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“In questo mestiere di poetare non è la calda ispirazione che crea l’idea felice, ma l’idea felice che
Canta, o dea [theá], l’ira d’ Achille Pelide, rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei…
Narrami o Musa [Moûsa], dell’ eroe multiforme, che tanto vagò, dopo che distrusse la città sacra
Ditemi adesso, o Muse, che abitate l’ Olimpo – voi, dee, che siete sempre presenti, tutto sapete, noi
la fama ascoltiamo ma nulla vedemmo – quali erano i capi e i guidatori dei Danai; la folla io non
dirò, non chiamerò per nome, nemmeno s’ io dieci lingue e dieci bocche avessi,
voce instancabile, petto di bronzo avessi, e nemmeno le Muse olimpie, figlie di Zeus egìoco,
potrebbero dirmi quanti vennero sotto Ilio! Ma dirò i capi di navi e tutte le navi (Omero, Iliade, II,
484-493)
Il poeta, prima di proseguire con la minuziosa descrizione delle forze schierate avverte l’esigenza di
reiterare la sua invocazione alle Muse affinché lo affianchino in questa ardua
ricostruzione, giungendo in soccorso alla sua memoria. Al verso 485, pone in risalto l’onnipresenza
e l’onniscienza delle Muse (“siete sempre presenti, tutto sapete”) di fronte al suo limite umano.
Ah, se gli Achei, o regina, tacessero! Fa tali racconti: affascinerebbe il tuo cuore. L’ho avuto tre
notti e tenuto tre giorni nella capanna – venne da me appena fuggì dalla nave – ma non finì di
narrare le proprie sventure. Come un uomo fissa un aedo che canta, istruito dai numi, racconti
graditi ai mortali, e quando canta essi bramano sempre di ascoltarlo, così costui mi incantava,
Questo discorso, per primo, a me rivolsero le dee, le Muse d’Olimpo, figlie dell’egioco Zeus:
“O pastori, cui la campagna è casa, mala genia, solo ventre; noi sappiamo dire molte menzogne
simili
al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare”. Così dissero le figlie del grande
Zeus, abili nel parlare, e come uno scettro mi diedero un ramo d’alloro fiorito, dopo averlo
staccato,
meraviglioso; e m’ispirarono il canto divino, perché cantassi ciò che sarà e ciò che è, e mi
ordinarono di cantare la stirpe dei beati, sempre viventi (Esiodo, Teogonia, vv. 24-33)
Quasi in preda ad una allucinazione – secondo Callimaco in sogno – il pastore di Ascra riceve con
la consegna di un ramo di alloro (albero sacro ad Apollo, dio anche della poesia) sia l’investitura
poetica sia la capacità di cantare secondo verità.
Esiodo e la musa
Gustave Moreau
Ai versi 31/32 il periodo “e m’ispirarono il canto divino” implica l’atto della “possessione” da
parte delle Muse del poeta, che viene a trovarsi così nella condizione di essere “pieno della divinità”.
Per elargizione, la parola della Musa si trasforma nella parola del poeta con l’essenza di verità, in
quanto rivelata dalle Muse.
La persona dell’autore, il suo nome, il suo proporsi al destinatario nella sua responsabile
individualità diventano garanzia del racconto relativo all’incontro con le Muse; il fatto poi che le
dee rivelino a lui solo fra tutti gli altri poeti le medesime cose che costituiscono il tema del loro
canto per Zeus e, a sua volta, garanzia del carattere veritiero del loro insegnamento. Così la
persona di Esiodo diventa il tramite fra la divinità e l’uomo e anche in questo consiste la
riconquista di una condizione di privilegio grazie alla quale egli proclama, in qualche modo, la sua
Bibliografia:
Omero Iliade Prefazione di Fausto Codino Versione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, 2010