di Rosanna Biscardi architetto Manager di Area Vasta specializzata in Restauro
Sull'origine e sulla prepotente bellezza della fortezza di Sant'Agata de Goti
molto è stato detto e scritto; l'antica Saticola di Tito Livio, identificata oramai ufficialmente in questo territorio attraverso i ritrovamenti delle necropoli sulle pendici del Taburno a nord est del borgo altomedievale, pesa da tempo nella Storia, grazie al ruolo assunto in epoca romana di postazione militare e amministrativa ─ secolare ancorché clericale ─ indispensabile a vigilare i traffici che si svolgevano tra la Regio Samnium e la Regio Latium-Campania, giacché posta esattamente al confine tra le due terre. È qui che, secondo Francesco Viparelli, nel 42 a.C. Ottaviano Augusto piombò sulla civitas felicemente dedita alla coltivazione delle antiche centurie sparse nella valle del Volturno, scaturite dalla colonizzazione romana dopo la conquista della città sannita a partire dal 305 a.C.; la popolazione era immersa nel buon vivere grazie al favore delle condizioni naturali e ad una innata propensione per l'indipendenza e la vita comoda, che la rendeva affine ai Capuani più che ai Romani, al punto da rifiutarsi di aiutare questi ultimi nella Guerra Sociale. La punizione di Ottaviano Augusto giunto in questa splendida terra, consistette nell'esproprio, secondo le leggi di Gaio Mario varate nel 107 a.C., delle terre possedute dai ribelli a favore dei soldati veterani; essi a conclusione della loro carriera militare avevano diritto a diventare proprietari terrieri come compenso per il servizio prestato. La storia del Castrum di Sant'Agata comincia da questo momento e si articolerà seguendo una precisa ma complessa evoluzione urbana e architettonica fino a diventare vera e propria fortezza, agognata dai Drengot e dagli Artus, dai De la Rath e dai Cosso, fino a giungere ai Carafa di Colubrano. Con i Romani del basso Impero una seconda città si svilupperà sotto terra, di pari passo alla prima, di cui oggi restano tracce ancora nascoste ma ben note agli abitanti del borgo; essi accedono, dai cortili delle loro case, dalle stanze dei locali terranei, dalle botteghe o dagli androni degli antichi palazzi nobiliari, attraverso scale ripide e sinuose scavate nel tufo, ad una rete di cavità contigue, rischiarate da piccolissime prese di luce naturale e legate tra loro da cunicoli bui, sfocianti sui versanti est ed ovest del borgo, alla quota che un tempo rappresentava il livello dei due fiumi Riello e Martorano, oggi torrenti. Le cavità di Sant'Agata de Goti testimoniano la natura della formazione geologica grazie alla quale sorge la città, perché di essa raggiungono il cuore: più di 33.000 anni fa, infatti, a seguito di un'eruzione vulcanica con fuoriuscita d'Ignimbrite Campana, una pioggia di pomici investì il territorio formando uno strato che, depositandosi, costituì la base degli aspri costoni tufacei affioranti in corrispondenza dello spiccato. Le pomici si disposero su uno strato già presente costituito da sabbia e cenere, frutto di una precedente eruzione; a sua volta, questo strato primitivo si colloca su un livello inferiore alle acque (siamo a 156 metri sul livello del mare), su uno strato ancora più antico chiamato "flysch", molto caotico, formante una scarpata in continuo assestamento anche grazie all'azione delle correnti che spostano i sedimenti, accumulandoli. I costoni della rocca sono quindi in pietra di tufo grigio compatto derivante da Ignimbrite Campana solidificatasi con formazioni "a colonna" intercalate da "pipe" (fenditure naturali verticali), di fuoriuscita del gas lungo la superficie; è in questa pietra che furono scavate le piccole cave necessarie alla costruzione dei primi edifici solidi sulla rocca destinati alle abitazioni civili. Ciò non avvenne prima del VI secolo, allorquando il dominio bizantino instaurò nuove consuetudini edilizie per i Castrum: non più postazione militare fortificata riservata al Magister e al Vescovo, con abitati sparsi nella valle, presso le terre e in capanne leggere, per i contadini; ma un raggomitolarsi della città sull'altura, che divenne "guscio" invalicabile di protezione contro gli eventi naturali e le guerre, e unico luogo deputato ai culti religiosi e alle sepolture. Gli edifici civili furono costruiti in conci di tufo, attaccando la vena in superficie formando un foro con un punteruolo; dal foro il cavatore si calava progressivamente nella terra legato ad una corda assicurata a un gancio, scalpellando con un andamento circolare in modo da formare una volta naturale conoidale solidissima. Estratta progressivamente la pietra, la cava diventava sottana ossia spazio sottostante all'abitazione, con essa comunicante tramite una botola. La ventilazione e la luce della cavità si ottenevano grazie all'"occhio" iniziale, protetto da una feritoia. Dapprima gettatoio per le stoviglie casalinghe andate in pezzi ─ non di rado sono stati trovati nelle cavità svuotate per alcuni strati terrecotte antiche e ossa di piccoli animali, residui di antichi pasti ─ le cavità furono ben presto utilizzate in epoca altomedievale come conserve, ossia luoghi di deposito e nascondigli per le derrate alimentari di scorta in caso d'assedio alla rocca o come cisterne per l'acqua. In quest'ultimo caso la volta si presenta a vela e l'occhio non è altro che un pozzo in superficie per far convergere l'acqua piovana nel sottosuolo. I cunicoli che giungono innestandosi sulle pareti di alcune di esse testimoniano la memoria degli assedi, all'indomani della creazione del Fortellicium normanno voluto dal feudatario Drengot, barone ribelle al re Ruggiero, di lui strenuo oppositore fino alla morte avvenuta nel 1139. Gli assedi dovettero essere lunghi e disperati, tanto da spingere il nemico a scavare, nel tentativo di raggiungere le conserve e svuotarle, per affamare e assetare gli abitanti chiusi tra le mura e indurli ad aprire le porte della fortezza. È ancora evidente il cunicolo sul versante est della rocca, presso la porta San Marco di accesso alla città: esso, aprendosi a pochi metri dalla stessa, lambisce la grande cisterna sotterranea del Palazzo Mustilli; più nascosto è il cunicolo collegato alla cavità del Palazzo Parisi che immette all'interno di un profondissimo invaso sotterraneo dal lato ovest che oggi ha uno sbocco sulla forra del torrente Martorano, un tempo navigabile. Lo scavo della città sotterranea di Sant'Agata de'Goti fu funzionale anche alla soluzione romana verso le problematiche antisismiche della Regio Samnium, a seguito di un susseguirsi estenuante di calamità distruttive che portarono a finanziamenti economici espressamente dedicati alla Regio, dopo il sisma del 346 d.C. Da questo punto di vista le cavità scavate nella rocca santagatese rappresentano la realizzazione di quanto teorizzarono filosofi ed eruditi sul fenomeno sismico rispetto al quale la Campania era all'epoca tra le regioni a rischio elevatissimo. Si forma così una cultura sismica locale avanzata, basata su due modi di concepire, spiegare e affrontare i dissesti sismici da parte dei Romani: 1. Il terremoto inteso come "evento prodigioso", concetto collegato agli eventi politici dai quali le zone periferiche erano spesso escluse: nell'età repubblicana (tra il 509 e il 27 a.C.) i "prodigi" come i terremoti o gli sprofondamenti ma anche le frane, le esondazioni e le eruzioni vulcaniche, erano interpretati come reazione divina alla violazione della pax deorum cioè del patto di concordia stipulato tra la cittadinanza e gli déi. I responsabili della rottura di tale accordo erano ritenuti i politici che amministravano lo Stato romano; all'indomani di un evento sismico occorreva celebrare dei riti religiosi e dei sacrifici verso una qualsiasi divinità che potesse intercedere a loro favore. Nel successivo periodo Imperiale gli eventi prodigiosi invece furono visti come segni premonitori sul futuro dell'Imperatore in carica. 2. Il terremoto spiegato attraverso la Ragione, personificata dagli intellettuali e dai filosofi, tra cui il più attento è Seneca. Egli da un lato conserva un atteggiamento stoico verso l'ineluttabilità del sisma, ma dall'altro cerca di dare una spiegazione scientifica al fenomeno avversando le tesi religiose e superstiziose. Nell'opera Questioni naturali all'interno del VI libro, Seneca cerca di convincere che i fenomeni sismici non sono dovuti all'ira divina ma ad elementi che si "agitano" nel sottosuolo come ad esempio le correnti d'aria, distinguendo le tre categorie di scosse causate dalle stesse: quelle sussultorie, quelle ondulatorie e una terza che causerebbe "terremoti vibratorii"recando danni molto limitati. Illuminante dovette apparire ai Romani tale teoria dopo l'esperienza del 62 d.C., data in cui, come afferma Fernando La Greca, si verificò un sisma del nono grado della scala Mercalli che distrusse Pompei e le città della Campania, appena qualche anno prima della sconvolgente eruzione del Vesuvio. Proprio in questa occasione si pensò che realizzare lo scavo di cavità e di percorsi sotterranei sotto le costruzioni mitigasse le scosse sismiche, in quanto la città di Napoli, provvista di molte cavità, non aveva avuto danni. Una simile pratica incoraggiò ulteriormente lo scavo delle cavità nel tufo del Castrum santagatese, che si protrasse a lungo nei secoli successivi; ancora nel 1788 lo storico locale Fileno Rainone osserva: «Ogni casa e Palazzo ha dei suoi particolari serbatoi d'acqua o siano conserve, e nel castello suddetto precisamente ve n'è una di smisurata grandezza e credo per avvalersene in tempo d'assedio, come ancora si vedono la maggior parte dei Palazzi col comodo di piccolo giardino, e generalmente tutti forniti di palombiera, forse anche per avvalersene in tempo d'assedio». La cantina, la cisterna, il giardino-orto, la palombiera: questi i requisiti indispensabili per una casa sottoposta ad assedio a partire dal XII secolo per tutta l'epoca Angioina, periodo in cui, secondo Rainone, la fortezza fu utilizzata dalla regina Giovanna I e dalle famiglie a lei vicine coinvolte nelle lotte dinastiche. Dalla fine del Cinquecento accade che nelle abitazioni delle famiglie più evolute, provenienti dal Regno di Napoli e qui divenute proprietarie di fondi agricoli ottenuti come "beneficio" dal feudatario, all'interno delle cavità più profonde si costruiscano i formali, piccoli acquedotti sotterranei di approvvigionamento per la casa, composti da sistemi di condotte in terracotta a cielo aperto e cavità di raccolta scavate nel pavimento di pietra tufacea, collegati a cisterne di ridotte dimensioni comunicanti tra loro, ben visibili oggi nella cavità del Palazzo Parisi. I cunicoli collegati alle cavità sotto le case canoniche e le case conventuali, di cui il borgo si arricchisce tra il XVI e il XVIII secolo, col prosperare del clero, verranno utilizzati dai religiosi come scappatoie per potersi allontanare non visti e rientrare senza essere scoperti. Si sviluppa così una città "degli inferi" che diventa vitale per la città in superficie, ad essa legata come l'immagine negativa in ombra a quella positiva in luce: una rete che nell'Ottocento viene frammentata dagli sbarramenti murari per porre i limiti alle proprietà private che non impediscono a ciascuno di avere la propria cantina vinaria; questa è la funzione giunta fino a noi, che di volta in volta assume estensione e profondità diverse, ma sempre proporzionate al volume dell'edificio soprastante: si va dalla spaziosa cantina del Palazzo Mustilli, sede di una famosa produzione vinaria locale, alle piccole cantine come quella che ha l'accesso del ristorante Antico Borgo, un tempo cava di una abitazione privata, posta su tre livelli di profondità differenti, a testimonianza di più fasi di realizzazione nel tempo. Le cave vere e proprie di origine medievale sono a maggiore profondità (circa dieci - dodici metri al di sotto del livello stradale), recano i segni della mazzola sulla parete ricurva, e mantengono inalterata la volta conoidale con "occhi" soprastanti, localizzati in superficie oggi sulla strada, ma anticamente punti di attacco al tufo nell'area del bosco di Corte, annesso al Castello ducale. Una delle due cave, la più profonda, è stata chiaramente allungata in epoca successiva, creando una volta a botte e due scalinate di raccordo su un ambiente intermedio coperto a botte e solaiato in parte. Nei tre invasi sotterranei è sperimentabile il sistema di correnti perseguito dai Romani allo scopo di lasciare che l'aria defluisca liberamente: le piccole aperture, come i varchi e le gallerie di comunicazione, sono disposti in modo da favorire la ventilazione in periodi precisi dell'anno. Le scale, anch'esse ricavate nel tufo, mostrano il caratteristico avvallamento centrale provocato dallo sfregamento delle botti nel momento in cui venivano calate o tirate in superficie con l'ausilio delle corde agganciate all'imbocco della botola o degli scivoli laterali, qui evidenti ai due lati della gradinata. Le cavità tufacee di Sant'Agata de Goti vengono utilizzate oggi come cantine vinarie in cui è facile riconoscere gli attrezzi del mondo rurale legati alle vecchie vendemmie dell'area del Mediterraneo; ma sono ancora l'estremo rifugio per la segretezza e la Storia, in cui discendere ogni tanto per ricordare com'è fatto il cuore della terra da cui proveniamo.
Sant'Agata de Goti, 4 ottobre 2017
Bibliografia: Lorenzo Gagliardi, Fondazione di colonie romane ed espropriazioni di terre a danno degli indigeni, Mélanges de l'Ecole francais de Rome, "Antiquité, mefra.revues.org 2016 Gianluca Soricelli, La provincia del Samnium e il terremoto del 346 d.C., in "Interventi Imperiali in Campo economico e sociale da Augusto a Tardoantico, EdiPuglia, Bari, 2009 Fernando La Greca, I terremoti in Campania in età romana e medievale. Sismologia e sismografia storica, in "Annali storici di Principato Citra" Vol. I 2007 Francesco Viparelli, Memorie storiche della città di S. Agata dei Goti, per l'epoca dal principio dell'Era volgare sino al 1840, Napoli, 1841 Fileno Rainone, Origine della città di S.Agata de'Goti, Napoli, 1788