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Nella caccia della lingua: La gioia di Dante e lo spettro di Babele tra volgare, vita e arti

meccaniche
Author(s): STEFANO SELENU
Source: Dante Studies, with the Annual Report of the Dante Society , 2014, No. 132
(2014), pp. 59-85
Published by: The Johns Hopkins University Press

Stable URL: https://www.jstor.org/stable/43490514

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Nella caccia della lingua: La gioia di Dante
e lo spettro di Babele tra volgare,
vita e arti meccaniche

STEFANO SELENU

moltiplicato. Un iper-soggetto, potremmo dire, che ha attratto


l'attenzione
Quello l'attenzione moltiplicato. che degli
oggi studiosi
degli Undandochiamiamo
luce a uniper-soggetto,
Dante pluri- studiosi "Dante" dando potremmo luce è un a soggetto dire, un che Dante variamente ha attratto pluri-
prospettico: poeta, personaggio, narratore, autore e autorità, teologo,
filosofo, politico, linguista, commentatore, antologizzatore e canonizza-
tore. Nel contesto dei ricchissimi studi sul poeta fiorentino, il rapporto tra
la sua figura e quelle che i medievali chiamavano arti liberali è stato son-
dato con successo in diversi modalità e contesti. D'altro canto, però, una
ricerca articolata e completa sulle metafore usate dallo stesso Dante per
riferirsi al proprio lavoro intellettuale è ancora tutta da scrivere.1 Se si
osservano attentamente i suoi scritti non è difficile riscontrare il persistente
uso di metafore provenienti dalle arti meccaniche. Accanto ai diversi
Dante sopra elencati si dovrebbero pertanto annoverare un Dante metafo-
rizzato come fabbro, tessitore, nutrice e pastore, contadino, navigatore,
guerriero e cacciatore. Comune denominatore di tutte queste metafore -
che potremmo chiamare "metafore del lavoro dantesco" - è che il poeta
pensa sé stesso come faber ; come "artefice" e "operatore" di "diverse arti"
( Conv . 4.6.6ss) che, mentre fa, produce e agisce, essendo agens e laborans
allo stesso tempo.
È questo Dante, inseribile in un vasto orizzonte di ridefinizione del
poeta in quanto " poeta della prassi ," a necessitare maggiore attenzione.2
Con questo in mente, le pagine che seguono mirano a far luce sulle riso-
nanze e ramificazioni di una metafora in particolare, quella venatoria, che

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Dante usa in diversi contesti della sua opera.3 Lo scopo del saggio non sarà
quello di svelare gli artifici retorico-stilistici utilizzati, quanto leggere e
interrogare la metafora della caccia in quanto dispositivo utile a Dante per
affrontare l'archetipo del venator Nimrod, l'architetto della Torre di
Babele. Nel far questo, oltre a rilevare come Dante ritorni metaforica-
mente (e ideologicamente? ci si chiede) alle arti meccaniche, si darà una
lettura dell'intervento di Adamo in Paradiso 26 quale protagonista del pri-
miloquium e antagonista di Nimrod e Babele.
È risaputo che nei suoi scritti giovanili Dante abbia rigettato la caccia
in favore dell'amore.4 Il poeta supererà la divisione tra divertimento vena-
torio e devozione amorosa dopo l'esilio dal 1302 in poi, quando l'uni-
verso semiotico-metaforico della caccia tornerà ad animare vivamente la
retorica e l'immaginazione del poeta. Si pensi solo alla visione della can-
zone come caccia con " neri veltri " in Tre donne intorno al cor mi son venute ;
la caccia della lingua adamitica e della pantera così come il grido bellico-
venatorio "Racha, racha!" contro re e governanti nel De vulgāri eloquentia ;
l'intervento del veltro in Inferno 1; le tante immagini e scene venatorie
dislocate lungo il poema (i Centauri-cacciatori in Inf. 12, la caccia al cin-
ghiale richiamata in Infģ 13.116-8), "la caccia immaginata" dei diavoli di
Malebranche in Inf 21-3, il "nodo" della longa e l'arte della falconeria in
Purg. 24.55ss. come sostenuto da Lino Pertile5); gli usi del verbo "cac-
ciare" nella Commedia per indicare la missione del veltro così come lo
"scacciare" dei Guidi dal nido da parte di Dante (Purg. 11.99) e, non da
ultimo, il gioco linguistico contenuto nel nome di Caccia-guida, tanto
"guida per la caccia" quanto "la caccia dei Guidi."6
Il ritorno della metafora venatoria a seguito dell'esilio non è casuale.
Da una parte, Dante immagina la propria condizione di esiliato come un
vivere in una nuova Babele storica, fatto che a ben vedere legherebbe il
poeta alla "doppia" figura di Nimrod, descritto dal Genesi non solo come
architetto della Torre ma anche come potente cacciatore. D'altra parte,
una spia linguistica di un certo rilievo è il fatto che i medievali per parlare
dell'esilio usavano l'espressione "cacciare" l'esiliato dalla città, espressione
potente da un punto di vista biopolitico, in quanto capace di spostare
violentemente la dimensione del cittadino in quella di animale-preda (da
bios a zoè , dalla vita di diritto alla nuda vita).7 Che l'uso della metafora in
Dante ricopra esclusivamente un valore negativo, piuttosto che capovol-
gerlo, è discutibile, non per altro perché egli stesso portava con sé, in
quanto esiliato, la traccia dell'essere "cacciato" - così come esule e preda

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sarà la lingua illustre che lui cercherà di cacciare nel trattato latino. Dante
farà sempre resistenza alla sua condizione di "exul inméritas" cercando di
ritradurre la nuda vita in nuovo bìos differito, l'umano animalizzato in
nuova dignitas. Come dirà in Tre donne intorno al cor mi son venute , "Ed io,
ch'ascolto nel parlar divino / consolarsi e dolersi / così alti dispersi /
l'essilio che m'è dato, onor mi tegno . . ."8
Il più evidente e non inaspettato uso della metafora venatoria si trova
nel De migań eloquentia.9 Scritto nel primo periodo dell'esilio e in corri-
spondenza ai primi processi di antologizzazione della poesia italiana in
volgare,10 il trattato è, insieme al Convivio e alle rime dell'esilio, una fonda-
mentale opera mediana tra le opere giovanili, Vita Nova e Rime, e quelle
della maturità, Commedia e Monarchia innanzitutto. E in questo contesto
che Dante recupera la metafora venatoria per usarla in due precisi
momenti del suo discorso linguistico. La prima occorrenza della metafora
è in DVE 1.6.1, in concomitanza con uno dei primi usi del termine
"ydioma" nel trattato, ovvero, al primo tenuo passaggio dal campo
semantico della " locutio " (atto di parola, modo di parlare) a quello di
" ydioma " (lingua, sistema linguistico).11 In questo contesto, la lingua di
cui Dante è alla caccia non è ancora il volgare illustre - come sarà nelle
occorrenze successive della metafora ( DVE 1.11.1; 1.15.7; 1.16.1-2;
2.6.3) - , ma l'idioma usato da Adamo: "de ydiomate venari nos decet
quo vir sine matre . . . credi tur usus" (è opportuno mettersi alla caccia di
quell'idioma che si pensa abbia usato l'uomo che non ebbe madre [DVE
1.6.1]). E evidente che in questo contesto a Dante non interessava solo
sapere quale fosse l'atto di parola ( locutio ) del primiloquium adamitico, ma
quale fosse l'idioma in cui quell'atto di parola si "emanò" ("sub quo ydio-
mate primiloquium emanavit" [DVE 1.4.1]).
In seguito, la metafora venatoria ricomparirà esclusivamente in rap-
porto al volgare illustre, immaginato nel primo libro del trattato come una
pantera emanante un dolce profumo. La metafora è applicata a due diverse
modalità di ricerca scandite in ordine consequenziale nel testo, la prima di
tipo empirico-induttivo (DVE 1.9-15), la seconda di tipo teorico-
deduttivo (DVE 1.16ss). In questo secondo momento, il poeta appare
riprendere implicitamente una terminologia che aveva già usato in due
tempi diversi in riferimento alla lingua di Adamo (" investigandum " [1.4.1]
e " venari " [1.6.1]) e caratterizzerà la propria caccia della lingua in maniera
esplicita come un'investigazione razionale (" rationalibus investigemus "
[1.16.1]), al fine di scovare, attraverso l'uso del discernimento, una lingua

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illustre, definita nella seconda parte del trattato come "suprema" ("sola
supprema venamur " [2.6.3]).
Il raggiungimento di tale proposito presentava non poche difficoltà,
prima tra tutte l'acquisizione delle competenze necessarie per discernere,
che, come Brunetto Latini aveva insegnato nel Tresor e Dante conferma
in De vulgāri eloquentia 2.4.10, non erano di facile conseguimento.12 Non-
dimeno, il poeta attribuisce un doppio fine particolarmente ambizioso alla
propria caccia. Da una parte, egli mira ad illuminare l'intelletto di coloro
che sembrano errare senza saper distinguere "il davanti dal retro", "il
prima dal dopo" - " anteriora posteriora putantes " (1.1.1); dall'altra, vuole
essere di beneficio a quella che egli chiama " locutio vulgarium gentium "
(1.1.1). Quest'ultimo proposito è cruciale nel legame che il poeta instaura
tra la propria ricerca linguistica e l'opposizione a Babele. E il concetto
stesso di "volgare" - riferito tanto alle genti (vulgarium gentium) quanto al
linguaggio (vulgaris locutio /ydioma/ sermo /lingua) - a portare dentro di sè le
tracce di Babele. Infatti, il termine si radica nel termine latino vulgus ,
definito da Isidoro di Siviglia come una moltitudine dispersa di individui
che vagano seguendo solo la propria volontà individuale.13
Se si tiene maggiormente conto della natura dispersa e frammentata
delle "genti volgari" al cui "parlare" (locutio) Dante vorrebbe essere
d'aiuto, si può considerare la vicenda di Babele non solo in senso stretto,
come racconto vetero-testamentario, ma anche in senso più largo in
quanto "spettro" o figura dispersionis abitante lo stesso concetto di "vol-
gare" al quale Dante dedica il suo trattato latino.14 In altre parole, lo spet-
tro babelico si caratterizza non tanto come figura isolata quanto come
nesso allegorico tra Y exemplum tipologico della Babele vetero-testamentaria
e la frammentazione linguistico-politica caratterizzante l'Italia e l'Europa
del tardo Medioevo. Nesso al cui fondo si riverbera, inoltre, il legame tra
Babele come allegoria multipla rappresentante la città superba, la disper-
sione della comunità e l'esilio dell'uomo dalla città di Dio.
Non è difficile riscontrare che Dante affronta di petto il mito di Babele,
instaurando un rapporto tensivo semanticamente molto ricco. Già Teodo-
linda Barolini ha rilevato da una prospettiva narratologica come l'esten-
sione e centralità di figure quali Ulisse e Nimrod nel poema dantesco
vadano ben oltre la loro presenza all'interno di un solo canto. Esse si
ritrovano in tutte e tre le cantiche e hanno una vasta "risonanza poetica"
all'interno del poema.15 Nel caso di Nimrod, la sua presenza inizia a mani-
festarsi prima del poema non solo come "figura riferita" ma come "fanta-
sma" abitante zone lessicali e metaforiche, che costituiscono dei complessi

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intrecci testuali e narrativi tra le opere. Si pensi solo al passaggio metafo-


rico dalla caccia nel De vulgāri eloquentia alla "guerra sì del cammino e sì
de la pietāte" usato per rappresentare il viaggio della Commedia in Inferno
2.4-5.

La connessione tra le due metafore appare meno casuale di quanto


potrebbe sembrare a prima vista, se si considera che Dante probabilmente
scrisse i primi canti dell' Inferno quando il Convivio e il De vulgāri eloquentia
erano ancora in composizione.16 Se poi ci si sofferma anche sul ruolo
antropologico della caccia in quanto pratica culturale usata nel Medioevo
per educare i giovani aristocratici all'arte della guerra,17 la metafora vena-
toria nel De vulgāri eloquentia potrebbe essere letta come un tentativo alle-
gorico per indicare il trattato linguistico come scaturigine propedeutica in
cui il poeta prepara le proprie "armi" per la "guerra" della Commedia.™
In realtà, proprio il nesso metaforico tra caccia e guerra pare essere al
centro dell'immagine di Nimrod come cacciatore nel Genesi.19 Che Dante
ne abbia sentore lo evidenziano i vari intrecci tra riferimenti bellici e

venatori (per esempio, il "corno") in Inferno 31.


Tangenzialmente agli studi maggiormente filologici nel campo, il rap-
porto tra Dante e Nimrod ha attratto anche l'attenzione di chi come
Giorgio Agamben vi ha visto un punto di riferimento paradigmatico non
solo per Dante ma anche per lo sviluppo della letteratura italiana. "È un
caso", si chiede Agamben,

che lo stesso Dante presenti, nel De Vulgāri Eloquentia , la sua ricerca del volgare
illustre costantemente attraverso l'immagine di una caccia ("cacciamo la lingua"
I, XI, 1; "ciò che cacciamo" I, XV, 8; "le nostre armi da caccia" I, XVI, 2) e
che la lingua così sia assimilata ad una bestia feroce, a una pantera? Alle origini
della nostra tradizione letteraria la ricerca di una lingua poetica illustre si pone
così sotto il segno inquietante di Nemrod e della sua caccia titanica, quasi a signi-
ficare il rischio mortale implicito in ogni ricerca sul linguaggio che voglia in
qualche modo restaurarne lo splendore originario. La "caccia della lingua" è,
insieme, tracotanza anti divina, che esalta il potere raziocinante della parola, e
amorosa ricerca che vuole invece porre riparo alla presunzione babelica.20

Almeno quattro argomenti chiave caratterizzano le intuizioni di Agamben:

1. la ricerca linguistica di Dante è collocata " sotto il segno " di Nimrod


(si noti che nei passi citati da Agamben non compare DVE 1.6.1
relativo alla caccia della lingua adamitica);

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2. la lingua che Dante cerca di "catturare" è come una bestia feroce,


una pantera, che potrebbe mettere in pericolo il suo cacciatore-
poeta;
3. la caccia dantesca mira a restaurare lo splendore originario del
linguaggio;
4. tale caccia contiene ed esprime un "rischio mortale".

Sebbene stimolante, quanto Agamben propone è rimasto finora indi-


scusso. Diversi sono gli interrogativi che nascono ad una lettura attenta:
che relazione intercorre tra Dante e Nimrod lungo i testi danteschi? Cosa
dovremmo intendere con la formula "sotto il segno di Nimrod?" Nell'u-
sare la metafora venatoria, Dante strarebbe indicando la figura di Nimrod
come paradigmatica? E se così fosse, la metafora sarebbe una sotterranea
dichiarazione genealogica e archetipica da parte del poeta? Ma, come si
spiega che la prima occorrenza della metafora sia legata alla ricerca della
lingua usata da Adamo?
L'espressione "sotto il segno" che Agamben utilizza sembra accettare
l'assunto che Dante segua la scia di Nimrod, quasi a significare che anche
l'opera dantesca si iscriva intenzionalmente nel paradigma babelico. Seb-
bene l'esistenza di un forte rapporto tensivo tra il poeta e il cacciatore di
Babele sia innegabile, il fatto che esso sia di continuità e somiglianza non
è garantito. Infatti, la metafora venatoria può (e deve, come cercherò di
mostrare) essere vista da una diversa angolatura. L'uso della metafora di
per sé non è sufficiente a giustificare un tale rapporto figurale, se solo
teniamo a mente che la contesa e Vagone non si instaura tra diversi, ma tra
eguali. Al contrario, tra diversi è possibile instaurare amicizia, come spie-
gherà Aristotele nell'Etica Nicomachea, in un passo di cui Dante è piena-
mente consapevole.21 Pertanto, l'assimilazione tra Dante e l'architetto di
Babele, suggerita dalla formula "sotto il segno di Nimrod," deve essere
provata, o meglio messa alla prova.
Nel caricare su di sè la stessa metafora che il Vecchio Testamento ascrive
a Nimrod è plausibile pensare che Dante esegua una doppia operazione:
da una parte, emula e ricalca la Bibbia (e quindi il linguaggio di Dio,
atto che nel profondo caratterizza la scrittura del "poema sacro" nel suo
complesso); dall'altra, si veste della stessa figura attribuita a Nimrod quasi
a significare un rapporto agonistico con l'architetto di Babele. Pertanto,
siamo invitati a chiederci se egli si faccia seguace del venator come figura
diaboli di agostiniana e isidoriana origine, oppure, come è stato suggerito,

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Nella caccia della lingua, Stefano selenu

del cacciatore come figura Christi che potrebbe avere come fonte il De
Universo di Rabano Mauro, " Venator Christus est . . . venatores apostoli vel
caeteri praedicatores"22 A sua volta, questo ci spinge oltre un orizzonte pura-
mente linguistico, a cui Agamben sembra alludere quando riduce la puni-
zione dantesca di Babele alla sola confusione delle lingue, tralasciando
così l'aspetto più dirompente e rivoluzionario inserito da Dante nel suo
commento all'episodio babelico (DVE 1.7), ossia il capovolgimento della
gerarchia del potere sociale.
Tutto ciò si accompagna a un ulteriore aspetto filosoficamente rile-
vante. Nel mettere l'accento esclusivamente sul pericolo costituito dalla
lingua-pantera e sul conseguente "rischio mortale " corso dal poeta, la
ricerca dantesca della lingua volgare verrebbe ad assumere una tonalità
tanatopolitica. A ben osservare, però, tale lettura non fa i conti con la natura
vitale, ironica e ludica della poesia e del pensiero danteschi, capaci, come
si vedrà più avanti, di ritradurre l'immagine della morte in nuova vita.
Non è un caso che l'opera in cui il poeta esplicitamente piangerà la morte
di Beatrice ha per titolo esattamente Vita Nova - fatto questo che spinge
a pensare a un Dante dalle tonalità biopolitiche affermative più che
tanatopolitiche.23
La scommessa di questo saggio sarebbe, quindi, la seguente: mostrare
che Dante usa la metafora venatoria non in continuità ma contro Babele

e la figura di Nimrod. È proprio il primo uso della metafora nel trattato


latino ad esserci d'aiuto. Esso infatti lega l'atto venatorio alla lingua adami-
tica e non alla confusione babelica. A ben osservare, la figura di Adamo
appare nei testi danteschi come punto di riferimento costante, come uno
dei venabula a cui il poeta ricorre per la propria caccia del volgare, costitu-
tivamente inseparabile dal suo opporsi allo spettro babelico. Infatti, le sto-
rie di Adamo e Nimrod sono per Dante inscindibili: esse appaiono sempre
correlate contrappuntisticamente non solo nel De vulgāri eloquentia , ma
anche in contesti in cui il loro legame appare meno evidente, come Inferno
31, vero e proprio canto di Nimrod. Le scelte retoriche nel canto, così
come la rappresentazione del linguaggio nimrodico contengono degli
importanti intertesti con il trattato latino, su cui poco si è riflettuto. Come
sarà più evidente tra breve, il linguaggio nimrodico è un "notare" vuoto
e solipsistico opposto a quello originario di Adamo e quello storico di
Dante esplicitamente inteso come trascrizione del "notare" di Dio,
Amore e Filosofia.

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Il rapporto con Babele non termina però nella prima cantica, ma si


estende a tutte le cantiche, come si è detto. E in Paradiso 26 dove il
poeta sente nuovamente l'esigenza di ritornare al Genesi dal principio per
interloquire direttamente con Adamo. Un tale ritorno porta con sè un
significato etico e politico a cui il poeta aveva già alluso - con evidente
intertesto con DVE 1.4.2 ("quod in principio Genesis loquitur") - in
Inferno 11.106-8, quando dichiarò che, tenendo a mente quanto il Genesi
dice "dal principio," si può capire perché è dalle arti umane e dalla natura
(l'arte di Dio) che la gente "convene prender sua vita e avanzar." L'ina-
spettato ritorno all'inizio del Genesi attraverso la figura di Adamo in Para-
diso 26 servirebbe non solo come giustificazione della doppia natura, sacra
e storica della Commedia , come Contini ha rimarcato, ma come conclusiva
opposizione allo spettro di Babele e la sua gente. Ed è proprio il concetto
di "gente" - già presente nella formula locutio vulgarium gentium (DVE
1.1.1) - ad essere chiave nei momenti in cui il poeta si confronta con
figure pregnanti come quelle di Nimrod ("le genti /che 'n Sennaàr con
lui superbi fuoro," Purg. 12.35-6 e "la gente di Nembròt" Par. 26.126) e
Ulisse ("di retro al sol, del mondo sanza gente" Inf. 26.119). Da questa
angolatura andrebbe visto lo svuotamento della lingua da ogni fonda-
mento metafisico proposto in Paradiso 26 al fine di spostare l'accento sulla
storicità del linguaggio in quanto fare poetico e sull'esperienza di gioia
vissuta nel primiloquium adamitico. Ma ora, è bene procedere con ordine
discutendo prima la figura del cacciatore Nimrod.

Nimrod e il capovolgimento della gerarchia sociale

Il pellegrino incontra Nimrod in Inferno 31, in cui si descrive il transito


dalle Malebolge al lago Cocito. In questo canto tipicamente di passaggio,
Nimrod viene rappresentato come uno dei giganti ivi condannati, tra cui
figurano anche Efialte, Briareo e Anteo.24 Come è stato rimarcato più
volte, Nimrod fa eccezione rispetto agli altri giganti, tutti appartenenti alla
gigantomachia classica ("l'alta guerra," Inferno 31.119).25 La rappresenta-
zione dantesca dell'architetto di Babele come gigante, come si sa, fa ecce-
zione anche da un altro punto di vista. Essa infatti è una vera e propria
invenzione artistica di Dante: particolarmente diverso dal potente caccia-
tore della Vulgata , Nimrod non si ritrova rappresentato come gigante nel-
l'Antico Testamento. Una tale rappresentazione deriverebbe dalla lettura
della Città di Dio di Agostino (16. 3-5). 26

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Nella caccia della lingua, Stefano selenu

Nell'ultima delle bolge, Dante aveva punito i falsari - tra cui spiccano
le litigiose figure di Sinone e Mastro Adamo (nome quest'ultimo non
poco ironico se pensato come anticipazione al canto di Nimrod) -, men-
tre nel cerchio successivo punirà i traditori. Tra i peccati di questi dannati
vi è un aspetto comune, cioè il separare la verità dalle azioni e il linguaggio
dai fatti e dalla natura (arte di Dio). Che per Dante una tale separazione
sia pericolosa in termini etico-politici, verrà evidenziato in chiare lettere
non solo nella Commedia ma anche nel Monarchia 1.13.4, in cui si critica
"error illorum qui bona loquendo et mala operando credunt alios vita et
moribus informare" (l'errore di quelli che, parlando bene ma operando
male, si credono di essere maestri agli altri nella vita e nella condotta).27
Dante vuole mostrarsi particolarmente coerente in questo frangente, si
pensi solo alla preghiera del pellegrino alle Muse in Inferno 32.12 affinché
"dal fatto il dir non sia diverso."28 Quest'ultimo concetto non solo
informa l'etica della poesia dantesca in generale, ma, in maniera opposi-
tiva, il linguaggio, o meglio, l'anti-linguaggio nimrodico nel canto 31,
che, come si vedrà tra breve, sono correlati tra loro dialetticamente.
Che il linguaggio sia uno dei problemi chiave del canto è testimoniato
dal curioso incipit "Una medesma lingua pria mi morse" ( Inf. 31.1). Sfug-
gito alle analisi sul canto, questo verso costituisce un'importante tradu-
zione intertestuale dell'espressione "una eademque loquela" usata in De
vulgāri eloquentia 1.7.6. Il verso non solo descrive la parola di Virgilio nel
momento di rimprovero al pellegrino, ma soprattutto stabilisce un gioco
ipertestuale con la lingua adamitica e il venator Nimrod. Infatti, non si
dimentichi che è proprio verso quella lingua che il primo atto venatorio
di Dante si manifesta in 1.6.1. Secondo il trattato latino, quella lingua
sarebbe identica alla lingua poi parlata durante la costruzione della Torre
ad opera di Nimrod e della sua gente. Come sappiamo, Dante rinnegherà
tale continuità in Paradiso 26, ma non sappiamo se a questo punto abbia
già cambiato idea in merito. Indubbiamente, iniziare il canto di Nimrod
con la traduzione dell'espressione usata nel trattato linguistico è una spia
che fa luce sulla centralità della questione della lingua e del De vulgāri
eloquentia nella Commedia.
Ogni elemento componente il verso "una medesma lingua pria mi
morse" si comporta nella struttura narrativa del canto come una moneta a
due facce (che i dannati puniti nel canto precedente siano i falsari forse
non è casuale). Nel verso, una faccia della moneta rappresenterebbe il

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Dante Studies, CXXXII, 2014

negativo, l'altra il positivo. "Una medesma lingua" letteralmente si rife-


risce al rimprovero di Virgilio che ferisce e, allo stesso tempo, cura il
pellegrino. Se visto intertestualmente con il De vulgāri eloquentia pos-
siamo però espandere ulteriormente la semantica del verso. Esso infatti
appare anticipare in maniera contrappuntistica la figura di Nimrod nel
canto e, allo stesso tempo, legare il rimprovero virgiliano alla loquela
adamitica. Anche la seconda parte del verso ci presenta due facce. Il
verbo "mi morse," infatti, si lega tanto alla figura di Adamo, con riferi-
mento sottotestuale alla dottrina del morso d'amore in Paradiso 26, 29
quanto al vizio, con possibile allusione questa volta al "morso" univer-
sale della frode - la colpa punita negli ultimi canti dell'Inferno - come
indicato nel già ricordato Inferno 11.30
La struttura metonimica della "lingua che morde," in cui si riverbera il
tòpos medievale del "dare denti al discorso" contro l'assurdo e il ridicolo,
contribuisce a sua volta ad amplificare la complessità del verso.31 Nel far
mordere la lingua, Dante sostituisce i denti con l'organo di fonazione,
operazione questa che spinge ad opporre il morso vitalizzante della lingua
di Virgilio al morso mortale dei denti, di cui implicito referente figurale
sarebbe non solo il serpente (animale tipicamente diabolico per i medie-
vali e potentemente presente nella Commedia , si pensi all'episodio di Vanni
Fucci in Inf. 24), ma anche Ugolino e Lucifero nei canti finali dell 'Inferno.
Come si è detto, nel sostituire i denti con la lingua adamitica, ap-
propriata da Virgilio, Dante trasforma il morso bestiale in un momento
pedagogico e rivitalizzante per il pellegrino. In seguito al rimprovero,
l'incertezza di Dante da morale diventa epistemica. Nel vedere i giganti
sulle rive del Cocito, essi appaiono come "alte torri" (Inf. 31.20). La
metafora della torre nell'immaginario urbano medievale evocava il potere
dell'aristocrazia e dei loro conflitti, a cui anche l'analogia tra Anteo e la
Torre della Garisenda di Bologna sembra alludere.32 Slanciate verso il cielo
e luoghi privilegiati di osservazione sulla struttura urbana, le torri erano,
infatti, simboli di potere rappresentanti le divisioni delle famiglie che
governavano le città.33 Nel canto 31, la metafora della torre allude certa-
mente all'archetipo di Babele, simbolo per antonomasia dell'intreccio tra
linguaggio e politica. Infatti, tra i giganti Dante vi inserisce Nimrod, che in
Purgatorio 12 apparirà rappresentato "a pie del gran lavoro / quasi smarrito,
e riguardar le genti / che 'n Sennaàr con lui superbi foro" (34-36).
Da un punto di vista teorico, Babele è tanto figura della confusione e
incomunicabilità linguistica quanto della dispersione politica. Tre motivi

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principali possono originare incomunicabilità e dispersione: 1. mancanza


di volontà nel comunicare e stare insieme, 2. il modo in cui i soggetti
comunicano, 3. il mezzo stesso usato per comunicare. Quest'ultimo caso
presenta, a sua volta, due fattispecie: il mezzo può essere incomprensibile
agli interlocutori oppure esso può essere illogico in sé. Da una simile
prospettiva teorica, la storia di Babele appare svelare l'incrocio tra due tipi
di limiti linguistici: la coesistenza di diverse comunità tra loro scisse dal
linguaggio e l'uso di linguaggi illogici, puramente arbitrari e solipsistici.
Nel raffigurare Nimrod e il suo linguaggio, Dante offre entrambe le possi-
bilità. La prima si trova in particolare in De vulgarì eloquentia 1.7.7, in cui
viene affrontato il tema dell'origine della pluralità linguistica in seguito alla
punizione divina di Babele. La seconda, invece, viene espressa in Inferno
31.67-81, in cui il poeta raffigura Nimrod come "fiera bocca" capace
solo di urlare frasi incomprensibili. "Elli stessi s'accusa:" - dirà Virgilio a
Dante:

questi è Nembrotto per lo cui mal coto


pur un linguaggio nel mondo non s'usa.
Lasciànlo stare e non parliamo a vóto;
che così è a lui ciascun linguaggio
come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto."
(Inf. 31.76-81)

Lungo questi versi, il poeta descrive Nimrod come incapace di capire


il linguaggio altrui così come i suoi ascoltatori non possono comprendere
il suo. Infatti, il suo linguaggio "a nullo è noto." È esattamente quest'ul-
tima espressione ad essere ricca di potenzialità ermeneutiche. La tendenza
interpretativa più diffusa è quella epistemica, che intende "a nullo è noto"
come "non conosciuto a nessuno." Detto altrimenti, la lingua di Nimrod
sarebbe inintelligibile agli altri, perché essi non ne condividono il mezzo
di comunicazione.34 Una tale interpretazione potrebbe nondimeno essere
arricchita, considerando "notare" come "annotare" e "a nullo" come
latineggiante complemento di origine e di fine.35 Si potrebbe allora ipotiz-
zare che il verso significhi che il "notare" di Nimrod si origini da nessun
(ente), dal nulla. Esso sarebbe, a ben vedere, un calco fonetico, con ovvio
capovolgimento semantico, dell'espressione "est ad Dei nutum" in De
vu'gań eloquentia 1.4.6.

Quis enim dubitat quicquid est ad Dei nutum esse flexibile, quo quidem facta,
quo conservata, quo etiam gubernata sunt omnia?

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(Chi dubita infatti che ogni cosa che esiste si pieghi docilmente al cenno di Dio,
dal quale tutte le cose sono state create, conservate e anche governate?)

Se intendiamo l'espressione in tal senso, è possibile schiudere un oriz-


zonte di discorso ulteriore che legherebbe il linguaggio di Nimrod ad
un limite non più solamente sociolinguístico, ma teologico e onto-
linguistico. Cioè, esso non riguarderebbe solo la relazione tra lingua e
comunità di parlanti, ma anche quella tra linguaggio ed essere, ovvero tra
linguaggio umano e Dio. In altre parole, ciò che sarebbe in gioco nel
linguaggio nimrodico contrasterebbe il principio classico del nome come
consequentia rerum e del facta dictis exaequare al quale Dante si riferisce in
diversi luoghi della sua opera: Vita Nova 13, nella tenzone con Cino da
Pistoia ("sì che s'accordi i fatti a' dolci detti"36) e poi nel già citato "dal
fatto il dir non sia diverso" in Inferno 32.12.
Non solo. Se si tiene anche conto dell'etimo del verbo "accusare," dal
latino "ad causare ," cioè 'attribuire la causa,' usato nella frase "elli stessi
s'accusa," è chiaro che il suo linguaggio è con-causato da sé e per sé, cioè,
non si riferisce a nulla fuorché a se stesso e solo da se stesso trae la sua
origine, la sua causa. In altre parole, esso non è consequentia rerum ma causa
sui. Nell'auto-referenzialità espressiva del cacciatore di Babele, il linguag-
gio sarebbe quindi pura performazione privata in cui il gioco di significa-
zione non si riferisce a nulla se non al gioco stesso. Come Virgilio dirà a
Dante stesso, "Lasciànlo stare e non parliamo a vóto." Parlare di e con
Nimrod significa parlare invano: ogni linguaggio è per lui vuoto allo
stesso modo in cui il suo "a nullo è noto." Esso non risponde, o meglio,
è opposto al " nutum Dei ," di fronte a cui tutti gli enti (quicquid est) devono
essere "flessibili," come testimoniato dal passo sopra citato del De vulgāri
eloquentia.
Questo punto ha certamente ulteriori risvolti teologici nel discorso
dantesco. Infatti che il rapporto di significazione della propria poesia
venga sempre legato ad un rapporto con il divino non è difficile da riscon-
trare. Si pensi solo all'immagine che il poeta dà di sé stesso come uno che
va "significando" quanto Amore stesso gli "ditta dentro" ( Purg . 24.53-54).
L'espressività auto-referenziale di Nimrod perciò sarebbe antitetica alla
teologia della poesia di Dante, descritta come profondamente raccordata
all'atto del notare di Dio, di Amore e della Filosofia.37 In contrasto con il
linguaggio di Nimrod "eh' a nullo è noto," il loro notare - incluso quello
di Dante - mira a raggiungere tutta l'umanità e a esprimere verità e virtù.

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Fin qui, la teologia del linguaggio babelico. Ma che forma estetica assu-
merebbe tale linguaggio? L'unico esempio che Topera dantesca ci dà è il
grido " Raphèl mai amècche zabt almi" (Inf. 31.67) che gli studiosi hanno
sottoposto a diverse interpretazioni.38 Le diverse ipotesi di lettura si carat-
terizzano tendenzialmente come ricerche semantiche e intertestuali tra il

testo dantesco e quello biblico. Se però prestiamo maggiore attenzione


all'aspetto fonetico della frase alcuni suoni dominanti sono capaci di pre-
valere. Infatti, sebbene abilmente modificata al fine di renderne il messag-
gio irriconoscibile, la frase potrebbe contenere il seguente lamento: Raffael
mai a me che sa(l)vi (l')alma. Mi pare questa sia la versione tendente
all'italiano (con sfumature latineggianti) più vicina al suono della frase
nimrodica.

La figura di Raffaele, menzionata da Dante in Paradiso 4.48 come l'An-


gelo "che Tobia rifece sano," è figura del messo divino capace di
"sanare." Come indicato nella Bibbia, Raffaele, usando gli organi di un
pesce catturato nel fiume Tigri come medicina, fu capace di curare la vista
del padre di Tobia. Da questo punto di vista, il riferimento alla "medi-
cina" nel canto ( Inf. 31.3) maggiormente rafforzerebbe il contrasto tra
Dante medicato da Virgilio per volontà divina e Nimrod isolato e punito
da Dio. Anche la confusione operata da Dante in Paradiso 4, secondo cui
l'Angelo Raffaele salvò Tobia e non il padre, sembra offrire ulteriori
spunti di riflessione. Ciò su cui Dante mette l'accento in quel verso - si
noti che a differenza degli altri due Angeli, Gabriele e Michele, Raffaele
non viene nominato ma parafrasato - è la figura di Tobia, il quale, da
un punto di vista tipologico, tradizionalmente è considerato sia "quale
'prudentiae typus,' sulla scorta di Ruperto di Deutz (PL CXX 331), sia
quale 'priscae legis imaginem,' sulla scorta e di Isidoro (LXXXIII 116) e
poi di Rabano Mauro (CXI 66). "39 II confuso grido di Nimrod quindi
potrebbe voler lamentare che Dio non ha inviato nessun messo capace di
salvare la sua anima accecata dalla superbia al fine di riportarla alla
"prudenza."
Non solo Nimrod non viene salvato, ma per Dante, almeno se si segue
il De vulgāri eloquentia , è proprio lui, e non Adamo ed Eva, ad essere il vero
exemplum negativo contro cui la punizione divina si manifesta con tutta la
sua forza. Infatti, che il linguaggio di Nimrod sia confuso e inintelligibile,
così come l'esistenza di lingue diverse, è strettamente legato alla punizione
babelica, come sappiamo da De vulgāri eloquentia 1.7. Operata secondo un
sistema di rapporti inversi tra divisione del lavoro e linguaggio parlato

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durante la costruzione della Torre, la punizione babelica si fonda sulla


concezione aristotelica della giustizia proporzionale, secondo cui il "giu-
sto è ciò che segue la proporzione, mentre l'ingiusto è ciò che va contro
la proporzione."40 Seguendo il ragionamento si può dedurre che se la
giustizia viene stabilita attraverso una proporzione diretta, la punizione
del peccato e dell'ingiustizia è invece operata tramite una proporzionalità
inversa. Perciò, la punizione divina, come Dante ci dice, avrebbe ribaltato
le relazioni tra il linguaggio e la posizione sociale del parlante all'interno
dell'organizzazione gerarchica del lavoro. Così facendo, la punizione
divina capovolge i rapporti del potere sociale che Aristotele aveva subli-
mato nella Metafisica , sostenendo che: "coloro che dirigono nelle arti [arki-
tektonas] sono più degni di onore e più sapienti dei manovali."41 Il risultato
della punizione quindi fu che: "quanto più qualificata era l'attività, tanto
più rozza e barbara è la lingua che ora parlano."42 Seguendo tale capovol-
gimento, Nimrod, il più esperto durante la costruzione della Torre,
sarebbe capace solamente di produrre grida prive di senso.
Come indicato da Robert Durling, la punizione divina capovolgerebbe
i valori precedentemente accettati durante la costruzione della Torre:
"maggiore malvagità, potere sociale, e linguaggi più barbarici in alto, più
comunità e nobiltà linguistica verso il basso."43 In altre parole, si avrebbe
un rovesciamento dei rapporti dialettici tra signore e servo, locutio gram-
maticale e volgare, arti liberali e arti meccaniche. L'uso dantesco di meta-
fore provenienti dalle arti meccaniche, come si è accennato in apertura del
saggio, potrebbe riflettere tali capovolgimenti contro la superbia babelica.
Difficile non vedere il carattere rivoluzionario di questi gesti di Dante,
che confutano la sentenza di Benedetto Croce secondo cui il trattato
latino non conterrebbe "nulla di rivoluzionario e nemmeno di rilevante
per la filosofia del linguaggio."44 Che Dante abbia chiare in mente le
potenzialità trasformative nella lingua non è difficile evincerlo dalla radi-
cale valorizzazione del volgare tanto nel De vulgāri eloquentia quanto nel
Convivio. Che poi egli veda nel volgare da lui teorizzato un potenziale
sociale è esplicitamente dichiarato in De vulgāri eloquentia 1.17.5, dove
afferma che il volgare illustre ha il potere di far conquistare a chi lo usa
maggior fama rispetto a "qualunque re, marchese, conte e magnate" (reges,
marchiones, comités, et magnates). Passo questo che bene si intreccia con la
breve ma significativa digressione dai forti echi bellico-venatori contro i
re Carlo II d'Angiò e Federico III d'Aragona, re di Sicilia (o meglio del

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Regnum Trinacriae ), ma anche i "potenti marchesi " Giovanni I di Monferrato


e Azzo VIII ďEste insieme ad "altri potenti :"

Racha, racha! Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid tintinabulum
secundi Karoli, quid cornua Iohannis et Azonis marchionum potentum, quid
aliorum magnatum tibie, nisi "Venite carnifices, venite altripices, venite avaritie
sectatores"? ( DVE 1.12.5).

(Racà, racà! Che cosa fa risuonare ora la tromba dell'ultimo Federico, che cosa
la campana di guerra del secondo Carlo, cosa i corni dei potenti marchesi Gio-
vanni e Azzo, cosa le trombette degli altri grandi della politica, se non: "A me
carnefici, a me gente piena di doppiezza, a me seguaci di avidità"?)

I riferimenti in questo passo sono precisi. Essi esprimono l'astio


dantesco - l'espressione ebraica di indignazione "Racha, racha!" è parti-
colarmente eloquente - per le forti tendenze alla dispersione politica
(ovvero, allo spettro di Babele) caratterizzanti le vicende italiane dell'e-
poca. Dispersione che operava non solo in termini ideologico-istituzionali
tra guelfi e ghibellini - Carlo e Azzo erano infatti di parte guelfa, Federico
e Giovanni di parte ghibellina -, ma anche dal punto di vista di spartizione
del territorio. E proprio del 1302 - vero e proprio annus terribilis per
Dante, essendo anche l'anno del suo esilio -, la stipula della pace di Calta-
bellotta attraverso cui Carlo II e Federico III, con il consenso di papa
Bonifacio VIII, divideranno il governo della Sicilia, in precedenza unita
sotto il potere imperiale degli Svevi, prima di Federico II e poi di suo
figlio Manfredi, elogiati entrambi come "illustres heroes" nello stesso
capitolo del trattato latino (DVE 1.12.3).
Da un punto di vista semiotico, l'esplicito riferimento a strumenti
musicali, quali la "tuba," il "tintinabulum" e, soprattutto i cornua innesta
un intertesto con la figura di Nimrod e lo spettro di Babele. Contraria-
mente all'ideale di chiarezza, grazia e luminosità che Dante teorizza per
il volgare illustre (e gli imperatori Svevi), l'architetto Nimrod può solo
esprimersi in maniera oscura e autoreferenziale, sfogando le sue passioni
bestiali o con grida o suonando il corno, di cui è equipaggiato:

. . . Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand' ira o altra passion ti tocca!
(Inf. 31.70-72)

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Tali passioni d'ira, come mostrerò tra breve, contrastano pienamente con
la gioia pentecostale di Adamo, e di Dante, in Paradiso 26.

Un rischio mortale o vitale? Il ritorno ad

Adamo contro il segno di Nimrod

Il contrappunto Adamo-Nimrod ritorna in maniera significativa in Para-


diso 26, dove nella sua ascesa finale a Dio il pellegrino incontra il primo
genitore in un momento di notevole importanza. L'incontro infatti
avviene subito dopo la conclusione del triplo esame attraverso cui viene
sentenziata la capacità di Dante di ascendere all'Empireo. A seguito dell'e-
same sull'amore caritatevole, il cielo, colmato dal canto salmico "Santo,
Santo, Santo", indica che il viator è pronto per l'ascesa finale. Ma un
nuovo evento ne rallenta l'ascesa interrompendo momentaneamente il
continuum narrativo. Come un lampo inaspettato, una nuova fiamma si
materializza davanti agli occhi del pellegrino. Come spiegherà Beatrice,
in quei raggi luminosi risiede "l'anima prima che [il suo fattor] la prima
virtù creasse mai" (Par. 26.83-84). L'anima di Adamo ha un potere subli-
mante su Dante, da essa elevato "come la fronda che flette la cima / nel
transito del vento, e poi si leva / per la propria virtù che la sublima" (Par.
26.85-87).
L'immagine della fronda fa eco a Paradiso 15.88, dove Cacciaguida, il
trisavolo di Dante, si riferì a quest'ultimo con "O fronda mia in che io
compiacemmi." L'uso delle metafore arboree in questi canti ha un valore
teologico-filosofico preciso, in quanto evidenzia il ritorno del personag-
gio Dante ai primi princìpi, tra cui sono da annoverare certamente il
Creatore, Adamo e Cacciaguida.45 La simbiosi tra umano e arboreo impli-
cita nella metafora della fronda andrebbe sviluppata anche in considera-
zione dell'opposizione che Tommaso d'Aquino indicò tra esseri umani e
piante: mentre i primi hanno "la testa verso l'alto, le piante . . . hanno la
parte superiore verso il basso, dato che le radici corrispondono alla bocca
negli animali."46
L'analogia permette di sviluppare alcune tracce sul linguaggio implicite
nella metafora arborea. La radici genealogiche di Dante, quella storico-
familiare, Cacciaguida, e quella teologico-linguistica, Adamo, sono infatti
"bocche" ricche di informazioni attraverso cui Dante parla. Tramite la
voce di Cacciaguida, il poeta, nell'informarci sulla buona politica della

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vecchia Firenze, è plausibile che voglia darci, anche se non tutti concor-
dano su tale interpretazione, un importante referente storico sul volgare
indicato nel canto come "l'idioma che prima i padri e le madri trastulla"
(Par. 15.122-23). A supporto del fatto che tale idioma sia un volgare, Vita
Nova 25 viene in nostro soccorso, quando viene affermato che è proprio
nella prima metà del XII secolo, il periodo in cui Cacciaguida visse, che
in Europa i poeti iniziarono a usare il volgare. Tramite la voce di Adamo,
Dante riproporrà la teoria della mutabilità di tutte le lingue al fine non
più solo di giustificare la variabilità di ogni volgare, incluso quello usato
da lui, ma anche di separare la lingua gratiae di Adamo da quella peccati di
Nimrod. Ma su questo tra un minuto.
Ritornando all'immagine della fronda dobbiamo anche tenere a mente
il concetto di "orto" usato da Dante per rappresentare la Chiesa, della
quale Cristo sarebbe l'ortolano, così come Adamo lo fu dell'Eden ("Le
fronde onde s'infronda tutto l'orto / de l'ortolano etterno" Par. 26.64-65).
Difficile inoltre non vedere nella parola "orto" il latino "ortus" ("princi-
pio," "origine") e il verbo "orior" ("nascere"), usati nel De vulgāri elo-
quenza in momenti teologicamente pregnanti sempre in rapporto alla
lingua adamitica, quali la definizione del primiloquium come domanda
("Oritur et hinc ista questio" [DVE 1.4.5]); il legame tra lingua
adamitico-ebraica e Cristo ("ut Redemptor noster, qui ex illis oriturus
erat" [1.6.6]); e la genealogia del popolo di Israele ("de qua quidem ortus
est populus Israel" [1.7.8]).
In questo frangente, Genesi 2.5-8 appare centrale. Se il cacciatore di
Babele, come dirà Agostino, era sulla terra per distruggere e opprimere gli
animali, Dio creò Adamo per prendersi cura del vivente (piante e animali)
nel Giardino dell'Eden.47 Da questa prospettiva, si può anche aggiungere
che Adamo e Nimrod rappresentano due opposte posizioni nella distribu-
zione delle arti e del lavoro. Come abbiamo visto, Nimrod è l'architetto
che dirige i lavori della Torre, mentre Adamo sarebbe figura dell' agricola,
il quale non dirige superbamente il mondo ma lo abita umilmente, ovvero
a contatto con la natura, arte di Dio.48 Anche se in Paradiso 26 il nome di
Adamo non viene mai menzionato esplicitamente, mentre lo si trova
cinque volte in Inferno e Purgatorio ,49 è utile ricordare che l'etimologia del
nome, dall'ebraico 'ādām, greco Àôá|x, ha permesso all'esegesi antica un
rapporto tra "uomo" ('âdhâm) e "terra" (âdâhmah), ritradotto in latino con
"homo" e "humus," radice del termine "humilis."50

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Inoltre, coltivare la terra, o " cultura " in latino, è strettamente imparen-


tato con il concetto di "abitare," "incolere." Traccia linguistica questa ricca
se posta in risonanza, da una parte, con il sostantivo latino "acola" "stra-
niero," usato in De vulgāri eloquentia 1.18.3 nel definire il volgare illustre
come esule e, dall'altra, con il verbo "recolere" nella lettera ad Arrigo VII
in cui appare il sintagma "in gaudio recolemus" in contrasto all'esilio del
poeta in Babele: "Ac quemadmodum, sacrosancta Ierusalem memores,
exules in Babilonie gemiscimus, ita tune cives et respirantes in pace, con-
fusionis miserias in gaudio recolemus " (Epistola 7. 30). 51 In entrambi i casi, la
radice " colere " nei testi danteschi variamente interseca l'esilio e la disper-
sione babelica. Che poi in precisi contesti Dante abbia immaginato se
stesso come un agricola non è difficile da riscontrare - si pensi solo al pater-
familias come " agricola " che pianta e innesta ( DVE 1.18.1), alla metafora
del setaccio (cribrum) per distìnguere i volgari (1.12.1) e del "fascio" per
raggruppare i rami della conoscenza (2.8.1), o al suo voler "sarchiare" il
"trifoglioso campo" della "comune sentenza" ( Conv . 4.7.4). Tali riso-
nanze intessono vari rapporti con la liturgia pentecostale, originariamente
legata ai culti ebraici dei raccolti agrari e divenuta poi simbolo antibabe-
lico unificante le comunità sotto l'Avvento dello Spirito Santo in Cristo.
Tutto ciò si riallaccia inoltre al legame profondo tra arti, vita e avanza-
mento che Dante aveva suggerito in Inferno 11, che, come si è visto,
richiama all'attenzione l'importanza di tenere a mente quanto Genesi dice
dal principio.
L'opposizione tra Nimrod e Adamo non è però presente solo in termini
semiotico-metaforici. Essa infatti anima quello che è certamente l'aspetto
più controverso del canto di Adamo, ovvero la palinodia sulla lingua ada-
mitica ai versi 124-26. Mentre in De vulgāri eloquentia 1.6.5, Dante
sostenne che l'idioma adamitico era ancora vivo quando la Torre di Babele
venne progettata e costruita, in Paradiso 26, il poeta cambierà idea soste-
nendone la morte:

La lingua ch'io parlai fu tutta spenta


innanzi che all' o vra inconsummabile
fosse la gente di Nembròt attenta.
(Par. 26.124-26)

Molti commentatori hanno difeso la tesi secondo cui Dante nel Paradiso
avrebbe cambiato idea sulla continuità storica tra lingua adamitica e
nimrodica solo dopo aver scoperto nel De vulgāri eloquentia il principio

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generale che tutte le lingue cambiano nel tempo e nello spazio.52 Sebbene
suggestiva, questa lettura lascia da parte un problema cruciale: perché
Dante non applica la teoria della mutabilità linguistica per separare le lin-
gue di Adamo e di Nimrod nel De vulgāri eloquential Perché decide di
distinguere le due lingue nella Commedia e non nel trattato latino? Dob-
biamo pensare che tale cambiamento sia legato al semplice fatto che nel-
l'arco temporale intercorrente tra le due opere Dante ebbe più tempo per
meditare sulla questione, oppure possiamo trovare delle motivazioni più
profonde in termini teologici ed etici?
Il primo punto da chiarire è che la palinodia contiene almeno due
elementi tra loro interrelati. Il primo è che Dante non applica la teoria
della mutabilità linguistica alla lingua di Adamo nel trattato linguistico, in
quanto vede la forma locutionis del primiloquium come originaria donazione
divina. Tuttavia, l'argomento si complica se si tiene conto che il poeta
appare riferirsi all'idioma adamitico come creazione tanto divina quanto
umana già nel De vulgāri eloquentia. Da una parte, egli infatti suggerisce
che la forma locutionis fu una creazione divina ( DVE 1.6.4) e, dall'altra,
usando l'espressione "labia fabricarunt " qualche riga dopo (1.6.7), implica
che la parola di Adamo sia da considerarsi un prodotto del corpo umano,
prodotto comunque conformato alla forma locutionis posta da Dio nella sua
anima. Il secondo aspetto della palinodia da tenere in considerazione è
che nel trattato latino Dante sostiene che quella di Nimrod sia la stessa
lingua di Adamo ("una eademque loquela"), mentre in Paradiso 26 ne
afferma la discontinuità storica. Da questa angolatura, come ho suggerito
in precedenza, Paradiso 26 non solo si contrappone a De vulgare eloquentia
1.7, ma si lega anche a Inferno 31, dove il poeta gioca allusivamente
con i due aspetti dell'espressione "una medesma lingua:" quello virtuoso
(o adamitico) incorporato nel rimprovero di Virgilio e quello pec-
caminoso (o nimrodico) che anticipa l'incontro del pellegrino con il
gigante nel canto.
In Paradiso 26, quindi, il poeta decide di separare i due lati (adamitico
e nimrodico) della lingua originaria scindendo l'"una eademque loquela"
in due lingue storiche diverse. La domanda centrale pertanto concerne-
rebbe le ragioni per cui Dante decide di cambiare idea quasi a chiusura
del poema. Quali conclusioni possiamo trarne? La gioia che Dante perso-
naggio prova nel vedere Adamo testimonia della loro contiguità. Ma
sarebbe ingenuo pensare che tale gioia sia fine a sé stessa. Essa non spie-
gherebbe perché Dante in quel punto del canto inserirebbe una digres-
sione di circa sessanta versi in cui, tra le altre cose, fa ritrattare Adamo su

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due importanti argomenti teologico-linguistici: il primo nome di Dio e


l'identità tra la lingua adamitica e quella nimrodica. È esattamente il rap-
porto con Babele ad essere chiave in questo passaggio ed è interessante che
la tendenza delle letture abbia esaltato maggiormente il servizio dottrinario
prestato da Adamo a Dante piuttosto che la distanza tra Adamo e Babele,
da ritradurre a sua volta in distanza tra Dante e Babele.

Come sappiamo dal pensiero dialettico, è l'antitesi ad essere il baricen-


tro di significazione, in quanto ciò che si afferma accade come "negazione
della negazione" (Hegel) o per dirla in termini medievali per privantiam
contrarìi eius. Secondo Isidoro di Siviglia, "dobbiamo servirci di questo
genere di definizione quando la realtà contraria a quella che vogliamo
definire è conosciuta."53 Se così è, data la forte consapevolezza che Dante
trasporta della presenza di Babele nella storia, il ritorno al principio del
Genesi , ovvero all'incontro linguistico tra Adamo e Dio, non può essere
diretto e immediato, senza aver prima distanziato lo spettro babelico,
ovvero negato la negazione del primiloquium adamitico. Allora, non solo
Adamo ma "la gente di Nembròt" sarebbe il fulcro della ritrattazione. E
contro l'architetto e i costruttori della Torre, ovvero contro lo "spettro di
Babele," che la palinodia dantesca opera.
Rispetto al De vulgāri eloquentia , l'innovazione dantesca in questo con-
testo è doppia. Da una parte, la lingua adamitica non viene risparmiata
dalla teoria della mutabilità linguistica e, dall'altra, il rapporto di continuità
tra la lingua originaria e quella della "gente di Nembròt" viene spezzato.
Almeno tre aspetti rendono questa mossa particolarmente rischiosa. Essa:
(1) indebolisce la natura divina della lingua adamitica che adesso appare
completamente, o quasi, umanizzata; (2) corregge quanto detto in Genesi
11:1 " Erat terra labii unius " e (3) separa la lingua di Cristo da quella di
Adamo, che De vulgāri eloquentia 1.6.6 aveva invece presentato come la
stessa lingua storica. Un ulteriore rischio abita obliquamente la mossa dan-
tesca: essa distanzia la lingua adamitica non solo dalla lingua nimrodica,
ma anche dal volgare storico di Dante, che il trattato latino, attraverso
precise scelte retoriche quali la metafora venatoria (applicata alla ricerca
che del volgare illustre sia dell'idioma adamitico), farebbe supporre come
una sua ideale continuazione.

Perché correre tutti questi rischi? Il nucleo incontrovertibile della pali-


nodia è senz'altro la distanza storica che Dante impone tra Adamo e "la
gente di Nembròt," distanza che sembra amplificare il rifiuto degli Ebrei

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alla costruzione della Torre come asserito in De vulgāri eloquentia 1.7. 8. 54


Ritornando alla nostra domanda iniziale se l'uso della metafora venatoria
con i suoi profondi richiami a Nimrod e Babele sia un rischio mortale o
vitale, il richiamo alla morte della lingua potrebbe sembrare trasportare
nel discorso linguistico dantesco una tonalità più "mortale" che vitale. In
realtà, una tale interpretazione non farebbe i conti con il paradosso che
anima il Cristianesimo, e quindi l'opera di Dante, ovvero la visione salvi-
fica della morte di Cristo. Come Dante stesso dirà in Convivio 2.5.2, la sua
morte "ci recò vita." Se si considera Nimrod e lo spettro di Babele il
baricentro della palinodia, allora diventa chiaro che il ritrattamento sia
animato da un preciso obiettivo etico e politico: cioè, salvare il primilo-
quium dall'accusa di essere potenzialmente ricettacolo di superbia e
dispersione.
Dante aveva già disconnesso il primiloquium adamitico dal peccato origi-
nale in De vulgāri eloquentia 1.4-6. Il passo successivo era quindi slegare
la figura della lingua gratiae adamitica dal peccatus linguae nimrodico e dal
conseguente spettro di Babele. Infatti, se la lingua di Adamo fosse stata
identica a quella che Nimrod aveva usato per pianificare la Torre, allora
essa non sarebbe potuta essere il paradigma linguistico di cui Dante si fece
cacciatore. Ma, come sappiamo dalle parole di Adamo stesso, quell'idioma
era già morto in quanto sistema linguistico prima della costruzione della
Torre. Ciò che di esso per il poeta rimaneva vitale non era lo splendore
della lingua in quanto sistema linguistico o mezzo di comunicazione origi-
nario, ma l'esperienza gioiosa vissuta ed espressa nel momento sublime in
cui l'umano e il divino entrarono per la prima volta in contatto attraverso
il primiloquium, anch'esso una forma di videns Deum ( Ish roe EĶ Proprio
per questo anche i nomi di Dio possono essere molteplici ("Deus," "I,"
"El"): non il segno in sé, ma la gioia all'origine del nome e della parola per
Dante comunica il divino e salva dalla superbia babelica.55 Se il linguaggio
nimrodico è originato dal nulla, quello di Dante trae origine dalla gioia.
Non il nome o la lingua comunica, ma la gioia all'origine del fare poetico.56
Ed è attraverso questa gioia che la "futura gente," per Dante, forse potrà
"prender sua vita ed avanzar," contro il segno di Nimrod e lo spettro di
Babele.57

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NOTE

1. Alcuni studi di interesse in questo frangente si trovano in La metafora in Dante , ed


Ariani (Firenze: Olschki, 2009).
2. È sintomatico che nella ricca e ancora meritoria Enciclopedia dantesca, ed. Umber
(Roma: Treccani, 1970-78), sebbene compaiano le voci "arti liberali" e "arte," non com
interamente dedicata alle "arti meccaniche" in Dante. Allo stesso tempo una delle voci più
quella a cura di Carlo Delcorno sul verbo "fare," usatissimo da Dante in una straordinaria v
sensi, contesti e settori.
3. La metafora venatoria ha attratto in diversi modi l'attenzione degli studiosi. Si veda R
Mercuri, Semantica di Gerione: Il motivo del viaggio nella "Commedia" di Dante (Roma: Bulz
e "Genesi della tradizione letteraria italiana in Dante, Petrarca e Boccaccio," Letteratura italia
e geografia, ed. Alberto Asor Rosa (Torino: Einaudi, 1987), 7.1: 229-455; Lino Pertile, "I
Bonagiunta, le penne di Dante e il Dolce Stil Novo," Lettere italiane 26.1 (1994): 44-75 (ripu
in La punta del disio: Semantica del desiderio nella "Commedia" (Fiesole: Cadmo, 2005)
Guglielmo Gorni, "Guittone e Dante." In Dante prima della Commedia (Fiesole: CADMO,
particolare 36-42; Giovanni Bàrberi Squarotti, Selvaggia dilettanza ; Daniela Boccassini, Il vo
mente: Falconeria e Sofia nel mondo mediterraneo. Islam, Federico II, Dante (Ravenna: Longo
"Falconry as a Transmutative Art: Dante, Frederick II, and Islam," Dante Studies 125 (2007
Maria Corti, Percorsi dell'invenzione: Il linguaggio poetico e Dante (Torino: Einaudi, 1993),
"De vulgāri Eloquentia," Letteratura italiana. Le opere, ed. Alberto Asor Rosa, (Torino: Einau
193 e 199-200; Giorgio Agamben, "La caccia della lingua," Categorie italiane (Venezia: M
1996); Teodolinda Barolini, Dante and the Origins of Italian Literary Culture (New York: F
University Press, 2006), 281-303.
4. Il sonetto Sonar brachetti è emblematico in questo senso. Secondo Contini, Dante,
poesia, "si fa rivolgere ... da un 'pensamento' . . . amoroso di rimprovero, o diremo il '
sostituire le soddisfazioni borghesi della caccia al dovere cortese del joi d'amor " (Gianfranco
"Introduzione alle Rime di Dante," ripubblicato in Varianti e altra linguistica: una raccolta
(Í938-Í968) [Torino: Einaudi, 1970]), 326. Da un altro punto di vista, Teodolinda Ba
suggerito il legame tra il rifiuto di Dante per la passione giovanile verso la caccia e la di
genere, essendo la caccia attività tipicamente maschile, mentre l'amore si caratterizzere
fondamentale presenza femminile. Si veda il commento a Sonar brachetti in Teodolinda Baro
giovanili e della Vita Nova (Milano: Rizzoli, 2009). Si veda anche "Beyond (Courtly) Dualism:
ing about Gender in Dante's Lyrics" in Dante for the New Millennium, ed. Teodolinda Baro
Wayne Storey (New York: Fordham University Press, 2003), 65-89.
5. Cfh "Il nodo di Bonagiunta, le penne di Dante e il Dolce Stil Novo," Lettere italia
(1994): 44-75 (ripubblicato in La punta del disio: Semantica del desiderio nella "Commedia"
Cadmo, 2005), 85-113).
6. Del gioco linguistico sotteso al nome Cacciaguida come "caccia dei Guidi" fa m
Guido Gorni in "Guittone e Dante," in Dante prima della Commedia (Fiesole: CADMO,
particolare 36-42.
7. Per le nozioni di bios e zoè in quanto legati ai concetti di nuda vita e di potere sovran
Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (Torino: Einaudi, 1995).
8. Rime, 44.73-76. Edizione a cura di Claudio Giunta, in Dante, Opere, ed. Marco San
(Milano: Mondadori, 2011).
9. DVE 1.6.1; 1.11.1; 1.15.8; 1.16.2; 2.6.3.
10. Sui processi di antologizzazione della poesia volgare italiana in relazione a Dante tra la fine
del Duecento e il Trecento si veda il libro di Justin Steinberg, Accounting for Dante: Urban Readers and
Writers in Late Medieval Italy (Notre Dame, Ind.: University of Notre Dame Press, 2007). Sulle antolo-
gie dei Canzonieri, Lino Leonardi, ed. I canzonieri della lirica italiana delle origini (Firenze: SISMEL -
Edizioni del Galluzzo, 2001).

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11. Sugli usi lessicali di "locutio" e "idioma" si seguono le ricerche di Mirko Tavoni in merito.
Si vedano Mirko Tavoni, "Contributo all'interpretazione di De vulgāri eloquentia I 1-9," Rivista di
letteratura italiana 5.3 (1987): 385-453; la risposta critica di Pier Vincenzo Mengaldo in Belfagor 5
(1989): 539-58 e la contro-risposta di Tavoni, "Ancora su De vulgāri eloquentia I 1-9," Rivista di
letteratura italiana 7.2-3 (1989): 469-496. Si veda anche l'Introduzione di Tavoni al De vulgāri Eloquen-
tia in Dante Alighieri, Opere, ed. Marco Santagata (Milano: Mondadori, 2011), e Umberto Eco, La
ricerca della lingua perfetta (Roma-Bari: Laterza, 1999), 45-47.
12. Per Dante, "Cautionem atque discretionem hanc accipere, sicut decet, hic opus et labor est,
quoniam numquam sine strenuitate ingenii et artis assiduitate scientiarumque habitu fiery potest"
(DVE 2.4.10). (Imparare questa cautela e questo discernimento, come è doveroso, in ciò sta
l'impegno e la fatica, perché non è certo cosa che possa darsi senza alacrità d'ingegno, assidua applica-
zione tecnica e studio della dottrina). Traduzione italiana di Mirko Tavoni in Dante, Opere , ed. Marco
Santagata (Milano: Mondadori, 2011), 1421-23. D'ora in poi, le traduzioni dal De vulgāri eloquentia
saranno tratte dalla versione di Tavoni. Brunetto Latini, Tresor 2.10.1: "la vertu de l'entendement est
engendrée et escreue en l'ome par doctrine et par enseignement, et por ce li covient esperience et
lone tens." Traduzione italiana: "La virtù dell'intelletto si genera e si accresce nell'uomo con la
dottrina e l'insegnamento, e per questo ha necessità di esperienza e di molto tempo." Brunetto Latini,
Tresor, ed. Pietro G. Beltrami, Paolo Squillaciotti, Plinio Torri, Sergio Vatteroni (Torino: Einaudi,
2007), 345.
13. Si veda Isidoro di Siviglia, Etimologie 9.4.2-7.
14. Massimiliano Corrado ha presentato un'idea simile nel suo volume Dante e la questione della
lingua di Adamo (Roma: Salerno Editrice, 2010), nel quale si discute la centralità del "fantasma di
Babele" nel De vulgāri eloquentia e nella Commedia. Il mio uso del termine "spettro" piuttosto che
fantasma mira intenzionalmente a mettere in risalto il carattere nefasto che Babele ha per Dante.
15. Teodolinda Barolini, The Undivine Commedy: Detheologizing Dante (Princeton, N.J.: Prince-
ton University Press, 1992), 51.
16. Giorgio Petrocchi, Itinerari danteschi (Milano: FrancoAngeli, 1994), 9-10.
17. La bibliografia sulla caccia nella letteratura e cultura medievale è piuttosto ampia. Si vedano
almeno Paolo Galloni, Il cervo e il lupo: caccia e cultura nobiliare nel Medioevo (Roma-Bari: Laterza, 1993)
e Storia e cultura della caccia: dalla preistoria a oggi (Roma-Bari: Laterza, 2000); Johan Huizinga, Homo
ludens: A Study of the Play-Element in Culture (London: Routledge, 2000); Giovanni Bàrberi Squarotti,
Selvaggia dilettanza: la caccia nella letteratura italiana dalle origini a Marino (Venezia: Marsilio, 2000);
Dennis P. Seniff, Noble Pursuits: Literature and the Hunt. Selected Articles, ed. Diane M. Wright and
Connie L. Scarborough (Newark, Del.: Juan de la Cuesta, 1992); Marcelle Thiébaux, The Stag of
Love: The Chase in Medieval Literature (Ithaca: Cornell University Press, 1974).
18. Inferno 2.4-6: "la guerra / sì del cammino e sì della pietāte / che ritrarrà la mente che non
erra." La metafora bellica in questo contesto ascrive un senso sia di realtà che di eccezionalità al
viaggio di Dante così come al poema stesso. L'impresa poetica, la cui realtà "la mente che non erra"
dichiara di voler " ritrarre " - una mente che contrasta con l'intelletto "errante" delle "genti volgari"
all'inizio del De vulgāri eloquentia - , è tanto un oggetto letterario quanto una lotta intellettuale contro
la corruzione etica, politica e culturale che ha causato l'esilio del suo scrittore.
19. Si veda Cyclopcedia of Biblical, Theological, and Ecclesiastical Uterature, ed. John McClintock e
James Strong (New York: Harper, 1894), vol. VII, 109. Cfr. Enciclopedia italiana (Roma: Treccani,
1934), s.v. "Nembrod."
20. Giorgio Agamben, "La caccia della lingua," in Categorie italiane: Studi di poetica e di letteratura
(Roma-Bari: Laterza, 2010), 150-1.
21. Come testimonia anche Convivio 3.1.7: "Onde è da sapere che, sì come dice lo Filosofo nel
nono de l'Etica, ne l'amistade de le persone dissimili di stato conviene, a conservazione di quella, una
proporzione essere intra loro che la dissimilitudine a similitudine quasi reduca. Sì com'è intra lo
signore e lo servo. ..."
22. Si veda Roberto Mercuri, "Genesi della tradizione letteraria italiana in Dante, Petrarca e
Boccaccio," in Letteratura italiana: Storia e geografia, ed. Alberto Asor Rosa (Torino: Einaudi, 1987),
7.1: 296. Basata sulla concezione agostiniana di Nimrod quale figura anti-divina (Civ. Dei 16.4),

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l'archetipo del venator venne utilizzato nel Medio Evo in vario modo per riferirsi all'eresia e alla frode.
Essa accompagnerebbe la visione di Babele come tradizionale allegoria dell'Inferno, "figura universale
per lo stato di dannazione" fino a giungere nel tardo medioevo a rappresentare la città corrotta, come
anche Dante stesso conferma quando considera la sua stessa città Firenze come una nuova Babele
nella storia. Zygmunt Barański, "Dante's Biblical Linguistics," in Dante: The Critical Complex , vol. 4
Dante and Theology: The Biblical Tradition and Christian Allegory , ed. Richard Lansing (New York:
Roudedge, 2003), 278. Si veda anche Roberto Mercuri, La semantica di Gerione: U motivo del viaggio
nella "Commedia" di Dante (Roma: Bulzoni, 1984).
23. Sul concetto di biopolitica affermativa e di tanatopolitica si veda Roberto Esposito, Pensiero
vivente (Torino: Einaudi, 2010).
24. Innanzitutto, il canto non mette in scena un cerchio infernale preciso ma rappresenta il
transito dalle Malebolge al lago Cocito. Altro elemento di transizione è il fatto che il poeta invece che
punire un gruppo specifico di peccatori incontra i giganti come anticipazione di Lucifero. Inoltre, il
canto inizia sviluppando il rimprovero di Dante da parte di Virgilio, che era stato iniziato alla fine del
canto precedente. Diversi studiosi per tutti questi motivi hanno comparato Inferno 31 con il Canto di
Gerione ( Inf. 17). L'uso di Dante sia dei giganti che di Gerione come mezzo di trasporto conferma il
carattere transitorio di entrambi i canti.

25. Si veda Massimo Mandolini Pesaresi, "Canto XXXI. The Giants: Majesty and Terror," in
Lectura Dantis: Inferno: A Canto-by-Canto Commentary , ed. Allen Mandelbaum, Anthony Oldcorn, and
Charles Ross (Berkeley: University of California Press, 1998), 409.
26. Nel parafrasare e spiegare gli eventi narrati in Genesi 9-11, Agostino generò l'idea che
Nimrod fosse un gigante. Dante accetta questa tradizione sia nella Commedia (cfr. per esempio Purg.
12.34-36) e nel De vulgāri eloquentia 1.7.4-8. Si veda anche Dante, The Divine Comedy , Volume i:
Inferno, ed. Robert Durling and Ronald Martinez, 493, nota ai versi 67-81 di Inferno 31.
27. Dante Alighieri, Monarchia 1.13.4, ed. Bruno Nardi, in Opere minori (Milano-Napoli: Ric-
ciardi, 1979), voi. 2, 351.
28. La divergenza della parola dal fatto sarà oggetto della riflessione di Dante in Inferno 32, dove,
"nel loco onde parlare è duro" (14), lui deve descrivere il Cocito e i luoghi che declinano verso il
"tristo buco" (2) dove risiede Lucifero.
29. Si veda Par. 26.51 e 55-7: "Ma di' ancor se tu senti altre corde / tirarti veno lui, sì che tu
suone / con quanti denti questo amor ti morde " e "tutti quei morsi / che posson far lo cor volger a
Dio / a la mia caritate son concorsi."

30. Sul morso della frode, Inferno 11.52, "la frode, ond'ogne coscienza è morsa."
31. Geoffrey of Vinsauf, Poetria nova , 3.435 (Toronto: Pontificai Institute of Medieval Studies,
1967), 31.
32. Sui rapporti tra i giganti e le torri si veda Christopher Kleinhenz, "Dante's Towering Giants:
Inferno XXXI," Romance Philology 27, no. 3 (1973-74): 269-85.
33. La distruzione delle torri nel medioevo era un evento di non poca rilevanza. Basti ricordare,
nell'orizzonte delle lotte politiche tra Ghibellini e Guelfi, la distruzione nel 1248 della Torre del
Guardamorto a Firenze. La demolizione della Torre fu di particolare importanza per i Guelfi come
ricordato anche dalla Cronica di Giovanni Villani. Anche Brunetto Latini offre alcuni ricordi delle
diffuse distruzioni di torri in Italia: "car les ytaliens, qui sovent guerroient entre aus, se deli[t]ent en
f[ai]re tors et autres maisons de pierre" ( Tresor 1.129.2, ed. it. Beltrami et al., 229) (perché gli italiani,
che guerreggiano spesso fra loro, amano fare torri e altre case di pietra). Sul tema si vedano anche i
richiami di Albert R. Ascoli, " 'Cum neminem ante nos': Historicity and Authority in the De vulgāri
eloquentia ," Annali ďitalianistica 8 (1990): 186-231, ripubblicato in Dante and the Making of the Modem
Author (Cambridge: Cambridge University Press, 2008); Dante, Inferno , ed. Durling e Martinez
(Oxford-New York: Oxford University Press, 1996), nota a Inf 31.136; Dante Alighieri, Rime giova-
nili e della Vita Nuova , ed. Teodolinda Barolini (Milano: BUR, 2009), 15. Come suggerito da Barolini
(cfr. p. 160), diversi elementi linguistici dal sonneto No me poriano zamai far ammenda - in cui Dante
fa riferimento alle torri bolognesi, esplicitamente alla Garisenda - saranno recuperati in Inferno 27 e
Purgatorio 20, due canti particolarmente critici su Bonifacio VIII e la sua politica. Inoltre, si veda

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anche Edward Coleman, "Cities and Communes," in Italy in the Central Middle Ages , ed. David
Abulafia (Oxford-New York: Oxford University Press, 2004), 48.
34. Dato che per Dante il linguaggio presuppone scambio e comunità ( DVE 1.2), l'idioma
parlato da una singola persona corrisponderebbe alla forma inferiore di linguaggio. Questo principio
fonda una continuità tematica tra il De vulgāri eloquentia e Inferno 31. Infatti, secondo De vulgāri
eloquentia 1.19.3, la forma infima di volgare è "propria di una sola famiglia" ( quod unius solius familie
proprium est), che limiterebbe la dimensione della comunità alla dimensione domestica. Sappiamo che
Dante avrebbe dovuto trattare diffusamente di questa lingua nel quarto libro del trattato, ma non è
mai arrivato a comporlo. Tuttavia, possiamo ipotizzare da un punto di vista puramente teorico che vi
sia comunanza tra il volgare infimo indicato nel trattato latino e la lingua parlata da Nimrod: entrambi
infatti non sarebbero conosciuti se non ai loro unici e rari parlanti.
35. Il verbo "notare" e il nome "nota" sono infatti polisemia: nota = "registrare/scrivere" ( Inf
11.98); note = "considerare" ( Inf 11.101); nota = "nota musicale" (Par. 10.143); nota = "vedere"
(Par. 10.147).
36. Rime 49a.l4. Per le Rime si cita dall'edizione curata da Claudio Giunta in Dante, Opere, ed.
Marco Santagata (Milano: Mondadori, 2011), 601.
37. "Ahi gente che dovresti essere devota ... se bene intendi ciò che Dio ti nota," (Purg.
6.91-93); " 'Filosofia,' mi disse, 'a chi la 'ntende, / nota . . . / come natura lo suo cono prende / dal
divino 'ntelletto e da sua arte'" (Inf. 11.97-100); "son un che, quando / Amor mi spira, noto . . ."
(Purg. 24.52-54) e "per le note / di questa comedia" (Inf. 16.127-28).
38. Tra le diverse interpretazioni si possono richiamare quelle di Guerri, Lemay, Nohrnberg,
Dronke e Barànski. Secondo Guerri, nella frase si può tracciare il biblico "Raphaim man Amalech
Zàbulon alma," il cui significato sarebbe "Giganti, che! Gente che rasenta l'abitacolo segreto della
bellezza." In altre parole, "I giganti ai quali Nembrotte grida all'erta, son quelle tali torracce che gli
fanno compagnia, ... ; la gente che comparisce ... è Dante col suo Virgilio; l'abitacolo è il pozzo di
Cocito, dove Lucifero, l'angelo bello, non impera, ma regge"; Domenico Guerri, "Il nome di Dio
nella lingua di Adamo secondo il XXVI del Paradiso e il verso di Nembrotto nel XXXI dell' Inferno,"
Giornale storico della letteratura italiana 54 (1909): 65-76, in particolare 70 e 74-75. Richard Lemay ha
invece visto nella figura di Nimrod in Inf. 31 l'autore mitico del Liber Nimroth e ha affermato che la
frase significherebbe "Cet abîme et moi-même sommes devenus stupides par la science," in "Le
Nemrod de Y Enfer de Dante et le Liber Nemroth ," Studi danteschi 40 (1963): 57-128, in particolare 83.
Per una diversa spiegazione si veda James Nohrnberg, The Analogy of "The Faerie Queene" (Princeton:
Princeton University Press, 1976), 274 n. 470. Secondo Nohrnberg, " Raphèl may amèch zabì almi,"
che rima con salmi, sarebbe una versione distorta di Ps. 22:1, così come appare in Matt. 27:46, Eli,
Eli, lamma sabatchthani. Ovvero, Nimrod pregherebbe a Raphèl, da intendersi come 'dio-gigante.'
Detto in altro modo, "we almost hear the forsaken cry from the Cross here, as Dante himself con-
firms. One can also show that a parody of the same Psalmie cry has been put into the mouth of the
unintelligible Nimrod" (Nohrnberg, "Inferno," in Homer to Brecht, ed. Michael Seidel ed Edward
Mendelson [New Haven: Yale University Press, 1977], 99, e Nohrnberg " Inferno XVIII: Introduction
to Malebolge," Lectura Dantis : Inferno, ed. Allen Mandelbaum, Anthony Oldcorn e Charles Ross
(Berkeley: University of California Press, 1998), 238-61, in particolare 253-54. Zygmunt Barański
ha d'altro canto indicato "Saba, Sabaeos e samech quali fonti per ' amèahe zabì ,' " preferendole a quelle
avanzate da Guerri. "Quale ulteriore prova," dice Barański, "vorrei far notare che Dante usa la parola
almi nel Paradiso per riferirsi specificamente alla Pentecoste, l"anti-figura' per eccellenza di Babele"
("La linguistica scritturale di Dante," in " Sole nuovo, luce nuova": Saggi sul rinnovamento culturale in
Dante (Torino: Scriptorium, 1996), 123-24. Peter Dronke ha infine sostenuto che la frase può essere
radicata nella tradizione dei linguaggi inventati, particolarmente diffusi e usati per dare effetto comico
durante la Pasqua. Si veda Peter Dronke, Dante and Medieval Latin Traditions (Cambridge-New York:
Cambridge University Press, 1986), e anche Enciclopedia dantesca, s.v. "Raphèl mai amècche zabì
almi."

39. Enciclopedia dantesca, s.v. "Tobia."


40. Aristotele, Etica Nicomachea, V.7.15, tr. Carlo Natali (Roma-Bari: Laterza, 1999), 185.

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41. Aristotele, Metafisica A. 1.98 la. La traduzione è una versione leggermente modificata rispetto
a quella di Giovanni Reale (Milano: Rusconi, 2004), 5.
42. "Quot quot autem exercitii varietates tendebant ad opus, tot tot ydiomatibus tunc genus
humanum disiungitur; et quanto excellentius excerbant, tanto rudius nunc barbariusque locuntur"
(DVE 1.7.7).
43. Robert Durling, "The Audience(s) of the De vulgāri eloquentia and the Petrose ," Dante Studies
110 (1992): 31. Traduzione mia.
44. Benedetto Croce, La poesia di Dante (Bari: Laterza, 1922), 14. Il carattere rivoluzionario
dell'opera e del pensiero di Dante è stato rimarcato di recente da Marco Santagata, "Introduzione" a
Dante Alighieri, Opere (Milano: Mondadori, 2011). Ben diverso rispetto a Croce, quanto Antonio
Gramsci dice nei Quaderni del carcere , in cui sostiene che l'amore di Dante per il volgare "dovette
contrastare con un concetto della sapienza quasi umanistico" e che il De vulgāri eloquentia è da conside-
rare un "atto di politica nazional-culturale" attraverso cui Dante intenderebbe contrastare la disper-
sione tra gli intellettuali in modo da creare un nuovo clima culturale comune. Si veda Antonio
Gramsci, Quaderni del carcere, ed. Valentino Gerratana (Torino: Einaudi, 1975), Q7, §68 e Q29, §7,
906 e 2350.

45. Cfř. Ronald Martinez, "Canto XV: The Tempered Soul in the Tempered Poem," in via di
pubblicazione nella California Lectura Dantis: Paradiso, ed. Anthony Oldcorn. Per una discussione sul
legame tra fronda e il pomum edenico (in quanto figura Christi redentiva), cfř. Christian Moevs, The
Metaphysics of Dante's Comedy (Oxford: Oxford University Press, 2005), 100-2. Sul ruolo della vege-
tazione in Par. 26, si veda anche Gary Cestaro, Dante and the Grammar of the Nursing Body (Notre
Dame: University of Notre Dame Press, 2003), 163-5; Karlheinz Stierle, "Canto XXVI," in Georges
Güntert and Michelangelo Picone, ed. Lectura Dantis Turicensis: Paradiso (Firenze: Cesati, 2002),
405-18; Albert Ascoli. Dante and the Making of a Modem Author, 403-4 (inclusa la nota 153).
46. "Et tarnen homo staturam rectam habens, maxime distat a plantis. Nam homo habet superius
sui, idest caput, versus superius mundi, et inferius sui versus inferius mundi, et ideo est optime
dispositus secundum dispositionem totius. Plantae vero habent superius sui versus inferius mundi
(nam radices sunt ori proportionales), inferius autem sui versus superius mundi" (Summa theologiae,
la, 91.3). Traduzione mia.
47. "Et omne virgultum agri antequam oriretur in terra, omnemque herbam regionis priusquam
germinaret: non enim pluerat Dominus Deus super terram, et homo non erat qui operaretur terram:
sed fons ascendebat e terra, irrigans universam superficiem terrae. Formavit igitur Dominus Deus
hominem de limo terrae, et inspira vit in faciem eius spiraculum vitae, et factus est homo in animam
viventem" ( Biblia Vulgata 2:5-7).
48. "Cultura est qua frumenta vel vina magno labore quaeruntur, ab incolendo vocata." Isidoro
di Siviglia, Etimologie, 17.2.1: "La coltura, ossia l'insieme delle pratiche con cui, non senza un duro
lavoro, gli agricoltori cercano di ottenere i cereali e i vini, ha preso nome dall'azione di incolere, ossia
di abitare ." La traduzione italiana è di Angelo Valastro Canale (Torino: UTET, 2004), 389.
49. Cfř. il commento di Robert Hollander al verso 133 in Dante, Paradiso (New York: Anchor
Books, 2007), 726.
50. Enciclopedia dantesca, s.v. "Adamo" (di Andrea Ciotti e Pier Vincenzo Mengaldo). Cfř. anche
Hollander, Paradiso, 726 n. 133. Si veda anche Isidoro di Siviglia, Etimologie, 10.H.115 ("Humilis,
quasi humo adclinis") e 6.7.3-4: "Quod autem unum nomen Hebraicum aliter atque aliter intepreta-
tur, hoc secundum accentum et litterarum evenit diversitatem, ut in variis significationibus nomina
commutentur. Adam, sicut beatus Hieronymus tradit, homo sive terrenus sive terra rubra interpreta-
tur. Ex terra enim facta est caro, et humus hominis faciendi materies fuit" (Il fatto che uno stesso
nome ebraico sia interpretato ora in un modo ora in un altro, si deve alla diversità di accenti e di
lettere, per la quale i nomi cambiano significato. Adamo, come riferisce il beato Girolamo, si interpreta
come essere umano o terreno o terra rossa: la carne, infatti, fu fatta di terra, e Yhumus ossia la terra umida,
fu il materiale usato per creare Y essere umano).
51. "E come adesso, memori della sacrosanta Gerusalemme, esuli gemiamo in Babilonia, così
allora cittadini in pace raccoglieremo nella gioia le miserie della confusione." Traduzione e corsivo sono
miei.

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Nella caccia della lingua, Stefano selenu

52. Tra i commentatori si possono annoverare Torraca, Grandgent, Provenzal, Nardi, Singleton,
Mengaldo, Bosco e Chiavacci Leonardi.
53. Isidoro di Siviglia, Etimologie , 2.29.9: "Hoc autem genere defìnitionis uti debemus, cum
contrarium notum est."

54. "Quibus autem sacratum ydioma ramnsit nec aderant nec exercitium commendabant, sed
graviter detestantes stoliditatem operantium deridebant" (Invece coloro a cui rimase l'idioma sacro
non partecipavano all'impresa né la lodavano, anzi esecrandola severamente deridevano la stoltezza di
chi vi lavorava).
55. De vulgāri eloquentia 1.4 propone un contrasto tra i due fonemi "El" (o "Deus") ed "heu." Il
primo corrisponde alla prima locutio con cui Adamo nomina Dio, che come si dice nel trattato "ratio-
naliter est quod ant qui fuit inciperet a gaudio , et cum nullum gaudium sit extra Dem, sed totum in
Deo, et ipse Deus totus sit gaudium, consequens est quod primus loquens primo et ante omnia
dixisset 'Deus' " (è conforme a ragione che colui che visse prima abbia cominciato con un'espressione
di gioia; e poiché non esiste gioia al di fuori di Dio, ma tutta sta in Dio, e Dio stesso è tutto gioia, ne
consegue che il primo parlante per prima cosa e innanzitutto deve aver detto 'Dio'). Il secondo
fonema, "/lew" indica presunzione, superbia: "sicut post prevaricationem humani generis quilibet
exordium sue locutionis incipit ab heu " (come dopo la trasgressione commessa dal genere umano
ogni individuo esordisce nel proprio parlare con un ahif). "Heu" ritornerà nel trattato latino ad inizio
del capitolo su Babele ( DVE 1.7.1), in cui si dice: "Dispudet, heu, nunc humani generis ignominiam
renovare" (Ah, che vergogna rinnovare ora l'ignominia del genere umano!).
56. Anche gli Atti pentecostali rappresentano una comunicazione, o meglio un essere-in-comune
che trascende le lingue e le loro differenze: "E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria
lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadò-
cia, del Ponto e dell'Asia, della Frìgia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a
Cirene, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre
lingue delle grandi opere di Dio" (Atti degli Apostoli 2:8-11). Come si dirà poco dopo, "Dice infatti
Davide a suo riguardo: Contemplavo sempre il Signore innanzi a me; egli sta alla mia destra, perché
io non vacilli. Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua, e anche la mia carne riposerà
nella speranza. ... Mi hai fatto conoscere le vie della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza"
(Atti degli Apostoli 2:25-28). Sull'opposizione tra Babele a Pentecoste si veda Zygmunt Barański, "La
linguistica scritturale di Dante."
57. Dante ritorna alla gente, in particolare quella "futura," nel cuore dell'ultimo canto della
Commedia dove invocherà il "sommo bene" in modo che renda la sua lingua "tanto possente, /
ch'una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente" (Par. 33.70-72).

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