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FILOSOFIA STORIA POLITICA

STUDI DI STORIOGRAFIA FILOSOFICA


OFFERTI A GIUSEPPE CACCIATORE

a cura di
Giuseppe Bentivegna
Francesco Coniglione
Giancarlo Magnano San Lio

BONANNO EDITORE
3
Volume stampato con il contributo
del Dipartimento di Scienze Umanistiche
dell’Università degli Studi di Catania

ISBN 978-88-6318-083-1

Proprietà artistiche e letterarie riservate


Copyright © 2016 – Gruppo Editoriale Bonanno s.r.l.
Acireale - Roma

www.gebonanno.com
gebonanno@gmail.com

4
DISORDINE E DISMISURA. IL MALE IN PLATONE
R. Loredana Cardullo*

«Comprendo, disse: ti riferisci a quello


stato di cui abbiamo discorso ora, mentre
lo fondavamo: uno stato che esiste solo
a parole, perché non credo che esista in
alcun luogo della terra. – Ma forse nel cielo,
replicai, ne esiste un modello, per chi voglia
vederlo e con questa visione fondare la
propria personalità»
Plato. Resp. 592a10-b3

0. Premessa

Nell’ambito della storia della filosofia antica, il problema del male


diviene oggetto di un interesse forte e specifico solo a partire dal
neoplatonismo. Difatti, per quanto gli scritti platonici e aristote-
lici contengano numerose occorrenze dei termini che ne costitui-
scono il vocabolario (kakon, kakia etc.), il tema non conosce in essi
un’elaborazione, per così dire, monografica, al pari di quanto ac-
cade, invece, per il suo contrario, il bene.1 Diversamente, Plotino
e Proclo, tra III e V secolo d.C., dedicano alla questione dell’esi-
stenza del male nel mondo e alla sua interazione con il bene e la
Provvidenza trattazioni ampie e a se stanti; il primo ne discute in

*
Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Catania.
1
Com’è noto, il bene costituisce l’Idea suprema del platonico Iperuranio; essa,
nella Repubblica, per la sua elevatezza e predominanza, viene posta al di là e al di
sopra dello stesso essere ideale, e negli ultimi dialoghi, nonché nelle cosiddette
dottrine non scritte testimoniate da Aristotele, s’identifica con l’Uno e la misura,
pertanto rappresenta il cuore della filosofia platonica in tutte le sue sfaccettature e
in tutte le sue declinazioni concettuali e teoretiche; quanto ad Aristotele, oltre ad
avere scritto un trattato Sul bene allo scopo di criticare la relativa teoria platonica,
anche a causa della sua struttura matematizzante, considerò il bene come il fine
ultimo di ogni ente, coniugandolo secondo diversi significati e ponendolo, al pari
di Platone, al centro della sua riflessione sia metafisica che morale.

57
Enn. I 8 (51), Cosa sono i mali e da dove vengono, III 2 (48) e III 3
(49), Sulla Provvidenza, II 4 (12), Sulle due materie, e nel trattato
II 9 (32), Contro gli gnostici, il secondo dedica all’argomento so-
prattutto, ma non soltanto,2 il De malorum subsistentia, del quale
ci è pervenuta una versione latina dovuta al dotto traduttore Gu-
glielmo di Moerbeke. Come avvenne nel V secolo a.C. riguardo al
problema del piacere, che venne interpretato in maniera opposta
dai principali socratici minori per l’inesistenza a riguardo di una
dottrina socratica forte, tant’è che per i cinici esso divenne il peg-
gior vizio morale, da fuggire ed evitare ad ogni costo, mentre per i
cirenaici costituì il fulcro e l’obiettivo dell’intera esistenza umana,
così la mancanza di una vera e propria definizione e teorizzazio-
ne del male da parte di Platone, condusse tra epoca imperiale e
tarda antichità i due maggiori neoplatonici,3 Plotino e Proclo, a
formulare sul problema precise e definite concezioni, ma l’una
profondamente diversa dall’altra, se non addirittura in contrasto
tra loro. Se infatti per Plotino il male si identifica con la materia,
da lui considerata “male in sé” (καθ᾽αὑτὸν κακόν, αὑτοκακόν,
κακὴ αὐτή) e “primo male” (πρῶτον κακόν) (Enn. I 8, 3, 40; I
8, 8, 43; I 8, 14, 51), per Proclo, invece, esso non ha alcuna sus-
sistenza ontologica, non coincide con la materia, che è necessaria
al cosmo sensibile e quindi buona e positiva, ma vive quaggiù una
quasi-esistenza parassitaria (παρυπόστασις), accanto al bene. La
profonda divergenza di vedute tra Plotino e Proclo su questo tema
di fondamentale importanza, nonostante il comune riferimento
alla fonte platonica, nasce – come nel caso del “piacere socratico”

2
La dottrina procliana del male può essere ricostruita anche a partire dalle
opere commentarie e teoretiche del neoplatonico. Si vedano, in particolare, i se-
guenti passi: in Remp. I 32,13-33,7; 37,2-39,1; in Tim. I 372,25-381,21; in Parm.
829,23-831,24; 833,13-14; Theol. Plat. I 18. Tuttavia le principali argomentazioni
a riguardo si trovano concentrate nel De malorum subsistentia, il terzo dei cosiddetti
Opuscula, dedicati, nell’ordine, alla libertà dell’uomo, alla Provvidenza e al male,
tre temi di argomento ontologico-etico-teologico, intrinsecamente collegati tra
loro. Per una recente e rapida analisi dello status quaestionis del problema del male
nel neoplatonismo mi permetto di rinviare al mio recente Considerazioni sul male
nel Commentario alla Metafisica di Asclepio. Contro Aristotele e in difesa dell’unicità
del Primo Principio, in R.L. Cardullo e D. Iozzia (a cura di), Kallos kai aretê. Bellez-
za e virtù. Studi in onore di Maria Barbanti, Acireale-Roma 2014, pp. 551-566, e
la bibliografia ivi citata.
3
Il tema del male diventa un leitmotiv della letteratura d’epoca imperiale (D.J.
O’Meara in Plotin. Traité 51, Paris, Les Éditions du Cerf 1999, pp. 91-92).

58
– dall’ambiguità e forse anche dalla debolezza della trattazione
platonica di questo tema. Recentemente è stato sostenuto che in
Platone non ci sia alcuna dottrina positiva del male, a dispetto del
fatto che i neoplatonici, per avvalorare le loro concezioni a riguar-
do, affermavano di estrapolarle dai dialoghi platonici.4 In verità,
per quanto in passaggi cruciali della sua opera Platone denunci e
metta in guardia l’uomo da mali e malvagità presenti nel mondo
e nell’anima, in verità egli non pare avere mai davvero chiarito se
esista un principio di tali mali e, in caso positivo, quale esso possa
essere. E ciò a prescindere dalla testimonianza aristotelica che gli
attribuisce una precisa concezione dualistica etica ed ontologica,
quando riferisce, anzitutto e ampiamente in Met. A, che, negli
agrapha dogmata, Platone aveva contrapposto all’Uno/Bene, prin-
cipio supremo di ogni ordine e misura, la Diade indeterminata di
grande e piccolo quale principio di molteplicità, disordine e male.
Nel presente contributo intendo far luce sulla riflessione platonica
intorno al tema del male per cercare di capire come si sia giunti,
a partire da questa fonte, alle due posizioni diametralmente op-
poste di Plotino e di Proclo, e se e in che misura la testimonianza
aristotelica abbia influito sull’esigenza, sentita profondamente dai
neoplatonici, di mettere chiarezza su una dottrina che Platone
aveva lasciato, coscientemente o meno, imprecisata, al fine di ri-
pristinare e ribadire l’unicità del principio platonico.

1. PLATONE. IL MALE COME DISORDINE E DISMISURA.


I CONTESTI E I MITI

1.1. Il male è nel corpo (Fedone, Cratilo, Gorgia)?

Il punto di domanda, nel presente titolo, è reso obbligatorio dal


luogo comune storiografico, che qui si intende sfatare, secon-
do cui nella triade dialogica di Fedone, Cratilo e Gorgia, Plato-
ne avrebbe attuato, riprendendo una nota concezione orfico-
pitagorica, una precisa svalutazione del corpo, presentandolo in
generale come miasma, e in particolare come tomba e carcere

4
Phillips J.F., Order from desorder. Proclus’ doctrine of evil and its roots in ancient
Platonism, Brill, Leiden 2007, p. 2: «according to most modern evaluations, Plato
has no theory of evil as such».

59
per l’anima, e avrebbe valorizzato, di contro, l’elemento psichi-
co dell’uomo, considerandolo superiore a quello materiale per la
sua spiritualità, intelligibilità, eternità, affinità alle idee. Se è vera
la seconda parte di questa affermazione, non è del tutto esatta
la prima. Difatti, una posizione talmente tranchante da porre il
corpo dalla parte del negativo e, quindi, del male e l’anima dalla
parte del positivo e del bene, come nelle systoichiai pitagoriche,
non è presente nei dialoghi sopra citati né in alcun altro scrit-
to platonico. Nel Fedone, ad esempio, il corpo e la sensibilità,
che a questo attiene, sono frequentemente presentati come la
causa per l’uomo da una parte, a livello gnoseologico, di una
pericolosa ignoranza, che lo tiene legato all’effimero e all’opina-
bile, e dall’altra, dal punto di vista etico, di passioni e desideri
incontrollati. Fermo restando ciò, tuttavia la ricerca filosofica e
il dominio della ragione sugli istinti possono salvare l’anima e
allontanarla dal rischio di contrarre quei mali umani ai quali il
corpo, per l’appunto, la espone; sono le passioni e i desideri ad
inchiodare l’anima al corpo e a farle soffrire mali e dolori, ma il
corpo di per sé, per quanto sia fonte di mali, non costituisce esso
stesso un male in senso positivo. È semmai un male relativo, che
cessa tuttavia di essere tale nel momento in cui l’uomo non lo
curerà più di quanto non faccia nei riguardi dell’anima. Come
ha affermato recentemente G. Casertano, la filosofia – che nel
dramma rappresentato dal Fedone si fa personaggio tra i “perso-
naggi” – «è colei che “prende” l’anima, quando è completamente
legata al corpo e avvolta in completa ignoranza, e “dolcemente”
la esorta a liberarsi da quei legami che la rendono prigioniera.
Mostrando anzitutto che l’indagine compiuta attraverso i sen-
si è ingannevole. Ma non è il corpo in sé che inganna: è sempre
l’anima che si inganna quando è soggetta completamente al corpo e
non sa servirsene “nella misura necessaria”».5 Quindi, come ha ben
sostenuto M. Dixaut, il compito che l’anima ha da realizzare,
secondo Platone, non ne prevede la contrapposizione al corpo;
ciò che essa ha da fare, da realizzare in sé stessa, non deve esser
fatto «contro il corpo, ma senza di lui, a distanza».6 Anima e cor-
po non costituiscono due poli opposti e contraddittori – come

5
G. Casertano, Fedone, o dell’anima. Dramma etico in tre atti. Traduzione,
commento e note di G.C., Napoli 2015, p. 139 (commento a 82d9-84b7).
6
Platon, Phédon. Traduction de M. Dixsaut, Paris 1991, p. 59.

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bene e male – all’interno di uno stesso genere, ma i due aspetti
del composto umano dalla cui armoniosa composizione, sotto la
guida dell’anima razionale sull’elemento corporeo, si potrà otte-
nere il bene e rifuggire il male.
Emblematiche di questo atteggiamento “non negativo” nei ri-
guardi dell’aspetto materiale del composto antropomorfico, sono
quelle pagine (a partire da 61e5) nelle quali Platone, sempre nel
Fedone, presenta il corpo come un posto di guardia (φρουρά) ed
un possesso divino, da salvaguardare e custodire sempre quale
nostro obbligo assegnatoci dagli dèi, e ci esorta a non conside-
rare mai il suicidio come una buona scelta etica, per quanto egli
affermi che il vero filosofo desidera morire e a ciò si esercita. Ma
l’esercizio di morte – quella μελέτη θανάτου che rappresenta il
primo grande filo conduttore del dialogo –7 si realizza attraverso
la filosofia, quando riusciamo già in vita a separare l’anima dal
corpo e a vivere, come se fossimo già morti, un’esistenza virtuosa
e disincarnata; non certo attraverso l’azione violenta e contami-
nante di un suicidio. La filosofia, ovverosia la vita dedita alla ri-
cerca e poco attenta alle suggestioni del corpo, appare, qui come
in tutto il corpus platonico, a detta di Trabattoni, lo strumento
attraverso il quale l’uomo può raggiungere anche in vita quella
felicità che si identifica con il sapere e che si alimenta di virtù
e giusta misura, nell’attesa di possedere l’intera σοφία dopo la
morte, grazie alla totale separazione dal corpo, quando gli dèi lo
vorranno.8 L’impaccio che il corpo genera all’anima, con le sue
esigenze, le sue fragilità e la sua pesantezza terrosa, e lo sforzo che
il filosofo deve fare per separarsene, se vuole accostarsi alla veri-
tà, sono descritti splendidamente in questo passo, che contiene
una delle risposte date da Socrate ai dubbi di Simmia: «se mai
vogliamo conoscere qualche cosa nella sua purezza, dobbiamo
separarci dal corpo e guardare le cose in sé con la sola anima. E
a quanto pare solo allora, cioè dopo la morte e non finché siamo
in vita […] avremo ciò che desideriamo e di cui ci dichiariamo
amanti, cioè la sapienza. […] E finché siamo in vita, a quan-
to pare, arriveremo il più possibile prossimi al sapere in questo

7
F. Trabattoni, in Platone, Fedone, a cura di F.T. Traduzione di S. Martinelli
Tempesta, Torino 2011, p. XV.
8
A tale riguardo, Trabattoni (cit., p. xix) definisce la filosofia, negli scritti pla-
tonici, come «una specie di “tecnica” capace di produrre la vita buona».

61
modo, cioè sforzandoci al massimo di non unirci al corpo e di
non avere nulla in comune con esso (a meno che non sia assolu-
tamente necessario) e di non essere pervasi dalla sua natura, ma
di purificarci dal suo contatto, fino al momento in cui la divinità
in persona ci liberi».9
Nemmeno nel Cratilo, il dialogo di filosofia del linguaggio, la
posizione platonica sul corpo appare negativa. Attraverso l’analisi
etimologica della parola corpo, σῶμα, nella sua frequente asso-
ciazione orfica con σῆμα, Platone dimostra come i tre maggiori
significati di “segno”, “tomba” e “carcere”, denotati da σῆμα, se
correttamente interpretati, rivelano appieno la natura – aggiun-
gerei “positiva”, benché strumentale – del corpo rispetto all’ani-
ma: da una parte esso è ciò attraverso cui l’anima “significa” qual-
cosa (σημαίνει), e quindi è segno, dall’altra costituisce quell’in-
volucro, che è immagine di un carcere (σῆμα), nel quale essa si
trova a vivere come protetta, fino a che non espierà le colpe per le
quali deve pagare il fio attraverso l’incarnazione: «quindi il corpo
è salvezza e custodia dell’anima, finché essa non avrà pagato ciò
che deve pagare, e con tale nome si chiama, e non c’è da mutare
nulla, nemmeno una lettera» (Crat. 400c7-9).10
Ritroviamo anche nel Gorgia, alle linee 493a ss., l’analogia tra
σῶμα e σῆμα, in un contesto in cui viene illustrata e confermata
la tesi euripidea – ma anche orfico-pitagorica – secondo la qua-
le il vivere altro non sarebbe se non un morire ed il morire un
vivere. L’aspetto terribile della nostra vita, evidenziato attraverso
questa sentenza e un’altra, sapienziale, secondo la quale l’anima dei
dissennati, a causa della sua insaziabilità e intemperanza, sarebbe
simile ad un orcio bucato, consiste proprio nella condizione di
sepoltura nel corpo/tomba in cui versa l’anima, come se fosse mor-
ta. Tuttavia, alla svalutazione del corpo come σῆμα per l’anima
non consegue una sua precisa definizione come male; piuttosto,
l’intero dialogo batte l’accento sui mali morali di cui si macchia
l’anima, ovvero sull’ingiustizia, sull’ignoranza e sulla viltà, che ap-
paiono essere i mali peggiori. E se commettere ingiustizia è male,
ancora più malvagia sarà, secondo Socrate, la condizione di chi,
avendo commesso ingiustizia, non paga per la sua colpa. Non è,
quindi, il corpo a determinare i peggiori mali per l’anima, ma è
9
Plat. Phaed. 66d7-67a6 (trad. cit.).
10
Platone, Cratilo, a cura di M. Vitali, Milano 1989.

62
quest’ultima a scegliere liberamente di vivere in maniera intempe-
rante, lasciandosi soggiogare dal piacere che procura l’ingiustizia. E
così, nel mito escatologico contenuto nella parte finale del dialogo,
le anime, anche dopo la loro separazione dal corpo, mostreranno
tutte le cicatrici lasciate da spergiuri e ingiustizie, tutte le stortu-
re lasciate da menzogne e vanità, tutto il disordine e la bruttezza
causati da licenza, mollezza, tracotanza e intemperanza (524e5-
525a7). E come la ginnastica e la medicina sapranno sanare i corpi,
ristabilendo in essi armonia e ordine, così solo la scienza del bene
potrà salvare le anime malvagie, liberandole dall’ignoranza, causa
d’ogni male, e ripristinando in esse equilibrio e giusta misura.11
Il male, in conclusione, non risiede nel corpo, nemmeno in
questi dialoghi profondamente influenzati dalle teorie misterio-
sofiche di matrice orfico-pitagorica. Il corpo ha i suoi mali, che
sono debolezza, malattia, bruttezza (477b4: ἀσθένειαν εἶναι καὶ
νόσον καὶ αἶσχρός), ma non è esso stesso un male; mali supre-
mi sono piuttosto quelli dell’anima: ingiustizia, ignoranza, viltà
e intemperanza (477b7-8: ἀδικίαν… καὶ ἀμαθίαν καὶ δειλίαν.
477e5-6: Ἡ ἀδικία ἄρα καὶ ἡ ἀκολασία καὶ ἡ ἄλλη ψυχῆς
πονηρία). Anzi, essi sono i massimi mali che esistono (μέγιστον
τῶν ὄντων κακόν ἐστιν).

1.2. Il male è nell’anima (Fedro e Repubblica)

Come nella dottrina orfico-pitagorica, anche nel mito del carro


alato, con il quale si chiude la prima parte del Fedro, l’anima del
vivente precipita nel corpo terroso e vi si incarna in seguito ad
una colpa che Platone – diversamente dalle sue fonti, che non ne
avevano dato specificazione – identifica in un difetto di visione e
di conoscenza, causati dagli impulsi irrazionali (rappresentati nel
mito dai due cavalli, di cui uno bianco e di razza nobile, simbolo
dell’animosità, l’altro nero e riottoso, simbolo della concupiscen-
za) che la parte razionale dell’anima (l’auriga) non riesce a tene-
re a freno. In questo dialogo e attraverso questo mito, «l’origine
del male va ricercata in una tendenza intrinseca alla costituzione

11
Chiara e suggestiva è la trattazione che della dottrina del male esposta nel
Gorgia dà il datato ma sempre utile libro di L. Montoneri, Il problema del male nella
filosofia di Platone, Padova 1968, pp. 74-105.

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stessa dell’anima che in tal modo viene spinta verso il basso, al-
lontanandosi dalla sua fonte di salute e precipitando nel mondo
opaco dell’oblio e dell’inconsapevolezza».12 La tesi socratica del
male-ignoranza, ampiamente presente nella produzione preceden-
te, si intreccia qui con i nuovi guadagni della psicologia platoni-
ca; all’unicità della psyché socratica, tutta buona perché tutta logos,
si sostituisce un’anima dalla struttura composita e complessa. Al
dissidio tra anima e corpo subentra il conflitto intrapsichico tra
anima razionale e anime irrazionali. Se in una qualche misura, nei
dialoghi precedenti, Platone aveva considerato il corpo un ostaco-
lo ed un impaccio alla realizzazione di una vita buona, virtuosa e
felice da parte dell’anima, adesso egli individua nella stessa natura
dell’anima il rischio di un’esistenza malvagia. Se l’anima precipita
e si incarna e deve scontare diecimila anni di pena per la colpa
commessa è perché la sua parte istintuale o concupiscibile la trasci-
na verso il basso, allettata e attratta dai piaceri sensibili. Il mondo
di quaggiù, con le sue suggestioni, determina la colpa in quanto
impedisce al “carro” di seguire gli dèi e all’“ala” di condurlo in alto
verso l’intelligibile e la visione delle essenze. Solo l’anima del fi-
losofo, infiammata d’amore per la verità e la bellezza celeste, una
volta rimesse le ali grazie al suo desiderio di sapere e alla visione
delle essenze, non ridiscenderà più sulla terra, ma vivrà in eterno
assieme agli dèi. Nella Repubblica, grandiosa summa del pensiero
maturo di Platone, l’anima, nella sua tripartizione in loghistikon,
epithymêtikon e thymos, viene presentata come un’immagine specu-
lare della città, e se essa viene politicizzata, la città viene a sua volta
psicologizzata;13 tutto ciò allo scopo di poter meglio comprendere,
attraverso l’analisi sinottica della struttura della polis e della psyché,
le ragioni dell’ingiustizia, pubblica e privata. Alle tre parti dell’ani-
ma vengono fatte corrispondere, nell’ordine, le tre classi sociali dei
custodi, dei guerrieri e dei lavoratori;14 e alla giustizia statale, frut-
to di collaborazione tra le parti sociali ma anche di un ordinato
compimento dei propri compiti, così come sono stati assegnati a

12
L. Montoneri, cit., p. 127.
13
L’espressione è di M. Vegetti, Anima e corpo, in Introduzione alle culture anti-
che. II. Il sapere degli antichi, a cura di M.V., Torino 1992, p. 211.
14
Resp. IV, 441c5-6: «le parti che costituiscono lo stato e le parti che costituiscono
l’anima di ciascun individuo, sono le stesse e in numero uguale». La traduzione italia-
na riportata è quella di F. Sartori in Platone, Opere complete, vol. 6, Roma-Bari 1983.

64
ciascuno dalla propria indole o natura,15 viene fatta corrispondere
una forma di giustizia psichica, che si realizza nel momento in cui
l’anima razionale si allea con la parte animosa e, assieme a questa,
riesce a contrastare e a tenere a freno le pretese e le intemperanze
dell’anima concupiscibile, responsabili del male morale. Una gran-
diosa metafora grafica – il libro della città e quello dell’anima sono
identici, ma scritti l’uno a caratteri grandi e più facilmente leggi-
bili, l’altro minuscoli – introduce e facilita il discorso platonico
sulla giustizia e sull’ingiustizia, rispettivamente intese come bene e
male supremi sia per l’individuo che per la collettività. L’obiettivo
è quello di dimostrare che uno stato è giusto quando i suoi citta-
dini sono tali; occorre, quindi, esortare gli uomini ad instaurare la
giustizia all’interno della propria anima, la qual cosa si realizza «in
un’azione che coinvolge veramente la propria personalità e caratte-
re, per cui l’individuo non permette che ciascuno dei suoi elementi
esplichi compiti propri di altri né che le parti dell’anima s’ingeri-
scano le une nelle funzioni delle altre; ma, instaurando un reale
ordine nel suo intimo, diventa signore di se stesso e disciplinato
e amico di se medesimo e armonizza le tre parti della sua anima,
come perfettamente sintonizzano le tre armonie di una nota fon-
damentale, bassa alta media, anche se per caso se ne inseriscano
altre in mezzo: allora, dopo averle legate tutte ed essere divenuto
uno di molti, temperante e armonico, eccolo ormai agire così, sia
che la sua attività si rivolga ad acquistare beni materiali o a curare
il corpo, sia che si svolga nell’ambito politico o in contratti privati;
e in tutto questo suo agire giudica e denomina giusta e bella l’azio-
ne che conserva e contribuisce a realizzare questo intimo equili-
brio, e sapienza la scienza che la dirige; ingiusta l’azione che via via
distrugge quell’equilibrio e ignoranza l’opinione che la dirige».16
Ancora una volta sono la disarmonia, la dismisura, la mancanza
di equilibrio, nonché l’ignoranza, ad essere etichettate come mali
morali; e la sapienza e la razionalità propria della filosofia appaiono
i soli mezzi per rifuggire il male e cogliere il bene, quel μέγιστον
μάθημα che l’analogia della linea e il paragone della caverna, più
avanti nel testo (ll. VI-VII), presenteranno come obiettivo dell’in-
tera esistenza umana. Ma la Repubblica non indicherà alcun prin-

15
Resp. IV, 443c5-7: «chi è per natura calzolaio è giusto che faccia il calzolaio,
senza svolgere altre attività, e chi è falegname il falegname, e così via».
16
Resp. IV, 443c10-444a1.

65
cipio contrario al Bene, che rimane l’idea suprema, madre di tutte
le idee, causa per queste di essere e intelligibilità; «mentre per i
beni non occorre pensare ad altro autore che la divinità – afferma
Socrate alle linee 4-5 di Resp. II, 379c – le cause dei mali si devono
cercare altrove che in essa».17 Che la divinità sia causa solo dei beni
è un guadagno importante della Repubblica, che troverà importan-
ti echi nei dialoghi successivi.18

1.3. Il dio non è responsabile del male (Timeo, Politico, Leggi)

Nel Timeo, il dialogo cosmologico di Platone, il male viene iden-


tificato con quella sorta di disordine pre-cosmico e caotico sul
quale il Demiurgo, con la sua opera plasmatrice dell’universo
sensibile, impone ordine e razionalità. Causa di tale movimen-
to senza ordine né regola (30a4-5: πλημμελῶς καὶ ἀτάκτως),
contro cui il divino artefice e i suoi ausiliari devono lottare per
stabilire ordine e armonia, è la necessità (ἀνάγχη), ossia quella
forza cieca e “senza intelligenza” che agisce all’interno della ma-
teria pre-esistente e bruta, anche quando l’azione demiurgica si
interrompe e la cura dell’universo spetta all’anima del mondo.
La necessità, o causa errante, configura tutta quella serie di feno-
meni «che si producono indipendentemente da una “ragione” e
non in vista di un “fine”, ma solo, appunto, per una “meccani-
ca” necessità».19 Essa, «nella sua assoluta assenza di intelligenza
e nella sua bruta “meccanicità” materiale […], con tutta la sfera
causale che implica, resiste all’azione demiurgica e si oppone (na-
turalmente in forma inconsapevole) ai disegni della ragione».20
Il Dio, quindi, che è “produttore e padre” buono (29e: ἀγαθός)
17
Cfr. anche Eutiphr. 15a; in merito si vedano i seguenti studi: S. Natoli,
L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano 1986, p.
105 ss.; U. Bianchi, Teologia e teodicea: tra espressione e testimonianza, in AA.VV.,
Testimonianza religiosa e forme espressive, vol. I, Perugia 1989, pp. 107 ss.; S. Lanzi,
Theos anaitios. Storia della teodicea da Omero ad Agostino, Roma 2000; S. Brogi, I
filosofi e il male. Storia della teodicea da Platone ad Auschwitz, Milano 2010.
18
Per la tesi platonica della bontà del divino e della sua irresponsabilità riguar-
do ai mali presenti nel mondo, si vedano anche i seguenti luoghi, alcuni dei quali
verranno discussi più avanti nel corso di questo lavoro: Phaedr. 247a; Tim. 29a-
30a; 42d-e; 52d-53c; 69b-e; Pol. 272b-273e; Leg. X, 896e-897b.
19
F. Fronterotta in Platone, Timeo, a cura di F.F., Milano 2006, p. 81.
20
Ibidem.

66
ed esente da invidia (29e2) di questo universo (28c: ποιητὴν καὶ
πατήρα τοῦδε τοῦ παντός), non è responsabile del male; ciono-
nostante, nemmeno in questa sede, Platone sembra indicare un
principio malvagio equipollente, contrapposto ontologicamente a
quello buono, cui attribuire la responsabilità del male. Piuttosto,
male e malvagità vengono ad essere considerati, ancora una volta
in negativo, quali sintomi di deficienza e di assenza di bontà e di
razionalità. Laddove è assente l’ordine, lì è il male, senza che ci
sia bisogno di un principio positivo che lo produca. Il male non
riguarda la realtà intelligibile, alla quale appartengono gli dèi e il
modello ideale, ma è connesso all’aspetto sensibile dell’universo,
agendo, a causa della necessità, in quella χώρα – e continuan-
do a ripresentarsi nell’universo già formato – che non coincide
però con la materia nel suo aspetto sensibile ma con la condizio-
ne ontologica affinché una realtà sensibile possa esserci. La χώρα
– «spazio intermedio fra il sensibile e l’intelligibile»,21 ricettaco-
lo e nutrice di ogni generazione (49a5-6: ὑποδοχὴν αὐτὴν οἷον
τιθήμην) – è la ratio essendi di ogni molteplicità e di ogni realtà
materiale, così come la necessità è causa di mortalità, debolezza,
transitorietà per tutto ciò che è terreno. Ecco perché le teorie che
identificano il male con la materia o con un’anima malvagia –
come quelle plotiniana e plutarchea,22ad esempio – non rispec-
chiano fedelmente l’insegnamento platonico. Intelligenza, χώρα
e causa errante sono egualmente necessarie in quanto concorrono
assieme alla formazione dell’universo: «la nascita di questo mon-
do – si legge a 47e4-48a5 – è avvenuta nella forma di una mesco-
lanza che deriva dalla combinazione di necessità e intelletto». In
conclusione: il Demiurgo non crea dal nulla la realtà ma si limita
a porre ordine in un disordine ad esso preesistente, imitando il
modello ideale del Vivente eterno. E anche se la sua azione viene
ostacolata dalle forze meccaniche della necessità, sulla quale do-
vranno essere esercitate tutte le sue capacità persuasive per con-
vincerla ad assecondarne il progetto demiurgico, né la χώρα né
la necessità sembrano assurgere, nel Timeo, al ruolo di Principio

21
Ivi, p. 62.
22
In De Iside et Osiride 367a5, cap. 40, Plutarco di Cheronea aveva identificato
in Seth un’anima malvagia, residuo di quel disordine cosmico che Iside non era
riuscita ad annientare.

67
malvagio.23 Le malattie dell’anima sono causate da dolori o pia-
ceri eccessivi, ovvero da mancanza di equilibrio e di misura nei
comportamenti; le peggiori tra queste malattie, forme di ἆνοια, o
assenza di senno, sono la follia (μανία) e l’ignoranza (ἀμαθία).24
Ritorna il concetto socratico del male-ignoranza, e anche in que-
sto contesto, quali rimedi per fuggire i mali e perseguire il bene
vengono indicati l’educazione (διὰ τροφῆς), le occupazioni e gli
studi (διὰ ἐπιτηδευμάτων μαθημάτων).25 Concetto conclusivo
di questa sezione sui mali e sui beni del vivente è, ancora una
volta, la necessaria connessione tra bellezza e bontà, da una parte,
con misura e proporzione dall’altra, retaggio della più tradizio-
nale cultura filosofica antica. Così come il cosmo plasmato dal
Demiurgo è il più bello dei mondi perché l’intelligenza divina gli
impone ordine e misura, allo stesso modo l’uomo microcosmo
acquisirà bellezza e bontà, e rifuggirà il male, quando la parte
razionale e intellettiva della sua anima porrà equilibrio tra le parti
irrazionali facendosene guida e misura.
Argomenti simili si ritrovano anche in alcuni celebri miti pla-
tonici: in quello dei cicli cosmici, contenuto nel Politico e in quello
sulla provvidenza divina, esposto nel X libro delle Leggi, l’ultima
opera politica del filosofo. In entrambi i contesti è anzitutto evi-
dente l’esigenza di deresponsabilizzare la divinità dalla presenza dei
mali nel mondo e di sottolinearne la bontà e l’azione provvidente
(Leg. X 896e-897b). Nel Politico, in particolare, viene ripreso il
concetto, ritrovato già nel Timeo, che mali e ingiustizie presenti
nel regno di Zeus – che segue ciclicamente a quello di Crono – di-
pendono non dal divino ma dalla originaria natura dell’universo,
«natura partecipe di grande disordine prima di giungere all’attuale
ordinamento» (Pol. 273b). «Tutte le cose belle – afferma a tal ri-
guardo lo Straniero protagonista del dialogo – vengono al cosmo
da chi lo ha ordinato, mentre dalla sua condizione precedente gli
derivano tutte le cose dolorose e ingiuste che sorgono in cielo».
Difatti, quando il dio cessa di reggere l’universo, come aveva fatto
nella mitica età armoniosa e felice di Crono, ecco che il mondo,
«separatosi dal suo pilota, durante il tempo che immediatamente

23
Cfr. J.F. Phillips, Order from desorder, cit.; M. Migliori, Il disordine ordinato.
La filosofia dialettica di Platone, Morcelliana, Brescia 2013.
24
Tim. 86b2-4.
25
Tim. 87b4-8.

68
segue tale separazione, compie sempre il tutto ottimamente, ma
via via che il tempo trascorre ed in lui s’ingenera l’oblio, sempre
più riprende il sopravvento l’influenza dell’originario disordine,
finché da ultimo sboccia in pieno fiore, e rari sono i beni, molti
i mali che esso accoglie in sé, tanto da correre il rischio di andare
in rovina, egli stesso e ciò che in sé racchiude».26 Ciò che emerge
è ancora una volta la contrapposizione tra ordine-bene, garantito
e prodotto dall’intelligenza divina, e disordine-male, caratteristica
di ogni realtà in cui è assente, per l’appunto, il disegno divino e
razionale. Saggezza (φρόνησις) e intelletto (νοῦς) stanno alla base
anche del concetto di giustizia – intesa come frutto di un “giusto
pensare” –,27 veicolato dalle Leggi. Qui, fine del legislatore è infatti
«la ragione, cioè la dialetticità e la misura (mai tanto come nelle
Leggi torna il termine μέτριος, métrios)».28 E se ogni forma di ec-
cesso e di dismisura è foriera di mali, l’unico antidoto a ciò saran-
no l’ordine e la misura, di cui la legislazione, che rappresenta «il
tradursi in atto della stessa razionalità, specchio del divino ordine,
della divina misura»,29 deve farsi garanzia. Afferma a tal proposito
l’Ateniese in Leg. III, 691c1-d5: «Se, oltrepassando la giusta misura
(τὸ μέτριον), si dà alle cose più di quanto conviene, vele alle navi,
nutrimento ai corpi, autorità eccessiva alle anime, tutto si sovverte,
e per l’eccesso i corpi vanno incontro alle malattie, le anime all’in-
giustizia, frutto della tracotanza […] evitare questo male, cono-
scendo la giusta misura, è capacità di grande legislatore»

1.4. L’assimilazione al dio, propria del filosofo,


come rimedio per i mali dell’anima (Teeteto, Filebo)

Nei dialoghi tardi di Platone, numerose concezioni di natura etica


presenti nelle opere precedenti trovano conferma e stabilizzazio-
ne. Tra queste, nel Teeteto, l’immagine del filosofo quale emblema
dell’uomo virtuoso e sapiente, il cui «corpo soltanto si trova nelle

26
Trad. Giorgini in Platone, Politico, a cura di G.G., Milano 2005. Sui miti
platonici cfr. F. Ferrari, I miti di Platone, Milano 2006.
27
F. Adorno, Introduzione a Platone, Dialoghi politici. Lettere, Torino 1988,
p. 87.
28
Ibidem.
29
Ivi, p. 90.

69
città e ivi dimora, ma non la sua anima»; ma anche l’idea secondo
la quale solo la giustizia e la sapienza rendono l’uomo felice, men-
tre ingiustizia e ignoranza ne fanno un essere infelice. E ancora,
l’insussistenza ontologica del male, che pur è e deve essere neces-
sariamente presente nel mondo terreno, perché – come insegna
Socrate a Teodoro: «ha pur da esserci sempre qualche cosa di op-
posto e contrario del bene»; l’irresponsabilità del dio riguardo al
male e il suo porsi per l’uomo quale modello di giustizia, santità
e sapienza. E nel Filebo, i principi ontologici di Limite (πῆρας),
Illimitato (ἄπειρον), Misto (μικτόν) e Intelletto (Νοῦς), simbo-
leggiano, nell’ordine, il principio ontologico dell’ordine (analogo
all’idiotês del Timeo e del Sofista), quello del disordine (analogo
all’eterotês del Timeo e del Sofista), il mondo sensibile, frutto del-
la armoniosa mescolanza dei primi due principi, e, in ultimo, il
principio divino noetico, superiore e trascendente, che determina
la mescolanza attraverso limite e illimitato. Riguardo, in partico-
lare, al problema del male, il Teeteto, alla pagina 176a6-b1, contie-
ne un’espressione cruciale, che sarà ripresa e, direi, quasi abusata
da quei seguaci di Platone che intenderanno metterne in evidenza
aspetti ascetici e metafisici. Mi riferisco al passo in cui Socrate,
dopo avere illustrato le caratteristiche esistenziali ed essenziali del
filosofo, esorta il suo interlocutore a «fuggire da qui al più presto
per andare lassù», alludendo a quel mondo iperuranio, sede delle
idee e degli dèi, intorno al quale avevano ampiamente trattato Fe-
done e Fedro anzitutto. L’argomentazione entro la quale si inserisce
l’esortazione alla fuga dal mondo ha inizio con la disincantata af-
fermazione della necessità del male, quale sub-contrario del bene,
e dell’impossibilità, per questa stessa ragione, che esso sparisca. In
tale occasione, viene ribadita la tesi della irresponsabilità del dio
rispetto al male e della ubicazione tutta terrena di quest’ultimo.
Dio non è colpevole né causa dei mali, perché «in nessuna circo-
stanza, per nessuna maniera è ingiusto, bensì è sempre al più alto
grado giustissimo; e non c’è cosa che più gli assomiglia di quello
fra noi uomini che sia divenuto a sua volta giustissimo quanto è
possibile». Il messaggio è chiaro: il dio è modello di giustizia e di
sapienza e l’uomo che vorrà allontanarsi dal male per essere giusto
e sapiente, dovrà realizzare l’imitazione di dio, rendendosi simile
ad esso nei limiti delle sue possibilità, cominciando con l’allon-
tanarsi da quella realtà, sensibile e mortale, «intorno alla quale si

70
aggirano i mali». Riecheggia in questo passaggio quell’esercizio di
morte che il Socrate del Fedone raccomandava ai suoi discepoli.
Difatti, l’esortazione non spinge al suicidio bensì alla morte spi-
rituale, perché questo fuggire altro non è che «un assomigliarsi a
dio per quel che uomo può; e assomigliarsi a dio è acquistare giu-
stizia e santità, e insieme sapienza». La ὁμοίωσις θεῷ viene pre-
sentata quindi sia come il fine sia come la caratteristica principale
del modo di vita filosofico.30 La filosofia salva l’uomo dai mali e
dai conflitti provocati dall’ignoranza, perché coglie la misura di-
vina e se ne fa un modello di vita. Come spiega bene Pradeau, «le
Théetète répète alors l’une des principales leçons de la République
en affirmant de la philosophie qu’elle est le remède adéquat aux
maux humains, c’est-à-dire au défaut de savoir et d’excellence qui
provoque conflits et maux ici-bas».31 Pur additando nella terra e
nella natura mortale la sede del male, nemmeno nell’ultima fase
del suo pensiero Platone cede all’istanza dualistica, assegnando al
male una realtà ontologica forte; piuttosto, malvagio è tutto ciò
che si allontana dall’essere, dall’ordine e dalla misura; si tratta, in
realtà, di un concetto privativo, trattandosi di un male relativo e
non assoluto. Mentre il bene non cessa mai di irradiare di sé, al
pari del sole che riscalda e nutre, il mondo intero, intelligibile e
sensibile, il male appare solo là dove la luce del bene non arriva,
ogni qual volta che un’anima cede alla sua parte deteriore e incli-
na verso passioni e desideri eccessivi. Ma esso cessa di essere nel
momento in cui l’anima, strumento del miglioramento e della
trasformazione del sé, si rivolge al principio unico e supremo e ne
rispecchia, imitandolo, ordine e armonia.

2. LA TESTIMONIANZA ARISTOTELICA SUGLI AGRAPHA DOGMATA.


ESISTE DAVVERO UN PRINCIPIO PLATONICO DEL MALE?

Nei capitoli 6 e 9 del libro A della Metafisica, ma anche nel I


libro della Fisica, Aristotele ricostruisce e critica la posizione pla-

30
Per una storia del concetto di ὁμοίωσις θεῷ, rinvio a J.-F. Pradeau, L’assimi-
lation au dieu, in J. Laurent (dir.), Les dieux de Platon, Caen 2003, pp. 41-52, e,
per quanto attiene specificamente a Platone, a S. Lavecchia, Una via che conduce al
divino. L’«homoiosis theo» nella filosofia di Platone, Milano 2006.
31
Ivi, p. 43.

71
tonica relativa alla teoria delle cause e dei principi della realtà,
della quale sta ripercorrendo storicamente genesi ed evoluzione,
intendendola come prima manifestazione del filosofare. Secondo
l’esegesi aristotelica, diversamente dai fisici naturalisti, che ave-
vano posto come principi due elementi contrari (rado-denso o
caldo-freddo o pieno-vuoto o amicizia-discordia o aggregazione-
disgregazione),32 interagenti su un sostrato materiale, Platone
aveva invece collocato all’apice della realtà, al di sopra delle stesse
idee – che nei Dialoghi costituivano le cause formali prime degli
enti fisici –, una coppia di principi coeterni ma diversi tra loro
dal punto di vista ontologico ed assiologico, costituita dall’Uno e
dalla Diade indeterminata di grande e piccolo. Rispetto ai princi-
pi dei naturalisti, dove, secondo la lettura di Phys. I 6, 189b14-15,
«i due contrari fanno e l’uno subisce (οἱ μὲν ἀρχαῖοι τὰ δύο μὲν
ποιεῖν τὸ δὲ ἓν πάσχειν)», nella teoria platonica, invece, «l’uno
fa e i due subiscono (τὸ μὲν ἓν ποιεῖν τὰ δὲ δύο πάσχειν)», il che
vuol dire che non è l’Uno a fungere da sostrato dei due contrari,
come accadeva precedentemente, bensì la coppia costituita da
“grande e piccolo”, che rappresenta infatti la matrice delle cose,
mentre l’Uno costituisce la forma di esse. Nel linguaggio ezio-
logico aristotelico, inoltre, l’Uno platonico rappresenta la causa
formale o sostanziale delle idee, dei numeri e delle cose, mentre
la Diade è la causa materiale e il fondamento della molteplicità.
Afferma, infatti: «poiché le forme sono cause delle altre cose, ri-
tenne che gli elementi di quelle fossero elementi di tutti gli enti.
Ora, il grande e piccolo sono elementi materiali <delle Forme>,
mentre l’Uno <ne> è l’elemento sostanziale, giacché dal grande
e piccolo per partecipazione all’Uno derivano quelle Forme che
<per loro> sono numeri».33
Se, quindi, a parere di Aristotele, rispetto alla maggior parte dei
naturalisti Platone mostra evidenti diversità teoretiche, forti ana-
logie – a cominciare dalla comune scoperta della cosiddetta causa
formale – lo legano invece ai Pitagorici. Riguardo, nello specifico,
alla teoria dei principi, Aristotele fa corrispondere l’Uno platonico
al principio limitante e ordinatore dei pitagorici, il peras, e la Dia-

32
Cfr. Phys. I 5, 188a19 ss.
33
Aristot. Met. A 6, 987b18-b22 (traduzione mia, in Aristotele, Metafisica,
Libri Α, α, Β. Introduzione, traduzione e commento di R. Loredana Cardullo,
Roma 2013).

72
de al loro principio limitato o indefinito, l’apeiron, declinato però
nelle due nature del grande e del piccolo. Afferma che le uniche
innovazioni apportate da Platone alla teoria pitagorica consisteva-
no, appunto, nell’avere “duplicato” l’apeiron nella Diade di grande
e piccolo, ma anche nell’avere separato dalle cose l’Uno, quale loro
sostanza e non quale predicato, e i numeri, e nell’avere scelto la
dicitura di “partecipazione” per indicare il rapporto di imitazio-
ne vigente, anche nel pitagorismo, tra gli enti sensibili e le loro
cause formali. E attribuisce tali innovazioni e apporti originali da
parte di Platone alla conoscenza della dialettica, che ai pitagorici
era mancata: «pertanto – conclude – l’avere posto l’Uno e i nume-
ri oltre le cose, diversamente dai Pitagorici, e l’introduzione delle
Forme sono l’esito della sua ricerca sulle nozioni <universali> (in-
fatti i suoi predecessori non partecipavano della dialettica), mentre
l’avere posto la Diade come la natura diversa <dall’Uno> fu dovuto
al fatto che i numeri, a eccezione di quelli primi, si generano natu-
ralmente da quella come da una matrice».34
Ora, Aristotele, nel presentare questa teoria che parla di
principi primi della realtà superiori alle idee, assente nei dialo-
ghi scritti e da lui riferita, in un trattato perduto intitolato Περὶ
ταγαθοῦ, ad un insegnamento platonico rimasto orale – testual-
mente agrapha dogmata –35 e profuso dal filosofo nel corso di
una lezione pubblica sul bene, fornisce anche una testimonianza
di carattere etico riguardo ai principi, sostenendo che essi costi-
tuivano per Platone anche dei fondamenti di ordine morale e
assiologico, rappresentando l’Uno il principio di tutti i beni e
la Diade indeterminata quello dei mali, e ciò in analogia con i
principi di Empedocle e di Anassagora. L’Uno platonico veniva
così paragonato all’Amicizia empedoclea e al Noûs anassagoreo,
quale principio formale e ordinatore, al pari di quelli, mentre alla
Diade veniva attribuito il ruolo di principio materiale di disordi-

34
Aristot. Met. A 987b29-988a1.
35
Non mi soffermo qui, per ovvie ragioni di spazio, sulla vexata quaestio delle
cosiddette “dottrine non scritte” di Platone, sulle quali Aristotele è stato certamen-
te un testimone fondamentale (assieme ad Aristosseno, Alessandro di Afrodisia e a
numerosi filosofi medio- e neoplatonici), sia nei libri A e N della Metafisica sia in
numerosi altri suoi scritti andati perduti e sopravvissuti solo in forma frammenta-
ria. Per una presentazione completa della questione, corredata da fonti antiche e
tardoantiche e punti di vista storiografici, rinvio allo studio, introdotto da Pierre
Hadot, di M.-D. Richard, L’enseignement oral de Platon, Paris 2005.

73
ne e di disgregazione, come alla Discordia e alle omeomerie. Ecco
il passo in questione, che rimanda al cap. 4, 984b32-985a10, nel
quale l’autore si sofferma soprattutto sulla teoria empedoclea:36
«risulta chiaro da quanto si è detto che egli [scil. Platone] si è
servito di due cause soltanto, ovvero dell’essenza [scil. della causa
formale] e della causa materiale (giacché le Forme sono cause
dell’essenza per le altre cose e l’Uno è causa delle Forme), e in
merito a quale sia la materia soggiacente, della quale si predicano
le Forme in relazione alle cose sensibili e l’Uno in relazione alle
Forme, afferma che essa è la Diade, vale a dire il grande e picco-
lo, e inoltre assegnò a ciascuno degli elementi, rispettivamente,
ognuna delle due cause del bene e del male, così come, a nostro
parere, hanno fatto nelle loro ricerche, alcuni filosofi precedenti,
come, ad esempio, Empedocle e Anassagora».37
Ma questa interpretazione aristotelica, che attribuisce a Pla-
tone un principio del male accanto ad un principio del bene,
quindi una sorta di ipostatizzazione del male, oltre a non trovare
riscontro testuale nelle fonti platoniche scritte, appare incon-
gruente anche per altre ragioni. Anzitutto, mentre i principi di
Empedocle e Anassagora erano stati rubricati, nelle pagine prece-
denti di questo libro A, tra le cause efficienti, agenti sul sostrato
materiale dei quattro rizomata o sulle omeomerie, diversamente,
l’Uno e la Diade platonici appaiono, nel testo aristotelico, l’uno
come causa formale, l’altra come causa materiale; quindi, a for-
tiori, l’analogia con i principi dei due pre-platonici, che sono
interpretati dallo Stagirita come cause efficienti o motrici, non si
può attuare. Inoltre, non si è nemmeno certi che i due pluralisti
avessero considerato i loro principi, oltre che come cause degli
enti anche come responsabili primi dei beni e dei mali, come
vuole l’esegesi di Aristotele. È invece a partire da quest’ultima
che, soprattutto riguardo ad Empedocle, si diffonde l’interpreta-

36
«Poiché appariva chiaro che nella natura ci sono anche cose contrarie a quelle
buone, e non soltanto ordine e bellezza ma anche disordine e bruttezza, e ci sono
più mali che beni e più cose brutte che belle, così un altro <pensatore> introdusse
Amicizia e Discordia, ciascuna come causa di ognuno di quei contrari. Se infatti
si seguisse e si assumesse il pensiero di Empedocle e non il suo parlare confuso si
troverebbe che l’Amicizia è causa dei beni e la Discordia è causa dei mali. Sicché, se
si affermasse che in un certo modo Empedocle ha detto, e ha detto per primo, che
il male e il bene sono principi, probabilmente si direbbe bene […]».
37
Aristot. Met. A 6, 988a9-17.

74
zione dualistica; Ippolito, ad esempio, nel suo Adversus omnium
heresium (VII 29-31) accuserà l’agrigentino di avere determina-
to diverse eresie gnostiche con la sua dottrina dei due principi
contrari e contrapposti: l’Amicizia quale principio del bene e la
Discordia quale “demiurgo” malvagio del male. Non è un caso
quindi che quei neoplatonici che commenteranno il contesto ari-
stotelico di Met. A contenente tale informazione, in particolare
Siriano e Ammonio di Ermia, apud Asclepio di Tralle, si ado-
pereranno a confutare l’esegesi aristotelica, sconfessandola, per
salvaguardare non tanto la dottrina empedoclea quanto quella
platonica, che a quella era stata associata dallo Stagirita e, quindi,
presentata come una forma di etica metafisica dualistica. Rife-
rendosi a Theaet. 176a («il male non può perire, ché ha pur da
esserci sempre qualche cosa di opposto e contrario al bene; né
può aver sede fra gli dèi, ma deve di necessità aggirarsi su questa
terra e attorno alla nostra natura mortale»), Asclepio, che trascri-
ve apò phônês le lezioni del suo maestro Ammonio, nega che per
Platone possano esistere un male assoluto, o puro (ἆκρατον), e
un principio malvagio, coeterno all’Uno-Bene. Non nega, però,
l’associazione tra Platone ed Empedocle, perché, come altri neo-
platonici, anch’egli considera entrambi quei filosofi dei seguaci
di Pitagora, ma corregge l’interpretazione aristotelica sui principi
platonici ed empedoclei, confutandola. Se è vero infatti che, per
i neoplatonici, tutti i filosofi facenti capo alla dottrina pitagorica
affermavano l’esistenza di principi contrari, tra i quali appari-
va anche la coppia bene-male, purtuttavia le loro affermazioni
avevano un profondo valore simbolico, che Aristotele non era
in grado di comprendere:38 «anche i pitagorici – afferma a tale
proposito Asclepio – dicevano in modo simbolico che le cose mi-
gliori nascono dal bene e quelle peggiori dal male»,39 ma intende-
vano riferirsi ai due principi distinti: quello delle forme e quello
della materia, distinguendone gli ambiti di azione, collocando il

38
Mi sono occupata del “pitagorismo” di Empedocle e del parlare συμβολικῶς
dei filosofi pitagorico-platonici in Una lettura neoplatonica di Metaphysica Alpha; gli
scolii di Asclepio di Tralle trascritti “dalla voce” di Ammonio, in R.L. Cardullo (a cura
di), Il libro Alpha della Metafisica di Aristotele tra storiografia e teoria, Catania 2009,
pp. 239-270, e in Empedocle pythagorikòs: un’“invenzione” neoplatonica?, in Logon
didonai, Studi in onore di G. Casertano, a cura di L. Palumbo, Napoli, Loffredo
2011, pp. 817-839.
39
Ascl. in Met. 30,16-17.

75
primo nell’intelligibile, l’altro nel sensibile, e infatti chiamavano
malvagio il principio materiale, per traslato, perché «la materia è
prossima alla divisione».40 Pertanto, quando parlavano del male,
alludevano ad una caratteristica della natura sensibile poiché «nel
cielo non c’è niente di malvagio né di contro-natura».41 E per av-
valorare la sua interpretazione “privativa” o “relativa” del concetto
platonico del male, nel riportare il summenzionato passo del Te-
eteto, per qualificare il male Asclepio utilizza un termine, assente
nel lessico platonico ma già post-plotiniano e procliano in par-
ticolare, assolutamente pregnante: παρυπόστασις, il cui signifi-
cato denota un’“esistenza coordinata”, una “quasi-esistenza”, un
prodotto secondario,42 di contro a ὑπόστασις, che indica invece
una realtà sostanziale, autosussistente. Nella lettura di Asclepio,
infatti, secondo il dettato platonico «i mali hanno un’esistenza
coordinata <al bene> (ἐν παρυποστάσει ὑπάρχουσι) e si aggi-
rano intorno a questo luogo mortale».43 Un ulteriore argomen-
to a conforto della sua interpretazione Asclepio lo trova anche
nell’inesistenza, nell’ambito dell’ontologia platonica, di idee di
mali (in Met. 185,11 e 14; 189,14). È un pensiero comune ai fi-
losofi delle scuole neoplatoniche di Atene e di Alessandria, quello
riferito da Asclepio secondo cui nell’universo platonico il male
non ha alcuna attinenza con le realtà superiori; la causa del male
morale, ossia del vizio, è piuttosto da ricercarsi qui, nel mondo
sensibile, e precisamente nella debolezza dell’anima, mentre il
male fisico, cioè il dolore, la malattia e la morte, dipendono dalla
fragilità della natura corporea (Ascl. in Met. 144,28-33). Bisogna
fare attenzione, quindi, a non confondere il pensiero platonico,
decisamente monistico dal punto di vista ontologico, con quel-
lo, dualistico, degli «sciagurati Manichei» (in Met. 292,25-29: οἱ
ἀτυχεῖς Μανιχαῖοι), per i quali, accanto ed equipollente a quello
buono, esiste nell’intelligibile un principio malvagio.
Prima di Asclepio, le medesime conclusioni erano state gua-
dagnate anche da Siriano e dal suo discepolo Proclo, che sarebbe
stato, a sua volta, maestro di Ammonio, fonte di questo com-

40
Ascl. in Met. 30,12-13.
41
Ascl. in Met. 30,5-6.
42
Cfr. Porph. Sent. 44,30; Procl. In Remp. I 38; De mal. 49,9-15; Simpl. in
De cael. 429,34.
43
Ascl. in Met. 30,18-19.

76
mento di Asclepio. In breve e per concludere, i neoplatonici in-
terpretano la coppia principiale platonica Uno-Diade, similmen-
te a quella empedoclea Amicizia-Discordia, come esplicativa, on-
tologicamente, della compresenza nella realtà di ordine, misura,
proporzione, aggregazione e unità, assieme a manifestazioni di
disordine, dismisura, dissimmetria, disgregazione e molteplicità.
Tuttavia ciascun principio trova il suo ambito di azione in una
realtà metafisicamente diversa: nell’intelligibile o sfero il princi-
pio unitario, nel sensibile quello diadico. Quest’ultimo, lungi
dall’essere considerato negativo, è definito da Siriano un “buon
demiurgo”, nella misura in cui risulta essenziale alla formazione
del mondo sensibile. Se, infatti, il mondo sensibile è buono, la
Discordia e la Diade, che rappresentano il principio della gene-
razione e della processione sensibili, sia nel platonismo che nel
cosiddetto ciclo cosmico empedocleo, non possono essere consi-
derate né un male né tantomeno principio del male.

3. RILIEVI CONCLUSIVI

Pur prescindendo dall’esegesi neoplatonica, che, forse un po’ for-


zosamente, colloca al di sopra della coppia protologica di Uno
e Diade indeterminata di grande e piccolo una Enade suprema,
principio assolutamente ed esclusivamente buono, superiore ad
ogni determinazione ontologica e noetica, sembra comunque
impossibile accogliere l’interpretazione aristotelica che attribui-
sce a Platone una posizione etico-metafisica dualistica e l’iposta-
tizzazione, al livello intelligibile, di un principio del male accanto
all’Uno-Bene. Come abbiamo cercato di mostrare, nessun testo
platonico trasmette un messaggio di questo genere; piuttosto,
quando accenna al male, il Filosofo lo relega sempre al livello
del sensibile, non perché siano il corpo o la materia ad incarna-
re caratteri di negatività, ma perché quaggiù la commistione di
intelligibile o spirituale e corporeo, nell’uomo, determina una
debolezza ed una fragilità che spesso conducono al vizio e alla
dimenticanza del bene, ad un disordine che è indice di assenza
di divinità e di intelligenza. Ma si tratta di una condizione pri-
vativa, facilmente contrastabile con la forza della volontà buona
e di una rinvigorita razionalità; principalmente con l’educazione

77
e la ricerca filosofica, che devono accompagnare l’essere vivente
lungo tutto l’arco della sua vita. In fondo, da questo punto di vi-
sta, pur divergendo, l’uno, nell’assegnare alla materia sensibile la
responsabilità dei mali, l’altro, nel sottolineare l’irrealtà del male
quale mera παρυπόστασις, Plotino e Proclo concordano forte-
mente – contro tutti i nemici del monismo metafisico platonico,
ivi compreso Aristotele – nel considerare unico e assolutamente
buono il supremo principio del platonismo e nel relegare semmai
ad un livello inferiore – quello dominato da disordine e dismisu-
ra – tutti i mali presenti nel mondo.

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