la matrice 1
0 ... 0
 
a1
1
 0 a2 ... 0 
Ag−1 = 
 
.. .. .. 
 . . . 
1
0 0 ... an

20
Appunti di Analisi Matematica II

Qn
è associata alla trasformazione inversa. Lo Jacobiano della trasformazione è dunque Jg = i=1 ai
e perciò
Z Z Yn
f (y1 , . . . , yn )dy1 · · · dyn = f (a1 x1 , . . . , an xn ) ai dx1 · · · dxn

E g −1 (E)
i=1

per ogni funzione integrabile.


Esempio 2.2 Consideriamo la trasformazione

g :]0, +∞[×]0, 2π[→ R2 \ {y = 0, x ≤ 0}

definita ponendo
g(%, θ) = %(cos θ, sen θ).
Si ha:  
cos θ −% sen θ
Jg =
sen θ % cos θ
e quindi Jg = %. Allora,
Z Z
f (x, y)dxdy = f (% cos θ, % sen θ)%d%dθ.
E g −1 (E)

Esempio 2.3 Integrazione in domini normali del piano


Esaminiamo un caso particolare del teorema di Fubini di utilità pratica. Sia E ⊂ R2 e siano
α, β : [a, b] → R due funzioni continue tali che

α(x) ≤ β(x) ∀x ∈ [a, b].

L’insieme
E = {(x, y) ∈ R2 : a ≤ x ≤ b, α(x) ≤ y ≤ β(x)}
si dice dominio normale rispetto all’ asse ~x. Sia data una funzione definita e continua in un dominio
normale, per esempio rispetto all’ asse ~x. Applicando il teorema di Fubini abbiamo
Teorema 2.4 (Formula di riduzione di Gauss) Sia f : E ⊂ R2 → R una funzione continua nel
dominio normale E. Allora si ha:
!
Z Z Z b β(x)
f (x, y)dxdy = f (x, y)dy dx.
E a α(x)

Dim. Sia f ∗ la funzione ottenuta prolungando f a tutto R2 ponendo f ∗ = f in E e f ∗ = 0


fuori di E. Si ha: Z Z

f (x, y)dxdy = f (x, y)dxdy
R2 E

21
G.Di Fazio

e, per il teorema di Fubini (f ∗ ∈ L1 (R2 ) perchè continua e nulla fuori di un compatto),


Z Z +∞ Z +∞  Z a Z +∞ 
f ∗ (x, y)dxdy = f ∗ (x, y)dy dx = f ∗ (x, y)dy dx
R2 −∞ −∞ −∞ −∞
Z b Z +∞  Z +∞ Z +∞ 
∗ ∗
+ f (x, y)dy dx + f (x, y)dy dx
a −∞ b −∞
!
Z b Z +∞  Z b Z α(x)

= f (x, y)dy dx = f ∗ (x, y)dy dx
a −∞ a −∞
! !
Z b Z β(x) Z b Z +∞
∗ ∗
+ f (x, y)dy dx + f (x, y)dy dx
a α(x) a β(x)
!
Z b Z β(x)
= f (x, y)dy dx.
a α(x)

In maniera simile si possono definire i domini normali rispetto all’ asse ~y e si può ricavare una
formula di riduzione per questo tipo di domini.
Esempio 2.4 Integrazione in domini normali dello spazio
Sia K ⊂ R2 un insieme compatto e siano α, β : K → R due funzioni continue in K tali che
α(x, y) ≤ β(x, y) ∀(x, y) ∈ K. Definiamo dominio normale rispetto al piano z = 0 l’insieme

E ≡ {(x, y, z) ∈ R3 : (x, y) ∈ K, α(x, y) ≤ z ≤ β(x, y)}.

Si ha:
Teorema 2.5 Sia E un dominio normale in R3 rispetto al piano z = 0. Se f : E → R è una funzione
continua si ha: Z Z Z β(x,y) !
f (x, y, z)dx dy dz = f (x, y, z)dz dxdy (2.1)
E K α(x,y)

La formula (2.1) si chiama formula di integrazione per proiezioni.


Definizione 2.1 Sia E ⊂ R3 , z̄ ∈ R. Diciamo sezione di piede z̄ di E, l’insieme

Ez̄ = {(x, y) ∈ R2 : (x, y, z̄) ∈ E}.

Si ha:
Teorema 2.6 Se E ⊂ R3 è misurabile allora Ez̄ è misurabile per quasi ogni z̄ ∈ R.

In generale, dato un insieme misurabile E ⊂ R3 chiameremo proiezione propria (o essenziale)


l’ insieme
P ≡ {z ∈ R : Ez ∈ L(R2 ), 0 < |Ez | < +∞}.
Dal teorema di Fubini, si ha:
Teorema 2.7 (formula della sezione) Sia E ⊂ R3 misurabile e di misura finita e sia f ∈ L1 (E).
Allora, Z Z Z 
f (x, y, z)dx dy dz = f (x, y, z)dxdy dz.
E P Ez

22
Appunti di Analisi Matematica II

2.3 Solidi di rotazione

Sia f : [a, b] → R f (z) ≥ 0 ∀z ∈ [a, b]. Consideriamo la curva γ = (0, f (z), z), z ∈ [a, b] e sia E
il solido ottenuto ruotando γ attorno all’ asse ~z. Calcoliamo il volume di E integrando per sezioni.
Z Z b Z  Z b Z b
|E| = dxdydz = dxdy dz = |Ez |dz = π f 2 (z)dz.
E a Ez a a

Valutiamo adesso la coordinata ȳ del baricentro del dominio rotante T. Si ha:


Z Z b Z f (z) Z b
1 1 1
ȳ = ydxdy = ydydz = f 2 (z)dz
|T | T |T | a 0 2|T | a

e quindi,
|E| = 2π ȳ|T |
che è il classico
Teorema 3.1 (di Guldino) Il volume di un solido di rotazione è pari al prodotto dell’ area del
dominio rotante per il cammino del baricentro durante la rotazione.

Esempio 3.1 Volume di alcuni solidi noti dalla geometria elementare

1. Cilindro E di altezza h e base circolare di raggio r.

Si ha: |E| = πhr2 ;

2. Cono |E| circolare retto di altezza h e base di raggio r.

πhr 2
Si ha: |E| = 3 ;

3. Paraboloide di altezza h ottenuto dalla rotazione della parabola z = y 2 attorno all’ asse ~z.

h2 πh2
La coordinata ȳ del baricentro è 4|T | e quindi il volume del solido è |E| = 2 .

4. Sfera |E| di raggio r.

Si pensa la sfera come solido ottenuto dalla rotazione di una semicirconferenza attorno all’ asse
~z. Si trova: |E| = 43 πr3 .

2.4 Integrali dipendenti da parametri

Teorema 4.1 Sia Ω ⊆ Rn un insieme misurabile secondo Lebesgue e sia X ⊂ Rm un insieme


aperto. Sia data inoltre una funzione f : X × Ω → C tale che

23
G.Di Fazio

1) La funzione f (x, ·) risulti sommabile in Ω per ogni x ∈ X;

2) Esiste una funzione g(t) ∈ L1 (Ω) tale che |f (x, t)| ≤ g(t) ∀x ∈ X, q.o.t ∈ Ω;

3) la funzione f (·, t) è continua in Ω per quasi ogni t ∈ X.

Allora, la funzione Z
F (x) = f (x, t) dt

risulta continua in Ω.

Dim. Sia x0 ∈ X e sia {xj } una successione arbitraria di punti di X convergente a x0 . La


successione fj (t) verifica le ipotesi del teorema di Lebesgue e quindi
Z Z
lim F (xj ) = lim f (xj , t) dt = f (x0 , t) dt = F (x0 )
j→∞ j→∞ Ω Ω

e dall’arbitrarietà di {xj } si ha la tesi.


Teorema 4.2 Sia Ω ⊆ Rn un insieme misurabile secondo Lebesgue e sia X ⊂ Rm un insieme aperto
e sia u 6= 0 un vettore di Rm . Sia data inoltre una funzione f : X × Ω → C tale che

1) La funzione f (·, t) risulti derivabile nella direzione di u per quasi ogni t ∈ Ω;

2) Esiste una funzione g(t) ∈ L1 (Ω) tale che |f (x, t)| ≤ g(t) ∀x ∈ X, q.o.t ∈ Ω;
∂f
3) Esiste una funzione g̃(t) ∈ L1 (Ω) tale che | ∂u (x, t)| ≤ g̃(t) ∀x ∈ X, q.o.t ∈ Ω;

Allora, la funzione Z
F (x) = f (x, t) dt

è derivabile lungo la direzione di u ed inoltre si ha:


Z  Z
∂ ∂f
f (x, t) dt = (x, t) dt ∀x ∈ Ω.
∂u Ω Ω ∂u

Dim. Sia x ∈ X. Si ha:


Z  Z  
f (x + hu, t) − f (x, t)
Z
1
lim f (x + hu, t) dt − f (x, t) dt = lim dt
h→0 h Ω Ω h→0 Ω h
Z
= lim F (h, t) dt
h→0 Ω

dove
f (x + hu, t) − f (x, t)


 , h 6= 0;
F (h, t) = h
 ∂f (x, t), h = 0.

∂u

24
Appunti di Analisi Matematica II

Per il teorema precedente, l’ultimo limite è uguale a


Z Z
∂f
lim F (h, t) dt = f (x, t) dt
Ω h→0 Ω ∂u

quindi la tesi. Infatti, F (h, t) è continua per h = 0 grazie alla definizione di derivata ed inoltre, in
un intorno di h = 0, si può scrivere,

∂f
|F (h, t)| ≤ 2 (x, t) ≤ 2g̃(t).

∂u

Esercizio 4.3 Dati a1 , . . . , an ∈ R \ {0}, calcoliamo


Z Pn
− a2j x2j
e j=1 dx.
Rn

La funzione è misurabile perchè continua ed inoltre è positiva. Per il teorema di Tonelli,


Z Pn n Z n Z 
− a2j x2j −a2j x2j −a2j x2
Y Y
e j=1 dx = e dxj = e dx
Rn j=1 R j=1 R
n  Z   Z n
Y 1 2 1 2
= e−x dx = e−x dx .
j=1
|aj | R |a1 · · · an | R

Calcoliamo adesso Z
2
e−x dx.
R
Applicando il teorema di Tonelli ed il teorema di cambio di variabili si trova:
Z 2 Z Z Z
−x2 −x2 −y 2 2 2
e dx = e dx e dy = e−(x +y ) dxdy
R R R R2
Z Z +∞
−%2 2
= %e d%dθ = 2π %e−% d% = π
]0,+∞[×]0,2π[ 0

e quindi

Z
2
e−x dx = π
R
da cui, √
( π)n
Z Pn
− a2j x2j
e j=1 dx = .
Rn |a1 · · · an |

25
G.Di Fazio

Esercizio 4.4 Sia A = AT ∈ Rn,n . Calcolare


Z
e−(Ax,x) dx.
Rn

Notiamo che la funzione integranda è positiva e misurabile in quanto continua. La funzione è


sommabile se e solo se il minimo autovalore λ della matrice A è positivo. Infatti, posto λ, Λ
rispettivamente il minimo ed il massimo degli autovalori si ha:

∀x ∈ Rn .
2 2
e−Λkxk ≤ e−(Ax,x) ≤ e−λkxk

Supponiamo adesso λ > 0 e calcoliamo l’integrale assegnato. Sia G una matrice ortogonale con
determinante pari a 1. Eseguiamo il cambio di variabili (lineare)

xl = glh ξh , l = 1, . . . , n.

Notiamo che lo Jacobiano della trasformazione considerata ha determinante uguale a quallo di G


perchè lineare e la controimmagine dell’insieme di integrazione è Rn perchè la trasformazione è un
isomorfismo. Inoltre
n
X n
X n
X n
X n
X n
X
(Ax, x) = aij xi xj = aij gih ξh gjs ξs = T
ξh (ghi aij gjs )ξs ≡ ξh a0hs ξs
i,j=1 i,j=1 h,s=1 i,j=1 h,s=1 h,s=1

da cui, Z Z
0
e−(Ax,x) dx = e−ξh ahs ξs dξ.
Rn Rn
Scegliamo adesso G in modo che GT AG = diag(λ1 , . . . , λn ) ottenendo
Z Z Z
2
−(Ax,x) −δhs λs ξh ξs
e dx = e dξ = e−λs ξs dξ
Rn Rn Rn
n
n Y √ √
( π)n ( π)n
Z
2 1
= e−t dt = =√
Rn j=1
|λj |1/2 |λ1 · · · λn |1/2 det A

perchè il determinante è un invariante ortogonale.

Esercizio 4.5 Studiamo la sommabilità della funzione

x2 − y 2
f (x, y) = : R2 \ {(0, 0)} → R
(x2 + y 2 )2

nell’insieme
T = {(x, y) ∈ R2 : x2 + y 2 > 0, 0 ≤ x ≤ 1, 0 ≤ y ≤ 1}

26
Appunti di Analisi Matematica II

Ricordando che la sommabilità di f e di |f | sono equivalenti esaminiamo la sommabilità di |f |.


Applicando il teorema di Tonelli,
1 1 2
x − y2 1 x
x2 − y 2
Z Z Z Z Z
|f (x, y)| dxdy = dxdy = 2
(x2 + y 2 )2 dydx.
T 0 0 0 0 (x2 + y 2 )2

D’altra parte
x x Z x
x2 − y 2 2y 2
Z Z
1
dy = dy − dy
0 (x2 + y 2 )2 2
0 x +y
2 2
0 (x + y )
2 2
 y=x Z x
1h y iy=x y 1
= arctang − 2 2
+ 2 2
dy
x x y=0 x + y y=0 0 x +y
π x π−1
= − = / L1 ([0, 1])

2x 2x2 2x

e quindi la funzione non è sommabile.

Esempio 4.1 La funzione


Z +∞
Γ :]0, +∞[→ R, Γ(x) = tx−1 e−t dt
0

si dice funzione Gamma o funzione di Eulero.


È facile riconoscere che è ben definita per x > 0 e che Γ(1) = 1. Inoltre, integrando per parti nella
definizione si ha che:
Γ(n + 1) = nΓ(n), ∀n ∈ N
e quindi
Γ(n + 1) = n! ∀n ∈ N
Proviamo la seguente formula di moltiplicazione per la funzione Gamma,

Γ(p)Γ(q)
= B(p, q) ∀p, q > 0
Γ(p + q)

dove Z 1
B(p, q) = tp−1 (1 − t)q−1 dt
0

si dice funzione Beta.

Dim. Applicando il teorema di Tonelli si ha:


Z +∞ Z +∞
−u p−1
Γ(p)Γ(q) = e u du e−v v p−1 dv =
0 0
Z
= e−(u+v) up−1 v q−1 dudv
(]0,+∞[)2

27
G.Di Fazio

Posto (
u=ξ
u+v =η
si ha:
Z
Γ(p)Γ(q) e−η ξ (p−1) (η − ξ)q−1 dξdη
{0≤ξ≤η}
Z +∞ Z η  Z +∞ Z 1 
−η p−1 q−1 −η p−1 q−1
= e dη ξ (η − ξ) dξ = e dη (ηt) (η − ηt) η dt
0 0 0 0
Z +∞  Z 1  Z +∞
−η
= e dη η p+q−1
t p−1
(1 − t) q−1
dt = η p+q−1 e−η dη B(p, q)
0 0 0
= Γ(p + q) B(p, q)

Esempio 4.2 Sia µ : R3 →]0, +∞[, una funzione sommabile e limitata e sia γ ∈ R+ . Consideriamo
il potenziale generato dalla distribuzione di carica µ ovvero
Z
µ(ξ)
V (x) = −γ dξ
R3 kx − ξk

e proviamo che il potenziale è finito ovunque in R3 .


Scriviamo
Z Z
µ(ξ) µ(ξ)
V (x) = −γ dξ − γ dξ = −γI − γII.
B1 (x) kx − ξk R \B1 (x)
3 kx − ξk

Usando il fatto che µ è limitata si ha:

µ(ξ) kµk∞

kx − ξk kx − ξk

e quindi sarà sufficiente provare che

1
∈ L1 (B1 (x))
kx − ξk

ovvero che
1
∈ L1 (B1 (0)).
kxk
Passando a coordinate polari si ha
Z Z Z π Z π Z 1
1 dxdydz d%
dx = p = sen θdθ dϕ
B1 (0) kxk B1 (0) x2 + y2 + z2 0 −π 0 %
Z π Z 1
= 2π sen θdθ %d% = 2π.
0 0

28
Appunti di Analisi Matematica II

Osservando inoltre che µ è sommabile proviamo adesso che II < +∞. Infatti,

µ(ξ)
≤ µ(ξ) ∈ L1 , ∀ξ ∈ R3 \ B1 (x).
kx − ξk

Adesso dimostriamo che, se µ è una funzione radiale allora anche la funzione V (x) è radiale. Sia per
questo G una matrice ortogonale. Proviamo che se µ(Gξ) = µ(ξ) allora V (Gx) = V (x). Eseguendo
il cambio di coordinate dato dalla formula ξ = Gt e ricordando che una rotazione è una isometria,
si ha: Z Z
µ(ξ) µ(Gt)
V (Gx) = −γ dξ = −γ dt
R 3 kx − ξk R 3 kGx − Gtk
Z Z
µ(t) µ(t)
= −γ dt = −γ dt = V (x).
R3 kG(x − t)k R3 kx − tk

Calcoliamo adesso −∇V (x). Fissato perciò un punto x0 ∈ R3 consideriamo Bδ (x0 ). Si ha



∂ µ(ξ)
= − µ(ξ) x − ξ µ(ξ) kµk∞ 1
∂x kx − ξk kx − ξk2 kx − ξk = kx − ξk2 ≤ kx − ξk2 ∈ L

e quindi è lecito derivare sotto il segno di integrale per cui

x−ξ
Z
µ(ξ)
−∇V (x) = γ 2
dξ ∀x ∈ R3 .
R3 kx − ξk kx − ξk

Esempio 4.3 Sia f : Rn → C una funzione sommabile in Rn . Poniamo


Z
ˆ
f (ξ) = f (x)e−2πix·ξ dx.
Rn

La funzione F (x, ξ) = f (x)e−2πix·ξ è continua nella variabile ξ per quasi ogni x ed è sommabile
in x per ogni ξ. Inoltre |F (x, ξ)| = |f (x)| e quindi per uno dei teoremi precedenti si ha che fˆ è
continua in Rn . Inoltre,
∂F −2πix·ξ

∂ξ = −2πif (x)e x = 2π|xf (x)|

e quindi, se aggiungiamo l’ipotesi che

xj f (x) ∈ L1 (Rn ), ∀j = 1, . . . , n

allora, fˆ(ξ) è parzialmente derivabile con derivate parziali continue quindi differenziabile. In gene-
rale, se |xhj f (x)| ∈ L1 (Rn )| allora fˆ(ξ) ha derivate di ordine h e si ha:

∂hf
Z
|h|
= (−1) (−2πixf (x))h e−2πix·ξ dx = (−2πix
d )|h| f (ξ).
j
∂ξ h Rn

29
G.Di Fazio

Esercizio 4.6 Data la funzione Z 1


|x| 2
f (x) = e−|x|t dt
|x|

determiniamo i suoi estremi relativi ed assoluti.


Osserviamo che la funzione è definita per x 6= 0 ed è pari. Studiamo quindi la restrizione della
funzione all’intervallo ]0, +∞[. Dal fatto che
Z +∞
2
f (x) = ξ]x,1/x[ (t)e−xt dt
0

si evince che la funzione è continua e derivabile in ]0, +∞[. Derivando si ha:


Z 1
0
x 2 3 1 −1/x
f (x) = − t2 e−xt dt − e−x − e <0
x x2

e quindi la funzione è decrescente in ]0, +∞[.

30
1. Sistemi Autonomi e stabilità

1.1 Sistemi autonomi

Definizione 1.1 Sia Ω ⊂ Rn un insieme aperto e sia f : Ω ⊂ Rn → Rn . Il sistema y 0 = f (y) si


dice autonomo e, se ϕ è una soluzione del sistema, il sostegno di ϕ si dice traiettoria o orbita di ϕ.

Esempio 1.1 Se f (y0 ) = 0 il sistema ammette la soluzione costante y(x) = y0 , ∀x ∈ (a, b) e la


traiettoria corrispondente è il punto y0 .

Teorema 1.1 Sia ϕ : (a, b) → Rn una soluzione non costante del sistema y 0 = f (y) in Ω. Se esistono
t1 , t2 ∈ (a, b) : t1 6= t2 : ϕ(t1 ) = ϕ(t2 ) allora ϕ è definita in R e risulta periodica.

Dim. La funzione ψ(t) = ϕ(t + t2 − t1 ) è soluzione non costante del sistema y 0 = f (y) perché
traslata di una soluzione ed inoltre risulta

ψ(t1 ) = ϕ(t2 ) = ϕ(t1 )

da cui, per il teorema di unicità segue

ψ(t) = ϕ(t) ∀t ∈ (a − t2 + t1 , b − t2 + t1 )

e quindi, ripetendo il procedimento si ottiene che la soluzione è definita in R. Proviamo adesso che
è periodica. Supponiamo t1 < t2 , δ = t2 − t1 > 0 e diciamo P l’insieme dei periodi di ϕ. Posto
T ≡ inf P ≥ 0, proviamo che T > 0. Se, per assurdo fosse T = 0 allora avremmo ]0, +∞[⊂ DP.
Infatti, sia c > 0. Proviamo che in ogni intorno di c esistono periodi di ϕ. Per la seconda proprietà
dell’ estremo inferiore
∀ε > 0 ∃δ ∗ ∈ P : 0 < δ ∗ < 
Scegliamo m ∈ N : mδ ∗ > c e (m − 1)δ ∗ ≤ c da cui segue subito che

|c − mδ ∗ | < δ ∗ < ε

e quindi mδ ∗ , che è un periodo, appartiene a Bε (c). Allora ]0, +∞[⊂ DP e quindi - risordando che
ϕ è continua - [0, +∞[⊂ P̄ = P da cui P = [0, +∞[ ovvero ϕ è costante in R.

Esempio 1.2 Consideriamo il sistema autonomo


(
y10 = −y2
y20 = y1

La funzione ϕ(t) = (cos t, sen t), ∀t ∈ R è una soluzione del sistema. L’orbita di ϕ è la circonferenza
x2 +y 2 = 1. Notiamo che ϕ(0) = ϕ(2π) e che quindi la soluzione è periodica. In quessto caso l’orbita
è una curva chiusa.
Dal teorema precedente segue:
G.Di Fazio

Teorema 1.2 Dato il sistema autonomo y 0 = f (y) con f ∈ C 0 (Ω) le orbite possono essere soltanto
dei seguenti tre tipi:

1. Punti isolati nel caso il cui la soluzione è costante;

2. Cicli - ovvero curve semplici e chiuse - nel caso in cui la soluzione è periodica;

3. Curve semplici non chiuse nel caso in cui la soluzione è iniettiva.

Definizione 1.2 Dato il sistema y 0 = f (y) con f ∈ C 0 (Ω), sia y0 ∈ Ω tale che f (y0 ) = 0. Allora,
y0 si dice punto singolare per il sistema o punto di equilibrio.

Osservazione 1.1 Un punto è di equilibrio per il sistema se e solo se è l’orbita della soluzione
costante ϕ(t) = y0 .

Teorema 1.3 Sia dato il sistema y 0 = f (y) : Ω → Rn con f continua in Ω, sia ϕ(t) una soluzione
del sistema e sia y0 ∈ Ω tale che limt→+∞ ϕ(t) = y0 . Allora y0 è punto singolare per il sistema.

Dim. Per semplicità supponiamo n = 1. Usando le ipotesi si ha:

lim ϕ0 (t) = lim f (ϕ(t)) = f (y0 ).


t→+∞ t→+∞

Se fosse f (y0 ) > 0 allora avremmo


 0
f (y0 )
ϕ(t) − t ≥ 0, ∀t > t0
2

e quindi
f (y0 )
ϕ(t) ≥ (t − t0 ) + ϕ(t0 ) → +∞
2
per t → +∞.

Definizione 1.3 Sia dato il sistema y 0 = f (y) : Ω → Rn con f continua in Ω, sia ϕ(t) una soluzione
d
del sistema. Sia data inoltre una funzione E : Ω → R, di classe C 1 (Ω). Allora dt E(ϕ(t)) si dice
derivata di Lie della funzione E lungo la traiettoria di ϕ.

Osservazione 1.2 Si ha:


d
E(ϕ(t)) = ∇(E(ϕ(t)) · ϕ0 (t) = ∇(E(ϕ(t)) · f (ϕ(t))
dt

e se ϕ(t0 ) = y0 si ha:  
0 d
E (y0 ) ≡ E(ϕ(t)) = ∇E(y0 ) · f (y0 )
dt t=t0

2
Appunti di Analisi Matematica II

ovvero la derivata di Lie è la stessa per tutte le soluzioni del sistema che abbiano lo stesso valore
in t0 . Per questa ragione spesso si dice derivata intrinseca della funzione E rispetto al sistema.

Definizione 1.4 Sia E : Ω → R tale che E 0 ≡ 0. Allora la funzione E si chiama integrale primo
del sistema.

Teorema 1.4 La funzione E è integrale primo del sistema se e solo se ∇E ⊥ f in Ω.

Dim. Ovvia.
Esempio 1.3 Il sistema
x0

= a − by


x

y0
 = −ca + dx


y
con a, b, c, d ∈ R+ si chiama modello preda - predatore di Lotka - Volterra. Si cerifica facilmente
che la funzione
E(x, y) = −c log x + dx − alogy + by
è un integrale primo del sistema.

Esempio 1.4 Sia H : R2n → R, una funzione di classe C 2 (R2n ), H = H(p1 , . . . , pn ; q1 , . . . , qn ).


Consideriamo il sistema
∂H

0
 pi = −


∂qi
i = 1, . . . , n.
 0 ∂H
 qi =

∂pi
Il sistema si dice sistema Hamiltoniano e la funzione H una Hamiltoniana del sistema. Questo
tipo di sistema differenziale trova importanti applicazioni nello studio della meccanica analitica. Si
riconosce facilmente che la funzione H è un integrale primo del sistema. Infatti,
   
0 ∂H ∂H ∂H ∂H ∂H ∂H
H (y) =< ∇H, − , >= − + = 0.
∂q ∂p ∂p ∂q ∂q ∂p

Teorema 1.5 E è integrale primo del sistema y 0 = f (y) se e solo se E(ϕ(t)) è costante per ogni
soluzione ϕ.

Dim. Ovvia.
Teorema 1.6 E è integrale primo del sistema y 0 = f (y) se e solo se l’orbita di ogni soluzione è
contenuta in un insieme di livello di E.

Dim. Ovvia.
Esempio 1.5 Sia U : R → R e sia data l’equazione

dU
y 00 + = 0.
dy

3
G.Di Fazio

L’equazione è equivalente al sistema  0


 y1 = y2
dU
 y20 = −
dy1
in tal caso la funzione E(y1 , y2 ) = 12 y22 + U (y1 ) è un integrale primo del sistema. I punti singolari
nel piano (y1 , y2 ) sono (ȳ, 0) con ȳ punto stazionario di U e le orbite sono contenute negli insiemi
di livello di E.

Esempio 1.6 Consideriamo un pensolo semplice di massa m e lunghezza l. Denotiamo con ϕ(t)
l’angolo che misura la deviazione del pendolo dalla verticale al tempo t. Allora si ha:

ϕ00 + k sen ϕ

dove k è una costante che dipende da grandezze fisiche del sistema. Ponendo U (ϕ) = −k cos ϕ ed
usando l’esempio precedente si ha:

1 2
E(ϕ1 , ϕ2 ) = ϕ − k cos ϕ1 .
2 2
Le posizioni singolari si ottengono per ϕ1 = 0, π, −π e le orbite sono gli insiemi di livello di E.

1.2 Stabilità

Definizione 2.1 Sia dato il sistema autonomo y 0 = f (y) con f : Ω → Rn localmente Lipschitziana
in Ω. Diciamo ϕ(t; 0, ξ) l’unica soluzione del sistema che assume valore ξ nel punto t = 0. Diciamo
che ϕ(t; 0, ξ) è stabile se

∀ε > 0 ∃δ > 0 : kη − δk < δ, ⇒ sup kψ(t; 0, η) − ϕ(t; 0, ξ)k < ε.


t>0

Diciamo che un punto singolare y0 ∈ Ω è stabile se lo è la soluzione costante ϕ(t) = y0 . La stabilità


si dice asintotica - al tendere di t a ∞ - quando

lim kψ(t; 0, η) − ϕ(t; 0, ξ)k = 0


t→+∞

La stabilità si dice asintotica - al tendere di t a −∞ - quando

lim kψ(t; 0, η) − ϕ(t; 0, ξ)k = 0.


t→−∞

Esempio 2.1 L’equazione y 00 = y, come è facile vedere, è equivalente al sistema


(
y10 = y2
y20 = y1

4
Appunti di Analisi Matematica II

Il punto (0, 0) è singolare per il sistema. È facile vedere che è stabile. Infatti, l’integrale generale
del sistema è (
y1 (x) = c1 ex + c2 e−x
y2 (x) = c1 ex − c2 e−x
La stabilità non è però asintotica perché si dovrebbe avere

|y1 (x)2 + y2 (x)2 | = |c21 e2x + c22 e−2x | < ε ∀x > 0.

Esempio 2.2 L’equazione y 0 + y = 0 ammette come soluzione con dato iniziale y(0) = y0 , la
funzione y(x) = y0 e−x in R. La soluzione nulla è stabile. Infatti,

|y(x)| ≤ |y0 |, ∀x > 0.

Inoltre la stabilità è asintotica perché limx→+∞ y(x) = 0.

Esempio 2.3 Il sistema (


y0 + y = x + 1
y(0) = 0

ammette la funzione y(x) = x come soluzione globale. L’integrale generale dell’equazione è y(x) =
y0 e−x + x in R. La soluzione y(x) = x è asintoticamente stabile per x → +∞. Infatti,

|y(x) − x| = |y0 e−x | = |y0 |e−x → 0.

Esempio 2.4 Il sistema (


y0 + y = x + 1
y(0) = 0

ammette la funzione y(x) = x come soluzione globale. L’integrale generale dell’equazione è y(x) =
y0 e−x + x in R. La soluzione y(x) = x è asintoticamente stabile per x → +∞. Infatti,

|y(x) − x| = |y0 e−x | = |y0 |e−x → 0.

Esempio 2.5 L’integrale generale dell’ equazione

y 00 + y = 0


y(x) = y0 + y00 (1 − e−x ) ∀x ∈ R.
La soluzione nulla è stabile per x → +∞ ma non asintoticamente. Infatti,

|y(x)| = |y0 + y00 (1 − e−x )| ≤ |y0 | + |y00 | < ε

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G.Di Fazio

se |y0 |, |y00 | < δ = ε


2 ma, se y(x) è una soluzione non identicamente nulla

lim y(x) = y0 + y00 6= 0.


x→+∞

Esercizio 2.1 Data l’equazione


y0 = 1 − y2
verificare che la soluzione y(x) = 1 e la soluzione y(x) = −1 sono, rispettivamente, asintoticamente
stabile e non stabile in R.

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