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Il termine malattia indica lo stato di sofferenza di un organismo, o di sue parti, prodotto da una
causa che lo danneggia, e il complesso dei fenomeni reattivi che ne derivano. In senso più
strettamente fisiopatologico, per malattia si intende un'alterazione concernente quei processi fisico-
chimici, detti omeostatici, attraverso i quali l'organismo mantiene la propria individualità in
equilibrio dinamico con l'ambiente, e il cui fattore scatenante può essere occasionale, ambientale o
interno all'organismo, nonché di natura fisica, chimica, organica, ereditaria oppure psicosomatica.
Definizioni e classificazioni
di Giovanni Federspil, Roberto Vettor
l. Evoluzione storica del concetto di malattia
Per quanto l'idea di malattia sembri intuitiva a molti, una sua definizione scientifica è uno degli
obiettivi più difficili dell'intera medicina. Infatti, uno sguardo anche superficiale alla storia del
pensiero medico mostra chiaramente come nei secoli si siano avvicendate numerose definizioni tra
loro contrastanti. Mentre per Ippocrate (ca. 460-370 a.C.) la malattia era sostanzialmente la rottura
di un equilibrio preesistente tra i diversi umori dell'organismo, per Asclepiade (ca. 130-40 a.C.), che
concepiva il corpo formato di corpuscoli che si muovono disordinatamente attraversando
piccolissimi pori e canali, la malattia consisteva, invece, nella chiusura di tali strutture e nella
conseguente difficoltà o impossibilità del movimento dei corpuscoli. Galeno (ca. 130-200 d.C.)
condivideva la tesi ippocratica, ma a questa aggiunse l'idea di un'alterazione delle funzioni
dell'organismo. La concezione moderna della malattia ha iniziato a configurarsi nel 18° secolo,
quando G.B. Morgagni dimostrò che alla base degli stati morbosi esistevano evidenti e specifiche
alterazioni degli organi interni. Questa acquisizione diede vita a una nuova disciplina, ossia
l'anatomia patologica, sulla quale è fondata ancora oggi la maggior parte della medicina clinica. Nel
19° secolo, la concezione di Morgagni conobbe ulteriori approfondimenti con la localizzazione
delle alterazioni costituenti le malattie in strutture sempre più minute dell'organismo. X. Bichat
sostenne la presenza delle modificazioni patologiche nei tessuti e, poco più tardi, R.
Virchow avanzò l'idea, che avrebbe poi finito per imporsi in tutta la comunità medico-scientifica,
secondo la quale, essendo la cellula la sede fondamentale di tutti i processi morbosi, alla base di
ogni malattia vi doveva essere l'alterazione di uno specifico stipite cellulare. Tali concezioni sulla
natura delle malattie ponevano tutte l'accento sulle strutture organiche che si modificano durante i
processi morbosi e provocano i fenomeni clinicamente constatabili, ma non prendevano in
considerazione le possibili cause di malattia esterne all'organismo. Nella seconda metà
dell'Ottocento, la scoperta dei microbi portò a una radicale modificazione delle concezioni della
patologia. Con l'opera di L. Pasteur, R. Koch e di altri microbiologi si affermò la convinzione
secondo la quale la maggior parte delle malattie dipenderebbe da fenomeni di parassitismo e
dall'azione distruttiva o tossica esercitata su cellule e tessuti dai germi penetrati nell'organismo.
Anche questa concezione, tuttavia, concentrando l'attenzione dei clinici e degli sperimentatori sulle
cause esterne di malattia, appariva unilaterale e trascurava un altro elemento fondamentale dei
fenomeni patologici: l'alterazione della funzionalità dell'organismo.
La concezione fisiopatologica della malattia fu sviluppata dal fisiologo francese C. Bernard, il quale
dimostrò come il carattere essenziale dello stato di malattia fosse rappresentato da una
modificazione della funzione di una parte del corpo, che compromette, in misuramaggiore o minore,
la funzionalità dell'intero organismo. Inoltre, secondo la concezione fisiopatologica della malattia, i
fenomeni che costituiscono gli specifici processi morbosi non sono diversi da quelli normali, ma
rappresentano soltanto fenomeni fisiologici esagerati nella loro intensità. Intorno a questi concetti
fondamentali si è andata sviluppando, nel corso del 20° secolo, l'idea di malattia. Essendo
contrapposta a quella di salute, essa non può prescindere da un'analisi sia pure approssimativa
dell'idea correlata. Apparentemente, gli esseri viventi si trovano in una condizione nella quale i
processi vitali si svolgono senza particolari difficoltà e la morfologia interna ed esterna delle varie
parti del corpo non va incontro a sensibili modificazioni, al di fuori di quelle, inevitabili, prodotte
dal trascorrere del tempo. In realtà, invece, questa costanza di strutture e funzioni dell'organismo è
soltanto apparente, poiché le varie parti del corpo si modificano di continuo in risposta alle
variazioni dell'ambiente esterno. Tutti gli esseri viventi si trovano inseriti in un determinato
ambiente e sono esposti costantemente alle innumerevoli influenze - fisiche, chimiche e biologiche -
che questo esercita. Poiché, però, l'ambiente esterno è in costante mutamento, le strutture e le
funzioni organiche cambiano incessantemente per mantenere quanto più possibile stabile l'ambiente
interno dell'organismo. Questa capacità complessiva degli esseri viventi di modificare l'intensità dei
propri caratteri in risposta ai mutamenti ambientali prende il nome di capacità di adattamento e
rappresenta una proprietà fondamentale della materia vivente, che permette agli organismi di
prolungare la propria vita e di riprodursi. Lo stato di salute dipende dalla capacità adattativa e la
salute si identifica con la relativa costanza della struttura e della funzionalità delle diverse parti
organiche e dell'organismo nel suo complesso. Ovviamente, queste possibilità di adattamento degli
esseri viventi non sono inesauribili; oltre certi limiti, infatti, l'organismo non può modificare
l'intensità dei processi che si oppongono alle variazioni ambientali; è costretto dunque ad alterare il
proprio ambiente interno e la propria struttura morfofunzionale, entrando così in stato di malattia.
Quest'ultima, pertanto, rappresenta sostanzialmente un'alterazione rilevante e relativamente stabile
nel tempo dell'equilibrio strutturale e funzionale di un essere vivente.
Tutto quanto si è detto finora può fornire un'idea relativamente chiara della condizione di salute e di
quella di malattia, ma dice molto poco sui limiti che separano ciò che è morboso da ciò che non lo è
e sul modo di riconoscere le condizioni patologiche da quelle non patologiche. I fenomeni biologici
sono soggetti a un'ampia variabilità individuale e, nella maggior parte dei casi, in una popolazione
omogenea i valori di una variabile (per es., concentrazione di una sostanza chimica nel sangue,
statura, pressione arteriosa, dimensioni dei globuli rossi ecc.) assumono una distribuzione gaussiana
(detta anche normale o a campana). La normalità di un carattere non può quindi essere identificata
con un singolo valore, ma va concepita come un intervallo entro il quale viene compresa una
rilevante percentuale degli individui appartenenti alla popolazione che è definita sana. Sia nella
ricerca biomedica sia nella pratica clinica, l'intervallo solitamente usato per stabilire i valori normali
di un parametro in una certa popolazione è quello entro il quale cade il 95% dei soggetti scelti come
campione di quella popolazione. In base a questo criterio, non normali e quindi patologici sarebbero
i valori che si collocano al di fuori di quelli estremi relativi a tale percentuale. Questo concetto di
'stato normale' trova il suo fondamento nell'analisi statistica dei fenomeni e si basa su criteri
quantitativi rigorosi e controllabili. Tuttavia, questo modo di identificare i valori normali non è
esente da alcune difficoltà di rilievo: esso, infatti, è in buona misura arbitrario e inoltre non
classifica in modo adeguato un numero più o meno grande di individui ('falsi positivi' e 'falsi
negativi'). La concezione statistica della normalità e della malattia, dunque, in alcuni casi
comprende tra quelli morbosi fenomeni che la grandissima maggioranza dei patologi e dei clinici
non sarebbe disposta a definire tali (per es., la bradicardia degli atleti) e classifica tra quelli normali
fenomeni che appaiono alla maggioranza degli studiosi come patologici (per es.,
l'ipertrigliceridemia così frequente nelle grandi metropoli americane). Al fine precipuo di evitare
queste difficoltà, è stata proposta una diversa idea di salute e di malattia, secondo la quale la
condizione di malattia non si identifica con lo scostamento di un certo parametro dal valore medio
di una popolazione, quanto piuttosto dal suo allontanamento da un valore ideale o desiderabile,
specifico per ciascun individuo, costituente il vero punto di riferimento per il biologo e per il
clinico.
4. Classificazioni e distribuzione
L'idea che le varie condizioni morbose in cui i singoli organismi vengono a trovarsi costituiscano
fenomeni sostanzialmente distinti e unitari, raggruppabili in un certo numero di processi ben definiti
- chiamati malattie - è sorta in un periodo relativamente recente della storia del pensiero medico. Il
primo studioso che ha concepito con chiarezza l'idea che i fenomeni morbosi non sono costituiti da
un unico disordine generale assumente varie forme, ma da entità radicalmente diverse l'una
dall'altra, e che queste entità, per essere adeguatamente comprese, dovevano prima essere separate
tra loro, è stato il clinico inglese del 17° secolo Th. Sydenham. Le prime classificazioni delle
malattie furono elaborate nel secolo successivo sull'esempio della classificazione delle piante e
degli animali proposta da Linneo. Questi ordinamenti delle malattie adottavano i criteri
classificatori dei botanici e degli zoologi e identificavano i processi morbosi sulla base dei loro
caratteri clinici. Solo dopo la pubblicazione del De sedibus et causis morborum per anatomen
indagatis (1761) di Morgagni si cominciò a classificare le malattie prevalentemente in relazione alla
sede e al tipo delle alterazioni anatomiche che provocano i sintomi rilevabili al letto del malato.
Successivamente, nel 19° secolo, dopo la scoperta del ruolo dei microbi nel determinismo dei
fenomeni morbosi, la nosologia subì un'altra rilevante modificazione e venne creato un nuovo
capitolo dedicato alle malattie infettive. Nel Novecento si sono aggiunti altri capitoli dedicati alle
malattie endocrine, alle carenze vitaminiche, alle malattie genetiche, a quelle metaboliche e
all'immunopatolgia. Attualmente, il campo della patologia è estremamente diversificato e la
classificazione delle malattie si basa contemporaneamente su più criteri diversi, i principali dei quali
sono il criterio morfologico, quello microbiologico, quello fisiopatologico, quello eziologico e
quello clinico. Relativamente alla distribuzione, si constata che le malattie colpiscono gli uomini
con frequenza diversa e pertanto sono presenti in una certa popolazione in percentuali molto
differenti. Alcuni processi morbosi colpiscono un gran numero di individui, mentre altri si
manifestano assai di rado. Inoltre, popolazioni molto diverse o che vivono in luoghi distanti
presentano differenti distribuzioni. La variabilità della frequenza con cui le malattie compaiono
dipende da numerosi fattori, alcuni ben noti e altri del tutto sconosciuti. Tra i più noti si possono
ricordare l'assetto genetico della popolazione, la sua alimentazione, le abitudini voluttuarie, l'attività
fisica, la frequenza e il tipo dei contatti che intercorrono tra i membri appartenenti alla popolazione
e tra quella popolazione e le altre con le quali essa ha rapporti, l'ambiente naturale in cui gli
individui vivono, le terapie disponibili e così via. La frequenza con la quale le malattie si presentano
varia anche nel tempo. L'analisi storica ha mostrato che, in una stessa popolazione, la frequenza dei
processi morbosi è sensibilmente differente in periodi diversi, e che, mentre alcuni si presentano
sempre più raramente, altri si manifestano sempre più spesso. Tale fenomeno fa sì che la
distribuzione delle varie malattie muti con il trascorrere del tempo, analogamente a quanto avviene
per le specie animali che vivono in un determinato territorio. Se, però, si esamina la situazione in un
arco temporale di pochi anni, si può constatare che esiste un rapporto costante tra le frequenze delle
forme morbose rilevabili in una certa regione. In una popolazione esiste, quindi, un'interdipendenza
tra tutte le malattie presenti e si stabilisce un equilibrio tra le differenti forme morbose. A questo
equilibrio, caratterizzato anche dal fatto che la distribuzione delle frequenze morbose presenta
particolari caratteristiche matematiche, M. Grmek ha dato il nome di 'patocenosi', denotando più
precisamente con questo termine "l'insieme qualitativamente e quantitativamente definito degli stati
patologici presenti in una certa popolazione e in un certo momento" (Grmek 1998, p. 22). In ogni
patocenosi storicamente determinata esistono sempre poche malattie molto frequenti e moltissime
malattie rare; tra queste diverse forme morbose si instaura un'azione reciproca, per cui la frequenza
di una malattia influisce su quella di tutte le altre e l'insieme dei processi patologici tende, quando le
condizioni ecologiche sono stabili, verso una condizione ideale di equilibrio.
l. Studi epidemiologici
Fin dall'antichità le malattie sono state associate alla povertà: dati storici che descrivono le grandi
epidemie indicano un eccesso di mortalità tra gli indigenti, imputabile principalmente a carenze
alimentari, alla mancanza di assistenza sanitaria e alla promiscuità abitativa. Anche le patologie
croniche connesse all'attività lavorativa sono state descritte in passato come l'effetto sfavorevole
della rivoluzione industriale sulla salute umana. Ancora oggi, tra la popolazione che vive nelle
periferie suburbane delle grandi città o tra le comunità di emigrati dal Terzo mondo, si assiste a una
maggiore morbosità per patologie infettive, come le infezioni respiratorie da virus sinciziale nei
neonati o la tubercolosi tra gli adulti. Le condizioni socioeconomiche sono, quindi, in grado di
influenzare lo stato di salute e di proteggere o, al contrario, di predisporre alla malattia. La
civilizzazione e il progresso, che hanno contraddistinto i paesi a economia avanzata nella seconda
metà del Novecento, i cambiamenti demografici, le diverse modalità di erogazione dell'assistenza
sanitaria hanno influito in maniera determinante sui rapporti tra condizioni socioeconomiche e
salute. Ciò nonostante, la distribuzione della mortalità e dell'occorrenza di numerose patologie
infettive e cronico-degenerative appare ancora disomogenea tra le diverse classi sociali e tale da
indicare l'esistenza di diseguaglianze. Per valutare le condizioni socioeconomiche a livello
individuale gli indicatori più comunemente utilizzati sono la scolarità, il reddito e la professione.
Questi fattori sono tra loro strettamente connessi e pertanto anche uno solo di essi, rilevato nel corso
di indagini epidemiologiche, può essere utile al fine di individuare la classe sociale di appartenenza.
Il livello di istruzione è stato l'indicatore maggiormente utilizzato nel corso degli studi
epidemiologici in quanto è facilmente e universalmente rilevabile, sia nei soggetti che lavorano sia
in quelli inattivi; inoltre, generalmente, non varia durante il corso della vita adulta e permette
confronti fra diverse situazioni nazionali in relazione agli anni di formazione scolastica ricevuta.
Poiché esso è acquisito prevalentemente nell'età giovanile, è improbabile che sia influenzato da un
cattivo stato di salute, come si verifica per l'occupazione: solamente in pochi casi malattie contratte
durante l'infanzia possono incidere sulla qualità o sulla quantità dell'istruzione ricevuta. Il reddito è
un indice importante di status perché favorisce l'accesso a beni e servizi, incluse l'istruzione e le
cure mediche. Tuttavia, dal momento che è abbastanza difficile raccogliere informazioni su questo
fattore, data la reticenza a rispondere alle relative domande, spesso si preferisce utilizzare altri
indicatori, quali la proprietà della casa di abitazione, il numero di automobili in rapporto al numero
dei componenti della famiglia ecc. Nelle società moderne la professione (o il tipo di lavoro) mostra
una buona associazione con le condizioni socioeconomiche e viene pertanto usata negli studi
epidemiologici. Nella fase di raccolta dei dati, tuttavia, si incontrano alcune difficoltà, in quanto si
dovrebbe ricostruire per ogni individuo la storia occupazionale, visto che la professione attuale
potrebbe essere stata scelta in conseguenza di uno stato di salute precario. Alcuni ricercatori
considerano, oltre al tipo di professione, la posizione nel lavoro e il livello di responsabilità
decisionale. In particolare, R. Karasek e collaboratori (1981) indicano che una classificazione
dell'attività lavorativa in base alla discrezionalità decisionale e al carico di lavoro permette una
migliore caratterizzazione del livello occupazionale in relazione alle condizioni economiche.
In Inghilterra le condizioni socioeconomiche sono state definite in cinque livelli in rapporto al tipo
di occupazione (1: liberi professionisti; 2: professionisti dipendenti; 3: lavoratori parzialmente
specializzati, con lavoro manuale e non; 4: operai parzialmente specializzati; 5: operai non
specializzati). All'interno di grandi unità lavorative, prevalentemente rappresentate dal pubblico
impiego, è in uso anche la classificazione dei lavoratori in 'colletti bianchi' (dirigenti, impiegati) e
'colletti blu' (operai, manovali): questa distinzione risulta utile sia per la classificazione del tipo di
lavoro sia per distinguere l'appartenenza al livello socioeconomico. La disoccupazione è un indice
correlato sia con un cattivo stato di salute sia con situazioni economiche precarie. L'analisi dei dati
epidemiologici per livello occupazionale deve quindi considerare a parte la condizione di
disoccupato. La residenza in ambiente rurale o urbano è stata indicata tra le variabili da tenere in
considerazione per i rapporti che può avere con la salute, ma attualmente non sembra una
discriminante nella valutazione del livello socioeconomico. Piuttosto il possesso di un'abitazione in
alcune aree residenziali cittadine può costituire un'informazione utile.
Malattie e culture
di Alice Bellagamba
4. Vivere l'incertezza
L'esito di un episodio di malattia è sempre piuttosto incerto. Raccontato a posteriori - la narrazione
costituisce uno strumento d'indagine privilegiato per avvicinarsi alla percezione che sia l'ammalato
sia le persone che lo circondano hanno di una data situazione di disagio - assume le sembianze di un
itinerario, di un faticoso movimento tra opportunità terapeutiche, anche apertamente in contrasto, di
una storia fatta di tentativi e progressivi fallimenti, di interpretazioni prima accettate e in seguito
rifiutate (Augé 1985). Disturbi che provochino un simile tipo di reazione esistono anche in quei
contesti dove maggiore è lo sviluppo delle istituzioni sanitarie e delle tecnologie biomediche. La
ricerca affannosa di una soluzione è ancora più evidente laddove il livello dell'assistenza sanitaria
sia scarso o quasi del tutto assente. Il tema dell'incertezza, sostiene S. Reynolds-Whyte (1997),
riveste un ruolo di primo piano nel modo in cui i nyole, una popolazione bantu dell'Uganda dedita
all'agricoltura, esperiscono e concettualizzano la malattia. Il territorio in cui vivono è
contraddistinto ancora oggi da servizi sanitari spesso inefficienti e inadeguati alle esigenze della
popolazione: gli ospedali governativi sono scarsamente attrezzati; i salari degli operatori sanitari
troppo bassi; il numero di persone che fanno ricorso a questo tipo di cure troppo alto. Nel frattempo,
nuove malattie, come l'AIDS, hanno fatto la loro comparsa, rendendo ancora più difficile la
situazione. Non c'è da stupirsi che in un simile contesto i curatori locali rivestano un ruolo
estremamente significativo nei processi di cura: divinatori, erboristi, specialisti nel trattamento della
stregoneria costituiscono altrettante figure impegnate nell'interpretazione e nella risoluzione dei
disturbi del corpo. I nyole hanno una visione ben precisa di quella che è una vita realizzata e
completa. Il modo migliore per avvicinarvisi è ascoltare le preghiere improvvisate che rivolgono
agli antenati; qui compaiono una serie di temi ricorrenti che uniti tra loro creano un'immagine della
buona sorte. Essere benedetti dagli antenati significa ottenere la prosperità, un solido legame
matrimoniale, i figli, il benessere, la tranquillità intesa come libertà dalle preoccupazioni materiali e
spirituali. Quando i desideri falliscono, nasce la sofferenza; si tratta allora di affrontarla, non tanto
nell'ottica di renderla sopportabile, quanto con il preciso proposito di modificare la situazione, e gli
'idiomi' che permettono di interpretarla individuano al tempo stesso un corso terapeutico. Il primo di
questi idiomi, sintomatico, ricorre a preparati farmaceutici, locali o d'importazione; il secondo è
esplicativo, invoca cioè il ruolo che agenti specifici, maledizioni umane, stregoni, fantasmi degli
antenati, spiriti, rivestono nel provocare la malattia. Esso induce a riflettere sulle reti di relazioni
che circondano l'ammalato; mette in discussione i legami esistenti e le identità, creando una sorta di
preocuppazione per gli altri da cui la persona dipende e con cui è, bene o male, in rapporto; instaura
una connessione tra la sofferenza e le sue cause sociali. Proprio per questa sua dimensione, così
coinvolgente, non è il preferito: quando insorge un disturbo il primo tipo di trattamento è sempre
sintomatico, si tratti di acquistare o procurarsi farmaci di tipo occidentale, di utilizzare erbe o di
ricorrere all'aiuto degli specialisti sanitari. Solo in un secondo tempo, quando ne è comprovata la
tenacia, i nyole cominciano a valutare la possibilità di un'altra interpretazione.
Un terzo tipo di discorso, ovvero quello relativo alla responsabilità individuale, tuttora poco
condiviso, è promosso dai medici e dalle istituzioni sanitarie missionarie, soprattutto per quanto
riguarda i casi di AIDS. Ciascun idioma genera forme di incertezza, dubbi e una sorta di
insoddisfazione che porta a valutare le opportunità offerte dagli altri. La presenza di alternative
rende possibile mettere in atto un piano d'azione e vedere se funziona: di fatto i nyole, mai del tutto
convinti del corso terapeutico che hanno deciso di intraprendere, ne parlano sempre in termini
ipotetici: "Forse gli spiriti hanno toccato il bambino!" oppure "Se davvero questo è l'agente
responsabile!". I curatori stessi, per quanto posti sotto pressione e in un certo senso tentati dalle
speranze e dai desideri dei loro clienti, non hanno alcuna illusione di successo. I 'forse' e i 'può
essere' danno spazio all'incertezza, ma evitano anche di affrontare in modo diretto una situazione
spiacevole. Enfatizzare i desideri, i dubbi e le speranze che caratterizzano l'intero processo, sostiene
Reynolds-Whyte, è un modo per avvicinarsi a quello che è il punto di vista dei soggetti coinvolti.
Siamo costretti a prestare attenzione alla modalità in cui delle persone reali affrontano la sventura
che irrompe nelle loro vite. In virtù della posizione che occupano in un dato universo sociale e
morale, esse hanno una certa familiarità con un insieme di idee sulla natura dei disturbi corporei, ne
conoscono il significato e le implicazioni: tentano, sperano, riconsiderano le loro ipotesi e provano
ancora un'altra soluzione. Talvolta raggiungono un certo grado di tranquillità, senza però avere mai
la certezza assoluta che la scelta fatta sia la migliore. I nyole di per sé non sono conservatori, ma
l'uso dei metodi di cura locali è una necessità in una situazione, come la loro, priva di un'adeguata
assistenza sanitaria. L'esempio dimostra la necessità di porre le esperienze soggettive in tensione
con il loro contesto culturale e sociale. Le discipline biomediche rappresentano la malattia come
qualcosa di localizzato nel corpo, in un dato processo fisiologico o in un contesto anatomico
particolare. Ma essa è anche parte della storicità umana, del vivere di individui, famiglie e
comunità. Sottolinearne la natura sociale non esclude l'importanza della dimensione biologica.
Impone, invece, di valutare il ruolo rivestito da una molteplicità di fattori, dalla biologia alle
pratiche sociali, che tra loro interagiscono, nel trasformare i disturbi del corpo in un oggetto sociale.
Significa insistere sulla pluralità di discorsi e di griglie esplicative, ciascuna con un suo punto di
vista, una sua spiegazione e una sua soluzione terapeutica, chiamate in causa dal loro insorgere
(Good 1992). È allora necessario individuare strategie di rappresentazione e descrizione della realtà
etnografica che non reifichino il discorso sulla malattia, trasformandolo in un'astratta questione
cognitiva, ma che sottolineino invece la sua dimensione di esperienza intersoggettiva,
interrogandosi sul rapporto che si instaura tra percezioni individuali e ordine culturale, tra la natura
socialmente condivisa del pensiero e la realtà, sempre personale, della sofferenza individuale.
Ponendo in luce la natura stratificata e inegualmente distribuita, attraverso le diverse categorie
sociali, dei saperi che permettono di interpretare e curare i disturbi del corpo, concentrandosi sulle
situazioni che condizionano il riprodursi e il costituirsi della conoscenza medica e su quei fattori
che determinano a priori chi e come possa contrarre un certo tipo di disturbo e possa, in certe
circostanze, ricorrere a una data opzione terapeutica, l'analisi antropologica suggerisce infine di non
dimenticare le ineguali relazioni di potere che circondano i discorsi sulla malattia.
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