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Ted Benton

Ian Craib

LA FILOSOFIA ANTICA
Itinerario storico e testuale

A cura di
Lorenzo Perilli, Daniela P. Taormina

Con contributi di:


Keimpe Algra, Eugenio Benitez, Marta Cristiani, Monique Dixsaut,
Dimitri El Murr, Therese Fuhrer, M. Laura Gemelli Marciano,
James Lennox, Dominic J. O’Meara, Jørgen Mejer,
Georg Petzl, Umberto Roberto, Paolo A. Tuci

e interventi di
Luca Canali, Tiziano Dorandi, Paolo Zellini

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www.utetuniversita.it

Proprietà letteraria riservata


© 2012 De Agostini Scuola SpA – Novara
1ª edizione: febbraio 2012
Printed in Italy

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Anno: 2012 2013 2014 2015 2016

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Indice

XI Prefazione
XV Lineamenti bibliografici

3 Capitolo 1 – Oriente e Occidente


M. Laura Gemelli Marciano
3 1.1 I presupposti: ex oriente lux e i suoi avversari. Paradigmi settecenteschi e ot-
tocenteschi e dispute moderne
4 1.2 Definizione del problema dei contatti. Equivoci e resistenze
6 1.3 Aree di contatto
9 1.4 Mediatori culturali
11 1.5 Plurilinguismo
13 1.6 Testi delle tradizioni non greche
15 1.7 Mappa cronologico-geografica di contatti e influssi dalla fine del VII sec. a.C.
fino ad Alessandro
16 1.8 Cosmogonia e cosmologia
1.8.1 La terra nasce dall’acqua, p. 17
19 1.9 Astronomia
1.9.1 Eclisse, p. 19 – 1.9.2 Mappe della Terra, p. 20 – 1.9.3 Ordine dei « cieli », p. 21
– 1.9.4 Stelle, icone degli dèi, p. 22 – 1.9.5 I « vincoli del cielo », p. 22 – 1.9.6 Pia-
neti, p. 22
24 1.10 Letteratura sapienziale e tradizioni esoteriche
25 1.11 L’arrivo dei magi
30 1.12 Sincretismo
30 Bibliografia

35 Capitolo 2 – La filosofia antica e la tradizione dossografica


Jørgen Mejer †
44 2.1 Biografia
47 Bibliografia
49 La trasmissione della filosofia antica

51 Capitolo 3 – Pietre per la filosofia. La filosofia antica attraverso lo specchio delle


iscrizioni
Georg Petzl
51 3.1 Il ruolo delle iscrizioni nell’antichità greco-romana; sophoi-philosophoi
52 3.2 Le Massime dei Sette Sapienti

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VI Indice

56 3.3 Una situazione a tre vie (Y): Prodico, Pitagora, Platone


58 3.4 L’antagonismo delle scuole di filosofia
60 3.5 Conclusione
60 Bibliografia

62 Capitolo 4 – Storia e società in età arcaica: il contesto


Paolo A. Tuci
62 4.1 Dalle origini all’alto arcaismo
62 4.2 L’età arcaica
64 4.3 Atene in età arcaica
65 4.4 Sparta in età arcaica

67 Capitolo 5 – « Voi Greci siete sempre fanciulli »: l’infanzia della sapienza


Lorenzo Perilli
68 5.1 Mythos e logos
74 5.2 L’orfismo
78 Bibliografia

80 Capitolo 6 – I presocratici
Lorenzo Perilli
80 6.1 « Che cos’è la filosofia presocratica? »
82 6.2 Le fonti
83 6.3 I primi tentativi di descrivere il mondo: l’Oriente greco
6.3.1 Talete, p. 84 – 6.3.2 Anassimandro, p. 87 – 6.3.3 Anassimene, p. 90 – 6.3.4 Era-
clito, p. 93
96 6.4 Passaggio a Occidente
6.4.1 Senofane, p. 97 – 6.4.2 Pitagora, p. 100 – 6.4.3 Filolao, p. 105 – 6.4.4 Archita,
p. 108 – 6.4.5 Alcmeone, p. 111
112 6.5 La svolta eleatica
6.5.1 Parmenide, p. 112 – 6.5.2 Zenone, p. 120 – 6.5.3 Melisso, p. 125
129 6.6 In risposta a Parmenide: l’abbandono del monismo e la ricerca della causa del
movimento
6.6.1 Empedocle, p. 129
138 6.7 L’ultimo spostamento: Atene
6.7.1 Anassagora, p. 138 – 6.7.2 Archelao. Diogene di Apollonia, p. 146 – 6.7.3 De-
mocrito, p. 150
159 Bibliografia
165 Nuove scoperte di testi filosofici e scientifici antichi

170 Capitolo 7 – I sofisti e Socrate


Eugenio Benitez
171 7.1 Le fonti
7.1.1 I sofisti, p. 171 – 7.1.2 Socrate, p. 172
173 7.2 I sofisti
7.2.1 Chi erano i sofisti?, p. 173 – 7.2.2 Che cosa insegnavano i sofisti?, p. 175
180 7.3 I sofisti nel dibattito filosofico
7.3.1 Quali erano i metodi dei sofisti?, p. 181

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Indice VII

182 7.4 Socrate


7.4.1 Chi era Socrate?, p. 182 – 7.4.2 Socrate filosofo, p. 187
190 Bibliografia
193 Gli esponenti della sofistica

194 Capitolo 8 – Storia e società nell’età classica ed ellenistica: il contesto


Paolo A. Tuci
194 8.1 Il V secolo
196 8.2 Il IV secolo
197 8.3 L’età ellenistica
199 Platone. Profilo biografico

200 Capitolo 9 – Platone


Monique Dixsaut
200 9.1 Introduzione: Platone tra platonismo e anti-platonismo
202 9.2 Scrivere dialoghi
9.2.1 Socrate e Platone, p. 202 – 9.2.2 Una condanna della scrittura? Lettera VII, Fe-
dro, p. 203 – 9.2.3 Il dialogo, p. 205 – 9.2.4 Parlare in una lingua. Cratilo, p. 206
208 9.3 Essenze e Forme
9.3.1 L’ipotesi delle idee e la partecipazione. Fedone, Parmenide, p. 209 – 9.3.2 La
reminiscenza. Menone, Fedone, p. 212 – 9.3.3 La potenza dialettica. Fedro, Filebo,
Leggi, p. 213
215 9.4 L’Uno, l’Essere e il Non-Essere
9.4.1 L’Uno e l’Essere. Parmenide, p. 216 – 9.4.2 L’Essere e il Non-essere. Sofista,
p. 218 – 9.4.3 L’immagine. Repubblica, Sofista, p. 220
223 9.5 Sapere
9.5.1 Sapere e opinione. Repubblica, p. 223 – 9.5.2 L’impossibile sapere del sapere.
Carmide, Teeteto, p. 225
229 9.6 L’anima
9.6.1 L’anima, la città, il Mondo. Fedro, Timeo, Repubblica, p. 230 – 9.6.2. La Caver-
na. Repubblica, p. 232 – 9.6.3 L’immortalità dell’anima. Fedone, Fedro, p. 234 –
9.6.4 L’anima e il corpo. Fedone, Timeo, p. 236 – 9.6.5 Nessuno è malvagio volon-
tariamente. Protagora, Gorgia, p. 237 – 9.6.6 La virtù. Dal Carmide alle Leggi, p. 238
241 9.7 La politica
9.7.1 Due stati di natura. Politico, p. 241 – 9.7.2 Dal governo dei filosofi alla scienza
politica. Dalla Repubblica al Politico, p. 243
245 9.8 Il Mondo
9.8.1 Cosmogonia. Timeo, p. 245 – 9.8.2 Il Vivente eterno. Timeo, p. 246
248 9.9 Conclusione: il Bene
249 Bibliografia

252 Capitolo 10 – L’Accademia da Platone a Polemone


Dimitri El Murr
253 10.1 Gli enigmi dell’antica Accademia
10.1.1 L’organizzazione istituzionale, p. 254 – 10.1.2 L’Accademia come casa edi-
trice?, p. 255 – 10.1.3 La questione delle fonti, p. 256
257 10.2 Il platonismo dell’Accademia da Speusippo a Polemone
264 Bibliografia
267 Filosofi accademici (IV-I sec. a.C.), di Tiziano Dorandi

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VIII Indice

272 Capitolo 11 – Aristotele


James Lennox
272 11.1 Vita e opere
273 11.2 Distinguere i diversi tipi di conoscenza
275 11.3 La scienza della conoscenza scientifica
278 11.4 La filosofia prima: la scienza dell’essere in quanto essere
284 11.5 La filosofia seconda: la scienza della natura
288 Esempio I: la biogenesi
289 Esempio II: la respirazione
297 11.6 La filosofia pratica: la politica, la virtù e la vita buona
301 11.7 La politica: la scienza del più politico degli animali
305 11.8 La filosofia di Aristotele dopo Aristotele
306 Bibliografia

309 Capitolo 12 – La filosofia ellenistica


Keimpe Algra
309 12.1 Introduzione
312 12.2 Epicuro e l’epicureismo
12.2.1 Epicuro e la sua Scuola, p. 313 – 12.2.2 L’epistemologia epicurea, p. 314 –
12.2.3 Fisica e cosmologia in Epicuro, p. 320 – 12.2.4 Etica epicurea, p. 328
335 12.3 Lo stoicismo
12.3.1 Introduzione, p. 335 – 12.3.2 L’epistemologia stoica, p. 337 – 12.3.3 La logi-
ca stoica, p. 343 – 12.3.4 Ontologia, fisica e teologia stoiche, p. 346 – 12.3.5 L’etica
stoica, p. 357
366 12.4 Lo scetticismo ellenistico
12.4.1 Lo scetticismo accademico e Cicerone, p. 366 – 12.4.2 Sesto Empirico e lo
scetticismo neopirroniano, p. 370
374 12.5 Due movimenti socratici minori: cinici e cirenaici
12.5.1 Immagini di Socrate, p. 374 – 12.5.2 I cinici, p. 375 – 12.5.3 I cirenaici,
p. 378
380 Bibliografia

383 Capitolo 13 – Cenni sulla scienza antica


Lorenzo Perilli
383 13.1 L’età arcaica e classica
13.1.1 La medicina, p. 385 – 13.1.2 La matematica, p. 389 – 13.1.3 L’astronomia,
p. 394
397 13.2 Dall’età ellenistica all’età imperiale romana
13.2.1 Un panorama. Matematica, geometria, astronomia, p. 398
405 13.3 La medicina e il suo rapporto con la filosofia
412 Bibliografia
414 Logos e algoritmi, di Paolo Zellini

417 Capitolo 14 – La filosofia a Roma


Therese Fuhrer
417 14.1 L’importazione della filosofia greca a Roma
419 14.2 La tradizione delle scuole ellenistiche di filosofia a Roma
420 14.3 Il rilievo della filosofia per la vita concreta

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Indice IX

421 14.4 Filosofia e politica


423 14.5 I concetti filosofici latini
425 14.6 I grandi autori della filosofia romana:
425 Lucrezio, Cicerone, Seneca
14.6.1 Lucrezio, p. 425 – 14.6.2 Cicerone, p. 429 – 14.6.3 Seneca, p. 435
439 Bibliografia
442 Lucrezio: la sovversione fallita, di Luca Canali

445 Capitolo 15 – Storia e società in età tardoantica: il contesto


Umberto Roberto

450 Capitolo 16 – Platonismo, pitagorismo, aristotelismo


Dominic J. O’Meara
450 16.1 Introduzione
451 16.2 Platonismo
16.2.1 Albino e Alcinoo, p. 452 – 16.2.2 Apuleio e Attico, p. 455
456 16.3 Pitagorismo
16.3.1 Eudoro di Alessandria, Moderato di Gada, p. 457 – 16.3.2 Numenio di Apa-
mea, p. 458
460 16.4 Aristotelismo
16.4.1 Andronico di Rodi, Boeto di Sidone, Nicola di Damasco, Adrasto di Afrodi-
sia, Aspasio, p. 461 – 16.4.2 Alessandro di Afrodisia, p. 462
464 Bibliografia

466 Capitolo 17 – Filosofia e filosofi di lingua greca nei sec. III-VI d.C. Da Plotino
agli ultimi commentatori di Alessandria
Daniela P. Taormina
466 17.1 Eredità comune e progetti dissonanti
17.1.1 I luoghi della filosofia e l’organizzazione dello spazio di insegnamento, p. 466
– 17.1.2 Curricula studiorum, p. 468 – 17.1.3 Platone e Aristotele: accordo o discor-
danza?, p. 469 – 17.1.4 Filosofi, ieratici e baccanti, p. 471
473 17.2 Plotino
17.2.1 Vita e opere, p. 473 – 17.2.2 Filosofia, p. 474 – 17.2.3 L’interpretazione del
Parmenide di Platone: la teoria dei principi, p. 478 – 17.2.4 Eternità e tempo, p. 481
– 17.2.5 La materia sensibile, p. 481 – 17.2.6 Le anime particolari, p. 482 –
17.2.7 La dottrina dell’anima non discesa, p. 483 – 17.2.8 L’Intelletto: la conoscenza
di sé, p. 484 – 17.2.9 « Bisogna farsi intelletto », p. 485
486 17.3 Scorci sul dibattito filosofico post-plotiniano
17.3.1 Interpretazioni del Parmenide, p. 486 – 17.3.2 Giamblico, Proclo e Damascio
sull’Uno assolutamente ineffabile, p. 489 – 17.3.3 Da Plotino a Proclo: tutto deriva
dall’unità, p. 491 – 17.3.4 La processione dall’Uno ai molti: Limitante, Illimitato,
Enadi, p. 493 – 17.3.5 Processione - permanenza - ritorno, p. 495 – 17.3.6 Un nuovo
vocabolario dell’ontologia, p. 496 – 17.3.7 Il dibattito sull’eternità del mondo: gli ar-
gomenti ontologici, p. 497 – 17.3.8 Il cosiddetto « albero di Porfirio ». Un elemento
preliminare alla lettura delle Categorie, p. 500 – 17.3.9 Protagonisti e argomenti del
dibattito post-plotiniano sullo statuto dell’anima individuale, p. 501 – 17.3.10 La ge-
rarchia delle virtù, p. 504 – 17.3.11 Proclo contro Plotino: il male e il suo modo di
esistenza, p. 505
507 Bibliografia
510 Protagonisti principali

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X Indice

514 Capitolo 18 – Agostino d’Ippona e la nuova cultura cristiana


Marta Cristiani
514 18.1 Razionalità classica e rivelazione
515 18.2 Il romanzo di formazione
519 18.3 La mediazione della classicità nei Dialoghi
18.3.1 Contra Academicos o De Academicis; De beata vita, p. 520 – 18.3.2 Da un
itinerario di saggezza all’arte di convertire. Un nuovo progetto culturale dal De ordine
al De musica al De doctrina christiana, p. 522 – 18.3.3 Dio e l’anima. I Soliloquia, il
De immortalitate animae, il De quantitate animae, p. 529 – 18.3.4 Volontà e libertà:
Il De libero arbitrio. Il De magistro o dell’impossibilità di insegnare, p. 532
535 18.4 Dai Dialoghi alle Confessioni
18.4.1 Esegesi biblica ed esegesi paolina, p. 535 – 18.4.2 Le Confessioni, p. 537 –
18.4.3 La memoria, p. 540 – 18.4.4 Il tempo, p. 545
550 18.5 Dal Vangelo di Giovanni al De Trinitate
553 18.6 La grazia e il libero arbitrio
555 18.7 La teologia della storia della « città di Dio »
555 Bibliografia
558 Il testamento di Aristotele

561 Indice dei nomi


571 Indice selettivo dei concetti e delle nozioni principali

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La filosofia antica

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CAPITOLO 5

« Voi Greci siete sempre fanciulli »:


l’infanzia della sapienza
Lorenzo Perilli

La civiltà greca alla quale la tradizione europea fa risalire le proprie origini si fa iniziare
approssimativamente tra l’Ottocento e il Settecento a.C. I poemi omerici, e in particolare
la più antica Iliade, segnano l’avvio di un nuovo mondo. Quali frutti quella civiltà avrebbe
prodotto, si può vedere volgendosi indietro agli ultimi tremila anni, quasi, di storia dell’Oc-
cidente; dove invece quella civiltà affondasse le proprie radici, è destinato a restare in buo-
na misura oscuro. Non si può non restare attoniti di fronte al grado di perfezione espressi-
va e profondità concettuale che già le primissime prove letterarie dei Greci rivelano. Non
appena la scrittura alfabetica fu introdotta, in qualche momento nel corso dell’VIII sec., si
ebbero testi scritti di insuperato equilibrio formale e di contenuto. L’epica di « Omero » –
una figura che, non a caso, non assunse mai una precisa storicità, rappresentando piuttosto
la grecità arcaica tout court –, l’irruzione nell’epica dell’io del poeta Esiodo con la sua am-
bizione di costruire una precisa genealogia dell’intero novero degli dèi e dell’origine del-
le cose, l’individualità profonda delle vicende umane della prima poesia lirica – Archilo-
co, Saffo, Alceo, Simonide –, gli innovativi lineamenti etico-giuridici di cui è rappresen-
tativo Solone, le primissime esplorazioni cosmogoniche: tutto, ai primordi della civiltà
occidentale, appare così compiuto, da aver fatto a lungo parlare di un « miracolo greco ».
Quel miracolo, almeno per quanto riguarda la filosofia e la scienza, è andato via via ri-
definendosi, soprattutto attraverso il confronto con quanto accadeva, già da millenni, nel-
le culture circonvicine (cfr. cap. 1), che fossero quella caldaica o sumerica, iranica o feni-
cia, ittita o egizia: Talete, Anassimandro, Eraclito, « non cadono improvvisamente dal
cielo » (F.M. Cornford), ma sono immersi profondamente nell’humus collettivo, senza
che ciò nulla tolga al contributo, peculiarmente greco, capace in brevissimo tempo di por-
re le inconcusse fondamenta del mondo in cui ancora oggi viviamo, di operare quella che
è stata definita da W. Burkert una « trasformazione creativa ». Furono anzi i Greci stessi
– Erodoto, Platone, Aristotele – a interrogarsi sulla scaturigine del loro sapere, a dire il
debito della loro astronomia e matematica e di tratti del credo religioso nei confronti
dell’Egitto e di Babilonia, con riferimenti continui ed espliciti, e con un dibattito (di cui
riferiscono Diogene Laerzio nell’esordio della sua opera e Clemente Alessandrino, Stro-
mata I 15,71,3-4) che arrivava a coinvolgere le origini del pensiero filosofico: dagli uni
ritenuto patrimonio peculiarmente greco, fatto risalire dagli altri a mondi diversi.
« Voi Greci siete sempre fanciulli », rimprovera il vecchio sacerdote egiziano nel Ti-
meo di Platone (22b), rivendicando l’antichità della scienza egizia, e in Egitto Aristotele
(Metafisica I 1, 981b23) trova il primo contesto nel quale si dettero le condizioni da lui

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68 La filosofia antica

ritenute necessarie per lo sviluppo « di quelle scienze (come la matematica) che non erano
dirette né al piacere né alle necessità della vita », condizioni consistenti nel privilegio di
non doversi occupare dei bisogni quotidiani, come accadeva ai sacerdoti egizi. Così Dio-
gene riporta la discussione:

Alcuni affermano che l’attività filosofica abbia avuto inizio presso popoli stranieri. Presso i Per-
siani c’erano infatti i Magi, presso i Babilonesi e gli Assiri i Caldei, e i gimnosofisti in India, e
presso i Celti e i Galati i cosiddetti Druidi e Semnotei, come dice Aristotele nel suo Magico e
Sozione nel libro 23 della Successione dei filosofi. E dicono che Occo era fenicio, Zalmosside
tracio, e Atlante libio. Gli Egizi dicono poi che fu Efesto, figlio di Nilo, a dare inizio alla filoso-
fia, che fu soprattutto coltivata dai sacerdoti e dai profeti. [...] Ma sbagliano costoro ad attribui-
re a popoli stranieri i successi propri dei Greci, dai quali è nata non solo la filosofia, ma lo stes-
so genere umano: ad Atene è nato Museo, a Tebe Lino; ed essi dicono che Museo, figlio di Eu-
molpo, per primo compose una Genealogia degli dèi e una Sfera, e affermò che tutte le cose
hanno origine da una sola e quando si dissolvono ritornano ad essa.
(Diogene Laerzio I 1-3)

Ulteriore campo sconfinato è la dimensione magico-religiosa della grecità arcaica, so-


lo in parte adeguatamente indagato, che molto ha da dire a chi voglia penetrare nelle pro-
fondità del mondo antico, la cui limpida rappresentazione razionalizzante è una costru-
zione a posteriori che rischia di troppo semplificare una realtà ben più complessa. Se ne
dirà più oltre.
Ma che cosa accadeva in Grecia prima dei « nostri » Greci? Ebbero le culture che pre-
cedettero l’introduzione della scrittura alfabetica, quelle minoica e micenea (rispettiva-
mente a Creta e nell’Egeo fino al XII sec. a.C., e in Grecia continentale, soprattutto Pelo-
ponneso, tra il XVII e l’XI), a loro volta un ruolo nel configurare quella che ne avrebbe
preso il posto, in qualche modo condizionandone il carattere? Ha qualche significato, per
il configurarsi del pensiero greco e della speculazione sul mondo e sull’uomo, il fatto che
Atene fosse stata, in epoca più antica, un centro miceneo? Troppo poco si sa di quel pe-
riodo, dunque si tratta di domande a cui non è possibile dare risposta: ma che richiedono
purtuttavia di essere almeno poste. È assai probabile, del resto, che i contatti con l’Orien-
te, anche sul piano delle concezioni mitico-religiose, fossero già profondi in quest’epoca,
e che anche di qui si siano poi trasmessi a quello che per noi è l’arcaismo greco.


5.1 Mythos e logos

Per lungo tempo ha dominato, nel corso del Novecento, l’idea fuorviante di un passaggio
quasi improvviso dal mythos al logos, da una dimensione arcaizzante mitico-religiosa al-
la luminosità della ragione. Non fu così. Molto più articolate si sono dimostrate le ramifi-
cazioni di esperienze, concezioni, visioni, che confluirono a definire quello che chiamia-
mo il pensiero greco.
Omero ed Esiodo rappresentano l’ineludibile punto di partenza di ogni indagine in
questo senso, non foss’altro che perché sono i soli testi che possediamo, e per intero, del-
la grecità più remota. In entrambi, ma in Esiodo in particolare, è evidentissima la media-
zione della cultura ittita e assiro-babilonese: che l’epopea dell’Enûma elish, 994 versi di
epica cuneiforme della creazione, una sorta di Genesi babilonese, sia lo specchio attraver-
so il cui riflesso leggere la Teogonia di Esiodo, non è più in discussione, così come il fat-

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« Voi Greci siete sempre fanciulli »: l’infanzia della sapienza 69

to che un antecedente immediato di Esiodo sia da vedere nella teogonia ittita del padre
degli dèi Kumarbi (cfr. p. 30), che presenta una cosmo- e teogonia dai tratti violenti che
ritroviamo, inquadrata in una diversa sensibilità, sia nell’episodio esiodeo di Crono che
recide i genitali del padre Urano e che divora i propri figli, finché Zeus non avrà la meglio
su di lui, sia anche nella cosmogonia orfica del Papiro di Derveni. È la vittoria dell’ordine
sul disordine, di Zeus su Crono, di Marduk su Tiamat, di Kumarbi su Anu, « miti della
creazione » che si ripetono in culture diverse e a volte lontane, sia grazie a contatti reci-
proci, sia però anche per la naturale propensione di ogni civiltà a interpretare i medesimi
fenomeni in modi non dissimili – così spiegandosi anche i punti di contatto con popoli
lontani e senza correlazione alcuna, come quello cinese o dell’Oceania1:

Questo ditemi dall’inizio, Muse che abitate l’Olimpo,


e ditemi chi degli dèi è stato il primo.
Primissimo dunque fu Chaos, e poi
Terra dall’ampio seno, sede sicura sempre di tutti
gli immortali che abitano i passi del nevoso Olimpo,
e Tartaro oscuro nei recessi della terra spaziosa,
ed Eros, bellissimo tra gli dèi immortali,
che scioglie le ansie di tutti gli dèi e doma nel petto
di tutti i mortali l’animo e il prudente consiglio.
Dal Chaos nacquero Erebo e la nera Notte,
e dalla Notte si generarono Etere e Giorno,
che essa concepì e partorì dopo essersi unita con Erebo.
E dapprima Terra generò simile a sé
il Cielo stellato, perché tutto ricoprisse,
in modo che fosse sempre sede sicura per gli dèi beati.
E generò i grandi Monti, abitazioni piacevoli di dee,
di Ninfe, che abitano le montagne ricche di valli.
Essa partorì poi, senza amplesso d’amore, Ponto,
il mare invalicabile che nel gonfiarsi si slancia.

Al di là di tutte le cose sono le fonti e i limiti


della Terra oscura, e del Tartaro nebbioso
e del Mare infinito e del Cielo stellato;
fonti e limiti terribili, oscuri, che gli dèi odiano,
il grande Abisso. Né le cose tutte riuscirebbero mai
a toccare il fondo nel volgere di un anno,
se mai al principio fossero venute dentro le sue porte,
ma di qua e di là le trascinerebbero tempeste contro tempeste
tremende, prodigio spaventoso anche per gli dèi
immortali. Ma le terribili dimore della Notte oscura
stanno coperte di nubi profonde.
(Esiodo, Teogonia 114-132 + 736-745)

Nel secondo testo si legge il permanere di Abisso (χάσμα) come fonte e limite di tutte
le cose, come ciò che avvolge dall’esterno l’universo e ne minaccia la dissoluzione, un
apeiron primordiale che avrà la sua eredità nel pensiero successivo, in Anassimandro ma
non solo. A Esiodo venne riconosciuto per la Grecia il ruolo di sistematore, la sua descri-

1
Su questi temi la letteratura è andata crescendo, si veda il cap. 1 e la relativa bibliografia; si rinvia qui
soltanto ai fondamentali lavori di W. Burkert (lì citati), all’opera anticipatrice di Cornford, 1952, e al bel libro
di M.M. Sassi, 2009.

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70 La filosofia antica

zione delle genealogie divine è assai più attenuata di quelle orientali, ben più crude, ma
anche di quelle orfiche:

Da chi sia nato ciascuno degli dèi, oppure se siano sempre esistiti tutti e quale aspetto avessero,
non era noto fino a poco tempo fa, fino a ieri, se così si può dire. Io credo che Omero ed Esiodo
siano più vecchi di me di 400 anni e non di più: e furono proprio questi poeti a fissare per i Greci
la teogonia, ad assegnare i nomi agli dèi, a distribuire prerogative e attività, a dare chiare indica-
zioni sul loro aspetto; i poeti che hanno fama di essere vissuti prima di loro io li credo invece po-
steriori. Di quanto qui sopra esposto, [...] ciò che si riferisce a Omero e a Esiodo è opinione mia.
(Erodoto, Storie II 53)

Principium sapientiae è dunque in Grecia un intrico di concezioni che affiorano, si me-


scolano e nuovamente si smarriscono. Ma se Omero fa di Oceano e Teti i progenitori di tut-
ti gli dèi (Il. XIV 201 e 302), come ricordano sia Platone che Aristotele, se Esiodo e l’orfi-
smo disegnano una cosmogonia e una genealogia divina sulle tracce delle culture vicine,
non mancano però fin dal principio quei tratti che a noi paiono il contributo peculiarmente
greco alla civiltà occidentale. Un passo originale e decisivo compiuto dagli ionici, da Ta-
lete e Anassimandro in poi, consiste nel fare a meno degli dèi e del divino nella propria in-
terpretazione del mondo, rintracciando nella materia il principio autosufficiente alla base
di ogni generazione e trasformazione. Materia e movimento ad essa intrinseco come costi-
tuenti fondamentali dell’universo, in una visione dall’indubbia suggestione prescientifica.
Ma altro e decisivo tassello è già in Omero, e nell’Omero più antico, nel primo libro
dell’Iliade (vv. 343s.), dove è possibile rintracciare quella che è stata definita « la nascita
dell’intelletto, in Grecia » (B. Marzullo). I Greci si preparano alla battaglia, Achille è sta-
to privato da Agamennone della schiava Briseide, la preferita. A punire l’affronto, decide
dunque di rinunciare alla battaglia e ritirarsi nella propria tenda – lui, il più valoroso dei
Greci. Non senza però aver pubblicamente rinfacciato ad Agamennone la sua incapacità,
che non è muscolare ma intellettuale: egli « non sa intuire (οὐκ οἴδε νοῆσαι) insieme il
prima e il poi, in che modo gli Achei potranno tornare salvi alle navi ». La sua debolezza
è di natura puramente razionale, egli manca di congiungere il passato al presente, di estra-
polarne il prevedibile futuro, e non è in grado dunque di escogitare quella che sarà una
condotta salvifica per sé e per i suoi. Il modulo omerico, la centralità della connessione
logica tra passato presente e futuro e di una corretta lettura delle « tracce », che si fanno
segni e sintomi, sarà centrale per il pensiero greco, tornerà non soltanto poco più tardi
nell’Odissea, ma di seguito in Alcmeone, Senofane, Anassagora, Erodoto, Tucidide, e so-
prattutto nella scienza medica di Ippocrate, per la quale la semeiotica sarà meccanismo
diagnostico e prognostico decisivo. Una capacità rivendicata all’omerico Achille, al filo-
sofo, all’uomo di scienza: in opposizione all’arte degli indovini, quella divinazione che
solo in apparenza si basa sulla interpretazione di segni, ed è in realtà ispirata dal dio. La
laicizzazione di una competenza siffatta segna per i Greci un passaggio essenziale in di-
rezione di una fiducia nella capacità conoscitiva e razionale peculiarmente umana. E in-
fatti Agamennone, ormai nel libro XIX dell’Iliade, ancora ricorda e si pente dell’improv-
vido atto ma, incapace com’è di comprendere, ne attribuisce al dio la responsabilità:

non io sono colpevole,


bensì Zeus e il Fato e l’Erinni abitatrice dell’aria,
che nell’assemblea mi indussero nell’anima un selvaggio accecamento,
quel giorno che io tolsi ad Achille il suo dono.
Ma che avrei potuto fare? Il dio compie tutto fino in fondo.
(Omero, Iliade XIX 86-90)

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« Voi Greci siete sempre fanciulli »: l’infanzia della sapienza 71

In ciò è anche, ben prima dunque di Socrate e della sofistica, il tema dell’uomo e della
sua responsabilità, che tanta parte giocherà nella tragedia a partire da Eschilo, e che l’e-
sordio dell’Odissea si incarica di riportare ai primordi della grecità per bocca di Zeus, pa-
dre degli dèi:

Ahimè, di qual cosa i mortali fanno responsabili noi dèi!


Da noi, infatti, dicono venire i mali, mentre essi stessi
si procurano dolori da sé, contro il fato, con la loro tracotanza!
(Omero, Odissea I 32-34)

E così Prometeo, responsabile del furto del fuoco, viene in Esiodo assunto a paradig-
ma della diretta responsabilità dell’uomo, per cui « è artefice del proprio male l’uomo che
è artefice del male altrui » (Opere e giorni 265); ma agli uomini Zeus non solo assegna la
responsabilità, ma « ha fatto dono anche della Giustizia, che è di gran lunga il dono mi-
gliore » (ibid. 278s.), mentre gli animali, a cui essa manca, si divorano tra loro. E tuttavia
il destino dell’uomo è ineluttabile e inconoscibile, poiché « l’intento degli dèi immortali
è del tutto nascosto agli uomini » (Solone fr. 17, VII-VI sec. a.C.), e

Uomo tu sei: e dunque non dire quel che accadrà domani; e se un


uomo tu vedi felice, non dire per quanto tempo lo sarà: ché
neanche il volo di una mosca alata è rapido come il destino.

Tenue è la forza degli uomini, vani gli affanni: nella breve


vita fatica segue a fatica, e inevitabile su tutti sovrasta la
morte: buoni e cattivi ugualmente l’ebbero in sorte.

Non vi è male che un uomo non debba attendersi:


in breve tempo il dio tutto sovverte.
(Simonide di Ceo, frr. 521, 520, 527 Page, VII sec. a.C.; trad. G. Pascoli)

O fanciullo, Zeus tonante ha in mano il fine


di tutte le cose e ne dispone come vuole,
e gli uomini non ne hanno intendimento; creature effimere,
vivono come bestie al pascolo, del tutto ignari
di come il dio compirà ogni cosa.
Tutti vivono di speranza e illusione soltanto
(Semonide di Amorgo, fr. 1,1-6),

fino al radicale pessimismo della famosa massima di Teognide (fine VI sec.):

Di tutte le cose la migliore per i mortali è non nascere


e non vedere mai i raggi del vivo sole;
ma una volta nati, varcare al più presto le soglie dell’Ade
e giacere coperti di molta terra.
(Teognide, 424-427)

Una convinzione, quest’ultima, nata da una tradizione antica, fatta risalire alla risposta
data dal mitico Sileno a Re Mida che lo interrogava su chi fosse l’uomo più felice; una
storia che Nietzsche, ne La nascita della tragedia dallo spirito della musica (3, 29-30) ri-
porterà così:

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72 La filosofia antica

Narra l’antica leggenda che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di
Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse
la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, co-
stretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile ed effimera, fi-
glio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sen-
tire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente.
Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto’.

Un pessimismo esistenziale spesso condiviso in Grecia, fatto proprio dal pensiero or-
fico quando dirà il corpo prigione dell’anima a scopo di espiazione, influenzando il So-
crate del Fedone platonico (cfr. p. 236).

***
La riflessione moraleggiante e antropologica si affianca ai primi tentativi di compren-
dere il mondo esterno, che, in Grecia e altrove, avevano in comune l’idea di una genera-
zione e di una crescita spesso concepite per analogia con la riproduzione dell’uomo, in
cui una divinità genitrice, talora una coppia di divinità, dava origine alla differenziazione
delle cose da un indistinto originario. Ancora e già in Omero ricorre, con Oceano padre,
una concezione dell’acqua generatrice, priva di qualsivoglia fondamento empirico: Ocea-
no dalle profonde correnti, il fiume che scorre circolarmente intorno al bordo della terra,
è origine di « tutti i fiumi, tutto il mare, / tutte le sorgenti e i pozzi profondi » (Omero, Ilia-
de XXI 196s.). Oceano è ἀψόρoος, « scorre all’indietro », perché sempre torna a se stesso
muovendosi circolarmente, un processo ininterrotto la cui immagine è quella del cerchio,
privo di inizio e fine perché sempre inizio e fine in esso coincidono, profondamente radi-
cata nella mentalità antica: Eraclito le avrebbe dato un ruolo importante nella sua conce-
zione, in cui le nozioni di circolarità e di ciclo sono centrali, Alcmeone l’avrebbe utilizza-
ta per spiegare la caducità della vita dell’uomo, che muore perché « non sa congiungere la
fine col principio » (fr. 2 = Ps.-Aristot., Probl. 916a33). L’idea di Oceano come un fiume
generatore rispecchia verosimilmente l’influenza di concezioni nate nelle cosiddette ci-
viltà dei fiumi, Egitto e Mesopotamia, ma ebbe in Grecia ulteriore radicamento nell’orfi-
smo, come attesta Platone (Cratilo 402b), il quale avrebbe spesso fatto riferimento a con-
cezioni siffatte. Il verso di Omero, « Oceano generatore degli dèi e la madre Teti », è an-
cora citato nel Teeteto (152e), dove è aggiunta anche la significativa interpretazione che i
Greci davano di esso: cioè che « tutte le cose sono figlie del flusso e del movimento », fa-
cendo risalire dunque alle origini della civiltà greca una concezione, quella del movimen-
to/mutamento (κίνησις), che avrebbe caratterizzato l’intera evoluzione del pensiero filo-
sofico antico (cfr. pp. 120, 128).
In Omero ricorre anche la personificazione della Notte, confermando l’arcaicità di
questa concezione: si tratta di un unico passo, in cui la Notte è addirittura dichiarata « do-
minatrice degli dèi » (Νὺξ δμήτειρα θεῶν, Iliade XIV 259), indicando, certo, che la Notte,
madre del Sonno (a parlare, nel passo omerico, è proprio quest’ultimo, Hypnos), ha la
meglio anche sugli dèi che come gli uomini devono riposare; ma il fatto che il passaggio
sia isolato e privo di paralleli sia in Omero sia in Esiodo, e trovi riscontro invece nell’or-
fismo, conferma che si tratta di una peculiare concezione non priva di interesse cosmo- e
teogonico. Sarà Aristotele a dire ancora del ruolo della Notte e di una teologia alternativa
rispetto a quelle correnti, ricordando l’esistenza di theologoi che « fanno nascere le cose
dalla Notte », e parlando però anche di « quei poeti antichi che dicono che a regnare e do-
minare non sono le entità prime, come Notte, Urano, Chaos, Oceano, bensì Zeus » (Meta-
fisica XII 6, 1071b27 e 1072a8). È stato visto qui un riferimento all’orfismo, per il quale

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« Voi Greci siete sempre fanciulli »: l’infanzia della sapienza 73

« Zeus è il principio, Zeus il mezzo, di Zeus il tutto è composto, Zeus è radice della terra
e del cielo stellato », e « Zeus è l’etere, Zeus la terra, Zeus il cielo, Zeus è il tutto e quanto
c’è al di la di esso » (Orfici, fr. 21 e 21a Kern = Schol. in Plat. Leg. IV 715e, p. 451 Bekk.,
e Ps.-Aristot. De mundo 7, 401a25; cfr. Clem. Alex., Stromata V p. 718).
Ma nell’orfismo oltre a Zeus anche la Notte ancora conservava un ruolo centrale (cfr.
p. 75), e dunque si dovranno qui richiamare anche quelle teologie che colmano l’apparen-
te vuoto che intercorre tra Esiodo e la filosofia del V secolo, di cui non molto sappiamo, e
che sono ricondotte a nomi come quelli di Museo e Epimenide, e di altri personaggi semi-
leggendari ma di grande interesse per chi voglia intendere il percorso del pensiero greco,
connessi con la dimensione dello sciamanesimo, della magia o della religione, a volte ac-
costati (ad esempio da Erodoto) al pitagorismo, come Abari e Aristea di Proconneso (sui
quali cfr. p. 7): quell’« irrazionale » greco, cioè, che ancora troppo spesso si è tentati di
ignorare. Di Ferecide di Siro e Acusilao si tramandano a loro volta, in modo più o meno
frammentario, ipotesi cosmologiche e cosmogoniche che si intrecciano con quella di Epi-
menide:

In alcuni autori si dice che tutte le cose vengono dalla Notte e dal Tartaro, in altri da Ade e
dall’Etere. Colui che scrisse la Titanomachia dice dall’Etere, Acusilao vuole che dal Chaos pri-
mordiale derivassero le altre cose; nei canti attribuiti a Museo è scritto che in principio erano il
Tartaro e la Notte....
(Filodemo, De pietate 137,5, p. 61 Gomperz)

[Epimenide] pose due principi primi, Aria e Notte [...]. Da essi fu generato il Tartaro, credo ter-
zo principio, come un qualcosa risultante da una mescolanza di entrambi; da loro i due Titani
[...]; mescolandosi poi l’uno con l’altro, venne alla luce l’Uovo [...] da cui procedette ancora
un’altra generazione.
(Eudemo, Storia delle teologia (?) fr. 150 W. = Epim. fr. 5 = Damascio, De princ. III p. 164,9-16)

[Acusilao] pone il Chaos come primo principio, del tutto inconoscibile [...]. Erebo il maschio,
Notte la femmina [...] e dice che dal loro mescolarsi furono generati Etere ed Eros e Metis.
(Acusilao fr.1 DK = Damascio, De princ. III p. 163,19-164,3)

Ferecide di Siro ebbe, tra questi personaggi, un ruolo di maggiore evidenza, e si gua-
dagnò il riconoscimento di Aristotele, che gli assegna una posizione diversa rispetto agli
antichi mitografi classificandolo come un rappresentante di quelle che egli chiama « teo-
logie miste », insieme con i Magi:

i teologi misti, che non dicono tutto in forma di mito, come Ferecide e alcuni altri, i quali pon-
gono il generatore primo come il meglio, e anche i Magi.
(Aristotele, Metafisica XIV 4, 1091b8 = Ferecide A 7 DK)

Spicca in questa testimonianza la presenza in Ferecide della nozione del « meglio », il


bene supremo della tradizione platonico-aristotelica, che viene però posto al principio, e
non alla fine del percorso dell’ordinamento cosmico. Un dato trasmesso dalla tradizione
fa di Ferecide l’iniziatore di una tradizione decisiva per il pensiero greco: egli viene detto
infatti maestro di Pitagora, che lo avrebbe assistito fino alla morte e poi sepolto (Diog.
Laert I 118 = A 1 DK). Vissuto nel VI sec. a.C., il suo libro I sette recessi (Heptamychos:
questo il titolo più probabile, tramandato dal lessico bizantino Suda) si leggeva ancora,
direttamente o indirettamente, all’epoca di Diogene Laerzio, nel III sec. d.C. A Ferecide
si attribuivano predizioni e miracoli, gli stessi che poi sarebbero stati connessi con la fi-

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74 La filosofia antica

gura di Pitagora, e del suo sapere si dice (ancora nella voce della Suda) risalisse ai libri
segreti dei Fenici, con ciò sottolineando – vera o meno che fosse la notizia – un nesso del
resto evidente con il sapere di provenienza non greca. La principale testimonianza della
singolare cosmogonia di Ferecide risale alla Storia della teologia dell’allievo di Aristote-
le Eudemo, come ci è tramandata da Damascio:

Ferecide di Siro dice che sempre esistettero Zas e Chronos e Chthonia, i tre principi primi [...],
e che Chronos fece dal suo proprio seme il fuoco e il soffio (pneuma: l’aria?) e l’acqua [...] dai
quali poi, distribuiti in cinque recessi, l’altra numerosa stirpe degli dèi è scaturita, chiamata ‘dei
cinque recessi’, che è forse come dire ‘dei cinque mondi’.
(Damascio, De princ. III p. 164,17-165,2 = Ferecide A 8 DK)

La chiosa finale di Damascio, « come dire ‘dei cinque mondi’ » evidenzia la difficoltà
che già gli antichi percepivano nell’immagine dei recessi di Ferecide, che resta inspiega-
ta. Straordinaria per l’età in cui ci troviamo, il VI secolo, e tuttavia condivisa dagli orfici,
è del resto la deliberata manipolazione della lingua: dai nomi delle divinità tradizionali
Ferecide crea le sue originarie figure generatrici. Zas per Zeus, forse per accentuarne la
forza grazie ad uso inconsueto del prefisso intensivo za- del greco; Chthonia da chthon, la
terra, interpretabile come la superficie terrestre e poi personificata come divinità in Eschi-
lo, della quale la corrispondente Ge del pantheon tradizionale greco prenderà il posto in
una fase successiva della cosmogonia di Ferecide, « dopo che Zas le diede in dono la ter-
ra », sposandola (fr. 1 = Diog. Laert. I 119); e il gioco Chronos / Kronos, cioè Tempo
(Chronos) / Crono (il padre di Zeus), particolarmente significativo poiché pensare al
Tempo come principio astratto in questa fase del pensiero greco appare assai inconsueto
se non improbabile, al punto che Wilamowitz lo disse impossibile e propose di corregge-
re il testo con il semplice Kronos, ipotesi però non accettata e normalizzazione troppo ra-
zionalistica. Anche Okeanos, del resto, in Ferecide diventa Ogenos (fr. 2 = Grenfell-
Hunt, Greek Papyri II 11, p. 23). Nella sua cosmogonia non sarebbe mancato anche l’e-
lemento, tipicamente orfico, dell’uovo.
Ferecide è figura tutt’altro che marginale, i suoi giochi di parole trovano eco in Eschi-
lo come in Eraclito. Egli sembra tentare una reinterpretazione delle tradizionali visioni
teogoniche, che Aristotele vuole razionaleggiante ma che presenta profonde analogie con
la linea dei miti della creazione delle vicine culture orientali. Alcune sue interpretazioni
si discostano da quelle correnti, comprese quelle esiodee con le quali pure è in debito per
il quadro complessivo, e temi per lui centrali e forse da lui introdotti saranno destinati ad
imporsi, come accade con il presupposto per cui i tre dèi originari esistettero sempre,
un’eternità che scavalca il problema della creazione ex nihilo, estranea al pensiero greco.


5.2 L’orfismo

Quando Platone, nel Fedone o nella Repubblica, descrive il destino dell’anima e della
reincarnazione, legandolo al tema della memoria, della reminiscenza e dell’oblio, e de-
scrive il viaggio dell’anima dopo la morte, sta riportando in auge dottrine che risalgono
alle profondità del patrimonio culturale della grecità, in particolare alla dimensione magi-
co-religiosa dei misteri orfico-dionisiaci che ne rivela tratti spesso sottovalutati in favore
di una specchiata razionalità, che pure rappresenta l’altro lato di una stessa medaglia. Or-
fica è la nozione di un’anima immortale, condannata a reincarnarsi e a passare incessan-

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« Voi Greci siete sempre fanciulli »: l’infanzia della sapienza 75

temente da un corpo all’altro, che per essa rappresenta quella prigione da cui il filosofo,
come il Socrate del Fedone, ambisce a liberarsi, mentre la morte si fa momento di passag-
gio così desiderabile da costringere Socrate, che è giunto a definire la filosofia una « pra-
tica di morte », ad argomentare contro il suicidio, perché questo non appaia per il filosofo
una soluzione legittimamente percorribile.
L’orfismo non è però definibile come una « filosofia », sia pure prefilosofica: semmai
un culto religioso misterico, di inquietante e fascinosa dimensione tra mitico-sapienziale
e religiosa, trasposizione profondamente greca di spunti di provenienza orientale che, af-
fiancata al pitagorismo, avrebbe emanato un fascino oscuro. Non meglio definibile, affi-
data alle nebbie della leggenda è la figura del fondatore Orfeo, che si vuole musico della
Tracia, la cui fortuna fu straordinaria nella letteratura e nell’arte d’ogni tempo, spesso in
associazione con l’amata Euridice, che seguì negli inferi nel tentativo di riportarla in vita.
Dotato di specifici rituali (i « misteri orfici ») e di regole per una precisa pratica di vita, in
vista del « viaggio oltremondano » riservato agli iniziati, l’orfismo proponeva però anche
una propria originale cosmogonia che già nel V sec. a.C. aveva sentore di arcaico e di
esoterico, se il poeta comico Aristofane la recupera in una delle sue commedie più riusci-
te, gli Uccelli (siamo nel 414), e la trasforma nella cosmogonia degli uccelli suoi protago-
nisti, prendendo spunto dall’immagine orfica dell’uovo e delle ali. Nell’edizione standard
dei frammenti orfici curata da Otto Kern nel 1922, il testo di Aristofane apre la raccolta:

In principio era il Chaos e la Notte e l’Èrebo nero e il vasto Tartaro:


non c’era né Terra né Aria né Cielo. Nei recessi infiniti dell’Èrebo
per prima cosa la Notte dalle nere ali partorisce un Uovo, senza fecondarlo,
da cui spunta col volgere del tempo Eros, il dio desiderato,
splendente la schiena di auree ali, simile ai turbini del vento.
Unendosi questi nel vasto Tartaro con il tenebroso alato Chaos,
procreò la nostra stirpe, e fu la prima che mise alla luce.
Prima, quella degli immortali non esisteva, finché Eros non unì ogni cosa.
Quando le unì le une alle altre, nacquero Cielo e Oceano
e Terra e la stirpe imperitura degli dèi beati.
(Aristofane, Uccelli 693ss.)

Il culto orfico si distingue però dagli altri, come quello dionisiaco, per la presenza in
esso di una marcata dimensione speculativa e per una propensione all’uso di testi scritti
tale che Platone ancora nella Repubblica (364e3) farà riferimento alla « massa di libri »
attribuiti a Museo e Orfeo che « girovaghi e indovini (...) usano nei loro rituali, per con-
vincere (...) che esistono sia per chi è ancora in vita sia per chi è morto assoluzioni e pu-
rificazioni dalle colpe per mezzo di sacrifici e piacevoli divertimenti, ai quali danno il no-
me di iniziazioni capaci di liberarci dai mali di laggiù, mentre pene terribili attendono chi
non compie tali sacrifici ». Qui gli interlocutori di Socrate polemizzano con un uso
dell’orfismo che evidentemente poteva assumere i tratti manipolatorî della cialtroneria,
confermandone però il potente impatto sociale e culturale. Orfiche sono alcune delle ra-
rissime testimonianze scritte del mondo antico, e arcaico in particolare, a noi giunte nella
loro materialità e non solo attraverso manoscritti medioevali o posteriori citazioni: le la-
minette d’oro rinvenute in Magna Grecia e a Creta, i frammenti di osso venuti alla luce a
Ostia, il Papiro di Derveni.
L’anima e il suo destino, una ricerca di salvezza individuale e di consolazione: temi
che scompariranno dal panorama della riflessione filosofica successiva per riaffiorare in
Platone e soprattutto nelle filosofie ellenistiche con la loro ricerca di rassicurazione per-
sonale; che grazie al persistere nelle pratiche religiose percorreranno però – sottotraccia,

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76 La filosofia antica

per chi guardi ai soli testi filosofici conservati; in piena luce, invece, per chi osservi la di-
mensione più globale della vita degli antichi, ad esempio attraverso la lente della tragedia
di Euripide – l’intero mondo antico. I contatti, chiarissimi, tra orfismo e pitagorismo ne
accresceranno il peso. Platone e Aristotele trovarono nell’orfismo anche una teogonia che
prevedeva la ricostruzione delle sei serie di generazioni divine, precedute dagli esseri in-
generati Chaos, Notte, Erebo, Tartaro: Notte è principio originario che dà inizio alle ge-
nerazioni, mettendo alla luce l’Uovo, dalla cui fecondazione nasce Eros, che unendosi a
Chaos dà a sua volta inizio alla fecondazione sessuata.
Decisivo in queste coordinate è il tema della metempsicosi: a Pitagora stesso si attri-
buivano diverse reincarnazioni, grazie alle quali egli avrebbe conquistato la sua sconfina-
ta sapienza, e la possibilità del distacco dell’anima dal corpo nel corso dei riti estatici era
data per acquisita. Il viaggio dell’anima nell’aldilà, che Platone avrebbe poi riproposto, è
documentato da numerose testimonianze, tra le quali spiccano le laminette auree che, fis-
sate al collo dei defunti, fornivano loro le indicazioni necessarie per il viaggio oltremon-
dano. Tra le laminette spicca per completezza quella di Hipponion in Calabria, risalente
all’incirca al 400 a.C., che insieme con una serie di altre pressoché identiche nel testo
(quelle di Entella, Petelia e Farsalo, tutte del IV sec. a.C.) descrive l’arrivo nel mondo
sotterraneo. Centrale è il tema della Memoria (Mnemosyne):

Di Mnemosyne questa è l’opera. Quando egli è sul punto di morire


verso la dimora ben costruita di Ade, sulla destra è una fonte,
e accanto, eretto, un cipresso bianco.
Lì le anime dei morti discendono e si rinfrescano.
A queste fonti non avvicinarti neppure:
più oltre troverai l’acqua fredda che scorre
dal lago di Mnemosyne. Davanti sono i custodi,
i quali ti chiederanno, con mente sagace,
perché esplori le tenebre di Ade oscuro.
Rispondi: sono figlio della Terra e del Cielo stellato,
sono assetato e muoio; datemi da bere, presto,
la fredda acqua del lago di Mnemosyne.
Ed essi chiederanno alla regina di sotterra,
e ti daranno da bere dal lago di Mnemosyne
e tu dopo aver bevuto percorrerai la via sacra lungo la quale
anche gli altri iniziati e bacchoi gloriosi procedono.
(Lamina orfica di Hipponion 1 = fr. 474 Bernabé)

Nella varie tavolette i testi si ripetono spesso identici o simili, come è da attendersi da
testi rituali. Spicca qui la presenza di Memoria, personificata, la cui fonte si contrappone
all’altra, quella di Oblio, che si ritroverà nella Repubblica di Platone (621a2-b1) sotto
forma di pianura di Lete, Oblio, nella quale scorre il fiume Amelete, Noncuranza, dove si
dissetano le anime a cui è assegnato di tornare sulla terra per reincarcarsi. Non si dimen-
tichi, che ameles richiama melete, l’esercizio, la pratica, che è anche pratica iniziatica e
che nel Fedone definisce la filosofia, detta melete thanatou, pratica di morte. Né si può
fare a meno di pensare che la lunga, appassionata descrizione platonica del ‘paradiso’ e
dell’‘inferno’ come destinazione delle anime nell’ultima parte del Fedone sia direttamen-
te connessa con questo tipo di tradizione. Ma lacci strettissimi legano testi come questo di
Hipponion anche al Proemio di Parmenide, e la menzione della via presente nella conclu-
sione della lamina dà nuova luce alla medesima immagine quale troviamo in Parmenide,
e trasforma forse quella che spesso è stata ritenuta una metafora letteraria in un più con-
creto viaggio estatico (su questo cfr. pp. 113ss.). Lo studio più approfondito di questo ge-

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nere di testi porterebbe lontano: non va dimenticata l’intima correlazione che li lega al
mondo in cui nasce quella che siamo soliti chiamare la prima filosofia greca, che non si
nutre di splendido isolamento ma è ben radicata nel mondo che la circonda.

Il Papiro di Derveni, straordinario rinvenimento avvenuto in Grecia nel 1962 (l’unico, per
un papiro: cfr. p. 165), ospita un commento a testi orfici scritto alla fine del IV sec. a.C.
ma risalente, nel contenuto, alla fine del secolo precedente. Esso conferma l’arcaicità di
quelle dottrine attribuite a « Orfeo » che i testimoni più tardi, tutt’altro che disinteressati
come ad esempio i neoplatonici (tra cui spiccano Proclo e Damascio), avevano arricchito
di stratificazioni posteriori, creando problemi spesso insolubili agli studiosi che volessero
risalire al nucleo dottrinale originario. Inoltre il Papiro assegna una notevolissima valenza
speculativa al pensiero orfico e lo inserisce a pieno titolo nel dibattito del tempo, confron-
tandolo in particolare con le teorie di Anassagora, Archelao, Diogene di Apollonia, ma
anche Empedocle. Non sorprenderebbe se proprio nell’ambito dell’anassagorismo quel
commento fosse nato, giacché si osserva una chiara propensione a « razionalizzare » le
dottrine commentate. Argomento del papiro è la teogonia e cosmogonia orfica, della qua-
le sono citati nel corso del testo trenta versi. Nel commento emergono le principali dottri-
ne dell’epoca: l’intelletto (Nous), la sua identificazione con l’Aria e con Zeus, il suo pos-
sesso della capacità razionale (phronesis), che gli permette di avere il predominio sulle
entità subordinate; inoltre le « anime innumerevoli » e i magoi che offrono sacrifici; i dai-
mones, « spiriti guardiani » assegnati a ciascuna anima. Ricorrono poi le entità fondamen-
tali dell’universo, acqua, forse terra (se la integrazione congetturale del testo a xviii 1 è
corretta), e il lampròn, il luminoso, probabilmente riferito al fuoco, e lo psychròn, il fred-
do: tutti caratteri attestati con regolarità nel pensiero presocratico, soprattutto anassago-
reo. La nozione della collisione delle particelle che compongono la mescolanza origina-
ria, e quella dell’attrazione del simile (cfr. xv 8, xxi 1), sono a loro volta tratti diffusi nel
pensiero del V sec. Centrale nel papiro sembra essere anche il tema dell’anima immortale
dell’uomo, cui il corpo mortale fa da prigione, e per la cui salvezza si richiede la rigida
osservanza di rituali di purificazione e di consacrazione, in un rapporto con il divino di ti-
po personale e dal marcato carattere mistico e iniziatico. La religione che noi diciamo tra-
dizionale era lontana.
Ad essere discussa in dettaglio nel papiro è soprattutto la concezione cosmologica or-
fica, nella quale ricorre il concetto di generazione ex nihilo, che viene negata, mentre tut-
to ciò che è nasce da qualcosa di preesistente, espresso metaforicamente mediante l’im-
magine di Zeus che, ingoiandolo, assorbe in sé l’intero universo. L’operazione che Ari-
stotele compie all’inizio nella Metafisica, di tracciare una linea netta di demarcazione tra
sophia e philosophia, ereditata poi dalla storiografia posteriore, si rivela con questo com-
mento all’orfismo estranea al pensiero greco precedente, che tendeva piuttosto a confron-
tarsi direttamente anche con concezioni in apparenza lontane come quelle dei culti miste-
rici.
I versi orfici citati e commentati nel testo di Derveni presentano una tipica teo- e co-
smogonia dell’epoca, con tratti originali come quello del ruolo della Notte:

(coll. xiv) Crono nato dal sole alla terra fece (ad Urano) una grande impresa
(coll. xiv) Urano (il Cielo) figlio della Notte, che per primo regnò
(coll. xv) dopo di lui Crono, e poi il saggio Zeus
(coll. x-xi) la Notte fece profezie dal profondo del suo santuario ... e fece profezie su tutto ciò
che era giusto per lui ascoltare
(e il commento razionalizzante al verso citato:) ‘dice che ella pronuncia il suo oracolo dal pro-

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fondo del suo santuario, e intende dire che la profondità della notte non tramonta mai; per-
ché essa non tramonta come fa la luce, ma il sole la sopraffà mentre rimane ferma’.
(coll. xiii) Zeus, che aveva udito gli oracoli del padre
(e il commento:) ‘Perché questa volta né egli aveva udito – è stato però chiarito in che senso
udiva – né la Notte comanda. Ma lo chiarisce dicendo’:
(coll. xiii) ingoiò il fallo di <colui> che per primo balzò dall’etere
(e il commento:) ‘Poiché nell’intero poema egli parla delle cose in modo enigmatico, bisogna
parlare di ogni parola una per volta. Vedendo che la gente considera la generazione come
dipendente dai genitali, e che senza i genitali non c’è divenire, egli fece uso di questa paro-
la, paragonando il sole a un fallo. Perché senza il sole le cose che sono non potrebbero es-
sere diventate tali’.
(coll. xvi) Il fallo del re nato per primo, dal quale nacquero tutti gli immortali, gli dèi beati e le
dee e i fiumi e le belle sorgenti e ogni altra cosa che era stata generata; ed egli rimase solo
(e il commento:) ‘In questi versi egli indica che gli esseri esistettero sempre, e gli esseri che ora
sono vengono da cose esistenti. E per quanto riguarda ed egli rimase solo, dicendo questo
egli chiarisce che il nous stesso, stando da solo, è degno di ogni cosa, come se le altre non
fossero niente. Perché non sarebbe possibile per le cose che esistono essere tali senza il
nous. E nel verso che segue egli disse che il nous è degno di ogni cosa’:
(coll. xvi) ora egli è re di tutto e sempre lo sarà
(coll. xvii) Zeus il capo, Zeus il mezzo, e da Zeus tutte le cose hanno il loro essere (cfr. p. 73)
(coll. xxiii) Egli comprese la grande forza di Oceano dalle ampie correnti
(coll. xxiv) (la luna) che risplende per molti mortali sulla terra senza confini
(coll. xxvi) desiderando unirsi con sua madre.
(Versi orfici dal Papiro di Derveni)

Se ne ricava una cosmogonia che per molti aspetti richiama quella di Esiodo, dalla qua-
le si distingue però in diversi dettagli, tra cui il fatto che il primo re del pantheon, Urano,
il Cielo, è figlio della Notte, che dunque si va a sostituire al Chaos esiodeo. Crono, il tem-
po, conquista il potere (nella « grande impresa » del primo dei versi citati si vedrà la ca-
strazione di Urano), poi Zeus subentra, e ingoia un fallo (in Esiodo, è Crono a ingoiare
Zeus e gli altri figli), quello reciso a Urano da Crono, in tal modo generando tutto ciò che
esiste. Egli si unisce infine in un rapporto incestuoso con la madre Rea. Manca nel testo di
Derveni in particolare la menzione di Phanes, il dio alato primigenio nato dall’Uovo-mon-
do, dio della creazione tipico dei frammenti delle cosiddette Rapsodie orfiche: Phanes si
sostituisce in epoca successiva proprio al fallo, principio della generazione, che deriva
con ogni evidenza dai racconti orientali della creazione e in particolare forse da quello it-
tita-urrita di Kumarbi, il quale recide il fallo del dio del cielo Anu, lo ingoia, vede nascere
in sé il dio del tempo (che per i Greci corrisponde a Zeus), e lo partorisce tra i dolori.

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