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La vita oltre la morte - 1

LA MORTE
Riflessione antropologica. L’Epopea di Gilgamesh (2500 a.C.)
Ascoltatemi, o giovani uomini, ascoltatemi! Ascoltatemi, o anziani di Uruk, ascoltatemi! Io piangerò per
Enkidu, l'amico mio, emetterò amari lamenti come una lamentatrice. Enkidu, amico mio, qual è il sonno
che si è impadronito di te? Tu sei diventato rigido, e non mi ascolti!".
Questi non solleva la sua testa. Gli accosta la mano al cuore, ma questo non batte più. Allora ricopre la
faccia del suo amico come quella di una sposa; come un'aquila comincia a volteggiare attorno a lui; come
una leonessa, i cui cuccioli sono stati presi in trappola, egli va avanti e indietro; si scompiglia e fa
ondeggiare la chioma fluente. Gilgamesh, per Enkidu, il suo amico, piange amaramente, vagando per la
steppa: "Non sarò forse, quando io morirò, come Enkidu? Amarezza si impadronì del mio animo, la
paura della morte mi sopraffece ed io ora vago per la steppa; ho intrapreso il viaggio, mi muovo veloce.
Di notte ho raggiunto passi montani. Ho visto leoni e ne ho avuto paura, ho alzato allora la mia testa
rivolgendo la mia preghiera a Sin; al più grande tra gli dèi è rivolta la mia prece: [ ] da questo pericolo
fammi uscire sano e salvo!"
L'amico mio, l'amico mio! Noi, dopo esserci incontrati, abbiamo scalato assieme la montagna abbiamo
catturato il Toro Celeste e lo abbiamo ucciso, abbiamo abbattuto il mostro che viveva nella Foresta dei
Cedri, abbiamo ucciso nei passi di montagna i leoni. L'amico mio che io amo sopra ogni cosa, che ha
condiviso con me ogni sorta di avventure, Enkidu che io amo sopra ogni cosa, che ha condiviso con me
ogni sorta di avventure, ha seguito il destino dell'umanità. Per sei giorni e sette notti io ho pianto su di
lui, né ho permesso che fosse seppellito, fino a che un verme non è uscito fuori dalle sue narici. Io ho
avuto paura della morte, ho cominciato a tremare e ho vagato nella steppa. La sorte del mio amico
pesa su di me: per sentieri lontani ho vagato nella steppa. La sorte di Enkidu, il mio amico, pesa su di me:
per sentieri lontani ho vagato nella steppa. Come posso io essere tranquillo, come posso io essere calmo?
L'amico mio che amo è diventato argilla; Enkidu, l'amico mio che amo, è diventato argilla. Ed io non
sono come lui? Non dovrò giacere pure io e non alzarmi mai più per sempre?".

Riflessione teologica. Catechismo della Chiesa Cattolica


Per un verso la morte corporale è naturale, ma per la fede essa in realtà è « salario del peccato» (Rm 6). 
 La morte è il termine della vita terrena. Le nostre vite sono misurate dal tempo, nel corso del quale noi
cambiamo, invecchiamo e, come per tutti gli esseri viventi della terra, la morte appare come la fine normale della
vita. Questo aspetto della morte comporta un'urgenza per le nostre vite: infatti il far memoria della nostra mortalità
serve anche a ricordarci che abbiamo soltanto un tempo limitato per realizzare la nostra esistenza.
« Ricordati del tuo Creatore nei giorni della tua giovinezza [...] prima che ritorni la polvere alla terra, com'era
prima, e lo spirito torni a Dio che lo ha dato » (Qo 12,1.7).
La morte è conseguenza del peccato. Il Magistero della Chiesa insegna che la morte è entrata nel mondo a causa
del peccato dell'uomo. 584 Sebbene l'uomo possedesse una natura mortale, Dio lo destinava a non morire. La morte
fu dunque contraria ai disegni di Dio Creatore ed essa entrò nel mondo come conseguenza del peccato.  585 « La
morte corporale, dalla quale l'uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato », 586 è pertanto « l'ultimo nemico
» (1 Cor 15,26) dell'uomo a dover essere vinto. (CCC 1006-1008)

1010 Grazie a Cristo, la morte cristiana ha un significato positivo. « Per me il vivere è Cristo e il morire un
guadagno » (Fil 1,21). « Certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo anche con lui » (2 Tm 2,11). Qui sta
la novità essenziale della morte cristiana: mediante il Battesimo, il cristiano è già sacramentalmente « morto con
Cristo », per vivere di una vita nuova…

Dall’Apparecchio alla morte di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori


Fratello mio, in questo ritratto della morte vedi te stesso, e quello che hai da diventare. "Ricordati che sei polvere e
in polvere tornerai". Pensa che tra pochi anni, e forse tra mesi o giorni diventerai putredine e vermi. Tutto ha da
finire; e se l'anima tua in morte si perderà, tutto sarà perduto per te. "Considera te già morto", dice S. Lorenzo
Giustiniani, "affinché sappia della necessità di morire".
Se tu fossi già morto, cosa non desidereresti di aver fatto per Dio? Ora che sei vivo, pensa che un giorno hai da
trovarti morto. S. Camillo de Lellis, quando si affacciava sulle fosse dei morti, diceva tra sé: Se questi tornassero a
vivere, cosa non farebbero per la vita eterna? ed io che ho tempo, che faccio per l'anima?
Sappiate dunque avvalervi di questo tempo, che Dio vi dà per sua misericordia; non aspettate a desiderare il tempo
di far bene, quando non sarà più tempo, e vi sarà detto: "Il tempo non sarà ampliato: è passato!", presto, ora è
tempo di partire da questo mondo, presto, quel ch'è fatto è fatto.
O tempo disprezzato, tu sarai la cosa più desiderata da' mondani nel tempo della morte! Desidereranno allora un
altro anno, un altro mese, un altro giorno, ma non l'avranno. Ognun di costoro quanto pagherebbe allora un'altra
settimana, un altro giorno di tempo, per meglio aggiustare i conti della coscienza? Anche per ottenere una sola ora
di tempo costui darebbe tutt'i suoi beni. Pertanto ci esorta il profeta a ricordarci di Dio e a procurarci la sua grazia,
prima che manchi la luce. Qual pena è ad un pellegrino, che si rende conto di avere sbagliato la strada, quando è
fatta già notte, e non v'è più tempo di rimediare? Questa sarà la pena in morte di chi è vissuto molti anni nel
mondo, ma non gli ha spesi per Dio: la morte sarà per lui tempo di notte, in cui non potrà fare più niente. La
coscienza allora gli ricorderà quanto tempo ha avuto, e l'ha speso in danno dell'anima; quante chiamate, quante
grazie ha ricevute da Dio per farsi santo, e non ha voluto avvalersene, e poi si vedrà chiusa la via di fare alcun
bene. Allora dirà piangendo: Oh che pazzo che sono stato! Oh quanto tempo perduto! Oh vita mia perduta! Oh
anni perduti, in cui avrei potuto farmi santo; ma non l'ho fatto, ed ora non ci è più tempo di farlo.

IL GIUDIZIO PARTICOLARE
Dal Catechismo della Chiesa Cattolica (1021-1022)
1021 La morte pone fine alla vita dell'uomo come tempo aperto all'accoglienza o al rifiuto della grazia divina apparsa in
Cristo. Il Nuovo Testamento parla del giudizio principalmente nella prospettiva dell'incontro finale con Cristo alla sua
seconda venuta, ma afferma anche, a più riprese, l'immediata retribuzione che, dopo la morte, sarà data a ciascuno in
rapporto alle sue opere e alla sua fede. La parabola del povero Lazzaro e la parola detta da Cristo in croce al buon
ladrone così come altri testi del Nuovo Testamento parlano di una sorte ultima dell'anima che può essere diversa per le une e
per le altre.
1022 Ogni uomo fin dal momento della sua morte riceve nella sua anima immortale la retribuzione eterna, in un giudizio
particolare che mette la sua vita in rapporto a Cristo, per cui o passerà attraverso una purificazione, o entrerà
immediatamente nella beatitudine del cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre. «Alla sera della vita, saremo
giudicati sull'amore».

Due fonti evangeliche privilegiate:


- La parabola del ricco epulone
- Il buon ladrone

Dall’Apparecchio alla morte di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori


Il Giudice verrà a giudicarli con le stesse piaghe con le quali lasciò questa terra. ‘Grande gioia di chi lo contempla,
esclama l’Abbate Ruperto, grande timore di chi Lo attende’: le sue piaghe consoleranno i giusti ma spaventeranno
i peccatori. Che cosa risponderà il peccatore a Gesù Cristo sotto l’aspetto della Sua Passione? 
 Saranno le piaghe stesse di Gesù ad accusare il reo secondo San Giovanni Crisostomo: ‘I chiodi si lamenteranno
di te, le piaghe parleranno a tuo sfavore, la Croce di Cristo pronunzierà il discorso finale contro di te.’

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