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Mauro Nemesio Rossi

Fascismo casertano
Fatti, misfatti e personaggi
di una città in camicia nera

Centro Studi ed Alta Formazione


Maestri del Lavoro d’Italia
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Presentazione

Il volume affronta un tema assai delicato per le implicazioni che


comporta, ma, soprattutto, per le facili speculazioni cui può
prestarsi, ad opera di chi pretende di aver letto un libro,
essendosi soffermato, al più, al titolo, o estrapolandone parti dal
contesto generale, alterandone, con ciò, completamente il senso.
L'Autore analizza, invero, uno dei periodi più difficili e
controversi della Storia Contemporanea, in generale, ed in
particolare nella provincia di Caserta: il Fascismo.
Fin dal titolo, tuttavia, si evidenzia la sua posizione
sull'argomento, che si limita a svolgere un'analisi storico-
documentale, lontana da intenti, o anche da mere "tentazioni"
agiografiche.
E' un libro "tecnico", ricco di trascrizioni di atti, scritti e
testimonianze d'epoca, che non si lascia andare a manierismi o a
voli di stile -per accattivare l'interesse del lettore, agevolandone
il compito. E' un'opera che dimostra come, in un'epoca in cui i
mecenati, ma anche i meri sponsor, rappresentano una razza in
via di estinzione, la scarsità delle risorse e di mezzi, necessari per
affrontare un simile lavoro, può essere abbondantemente
compensata da tanta, tanta buona volontà, propria del vero
ricercatore, che investiga "a prescindere", senza porsi alcun
obiettivo in termini di ritorno.
Il testo ribadisce, ancora una volta, come, con buona pace di
taluni Storici dell'Accademia, la Storia talora altro non è che un
insieme di storie, magari in apparenza meschine, che prese
singolarmente sembrerebbero insignificanti, e, perciò, meritevoli
di dover rimanere confinate nella cronaca, non potendo
"assurgere al rango superiore", mentre, lette in un contesto più
ampio, forniscono quegli "anelli mancanti" senza i quali
risulterebbe impossibile comprendere - o, quantomeno,
correttamente interpretare - fenomeni, passaggi complessi,
dimostrandosi, così indispensabili, vitali, anche ai fini della
valutazione storiografica.
La narrazione parte dall'anno 1918 e dai festeggiamenti che
anche la cittadinanza del Capoluogo dell'allora Provincia di
Terra di Lavoro, sollecitata a tanto dalla Prefettura, volle

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tributare alla ricorrenza, tutta statunitense, del 4 Luglio, con lo
scopo di manifestare una forma di gratitudine nei confronti degli
Americani per il loro intervento nelle ultime fasi della Guerra
1914-l8' che vide, per la prima volta nella storia, l'intervento di
forze militari provenienti da un Paese dell'oltreoceano, in un
conflitto che, inizialmente, appariva tutto interno all'Europa, ciò
che contribuì a meritargli l'epiteto di "mondiale".
L'autore procede, quindi, con la disamina dell'immediato
dopoguerra: nonostante gli orrori appena vissuti, che fecero della
"Grande Guerra" il più sanguinoso conflitto della storia
dell'umanità, con decine di milioni di morti, mutilati, feriti, sia
militari che civili, la gravissima crisi economica che ne scaturì ed
il disorientamento sociale ad essa conseguente rappresentarono
le basi dalle quali prenderanno le mosse quelle ideologie
populiste che, costruendosi una base ideologica sulle teorie
filosofiche più perniciose, che maggiormente prestavano il
fianco ad interpretazioni distorte, una per tutte l'Idealismo
tedesco, con le sue "dialettiche di scivolamento" che minavano
financo l'assolutezza di concetti come quello di "bene" e "male",
sarebbero tornate, di lì a pochi anni, ad insanguinare il mondo,
come se il genere umano avesse perso la capacità, che pur lo
contraddistingue, di imparare dai propri errori.

Mauro Nemesio Rossi, dottore in Scienze Politiche, cavaliere


ufficiale all'Ordine al Merito della Repubblica e Maestro del
Lavoro, dopo una vita spesa nell'industria elettromeccanica-
informatica, lavorando per uno dei colossi mondiali del settore,
tutto italiano, in un'epoca in cui il nostro Paese deteneva uno
degli apparati manifatturieri più consistente, diversificato ed
avanzato, che ne faceva la quinta potenza economica sullo
scacchiere internazionale, oramai da diversi anni ha fatto della
ricerca storica e della formazione integrativa degli studenti della
Scuola Secondaria Superiore, in collaborazione con i Dirigenti
dei principali Istituti della provincia di Caserta e prima con La
Seconda Università degli Studi di Napoli poi con l’Università
della Campania Luigi Vanvitelli, attraverso l'organizzazione di
corsi, seminari, conferenze, orientamento universitario, stage in

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aziende, anche nel campo dei programmi di `"alternanza scuola -
lavoro", una ragione di vita.
Nell'ambito di dette attività, intrattiene pregevolissimi rapporti
istituzionali con ambedue le Camere del Parlamento, con la
Presidenza della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato, con i
vertici delle Forze Armate e delle principali Istituzioni ed Enti
Locali.
Giornalista e fotografo, nel 1983 fu "inviato", al seguito del
Contingente Italiano nella Missione di Pace in Libano.
Ha creato ex nihilo - dopo un lungo ed accurato lavoro di
raccolta e di catalogazione di reperti - e concesso in comodato
alla Provincia di Caserta il Museo Dinamico della Tecnologia
"Adriano Olivetti", il secondo in ordine cronologico e
d'importanza in Italia (dopo il Laboratorio-Museo
Tecnologic@mente, di Ivrea) sempre dedicato soprattutto agli
studenti di ogni ordine e grado.
Autore di numerosi articoli su temi culturali per varie testate
locali, non è nuovo a pubblicazioni di saggi a carattere storico,
una per tutte La Caserta di Memma - Il piano regolatore generale
dimenticato, incentrato sulla figura dell'ing. Vincenzo MEMMA,
redattore del piano regolatore della città di Caserta risalente agli
anni venti del Novecento, Progettista dell'edificio della Posta
Centrale, in piazza Duomo: Direttore dei Lavori della sede del
Banco di Napoli, in via Cesare Battisti e nel riassetto
novecentesco della piazzetta dei Commestibili progettista delle
palazzine dei ferrovieri, in via Roma e del palazzo che tutt'oggi è
sede della Camera di Commercio, la cui costruzione fu diretta
dall'ing. Fabricat, al quale Memma successe in qualità di
Presidente dell'Istituto Case Popolari. A questi vanno aggiunti il
libro edito dalla pro loco di Alvignano, “L’Arciprete e la sua
Alvignano” e per le edizioni Rubbettino, “Maestri del lavoro in
camicia Nera”.

Luigi Cobianchi

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Stavamo dicendo…
Il lavoro di ricerca svolto tra Archivio di Stato della provincia di
Caserta, Società di Storia Patria ed emeroteca provinciale di
Capua è stato finalizzato per meglio comprendere il periodo
storico della soppressione della provincia di Terra di Lavoro. Un
lasso di tempo lungo quasi quattro lustri dove Caserta,
nonostante tutto, ha avuto una radicale trasformazione territoriale
e in parte sociale, dibattendosi tra il provincialismo e la voglia di
cambiamento, cosa che l’ha caratterizzata nei secoli.
Questo libro non ha alcuna pretesa di essere un documento
storico, piuttosto quello di soddisfare curiosità su fatti e
personaggi di una comunità che nel tempo sembra essere sempre
uguale.
L’industrializzazione degli anni sessanta e settanta del secolo
scorso ha portato ad un tale incremento della popolazione
proveniente dalla vicina provincia di Napoli ed a volte anche dal
nord che ha determinato una trasformazione antropologica mai
registrata prima, Uno stravolgimento da far si che i casertani per
discendenza sono quasi del tutto scomparsi.
Purtroppo quando il processo inverso ha desertificato il settore
industriale nulla è rimasto dell’esperienza e poco o niente ha
insegnato.
Quell’assessore alla cultura, per ironia della sorte, è sempre lo
stesso e veste sempre uguale.
“Il fatto è che Caserta è piena di ex – scriveva Antonio Pascale
nel suo libro la Città distratta nel 1999 – gli ex casertani sono
soliti cambiare le facce e non i vestiti. L’assessore alla cultura
veste ancora come quando era di estrema sinistra, si presenta

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sciatta e trasandata, mantiene inalterata gli stessi gesti e la
stessa dialettica di un tempo, solo che adesso collabora con una
giunta di destra. Generalmente la condizione di ex è
accompagnata dal non pentimento per le cose fatte in passato.
Così si da sfoggio di coerenza e serietà e si continua a
governare pubblicizzando queste virtù. Orbene si guarda bene
dal dichiararsi pentiti, per evitare spiacevoli riflessioni che oltre
tutto sono delle inutili perdite di tempo.”
Le maggiori informazioni utilizzate, che sono state verificate
raffrontando i documenti della prefettura di Caserta presenti
nell’archivio di Stato, provengono dai giornali locali spesso
diretti da personaggi di non spiccata condotta e coerenza.
Nonostante tutto e la bassa tiratura delle pubblicazioni erano
quelli che facevano opinione e considerati punti di riferimento da
magistratura, questura, prefettura e forze dell’ordine per le loro
indagini.
“Questi tre giornali: Terra di Lavoro, L’Unione, La Vita sono
palestre di turpiloquio vendute al maggiore offerente ed aperte
ai più accesi conflitti di basse passioni locali, agitate con l’arma
della menzogna, della più lorda contumelia e della diffamazione.
Ignora ogni decoro e senso di responsabilità questa stampa che
tutto specula, turba l’ordine delle famiglie, inquina la vita
cittadina e falsa le correnti della pubblica opinione. Questi
pennaioli sono i masnadieri del giornalismo”
E’ il severo giudizio della prefettura di Caserta verso i giornali
locali in risposta ad una precisa richiesta del capo dell’ufficio
stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri Cesare Rossi,
del 5 ottobre del 1923.
Ufficio che non esisteva prima ma che produce gli ‘ordini alla
stampa' (che diverranno noti con il nome popolare di “veline”)
ed avviano la progressiva fascistizzazione dell'informazione.
Le maglie della censura sugli organi di informazioni si fecero
più strette ed i prefetti erano chiamati a rispondere alle
informative che arrivano puntualmente dal governo centrale. Si
andò avanti fino al 1925 anno sulla legge per l’editoria che
portò alla chiusura di molte testate.
A giugno c’era stata una prima circolare ai prefetti chiedendo di
avere “notizie su stampa locale nei confronti dell’atteggiamento

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verso Governo”.
Il Consiglio dei Ministri l’11 luglio, su proposta del ministro
Giovanni Antonio Di Cesarò, affidò al guardasigilli Aldo Oviglio
l’incarico di presentare uno schema di provvedimenti necessari
a “prevenire e reprimere energicamente e immediatamente gli
abusi e i delitti di talune pubblicazioni”.
Cesare Rossi chiedeva al prefetto di Terra di Lavoro
Bonaventura Graziani1 “un prospetto organico e completissimo
riflettente tutta l’attività giornalistica del Paese’ secondo quanto
gli aveva richiesto il presidente del Consiglio. Occorreva fornire
notizie su:
1) Nome del direttore, in sua vece, del redattore capo, sue
qualità morali, tendenze politiche, atteggiamenti particolari nei
riguardi della politica generale del Governo Nazionale e di
quello locali.
2) Interessi industriali e politici che ogni giornale difende e
rappresenta, indicando i nomi dei sovventori e la misura del loro
concorso finanziario;
3) Importanza del giornale e influenza sui ceti politici locali,
tiratura ecc.;
4) Precedenti morali e politici dei redattori più noti;
5) Contegno tenuto dai giornalisti locali in occasione della
recente elezioni della Presidenza dell’Associazione della Stampa
Periodica Italiana;
1
dr. Bonaventura GRAZIANI Nato a Calopezzati (Cosenza) il 15 luglio 1867.
Laureato in Giurisprudenza. Immesso in carriera per pubblico concorso il 25
febbraio 1893. Ha prestato servizio presso le sedi di Rossano Calabro,
Potenza, L’Aquila, Roma, Ministero. Vice Direttore Generale
dell’Amministrazione Civile e con incarico presso il Commissariato Generale
per l’approvvigionamento e i consumi alimentari. Nominato prefetto di 2ª
classe il 1° febbraio 1918 e prefetto di 1ª classe il 5 marzo 1926.
Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia. Grand’Ufficiale
dell’Ordine Mauriziano. Prefetto di Trapani (al provvedimento non viene dato
corso). A disposizione permanendo nell’incarico (febbraio 1918 - luglio
1919). Prefetto di Macerata (luglio 1919 - gennaio 1923). A disposizione
(gennaio - luglio 1923). Prefetto di Caserta (luglio 1923 - dicembre 1926),
Messina (dicembre 1926 - settembre 1927). A disposizione con l’incarico di
Direttore Generale dell’Opera Nazionale per la Protezione della Maternità e
dell’Infanzia (settembre 1927 - luglio 1929). Collocato a riposo per ragioni di
servizio nel luglio 1929.

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6) Eventuali altri elementi di indagine ed informazioni.
Il giudizio complessivo fu pesante non solo verso l’ambiente
giornalistico casertano, ma specialmente verso i singoli direttori
di testate.
Sul conto di Emilio Musone de L’Unione si trasmetteva che:
“processato per diffamazione rende pubbliche contumelie e vive
di ricatti clandestini. Simula la politica Nazionale e difende i
fascisti indisciplinati e i simpatizzanti repubblicani. L’opinione
pubblica gli assegna il posto che merita”.
Aristide Beato, direttore de La vita, invece, “è un turpe. Non ha
meno di undici addebiti penali. Iniziò 1′iter criminis con un
procedimento per incesto, lo seguì con corruzione di minorenni,
procurati aborti e truffe e diffamazioni: il certificato penale per
ora si chiude col reato di diserzione. E’ al servizio di chi meglio
lo paga. Ora è con gli espulsi del fascismo, conduce una
campagna pro Padovani” e “conclude ogni articolo con «Viva
Mussolini»”.
Del direttore di Terra di Lavoro, Eduardo de Leonardis, il
rapporto sosteneva: ”è di Corfù è greco in tutto. Condannato più
volte per ingiurie, diffamazioni e duello. segue la politica dei
maggiori compensi. Ora è col Governo Nazionale [...] Combatte
1′Amministrazione di Caserta e più aspramente il sindaco
Picazio”.
Il definitiva questo libro si porta dietro tutti i limiti delle fonti
derivate prevalentemente da organi di informazioni locali.
L’unico conforto è quello di averle verificate con documenti
trovati negli archivi della prefettura, del senato e della camera
dei deputati.
Manero

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Festa dell’indipendenza americana
Correva l’anno 1918 e anche il capoluogo di Terra di Lavoro
si trovava immerso nei problemi della guerra. Anzi a Caserta la
guerra era molto più sentita che altrove in considerazione dei
circa quattromilacinquecento militari che vivevano nelle caserme
dislocate in ogni quartiere.
Gli ultimi mesi del conflitto mondiale videro scendere gli
Stati Uniti al fianco delle forze alleate e questo non poteva far
che piacere all’esercito italiano che aveva subito l’amara
sconfitta di Caporetto e che era a rischio davanti alla strategia
militare degli austriaci.
I casertani sollecitati da segnalazioni che provenivano dalla
prefettura si promettevano di rendere omaggio agli americani.
Volevano lanciare un ponte ideale con i numerosi emigrati che si
trovavano al di la dell’oceano.
Gli austroungarici con le loro azioni si facevano sempre più
odiare e si accingevano a bombardare le città principali Italiane.
Era toccato a Genova, città di mare e molti si aspettavano che
primo o poi gli aerei degli austriaci sarebbero arrivati su Napoli.
La cerimonia del 4 luglio del 1918 fu concordata con il
prefetto Diodato Sansone, il sindaco Vincenzo Cappiello, il
presidente della deputazione provinciale ed i responsabili del
circolo Nazionale: il prof. cav. Michele Tarantini, l’avv. Alfonso
Musone ed il generale comm. Alfonso Maurana.
Il circolo Sociale dirimpettaio dell’Unione in piazza
Margherita non volle essere da meno. Il suo presidente, prof.
dott. Pasquale Santoro, si prodigò per dare la tessera di socio
onorario al generale Ciro De Angelis che, essendo stato molti
anni nel capoluogo di Terra di Lavoro come comandante della
Brigata Caserta, era al fronte con i suoi uomini.
L'entusiasmo, con cui la città di Caserta partecipò alla
celebrazione dell'Indipendenza Americana, fu considerata la
prova più alta e più bella della simpatia che univa la comunità
locale agli Stati Uniti.
“Della valutazione che esso dà giustamente all'alleanza e
agli sforzi che gli Usa hanno compiuto e compiono, perché la
fede e i sacrifici degli Alleati siano coronati dalla vittoria;-

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scriveva il periodico Terra di Lavoro - è la prova che,
accumunati dal medesimo spirito di generosità e d'idealità, il
popolo americano e il popolo italiano si comprendono e s'amano
al di più e al di sopra degli accordi e degli artifizi dei Governi,
per la virtù suscitatrice di affetti e di energie ch'esercita l'ideale
della giustizia schiettamente inteso e spontaneamente
professato.”
Il sindaco, aveva fatto affiggere un manifesto in cui invitava
la cittadinanza ad onorare la grande Nazione Alleata ed a
celebrare la festa come un rito propiziatore della vittoria.
L’appuntamento era per le ore 20 al teatro Politeama-
Vanvitelli, dove avrebbe parlato sull'Indipendenza Americana il
prof. Gualtiero Gnerghi, benemerito presidente del locale
Comitato della Dante Alighieri..
I casertani quel giorno fin dalle prime ore del mattino
scoprirono la città tutta imbandierata, mentre la banda civica
girava per le principali strade suonando l'inno americano e quelli
nazionali degli Alleati. Nel pomeriggio in Piazza Margherita ci
fu un concerto con un larga partecipazione di cittadini.
La cronaca riporta che alle ore 20 il Politeama Vanvitelli,
adorno delle bandiere degli Stati Alleati e di piante, presentava
una vista stupenda. Una folla enorme di signore, di signorine, di
notabilità, di ufficiali e di soldati confluivano nella sala. C'erano
il prefetto Diodato Sansone; tutte le Autorità Militari, i
Comandanti dei Reggimenti e i Capi degli Uffici, coi generali
Vercellana, Ferrari e Giuliani; tutti i Capi degli istituti, delle
Scuole e dei convitti, col provveditore agli studi cav. Amorosa;
le rappresentanze della Scuola per gli Allievi Ufficiali di
Complemento, della Scuola per gli Allievi Ufficiali della Regia
Guardia di Finanza, degli Istituti e delle Scuole Civili e dei
Convitti; i Direttori degl'Istituti di Credito; il Consiglio
Comunale ed il Consiglio della Dante Alighieri, entrambi al
completo; le Associazioni e la Sezione del Corpo Nazionale dei
Giovani Esploratori ed altri.
Sul palcoscenico era presente una rappresentanza del
Distaccamento di Fanteria Francese di guarnigione a Caserta, col
proprio comandante, aiutante Saveren.
La celebrazione iniziò col suono di tutti gl'inni degli Alleati

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eseguiti «magistralmente» dalla banda presidiaria diretta dal
maestro Lizzi, applauditissimo fu quello americano tra il calore
di un pubblico ed in un continuo «crescendo di entusiasmo».
Il sindaco cav. Vincenzo Cappiello nel prendere la parola,
mise in primo piano l’importanza di una celebrazione che le
nazioni alleate avevano fatto propria. “Segno evidente – disse -
che tutti i combattenti per la causa della libertà e del diritto
hanno visto consacrato il carattere ideale della loro lotta
dall'intervento americano ed hanno in questo veduto l'elemento
decisivo della vittoria. La rivoluzione americana, che ha per suoi
eroi Washington e Franklin, pose gli Stati Uniti sulla stessa via
ideale, su cui fu posta l'Italia dalla rivoluzione impersonata da
Garibaldi e da Mazzini; è la base dell’alleanza di oggi e condurrà
fatalmente i due popoli alla conquista del loro ideale di libertà e
di giustizia, e al mantenimento di un'amicizia perenne.”
Continuando il suo intervento il primo cittadino tracciò un
profilo dell’oratore ufficiale della celebrazione, il prof. Gualtiero
Gnerghi, che “per altezza di intelletto, di dottrina e di eloquenza,
e per l'ardente e infaticabile spirito d'italianità, che lo guida nella
sua operosità patriottica, è degno di illustrare il valore ed il
significato della proclamazione dell'Indipendenza Americana”
Cappiello esaltò l’eroismo della Brigata Caserta, che faceva
parte della valorosa Divisione, comandata dal illustre generale
Ciro De Angelis. Al termine del suo intervento, rivolse il
pensiero al Generale ed alla Brigata, considerata «nostra» e che
sul Piave si coprì di gloria.
Gnerghi in città era uno personaggio molto stimato, parlò un
po’ leggendo ed un po’ improvvisando.
Venne fuori un discorso lungo più di un’ora, nonostante ciò
la gente lo ascoltò nell’assoluto silenzio. Dalle strade non
arrivavano rumori, perché i carri e le carrozze non circolavano.
Il presidente della Dante Alighieri disse: “Ho avuto grande
perplessità nell’accettare l’incarico affidatomi dal comitato
organizzatore della manifestazione prima perché l’invito mi è
arrivato appena due giorni addietro, secondo parlare di un
argomento così complesso ed importante richiede una lunga
meditazione. Prendo, comunque, spunto da quanto ha detto il
Sindaco, sull'epica condotta dell'insigne generale De Angelis e

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della invitta Brigata Caserta, per ricordare come oggi tutti
debbono essere al proprio posto di lavoro e di combattimento,
senza dubbiezze e senza repulse egoistiche. Una parola di verità
può sollevare la fede e aumentare l’energie per la resistenza e per
la vittoria.”
Poi con solennità tirò dalla tasca alcuni fogli, li appoggiò sul
leggio. Era visibilmente emozionato, si schiarì la voce e
continuò:
“Il 4 luglio che è giorno sacro all'Indipendenza
Americana e ai diritti dell'umanità, sacro, non per parole o
per ricordi o per fortuna, ma per sentimento operoso, per
azione immediata, per sacrificio volontariamente e
liberamente incontrato sul fronte della battaglia italiana, son
giunti a celebrare, combattendo, la loro festa, le prime
schiere dell'Esercito Americano.
“La celebrazione diventa così una vera lezione di storia
Americana. Con il 4 luglio 1776 comincia nel mondo una
nuova storia, nell'economia, nella politica e nella morale. La
rivoluzione preparata e in gran parte compiuta nell'opera dei
pensatori, aveva bisogno di un popolo nuovo, senza
tradizioni secolari, per dare una attuazione propria ai
problemi già affacciatisi nella speculazione dei filosofi. Un
sistema nuovo che è servito a scuotere la vecchia costruzione
statale e sociale dell'Europa facendola cadere e al suo posto
potesse sorgere la modernità.
“Sta nella vita spirituale e nelle istituzioni altrettanto
democratiche quanto semplici della nuova Inghilterra la
ragione della vittoria americana, insieme alle intime radici
del diritto dell'umanità, proclamato da Wilson contro la
barbarie della Germania, nella guerra attuale.”
Ricorda, il professore, la condotta dell'America nel periodo della
neutralità, raffronta la proclamazione dei diritti sostenuti da
Wilson, illustra il disegno della pace vagheggiata dall'America,
ragione per cui è scesa a combattere, rievoca l'ideale di Giuseppe
Mazzini, dell'umanità costituita nell'associazione di tutte le patrie
col rispetto di tutte le nazionalità, e mostra come per il venir
meno di questi fondamentali ideali l'Austria non poteva trovare
posto nella società delle Nazioni.

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In una pausa il professore si rivolse a Luigi Battisti2, figlio di
quel Cesare Battisti che fu impiccato a Trento dagli austriaci,
presente in sala e che frequentava Caserta per i corsi di allievo
ufficiale.
Al ricordo dell’eroe tutti «balzano in piedi, applaudendo
delirantemente al giovine orfano»
A conclusione, il prof. Gnerghi manifestò al giovinetto, e
alla sua eroica madre lontana, la commozione e la gratitudine
dell'animo di Caserta, salutò gli Americani che vennero a
combattere per il diritto della Patria Italiana e per la distruzione
dell'Impero d'Austria.
Ultimo a prendere la parola fu il comandante del
Distaccamento Francese, aiutante Saveron. Ringraziò il generale
Giovanni Vercellana3 dell'invito fatto a lui e ai suoi soldati a
partecipare alla cerimonia e per la cordialità di cui il
Distaccamento Francese era fatto segno a Caserta. Esaltò la
fraterna solidarietà dimostrata alla Francia ed alle altre Nazioni
Alleate; magnificando il valore e la vittoria dell'Esercito Italiano;
rievocò la giornata di Solferino; inviando un saluto reverente ai
Sovrani d'Italia e terminò il suo “incisivo ed elegante discorso”
col grido di Viva l'Italia! Fu applauditissimo dal pubblico e tutte
le notabilità si felicitarono con lui e lo festeggiarono.
La cerimonia si concluse ancora con gli inni delle Nazioni
Alleate, ed al grido di “Viva Wilson! Viva gli Stati Uniti!”.

2
Luigi BATTISTI, socialista, scriveva su alcuni giornali studenteschi
napoletani e per motivi ideologici si scontrò con il caiatino console Stefano de
Simone, mentre nasceva il partito fascista. Battisti in effetti accusò in un suo
articolo de Simone ed i fascisti di essere pagati dalla grande industria e da qui
il duello che si svolse a Venezia. Il Battista fu sconfitto per ferita.
3
Magg. Gen. Giovanni Vercellana comandante scuola di Cavalleria esercito.

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Venezia duello Battisti – de Simone
il console della MVSN Stefano de Simone al centro con i suoi
testimoni a sinistra avv. Clino Ricci a destra conte Roberto Filangieri

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La svolta del primo dopoguerra
Con la fine della Prima Guerra Mondiale si apriva un
periodo difficile per l’Italia; il collante del fronte aveva fatto
assopire le lotte ideologiche e i grandi cambiamenti avvenuti in
Europa; il ribaltamento della monarchia in Russia, che aveva
portato al potere il proletariato, faceva sentire la sua influenza
anche nell’Italia uscita dalla guerra; a questo si aggiungevano le
insofferenze dei combattenti che, col passare del tempo,
vedevano svanire a poco a poco le prospettive di una vita
migliore ricevute dal governo. Anche il metodo scelto ed alcune
mancate assegnazioni delle terre promesse ai contadini
combattenti erano causa di forti malcontenti.
Nel 1919 si era in pieno biennio rosso e le lotte operaie che
si diffondevano al nord del Paese avevano grande eco anche in
Terra di Lavoro.
Veniva fuori, a poco a poco, un nuova classe politica che
sostituiva il vecchio notabilato locale ed in Terra di Lavoro si
affiancava alla varie famiglie latifondiste, come gli Scorciarini-
Coppola, i Leonetti e i Visocchi, nuovi personaggi sorretti dalla
massoneria. Avanzavano per capacità intellettuale e politica, ma
anche per affarismo: Alberto Beneduce, Giovanni Tescione,
Giuseppe Buonocore, Antonio Casertano, Ludovico Ricciardelli,
Catemario e dall’alto casertano Pietro Fedele, Fulco Tosti di
Valminuta, ed altri.

I fasci di combattimento in Terra di lavoro

Secondo Marco Bernabei4 il fascismo casertano nacque in


ritardo rispetto ad altre province italiane e non furono
determinanti i proprietari terrieri che volevano proteggersi dagli
espropri delle lotte agrarie.
Il primo tentativo di formare il partito fascista in Terra di
Lavoro risale al giugno del '20 ad opera di un ex combattente
ventiduenne, Vincenzo Palmieri, che scrive al Comitato Centrale
4
Marco BERNABEI - Fascismo e nazionalismo in Campania (1919-1925) -
ed. Storia e letteratura

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dei fasci, dichiarando di avere l'intenzione di fondare una sezione
a Caserta, ripromettendosi di “trovare i soci fra la classe dei
contadini, apertamente contrari alle idee del socialismo ufficiale
che tentano di affermarsi in provincia, non trovando altri partiti
di opposizione che le fermino e le ostacolino”.
Dallo scambio epistolare con il comitato centrale si
comprende quale fosse in realtà il vero obiettivo del Palmieri:
ottenere finanziamenti e tessere da distribuire, in numero molto
superiore ai soci effettivi, gonfiando a questo scopo le richieste
di adesione e facendo “abboccare” varie volte la direzione
nazionale, la quale, in questa fase, pur di affermare la presenza
del partito in zone importanti come Terra di Lavoro, é disposta
ad affidare somme considerevoli al primo avventuriero che si
presenti.5
In effetti altri tentativi di fondare un partito fascista c’erano
stati qualche anno prima. Risalgono a subito dopo l’incontro di
Milano del 23 Marzo del 1919 quando Benito Mussolini convocò
in un circolo di via San Sepolcro i suoi fedelissimi e costituì il
movimento dei «fasci italiani» rivolto agli ex combattenti,
interventisti, rivoluzionari ed alle associazioni combattentistiche.

La moda del fascio

L’utilizzo del termine «fascio» non era troppo originale per


l’epoca anzi era usato da molte associazioni ed anche
trasversalmente dai politici della camera e del senato.
«Il fascio parlamentare» era durato molti mesi nelle stanze
del potere e raggruppava diversi deputati e senatori che avevano
sentito la necessità nella prima guerra mondiale di mantenere
unita l’Italia in un momento difficile.
Uno dei fautori di questa iniziativa fu l’ex Presidente del
Consiglio Antonio Salandra, il quale affermò il 20 novembre
1918 la necessità che il Fascio parlamentare sopravvivesse alla
guerra: “Nessuno pensi – disse – che, passata la tempesta, sia
5
Una prassi radicata nella partitocrazia e che ha avuto il suo massimo
“splendore” negli anni ottanta del secolo scorso quando già era evidente la
questione morale ed il declino della Democrazia Cristiana.

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possibile un pacifico ritorno all’antico. La guerra ha un
significato profondo di rinnovazione del mondo.”
L’interventismo, anima della guerra, doveva animare e guidare
anche il dopoguerra. Un appello che trovò moltissimi e decisi
sostenitori. “Sì, dicevamo – continuava Salandra - i fasci devono
sopravvivere. Essi rappresentarono sinora la tregua dei partiti;
da ora devono rappresentare la fine dei vecchi partiti nei loro
antagonismi di angusti interessi e di programmi retorici”.
Il 22 novembre del 1918 il Fascio parlamentare deliberò
pubblicamente di continuare la sua opera e approvò un ordine del
giorno in cui si chiedeva che, in occasione delle trattative di
pace, l’Italia realizzasse le sue «legittime aspirazioni» in armonia
con «la piena indipendenza politica di tutti i popoli» e attraverso
«la costituzione della Società delle Nazioni in un ambiente
internazionale di lealtà e di giustizia che evitasse nel futuro gli
orrori di conflitti armati».
“In realtà - sosteneva lo storico Renzo De Felice -
nonostante questi propositi e queste belle, anche se generiche,
affermazioni il Fascio parlamentare si può dire fosse già morto
o almeno era in agonia, roso da contrasti ogni giorno più
insanabili. Un lungo rapporto dell’Ufficio d’investigazione a
Orlando, sosteneva che il Fascio Parlamentare era in completa
disgregazione... Nella riunione avvenuta nella sera del 21
novembre alla Camera durata fino a tarda ora, dei deputati
aderenti al Fascio la prima questione pregiudiziale che fu posta
era stata appunto quella della necessità o meno della
continuazione della vita del Fascio Parlamentare. A grande
maggioranza, specialmente per opera dei senatori presenti, fu
deliberato di non scompaginare l’organizzazione del Fascio. Ma
essa ormai non era destinata a durare più a lungo. Le crepe si
mostrano da tutti i lati e non tarderà a presentarsi l’occasione
per una scissione dei diversi partiti che concorsero alla
formazione del Fascio”.
La parola Fascio voleva essere, nell’intenzione di Mussolini,
anche un tentativo di rinverdire quell’unità degli italiani che
aveva fatto ben sperare durante il conflitto.

19
Nascita del fascio casertano

L’eco di questa iniziativa dovette arrivare nel Casertano


tanto che ad opera di alcuni ex combattenti furono messe le basi
a Gaeta del primo Fascio dei Combattenti. Era il giorno di
Pasqua del 1919. Una data molto vicina a quello storico 23
marzo 1919.
Il prof. dott. Michele Craveri, presidente della Sezione
Collegiale di Cassino dell'Associazione Nazionale tra i
Funzionari degli Enti locali, delegato al Congresso Nazionale e
console del Fascio dei Combattenti di Terra di Lavoro costituì un
Comitato Promotore insieme al prof. Gesualdo Manzella e al
prof. Gigi Valente, ed invitarono i reduci dal fronte a partecipare
alla riunione preliminare che si tenne nel giorno di Pasqua,
nell’aula magna del Liceo pareggiato.
Furono convocati gli ex combattenti per formare
un’assemblea costituente che avrebbe dovuto approvare uno
statuto-programma scritto dallo stesso Craveri.
Pochi furono coloro che non aderirono e quasi all’unanimità
il programma stesso fu “calorosamente applaudito nei punti più
salienti” e approvato, nelle sue linee generali, dai professionisti,
dagli operai, dai contadini, e tutti i militari in congedo, reduci
dalla guerra.
“Il mio Fascio dei Combattenti - scriveva Craveri- si
propone oltre agli scopi «economici» e «sociali» uno scopo
politico. Sono nemici del Fascio tutti gli imboscati, tutti i
disfattisti di ieri, tutti i senza patria, tutti i disonesti nella vita
pubblica e privata, poiché sono leggi supreme del Fascio dei
Combattenti l'onore e la disciplina di partito. Insisto sul partito
politico che io chiamo «il partito degli Italiani» e che ha finalità
più vaste e più sincere di quelle socialiste, più patriottiche di
quelle liberali, più democratiche e più moderne di quelle
clericali (anche se camuffate da partito popolare italiano).”
Politicamente il Fascio si proponeva di stabilire una linea di
condotta e di azione diretta al conseguimento delle più alte
finalità democratiche, perché i poteri, legislativi ed esecutivi,
fossero in mano dei lavoratori e, dei reduci di tutte le classi
sociali, per via di radicali riforme e salvando l'Italia dagli orrori

20
di una rivoluzione fratricida come i componenti del Fascio
l'avevano salvata dal nemico esterno, finché non fosse stato
possibile addivenire dalla Società delle Nazioni agli Stati Uniti
d'Europa. Lo spirito informatore dell’unione sacra a tutti i
cittadini che avevano compiuto il loro dovere, auspicata fin da
quando non si poteva pensare se non a difendere le sponde del
Piave, si rilevava anche più chiaramente dalla formula del
giuramento che i membri del Comitato d'Azione eletti
dall’assemblea costituente prestavano solennemente davanti ai
fratelli d'armi. “Sul mio onore e sulla mia coscienza, in cospetto
dei fratelli d’armi che con me hanno diviso pericoli e disagi per
la grandezza d’Italia, solennemente giuro di amare i compagni
del Fascio, di aiutarli e di soccorrerli, secondo le mie forze in
qualunque circostanza e dì dare tutta l'opera mia perché sia
mantenuta salda la disciplina e la solidarietà fra di essi. Giuro
di ispirarmi sempre in ogni mia azione a quei sentimenti di amor
di Patria, di libertà, di uguaglianza e di fratellanza per cui
abbiamo combattuto”. Così concludeva
Un programma di massima che rispecchiava quanto stabilito
nel circolo milanese di via San Sepolcro e che aggiungeva a
quello molto di più: arrivare ad una costituzione di un’Europa
Unita.
Un fascio anche diverso da quello che si prefiggerà più tardi
Vincenzo Palmieri che era allineato alla politica clientelare ed
affarista utilizzata in Terra di Lavoro fin dai tempi dei Borbone e
successivamente dopo l’unità d’Italia.
Un sistema politico con cui si scontrò fortemente il perito
industriale di Portici Aurelio Padovani che seguì l’utopistica
illusione di spezzare quel perverso meccanismo che aveva
condizionato ed inquinato fino alla Marcia su Roma, ma che di li
a poco doveva risorgere non appena Mussolini, raggiunto il
potere, fu costretto a molti compromessi.
L'uomo Palmieri, rappresenta anche la prima tappa dei troppi
scandali che si verificarono nel casertano da parte delle
organizzazioni fasciste e che certamente contribuirono nel 1926
a far sopprimere la provincia.
Palmieri dopo aver sfruttato al massimo la «buona fede»
della direzione dei fasci, a distanza di un anno passò le sue

21
funzioni all’avv. Lamberti. Ufficiale in congedo. Lamberti non
era molto più affidabile del primo. In una lettera del 29 marzo
1921, informa che sono in vita nella provincia numerosi fasci tra
i quali quelli di S. Maria Capua Vetere, Capua, Nola, Piedimonte
d'Alife e Sora.
La conta è in contraddizione con il primo censimento
prefettizio, del 17 marzo 1921, dei fasci di Terra di Lavoro.
Secondo questo censimento mentre a Caserta funzionava una
sola sezione con 300 iscritti e solo 50 attivi, in gran parte
studenti e studentesse minorenni, non c’erano fasci nella
provincia; a Sora, Roccasecca, Cassino e Aquino esistevano
piuttosto nuclei di ex combattenti che - secondo il prefetto del
tempo- «tendono a trasformarsi in fasci». Un mese dopo è lo
stesso prefetto, ad annunciare che gli aderenti alla sezione di
Caserta sono saliti a 600, riferisce che il Lamberti ha dato le
dimissioni per essere libero di appoggiare la lista di Alberto
Beneduce, contro le direttive del fascio di cui era fiduciario.
“Dopo un intermezzo di alcuni mesi in cui si succedono, con
scarsa fortuna, altri due fiduciari, si deve aspettare la fine del
'21 perché il segretario regionale Padovani riunisca gli elementi
sbandati dei vecchi fasci per riorganizzare ex-novo la sezione. -
Scrive Marco Bernabei - II fascio di Caserta, riconosciuto dal
Comitato Centrale, viene così fondato ufficialmente soltanto il 7
marzo 1922, i suoi iscritti, questa volta autentici, sono 35”

Fascisti Casertani - al centro Iolanda Formati

22
La marcia su Roma
Per i fascisti campani che si recavano nella capitale per
occuparla, l’adunata della “Marcia su Roma” dell’ottobre del
1922 suonò a Caserta. E’quanto si deduce da un articolo apparso
su “Il Popolo sannita” del 27 ottobre 1932 in occasione del
decennale dell’avvenimento.
A raccontare l’evento è il console Stefano De Simone che da
qualche mese aveva ricevuto l’incarico da Achille Starace di
“reggere le sorti del fascismo beneventano.” Caserta, nel
frattempo era scomparsa dalle province del regno, in seguito ad
un regio decreto.
La decisione di prendere il potere con la forza si concretizzò
per i fascisti, nella grande adunata di Napoli del 24 ottobre del
1922. Una data che doveva coincidere con il passaggio dei poteri
del partito ad un quadrunvirato composto da Italo Balbo, Emilio
De Bono, Cesare Maria de Vecchi e Michele Bianchi.
Il tutto fu concordato con Mussolini all’hotel Vesuvio in una
riunione a cui il de Simone partecipò personalmente, su invito di
Aurelio Padovani, il ras napoletano che sarà inviso dal regime al
potere.
L’articolo inedito, da poco ritrovato, è accompagnato anche
da un messaggio cifrato di Clinio Riccio, promotore del fascismo
beneventano, documenta come il concentramento degli squadristi
napoletani, avellinesi sanniti e casertani doveva avvenire in
Castelmorrone per poi confluire il giorno dopo nel piazzale della
stazione di Caserta.
Con questo documento si pone la parola fine alle fantasiose
versioni date nel secondo dopoguerra che sostenevano che
proprio a Caserta, in occasione della Marcia su Roma,6 ci fu
l’unico attentato alle squadre mussoliniane per opera dei
socialisti che si opponevano alla scalata al potere del futuro
dittatore.
La bomba che scoppio nella stazione ferroviaria non fu frutto
di un’imboscata, quindi, ma di un tragico incidente che portò alla
6
Leggi commemorazione di Alberto Beneduce intervento dell’avv. Antonio
Vignola

23
morte Marcello D’Ambrosa un giovane matesino che ebbe
“l’onore di portare nel suo tascapane alcune bombe a mano”.
Stefano de Simone era un legionario fiumano che aveva
meditato a lungo prima di iscriversi al partito fascista. Nutriva
idee socialiste e per lui “in fondo il movimento mussoliniano che
era nato tra la fine del ‘18 e i primi del ‘19, era frutto
dell’interventismo di sinistra non «rinunciatario».
Sino al trattato di Rapallo7 tra fascisti e legionari vi era stato
una sorta di «idillio» che, dopo Rapallo, si era rotto per una serie
di divergenze di valutazione e per certi suoi «contatti impuri»
con l’«autorità». I fascisti erano degli «amici tiepidi» con i quali
i legionari non avevano nulla in comune. Ma a fare cambiare
idea al de Simone fu proprio Aurelio Padovani che gli affidò il
compito di costituire a Napoli il fronte universitario.
“Eravamo discesi da Castelmorrone. Il nostro compito era
assolto e la Legione Opicia, schierata nel piazzale estero della
Stazione di Caserta, era pronta a partire per Roma. – così scrive
il legionario de Simone descrivendo l’organizzazione della
marcia su Roma dei casertani - Il nostro armamento consisteva
nei più disparati mezzi offensivi e difensivi e fra 1'altro in una
discreta dotazione di bombe a mano espressamente preparate da
squadristi esperti. Per evitare incidenti avevo ordinato ai Senior
comandanti le Coorti di ritirarle e riunirle in appositi sacchetti
da affidarsi a squadristi vecchi combattenti perché fossero
custodite con i dovuti riguardi, in attesa di essere distribuite in
caso di bisogno. Il morale era altissimo.”
Ma fu proprio l’idea di affidare in mani sicure le armi di
offesa che procurò la disgrazia.
“Il Seniore Vetere, comandante la Coorte dei Lupi del
Matese, aveva consegnato un sacchetto di bombe ad un vecchio
e provato combattente e ciò feriva 1'orgoglio dello squadrista
Marcello D'Ambrosa, giovane audace ed entusiasta che
chiedeva in premio della sua ardente fede di essere il custode di
questo suggestivo mezzo di offesa.”
Il ragazzo fu accontentato ma l’inesperienza e stanchezza gli
furono fatali.
7
Accordo stipulato tra i governi di Italia e Iugoslavia il 12 novembre 1920,
che definiva i confini tra i due paesi

24
Continua de Simone: “Era già notte. Nel piazzale interno
della stazione erano Padovani e Carafa con la Legione di Napoli
alle prese di chi doveva per prima occupare i vagoni del treno
speciale. Si aspettavano le Coorti di Benevento e di Avellino, gli
animi erano eccitati per le difficoltà che si incontravano a
formare lo speciale, difficoltà che gli squadristi attribuivano a
malvolere all’ostruzionismo dei ferrovieri rossi.
Un’esplosione tremenda si produceva nell’interno della sala
d'aspetto della stazione mandando in frantumi la pensilina
esterna. Si temette un attentato, si iniziò il fuoco da parte degli
squadristi delle due Legioni. Un fumo acre ci toglieva la vista,
entrai nell’atrio dove ancora sibilavano delle pallottole scorsi a
terra bello ed ardito nella morte il legionario D'Ambrosa. Gli
squadristi si dettero alla caccia dei ferrovieri, ne presero alcuni,
già s’apprestavano a passarli per le armi provocando
1'intervento deciso e severo di Aurelio Padovani, e col ritorno
ad una calma relativa, fu chiarito 1'incidente.
Era scoppiato un sacchetto con sessantaquattro bombe: Un
mutilato rimasto cieco, tredici feriti che dopo una sommaria
medicazione tornarono con noi, uno fra essi, il Centurione Sotis
sulla benda che gli copriva la fronte aveva scritto “me ne
frego”.
Era la sera del 30 ottobre. Sarà Marcello D’Ambrosa
1'ultimo morto della Rivoluzione.”
I funerali del D’Ambrosa si svolsero il primo novembre del
1922, il municipio di Caserta a firma del sindaco Tommaso
Picazio e del segretario capo Caruso fece affiggere un manifesto
in cui si invitavano i cittadini a partecipare alla cerimonia
funebre esaltando le doti di coraggio del giovane. Il testo
affermava: “Una magnifica energia della redentrice giovinezza
italica, ospite della nostra città durante la tappa gloriosa della
riscossa, è stata troncata da una fatalità funesta. Intervenendo
tutti ai funerali della vittima generosa, che muoveranno dalla
sede del fascio in piazza Amedeo alle ore 15 di oggi, esprimerete
il sentimento unanime del vostro compianto, della vostra
riconoscenza e solidarietà”.

25
Stefano de Simone federale della provincia di Benevento

I preparativi

La marcia su Roma dava anche l’opportunità al movimento


fascista di raccogliere più ampi consensi in Terra di Lavoro,
visto la scarsa penetrazione avuta nelle classi sociali. Il 1920 fu
l’anno che determinò lo scoraggiamento ed una voglia di pace

26
sociale nell’animo degli Italiani. Questo in generale, ma il sud
fino a quel momento era stato poco coinvolto nei movimenti che
avevano turbato la nazione.
Del resto la mancanza di un partito socialista forte ed un
notabilitato che basava le sue fortune sui favoritismi e
clientelismi faceva sì che la coscienza politica delle masse fosse
molto assopita. Di conseguenza anche i cambiamenti e le
tempeste del nord si facevano sentire poco o nulla al sud. Tranne
che in alcuni ambienti.
“Il 1920 fu l'anno dal quale ebbe inizio la riscossa dei Fasci
e lo spiegamento attivo delle energie ch'essi avevano
accumulato. - scrive Roberto Farinacci8 nella sua Storia del
Fascismo, Cremona 1940 - Grande meraviglia in tutti, negli
avversari e più anche nei simpatizzanti, per la veemente
esplosione di un moto che, nella sua pratica efficienza, pareva
condannato e quasi consunto dalle elezioni politiche del 1919.
Nel 1920 e soprattutto nella prima metà di quell'anno, per le
assemblee locali e provinciali, per qualche urto sanguinoso e
qualche reazione sporadica, la vita dei Fasci appare molto
fiacca, ma se l'azione rivolta alle classi sociali è scarsa, forte è
la vita interna, intenso il processo di sviluppo, sempre crescente
la formazione dei Fasci nuovi nelle regioni più tormentate
d'Italia, in Lombardia, nell'Emilia, nella Venezia Giulia, nella
Venezia Euganea, in Toscana, nel Piemonte, con qualche
diramazione nell'Italia meridionale, massime in Sicilia e nelle
Puglie.”.
L’assetto economico di Terra di Lavoro, agli inizi degli anni
venti, era prevalentemente agricolo e l’industrializzazione, molto
diffusa al settentrione, non l’aveva nemmeno sfiorata.
8
Roberto FARINACCI,. - Giornalista e gerarca fascista (Isernia 1892 -
Vimercate 1945). Interventista nel 1914 e fondatore del fascio di
combattimento di Cremona (1919), fu tra i più violenti dirigenti dello
squadrismo. Sostenitore dell'ala "rivoluzionaria" del movimento, fondò (1922)
e diresse il quotidiano Cremona nuova, poi Il Regime fascista e, deputato dal
1924, fu segretario del partito fascista dal febbraio 1925 al marzo 1926.
Membro del Gran Consiglio del fascismo dal 1935, il 25 luglio 1943 si
schierò contro l'ordine del giorno Grandi e ne patrocinò uno di fedeltà
all'alleato tedesco; riparò poi in Germania e militò nella RSI. Fu giustiziato
dai partigiani.

27
Poche le fabbriche esistenti per lo più dislocate in alcuni
centri della provincia con processi tecnologici antiquati di oltre
cinquant’anni. Le tensioni che si manifestavano non potevano
dirsi di carattere sindacale, ma erano la conseguenza della
necessità di sopravvivenza per la forte crescita dei prezzi dei
prodotti agricoli dovuti alla guerra mondiale che mise in
contrapposizione coltivatori ricchi e proprietari.
Una situazione che se portò i massari, «i contadini ricchi»,
ad acquistare terreno soprattutto nelle vicinanze dei centri più
popolati, dall'altra spinse i proprietari ad opporre un'accanita
resistenza al momento della scadenza dei contratti dei fitti per i
fondi rustici, che non desideravano rinnovare proprio per
ottenere il rincaro, e quindi un aumento della rendita fondiaria,
anche in riferimento ad un incremento della domanda per il
ritorno dei reduci dalla guerra.
Uno stato di tensione che provocò sommosse nelle campagne
di S. Apollinare e successivamente a S. Ambrogio del
Garigliano, S. Andrea, Vallefredda, Roccadevandro e a Cassino,
S. Donato, Villa S. Lucia, S. Giorgio a Liri, Marcianise e
Capodrise. A queste seguirono i movimenti per le assegnazioni
delle terre incolte agli ex combattenti ed alle cooperative. Le
prime occupazioni si verificarono a Cellole seguirono poi quelle
di Roccasecca, Fondi, Minturno, Capua e Calvi.
Se in Italia i fasci nacquero per ostacolare scioperi,
agitazioni guidate dal partito socialista, nel casertano il
fenomeno era molto ridotto.
Alcuni centri facevano eccezione e la lotta politica assumeva
toni più aspri. Alla fine dell’estate del 1920 si verifica l’assalto al
municipio «rosso» di Roccasecca ed azioni di squadrismo
avvengono a Capua con l’occupazione del Comune e con la
distruzione della Camera del Lavoro. Correva l’anno 1921.
Ed è proprio dagli agitatori di questi focolai più accesi che
provengono molti futuri dirigenti del fascio casertano.
Un fascismo, provinciale, fatto di «inciuci» e continui
compromessi, di rancori personali e lettere anonime che spesso
arrivano ai vertici romani insospettendo non poco Mussolini.
Con queste premesse l’organizzazione della marcia su Roma

28
non fu quindi cosa facile, del resto Aurelio Padovani9 aveva
confidato giorni prima al console Stefano de Simone che avrebbe
mandato un ispettore ad esaminare la questione della federazione
casertana che si era insediata da poco e che aveva come primo
segretario Raffaele Di Lauro.
Il piano per la raccolta delle armi fu concordato in Capua
presso il circolo Salomone, erano presenti oltre al de Simone,
Leonetti, Polito, il caposquadra Attilio Rauchi, Ferdinando
Farina, e l’ufficiale aviatore Mario De Stefano. Da Santa Maria
Capua Vetere sarebbero arrivati moschetti e pistole promesse
dagli ufficiali di artiglieria mentre gli operai del Pirotecnico di
Capua avrebbero provveduto per le munizioni.
Tutte le armi pervennero di notte a Caserta, inventariate e
ben custodite nel negozio di fiori di Iolanda Formati.
“Ci lasciammo con l’intesa di rivederci nelle prime ore del
giorno – scriveva nel suo memoriale Stefano de Simone oltre
settant’anni dopo – di notte non chiusi occhio … Pensavo a tante
cose che stavano avvenendo nella mia vita, ed anche al fatto che
non avevo potuto salutare mia madre che ora dormiva serena,
9
Aurelio PADOVANI – Nacque a Portici (Napoli) il 28 febbraio 1889, da
Vincenzo e da Maria Annunziata Braccioli. In un documento della Pretura di
Napoli del 1921 (Picardo, 2003, Appendice documentaria, p. n. n.) è indicato
come in possesso della licenza elementare, anche se successivamente sembra
sia riuscito a ottenere il diploma di perito industriale. Nel 1910 sposò Ida
Archinard, maestra, dalla quale ebbe sei figli.
Tra il 1920 e il 1922 Padovani fu in prima linea nel guidare le spedizioni
squadriste nella provincia di Napoli: lo squadrismo, nella sua visione politica,
era uno strumento per distruggere la rete sindacalista avversaria e conquistare
il consenso delle masse operaie alla causa nazionale-patriottica. Nel frattempo
si impegnò infatti nell’organizzazione dei lavoratori all’interno dei sindacati
fascisti, soprattutto nel settore degli operai portuali e dei trasporti,
scontrandosi in questa azione non solo con i sindacati di sinistra ma anche con
quelli legati ai legionari fiumani e provocando qualche malumore pure nella
parte padronale.
Fu il principale organizzatore del congresso nazionale del Partito nazionale
fascista (PNF) che si tenne a Napoli dal 24 al 26 ottobre 1922 e che precedette
la marcia su Roma (28 ottobre). Nel corso dell’assise, si rammaricò per le
dichiarazioni a favore della monarchia fatte da Mussolini, anche se non prese
una posizione di critica esplicita. La nomina a comandante delle squadre della
Campania per la marcia su Roma sembrò sancire la sua vittoria politica. (Enc.
Treccani).

29
mentre io giocavo la carta più grave delle mia giovinezza. Però
ero tranquillo, perché mi ritenevo fortunato. Anche se non
dormii, il caldo letto mi rimise in sesto la mattina ero fresco e
riposto. Dovevo far visita al prefetto che mi guardava con
simpatia e più di una volta aveva mostrato sentimenti favorevoli
al nostro partito. Sarei andato in federazione e dopo verso il mio
destino.”
L’incontro di de Simone con il prefetto di Caserta e la
collaborazione dei militari dimostra come gran parte delle
istituzioni erano favorevoli ad una rivoluzione che mettesse
ordine nella società italiana in pieno stato di anarchia.
Il prefetto accolse con simpatia coloro che stavano
organizzando la marcia ed informò gli squadristi della
situazione: il governo Facta si era dimesso, mentre il Re era a
caccia lontano dalla capitale; correvano voci di un cambio di
guardia alla guida del partito fascista e si faceva il nome del
napoletano Nicola Sansanelli; Mussolini era in attesa degli eventi
nel milanese; il quadrunvirato era stanziato a Perugia ad
eccezione di Cesare Maria De Vecchi; a Napoli era presente
Giacomo Acerbo con l’ordine di tenere allertato il Consiglio
Nazionale.
Queste le informazioni che il prefetto (vedi nota 13) diede
agli squadristi e poi rivolto a de Simone aggiunse:
- che farete?
- Il mio dovere, Commendatore, e mi aspetto da voi l’aiuto
morale che sempre mi avete dato.
- Un aiuto che non vi mancherà … Voi lo sapete da che parte
è il mio cuore, e come invidio la vostra giovinezza.

Si raggiunge con la prefettura l’intesa che gli squadristi non


avrebbero assaltato gli edifici pubblici ne offeso le autorità
costituite, di contro il prefetto sarebbe stato in attesa degli eventi
senza interferire su quanto preparavano i fascisti.
Dopo l’incontro con il prefetto iniziò la mobilitazione. Messi
al sicuro i documenti segreti della federazione casertana e
l’elenco dei partecipanti all’azione, si partiva per Castelmorrone.
Al sindaco di Caserta, avvocato Tommaso Picazio, furono chiesti
aiuti per il vettovagliamento.

30
Per raggiunge Castelmorrone fu usata l’auto di Giustino
Santangelo. Era una giornata uggiosa e particolarmente umida e
fredda. A ricevere i capi c’erano i fratelli de Simone: Angelo e
Carlo, il segretario del comune Nicola Pannone e suo cugino, il
sindaco Pannone.
C’era tanto entusiasmo e qualcuno paragonò l’evento alle
battaglie garibaldine che si erano svolte su quei luoghi ed il
ricordo a Pilande Bronzetti ritornava frequente.
Pannone mise a disposizione dei “rivoluzionari”, le scuole
mentre i capi furono accolti nella sua casa.
Come quartiere generale fu scelta la «casina rossa»; il de
Simone annota: “intanto si erano avvicinati il Capo manipolo
Vittorio Orlando, il capo Squadra Antonio Gravina e gli
squadristi Cesare Cinicola, Bernardo Antonio, Mario Monaco, i
fratelli Michele e Giovanni Matarazzo di Cesarano, Angelo Rolli
un sarto di Caiazzo, ed ancora il segretario del fascio politico di
Limatola, Cornelli insieme ad un signore di campagna che il
padre orgogliosamente aveva chiamato Senofonte e che i suoi
amici valvassori chiamavano più semplicemente «Don se ne
fotte».”.
Don Senofonte fu messo a guardia della strada di accesso al
comando. La sorveglianza della sponda caiatina fu affidata ai
fratelli Matarazzo, mentre il capomanipolo Orlando faceva da
spola tra i due versanti del monte per assicurare che la strada non
fosse caduta in mano a forze antifasciste in un momento difficile
del transito tra Castelmorrone, Caiazzo e Piedimonte Matese.
Con i «Lupi del Matese» c’erano: il dott. Giuseppe della
Villa, segretario politico di Piedimonte; l’avvocato Carlo Grillo
del direttorio; il centurione Eduardo Vetere; Francesco Zito; il
dottore Achille Falivene commissario delle poste di Piedimonte;
Angelo Boggia, comandante squadrista, Salvatore De Lollis,
Mariano Costantino, il conte Roberto Filangeri di Candida, il
dottore Augusto Franco, segretario del fascio di Gioia Sannita.
Confluirono a Castelmorrone anche gli squadristi di
Benevento, guidati da Clinio Ricci, quelli di Avellino e Napoli.
Intanto Aurelio Padovani si era insediato nella federazione
fascista Casertana, e comunicava col comando di Castelmorrone
attraverso una staffetta di uomini appositamente dislocati sulla

31
strada che dal Capoluogo portava alla “casina rossa”.
Erano frequenti le visite alla prefettura per ricevere
informazioni fresche da Roma e conoscere i dispacci governativi.

La cena è pronta, venite

Il periodico “Terra di lavoro” in occasione del decennale


della rivoluzione pubblica una lunga pagina in cui la Marcia su
Roma così fu riportata:
Sera del 27 ottobre 1922. Piove a dirotto e il freddo
umido, che penetra nelle ossa ha cacciato via dalla strada,
anche il raro passante.
Nelle sale del Circolo Nazionale si indugia ancora il
segretario politico del fascio locale, avv. Antonio Lamberti
con il componete del direttorio Arnaldo Mastellone ed
entrambi non accennano ad andar via. La notizia della
imminente mobilitazione, che in gran segreto è stata
annunziata dal componente della Federazione Provinciale
delegato per la zona capitano Vittorio Ricciardi, tiene
sospesi gli animi che anelano al momento di rompere i
ritardi con i negatori della vittoria e del sacrificio, e tien
nervosi gli uomini.
Tutto è pronto a Caserta, perché al giungere dell’ordine
convenuto, la mobilitazione si effettui e lo squadrista de Niso
fa da spola tra il circolo Nazionale e il negozio della
giovanissima Jolanda Formati trasformato in deposito
d’armi e bombe per vedere se nessuno arrivi.
Mimi Peccerillo comandante delle locali squadre di
azione è con Alfonso Gallo, Nicola Grauso, Plinio Piccone,
Bruno Enrico Formati, Palazzo, Magliano ed altri
squadristi, alla sede del fascio in attesa di ordini.
Finalmente alle ore 21, un porta ordine del console
Stefano de Simone reca la comunicazione convenzionale che
la mobilitazione si effettua con un biglietto su cui è scritto:
“La cena è pronta. Venite”.
Lamberti e Mastellone escono immediatamente diritti
all’uscio, e ad essi si unisce il componente del direttorio,
colonnello Roberto Lubrano, che avvicinato si ritira a casa
con la sua signora, non esita a lasciarla appena appreso

32
della mobilitazione, per andare al fascio.
Con Mimi Peccerillo gli accordi, secondo il piano
predisposto, sono presto presi: quanti più uomini è possibile
debbono raggiungere immediatamente Castelmorrone e
occuparla; bisogna far presto per impedire che la truppa
giunga eventualmente prima.
Gallo, Bruno, Di Nisio, Palazzi si sguinzagliano per
svegliare gli squadristi; Jolanda Formati, alla quale c’è
ordine di far capo per qualsiasi cosa, è infaticabile e…
sorride, molleggia, distribuisce armi e anche vino. Lamberti,
Mastelloni, Lubrano si recano alla sede del fascio dopo aver
esposta la fiamma di combattimento e mettono a guardia il
custode Enrico Uragani armato di un vecchio pistolone e di
un fucile; era inflessibile nella consegna.
Alle ore una e mezza del 28 ottobre Mimi Peccerillo e i
suoi armati pieni di baldanza partono sotto la pioggia
insistente per raggiungere Castelmorrone, meravigliando
lungo la strada i contadini che scendevano per venire al
mercato.
Intanto si spianano le mosse dell’autorità di pubblica
sicurezza locale, per quanto si sia certi delle rassicurazioni
del prefetto Coffari. Vengono avviati verso Castelmorrone i
Fascisti che intendevano giungere dalle sottosezioni di San
Clemente, di Sala, di Centurano e dei fasci viciniori di
Acerra, di Santa Maria Capua Vetere, di Maddaloni, di
Capua, di Marcianise, di Casapulla.
All’alba si ha l’assicurazione che Peccerillo è giunto nel
punto senza nessun incidente, e si continua il servizio di
inquadramento degli Uomini verso la linea prestabilita della
requisizione degli automezzi, che incominciano a circolate
per la città prendendosi nota del nome dei proprietari.
La Cittadinanza, che incomincia a scendere in strada
essendo giorno di mercato, guarda con curiosità ma anche
con simpatia il movimento, mentre la Guardia regia e gli
Agenti di Pubblica Sicurezza occupano le adiacenze del
fascio e le sedi degli uffici pubblici. Principiano a giungere
gli uomini di Padovani e arriva al fascio pure Vittorio
Ricciardi reduce da un giro in automobile, compiuto la notte

33
nella zona della mobilitazione.
Con lui, Lamberti e Mastelloni, mentre Lubrano aiutato
da Luigi Giglio resta al fascio. Con un camion guidato da
Diana e da Bruno si va Castelmorrone per rendersi conto
della linea occupata. Durante il percorso con uno
stratagemma Vittorio Ricciardi si impossessa di pochi fucili
che si trovano al Mulino Militare e fa una punta a Sala ed a
San Leucio per valutare qual è l’atteggiamento dei serici.
A Castelmorrone, la località designata è già raggiante
di camice nere entusiaste: l’occupazione è militarmente
perfetta, le vedette funzionano meravigliosamente e senza
intransigenza.
Di fronte alle squadre di azione, a mezza costa, sono gli
allievi ufficiali della scuola di Finanza, ma al passaggio
applaudono. Il ritorno a Caserta si effettua quasi alle ore
nove.
Lamberti viene incaricato dei servizi di
vettovagliamento; Lubrano e Origlio funzionano da
Comando di Tappa, Mastellone è in servizio di requisizione;
Giustino Santangelo, Claudio Galeno, Fedele Vaccaro
accompagnano i complementi, i ritardatari e volontari.
I Nazionalisti vengono ad offrire la loro cooperazione,
ma sono cortesemente ringraziati per ritenerci sufficienti
alla bisogna le sole forze fasciste.
Continua intanto la requisizione degli automezzi, dei
viveri, dei medicinali che cosi si ottengono dai molini Pepe
ed Amato, dai panifici dai negozianti dalla farmacie locali.
Anche il panificio militare, passato il primo momento di
incertezza, da ordine del comandante del Presidio generale
Carlo Nascinbene fornisce delle pagnotte per le squadre
concentratisi in sede.
Alle ore nove e mezza il segretario politico avvocato
Lamberti si reca sul Comune dal sindaco comm. Tommaso
Picazio, ed ottiene, senza resistenza in verità, tremila
pagnotte.
Intanto giunge la notizia della proclamazione dello stato
d’assedio.
Un certo nervosismo si impadronisce delle forze di

34
polizia e della Guardia Regia.
Ricciardi, Lombardi e Mastelloni si recano al fascio,
prendono i documenti più importanti e compromettenti e,
rastrellati i fascisti incontrati per la città con macchine
requisite si portano a Castelmorrone, dove il
concentramento fascista è al massimo dell’efficienza e
dell’entusiasmo essendosi i primi nuclei ingrossati dalla
squadre del Matese con Ciccio Zito, Fra diavolo con
Bernardo de Spagnolis e Nino Sotis. Riccardo Mesolella,
Comella, e Salvatore Renga sono tra i presenti.
Stefano de Simone console dell’Opicia imprecando,
minacciando, disponendo è instancabile. Si ha la notizia che
le squadre napoletane, agli ordini di Padovani vengono ad
unirsi a quelle di Terra di Lavoro a completare il
concentramento. Raffaele Di Lauro segretario Federale,
viene con loro.
Alle ore quattordici del 28 ottobre l’edizione
straordinaria del Corriere di Napoli annunzia il rifiuto del
Re a firmare il decreto di stato di assedio. Le armi già
caricate in difesa di un ideale e per una morte certa
esplodono in segno di gioia al grido di Viva Mussolini! Viva
le camice nere ! e da Castelmorrone la giovinezza di Terra
di Lavoro eleva purissimo il cantico della sua fede.
A Puccianiello con Padovani, si insedia il comando
generale della zona e sono a lato del glorioso Bersagliere i
più bei nomi del fascismo e dello Squadrismo napoletano e
provinciale.
Funzionano magnificamente i servizi al centro grazie a
Lateano e Giglio, funzionano benissimo il vettovagliamento
con Lamberti, che a Castelmorrone riceve da Padovani
l’elogio della sua aspra fatica e nonostante una figlioletta
fosse appena nata, funziona egregiamente e con ogni garbo
le requisizione degli automezzi autocarri, carburante,
benzina, con Mastellone, funzionano i servizi di
incolonnamento attraverso la linea prestabilita con Gaetano
Vaccaro.
Vittorio Ricciardi che gira, ispeziona, interviene, grida
minaccia, aggiusta. Mimi Peccerillo è presente sempre e

35
ovunque vigilando, ammonendo. Raffaele di Lauro del
comando di zona, tiene gli ordini che si eseguono
militarmente e con disciplina ed entusiasmo.
L’ambiente contadino guarda con simpatia al
movimento: tra i borghesi del luogo, Umberto Padovani
fratello del comandante, i fratelli Amato, Alfredo Bellocchio,
fascista del 1920 tengono alto lo spirito di simpatia della
cittadinanza, meravigliata che, a scarsezza di mezzi, si possa
supplire con una dose così forte di entusiasmo.
E l’entusiasmo inchioda sui posti a dovere e di
responsabilità, dirigenti gregari, anziani, giovani durante la
notte del 28 e la giornata del 29 ottobre traspare in un
crescendo di passione e di fede per le notizie susseguitesi sul
movimento rivoluzionario.
Ormai anche le Autorità locali sanno perfettamente che
è scritta la parola fine alla politica rinnegatrice e
rinunciataria, e la sera del 29 ottobre vede passare per
Caserta i camion carichi di squadristi anelanti di accorrere
a Roma, fra gli applausi ininterrotti della popolazione.
Alle ore ventitré del 29 ottobre tutto il movimento di
concentramento delle squadre fasciste, alla stazione
ferroviaria di Caserta, é compiuto, e l 'attesa di prendere
posto nei treni diretti a Roma passa fra i canti e gli inni
della Patria, che innalzano forti cuori e già provati
entusiasmi.
Il fato, però, vuole che l 'ordinato movimento,
concentratosi a Caserta, non manchi della vittima, e lo
squadrista Marcello D 'Ambrosa, mentre siede, tenendo in
consegna un carico di bombe, provoca casualmente lo
scoppio di esse martoriato nelle membra, cade riverso e
colpito a morte nel sangue suo generoso.
Nel movimento inconsulto, per quanto naturale, di
eccitazione susseguitosi, si appalesa ancora una volta lo
spirito eroico del capitano Padovani, perché, sfidando i
proiettili delle mille e mille armi da fuoco, esplodenti
incompostamente in tutte le direzioni, nella falsa credenza di
un attentato comunista, riesce a stabilire la calma e a far
montare gli squadristi tutti nel treno ansante verso la mèta, la

36
Città Eterna: Roma.
Questi, i giorni della rivoluzione in Caserta, fascista
provata dal 1919, e, particolare degno di nota, per dimostrare
come tutto si svolse ad opera dei gerarchi locali in
perfettissimo ordine, dal 29 al 31 ottobre, ai singoli
proprietari, in perfetta efficienza, venivano restituite tutte le
macchine requisite.
Il Quartier Generale Campano della rivoluzione fascista si
manteneva così, a distanza di ben 60 anni, all'altezza del suo
compito e delle tradizioni, e come le camicie rosse nella stessa
zona, quasi sulla stessa linea, rendevano certezza l'unità della
Patria, così le camicie nere, agli ordini del Duce, nel nome del
Re, concorrevano, anche nella zona, a riscattare col valore e
con la fede la Patria oltraggiata dai trafficanti della politica,
dai barattieri della vittoria e del sangue purissimo di due
milioni di Italiani combattenti, morti, mutilati, feriti.

Aurelio Padovani con i quadrumviri del fascismo


Napoli 22 ottobre 1922

37
Visita del segretario del P.N.F Achille Starace a Caserta

38
“Il sindaco lestofante”
Leggere a ritroso le pagine della cronaca locale significa
rivivere fatti ed avvenimenti che risultano ripetersi con
cronologica precisione in momenti di cambiamento del quadro
politico e nella vita quotidiana. Amministrazioni inadeguate e
opportuniste la città le ha sempre avute, così come uomini che
non onorano “quella tale cambiale” e che assumono cariche di
sindaci, presidenti di enti per trarre dalla vita pubblica linfa per il
loro tornaconto, ci sono oggi come c’erano stati ieri.
Scrivere di Tommaso Picazio e delle sue vicissitudini
diventa estremamente difficile e complicato, perché sono
convinto che, in parallelo a quanto sbandierato dai giornali
dell’epoca e dalla cronaca quotidiana, convive un uomo, il
Picazio, che con la sua azione si è reso protagonista della vita
pubblica casertana e che ha dovuto fare i conti con i suoi
concittadini e la storia, persone che quantunque erte a censori del
suo operato, avevano permesso, per clientelismo o per buona
fede, la sua ascesa.
L’aver esaminato un periodo difficile della reggenza Picazio
non significa, quindi, voler esprimere dei giudizi storici o
sottolineare delle condanne, essendo la ricerca troppo limitata e
molti fatti sconosciuti. Del resto la pagina non esaltante scritta
dai casertani in quegli anni richiede ben altre indagini ed è
ancora tutta da focalizzare nei suoi aspetti essenziali.
Un lavoro di ricerca reso difficile non solo dalla mancanza di
obiettive risorse economiche ed umane, ma anche
dall’abbandono in cui versa l’archivio comunale di Caserta e non
solo quello, che non permette di visualizzare atti e documenti in
cui è nascosto, forse, il corretto profilo ed il lavoro
amministrativo svolto da coloro che hanno retto le sorti della
città.
L’analisi fatta nel periodo in cui l’amministrazione retta da
Luigi Falco si vantava di aver «illuminato» di cultura Caserta, è
stata una limitazione insopportabile, anche perché da molti lustri
tutte le sollecitazioni di sistemare l’archivio, rivolte ai vari
sindaci dagli studiosi, sono rimaste inascoltate.
La città ha voluto intitolare a Tommaso Picazio una strada ed

39
è un riconoscimento da accettare: se lo ha fatto è perché ne ha
sentito il bisogno; quello che conta, al di la della cronaca, è il
messaggio antifascista (forse menzognero e tutto da verificare)
che si è voluto tramandare nel tempo: “Si dimise con un
manifesto violento contro il fascismo. In seguito fu nominato
Commissario Prefettizio ad Aversa. Si allontanò dalla vita
politica per dedicarsi all'attività forense.10”

Elezione a sindaco di Tommaso Picazio

Nella seduta del consiglio comunale del 1920 che si tenne


nella sala rossa del palazzo del Comune in via Municipio11 erano
presenti le massime autorità cittadine. Non c’erano dubbi
sull’elezione a sindaco di Tommaso Picazio anche perché la
presenza dell’on. Giuseppe Buonocore12 venuto appositamente
10
Caserta e le sue strade – Quaderni dei servizi demografici – Testi a cura di
Alberto Zaza d’Aulisio
11
Oggi via Mazzini.
12
Giuseppe BUONOCORE nacque a Formia il 6 giugno 1876 e morì a Napoli
nel 1949. Conseguita la laurea in Lettere nel marzo del 1903, insegnò per un
anno nel Liceo "Genovesi" di Napoli. Assunto nel Ministero della Pubblica
Istruzione come vice segretario di seconda classe, il suo zelo e le sue capacità
lo portarono a Messina, sconvolta nel 1908 dal terremoto, come
rappresentante dello Stato. Qui si distinse in un fruttuoso e prezioso recupero
di materiale bibliografico. Passato alla Direzione Generale dell'Istruzione
Universitaria, ebbe un mandato ispettivo ed un altro commissariale alle
università di Catania e di Perugia. Nel 1911 Nitti, Ministro dell'Agricoltura, lo
chiamò alla sua segreteria particolare, e nel 1915 fu capo gabinetto dell'on.
Rotta, sottosegretario della Pubblica Istruzione.
Nel 1919 aderì al Partito Popolare di Don Sturzo e, presentatosi alle elezioni,
fu eletto deputato. Nel quadro dell'interesse per i problemi scolastici, presentò
in Parlamento un disegno di legge per l'istituzione di un ente per la protezione
della maternità e dell'infanzia. Intervenne, successivamente, sulla riforma del
monte pensione per i maestri elementari.
Nel 1923 aderì alla sezione napoletana degli Uomini Cattolici. In campo
politico, non condividendo il nuovo indirizzo autoritario imposto dal
fascismo, prendeva commiato dai suoi elettori di Terra di Lavoro con una
lettera sobria e misurata: "I profondi mutamenti, che da un anno in qua si
sono venuti determinando nel seno di tutti i partiti politici e la recente
pubblicazione della legge elettorale, radicalmente innovatrice, fanno
prevedere prossimo e necessario l'appello al Paese, essendosi ormai da
considerare esaurita la vitalità dell'attuale legislatura [...]. Anziché subire

40
da Napoli, garantiva l’assenso del gota locale.
Come sempre accade in queste occasioni, si erano spartite le
cariche degli assessori ed anche Alberto Beneduce, dopo qualche
correzione, non aveva posto il veto. I contrasti con l’on.
Giovanni Tescione, che si era dichiarato in un primo momento
non favorevole ad avere come primo cittadino un uomo che era
stato lontano da Caserta per molti anni e conosceva poco la realtà
locale, furono superati.
Del resto, già da prima delle elezioni, si erano preparati i
piani di intervento e soprattutto erano stati assicurati tutti coloro
che avevano interessi e trattenevano affari con
l’amministrazione. Ma non tutto andò per il verso giusto tanto
che sei consiglieri non si presentarono alla riunione.
Il consiglio elesse Picazio sindaco con una larghissima
maggioranza si astenne solo uno dei presenti.
Il neo sindaco fece un intervento rassicurante per tutti. Come
impiegato presso la corte dei conti di Roma aveva imparato bene

nell'ora del cimento elettorale una inevitabile situazione di disagio in


contrasto con i miei principi e con il mio programma preferisco
anticipatamente trarmi in disparte [...].
Nel prendere da Voi commiato, io vi esorto a conservare sempre saldi i
sentimenti del dovere, dell'ordine e della disciplina: a non dare ascolto a chi
osasse scuotere la vostra fede nelle liberali istituzioni che ci reggono ed a
contribuire, nella prossima lotta, con unità di intenti, in compagnia delle altre
quattro Province sorelle, ad affrettare l'unità spirituale della Patria, auspicio
certo delle sue fulgide glorie e delle sue rinnovate fortune"'.
Laureatosi nel frattempo anche in Giurisprudenza preferì esercitare la libera
professione di avvocato, interessandosi in particolare degli studi di Diritto
Canonico. In tale disciplina vinse nel 1933 il concorso per la libera docenza,
ma non riuscì mai a conseguire l'ordinariato, perché privo della tessera del
partito fascista. Ma la competenza specifica acquisita gli aprì le porte del
Tribunale della Sacra Rota.
Finita la guerra e ricostituita la vita democratica, ribadì la sua fede
monarchica, anche se non in linea con gli orientamenti del Congresso di Bari,
e pian piano fu allontanato dalla Democrazia Cristiana. Salvi restando i suoi
principi cattolici e la sua coerenza morale, aderì al Blocco Nazionale della
Libertà, risultando eletto deputato alla Costituente.
"Iniziò da allora un'altra fase della sua attività politica, perché diventò il
personaggio più autorevole del Partito Nazionale Monarchico a Napoli.
Partecipò ai lavori della Commissione per l'Igiene e Sanità e a quella
dell'Istruzione e Belle Arti.

41
l’arte dell’oratoria. Fece valere i suoi passati di tenente di
artiglieria nell’ultima guerra mondiale e per sottolineare la sua
cultura ogni tanto diceva qualche frase in latino.
In sala però qualcuno mugugnava specie chi sapeva della sua
vita romana. Sottovoce si parlava dei debiti contratti e di quel
vizietto di firmare cambiali che poi non venivano onorate. Si
parlava anche delle scarse risorse finanziarie della sua famiglia e
si dubitava sulla futura gestione del Comune, che non aveva le
«casse in ordine».
La guerra aveva creato molta miseria nelle famiglie per
l’allontanamento dei giovani dai campi e dai posti di lavoro. Ed
era tutta la città a sentire questo stato di povertà.
Alla seduta consiliare erano presenti: Iodice Nicola, Picazio
Tommaso, Fusco Gabriele, Iannelli Andrea, Marconi Antonio,
Rendola Vincenzo, Maffei Pasquale, Durante Nicola, Ambrogi
Silvio, Marotta Giuseppe, Cutillo Camillo, Baffone Michele,
Rossi Ferdinando, Arcamone Federico, Ferrajolo Giovanni,
Petriccione Luigi, Quarto Luigi, Santacroce Giuseppe, Flandin
Antonio, Santacroce Michele, Marrucelli Salvatore, Sparano
Ernesto, Pascariello Antonio, Fiano Vincenzo, De Rubertis
Roberto, Guarriello Alberto, Fiorini Torquato, De Caprio
Vincenzo, Ricciuti Carlo, Giaquinto Sebastiano, De Franciscis
Pietrantonio, Pacifico Giosuè, Tecchia Agostino, De Michele
Antonio, Valentino Domenico, Pagliuca Giovan Battista.
Ebbero in un primo momento la carica di assessore i sigg.ri:
Fusco Gabriele, Maffei Pasquale, Marotta Giuseppe, Cutillo
Camillo, Quarto Luigi, Fiorini Torquato, Ricciuti Carlo e De
Franciscis Pietrantonio. Il segretario capo del Comune Antonio
Lauro stilò il documento finale.
Quando si trattò di fare il giuramento qualche giorno dopo in
prefettura, Tommaso Picazio si presentò in perfetto orario, ma
prima di salire a Palazzo Castropignano dovette aspettare l’arrivo
di Giuseppe Buonocore. Si trattenne presso la tipografia dei
Russo che stava a pochi passi dal palazzo anche perché aveva
promesso al suo proprietario che in futuro sarebbe stato lui a
fornire gli stampati al Municipio.

42
Il sindaco licenziato

C’è a Caserta una strada intitolata a Tommaso Picazio nato


nel capoluogo di Terra di lavoro nell’aprile 1884.
Nella pubblicazione sulla toponomastica casertana, voluta
dall’amministrazione comunale, a fronte del suo nome si legge:
“Sindaco di Caserta dal 23/10/1920 al 10/3/1924. Laureato in
Giurisprudenza fu funzionario presso la Corte dei Conti. Nel
1915 partì per la guerra con il grado di tenente di artiglieria
combattendo valorosamente sui fronti italiano e francese.
Reduce, dopo circa 4 anni, iniziò la libera professione in Roma.
Provvide al riassetto dei servizi comunali ed in particolare del
Corpo di Polizia Municipale; all'adduzione dell'acqua corrente
(Caserta aveva solo acqua di pozzo); alla costruzione delle case
popolari; al programma di sostituzione della vecchia
illuminazione cittadina con quella ad energia elettrica. Si dimise
con un manifesto violento contro il fascismo. In seguito fu
nominato Commissario Prefettizio ad Aversa. Si allontanò dalla
vita politica per dedicarsi all'attività forense. Nel 1927 moriva
per setticemia, lasciando compianto unanime.”
Agli occhi del contemporaneo e per chi pone attenzione alla
storia di questo territorio, Picazio, così come descritto, potrebbe
passare per un antifascista, uno di quelli che si è opposto al
regime mussoliniano fin dagli albori, ma di fatto non è così. Egli
è piuttosto è l’antesignano di una politica clientelare che
caratterizzò la città di Caserta dal 1919 al 1927, anno in cui il
regime fascista che mostrava sempre più i suoi connotati
dittatoriali, abolì le elezioni comunali per dar luogo al periodo
podestarile. Picazio in effetti fu costretto a dimettersi e lo fece un
giorno prima di un provvedimento prefettizio conseguenza una
ispezione governativa che analizzò il suo operato.
Su un settimanale del 1924 si legge: “Il reale decreto per lo
scioglimento del Consiglio Comunale di Caserta, porta la data
del 29 febbraio. L'ex sindaco, Picazio, col suo manifesto scritto il
2 marzo e affisso il 3 marzo e diffuso in fogli volanti il 4 e il 5
marzo, ha annunziato le sue dimissioni e ha smentito l'esistenza
del decreto reale. Sicché, egli si è dimesso quando era già stato
licenziato dal Municipio il 29 febbraio; sicché, egli, smentendo

43
l'esistenza del reale decreto dello scioglimento del Consiglio, col
manifesto scritto il 2 marzo e affisso il 3 marzo e divulgato in
fogli volanti il 4 e il 5 marzo, ha turlupinato se stesso e la
cittadinanza. Ed è finito, dunque, come dovea finire, oltre che
coll'onta, anche colle beffe, miserevolmente!”

Il potere al di sopra degli ideali

Malgrado la lotta intestina che avveniva tra casertani, tutti


aderenti al partito fascista, che si andava affermando in
provincia, Picazio affiancò il nuovo regime fino alla sua morte
altrimenti non si spiegherebbe neanche la sua nomina, all’epoca
dei commissari, a reggere le sorti del comune di Aversa.
Nel libro «Fascismo e modernizzazione: la scomparsa della
provincia di Caserta nel 1927», pubblicato nel 1991 dal centro
studi «Corrado Graziadei» lo storico casertano Giuseppe
Capobianco parlando della soppressione della provincia di Terra
di Lavoro riportava: “Colui che era stato l'ultimo Sindaco della
città, Tommaso Picazio, così scriveva su L'Unione dell'8-9
gennaio 1927, pochi mesi prima di morire: “Ebbene la
chiaroveggente sapienza del Capo del Governo (Benito
Mussolini) rilevò la necessità e provvide al rimedio
adeguatamente, destinando la città di Caserta a diventare da
oggi uno sbocco, un braccio, una propaggine di Napoli, in modo
che questa popolosissima città incantevole si avvii verso
quell'equilibrio di movimenti e raggiunga quel riordinamento e
quella sistemazione che per lo passato sono stati sempre un
desiderio ed un'aspirazione degli uomini politici napoletani,
senza mai un accenno, senza mai un barlume di volontà di
conseguimento.”
E poi rincarava la dose: “Una classe dirigente siffatta non
poteva che ricevere quel trattamento: (La soppressione della
provincia). Santarelli, nella sua relazione, ipotizza, tra le cause
dello smembramento della provincia, «un certo vuoto di potere
nel casertano» Nel passo riportato c'è qualcosa in più: c'è
l'annullamento dell'identità, della dignità della città ex
capoluogo da parte di colui che è stato primo cittadino.”
In un primo momento ed in occasione della Marcia su Roma

44
del 28 ottobre del 1922, quando gli squadristi si preparavano alla
lotta armata tra Castelmorrone e Puccianiello, la posizione di
attesa del sindaco Tommaso Picazio e il suo tentativo di
neutralità, risultò poco gradita ai casertani. La dove il prefetto
stesso Iginio Coffari13 si era mostrato talmente vicino ai
rivoluzionari tanto da invitare Aurelio Padovani, il ras Campano,
in prefettura a leggere i dispacci che provenivano da Roma via
telegrafo, l’opportunismo innato di Picazio si palesò nel fornire
ai rivoltosi solo pagnotte per tremila persone.
Con il cambio della guardia al vertice della Federazione
fascista tra l’avvocato Raffaele Di Lauro di Santa Maria Capua
Vetere ed il medico Riccardo Mesolella, la sorte di Tommaso
Picazio, sembrava segnata. La ribellione di quelli che l’avevano
subito mortificazioni e tracotanza durante il suo mandato, porto
ad una serie di accuse al suo operato.

La cittadinanza onoraria al Capo del governo

Il prefetto di Caserta Gennaro Bladier14, a cui mancavano


13
dr. Iginio COFFARI Nato a Cammarata (Agrigento) il 25 gennaio 1874.
Laureato in Giurisprudenza. Immesso in carriera per pubblico concorso il 1°
maggio 1897. Ha prestato servizio presso le sedi di Catania, Palermo, Roma,
Ministero, Presidenza del Consiglio, Ministero delle Colonie, Ministero. Capo
Divisione Direttore dell’Ufficio Affari Generali (Sanità). Nominato prefetto di
2ª classe il 1° febbraio 1918 e prefetto di 1ª classe il 1° luglio 1925.
Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia. Grand’Ufficiale
dell’Ordine Mauriziano. Ordine dell’Aquila Rossa di 4° classe. Prefetto di
Trapani (febbraio 1918 - agosto 1919), Reggio Calabria (agosto 1919 - marzo
1920). A disposizione (marzo - aprile 1920). Prefetto di Reggio Calabria
(aprile 1920 - giugno 1921), Mantova (giugno 1921 - agosto 1922),Caserta
(agosto - novembre 1922); Napoli (novembre 1922 - ottobre 1923). A
disposizione (ottobre 1923 - gennaio 1925). Prefetto di Venezia (gennaio
1925 - luglio 1929), Firenze (luglio 1929 - agosto 1931). Nominato
Consigliere di Stato nell’agosto 1931.
14
dr. Gennaro BLADIER Nato a Napoli il 19 settembre 1859. Laureato in
Giurisprudenza. Immesso in carriera per pubblico concorso il 7 agosto 1885.
Ha prestato servizio presso le sedi di Castellammare, Cerreto del Sannio,
Caserta, Roma, Cerreto del Sannio (Sottoprefetto), Frosinone (Sottoprefetto),
Palermo, Viterbo (Sottoprefetto), Mondovì (Sottoprefetto), Saluzzo
(Sottoprefetto), Ministero, Palermo (con l’incarico di Regio Commissario per
il Comune dall’agosto 1909), Ministero. Ispettore Generale. Nominato

45
pochi anni per guadagnarsi la pensione, si era trovato nel pieno
di una crisi nel massimo partito di Terra di Lavoro che non aveva
uguali in Italia: l’aspra lotta tra nazionalisti di Paolo Greco, che
confluiranno nel fascismo, e i fascisti della prima ora che
facevano capo a Aurelio Padovani. Forse tra i tanti torti del
sindaco Picazio fu anche quello di non essersi schierato. Un
articolo intitolato «Il Sindaco di Caserta e il fascismo»
pubblicato sul settimanale Terra di Lavoro del 29 maggio del
1923 i mesolelliani attaccano il primo cittadino affermando: “Il
comm. Picazio, che ha l'esclusiva professione di sindaco di
Caserta - poiché non lavora e non ha proprietà, mentre spende e
spande, è ricorso ora a un gran colpo di scena, sognando di
giovarsene per mantenere la carica e rafforzarsi, pei suoi non
ignoti fini personali. Nientemeno ha preso l'iniziativa di far
conferire a S. E. Mussolini la cittadinanza onoraria di ciascuno
dei Comuni di Terra di Lavoro!15

prefetto di 2ª classe il 1° settembre 1911. Gran Cordone dell’Ordine della


Corona d’Italia. Grand’Ufficiale dell’Ordine Mauriziano. Prefetto di Salerno
(settembre 1911 - agosto 1914), Cagliari (agosto 1914 - settembre 1917),
Pavia (ottobre 1917 - giugno 1919), Bologna (luglio - dicembre 1919),
Ancona (dicembre 1919 - agosto 1920). A disposizione (agosto - novembre
1920). Prefetto di Benevento (novembre 1920 - agosto 1921), Ferrara
(settembre 1921 - giugno 1922). A disposizione (giugno - ottobre 1922).
Prefetto di Reggio Calabria (al provvedimento non viene dato corso). A
disposizione (ottobre - novembre 1922). Prefetto di Caserta (novembre 1922 -
luglio 1923). A disposizione (16 - 31 luglio 1923). Collocato a riposo
d’ufficio per aver compiuto oltre trentacinque anni di servizio nell’agosto
1923.
15
Ad accogliere la proposta del sindaco Picazio fu il comune di Santa Maria
Capua Vetere quando il sindaco avv. Eugenio Liguori, convocò il consesso
municipale nel giorno 11 giugno 1923, con la presenza dei consiglieri
Giuseppe Cappabianca, Pasquale Carcaiso, Antonio De Lucia, Emilio
Santillo, Pasquale Fratta, Giuseppe Fusco, Salvatore Gravino, Matteo
Maffuccini, Gaetano Matarazzi, Tommaso Messore, Pasquale Palmieri,
Antonio Papale, Francesco Sagnelli, Pasquale Troiano. Mise in discussione e
votazione l’ordine del giorno “Conferimento della cittadinanza onoraria S.E.
l’on. Benito Mussolini
Queste furono le motivazioni: “Questa città antesignana di ogni azione
patriottica, che ebbe i suoi eroi dal 1848 a finire nell’ultima guerra 1915-18,
che ha nella storia le epiche giornate del settembre e dell’ottobre 1860, che è
orgogliosa di avere un popolo buono, industre e laboriosa, che fu estimatrice
devota di uomini eletti, non può né deve rimanere inerte di fronte al fenomeno

46
Dopo di che, il comm. Picazio, secondo le sue amene
illusioni, conseguirebbe, con la complicità del fascismo,
l'agognato risultato di far passare in Prefettura la sua merce di
contrabbando, che tanto danneggia il decoro e le finanze di
Caserta!
Ma i fascisti - i quali, ad onta delle clamorose
manifestazioni tributate in loro gloria dal comm. Picazio, già
respinsero, per indegnità politica e morale, la sua domanda
d'iscrizione al Partito Nazionale Fascista - non si lasciano
adescare.
I Fascisti, appunto perché conoscono vita e miracoli del
comm. Picazio, non si prestano - checché egli escogiti e
comunque si arrovelli - a favorire le sue sbalorditive
speculazioni e, per dovere di probità, restano suoi inflessibili
avversari, come reclama irresistibilmente questo popolo nostro
patriottico e paziente, per il buon nome e per la salvezza di
Caserta!”.
A mettere in difficoltà il sindaco ed i suoi collaboratori era
anche il grave stato finanziario del Municipio che si trovava a
corto di risorse tanto che era costretto a non pagare gli stipendi.
Il che fu sufficiente a scatenare un’altra dura battaglia contro “un

straordinario che l’alta figura di B. Mussolini rappresenta nella vita politica e


morale della Patria nostra. Eleggere a cittadino sammaritano B. Mussolini è
un dovere che a compierlo rende anche orgoglioso, superbo, ogni
rappresentante di questa civica amministrazione. Si è visto avanzare sulla
grande scena della politica l’uomo che è veramente degno dell’Italia; è
un’energia intatta, aperta, geniale, volitiva. Egli in breve tempo ha rinsaldata
la monarchia, cui tende con entusiasmo la devota nostra anima, ha ridate la
dignità e la forza allo stato. Ristabilire dalle fondamenta l’autorità dello stato
ed il prestigio nazionale all’estero, fermare il paese sull’orlo del baratro
finanziario, riordinare i pubblici servizi, sono compiti che soltanto una volontà
inflessibile ed audace poteva affrontare. Il nostro esercito, che aveva scritto
col sangue nella storia pagine indelebili, che sentiva vibrare nei cuori i ricordi
delle aspre battaglie vinte, languiva nell’attesa: in breve tempo Mussolini ha
valorizzato il sacrificio compiuto dai nostri soldati caduti sui campi dell’onore
ed ha ridato al glorioso esercito il prestigio perduto per colpa di politicanti, ha
restaurato le forze economiche della Nazione: a questo uomo vanno
l’omaggio e la gratitudine di questa città patriottica e vanno tributati nella
proposta di iscrivere il suo nome fra i suoi cittadini. È sicuro che vi sarà il
generale consenso del Consiglio, interprete fedele dei sentimenti della
cittadinanza intera.”

47
sindaco, che nonostante gli sia stata rifiutata la tessera di
iscrizione al fascio e non gode la stima dei nuovi politici, si
ostina a non dimettersi”. Nuove accuse gli vengono rivolte
quando assunse come consulente, un ex dipendente comunale
andato in pensione.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso. I giornali lanciarono
una vera e propria campagna «diffamatoria» a largo raggio
dedicando intere pagine all’attività passata e presente
dell’avvocato Picazio che negli articoli viene chiamato
semplicemente commendatore. Nella rubrica del 23 giugno del
1923 dal titolo «Vita di Caserta», Terra di Lavoro scrive: “Il
Municipio di Caserta non ha pagato lo stipendio di giugno ai
suoi impiegati, ai quali non avea già pagato il caro-viveri di
maggio. Non vi era stata mai simile vergogna per il Comune, la
quale vi è, invece, ora, col sindacato del comm. Picazio!
Intanto, ad onta delle gravissime condizioni finanziarie del
Municipio, il comm. Picazio, pur con tanti impiegati, riassunse
in servizio, mesi or sono, il suo parente avv. Di Guida, che era in
pensione e che è ricco! Vero è che, se dell'avv. Di Guida non
v'era alcun bisogno al Municipio, ne avea bisogno, al contrario,
il comm. Picazio, per farsi difendere dal suo parente al
Tribunale di S. Maria C. V. nella causa in cui è trascinato per
non avere pagato quella tale cambiale di trentamila lire !”

Moralizzare l’amministrazione

E’ solo intuibile, ma non spiegabile come la stampa locale e


molti esponenti politici, in quel travagliato anno 1923, nel giro di
poche settimane intrapresero una battaglia cruenta contro i propri
amministratori. Un dato sicuro è che dopo il 28 ottobre del 1922
anche il fascismo di Terra di Lavoro andava rafforzandosi e
richieste di tessere la segreteria provinciale ne esaminava a
centinaia ogni giorno, ma non tutti passavano la prova; tra gli
esclusi eccellenti c’era il sindaco del Comune capoluogo.
In provincia molte amministrazioni comunali, considerato il
nuovo quadro politico nazionale, si dimettevano o venivano
costrette a dimettersi, lasciando il posto ai commissari nominati
dalla prefettura. A favorire questo stato di cose si metteva anche

48
il vecchio prefetto Gennaro Bladier, che, forte del potenziamento
del suo nuovo ruolo, scioglieva amministrazioni che venivano
ritenute non in linea con i tempi.
A Caserta c’erano, inoltre, altri fattori e precedenti che
fecero sì che Tommaso Picazio diventasse il capro espiatorio di
clientelismi e intrallazzi che venivano alimentati fin dal tempo
del governo Giolitti.
Picazio era la longa manus dell’on. Giuseppe Buonocore, un
laureato in lettere eletto per la prima volta alla XXV legislatura
nel 1919 dopo aver intrapreso una lunga lotta per la sua
candidatura con gli altri due aspiranti Cappiello e Santamaria, e
fu riconfermato alle successive elezioni del 1921. Aveva
amicizia anche con Alberto Beneduce che si presentò alle
elezioni con il partito “Unione per la democrazia e per i
combattenti.”.
Proprio Buonocore, nel 1920, volle che Tommaso Picazio
trasferisse la sua dimora da Roma a Caserta per curare i suoi
interessi politici ed avere come sindaco un suo uomo di fiducia.
Una strategia vincente, ma che dovette fare i conti
successivamente con il fascismo di Aurelio Padovani e la sua
voglia di spazzar via il passato per dare una corretta moralità alla
vita pubblica. Un’utopia per i casertani che già vivevano i giochi
politici del nazionalista Paolo Greco proveniente dal nolano e
che non esitava a compromessi con faccendieri e camorristi della
sua terra per gestire il potere.
Nella seduta del consiglio comunale del 22 marzo del 1923
si ebbero una serie di nuove nomine, tutti personaggi allineati
con il nascente partito. Furono designati: all’Amministrazione
della Congrega di Carità, presidente dott. cav. Ferdinando Cutrì;
componenti, barone Alfredo De Riso-Carpinone, dott. Luigi
Fusco, ing. Pietro Gleyses, dott. cav. Nicola lodice, cav. Roberto
Labrano, sig. Giuseppe Marotta, ing. Giustino Santangelo, cav.
Antonio Schiavo; per la Commissione Mandamentale di
Ricchezza Mobile: dott. Arturo De Lillo, cav. Alfonso
Funiciello, cav. Umberto Fuso, insegnante Giuseppe Maffei, sig.
Raffaele Nasta, dott. Vittorio Ricciardi, cav. Ferdinando
Ricevuti, ing. Agostino Tarantini, sig. Gustavo Toscani.
Quasi tutti avevano in tasca la tessera del partito di

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Mussolini o erano simpatizzanti, perchè “nell'Amministrazione
della Congrega di Carità e nella Commissione Mandamentale di
Ricchezza Mobile dovrà prevalere esclusivamente l'impero della
giustizia e della moralità.”- affermarono i dirigenti fascisti.

Le ripercussioni sull’amministrazione provinciale

Nello stesso periodo, nell’amministrazione provinciale si


dimettevano l’avvocato De Donato, l’avv. Iannaccone ed il
comm. Irace.
Un atto che suonava alle orecchie dei nuovi vertici politici
come un affronto; infatti, in un comunicato inviato alla stampa si
sosteneva: “Per quei tre deputati provinciali, come per i loro
colleghi del Consesso Provinciale, esponenti dei vecchi partiti
liquidati vi sono più gravi e insanabili divergenze, che si devono
eliminare: quelle con la prevalente nuova pubblica opinione di
Terra di Lavoro, conquistata saldamente dal Fascismo; vi sono
più corrette e ineluttabili dimissioni, alle quali non è possibile
sottrarsi: quelle di consiglieri provinciali.
In nome della fiera intransigenza campana (proclamata dal
comandante Padovani e sostenuta dal segretario politico
federale Di Lauro e dalle loro formidabili falangi), in nome del
limpido programma di restaurazione (da cui il Fascismo
assolutamente non decampa nella sua rettilinea condotta e nella
sua vindice battaglia), per il Fascismo il Consiglio Provinciale è
ormai condannato.”
Comune capoluogo, quindi, e amministrazione provinciale
sotto tiro.
Fino a quel momento il settimanale “Terra di Lavoro” aveva
sostenuto sia Buonocore che il suo protetto Picazio, tanto che
solo qualche mese prima aveva dato ampio spazio ad una
riunione delle associazioni dei sindaci indetta con:
“L'intento nobilissimo di far divenire la nostra
Provincia più forte, - così scriveva Picazio ai suoi colleghi -
più consapevole, più sincera e soprattutto amministrata con
criteri più semplici, induce in piena armonia a quanto
esplica il Governo, la necessità di un'azione conclusiva a
vantaggio di queste popolazioni, che hanno in ogni tempo

50
così luminosamente provato il loro patriottismo e la loro
concordia.
Convinti, pertanto, che possa divenire ed essere
riconosciuto oramai indispensabile quel rinnovamento negli
organismi e nelle funzioni dei Comuni, che fu già nei voti di
tutti, ma non sin qui nelle opere coerenti al pensiero od alle
parole, con unione d'intenti, vibranti di fede, con legittimo
orgoglio, comunichiamo di aver costituito l'Associazione dei
Comuni dì Terra di Lavoro.
Essa si propone, mediante lo sforzo consociato di quanti
amano la nostra Provincia meravigliosa e ne auspicano un
avvenire radioso, di svolgere azione continuata ed assidua,
con lo scopo precipuo di farla assurgere a quello sviluppo
cui ha diritto per le sue bellezze naturali, per la civiltà
millenaria e per le sue nobili tradizioni.”
Un incontro molto apprezzato anche dal prefetto che fece
pervenire al sindaco ed ai convenuti la seguente lettera:
“Ringrazio la Signoria Vostra, nonché i Sindaci tutti, intervenuti
oggi alla riunione, tenutasi in codesta Casa Comunale per la
risoluzione dei più vitali problemi cittadini, dell'omaggio cortese
e, nel ricambiare ai singoli partecipanti il mio saluto, mi fo un
dovere di assicurar loro che nella risoluzione di tutti i problemi,
interessanti la vita amministrativa degli Enti, non mancherà la
mia benevole assistenza, al fine di cooperare al risveglio ed al
progresso delle sane energie della Provincia. Ossequio.”.
Dell’iniziativa Picazio aveva informato anche il governo
centrale inoltrando per conoscenza lo stesso invito dei sindaci,
con una con una lettera di accompagnamento, al capo del
governo. Immediato fu il riscontro alla missiva del segretario
particolare di S. E. Benito Mussolini, comm. Ciavolino: "S. E. il
Presidente ha molto gradito i sentimenti da Lei espressigli a
nome di codesta Amministrazione, e, per mio mezzo, vivamente
ringrazia. Distinti saluti.”.
Cosa significava tanta operosità? Le ipotesi sono facilmente
immaginabili: Picazio aveva i giorni contati e quindi cercava di
mantenere il suo posto. Stava tramontando la stella Buonocore
ed in più si erano diffuse le voci su alcuni presunti scandali sulla
gestione comunale ed in particolare su trattative private che

51
conduceva personalmente.
Lo stesso Buonocore faceva stampare un volumetto dal titolo
“Tre anni di vita parlamentare” in cui era riportata la sua attività
e non certamente per il suo elettorato, ma per sottolineare il suo
impegno di politico ed in particolare “l’espressione del suo
pensiero sugli avvenimenti e sulle vicende più importanti che
durante il triennio si sono andate determinate e si stanno
svolgendo e dovranno concludersi a lieto fine per le migliori
fortune della Patria nostra.”.
Con una classe politica poco attenta agli interessi della
collettività e più attaccata ai personalismi, la provincia di Terra
di Lavoro si avviava anche a perdere alcune delle fonti di reddito
importati che erano rappresentati dalla presenza di alcune
istituzioni come la Guardia Regia da Aversa, Caserta e
Maddaloni, e l’ufficio di elettrificazione con il suo spostamento
da Caserta a Benevento.

L’affondo di “Terra di Lavoro”

A sferrare l’ultimo attacco contro Picazio fu proprio il


settimanale “Terra di Lavoro”, di Eduardo de Leonardis, oramai
allineato alle posizioni politiche dominanti in città, con un
articolo che ha tutto il sapore di una sfida dal titolo:“I fascisti ed
il sindaco di Caserta - prefetto Bladier a Noi!”
Un attacco inaudito e premeditato, frutto di un’accurata
analisi e di indagini svolte su Tommaso Picazio e sul suo
passato.

Riportiamo il testo:
“Dichiariamo lealmente che il merito di questa battaglia
non è nostro e dei Fascisti, i quali l'hanno voluta.
Appunto per esimerci da questa battaglia, noi, tre o
quattro settimane orsono - presenti gli assessori cav Maffei è
dott. Durante - rivolgemmo al comm. Picazio la calorosa
esortazione di rassegnare le dimissioni a tutela del suo nome
e della sua famiglia, per evitare discussioni e rivelazioni che
gli sarebbero stati esiziali. L'assessore Maffei - che, più
degli altri, ha dato tangibili prove attaccamento e di

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sacrificio al comm. Picazio - assentì, nella saggezza la sua
esperienza, alla nostra esortazione, alla quale, però, si
oppose, a ingenuità della sua primavera, l'assessore
Durante.
Subito dopo ci incontrammo con assessori sig. Vincenzo
Rendola, lannelli e cav. Marconi: tutti tre, a loro prudenza e
nel loro acume, riconobbero con noi la ineluttabile necessità
delle dimissioni del comm. Picazio. Le pressioni affinché il
sindaco Picazio si dimettesse arrivarono da più parti, ed
inutile furono i segnali della prefettura che invitavano il
sindaco a fare il passo che si riteneva giusto per i tempi che
si andavano prospettando.”.
Sembrava ad un certo punto che le cose si stessero
mettendo secondo quando prospettato dai fascisti che, oltre
ad avere il problema delle amministrazioni locali, se la
dovevano vedere anche con i nazionalisti.
Nella lunga filippica del periodico “Terra di Lavoro” si
sottolineavano dei punti importati della questione:
“Della nostra esortazione pietosa il comm. Picazio si
commosse, si scosse, ringraziò, dichiarò che avrebbe
meditato sui suoi casi. Invece, egli inesauribile nelle sue
risorse e nei suoi espedienti - ricorse al gran colpo di far
conferire a S. E. Mussolini la cittadinanza onoraria di tutti
comuni di Terra di Lavoro.
Così il comm. Picazio s'illude di avere salvato pure alle
sorti del prefetto gr. uff. Bladier il quale, mercé sua, ha
acquistato 1'inclita benemerenza di dimostrare che Terra di
Lavoro è prona ai piedi di S. E. Mussolini. Il comm. Picazio,
dopo avere regalato a S. E. Mussolini la rara soddisfazione
di diventare suo concittadino onorario, s'illude altresì di
essere ormai sacro ed inviolabile e avere in pugno il prefetto
gr. uff. Bladier, che, secondo le sue chimere, ha legato a sè
da perenne gratitudine e cieca solidarietà.
A questa battaglia, dunque, ci hanno chiamato i fascisti,
i quali sentono il dovere di testimoniare solennemente la
loro fraternità al popolo di Caserta, liberandolo dal Sindaco
nefasto.
D'altronde, i Fascisti già respinsero dalle loro file il

53
comm. Picazio che avea richiesto insistentemente a farne
parte, per indegnità politica e morale, e lo respinsero
malgrado le gloriose manifestazioni tributate da lui in loro
gloria.
L'on. Buonocore non ignorava la vita di avventuriero
che menava a Roma il comm. Picazio... Ad onta di tutto ciò,
1'on. Buonocore, nelle elezioni comunali dell'ottobre 1920,
quando era incontrastato padrone di Caserta, impose quale
sindaco il comm. Picazio, che era assente da Caserta da
lunghi anni, che era sconosciuto ai nostri concittadini, che
non disponeva né di un voto, né di una lira.
L'on. Buonocore dice che fu ispirato ad infliggere simile
sindaco a questa povera Caserta - che non si sa mai quale
crimine avea perpetrato per essere funestata da tanta
calamità - nientemeno dall'irrealizzabile sogno di redimere
il comm. Picazio con l'onesto esercizio professionale,
inducendolo a dedicare al bene il forte intelletto, che egli,
invece, preferisce applicare al male.
Della carica e del prestigio di sindaco il comm. Picazio
non si è avvalso mai per conseguire la propria redenzione
col lavoro, ma ne ha fatto il peggiore sfruttamento per dare
estensione ed incremento alle sue oblique imprese.
Dai documenti giudiziari ufficiali risulta che vi sono a
carico del comm. Picazio, in Roma ed altrove, protesti e
precetti cambiari per somme ingentissime, addirittura
sbalorditive. Quale qualifica spetta a chi si pone in tali
condizioni, specialmente quando è sindaco e quando il
denaro, così ottenuto, lo ha sperperato in bische con donne?
Ad onta di tutto ciò, l'on. Buonocore, nelle elezioni
politiche del maggio 1921, persuase i suoi Compagni di lista
a nominare il comm. Picazio cassiere del Comitato... di
quella cuccagna si parla ancora. e dire che si tratta non di
un privato ma di un sindaco.
Ad onta di tutto ciò, quando, nell'agosto scorso, il
comm. Picazio fu costretto a rassegnare le dimissioni
dall'ufficio di sindaco, l’on. Buonocore corse qui per
salvarlo: l'on. Buonocore convocò la maggioranza al
Municipio, nell'aula del Consiglio Comunale; egli stesso la

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presiedette, seduto al seggio sindacale; dominò la tempesta;
fece rimanere sindaco il comm. Picazio.

Le cambiali non pagate

Ma l'on. Buonocore, mesi addietro, salvò anche la pelle


- proprio così al comm. Picazio, che minacciava - sul serio -
di suicidarsi, se non gli si fossero trovate trentamila lire.
L'on. Buonocore gliele trovò con una cambiale, firmata,
oltre che dal comm. Picazio, pure dai fornitori militari, sig.
Carlo Gindre, sig. Luigi Palladino e comm. Luigi Piscitelli.
S'intende che tale cambiale ebbe la stessa sorte delle altre
del comm. Picazio, che non l'ha pagata, opponendosi al
protesto intimato col motivo di averla rilasciata senza la
data e per insufficienza di bollo.
Il comm. Picazio si era veementemente innamorato della
presidenza dell'Ente Autonomo per la bonifica del Volturno,
la quale presidenza era competente a provvedere, senza
l'intervento di altri organi, a opere pubbliche per cospicue
somme.
L'on. Buonocore fece il diavolo a quattro per contentare
il com. Picazio: riunì financo in Roma, nell'agosto scorso,
tutti i deputati delle due liste ministeriali del maggio 1921,
affinché perorassero presso I'on. Riccio la nomina del
comm. Picazio.
I deputati, però, si dichiararono assolutamente contrari
al comm. Picazio, poiché quella presidenza reclamava un
amministratore incensurabile.

Gli amici degli amici

Nel settembre 1921 il prof. cav. Luigi Rendola si dimise


da segretario politico della Sezione di Caserta della
Democrazia Liberale. Egli volle infrangere ogni vincolo col
comm. Picazio, perché questi, pure essendo fuori Caserta,
giunse improvvisamente qui, per aumentare i prezzi della
carne, mentre la Giunta Comunale avea resistito
energicamente alle pretese dei beccai. Di più, un

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commerciante di vino ebbe certi privilegi daziari, assai
strani.
Un negoziante di animali bovini, che è fra i maggiori,
non favorì il comm. Picazio con una cambiale per varie
migliaia di lire, che come le altre del comm. Picazio - fu
protestata ?
E il commerciante di vino non fa o non faceva parte di
una Società di Roma, dalla quale il comm. Picazio percepì
evidentemente per prestazioni di consulente o di arbitro -
molte migliaia di lire?
II sig. Carlo Gindre, uno dei firmatari della cambiale di
trentamila lire, voleva una concessione per derivazione di
forza motrice dal Volturno, per irrigazioni, con cui avrebbe
risparmiato il versamento di somme per sopraprofitti di
guerra. E il comm. Picazio non fece deliberare dal Consiglio
Comunale la domanda per la concessione in pro del
Municipio di Caserta, secondo un progetto dell'ing. Ruffolo?
E al finanziamento relativo non dovea far fronte la Banca
Commerciale di Terra di Lavoro (non con la presente rigida
Amministrazione)? E la Banca Commerciale di Terra di
Lavoro non scontò, senza avallo, al comm. Picazio,
notoriamente insolvibile, una cambiale per diverse migliaia
di lire, protestata, come tutte le altre?
Vero è che presso le Autorità quell'affare di forza
motrice naufragò! Diamine!
Ed il comm. Luigi Piscitelli, quando firmò la cambiale delle
trentamila lire, non avea interessi a Caserta, per l'appalto
del casermaggio alla Legione degli Allievi della Regia
Guardia? Le Case Popolari? L'Annona? L'Ente Autonomo
per i Consumi? La manutenzione stradale? I lavori
pubblici? O misteri profondi!

Il giolittismo picaziano

Politicamente, con chi è il comm. Picazio? E al


banchetto dal 13 ottobre 1921, non inneggiò all'on. Alberto
Beneduce? E non fece egli votare il contributo del Municipio
di Caserta alle borse di studio, istituite in omaggio all'on.

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Giolitti, in occasione del suo ottantesimo anno?
Il comm. Picazio non è che l'eletto, che l'esponente
dell'on. Buonocore. Sono i seguaci fedelissimi dell'on.
Buonocore al quale sono indissolubilmente stretti, perché
egli ha procurato a loro immensi vantaggi che sorreggono in
Giunta Comunale e al Consiglio Comunale il comm.
Picazio, a costo di tutto e contro tutti. Parecchi degli
assessori e dei consiglieri comunali, che non si peritano di
ostinarsi ad unire le proprie responsabilità a quelle del
comm. Picazio, sono funzionari governativi!
Secondo mutano le situazioni politiche, il comm. Picazio
fa lo scaltro giocoliere, per mantenere la professione di
sindaco, che gli è a cuore, mentre le altre professioni non gli
piacciono. I gonzi si lasciano canzonare. Ma se ne guardino
quelli che lo conoscono.”.
Sembrava, quindi, dalle accuse rivolte che il sindaco era
abituato a fare giochi di prestigio per mantenere la sua poltrona
che per una serie di eventi e per come la storia ha dimostrato
difficilmente era difendibile.
Anche l’onorevole Buonocore, un monarchico indipendente
convinto, in questo difficile momento di transizione era più
impegnato a mantenersi a galla in vista degli accordi tra fascisti e
nazionalisti che a garantire fino in fondo il suo prescelto.
Il prof. Giuseppe Buonocore lo ritroveremo sulla scena
politica partenopea nel 1946: ai tempi della Costituente fu eletto
deputato e ricoprì anche la carica di Sindaco di Napoli.
Anche Alberto Beneduce incominciava a rivedere le sue
posizioni e meditava di lasciare gli incarichi politici per dedicarsi
completamente all’attività che gli era più congeniale: quella
dell’economista. Diventerà rapidamente il braccio destro di
Benito Mussolini che si avvalse del suo operato per risistemare
le finanze dello stato.

La trattativa privata con I'ing. Petot

A Tommaso Picazio si attribuisce, ancora oggi, il merito di


aver portato nelle case dei casertani l’acqua, in realtà
l’acquedotto precedentemente c’era, ma a gestirlo era il Comune

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con scarsi risultati. Poche ed inefficienti erano le fontane
pubbliche, come pure mancavano le bocche di incendio di
emergenza.
In questo contesto Picazio pensò di privatizzare il servizio
riprendendo una trattativa avviata dal commissario prefettizio
che lo aveva preceduto, con una società francese che aveva come
rappresentante l’ing. Henry Petot. Sottoscrisse una convenzione
in cui il Comune si assorbiva tutti gli oneri e la società privata
tutti i vantaggi, così come i denigratori del sindaco sostenevano.
In realtà qualcosa di vero c’era anche perché la commissione di
controllo provinciale apportò alla convenzione una serie di
modiche sostanziali che servirono proprio a correggere quelle
irregolarità riscontrate.
Per questo nella sua lunga filippica contro il sindaco “Terra
di Lavoro” continuava:
“La convenzione a trattativa privata con I'ing. Petot? E
col comm. Picazio sindaco ? Oibò!
Un comizio per la convenzione a trattativa privata con
1'ing. Petot? Oh!
Ricordate, o cittadini; il comizio del maggio scorso,
quando il comm. Picazio s'impegnò di non farvi pagare la
tassa di esercizio e rivendita? Invece, vi è toccato pagarla, e
come. Col comizio, il comm. Picazio mira a far pressioni
sulla Prefettura, per l'approvazione della convenzione a
trattativa privata con l'ing. Petot.
Ma i1 prefetto Bladier - che ha un'esistenza nobilissima
di limpida probità e di assidua fatica - e i Componenti della
Giunta Provinciale Amministrativa - che sono tutti, prefettizi
ed elettivi, come il loro presidente insigne, prefetto gr. uff.
Bladier, esempio di rettitudine e di abnegazione, e fra i quali
vi sono taluni che hanno diritto all'ammirazione generale
per la loro decorosa povertà - non hanno avuto, vivaddio,
colloquio con l'ing. Petot e non si renderanno giammai i
complici del comm. Picazio.
L'acquedotto, sì, ma con un sindaco galantuomo! Col
comm. Picazio sindaco tenuto conto della sua vita e dei suoi
miracoli - la convenzione a trattativa privata con l'ing. Petot
non è, non può essere che rovinosa per Caserta.

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I Fascisti hanno ingaggiato la battaglia, nella quale
vibra con l'anima loro tutta l'anima fidente di Caserta sana,
senza distinzione di partiti e di classi, poiché Caserta sana
reclama imperiosamente l'epurazione e la restaurazione
della pubblica cosa.

“Salvate questo sventurato popolo casertano”

Prefetto Bladier, a voi, integerrimo fascista della


prim'ora, i Fascisti, i vostri Fascisti, rivolgono l'appello, che
entusiasma, che elettrizza, che travolge, che trascina al
trionfo A noi!
Prefetto Bladier, in nome di Benito Mussolini, salvate
questo sventurato popolo casertano, mistificato, vilipeso,
dissanguato; questo popolo nostro, che alla guerra, per la
vittoria d'Italia, offrì il fiore più bello della sua giovinezza
eroica; questo popolo nostro, che, nella guerra, seppe
eccellere incomparabilmente per il più ardente, per il più
strenuo patriottismo; questo popolo nostro, che sostenne
fieramente, con magnifica disciplina, tutte le privazioni e
tutte le sofferenze, per la vittoria d'Italia !
A noi, prefetto Bladier, vi ripetono irresistibilmente i
Fascisti, i vostri Fascisti! E spazzate via l'onta e il danno del
Sindaco lestofante di Caserta, per Benito Mussolini e per il
Fascismo! Alalà !”
Avevano ragione i fascisti ad accusare il sindaco Picazio?
una risposta difficile da darsi, ma nel caso della trattativa privata
con l’ing. Henry Pitot in realtà molte irregolarità erano
riscontrabili.

La convezione della discordia

A lanciare l’allarme della trattativa che il sindaco Tommaso


Picazio stava conducendo con il sig. Petot fu un funzionario
governativo e capo-stazione a Maddaloni Superiore il sig.
Giuseppe Marotta che copriva la carica di consigliere comunale a
Caserta, in buona fede o sollecitato, non risulta da nessun
incartamento, evidenziò in tre successivi consigli comunali, le

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gravi carenze, infatti, molte clausole erano a sfavore
dell’amministrazione. Sta di fatto che di li a poco Giuseppe
Marotta fu costretto alle dimissioni.
Dopo le polemiche e con la convenzione passata in
consiglio, la pratica fu sottoposta al vaglio della Giunta
Provinciale Amministrativa, che in seguito al parere dell'Ufficio
del Genio Civile di Caserta e al parere tecnico del prof. Conti e
dell'ing. Sanchini apportò una serie di modifiche sostanziali che
davano ragione a quanti affermavano che il Comune stava
facendo un pessimo affare. Nel preambolo della relazione è
scritto:
"Tenuto conto dell'utile che indubbiamente verrà alla
Società concessionaria durante il periodo contrattuale, sia per la
vendita dell'acqua, sia per la costruzione delle condutture
private e pel nolo dei contatori; tenuto conto altresì della
rilevante spesa sopportata dal Comune per la costruzione
dell'acquedotto e della fornitura gratuita dell' acqua alla Società
concessionaria, si ravvisa equa la corresponsione da parte della
stessa al Comune di una quota di compartecipazione negli utili,
dall'inizio del settimo anno della gestione, noti essendo, a parere
della Giunta, sufficiente corrispettivo la semplice organizzazione
del servizio che dovrà compiere la Società. Tale corrispettivo
potrà essere, a scelta dell'Amministrazione Comunale,
determinato o in canone fisso annuale o in una quota di utili
proporzionata al numero delle utenze a pagamento (ordinario e
ridotto), ovvero proporzionata alla quantità dell'acqua
collocata.”.
In effetti con la convenzione, così come era stata approvata,
la Società concessionaria non pagava neppure un centesimo al
Municipio. La Giunta Provinciale Amministrativa, con rilievi
significativi, dispose, invece, che il Municipio avrebbe ricevuto
una quota di compartecipazione degli utili della Società.

La querela non data

Nonostante i pro ed i contro, la campagna di opposizione al


Sindaco Tommaso Picazio continuava.
Era evidente che la stampa, vicino a quel gruppo di fascisti

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che si andava infoltendo sempre più, voleva lo scontro frontale e
provocava il primo cittadino per costringerlo a querelare i suoi
accusatori, e da qui l’aumentare delle calunnie e delle
contumelie.
Un mese dopo, sempre “Terra di Lavoro” riprende le
invettive ed in un articolo intitolato “Il sindaco” ripercorrendo i
temi precedenti ed è una sfida aperta.
“Apprendiamo con gran piacere che il comm. Picazio ha
comunicato al Consiglio Comunale di avere ora superato gli
esami di procuratore - scriveva l’anonimo articolista, che in
definitiva era facilmente individuabile nel direttore del giornale
De Leonardis - In conseguenza, più fortunati dell'on Buonocore -
che tentò indarno riabitarlo col lavoro - noi, domandiamo al
comm. Picazio come vive e rimproverandogli l'unica sua
professione di sindaco, lo abbiamo finalmente trascinato a
mettersi e risolvere il problema di regolare sua posizione
sociale.
Alle accuse concrete e precise consacrate nel numero scorso
di Terra di Lavoro, una sola risposta ci dovea dare il comm.
Picazio, ce la aspettavamo immediata: una querela per citazione
direttissima, con illimitata facoltà di prova, con illimitato diritto
d'indagine su tutta la sua vita privata, su tutta la sua vita
pubblica, poiché il Sindaco che è a Caserta dev'essere
pienamente, assolutamente, insperabilmente illibato anche nella
vita privata, che è il patrimonio più geloso e il più nobile
orgoglio dei galantuomini.
Tale querela egli non ci ha dato e valgono a sostituirla le
sue buffonate e quelle dei suoi complici del Consiglio
Comunale?
Comunque, se non intende querelarci, il comm. Picazio
rassegni le dimissioni, con i suoi complici del Consiglio
Comunale, per provocare con le immediate elezioni, il responso
del popolo sulla sua persona sulla sua azione, sulla persona
sull'azione dei suoi complici del Consiglio Comunale.
Avanti! E vedremo quale sarà responso del popolo di
Caserta.”.
Una querela che non arrivò, almeno secondo i documenti
trovati finora. Pochi mesi dopo fu avviata, invece, un’inchiesta

61
ministeriale voluta dal prefetto Bonaventura Graziani che nel
frattempo aveva sostituito Gennaro Bladier. A condurla fu il cav.
rag. Vittorio Martelli16 Ispettore del Ministero dell’interno.
16
Il Rapporto Martelli
A seguito delle gravi denunzie fatte nei confronti della giunta presieduta
dal sindaco Tommaso Picazio il ministero dell’interno su richiesta del prefetto
predispose un'inchiesta e la verifica di molti atti messi in essere
dall’amministrazione.
Fu nominato in funzionario della prefettura il cav. Vittorio Martelli a
svolgere le indagini.
A termine del lavoro la sua dettagliata e pesante relazione arrivava alla
conclusione: “Per mettere il Comune nella via della salvezza occorre
provocare lo scioglimento dell’attuale amministrazione.”
Tutti gli esposti a carico del sindaco Comm. Picazio e degli altri
componenti la giunta municipale, erano stati fatti con lettere anonime,
indirizzate in parte al prefetto e in parte pervenute direttamente all’ispettore.
Altre denunzie si accumulavano sotto forme informazioni confidenziali e
riservate riposte direttamente al Martelli.
Nella sua analisi il funzionario governativo tralasciò di occuparsi di tutte
le dicerie e anche del privato del sindaco e che non avevano nulla a che fare
con l'azienda municipale e con le funzioni di primo cittadino e di assessore
municipale.
“Per questo - scriveva nel rapporto Martelli - ho creduto mio dovere di
verificare, con i mezzi di cui ho potuto disporre, quale fondamento avessero
gli addebiti medesimi.”
In generale risultò che alcune accuse erano infondate altre vere e, proprio
da questo si evidenza l’obiettività e l’equilibrio del Martelli che doveva in
seguito prendere la guida della città come commissario prefettizio.
Per ogni capo di accusa fu aperto un fascicolo con la relativa
documentazione che si andava ad aggiungere man mano che l’indagine
andava avanti.
Al primo punto c’era un’accusa di nepotismo: “Il medico condotto
Raffaele Ricciardi è parente del Sindaco Comm. Picazio e durante le sue
assenze si fa sostituire dal figlio Dott. Luigi il quale percepiva un altro
stipendio a carico del comune”
Il Martelli sull’argomento accertò che il Dott. Luigi Ricciardi era il figlio
del Dott. Raffaele, medico condotto. Da un certificato rilasciato dal Capo
dell'ufficio dello Stato Civile risultava che il dott. Ricciardi Raffaele era il
fratello uterino di Marsili Elvira, moglie del Maggiore medico Picazio
Antonio il quale era fratello del sindaco Comm. Picazio Tommaso.
Riguardo alla supplenza, risultava, dalla pratica consultata, che il dott.
Raffaele Ricciardi, durante il mese di ordinaria licenza usufruì con decorrenza
dal 1° settembre 1923, fu sostituito dal figlio dott. Luigi a carico del comune.
“Deve però farsi rilevare che il capitolato in vigore per i medici hanno

62
diritto di godere ogni anno di un mese di licenza e che la supplenza è a carico
del comune. - specificava il funzionario - Non credo superfluo di aggiungere
che la Prefettura, in fatto di supplenze mediche, con lettera 8 novembre 1922
n.36673 manifestò al sindaco non essere opportuno che, a sostituire un
medico condotto, sia dato incarico ad altro medico condotto, ma deve invece
ricorrersi ad un medico libero professionista. Il Dott. Luigi Ricciardi è un
medico libero professionista”.
Altri punti erano:
2° - “Tra le guardie municipali nominate sotto l'attuale amministrazione
figura Giuseppe Picazio, parente del sindaco”.
- Dal certificato rilasciato dal capo dell'Ufficio dello Stato Civile,
anagrafe e popolazione, risulta che non esiste alcuna parentela fra Picazio
Giuseppe Guardia Municipale e il Comm. Tommaso Picazio sindaco di
Caserta .
3° - “L'Avv. Di Guida Angelo, pensionato comunale, che fu riammesso
in servizio straordinario al Municipio durante l'attuale amministrazione, è
parente del sindaco Comm. Picazio, il quale volle con ciò favorirlo.
- Come dichiara il Capo dell'Ufficio dello Stato civile, il sig. Di Guida
Angelo fu Lorenzo e fu Picazio Rosa e il Comm. Picazio Tommaso fu
Giuseppe Graeffer e Maria Immacolata, sono cugini perché figli di Giuseppe e
Rosa Picazio germani. Intorno all'assunzione in servizio provvisorio dell'Avv.
Di Guida.
4° - “Il signor Giuseppe Abba, che ebbe a rilevare dal Municipio il
Magazzino e l'esercizio dell'Ente Autonomo dei consumi, è parente
dell'Assessore Municipale sig. Pasquale Maffei il quale ha, come
amministratore, concorso a far concludere un buon affare all'Abba che non
sarebbe fra l'altro, che un suo prestanome”.
- Intorno alla cessione al sig. Abba dell'esercizio, locali, merci e valori
dell'Ente Autonomo dei Consumi, mi riporto ad altro apposito capitolo. Dal
certificato rilasciato dall'Ufficio dello Stato Civile risulta che la moglie di
Abba Filippo è figlia di Coppola Elvira la quale è sorella a Coppola Carlotta
moglie di Giuseppe Maffei fratello germano dell'assessore Pasquale Maffei.
5° - “La guardia Municipale Iannelli Leucio è nipote dell'assessore
municipale Iannelli Andrea, il quale l'ha fatto nominare a quel posto”.
- Sta in fatto che la guardia municipale predetta è figlio di Marco Iannelli
fratello germano del dott. Andrea Iannelli Assessore Delegato che da pochi
giorni si è dimesso dalla carica di Assessore. La nomina a guardia municipale
effettiva di Leucio Iannelli è avvenuta dopo lo scioglimento del Corpo delle
Guardie, di cui si parla in uno speciale capitolo. Precedentemente alla nomina
a guardia effettiva, prestò servizio quale guardia provvisoria al quale ufficio
fu assunto insieme ad altri, però durante l'attuale amministrazione.
6° - “I denari raccolti dal Comitato pro monumento ai Casertani caduti in
guerra, furono consegnati al Municipio, e solo dopo cominciata l'inchiesta, ne
fu versata una parte minima al Tesoriere Comunale”.
- Da quanto ho potuto appurare da una deposizione scritta dall'ex

63
economo comunale Sig. Grimaldi, il denaro era sempre rimasto nelle mani di
questo, e il versamento avvenne dietro invito del municipio. Il fatto che il
Sindaco tramite gli atti e i documenti delle gestioni dei fondi raccolti dal
disciolto comitato, al Procuratore del Re, deve escludere a me sembra, il
sospetto che quel denaro sia invece rimasto lungamente nelle mani del
Sindaco.
7° - “La maestra Elvira Iannelli è figlia dell'Assessore Dott. Andrea
Iannelli e per il fatto della parentela con un amministratore del Comune, ha
trascurato di fare regolare servizio”.
- La predetta maestra è effettivamente figlia dell'Assessore. La sua
nomina a maestra risale a precedenti amministrazioni, cioè al 23 gennaio
1909, ma anche in detto anno, suo padre, il Dott. Andrea Iannelli era
Assessore, come ho rilevato dagli atti consiliari di quell'epoca. Riferibilmente
al modo come ha disimpegnato il servizio di maestra, mi riporto a quanto ho
già esposto in altra sede riferendo sull'andamento delle scuole elementari.
8° - “L'Assessore Municipale Sig. Dott. Andrea Iannelli ha collocato il
proprio figlio nell'istituto delle Case Popolari”.
- Il sig. Iannelli delle Case popolari è effettivamente figlio dell'assessore
predetto e fu assunto in servizio nell'Istituto delle Case Popolari nel giugno
1921 con l'assegno mensile di L. 300 ove rimase fino a qualche mese fa, sino
a quando emigrò per l'America (Riscosse lo stipendio sino al Settembre
1923).
9° - “L'Assessore Sig. Pasquale Maffei è anche Segretario in una borgata
e percepisce L. 100 al mese”.
- Questo addebito non ha alcun fondamento. I segretari delle borgate
sono pagati con mandati diretti in seguito a certificati di prestato servizio
rilasciati dai Delegati Municipali.
10° - “Il Delegato Municipale della frazione Casolla, Dott. Andrea
Iannelli percepisce l'assegno mensile di L. 100, mentre il mandato lo firma il
Segretario Tescione Gioacchino al nome del quale viene emesso”.
- Effettivamente il Delegato Municipale della frazione Casolla è il sig.
Dott. Andrea Iannelli e il Segretario è il sig. Tescione Gioacchino.
11° - “Alla famiglia del defunto Prof. Zuppardi il Comune liquida una
pensione non dovuta o in modo irregolare, perché genero dell'Assessore
Rendola Vincenzo”.
- Sta in fatto che il Consigliere Comunale Rendola Vincenzo è il suocero
del predetto professore. Il professore Enrico Zuppardi, ora professore di Storia
Naturale nel liceo Ginnasio Comunale pareggiato, fu regificato a decorrere dal
1° ottobre 1914. Il Prof. Zuppardi fu nominato professore nella scuola media
municipale in seguito a concorso con deliberazione consiliare 13 settembre
1919, debitamente approvata, e in seguito alla regificazione del Liceo
Ginnasio passò alla dipendenza dello Stato. All'epoca della nomina del Prof.
Zuppardi, il Rendola era consigliere comunale. Per la liquidazione della
pensione a carico dello Stato, il Municipio deve attestare il periodo di tempo
in cui il Zuppardi prestò servizio utile per la pensione stessa, alla dipendenza

64
del Comune. A ciò ha provveduto il Consiglio Comunale con la deliberazione
29 maggio 1923 n.71 approvata dalla G.P.A. nella tornata del 10 luglio 1923
al n.20417. Dall'atto consiliare risulta che il defunto prof. Zuppardi prestò
servizio alla dipendenza del Municipio per mesi otto e giorni 12. Cioè dal 20
novembre 1908 al 31 luglio 1909, ivi compreso il servizio prestato in qualità
di supplente.
12° - "L'ing. De Martino, praticante dello studio dell'ing. Fabbricat fu
pagato dal Comune".
- L'ingegnere Luigi Fabricat è il Direttore della costruzione delle Case
Popolari. L'Ing. Mario De Martino fu assunto, quale straordinario, presso
l'ufficio tecnico municipale, con lo stipendio mensile di L. 500 con
deliberazione 4 febbraio 1923 n.110 adottata coi poteri del Consiglio, per
corrispondere a conforme richiesta dell'ing. Capo dell'Ufficio medesimo. Dai
registri contabili si rileva che, con mandato n.920 del 14 settembre fu
liquidato e pagato ogni suo avere nella somma di L. 2450 per il periodo dal 4
febbraio al 30 giugno 1923.
13° - "Il Municipio tiene tuttora in servizio l'usciere Della Valle sebbene
la prefettura ne abbia imposto il licenziamento".
- Francesco Della Valle, in origine era alla dipendenza dell'Amm.
daziaria quale addetto al Macello e veniva pagato direttamente dal Direttore
del Dazio, per delegazione e per conto del Comune. Successivamente fu
nominato, insieme ad altri, Guardia Municipale provvisoria. Non essendo
stato compreso, nel novero di coloro che ottennero la nomina a Guardia
effettiva, fu nominato usciere straordinario a decorrere dal 9 ottobre 1922, con
l'assegno di L. 433,30 mensili compreso il caroviveri per coprire il posto
lasciato vacante dall'usciere effettivo Vitalone Giuseppe deceduto il 17
maggio 1922.

 Cimitero
14° il sindaco ha mercanteggiato a suo favore delle nicchie nel cimitero
per la sua famiglia.
- I loculi in questione rappresentavano un giusto scambio tra quelli di
sua proprietà abbattute e le nuove che si andavano a costruire per
l'ampliamento del cimitero.

 Mercato dei commestibili


15°- "Nell'aggiudicazione del lavoro di sopraelevazione del Mercato dei
commestibili per conto dell'istituto delle Case Popolari, si ricorse ad un trucco
per favorire il concorrente alle aste, sig. Vitrone il quale avrebbe saputo gli
estremi della scheda segreta (massimo e minimo dei ribassi) prima della gara
indetta per il conferimento dei lavori medesimi a licitazione privata".
- Ho esaminato l'incartamento che trovasi nell'ufficio dell'istituto delle
Case Popolari e ho avuto modo di constatare quanto segue:
1° per la licitazione privata furono diramati inviti a parecchie Ditte.
2° La scheda segreta redatta dall'amministrazione dell'Istituto, porta la

65
sola firma del Presidente Comm. Picazio; ha la data del 14 febbraio 1922;
stabilisce il ribasso minimo in L. 0,90% e il ribasso massimo in L. 1,90%.
3° La gara, a schede segrete, avvenne il giorno 14 dicembre 1922 cioè
dieci mesi dopo redatta la scheda dell'Amministrazione.
4° I concorrenti presentatisi alla licitazione e le offerte fatte sono i
seguenti:
a) Tuccillo Raffaele - ribasso L.2,25%
b) Catapane Ciro - ribasso L. 3,75%
c) Vitrone Giuseppe - ribasso L. 1,85%
5° - L'aggiudicazione rimase al sig. Vitrone il quale fece un’offerta di
ribasso contenuta nel limite massimo stabilito dall’amministrazione, e
differente da questa di soli 5 centesimi. La misura bassissima del limite
massimo ammesso per conseguire l’aggiudicazione dei lavori, che fu segnata
nella scheda segreta dell'Amministrazione, la differenza che corre tra questo
limite e le offerte fatte dai concorrenti Tuccillo e Catapane e la quasi
coincidenza con l’offerta fatta dal Vitrone sono elementi che hanno
determinato i sospetti e le denunzie a me pervenute. In ordine alla formazione
della scheda segreta da parte dell’Amministrazione ho creduto di interpellare
il sig. Ing. Fabricat che, a parer mio, avrebbe potuto meglio di ogni altro,
spiegare in base a quali criteri furono stabiliti gli estremi massimo e minimo
in cui doveva essere contenuta l'offerta del ribasso.
Come si desume dalla sua dichiarazione “la scheda segreta
dell'Amministrazione fu stabilita sulla media di tre numeri scritti in segreto
dal Presidente del Consiglio di Amministrazione Comm. Picazio e dal
Direttore dei lavori ing. Fabricat) e compilata lo stesso giorno in cui fu tenuta
la licitazione privata”.
Dunque i limiti entro cui doveva svolgersi la gara non furono stabiliti con
un criterio tecnico, ma dalla sorte. In quanto all’affermazione fatta dal sig.
Ing. Fabricat che cioè la scheda fu redatta lo stesso giorno in cui fu tenuta la
gara, si osserva che ciò non risponde a verità perché la scheda segreta che si
conserva in atti, porta la data, come si è detto, del 14 febbraio, cioè che vuol
dire che fu redatta 10 mesi prima. I prezzi unitari dell’opera da compiersi
furono stabiliti dallo stesso Ing. Fabricat il quale non fece approvare e
neppure esaminare da un ufficio superiore, la perizia da lui compilata, mentre
quelle d’altre opere appaltate dall'istituto delle Case Popolari portano una
sanzione superiore.
16° - “Il Sindaco Comm. Picazio, si è ingerito personalmente
dell'acquisto del carbone per la distillazione e produzione del gas occorrente
all'officina gestita dal Municipio. Il carbone è di pessima qualità e fu pagato
ad un prezzo superiore al normale”.
- Da una dichiarazione scritta dal Direttore del Gasometro sig. Tamagnini,
risulterebbe che il carbone fu acquistato sentiti il sig. Ing. Amendola, addetto
all’officina del Gas e il Direttore dell’officina suddetto .
La dichiarazione è incompleta perché risponde solo ad una parte di
quanto fu da me richiesto, e messa in relazione con precedenti affermazioni

66
verbali, risulta anche poco attendibile. Per verificare se il prezzo del carbone
fatto al comune era normale, fu chiesto il bollettino dei prezzi del mercato alla
Camera di Commercio di Napoli riflettente il periodo in cui il Comune si
impegnò nell'acquisto, ma non è stato possibile fare un riscontro esatto perché
la denominazione del carbone specificante la qualità contenuta nella denuncia,
non trova riscontro con le denominazioni del detto bollettino.
La denuncia lascia intravedere dei fatti che a me manca il mezzo di
appurare. Una più esauriente indagine potrebbe essere affidata ad un esperto
che sia in grado di identificare la qualità del carbone, e riferendosi all’epoca
dell'acquisto, stabilirne il prezzo.

 La bolletta del gas non pagata


17° - “l sindaco Comm. Picazio, consuma il gas, ma non lo paga”.
- Per accertare quanto potesse esservi di vero in questa denuncia ho
esaminato il registro dei conti correnti degli utenti gas, dal quale è risultato
che il 13 ottobre il Comm. Picazio era in debito verso l'officina per L. 121,28
per gas consumato nelle sue abitazioni in via Corso, 192 e nella Villa
Marzano nei mesi dal giugno all’agosto. Per il mese di settembre non era stata
fatta la ricognizione del gas consumato e denunciata all'ufficio la somma da
inscriversi nella contabilità.

 La delibera non ratificata


18° - “L'amministrazione municipale per favorire persona amica, nominò
Ingegnere tecnico presso l'officina del Gas il sig. Ing. Amendola per
procurargli un altro posto, avendo dovuto lasciare quello che la stessa
Amministrazione gli aveva prima procurato nell'istituto delle Case Popolari.”
- Gli avversari politici degli attuali amministratori insinuano che all'Ing.
Amendola fu conferito un posto nell'Istituto delle Case Popolari, ove è
l'ingegnere Direttore sig. Fabricat ma che, per ragioni di indole oltremodo
delicato, tra i due Ingegneri, che prima erano uniti da vincoli di verace
amicizia e di reciproca stima, sorse poi improvvisamente un insanabile
dissidio in conseguenza del quale era necessario che l’Amendola lasciasse
l’Istituto delle Case Popolari. Ma poiché si voleva evitare che egli perdesse
l'assegno mensile dal detto istituto, l'Amm. comunale, pensò di trasferirlo al
Gasometro con l'incarico di fare accertamenti sulla gestione di quell'azienda.
Dall'esame degli atti e da interrogatori è risultato: nella tornata consiliare del 6
marzo 1921 n.125 il Sindaco riferisce testualmente quanto segue: «La vita
amministrativa del Comune si esplica attraverso molteplici organi integrativi i
quali rivestono carattere di vere e proprie aziende speciali, aziende che, per un
sicuro e normale funzionamento, debbono essere controllate e ispezionate
tanto in rapporto alla gestione di fatto, quanto in rapporto alla gestione di
diritto. D'altra parte, l'esame dei consuntivi degli esercizi scorsi non può
essere espletato soltanto e interamente dai revisori dei conti per l'enorme e
paziente lavoro di revisione, epperò, indubbiamente, per assolvere questo
importantissimo obbligo di legge, sarà necessario far coadiuvare i revisori da

67
un professionista d'indiscussa onorabilità e di provata competenza per il
rapido disimpegno di tali funzioni. Ravviso altrettanto per l'azienda complessa
del Dazio, e non mi dilungo in altri dettagli, per quanto concerne l'azienda del
gasometro». Dopo lunga e dettagliata discussione sugli argomenti accennati
dal Presidente, alla quale prendono parte diversi Consigliori, il Presidente
formula il seguente ordine del giorno: «Il consiglio, udite le dichiarazioni del
sindaco, conferisce alla Giunta ampio mandato perché, d'accordo coi revisori
dei conti, provveda con assunzione di personale provvisorio alla funzione
ispettiva, sulle aziende e contabilità municipali.»
La deliberazione fu approvata e trasmessa alla Prefettura che l'approvò
incondizionatamente alla designazione delle persone da nominarsi e alla
durata dell’incarico che non doveva oltrepassare l’anno in corso. Con
deliberazione d'urgenza, la Giunta Municipale il 25 luglio 1923 dà incarico
all'Ing. Enrico Amendola, assegnando il termine di due mesi, di studiare i
progetti per uno sfruttamento più redditizio dell'officina del gas, di accertare
la consistenza dell'impianto e riferirne poi all'Amministrazione. Come
compenso si stabiliscono L. 1000 mensili, con decorrenza dal 1° agosto 1923.
Sennonché la Prefettura, con lettera 6 agosto 1923 n. 25007 ravvisando la
necessità imprescindibile che l'officina del gas sia ceduta all'industria privata
e che perciò non possa riuscire di nessuna utilità lo studio preventivo di un
programma di espansione e di miglioramento, ritiene opportuno che l’opera
dell’Ing. Amendola sia limitata soltanto alla consistenza e alla valutazione
dell’officina e all’esame delle offerte già presentate da Società, per
l’alienazione o la gestione dell’azienda stessa.
La deliberazione della giunta municipale adottata in via d'urgenza il 25
luglio 1923, fu restituita al Comune col seguente provvedimento: "N. 25007
Div. 2/1-6 agosto 1923. Preso atto, salvo ratifica consiliare, con riferimento
alla lettera di pari data e numero".
La deliberazione non fu ratificata dal Consiglio. Anzi a questo riguardo
si fa rilevare che indetta una convocazione del Consiglio per il giorno 3
ottobre p.p. per trattare, tra altri oggetti portati nell'ordine del giorno, anche
della ratifica di 87 deliberazioni adottate in via d'urgenza dalla giunta
municipale nel periodo di tempo che va dal 21 dicembre 1922 all'11 giugno
1923, non figura tra le deliberazioni da ratificarsi, quella anzidetta del 25
luglio 1923.
L'Ing. Amendola, come è detto in altro capitolo riferibile all'officina del
Gas in quasi nove mesi, non ha compiuto quel lavoro che doveva espletare in
soli due mesi.
Dall'esame della pratica in corso ho rilevato che in una riunione della
Giunta Municipale, avvenuta il 27 novembre 1923, sempre coi poteri del
consiglio, si deliberò di prorogare l'incarico conferito all'Ing. Amendola a
tutto il 31 dicembre 1923.

68
Si mise subito all’opera interrogando persone informate sui
fatti, dipendenti comunali e chi spontaneamente si presentava da
lui per denunciare presunte irregolarità commesse dal sindaco.
Durate la sua permanenza a Caserta ricevette numerosissime
lettere anonime che lo informavano, almeno così era scritto nelle
missive, delle malefatte del primo cittadino.
Il sindaco aveva visto tramontare la sua stella, erano lontano
i tempi della sua elezione nell’autunno del 1920 quando un
consiglio Comunale quasi al completo, 37 consiglieri su 40, lo
votò all’unanimità. Una maggioranza bulgara si sarebbe detto
oggi 36 a favore un solo astenuto.
Quando prestò giuramento nelle mani del prefetto ad
accompagnarlo c’era l’on. Buonocore che ora sembrava assente
da tutta la faccenda e rimaneva sulla sua posizione di neutralità.

Un sindaco saltimbanco della politica

Il 1923 fu l’anno in cui si scatenò una battaglia per la


moralizzazione dell’amministrazione del municipio di Caserta.
Si trattò della logica conseguenza di quei nuovi principi che
facevano parte del bagaglio culturale di coloro che avevano
creduto nella rivoluzione del 28 ottobre e cioè: spezzare quel
clientelismo imperante e quel malgoverno che si era diffuso nel
paese in modo così radicale da arrivare fin nei piccoli comuni.
Lo scontro quindi tra i fascisti che si ispiravano a Padovani e
il sindaco Tommaso Picazio non fu contrapposizione di ideali,
perché si trattò di un regolamento di conti avvenuto all’intermo
del fascismo stesso, (in più occasioni Tommaso Picazio elogiava
e si appellava a Mussolini ed insisteva per avere l’iscrizione al
Partito Nazionale Fascista), fu guerra di potere che vedeva da un
lato i seguaci del Buonocore e dall’altro quelli che volevano
eliminare il malcostume imperante e i nepotismi di un sindaco
che per mantenere la sua poltrona aveva elargito favori e piaceri
a tutti i consiglieri comunali ed agli assessori che di fatto si
rendevano complici del degrado morale in cui versava il palazzo.
I ripetuti manifesti e gli articoli, contro i dirigenti locali del
partito fascista fatti affiggere e pubblicare dal Picazio, (fino ad
oggi non abbiamo ancora trovata traccia negli archivi) li

69
possiamo dedurre da quanto scrive Eduardo de Leonardis su
Terra di lavoro del 30 Giugno 1923 n. 25 in un corsivo intitolato
“Antifascismo”:
“Il sindaco di Caserta, comm. Picazio, dopo che fu respinta,
per indegnità politica e morale, la sua domanda di ammissione
al Partito Nazionale Fascista, iniziò una subdola lotta contro i
Fascisti di Terra di Lavoro e specialmente contro i loro
Dirigenti, pur ricorrendo alla manovra di dichiararsi varie volte
al giorno fascista ardente, fascista nell'anima, ammiratore di S.
E. Mussolini, devoto a S. E. Mussolini. Egli, che non più tardi
del 4 ottobre 1922, in un documento ufficiale, cioè nella sua
relazione per l'acquedotto (sottoscritta anche dai suoi colleghi
della Giunta), rilevava le benemerenze dell'on. Giuseppe
Buonocore, egli non è avvinto nè al Fascismo, nè ad altri partiti,
ma è soltanto un autentico saltimbanco, che si affanna
scaltramente a sfruttare le vicende ministeriali, per non perdere
il dominio municipale e per non abbandonare le sue speculazioni
particolari.”.
Il giornalista definisce Picazio “un saltimbanco che non
vuole perdere il dominio municipale”. Del resto il sindaco, come
più volte gli fu contestato, non aveva né un mestiere né una
proprietà, una grave mancanza per il tempo in cui gli
amministratori dovevano dare e non prendere dalle casse delle
pubbliche amministrazioni.17

La falsa fede monarchica

“Del resto, non si sa che la dimostrazione monarchica,


preparata dal sindaco Picazio (col conscio od inconscio
concorso di quella tale Associazione dei Comuni), per il 14
maggio, in occasione del passaggio per Caserta di S. M. il Re,
17
Per chi in parallelo ha seguito le vicende del più fortunato Giuseppe
Buonocore che messosi in disparte con l’avvento del fascismo, riprese la sua
vita politica nel 1943 nelle fila della Democrazia Cristiana, non può che
vedere delle analogie del saltibanchismo di Picazio con il suo padrino degli
anni venti.
Infatti il Buonocore, rieletto deputato e successivamente sindaco di Napoli,
ben presto entrò in contrasto con la Democrazia Cristiana degasperiana e si
affiliò nel più comodo laurismo pur di mantenere un suo potere.

70
fu, nei disegni del sindaco Picazio, una dimostrazione
antifascista? - ribadiva il giornale - E non compresero ciò a
Roma, d'onde al Popolo d'Italia l'autorevole corrispondente
Gaetano Polverelli telefonava precisamente così: Anche in
Campania, specialmente con la mobilitazione dei Sindaci in
Terra di Lavoro, il giuoco antifascista si è svolto allo scoperto
?18. E il 3 giugno, festa dello Statuto, prima che il Consiglio
Comunale deliberasse di conferire la cittadinanza onoraria a S.
E. Mussolini, proprio il sindaco Picazio, al Municipio, non invitò
a parlare il Presidente della Federazione Provinciale dei
Combattenti il quale, nel suo discorso involuto, non si rivelò
entusiasta per il Fascismo e per il Governo Fascista?
E a proposito: 1'iniziativa della cittadinanza onoraria a S.
E. Mussolini, presa dal comm. Picazio, fu un atto di sincerità, o
non fu un altro suo industre espediente, pei suoi noti fini?”.
Ma ci fu qualcuno che si opponeva fermamente al picazismo
tanto che faceva sentire la sua voce e denunciava gli stratagemmi
del primo cittadino casertano. Era un ex ufficiale pluridecorato di
Santa Maria Capua Vetere: Tommaso Messore. Infatti sempre
dell’articolo antifascismo di Terra di lavoro si legge: “Al
Consiglio Comunale di S. Maria C. V., l’avv. cav. Messore - che
votò la - cittadinanza onoraria a S. E. Mussolini, di cui esaltò le
insigni e cospicue benemerenze - disse che: "la proposta del
sindaco Picazio era stata determinata da ragioni personali ed
elettorali, specialmente perché non veniva da aderenti al Fascio,
ma da chi, non essendo potuto entrare nel Fascismo per
indegnità, credeva con tale proposta di rifarsi la verginità
politica per far sì che si perpetuassero nella nostra Provincia i
vecchi e deplorevoli metodi di lotta, mentre sarebbe l'ora di
bandire ogni forma di servilismo e di clientela ".
L’ambiguità del Picazio la si può anche vedere dalle sedute
del consiglio comunale il 14 giugno 1923: fece un lungo elogio a
Benito Mussolini, ma nel contempo ebbe a sottolineare come
“Caserta, col Governo Fascista, avea perduto la Regia Guardia,
l'Ufficio di Elettrificazione delle Ferrovie dello Stato, il
Provveditorato agli Studi, la R. Scuola Normale Maschile”,
18
(Popolo d'Italia del 17 maggio, n. 117)

71
aggiungendo che altri danni si minacciavano.
Il vizietto di dare una botta al cerchio ed una alla botte gli
rimaneva il più congeniale, affermavano i suoi oppositori.
“Ed ora il sindaco Picazio scrive e diffonde giornali contro i
Fascisti di Terra di Lavoro, pur non rinunziando all'abituale
manovra di osannare a S. E. Mussolini.”.

La tessera fascista negata

Vista l’impossibilità di avere la tessera del PNF, il sindaco


sparlava dei suoi mancati camerati a destra e manca.
“Nessuno si sorprende della propaganda antifascista,
dell'attività antifascista del sindaco Picazio; nè se ne affliggono
e offendono i Fascisti di Terra di Lavoro, i quali, invece, si
affliggerebbero e offenderebbero, se ad essi toccasse l'onta della
simpatia e dell'appoggio del sindaco Picazio, del quale ormai
sono a cognizione di tutti la vita, i miracoli, i livori e gli scopi. -
scriveva De Leonardis- E' strano e doloroso, però, che si presti a
diventare alleato del sindaco Picazio qualcuno, che si vanta
ancora di essere fascista, come 1'avv. Lamberti. Ed è strano e
doloroso appunto per l'avv. Lamberti, e non per gli altri.
E quale giudizio si dovrebbe pronunziare per quella
epistola, pubblicata il 23 giugno dall'avv. Lamberti? E da quale
ideale egli fu mosso, quando non celò nemmeno la cura di voler
rispondere al manifesto del 19 giugno, con cui la Federazione
Provinciale del Partito Nazionale Fascista s'impegnava coi
cittadini di Caserta di conseguire la redenzione municipale?
Egli non previde che il pubblico avrebbe pensato che mirava a
guadagnarsi le grazie del sindaco Picazio per il concorso al
posto di segretario capo al Municipio?
E, dopo la grave crisi, ormai superata, che nel maggio
scorso travagliò il Fascismo della Campania grave crisi non
suscitata, no, da infedeltà e disobbedienza a S. E. Mussolini e al
Fascismo, ma da sentimentalità e solidarietà sorte senza dubbio
in piena buona fede - è seria, è patriottica, è onesta simile
epistola, che avrebbe potuto rinnovare e alimentare dissensioni e
competizioni, quando vi è tanta irrefrenabile necessità di ferrea
disciplina, di salda compattezza e soprattutto di spontaneo e

72
fervido affetto?
Per fortuna, con la sua epistola malvagia e balorda, della
quale tutti gli intelligenti hanno capito i veri motivi, l'avv.
Lamberti non è riuscito a scuotere per nulla la formidabile e
invincibile compagine del Fascismo di Terra di Lavoro, come
egli non é riuscito ad offuscare minimamente la illibata
reputazione dei presenti Dirigenti Provinciali del Fascismo, i
quali sono circondati, come a Roma, così in Terra di Lavoro, da
meritata fiducia.”
E poi concludeva: “Dopo di che, lasciamo pure che il
sindaco Picazio continui nel suo antifascismo, che è onore e
gagliardia per il Fascismo, e lasciamo anche che lo segua 1'avv.
Lamberti, con stoltezza inqualificabile.
Ma serrino le file le pure Camicie Nere, i puri Nazionalisti
coi quali è imminente l'auspicata fusione leale e fraterna - per
l'attaccamento a S. E. Benito Mussolini, per il trionfo del
Fascismo, per le maggiori fortune della Patria!”.

Il sindaco che spadroneggia

Tra le accuse mosse al sindaco Tommaso Picazio ci fu quella


che riguardava la convenzione stipulata per la concessione della
fornitura dell’acqua ad un’azienda straniera la “Compagnie
d'Entreprises des Conduites d'Eau”19 di cui era responsabile il
19
Quanto pagavano i casertani per l’acqua nel 1923?
L’art. 10 della convenzione Picazio così stabiliva: E' data facoltà ai
proprietari degli stabili di prendere a nolo e manutenzione i contatori, giusta la
tabella che segue:
Tabelle contatori
Contatori Doat a quadrante asciutto:
Da 7 mm. - L. 226,50 - nolo e man. 20%,, L. 11,30 trimestre.
Da 10 mm. - L. 264,70 - nolo e man. 20% L. 13,25 trim.
Da 13 mm. - L. 293,05 - nolo e man. 20% L. 14,65 trim.
Da 20 mm. L. 381,05 - nolo e man. 20%,, L. 19,05 trim.
Contatori Doat a quadrante bagnato
Da 10 mm. - L. 255,50 - nolo e man. 2001,, L. 12,75 a trim.
Da 15 mm. - L. 283,85 - nolo e man. 2001,, L. 14,20 a trim.
Da 20 mm. - L. 371,80 - nolo e man. 20°lo L. 18,60 a trim.
il quadrante bagnato potrà essere impiegato sulle condutture a bassa
pressione.

73
sig. Henry Petot. Davanti ad un bene sociale di questa levatura
non tutti i casertani potevano stipulare contratti per avere in casa
l’acqua. Troppa esosa era la spesa una volta che l’acquedotto
comunale sarebbe passato in mani private.
Le accuse rivolte al primo cittadino erano dure perché il
contratto stipulato tra Comune e società francese prevedeva che
tutti gli oneri fossero a carico dell’amministrazione e tutti i
vantaggi per il privato.
Fu chiesto l’intervento della giunta provinciale
amministrativa che si espresse con un ordinanza datata 16 giugno
1923 tramite il parere dello genio civile e del tecnico prof.
Luciano Conti ordinario della facoltà di costruzioni idrauliche
all’università di Roma e dell’ing. Sanchini in cui si affermava:
“Tenuto conto dell'utile che indubbiamente verrà alla

E' ammessa una tolleranza non oltre il 5 % in più o in meno nell'esattezza


dei contatori.
La rottura e rimessa dei sigilli saranno oggetto di un verbale sottoscritto
dalle parti.
Anche per quest’articolo come per il resto fu fatto per tutti i 34 previsti
dalla convenzione, la Giunta Provinciale Amministrativa apportò delle
sostanziali modifiche a correttivo di quanto fu sottoscritto tra sindaco e la
“Compagnie d'Entreprises des Conduites d'Eau” aggiungendo i seguenti punti:
“a) Sia chiaramente specificato che il Comune non intende dare alcuna
garanzia nello sviluppo dei consumi, ma, solo per rendere più agevole il
compito alla Concessionaria, compirà gli atti di cui all'art. 5 del regolamento
per la distribuzione dell'acqua, e che non assume alcun obbligo circa la
costruzione del serbatoio, la cui mancanza non potrà mai dar diritto alla
Società di sollevare pretese contro il Comune per qualsiasi ragione di sorta”.
“b) La Giunta ritiene oltremodo gravoso per gli utenti l'onere di un
duplice contatore (quello principale e quello divisionario). Se per ragioni
tecniche la Concessionaria non crederà di dover prescindere dall'impianto dei
contatori principali, detto onere dovrebbe cadere esclusivamente a carico di
essa con un contributo del Comune allo scadere della concessione, qualora
intenda rilevarli”.
“c) I contatori divisionari dovranno essere forniti ai privati
esclusivamente a nolo e divenire tutti, allo scadere della convenzione, senza
alcun compenso, proprietà del Comune”.
d) I prezzi di nolo dei contatori debbono essere almeno ridotti alla metà,
ed il canone annuo, commisurato al 20 % sopra i nuovi prezzi, dovrà essere
pagato dagli utenti per nolo, manutenzione e ammortamento dei contatori
stessi”.

74
Società concessionaria durante il periodo contrattuale, sia per la
vendita dell'acqua, sia per la costruzione delle condutture
private e pel nolo dei contatori; tenuto conto altresì della
rilevante spesa sopportata dal Comune per la costruzione
dell'acquedotto e della fornitura gratuita dell'acqua alla Società
concessionaria, si ravvisa equa la corresponsione da parte della
stessa al Comune di una quota di compartecipazione negli utili,
dall'inizio del settimo anno della gestione, noti essendo, a parere
della Giunta, sufficiente corrispettivo la semplice organizzazione
del servizio che dovrà compiere la Società. Tale corrispettivo
potrà essere, a scelta dell'Amministrazione Comunale,
determinato o in canone fisso annuale o in una quota di utili
proporzionata al numero delle utenze a pagamento (ordinario e
ridotto), ovvero proporzionata alla quantità dell'acqua
collocata.”.
A seguito della decisione dell’organo ispettivo provinciale, i
detrattori del sindaco ebbero a dichiarare alla popolazione che:
“Con la convenzione del comm. Picazio, la Società
concessionaria non pagava neppure un centesimo al Municipio.
La Giunta Provinciale Amministrativa, con rilievi considerevoli,
dispone, invece, che il Municipio riceva una quota di
compartecipazione degli utili della Società.
Sicchè, il comm. Picazio, con la sua convenzione, sacrificava
gl'interessi di Caserta, li ha, invece, tutelati la Giunta
Provinciale Amministrativa.”.
Tra le correzioni più importati che la Giunta Provinciale
pretese, fu quella all’art. 2, comma 2, in cui si prevedeva solo
l’esonero del Comune da responsabilità ed oneri di qualsiasi di
natura derivanti dall'esistenza, dalla gestione e dalla
manutenzione dell'acquedotto stesso.
La Giunta Provinciale Amministrativa, oltre a stabilire la
suddetta modifica, dispose di includere l'obbligo per la
Concessionaria di portare l'acqua, con opportune diramazioni ed
entro un mese dall'inizio della gestione, alle n. 52 fontanelle
pubbliche, che avrebbero dovute tutte essere trasformate
rapidamente a getto intermittente, in ogni caso non oltre un anno
dall'inizio della gestione, con diramazioni e trasformazioni che la
Società concessionaria avrebbe dovuto compiere a totale sue

75
spese, nessuna esclusa, assumendosi la relativa e regolare
manutenzione delle stesse per tutta la durata della concessione.
Si voleva venire incontro ad un problema sociale altamente
sentito nella popolazione, quello di assicurare a tutti i cittadini la
fornitura d’acqua considerata un bene primario su cui nessuno
doveva speculare.
Anche il successivo articolo 3 della Convezione Picazio fu
notevolmente cambiato garantendo che la società che gestiva
l'acquedotto non avrebbe in futuro potuto aumentare i prezzi al
metro cubo, che già di per sé erano gravosi. Infatti la Giunta
Provinciale decise di integrare l’articolo 3 che prevedeva: “La
Compagnia è autorizzata a riscuotere il prezzo di abbonamento
dell'acqua dai diversi utenti, in ragione di L. 0,60 a metro cubo
per il minino di consumo, e di L. 0,90 per ogni metro cubo di
eccedenza, come risulterà dalla polizza di abbonamento”, con: “i
prezzi indicati non potranno mai essere superati da qualsiasi
ragione di sorta, e specificatamente per maggiori oneri che
eventualmente potessero gravare sulla Società concessionaria,
anche se dipendenti da forza maggiore”.

La reazione delle opposizioni

Il responso della Giunta Provinciale Amministrativa diede


un duro colpo all’immagine dell’Amministrazione Comunale. I
cittadini nella sentenza individuavano un complotto tacito a loro
danno ed a favore di un’azienda per di più straniera.
Una convenzione, quella corretta dalla Giunta Provinciale,
completamente ribaltata che dava l’occasione a coloro che
combattevano l’operato del sindaco di formulare nuove accuse:
“Della convenzione del comm. Picazio, non resta, dunque, dopo
l'ordinanza della Giunta Provinciale Amministrativa, che la
documentazione solenne dei profitti, che si attribuivano alla
Società, e dei danni, che s'infliggevano a Caserta e ai suoi
cittadini. - affermavano gli oppositori - Resta a lui l'atroce ironia,
la rovente beffa, la feroce presa in giro, di cui hanno voluto
colpirlo il prefetto gr. uff. Gennaro Bladier e il consigliere cav.
uff. Gagliardi, i quali, dopo avergli crudelmente portato via
l'arrosto, si sono compiaciuti largirgli il fumo. Comunque, in

76
mancanza dell'arrosto, da esperto prestigiatore, il comm. Picazio
si conforta col fumo, almeno, se non per altro, per accecare i
gonzi, dei quali Caserta non difetta, e per legare viepiù alle
proprie responsabilità i suoi complici del Consiglio Comunale. E
se ne conforta, per diffondere e far diffondere menzogne e
menzogne e menzogne, nelle quali la sua impudenza non ha
confini.
Tutte le più industrie manovre avea adoperate il comm.
Picazio, per fare approvare la sua convenzione, ma ogni suo
scaltro espediente è stato vano, poiché è bastato che gli onesti
leggessero appena la sua convenzione - pur non conoscendo la
vita e i miracoli di lui - per convincersi che, mentre essa
sacrificava senza pietà gl' interessi di Caserta e dei suoi cittadini,
ponea largamente in condizioni di privilegio, invece, la Società
concessionaria!
Non ripetiamo oggi che il comm. Picazio non ha che la
professione di sindaco, pure spendendo e spandendo; non
ripetiamo oggi le sue prodezze pubbliche e private, che lo
caratterizzano perfettamente.
Rileviamo che oggi ci è dato alfine di giudicarlo alla stregua
del suo più importante atto di sindaco, quello, cioè, riguardante
nientemeno la salute pubblica: ebbene, si può negare che egli sia
un sindaco nefasto?
Ed egli spadroneggia al Municipio, senza fastidio, senza
controllo, senza opposizione, come meglio gli è comodo e
proficuo!
Ah, se fosse lecito esaminare sulle carte e sulle cifre la vasta
ma equivoca attività municipale del comm. Picazio, quale altra
schiacciante documentazione della rovina di Caserta, che egli
compie pervicacemente, e pour cause!
Ma l'ora del rendiconto dovrà suonare”.

Le conclusioni del rapporto Martelli

Con il rapporto Martelli la giunta di Tommaso Picazio volge


definitivamente al termine. La forte spallata data dai fascisti
specie da parte di quel gruppo che faceva capo ad Aurelio
Padovani aveva fatto nascere nei casertani, in modo velato, quel

77
desiderio di normalità amministrativa. La politica doveva basarsi
non più sul clientelismo, di cui Giuseppe Buonocore, attraverso
il sindaco, si era reso artefice ed era diventato il maggior
esponente in città. Buonocore non era casertano, ma conosceva
la vita locale per avere frequentato il liceo classico Giannone e si
era fatto tanti amici.
Tommaso Picazio pagava un conto amaro anche se la storia
successiva dimostrerà che la sua fu un’amministrazione difficile
e turbolenta. Era in effetti, l’ultima eletta democraticamente
prima di un periodo di commissariamento del comune. Con
l’abolizione delle elezioni amministrative, si dava ai podestà, per
decreto, l’incarico di amministrare le città.
Complessivamente, però, Tommaso Picazio nel burrascoso
mare della politica dell’immediato dopo rivoluzione non si
dimostrò un ingenuo. Sapeva far valere la sua esperienza anche
se il suo modo di governare era ritenuto dai nuovi arrivati non
adeguato ai tempi. Si ispirava più a Giolitti che a Salandra e
questo era dovuto ad un sistema radicato da secoli nella
mentalità locale che pagava i clientelismi e penalizzava le nuove
idee di uguaglianza che voleva la società, con uguali diritti e
doveri. Fare sinergia per mirare alla crescita della collettività.
Postulati questi abbracciati in toto dal fascismo di Padovani,
propagandati da Raffaele Di Lauro suo portavoce.
La relazione di Vittorio Martelli, comunque prescindeva dai
fatti politici e si limitava ai presupposti ed agli atti realizzati
durante il mandato del primo cittadino.

I progetti mancati

Scriveva Martelli: L'attuale amministrazione, appena salita al


potere, nello scorcio dell'anno 1920, si propose lo svolgimento di
un vasto programma che, considerato a sé, doveva lusingare
chiunque avesse a cuore il miglioramento edilizio della città e
l'incremento dei più importanti pubblici servizi. Per affrontare la
sua attuazione, il Comune avrebbe dovuto seguire due vie dirette
a fornire i mezzi necessari per fronteggiare le spese nuove che
avrebbero inevitabilmente gravato il bilancio comunale e cioè:
l'aumento delle entrate da conseguirsi con l'imposizione di nuove

78
tasse e con l'incrudimento di quelle già attuate; la diminuzione
delle spese, da ottenersi con la soppressione di quelle non
necessarie e la riduzione in più stretti limiti di quelle che
avrebbero offerto la possibilità di sicure economie. Il bilancio
rafforzato nelle sue entrate e alleggerito nelle sue spese, avrebbe
offerto quel margine, quell'avanzo di gestione di competenza da
destinarsi all'estinzione dei mutui da contrarsi per quasi quattro
milioni per l'attuazione del programma predetto. Ma né l'una né
l'altra via seguì la nuova amministrazione, la quale invece spiegò
un'azione diametralmente opposta, un'azione quindi negativa per
il conseguimento dei fini propositi, distruggendo in parte, quanto
di buono era stato fatto durante le precedenti gestioni
straordinarie dei due Commissari Regi per l'assestamento del
Bilancio. Infatti, come è stato detto, per conseguire una non
sincera popolarità, per rafforzare il proprio partito alla vigilia
delle elezioni generali politiche, l'amministrazione comunale
rinunziò per l'anno 1920, con grave danno del Bilancio, a quella
tassa di esercizio che poi fu ripristinata in misura di molto
inferiore alla somma che si sarebbe potuta realizzare; credette
buona politica piegarsi alle pressioni che venivano da coloro che
offrivano tutto il loro appoggio all'Amministrazione conferendo
impieghi a questo e a quello, quando negli uffici municipali non
si era manifestato un reale bisogno di aumento di personale.

I favoritismi

La nuova amministrazione, sempre per tema di crearsi


nemici, non curò affatto di sanare l'ambiente municipale,
allontanando da esso il personale che aveva commesso
gravissime e scandalose irregolarità. Il trattamento fatto
all'Economo Grimaldi e la mancanza di ogni sanzione
disciplinare verso Agenti al soldo del Comune, quando i capi
servizio denunciarono gravi abusi, è stata una politica disastrosa
che ha intaccato il decoro della civica azienda e ha costituito un
cattivo esempio tra il personale municipale ove ormai, si è certi,
che si può mancare impunemente, senza correre il rischio di
essere puniti. Una tale politica diretta a circondarsi d'amici, a
mantenere salda una maggioranza, fece chiudere gli occhi nella

79
liquidazione di spese che talvolta si appalesano assai superiori al
valore delle cose fornite, dei servizi resi. Le dotazioni passive dei
bilanci furono eccedute, anche in ordine a quelle spese che al
contrario avrebbero potuto essere contenute in più modesti limiti
e poiché, a sanare tali eccedenze si ricorse a storni di fondi,
deliberati nel modo già esposto, furono assorbite non solo quelle
economie che ogni amministrazione deve cercare di mantenere
integre per diminuire i disavanzi di amministrazione
precedentemente formatisi, ma furono stornate e distrutte anche
le rimanenze contabili che dovevano invece essere conservate,
perché le cause della costituzione dei fondi in bilancio non erano
cessate, per modo che ciò facendo l'Amministrazione ha dovuto
poi ripeterle, come cosa nuova nei successivi bilanci, spostando
così la competenza passiva dei vari esercizi. L'amministrazione
non si preoccupò gran cosa delle frequenti deficienze di cassa nel
senso di cercare la via decorosa per eliminarle, né delle difficoltà
finanziarie che incepparono il funzionamento dei vari servizi,
con l'intento di sanare il male che andava sempre più
aggravandosi, e invece di chiudersi in un raccoglimento
doveroso e prudente, preferì ricorrere ad ogni espediente per far
danaro, alla chetichella, senza deliberazioni lasciando all'oscuro
di tutto ciò gli amministrati, parte degli amministratori e
l'autorità Tutoria. E così furono impegnate le cauzioni e così
furono stornati i fondi assegnati a determinati servizi tra cui, ad
esempio, quello relativo alla sistemazione delle strade, e come
l'incauto agricoltore che mangia il grano in erba,
l'Amministrazione Comunale chiese in anticipazione all'Esattore
Comunale le rate d'Imposte e tasse non ancora scadute, sino
all'ultima per poter pagare spese indilazionabili, quali quelle del
personale municipale, esaurendo così ogni ulteriore risorsa per
l'avvenire. L'Amministrazione Comunale ha dovuto ricorrere
spesso e per somme non indifferenti, a mutui cambiari i quali,
sebbene creati per un breve periodo, sono in buona parte ancora
da estinguere e sui quali si pagano sempre gli interessi.

80
La triste situazione finanziaria

La situazione finanziaria è triste e preoccupabile e deve


quindi cercarsi il modo di migliorarla. Con una politica di
raccoglimento, informata alla visione serena di ciò che è
doveroso e possibile di fare, per assicurare a tutti i servizi un
normale funzionamento, cercando di conseguire ovunque il
massimo rendimento con il minore sacrificio possibile, con la
rinuncia ad imprese che, fra l'altro, non sono reclamate da
bisogni impellenti e che in ogni modo non dovrebbero mai essere
affrontate se non dopo assicurati al Bilancio i mezzi necessari,
contenuti, si intende, nella potenzialità del Bilancio stesso; con
una razionale riduzione delle spese di personale da effettuarsi
con criteri di giustizia e di convenienza e soprattutto con
coraggio e al di sopra di ogni interesse di partito politico o
municipale o di clientele; con la valorizzazione dell'officina del
gas, dell'acquedotto e delle case popolari, con qualsiasi forma di
gestione, purché al comune sia assicurato un beneficio
finanziario da conseguirsi o con la riduzione delle attuali spese, o
con la compartecipazione degli utili delle aziende, rinunziando a
chimerici arricchimenti di là da venire, il comune potrà riuscire,
in breve tempo, a dimettere ogni passività e poter vivere senza
rattoppi, ripieghi, miserevoli espedienti che debbono esulare dai
metodi di amministrazione di un'azienda municipale di una
grande città. Ma potrà questo compito essere affidato all'attuale
amministrazione? Dopo quanto ho esposto, esorbiterebbe
dall'incarico che mi è stato affidato, suggerire provvedimenti da
adottare al riguardo i quali, ritengo, non potranno essere disgiunti
da considerazioni di ordine politico, alle quali io debbo rimanere
completamente estraneo. Ma per quanto riguarda la salvezza del
comune, economicamente e finanziariamente considerata, io
vedo prospettarsi inesorabile un dilemma: o l'amministrazione
attuale riconoscendo i suoi errori, vorrà dare spettacolo di
ravvedimento e disporsi senz'altro a battere un'altra via, quella
sopra tracciata o, se ciò non è sperabile né possibile, sarà bene
che lasci, volente o nolente, ad altri il governo della cosa
pubblica. Ma per cambiare i programmi, l'esperienza insegna,

81
occorre cambiare gli uomini e io penso che per mettere il
Comune nella via della salvezza occorra provocare lo
scioglimento dell'attuale Amministrazione Comunale.

Il rapporto Martelli finì nelle mani del prefetto Gennaro


Bladier che dopo attente consultazioni e sotto la pressione
politica dei partiti decise per lo scioglimento
dell’amministrazione.
Si avviava così sul viale del tramonto l’epoca di Giuseppe
Bonocore e della sua corte. Tommaso Picazio per evitare l’onta
della decisione prefettizia si dimise due giorni prima che fosse
reso noto il provvedimento. Era il marzo del 1924.
Fu proprio Martelli a guidare, come commissario Regio, le
sorti del Comune dal 10 marzo del 1923 al 9 gennaio del 1925.
Tentò invano di sistemare le disastrate casse comunali e una
moralizzazione della vita amministrativa, ma tutto fu inutile.
Riuscì in parte a sanare i conti, il commissario prefettizio
Gaetano De Blasio20.
20
Il commissario che illuminò Caserta
Il profilo del funzionario della prefettura che fu messo a reggere le sorti
dell’amministrazione comunale di Caserta nel 1925 lo abbiamo trovato in una
testata concorrente al “Mattino” Un elogio che spesso serviva poco ai
funzionari dello stato se non per far carriera, un ossequio che avrebbe però
maggiormente apprezzato un politico in cerca di pubblicità.
“Allorché, tra la fine del 1924 e il principio del 1925, - scriveva l’anonimo
cronista - il prefetto gr. uff. Graziani dovette provvedere a una nuova
Amministrazione Straordinaria per Caserta, egli, che alla sistemazione del
Municipio di Caserta è legato per prestigio personale e per pubblico
vantaggio, prescelse, con illuminata e illimitata consapevolezza, il suo vice-
prefetto cav. uff. dott. Gaetano De Blasio.
Se per l'aspra missione al Municipio di Caserta il gr. uff. Graziani volle il cav.
uff. De Blasio, segno è che questi ha indiscutibili requisiti di rettitudine e di
competenza. Del resto, chi è che non apprezza quale integerrimo e valoroso
funzionario il cav. uff. De Blasio, la cui vita - tutta lavoro, tutta parsimonia,
tutta sacrifizio - è un ininterrotto apostolato per l'adempimento scrupoloso del
proprio dovere, nell'alto rispetto di sè stesso e del suo ufficio? E sarebbe stato
testè trasferito a Napoli questo Vice-Prefetto, se non ne fosse assolutamente
degnissimo appunto per gli indiscutibili e insuperabili requisiti di rettitudine e
di competenza, pei quali il gr. uff. Graziani lo preferì per il Municipio di
Caserta. Ora, se tale Commissario Prefettizio ha proceduto alla soluzione del
problema dell'illuminazione per Caserta Centro e Borgate, è lecito, è onesto

82
Caserta sull’orlo del dissesto
Come sempre accade, quando un commissario si insedia per
nomina prefettizia a guidare una città che per motivi vari non si
da una propria amministrazione, il nuovo arrivato deve fare il
punto su quello che trova specie sui conti pubblici, per cui dopo
un’attenta disamina con il segretario comunale Lamberti, De
Blasio, nel vedere che i conti non quadravano dovette
rammaricarsi e non poco con chi lo aveva preceduto che non era
riuscito la dove stava per arrivare lui. Del resto a vederci chiaro
in quei conti era difficile, ma era necessario conoscere le cause
che avevano portato l’amministrazione a non avere un attivo di
gestione. Un’abitudine per quei tempi, una assurdità per i giorni
d’oggi perché la realtà ci porta di fronte, un Comune sull’orlo del
dissesto finanziario con capitoli di spese a volta ignorati e che
escono fuori non appena qualcuno tenta di estrinsecarsi nella
complicata contabilità fatta di ipotesi di incasso e consulenze
elargite con fin troppa facilità.
Il bilancio presentato al Commissario nel lontano 1925
apparentemente portava un avanzo di amministrazione di quasi
173.000 lire ma in realtà non era così.
Si trattava per la stampa locale di un grave documento, che
gli elettori avrebbero dovuto esaminare “con austera cura”,
perché, nel giorno del voto per ricostituire il Consiglio

dubitare che egli non si sia ispirato alla più rigida tutela del nostro Comune?
Ed una sua deliberazione può minimamente difettare della più specchiata
saggezza?
E i censori della soluzione, data dal cav. uff. De Blasio al problema
dell'illuminazione, non sono, notoriamente, speculatori e loro paladini ?
Fra il Commissario Prefettizio -fiduciario del gr. uff. Graziani per la probità e
la perizia - e i suoi censori, che sono speculatori e loro paladini e che hanno,
notoriamente, brame di lucri a danno del Municipio, quale, dunque, il
giudizio?
Semplicissimo il giudizio di chi conosce uomini e cose: il cav. uff. De Blasio
ha avuto a cuore, anche in questa occasione, come sempre, il pubblico
interesse limpidissimo, mentre i suoi censori, che sono gli speculatori e i loro
paladini, sbraitano, anche in questa occasione, come sempre, per il proprio
interesse di inconfessabile. E questo è quanto, almeno per ora.

83
Comunale, avessero scelto uomini, con capacità morale ed
amministrativa tali da salvare Caserta dalla ineluttabile, completa
rovina.
“Uomini, - scriveva De Leonardis - che abbiano la capacità
morale ed amministrativa, rafforzata dalla preminenza sociale
ed economica a Caserta non mancano, ma s'impone che essi,
anziché preferire il comodo quietismo, assumano, con alto
spirito di devozione e di abnegazione, le ardue responsabilità,
fidenti che il loro civismo nobilissimo avrà il più sincero e valido
appoggio, del prefetto gr. uff. Graziani e delle Gerarchie
Fasciste, che hanno già, per la meritoria opera compiuta, un
inderogabile impegno di onore a vantaggio del Municipio di
Caserta.”.
Cosi come era necessario, De Blasio faceva precedere il
bilancio contabile da una serie di riflessioni che da sole erano
l’esatta fotocopia di una città di provincia, dai tanti problemi
irrisolti, che per la maggior parte si concretizzavano in gravi
disagi per i cittadini. Una città che aveva una sua dignità e di
conseguenza un bilancio che risultava attivo, ma che, a conti
fatti, era un falso perché c’erano delle passività, e questo era un
pessimo esempio per i comuni vicini.
Così si esprimeva al riguardo, il Commissario Regio:
“Considerato che la situazione finanziaria del Comune,
nel momento in cui l'attuale Amministrazione Straordinaria
assunse la gestione del Comune, si rivelò oltremodo
dolorosa ed impressionante; - Considerato che il grave
disagio finanziario risaliva agli esercizi passati e
propriamente a quello del 1922, 21perché in detto esercizio
fu formato un bilancio non rispondente alla realtà, nel quale
figurava un avanzo di amministrazione di lire 172.743,05,
nonostante i rimaneggiamenti delle cifre dimostrassero
anche, con analisi sommarie, la esistenza invece di un
effettivo disavanzo;
Considerato che il Comune, capoluogo di una delle più
fiorenti Province del Mezzogiorno, e che doveva essere di
esempio ai Comuni viciniori, ebbe aggravata la sua
21
amministrazione Tommaso Picazio, n.d.r.

84
condizione, poiché quell'avanzo, che non era affatto reale e
che avrebbe dovuto costituire il consolidamento della civica
finanza, produsse la sua logica conseguenza, la discesa cioè
fatale, che, per legge contabile, doveva ripercuotersi sugli
esercizi successivi;
Considerato che, se non possa ritenersi assolutamente
impossibile il risanamento della finanza del Comune, purché
sia seguita rigorosamente ed ininterrottamente una politica
di forte economia, non può disconoscersi e negarsi che
motivi d'indole generale, costituiti dalla gran mole di spese
fatte e d'impegni, assunti durante le passate gestioni,
rendono oggi indispensabile richiamare tutta l'attenzione dei
cittadini e delle Autorità su questo stato di fatto, per
invocare da queste ultime provvedimenti eccezionali in aiuto
della finanza locale, resa sempre più esausta dallo sforzo
quotidiano di diversi anni.”.
Per porre rimedio, prima di far uscire allo scoperto il caso, il
commissario straordinario si era impegnato a realizzare una serie
di provvedimenti tali da cercare di pianificare la situazione.
Infatti seguì la più rigida economia nella erogazione di fondi per
le spese più urgenti ed obbligatorie e trascurò quelle facoltative,
“non richieste dalla necessità del presente”. Tutti provvedimenti
di limitata efficacia perché quello che mancava erano soprattutto
nuove e più entrate per fronteggiare le maggiori spese,
regolarizzare la vita amministrativa del Comune stesso ed
eliminare il grave inconveniente che la paralizzava, e cioè il
costante disavanzo di cassa. “Un disavanzo - precisava De
Blasio - che produce il discredito costante dell'Ente per la
impossibilità, quasi quotidiana, di soddisfare i numerosi e
sempre crescenti creditori”
Una situazione insostenibile, perché, per una infinità di fatti
amministrativi, ogni iniziativa era rimasta una buona intenzione
senza trovare riscontro nella pratica reale. Problemi che avevano
portato anche ad un notevole ritardo nella compilazione del
esercizio preventivo dell’anno 1925.
La scrupolosità dell’amministrazione commissariale doveva
essere puntigliosa e precisa perché comportavano l’analisi
dettagliata degli stanziamenti e sopratutto l’accertamento per

85
contenerli nei limiti dello strettissimo necessario. Anche perché
il Comune era alla prese con possibili transazioni e rateizzazioni
di debiti con i vari creditori, promettendo loro di soddisfarli
appena l’amministrazione avesse avuto delle disponibilità
effettive.
Amaramente De Blasio dovette ammettere che “ogni sforzo
però in questo senso è riuscito in gran parte vano, perché i
giudizi pendenti sono continuati e continuano ed i creditori,
gravemente impressionati delle condizioni troppo note, nelle
quali il Comune si dibatte, non hanno nella gran maggioranza
voluto aderire all'invito, dichiarando invece di pretendere il
pagamento integrale dei loro crediti e minacciando di non
desistere dai diversi giudizi, dei quali ben si prevedono i risultati
sfavorevoli al Comune.”.
In realtà De Blasio individua nel bilancio di previsione
presentato dal precedente commissario regio Vittorio Martelli (il
sindaco Tommaso Picazio aveva lasciato il Comune nel marzo
del 1924) e reso esecutivo dalla prefettura dopo aver apportato
una serie di correttivi per fronteggiare il disavanzo economico e
di amministrazione, parecchie anomalie tali da non potersi
realizzare alcun assestamento della difficile condizione
finanziaria, perché con esso si cercò conseguire il pareggio
mediante tre rilevanti stanziamenti attivi, due per un complessivo
ammontare di lire 500.075,39 per supposti utili della gestione del
gazometro per gli esercizi 1923-1924, ed uno di lire 1.545.000
per un mutuo a dimissione di passività e pareggio del forte
disavanzo di lire 1.067.000;
Di detti stanziamenti si realizzò soltanto, e nemmeno per
intero, il mutuo di lire 1.000.000, contratto con l'appaltatore del
dazio, mutuo che, in quel momento difficile del Comune, fu di
aiuto precario, costituendo un rilevante aggravio per l'esercizio
corrente e per i successivi, stante 1'obbligo dell'ammortamento
nel breve termine di soli dieci anni.
In effetti del milione furono riscosse solo lire 705.000,
mentre le rimanenti 295.000 furono sequestrate da creditori del
Comune e malgrado tutti i tentativi bonari e giudiziari per
svincolare la somma e procedere a pagamenti di qualche
creditore più minaccioso, non si riuscì nell’intento.

86
A questi pesanti problemi si aggiungevano altre questioni
che dimostravano come le precedenti gestioni del palazzo di Via
Jolanda Margherita (attuale via Mazzini dove aveva sede il
palazzo municipale) non erano state delle più oculate.
Il gazometro che certo non godeva di buona salute era stato
ceduto al Comune in base a transazione con la Ditta Annebique,
ma funzionava per proprio conto, pur non essendosi costituito in
azienda autonoma, e senza intervento alcuno
dell'Amministrazione del Comune, tanto che tutte le sue
operazioni contrattuali e contabili non risultavano nell'Ufficio
Comunale. Un inconveniente che solo con la gestione
commissariale si stava provvedendo a sanare, affidando la
conduzione dell’impianto al Comune ed escludendo quindi ogni
ingerenza del Direttore. Il gasometro aveva, al 31 dicembre
1924, debiti (per saldo acquisto di carboni da gas nell’anno in
corso ) in lire 220.247,70, oltre diversi pagamenti in corso sia per
precedenti giudizi sostenuti dal Comune, che per
1'ammortamento del debito di riscatto dell'azienda stessa, quota
d'interessi, tasse ed altro.
Ma come sempre a pagare erano i cittadini ed i mezzi
escogitati significarono più tasse. Tra queste fu applicata
l’imposta sui pianoforti, il rimaneggiamento della tassa sulle
insegne straniere, l'applicazione di imposte sulle insegne in
lingua italiana, una più rigorosa applicazione di quella di
esercizio e rivendita autorizzata per l'anno corrente, non esclusa
la formazione dei ruoli suppletivi, il rimaneggiamento,
coll'applicazione del quarto, della tassa di famiglia, delle tariffe
daziarie, l'applicazione dell'addizionale comunale sulle bevande
vinose ed alcooliche e l'aumento della tassa di occupazione di
spazi pubblici.

L’aumento delle imposte

Nonostante l’aumento delle tasse, il commissario era riuscito


a fare poco per migliorare la situazione finanziaria del comune;
infatti Gaetano De Blasio, nella sua relazione precisava come
ogni buona volontà di colmare il disavanzo era rimasta frustrata
davanti alle ingenti somme liquidate ed approvate fin dagli

87
esercizi precedenti, per il pagamento delle quali nessun mutuo,
anche eventualmente contratto a condizioni vantaggiose, sarebbe
stato sufficiente, in considerazione del fatto importantissimo che
il Comune non aveva un patrimonio tale da potere ricavare
rendite onde concorrere con i tributi al rafforzamento del
bilancio.
Complessivamente i tributi ammontavano a lire 131.573,70,
dalle quali, occorreva togliere le entrate occasionali ed il ricavato
dalle concessioni di acqua del nuovo condotto del Carolino pari a
lire 89.576,75.
I realtà fatte le dovute sottrazioni il reddito reale consisteva:
1° - Fitti reali fondi rustici, lire 483,40.
2° - Fitti reali di fabbricati, lire 27.926,00.
3° - Censi e canoni attivi, lire 3.637,55.
4° - Interessi, lire 3.130,35.
Le passività, in definitiva, erano tali che l’amministrazione
di Caserta non godeva più la fiducia delle banche che non
avrebbero concesso alcun prestito.
“Quest'Amministrazione è certa che qualsiasi mutuo a
condizioni eque non sarà concesso da alcun Istituto Bancario,
nonostante le attuali condizioni, dalla Cassa Depositi e Prestiti,
per estinzione di passività”.
De Blasio, che storicamente, a detta di chi lo conosceva, fu
uno dei migliori amministratori di questa città, non riteneva
opportuno comunque utilizzare “l'abusato sistema di far fronte
ad esigenze ordinarie con entrate straordinarie, e aggravare la
futura condizione finanziaria del Comune con l'onere
dell'ammortamento di un unico mutuo per dimissione di
passività”
E come capita nelle amministrazioni che debbono risanare
gravi dissesti l’unica via di uscita era quella di superare i
coefficiente delle aliquote sull’imposta sui terreni e fabbricati
oltre il limite bloccato, confidando negli Uffici competenti della
consistenza del bilancio del Ministero delle Finanze, che in
applicazione dell'art. 12 del regio decreto 16 ottobre 1924, n.
1613, l’avrebbero potuto elevare per l'esercizio in corso da lire
591.081,40 a lire 1.615.102,74. In definitiva più che raddoppiato
le entrate.

88
Una strada che era necessaria seguire perché la sovrimposta
applicata era molto bassa, ed appena sufficiente al pagamento
delle delegazioni già rilasciate a garanzia dei diversi mutui
contratti e dei contributi a favore dello Stato per le Scuole
Medie. Una richiesta di aumento che già negli anni precedenti fu
avanzata. Infatti, fin dal 1922 furono iniziate pratiche per elevare
tale ammontare, ma queste poi non ebbero seguito perché
erroneamente si ritenne che l'avanzo di amministrazione,
risultante di lire 172.743,05), fosse un avanzo reale, e di
conseguenza non vi fosse motivo per procedere a tale aumento.
L’amministrazione in effetti aveva escogitato, per far fronte
al bisogno assoluto di procurare nuove entrate per provvedere
alle nuove e rilevanti spese e a soddisfare i creditori del Comune,
tutti i mezzi possibili ed in particolare aveva individuato i
seguenti punti:
1°) - Applicazione del contributo per manutenzione stradale,
istituito col regio decreto 18 novembre 1923, n. 2538, e in
esecuzione di determinazione già adottata nell’anno precedente
dall’Amministrazione Straordinaria;
2°) - Appalto del servizio delle pubbliche affissioni a
condizioni vantaggiose per il Comune, stabilendo una quota
minima certa di versamento in lire 18.000 annue, pari a lire 1500
mensili, al netto da qualsiasi spesa o gravame, oltre una
percentuale alla fine di ciascun anno sulle maggiori riscossioni;
3°) - Stanziamenti in bilancio di lire 30.000 all'art. 17, e lire
30.000 all'art. 34; il primo per ricavato dalla vendita della
spazzatura delle vie e piazze pubbliche e vuotatura di pozzi neri;
il secondo per ricavato dalla vendita di sottoprodotti dell'azienda
del gas.
In questa grande criticità anche il personale del comune
aveva fatto dei sacrifici per fare delle economie, infatti, oltre a
non godere della seconda indennità caroviveri, non gli era stato
assicurato a fine mese lo stipendio. Il municipio per onorare i
suoi impegni verso le maestranze ricorreva ad espedienti di
cassa, operazioni che “intralciano il normale andamento
amministrativo e contabile.”
Il comune per questi indebitamenti aveva dovuto rinunziare,
in realtà ad una serie di spese necessarie e trascurare indiscutibili

89
necessità, di urgenza e di pubblica utilità e anche i pubblici
servizi “con grande disdoro della Città, che nella sua qualità di
importante capoluogo di Provincia ha pure dei doveri e delle
esigenze dalla quale non può assolutamente prescindere”

La soppressione di scuole ed enti

Il dissesto oltre ad una cattiva amministrazione in effetti era


conseguenza di mancati introiti dovuti ad una serie di
provvedimenti che nel 1922, avevano soppresso dal Capoluogo
importanti uffici ed istituzioni e che erano fonte di “non
indifferenti incassi”:
- la riduzione di un Reggimento di Cavalleria;
- la riduzione di una Compagnia del Treno;
- la soppressione della Scuola della Regia Guardia per la
Pubblica Sicurezza con 2500 Allievi;
- la soppressione dell' Opificio Militare Equipaggiamento e
Calzature di S. Benedetto;
- la soppressione di una Compagnia di Sussistenza;
- la soppressione di una Compagnia di Sanità;
- il trasferimento della Scuola Allievi Ufficiali di
Complemento nel finitimo Comune di Casagiove;
- il trasferimento a Roma della Scuola Allievi Ufficiali della
Regia Guardia di Finanza;
- la soppressione del Deposito del personale viaggiante delle
Ferrovie;
- la soppressione del Deposito del personale di macchine
delle Ferrovie;
- il trasferimento a Benevento degli Uffici di Elettrificazione
delle Ferrovie, che prendono la forza idroelettrica dalla Provincia
di Terra di Lavoro;
- la soppressione della Scuola Normale Maschile;
- l'abolizione del Regio Provveditorato agli Studi.
Tutti provvedimenti che si erano maturati in un periodo di
grande instabilità per l’Italia e sotto i governi di Giovanni
Giolitti, Ivanoe Bonomi e Luigi Facta e che addirittura
culmineranno alla fine del 1926 con la soppressione della
Provincia di Caserta da parte del Governo di Benito Mussolini.

90
A Caserta sembrava stare in aperta campagna

Le pessime condizioni finanziare in definitiva comportavano


anche la mancata realizzazione di opere che erano necessarie per
la città come: il serbatoio dell'acquedotto, indispensabile per
assicurare il costante rifornimento di acqua alla cittadinanza,
anche perché l'acqua del Carolino affluiva in misura limitata
dovuta ad un carente canalizzazione dell'acquedotto tanto che
alcune arterie principali del centro ed frazioni come San
Clemente, Tredici e Centurano, erano prive di acqua corrente ed
altre, come Casertavecchia, Sommana, Casola e Pozzovetere,
erano addirittura senza acqua; mancava un edificio scolastico nel
Capoluogo e le Scuole erano adattate in ambienti “non
rispondenti ai più elementari precetti d'igiene”; mancava una
fognatura stradale con evidente grave danno della sanità
pubblica; non esisteva un mercato decoroso; la manutenzione
delle strade lastricate era stata, per mancanza di mezzi,
trascurata, portando, come conseguenza, un peggioramento del
patrimonio stradale; la manutenzione delle strade inghiaiate era
fatta molto sommariamente e con mezzi di fortuna.
De Blasio, inoltre, annotava come alcune importanti arterie
del Centro (Via Napoli, Via Roma, Viale Ellittico ecc..) erano
senza pavimentazione di modo che proprio nel cuore della città
si aveva la sensazione di essere in aperta campagna e a questo si
aggiungeva la mancanza di fondi che aveva impedito
l'allargamento e l'apertura di nuove strade tra le quali, Via
Redentore, dove era stato ultimato un nuovo palazzo.
Mancava il Palazzo delle Poste ed era urgente provvedere
alla costruzione di orinatoi e qualche pubblica latrina.
Anche per la sicurezza e per il settore ospedaliero le cose
non stavano certo bene: mancava completamente il materiale
pompieristico, l'Ospedale Civile era in condizioni assolutamente
disastrose per la impossibilità forzata del Comune al pagamento
di un adeguato sussidio, “I malati preferiscono essere ricoverati
negli Ospedali di Napoli, presso i quali il debito spedalità cresce
di anno in anno, e che non era [è] stato possibile al Comune
istituire una guardia medica, indispensabile, data l'estensione

91
del territorio; che si è dovuto ridurre al massimo di 25 il numero
dei mendaci ricoverati nell'Ospizio di Santa Lucia, che prima
conteneva oltre 50 derelitti.”.
In definitiva una città non all’altezza del ruolo di capoluogo
di provincia. Il Comune non poteva provvedere ad un confacente
servizio d'innaffiamento, non avendo i mezzi per far costruire i
carri occorrenti, per la stessa ragione il pubblico servizio dello
spazzamento lasciava a desiderare, essendo in uso ancora i
carrettini che furono acquistati nel 1913; nelle fiorenti grandi
borgate, che Caserta aveva, anche i più elementari servizi
pubblici non venivano curati, se non in forma “rudimentale”; i
mutui, in via di con cessione, non erano richiesti nella misura
adeguata, appunto per la indisponibilità della sovrimposta; la
manutenzione degli edifici municipali era abbandonata, di tal che
il pubblico macello era cadente.

Le evidenti inadempienze

Le inadempienze contenute nel bilancio comunale erano, per


il commissario prefettizio Gaetano De Blasio, evidenti e molte
uscite non erano state riportate nei rendiconti precedenti, anzi il
nascondere la realtà del bilancio era diventata una prassi. Nel
nuovo bilancio, quindi, il commissario metteva in evidenza che il
deficit non teneva conto delle somme dovute agli appaltatori
delle opere stradali, perché il pagamento attraverso espedienti
legali e procedurali era stato frazionato in più rate.
Il comune del resto aveva contratto dei mutui ritenuti
indispensabili:
1° - Mutuo per lavori di - restauro a Palazzo Vecchio,
1.290.000,00. lire
2° - Mutuo pel completamento delle Case Popolari,
1.000.000,00. lire
3° - Mutuo suppletivo per l'acquedotto comunale,
776.786,15. lire
4°-Mutuo pel completamento dell'acquedotto comunale, lire
146.000. lire
5° - Mutuo per edifici scolastici nelle Borgate, 902.700,00.
6° - Mutuo per la ricostruzione delle strade inghiaiate,

92
285.993,90. lire
In definitiva, per fare una sintesi di come stavano le finanze
dell’amministrazione il documento contabile registrava:
“Le spese di competenza nella parte organica (titoli 1° e 2°)
ammontano nella rilevante somma di lire 6.248.412,35.
Le variazioni, in aumento, ammontanti a lire 3.375.200,12
dipendono:
L'art. 1° (interessi passivi) è aumentato di lire 67.238,45 per
il carico relativo al mutuo dì un milione di lire concesso
dall'appaltatore del dazio e quello relativo al saldo debito di lire
400.000 alla Ditta Annebique per transazione relativa al
gazometro;
Per le risultanze dell'esercizio 1924 è aumentato l'art. 3 per
imposte, sovrimposte e tasse di lire 500;
L'art. 12 è stato aumentato di lire 700 per manutenzione di
locali addetti ad altri servizi pubblici;
Le spese - di cui agli articoli 7. 8, 9, 22, 38, 43, 44, 47, 59 e
94 - tutte relative a stipendi, salari, contributi al Monte Pensioni,
vestiario e Cassa di Previdenza, sono state aumentate,
estendendo 1'applicazione del regio decreto 31 marzo 1925, n.
363, che ha reso obbligatorio l'aumento del supplemento del
servizio attivo ai maestri elementari;
Per le ragioni su esposte sono stati aumentati gli
stanziamenti degli articoli 14, 18, 27, 37, 55, 60, 70, 90, 92, 99,
102, 103, 108 e 109, onde mettere il Comune in condizioni di far
fronte al pagamento di spese già liquidate ed approvate, ivi
compresi il pagamento di debiti dipendenti da giudizi già
espletati ed in corso con appaltatori e fornitori del Comune,
nonché con varie categorie d'impiegati per mancato pagamento
della seconda indennità caroviveri;
E' stato aumentato il fondo per le feste nazionali (art. 31) di
lire 3500, portandolo a lire 6000, per far fronte a pagamenti di
spese già fatte e provenienti da esercizi precedenti.”.
Le entrate, comunque, dovevano essere aumentate anche per
far fronte alle spese relative alla scuola ed al personale del
Comune che un po’ per clientelismo ed un po’ per necessità, era
stato aumentato dalle amministrazioni precedenti e in alcuni casi
non se ne vedeva l’utilità immediata.

93
Infatti, il commissario De Blasio, successivamente darà
corso ad una ristrutturazione delle funzioni che porterà ad una
diminuzione degli impiegati. Un’operazione non condivisa dai
politici che sarà l’occasione per mettere sotto cattiva luce il
solerte amministratore.
Alla categoria "Spese per 1'istruzione pubblica" furono
congruamente aumentati per il pagamento della indennità
suppletiva di servizio attivo al personale insegnante delle Scuole
Elementari, stipendi, Monte Pensioni, canone allo Stato ed altre
spese obbligatorie nella somma di lire 42.974,48 e per lire
30.000 per contributo allo Stato per la regificazione della Scuola
Commerciale e spese diverse in applicazione del regio decreto 4
maggio 1925, n. 706.
Furono aumentati “lievemente” il compenso di lavori
straordinari agli impiegati per un totale di lire 2000, così pure
furono destinate per il fondo di riserva lire 16.796,51 e per il
fondo per le spese impreviste di lire 10.000. Non marcarono i
fondi per il funzionamento del Dispensario Celtico di lire
1749,95 e per pagamento d'indennità di buona uscita a due
medici condotti e una levatrice, collocati a riposo per
soppressione di posti.
Per le opere sociali De Blasio scrisse: “E' stato aumentato
l'art. 106 di lire 300 e l'art. 113 di lire 15.000 il primo per
trasporto di mentecatti al Manicomio, il secondo per l'aumentata
quota a favore del Mendicicomio di Caserta e Capua per il
ricovero di mendici a carico del comune”.
Si volle poi assecondare le esigenze del personale daziario
stanziando un fondo di 34.000 lire per saldo degli arretrati di
seconda indennità caroviveri, in esecuzione di sentenza della
Corte di Appello di Napoli, passata in giudicato.
Problemi l’ufficio del dazio ne dava, tanto che, a distanza di
due anni, nel 1927, con l’avvento del podestà Giovanni
Tescione, fu aperta una lunga inchiesta.
Il capitolo acquisti di beni, migliorie e affrancazioni,
rappresentava la trasformazione del patrimonio del Comune e
poteva essere riscontrato nella parte attiva del bilancio, ad
eccezione del pagamento della seconda rata alla Ditta
Annebique, di lire 200.000, per transazione relativa al il

94
gazometro; per acquisto di n. 10 azioni dell'Istituto Nazionale di
Credito per il Lavoro Italiano all'Estero in lire 510 e saldo
all'Impresa Gabriele per costruzione di aule al Liceo in lire
11.171,90.
Una delle ultime note dolenti era rappresentata
dall’estinzione di debiti, la cui voce affermava il commissario:
“è aumenta di lire 93.875,08 per rata di ammortamento del
mutuo di lire 1.000.000 coll'appaltatore del dazio mentre all'art.
145 è stata impostata la quarta rata in lire 10.000 a favore
dell'erario dello Stato per ammortamento del debito per le Classi
aggiunte all' ex Regia Scuola Tecnica; senza dilungarci a
parlare di qualche stanziamento esagerato che per ragioni facili
ad intuirsi ha dovuto essere ridotto, come: il dazio consumo, per
il quale, pure essendosi applicato il massimo delle tariffe vigenti,
si è dovuto diminuire lo stanziamento di lire 200.000 in
confronto a quello dell'esercizio scorso, per essersi dimostrata
esagerata tale previsione, e di qualcuno aumentato, come quello
sul gas luce e sulla energia elettrica, consumata dai privati, di
lire 30.000; con la sicurezza che tale previsione si realizzerà,
avendo tenuto presenti i risultati del primo quadrimestre
corrente anno”.
Un bilancio Comunale ritenuto assolutamente insufficiente
per i gravi bisogni della città di Caserta; infatti, tra le entrate e le
spese attive, vi era un disavanzo di lire 1.515.438,78, che,
maggiorato della parte di altre voci tutte documentate, residuava
un disavanzo di lire 567.074,04, che, aumentato della parte
amministrativa risultante a dicembre 1924, pari a lire
456.947,30, determinava uno sbilancio di lire 1.024.021,00, a
cui occorreva provvedere.
In definitiva, si legge nella relazione: “In conseguenza di tali
variazioni la parte attiva del bilancio, in confronto ai risultati
dell'esercizio in corso, resta così modificata: Maggiori entrate,
lire 2.034.966,69 e minori entrate, lire 793.776,24. Le contabilità
speciali si riproducono nel complessivo ammontare di lire
1.293.109, con due variazioni, in diminuzione per lire 6.528,20,
sopprimendo parte in entrata che nella spesa la voce: "Quote
dovute agli agenti sull'ammontare delle contravvenzioni ai
regolamenti municipali portata erroneamente in questo titolo

95
invece che nella parte effettiva ordinaria del bilancio, e
diminuendo art. 161 di lire 4.528,20, e due in aumento per
impostazione di due nuove voci agli articoli 159 e 160 per lire
2.000;
visto l'art. 140 della legge comunale e provinciale e 106 del
regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2839;
con i poteri del Consiglio formulo il seguente bilancio”.
Così concludeva il suo lavoro il commissario Gaetano De
Blasio. Seguiva in sintesi tutto il rendiconto.
Come è facile immaginare, una volta tolto il coperchio, i
politici della città ed i vecchi amministratori ebbero molto da
ridere anche sull’operato del commissario, tra questi lo stesso
Tommaso Picazio, che era stato testimone della Marcia su Roma
e che aveva dimostrato di non aver ben compreso il
cambiamento che c’era stato negli ultimi anni.

Anno 1925 Vigili urbani di Caserta con la giunta Picazio

Tommaso Picazio, cappellano, vice sindaco

96
I casertani del regime

ANTONIO
CASERTANO
Se oggi si chiede ad un
capuano chi è Antonio
Casertano difficilmente si ha
una risposta, l’uomo politico
che fu uno dei “grandi” della
Provincia di Terra di Lavoro -
e non è mai più successo nella
storia di questa difficile terra –
quando aveva la terza carica
istituzionale ai vertici dello
Stato italiano. Eppure
rimaneva in quell’occasione la
cenerentola d’Italia sia per la difficile vita sociale che per una
economia che, nonostante la modernità e i tempi nuovi, era
legata all’agricoltura e alla vecchia eredità feudale.
Antonio Casertano sulla sua politica e sul modo di fare
politica pur essendo uomo di regime, non aveva dalla parte sua i
cari e puri della rivoluzione fascista. Era versatile, pronto a
sfruttare le occasioni per vedere dove si orientava il potere e, per
di più, lo si accusava di avere rapporti con la malavita locale
specie quella dell’agro aversano da cui riceveva consensi che
ricambiava con il clientelarismo.

Antonio Casertano, nato a Capua il 20 dicembre 1863,


compì i primi studi nella sua città natale e poi a Maddaloni
presso il convitto che ha sfornato tanti uomini illustri: il
Giordano Bruno. Si scrive alla facoltà di giurisprudenza a Napoli
e si laurea nel 1884. Intraprende la professione forense, ma
continua a dedicarsi allo studio del diritto amministrativo e della
legislazione elettorale e pubblica diverse opere sull'argomento. E'
più volte sindaco e consigliere provinciale, caratterizzando la
propria attività politica in senso liberal-democratico. Deciso
interventista in occasione del primo conflitto mondiale, si

97
presenta candidato nelle liste della democrazia sociale nel 1919.
Eletto deputato, si iscrive alla Camera al gruppo radicale. La sua
specifica preparazione professionale fa sì che nel 1920 è relatore
della legge di riforma delle elezioni amministrative.
Riconfermato deputato nella XXI legislatura, presenta nel
febbraio 1922 un progetto di legge tendente a trasformare il
Senato vitalizio in un'assemblea elettiva di 300 membri (250
eletti a base regionale e 50 di nomina parlamentare) ma il
progetto decade. E' nominato sottosegretario agli Interni nel
primo ministero Facta, dal 26 febbraio 1922 al 1 agosto 1922,
sarà escluso dal secondo ministero Facta a causa della sua
manifesta simpatia nei confronti di Mussolini e del conseguente
veto popolare e socialista. Fiancheggiatone del fascismo,
sostiene in commissione, e fa approvare in aula, il progetto di
legge Acerbo, che introduce il sistema maggioritario nelle
elezioni politiche. Nel 1924 è eletto alla Camera nel "listone"
nazionale ed assume la presidenza della Giunta delle elezioni e
convalida la quasi totalità dei risultati, nonostante che in aula
Matteotti denunci i brogli e le intimidazioni dei fascisti. Dal 13
gennaio 1925 al 21 gennaio 1929 è presidente della Camera, che
lascia quando viene nominato senatore.
"Casertano a Capua, dove viveva un suo fratello che
soprintendeva a procurargli i clienti nei vicini Mazzoni, aveva la
grande miniera dei lauti guadagni che gli permettevano di avere
una casa a Napoli per la famiglia, ed una a Roma per le sue
esigenze politiche. - scriveva il console della Milizia e federale
della Provincia di Benevento Stefano de Simone nelle sue
memorie - Aveva un figlio spendereccio, che gli prosciugava la
borsa e che a volte, l'obbligava a ricorrere alle Banche per
sostenere il suo trend di vita. La sua "longa manus" nel feudo
elettorale era 1'avvocato Ludovico Pastore, il quale al Comune
pontificava a suo nome e che ora, nell'ombra amica, era
l'avversario quartarellista del Fascio di cui era Segretario
Politico 1'avvocato Francesco Polito. A Capua conservava,
auspice Pastore, una base politica antifascista, ed a Roma
invece nella sua veste di Presidente della Camera, offriva a
Mussolini l'occasione per dominare.”

98
L’elogio del Giornale d’Italia al sottosegretario all’interno

“Un uomo di Governo” - è il titolo dell’articolo che scrisse


l’autorevole redattore del Giornale d’Italia allorché S. E. Antonio
Casertano, nel 1922, fu nominato sottosegretario di Stato
all'Interno. Un intervento, che fu ripreso da quasi tutti i giornali
locali “per il giudizio, il vaticinio circa il nostro Conprovinciale,
che è stato pienamente coronato dalla realtà trionfante”.
Un primo tentativo di approccio al fascismo Casertano lo
fece in occasione di un discorso tenuto a Capua con la crisi del
ministero Facta, il 23 luglio 1922. Proclamò, e la cosa non andò
a genio agli squadristi della prima ora, perché vedevano
nell’aggiustamento politico del parlamentare un perpetrasi dei
voltafaccia che avevano caratterizzato la politica del tempo e che
male si conciliavano con il nuovo vento che spirava e di cui
Mussolini si era fatto portavoce.
Sottolineò, nel suo intervento, che nella ricostituzione del
Ministero Facta, per le sue simpatie per il Fascismo, restò fuori
del Governo, in seguito all'imposizione dei partiti antinazionali,
ma questo non lo aveva rammaricato più di tanto, anche perché
aveva ricevuto il 1 agosto 1922 da S. E. Facta, una lettera nella
quale il capo del governo gli esprimeva il suo intenso rammarico
per essere stato costretto, da esigenze politiche, a rinunziare alla
sua intelligente e fervida cooperazione.
Matteo Incagliati, giornalista parlamentare, che aveva un
lunga esperienza del Transatlantico (il lungo corridoio dove si
intrattengono i deputati prima di entrare in aula) e dell’aula di
Montecitorio stessa, utilizzava i deputati per avere notizie e
pettegolezzi nella corsia dei “passi perduti”. Era abituato a
vedere l’aula piena e deputati attenti e rispettosi degli interventi
dei loro colleghi; di Casertano scriveva:
“Dalle ore 15 alle 16 di ogni giorno di seduta parlamentare,
un rappresentante del Governo tiene su di sé attratta l'attenzione
di tutta l'assemblea. Un'alta figura, dal gesto ampio ma
misurato, la mente spaziosa e la parola agile e vibrante, si
profila dal banco del Ministero - e discute o ribatte le obiezioni
degli avversari, o confuta le maldestre versioni di determinati

99
episodi della lotta delle fazioni, di cui è teatro, un giorno sì e un
giorno no, la Toscana o l'Emilia o il Polesine, od esalta qualche
opera buona, o a qualche discussione, che la loquacità talvolta
irrefrenabile devia dal suo corso normale, imprime la sua
autorità, ch'è sempre quella della migliore interpretazione della
legge. Perché Antonio Casertano è il primo Sottosegretario di
Stato, il quale, prescelto a collaborare con il Presidente del
Consiglio e Ministro per l'Interno, abbia mostrato una fibra, una
tempra, una volontà, un prestigio di vero uomo di Stato. Tal’egli
è un forte contro cui i marosi di Montecitorio, divenuti in queste
ultime vicende parlamentari così spesso procellosi e paurosi e
pieni d'insidia, nulla possono né distoglierlo dalla concezione
dello Stato ch'egli si è formata con gli studi e con la sua
genialità, né distrarlo per seguire questo o quell'andazzo di
bassa manovra politica. E perché è un forte, la sua azione si
esplica nell'ambito della Camera e fuori di essa con
quell'equilibrio, con quella serenità, con quell'oculata arte di
"saper governare", con quella perfetta percezione ch'è propria
di chi ha la consuetudine di esaminare i fenomeni sociali non
superficialmente, ma profondamente, austeramente, con quella
consapevolezza, insomma, che significa responsabilità e
rettitudine.”
Una “marchetta” si direbbe oggi nel gergo giornalistico che
non era gratuita, ma sicuramente concordata. L’articolo serviva a
tracciare un profilo dell’uomo che poi avrebbe guidato e
condizionato le scelte, non solo di chi governava in quel
momento, ma anche per mettere in mostra un personaggio che
ambiva a posti di potere più alti.
Lo stesso esaltare i meriti di combattenti della sua famiglia -
Casertano perse un figlio durante la prima guerra mondiale -
doveva dare il senso di un uomo fedele ai principi della patria ed
agli ideali ottocenteschi che erano così radicati nella gente.
“Io ebbi la ventura di conoscere Antonio Casertano durante
la guerra di redenzione, della quale egli fu propugnatore
ardente e nobile. - continua l’articolista - E lo conobbi in un
viaggio da Roma a Napoli. Quell'uomo aveva però negli occhi
come una nube, un velo che attenuava lo splendore vivo delle
pupille e il suo linguaggio aveva in se come qualcosa di

100
accorato, una malinconia dolente ma non stanca. Uno dei suoi
due figliuoli, Massimo, era caduto sull'aspro e conteso Monte
Santo da eroe, tenente dei bersaglieri alla testa del plotone
ciclisti.
Del suo indimenticabile Massimo, Antonio Casertano - mi
parlò, lungo quasi tutto il viaggio, e pareva che come ne
ridestasse i ricordi e ne evocasse la giovinezza spirituale, tutta
l'anima di lui fremesse di orgoglio e i suoi occhi riprendessero e
diffondessero tutta la luce, come se dal fondo del cuore una voce
salisse a donargli pace. E di fronte al figliuolo scomparso, o
meglio trasvolato nell'aureola della gloria che Orazio disegnò in
versi immortali e la gioventù italiana irradiò di fulgori,
riversando su di essa tutta la gioia di vivere, tutti gli entusiasmi,
tutti gli amori come ad olocausto del pro Patria mori - e di
fronte al suo Massimo, Antonio Casertano volle che in quel
colloquio tra lui e me prendesse forma e a me fosse noto un altro
amore - l'amore per l'altro figlio superstite”.
Il figlio dell’on. Antonio Casertano, Renato, quello che la
prima guerra mondiale aveva risparmiato, agli occhi del cronista
era un avvocato valoroso e, allora, lontano dalla casa,
combattente da capitano tra i suoi prodi in un reggimento di
fanteria.
Un elogio che a distanza di moltissimi anni non resse, visto
che chi lo aveva conosciuto in vita, quel giovane, aveva ben
altra opinione.
Ma in quegli anni difficili, dove a prevalere era più la
commozione che la ragione, eroi erano un po’ tutti e chi andava
al fronte, prima o poi, veniva insignito di una medaglia.
A pretenderla erano molto spesso i futuri gerarchi fascisti
tanto che era in voga negli alpini una canzonetta che denigrava
il più famoso segretario del Partito, Achille Starace che recitava:
“Quando la pugna diventa pugnetta/ ogni gerarca a partire
s’affretta/ A ogni minimo stormir di vento/ chiedono e ottongono
la medaglia d’argento/ Solo Starace, di tutti il più stronzo/ ha
ottenuto quella di bronzo.”.
Non era un eroe al fronte neanche Italo Balbo, anche se le
sue gesta successive servirono a riscattarlo.
Nel dossier che Arturo Bocchini capo dell’Ovra passò al

101
Duce sui trascorsi eroici del trasvolatore dell’Atlantico e del
quadrunviro del regime c’era scritto:
“Per prima cosa bisognerebbe rivedere il processo
celebrato contro S. E. Balbo al Tribunale Militare di Firenze.
Come è noto, egli fu accusato di diserzione per essere fuggito
dalla caserma di Moncalieri [dove seguiva un corso per pilota
aviatore] subito dopo la ritirata di Caporetto. E altresì noto che
S.E. Balbo fu assolto con formula piena in quando dimostrò che
non aveva abbandonato la caserma per disertare, bensì per
correre al fronte onde contribuire ad arrestare l'avanzata del
nemico. Tutto questo è falso: S.E. Balbo, in effetti, fuggì da
Moncalieri e raggiunse la sua casa a Ferrara dove rimase
nascosto alcuni giorni. Solo per le rampogne del padre si
ripresentò alle armi nella zona di Padova”.
Ma tra eroi veri e non veri certamente l’articolo di Matteo
Incagliati aveva lo scopo, forse non troppo gratuito, di esaltare
un personaggio che si accingeva a cambiar casacca per mettersi
sotto la protezione del fascismo che, giorno dopo giorno,
raccoglieva sempre più consensi. In effetti, era una presentazione
di un personaggio conosciuto nella sua terra e altrettanto nel
mondo politico, ma poco noto agli italiani.
L’elogio continua: “E sembrò allora a rime che questo uomo
di un gran fervore d’idealità si nutrisse e tentasse vincere le
pene delle sue ansie e dei suoi amori con uno sforzo su sè stesso.
Se così non fosse stato consigliato e indotto dalla sua natura,
non certo egli avrebbe potuto esercitare quella mirabile
propaganda a cui egli si votò, dopo la infausta giornata di
Caporetto, e alla quale diede tutta la sua foga di oratore, tutto il
suo spirito di italiano, tutta la commossa espressione della sua
sensibilità, umanista qual egli si manifesta in ogni occasione,
così nella vita intima come nella vita pubblica. Terra di Lavoro
ne può far fede.
Ma come il treno si approssimava a Napoli, io volli che il
discorso deviasse, volgesse verso altri aspetti, tanto egli era
occupato da questo suo grande amore e da un' ansia per il suo
Renato, che la morte insidiava, esposto com'era l'ufficiale a tutte
le prove più ardue e più ardite, e tanto gli era pervaso dalla
esaltazione di questa Italia a cui non si sapeva ancora quale

102
sorte toccasse...
E Antonio Casertano parlò allora di politica estera, di
legislazione sociale, di partiti e di fazioni, di grandi e piccoli
uomini parlamentari, e inoltre di arte e di letteratura. Talora
l'intuizione felice, talora la critica arguta di una speculazione
politica, talora l’acuto giudizio su qualche statista, e talaltra una
larga dissertazione sulla legislazione elettorale in rapporto alle
altre Nazioni - e sempre la sua frase assumeva un tono così
vivace, così eloquente che dissi a me stesso: “Ecco un uomo sul
quale l'Italia può fare affidamento nell’ora dei supremi cimenti”.
Qualche anno dopo la rivelazione che io ebbi di questo
eminente giurista, assurto a fama degna, di questo studioso della
vita politica italiana, di questo psicologo della folla, interprete
fedele di quella che è l'anima di un grande popolo - egli, nei
comizi del 1919, fu eletto per la prima volta deputato.
Entrava così alla Camera non uno di quei tanti pezzenti del
voto elettorale, non chi ha per abitudine di piegare sé stesso con
la schiena docile all’urto e agli schiamazzi della piazza, ma un
legislatore dagli omeri saldi, il quale la sagace preparazione
aveva compiuta su sè stesso, e di cui sono testimonianza i volumi
insigni per dottrina, un legislatore che aveva spiegato la sua
attività fuori dell'ambiente di Montecitorio. E vi conquistava
subito, come suol dirsi, “posizione”, senza tirocinio, senza
procedere a salti mortali da un gruppo all'altro, senza il goffo
atteggiamento di uno di quei tanti di cui alla Camera si
disegnano più che i corpi le ombre. Quando Antonio Casertano
interloquì per la prima volta alla Camera, il suo non parve un
debutto, tanto egli si mosse in quella bolgia pettegola e
brontolona e infernale, ch’è l’aula di Montecitorio, con
competenza e padronanza. Dopo quel debutto, che fu un
successo, la Camera aveva un’autorità di più. E i discorsi che si
avvicendarono confermarono sempre come nel temperamento di
Antonio Casertano non fosse insensibile la politica, ch’egli avea
studiato non sui volumi, né tanto meno calcato sulla falsariga di
qualche Mosè o di qualche Licurgo, ma aveva tradotto come
scienza della vita sociale alla stregua di una sensibilità capace
di intendere e di fare intendere la filosofia della politica
razionalmente, non arbitrariamente, non insufficientemente.”

103
L’articolo venne scritto nell’agosto del 1922, in piena crisi
politica, quando le cose non si sapeva come si sarebbero evolute.
Era, quindi, importate presentare un biglietto da vista tale da non
pregiudicarsi nessuna strada che di li a poco si sarebbe aperta ed
infatti così fu. L’onorevole Casertano era riuscito a salire nella
scala politica ed era presidente della commissione interno della
Camera dei Deputati, quando Mussolini era da poco diventato il
nuovo capo del governo. Nelle sue intenzioni c’era il rifare le
elezioni con un nuovo sistema elettorale e per questo si rivolse
appunto ad Antonio Casertano per vedere le possibilità di
introdurre una riforma e come congegnarla per assicurare al
governo una maggiore stabilità, visto che quelle che si erano
formate dal dopoguerra in poi avevano mostrato una grande
fragilità.
“Dunque, un posto d’onore in un’assemblea politica se non
per assumere su di sè il destino che spesso ha di mira le cime del
Campidoglio ideale. - aveva anticipato Matteo Incagliati - Onde
una così intensa vita parlamentare - una serie di discorsi, di
relazioni e proposte legislative - non poteva non segnalare la
personalità politica di Antonio Casertano e non indurre, al
tempo opportuno, chi avesse avuto l’onore di risolvere una crisi
ministeriale di ripetere il “Vieni meco”. E il “Vieni meco”
rivoltogli da Luigi Facta fu così affettuoso che Antonio
Casertano non poté dir di no.”.
Dell’incontro, quindi, non troppo segreto tra il parlamentare
di Terra di Lavoro ed il futuro Duce alcune indiscrezioni
trapelarono dai media del tempo.
Si trattava in definitiva del primo approccio che doveva dar
vita successivamente alla legge che modificava il sistema
elettorale e che fu chiamata con il nome del suo primo relatore
“Acerbo”, ma che nello stendere il provvedimento Casertano
diede una valida e fattiva collaborazione, anzi si dice che seppe
interpretare al massimo le direttive del capo del governo che non
avrebbe potuto regalarsi un provvedimento migliore.
Ad opporsi alla legge erano i Popolari che capivano le
conseguenze a cui si andava incontro.
Il 18 maggio del 1923 Mussolini trattò della cosa con l’on.
Casertano; il giorno successivo “Il Popolo d’Italia”, dando

104
notizia dell’incontro, lasciava trapelare che il presidente del
Consiglio era favorevole al collegio unico nazionale con sistema
maggioritario e rappresentanza proporzionale per le minoranze,
che preparò il terreno successivo al duce per un incontro con
Alcide De Gasperi.
Impostato, l’iter parlamentare della legge fu rapido.
Accettando la richiesta di Mussolini, De Nicola nominò una
commissione composta da Giolitti (presidente), Orlando e
Salandra (vicepresidenti) e da Falcioni (democratico), Fera e
Casertano (democratici sociali), Grassi (demoliberale), De
Gasperi e Micheli (popolari), Bonomi (riformista), Paolucci e
Terzaghi (fascisti), Orano (misto), Chiesa (repubblicano), Turati
(socialista unitario), Lazzarí (socialista massimalista), Graziadei
(comunista), Lanza di Scalea (agrario).
“La commissione cominciò i lavori il 14 giugno, - scrisse
Renzo De Felice nella sua opera sul fascismo - mentre il dibattito
pro e contro la nuova legge si faceva in tutto il paese
vivacissimo e già si delineava la manovra fascista volta a
mettere in crisi i popolari e ad assicurarsi così, se non proprio il
loro voto, almeno la loro astensione e possibilmente l’appoggio
della destra e dei clericomoderati: è sintomatico a questo
proposito che già il 15 giugno “Il popolo d’Italia” cominciasse
a parlare di una possibile scissione dei popolari. Superata una
pregiudiziale di Turati, che avrebbe voluto che la Camera fosse
invitata a non discutere tout court il disegno di legge, la
commissione dei diciotto il 16 approvò, dopo vivace discussione,
il concetto informatore della riforma. Votarono contro Bonomi,
Chiesa, De Gasperi, Falcioni, Graziadei, Lazzari, Micheli e
Turati, a favore gli altri commissari. Dopo questo voto i lavori
della commissione persero gran parte del loro interesse, e le
trattative, i maneggi più importanti si svolsero al di fuori di
essa.”.

Riprende Incagliati: “Certo all’uomo eminente non sfuggì la


gravità del mandato cui si accingeva a sobbarcarsi e del modo
onde avrebbe dovuto espletarlo. Ma se i forti si sottraessero, a
che servirebbero la vigoria dell' ingegno e la genialità di un
temperamento politico, nell’ora del pericolo ?

105
Antonio Casertano, assurto al Governo, fu sin dal primo
giorno nella sua trincea di combattimento, esposto a tutti i
fuochi, perché la politica interna par fatta apposta per porre a
duro esperimento l'energia di un uomo politico. Ma il neofita al
banco del Governo non si piega e resiste agli assalti e muove
spesso ai contrattacchi. La sua dialettica politica non somiglia a
quella del giurista, giurista qual egli è fra i più ammirati del foro
italiano, ma è una forma d'oratoria che l'uomo di Stato si è
foggiata perché la politica è realizzazione, non aspirazione
astratta di formule viete e inconsulte. Antonio Casertano
predilige la forma incisiva che è quella più adatta per
conseguire la benefica influenza della persuasione. Ma di fronte
ai ponderosi problemi il suo eloquio ha maggiore e più ampio
respiro e la voce dello statista è pari alla solennità degli eventi e
alla statura morale di quegli uomini che ne sono gli elementi
rappresentativi.
Non conta rievocare questo o quel dibattito. A che pro? E'
storia che ognuno di noi vive. Non passa giorno che alla Camera
o al Senato Antonio Casertano non debba sostenere il peso di
qualche imponente discussione. E mai come adesso la carica di
coadiutore del Presidente del Consiglio e Ministro per l'interno
è apparsa degna di chi l'ha assunta, di colui, cioè, che ne esplica
le funzioni con imparzialità prima, con intelligenza poi,
imparzialità e intelligenza che fecero spesso a quell'ufficio
bancarotta.
E così rispetto ad una come all'altra ogni sua teoria, ogni
sua argomentazione, ogni sua affermazione portano la stigmate
della probità. Perché l'uomo di Stato nulla ha perduto,
trasmigrando dal posto di deputato a quello del Governo, di tutte
quelle che sono le prerogative del felice e aristocratico
temperamento e soprattutto non ha rinunziato alla buona fede,
alla lealtà, alla sincerità, il trinomio d'una merce considerata
zavorra a bordo del naviglio ministeriale. Si potrà anche
dissentire da lui, a seconda delle tendenze e delle competizioni
parlamentari; non mai accapigliarsi per faziosa partigianeria.
Pur essendo uomo di parte e pur avendo natura di
appassionato polemista, Antonio Casertano sa sempre in
un'assemblea spezzettata con la proporzionale, dominare o

106
placare i rari cori e gli odi. Gli è che in quest'uomo più che le
passioni hanno presi i legittimi interessi della Nazione le
luminose idealità della Patria. E perciò il suo è un Governo di
equità e di saggezza, non di tirannia, noi di soffocazione dei
valori morali, noi di avvilimento della ricchezza ideale più che
nell'ambito delle persone. La sua azione si svolge nel campo
aperte dei proficui dibattiti per 1'ascensione di tutte le forze
operanti del Paesi verso la vetta d'ogni più nobile aspirazione e
d'ogni più giusta provvidenza.
Vi fu, infatti, durante la Conferenza di Genova, un periodo, e
periodo non breve, in cui Antonio Casertano fece a Palazzo
Viminale le veci del Ministro per l'Interno. E reggere la politica
interna da solo mentre trentaquattro Stati erano ospiti dell'Italia,
fu fatica non lieve, con una responsabilità da far tremare le vene
e i polsi a più d'un Ministro dell'interno. Ma Antonio Casertano
poté assolvere la nobile e ardua fatica con decoro. E con tanta
maggiore fortuna in quanto, mai come in quel periodo, facili
potevano essere gli eccessi e più facili le intemperanze. Ma,
all'ordine del giorno della politica nazionale, non una nota in
chiave di stonazione. II patrimonio morale di questa nostra tanto
discussa e vilipesa Italia, dai nemici di dentro e di fuori, fu
dunque salvo. E ne siano rese grazie pure ad Antonio Casertano,
a quest'uomo che illustra il Mezzogiorno d'Italia e che non è
degenere di quella stirpe dei provetti statisti meridionali.
Ma, orgoglio del Mezzogiorno, Antonio Casertano, di questa
Terra di Lavoro è veramente il tipo rappresentativo di quanto
valgano le virtù dell'intelletto e le doti del cuore. Un umanista
che intende la politica con la facoltà intellettiva, non disgiunta
dalle più squisite sensibilità. E onorandolo, gli vogliamo bene.
L'Italia ha bisogno di uomini che sappiano parlare con la
voce che trae ispirazione e forza dal tumulto della vita, da quella
vita che risuona nelle vie e sui monti e sulle spiagge - la inclita
ricchezza spirituale di questo grande popolo, che quando trovò i
suoi governanti, non fallì alla tradizione, non seppe dimenticare
la storia della millenaria civiltà...
Matteo Incagliati

107
Casertano e la mediocrità della classe politica

Che l’intervento di Incagliati sul Giornale d’Italia fosse una


presentazione del Deputato capuano al mondo politico che si
preparava ad un cambiamento epocale è oramai assodato, lo sono
altrettanto i suggerimenti che lo stesso Casertano dava ai pochi
giornalisti parlamentari per fare trapelare una sua versatilità
politica sempre disposta a seguire i principi e le ideologie che
meglio prevalevano e che erano condivisi dalla gente che
contava.
Non era un bel periodo quello in cui si trovò di fronte
Antonio Casertano, ma era quello più favorevole alla sua ascesa
visto il suo profilo. Era abituato ai compromessi e si mostrava,
da una parte vicino alla gente e dall’altra pronto ad abbracciare
le tesi del più forte.
Nulla cambia sotto il sole.
“Certo all'uomo eminente non sfuggì la gravità del mandato
cui si accingeva a sobbarcarsi e del modo onde avrebbe dovuto
espletarlo. Ma se i forti si sottraessero, a che servirebbero la
vigoria dell' ingegno e la genialità di un temperamento politico,
nell'ora del pericolo?”.
Era questo l’interrogativo che si poneva Incagliati.
“Antonio Casertano, assurto al Governo, fu sin dal primo
giorno nella sua trincea di combattimento, esposto a tutti i
fuochi, perchè la politica interna par fatta apposta per porre a
duro esperimento l'energia di un uomo politico. Ma il neofita al
banco del Governo non si piega e resiste agli assalti e muove
spesso ai contrattacchi.”
La Camera dei deputati in quel periodo non doveva
certamente spirare molta fiducia agli occhi degli italiani e i
giochi ed i giochetti dei centristi, pronti a buttarsi a destra o a
sinistra, erano all’ordine del giorno.
Un spaccato della mediocrità e della criticità della vita
politica del tempo arriva proprio da Benito Mussolini in un
articolo apparso sul “Popolo d’Italia” del 2 luglio 1922.
“Ognuno dei nostri lettori ha indubbiamente risposto
nell'unica maniera in cui sia logico e legittimo rispondere alla
domanda che abbiamo disteso ieri, in epigrafe, sulle nostre

108
colonne. Quando si chiede che cosa fa la Camera italiana, una
sola risposta balza irrefrenabile alle labbra: la Camera italiana
fa schifo, ma tanto schifo. Alla sera, quando da Roma giungono
le prime cartelle della Stefani, mal dattilografate, su quella
indefinibile carta - che sta fra il W. C. e quella per le delicate
salumerie 22- e leggete degli incidenti e vi sforzate invano di
interessarvi al gioco oramai strabanale dell'incrocio di ingiurie,
la nausea e il disgusto vi prendono alla gola. Il panorama
parlamentare è oramai noto. Il gioco anche. Ma bisogna
aggiungere subito che in questo mediocre gioco, la parte più
antipatica, più ambigua e procacciante, è sostenuta dai
“fazenderos” del Gruppo parlamentare popolare. Fior fiore di
profittatori, i deputati del Partito Popolare! Sono i topi che
rosicchiano con denti sempre più aguzzi nel formaggio
ministeriale; ma poi, non mancano mai un'occasione che sia
propizia per fare la forca agli elementi di destra, che pure sono
parte della stessa maggioranza. La tattica del prete siciliano
[don Sturzo, ndr.] è questa: star nel ministero perché ciò giova
agli interessi del Partito e pendere verso i socialisti per le
possibili combinazioni di domani.”.
In questo contesto, quindi, un uomo che aveva frequentato le
aule dei tribunali, pronto a cogliere i momenti e le sensazioni di
un giudice, capace di capovolgere situazioni pur di dare una
mano ai suoi clienti, non poteva che trarre vantaggio. Secondo il
giornalista romano la dialettica politica di Antonio Casertano
non somigliava a quella del giurista, giurista qual egli era fra i
più ammirati del foro italiano, ma una diversa che aveva saputo
bene adattare al nuovo ambiente. Era una forma d'oratoria di un
uomo di Stato foggiato. “perché la politica è realizzazione, non
aspirazione astratta di formule viete e inconsulte.”.
In effetti, Casertano prediligeva la forma incisiva ch’era
quella più adatta per conseguire “la benefica influenza della
persuasione. Ma di fronte ai ponderosi problemi il suo eloquio
ha maggiore e più ampio respiro e la voce dello statista è pari
alla solennità degli eventi e alla statura morale di quegli uomini
che ne sono gli elementi rappresentativi.”.
22
In gergo giornalistico vengono chiamate “veline”

109
Il Governo di allora era retto, in considerazione del grande
frazionamento, soprattutto dai Popolari.
“Sostenuto.... come la corda l'impiccato. - ribatteva Benito
Mussolini - I socialisti continuano a valersi della tribuna
parlamentare per la loro criminale opera di diffamazione
antifascista e poiché in questo bieco mestiere eccellono gli
uomini di parte destra o collaborazionista, la deduzione che per
noi ne segue è chiara. Nel complesso la Camera attuale merita
di essere aspramente giudicata; ma quando si pensi ch'essa è
tuttavia migliore di quella precedente, si ha la misura del
baratro d'obbiezione politica in cui Nitti aveva tentato di
precipitare la nazione.”.
In questa gran confusione e nella logica del “nego domani
quello che dico oggi”, Antonio Casertano si trovava a suo agio e
sopratutto non si creava molti nemici anche se i più astuti come
Filippo Turati non lo stimavano, anzi si mantenevano ad una
debita distanza, idealmente parlando.
Si muoveva in una realtà assurda dove la nazione e la gente
sembrava stordita da una politica irreale fatta di veti incrociati di
opposizione maligne e gratuite, una gente che agli occhi dei più
attenti doveva subire, pur essendo uomo di parte e pur avendo
natura di appassionato polemista, una rappresentanza che non
sapeva dove arrivare e da cosa partire. Lo stesso Mussolini
ribadiva:
“E il paese? Il cosiddetto paese è migliore della "sua"
Camera? Non è tempo di approfondire un poco questo famoso
contrasto fra il paese e la Camera, fra il paese che sarebbe
virtuoso e la Camera scandalosa? E questo esame non potrebbe
condurre alla conclusione amara che il paese è degno della
Camera e la Camera degna del paese? I
cinquecentotrentacinque deputati che siedono a Montecitorio
non sono degli autoeletti; non sono stati scelti dal Padreterno o
da Sua Maestà; è il paese che li ha scelti ed eletti, e il corpo
elettorale che li ha investiti del potere legislativo; sono sei o
sette milioni di cittadini che hanno - coi loro voti - creato la
Camera, questa Camera, come le precedenti. Delle due l'una: o
questi cittadini che votano non sanno quel che si fanno e allora
aboliamo quella finzione grottesca che ha nome "suffragio

110
universale" o questi cittadini sono coscienti e allora perdono il
diritto di lagnarsi - come paese - di una Camera che essi creano
a loro perfetta immagine e somiglianza. Oppure, terzo caso: il
paese sano e virtuoso, quello che fa da contrasto alla Camera,
sarebbe forse rappresentato da quei sei milioni di elettori che si
strafottono allegramente di recarsi alle urne nei fatidici giorni in
cui si tratta di scegliere i rappresentanti della nazione? Ognuno
vede che questa terza ipotesi non è sostenibile. Ne consegue, a
logico corollario, che il contrasto tra il paese e la Camera è
l'artificio polemico, mentre la realtà è che paese e Camera si
condizionano a vicenda. Anzi si sarebbe tentati di aggiungere
che il paese, il quale manda Misiano alla Camera, fa più schifo -
è tutto dire! -, della stessa Camera, che trova un residuo di
dignità per defenestrarlo. Ora, dato che ci sia ancora bisogno di
un Parlamento che non sia una banda di idioti o di postulanti,
bisogna cominciare dal migliorare - con opportune razionali
selezioni - il bestiame elettorale. Poi bisognerà sopprimere il
criterio di eguaglianza fra i componenti di codesto bestiame.
Mettere in causa, insomma, il suffragio universale, altrimenti
definibile come la suprema mascherata della democrazia. Poi
riesaminare i sistemi elettorali perché se è conseguenza logica e
necessaria della proporzionale un perpetuo ballo di San Vito dei
Governi, è chiaro che la proporzionale non dovrà più essere
considerata come un principio acquisito, sacro e intangibile.
Periscano pure i "principe immortali " ma si salvi la vita!
Questa catena di attuali e melanconiche considerazioni
potrebbe continuare, ma può anche essere rinviata senza
inconvenienti a domani.”

111
Il pranzo romano dei potenti

Il 10 Aprile del 1922 si apre a Genova la conferenza


internazionale, che aveva lo scopo di esaminare i problemi della
ricostruzione dell’economia russa e tedesca. Un avvenimento di
grande rilevanza internazionale che vide di fronte in un vertice,
per la prima volta dopo la fine della prima guerra mondiale, vinti
e vincitori, in condizione di parità. Sedevano intorno ad un unico
tavolo Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania,
Austria ed Unione Sovietica. Una conferenza che durò oltre un
mese ed in cui Antonio Casertano sostituì in tutto e per tutto il
Ministro per l’Interno. Un compito, non di poco conto visto che
si doveva reggere la politica interna del paese quando erano
ospiti del nostro territorio trentaquattro Stati. Fu fatica non lieve,
ma l’avvocato capuano portò avanti il suo compito con molta
dignità, ma non senza critiche da parte delle opposizioni. Era un
periodo particolarmente pericoloso, in cui si potevano
manifestare eccessi e facili intemperanze.
Grazie al suo apporto: “II patrimonio morale di questa
nostra tanto discussa e vilipesa Italia, dai nemici di dentro e di
fuori, fu dunque salvo. E ne siano rese grazie pure ad Antonio
Casertano - a quest'uomo che illustra il Mezzogiorno d'Italia e
che non è degenere di quella stirpe dei provetti statisti
meridionali” – scriveva la stampa nazionale - Ma, orgoglio del
Mezzogiorno, Antonio Casertano, di questa Terra di Lavoro è
veramente il tipo rappresentativo di quanto valgano le virtù
dell'intelletto e le doti del cuore. Un umanista che intende la
politica con la facoltà intellettiva, non disgiunta dalle più
squisite sensibilità. E onorandolo, gli vogliamo bene.
L'Italia ha bisogno di uomini che sappiano parlare con la
voce che trae ispirazione e forza dal tumulto della vita, da quella
vita che risuona nelle vie e sui monti e sulle spiagge - la inclita
ricchezza spirituale di questo grande popolo, che quando trovò i
suoi governanti, non fallì alla tradizione, non seppe dimenticare
la storia della millenaria civiltà...”.
Con la prospettiva di nuovi ed importanti incarichi a livello
nazionale e con un occhio alla situazione difficile internazionale
Antonio Casertano era generoso con amici e potenti ed non

112
elemosinava di organizzare grandi eventi specie nell’ambiente
romano dove c’erano più opportunità di fare politica, quella
politica con la “P maiuscola” che serviva non solo a far diventare
grande un uomo, ma, a volte, a fare la fortuna di personaggi e di
intere aree del Paese. Peccato che fino ad allora i luoghi di
origine e la base elettorale che aveva contribuito all’ascesa del
nostro si avvantaggiarono poco o nulla. E tutto si risolveva in
piccoli favoritismi e raccomandazioni.
Roma era la sede di circoli culturali che erano espressioni
regionali o delle province dei loro fondatori. Così al circolo della
Campania, che sarà seguito anche da un circolo dei casertani,
facevano capo i personaggi dell’epoca: Paolo Greco, la famiglia
Visocchi, Pietro Fedele, il conte Tosti di Valminuta, Giovanni
Tescione, Giuseppe Buonocore ed altri, che frequentemente,
ricevevano i giornalisti accreditati di Terra di Lavoro da De
Leonardis a Musone.

Onore ai grandi

Fu proprio ad opera dell’associazione dei cittadini della


Campania che, Giovedì 22 Aprile 1925, fu organizzato un grande
pranzo presso il prestigioso Hotel des Princes di Roma.
“Ebbe luogo, improntato a schietta signorilità e a solenne
austerità”, in onore dei parlamentari, 1’avv. Antonio Casertano,
presidente della Camera dei deputati, il prof. Pietro Fedele,
ministro per la Pubblica Istruzione, e 1’avv. prof. Alfredo
Rocco23, ministro per la Giustizia e gli Affari di Culto.
23
Alfredo Rocco, napoletano, docente universitario di diritto commerciale a
Padova, militò nelle file del Partito Radicale. Nel 1913 aderì al movimento
Nazionalista. L’Associazione Nazionalista Italiana sorse con il congresso di
Firenze nel 1910, voluto dal letterato e pubblicista Enrico Corradini, che
sosteneva la necessità di una politica estera aggressiva e di un’espansione
coloniale, contrapponendo l'Italia, nazione proletaria, alle cosiddette nazioni
capitalistico-plutocratiche.
Nel congresso dell’Ani (Associazione Nazionale Industriali) di Bologna
dell'aprile 1914, Rocco presenta una piattaforma in cui delinea la sua
concezione statuale protezionistico-corporativa, all'interno di un quadro
giuridico autoritario. Nello stesso anno fondò a Padova “Il Dovere nazionale”,
organo di battaglia nazionalista e interventista. Ispiratore nel dopoguerra, con

113
La grande abbuffata

Al banchetto prese parte anche la “graziosa e intellettuale”


Fausta Casertano, figliuola del Presidente della Camera.
Dell’evento vi fu una vasta eco a Caserta visto che partecipò
anche Eduardo De Leonardis Direttore di Terra di Lavoro, che
pubblicò l’avvenimento sul suo settimanale.
“Intervennero le più cospicue personalità del mondo politico
ed egregi rappresentanti di Terra di Lavoro: oltre
duecentocinquanta coperti, che davano all'ampio salone -
addobbato di trofei con bandiere tricolori, sfolgorante di luce ed
olezzante di fiori e di piante - un aspetto veramente imponente.

Francesco Coppola, dell'organo teorico del nazionalismo “Politica”, fu prima


amministratore delegato, poi direttore del quotidiano “L'Idea nazionale” e nel
1923 era tra i sostenitori della fusione tra nazionalisti e fascisti. Entrò nel
governo Mussolini come sottosegretario al Tesoro e poi alle Pensioni (1922-
24). Diventò deputato dal 1924 e presidente della Camera fino al gennaio
1925, quando fu nominato ministro della Giustizia, lasciando il posto proprio
ad Antonio Casertano.
Alfredo Rocco si rese protagonista della trasformazione del Paese ed il suo
Codice di Diritto Penale è oggi ancora in vigore.
Le misure legislative da lui varate furono severe, servivano a colpire le società
segrete, imbavagliare la stampa, rivedere l'ordinamento di pubblica sicurezza
e riformare i codici. Le “leggi eccezionali” avviarono in concreto la
costruzione dello stato totalitario (1925-26).
A questo vanno aggiunte le misure di attuazione della legge sui rapporti
collettivi di lavoro, che diventarono la Carta del Lavoro (21 aprile 1927) poi
culminata nella legge istitutiva delle corporazioni (1 febbraio 1934). Alfredo
Rocco partecipò anche alle trattative per il Concordato, all’elaborazione
formale della riforma dell'istituto parlamentare (1928) e della legge sul Gran
Consiglio (1928), mentre prosegui l'opera di stesura del codice penale, che da
lui prenderà il nome, e del codice di procedura penale, entrati in vigore nel
1931. Nel 1932 lasciò il ministero e ritornò all'insegnamento nell’università di
Roma, dove era stato trasferito dal 1925 e della quale fu rettore. Nel 1934 fu
nominato senatore. Morì nel 1935. Giusto in tempo per non vedere gli errori
che di li a poco Benito Mussolini incominciava a fare sulla scena politica
internazionale e che determinarono il declino e la scomparsa di un’epoca.
Pietro Fedele fu uno dei pochi che cercò di prodigarsi per la sua terra, era
assiduo frequentatore di Caserta e durante le sue visite alloggiava all’hotel
Vittoria e spesso si recava ospite presso la casa di Giovanni Tescione. Fu
presente all’inaugurazione del monumento ai Caduti nel Comune di San
Leucio.

114
Allo champagne, 1’on. avv. Alberto Geremicca, regio
commissario di Napoli, presidente del Comitato Onorario, porse
il saluto della Campania, della terra tanto fertile di sentimento,
della plaga che fu l'incanto e la letizia dei maggiori poeti, che
ebbe il dono dalla natura delle migliori bellezze.
L'on. avv. prof. Alfredo De Marsico, della forte Irpinia, con
mirabile slancio oratorio, portò il saluto dei deputati presenti e
disse degli illustri rappresentanti, che oggi la Campania ha il
vanto di avere alla Presidenza della Camera e al Governo.
L'on. avv. Vico Pellizzari, in nome del regio commissario di
Roma, senatore Filippo Cremonesi, impedito ad intervenire,
rivolse il saluto del regio commissario medesimo e di Roma.
Per l'Associazione Cittadini della Campania, il suo
presidente, prof. Pasquale Grossi pronunziò un assai fervido
discorso. Egli esaltò le virtù preclare di S. E. Casertano, di S. E.
Fedele e di S. E. Rocco, che sono tra i migliori e più degni figli
della Campania; esaltò la Campania stessa e il patriottismo dei
suoi cittadini; conchiuse, invitando a levare i calici alla
prosperità della regione alla grandezza d'Italia, alla salute dei
tre Festeggiati, alla salute della leggiadra ed elettissima
signorina Fausta Casertano, la quale aveva gradito di dare al
banchetto il fascino della sua presenza.
Indi, a ciascuno dei tre insigni Parlamentari fu offerta
un'artistica pergamena con le firme d'innumerevoli conterranei.
L'indimenticabile festa si chiuse fra continue ed
entusiastiche ovazioni ai tre Parlamentari, le quali non
cessarono se non quando essi presero posto nelle loro
automobili in Piazza di Spagna.
Del pieno successo della manifestazione meravigliosa spetta
il merito al comm. Pasquale Mollica, proprietario dell'Hotel des
Princes, che fece gli onori di casa da gran signore qual è, e al
segretario del Comitato Onorario cav. Enrico Preparata, che
provvide all'organizzazione perfetta con sagace alacrità; ma il
merito precipuo spetta ai cittadini della Campania, che hanno
confermato il verace affetto che li avvince saldamente fra loro,
specialmente quando si tratta di tributare la loro devozione
profonda a Corregionali, che, al cospetto d'Italia, con le proprie
luminose ascensioni - dovute al loro formidabile intelletto e

115
all'incommensurabile loro valore - sanno illustrare e fare
ammirare la direttissima terra natia, che efficacemente ne
tutelarono le sorti, ne promossero il benessere e le conferirono
decoro.”.
E’ lungo l’elenco dei partecipanti che intervennero all’Hotel
des Princes: c’era chi per partecipare aveva dovuto farsi
raccomandare ed aveva speso non pochi soldi per la trasferta
nella capitale, compresa la permanenza.
Quelli di maggior riguardo erano: S. E. Tittoni, presidente
del Senato; S. E. Federzoni, ministro per l’Interno; S. E. Nava,
ministro per 1’Economia Nazionale; S. E. Suardo,
sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio; S. E.
Grandi, sottosegretario di Stato all'Interno; S. E. Larussa,
sottosegretario di Stato all'Economia Nazionale; S. E. Petrillo;
sottosegretario di Stato ai Lavori Pubblici; S. E. Cantalupo,
sottosegretario di Stato alle Colonie; S. E. Romano,
sottosegretario di Stato alla Pubblica Istruzione.
L'on. Paolucci, vice-presidente della Camera dei Deputati,
coi segretari della Presidenza stessa onorevoli Bottai, Tosti di
Valminuta, Greco, Madia; Miari de Cumani e Manaresi, con i
questori della Camera, onorevoli Renda e Guglielmi.
I deputati Geremicca, Andrea Torre, Pezzullo, De Martino,
De Marsico; Achille Visocchi; Perna, Pavoncella; Scialoja,
Salvi, Mesolella, Rossi, Mammalella, Bifani, Baistrocchi, Gatti,
Beneduce Giuseppe, D'Ambrosio, Viale, Brescia, Pennavaria,
Pellizzari, De Cristofaro, Di Mirafiori-Guerrieri, Messedaglia,
Preda, Solmi, Polverelli; Salerno, Joele, Padulli, Aldi-Mai,
Adinolfi, Benassi, Maraviglia, Maury, Alberti Jung; Orsolini-
Cencelli, Barattólo, Ciarlantini, Borriello, Spinelli, Farina,
Gabbi, Sipari; Caprice, Barbieri; Zugni-Tauro, Antonelli e
Majorana.
Gli onorevoli Morisani, Buonocore, Tescione, Berardelli,
Romano e Carapelle. I senatori Angiulli, De Blasio; Garofalo e
Spirito; S. E. Perla, presidente del Consiglio di Stato; S. E. D'
Amelio Bruno presidente della Corte di Cassazione; S. E.
Appiani, procuratore generale presso la Corte di Cassazione; S.
E. Crisafulli, procuratore generale presso la Corte di Appello di
Roma; S. E. Cuminelli.

116
I capi delle organizzazioni fasciste di Terra di Lavoro: il cav.
De Spagnolis, segretario politico provinciale; il cav. Giuseppe
Comella, presidente della Federazione Provinciale dei Comuni
Fascisti; il cav. uff. Senise, segretario generale delle Federazione
Provinciale delle Corporazioni Sindacali Fasciste, coi vice-
segretari rag. Giugliano e avv. Miraglia e col segretario
circondariale di Formia sig. Bianchi; i componenti del Direttorio
Provinciale Fascista cav. Domenico Mesolella, sig. Pellegrini,
cav. Perrotta e cav. Schiappa; il cav. Mignone; 1’avv. Nicola
Allocca, sindaco di Saviano; il segretario politico della Sezione
Fascista di Alife sig. De Lellis; l’insegnante Tuccinardi, delegato
delle Avanguardie Fasciste; il rag. Del Prete, segretario politico
della Sezione Fascista di Teano. L’avv. Edilio Borgia,
commissario del Governo per la Federazione Provinciale dei
Combattenti. S. E. Noseda, il generale Della Valle; il gr. uff.
Mazzoccolo, presidente di Sezione della Corte dei Conti; S. E.
Pagliano, S. E. Giannattasio, S. E. Nucci, il gr. uff. Xarra, il gr.
uff. Silvio Petroni, il gr. uff. Sasso, il comm. Ronga, S. E. Palini,
il comm. Milia; il comm. Giaquinto, il comm. Morabito, il
comm. Colamonica, il cav. Rossi, il comm. Tempesta, il gr. uff.
Tempestini, il comm. Goffredo, il comm. Berardelli, il gr. uff.
Pironti; il gr. uff. Michele Petroni, il gr. uff. Sanna;. il comm.
Mollica, il gr. uff. Pellegrino Ascarelli, il sig. Emilio Ascarelli, il
gr. uff. Barone, il comm. Pietro Fossataro, il comm. Bellini, il
comm. Celano, il barone Francesco Lo lacono, il comm.
Crispino, il cav. Enrico Preparata, il comm. Colalucci, il comm.
Grossi, il cav. De Risi, il gr. uff. Di Donato, il cav. D'Emilia, il
comm. Del Prete, il comm. De Santis, il cav. Fago, il cav. Fumo,
il cav. Giuliano, il sig. Giani, il comm. Grasselli, l’avv. Grazioso,
l’avv. lamelli, il comm. Sandalo, il comm. Lazzari, il comm.
Lancia, il comm. Mancini, l’ing. Meloccaro, il gr. uff. Monaco, il
gr. uff. Marruccari, il sig. Majello, 1’ing. Tronconi, l’avv.
Gennaro e il comm. Luigi Piscitelli, il cav. Marotta, il cav.
Manciacapra, il cav. Miraglia, l'avv. Giulio Zincone, l’avv.
Augusto Zincone, l'avv. Montoro, il cav. Natili, il comm.
Pellegrino, e l’elenco continua.

117
I discorsi di Casertano

Al termine dell’intervento del presidente dell’associazione


dei Campani, Pasquale Grossi, prese la parola l’on. Casertano
per ringraziare tutti i presenti, che l’ascoltarono in “un religioso
silenzio”.
“Signori, - disse il presidente della Camera dei deputati -
porgo un cordiale ringraziamento ai Componenti
dell'Associazione Campana, che promossero questo banchetto, e
qui, nella città sacra, tengono accesa la fiaccola della stirpe
campana. Ringrazio il Regio Commissario dì Napoli, che si rese
interprete dei sentimenti dell’Associazione, e parimenti ringrazio
il Rappresentante del Regio Commissario di Roma, il cui saluto
augurale è premio e speranza.
Porgo un fervido ringraziamento ai Parlamentari qui
convenuti, del Senato, della Camera, del Governo, che trovarono
interprete così eloquente nella parola immaginosa ed elegante
dell’on. De Marsico.
Ma sopratutto mi sia consentito di rivolgere un rispettoso
ringraziamento a S. E. Tittoni, presidente del Senato, che
rappresenta la suprema dignità dello Stato, e che spende tutta la
sua vegeta vecchiezza a servizio del Paese con autorità, con
senno, con dottrina insuperati ed insuperabili”.
“Questo banchetto rappresenta per noi il maggior premio
della nostra vita. - continuò il capuano, dopo una leggera pausa -
Anche noi lavoriamo umilmente, tenacemente, diuturnamente a
servizio del Paese, ed il plauso dei cittadini d'ogni parte e
colore, sopratutto il consenso dei Comprovinciali, in mezzo a cui
siamo vissuti, rappresenta per la nostra opera la meta ambiti e
conseguita.
Per me l'ufficio che ricopro è l'ultima Thule. Posso ripetere
senza rammarico: "Non bramo altra esca". Pervenuto in
condizioni di giudicare, e non di essere giudicabile, moderatore
della massima assemblea elettiva, dopo aver dato alla Patria
anche il sangue dei miei figli, posso sinceramente affermare di
desiderare soltanto di finire i miei giorni nello stato in cui sono;
continuando a servire il Paese con lealtà e fede.
Sì, fede, sopratutto, che spesso manca. Non sono molti anni

118
passati, da che la Patria appariva sull'orlo di un abisso.
Sembrava la donna descritta da Leopardi, accasciata e dolente.
Un giovane romagnolo, sul cui volto ossuto e pensoso sono i
segni della vecchia stirpe romana, che dominò il mondo, (A
questo punto tutti scattano in piedi e gridano: Viva Mussolini !,)
che anche oggi dava al Senato la prova della sua potente
genialità e dell'immenso amore alla Patria, la trasse per i capelli
e le impose di riprendere il cammino ascensionale. Ed ecco la
donna, derisa ed irrisa, riprendere la via dei mondo, che i fati le
assegnano. - riprese Casertano - Senza illusioni, amici, siamo
sul cammino ascensionale. Abbiamo quasi risanate le piaghe
dell’economia nazionale, lavoriamo tenacemente e produciamo
abbondantemente. Persistono le animosità di uomini e di partiti
(vecchia piaga italiana, che rimonta ai tempi dì Dante Alighieri),
ma anch'esse son destinate a finire per naturale stanchezza e per
un più giusto apprezzamento di cose e di partiti. Sopratutto
abbiamo riacquistato la fede che, sotto la guida del Re, saggio e
sapiente, (dalla sala ripetute grida " Viva il Re! "), prenderemo
il posto che ci spetta nel mondo tra i popoli ricchi e felici. In alto
i calici: Beviamo ad un’Italia più grande e prospera, che i nostri
padri sognarono, che l'attuale eroica generazione ha innaffiata
col suo sangue, che i nostri figli sono destinati a godere.”.

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124
PIETRO FEDELE
Pietro Fedele era nato a
Minturno nel 1873, svolse i suoi
studi nel prestigioso convitto
Giordano Bruno di Maddaloni.
Laureatosi con lode in Lettere e
Filosofia nel 1894, a soli ventuno
anni, dopo alcuni anni
d'insegnamento nelle Scuole
Secondarie, e a seguito di concorso,
nei Licei di Napoli, copre la cattedra
di storia moderna nella Reale
Università di Torino fino al 1915, anno in cui, con voto unanime
della Facoltà di Lettere e Filosofia, è chiamato nella Reale
Università di Roma. Ma l'insegnamento, cui peraltro si dedica
come un in apostolato, non si esaurisce e da vita ad una serie di
pubblicazioni che sono la prova della sua “straordinaria
fecondità, l'esuberante preparazione scientifica”.
Tra le moltissime monografie storico-critiche, ci sono: il
Duchesne, il Sabatier, l'Hartman, il Keher P. Villari, il Tangl O.
Tommasini ed altri. Ed ancora L'amore di Giovanna di Durazzo
per Aimone III di Ginevra; Di un preteso dominio di Giovanni
VIII sul Ducato di Gaeta; Il Ducato di Gaeta all'inizio della
conquista normanna; La battaglia del Garigliano dell'anno 915 ed
i monumenti che la ricordano; Indugi del Duca di Guisa e
preparativi di guerra del Duca d'Albe nel 1557; Un consolato nel
protoevo; Una lettera di Cola di Rienzo al Comune di Padova;
Per la biografia di Pietro Cavallini; L'opera di Ernesto Monaci
per gli studi , storici; Il fratello di Gregorio Magno, Per la storia
dell'attentato di Anagni; Aspetti di Roma nel trecento; Sulla
persistenza del Senato Romano nel medio evo; Fra i monaci di
Fossanova che videro morir S. Tommaso.
Di li a poco, Fedele diventa un punto di riferimento per i
fascisti casertani ed amico inseparabile e principale referente di
colui che nel giro di qualche anno sarà il primo podestà di
Caserta: Giovanni Tescione.
Insieme ad Antonio Casertano, Alberto Beneduce, Achille

125
Visocchi rappresentano il vertice di un gruppo, che Filippo
Turati, il capo indiscusso del socialismo italiano, chiamerà “Il
Gruppo dei Casertani”.
I meriti sul campo Pietro Fedele se li era conquistati durante
la prima guerra mondiale. Sconosciuto ai Casertani del
capoluogo, era molto amato nel basso Lazio; in un elogio
apparso su un periodico locale si legge: “Chi non ricorda, infatti,
l'opera instancabile e provvida dal Fedele svolta durante il
periodo bellico? Chi non ricorda quanto Egli si prodigasse in
pro dell'assistenza civile e della propaganda nazionale?
Presidente del Comitato Laziale di Propaganda, organizzatore
del Segretariato del Popolo e dei Prestiti Nazionali
nell'Università di Roma, autore di scritti patriottici, tra cui
l'aureo volumetto sulle cause della guerra, ch'ebbe la fortuna di
essere tradotto in varie lingue; conferenziere propagandista, e
ricordo la conferenza al "Teatro Quirino" dopo il rovescio di
Caporetto; membro autorevolissimo e zelante del Comitato di
Assistenza Civile della sua Minturno, alle cui riunioni
interveniva puntualmente da Roma per offrire i suoi illuminati
consigli; fondatore con Giovanni Cena ed Alessandro Marcucci
del giornale pei figli dei contadini "Il Piccolissimo", Pietro
Fedele, assertore entusiasta della causa nazionale ed animatore
infaticabile dei nostri soldati, va noverato tra i maggiori
benemeriti della nostra resistenza durante il durissimo periodo
di guerra. Né, cessata questa, ristava il Fedele dall'usata attività
patriottica, giacché troviamo in lui il Segretario Generale
dell'Opera Nazionale per l'Assistenza Scolastica agli Orfani di
Guerra, l'autorevole componente del Comitato Centrale
Nazionale per gli Orfani stessi, il sempre ardente patrocinatore
di iniziative patriottiche,, il Segretario del Sindacato Fascista
dei Professori Universitari.”.

L’anno 1925 incomincia male, politicamente parlando, e


doveva dare a Benito Mussolini molti grattacapi. Il suo governo
non era stabile e defezioni e distinguo erano all’ordine del
giorno.
Il capo del governo era ancora alle prese con le conseguenze
del delitto di Giacomo Matteotti, ma, soprattutto, con un Partito

126
Nazionale Fascista che non si rendeva conto di essere diventato
un partito di governo e continuava ad avere uomini che volevano
fare della violenza l’arma migliore per combattere gli avversari
politici.
Il 3 gennaio il Duce, con un duro discorso alla Camera dei
Deputati, prende su di sè le gravi colpe dei suoi e dichiara di
assumersi “la responsabilità politica, morale, storica di tutto
quanto è avvenuto” nel corso del suo periodo di governo ed in
particolare nella seconda metà del 1924. Giudica l’aventino un
“risveglio sovversivo”. Rivendica gli sforzi compiuti in funzione
di una effettiva “normalizzazione” e per reprimere ogni illegalità
compresa quella fascista.

La presa di responsabilità

“Signori! - disse Mussolini ai Parlamentari nel suo


intervento del 3 gennaio 1925 - il discorso che sto per
pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere, a rigor di
termini, classificato come un discorso parlamentare. Può darsi
che alla fine qualcuno di voi trovi che questo discorso si
riallaccia, sia pure attraverso il varco del tempo trascorso, a
quello che io pronunciai in questa stessa aula il 16 novembre.”.
Quello che successe il 3 gennaio fu estremamente grave e
come gli storici affermano: “lo Stato liberale e le forze politiche
che ad esso si richiamavano e lo sostanziavano entrarono
nell'ultima fase della crisi”.
In realtà si cominciarono a porre le basi per un nuovo e
diverso assetto politico ed amministrativo del paese che
diventerà successivamente il regime fascista.
Cadevano definitivamente le illusioni degli aventiniani che
credettero di avere le forze sufficienti per abbattere Mussolini e
il fascismo.
L’Aventino, l’abbandono della Camera dei Deputati da parte
degli antifascisti, si dimostrò un’illusione, basata sulla mancanza
di reali rapporti con il paese di un’élite, sulla convinzione che il
fascismo fosse uscito dalla crisi di giugno molto più debole di
quanto in realtà fosse, e non ultimo, la sottovalutazione delle
capacità politiche di Mussolini, e la presunzione che una

127
posizione morale potesse avere maggiori possibilità di successo
di una tradizionale azione politica, basata – come il socialista
Filippo Turati pensava - “sulla capacità di giovarsi di ogni
possibilità, di ogni espediente, e, infine, sulla fiducia nella
monarchia.”.

Le previsioni di Filippo Turati

“Ho anche notizia – aveva scritto la sera Turati alla


Kuliscioff – che a Villa Ada hanno cominciato a capire e che
insomma si svegliano. Si parla persino di stato d’assedio, che
potrebbe essere una soluzione”.
Che in questo clima ci sarebbe stato un rimpasto e che un
Casertano sarebbe stato ministro lo si rileva da una lettera del 2
gennaio proprio di Filippo Turati in cui si ribadisce.24
“Viviamo giorni di passione. Come avrai desunto dalle mie
brevissime lettere il panorama ci si presenta mutato di ora in ora
come un film cinematografico... L’altra sera e il mattino di
Capodanno, la fine della tragedia pareva a portata di mano: lo
desumevamo da notizie riservate pervenuteci da persone che
frequentano la vetta, mentre tutti ci parlavano anche
dell’atteggiamento di opposizione risoluta di Salandra; della
probabilità che la mozione di destra fosse avvalorata da un
movimento analogo di nazionalisti e combattenti, che fa capo a
Paolucci, vicepresidente della Camera; dell’opinione concorde
di Giolitti e di Orlando che si fosse nell’imminenza della
catastrofe; di assicurazioni date circa la sicura difesa militare
della Corte e della capitale in genere; dal fallimento della
chiamata della Milizia che nell’Urbe, su 1400 iscritti, non ne
aveva trovati presenti che un’ottantina o poco più, … Pareva
insomma che l’ordine del giorno unanime del penultimo
Consiglio dei Ministri non fosse che la mascheratura della crisi
latente, che le dimissioni di Sarrocchi e di Casati fossero sicure,
e si trattasse soltanto di trovare il modo per la ritirata del duce,
che al consiglio di andarsene risponderebbe soltanto con questo
eloquente bisillabo: «Dove?», e si trattasse cioè di offrirgli un
24
(vedi carteggio Turati- Kuliscioff).

128
viottolo, la caduta non sulla questione morale-penale, che
sarebbe la morte civile ed il carcere, ma su un tema qualsiasi di
politica ordinaria, forse la politica interna alla Camera o
l’ordinamento dell’esercito al Senato. L’ottimismo era tale che
gli stessi fatti di Firenze e la soppressione della stampa si
interpretavano soltanto come una manovra connessa al
capobanda per darsi un contegno decente verso l’estremismo
fascista, un modo insomma di decorare di un paludamento
dignitoso la morte già constatata inevitabile... Ma da ieri
mattina le impressioni cominciano ad essere un po’ diverse: si
cominciò a dubitare che persistesse di fatto la solidarietà,
volontaria o coatta, del re col Mussolini, al quale dubbio
fornivano credibilità i due telegrammi dei principi di Savoia,
figli del duca di Genova, al generale Gandolfo. Il sottosegretario
all’Interno Dino Grandi narrava a tutti una telefonata corsa fra
lui e il capobanda di Firenze, Tamburini, il quale, avvisato che
si sarebbe sparato sul serio contro i fascisti turbolenti,
rispondeva spavaldo che avrebbe rifatto la marcia su Roma e
che lui [Dino Grandi] era considerato come il Beneduce
[Giuseppe] del nuovo Facta [Mussolini]; e si diceva che questo
discorso era un’invenzione per cercare al governo un alibi, ma
che governo e Tamburini erano in perfetto accordo. Nessuno poi
si fidava più di Salandra, che vorrebbe sì il piatto del governo,
ma senza far nulla per cucinarlo. Si parlava del generale
Gonzaga, generale d’armata a Firenze, disposto a cedere la
caserma ai fascisti. Si riaffacciava la figura del Duca d’Aosta
come complice del fascismo, sebbene si aggiungesse che
quest’ultimo è diviso fra monarchici d’aostani e repubblicani
disposti a «mettere a posto anche il re», secondo quanto Giunta
avrebbe dichiarato. Riccio dichiarava che anche il ritiro di due
ministri liberali non avrebbe provocato la crisi, perché il duce
avrebbe rimpastato un ministero tutto fascista, tutt’al piú con
qualche Casertano. Si tornava a parlare di principio della
seconda ondata, questa volta risolutiva, e di squadre perugina e
ternana pronte a calare su Roma, mentre altri aggiungeva che la
calata era già iniziata e che erano state trattenute... Ad onta di
tutto, noi siamo di ottimo umore... Carlo Sforza era tutto felice
del trattamento fatto al duce in occasione della visita augurale

129
al Re al Quirinale, dove i cugini lasciarono solo il capobanda,
non salutato né da Salandra, né da Giolitti, né da Bonomi, né da
Sforza, salutato appena da Orlando, tantoché dovette
aggrapparsi a Tittoni, Thaon di Revel e Diaz per non rimanere
come in castigo e dovette entrare più tardi coi ministri, invece
che coi Collari... Insomma è quasi impossibile fare previsioni
concrete. I due elementi principali – re ed esercito – sono
sempre due punti interrogativi, e la decisione non può venire che
da loro.”.
Non si era sicuri chi dovesse essere il Casertano che doveva
entrare nel ministero. Ed è anche una affermazione ambigua, in
si può intravedere nella parola “Casertano” di Turati anche un
qualunquista pronto a cambiar casacca, considerato
l’atteggiamento assunto dal deputato di Terra di Lavoro Antonio
Casertano che successivamente diventerà Presidente della
Camera. Resta il fatto che i probabili casertani che potevano
assumere un ministero in quell’occasione erano proprio Antonio
Casertano, Pietro Fedele e Alberto Beneduce. Alla fine prevalse
il minturnese Pietro Fedele. Fu voluto da Mussolini al dicastero
della Pubblica Istruzione.

Il decreto reale

Il 12 gennaio del 1925, nelle comunicazioni fatte dal


governo si legge:
“Mi onoro comunicare alla Camera che Sua Maestà il Re,
con decreto in data 6 gennaio corrente anno, ha accettato le
dimissioni rassegnate dalla carica di ministro segretario di
Stato: per la Giustizia e gli Affari di culto, dell'onorevole
avvocato Aldo Oviglio, deputato al Parlamento; per l'Istruzione
pubblica, dell'onorevole conte dottor Alessandro Casati,
senatore del Regno; per i Lavori pubblici, dell'onorevole Gino
Sarrocchi, deputato al Parlamento.
Con decreto di pari data, la Maestà Sua ha nominato
ministri segretari di Stato: per la Giustizia e gli Affari di culto,
l'onorevole avvocato professor Alfredo Rocco, deputato al
Parlamento; per l'Istruzione pubblica, l'onorevole professor
Pietro Fedele, deputato al Parlamento; per i Lavori pubblici,

130
l'onorevole avvocato Giovanni Giuriati, deputato al
Parlamento.”
Diventava, così, ministro un figlio di Terra di Lavoro; di lì a
poco l’altro deputato capuano sarebbe diventato Presidente della
Camera dei Deputati.
Pietro Fedele entrava anche nel gran consiglio del fascismo.
La sua prima seduta in quest’organo, che in effetti era la 54a di
Mussolini, la inizia rivolgendo un saluto ai nuovi Ministri:
Fedele, Giurati e Rocco ed al generale Gandolfo, nuovo
Comandante Generale della Milizia Volontaria per la sicurezza
nazionale.
Si trattò di una seduta di ampio respiro in cui si presero
importanti decisioni: Tutti i deputati fascisti delle singole regioni
dovevano costituirsi immediatamente in gruppi regionali di
deputati fascisti; l'azione di questi gruppi doveva essere di ordine
esclusivamente parlamentare; ogni gruppo doveva nominare un
fiduciario, con il compito di mantenere i contatti con gli altri
gruppi regionali e col Governo; i gruppi regionali di deputati
fascisti avrebbero avuto il compito di tenere affiatati i deputati
nella comune disciplina e quello più importante di sottoporre
all'attenzione del Governo e del Parlamento i problemi delle
singole regioni. Ai gruppi regionali potevano essere aggregati
elementi affini.
Un altro casertano entra in un periodo particolarmente felice
di Terra di Lavoro nella scena del governo nazionale.
Stefano de Simone il console della Milizia che era tra i
fondatori del fascismo casertano, nelle sue memorie scritte negli
anni novanta dello scorso secolo cosi descrive il Ministro Pietro
Fedele: nella sua pubblicazione “Caserta Caput” in cui parla
delle vicissitudini che portarono alla soppressione della
Provincia di Terra di lavoro. “Onorevole Senatore Pietro Fedele,
nato a Minturno, ordinario di Storia alla Università di Roma e
maestro, si dice, dei Principi Reali, conosciuto nell'hinterland
dei Comuni del Garigliano, ma di cui ai più è ignota l'attività
politica, si dice che ha tendenze Nazionaliste e non risulti che
abbia la tessera fascista. E' attualmente Ministro della Istruzione
del Governo di Mussolini e, quando si reca nel paese nativo,
accoglie con benevolenza gli omaggi del Segretario politico e

131
dei fascisti in genere. Dicono i benpensanti, che è l'uomo della
Corona.”.

La nomina a capo del ministero della Pubblica Istruzione di


Pietro Fedele fu accolta con entusiasmo dai suoi concittadini che
si recarono a Roma per omagiarlo e congratularsi con lui.
Telegrammi arrivarono da Caserta da parte dell’on. Giovanni
Tescione, dal commissario del Comune di Caserta Gaetano De
Blasio, come pure, tra i primi a congratularsi furono i suoi diretti
concorrenti per un carica di ministro: l’on. Antonio Casertano e
Alberto Beneduce. Anche l’ex sindaco di Caserta, Vincenzo
Cappiello, che si era sacrificato nelle elezioni del 1919 a favore
di Beneduce, volle esprimere la sua gratitudine nel vedere in
posto chiave alla guida del paese un suo conterraneo. L'abbraccio
più caloroso lo ricevette dalla potente famiglia Visocchi
anch’essa originaria di quella parte della Provincia di Terra di
Lavoro che oggi è individuata come basso Lazio.
“L'aver altre volte tratteggiata sebbene in brevissime linee -
la figura di S. E. Fedele non esime la nostra Terra di Lavoro
dall'assolvere più ampiamente il compito oggi, dopo che
l'eminente Uomo è stato fatto segno alla viva, calorosa,
entusiastica manifestazione di simpatia e di esultanza da parte
dei conterranei convenuti nella Capitale a festeggiarlo; compito
assai grato invero all'assente involontario, il cui spirito non
seppe restar lontano dalla festa nobilissima che esaltava a buon
diritto il nome di tanto Figlio di Terra di Lavoro, di questa
generosa terra che, nei rinnovati cicli delle fortune della stirpe,
mai smentì il tradizionale, millenario carattere dell'italica
magna parens virum. Né suoni, la commossa parola, facile eco
al coro di lodi di cui oggi s'intesse l'omaggio al preconizzato
Ministro; né l'onda di sentimento che ne pervade appaia il solito
incenso di preordinati turiboli... Non potrebbe 1'accusa
raggiungere chi all'opera tacita e feconda di Pietro Fedele volga
da lunghi anni la mente e che il Maestro abbia seguito
nell'ascesa luminosa, nel sicuro divenire decretatogli
dall'ingegno, dalla volontà, dalla modestia impareggiabile, dal
cuore quant'altro mai generoso ed aperto ai più nobili palpiti.
Nei vent'anni, infatti, durante i quali, col compiacimento e

132
1'orgoglio del conterraneo, coll'amministrazione del discepolo,
seguii il Fedele nella vita di studioso e di autore benemerito
degli studi storici e i suscitatore incomparabile di energie
intellettuali, ben ebbi l'agio di apprezzare dell'insigne
Comprovinciale la formidabile preparazione che doveva
infallibilmente condurlo ai sommi fastigi nella vita culturale,
alla più importante cattedra di storia, all'Accademia dei Lincei,
alla indiscussa celebrità di dotto di fama mondiale, a reggere,
alfine, le sorti della Scuola italiana.”
Con questa lunga introduzione il settimane “Terra di
Lavoro” il 29 Aprile del 1925 dedica un’intera prima pagina al
nuovo ministro.
Non dovette essere un’operazione facile intervistare
all’epoca Pietro Fedele e gli appuntamenti i giornalisti li
dovevano prendere di persona ed in questa operazione i più
avvantaggiati erano quelli che spesso operavano nella capitale.
Ma Nicola Borrelli, giornalista tra più accreditati a Roma,
collaboratore del periodico casertano, era un attento seguace del
lavoro del professore Fedele e riuscì a tracciarne un profilo in cui
si possono annotare i passi più significativi per la sua ascesa al
potere.

Le bellezze dell’alto casertano

L’autore dell’articolo parte dalla prima giovinezza e dalla


suggestiva descrizione della bella terra da cui il neo ministro
proviene, e sottolinea:
“Si colorano nella mente, ricalcandosi, ricordi di prima
giovinezza, giovinezza anelante, che nell'anima tumultuava e
regnava con tutto il superbo corteo d'illusioni e di sogni...
Tenevano la mente, allora, ed esaltavano lo spirito visioni
d'arte; una affannosa e tormentosa ricerca di motivi ne guidava
a scoprire bellezze inconosciute, che l'occhio comune non
discerne; e Minturno, la graziosa cittadina dei colli musoni
dominante il bel lido di Scauri, prometteva all'artista inquieto
onusta mèsse di studi paesistici, già abbozzati nella mente
nell'attraversare la verde valle del Garigliano ed in essa il
lussureggiante agro minturnese umbrosae regna Maricae -

133
occhieggiato dalla porpora delle pagnacce delle contadine: di
quelle contadine pallide e compunte, dal caratteristico costume e
dall'incenso matronale, che una volta viste non si dimenticano
più. Così un giorno, col piccolo fardello del pittore in vacanza,
ma con un grande bagaglio di progetti e di propositi, eccomi
ospite del già asilo di Mario e della patria di Antonio Sebastiani,
occupandovi un'umile stanzuccia la cui finestra guardava il
vecchio maniero dei Carafa ed i platani della piazzetta pensile i
quali celavano allo sguardo la valle sottostante ed il colle
Gianola e 1’azzurra distesa del mare e le glauche volute del taci
turnus amnis oraziano. E fu allora in quella primavera del 1906
o del 1907 - durante le mie escursioni nella campagna
minturnese così ricca di memorie e di bizzarri motivi che alcuno
mi parlò con non dissimilata fierezza di un giovane concittadino,
un figlio del popolo che tanto onore faceva alla sua terra
tenendo cattedra di storia nella università di Torino; ed altri,
che m’aveva visto sostar presso qualche rudero, osservar
qualche avanzo, prendere interesse alle memorie del antica
Minturnae, volle informarmi come di quelle cose il “Professore”
assai s’intendesse e come il medesimo raccogliesse anticaglie
con tanto amore e sollecitudine da formarne, in sua casa, un
museo. Questo giovane, professore ed archeologo, non era che il
Fedele - allora poco più che trentenne già ordinario nell’Ateneo
Torinese - del quale, confesso, allora soltanto apprendevo il
nome; e 1'ammirazione con cui i concittadini mi parlavano di lui
- buono, modesto, generoso - si trasfondeva in me per aumentare
via via che del giovane Cattedratico m’era dato apprendere i
meriti i titoli, le benemerenze, le dotte pubblicazioni, lette di poi
e nelle quali l’indagine minuta, esauriente, originale, svela
misteri del nostro oscuro e torbido medio evo, gettando, in esso
fasci di luce, facendovi scorgere i primi barlumi del sentimento
nazionale, rivelandone l'anima, i palpiti, gli aneliti che nessuno
finora aveva immaginato, né “le leggende cronicacce del media
evo”.
Molti universitari, come del resto succede anche oggi, pur
vivendo lontano dalla propria terra di origine, alla fine, per fare
carriera in politica si ricordavano tempestivamente della
propria terra, non tanto come luogo di origine, ma come

134
collegio elettorale dove, forte delle conoscenze di infanzia, era
più facile raccogliere consensi e voti.

L’appello al santo patrono

Fedele non appena candidato nel collegio di Sessa Aurunca


girava per vari villaggi e nelle piccole borgate ove arrivava
“comitiandi causa.”.
Da docente com’era aveva la parola calda, vibrante,
tagliente, pronto a scuotere e commuovere le masse.
I temi era facile immaginarli, la miseria, il miglioramento
della vita sociale, alfabetizzazione delle masse, il rendere la vita
rurale meno faticosa e più redditizia. La prima guerra mondiale
aveva lasciato il segno, il debito della nazione era grande ed i
vantaggi della guerra vinta non si erano visti.
“Pronunziava i suoi discorsi in modo fluente e smagliante
che penetravano le anime, le aggiogavano le trascinavano.
Parlava come nessun altro mai sino allora, con una dialettica
stringente che era un serrato fuoco di fila contro i capi
avversari, dei quali smascherava i sistemi, confutava la difese,
demoliva gli stalli, sconcertando fin le coscienze più ligie al
vecchio partito dominante. Con maggior foga e maggior
successo non avrebbe colà parlato dagli spalti capitolini.”.
Ma più di tutto faceva leva sulla fede dei sui elettori sulla
feste religiose e la vita della chiesa, messa a dura prova da quelli
che volevano attuare la rivoluzione come in Russia e togliere i
crocifissi dalle scuole.
Nel villaggio di Sessa Aurunca su cui si era recato per
perorare la sua causa, Fedele “ricamò a quei villici il loro Santo,
il divino Patrono del quale ricorreva in quei giorni la festa,
annunziata dalle antenne festonate issate per le luminarie... Una
causa di bene, una causa di giustizia. Aveva indotto quel Santo
pellegrino d’Antiochia a sfidare la terribile persecuzione
dioclezianea, ad affrontare lo strazio, il martirio. Però disertare
una causa di giustizia, una causa di bene era come disertare la
causa del Santo, era come abbandonare e tradire il buon Santo
tutelare.”.
Una operazione che riuscì a pieno tanto che, come annotava

135
l’articolista, l'uditorio si commosse, molti occhi luccicarono di
lacrime; quella nota di misticismo aveva scosso le fibre più
recondite del sentimento e della fede, e forse la ieratica
immagine del Patrono benedicente, rievocata da quell'irresistibile
Oratore, aveva ridestato nell'umile folla degli ascoltatori il
ricordo del prodigio, che dal sacco e dal fuoco dei Turchi aveva
salvato un giorno il villaggio... E la giusta causa non fu disertata!
E da allora il nome del "Fedele" restò sulle bocche come
dell'uomo alla cui parola non era possibile non cedere, al cui
fascino impossibile resistere. E la vittoria del partito, dei quale
Pietro Fedele erasi fatto araldo convinto e purissimo, fu ascritta
per due terzi alla foga travolgente del temibile Oratore.
Ed erano le prime armi, i primi cimenti in cui il Fedele,
tempra di oratore formidabile, allenavasi per entrare agguerrito
nell'agone politico.25
25
Solenni cerimonie vi saranno domani, 8 luglio, nella nobile Città di
Minturno, la quale sarà onorata dalla presenza di S.A.R. il Principe di
Piemonte.
All'uopo S. E. il senatore prof. Pietro Fedele, ministro di Stato, ha
pubblicato questo eloquente manifesto :
Cittadini,
il giorno 8 luglio Sua Altezza Reale il Principe di Piemonte, l'augusto
figlio del Re vittorioso, onorerà della Sua presenza Minturno.
Egli assisterà alla festa delle lagne, la nostra sagra delle messi, con la
quale noi da tempo immemorabile, rinnovando l'antico rito, celebriamo e
santifichiamo il lavoro dei campi. La presenza del Principe è il miglior premio
dei nostri tenaci agricoltori; ed è, nello stesso tempo, la glorificazione della
nostra gente che, nel volgere dei secoli, spettatrice di lotte sanguinose,
nell'urto delle invasioni barbariche di Goti, di Alemanni, di Magiari, di
Saraceni, di Normanni, di Francesi e di Spagnuoli, vide distrutte le case e
devastati i campi, e tuttavia di volta in volta ricostruì in focolare, e dalle glebe
fece risorgere la vita.
Il Principe visiterà le opere sorte in Minturno per opera del Fascismo, ed
inaugurerà il nuovo edifizio scolastico intitolato, col consenso di S. E. il Capo
del Governo, al nome del compianto Mons, Salvatore Fedele, l'Asilo di S.
Maria Infante, il quinto degli asili istituiti in Minturno, al quale si aggiungerà
nel prossimo ottobre quello di Tremensuoli, ed il compiuto restauro della
Torre del mare che da mille anni sulla immensa pianura raccoglie l'eco dei più
memorabili avvenimenti della nostra storia.
Cittadini, nella splendente giovinezza di Umberto di Savoia, sacra di
auspici e di speranze, noi salutiamo la perenne giovinezza della Patria che
nella gloriosa dinastia di Savoia vede il presidio delle sue fortune, la certezza

136
ALBERTO BENEDUCE
Le elezioni politiche che
consacrarono l’elezione alla
Camera dei Deputati di quello
che doveva diventare la mente
economica di Benito Mussolini,
si tennero alla fine del mese di
novembre del 1919, ad un anno
dalla prima guerra mondiale.
Alberto Beneduce non era
nelle grazie di Francesco
Saverio Nitti da pochi mesi
nominato da Vittorio Emanuele
III capo del governo.
Saverio Nitti conosceva il Beneduce fin da quando insegnava
diritto finanziario e scienza delle finanze all'Università di Napoli.
Con lui aveva avuto rapporti e scambi di idee sulla questione
meridionale ed era stato tra i principali artefici della legge

della più luminosa gloria avvenire.


Date al giovane Principe plausi e fiori e, secondo il rito antico, le offerte
votive dei nostri campi: eletti fasci di spighe, pomi novelli, uva fragrante,
fragole odorose dei nostri monti dal bel nome italico.
E sia il giorno 8 luglio giorno sacro per le memoria antiche, per la gioia
del nuovo soffio di vita che il Fascismo, sotto la guida di S.M. il Re ha
destato negli animi nostri per i propositi di più alacre e forte lavoro che renda
sempre più prospera e possente la Patria, ed accresca, per virtù delle giovani
generazioni educate agli ideali del Fascismo, la bellezza e la ricchezza di
questa nostra alma terra natia.

1 luglio 1934 XII.


Pietro Fedele
Mons. Salvatore Fedele, protonotario apostolico, fu per lunghi anni vanto
della Curia di Gaeta, per la vasta dottrina e per l' attività meritoria, gli educò
schiere di giovani all'amore di Dio e della Patria, al culto di Dante e di S.
Tommaso, al disinteresse, al sacrificio, dandone Egli stesso l'esempio nella
sua perfetta vita sacerdotale, offrendo tutto quel che possedeva, perfin la
salute a vantaggio del giovane Clero.
Onde è ben giusto l'alto, omaggio d' intitolare al suo Nome venerato il
nuovo edificio scolastico di Minturno.

137
speciale per Napoli varata dal governo Giolitti. Il Nitti non
riteneva Alberto Beneduce tagliato per la carriera politica, ma lo
considerava più adatto ad un alto incarico nei ranghi dello Stato
nel settore dell’economia.
Si votava in effetti per la prima volta con il sistema
proporzionale, una riforma voluta proprio da Nitti. Si trattava di
una sperimentazione visto la scarsa incidenza dei partiti specie al
sud dell’Italia. Nitti si rese, quindi, promotore di una lista
governativa. Non accetta il Beneduce tra i suoi candidati e anzi,
attraverso il ministro dell’agricoltura Achille Visocchi, fa sapere
che era più opportuno aspettare il dopo elezioni per una sua
definitiva sistemazione con il nuovo governo.
Un consiglio inascoltato, anzi Alberto Beneduce incominciò
a tenere sempre più stretti rapporti con il fascio dei combattenti e
con le associazioni dei reduci della guerra.
Organizzò una propria lista con il simbolo della bandiera
tricolore che chiamò Unione della Democrazia e dei
Combattenti.
Intanto Nitti presentò la lista ministeriale che comprendeva i
deputati casertani uscenti: il ministro Achille Visocchi, l’on.
barone Alfredo Capace Minutolo, l’on. avv. Gioacchino Della
Pietra, l’on. avv. comm. Gennaro Marciano, l’on. prof. dott.
Teodoro Morisani, l’on. conte Fulco Tosti di Valminuta, l’ex
deputato on. dott. cav. Gaetano Ciocchi, il comm. avv. Gaetano
Caporaso, il marchese Alfredo Dusmet, e l’avv. cav. Giuseppe
Lonardo. C’era un altro posto da assegnare, se lo contendevano il
comm. ing. Mario Bonghi, 1'avv. cav. Bernardo Belli, il barone
Alberto Fassini ed il barone. Rienzo De Renzis.
Su un trafiletto apparso su un giornale nazionale si legge :
“Lunedì mattina S. E. Visocchi presentò a S. E. Nitti le figure più
spiccate della lista ministeriale, cioè 1'on. Di Bugnano, l'on.
Ciocchi, l'on. Marciano e l'on. Morisani. S. E. Nitti ebbe
occasione di parlare anche di Alberto Beneduce, del quale
elogiò 1’intelletto, 1'operosità e l‘idealismo. S. E. Nitti aggiunse
che non gli era stato possibile indurre Alberto Beneduce a
rinunziare alla candidatura, pure avendogli offerto un alto e ben
rimunerativo ufficio.”.
Sullo stesso giornale sono riportati anche i nomi dei

138
probabili candidati della lista cattolica: Blasi Carbone, Cocozza,
Degni, De Michele, Fuschillo, Grossi, Mancini, Musto, Rea,
Rozzera, Turano, Visco.

Alberto Beneduce era intenzionato a vincere la sua battaglia


elettorale e presentarsi a Roma con un suffragio dei voci tali da
avere un peso determinante nelle scelte politiche della capitale.
Si assicurò l’appoggio dei giornali locali finanziando fortemente
la sua campagna elettorale e mettendosi a fianco uomini del
calibro di Giovanni Tescione. A Caserta città intascò la rinunzia
dell’ex sindaco Vincenzo Cappiello che aveva un grosso seguito
e che con la sua scesa in campo gli avrebbe sottratto molti voti.
Aveva, inoltre, dalla sua parte tutta la massoneria locale
capeggiata dal fratello Oreste26.
26
La massoneria casertana
E’ difficile trovare un’adeguata documentazione per le difficoltà di reperire
atti relativi ad un’associazione che ha fatto del segreto la sua ragione di essere
come la massoneria. A Caserta, poi, le cose sono ancor più complicate: sono
pochi, infatti, gli studiosi locali che si sono approfonditi sul tema, ma non ci
sono dubbi nell’ammettere che le logge massoniche ebbero una grande
influenza sulla stampa locale degli anni ‘20 e ne determinarono la sussistenza,
a condizione che questa assecondasse i progetti politici che i massoni si
prefiggevano. Oltre l’ottanta per cento dell’”intellighenzia” casertana era
iscritta alla massoneria e le logge abbondavano nella città capoluogo ed in
provincia. A guidare la loggia “Primo ottobre” era proprio un Beneduce. Era
così intitolata per ricordare la data del 1860, in cui il massone Giuseppe
Garibaldi sconfigge definitivamente al Volturno le truppe borboniche. Di rito
scozzese fu fondata con decreto del 19 febbraio del 1902, all’obbedienza del
Grande Oriente d’Italia e voluta dai “fratelli”: Bartolomeo Scorpio, Vincenzo
Barbera, Luigi Canelli, Albino de Micco, Francesco Raffaele, Giovanni
Ricciardi, Vincenzo Scalera, Fortunato Bitetti, Remigy De Nunzio e Michele
De Nittis. L’indirizzo era presso Ernesto Beneduce in Via Vittoria 5. (oggi via
Cesare Battisti). Si trattava di una loggia molto attiva per quei tempi ed ebbe
un ruolo importante e fu al fianco di Alberto Beneduce durate le sue
campagne elettorali. Da qui non è difficile immaginare come i “fratelli”
fossero solleciti a finanziare la stampa per dare al loro protetto trasparenza e
opportunità al fine di portare quanti più suffragi possibili durante le elezioni.
La loggia non era certamente avara: nel 1905 aveva contribuito con una
grande sottoscrizione per la festa massonica del centenario di Giuseppe
Mazzini; nel 1906 offri un contributo di 50 lire per i danneggiati del terremoto
in Calabria e ancora, nel 1907, elargì 38 lire per il centenario della nascita di
Giuseppe Garibaldi. Negli anni venti, con l’avvento del fascismo e la messa

139
Il programma elettorale di Beneduce era un capolavoro di
pianificazione nazionale e verteva su temi a lui congeniali: “La
ricostituzione politica ed economica dell'Italia, gli interessi e la
rigenerazione del Mezzogiorno”.
Lo presentò al teatro Politeama Vanvitelli il 4 Novembre.
Una data non occasionale ma che rappresentava il primo
anniversario della proclamazione della vittoria fatta da Armando
Diaz.
“…oggi da questo luogo incomincia la novella Storia” era
scritto sullo striscione che sovrastava il palco del teatro.
Il programma di Alberto Beneduce conteneva le linee per il
risanamento della patria non solo quello di carattere economico,
ma specialmente sociale. Un risanamento a cui mise mano negli
anni successivi il primo governo Mussolini e che, per la sua
validità, è più che mai attuale in piena era della globalizzazione.
Per questo riteniamo opportuno riportarlo così come
Beneduce lo lesse.

“L'esordio

L'applauso che mi rivolgete io debbo considerarlo


indirizzato non alla mia modesta persona, ma quale
manifestazione di consenso alle idee sulle quali la
Democrazia di Terra di Lavoro chiede il giudizio al corpo
elettorale. Se in qualche misura io posso ritenere che i vostri
applausi siano rivolti alla mia persona, li attribuisco
soltanto alla condizione, di cui sono orgoglioso, di poter
rappresentare, quale modesto figlio del popolo, la tenace
volontà e la capacità delle classi popolari di assurgere
direttamente alla direzione della cosa pubblica.

Celebrazione della Vittoria

Mi pesa già di essermi attardato un istante in queste


constatazioni, in cose, cioè, modeste e contingenti, quando
preme su di noi la rievocazione dell'epopea, quando lo

fuori legge del G.O.I., era facile screditare dandogli del massone ad un
casertano e di lettere anonime con accuse di questo tipo sono pieni gli archivi.

140
spirito nostro può ascendere al ricordo glorioso, alla
sublime vetta, cioè, degli eroismi e degli altruismi. Quando
con spirito di devozione e di gratitudine perenne noi avremo
rievocato 1e gesta dei nostri umili fanti dallo Stelvio al Col
di Lana, dal Carso al Mare, e la fase culminante di
indomabile energia, con la quale la gente italica, dopo
secoli per la prima volta unita in un cimento bellico,
riaffermava la gloria d'Italia e travolgeva una triste
sopravvivenza storica, noi ascenderemo al rito della Patria,
qui nei comizi popolari, con animo purificato da ogni
volgare passione, da ogni spirito partigiano, ispirato
soltanto alle sicure fortune d'Italia.
Come nella vita degli individui, così nella vita dei popoli
non si ascende che attraverso sacrifizi e dolori. E' lento ma
continuo il cammino dell'umanità; checché possa apparire
agli spiriti innovatori, i quali avvinti dalla fede
sopravanzano le possibilità dell'azione, o alle insipide anime
diffidenti, che proiettano sulla società la incapacità del
proprio spirito a seguire l'inesorabile cammino della storia.
A Vittorio Veneto tu travolto non un esercito, non una
grande amministrazione, eretta per esercitare la coazione
sulle forze incoercibili della stirpe, ma fu definitivamente
superato un risultato storico, che dalla pace di Westfalia
incombeva sulla vita dei popoli. Fu sommerso
definitivamente, cioè, il concetto di uno Stato,
organizzazione politica avulsa dai termini e dalle
caratteristiche della Nazione. Dobbiamo volere che sia stato
definitivamente sommerso nel concetto di Stato indipendente
e sovrano, permanentemente in stato potenziale di conflitto
con gli altri Stati dotati delle stesse prerogative?.

Risultato politico e sociale della guerra

Durante più che due secoli e mezzo umanitari e giuristi,


filosofi e sovrani avevano tentato invano di cercare una
composizione di equilibrio per queste forze non aventi
ragione di esistenza nella natura delle cose, e quindi
costantemente in conflitto con gl'interessi e le aspirazioni dei

141
popoli. Dalla confusione del sangue e dalla comunione del
sacrificio tra vinti e vincitori si sono affermati principii, che
vinceranno le resistenze degli interessi, supereranno le crisi
di carattere secondario, e finiranno con l'orientare di sé
beneficamente tutta la vita dei popoli. Lo Stato non può
essere che l'organizzazione politica della Nazione, e la sua
sovranità deve trovare limiti nelle ragioni di solidarietà fra
le condizioni di vita delle varie Nazioni. A chi vilipese la
guerra con l'appellativo di inutile strage, e a chi concepisce
tuttora la guerra come strumento d'affermazione di egoismo
nazionale, noi opponiamo il risultato di questa guerra quale
crisi per accelerare il cammino dell'umanità. Pur nei
dolorosi giorni presenti, quando da una parte ci si
appalesano innumerevoli ingiustizie nelle opere degli
uomini, che sono chiamati a tradurre in atto i principi
affermati col sacrificio di milioni di vite, e dall'altra ci
sanguina l'animo, perché ancora non si vuol riconoscere il
diritto d'Italia alla compiuta integrazione nazionale, noi
sentiamo in piena coscienza di potere affrontare dinanzi al
popolo la responsabilità di aver voluto la guerra.
La coscienza di tutti i popoli è oramai immedesimata del
principio, per il quale a Vittorio Veneto si spezzava la
resistenza dell'Impero degli Asburgo. Avremo da traversare
ancora delle crisi di assestamento internazionale. Con nervi
saldi e con ferma fede nel cammino dell'umanità, l'Italia
deve essere strumento di giustizia per tutti e in primo per sè
stessa.
Alla glorificazione dei nostri eroi parteciperanno, così,
con animo giubilante, e dichiareranno la nostra generazione
non indenta dei nostri predecessori, i grandi nostri, che da
Vico a Romagnosi, da Campanella a Mazzini, assegnarono
all'Italia questa grande missione di civiltà.
Non erano tempi tranquilli quelli che precedettero le
elezioni politiche del novembre del 1919. Lo scontro frontale
tra i partiti della sinistra capeggiati da una parte
massimalistica ed estremista del partito socialista e la
maggioranza conservatrice che si auspicava un ritorno alla
normalità ed ai principi liberi che erano stati le fondamenta

142
dello Stato Italiano prima della grande guerra, era forte. Ad
alimentarli contribuiva soprattutto le difficoltà economiche
in cui si dibatteva il paese la forte disoccupazione ed le forti
divisioni esistenti tra il mondo dei latifondisti, il clero, ed i
nuovi ricchi che dovevano le loro fortune alla speculazione
attuata durante il periodo bellico.
A questo si aggiungeva l’eco dei fasci di combattimento
che stavano raggruppando in varie parti del paese gli
scontenti che avevano combattuto al fronte, i piccoli
proprietari che temevano l'espropriazione dei loro beni a
seguito dei principi di coloro che volevano portare in Italia
la Rivoluzione bolscevica”.
Beneduce, da Roma, quale socialista trovò nel casertano la
sua strada per fare politica. Intuì il momento e sopratutto si basò
su un moderatismo equidistante, mettendosi su posizioni che
successivamente, specie per quanto riguarda il campo
economico, saranno apprezzate da Benito Mussolini.
Il programma ed anche il nome della lista che Alberto
Beneduce aveva dato al suo partito, in effetti era un
compromesso da manuale che lo faceva ritenere ben piazzato di
fronte a qualsiasi sviluppo futuro.
Beneduce era uno che ponderava i suoi passi e studiava tutte
le mosse per non bruciarsi prima del tempo.
La candidatura doveva sembrare voluta più dalla volontà del
popolo che da una sua precisa aspirazione.
“Sono state poste in giro, da un paio di giorni, due liste di
candidati per i prossimi comizi - Scriveva Terra di Lavoro il 23
agosto 1919 - Una lista di otto nomi di parte liberale - così detta
ufficiale - sarebbe capitanata da S. E. Achille Visocchi. L’altra
lista di cinque nomi di parte democratica - così detta ufficiosa -
sarebbe capitanata dal prof. Alberto Beneduce: le due liste,
secondo i loro propagandisti sarebbero emanazione di S. E.
Francesco Nitti.
Or bene noi ci limitiamo a rilevare in proposito che S. E.
Visocchi e il prof. Beneduce - ed è evidente - non hanno preso e
non potevano prendere sino a tutt’oggi la loro decisione
concreta e definitiva. Se pur v’è stato qualche colloquio sulla
situazione, e se qualche opinione è stata espressa o richiesta,

143
non è rimasta pregiudicata alcuna direttiva politica e non è stata
vincolata alcuna azione elettorale. Si assicura intanto che il
colonnello Barone abbia mandato di organizzare forze
massoniche e che l’on. Tosti sia il duce delle falangi cattoliche.
E si annunziano ogni giorno nuove candidature.”.
Lo stesso giornale concorda con alcuni sostenitori locali del
Beneduce di pubblicare a pagamento, in prima pagina a caratteri
cubitali i seguente inserto:
“Il nostro conterraneo esimio avv. cav. Alfredo Camillo
Fusco, del ministero di Grazia e Giustizia (Direzione Generale
del Fondo per il Culto) insignito della croce al merito di guerra
per la strenua condotta tenuta quale tenente d’artiglieria - ci
scrive da Roma in data 19 agosto - “I funzionari delle pubbliche
Amministrazione Centrali appartenenti alla Provincia di
Caserta, hanno accolto col più vivo compiacimento la
candidatura del gr. uff. prof. Alberto Beneduce, il quale - per
l’inflessibile rettitudine, per l’alta sapienza, per la moderna
coltura e per la vasta esperienza amministrativa- saprà
rappresentare alla Camera, con autorità e competenza, la
disgraziata provincia nostra. E ora dove il collegio uninominale
procurò non troppo onorevoli rappresentanze in parlamento - si
affermino e trionfino tante valorose e spiccate personalità, alle
quali ripugnò - per sentimento di dignità e per fierezza di
carattere - di affrontare e sostenere lotte, fatte di corruzioni e di
violenze, di frodi e d’interessi inconfessabili, come quelle che,
purtroppo, resero celebri alcuni Collegi della Provincia.
Dalle rovine del soppresso sistema elettorale sorga, nella
coscienza delle masse, una forte ed inalterabile percezione, una
chiara e sicura visione di tutto ciò che è veramente di utilità
generale; e si inizi un’epoca nuova fattrice di grandi e generose
opere; e s’inaughirino e prevalgono, nelle Amministrazioni
pubbliche, criteri di probità, restituisca pienamente a Terra di
Lavoro quella illibata fama, che, da tempo aveva alquanto
perduta. A rappresentare questa nuova vita, ad instaurare questi
nuovi metodi, bene è stato designato il prof. Alberto Beneduce,
al quale tutti gli onesti e coscienti cittadini, con entusiasmo e
orgoglio, si affretteranno ad offrire il loro voto spontaneo e
cordiale.”

144
Politica estera di Beneduce

In merito alla politica estera che, con l'eco che arrivava


dall'est dovuta all’avvento del comunismo stava condizionando
quella interna, Beneduce scriveva nel suo programma elettorale:
“La Democrazia ha avuto il torto di disinteressarsi, per
troppo lungo tempo, della politica estera delle Nazione.
Fuorviata dalle difficoltà delle condizioni interne e dalle
angustie delle competizioni partigiane ha disperso la via
sulla quale grandi del risorgimento filosofico e politico
italiano han posto le pietre miliari.
Pur riaffermando quotidianamente che lo spirito di
solidarietà fra i Popoli determina vincoli sempre più saldi
nella vita delle varie Nazioni, la Democrazia non ha scorto
che la politica estera domina e guida tutta l'attività del
Paese.
L'interferenza fra l'attività economica e politica delle
varie Nazioni è tale che noi dobbiamo considerare ancora
immerso nelle tenebre del medio evo quell'uomo politico che
concepisse di poter governare il Paese, senza intendere,
vagliare e anche orientare l'attività delle altre Nazioni.
La condizione dell’Italia, prima della guerra, era in
questo campo ben modesta. Pochi uomini vedevano nella
politica estera non solo una affermazione tradizionalistica o
un equilibrio di forze militari, ma anche, e soprattutto, un
vasto campo di competizione d'interessi con i suoi contrasti,
con le sue convergenze, con le sue solidarietà, con le sue
sconfitte, con le sue vittorie.
La nostra diplomazia, retaggio di altri tempi, nella
concezione dei rapporti tra gli Stati, si è dimostrata, salvo
lodevoli eccezioni, insufficiente a intendere le funzioni di
rappresentanza all'estero di una Nazione in pieno sviluppo
di attività economica e politica. Né le è valso l'insegnamento
proveniente da quelle Nazioni, che giustamente
imperniavano 1'attività diplomatica su di un saldo contenuto
economico, strumento efficace di difesa degli interessi

145
morali e materiali della Nazione e garanzia più stabile che
non i puri accordi politici.
Nella visione della solidarietà nella vita dei popoli forse
siamo ancora oggi distratti dalla eccezionale e caotica
attività economica sviluppatasi durante la guerra. La
necessità ha indotto vari Stati a mantenere stretta la
propria attività economica in un campo quasi chiuso ed
isolato. La condizione naturale la convenienza degli Stati e
dei popoli sta invece nel largo scambio di attività fra le
economie dei vari paesi.
Il principio del costo comparato domina tutte le attività
di scambio fra le varie Nazioni. L'uomo politico, pertanto,
pur non lasciandosi guidare soltanto dal gretto criterio
economico, ha bisogno di orientare e guidare l'attività
interna del Paese, in guisa che essa possa dare il maggiore
rendimento utile, in relazione all'attività di tutte le altre
Nazioni. La mentalità dei nostri uomini politici si è abituata
quasi a considerare distintamente, come manifestazioni a sè
stanti, la politica doganale, la politica commerciale, la
politica marittima, mentre esse non sono e non possono
essere che manifestazioni di una sola attività dello Stato:
un'attività coordinatrice, cioè, di tutti i rapporti con gli altri
Stati, siano essi di natura politica, o di natura economica, o
di natura finanziaria.
Se questo è vero, come a me non pare dubbio, per tutte
le Nazioni, a fortiori è condizione essenziale di vita per il
nostre Paese. Ristretto nel territorio, mancante di materie
prime, gettato quasi immenso ponte di scalo fra l'Occidente
e l'Oriente, dotato di una grande forza democratica, che ha
già segnato le sue vittorie nella costruzione delle grandi
opere di civiltà in tutto il mondo e nelle costituzioni delle
grandi Colonie di vita italiana nei paesi transoceanici,
1'Italia deve sentire, più che ogni altro paese del mondo, i
vincoli di solidarietà internazionale. La politica estera
dell'Italia deve essere, perciò, rivolta a stimolare le forze
coordinatrici dell'attività dei popoli, per garantirne il
progresso e la pacifica convivenza.”.

146
Una politica diversa quella auspicata dal candidato alla
Camera dei Deputati Alberto Beneduce, che rappresentava un
momento di cambiamento e che dava affidamento alla classi
medie, agli industriali ed ai latifondisti, in periodi non sospetti: il
fascismo era agli albori e neanche Mussolini avrebbe sognato di
avere consensi plebiscitari in quelle elezioni, di essere l’uomo
capace di dare una svolta alla nazione.
Una nazione che si aspettava quindi quello che il futuro duce
andava dicendo nelle piazze: “La vita d'una società moderna è
d'una complessità formidabile, e ad essa non sono più sufficienti
gli organi primordiali del nostro sistema politico. Noi pensiamo
che una delle necessità improrogabili della vita moderna sia
quella di dare il più largo posto alle competenze tecniche e che
l'organismo statale debba trasformarsi con l'istituzione dei
Consigli tecnici nazionali, eletti dalle organizzazioni di mestiere
e professionali e dalle associazioni di cultura.
Uomini liberi e spregiudicati, noi non abbiamo pregiudizi e
pregiudiziali. Ma pensiamo che o le attuali istituzioni si
rinnovano rapidamente e si adattano ai bisogni nuovi o il loro
destino è segnato.”.
Quello che Beneduce sosteneva nell’immediato primo
dopoguerra ha una versatilità talmente ampia che trova oggi, in
ai primi decenni del 2000 in piena crisi, la sua piena validità.
Nella precarietà economica in cui si trovava il paese nel
1919, il forte indebitamento della nazione con gli stati esteri
avrebbe potuto mettere a rischio quei principi di libertà, che con
fatica, gli Italiani stavano tentando di conquistare fin dal 1861,
anno dell’unità.
Ma se la prima guerra mondiale aveva portato a compimento
i dettami del risorgimento, non si poteva dire che il paese, per
sua natura, avesse trovato un’unità economica e politica tale da
farlo considerare una democrazia compiuta.
L’Italia doveva risorgere e raggiungere sul piano economico
ed industriale i livelli di nazione europea come la Francia, la
Germania e la stessa Inghilterra. Per non parlare del grado di
tecnologia raggiunta negli Stati Uniti d’America dove il tenore di
vita era molto più alto e la produzione era organizzata su basi
moderne e con alti rendimenti.

147
Mentre sul piano economico il programma di Beneduce non
fa una piega ed è lungimirante, sul piano politico lascia molte
perplessità, così come quando si oppone all’ideologie diffuse di
un sindacalismo rivoluzionario, tanto caro al Mussolini prima
maniera, ma che poi sarà difficile applicare sul piano pratico.
L’intento del Beneduce è quello di elevare i lavoratori,
rendendoli capaci di gestire le proprie fabbriche, mentre lo Stato
deve farsi promotore di questa nuova cultura.
“E' appunto questa visione, serena e spregiudicata, che la
Democrazia ha dell'avvenire della classe operaia che le
consente l'opposizione più recisa a quell'indirizzo politico, che
crede poter trasformare, oggi, 1'ordinamento della produzione,
trasferendone, sotto la pressione di moti convulsionari, la
direzione nelle mani degli operai. E' un ritorno alla fede cieca
nella violenza, che può trovare spiegazione, forse, anche nel
fatto stesso della guerra, che ha sconvolto tutti i valori sociali,
ma che non trova certe giustificazioni nella dottrina e nella
storia del socialismo”.
In definitiva Beneduce abbracciava quelle tesi socialiste di
ispirazione soreliane che volevano sradicare il regime
socialdemocratico, con tutte le norme intellettuali e morali, senza
investire con la sua forza d’urto le strutture dell’economia
capitalistica. Tesi questa condivisa trasversalmente oggi agli
albori del terzo millennio, sia dalla sinistra che da una parte delle
destra sociale.

I rapporti economici dell'Italia con l'estero

Prescindendo dagli interminabili lavori della Conferenza


della Pace ancora oggi sono i nostri rapporti con l'estero che
incombono minacciosi sulla vita del Paese. L'indebitamento
dell'Italia verso l'estero, per coprire il formidabile disavanzo
fra le importazioni e le esportazioni, non può più a lungo
protrarsi, senza che ne sia sminuita la stessa libertà politica
della Nazione. Quale si possa essere il pensiero politico di
ciascuno, quale sia stato l'atteggiamento in confronto del
fatto della guerra, tutti dobbiamo sentire la potente forza di
coazione, che deriva dal pericolo di vedere asservita

148
l'economia italiana e l'attività dei cittadini alle ragioni di
credito dello straniero.
Se altre potenti ragioni di ordine morale non
consigliassero la concordia, l'unione nello sforzo, la
disciplina nel lavoro, dovrebbe bastare a stimolarle il
pericolo della servitù straniera. Trattasi, per fortuna, di una
situazione strettamente contingente, che può e deve essere
superata. Cinque milioni di energie produttive distratte per
quattro anni dall'applicazione della loro forza di lavoro, per
provvedere ai bisogni della guerra, hanno determinato questa
larga deficienza del reddito nazionale, rispetta alle necessità
di consumo della popolazione.

Le necessità di una più alta produzione

Occorre tornare subito al lavoro e utilizzare tutte le


energie produttivi della Nazione, in guisa da ricavarne i il
massimo rendimento.
Si è forse troppo abusato di questa esortazione generica
perché essa non abbia a trovare tiepidi gli animi dei cittadini.
Occorre passare, anche da parte dello Stato, dall'esortazione
all'azione.
Nel campo agrario, deve essere bandita la crociata per
l'intensificazione delle colture. Qualunque altro problema
rimane a questo subordinato.
Mai, come in quest' ora, apparve ineccepibile la funzione
sociale della proprietà terriera. La Nazione è interessata al
massimo prodotto lordo, il proprietario al massimo prodotto
netto. Stabilmente non vi è contrasto tra i due risultati;
occasionalmente il contrasto può sussistere. L'interesse della
Nazione deve avere il sopravvento. Ogni terra, suscettibile di
cultura o capace di un più alto rendimento, deve essere
utilizzata pei bisogni della Nazione.
Lo Stato deve offrire l'assistenza tecnica, provvedere alla
deficienza dei beni strumentali, macchine, concimi, scorte.
L'assistenza finanziaria deve essere continuata con larghezza
di criteri.
Ciascuno deve essere posto in grado di concorrere, con

149
la migliore coordinazione dei fattori della produzione, alla
salvezza del Paese. I cittadini devono, da parte loro, andare
incontro ai bisogni dello Stato con spirito di abnegazione e
di fede. Occorre vincere la diffidenza che separa, quasi in
categorie di interessi antagonistici, gli interessi dei cittadini e
gli interessi dello Stato
Desidero affermarlo con piena franchezza di giudizio:
l'esempio deve partire dall'amministrazione dello Stato. Per
l'interesse supremo del Paese è indispensabile orientare tutte
le amministrazioni dello Stato verso un sentimento di
confidenza nelle forze produttive della Nazione. Queste, alla
or volta, debbono uscire dal loro egoismo di categoria, per
considerare la loro funzione come parte essenziale della vita
dello Stato.
La vita della Nazione dipende dalla mobilitazione degli
spiriti. La guerra ci trovò ancora ai primi passi del nostro
sviluppo economico. I contrasti tra i vari fattori della
produzione erano sopìti, ma pur sempre latenti. Le varie
categorie sociali non avevano potuto ancora assestare i loro
rapporti. Soprattutto lo Stato era permeato di diffidenza nel
suo ordinamento interno e nei suoi rapporti con i cittadini.
Tra l'economia del Paese e il bilancio dello Stato non
esisteva rapporto intimo di solidarietà. Le difficoltà della
guerra sono state, certo, aggravate da questa nostra non lieta
situazione interna.

Deficienza organizzativa della produzione

Le necessità immediate e l'avvenire del Paese esigono,


da parte di tutti, un rinnovamento dello spirito e anche una
più larga visione del proprio interesse. Nè, peraltro, le
deficienze di coordinamento fra l'attività dei singoli e
l'economia nazionale sono da rimproverarsi soltanto al
nostro Paese.
Mai critica più aspra e più vera fu pronunziata contro
l'ordinamento, della produzione nell'antiguerra, di quella
formulata nel famoso decalogo del Ratenau, grande
industriale tedesco, organizzatore dell'economia di guerra in

150
Germania, presidente della potentissima società elettrica
A.E.G.
La sua critica si riassume in queste constatazioni: cattiva
utilizzazione delle materie prime, mancata coordinazione
delle aziende industriali, enorme spesa per l'organizzazione
commerciale. II socialismo, nella sua azione critica, non
avrebbe potuto trovare alleato più autorevole e più efficace.
Né, io credo, che l'alleanza si spezzi nell'opera di
ricostruzione. La necessità di un massimo di produzione con
un minimo di costo nella trasformazione delle materie prime
e nelle spese di organizzazione della azienda, non contrasta,
anzi collima, coll'interesse della classe lavoratrice. Se ne
ritrarrà margine sempre più largo, entro il quale possono
trovare soddisfacimento le legittime richieste della forza di
lavoro.

Politica industriale dello Stato

Bando ai misoneismi. Ciascuno, in quest'ora, deve


prendere, secondo coscienza, il suo posto di combattimento e
di responsabilità.
Le necessità di coordinazione della produzione
industriale portano a favorire la politica delle aziende
complesse e dei sindacati. Si rende, cosi, da una parte, più
agevole la politica dei sindacati operai : dall'altra, più
efficace e più proficua l'azione di propulsione, di tutela e di
coordinazione da parte dello Stato.
Lo Stato non può assistere passivamente alla
trasformazione industriale del Paese. Durante la guerra ogni
iniziativa, capace di dare un quantitativo di produzione
necessario ai bisogni bellici, doveva essere salutata con
animo lieto. Ora occorre disciplinare l'attività dei singoli e
avviare la produzione nazionale su direttive che tengano
conto rigidamente degli interessi della Nazione. Non che si
debba intendere con questo che il solo elemento
dell'immediato costo comparato abbia a decidere della
acclimatazione di un'industria. Bisogna bene avere presenti
le prospettive di sviluppo e anche le necessità del periodo di

151
transizione. Quello che non può essere consentito, certo, è
che si consolidino industrie, le quali per inferiorità
intrinseche abbiano permanentemente bisogno di vivere
all'ombra di una protezione che, in definitiva, verrebbe a
turbare l'assestamento più conveniente della produzione
nazionale.
Con particolare cura noi del Mezzogiorno dobbiamo
seguire siffatto assestamento. Auspicare dobbiamo anche
noi, per i prodotti del nostro suolo, la possibilità di
organizzazione di società e di sindacati per la
trasformazione industriale dei nostri prodotti e per il loro
collocamento sui mercati di consumo, ma soprattutto
dobbiamo avere vigile cura che non abbiano ad essere
turbate le condizioni di scambio all'estero di questa parte
essenziale dell'economia del Mezzogiorno.
Al disavanzo della nostra bilancia mercantile, noi
dobbiamo provvedere anche con l'economicità della
produzione e degli scambi.
Il nostro programma, per la ricostruzione economica,
deve essere massimo di produzione, minimo di costo,
massimo rendimento utile dei prodotti.

152
Beneduce e la dottrina del fascismo

Ad uno attento esame di quanto scrive il socialista Alberto


Beneduce, si comprende facilmente la forte influenza che ebbe
nell’epoca immediatamente successiva nei confronti del
fascismo.
Le sue tesi e le sue dottrine furono messe in campo dal quel
regime che, avendo assunto una forma assolutistica poté fare
quella trasformazione auspicata con rapidità.
Tutti i punti tracciati nel programma elettorale del 1919

153
trovano una corrispondenza nelle leggi emanate negli anni trenta,
quando il Beneduce era diventato il braccio economico
indiscusso del regime, specie quelle che riguardano i rapporti
capitale lavoro, ruoli e funzioni del sindacato e carta del lavoro.
L’unica differenza tra i principi voluti dalle forze socialiste
democratiche, da non confondere con quelle comuniste, e che
tutto si doveva svolgere all’interno dello stato e nulla fuori di
esso.

Lo Stato e le forze di lavoro della Nazione

Nel 1919 Beneduce scriveva: Una forte tempra di organizzatore


operaio così definiva analogamente le necessità dei rapporti tra
capitale e lavoro, contemperandole alle necessità nazionali:
massimo salario, massimo prodotto, minimo orario.
Ci si ricollega così all'altro aspetto della ricostruzione
economica e civile della Nazione, vale a dire alla messa in valore
della forza di lavoro della Nazione. E' questo un problema che ha
importanza tecnica, economica e politica le nostre maestranze
sentono la capacità di elevarsi, così come l'organizzazione
industriale sente il bisogno di maestranze sempre più capaci di
utilizzare i rapidi progressi nei processi di produzione. Alla
qualificazione tecnica della mano d'opera, lo Stato deve
attendere, in ogni ordine di scuole, con alacrità e con generosità;
ma ha bisogno pur di pensare all'immediato rendimento per
l'economia nazionale.
L'esuberanza della mano d'opera italiana deve poter trovare
lavoro all'estero, sotto la tutela di equi trattati, o, meglio ancora,
in coordinazione all'attività d'imprese italiane, che portino
all'estero lo spirito di intraprendenza e l’esperienza acquistata
nelle grandi opere di costruzione e di colonizzazione, cui ha
partecipato la nostra forza di lavoro.
Dobbiamo ben richiedere che l’azione dello Stato sia
coordinata strettamente alla politica dei sindacati operai; ma a
noi appare evidente il dovere e l'interesse dello Stato di
valorizzare sui mercati stranieri la nuova offerta di lavoro.

154
Elevamento delle classi operaie e socialismo

L'elevamento intellettuale e la qualificazione tecnica della classe


operaia devono essere indirizzate anche ad un alto fine politico.
Lo Stato, con spirito antiveggente, deve esso stesso provvedere
al complemento indispensabile della politica sindacale della
classe operaia. Quando questa abbia acquisita la maturità e la
capacità tecnica di condurre l'azienda per il migliore interesse
della forza di lavoro della Nazione, nessuna resistenza, è
giustificata. E' appunto questa visione, serena e spregiudicata,
che la Democrazia ha dell'avvenire della classe operaia che le
consente l'opposizione più recisa a quell'indirizzo politico, che
crede poter trasformare, oggi, 1'ordinamento della produzione,
trasferendone, sotto la pressione di moti convulsionari, la
direzione nelle mani degli operai. E' un ritorno alla fede cieca
nella violenza, che può trovare spiegazione, forse, anche nel fatto
stesso della guerra, che ha sconvolto tutti i valori sociali, ma che
non trova certe giustificazioni nella dottrina e nella storia del
socialismo. L'organizzazione politica ha preso il sopravvento
sulla organizzazione sindacale; questa riprenderà, ne abbiamo
fede, la sua libertà di azione, per riconoscere che vi è un solo
mezzo per attuare il socialismo, ed è l'elevamento della classe
operaia e l'addestramento suo alla direzione della produzione nel
proprio interesse e nell'interesse della nazione.
La pressione crescente dei prezzi fa sentire, già, alle classi
lavoratrici, che è effimero il maggior livello dei salari. La
contrazione della produzione e il dilagare della circolazione
cartacea si riflettono sulle condizioni di vita di tutte le categorie
di cittadini. La classe lavoratrice sente che la sua sorte è
intimamente legata alla prosperità della Nazione.”
Per l’ordinamento dello stato fascista l’organizzazioni
sindacali e la legislazione del lavoro doveva essere identificato
sopratutto nel concetto della sostituzione della lotta di classe con
la collaborazione di classe e la armonizzazione dei contrastanti
interessi delle varie categorie (datori di lavoro e lavoratori)
nell’interesse superiore e unitario delle produzione nazionale e
della prosperità della nazione.
Si può obiettare che detti principi legalizzati facevano venire

155
meno quelle libertà proprie delle categorie di professionisti e
lavoratori.
Pochi però ricordano che l’ordinamento dello stato fascista
prevedeva che accanto ai sindacati legali potevano esistere altre
associazioni professionali “sfornite di riconoscimento”.
Ma che queste, pur essendo libere nel perseguire i propri fini
“sani e legali” non godevano dei poteri e delle prerogative di cui
godevano quelle riconosciute dallo Stato, sia perché “queste
prerogative avevano [hanno] valore e utilità solamente in quanto
godute da una sola associazione per ogni categoria professionale
sia perché sarebbe stato imprudente “affidare funzioni
squisitamente di delega statale ad associazioni non soggette alla
speciale disciplina a cui le associazioni professionali sono
sottoposte”. Quindi. il fascismo non si prefiggeva il sindacato
unico ne la soppressione della libertà sindacale, ma solo la
rappresentanza sindacale ex lege, doveva essere necessariamente
unica”
Un tema trasmigrato anche nella Costituzione Italiana
Repubblicana che prevedeva il riconoscimento giuridico dei
sindacati, ma per comodità ed opportunità non è stato mai
attuato.
In definitiva l'ordinamento corporativo si imponeva di
sopprimere la dolorosa situazione “di forti e di deboli”,
conseguenza delle lotte economiche, e poneva la verità
fondamentale che, nell’interesse nazionale dovevano cessare “lo
sciupio antisociale di energie” mentre la collaborazione doveva
mirare alla continuità del lavoro, come fonte di ricchezza
individuale e nazionale.
In merito all’elevazione e alla formazione delle classi dei
lavoratori tanto auspicato dall’economista casertano e la capacità
dei lavoratori di condurre un’azienda, “Quando questa, (la classe
operaia) abbia acquisita la maturità e la capacità tecnica di
condurre l'azienda per il migliore interesse della forza di lavoro
della Nazione, nessuna resistenza, è giustificata”, il regime
organizza le scuole tecniche con lo scopo di “completare la
specifica preparazione pratica dei licenziati dalle Scuola
secondarie di avviamento professionale e contribuire, con la
formazione di idonee maestranze allo sviluppo dell’economia

156
nazionale.”
Ma la questione più immediata era la finanziaria e le forte
esposizioni della nazione verso l’estero e la congiuntura interna
che aveva impoverito più del necessario la borghesia ed i
lavoratori, mentre aveva fatto arricchire speculatori ed
opportunisti delle finanze.
Su questo argomento Beneduce aveva la sua ricetta:

II problema finanziario

Le finanze dello Stato erano subordinate all'aumento del reddito


nazionale, potenziando una politica di produzione, con una
disciplinata e concorde volontà dei cittadini di conseguire, dalle
energie produttive del Paese, il massimo rendimento. Sul reddito
nazionale gravava, quale passività secca, l'onere del reddito
verso lo straniero. Al debito di guerra si doveva provvedere con
eque compensazioni dei crediti italiani verso i paesi nemici.
Urgeva, pertanto, ridurre la necessità di nuovi debiti all’estero,
per i bisogni di consumo interno. In definitiva era necessario
produrre e valorizzare i prodotti italiani per equilibrare la
bilancia mercantile.
“Il bilancio dello Stato assorbirà intorno a dieci miliardi del
reddito della Nazione. Si prospetta alla nuova assemblea
legislativa un formidabile problema tecnico e politico. Non
preoccupa tanto l'altezza dei bisogni dello Stato, quanto la sua
azione e i mezzi cui farà ricorso, per procurarsi le entrate. Il
criterio di una rigida economia dovrà, certo, presiedere
all'ordinamento dell'azienda dello Stato; ma, oltre all'economia
delle spese, è indispensabile accertare e sorvegliare il rendimento
utile dell'azione dello Stato, nel campo morale, politico ed i
economico.”
Una situazione che non si riuscì a disbrigare negli anni che
vanno dal 1920 fino al 1924 ma che era la palla al piede di tutto
lo sviluppo e l’economia Nazionale. Non è chiaro il ruolo che
ebbe Beneduce nei confronti del governo di allora ma dalle sue
premesse e dall’azioni messe in atte dal governo si può pensare
che la sua parte non fu assolutamente di secondo piano.
La battaglia di “quota novanta”, che si doveva mostrare

157
vincente e che procurò non pochi sacrifici agli italiani, mirava a
quello che l’economista auspicava.
Una operazione complessa rivolta verso il mondo finanziario
e industriale e sindacale. I problemi sul tappeto erano molti,
strettamente collegati tra loro e talvolta almeno in parte
contrastanti. Era una per definirla alla Renzo De Felice “una
delle scelte economico-politiche più importanti e ricche di
conseguenze fatte da Mussolini”.
Il duce in effetti tentava di risolvere i problemi e utilizzare
uomini e mezzi capaci di portare a soluzioni concrete lo stesso
De Felice scriveva: “nel progressivo mettere da parte tutti quei
fascisti che in materia corporativa ed economica avevano una
propria precisa posizione e godevano di un prestigio personale
(Turati nel '30, Rocco e Bottai nel '32, Arpinati nel '33) e
nell'utilizzare invece uomini di indubbio valore, ma che certo
non puntavano essenzialmente ad uno sviluppo della politica
corporativa (tipici i casi di Jung e di Beneduce) e che, in quanto
“puri tecnici”, Mussolini pensava avrebbero diretto l'economia
italiana secondo criteri puramente tecnici, lasciando a lui (che
non a caso quando liquidò Bottai riassunse in prima persona il
ministero delle Corporazioni) il compito di orientare come le
circostanze politiche e le esigenze del suo potere avrebbero
meglio richiesto la politica corporativa.”
Da più parti nel tentativo di esaltare Alberto Beneduce, come
socialista illuminato ed elemento equilibratore al regime fascista
si è attribuito all’economista casertano il ruolo di ispiratore
dell’ente Regione. Il baraccone amministrativo che servì negli
anni settanta ad alimentare le clientele politiche e quello che è
peggio ad aumentare la burocrazia con notevole appesantimento
delle finanze dello Stato. Non a caso con la nascita delle Regioni
1970 il debito pubblico incominciò la sua impennata fino a
pesare così gravemente sulle tasche dei contribuenti.
In effetti Beneduce auspicava il decentramento dello stato a
favore delle provincie che dovevano avere più poteri ed
autonomia amministrativa. Davanti alla necessità di uno Stato
che risultasse forza regolatrice e propulsiva della attività dei
cittadini. C’era nel 1919 la realtà di un’amministrazione che
aveva un “ritmo di vita ben lontano dalla sincronicità coi

158
bisogni vivi e palpitanti della Nazione. Ad una Nazione, giovane,
vigorosa, cui si assegna un compito arduo nella vita economica
e politica, si sovrappone un vecchio ordinamento statale, che ne
attarda la circolazione e ne disperde le energie in attriti
incompatibili con le necessità immediate e con le esigenze del
sicuro progresso del Paese.”

L'amministrazione dello Stato e l'economia nazionale

Beneduce sosteneva il riordinamento dell'amministrazione


dello Stato fosse problema d'importanza vitale per la
ricostruzione economica e civile della Nazione. I provvedimenti
dell’epoca portarono a qualche piccola semplificazione nella
gerarchia degli impiegati nei sistemi degli assegni. Occorreva
invece affrontare coraggiosamente l'arca santa dell'ordinamento
dei servizi, districando, con mano generosa, la selva aspra e
forte della legislazione generale e speciale, nonché la labirintica
regolamentazione. L'amministrazione centrale dello Stato
doveva essere un semplice organismo direttivo, per garantire la
giusta e appropriata manifestazione dell'attività dello Stato, nelle
varie parti del Regno. L'azione doveva essere decentrata, rapida e
aderente alla varietà dei bisogni delle contingenze locali. Il
controllo del governo doveva essere sostituito con una funzione
ispettiva. Gli enti locali non dovevano sentirsi compressi da una
legislazione uniforme, ispirata al fatuo presupposto di una
garanzia formale che aveva valore di tutela della garanzia
sostanziale, che poteva essere trovata soltanto nella correttezza
dell'amministrazione.
Le funzioni dello Stato debbono essere anche soggette a
revisioni, in relazione alle anemiche funzioni delle. Provincie,
che gioverebbe forse trasformare in enti autarchici capaci di
attendere a più larghe funzioni, per le quali si manifesta,
necessario e opportuno, il criterio del consorzio degli interessi
locali.
Ma urge immediatamente, soprattutto, il riordinamento
dell'amministrazione dello Stato. Gl'impiegati debbono
collaborarvi con sereno spirito di cittadini amanti del loro
Paese, sicuri che il loro interesse coincida con il grado di

159
apprezzamento che il pubblico; fa. del modo come
l'amministrazione provvede ai bisogni”
Un ordinamento amministrativo che per essere reso efficace
e duraturo si dovette aspettare oltre un lustro, quando la
vacillante democrazia dovette fare posto allo stato autoritario
fascista che nel 1926 fece la grande riforma con la nascita di
diciassette nuove provincie e la soppressione di quella di Terra di
lavoro senza che lo stesso Alberto Beneduce muovesse un dito
per evitarla.
Che il duce anche nell’ordinamento dello stato avesse in
considerazione i suggerimenti che venivano dal mondo del
socialismo illuminato è assodato da qui si può dedurre come il
Beneduce considerato un socialista al di sopra delle parti aveva
grande ascendenza su Mussolini e la sue teorie condizionavano
non poco le scelte del fascismo.
Mario Missiroli, in Monarchia e Fascismo, pubblicato su
“L’epoca” il 9 ottobre 1925. scriveva: “A mio avviso, il
Fascismo al potere contrassegna la fase storica più
intensamente democratica, che abbia attraversato l’Italia dal
’70 ad oggi. All’indomani della guerra, il massimo problema fu
quello di inquadrate le masse nello Stato. Il collaborazionismo
fu l’esatta comprensione di questa esigenza e pose nettamente
questo problema in termini storici di una esattezza matematica.
Il collaborazionismo fallì sul terreno politico per due motivi:
prima di tutto, perché esso presupponeva, nel popolo italiano,
una coscienza politicamente matura, che non esisteva; in
secondo luogo, perché si illudeva di poter governare poggiando
su due grandi partiti di masse, che esprimevano scontento e
rapacità, piuttosto che un’effettiva capacità di governo. Il
Fascismo spinse violentemente queste masse dentro lo Stato, e,
utilizzando la fallita esperienza del collaborazionismo, rovesciò
tutti i dati tradizionali. La sconfitta dei piani liberali fu totale e
senza rimedio. Il Fascismo ha ereditato tutti i problemi dei
collaborazionismo e li sta risolvendo solo in quanto prescinde
dalle vecchie ideologie... In realtà, Mussolini ha portato il
socialismo al potere; questa è la novità, che i piú non vedono. Si
potrebbe affermare che il Fascismo è, in gran parte, quel
socialismo, al quale alcuni dottrinari (me compreso!) si illusero

160
di assegnare compiti e funzioni liberali mentre si doveva
continuare a riguardarlo come un semplice movimento di classi
povere, in ascensione limitata. Il Fascismo non ha distrutto il
socialismo come movimento di masse: ha unicamente distrutto
alcune degenerazioni bolsceviche, da un lato, ed alcune
premature velleità liberali dall’altro: velleità, che contrastavano
con lo stato arretrato della Nazione (es. la proporzionale), e con
l’effettiva volontà della Monarchia, che rifiuta qualsiasi
trapasso dal regime costituzionale al regime parlamentare
(governo di direttorio), che significherebbe l’erosione dei suo
principio e della sua stessa base”.
In effetti Alberto Beneduce apparteneva a quella schiera di
socialisti che, per dirla alla Missiroli, erano stati spinti
all’interno dello Stato fascista e portati al potere.
Era talmente lungimirante la politica tributaria di Beneduce
che le sue idee avrebbero trovato molti fautori, oggi, sia nei
partiti di centrodestra che di quelli di sinistra
Anzi quando la collettività chiede uno Stato più leggero e
una tassazione che non comprima la produzione e il reddito delle
famiglie vede nell’idea dell’economista casertano un punto di
riferimento certo.
Per Beneduce l'azione amministrativa, come l’azione
tributaria dello Stato, doveva essere rivolta a soddisfare alla
necessità suprema della vita della Nazione, non doveva turbare
l'attività economica; non deprimere le energie produttive del
Paese. Le aliquote, relative all’imposta sui patrimoni, dovevano
essere tali che l'onere potesse essere fronteggiato dal reddito. Per
questo ribadiva:

La politica tributaria

E' opportuno il criterio della progressività delle


aliquote; ma risponde a inderogabile criterio di giustizia e al
soddisfacimento di esigenza di ordine morale una falcidia
generosa sui patrimoni, costituiti in relazione alla attività
della guerra, poiché essi rappresentano troppo spesso
irrisione ai lutti e ai sacrifici del popolo. Si stimola, così il
contribuente a congrue riduzioni sulle spese e a più alacre

161
attività produttiva. La politica del Tesoro, per provvedere ai
bisogni straordinari di cassa, ha certo importanza capitale per
la risoluzione della crisi di assestamento e per l'inizio di una
opportuna politica di graduale riduzione della circolazione
fiduciaria. I cittadini di tutte le categorie, se intendono bene
il loro interesse, debbono concorrere ad agevolare l'azione
dello Stato nel superare questo punto morto dell'attività
finanziaria statale. Hanno avuto agio di manifestarsi in questi
giorni egoismi e resistenze, che noi possiamo ritenere
giustificate soltanto in relazione alle presunte formalità dei
provvedimenti tributari straordinari. Perché, se dei altre
finalità quelle resistenze fossero ispirate, noi del
Mezzogiorno dovremmo trarne ancora amari
ammaestramenti.
La guerra ha, certo, ancora più spostata la composizione
delle fortune fra Nord e Sud, in ordine ai valori mobiliari e
immobiliari. I sopraredditi di guerra aderiscono al grado di
sviluppo industriale e commerciale delle varie regioni
d'Italia.
Noi formuliamo il voto che i cittadini e le organizzazioni
sentano, in quest'ora suprema della vita della Patria, che il
rispetto alla giustizia contributiva, in relazione alle fortune,
ai redditi, alla composizione e alla origine loro, è condizione
essenziale per provvedere concordi, nei mezzi e nei fini, ad
assicurare all'Italia l'immancabile suo avvenire.

II problema dei pensionati di guerra

Ad altri bisogni straordinari, oltre che ai gravi problemi


concernenti i mezzi di cassa, deve provvedere il Tesoro dello
Stato, in questo oscuro periodo di transizione dalla economia
di guerra all'assetto della pace. La guerra ci lascia in retaggio
una folta popolazione di assistiti. Forse il modesto reddito a
carico del bilancio dello Stato, l'insufficiente spirito di
iniziativa, l'ambiente, la tradizione spingeranno molti a
trascurare la utilizzazione delle residue capacità lavorative,
per chiedere ai bilanci pubblici 1'integramento dei mezzi
necessari alla esistenza. Se nobilmente ci rivolgiamo al loro

162
animo, che sente tuttora il sacrificio sopportato per la Patria
e anela solo a poterla ancora servire, e se diamo a ciascuno i
mezzi per poter valorizzare la propria capacità produttiva, io
penso che avremo scansato il pericolo di dover sopportare il
peso di cèntinaia di migliaia di economie improduttive,
viventi a carico del pubblico bilancio; e avremo, invece,
dotato l'economia della Nazione di pure, ferventi e
disciplinate energie lavorative. li problema è vasto e
complesso per la sua importanza finanziaria, politica e
morale. Principii di risoluzione sono stati prospettati ; altri
sono già in corso di attuazione; ma io penso che su questa
via occorre rimanere coraggiosamente, starei per dire,
audacemente, poichè i benefici risultati sono
incommensurabili. Si tratta dì far penetrare nella coscienza
di larghi strati sociali il convincimento che la Patria esalta
tutti gli eroismi e i sacrifizi sopportati per la sua grandezza,
ma fonda il suo avvenire sul lavoro di tutti i suoi figli.
Dare agli italiani un sistema fiscale efficente e razionale
era una degli obiettivi che si prefiggeva la monarchia subito
dopo la prima guerra mondiale, specie quando le casse dello
stato erano state prosciugate da un conflitto che si era
dimostrato tra i più dispendiosi oltre che tragico della storia
della giovane Stato.
Nel 1919 era forte il dibattito e la discussione sulle
riforme da apportare e già quello elettorale, che aboliva il
maggioritario per dare spazio al proporzionale, era visto
come un importante traguardo raggiunto.
Nel promuovere e dare il suo appoggio ad Alberto
Beneduce, che pur svolgendo la sua attività a Roma, doveva
essere eletto nel collegio elettorale casertano il prof. Bruto
Amante scriveva:
“Al chiarissimo prof. Alberto Beneduce, ed ai severi e
giusti moniti manifestati sulla necessità di distruggere
sistemi di lotte fatte di corruzioni e di clientele, di frodi e di
interessi inconfessabili, aggiungo la calda mia adesione. Del
resto, senza questa attesa, sospirata restaurazione tra noi
dell’ordine e della sana disciplina dello spirito, a nulla
gioverebbe la recente riforma, presupposto storico e logico

163
della rappresentanza proporzionale, rinnovatrice di uomini e
di metodi e iniziatrice dell'equa partecipazione di tutte le
opinioni alla vita pubblica.
Lo Charriant, nel suo dotto studio sul Belgio, moderna
terra di esperienza, ove da 20 anni fiorisce rigogliosa e
benefica la rappresentanza proporzionale, bene a ragione
osservò: "Non soltanto essa protegge le minoranze contro la
brutalità della maggioranza al potere, ma permette di fare
appello alle grandi intelligenze disperse, che la ripugnante
fatica dello scrutinio uninominale condanna alla inerzia, non
essendo più possibile con esso il mestiere dell'uomo politico
senza una specie di prostituzione morale! Così il regime
proporzionale favorisce la partecipazione ai pubblici negozi
dell'aristocrazia intellettuale, senza della quale la democrazia
è votata alla demagogia e prepara il trionfo della mediocrità.
La rappresentanza proporzionale è 1'onore del Belgio.
Ed io ho fede che ciò stesso sarà I'onore del nostro
Paese, la riabilitazione in ispecie del Mezzogiorno (troppo
spesso giudicato quale sede dell'organizzato pretorianismo in
sostegno del potere), determinandone la potente
rinnovazione e rinnovazione morale in seno alla più grande
Italia !”
In effetti il programma presentato al teatro Politeama-Vanvitelli
ai Casertani dal Beneduce aveva molto a che fare con la politica
nazionale e molto poco con i problemi locali.

Monopoli fiscali e monopoli industriali

Una maggiore tassazione era necessaria e per questo


l’economista prevedeva:
“Ai bisogni ordinari del bilanciò dello Stato, nella loro
valutazione approssimativa consentita dalla incertezza degli
eventi e anche degli oneri già maturati, lo Stato intende
provvedere fondamentalmente con la riforma del sistema
delle imposte. Il progetto, già presentato alla Camera, per
l’attribuzione allo Stato della imposta sui redditi e delle
imposte complementari progressive e l’attribuzione agli enti
locali delle sovrimposte sui terreni, sui fabbricati e sulla

164
imposta complementare, è razionale. La fortuna fiscale dei
nuovi provvedimenti dipende sempre dalla, bontà dei
sistemi, di accertamento. Comunque, rimarrà ancora un largo
margine di spese, cui si dovrà provvedere con altre categorie
di entrate. Nelle presenti condizioni di ordinamento
dell'amministrazione dello Stato e di attività del Paese, credo
al gettito dei monopoli fiscali; ma non credo al reddito dei
monopoli industriali, gestiti direttamente dallo Stato. Nè
alcuno si meravigli di questa mia affermazione: ben altro è il
campo di questa attività di forme particolari di raccolta del
risparmio di ripartizione di danni, da quello che è il puro
campo della produzione industriale vera e propria
trasformazione di beni strumentali per adattarli ai bisogni e
ai gusti degli uomini.”
In effetti la tendenza ad aumentare le tasse continuò nel
tempo e ad appesantire la situazione dieci anni dopo, ci fu anche
la grande crisi del mondiale del ‘29 che ebbe gravi ripercussioni
anche in Italia. Proprio grazie all’apporto fondamentale di
Beneduce il regime trovò la strada giusta per affrontarla e
superarla.
Per dare fiato alle imprese Beneduce darà vita a quello che è
stato definito dagli economisti di tutto il mondo uno strumento
eccezionale capace di guidare e finanziare le aziende in
difficoltà: l’Istituto per la Ricostruzione industriale, più
comunemente conosciuto come IRI e che sarà sciolto solo negli
anni novanta del secolo scorso.
La partecipazione dello Stato alle grandi imprese di
produzione nazionale
Già nel 1919 Beneduce prevedeva:
“Nella presente fase della economia del Paese, lo Stato
deve ritrarre parte delle sue entrate dalla stessa azione sua di
organo coordinatore e propulsore dell’attività nazionale. La
messa in valore delle energie naturali del Paese, derivazioni
idroelettriche, bonifiche, ricchezza mineraria; la creazione
dei beni strumentali del traffico, ferrovie, porti, canali; la
organizzazione dei rapporti coi mercati esteri per le maggiori
correnti di scambio, debbono essere studiate sotto il profilo
di un concorso dello Stato nelle concessioni, nei capitali,

165
nelle facoltà singolari, contro un corrispettivo di utili a
favore del bilancio dello Stato. E' materia di studio, nella
quale le grandi organizzazioni commerciali e industriali del
Paese dovranno portare il loro contributo di consigli e di
critiche, ispirate alla necessità di trovare fonti di reddito per
il bilancio dello Stato, che derivino da incremento di reddito
per il bilancio economico della Nazione. Siamo ricondotti,
così, sempre alla stessa necessità preminente dell’attività
nazionale: la messa in valore di tutte le energie e di tutte le
capacità. Nessuno può pensare che in questo dovere dello
Stato io non comprenda la necessità di garantire alla classe
lavoratrice tutti i mezzi per l’elevamento della personalità
economica, politica e civile del lavoratore.”
Sono in effetti i punti cardini che saranno introdotti nell’atto
costitutivo del più grande ente di stato che fu fondato il 23
gennaio 1933. Poco più di un anno dopo, il 12 marzo 1934, l'IRI
si impegnò a risanare la Banca commerciale, il Credito italiano e
il Banco di Roma. In cambio i tre istituti cedettero all'IRI tutte le
quote azionarie, rendendo così lo Stato proprietario delle tre
banche. Il 24 giugno 1937 l'IRI viene trasformato in ente
permanente, ed inoltre venne decisa la costituzione della
Finsider (Società finanziaria siderurgica), che garantirà il
sostegno statale all'industria metallurgica.
Con la nascita dell’IRI e con i suoi successi si contribuì a
dare nel 1934 al corporativismo instaurato in Italia una immagine
di grande valenza politica ed economica e che si mostrò rilevante
per l’ascesa sul piano internazionale del suo più grande
sostenitore Giuseppe Bottai che fu, appunto, ministro delle
corporazioni.
Scrive Renzo De Felice: “Né, ancora, si può sottovalutare il
fatto che se il corporativismo e, quindi, per riflesso il fascismo
goderono nella prima metà degli anni trenta di un certo
prestigio all'estero (tipico il caso degli Stati Uniti), ciò fu dovuto
in buona parte proprio alla suggestione esercitata in certi
ambienti dalla teorizzazione corporativa bottaiana, alla quale
spesso questi stessi ambienti ricollegarono la successiva
esperienza dell'IRI.”
Davanti ad un si dettagliato programma sul piano nazionale

166
per quanto riguarda le questioni locali Beneduce rimane sul
vago. Eppure problemi di crisi industriali erano evidenti e
l’arretratezza della provincia casertana con la mancanza di
infrastrutture e slegata completamente dall'economia nazionale
erano sotto gli occhi di tutti.
Anche l’agricoltura, il settore maggiormente trainate, era al
limite dell’arretratezza, ne trovavano soluzioni le lotte dei
lavoratori che erano alla ricerca di un terreno da coltivare da
sottrarre ali latifondisti ed al notabilato.
Da qui è facile immaginare che Beneduce aveva a cuore più
la situazione politica nazionale che il suo paese di origine.
Anche se in considerazione del suo prestigio e della sua
potenza raccomandazioni e posti di lavoro li assicurava con
abbondanza ai suoi sostenitori
In effetti la politica locale la lasciava nelle mani di quelli che
aveva voluto inserire nella sua lista, con in prima fila il
combattente decorato Giovanni Tescione, l’uomo che diventerà
il primo podestà della città.
“Solo un profondo sentimento del dovere, miei cari
concittadini, ha potuto indurmi a presentarmi al vostro giudizio
per chiedervi 1'onore di rappresentare in Parlamento il collegio
di Caserta. - disse Alberto Beneduce nel gremito teatro
Politeama Vanvitelli alla fine del suo discorso - La lunga
consueta teoria delle promesse noti deve agire sull'animo vostro.
Ho voluto parlare al vostro raziocinio, più che al vostro
sentimento, e vi ho parlato solo delle grandi necessità nazionali.
Ho voluto, per altro, più volte richiamare la vostra attenzione
sul bisogno impellente di giustizia sentito dal nostro Paese. In
una sola constatazione chiedo che conveniate, qualora il vostro
voto abbia a portarsi sulla lista, alla quale mi onoro di
appartenere: Terra di Lavoro ha sete di giustizia nei confronti
dello Stato e nell’azione delle amministrazioni locali.
E' il solo impegno che assumo in confronto vostro. A questa
nobile Provincia illustre e laboriosa, che ha tratto solo dalle sue
tenaci energie le condizioni della sua fiorente agricoltura, della
sua notevole attività industriale, della promettente sua, capacità
commerciale, sarà fatta giustizia riparatrice nelle grandi opere,
dirette alla bonifica della terra e degli uomini, e nella dotazione

167
dei mezzi più celeri e più economici di scambio, affinché ne
sortano valorizzati i .prodotti, gli uomini, le idee.
E' ben lungi da noi il proposito di seguire le competizioni
amministrative. Se avrò l’onore dei vostri suffragi, i miei
concittadini dovranno richiedermi soltanto la correttezza nelle
amministrazioni locali, 1’affrancamento di esse da ogni
egemonia.
Risponderà la gran voce del popolo alla commozione
dell'animo mio e al turbamento della mia coscienza? Mi
giudicherà degno di difendere i suoi interessi e i suoi diritti,
poiché sa che le sofferenze del popolo ho impresse nelle mie
carni per la dolorosa infanzia, per l’operosa giovinezza, per la
mia diritta virilità?
Comunque la pianta rimarrà fortemente attaccata al suolo
donde trasse la vita.

Cappiello si sacrifica per Beneduce

La situazione politica italiana non era certamente delle


migliori in quel lontano 1919. Si era in quel periodo che gli
storici più tardi chiameranno “biennio rosso” e le forze
socialiste più estremiste sognavano di portare anche in Italia la
rivoluzione russa occupando fabbriche e denigrando i cattolici.
Si svolgevano a fine novembre le elezioni per la Camera dei
deputati e l’estesa provincia di Caserta doveva eleggere i suoi
tredici rappresentanti, una bella squadra. A correre per la
consultazione erano uomini che, nonostante le avversità
politiche, i pettegolezzi e le lotte possedevano uno spessore tale
che mai più la storia delle nostra provincia sarebbe riuscita a
mettere insieme.
La lista bandiera che rappresentava il partito Unione della
democrazia e dei combattenti, era capeggiata da Alberto
Beneduce e nella sua lista erano presenti tra gli altri Antonio
Casertano e Giovanni Tescione. La lista Falce e martello di
ispirazione social-comunista era capeggiata da Vittorio Lollini,
mentre colui che doveva diventare l’uomo che aveva maggiore
influenza sulla politica clientelare di Caserta: Giuseppe
Buonocore aveva presentato una sua lista, la Spiga di grano.

168
Achille Visocchi guidava la lista popolare liberale il
Grappolo d’Uva.
L’ex Sindaco Vincenzo Cappiello poteva con il suo
ascendente condizionare il risultato per il grande seguito che
aveva. Veniva tirato per la giacca per consentirgli di avere un
posto a Montecitorio. Alla fine non si fece trarre in inganno dalle
lusinghe e dalle promesse. Si vociferò allo scandalo ed ad un
eventuale compromesso fatto con Alberto Beneduce, visto che
l’ex sindaco poteva contare su un numero considerevole di
suffragi personali. A prendere posizione sull'argomento ed a
chiarire ogni equivoco fu il periodico “Terra di lavoro” del
novembre del 1919 con una nota in seconda pagina intitolata
“Nessun compromesso”:
“Taluni messeri, in molta malafede - i quali, in questa lotta,
non combattono, no, per alcun ideale di bene collettivo, ma
diavoleggiano, esclusivamente per inconfessabili interessi
personali - vanno ripetendo che vi siano compromessi tra Alberto
Beneduce e il cav. Vincenzo Cappiello.
La verità è che i compromessi non sono, stati neppure
sollecitati dal cav. Cappiello, il quale, concorde col suo partito,
ha voluto immolare la sua ambizione politica al supremo
vantaggio di contribuire al trionfo di Alberto Beneduce, affinché
con Alberto Beneduce Caserta abbia suo deputato l'illustre figlio
del popolo.
Ed è indiscutibile verità - a cui ogni imparziale cittadino
deve rendere omaggio - che Alberto Beneduce - il quale, in tutta
la sua vita esemplare, si è costantemente inspirato all'austera
religione della più scrupolosa probità, privata e pubblica - non è
uomo da piegarsi a compromessi di nessunissima specie, tanto
meno per miserevoli motivi elettorali.”
In effetti Cappiello fece un atto che in quel momento
riteneva opportuno, sopratutto per il bene di quella che lui, uomo
di origini castelmorronese riteneva la sua città: Caserta. L’aveva
amministrata con amore e con cura in momenti difficili, prima e
durante il conflitto mondiale.
Non si conosce se in seguito Beneduce, quando diventerà il
braccio destro del Duce abbia dimostrato particolare
riconoscimento al gesto del primo cittadino.

169
Il responso delle urne

Le elezioni si risolsero con un buon successo della lista di


Beneduce che ebbe 34125 voti, subito dopo la potente lista dei
Visocchi che raccolse 45289. La lista Falce e Martello ne ebbe
12013, mentre lo scudo crociato 15989. L’on Buonocore che
corse da solo con la lista Spiga di Grano raccolse 18774.
I tredici deputati che sedettero sugli scanni di Montecitorio
furono: Visocchi, Beneduce, Ciocchi, Marciani, Morisani, Tosti,
Casertano, Mazzarella, Tescione, Lollini, Turano, De Michele,
Buonocore.
Il posto di Buonocore fu messo in discussione e si
accusarono i Popolari di avere dirottato i loro voti su quello che
di li a poco doveva comandare sul municipio della città
capoluogo di Terra di Lavoro.
Durante la legislatura Achille Visocchi rendendosi interprete
delle istanze dei contadini e dei combattenti che volevano le terre
promesse dal governo, si rese promotore di un decreto che
assegnava in Terra di lavoro oltre 1100 moggia di terreno alle
cooperative rosse e a quelle dei fasci. Il decreto fu annullato da
Mussolini quando avviò la bonifica nazionale e assegnò
successivamente terre e case coloniche.
Vittorio Lollini tra i suoi primi atti presentò alla camera un
ordine del giorno in cui si invitava il governo ad “iniziare una
doverosa opera di riparazione e di ricostruzione nel
Mezzogiorno e nelle isole, ove per la cecità delle classi dirigenti
e l'abbandono e lo sfruttamento dei governi che si erano
succeduti, il proletariato, specie quello rurale, era tenuto allo
stato primitivo, e la produzione rimaneva misera ed
insufficiente.”
Quella di Giovanni Tescione sarà l’unica esperienza
parlamentare, successivamente occuperà da podestà il posto che
era stato di Vincenzo Cappiello.
Ben presto Antonio Casertano diventerà il presidente della
Camera dei deputati e sarà al fianco del duce tra le ilarità dei suoi
ex amici di partito e le critiche di Filippo Turati.

170
Il periodico “Terra di lavoro” che aveva sostenuto in modo
non del tutto gratuito la candidatura di Beneduce nell’edizione
del 29 dicembre del 1919 scriveva: “Come noi abbiamo
lungamente anelato, Alberto Beneduce è deputato di Terra di
lavoro. La sua grandiosa vittoria che ha superato ogni nostra
migliore previsione, assurge alla più eloquente significazione,
poiché egli l’ha conquistata senza preparazione elettorale, senza
feudi, senza ricchezze, ma con la forza del suo nome immacolato,
col fascino del suo programma benefico, con il fervore di una
bella battaglia di idee e di fede, durante appena quindici giorni,
nei quali non gli è stato possibile recarsi che in pochissimi
comuni della provincia. Noi siamo felicissimi del trionfo
magnifico di Alberto Beneduce perché abbiamo la legittima
sicurezza che ne deriveranno vantaggio ed amore alla nostra
vita pubblica e alle nostre popolazioni”.

171
172
Beneduce e i 50 anni dell’Iri

Caserta si ricordò solo in occasione del cinquantesimo anno della


nascita dell’Iri di Alberto Beneduce, un suo figlio che aveva
contribuito con la sua opera e la sua azione a risollevare le sorti
della nazione ma anche a rendere credibile, sotto il profilo
economico e culturale, agli occhi del mondo il regime fascista,
pure essendo un socialista.
Un socialista, che Benito Mussolini volle al suo fianco e che
al contrario del suo maestro Francesco Saverio Nitti, accettò
l’incarico con grande entusiasmo.
Molti erano i fattori che per i fascisti sconsigliavano la
presenza dell’economista in punti chiave dello stato totalitario:
Beneduce era massone e la massoneria era stata messa fuori
legge nel 1925; per il suo passato aventiniano si era messo in
cattiva luce nei confronti dei vertici del partito, e prima Roberto
Farinacci e poi Augusto Turati, ostacolarono politicamente
l’ascesa di Beneduce.
Ma il casertano era ritenuto per il suo modo di concepire lo
stato e per le sue idee sociali l’uomo capace di contribuire a
quelle riforme che sin dal 1919 si auspicavano e che mai erano
state realizzate.
L’ipocrisia e la falsità che hanno caratterizzate le classi
politiche dal secondo dopo guerra ed in special modo
l’opportunismo anche dei pochi intellettuali casertani aveva
sconsigliato fino al 1983 di commemorare un uomo che tanto
lustro aveva dato al paese e che si era stato il padre, con
l’appoggio del fascismo, di molti enti che avevano segnato così
profondamente il costume, la finanza e l’industria nazionale.
L’Iri guidata da Romano Prodi nel 1983 volle dare un suo
riconoscimento ad Alberto Beneduce ed i casertani ne
approfittarono chiedendo che la celebrazione venisse fatta con
una giornata di studio in Palazzo Reale.
Fu stabilita la data di venerdì 11 novembre ed il convegno si
tenne nell’aula magna della scuola della pubblica
amministrazione.
Il saluto ai congressisti fu portato proprio da Romano Prodi e
dal sindaco di Caserta Vincenzo Gallicola. Mentre a relazionare

173
furono gli storici e gli economisti che godevano della
incondizionata fiducia del governo di centro sinistra dell’epoca.
La giornata di lavoro prevedeva gli interventi di Paolo
Baratta, Giuseppe Barone, Franco Bonelli, Sabino Cassese,
Francesco Cesarini, Achille de Nitto, Luigi De Rosa, Antonio
Longo, Guido Melis, Pietro Melograni, Gerardo Padulo e Lucio
Villari.
I professori consegnarono gli atti alla segreteria del
convegno che a distanza di un anno pubblicò gli interventi.
L’amministrazione comunale giovedì 10 Novembre 1983
tenne una seduta straordinaria per commemorare Alberto
Beneduce che a dir poco rappresentò la fiera delle vanità ed il
trionfo del negativismo storico.
Alcuni giorni prima il sindaco Vincenzo Gallicola aveva
fatto una riunione dei capigruppo al fine di stabilire le modalità.
Si convenne, al fine di assecondare l’antifascismo imperante, di
non dare troppa enfasi ai rapporti Beneduce regime, “avrebbero
parlato soli i capigruppo ed i loro discorsi dovevano essere i
carattere tecnico e non politico” si temeva che da parte del
Movimento Sociale Italiano, presente in consiglio con tre
rappresentanti: Nicola Campanile, Nicolò Antonio Cuscunà e il
segretario provinciale del Partito Michele Falcone avrebbero
relazionato accostando il nome di Beneduce a Benito Mussolini,
il che avrebbe guastato lo spirito della festa.
Alla riunione dei capigruppo in effetti aveva partecipato il
consigliere Campanile, che si era dichiarato disposto ad accettare
quanto concordato con il sindaco Gallicola.
Ma le cose non dovevano andare per il giusto verso ed alcuni
episodi si misero di traverso.
Nello scoprire la lapide commemorativa in Via Maielli con
una epigrafe scritta dal prof. Aniello Gentile, suscitò molta ilarità
tra i presenti l’errore fatto dal marmista che scrisse “qui naque
Alberto Beneduce ...” tanto che il giorno dopo su un quoditiano
nazionale il giornalista Franco Tontoli, a cui l’humor non
mancava e non manca, rincarò la dose aprendo il suo articolo con
la frase: “qui naque Beneduce e morì la grammatica italiana”.
Nel consiglio straordinario alla presenza di Romano Prodi e
di molti storici ed eredi di Beneduce il sindaco Vincenzo

174
Gallicola nella sua introduzione disse : “Sig.ri Consiglieri,
questa seduta del Consiglio, convocata in via straordinaria,
intende essere un omaggio alla memoria di un nostro, illustre
concittadino Alberto Beneduce, certamente tra i più grandi della
Città che con la sua vita e la sua opera ha onorato non solo
Caserta, che gli dette i natali nel 1877 ma l'intera comunità
nazionale.”
Alla fine della sua introduzione concluse: “Allo scopo di
consentire a tutte le forze politiche di esprimere il loro pensiero
e dare quindi a questa serata il tributo unitario delle nostra città
nell’esame della poliedrica figura di Alberto Beneduce, per
intesa raggiunta, saranno i capigruppo consiliari a prendere la
parola per ciascun gruppo e alla fine alcune mie brevi
conclusioni”.
Prese per primo la parola il capogruppo della Democrazia
Cristiana Casimiro De Franciscis, segui quello del Partito
Comunista Italiano Giuseppe Venditto. Poi l’avvocato Greco dei
Socialisti democratici ribadì: “Vorrei ringraziare la Presidenza
dell’Iri, senza la quale noi casertani non conosceremmo, non
avremmo conosciuto il Beneduce, ed è la verità. La nostra
amministrazione, le precedenti, hanno elargito medaglie a destra
e a manca, ma di Beneduce non se ne è mai parlato, e questo
certamente, tradirei la mia indole reale e sincera se non dicessi
con tutta franchezza che non suona a merito della città di
Caserta e dei cittadini casertani”.
Una tirata d’orecchi che il sindaco dovette incassare, ma ben
altra tegola stava per cadere sulle spalle dell’incolpevole
Gallicola e su tutta la città.
Quando arriva la volta del rappresentante del Movimento
Sociale Italiano, il capogruppo Nicola Campanile ed il
consigliere Nicolò Cuscunà abbandonano l’aula e la relazione la
legge Michele Falcone.
Su questo episodio ed il perché di un atteggiamento
contraddittorio le versione degli interessati a distanza di lustri
sono molteplici.
“Non condividevo - ha dichiarato il professore Michele
Falcone - l’accordo sottoscritto con il sindaco Gallicola, non
bisognava essere ipocriti e dire le cose come stavano, perché il

175
problema non poteva limitarsi alla sola lettura tecnica ed
economica degli avvenimenti e del personaggio, ma dovevamo
ristabilire una corretta interpretazione della realtà e della storia
del tempo”
“La questione non era affatto politica, - ha precisato il prof.
Nicola Campanile - del resto lo stesso segretario provinciale del
mio partito non poteva sapere quale sarebbe stato il mio
intervento. In realtà, in quella occasione ci fu una vera propria
prevaricazione di ruolo tanto che fui costretto ad abbandonare
l’aula.”
La relazione del prof Michele Falcone anticipava quello che
il giorno dopo storici ed economisti avrebbero riconfermato alla
reggia di Caserta, con molta onestà intellettuale e che la
maggioranza del consiglio comunale, per paura di mostrarsi
benevoli nei confronti del fascismo non osarono dire, anzi in
alcuni casi, come nella replica del socialista avvocato Vignola, si
ricorse a grossolane inesattezze, tanto per usare un termine
benevolo.
“Il citare Benito Mussolini era un tabù - ha continuato
Falcone - ma non si poteva fare a meno di parlare del Duce per
inquadrare esattamente il ruolo e la funzione di Alberto
Beneduce nei confronti dello Stato Italiano.”
“Con quanto stava creando negli anni trenta - affermò
Falcone nella sua relazione - Beneduce vedeva concretizzarsi le
proprie idee programmatiche che erano state ostacolate quando
era ministro tanto da rassegnare le dimissioni nella mani di
Bonomi. Con gli incarichi avuti dal governo si guadagnò
all’estero un vasto prestigio e rafforzò i legami di collaborazione
con Benito Mussolini, che ne favorì l’ascesa, sempre più
prestigiosa, nonostante fosse legato alle idee social-riformiste.”
Verso la fine del suo intervento Falcone fece notare: “Il
Beneduce mantenne la presidenza dell’Iri fino al 1939,
nonostante si moltiplicassero le pressioni ancora una volta su
Mussolini, per un suo esonero dalla carica. Ancora una volta il
capo del governo espresse la sua simpatia per Beneduce, diede la
precedenza alla sua capacità, alla rettitudine ed al valore.
Beneduce venne nominato senatore ed in quella occasione gli
venne conferita la tessera di iscrizione al PNF, al quale, se non

176
aderì, continuò più di prima a manifestare sentimenti di
personale, profonda ammirazione e devozione verso Mussolini.
Ma manifestazioni di adesione al fascismo non tardarono e si
ebbero in occasione della guerra in Etiopia, quando presso il
Crediop istituì un’apposita sezione per il finanziamento delle
opere pubbliche in Africa, dell’entra in guerra dell’Italia nel ‘40
e con l’accettazione del programma di autarchia economica. E
così nel regime fascista confluiva anche A. Beneduce, forse il
miglior figlio della nostra terra.”
Non appena ebbe terminato l’intervento di Michele Falcone
il sindaco Vincenzo Gallicola sbottò: “Senta, io le devo
esprimere immediatamente un richiamo. Avevo avuto un
incontro con i capigruppo prima dell’inizio di questa seduta del
consiglio comunale - affermò il primo cittadino con voce seria e
risentita - e a quest’incontro aveva partecipato il consigliere
Campanile, col quale, insieme ad altri capi-gruppo, avevamo
concordato un certo tono di questa seduta. Lei stasera è l’unico
consigliere comunale che è presente per il MSI; ho ritenuto di
doverle consentire la parola, ma lei ha derogato dagli impegni
sul comportamento assunti dal suo capogruppo nella apposita
riunione dei Capi-gruppo.”
Falcone ribadì: Ho fatto solo una trattazione storica e basta.
Questa in sintesi la relazione del prof. Falcone: I gravissimi
problemi che attanagliavano l'economia italiana e, prima ancora,
la grande guerra e la fase della riconversione postbellica,
facevano emergere in modo sempre più marcato un ruolo nuovo
dello Stato nell'economia.
Alberto Beneduce si colloca fra quelli che più hanno
contribuito in prima persona a gestire il cambiamento, dopo
essere stato fra coloro che più chiaramente avevano intravisto i
nuovi e crescenti compiti dello Stato e che avevano contribuito a
disegnare rispetto ad essi altre modalità di risposta.
La parte forse più cospicua di quella che può essere definita
la costituzione economica del Paese è stata posta in essere lungo
un arco di anni che, idealmente, va dalla costituzione dell'INA
alla legge bancaria; ed ha avuto uno dei massimi protagonisti in
Alberto Beneduce.
Mentre l'Italia attuale conosce una crisi economica di

177
dimensioni e di portata non molto diversa da quella che si è
abbattuta sull'Italia alla fine degli anni '20 e all'inizio degli anni
'30, l'occasione di ricordare la nascita dell'IRI e il suo primo
Presidente, è preziosa per riandare al periodo in cui si afferma il
ruolo dello Stato italiano nell'economia.
Innanzitutto un saluto a tutte le autorità intervenute ed un
saluto particolare ai parenti di Alberto Beneduce che questa sera
ci hanno onorato della loro presenza.

“Consentimi di sottoporre alla tua attenzione alcune mie


riflessioni dopo aver letto, con interesse, il tuo articolo
pubblicato sul Corriere di Caserta il 13/01/05 nella pagina
dedicata alla cultura, dal titolo : Il cinquantenario dell'IRI per far
ricordare a Caserta il concittadino Alberto Beneduce. Non farò ...
E’ il principio di una cordiale lettera che il prof. Nicola
Campanile inviò alla redazione al giornale Corriere di Caserta
su cui l’autore di questo libro esaminò a puntate la storia del
fascismo Casertano e che come testimone della giornata di
celebrazione del 50° anniversario dell’Iri voluto da Romano
Prodi, dette un contributo importante alla ricostruzione di quei
avvenimenti.
“Il Prof Michele Falcone, era alla epoca consigliere
comunale nonché segretario provinciale del M.S.I, ... Tenuto
conto di ciò, come capo gruppo del M.S.I. fui d'accordo nello
stabilire che avrebbero parlato, nel commemorare l'avvenimento,
soltanto i capo gruppo – ovviamente, lasciando ad ognuno di essi
la facoltà di esprimere in modo sereno, il proprio punto di vista.
Quindi nessuna contraddizione e compromissione con
l'antifascismo. Anzi, per il M.S.I. fu una occasione mancata per
dimostrare al mondo politico e culturale la maturità di giudizio di
un partito che, come il socialista Beneduce, non è stato mai
antifascista. Non è in discussione il contenuto della relazione
letta dal prof. Falcone bensì la mancata serenità di esposizione,
le sue livorose inflessioni di voce. Questo improvvido modo di
procedere diede al Sindaco l'opportunità di replicare dicendo,
come da Te ricordato: Lei stasera e l'unico consigliere comunale
che è presente per il M.S.I. e ho ritenuto di doverLe concedere la
parola, ma lei ha derogato dall'impegno sul comportamento

178
assunto dal suo capo gruppo. Queste riflessioni non sono
inattuali! Lontana da me l'intenzione di fare polemica: molte
volte il silenzio è acquiescenza.

Subito dopo Michele Falcone, fu la volta del consigliere De


Rubertis che si limitò a proporre: “una fondazione oppure un
premio Caserta al miglior studio di economia effettuato nella
nazione italiana.”
Un premio che troverà successivamente attuazione grazie
alla professoressa del liceo classico Giannone, figlia appunto del
succitato Nicola.
Ma a rispondere al professore Michele Falcone fu l’avvocato
Antonio Vignola, penalista, e consigliere comunale di Caserta
per molti anni. Occupò anche la carica di vice sindaco.
L’avvocato Vignola era un uomo deciso, impulsivo ed
ottimo oratore. Quella sera, certamente non aspettandosi le
puntali osservazione che venivano dai banchi della destra replicò
parte a braccio e parte con appunti frutto di una ricerca
precedentemente condotta. Riportò quello che per anni
l’intellighenzia casertana ripeteva sul fascismo. Una serie di
luoghi comuni, misti tra la vero e falso che continua a
caratterizzare la storia tramandata di questa provincia.
“Sig. sindaco, Sig.ri del consiglio, Autorità. Il dissenso sulle
interpretazioni storiche date dal prof. Falcone, sono motivate
non soltanto dal fatto che su argomenti economici la
speculazione politica e le rimembranze leopardiane sono
certamente difficili, - declamò l’avvocato Vignola con il timbro
di chi stava facendo una arringa, che una trattazione storico
politica - ma la dimenticanza di un periodo storico, al quale
Beneduce è stato legato, avrebbero consigliato al capogruppo
del MSI a ben meditare le cose che ha detto. Credo che io come
socialista, pur nel rispetto delle cose che hanno detto gli altri
consiglieri dell’Amm.ne Comunale, abbia maggiore voce in
capitolo; io non mi permetterò di entrare nel vicolo certamente
difficile della discussione sulle funzioni dell’Iri o sulla
interpretazione del motivo, per il quale poi ritornerò, circa il
motivo per il quale si salvò la lira nel 1927 o su alcune
affermazioni, sulle quali poi ritornerò, anche sull’economia

179
degli anni ‘40 che onora certamente il nostro paese. Ma io sono
casertano, sono socialista e come tale devo trattare la prima
parte della vita di Alberto Beneduce, cioè quella parte che lo
vide figlio di una famiglia certamente non agiata, potremmo dire
povera. Studiava a lume di candela, mi raccontava mio padre a
volte sotto la luce dei lampioni. Questo giovane di Caserta,
nessuno lo ha detto, ha avuto delle grosse amarezze. Perché
questa, signori congressisti, sig. partecipanti, è una città amara,
è una città difficile per i casertani. Nel 1919 Beneduce fu eletto
come socialista riformista al parlamento del regno, ma
precedentemente Caserta aveva chiuso le porte in faccia a
questo giovane, che capiva. Caserta votò il candidato
napoletano Buonocore che venne appoggiato da quel grosso
galantuomo che era il medico don Nicolino Iodice che molti di
voi ricorderanno, che gli mise a disposizione tutta la sua
personalità, tutti i suoi mezzi, anche economici e la celebrazione
di questa vittoria e la sconfitta di Beneduce fu tale che
addirittura si tolsero i cavalli da sotto il cocchio per portare
Buonocore in trionfo, nella città di Caserta, perché non era
passato il social riformista. Il socialista riformista amico di
Turati ed Amendola, rapporti che si sono mantenuti fino al 1925
quando poi, evidentemente questi gruppi, hanno rotto con
Beneduce perché è chiaro che il primo governo Mussolini, sorto
dalla marcetta su Roma, non poteva non essere che un governo
di coalizione e certamente Mussolini aveva l’intuito che
nell’animo di questa terra che pure aveva schiaffeggiato, con la
soppressione della provincia, c’erano tante altre, perché Caserta
è stata l’unica città che si è opposta a quella famosa marcetta
anche con violenza, perché i ferrovieri di Caserta impedirono la
marcia buttando bombe al convoglio che partì, cosa strana
proprio da qui, dalla nostra vicina Puccianiello, Mussolini tolse
la provincia, però riconobbe in Beneduce delle grossi dote, e
portò nel governo di coalizione, dove vi erano democristiani,
dove il presidente della camera era Enrico De Nicola, dove il
partito popolare era rappresentato da uomini come Gonella, da
uomini come Gronchi. Lo portò e le diede grosse responsabilità
che non possono essere soltanto racchiuse in un lavoro che un
casertano, il mio amico e compagno Ianniello ha fatto in questi

180
ultimi giorni, citando anche delle fonti. Poiché non possiamo
improvvisare sulla vita e sulle cose che ha fatto, perché questo
spetterà domani ai congressisti, ci limitiamo a scinderle nel
profondo. E’ stato citato il Padovani, il Bernabei, il Cimmino, il
Capobianco cioè fonti, le fonti al quale io ho attinto sono studi di
De Franciscisc, di Bonelli sul Beneduce come protagonista
dell’intervento pubblico.”
Nel suo complesso il discorso dell’avvocato Vignola,
racconta di fatti ed aneddoti che trovavano riscontro
nell’opinione diffusa del casertano, ma in alcuni punti non
coincidono con i documenti dell’epoca e con la cronaca. Nel
collegio di Caserta fu eletto l’avvocato Agostino Santamaria che
a distanza di cinque anni nel 1918 mori e per lo stato di guerra in
cui si trovava l’Italia non fu sostituito.
Per quanto riguarda la “marcetta su Roma” del 28 ottobre del
1922, si tratta di una aggettivazione gratuita vista a distanza di
oltre ottant’anni, infatti che chiuse un epoca storica per aprire
un’altra che continua oggi. Caserta, fu protagonista indiscussa di
quell’avvenimento ed il suo apporto non fu né ostacolato da
azioni avverse né dall’atteggiamento dei socialisti riformisti, ma
da quei socialisti, pochissimi per la verità, che si presentarono
con una seconda lista alle elezioni in cui trionfò Alberto
Beneduce e che vide eletto con i resti anche Giuseppe Buonocore
con una sua lista fiancheggiatrice dei popolari. Beneduce per
essere eletto nel 1919 chiese l’appoggio dei fasci di
Combattimento che in massa si prodigarono per portarlo in
parlamento con la lista Bandiera.
Su un settimanale locale del 20 settembre del 1919 si legge:
“La giunta esecutiva e il comitato Politico del Fascio
provinciale dei Combattenti, in conseguenza del mandato
ricevuto dal congresso del 31 agosto, hanno tenuto la prima
adunanza il 18 settembre del 1919 a Caserta per esaminare la
situazione elettorale e per intendersi sulla scelta dei candidati.
Un nome è stato designato subito con concorde e entusiastico
plauso: il nome puro ed alto di Alberto Beneduce”.
Uomini che appoggiarono incondizionatamente Beneduce e
che poi successivamente vedremo impegnati nello squadrismo
casertano della prima ora a fianco di Aurelio Padovani e quelli

181
più legati al clientelismo imperante, nei nazionalisti di Paolo
Greco.
Non ci fu nessun lancio di bombe dei ferrovieri contro i
fascisti che si accingevano a partire dalla stazione di Caserta per
andare a “marciare su Roma”, ma semplicemente un grave
incidente che costò la vita allo squadrista Marcello D’Ambrosa
dei “Lupi del Matese”, un gruppo guidato dal console della
milizia Stefano De Simone a cui gli vennero affidate alcune
bombe a mano da usare in caso di necessità.
Ne fu quest’episodio che indusse il capo del fascismo a
distanza di cinque anni a sopprimere la provincia di Caserta.
Quello che l’avvocato giustamente Vignola, però, evidenziò
e che rappresenta una triste realtà anche oggi, è la critica che fece
all’amministrazione:
“La celebrazione non è soltanto quella di vestirsi a festa con
abito blu e partecipare a cerimonie. Credo che questo non sia
nel suo spirito e nella sua intelligenza. Io come docente ho
invitato i miei alunni, anche alla facoltà di Sociologia, a venire
qui a Caserta per andare nella biblioteca comunale per trovare
degli appunti, bene gli appunti su Beneduce gli appunti su
Beneduce si riducano soltanto alle poche parole che porta
l’enciclopedia Treccani; non c’è un libro, un testo, uno scritto,
un giornale, sul quale questi alunni possono attingere delle
notizie su quest’uomo, del quale ignorano in gran parte, non
dico l’opera, ma addirittura l’esistenza. Socialista, riformista, la
sua grande preoccupazione, lo dice anche Domenico Ianniello27,
su questi vari articoli che ha pubblicato, la incapacità che i
contadini del Mezzogiorno d’Italia forse non lo capivano. Ma
non lo potevano capire certamente. Non lo potevano capire
perché era il linguaggio di uno studioso, di un matematico, di un
tecnico, di un uomo che guardava ai problemi economici che
andavano al di là dei bisogni dei contadini del Meridione.”
Oggi le cose stanno allo stesso livello del 1983 e
l’immobilità amministrava locale nei confronti della cultura e
27
Domenico Ianniello nato a Sulmona, in Abruzzo, il 16 aprle 1928 ' morto
il 19 fennraio 2011. Storico e giornalista era uno dei pochi intellettuali ante
litteram casertani. Ha scritto saggi su viale Carlo III e La reggia di Caserta, e
palazzi storici.

182
della storia di Caserta arretra sempre più nonostante le apparenze
e lo spreco economico. Quel tentativo di germoglio che si ebbe
proprio al principio degli anni ottanta del secolo scorso quando a
reggere le sorti della Democrazia Cristiana Caserta era Lello
Menditto, è completamente appassito. Oggi è solo
approssimazione e pressappochismo. E quello poco di buono che
si può leggere è grazie al sacrificio di alcuni studiosi locali.

183
NATALE GABRIELE MORIONDO
“L'episcopato casertano di Natale
Gabriele Moriondo coincise in
massima parte con quello che può
considerarsi il periodo più terribile e
doloroso della storia dell'umanità
del XX secolo, caratterizzato
dall'affermazione dei regimi
totalitari prima e dall'esplosione del
secondo conflitto mondiale poi. -
Scrive Olindo Isernia28 nel libro
“Fascismo, Comunismo, Nazismo e
Chiesa locale - Per una fortuita
coincidenza il nostro vescovo si
trovò a fare il suo ingresso solenne in diocesi, domenica 8
ottobre 1922, appena due settimane prima che il fascismo, in
seguito alla marcia su Roma, conquistasse il potere in Italia, e ad
andare via, dopo che erano state accettate le sue dimissioni, nel
maggio 1943, soltanto alcuni mesi prima della caduta di
Mussolini”
Cosi inquadrato, si nota tutta la delicatezza e la necessità di
affrontare un tema scottante e scomodo, alla luce della storia e
degli ideali contrapposti che hanno caratterizzato il secondo
dopoguerra e che solo oggi, a distanza di mezzo secolo, si stanno
cercando di svolgere con l’obiettività che si richiede.
Del grande lavoro del vescovo di Caserta, delle sue idee che,
molto spesso coincidevano con quelle del regime dell’epoca, se
ne è parlato poco ed a volta male. Perché Gabriele Natale
Moriondo rimane ancora oggi un vescovo scomodo.
Nella pubblicazione di Isernia ci sono una serie di elementi,
di considerazioni, di tracce, di documenti accennati che
andrebbero approfonditi per meglio comprendere gli scritti e le
azioni e che molti personaggi, anche del clero locale, vorrebbero
nascondere. Moriondo in effetti fu un uomo che con il fascismo
28
Olindo Isernia - Storico Casertano redattore del periodico “Osservatorio
Casertano”

184
aveva molti elementi comuni ed idee affini. A partire dal
concetto di patria, alla grandezza di una nazione,
all’anticomunismo, alla supremazia della chiesa cattolica
considerata come religione di stato, su altre confessioni. Temi
che Isernia, non risolve pur potendolo fare per la sua grande
preparazione e competenza della storia dell’epoca, ma che si
limita a documentare ed a lasciare degli interrogativi.
“Resse, dunque, sostanzialmente la diocesi per l'intera
durata del regime, per cui sorge spontaneo interrogarsi
sull'atteggiamento tenuto da lui e dall'intero clero casertano
nei confronti del fascismo e del suo fondatore, soprattutto di
fronte a determinate scelte e a rilevanti decisioni, come pure
indagare sulla posizione che la chiesa locale assunse nei
riguardi del nazismo e delle sue degenerazioni e, di fronte al
pericolo incombente di una sua affermazione e diffusione in
altre parti d'Europa e del mondo, del temuto comunismo e
dei principi atei e materialistici che ne erano alla base. -
Sostiene Isernia - Ora, se sul conto del comunismo, come è
facile immaginare, la condanna che emerge dalle pagine del
Bollettino è netta e senza appello e se un'identica posizione
di condanna è possibile cogliere, in qualche raro articolo,
anche nei confronti del nazismo, sia pure con ritardo, a
partire soltanto dal 1937, di fronte alle crescenti restrizioni
imposte dal regime alla libertà religiosa; inutilmente si
cercherebbero nelle stesse pagine giudizi espliciti,
chiaramente espressi a favore o contro il fascismo.”
Bisogna risalire a qualche anno addietro dalla nomina a vescovo
di Caserta di Natale Gabriele Moriondo per comprendere le vere
ragioni della sue avversità per il comunismo di cui aveva
conosciuto personalmente le angherie, le persecuzioni e le falsità
di come veniva trasformata da punto di vista istituzionale e
politico quella dottrina e delle persecuzioni le discriminazione
che dovette subire la chiesa cattolica da quel regime.
Natale Gabriele Moriondo era nato a Torino il 17 dicembre
1870, nel 1920 fu inviato dal Papa Benedetto XV in Georgia,
come Delegato Apostolico, nel Caucaso e nel Corno d'oro; partì
da Cuneo il 14 agosto di quell'anno e passando per
Costantinopoli e Bahum, pose la sua dimora a Tiflis, ma iniziò

185
subito la Visita, che compì con grandi fatiche e disagi. Si accorse
ben presto che i governi della Georgia e dei paesi confinanti
erano atei e socialisti bolscevichi e se per qualche tempo
mantennero buone relazioni col Delegato Apostolico, fu per
trarne vantaggi economici e politici. Nel febbraio 1921 le truppe
bolsceviche di Mosca attaccarono le frontiere e dopo pochi
giorni di combattimento giunsero alle porte della capitale Tiflis.
Insieme col Governo e con i rappresentanti delle nazioni, si
dovette ritirare prima a Bahum, ma, caduta anche questa città,
ripiegò a Costantinopoli.
Non fu mandato a Caserta per caso, ma si pensa spinti dalla
necessità di mettere ordine in una diocesi che i troppi scandali e
malcostume esistenti nel clero avevano compromesso
nell’immagine e che il precedente vescovo meridionale don
Mario Palladino non aveva saputo affrontare con quella serietà e
rigore che si richiedeva.
A guardare bene l’episcopato di Moriondo c’è un
parallelismo con il regime mussoliniano che forse in nessun altra
provincia si riscontra. Entrambe le istituzioni si prefiggevano di
attuare un radicale cambiamento etico e morale rispetto al
passato.
Ma se il fascismo, incise solo superficialmente sulla vita
sociale e politica della provincia, l’azione nei confronti del clero
e della comunità cattolica del vescovo, fu molto più radicale ed
efficace ed il contenuto del libro di Isernia lo dimostra.
“Le convergenze che si andavano stabilendo con le autorità
civili su altri aspetti ritenuti non meno importanti dalla Chiesa
locale e dal suo vescovo, quali potevano essere la lotta alla
moda femminile licenziosa sfoggiata fuori e dentro la chiesa e,
soprattutto, il nodo da tenersi nella celebrazione delle feste
patronali religiose, sollecitavano il clero a guardare al fascismo
con sempre maggiore interesse e simpatia come al difensore
della "antica tradizione dell'Italia cattolica e latina". Proprio a
proposito delle feste religiose esterne, il Bollettino del mese di
luglio 1927, pubblicava in bella evidenza il testo di una circolare
inviata da Mussolini ai prefetti e non mancava, di sottolineare,
con ostentata soddisfazione, come essa ribadisse
"autorevolmente ed efficacemente quanto i Vescovi

186
replicatamene vanno ripetendo da anni nelle loro Lettere
pastorali, Circolari, Disposizioni e Norme per le singole diocesi".
Sul piano delle iniziative concrete, l'interessamento del governo
nazionale alla questione cominciava, del resto, a produrre in
merito i primi benefici effetti sul piano dei rapporti con i podestà
dei diversi Comuni della diocesi e c'era stato già qualcuno di
essi, come il podestà di Marcianise. che si era tempestivamente
preoccupato di emanare ''molto opportunamente [...] un
manifesto alla cittadinanza, invitandola alla moderazione e
serietà”. Non erano, poi, mancati riscontri positivi alla
sollecitudine del governo ad assecondare specifiche esigenze
della Chiesa casertana. In tempi rapidi era stata, per esempio,
stanziata una "cospicua somma" per il restauro dell'antica
cattedrale di Casertavecchia. grazie soprattutto
all'interessamento del ministro alla Pubblica Istruzione, on.
Pietro Fedele, al quale il Bollettino non mancava di indirizzare
dalle sue colonne un "entusiastico ringraziamento".
Eppure in quattro anni molte cose erano state fatte ed avviate
e sopratutto si stavano normalizzano i rapporti con la chiesa
cattolica per una serie di provvedimenti come quello che
prevedeva l’obbligo del crocifisso nelle scuole italiane.
Da qui il vescovo di Caserta Natale Gabriele Moriondo
tramutò l’apertura al fascismo nella convinzione sempre più
radicata dell'opportunità di guardare con fiducia alla politica del
regime in materia ecclesiastica, “dalla quale soltanto sarebbero
potuti derivare alla Chiesa, in tempi più o meno ravvicinati, tutti
quei riconoscimenti e quei benefici, che essa in passato, aveva
sempre auspicato, ma che ripetutamente le erano stati conculcati
e negati dai precedenti governi liberali e massonici.” Restava,
ovviamente, escluso ogni aperto sostegno, nel rispetto anche
delle superiori direttive, che imponevano al clero, ai sacerdoti e
religiosi della sua diocesi in prossimità delle consultazioni
elettorali nazionali del 1924 di mantenersi fuori dalle lotte dei
partiti e al di sopra di ogni competizione politiche. Il vescovo
precisava che ogni ecclesiastico come privato cittadino poteva
usare del suo diritto di voto che l’avrebbe esercitato secondo i
dettami della sua coscienza di buon sacerdote e in conformità
vero e indiscutibile interesse della Religione.

187
“Finiva per dare - sostiene Olindo Isernia - sia pure
indirettamente, un'indicazione di voto abbastanza mirata ed
esplicita, se si considera. in particolare, che i rapporti esistenti
tra la Santa Sede e il Partito Popolare di don Luigi Sturzo erano
ormai diventati tutt'altro che idilliaci”.
Il 31 ottobre 1926, un cupo pomeriggio, Mussolini in piedi
in un'Alfa-Romeo rossa guidata da Leandro Arpinati passava
lentamente tra la folla di Bologna avviandosi verso la stazione.
Gli sedeva accanto l'ing. Puppini sindaco della città e dinanzi,
Dino Grandi. Un'altra macchina lo seguiva dappresso, questa con
Balbo e De Bono all'interno; quattro squadristi si trovavano sui
predellini. Il corteo proveniva dall’Archiginnasio ove Mussolini
aveva inaugurato il Congresso delle Scienze e aveva percorso
Via Rizzali; all'angolo di Via Indipendenza tuonò una
revolverata.
“Di quell'attimo si posseggono testimonianze di due specie:
delle tre persone che si trovarono dinanzi alla canna della
rivoltella e di molti che si trovarono dalla parte della
impugnatura. - Giovanni Artieri29 in un suo resoconto - Dei tre
uno solo, Mussolini, vide in faccia chi gli sparava nel petto.”
La deposizione di Mussolini all’autorità giudiziaria che
indagava sull’accaduto fu resa a Forlì nella Villa di Carpena il
giorno seguente all'attentato: “All'angolo di via indipendenza
l'auto ha rallentato ed in quel momento ho distinto nettamente
un giovane di media statura vestito di chiaro con cappello
floscio che, dopo di aver superato i cordoni, ha fatto un passo
verso la mia vettura. Credevo trattarsi di una supplica, ma ho
immediatamente udito il colpo caratteristico dello sparo di un
revolver. Mi sono accorto che la pallottola non mi aveva colpito.
Dopo di aver sostato alcuni istanti con l'auto per rendermi conto
di quanto accadeva tra la folla e dopo aver constatato con
soddisfazione che anche l'ing. Puppini era rimasto illeso,
29
Giovanni ARTIERI (Napoli, 25 marzo 1904 – Santa Marinella, 12 febbraio
1995) è stato un giornalista e storico italiano. Nel 1971 fu eletto consigliere
comunale a Roma per il M. S. I. distinguendosi per le battaglie sindacali e il
supporto alla CISNAL. Nel 1972 e nel 1976 fu eletto senatore della
Repubblica per il M.S.I.. Nel corso della seconda elezione aderì a Democrazia
Nazionale - Costituente di Destra.

188
quantunque la pallottola gli avesse attraversato la manica del
braccio destro, ho proseguito per la stazione. Qui alla luce, ho
constatato che la pallottola aveva bucato la fascia dell'Ordine
Mauriziano e la giubba militare in grigioverde che si vede
lacerata all'altezza del taschino.”
Il ministro Dino Grandi che era presente ai fatti fu
interrogato il 2 novembre a Palazzo Chigi, il Sottosegretario agli
Esteri ricordò di aver visto un individuo, piuttosto piccolo di
statura, in piedi fra i cordoni della truppa e l'automobile a
brevissima distanza dalla persona del duce col braccio teso
ancora in atteggiamento di sparare. Un attimo dopo questo
individuo spariva afferrato dalla folla.
L’episodio suscitò una vasta eco in tutt’Italia e la notizia
dell’attentato arrivò anche a Caserta e Sua Eccellenza, il vescovo
Gabriele Natale Moriondo rimase molto turbato, ma si rallegrò
con la sorte per lo scampato pericolo del Duce e "fece suonare a
gloria" tutte le campane delle chiese della diocesi e vi furono
persino sacerdoti che celebrarono all'aperto messe di
ringraziamento, “dando forma mistica ed ancor più commovente
alle manifestazioni di popolo" come specifica un bollettino
diocesano dell’epoca.

189
190
La provincia soppressa
Con il decreto legge del 2 gennaio 1927 la Provincia di Terra
di Lavoro viene cancellata dall’assetto amministrativo della
nazione. Era un provvedimento del governo Mussolini che
diventerà legge soltanto il 18 gennaio del 1928 con il n. 2584
dopo un iter alquanto ambiguo.
Il confine della Campania viene arretrato sulla linea del
Garigliano. I comuni dell’hinterland di Gaeta a nord del
Garigliano sono aggregati a Roma, quelli di Sora costituiscono la
nuova provincia di Frosinone, i comuni a sud del Garigliano
vengono inseriti nella provincia di Napoli. I comuni della
sottoprefettura di Piedimonte Matese insieme a sette comuni che
facevano parte della provincia di Campobasso vengono aggregati
a Benevento.
Scompare la provincia che aveva come capoluogo Caserta.
Era la più estesa del regno con i suoi 5.269 Kmq ed una
popolazione di 867.826 abitanti suddivisi in 191 Comuni.
Un evento che neanche nelle scuole casertane viene
raccontato, sono pochi i professori di storia che conoscono
l’avvenimento e per di più ignorato dalla maggior parte degli
amministratori locali.
Il decreto non coglie di sorpresa i casertani dell’epoca anzi
già dall’autunno precedente correvano voci di un
ridimensionamento della provincia di Terra di lavoro, in vista del
nuovo ordinamento dello Stato che il fascismo si avviò a fare e
che fu ampiamente spiegato dal Duce in parlamento in occasione
del discorso dell’ “Ascensione”.
Non fu certamente un atto arbitrario né uno sgarro che
Mussolini avrebbe voluto fare ai Casertani secondo la letteratura
corrente, ma una volontà nata all’interno della stessa provincia
ed una sentita necessità di dare un nuovo assetto amministrativo
all’asse Roma Napoli.

La provincia di Cassino

Pressioni affinché la provincia di Terra di Lavoro fosse


divisa erano arrivate anche gli anni precedenti su sollecitazioni

191
dei comuni dell’attuale basso Lazio tanto da instaurarsi delle
vere e proprie dispute con la lontana Caserta fatte a suoni di
istanze al governo centrale.
Presso l’archivio di Stato c’è un importante documento
dell’amministrazione comunale di Cassino in cui si chiede al
governo Mussolini, da poco insediatosi, di raccogliere l’istanza
di formare una nuova provincia quella con capoluogo la città
benedettina.
Il territorio oltre a comprendere il circondario doveva
inglobare alcune altre località ricadenti nel vicino Molise e che
avrebbero dovuto comprendere Venafro e Castellone.
Diversa la situazione dopo l’unità d’Italia. Di contro le
Amministrazioni dei Comuni dei Mandamenti di Venafro e di
Castellone avevano più volte espresso il desiderio di essere unite
alla provincia di Caserta, non certo per amore verso la città di
Vanvitelli, quanto piuttosto per i rapporti economici e le
opportunità offerte dalla maggiore popolazione della provincia
confinate.
Le due municipalità chiedevano al governo con una istanza del
10 Novembre 1866 ed 8 Ottobre 1869, di ritornare in Terra di
Lavoro revocando il provvedimento luogotenenziale di Eugenio
di Savoia di Carignano che trasferiva i mandamenti di Cusano,
Guardia Sanframonti, Solopaca, Aiola, S. Agata dei Goti alla
nuova provincia di Benevento quelli di Baiano e Lauro al
principato Ulteriore e quelli di Venafro e Castellone a
Campobasso.
Il ritorno alla primitiva circoscrizione, formò oggetto anche di
proposte al Parlamento, ed in una fase successiva furono
depositati tre progetti di legge alla Camera aventi sempre per
oggetto il ritorno in provincia di Caserta delle terre sottratte. Nel
1878 fu presentato dall’On.le Francesco D'Amore, nel 1879 dai
Deputati On. li Nicotera e Gaetani di Laurenzana e nel 1880 dal
Deputato On. le De Zerbi.
Le due prime proposte, approvate dagli uffici, giunsero allo
Stato di relazione. favorevole, relatore per la prima l'On.le Grossi
Federico, per la seconda l'On.le Del Giudice Giacomo, non
furono discusse ed approvate dalla Rappresentanza Parlamentare
per la sopravvenuta chiusura della Sessione; l'altra proposta, per

192
le “vicende parlamentari del tempo”, non venne parimenti
discussa.
Il comune di Cassino quindi nell’evidenziare queste
circostanze non fece altro che trovare maggiori argomenti a
supporto alla sua tesi di vedere costituita la sua provincia che
tenesse conto della situazione pregressa.
L’istanza al Governo Mussolini porta la data del 10
dicembre del 192330
30
Il Governo Nazionale nello svolgimento della benefica opera di
restaurazione ha compreso, con illuminata visione dei reali bisogni della
Nazione, il riordinamento delle circoscrizioni amministrative, attuando e
predisponendo provvedimenti-intesi a far coincidere le circoscrizioni stesse
con le esigenze dei traffici,con le condizioni topografiche e con gli interessi
delle popolazioni.
L'Amministrazione Comunale di Cassino, plaudendo ai sani criteri che nel
campo del nuovo assetto delle giurisdizioni amministrative ispirano le
provvidenze governative, si onora sottoporre al benevole esame dell'E.V.
On.ma il voto perché un migliore ordinamento venga dato anche alla
Provincia di Caserta,ed in particolare al Circondario di Sora.
All'uopo si onora richiamare la cortese attenzione dell'E. V. On.ma sulle
seguenti brevi considerazioni.

Cenni sommari sulla provincia Terra di Lavoro.


La Provincia di Terra di Lavoro é situata nella parte occidentale della
Campania.Confina a settentrione con l'Abruzzo Ulteriore; ad oriente con le
Provincie di Molise, Benevento ed Avellino; ad occidente col mar Tirreno e
con la Provincia di Roma; a mezzogiorno con la Provincia di Napoli e di
Salerno.
La popolazione legale, secondo il censimento dell'anno 1911, non essendo
ancora pubblicati i risultati ufficiali dell'ultimo censimento, é di abitanti
829.705, dislocati su di una superficie di chilometri quadrati 5300 con una
popolazione media per ogni chilometri quadrato di 156.5 abitanti.
La Provincia é divisa in cinque Circondari, 41 Mandamenti e 191 Comuni.
Il Capoluogo della Provincia (Caserta) sorge in punto eccentrico rispetto alla
ubicazione dei Comuni della zona est del Circondario di Gaeta ed in confronto
delle popolazioni dei Circondario di Sora, comprendendo quest'ultimo
Comuni distanti dal Capoluogo di Provincia oltre cento chilometri.

Antiche aspirazioni per la divisione in due della provincia


E' trentennale aspirazioni delle popolazioni dei territori estremi di Terra di
Lavoro che la Provincia fosse divisa in due, con distinte circoscrizioni: l'una
comprendente i Comuni dei Circondari di Caserta e di Nola, parte dei Comuni
del Circondario di Piedimonte d'Alife, con Capoluogo Caserta; l'altra

193
costituita dai Comuni, degli attuali Circondari di Sora e Gaeta e di quelli di
qualche Mandamento del Circondario di Piedimonte d'Alife con Capoluogo
Cassino; Città questa, che per la sua ubicazione, per affinità etnografiche, per
le facili vie di comunicazione, presenta i migliori requisiti per essere il Centro
di comodo accesso, per una vasta plaga, la quale ha tradizioni e vincoli storici
connessi allo sviluppo ed alla vita di Cassino.
Una tale divisione territoriale soddisfarebbe anche i giusti criteri di
decentramento, riducendo la pletoricità della troppo vasta Provincia di Terra
di Lavoro, con il conseguente vantaggio di una maggiore speditezza degli
affari con semplificazione e miglioramento dei servizi.

Integrazione del territorio della nuova provincia con l'aggregazione di


altri due mandamenti del Molise già appartenenti alla Campania.
Ad integrare. la circoscrizione territoriale della nuova Provincia da crearsi con
Capoluogo Cassino appalesasi opportuna la assegnazione ad essa dei due
Mandamenti di Venafro e di Castellone al Volturno, che distaccati,
provvisoriamente, dalla Provincia di Caserta nell'anno 1861 vennero in
dispregio ai voti ed agli interessi delle rispettive popolazioni, assegnati alla
Provincia del Molise, i quali Mandamenti, da cinquant'anni con tenace
fermezza di propositi, vanno invocando il ritorno in seno alla Campania, alla
quale Regione si sentono sempre congiunti per affinità etnografiche, mentre vi
sono legati da favorevoli condizioni topografiche, di viabilità, di scambi, di
rapporti culturali e di dipendenza per l'amministrazione della giustizia.
Dei suddetti Mandamenti quello di Venafro é territorialmente limitrofo a
Cassino, il cui Capoluogo ne dista appena ventisei chilometri, quello di
Castellone vi é congiunto da dirette e comode vie di accesso, mentre ha con
questo Centro legami di culto, dopodiché il Rev.mo Padre Abate di questa
Storica Badia ha giurisdizione vescovile su tutti i. Comuni di quel
Mandamento.
… Pertanto il Governo Fascista, tutore di ogni giusta espirazione, supremo
vindice di dritti denegati, compirebbe ogni atto di alta giustizia riparatrice,
reintegrando la Provincia di Terra di Lavoro con la restituzione ad essa dei
due Mandamenti arbitrariamente dalla stessa avulsi e congiunti ad un
territorio del quale, dopo mezzo secolo di annessione, sentono di non esser
parte, mentre forti distanze, condizioni difficili di viabilità e di mezzi di
comunicazione fanno sentire sempre più estranea quelle popolazioni al
Capoluogo di Provincia loro ingiustamente imposto, con il quale non hanno
legami spirituali e vincoli economico-sociali.
Compiendo tale opera di giustizia dall'illuminato Governo dell'S.V. é giustizia
altresì assegnare ai due Mandamenti di Venafro e Castellone al Volturno
restituiti alla Provincia Madre, quale Centro della giurisdizione
amministrativa il Capoluogo naturale di essa: Cassino, che, in dipendenza del
recente R.D.28 giugno 1923, con alto senso di equità, promosso dall'E.V., é il
Capoluogo anche della Circoscrizione Giudiziaria, alla quale i Comuni dei

194
ripetuti Mandamenti sono stati assegnati, e rispetto ai medesimi ha posizione
centrale, vicinanza e facilità di rapido accesso.
Migliore ordinamento del circondario di Sora mantenendosi l'attuale
circoscrizione territoriale della provincia di Caserta
Qualora l'E.V.On.ma non reputi utile ai supremi fini di pubblico interesse la
suddivisione della Provincia di Terra di Lavoro come innanzi proposta,
l'Amministrazione Comunale di Cassino si onora invocare assetto del
Circondario di Sora.
Esso confina a Nord con la Provincia di Aquila, ad est con la Provincia di
Campobasso, a Sud con i Circondarii di Caserta e Gaeta ed ad Ovest con la
Provincia di Roma.
E' costituito da 40 anni, Comuni e tiene il terzo posto come estensione fra i
cinque Circondari della Provincia, mentre ne é il secondo per popolazione.
In base ai dati del nuovo Catasto, la sua superficie totale risulta di Ettari
137.838.
Il suo Capoluogo, Sora, sorge nella parte più settentrionale del territorio del
Circondario e risulta estremo per i quattro quinti dei Comuni che vi
appartengono, non servito di comode vie d'accesso, onde da lunghi anni é
aspirazione sentita dalla maggioranza dei Comuni del predetto Circondario la
designazione di una sede dei Capoluogo più centrale.
Dalla configurazione topografica del Circondario risulta che la sede più adatta
a Capoluogo dello stesso é appunto Cassino, Città che legittimamente aspira
alla dignità di Centro della giurisdizione circondariale per l'importanza
assunta, per il progressivo sviluppo quotidiano, per i rapporti di ogni genere
con tutti i Comuni del Circondario di Sora e di Gaeta, per i suoi requisiti di
centro di coltura e sede di importanti uffici pubblici aventi giurisdizione su
una vasta plaga.
In vero Cassino, nell'ultimo decennio, ha visto aumentare la propria
popolazione di cinquemila abitanti, raggiungendo la cospicua cifra di oltre
diciannovemila anime. Ha uno scalo ferroviario di primaria importanza sulla
linea Roma-Napoli, servito da treni diretti e direttissimi, con fermata
obbligatoria. Fanno capo a Cassino cinque linee automobilistiche:
(Cassino, Atina, Sora; Cassino-Ausonia-Formi- Fondi;
Cassino-Venafro-Colle al Volturno;
Cassino-Pontecorvo-Paco-Fondi;
Cassino-Mlznano-Galluccio-Sessa Aurunca) che assicurano rapide
comunicazioni con i Comuni dei Circondari di Sora e Gaeta, con la Provincia
di Roma, con quella di Campobasso, con il Circondario di Caserta.
Hanno qui sede il Tribunale e la Corte di Assise, l'Archivio Distrettoriale
Notarile, l'ispettorato Forestale, la Cattedra Ambulante di Agricoltura, un
Ufficio di Bonifica del R. Genio Civile, l'Agenzia delle Imposte Dirette,
l'Ufficio del Ricevitore del Registro e Bollo, l'Ufficio di Ispettore del
Registro, un Distaccamento di un Battaglione della Legione Allievi
Carabinieri, l'Ufficio Regionale di Ispettore Scolastico. Cassino vanta inoltre

195
fiorenti Istituti di istruzione media: R. Ginnasio, Liceo Pareggiato, Scuola
Tecnica Pareggiata, Istituto Tecnico Comunale.
La sua centralità dà la possibilità di dirette comunicazioni con tutti i Comuni
del Circondario, con i quali oltre che dai cennati servizii automobilistici e
dalla Ferrovia Roma-Napoli e Roccaseeca-Avezzano, é collegato con una ben
mantenuta rete stradale carrozzabile, le cui arterie principali sono:
a) la strada provinciale Napoli-Roma, interna, che attraversa o tocca i territorii
dei Comuni di S. Vittore del Lazio, Cervaro, Villa S. Lucia, Piedimonte S.
Germano, Aquino, Castrocielo, Roccasecca, Roccad'Arce, Arce e transita per
il centro urbano di Cassino.
b) La strada sferracavalli che muove dall'abitato di Cassino e mena a Sora,
dopo aver attraversato i territorii dei Comuni di S. Elia Fiumerapido,
Belmonte Cattedra, Atina, Casalvieri, Alvito, Vicalvi, Fondichiari, Brocco.
c) la strada provinciale di Sora che partendo dalla Napoli-Roma di cui alla
lettera a) in vicinanza dell'abitato di Arce, attraversa i territorii dei Comuni
d'Arce, Fontana Liri, Arpino, Isola Liri, Sora e mette alla Provincia di Aquila.
d) la strada Roccasecca-Isernia anch'essa provinciale, che si dirama parimenti
dalla strada Napoli Roma di cui innanzi, e tocca i territori dei Comuni di
Roccasecca; Colle S.Magno, Santopadre, Aquino, Arpino e Calvieri; quindi
dopo un breve tratto in comune con la strada. Sferracavalli in territorio di
Atina, attraversa i territorii dei Comuni di Villa Latina, Picinisco, S.Biagio
Saracinesco e Vallerotonda, penetrando in Provincia di Campobasso.
e) la strada provinciale Cassino-Formia, denominata strada di Ausonia, che
partendo dal centro urbano di Cassino raggiunge Pignataro Interamna e per S.
Giorgio a Liri-Ausonia, conduce a Formia, Gaeta, a Terracina in Provincia di
Roma.
f) fra le maglie della rete formata da queste vie principali si svolgono altre
numerose strade che hanno come punto di convergenza Cassino, quali: la
Cassino-Pontecorvo (strada Leuciana), la strada di Esperia che si innesta alla
Cassino-Formia, la strada di Forca d'Acero che si innesta alla Cassino-Atina
ecc.ecc.
A queste condizioni favorevoli di centralità e di viabilità vanno aggiunte
considerazioni d’ordine spirituale che conferiscono a Cassino il privilegio di
Comune, già riconosciuto, per i suoi precedenti quale centro di attrazione
sempre maggiore a causa dei rapporti economico-sociali con le popolazioni
della Valle del Liri.
Pertanto la elevazione a capo del Circondario del Comune di Cassino risponde
a manifesti criterii, di equità, di convenienza e di pubblica utilità.

Modificazione della circoscrizione territoriale del circondario di Sora in


dipendenza della designazione di Cassino a capoluogo del circondario
stesso.
Nel rassegnare all'alta considerazione dell'S.V. il voto per la designazione di
Cassino a Capoluogo del Circondario di Sora, l'Amministrazione Comunale,

196
che mi onoro di presiedere, pregiasi sottomettere altresì la proposta perché al
Circondario venga dato un più razionale assetto territoriale.
All'uopo, con riferimento alla dimostrata necessità dell'aggregazione alla
Provincia di Caserta dei Mandamenti di Venafro e di Castellone al Volturno
di cui è cenno innanzi, l'Amministrazione Comunale di Cassino invoca dalla
saggezza del Governo Centrale l'assegnazione dei suddetti Mandamenti al
Circondario di Sora, col quale hanno identità di caratteri etnografici e
culturali.
La stessa Amministrazione, ai fini di ricondurre il Circondario nella sua unità
storica di razza e topografica invoca altresì che al Circondario di Sora siano
aggregati alcuni Mandamenti dei Circondarii di Gaeta e di Caserta e
propriamente il Mandamento di Esperia, il cessato Mandamento di Pico ed il
Mandamento di Mignano, costituendosi cosi, come dalla allegata cartina, una
organica circoscrizione avente un’uniformità di interessi e spiccate
caratteristiche che la individuano e distinguono da ogni altro, aggregato, con
perfetta coincidenza alla giurisdizione giudiziaria.
L'aggregazione dei sunnominati Mandamenti al Circondario di Sora é
reclamata anche dalle condizioni economico-sociali dei Mandamenti stessi,
che con il Circondario suddetto hanno intensità di rapporti commerciali, di
traffici, mentre le rispettive popolazioni hanno orientato verso il Circondario
stesso le loro attività, rompendo quelle che erano tradizioni di vita e di affari
con centri di attrazione corrispondenti al cessato ordinamento del vecchio
Stato Napoletano e Ponteficio.

Offerta di una sede idonea da parte dell'amministrazione comunale di


Cassino per allocarvi gli uffici pubblici in conseguenza del nuovo
riordinamento della circoscrizione provinciale e circondariale.
L'Amministrazione Comunale di Cassino si dichiara disposta a concedere i
locali adatti per collocarvi gli uffici pubblici che, attuandosi i provvedimenti
innanzi invocati, dovrebbero aver sede in Cassino. Al riguardo designa
l'edificio del cessato R. Corso Magistrale che potrebbe destinarsi allo scopo,
nonché i locali della soppressa Scuola Tecnica e quelli dell'Edificio Scolastico
di S. Antonio, in via di ultimazione, riservandosi la migliore sistemazione
degli stabili in parola, sgombrando eventualmente i locali della Casa
Comunale trasferendoli altrove e coordinando la dislocazione attuale degli
Uffici e Scuole dipendenti dal Comune in guisa da averne di risulta idonei e
sufficienti ambienti opportunamente adattati.
Potrà per lo scopo utilizzarsi anche qualcuna delle recenti palazzine sorte con
le nuove costruzioni nella zona di ampliamento del piano regolatore della
Città.
Le prospettate imprescindibili esigenze economiche ed amministrative, le
indicate alte considerazioni di equità, di convenienza e di pubblica utilità
confortano i voti di questa Città che emanano dal sentimento, dell'intera
popolazione e sono in rispondenza agli sforzi di questo laborioso centro per
un migliore avvenire al promettente progressivo suo sviluppo, onde

197
La storia ha dimostrato che alla fine le cose si misero male.
Ma chi doveva vigilare affinché Caserta non fosse così
penalizzata. E chi doveva consigliare Mussolini che almeno parte
del provincia fosse salvata? Una domanda semplice nella sua
essenza, ma di difficile soluzione, nonostante le analisi e gli studi
fatti da, Giuseppe Capobianco, Silvano Franco e molte tesi
universitarie.
Una delle più attendibili ricostruzioni è quella del console
Stefano de Simone, un protagonista degli eventi, che alla
veneranda età di 92 anni prese carta e penna ed incominciò a
scrivere i fatti con una lucidezza ed un acume da fare invidia ai
giovani. I suoi scritti furono pubblicati sul quindicinale casertano
“Il Corso” in varie puntate.
Il regime creava in Italia 17 nuove province e ne sopprimeva
solo Caserta.
Racconta de Simone nel suo manoscritto:
“Dopo l'uscita dal partito di Aurelio Padovani, i fascisti
più preparati o si erano ritirati a vita privata, o, pur
conservando la tessera, lasciarono che altri li sostituissero
alla testa dell'organizzazione. La Segreteria provinciale
passò da Raffaele Di Lauro al Mesolella e fini nelle mani di
De Spagnolis, ma quello che più fu grave è che vi trovarono
posti ed onori i capi della Massoneria dei due riti, che si
facevano concorrenza per prevalere, e questa situazione
anomala, era anche sfuggita agli ispettori inviati da Roma
per saggiare il grado della coesione e compattezza del

l'Amministrazione Comunale attende fiduciosa le superiori determinazioni del


benemerito Governo Nazionale e rende devote azioni di grazie per il cortese e
benevolo esame che 1'E.V. si degnerà di fare del presente memoriale. Si
alligano:
a) Memoria a stampa rispondente i voti cinquantenari dei Mandamenti di
Venafro e Castellone al Volturno per la loro reintegrazione alla Provincia di
Caserta;
b) Copia di deliberazioni che riaffermano i suddetti voti;
o) Cartina topografica dell'attuale circoscrizione territoriale del Circondario di
Sora con le proposte modifiche per il nuovo ordinamento del Circondario
stesso.
Con profondo ossequio

198
Partito, i quali disorientati si rivolgevano ai Prefetti, che per
quieto vivere li orientavano verso personaggi che
permettevano a loro sonni tranquilli.
Ma chi erano i casertani che contavano di più nella capitale
del Regno in quel lontano 1926 ?
Onorevole Antonio Casertano, Onorevole Senatore Pietro
Fedele, nato a Minturno, ordinario di Storia alla Università di
Roma e maestro dei Principi Reali, conosciuto nell'hinterland dei
Comuni del Garigliano, ma di cui ai più è ignota l'attività
politica, si dice che ha tendenze Nazionaliste e non risulti che
abbia la tessera fascista. E' attualmente Ministro della Istruzione
del Governo di Mussolini e, quando si reca nel paese nativo,
accoglie con benevolenza gli omaggi del Segretario politico e dei
fascisti in genere. Affermano i benpensanti, che è l'uomo della
Corona.
Onorevole Alberto Beneduce, nato a Caserta il 29 marzo
1877 da una famiglia di modeste condizioni, studiò discipline
matematiche a Napoli, dove si laureò nel 1900.
E gli altri avrebbero potuto fare qualcosa per salvare la
Provincia di Caserta e che invece non fecero più di tanto, anzi
non scrissero neanche un rigo contro il provvedimento? In effetti
erano stati eletti nel collegio della Campania nella XXVII
legislatura con il T.U. n. 2694 del 3 dicembre del 1923
conosciuto come legge Acerbo dal nome del primo relatore l’on.
Giacomo Acerbo e che raggruppava in una sola circoscrizione le
province di Avellino, Benevento Caserta, Napoli e Salerno.
L'onorevole Paolo Greco dello Stato Maggiore dell'Esercito,
piombò nel nolano nel periodo della Campagna del Porto di
Napoli e si dedicò ad organizzare il Partito Nazionalista nella
provincia, ma senza guardare per il sottile, vestì in camicia
azzurra tutti quei personaggi ai quali le Sezioni fasciste, ligie alle
disposizioni di Padovani, avevano negato di potere indossare la
camicia nera. “Naturalmente finì fra i Nazionalisti gente
malfamata e guappi delle cosche della camorra – scriveva
Stefano de Simone - e ciò gli valse la conquista del Medaglino
nelle ultime elezioni, ma fu anche il motivo iniziale del dissidio
Padovani-Mussolini.”
Onorevole Achille Visocchi avvocato nato ad Atina, nell'alta

199
provincia, proprietario terriero di vaste estensioni, Nittiano
attivo, attento soprattutto ad impedire che in provincia venissero
elevati gli estimi catastali dei terreni.
“Questa politica aveva portato la provincia di Caserta,
una volta chiamata Terra di Lavoro, a trascurare la buona
manutenzione delle strade provinciali, ed impedire, la
costruzione di nuove arterie che avrebbero dovuto unire, con
tracciati brevi ed efficienti, i vari Circondari al Capoluogo
che, per essere decentrato, era di difficile accesso. Sordo ad
ogni idea di rinnovamento, era il vero retrivo, e quindi un
uomo deleterio per l'avvenire della Provincia”.
L'Ammiraglio Fulco Tosti di Valminuta, era il Deputato di
Gaeta e aveva curato, nei limiti delle sue possibilità, che il porto
militare di Gaeta non venisse declassato a favore di quelli, di
altre parti d'Italia. “Non era un fascista, ma guardava con
interesse lo sviluppo del nostro partito”.
L'Onorevole Conte Peppino Pavoncelli, aveva grossi
interessi su Mondragone e a Baia Domizia, di cui sfruttava le
pinete ed i pascoli, preparandone la svolta residenziale. Era
attento a non farsi attrarre in movimenti faziosi ed era di
tendenze liberali monarchiche, felice dell'abbandono della
tendenzialità repubblicana dei fascisti. “Non era nostro nemico,
anzi un personaggio da acquisire.
Infine la Pattuglia dei Deputati del Pipì, capeggiata dall'ex
Ministro della guerra Giulio Rodinò “il Generale delle figlie di
Maria i quali vantavano il valore del loro Onorevole Giovanni
Gronchi, sottosegretario nel Governo di Mussolini”.
In definitiva erano questi, insieme ad altri gerarchi locali che
avevano il compito di vigilare e svolgere l’azione politica sulla
provincia.
Ma il regime aveva le sue esigenze e come pure i deputati e
senatori in vista di un irrigidimento della politica mussoliniana
dopo i vari attentati fatti al capo del governo.
Il duce dirà “La molteplicità e la complessità delle funzioni
che la nuova legislazione ha demandato agli organi provinciali
autarchici e governativi impongono che la zona territoriale nella
quel essi sono chiamati a svolgere la loro attività sia
opportunamente contenuta entro congrui confini”.

200
Che un ridimensionamento della più grande provincia
d’Italia era in corso lo dimostra anche un trafiletto uscito ad
inizio dicembre sul Giornale d’Italia che annunziava la nascita
di sedici province e poi aggiungeva “La provincia di Caserta
potrebbe essere divisa tra le province limitrofe: ma per ora nulla
si può affermare di preciso ed ogni notizia va accolta con
riserva”.
Nell’ambito politico c’erano molte conflittualità tra i fascisti
locali. Tra queste se accettare o meno l’on. Casertano nelle loro
file dopo la sua esplicita richiesta al duce. E dopo che il duce
stesso aveva rimandato la questione agli organi centrali del
partito.
Scriveva de Simone: “Ci fu l’attento a Mussolini, se ben
ricordo a Bologna, ma potrei sbagliarmi, e Mussolini tornò a
Roma come un trionfatore. In quella occasione Casertano si
precipitò da lui, si inginocchiò, con occhi di pianto gli disse
parole che commossero il capo del governo e gli chiese l’onore
della tessera del Partito, e Mussolini promise e ne parlò a
Farinacci e questi passò la patata bollente a Blanc, il quale
preso alla sprovvista, non pensò alle conseguenze che avrebbe
provocato in provincia.”
In provincia il Casertano non godeva di una buona stima tra
i fascisti, la situazione era talmente conflittuale tra loro che la
decisione di iscriverlo avrebbe portato altri contenziosi. Per il
console de Simone “Casertano, era vero, aveva appoggiato
Mussolini, ma teneva nel suo feudo un grosso gruppo di persone
che non aveva mai aderito al Partito, ed anzi, tenuta buona della
personalità spiccata del Presidente della Camera dei Deputati,
si sentiva al sicuro ed in diritto di ciarlare liberamente.” .
Queste continue liti non andavano giù al Duce ed anche il
commissario on. Blanc ne era amareggiato.
“Queste decisioni che a noi sembrarono giuste,
indispettirono Mussolini, e tolsero a Blanc la voglia di
combattere la nostra battaglia.- Continua de Simone - Diventò
meno discorsivo, più angoloso, una volta ci disse che la
Provincia era molto estesa e sarebbe stato utile portare al
Garigliano il confine di Caserta. Un altro giorno ci disse che
Farinacci aveva visto fra le mani di un funzionario del Ministero

201
degli Interni, un elenco dei Prefetti di Caserta che avevano la
residenza a Napoli. Allora capii che qualcosa di oscuro si stava
tramando.”
Ne venne fuori una proposta: la riunione della pentarchia
allargata al prefetto. Una riunione che si fece a Formia e che fu
la chiave di svolta fondamentale.
de Simone annota che il quella sede si parlò:
“dei motivi che avevano originato le difficoltà dei
collegamenti del capoluogo con i circondari della parte alta,
e proposi la costituzione della provincia di Cassino con
limite il Garigliano e la zona di San Pietro in Fiore. Fu
accolta dai Pentarchi e dallo stesso Prefetto. Blanc mi
sembrò disteso, non se lo aspettava da me, ma accennò al
fatto che Cassino era sede di un Tribunale, e di molti
avvocati ciarlieri, ed il nostro capo paventava i
chiacchieroni.
Ma ciò non bastava, c'era Napoli che chiedeva spazio e
si voleva ingrandire. Disse il Prefetto:
- A Napoli possiamo cedere il territorio prossimo al
Vesuvio, Nola, per esempio, e la frangia più vicina dei paesi
dell’aversano ?
- E che male abbiamo fatto per essere estromessi dalla
Provincia? Replicò il Pentarca di Nola.
- Nessun male ma perché siete più vicini a Napoli che a
Caserta, ed i nostri commerci trovano più spazio nei paesi
vesuviani.
Poi Blanc chiuse la discussione dicendo: “per l'altra
provincia tutti d'accordo, per Nola invece l'accordo non c'è,
ma è una soluzione plausibile”.
…. Ma non avevamo calcolato l'effetto che avrebbe
procurato su Mussolini la nostra decisione. Egli, prese la
cosa come un affronto alla sua volontà dettata da nostra
insensibilità politica e risolse 1'affare Caserta sulle
indicazioni storiche del Ministro Pietro Fedele e le notizie
fornite da Antonio Casertano sul domicilio notturno di
qualche Prefetto che preferiva l'aria marina per i suoi sonni
tranquilli.”
A questo si aggiunge anche, Margherita Grassini, ultimogenita di

202
una famiglia ebraica, meglio conosciuta come Margherita
Sarfatti per aver sposato a 18 anni Cesare Sarfatti, avvocato di
orientamenti radicali. Come è noto la Sarfatti era la “Musa”
ispiratrice del Duce per quanto riguardava la storia dell’Impero e
anche per “altro”. Apparteneva alla redazione del "Popolo
d'Italia" fin dagli inizi, occupandosi prevalentemente della critica
letteraria e artistica. Aveva aderito al fascismo nel gennaio del
1922 ed era redattrice capo della rivista mensile di cultura
"Gerarchia", che poi diresse ufficialmente dal 1924 al 1935.
La Sarfatti sulla storia della Provincia di Caserta era bene
informata, perché la figlia era fidanzata con il conte Livio
Gaetani di Piedimonte Matese. Si dice che il Gaetani,
frequentando il salotto romano della suocera avesse raccontato,
in più occasioni, come le terre matesine appartenevano ai sanniti
e che il territorio di Terra di Lavoro si estendeva fino a Sorrento
inglobando anche Napoli.
C’erano quindi tutti gli ingredienti, perché il duce prendesse
la decisione estrema. Lo scenario di quelli che contavano non era
dei migliori. C’era un presidente della Camera, Antonio
Casertano, che per carattere e strategia pensava più a mantenere
il potere anziché inimicarsi il regime, il ministro della Pubblica
Istruzione Pietro Fedele che non vedeva l’ora di sganciarsi da
Caserta ed avere un suo feudo come la provincia di Frosinone ed
Alberto Beneduce, che in quel periodo aveva lasciato la politica
per entrare nel mondo della finanza ed era alla scalata della
“Bastogi”. Se a questo si aggiunge che il fascismo casertano era
infestato dalla massoneria e nella provincia regnava la camorra,
sia del nolano che dei Mazzoni, la decisione presa agli occhi del
Duce non poteva che sembrare giusta.
Del resto, subito dopo il provvedimento della soppressione
della provincia, il Giornale d’Italia dell'11 dicembre del 1926,
quasi in chiave ironica titolava un suo intervento "Elogio della
provincia di Caserta". Nel testo si leggeva: "Ma nella storia
dell'Italia parlamentare, dell'Italia elettorale di Giolitti, tu hai
scritto delle pagine non belle. Tu avevi 12 collegi elettorali. Le
cronache del tempo sono famose per i fasti elettorali dei Collegi
di Aversa, di Acerra e di Capua che furono detti "borghi putridi".
Ogni elezione era un carnevaletto, qualche cosa come i saturnali

203
della canaglia. Ogni elezione portava ad un cambiamento di
prefetto."
Ma i casertani non ci stanno e Stefano de Simone, Giovanni
Tescione, il vescovo Natale Moriondo e altri tentano allora
l’operazione di recupero.
A fare da intermediario con la segreteria della presidenza del
consiglio è l’on. Gian Alberto Blanc, si impegna a portare una
delegazione a Roma con lo scopo di chiedere al Duce il perché
era stata sacrificata la provincia di Caserta. Poco convincenti
sembravano agli occhi dei gerarchi casertani, le scusanti del
Ministro Pietro Fedele che si era dichiarato pronto ad incontrare
Mussolini insieme agli altri. Più difficile fu contattare il
presidente della Camera dei deputati Antonio Casertano, mentre
era completamente inutile rivolgersi ad Alberto Beneduce che
non sedeva più nei banchi del parlamento.
Intanto correva voce che anche il vescovo della città
capoluogo Gabriele Natale Moriondo si voleva fare interprete
delle lamentele della cittadinanza e per questo l’alto prelato
aveva fatto pressione attraverso il vaticano del suo desiderio di
incontrare il Duce.
Ma il periodo non era dei più favorevoli, il duce era scosso
dai tre attentati subiti nell’anno: quello dell’irlandese Violet
Gibson in Aprile, la bomba a mano lanciata dal giovane
anarchico Gino Lucetti, che esplose a pochi metri dalla sua auto
nei pressi di Porta Pia, e quello di Bologna fatto dal presunto
colpevole il quindicenne Anteo Zamboni.
Del resto era stato costretto a durissimi provvedimenti che
certo non prese a buon cuore, per guardarsi sia dall’opposizione,
ma maggiormente più dal suo partito. I motivi ufficiali: la
sicurezza del regime fascista e la difesa dello Stato.
Cosi dopo lo scioglimento dei partiti e delle organizzazioni
di opposizione, il governo introdusse la pena di morte per i reati
commessi contro i rappresentanti dello Stato. Nel frattempo
lasciavano il paese i suoi vecchi amici socialisti, Filippo Turati,
Pietro Nenni ed altri.
Un fine anno non certo da stare allegri. Era ovvio che i
casertani non erano graditi nelle stanze del governo anche perché
venivano a mettere in discussione delle decisioni già prese ed il

204
caso Caserta andava guardato nella globalità del riordino dello
Stato nel senso generale.
“Blanc ci fece sapere che Mussolini ci avrebbe ricevuti al
Viminale – racconta Stefano de Simone pentarca casertano -
Appuntamento a Roma, a casa sua, Piazza del Popolo. Poi venne
il momento dell'incontro. In una anticamera c’era il Senatore
Fedele, che come vide Blanc lo raggiunse e ci fece entrare in
uno studio non grande dove c'era un tavolo scrivania ed alcuni
scaffali con dei libri, dietro il tavolo una sedia a braccioli ed una
sola sedia imbottita per un eventuale visitatore. I presenti
presero posto intorno al tavolo mentre io e Maceratini ci
avvicinammo ad una finestra che guardava la scala di ingresso
del Ministero. Blanc parlava con Fedele, ma come si sentirono
battere i tacchi nel corridoio, Blanc lasciò Fedele e venne ad
affiancarmi.
Era il Duce che raggiungeva la delegazione. Fu accolto col
saluto romano, un saluto senza un “a noi!” o un “alalà!”.
“Il Senatore ascoltò le parole di Mussolini come avesse
ricevuta una guanciata, sull'attenti, male insaccato in un “tait"
in disordine, e cosi rimase per tutto il tempo.”
Continua de Simone. Il capo del fascismo con il suo
decisionismo lasciò poco spazio a tutti dicendo: "Mi è stato detto
che il provvedimento preso per Caserta non vi ha lasciati
indifferenti, ma è un provvedimento che ha radici profonde la
costituzione delle regioni romane al tempo dell'Imperatore
Augusto. Ho cosi ricostituito il grande Lazio e dato respiro a
Roma, (e guardò Fedele), ho restituito al vecchio Sannio,
almeno in parte, le terre che aveva perdute nella contesa con i
romani ho costituito la provincia Ciociara, col centro storico di
Frosinone che verrà espanso in piano, che in difetto di comode e
razionali strade era quasi avulsa da Caserta, ho dato a Napoli il
suo retroterra, e Caserta deve rassegnarsi ad essere il suo
sobborgo”.
Poi guardando il Prefetto Bonaventura Graziani: "Ho trovato
qui al Ministero, notizie di Prefetti di Caserta che in periodo
giolittiano abitavano con la famiglia a Napoli, il che mi ha
convinto che era anacronistico lasciare Caserta sia pure ridotta
ai minimi termini, nel novero delle Province. Ho appreso invece

205
del vostro scontento e me ne stupisco, il tempo ci dirà se si è ben
deciso e se ci sarà qualcosa da modificare quando avrete
indossato la toga virile ne riparleremo,” e poi con voce
concitata, guardando Blanc concluse: “Avete voluto il governo
forte? ed ora obbedite”
de Simone annotò molto tempo dopo: “Ho riportato il
soliloquio di Mussolini per sommi capi, Blanc mi era vicino e mi
sorvegliava per tenermi tranquillo, ma quando si parlò di "toga
virile" mi irrigidii. Avrei voluto interloquire, ma una strattonata
di Blanc che mi stringeva il braccio mi costrinse a zittire.”
Dell’incontro dei gerarchi fascisti il giornale locale “Terra di
lavoro” del 22 dicembre 1926 pubblica la velina dell’ufficio
stampa del governo:
“I componenti la Federazione Fascista di Terra di
Lavoro ed i Deputati Fascisti della cessata Provincia,
accompagnati dall'On. barone Gian Alberto Blanc, ex
segretario federale, sono stati ricevuti dal Duce venerdì, 17
dicembre 1926.
Erano presenti l'avv. Bergamaschi, ex vicesegretario
federale, l'ing. Nino Sotis, il dott. Stefano de Simone, il prof.
comm. Filippo Saporito, l'ing. Adelchi Mancusi, il console
cav. Francesco Argentino, membri del Direttorio provinciale;
S.E. Pietro Fedele, Ministro della Pubblica Istruzione, l'On.
conte Fulco Tosti di Valminuta, l'On. conte Giuseppe
Pavoncelli e l'On. tenente colonnello avv. Paolo Greco.
Dopo la presentazione l'On. Blanc ha tenuto ad
affermare al Duce la saldissima fede, la ferrea disciplina e
l'assoluta devozione di tutti i fascisti della cessata provincia.
Il Duce si è mostrato perfettamente edotto e soddisfatto
dell'opera compiuta e dei risultati raggiunti dalla Federazione
sotto la guida dell'On. Blanc.
Il Duce ha precisato che il provvedimento di
smembramento della Provincia è stato attuato per alti fini di
interesse nazionale, e che la prova di patriottica dedizione,
data dalla popolazione di Terra di Lavoro, è stata apprezzata
al suo giusto valore dal Governo Nazionale, e che, quindi,
nessun danno potrà derivare né a Caserta, destinata ad avere
dall'unione con Napoli un maggiore incremento e sviluppo,

206
né ai Circondari che nelle nuove Provincie porteranno
larghissimo ed efficiente contributo di vita fascista."
Nella stessa nota si precisa anche dell’incontro avuto con S.E. il
vescovo Moriondo, un domenicano di carattere che non si
opponeva al fascismo, ma che era deciso nel fare le sue
rimostranze. Alla conclusione delle sue recriminazioni il duce gli
rispose, così come riportato da l’Unione: “la mia spada scende
diritta.” Ecco il testo del comunicato:
“Fin da sabato 11 dicembre 1926 l’on. Blanc si rese
amorevolmente interprete delle legittime aspirazioni della
nostra popolazione presso il Duce che diede immediati ordini
a vantaggio di Caserta, il duce confermò la sua fervidissima
sollecitudine per Caserta alla commissione composta
dall’ing. Adelchi Mancusi rappresentante della federazione
Provinciale fascista di Terra di Lavoro, da S. E. il vescovo
Gabriele Natale Moriondo e del comm. avv. Pietro Monti,
ricevuta martedì 14 dicembre 1926.”
A Caserta intanto alcuni commercianti credendo di perdere
competitività si riunirono presso la sede del comune, ma
dall’incontro non uscì niente di concreto, più tardi il sindaco
Tommaso Picazio scriveva sull’Unione del gennaio del 1927
l’elogio Duce per il provvedimento preso.
Il duce comunque comunica direttamente la decisione al
prefetto di Caserta con un telegramma che oggi è possibile
consultare presso l’archivio storico. Poche parole ma che
sintetizzano la volontà mussoliniana e da cui traspaiono i motivi
ufficiali del provvedimento:
Prefetto, Caserta, Sono lieto che la cittadinanza di
Caserta abbia accolto con alto encomiabile senso di
disciplina le decisioni del Governo fascista ispirate come
sempre ai criteri di ordine rigidamente nazionali. La
Provincia di Caserta scompare per offrire più ampio spazio e
respiro alla più grande ormai vicinissima Napoli. Questo
sacrificio dev’essere e sarà accolto con fraterno spirito di
solidarietà nazionale. F.to Mussolini.
Una più ampia e dettaglia ricognizione il duce la farà nel
discorso dell’“Ascensione” in parlamento.
Ma cosa successe a quelli che avevano retto le sorti della

207
provincia? Al Prefetto Bonaventura Graziani fu affidata a Roma
l'organizzazione della Maternità ed Infanzia, Carlo Bergamaschi
fu nominato Preside della Provincia di Frosinone, Ugo
Maceratini fu trasferito al Ministero delle Finanze e divenne il
Segretario del commendatore Firmi che era il Ragioniere
Generale dello Stato, Beneduce, rimaneva il consigliere aulico
segreto di Mussolini. L'onorevole Giovanni Tescione fu inviato a
dirigere a Napoli il Consiglio dell'Economia, l'avvocato
Francesco Frosina fu inviato a dirigere il Rettorato della
Provincia di Benevento, ed anche a Benevento furono trasferiti
1'Avvocato Pasquale Cimmino, consigliere di Prefettura, e
Giulio Camillo in qualità di Vice Intendente di Finanza. Come si
vede erano i capi dei maggiori uffici della provincia. Tutti si
fecero onore nelle nuove destinazioni. I Fasci del Matese sotto la
guida del de Simone passarono alla reggenza Sannita, sotto la
guida del Federale dottor Ielardi.
Ma nei momenti cruciali come sempre compare il
provincialismo di un territorio e di una popolazione che non
manca di mostrare il suo lato peggiore. Ad Aversa e Nola ci
furono manifestazioni di esultanza, Formia e Gaeta espressero
chiaramente il desiderio di essere aggregati a Roma, S. Maria
Capua Vetere esultò non appena Alfredo Rocco, ministro di
Grazia e giustizia decise che il tribunale non cambiava sede.
Capua, “la rossa Capua” che tanto opposizione aveva fatto al
fascismo ai suoi inizi, inviò un telegramma che sarà riportato dal
quotidiano “il Giornale d’Italia”:
“Capua che ai fasti millenari unisce recente eroismo di
Oreste Salomone, disciplina, ordinata e lavoratrice nei ranghi
del fascismo combattentistico, ispirandosi sue gloriose
tradizioni, plaude ultima riforma necessaria assestamento
stato fascista e nobile Campania felix ed esprime Duce
nuova Italia sensi di sconfinata devozione. F.to segretario
politico Pisani.”
Con l’intervento in aula del 26 maggio 1927 fatto dal capo del
governo alla Camera dei deputati inizia la discussione generale
del disegno di legge: «Stato di previsione della spesa del
ministero dell’interno per l’esercizio finanziario dal 1° gennaio
del 1927 al 30 giugno 1929». Il lunghissimo intervento del Duce

208
sarà ricordato come “ll discorso dell’Ascensione”. Una tappa
importante per la storia del paese per la grande valenza di alcuni
passaggi politici-amministrativi che continuano ad avere effetto
ancora oggi.
In più parti della sua trattazione Benito Mussolini parlerà
della provincia di Terra di Lavoro e dalle sue parole è possibile
risalire ai perché che determinarono la decisione di abolirla.
Per il regime l’urbanesimo industriale e la piccola proprietà
rurale determinavano la sterilità delle popolazioni. Una nuova
politica doveva portare invece alla crescita demografica delle
città e Napoli allora contava 600.695 abitanti. Troppo pochi per
una ex capitale che doveva trasformarsi a metropoli regionale.
Nella Guida d’Italia del 1940 della Consociazione turistica
Italiana (moderno Turing Club) diretta dal prof. Bertarelli sui
motivi dell’abolizione della provincia di Terra di Lavoro si legge
a chiare lettere: «Il Governo fascista soppresse, nel 1927, la
provincia di Caserta perché meglio si sviluppasse l’altra di
Napoli».
“Da questa digressione d'ordine demografico, che mi farete
il piacere di meditare e di rileggere fra le righe, passo alla
seconda parte del mio discorso, - sosteneva il duce in quel caldo
pomeriggio romano - quella che concerne l'assetto
amministrativo del paese, che è legato per una piccola
passerella a questo capitolo del mio discorso.
Perché ho creato diciassette nuove provincie? Per meglio
ripartire la popolazione; perché questi centri provinciali,
abbandonati a se stessi, producevano un'umanità che finiva per
annoiarsi, e correva verso le grandi città, dove ci sono tutte
quelle cose piacevoli e stupide che incantano coloro che
appaiono nuovi alla vita.
Abbiamo trovato, all'epoca della marcia su Roma,
sessantanove province del Regno. La popolazione era aumentata
di quindici milioni, ma nessuno aveva mai osato di toccare
questo problema, e di penetrare in questo terreno, perché nel
vecchio regime l'idea o l'ipotesi di diminuire o aumentare una
provincia, di togliere una frazione a un comune o, putacaso,
l'asilo infantile ad una frazione di comune, era tale problema da
determinare crisi ministeriali gravissime.

209
Noi siamo più liberi in questa materia, e allora, fin dal
nostro avvento, abbiamo modificato quelle che erano le più
assurde incongruenze storiche e geografiche dell'assetto
amministrativo dello Stato italiano. È allora che abbiamo creato
la provincia di Taranto e quella de La Spezia, che abbiamo
restituito la Sabina a Roma, perché i sabini questo desideravano,
e il circondario di Rocca San Casciano alla provincia di Forlì,
per ragioni evidenti di geografia.
Ci sono state quattro provincie particolarmente mutilate,
che hanno accettato queste mutilazioni con perfetta disciplina:
Genova, Firenze, Perugia e Lecce. C'è stata una provincia
soppressa, che ha dato spettacolo superbo di composta
disciplina: Caserta. Caserta ha compreso che bisogna
rassegnarsi a essere un quartiere di Napoli”.
C’erano in Terra di Lavoro quindi centri provinciali
abbandonati che bisognava rivitalizzare del resto anche il
pentarca casertano, console Stefano de Simone accusava il
deputato Achille Visocchi di Atina, nittiano, latifondista, di
essere attento soprattutto ad impedire che venissero elevati gli
estimi catastali dei terreni. Una politica che aveva portato la
provincia a trascurare la buona manutenzione delle strade
provinciali, ed impedire, in conseguenza, la costruzione di nuove
arterie che avrebbero dovuto unire, con tracciati brevi ed
efficienti, i vari circondari al capoluogo che, per essere
decentrato, era di difficile accesso.
Anche se non apertamente molte richieste per il nuovo
assetto territoriale erano arrivati da vari gerarchi ed
amministratori locali, in aula, quando Mussolini dice: «la
creazione di queste province è stata fatta senza pressioni di
interessati; è stato perfettamente logico che i segretari federali
siano stati festeggiati, ma non ne sapevano nulla!”», scoppiano
molte risate. Che il duce tende una mano ai casertani sostenendo
che la decisione poteva essere reversibile è possibile ricavarlo
dallo stesso discorso dell’Ascensione. Infatti in un passo
successivo Mussolini, afferma: «Non appena fu pubblicato sui
giornali l'elenco delle nuove province, sorsero dei desideri.
Alcune città, che si ritenevano degne di questo onore, lo
sollecitarono. Ma io risposi con un telegramma ai notabili di

210
Caltagirone, dicendo che fino al 1932 di ciò non si sarebbe
parlato. Perché nel 1932? Perché nel 1932 sarà finito il
censimento che noi stiamo preparando sin da questo istante.
Mancano quattro anni. Ma io ho deciso che entro sei mesi si
devono conoscere i risultati del censimento del 1931. Ed allora
molto probabilmente ci sarà una nuova sistemazione delle
province italiane, ci saranno città che diventeranno province, se
le popolazioni saranno state laboriose, disciplinate, prolifiche.
Intanto abbiamo realizzato l'ordinamento podestarile in tutti i
comuni del Regno».
Non è un caso che Giovanni Tescione l’ex deputato
nominato primo podestà di Caserta si attiva subito, non appena
insediato, per ripristinare la provincia.
Infatti arriva nel 1930 al sottosegretario agli interni Michele
Bianchi, amico del console Stefano de Simone una proposta per
la ricostruzione della provincia di Caserta. Non se ne farà nulla
fino al 1945.
«In realtà, al di là di quelli che furono i motivi e i criteri
della decisione del governo italiano di allora, la ripartizione del
1927 va riportata a elementi di fondo della storia italiana a
partire dall'unificazione del paese nel 1861. - scriveva Giuseppe
Galasso31 nel 1981 nella sua relazione “Dalla Terra di Lavoro
alla provincia di Caserta: Travaglio e durata di un’antica
circoscrizione provinciale” - Un punto eminente di questa storia
é rappresentato, per quanto riguarda il Mezzogiorno, dal rapido
dissolversi dell'egemonia napoletana nel territorio già del Regno
di Napoli e dalla conseguente disarticolazione della gravitazione
fortissima del Mezzogiorno sulla sua storica capitale. Un altro
punto importante della stessa storia riguarda l'intero paese, ed é
costituito dalla rapida, inarrestabile, imponente crescita di
Roma da sonnacchiosa capitale dello Stato della Chiesa a
vivacissima capitale del Regno d'Italia e, insieme, a grande
metropoli del mondo contemporaneo. É su questo sfondo che la
cessione di cosi ampi territori dell'antica Terra di Lavoro alla
circoscrizione amministrativa laziale nel 1927 va storicamente
proiettata e giudicata. Già quasi subito dopo il 1861 aveva avuto
31
Giuseppe Galasso (Napoli, 19 novembre 1929) è storico, giornalista,
politico e professore universitario alla Federico II di Napoli.

211
inizio un riorientamento dei rapporti di ogni genere delle città e
regioni del Mezzogiorno, che presero a scavalcare Napoli e a
collegarsi direttamente con le metropoli di altre parti d'Italia.
Fino alla prima guerra mondiale questo processo non apparve
in tutta la sua portata, ma dopo di essa la sua portata dové
essere ben presto riconosciuta».
Per il professore Galasso inoltre, «L'istituzione di altre
province laziali rappresentava anche un modo per cercare di
equilibrare questa enorme crescita romana innanzitutto rispetto
alle zone più vicine, allargando il tessuto amministrativo laziale,
fino ad allora coincidente con la provincia di Roma. Ma per
dare consistenza e respiro a province nuove come Frosinone o
Littoria un'espansione dello spazio laziale era altrettanto
indispensabile; e che a questo scopo si pensasse alle zone
attigue della Terra di Lavoro era ancora più naturale».
Ma nella ex provincia di Terra di Lavoro a fare da padrone
era anche la malavita organizzata una malapianta da estirpare e
la dove avevano fallito altri governi non poteva soccombere un
regime che faceva dell’ordine e della legalità il suo cavallo di
battaglia. Mussolini fu molto crudo ma nel suo stile usò il
bastone e la carota:
«Da una Polizia così epurata, così organizzata, così
attrezzata, io esigo molte cose. E le sta facendo. Vi parlerò di tre
operazioni della Polizia italiana: la lotta contro i falsi monetari,
la lotta contro la delinquenza dei Mazzoni, la lotta contro la
mafia. La lotta contro i falsi monetari è una lotta contro il falso
nummario (regni d'attenzione), per il qual falso nummario sono
stati arrestati, nell'anno decorso, ottocentoventiquattro
individui. È pericoloso falsificare la valuta dello Stato fascista!
Veniamo ai Mazzoni:. I Mazzoni sono una plaga che sta tra
la provincia di Roma e quella di Napoli, ex-Caserta: terreno
paludoso, stepposo, malarico, abitato da una popolazione che fin
dai tempi dei romani aveva una pessima reputazione, ed era
chiamata popolazione di latrones.
Vi do un'idea della delinquenza di questa plaga. Nei cinque
anni che vanno dal 1922 al 1926, furono commessi i seguenti
delitti principali, trascurando i minori: oltraggi alla forza
pubblica, centosettantuno incendi, trecentosettantotto; omicidi,

212
centosessantanove; lesioni, novecentodiciotto; furti e rapine,
duemilaottantadue; danneggiamenti, quattrocentoquattro.
Questa è una parte di quella plaga. Veniamo all'altra parte,
quella dell'Aversano: oltraggi, ottantuno; incendi,
centosessantuno; omicidi, centonovantaquattro; lesioni,
quattrocentodieci; furti e rapine, settecentodue; danneggiamenti,
centonovantatre.
Ho mandato un maggiore dei carabinieri con questa
consegna: liberatemi da questa delinquenza col ferro e col
fuoco. Questo maggiore ci si è messo sul serio. Difatti, dal
dicembre ad oggi, sono stati arrestati, per delitti consumati e per
misure preventive, nella zona dei Mazzoni 1699 affiliati alla
malavita, e nella zona di Aversa 1268. I podestà di quella
regione sono esultanti, i combattenti di quella regione
altrettanto. Io ho qui un plico di telegrammi, di lettere, di ordini
del giorno, documenti con i quali la parte sana di quella
popolazione ringrazia le autorità costituite, le autorità del
regime fascista per l'opera necessaria di igiene che sarà
continuata fino alla fine».
Sta di fatto che l’anomalia Caserta continua e sulla città
vanvitelliana pesa ancora il pesante fardello di una preminenza
capuana risalente al medioevo e all’età moderna.
Prova ne è la nascita della seconda università di Napoli che
la si è voluta policentrica più che concentrarla nella città
capoluogo. Il che ha maggiormente messo in evidenza le
difficoltà nell’assumere “un ruolo di metropoli provinciale,
comparabile a quello tenuto a lungo dalla città di Capua”. Una
carenza aggravata nel corso del 1800 quando tra Caserta e Capua
assunse sempre più importanza Santa Maria Maggiore, oggi
Capua Vetere come centro non solo economico ma anche
giudiziario.
Il periodo della soppressione della provincia 1927-1945 è
servito maggiormente ad accentuare una subalternità alla vicina
Napoli che neanche la ricostituzione della provincia ha sanato.
Ne tanto meno ha giovato alla causa il sistema elettorale in
vigore fino al 1992 quando esisteva il collegio Napoli-Caserta e
le decisioni politico- amministrative venivano prese da uomini
che avevano interessi elettorali non nella provincia casertana, ma

213
in quella napoletana.
Le speranze di ricostituire la provincia di Caserta gli
amministratori casertani non le abbandonarono mai. Del resto
c’era stato un lungo iter parlamentare nel trasformare il decreto
legge in legge dello Stato. Una procedura che durò più di un
anno. Il disegno di legge fu presentato alla Camera il 30 gennaio
del 1927 il relatore era l’on. Majorana che dopo un’analisi non
troppo dettagliata esplicita le conclusioni all’Assemblea quattro
mesi dopo. La discussione fu molto pacata e senza particolare
impegno da parte dei rappresentati della soppressa provincia e
così il provvedimento passa l’8 Giugno, ci vogliono oltre sei
mesi per la relativa approvazione da parte del senato finché
diventi legge solo il 29 dicembre del 1927. Un anno dopo
l’emanazione del decreto.

La relazione Majorana è riportata a tratti nel lavoro di


Giuseppe Capobianco dal titolo “Fascismo e modernizzazione”.
Nella qualificata analisi Capobianco cosi commentava: “Come
una liturgia da rispettare anche senza alcun potere, la
Commissione lavoro di fronte a riordini già avvenuti, con il
compito di avallare il già fatto”. Majorana molto
sommariamente scriveva: "Illustrato così nelle sue essenziali
linee il provvedimento del Governo, la Vostra Commissione non
crede di scendere alla minuta esposizione e disamina dei
particolari motivi che accompagnano le singole disposizioni del
decreto. Eguale sistema ha pure dovuto tenere la relazione
ministeriale. Trattasi della valutazione di numerose, complesse e
anche delicate condizioni particolari, nella quale il Governo, cui
spetta meglio che a ogni altro l'iniziativa e la competenza, ha
usato quel prudente alto e illuminato discernimento per cui è
benemerito del paese. La vostra Commissione accoglie con
piena fiducia la di lui opera."
Anche le proposte di modifica ad essa trasmesse vengono
demandate al Governo: “Per eguali ragioni la Commissione non
ha indugiato nell'esame di particolari richieste di ulteriori
ritocchi di circoscrizioni provinciali a lei pervenute da varie
parti, anche autorevoli. Per la complessità dell'esame e la
gravità del provvedimento cui mirano, esse vanno rivolte al

214
Governo, il quale, in armonia all'esempio che ha dato con i varii
decreti-legge di cui si è discorso ed alle dichiarazioni su
riportate, non è a dubitare che, a tempo e luogo, le terrà in quel
giusto conto che meritano per sé stesse e nel loro confronto con
altri provvedimenti presi e da prendere."
“Poi, il contentino per Caserta,- commenta Capobianco -
ripetendo pedissequamente le parole di Mussolini: La
Commissione intanto, si associa sinceramente al plauso che il
Capo del Governo ha rivolto alle popolazioni delle province che
pur restando mutilate per la riforma, o soppresse come quella di
Caserta, hanno accolto il provvedimento con ammirevole senso
di disciplina e solidarietà nazionale e con fervore lo hanno
applicato.”
A Premere sulla ricostituzione della Provincia fu il primo
podestà di Caserta Giovanni Tescione, ma il suo successore
l’avv. Ludovico Ricciarelli anche se meglio inquadrato nel
regime, ricevette la carica quando Tescione per motivi
professionali nel 1930 si trasferì a Roma, fece pressione
direttamente al Duce ed ottenne un “si vedrà” che non ebbe
seguito.

215
216
L’avvocato Antonio Ricciarelli figlio di Ludovico
dell’episodio racconta: “Il Duce venne a Caserta nel gennaio del
1935, inaugurò l’anno accademico degli allievi all’aeronautica,
erano in pochi a saperlo, ma ben presto si diffuse in città la
notizia e così una delegazione si recò al Palazzo Reale tra cui
mio padre sempre accompagnato dal suo segretario e dal
custode del Comune Bottone: quando si trattò di arrivare in
Piazza Margherita per la visita alla sede del fascio, Mussolini
prese posto in una macchina e sul predellino esterno viaggiava
un uomo della sua scorta. Mio padre disse a quest’ultimo: scendi
che questo è il posto mio. Sarò io a proteggere il nostro capo. E
così fu”. Dopo la cerimonia andarono a pranzo e il Duce chiese
a Ricciarelli le necessità dalla città. “Mio padre gli chiese due
cose – continua l’avv. Antonio – la ricostituzione della provincia
ed il tribunale a Caserta. Poi si parlò di un Arco di trionfo per
sostituire quel (omissis) che era il monumento ai caduti.”
Va notato che da notizie raccolte, sia nella famiglia Tescione
che Ricciarelli entrambi i podestà per assolvere alla loro
funzione vendettero beni di famiglia ed immobili.
“Quando mio padre viaggiava - afferma Antonio
Ricciardelli – portava con se l’ing. Capo del comune ing.
Giovanni Campopiano ed il suo segretario Alfonso Lamberti,
tutto a sue spese e di viaggi ne faceva molti non solo in Italia ma
anche all’estero. Specie quando si tratto di costruire l’Arco di
Trionfo. Visitò Parigi ed altre città al fine di dare ai casertani un
monumento degno.”
Stefano de Simone il console che tanto si era battuto per non
far sopprimere la provincia, pur essendo Federale di Benevento
continuava a svolgere la sua azione per Caiazzo e il circondario
ed aveva la sua abitazione a Capua.
Riccardelli rimase in carica fino al 1936 anno in cui in
seguito ad una caduta per un sopralluogo a Briano si fratturò una
gamba e cedette l’incarico al suo vice Pasquale Centore che fu
podestà fino al 25 luglio del ‘43 quando cadde il regime e
Mussolini, fu arrestato.
Si ricomincia a parlare della ricostituzione della Provincia di
Caserta il 9 febbraio 1944. Il governo militare alleato e delle
autorità italiane, conferì l’incarico di commissario al Comune al

217
liberale ing. Luigi Giaquinto, incaricò che copri fino a novembre
del 1944.
Giaquinto divento sindaco nel 1946, la sua prima giunta era
composta da sei assessori effettivi, avv. Antonino Bologna, dott.
Michele Ricciardi, avv. Aristide Saulle, prof. Vincenzo Bizzarri,
avv. Antonio De Franchis, sig. Domenico Schiavo, e due
assessori supplenti, ing. Antonino Barone e sig. Galileo
Cosentino.
Antonino Bologna insieme a Enrico Catemario di Quadri
darà vita alla prima associazione degli imprenditori a Caserta.
In un’attenta analisi fatta da Olindo Isernia si evidenzia
come tra i primi compiti dell’amministrazione Giaquinto ci fosse
risolvere i problemi gravi della guerra, ma anche “condurre a
buon fine quella che, senz’altro, era la questione di maggiore e
fondamentale importanza, che tanto a cuore stava a tutta la
popolazione del Casertano: la ricostituzione della Provincia.
Per questo si ricominciarono a prendere contatti con il
governo provvisorio che operava a Salerno ed il sindaco si recò
due vote in quella città nel maggio 1944. Altre tappe furono,
Sorrento per incontrare il senatore Benedetto Croce, e a Roma,
otto viaggi, durante il primo e il secondo governo Badoglio.
Un’azione martellante che diede alla fine i suoi frutti.
In una lettera inviata dall’amministrazione comunale al
presidente dell’associazione “Pro Terra di Lavoro” diretta
dall’on. Persico c’è tutto il lungo lavoro fatto ed anche le
difficoltà incontrate e le esigenze dei vari comuni che
chiedevano l’inserimento nella provincia per i più disparati
motivi.
Mancano però gli aspetti negativi e tutta una serie di
resistenze dei comuni che volevano rimanere, nel precedente
ordinamento.
Il documento come preambolo affermava:
“Gli scopi ed il programma che, giusta la circolare 27
giugno pervenutami il 7 luglio, informano codesta
Associazione nell’interesse della finalmente ricostituita
Provincia di “Terra di Lavoro”, hanno trovato unanime
consenso da parte di quest’Amministrazione e lusinghiero
apprezzamento da parte della cittadinanza. Giunga,

218
perciò, innanzi tutto, un grato saluto a V.S. per la nobile
iniziativa: saluto estensibile a tutti i figli di questa ferace
Terra uniti nell’Associazione che Lei presiede e
impersona, stretti in nobile unità di intenti e di lavoro. Al
solo fine di ben chiarire qualche passato atteggiamento,
che potrebbe tuttora costì essere rimasto oscuro, e
permettere una reale, concorde fusione di intendimenti e
di opere fra codesta Associazione e quanti di qui
perseguono i medesimi scopi di questa, nello interesse
comune del benessere e dell’incremento della risorta
Provincia, non parmi fuor di luogo riassumere a V.S., in
rapido volo, l’opera svolta da quest’Amministrazione e
da alcuni uomini politici locali fra i quali primissimo
l’On. Avv. Clemente Piscitelli, per iniziare e condurre coi
vari Governi le trattative che poi, in definitiva, portarono
al provvedimento di giustizia sì a lungo invocato.”
Un documento molto lungo ma di grande valenza storica che
oltre ad evidenziare le difficoltà burocratiche:
“La crisi che si ebbe nel primo Gabinetto Bonomi,
quando i lavori per la ricostituzione della Provincia erano
pressoché a buon punto, determinò una nuova perdita di
tempo e, quando i lavori stessi furono ripresi sotto il
secondo Ministero Bonomi, il problema fu da questo
visto come confuso, impreciso nelle linee risolutive,
causa sopratutto di scontento e d’allarme per le Provincie
interessate, e quindi al Governo sembrò opportuno
sospenderne ogni ulteriore sviluppo. L’opera andava
ripresa da principio!”; voleva dare anche un
riconoscimento a quanti si erano prodigati per il buon fine
della lotta e chiarire dei preconcetti nei confronti della
capitale. “Mi è gradito, a tal punto, ricordare l’opera
svolta dall’allora Sottosegretario agli Interni, Ecc.
Canevari, il quale diede un sollecito impulso agli studi ed
ai lavori, come detto, soddisfacentemente ripresi. Nei
contatti che, frequenti, ebbi col prelodato Sottosegretario,
più volte mi accorsi che il problema veniva esaminato e
curato dal Prefetto di Roma, On. Persico. E poiché, come
si è detto, il piano ricostruttivo della nostra Provincia era

219
collegato con quelli riguardanti altre Provincie, dai quali
necessariamente limitato, mi parve che l’interessamento
di V.S. fosse rivolto verso alcune zone soltanto che Le
stavano particolarmente a cuore. Tale convincimento,
unitamente alla poca disponibilità di tempo, tutto
dedicato a seguire pratiche, funzionari e Ministri,
impedirono che da parte nostra si pensasse di potersi
giovare dell’opera di V.S., che sarebbe stata
indubbiamente altamente utile ai fini prefissi.”
Sta di fatto che la provincia di Caserta fu ricostituita e Tito
Ingarrica il 28 Luglio del 1945 veniva nominato commissario
ministeriale. Aversa dovette rassegnarsi e staccarsi da Napoli, e
nonostante le insistenze che pervennero al Comune di Caserta da
parte della popolazione di S. Agata dei Goti, Dugenta, ed altri
paesi del circondario, che “più vicini alla nostra provincia ed i
cui interessi gravitano piuttosto verso questa città” le loro attese
furono deluse. Stessa sorte per Limatola, “che ebbe finanche
l’illusione di essere stata compresa nella risorta Provincia, in
quanto il primo decreto non ancora firmato dal Luogotenente, fu
comunicato a quella popolazione con suo grande giubilo”,
giubilo che si trasformò in agitazione e alcune manifestazioni di
piazza diedero luogo a inconvenienti seri, con l’allontanamento
del sindaco di detto Comune, non del posto, unica persona, o
quasi, contraria all’annessione.

220
Il piano Memma
Il 1927 era il primo anno in cui Caserta doveva fare i
conti con il suo nuovo status di città in provincia di Napoli.
Il prefetto Bonaventura Graziani si accingeva a
raggiungere la sua nuova destinazione e tutta la documentazione
prefettizia era stata trasferita a Napoli.
Si aspettavano quelle azioni riparatrici che dovevano fare
dell’ex capoluogo di Terra di Lavoro una città di rango
superiore, così come aveva promesso il capo del governo Benito
Mussolini ai pochi coraggiosi che si erano opposti alla sua
decisione di eliminare la provincia.
Nei primi mesi dell’anno defenestrato era morto l’ex
sindaco Tommaso Picazio colpito da una malattia infettiva,
mentre l’on Giovanni Tescione assumeva l’incarico di primo
podestà.
Si aspettava il cambiamento e si avanzavano varie ipotesi
che potessero legare più profondamente Napoli a Caserta.
“Il vuoto che a gran passi si avanza su Caserta e
minaccia di asfissia tutti coloro che ad essa sono vincolati, per
dovere od elezione, rende necessario premettere a questa rapida
rassegna di fatti ed idee un appello alla fiducia, esponendo delle
considerazioni, tanto semplici e convincenti, da smuovere i
caratteri fiacchi e le resistenze degl'increduli” Scriveva l’ing
Vincenzo Memma l’uomo che ideava grandi opere e che aveva
uno studio di ingegneria bene avviato al corso Umberto. Era
vicino ai politici che contavano e godeva stima e fiducia anche
del clero, quest’ultimo del resto era quello che deteneva i più
vasti appezzamenti di terreno in città.
Erano in molti a cercare superare la delusione di aver
visto Caserta declassata da una situazione privilegiata di
capoluogo a città di provincia.
Per questo l’associazione Hinterland Turistico Casertano
diretta dal prof. Ciro Vaccaro, organizzò un incontro sul futuro
della città e fu proprio il socio Memma, in qualità di presidente
della Commissione Artistico-Panoramica, che presentò una
“pregevole relazione contenente rilievi e proposte per
1'avvenire di Caserta– Ed è questa la Città che, purtroppo, teme

221
la sua fine per aver perduta la qualifica di Capoluogo, senza
pensare che essa nacque per vivere e prosperare in dipendenza
diretta di Napoli e che verso tale destino 1'ha indirizzata il
prodigioso intuito del Duce.”
Che oramai i Casertani erano rassegnati al ruolo di
quartiere di Napoli risulta anche da un intervento apparso sul
settimanale l’Unione dell’8 gennaio del 1927 scritto da
Tommaso Picazio.32 La città, quindi, si era bene incanalata nel
nuovo regime che andava assumendo la fisionomia di una
dittatura, ma già si incominciavano a vedere i frutti di una
politica di risanamento e di modernizzazione che consacravano
in parte le lotte dei puri della rivoluzione di ottobre.
Per la gente il fascismo manteneva le promesse, anche se
a comandare continuavano ad essere sempre gli stessi con o
senza la camicia nera.
La decisione di togliere la provincia trovava, molti
adulatori che si affannavano ad individuare nell’opera del
Vanvitelli e dei Borbone i progenitori dottrinari di quello che
voleva realizzare il duce.
Memma nello stendere il piano partì da questo
presupposto ed individuò nella viabilità con Napoli il punto di
partenza dello sviluppo urbanistico.
“Se il fondamento del brillante avvenire di Caserta è la
sua qualifica: Quartiere di Napoli, sancita dal Duce nel
memorabile Discorso dell'Ascensione, non vi è dubbio che il
problema delle comunicazioni fra le due Città debba
preoccupare prima di ogni altro.”
La prosperità del casertano era legata alle sorti della
vicina Napoli.

La premessa

Non faceva una piega quello che molti casertani


asserivano anche se il grande canale navigabile che doveva unire
la capitale del regno delle due Sicilie con le reali delizie
ipotizzato dal Vanvitelli veniva sostituito, almeno sulla carta,
32
Vedi la provincia soppressa.

222
con una strada a scorrimento veloce rettilinea polifunzionale tra
Caserta ed il promontorio di Capodichino.
La cosa fu molta apprezzata dal podestà ed ex deputato
Giovanni Tescione.
Nel lungo preambolo Memma affermava:
E' molto noto che, per volere di Carlo III,
accoppiato al genio di Vanvitelli Caserta sorse
maestosamente in questi siti già famosi per sorriso di
cielo, salubrità di clima e fecondità di terra nell'incanto
dell'immensa aiuola degradante dai Tifatini al Mare.
Un’iscrizione dice: Campaniae Felicis - Ocellus
natura loci Solertia artis - Feracitate solis salubritate
coeli - Perennitate fontium varietate florum elegantia
villae descriptione viarum umbra sole fruge fructibus
laetum - Inchoavit absolvit Andreas Mat teus Aquivivus
Principes Casertae.
E, nel libro intitolato Mercurius Campanus, così
il padre Celestino Guicciardini parla del Boschetto di
Caserta: Viridarium quod vocant Lo Boschetto ab
Aquivivis Casertae Regulis instructum qua amenitate,
qua laxitate ac elegantia cum Tusculanis condentit.
Tanta dovizia di beni e sorrisi divini, sparsi qui
dalla Provvidenza quasi a coronamento del Golfo più
ricco di colori nel mondo, fu dal Genio raccolta ed
intrecciata a quanto la mente umana può ideare per il
fasto sorretto dalle ricchezze, e ne uscì la culla di
Caserta.
Fra colonne, cascate, gruppi marmorei, gradinate
i zampilli alternati in giuochi sorprendenti di luci ed
ombre, la grandiosa opera, nata dal connubio della
Natura con 1'Arte, restò rara negli anni; perché, riflettano
i buoni Casertani, e con essi gl'italiani che non lungi dai
confini della Patria pur vi sono lembi di paradiso dorati,
imbellettati e stracarichi di civetteria, ma all'opulenza dei
mezzi impiegati mancò la scintilla del Genio, onde, fra,
tutti i godimenti della vita, ivi non si trova quello che
solo può dare la solennità creata dall’Arte vera.

223
Vengano qui Italiani e stranieri; e quanti girano il
mondo in cerca di emozioni o svaghi, e dicano se, pur
deserti e negletti, questi luoghi non, impongono
profondo stupore.
La volle dipendenza di Napoli Carlo III di
Borbone quando l'elesse a sua dimora, dichiarandola sito
di Reali Delizie; per tale dipendenza il Vanvitelii ideò
quel triplice Viale dalle proporzioni maestose, che
doveva costituire il legame fra le due Città, legame che
non avverte rigori, di stagioni ed il cui solo inizio fa
restare muti di meraviglia; dipendenza di Napoli la
vuole, finalmente, il Duce dopo quasi un secolo di
vitalità pigra e da mendica.
Si ridestino, dunque, le liete speranze e si
consideri che la grande concezione della futura Caserta
non richiede tecnici rari o mezzi iperbolici di attuazione,
sono sufficienti, invero, ordinari provvedimenti, purché
siano fiancheggiati dalla fiducia del popolo e dall'unione
degli intellettuali.

Le comunicazioni con Napoli

Che andare a Napoli era considerata nel 1927 un’impresa


dispendiosa lo si comprende da quanto costava il viaggio. Il
prezzo era proibitivo e non tutti se lo potevano permettere
variava dalle 13 lire alle 25 lire “più del necessario per il vitto di
una giornata”, anche se in alcuni periodi i casertani avevano il
privilegio di avere una tariffa ridotta, una prerogativa che per
sanare le casse dello stato il fascismo aveva abolito, inoltre
occorreva parecchio tempo e questo faceva si che molti abitanti
evitano di prendersi il piacere di fare una passeggiata sul lungo
mare di Mergellina. “la maggioranza dei cittadini, specie se
giovani e delle Borgate, non conosce Napoli ed ha visto il mare
solo dalle colline di Casertavecchia.”

224
La relazione

Economia di spesa e di tempo, per queste


comunicazioni ecco il tema urgente.
Economia di spesa, perché, ove mai questa
dovesse restare qual è altissima, cioè superiore a quella
che in tutte le Città del mondo occorre per recarsi da un
Quartiere all’altro, sarebbe feroce ironia per Caserta la
risorta qualifica. Infatti una gita fino a Napoli con ritorno
costa oggi dalle tredici e cinquanta alle ventidue lire, è
incredibile, ma vero; onde ne segue che, fin da quando fu
tolto a Caserta il privilegio di una tariffa ridotta.
E' chiara, dunque, la necessità di sopprimere la
strana contraddizione, ripristinando il privilegio almeno
durante il tempo occorrente agli studi ed all'attuazione
dei nuovi mezzi di traffico. Certo, il provvedimento sarà
eccezionale, sebbene temporaneo; ma eccezionale, anzi
unica in tutto il Regno fu la soppressione del Capoluogo;
e per tale gravità e per le sue conseguenze, meritano i
Casertani molte attenuanti, se attendono con fiducia ed
urgenza la gioia che segue agli atti operatori ben riusciti.
Dell'economia di tempo gioverebbe, forse, non
occuparsi, pensando che, oggi, tanto in ferrovia quanto
con automezzi, il percorso Caserta-Napoli si può
compiere in una quarantina di minuti, meno di quanto
occorre per recarsi in tram dalla Stazione Centrale di
Napoli alla Torretta; è necessario, però, occuparsi del
tempo, con riferimento al percorso, specie ora che una
lodevole attività di tecnici è rivolta a studiare tale
problema.
Ed allora sia consentito collegare questa necessità
a quelle tali Delizie Reali, il cui posto, nelle discussioni,
che interessano Caserta, non può stare che al centro.
Progettare o, peggio, attuare un percorso speciale
per Caserta, facendolo sboccare a destra, a manca e
lontano dell'insieme delle Opere Vanvitelliane, non può
essere consentito anche se ragioni interessanti altre Città

225
ed altri fini potessero distrarre il pensiero dall'obiettivo
principale: le Reali Delizie di Caserta.
Il Vanvitelli, è bene ripeterlo, tenne nel massimo
conto il problema delle comunicazioni fra Caserta,
dimora del Re e Napoli, capitale del Regno delle due
Sicilie, perché presentiva che si sarebbe sviluppato fra le
due Città un singolarissimo traffico di armati, equipaggi
di principi, dignitari ed ambasciatori; onde Egli, maestro
sommo delle proporzioni, non poteva errare, istituendo i
rapporti di Napoli con la imponente Mole delle Reali
Delizie, ed ideò quel triplice rettifilo di venti chilometri
che, seguendo il Meridiano di Caserta in direzione
normale alla Reggia, doveva nei secoli rappresentare la
stupefacente arteria delle due Città congiunte in una sola.
Non è lecito qui illustrare degnamente la funzione
cui doveva servire il Viale Carlo III; ma, se la mente
dello studioso si fermasse per poco nella contemplazione
fantastica del maestoso rettifilo, largo 75 metri e
fiancheggiato da quadruplice fila di platani colossali,
vedrebbe quali vette conquistò la forza creatrice del
Vanvitelli nella soluzione armonica del formidabile
problema!
Dunque, la via da seguire è tracciata; ve n'è anche
un modello di pochi chilometri, che dimostra a chiunque
come tutti i mezzi di trasporto antichi o moderni,
troverebbero in esso adeguata sede: dalla trazione
meccanica a quella animale, non esclusa peraltro
1'attraentissimo uso per i pedoni, il cui traffico a scopo
ricreativo sorpasserebbe ogni previsione.
Il modo, il tempo ed i mezzi per l'attuazione
dell'Opera non possono essere trattati con soverchia
fretta e semplicità; però é lecito affermare che, se al buon
volere dei proprietari frontisti sul prolungamento del
Viale, si unirà un tantino di interessamento degli Enti che
da esso trarranno vantaggi incalcolabili, il grande sogno
diverrà fatto compiuto per la facilità dell'esecuzione e gli
scarsi mezzi che esso richiede.

226
Lo sviluppo della città ex capoluogo di Terra di Lavoro,
secondo le intenzioni dell’ing Vincenzo Memma doveva essere
consequenziale alla nuova autostrada di ventidue chilometri che
avrebbe congiunto Napoli a Caserta. Era nell’intenzione del
progettista fare di quell’arteria un luogo non solo di
comunicazione, ma punto di ritrovo salottiero dove nei
controviali si dovevano svolgere manifestazione di ogni genere.
Del resto quel tratto già attivo tra la stazione ferroviaria e San
Nicola la Strada rappresentava in sintesi il futuro asse di
collegamento: Un’opera da meravigliare il regime e gli italiani.
“Sarebbe davvero unico nel mondo questo
capolavoro di strada in rettifilo, che in modo eccezionale
conferirebbe alla grandezza cui si avvia Napoli Regina
per volere del Duce. - Commentava Memma -
Capolavoro che sarebbe insieme strada, autostrada, pista,
palestra sportiva e militare e che ridurrebbe la distanza
oraria automobilistica fra Napoli e Caserta a, forse, soli
venti minuti.”
Un’autostrada multifunzione, quindi, che avrebbe tenuto
conto delle realtà dei comuni che attraversava e sarebbe servita
ad integrare nell’area metropolitana di Napoli la realtà casertana.
La via rapida di collegamento doveva essere
estremamente confortevole e sicura ed inserita perfettamente
nell’ambiente quindi ecocompatibile.
“E sarà feconda, questa soluzione, di altre
inattese conseguenze, perché, oltre agli effetti di una
viabilità ideale, aperta a tutti i mezzi di locomozione, il
prolungamento del Viale fino a Napoli funzionerà, fra gli
abitati, come una serie di singolarissime palestre ampie,
vere gallerie di rami e di foglie, eccellenti per salubrità in
ogni stagione. Possono attestare queste verità quanti
militari passarono le ore liete delle esercitazioni e riviste
memorabili nel tratto che da Caserta va alla Rotonda;
può affermarlo il popolo festaiolo, che in quel tratto ama
godere corse e spettacoli di ogni genere; possono, infine,
esserne testimoni i gentiluomini napoletani, che
recentemente presero parte o assistettero alle prove del
Chilometro Lanciato. Per siffatto complesso di

227
considerazioni, tutte chiare e di somma importanza,
l'Opera dovrà attuarsi dimostrando che, dopo tutto, gli
scavi delle antichità in Italia, non fanno dimenticare i
capolavori moderni”.

Il sottopasso di Piazza Carlo III

Uno degli ostacoli da superare era quello della stazione


che fin dall’avvio della strada ferrata costituiva un impedimento
allo scorrimento rapido dei veicoli anche se nel 1927 il
problema, se pur sentito, non era impellente da risolvere, ma che
con il nuovo status di Caserta andava affrontato se la si voleva
fare elevare a città satellite, come promesso da Mussolini.
Memma era abile e sapeva come lusingare i politici del
tempo di qualsiasi estrazione. Come imprenditore era pronto ad
assecondare coloro che detenevano il potere in tutte le stagioni.
Non a caso si era mantenuto fuori dalle beghe dei partiti
ed aveva delegato il fratello Giuseppe a questo ruolo che
attraverso l’Unione Popolare Cattolica riusciva, durate la prima
guerra mondiale, ad avere un certa ascendenza sulla vita
amministrativa casertana.
In merito al sottopasso, quindi Memma proponeva:
“Ammesso o non il prolungamento del Viale
Carlo III, unico legame degno fra Napoli e le Reali
Delizie di Caserta, resta sempre viva la difficoltà del
passaggio a livello dinanzi alla Reggia.
Non è trascurabile il problema, ne facile
risolverlo, perché l'incrocio delle ferrovie, Napoli-Foggia
e Napoli-Roma, trovandosi esattamente in quel tratto a
pochi metri dalla Stazione, qualunque modifica
dell'impianto ferroviario urterebbe contro ostacoli
insormontabili per la tecnica e le spese. E' doloroso
questo rilievo, che si oppone anche al desiderio espresso
da un Letterato ed Archeologo insigne, che tutta l'Italia e
1'Europa onora; ma, non potendosi raggiungere la
perfezione, ci si deve contentare della massima
approssimazione, e questa può ottenersi col
sottopassaggio descritto nel Piano Regolatore.

228
Ripeterne la descrizione, senza un disegno,
sarebbe un lavoro quasi inutile; però, a titolo
informativo, può dirsi che dalla parte del Viale vi sarà in
coincidenza col suo asse, cioè al centro, una rampa di
accesso; viceversa, dalla parte della Piazza Ellittica,
dinanzi alla Reggia, ve ne saranno due di rampe, che
seguiranno la curva della Piazza e sboccheranno l'una nel
tratto rettilineo in Via Cesare Battisti; 1'altra, identica e
simmetrica, s'innesterà, dalla parte opposta, al Viale che
rasenta lo Stabilimento per Conserve Alimentari,
E' ovvio, poi, che il sottopassaggio, la cui
lunghezza comprenderà, oltre la sede ferroviaria, quella
del Viale Ellittico e della strada per Recale, sarà adatto al
traffico di veicoli di ogni specie ed avrà banchine per
pedoni.
1 vantaggi di questo tracciato sono evidenti, e fra
essi giova rilevare, sia l'intangibilità delle visuali
interessanti la Reggia, sia l'invito ai visitatori di essa ad
entrare in Città: il che non guasta, per i piccoli interessi
di Caserta.
Quest'Opera, che indirettamente giova alla Città,
liberandola dagl'intralci di un largo fascio di binari,
ridona alla pubblica ricreazione, alla Reggia ed al traffico
il Viale Carlo III. Gli Enti, che dovranno sopportare la
spesa, sono parecchi; onde non dovrebbe riuscire
difficile 1'apprestamento dei mezzi quel che manca è la
spinta iniziale, ed appunto per essa viene pubblicata
questa relazione.”

Le adiacenze della Reggia “La Piazza Ellittica”

Sulla situazione della zona oggi chiamata riduttivamente


“campetti” Memma è particolarmente severo verso gli
amministratori e tenta di sensibilizzare le istituzioni a fare
qualcosa che possa maggiormente dar lustro e prestigio alla
città.
Tenta con uno studio di risistemare Piazza Carlo III non
certamente deturpandola e facendo diventare l’intera zona una

229
squallida area ad uso della viabilità più che al luogo di
ammirazione e di cultura che avrebbe potuto valorizzare quanto
di più bello Caserta poteva mostrare al turista.
“Solo chi, visitando questa Biblioteca Reale; ha
fissato lo sguardo sul disegno prospettico della Piazza
Ellittica con lo sfondo del Viale Carlo III degradante fra i
platani giganteschi nell'azzurro del Golfo di Napoli, può
comprendere la stupenda creazione ideata per 1'unione
della Capitale del Reame di Napoli con la dimora del
Sovrano: tutti gli elementi sensibili del Cielo e della
Terra il Vanvitelli seppe utilizzare, da S. Leucio al mare,
per una superba concezione degna dell'aristocrazia
napoletana e della Corte Borbonica.
La Piazza Ellittica, primo ingresso della
Residenza Regale, doveva aprirsi improvvisa, ampia,
sorprendente, per fermare attonito l'ospite innanzi alla
maestà del Re, diffusa in tutte le opere che lo
circondavano; di fronte, il prospetto della Reggia
altissima, serena, decorata con la sobrietà che si addice al
supremo potere; Ai lati; sei Caserme dalle linee
subordinate, ma robuste, dovevano all'occasione
sprigionare una fiumana di armati a cavallo ed
alabardieri: il tutto distribuito in giro alla elegante
sagoma barocca della Piazza.
Oggi, ahimè!, lo spettacolo è triste assai ed
umiliante, perché 1'ammirazione dei visitatori di ogni
ceto sociale si abbatte contro gli effetti dell'oblio più
vergognoso. La bellissima Piazza, sconvolta, e
contornata da alberelli striminziti, si vede immersa nel
polverone o nel fango; le due Caserme, celebrate per
ampiezza e sapiente distribuzione, sono deserte; tutto
l'insieme è squallido: ecco lo stato attuale.”
Che il problema della riqualificazione dell’area era
politico e non economico lo si è sempre saputo. Sopratutto lo si
poteva risolvere con un atto di buona volontà prevedendo una
normale manutenzione della zona tale da assicurarne il decoro e
la conservazione, ma così non era allora, non è stato negli anni

230
immediati del dopoguerra, né durante il miracolo economico e
non lo è oggi.
I campetti sembrano non appartenere ai casertani che di
quello spazio ne fanno uso per le occasioni promozionali, che
significa piuttosto un abuso.
“Eppure, tanta incuria che muove a compassione,
se non a sdegno, manca di attenuanti, perché
un'integrazione dell'Opera esige solo scarsi mezzi e
molto buon volere.
Anzitutto, le due Caserme dovrebbero ritornare
all'antico splendore, che in ogni tempo vi diffusero, tanto
il 10° Reggimento di Artiglieria, quanto i brillanti
Reggimenti di Cavalleria ancora in vita. Un
provvedimento simile, a favore e non a danno di Napoli,
si badi, condurrebbe a risultati concordi di opportunità
civile e militare: non è necessario esporla, questa
opportunità contingente, perché le Supreme Autorità
Militari la conoscono a perfezione, mentre quelle civili
sono troppo provate in Napoli dagli sforzi quotidiani per
l'aumento dei fabbricati.
A questo provvedimento, che dovrebbe essere
davvero urgente, come un efficace cordiale per un
infermo, dovrebbe seguire 1'integrazione completa della
Piazza; perché, se 1'Opera Vanvitelliana è orgoglio
d'Italia e se Napoli si è arricchita con essa di nuove
gemme, non sarà stolta audacia pensare al
completamento della Piazza, costruendovi i quattro
edifici rimasti allo stato di progetto.
Nel Piano Regolatore, pubblicato nel 1920,
quando Caserta non prevedeva la perdita dello status di
capoluogo, vi erano dei suggerimenti che riguardavano
1'uso degli edifici a costruirsi, tutti per conto
dell'iniziativa privata; ma oggi, col destino di Caserta
mutato ed il Regime che spande fremiti di vita operosa,
qualcuna di quelle proposte non trova più giustifica, ed
invece sorgono necessità nuove vagheggiate dal Governo
e degne di appoggio. Ma di queste sarà lecito discorrere
più tardi: ora è solo necessario sottrarre, quella striscia di

231
suolo, a qualsiasi iniziativa che non sia quella del
Vanvitelli aggiornata e riprodotta dal Piano Regolatore.
Un'illustrazione più ampia di questi cenni, specie
per quanto si collega alla residenza in Caserta di una
parte della guarnigione napoletana, allungherebbe troppo
il discorso e, forse, non gioverebbe neppure: solo
riuscirebbe utile l'esibizione dei disegni allegati al Piano
Regolatore, ma il carattere di questa rapida rassegna
evidentemente non lo consente.
Gli altri due prospetti della Reggia, 1'Orientale e
1'Occidentale, destinati rispettivamente ai Giardini Flora
e Zeffiro, attendono la loro liberazione per esporre al
pubblico godimento nuove bellezze, ed a tal proposito,
senza nulla mutare, giova riprodurre quanto fu reso
pubblico nel 1920.”

232
La cronaca
Una fiamma a Castelmorrone

Fu una domenica particolare quella del 10 giugno 1923


quando finalmente si volle dare alla locale sezione del PNF la
sua fiamma con una cerimonia che sarebbe stata ricordata nel
tempo. Del resto il paese di Pilade Bronzetti aveva ospitato, solo
pochi mesi addietro, gli squadristi campani che si preparavano a
bloccare l’azione della guardia regia qualora Facta ed il Re
avessero decretato lo stato di assedio in occasione della marcia
su Roma. La cerimonia della consegna della Fiamma alla locale
Sezione Fascista incominciò presto.
Fin dalle prime ore del giorno ci fu grande animazione per le
vie, essendone stato dato l'annunzio al pubblico con un manifesto
il giorno precedente. Alle ore 8 incominciò l'adunata, e verso le
8.30 partì il corteo, con perfetto ordine, musica in testa, per la
Piazza Bronzetti, dopo che nella Via Casalmaggiore il sig.
Giuseppe Bozzi improvvisò un magnifico discorso.
La Fiamma fu portata da un iscritto al partito, attorniato da
due giovane ragazze, di cui una, la signorina Gina Bugli,
designata ad essere la madrina, seguivano i Balilla e i Fascisti e
in ultimo il Direttorio col segretario politico avv. Ernesto
Capecelatro.
Una fiumana partecipava al corteo, chiamata dall'entusiasmo
e dalla novità della festa.
In mezzo alla Piazza una folla ancora maggiore attendeva:
v'erano autorità, notabili, il Circolo Operaio, la Società Agricola
e uomini e donne d'ogni ceto.
In Piazza i fascisti si disposero in due file, che
circoscrivevano una strada simbolica dalla Chiesa alla lapide
commemorativa degli Eroi di Castelmorrone, tutta cosparsa di
mirto e di fiori.
A benedire la fiamma fu monsignore Giuseppe Franzone.
“Un atto che fu accompagnato da ovazioni e da alalà dei bravi
giovani, che vedevano soddisfatto il loro ardente voto”.
Uno squillo di tromba impose il silenzio; mentre
raggiungeva la Chiesa il cav. uff. dott. Luigi Gogliettino, che,

233
“tra la più grande attenzione, parlò con la consueta affascinante
eloquenza”
Un discorso, lungo più di un’ora, inneggiante alla patria, alla
famiglia, nuovo corso della storia e alla prospettive future che si
aprivano agli italiani al Casertano ed a Castelmorrone sotto la
guida del partito nuovo.
Al termine dell’applaudito intervento la madrina, l'entusiasta
signorina Gina Bugli, incoronò d'alloro la Fiamma, tra gli
applausi, gli alalà e le note di Giovinezza.
Seguì il giuramento solenne, che 1'avv. Ernesto Capecelatro,
segretario politico del Fascio, parlò del valore religioso, etico e
giuridico del giuramento, fece rilevare le numerose e serie
difficoltà frapposte dalla protervia di pochi alla attuazione della
bella festa. Consegnò, con solenne commozione la medaglia
d'argento al valore alla madre dell'eroe ricordato sulla Fiamma,
signora Giovanna Della Valle-Uzzi.
La Fiamma, portata dalla signorina Bugli, passò davanti alla
lapide commemorativa degli eroi di Castelmorrone, inchinandosi
in memore omaggio; passarono i ragazzi della Scuola della
signora Irene Bozzi, versando fiori a piè del marmo. Le Camicie
Nere, comandate dal sig. Francesco Bugli, con l'austerità e il
garbo richiesto dal momento, resero romanamente il saluto,
sfilando davanti alla lapide.
“Quindi al ritmo dell'inno di “Giovinezza”, tutti tornarono
alla sede del Fascio, dando una splendida manifestazione di
compostezza, d'ordine e di disciplina. Che gracchino i corvi, è
loro mestiere; ma non sarebbe più edificante per tutti, forse
anche per loro, almeno il silenzio in certe ore memorabili della
vita?”

I fascisti di Casertavecchia si ribaltano

Se la videro brutta quella domenica mattina, 1° ottobre 1927,


anno VI E.F., i fascisti di Casertavecchia che volevano recarsi a
Napoli di prima mattina per celebrare il quinto annuale della
Marcia su Roma.
Una cerimonia che per la maggior parte di loro dovette
essere raccontata perché sul posto non arrivarono mai, e fu

234
sfiorata una tragedia anche grazie al pronto intervento dei
soccorsi e alla solerte opera dei medici dell’ospedale civile di
Caserta.
La Sottosezione Fascista di Casertavecchia, una delle più
antiche delle contrade, la migliore organizzata e disciplinata, con
a capo quell'impareggiabile gentiluomo ed ardentissimo fascista
dalla prim'ora, il cav. avv. notaio Antonio ladevaia, delegato
municipale della frazione, si stava recando in camion allo scalo
ferroviario di Caserta per raggiungere Napoli il capoluogo di
provincia.
“La giovialità di quelle sessanta Camicie Nere, in divisa
inappuntabile ed in perfetto ordine, all'ombra della loro
fiamma e allo sventolio delle bandiere tricolori, faceva
echeggiare nell'aria mattutina ottobrale le note fatidiche di
Giovinezza, invitando i passanti ai più calorosi applausi.”
All'altezza del Macello di Caserta, (oggi sede della biblioteca
comunale) nella doppia curva che immette nel rettifilo della
strada di circonvallazione, nei pressi di una fontana pubblica,
uno schianto secco, poi un unico grido di angoscia ed un tonfo di
cinquanta corpi umani, lanciati come bolidi a terra con inaudita
veemenza.
La doppia curva aveva provocato forti oscillazioni della
massa delle Camicie Nere, che erano in piedi sul camion, per cui
il sostegno delle tavole laterali non resistette all'urto delle
persone, 1'argine fu schiantato con forza, provocando la
simultanea violenta caduta sulla carreggiata di tutti, in un
mucchio d'incomposti corpi umani.
Fu, il segretario politico, avv. Antonio ladevaia, a prendere
l’iniziativa e, con alta e mirabile prontezza, requisendo veicoli e
carri, che a quell'ora transitavano per quei paraggi, trasportò di
corsa i più gravi all'ospedale civile di Caserta, dove dal dott.
prof. Pasquale Santonastaso, furono, con la maggiore
sollecitudine, apprestate ai feriti le cure urgenti che richiedeva il
caso.
Quasi tutte le Camici nere rimasero contuse nella caduta
violenta, tra cui sette più gravemente, cioè Francesco Cicia,
Carlo Damiano, Andrea Massaro, Giovanni Castiello, Giuseppe
Toscano, Pietro Giaquinto e Nicola Cerreto; e cinque con ferite

235
meno gravi, Giulio Bergantino, Francesco Buzzo, Giovanni
Lerro, Vincenzo Viscuso e Antonio Tenga.
Nonostante tale accidente, i camerati con vero spirito
fascista, si recarono a Napoli, arrivando ancora in tempo per
partecipare alla festa lasciando solo ricoverati quattro dei feriti in
peggiori condizioni, che nella serata furono dimessi e dai si
unirono a coloro che ritornavano da Napoli per tornare a
Castelmorrone.
“Segnaliamo all'ammirazione di tutti questi valorosi del
Partito Nazionale Fascista, che, noncuranti del pericolo corso e
delle ferite riportate, ancora una volta, nella notte, ritornando al
loro Paesello natio sullo stesso camion, fecero echeggiare
nell'aria il canto dell'anima.”

Una casa innominabile in via Gianbattista Vico

Nella vita quotidiana la città di Caserta non differiva per


costume dalla vicina Napoli, viveva però, in considerazioni delle
limitata espansione, di più pettegolezzi e sentito dire. Il punto di
riferimento era Piazza Margherita dove nei due circoli quello
Sociale e quello Nazionale si parlava del più e del meno. E si
facevano apprezzamenti sulle bellezze locali. Argomento
principale era il comportamento di “quelle signorine” che
frequentavano case “innominabili” per la cronaca del tempo, ma
che in definitiva erano vere e proprie case di appuntamento.
Dovette suscitare non poche chiacchiere la notizia che “La
mattina di venerdì, 7 ottobre 1927, anno V dell’Era Fascista, in
seguito ad uno speciale servizio, organizzato dall'ex sottufficiale
dei Reali Carabinieri sig. Franco De Marinis, alla Scuola Tecnica
di Polizia - con la cooperazione degli allievi della stessa Scuola
ed ex carabinieri reali, signori Giovanni De Marco, Ferdinando
Giordano e Vincenzo Manfretelli, nonché con 1'intervento del
maresciallo sig. Giovanni Ladu, pure della Scuola suddetta - fu
eseguita un'abile irruzione, con esito positivo, in una casa
clandestina di prostituzione a Via Giovanni Battista Vico, in
Caserta. La tenutaria venne denunziata alla Autorità
Giudiziaria.”
“Segnaliamo il brigadiere De Marinis e gli altri bravi

236
funzionari per la loro opera solerte”. Così terminava la sua nota
l’anonimo cronista.
In realtà di case di appuntamento a Caserta non
abbondavano. La notizia però non colse alla sprovvista le donne
casertane che sapevano di certe frequentazioni di baldi mariti che
invece di preferire il letto coniugale venivano attratti dalle belle
ragazze provenienti dalla vicina Napoli o dai comuni limitrofi
per sbarcare il lunario e anche qualcosa d’altro.
Furono in molti a temere che la tenutaria potesse fare dei
nomi dei suoi frequentatori, ma la donna si mostrò fedele al suo
alto compito che era chiamato a compiere e non fornì ai militari
nessun elenco degli habituè con sollievo di molte famiglie per
bene.
Si deve arrivare al 1932 ed oltre quando il podestà Ludovico
Ricciardelli, su sollecitazione dei comandanti delle varie caserme
esistenti a Caserta, autorizzò delle case di appuntamento legali.
La prima venne aperta nelle vicinanze della stazione in una
traversa dell’attuale Via Verdi, la tenutaria era la famosa “donna
Bettina”, l’altra era in fondo a Via San Carlo di rimpetto alla
chiesetta della Madonna di Montevergine.

Solenne inaugurazione dell’illuminazione pubblica

Quando il suo obiettivo di risanare il comune di Caserta e di


avviare una serie di modernizzazioni della città era quasi
raggiunto, il cavaliere dott. Gaetano De Blasio pensò bene di
ritornare al suo lavoro di funzionario di prefettura e non avere
niente a che fare con i casertani che sempre più numerosi si
iscrivevano nel partito fascista, forte del consenso e del potere
che aveva conquistato in Italia. Popolari, socialisti, liberali,
comunisti ed affini tutti passarono all’ombra del fascio pensando
di poter pontificare ed occupare posti guida. La lotta a Caserta e
provincia era sempre più dura e nel partito pettegolezzi, sete di
potere e altro avvelenavano l’ambiente. Ma De Blasio i fatti li
aveva realizzati e la sua soddisfazione fu in quel mercoledì 21
aprile del 1926, in occasione della solenne inaugurazione del
servizio della pubblica illuminazione elettrica a Caserta. Un
giorno importante per la città, il vescovo Mons. Natale Gabriele

237
Moriondo, benedisse la cabina di trasformazione a Piazza
Mercato. Poi tutti si trasferirono alla sede della Società Elettrica
della Campania, in Via Cesare Battisti - ov'erano convenute le
Autorità Fasciste, Civili, Militari, Tecniche ed Ecclesiastiche, fra
le quali l’on. Blanc, il prefetto gr. uff. Graziani, 1'avv.
Bergamaschi, l'ing. Mancusi, il colonnello Labrano, i consoli
Simeoni ed Argentino, il comm. ing. Cuomo col gr. uff. Crispo, i
Sindaci dei Comuni vicini, e una forte presenza di concittadini,
signore e signorine.
L'ing.. Nicola Valery lesse le adesioni di S. E. Visocchi,
dell'on. Greco, dell' ex commissario prefettizio e tra queste anche
quella del De Blasio, l’artefice di quel miglioramento che non
volle intervenire alla cerimonia, di Sindaci e di altre autorità.
Discorsi di circostanze furono fatti dal presidente del
Consiglio di Amministrazione della Società Elettrica della
Campania, gr. uff. Eduardo Marino, ed il commissario prefettizio
comm. dott. Michele Chiaromonte, i quali conclusero,
applauditissimi, inneggiando al Re e al Duce.
Il comm. Chiaromonte, dette l’ordine di abbassare il grosso
interruttore che alimentava la linea e le strade si illuminarono fra
il “giubilo di tutta la popolazione.”
Il cronista annotò “furono distribuiti a tutti gl'intervenuti,
ponci, dolci e liquori, squisitissimi, a profusione, e champagne.
La bella festa di civiltà e progresso non poteva riuscire più
sfarzosa, e ne va data lode, oltre che a tutto il Personale della
benemerita Società Elettrica della Campania, specialmente al suo
direttore ing. Stefano Brun.”

Valorizzazione di Palazzo Reale

Convocati e presieduti dal dott. cav. uff. Gaetano De Blasio,


commissario prefettizio, si riunirono sabato, 5 dicembre, del
1925 nella sala del Municipio, i rappresentanti del Comitato per
la difesa degl'interessi di Caserta e per la valorizzazione del
Palazzo Reale.
Intervennero l'avv. comm. Pietro Monti, l'on. avv. Giovanni
Tescione, il cav. avv. Alfonso Lamberti, il prof. Angelo Fusco, il
cav. Nicola Durante, l'avv. Teodoro Du Marteau, l'ing. Giovanni

238
Campopiano, il cav. prof. Ernesto Sosso, il cav. Alfredo De
Lillo, 1'ing. Mario De Martino, il prof. Ciro Vaccaro e il sig.
Gustavo Malasomma, presidente dell'Associazione dei
Commercianti. Intervennero pure il gr. uff. Parpagliolo, vice-
direttore generale delle Belle Arti, e il comm. Chierici,
sopraintendente ai Monumenti.
Il comm. Chierici espose il progetto di valorizzare il più
insigne monumento del Mezzogiorno e il più bel Palazzo Reale
di Europa, il quale, per quanto abbia avuto diverse destinazioni,
pur tuttavia costituisce un insieme monumentale di così gran
pregio, che è interesse di tutti di veder conservato e mantenuto
con maggior decoro: soggiunse che la migliore destinazione, che
possa avere il Palazzo stesso, è quella dì Palazzo di
Rappresentanza Nazionale, per uso dei Congressi Internazionali.
L'on. Tescione, nel rilevare la concordia di intenti e
nell'apprezzare altamente le idee del Sopraintendente ai
Monumenti, il quale è confortato nella sua azione dall'adesione
autorevole della sua Direzione Generale, non si dissimulò le
difficoltà per l'attuazione del suo progetto, in quanto che non
basta aver data la destinazione alla mole vanvitelliana, ma
occorrono una quantità di opere, sussidiarie, come strade e
alberghi, che difettano.
Il gr. uff. Parpagliolo riferì di avere avuto un colloquio con
S. E. Castelli, alto commissario per la Provincia di Napoli, il
quale lo aveva assicurato di aver disposti gli studi per la
costruzione di un’autostrada Napoli-Caserta, tenendo presente il
progetto originario di Vanvitelli del rettifilo Caserta Napoli, con
impegno che la spesa relativa, per parte della Provincia di
Napoli, sarebbe stata eseguita con i fondi del Commissariato. Di
tal che resterebbe a carico della Provincia di Caserta la
costruzione di meno di dieci chilometri di strada.
L'on. Tescione, quale incoraggiamento per le piccole
industrie locali, propose che una parte del Palazzo Reale possa
essere destinata per sede di esposizioni permanenti di quanto di
più caratteristico offre la Terra di Lavoro. I1 che fu accettato dai
convenuti.
Il commissario De Blasio informò che, in conformità dei
precedenti accordi, sarebbero stati quanto prima abbattuti i

239
casotti alla ferrovia, costruiti durante la guerra e che impedivano
la vista del Palazzo Reale; dichiarò che le Scuole Elementari
sarebbero state allogate in apposito edificio, che sarebbe stato
costruito in Via Giannone, e che il Parco della Flora sarebbe
ridonato all'antico splendore mercé le cure del personale addetto
ai giardini pubblici.
Il comm. Monti, nel plaudire alla azione concorde di tutti,
disse di ritenere che si sarebbero raggiunti ai maggiori risultati,
se i due Comitati locali e quello di Napoli, costituito dalle più
eminenti personalità della Metropoli, avessero collaborato.
Propose che l'iniziativa fosse lasciata al Comitato eletto dal
Rotary Club di Napoli, di cui facevano parte i Deputati e
Senatori di quella Provincia, perché esso più facilmente avrebbe
potuto rendersi interprete presso il Governo Nazionale dei
sentimenti e delle aspirazioni delle popolazioni.
In quella sede ed all’epoca, invece, i convenuti si mostrarono
convinti che, soltanto mercé gli sforzi consociati di tutti, sarebbe
stato possibile attuare il mirabile programma, dal quale si
sarebbero potuto ricavare indubbi benefici tanto la Città di
Napoli, quanto quella di Caserta.
Ad unanimità si stabilì, quindi, di indire al più presto
possibile una riunione del Comitato di Caserta nel Palazzo Reale,
estendendo l'invito a tutti i Senatori e Deputati, a S. E. il Ministro
della Pubblica amministrazione alle Gerarchie Fasciste, con il
proposito di invitare S. E. Mussolini ad una visita al gioiello
d'arte così magnifico e così poco conosciuto, perché il Duce,
“mente aperta ad ogni più ardita concezione ed entusiasta di tutto
ciò che può mettere in valore la Nazione Italiana, darà anche in
questo campo il suo fattivo appoggio affinché il radioso
programma enunciato dal Sovrintendente ai Monumenti sia
presto un fatto compiuto”.

Il sovversivo cantava e suonava bandiera rossa

Come detto il precedenza il 1926 fu un anno particolarmente


difficile per il governo e in particolar modo per Mussolini, i
continui attentati alimentavano sospetti e facevano cresce a
dismisura le voci di una forte opposizione che avrebbe dovuto

240
agire tramite i “sovversivi” che si nascondevano in ogni luogo.
Un terreno fertile per alimentare le solite faide paesane ed
accentuare denunzie più o meno anonime alle autorità
competenti. Tutti diventavano i guardiani di una legalità e
bastava un sospetto per attivare una serie di indagini che il più
delle volte si risolvevano con l’archiviazione.
Nel verbale dell’Associazione Nazionale Combattenti della
sezione S. Andrea di Francolise, fatto pervenire al prefetto di
Caserta si poteva leggere: “L'anno 1926 addì 13 Giugno si è
riunito il consiglio direttivo per deliberare quanto appresso:
Dietro denunzia del Maresciallo dei RRCC di Sparanise alla
tenenza di Sessa Aurunca per cui risultava che in casa di certo
Barbuto Antonio ex ferroviere con perquisizione a suo domicilio
a Sparanise fatta impensatamente dal predetto Maresciallo si
ebbe a trovare un bollettario di 20 iscritti al Partito Comunista
tutti di S. Andrea del Pizzone fra cui il Sig. Zarrilo Domenico
supplente dell'Ufficio postale di S. Andrea del Pizzone di cui il
proprio padre n'è è titolare.
Il presidente di questa sezione Prof. Sig. Cardi Alessandro a
queste voci fondate credeva opportuno riunire il consiglio
direttivo in detta data per discutere ed esaminare quanto
appresso: essere indegno che ancora impiegati dello Stato, e per
giunta avventizi, speculano sulla bontà del partito Fascista
manovrino palesemente ed occultamente contro il governo
Nazionale perché fa risaltare che il giorno 6.12.25 il detto
Zarrillo Daniele in pubblico esercizio cantava e suonava
"Bandiera Rossa" per cui scandalizzati alcuni cittadini uscirono
fuori dall'esercizio di Giacomo Passaretti - Barbiere
E' indegno per l'associazione dei Combattenti che chi la
grande guerra non ha sofferto anche lontanamente si atteggi a
tribuno contro milioni di cittadini che si sacrificano e sentono
ancora doloranti le carni martoriate.
Il consiglio ad unanime fa risaltare che bene ragione sia che
padre e figlio sono contro il governo nazionale perché per il
risorgimento della Grande Italia nulla diedero i loro avi né
come cospirazione né come forza sui campi, nulla hanno dato
per l'intera generazione perché di famiglia sempre riformati, e
quando la grande Italia si doveva compiere e la dovevano

241
formare gli uomini validi alle armi del 1915 in poi, l'unico di
questa famiglia valida poté dare il braccio alla Patria dichiarare
insostituibile quale guardia Municipale per le solite beghe
antipatriottiche.
Attualmente vergognoso è che un beneficiante di ufficio
statale si scagli contro il governo nazionale. Tante vergogne per
il decoro dell'Associazione Combattenti stessa dovrebbe avere
un limite per cui colpa conforme di detta deliberazione si invia
all'Associazione Provinciale dei Combattenti e alla Federazione
Provinciale Fascista, per opportuni provvedimenti indispensabili
Letta, approvata si sottoscrive. Il consiglio direttivo: Cardi
Alessandro - Presidente; Simone Carlo Segretari; Cantiello
Antonio Consigliere; Pennetta Antimo Consigliere; Marigliano
Consigliere.
Il prefetto di Caserta inoltrò per competenza la denunzia alla
sottoprefettura di Gaeta con sede in Formia al fine di riceve
ulteriori chiarimenti e vederci chiaro su episodi che, se
confermati, potevano essere molto gravi. Sta di fatto che nel giro
di pochi giorni dopo vari accertamenti veniva inviato a Caserta
una informativa riservata in cui si affermava: Facendo seguito
alla mia lettera del 24 luglio u.s. N. 238/374 gab. Pregomi
riportare integralmente all'E.V. le informazioni dell'Arma dei
carabinieri sul titolare e sul supplente dell'Ufficio postale di S.
Andrea del Pizzone:
La presente è di risposta tanto alle note del 24 Giugno c.a. e
5 luglio u.s. N. 615 di codesto gabinetto, quanto a precedenti
lettere sullo stesso oggetto di codesto ufficio di Questura.
Trascrivo le informazioni dell'Arma che escludono i fatti
addebitati agli Zarrillo
"Da informazioni riservatamente assunte dal Comandante
delle Tenenza di Sessa Aurunca nei riguardi di Zarrillo
Francesco, Ufficiale postale di S. Andrea del Pizzone quanto il
figlio Daniele è risultato quanto segue:
Zarrillo Francesco e Daniele non sono da ritenersi
sovversivi. Il primo già iscritto alla sezione del Fascio di S.
Andrea ne venne espulso per indisciplina, ma presentemente fa
parte del Sindacato fascista postetelegrafonici di Caserta. I due
avvicinano in S. Andrea piuttosto persone facenti parte

242
dell'opposizione locale al fascio e perciò non corrono tra questo
ed i primi buoni rapporti.
Il presidente della "Sezione Combattenti di Sant'Andrea fa
anche parte di quel fascio ed ha ragioni personali di rancore
verso i Zarrillo, tanto che di recente è stata presentata
all'Autorità Giudiziaria di Carinola una querela per ingiuria da
parte dei Zarrillo ad opera di suddetto Presidente.
Che gli Zarrillo siano "artefici di pericolose ed oscure
manovre Comuniste" non è stato possibile assodare, ma ciò deve
certamente escludere come è da escludersi che svolgano
propaganda sovversiva e contraria al governo nazionale.
Tutti i reclami del fascio e dei Combattenti hanno origine da
beghe locali e da questioni personali essendo gli Zarrillo invisi
al segretario del Fascio di S. Andrea ed al presidente di quella
sezione, nonché ai loro aderenti.
Il Comandante di Tenenza ha conferito anche col podestà
del comune di Francolise Avv. Di Benedetto Tommaso e questi
ha escluso che gli Zarrillo siano sovversivi e che svolgano
propaganda comunista o comunque avversa al governo
nazionale.
Si aggiunge infine che nessun fatto specifico è stato
accertato circa i voluti abusi e le irregolarità che si vogliono
commesse dai ripetuti Zarrillo nell'Ufficio Postale di S. Andrea.
Restituisco la denunzia dei Combattenti pervenutami col
foglio del 27 Luglio 1926 N. 615 Gab.
In realtà la denunzia nascondeva una lotta all’interno di quel
variegato mondo che era stato la nascita delle organizzazioni
fasciste e che in Terra di lavoro aveva assunto toni drammatici
per arrivismo e sete di potere: un malcostume che partiva dai
vertici e che arrivava fino alla base.
Non a caso le lotte intestine che si erano verificate nella
federazione provinciale del partito fascista in Terra di Lavoro fin
dal suo nascere erano dovute ad una mediocrità intellettuale ed
un provincialismo che non avevano uguali in nessun altra
provincia del regno.
Una situazione che era stata combattuta da Aurelio
Padovani, considerato il puro idealista, il nemico numero uno di
quel clientelismo che aveva caratterizzato il malcostume

243
dell’Italia liberale e che successivamente si aggregherà intorno ai
nazionalisti di Paolo Greco che avranno la meglio agli occhi del
regime.
Del resto c’era stato proprio lo sbandamento di vecchi quadri
dell’organizzazione che vedono i fascisti di Formia e dintorni in
una posizione di attesa mentre quelli di Gaeta, Itri, Elena Fondi
pure con forte simpatie per Padovani incominciano a sentire la
penetrazione della politica di Greco.
Era inevitabile quindi che in questa strana lotta si usassero
colpi bassi per acquisire posizione e si ricorresse a tutti i mezzi
per far fuori avversari o persone che avrebbero potuto ostacolare
la marcia per conquistare anche piccole posizioni di privilegio.
Una lotta, quindi, senza esclusione di colpi e che i carabinieri
accusati di schierarsi da questa o da quella parte dei contendenti.
Nel caso specifico, il sindaco di Francolise dell’accaduto si
rivolgeva ai vertici del partito accusando il comandate dell’arma.
“On. Presidente Pentarchia fascista Caserta - scriveva il primo
cittadino- Addito alla S. V. Ill.ma la figura del Maresciallo dei
RR CC.di S. Andrea del Pizzone il quale svolge come sempre ha
svolto opera deleteria ai danni del Fascismo.
E' stato l'uomo insinuatore per eccellenza che tra il
Consiglio comunale Fascista ha seminato discordia tale che ha
condotto ad una specie di scissione che oggi non si è ancora
composta.
Protettore dei comunisti locali, ha cercato di nascondere
alle autorità qualunque mossa o manovra tendente alla
sopraffazione del nostro buon nome politico.
Operando perquisizioni negative sempre negative per lui, in
caso di comunisti per le scoperta di un bollettino di soccorso
rosso comitato internazionale russo, ha rinvenuto anche un
ritratto di Lenin in casa di tale Di Benedetto Andrea di Antonio
(compreso nel bollettino suddetto) e, per non comprometterlo
l'ha lacerato con le sue proprie mani senza nulla denunziare.
Questa circostanza è stata riferita dalla Sig.na Di Benedetto
Annina fu Pasquale. Tutti gli iscritti lei li proclama giovani
incensurati sono le sue parole scritte - a che nessuno di essi
abbia svolto, oppure svolge propaganda sovversiva.
Ho dimenticato che Giacomo Jannotta e compagni furono

244
autori degli spari alla M.V.S.N. il 21 Giugno 1925 che
Francesco Zarrillo trasformò l'ufficio postale in rivendita di
giornali sovversivi che Zarrillo Daniele al canto di "Bandiera
Rossa ha provocato varie volte incidenti seri. Questi ed altri
sono i giovani incensurati del Maresciallo
Questa Amministrazione e questo Fascio non possono
ulteriormente tollerare la presenza di questo funzionario nel
Comune, tanto più che vivi sentimenti incominciano a
serpeggiare nell'animo di tutti.
In conseguenza di ciò prego la S. V. Ill.ma di provvedere in
merito con sollecita sostituzione del Maresciallo suddetto il
quale ha dimostrato fin dal nascere di quest'Amministrazione di
essere contro gli squadristi di Sparanise.
Con la più perfetta stima - Il Sindaco
La verità era nota al paese tanto che il sottoprefetto di
Formia Marino poteva inoltrare al prefetto di Caserta la seguente
nota: Sottoprefettura di Gaeta in Formia Gabinetto 328/374
24.6.1926
Tra gli accusatori del titolare dell'Ufficio postale di S.
Andrea Francolise, Sig. Zarrillo Francesco e di suo figlio,
supplente nello stesso ufficio Sig. Zarrillo Daniele figura anche
l'ex Sindaco di Francolise sig. Antonio Martucci e, poiché dalla
direzione provinciale delle poste si esprimeva il dubbio che
essendo il Martucci anche segretario politico della locale
sezione fascista, le accuse fossero dirette a scalzare il Zarrillo
per sostituirgli il segretario amministrativo sig. Gennaro
Simone. È stato prudente nell'attendere l'insediamento del
Podestà perché l'arma dei RR CC cui mi sono rivolto possa far
capo ad Autorità interessata nella questione.
Sono in attesa tuttora delle informazioni e però prego la
E.V. di compiacersi di attendere l'esito. Con l'occasione
pregiami significarLe di non aver trovata allegata la denunzia
dell'Associazione Combattenti che sarà forse rimasta in atti.
Sarebbe anzi utile che mi sia spedita anche pendenti le
informazioni pel caso avesse a contenere motivate riferentesi a
casi specificatamente determinati.

245
Jolanda Formati
fioraia

246
L’ultimo federale
L’organizzazione del partito fascista destinava al
responsabile provinciale la nomina di segretario federale con il
compito di reggere la Federazione dei fasci di combattimento,
attuare le direttive ed eseguire gli ordini del segretario del P.N.F.
Inoltre doveva promuovere e controllare l'attività dei fasci di
combattimento e delle organizzazioni del partito nell'ambito
della provincia, le organizzazioni del regime e il conferimento ai
fascisti delle cariche e degl'incarichi. Al segretario federale,
erano subordinati i gerarchi provinciali delle organizzazioni del
P.N.F. e degli enti dipendenti dal P.N.F. Il federale
rappresentava nella provincia il partito a tutti gli effetti. Ed infine
reggevano il fascio di combattimento ed esercitavano nell'ambito
del territorio in cui operava il fascio di combattimento, funzioni
analoghe a quelle del segretario nazionale.
Nel 1927 con la soppressione della provincia di Terra di
Lavoro i compiti del federale passarono a quelli di Napoli. Nella
Città di Caserta a guidare il Partito Nazionale Fascista rimase
Giuseppe Tedeschi. A volerlo al vertice del massimo ed unico
partito fu il podestà Pasquale Centore. I compiti erano molto
allargati e il Tedeschi era quello che sopraintendeva l’attività che
si svolgevano nella città che allora doveva essere considerata la
Versailles italiana.
Il centro storico di fatto era cresciuto grazie alle opere
riparatrici che il capo del governo aveva promesso ai Casertani.
“Caserta ha compreso che bisogna rassegnarsi a essere un
quartiere di Napoli”, aveva detto Benito Mussolini nel suo
storico discorso dell’Ascensione.
A Giuseppe Tedeschi si rivolgevano i cittadini per le
esigenze più elementari, ma anche per attività sportive e sociali.
Era il referente dei commercianti, industriali delle industre delle
seti, dei lavoratori e della media borghesia ed in molte occasioni
del notabilato locale, che benché ridotto al minimo, continuava
ad esistere. Molti di loro preferivano vivere nella più
confortevole Napoli.
Dovette gestire il periodo della seconda guerra mondiale, i
bombardamenti alleati e fu proprio lui, dopo la caduta del

247
fascismo, ad assistere non senza apprensione, alla distruzione del
suo partito. La sede del P.N,F. era allocata in piazza Mercato. Gli
antifascisti dell’ultima ora prima la devastarono buttando dalle
finestre suppellettili e documenti, poi li bruciarono. Da qui la
difficoltà anche di trovare atti idonei a descrivere e commentare
questo periodo di transizione.
Restano di Giuseppe Tedeschi alcuni importanti immagini e un
documentario “Luce” che lo ritrae alla festa nazionale dell’
Opera Nazionale Dopolavoro che si svolgeva con allegria e
solennità nei giardini della Reggia di Caserta, richiamando turisti
da tutto lo stivale.
Condivideva la sua passione per la politica con altri importati
personaggi casertani tra cui Michele Accinni, il primo delegato
Coni di Caserta fin da quando il regime fascista volle riconoscere
all’ente sportivo la personalità giuridica per “l'elevazione fisica e
morale degli italiani”. Si diede allo sport grande rilevanza non
solo agonistico, ma anche propagandistico. Tanto che lo stesso
segretario del Partito Nazionale Fascista Achille Starace fu
contemporaneamente, dal 1933 al 1939, anche presidente del
Coni.
Il Coni durante la presidenza di Raffaele Manganiello, con la
legge 16/2/1942, n. 426, fu riconosciuto come ente di diritto
pubblico con personalità giuridica e con organi territoriali; da qui
l'istituzione dei comitati provinciali e regionali.
Giuseppe Tedeschi originario di San Nicola La Strada era nato il
22 ottobre del 1904 figlio di Arcangelo e di Teresa Spaziante.
Dopo le scuole normali si iscrisse all’istituto Garibaldi
conseguendo il diploma di Geometra. Sposò Aurelia Pisano.
Funzionario della finanza lavorava presso l’ufficio delle Imposte
dirette di Caserta. Aderì al fascismo fin dalla prima ora
partecipando con discrezione a tutte le attività che si svolgevano
sul territorio. La prima nomina politica se la guadagnò sul campo
per la sua professionalità, infatti fu consultore
dell’amministrazione comunale. Da vice segretario del Pnf
diventò successivamente segretario. Fu tra coloro che
chiedevano a gran voce la ricostituzione della Provincia di
Caserta anche su un’area territoriale più ristretta rispetto a quella
soppressa.

248
Aveva come segretaria la preside dell’istituto Sant’Agostino, la
prof.ssa Magliano.
“Non sono proprio sicuro quando mio padre assunse l’incarico
di segretario politico del partito – ha raccontato il figlio
Arcangelo Tedeschi noto imprenditore Casertano ed ex
presidente di Confindustria Caserta – ritengo che entrò nelle sue
funzioni nel 1939 e finì la sua attività dopo la caduta del
fascismo il 25 luglio del 1943.”
“Ero molto piccolo per ricordare fatti del fascismo casertano –
continua – Mio padre con l’avvento della repubblica era restio a
parlarci di quel periodo e spesso le cose che ci raccontava erano
legate a episodi di famiglia e personali. Ho avuto sempre
l’impressione che il suo incarico nel ventennio lo aveva preso
come spirito di servizio e abnegazione agli ideali imperanti del
tempo: la patria, la religione, la famiglia, il suo paese. Del resto
Caserta aveva condizionato più che subito il fascismo e di quella
dottrina aveva immagazzinato poco o niente.”
(In Campania, da Caserta al capoluogo sino alle montagne e
vallate di Avellino (luogo d’origine di Sullo33), - scriveva in un
articolo sul periodico Casertano “il Corso” Massimo Caprara
segretario particolare di Palmiro Togliatti e direttore del primo
quotidiano casertano “il Diario”34 - imperava una singolare
forma di fascismo: rozzo ed ignorante, fazioso e sospettoso, ma
nel quale agli intellettuali, specialmente giovani, era riservato un
ruolo quasi autonomo che solo negli ultimi anni di pace prima
del conflitto venne ostacolato e represso. Il fascismo fu
insomma, un misto di violenza e lassismo, di paura della cultura
e dei contatti del mondo, di chiusura retrograda ma anche di
involontari spiragli verso le nuove correnti di pensiero europeo e,
persino bolsceviche.)
Sulla Casertana Calcio, racconta Arcangelo Tedeschi che la
33
Fiorentino Sullo era nato a Paternopoli, in provincia di Avellino, da genitori
di Castelvetere sul Calore (AV). Laureato in giurisprudenza e in lettere, fu
eletto all'Assemblea Costituente nel 1946 per la Democrazia Cristiana. Da
allora fu rieletto ininterrottamente per sei legislature, fino alle elezioni
politiche del 1976 in cui decise di non ripresentarsi.
34
Il Diario, primo quotidiano stampato a Caserta con edizione Napoletana
fondato dal compianto Cav. Giovanni Maggiò

249
squadra di calcio era sorretta dai macellai della città. Ed era
formata per lo più dai cadetti dell’aeronautica militare.
“Per una partita di un certo richiamo dei rossoblu il
comandante dell’accademia revocò i permessi e la competizione
si sarebbe persa a tavolino. I macellai si mobilitarono e si
recarono in massa alla casa del fascio, prelevarono il segretario
che ben volentieri si recò al comando. La revoca fu annullata e il
calcio casertano riebbe i suoi protagonisti. Non ho mai saputo
come andò a finire la partita.”
Si deve a Giuseppe Tedeschi l’idea della sopraelevata sulla
ferrovia, che la propose all’amministrazione insieme al potestà
Centore.
“La sua segreteria era frequentata da amici che nel dopoguerra
diventarono i protagonisti della vita cittadina. - Aggiunge
Arcangelo Tedeschi – I nomi sono: Vincenzo Gallicola che
diventerà sindaco di Caserta; Michele Accinni per pochi voti
non eletto al senato della repubblica; l’avvocato Fausto
D’Ortona; Donato Messore; commendatore Umberto Palmieri
ed il dott, Italo Del Prete. Con la caduta del fascismo fu
sottoposto ad una inchiesta da parte dell’esercito alleato,
dimostrò la sua correttezza nel fare politica, cosa riconosciuta
anche da quelli che si consideravano antifascisti e non seguì la
sorte di quanti furono mandati nel campo di concentramento di
Paduli.”

250
Gruppo sportivo San Clemente.
Giuseppe Tedeschi inaugura un orto di guerra

251
Cerimonia di commemorazione
presente il vescovo Gabriele Natale Moriondo

Giuseppe Tedeschi in Palazzo reale


con il Generale Federico Baistrocchi

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Sommario

Presentazione ....................................................................... 3
Stavamo dicendo… ...................................................................... 7
Festa dell’indipendenza americana ............................................ 11
La svolta del primo dopoguerra ................................................. 17
La marcia su Roma .................................................................... 23
“Il sindaco lestofante” ................................................................ 39
Caserta sull’orlo del dissesto...................................................... 83
I casertani del regime ................................................................. 97
Antonio Casertano.................................................................. 97
Pietro Fedele ........................................................................ 125
Alberto Beneduce ................................................................. 137
Natale Gabriele Moriondo ................................................... 184
La provincia soppressa ............................................................. 191
La cronaca ................................................................................ 233
L’ultimo federale ...................................................................... 247

Ottobre 2017

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CENTRO STUDI ED ALTA FORMAZIONE
MAESTRU DEL LAVORO D’ITALIA

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