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Palestina nel I secolo dopo Cristo

Ultimo aggiornamento: 25/12/2007 - COPYRIGHT 2004-2008 - Pagine curate


da: Gianluigi Bastia

Fonti per lo studio della storia ebraica nel I secolo d.C.

La storia della Palestina è in gran parte documentata nelle opere di uno


storico ebreo del I secolo d.C., Giuseppe Flavio(37-100 d.C. circa).
Giuseppe Flavio fu un comandante militare giudeo durante la guerra
contro i romani del 66-74 d.C., oltre che legato del Sinedrio di
Gerusalemme e governatore della Galilea durante la guerra giudaica del
66-74 dopo Cristo. Costretto presto ad arrendersi con tutta la sua
guarnigione verso il 67 d.C., venne deportato a Roma e collaborò infine
con i romani diventando un protetto dell’imperatore Vespasiano e
assumendo persino il patronimico della famiglia imperiale (Flavio). Le
sue opere più importanti, che ci sono pervenute in greco ma furono
probabilmente scritti in origine in aramaico, sono le Antichità
Giudaiche (IoudaikÈj arciolog…aj) – una storia dei giudei in venti libri
dalle origini fino all'inizio della guerra giudaica – e la Guerra
Giudaica (Ioudaikoà pÒlemoj), che narra i drammatici eventi della prima
grande rivolta giudaica contro i Romani culminata con la distruzione
del tempio di Gerusalemme, organizzata in sette libri. Un breve accenno
alla rivolta giudaica del 66-74 d.C. e alla storia di quegli anni compare
anche nel Libro V delle Historiae scritte dallo storico
romano Tacito (70-126 d.C. circa). Purtroppo questa opera di Tacito è
andata perduta nella parte finale di nostro interesse, tuttavia contiene
alcune interessanti indicazioni sulla storia dei Giudei in quel periodo.
L’ultimo grande regno stabile in Palestina è quello di Erode il Grande,
re fedele a Roma. Sovrano dispotico e crudele con i nemici Erode è
menzionato da Giuseppe Flavio soprattutto per la sua paranoia e
diffidenza nei confronti dei nemici e oppositori, persino della sua stessa
famiglia. Soprattutto nei primi anni del suo regno si impegnò
nell’ammodernamento di Gerusalemme, costruì palazzi e fortezze per
tutta la Giudea, verso il 20 a.C. promosse il restauro e l’ingrandimento
del tempio di Gerusalemme, opera che venne completata molti anni
dopo la sua morte. Secondo Giuseppe Flavio Erode morì dopo
trentasette anni dal tempo in cui fu dichiarato re dai Romani e dopo
trentaquattro anni dal tempo in cui mise a morte Antigono (cfr. Ant.,
XVII:191 e Guerra, I:665). Da questo è stato calcolata la data della morte
di Erode, che corrisponde all'anno 750 della fondazione di Roma,
ovvero il 4 a.C. In seguito alla morte del re la Palestina viene suddivisa
in tre zone governate dai tre figli legittimi di Erode il Grande: Archelao,
Filippo e Erode detto Antipa. Questa suddivisione del regno fu stabilita
sulla base di un testamento che Erode lasciò prima di morire (cfr. Ant.,
XVII, 8, 1) e venne approvata dai Romani nonostante molti Giudei
influenti volessero abolire la monarchia erodiana e vi fosse una grande
rivalità tra Archelao ed Erode Antipa.

Archelao venne nominato etnarca della regione che comprendeva la


Giudea (la regione dove si trova Gerusalemme), la Samaria e l’Idumea,
zone che costituivano la parte più importante del regno di Erode. Il suo
regno fu relativamente breve in quanto durò una decina di anni
soltanto, dal 4 a.C. al 6. d.C. (cfr. Ant., XVII:342). Si noti che, come
riferito da Giuseppe Flavio, i Romani conferirono ad Archelao soltanto
il titolo di etnarca, inferiore al rango di re. Dopo la destituzione di
Archelao, il suo territorio passò direttamente sotto il controllo di Roma.
La Giudea era considerata un territorio difficile da governare e una terra
di rivolte. Per questo le venne riservato il rango di provincia imperiale.
Pur godendo di relativa autonomia era comunque vigilata dal legato di
Siria e in seguito al fallimento della successione a Erode Roma invierà
sul posto un governatore.
Filippo ottenne il titolo di tetrarca delle estreme regioni a nord:
Traconitide, Gaulanitide, Batanea, Auranitide e Iturea abitate in larga
parte da popolazioni pagane ellenizzate. Filippo regnò dal 4 a.C. al 34
d.C. e alla sua morte l’amministrazione passò direttamente al legato
romano di Siria, una vicina provincia romana. Nel 38 d.C. i romani
affidarono quelle regioni al re Agrippa I. Secondo Giuseppe Flavio
Jamnia, Azoto e Fasaele furono assegnate da Erode a Salome con
cinquecento dramme di argento coniato.

Erode Antipa ottenne invece il titolo di tetrarca delle regioni di Galilea,


a nord della Giudea, e Perea, a est del Giordano. Il suo regno durò dal 4
a.C. al 39 d.C. Giovanni Battista venne imprigionato e fatto giustiziare
per ordine di Erode Antipa. La causa dell'assassinio fu la sua
opposizione al matrimonio illegittimo, secondo la religione ebraica,
dell'Antipa con Erodiade (Mt. 14:1-12, Mc. 6:14-29, Lc. 9:7-9, Lc. 3:19-20),
mentre per Giuseppe Flavio, che pure conosce la storia di Erodiade, le
cause dell'assassinio vanno ricercate nel timore che il Battista diventasse
un leader e mettesse in pericolo l'autorità del sovrano (Ant. 18.106-119).
Alla morte di Erode Antipa le regioni passarono ad Agrippa I, il
successore di Filippo.

Morte di Giovanni Battista (articolo PDF)

Nella mappa: la Palestina nel I secolo dopo Cristo. Dopo il regno di


Erode il Grande lo stato ebraico viene suddiviso tra i suoi tre figli legittimi
Filippo, Archelao e Erode Antipa. Archelao ereditò la parte più importante
del regno, costituita da Giudea, Samaria ed Idumea. A est del Giordano si
trovava la Decapoli, una confederazione di dieci città ellenistiche (Pella,
Dione, Gadara, Ippo, Filadelfia, Gerasa, Rafana, Damasco, Canata,
Scitopoli) che si opponeva al giudaismo. La Nabatea era invece una
regione araba probabilmente sorta dopo la deportazione degli ebrei al
tempo di Nabucodonosor.
Durante il periodo della successione a Erode il Grande (4 a.C. e anni
seguenti) scoppiarono in Giudea numerose rivolte. Di queste rivolte ci
da notizia lo storico ebreo Giuseppe Flavio che scrisse due opere
importantissime per comprendere la storia e le usanze della Palestina ai
tempi di Gesù : “Antichità Giudaiche” e “Guerra Giudaica”.

Subito dopo la morte di Erode il Grande (4 a.C.) è Archelao, non ancora


nominato ufficialmente re dall’imperatore di Roma, a dover
fronteggiare una grossa rivolta popolare scoppiata a Gerusalemme in
occasione di una Pasqua ebraica (Guerra Giud., 2,1-13; Ant., 17,8,3) che
fece, secondo Giuseppe Flavio, tremila morti. In occasione della
successiva Pentecoste, quindi sette settimane dopo questo fatto di
sangue, la rivolta proseguì (Guerra Giud., 2-42-54; Ant., 17,10,2) ancora
più violenta. Queste rivolte erano dirette sia contro i Romani, che
controllavano di fatto militarmente il paese, sia contro Archelao
accusato di collaborazionismo e complicità con i romani e di non
attenersi scrupolosamente ai principi della religione ebraica. Nella
società ebraica del tempo andavano infatti sempre più diffondendosi
posizioni nazionalistiche estremiste. Nell’Idumea, un'altro territorio di
Archelao, si ribellarono poi duemila veterani dell’esercito di Erode il
Grande (Guerra Giud., 2,55; Ant., 17,10,4). In Galilea, sotto Erode
Antipa, ci fu a Sepphoris una banda capeggiata da Giuda, figlio di un
certo Ezechia che aveva causato disordini tempo prima, quando ancora
regnava Erode il Grande, che creò numerosi incidenti, occupò il palazzo
reale e si impossessò di molte armi (Guerra Giud., 2-56;Ant. 17,10,5).
Un’altra rivolta scoppiò nella Perea per opera di uno schiavo,
tale Simone, che si proclamò re e incendiò la reggia di Gerico prima di
essere ucciso (Guerra Giud., 2, 57-59; Ant. 17,10,6). Si ha poi notizia della
rivolta in Giudea del pastore Atrogene (Guerra Giud., 2,60-65; Ant.
17,10,7), che ambiva al titolo di re, del tentativo di conquistare il potere
da parte di un giudeo chiamato Alessandro (Guerra Giud., 2,101-
110; Ant. 17,12,1) che si proclamava figlio legittimo di Erode il grande, il
quale aveva effettivamente avuto un figlio di nome Alessandro, ma che
era morto da tempo. Molte di queste rivolte erano di matrice popolare,
alcune erano delle bufale clamorose (come quelle del finto Alessandro).
La Giudea e le altre regioni della Palestina erano zone difficili da
governare, sembrava impossibile o molto difficile conciliare le
rivendicazioni degli ebrei con gli interessi della potenza occupante.
Scrive Giuseppe Flavio, con riferimento a questo periodo storico: "la
Giudea era piena di brigantaggio, ognuno poteva farsi re come capo di una
banda di ribelli tra i quali capitava e in seguito avrebbe esercitato pressione per
distruggere la comunità causando torbidi a un piccolo numero di Romani e
provocare una carneficina al suo popolo" (Ant. 17,10,8). A calmare la
situazione intervenne il legato della vicina provincia romana di
Siria Quintilio Varo che occupò Gerusalemme e represse nel sangue le
rivolte giudaiche (Guerra Giud., 2,66 e segg.; Ant. 17,10,9 e segg.)
stabilizzando la situazione. Il breve regno di Archelao, quello
storicamente e politicamente più importante perché controllava la
Giudea e Gerusalemme, ebbe fine nel 6 d.C. Archelao infatti venne
accusato davanti ad Augusto (imperatore di Roma) da una commissione
di Giudei e Samaritani quale re dispotico e crudele (Guerra Giud., 2-
111; Ant. 17,13,2). Augusto, che in precedenza gli aveva conferito solo i
titolo di etnarca aspettando di vedere il suo operato prima di dichiararlo
re, decise allora di esiliarlo a Vienne, una città della Gallia, e di
annettere direttamente alla provincia romana di Siria il territorio sul
quale regnava Archelao. Giudea, Samaria e Idumea vennero quindi
amministrate a partire dal 6 d.C., l'anno della destituzione di Archelao,
da un governatore inviato direttamente da Roma, il quale formalmente
doveva essere controllato dal legato di Siria (legatus pro praetore) che
in quel periodo era Sulpicio Quirinio. Il governatore assunse in una
prima fase storica il titolo di prefetto (lat.praefectus) ma dopo il regno di
Agrippa I veniva chiamato procuratore (lat. procurator). In realtà non si
trattò di una annessione piena alla provincia di Siria in quanto il legato
di Siria si limitava a controllare e vigilare l’operato del procuratore
senza mai interferire direttamente a meno che non ce ne fosse bisogno.
Con il nuovo assetto e il controllo romano della Giudea, Samaria e
Indumea nel 6 d.C. viene quindi nominato
procuratore Coponio (Guerra Giud., 2-117), dal 6 d.C. al 9 d.C.; Coponio
e Sulpicio Quirinio organizzano subito nel 6 d.C. un censimento che
serviva per contare e registrare la popolazione al fine di calcolare i
tributi da fare pagare al popolo.
Il censimento di Sulpicio Quirinio, prima amministrazione romana (6 - 26
d.C.)

Il censimento del 6 d.C. organizzato da Sulpicio Quirinio e Coponio fu


la scintilla che fece scoppiare alcune rivolte. Del censimento di Quirinio
abbiamo notizia anche nel Vangelo di Luca: “In quei giorni un decreto di
Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento su tutta la terra. Questo
primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio.
Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città.” (Luca 2:1-3). In
Giudea e a Gerusalemme non di verificarono incidenti grazie all’opera
del sommo sacerdote Iozaro che riuscì a evitare la sommossa (Ant.
18,1,1). Ma più a nord in Galilea sotto Erode Antipa si scatenò la rivolta
di Giuda di Gamala (detto anche Giuda il Galileo anche se la sua città
di origine Gamala non si trova in Galilea ma nel Golan) che dette il via a
una sommossa di tipo messianico e arrivò sino a Gerusalemme con
l’appoggio di alcuni farisei. La rivolta venne repressa nel sangue dai
romani. Molti ribelli, compreso il loro capo, vennero giustiziati. Di
Giuda di Gamala ci da notizia Giuseppe Flavio (Guerra Giud., 2,118;
Ant. 18,1,1-3). Pare che Giuda fosse figlio di un brigante detto Eleazaro
che era stato giustiziato al tempo di Erode il Grande. Il termine
“brigante” definisce negli scritti di Giuseppe Flavio non solo
delinquenti ordinari ma anche i capi delle rivolte contro i romani. Fino
all’avvento di Ponzio Pilato non si hanno notizie di altre rivolte
importanti come quelle in occasione del censimento del 6 d.C. e quelle
precedenti ai tempi della successione a Erode il grande. A Coponio
succedettero Marco Ambivolo, Annio Rufo, Valerio Grato e Ponzio
Pilato.

Ponzio Pilato (26-36 d.C.)

Nel 26 d.C. fu nominato governatore della Giudea Ponzio Pilato, che


rimase in carica fino al 36 d.C. con il titolo dipraefectus. Si ritiene che
tutti i governatori della Giudea fino al regno di Agrippa I (41-44 d.C.)
avessero il titolo dipraefectus; in seguito questa denominazione fu
perduta e il titolo fu quello di procurator. Pilato venne dunque coinvolto
direttamente nelle vicende di Gesù. Il comportamento di Pilato, come ci
racconta ancora una volta Giuseppe Flavio, non favorì certo la
distensione fra Giudei e Romani. Se con i governatori precedenti,
Ambivolo, Rufo e Grato, la situazione fu sostanzialmente tranquilla, lo
stesso non si può dire del periodo di Pilato, nonostante Tacito abbia
scritto che "sotto Tiberio ci fu la pace" (Hist., V, 9); Giuseppe Flavio
racconta infatti che si verificarono alcuni incidenti. Pilato ufficialmente
risiedeva a Cesarea Marittima, una cittadina costruita da Erode il
grande (Guerra Giud., 1,410-414) e posta sulle rive settentrionali della
Palestina che costituiva un porto per le comunicazioni con Roma ed era
la capitale amministrativa della regione governata da Pilato. Il primo
incidente diplomatico del tempo di Pilato, passato alla storia
come episodio delle insegne, lo si ebbe proprio all’inizio del mandato
del nuovo prefetto, quando egli tentò di introdurre a Gerusalemme le
immagini dell’imperatore romano (Guerra Giud., 2.169-174; Ant. 18.55-
59), un fatto che avrebbe scatenato le ire degli ebrei ortodossi. Scrive
Giuseppe Flavio: "Pilato, governatore della Giudea, quando trasse l'esercito
da Cesarea e lo mandò ai quartieri d'inverno a Gerusalemme, compì un passo
audace in sovversione alle pratiche giudaiche, introducendo in città i busti degli
imperatori che erano attaccati agli stendardi militari, poichè la nostra legge
vieta di fare immagini" (Ant. 18.3.1). In seguito alla costituzione
dell'impero romano, nel 28 a.C. con Ottaviano Augusto, l'imperatore era
considerato dai Romani una divinità e le sue immagini erano
considerate sacre dai Romani. Introdurre delle immagini di una divinità
straniera come quella dell'Imperatore divinizzato era una violazione
della legge ebraica e un grave insulto. I Giudei erano ormai prossimi ad
una massiccia sommossa quando Pilato preferì rimuovere le immagini
profane per evitare il bagno di sangue che ne sarebbe conseguito. Da
Filone di Alessandria, ma non da Giuseppe Flavio, che non lo riporta,
abbiamo poi notizia dell'episodio degli scudi votivi, un'altra occasione
di scontro diplomatico tra i Giudei e i Romani. Filone racconta che
Pilato fece esporre nel palazzo di Erode a Gerusalemme degli scudi
dorati che recavano il nome dell'imperatore: i nobili della città
protestarono presso l'imperatore Tiberio che, per evitare incidenti,
ordinò di rimuovere gli scudi contestati e di farli appendere nel tempio
di Augusto a Cesarea di Palestina (Legatio ad Caium, 299-305). Un terzo
incidente, l'episodio dell'acquedotto, lo si ebbe quando Pilato impiegò
parte del sacro tesoro del tempio di Gerusalemme per finanziare la
costruzione di un acquedotto: scoppiarono delle rivolte che vennero
soppresse nel sangue dai soldati romani (Guerra Giud., 2.175-177; Ant.
18.60-62). Giuseppe Flavio racconta che Pilato era a Gerusalemme
quando il palazzo in cui si trovava venne circondato da una folla
numerosa e minacciosa. Pilato allora mandò i soldati per disperdere i
rivoltosi, con l’ordine di non usare le spade. Nonostante questo molte
persone morirono per le percosse subite. E' poi durante il mandato di
Pilato che viene condannato a morte Gesù Cristo verso il 30 (o forse il
33) d.C., l'episodio è raccontato da Giuseppe Flavio in Ant. 18,3,3 nel
celebre passo noto come testimonium flavianum, ma è sospettato di essere
una interpolazione. In Guerra Giudaica non vi è alcun accenno alla
condanna di Gesù Cristo. Un’altra pesante azione di Pilato venne
compiuta ai danni dei samaritani, per questo è passata alla storia come
l'episodio dei samaritani; Giuseppe Flavio racconta che sotto la
direzione di un loro leader alcuni samaritani tentarono di radunarsi sul
monte Garizim, sacro per i samaritani, probabilmente per preparare una
rivolta contro i Romani. Pilato prevenne la sedizione inviando l'esercito,
molti samaritani vennero uccisi e i capi della rivolta furono giustiziati
(Ant. 18.4.1). Questa azione, tuttavia, costò a Pilato la fine della sua
carriera politica come governatore della Palestina. I Samaritani infatti
protestarono presso Vitellio, all'epoca il legato della provincia romana
della Siria, che diede loro ascolto e rimandò a Roma Pilato,
sostituendolo con Marcello. Pilato rimase così in carica dieci anni come
governatore della Giudea. Giuseppe racconta che l'imperatore Tiberio
era morto quando Pilato giunse a Roma, la destituzione risale quindi al
36/37 (Ant. 18.89).
A sinistra: iscrizione ritrovata nel 1961
a Cesarea Marittima (Palestina) in cui
si menziona Ponzio Pilato.
Si noti che Pilato, in carica dal 26 al
36 d.C., è definito come prefetto
(praefectus Iudaea).

Trascrizione:

L. 1 ]S TIBERIEUM

L. 2 [PON]TIUS
PILATUS

L. 3 [PRAEF]ECTUS
IUDA[E]A

Il regno di Agrippa I (41-44 d.C.) e la seconda amminiztrazione romana (44-


66 d.C.)

Rimosso Pilato dal suo incarico, Vitellio si recò a Gerusalemme durante


una Pasqua, forse quella del 37 d.C., e venne accolto con sommi onori.
Egli si prodigò per riportare pace e tranquillità nella nazione dei Giudei.
Dopo Pilato seguirono altri procuratori inviati da Roma ma
sfortunatamente sappiamo poco di questi governatori, Giuseppe Flavio
riferisce solamente che Vitellio "mandò uno dei suoi amici, Marcello, perchè
fosse governatore della Giudea" (cfr. Ant. 18,4,1) e che "a comandare la
cavalleria in Giudea [Caligola] mandò Marullo" (cfr. Ant. 18,6,9). Secondo
gli storici è persino possibile che Marullo e Marcello siano nomi diversi
di uno stesso governatore. In questo periodo registriamo un'altra
occasione di scontro tra Romani e Giudei. L'episodio è raccontato sia da
Giuseppe Flavio che da Tacito nel libro V delle Historiae. Caligola,
imperatore di Roma dal 37 al 41 d.C., inviò Petronio in Giudea con un
esercito a suo sostegno per collocare delle statue dell'imperatore,
considerato una divinità dai Romani, addirittura nel Tempio di
Gerusalemme. Petronio, vista l'ostinazione dei Giudei e la loro
determinazione ad evitare un simile sacrilegio, accolse le loro proteste e
tentò di convincere l'imperatore ad ascoltare la popolazione, ma
l'imperatore ordinò ugualmente di collocare con la forza le statue nel
tempio. L'ordine, alla fine, non venne mai eseguito perchè Caligola nel
frattempo, mentre Petronio si trovava ancora in Giudea e prendeva
tempo, venne assassinato e al suo posto divenne imperatore Claudio,
come ricorda Tacito: "in seguito all'ordine di Caligola di collocare nel tempio
una statua, preferirono prendere le armi e solo la sua morte troncò la rivolta"
(Hist., V, 9). Così grazie al temporeggiamento di Petronio, che si
dimostrò molto comprensivo nei confronti dei Giudei, venne evitato un
massacro. Nel 41 dopo Cristo Agrippa I, nipote di Erode il
Grande, riuscì a ottenere il controllo della Giudea, della Samaria e
dell’Idumea che aggiunse al resto della Palestina che già governava.
Grazie alla sua amicizia con l'imperatore Caligola, infatti, Agrippa I nel
38 d.C. era riuscito a farsi assegnare tutto il territorio su cui aveva
regnato il tetrarca Filippo, che era morto nel 34 dopo Cristo. Alla morte
di Erode Antipa, avvenuta nel 39 d.C., Agrippa ottenne anche
l'assegnazione dei territori che erano stati posseduti dall'Antipa.
Aggiungendo a questi territori anche la Giudea, la Samaria e l'Idumea,
Agrippa I ricostituì di fatto l'estensione territoriale dell'antico regno di
Erode il grande, sotto l'egida di Roma. Secondo Giuseppe Flavio il suo
fu un regno eccellente, Agrippa I era stimato dalla popolazione, dai
Romani (imperatori Caligola e Claudio) e persino dagli altri re vicini.
Ma Agrippa I morì nel 44 d.C. e dopo la sua morte la Giudea tornò
nuovamente sotto l'amministrazione romana perchè il figlio erede
legittimo di Agrippa I era troppo giovane per assumere il controllo del
regno e succedere al padre.

La seconda amministrazione romana, passata alla storia come periodo


dei procuratori, fu territorialmente più estesa della prima, perché
comprendeva tutto il regno di Agrippa I. Solo qualche anno dopo
alcune parti del regno vennero assegnate al re Agrippa II, il figlio di
Agrippa I che nel frattempo era cresciuto. La Giudea rimaneva
comunque sotto il controllo diretto di Roma e dei procuratori romani.
La seconda amministrazione romana fu più dura della prima perché i
procuratori romani non fecero assolutamente nulla per ingraziarsi la
popolazione, così crebbero nel popolo fermenti di rivolta dal giogo
straniero. Il procuratore Cuspio Fado (44-46 d.C.), il primo succeduto ad
Agrippa I, come ci racconta Giuseppe Flavio (vedi Ant. 20,5,1) fece
giustiziare Teuda, un predicatore che aveva promesso ai suoi seguaci di
far loro attraversare il fiume Giordano dopo averne diviso le acque
come fece Mosè nel Mar Rosso secondo l'Antico Testamento. Di Teuda e
di Giuda il Galileo parlano anche gli Atti degli Apostoli (5:34-39) anche
se fanno risalire le azioni di Teuda a prima di quelle di Giuda. Sotto il
procuratore Tiberio Alessandro (46-48 d.C.), succeduto a Fado, vennero
quindi crocifissi due rivoltosi, Simone e Giacomo, che erano figli di
Giuda il Galileo (Ant. 20,5,2). Sempre al tempo di Tiberio Alessandro ci
fu in Giudea una grave carestia (Ant. 20,5,2). Ai tempi di Ventidio
Cumano (48-52 d.C.) si ebbe una nuova strage di giudei durante le feste
di Pasqua, proprio in prossimità del Tempio di Gerusalemme (Ant.
20,5,3). Giuseppe Flavio racconta poi che Cumano nel tentativo di
placare un grave scontro tra samaritani e giudei o galilei inviò l'esercito
che uccise molti (Ant. 20,6,1-2). Antonio Felice (procuratore nel periodo
52-60 d.C.) tentò di stroncare i movimenti messianici che crescevano
come funghi in quel periodo e fece catturare un pericoloso brigante
egiziano che si definiva un profeta. Giuseppe Flavio (Guerra
Giudaica, Libro II, 13.5) asserisce che questo profeta egiziano raccolse
una turba di circa trentamila persone con la quale si preparava ad
entrare con la forza a Gerusalemme dal Monte degli Ulivi. L'episodio è
riferito anche nelle Antichità, libro 20, paragrafo 8.6: "in quel tempo venne
dall'Egitto a Gerusalemme un uomo che diceva di essere un profeta e suggeriva
alle folle del popolino di seguirlo sulla collina chiamata monte degli Ulivi, che è
dirimpetto la città, dalla quale dista cinque stadi. Costui asseriva che di là
voleva dimostrare come ad un suo comando sarebbero cadute le mura di
Gerusalemme e attraverso di esse avrebbe aperto per loro un ingresso alla città.
Udita tale cosa, Fado ordinò ai suoi soldati di prendere le armi; e con una
notevole forza di cavalleria e di fanti uscirono da Gerusalemme e si lanciarono
sull'egiziano e i suoi seguaci uccidendone quattrocento e catturando duecento
prigionieri. L'egiziano fuggì dalla battaglia e si dileguò. Allora i ribelli ancora
una volta incitarono i giudei a fare guerra contro i romani, dicendo di non
obbedire loro e a quanti non li seguivano incendiavano e saccheggiavano i
villaggi". Di questo episodio abbiamo un vago accenno anche negli Atti
degli Apostoli, dove il tribuno chiede a Paolo arrestato nel tempio di
Gerusalemme: “allora non sei quell’egiziano che in questi ultimi tempi ha
sobillato e condotto nel deserto i quattromila ribelli?” (cfr. Atti 21:38; si noti
la discordanza tra il libro degli Atti e Giuseppe Flavio nel riferire il
numero dei ribelli). Secondo Giuseppe Flavio le truppe inviate da Felice
fecero quattrocento morti e duecento prigionieri, il profeta egiziano non
venne catturato ma fuggì dalla battaglia. Anche il procuratore Porcio
Festo (60-61,62 d.C.) ebbe a che fare con i movimenti messianici e
predicatori vari. Scrive Giuseppe Flavio: "quando Festo arrivò in Giudea la
trovò devastata dai ribelli che incendiavano e saccheggiavano un villaggio dopo
l'altro" (Ant. 20, 8,10). E' il periodo dei sicari che "si avvalevano di pugnali
di forma simile alle scimitarre dei Persiani ma curvi e più simile all'arma che i
Romani chiamano sicae, dalla quale questi ribelli prendono il nome perchè in
questo modo uccisero tanta gente" (Ant. 20,8,9). Alla morte di Festo venne
inviato Lucceio Albino (62-64 d.C.) a governare la Giudea. Mentre
Albino, fresco di nomina, si trovava ancora in viaggio per raggiungere
la Giudea il sommo sacerdote Anano convocò illegalmente il Sinedrio,
dal momento che avrebbe dovuto chiedere l'autorizzazione al
governatore romano, e fece uccidere Giacomo (il Giusto) il fratello di
Gesù Cristo (Ant. 20,9,1). L'azione suscitò immediatamente le proteste
di molti uomini influenti di Gerusalemme e Albino al suo arrivo destituì
immediatamente Anano dalla carica di sommo sacerdote. Giuseppe non
parla in termini molto benevoli del mandato di Albino: "...non soltanto
commetteva ruberie a danno di tutti nella trattazione del pubblici affari nè si
limitava a schiacciare tutto il popolo sotto il peso dei tributi ma prendeva
denaro per riconsegnare in libertà ai parenti quelli che per brigantaggio erano
stati carcerati dalle autorità delle loro città o dai precedenti procuratori, sicchè
soltanto chi non pagava rimaneva in prigione come un delinquente. Allora a
Gerusalemme crebbe l'ardire dei rivoluzionari poichè i loro capi comprarono per
denaro Albino facendosi garantire da lui l'impunità per le loro macchinazioni e
la parte del popolo che non era amante dell'ordine passò dalla parte dei complici
di Albino" (Guerra Giudaica, 2.273). Con il procuratore Gessio Floro (64-
66 d.C.) si giunge all’epilogo della vicenda delle sommosse. La
descrizione che Giuseppe Flavio ci fornisce di Gessio Floro è molto
dura, peggiore persino di quella di Albino: "Floro era tanto malvagio e
arbitrario nell'esercizio della sua autorità che i Giudei, per la loro estrema miseria,
lodavano Albino come benefattore. Quest'ultimo infatti, teneva nascosta la sua
infamia e prendeva precauzioni per non farsi scoprire, ma Gessio Floro, come se
fosse stato mandato per fare mostra della sua cattiveria, ostentatamente sfoggiava
la sua infamia nel comportamento verso la nostra nazione, non risparmiando
alcuna forma di ruberie e di ingiusti castighi. Non conosceva la pietà, nessun
guadagno lo saziava, era una persona che ignorava la differenza tra i guadagni più
grandi e i più modesti, tanto che si associava persino ai briganti. La maggior parte
del popolo seguiva questo arbitrio senza inibizioni, poiché non aveva dubbi sulla
impunità purché a lui andasse la parte del bottino a lui spettante. E questo non
aveva alcuna misura. I Giudei, infelici, non potevano sopportare la dilapidazione
delle loro sostanze fatta dai ladri ed erano tutti costretti ad abbandonare i loro
paesi e fuggire altrove, pensando che avrebbero vissuto meglio tra i gentili, non
importa dove. Che si può dire di più? Era Floro che ci costringeva alla guerra
contro i Romani, perché preferivamo perire insieme piuttosto che a poco a poco. La
guerra, infatti, ebbe inizio nel secondo anno dell'amministrazione di Floro e nel
ventesimo anno del regno di Nerone." (Ant. 20,11,1). E una descrizione
analoga compare anche nella Guerra Giudaica, 2,14,1-2. Sembra difficile
pensare che un procuratore romano potesse liberare dei rivoluzionari, i
cosiddetti "briganti" nella terminologia di Giuseppe Flavio, eppure lo
storico giudeo ci dà testimonianza che queste pratiche erano prassi
comune almeno al tempo di Albino e di Floro, dove alcuni
rivoluzionari, addirittura già arrestati e carcerati, venivano liberati
dietro il pagamento di vere e proprie "tangenti". Il malgoverno di Gessio
Floro sarà una delle cause della rivolta dei Giudei che condurrà allo
scoppio della guerra giudaica. Secondo Giuseppe Flavio questo
procuratore non perdette occasione di provocare i Giudei alla rivolta,
mosso da avidità di denaro: nella confusione generale sperava di
impossessarsi di ricchezze saccheggiate ai Giudei.

Abbiamo visto quindi come dalla morte di Erode il grande si ebbero


numerose rivolte in tutta la Palestina, tutte di matrice popolare e tutte
caratterizzate da uno o più capi che venivano riconosciuti dalla folla
come i messia o i liberatoridi turno. Tutte queste rivolte violente sono
state descritte da Giuseppe Flavio, erano fonte di grande
preoccupazione per i romani e si sono concluse tutte con la vittoria dei
romani e la distruzione dei ribelli. Gesù e Giovanni in Battista vengono
menzionati nelle Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio, non sono in
alcun modo accostati a questi movimenti insurrezionali stando ai testi
che ci sono pervenuti. Il riferimento a Gesù nelle Antichità Giudaiche
(vedi 18,3,3) di Giuseppe Flavio è un passo noto come Testimonium
Flavianum ed è sospettato di essere una interpolazione cristiana. Posto
che molto probabilmente il riferimento non può essere stato scritto in
quel modo da Giuseppe Flavio, oggi resta molto difficile valutare se
nell’opera originale non interpolata esisteva un minimo accenno a Gesù
oppure se Giuseppe Flavio non ha mai parlato del Messia di Nazareth,
tenuto conto che nelle Antichità Giudaiche (cfr. 20,9,1) Giuseppe Flavio,
coma abbiamo visto, parla anche di Giacomo fratello di Gesù detto il
Cristo. Certamente dalla morte di Erode il Grande quando il controllo
della Giudea passa direttamente sotto il controllo dei Romani, dopo il
breve regno di Archelao, la tensione a Gerusalemme e nelle regioni
circostanti sale enormemente, crescono i fermenti rivoluzionari e
nazionalistici. E' soprattutto durante la seconda amministrazione
romana, dopo il regno di Agrippa I, che il clima si fa insopportabile, da
un lato abbiamo l'arroganza di alcuni procuratori, soprattutto Floro, il
crescere dei movimenti rivoluzionari che si oppongono ai Romani e agli
stranieri e mediare tra queste posizioni inconciliabili si trova la classe
dirigente dei Giudei, soprattutto i sacerdoti sadducei del Tempio,
consapevoli che una guerra contro il forte esercito Romano non può
essere condotta vittoriosamente se non per un breve periodo.

La prima guerra giudaica (66-74 d.C.)

Giuseppe Flavio racconta che Gessio Floro, procuratore dal 64 al 66 d.C.,


ebbe una grossa responsabilità nello scoppio della guerra giudaica.
Dopo vari episodi di malgoverno e ingiustizie varie, che causano
proteste da parte dei Giudei, Floro commette un atto molto grave nei
confronti dei Giudei mettendo mano al tesoro del Tempio di
Gerusalemme probabilmente per arricchirsi personalmente. Una azione
del genere era già stata tentata in passato da Pilato, anche nel caso di
Floro si scatenano proteste e tumulti che vengono soffocati nel sangue
dall'esercito romano. Floro, inoltre, non si accontenta di sedare la rivolta
ma dà ordine alle truppe di saccheggiare la città accrescendo così
l'ostilità della popolazione. I sacerdoti del Tempio si sono sempre posti
in una posizione di mediazione tra i Romani e i rivoluzionari più
intransigenti. Le continue e reiterate provocazioni di Floro da un lato e
gli atti ostili da parte dei rivoluzionari dall'altro conducono infine allo
scoppio di una insurrezione generale prima a Gerusalemme e poi in
tutta la Palestina. Gli atti ostili nei confronti dei Romani si moltiplicano.
Eleazar, figlio del sommo sacerdote Anania, capitano del Tempio, con
alcuni seguaci ribelli che si oppongono a Roma e ai collaborazionisti
Giudei, impedisce che si svolgano i tradizionali sacrifici in favore dei
Romani nel Tempio di Gerusalemme. L'episodio è chiaramente una
provocazione nei confronti dei Romani, da tempi molto antichi i Giudei
erano soliti eseguire dei sacrifici nel Tempio su richiesta dei pagani.
Sempre nello stesso periodo registriamo poi l'attacco alla guarnigione
romana di Masada, i Giudei si impadroniscono della fortezza e la
occupano. Gerusalemme è sempre più nel caos, per le strade si
scontrano indistintamente Giudei contro altri Giudei ritenuti
"collaborazionisti" e i soldati romani istigati da Floro contro i Giudei.
Menahem figlio di Giuda il Galileo, un estremista anti romano che
operava al tempo del censimento di Quirinio, arma un suo esercito e
partendo da Masada marcia verso Gerusalemme, assedia la città e riesce
a conquistarla scacciando i Romani. Ma Menhaem, una volta giunto a
Gerusalemme, a sua volta entra in conflitto con i rivoluzionari di
Eleazar e viene ucciso. A fianco di queste lotte interne ai Giudei e nei
confronti dei Romani, spesso alimentate da atti ostili di Gessio Floro,
nello stesso periodo abbiamo poi il verificarsi di una estesa rivolta
antigiudaica in molte città ellenistiche della Palestina. Secondo
Giuseppe Flavio la prima rivolta di questo genere si verifica a Cesarea
di Palestina. Quella città era abitata da molti greci, oltre che da Giudei e
Romani: in essa si registrano vari incidenti tra greci e Giudei, ma presto
anche in molte altre città della Palestina succedono analoghi disordini e
persino ad Alessandria, in Egitto. I Giudei quindi si ribellano a loro
volta e nascono tumulti per tutte le città della Palestina. Spesso e
volentieri Gessio Floro difende la causa dei pagani contro i Giudei,
alimentando l'odio e ponendo le basi per una rivolta generalizzata di
tutti gli ebrei per tutto il territorio palestinese. Il procuratore infatti non
ha ancora abbandonato il suo antico proposito: invadere con la forza il
Tempio e impadronirsi di tutto il suo tesoro, approfittando del caos
generale. Solo così si spiegano il suo malgoverno e le sue continue
provocazioni nei confronti dei Giudei, secondo Giuseppe Flavio.
Così nell’ottobre-novembre del 66 d.C. Gerusalemme e tutta la Palestina
sono in rivolta, i Giudei attaccano e si difendono dai greci e dai Romani.
Il legato della Siria Cestio Gallio, su richiesta di Gessio Floro, cala in
Palestina con la XII Legione Fulminata, arricchita anche da altri reparti
di rinforzo, per normalizzare la situazione. L'intervento di Gallio segna
così l'inizio della guerra giudaica (66-74 d.C.) le cui vicende sono narrate
nei dettagli nella Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio, un'opera scritta
verso la fine del I secolo dopo Cristo, prima della Antichità Giudaiche.
Partito da Antiochia con le sue truppe, Gallio marcia velocemente verso
Gerusalemme. Distrugge e saccheggia alcune città della Palestina,
occupa in modo incruento la Galilea infine arriva ad assediare la città
santa degli ebrei. Secondo Giuseppe Flavio, Cestio Gallio in questa
prima fase del conflitto avrebbe potuto prendere facilmente
Gerusalemme e probabilmente la guerra sarebbe finita sul nascere senza
troppe sofferenze per i Giudei. Quasi tutta la popolazione dentro la città
era ancora a favore dei Romani e voleva la pace senza opporsi agli
invasori e impegnarsi in un bagno di sangue senza senso. Ma Cestio
Gallio indugia, permette ai ribelli dentro e fuori la città di armarsi,
alimentare la propaganda antiromana e crescere di numero. Fallisce così
il tentativo di assaltare il Tempio, le truppe di Cestio sono prima
costrette a una lenta ritirata strategica nella speranza di ricevere rinforzi
e poi alla rotta, attaccate lungo la via della fuga dai Giudei. Per la XII
Legione è ormai la disfatta totale. Secondo le cronache questa legione
era stata fondata nel 58 a.C. da Giulio Cesare il quale racconta di grandi
imprese condotte da essa durante la conquista delle Gallie e al tempo
della guerra civile in Italia; alla morte di Giulio Cesare il comando della
legione passò ad Antonio, la legione partecipò alla battaglia di Azio nel
34 a.C. poi in seguito venne dislocata in Oriente, le ultime notizie
storiche che la riguardano risalgono al V secolo dopo Cristo. Durante la
prima guerra giudaica la XII Legione comandata da Cestio Gallio subì
quindi la prima e più grave disfatta della sua storia. Il tentativo di
prendere facilmente Gerusalemme così fallisce, i Giudei inseguirono la
XII Legione in ritirata uccidendo molti soldati romani. La XII Legione è
distrutta e in rotta, inseguita dai Giudei. Gerusalemme rimane
completamente in mano dei Giudei che eleggono Giuseppe ben
Gorion e il sommo sacerdote Anano comandanti supremi della città
"liberata" dai Romani, con l'incarico speciale di organizzare i lavori per
l'innalzamento delle mura più esterne della città (cfr. Guerra, 2:563).
Nonostante questo successo dei Gudei molti degli uomini più influenti
di Gerusalemme abbandonano la città perchè temono la reazione dei
Romani e sanno che i Giudei rivoluzionari non hanno alcuna speranza
di vincere una guerra a lungo termine contro l'esercito romano. Con la
disfatta della XII Legione anche il resto della Palestina rimane in mano
dei Giudei, vengono eletti dal Sinedrio vari capi che presidiano tutte le
maggiori città: proprio in questo periodo Giuseppe Flavio verrà inviato
a governare la Galilea.

Intanto a Roma l’imperatore Nerone (nel 67 d.C.) sostituisce il legato di


Siria Cestio Gallio con Vespasiano e lo incarica, coadiuvato da Tito, il
figlio di Vespasiano, di riportare la pace in Palestina e di disperdere i
ribelli. Scrive Giuseppe Flavio che Nerone "trovò che il solo Vespasiano era
all'altezza del compito e capace di sobbarcarsi il peso di una guerra così
importante: un uomo che era invecchiato nei comandi militari esercitati fin
dalla giovinezza e che, dopo aver pacificato sotto il dominio di Roma l'occidente
sconvolto dai Germani, aveva assoggettato la Britannia fino ad allora pressochè
sconosciuta, procurando al padre Claudio di celebrare il trionfo su di essa senza
assogettarsi a personali fatiche" (Guerra Giudaica, 3.4). Vespasiano viene
così inviato ad Antiochia, la capitale della Siria, per assumere il
comando delle legioni X e V. Nel frattempo Tito, il figlio di Vespasiano,
viene inviato ad Alessandria per condurre la XV legione dall'Egitto alla
Siria e unire le sue forze a quelle del padre. Così si radunano in Siria
forze imponenti contro i Giudei: tre legioni, un certo numero di coorti
ausiliarie, truppe fornite da re locali, amici dei Romani, per un totale di
sessantamila uomini, stando almeno alle cifre fornite da Giuseppe
Flavio (Guerra, 3.69). L'attacco alla Palestina avviene da nord, come già
aveva tentato Cestio Gallio prima di Vespasiano. Le truppe romane
prima danno man forte alla città di Sepphoris, la più grande della
Galilea, che era rimasta fedele a Roma. Poi attaccano tutte le altre città
della Galilea in mano ai ribelli Giudei, Giuseppe Flavio racconta che ci
furono episodi atroci in quel teatro di guerra, per esempio "Vespasiano
attaccò la città di Gabara e la prese al primo assalto avendola trovata priva di
uomini abili alle armi; appena vi fu entrato fece trucidare tutti i giovani, non
avendo i Romani riguardo per alcuna età, inaspriti com'erano dall'odio verso la
nazione , sia dal ricordo delle batoste inflitte a Cestio Gallio. Appiccò il fuoco
non soltanto alla città ma anche a tutti i villaggi e a tutte le brigate vicine di
cui alcune trovò completamente deserte, mentre di altre ridusse completamente
in schiavitù la popolazione" (Guerra, 3.132-134). Giuseppe Flavio, che era
governatore della Galilea per i Giudei, dopo un tentativo di resistenza
nella città di Iotapa è costretto a fuggire e infine si consegnerà ai Romani
guadagnando la salvezza per aver profetizzato a Vespasiano che
sarebbe diventato imperatore di Roma al posto di Nerone (cfr. Guerra
G. 3.400-408). Mentre Vespasiano si assicura non senza qualche rovescio
di entità limitata il controllo delle città della Galilea a Gerusalemme il
partito degli "zeloti" (cfr. Guerra Giudaica 4,160-161) mette a morte molte
personalità influenti della città, accusate di collaborazionismo con i
Romani: anche il sommo sacerdote Anano, che si era opposto agli
eccessi dell'estremismo zelota, verrà giustiziato dai ribelli (cfr. Guerra,
4:318). Gli zeloti, infatti, avevano occupato il quartiere del tempio e
persino il santuario, eleggendo al posto di Anano, che era il sommo
sacerdote legittimo, un sommo sacerdote dell'opposizione, nella
persona di Fanni figlio di Samuele. Anano e i suoi seguaci assediarono
per giorni gli zeloti nel quartiere del tempio, ma poi l'arrivo degli
Idumei, che si allearono con gli zeloti, causerà la disfatta delle forze di
Anano, che verrà ucciso. Mentre succedevano questi eventi e
Vespasiano si preparava a marciare per assediare Gerusalemme, giunse
la notizia che a Roma Nerone era morto e Galba era succeduto al suo
posto. Ma dopo circa sette mesi soltanto, Galba venne ucciso e salì al
potere a Roma il suo rivale Ottone. Dopo poco tempo Vitellio, che era
stato legato della provincia di Siria, si impadronì del potere a Roma e la
situazione divenne caotica. Il 1° luglio del 69 d.C., come Giuseppe
Flavio aveva profetizzato, Vespasiano viene nominato imperatore e le
operazioni militari rimangono così sotto il comando del figlio Tito. Il 69
dopo Cristo passò alla storia come l'anno dei quattro imperatori poiché
si alternarono nella carica imperiale Galba, Ottone, Vitellio e, infine,
Vespasiano, che prevalse sugli altri.
Sopra: pianta di Gerusalemme come
doveva apparire nel I secolo dopo Cristo.
La città venne duramente assediata dai
Romani nel corso della guerra giudaica del
66-74 dopo Cristo.
Vespasiano quindi ritorna a Roma per assumere la carica di Imperatore
e la guerra prosegue sotto il comando di Tito, il figlio di Vespasiano.
Tito raccoglie le tre legioni precedentemente comandate dal padre,
aggiunge a queste la ricomposta XII Legione e attraversando la Samaria
raggiunge abbastanza facilmente la zona di Gerusalemme, la capitale
della Giudea, occupata dai rivoltosi asserragliati dentro la città. La
situazione all'interno della città è alquanto complicata. Il potere è
detenuto da almeno tre capi "zeloti": Giovanni figlio di Levi, detto
anche Giovanni di Giscala, un galileo che aveva fondato un partito
rivoluzionario ed era fuggito dalla Galilea al tempo della conquista di
Vespasiano;Simone figlio di Ghiora e infine Eleazar. Questi capi ribelli
sono in lotta tra loro e le loro bande si scontrano apertamente, inoltre
hanno un nemico comune da combattere: i Romani. Scrive Tacito: "tre i
capi, altrettanti gli eserciti: Simone presidiava la cinta esterna; Giovanni,
chiamato anche Bar Ghiora, il centro della città ed Eleazar il tempio. Giovanni
ed Eleazar traevano la loro forza dal gran numero di armati, Eleazar dalla
posizione: ma non si contavano, tra loro, scontri tradimenti, incendi, e le
fiamme si erano divorata una grande scorta di frumento. Più tardi Giovanni,
fingendo di offrire un sacrificio, manda uomini a massacrare Eleazar e i suoi,
impadronendosi così del tempio. La città si divise allora in due fazioni, finchè,
con l'avvicinarsi dei Romani, la guerra esterna riportò la concordia." (Hist., V,
10). Nel mezzo della contesa che vede coinvolti tutti gli zeloti contro i
Romani e le varie fazioni zelote tra di loro, si trova la popolazione di
Gerusalemme, generalmente propensa alla collaborazione con i Romani
e meno estremista degli zeloti. Giuseppe Flavio descrive la tirannia
degli zeloti sulla popolazione di Gerusalemme, molti uomini notabili
sono messi a morte perchè accusati di collaborazionismo e spesso le
bande di zeloti saccheggiano la popolazione che non può difendersi,
ovvero i loro stessi connazionali. Per tutta la durata della fase in cui i
Romani sono impegnati in Galilea e sono così lontani dalla Giudea si
scatena dentro Gerusalemme una tremenda guerra civile fra i tre
capibanda zeloti. L'arrivo dei Romani nei pressi di Gerusalemme
coalizza improvvisamente tutti i capi della rivolta zelota, Giovanni di
Giscala, Simone ben Ghiora ed Eleazar, che comprendono la necessità di
unire le forze per combattere il pericolo comune che ora viene
dall'esterno. I Romani giunti nei pressi di Gerusalemme studiano la
geografia del territorio, la disposizione delle mura della città, la
strategia per riuscire a battere la resistenza dei Giudei. Tito stesso,
appena arrivato a Gerusalemme, rischia subito di essere ucciso mentre
perlustra con una pattuglia le mura della città. Gerusalemme a quel
tempo aveva ben tre cinta di mura che erano state rinforzate e
ulteriormente protette durante i mesi in cui i Giudei avevano controllato
indisturbati la città. Il muro di cinta più esterno proteggeva la parte più
recente della città, costruita dopo l'innalzamento dei muri più interni.
Giuseppe Flavio afferma che le mura della città erano imponenti e
difficili da prendere e infatti i Romani dovranno impegnarsi a fondo per
conquistare la città. I Romani, giunti nel frattempo a Gerusalemme,
costruiscono quindi gli accampamenti e si preparano ad assediare la
città. Poi perlustrano la cinta muraria più esterna, il cosiddetto terzo
muro, alla ricerca di un punto favorevole per creare una breccia.
Individuata una possibile zona, dove il muro era più basso e più
facilmente prendibile, iniziano ad ammassare le macchine da guerra e
ad innalzare dei terrapieni e delle strutture per abbattere il muro.
Questo attacco secondo Giuseppe Flavio parte dal settore antistante la
tomba del sommo sacerdote Giovanni, dove il muro più esterno era più
basso e non si saldava al secondo muro; l'obiettivo è di impadronirsi
facilmente del muro più interno e quindi della città alta e, attraverso la
torre Antonia, del santuario, l'area controllata dai partigiani di Giovanni
di Giscala (cfr. Guerra, 5:259-260). Dopo quindici giorni riescono a
creare una breccia nel muro più esterno e a far retrocedere i Giudei che
si chiudono dietro il secondo muro. Conquistata questa posizione i
Romani quindi la consolidano abbattendo gran parte del muro e
allargando quindi la breccia in modo da agevolare eventuali ritirate
strategiche; gran parte della città non più protetta da questo muro viene
quindi distrutta e saccheggiata (cfr. Guerra, 5:302). I Giudei, perse le
posizioni iniziali, si difendono valorosamente dietro il secondo muro,
tentano l'impossibile per impedire ai Romani di penetrare anche questo
bastione difensivo ma in soli cinque giorni le truppe di assalto romane
riescono a creare una piccola breccia anche nel secondo muro e a far
ritirare i Giudei. I Romani penetrano quindi nella cosiddetta città
nuova, una zona della città in cui si trovavano i negozi della lana, le
officine dei fabbri e il mercato delle vesti, piena di piccole viuzze
(cfr. Guerra, 5:331). Questa volta però i Romani commettono un
pericoloso errore, non allargano la breccia nel secondo muro lasciando
solo un passaggio molto stretto e non distruggono la parte di città
conquistata come per lasciare alla popolazione un segnale che in caso di
resa Gerusalemme non avrebbe subito gravi conseguenze. Ma questa
imprudenza strategica costa caro ai Romani: i Giudei attaccano i
Romani i quali subiscono gravi perdite a causa della difficoltà della
ritirata attraverso i quartieri intatti della città e la strettissima breccia del
secondo muro. Dopo un momento di smarrimento i Romani riescono a
ricomporsi e a ricacciare i Giudei dietro il primo muro, quello più
interno, consolidando la posizione faticosamente guadagnata. Questa
volta abbattono un gran tratto del secondo muro. Nel frattempo la
popolazione all'interno della città inizia a soffrire la fame, causata dal
protrarsi dell'assedio. Il cibo e l'acqua iniziano a scarseggiare e vengono
sempre più spesso sequestrati dai rivoluzionari zeloti per il proprio
sostentamento. Giuseppe Flavio si trova al seguito dell'esercito di Tito e
tiene dei discorsi vicino alle mura della città per convincere i suoi
connazionali ad arrendersi e a disertare dalla guerra voluta dal partito
degli zeloti.

Come abbiamo detto la maggioranza della popolazione, secondo


Giuseppe Flavio, non era favorevole a un simile scontro contro i Romani
e a causa delle sofferenze della guerra sarebbe anche stata disposta ad
arrendersi e scendere a patti col nemico. Per questo motivo in questa
fase della guerra gli zeloti, al contrario propugnatori della resistenza ad
oltranza a qualunque costo, impediscono alla popolazione di uscire
dalla città per arrendersi ai Romani e intensificano le esecuzioni
sommarie dei collaborazionisti. D'altro canto i Romani iniziano in
questo periodo una macabra pratica, crocifiggono nei pressi delle mura
molti Giudei che fuggono dalla città per arrendersi. Queste crocifissioni
di massa vengono sfruttate per fini propagandistici antiromani dagli
zeloti. Constatata la difficoltà di prendere in poco tempo l'ultima cinta
muraria, quella più interna, Tito stabilisce di stringere ancora di più
l'assedio della città e di costringere alla resa per fame la popolazione e
soprattutto i ribelli zeloti. In pochissimo tempo, secondo Giuseppe
Flavio in tre giorni soltanto, viene costruito un vallo attorno a tutta la
città, che viene circondata da trincee attraverso le quali è impossibile
scappare. Giuseppe Flavio scrive che Tito: "cominciando dal campo degli
Assiri, dove si trovava il suo accampamento, fece drizzare il vallo verso la parte
più bassa della Città Nuova e di lì attraverso il Cedron fino al Monte degli
Ulivi; poi, facendolo piegare verso sud, racchiuse il monte fino alla rupe
chiamata Colombaia e l'adiacente collina che domina i pendii della fonte Siloa e
di lì lo fece volgere a occidente e scendere nella valle della fonte. Il
trinceramento risaliva poi lungo il monumento del sommo sacerdote Anano e,
tagliando il colle su cui s'era accampato Pompeo, volgeva verso nord e,
raggiunta una frazione che si chiamava Casa dei Ceci, recingeva poi il
monumento di Erode e, volgendo a oriente, arrivava all'accampamento dove
aveva preso inizio." (cfr. Guerra, 5:504-507). Costruito il vallo vengono
istituiti dei turni di guardia severissimi, di giorno e di notte i Romani
sorvegliano che niente possa entrare nella città. L'obiettivo degli
assedianti è quello di costringere alla fame la popolazione e i ribelli e
viene presto raggiunto. Giuseppe Flavio racconta scene orribili,
moltissime persone muoiono di fame, una madre impazzita viene
addirittura trovata a mangiare le carni del proprio bambino (cfr. Guerra,
5.512) un episodio che si cita ancora oggi come esempio della
disperazione e della follia cui può portare una guerra. Del resto,
secondo quanto riportato da Giuseppe Flavio, l'assedio della città iniziò
in prossimità delle festività della Pasqua ebraica. In quel periodo erano
moltissimi i pellegrini che dalle regioni della Palestina raggiungevano
Gerusalemme per celebrare la Pasqua nel Tempio, aggiungendosi alla
popolazione cittadina: "erano infatti convenuti da ogni parte del Paese per la
festa degli Azzimi quando improvvisamente scoppiò la guerra in cui si
trovarono invischiati e il sovraffollamento causò dapprima l'insorgere tra loro
di una pestilenza e poi l'ancor più travolgente flagello della fame" (cfr. Guerra,
6:421). E Tacito scrive: "la massa degli assediati, di ogni età e dei due sessi,
maschi e femmine, ascendeva, come ci hanno confermato, a seicentomila."
(Hist., V, 10).

Dopo mesi di assedio strettissimo i Romani riescono a penetrare


nell'area del Tempio, nella zona della Torre Antonia, la parte della città
maggiormente presidiata dagli zeloti. La conquista del Tempio è
l'episodio chiave che consegna Gerusalemme ai Romani. Secondo la
cronaca di Giuseppe Flavio il Tempio venne incendiato dai Romani,
sebbene non per volontà diretta di Tito che anzi si rammarica di quanto
successo. Pare che i Giudei per primi abbiano dato alle fiamme alcune
zone del Tempio per impedire ai Romani di entrarvi durante l'attacco.
Poi, una volta conquistato il Tempio, mentre Tito e i suoi generali lo
stavano visitando, alcuni soldati gettarono dei tizzoni accesi e questo
fece scoppiare un incendio incontrollabile. Quando le fiamme si
placarono quello che era rimasto del Tempio venne completamente raso
al suolo. Dopo la distruzione del 586 avanti Cristo per opera dei
Babilonesi di Nabucodonosor il Tempio di Gerusalemme veniva
abbattuto per la seconda e ultima volta nella storia del popolo ebraico.
Assicurato il controllo del Tempio, il resto della conquista della città è
un compito relativamente facile per i Romani, gli zeloti sono ormai vinti
e in rotta. Giovanni di Giscala, uno dei principali capi della rivolta,
viene catturato vivo ed imprigionato a vita; anche Simone figlio di
Ghiora, un'altro dei capi degli zeloti, viene presto catturato e sarà
giustiziato poco dopo, durante le celebrazioni della vittoria sui Giudei.
Dopo il Tempio, anche il resto della città di Gerusalemme venne
abbondantemente distrutto e dato alle fiamme, le mura della città
furono completamente rase al suolo tranne alcuni torri strategiche: tutto
questo accadde nel 70 dopo Cristo. Si trattò di un evento drammatico e
di importanza capitale per il popolo ebraico, descritto da Giuseppe
Flavio nella Guerra Giudaica con le seguenti parole:

Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VI, 9.1 - “Tito, entrato nella città, ne ammirò le
fortificazioni e soprattutto le torri, che i capi dei ribelli nella loro stoltezza avevano
evacuato. Osservando l'altezza della base massiccia, le dimensioni di ogni blocco di
pietra e la precisione delle commessure e il loro sviluppo totale in ampiezza e in
altezza disse: 'Veramente abbiamo combattuto con l'aiuto di Dio' e 'fu Dio che fece
uscire i Giudei da queste fortezze; infatti contro queste torri che cosa possono mani
di uomo o macchine?'. Simili considerazioni più volte egli le fece con gli amici
mentre rimetteva in libertà i prigionieri dei capiribelli trovati nelle torri. Più tardi,
quando distrusse il resto della città e abbatté le mura, risparmiò queste torri a
ricordo della sua fortuna, che l'aveva aiutato a impadronirsi di fortezze
imprendibili.”

Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VII, 1, 1-4 - “Quando l’esercito non ebbe più da
uccidere e da saccheggiare, non essendoci nient’altro su cui sfogare il furore – e
certamente nulla avrebbero risparmiato finché restava qualcosa da fare – Cesare
diede l’ordine di radere al suolo l’intera città e il tempio lasciando solo le torri che
superavano le altre in altezza, Fasael, Ippico e Mariamme, e il settore delle mura
che cingeva la città ad occidente: questo per proteggere l’accampamento dei soldati
che vi sarebbero rimasti di guarnigione, le torri per far comprendere ai posteri
com’era grande e fortificata la città che non aveva potuto resistere al valore dei
romani. Tutto il resto della cinta muraria fu abbattuto e distrutto in maniera così
radicale che chiunque fosse arrivato in quel luogo non avrebbe mai creduto che vi
sorgeva una città. Tale dunque, per colpa dei pazzi rivoluzionari, fu la fine di
Gerusalemme, una città ammirata e famosa in tutto il mondo.”

LA DISTRUZIONE DEL TEMPIO DI GERUSALEMME (70 d.C.)

I Vangeli sinottici (vedi Matteo 24:1-51, Marco 13:1-36 e Luca 21:5-28)


contengono un possibile riferimento alla distruzione del Tempio di
Gerusalemme e alla guerra. Nella narrazione tutto questo è profetizzato
dalle parole di Gesù Cristo. Molti assumono il riferimento contenuto
nella profezia della distruzione del Tempio come un chiaro indizio che i
Sinottici sono stati scritti dopo la distruzione del Tempio stesso, almeno
limitatamente a questa porzione. La profezia sarebbe quindi stata
scritta post eventum. Ma, d'altra parte, è anche vero che il tono
fortemente apocalittico che assume la profezia ("il sole si oscurerà, la
luna non darà più la sua luce, gli astri cadranno dal cielo e le potenze
dei cieli saranno sconvolte") subito dopo l'annuncio della distruzione
del tempio, sembra al contrario portare alla conclusione che la profezia
non può essere stata scritta molti anni dopo la distruzione del tempio.

Indagine sulla profezia della distruzione del tempio

Analizziamo ora come avvenne tecnicamente la distruzione del tempio


di Gerusalemme, sulla base di quanto riportato da Giuseppe Flavio in
Guerra Giudaica. Durante la fase finale della conquista della città la
lotta si concentra nell'area del tempio e da un brano di Giuseppe Flavio
apprendiamo che i Giudei, al fine di rallentare l'avanzata dei Romani,
prendono la decisione di incendiare una porzione di un portico del
tempio:

Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VI, 177-180 - [177] I ribelli asserragliati nel
tempio, che giorno per giorno non cessavano di affrontare in campo i nemici che
venivano all'attacco sui terrapieni, il giorno ventisette del mese sopra ricordato,
ordirono questo tranello. [178] Riempirono di legna secca l'intercapedine fra le travi
del portico occidentale e il sottostante soffitto, aggiungendovi anche bitume e pece;
poi, facendo finta di non essere più in grado di resistere, si ritirarono. [179] Allora
molti Romani si lasciarono sconsideratamente trasportare dalla foga e, incalzando
quelli che fingevano di ritirarsi, montarono sul portico appoggiandovi delle scale; i
più accorti, invece, s'insospettirono per l'inspiegabile ritirata dei Giudei e restarono
fermi. [180] Intanto il portico si era riempito di soldati che vi erano montati e ad un
certo momento i Giudei vi appiccarono il fuoco. In un baleno le fiamme si
propagarono da ogni parte grande fu il terrore che s'impadronì dei Romani, mentre
quelli presi in trappola non sapevano come uscirne.

Questa prima descrizione dell'incendio del tempio non deve trarre in


inganno. Infatti i Giudei incendiarono soltanto il portico occidentale, tÁj
™spe…ou stoaj nel testo greco, non certo tutto il tempio, la cui
distruzione non fu opera dei Giudei. A quel tempo il tempio di
Gerusalemme costituiva un'area vastissima, che comprendeva l'edificio
sacro, cioè il tempio vero e proprio, costituito dal Santo e dal Santo dei
Santi (Sancta Sanctorum), più tutta una serie di cortili, atri e portici
esterni che circondavano e delimitavano questa grande piattaforma. In
genere in greco tutto il complesso del tempio veniva indicato con la
parola „erÕn. Le cartine riportate illustrano efficacemente la situazione. I
Giudei, in questa azione bellica, non incendiarono certo il tempio intesto
come il luogo sacro, chiuso e coperto, che in greco in genere è detto naoj.
L'incendio descritto in Guerra Giudaica VI, 177-180 fu un espediente per
bloccare momentaneamente i Romani e riguardò solo un portico
collocato lontano dal tempio vero e proprio. Giuseppe Flavio racconta
poi che quando l'incendio si placò, i Giudei abbatterono le rovine del
portico (cfr. Guerra Giud., VI, 191) e subito dopo i Romani a loro volta
incendiarono l'intero portico settentrionale (cfr. Guerra Giud., VI, 192).
La lotta si sposta così pian piano dalle parti più lontane verso l'area del
tempio sacro vero e proprio. L'incendio finale del tempio, inteso come
edificio sacro, avviene secondo Giuseppe Flavio in maniera casuale, non
voluta da Tito. Furono quindi i Romani ad incendiare il vero e proprio
edificio sacro (naoj), mentre i Giudei difesero fino all'ultimo questo loro
edificio santissimo e la sua distruzione fu per loro fu una tragedia
nazionale, un'onta di proporzioni indicibili. Ecco come viene raccontato
in Guerra Giudaica l'incendio finale del tempio da parte dei Romani:

Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, libro VI, 252 - Fu allora che un soldato
[romano] senza aspettare l'ordine e senza provare alcun timore nel compiere un
gesto così terribile, spinto da una forza sovrannaturale afferrò un tizzone ardente e,
fattosi sollevare da un commilitone, lo scagliò dentro attraverso una finestra dorata
che dava sulle stanze adiacenti al tempio sul lato settentrionale.
In questo passo Giuseppe utilizza proprio il termine naoj, non vi è
dubbio quindi che alluda proprio all'edificio sacro del tempio. Non può
sfuggire al lettore attento la commozione di Giuseppe Flavio nel
descrivere questo atto finale. Giuseppe parla di gesto terribile, di forza
soprannaturale che armò la mano del soldato romano. Anche dopo tanti
anni dal fatto Giuseppe quasi si commuove nel raccontare la distruzione
del "suo" tempio. Tito, che assistette alla scena, diede ordine di spegnere
immediatamente l'incendio, del resto non era stato ordinato di
incendiare l'edificio del tempio:

Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, libro VI, 256 - Sia con la voce, sia con la mano
Cesare diede ordine ai combattenti di spegnere il fuoco ma essi nè udirono le sue
parole, assordati dai clamori più forti, nè badarono ai segni della sua mano, essendo
tutti presi alcuni dal combattimento, altri da una smania furiosa.

Dunque nel racconto di Giuseppe Flavio non solo i Giudei di sicuro non
avrebbero mai distrutto con le proprie mani il tempio, ma neppure lo
avrebbero mai fatto gli alti comandi militari romani. Ma il verso di
Guerra Giudaica che più interessa è quello che descrive la disperazione
dei Giudei nel momento in cui il Tempio (e intendo qui l'edificio sacro)
venne incendiato:

Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, libro VI, 253 - Al levarsi delle fiamme i Giudei
proruppero in un grido terrificante come quel tragico momento e, incuranti della
vita e senza risparmio di forze, si precipitarono al soccorso perchè stava per andare
distrutto quello che fino ad allora avevano cercato di salvare.

I Giudei quindi non vollero certo distruggere il loro tempio, quanto


raccontato nel libro VI, 177-180 fu solo un espediente che riguardò una
zona del complesso del tempio lontana dall'edificio sacro (naoj).
L'incendio definitivo del luogo sacro fu operato dai Romani e, secondo
Giuseppe Flavio, non fu espressamente ordinato dal comandante Tito, il
quale anzi diede ordine di fare il possibile per spegnere l'incendio.
Questo dimostra non solo che i Giudei difesero fino all'ultimo il tempio
per evitare che cadesse in mano nemica e che andasse distrutto nei
combattimenti, ma che anche l'alto comando militare romano cercò di
evitarne l'incendio anche se non vi riuscì. Al termine della guerra, non
essendo riusciti a placare l'incendio, i Romani abbatterono quello che
era rimasto del tempio (cfr. Guerra, VII, 1, 1-4).

Particolare dell'arco di trionfo di Tito a Roma (71 d.C.). Soldati


romani prelevano le suppellettili sacre del Tempio di
Gerusalemme prima della sua definitiva distruzione.

Negli anni successivi alla distruzione del tempio, fino al 74 d.C. le


operazioni di rastrellamento e di distruzione dei centri di resistenza dei
ribelli continuarono con l’assedio e l’assalto alle fortezze di Masada,
Macheronte, Herodium e forse anche Qumran. Erano infatti rimaste
attive delle roccaforti o delle fortezze in mano ai Giudei. Uno degli
ultimi episodi della guerra giudaica fu l'assedio e la conquista della
fortezza di Masada, avvenuto verso il 74 dopo Cristo. Quando i Romani
riuscirono a prendere e ad entrare nella cittadella fortificata, trovarono
che i soldati ebrei avevano ucciso tutte le donne e i bambini e si erano
suicidati tutti quanti per non subire l'onta di cadere nelle mani del
nemico.

Pianta del Tempio di Gerusalemme nel I secolo d.C.

La rivolta di bar Kokhba e la fine del messianismo giudaico (132-135 d.C.)

Si potrebbe pensare che la dura lezione subita dai Giudei durante la


guerra del 66-74 d.C. sia stata più che sufficiente a scongiurare
qualunque tentativo di ulteriore ribellione. Non fu affatto così: al tempo
di Traiano, tra il 115 e il 117 d.C., si ebbe una rivolta dei Giudei della
diaspora come descritto nella Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea
e in Dione Cassio. La repressione romana fu violenta e secondo le
cronache provocò decine e centinaia di migliaia di morti (cfr. Eusebio,
Storia Ecclesiastica, IV, 2, 4 e Dione Cassio, LXVIII, 30). Eusebio riporta
anche che a Cirene il leader locale Andrea (o Lukuas) venne acclamato
come Messia dalla popolazione. Una ribellione dei Giudei ancora più
grave ebbe luogo nel periodo 132-135 d.C., al tempo
dell’imperatore Adriano. In quel tempo l'imperatore aveva deciso di
intraprendere una politica di massiccia ellenizzazione e romanizzazione
della Palestina che culminò con due provvedimenti gravissimi per i
Giudei: la proibizione della circoncisione sia ai pagani che ai Giudei e la
decisione di ricostruire la città santa di Gerusalemme come Aelia
Capitolina. Scoppiò così una guerra tra Giudei e Romani, l'ultimo
grande conflitto che richiamava la grande aspettativa messianica
giudaica. Capo della rivolta antiromana questa volta era Simon bar
Koseba, un leader che il rabbino Aquiba, un esponente molto
importante dell'ebraismo di quel tempo, aveva addirittura riconosciuto
come Messia. Simon bar Koseba era chiamato anche Simon bar
Kokhba, un nome di battaglia messianico che significa "figlio della
stella", secondo la profezia di Numeri 24:17 ("una stella spunta da
Giacobbe e uno scettro sorge da Israele, spezza le tempie di Moab e il
cranio dei figli di Set). Dopo un anno dall'inizio della rivolta l'esercito
giudaico aveva completamente annientato almeno una legione romana,
forse due. In Palestina non c'erano più truppe romane, Gerusalemme
era stata conquistata ed era stata insediata un'amministrazione ebraica.
La rivolta arrivò a un passo dal successo e fallì principalmente perchè a
bar Kokhba vennero meno i suoi alleati. Secondo un suo disegno
grandioso, le truppe avrebbero dovuto ricevere il sostegno di forze
provenienti dalla Persia, dove risiedeva un gran numero di ebrei che
godevano del favore della casa regnante. Ma proprio nel momento in
cui Simon bar Kokhba aveva più bisogno del loro aiuto, la Persia subì
l'invasione di tribù bellicose scese dalle montagne del nord, che richiese
l'intervento dei soldati persiani e lasciò Simon privo dell'aiuto sperato.
Intanto in Siria, fuori dei confini della Palestina, i Romani si
riorganizzavano sotto la guida dell'imperatore Adriano, che aveva come
comandante in seconda Giulio Severo, in precedenza abile governatore
della Britannia. L'esercito romano composto di dodici legioni, per un
totale di circa ottantamila soldati, invase di nuovo la Palestina e con una
tattica a tenaglia costrinse bar Kokhba a rifugiarsi a Beitar, il suo
quartier generale, a pochi km da Gerusalemme (135 d.C.) La seconda
rivolta giudaica fu così ancora una volta repressa nel sangue,
Gerusalemme già abbondantemente distrutta al tempo della prima
guerra giudaica venne completamente spianata e divenne colonia
romana col nome di Aelia Capitolina. Agli ebrei fu persino proibito di
entrare nella nuova città, ricostruita completamente secondo il modello
greco, e nel luogo dove sorgeva l’antico Tempio distrutto dalle truppe
di Tito fin dal 70 d.C. e mai ricostruito da allora venne eretto un tempio
in onore di Giove. La guerra del 132-135 d.C. segnò la fine delle
speranze messianiche del giudaismo e la scomparsa di tutta la
tradizione apocalittica giudaica. Da quel momento l'ebraismo verrà a
coincidere con il rabbinismo di tradizione farisaica che sostanzialmente
è rimasto fino ad oggi. E' interessante osservare quale fu l'atteggiamento
dei cristiani durante le rivolte giudaiche, secondo la tradizionale storia
della Chiesa. Durante la guerra del 66-74, stando alle cronache degli
storici della Chiesa, i Cristiani fuggirono a Pella, oltre il Giordano,
evitando così di compromettersi con la rivolta. Giustino, vissuto nel II
secolo, racconta che i Cristiani furono perseguitati violentemente da Bar
Kokhba:

Giustino, I Apologia, 31, 6 - Nella guerra giudaica che si è svolta di recente, bar
Kokhba, capo della rivolta giudaica, comandò di condurre ad atroci tormenti solo i
cristiani a meno che non avessero rinnegato Cristo e non lo avessero bestemmiato.

Quanto riportato da Giustino sembra del resto essere testimoniato da


una lettera di bar Kokhba ritrovata nel deserto di Giuda che parla dei
"Galilei" come potenziali nemici (cfr. P. Benoit, J.T. Milik, R. de
Vaux, Discoveries in the Judean Desert of Jordan II. Les grottes de
Murabba'at, Oxford, Clarendon Press, 1961, pp. 159-160).

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