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Trascrizione:
L. 1 ]S TIBERIEUM
L. 2 [PON]TIUS
PILATUS
L. 3 [PRAEF]ECTUS
IUDA[E]A
Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VI, 9.1 - “Tito, entrato nella città, ne ammirò le
fortificazioni e soprattutto le torri, che i capi dei ribelli nella loro stoltezza avevano
evacuato. Osservando l'altezza della base massiccia, le dimensioni di ogni blocco di
pietra e la precisione delle commessure e il loro sviluppo totale in ampiezza e in
altezza disse: 'Veramente abbiamo combattuto con l'aiuto di Dio' e 'fu Dio che fece
uscire i Giudei da queste fortezze; infatti contro queste torri che cosa possono mani
di uomo o macchine?'. Simili considerazioni più volte egli le fece con gli amici
mentre rimetteva in libertà i prigionieri dei capiribelli trovati nelle torri. Più tardi,
quando distrusse il resto della città e abbatté le mura, risparmiò queste torri a
ricordo della sua fortuna, che l'aveva aiutato a impadronirsi di fortezze
imprendibili.”
Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VII, 1, 1-4 - “Quando l’esercito non ebbe più da
uccidere e da saccheggiare, non essendoci nient’altro su cui sfogare il furore – e
certamente nulla avrebbero risparmiato finché restava qualcosa da fare – Cesare
diede l’ordine di radere al suolo l’intera città e il tempio lasciando solo le torri che
superavano le altre in altezza, Fasael, Ippico e Mariamme, e il settore delle mura
che cingeva la città ad occidente: questo per proteggere l’accampamento dei soldati
che vi sarebbero rimasti di guarnigione, le torri per far comprendere ai posteri
com’era grande e fortificata la città che non aveva potuto resistere al valore dei
romani. Tutto il resto della cinta muraria fu abbattuto e distrutto in maniera così
radicale che chiunque fosse arrivato in quel luogo non avrebbe mai creduto che vi
sorgeva una città. Tale dunque, per colpa dei pazzi rivoluzionari, fu la fine di
Gerusalemme, una città ammirata e famosa in tutto il mondo.”
Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VI, 177-180 - [177] I ribelli asserragliati nel
tempio, che giorno per giorno non cessavano di affrontare in campo i nemici che
venivano all'attacco sui terrapieni, il giorno ventisette del mese sopra ricordato,
ordirono questo tranello. [178] Riempirono di legna secca l'intercapedine fra le travi
del portico occidentale e il sottostante soffitto, aggiungendovi anche bitume e pece;
poi, facendo finta di non essere più in grado di resistere, si ritirarono. [179] Allora
molti Romani si lasciarono sconsideratamente trasportare dalla foga e, incalzando
quelli che fingevano di ritirarsi, montarono sul portico appoggiandovi delle scale; i
più accorti, invece, s'insospettirono per l'inspiegabile ritirata dei Giudei e restarono
fermi. [180] Intanto il portico si era riempito di soldati che vi erano montati e ad un
certo momento i Giudei vi appiccarono il fuoco. In un baleno le fiamme si
propagarono da ogni parte grande fu il terrore che s'impadronì dei Romani, mentre
quelli presi in trappola non sapevano come uscirne.
Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, libro VI, 252 - Fu allora che un soldato
[romano] senza aspettare l'ordine e senza provare alcun timore nel compiere un
gesto così terribile, spinto da una forza sovrannaturale afferrò un tizzone ardente e,
fattosi sollevare da un commilitone, lo scagliò dentro attraverso una finestra dorata
che dava sulle stanze adiacenti al tempio sul lato settentrionale.
In questo passo Giuseppe utilizza proprio il termine naoj, non vi è
dubbio quindi che alluda proprio all'edificio sacro del tempio. Non può
sfuggire al lettore attento la commozione di Giuseppe Flavio nel
descrivere questo atto finale. Giuseppe parla di gesto terribile, di forza
soprannaturale che armò la mano del soldato romano. Anche dopo tanti
anni dal fatto Giuseppe quasi si commuove nel raccontare la distruzione
del "suo" tempio. Tito, che assistette alla scena, diede ordine di spegnere
immediatamente l'incendio, del resto non era stato ordinato di
incendiare l'edificio del tempio:
Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, libro VI, 256 - Sia con la voce, sia con la mano
Cesare diede ordine ai combattenti di spegnere il fuoco ma essi nè udirono le sue
parole, assordati dai clamori più forti, nè badarono ai segni della sua mano, essendo
tutti presi alcuni dal combattimento, altri da una smania furiosa.
Dunque nel racconto di Giuseppe Flavio non solo i Giudei di sicuro non
avrebbero mai distrutto con le proprie mani il tempio, ma neppure lo
avrebbero mai fatto gli alti comandi militari romani. Ma il verso di
Guerra Giudaica che più interessa è quello che descrive la disperazione
dei Giudei nel momento in cui il Tempio (e intendo qui l'edificio sacro)
venne incendiato:
Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, libro VI, 253 - Al levarsi delle fiamme i Giudei
proruppero in un grido terrificante come quel tragico momento e, incuranti della
vita e senza risparmio di forze, si precipitarono al soccorso perchè stava per andare
distrutto quello che fino ad allora avevano cercato di salvare.
Giustino, I Apologia, 31, 6 - Nella guerra giudaica che si è svolta di recente, bar
Kokhba, capo della rivolta giudaica, comandò di condurre ad atroci tormenti solo i
cristiani a meno che non avessero rinnegato Cristo e non lo avessero bestemmiato.