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A mia madre, Francesca

INDICE

Prefazione di Dawson Church . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4


Prefazione: Risvegliarsi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8
Introduzione: L’importanza della mente . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22

Parte Prima: Informazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31


Capitolo 1: È possibile? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32
Capitolo 2: Cenni storici sul placebo . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55
Capitolo 3: L’effetto placebo nel cervello . . . . . . . . . . . . . . . 82
Capitolo 4: L’effetto placebo nel corpo . . . . . . . . . . . . . . . . 112
Capitolo 5: Come i pensieri cambiano il cervello e il corpo 138
Capitolo 6: Suggestionabilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 156
Capitolo 7: Atteggiamenti, convinzioni e percezioni . . . . . 189
Capitolo 8: La mente quantistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215
Capitolo 9: Tre storie di trasformazione personale . . . . . . . 233
Capitolo 10: Dalla conoscenza alla trasformazione:
la prova che il placebo sei tu . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 265

Parte Seconda: Trasformazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 295


Capitolo 11: Preparati alla meditazione . . . . . . . . . . . . . . . 296
Capitolo 12: La meditazione per cambiare credenze
e percezioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 311

Conclusione: Diventare soprannaturali . . . . . . . . . . . . 323


Postfazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 323
Ringraziamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 328
L’autore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 331

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P R E FA Z I O N E

di Dawson Church

Come la maggior parte dei suoi fan, attendo le riflessioni provo-


catorie di Joe Dispenza con piacere e impazienza. Combinando
valide prove scientifiche con intuizioni stimolanti, Joe allarga gli
orizzonti del possibile estendendo i confini di ciò che conosciamo.
Prende la scienza più seriamente della maggior parte degli scienziati
e, in questo libro affascinante, porta alla loro logica conclusione
le più recenti scoperte nel campo dell’epigenetica, della plasticità
neurale e della psiconeuroimmunologia.
Si tratta di una conclusione straordinaria: ogni essere umano pla-
sma il proprio cervello e il proprio corpo attraverso i pensieri che
formula, le emozioni che prova, le intenzioni che ha e gli stati tra-
scendentali che sperimenta. Placebo Effect ti invita a sfruttare que-
sto concetto per creare un nuovo corpo e una nuova vita.
Non si tratta di un’impresa sovrannaturale. Joe chiarisce tutti i nessi
della catena di causalità che parte da un pensiero e si conclude con
un fatto biologico, come l’aumento del numero di cellule staminali
o di molecole proteiche immunizzanti nel flusso sanguigno.
Il libro inizia con il racconto dell’incidente che gli provocò la frat-
tura di sei vertebre. All’improvviso, in extremis, dovette mettere in
pratica la sua teoria: il corpo possiede un’intelligenza innata, dotata
di un miracoloso potere di guarigione. La sua disciplina nel visua-
lizzare il processo di ricostruzione della colonna vertebrale è di per
sé un esempio di determinazione capace di ispirare tutti noi.
Siamo tutti colpiti da storie di remissione spontanea e guarigioni
“miracolose”, ma quello che Joe ci mostra in questo libro è che
ognuno di noi può sperimentare questi miracoli di guarigione. Il
rinnovamento è insito nella natura del corpo umano, mentre la
degenerazione e la malattia sono l’eccezione, non la norma.

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Dopo aver capito come si rinnova il nostro corpo, possiamo ini-
ziare a sfruttare in modo intenzionale questi processi fisiologici,
governando gli ormoni che le cellule sintetizzano, le proteine che
costruiscono, i neurotrasmettitori che producono e i percorsi neu-
rali attraverso i quali inviano segnali. Anziché avere un’anatomia
statica, il nostro corpo è in perenne fermento e trasformazione,
attimo dopo attimo. I nostri cervelli sono molto attivi: creano e
distruggono un’infinità di connessioni neurali al secondo. Joe ci
insegna che possiamo guidare questo processo attraverso l’intenzio-
ne, assumendo il ruolo attivo del conducente del veicolo, anziché
quello passivo del passeggero.
La scoperta che il numero di connessioni in un fascio neurale può
raddoppiare, se sottoposto a ripetuta stimolazione, ha rivoluzio-
nato la biologia negli anni Novanta, tanto che il suo scopritore, il
neuropsichiatra Eric Kandel, ha vinto il premio Nobel. In seguito,
Kandel ha scoperto che, se non vengono usate, le connessioni neu-
rali cominciano a ridursi in appena tre settimane. In questo modo,
possiamo rimodellare il cervello tramite i segnali che veicoliamo
attraverso la rete neurale.
Nello stesso decennio in cui Kandel e altri misuravano la neuropla-
sticità, altri scienziati scoprirono che tra i nostri geni, solo pochi
sono statici. La maggior parte (le stime variano dal 75 all’85 per
cento) viene disattivata e attivata da segnali provenienti dall’am-
biente, compreso quello costituito dai pensieri, dalle convinzioni e
dalle emozioni che coltiviamo nel cervello. Una particolare classe
di questi geni, i geni primari rapidi (IEG), impiega solo tre secondi
per raggiungere il picco dell’espressione. Gli IEG spesso sono geni
regolatori, che controllano l’espressione di centinaia di altri geni e
di migliaia di altre proteine in punti remoti del corpo. Questo tipo
di cambiamento rapido e pervasivo offre una spiegazione plausibile
ad alcune delle guarigioni radicali riportate in queste pagine.
Joe è uno dei pochi scrittori scientifici a cogliere appieno il ruolo
delle emozioni nel processo di trasformazione. Le emozioni negati-
ve possono provocare alti livelli di ormoni dello stress, come il cor-
tisolo e l’adrenalina, causando una vera e propria dipendenza. Sia
gli ormoni dello stress sia quelli del benessere, come il DHEA (dei-

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droepiandrosterone) e l’ossitocina, hanno dei valori di riferimento,
il che spiega come mai ci sentiamo a disagio quando formuliamo
pensieri o convinzioni che spingono il nostro equilibrio ormonale
al di fuori della zona di comfort. Questo concetto è l’ultima fron-
tiera della comprensione scientifica delle dipendenze e delle voglie.
Cambiando stato d’animo, possiamo modificare la realtà esterna.
Joe spiega benissimo la catena di eventi innescata da intenzioni che
hanno origine nel lobo frontale del cervello e che poi si trasformano
in messaggeri chimici, chiamati neuropeptidi, che inviano segnali
in tutto il corpo, attivando e disattivando gli interruttori genetici.
Alcune di queste sostanze chimiche, come l’ossitocina, “l’ormone
delle coccole” che viene stimolato con il tatto, sono associate a sen-
timenti di amore e fiducia. Con la pratica, puoi imparare a modi-
ficare rapidamente i valori limite di riferimento degli ormoni dello
stress e di quelli della guarigione.
Di primo acchito, l’idea che possiamo guarire noi stessi semplice-
mente traducendo i pensieri in emozioni può sembrare incredibile.
Nemmeno Joe si aspettava i risultati che ha riscontrato nei par-
tecipanti ai suoi seminari, quando queste idee venivano applicate
alla perfezione: remissione spontanea di tumori, pazienti costretti
su una sedia a rotelle che ricominciavano a camminare ed emicra-
nie che scomparivano. Con la gioia sincera e l’apertura mentale di
un bambino che sperimenta un nuovo gioco, Joe ha cominciato a
spingersi oltre, chiedendosi quanto sarebbe stata rapida la guarigio-
ne radicale se la gente avesse applicato l’effetto placebo del corpo
con assoluta convinzione. Perciò, il titolo Placebo Effect riflette il
fatto che sono i tuoi pensieri, le tue emozioni e le tue convinzioni a
generare catene di eventi fisiologici all’interno del tuo corpo.
Alcuni passaggi del libro potrebbero indisporti, ma continua a leg-
gere. Se provi disagio è solo perché il tuo vecchio io si oppone all’i-
nevitabile cambiamento trasformativo e i valori ormonali di riferi-
mento vengono smossi. Joe ci assicura che la sensazione di disagio è
spesso l’effetto biologico del dissolvimento del vecchio io.
La maggior parte di noi non ha il tempo o la voglia di studiare
questi processi biologici complessi. Ed è proprio in questo caso
che il libro diventa indispensabile: Joe scava in profondità nella
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scienza che sta dietro a questi cambiamenti per presentarli in modo
comprensibile e facile da assimilare. Ci illustra i retroscena con
spiegazioni semplici ed eleganti. Utilizzando analogie e casistiche,
dimostra esattamente come possiamo applicare queste scoperte alla
vita quotidiana, e illustra i clamorosi miglioramenti di salute che
sperimenta chi li prende sul serio.
Una nuova generazione di ricercatori ha coniato un termine per
la pratica delineata da Joe: neuroplasticità autodiretta. L’idea alla
base del termine è che siamo noi a guidare la formazione di nuovi
percorsi neurali e la distruzione di quelli vecchi attraverso la qualità
delle esperienze che viviamo. Credo che la neuroplasticità autodi-
retta diventerà uno dei concetti più potenti nella trasformazione
personale e nella neurobiologia della prossima generazione, e que-
sto libro è un precursore di tale movimento.
Nella Parte II di questo libro, i principi metafisici si concretizzano
negli esercizi di meditazione. Puoi svolgerli da solo, sperimentando
personalmente l’ampliamento delle possibilità a tua disposizione
quando agisci da placebo per te stesso. L’obiettivo è cambiare a
livello biologico le tue convinzioni e percezioni riguardo alla vita,
affinché tu giunga ad amare un nuovo futuro e a renderlo material-
mente e concretamente esistente.
Perciò comincia questo viaggio affascinante che amplierà gli oriz-
zonti delle tue possibilità e ti incoraggerà a scegliere un livello di
guarigione molto più elevato. Non hai nulla da perdere se ti lanci
con entusiasmo nel processo e ti sbarazzi dei pensieri, dei sentimen-
ti e dei valori biologici che finora ti hanno limitato. Se credi nella
capacità di realizzare il tuo massimo potenziale e di agire in modo
ispirato, diventerai il placebo che crea un futuro felice e sano per te
e per il nostro Pianeta.

Dawson Church.
Autore di Medicina epigenetica.
Felicità e salute attraverso la trasformazione consapevole del DNA.

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P R E FA Z I O N E

Risvegliarsi

Nulla di ciò che è successo era nei miei progetti. In un certo senso,
è stato il lavoro che svolgo attualmente in qualità di relatore, autore
e ricercatore a venirmi a cercare. Alcuni di noi hanno bisogno di
un campanello d’allarme per svegliarsi. Io l’ho sentito suonare nel
1986. In una bella giornata di aprile nel sud della California, ho
avuto il privilegio di essere investito da un SUV durante una gara
di triathlon a Palm Springs. Quel momento ha cambiato la mia
vita e mi ha fatto intraprendere questo viaggio. Avevo ventitré anni
all’epoca, svolgevo da poco l’attività di chiropratico a La Jolla, in
California, e mi ero allenato per mesi per quel triathlon.
Avevo concluso il segmento di nuoto ed ero impegnato in quel-
lo del ciclismo quando è successo l’incidente. Stavo per arrivare
a una curva difficile, dove sapevo che ci saremmo immessi nel
traffico. Un agente di polizia, con la schiena rivolta alle vetture
in avvicinamento, mi fece cenno di girare a destra e di seguire il
percorso. Dato che ero molto affaticato e concentrato sulla gara,
non gli staccai mai gli occhi di dosso. Mentre superavo due ci-
clisti in prossimità di quella curva, un Bronco rosso a trazione
integrale che sfiorava i novanta chilometri orari urtò la mia bi-
cicletta da dietro. Fui catapultato in aria e atterrai bruscamente
sulla schiena. A causa della velocità del veicolo e dei riflessi lenti
della donna anziana che lo guidava, il SUV continuò ad avanzare
verso di me, ed ebbi un incontro ravvicinato col paraurti. Mi ci
aggrappai, per evitare di essere travolto e per impedire al mio cor-
po di finire incastrato tra la lamiera e l’asfalto. Così fui trascinato
lungo la strada per un po’ prima che la conducente si rendesse
conto di cosa stava accadendo. Quando finalmente capì e frenò di
colpo, iniziai a ruzzolare senza controllo per una ventina di metri.
Ricordo ancora il rumore delle biciclette che mi sfrecciavano ac-
canto insieme alle urla atterrite e alle imprecazioni dei ciclisti che
mi superavano, incerti se fermarsi per prestare aiuto o proseguire

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la gara. Mentre giacevo a terra, l’unica cosa che riuscii a fare fu
arrendermi.
Poco dopo scoprii di avere sei vertebre rotte: avevo fratture da com-
pressione all’ottava, nona, decima, undicesima e dodicesima verte-
bra dorsale e alla prima lombare (in pratica dalle scapole alle reni).
Le vertebre sono impilate nella spina dorsale una sopra l’altra come
singoli blocchi e le mie, quando sono atterrato con quella violenza,
sono collassate e si sono compresse per l’impatto. L’ottava vertebra
dorsale, il segmento più alto tra quelli fratturati, era collassata per
oltre il 60 per cento, e l’arco circolare che conteneva e proteggeva
il midollo spinale era rotto in più pezzi che, ricomposti, assomi-
gliavano a un brezel. Quando una vertebra si schiaccia o si rompe,
i frammenti di osso si disperdono. Nel mio caso, molti frammenti
si erano addossati alla spina dorsale. Non era certo un bel quadro.
Come nel peggior incubo, la mattina seguente mi svegliai con nu-
merosi sintomi neurologici: dolore diffuso, vari gradi di intorpi-
dimento, formicolio e perdita parziale della sensibilità alle gambe,
oltre a una preoccupante difficoltà nel controllare i movimenti.
Fui sottoposto a esami del sangue, radiografie, TAC e risonanze
magnetiche. Al termine di tutti gli accertamenti, il chirurgo orto-
pedico mi mostrò i risultati e mi comunicò la triste notizia: al fine
di contenere i frammenti ossei che si trovavano nel midollo spinale,
era necessario un intervento chirurgico per impiantare una barra di
Harrington. Avrebbero rimosso le parti posteriori delle vertebre da
due/tre segmenti sopra e sotto le fratture, e poi avrebbero avvita-
to e fissato due aste di acciaio inossidabile lunghe una trentina di
centimetri su entrambi i lati della colonna vertebrale. Dopodiché,
avrebbero prelevato alcuni frammenti ossei dall’anca e li avrebbero
applicati alle aste. L’intervento era invasivo, ma mi avrebbe per-
messo di tornare a camminare. Malgrado ciò, sapevo che in ogni
caso avrei sofferto di una qualche forma di disabilità, e avrei dovuto
sopportare il dolore cronico per il resto della mia vita. Inutile dire
che questa prospettiva non mi piaceva per niente.
Eppure se avessi deciso di non sottopormi all’intervento, la paralisi
sembrava certa. Il miglior neurologo nella zona di Palm Springs,
che concordava con il parere del primo chirurgo, mi disse che in
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tutti gli Stati Uniti nessun altro paziente nelle mie condizioni aveva
mai rifiutato l’intervento. L’impatto dell’incidente aveva compresso
l’ottava vertebra dorsale (D8), conferendole un aspetto cuneiforme
che avrebbe impedito alla spina dorsale di reggere il peso del corpo:
se mi fossi alzato in piedi, la colonna vertebrale sarebbe collassa-
ta, spingendo i frammenti ossei nel midollo spinale e causando la
paralisi immediata dal petto in giù. Anche questa prospettiva era
tutt’altro che entusiasmante.
Venni trasferito in un ospedale di La Jolla, più vicino a casa mia,
dove sentii altri due pareri, compreso quello del migliore chirur-
go ortopedico del sud della California. Naturalmente, entrambi i
medici concordavano sulla necessità di applicare la barra di Har-
rington. La prognosi era unanime: fare l’intervento chirurgico o
rimanere paralizzato, condannato a non camminare mai più. Se
fossi stato il medico che consigliava l’intervento, avrei detto la stes-
sa cosa: era la soluzione più sicura. Ma non era la decisione giusta
per me.
Forse in quel momento della mia vita ero solo giovane e audace,
ma andai contro i consigli del medico e le raccomandazioni degli
esperti. Credo che esista un’intelligenza, una consapevolezza invisi-
bile, all’interno di ognuno di noi che ci dona la vita sostenendoci,
preservandoci, proteggendoci e guarendoci in ogni momento. Essa
crea quasi cento trilioni di cellule specializzate (a partire da due
cellule soltanto), fa battere il cuore centinaia di migliaia di volte
al giorno e, tra molte altre incredibili funzioni, organizza tantissi-
me reazioni chimiche al secondo in ogni singola cellula. All’epoca,
pensai che se questa intelligenza era reale e manifestava le sue abilità
sorprendenti in maniera così deliberata, consapevole e amorevole,
forse avrei potuto distogliere la mia attenzione dal mondo esterno
e rivolgerla dentro di me, per connettermi con essa.
Ma se a livello intellettuale avevo capito che il corpo spesso è ca-
pace di autoguarirsi, ora dovevo mettere in pratica quei concetti
filosofici per portare la mia teoria al livello successivo e svilupparla
ulteriormente per vivere una vera esperienza di guarigione. Sicco-
me non potevo andare da nessuna parte, e non facevo altro che
stare sdraiato a pancia in giù, presi due decisioni. In primo luogo,

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ogni giorno avrei concentrato tutta la mia attenzione cosciente su
questa intelligenza interiore, le avrei dato un piano, un modello,
una visione generale, le avrei impartito ordini ben precisi, e poi
avrei affidato la mia guarigione a questa mente superiore dotata di
un potere illimitato, permettendole di guarirmi. In secondo luogo,
non avrei consentito a pensieri indesiderati di insinuarsi nella mia
consapevolezza. Sembra facile, vero?

UNA DECISIONE RADICALE


Contro il consiglio della mia équipe medica, lasciai l’ospedale
con un’ambulanza che mi portò a casa di due cari amici, dove
restai per i successivi tre mesi. In quel periodo mi concentrai
soltanto sulla mia guarigione. Avevo una missione da compie-
re. Decisi che avrei cominciato ogni giornata dedicandomi alla
ricostruzione della mia spina dorsale, vertebra dopo vertebra
e, se quella consapevolezza interiore avesse prestato attenzione
ai miei sforzi, le avrei mostrato ciò che desideravo. Sapevo che
era necessaria la mia presenza assoluta… dovevo cioè stare nel
presente; senza rimpiangere il passato o preoccuparmi del fu-
turo, senza lasciarmi ossessionare dalle circostanze esterne della
mia vita o concentrarmi sul dolore o sui sintomi che accusavo.
Proprio come succede in qualsiasi relazione: ci rendiamo conto
se l’altro è presente o meno, giusto? Poiché coscienza significa
consapevolezza, consapevolezza significa prestare attenzione e
prestare attenzione significa essere presenti e all’erta, questa co-
scienza interiore avrebbe notato quando ero presente e quando
non lo ero. Avevo intenzione di essere del tutto presente quando
interagivo con quell’intelligenza; la mia presenza avrebbe dovuto
corrispondere alla sua presenza, la mia volontà avrebbe dovuto
corrispondere alla sua volontà e la mia mente avrebbe dovuto
corrispondere alla sua mente.
Così, per due ore, due volte al giorno, entravo dentro di me e co-
minciavo a creare un’immagine del risultato che volevo ottenere:
una spina dorsale completamente guarita. Ovviamente, mi resi su-
bito conto di quanto fossi inconsapevole e non focalizzato. È buffo.
In quel momento capii che di fronte a un trauma o a un momento

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critico, sprechiamo troppa attenzione ed energia a pensare a ciò che
non vogliamo anziché a ciò che vogliamo. In quelle prime settima-
ne, anch’io avevo avuto questa tendenza, ogni singolo istante.
Mentre ero nel bel mezzo delle mie meditazioni, impegnato a crea-
re la vita che volevo con una spina dorsale completamente guarita,
mi accorgevo all’improvviso che a livello inconscio stavo pensando
a quello che mi avevano detto i medici un paio di settimane pri-
ma: che probabilmente non avrei mai più camminato. Un attimo
prima ero immerso nella ricostruzione mentale della mia colonna
vertebrale, e quello dopo ero in preda all’ansia perché non sapevo
se mettere in vendita o meno il mio studio di chiropratico. Per darti
un’idea, mentre provavo mentalmente a ricominciare a camminare
poco per volta, mi sorprendevo a immaginare come sarebbe stato il
resto della mia vita bloccato su una sedia a rotelle.
Ogni volta che mi deconcentravo e la mente vagava su pensieri
non pertinenti, ricominciavo da capo e ricreavo di nuovo l’intera
sequenza di immagini mentali. Era un processo noioso, frustrante
e, in tutta franchezza, una delle cose più difficili che avessi mai
fatto. Ma sapevo che l’immagine finale che volevo mostrare al mio
osservatore interiore doveva essere chiara, non inquinata e priva di
interruzioni. Affinché questa intelligenza realizzasse ciò che speravo
fosse capace di fare (e io ne ero certo), dovevo rimanere cosciente
dall’inizio alla fine, senza mai perdere consapevolezza.
Finalmente, dopo sei settimane di lotta con me stesso e di sforzi per
essere presente a questa coscienza, riuscii a completare il processo
di ricostruzione interiore senza dovermi fermare e ricominciare da
capo. Ricordo il giorno in cui lo feci per la prima volta: fu come col-
pire una pallina da tennis nel punto giusto. C’era qualcosa di esatto
in tutto ciò. Aveva fatto centro. Io avevo fatto centro. E mi sentii
completo, soddisfatto e integro. Per la prima volta, ero veramente
rilassato e presente: nella mente e nel corpo. Nessun chiacchieric-
cio, nessuna analisi, nessun pensiero, nessuna ossessione, nessuno
sforzo attraversava la mente; qualcosa andò via, lasciando il posto a
una sorta di pace e di silenzio. Era come se non mi importasse più
nulla di tutte le questioni di cui avrei dovuto preoccuparmi riguar-
do al passato e al futuro.

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Questa consapevolezza consolidò il mio intento: da allora, creare la
visione di ciò che volevo, e cioè ricostruire le mie vertebre, divenne
ogni giorno più facile. Soprattutto, iniziai a notare alcuni cambia-
menti fisiologici piuttosto significativi. Fu in quel momento che
cominciai a mettere in relazione quello che stavo facendo dentro di
me per realizzare il cambiamento desiderato, e quello che avveniva
fuori, nel mio corpo. Non appena mi accorsi di questa correlazione,
iniziai a prestare più attenzione alle mie azioni, mettendoci sempre
più convinzione. Di conseguenza, presi a impegnarmi con gioia e
ispirazione, non più con penosi sforzi e scarsa convinzione. Tutto
a un tratto, riuscivo a portare a termine in breve tempo quello che
prima richiedeva una sessione di due o tre ore.
Avevo parecchio tempo a disposizione, perciò iniziai a immaginare
come sarebbe stato ammirare ancora un tramonto in riva al mare
o pranzare con gli amici seduto al tavolo di un ristorante, e decisi
che non avrei mai più dato per scontato queste cose. In particolare,
immaginavo di fare la doccia e di sentire l’acqua scivolare sul mio
viso e sul mio corpo, di stare seduto dritto sul wc o di fare una pas-
seggiata sulla spiaggia di San Diego, con il vento tra i capelli. Tutte
queste cose, che non avevo mai apprezzato fino in fondo prima
dell’incidente, ora erano importanti; mi presi il tempo per abbrac-
ciarle emotivamente, fino ad avere la sensazione che fossero reali.
All’epoca, non sapevo ancora cosa stessi facendo, ma ora lo so: sta-
vo cominciando a pensare a tutte le potenzialità future che esiste-
vano nel campo quantico, per poi abbracciarle una a una a livello
emotivo. Mentre sceglievo di sposare questo futuro intenzionale
e provavo una forte emozione al pensiero di come sarebbe stato
viverlo, nel momento presente il mio corpo cominciava a credere
di essere davvero all’interno di quell’esperienza futura. Man mano
che la mia capacità di osservare il destino che desideravo si affinava
sempre più, le mie cellule cominciavano a riorganizzarsi. Iniziai ad
attivare nuovi geni in modi diversi, e il mio corpo cominciò davve-
ro a evidenziare rapidi miglioramenti.
Stavo imparando uno dei principi fondamentali della fisica quan-
tistica: mente e materia non sono elementi separati; i nostri pen-
sieri e sentimenti, consapevoli o meno, sono il tracciato che guida

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il nostro destino. All’interno della mente umana e di quella del
campo quantico dalle infinite potenzialità, risiede la capacità di
manifestare qualsiasi futuro possibile attraverso la perseveranza, la
convinzione e la concentrazione. Entrambe queste menti devono
lavorare insieme per generare una realtà futura che potenzialmente
esiste già. Mi resi conto che in questo modo siamo tutti creatori
divini, indipendentemente dall’etnia, dal sesso, dalla cultura, dalla
posizione sociale, dall’istruzione, dalle credenze religiose e anche
dagli errori che abbiamo commesso in passato. Per la prima volta
nella mia vita, mi sono sentito in estasi.
Presi altre decisioni importanti per la mia guarigione. Elaborai uno
stile di vita (descritto in dettaglio in Evolvi il tuo cervello) che pre-
vedeva una certa alimentazione, visite da amici che praticavano la
guarigione energetica e un complesso programma di riabilitazione.
Ma in quel periodo nulla era più importante per me che entrare in
contatto con quell’intelligenza interiore e servirmene per guarire il
corpo. Nove settimane e mezzo dopo l’incidente, mi sono alzato,
ho ripreso a camminare e sono tornato alla mia vita, senza ingessa-
ture o interventi chirurgici. Dopo dieci settimane, ho ricominciato
a ricevere i pazienti e, dopo dodici settimane, ho ripreso ad alle-
narmi e a sollevare pesi, pur continuando la riabilitazione. Ora, a
quasi trent’anni dall’incidente, posso dire in tutta onestà che non
ho quasi mai sofferto di mal di schiena da allora.

LA RICERCA INIZIA SUL SERIO


Ma l’avventura non era ancora finita. Non c’era da stupirsi se non
riuscivo a tornare alla mia vita di prima nei panni del mio vecchio
io. Ero molto cambiato. Ero entrato in contatto con una realtà che
nessuno di mia conoscenza era in grado di capire davvero. Non
riuscivo più a rapportarmi con molti dei miei amici, e di certo
non potevo tornare alla vita di sempre. Le cose che prima erano
importanti, ora non contavano più, e cominciai a pormi grossi
interrogativi come: “Chi sono?”, “Qual è il significato della mia
vita?”, “Cosa ci faccio qui?”, “Qual è il mio scopo?” e “Cos’è o chi
è Dio?”. Poco tempo dopo, lasciai San Diego e mi trasferii sulla
costa nord-occidentale del Pacifico, dove finii per aprire una clinica

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chiropratica nei pressi di Olympia, Washington. Ma per un certo
periodo, mi ritirai dal mondo e studiai la spiritualità.
Con il passare del tempo, sviluppai un forte interesse per le remis-
sioni spontanee, che si verificano quando le persone guariscono
da gravi malattie in fase terminale o da patologie croniche senza
ricorrere alla medicina tradizionale, cioè alla chirurgia o ai farmaci.
In quelle lunghe notti insonni e solitarie durante la convalescenza,
avevo stretto un patto con quella coscienza interiore: se mai fossi
tornato a camminare, avrei dedicato il resto della mia vita ad ana-
lizzare e indagare la connessione tra corpo e mente, soffermandomi
sull’idea che la mente prevale sulla materia. E questo è più o meno
quello che continuo a fare da trent’anni a questa parte.
Ho soggiornato in diversi paesi e ho incontrato persone malate che
si erano curate sia in modo convenzionale sia non convenzionale
senza ottenere alcun miglioramento, o addirittura riportando un
aggravamento delle condizioni, ma che poi all’improvviso sono
guarite. Le ho intervistate per scoprire cosa avessero in comune le
loro esperienze, con l’intento di capire e documentare il motivo del
loro miglioramento, spinto dal desiderio di coniugare la scienza
con la spiritualità. Ho scoperto così che in tutte queste guarigioni
miracolose la mente ha giocato un ruolo molto importante.
Una simile scoperta ha solleticato lo scienziato che è in me, facen-
domi diventare ancora più curioso. Ho ricominciato a frequentare
corsi universitari e a studiare le ultime novità nel campo della neu-
roscienza, finché non mi sono specializzato in scansioni cerebrali,
neuroplasticità, epigenetica e psiconeuroimmunologia. Ora sapevo
cosa avevano fatto queste persone per guarire ed ero diventato un
esperto di scienza della trasformazione mentale (o almeno credevo
di esserlo), perciò pensavo di poter riprodurre questo meccanismo,
sia in persone malate sia in soggetti sani desiderosi di realizzare
cambiamenti positivi non solo nel campo della salute, ma anche
nelle relazioni, nel lavoro, nella famiglia e nella vita in generale.
Con quattordici scienziati e ricercatori ho partecipato al documen-
tario Bleep: ma che bip... sappiamo veramente?, che ha fatto molto
scalpore. Il documentario invitava lo spettatore a mettere in di-

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scussione la natura della realtà e a vedere se il modo di osservarla si
materializzava nella realtà o, per essere più precisi, diventava realtà.
Tutto il mondo parlava del documentario e dei concetti in esso
proposti. Sulla scia di questo fenomeno, nel 2007 pubblicai il mio
primo libro Evolvi il tuo cervello: come uscire dal vecchio programma.
Quando il libro cominciò a diffondersi, la gente spesso mi chie-
deva: “Come si fa? Come si fa a cambiare e a creare la vita che
vogliamo?”. Ben presto, è diventata la domanda più frequente che
la gente mi rivolgeva.
Così, creai un mio staff personale e iniziai a tenere workshop in
tutti gli Stati Uniti e all’estero insegnando come funziona il cervel-
lo e come è possibile riprogrammare i pensieri attraverso principi
neurofisiologici. All’inizio, durante i seminari mi limitavo per lo
più a condividere le informazioni. Ma la gente mi chiedeva di più,
perciò aggiunsi delle meditazioni per creare sinergie e assimilare nel
profondo le informazioni acquisite. Inoltre, offrii ai partecipanti
metodi pratici per apportare cambiamenti a livello mentale e fisico
e, di conseguenza, nella loro vita. Dopo aver seguito i miei seminari
introduttivi in diverse parti del mondo, la gente iniziò a chiedermi:
“Qual è il prossimo passo?”. Allora, cominciai a proporre seminari
di livello superiore.
Così pensai di aver concluso il mio lavoro, di aver trasmesso tutto
ciò che potevo, ma la gente continuava a chiedere di più, perciò
seguitai a studiare, perfezionando le presentazioni e le meditazioni.
Una volta preso il via, arrivarono i primi risultati; la gente riusciva a
eliminare alcune abitudini autodistruttive e a condurre una vita più
felice. Anche se fino a quel momento io e i miei colleghi avevamo
osservato solo lievi cambiamenti (niente di veramente significati-
vo), le persone apprezzavano le informazioni ricevute e prosegui-
vano volentieri la pratica a casa. Perciò, continuai ad andare dove
mi invitavano. Pensavo che quando avessero smesso di farlo, avrei
capito che il mio lavoro era giunto al termine.
Circa un anno e mezzo dopo il primo seminario, io e il mio team
cominciammo a ricevere numerose e-mail da partecipanti che
avevano riscontrato cambiamenti positivi svolgendo le meditazio-
ni con regolarità. Nella loro vita si era manifestata un’ondata di

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cambiamenti che li riempiva di gioia. I riscontri ricevuti nel corso
dell’anno successivo colpirono molto sia me sia i miei collaboratori.
I partecipanti ai seminari riferivano non solo cambiamenti sogget-
tivi nel loro stato di salute fisico, ma anche miglioramenti oggettivi
emersi dagli esami medici. In alcuni casi, i valori tornavano addi-
rittura normali! Queste persone erano in grado di riprodurre esatta-
mente i cambiamenti fisici, mentali ed emotivi che avevo studiato,
osservato e descritto in Evolvi il tuo cervello.
Fu incredibilmente eccitante assistere a tutto questo: sapevo che
ciò che è replicabile tende a diventare una legge scientifica. Le nu-
merose e-mail che ci venivano inviate cominciavano tutte con la
stessa formula: “Non ci crederai mai…”. Quei cambiamenti erano
qualcosa di più che una semplice coincidenza.
Poco dopo, in quello stesso anno, durante due eventi organizzati a
Seattle, cominciarono ad accadere cose incredibili. In occasione del
primo, una donna affetta da sclerosi multipla (SM), che era arrivata
con un deambulatore, iniziò a camminare senza aiuto prima della
fine dell’evento. Al secondo, un’altra, che soffriva di sclerosi mul-
tipla da dieci anni, si mise a ballare in mezzo alla sala, dichiarando
che la paralisi e il torpore al piede sinistro erano completamente
spariti. (Parlerò in modo più approfondito della storia di una di
queste donne, e di quelle di altre persone come loro, nei prossimi
capitoli). A grande richiesta, nel 2010 condussi un seminario anco-
ra più progressive in Colorado, e la gente cominciò a notare miglio-
ramenti proprio lì, all’evento. I partecipanti si alzavano, prendeva-
no il microfono e raccontavano storie entusiasmanti.
In quel periodo, inoltre, fui invitato a tenere conferenze per im-
prenditori sulla biologia del cambiamento, sulla neuroscienza del-
la leadership e su come trasformare gli individui per modificare
una cultura. Dopo un discorso programmatico, alcuni dirigenti mi
chiesero di adattare le idee a un modello di trasformazione azien-
dale. Così misi a punto un corso di otto ore personalizzabile per
aziende e organizzazioni; il successo fu tale da dare vita al program-
ma aziendale “30 Days to Genius” [Trenta giorni per diventare un
genio]. Mi sono ritrovato a lavorare con clienti come Sony Enter-
tainment Network, Gallo Family Vineyards, la società di teleco-

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municazioni WOW! (in origine denominata Wide Open West) e
molte altre aziende, fino ad arrivare a offrire un servizio di coaching
privato destinato ai vertici aziendali.
Le richieste di programmi aziendali sono diventate talmente nu-
merose che ho creato uno staff di coaching dedicato; al momento,
dispongo di più di trenta formatori attivi, tra cui ex CEO, consu-
lenti aziendali, psicoterapeuti, avvocati, medici, ingegneri e profes-
sionisti con un dottorato di ricerca che viaggiano in tutto il mondo
per insegnare questo modello di trasformazione a numerose azien-
de. (Ora abbiamo intenzione di certificare formatori indipendenti
che potranno utilizzare il modello di cambiamento con la propria
clientela.) Nemmeno nei miei sogni più sfrenati avrei mai potuto
immaginare questo tipo di futuro per me.
Nel 2012 è uscito il mio secondo libro, Cambia l’abitudine di es-
sere te stesso: la fisica quantistica nella vita quotidiana (My Life),
un manuale pratico di istruzioni che integra e completa Evolvi il
tuo cervello. Il libro non solo approfondisce i concetti della neu-
roscienza del cambiamento e dell’epigenetica, ma contiene anche
un programma di quattro settimane con indicazioni dettagliate per
l’attuazione di questi cambiamenti, sulla base dei seminari che ho
tenuto in quel periodo.
Successivamente ho organizzato un seminario ancora più avanzato
in Colorado; qui abbiamo assistito a sette remissioni spontanee da
varie patologie. Una donna che si nutriva solo di lattuga a causa di
gravi allergie alimentari è guarita proprio in quel weekend. Altre
persone sono guarite da intolleranza al glutine, celiachia, problemi
alla tiroide, dolore cronico e altre condizioni. All’improvviso, ho
cominciato a notare cambiamenti molto significativi nello stato di
salute e nella vita delle persone che si allontanavano dalla loro re-
altà contingente per crearne una nuova. Tutto ciò avveniva proprio
sotto i miei occhi.

DALL’INFORMAZIONE ALLA TRASFORMAZIONE


L’evento del 2012 in Colorado rappresentò un punto di svolta nella
mia carriera: finalmente, vedevo che le persone venivano aiutate

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non solo a cambiare la loro percezione del benessere, ma manifesta-
vano nuovi geni in modi nuovi proprio lì, durante le meditazioni,
in tempo reale, con riscontri tangibili. Se una persona che soffriva
da anni di una patologia come il lupus iniziava a stare bene dopo
un’ora di meditazione, significava che qualcosa di importante do-
veva essere accaduto nella sua mente e nel suo corpo. Volevo capi-
re come misurare questi cambiamenti nel momento stesso in cui
avvenivano, durante i seminari, per vedere esattamente cosa stava
succedendo.
Così, all’inizio del 2013, organizzai un nuovo tipo di evento che
ha portato rapidamente i nostri seminari a un livello ulteriore. Per
questo evento, tenuto in Arizona, chiesi a un gruppo di ricercatori,
tra cui neuroscienziati, tecnici e fisici quantistici dotati di strumenti
specializzati, di affiancarmi per un seminario di quattro giorni che
prevedeva la presenza di più di duecento partecipanti. Gli esperti
usarono i loro strumenti per misurare il campo elettromagnetico
all’interno della sala per vedere se l’energia si modificava con il pro-
cedere del seminario. Misurarono anche il campo energetico intor-
no ai corpi dei partecipanti e i centri energetici di ogni persona (i
chakra) per vedere se subivano qualche influenza.
Per realizzare queste misurazioni, si avvalsero di una strumenta-
zione molto sofisticata e svolsero analisi come l’elettroencefalo-
grafia (EEG), per valutare l’attività elettrica del cervello, l’elet-
troencefalografia quantitativa (QEEG), per valutare al computer
i dati EEG, la variabilità della frequenza cardiaca (HRV), per
documentare la variazione in un intervallo di tempo tra i battiti
cardiaci e la coerenza cardiaca (una misurazione del ritmo cardia-
co che riflette la stretta relazione tra cuore e cervello) e la visua-
lizzazione a scarica di gas (GDV) per misurare i cambiamenti nei
campi bioenergetici.
Esaminammo l’attività cerebrale di molti partecipanti sia prima sia
dopo l’evento per vedere cosa succedeva nel loro cervello; inoltre,
scegliemmo a caso alcune persone da monitorare durante l’evento
per misurare in tempo reale eventuali cambiamenti negli schemi
cerebrali durante le tre sessioni di meditazione che conducevo ogni
giorno. Fu un evento grandioso. Una persona affetta da morbo di

19
Parkinson smise di avere tremori. Un’altra guarì da un trauma cra-
nico. Soggetti che avevano un tumore al cervello o in altre parti
del corpo, ne constatarono la scomparsa. Molti individui colpiti
da dolori artritici provarono sollievo per la prima volta dopo anni.
Questi sono solo alcuni dei cambiamenti avvenuti.
Durante questo evento incredibile, riuscimmo a cogliere muta-
menti oggettivi in un ambito scientifico di misurazione e a docu-
mentare i cambiamenti di salute soggettivi riportati dai partecipan-
ti. Non credo sia un’esagerazione dire che quanto osservammo e
registrammo ha fatto storia. Più avanti nel libro, ti mostrerò cosa
sei capace di fare, raccontandoti alcune di queste storie; storie di
gente comune che ha fatto cose straordinarie.
Nell’organizzare quel seminario, sono partito da questa idea: vo-
levo offrire alle persone informazioni scientifiche e poi dare loro
le istruzioni necessarie per applicarle al fine di raggiungere livelli
elevati di trasformazione personale. La scienza è, dopo tutto, il lin-
guaggio contemporaneo del misticismo. Mi sono accorto che non
appena inizi a parlare nella lingua della religione o della cultura,
non appena inizi a citare la tradizione, dividi il pubblico. La scienza
invece unisce e demistifica i contenuti mistici.
Volevo avere la possibilità di insegnare alle persone il model-
lo scientifico della trasformazione (introducendo un po’ di fisica
quantistica per aiutarle a capire la scienza delle possibilità), com-
binato con le ultime scoperte nel campo delle neuroscienze, della
neuroendocrinologia, dell’epigenetica e della psiconeuroimmuno-
logia. Se fossi riuscito a dare loro le informazioni giuste e l’oppor-
tunità di applicarle, allora quelle persone avrebbero sperimentato
una trasformazione. Farlo in un contesto che permetteva di mi-
surare la trasformazione nel momento stesso in cui avveniva mi
avrebbe consentito di avere informazioni aggiuntive per spiegare
ai partecipanti ciò che stavano sperimentando. E grazie a quella
conoscenza, avrebbero potuto compiere un’altra trasformazione e
così via, mano a mano che colmavano il divario tra ciò che pensano
di essere e ciò che realmente sono (creatori divini), semplificando
così il processo. Ho definito questo concetto “informazioni per la
trasformazione” ed è la mia nuova passione.

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Attualmente offro un corso intensivo online di sette ore e tengo
personalmente nove o dieci seminari progressive della durata di
tre giorni in tutto il mondo, più uno o due workshop avanzati di
cinque giorni, dove partecipano gli esperti di cui ho parlato per
misurare con le loro apparecchiature i cambiamenti cerebrali, le
variazioni della funzionalità cardiaca, i mutamenti nell’espressione
genetica e nel flusso energetico in tempo reale. I risultati sono a dir
poco sorprendenti e costituiscono l’argomento di questo libro.

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INTRODUZIONE

L’importanza della mente

Gli incredibili risultati che ho osservato nei miei seminari avanzati


e i dati scientifici emersi mi hanno portato a soffermarmi sul con-
cetto di placebo: quel fenomeno che si verifica quando una persona
prende una pillola di zucchero o le viene somministrata un’iniezio-
ne di soluzione salina e sta subito meglio grazie alla fiducia riposta
nel rimedio esterno.
Ho cominciato a chiedermi: “Che cosa succederebbe se le perso-
ne iniziassero ad avere fiducia in se stesse invece che in qualcosa
di esterno? E se credessero di poter cambiare qualcosa dentro
di loro mettendosi nello stesso stato mentale di chi prende un
placebo? Non è forse questo che fanno i partecipanti ai nostri
seminari per guarire? C’è davvero bisogno di una pillola o di
un’iniezione per cambiare lo stato mentale? Possiamo insegnare
come raggiungere lo stesso risultato, mostrando come funziona
realmente il placebo?”.
Dopo tutto, il predicatore che maneggia i serpenti e beve stricnina
senza riportare conseguenze ha certamente modificato il suo stato
mentale, giusto? (Ne parlerò più a fondo nel Capitolo 1.) Quindi,
se iniziamo a rilevare ciò che avviene nel cervello e a esaminare
tutte queste informazioni, possiamo anche insegnare alle persone
come farlo da sole, senza dipendere da un elemento esterno, senza
un placebo? Possiamo spiegare che sono esse stesse il placebo? In
altre parole, possiamo convincerle che invece di accordare la pro-
pria fiducia a qualcosa di noto, come una pillola di zucchero o
un’iniezione di salina, possono riporla nell’ignoto, trasformandolo
in qualcosa di conosciuto?
L’intento del libro è proprio questo: permetterti di capire che hai
tutti i meccanismi biologici e neurologici per raggiungere esat-
tamente questo risultato. Il mio obiettivo è demistificare que-
sti concetti attraverso le nuove spiegazioni scientifiche, affinché

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sempre più persone possano cambiare il proprio stato interiore
e creare cambiamenti positivi nella salute e nel mondo esterno.
Se ti sembra troppo bello per essere vero, sappi che, come ho già
detto, nell’ultima parte del libro troverai alcune ricerche elabora-
te nei nostri seminari che ti mostreranno come tutto questo sia
possibile.

DI COSA NON PARLA QUESTO LIBRO


Vorrei spiegare brevemente di cosa non parla questo libro, per fu-
gare fin dall’inizio eventuali dubbi. Innanzitutto, non faremo con-
siderazioni etiche sull’utilizzo del placebo nei trattamenti medici.
Si discute molto su quanto sia corretto dal punto di vista morale
curare con una sostanza inerte un paziente che non rientra in una
sperimentazione clinica. Chiedersi se il fine giustifica tali mezzi è
una questione che meriterebbe di essere discussa in un dibattito più
ampio sull’uso del placebo, ma è del tutto estranea al messaggio
che questo libro intende veicolare. Placebo Effect ti spiega come
metterti al posto di guida per creare il cambiamento che desideri,
senza interrogarsi se sia giusto o sbagliato che altre persone facciano
altrettanto ricorrendo a un espediente.
Questo libro non parla neanche di negazione. Nessuno dei meto-
di descritti si propone di negare le eventuali patologie da cui sei
afflitto. Al contrario, il tema centrale del libro è la trasformazione
delle malattie e delle patologie. A me interessa misurare i cambia-
menti che le persone rilevano quando passano dalla malattia alla
salute. Placebo Effect non ha intenzione di spingerti a rifiutare la
realtà, ma ti mostra ciò che è possibile quando entri in una nuova
realtà.
Un riscontro attendibile, ottenuto attraverso le analisi mediche, ti
confermerà l’efficacia di quello che stai facendo. Quando vedrai gli
effetti che hai creato, potrai spostare l’attenzione sul percorso che
hai fatto per arrivare a quel punto, e ripeterlo. E se quello che stai
facendo non funziona, è il caso di cambiarlo fino a ottenere ciò
che desideri. Questo significa combinare scienza e spiritualità. La
negazione, d’altra parte, si ha quando non consideri la realtà di ciò
che accade dentro e intorno a te.
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Questo libro non intende neppure mettere in discussione l’efficacia
delle varie modalità di guarigione. Ne esistono diverse, e funziona-
no quasi tutte abbastanza bene. Tutte hanno un effetto benefico,
per certi versi misurabile, almeno in alcune persone, ma non voglio
condurre una disamina completa di questi metodi nel libro. Il mio
intento è farti conoscere la tecnica che più di tutte ha catturato la
mia attenzione: la guarigione attraverso il pensiero. Perciò continua
pure a utilizzare i metodi di guarigione efficaci nel tuo caso, come
farmaci, chirurgia, agopuntura, chiropratica, biofeedback, massag-
gio terapeutico, integratori alimentari, yoga, riflessologia, medicina
energetica, terapia del suono e così via. Placebo Effect non esclude
nulla, a eccezione delle limitazioni che ti imponi tu stesso.

QUAL È IL CONTENUTO DEL LIBRO?


Placebo Effect si divide in due parti.
La Prima Parte fornisce le conoscenze specifiche e i dati di riferi-
mento necessari per capire cos’è l’effetto placebo e come funziona
nel corpo e nel cervello; inoltre spiega come creare lo stesso tipo di
cambiamenti miracolosi nel tuo cervello e nel tuo corpo in piena
autonomia, attraverso il pensiero.
Il Capitolo 1 racconta alcune storie fenomenali che dimostrano
quanto sia potente la mente umana. Si parla di come i pensieri
abbiano guarito alcune persone e fatto ammalare altre (talvolta ac-
celerandone persino la morte). Leggerai di un uomo che morì dopo
aver saputo di avere il cancro, anche se l’autopsia rivelò che la dia-
gnosi era errata, di una donna che da anni soffriva di depressione
e che mostrò un netto miglioramento durante la sperimentazione
di un farmaco antidepressivo, nonostante facesse parte del gruppo
trattato con placebo, e di alcuni reduci di guerra zoppicanti a causa
dell’osteoartrite che furono miracolosamente guariti in seguito a
un finto intervento chirurgico al ginocchio. Leggerai inoltre sto-
rie sorprendenti di maledizioni vudù e maneggiatori di serpenti. Il
mio obiettivo, attraverso questi racconti all’apparenza incredibili, è
mostrarti la portata di ciò che la mente umana è in grado di fare da
sola, senza alcun aiuto da parte della medicina moderna. Spero che
alla fine ti chiederai: “Come è possibile tutto questo?”.
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Il Capitolo 2 presenta una breve storia del placebo, basandosi sui
resoconti delle scoperte scientifiche a partire dal 1770 (quando un
medico viennese usò i magneti per indurre quelle che pensava fos-
sero convulsioni terapeutiche) fino ai giorni nostri, in cui i neuro-
scienziati hanno risolto – e continuano a farlo - misteri affascinanti
sul complesso funzionamento della mente. Farai la conoscenza di
un medico che ha sviluppato tecniche di ipnotismo dopo essere ar-
rivato in ritardo a un appuntamento e aver scoperto che il paziente
in attesa era stato ipnotizzato dalla fiamma di una lampada, in-
contrerai un chirurgo della Seconda Guerra Mondiale che, rimasto
senza morfina, usò con successo iniezioni di soluzione salina come
analgesico sui soldati feriti, leggerai dei primi ricercatori giapponesi
di psiconeuroimmunologia che hanno scambiato foglie di edera
velenosa con foglie innocue e hanno scoperto che il gruppo di con-
trollo reagiva più al racconto dell’esperienza che stavano vivendo
rispetto a ciò che effettivamente stava capitando loro.
Leggerai inoltre di Norman Cousins che ha riacquistato la salute
attraverso le risate, e di Herbert Benson, ricercatore di Harvard,
che è riuscito a ridurre i fattori di rischio delle malattie cardio-
vascolari in pazienti cardiopatici dopo aver scoperto il funziona-
mento della Meditazione Trascendentale. Leggerai anche di come il
neuroscienziato italiano Fabrizio Benedetti, trattando pazienti che
assumevano dei farmaci con determinati effetti, ha somministrato
loro un placebo e ha notato che il cervello continuava a segnalare
ininterrottamente la produzione delle stesse sostanze neurochimi-
che prodotte dal farmaco. Inoltre, troverai il resoconto di uno stu-
dio recente, dalla portata straordinaria: esso mostra come alcuni
pazienti affetti da sindrome dell’intestino irritabile (IBS) abbiano
riportato un netto miglioramento dei sintomi assumendo un pla-
cebo, pur sapendo perfettamente che quello somministrato era un
placebo e non un farmaco attivo.
Il Capitolo 3 esamina ciò che accade nel cervello dal punto di vista
fisiologico quando è in corso l’effetto placebo. Scoprirai che, in un
certo senso, il placebo funziona perché accetti o prendi in consi-
derazione l’idea che puoi star bene, sostituendola a quella che in-
vece dice che sarai sempre malato. Questo significa passare da una

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mentalità in cui presagisci un futuro simile al passato noto a una
mentalità in cui prevedi e ti aspetti un nuovo risultato potenzia-
le. Se condividerai questa idea, significa che avrai esaminato il tuo
modo di pensare e capito cos’è la mente, e come i suoi meccanismi
influenzino il corpo.
Come vedrai, finché formuli gli stessi pensieri, farai sempre le stesse
scelte, che causeranno gli stessi comportamenti e provocheranno le
medesime esperienze, suscitando in te emozioni sempre identiche,
che a loro volta alimenteranno gli stessi pensieri: in questo modo,
a livello neurochimico tutto rimarrà invariato, e tu continuerai a
ricordare a te stesso chi pensi di essere. Ma stai pur certo che non
sei programmato per rimanere immutato per tutta la vita. Ti spie-
gherò il concetto di neuroplasticità e ti svelerò ciò che sappiamo
sulla capacità del cervello di cambiare nel corso della vita, creando
nuove vie neurali e nuove connessioni.
Il Capitolo 4 parla dell’effetto placebo nell’organismo e spiega il
passaggio successivo della risposta fisiologica. Inizia raccontando la
storia di un gruppo di anziani che, durante un ritiro di una settima-
na organizzato dai ricercatori di Harvard, furono invitati a fingere
di essere più giovani di vent’anni. Prima della fine della settimana,
questi uomini ottennero numerosi cambiamenti fisiologici misura-
bili: invertirono la marcia del tempo sul loro corpo e io ti svelerò il
segreto del loro successo.
Per illustrare il fenomeno, il capitolo spiega cosa sono i geni e come
ricevono i segnali dall’organismo. Imparerai che l’epigenetica, una
scienza entusiasmante e relativamente recente, ha demolito la vec-
chia idea secondo la quale nei geni è scritto il tuo destino, e ci ha
insegnato che la mente, in realtà, può indurre nuovi geni a compor-
tarsi in modi nuovi. Scoprirai che il corpo dispone di meccanismi
elaborati per attivare alcuni geni e disattivarne altri, il che significa
che non sei condannato a esprimere tutti i geni ereditati, ma puoi
imparare a modificare i collegamenti neurali per selezionare nuovi
geni e creare cambiamenti fisici reali. Vedrai inoltre come il corpo
può ricorrere alle cellule staminali (la materia fisica che sta dietro
molti miracoli prodotti dall’effetto placebo) per creare nuove cellu-
le sane nelle aree danneggiate.

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Il Capitolo 5 sintetizza i due precedenti e spiega in che modo i
pensieri riescano a cambiare il cervello e il corpo. Esso si apre con
la domanda: “Se il contesto in cui vivi cambia e tu istruisci nuovi
geni in altri modi, è possibile dare segnali al nuovo gene prima che
sia l’ambiente a cambiare?”. Ti spiegherò come è possibile utilizzare
una tecnica chiamata “prova mentale” per associare un’intenzione
chiara a un’emozione intensa (per dare al corpo un assaggio dell’e-
sperienza futura) e vivere così nel momento presente ciò che deve
ancora accadere.
La chiave sta nel rendere i pensieri più reali dell’ambiente esterno,
perché a quel punto il cervello non saprà più distinguere le due
cose e cambierà per adeguarsi al pensiero, come se l’evento fosse
già avvenuto. Se riesci a farlo con successo un numero sufficien-
te di volte, trasformerai il corpo e comincerai ad attivare nuovi
geni in altri modi, producendo cambiamenti epigenetici, proprio
come se l’evento immaginato fosse reale. Poi, entrerai in quella
nuova realtà e diventerai tu stesso il placebo. Il capitolo non solo
descrive la scienza che sta dietro questo fenomeno, ma include
anche storie di molti personaggi pubblici, attivi in diversi ambiti,
che hanno usato questa tecnica per trasformare i loro sogni più
sfrenati in realtà, anche se all’epoca non ne erano pienamente
consapevoli.
Il Capitolo 6, dedicato al concetto di suggestionabilità, inizia con
una storia tanto affascinante quanto inquietante: si parla di un
team di ricercatori che avviò un esperimento per verificare se una
persona normale, rispettosa della legge e mentalmente sana, ma
molto suggestionabile con l’ipnosi, potesse essere programmata per
fare qualcosa che di norma avrebbe considerato inconcepibile: spa-
rare a un estraneo con l’intento di uccidere.
Vedrai che le persone hanno diversi gradi di suggestionabilità; più
tu sei suggestionabile, più riesci ad accedere al tuo subconscio. Que-
sta è la chiave per comprendere l’effetto placebo: la mente cosciente
rappresenta solo il 5 per cento di quello che siamo. Il restante 95
per cento è un insieme di stati subconsci programmati in cui il cor-
po assolve la funzione di mente. Imparerai che devi andare oltre la
mente analitica ed entrare nel sistema operativo dei tuoi program-

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mi subconsci, se vuoi che i nuovi pensieri che formuli diano esiti
nuovi e positivi: devi cambiare il tuo destino genetico e imparare
che la meditazione è uno strumento potente per raggiungere que-
sto obiettivo. Il capitolo si chiude con una breve discussione sugli
stati mentali associati alle onde cerebrali e quali possono aumentare
la tua suggestionabilità.
Il Capitolo 7 spiega come gli atteggiamenti, le convinzioni e le
percezioni possono modificare il tuo stato mentale e plasmare la
tua personalità (ossia la tua realtà personale); inoltre ti indica il
modo per cambiarli al fine di creare una nuova realtà. Leggerai del
potere esercitato dalle convinzioni inconsce e avrai la possibilità
di identificarne alcune che sono nascoste dentro di te senza che tu
ne sia consapevole. Scoprirai inoltre che l’ambiente e i tuoi ricordi
associativi hanno il potere di sabotare la tua capacità di cambiare
le convinzioni.
Ti spiegherò nel dettaglio che, se desideri cambiare le tue con-
vinzioni e percezioni, devi combinare un’intenzione chiara con
un’emozione intensa che induca il corpo a credere che il futuro
potenziale da te selezionato nel campo quantico sia già accaduto.
L’emozione intensa è fondamentale, perché solo quando la scelta
comporta un’ampiezza di frequenza energetica maggiore rispetto
a quella dei programmi installati nel cervello e delle dipendenze
emotive del corpo, puoi modificare i circuiti cerebrali e l’espres-
sione genetica del corpo stesso, oltre a riadattare l’organismo a
una mente nuova (cancellando ogni traccia dei vecchi circuiti
neurali).
Nel Capitolo 8, ti introdurrò all’universo quantico, il mondo im-
prevedibile della materia e dell’energia di cui sono composti gli ato-
mi e le molecole di tutto ciò che esiste. Si è scoperto che l’universo
è riconducibile più all’energia (simile a uno spazio vuoto) che alla
materia solida. Il modello quantico, secondo il quale tutte le possi-
bilità esistono nel momento presente, è la chiave per usare l’effetto
placebo per guarire, in quanto ti autorizza a scegliere un nuovo
futuro per te stesso e a vederlo diventare realtà. Capirai quindi che
è davvero possibile attraversare il fiume del cambiamento e rendere
noto l’ignoto.

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Nel Capitolo 9, conoscerai la storia di tre partecipanti ai miei se-
minari che hanno raggiunto risultati sorprendenti utilizzando
queste tecniche per migliorare la loro salute. Incontrerai Laurie, a
cui è stata diagnostica una rara malattia degenerativa - incurabile
secondo i medici - all’età di diciannove anni. Nel corso di alcuni
decenni, Laurie subì dodici importanti fratture alle ossa della gam-
ba e dell’anca sinistra, che la costrinsero a usare le stampelle per
muoversi. Oggi, invece, cammina normalmente, senza nemmeno
bisogno di un bastone. Le radiografie non mostrano tracce di frat-
ture ossee.
Poi, ti presenterò Candace, a cui fu diagnosticata la tiroidite di
Hashimoto (una patologia grave con numerose complicazioni) in
un periodo della sua vita caratterizzato da risentimento e rabbia. Il
suo medico le disse che avrebbe dovuto assumere farmaci per sem-
pre, ma lei riuscì a cambiare il corso della malattia, dimostrando
che il medico si sbagliava. Oggi, Candace è follemente innamorata
della sua nuova vita e non prende alcun farmaco per la tiroide, che
dagli esami del sangue risulta funzionare normalmente.
Infine, conoscerai Joann (la donna citata nella Prefazione), madre
di cinque figli, donna d’affari e imprenditrice di successo che molti
consideravano una superdonna, prima che crollasse all’improvviso
e le fosse diagnosticata una forma avanzata di sclerosi multipla. Le
sue condizioni precipitarono rapidamente, fino a farle perdere l’uso
delle gambe. Quando arrivò ai miei seminari, ottenne solo piccoli
cambiamenti, finché un giorno, proprio lei che non muoveva le
gambe da anni, si mise a camminare per la stanza, senza alcun aiu-
to, dopo solo un’ora di meditazione!
Il Capitolo 10 riporta altre storie straordinarie che vedono come
protagonisti i partecipanti ai miei seminari e le analisi cerebrali che
li riguardano. Incontrerai Michelle, che è guarita completamente
dal morbo di Parkinson, e John, un tetraplegico che dopo una me-
ditazione si è alzato dalla sedia a rotelle. Leggerai di Kathy (ammi-
nistratore delegato con uno stile di vita intenso) che ha imparato a
vivere il momento presente e di Bonnie, guarita dai fibromi e dalle
forti emorragie mestruali. Infine, incontrerai Genevieve, che attra-
verso la meditazione raggiunse uno stato di beatitudine talmente

29
profondo da farla piangere di gioia, e Maria, la cui esperienza si può
definire solo come un orgasmo cerebrale.
Ti mostrerò i dati raccolti dal mio team di scienziati che si è oc-
cupato di studiare il cervello di queste persone, affinché anche tu
possa vedere i cambiamenti che abbiamo osservato in tempo reale
durante i seminari. Questi dati dimostrano soprattutto che non
bisogna essere monaci, suore, studiosi, scienziati o leader spirituali
per compiere simili gesta. Non hai bisogno di un dottorato di ricer-
ca o di una laurea in medicina. Le storie raccontate in questo libro
appartengono a persone normali, proprio come te. Dopo aver letto
questo capitolo, capirai che non hanno fatto nulla di magico né di
miracoloso; hanno soltanto acquisito e applicato competenze che
si possono trasmettere e che anche tu puoi utilizzare per realizzare
cambiamenti simili ai loro.
La Parte Seconda del testo è interamente dedicata alla meditazione.
Il Capitolo 11 delinea pochi semplici passaggi per prepararsi alla
meditazione ed esamina alcune tecniche specifiche utili. Il Capitolo
12 offre istruzioni per applicare passo passo le tecniche di medi-
tazione che insegno nei seminari; sono le stesse che i partecipanti
hanno adottato per produrre i risultati straordinari di cui leggerai.
Sono felice di sottolineare che, anche se non abbiamo ancora tutte
le risposte sull’utilizzo del potere del placebo, tantissime persone
stanno applicando adesso queste idee per realizzare cambiamen-
ti straordinari nella loro vita; quel tipo di cambiamenti che molti
considerano impossibili. Le tecniche che condivido non si limita-
no a farti riacquistare la salute fisica: possono essere utilizzate per
migliorare qualunque aspetto della tua vita. La mia speranza è che
questo libro ti spinga a provarle e a realizzare cambiamenti appa-
rentemente impossibili.

Nota dell’autore: le storie di guarigione dei partecipanti ai miei seminari sono


vere, mentre i loro nomi e alcuni dettagli identificativi sono stati cambiati per
tutelare la loro privacy.

30
Parte Prima
INFORMAZIONI
CAPITOLO 1

È POSSIBILE?

Sam Londe, un commerciante di scarpe in pensione che viveva alla


periferia di St. Louis nei primi anni Settanta, cominciò ad avere
problemi di deglutizione.1 Alla fine, si fece visitare da un medico
e scoprì di avere un cancro all’esofago con metastasi. All’epoca, il
cancro esofageo metastatico era considerato incurabile: nessuno era
mai sopravvissuto. Si trattava di una condanna a morte, e il medico
gli diede la notizia con la dovuta mestizia.
Per consentirgli di vivere il più a lungo possibile, il medico consi-
gliò di asportare chirurgicamente il tessuto canceroso dall’esofago e
dallo stomaco, dove il cancro si era diffuso. Fidandosi del suo pare-
re, Londe accettò di sottoporsi all’intervento. L’operazione ebbe il
successo sperato, ma ben presto la situazione peggiorò. Un’ecogra-
fia al fegato rivelò che il cancro si era esteso in tutto il lobo sinistro
del tessuto epatico. Il medico gli disse che purtroppo, nel migliore
dei casi, gli restavano solo pochi mesi di vita.
Così, Londe e la sua seconda moglie, entrambi sulla settantina,
decisero di trasferirsi a Nashville, a quasi cinquecento chilometri
di distanza, dove viveva la famiglia di lei. Subito dopo l’arrivo nel
Tennessee, Londe venne ricoverato in ospedale e assegnato all’in-
ternista Clifton Meador. La prima volta che il dottor Meador en-
trò nella stanza di Londe, vide un uomo esile con la barba lunga,
rannicchiato sotto una montagna di coperte, che sembrava quasi
morto. Londe era burbero e taciturno, e le infermiere spiegarono
che era così da quando era stato ricoverato, qualche giorno prima.
Aveva alti livelli di glucosio a causa del diabete, ma per il resto
le analisi del sangue rivelavano valori normali, tranne per i livelli
leggermente alti degli enzimi epatici, come era prevedibile in un
paziente affetto da cancro al fegato. Un esame medico più appro-

1. C. K. Meador, “Hex Death: Voodoo Magic or Persuasion?” Southern Medical


Journal, vol. 85, n. 3: pp. 244–247 (1992).

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fondito mostrò che non c’erano altri problemi, una vera fortuna
considerando le condizioni disperate del paziente. Pur con una
certa riluttanza, Londe seguì le disposizioni del nuovo medico e
si sottopose alla fisioterapia e a una dieta liquida ricostituente, ri-
cevendo molte cure e attenzioni dalle infermiere. Dopo qualche
giorno, riacquistò le forze e la sua scontrosità cominciò a placarsi.
Londe iniziò a parlare con il dottor Meador della sua vita.
Era già stato sposato in passato con quella che era la sua vera ani-
ma gemella. Non erano mai riusciti ad avere figli, ma avevano co-
munque vissuto una bella vita. Dato che amavano andare in barca,
una volta in pensione, avevano acquistato una casa nei pressi di
un grande lago artificiale. Poi, una sera, la diga di terra crollò e
un muro d’acqua mandò in frantumi la loro casa, spazzandola via.
Londe sopravvisse per miracolo aggrappandosi a qualche rottame,
ma il corpo della moglie non fu mai ritrovato.
“Ho perso tutto ciò che amavo” raccontò Londe al dottor Meador.
“Quella notte il mio cuore e la mia anima andarono persi nell’i-
nondazione.”
Sei mesi dopo la morte della prima moglie, mentre era ancora in
lutto e profondamente depresso, gli venne diagnosticato il cancro
all’esofago e subì l’intervento. Fu allora che incontrò e sposò la
sua seconda moglie, una donna gentile che sapeva della sua ma-
lattia terminale e che aveva accettato di prendersi cura di lui fino
alla fine dei suoi giorni. Pochi mesi dopo il matrimonio, si erano
trasferiti a Nashville, e il resto della storia il dottor Meador la
conosceva già.
Non appena Londe concluse il racconto, il medico, stupito da quel-
lo che aveva appena sentito, chiese compassionevole: “Cosa vuole
che faccia per lei?”. Il moribondo ci pensò un attimo.
“Vorrei vivere fino a Natale per stare con mia moglie e la sua fami-
glia. Sono stati buoni con me” rispose finalmente. “Mi aiuti solo
ad arrivare a Natale. È tutto ciò che voglio.” Il dottor Meador gli
assicurò che avrebbe fatto del suo meglio.
Poco prima di essere dimesso a fine ottobre, le condizioni di Londe
erano davvero migliorate rispetto a quando era arrivato. Il dottor
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Meador fu sorpreso e compiaciuto dei suoi progressi. Il medico
continuò a visitarlo una volta al mese e, ogni volta, Londe aveva
un ottimo aspetto. Ma esattamente una settimana dopo Natale (il
giorno di Capodanno), la moglie lo riportò in ospedale.
Con grande sorpresa, il dottor Meador notò che Londe sembrava
in fin di vita. In verità, riscontrò soltanto una leggera febbre e una
piccola macchia da polmonite emersa dalle radiografie al torace,
anche se l’uomo non mostrava difficoltà respiratorie. Gli esami del
sangue sembravano a posto, e le colture richieste dal medico, per
verificare la presenza di altre malattie, risultarono negative. Il dot-
tor Meador prescrisse antibiotici e sottopose il paziente a ossige-
noterapia, sperando per il meglio, ma ventiquattro ore dopo Sam
Londe era morto.
Probabilmente questa vicenda ti sembrerà la tipica storia di una
morte sfortunata per una grave malattia dopo la diagnosi di cancro,
giusto? Be’, non trarre conclusioni affrettate.
L’autopsia del corpo disposta dall’ospedale rivelò una cosa strana.
Il fegato dell’uomo non era pieno di metastasi, ma evidenziava
solo un piccolo nodulo tumorale nel lobo sinistro, mentre una
macchia altrettanto piccola era presente sul polmone. La verità è
che nessuno dei due tumori era abbastanza grande da ucciderlo.
L’area intorno all’esofago era del tutto sana. La scansione epatica
effettuata presso l’ospedale di St. Louis aveva dato un falso risul-
tato positivo.
Sam Londe non è morto né di cancro esofageo né di cancro al fega-
to. E non è morto nemmeno per la lieve forma di polmonite con-
tratta dopo il rientro in ospedale. È morto semplicemente perché
tutti nell’ambiente circostante pensavano che fosse in fin di vita.
Il suo medico a St. Louis pensava che stesse per morire, e anche il
dottor Meador, a Nashville. La moglie e la famiglia di lei pensavano
la stessa cosa. E, soprattutto, Londe era sicuro di essere prossimo
alla morte. È possibile che l’uomo sia deceduto soltanto a causa di
questo pensiero? È possibile che il pensiero sia tanto potente? E se è
così, si è trattato di un caso isolato?

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SI PUÒ ASSUMERE UNA DOSE ECCESSIVA DI PLACEBO?
Fred Mason (nome fittizio), uno studente universitario di ventiset-
te anni, entrò in depressione quando la sua ragazza lo lasciò.2 Vide
un annuncio in cui si reclutavano volontari per sperimentare un
nuovo farmaco antidepressivo e decise di partecipare. Aveva già sof-
ferto di depressione quattro anni prima, e all’epoca il suo medico
gli aveva prescritto l’amitriptilina (Elavil), un antidepressivo che fu
costretto a interrompere perché gli provocava eccessiva sonnolenza
e intorpidimento. Pensava che quel farmaco fosse troppo forte per
lui e sperava che la nuova medicina avesse meno effetti collaterali.
Dopo un mese di terapia sperimentale, decise di chiamare la sua ex
fidanzata. I due litigarono al telefono e, dopo aver riattaccato, Ma-
son afferrò d’impulso il flacone del trial e ingoiò tutte le ventinove
pillole, tentando il suicidio. Se ne pentì subito. Si mise a correre su
è giù per le scale del condominio dove abitava, chiedendo dispera-
tamente aiuto, ma poi crollò a terra. Una vicina sentì le urla e lo
trovò riverso sul pavimento.
Contorcendosi, Mason le disse di aver commesso un terribile erro-
re, di aver preso tutte quelle pillole ma che in realtà non voleva mo-
rire. La supplicò di portarlo in ospedale e lei acconsentì. Quando
Mason arrivò al pronto soccorso, era pallido e sudato. La pressione
sanguigna era 80/40, e le pulsazione erano centoquaranta al minu-
to. Respirava affannosamente e continuava a ripetere: “Non voglio
morire.”
Quando i medici lo visitarono, non trovarono nulla di grave se
non pressione bassa, battito cardiaco accelerato e respiro affannoso.
Ciononostante, Mason sembrava letargico e i suoi discorsi erano
confusi. L’equipe medica gli mise una flebo di soluzione salina, pre-
levò campioni di sangue e urine e gli chiese quale farmaco avesse
preso. Mason non riusciva a ricordarne il nome.

2. R. R. Reeves, M. E. Ladner, R. H. Hart, et al., “Nocebo Effects with Anti-


depressant Clinical Drug Trial Placebos”, General Hospital Psychiatry, vol. 29,
n. 3: pp. 275–277 (2007); C. K. Meador, True Medical Detective Stories (North
Charleston, SC: CreateSpace, 2012).

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Disse ai medici che si trattava di un farmaco antidepressivo spe-
rimentale e che lui faceva parte del gruppo su cui lo stavano te-
stando. Poi, consegnò il flacone vuoto, che riportava in etichetta
le informazioni sullo studio clinico, ma non il nome del farmaco.
Non rimaneva altro da fare che attendere i risultati di laboratorio,
monitorare i parametri vitali per assicurarsi che il paziente non peg-
giorasse e sperare che l’ospedale riuscisse a contattare i ricercatori
che stavano conducendo il trial.
Quattro ore più tardi, quando già i risultati delle analisi avevano
evidenziato valori normali, arrivò un medico che aveva preso parte
allo studio clinico sul farmaco. Il ricercatore lesse il codice sull’e-
tichetta del flacone di pillole vuoto, controllò tra i documenti del
trial clinico e annunciò che Mason stava in realtà assumendo un
placebo e che le pillole ingerite non contenevano alcuna sostanza
attiva. Come per miracolo, nel giro di pochi minuti la pressione
sanguigna e il battito cardiaco di Mason tornarono normali. Anche
l’eccessiva sonnolenza sparì. Mason era stato vittima del nocebo:
una sostanza innocua che, a causa delle forti aspettative, provoca
effetti nocivi.
È davvero possibile che Mason avesse manifestato determinati sin-
tomi soltanto perché era ciò che si aspettava di provare ingoiando
una dose massiccia di antidepressivi? È possibile che la sua mente,
come nel caso di Sam Londe, avesse preso il controllo del corpo,
guidata dalle aspettative di quello che sembrava lo scenario futuro
più probabile, al punto da renderlo reale? Può essere successo dav-
vero, anche se ciò significa che la sua mente ha assunto il controllo
di funzioni che normalmente non avvengono in modo conscio?
E se è vero che i pensieri possono farci ammalare, allora possiamo
anche utilizzarli per stare bene?

LA DEPRESSIONE CRONICA SPARISCE PER MAGIA


Janis Schonfeld, un’interior designer di quarantasei anni residen-
te in California, soffriva di depressione fin dall’adolescenza. Non
aveva mai chiesto aiuto finché, nel 1997, non vide un annuncio
su un giornale: l’UCLA Neuropsychiatric Institute, l’Istituto neu-
ropsichiatrico che fa capo all’Università della California, cercava
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volontari per testare un nuovo antidepressivo chiamato venlafaxi-
na (Effexor). La donna, la cui depressione era giunta a livelli tali
da spingerla più volte a pensare al suicidio nonostante avesse un
marito e dei figli, colse al volo l’occasione di partecipare alla speri-
mentazione.
Quando arrivò all’istituto la prima volta, un tecnico la collegò per
circa tre quarti d’ora a un elettroencefalogramma per monitorare
e registrare l’attività delle sue onde cerebrali; dopodiché la donna
uscì con una boccetta di pillole rilasciata dalla farmacia dell’ospe-
dale. Le avevano spiegato che il gruppo dei cinquantuno volontari
era stato diviso in due sottogruppi: uno avrebbe preso il farmaco,
mentre l’altro avrebbe ricevuto il placebo, ma né lei né i medici
che conducevano lo studio sapevano a quale dei due sottogruppi
era stata assegnata. Nessuno lo avrebbe saputo fino al termine della
sperimentazione. Ma all’epoca la cosa non aveva importanza per
lei. Era entusiasta e sperava che finalmente, dopo anni di lotta con-
tro la depressione clinica, una malattia che le causava improvvise
crisi di pianto senza motivi apparenti, avrebbe ricevuto l’aiuto che
le serviva.
Schonfeld accettò di tornare ogni settimana per tutta la durata
dello studio (otto settimane). Ogni volta, rispondeva a domande
su come si sentiva e spesso veniva sottoposta a EEG. Non molto
tempo dopo aver iniziato a prendere le pillole, iniziò a sentirsi
molto meglio per la prima volta nella sua vita. Purtroppo avverti-
va anche nausea, ma sapeva che era un buon segno, in quanto la
nausea era uno degli effetti collaterali più comuni del farmaco in
fase di sperimentazione. Visto che la depressione si era attenuata
ed erano comparsi gli effetti collaterali del farmaco, si convinse
che stava assumendo il principio attivo. Alla luce dei cambiamenti
osservati, anche l’infermiera con cui parlava a ogni rientro settima-
nale ne era certa.
Finalmente, al termine delle otto settimane di trial, uno dei ricer-
catori rivelò la scioccante verità: Schonfeld, che era ormai libera
da tendenze suicide e si sentiva una persona nuova dopo l’assun-
zione delle pillole, aveva fatto parte del gruppo placebo. La donna
rimase attonita, certa che il dottore avesse commesso un errore.

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Non poteva credere che, dopo anni di depressione soffocante, si
sentisse meglio solo prendendo un flacone di pillole di zucchero.
E poi aveva manifestato gli effetti collaterali! Dovevano aver fatto
confusione. Chiese al medico di controllare di nuovo. Lui sorrise
bonariamente, assicurandole che il flacone che aveva portato a casa,
il flacone che le aveva restituito la vita, in realtà non conteneva altro
che pillole placebo.
Mentre se ne stava lì seduta sotto shock, il medico le spiegò che il
fatto di non aver assunto un farmaco vero e proprio non significava
che la depressione e i miglioramenti fossero il frutto della sua im-
maginazione; significava soltanto che qualunque cosa l’avesse fatta
stare meglio non c’entrava nulla con l’Effexor.
E non fu l’unica a ottenere questi miglioramenti: i risultati dello
studio mostrarono che il 38 per cento delle persone inserite nel
gruppo placebo stava meglio, rispetto al 52 per cento di quelle che
avevano assunto l’Effexor. Ma quando giunsero gli altri dati, fu-
rono i ricercatori a rimanere sorpresi: i pazienti migliorati grazie
ai placebo, come Schonfeld, non avevano soltanto immaginato di
stare meglio, bensì avevano di fatto modificato gli schemi delle loro
onde cerebrali. Infatti, i risultati degli EEG registrati in tempo reale
nel corso dello studio evidenziavano un netto incremento dell’atti-
vità nella corteccia prefrontale, che nei pazienti depressi di norma
è molto bassa.3
L’effetto placebo non aveva modificato solo la mente di Schonfeld,
aveva apportato cambiamenti reali anche a livello biologico. In altre
parole, la trasformazione non era avvenuta solo nella sua mente, ma
anche nel cervello. Non solo Schonfeld si sentiva bene: stava anche
bene. Al termine dello studio, la donna aveva letteralmente modifi-
cato il suo cervello, senza prendere alcun farmaco o fare qualcosa di
particolare. La mente aveva cambiato il corpo. A distanza di dodici
anni, Schonfeld avvertiva ancora gli effetti di quel miglioramento.

3. A. F. Leuchter, I. A. Cook, E. A. Witte, et al., “Changes in Brain Function


of Depressed Subjects During Treatment with Placebo”, American Journal of
Psychiatry, vol. 159, n. 1: pp. 122–129 (2002).

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Com’è possibile che una pillola di zucchero possa curare i sintomi
di una depressione profondamente radicata e provocare effetti col-
laterali autentici come la nausea? E cosa significa il fatto che la stessa
sostanza inerte è capace di modificare il modo di attivazione delle
onde cerebrali e di aumentare l’attività del cervello nella parte che
più risente della depressione? La mente soggettiva può creare dav-
vero questo genere di cambiamenti fisiologici e misurabili? Quali
fattori agiscono nella mente e nel corpo per consentire a un placebo
di imitare alla perfezione un farmaco attivo? È possibile ottenere lo
stesso sensazionale effetto curativo non solo nelle malattie croniche
mentali, ma anche nelle patologie mortali, come il cancro?

UNA CURA “MIRACOLOSA”: ORA LA VEDI, ORA NON LA VEDI


Nel 1957, Bruno Klopfer, psicologo dell’UCLA, pubblicò un arti-
colo su una rivista destinata alla comunità scientifica, in cui raccon-
tava la storia di un uomo che chiamò “Sig. Wright”, affetto da un
linfoma, un cancro delle ghiandole linfatiche, in uno stadio avan-
zato.4 L’uomo aveva sviluppato tumori enormi, alcuni grandi come
un’arancia, al collo, all’inguine, alle ascelle, e la malattia non ri-
spondeva ad alcuna terapia convenzionale. Era a letto da settimane,
“febbricitante, con difficoltà respiratorie e incapace di muoversi”. Il
suo medico, Philip West, aveva perso le speranze, ma Wright non
si dava per vinto. Quando scoprì che l’ospedale dove era ricoverato
(a Long Beach, California) era uno dei dieci ospedali e centri di ri-
cerca del Paese che stava testando il Krebiozen, un farmaco estratto
dal sangue di cavallo, fu subito preso dall’entusiasmo. Per giorni,
tormentò il dottor West, fino a quando il medico non accettò di
somministrargli il nuovo rimedio, anche se Wright non poteva par-
tecipare ufficialmente alla sperimentazione, a cui erano ammessi
solo pazienti con un’aspettativa di vita di almeno tre mesi.
Il venerdì, gli fu somministrata un’iniezione di Krebiozen, e il lu-
nedì successivo era già in piedi, passeggiava per l’ospedale e rideva e
scherzava con le infermiere, comportandosi come un uomo nuovo.

4. B. Klopfer, “Psychological Variables in Human Cancer”, Journal of Protective


Techniques, vol. 21, n. 4: pp. 331–340 (1957).

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Il dottor West riferì che le formazioni tumorali “si erano sciolte
come neve al sole”. Tre giorni dopo, le dimensioni si erano ridotte
della metà. Dopo una decina di giorni, Wright fu mandato a casa:
era guarito. Sembrava un miracolo.
Ma due mesi dopo, i media riferirono che in base ai dieci trial con-
dotti sul farmaco, il Krebiozen si era rivelato un fallimento. Dopo
aver letto la notizia, Wright si convinse che il farmaco fosse inutile.
Ebbe subito una ricaduta e ben presto anche i tumori si riforma-
rono. Il dottor West sospettava che l’iniziale risposta positiva di
Wright fosse dovuta all’effetto placebo e, sapendo che si trattava di
un paziente terminale, pensò di non aver nulla da perdere, ma tutto
da guadagnare, nel mettere alla prova la sua teoria. Il medico disse
a Wright di non credere ai giornali e gli spiegò che la ricaduta era
dovuta al fatto che il Krebiozen somministratogli faceva parte di un
lotto difettoso. Disse che stavano per consegnare in ospedale una
versione del farmaco “nuova, perfezionata e doppiamente efficace”,
così la definì il dottor West, e Wright avrebbe potuto averla non
appena fosse arrivata.
In attesa della terapia, Wright era euforico e, pochi giorni dopo,
ricevette l’iniezione. Ma questa volta, la siringa utilizzata dal dottor
West non conteneva alcun farmaco, né sperimentale né di altro
tipo. C’era solo acqua distillata.
Anche in questo caso, i tumori di Wright sparirono magicamente.
Felice, l’uomo tornò a casa, mantenendosi in buona salute per altri
due mesi, senza recidive. Ma poi la American Medical Association
annunciò che il Krebiozen era del tutto inefficace. La classe medica
era stata beffata. Il “farmaco miracoloso” si era rivelato una bufala:
nient’altro che olio minerale contenente un semplice aminoacido.
Alla fine, i produttori furono denunciati. Dopo aver appreso la
notizia, Wright, non credendo più nella possibilità di star bene,
ebbe una ricaduta definitiva. Tornò in ospedale senza speranze e
due giorni dopo morì.
È possibile che Wright abbia cambiato in qualche modo il suo stato
mentale, non una volta ma due, adottando nel giro di pochi giorni
quello di un uomo non affetto dal cancro? Può essere che il suo cor-

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po abbia risposto automaticamente a un nuovo modo di pensare?
È possibile che poi sia tornato di nuovo allo stato mentale di un
uomo malato di cancro dopo aver sentito che il farmaco era stato
dichiarato inutile e inefficace? Può essere che il suo corpo abbia
ricreato le stesse reazioni chimiche di prima, ritornando alla con-
dizione di malattia che già conosceva? Si può raggiungere questo
nuovo stato biochimico non solo prendendo una pillola o facendo
un’iniezione, ma anche subendo qualcosa di più invasivo, come un
intervento chirurgico?

L’INTERVENTO CHIRURGICO AL GINOCCHIO


CHE NON AVVENNE MAI
Nel 1996, il chirurgo ortopedico Bruce Moseley, all’epoca membro
del Baylor College of Medicine e uno dei maggiori esperti in orto-
pedia sportiva di Houston, pubblicò uno studio sperimentale con-
dotto su dieci volontari, tutti uomini, che avevano prestato servizio
nelle forze armate e soffrivano di osteoartrite al ginocchio.5 Per la
gravità delle loro condizioni, molti di questi uomini zoppicavano
vistosamente, camminavano con un bastone o necessitavano di as-
sistenza per spostarsi.
Lo studio mirava a esaminare la chirurgia artroscopica, un tipo di
intervento molto diffuso che prevedeva di anestetizzare il pazien-
te, praticare una piccola incisione nella zona da trattare e inserire
uno strumento a fibre ottiche chiamato artroscopio, che il chirurgo
utilizzava per analizzare con attenzione l’articolazione del paziente.
Durante l’intervento, il medico raschiava e risciacquava l’artico-
lazione rimuovendo eventuali frammenti di cartilagine degenera-
ta che si riteneva fossero la causa dell’infiammazione e del dolore.
All’epoca, circa settecentocinquantamila pazienti all’anno si sotto-
ponevano a questo tipo di intervento.

5. J. B. Moseley, Jr., N. P. Wray, D. Kuykendall, et al., “Arthroscopic Treatment


of Osteoarthritis of the Knee: A Prospective, Randomized, Placebo-Controlled
Trial. Results of a Pilot Study”, American Journal of Sports Medicine, vol. 24, n.
1: pp. 28–34 (1996).

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Lo studio del dottor Moseley prevedeva che due uomini su dieci
avrebbero subito l’intervento chirurgico tradizionale, denominato
“sbrigliamento” (dove il chirurgo raschia via filamenti di cartila-
gine dall’articolazione del ginocchio); tre di loro sarebbero stati
sottoposti a una procedura chiamata “lavaggio” (dove acqua alta-
mente pressurizzata viene iniettata nell’articolazione del ginocchio,
risciacquando e rimuovendo il tessuto artritico degenerato); e cin-
que avrebbero subito un intervento chirurgico simulato, in cui il
dottor Moseley avrebbe abilmente inciso la pelle con un bisturi per
poi ricucirla senza effettuare alcuna procedura medica. Per questi
cinque uomini, non ci sarebbe stata nessuna artroscopia, nessun
raschiamento dell’articolazione, nessuna rimozione di frammenti
ossei e nessun lavaggio, ma solo un’incisione e dei punti di sutura.
La fase iniziale era identica per tutte e dieci le procedure: il paziente
veniva portato in sala operatoria e sottoposto ad anestesia generale,
mentre il dottor Moseley si sterilizzava le mani. Una volta entrato
in sala operatoria, il chirurgo trovava una busta chiusa all’interno
della quale c’era scritto a quale gruppo era stato assegnato in modo
casuale il paziente sul tavolo. Il dottor Moseley non conosceva il
contenuto della busta prima di aprirla.
Dopo l’intervento chirurgico, tutti i pazienti che partecipavano alla
ricerca riferirono un aumento della mobilità e una diminuzione del
dolore. Anche gli uomini che erano stati sottoposti all’interven-
to chirurgico “simulato” erano migliorati proprio come chi aveva
subito lo sbrigliamento o il lavaggio. Non ci fu alcuna differenza
nei risultati; neppure sei mesi dopo. E sei anni più tardi, due de-
gli uomini che avevano fatto l’intervento placebo dichiararono in
un’intervista che camminavano normalmente, senza dolore, e che
avevano riacquistato gran parte della mobilità.6 Raccontarono che
a sei anni di distanza, riuscivano a svolgere tutte le attività quotidia-
ne che erano state loro precluse prima dell’intervento chirurgico.
Avevano la sensazione di aver ricominciato a vivere.

6. Discovery Health Channel, Discovery Networks Europe, Discovery Channel


University, et al., Placebo: Mind Over Medicine? Diretto da J. Harrison, trasmes-
so nel 2002 (Princeton, NJ: Films for the Humanities & Sciences, 2004), DVD.

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Affascinato dai risultati, il dottor Moseley pubblicò nel 2002 gli
esiti di un’altra ricerca che coinvolgeva centottanta pazienti seguiti
per due anni dopo gli interventi chirurgici a cui si erano sottopo-
sti.7 Anche in questo caso, i pazienti dei tre gruppi riportarono
miglioramenti e cominciarono a camminare senza dolore e senza
zoppicare subito dopo l’intervento. Ma ancora una volta, i pazienti
che avevano subito effettivamente l’intervento chirurgico non mi-
gliorarono più di quelli sottoposti all’operazione placebo; e questo
dato fu confermato anche nei due anni successivi.
È possibile che questi soggetti siano migliorati solo perché avevano
avuto fiducia nelle capacità del chirurgo, nell’ospedale e persino
nella scintillante e modernissima sala operatoria? Avevano immagi-
nato una nuova vita con un ginocchio del tutto guarito e si erano
arresi a questo possibile esito, andandogli letteralmente incontro? E
se il dottor Moseley non fosse stato altro che un moderno stregone
in camice bianco? È possibile raggiungere lo stesso livello di guari-
gione quando la patologia è molto più grave, come nel caso di un
intervento al cuore?

L’INTERVENTO CHIRURGICO AL CUORE


CHE NON C’È MAI STATO
Alla fine degli anni Cinquanta, due gruppi di ricercatori condusse-
ro alcuni studi per confrontare gli effetti dell’intervento chirurgico
standard in caso di angina pectoris e del placebo.8 Questo accade-

7. J. B. Moseley, Jr., K. O’Malley, N. J. Petersen, et al., “A Controlled Trial of


Arthroscopic Surgery for Osteoarthritis of the Knee,””, New England Journal
of Medicine, vol. 347, no. 2: pp. 81–88 (2002); risultati simili furono osservati
anche nel seguente studio indipendente: A. Kirkley, T. B. Birmingham, R.
B. Litchfield, et al., “A Randomized Trial of Arthroscopic Surgery for Osteo-
arthritis of the Knee,””, New England Journal of Medicine, vol. 359, no. 11: pp.
1097–1107 (2008).
8. L. A. Cobb, G. I. Thomas, D. H. Dillard, et al., “An Evaluation of Internal-
Mammary-Artery Ligation by a Double-Blind Technic”, New England Journal
of Medicine, vol. 260, n. 22: pp. 1115–1118 (1959); E. G. Diamond, C. F.
Kittle, and J. E. Crockett, “Comparison of Internal Mammary Artery Ligation
and Sham Operation for Angina Pectoris”, American Journal of Cardiology, vol.
5, n. 4: pp. 483–486 (1960).

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va molto tempo prima che entrasse in uso il bypass aortocorona-
rico, a oggi l’intervento chirurgico più diffuso. All’epoca, invece,
la maggior parte dei pazienti cardiopatici veniva sottoposta a una
procedura nota come “legatura dell’arteria mammaria interna”, che
consisteva nello scoprire le arterie danneggiate e nell’isolarle. Alla
base c’era l’idea che, bloccando il flusso sanguigno, il corpo sarebbe
stato costretto a produrre nuovi canali vascolari, aumentando l’ap-
porto di sangue al cuore. L’intervento dava ottimi risultati per la
maggior parte dei pazienti operati, ma i medici non avevano prove
concrete dell’effettiva creazione di nuovi vasi sanguigni; per questo
motivo furono condotti i due studi.
Le due équipe di ricercatori, una a Kansas City e l’altra a Seattle,
seguirono la stessa procedura e divisero i soggetti in due gruppi di
studio. Il primo venne sottoposto alla tradizionale legatura dell’ar-
teria mammaria interna e il secondo a un finto intervento; i chi-
rurghi praticavano sul petto dei pazienti le stesse piccole incisioni
eseguite nell’intervento tradizionale, ma poi si limitavano a ricuci-
re, senza fare altro.
Con grande sorpresa, i risultati di entrambi gli studi furono simili:
il 67 per cento dei pazienti realmente operati sentiva meno dolore e
aveva bisogno di assumere meno farmaci, mentre l’83 per cento di
quelli sottoposti all’intervento simulato riportava gli stessi miglio-
ramenti. L’intervento placebo aveva funzionato addirittura meglio
di quello vero!
È possibile che i pazienti sottoposti al finto intervento fossero tal-
mente convinti di guarire da riuscire a guarire davvero solo aspet-
tandosi un esito favorevole? E se questo fosse possibile, che cosa ci
rivela sugli effetti che i nostri pensieri quotidiani, positivi o negativi
che siano, possono avere sul corpo e sulla salute?

L’ATTEGGIAMENTO È TUTTO
Oggi esistono molte ricerche che dimostrano come l’atteggiamento
influenzi realmente la nostra salute, compresa la durata della vita.
Per esempio, la Mayo Clinic nel 2002 pubblicò una ricerca con-
dotta su quattrocentoquarantasette persone per più di trent’anni,

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da cui è emerso che gli ottimisti erano più sani sia dal punto di
vista fisico che mentale.9 Letteralmente, ottimista significa “chi si
aspetta il meglio” e sta a indicare le persone che concentrano la loro
attenzione sul migliore scenario futuro. In particolare, gli ottimisti
avevano meno problemi a svolgere le attività quotidiane grazie alla
loro salute fisica o allo stato emotivo, provavano meno dolore, si
sentivano più attivi, si dedicavamo con maggior facilità alle attività
sociali ed erano quasi sempre più felici, calmi e sereni. Lo studio
nasceva sulla scia di un’altra ricerca della Mayo Clinic che aveva
seguito ottocento persone per più di trent’anni, dimostrando come
gli ottimisti vivono più a lungo dei pessimisti.10
I ricercatori di Yale seguirono seicentosessanta persone, dai cin-
quant’anni in su, per un massimo di ventitré anni, scoprendo che i
soggetti con un atteggiamento positivo riguardo all’invecchiamen-
to vivevano ben oltre sette anni più a lungo rispetto ai soggetti che
avevano un approccio più negativo all’argomento.11 L’atteggiamen-
to influiva sulla longevità più della pressione sanguigna, dei livelli
di colesterolo, del fumo, del peso e dell’esercizio fisico.
Altri studi esaminarono nello specifico la correlazione tra la salute
del cuore e l’atteggiamento. Più o meno nello stesso periodo, una
ricerca della Duke University svolta su ottocentosessantasei pazien-
ti cardiopatici rivelò che chi prova abitualmente emozioni più po-
sitive ha il 20 per cento di probabilità in più di essere vivo undici
anni dopo, rispetto a chi prova abitualmente emozioni più nega-
tive.12 Ancora più sorprendenti sono i risultati di uno studio con-

9. T. Maruta, R. C. Colligan, M. Malinchoc, et al., “Optimism-Pessimism


Assessed in the 1960s and Self-Reported Health Status 30 Years Later”, Mayo
Clinic Proceedings, vol. 77, n. 8: pp. 748–753 (2002).
10. T. Maruta, R. C. Colligan, M. Malinchoc, et al., “Optimists vs. Pessimists:
Survival Rate Among Medical Patients over a 30-Year Period”, Mayo Clinic
Proceedings, vol. 75, n. 2: pp. 140–143 (2000).
11. B. R. Levy, M. D. Slade, S. R. Kunkel, et al., “Longevity Increased by Posi-
tive Self-Perceptions of Aging”, Journal of Personality and Social Psychology, vol.
83, n. 2: pp. 261–270 (2002).
12. I. C. Siegler, P. T. Costa, B. H. Brummett, et al., “Patterns of Change in
Hostility from College to Midlife in the UNC Alumni Heart Study Predict
High-Risk Status”, Psychosomatic Medicine, vol. 65, n. 5: pp. 738–745 (2003).

45
dotto su duecentocinquantacinque studenti del Medical College
della Georgia, seguiti per venticinque anni: trai soggetti più ostili,
l’incidenza di patologie coronariche era cinque volte più elevata.13
Uno studio della Johns Hopkins University, presentato durante le
Sessioni Scientifiche dell’American Heart Association del 2001, ha
dimostrato inoltre che un atteggiamento positivo può offrire la più
forte forma di protezione contro le malattie cardiache in adulti a
rischio a causa della storia familiare.14 Questo studio suggerisce che
avere l’atteggiamento giusto può dare risultati identici o superiori a
quelli prodotti da una dieta salutare, da una adeguata attività fisica
e dal mantenimento del peso forma.
Com’è possibile che il nostro atteggiamento mentale quotidiano
(se in generale siamo più allegri e amorevoli o più ostili e negativi)
contribuisca a determinare la durata della nostra vita? Possiamo
cambiare il nostro modo di pensare attuale? Se è così, possiamo
ignorare i condizionamenti che le esperienze passate esercitano sul-
la nostra mente? Aspettarsi che qualcosa di negativo si ripeta può
effettivamente concorrere a causarlo?

NAUSEATI PRIMA DELL’INIEZIONE


Secondo il National Cancer Institute, una condizione chiamata
“nausea anticipatoria” colpisce circa il 29 per cento dei pazienti sot-
toposti a chemioterapia quando vengono esposti a odori e luoghi
che ricordano loro i trattamenti chemioterapici.15 Circa l’11 per
cento sta talmente male prima del trattamento da vomitare. Alcuni
pazienti affetti da cancro cominciano ad avvertire nausea in mac-

13. J. C. Barefoot, W. G. Dahlstrom, and R. B. Williams, Jr., “Hostility, CHD


Incidence, and Total Mortality: A 25-Year Follow-Up Study of 255 Physicians”,
Psychosomatic Medicine, vol. 45, n. 1: 59–63 (1983).
14. D. M. Becker, L. R. Yanek, T. F. Moy, et al., “General Well-Being Is Stron-
gly Protective Against Future Coronary Heart Disease Events in an Apparently
Healthy High-Risk Population”, Abstract #103966, presentato durante le
Sessioni Scientifiche dell’American Heart Association, Anaheim, CA, (12 no-
vembre 2001).
15. National Cancer Institute, “Anticipatory Nausea and Vomiting (Emesis)”
(2013), www.cancer.gov/cancertopics/pdq/supportivecare/nausea/HealthPro-
fessional/page4#Reference4.2.

46
china mentre si recano alla seduta di chemio, prima ancora di met-
tere piede in ospedale; altri vomitano mentre sono in sala d’attesa.
Uno studio del 2001 condotto presso il Cancer Center dell’Univer-
sità di Rochester e pubblicato sul Journal of Pain e Symptom Mana-
gement [Rivista per la gestione del dolore e dei sintomi] concluse
che aspettarsi la nausea era il più forte fattore predittivo del fatto
che i pazienti ne avrebbero effettivamente sofferto.16 I dati dei ricer-
catori mostrarono che il 40 per cento dei pazienti chemioterapici
che pensava di soffrire di nausea (perché i medici avevano detto
che probabilmente ciò sarebbe accaduto dopo il trattamento) ne fu
colpito prima che la terapia fosse somministrata. Un altro 13 per
cento che si dichiarava incerto su cosa aspettarsi, manifestò segni
di nausea. Invece, tra i pazienti che non se l’aspettavano, nessuno
si sentì male.
Come può essere che alcune persone siano così convinte di stare
male a causa dei farmaci chemioterapici da avvertire il malessere
prima ancora di ricevere il trattamento? È possibile che i loro pen-
sieri siano talmente potenti da far insorgere la nausea? E se questo
è vero per il 40 per cento dei pazienti chemioterapici, è altrettanto
vero che queste persone potrebbero star ben cambiando i pensieri e
le aspettative sulla loro salute e sulla realtà quotidiana? Un singolo
pensiero accettato da una persona può farla stare meglio?

LE DIFFICOLTÀ DIGESTIVE SCOMPAIONO


Non molto tempo fa, mentre stavo per scendere da un aereo a Au-
stin, incontrai una donna che portava con sé un libro che attirò la
mia attenzione. Eravamo in piedi in attesa di sbarcare e vidi il libro
spuntare dalla sua borsa; il titolo menzionava la parola fede. Ci
sorridemmo a vicenda e le chiesi quale fosse l’argomento.

16. J. T. Hickok, J. A. Roscoe, and G. R. Morrow, “The Role of Patients’ Ex-


pectations in the Development of Anticipatory Nausea Related to Chemothe-
rapy for Cancer”, Journal of Pain and Symptom Management, vol. 22, n. 4: pp.
843–850 (2001).

47
“Cristianesimo e fede” rispose lei. “Perché me lo chiede?”. Le spie-
gai che stavo scrivendo un nuovo libro sull’effetto placebo e che il
tema centrale era la fede.
“Allora le racconto una storia” disse. Mi confidò che anni prima
le avevano diagnosticato intolleranza al glutine, celiachia, colite e
moltissime altre malattie; inoltre soffriva di dolore cronico. Si era
documentata su questi disturbi e aveva consultato diversi medici,
che le avevano consigliato di evitare determinati alimenti, prescri-
vendole alcuni farmaci. La donna aveva seguito le indicazioni ri-
cevute, ma continuò ad accusare dolori in tutto il corpo. Inoltre,
non riusciva a dormire, aveva eruzioni cutanee, gravi disturbi di-
gestivi e soffriva di tutta una serie di altri sintomi sgradevoli. Poi,
anni dopo, si fece visitare da un nuovo medico, che le prescrisse
alcuni esami del sangue. Quando le analisi furono pronte, i risul-
tati erano tutti negativi.
“Quando ho scoperto di essere del tutto normale e che non c’era
nulla che non andasse in me, ho pensato: “Sto bene”, e tutti i miei
sintomi sono scomparsi. Mi sono sentita subito in forma e riuscivo
a mangiare tutto quello che volevo” mi disse con un gesto teatrale.
Poi, sorridendo aggiunse: “Cosa ne pensa?”.
Se è vero che apprendere nuove informazioni che conducono a
una svolta radicale in ciò che crediamo di noi stessi può indurre la
scomparsa dei sintomi, quali sono le dinamiche interne al nostro
corpo che rendono possibile questo fenomeno? Qual è l’esatta rela-
zione tra mente e corpo? È possibile che queste nuove convinzioni
siano in grado di cambiare il cervello e la chimica del corpo, ripro-
grammando fisicamente il circuito neurologico relativo a ciò che
pensiamo di essere e modificando la nostra espressione genetica?
Potremmo di fatto diventare persone diverse?

IL PARKINSON E IL PLACEBO
Il morbo di Parkinson è un disturbo neurologico caratterizzato dal-
la progressiva degenerazione delle cellule nervose nella porzione del
mesencefalo chiamata “nuclei della base”, preposta al controllo dei
movimenti del corpo. Il cervello di chi è affetto da questa straziante

48
malattia non produce abbastanza dopamina, il neurotrasmettitore
necessario ai nuclei della base per un corretto funzionamento. I pri-
mi sintomi del morbo di Parkinson, che al momento è considerato
incurabile, comprendono difficoltà motorie come rigidità musco-
lare, tremori e disturbi del linguaggio e dell’andatura, che sfuggono
al controllo volontario.
In uno studio, un gruppo di ricercatori dell’Università della Bri-
tish Columbia a Vancouver comunicò a un gruppo di pazienti
affetti dal morbo di Parkinson che avrebbero ricevuto un farmaco
in grado di migliorare in modo significativo i sintomi della ma-
lattia.17 In realtà, i soggetti ricevettero un placebo: nient’altro che
un’iniezione di soluzione salina. Eppure, anche senza l’ausilio di
un farmaco, il controllo motorio migliorò nella metà dei pazienti
dopo l’iniezione.
I ricercatori analizzarono il cervello dei soggetti inseriti nel trial
per capire meglio cosa fosse successo, e scoprirono che chi aveva
risposto positivamente al placebo stava producendo dopamina in
quantità superiori del 200 per cento rispetto a prima dell’iniezione.
Per ottenere lo stesso effetto con un farmaco, bisognerebbe sommi-
nistrare una dose intera di anfetamina, un farmaco che eleva il tono
dell’umore e aumenta la produzione di dopamina.
Sembrava che il semplice fatto di aspettarsi un miglioramento aves-
se permesso ai pazienti malati di Parkinson di attingere a un potere
in precedenza inutilizzato, in grado di innescare la produzione di
dopamina: proprio ciò che serviva al corpo per stare meglio. Se que-
sto è vero, qual è il processo attraverso il quale il pensiero da solo
può produrre dopamina nel cervello? È possibile che questo nuo-
vo stato interiore, provocato dalla combinazione di un’intenzione
chiara e di uno stato emotivo intensificato, ci renda davvero invin-
cibili in determinate situazioni, attivando la nostra riserva interiore
di “farmaci” e ignorando le circostanze genetiche della malattia che
un tempo consideravamo fuori da un controllo consapevole?

17. R. de la Fuente-Fernández, T. J. Ruth, V. Sossi, et al., “Expectation and


Dopamine Release: Mechanism of the Placebo Effect in Parkinson’s Disease”,
Science, vol. 293, n. 5532: pp. 1164–1166 (2001).

49
I SERPENTI MORTALI E LA STRICNINA
In alcune zone degli Appalachi sopravvive un rituale religioso
centenario noto come “manipolazione dei serpenti” o pratica del
“prendere in mano i serpenti”.18 La Virginia Occidentale è l’unico
stato dove il rito è ancora legale, ma questo non ferma i fedeli degli
altri Stati, dove la polizia tende a chiudere un occhio sulla pratica.
In queste piccole e modeste chiese, quando le congregazioni si ri-
uniscono per la funzione religiosa, il predicatore fa il suo ingresso
portando con sé una o più cassette di legno a forma di valigetta,
chiuse a chiave e dotate di sportelli a battente di plastica trasparente
con fori di areazione. Le appoggia con attenzione sul palco vicino
al pulpito davanti a tutte le persone riunite nel santuario o nell’au-
ditorio. Poco dopo, parte la musica, un mix energetico di melodie
country-western e bluegrass [Ndr: Branca della country music, in
cui sono confluite tradizioni musicali irlandesi, scozzesi e inglesi], con
testi profondamente religiosi sulla salvezza e sull’amore di Gesù. I
musicisti suonano dal vivo infervorandosi su tastiere, chitarre elet-
triche e persino batterie che farebbero invidia a qualsiasi band di
adolescenti, mentre i fedeli scuotono tamburelli quando si sentono
ispirati a farlo. Mentre l’energia sale, il predicatore a volte accende
una fiamma in un recipiente in cima al pulpito e tiene la mano sul
fuoco, lasciando che le fiamme gli sfiorino il palmo aperto, prima
di prendere il contenitore e passare lentamente il fuoco sugli avam-
bracci scoperti. Si sta solo “riscaldando”.
Subito dopo, i fedeli iniziano a ondeggiare e a stringersi le mani, a
emettere strani suoni e a saltare su e giù, danzando al ritmo della
musica per celebrare il loro salvatore. Sono sopraffatti dallo spirito,
che per loro equivale a “essere consacrati”. È allora che il predicato-
re apre di colpo una delle scatole chiuse, infila dentro una mano e
tira fuori un serpente velenoso (solitamente si tratta di un serpente
a sonagli, di un mocassino acquatico o di un testa di rame). Anche
lui balla e si accalora mentre tiene il serpente vivo, stringendolo a

18. C. R. Hall, “The Law, the Lord, and the Snake Handlers: Why a Knox
County Congregation Defies the State, the Devil, and Death”, Louisville Cou-
rier Journal (21 agosto 1988); vedi anche http://www.wku.edu/ agriculture/
thelaw.pdf.

50
metà del corpo e avvicinando la gola e la testa a quella minacciosa
dell’animale.
Di solito lo solleva in aria, tenendolo sospeso per un po’ e poi lo ri-
avvicina a sé, continuando a danzare, mentre il serpente attorciglia
la parte inferiore del suo corpo intorno al braccio del predicatore e
contorce in aria la parte superiore come più gli piace. L’uomo, allo-
ra, può prendere un secondo o anche un terzo serpente dalle altre
cassette di legno, mentre i fedeli, uomini e donne insieme, possono
unirsi a lui nel maneggiare i serpenti mano a mano che sentono la
consacrazione scendere su di loro. In alcune funzioni, il predicatore
può addirittura ingerire del veleno, come la stricnina, da un nor-
male bicchiere, senza subire alcun effetto nocivo.
A volte i maneggiatori di serpenti vengono morsi, ma considerate le
migliaia di funzioni in cui fedeli infervorati hanno infilato le mani
in quelle cassette di legno con ante battenti senza un attimo di esi-
tazione o paura, si può dire che non capiti spesso. E anche quando
succede, non sempre i malcapitati muoiono, anche se non si pre-
cipitano subito in ospedale, preferendo restare lì con gli altri fedeli
riuniti in preghiera intorno a loro. Come mai queste persone non
vengono morse più spesso? E perché sono così rari i casi di decesso
quando ciò avviene? Come riescono a entrare in uno stato mentale
in cui non hanno paura di queste creature velenose, il cui morso è
notoriamente letale, e come può questo stato mentale proteggerle?
Poi ci sono gli esempi di forza estrema, nota come “forza isterica”,
in situazioni di emergenza. Nell’aprile del 2013, per esempio, a
Lebanon, in Oregon, due ragazzine, Hannah Smith di sedici anni
e sua sorella Haylee di quattordici, sollevarono un trattore di circa
1.300 chili per liberare il padre, Jeff Smith, rimasto intrappolato
sotto le sue ruote.19 E che dire di coloro che camminano sui car-
boni ardenti (indigeni che praticano rituali sacri e occidentali che
studiano queste pratiche)? O addirittura dei fachiri o dei danzatori

19. K. Dolak, “Teen Daughters Lift 3,000-Pound Tractor Off Dad”, ABC
News (10 aprile 2013), http://abcnews.go.com/blogs/headlines/2013/04/teen-
daughters-lift-3000-pound-tractor-off-dad .

51
giavanesi che entrano in trance e sentono l’impulso di mangiare il
vetro (un disturbo noto come ialofagia)?
Com’è possibile compiere tali prodezze, apparentemente sovruma-
ne? Hanno qualcosa di fondamentale in comune? Può essere che
al culmine della loro fede incrollabile, queste persone cambino in
qualche modo i loro corpi diventando così immuni all’ambiente
circostante? Ed è possibile che la stessa fede granitica che infonde
tanta forza in chi maneggia i serpenti e cammina sui carboni ar-
denti agisca anche in senso inverso, inducendoci a farci del male (e
anche a morire) senza essere consapevoli di ciò che stiamo facendo?

LA VITTORIA SUL VUDÙ


Nel 1938, un uomo di sessant’anni residente in una zona rurale
del Tennessee si ammalò sempre più nel giro di quattro mesi, pri-
ma che la moglie lo portasse all’ospedale con quindici posti letto
alla periferia della città.20 Vance Vanders (nome fittizio) aveva perso
più di venti chili e sembrava ormai in punto di morte. Il medico,
Drayton Doherty, sospettava che Vanders fosse malato di tuber-
colosi, o forse di cancro, ma i risultati di esami e radiografie erano
negativi. La visita del dottor Doherty non rilevò nulla che potesse
causare quei disturbi. L’uomo si rifiutava di mangiare, perciò gli
fu applicato un sondino nasogastrico, ma vomitava cocciutamente
tutto ciò che veniva inserito nel sondino. Continuò ad aggravarsi
e a ripetere con convinzione di essere prossimo alla morte, finendo
per riuscire a malapena a parlare. La fine sembrava vicina, anche se
il dottor Doherty non aveva ancora capito cosa affliggesse l’uomo.
La moglie di Vanders, affranta, chiese di parlare con il dottor
Doherty in privato e, facendogli giurare di mantenere il segreto,
gli rivelò che il problema del marito era “un rito vudù”. A quan-
to pareva, Vanders, che viveva in una comunità dove il vudù era
una pratica comune, aveva avuto una discussione con un sacerdote
vudù. Era stato convocato al cimitero a tarda notte, e il sacerdote
gli aveva gettato il malocchio agitandogli una boccetta di liquido
maleodorante di fronte al viso. Gli aveva detto che presto sarebbe

20. Vedi nota 1.

52
morto e che nessuno avrebbe potuto salvarlo. Tutto qui. Vanders si
convinse di avere i giorni contati e iniziò a credere in una nuova e
triste realtà. Mortificato, l’uomo tornò a casa e si rifiutò di mangia-
re. Alla fine, la moglie lo portò in ospedale.
Dopo aver sentito tutta la storia, il dottor Doherty escogitò un
piano poco ortodosso per trattare il paziente. Al mattino, convocò
i familiari di Vanders al suo capezzale e rivelò di sapere con certezza
come curare il malato. La famiglia ascoltò attentamente la storia
architettata dal dottor Doherty. Egli disse che la notte precedente
si era recato al cimitero, dove con un inganno aveva convinto il
sacerdote vudù a incontrarsi con lui per parlargli del rito praticato
su Vanders. Non era stato facile, spiegò il medico. Come si aspetta-
va, il sacerdote non aveva voluto collaborare, ma alla fine, quando
Doherty lo aveva bloccato contro un albero stringendogli il collo
tra le mani, aveva ceduto.
Il sacerdote – continuò il dottore – gli disse di aver strofinato al-
cune uova di lucertola sulla pelle di Vanders, e che le uova avevano
raggiunto lo stomaco dell’uomo, dove si erano schiuse. Quasi tutte
le lucertole erano morte, ma una molto grossa era sopravvissuta e
stava divorando il corpo di Vanders dall’interno. Il medico annun-
ciò che avrebbe dovuto asportare la lucertola per farlo guarire.
Al termine del racconto, chiamò l’infermiera, che diligentemente
portò una grossa siringa piena di quella che il dottor Doherty definì
una potente medicina. In realtà, la siringa era stata riempita con un
farmaco che induceva il vomito. Il medico controllò con attenzione
la siringa per assicurarsi che fosse stata preparata correttamente e
poi, con fare cerimonioso, iniettò il liquido nel corpo del paziente
spaventato. Con aria solenne, lasciò la stanza, senza dire altro alla
famiglia sbalordita.
Non ci volle molto prima che il paziente cominciasse ad avere i
primi conati di vomito. L’infermiera gli procurò un catino e Van-
ders diede di stomaco, lamentandosi e contorcendosi per un po’
di tempo. A un certo punto, quando ritenne che il paziente avesse
quasi finito di liberarsi, il dottor Doherty tornò nella stanza mo-
strando un atteggiamento sicuro. Avvicinandosi al letto, infilò la

53
mano nella sua valigetta da medico nera ed estrasse una lucertola
verde, nascondendola nel palmo della mano senza farsi notare. Poi,
non appena Vanders ricominciò a vomitare, fece scivolare il rettile
nel catino.
“Guardi, Vance!” gridò subito con tutta la teatralità di cui era capa-
ce. “Guardi cosa è uscito dal suo corpo. Ora è guarito. La maledi-
zione vudù è stata annullata!”.
La stanza era in fermento. Alcuni familiari caddero a terra, gemen-
do. Vanders fece un balzo all’indietro allontanandosi dal catino, in
stato confusionale e con gli occhi spalancati. Pochi minuti dopo,
cadde in un sonno profondo che durò più di dodici ore.
Quando finalmente si svegliò, l’uomo era molto affamato e mangiò
così avidamente che il medico ebbe paura gli scoppiasse lo stoma-
co. Nel giro di una settimana, il paziente riacquistò il peso e la forza
di un tempo. Lasciò l’ospedale perfettamente sano e visse almeno
altri dieci anni.
È possibile che un uomo si debiliti e muoia soltanto perché pen-
sa di aver ricevuto una maledizione? Lo stregone contemporaneo,
munito di stetoscopio e ricettario, può essere per noi altrettanto
convincente del sacerdote vudù nel caso di Vanders? E se è vero che
una persona può decidere di morire, allora è altrettanto vero che un
malato terminale può decidere di vivere? Un individuo può cam-
biare in modo permanente il suo stato interiore (abbandonando la
sua identità di malato di cancro, di vittima dell’artrite, di cardio-
patico o di affetto dal Parkinson) entrando in un corpo sano con la
stessa facilità con cui si spoglia di un abito per indossarne un altro?
Nei prossimi capitoli, esploreremo le diverse possibilità esistenti e
la loro applicabilità nel tuo caso.

54
CAPITOLO 2

CENNI STORICI SUL PLACEBO

Come dice il proverbio, “a mali estremi, estremi rimedi”. Mentre


prestava servizio nella Seconda guerra mondiale, Henry Beecher,
chirurgo americano laureato ad Harvard, rimase a corto di morfi-
na. Verso la fine del conflitto, la morfina scarseggiava negli ospe-
dali da campo militari, perciò questa situazione non era insolita.
All’epoca, Beecher si apprestava a operare un soldato gravemente
ferito. Temeva che senza un antidolorifico, il paziente sarebbe stato
vittima di un fatale shock cardiocircolatorio. Ciò che avvenne in
seguito lo sbalordì.
Senza battere ciglio, un’infermiera riempì una siringa con soluzione
salina e praticò l’iniezione al soldato, come se gli stesse sommini-
strando della morfina. Il soldato si calmò subito. Reagì come se
avesse ricevuto davvero il farmaco, sebbene non gli avessero inietta-
to altro che una spruzzatina di acqua salata. Beecher procedette con
l’operazione, incidendo la carne del soldato, facendo le riparazioni
necessarie e ricucendolo, il tutto senza anestesia. Il soldato avvertì
poco dolore e non andò in shock. “Com’è possibile” si domandò
Beecher, “che l’acqua salata possa sostituire la morfina?”.
Dopo quel successo clamoroso, ogni volta che l’ospedale da campo
esauriva la morfina, Beecher faceva la stessa cosa: iniettava soluzio-
ne salina, come se si trattasse di morfina. L’esperienza lo convinse
del potere del placebo e dopo la guerra, quando tornò negli Stati
Uniti, cominciò a studiare il fenomeno.
Nel 1955, Beecher passò alla storia per aver scritto una relazione
clinica di quindici studi pubblicati dal Journal of the American
Medical Association [Rivista dell’Associazione Medica Americana]
in cui non solo parlava dell’enorme importanza del placebo, ma
invocava anche un nuovo modello di ricerca medica che asse-
gnasse casualmente ai pazienti i trattamenti con farmaci attivi
o con placebo (quelli che oggi definiamo studi randomizzati e

55
controllati), in modo che il potente effetto placebo non falsasse i
risultati.21
L’idea che possiamo modificare la realtà fisica con il pensiero, le
convinzioni e le aspettative (a prescindere da quanto ne siamo con-
sapevoli) di certo non è nata in quell’ospedale da campo durante la
Seconda guerra mondiale. La Bibbia è piena di storie di guarigioni
miracolose e, anche in tempi recenti, le persone si riversano perio-
dicamente in luoghi come Lourdes, nel sud della Francia, dove nel
1858 una giovane contadina di quattordici anni di nome Berna-
dette ebbe una visione della Vergine Maria. Giunte sul posto, esse
abbandonano stampelle, tutori e sedie a rotelle come prova della
loro guarigione. Miracoli simili sono stati segnalati anche a Fatima,
in Portogallo, dove nel 1917 tre pastorelli assistettero all’appari-
zione della Vergine Maria, che a trent’anni da quell’evento venne
raffigurata in una statua itinerante, realizzata sulla base della descri-
zione fornita dalla maggiore dei tre pastorelli, diventata suora nel
frattempo, e fu benedetta da Papa Pio XII, prima di essere inviata
in giro per il mondo.
La guarigione grazie alla fede non è certo esclusiva della tradizio-
ne cristiana. Il guru indiano Sathya Sai Baba, considerato dai suoi
seguaci come un avatar (manifestazione di una divinità), era famo-
so per la sua capacità di materializzare una cenere sacra chiamata
“vibhuti” nel palmo della sua mano. Si riteneva che questa sottile
cenere grigia avesse il potere di guarire molte malattie fisiche, men-
tali e spirituali, se ingerita o applicata sulla pelle come una pomata.
Si dice che anche i lama tibetani siano dotati di poteri taumaturgi-
ci: il loro alito, soffiato sui malati, viene usato per guarirli.
Persino i sovrani francesi e inglesi regnanti tra il IV e il IX secolo
usavano l’imposizione delle mani per curare i loro sudditi. Carlo
II d’Inghilterra era famoso per la sua particolare abilità in questa
pratica, che eseguì circa centomila volte.
Qual è il fattore alla base di questi eventi definiti miracolosi, a pre-
scindere dal fatto che lo strumento di guarigione sia la fede in una

21. H. K. Beecher, “The Powerful Placebo”, Rivista dell’Associazione Medica


Americana, vol. 159, n. 17: pp. 1602–1606 (1955).

56
divinità o la credenza nei poteri straordinari di una persona, di un
oggetto o perfino di un luogo considerato sacro? Qual è il processo
mediante il quale la fede e la credenza possono determinare effetti
così profondi? È possibile che il significato attribuito a un rituale
(sia esso recitare il rosario, strofinare un pizzico di cenere sacra sulla
pelle o prendere un nuovo farmaco miracoloso prescritto da un
medico di fiducia) giochi un certo ruolo nel fenomeno del place-
bo? Che cosa succede quando lo stato mentale di chi riceve queste
terapie viene influenzato o alterato dalle condizioni dell’ambiente
esterno (da una persona, da un luogo o da una cosa al momento
opportuno) tanto da suscitare cambiamenti fisici reali?

DAL MAGNETISMO ALL’IPNOTISMO


Intorno al 1770, il medico viennese Franz Anton Mesmer diventò
famoso sviluppando e dimostrando quello che all’epoca fu consi-
derato un modello medico di guarigione miracolosa. Approfon-
dendo un’idea di sir Isaac Newton sull’effetto della gravitazione
terrestre sul corpo umano, Mesmer si convinse che l’organismo
contenesse un fluido invisibile che poteva essere manipolato per
guarire le persone, utilizzando una forza che lui definiva “magne-
tismo animale”.
La sua tecnica consisteva nel chiedere ai pazienti di guardarlo in-
tensamente negli occhi prima di passare dei magneti sui loro corpi,
direzionando e bilanciando questo fluido magnetico. In seguito,
egli scoprì che era sufficiente muovere le mani (senza usare magne-
ti) per produrre lo stesso effetto. Non appena la seduta iniziava, i
pazienti cominciavano a tremare, ad avere spasmi muscolari e poi
convulsioni considerate terapeutiche. Mesmer continuava a bilan-
ciare il fluido finché il paziente non si calmava. Utilizzò questa tec-
nica per guarire diverse malattie, dalle patologie più gravi come la
paralisi e i disturbi convulsivi a problemi di minore entità, come i
dolori mestruali e le emorroidi.
In quello che divenne il suo caso più celebre, Mesmer guarì par-
zialmente la giovane Maria Theresia von Paradis, pianista concer-
tista affetta da “cecità isterica”, una malattia psicosomatica che
l’affliggeva dall’età di tre anni. Mentre Mesmer si occupava del
57
caso, la ragazza rimase a casa dell’uomo per settimane e, con il
suo aiuto, riuscì a percepire il movimento e persino a distinguere
i colori.
Ma i genitori di Maria Theresia non erano molto felici dei suoi
progressi, perché rischiavano di perdere il sussidio, se la figlia fosse
guarita. Inoltre, non appena la giovane riacquistò la vista, le sue
esecuzioni al pianoforte peggiorarono, perché ora riusciva a vedere
le dita che si muovevano sulla tastiera. Cominciarono a circolare
indiscrezioni, mai confermate, di una relazione sconveniente tra
Mesmer e la pianista. I genitori della ragazza la allontanarono con
la forza dalla casa dell’uomo, lei perse di nuovo la vista e la reputa-
zione di Mesmer fu compromessa.
Armand Marie Jacques de Chastenet, un aristocratico francese
conosciuto come il marchese di Puységur, seguì le orme di Me-
smer e portò le sue idee al livello successivo. Puységur induceva
un profondo stato da lui definito “sonnambulismo magnetico”
(simile al nottambulismo), in cui i soggetti avevano accesso ai
pensieri più profondi e scoprivano intuizioni sulla loro salute e
su quella degli altri. In questo stato, essi erano estremamente sug-
gestionabili e seguivano le istruzioni date, anche se non ricor-
davano nulla dell’accaduto una volta usciti dalla trance. Mentre
Mesmer riteneva che il potere fosse esercitato dal terapeuta sul
soggetto, Puységur credeva invece che fosse il pensiero del pazien-
te (guidato dal terapeuta) a esercitare il potere sul corpo; questo
fu probabilmente uno dei primi tentativi terapeutici di esplorare
il rapporto tra mente e corpo.
Nell’Ottocento, il chirurgo scozzese James Braid sviluppò ulterior-
mente l’idea del mesmerismo, dando origine a un concetto da lui
definito “neuroipnosi” (quello che oggi conosciamo come ipnosi).
Braid si interessò a quest’idea quando un giorno, arrivato in ritardo
a un appuntamento, scoprì che il paziente che lo aspettava stava
fissando la fiamma tremolante di una lampada a olio in preda a
un’intensa fascinazione. Braid osservò che il paziente aveva mante-
nuto uno stato di estrema suggestionabilità finché la sua attenzione
era rimasta bloccata in questo modo, “affaticando” così alcune parti
del cervello.

58
Dopo molti esperimenti, Braid imparò a indurre i pazienti a con-
centrarsi su una sola idea, mentre fissavano un oggetto, e a entrare
così in una specie di trance che, a suo avviso, si poteva usare per
curare i loro disturbi, come l’artrite reumatoide cronica, i deficit
sensoriali, nonché diverse complicazioni delle lesioni spinali e degli
ictus. Il suo libro Neurypnology [Neuroipnologia] racconta nel det-
taglio molti dei suoi successi, tra cui la guarigione di una donna di
trentatré anni paralizzata alle gambe e di una di cinquantaquattro
affetta da una malattia cutanea e da forti mal di testa.
Jean Martin Charcot, noto neurologo francese, intervenne sul la-
voro di Braid, sostenendo che la capacità di entrare in un tale stato
di trance era possibile solo in soggetti affetti da isterismo, una ma-
lattia neurologica che lui riteneva ereditaria e irreversibile. Utilizzò
l’ipnosi non per guarire i pazienti, ma per studiare i loro sintomi.
Infine, un rivale di Charcot, un medico di nome Hippolyte Ber-
nheim dell’Università di Nancy, affermò che la suggestionabilità
tanto importante per l’ipnosi non era limitata agli isterici, ma era
una condizione naturale di tutti gli esseri umani. Bernheim incul-
cava delle idee nei suoi pazienti, dicendo loro che al risveglio dal-
lo stato di trance si sarebbero sentiti meglio e che i loro sintomi
sarebbero scomparsi; usò quindi il potere della suggestione come
strumento terapeutico. Il lavoro di Bernheim proseguì nei primi
anni del Novecento.
Sebbene questi primi esploratori della suggestionabilità avessero
tecniche e obiettivi diversi tra loro, riuscirono ad aiutare centinaia
di persone a guarire da un’ampia gamma di problemi fisici e men-
tali, inducendole a pensare in modo diverso alle loro malattie e a
come queste si esprimevano a livello fisico.
Durante i due conflitti mondiali, i medici militari, e in particolare lo
psichiatra dell’esercito Benjamin Simon, utilizzarono il concetto di
suggestionabilità ipnotica (che approfondirò in seguito) per aiutare
i soldati sopravvissuti a superare un trauma inizialmente etichettato
come “shock da granata”, ma che oggi prende il nome di disturbo
post traumatico da stress. Questi reduci avevano vissuto esperienze
belliche talmente orribili che molti di loro avevano spento le emo-
zioni come forma di autopreservazione, oppure avevano sviluppato

59
un’amnesia relativa agli eventi raccapriccianti di cui erano stati pro-
tagonisti o, peggio ancora, continuavano a rivivere quelle esperienze
in flashback improvvisi: tutte condizioni che possono causare una
malattia fisica indotta dallo stress. Simon e i suoi colleghi trovaro-
no l’ipnosi di grande utilità per aiutare i reduci ad affrontare e a
superare i traumi, affinché non riaffiorassero sotto forma di ansia e
disturbi fisici (come nausea, ipertensione e altre malattie cardiova-
scolari, e persino deficit del sistema immunitario). Come i terapeuti
del secolo precedente, i medici dell’esercito che ricorsero all’ipnosi
aiutarono i pazienti a modificare i propri modelli di pensiero, al fine
di guarire e recuperare la salute mentale e fisica.
Queste tecniche riscossero un tale successo che anche i medici ci-
vili mostrarono interesse per l’uso della suggestionabilità; tuttavia
molti di loro non inducevano uno stato di trance nei pazienti, ma
somministravano all’occorrenza pillole di zucchero e altri placebo,
spiegando che questi “farmaci” li avrebbero guariti. I pazienti spesso
stavano davvero meglio, rispondendo alla suggestione come i soldati
feriti di Beecher, convinti di ricevere iniezioni di morfina. Dopo il
pionieristico articolo scritto da Beecher nel 1955 per auspicare studi
randomizzati e controllati con placebo per testare i farmaci, il place-
bo divenne una parte importante della ricerca medica.
La tesi di Beecher fu ben accolta. Inizialmente, i ricercatori si aspet-
tavano che il gruppo di controllo (quello che assumeva il placebo)
rimanesse neutro, cosicché confrontato con quello sottoposto a te-
rapia attiva avrebbe mostrato il buon funzionamento del farmaco.
Ma in moltissimi studi i pazienti del gruppo di controllo mostra-
rono dei miglioramenti spesso dovuti all’aspettativa e alla convin-
zione di ricevere un farmaco o una cura che li avrebbe aiutati. Il
placebo in sé poteva essere inerte, ma il suo effetto non lo era, e
queste convinzioni e aspettative dimostravano quanto fosse poten-
te! Quindi, se i dati avevano davvero un significato, questo effetto
doveva essere chiarito in qualche modo.
A tale scopo, accogliendo l’appello di Beecher, i ricercatori fecero
sì che lo studio in doppio cieco randomizzato diventasse la norma,
assegnando casualmente i soggetti al gruppo attivo o a quello pla-
cebo, e assicurandosi che né i pazienti né i ricercatori sapessero chi

60
stava assumendo il farmaco e chi stava prendendo il placebo. In
questo modo, l’effetto placebo sarebbe stato ugualmente attivo in
ciascun gruppo, escludendo la possibilità che i ricercatori trattas-
sero diversamente i soggetti a seconda del gruppo di appartenenza.
Oggi, a volte, gli studi sono addirittura in triplo cieco: non sono
soltanto i partecipanti e i ricercatori che conducono la ricerca a non
sapere chi prende cosa fino alla fine della sperimentazione, ma non
ne sono al corrente neppure gli esperti di statistica che analizzano i
dati, fino a quando il loro lavoro non si è concluso.

L’EFFETTO NOCEBO
Naturalmente, c’è sempre il rovescio della medaglia. Mentre la sug-
gestionabilità conquistava l’interesse del mondo scientifico per la
sua capacità di guarire, risultò altrettanto chiaro che lo stesso feno-
meno poteva essere utilizzato anche per nuocere. Pratiche come il
malocchio e le maledizioni vudù mostravano il lato negativo della
suggestionabilità.
Negli anni Quaranta, il fisiologo di Harvard Walter Bradford Can-
non (che nel 1932 aveva coniato l’espressione “lotta o fuggi”) stu-
diò la reazione estrema al nocebo, un fenomeno che definì “morte
vudù”.22 Cannon esaminò una serie di aneddoti riguardanti per-
sone che credevano fermamente nel potere di stregoni o sacerdoti
vudù, che si erano ammalate ed erano morte all’improvviso (nono-
stante l’assenza di lesioni apparenti, di tracce di veleno o di infezio-
ne) dopo essere state vittime del malocchio o di una maledizione.
La sua ricerca gettò le basi per gran parte delle attuali conoscenze
sui processi fisiologici che permettono alle emozioni (in particolare
alla paura) di generare una malattia. “La fede della vittima nel po-
tere fatale della maledizione era solo un ingrediente del minestrone
psicologico che ne provocava il decesso” dichiarò Cannon. Un altro
fattore era la conseguente emarginazione sociale e l’esclusione dal-
la propria famiglia. Queste persone diventavano presto morti che
camminano.

22. W. B. Cannon, “Voodoo Death”, American Anthropologist, vol. 44, n. 2: pp.


169–181 (1942).

61
Gli effetti nocivi provocati da fonti innocue non sono circoscritti al
vudù, naturalmente. Negli anni Sessanta, gli scienziati coniarono il
termine nocebo (termine latino che significa “nuocerò”, in contrap-
posizione a placebo, “piacerò”), riferendosi a una sostanza inerte che
provoca un effetto dannoso solo perché qualcuno crede o si aspetta
che gli farà del male.23 L’effetto nocebo può comparire negli studi
farmacologici quando i soggetti che assumono il placebo si aspetta-
no di subire gli effetti collaterali della sostanza testata, oppure quan-
do vengono espressamente avvertiti dei potenziali effetti indesiderati
e li manifestano, perché associano il farmaco alle sue possibili conse-
guenze negative, nonostante non lo stiano assumendo.
Per ovvie ragioni etiche, sono poche le ricerche concepite apposi-
tamente per studiare questo fenomeno, ma ne esistono alcune. Un
esempio famoso è uno studio del 1962 condotto in Giappone su
un gruppo di bambini affetti da una forte allergia all’edera veleno-
sa.24 I ricercatori strofinarono una foglia di edera velenosa sull’a-
vambraccio di ogni bambino, ma dissero loro che si trattava di una
pianta innocua. Come verifica, sfregarono sull’altro avambraccio
una foglia innocua, affermando che si trattava di edera velenosa.
Tutti i bambini svilupparono un’eruzione cutanea sul braccio stro-
finato con la foglia innocua che pensavano fosse velenosa. E undi-
ci dei tredici bambini non manifestarono alcuna eruzione cutanea
dove il veleno li aveva effettivamente toccati.
Fu una scoperta sorprendente: com’era possibile che bambini alta-
mente allergici all’edera velenosa non avessero manifestato un’eru-
zione cutanea quando erano stati esposti alla pianta? E come mai

23. Il termine placebo fu usato per la prima volta nella parte del Salmo 116
che apre i vespri dei Morti nella religione cattolica. Nel Medioevo, la famiglia
del defunto spesso assoldava delle persone per piangere e cantare questi versi
e, dato che il loro lutto finto era a volte esagerato, la parola placebo venne
a significare “adulatore” o “leccapiedi”. All’inizio del IX secolo, i medici co-
minciarono a somministrare ricostituenti, pillole e altri trattamenti inerti per
calmare i pazienti che non potevano aiutare o che cercavano cure per malattie
immaginarie; questi medici presero in prestito il termine placebo, dandogli il
suo significato attuale.
24. Y. Ikemi and S. Nakagawa, “A Psychosomatic Study of Contagious Derma-
titis”, Kyoshu Journal of Medical Science, vol. 13: pp. 335–350 (1962).

62
l’avevano sviluppata a causa di una foglia del tutto innocua? Il nuo-
vo pensiero che la foglia non era nociva aveva sostituito il ricordo e
la convinzione di essere allergici, rendendo innocua l’edera veleno-
sa. Nella seconda parte dell’esperimento, fu vero il contrario: una
foglia innocua divenne tossica solo a causa del pensiero che lo fosse.
In entrambi i casi, era come se il corpo di ogni bambino avesse ri-
sposto all’istante a un nuovo modo di pensare.
In questo caso, potremmo dire che i bambini sono stati liberati in
qualche modo dall’aspettativa futura di una reazione fisica alla fo-
glia tossica, basata sulle loro esperienze passate di soggetti allergici.
In effetti, per qualche ragione, hanno trasceso una successione di
eventi prevedibile. Ciò indica anche che hanno preso il control-
lo delle condizioni del loro ambiente (la foglia di edera velenosa).
Infine, i bambini sono riusciti ad alterare e a controllare la loro
fisiologia semplicemente cambiando un pensiero. Questa prova
strabiliante che il pensiero (sotto forma di aspettativa) può avere
sul corpo un effetto maggiore rispetto all’ambiente fisico “reale”
ha contribuito a inaugurare una nuova era di studi scientifici de-
nominata “psiconeuroimmunologia”: l’effetto dei pensieri e delle
emozioni sul sistema immunitario; un aspetto importante della
connessione tra mente e corpo.
Negli anni Sessanta un altro importante studio sull’effetto nocebo
esaminò un gruppo di persone affette da asma.25 I ricercatori conse-
gnarono a quaranta pazienti asmatici inalatori contenenti soltanto
vapore acqueo, dichiarando però che all’interno c’era un allergene
o una sostanza irritante; diciannove di loro (il 48 per cento) ma-
nifestarono sintomi asmatici, come l’ostruzione delle vie aeree, e
dodici soggetti (il 30 per cento) furono colpiti da attacchi d’asma
conclamati. Poi, i ricercatori diedero loro altri inalatori, afferman-
do che contenevano un farmaco che avrebbe alleviato i sintomi
e, in tutti i casi, le vie respiratorie si aprirono, nonostante anche
stavolta si trattasse solo di vapore acqueo.

25. T. Luparello, H. A. Lyons, E. R. Bleecker, et al., “Influences of Suggestion


on Airway Reactivity in Asthmatic Subjects”, Psychosomatic Medicine, vol. 30,
n. 6: pp. 819–829 (1968).

63
In entrambe le situazioni (provocare i sintomi dell’asma e poi
ribaltarli radicalmente), i pazienti risposero alla sola suggestione,
cioè alla convinzione inculcata nelle loro menti dai ricercatori,
che corrispondeva esattamente alle loro aspettative. Il pensiero di
aver inalato qualcosa di nocivo li fece stare male, mentre l’idea di
aver assunto un farmaco li guarì; questi pensieri ebbero la meglio
sul loro ambiente e sulla realtà, anzi ne crearono una nuova di
zecca.
Che cosa possiamo dedurre a proposito delle nostre convinzioni e
dei pensieri che formuliamo ogni giorno? Siamo più suscettibili a
contrarre l’influenza perché per tutto l’inverno, ovunque guardia-
mo, leggiamo articoli sull’argomento e avvisi sulla disponibilità del
vaccino antinfluenzale, senza il quale ci ammaleremo? È possibile
che sia sufficiente vedere qualcuno con sintomi di tipo influenzale
per ammalarci a causa di un modo di pensare simile a quello dei
bambini dello studio sull’edera velenosa, che reagirono a una fo-
glia innocua con un’eruzione cutanea, o degli asmatici, che ebbero
un’importante reazione bronchiale dopo aver inalato del semplice
vapore acqueo?
Siamo più soggetti a soffrire di artrite, rigidità articolare, scarsa
memoria, carenza energetica e calo del desiderio sessuale con l’a-
vanzare dell’età solo perché questa è la versione della verità con cui
ci bombardano gli annunci pubblicitari, i programmi televisivi e
le notizie riportate dai media? Quali altre profezie autoavveranti
creiamo nella nostra mente senza nemmeno accorgercene? E quali
“verità inevitabili” possiamo invertire con successo semplicemente
formulando nuovi pensieri e scegliendo nuove convinzioni?

I PRIMI GRANDI PROGRESSI


Uno studio rivoluzionario condotto alla fine degli anni Settanta
mostrò per la prima volta che un placebo può innescare il rilascio
di endorfine (antidolorifici naturali prodotti dal corpo), proprio
come fanno alcune sostanze chimiche. In questa ricerca, Jon Le-
vine, docente dell’Università della California a San Francisco,
somministrò placebo, anziché farmaci antidolorifici, a quaranta
pazienti di odontoiatria, dopo l’estrazione dei denti del giudi-
64
zio.26 La maggior parte dei pazienti riferì un sollievo dal dolore,
poiché era ciò che si aspettavano accadesse dopo la somministra-
zione del farmaco. Ma poi i ricercatori diedero ai soggetti un an-
tidoto alla morfina chiamato naloxone, che blocca chimicamente
sia i recettori della morfina sia quelli delle endorfine (morfina en-
dogena) nel cervello. Dopo la somministrazione, il dolore ritor-
nò! Ciò dimostrava che assumendo i placebo, i pazienti creavano
autonomamente le loro endorfine gli antidolorifici naturali. Fu
una pietra miliare della ricerca sul placebo, perché significava che
il sollievo avvertito dai soggetti dello studio non era solo nella
loro testa; era nelle loro menti e nei loro corpi: nel loro modo
d’essere.
Se il corpo umano diventa la farmacia di se stesso, producendo an-
tidolorifici, allora non potrebbe attingere al mix infinito di sostanze
chimiche e composti terapeutici che ha dentro di sé e dispensare
all’occorrenza altri medicinali naturali, che agiscano come quelli
prescritti dal medico, o forse anche meglio?
Un altro studio condotto negli anni Settanta, questa volta dallo
psicologo Robert Ader, dell’Università di Rochester, ha aggiunto
un nuovo affascinante elemento alla discussione sul placebo: il
condizionamento, un concetto reso famoso dal fisiologo russo Ivan
Pavlov. Il condizionamento dipende dall’associazione di una cosa
a un’altra; Pavlov la notò osservando i suoi cani che associavano il
suono del campanello al cibo, dopo che lo psicologo aveva preso
l’abitudine di suonarlo ogni giorno prima di dar loro da mangiare.
Con il tempo, i cani furono condizionati a produrre saliva ogni
volta che sentivano un campanello, come anticipazione del pasto.
Per effetto di questo tipo di condizionamento, il loro corpo imparò
a fornire una risposta fisiologica a un nuovo stimolo ambientale (in
questo caso, il campanello), anche in assenza dello stimolo origina-
rio che di norma suscita quel tipo di reazione (il cibo).

26. J. D. Levine, N. C. Gordon, and H. L. Fields, “The Mechanism of Placebo


Analgesia”, Lancet, vol. 2, no. 8091: pp. 654–657 (1978); J. D. Levine, N. C.
Gordon, R. T. Jones, et al., “The Narcotic Antagonist Naloxone Enhances Cli-
nical Pain”, Nature, vol. 272, no. 5656: pp. 826–827 (1978).

65
Di conseguenza potremmo dire che, in una risposta condizionata,
un programma subconscio installato nel corpo (ne parlerò meglio
nei prossimi capitoli) prevale apparentemente sulla mente conscia
e prende il comando. In questo modo, il corpo è in realtà condizio-
nato a diventare la mente perché il pensiero cosciente non esercita
più un controllo completo.
Nel caso di Pavlov, i cani furono esposti più volte all’odore, alla vi-
sta e al sapore del cibo, dopodiché l’uomo prese a suonare il campa-
nello. Con il tempo, il suono del campanello bastò a indurre i cani
a modificare automaticamente il loro stato fisiologico e chimico
senza pensarci consapevolmente. Il loro sistema nervoso autonomo
(il sistema subconscio che opera al di sotto della consapevolezza co-
sciente) aveva preso il controllo. Quindi, il condizionamento gene-
ra cambiamenti subconsci all’interno del corpo, facendo associare
il ricordo di eventi passati all’aspettativa di effetti futuri (quella che
chiamiamo “memoria associativa”), fino a quando i risultati attesi
o previsti non si verificano automaticamente. Quanto più è forte il
condizionamento, tanto più è debole il controllo consapevole che
esercitiamo su questi processi, e tanto più diventa automatica la
programmazione subconscia.
Ader cercò di capire quanto tempo potessero durare queste risposte
condizionate. Somministrò a topi di laboratorio acqua dolcificata
con saccarina, in cui aveva diluito un farmaco chiamato ciclofosfa-
mide, che provoca mal di stomaco. Dopo aver condizionato i topi
ad associare il gusto dolce dell’acqua al mal di pancia, si aspettava
che presto avrebbero rifiutato di bere l’acqua adulterata. Il suo in-
tento era vedere per quanto tempo avrebbero continuato a rifiutare
l’acqua, misurando così la durata della risposta condizionata.
Ma ciò che Ader non sapeva era che il ciclofosfamide è anche un
soppressore del sistema immunitario, perciò fu sorpreso quando i
topi cominciarono a morire di infezioni batteriche e virali. Cam-
biando la direzione della ricerca, continuò a dare ai topi acqua con
saccarina (alimentandoli con un contagocce), ma senza ciclofosfa-
mide. Anche se non ricevevano più il farmaco immunosoppres-
sore, i topi continuavano a morire di infezioni, mentre il gruppo
di controllo che per tutto il tempo aveva ricevuto solo acqua zuc-

66
cherata continuava a star bene. Collaborando con l’immunolo-
go Nicholas Cohen, dell’Università di Rochester, Ader scoprì che
una volta che i topi erano stati condizionati ad associare il sapore
dell’acqua zuccherata all’effetto del farmaco immunosoppressore,
su di loro l’acqua dolcificata produceva lo stesso effetto fisiologico
del farmaco, segnalando al sistema nervoso di sopprimere il siste-
ma immunitario.27
Come Sam Londe, la cui storia è raccontata nel Capitolo 1, i topi
di Ader morirono solo a causa del pensiero. I ricercatori comincia-
vano a rendersi conto che la mente è in grado di attivare il corpo
a livello subconscio in molti modi potenti che non avrebbero mai
immaginato.

L’OCCIDENTE INCONTRA L’ORIENTE


In quegli anni, la pratica orientale della Meditazione Trascenden-
tale, insegnata dal guru indiano Maharishi Mahesh Yogi, aveva
preso piede negli Stati Uniti, resa popolare da molti entusiasti tra
le celebrità (a partire dai Beatles negli anni Sessanta). L’obiettivo
di questa tecnica, che consiste nel calmare la mente ripetendo un
mantra nel corso di una sessione di venti minuti di meditazione per
due volte al giorno, è l’illuminazione spirituale. Ma la pratica attirò
l’attenzione del cardiologo di Harvard Herbert Benson, interessato
a capire se essa potesse contribuire a ridurre lo stress e i fattori di ri-
schio per le malattie cardiache. Demistificando il processo, Benson
sviluppò una tecnica simile, che definì “risposta rilassante”, descrit-
ta nell’omonimo libro del 1975.28 Scoprì che bastava cambiare i
modelli di pensiero per disattivare la risposta allo stress, abbassando
così la pressione sanguigna, normalizzando la frequenza cardiaca e
raggiungendo stati di profondo relax.
Per quanto la meditazione porti a mantenere un atteggiamento
neutrale, in altri ambiti si cominciò a prestare attenzione ai benefici
che era possibile ottenere coltivando un atteggiamento più positivo

27. R. Ader and N. Cohen, “Behaviorally Conditioned Immunosuppression”,


Psychosomatic Medicine, vol. 37, no. 4: pp. 333–340 (1975).
28. H. Benson, M. Z. Klipper, La risposta rilassante. Rizzoli, 1977.

67
e alimentando emozioni positive. Le basi furono poste nel 1952,
quando Norman Vincent Peale pubblicò il libro Come vivere in
modo positivo, rendendo popolare l’idea che i pensieri che facciamo
possano avere un effetto reale, sia positivo sia negativo, sulla nostra
vita.29 Questa teoria ha suscitato l’attenzione della comunità me-
dica, quando nel 1976 il politologo e direttore editoriale Norman
Cousins pubblicò un articolo sul New England Journal of Medicine
che raccontava come avesse usato le risate per invertire il decorso
di una malattia potenzialmente fatale.30 Scrisse al riguardo anche
nel suo best seller La volontà di guarire: anatomia di una malattia,
pubblicato pochi anni dopo.31
Il medico di Cousins gli aveva diagnosticato una malattia degene-
rativa chiamata spondilite anchilosante (una forma di artrite che
provoca la disgregazione del collagene, la proteina ​​fibrosa che tiene
insieme le cellule dell’organismo), e gli aveva dato solo una pro-
babilità di guarigione su cinquecento. Cousins soffriva di dolori
atroci e faceva così tanta fatica a muoversi che a stento riusciva
a girarsi nel letto. Sotto la pelle erano comparsi noduli granulosi
finché, al culmine della malattia, l’uomo rimase con la mandibola
quasi bloccata.
Convinto che un persistente stato emotivo negativo avesse con-
tribuito alla sua condizione, concluse che un atteggiamento più
positivo avrebbe potuto rimediare al danno. Pur continuando a
consultare il suo medico, Cousins iniziò un regime a base di dosi
massicce di vitamina C e di film dei Fratelli Marx (oltre ad altri film
umoristici e spettacoli comici). Scoprì che dieci minuti di sane ri-
sate si traducevano in due ore di sonno libero da dolori e alla fine si
ristabilì completamente. Molto semplicemente Cousins riacquistò
la salute ridendo.

29. N. V. Peale, Come acquistare fiducia e avere successo. Bompiani, 2000.


30. N. Cousins, “Anatomy of an Illness (as Perceived by the Patient)”, New En-
gland Journal of Medicine, vol. 295, n. 26: pp. 1458–1463 (1976).
31. N. Cousins, La volontà di guarire: anatomia di una malattia. A. Armando,
1982.

68
Come? All’epoca gli scienziati non avevano modo di comprendere
o spiegare una guarigione miracolosa come questa, ma oggi la ri-
cerca ci dice che è possibile che nel suo caso abbiano agito processi
epigenetici. Modificando il proprio atteggiamento, Cousins modi-
ficò la chimica del corpo, che a sua volta influenzò lo stato interno,
consentendogli di programmare nuovi geni in altri modi; non fece
altro che sottoesprimere (o disattivare) i geni causa della sua malat-
tia, e sovraesprimere (o attivare) i geni responsabili della guarigione.
(Nei prossimi capitoli spiegherò più nel dettaglio il concetto di at-
tivazione e disattivazione dei geni.)
Molti anni più tardi, una ricerca di Keiko Hayashi, dell’Università
di Tsukuba in Giappone, confermò questa teoria.32 Nel suo studio,
alcuni pazienti diabetici guardarono per un’ora un programma co-
mico e sovraespressero un totale di trentanove geni, quattordici dei
quali erano collegati all’attività delle cellule killer naturali. Sebbene
nessuno di questi geni fosse direttamente coinvolto nella regolazio-
ne del glucosio nel sangue, i pazienti mostrarono livelli di glucosio
più bassi rispetto a quelli riscontrati dopo aver partecipato a una
conferenza medica sul diabete. I ricercatori ipotizzarono che le ri-
sate avessero influenzato molti geni coinvolti nella risposta immu-
nitaria, che a sua volta aveva contribuito a migliorare il controllo
glicemico. Lo stato emotivo positivo, innescato dai cervelli dei pa-
zienti, aveva provocato variazioni genetiche, che avevano attivato le
cellule killer naturali e, in qualche modo, migliorato la loro risposta
al glucosio, oltre a molti altri effetti benefici.
A proposito del placebo, nel lontano 1979, Cousins disse: “Il pro-
cesso non funziona perché c’è qualcosa di magico nelle pastiglie,
ma perché il corpo umano è il migliore farmacista di se stesso e le
prescrizioni più efficaci l’organismo se le scrive da sé”.33

32. T. Hayashi, S. Tsujii, T. Iburi, et al., “Laughter Up-Regulates the Genes Re-
lated to NK Cell Activity in Diabetes”, Biomedical Research (Tokyo, Japan), vol.
28, n. 6: pp. 281–285 (2007).
33. N. Cousins, La volontà di guarire: anatomia di una malattia. A. Armando,
1982.

69
Ispirato dall’esperienza di Cousins, mentre la medicina alternativa
e quella psicosomatica erano in fermento, Bernie Siegel, chirur-
go dell’Università di Yale, iniziò a capire il motivo per cui alcuni
pazienti oncologici sopravvivevano pur avendo scarsi margini di
recupero, mentre altri con prospettive migliori morivano. Nella sua
indagine, Siegel scoprì che i superstiti avevano uno spirito grintoso
e combattivo e concluse che non esistevano malattie incurabili, ma
solo pazienti incurabili. Nei suoi scritti, Siegel parlava della speran-
za come di un potente fattore di guarigione e dell’amore incondi-
zionato, con la riserva naturale di elisir che fornisce, come del più
efficace stimolante per il sistema immunitario.34

I PLACEBO SUPERANO L’EFFICACIA DEGLI ANTIDEPRESSIVI


L’abbondanza di nuovi antidepressivi apparsi intorno alla fine degli
anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta accese una polemica che
contribuì a far crescere l’attenzione nei confronti del potere del pla-
cebo. Nel 1998, svolgendo una meta-analisi degli studi pubblicati
sugli antidepressivi, lo psicologo Irving Kirsch, che allora lavorava
all’Università del Connecticut, fu sorpreso di scoprire che in di-
ciannove studi clinici randomizzati in doppio cieco condotti su più
di duemilatrecento pazienti, la maggior parte dei miglioramenti
non era riconducibile ai farmaci, ma al placebo.35
Kirsch si avvalse del Freedom of Information Act [Ndr: La legge sul-
la libertà di informazione] per ottenere l’accesso ai dati degli studi
clinici non pubblicati dalle aziende farmaceutiche, che per legge
dovevano essere comunicati alla Food and Drug Administration.
Kirsch e i suoi colleghi condussero una seconda analisi incrociata,
studiando trentacinque sperimentazioni effettuate su quattro dei sei
farmaci antidepressivi più diffusi e approvati tra il 1987 e il 1999.36

34. B. S. Siegel, Amore, medicina e miracoli. Sperling & Kupfer, 1999.


35. I. Kirsch and G. Sapirstein, “Listening to Prozac but Hearing Placebo: A
Meta-analysis of Antidepressant Medication”, Prevention and Treatment, vol. 1,
n. 2: article 00002a (1998).
36. I. Kirsch, B. J. Deacon, T. B. Huedo-Medina, et al., “Initial Severity and
Antidepressant Benefits: A Meta-analysis of Data Submitted to the Food and
Drug Administration”, PLOS Medicine, vol. 5, n. 2: p. e45 (2008).

70
Esaminando i dati provenienti da più di cinquemila pazienti, i ri-
cercatori scoprirono ancora una volta che i placebo erano efficaci
quanto i popolari farmaci antidepressivi Prozac, Effexor, Serzone e
Paxil nell’81 per cento dei casi. Negli altri casi, quando il farmaco si
era rivelato più efficace, il vantaggio fu talmente lieve da non essere
statisticamente significativo. Solo nei pazienti gravemente depressi,
i farmaci prescritti si rivelarono nettamente migliori del placebo.
Naturalmente, lo studio di Kirsch suscitò un putiferio, anche se
molti ricercatori sembravano intenzionati a occultare ogni cosa.
Se gran parte del clamore dipendeva dal fatto che questi farmaci
non erano migliori del placebo, nel contempo i pazienti sottoposti
alla sperimentazione guarivano davvero grazie agli antidepressivi.
I farmaci funzionavano. Ma anche i pazienti trattati con placebo
stavano meglio. Invece di considerare il lavoro di Kirsch come la
prova dell’insuccesso degli antidepressivi, alcuni ricercatori decise-
ro di vedere il bicchiere mezzo pieno e citarono i dati come prova
del successo dei placebo.
In fin dei conti, gli studi furono una dimostrazione sensazionale del
fatto che pensare di guarire dalla depressione può curare davvero
questo disturbo al pari di un farmaco. I partecipanti allo studio,
che erano guariti con i placebo, avevano prodotto i propri anti-
depressivi naturali, proprio come i pazienti di Levine negli anni
Settanta produssero antidolorifici naturali in seguito all’estrazione
dei denti del giudizio. Kirsch portò alla luce ulteriori prove che il
nostro corpo è dotato di un’intelligenza innata in grado di mette-
re a sua disposizione un vasto assortimento chimico di composti
curativi naturali. È interessante notare che la percentuale di perso-
ne che mostra miglioramenti durante l’assunzione di placebo nelle
sperimentazioni sulla depressione è cresciuta nel tempo, così come
la risposta al farmaco attivo; alcuni ricercatori suggeriscono che ciò
sia dovuto al fatto che il pubblico ha maggiori aspettative nei con-
fronti dei farmaci antidepressivi, il che rende i placebo più efficaci
in questi studi ciechi.37

37. B. T. Walsh, S. N. Seidman, R. Sysko, et al., “Placebo Response in Studies


of Major Depression: Variable, Substantial, and Growing”, Journal of the Ame-
rican Medical Association, vol. 287, no. 14: pp. 1840–1847 (2002).

71
LA NEUROBIOLOGIA DEL PLACEBO
Era solo questione di tempo prima che gli scienziati iniziassero a
utilizzare sofisticate scansioni cerebrali per analizzare a fondo ciò
che accade a livello neurochimico quando viene somministrato un
placebo. Ne è un esempio lo studio del 2001 sui malati di Par-
kinson che riacquistarono la capacità motoria dopo aver ricevuto
un’iniezione di soluzione salina che credevano fosse un farmaco
(descritto nel Capitolo 1).38 Pochi anni dopo, il ricercatore italiano
Fabrizio Benedetti, un pioniere nella ricerca sul placebo, condusse
uno studio analogo sul morbo di Parkinson e, per la prima volta,
riuscì a mostrare l’effetto di un placebo sui singoli neuroni.39
I suoi studi esplorarono non solo la neurobiologia dell’aspettativa,
come con i malati di Parkinson, ma anche la neurobiologia del con-
dizionamento classico (quello che Ader aveva intravisto anni prima
con i suoi topi da laboratorio). Durante un esperimento, Benedetti
somministrò ai soggetti dello studio il farmaco Sumatriptan per sti-
molare l’ormone della crescita e inibire la secrezione di cortisolo, e
poi, all’insaputa dei pazienti, lo sostituì con un placebo. Le scansio-
ni cerebrali dei pazienti mostrarono che il placebo attivava nel cer-
vello le stesse aree che si illuminavano con la somministrazione del
Sumatriptan; questa era la prova che il cervello stava producendo
la stessa sostanza (in questo caso, l’ormone della crescita) da solo.40
Il fenomeno fu riscontrato anche in altre combinazioni farmaco-
placebo; le sostanze chimiche prodotte dal cervello ricalcavano
quelle che i soggetti avevano inizialmente ricevuto attraverso i far-
maci somministrati per trattare disturbi del sistema immunitario,

38. R. de la Fuente-Fernández, T. J. Ruth, V. Sossi, et al., “Expectation and


Dopamine Release: Mechanism of the Placebo Effect in Parkinson’s Disease”,
Science, vol. 293, no. 5532: pp. 1164–1166 (2001).
39. F. Benedetti, L. Colloca, E. Torre, et al., “Placebo-Responsive Parkinson
Patients Show Decreased Activity in Single Neurons of the Subthalamic Nu-
cleus”, Nature Neuroscience, vol. 7, n. 6: 587–588 (2004).
40. F. Benedetti, A. Pollo, L. Lopiano, et al., “Conscious Expectation and Un-
conscious Conditioning in Analgesic, Motor, and Hormonal Placebo/ Nocebo
Responses”, Journal of Neuroscience, vol. 23, n. 10: pp. 4315–4323 (2003).

72
problemi motori e depressione.41 Benedetti arrivò a dimostrare
che i placebo causavano gli stessi effetti collaterali dei farmaci. Per
esempio, in uno studio sul placebo associato ai narcotici, i soggetti
che avevano assunto il placebo manifestavano gli stessi effetti colla-
terali del farmaco, cioè respirazione lenta e poco profonda.42
A dire il vero, il nostro corpo è in grado di creare una vasta gamma
di sostanze chimiche capaci di guarirci, proteggerci dal dolore, aiu-
tarci a dormire profondamente, migliorare il sistema immunitario,
farci provare piacere e, addirittura, incoraggiare l’innamoramento.
Segui il mio ragionamento: se a un certo punto della nostra vita ab-
biamo prodotto sostanze chimiche specifiche in seguito all’espres-
sione di un certo gene, ma poi abbiamo smesso a causa dello stress
o di qualche malattia che lo ha spento, forse possiamo riattivarlo,
perché il nostro corpo sa già come farlo grazie alle esperienze pre-
cedenti. (Tieniti informato sulle ricerche che possono dimostrarlo.)
Vediamo come avviene questo processo. Le ricerche neurologiche
dimostrano una cosa davvero straordinaria: se una persona conti-
nua a prendere la medesima sostanza, il suo cervello attiva sempre
i medesimi circuiti nello stesso modo, memorizzando l’effetto di
ciò che assume. L’individuo può farsi condizionare dall’effetto di
una particolare pillola o iniezione associandola a un cambiamento
interno familiare, frutto di esperienze passate. A causa di questo
tipo di condizionamento, quando prende un placebo, si attivano
gli stessi circuiti preconfigurati che vengono innescati con l’assun-
zione del farmaco. Una memoria associativa induce un programma
subconscio a stabilire una connessione tra la pillola o l’iniezione
e il cambiamento ormonale nel corpo. Dopodiché, il programma
segnala automaticamente all’organismo di produrre le sostanze chi-
miche contenute nel farmaco. Non è sorprendente?

41. F. Benedetti, H. S. Mayberg, T. D. Wager, et al., “Neurobiological Me-


chanisms of the Placebo Effect”, Journal of Neuroscience, vol. 25, n. 45: pp.
10390–10402 (2005).
42. F. Benedetti, M. Amanzio, S. Baldi, et al., “Inducing Placebo Respiratory
Depressant Responses in Humans via Opioid Receptors”, European Journal of
Neuroscience, vol. 11, n. 2: pp. 625–631 (1999).

73
La ricerca di Benedetti chiarisce molto bene un altro aspetto: i
diversi tipi di trattamento placebo sono più o meno efficaci a se-
conda degli scopi. Per esempio, nello studio sul Sumatriptan, dire
ai pazienti che il placebo avrebbe funzionato non ha influito sulla
produzione dell’ormone della crescita. Se usiamo il placebo per
determinare risposte fisiologiche inconsce attraverso la memo-
ria associativa (per esempio per secernere ormoni o modificare il
funzionamento del sistema immunitario), il condizionamento dà
ottimi risultati, mentre bastano un suggerimento o l’aspettativa
a renderlo efficace, se lo utilizziamo per modificare reazioni più
consapevoli (come alleviare il dolore o attenuare la depressione).
Quindi, come sottolineò Benedetti, non esiste una sola risposta al
placebo, ma diverse.

IL DOMINIO DELLA MENTE SULLA MATERIA


È NELLE TUE MANI
Una svolta incredibile nella ricerca sul placebo si verificò grazie a
uno studio pilota condotto nel 2010 da Ted Kaptchuk dell’Univer-
sità di Harvard, specializzato in medicina orientale, per dimostrare
che i placebo funzionavano anche quando le persone erano con-
sapevoli di assumerlo.43 Nello studio, Kaptchuk e i suoi colleghi
somministrarono un placebo a quaranta pazienti affetti da sindro-
me dell’intestino irritabile. Ciascun paziente ricevette un flacone
recante l’inequivocabile dicitura “pillole placebo”, e fu spiegato loro
che il flacone conteneva “pillole placebo simili a caramelle realiz-
zate con una sostanza inerte che, secondo quanto dimostrato dagli
studi clinici, produceva un miglioramento significativo dei sintomi
della sindrome da cui erano affetti, attraverso processi di autogua-
rigione.” Un secondo gruppo di quaranta pazienti con lo stesso
problema, a cui non veniva somministrata alcuna pillola, servì da
gruppo di controllo.

43. T. J. Kaptchuk, E. Friedlander, J. M. Kelley, et al., “Placebos Without De-


ception: A Randomized Controlled Trial in Irritable Bowel Syndrome”, PLOS
ONE, vol. 5, n. 12: p. e15591 (2010).

74
Dopo tre settimane, il gruppo che stava assumendo il placebo ri-
portò un’attenuazione dei sintomi nel doppio dei casi rispetto al
gruppo non trattato; una differenza che secondo Kaptchuk era
paragonabile all’effetto dei migliori farmaci per quella condizione.
Questi pazienti non erano stati indotti con l’inganno ad autogua-
rirsi. Sapevano perfettamente di non assumere alcun farmaco; tut-
tavia, dopo aver appreso che i placebo potevano alleviare i sintomi,
hanno creduto in un esito positivo indipendentemente dalla causa
e il loro corpo è stato influenzato a produrre quel risultato.
Intanto, nelle attuali ricerche sul rapporto tra corpo e mente, si
sta sviluppando un filone parallelo di studi che esamina l’effetto
dell’atteggiamento, delle percezioni e delle credenze, dimostran-
do che anche risultati in apparenza concreti, come i benefici fisici
dell’attività motoria, possono essere influenzati dalle convinzioni.
Ne è un perfetto esempio uno studio del 2007 realizzato ad Har-
vard dalle psicologhe Alia Crum ed Ellen Langer su ottantaquattro
cameriere d’albergo.44
All’inizio dello studio, nessuna delle cameriere sapeva che le attività
di routine svolte nell’ambito del loro lavoro superava la quantità
ottimale di attività fisica quotidiana (trenta minuti) raccomandata
dal Surgeon General [Ndr: Portavoce per la salute pubblica nel gover-
no federale degli Stati Uniti]. In realtà, il 67 per cento delle donne
riferì ai ricercatori di non svolgere un’attività fisica regolare, e il 37
per cento dichiarò di non praticarla affatto. Dopo questa valutazio-
ne iniziale, Crum e Langer suddivisero le cameriere in due gruppi.
Illustrarono al primo gruppo la correlazione tra la loro attività e il
numero di calorie bruciate, aggiungendo che, svolgendo il lavoro
di cameriere, facevano attività fisica in quantità più che sufficien-
te. Queste informazioni non vennero divulgate alle donne appar-
tenenti al secondo gruppo, che lavoravano in alberghi diversi dal
primo, e che quindi non avrebbero potuto apprenderle parlando
con le altre cameriere.

44. A. J. Crum and E. J. Langer, “Mind-Set Matters: Exercise and the Placebo
Effect”, Psychological Science, vol. 18, no. 2: pp. 165–171 (2007).

75
Un mese dopo, le ricercatrici scoprirono che il primo gruppo aveva
perso in media un chilo, la percentuale di grasso corporeo si era
ridotta e la pressione sistolica si era abbassata mediamente di dieci
punti, sebbene nessuna delle cameriere avesse svolto alcuna attivi-
tà fisica supplementare al di fuori del lavoro, né avesse cambiato
abitudini alimentari. Le donne dell’altro gruppo, pur svolgendo lo
stesso lavoro del primo, non subirono alcun cambiamento.
I risultati richiamano quelli di uno studio analogo condotto in
Quebec, dove un gruppo di quarantotto giovani partecipò a un
programma di attività aerobica di dieci settimane, frequentando tre
sessioni di allenamento di novanta minuti a settimana.45 I ragazzi
furono divisi in due gruppi. Gli istruttori comunicarono ai sogget-
ti del primo gruppo (quello sperimentale) che lo studio era stato
appositamente ideato per migliorare sia la loro capacità aerobica
sia il loro benessere psicologico. Agli altri, invece, che costituiva-
no il gruppo di controllo, furono menzionati solo i benefici fisici
dell’attività motoria. Al termine delle dieci settimane, i ricercatori
scoprirono che tutti i soggetti avevano incrementato la capacità ae-
robica, ma solo quelli del gruppo sperimentale avevano riferito un
significativo aumento dell’autostima (un parametro del benessere).
Questi studi dimostrano che la consapevolezza può esercitare di
per sé un effetto fisico importante sul corpo e sulla salute. Ciò
che apprendiamo, il linguaggio che usiamo per descrivere le no-
stre esperienze e il significato attribuito alle spiegazioni che ci
vengono offerte sono tutti fattori che influiscono sulla nostra
intenzione; quando agiamo con maggior intenzione, otteniamo
risultati migliori.
Insomma, più cose impari sul “cosa” e sul “perché”, più il “come”
diventa semplice ed efficace. (Mi auguro che il libro faccia altret-
tanto con te: più conoscenze avrai su cosa stai facendo e perché,
migliori saranno i risultati che otterrai.)

45. R. Desharnais, J. Jobin, C. Côté, et al., “Aerobic Exercise and the Placebo
Effect: A Controlled Study”, Psychosomatic Medicine, vol. 55, n. 2: pp. 149–
154 (1993).

76
Attribuiamo un significato anche a fattori più irrilevanti, come il
colore della medicina che prendiamo e la quantità di pillole che
ingeriamo, come dimostra uno studio datato ma diventato un clas-
sico, condotto all’Università di Cincinnati. In questo studio, i ri-
cercatori somministrarono a cinquantasette studenti di medicina
una o due capsule rosa o blu. Erano tutte inerti, ma agli studenti fu
comunicato che quelle rosa erano eccitanti e quelle blu calmanti.46
I ricercatori riportarono quanto segue: “Due capsule produssero
cambiamenti più evidenti di una, e le capsule blu furono associate
a effetti calmanti maggiori rispetto alle capsule rosa.” Infatti, gli
studenti stimarono che le pillole blu erano due volte e mezzo più
efficaci come calmanti di quelle rosa, anche se erano tutte placebo.
Ricerche più recenti dimostrano che le convinzioni e le percezioni
possono influenzare anche i punteggi delle prestazioni mentali nei
test standardizzati. In uno studio condotto nel 2006 in Canada, a
duecentoventi studentesse vennero presentati rapporti di ricerca fa-
sulli che attribuivano agli uomini un vantaggio del 5 per cento sulle
donne nelle prestazioni matematiche.47 Le ragazze furono divise in
due gruppi: un gruppo aveva letto che il vantaggio era dovuto a
fattori genetici scoperti di recente; l’altro che il vantaggio risultava
dal modo in cui gli insegnanti seguivano degli stereotipi nel modo
di trattare le bambine e i bambini nella scuola elementare. Poi, i
due gruppi ricevettero un test di matematica. Le studentesse che
avevano letto del vantaggio genetico degli uomini ottennero un
punteggio inferiore rispetto alle ragazze dell’altro gruppo, che ave-
vano appreso che la superiorità maschile era dovuta agli stereotipi.
In altre parole, quando le donne furono indotte a pensare che il
loro svantaggio fosse inevitabile, si sono comportate come se si tro-
vassero davvero in una condizione di inferiorità.
Un effetto simile è stato documentato negli studenti afroamericani,
che hanno storicamente ottenuto risultati inferiori rispetto ai bian-

46. B. Blackwell, S. S. Bloomfield, and C. R. Buncher, “Demonstration to Me-


dical Students of Placebo Responses and Non-drug Factors”, Lancet, vol. 299,
n. 7763: pp. 1279–1282 (1972).
47. I. Dar-Nimrod and S. J. Heine, “Exposure to Scientific Theories Affects
Women’s Math Performance”, Science, vol. 314, n. 5798: p. 435 (2006).

77
chi nei test lessicali, di lettura e di matematica, anche quando la
provenienza socio-economica non rientrava tra le variabili conside-
rate. Infatti, mediamente gli studenti neri ottengono punteggi infe-
riori del 70/80 per cento rispetto agli studenti bianchi loro coetanei
nella maggior parte dei test standardizzati.48 Claude Steele, docente
di psicologia sociale presso l’Università di Stanford, spiega che la
causa sta nella cosiddetta “minaccia dello stereotipo”. La sua ricerca
dimostra che gli studenti appartenenti a gruppi bollati con uno
stereotipo negativo realizzano prestazioni peggiori quando pensano
che i loro punteggi verranno valutati alla luce di quello stereotipo,
rispetto a quando non sentono tale pressione.49
Nello studio di riferimento di Steele, condotto insieme al dottor
Joshua Aronson, i ricercatori sottoposero gli studenti del secondo
anno di Stanford a una serie di test di ragionamento verbale. Alcuni
studenti ricevettero istruzioni che attivarono lo stereotipo secondo
cui i neri ottengono punteggi inferiori rispetto ai bianchi: fu detto
loro che il test che stavano per svolgere mirava a misurare le loro
capacità cognitive, mentre agli altri l’esame fu descritto come uno
strumento di ricerca poco rilevante. Nel gruppo in cui era stato in-
nescato lo stereotipo, i neri ottennero punteggi inferiori rispetto ai
bianchi che avevano preso voti simili ai loro in precedenza. Quan-
do invece lo stereotipo non era attivo, le prestazioni dei neri e dei
bianchi con voti pregressi simili furono equivalenti, dimostrando la
notevole rilevanza dell’innesco, o priming.
Il priming si verifica quando una persona, un luogo o una cosa nel
nostro ambiente (per esempio, durante un test) fa scattare tutta
una serie di associazioni che sono presenti nel nostro cervello (nel
caso specifico, si è indotti a pensare che chi valuta il test pensa che
gli studenti neri ottengano punteggi inferiori rispetto ai bianchi),
portandoci ad agire in determinati modi (non prendere voti alti),
senza essere consapevoli di ciò che facciamo. Si parla di priming

48. C. Jencks and M. Phillips, eds., The Black-White Test Score Gap. Brookings
Institution Press, 1998.
49. C. M. Steele and J. Aronson, “Stereotype Threat and the Intellectual Test
Performance of African Americans”, Journal of Personality and Social Psychology,
vol. 69, n. 5: pp. 797–811 (1995).

78
perché il processo è simile all’adescamento di una pompa. L’acqua
deve essere già presente nel sistema di pompaggio affinché venga
convogliata all’esterno. Nell’esempio che abbiamo visto, l’idea o la
convinzione che dagli studenti neri ci si aspetta un punteggio infe-
riore rispetto ai bianchi è come l’acqua già presente nel sistema: è lì
da sempre. Quando fai qualcosa per stimolare il sistema (azioni la
leva della pompa o svolgi il test), scateni i pensieri, le emozioni e i
comportamenti correlati, producendo esattamente ciò che si ritiene
debba uscire dall’impianto: acqua, nel caso di una pompa; punteg-
gi più bassi, nel caso di un test.
Riflettiamoci sopra un attimo: la maggior parte dei comportamenti
automatici che il priming suscita è il frutto di una programmazione
inconscia o subconscia che, per lo più, avviene dietro le quinte della
nostra consapevolezza. Ciò significa che siamo indotti a comportarci
in maniera inconscia di continuo, senza nemmeno rendercene conto?
Steele replicò questo effetto anche con altri gruppi stereotipati. Sot-
topose a un test di matematica un gruppo costituito da uomini
bianchi e asiatici brillanti in matematica; i bianchi a cui fu detto
che gli asiatici erano più bravi non ottennero gli stessi buoni risul-
tati dei bianchi del gruppo di controllo, che non erano stati avvisati
di questo. Esperimenti condotti su studentesse abilissime in mate-
matica mostrarono risultati simili. Ancora una volta, gli studenti
prendevano voti più bassi quando si aspettavano inconsciamente di
ottenere punteggi inferiori.
La ricerca di Steele nasconde un significato molto profondo: quel-
lo che siamo condizionati a credere di noi stessi, e quello che ci
aspettiamo che gli altri pensino di noi, influenza le nostre presta-
zioni, compreso il successo da noi raggiunto. Accade lo stesso con
il placebo: quando prendiamo una pillola, siamo condizionati ad
aspettarci delle conseguenze, le stesse che pensiamo si attenda chi ci
sta intorno (medici compresi). Ciò influenza le reazioni del nostro
corpo alla pillola. È possibile che molti farmaci o persino gli inter-
venti chirurgici risultino più efficaci perché siamo indotti, educati
e condizionati a credere nei loro effetti, ma se invece non fosse per
l’effetto placebo, essi non sarebbero altrettanto validi, o addirittura
non lo sarebbero affatto?

79
PUOI ESSERE IL TUO PLACEBO?
Due recenti studi dell’Università di Toledo fanno luce su come la
mente sia in grado di per sé di determinare ciò che percepiamo e
sperimentiamo.50 Per ogni studio, i ricercatori hanno suddiviso un
gruppo di volontari sani in due categorie (ottimisti e pessimisti),
a seconda delle risposte date a un questionario diagnostico. Nel
primo studio, hanno somministrato ai soggetti un placebo, dicen-
do che si trattava di un farmaco che li avrebbe fatti stare male. I
pessimisti hanno avuto una reazione negativa più forte alla pillola
rispetto agli ottimisti. Anche nel secondo studio, i ricercatori han-
no somministrato un placebo, spiegando ai soggetti interessati che
li avrebbe aiutati a dormire meglio. Gli ottimisti hanno riferito di
aver riposato molto meglio dei pessimisti.
Gli ottimisti sono stati dunque più propensi a rispondere in modo
positivo al suggerimento che qualcosa li avrebbe fatti stare meglio,
perché indotti a sperare nel miglior scenario potenziale. I pessimisti
invece sono stati più propensi a reagire in modo negativo al sugge-
rimento che qualcosa li avrebbe fatti stare peggio, perché consape-
volmente o inconsapevolmente si aspettavano il peggior risultato
possibile. È come se gli ottimisti avessero creato le sostanze chi-
miche specifiche per dormire meglio, mentre i pessimisti avessero
creato una riserva di sostanze che li ha fatti stare male.
In altre parole, a parità di ambiente, chi ha un atteggiamento men-
tale positivo tende a creare situazioni positive, mentre chi ha una
mentalità negativa tende a creare circostanze negative. Questo è
il miracolo della nostra personale ingegneria biologica, dotata di
libero arbitrio.
Anche se non sappiamo con esattezza quante guarigioni siano do-
vute all’effetto placebo (l’articolo di Beecher del 1955 citato in pre-
cedenza sosteneva che la percentuale fosse del 35 per cento, ma la

50. A. L. Geers, S. G. Helfer, K. Kosbab, et al., “Reconsidering the Role of Per-


sonality in Placebo Effects: Dispositional Optimism, Situational Expectations,
and the Placebo Response”, Journal of Psychosomatic Research, vol. 58, n. 2: pp.
121–127 (2005); A. L. Geers, K. Kosbab, S. G. Helfer, et al., “Further Eviden-
ce for Individual Differences in Placebo Responding: An Interactionist Perspec-
tive”, Journal of Psychosomatic Research, vol. 62, n. 5: pp. 563–570 (2007).

80
ricerca moderna dimostra che può variare dal 10 al 100 per cen-
to51), il numero globale è senza dubbio molto significativo. Detto
questo, dobbiamo chiederci quale sia la percentuale di malattie e
patologie ascrivibile agli effetti dei pensieri negativi nel nocebo. Le
ultime ricerche scientifiche in ambito psicologico stimano che circa
il 70 per cento dei nostri pensieri sono negativi e ridondanti: ciò
significa che il numero di malattie create inconsciamente potrebbe
essere davvero impressionante, molto più alto di quanto pensia-
mo.52 Questa idea ha un significato molto profondo, se consideria-
mo che effettivamente numerosi problemi di salute mentali, fisici
ed emotivi sembrino nascere dal nulla.
Anche se può sembrare incredibile che la mente sia tanto potente,
negli ultimi decenni la ricerca ha rivelato alcune verità lampanti: ciò
che pensi si manifesta e, quando si tratta di salute, questo fenomeno
è dovuto al vasto assortimento di farmaci presenti nel corpo, che si
allineano ai tuoi pensieri in maniera precisa e automatica. Questo
dispensario miracoloso attiva le molecole curative naturali che già
esistono all’interno del corpo, offrendo svariati composti destinati a
suscitare effetti diversi in un numero illimitato di circostanze. Ovvia-
mente, tutto questo porta a chiedersi: come ci riusciamo?
I capitoli seguenti spiegano come ciò avvenga a livello biologico e
come questa capacità innata possa essere applicata in maniera con-
sapevole e intenzionale per creare la salute (e la vita) che vogliamo.

51. D. R. Hamilton, How Your Mind Can Heal Your Body. Hay House, 2010,
p. 19.
52. D. Goleman, B. H. Lipton, C. Pert, et al., Measuring the Immeasurable: The
Scientific Case for Spirituality. Sounds True, 2008, p. 196; B. H. Lipton e S.
Bhaerman, Evoluzione spontanea: scopri il nostro futuro positivo e il percorso per
ottenerlo. Macro edizioni, 2010.

81
CAPITOLO 3

L’ E F F E T T O P L A C E B O
NEL CER VELLO

Se hai letto il mio libro Cambia l’abitudine di essere te stesso (My


Life), scoprirai che questo capitolo passa in rassegna molti degli
argomenti lì trattati. Se pensi di avere già una buona conoscenza
di queste informazioni, puoi saltarlo o sfogliarlo velocemente per
rispolverare quei concetti in base alle tue esigenze. Nel dubbio, ti
consiglio di leggerlo, perché una conoscenza approfondita di ciò
che viene illustrato in questa parte è indispensabile per compren-
dere a fondo i capitoli successivi.
Come dimostrano le storie esposte nei capitoli precedenti, quan-
do cambiamo stato d’animo, il corpo risponde a un nuovo modo
di pensare. Perciò per cambiare modo d’essere, dobbiamo innan-
zitutto modificare i nostri pensieri. Avendo un proencefalo dalle
dimensioni enormi, noi esseri umani abbiamo il privilegio di poter
rendere il pensiero reale più di qualsiasi altra cosa; ed è così che agi-
sce il placebo. Per capire come si svolge il processo, è fondamentale
esaminare e rivedere tre elementi fondamentali: il condizionamen-
to, l’aspettativa e il significato. Come vedrai, questi tre concetti
cooperano nell’orchestrare la risposta al placebo.
Ho spiegato il condizionamento, il primo elemento, commentan-
do le scoperte di Pavlov nel capitolo precedente. Per riassumere, il
condizionamento si verifica quando associamo un ricordo passato
(per esempio, prendere un’aspirina) a un cambiamento fisiolo-
gico (liberarsi del mal di testa), perché lo abbiamo fatto molte
altre volte. Pensala in questi termini: se ti accorgi di avere mal di
testa, in sostanza ti rendi conto che nel tuo ambiente interno sta
avvenendo un cambiamento fisiologico (avverti dolore). Il passo
successivo consiste nel cercare qualcosa nel tuo mondo esterno
(in questo caso, l’aspirina) che crei un trasformazione nel tuo am-
biente interno. Potremmo dire che è il tuo stato interno (provare

82
dolore) a spingerti a ricordare le scelte che hai fatto in passato, le
azioni che hai compiuto o le esperienze che hai vissuto nella tua
realtà esterna per cambiare la sensazione provata (prendere un’a-
spirina e ricevere sollievo).
Così lo stimolo, o spunto, proveniente dall’ambiente esterno, de-
nominato aspirina, crea un’esperienza specifica. Quando questa
esperienza produce una risposta fisiologica o ricompensa, modifica
il tuo ambiente interno. Nel momento in cui noti il cambiamento,
presti attenzione a ciò che lo ha provocato nel tuo ambiente ester-
no. L’evento specifico (quando un fattore esterno cambia qualcosa
dentro di te) prende il nome di “ricordo associativo”.
Se continuiamo a ripetere il processo più e più volte, per associa-
zione, lo stimolo esterno può rafforzarsi al punto che, sostituendo
il farmaco con una pillola di zucchero simile all’aspirina, otteniamo
una reazione interna automatica (riduzione del dolore causato dal
mal di testa). Questo è uno dei modi in cui funziona il placebo. Le
figure 3.1A, 3.1B e 3.1C illustrano il processo di condizionamento.
L’aspettativa, il secondo elemento, entra in gioco quando abbia-
mo ragione di prevedere un risultato diverso. Se per esempio ac-
cusiamo dolore cronico provocato da artrite e il medico ci prescri-
ve un nuovo farmaco, spiegandoci con entusiasmo che dovrebbe
alleviare il dolore, accettiamo il suo suggerimento e ci aspettiamo
che, assumendolo, accadrà qualcosa di diverso (non accuseremo
più dolore). In questo modo il medico influenza il nostro grado
di suggestionabilità.
Dopo essere diventati più suggestionabili, associamo un fattore
esterno (il nuovo farmaco) alla selezione di una possibilità diversa
(essere liberi dal dolore). Nella nostra mente, scegliamo un futuro
potenziale diverso, sperando, prevedendo e aspettandoci di otte-
nere quel risultato differente. Se a livello emotivo accettiamo e ab-
bracciamo il nuovo risultato selezionato, e l’intensità dell’emozione
che proviamo è abbastanza forte, il cervello e il corpo non faranno
differenza tra l’aver immaginato di essere passati a un nuovo stato
d’essere, caratterizzato dall’assenza di dolore, e l’evento reale che
ha provocato quel passaggio. Per il cervello e il corpo, essi sono la
stessa cosa.
83
CONDIZIONAMENTO

Figura 3.1  Nella figura 3.1A, uno stimolo produce un cambiamento fisiologico
denominato risposta o ricompensa. La figura 3.1B mostra che, associando
uno stimolo a uno stimolo condizionato un numero sufficiente di volte, si
genera ancora una risposta. La figura 3.1C mostra che rimuovendo lo stimolo e
sostituendolo con uno stimolo condizionato (come un placebo) si può ottenere la
stessa risposta fisiologica.

84
Di conseguenza, il cervello attiva gli stessi circuiti neurali che in-
nescherebbe se il nostro stato fosse cambiato (ovvero se il farmaco
avesse alleviato il dolore), rilasciando le stesse sostanze chimiche nel
corpo. Quello che ci aspettiamo (non provare più dolore) di fatto
accade, perché il cervello e il corpo creano la perfetta combinazione
di farmaci per modificare la nostra condizione interna. Entriamo
in un nuovo stato d’essere, ossia mente e corpo agiscono come un
tutt’uno. Siamo dotati di questo immenso potere.
Assegnare al placebo un significato, il terzo elemento, contribui-
sce a renderlo efficace, perché quando infondiamo nuovo senso a
un’azione, la sosteniamo con l’intenzione. In altre parole, quan-
do impariamo e comprendiamo qualcosa di nuovo, lo affrontiamo
con un’energia più consapevole e intenzionale. Così, per esempio,
nello studio esposto nel capitolo precedente, quando le camerie-
re d’albergo scoprirono quanta attività fisica facevano ogni giorno
con il loro lavoro, e furono messe a conoscenza dei suoi benefici,
attribuirono più significato a quelle azioni. Si resero conto che non
stavano solo passando l’aspirapolvere, strofinando e pulendo con lo
straccio, bensì stavano facendo lavorare i muscoli, aumentavano la
loro forza e bruciavano calorie. Una volta che quelle azioni ebbero
acquisito maggior significato, ovvero dopo che i ricercatori spiega-
rono loro i vantaggi fisici dell’attività fisica, le cameriere lavorarono
non solo con l’intento di eseguire le loro mansioni, ma anche con
lo scopo di fare movimento e migliorare la salute.
Ed è proprio quello che è successo. I membri del gruppo di control-
lo non avevano assegnato il medesimo significato ai loro compiti,
perché non sapevano che quello che stavano facendo era utile alla
loro salute, e quindi non avevano ottenuto gli stessi benefici, pur
svolgendo esattamente le medesime azioni.
Il placebo agisce in modo identico. Più ritieni che una particolare
sostanza, procedura o intervento chirurgico funzionerà perché sei
stato informato dei suoi benefici, maggiori saranno le probabilità
di star meglio e che la tua salute migliori. In altre parole, se attribu-
isci più significato a una possibile esperienza legata a una persona,
a un luogo o a una cosa nell’ambiente esterno al fine di cambiare
quello interno, è molto più probabile che tu riesca a modificare

85
intenzionalmente il tuo stato interno con il solo pensiero. Inoltre,
più accetti un nuovo risultato correlato alla tua salute (perché sei
stato informato dei possibili benefici di ciò che stai facendo), più
il modello che stai creando nella mente sarà chiaro, più riuscirai
quindi a indurre il cervello e il corpo a replicarlo fedelmente. In
parole povere, più credi nella causa, migliore sarà l’effetto.

IL PLACEBO: ANATOMIA DI UN PENSIERO


Se l’effetto placebo è una funzione del potere che esercita il pensie-
ro sulla fisiologia (potremmo chiamarlo “dominio della mente sulla
materia”), allora forse dovremmo esaminare i pensieri e il modo in
cui interagiscono con il cervello e con il corpo. Cominciamo con
quelli quotidiani.
Siamo creature abitudinarie. Formuliamo qualcosa come sessanta-
mila/settantamila pensieri al giorno53, per il 90 per cento identici
a quelli del giorno precedente. Ogni giorno, ci alziamo dalla stessa
parte del letto, ripetiamo le solite abitudini in bagno, ci pettinia-
mo i capelli nel modo consueto, ci sediamo sulla stessa sedia e
facciamo la solita colazione tenendo la tazza sempre nella stessa
mano, percorriamo lo stesso itinerario per raggiungere il consueto
posto di lavoro e facciamo le solite cose che ormai sappiamo fare
bene rapportandoci sempre con le stesse persone (che ogni volta
premono sugli stessi tasti emotivi). Infine ci affrettiamo a casa così
possiamo cenare velocemente e guardare i nostri programmi TV
preferiti, per poi correre a lavarci i denti, ripetendo la stessa rou-
tine serale e precipitandoci a letto alla solita ora per ripetere tutto
daccapo il giorno seguente.
Se le mie parole lasciano intendere che viviamo gran parte della no-
stra vita con il pilota automatico, sappi che le cose stanno proprio
così. Formulare gli stessi pensieri ci porta a compiere le stesse scelte.
Compiere le stesse scelte ci porta a tenere gli stessi comportamenti.

53. A. Vickers, People v. the State of Illusion, diretto da S. Cervine (Phoenix,


AZ: Exalt Films, 2012), film; vedi anche Laboratory of Neuro Imaging, Uni-
versity of California, Los Angeles, http://www.loni.usc.edu/about_loni/educa-
tion/brain_trivia.php.

86
Tenere gli stessi comportamenti ci porta a creare le stesse esperien-
ze. Creare le stesse esperienze ci porta a produrre le stesse emozioni.
E quelle stesse emozioni determinano gli stessi pensieri. Dai un’oc-
chiata alla Figura 3.2 e segui la sequenza sul come gli stessi pensieri
creino sempre la stessa realtà.

Figura 3.2.  Come creiamo la stessa realtà con il solo pensiero.

Il risultato di questo processo conscio o inconscio è che il tuo stato


fisiologico rimane invariato. Il cervello e il corpo non cambiano in
alcun modo, perché formuli gli stessi pensieri, svolgi le medesime
azioni e vivi secondo emozioni sempre uguali, anche se segreta-
mente speri che la tua vita cambi. Crei la stessa attività cerebrale
che attiva i soliti circuiti cerebrali e riproduce la stessa chimica nel
cervello, che a sua volta influisce in modo identico sulla chimica del
corpo, la quale segnala i medesimi geni con le consuete modalità.
E la stessa espressione genica crea le stesse proteine, i mattoni delle
87
cellule, che mantengono il corpo inalterato (andrò nello specifico
delle proteine in seguito). E poiché l’espressione delle proteine è
l’espressione della vita o della salute, la tua vita e la tua salute ri-
mangono inalterate.
Ora analizza la tua esistenza per un attimo. Cosa significa tutto
questo per te? Se oggi formuli gli stessi pensieri di ieri, è più che
probabile che farai scelte identiche. Le scelte di oggi porteran-
no agli stessi comportamenti domani. I comportamenti abituali
di domani produrranno le stesse esperienze nel tuo futuro. Gli
eventi nella tua realtà futura creeranno emozioni sempre uguali
e prevedibili. E di conseguenza, proverai le stesse sensazioni ogni
giorno. Il tuo ieri diventa il tuo domani e, di fatto, il passato è il
tuo futuro.
Se concordi con me fino a questo punto, allora potremmo dire
che la sensazione familiare che ho appena descritto sei “tu”: la tua
identità o la tua personalità. È il tuo modo d’essere. È rassicurante,
non richiede sforzo ed è automatico. È il “tu” noto che, in tutta
franchezza, vive nel passato. Se porti avanti questo processo ridon-
dante ogni giorno (perché ti svegli la mattina e prevedi e ricordi la
sensazione di “essere te” ogni giorno), con l’andare del tempo quel
modo d’essere conosciuto non può che provocare gli stessi pensie-
ri che ti indurranno a ricadere nel medesimo ciclo automatico di
scelte, comportamenti ed esperienze per arrivare di nuovo a quella
sensazione familiare che identifichi con “te”, lasciando invariata la
tua personalità.
Se questa è la tua personalità, allora la tua personalità crea la tua
realtà personale. È molto semplice. La tua personalità è il risultato
del tuo modo di pensare, agire e sentire. Perciò, la tua personalità
presente, che sta leggendo questa pagina, ha creato l’attuale realtà
personale che è la tua vita: questo significa che se desideri creare
una nuova realtà personale (una nuova vita), devi cominciare a esa-
minare i pensieri che formuli e cambiarli. Devi prendere coscienza
dei comportamenti inconsci che hai deciso di manifestare e che
hanno determinato le stesse esperienze, e poi devi fare scelte, azioni
ed esperienze nuove. La figura 3.3 mostra come la personalità in-
fluenzi la tua realtà personale.

88
LA TUA PERSONALITÀ
CREA LA TUA REALTÀ PERSONALE

Figura 3.3.  La tua personalità è il risultato del tuo modo di pensare, agire e
sentire. È il tuo modo d’essere. Perciò pensieri, azioni e sensazioni sempre uguali
ti rendono schiavo della stessa realtà personale del passato. Quando invece con la
tua personalità abbracci nuovi pensieri, azioni e sensazioni, crei inevitabilmente
una nuova realtà personale nel tuo futuro.

Devi osservare e prestare attenzione a quelle emozioni che hai me-


morizzato e che guidano la tua vita ogni giorno, e capire se basare
la tua esistenza su di esse equivale ad amarti. La maggior parte delle
persone cerca di creare una nuova realtà personale mantenendo la
vecchia personalità, ma questo metodo non funziona. Per cambiare
la tua vita, devi diventare letteralmente un’altra persona. Aggiornati
su dati scientifici comprovati a sostegno di questo processo. Guarda
la Figura 3.4 e segui la sequenza.
Se comprendi questo modello, allora converrai con me che nuovi
pensieri dovrebbero portare a nuove scelte. Nuove scelte dovreb-
bero portare a nuovi comportamenti. Nuovi comportamenti do-
vrebbero portare a nuove esperienze. Nuove esperienze dovrebbero
creare nuove emozioni che, insieme a nuove sensazioni, dovrebbe-
ro spingerti a pensare in modo diverso. Questo processo prende il
nome di “evoluzione”. La tua realtà personale e la tua biologia (i
circuiti cerebrali, la chimica interna, l’espressione genetica e, infine,
la salute) dovrebbero cambiare grazie a questa nuova personalità,
questo nuovo modo d’essere. Il tutto a partire da un pensiero.
89
Figura 3.4.  Come creiamo una nuova realtà con il solo pensiero.

UNA RAPIDA OCCHIATA


AL FUNZIONAMENTO DEL CERVELLO
Fino a questo punto, ho menzionato termini come circuiti cere-
brali, reti neurali, chimica cerebrale ed espressione genetica senza
dare molte spiegazioni sul loro significato. Perciò, nella parte re-
stante del capitolo, vorrei illustrare alcune semplici nozioni scien-
tifiche su come il cervello e il corpo collaborino per costruire un
modello completo che possa farti comprendere come diventare il
tuo placebo.
Il cervello è composto per almeno il 75 per cento di acqua, ha la
consistenza di un uovo alla coque ed è costituito da circa cento
miliardi di cellule nervose, chiamate neuroni, che sono perfetta-
mente disposte e sospese in questo ambiente acquoso. Ogni cellula
90
nervosa assomiglia a una quercia senza foglie, ma elastica, con rami
sinuosi e radici che si connettono e disconnettono ad altre cellule
nervose. Il numero di connessioni di ciascuna cellula nervosa varia
da mille a più di centomila, a seconda del posto che occupa all’in-
terno del cervello. Per esempio, nella neocorteccia (la parte pensan-
te del cervello) avvengono da diecimila a quarantamila connessioni
per neurone.
Eravamo abituati a pensare al cervello come a un computer ma,
pur essendoci delle somiglianze, ora sappiamo che c’è dell’altro.
Ogni neurone è un biocomputer a sé stante, con più di sessanta
megabyte di RAM. È in grado di elaborare enormi quantità di dati
(fino a centinaia di migliaia di funzioni al secondo). Mano a mano
che impariamo cose nuove e facciamo esperienze diverse, i neuroni
creano nuove connessioni, scambiandosi a vicenda informazioni
elettrochimiche. Questi collegamenti vengono denominati “con-
nessioni sinaptiche”, perché il luogo in cui avviene lo scambio di
informazioni tra cellule (lo spazio tra il ramo di un neurone e la
radice di un altro) si chiama “sinapsi”.
Se imparare significa creare nuove connessioni sinaptiche, ricordare
equivale a mantenerle attive. In effetti, la memoria è una relazione
o connessione di lunga durata tra cellule nervose. La creazione di
queste connessioni e i cambiamenti che subiscono nel tempo alte-
rano la struttura fisica del cervello.
Mentre il cervello realizza questi cambiamenti, i pensieri pro-
ducono una miscela di varie sostanze chimiche chiamate neuro-
trasmettitori (serotonina, dopamina e acetilcolina sono alcuni
esempi che probabilmente già conosci). Quando formuliamo dei
pensieri, i neurotrasmettitori sul ramo di un neurone attraversa-
no lo spazio sinaptico per raggiungere la radice di un altro neu-
rone. Una volta che questo spazio è stato attraversato, il neurone
si attiva per effetto di una scarica elettrica di informazioni. Se
formuliamo sempre gli stessi pensieri, il neurone continua ad
attivarsi nello stesso modo, rafforzando la relazione tra le due
cellule, affinché possano trasmettere il segnale con più facilità
alla prossima attivazione. Il cervello fornisce prove concrete che
qualcosa non è stato solo appreso, ma anche ricordato. Questo

91
processo di rafforzamento selettivo prende il nome di “potenzia-
mento sinaptico”.
Quando giungle di neuroni si attivano all’unisono per sostenere un
nuovo pensiero, all’interno della cellula nervosa si crea una nuo-
va sostanza chimica (una proteina) che si fa strada verso il cen-
tro, o nucleo, della cellula ed entra nel DNA. Qui attiva diversi
geni. Poiché il lavoro dei geni consiste nel produrre proteine che
mantengano sia la struttura sia la funzionalità del corpo, la cellula
nervosa forma rapidamente una nuova proteina per creare nuovi
rami tra le cellule nervose. Di conseguenza, quando ripetiamo un
pensiero o un’esperienza un numero sufficiente di volte, le cellule
cerebrali non solo rafforzano le connessioni tra di loro (influendo
sulle funzioni fisiologiche), ma creano anche un maggior numero
di connessioni totali (influendo sulla struttura fisica del corpo). A
livello microscopico il cervello appare arricchito.
Quindi, appena formuli un nuovo pensiero, realizzi un cambia-
mento a livello neurologico, chimico e genetico. In effetti, puoi
creare migliaia di nuove connessioni nel giro di pochi secondi gra-
zie a nuove conoscenze, modi di pensare diversi ed esperienze mai
vissute prima. Questo significa che basta il pensiero per attivare
personalmente nuovi geni all’istante. Per farlo, è sufficiente cam-
biare mentalità; è il dominio della mente sulla materia.
Il premio Nobel Eric Kandel ha dimostrato che quando si formano
nuovi ricordi, il numero di connessioni sinaptiche nei neuroni sen-
soriali stimolati raddoppia, arrivando a duemilaseicento. Tuttavia,
a meno che l’esperienza di apprendimento iniziale non si ripeta
più e più volte, il numero di nuove connessioni ritorna al numero
originario (milletrecento) nel giro di sole tre settimane.
Perciò, se ripetiamo ciò che impariamo un numero sufficiente di
volte, rafforziamo gruppi di neuroni che ci aiuteranno a ricorda-
re quell’informazione la volta successiva. Se non lo facciamo, le
connessioni sinaptiche scompariranno in fretta e il ricordo verrà
cancellato. È per questo che è importante aggiornare, riesaminare
e ricordare continuamente nuovi pensieri, scelte, comportamenti,
abitudini, credenze ed esperienze, se vogliamo che si consolidino

92
nel cervello.54 La figura 3.5 ti aiuterà a familiarizzare con i neuroni
e le reti neurali.

RETE NEURALE

Figura 3.5.  Questa è una semplice rappresentazione grafica dei neuroni in una
rete neurale. Lo spazio piccolissimo tra i rami dei singoli neuroni che ne agevola
la comunicazione prende il nome di “spazio sinaptico” (o fessura intersinaptica).
Circa centomila neuroni con più di un miliardo di interconnessioni occupano lo
spazio di un granello di sabbia.

Per avere un’idea di quanto sia davvero vasto questo sistema, im-
magina una cellula nervosa collegata ad altre quarantamila cellule
dello stesso tipo. Poniamo che essa elabori centomila bit di infor-
mazioni al secondo, condividendole con altri neuroni, che a loro
volta ne elaborano altrettanti. Questa rete, formata da gruppi di
neuroni che lavorano insieme, prende il nome di “rete neurale”.
Le reti neurali formano comunità di connessioni sinaptiche, che
possiamo anche definire neurocircuiti.

54. L. R. Squire ed E. R. Kandel, Come funziona la memoria: meccanismi mo-


lecolari e cognitivi. Zanichelli, 2010; vedi anche D. Church, The Genie in Your
Genes: Epigenetic Medicine and the New Biology of Intention. Elite Books, 2007,
p. 94.

93
Così come avvengono cambiamenti fisici nelle cellule nervose che
compongono la materia grigia del cervello, anche l’hardware fisi-
co del cervello cambia, adattandosi alle informazioni che riceve
dall’ambiente. Lo stesso avviene per i neuroni che sono selezionati
e indotti a organizzarsi in queste immense reti capaci di elaborare
centinaia di milioni di bit di dati. Con il tempo, ogni volta che si
attivano le reti (propagazioni di attività elettrica che convergono e
divergono simili a un tremendo temporale in un cielo denso di nu-
vole), il cervello continua a usare gli stessi sistemi hardware (le reti
fisiche neurali), ma crea anche un software (il programma di una
rete neurale automatica). È così che i programmi vengono installati
nel cervello. L’hardware crea il software, e il sistema software viene
incorporato nell’hardware; ogni volta che utilizziamo il software,
rafforziamo l’hardware.
Se formuli sempre gli stessi pensieri e provi le medesime sensa-
zioni perché non impari né fai nulla di nuovo, il cervello attiva i
neuroni e le reti neurali secondo sequenze, schemi e combinazioni
sempre identici, trasformandoli in programmi automatici che usi
inconsapevolmente ogni giorno. Hai una rete neurale automatica
per parlare una lingua, per raderti il viso o truccarti, per scrivere
al computer, per giudicare i colleghi di lavoro e così via, perché
hai svolto quelle azioni così tante volte che praticamente sono di-
ventate inconsce. Non devi più pensarci consapevolmente e non
richiedono alcuno sforzo.
Hai rinforzato quei circuiti così tante volte da averli fissati. Le con-
nessioni tra i neuroni diventano più strette, si formano circuiti ag-
giuntivi e i rami si espandono diventando fisicamente più robusti
(proprio come se stessi rafforzando e consolidando un ponte, co-
struendo nuove strade o allargando una superstrada per accogliere
più traffico).
Uno dei principi fondamentali della neuroscienza afferma: “Le cel-
lule nervose che si attivano insieme si programmano insieme.”55
Attivando il cervello più e più volte nello stesso modo, riproduci lo

55. Nota anche come regola di Hebb o legge di Hebb; vedi D. O. Hebb, L’or-
ganizzazione del comportamento. F. Angeli, 1975.

94
stesso livello mentale. Secondo la neuroscienza, la mente è cervel-
lo in azione o al lavoro. Quindi, possiamo dire che se ricordi a te
stesso chi pensi di essere ogni giorno riproducendo la stessa dispo-
sizione mentale, induci il cervello ad accendersi nello stesso modo e
attivi le medesime reti neurali per anni e anni. Intorno ai trent’an-
ni, il cervello si è organizzato in una configurazione predefinita di
programmi automatici, secondo uno schema fisso che corrisponde
alla tua identità.
Immaginala come una scatola all’interno del cervello. Ovviamente,
non c’è nessuna scatola nella tua testa, ma è un’immagine efficace
per spiegare il concetto: dire che i tuoi pensieri sono all’interno
della scatola significa che hai configurato fisicamente il cervello se-
condo un modello limitato, come illustrato nella Figura 3.6. Ripro-
ducendo di continuo lo stesso livello mentale, il gruppo di circuiti
innescati e attivati più spesso in senso neurologico predetermina
chi sei, come risultato spontaneo della tua volontà.

NEURORIGIDITÀ

Figura 3.6.  Se pensieri, scelte, comportamenti, esperienze e stati emotivi


rimangono inalterati per anni (e gli stessi pensieri corrispondono sempre alle
stesse sensazioni, rafforzando questo ciclo infinito), allora il tuo cervello assume
una configurazione predefinita. Questo avviene perché riproduci la stessa
disposizione mentale ogni giorno, inducendo il cervello ad attivarsi secondo
schemi sempre identici. Nel tempo, ciò rafforza biologicamente un insieme
specifico e limitato di reti neurali, predisponendo fisicamente il cervello a creare lo
stesso livello mentale; questo significa “pensare nella scatola”. L’insieme di questi
circuiti configurati prende il nome di identità.

95
NEUROPLASTICITÀ
Il nostro obiettivo, quindi, è pensare fuori dalla scatola, ovvero in
modo non convenzionale, per attivare il cervello in modi nuovi,
come illustrato nella Figura 3.7. Ecco cosa significa avere una men-
te aperta: ogni volta che fai lavorare il cervello in modo diverso,
cambi letteralmente mente.

NEUROPLASTICITÀ

Figura 3.7.  Quando impari cose nuove e cominci a pensare in modo diverso,
accendi il cervello secondo sequenze, schemi e combinazioni insoliti, il che
significa attivare una vasta gamma di reti neurali secondo nuove modalità. E
ogni volta che fai lavorare il cervello in modo diverso, cambi la mente. Quando
inizi a “pensare fuori dalla scatola”, nuovi pensieri portano a nuove scelte, a nuovi
comportamenti, a nuove esperienze e a nuove emozioni, e anche la tua identità
inizia a cambiare.

Le ricerche dimostrano che il cervello cresce e cambia mano a mano


che lo usiamo grazie alla neuroplasticità: la capacità di adattarsi e
cambiare quando apprendiamo nuove informazioni. Per esempio,
quanto più a lungo i matematici studiano matematica, tanto più
numerosi sono i rami neurali nella zona del cervello preposta al cal-
colo.56 E dopo anni di esibizioni sinfoniche e orchestrali, i musicisti

56. K. Aydin, A. Ucar, K. K. Oguz, et al., “Increased Gray Matter Density in


the Parietal Cortex of Mathematicians: A Voxel-Based Morphometry Study”,
American Journal of Neuroradiology, vol. 28, n. 10: pp. 1859–1864 (2007).

96
professionisti espandono la parte del cervello associata al linguag-
gio e alle abilità musicali.57
I termini scientifici ufficiali per spiegare il funzionamento della
neuroplasticità sono “pruning” (potatura) e “sprouting” (gemma-
zione), intesi nella loro accezione letterale: sbarazzarsi di un cer-
to numero di connessioni, modelli e circuiti neurali e crearne di
nuovi. In un cervello ben funzionante, questo processo avviene nel
giro di pochi secondi. I ricercatori dell’Università della California
di Berkeley hanno dimostrato il fenomeno in uno studio condotto
su topi di laboratorio. Hanno scoperto che i topi che vivono in un
ambiente arricchito (condividendo la gabbia con fratelli e figli, e
con la possibilità di accedere a vari giocattoli) hanno cervelli più
grandi e con un maggior numero di neuroni e connessioni rispet-
to ai topi che vivono in ambienti meno stimolanti.58 Ancora una
volta, quando impariamo cose nuove e facciamo nuove esperienze,
cambiamo letteralmente il nostro cervello.
Liberarsi dalle catene della programmazione predefinita e dai con-
dizionamenti che non ci fanno cambiare richiede uno sforzo note-
vole. Occorre anche una buona dose di conoscenza, perché quando
apprendi informazioni essenziali su di te o sulla tua vita, realizzi
uno schema del tutto nuovo nel ricamo tridimensionale della tua
materia grigia. Ora disponi di più materie prime per far funzionare
il cervello in modi nuovi e diversi. Cominci a pensare e a percepire
la realtà in un altro modo, perché inizi a vedere la vita attraverso il
filtro di una mente nuova.

57. V. Sluming, T. Barrick, M. Howard, et al., “Voxel-Based Morphometry


Reveals Increased Gray Matter Density in Broca’s Area in Male Symphony Or-
chestra Musicians”, NeuroImage, vol. 17, n. 3: pp. 1613–1622 (2002).
58. M. R. Rosenzweig and E. L. Bennett, “Psychobiology of Plasticity: Ef-
fects of Training and Experience on Brain and Behavior”, Behavioural Brain
Research, vol. 78, n. 1: pp. 57–65 (1996); E. L. Bennett, M. C. Diamond, D.
Krech, et al., “Chemical and Anatomical Plasticity Brain”, Science, vol. 146, no.
3644: pp. 610–619 (1964).

97
ATTRAVERSARE IL FIUME DEL CAMBIAMENTO
A questo punto, capisci che per cambiare devi prendere coscienza
del tuo sé inconscio che, ora lo sai, è solo un insieme di programmi
preconfigurati.
La parte più complicata del cambiamento consiste nell’evitare di
ripetere le stesse scelte che abbiamo fatto il giorno prima. La diffi-
coltà sta nel fatto che ci sentiamo a disagio quando smettiamo di
formulare gli stessi pensieri che ci portano a scelte identiche, a com-
portamenti automatici, a vivere i medesimi eventi e a riaffermare le
emozioni tipiche della nostra identità. Questo nuovo stato d’essere
è sconosciuto, ignoto. Non ci appare “normale”. Non ci sentiamo
più noi, perché non lo siamo più. E dato che tutto sembra incerto,
non riusciamo più a prevedere la sensazione del sé familiare e come
si rispecchia nella nostra vita.
Per quanto spiacevole possa essere all’inizio, è in quel momen-
to che sappiamo di essere entrati nel fiume del cambiamento,
nell’ignoto. Non appena smettiamo di essere il nostro vecchio io,
dobbiamo oltrepassare lo spazio che ci separa dal nuovo io, come
risulta chiaramente dalla Figura 3.8. In altre parole, assumere una
nuova personalità non è una questione di pochi istanti. Ci vuole
tempo.
Di solito, quando una persona attraversa il fiume del cambiamen-
to, ovvero quello spazio vuoto che separa il vecchio io dal nuovo,
si sente talmente a disagio che decide di tornare subito indietro.
Inconsciamente pensa: “Non lo trovo giusto, sono a disagio, non
mi sento bene.” Nel momento in cui accetta questo pensiero o au-
tosuggestione (si lascia suggestionare dai suoi stessi pensieri), tor-
na a fare le solite vecchie scelte, che innescano una sequenza di
comportamenti abituali. Essi, a loro volta, determinano le stesse
esperienze, che automaticamente suscitano le medesime emozioni
e sensazioni. Dopodiché, la persona dirà tra sé: “Lo trovo giusto.”
Ma in realtà intende “familiare”.
Quando comprendiamo che attraversare il fiume del cambiamen-
to e provare quella sensazione di disagio corrispondono alla morte
biologica, neurologica, chimica e persino genetica del vecchio io,

98
possiamo controllare il cambiamento e volgere lo sguardo verso la
riva opposta. Dobbiamo accettare il fatto che il cambiamento è la
denaturazione del circuito innescato da anni di pensieri inconsci
sempre identici. Se comprendiamo che quel disagio è il risultato
dello smantellamento di vecchi atteggiamenti, convinzioni e perce-
zioni impressi nella nostra architettura cerebrale, possiamo tenere
duro. I desideri che contrastiamo nel bel mezzo del cambiamento
sono vere e proprie crisi di astinenza da dipendenze chimico-emo-
zionali del corpo: se ne diventiamo consapevoli, possiamo superar-
le. Se capiamo che abitudini e comportamenti subconsci lasciano
il posto a modificazioni biologiche che cambiano il nostro corpo a
livello cellulare, possiamo continuare e andare avanti. E se teniamo
presente che stiamo modificando i geni che ci sono stati donati da
questa vita e da imprecisate generazioni passate, possiamo rimanere
concentrati, decisi ad andare fino in fondo.

ATTRAVERSARE IL FIUME DEL CAMBIAMENTO

Figura 3.8.  Per attraversare il fiume del cambiamento devi abbandonare il sé


familiare e prevedibile di sempre (collegato a pensieri, scelte, comportamenti e
sensazioni che si ripetono immutate) ed entrare nel vuoto o nell’ignoto. Lo spazio
che divide il vecchio io da quello nuovo corrisponde alla morte biologica della
vecchia personalità. Se il vecchio io è destinato a morire, devi crearne uno nuovo
con pensieri, scelte, comportamenti ed emozioni che non hai mai sperimentato
prima. Entrando in questo fiume, ti avvii verso uno nuovo io, sconosciuto e
imprevedibile. L’ignoto è l’unico luogo in cui puoi creare; non puoi farlo attraverso
ciò che già conosci.

99
Questa esperienza viene spesso definita notte oscura dell’anima.
È la fenice che si dà fuoco riducendosi in cenere. Il vecchio io
deve morire affinché possa rinascere un nuovo io. È normale sen-
tirsi a disagio!
Ma è giusto che sia così, perché l’ignoto è il posto perfetto per
creare; è il luogo delle possibilità. Cosa potrebbe esserci di meglio?
Molti di noi sono stati condizionati a fuggire dall’ignoto, ma ora
dobbiamo imparare a sentirci a nostro agio, anziché temerlo.
Se mi dicessi che non ti piace stare in quel vuoto perché ti senti
disorientato e non sai quello che ti aspetta visto che non sei più
in grado di prevedere il futuro, ti direi che è grandioso, perché il
modo migliore per prevedere il futuro è crearlo, ma non a partire
da ciò che è noto, bensì dall’ignoto.
Con la nascita del nuovo io, cambiamo anche a livello biologico at-
traverso la gemmazione di nuove connessioni neurali, che vengono
sigillate dalla scelta consapevole di pensare e agire in modo nuovo
ogni giorno. Per rinforzarle, dobbiamo ripetere le stesse esperienze
fino a farle diventare un’abitudine. In tal modo, acquisiamo fami-
liarità con i nuovi stati chimici prodotti dalle emozioni collegate a
un numero sufficiente di esperienze. Grazie ai segnali ricevuti, nuo-
vi geni rendono possibile il rinnovamento del nostro modo d’essere
attraverso la produzione di nuove proteine. E se, come abbiamo
visto, l’espressione delle proteine è l’espressione dell’esistenza, che
a sua volta corrisponde alla salute del corpo, allora ne deriverà un
nuovo livello di benessere e di vita strutturale e funzionale. Si svi-
lupperanno una mente nuova e un corpo rinnovato.
Ora, quando un nuovo giorno spunta dopo la lunga notte di oscu-
rità e la fenice risorge dalle sue ceneri, significa che abbiamo in-
ventato un nuovo io, la cui espressione fisica e biologica implica
diventare qualcun altro. È una vera e propria metamorfosi.

SUPERARE L’AMBIENTE ESTERNO


Visto sotto un’altra ottica, il cervello è organizzato per riflettere tut-
to ciò che sai e che hai sperimentato nella vita. Ogni volta che hai
interagito con il mondo esterno, quegli eventi ti hanno plasmato

100
e modellato facendoti diventare chi sei oggi. Le complesse reti di
neuroni che si sono attivate e collegate tra loro da quando vivi sulla
Terra hanno creato miliardi e miliardi di connessioni, perché hai
imparato e hai accumulato ricordi. Dato che ogni punto di incon-
tro tra un neurone e un altro prende il nome di “memoria”, il cer-
vello è una registrazione vivente del passato. Le innumerevoli espe-
rienze vissute in momenti e luoghi diversi nell’ambiente esterno
di riferimento si sono impresse nei recessi della tua materia grigia.
Quindi, per natura, la maggior parte di noi pensa al passato, perché
usa lo stesso hardware e software della memoria storica. E se vivia-
mo la stessa vita ogni giorno facendo le stesse cose alla solita ora,
vedendo le medesime persone negli stessi luoghi, creando esperien-
ze identiche a quelle di ieri, allora il mondo esteriore influenzerà
quello interiore, rendendoci schiavi di questo meccanismo. L’am-
biente in cui viviamo controlla il nostro modo di pensare, agire e
sentire. Siamo vittime delle realtà personali, che creano la nostra
personalità in un processo ormai inconscio. Ciò porta a riaffermare
gli stessi pensieri e sensazioni, creando un connubio tra il nostro
mondo esteriore e quello interiore, che si fondono e diventano la
stessa cosa; così noi restiamo identici.
Se l’ambiente in cui viviamo regola ciò che pensiamo e proviamo
ogni giorno, per cambiare bisognerà che qualcosa riguardo a noi o
alla nostra vita trascenda le circostanze attuali del nostro ambiente.

PENSARE E SENTIRE, SENTIRE E PENSARE


Così come i pensieri sono il linguaggio del cervello, le sensazioni
sono il linguaggio del corpo. Il tuo modo di pensare e di sentire
crea uno stato d’essere, frutto della collaborazione tra mente e cor-
po. Perciò, il tuo attuale stato d’essere è espressione di un autentico
collegamento mente-corpo.
Ogni volta che formuli un pensiero, oltre a creare dei neurotra-
smettitori, il cervello produce anche un’altra sostanza chimica: una
piccola proteina chiamata neuropeptide che invia un messaggio al
corpo, il quale reagisce esprimendo una sensazione. Il cervello, al-
lora, genera un altro pensiero in linea con quella sensazione, pro-

101
ducendo ulteriori messaggi chimici che inducono a pensare in base
a ciò che si prova.
Così, il pensiero crea la sensazione e viceversa. Si tratta di un ci-
clo (che, per la maggior parte delle persone, può andare avanti per
anni). E dato che il cervello agisce in base alle sensazioni del corpo
generando pensieri che produrranno le stesse emozioni, è evidente
che i pensieri ridondanti configurano il cervello secondo uno sche-
ma fisso di neurocircuiti.
Ma cosa succede nell’organismo? Dato che le sensazioni sono il
modus operandi del corpo, le emozioni che provi di continuo sulla
base dei pensieri automatici condizionano il corpo a memorizzare
sensazioni corrispondenti alla configurazione inconscia della mente
e del cervello. Ciò significa che la mente conscia non ha alcun po-
tere. Il corpo è stato inconsciamente programmato e condizionato,
in modo molto concreto, a diventare la mente.
Alla fine, se questo circolo di pensieri e sensazioni e poi di sensa-
zioni e pensieri si ripete abbastanza a lungo, il corpo memorizza le
emozioni che il cervello gli ha segnalato di provare. Consolidandosi
e radicandosi, questo circolo crea un modo d’essere familiare, ba-
sato su vecchie informazioni che continuano a riproporsi. Quelle
emozioni, mere registrazioni chimiche delle esperienze passate, gui-
dano i pensieri e si ripresentano più volte. Finché questo processo
continua, viviamo nel passato. Non c’è da stupirsi se cambiare il
futuro ci riesce così difficile!
Se i neuroni si attivano in modo identico, innescano il rilascio degli
stessi neurotrasmettitori chimici e neuropeptidi nel cervello e nel
corpo. Queste sostanze chimiche iniziano ad abituare il corpo a
ricordare quelle emozioni, riproducendo la stessa alterazione fisica.
Le cellule e i tessuti ricevono questi specifici segnali chimici in siti
recettoriali ben precisi, che funzionano come punti di attracco per
i messaggeri chimici. Lì i messaggeri si incastrano perfettamente,
come nei giochi per bambini in cui certe forme, come un cerchio,
un triangolo o un quadrato, si inseriscono nelle apposite cavità.
Pensa ai messaggeri chimici, vere e proprie molecole di emozioni,
come a trasportatori di codici a barre che permettono ai recettori

102
cellulari di leggere la loro energia elettromagnetica. Quando si crea
l’incastro perfetto, il sito recettoriale si prepara. Il messaggero si
aggancia, la cellula riceve le informazioni chimiche e poi crea o
altera una proteina, che attiva il DNA della cellula all’interno del
nucleo. Il DNA si apre e si snoda, poi viene letto il gene relativo
a quel messaggio extracellulare e la cellula sintetizza una nuova
proteina dal suo DNA (per esempio, un particolare ormone) e la
rilascia nel corpo.
In questo modo, il corpo viene istruito dalla mente. Se per anni alla
cellula giungono gli stessi segnali provenienti dal medesimo livello
mentale (a causa di pensieri, azioni e sensazioni identici ripetuti
ogni giorno), allora è ovvio che verranno attivati gli stessi geni nel
modo consueto, perché il corpo riceve gli stessi dati dall’ambiente.
Non ci sono nuovi pensieri da innescare, nuove scelte da compiere,
nuovi comportamenti da tenere, nuove esperienze da vivere, nuo-
ve sensazioni da provare. Quando gli stessi geni vengono ripetuta-
mente attivati dalle medesime informazioni provenienti dal cervel-
lo, iniziano a deteriorarsi, proprio come avviene per gli ingranaggi
di una macchina. Il corpo produce proteine attraverso strutture più
deboli e funzioni minori. Ci ammaliamo e invecchiamo.
Con il tempo, possono verificarsi due scenari. L’intelligenza della
membrana cellulare, che riceve costantemente le stesse informazio-
ni, può adattarsi alle esigenze e alle richieste del corpo modificando
i suoi siti recettoriali al fine di ospitare una quantità maggiore di
queste sostanze chimiche. In pratica, crea più punti di attracco per
soddisfare la domanda, proprio come i supermercati aprono casse
supplementari quando le file diventano troppo lunghe. Se gli affari
vanno bene (se quelle stesse sostanze chimiche continuano ad arri-
vare), bisogna assumere altri impiegati e tenere aperte più casse. In
questo caso, il corpo coincide con la mente ed è diventato mente
esso stesso.
Nel secondo scenario, la cellula viene talmente sopraffatta dai con-
tinui bombardamenti di sensazioni ed emozioni istante dopo istan-
te da non poter consentire a tutti i messaggeri chimici di agganciar-
si. Poiché le stesse sostanze chimiche restano in attesa davanti alle
porte della stazione di ancoraggio giorno dopo giorno, la cellula

103
si abitua alla loro presenza. Così, solo quando il cervello produ-
ce emozioni molto più intense, la cellula è disposta ad aprire le
sue porte e ad attivarsi. (Più avanti, troverai maggiori informazioni
sull’importanza delle emozioni, una variabile fondamentale dell’e-
quazione placebo).
Nel primo scenario, quando la cellula crea nuovi siti recettoriali, il
corpo prova il desiderio di quelle sostanze chimiche specifiche se
il cervello non ne produce abbastanza e, di conseguenza, le sensa-
zioni determinano i pensieri: il corpo controlla la mente. È questo
ciò che intendo quando dico che il corpo memorizza l’emozione.
Esso è stato condizionato a livello biologico e alterato in modo da
diventare un riflesso della mente.
Nel secondo scenario, non appena la cellula viene travolta dal
bombardamento e i recettori diventano insensibili, il corpo richie-
de uno stimolo chimico maggiore per attivare la cellula, proprio
come accade a un tossicodipendente. In altre parole, affinché il
corpo venga stimolato e risolva il problema, è necessario che tu sia
più arrabbiato, preoccupato, in colpa o confuso dell’ultima volta.
Quindi, può darsi che tu senta il bisogno di innescare un piccolo
dramma urlando contro il tuo cane senza motivo, solo per dare al
corpo la sua sostanza preferita. O magari non puoi fare a meno di
dire quanto disprezzi tua suocera, aumentando così la disponibilità
di sostanze chimiche capaci di attivare la cellula. Oppure ti lasci
ossessionare dall’idea di un esito terribile al solo scopo di ricevere
una scarica di adrenalina. Quando questi bisogni chimici emotivi
non vengono più soddisfatti, il corpo invia segnali al cervello af-
finché produca ancora quelle sostanze: il corpo controlla la mente,
ricalcando i tratti di una dipendenza. Ora, quando userò il termine
dipendenza emotiva, saprai a cosa mi riferisco.
Se le sensazioni diventano strumenti per pensare, e se non riu-
sciamo a trascendere le nostre emozioni con il pensiero, siamo nel
programma. Pensiamo quello che proviamo e proviamo quello che
pensiamo. Le esperienze che viviamo sono una fusione di pensieri e
sensazioni che si confondono a tal punto da diventare pensazioni e
sensieri. Intrappolati in questo circolo, il corpo e la mente inconscia
credono di vivere nella stessa esperienza passata ventiquattro ore

104
al giorno, sette giorni alla settimana, trecentosessantacinque giorni
all’anno. La mente e il corpo sono un tutt’uno, allineati a un de-
stino predeterminato dai nostri programmi inconsci. Per cambiare,
bisogna superare il corpo e i suoi ricordi emozionali, le sue dipen-
denze e le sue assuefazioni inconsce; il che significa non lasciarsi più
definire dal corpo diventato mente.
La ripetizione del ciclo pensare e sentire e poi sentire e pensare è
il processo di condizionamento del corpo che la mente cosciente
mette in atto. Quando il corpo diventa la mente, si parla di “abitu-
dine”. Intorno ai trentacinque anni d’età, il 95 per cento della tua
identità è costituito da un insieme di comportamenti, competenze,
reazioni emotive, convinzioni, percezioni e atteggiamenti memo-
rizzati che funziona come un programma informatico subconscio
e automatico.
Perciò il 95 per cento della tua identità è un modo d’essere subcon-
scio o addirittura inconscio. Ciò significa che la tua mente conscia
rappresenta solo il 5 per cento e lavora contro il 95 per cento di
ciò che hai memorizzato a livello subconscio. Puoi pensare positivo
quanto vuoi, ma quel 5 per cento cosciente avrà la sensazione di
nuotare controcorrente rispetto al restante 95 per cento costituito
dalla chimica inconscia del corpo, che ricorda e memorizza tutte le
negatività che hai assorbito negli ultimi trentacinque anni. Questo
significa che mente e corpo lavorano in opposizione. Non c’è da
stupirsi se non arrivi molto lontano quando cerchi di contrastare
la corrente!
Ho intitolato il mio ultimo libro Cambia l’abitudine di essere te
stesso, proprio perché la principale abitudine che dobbiamo modi-
ficare è questa: pensare, sentire e comportarci sempre nello stesso
modo, rafforzando i programmi inconsci che riflettono la nostra
personalità e la nostra realtà personale. Finché viviamo nel passato,
non possiamo creare un nuovo futuro. È praticamente impossibile.

CHE COSA TI SERVE PER ESSERE IL TUO PLACEBO


Ecco un esempio che ci aiuterà a tirare le fila del discorso. Scel-
go volutamente un evento negativo, perché circostanze del genere

105
tendono a limitarci, mentre quelle più fortunate, incoraggianti ed
esaltanti di solito ci aiutano a creare un futuro migliore. Chiarirò
tra poco questo processo.
Supponiamo che in passato, parlando in pubblico, tu abbia vissu-
to un’esperienza terribile che ti ha segnato emotivamente. (Sentiti
libero di sostituirla con qualunque evento ti abbia lasciato cicatrici
profonde.) A causa di quell’esperienza, ora hai paura di alzarti e
prendere la parola davanti a un gruppo di persone. Ti senti insi-
curo, ansioso e a disagio. Se solo pensi di trovarti di fronte a venti
persone in una sala riunioni, la gola ti si chiude, le mani iniziano a
sudare, il cuore batte all’impazzata, viso e collo diventano paonazzi,
lo stomaco ti si contorce e il cervello si blocca.
Tutte queste reazioni sono innescate dal sistema nervoso auto-
nomo, che agisce a livello subconscio (al di sotto del controllo
cosciente). Autonomo equivale a dire automatico: è la parte del
sistema nervoso che regola la digestione, la produzione di ormo-
ni, la circolazione sanguigna, la temperatura corporea e così via,
senza alcun controllo cosciente da parte tua. Non puoi decidere
di cambiare la frequenza cardiaca, ridurre l’irrorazione sangui-
gna degli arti per abbassarne la temperatura, far arrossire viso e
collo, alterare le secrezioni metaboliche degli enzimi digestivi o
bloccare l’attivazione di milioni di cellule nervose a comando.
Per quanto tu possa provare a modificare in modo consapevole
una qualsiasi di queste funzioni, probabilmente ti accorgerai di
non riuscirci.
Di conseguenza, se il corpo opera questi cambiamenti fisiologici
autonomi, è perché hai associato il pensiero futuro di tenere un
discorso di fronte a un pubblico al ricordo emotivo della disastrosa
esperienza passata. E quando quel pensiero, quell’idea o quella pos-
sibilità futura vengono associati all’ansia, al senso di fallimento e di
imbarazzo provati in passato, con il tempo la mente condizionerà il
corpo a rispondere automaticamente a quella sensazione. È così che
entriamo di continuo in modi d’essere familiari: i pensieri e le sen-
sazioni diventano un tutt’uno con il passato, perché non riusciamo
a trascendere con il pensiero le nostre emozioni.

106
Ora, diamo uno sguardo più da vicino a quello che succede nel
cervello. L’evento specifico che, a livello neurologico, si è impres-
so come un ricordo del passato (ricorda: l’esperienza arricchisce
i circuiti cerebrali) s’imprime nel cervello, proprio come un’im-
pronta. Perciò, puoi ripercorrere i tuoi passi e rievocare l’espe-
rienza negativa, ricordandola sotto forma di pensiero. Perché sia
possibile richiamarla a comando, l’esperienza deve avere una ca-
rica emotiva abbastanza intensa. In questo modo, puoi rievocare
emotivamente tutte le sensazioni legate al tentativo fallimentare
di essere un bravo oratore, perché è come se quell’esperienza ti
avesse alterato chimicamente.
Voglio sottolineare che le sensazioni e le emozioni sono i prodotti
finali delle esperienze passate. Quando sei coinvolto in una situa-
zione, i sensi catturano l’evento e poi trasmettono tutte quelle in-
formazioni vitali al cervello attraverso cinque diversi percorsi senso-
riali. Non appena questi nuovi dati raggiungono il cervello, milioni
di cellule nervose si organizzano in nuove reti per riflettere l’evento
esterno appena successo. Nel momento in cui tali circuiti prendo-
no forma, il cervello produce una sostanza chimica per indurre il
corpo a modificare la sua fisiologia. Tale sostanza chimica prende il
nome di sensazione o emozione. Quindi, se conserviamo memoria
degli eventi passati, è perché possiamo ricordare le sensazioni che
abbiamo provato.
Quando il tuo discorso in pubblico è andato male, tutte le in-
formazioni che i cinque sensi stavano raccogliendo nell’ambiente
esterno hanno modificato le sensazioni nel tuo ambiente inter-
no. Le informazioni che i sensi stavano elaborando (i volti tra il
pubblico, l’ampiezza della sala, le luci accese sopra di te, l’eco del
microfono e il silenzio assordante dopo il tuo primo tentativo
di fare una battuta, l’improvviso aumento di temperatura in sala
nel momento in cui hai cominciato a parlare, l’odore della tua
vecchia acqua di colonia che evaporava insieme al sudore) hanno
cambiato il tuo modo d’essere interno. E nel momento in cui hai
collegato questo particolare evento che si è verificato nel mondo
esteriore dei sensi (la causa) ai cambiamenti in corso nel tuo mon-
do interiore, fatti di pensieri e sensazioni (l’effetto), hai creato

107
un ricordo. Hai associato una causa a un effetto, dando inizio al
processo di condizionamento.
Dopo la tortura autoinflitta di quel giorno, che per fortuna si è
conclusa senza lanci di ortaggi e frutta marcia verso di te, sei torna-
to a casa. Lungo il tragitto, hai continuato a rievocare l’evento. E in
diversa misura, ogni volta che hai ricordato l’esperienza, riprodu-
cendo cioè lo stesso livello mentale di quel momento, hai innescato
gli stessi cambiamenti chimici nel cervello e nel corpo. In un certo
senso, hai riaffermato più volte il passato, portando avanti il pro-
cesso di condizionamento.
Dato che il corpo agisce come la mente inconscia, quando hai ri-
cordato l’episodio, non ha fatto distinzione tra l’evento reale che
aveva creato quello stato emotivo e le emozioni originate solo dal
pensiero. Il corpo ha creduto di rivivere la stessa esperienza più vol-
te, anche se in realtà eri da solo, comodamente seduto in macchi-
na, e ha risposto fisiologicamente come se stessi davvero rivivendo
l’esperienza nel presente. Attivando i circuiti cerebrali derivanti dai
pensieri legati a quell’evento, hai dato sostegno fisico alle connes-
sioni sinaptiche e hai stabilito legami ancora più duraturi all’inter-
no di queste reti, creando una memoria a lungo termine.
Arrivato a casa, hai raccontato ciò che ti è capitato al partner, agli
amici e forse anche a tua madre. Nel descrivere il trauma nei detta-
gli più penosi, hai alimentato uno stato di estrema agitazione. Ri-
vivendo le emozioni di quella brutta avventura, dal punto di vista
chimico hai allineato il corpo all’evento di quel giorno, abituando-
lo, a livello subconscio, inconscio e automatico a essere fisiologica-
mente la tua storia personale.
Nei giorni seguenti sei stato di malumore. Gli altri non poteva-
no fare a meno di notarlo, e ogni volta che qualcuno ti chiedeva:
“Cosa c’è che non va?”, non potevi resistere. Approfittavi della do-
manda per cedere alla scarica chimica indotta dal passato. Lo sta-
to d’animo provocato da questa esperienza è diventato una lunga
reazione emotiva durata giorni. Quando le settimane trascorse a
provare le stesse emozioni ogni volta che ricordavi l’evento si sono
trasformate in mesi, e poi in anni, quella reazione emotiva è diven-

108
tata persistente tanto che, ormai, è diventata parte non solo del tuo
temperamento, del tuo carattere e della tua natura, ma anche della
tua personalità. È quello che sei.
Se qualcuno ti chiede di nuovo di parlare in pubblico, automatica-
mente rabbrividisci, indietreggi e diventi ansioso. L’ambiente ester-
no controlla quello interno e non riesci ad andare oltre. Mentre
prevedi che il tuo futuro (tenere un discorso in pubblico) susciterà
in te sensazioni simili a quelle del passato (un tormento insosteni-
bile), come per magia, il tuo corpo, agendo come se fosse la mente,
reagisce automaticamente e inconsciamente. Per quanti tentativi tu
possa fare, è come se la mente cosciente non riuscisse a controllarlo.
Nel giro di pochi secondi, si manifestano milioni di risposte con-
dizionate provenienti dal cervello e dalla riserva farmaceutica del
corpo: sudorazione abbondante, secchezza della bocca, ginocchia
deboli, nausea, vertigini, mancanza di respiro, stanchezza incon-
trollabile; tutto a causa di un unico pensiero che cambia la tua
fisiologia. Mi ricorda tanto l’effetto placebo!
Se potessi, declineresti l’invito a tenere il discorso, dicendo cose
del tipo: “Non sono capace”, “Sono insicuro di fronte alla gente”,
“Sono un pessimo presentatore” o “Ho troppo paura di parlare
davanti a così tante persone.” Quando dici: “Io sono…” (comple-
ta la frase come preferisci), dichiari che la mente e il corpo sono
allineati rispetto a un certo futuro, o che i tuoi pensieri e le tue
sensazioni sono tutt’uno con il tuo destino. Stai rafforzando uno
stato d’essere memorizzato.
Se per caso ti chiedessero perché hai deciso di farti definire dal tuo
passato, così come dalle tue limitazioni autoimposte, sono certo
che racconteresti una storia che ricalca i ricordi e le emozioni vis-
sute, ribadendo a te stesso di essere in quel modo. Probabilmente
ci ricameresti anche un po’ sopra. Da un punto di vista biologico,
riveli in realtà di essere stato alterato fisicamente, chimicamente
ed emotivamente da quell’evento diversi anni fa, e di non essere
cambiato molto da allora. Hai scelto di farti definire dai tuoi limiti.
In questo esempio, si potrebbe dire che sei schiavo del corpo (per-
ché ora è diventato la mente), sei bloccato dalle condizioni del

109
tuo ambiente (perché l’esperienza legata a persone e cose in un
determinato luogo e tempo continua a influenzare il tuo modo di
pensare, agire e sentire) e ti perdi nel tempo (perché vivendo nel
passato e anticipando il futuro, la mente e il corpo non sono mai
nel momento presente). Perciò, per cambiare il tuo modo d’essere
attuale, dovresti essere superiore a questi tre elementi: corpo, am-
biente e tempo.
Se ora rileggi l’inizio del capitolo, dove si dice che il placebo è de-
terminato da tre elementi (condizionamento, aspettative e signi-
ficato), puoi comprendere il motivo per cui sei tu il tuo placebo.
Perché? Perché tutti e tre gli elementi entrano in gioco nell’esempio
precedente.
In primo luogo, come un talentuoso addestratore di animali, hai
condizionato il corpo a entrare in un modo d’essere subconscio in
cui diventa tutt’uno con la mente (pensieri e sensazioni si fondo-
no). Il corpo è stato programmato a essere automaticamente, biolo-
gicamente e fisiologicamente la mente, solo con il pensiero. E ogni
volta che ricevi uno stimolo dall’ambiente esterno (come l’invito a
parlare in pubblico) condizioni il corpo, proprio come aveva fatto
Pavlov con i suoi cani, a rispondere inconsciamente e automatica-
mente al ricordo dell’esperienza passata.
Dato che la maggior parte degli studi sul placebo mostra che un
solo pensiero può attivare il sistema nervoso autonomo del corpo
e produrre cambiamenti fisiologici rilevanti, possiamo dire che è
sufficiente associare un’idea a un’emozione per controllare il pro-
prio mondo interiore. Tutti i sistemi autonomi subconsci vengono
rinforzati a livello neurochimico dalle sensazioni familiari e dalle
percezioni fisiche legate alla paura, e la nostra biologia riflette alla
perfezione questo meccanismo.
In secondo luogo, se ti aspetti che il futuro assomigli al passato,
allora non solo pensi a ciò che è già accaduto, ma selezioni anche
un futuro già noto basato solo sul passato, e accogli emotivamente
questo evento tanto che il tuo corpo (in veste di mente inconscia)
crede di vivere in quel futuro già nel momento presente. Concen-
tri tutta l’attenzione su una realtà nota e prevedibile, che ti porta

110
a limitare nuove scelte, nuovi comportamenti, nuove esperienze e
nuove emozioni. Aggrappandoti fisiologicamente al passato, preve-
di inconsciamente il futuro.
Infine, se attribuisci un certo significato o un’intenzione consape-
vole a un’azione, il risultato si amplifica. Sono le cose che ripeti
quotidianamente a te stesso (nella fattispecie, che non sei un buon
oratore e che parlare in pubblico suscita in te una reazione di pa-
nico) che hanno significato per te. Diventi sensibile alle tue auto-
suggestioni. E se le tue conoscenze attuali si basano su conclusioni
tratte da esperienze passate, senza informazioni aggiuntive, con-
tinuerai a produrre conseguenze che rispecchiano la tua disposi-
zione mentale. Cambia significato e intenzione e, proprio come le
cameriere d’albergo dello studio descritto nel capitolo precedente,
otterrai risultati diversi.
Quindi, sia che tu stia cercando di attuare un cambiamento positi-
vo per creare un nuovo modo d’essere o che abbia inserito il pilota
automatico, rimanendo bloccato nel tuo vecchio stato d’essere, la
verità è che sei sempre tu il tuo placebo.

111
CAPITOLO 4

L’ E F F E T T O P L A C E B O N E L C O R P O

Nel 1981, in una fresca giornata di settembre, otto uomini tra


i settanta e gli ottant’anni salirono su un paio di furgoni e si di-
ressero al monastero di Peterborough, nel New Hampshire, due
ore a nord di Boston. Dovevano partecipare a un ritiro di cinque
giorni in cui gli era stato chiesto di fingere sulla loro età, dichia-
rando almeno ventidue anni in meno. Il ritiro era organizzato da
una squadra di ricercatori capeggiata da Ellen Langer, psicologa
di Harvard, che la settimana successiva avrebbe portato un altro
gruppo di otto anziani nello stesso posto. Agli uomini del secon-
do gruppo – il gruppo di controllo – avrebbe chiesto di rievocare
ricordi risalenti a ventidue anni prima, senza però chiedere loro di
fingere di avere un’età inferiore.
Quando gli uomini del primo gruppo arrivarono al monastero, si
trovarono circondati da vari tipi di stimoli ambientali che li aiu-
tarono a rivivere il periodo in cui erano più giovani. Sfogliarono
vecchi numeri di Life e del Saturday Evening Post, guardarono film e
programmi televisivi che andavano per la maggiore nel 1959, ascol-
tarono Perry Como e Nat King Cole alla radio. Parlarono anche di
eventi “attuali”, come Fidel Castro che prende il potere a Cuba, la
visita negli Stati Uniti del premier russo Nikita Krusciov e persino
le prodezze della star del baseball Mickey Mantle e del grande pu-
gile Floyd Patterson. Tutti questi elementi erano stati astutamente
pianificati per aiutare i soggetti a immaginare di essere davvero di
ventidue anni più giovani.
Dopo i cinque giorni di ritiro, i ricercatori effettuarono parecchi
rilevamenti e confrontarono i dati con quelli emersi dalle analisi
effettuate prima della sperimentazione. I corpi degli uomini di en-
trambi i gruppi erano fisiologicamente più giovani, sia sul piano
strutturale, sia su quello funzionale, ma i soggetti del primo gruppo
(che avevano finto di essere più giovani) presentavano migliora-

112
menti più significativi di quelli del gruppo di controllo, che aveva
solo rievocato i ricordi.59
I ricercatori riscontrarono cambiamenti nell’altezza, nel peso e
nell’andatura. Gli uomini erano più alti grazie alla postura più
eretta, le articolazioni erano più flessibili e le dita si erano allungate
perché l’artrite era diminuita. La vista e l’udito erano migliorati.
La presa era più salda. La memoria si era affinata e avevano otte-
nuto punteggi più alti nei test cognitivi (il primo gruppo aveva
migliorato i punteggi del 63 per cento, rispetto al 44 per cento del
secondo). In cinque giorni, quegli uomini erano letteralmente rin-
giovaniti, proprio davanti agli occhi dei ricercatori.
Langer riferì: “Alla fine dello studio, giocavo a calcio – con un toc-
co leggero, ma comunque a calcio – con quegli uomini, alcuni dei
quali avevano smesso di usare il bastone.”60
Com’è accaduto? È evidente che quegli uomini sono riusciti ad
accendere i circuiti cerebrali in grado di riportare alla mente la loro
identità di ventidue anni prima, e la chimica del corpo magica-
mente ha risposto. Non si sono limitati a sentirsi più giovani, ma
lo sono diventati, come dimostrano le scrupolose misurazioni ef-
fettuate. Il cambiamento non si è verificato solo nella mente, bensì
nel corpo. Ma che cosa è accaduto a livello fisico per produrre una
trasformazione così stupefacente? A quale fattore possiamo attribu-
ire tutti quei cambiamenti misurabili nella struttura fisica e nella
funzionalità? La responsabilità è da attribuire ai geni, che non sono
così immutabili come si pensa. Quindi soffermiamoci ad analizzare
cosa sono i geni e come agiscono.

DEMISTIFICARE IL DNA
Immagina una scala o una cerniera che si avvolge a spirale e avrai
un’idea abbastanza verosimile dell’acido desossiribonucleico (me-

59. E. J. Langer, La mente consapevole. Corbaccio editore., Milano, 2008; E. J.


Langer, In senso antiorario. Corbaccio editore, 2010.
60. C. Feinberg, “The Mindfulness Chronicles: On the ‘Psychology of Possi-
bility’”, Harvard Magazine (settembre-ottobre 2010), http://harvardmagazine.
com/2010/09/the-mindfulness-chronicles.

113
glio noto come DNA). Il DNA, che è immagazzinato nel nucleo
di ogni cellula vivente del nostro corpo, contiene le informazioni
grezze, o le istruzioni, che ci rendono quelli che siamo (anche se,
come scopriremo presto, queste istruzioni non costituiscono un
rigido modello che le nostre cellule dovranno seguire per tutta la
vita). Ogni metà della cerniera del DNA contiene acidi nucleici
corrispondenti che, insieme, vengono chiamati coppie di base e
sono circa tre miliardi per cellula. I gruppi di lunghe sequenze di
questi acidi nucleici vengono chiamati geni.
I geni sono piccole strutture peculiari. Se dovessi estrarre il DNA
dal nucleo di una cellula del tuo corpo ed estenderlo da un capo
all’altro, sarebbe lungo circa un metro e ottanta. Se prendessi tutto
il DNA contenuto nel tuo corpo e lo estendessi da un capo all’al-
tro, arriverebbe fino al Sole e tornerebbe indietro centocinquanta
volte.61 Ma se prendessi tutto il DNA dei quasi sette miliardi di
individui che vivono sul Pianeta e lo accartocciassi, occuperebbe
uno spazio piccolo quanto un granello di riso.
Il nostro DNA usa le istruzioni impresse all’interno delle sue singole
sequenze per produrre proteine. Proteina deriva dal greco proteion,
che significa “di primaria importanza”. Le proteine sono le materie
prime che il corpo utilizza per costruire non solo strutture tridi-
mensionali coerenti (la nostra anatomia), ma anche per svolgere le
complesse funzioni e interazioni che formano la nostra fisiologia. Il
corpo, di fatto, è una macchina che produce proteine. Le cellule dei
muscoli producono actina e miosina, quelle della pelle producono
collagene ed elastina, le cellule immunitarie producono anticorpi,
quelle della tiroide producono tirosina, alcune cellule dell’occhio
producono cheratina, le cellule del midollo osseo producono emo-
globina e quelle pancreatiche producono enzimi come la proteasi,
la lipasi e l’amilasi.
Tutti gli elementi prodotti da queste cellule sono proteine. Esse
hanno la funzione di controllare il nostro sistema immunitario, di-
gerire il cibo, guarire le ferite, catalizzare le reazioni chimiche, sup-

61. J. Medina, The Genetic Inferno: Inside the Seven Deadly Sins. Cambridge
University Press, 2000, p.4.

114
portare l’integrità strutturale del nostro corpo, fornire molecole so-
fisticate per la comunicazione tra cellule e fare molto altro ancora.
In sintesi, le proteine sono l’espressione della vita (e della salute del
nostro corpo). Osserva la Figura 4.1 e vedrai una rappresentazione
molto semplificata dei geni.

LA CELLULA

Figura 4.1.  Questa è una rappresentazione molto semplificata di una cellula e


del DNA contenuto all’interno del suo nucleo. Il materiale genetico, quando si
estende in singoli filamenti, somiglia a una cerniera o a una scala attorcigliata
chiamata elica del DNA. I pioli della scala sono gli acidi nucleici accoppiati, che
fungono da codici per la produzione di proteine. Una particolare estensione e
sequenza del filamento di DNA si chiama gene e si esprime quando produce una
proteina. Le cellule del corpo producono diverse proteine che servono sia per la
struttura, sia per la funzionalità dell’organismo.

Nei sessant’anni trascorsi da quando i ricercatori James Watson e


Francis Crick scoprirono la doppia elica del DNA, ha continuato

115
a prevalere quello che Watson, in un numero di Nature62 uscito nel
1970, definì il “dogma centrale”, ovvero che i geni di un individuo
determinano tutto. Quando spuntavano delle prove contradditto-
rie, i ricercatori tendevano a liquidarle come mere anomalie all’in-
terno di un sistema complesso.63
Oggi, a distanza di quarant’anni, la teoria del determinismo gene-
tico è ancora dominante nella mentalità della gente comune. Molte
persone condividono l’idea errata che il nostro destino genetico sia
predeterminato e che, se abbiamo ereditato i geni di certe forme
tumorali, di malattie cardiache, del diabete o di altre patologie, non
possiamo farci nulla, così come non possiamo cambiare il colore
dei nostri occhi o la forma del naso (se non ricorrendo alle lenti a
contatto colorate e alla chirurgia plastica).
Le notizie riportate dai media rafforzano questa convinzione sugge-
rendo di continuo che certi geni causano una determinata patolo-
gia o malattia. Ci hanno programmato a credere che siamo vittime
della nostra biologia; pensiamo che i geni esercitino un potere asso-
luto sulla salute, sul benessere e sulla personalità e che siano addi-
rittura loro a governare le vicende umane, determinando le nostre
relazioni interpersonali e plasmando il futuro. Ma davvero siamo
quel che siamo e facciamo quel che facciamo perché siamo nati
così? Questa concezione è il segnale di come il determinismo ge-
netico sia profondamente radicato nella nostra cultura; inoltre essa
prevede che esistano geni per la schizofrenia, per l’omosessualità,
per la leadership e così via.
Sono tutte convinzioni datate, che si fondano su vecchie teorie. In-
nanzitutto, non esiste un gene per la dislessia né uno per i disturbi
dell’attenzione o per l’alcolismo: non tutte le condizioni di salute o
le variazioni fisiche sono associate a un gene. E in tutto il Pianeta,
le persone affette da una malattia genetica – come il diabete di tipo
1, la sindrome di Down o l’anemia falciforme – sono meno del 5

62. F. Crick, “Central Dogma of Molecular Biology”, Nature, vol. 227, n.


5258: pp. 561–563 (1970).
63. M. Ho, “Death of the Central Dogma”, comunicato stampa dell’Institute
of Science in Society (9 marzo 2004), http://www.i-sis.org.uk/DCD.php.

116
per cento. Il restante 95 per cento, se sviluppa delle malattie, si am-
mala a causa del proprio stile di vita e dei propri comportamenti.64
Viceversa, non tutti coloro che nascono con i geni associati a una
patologia (per esempio il morbo di Alzheimer o il cancro al seno)
finiscono per svilupparla. I nostri geni non sono come delle uova
che prima o poi si schiuderanno. Non funzionano così. Bisogna
chiedersi, invece, se un gene che portiamo è già stato espresso e cosa
stiamo facendo per segnalargli di accendersi o spegnersi.
Una svolta fondamentale si è verificata quando gli scienziati sono
riusciti a mappare il genoma. Nel 1990, all’inizio del progetto, i ri-
cercatori si aspettavano di scoprire che abbiamo centoquarantamila
geni diversi. Avevano pensato a quel numero perché i geni pro-
ducono proteine e sovrintendono alla loro produzione, e il corpo
umano produce centomila proteine diverse, oltre a quarantamila
proteine regolatrici che servono a produrne altre. Gli scienziati che
hanno mappato il genoma umano si aspettavano di trovare un gene
per ogni proteina, ma alla fine del progetto, nel 2003, sono rimasti
sbalorditi poiché hanno scoperto che in realtà il corpo umano ha
solo 23.688 geni.
Nella prospettiva del dogma centrale di Watson, quel numero non
è sufficiente a creare i nostri corpi complessi e a farli funzionare,
né tantomeno a mantenere l’efficienza del cervello. E allora, se non
sono contenute nei geni, da dove arrivano tutte le informazioni
richieste per creare così tante proteine e perpetuare la vita?

64. S. C. Segerstrom, G. E. Miller, “Psychological Stress and the Human Im-


mune System: A Meta-analytic Study of 30 Years of Inquiry”, Psychological
Bulletin, vol. 130, n. 4: pp. 601–630 (2004); M. S. Kopp, J. Réthelyi, “Where
Psychology Meets Physiology: Chronic Stress and Premature Mortality—The
Central-Eastern European Health Paradox”, Brain Research Bulletin, vol. 62, n.
5: pp. 351–367 (2004); B. S. McEwen, T. Seeman, “Protective and Damaging
Effects of Mediators of Stress. Elaborating and Testing the Concepts of Allosta-
sis and Allostatic Load”, Annals of the New York Academy of Sciences, vol. 896:
pp. 30–47 (1999).

117
IL GENIO DEI TUOI GENI
La risposta a questa domanda ha fatto nascere una nuova teoria:
i geni devono lavorare insieme in una cooperazione sistemica in
modo tale che, all’interno della cellula, molti vengano espressi (ac-
cesi) o soppressi (spenti) allo stesso tempo; è la combinazione dei
geni che vengono accesi in un dato momento a produrre tutte le
diverse proteine da cui dipende la vita. Immagina una fila di luci
intermittenti sull’albero di Natale: alcune si accendono e altre si
spengono. O pensa al panorama di una città di sera, con le luci
delle case accese o spente con il passare delle ore.
Tutto questo non accade in modo casuale, ovviamente. L’intero ge-
noma o filamento del DNA sa bene quello che sta facendo ogni
parte e opera in una modalità interconnessa che segue una sua pre-
cisa coreografia. Ogni atomo, molecola, cellula, tessuto e apparato
del corpo funziona a un livello di coerenza energetica che equivale
al modo d’essere intenzionale o non intenzionale (conscio o incon-
scio) della personalità individuale.65 Perciò è chiaro come i geni
possano essere attivati (accesi) o disattivati (spenti) dall’ambiente
esterno alla cellula, che in alcuni casi è l’ambiente interno al corpo
(il modo d’essere emotivo, biologico, neurologico, mentale, ener-
getico e persino spirituale), mentre in altri è l’ambiente esterno al
corpo (traumi, temperatura, altitudine, tossine, batteri, virus, cibo,
alcol e così via).
I geni, infatti, sono classificati in base al tipo di stimolo che li ac-
cende e li spegne. Per esempio, i geni che dipendono dall’esperien-
za o dall’attività si accendono quando viviamo esperienze insolite,
apprendiamo nuove informazioni e guariamo. Questi geni produ-
cono sintesi proteiche e messaggeri chimici che istruiscono le cellu-
le staminali a trasformarsi nel tipo di cellula che in quel momento
serve a guarire. Tra poco parleremo meglio delle cellule staminali e
del loro ruolo nei processi di guarigione.
I geni che dipendono dal comportamento si accendono in periodi
di agitazione emotiva, in presenza di stress o anche quando suben-

65. J. L. Oschman, “Trauma Energetics”, Journal of Bodywork and Movement


Therapies, vol. 10, n. 1: pp. 21–34 (2006).

118
trano diversi livelli di consapevolezza (per esempio sognando). For-
niscono un collegamento tra i pensieri e il corpo, ovvero formano
la connessione tra corpo e mente. Questi geni ci permettono di
comprendere come possiamo influenzare la nostra salute adottando
stati mentali e corporei che promuovano il benessere, la resilienza
fisica e la guarigione.
Gli scienziati ora ritengono possibile che la nostra espressione ge-
nica fluttui addirittura di secondo in secondo. Le ricerche rivelano
che i pensieri, le emozioni e le attività – cioè le scelte, i comporta-
menti e le esperienze – hanno profondi effetti curativi e rigeneranti
sul corpo, come dimostra lo studio condotto sugli uomini in ritiro
nel monastero. Perciò i tuoi geni subiscono l’influenza delle tue
interazioni con la famiglia, gli amici e i colleghi, delle tue pratiche
spirituali, delle tue abitudini sessuali, dell’attività fisica che svolgi e
del tipo di detergenti che utilizzi. Le ricerche più recenti mostrano
che il 90 per cento dei nostri geni si attiva cooperando con i segnali
provenienti dall’ambiente.66 E se è l’esperienza ad attivare un buon
numero di geni, ciò significa che la nostra natura è influenzata dalla
nostra educazione. Allora perché non imbrigliare il potere di queste
idee e fare tutto il possibile per migliorare la nostra salute e limitare
al minimo la dipendenza dalle prescrizioni mediche?
Come scrive il dottor Ernest Rossi in The Psychobiology of Gene
Expression [La psicobiologia dell’espressione genica], “i nostri stati
mentali soggettivi, i nostri comportamenti motivati dalla coscienza
e la nostra percezione del libero arbitrio possono modulare l’espres-
sione genica per ottimizzare la salute”67 Secondo le teorie scientifi-
che più recenti, gli individui possono alterare i loro geni nell’arco
di una singola generazione. Se il processo di evoluzione genetica
può durare migliaia di anni, un singolo gene può modificare con
successo la sua espressione in pochi minuti, grazie all’acquisizione

66. K. Richardson, Che cos’è l’intelligenza. Einaudi, 1999, cit. in. E. L. Rossi,
The Psychobiology of Gene Expression: Neuroscience and Neurogenesis in Hypnosis
and the Healing Arts . W. W. Norton and Company, 2002, p. 50.
67. E. L. Rossi, The Psychobiology of Gene Expression: Neuroscience and Neuroge-
nesis in Hypnosis and the Healing Arts. W. W. Norton and Company, 2002, p. 9.

119
di un nuovo comportamento o di una nuova esperienza, per poi
essere trasmesso alla generazione successiva.
È utile immaginare i nostri geni non come tavolette di pietra sulle
quali è stato inciso solennemente il nostro destino, ma come magaz-
zini che contengono enormi quantità di informazioni codificate,
o come immense biblioteche piene di possibilità per l’espressione
delle proteine. Ma quando vogliamo utilizzare quelle informazioni,
non possiamo ordinarle con la stessa semplicità con cui un’azienda
ordina una merce dal magazzino. È come se non sapessimo cosa
contiene il nostro deposito né come accedervi, perciò finiamo per
utilizzare solo una piccola percentuale di ciò che è veramente di-
sponibile. Infatti esprimiamo solo l’1,5 per cento del nostro DNA,
mentre il restante 98,5 per cento giace dormiente nel corpo. Gli
scienziati lo chiamano “DNA di scarto”, ma non è materiale inuti-
le: gli studiosi non sanno ancora come viene utilizzato, ma hanno
appurato che almeno in parte esso sia responsabile della produzio-
ne di proteine regolatrici.
“In realtà, i geni contribuiscono alle nostre caratteristiche, ma non
le determinano” scrive il dottor Dawson Church in Medicina epi-
genetica. “Gli strumenti della mente conscia – comprese le convin-
zioni, le preghiere, i pensieri, le intenzioni e la fede – hanno una
correlazione molto più forte con la salute, la longevità e la felicità di
quanta ne abbiano i geni.”68 Il fatto è che, così come il nostro corpo
è molto più di un sacco di carne e ossa, i nostri geni sono molto più
che semplici informazioni depositate.

LA BIOLOGIA DELL’ESPRESSIONE GENICA


Ora esaminiamo il modo in cui vengono attivati i geni. (I fattori
responsabili dell’attivazione sono molteplici, ma ai fini della nostra
discussione sul rapporto corpo e mente, ci limiteremo a delineare i
tratti essenziali.)

68. D. Church, Medicina epigenetica. Felicità e salute attraverso la trasformazione


consapevole del DNA. Edizioni mediterranee, 2008.

120
Quando un messaggero chimico (per esempio un neuropeptide)
che proviene dall’esterno della cellula arriva nel punto d’attracco e
attraversa la membrana cellulare, si fa strada verso il nucleo, dove
incontra il DNA. Il messaggero chimico modifica o crea una nuova
proteina; poi il segnale che ha trasportato si traduce in un’infor-
mazione all’interno della cellula. Dopodiché, l’informazione entra
nel nucleo della cellula attraverso una piccola finestra e, a seconda
del contenuto del messaggio relativo alla proteina, cerca un cromo-
soma specifico (un frammento delle spire del DNA che contiene
molti geni), proprio come si cerca un certo libro tra gli scaffali di
una biblioteca. Ogni filamento è rivestito di un involucro proteico
che agisce da filtro tra l’informazione contenuta nel filamento e
il resto dell’ambiente intracellulare. Affinché il codice del DNA
venga selezionato, l’involucro deve essere rimosso o disfatto, pro-
prio come il libro scelto tra gli scaffali della biblioteca deve essere
aperto per poterlo leggere. Il codice genetico del DNA contiene
informazioni che attendono di essere lette e attivate per creare una
particolare proteina. È un deposito potenziale di informazioni co-
dificate che necessitano solo di essere aperte. Puoi immaginare il
DNA come un serbatoio di ingredienti potenziali che attendono
istruzioni per costruire le proteine, che regolano e sostentano ogni
aspetto della vita.
Quando la proteina seleziona il cromosoma, lo schiude rimuo-
vendo l’involucro esterno che ricopre il DNA. A quel punto,
un’altra proteina regola e predispone un’intera sequenza di geni
all’interno del cromosoma (immaginala come un capitolo di un
libro) affinché sia letta per intero, dall’inizio alla fine. Quando il
gene è esposto e l’involucro proteico rimosso e letto, la proteina
regolatrice produce un altro acido nucleico, chiamato acido ribo-
nucleico (RNA).
Ora il gene è espresso o attivato. L’RNA esce dal nucleo della cellula
per assemblarsi in una nuova proteina in base al codice che traspor-
ta. La proteina creata dal gene ora può costruire, assemblare, intera-
gire, ripristinare, mantenere e influenzare molti aspetti diversi della
vita, sia all’interno che all’esterno della cellula. La Figura 4.2 ti offre
una visione generale del processo.

121
SEGNALE EPIGENETICO

Figura 4.2A.  La Figura 4.2A mostra il segnale epigenetico mentre entra nel
sito recettoriale della cellula. Quando il messaggero chimico interagisce con la
membrana cellulare, viene inviato un altro segnale, sotto forma di una nuova
proteina, al nucleo della cellula affinché selezioni una sequenza di geni. Il gene
ha già un rivestimento proteico che lo protegge dall’ambiente esterno e che va
rimosso per essere letto.

SELEZIONE GENICA

Figura 4.2B.  La Figura 4.2B mostra come viene aperto l’involucro proteico che
avvolge la sequenza genica del DNA, in modo che un’altra proteina, chiamata
proteina regolatrice, possa schiudere e leggere il gene in un punto specifico.

122
LETTURA DEL GENE

Figura 4.2C.  La Figura 4.2C mostra come la proteina regolatrice crea un’altra
molecola, chiamata RNA, che organizza la traduzione e la trascrizione del
materiale geneticamente codificato in una proteina.

PRODUZIONE DELLA PROTEINA

Figura 4.2D.  La Figura 4.2D mostra come avviene la produzione della proteina.
L’RNA assembla una nuova proteina a partire da singoli ammassi proteici chiamati
aminoacidi.

123
Come un architetto trae da un progetto tutte le informazioni ne-
cessarie per costruire una struttura, così il corpo ricava dai cromo-
somi del DNA tutte le informazioni necessarie per creare molecole
complesse che ci mantengono in vita e garantiscono la nostra fun-
zionalità. Ma prima di leggere il progetto, l’architetto deve estrarlo
dal tubo e srotolarlo. Fino a quel momento, è solo un’informazione
latente che attende di essere letta. Lo stesso vale per la cellula: il
gene è inerte fino a quando non viene rimosso l’involucro proteico
e la cellula decide di leggere la sequenza genica.
Fino a qualche tempo fa gli scienziati credevano che al corpo ser-
vissero solo le informazioni (il progetto) per cominciare a costruire,
perciò molti di loro si concentravano su quelle. Prestavano scarsa
attenzione al fatto che tutta la catena di eventi comincia con un
segnale proveniente dall’esterno della cellula che, di fatto, è respon-
sabile della scelta dei geni selezionati dalla cellula all’interno della
sua biblioteca. Quel segnale, come sappiamo, include i pensieri, le
scelte, i comportamenti, le esperienze e le emozioni. Perciò è chiaro
che se puoi cambiare questi elementi, puoi anche determinare la
tua espressione genica.

L’EPIGENETICA: IN CHE MODO NOI COMUNI MORTALI


POSSIAMO AGIRE COME DEI
Se i geni non predeterminano il nostro destino, e se davvero con-
tengono un’enorme biblioteca di possibilità che aspettano soltanto
di essere prelevate dagli scaffali e lette, cosa ci permette di accedere
a quelle potenzialità, che potrebbero esercitare un grande effetto
sulla nostra salute e sul nostro benessere? Di sicuro sono riusciti ad
accedervi gli anziani sottoposti alla sperimentazione nel monastero,
ma come hanno fatto? La risposta è data da un nuovo campo di
studi chiamato epigenetica.
Epigenetica significa letteralmente “sopra il gene”. Il termine si ri-
ferisce al controllo esercitato sui geni non da ciò che accade all’in-
terno del DNA, bensì dai messaggi provenienti dall’esterno della
cellula; in altre parole, dall’ambiente. Questi segnali inducono un
metile (o gruppo metilico, composto da un atomo di carbonio le-
gato a tre atomi di idrogeno) ad attaccarsi a un gene in un punto
124
specifico, e questo processo (chiamato metilazione del DNA) è uno
dei processi principali che accendono o spengono un gene. (Anche
altri due processi, la modificazione covalente degli istoni e l’RNA non
codificante producono lo stesso effetto, ma ai fini della nostra di-
scussione non è necessario analizzarli nel dettaglio.)
L’epigenetica ci insegna che in realtà non siamo condannati dai
nostri geni e che un cambiamento nella coscienza può produrre
alterazioni fisiche nel corpo, sia a livello strutturale, sia funzionale.
Possiamo modificare il nostro destino genetico, accendere i geni
che vogliamo e spegnere quelli che non vogliamo, intervenendo
sui vari fattori ambientali che li programmano. Alcuni di quei se-
gnali arrivano dall’interno del corpo, come le emozioni e i pensieri,
mentre altri derivano dalla risposta del corpo all’ambiente esterno,
come il tasso di inquinamento o la luce del sole.
L’epigenetica studia tutti i segnali esterni che dicono alla cellula
cosa fare e quando, osservando sia le fonti che attivano, o accen-
dono, l’espressione genica (regolazione verso l’alto), sia quelle che
la sopprimono, o spengono (regolazione verso il basso), oltre alle
dinamiche energetiche che regolano il processo della funzionalità
cellulare istante per istante. L’epigenetica suggerisce che, anche se il
nostro codice genetico resta immutato, in un unico gene sono pos-
sibili migliaia di combinazioni, sequenze e variazioni sistematiche
(proprio come sono possibili migliaia di combinazioni, sequenze e
schemi di reti neurali nel cervello).
Considerando l’intero genoma umano, le possibili variazioni epige-
netiche sono talmente numerose – milioni e milioni – da far girare
la testa solo a pensarci. Lo Human Epigenome Project [Progetto
per l’epigenoma umano] avviato nel 2003 quando volgeva al termi-
ne lo Human Genome Project [Progetto per il genoma umano], è
attualmente in corso in Europa69 e alcuni ricercatori hanno dichia-
rato che, quando sarà ultimato, “farà sembrare lo Human Genome
Project un gioco da ragazzi”70 Tornando all’esempio della progetta-

69. Si veda http://www.epigenome.org.


70. J. Cloud, “Why Your DNA Isn’t Your Destiny”, Time Magazine (6 gennaio
2010), http://content.time.com/time/magazine/article/0,9171,1952313,00.

125
zione di un edificio, noi possiamo cambiare il colore della facciata,
il tipo di materiali usati, le dimensioni della costruzione e persino il
posizionamento della struttura – creando un numero quasi infinito
di variazioni – senza mai modificare il progetto iniziale.
Un ottimo esempio di epigenetica all’opera riguarda due gemelli
identici che hanno esattamente lo stesso DNA. Se accogliamo l’i-
dea del determinismo genetico, secondo la quale tutte le malattie
sono genetiche, allora i gemelli identici dovrebbero avere la stessa
espressione genica. Ma i gemelli non sempre manifestano la stes-
sa malattia nello stesso modo, e a volte uno dei due presenta una
malattia genetica che l’altro non svilupperà mai. I gemelli possono
avere geni identici ma esiti diversi.
Uno studio condotto in Spagna lo illustra perfettamente. I ricer-
catori del Laboratorio di epigenetica del cancro al CNIO (Centro
nazionale per gli studi oncologici) di Madrid hanno analizzato qua-
ranta coppie di gemelli identici di età compresa tra i tre e i settanta-
quattro anni. Hanno scoperto che i gemelli più giovani che avevano
stili di vita simili e avevano passato più anni insieme mostravano
anche modelli epigenetici simili, mentre i gemelli più anziani, in
particolare quelli che avevano stili di vita diversi e avevano passato
meno anni insieme, avevano anche modelli epigenetici diversi.71 I
ricercatori hanno scoperto che i geni espressi diversamente in una
coppia di gemelli cinquantenni erano il quadruplo dei geni espressi
diversamente in una coppia di gemelli di tre anni.
I gemelli erano nati con un DNA identico, ma quelli che condu-
cevano stili di vita differenti (e vite diverse) con l’andare del tempo
erano arrivati a esprimere i loro geni in modo molto diverso. Per
ricorrere a una similitudine, i gemelli più anziani erano come copie
esatte dello stesso modello di computer. Sui computer erano stati
installati gli stessi programmi di partenza ma, con l’andare del tem-
po, ciascuno dei due aveva scaricato programmi aggiuntivi molto

html#ixzz2eN2VCb1W.
71. M. F. Fraga, E. Ballestar, M. F. Paz, et al., “Epigenetic Differences Arise
During the Lifetime of Monozygotic Twins”, Proceedings of the National Aca-
demy of Sciences USA, vol. 102, n. 30: pp. 10604–10609 (2005).

126
diversi. Il computer (il DNA) rimane lo stesso, ma le sue funzioni
e il modo in cui viene usato possono variare in misura sostanziale a
seconda dei programmi che una persona ha scaricato (le variazioni
epigenetiche). Così, quando formuliamo pensieri e proviamo emo-
zioni, il nostro corpo risponde con una formula complessa di varia-
zioni e alterazioni biologiche, e ogni esperienza preme i pulsanti di
vere e proprie modificazioni geniche all’interno delle nostre cellule.
Questi cambiamenti possono verificarsi a una velocità notevole. In
soli tre mesi, trentuno uomini con un basso rischio di cancro alla
prostata sono riusciti a regolare verso l’alto quarantotto geni (per lo
più legati alla soppressione del tumore) e a regolare verso il basso
4.532 geni (per lo più legati alla progressione del tumore) seguen-
do un regime intensivo basato su una particolare alimentazione e
stile di vita.72 Nel corso della sperimentazione, condotta dal dot-
tor Dean Ornish alla University of California di San Francisco, gli
uomini hanno ridotto il peso, l’obesità addominale, la pressione
sanguigna e il profilo lipidico. Ornish ha notato: “Non si tratta solo
di riduzione dei fattori di rischio o di prevenzione di eventi spiace-
voli. Questi cambiamenti possono verificarsi così in fretta che non
bisogna aspettare anni per vederne i benefici.”73
Ancora più impressionante è la quantità di cambiamenti epigene-
tici riscontrati nell’arco di sei mesi in uno studio condotto in Sve-
zia su ventitré persone in leggero sovrappeso, uomini sani che, da
una vita relativamente sedentaria, sono passati a svolgere esercizi di
spinning e aerobica non più di due volte alla settimana. I ricercatori
dell’Università di Lund scoprirono che i soggetti avevano operato
alterazioni epigenetiche su settemila geni: quasi il 30 per cento di
tutti i geni del genoma umano!74

72. D. Ornish, M. J. Magbanua, G. Weidner, et al., “Changes in Prostate Gene


Expression in Men Undergoing an Intensive Nutrition and Lifestyle Inter-
vention”, Proceedings of the National Academy of Sciences, vol. 105, n. 24: pp.
8369–8374 (2008).
73. L. Stein, “Can Lifestyle Changes Bring out the Best in Genes”, Scienti-
fic American (17 giugno 2008), http://www.scientificamerican.com/article.
cfm?id=can-lifestyle-changes-bring-out-the-best-in-genes.
74. T. Rönn, P. Volkov, C. Davegårdh, et al., “A Six Months Exercise Interven-

127
Queste variazioni genetiche possono addirittura essere trasmesse
a figli e nipoti.75 Il primo ricercatore che è riuscito a dimostrarlo
è stato il dottor Michael Skinner, allora direttore del Center for
Reproductive Biology [Centro di biologia riproduttiva] della Wa-
shington State University. Nel 2005, Skinner condusse una ricerca
esponendo ai pesticidi un gruppo di tope gravide.76 I figli maschi
delle madri esposte riportarono tassi di infertilità molto più alti e
una produzione di sperma inferiore, con alterazioni epigenetiche
in due geni. Queste stesse alterazioni erano presenti anche nel 90
per cento circa dei maschi di ognuna delle quattro generazioni suc-
cessive, anche se nessun topo di queste generazioni era mai stato
esposto ai pesticidi.
Le esperienze vissute nel nostro ambiente esterno, però, sono solo
uno dei fattori in gioco. Come abbiamo visto, anche il significato
che assegniamo a quelle esperienze implica una serie di reazioni fisi-
che, mentali, emotive e chimiche che attivano i geni. Il modo in cui
percepiamo e interpretiamo i dati recepiti dai nostri sensi, che siano
reali o meno, e il significato che attribuiamo a quelle informazioni
producono rilevanti cambiamenti biologici a livello genetico. Così,
i nostri geni interagiscono e intrattengono rapporti complessi con
la nostra coscienza consapevole. Potremmo dire che il significato
influisce continuamente sulle strutture neurali che influenzano la
nostra essenza a livello microscopico, la quale a sua volta influenza
la nostra identità a livello macroscopico.
Lo studio dell’epigenetica ci porta anche a chiederci: “Che cosa
accade se nell’ambiente esterno non cambia nulla? Che cosa accade
se facciamo sempre le stesse cose con le stesse persone esattamente
alla stessa ora tutti i giorni, vivendo così le medesime esperienze,

tion Influences the Genome-Wide DNA Methylation Pattern in Human Adi-


pose Tissue”, PLOS Genetics, vol. 9, n. 6: p. e1003572 (2013).
75. D. Chow, “Why Your DNA May Not Be Your Destiny”, LiveScience (4
giugno 2013), http://www.livescience.com/37135-dna-epigenetics-disease-
research.html; si veda anche la nota 12.
76. M. D. Anway, A. S. Cupp, M. Uzumcu, et al., “Epigenetic Transgeneratio-
nal Actions of Endocrine Disruptors and Male Fertility”, Scien