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MORAVIA E IL FASCISMO.
A PROPOSITO DI ALCUNE LETTERE A MUSSOLINI E A CIANO*
∗ Il saggio è lo svolgimento di una relazione dal titolo Moravia e il fascismo, tenuta a Roma il 22
gennaio 2004 presso il Museo di Roma in Trastevere per il ciclo di conferenze su «Moravia e Roma»
coordinato da Enzo Siciliano e organizzato dal Comune di Roma e dall’Associazione Fondo Alberto
Moravia. Per ragioni di spazio, è suddiviso in due “puntate”, la prima dedicata alle lettere di Moravia
a Mussolini e a Ciano e la seconda al rapporto con Carlo e Nello Rosselli, che uscirà prossimamente
su questa rivista. Ringrazio i responsabili dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, per l’aiuto nella
consultazione dei documenti ivi conservati; il Fondo Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano, presso
cui ho potuto consultare la lettera ivi conservata; i responsabili del Fondo Alberto Moravia di Roma
per l’aiuto nel reperimento dei documenti.
1 G. Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Torino, Silvio Zamorani, 1996, p. 396.
Dello stesso autore si veda anche Sul «caso Moravia», in «Quaderni di Storia», 42, xxi, luglio-dicembre
1995, pp. 181-196.
2 R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Milano, Il Mulino, 2000, p. 94.
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Rispetto alla ricerca storica, del resto, l’oggetto della ricerca letteraria è
per principio l’«anomalia» e non la «norma», lo scrittore e non il fenomeno
medio. Il metro di giudizio è perciò da cercare anzitutto all’interno e non
all’esterno dell’opera. Quando uno scrittore, per convinzione o per coer-
cizione, fa propri i valori di un’epoca, di un’ideologia o di un movimento
letterario, il metro interno tende a coincidere con quello esterno, ma quando
un’opera è in grado di fornire le proprie ragioni, non può essere valutata con
metri diversi, rispetto ai quali può porsi di volta in volta in polemica, in dia-
logo o semplicemente in alternativa. Dal punto di vista letterario, insomma,
conta anzitutto l’autonomia e non l’eteronomia dell’arte (per dirla in termini
forse desueti), tanto più per un’opera così “autonoma” e solida com’è quella
moraviana.
Ciò consente di evitare quei giudizi riduttivi che costituiscono il limite di
contributi peraltro importanti come quello di Ruth Ben-Ghiat. Il recupero,
intorno a Gli indifferenti, di un contesto di opere affini o derivate, come Luce
fredda di Umberto Barbaro e Radiografia di una notte di Enrico Emanuelli,
come Adamo di Eurialo De Michelis o Tatuaggio di Elio Talarico («entram-
bi fascisti convinti»), tutte risalenti ai primi anni Trenta, è una proposta di
grande interesse, come pure le indagini su collaborazioni moraviane più o
meno episodiche a riviste di ispirazione fascista3; ma leggere ed esaurire Gli
indifferenti all’interno di queste affinità e di questi rapporti, considerandoli
come opera rappresentativa di un «movimento letterario che non ha ancora
ricevuto molta attenzione da parte della critica» significa solo ignorare o
dimenticare le ragioni, le origini, la portata, la solitudine dell’ispirazione
moraviana4. I contemporanei, nel ’29, avvertirono subito la novità dirompen-
te del capolavoro rispetto alla letteratura del tempo: recuperare oggi questa
novità deve aiutare a misurare, non ad annullare lo scarto; deve permettere
di valutare l’incidenza, la ricezione e le imitazioni dell’opera moraviana, non
trasformare l’opera moraviana in un’imitazione come per un gioco di pre-
stigio. Con notevole acume e con sensibilità, inoltre, la Ben-Ghiat identifica
al centro dell’opera moraviana il nodo problematico, drammatico e morale
dell’“azione”, laddove molti critici si perdono volentieri in aspetti minori e
secondari; ma inquadrarlo ed esaurirlo all’interno di un piccolo e velleitario
azionismo avanguardistico quale potevano avere alcuni giovani intellettuali
fascisti è un’inaccettabile distorsione della realtà. Il giovane Moravia aveva
in mente Dostoevskij, Shakespeare, Proust, Pirandello, Joyce, e non certo gli
3 Cfr. però indagini sullo stesso ambito, come quelle di U. Carpi: “Gli indifferenti” rimossi, in «Bel-
fagor», xxxvi, 6, novembre-dicembre 1981, pp. 696-707; Id., L’esordio ‘avanguardistico’ di Moravia, in
«Critica letteraria», xxxiv, 10, fasc. i, gennaio-marzo 1982, pp. 78-90; e Id., Bolscevico immaginista.
Comunismo e avanguardie artistiche nell’Italia degli anni Venti, Napoli, Liguori, 1981, pp. 140-145.
4 R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, cit., p. 94.
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Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
5 Più interessante e plausibile, come vedremo, la sua lettura di La mascherata come «prima elabo-
razione del dolore e della rabbia suscitati dalla morte dei cugini Rosselli» che avranno un seguito poi
in Il conformista (ivi, p. 254).
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Le premesse
8 Cfr. almeno i saggi di M. Biondi, Il fascista secondo Moravia. «Il conformista» e il capitolo escluso,
nell’opera collettiva Cultura e fascismo. Letteratura arti e spettacolo di un Ventennio, a cura di M. Bion-
di e A. Borsotti, Firenze, Ponte alle Grazie, 1990, pp. 407-468, e di G. Talbot, Alberto Moravia and
Italian Fascism. Censorship, Racism and «Le ambizioni sbagliate», in «Modern Italy», vol. 11, 2, June
2006, pp. 127-145 (ringrazio Enzo Golino per la segnalazione di questo studio).
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di origine familiare, che egli adottò a partire dal 1927 per evitare l’omonimia
con un noto docente di storia delle religioni9. Sempre per parte di padre, egli
era cugino di primo grado di Carlo e Nello Rosselli, i due figli di Amelia
Pincherle già noti per il loro antifascismo all’epoca del delitto Matteotti e vit-
time a loro volta di sicari del fascismo nell’agguato omicida di Bagnoles-de
l’Orne il 9 giugno 1937. Invece un fratello della madre, Augusto De Marsa-
nich, sin dalla fine degli anni Venti fu un importante esponente del fascismo,
sottosegretario prima al ministero delle Comunicazioni e poi della Marina
dal 1935 al 1943, stimato e benvoluto da Mussolini, e ancora nel dopoguerra
segretario del Movimento sociale italiano dal 1950 al 195410.
L’anomalia di questa situazione familiare, peraltro relativa e potenziale
negli anni Venti, si complica ed esplode in modo clamoroso nel luglio del
1929. Negli stessi giorni in cui Carlo Rosselli evade in modo rocambolesco
dal confino di Lipari, dando inizio così alla maggiore esperienza di antifasci-
smo in esilio11, l’apparizione di Gli indifferenti trasforma il giovane Alberto
Moravia, fino ad allora confinato dalla malattia in sanatori e ambienti pro-
tetti, nell’enfant prodige del romanzo italiano, rivelandolo come uno scrittore
di qualità, secondo il riconoscimento immediato e pressoché unanime della
critica e dei lettori. Volendo drammatizzare, sembra un’azione a tenaglia
organizzata dalla famiglia Pincherle ai danni del regime. Naturalmente
9 Sull’origine ebraica dei due cognomi, cfr. A. Moravia – D. Maraini, Il bambino Alberto, inter-
vista, Milano, Bompiani, 1986, pp. 34, 39; «La parola ebreo non è mai stata pronunciata in casa mia,
Lui [mio padre] non andava in sinagoga, non frequentava la comunità ebraica. Aveva sposato una
cristiana e tutti i suoi figli erano battezzati. […] I cugini Rosselli anche loro non avevano connotati
ebraici molto spiccati. Gli ebrei italiani erano tutti molto più italiani che ebrei. In tutti i casi erano
quasi sempre dei borghesi. Per questo spesso sono stati dei fascisti». Lo studioso di storia di religioni
Alberto Pincherle, omonimo dello scrittore, fu inserito sin dal 1939 in un elenco del Ministero della
Cultura Popolare tra gli autori “presupposti ebrei” e il suo nome confluì negli elenchi successivi, sia
pure con qualche oscillazione tra “certi” e “incerti” (G. Fabre, L’elenco, cit., p. 167).
10 Su Augusto De Marsanich, si vedano anzitutto i ricordi dello scrittore in Il bambino Alberto, cit.,
pp. 22-23: «Augusto, il fratello di mia madre, che poi diventò deputato alla Camera di Mussolini e
dopo la guerra fu segretario del Msi, era il più slavo di tutti. Era biondo, con gli occhi azzurri. […]
Era un uomo molto onesto ma limitato. Morto poverissimo nonostante fosse diventato ministro. Era
una famiglia di piccoli borghesi industriosi e onestissimi. Patrioti integerrimi, di cultura limitata,
prendevano tutto molto sul serio».
11 Come racconta Mimmo Franzinelli, «il difficile piano di fuga – costato oltre un anno di prepa-
rativi – viene eseguito la sera del 27 giugno 1929. Il Dream IV, motoscafo fuoribordo acquistato con
120.000 franchi forniti da Marion Rosselli, pilotato dal repubblicano Gioacchino Dolci, già confinato
a Lipari e pertanto buon conoscitore della zona, raccoglie Lussu, Nitti e Rosselli. L’imbarcazione si
dirige a tutta forza verso la Tunisia, beffando la vigilanza fascista. Nel pomeriggio del giorno successivo,
l’approdo sulla costa africana […]. L’eco dell’impresa è notevole, amplificata dalla stampa internaziona-
le, ammirata per la temerità dei tre confinati e per la solidarietà dei loro compagni. Il direttore della casa
penale viene destituito ed è ricoverato in una casa di salute per l’esaurimento nervoso che lo ha colpito.
La vendetta del regime si sfoga contro i parenti degli evasi. Marion Rosselli viene imprigionata nono-
stante l’avanzata gravidanza e Nello è arrestato e condannato a 5 anni di confino. I tre evasi terranno
fede agli impegni e dedicheranno gli anni d’esilio alla lotta contro la dittatura» (M. Franzinelli, Il
delitto Rosselli. 9 giugno 1937, anatomia di un omicidio politico, Milano, Mondadori, 2007, p. 17).
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Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
non è così. Non solo tra i due cugini, come vedremo, vi sono distanze e
incomprensioni profonde, ma anche le loro azioni si pongono su piani pro-
fondamente diversi. Mentre l’azione di Rosselli esprime una chiara posizione
politica, l’opera di Moravia sin dall’inizio apparve enigmatica per la sua
irriducibilità ai termini del dibattito politico. Senza volere anticipare con-
clusioni, in questo consiste una ragione essenziale della sua anomalia e della
sua esemplarità: nell’aver manifestato suo malgrado la distanza che separa le
ragioni della letteratura da quelle della politica.
Senza dubbio il successo del libro, che sorprese lo stesso autore, creò un
forte imbarazzo negli esponenti della cultura fascista e persino negli ambien-
ti ufficiali e nelle sfere più alte del regime. Destava perplessità e diffidenza
l’ambiguità del messaggio del romanzo considerato dal punto di vista ide-
ologico e politico. Si può anzi affermare che per la prima volta il fascismo,
ancora privo di una chiara politica culturale, fu costretto a fare i conti con
un caso letterario di grande portata che era sì nato sotto le sue ali, ma che
esso non era in grado di controllare nel suo significato controverso e sfug-
gente, nelle sue intenzioni profonde, nel suo successo imprevisto. Da questo
punto di vista non vi furono in Italia, nel ventennio fascista, altri casi lettera-
ri paragonabili a quello di Gli indifferenti. L’opera rispondeva con puntualità
e indiscusso valore alle attese molto diffuse nella cultura italiana – comprese
frange importanti della cultura fascista – di un romanzo nuovo, capace di
interpretare e rappresentare la modernità, ma come ogni capolavoro non cor-
rispondeva affatto ai contenuti di quelle attese. Non applicava programmi,
ma poneva con forza una sua originale lettura della contemporaneità. Del
resto, la genesi di Gli indifferenti è lunga, tormentata, profondamente solita-
ria, originata semmai nel confronto con i grandi scrittori e non col dibattito
del proprio tempo12.
Il giovane autore – come non si stancherà poi di ripetere in infinite testi-
monianze autobiografiche – non aveva inteso affatto dare alla sua opera un
contenuto di tipo politico o sociale; ma con sua sorpresa non poteva negare
che il tema dell’indifferenza, la lucida analisi di una gioventù interiormente
priva di ideali e la rappresentazione spietata di una borghesia contemporanea
grettamente materialista non implicassero quel giudizio sul costume, sulla
società, sulla realtà romana e italiana del proprio tempo che i primi recensori
colsero subito nel libro e che conteneva un forte potenziale di critica e di
denuncia13. Che Moravia non fosse consapevole delle implicazioni critiche
12 Cfr. S. Casini, Il romanzo di una vita. Moravia e «Gli indifferenti», in A. Moravia, Gli indiffe-
renti, nuova edizione con una lettura in cd di T. Servillo e un’appendice di testi a cura di L. Desideri,
Milano, Bompiani, 2007, pp. 5-33.
13 Tra le testimonianze autobiografiche, si vedano quella del 1945: «qualcuno vorrà sapere perché
non parlo degli intenti sociali e larvatamente politici di critica antiborghese che molti riconoscono al
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del suo romanzo può apparire un’ingenuità, persino poco credibile14; eppure
il disinteresse e persino l’ignoranza della politica non impediscono necessa-
riamente la presenza di tassi anche alti di politicità in un’opera letteraria15.
Il giovane Moravia, formatosi su Dostoevskij, Rimbaud, Pirandello, Proust
e Joyce, aveva una precoce e sicura coscienza letteraria, ma solo più tardi e
incertamente, sotto la pressione degli eventi, sviluppò una coscienza politi-
ca.
Il discorso va dunque rovesciato: l’equivoco sorge non perché la lettera-
tura tratti temi di pertinenza politica, ma perché la politica pone domande
improprie alla letteratura. Secondo la testimonianza di Yvon De Begnac, che
in quanto biografo ufficiale registrò nei suoi taccuini numerose dichiarazioni
del duce, Mussolini lesse tempestivamente Gli indifferenti, riportandone
un’inquietudine di natura politica che condivideva con Giovanni Giuriati,
che fu segretario del partito nazionale fascista dal 1930 al 1931. Più dei pre-
decessori – ricorda Mussolini – Giuriati individuava che il vero pericolo per
il fascismo non erano tanto i nemici dichiarati, bensì quello che egli chiama-
va – e l’espressione non può essere casuale – «il fronte degli indifferenti»:
Farinacci [segretario del PNF dal 1925 al 1926, ndr] aveva lottato contro quelle
che egli chiamava «bande nemiche». Turati [segretario dal 1926 al 1930, ndr] aveva
romanzo. Rispondo che non ne parlo perché non c’erano. […] Che poi Gli indifferenti sia risultato un
libro antiborghese questa è tutta un’altra faccenda. […] Tutto questo è tanto vero che soltanto molto
tempo dopo aver pubblicato Gli indifferenti mi accorsi della reale portata del libro» (A. Moravia, Ri-
cordo de «Gli indifferenti», 1945, poi in L’uomo come fine e altri saggi, Milano, Bompiani, 1963, p. 66);
l’intervista del 1962 a Oreste Del Buono: «Gli indifferenti nella mia intenzione non voleva essere che un
romanzo, ossia un’opera letteraria scritta secondo determinati criteri puramente letterari. Ma la critica
e il pubblico ci videro una violenta polemica sociale che c’era senza dubbio ma che io non avevo avuto
intenzione di metterci. Io non mi ero mai occupato di politica e i miei interessi erano soltanto letterari.
L’accoglienza ostile di una parte della critica più ufficiale e delle autorità mi costrinse, per così dire, a
rendermi conto della vera natura del romanzo o per lo meno di alcuni aspetti di esso» (Moravia, a cura
di O. Del Buono, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 12). L’intervista a Siciliano del 1971: «non avevo alcuna
idea di rappresentazione sociale, sia ben chiaro, né politica. Non mi occupavo di politica […] i significa-
ti di quel che avevo raccontato erano in gran parte estranei alle mie intenzioni» (E. Siciliano, Moravia,
Firenze, Longanesi, 1971, p. 35, poi come edizione ampliata in Alberto Moravia. Vita parole e idee di
un romanziere, Milano, Bompiani, 1982, pp. 38-39). L’intervista del 1986 a Dacia Maraini: «In realtà
non mi occupavo di politica ma solo di letteratura. Solo quando il mio primo libro, Gli indifferenti, fu
condannato dal fascismo, cominciai ad aprire gli occhi sulla politica» (Il bambino Alberto, cit., p, 38).
Infine quella del 1990 ad Alain Elkann: «Io avevo semplicemente voluto scrivere un romanzo contro
l’indifferenza e invece ci videro una critica del regime fascista che non era stata nelle mie intenzioni»
(Vita di Moravia, a cura di A. Elkann, Milano, Bompiani, 1990, pp. 51).
14 «D. Era possibile non occuparsi di quello che stava succedendo in modo così palese e prepotente
nella vita del paese? A. Era possibile. Perché il mondo allora era molto meno politicizzato di oggi. Una
intera parte della società era impermeabile alla politica. E la letteratura era molto più importante di
quanto non sia diventata dopo i vari totalitarismi. […] È vero: questa società che non si occupava di
politica non era però immune dagli atteggiamenti tipici del fascismo. Non era una società innocente
che improvvisamente viene aggredita da un gruppo di estremisti. Era una società che in parte era già
fascista senza saperlo» (Il bambino Alberto, cit., p. 38).
15 Cfr. L. Baldacci, Novecento passato remoto, Milano, Rizzoli, 2000, p. 36.
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Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
eretto difese torno torno il castello del partito. Giuriati aveva un solo timore: il costitu-
irsi, in seno o innanzi al fascismo, del fronte degli indifferenti. Gli indifferenti, secondo
lui, allora e, penso, anche oggi, non corrispondevano al tipo mentale degli agnostici.
Erano, certamente sono, per lui, l’esercito in attesa dell’attimo in cui, senza pericolo,
è possibile balzare sulla rivoluzione ferita. I nemici a viso aperto vanno rispettati. Gli
indifferenti ti attendono al guado, al bivio, e ti conficcano il pugnale nella schiena.
Quando Giuriati mi parlò, era il 1931, del terrore che egli aveva, come uomo
di partito, come capo di un ramo del potere legislativo, degli indifferenti, io mi
rammentai del discorso tenuto, anni innanzi, a Turati in merito a un romanzo osce-
namente borghese e antiborghese al medesimo tempo, dovuto al nipote di un mio
amico sindacalista, De Marsanich, figlio di una sua sorella maritata a un ingegnere
ebreo, Pincherle. Quel libro, opera prima di un giovanissimo, scritta in mediocre
italiano, ma potente nel raccontare un ambiente romano del quale mai avrei sospet-
tato la sopravvivenza, mi aveva svelato la presenza del vero mondo dell’antifascismo,
dell’antifascismo che non parla, che non rivela la propria presenza. La sua ombra ti
scivola accanto, ne avverti il terrificante tremore. E basta16.
intenzioni degli scrittori». La notizia dell’attacco di Arnaldo è confermata da un rapporto della Polizia
Politica del 9.2.35 (ACS, MI) e dai taccuini di Leonetta Cecchi Pieraccini, che in una nota del 1930
registra la reazione di Moravia: «È di maggiore importanza avere il biasimo che le lodi dei potenti. Per
mio conto sono orgoglioso che Arnaldo Mussolini abbia parlato male del mio libro in un discorso
pubblico» (citato da R. Paris, Moravia. Una vita controvoglia, 1996, nuova ed., Milano, Bompiani,
2007, p. 49). Sulle ragioni che indussero a pubblicare Gli indifferenti presso le edizioni Alpes, si può
ipotizzare un’indicazione di Corrado Alvaro, che nel 1926 aveva pubblicato per Alpes L’uomo nel labi-
rinto, e che in quegli anni introdusse il giovane Moravia negli ambienti letterari delle riviste.
18 Si rimanda a G. Pampaloni, La fortuna critica, in A. Moravia, Opere 1927-1947, a cura di G.
Pampaloni, Milano, Bompiani, 1986, in particolare pp. 1130-1139; e T. Tornitore, «Gli indifferen-
ti» e la critica, in «Nuovi Argomenti», s. iii, 37, gennaio-marzo 1991, pp. 60-98. Le prime recensioni,
limitatamente all’anno 1929, sono ripubblicate in un appendice a cura di L. Desideri in A. Moravia,
Gli indifferenti, cit., pp. 345-431.
19 Si veda per esempio la testimonianza resa a distanza di anni da Ambrogio Donini a Chiara Da-
niele: «Il mio, anzi il nostro interesse per Moravia, perché era di buona parte del Partito, soprattutto
di Togliatti che seguiva molto queste vicende, era stato destato da Gli indifferenti che abbiamo giudi-
cato un quadro impietoso della moralità fascista, scritto bene, efficace, e se allora non lo recensimmo
sulla nostra stampa fu per non compromettere l’autore» (dichiarazione in C. Daniele, «Le ambizioni
sbagliate» e il “caso Moravia” nella stampa comunista degli anni Trenta, in «Rassegna della letteratura
italiana», 3, luglio-settembre 1991, pp. 152).
20 Da documenti del Ministero degli Interni, oggi conservati all’Archivio Centrale dello Stato di
Roma e recuperati da Renzo Paris, apprendiamo che il giovane autore degli Indifferenti fu sorvegliato
e seguito nei suoi spostamenti - non si sa con quale continuità - da agenti della Questura dal 1929
almeno fino al 1939 (R. Paris, Moravia, cit., pp. 131-136). Cfr. anche R. Ben-Ghiat, La cultura
fascista, cit., p. 115n.
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Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
21 I giovanissimi, scrive Bottai in un editoriale del 1931, «s’infischiano se quel poeta o quel pittore
italiano abbiano o meno la tessera del Partito, guardano ai “risultati” in sede di pura estetica, e Mora-
via si scopre allora il più commestibile scrittore della Penisola. Si capisce, che Moravia è un artista; e
alla fine dovremo anche noi, sull’orme lievi di quei decadenti squisiti, deciderci a preferirlo ai troppi
scalmanati e sgrammaticati manipolatori di sonetti con l’acrostico di Benito Mussolini. […] Come
non crediamo che la tessera faccia l’ingegno, non vorremmo neppure veder succedere che l’ingegno,
di per sé, dia diritto alla tessera. Quel pensatore, quello scienziato, quel poeta, quell’artista i quali
(anche se non antifascisti sul terreno politico) dimostrino nella loro opera (anche se spaventosamente
geniale all’esame obbiettivo) una mentalità contraria a quella del clima etico fascista, debbono essere,
non diciamo espulsi con la violenza, ma in ogni modo ignorati, e certissimamente esclusi da ogni
forma d’incoraggiamento e di premio. La Rivoluzione ha il dovere di difendersi: la Rivoluzione, in
argomento così geloso, non può essere agnostica e liberale, sotto pena di tradire se stessa» (La tessera e
l’ ingegno, in «Critica fascista», ix, 8, 15 aprile 1931, p. 142).
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22 Per il testo integrale e la bibliografia relativa, si rimanda all’Appendice in coda al presente articolo.
Ad eccezione della prima lettera a Ciano, conservata in copia presso l’archivio del Fondo Arnoldo e
Alberto Mondadori di Milano (FAAM) e pubblicata da Giorgio Fabre nel 1993, e dell’ultima lettera
a Mussolini, conservata presso l’Archivio Malaparte e pubblicata da Giuseppe Pardini nel 1999, le
altre quattro lettere sono conservate oggi all’Archivio Centrale dello Stato di Roma, «Ministero della
Cultura Popolare», II versamento, Busta 8, fascicolo 36 «Alberto Moravia» (d’ora in avanti abbreviato:
ACS, MCP, II vers., B. 8, f. 36). Così Antonio Debenedetti, che nell’articolo del 6 gennaio 2004 sul
«Corriere della Sera» ne ha dato notizia, racconta il ritrovamento di incartamenti che, accanto a quelli
di Moravia, comprendono quelli relativi a molte altre personalità della cultura degli anni Venti e
Trenta: «Alcuni mesi fa, durante il trasferimento di alcuni uffici da una a un’altra sede del ministero
per i Beni Culturali (in qualche modo erede sia pure profondamente diversificato nelle funzioni del
Ministero della Cultura popolare) si è dovuto procedere a un inventario di tutto quanto era stivato
in raccoglitori e cassetti. […] Così, da un paio di vecchi armadi chiusi a chiave da anni, finivano per
saltare fuori le centoventicinque cartelline di cui ci stiamo occupando. Su ognuna figurava il nome di
una personalità del mondo culturale considerata in qualche modo “interessante” dal regime fascista.
Altri dossier, inclusi nella stessa partita, riguardano periodici e riviste. Come era doveroso, i Beni
Culturali hanno subito preso contatto e consegnato i preziosi incartamenti all’Archivio Centrale dello
Stato. Dove vanno trovando la loro sistemazione definitiva». Oltre a quelli di Moravia sono riemersi
incartamenti, con lettere e documenti vari, relativi tra gli altri a D’Annunzio, Pirandello, Soffici,
Papini, Cardarelli, Brancati, Aleramo, Benedetti, Comisso, Gatto, Gentile, Longanesi, Malaparte,
Missiroli, Toscanini.
23 Cfr. le dichiarazioni sopra riportate da De Begnac. Si può anche supporre un Mussolini lettore
attento di Moravia anche negli anni seguenti, secondo quanto sostiene lo scrittore almeno in riferi-
mento a La mascherata e qualche altra novella (cfr. A. Moravia, Ricordi di censura, cit., pp. 100-101).
24 «Hai conosciuto Mussolini? No. Mussolini l’ho visto una volta sola, e da lontano, quando tenne
il discorso dell’impero. Stavo nella macchina dell’ambasciatore francese, dove avevo amici per via
dell’antifascismo» (dichiarazioni in E. Siciliano, Moravia, cit., p. 60; poi in Alberto Moravia, cit.,
p. 54).
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25 Il padre architetto smise di lavorare verso la fine degli anni Venti. Cfr. Il bambino Alberto, cit.,
pp. 7: «D. E di che cosa avete vissuto dopo la perdita dei clienti? A. Mio padre aveva investito i suoi
guadagni in tre case […] Quando non ha più lavorato abbiamo vissuto degli affitti delle case. Non era-
vamo affatto ricchi. Eravamo come si dice agiati». E ancora, ivi, p. 68: «Preferivo farmi mantenere da
mio padre che fare un mestiere che mi avrebbe distolto dal mio scrivere. Ho passato almeno quindici
anni, dai diciassette ai trentatré, facendo il figlio di famiglia, senza soldi. Da ultimo, quando avevo
già trent’anni, mio padre mi dava 500 lire al mese». Cfr. Vita di Moravia, cit., p. 13: «[Mio padre]
ha provveduto ai miei bisogni fino a quando mi sono sposato e sono andato via di casa, cioè fino a
trentatré anni».
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29 Sulla «Stampa» Moravia pubblicò tra il 4 novembre 1930 e l’aprile 1931 una decina di articoli
sull’Inghilterra (cfr. ivi, pp. 3-59). Per quanto riguarda la direzione di Malaparte, scrive Murialdi:
«Fra l’inizio del 1929 e la metà del 1932 il giornale di Agnelli cambia direttore tre volte. La direzione di
Malaparte si caratterizza soprattutto con l’innesto nel giornale di collaboratori scelti da lui e da Mac-
cari con spregiudicatezza anche politica. Alla terza pagina infatti collaborano scrittori mal visti dai
gerarchi nazionali e locali, come Corrado Alvaro, Filippo Burzio e Carlo Linati. Nel 1931 compare,
ma raramente, la firma del giovane Alberto Moravia. […] I rapporti tra Agnelli e Malaparte diventano
ben presto pessimi. Il padrone della Fiat non apprezza né i maneggi politici dello spregiudicato scrit-
tore toscano, che vorrebbe controllare anche la gestione editoriale della “Stampa”, né i suoi comporta-
menti libertini nell’alta società torinese. […] una nota del 30 gennaio 1931: “Da oggi Curzio Malapar-
te lascia all’on. Augusto Turati la direzione della Stampa”» (P. Murialdi, La stampa del regime fascista,
Bari, Laterza, 1993, pp. 85-86). Sulla mediazione di Alvaro, cfr. G. Pardini, Malaparte, Moravia e
«Prospettive», in «Nuova Storia Contemporanea», a. III, n. 1, gennaio-febbraio 1999, p. 106.
30 Così scrive Murialdi: «All’inizio degli anni Trenta prende avvio un processo di modernizzazione
della stampa quotidiana che risponde a una duplice esigenza del regime: il prestigio all’interno e verso
l’estero, e la propaganda di massa, alla quale la radio sta dando concreta consistenza […] non è un
caso che a prendere l’iniziativa sia la “Gazzetta del Popolo”, cioè un giornale di gran nome ma fascista
tra i primi - e per di più diretto da Amicucci - e appartenente alla Sip, gruppo elettrico in notevole
espansione e con crescenti interessi nella radiofonia e nella telefonia che lo legano ai centri decisionali
del governo. […] Col suo squillante rinnovamento il vecchio quotidiano torinese diventa un vanto
per il giornalismo del regime. Le vendite aumentano lentamente ma sempre più costantemente, anche
perché “La Stampa” sua concorrente entrerà in una fase di dinamismo editoriale soltanto alla fine del
1932» (P. Murialdi, La stampa del regime fascista, cit., pp. 79, 82).
31 «Amicucci, giornalista da più di venti anni e attivista del movimento e del regime fascista, è un
direttore congeniale a questo vasto progetto [di modernizzazione della “Gazzetta”], i cui toni politici
e gli aspetti promozionali si inseriscono nell’azione verso le masse che il Partito Nazionale Fascista
sta attuando. Il suo zelo è indefettibile e talvolta è così fuori misura da indurre Mussolini a rivolger-
gli espliciti e non riservati richiami. Il 23 novembre 1930 il duce invia al prefetto di Torino questo
telegramma: “moderi atteggiamento ultrademagogico della Gazzetta che facendo attendere miracoli
finisce per sabotare l’opera del governo”. Due anni dopo il 6 maggio 1932, un altro telegramma dello
stesso tenore» (ivi, p. 83).
203
Simone Casini
le («più cura nella scrittura del giornale, cronaca compresa; lo sviluppo dei
servizi internazionali dei cosiddetti redattori viaggianti, ora chiamati inviati
speciali; una continua ricerca di prestigio culturale»)32. I primi articoli di
Moravia per la «Gazzetta» – un reportage dalla Cecoslovacchia – comparvero
nel settembre del 1931 e furono seguiti da quelli sul viaggio in Inghilterra
nel 1932 e in Francia sempre nel 193233. Dal luglio 1934 lo scrittore comin-
ciò invece a pubblicarvi alcuni racconti34, che furono in tutto quattro fino
alla prima battuta d’arresto, quando nel febbraio-marzo 1935 Amicucci fece
sapere a Moravia che i suoi articoli non erano più «graditi» (come testimonia
la prima lettera a Mussolini).
32 Ivi, p. 82.
33 Cfr. A. Moravia, Viaggi, cit., pp, 60-105.
34 Si tratta di Sogno nell’altana (5 luglio 1934), Il silenzio di Tiberio (18 ottobre 1934), Le donne
fanno dormire (30 dicembre 1934), Uomo di carattere (29 gennaio 1935); cfr. F. Serra, Note ai testi in
A. Moravia, Opere/1, cit.
35 Cfr. G. Fabre, L’elenco, cit., pp. 33-38; F. Serra, Note al testo, cit., pp. 1678-1694; e G. Talbot,
Alberto Moravia and Italian Fascism, cit., pp. 127-145.
204
Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
gno 1935, Gherardo Casini36. «Ricorderò un pezzo l’aria del Ministero», dirà
Moravia nel dopoguerra, «con le sue anticamere piene di scrittori in attesa
del verdetto, di editori procaccianti, di misteriosi individui in cerca di sussidi
e di ancor più misteriosi funzionari di non so quali funzioni»37. Agli inizi del
1935 il nascente ministero, progettato contestualmente alla guerra di Etiopia,
rappresentava già un nuovo centro di potere che assumeva, ridisegnava e
potenziava alcune vecchie competenze, tra cui quella della censura, fino a
quel momento gestita dal Ministero degli Interni attraverso le prefetture38.
Fu appunto in quel momento e in quel contesto che sul numero del 4 gen-
naio 1935 di «Giustizia e Libertà», il settimanale antifascista diretto a Parigi
da Carlo Rosselli, comparve un articolo anonimo (probabilmente dello stes-
so Rosselli, cugino di Moravia) su La proibizione del nuovo romanzo di Alber-
to Moravia, in cui si sosteneva che la censura del regime aveva proibito la
pubblicazione del nuovo romanzo di Moravia: «un giovane cresciuto sotto il
fascismo, che non ha niente in comune con i ‘passati regimi’ e probabilmente
li detesta non meno, se anche con più serietà, dei vari ‘pupilli’ del duce. Ma
è un giovane che ha il pericoloso privilegio di aver ‘conservato gli occhi’, per
il quale il problema di falsificarsi per tornar gradito ad alcuni personaggi è
semplicemente assurdo»39. Vi era stata evidentemente una circolazione di
notizie sul nuovo romanzo, e le notizie erano anche state forzate dall’arti-
colista: pare infatti che la prefettura milanese fosse sul punto di consentire
la pubblicazione del romanzo, e fu il numero di «Giustizia e Libertà», inter-
36 Il Ministero era organizzato in cinque Direzioni (Stampa Italiana, Stampa Estera, Turismo, Ci-
nematografia, Teatro). Su Neos Dinale, cfr. Ph. V. Cannistraro, Historical Dictionary of Fascist Italy,
Westport (Connecticut)-London, Greenword Press, 1982, p. 171; e G. Fabre, Giù la maschera - Come
erano gli intellettuali del disincanto, in «Panorama», xxxi, 141, 28 novembre 1993, p. 143. Su Gherardo
Casini, cfr. Ph. V. Cannistraro, Historical Dictionary of Fascist Italy, cit., pp. 108-109. Nei confronti
di Moravia, Dinale era stato esplicitamente «maldisposto», mentre Casini ebbe un atteggiamento al-
meno in apparenza più cordiale, sia per la sua provenienza dal gruppo di Bottai e di «Critica fascista»,
sia per la relativa consuetudine con lo scrittore negli otto anni in cui fu Direttore della Stampa Italiana
presso il Ministero della Stampa e della Propaganda (poi Ministero della Cultura Popolare). Dal 1938
fu membro della Commissione per la bonifica libraria; nel dopoguerra fondò nel 1949 la casa editrice
che porta il suo nome e che operò fino agli anni Settanta.
37 Ricordi di censura, cit., p. 102.
38 La formazione di un vero e proprio ufficio di censura, organizzato con una quarantina di lettori,
e la definizione del sistema della censura fascista, che favoriva e incoraggiava l’autocensura preventiva
degli editori, nel timore di bocciature censorie di libri pubblicati con evidenti danni economici, si de-
vono, almeno dal punto di vista operativo, alla direzione di Gherardo Casini (cfr. N. Tranfaglia – V.
Albertina, Storia degli editori italiani. Dall’Unità agli anni Sessanta, Bari, Laterza, 2007, p. 232).
39 La proibizione del nuovo romanzo di Alberto Moravia, in «Giustizia e Libertà», 4 gennaio 1935.
Cfr. la Bibliografia di Carlo Rosselli (1934-1937) in C. Rosselli, Scritti dell’esilio, ii, Dallo scioglimento
della Concentrazione antifascista alla guerra di Spagna (1934-1937), a cura di C. Casucci, Torino, Ei-
naudi, 1992, p. 589; nel numero del 26 luglio 1935, in una nota della rubrica Stampa amica e nemica
da lui tenuta regolarmente, Rosselli scrisse: «Dopo il primo rifiuto, finalmente il nuovo romanzo di
Moravia Le ambizioni sbagliate è stato autorizzato. Il romanzo ha però subito vari tagli» (ivi). Cfr.
anche G. Fabre, L’elenco, cit., p. 34.
205
Simone Casini
40 «L’articolo, infatti, rischiò di far naufragare il libro. Il 12 gennaio 1935 la Polizia Politica co-
municò al sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda (diretto da Galeazzo Ciano) quanto aveva
scritto il prefetto di Milano, ma soprattutto fece prendere nota dei nuovi “ordini di Sua Eccellenza
il capo del governo relativi… al divieto di pubblicazione del nuovo romanzo di Alberto Moravia dal
titolo Le Ambizioni Sbagliate”. L’articolo intercettato dalla Polizia Politica infatti era giunto sul tavolo
di Mussolini, che aveva dato indicazioni (negative) sul futuro del libro» (G. Fabre, L’elenco, cit., p.
35). Oltre ai rapporti con gli ambienti di «Giustizia e Libertà», non è da escludere che insospettissero
anche alcuni contatti quantomeno tentati da esponenti comunisti con lo scrittore nel novembre 1934
(cfr. C. Daniele, «Le ambizioni sbagliate» e il “caso Moravia” nella stampa comunista, cit., p. 153).
41 Poco tempo dopo, nel maggio 1935, la direzione generale della Pubblica Sicurezza chiese infor-
mazioni alla Direzione della Stampa Italiana sul «conto dei direttori e dei collaboratori della rassegna
mensile “Caratteri”; nella risposta, preparata l’anno dopo, il 21 luglio 1936, Gherardo Casini nega la
richiesta di Pannunzio di riprendere le pubblicazioni anche con questa motivazione: «I sigg. Alberto
Moravia, Mario Soldani e Paolo Milano erano ritenuti di dubbi sentimenti fascisti, anche perché in
rapporti non chiari con alcuni fuorusciti noti antifascisti» (ACS, MCP, II vers., B. 8, f. 36). Un’altra
nota, sempre del 20 gennaio XII, risponde a richieste di informazioni «in merito a quelle da me già
date inerenti al gruppo che fa parte al periodico letterario “Oggi” e più particolarmente ai letterati
Eurialo De Michelis e Pannunzio, ai loro rapporti con Moravia ecc. e al loro nascosto antifascismo.
[…] Che il Moravia non sia fascista non è un mistero per nessuno e quelli di “Oggi” lo hanno con loro
perché sanno che ha un vastissimo seguito di lettori». (ACS, MCP, II vers., B. 8, f. 36)
42 Interessante ciò che Moravia scrive nel 1946, in modo curiosamente mascherato, a proposito di
un episodio nel quale con molta probabilità possiamo riconoscere la crisi del 1935, se identifichiamo
la «rivista francese» che pubblicherebbe Salvemini in «Giustizia e Libertà» e l’annuncio della «pub-
blicazione di una mia novella» nell’annuncio della censura contro Le ambizioni sbagliate: «una rivista
di Parigi, antifascista come tutta la stampa francese di allora, annunziò la pubblicazione di una mia
novella. Caso volle che nella stessa pagina si annunziasse un articolo di Nitti o Salvemini, non ricordo
bene. Subito il giorno dopo fui attaccato, per evidente ordine superiore, da Interlandi nel “Tevere”.
Amicucci, direttore della Gazzetta del Popolo alla quale collaboravo, incontrato alla Camera un mio
strettissimo parente gerarca, gli disse una frase di questo genere: “Belle cose che fa il tuo parente”. Il
gerarca mio parente, brav’uomo ma fascista fanatico e ambizioso, non volle saperne di più. Lì per lì
206
Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
mi scrisse una lettera in cui mi avvertiva che se io mi fossi messo contro il regime (in realtà, fin allora
almeno, era il regime che si era messo contro di me) egli sarebbe stato costretto a rompere ogni legame
con me e a ripudiare ogni vincolo di sangue. Per placare questa tempesta dovetti telegrafare a Parigi
per ritirare la novella» (Ricordi di censura, cit., pp. 99-100).
43 Vale la pena a questo proposito ricordare l’episodio, collocabile tra il 1930 e il 1935, in cui a
Parigi Carlo chiese ad Alberto di portare e imbucare a Roma una lettera «ad un certo Meloni» (Vita
di Moravia, cit., p. 49) e alla domanda dello scrittore se fosse pericoloso Carlo ridendo rispose: «A noi
farebbe comodo che uno scrittore noto come te andasse in galera» (Il bambino Alberto, cit., p. 41) o
«Sì, è pericoloso, ma magari ti arrestano. Così, con uno scrittore celebre arrestato dai fascisti, facciamo
la propaganda» (Vita di Moravia, cit., p. 49). Moravia utilizzò alla frontiera con la polizia italiana lo
stratagemma di Poe in La lettera rubata, lasciando cioè la lettera in bella vista: «Accettai di portare la
lettera e applicai il metodo della lettera rubata di Poe, cioè misi la lettera in bella evidenza, per metà
fuori dalla tasca dell’impermeabile appeso nel vagone da letto. La polizia venne, guardò dappertutto
ma non si accorse della lettera. Poe aveva ragione» (Il bambino Alberto, cit., p. 41). Giunto «a Roma
imbucai la lettera e, qualche giorno dopo, esplose una bomba nel guardaroba del Vaticano, distrug-
gendo vari cappelli dei cardinali. Mi sono sempre domandato se tra questa bomba e il signor Meloni
ci fosse un nesso» (Vita di Moravia, cit., p. 49).
207
Simone Casini
rittura, fino a tempi assai recenti io non ero mai stato interessato o coinvolto
nei movimenti politici del mio paese – così che la riapertura delle iscrizioni
mi prese alla sprovvista, e sembrandomi di mescolare troppi interessi a un
atto come questo di sola fede, non ne feci nulla – fu dunque una questione
di sentimento e non politica». Moravia si affretta insomma a cancellare ogni
sospetto di antifascismo dal proprio conto e più in generale nega una valenza
politica al suo atteggiamento e alla sua opera.
È probabile però che quest’ultimo argomento non suonasse affatto gradito
a Mussolini, che, come abbiamo visto, in un’ottica totalitaria temeva appun-
to questo atteggiamento impolitico, questo «antifascismo che non parla»
degli «indifferenti». Ma nella lettera di Moravia, dopo la giustificazione non
poteva mancare una confessione di fede, compresa quella nel capo: «Tengo
dunque a dichiarare che ammiro l’opera del Regime in tutti i vari campi in
cui si è esplicata e in particolare in quello che come artista a me più interessa,
cioè in quello delle lettere e della cultura – Debbo inoltre soggiungere che la
personalità intellettuale e morale della Eccellenza Vostra, mi ha sempre sin-
golarmente colpito come esemplare e straordinaria per la molteplicità delle
attitudini e la forza della ispirazione». Come commentare simili afferma-
zioni? Convinzione, coercizione? Certo fu coatta almeno l’occasione. Non
abbiamo notizia di un’eventuale o indiretta risposta alla lettera, che in ogni
caso non ottenne il risultato sperato. Per circa un anno e mezzo a Moravia
non fu consentito di riprendere la collaborazione alla «Gazzetta». D’altra
parte egli non si iscrisse al partito44.
Può colpire, in questa prima lettera a Mussolini, il fatto che Moravia non
faccia menzione del romanzo, che pure in quel momento era incagliato nelle
secche della censura. Ma da questo lato egli poteva contare sulla sollecita
e interessata attenzione di Arnoldo Mondadori, al quale, personalmente o
tramite il legale romano Mario Pelosini, spettava in primo luogo seguire la
vicenda45. Tuttavia, ai primi di giugno, fu l’editore stesso a indurre Moravia
a scrivere personalmente a Ciano, ormai ministro in pectore e astro nascente
44 Presso il Fondo Alberto Moravia è conservata però la «tessera d’iscrizione di Alberto Moravia
al Sindacato interprovinciale fascista Autori e Scrittori. Roma, XV anno dell’era fascista [novem-
bre 1936-ottobre 1937]», esposta nella sezione Documenti nella Mostra «Moravia e Roma» presso il
Museo di Roma in Trastevere, 28 novembre 2003 – 22 febbraio 2004, cfr. Moravia e Roma, numero
speciale di «Quaderni» del Fondo Alberto Moravia, novembre 2003, p. 189.
45 «Per me o ci sono state complicazioni di cui non si è creduto di farmi partecipe oppure si è
andati eccezionalmente per le lunghe», scrive Moravia il 27 febbraio 1935 ad Arnoldo Mondadori,
e di nuovo il 2 marzo: «Non capisco veramente il motivo di questo inesplicabile indugio» (citazioni
tratte da F. Serra, Note ai testi, cit., p. 1684). Moravia peraltro ricorda di essere andato di persona
dal «censore» almeno una volta, probabilmente alla prefettura di Milano («era un viceprefetto che si
chiamava Stroppolatini») e ne ricorda il dialogo e in particolare una battuta («‘si dice che voi siate un
po’ ‘bigetto’ e voleva dire non proprio fascista, cioè non del tutto nero», Vita di Moravia, cit., p. 71). Si
rimanda ai citati lavori di Francesca Serra, Giorgio Fabre e George Talbot per l’analisi della vicenda
editoriale di Le ambizioni sbagliate.
208
Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
46 Scrive Mario Pelosini ad Arnoldo Mondadori il 7 giugno 1935: «A Roma mi sono anche atti-
vamente occupato del libro di Moravia. Ho avuto un colloquio con Dinale che mi è sembrato mal
disposto: ma poi ha aderito alla mia preghiera di leggere anche lui, personalmente, il libro. […] mi
sono messo in contatto con l’autore. L’ho ridotto a scrivere l’unita lettera a Galeazzo Ciano; e, avendo
saputo che è nipote del sottosegretario De Marsanich, mi sono fatto accompagnare anche da lui, che
però si è mantenuto molto riservato (ha paura di compromettersi)» (Fondo Arnoldo Mondadori, cit.,
n. 26). Come spiega Giorgio Fabre, che per primo ha pubblicato la lettera a Ciano nel 1993, Neos
Dinale era «all’epoca direttore per la stampa italiana, alle dipendenze del sottosegretario alla Stampa
e propaganda, Galeazzo Ciano. […] La lettera che si trova all’archivio Mondadori, stesa con la mac-
china da scrivere di Moravia (e con firma e correzioni autografe) è probabilmente una minuta, poi tra-
scritta (come era uso) per il sottosegretariato» (G. Fabre, Giù la maschera - Come erano gli intellettuali
del disincanto, cit., p. 143).
47 Id., L’elenco, cit., p. 35.
48 Nell’intervista a Elkann Moravia afferma di aver conosciuto Ciano «quando era ministro del
Minculpop» (Vita di Moravia, cit., p. 86), anche se dobbiamo intendere “ministro della Stampa e
Propaganda” (divenne Ministero della Cultura Popolare solo nel 1937, anno in cui Ciano passò al
Ministero degli Esteri), quindi fra il giugno 1935 e il 1937. «Era stato ministro del Minculpop, lo
conoscevo, lo vedevo ai cocktail della contessa Pecci Blunt» (ivi, p. 122). Un’indagine sui salotti e
sugli ambienti frequentati da Moravia negli anni Venti e Trenta, tanto quelli vicini al regime quanto
quelli più o meno avversi, esula dai confini di questo saggio. È noto che entrambi, almeno in anni
successivi, frequentarono il salotto Pecci Blunt, almeno fino alle leggi razziali, ma non risulta che vi
si siano incontrati, né tantomeno si incontrarono in un salotto, pur vicino al regime ma avverso ai
Ciano, come quello di Margherita Sarfatti, dove Moravia, «benché in seguito lo negasse, tornò altre
volte», cfr. Ph. V. Cannistraro – B. R. Sullivan, Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce, Mi-
lano, Mondadori, 1993, pp. 376, 700n. Più diffusamente, sui salotti romani, cfr. R. Paris, Moravia.
Un vita controvoglia, cit.
49 Scrive in proposito Talbot: «it is quite impossible to see Moravia an ensign for the regime. His
words to Ciano read far more like the behaviour of a subtle ironist who wants to have his novel pub-
lished» (G. Talbot, Alberto Moravia and Italian Fascism, cit., p. 138).
209
Simone Casini
scopo, Moravia sottolinea con forza, ma anche con dignità e senza cortigia-
neria, le ragioni letterarie che lo hanno mosso e l’intrinseca difficoltà della
costruzione romanzesca. In questo lavoro – conclude – «sono convinto di
aver fatto opera che non sia estranea né esorbiti dal clima e dai quadri della
Rivoluzione Fascista». Non dunque un’opera organica all’ideologia, ma nep-
pure «estranea» o antifascista. L’unico punto che a suo giudizio può generare
la diffidenza del censore è una «visione della vita la quale è eminentemente
tragica», ma «avere il senso drammatico non fu mai un difetto, bensì un pre-
gio. E volle sempre dire vedere la realtà nelle sue forme più essenziali, senza
soprastrutture sentimentali e psicologiche, in quei rari momenti nei quali le
forze avverse che la compongono vengono a conflitto e cozzando l’un contro
l’altra si illuminano a vicenda».
Anche in questo caso non si conoscono risposte ma, come si è detto, i
vertici del regime avevano già stabilito in precedenza di consentire la pubbli-
cazione di Le ambizioni sbagliate, seppure col divieto ai giornali di parlarne.
Può darsi che questa disposizione liberatoria, magari attribuita da Moravia
alla propria lettera o accompagnata da una risposta perduta, abbia in qualche
modo impegnato o conquistato lo scrittore. Fatto sta che solo due mesi dopo
egli scrive di nuovo a Ciano in occasione della mobilitazione per la guerra
di Etiopia. Com’è noto, il neo-ministro partì per l’impresa africana e il suo
ministero svolse per la prima volta e con successo una campagna propagan-
distica in appoggio alla spedizione. Dalla fine dell’agosto 1935 – ha scritto
Paolo Murialdi – il ministero della Stampa e Propaganda è praticamente
diretto da Dino Alfieri, nominato sottosegretario subito dopo l’annuncio,
pubblicato da tutti i quotidiani del 18 in prima pagina, che Galeazzo Ciano
sarebbe partito volontario col grado di capitano d’aviazione50. E proprio al
18 agosto 1935 risale la seconda lettera di Moravia a Ciano.
Questa seconda lettera a Ciano è la più compromettente che Moravia
abbia scritto. Egli si «congratula» col ministro per «l’esempio» che dà «a
tutti gli scrittori e a tutta la gioventù italiana» e che ha indotto anche lo
scrittore «a partecipare in qualche modo all’impresa africana»: «Vengo dun-
que a domandarLe di poter passare qualche mese sull’altopiano Eritreo allo
scopo di comporre un libro sulla guerra degli Italiani in Africa […] un libro
organico, il quale potesse rimanere documento e testimonianza dell’eroismo
della gioventù fascista in guerra. Non potrebbe Ella, Eccellenza, aiutarmi a
realizzare questo mio desiderio?».
La richiesta si inserisce in una vasta mobilitazione di giornalisti e scritto-
ri51, ma è comunque sorprendente per Moravia (che ricorderà poi sempre in
turno per l’Africa Orientale il maggior numero possibile di inviati. Stando all’elenco compilato dopo
il conflitto dal Sindacato dei giornalisti, gli inviati speciali risultano trentasei (otto della “Stampa”, sei
del “Corriere della Sera” e altrettanti della “Gazzetta del Popolo”, uno della “Gazzetta dello Sport”).
Ma in realtà sono stati molti di più […] vanno aggiunti i giornalisti volontari o mobilitati […] e so-
prattutto i giornalisti dell’agenzia Stefani […]. I giornalisti arruolati nei diversi reparti risultano 164,
di cui 120 volontari. Tra questi ultimi ci sono due direttori di spicco, Aldo Borelli del “Corriere” e
Francesco Malgeri del “Messaggero”» (Id., La stampa del regime fascista, cit., p. 137).
52 Cfr. Moravia, a cura di E. Siciliano, cit., p. 46; e Vita di Moravia, cit., p. 73. Si ricordi che nello
stesso periodo, dal 21 al 25 giugno 1935, si era tenuto a Parigi il “Congresso internazionale degli
scrittori per la difesa della cultura” che rientrava nelle iniziative contro la guerra etiopica; secondo la
testimonianza di Donini, Moravia, che era stato invitato, con «una cortese lettera di apprezzamento
aveva giustificato un inevitabile rifiuto» (citato in C. Daniele, «Le ambizioni sbagliate» e “ il caso Mo-
ravia” nella stampa comunista, cit., p. 153).
53 Copia non firmata della lettera, su carta intestata «Ministero per la Stampa e la Propaganda – Il
Direttore Generale per il Servizio della Stampa Italiana», in data Roma, 24 agosto XIII, ACS, MCP, II
211
Simone Casini
Questa risposta negativa da parte del regime è forse il segno della perdu-
rante diffidenza verso uno scrittore poco controllabile, tanto più in un’im-
presa come quella etiopica in cui l’orchestrazione e il controllo delle notizie
rivestì sin dall’inizio un ruolo decisivo: non era il caso di portare in Etiopia
uno scrittore che aveva «il pericoloso privilegio di aver conservato gli occhi»
– per riprendere l’espressione di Rosselli. Ma per Moravia fu un segno del
destino e, potremmo aggiungere, una benedizione. Al mancato ingaggio
nell’impresa etiopica subentrò infatti pochi mesi dopo, nell’inverno ’35-’36,
il fondamentale viaggio compiuto negli Stati Uniti e nel Messico54. Africa o
America, allo scrittore sembra ormai necessario evadere non solo dall’Italia
ma anche dall’Europa, ora che pure l’evasione nella Francia dei Rosselli è
per lui impossibile o minata. Vari documenti di quei mesi testimoniano uno
stato d’animo di profonda depressione. Il 12 novembre 1935, facendo seguito
a un precedente invito, Moravia scrive a Giuseppe Prezzolini alla Casa Italia-
na alla Columbia University di New York: «Caro Prezzolini, Lei si ricorderà
forse che l’ultima volta che ci si vide a Roma io Le parlai di un mio progetto
di viaggio negli Stati Uniti. Ora ho ripreso questo progetto e avrei intenzione
di partire d’Italia il più presto possibile»55. Va sottolineato come il viaggio
in America, da cui Moravia ricavò articoli di notevole interesse, rappresentò
un passo importante nella maturazione dello scrittore, ormai costretto a fare
i conti con la politica, con la società e con le ideologie. Lo testimoniano,
più degli articoli, alcune lunghe meditazioni sociologiche nelle lettere poi
inviate a Prezzolini: «io prima di venire in America non avevo mai annesso
molta importanza a termini quali capitalismo proletariato e simili – le qua-
lità umane mi parevano più importanti né mi pareva che queste divisioni
veramente esistessero nella realtà – ma debbo dire che in America una termi-
nologia convenzionale e noiosa come quella marxista non mi pare poi tanto
contraria dalla realtà»56. Possiamo dire che dopo la crisi del 1935 Moravia
vers., B. 8, f. 36. Il testo è stato pubblicato da Nello Ajello su «Repubblica», 28 novembre 2007.
54 «In effetti quell’inverno a New York costituisce una specie di cesura nella mia vita. […] Per ca-
pire quanto provavo bisogna capire l’orrore che poteva provocarmi la guerra d’Etiopia. Era il 1935. In
più Le ambizioni sbagliate era caduto come un sasso nel vuoto dopo sei anni di lavoro. Ho passato tra
gli Stati Uniti e il Messico poco più di un anno, il tempo della durata della guerra» (Moravia, a cura di
Enzo Siciliano, cit., p. 46; il soggiorno in realtà durò circa quattro mesi). «Per giunta Mussolini invase
l’Etiopia e tutta l’Italia fu presa dalla febbre di un colonialismo provinciale e in ritardo. Allora, dispe-
rato, partii sul ‘Rex’ per gli Stati Uniti, dove ero stato invitato da Giuseppe Prezzolini che dirigeva la
Casa Italiana alla Columbia University. Mi imbarcai sotto le sanzioni decretate contro l’Italia dalla
Società delle Nazioni. Viaggiavo in classe turistica» (Vita di Moravia, cit., p. 73).
55 A. Moravia – G. Prezzolini, Lettere, Milano, Rusconi, 1982, p. 9.
56 Da una lettera scritta a bordo della nave del marzo 1936, in A. Moravia - G. Prezzolini, Lette-
re, cit., p. 22; Moravia parla con entusiasmo del romanzo di Sholokhov che sta leggendo, «il solo libro
della Russia bolscevica che fin’adesso mi sia sembrato bello». Al 1935, secondo alcune testimonianze,
risalirebbe anche la lettura di Il capitale di Marx da parte di Moravia (cfr. E. Siciliano, Alberto Mo-
ravia. Vita parole e idee di un romanziere, cit., p. 54).
212
Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
non può più illudersi sulla libertà e sull’autonomia della letteratura. Anche la
letteratura deve fare i conti con la politica, il potere e l’ideologia.
Tornato in Italia, dopo alcuni mesi Moravia scrive nuovamente a Mus-
solini, il 9 luglio 1936, per ottenere il permesso di riprendere, a più di un
anno dall’interruzione, la sua attività giornalistica con la «Gazzetta del
Popolo». Stavolta l’esito è positivo e il 15 luglio 1936 dalla Direzione della
Stampa Italiana del Ministero giunge il nulla osta: «Caro Amicucci, ti prego
di voler prendere nota che nulla osta a che Alberto Moravia sia riammesso
a collaborare alla ‘Gazzetta del Popolo’»57. Ne derivano anzitutto, come si è
accennato, gli articoli sul viaggio in America, che escono tra il 16 luglio e
il 3 dicembre 1936 (quattro sul Messico e quattro sugli Stati Uniti)58. Nel
1937 segue il viaggio in Cina, compiuto tra febbraio e maggio, per il quale
Moravia ottiene un cospicuo finanziamento dal Ministero, come testimonia
una nota d’archivio59, e sul quale scrive ben ventisette articoli sulla «Gazzet-
ta», pubblicati nel corso di un anno.
I funzionari del Ministero continuano però a sorvegliare con occhio male-
volo lo scrittore. Basta un suo giudizio su Roma come prigione, comparso in
Francia sulla «Nouvelles littéraires», per costringerlo a un lungo e umiliante
chiarimento nel giugno del 1937, proprio quando i suoi cugini Rosselli veni-
vano barbaramente uccisi60.
Persecuzione antisemita
Il delitto Rosselli e l’inizio della campagna razzista aprono una nuova fase
nei rapporti tra il potere e lo scrittore. Se la dura alternativa del 1935 aveva
costretto o indotto Moravia a considerare per un momento la possibilità di
una collaborazione col regime, adesso appare con forza il rischio incomben-
te della discriminazione e della violenza, e nello scrittore una conseguente
strategia di autodifesa, di sopravvivenza, di resistenza. Moravia prese pro-
gressivamente coscienza del carattere illiberale e repressivo del fascismo
non tanto per un’attenzione critica di tipo politico, ma in quanto colpito
personalmente: prima il controllo e la censura della sua attività letteraria,
poi l’omicidio nel giugno del ’37 dei Rosselli, quindi le leggi razziali, infine
l’esperienza della guerra.
La collaborazione alla «Gazzetta» è rimessa in discussione nel luglio del
1938. Basta la data per comprendere la natura delle nuove imputazioni, non
più di tipo politico ma razziale. Ermanno Amicucci, ancora una volta ligio
e zelante, fu il primo fra i direttori di giornale a sospendere i dipendenti
ebrei e a chiudere le collaborazioni con scrittori e intellettuali ebrei prima
ancora che fossero emanate direttive dal governo. In qualità di Presidente
della Corporazione Carta e Stampa e membro della neonata «Commissione
per la bonifica libraria» che iniziò a riunirsi in quei giorni stilando un primo
elenco di autori ebrei (per «bonifica» si intendeva in sostanza quella dai libri
ebraici), Amicucci si sentiva personalmente impegnato nell’impostazione
della politica razzista in sede culturale61.
Che Moravia avesse origini ebraiche era noto e nella pubblicistica razzista
egli figurava da tempo come lo scrittore ebreo per antonomasia (manca anco-
ra però uno studio di questo aspetto). Tale figurava anche per i funzionari
del Ministero: nella documentazione dell’Archivio Centrale dello Stato di
Roma si conserva persino una sorta di capo d’imputazione, il ritaglio di un
racconto pubblicato da Moravia sul giornale torinese in data 14 luglio 1938,
Antico furore, poi confluito nella raccolta I sogni del pigro62, sul quale ven-
gono sottolineati alcuni passi e viene dattiloscritta in margine un’acre nota
m’interrompit avec colère: C’est une petite ville trop vieille maintenant! J’adore l’Italie, mais Rome est
ce qu’il y a de moins bien en Italie. Les gens y ont l’esprit plus étroit, plus mesquin qu’en province. Ils
n’osent pas bousculer de vieilles traditions qui ont perdu leur sens. Les grandes seigneurs d’autrefois
avaient le mépris de l’argent, les nobles d’aujourd’hui, heureusement appauvris, en ont le culte. Leurs
fêtes, leurs maisons, leurs amours dégagent un ennui mortel. J’étouffe ici. Mais le plus terrible c’est
que je ne peux pas vivre ailleurs. J’ai besoin de Rome pour mon oeuvre, j’y trouve mes personnages,
mon atmosphère. / Et il parlait de sa ville comme d’une maîtresse trop belle et insensible, qu’il aurait
trompée avec frénésie, avec rage, mais en sachant qu’elle seule pouvait le satisfaire et, qu’à travers le
monde, sur tant ce visages différents, c’était le sien qu’il poursuivait».
61 G. Fabre, L’elenco, cit., p. 129.
62 Cfr. ora in A. Moravia, Opere/1: Romanzi e racconti 1927-1940, cit., pp. 1348-1352.
214
Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
antisemita: «Oh ineffabile apologo! Altro che letteratura fascista (che roba!)
Evviva il giudaismo e gli scrittori ebrei, che, come il nostro Moravia, Vi (ado-
pero il voi) prendono in giro»63. Non sappiamo chi sia l’autore della nota e
chi i destinatari. Potrebbe essere il Direttore Generale per la Stampa Italiana,
Gherardo Casini che si rivolge ai direttori dei giornali; oppure qualcun altro
più in alto che si rivolge in generale ai membri della nascente Commissione
per la bonifica (tra cui Casini e Amicucci); ma il seguito della vicenda fa pen-
sare che l’autore sia Amicucci. Infatti, con un espresso del 18 luglio Casini gli
ordinava: «D’ordine, ti comunico che è necessario sospendere la collabora-
zione di Alberto Moravia»; e il direttore della «Gazzetta» senza indugio e con
soddisfazione risponde il 19: «ricevo la tua riservata del 18 luglio. Sta bene
quanto mi scrivi. Vorrai però darmi atto che io ti avevo precedentemente
sottoposto il quesito circa la collaborazione di Alberto Moravia». Il 20 luglio
Casini parla ai direttori dei giornali (vi era anche Amicucci) sul tema della
razza e sulla necessità di «eliminazione di tutti i residui ebraizzanti anche
delle terze pagine. Così per il decadentismo artistico, per il cerebralismo, per
il pacifismo. Contrapporre a queste forme mentali la tradizione italiana che
è sana ed eroica»64. La collaborazione di Moravia alla «Gazzetta del Popolo»,
per la seconda volta, non poteva che risultare «non gradita».
È questo è l’antefatto della terza lettera che Moravia scrive a Mussolini e
che porta la data del 28 luglio 1938. Stavolta lo scrittore non deve giustifi-
care la propria posizione politica, come nella prima lettera, ma la situazio-
ne “razziale” della sua famiglia. I termini sono crudi, come crude erano le
alternative imposte dal regime. Scrive Moravia: «Il provvedimento è dovuto
a motivi razziali. Io ebreo non sono, se si tiene conto della religione. Sono
cattolico fin dalla nascita e ho avuto da mia madre in famiglia educazione
cattolica. È vero che mio padre è israelita; ma mia madre è di sangue puro
e di religione cattolica, si chiama infatti Teresa De Marsanich ed è la sorella
del Vostro sottosegretario alle comunicazioni. Per queste ragioni, Duce, io vi
chiedo di non essere considerato ebreo, e di essere trattato, almeno dal punto
di vista professionale, come [non] ebreo». Si noti l’espressione «almeno dal
punto di vista professionale»: neppure un romanziere nel ’38 immaginava da
quali altri “punti di vista” sarebbero stati trattati gli ebrei pochi anni dopo.
Per il resto è inutile commentare una lettera come questa, che solo qualche
anno prima Moravia non avrebbe mai immaginato di dovere e poter scrivere.
Di fronte al volto ormai peggiore del regime lo scrittore è indotto a umiliarsi
e a utilizzare, per giustificarsi, il linguaggio razzista del regime. È ovvio che
non è il suo e che tanti come lui dovettero in quell’occasione giustificarsi in
promemoria Gherardo Casini annota: «Questa prima seduta […] è stata come
una presa di contatto dei Commissari fra loro […]. Si è trattato in generale
il tema del bisogno fortemente sentito e dei tentativi che sono stati fatti per
adeguare la letteratura e l’arte da una parte, la cultura del popolo e dei giovani
dall’altra alle aspirazioni della nuova anima italiana e alle necessità dell’etica
fascista. In tema di discussione pratica sulla Bonifica Libraria si è trattato, a
mo’ di esemplificazione, qualche caso particolare (Il Capitale di Marx, Gli
Indifferenti di Moravia) senza tuttavia deciderlo»69. Non sappiamo che cosa
successe nel palazzo nei mesi seguenti. Certo è strano che dopo tali premesse
la Commissione non abbia incluso nella “bonifica” l’opera di Moravia, anche
se il recente intervento di Mussolini a suo favore, la sua notorietà internazio-
nale, unitamente ai buoni uffici dello zio, possono essere ragioni sufficienti per
riguardi speciali nei suoi confronti, come già era accaduto nel 1935.
Intanto Moravia – secondo le disposizioni che Amicucci aveva ricevuto dalle
alte sfere – si preparava a partire come inviato speciale della «Gazzetta», come
già aveva fatto per la Cina. In un primo momento la meta sembra essere anco-
ra una volta gli Stati Uniti, ma infine egli partì per la Grecia nel febbraio del
193970. Il primo articolo che segna la ripresa della collaborazione comparve il 17
marzo 1939 (fino all’agosto saranno in tutto tredici articoli sulla Grecia).
Censura e autocensura
Alfieri al “Minculpop”).
69 Citato da G. Fabre, L’elenco, cit., p. 133.
70 Cfr. la lettera di Alberto Moravia alla madre, 6 marzo 1939, in Lettere di viaggio, 1934-1939, con
una nota di D. Maraini, «Nuovi Argomenti», s. iii, 39, luglio-settembre 1991, p. 27. Noto qui un erro-
re nella Cronologia redatta dal sottoscritto e premessa all’edizione delle Opere nei «Classici» Bompiani
tuttora in corso, che colloca il viaggio in Grecia nel 1938 (nei prossimi volumi verrà fornita una ver-
sione corretta e aggiornata). Il progetto di un secondo viaggio negli Stati Uniti è documentato da un
fonogramma della fine del 1938, firmato dal «direttore generale De Cicco» e indirizzato alla Questura
di Roma e per conoscenza al Ministero della Cultura Popolare: «nulla osta estensione passaporto visita
temporanea Stati Uniti d’America sg. Pincherle Moravia Alberto oggetto fonogramma del 5 dicembre
scorso anno che recasi colà in qualità di giornalista per conto della Gazzetta del Popolo».
71 Lettera del 5 dicembre 1939 a Valentino Bompiani, pubblicata nelle note ai testi di F. Serra, in
Opere/1, cit., p. 1709.
217
Simone Casini
Non sappiamo con precisione quale fatto nuovo sia intervenuto. Certo, lo
scrittore continuava ad essere nel mirino della censura per i suoi libri, non
per i suoi articoli. Al ritorno dalla Grecia, nel giugno ’39, era venuto a sapere
che Le ambizioni sbagliate e L’ imbroglio erano state incluse nella lista della
bonifica libraria (non vennero invece colpiti Gli indifferenti)72. In quell’oc-
casione Moravia aveva avuto un colloquio con Gherardo Casini il quale
lo aveva invitato a scrivere una lettera al Ministero per ottenere almeno la
vendita fino ad esaurimento delle scorte, cosa che lo scrittore pensò di dele-
gare ai suoi due editori, Arnoldo Mondadori («penso che sia opportuno che
questa lettera sia scritta da voi») e Valentino Bompiani («mi sono stancato di
brigare; perciò ho pensato che potreste occuparvene Voi; scrivendo voi stesso
la lettera a Casini»)73. Come ricostruisce Francesca Serra, il trattamento fu
diverso: mentre fu permessa a Mondadori la vendita di Le ambizioni sbagliate,
non lo fu a Bompiani quella di L’ imbroglio. L’editore aveva scritto la lettera il
13 giugno 1939 secondo le indicazioni avute, ma il 21 luglio Casini respinse
la domanda, «recedendo da quella soluzione che lui stesso aveva prospettato
a Moravia. E nessuna revoca sarà ottenuta neppure in seguito», prosegue
la Serra, «quando altri passi verranno tentati al Ministero per sbloccare
L’ imbroglio»74.
Uno di questi passi fu tentato appunto agli inizi del 1941, contestualmente
alla richiesta di nullaosta per il terzo romanzo dello scrittore, La mascherata.
La risposta delle autorità appare profondamente contraddittoria e inspiegabi-
le. Sebbene nel 1940 Bompiani avesse pubblicato un altro libro di racconti di
Moravia, I sogni del pigro, senza incontrare troppe difficoltà nella censura75,
per L’ imbroglio non ci fu niente da fare e il 26 febbraio 1941 il Ministero
comunicava a Bompiani che non intendeva revocare il provvedimento per
«considerazioni inerenti alla natura stessa del libro»76. Ancora più «bizzarro»,
secondo il giudizio di Talbot, il comportamento dei censori rispetto a La
mascherata, che nonostante la patina sudamericana aveva chiari riferimenti
alla realtà e alla dittatura italiana e che pure fu pubblicato77. Come aveva
78 Cfr. S. Casini, Note ai testi, in A. Moravia, Opere/2: Romanzi e racconti 1941-1949, cit., pp.
1845-1849.
79 Nell’intervista autobiografica a Oreste Del Buono, Moravia sostiene che le bozze nel Ministero
passarono da «un modesto funzionario» al «direttore generale» (Gherardo Casini) al «sottosegretario»,
quindi «al ministro» e infine «sul tavolo del duce»: «Mussolini lesse il libro […]. Fatto sta che diede
senza esitazione il nulla osta per la pubblicazione» (Moravia, cit., p. 44). Non si trovano però conferme
nelle altre interviste autobiografiche.
80 «Andai da Ciano: gli portai il libro perché lo leggesse e poi, se credeva, ne patrocinasse la causa.
Ciano promise: siccome doveva mettersi in viaggio, quella sera stessa, avrebbe portato con sé il libro
per leggerlo in treno. Gli domandai dove andava. Mi disse che andava da Hitler […] Non so se Ciano
lo lesse» (Moravia, a cura di O. Del Buono, cit., p. 45). Cfr. anche nell’intervista del 1971 a Enzo
Siciliano, Moravia, cit., p. 58 (poi col titolo Alberto Moravia. Vita parole e idee di un romanziere, cit.,
pp. 51-52); cfr. anche Vita di Moravia, a cura di A. Elkann, cit., pp. 122-123.
81 Secondo la ricostruzione di Pardini, Moravia sottopose la lettera che aveva scritto all’amico
Curzio Malaparte, col quale collaborava per la rivista «Prospettive», per averne consiglio, e Malaparte
sotto il testo scrisse a matita rossa: «Da restituire a Moravia. Non approvo questa lettera. Meglio non
inviarla» (cfr. G. Pardini, Malaparte, Moravia e «Prospettive», cit., pp. 108n, 128n). Secondo Pardini,
l’originale, oggi conservato presso l’Archivio Malaparte, sarebbe stato restituito a Malaparte dagli al-
leati, insieme ad altro materiale proveniente dagli archivi dell’Ovra che lo riguardava, per consentirgli
di prepararsi al processo contro di lui (ivi, p. 128). È probabile che a questa lettera in suo possesso si
riferisca Malaparte nel 1950 in un’intervista rilasciata a J. L. Munos Apiri, quando parla in termini
assai acri di Moravia dicendo: «Aggiungo che lo stesso Moravia (e lo posso provare) ha leccato le scar-
pe a Mussolini durante i vent’anni di fascismo» (citato ivi, p. 111). Sul complesso rapporto di amicizia
e rivalità tra Moravia e Malaparte, si veda anche S. Casini, Introduzione a A. Moravia, I due amici,
cit., pp. xliv-lviii.
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Simone Casini
82 A. Scotto Di Luzio, Censura, alla voce in Dizionario del fascismo, a cura di V. de Grada e S.
Luzzatto, I (A-K), Torino, Einaudi, 2002, p. 263.
83 G. Talbot, Alberto Moravia and Italian Fascism, cit., p. 131.
84 Cfr. ivi, p. 137.
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Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
85 Secondo B. Gaeta (Minculpop, censura libri, «Realtà del Mezzogiorno», 11, 1982, p. 926), nel
testo di La mascherata sarebbe stata eliminata, su richiesta della censura, una frase riferita a Tereso, il
dittatore del romanzo: «un profilo di medaglia da imperatore romano».
86 Lettera di Moravia a Bompiani, citata da F. Serra, Note ai testi, cit., p. 1714. Per il testo, cfr.
ivi, pp. 1580-1584. Il sole d’anteguerra viene sostituito con Visione d’oriente, uscito sulla «Gazzetta» il
19 luglio 1940, e il cui ritaglio si trova nel fascicolo riservato di Moravia del Ministero della Cultura
Popolare, con scritto a matita: «Letto a Casini» (ACS, MCP, II vers., B. 8, f. 36).
87 Cfr. F. Serra, Note ai testi, cit., p. 1710.
88 Cfr. S. Casini, Note ai testi, cit., p. 1845.
221
Simone Casini
95 In una nota dattiloscritta del 15 gennaio 1942, probabilmente di Gherardo Casini, si legge:
«Nello scorso ottobre il Duce autorizzava lo scrittore Alberto Moravia a riprendere la collaborazione
a giornali e riviste a condizione che gli articoli fossero firmati con pseudonimo. L’autorizzazione ve-
niva concessa, tenuto conto che il Moravia, marito di una ariana e considerato di razza ariana, aveva
perduto in combattimento sul fronte di Tobruk il fratello Tenente Gastone Pincherle. Ora il Moravia,
facendo presente il grave danno materiale e morale che l’obbligo del pseudonimo procura alla sua
attività di scrittore, chiede che gli sia concesso di firmare le sue collaborazioni col nome e cognome»;
sotto il testo un appunto a matita, con firma in sigla illeggibile, nega l’assenso: «è ancora troppo pre-
sto» (ACS, MCP, II vers., B. 8, f. 36).
96 Il 23 febbraio 1942 Moravia scrive la seguente lettera: «Gentilissimo Casini, come d’accordo ec-
covi i nominativi delle riviste a cui vi sarei grato di comunicare che nulla osta alla mia collaborazione:
Tempo, Domus, Stile, Bellezza, Letteratura, Lettere d’oggi, Civiltà moderna, L’Italia che scrive. Con
moltissimi ringraziamenti per quanto avete fatto per me. Il vostro Alberto Moravia» (ACS, MCP, II
Vers., B. 8, f. 36). Il 27 febbraio Casini prepara di conseguenza altrettante lettere, tutte conservate in
copia («A richiesta dell’interessato, si comunica che nulla osta a che codesta rivista si giovi della colla-
borazione dello scrittore Alberto Moravia, a condizione che gli scritti siano firmati con pseudonimo»,
ACS, ivi) e informa quindi lo scrittore.
97 Sono stati raccolti postumi nella raccolta Racconti dispersi 1928-1951, a cura di S. Casini e F.
Serra, Bompiani, 2000.
98 Cfr. A. Moravia, Impegno controvoglia. Saggi articoli interviste: trentacinque anni di scritti poli-
tici, Milano, Bompiani, 1978; nuova ed., con introd. di S. Casini, ivi, 2008, pp. 3-10.
99 Si rimanda a S. Casini, Introduzione a A. Moravia, I due amici, cit., pp. v-lxxiii.
225
Simone Casini
sa dell’occhio del ciclone bellico che stava per abbattersi sulla città e che
Moravia tenterà pochi anni dopo di raccontare nell’inedito di I due amici100,
l’obiettivo polemico è il vuoto ideologico, la «penuria di idee» e quindi il
sostanziale irrazionalismo del fascismo. Chi aveva aderito al fascismo lo
aveva fatto non in nome di un’idea che non c’era, ma per motivi irrazionali e
svariati («dalla difesa della tradizione al desiderio del nuovo, dall’ambizione
all’istinto di conservazione, dalla paura alla volontà dell’ordine e via dicen-
do»). Da questo vuoto di ragione erano derivate «le conseguenze funeste che
si conoscono»: formalismo, retorica, incompetenza, predominio dei peggiori,
«disciplina fine a se stessa, ordine fine a se stesso, autorità fine a se stessa, azio-
ne fine a se stessa, e, infine, risultato ultimo che li riassume tutti, quell’idola-
tria dell’uomo che era in sostanza la prova massima della mancanza di idee».
È un giudizio in cui già si intravede l’originale riflessione che nel dopoguerra
lo scrittore andrà svolgendo sul tema machiavelliano del fine e dei mezzi. Il
vuoto ideale e ideologico è all’origine dell’isteria e dell’idolatria che hanno
dominato la vita civile, sosteneva Moravia alla vigilia esatta dell’8 settembre,
ed esortava a reintrodurre la ragione nell’ordine civile, «a ricondurre le idee
nel campo della politica».
Dal punto di vista letterario, il funesto vuoto ideologico del fascismo si
precisa come assenza di una politica culturale con la quale potersi confron-
tare. È questa la tesi sostenuta in un importante saggio del 1945 dal titolo
Ricordi di censura, che insieme al coevo e simmetrico Ricordo de «Gli indiffe-
renti» testimonia come il confronto col fascismo per Moravia sia stato vissuto
in relazione alla sua opera letteraria. Paradossalmente Moravia imputa al
fascismo non tanto l’atteggiamento repressivo, quanto l’assenza di politiche,
criteri e modelli riconoscibili, che rendeva imprevedibili e irrazionali, come
abbiamo visto, i provvedimenti della censura. Il vuoto di progetti culturali
moderni infatti veniva rimpiazzato – sostiene Moravia –dalla moralistica e
conservatrice cultura di cui erano portatori i vari funzionari del ministero,
tutti di origine piccolo-borghese. Era stata insomma questa vecchia e supe-
rata cultura di fondo “dannunziano” e “carducciano”, e non una inesistente
cultura fascista, che durante il fascismo e in nome del fascismo avevano
mosso guerra alla nuova letteratura. Con molta lucidità, Moravia descrive il
conflitto di cui, suo malgrado, era stato protagonista e vittima.
Dopo i “ricordi”, resta da valutare l’“oblio”. Nelle memorie autobiografi-
che, rilasciate più volte in forma di intervista nel corso degli anni, Moravia
non fa mai menzione delle lettere a Mussolini e a Ciano. Certo avrebbe
potuto raccontare di averle scritte senza per questo contraddire la sua imma-
100 Nella costruzione incompiuta del romanzo, ambientato appunto nel 1943, Moravia utilizzò
direttamente i due articoli del «Popolo di Roma» (cfr. ivi, pp. xxi-xxiv).
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Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
101 Cfr. R. Dahrendorf, Erasmiani. Gli intellettuali alla prova del totalitarismo, tr. it. di M. Sam-
paolo, Bari, Laterza, 2007.
102 Cfr. P. Battista, Cancellare le tracce. Il caso Grass e il silenzio degli intellettuali italiani, Milano,
Rizzoli, 2007, pp. 66-67 e 134-136.
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Simone Casini
103 Cfr. A. Moravia, Romildo, a cura di E. Siciliano, Milano, Bompiani, 1993 e Id., Racconti
dispersi 1928-1951, cit. La produzione novellistica “dispersa” è raccolta integralmente nelle relative
sezioni dei «Racconti dispersi» nell’edizione in corso delle Opere, diretta da Enzo Siciliano (sono usciti
finora quattro volumi di narrativa, relativi agli anni dal 1927 al 1969).
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Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
Appendice
11
Eccellenza
1 Lettera di Alberto Moravia a Benito Mussolini, 26 marzo 1935. Manoscritto in inchiostro blu.
Archivio Centrale dello Stato, «Ministero della Cultura Popolare», II Versamento, Busta 8, Fascicolo
36 («Alberto Moravia»), d’ora in avanti così abbreviato: ACS, MCP, II vers., B. 8, f. 36. La lettera
è conservata anche in «copia» trascritta da funzionari del Ministero, ivi, sulla quale si leggono un
appunto a matita rossa «può scrivere» e uno a matita nera di altra mano «telefonato a Casini (Nesti
ammalato), 28 marzo XIII» con firma illeggibile. È stata pubblicata su «L’Espresso», 15-22 gennaio
2004, p. 63, con una nota introduttiva di Primo Di Nicola.
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Simone Casini
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Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
21
Eccellenza,
mi dicono che le bozze del mio libro Le ambizioni sbagliate sono in lettura
presso questo Sottosegretariato. Non per influire sull’esito di questa lettura, ma
per chiarire alcuni dubbi, se ancora ce ne sono, sopra la mia natura di scrittore, e
per spiegare i motivi che mi spinsero a comporre questo romanzo, mi induco ora a
scriverLe. Questa lettera non è dunque altro che una specie di prefazione all’opera
da me compiuta.
Eccellenza, il romanzo in letteratura si può paragonare a ciò che è l’affresco
in pittura. Nell’affresco, oltre ai particolari e alle figure prese separatamente, il pit-
tore deve curare l’architettura e la composizione, cioè i rapporti di un particolare
con un altro, di una figura con un’altra, e insieme l’armonia del tutto; e ciò senza
distaccarsi dalla cura meticolosa dei più piccoli dettagli. Lo stesso avviene per il
romanzo. Si giudichi da questo le difficoltà grandissime che uno scrittore deve
superare per comporre un romanzo che abbia qualche valore. Inoltre al romanziere
si richiedono molte altre qualità: sicuro giudizio morale, conoscenza delle passioni
umane, intuito drammatico, abilità nel dialogo, ricchezza di strutture sintattiche
etc. etc. E questo che affermo, essere il romanzo uno dei più difficili generi letterari,
è tanto vero che, in Italia, da quasi un secolo che si scrivono romanzi, pochi ne
restano, da contarsi quasi sulle dita di una mano sola: I promessi sposi; I Malavoglia;
un romanzo di D’Annunzio; un romanzo di Tozzi; Nievo; un romanzo di Italo
Svevo; l’elenco può fermarsi qui. Dico questo per mostrare quanto sia ingrata la
mia professione e come siano pochissimi coloro i quali vi riescono a fare qualcosa di
notevole; di romanzieri veri e nati ne avemmo e ne abbiamo insomma assai pochi;
mentre abbondiamo in poeti, in giornalisti, in saggisti politici e morali e, in genere,
in scrittori di cose brevi. Dei motivi di questa scarsità di romanzieri nel nostro
paese non è qui il caso che mi occupi; però è un fatto incontrovertibile e del quale
bisogna pur tener conto quando ci si trova di fronte a qualcuno come me che, e lo
dico senza alcuna modestia, è romanziere nato e al romanzo ha dato e dà tuttora
tutte le sue migliori attività.
Ho detto che non sento il bisogno di essere modesto affermando la mia
qualità di romanziere. Ora voglio aggiungere che questa assenza di modestia, altri-
1 Lettera di Alberto Moravia a Galeazzo Ciano, giugno 1935. Minuta conservata presso il Fondo
Arnoldo Mondadori della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano, 25bis, e accompa-
gnata da un appunto manoscritto datato 7 giugno 1935 di Mario Pelosini, consulente di Arnoldo
Mondadori: «A Roma mi sono attivamente occupato del libro di Moravia. Ho avuto un colloquio
con Dinale che mi è sembrato maldisposto: ma poi ha aderito alla mia preghiera di leggere anche lui,
personalmente, il libro. Mi sono messo in contatto con l’autore, l’ho indotto a scrivere l’unita lettera
a Galeazzo Ciano; e avendo saputo che è nipote del sottosegretario De Marsanich, mi sono fatto
accompagnare anche da lui, che però si è mantenuto molto riservato». Pubblicata da «Panorama», a.
31, n. 141, 28 novembre 1993 con commento di Giorgio Fabre, che chiarisce: «La lettera che si trova
all’archivio Mondadori, stesa con la macchina da scrivere di Moravia (e con firma e correzioni auto-
grafe), è probabilmente una minuta, poi trascritta (come era uso) per il sottosegretariato» (p. 143). È
stata ripubblicata da Renzo Paris, Moravia. Una vita controvoglia, Firenze, Giunti, 1996, pp. 95-99; e
parzialmente nella Nota al testo di Francesca Serra al volume di Alberto Moravia, Opere/1: Romanzi e
racconti 1927-1940, a cura di F. Serra, Milano, Bompiani, 2000, p. 1686.
231
Simone Casini
menti biasimevole, mi viene dalla coscienza, oltre che del mio valore, anche dalle
grandissime fatiche alle quali mi sono sobbarcato per condurre a termine le poche
cose che ho fatto; e nello stesso tempo dalla consapevolezza di aver sempre tentato
il meglio, anche quando sembrava impossibile e superiore alle mie forze, e di non
essermi mai distaccato, neppure una volta sola, da quell’alto concetto della dignità
artistica senza il quale è vano sperare di fare opera dignitosa e durevole.
Ho ora ventisett’anni e ne avevo undici quando scrissi il mio primo romanzo.
Da undici a diciassett’anni, pur tra molte difficoltà, scrissi sei romanzi, dei quali
però non fui contento e che buttai via. A diciassett’anni incominciai Gli indiffe-
renti, che dopo dovevo dare alle stampe. Ci misi tre anni e lo rifeci quattro volte.
È duro rifare un’opera e distruggere mesi e mesi di lavoro; però io ho fatto questo
perché volevo raggiungere quel grado, molto relativo, di perfezione che le mie forze
mi consentivano. E non un momento solo pensai al successo, che non entrava nei
miei calcoli né, bisogna dirlo, nelle mie speranze. Perciò la fortuna di quel libro
mi sorprese; anche perché era dovuta a motivi che con il valore vero del libro nulla
avevano a che fare.
Dopo Gli indifferenti quasi mi pareva di non avere più nulla da dire. Però mi
rimisi al lavoro, il quale questa volta fu durissimo, tanto che più volte fui sul punto
di disperare di me stesso e di lasciare a metà l’opera incominciata; quest’opera che
mi diede tanto da fare è quella che ora è in lettura presso il Sottosegretariato per
la stampa e la propaganda, quest’opera io l’ho rifatta sette volte impiegandoci sei
anni, dal 1928 al 1934; se avessi voluto continuare per la strada dei facili successi
avrei potuto benissimo fare qualche romanzetto di quelli che si scrivono in sei mesi
e si dimenticano in due; ma mi premeva invece di scrivere un romanzo che fosse
superiore al primo e che riconfermasse i miei critici e i miei lettori nel giudizio forse
troppo favorevole che avevano espresso sopra Gli indifferenti, donde la difficoltà
alle quali ho alluso, il lungo tempo impiegato, e le cinque o seimila pagine scritte
e stracciate per conservarne alla fine 500.
Dovrei a questo punto, Eccellenza, spiegare i motivi ispiratori della mia
opera e dimostrare come essi siano tutt’altro che pessimistici e distruttivi, tutt’altro
che antitetici ed estranei alla Rivoluzione Fascista, come i miei detrattori e coloro
che non mi intendono hanno sempre affermato. Mi limiterò a dire che così negli
Indifferenti come in queste Ambizioni sbagliate il concetto informatore è la satira,
il disgusto e l’accusa di tutto ciò che forma la parte negativa e ignobile dell’uomo;
ossia l’indifferenza, l’egoismo, l’avidità, la sordità morale, la mancanza di passioni
e di ideali positivi. E ciò è tanto vero che sfido chiunque a trovare non dico una
pagina, ma una riga sola da me scritta in cui sia esaltato o lodato il vizio e in
genere ciò che è contrario alle virtù umane. Come l’Eccellenza vostra può vedere,
questi concetti informatori della mia opera non sono granché diversi da quelli che
in questi ultimi anni, qui in Italia, hanno informato tante azioni politiche e non
politiche.
Venendo poi in particolare alle Ambizioni sbagliate, in questo romanzo, come
del resto lo mostra il titolo, ho cercato di dare una definizione e una descrizione
di una delle passioni più frequenti e, quando non sia frenata e contenuta nei
limiti della ragione, più distruttiva: l’ambizione. Non so se ci sia riuscito; questo
comunque era il mio intento. Ma lo scopo più alto era di fare opera d’arte; ossia
un romanzo ben composto, bene architettato, scritto in buona lingua italiana, con
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Moravia e il fascismo. A proposito di alcune lettere a Mussolini e a Ciano
personaggi indipendenti, forti e nitidi che si reggessero da soli, e da soli, una volta
pubblicato il romanzo, se ne andassero per le vie del mondo. Se sono riuscito a far
questo, posso dire che tutte le fatiche durate non sono state del tutto vane.
Resta ora, è vero, il dubbio che il romanzo possa essere impedito di uscire;
ma di questo non sono più io il giudice, né mi è possibile poter immaginare i motivi
che potrebbero ispirare un tale provvedimento; giacché sono convinto di aver fatto
opera che non sia estranea né esorbiti dal clima e dai quadri della Rivoluzione
Fascista. Vorrei soltanto aggiungere che oltre al motivo informatore che non
è, come ho spiegato, in alcun modo, pessimistico, c’è una particolarità nel mio
romanzo che può dar nell’occhio e forse giustificare qualche riserva: il tono oltre-
modo tragico degli avvenimenti che vi sono descritti. Ora, questo tono viene da
una mia particolare visione della vita, la quale è eminentemente drammatica. Ma
avere il senso drammatico non fu mai un difetto, bensì un pregio. E volle sempre
dire vedere la realtà nelle sue forme più essenziali, senza soprastrutture sentimentali
e psicologiche, in quei rari momenti nei quali le forze avverse che la compongono
vengono a conflitto e cozzando l’un contro l’altra si illuminano a vicenda. Ciò è
tanto vero che il teatro, nel quale le qualità drammatiche sono indispensabili, si può
giustamente considerare come la più alta manifestazione letteraria di tutti i tempi;
e che, mentre da che mondo è mondo rimangono innumerevoli poeti e prosatori,
di autori teatrali che resistono al tempo ce ne saranno sì e no una decina appena.
E questo sia detto a difesa della drammaticità, degli eventi rappresentati nelle
Ambizioni sbagliate. Le quali ora aspettano dall’Eccellenza Vostra quel giudizio giu-
sto e illuminato che permetterà loro di uscire; e all’autore di non considerare come
vane e inutili le fatiche, gli sforzi, le speranze e il travaglio di molti anni di lavoro.
Gradisca, Eccellenza, le espressioni più sincere del mio ossequio.
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Simone Casini
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Eccellenza,
mi permetta di congratularmi con Lei per l’esempio che Lei dà a tutti gli scrit-
tori e a tutta la gioventù italiana. Il Suo esempio mi ha deciso a compiere un atto
che è doveroso da parte mia. Sono stato riformato recentemente al servizio di leva
per anchilosi dell’anca destra, e non mi è possibile, perciò, di arruolarmi volontario,
come avrei voluto, nel Corpo di Spedizione per l’Africa Orientale. Resta tuttavia
vivissimo in me il desiderio di partecipare in qualche modo all’impresa africana.
Vengo dunque a domandarLe di poter passare qualche mese sull’altopiano
Eritreo allo scopo di comporre un libro sulla guerra degli Italiani in Africa. Avrei
voluto chiedere di andare come corrispondente di un giornale, ma le note gior-
nalistiche hanno sempre qualcosa di provvisorio e di frammentario: ora io vorrei
scrivere un libro organico, il quale potesse rimanere documento e testimonianza
dell’eroismo della gioventù fascista in guerra.
Non potrebbe Ella, Eccellenza, aiutarmi in qualche modo a realizzare questo
mio desiderio?
Nella speranza che la mia proposta venga da Lei accettata e che io possa, nel
caso, esporla a voce all’Eccellenza Vostra, Le esprimo i sensi della mia profonda e
sincera devozione.
Di V. E. Dev/mo
Alberto Moravia
1 Lettera di Alberto Moravia a Galeazzo Ciano, Forte dei Marmi (Hotel Principe), 18 agosto
1935 – XIII; raccomandata indirizzata «a Sua Eccellenza il Conte Galeazzo Ciano Ministro per la
Propaganda e Stampa». Dattiloscritto con firma autografa, su carta azzurra (ACS, MCP, II vers., B. 8,
f. 36). È stata pubblicata da Nello Ajello su «La Repubblica» il 28 novembre 2007.
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Alcuni mesi or sono e precisamente nell’agosto del 1935 venne l’ordine alla
Gazzetta del Popolo di far cessare la mia collaborazione. Quest’ordine mi stupì
perché sia nella mia collaborazione alla Gazzetta che nelle altre mie attività avevo
coscienza di aver fatto nulla che non rientrasse nelle direttive del Regime – d’altra
parte anche i miei sentimenti non erano ignoti all’Eccellenza Vostra – per averli io
spiegati in una lettera che scrissi nella primavera del 1935 allo scopo di chiarire la
mia posizione politica.
Tuttavia mi uniformai a quell’ordine e cessai di mandare articoli alla Gazzetta
alla quale collaboravo già da vari anni – Nel dicembre del ’35 partii per gli Stati
Uniti del nord-America, un viaggio che da tempo avevo stabilito, d’accordo con l’on.
Amicucci, di fare per conto della Gazzetta. Agli Stati Uniti cercai di svolgere opera
di propaganda culturale – Feci così cinque conferenze sul tema: Il Romanzo Italiano
(Manzoni, Nievo, Verga, Fogazzaro, D’Annunzio) – e cioè due alla casa italiana della
Columbia University di cui ero ospite, una all’Albergo Waldorf-Astoria a New-York,
una al Vassar College e una allo Smith College – Ebbi così occasione, specialmente
nei collegi, di vedere che lo studio della letteratura italiana, sopratutto per merito
del Regime, è in continuo progresso, e vien prima di quello della letteratura tedesca
e spagnuola, e secondo soltanto a quello della letteratura francese -
Ora tornato in Italia vorrei scrivere alcune cose che ho veduto negli Stati Uniti
- Perciò mi rivolgo all’Eccellenza Vostra per sapere se mi è possibile riprendere la mia
antica collaborazione alla Gazzetta del Popolo –
Creda l’Eccellenza Vostra all’espressione sincera dei miei sentimenti devoti
Alberto Moravia
1 Lettera di Alberto Moravia a Benito Mussolini, 9 luglio 1936 - XIV. Manoscritto in inchiostro
nero (ACS, MCP, II vers., B. 8, f. 36). È stata pubblicata su «L’Espresso» il 15 gennaio 2004.
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Simone Casini
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Duce:
(Alberto Moravia)
1 Lettera di Alberto Moravia a Benito Mussolini, 28 luglio 1938. Dattiloscritto, con firma auto-
grafa (ACS, MCP, II vers., B. 8, f. 36). È stata pubblicata sul «Corriere della Sera», 6 gennaio 2004, a
cura di Antonio Debenedetti.
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Duce,
Mi è stato ufficialmente comunicato di interrompere la mia attività professio-
nale nei periodici di cui sono collaboratore. Non so a quale fatto specifico si debba
questo provvedimento a mio danno. Da quando Voi, Duce, nel 1938 mi avete
autorizzato a riprendere la mia attività professionale, ho la coscienza di non aver
scritto né pubblicato cosa alcuna che potesse dispiacervi. In questi ultimi tempi,
ho abbandonato molti degli elementi che costituivano la mia prima letteratura. La
stessa critica l’ha ampiamente riconosciuto a proposito del mio ultimo libro, I Sogni
del Pigro.
Mi permetto perciò rivolgervi, Duce, la preghiera di potere riprendere la mia
attività giornalistica dalla quale io traggo i mezzi per vivere. Anche perché tra poche
settimane mi sposo e mi preparo ad assumere responsabilità, alle quali, in queste
condizioni, non posso andare incontro con animo sereno.
Devotamente
Alberto Moravia
Roma, 7 marzo 1941 XIX
1 Lettera a Benito Mussolini, 7 marzo 1941; dattiloscritta con firma autografa di Moravia, conser-
vata nell’Archivio Malaparte a Firenze. È stata pubblicata da Giuseppe Pardini nell’appendice III al
saggio Malaparte, Moravia e «Prospettive», «Nuova Storia Contemporanea», iii, 1, gennaio-febbraio
1999, p. 128. Come riferisce Pardini, sotto il testo della lettera è contenuta, scritta con matita rossa,
questa postilla autografa di Malaparte: «Da restituire a Moravia. Non approvo questa lettera. Meglio
non inviarla. Malaparte». Pertanto è incerto se sia stata spedita. Sempre secondo Pardini, «l’originale
della lettera è presumibilmente tornato in possesso di Malaparte quando le autorità alleate, per con-
sentirgli di preparare la sua difesa al processo contro di lui, gli fornirono numerosi documenti che lo
riguardavano rinvenuti in gran parte negli archivi dell’Ovra». La pubblicazione era stata anticipata
dalla «Domenica» del «Sole 24 Ore» il 24 gennaio 1999, con articoli di Ermanno Paccagnini e Fran-
cesco Perfetti.
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