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Robert Flacelière

La vita quotidiana
in Grecia nel secolo
BIBLIOTECA DELLA STORIA
VITE QUOTIDIANE
R obert Flacelière

La vita quotidiana
in Grecia
nel secolo di Pericle

BLR
Razzoli >— CORRIERE DELLA SEDA
VITE QUOTIDIANE
Biblioteca della storia. Vite quotidiane
Volume 8 - Robert Flacelière, La vita quotidiana in Grecia
n el secolo d i P ericle

Proprietà letteraria riservata


© 1959 Hachette Littérattures
© 1983-2017 Rizzoli Libri S.p.A. / BUR Rizzoli
© 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano

Titolo originale: La vie q u otidienne en G rèce au sied e d e P ériclès

Traduzione di Maria Grazia Meriggi

Edizione speciale su licenza di Mondadori Libri S.p.A. / Rizzoli


per Corriere della Sera
© 2 017 RCS MediaGroup S.p.A.

LE GRAN DI OPERE DEL CORRIERE DELLA SERA


N. 7 del 15 febbraio 2018
Direttore responsabile: Luciano Fontana
RCS MediaGroup S.p.A.
Via Solferino 28, 20121 Milano
Sede legale: via Rizzoli 8, 2 0132 Milano
Reg. Trib. n. 537 del 19/07/2004
ISSN 1824-45800

Responsabile area collaterali Corriere della Sera: Luisa Sacchi


Editor: Barbara Brambilla
La vita quotidiana in Grecia
nel secolo di Pericle
Cronologia del secolo di Pericle

(Tutte le date s’intendono avanti Cristo)

V sec. Oltre alla tragedia, fiorisce in Atene la comme­


dia antica di Epicarmo, Cratino, Eupoli, del li­
bellista Ermippo. A Tebe insegna il pitagorico
Filolao, a Chio Enopide, astronomi. Archelao di
Mileto è ad Atene, maestro di Socrate.
Vengono costruiti i templi di Selinunte e di
Agrigento. Tra gli architetti eccellono Ictino,
Fidia, Mesicle; tra gli scultori, Mirone, Poli-
cleto e ancora Fidia; Agatarco di Samo crea le
scenografie per Eschilo; dipingono Apollodoro
di Atene, inventore del chiaroscuro, Poiignoto,
Parrasio. Sul finire del secolo, fiorisce la scuola
di medicina di Ippocrate di Cos.
500 Nasce Anassagora.
499 Eschilo debutta ad Atene.
499-428 Anassagora di Clazomene.
496 Nasce Sofocle.
495 ca. Nascita di Pericle.
494 I persiani distruggono Mileto.

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La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

493 Ad Agrigento nasce Empedocle.


492 Primo tentativo persiano contro la Grecia; la
flotta di Dario viene distrutta da una tempesta
davanti al promontorio dellAthos.
490 Dati e Artaferne guidano l ’esercito persiano
all’assalto della Grecia. Milziade ateniese batte i
persiani sbarcati nella pianura di Maratona (set­
tembre).
489 Morte di Milziade.
486-465 E re di Persia Serse I.
486-411 Protagora di Abdera fonda la sofistica.
485 Gelone diventa tiranno di Siracusa.
484 Nasce Erodoto, il padre della storia.
483-375 Gorgia di Leontini.
480 Serse guida una gigantesca spedizione per ma­
re e per terra contro la Grecia. Sacrificio degli
Spartani di Leonida alle Termopoli (agosto); in
settembre, scontro navale a Salamina.
Anassagora va ad Atene. Nasce Euripide.
L’ateniese Temistocle disperde la flotta di Serse
che è costretto alla ritirata.
A Imera, i greci di Sicilia battono i cartaginesi.
479 Atene costruisce le mura del Pireo.
I persiani vengono nuovamente sconfitti per ter­
ra a Platea e per mare a Micale.
477 Fondazione della Lega Delio-attica.
472 Eschilo rappresenta i Persiani. Cinque anni do­
po, I sette a Tebe.
470 Temistocle è bandito con l ’ostracismo.
468 Morte di Aristide il Giusto.
467 Pericle comincia la sua carriera politica.

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Cronologia del secolo di Pericle

465 L’ateniese Cintone batte i persiani aH’Eurime-


donte.
461 Cintone è bandito da Atene. Assassinio di Efialte.
460-370 Democrito di Abdera fondatore dell’atomismo.
460 Nasce Tucidide.
459 Temistocle muore esule alla corte persiana.
458 Eschilo rappresenta l ’Orestea.
456 Morte di Eschilo.
450 Parmenide di Elea scrive La N atura.
Nasce Aristofane.
Ad Atene, si costruisce il Teseion.
448 Pace di Callia tra Atene e la Persia.
447 Ictino e Callicrate, sotto la direzione di Fidia,
danno inizio ai lavori per la costruzione del Par-
tenone.
446-411 Eupoli, commediografo.
445 Nasce Lisia.
444-365 Antistene di Atene, fondatore della scuola cinica.
'443-429 Supremazia di Pericle in Atene.
442 Muore Pindaro, autore delle O lim piadi.
Sofocle rappresenta A ntigone e Aiace.
438 Euripide rappresenta Alcesti.
437-433 Mnesicle costruisce i Propilei sull’A cropoli.
435 Insurrezione di Corcira contro Corinto.
435-366 Aristippo di Cirene fondatore della scuola cire­
naica.
433 Morte di Empedocle.
432 Potidea si ribella ad Atene.
Processo contro Aspasia.
431-404 Guerra del Peloponneso.
431 Euripide rappresenta M edea.

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La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

430 Pericle è processato per peculato.


Nasce Senofonte.
430-420 Viene costruito in Atene il tempietto ad Atena
Nike.
429 Morte di Pericle. Cleone diviene capo del parti­
to popolare.
Sofocle rappresenta Edipo re.
428 Muore Anassagora. Euripide rappresenta Ippolito.
427 Nasce Platone.
425 Muore Erodoto, autore delle Storie.
425-421 Aristofane rappresenta Gli A carnesi, I C avalieri,
Le n u vole, Le vespe, La pace.
422 Gli ateniesi sono battuti ad Anfipoli.
421 Pace di Nicia tra Sparta ed Atene.
420 Viene costruito il tempio di Segesta. Alkmenes
costruisce il secondo tempio di Dioniso ad Ate­
ne. Ha inizio la costruzione dell’Eretteo.
415 Spedizione ateniese in Sicilia. Alcibiade passa a
Sparta.
Euripide rappresenta Le Troadi.
414-405 Aristofane rappresenta Gli u ccelli, Le Tesmofo-
riazuse, Lisistrata e Le rane.
413-327 Diogene cinico.
413 Disastro della spedizione in Sicilia. Morte di Ni­
cia e prigionia della migliore gioventù ateniese.
Euripide rappresenta Elettra.
410 Alcibiade è di nuovo ad Atene.
Processo contro Euripide.
409 Vengono rappresentati YElettra e il F ilottete di
Sofocle.
408 Euripide: Oreste.

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Cronologia del secolo di Pericle

407 Alcibiade è di nuovo bandito.


406 Vittoria ateniese alle Arginuse.
Morte di Euripide. Sofocle rappresenta Edipo a
C olono e muore nello stesso anno.
405-367 A Siracusa, tirannide di Dionisio (o Dionigi) I,
il Vecchio.
405 Vengono rappresentate postume Ifigen ia in Au-
lid e e le B accan ti di Euripide.
Lo spartano Lisandro batte gli ateniesi a Ego-
spotami.
404 Capitolazione di Atene; scioglimento della Lega
Delio-attica. In Atene si instaura il governo dei
Trenta tiranni. Farnabazo, re di Frigia, fa ucci­
dere Alcibiade.
403 Trasibulo guida una rivolta contro i Trenta, che
vengono cacciati da Atene.
401 Battaglia di Cunassa tra Ciro e Artaserse II di
Persia. Ritirata (anabasi) dei mercenari ateniesi
di Senofonte.
IV sec. Fiorisce la scultura di Prassitele, Scopa, Lisippo;
la pittura di Zeusi; Policleto di Sicione erige il
teatro di Epidauro.
399 Processo e condanna di Socrate.
396 Muore Tucidide, autore della G uerra d el P elo­
ponneso.
396-388 Platone scrive LApologia d i Socrate, il Critone,
il C arm ide, il Lachete, il Liside, il P rotagora e il
G orgia, YEutifrone, Ylppia M inore, il M enesseno,
il M enone, YEutidemo.
394 L’ateniese Conone distrugge la flotta spartana a
Cnido.

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La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

390-388 Aristofane rappresenta le E cclesiazuse e Fiuto.


387 Pace di Sardi («pace del re» Artaserse).
Pace di Antalcida fra Atene e Sparta.
I romani vengono battuti sullA llia dai Galli di
Brenno.
Platone fonda PAccademia. Scrive negli anni
successivi il C ratilo, il Sim posio, il F edone e la
R epubblica. Più tardi seguiranno il Fedro, il P ar­
m en ide, il Teeteto, il Sofista, il P olitico, il Timeo,
il Crizia, il F ilebo e le Leggi.
383 Morte di Aristofane.
384 Nascono Aristotele e Demostene.
380 Muore l’oratore Lisia.
3 77 Fondazione della II Lega Delio-attica.
372-287 Teofrasto di Lesbo, autore dei C aratteri.
371 II tebano Epaminonda batte gli Spartani a
Leuttra.
370 Muore Democrito di Abdera, autore della P ic­
cola cosm ologia.
367-344 Tirannide di Dionisio (o Dionigi) II il Giovane
a Siracusa.
Dione, cognato di Dionisio I, chiama a Siracusa
Platone.
363-275 Pirrone di Elide, fondatore dello scetticismo.
362 Battaglia di Mantinea, nuova vittoria tebana.
Epaminonda muore in battaglia.
361-262 Filemone commediografo, rivale di Menandro.
359-336 Regno di Filippo II di Macedonia.
354 Muore Senofonte, autore àcìYAnabasi.
350-341 Demostene pronuncia le Filippiche.
347 Morte di Platone.
Premessa

I greci, non solo quelli che abitavano la penisola balcanica


ma quelli dell’A sia Minore e della Sicilia, di Marsiglia, o del­
le città del Ponto Eusino (il mar Nero) si riconoscevano tutti
come fratelli di razza e sentivano una profonda comunità di
lingua (nonostante le differenze fra i dialetti locali), di religio­
ne e di costumi, in contrapposizione al mondo che chiama­
vano barbaro, cioè all’insieme di tutti i popoli che parlavano
lingue diverse dal greco. M a il nome di Grecia —l’Ellade -
non ha mai rivestito un vero e proprio significato politico
nell’antichità: la Grecia non ha mai costituito uno stato uni­
tario, prima della dominazione macedone e romana. Tre città
più importanti e ambiziose della altre, Atene, Sparta e Tebe,
hanno successivamente retto i destini del paese esercitando­
vi la propria egemonia, ma le confederazioni che formarono
non durarono mai a lungo e soprattutto non raggiunsero mai
tutte le città greche. Ogni città, per quanto il suo territorio
fosse piccolo, voleva mantenersi assolutamente indipendente
e aveva sue istituzioni politiche, religiose, giudiziarie e an­
che, spesso, la sua moneta e il suo sistema di pesi e misure.

13
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Di fronte a una tale differenziazione, a un tale «pulvisco­


lo» di stati sovrani, come descrivere la vita quotidiana «in
Grecia»? L’esistenza dello spartiate, irreggimentato dall’età
di 7 anni in formazioni premilitari e sottoposto fino a 60 a
una stretta disciplina, era ben diversa da quella di un ate­
niese la cui educazione era più liberale e i cui successivi
vincoli nei confronti dello stato erano meno pesanti. Bi­
sogna dunque scegliere, ma questa scelta ci è per così dire
imposta dallo stato della nostra documentazione lettera­
ria e archeologica. Quasi tutte le opere dell’epoca classica
che possediamo sono di autori ateniesi ed essi ci offrono la
maggior parte di informazioni sulla vita dei loro compa­
trioti. Le rovine messe in luce dagli archeologi realizzano la
profezia di Tucidide (1,10,2); anche in questo campo Atene
è privilegiata in confronto alle altre città greche e soprattut­
to a Sparta. Ed è vero che per ciò che riguarda le abitazioni
private Olinto, nella penisola Calcidica, è assai più ricca di
Atene ma, al di là della pianta delle loro case che cosa sap­
piamo della vita quotidiana degli abitanti di Olinto?
In questo libro dunque parleremo soprattutto di Atene
e degli ateniesi, senza però inibirci di lanciare uno sguardo
verso altre città per delineare dei paragoni. D’altra parte,
già gli antichi consideravano Atene «la Grecia della Grecia».
Quanto ai lim iti cronologici, ci è sembrato impossibi­
le limitarci all’amministrazione di Pericle (dal 450 circa al
429 a.C.): troppi documenti importanti per il nostro studio
sono anteriori e soprattutto posteriori a questo breve perio­
do. Anche se fissassimo i nostri termini alla p en tecon ta etia
(i cinquantanni) che va dalla battaglia di Platea (479) alla
morte di Pericle (429) dovremmo lasciare da parte la testi­
monianza essenziale di Aristofane e quella degli oratori del

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Premessa

IV secolo. Faremo talvolta anche riferimento ad autori del


III secolo, ma il nostro ambito cronologico principale sarà
«il secolo di Pericle» in senso lato, definendolo arbitraria­
mente, per comodità, fra il 450, dopo la grande crisi delle
guerre persiane, e il 350, prima della battaglia di Cheronea
(338) che inaugurò la dominazione macedone e preparò
le molteplici e profonde trasformazioni politiche e sociali
dell’età ellenistica.
Atene: pianta della città antica

1. Portico di Zeus 4. Metroo 7. Portico centrale


2. Theseion 5. Buleuterio 8. Tribunale degli eliasti
3. Tempio di Apollo Patroo 6. Tholos 9. Portico sud
10. Portico est
© L— 11. Biblioteca di Panteno

12. Portico di Attalo 14. Altare dei Dodici Dei 16. Odeon
13. Portico Pecile 15. Tempio di Ares 17. Strada delle Panatenee

Agorà di Atene: pianta eseguita in seguito agli scavi della Scuola archeologica americana
I

L’ambiente: città e campagna

Il viaggiatore che arriva dall’Occidente in aereo verso Ate­


ne mentre sorvola il golfo di Corinto immediatamente si
accorge dei caratteri essenziali del paese greco: l’estensione
delle montagne che coprono l’80% della superficie totale
e l’intima penetrazione della terra e del mare, a causa del­
le coste estremamente frastagliate. Le montagne non sono
molto alte: al nord, la più alta, l’Olimpo, dove si collocava
la dimora degli dei, non raggiunge i 3000 metri; nella Gre­
cia centrale, in Focide, il Parnaso non supera i 2500 metri,
le montagne dell’A ttica, il Pario, il Pentelico, rim etto si
innalzano fra i 1000 e i 1500 metri; nel Peloponneso solo
il Taigeto, il Cillene e l’Erimanto superano i 2000 metri.
Tali montagne non sono certo invalicabili ma la Grecia an­
tica non conobbe l’equivalente di ciò che saranno le via e
romane, non ebbe buone strade, e i sentieri in terra battuta
raramente erano abbastanza ampi da permettere a due carri
di incrociarsi senza gravi difficoltà.
I greci preferivano dunque viaggiare per mare, ogni volta
che dovevano percorrere un tragitto un po’ lungo. Per re-

17
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

carsi da Trezene (in Argolide) ad Atene solo un eroe come


Teseo poteva preferire il viaggio per terra, lungo e pericolo­
so1 quando la via marittima era tanto facile. Nessuna loca­
lità della Grecia è situata a più di 90 chilometri dalla costa.
Il mare greco per eccellenza è il mar Egeo che costituiva il
vero e proprio centro dell’Ellade con le sue numerose isole
che servivano da scalo fra l’Europa e l’A sia. Il vento vi soffia
a raffiche e la navigazione era spesso pericolosa tranne che
destate; ma nella cattiva stagione non si prendeva il mare.
In ogni epoca i terremoti sono stati frequenti in Grecia.
Nel 464 a.C. il disastro fu tale, nella regione di Sparta,
che gli iloti approfittarono della confusione generale per
ribellarsi. Nel 426 fu la volta delle città della Locride. Nel
373 le città achee di Elica e Boura furono distrutte da un
sisma accompagnato da maremoto. Terribili erano le colle­
re di Posidone, il dio dal tridente. A Posidone, «il dio che
scuote la terra» secondo Omero, gli antichi attribuivano i
terremoti, a Zeus «che raduna le nuvole», il dio del cielo e
dell’atmosfera, i temporali.
Il territorio greco, spesso scosso da sismi, non era nell’in­
sieme molto fertile. Certamente non mancava il sole perché
la Grecia è situata nella zona che i geologi chiamano «cal­
do-temperata». Notevole era la limpidezza dell’atmosfera:
l’aria era chiara e luminosa soprattutto in Attica e sappia­
mo quanto spesso questa «trasparenza della luce» sia stata
celebrata dai poeti greci che vi vedevano una garanzia e
insieme un simbolo di vita felice. M a la contropartita di1

1 Cfr. Plutarco, Vita d ì Teseo, 6, 3-7. Secondo la leggenda, feroci briganti


infestavano allora le strade di terra: Perifete, Sinis, Scirone, Procuste; era
comunque un viaggio più breve e rapido attraversare il golfo di Salonicco
che fare il giro della Megaride.

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L'ambiente: città e campagna

questa luce splendente era la siccità. Le piogge erano rare


e poco abbondanti, tranne che durante i temporali, così
improvvisi e torrenziali da provocare vere catastrofi. I corsi
d ’acqua come l’Ilisso e il Cefiso ateniesi erano in secca nella
maggior parte dell’anno ma potevano trasformarsi improv­
visamente in pericolosi torrenti. Rari erano i fiumi come
il Peneo in Tessalia, l’A cheloo in Acarnania e l’A lfeo nel
Peloponneso, che scorrono in tutte le stagioni. In un paese
così arido i fiumi e le fonti erano importantissimi e furono
spesso considerati sacri. Ogni fiume, ogni ruscello era una
divinità perché la sua acqua era necessaria alla vita di pian­
te, bestiame e uomini. Ogni sorgente ospitava una ninfa.
La vegetazione era quella dei paesi mediterranei, deter­
minata dall’intensità dei raggi solari e dal debole tasso di
umidità. Le foreste, un tempo molto più diffuse di adesso,
coprivano gran parte delle montagne; cerano molti platani,
querce e altre specie d’alberi, ma in territori anche più vasti
gli alberi erano sostituiti da arbusti e siepi. Le fiere che ren­
devano pericolose le foreste ai tempi eroici, come il leone di
Nemea, nell’età classica erano in via di sparizione, ma gli
orsi e i lupi erano ancora molto numerosi nelle montagne.
Nelle vaste regioni della macchia, coperte di mirti, di cor­
bezzoli, di brughiere o di ramno spinoso abbondava la sel­
vaggina: lepri, pernici, quaglie, galli cedroni, allodole, ma
quella di maggiori dimensioni, cervi e cinghiali, si trovava
solo sulle montagne. Il bestiame veniva allevato soprattutto
nei pascoli alti, sui monti. Alle pendici dei monti e in pia­
nura si concentrava l’attività umana, perché solo là si tro­
vava il suolo fertile adatto alla cultura dei cereali. La piana
della Tessalia era vasta e permetteva l’allevamento dei ca­
valli, quella della Beozia dava grano e orzo in abbondanza.

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La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

L’A ttica era meno favorita e gli Antichi rimproveravano al


suo suolo di essere secco e pietroso. Le pianure di Maratona
ed Eieusi erano parzialmente insalubri a causa della paludi.
La «mesogea» o terra di mezzo fra rim etto e il Laurio era
la regione meglio coltivata e più fertile; soprattutto là, con
qualche cipresso, abbondavano la vite bassa e l’ulivo: la vite
di Dioniso e l’ulivo di Atena, principali risorse dell’A ttica, i
soli prodotti del suolo che essa abbia potuto esportare. Tali
liquidi venivano spediti in recipienti di terracotta, da cui
l’importanza che in Attica avrebbe assunto l ’arte del vasaio,
la ceramica. La sola ricchezza del sottosuolo era il piombo
argentifero del Laurio il cui sfruttamento è stato ripreso ai
nostri giorni ed esteso anche ad altri metalli.
Lo storico Tucidide sapeva che tutti i greci, anticamente,
avevano abitato villaggi miserabili. L’unione fra molti villag­
gi vicini poteva dar vita a una città. È quanto accadde nella
pianura aperta al mare limitata dai monti del Parnaso, del
Pentelico e dell’Inietto per i gruppi umani il cui centro si
trovava sull’Acropoli. Secondo la leggenda, Teseo unificò i
borghi dell’A ttica col sinecism o e tutti gli abitanti dell’A tti­
ca divennero allora degli ateniesi. M a lo stesso agglomerato
centrale fu formato dall’unificazione di più villaggi, il che
spiega il suo nome che rimane sempre plurale: Atene, let­
teralmente, suona «le Atene». Nel V secolo, l’A cropoli era
diventata il piedestallo sul quale si innalzavano solo i templi
degli dei, ma non era sempre stato così. Tucidide ci spiega:
«prima di Teseo, l’A cropoli di oggi costituiva la città, con la
regione bassa che si estendeva soprattutto verso sud».2 Della
città bassa, la parte anticamente più abitata era quella im­

2 Tucidide, 2, 15.

20
L’a mbiente: città e campagna

mediatamente a sud dell’Acropoli: in questo quartiere palu­


doso chiamato «la palude», non lontano dal corso deH’Ilisso,
si trovavano molti luoghi di culto estremamente arcaici.
Atene, come la maggior parte delle città antiche e mo­
derne, tranne le colonie, è quindi nata senza alcun piano
precostituito e il suo successivo sviluppo non ebbe niente
di razionale: rifletteva, sul terreno, la crescita in qualche
modo organica del popolo attico in un quadro delimitato,
intorno allAcropoli, dall’altura di Colonos Agoraios, dalla
collina delle Ninfe, dalla Pnice, dal Museion, dal Licabetto
e dall’A rdetto, così che anche Atene potrebbe essere chia­
mata «la città dei sette colli».
Intorno a questa sorta di culla della città, l’A cropoli, e
del quartiere immediatamente a sud, la vita urbana si con­
centrò soprattutto, almeno a partire dal VII secolo, verso il
nord-ovest nel quartiere operaio del Ceramico il cui nome
si spiega per le molte botteghe di ceramisti che ospitava. In
questo quartiere era situata la piazza pubblica di Atene, o
Agorà del Ceramico, luogo di riunione insieme religioso,
politico ed economico; là, nell 'orchestra o nella piazza per
le danze ebbero luogo le prime rappresentazioni teatrali in
onore di Dioniso, dio del teatro, le assemblee del popolo
nell’area, inizialmente delimitata da semplici corde tese,
del perischoinism a-, là i mercanti vendevano i prodotti della
terra e dell’industria. M a l’ammassamento del mercato e la
folla di quanti passeggiavano resero ben presto scomode le
riunioni politiche e le rappresentazioni teatrali in questa se­
de troppo frequentata; le prime quindi si spostarono verso
la Pnice (a ovest dell’A reopago e dell’A cropoli) e le seconde
al santuario di Dioniso Eleuterio (alle pendici meridionali
dell’Acropoli). Solo il mercato restò nell’A gorà. I membri

21
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

del consiglio e i pritani vi tenevano però le loro riunioni e


vi si svolgevano anche assemblee di cittadini.
La prima cinta muraria di Atene era stata costruita nel
VI secolo all’epoca del tiranno Pisistrato e dei suoi figli che
avevano molto accresciuto la prosperità e la potenza di Ate­
ne. Essa fu ingrandita e rafforzata da Temistocle al tempo
delle guerre persiane negli anni successivi alla battaglia di
Salamina (480). Questa nuova cinta muraria descriveva un
perimetro vagamente circolare lungo 6 chilometri circa con
un diametro di 1500 metri. LAcropoli non si trovava esatta­
mente al centro ma più a sud, a causa dell’estensione assunta
dal quartiere del Ceramico e dalla sua Agorà. Tale recinzio­
ne che, a sud-ovest, si congiungeva con le Lunghe Mura,
includeva anche molti altri quartieri ognuno dei quali corri­
spondeva a un demo urbano (divisione amministrativa crea­
ta da d isten e nel 508 a.C. insieme alle dieci tribù): a nord il
vasto quartiere residenziale di Scambonide da cui si arrivava
alla campagna passando dalle porte di Filé e di Acarne; a
sud-ovest fra il Ceramico e la Palude, i quartieri popolari
di Collito e Melito. A est, fuori dalle mura, si estendeva un
sobborgo ridente, l’A grilé, incorporato poi alla città dall’im­
peratore Adriano, col nome di Nuova Atene.
Le Lunghe Mura collegavano Atene al suo porto, il Pi­
reo. Il muro nord e il muro sud, lunghi ciascuno più di 6
chilometri, delimitavano la strada militare larga uno sta­
dio, cioè circa 160 metri. In tempo di pace però la strada
più frequentata fra Atene e il Pireo passava a nord, fuo­
ri dalle lunghe mura. Esse facevano della città e del suo
porto un’unica fortezza, facile da difendere e permettevano
agli ateniesi di approvvigionarsi anche in tempo di guerra
perché la maggior parte dell’approvvigionamento arrivava

22
L’a mbiente: città e campagna

per mare. Secondo il piano di Pericle quindi, finché Atene


avesse conservato la supremazia marittima sarebbe stata al
riparo da ogni attacco dei peloponnesiaci: i lacedemoni e i
loro alleati potevano invadere TAttica distruggendo le viti e
tagliando gli olivi ma Atene sarebbe stata approvvigionata
dal Pireo e avrebbe potuto continuare a combattere e a in­
fliggere duri colpi al nemico.
Il Pireo, come le mura di Atene, fu inizialmente allestito
da Temistocle. Si dice che per costruirlo gli ateniesi fecero
appello al geometra e filosofo Ippodamo di Mileto, che sa­
rebbe il padre dei piani urbanistici detti «geometrici» in cui
tutte le strade si intersecano ad angolo retto, delimitando
isolati abitati quadrati o rettangolari. A dire il vero, ciò che
resta delle costruzioni del Pireo non permette di conclu­
dere che la sua pianta fosse regolare, ma vi si riscontra una
vera e propria pianificazione. Le aree pubbliche sono net­
tamente delimitate, per permettere uno sviluppo ordinato
delle installazioni portuali amministrative, religiose, navali
e commerciali.
A differenza del Pireo, la città di Atene era nata e si
era ingrandita senza nessun piano, come per caso. Il cen­
tro religioso, nel V secolo, restava l’Acropoli, dove Pericle
avrebbe fatto splendidamente ricostruire i templi distrutti
dagli eserciti di Serse. S u ll’A cropoli tutto era magnifica­
mente ordinato, e tale rigore era in contrasto con la cit­
tà bassa. È stato scritto: «Ad Atene l’estetica dell’ordine
ha potuto affermarsi solo sull’A cropoli, perché i persiani
avevano fatto tabula rasa del passato».3 M a la vita sociale
ed economica e, in larga misura, anche quella politica e

3 G. Fougères, A thènes, p. 125.

23
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

giudiziaria si svolgevano nell’A gorà del Ceramico che co­


minciamo a conoscere meglio dopo gli scavi archeologici
americani (vedi p. 16).
A una certa distanza dalla porta del Dipylon, parzial­
mente conservata, dove sboccavano le strade provenienti
d all’A ccademia e da Eieusi (la Via Sacra), non lontano dal
cimitero del Ceramico esterno, il Dromos che costeggiava
il fiume Eridano si divideva in due vie: una, col nome
di Via delle Panatenee, raggiungeva l ’A cropoli a sud-ovest
attraversando diagonalmente l ’Agorà, l’altra piegava a de­
stra, verso sud, e proseguiva nella via dei Tripodi dove
ancor oggi si ammira l ’elegante monumento di Lisicrate.
Quest’ultim a via, immediatamente dopo il bivio, aveva
alla sua destra i più antichi monumenti pubblici dell’A ­
gorà, che si allineavano fra tale strada e l ’altura di Colo-
nos Agoraios dove si innalza il tempio, rimasto intatto,
dell’Efesteion chiamato anche Teseion: a partire da nord,
sorgono il Portico Reale (o Portico di Zeus, perché sem­
bra probabile che le due designazioni indicassero le stesso

24
L’a mbiente: città e campagna

monumento), il tempio di Apollo Patroos, il Metroon, o


santuario della Madre degli dei (Cibele), che ospitava gli
archivi pubblici, il Buleuterion, dove si riuniva il consiglio
dei Cinquecento e la Tholos, monumento rotondo dove
si radunavano i cinquanta pritani, commissione perma­
nente del consiglio, che vi prendevano anche i loro pa­
sti. D all’altra parte della stessa strada a una certa distanza
s’innalzavano l ’altare dei dodici dei dell’Olimpo, consi­
derato il centro ufficiale della città, il tempio di Ares e il
monumento agli eroi eponimi che avevano dato il nome
alle dieci tribù di d isten e. Ignoriamo la sede del celebre
Portico dipinto (la Stoa Pecile) che era stato costruito sot­
to l’amministrazione di Cimone, e quella del santuario di
Teseo che risaliva alla stessa epoca, ove furono deposte nel
475 le reliquie dell’eroe, scoperte da Cimone nell’isola di
Sciro. Solo i corpi degli eroi potevano riposare a ll’interno
della città, mentre i cimiteri come quello del Ceramico
erano sempre extra muros.
Nel II secolo a.C. due grandi portici limitavano il lato
sud e il lato est dell’A gorà, ma sembra che nel V secolo solo
la parte occidentale dell’A gorà - a meno che nuove scoperte
non ne mutino la fisionomia - avesse un aspetto veramente
monumentale, che doveva essere molto impressionante, an­
che se non era certamente paragonabile alle grandi piazze
dell’età ellenistica completamente circondate da sontuosi
portici.
N ell’A gorà cerano dei platani, piantati da Cimone.4
Moltissimi negozi e laboratori invadevano tutti gli spazi
lasciati liberi perché nell’A gorà la clientela era fittissima

4 Plutarco, C im one, 13.

25
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

e i commercianti e gli artigiani vi facevano i migliori af­


fari. L’Invalido di Lisia dice agli ateniesi ai quali chiede
giustizia:

Il mio accusatore pretende che il mio negozio sia il luogo


d’incontro di una banda di bricconi che hanno sprecato
la loro fortuna e prendono di mira chiunque cerchi di
conservare la sua. Ma notate che tali accuse non mi col­
piscono più di quanto non colpiscano gli altri commer­
cianti e i miei frequentatori abituali più di quelli dei miei
confratelli. Anche voi avrete l’abitudine di andare a fare
un giro, chi da un profumiere, chi da un barbiere, chi da
un calzolaio, dove ognuno preferisce; nella maggior parte
dei casi, da un commerciante di quelli che si sono instal­
lati vicino all’Agorà, raramente da quelli che risiedono
più lontano.5

Molti di quei negozi erano certamente costruzioni mol­


to leggere, come quelle delle nostre fiere, baracche coperte
di pelli o di graticci a capanna: Demostene ci racconta
che, nello spavento che seguì la notizia che Filippo aveva
occupato Eiatea nel 339, si incendiarono quelle baracche,
sia per fare terra bruciata, in vista di una riunione imme­
diata dell’Assemblea, sia per attirare, con l ’incendio, l’at­
tenzione degli abitanti del contado verso Atene.6
Nonostante un disordine probabilmente pittoresco,
questi negozi sembrano essere stati raggruppati appros­
simativamente secondo le merci offerte agli avventori: in

5 Lisia, P er l ’invalido, 19-20.


6 Demostene, D iscorso sulla corona, 169.

26
L’a mbiente: città e campagna

un angolo dell’Agorà si trovavano soprattutto libri, in un


altro pentole e altri utensili casalinghi, altrove verdura e
vino, o articoli da toilette, o corone di mirto per i funerali
ecc. I cittadini non erano i soli a venire a far provviste o a
godere dei servizi del parrucchiere; anche gli abitanti del
contado vi si affollavano, come venditori e insieme come
acquirenti; e anche, soprattutto a ll’epoca delle grandi Dio-
nisie, alla fine di marzo, molti stranieri provenienti dalle
città greche tributarie della città imperiale.
I monumenti dell’Acropoli e, a un minor livello, quelli
dell’A gorà, e anche i parchi suburbani dei ginnasi (l’A cca­
demia a ovest, il Cinosarge a sud e il Liceo a est) costitui­
vano oggetto di ammirazione dei visitatori. In compenso,
le strade di Atene, salvo il Dromos e la via dei Tripodi,
erano piccole, strette, tortuose e affiancate da case mode­
stissime. A questo proposito, bisogna distinguere fra quar­
tieri: per esempio quello di Scambonide dove abitavano
prevalentemente i ricchi e quelli, popolari e popolosi, del
Ceramico, di Collito e di Melito. In questi ultim i i di­
versi mestieri si trovavano raggruppati per quartieri o per
strade un po’ come le botteghe nell’Agorà. Il nome stesso
del Ceramico indica che vi abbondavano i vasai. In altri
quartieri abbondavano gli artigiani del legno o del cuoio,
i mercanti di carne o di pesce ecc. Tali tradizioni si sono
conservate attraverso gli anni e anche nell’A tene moderna
i quartieri popolari che si stendono ai piedi dell’A cropoli,
non lontano dalla sede dell’antica Agorà, hanno strade che
si chiamano «delle babbùcce», «dei calderai», «dei fabbri»...
N ell’insieme, la città bassa non faceva una buona im­
pressione. Un viaggiatore del III secolo scriveva:

27
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

La città di Atene è molto secca, povera di acque e mal


sistemata a causa della sua antichità. Uno straniero che
la scoprisse aH’improvviso, dubiterebbe che sia stata vera­
mente quella che si chiama la città degli ateniesi.7

È assai probabile che fra il V e il III secolo l’aspetto della


città fosse molto migliorato: tale giudizio si applicava dun­
que a fo r tio r i alla città dei tempi di Pericle.
Non ci si stupisca di questa constatazione. Da un la­
to, infatti, nei paesi mediterranei gli uomini vivono molto
all’aria aperta e spesso in casa vanno solo a dormire; d’e-
state può persino accadere che ci si sdrai nella terrazza per
avere meno caldo. E vero che, d ’inverno, può far freddo ad
Atene ma i periodi di bassa temperatura sono di solito mol­
to brevi e quando il sole brilla mette a posto tutto. D’altra
parte gli antichi, non solo i greci, erano profondamente pe­
netrati di spirito religioso e si preoccupavano più di fornire
dimore sontuose agli dei che di costruirsi case comode e
confortevoli.
Il contrasto fra la ordinata struttura dell’A cropoli e la ca­
sualità della città bassa è significativo a questo proposito.
L’orgoglio nazionale si esaltava alla vista dei templi dell’A ­
cropoli, innalzati da Pericle e certamente anche dei portici
e degli edifici municipali dell’A gorà ma avrebbe percepito
come sacrilega la decisione di costruire per degli uomini abi­
tazioni troppo ricche. Il precetto delfico «Nulla di troppo»
trovava applicazione anche in questo campo, come altrove.
Forse i tiranni del VI secolo avevano preteso di più, ma
nell’Atene democratica ed egualitaria dei secoli successivi

7 Pseudo-Dicearco, Sulle città della G recia: Fragm. Hist. Gr., 2, p. 254.

28
L’a mbiente: città e campagna

il lusso privato suscitava immediato scandalo. Ecco in che


termini Demostene attacca certi uomini politici del suo
tempo che abbellivano la loro casa con fortune a suo parere
male acquistate:

Gli uomini di Stato un tempo si mostravano così semplici


nella vita privata e i loro costumi erano così conformi al
carattere della nostra città che se qualcuno di voi potesse
vedere la casa di Aristide o di Milziade o di altri cittadini
illustri di quei tempi non la troverebbe più adorna di quella
del suo vicino. Essi infatti non miravano ad arricchire trat­
tando gli affari pubblici... Leali verso i greci, pii verso gli
dei, rispettosi dell’eguaglianza nella città, ci procurarono,
come ci si doveva aspettare, una grande prosperità... Oggi,
mi si dirà, i nostri affari non sono brillanti ma in città si
è fatto di meglio. Ma che cosa mi si può effettivamente
citare? I parapetti degli spalti lastricati a nuovo, le strade e
le fontane ristrutturate, tante cose da niente... Ma rivolgete
la vostra attenzione agli uomini che hanno fatto questa
politica; gli uni sono passati dalla indigenza alla ricchezza,
gli altri dall’oscurità agli onori, alcuni si sono costruiti case
più imponenti degli edifìci pubblici e, nella misura che la
fortuna della città declinava, la loro si ingrandiva.8

Tali osservazioni, certamente demagogiche, riflettono


però il punto di vista di molti ateniesi ed è comprensibi­
le che coloro che volevano svolgere un ruolo nella città si
siano astenuti da spese suntuarie troppo appariscenti che
suscitassero invidia. Questo passo di Demostene ci informa

Demostene, La terza orazione olintiaca, 2 6 e 29.

29
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

anche che, ai suoi tempi, si ristrutturavano gli spalti della


città, le strade e le fontane. La sorveglianza del patrimonio
pubblico un tempo gravava sull’Areopago, un consiglio for­
mato da arconti che risiedeva sul colle di Ares presso l’A cro­
poli. Quando le attribuzioni di tale consiglio aristocratico
furono ridotte da Efialte e Pericle, le sue funzioni furono
ereditate dal consiglio dei Cinquecento.
M a ben presto per assecondare il compito del Consiglio,
si dovettero creare dei collegi di funzionari specializzati;
furono nominati per la sorveglianza e l ’igiene della città
i dieci astin om i (cinque per Atene e cinque per il Pireo) e
per la sorveglianza dei mercati i dieci a gora n om i suddivisi
anch’essi fra la città e il porto. Il ruolo degli astinomi era
importante: erano incaricati della sorveglianza sui costu­
mi (controllo delle prostitute, danzatrici e cortigiane), sulle
strade (prelievo dei rifiuti, protezione contro gli sconfina­
menti costieri), sulle costruzioni, sulle feste ecc. E soprat­
tutto dovevano provvedere che gli spazzini (cop rologi) non
scaricassero la spazzatura a meno di 10 stadi dalla cinta
muraria.9 Gli agoranomi dovevano sorvegliare l ’applicazio­
ne della regolamentazione dei prezzi e l ’approvvigionamen­
to dei mercati; nel controllo dei pesi e delle misure erano
assistiti da dieci ispettori chiamati m etron om i. In Senofon­
te, un personaggio si congratula con il bel Carmide per
avere sviluppato armoniosamente, grazie allo sport, sia le
braccia che le gambe e gli dice in tono di esultazione:

Mi sembra che le tue membra siano così armoniosamente


sviluppate che se tu pesassi separatamente davanti agli ago-

9 Aristotele, C ostituzione d i Atene, 50, 2.

30
Uambiente: città e campagna

ranomi la parte alta e la parte bassa del tuo corpo, come dei
pani, non avresti assolutamente nessuna multa da pagare.101

Cerano anche degli agenti sottoposti agli astinomi, chia­


mati hodopoioi, che disponevano, come cantonieri, di un
contingente di schiavi pubblici. Infine ad Atene esisteva un
architetto capo della città, che non sembra però avere avuto
molto potere, almeno per quel che riguarda la città bassa;
probabilmente era incaricato solo di provvedere alla conser­
vazione dei templi e degli edifici pubblici.
In una città dal clima secco come Atene il problema
dell’acqua era il più importante di tutti. I tiranni del VI
secolo se ne erano preoccupati e con importanti lavori ave­
vano dotato Atene di molte fontane delle quali la più celebre
era l’Enneacrunos (fontana dalle nove bocche). Il servizio
delle acque nel IV secolo era affidato a un funzionario spe­
ciale la cui importanza era tale che non lo si sceglieva per
estrazione a sorte, come la maggior parte dei magistrati, ma
per elezione. Doveva essere ricco per poter contribuire con
propri fondi ai doveri della sua carica. Un decreto ateniese
del 333 a.C. rende onore al «preposto alle fontane» Fitea,
del demo di Alopece «per aver adempiuto con zelo a tutti i
compiti della sua funzione, e in particolare per avere fatto
completare la nuova fontana contigua al santuario di Am­
inone e aver fatto costruire la fontana del santuario di An-
fiarao dove ha curato lo sbocco dell’acqua e delle fognature»;
Fitea ricevette in ricompensa una corona d’oro del valore di
1000 dracme.11 Possiamo vedere come questo funzionario si

10 Senofonte, Il sim posio, 2.


11 S ylloge insr. gra ec., 281.

31
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

occupasse non solo delle fontane di Atene ma anche di tutte


quelle dell’A ttica perché aveva munito di una nuova fontana
il santuario di Anfiarao vicino alla frontiera con la Beozia.
M a questi funzionari, nonostante il loro zelo, non pote­
vano trasformare da un momento all’altro uno stato di cose
estremamente deficitario. Le strade di Atene non erano qua­
si mai rettilinee. Si adattavano alla forma dei passaggi natu­
rali fra le colline e spesso si stringevano; quasi mai erano di
larghezza regolare. Le case erano male allineate, o in salita o
in discesa. Le acque piovane che non venivano raccolte dal­
le cisterne e quelle già usate venivano versate in strada o giù
dalle finestre e dalle porte. Tuttavia la canalizzazione a cie­
lo aperto, con un canale in mezzo alla strada, sembra essere
stata sostituita in molti casi, nel IV secolo, da tubature sot-.
terranee e da fogne. Le strade non erano lastricate: dilavate
dalle acque di scorrimento e coperte di fango si trasformavano
facilmente in cloache appena faceva brutto tempo. Non solo
mancava qualsiasi progetto urbanistico, l’igiene lasciava molto
a desiderare e si comprende come le epidemie, quali la gran­
de peste di Atene nel corso della quale morì Pericle, abbiano
potuto svilupparsi così rapidamente in una città dove, tra l’al­
tro, la popolazione di origine rurale era ancora eccessivamen­
te ammassata. Naturalmente le strade non erano illuminate,
di notte, come dimostra questo aneddoto narrato da Plutar­
co per illustrare l’altero dominio di sé che possedeva Pericle:

Un giorno Pericle sull’Agorà fu coperto di ingiurie e di male


parole da un uomo grossolano e sfrontato; tollerò quell’in­
dividuo tutta la giornata, mentre svolgeva degli affari ur­
genti. La sera tornò tranquillamente a casa, con alle cal­
cagna sempre quell’uomo che gli lanciava le sue insolenze.

32
L’a mbiente: città e campagna

Al momento di entrare in casa, poiché era già buio, Pericle


ordinò a uno dei suoi servi di prendere un lume per scortare
e condurre a casa il suo insultatore.12

Gli eliasti delle Vespe quando si alzano in piena notte per


andare a giudicare cercano di evitare le pozzanghere con
lampade portate da giovani schiavi per illuminare il loro
cammino.13
Lo stesso viaggiatore del III secolo che era rimasto de­
luso dall’aspetto complessivo di Atene14 aggiungeva: «La
maggior parte delle case sono modestissime, solo alcune
sono decorose».
Poveri rifugi erano scavati nella roccia, per esempio nel
quartiere di Coile (lo «Scavato») proprio dove le lunghe
mura si ricongiungevano agli spalti delle mura della città.
Una di queste caverne artificiali era composta di tre stanze
con un vestibolo a tettoia; era chiamata, fantasiosamente,
«la prigione di Socrate» mentre era un rifugio rupestre che
serviva da fossa funeraria in epoca romana.
Altre dimore erano solo addossate alle pareti della roccia
tagliata a vivo o collocate su piccole terrazze ottenute per
livellamento. Vicino a queste case da trogloditi erano sca­
vate delle cisterne.
Nei quartieri popolari la maggior parte delle case erano
molto piccole ed erano formate solo da un pianterreno con
due o tre piccole stanze. Quando possedevano un piano ri­
alzato con una o due camere, vi si accedeva spesso con una

12 Plutarco, P ericle, 5, 2.
13 Aristofane, Le vespe, vv. 219, 248-257.
14 Cfr. pp. 27-28.

33
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

scala esterna in legno. Tali mansarde potevano essere affitta­


te a poveri contadini o a stranieri che desideravano avere un
recapito in città. «Nella nostra casa» dice un postulante « c e ­
ra. un piano occupato da Filoneo quando veniva in città».15
I muri di queste case erano di legno, in mattoni crudi
o in pietre tenute insieme da una calcina fatta di terra im­
pastata ad acqua. Erano così facili a perforare che i ladri
non si affaticavano nemmeno a cercare di forzare porte e
finestre e preferivano fare un buco attraverso quelle esili
pareti, perciò ad Atene i ladri erano chiamati toichorichoi,
cioè «foramura». Un ateniese che passava per ladro era so­
prannominato Calcos, «l’uomo di rame»; un giorno che in
assemblea prendeva in giro Demostene per il suo impegno
nello scrivere i suoi discorsi di notte, l’oratore gli rispose:
«Lo so che ti do fastidio tenendo la lampada accesa. E voi,
ateniesi, non stupitevi che si commettano tanti furti, quan­
do i ladri sono “di rame” e i muri di paglia e fango».16 Que­
ste case erano in generale in proprietà comune e gli ateniesi
avrebbero potuto fare come gli abitanti di Platea che nel
431, invasi improvvisamente dai tebani, «per radunarsi in
segreto senza essere scoperti passando per le strade, perfo­
rarono le mura divisorie delle loro case».17
Le proporzioni delle case di cui ancora si distinguono
tracce ad Atene sono sempre esigue. Le porte, a quanto ci
dice Plutarco, si aprivano a ll’esterno e prima di uscire si
bussava per evitare ai passanti il disagio di venire urtati da
una porta che si apriva.

15 Antifonte, 1, 14.
16 Plutarco, D em ostene, II.
17 Tucidide, 2, 3.

34
[/ambiente: città e campagna

I tetti erano a terrazza. Le finestre, quando esistevano,


erano necessariamente molto piccole, della dimensione di
lucernari perché gli antichi ignoravano l’uso dei vetri tra­
sparenti e se, col cattivo tempo, si volevano costruire le fi­
nestre, si poteva farlo solo con pannelli opachi.
Quando le case erano date in affitto e il proprietario non
riceveva regolarmente l ’affitto, per farsi pagare usava meto­
di energici: faceva togliere la porta della casa o le tegole del
tetto o chiudeva l ’accesso al pozzo. E gli inquilini insolven­
ti si ricongiungevano alla massa, numerosa ad Atene, dei
senza-tetto.
Fra quelli che chiameremmo «barboni» cerano poveri
declassati, vittime della durezza degli uomini e di una sorte
impietosa e anche dei «volontari» cioè dei filosofi, come ne
vedremo nell’epoca ellenistica, che si gloriavano di disprez­
zare non solo le ricchezze ma anche le comodità normali
della vita. Non siamo ancora a ll’epoca di Diogene e della
sua botte, ma Antistene, il fondatore della scuola cinica, era
un discepolo di Socrate.

II filosofo cinico - dirà Telesio nel III secolo - se sente il bi­


sogno di strofinarsi d olio va nei bagni pubblici a strofinarsi
con il grasso misto a olio, che i bagnanti si sono staccati dal
corpo con lo strigile. Gli può anche capitare di avvicinarsi
al fuoco di una forgia e farvi arrostire dei pesciolini, ver­
sarci un po’ d’olio e poi sedersi e fare così il proprio pasto.
In estate dorme nei santuari, d’inverno nei bagni. Non gli
manca niente perché si contenta di ciò che ha.18

18 Telesio, éd. O. Hinse, pp. 15, 41.

35
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

Anche nel secolo di Pericle sappiamo che i poveri nella


cattiva stagione si rifugiavano nei bagni per trovarvi un po’
di calore e talvolta, accostandosi troppo alla stufa, si bru­
ciavano. Nel P luto di Aristofane, Cremilo chiede a Povertà:
«Tu che beni potresti procurarci, se non delle bruciature
prese ai bagni?».'9
Nella maggior parte dei casi gli alimenti dovevano es­
sere cotti a ll’aperto come ancor oggi avviene in molti vil­
laggi greci. In effetti, prima del IV secolo, non risulta che
le case fossero provviste di cucina e, quando questa esiste­
va, mancava un braciere fisso: si accendeva il fuoco fuori
di casa e lo si trasportava all’interno quando la legna o il
carbone avevano già prodotto la brace e producevano me­
no fumo. Il problema dell’evacuazione del fumo si poneva,
però ugualmente in inverno quando gli abitanti avevano
bisogno di scaldarsi. Il procedimento più sommario (che
troviamo anche oggi in certe case contadine) consisteva
nello spostare una tegola o una botola quando il fuoco era
acceso: si poteva farlo con una pertica. Questi fori di aera­
zione (opai) che non vanno confusi con le finestre {thirides)
potevano trovarsi anche lungo il margine superiore dei mu­
ri.1920 M a i testi antichi ci parlano anche di «condutture per
il fumo» (,kapnodoké),21 che dovevano essere in ceramica,
assicurandoci che dovevano esistere anche dispositivi meno
elementari del foro di aerazione. Tali camini si trovavano
soprattutto nelle case più eleganti di quelle di cui abbiamo
finora parlato, di borghesi ricchi o almeno agiati.

19 Aristofane, P luto, v. 535.


20 Cfr. V. Svoronos-Hadjimichalis, «Bulletin de Correspondances helleni-
ques» 80, 1956, pp. 4 8 3 -5 0 6 .
21 Erodoto, 4, 103.

36
L’a mbiente: città e campagna

Sulle 10.000 case che Senofonte attribuiva all’Atene dei


suoi tempi,22 molte assomigliavano ai poveri ripari che abbia­
mo appena descritto ma altre, soprattutto nei quartieri resi­
denziali come Scambonide, dovevano essere più confortevoli
almeno nel IV secolo, dato che suscitavano l’invidia dei con­
temporanei di Demostene. In Attica, a Voliagmeni, presso il
santuario di Apollo Soster, è stata scoperta una casa con pe­
ristilio che sembra risalire al VI secolo e sull’Agorà di Atene
una grande costruzione anch’essa dotata di portici della stessa
epoca.23 E incerto che fossero case private; è più probabile che
fossero edifici municipali adibiti a residenza di certi magistrati.
Sappiamo che nel IV secolo ad Atene cerano grandi abita­
zioni collettive analoghe ai nostri condomini poiché l’oratore
Eschine ci dice:

Chiamiamo sinoichia l’abitazione condivisa da più loca­


tari e oichia quella monofamiliare. Se un medico viene a
installarsi in uno degli spacci che sorgono ai bordi delle
nostre strade, esso prende il nome di gabinetto medico, o
di forgia se è un fabbro che vi succede, dopo che il medico
se ne è andato, o di lavanderia o di carpenteria se vi abita­
no un lavandaio o un carpentiere... quando vengono a in­
stallarsi delle prostitute col loro protettore, la casa assume
ben presto il nome di luogo di malaffare.24

In Attica non sono mai state trovate grandi e ricche case


che fossero vere e proprie abitazioni private. Per farci un’i­

22 Senofonte, M em orabili, 3, 6, 14.


23 Cfr. R. M artin, L’u rbanism e dans la G rece antique, p. 223.
24 Eschine, C ontro Tirnarco, 124.

37
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

dea di com’erano dobbiamo ricorrere ai notevoli risultati


degli scavi effettuati a Olinto, nella penisola Calcidica, nel
nord della Grecia, e a Deio, isola del mar Egeo.25
Le case scoperte a Olinto risalgono al IV secolo. Le me­
glio conservate hanno una pianta pressa poco quadrata.
Tutte le stanze si aprono non sulla strada ma su un portico
interno (pastas) preceduto da un cortile {aule) a sua volta
preceduto da un vestibolo (protiron). Tale disposizione è
analoga a quella delle case con peristilio interno di età el­
lenistica e romana. La pastas era normalmente orientata in
pieno mezzogiorno secondo il consiglio che Socrate forni­
sce, in Senofonte: «Quando le case guardano a mezzogior­
no il sole penetra, in inverno, negli appartamenti mentre
in estate passa sopra le nostre teste, sopra i tetti e ci lascia
in ombra».26 La porta d ’ingresso può essere situata a sud o
a est senza che questo influenzi l ’orientamento della pastas.
La sala decorata da mosaici dove si davano i banchetti, 1’a n-
droon, poteva essere posta nell’angolo nord-est o sud-est ma
l’ampio «living-room» {diaiteterion) era di solito collocato
a nord, dietro la pastas dalla quale riceveva luce. Infine la
sala da pranzo per la famiglia {oikos) era fiancheggiata dalla
sala da bagno e dalla cucina. Un laboratorio e una dispensa
completavano il pianterreno. Al primo piano si trovavano
di norma le camere da letto: camera coniugale (tbalam os),
appartamento delle donne e cellette per gli schiavi.27

25 Cfr. D.M . Robinson, E xcavations a t O lynthus, V i l i (1938) e XII (1946)


e J. Chamonard, Exploration a rch éologiq u e d e D élos, V ili.
26 Senofonte, M em orabili, 3, 8, 9.
27 Cfr. Demostene, C ontro E vergo e M nesibulo, 57: «Udendo le grida, le
altre serve che stavano al piano superiore, dove abitavano, chiusero il loro
appartamento».

38
L’a mbiente: città e campagna

Notiamo la vicinanza del bagno alla cucina, spiegabile


col fatto che quest’ultima cedeva una parte del suo calore
alla stanza adiacente. Nelle Vespe di Aristofane Bdelicleone
tiene suo padre prigioniero ma il vecchio pazzo scappa per
andare al tribunale. Sentendo suo padre muoversi, il figlio
dice a un servo: «Mio padre è entrato là dentro e scalpiccia
come un topo chiuso in trappola. Andiamo, bada che non
scappi per il buco della vasca».28 Di recente è stato proposto
di interpretare il «buco della vasca» come il foro d ’entrata
dell’aria calda che sarebbe stato praticato nel muro di se­
parazione fra le due stanze.29 M a Filocleone come avrebbe
potuto scappare a ll’esterno, dalla stanza da bagno? Certa­
mente lo scherzo è forzato e consiste nel suggerire che Fi­
locleone si sia fatto piccolo tanto da passare per lo scarico
dell’acqua, ma i lettori di Aristofane lo capivano al volo.
Filocleone, alla fine, scappa dal tetto e dirà trionfalmente,
nel verso 144: «Sono io, il fumo, che esco». Nelle rovine
di Olinto è stata effettivamente scoperta una copertura del
tetto forata da un orifizio ellittico di 47 centimetri per 23
attraverso il quale un uomo avrebbe potuto scivolare salen­
do sul tetto. Il confronto fra gli scavi di Olinto e il testo di
Aristofane ci permette di pensare che case di questo tipo
dovevano esistere ad Atene verso la fine del V secolo. Un
altro testo, questa volta di Demostene, ci conferma che un
debitore insolvente, quando lo andavano ad arrestare, po­
teva cercare di scappare dal tetto per passare discretamente
in casa dei vicini attraverso il terrazzo.30

28 Aristofane, Le vespe , vv. 139-141.


29 R. Ginouvès, «Bulletin de Correspondances helleniques» 76, 1952, pp.
560-561.
30 Demostene, C ontro A ndrotion, 53.

39
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Le case di Delos spesso avevano non l’unico ordine di


colonne della pastas ma portici su più lati del cortile in­
terno che talvolta era interamente circondato dal peristilio
sui quattro lati. M a tali case risalgono all’epoca ellenistica
e niente ci garantisce che fossero di un tipo già ricorrente
nell’A tene del IV secolo.
Certamente molte case private erano almeno a un piano.
Un borghese di Atene spiega, in un testo di Lisia:

Bisogna dire prima di tutto (perché anche i particolari


sono necessari) che la mia casetta è a un piano; la dispo­
sizione è la stessa in alto e in basso, per l’appartamento
delle donne e per quello degli uomini. Nacque un bimbo
che sua madre allattava. Ogni volta che bisognava andare
a lavarlo, lei era costretta a salire e rischiava sempre di ca­
dere dalle scale; per questo mi decisi ad andare ad abitare
al primo piano e a mettere le donne al pianterreno. Presa
così l’abitudine, mia moglie andava spesso a dormire col
bambino per porgergli il seno e impedirgli di gridare.

E aggiunge: «Nella mia ingenuità giudicavo mia moglie


la donna più giudiziosa della città».31 Invece questa avrebbe
approfittato ben presto di tale nuova suddivisione delle ca­
mere per ricevere il suo amante comodamente al pianterre­
no mentre il marito dormiva al primo piano.
Spesso il primo piano sporgeva rispetto alla strada ma
lo Stato considerava illegittim i tali balconi. Già il figlio di
Pisistrato, Ippia, tiranno di Atene, «aveva messo in vendita
tutto ciò che dai piani debordava sulla pubblica via: le sca­

31 Lisia, S u ll’uccision e d i Eratostene, 9-10.

40
L’a mbiente: città e campagna

le, i balconi, le porte che si aprivano all’esterno».32 Ificrate,


nel IV secolo, propose agli ateniesi di tassare tutte le costru­
zioni aggettanti per migliorare la condizione preoccupante
delle pubbliche finanze.33 Le terrazze al piano superiore po­
tevano essere decorate da balaustre e colonne che troviamo
rappresentate nella pittura vascolare del IV secolo.
La decorazione delle case si limitava inizialmente a una
semplice mano di calce sui muri. Nel IV secolo, mosaici, co­
me a Olinto, decoravano Yandroon o il cortile del peristilio.
La casa di Focione, nel quartiere di Melito, «era adorna di
placche di bronzo, ma, a parte questo, era semplice e nuda».34
Non crediamo che sia da prendere alla lettera il verso di Bac-
chilide secondo il quale «l’oro e l’avorio splendevano nelle
case».351 muri delle case più ricche erano coperti di tappez­
zerie e ricami e i soffitti erano talvolta decorati e incrostati.
Si narra che Alcibiade avesse sequestrato il pittore Agatarco
in casa propria per tre mesi, per costringerlo ad affrescarglie­
la.36 M a il lusso della casa di Alcibiade, tanto vantato, era re­
lativo: «Il catalogo dei suoi beni, venduti in esecuzione della
sentenza che concluse il processo di Ermocopide e quello
dei Misteri, non dava l’idea di un lusso dispendiosissimo».
Due him atia che possono essere i “mantelli di porpora” di
cui parla Plutarco; un mobilio minuziosamente descritto il
cui pezzo più ricco doveva essere un “completo per la sala da
pranzo” composto da 4 tavole e 12 letti “dell’artigianato mi-
lesio” del valore totale di circa 120 dracme: ecco a che cosa

32 Pseudo-Aristotele, E conom ico, 2, 2, 4.


33 Poliene, S tratagem m i, 3, 9, 30.
34 Plutarco, F ocione, 18.
35 Ateneo, 2, 39.
36 Andocide, 4, 17: Plutarco, A lcibiade, 16.

41
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

si riducevano il guardaroba e l’arredamento di un uomo il


cui lusso nella vita privata era tale a paragone della modestia
dello stile di vita dell’ateniese del V secolo.37 A ll’infuori dei
letti, tavole, sedie, sgabelli, il mobilio consisteva soprattut­
to in bauli e cofanetti dove si riponevano abiti e gioielli.
Probabilmente molti vasi dipinti e firmati da artisti celebri
non avevano alcun uso pratico domestico ma erano esposti
come ornamento in certe stanze della casa, come anche oggi
piatti preziosi e vasi decorano gli appartamenti. Possiamo
immaginare così la casa del ricco ateniese C allia che Platone
ci presenta nel Protagora-, sotto il proostoon (il portico vici­
no all’ingresso), il celebre sofista circondato dal «coro» dei
discepoli e degli amici passeggiava conversando e la colta
compagnia descriveva armoniose evoluzioni quando Socrate
e il giovane Ippocrate entrano non senza aver faticato a farsi
aprire la porta dal portinaio, un eunuco.38
M a case di questo tipo erano rare nell’A tene del seco­
lo di Pericle. Molte somigliavano piuttosto a capanne e la
maggior parte di esse erano troppo strette per permettere
l’installazione di bagni e gabinetti. L’uso àtìYamis (il «va­
so che è necessario tenere in camera» secondo la perifrasi
delle R adici grech e) era diffusissimo39 anche fra i soldati in
guarnigione, che ne facevano talvolta occasione di scherzi
volgari.40

37 J. Hatzfeld, A lcibiade, pp. 12 8 -129 , da Inscr. G r. I, 3 30 (cfr. A Selection


ofG reek H istorical Inscriptions, 1, 80). Sul significato della parola anaclisis,
cfr. L. Robert, H ellenica, IX, p. 46.
38 Platone, P rotagora, 314, c.-316-a.
39 Cfr. Aristofane, Le vespe, v. 935, Le Tesmoforie, v. 633; Eupolis, citato da
Ateneo, I, 17 e.
40 Demostene, C ontro C onone, 4.

42
L’a mbiente: città e campagna

La notte ci si toglieva il mantello e la cintura della tunica


ma non la tunica, che serviva anche da camicia da notte.
In un passo ardito di Aristofane, vediamo che i letti erano
delle specie di quadrati di legno con delle cinghie sulle qua­
li si posava, come materasso, un cannicciato di giunco o di
canna (psiathos) e che ci si serviva di cuscini e coperte ma
non di lenzuola. In estate, si dormiva soprattutto sul ter­
razzo, sul tetto di casa, per godere il fresco della notte. Ci
si avvolgeva allora nelle coperte ma pulci e pidocchi spesso
turbavano il sonno: i morsi degli insetti cacciano dalle co­
perte il buon Strepsiade.41
In sim ili condizioni abitative, l’igiene era necessaria­
mente sommaria. Parleremo nel capitolo VI della pulizia
personale che variava moltissimo a seconda delle classi so­
ciali e del livello di vita. La sporcizia e i cattivi odori che
ancor oggi regnano nelle città orientali non erano certo
assenti d all’A tene classica. Topi, mosche e zanzare diffon­
devano ogni sorta di m alattie e le epidemie non erano
rare.
Uscendo da Atene a nord-est, passando per la porta del
Dipilon ci si trovava quasi subito nel principale cimitero
della città, situato da entrambi i lati della via che con­
duceva a ll’A ccademia. Questa necropoli risaliva almeno
a ll’V ili secolo perché vi si sono trovati vasi funerari di
stile geometrico che viene denominato appunto «del Dipi­
lo». Più tardi lo stato ateniese innalzò tombe collettive per
i soldati uccisi in guerra e ne fece celebrare il ricordo da
un oratore designato ufficialmente, che si poteva chiamare
Pericle, Demostene o Iperide.

41 Aristofane, Lisistrata, vv. 915-936; Le nuvole, 12-14.

43
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Il viale delle tombe, messo in evidenza dagli scavi, era una


strada secondaria a sud della via dell’A ccademia, vicino alle
rive deH’Eridano; può ricordare lAppia a Roma o gli Ali-
scampi di Arles. I bordi erano fiancheggiati da terrazze divi­
se, tramite muriccioli, in piccole «concessioni» appartenen­
ti alle famiglie di Atene, cittadine o meteche. Ogni recinto
conteneva le tombe dei membri della famiglia e quelle dei
suoi schiavi. I monumenti funerari consistevano il più delle
volte in lastre di marmo innalzate a stele decorate di bassori­
lievi ma troviamo anche delle vere e proprie edicole dotate di
frontoni. Vasi di marmo erano posti su certe tombe, soprat­
tutto lekythoi o lutrofore (vasi di forma allungata a una o due
anse), che contrassegnavano le tombe dei celibi. Gli schiavi
avevano semplici cippi rotondi (a colonna tronca) col loro
nome. Si trovavano anche animali seduti simbolici - tori,
leoni, cani, sfingi o sirene - rappresentati su alti piedestalli o
agli angoli delle «concessioni». Le stele scolpite rappresenta­
vano il più delle volte scene simboliche di addio o di incon­
tro. Si sono trovati anche rappresentati una giovane donna
che si fa la toilette (Hegeso) e un cavaliere ateniese di 20 anni
che abbatte un nemico prima di perire egli stesso (Dexileos).
Continuando ad allontanarsi da Atene verso sud-est, oltre
il cimitero del Ceramico, si entrava nel territorio del demo
di Colono, dove nacque il poeta tragico Sofocle, e si arrivava
all’A ccademia, cioè al parco di Academo, personaggio che
poteva essere l’antico proprietario del terreno o più probabil­
mente un eroe locale che vi aveva un santuario rustico. Era
un ampio bosco sacro che era stato circondato da mura per
iniziativa di Ipparco, figlio di Pisistrato. Era stato dedicato
ad Atena e vi spuntavano 12 olivi sacri alla dea (m oriai) che
si dicevano nati da un ramo d ’olivo di Eretteo. Tali olivi

44
L’a mbiente: città e campagna

fornivano l’olio che veniva dato in premio ai vincitori delle


Panatenee. Altri dei ed eroi vi avevano i loro altari: special-
mente Ermes, il dio dei ginnasi, ed Eros, dio dell’amore.
Gli ateniesi venivano volentieri a passeggiare all’A ccademia.
Cimone che «fece dell’A ccademia, fino allora arida e secca,
un giardino bene irrigato con viali ombreggiati», vi fece co­
struire anche un ginnasio42 le cui piste servivano agli esercizi
degli efebi che vi erano poi passati in rivista dal Consiglio.
Scavi recenti hanno permesso di individuare l ’area dove sor­
geva tale ginnasio, le rovine di una palestra, parti del muro
di cinta e di un piccolo tempio.
Aristofane nelle N uvole, quando definisce l’ideale dell’an­
tica educazione, rievoca con rimpianto quel ginnasio:

Brillante e fresco come un fiore, passerai il tempo nei gin­


nasi invece di consumarlo nell’Agorà in chiacchiere senza
capo né coda come si fa oggi o di darti attorno per un
affare, come si fa oggi, in mezzo a liti, contestazioni e ru­
berie. Scenderai all’Accademia, dove, sotto gli olivi sacri,
farai la corsa incoronato di verde canna con un amico
della tua stessa età, odorante di smilace, di tranquillità e
del pioppo bianco che perde i suoi amenti, godendo della
stagione primaverile quando il platano bisbiglia coll’olmo.
Tu avrai così sempre il petto robusto, il colorito luminoso,
le spalle larghe...43

M a se l ’A ccademia divenne celebre e diede il nome a


tutte le «Accademie» anche contemporanee, lo deve a Pla-

42 Plutarco, C im one , 13.


43 Aristofane, Le nuvole, vv. 10 0 2-10 0 8.

45
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

tone che nel 387 vi inaugurò un insegnamento regolare.


In mancanza di ogni istituto di insegnamento superiore,
nell’epoca dei «sofisti «, cioè dei dotti e dei filosofi, i gin­
nasi erano infatti diventati luoghi di riunione deputati di
veri e propri circoli intellettuali che chiamiamo «scuole».
Come è stato giustamente detto, «i ginnasi sono il corri­
spondente esatto di quei “centri culturali” in cui gli archi­
tetti urbanistici di oggi progettano di insediare le attività
concernenti la cultura del corpo e dello spirito».44 In tali
ginnasi, ci volevano acque per le abluzioni degli atleti e
non era certamente un caso se l ’A ccademia si trovava in
prossimità del Cefiso.
Anche il Liceo, a est di Atene, che fu la sede della «scuo­
la» di Aristotele, era posto presso le fonti dell’Eridano e il
Cinosarge, a sud, dove insegnò il cinico Antistene, era vi­
cino all’Ilisso, certo non lontano dal luogo incantevole del
quale Platone, nel Fedro, ci ha dato una celebre descrizione
per bocca di Socrate:

Ah!, per Era, che bel luogo per fare una sosta! Il platano
copre tanto spazio quanto è alto. E questo agnocasto come
è grande e magnificamente ombroso! In piena fioritura
com’è, il luogo non potrebbe essere più profumato. E il
fascino senza pari di questa fonte che scorre sotto il plata­
no, la frescura delle sue acque: basta il piede per dirmelo!
Alle ninfe, ad Acheloo, se devo giudicare dalle statuette e
dalle statue di dei, essa è consacrata. E dimmi, per piace­
re, se l’aria buona che si respira qui non è desiderabile e

44 R. M artin, L’urbanism e..., cit., p. 276. Cfr. anche Hans Herter, Platons
Akademie, Buchdruckerei Gebr. Scheur, Bonn 1952.

46
L’a mbiente: città e campagna

straordinariamente piacevole. Chiara melodia destate che


fa eco al coro delle cicale. Ma la più squisita raffinatezza è
questo prato, con la naturale dolcezza del suo pendio che
permette, quando vi ci si stende, di avere la testa perfetta­
mente a proprio agio.

Fedro si stupisce di tanto entusiasmo da parte di un uo­


mo che «non lascia mai la città né per viaggiare oltre le
frontiere dell’A ttica né per uscire dalle stesse mura di Ate­
ne». E Socrate, di cui sappiamo che frequentava il Liceo e
talvolta l’A ccademia, gli risponde: «Ma la campagna e gli
alberi non mi insegnano nulla mentre gli uomini della città
sono così istruttivi!».45 Comunque questo passo testimonia
un intenso amore per la natura da parte di Platone. Certa­
mente, gli Id illi di Teocrito, nel III secolo, rappresentano,
a questo proposito, un aspetto del tutto nuovo della sensi­
bilità letteraria ma i due luoghi di Aristofane e di Platone
che abbiamo appena citato dimostrano a sufficienza che i
greci erano sensibili, come noi, alla freschezza, al verde, alla
tranquillità di un bel paesaggio, alla bellezza degli alberi,
come dimostra la scelta fatta per costruirvi i ginnasi.

Certamente molti borghesi ricchi di Atene avevano, fuo­


ri delle mura, una casa di campagna, nel quartiere subur­

45 Platone, Fedro, 2 3 0 , b-e. Questo passo è stato spesso imitato come si


vede all’inizio delYEroticos di Plutarco (M or ., 749 A): «Elimina dal tuo rac­
conto, per questa volta, i prati e le ombre dei poeti e anche i loro intrecci
di edera e convolvolo, insomma tutte queste descrizioni di paesaggi con i
quali certi autori, con più zelo che grazia, si sforzano di prendere a prestito
da Platone e di appropriarsi il suo Illisso, il suo celebre ippocastano e l’erba
che spunta lungo un pendio dolcemente inclinato...».

47
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

bano di Agrilé o altrove. M a le strade erano disagevoli. Ol­


tre alla Via Sacra per Eieusi dove passava la processione
religiosa dei misteri e alle due strade, civile e militare, che
collegavano la città al porto del Pireo, lungo le quali il traf­
fico di carri per le merci doveva essere notevole, non cerano
che strade in terra battuta o disagevoli piste sulle quali si
circolava soprattutto a piedi o a dorso di mulo o a cavallo,
ma difficilmente su un carro leggero a due ruote.
Appena cadeva la notte le strade erano ancora meno si­
cure delle tortuose e buie viuzze di Atene dove si nasconde­
vano i ladri. Negli U ccelli di Aristofane, l’ateniese Evelpide
racconta la disavventura che gli è occorsa:

Ahimè, ho perso un mantello di lana di Frigia a causa di


un gallo. Ero stato invitato al banchetto del decimo gior­
no dopo la nascita di un bambino, avevo bevuto un po’
in città e mi ero addormentato quando, prima che tutti
gli altri convitati si mettessero a cenare, un gallo si mise a
cantare. Io, credendo che facesse l’alba, partii per Alimus;
appena messo piede fuori dalle mura, un rapinatore mi
calò una randellata nella schiena. Caddi, mi misi a gridare
ma questi mi aveva già portato via il mantello.46

Naturalmente cerano locande lungo le strade, per offrire


ai viaggiatori da dormire e da mangiare. Ancora Aristofane
ci documenta la loro esistenza e ci suggerisce seri dubbi
sulla loro pulizia quando fa dire, nelle Rane, a Dionisio, che
si informa presso Eracle, sulla strada migliore che conduce
all’Ade:

46 Aristofane, Gli uccelli, vv. 493 -49 8 .

48
L’a mbiente: città e campagna

Indicami, in caso di bisogno, gli osti che ti hanno servi­


to quando sei andato a cercare Cerbero; indicami anche
porti, panetterie, lupanari, arresti, biforcazioni, fonti,
strade, città, alloggi e alberghi dove si trovano meno pi­
docchi...47

Un tempo in Attica giacevano vasti terreni agricoli di


proprietà degli Eupatridi. Ai tempi di Solone la prima clas­
se dei cittadini, i cui membri soltanto potevano accedere
all’arcontato, comprendeva gli ateniesi il cui reddito an­
nuale raggiungesse o superasse 500 medimmi di cereali.
Erano i p en ta cosiom ed im m i e il medimmo era una unità
di misura corrispondente a poco più di 50 litri. Dovevano
dunque avere un raccolto di più di 250 ettolitri di cerea­
li. Ancora nel V secolo, il figlio di Milziade, Cimone, era
abbastanza ricco da poter accrescere la sua popolarità con
grandi donazioni:

Della sua casa faceva un pritaneo comune per i cittadini


(cioè, nutriva in casa sua tutti coloro che glielo chiedevano,
come i grandi benemeriti dello stato erano mantenuti nel
pritaneo) e permetteva agli stranieri, sulle sue terre, di
consumare o portar via le primizie dei frutti e di tutto ciò
che le stagioni producono di buono.48

Anche Pericle possedeva in Attica dei terreni, che pro­


mise di cedere allo stato se i lacedemoni che invadevano
il paese li avessero rispettati per farlo sospettare da parte

47 Aristofane, Le rane, vv. 108-115.


48 Plutarco, C im one, 10.

49
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

dei suoi concittadini.49 L’economia attica si fondava essen­


zialmente sull’agricoltura e l ’allevamento del bestiame e si
integrava col commercio. Nei demi rurali sono state trovate
tracce di case padronali ma in condizioni troppo cattive
per fornirci qualche informazione precisa.
E meglio rifarci alla descrizione che l’ateniese Senofonte ci
fa della sua proprietà di Scillonte, in Elide nel Peloponneso.

Tale proprietà è attraversata dal Seiino... dove ci sono pe­


sci e crostacei; ha anche terreni di caccia. Senofonte vi in­
nalzò un altare e un tempio ad Artemide... Vi si catturava
la selvaggina - cinghiali, cervi, gazzelle - nello stesso ter­
reno sacro e anche a Foloe. La proprietà è situata lungo la
strada che porta da Sparta a Olimpia, a una ventina di sta­
di dal tempio di Zeus. Nel recinto sacro, ci sono un pra­
to, colline coperte di alberi, favorevoli all’allevamento dei
maiali, delle capre, dei buoi e anche dei cavalli... Il tempio
è circondato da un’aiuola piantata ad alberi da frutto che
danno, a seconda delle stagioni, frutti eccellenti.50

Soprattutto nell 'E conomico Senofonte ci informa sulla vi­


ta quotidiana del gentiluomo di campagna. Fa uno splendi­
do elogio dell’agricoltura, presentata come la fonte di tutte
le virtù. Questo quadro idillico corrispondeva certamente a
una esperienza personale. Avremo modo di tornarvi.
M a lo sviluppo della democrazia ateniese che chiedeva
duri sacrifici ai ricchi, attraverso le litu rgie (servizi pubblici

49 Plutarco, P ericle , 33.


50 Senofonte, Anabasi, 5, 3, 7-12. Cfr., É. Delebecque, Le site d e Scillonte, in
«Annales de la Faculté de Lettres d ’Aix» 29, pp. 5-18.

50
L’a mbiente: città e campagna

come la trierarchia e la coregia) e soprattutto la suddivisione


degli appezzamenti fra gli eredi, diminuirono fortemente il
numero e le dimensioni delle grandi proprietà e nel V se­
colo l’A ttica era coltivata soprattutto da piccoli proprietari
che coltivavano personalmente il loro fazzoletto di terra con
l’aiuto di qualche schiavo e di qualche salariato. Tale classe
media di piccoli proprietari, disposti al sacrificio e alla fatica,
costituì la forza di Atene al tempo delle guerre persiane, e da
essa venivano certamente la maggior parte dei combattenti
di Maratona, i «maratonomachi» dei quali Aristofane e altri
scrittori attici si compiacquero di esaltare il glorioso ricordo.
In montagna la vita era dura. Le principali risorse era­
no l’allevamento del bestiame (soprattutto maiali, capre e
pecore), il miele degli alveari dell’Imetto e lo sfruttamento
del carbone di legno soprattutto lungo i pendìi esterni del
Parne dove sorgeva il grosso borgo di Acarne; la commedia
di Aristofane Gli acarnesi ci fornisce un quadro realistico di
questi montanari rudi e testardi.
In pianura, i cereali non rendevano molto e Atene do­
veva importare gran parte del grano che consumava ma
la vite e gli alberi da frutta, soprattutto fichi e olivi, dava­
no buoni raccolti. Lo Strepsiade delle N uvole, il Diceopoli
degli A carnesi e il Trigeo della P ace sono fra le figure più
rappresentative di questi contadini dell’A ttica la cui ter­
ra garantiva il benessere nel tempo benedetto della pace.
Strepsiade che era venuto ad abitare in città rimpiangeva la
vita libera e prospera che conduceva in campagna prima del
suo disastroso matrimonio:

Avevo una vita da contadino, così dolce all’ombra delle


siepi, tranquilla, ronzante d’api, di pecore, dei rami d’o-

51
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

livo. Ed eccomi sposato alla nipote di Megacle, io conta­


dino, lei una cittadina, una signorina, una smorfiosa... Il
giorno del matrimonio, al suo fianco, io avevo l’odore del
vino nuovo, delle gallette al formaggio, della lana, dell’ab­
bondanza; lei dei profumi, di zafferano, di baci lascivi di
spreco, di ghiottoneria, di Afrodite...51

E Diceopoli, negli A carnesi:

Guardo in lontananza verso il mio campo, amante come


sono della pace; ho la città in orrore e piango il mio vil­
laggio che ancora non mi ha detto: «acquista del carbone,
dell’aceto, dell’olio», che ignorava la parola «acquista» ma
mi procurava tutto senza questa litania: «acquista».52

E infine Trigeo, nella Pace:

Oggi brucio di desiderio di tornare ai campi e di lavorare


con la mia zappa il mio pezzetto di terra... Andiamo! ri­
cordate, uomini, la vita di un tempo che la dea ci dispen­
sava, quelle trecce di fichi secchi e i fichi freschi e i mirti
e il vino dolce e le aiuole di viole vicino al pozzo e le olive
che tanto rimpiangiamo!53

Questo quadro era certamente abbellito per necessità di


cose, perché Aristofane voleva far odiare la guerra esaltan­
do la felicità che si godeva in tempo di pace ed è assai dub­

51 Aristofane, Le nuvole, vv. 43-52.


52 Aristofane, Acarnesi, vv. 32-36.
53 Aristofane, La pa ce, vv. 569-579.

52
L’a mbiente: città e campagna

bio che abbia egli stesso mai arato la terra con le mani o
lavorato in una vigna. Ne possiamo dedurre però che molti
contadini dell’A ttica, per quanto rozza fosse la loro vita,
erano contenti della loro sorte.
II

La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

Una città, nella Grecia antica, si definisce più che in base


al territorio sul quale si estende, per gli uomini che la com­
pongono. Le frontiere fra stati, quando non sono fissate dal
corso di un fiume, restano vaghe e imprecise nelle terre di
confine montuose, eschatiai, questi alti pascoli dove magre
greggi pascolano in una scarsa vegetazione. Ciò che costi­
tuisce la p olis sono gli uomini. La lingua ufficiale non dice
Atene, ma sempre «gli ateniesi», o «il popolo», la «città degli
ateniesi». La p olis classica una «comunità di cittadini del
tutto indipendente, sovrana sui cittadini che la compongo­
no, cementata da culti e retta da leggi».1
«Del tutto indipendente.» La città infatti, anche se i suoi
membri hanno la consapevolezza di appartenere a una co­
munità etnica e culturale più vasta, non ammette alcun
legame politico di subordinazione a nessun altro stato. Pro­
prio per salvare la loro preziosa autonomia molte città, alla 1

1 A. Aymard, R ecueils d e la so ciété Jea n B odin, 6, 1, Bruxelles 1954, pp


52-53.

54
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

testa delle quali si posero Atene e Sparta, respinsero i bar­


bari di Dario e poi di Serse. Tale passione fiera dell’indi­
pendenza, carattere fondamentale della Grecia antica, non
ebbe buoni risultati perché impedì qualsiasi unione dura­
tura degli stati greci in una federazione che avrebbe potuto
consolidare l’unità politica del paese. Ogni città temeva in­
nanzitutto di essere sottoposta a un’altra e si sforzava invece
di dominare le vicine. Atene, Sparta, Tebe crearono delle
alleanze {simmachiè) in cui le città definite «alleate», per
placare la loro suscettibilità, si assoggettavano, ma il de­
siderio sostanziale di autonomia rese tali alleanze sempre
precarie e di breve durata.
«Sovrana sui cittadini che la compongono» la città antica
è un fine in sé, un assoluto che non lascia a nessuno dei suoi
membri una grande libertà e che accaparra l’attività di tutti.
In questo senso, è fondamentalmente totalitaria. Ciò è evi­
dente per Sparta. Per Atene, gli aspetti liberali del carattere
ateniese poterono mascherare questa realtà profonda, pure
esistente. La libertà di pensiero e di espressione era inesisten­
te, come testimoniano i numerosi processi per empietà e la
morte di Socrate, e fu proprio la democrazia restaurata nel
403 dopo il regime oligarchico dei Trenta a far bere a Socra­
te la cicuta.2 Un cittadino poteva venir colpito da ostracismo
senza che gli si potesse imputare alcun delitto.
«Cementata dai culti.» Gli antichi ignoravano la distin­
zione fra spirituale e temporale. Atene era la città di Atena
e i sacerdoti di Atena, come quelli delle altre divinità, erano
anche magistrati della città. La religione faceva corpo con
lo stato, almeno quella ufficiale; anche certi culti iniziatici,

2 Sui processi per empietà, cfr. cap. V i li , p. 279-280.

55
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

come i misteri eleusini, erano controllati dallo stato. Esso


era dunque necessariamente intollerante, perché i legami
fra i cittadini erano di natura non solo politica e sociale ma
anche sacrale.
«Retta da leggi.» Erano i nom ai che reggevano tutta la
vita del cittadino dalla nascita alla morte, anche ad Ate­
ne dove, tuttavia, tale asservimento era meno costante e
rigoroso che a Sparta. Tali leggi però erano state stabilite
dai cittadini stessi o dai loro padri (i costumi ancestrali, le
leggi non scritte erano altrettanto coattive quanto la legi­
slazione istituita per decreto) e ciò costituiva la dignità di
uomini liberi dei greci di fronte ai barbari, sottoposti a un
signore che poteva essere ingiusto o capriccioso. M a tale
libertà aveva dei lim iti strettissimi. Demarato disse a Serse:.
«Gli spartiati sono liberi, ma non sono liberi in tutto: han­
no un signore, la legge, che temono più ancora di quanto
i tuoi sottoposti temano te».3 Platone personifica tali leggi
nel C ritone:

Immagina - disse Socrate - che mentre siamo sul punto


di evadere (da questa prigione) vediamo venire a noi le
Leggi e lo Stato, che essi si levino dinanzi a noi e ci chie­
dano: «Dicci, Socrate, che cosa ti proponi di fare? Ciò che
tu tenti che cos’è se non volerci distruggere per quanto è
in tuo potere? Credi veramente che uno stato possa sus­
sistere, che non venga sovvertito quando i giudizi emessi
non vi hanno forza, quando i singoli possono sopprimer­
ne l’effetto e distruggerli?».4

3 Erodoto, 7, 104.
4 Platone, C ritone , 50 a-b.

56
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

Atene era una democrazia diretta in cui tutti i cittadini


partecipavano nel 1Assemblea {ecclesia) al governo dello stato.
Gli antichi non ignoravano del tutto la democrazia rappre­
sentativa quale è praticata negli stati moderni (la costituzio­
ne della lega beotica, fra il 447 e il 386, costituisce un tipico
caso di governo rappresentativo),5 ma la maggior parte delle
città antiche fu governata direttamente dall’insieme di tutti
i cittadini e l’A ssemblea era la fonte di tutti i poteri: legisla­
tivo, esecutivo e giudiziario. Evidendemente tale forma di
governo era possibile solo negli stati di limitate dimensioni e
solo le assemblee locali dei cantoni svizzeri possono darci og­
gi una qualche idea delle ecclesiai delle repubbliche antiche.
Per essere cittadini e avere il diritto di sedere nell’assem­
blea popolare erano necessarie due condizioni: bisognava
essere di padre ateniese e, a partire dalla legge di Pericle
del 451, anche di madre ateniese; bisognava inoltre essere
maggiorenni. Lo si diventava a ll’età di 18 anni, ma poiché
si facevano 2 anni di servizio militare si entrava a far parte
dell’A ssemblea a 20 anni. Gli ateniesi potevano per decreto
concedere la cittadinanza a uno straniero e potevano anche
toglierla a un ateniese di nascita, colpendolo con un decreto
di atim ia, cioè di decadenza dai diritti civili.
La vita quotidiana del cittadino ateniese era dominata
dalla cura per gli eventi politici, almeno in linea di prin­
cipio, perché i contadini dell’A ttica, gli Stepsiade, i Diceo-
poli, i Trigeo, prima del loro forzato trasferimento in città,
non potevano abbandonare continuamente i lavori agricoli,
soprattutto nell’epoca della semina e in quella della mieti­

5 Cfr. J.A.O . Larsen, R epresentative G overnm ent in Greek a n d Roman His-


tory, University o f California Press, Berkeley 1955.

57
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

tura per venire a sedere nella Pnice. Ciò spiega come mai,
su un totale approssimativo di 40.000 cittadini ateniesi, il
q uorum dei votanti era di 6000 per le decisioni considerate
più gravi.6 M a tale assenteismo, inevitabile, era il più lim i­
tato possibile e per questo, molto probabilmente, l’assem­
blea e l’ordine del giorno dovevano essere proclamati con
quattro giorni di anticipo: così anche i contadini potevano
esserne informati in tempo.
L’opinione pubblica era molto severa nei confronti di chi
si disinteressava degli affari dello stato e bisognerà aspettare
la fine del IV secolo, con la perdita della indipendenza ate­
niese a Cheronea (338), perché una scuola filosofica, quella
di Epicuro, osi consigliare al saggio di occuparsi esclusi­
vamente dei suoi affari personali, della propria felicità. AL
tempo dei «maratonomachi» non si concepiva che la felicità
dell’individuo potesse essere dissociabile dalla prosperità
dello stato. L’istituzione di una indennità pecuniaria per
i cittadini presenti in Assemblea (;misthos ecclesiasticos) do­
po la guerra del Peloponneso non fu soltanto una misura
demagogica come spesso a torto viene detto; senza tale in­
dennità, i teti, cioè gli ateniesi salariati, i proletari, come
avrebbero potuto assistere alle sedute che talvolta duravano
giornate intere e che si tenevano almeno quattro volte al
mese, in molti casi assai più spesso?
Se si delineasse la vita quotidiana di un europeo del XX
secolo, si potrebbe fare a meno di citare il dovere elettorale,
che ha occasione di compiere solo di tanto in tanto. L’a­

6 Plutarco, Aristide, 7, 6: sembra che 6 0 0 0 fosse il quorum dei votanti e non


che l ’ostracizzato dovesse essere indicato da 6 0 0 0 suffragi; la questione è
però controversa.

58
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

teniese della città non solo partecipava a frequenti assem­


blee ma poteva essere nominato per un anno magistrato o
membro del consiglio dei Cinquecento {buleuta} o giudice,
e in questo caso la maggior parte del suo tempo veniva oc­
cupata dagli affari pubblici. Ci sembra dunque indispensa­
bile descrivere almeno sommariamente gli ingranaggi della
macchina politica di Atene. L’organizzazione della giustizia
sarà presa in considerazione nel capitolo IX.
L’assemblea della Pnice non era la sola alla quale un ate­
niese libero doveva prendere parte. Cerano anche le as­
semblee delle fratrie, dei demi, delle tribù che garantivano
l ’amministrazione locale, d isten e, nel 508, aveva abolito
le antiche divisioni dell’A ttica, un po’ come la Rivoluzione
francese sostituirà alle province i dipartimenti, e aveva sud­
diviso i cittadini in dieci tribù (philai) ognuna delle quali
era posta sotto la protezione di un eroe attico di cui porta­
va il nome: Erecteis (di Eretteo), Egeis (di Egeo, padre di
Teseo), Pandionis (di Pandione) ecc. Ogni tribù possedeva
dei terreni ed eleggeva magistrati per amministrare i pro­
pri beni. Si può dire altrettanto dei d em i che erano una
suddivisione della tribù (in origine cerano cento demi, in
ragione di dieci per tribù ma in seguito se ne crearono di
più). Ceramico, Collito, Melito, Scambonide erano demi
urbani; Acarne, Maratona, Decelies demi rurali. Ogni cit­
tadino ateniese era designato ufficialmente con tre nomi: il
proprio, il nome di suo padre (patronimico) e il nome del
suo demo (demodico): Pericle, figlio di Santippe del demo
di Colarges; Alcibiade figlio di Clinias del demo di Scam­
bonide; Demostene, figlio di Demostene del demo di Pea-
nia. Il capo del demo o demarco aveva funzioni analoghe a
quelle di un sindaco di oggi; teneva la lista dei membri del

59
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di I'ericle

demo, cioè una specie di stato civile, o piuttosto una lista


elettorale ed era eletto per un anno dai suoi concittadini.
La fratria era una suddivisione del demo di cui ignoria­
mo l ’organizzazione. Il nome fa pensare a un gruppo di fa­
miglie imparentate da legami di sangue, ed ha certamente
la stessa origine del latino fra ter.
Le assemblee delle tribù, dei demi, delle fratrie stringe­
vano dunque i cittadini ateniesi in tutta una rete di obbli­
ghi e di diritti ma esse si radunavano meno di frequente
delle assemblee della città.

La prima scena degli A carnesi di Aristofane, commedia


messa in scena per la prima volta nel 425, rappresenta una
seduta dell’A ssemblea popolare. Si tratta di una caricatura,
piu che di un quadro fedele, ma con le opportune correzio­
ni e integrazioni, possiamo prendere Aristofane come guida.
Certo, è meno completo ed esatto di Aristotele ma molto più
divertente! Aggiungeremo altri dettagli presi da un’altra sua
commedia, le Ecclesiazuse {Le d on n e in assemblea), il cui titolo
era già caricaturale perché le donne non ebbero mai, nell’an­
tichità, diritti politici, non potevano assistere alle assemblee
popolari e quindi il verbo ecclesiazo (prendere parte a una se­
duta dell’ecclesia) non venne mai usato per tutta l’antichità al
participio femminile, da nessuno tranne che da Aristofane.
Diceopoli, l ’eroe di Aristofane, che già conosciamo,7 si
trova all’inizio della commedia solo sulla Pnice di Atene. La
Pnice (cioè letteralmente il «luogo ove la gente si ammassa
numerosa») era di norma, nel V secolo, il luogo di riunione
dell’Assemblea popolare che in precedenza si teneva sull’A ­

7 Cfr. p. 52.

60
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

gorà e che nel IV secolo si riuniva sui gradini più conforte-


voli del teatro di Dioniso. Il colle della Pnice era situato a
sud ovest dell’A reopago, di fronte all’ingresso dell’Acropoli.
Ancor oggi vi si scorgono, sul versante roccioso rivolto ver­
so l’A reopago e i Propilei, i resti di un vasto spiazzo semi-
circolare. Questo emiciclo di centoventi metri di diametro
che poteva contenere circa ventimila persone poggiava su
un grosso muro di sostegno. La tribuna da cui si parlava
(bemrì) intagliata nella roccia, sussiste ancora; è costituita
da un cubo di roccia sopra una pedana a tre gradini, fian­
cheggiata da due scalette laterali e circondata da una panca
e da piccoli seggi. Di là gli oratori vedevano, e potevano mo­
strare ai loro uditori, i Propilei e il Partenone. I cancellieri
si sedevano sulla panca e i seggi. Il cubo di pietra era forse
l’altare di Zeus Agoraios sul quale all’inizio di ogni seduta
veniva offerto un sacrificio. Dietro e al di sopra di tale tribu­
na si distinguono le tracce lasciate da due ranghi di gradini
intagliati nella roccia dove certamente si installavano i pre­
sidenti dell’assemblea, che normalmente dovevano essere i
cinquanta pritani di una stessa tribù, membri del Consiglio,
che formavano una commissione permanente per la decima
parte dell’anno, cioè circa per 35-36 giorni, un periodo che
veniva denominato una p ritania. Nel V secolo il presidente
dell’A ssemblea era designato ogni giorno, a sorte, fra i prita­
ni e veniva chiamato epistate.
Diceopoli si annoia e si spazientisce, tutto solo sulla Pni­
ce, e dichiara che le sue passate sofferenze non sono niente
a confronto di quella che ora prova «nel vedere la Pnice
vuota, mentre un’assemblea regolare {kyria ecclesia) era con­
vocata per l’aurora» (vv. 19-20). Si tenevano infatti quattro
assemblee ogni pritania e le sedute iniziavano al sorgere del

61
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

sole. Il segnale dell’inizio era dato dal sem eion, una specie
di emblema o bandiera che veniva innalzato sulla Pnice.8
M a benché Diceopoli affermi più in là (v. 20) con eviden­
te esagerazione che era quasi mezzogiorno, gli ateniesi non si
erano ancora decisi a lasciare l’A gorà del Ceramico. «I nostri
chiacchierano sull’A gorà e fuggono di qua e di là di fronte
alla corda vermiglia.» L’A gorà era il luogo di appuntamen­
to preferito degli oziosi e dei fannulloni. Ce n’erano molti
ad Atene. Demostene dirà «passeggiate sempre chiedendovi
reciprocamente: ci sono novità?»9 e l ’autore degli Atti degli
apostoli gli farà eco: «Gli ateniesi e gli stranieri che vivono
ad Atene passano il loro tempo a raccontare e a chiedere
notizie».10 Come obbligare questi scioperati a raggiungere la
Pnice? Gli schiavi pubblici che facevano servizio di polizia
sbarravano le strade che conducevano all’A gorà e instrada­
vano i cittadini nella direzione giusta con l’aiuto di una cor­
da dipinta di vermiglio tesa attraverso le strade: macchiarsi
così di pittura rossa era abbastanza sgradevole di per sé e
mi sembra superfluo precisare che probabilmente gli ateniesi
ai quali accadeva di macchiarsi così dovevano pagare una
multa o venivano privati del misthos ecclesiasticos.
Diceopoli aggiunge: «Nemmeno i pritani sono già sul
posto; arriveranno più tardi e alla fine si urteranno l’un
l ’altró, pensate, per impadronirsi del primo banco, tutti in­
sieme come un torrente!» (vv. 23-26); e un po’ più oltre:
«Eccoli che alla fine arrivano, i pritani, a mezzogiorno! Che
cosa vi dicevo? Per occupare i posti davanti, che spintoni!»

8 Cfr. Aristofane, Tesmoforiazuse, 277-278.


9 Demostene, 1° F ilippica, 10.
10 Atti d egli apostoli, 17, 21.

62
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

(v. 40-42). Abbiamo già detto che i cinquanta pritani pre­


siedevano l’assemblea sotto l’autorità del loro epistate.
E il banditore pubblico spinge i cittadini a prendere po­
sto «all’interno del catharm a» cioè dello spazio consacra­
to (vv. 43-44). Questo accenno ci ricorda che a ll’inizio di
ogni seduta dei sacerdoti —i p eristia rch oi —immolavano dei
maiali sull’altare e col sangue delle vittime tracciavano un
cerchio consacrato tutto intorno all’assemblea; quindi l’a­
raldo rivolgeva una preghiera agli dei e lanciava impreca­
zioni contro chiunque cercasse di ingannare il popolo.
M a Aristofane, in un’ottica teatrale, accorcia e semplifica.
Nella realtà, il presidente ordinava all’araldo di leggere il rap­
porto del consiglio {buie) sul progetto iscritto all’ordine del
giorno (tale rapporto, sotto forma di proposta di decreto, si
chiamava probuleum d), poi faceva decidere dall’Assemblea,
per alzata di mano, se si accettava il progetto così com’era o
se si poneva in discussione. Solo in quest’ultimo caso l ’aral­
do pronunciava la formula rituale che troviamo nel verso 45
degli Acarnesi: «Chi chiede la parola?». Il cittadino che allora
si alzava veniva alla tribuna e si posava sulla testa una corona
di mirto che gli conferiva un carattere sacro.11
In questo caso era Anfiteo ad alzarsi. Egli si pretende
incaricato dagli dei di andare a negoziare la pace con gli
spartani e lamenta che i pritani rifiutino di concedergli
il finanziamento della missione {ephodia). A un segno del
presidente, l’araldo chiama «gli arcieri» (v. 54) che fermino
Anfiteo e lo espellano. Sono gli arcieri sciti che garantisco­
no l’ordine nell’assemblea.1112

11 Cfr. Aristofane, Le d on n e in assem blea , vv. 131, 148 e 163-


12 Sugli arcieri sciti, cfr. pp. 82, 364.

63
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Diceopoli allora protesta ma l’araldo lo fa tacere (vv.


55-59) e fa entrare gli ambasciatori che Atene aveva in­
viato presso il re di Persia, evidentemente per sollecitarne
l ’aiuto contro i peloponnesiaci, perché le contese fra greci
facevano in modo che il gran re diventasse sempre di più
arbitro della situazione. Gli ambasciatori in realtà rende­
vano conto della loro missione presso il consiglio, poi di
fronte a ll’A ssemblea come ci mostrano, ad esempio, nel IV
secolo, i due discorsi di Demostene e di Eschine relativi
alle ambasciate inviate a Filippo. Naturalmente, il rendi­
conto di questa ambasciata è estremizzato. Aristofane vi
esprime l ’acrimonia del popolo minuto di Atene contro gli
uomini politici, gli oratori che si facevano lautamente pa­
gare (due dracme al giorno, v. 66) per finanziarsi le spese
di bei viaggi che facevano durare il più a lungo possibile.
Gli ambasciatori avevano portato con sé un preteso inviato
della Persia, l ’«Occhio del re» accompagnato da due eunu­
chi; tutti e tre furono smascherati da Diceopoli come ate­
niesi; ciononostante, l ’«Occhio del re» venne invitato dal
consiglio al Pritaneo (vv. 123-124), cioè a un ricevimento
offerto dallo stato nel palazzo pubblico; questo costume
ci è attestato da numerosi decreti conservati dove si legge:
«Il popolo ha deciso che gli ambasciatori saranno ricevuti
domani al Pritaneo come ospiti dello stato».
Poi l’araldo introdusse un altro ambasciatore che veni­
va dalla corte del re di Tracia, Sitalkes, alleato di Atene e
che presentò qualche guerriero Odomante come «saggio»
dell’esercito che a suo dire Sitalkes si apprestava a inviare
in aiuto ad Atene. M a questi stranieri arraffano di nasco­
sto a Diceopoli il suo sacco pieno d’aglio. Esasperato al­
lora Diceopoli esclama: «Potete lasciarmi trattare così, voi

64
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

pritani, nella mia patria e da barbari? M a io mi oppongo


alla continuazione della seduta per la discussione del sol­
do da accordare ai traci; vi dichiaro che un segno celeste
(<diosem eia) mi si è manifestato, una goccia d ’acqua mi è
caduta addosso (vv. 167-171)». Immediatamente l’araldo
proclama che i traci erano invitati a ritirarsi e a presentarsi
due giorni dopo; i pritani dichiarano sciolta l’assemblea
(vv. 172-173). Una goccia d ’acqua forse era insufficiente a
bloccare le deliberazioni dell’Assemblea ma è ben vero che
un temporale, un terremoto o una eclissi potevano avere
un tale effetto, se gli esegeti vi riconoscevano un segno del­
la volontà di Zeus, un presagio sfavorevole. Per questo le
Nuvole personificate dicono agli ateniesi in un’altra com­
media di Aristofane:

Più di ogni altra divinità noi rendiamo servizio alla cit­


tà benché siamo le sole alle quali non offriate né sacrifici
né libagioni. Quando una spedizione è decisa senza alcun
buon senso, subito facciamo tuonare e cadiamo in piog­
gia senza fine. Poi, quando il conciatore paflagone odiato
dagli dei (Cleonte) stava per essere da voi scelto come stra­
tega, noi aggrottammo le sopracciglia, ci agitammo e fa­
cemmo scoppiare un temporale; la luna si distolse dal suo
cammino e il sole, ritraendo in se stesso la sua scia, rifiutò
di splendere per voi se Cleonte fosse diventato stratega.13

L’A ssemblea poteva rifiutare il testo proposto dal Con­


siglio o modificarlo con tutti gli emendamenti giudicati
opportuni. Senofonte ci ha conservato la narrazione di due

13 Aristofane, Le nuvole, vv. 577-586.

65
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

sedute drammatiche dell’A ssemblea, in cui furono messi


sotto accusa gli strateghi che avevano vinto la battaglia na­
vale delle Arginuse per non aver raccolto i marinai naufra­
ghi (406 a.C.). Non si potè esaurire il dibattito in una sola
assemblea «perché era tardi e non si sarebbero più potute
distinguere le mani» che si alzavano per votare (ch eiroto-
nia).XAUna seduta che iniziava all’alba quindi poteva pro­
seguire fino al crepuscolo. In tali condizioni, si comprende
perché ateniesi come Diceopoli si munissero di sacchi di
vettovaglie quando vi si recavano.

I pritani che presiedevano l’A ssemblea erano una ema­


nazione del Consiglio (b u lé). Tale consiglio, per certi aspet­
ti, anticipava il sistema rappresentativo del parlamento mo­
derno e comprendeva cinquecento membri, in ragione di
cinquanta per tribù e i cinquanta buleuti di una tribù era­
no pritani, cioè presidenti del consiglio per la decima parte
dell’anno, cioè per circa 36 giorni.
I buleuti erano estratti a sorte «con la fava» fra i demoti
di più di 30 anni che presentavano la propria candidatura.
L’estrazione a sorte indicava la volontà degli dei. Si poneva­
no in un’urna delle tavolette che recavano i nomi dei can­
didati e in un’altra delle fave in numero eguale ma bianche
e nere; il numero delle fave bianche corrispondeva a quello
dei buleuti da eleggere. Si estraeva insieme un nome e una
fava; se questa era bianca veniva eletto colui il cui nome era
stato contemporaneamente estratto dall’urna.
I candidati non erano così numerosi come si sarebbe
potuto credere perché bisognava passare un anno intero al14

14 Senofonte, E lleniche, I, 7, 7.

66
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

servizio dello stato trascurando i propri affari privati. La


remunerazione era di soli 5 oboli al giorno e di 1 dracma
per i pritani, che non era molto se si pensa che un buon
operaio poteva arrivare a guadagnare 2 dracme al giorno.
La legge proibiva a chiunque di essere buleuta più di 2 volte
nella vita. Ce n erano 500, e dato che i cittadini erano circa
40.000, ogni ateniese che lo volesse aveva forti probabilità
di far parte del consiglio.
I futuri buleuti, dopo la designazione, erano sottoposti a
un esame preventivo dal consiglio in carica {docimasia) e se
il giudizio era positivo prestavano giuramento.
Si riunivano nel Buleuterion, situato nell’agorà del Ce­
ramico. Nel corso dell’anno non potevano essere rimossi e
avevano diritto ai posti d’onore in teatro. Erano convocati
a seduta dai pritani.
Questi dimoravano nella Skia o Tholos, un edifìcio mo­
numentale rotondo adiacente al Buleuterion ma distinto
dal Pritaneion, «focolare comune» della città dove venivano
invitati gli ateniesi o gli stranieri che si volevano onorare,
come gli ambasciatori. Almeno un terzo dei pritani erano
costantemente presenti anche di notte. Il loro epistate, trat­
to a sorte ogni giorno, che esercitava le sue funzioni da un
tramonto a ll’altro, era il vero e proprio capo di stato, ma
per un periodo brevissimo. Custodiva il sigillo dello stato
e le chiavi dei templi in cui si trovava il tesoro pubblico:
presiedeva il consiglio e l ’assemblea. Poteva essere chiama­
to a tale carica solo una volta, in modo che su 50 pritani
almeno 36 potessero esercitare la presidenza (perché negli
anni che includevano un mese supplementare una pritania
durava anche più di 36 giorni). Insomma, l’ateniese medio,
che aveva molte possibilità di entrare nel consiglio, se lo

67
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

voleva ne aveva quasi altrettante di essere presidente della


repubblica per un giorno nella vita.15
I pritani erano i magistrati supremi dello stato, ma ce­
rano molti altri magistrati, sempre riuniti in collegio di 10
membri, in ragione di uno per tribù. Abbiamo già parlato
degli astinom i, degli a gora n om i e dei m etron om i ,16 I ma­
gistrati finanziari erano numerosi: p o leti (aggiudicatori),
p ra ctores (percettori), apodetti, cola creti e tesorieri di Ate­
na (incaricati della sorveglianza e della gestione dei fondi
pubblici), ellen ota m i (tesorieri dei greci), che percepivano i
tributi delle città alleate ecc.
Fra i funzionari civili i più importanti erano gli a rcon ti
e, fra i funzionari militari, gli strateghi.
II numero anomalo degli arconti (nove) dipende dal fat­
to che tale magistratura era la più antica, molto anteriore
a d isten e e alla sua suddivisione delFAttica in dieci tribù.
Tuttavia il collegio si dotava di un segretario che portava
a 10 il numero complessivo dei suoi membri, in modo che
gli arconti e il loro segretario potevano occuparsi ognuno
di una tribù, per esempio in occasione della ripartizione
degli eliasti fra i vari tribunali, operazione assai comples­
sa descritta da Aristotele.17 Avevano, d ’altra parte, funzioni
molto diverse: l’arconte eponimo, che conferiva all’anno il
proprio nome, seguiva le liti familiari, soprattutto per que­
stioni di eredità, e anche certe feste religiose come le grandi
Dionisie. L’arconte re aveva ereditato le funzioni religiose
e giudiziare dell’antico re. Il p olem arco, prima di tutto co­

15 Cfr. Glotz, La cité grecq u e, p. 221.


16 Cfr. p. 30.
17 Aristotele, C ostituzione d i Atene, 63, I. Cfr. cap IX, p. 334.

68
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

mandante in capo delle truppe, vegliava sui processi rela­


tivi ai meteci e agli stranieri e dirigeva i funerali nazionali
riservati ai cittadini uccisi dai nemici. I sei tesm oteti erano i
guardiani delle leggi.
Gli arconti, come la maggior parte delle altre magistra­
ture, erano designati per estrazione a sorte con un proce­
dimento analogo a quello che abbiamo prima descritto per
l’estrazione a sorte dei buleuti. M a i 10 strateghi invece
erano eletti d all’assemblea in ragione di uno per tribù ed
erano rieleggibili indefinitamente. Le loro attribuzioni in­
fatti richiedevano una competenza tale che non potevano
essere affidate alla sorte e coloro che ne avevano già dato
prova dovevano, nell’interesse pubblico, poter continuare a
servire lo stato. Erano incaricati essenzialmente della dife­
sa nazionale e comandavano gli eserciti e le flotte durante
le campagne. Negoziavano i trattati a nome dello stato e
potevano chiedere ai pritani di radunare l’A ssemblea. Sap­
piamo che Pericle governò lo stato per lunghi anni senza
esercitare alcuna carica ufficiale, limitandosi a essere uno
dei 10 strateghi.
Grande era la diffidenza della democrazia nei confronti
di tutti coloro ai quali delegava una parte anche piccola di
potere. Il numero dei magistrati, sempre riuniti in collegio,
era una prima precauzione. Essi entravano in funzione co­
me buleuti solo dopo aver subito un minuzioso esame, la d o ­
cim asia, che si esercitava sia sulla loro moralità sia sulla loro
competenza. Ogni magistrato prestava giuramento e pote­
va sempre essere destituito da un voto dell’ecclesia e anche
condannato a morte, come nel 406 lo furono gli strateghi
vincitori alle Arginuse. Alla fine del mandato, era sottopo­
sto a un rigoroso rendiconto (euthyna:). Infine, ogni nuovo

69
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

politico di cui si sospettasse l’ambizione in occasione delle


funzioni da lui esercitate poteva essere colpito da ostracismo,
cioè da un esilio di dieci anni, da parte dell’A ssemblea del
popolo, anche se non gli poteva esser rivolto nessun capo
d ’accusa specifico.

Se gli ateniesi potevano dedicare una parte così impor­


tante del loro tempo agli affari politici della città, ciò di­
pende in larga parte dal fatto che molti di loro erano solle­
vati da ogni attività economica che veniva sostenuta invece
dalle altre due classi della società: meteci e schiavi. La città
antica, abbiamo detto a ll’inizio del capitolo, totalitaria, sia
nei confronti dei suoi membri ai quali nega molte libertà
individuali, sia, e anche di più, per quel che riguarda gli
stranieri che considera a p r io r i come nemici. Lo straniero
che viveva in una città greca era nella maggior parte dei
casi un prigioniero di guerra, uno schiavo. A Sparta, si
praticava periodicamente l ’espulsione degli stranieri (x ene-
lasid). Atene era più liberale e permetteva a molti greci non
ateniesi di vivere nel suo territorio e di godervi notevoli
diritti. Tali stranieri residenti in città erano i meteci (colo­
ro che abitano insieme). Non ci deve meravigliare che tale
parola, come quella di «barbaro», che indicava il «non gre­
co», abbia conservato attraverso il tempo un valore peggio­
rativo molto significativo dell’orgoglio nazionale di ogni
città. La maggior parte dei meteci ateniesi sono greci, ma
si trovano anche fra loro dei fenici, dei frigi, degli egizi e
persino degli arabi.
I meteci erano numerosi nell Atene del V secolo e appros­
simativamente arrivavano alla metà del numero dei cittadi­
ni, quindi circa ventimila. Erano tenuti a quasi tutti gli ob­

70
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

blighi finanziari dei cittadini, soprattutto alla maggior par­


te delle liturgie (servizi pubblici), per esempio quello della
coregia per la festa delle Lenee (dovevano, cioè, finanziare e
far istruire a loro spese un coro drammatico in occasione di
questa festa, quando erano designati dall’arconte) ma era­
no dispensati dalla triera rch ia , che comportava il comando
di una nave da guerra. I meteci pagavano anche una tassa
speciale, effettivamente assai lieve, il m etoikom 12 dracme
all’anno per gli uomini e 6 per le donne, cioè il salario di 6
giorni di lavoro. I meteci non erano ammessi dXYefebia ma
potevano frequentare i pubblici ginnasi (da cui gli schia­
vi erano esclusi); prestavano servizio nell’esercito ateniese,
come opliti o soldati di fanteria leggera e soprattutto nella
flotta, come rematori; in terra, contribuivano soprattutto
alla difesa territoriale dell’Attica. I matrimoni fra cittadini
e meteci erano permessi dalla legge ma, a partire dal 451,
anche i figli di un ateniese e di una meteca non erano citta­
dini, a più forte ragione quelli di un meteco e di una atenie­
se. Potevano acquistare beni mobili e possedere schiavi ma
non case o terre, a meno che non avessero ricevuto, a titolo
eccezionale, tale diritto di acquisizione (enctesis) in genere
accompagnato da un altro privilegio, Visotelia che, dal pun­
to di vista finanziario, li assimilava interamente ai cittadini.
In sede legale potevano essere sottoposti a tortura ma
tale disposizione non veniva applicata. Di fronte ai tribu­
nali, erano rappresentati da un cittadino che era il loro
p rostates, o patrono. L’assassino di un meteco era condan­
nato a ll’esilio, ma non a morte, come lo poteva essere l ’as­
sassino di un cittadino: la legge non giudicava equivalenti
la vita dell’uno e dell’altro. M a i beni dei meteci erano pro­
tetti d all’arconte polemarco incaricato di dirimere tutte le

71
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

liti che li riguardavano. Essi godevano di tutte le libertà


per celebrare i culti dei loro paesi d ’origine e potevano rag­
grupparsi in associazioni religiose chiamate tiasi e alcune
divinità straniere, come la dea tracia Bendis o la dea M a­
dre frigia, avevano molti adepti anche fra gli stessi ateniesi.
I meteci avevano dunque posto nella celebrazione di alcu­
ne feste ufficiali, come le Efestie o le Panatenee dove essi
figuravano a fianco degli alleati e dei cleruchi (cittadini
residenti in una colonia di Atene). I meteci dunque erano
trattati molto liberalmente ad Atene, almeno in confronto
a ll’atteggiamento di Sparta e di molte altre città greche e
si capisce come Pericle abbia potuto dire, in Tucidide: «La
nostra città è accessibile a tutti gli uomini; nessuna legge
emargina gli stranieri né li priva dell’insegnamento o degli
spettacoli che da noi si danno».18
I meteci erano suddivisi fra i vari demi, quindi incor­
porati amministrativamente alla popolazione ateniese ma
non possedevano nessun diritto politico. Potevano eserci­
tare alcune funzioni pubbliche subalterne, come quella di
araldo, di medico pubblico, di esattore delle imposte o di
appaltatore dei lavori pubblici, ma la maggior parte di essi
aveva un’attività industriale o commerciale, o esercitava le
professioni che noi chiamiamo liberali.
Erano numerosi nell’artigianato e nell’industria soprat­
tutto nel tessile, nella lavorazione dei cuoi e delle pelli, della
ceramica e della metallurgia. Nella lavorazione dei metalli,
sembrano addirittura aver goduto di un vero e proprio mo­
nopolio di fatto. Il siracusano Cefalo, che Platone ci presen­
ta a ll’inizio della R epubblica come un vecchio simpatico,

18 Tucidide, 2, 39.

72
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

ricco e saggio, dirigeva ad Atene una fabbrica di armi e fu


padre dell’oratore Lisia.
I meteci avevano anche un importante ruolo nel com­
mercio, sia all’ingrosso che al dettaglio. Erano mercanti di
tessuti, di legumi e granaglie, ma anche negozianti e im­
portatori. Erano loro soprattutto ad armare navi per tra­
sportare ad Atene il legname dalla Macedonia, le foglie d ’o-
ro dall’oriente, i cereali e il pesce salato dal Ponto Eusino.
La più grande impresa di conserve sotto sale di Atene era
quella di Carefilo e di suo figlio; egli ottenne il diritto alla
cittadinanza ateniese e offrì a Delfi un ex voto con questa
dedica: «A seguito di un voto, Carefilo, figlio di Fidone,
ateniese, ha fatto questa offerta a Apollo Pizio». M a sappia­
mo da altre fonti che non era ateniese per nascita.191 prin­
cipali banchieri (;trapeziti) di Atene erano meteci o schiavi
affrancati che avevano raggiunto lo statuto di meteci.
Molti meteci avevano accesso alla ricchezza o almeno al
benessere grazie alla loro attività economica. Essi facevano
dare ai figli una eccellente educazione che permetteva loro
di brillare nelle professioni di artista, di medico, di oratore:
per esempio il fabbricante d ’armi Cefalo, originario di Si­
racusa, di cui abbiamo già parlato, fece educare con i figli
delle migliori famiglie ateniesi suo figlio Lisia, che diven­
ne un celebre oratore. M a anche molti uomini di talento
che avevano già acquisito fama nella loro patria venivano
ad Atene attratti dal suo incomparabile splendore e dalla
definitiva consacrazione che essa poteva garantire al loro
talento e spesso vi si trasferivano definitivamente, come i
grandi pittori Poiignoto di Taso, Zeusi di Eraclea e Par-

19 Cfr. R. Flacelière, F ouilles d e D elphes , III, 4, n. 204.

73
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

rasio di Efeso. li padre della medicina, Ippocrate di Coo,


conobbe ad Atene un grande successo e il padre della sto­
ria, Erodoto di Alicarnasso, vi tenne delle letture pubbliche
(noi diremmo delle conferenze) e vi soggiornò lunghi anni
prima di imbarcarsi per l ’Italia meridionale dove partecipò
alla colonizzazione panellenica di Turi, impresa decisa da
Pericle e diretta da ateniesi.
Pericle, che potremmo giudicare xenofobo a causa della
sua legge del 451 destinata a frenare l’estensione del diritto
alla cittadinanza, si circondò anch’egli di meteci: il suo mae­
stro Anassagora, di Clazomene, e la sua compagna Aspasia
di Mileto. L’architetto del Pireo, Ippodamo di Mileto, e l’a­
stronomo Faeinos, padrone di Meton, erano meteci. Quan­
to ai sofisti, filosofi e professori di eloquenza che passavano
da Atene e vi prendevano dimora, ce li fa conoscere Platone,
loro nemico: Protagora veniva da Abdera, in Tracia, Gorgia
da Lentini, in Sicilia, Prodico dall’isola di Ceo, Ippia da
Elide. Fra i «dieci oratori» ateniesi considerati più grandi c’e-
rano tre meteci: Isea di Calcide, Dinarco di Corinto e Lisia,
figlio del siracusano Cefalo. Lisia ebbe anche un certo ruolo,
grazie al suo denaro, nella restaurazione della democrazia
nel 403 e stava per ottenere il diritto di cittadinanza come
Carefilo. Lo avrebbe ben meritato, visto che i suoi discorsi
sono considerati fra i migliori esempi dello stile attico.
Senza alcun dubbio i meteci contribuirono largamente
alla potenza economica e al prestigio intellettuale e artistico
di Atene. M a Platone diffidava di loro e si può supporre che
tale atteggiamento fosse ispirato dalla sua ammirazione per
la costituzione di Sparta, la città xenofoba per eccellenza;
ma un altro ateniese più realista, anch’egli entusiasta del­
le istituzioni lacedemoni, consigliava agli ateniesi, nel loro

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La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

proprio interesse, di accordare la cittadinanza ai meteci con


ancor maggiore felicità. Era Senofonte. Questi, che visse a
lungo fuori dalla sua patria e combattè addirittura contro
di essa, ci appare un po’ come il precursore del cosmopoliti­
smo dell’epoca alessandrina. La presenza e l’intensa attività
di tanti meteci e il loro lealismo verso la città che li aveva
accolti avrebbero preparato Atene a tale tendenza universa­
listica che però si scontrava, come Platone bene avvertiva,
col totalitarismo fondamentale della p olis greca. L’atteggia­
mento pratico degli ateniesi nei confronti dei meteci rap­
presentava un onorevole compromesso fra i loro princìpi
politici tradizionali e il loro carattere, spesso liberale.
Il meteco che smetteva di pagare il m etoich ion o che cer­
cava di violare il diritto della città era ridotto in schiavitù
e questa norma ci ricorda l ’atteggiamento fondamentale
della città greca nei confronti degli stranieri. I meteci non
potevano bastare a tutto e abbiamo visto che molti di loro
erano imprenditori, padroni che facevano lavorare operai.
Tali operai erano, principalmente, degli schiavi.
I grandi filosofi del IV secolo accettavano la schiavitù
come un dato e non protestarono affatto contro l’ingiusti­
zia che essa rappresentava. Platone, nelle L eggi, raccoman­
dava solo di non asservire dei greci e di trattare bene gli
schiavi e vedremo che scrivendo in questi termini si ispirava
all’atteggiamento umanitario della maggior parte dei suoi
compatrioti verso i loro servi. M a Aristotele, nella P olitica,
nei capitoli I e II del I libro, si mostra assai più duro. Parla
di gente che «pretende che solo la legge stabilisca la diffe­
renza fra l’uomo libero e lo schiavo e che la natura non vi
entri, aggiungendo che tale differenza è ingiusta, poiché è
la violenza, soprattutto la violenza della guerra che l’ha pro-

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La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

dotta», ma egli è ben lontano dal condividere tale opinione


che già alla sua epoca si andava facendo strada:

Ci sono nella specie umana - egli scrive - individui infe­


riori agli altri quanto il corpo lo è rispetto all’anima o la
bestia all’uomo; sono gli uomini dai quali la cosa migliore
da ricavare è l’uso delle forze corporali. Tali individui so­
no destinati dalla natura stessa alla schiavitù perché per
loro rton c’è niente di meglio che obbedire.

Scrive anche:

La guerra è in un certo senso un mezzo legittimo per pro­


curarsi degli schiavi perché comporta la caccia che biso­
gna dare agli animali selvaggi e agli uomini che, nati per
obbedire, rifiutano di sottomettervisi.

La caccia agli schiavi era infatti praticata, in Laconia,


sotto il nome di criptia. M a Aristotele si rende conto che la
sola giustificazione della schiavitù è la sua necessità perché
tutta la vita economica della città greca si fondava sul lavo­
ro degli schiavi:

Se ogni strumento potesse, a un ordine dato, lavorare da


se stesso, se le spolette tessessero da sole, se l’archetto suo­
nasse da solo sulla cetra, gli imprenditori potrebbero fare
a meno degli operai e i padroni degli schiavi.

Già Omero aveva immaginato, nel mondo degli dei, «ro­


bot» meravigliosi costruiti da Efesto: treppiedi che «su ro­
telle d ’oro entrano da soli nel palazzo dove si radunano gli

76
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

dei e poi tornano da lui» e soprattutto due fanciulle doro


che lo servono e sostengono il suo passo esitante di zoppo;
i mantici della sua forgia lavorano da soli e obbediscono ai
suoi ordini.20 Si può dire che i greci avessero presentito ciò
che noi chiamiamo «l’automazione», come le ali di Icaro
preannunciavano in un certo senso l’aviazione, ma avevano
a disposizione solo le braccia dei loro schiavi.
La prima «fornitrice» della schiavitù fu sempre la guerra
come in epoca omerica. Il guerriero vinto al quale vien fatta
la grazia della vita diventa schiavo del suo vincitore e resta al
suo servizio se i suoi parenti non possono pagare un consi­
stente riscatto. Quando una città veniva espugnata, tutti gli
abitanti che non venivano uccisi erano ridotti in schiavitù:
fu quanto accadde a Ecuba, Andromaca, Cassandra. An­
che la pirateria forniva un buon numero di schiavi: Eumeo
racconta n e ll’Odissea come i pirati fenici, insieme mercanti
e rapitori di fanciulli, lo rapirono al palazzo di suo padre.
Nel V secolo, la talassocrazia di Atene aveva praticamen­
te eliminato i pirati ma le guerre continuavano. Tucidide
per esempio, dopo averci riferito il tragico dialogo fra gli
ateniesi e gli abitanti dell’isoletta di Melos colpevoli solo
di voler restare neutrali, ci racconta brevemente la presa di
Melos da parte di una squadra ateniese e conclude: «Gli
ateniesi uccisero tutti gli abitanti di Melos in età di poter
portare le armi, e ridussero in schiavitù donne e bambini».21
Ed erano dei greci.
In tempo di pace, funzionavano molti altri mezzi di ri-
fornimento di schiavi. Presso i barbari e anche in Grecia

20 Omero, Iliade, XVIII, w . 373-377; w . 4 17-421; vv. 469 -47 3 .


21 Tucidide, V, 116.

77
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

(tranne che in Attica dopo Solone) il padre di famiglia ave­


va diritto di vendere i suoi figli. I mercanti di «bestiame
umano» agivano soprattutto in Caria, in Tracia, nella Fri­
gia perché gli schiavi originari di queste tre regioni erano
particolarmente numerosi. Anche ad Atene, il padre che,
per egoismo o povertà, non poteva allevare un figlio aveva
il diritto di «esporlo» alla nascita, cioè di deporlo su un
mucchio di immondizie; il neonato moriva o veniva rac­
colto (come Edipo, e molti altri eroi) e diventava schiavo. Il
proletario senza mezzi che moriva di fame poteva vendersi
da sé come schiavo a un padrone che lo avrebbe nutrito. Si
dice persino che un medico, Menecrate di Siracusa, con­
sentisse a curare certi malati il cui caso era disperato solo
a condizione che si impegnassero, in caso di guarigione, a
diventare suoi schiavi.22 Il debitore insolvente era venduto
(tranne che ad Atene dopo Solone) e il prezzo della vendita
era destinato a risarcire il creditore.
Il filosofo Platone conobbe nel 388 a.C. una sgradevole
avventura: si era recato in Sicilia presso Dionigi di Siracusa
e, essendo dispiaciuto al tiranno, fu imbarcato a forza su
una nave spartana il cui capitano andò a venderlo schiavo
ad Egina; fortunatamente fu acquistato da un Cireneo che
lo restituì ai suoi amici e alla filosofia. Accadeva persino, in
Attica, sia nelle campagne che in città, che bambini e ado­
lescenti fossero rapiti da andraprodistai (rapitori di persone
libere); infatti una legge di Atene prevedeva la punizione di
questo delitto.
I principali mercanti di schiavi si trovavano a Deio, a
Chio, a Samo, a Bisanzio e a Cipro. Ce n’erano due in Attica:

22 Ateneo, V ili, 2 8 9 d.

78
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

a Sunion, per alimentare di mano d’opera le vicine miniere


del Laurio, e ad Atene sull’A gorà ogni mese, alla luna nuova.
La vendita era all’asta. Il prezzo degli schiavi variava moltissi­
mo secondo le epoche e dipendeva anche dalle qualità e dalle
competenze di ciascuno di essi. Il riscatto dei prigionieri di
guerra era, nel V secolo, di due mine, cioè di 200 dracme, si
innalzò a 5 mine alla fine del IY secolo. Un manovale costa­
va circa due mine, le donne, di solito, un po’ di più, ma un
operaio qualificato poteva valere da tre a cinque mine.
Fra gli schiavi si distinguevano coloro che erano nati in
casa e coloro che erano stati acquistati. Non è da credere che
i padroni favorissero le unioni fra schiavi - che non erano veri
e propri matrimoni (gam oi) —per procurarsi a buon mercato
un «bestiame umano» perché questo imponeva di nutrire per
lunghi anni dei bambini prima che diventassero a loro volta
«produttivi». Piuttosto, lo facevano per tenersi legati e fedeli
i buoni schiavi. Nz\YEconomico di Senofonte, Iscomaco dice:

Mostrai alla mia giovane moglie l’appartamento del­


le donne, separato da quello degli uomini da una porta
chiusa a chiave per evitare che vi si svolgesse qualcosa di
indesiderato e che gli schiavi avessero figli senza il nostro
permesso. Infatti i buoni schiavi se hanno figli si dimo­
strano in generale più devoti mentre i cattivi, una volta
accoppiati, hanno più facilità nel comportarsi male.23

In campagna, tranne che nelle miniere del Laurio, gli


schiavi erano relativamente poco numerosi perché i piccoli
proprietari (a u tou rgoi) non erano abbastanza ricchi per nu­

23 Senofonte, E conom ico, 9, 5.

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La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

trirne molti. M a i proprietari benestanti, come Iscomaco,


ne avevano molti, agli ordini di un sorvegliante che era an­
ch’egli uno schiavo. I piccoli coltivatori agricoli potevano
prendere in affitto degli schiavi per lavori stagionali, perché
meteci e cittadini ricchi investivano il loro denaro nell’ac­
quisto e nell’allevamento di mano d ’opera servile che dava­
no in affitto in determinati periodi, a termine.
Era certamente l’industria a impiegare il maggior nume­
ro di schiavi: le miniere del Laurio dove si estraeva il piom­
bo argentifero, a sud della penisola attica, ne impiegavano
più di 10.000 e forse, anche in certe epoche, quasi 20.000.

Una tecnica carente li costringeva a lavorare con uten­


sili rudimentali, in gallerie strette illuminate da fumose
lampade a olio. Fuori, in un paesaggio desolato perché il
materiale, mescolato a zolfo al caldo liberava vapori che
distruggevano la vegetazione, venivano collocati in sordi­
di accampamenti, senza famiglia, per evitare spese supple­
mentari per il nutrimento.24

M a una simile concentrazione di mano d ’opera sembra


essere stata unica nel paese. Per il resto dell’industria, non
conosciamo nessuna fabbrica o laboratorio che abbia im­
piegato più di 120 schiavi come la fabbrica d ’armi del me­
teco Cefalo, padre di Lisia.
Il commercio ateniese, molto prospero, assorbiva anch es­
so molta mano d’opera soprattutto al Pireo, per caricare e
scaricare le navi; questi «dockers» erano certamente per la
maggior parte schiavi. Nel settore bancario siamo a cono­

24 A. Aymard, J, Auboyer, L’orien t et la Grece, p. 329.

80
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

scenza, attraverso le orazioni di Demostene, del caso di due


schiavi che, posti dai loro padroni in posti di fiducia, rag­
giunsero una elevata posizione. Un certo Pasion, impiegato
di banca, si distinse col suo lavoro e il suo senso degli affari,
al punto che il suo padrone lo affrancò; poi, avendo avuto
occasione di rendere servigi allo stato grazie ai fondi di cui
disponeva, Pasion ottenne addirittura la cittadinanza, caso
assai raro per un uomo di estrazione servile. Alla sua mor­
te nel 370, lasciò una vedova e due figli, uno di 24 anni
e l’altro di 10. Non avendo fiducia nel talento finanziario
del figlio maggiore che sapeva più interessato a spendere il
denaro che a guadagnarlo, dispose per il testamento che il
suo fedele impiegato Formio, anch’egli affrancato, ammini­
strasse la sua banca e una fabbrica di scudi anch’essa di sua
proprietà. Decise anche che questi sposasse la sua vedova
e diventasse tutore del figlio minore. Naturalmente questo
testamento fu impugnato legalmente dal figlio maggiore di
Pasion.25 Questo è un esempio di come certi schiavi ben
dotati potessero accedere a posizioni invidiabili.
In città, il servizio domestico era in generale garantito da
schiavi. Un cittadino molto ricco, come l’uomo di stato Ni-
cia, ne aveva egli solo più di 1000 molti dei quali affittava,
perché evidentemente non poteva impiegarli tutti. Un ate­
niese benestante, a quanto dice Platone, in generale posse­
deva una cinquantina di schiavi. L’ateniese medio sembra
averne avuti una decina: il portiere, il cuoco, il «pedagogo»
che portava i bambini a scuola e li sorvegliava, le serventi che
pulivano la casa, pestavano il grano e tessevano, agli ordini
delle loro padrone. M a molti ateniesi poveri non ne aveva­

25 Cfr. Demostene, P er Formio, 45 e C ontro Stefano.

81
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

no affatto. È il caso dell’«invalido» di Lisia che doveva esse­


re barbiere o calzolaio, non lo sappiamo esattamente, e che
dichiarava: «Ho un mestiere che però non mi permette di
guadagnare molto; faccio già fatica a esercitarlo da solo e non
ho ancora potuto acquistare uno schiavo per sostituirmi».26
Infine lo stato stesso era proprietario di schiavi, e anche
i santuari che possedevano ieroduli. Come schiavi pubblici
conosciamo prima di tutto i banditori o impiegati delVEc­
clesia, della Bulé, dei tribunali e dei diversi magistrati; rotelle
indispensabili della macchina dello stato, costituivano gli
uffici dellamministrazione ateniese. Cerano anche i boia
(per esempio il servo degli Undici che prepara la cicuta per
Socrate e gliela porta), gli spazzini, gli operai della zecca che
batteva le dracme e infine gli agenti di polizia, cioè gli arcie­
ri sciti. Questo corpo di polizia, creato nel 476, deve essere
distinto dalle truppe ausiliarie ateniesi, anch esse armate di
arco. Gli sciti erano acquistati dallo stato e, come abbiamo
visto, garantivano l ’ordine pubblico nelle strade, nell’Agorà,
nell’assemblea e nei tribunali. Erano circa 1000 e risiedeva­
no sull’areopago, da dove sorvegliavano comodamente l’A ­
gorà e la città.27
Gli schiavi pubblici e privati non avevano teoricamente
nessun diritto. Erano considerati legalmente come delle co­
se, oggetti mobili che si potevano vendere, affittare o dare in
pegno. Non avevano nessuna personalità giuridica e non po­
tevano nemmeno testimoniare in tribunale, ma il padrone,
quando veniva implicato in un processo, offriva spesso i suoi

26 Lisia, P er l ’invalido, 6.
27 Cfr. A. Plassart, Les archers d ’A thènes, «Revue des Études Grecques» 26,
1913, pp. 151-213.

82
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

schiavi perché fossero torturati e le loro parole confermassero


le sue affermazioni. Le unioni fra schiavi non avevano alcun
carattere giuridico e dovevano essere autorizzate dal padrone
al quale poi appartenevano i figli. Gli schiavi fuggiaschi era­
no duramente puniti e marchiati col ferro rovente.
È certo che a Sparta gli schiavi, chiamati iloti, vivevano
in condizioni miserabili; l’istituzione della criptia e l’aned­
doto dell’ilota ubriaco sono significativi al riguardo. Gli ilo­
ti approfittarono quindi dei disordini provocati dal grande
terremoto del 464 a.C. per ribellarsi. M a ad Atene i costumi
e in seguito anche le leggi a poco a poco si addolcirono. Lo
schiavo che fuggiva da un padrone inumano poteva rifu­
giarsi in un santuario, quello di Teseo o delle Erinni, era
protetto dal diritto di asilo e il suo padrone era costretto a
rimetterlo in vendita. C ’è di più: la legge difendeva lo schia­
vo, come l’uomo libero, dagli oltraggi e dalle violenze (dikè
hybreos), e concedeva allo schiavo un sinegoro, una specie di
avvocato, in ogni contesa relativa al suo affrancamento. Il
peculio che uno schiavo poteva costituirsi apparteneva al
suo signore ma questi, spesso, gliene lasciava il godimento.
I giovani schiavi nati nella casa non ricevevano di soli­
to nessuna istruzione, non potevano frequentare i ginnasi
riservati agli uomini liberi e ai loro figli. M a gli schiavi ac­
quistati erano accolti ad Atene secondo un rito che li incor­
porava alla famiglia; li si faceva sedere davanti al focolare, la
padrona di casa spargeva sulle loro teste dei fichi, delle noci
e dei dolciumi.28 Nello stesso tempo, veniva loro imparti­
to un nome. Questa cerimonia non era priva di analogie
con quella del matrimonio e dell’adozione: significava che

28 Per questo rito del catakhysma, cfr. Aristofane, Pluto, 768, 795-799.

83
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

il nuovo arrivato, estraneo alla città, diventava un membro


della famiglia e ne acquisiva la religione. Lo schiavo cosi as­
sisteva alle preghiere e partecipava alle feste... Perciò doveva
essere sepolto nel luogo di sepoltura della famiglia,29 come
abbiamo constatato al cimitero del Ceramico. Gli schiavi
di origine greca potevano farsi iniziare ai misteri eleusini.
Lo schiavo affrancato non veniva liberato da qualsiasi ob­
bligo verso la famiglia del suo antico signore perché resta­
vano i legami religiosi.
Ad Atene, la condizione degli schiavi domestici sembra
essere stata in genere tollerabile. Gli schiavi pubblici tutto
sommato conducevano una vita da piccoli funzionari; abi­
tavano dove volevano (tranne gli arcieri sciti), ricevevano
un salario e le loro unioni erano permesse. Molti schiavi
del commercio e delfindustria potevano scegliere il proprio
domicilio e gestire essi stessi un’impresa i cui profitti legal­
mente appartenevano al padrone che però spesso aveva tut­
ti i vantaggi nell’«interessarli» nei propri affari concedendo­
gliene una percentuale. Così poteva costituirsi la fortuna di
uomini come Pasion o del suo successore Formio.30
Il teatro e soprattutto la commedia riflettono l’importante
ruolo assunto dagli schiavi negli affari e nella vita quotidia­
na. Lo Xantia delle Rane di Aristofane ci viene presentato
come dotato di tutte le qualità, soprattutto l ’abilità e il corag­
gio, che mancano al suo signore, il dio Dioniso. Nel Pluto, lo
schiavo Carion guida il gioco e sappiamo come il ruolo dello
schiavo maligno, astuto, insolente, spesso di nome Daos, si
imporrà nella commedia nuova, quella di Menandro.

25 Fustel de Coulanges, La cité antique, pp. 127-128.


30 Cfr. p. 81.

84
La popolazione: cittadini, meteci, schiavi

M a gli schiavi di due categorie almeno restavano sfortu­


natissimi: coloro che lavoravano nei mulini, girando la ma­
cina per macinare il grano e quelli del Laurio, i minatori di
cui abbiamo già parlato. Spesso uno schiavo pigro o diso­
nesto che il padrone voleva punire era mandato ai mulini o
in miniera. Durante la guerra del Peloponneso, le incursioni
degli spartani in Attica permisero agli schiavi del Laurio di
disertare in massa e di darsi al banditismo nelle campagne.

Atene nel V secolo contava circa 40.000 cittadini e 20.000


meteci. Con le mogli e i figli di queste due categorie la popo­
lazione libera arrivava a circa 200.000 persone. Gli schiavi
erano almeno altrettanti anche se è impossibile calcolarne il
numero, almeno approssimativamente. Forse erano 300.000
o anche di più.
Si constata così che, su una popolazione totale di mezzo
milione di persone, che vivevano in Attica, solo i due quinti
erano libere. Gli uomini che possedevano i diritti politici e
partecipavano al governo della città costituivano solo una
minoranza. Non bisogna dimenticare questo fatto, quando
si parla della democrazia greca.
Non bisognerebbe nemmeno dimenticare che i greci
dell’età classica avevano ereditato dall’epoca mitica il di­
sprezzo per il lavoro servile, cioè per l’attività del lavoratore
che dipende da un altro uomo per il salario e il cibo. So­
prattutto il commercio era disprezzato e perciò gli ateniesi
lo lasciavano volentieri ai meteci.31 Sappiamo che a Sparta

31 Cfr. A. Aymard, H iérarchie du tra va il et a u ta rcie in d ivid u elle dans la


G rece antique, «Revue d ’histoire de la philosophie et d ’histoire génerale de
la civilisation» 1943, pp. 124-146.

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La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

ogni attività economica era proibita agli «Eguali» cioè agli


spartiati a pieno titolo che vivevano del loro appezzamento
di terreno inalienabile coltivato dagli iloti. Ad Atene esisteva
invece una legge istituita da Solone che proibiva l’ozio ai cit­
tadini {dike argias). Plutarco racconta l’aneddoto seguente:

Uno spartiate si trovava ad Atene un giorno in cui i tribu­


nali funzionavano e apprese che era appena stato condan­
nato per oziosità un cittadino che tornava a casa tristissimo,
accompagnato dai suoi amici che si lamentavano con lui e
consolavano la sua pena; lo spartiate allora pregò coloro
che lo accompagnavano di mostrargli l’uomo che era stato
«condannato per aver vissuto da uomo libero»; tanto i lace­
demoni sono convinti che solo gli schiavi devono esercitare
un mestiere e lavorare per guadagnarsi la vita.32

Gli spartani non erano i soli a pensare così e tale opi­


nione era condivisa, anche ad Atene, da molta gente, nono­
stante la legge di Solone.
Il lavoro manuale agli occhi dei greci era infatti un’atti­
vità di basso livello, indegna di un uomo libero. Platone e
Aristotele considerano la fabbricazione (poiesis) di un og­
getto e persino la creazione di un’opera d’arte come un’oc­
cupazione di second ordine; il saggio deve dedicarsi solo al­
la prassi e alla teoria, cioè da un lato alla pratica degli affari
politici, alla guida degli uomini e dall’altra allo studio della
filosofia.33 Nel mito del Fedro, Platone classifica i generi di

32 Plutarco, L icurgo, 24, 3.


33 Cfr. R. Joly, Le thèm ephilosop k iq u e d esgen res d e vie dans l ’a n tiq u ité clas-
sique, Mémoire de l ’A cadémie royale de Belgique, 1956.

86
La popolazione: cittadini, m eteci, schiavi

vita secondo il loro valore, a nove livelli: il contadino e l’ar­


tigiano occupano il settimo, al di sopra solo del demagogo
e del tiranno che sono agli occhi del filosofo i peggiori fla­
gelli e gli uomini più spregevoli.34
Una democrazia nutrita di pregiudizi nei confronti del
lavoro manuale e mercantile, una democrazia che ricono­
sce i diritti politici civici solo a un’esigua minoranza della
popolazione non somiglia stranamente a una aristocrazia?

34 Platone, Fedro, 2 48 d-e. Ecco la classificazione: I il filosofo; II il buon re,


III l ’uomo politico; IV lo sportivo; V l ’indovino; V I il poeta; VII il coltiva­
tore e l ’artigiano; V i l i il demagogo; IX il tiranno.
Ili

Le donne, il matrimonio e la famiglia

Ad Atene, le donne dei cittadini non disponevano di alcun


diritto politico o giuridico, come gli schiavi. Avevano perso
il ruolo importante che svolgevano nella società micenea1 e
che in parte avevano conservato in età omerica.12 M a l’ate­
niese sposata, pur confinata nella sua casa, governa almeno
quest’ultima con autorità a patto che il suo signore e padrone
non vi si opponga; per i suoi schiavi è la padrona (despoina).
Il marito è del resto abbastanza occupato fuori casa —in
campagna nei lavori agricoli e nella caccia, in città nel lavo­
ro e nella partecipazione agli affari politici e giudiziari della
città - da essere obbligato, la maggior parte del tempo, a la­
sciare che sia sua moglie a dirigere la casa a suo piacimento.
La condizione dipendente e subordinata della donna ate­
niese appariva prima di tutto nella vita delle fanciulle e nel
modo in cui accedevano al matrimonio. La giovinetta non
poteva incontrare liberamente dei giovani perché non usciva

1 Cfr. G. Glotz, La civilisation égéen ne, La Renaissance du livre, Paris 1923,


pp. 166-170.
2 Cfr. E. Mireaux, La vie q u otid ien n e au tem ps d ’H om ère, Hachette, Paris
1954, pp. 204-227.

88
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

mai dall’appartamento riservato alle donne, il gineceo. Men­


tre le donne sposate varcavano di rado la soglia esterna della
casa, le giovinette a stento apparivano nel cortile interno per­
ché dovevano vivere lontano dagli sguardi persino dei mem­
bri maschi della propria famiglia. L’Atene del V secolo non
conosce nulla di paragonabile a istituti per giovinette di eleva­
ta condizione come quello diretto dalla poetessa Saffo nell’i­
sola di Lesbo all’inizio del VI secolo e nemmeno agli esercizi
fisici delle giovinette di Sparta, vestite in abiti corti che «mo­
stravano le cosce» (p h a in om erid esf che Euripide ci mostra:

fuori casa con i giovani,


con le gambe nude e gli abiti ondeggianti.34

Solo su questo punto la rigida Sparta era più tollerante


di Atene ed Euripide si scandalizzava dei costumi di Sparta
che in proposito erano opposti a quelli di Atene.
Tutto quello che una giovane ateniese imparava - es­
senzialmente i lavori domestici, cucina, filatura e tessitura
della lana e forse qualche elemento di lettura e di musica —
lo imparava da sua madre o da un’ava o dalle serve della fa­
miglia. La sola occasione normale di uscita per le fanciulle
era costituita da certe feste religiose nelle quali assistevano
al sacrificio e partecipavano alla processione come vedia­
mo sul fregio delle Panatenee sul Partenone; probabilmente
alcune di loro imparavano a cantare e a danzare per par­
tecipare ai cori religiosi, ma i cori di giovinette e i cori di
giovani erano sempre rigorosamente separati.

3 Cfr. Plutarco, Vite parallele, L icurgo e N uma, 3, 5-9.


4 Euripide, A ndrom aca, vv. 597-598.

89
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

N ell3E conom ico di Senofonte, Iscomaco dice della sua


giovane sposa:

Che cosa poteva sapere, Socrate, quando l’ho presa con


me? Non aveva ancora quindici anni quando è venuta nel­
la mia casa; fino allora era vissuta sotto stretta sorveglian­
za, doveva vedere meno cose possibili, udirne il meno pos­
sibili e fare meno domande possibili.5

Tale era l ’ideale della buona educazione, della sofrosine


per le fanciulle.
Lo stesso Iscomaco rivolgendosi a sua moglie le dice:

Hai capito ora perché ti ho sposato e perché i tuoi genito­


ri ti hanno dato a me? Senza difficoltà avremmo trovato
un’altra persona per dividere il letto, sono certo che lo sai
perfettamente. Ma dopo avere riflettuto, io per mio conto
e i tuoi genitori per te, alla persona migliore cui potessimo
unirci per occuparci della nostra casa e dei nostri bam­
bini, ho scelto te, come i tuoi genitori hanno scelto me,
probabilmente, fra altri possibili partiti.

È infatti il tutore della giovinetta (suo padre o, in man­


canza di questi, un nonno o un tutore legale) a scegliere il
marito e a decidere per lei. Certamente la giovane veniva
consultata in molti casi ma niente ce lo testimonia e il suo
consenso non era affatto necessario. Erodoto ci riferisce un
tratto singolare di un ateniese del VI secolo:

5 Senofonte, E conom ico, 7, 5.

90
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

Con le sue tre figlie si comportò così: quando furono in


età da matrimonio, diede loro la più splendida dote poi,
fra tutti gli ateniesi, lasciò che ognuna di esse scegliesse
chi voleva per sposo e la maritò a quell’uomo.6

Erodoto che viveva nel V secolo citava in tono, sembra,


elogiativo il comportamento di quel padre di famiglia e si
può supporre che lo approvasse, ma lo presenta anche come
un caso del tutto eccezionale. La regola era quella che for­
mulerà in un verso un autore più tardo:

Prendi per marito colui che vogliono i tuoi genitori.7

Il cittadino ateniese essenzialmente si sposava per avere


dei figli; sperava che essi non solo si sarebbero occupati di
lui in vecchiaia ma soprattutto lo avrebbero sepolto secondo
i riti e avrebbero continuato dopo di lui il culto familiare.
La ragione principale del matrimonio era di ordine reli­
gioso e su questo punto le conclusioni di Fustel de Coulan-
ges nella C ittà a n tica restano del tutto valide: ci si sposava
per avere dei figli maschi, almeno uno che perpetuasse la
razza e assicurasse a suo padre il culto che questi aveva de­
dicato ai suoi antenati, culto considerato indispensabile per
la felicità del defunto nell’al di là.
A Sparta i celibi irriducibili erano puniti dalla legge. Ad
Atene non esisteva pressione legale ma quella dell’opinione
pubblica era molto forte e quindi il celibato maschile era
circondato da biasimo e disistima. Tuttavia coloro che ave-

6 Erodoto, 6, 122.
7 Naumachio, in Stobeo, v. 12 dei C onsigli coniugali.

91
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

vano un fratello maggiore sposato con figli erano dispensati


con maggiore facilità dal matrimonio.
Sembra che la maggior parte degli ateniesi si sposasse per
convenienza religiosa e sociale più che per inclinazione. A
quanto dice il poeta Menandro che scrive alla fine del IV
secolo, il matrimonio era per loro «un male necessario».8 In
ogni caso, prima della commedia nuova, non abbiamo oc­
casione di incontrare l ’amore fra i fidanzati. Come avrebbe
potuto, d ’altra parte, un giovane ateniese innamorarsi di una
fanciulla che non aveva mai visto? I greci del V e del IV seco­
lo usavano preferibilmente la parola eros (amore) per indica­
re il sentimento appassionato che unisce Yeromene e Veraste,
cioè quello che a volte si definisce «amore greco», di cui par­
leremo nel capitolo successivo a proposito dell’educazione.
Ciò non significa che l’amore non potesse successivamen­
te nascere fra gli sposi. Senofonte nel suo Sim posio fa dire a
Socrate: «Nicerato, a quanto si dice, ama sua moglie d’amo­
re e ne è ugualmente amato».9 Il poeta Euripide che pure
passava per misogino ha portato in scena la sublime dedi­
zione di Alcesti che sacrificò la sua vita per amore del marito
e Platone, teorico della pederastia, ha scritto: «Morire per
l’altro, lo vogliono solo coloro che amano: e non solo gli
uomini ma anche le donne» e cita l’esempio di Alcesti «cui
gli dei hanno dato tanto ascolto da permetterle di tornare
dall’Ade e rivedere la luce del cielo».10 L’opera di Aristotele
che aveva sposato la nipote del suo amico Ermia e si era tro­
vato con lei molto bene è piena di passi in cui il matrimonio

8 Menandro, L'arbitrato, v. 4 9 0 e sgg. e frammento 651.


9 Senofonte, Simposio, 8, 3.
10 Platone, Il sim posio, 179 b-c.

92
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

appare non solo come un rapporto destinato a perpetuare la


razza, ma come una società di affetti e di tenerezza recipro­
ca, capace di soddisfare tutti i bisogni morali dell’esistenza.
Tuttavia solo il tardo stoicismo, probabilmente per influenza
dei costumi romani, riabilitò completamente in Grecia l’a­
more coniugale. La tradizione filosofica favorevole all’amore
fra uomini era così forte che, all’inizio del II secolo della
nostra era, Plutarco ancora si sentiva in dovere, prima di fare
l’apologià del matrimonio, di dimostrare che le fanciulle,
come i ragazzi, erano capaci di suscitare l’eros!11
L’incesto non era proibito, ad Atene, da una legge della
città, ma l’unione fra ascendente e discendente era consi­
derata abominevole e tale da attirare il castigo degli dei
come vediamo ntWEdipo re di Sofocle. La stessa interdi­
zione religiosa e sociale si estendeva all’unione fra fratello
e sorella nati dalla stessa madre, ma un fratellastro poteva
sposare una sorella nata dallo stesso padre. Una figlia di
Temistocle, Mnesiptolema, nata dal secondo matrimonio
del grande statista, fu sposa di suo fratello Archeptolis che
non era nato dalla stessa madre.112
Un avvocato ci riferisce che un suo avo sposò la propria
sorella, nata da un’altra madre.13 Il principio òsN endoga­
m ia, cioè del matrimonio all’interno dello stesso gruppo
sociale, faceva sì che l’unione fra parenti fosse non solo au­
torizzata ma raccomandata dall’uso. Un ateniese dichiarò
in un’arringa che aveva dato sua figlia a un nipote piuttosto
che a uno straniero per conservare e rafforzare i legami fa­

11 Cfr. Plutarco, D ialogo su ll’a m ore e R. Flacelière, Les E picuriens et l ’a m our,


«Revue d’Études grecques» 67, 1954, pp. 69-81.
12 Plutarco, Temistocle, 32.
13 Demostene, C ontro Eubolide, 20-21.

93
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

miliari. Non era raro che ci si sposasse fra cugini germani o


che uno zio sposasse la propria nipote, mentre il fratello di­
ventava suo suocero. La fanciulla epiclere, cioè che ereditava
da suo padre in assenza di eredi maschi, doveva sposare il
più prossimo parente di suo padre, se questi acconsentiva:
in questa prescrizione appare in primo piano la preoccupa­
zione di continuare la razza e il culto familiare.
Esiodo consigliava a ll’uomo di sposarsi verso i 30 anni
con una fanciulla di 16.14 Non esisteva ad Atene nessuna
norma circa l ’età del matrimonio che invece i filosofi del V
secolo avrebbero voluto fissare, ma probabilmente il consi­
glio di Esiodo venne molto seguito. Le fanciulle potevano
sposarsi appena raggiungevano la pubertà, cioè verso i 12 o
13 anni, ma in genere si aspettava che ne avessero 14 o 15;
la moglie di Iscomaco non aveva ancora 15 anni quando si
sposò,15 ma risulta con certezza che le bambine impuberi
non venivano date in matrimonio come avveniva a Roma.16
I giovani non si sposavano mai prima della maggiore età e
spesso aspettavano molto oltre i due anni di efebia, cioè di
servizio militare, che prestavano dai 18 ai 20 anni. La dif­
ferenza di età fra i coniugi era spesso notevole.17

Il matrimonio legittimo fra un cittadino e una figlia di


cittadino era caratterizzato ad Atene àaXYengyesis (letteral­
mente «consegna di un pegno» che era più di un semplice

14 Esiodo, Le opere e ig io rn i, vv. 6 9 6 -6 9 8 .


15 Cfr. p. 81.
16 Cfr. M. Durry, Le m ariage des filie s im pubères à Rome, C om ptes rendus d e
l ’A cadém ie des Inscriptions, 1955, pp. 84-91.
17 Aristotele, Politico, 4 , 1, 5, 6 fissa l ’età adatta al matrimonio per le ragazze
a 18 anni e per gli uomini a 37.

94
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

fidanzamento. Era essenzialmente un accordo, una con­


venzione orale, ma solenne, fra due persone: da una parte
il pretendente, dall’altra il kyrios della fanciulla che era il
padre, se questi era ancora vivo. Ci si scambiava la stretta
di mano e qualche frase rituale assai semplice di cui questo
dialogo di Menandro ci dà un’idea abbastanza fedele:

pataicos: Ti do questa fanciulla perché metta al mondo


dei figli legittimi.
polemon: Io l’accolgo.
pataicos: Aggiungo una dote di tre talenti.
polemon: L’accolgo con piacere.18

A tale accordo dovevano assistere dei testimoni, che po­


tessero testimoniare, quando si rendesse necessario, che es­
so aveva avuto realmente luogo, perché era sempre orale.
La futura sposa assisteva alla cerimonia? Non lo sappiamo
ma è certo che anche se era presente non prendeva alcuna
parte attiva e la sua adesione non era richiesta. Ricordiamo
che anticamente il padre di famiglia aveva sui figli gli stessi
diritti che sugli schiavi e poteva venderli; pratica ancora
sussistente nel Y secolo in varie regioni ma non in Attica.
In età omerica invece era il pretendente che offriva doni al
suocero cioè acquistava sua figlia, ma l’uso si rovesciò in
seguito. In Atene una fanciulla poteva anche sposarsi senza
dote ma era un caso eccezionale; sembra addirittura che
l’esistenza della dote servisse a distinguere un matrimonio
legale da un concubinato.

18 Menandro, La fa n ciu lla d a i capelli corti, vv. 435-437. Il talento valeva


6 0 0 0 dracme.

95
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Il futuro sposo, in quanto maggiorenne, non doveva es­


sere rappresentato dal padre e agiva di persona nell'engyesis.
E però probabile che nella maggior parte dei casi si impe­
gnasse dopo aver avuto il consenso di suo padre e addirittu­
ra scegliesse la fidanzata seguendone i consigli. Un oratore
ci dice: «Quando ebbi raggiunto l’età di 18 anni, mio padre
insistette per farmi sposare la figlia di Eufemo: voleva avere
dei nipoti nati da me. Da parte mia, mi credetti obbliga­
to a fare quanto potesse riuscirgli grato: gli obbedii e mi
sposai».19 E evidente che in questi casi il padre sceglieva la
moglie per il figlio in famiglia o anche allesterno a seconda
delle relazioni che aspirava a consolidare con altre famiglie,
soprattutto in base a questioni di interesse materiale.
Hengyesis era una promessa di matrimonio, ma di valore
assai stringente e creava legami già solidi fra il pretendente e
la futura sposa. Per comprenderlo meglio, pensiamo all’im­
portanza che rivestivano, agli occhi degli antichi, ogni pa­
rola solennemente pronunciata, ogni gesto rituale, perché
queste parole e questi gesti, anche se non accompagnati da
giuramento, comportavano ai loro occhi gravi conseguen­
ze; non era possibile quindi sottrarsi a un impegno preso in
tali condizioni senza esporsi a sanzioni da parte degli dei.
Non era solo l’imprecazione {ara) ad avere un’efficacia ma­
gica, ma qualsiasi formula con la quale ci si impegnava alla
presenza degli dei; abbiamo infatti ragione di credere che la
cerimonia dell'engyesis avesse luogo presso l’altare domesti­
co. Tuttavia nel IV secolo conosciamo almeno un caso nel
quale Yengyesis non fu seguita dal matrimonio. Il padre di
Demostene, prima di morire, fidanzò sua figlia, allora di

19 D em ostene, C ontro Boeto, II, 12 , 13.

96
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

5 anni, a un parente, Demofone, che ricevette immedia­


tamente la dote ma che avrebbe dovuto sposare la bimba e
portarla con sé «solo quando ne avesse avuto l’età cioè fra
10 anni» il che ci conferma che l’età di 15 anni era conside­
rata normale per il matrimonio delle fanciulle: ma questo
impegno rimase senza effetto, e il matrimonio non ven­
ne celebrato.20 Le cerimonie del matrimonio propriamente
detto (ecdosis, cioè «consegna della fidanzata allo sposo») le
conosciamo imperfettamente nei particolari, ma possiamo
comunque farcene un’idea d’assieme.
Il matrimonio esiste legalmente già dopo Yengyesis ma la
coabitazione degli sposi ne è lo scopo finale ed esplicito per­
ché è contratto essenzialmente per far nascere dei figli. E la
consumazione del matrimonio, il gam os, a richiedere il trasfe­
rimento della fidanzata alla casa del pretendente e tale trasfe­
rimento costituisce la principale cerimonia del matrimonio
che in generale aveva luogo in un periodo vicinissimo allVzz-
gyesis. Sembra però che la superstizione inducesse i greci a
scegliere, per sposarsi, soprattutto l’inverno21 e il periodo del­
la luna piena:22 i matrimoni dovevano essere particolarmente
numerosi nel mese di G amelion (gennaio), il settimo dell’an­
no ateniese che era dedicato ad Era, la dea del matrimonio
e il cui nome significava, appunto, «mese dei matrimoni».
Le cerimonie cominciavano la vigilia del giorno in cui la
fidanzata doveva cambiare di focolare. Si offriva prima di
tutto un sacrificio alle divinità protettrici del matrimonio:
Zeus, Era, Artemide, Apollo, Pheito (la persuasione). La fi­

20 Demostene, C ontro Afobo, 3, 43.


21 Cfr. Aristotele, P olìtico, 7, 16, p. 1335 a. 36.
22 Cfr. Dione Crisostomo, 7, 70, p. 113.

97
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

danzata dedicava agli dei i suoi giocattoli e gli oggetti fami­


liari che l’avevano circondata nell’infanzia, come vediamo
in questo epigramma: «Timareta, quando si è sposata, ti ha
dedicato, oh Artemide Limnatide, i suoi tamburelli, la palla
che amava, la reticella (cecryphale) che tratteneva i suoi ca­
pelli e anche le sue bambole le ha dedicate come si doveva,
lei vergine a te, dea vergine, coi loro vestiti». Ci è rimasto un
cembalo di bronzo dedicato ad Artemide Limnatide, come
recita appunto l’iscrizione che vi è incisa.23
M a il rito principale, un rito di purificazione, è il bagno
della fidanzata per il quale una processione andava a racco­
gliere l’acqua a una fonte speciale, la Calliroe. Tale proces­
sione, rappresentata in molte pitture vascolari, comprendeva
donne recanti torce e in mezzo a esse un suonatore di oboe
che camminava davanti a una donna che recava un vaso di
forma particolare destinato a raccogliere l’acqua del bagno,
una lutrofora, di forma ovoide, il collo affilato e due anse sui
fianchi; vediamo dipinta questa scena proprio sui fianchi di
una lutrofora. M a questi vasi sono decorati anche da scene
di lutto: erano le lutrofore che si ponevano sulle tombe delle
donne nubili. Anche il fidanzato doveva fare un bagno.
Il giorno delle nozze {gamos) le case della sposa e del ma­
rito venivano decorate da ghirlande di foglie d’olivo e di al­
loro24 e nella casa del padre della fidanzata si tenevano un
banchetto e un sacrificio. La fidanzata assisteva, velata, coi
suoi abiti più belli e con una corona in testa, era circondata
dalle sue amiche e al suo fianco stava la ninfeutria, una don­

23 Cfr. L’a n th ologie grecq u e, 6, 2 8 0 e L. Robert, C ollection F roehner, n. 24


e tav. 14.
24 Cfr. Plutarco, D ialogo su ll’a m ore, 755 A.

98
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

na che la guidava e assisteva nella cerimonia del matrimonio.


Il fidanzato a sua volta aveva al suo fianco il parochos. Nel­
la sala del banchetto donne e uomini era separati. Il pasto
comprendeva dei cibi tradizionali, come i dolci di sesamo,
garanzia di fecondità. Passava fra i convitati un giovane, che
doveva avere i genitori viventi, am phitales,25 incaricato di of­
frire il pane in un cesto pronunciando parole rituali che ri­
cordano le formule delle religioni misteriche: «Ho fuggito il
male, ho trovato il meglio». Alla fine del pasto, la fidanzata
riceveva dei doni. Forse si toglieva a questo punto il velo, ma
non è sicuro:

Se il velo era destinato a proteggerla contro le influenze


malefiche nel periodo pericoloso in cui passava a una nuo­
va condizione, è più probabile che lo svelamento avvenisse
solo al momento dell’arrivo alla casa dello sposo.26

Verso sera si formava un corteo che accompagnava la


fidanzata alla sua nuova casa. In altri tempi, il corteo as­
sumeva le apparenze di un rapimento e tale tradizione era
conservata a Sparta:

A Sparta ci si sposava rapendo la propria moglie. La fan­


ciulla rapita era affidata alle mani di una donna chiamata
nimfeutria che le rasava i capelli, la infagottava con abiti e
calzari maschili e la faceva coricare su un pagliericcio, sola
e al buio. Il fidanzato, che aveva consumato il pasto con i

Cfr. L. Robert, Ath. S tudiespres. to W.S. Ferguson, pp. 509-519.


26 P. Roussel, «Bulledn de l ’A ssociation Guillaum e Budé: Lettres d ’huma-
nité» 9, mars 1950, p. 10.

99
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

suoi compagni, come al solito, entrava, le scioglieva la cin­


tura, e, prendendola fra le sue braccia, la portava sul letto.
Dopo aver passato con lei un tempo assai breve, tornava a
dormire coi suoi compagni.27

Ad Atene, una vettura trasportava i due sposi da una ca­


sa all’altra, di solito un carro tirato da muli o buoi guidato
da un amico dello sposo. La fidanzata portava una griglia
o un setaccio, simboli della futura attività domestica. Il
carro avanzava lentamente e parenti e amici lo seguivano
a piedi alla luce delle fiaccole, accennando canti d ’ime­
neo con accompagnamento di cetra e di oboe; la madre
della fidanzata portava anch’essa una torcia. A ll’ingresso
della casa del marito si trovavano suo padre e sua madre,
il primo coronato di mirto, la seconda con una torcia. La
fidanzata era cosparsa di noci e fichi secchi secondo un ri­
to che si praticava, come abbiamo già visto, all’ingresso di
un nuovo schiavo in casa.28 Le veniva offerta una parte del
dolce nuziale, di sesamo e miele, e un dattero o una mela
cotogna, simboli di fecondità. Poi la coppia entrava nella
camera nuziale (thalam os) forse allora la sposa si toglieva il
velo. La porta veniva chiusa e sorvegliata da un amico del
marito (il thyroros), ma gli altri cantavano ad alta voce un
inno nuziale e facevano rumore, si pensa per spaventare gli
spiriti maligni. Il lusso e lo splendore della cerimonia varia­
vano a seconda delle fortune della famiglia. Il pasto nuziale
era talvolta così sontuoso che la legge, a più riprese, arrivò a
limitare il numero dei convitati.

27 Plutarco, L icurgo , 15, 4-7.


28 Cfr. p. 83.

100
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

L’indomani del matrimonio era ancora un giorno di fe­


sta: i genitori della fidanzata portavano solennemente, al
suono dell’oboe, doni alla nuova coppia (epaulia), e certa­
mente a questo punto veniva consegnata la dote promessa
in occasione àcìYengyesis.
In seguito il novello sposo offriva un banchetto con un
sacrificio ai membri della sua fratria. Non presentava sua
moglie ma spiegava loro solennemente che si era sposato,
cosa importante per il futuro perché i bambini maschi sa­
rebbero stati ricevuti nella fratria stessa.
Fra tutti i riti matrimoniali che conosciamo, nessuno
sembra essere stato destinato a consacrare visibilmente l’u­
nione intima dei due sposi: tutto era rivolto a propiziare
la prosperità dell’oikos, cioè della cellula sociale e religiosa
costituita dal nuovo focolare e la procreazione di figli che
ne garantissero il futuro. Per esempio, se la fidanzata dove­
va consumare davanti al focolare dello sposo una cotogna
o un dattero e un boccone del dolce nuziale non divideva
però il cibo col marito come ci si sarebbe potuti aspettare.
A Sparta, è noto che la legislazione relativa alla famiglia e
ai rapporti fra i sessi era dominata dalla preoccupazione
dell’eugenetica che arrivava a permettere al marito vecchio
di una donna giovane di consentire ai suoi incontri con un
giovane perché ne generasse figli sani e vigorosi.29 Ad Atene
non si arrivava a tanto ma dobbiamo constatare che niente,
nella preparazione e nei riti del matrimonio, pone l ’accento
sull’affetto e il reciproco amore degli sposi.
Tuttavia, quando Iscomaco racconta a Socrate come aveva
iniziato la sua giovanissima moglie ai suoi nuovi doveri di pa­

29 Plutarco, Licurgo, 15, 12.

101
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

drona di casa, gli dice: «Ma prima di tutto ho sacrificato agli


dei e ho loro chiesto di concederci a me di insegnarle e a lei
di imparare ciò che possa essere più utile a entrambi».30 È evi­
dente che la moglie partecipava a questo sacrificio col quale
gli sposi inauguravano solennemente la loro vita in comune.
Un marito aveva sempre il diritto di ripudiare la propria
moglie, anche senza alcun motivo valido. L’adulterio della
moglie, quando era giuridicamente accertato, rendeva addi­
rittura obbligatorio il ripudio, pena Yatimia per il marito che
non lo intimasse. La sterilità era probabilmente una causa
frequente di ripudio: poiché l’uomo si sposava soprattutto
per garantire la continuità della famiglia e della città, riman­
dando al padre la donna sterile adempiva addirittura a un
obbligo patriottico e religioso. D’altra parte la gravidanza
della moglie non costituiva un ostacolo al ripudio. M a il ma­
rito che ripudiava la moglie doveva restituire la dote e questa
costrizione costituiva il solo freno - in molti casi, efficace - al
moltiplicarsi dei divorzi.
Se il divorzio per volere del marito non era sottoposto
ad alcuna formalità, ben diversa era la situazione quando a
volersi separare era la moglie, collocata dalla legge in una
condizione di endemica incapacità giuridica. La donna aveva
una sola possibilità: rivolgersi all’arconte, protettore naturale
degli incapaci, e consegnargli una dichiarazione scritta dove
venivano esposti i motivi sui quali si fondava la sua richiesta
di separazione. Solo l’arconte poteva valutare la gravità delle
offese subite dalla moglie, ed è probabile che l’evidente infe­
deltà del marito non bastasse a fargli deliberare la separazio­
ne perché i costumi tolleravano la libertà sessuale del marito,

30 Senofonte, Econom ico, 7, 7.

102
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

ma le percosse e i maltrattamenti subiti dalla moglie, se accer­


tati nel corso dell’inchiesta, costituivano un motivo valido.
L’opinione pubblica però era sfavorevole alle donne che
si separavano dai mariti. Medea, che Euripide fa parlare co­
me se fosse un’ateniese del suo tempo, lo dice esplicitamente:
«Lasciare lo sposo è infamante per le donne e non è loro
permesso di ripudiarlo».31

Il matrimonio non metteva fine alla vita sedentaria e re­


clusa delle donne. Certamente, ad Atene, i ginecei non erano
chiusi a chiave (tranne che di notte) né avevano finestre con
le grate, ma il costume bastava a trattenere le donne in casa.
Tale costume era rigoroso e si esprimeva in formule impera­
tive: «Una donna deve restare a casa; la strada è per la donna
da nulla».32 È sospetta anche la donna che per curiosità si
attarda sulla porta di casa. Sono gli uomini o gli schiavi che,
di solito, vanno all’agorà a fare gli acquisti necessari alla vita
quotidiana. Tuttavia in questo caso è importante distinguere
fra le diverse classi sociali. Gli ateniesi poveri che avevano a
disposizione una casa molto piccola permettevano più facil­
mente alle loro mogli di uscire. Esse d’altra parte erano spesso
costrette a lavorare fuori casa per assicurare il sostentamento
alla famiglia; sappiamo, per esempio, che molte di esse an­
davano al mercato per piccoli commerci. Invece gli ateniesi
della classe media e quelli delle classi ricche erano molto più
rigorosi su questo punto; ma le loro mogli disponevano di
un più vasto gineceo e spesso di un cortile interno dove po­
tevano prendere un po’ d’aria al riparo di sguardi indiscreti.

31 Euripide, M edea, vv. 236-237.


32 M enandro, frammento 546.

103
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Ogni donna, anche appartenente alla borghesia, aveva


però ogni tanto qualche acquisto personale da fare, un abi­
to o un paio di calzari, che la costringevano a uscire. In
questo caso era accompagnata da una schiava. M a era so­
prattutto in occasione delle feste della città e degli eventi
familiari, che le donne avevano l ’opportunità di uscire.
In particolare ad Atene cera una festa riservata alle don­
ne sposate, le Tesmoforie.33 Un marito tradito che aveva
ucciso l’amante di sua moglie disse ai giudici:

Nei primi tempi mia moglie era un modello, abile donna


di casa, capace di dirigere l’andamento familiare. Ma io
persi mia madre e questa morte fu la causa di tutte le mie
disgrazie. Fu proprio seguendo i suoi funerali che mia mo­
glie fu vista da Eratostene che riuscì, col tempo, a sedurla:
egli ingannò la schiava che andava al mercato, si mise in
rapporto con la sua padrona e la perse.

Proseguendo nel suo discorso egli racconta come, av­


vertito della sua disgrazia dalla schiava di un’altra donna
sposata che era pure amante di Eratostene, con le minacce
costrinse la schiava di sua moglie a dirgli tutto: «Ella gli
raccontò come, dopo i funerali, egli l ’avesse affrontata (...);
infine alle Tesmoforie, mentre io ero in campagna, era an­
data al santuario con la madre di lui».34
La donna non doveva nemmeno interessarsi a ciò che
accadeva fuori di casa; erano cose che riguardavano l ’uomo
e solo l ’uomo. Non aveva d ’altra parte molte occasioni di

33 Cfr. Aristofane, Le tesm oforie.


34 Lisia, S u ll’u ccisione d i Eratostene, 7-8 e 20.

104
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

parlare a lungo con suo marito che era quasi sempre fuori
e che a quanto sembra di solito non consumava i pasti con
sua moglie. «Con quante persone che tu conosci parli meno
che con tua moglie?» chiede Socrate a Critobulo e questi
risponde: «Certamente, non con molte».35 Quando un ate­
niese invitava a casa degli amici, sua moglie non compariva
nella sala delle feste, Yandroon, se non forse per sorvegliare
gli schiavi che servivano il pasto, e non accompagnava il
marito quando a sua volta era invitato da un amico. Solo
nelle feste fam iliari le donne stavano insieme agli uomini.
E tuttavia era la moglie a regnare sulla casa, dove si oc­
cupava di tutto. \lEconomico di Senofonte ci fa conoscere
nei particolari i doveri di una padrona di casa. Citiamo solo
queste prescrizioni di Iscomaco a sua moglie:

Dovrai restare a casa, far uscire tutti insieme i tuoi servi il


cui lavoro è fuori e sorvegliare coloro che lavorano a casa;
ricevere ciò che si porterà a casa, distribuire ciò che dovrai
dare, prevedere ciò che dovrà essere messo da parte e ba­
dare a non fare per un mese la spesa che andrebbe bene
per un anno. Quando ti si porterà la lana dovrai badare
che si preparino gli abiti per coloro che ne hanno bisogno,
che il grano delle provviste resti buono da mangiare...
Quando un servo sarà malato bisognerà sempre vegliare a
che riceva le cure necessarie.36

La donna fa lei stessa il pane solo nelle famiglie più po­


vere. Quando gli inviati di Alessandro accompagnarono

35 Senofonte, E conom ico, 3, 12.


36 Senofonte, ivi, 7, 35-37.

105
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

presso di lui l’ateniese Focione, a dire di Plutarco «essi tro­


varono molta semplicità nella sua casa: sua moglie impa­
stava il pane e Focione stesso andava a prendere l ’acqua dal
pozzo per lavarsi i piedi».37 Di solito, tali lavori erano fatti
da schiavi ma sotto la sorveglianza della despoina come ai
tempi omerici quando Euriclea lavava i piedi ad Ulisse.38
L’insegna dell’autorità, per una donna, erano le chia­
vi che portava con sé, in particolare quelle del magazzi­
no delle provviste e della cantina. Teofrasto ci fa il ritratto
dell’uomo diffidente: «E già a letto, ma chiede a sua moglie
se ha chiuso il cofano, se il mobile dell’argenteria è sigillato,
se il catenaccio della porta del cortile è stato assicurato».39
M a la ghiottoneria, la tendenza al bere e la prodigalità di
una donna possono indurre il marito a toglierle le chiavi.
La testimonianza di Aristofane sulla vita delle’donne è
difficile da utilizzare perché non sempre sappiamo dove fi­
nisce il quadro della vita reale e dove comincia la caricatura.
Tuttavia le sue commedie ci danno l’impressione che alla
fine del V secolo l’antica clausura delle donne subisse molte
eccezioni e il perché è chiaro: la guerra del Peloponneso co­
strinse gli uomini occupati in spedizioni militari o nella vigi­
lanza delle fortificazioni a stare ancora più a lungo fuori casa
rispetto al tempo di pace. Il coro delle donne di Lisistrata,
donne certamente libere, e ateniesi, canta: «Di buon mattino
ho riempito la mia conca alla fontana, con difficoltà, a causa
della folla, del tumulto e delle pentole cozzanti, urtata da
una massa di serve e di schiave marchiate a ferro rovente».40

37 Plutarco, F ocione, 18.


38 Omero, Odissea, 19, vv. 350-394.
39 Teofrasto, C aratteri, 18.
40 Aristofane, Lisistrata, v. 327.

106
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

Secondo Aristofane, non solo le donne andavano alla


fontana ma anche all’agorà per acquistarvi provviste o per
vendere i propri prodotti, come la madre di Euripide che
sembra fosse una venditrice di verdura.41 Da un’orazione
veniamo anche a sapere di un’ateniese che fu mercante di
nastri e poi nutrice,42 ma le ateniesi esercitavano un’attività
solo come ultim a ratio mentre le mogli dei meteci spesso fa­
cevano le tessitrici di lana, facevano scarpe, vestiti ecc. Certe
sembrano essere state anche vere e proprie «donne daffari.43
Accadeva anche che certi ateniesi un po’ sempliciotti, so­
prattutto contadini, dovessero cedere di fronte a una donna
autoritaria e astuta. Il contadino Strepsiade si lamenta di
avere sposato «una cittadina, una signorinella, una smorfio­
sa» che si è spinta fino a impedirgli di dare al figlio il nome
che desiderava; egli voleva chiamarlo col nome di suo padre,
secondo l’antico uso, Feidonide («l’economo, il parsimonio­
so»), lei insisteva per un nome formato con la radice di ippos,
«il cavallo», perché i cavalieri erano gente agiata, aristocra­
tica; ognuno ha voluto imporre una parte ed è saltato fuo­
ri Feidippide («che risparmia il suo cavallo»).44 Forse è vero
che, almeno nelle campagne attiche, «la donna non aveva
niente del carattere umile e dimesso che la donna di casa
contadina conservò così a lungo nelle campagne francesi».45
Ancora oggi infatti in certe zone provinciali della Francia,

41 Aristofane, Le vespe, v. 497; Tesmoforie, v. 387.


42 Demostene, C ontro E ubolide, 34, 35-
43 Cfr. M. Clero, Les m étèques athéniens, p. 395 e G. Glotz, Le tra va il dans
la G rece an cien n e, pp. 218, 221.
44 Aristofane, Le nuvole, vv. 4 1-4 3 e 60-65.
45 P. Roussel, «Bulletin de lAssociation Guillaum e Budé: Lettres d ’huma-
nité» 9, mars 1950, p. 20.

107
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

quando il capo di casa ha degli invitati, la padrona di casa


serve a tavola senza prendere posto a fianco degli uomini.
Le donne, sempre accompagnate almeno da una schiava,
si facevano spesso delle visite; ci si andava a trovare fra vici­
ne per chiedere in prestito oggetti di casa, ma erano pretesti
per chiacchierare e parlare dei fatti propri, come vediamo
anche in un’orazione del IV secolo.46
Le S iracusane di Teocrito ci portano nel III secolo e lon­
tano da Atene, ad Alessandria, ma è probabile che questo
vivace dialogo fra Gorgo e Prassinoa avrebbe potuto avere
luogo anche fra due ateniesi del IV secolo:

gorgo: (alla porta) Prassinoa è in casa?


prassinoa: {precipitandosi verso di lei) Cara Gorgo, non
è troppo presto. Sono in casa. Che meraviglia che tu
abbia potuto venire oggi! (A una schiava) Eunoa, vai a
prendere un sedile per la signora e mettici un cuscino.
gorgo: Va benissimo.
prassinoa: Siediti.
gorgo: (.seduta) Sto impazzendo! Proprio per venire da te,
Prassinoa, sono sopravvissuta a questa massa di gente e
di carri... E la strada non finisce mai!
prassinoa: È quel disgraziato di mio marito. È venuto a
prendere questo buco... che non è una casa, è un bu­
co... in capo al mondo per impedirci di stare vicine, per
contrariarmi, la bestiaccia, sempre lo stesso...
gorgo: {osservando l ’e spressione stupita d el bambino di
Prassinoa) Non parlare così di tuo marito Dinone in
presenza del piccolo, mia cara. Vedi come ti guarda.

46 Pseudo-Demostene, C ontro C allide, 23.

108
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

Non aver paura, Zofirion, piccolo caro; non parlava di


papà.
prassinoa: Capisce bene, il marmocchio, per la dea!
gorgo: E caro il papà.
prassinoa: Questo papà l’altro giorno, gli avevamo detto
di andare al negozio a comprare del salnitro e del bel­
letto ed è tornato con del sale. Un uomo eccezionale!47

Ad Alessandria, nel III secolo, era dunque il marito a fa­


re le spese. Gorgo e Prassinoa continuano a chiacchierare e
a parlare male dei loro mariti poi escono insieme, accompa­
gnate ognuna da una schiava, per recarsi alle feste di Ado­
ne. Abbiamo detto che le ateniesi del IV secolo uscivano di
casa soprattutto in occasione delle feste religiose.
Le rappresentazioni teatrali facevano parte delle feste in
onore di Dioniso. Le donne avevano, anche se si sono fatte
affermazioni in contrario, diritto ad assistervi. Certamente
fruivano di questo diritto per le tragedie, che erano però se­
guite da un dramma satirico assai licenzioso. M a potevano
assistere alle commedie di Aristofane come Lisistrata che non
rispettavano la sofrosine, la virtù della decenza che gli ateniesi
apprezzavano più di ogni altra nelle donne? Un passo delle
L eggi di Platone ci fa pensare che le ateniesi bene educate pre­
ferissero le tragedie e non si facessero vedere alle commedie.48
Un testo di Aristotele parlando delle cerimonie licenziose in
uso in molti culti greci suggerisce ai mariti di assistervi da
soli, senza i figli e la moglie.49 Così facevano senz’altro i padri

47 Teocrito, Le siracusane, vv. 1-17.


48 Platone, Le leggi, 658 d.
49 Aristotele, P olitica, 4, 17.

109
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

di famiglia più preoccupati della moralità ma è probabile che


«nonostante tutto esistessero delle eccezioni e che, nel pub­
blico che assisteva alle opere di Aristofane, ci fossero molte
donne delle classi popolari che non erano le ultime a diver­
tirsi e a ridere ingenuamente delle peggiori grossolanità».50

Sembra dunque che ad Atene ci fossero poca intimità,


poco scambio intellettuale, poco vero amore fra i coniugi.
Gli uomini si facevano visita reciprocamente e si incontra­
vano nellAgorà, nei tribunali, nell’assemblea e svolgendo i
loro affari. Le donne vivevano fra loro, appartate. Il gineceo
era sempre accuratamente separato daW androon. Molti ate­
niesi dovevano avere del matrimonio un’opinione analoga a
questa di Montaigne:

In questo saggio mercato gli appetiti non si manifestano nel­


la loro follia, sono oscuri e più sfumati. Non ci si sposa per se
stessi, checché se ne dica; ci si sposa altrettanto e di più per la
propria discendenza e per la famiglia... E quindi una specie
di incesto l’usare per questo legame familiare sacro e venera­
bile le cure e le stravaganze della licenza amorosa... Un buon
matrimonio rifiuta la compagnia e le condizioni dell’amore.51

M a i bisogni fisici e sentimentali che l’ateniese non appa­


gava in casa, poiché vedeva nella moglie solo la madre dei
propri figli e l’organizzatrice della propria casa, li soddisfa­
ceva fuori, coi giovinetti o le cortigiane... Bisogna però fare
una distinzione fra il V e IV secolo.

50 O. Navarre, Le th éà tregrec, p. 245.


51 Montaigne, Essais, libro III, cap. V, éd. P. Villey, pp. 88, 90.

110
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

La famiglia ateniese sembra essere rimasta solida per la


maggior parte del V secolo, ma la guerra del Peloponneso,
che fu atroce e durò 30 anni, provocò grandi cambiamenti
nei costumi. La terribile peste del 430-429, nel corso della
quale morì Pericle, fu una conseguenza del conflitto; Tuci­
dide ce ne descrive gli effetti anche sulla moralità pubblica:

Davanti allo spettacolo delle rapide vicissitudini di cui


si era testimoni, dei ricchi improvvisamente colpiti dalla
morte e dei poveri che ereditavano delle fortune, si osò più
spesso abbandonarsi a piaceri che un tempo si sarebbero
nascosti. Si cercavano piaceri immediati, ci si credeva in
dovere di cercare la voluttà nell’idea che si possedevano i
propri beni e la propria vita solo per un giorno.52

Molte donne assunsero abitudini più libere, a imitazione


delle donne spartiate, che vivevano molto meno recluse del­
le ateniesi e si mescolavano molto di più agli uomini e tale
disordine provocò la creazione di una magistratura specia­
le incaricata di sorvegliare il comportamento delle donne e
soprattutto il loro lusso, di cui già Solone un tempo si era
occupato; tale magistrato si chiamava gin econ om o .53 In base
alla Lisistrata, del 411, e a Le d on n e in assem blea, del 392, si
può supporre che molti ateniesi, constatando che la politica
diretta dagli uomini portava all’abisso, pensarono che le co­
se forse sarebbero andate meglio se le donne avessero detto
la loro e avessero consigliato i loro mariti, ma queste opere
di Aristofane erano delle caricature buffonesche e fantasti­

52 Tucidide, 2, 53.
53 Aristotele, P olitica, 6, 15, 1299 a.

Ili
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

che che non permettono di concludere che esistesse qualcosa


di simile a ciò che oggi chiameremmo un «movimento fem­
minista», movimento inconcepibile nell’A tene antica.
D’altra parte, Prassagora, quando travestita da uomo,
parla come tale in Le d on n e in assem blea, contrappone il
tranquillo tradizionalismo delle donne alla mobilità in­
quieta e innovatrice degli uomini:

Le pratiche delle donne sono migliori delle nostre, e ve lo


dimostrerò. Prima di tutto intingono la lana nell’acqua
calda al modo antico, senza eccezione e non le vedremo
mai cercare un cambiamento. Ma la città degli ateniesi,
quando ha una buona usanza, si crede perduta se non fa
uno sforzo per cambiarla. Le donne, sedute, accendono la
loro griglia come in passato; cuociono i loro dolci come in
passato, tormentano i mariti come in passato, hanno degli
amanti in casa come in passato, si cucinano delle ghiotto­
nerie come in passato, amano il vino puro come in passato
e amano i giochi d’amore come in passato.54

Gli uomini poi, che l’interminabile guerra allontanava


dalle loro mogli e dai loro focolari, non esitarono a dar corso
ai propri appetiti. Viveva nel IV secolo e non nel V l ’oratore
che un giorno dichiarò in pieno tribunale:

Abbiamo le cortigiane per il piacere, le concubine per le


cure quotidiane, le mogli per darci dei figli legittimi ed
essere le custodi fedeli delle nostre case.55

54 Aristofane, Le d on n e in assem blea, vv. 214-228.


55 Pseudo-Demostene, C ontro N eaira, 122.

112
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

Certamente il V secolo già aveva visto la coppia irrego­


lare di Pericle e Aspasia. Pericle conobbe la bella milesia
quando era sposato a una propria parente, e ne aveva avuto
già due figli. Egli ripudiò la moglie per vivere con Aspasia.
Il divorzio era ammesso ad Atene e Pericle avrebbe potuto
sposare in seconde nozze Aspasia, se questa fosse stata ate­
niese o originaria di una città che avesse ricevuto da Atene
il diritto di epigam ia. M a non era questo il caso di Mileto,
la patria di Aspasia. La quale fu quindi la concubina di
Pericle che visse con lei, sembra in pieno accordo, fino alla
morte. Aspasia era una donna intelligente e notevolmente
colta e Socrate la stimava molto, almeno secondo Senofonte
e Platone.56 M a i poeti comici la attaccarono duramente,
arrivando a presentarla come una prostituta e una tenutaria
di casa chiusa.57
Si scrisse:

Nessuno avrebbe trovato scorretto che Pericle amasse i


giovinetti né che maltrattasse la sua prima moglie, ma ci
si scandalizzava che egli considerasse la seconda un essere
umano, che vivesse con lei invece di relegarla nel gineceo,
che invitasse a casa sua gli amici con le loro mogli. Tutto
ciò era troppo stupefacente per essere naturale e Aspasia
era troppo brillante per essere una donna onesta.58

Può essere vero ma io penso che a Pericle, primo citta­


dino della sua città, da cui ci si aspettava un vero e pro-

56 Cfr. Senofonte, E conom ico, 3, 14 e Platone, M enessem o, passim ma in


questo caso probabilmente centra anche l ’ironia platonica.
57 Aristofane, Gli acarnesi, w . 526-527.
58 Marie Delcourt, Périclès, Gallim ard 1939, p. 77.

113
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

prio esempio di virtù private, si rimproverasse soprattutto


di aver ripudiato una ateniese per mettere al suo posto una
straniera.
Sembra che nel IV secolo molti ateniesi avessero una
concubina (pallaké) senza però ripudiare la moglie legitti­
ma. Tali concubine potevano essere sia schiave sia stranie­
re libere; godevano di una situazione legale e riconosciuta
pubblicamente? Si potrebbe rispondere di no, in base alle
discussioni legali che ci parlano di esse.59 M a i costumi,
se non le leggi, erano molto tolleranti al riguardo e molti
ateniesi sembra che siano stati praticamente bigami. Si di­
ceva che Socrate, oltre alla bisbetica Santippe, avesse una
seconda moglie, Mirto, ma sembra che si tratti di una fola.
Si spiegava anche la misoginia di Euripide affermando che
era bigamo e che aveva avuto quindi due occasioni, invece
di una, di conoscere la malignità delle donne! Altri autori,
invero tardivi, ci informano che all’epoca della guerra del
Peloponneso, per rimediare allo spopolamento, ogni ate­
niese fu autorizzato ad avere, oltre alla concittadina sposa­
ta in giuste nozze, un’altra moglie, anche straniera, che gli
avrebbe dato figli che sarebbero stati legittimati.
M a anche in tempi assai più antichi, Temistocle era fi­
glio di un cittadino ateniese e di una schiava tracia, Abroto-
no, il che non gli aveva impedito, benché bastardo, di fare
carriera. Plutarco scrisse:

Quando la moglie legittima si rende insopportabile, la


cosa migliore è prendersi una compagna, una Abrotono

59 Soprattutto Demostene, C ontro Boeto, I e II e Isea, Sulla successione di


Pirro.

114
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

di Tracia o una Bacchis di Mileto, senza enguesis, ma ac­


quistandola e spargendole noci sulla testa.60

Quando la concubina era un’ateniese, come distinguer­


la dalla moglie legittima se i suoi figli erano anch’essi le­
gittimi? Isea ce lo dice: «Coloro che danno delle ragazze
che loro appartengono in concubinato convengono una
somma che viene versata alla concubina».61 Probabilmente
gli ateniesi poveri che non erano in grado di dare una do­
te alle loro figlie facevano loro contrarre unioni di questo
tipo, pretendendo solo vantaggi pecuniari in caso di sepa­
razione. Invece la moglie legittim a portava di solito una
dote al marito.
Le cortigiane {etere} erano soprattutto schiave. Si con­
tentavano di solito di un obolo, di una modesta retribuzio­
ne, ma ce n’erano di alto bordo, che costavano assai care ai
loro amanti. In epoca ellenistica certe cortigiane riusciro­
no persino a farsi sposare da principi e a diventare regine:
«Suonatoci di oboe, danzatrici di Samo, una Aristonica,
una Enantea col suo tamburello, una Agatocleia hanno
calpestato sotto i loro piedi dei diademi regali».62 M a già
nel IV secolo la celebre Frine, beota di Tespi, divenne assai
ricca. Si chiamava in realtà Mnesarete che significa «colei
che si ricorda della virtù»! Il soprannome Frine le veniva
dal suo colorito giallastro { frine significa rospo), che non
le impediva di essere molto bella. Sappiamo come l’oratore
Iperide, uno dei suoi amanti, l ’avesse fatta assolvere in un

60 Plutarco, D ialogo su ll’a m ore , 753 D.


61 Isea, Sulla su ccessione d i Pirro, 28.
62 Plutarco, D ialogo su ll’a m ore, 753 D.

115
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

processo che le era stato intentato per empietà, ma l ’aned­


doto è estremamente dubbio.63 Amante di Prassitele, gli
fece da modella, si dice, per molte statue di Afrodite. La
sua fortuna le permise di fare innalzare la propria statua
in oro nel santuario di Delfi in mezzo a quelle dei generali
e dei re. Plutarco, che fu sacerdote di Apollo Pizio, se ne
indignerà e dirà che la statua di Frine era come «un trofeo
conquistato grazie alla lussuria dei greci».64
Ad Atene, nel quartiere del Ceramico ma soprattutto al
Pireo, fin d all’epoca di Solone cerano case di prostituzio­
ne:65 una parte dei profitti dei tenutari aveva contribuito
all’erezione del tempio di Afrodite Pàndemos.66
Le cortigiane, libere o chiuse nelle case, erano veramen­
te, come qualche volta si è detto, più istruite e colte delle
ateniesi oneste? Ci pare dubbio, a giudicare da quelle che
vediamo, nelle orazioni di tribunale, entrare in rivalità con
le mogli legittime: Alké, tenutaria di casa chiusa che si ac­
caparra il vecchio Euctemon;67 Neaira, che visse con Ste-
fanos, e sua figlia Fano che arriverà a sposare un ateniese
che diventò arconte re e parteciperà con lui alle cerimonie
più sacre68 non sembrano aver ricevuto un’educazione raf­
finata. Neaira era stata allevata da una prosseneta «assai
abile nel distinguere nei tratti di bambine piccolissime la
bellezza che avrebbero avuto», ma tale educazione sembra

63 Cfr. G. Colin, Introduzione all’edizione di Iperide (coll. G. Budé), pp.


10- 12.
64 Plutarco, S ugli oracoli della Pizia, 401 A.
65 Cfr. Aristofane, La p a ce , v. 165.
66 Ateneo, 13, 569 d.
67 Isea, Sulla successione d i F iloctem one, 19-20.
68 Pseudo-Demostene, C ontro N eaira, passim .

116
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

essere consistita soprattutto nell apprendere come preparar­


si, con la toilette e altri mezzi, alla seduzione fisica. Di Frine
ci viene detto che era bella, non che era intelligente e colta
come Aspasia. Le etere trattenevano i loro amanti con le
attenzioni e la compiacenza. Come dice un poeta comico:

Un’amante non è forse più amabile di una moglie? Cer­


tamente per delle buone ragioni. La moglie, per quanto
sgradevole, la legge vi costringe a tenerla in casa. L’amante
invece sa che ci si tiene un amante con le attenzioni; altri­
menti, se ne dovrà cercare un altro.69

Resta però probabile che molte cortigiane avessero rice­


vuto un’educazione più libera e più ampia delle borghesi di
Atene soprattutto nella musica e nella danza: molte corti­
giane erano suonatrici di oboe (aulos) e suonavano i loro
strumenti, cantavano e danzavano nei banchetti.

I matrimoni greci non erano molto fecondi per due ra­


gioni: il marito trovava più facilmente fuori casa la soddi­
sfazione dell’istinto sessuale e, d ’altra parte, per miseria o
per egoismo, si temeva di avere nuove bocche da nutrire e
non si voleva che il patrimonio familiare fosse diviso fra
troppi eredi, il che avrebbe ridotto eccessivamente la parte
di ciascuno dei figli. Esiodo lo diceva formalmente: «Abbi
un figlio unico, per nutrire il patrimonio! E così che la ric­
chezza cresce nella casa»,70 e Platone gli fa eco: «Il numero

69 Amfis, in Ateneo, 13, 559 a.


70 Esiodo, Le op ere e i giorn i, vv. 376-377.

117
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

di figli sufficiente sarà un figlio e una figlia».71 Solone sug­


geriva di «avere commercio almeno tre volte al mese»72 solo
con la fanciulla ep iclere perché in questo caso era importan­
te far nascere quanto prima un erede maschio, in modo che
Yoikos avesse garantita la sua continuità. M a quando Plu­
tarco nel D ialogo su ll’a m ore afferma: «Solone voleva, con
questa legge, che il matrimonio fosse in qualche modo rin­
novato, riplasmato da questo segno di tenerezza»73 si sbaglia
certamente sulle intenzioni del legislatore attribuendogli le
proprie concezioni sull’amore coniugale. Il sentimento più
abituale degli antichi lo esprime Menandro quando scrive:
«Nessuno è più sfortunato di un padre, se non un padre che
ha più figli di lui».74 Bisogna comunque distinguere fra figli
e figlie. Un poeta comico dice: «Un figlio lo si alleva co-,
munque, anche se si è poveri, mentre una figlia la si espone
anche se si è ricchi».75
Cerano due modi per evitare una famiglia troppo nu­
merosa: l ’aborto e l’esposizione dei neonati, mezzi conside­
rati entrambi, in generale, legittimi.
Laborto non era vietato dalla legge. Esso interviene solo
per salvaguardare i diritti del padrone del bambino che deve
nascere, cioè suo padre; uno straniero fa un torto al padre o
alla madre del neonato se provoca l’aborto di una donna o di
una schiava. M a la coscienza religiosa era più timorata della
legge; infatti Aristotele prescrive di praticare l’aborto «prima

71 Platone, Le leggi, 9 30 d.
72 Plutarco, Solone, 20.
73 Plutarco, D ialogo su ll’a m ore, 769 A.
74 Menandro, frammento 656.
75 Posidippo, frammento 11.

118
Le durine, il matrimonio e la fam iglia

che il feto abbia ricevuto vita e sensi»,76 cioè prima che sia
un essere vivente. Anche un’antica legge religiosa di Cirene
distingue fra l’embrione formato e quello non ancora for­
mato: in caso di aborto naturale, nel primo caso l’impurità
che colpisce la casa equivale a quella di una morte, mentre
nel secondo si tratta di un’impurità semplice come quella
che interviene dopo un parto.77 Non si tratta di un principio
generale che riconosca il diritto alla vita del bambino ancora
nel ventre della madre, ma di un semplice scrupolo religioso.
Lo stesso scrupolo impediva di uccidere il bambino neo­
nato ma non di lasciarlo morire per mancanza di cibo e di
cure. Credo che giustamente sia stato scritto:

In generale l’infanticidio era ritenuto un gesto indifferente


perché il neonato non partecipava ancora alla vita sociale.
Finché non vi veniva incorporato attraverso certi riti che gli
conferivano una certa personalità, in particolare finché non
riceveva il nome, non aveva un’esistenza reale; la sua sparizione
non commuoveva ciò che chiamiamo i sentimenti naturali.78

Ma, per la stessa ipocrisia in base alla quale Creonte non


fa uccidere Antigone, che ha condannato a morte, ma la fa
rinchiudere in un sepolcro dove morirà di asfissia e di fame
—il castigo che a Roma sarà destinato alle vestali infedeli al
loro voto di castità - non si uccideva il bambino che non si
voleva crescere; lo si abbandonava fuori casa, in un vaso o

76 Aristotele, P olitica, 4, 14, 10.


77 F. Solmsen, Inscriptiones g ra eca e a d inlustrandas dialectos selectae, Teub-
ner, Leipzig 1905, 39B righe 24-27.
78 P. Roussel, «Bulletin de l ’Association Guillaume Budé: Lettres d ’huma-
nité» 9, mars 1950, p. 26.

119
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

in una pentola d’argilla che gli sarebbe servita da tomba.79


I figli illegittimi erano «esposti» in numero maggiore degli
altri, come, nella leggenda, Ione, il figlio di Creusa, sedotta
dal dio Apollo quando era giovinetta; ma i figli illegitti­
mi «in soprannumero» subivano la stessa sorte. Certamente
i neonati esposti potevano essere accolti e allevati da altri
per diventare schiavi; talvolta appagavano le aspirazioni di
mogli sterili che ingannavano i mariti con una gravidanza
simulata e gli davano così il figlio che desiderava.
A Sparta si nutrivano molte preoccupazioni eugenetiche
e il neonato doveva essere presentato agli anziani della tribù:

Essi esaminavano il piccolo; se era ben fatto e vigoroso or­


dinavano di crescerlo; se era deforme e gracile lo inviavano
al luogo detto Apothetes, un precipizio presso il Taigeto.80

Il neonato del resto aveva già subito una prova preventiva:

Le donne di Sparta non lavavano i neonati con acqua ma


con vino per avere un saggio del loro temperamento. Si
dice infatti che i bambini soggetti a epilessia e malaticci
a contatto col vino puro cadano in preda a convulsioni.81

Altrove si «sperimentavano» i bambini con acqua fredda


o persino con urina.
Le ateniesi partorivano circondate dalle donne di casa; il
termine m aia poteva indicare qualsiasi donna di una certa

79 Cfr. Aristofane, Tesmoforie, vv. 505 e 509; Le rane, v. 1190.


80 Plutarco, L icurgo, 16.
81 Plutarco, ivi-, cfr. P. Roussel, «Revue des Études Anciennes» 4 6, 1943,
pp. 5-17.

120
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

età, qualsiasi schiava esperta, capace di adempiere al com­


pito di om phalotom os («tagliatrice del cordone ombelicale»).
M a nei casi difficili si faceva appello a una ostetrica o a un
medico.
Prima della nascita si ungeva la casa con pece, per cac­
ciare i demoni, o perché essa proteggeva dalla contamina­
zione;82 ogni nascita comportava una contaminazione per
la madre e per tutta la casa; per questo nessun parto poteva
aver luogo all’interno di un santuario. Quando il bambino
era nato si poneva sopra la porta un ramoscello d ’olivo se
era un maschio, una striscia di lana se era una bambina, in
segno di festa e anche per informare i vicini della nascita e
del sesso del neonato.
Il quinto o il settimo giorno dopo la nascita aveva luogo
la festa familiare delle A nfidrom ie. Essa consisteva in pu­
rificazioni con acqua lustrale per la madre e per tutte le
persone che avevano «toccato» cioè avevano partecipato al
parto e nella cerimonia che integrava il neonato nel grup­
po sociale: egli veniva portato di corsa intorno al focolare
(anfidrom ia significa «corsa intorno»). In quell’occasione si
riunivano tutti i membri della famiglia.
Da quel momento il bambino veniva accettato dalla co­
munità; si era deciso che lo si sarebbe allevato e il padre di
famiglia non aveva più il diritto di sbarazzarsene.
Infine, il decimo giorno dopo la nascita, i membri del­
la famiglia si riunivano nuovamente per un sacrificio e un
banchetto.83 A questo punto il bambino riceveva il nome.

82 Protio, s.v. rhamnos-, cfr. L. M oulinier, Le p u r et l ’im p u r dans la p en sée des


Grecs, d ’H om ère à Aristote, p. 69.
83 Aristofane, Gli u ccelli, vv. 4 9 3 -49 8 .

121
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Al primogenito, ad Atene, in generale veniva impartito il


nome del nonno paterno, ma la regola non era coattiva e
subiva molte eccezioni.84 I parenti convitati al banchetto
recavano doni, soprattutto amuleti per il piccolo. Al deci­
mo giorno la madre veniva considerata purificata e poteva
riprendere le abituali occupazioni.85

Il rispetto per i vecchi era particolarmente accentuato


a Sparta ma era generale nell’antica Grecia. I figli avevano
come primo dovere di vegliare sulla vecchiaia dei loro geni­
tori e di assicurare loro il necessario. Un’iscrizione di Delfi
ci ha comunicato le prime parole di una legge di tale città:
«Se qualcuno non garantisce la sussistenza a suo padre e sua
madre, e sarà denunciato di fronte al Consiglio, il Consi­
glio farà incatenare il colpevole e lo farà portare in prigione
finché...». Ci manca il resto del testo perché la pietra su cui
era inciso è rotta.86 L’incarceramento, anche temporaneo,
era una pena molto grave se applicata a un uomo libero e
i cittadini di una città non venivano imprigionati, spesso,
nemmeno per reati considerati capitali.
Il dovere di assistenza ai genitori anziani era indicato da
parole forgiate appositamente (geroboskia, gerotrofia ) e ad
Atene non adempirvi significava violare una legge di Solo­
ne, incorrendo in una multa e ndY atim ia parziale.
M a l’obbligo principale riguardava la sepoltura: i figli
dovevano seppellire i genitori secondo i riti, sotto pena di
mancare al loro principale dovere verso di essi.

84 Aristofane, Le nuvole, vv. 60-65.


85 L. Moulinier, Le p u r et l'im p u r dans la p en sée des Grecs, d ’H om ère à Ari-
stote, cit., pp. 6 6-71.
86 L. Lerat, «Revue de Philologie» 17, 1943, pp. 62-86.

122
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

I parenti più vicini del morto lo preparavano per i fune­


rali: lo lavavano con essenze profumate e lo vestivano con
vesti pulite, di solito bianche. Poi lo circondavano con ben­
de e lo avvolgevano in un lenzuolo ma lasciavano il viso sco­
perto. Era vietato dalla legge seppellire un uomo con più di
tre abiti.87 Oggetti di valore, come anelli, collane, bracciali,
venivano sepolti col morto e gli archeologi, scavando tombe,
hanno trovato quantità ingenti di questi oggetti. In certe
epoche, si poneva sulle labbra del morto una moneta, l’obo­
lo che egli dovrà offrire al nocchiero Caronte per la traversa­
ta del fiume infernale; tale uso si spiega meglio se si ricorda
che la gente del popolo abitualmente portava il denaro in
bocca, come testimoniano numerosi passi di Aristotele88 e
questo testo di Teofrasto: «La moneta che il cinico guada­
gna coi suoi affari, se la mette in bocca».89 Talvolta vicino al
morto si poneva un dolce di miele che si riteneva gli avrebbe
permesso di ammansire Cerbero, il cane degli Inferi.90
II cadavere così preparato veniva esposto su un letto ri­
tuale un giorno o due, nell’ingresso della casa, coi piedi
rivolti alla porta. La scena è rappresentata su molti vasi,
soprattutto sulle lekythoi bianche a figure nere che si pone­
vano sotto il letto funebre. La testa del morto, incoronata
di fiori, riposava su un cuscino; intorno a lui, donne con
ventagli lo proteggevano dal sole e dalle mosche; altre, da
ogni capo del letto, si spargevano cenere sui capelli, si la­

87 Plutarco, Solone, 21; cfr. anche la legge di Iulis, S ylloge inscriptionum


gra eca ru m ,3 III, 1218.
88 Aristofane, Le vespe, v. 6 09; Gli uccelli, v. 503; Le d on n e in assem blea, v.
818.
89 Teofrasto, C aratteri, 6.
90 Aristofane, Le n uvole, v. 507.

123
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

ceravano le guance, si battevano il petto o stendevano la


mano destra verso il defunto: tutte elevavano lamentazioni
e frasi rituali (ololygé) che la legge cercava però di soffocare.
Tutti coloro che si presentavano erano ammessi in casa,
ma la legislazione poneva uno stretto limite alla presenza
delle donne. Per esempio, a Iulis, nell’isola di Ceo, un rego­
lamento prescriveva:

Entreranno nella casa del morto solo coloro che sono im­
pure (per la vicinanza del morto): la madre, la moglie, le
sorelle, le figlie; e inoltre al massimo cinque donne e due
giovinette fra le parenti fino al grado delle figlie di cugini
germani; non entrerà nessun’altra.91

Anche ad Atene, secondo la legge di Solone, le donne


«non avranno il diritto di entrare nella casa del morto o di
seguire il suo accompagnamento alla tomba se non sono
parenti fino al grado di figlie di un cugino».92 Gli astanti
erano vestiti a lutto, di colore nero, grigio e talvolta bianco
e avevano i capelli tagliati in segno di afflizione. Talvolta
si assoldavano delle lamentatrici e dei lamentatoti per can­
tare i th ren oi funebri ma, anche su questo punto, la legge
limitava la fastosità e la rumorosità dei funerali. Davanti
alla porta di casa si collocava un vaso {ardaniorì) pieno di
acqua lustrale che si chiedeva ai vicini, perché quella della
casa dove c’era il morto era ritenuta contaminata; chi usciva
dalla casa si aspergeva con quell’acqua e il vaso indicava ai
passanti che in casa c’era un cadavere.

91 S ylloge insr. g r a e c .3 Ili, 1218.


92 Pseudo-Demostene, Contro M acartatos, 43.

124
Le donne, il matrimonio e la fam iglia

Il corteo funebre (ecphora) aveva di solito luogo il giorno


dopo l’esposizione del corpo. La legge di Solone prescrive­
va: «Il morto sarà esposto all’interno della casa come vorrà
la famiglia. Sarà trasportato l’indomani prima del levar del
sole».93 Ad Atene le sepolture si facevano quindi in piena
notte per una ragione religiosa: si temeva di contaminare
con la morte i raggi stessi del sole. Si facevano libagioni in
onore degli dei prima di lasciare la casa del morto, poi si
formava il corteo. Il morto era trasportato sullo stesso let­
to che era servito per l’esposizione, o portato a braccia dai
parenti o dagli schiavi, o ancora posto su un carro trainato
da cavalli o muli. In testa al corteo camminava una donna
che teneva un vaso per le libagioni, seguivano gli uomini,
poi le donne (solo se parenti prossime del morto), e infine i
suonatori di oboe. Nel corteo di coloro che erano morti di
morte violenta si recava davanti al corpo una lancia, segno
della vendetta di sangue che bisognava esercitare contro
l’assassino.94
Al cimitero, sempre situato fuori dalle mura della città,
il corpo veniva inumato o bruciato su un ceppo: in questo
caso le ceneri e le ossa venivano raccolte in un tessuto e
poste in un’urna. Poi si offrivano al morto delle libagioni;
la legge di Iulis precisava che era vietato portare alla tomba
più di tre congi di vino e più di un congio d’olio (congio era
una misura corrispondente a tre litri e un quarto). Si rivol­
geva al defunto un ultimo addio, poi si tornava a casa. In
casa avevano luogo lunghe e minuziose cerimonie di puri­
ficazione perché la contaminazione provocata dal contatto

93 Antifonte, S ul coreuta, 34.


94 Pseudo-Demostene, C ontro E vergo e M nesibulo, 69.

125
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

con la morte era ritenuta la più terribile di tutte;95 i parenti


del morto si lavavano tutto il corpo, poi partecipavano al
banchetto funebre. L’indomani, secondo la legge di Iulis,
la casa stessa veniva purificata con acqua di mare e issopo.
Banchetto e sacrifici venivano ripetuti il terzo giorno, il
nono e il trentesimo giorno dopo i funerali e nel loro anni­
versario. Così aveva inizio il culto dei morti.

95 Cfr. L. Moulinier, Le p u r et l ’im pu r dans la p en sée des Grecs, d ’H om ère à


Aristote, cit., pp. 76-82.
IV

I ragazzi: l ’educazione

Nel capitolo precedente abbiamo parlato solo delle donne


ateniesi, della famiglia e del matrimonio quali esistevano ad
Atene. M a, quando si parla di educazione, non si può igno­
rare Sparta perché certamente era in questo campo che più
nettamente si contrapponevano gli «stili di vita» praticati ad
Atene e a Sparta. M a anche se ci occupassimo solo dell’edu­
cazione in Attica, sarebbe importante sapere quale influenza
ha potuto esercitare su di essa il «modello spartiate».1
Le istituzioni a Sparta sembrano essersi in qualche modo
«fissate» verso la metà del VI secolo, epoca nella quale un
colpo di stato aristocratico sbarrò la strada alle tendenze
che, come in altre città greche, si manifestavano verso un’e­
voluzione democratica e fece delle leggi attribuite a Licurgo
una specie di ferreo busto protettivo destinato a mantenere
a lungo le energie della città. L’educazione spartiate dei se­
coli V e IV costituisce per noi la testimonianza dell’educa­
zione di tipo più arcaico; ma l’irrigidimento che fu necessa-1

1 Cfr. F. Ollier, Le m irage spartiate, I, Éditions de Boccard, Paris 1933.

127
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

rio per conservarla conferì al sistema antico un rigore quasi


caricaturale e soprattutto un’onnipresenza prepotente dello
stato che si arrogava il diritto di regolare persino i rapporti
amorosi fra giovani sposi.
Plutarco contraddice l’evidenza stessa delle cose quando
vuole presentarci Licurgo, che intende paragonare al paci­
fico Numa, come un uomo «di natura estremamente dolce
e preoccupato soprattutto di far regnare la pace».2 In realtà
non siamo nemmeno certi dell’esistenza storica di Licurgo,
ma se le istituzioni di Sparta furono opera di un unico le­
gislatore è indubbio che questi pensava alla guerra più che
alla pace. Si può ritenere però che l ’educazione spartiate
sia il frutto di una lunga storia, piuttosto che l ’opera di un
singolo uomo: un’istituzione come la crìptia di cui parlere­
mo più avanti ha delle analogie con istituzioni di altri pae­
si come dimostra l ’etnografia comparata e fu certamente
a causa del loro numero esiguo che i conquistatori dorici
della Laconia furono indotti a vivere come accampati in
mezzo a una popolazione sottoposta ma sempre sordamen­
te ostile e si videro costretti, per assicurare la continuità
del loro dominio, a forgiare loro figli fin d all’infanzia al
coraggio e a ll’energia del futuro oplite di Sparta.
Mentre ad Atene, come abbiamo visto, le giovinette
vivevano recluse, quelle di Sparta praticavano in pubbli­
co molti sport, come i giovani. Si esercitavano nella lotta,
nel lancio del disco e del giavellotto, che era un’arma da
guerra. Si trattava di forgiare madri di famiglia robuste e
vigorose e donne dotate di qualità virili; le ragioni di tale
libertà erano eugenetiche. Licurgo - ci racconta Plutar-

2 Plutarco, L icurgo, 23, 2.

128
/ ragazzi: l'educazione

co - «rifiutando la mollezza di un’educazione sedentaria e


troppo dolce (come quella delle giovani ateniesi) abituò le
fanciulle, come i giovani, a mostrarsi nude nelle processio­
ni, a danzare e a cantare nelle cerimonie religiose, alla pre­
senza e sotto gli occhi dei fanciulli».3 Così si preparavano
le sane unioni che avrebbero dato a Sparta figli sani e solidi
e Platone si ispirerà a questo esibizionismo quando pro­
getterà di far stringere le unioni, nella sua città di Utopia,
nell’interesse generale, «dalla forza coattiva dell’amore,
ben diversa da quella della geometria».4 I cori di fanciulle
di Sparta, eseguiti al canto dei p a rten éi di Alcmane erano
fra i più celebri.
Il maschio restava in famiglia solo fino a ll’età di set­
te anni. Fin dalla più tenera infanzia era però oggetto di
una formazione speciale, una specie di «allevamento». «Le
nutrici spartane» ci dice ancora Plutarco «erano accurate
ed esperte: invece di infagottare i piccoli che crescevano
lasciavano liberi le membra e tutto il corpo dei bambini; li
abituavano a non essere difficili e delicati nell’educazione,
a non temere le tenebre né la solitudine, a evitare i capricci
volgari, le lacrime e gli strilli.5 Era a Sparta che le fami­
glie aristocratiche di Atene il più delle volte si rivolgevano
quando cercavano una nurse per la loro progenitura.
A sette anni compiuti, il giovane spartiate era diretta-
mente «assunto» dallo stato al quale non avrebbe cessato di
appartenere fino alla morte. Da allora è inquadrato - come
lo erano in età contemporanea i giovani fascisti o hitleria­

3 Plutarco, iv i , 14, 4.
4 Platone, R epubblica , 5, 458 d.
3 Plutarco, L icurgo , 16, 4.

129
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

ni - nelle formazioni preliminari, sotto l ’alta sorveglianza


delp ed o n o m o , vero e proprio «commissario a ll’Educazione
nazionale».6 Secondo una ripartizione per classi di età che
mi sembra la più verosimile il ragazzo era, successivamen­
te: dagli 8 agli 11 anni «ragazzino» o «lupetto» (;rhobidas,
prom ik k izom énos, mikkizoménos, propais)-, poi, dai 12 ai
15, «ragazzo» nel senso pieno del termine (pratopam pais,
atropam pais, m eilleirèn ); infine, dai 16 ai 20 era ir èri, cioè
efebo del primo, secondo, terzo e quarto anno.7
Dagli 8 agli 11 anni i fanciulli erano divisi in «bande»
o «truppe» comandate da giovani, gli iren es più grandi, e a
loro volta suddivisi in pattuglie guidate dai più disinvolti
fra i ragazzi che le compongono, chiamato bouagos. Sono
state suggerite analogie con lo scoutismo ma sono analo­
gie superficiali che non devono nascondere una differenza
profonda ed essenziale: a Sparta non si trattava di occupa­
zioni facoltative destinate ai giorni di festa e alle vacanze
ma di un’attività obbligatoria, di tutti i giorni, della trama
stessa della vita.
Certamente i ragazzi imparavano a leggere e a scrivere
ma «i loro studi letterari» spiega Plutarco «si limitavano
allo stretto necessario; tutta la loro educazione consisteva
nell’imparare a ubbidire, a sopportare pazientemente la fa­
tica e a vincere nella lotta. Per questo il loro trattamento
diventava sempre più duro mano a mano che crescevano; si
rasava loro la testa e li si abituava a camminare senza calza­
ture e a giocare nudi nella maggior parte del tempo».8

6 H.I. M arrou, H istoire d e l ’édu cation dans l ’a ntiquité, p. 47.


7 Cfr. H.I. M arrou, Les classes d ’a ge d e la jeu n esse spartiate , in «Revue des
Études Anciennes» 4 8, 1946, pp. 216-230.
8 Plutarco, L icurgo, 16, 10-11.

130
Iragazzi: l ’e ducazione

A partire dai 12 anni essi non portavano più tunica e


ricevevano un solo mantello per tutto l’anno. Dormivano
in camerate, su pagliericci di canna. Si bagnavano e si un­
gevano d olio solo in rarissimi giorni di festa. Per qualsiasi,
anche lieve, colpa venivano crudelmente frustati. Nei pasti
che prendevano in comune non veniva dato loro cibo suf­
ficiente, perché cercassero di rubare viveri e apprendessero
così l ’ardire e l ’astuzia. Si tramanda la storia del fanciullo
spartiate che aveva catturato una volpe, e la teneva nascosta
sotto il suo mantello. Piuttosto che essere scoperto lasciò
che l’animale gli lacerasse il ventre e sopportò il dolore fino
a morirne.

In questo periodo cominciavano a essere autorizzati fra


giovani e adulti quei rapporti amorosi, se non sensuali,
che sembrano strettamente e necessariamente legati alla
vita comune e segregata dei giovani maschi. La legge e la
pubblica opinione imponevano loro, tuttavia, dei limiti
che ci è ora difficile individuare. Fra l’amante e il fanciullo
che egli aveva prescelto si stabiliva una stretta solidarietà;
l’amante era insieme un tutore e un modello e tali legami
particolari, che troviamo anche presso altri popoli dorici,
creavano un’emulazione che serviva a sviluppare anche il
più celebre guerriero.9

Ritorneremo su questo argomento più avanti, a proposito


di Atene, dove la pederastia era meno diffusa e si nascondeva
di più. Infine, a 16 anni, si situava il passaggio dall’infanzia
all’adolescenza. Gli irenes subivano una serie di successive

9 P. Roussel, Sparta, Éditions de Boccard, Paris 1939, pp. 61-62.

131
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

iniziazioni che erano insieme prove di resistenza e cerimonie


di carattere magico, con danze e maschere. AH’altare di Ar­
temide Ortia, due gruppi concorrenti di efebi dovevano cer­
care di rubare del formaggio e questo «grande gioco» dava
luogo a scambi di colpi di staffile, ma la crudele flagellazione
degli efebi sembra venisse praticata più tardi, in epoca ro­
mana.101La prova più impressionante era quella della criptia:
dopo un periodo in cui il giovane viveva solo e nascosto in
campagna, come un licantropo (uomo lupo), di notte egli
praticava la caccia agli iloti, cioè agli schiavi, e doveva uc­
ciderne almeno uno. Tali pratiche attestate anche per altre
epoche e altri paesi risalgono a un passato remotissimo.11
Al di fuori di queste prove ed esercizi di preparazione
militare, ai quali dedicavano la maggior parte del loro tem­
po, i giovani spartiati ricevevano un’educazione musicale
che non era comunque priva di rapporti con la guerra per­
ché la ben regolata cadenza dei cori preparava alla manovra
disciplinata dei battaglioni e sappiamo che Yaulos (oboe) e i
canti ritmavano gli spostamenti dell’esercito spartiate.
A parte questa formazione musicale e l’apprendimento
dei rudimenti della lettura e della scrittura, si può dire che
tutta l’educazione spartiate, minuziosamente organizzata, e
controllata dallo stato, si fondava sugli esercizi fisici e l’ad­
destramento alla guerra.

In confronto a questo assoggettamento totale dell’edu­


cazione di stato spartiate, che cosa vediamo ad Atene? Il

10 Cfr. R. Flacelière, «Revue des Études Grecques» 61, 1948, pp. 398 -40 0 .
11 Cfr. H. Jeanmaire, Couro'i et C ourètes, Bibliothèque Universitaire, Lille
1939 pp. 5 4 0 e sgg.

132
Iragazzi: l ’e ducazione

padre di famiglia poteva in quasi completa libertà educare


i suoi figli da sé oppure affidarli ad altri come preferiva fino
a 18 anni, età nella quale l’adolescente diventava cittadino e
iniziava la sua vita civica imparando il mestiere delle armi.
Dai 7 ai 18 anni, la vita del giovane ateniese e quella del
giovane spartiate erano dunque molto diverse!
M a nei primissimi anni, paradossalmente, il piccolo ate­
niese è il meno libero. Abbiamo detto che a Sparta le nutri­
ci non fasciavano i neonati. Ad Atene, invece, sembra che
abitualmente li si fasciasse in una striscia di stoffa arrotolata
a spirale e ben stretta.12
Le culle, quali le vediamo dipinte sui vasi, erano il più
delle volte dei cesti di vim ini o delle specie di tinozze di
legno ma potevano anche assumere strane forme, per esem­
pio di una calzatura, se questa forma fantastica non è stata
ideata dal pittore. L’abitudine di cullare i piccoli era costan­
te; li si faceva addormentare cantando una ninnananna.
Platone paragonerà quest’abitudine a ll’uso combinato di
danza e musica per guarire il male da parte dei Coribanti,
cioè dei «posseduti».13
Le madri nutrivano i loro figli, come la moglie di Eufile-
tos che per maggiore comodità si era stabilita al pianterreno,
nella cameretta del piccolo lasciando il marito al piano di
solito riservato alle donne; poteva così senza rischio alcuno
di cadere dalle scale nell’oscurità, offrire il petto al neonato
e... se del caso, ricevere il suo amante all’insaputa del marito
che dormiva di sopra.14 Nelle famiglie benestanti la madre

12 Cfr. P. Girard, L’éd ucation a tb én ien n e au V et au IV siècle a van t Jésus


Christ, p. 69.
13 Platone, Le leggi, 7, 7 9 0 d-e.
14 Lisia, S u ll’u ccision e d i E mtostene, 9.

133
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

di solito era aiutata da una nutrice che spesso era una schiava
ma poteva anche essere una donna libera di bassa condizio­
ne. La nutrice di Oreste, nelle C oefore di Eschilo, descrive
assai realisticamente le cure che aveva prestato al figlio di
Agamennone ed è evidente che il poeta trae questa descri­
zione da ciò che poteva vedere nellAtene del suo tempo:

Oh, mio Oreste, per il quale ho consumato la mia vita,


che ho preso nelle mie mani appena nato da sua madre
e ho nutrito! E la pena, in ogni momento, di quei richia­
mi urlanti che mi facevano correre tutta la notte! Avrei
dunque sofferto per niente. Chi ancora non conosce nulla
bisogna allevarlo come un cagnolino non è vero? adattarsi
a lui. Quando è in fasce il bambino non parla, che abbia
fame o sete o un bisogno impellente e il suo piccolo ventre
si placa da solo. Bisogna essere un po’ degli indovini e sic­
come tante volte mi ero sbagliata, ho lavato anche molte
fasce; lavandaia e nutrice univano i loro sforzi.15

Vasi dipinti ci mostrano una nutrice che porta un bam­


bino nudo che ha certamente appena pulito e sua madre
che, seduta, si prepara ad allattarlo. M a naturalmente mol­
te nutrici allattavano anche i bambini che venivano loro
affidati. Ho già detto che vigorose nutrici di Sparta erano
particolarmente ricercate ad Atene.
Il buonuomo Strepsiade nelle N uvole di Aristofane ricor­
dava a suo figlio Fidippide che si era egli stesso preso cura
di lui nell’infanzia (come Fenice aveva fatto per Achille).16

15 Eschilo, C oefore , vv. 749-760.


16 Omero, Iliade, IX, vv. 485-495.

134
Iragazzi: l ’e ducazione

Ti ho allevato, e indovinavo i tuoi pensieri fra i tuoi balbettìi.


Tu dicevi «bru» e io capivo e ti davo da bere. Chiedevi “ma­
rna” e io arrivavo e ti portavo il pane. Appena avevi detto
“caca” ti portavo fuori e ti tenevo davanti a me.17

Ne dobbiamo concludere che era abituale per un padre


di famiglia ateniese occuparsi normalmente dei suoi picco­
li? Certamente no. Il caso doveva anzi essere eccezionale e
Aristofane lo cita per far ridere. Strepsiade aveva sposato
una «smorfiosa», una civetta preoccupata più della propria
toilette che di suo figlio e forse l’avaro Strepsiade aveva vo­
luto fare economia di una nutrice. Comunque gli ateniesi
avevano di solito troppe occupazioni fuori casa per poter­
si interessare dei loro bambini. Evidentemente la madre,
reclusa con loro in casa, li circondava invece di cure con
l’aiuto di schiave.
Più avanti, quindi, i ragazzi andranno a scuola, la madre
non potrà più né aiutarli né comprendere i loro studi perché
la sua educazione come quella di tutte le ragazze era stata
trascurata, ma finché erano troppo piccoli per andare dal
maestro erano interamente affidati a lei e alle donne di casa.
Madre e nutrice non solo cantavano al piccolo cantile­
ne e ninnenanne ma gli raccontavano, appena aveva l’età
per comprenderle, le «storie» tradizionali che costituivano
il suo primo insegnamento. Non conosciamo molto né di
quelle canzoni né di quei racconti. Sappiamo che il bam­
bino disobbediente era minacciato dall’apparizione di vari
spauracchi che si chiamavano Acco, Alfito, Gello, Gorgo,
Empusa, Lamia, Mormo o Momokile, Efialte: numerosa e

17 Aristofane, Le nuvole, vv. 1381-1384.

135
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

spaventevole legione! Anche il lupo serviva da spauracchio,


come vediamo nella fiaba di Esopo II lupo e la vecchia™ M a
ai bravi bambini si raccontavano belle storie dove gli ani­
mali avevano le parti principali, quei racconti esopici che
Socrate sapeva a memoria anche da vecchio e che si eserci­
terà a mettere in versi in prigione, poco prima di morire.1819
Tali favole avevano una morale, la morale dell’esperienza, e
quindi un insegnamento. Il vecchio Filocleone si ricordava
di quella che cominciava così: «Cerano una volta un topo e
una donnola...».20 Certamente madri e nutrici insegnavano
anche, ai bambini un po’ più grandi, i m iti e le leggende
nazionali, trasmettendo loro quello che avevano appreso
esse stesse nell’infanzia e frequentando le feste religiose o
contemplando opere d’arte. Così li preparavano alla lettura
dei poemi di Omero e di Esiodo, che i ragazzi facevano dal
grammatista (il maestro di lettura).
Platone consiglia di lasciar giocare i bambini a loro pia­
cere fino ai 6 anni, dirigendo però i loro giochi a ll’appren­
dimento del mestiere che potranno fare in futuro.21
E Aristotele scrive gravemente nella Politica-.

Bisogna che i bambini si occupino e a giusta ragione si


considera una bella invenzione di Archita (di Taranto, fi­
losofo e uomo di stato) le nacchere (platagé) che vengono
date ai bambini perché, mentre le usano, non rompano

18 F avole d i Esopo, éd. Chambry, n. 223.


19 Platone, F edone, 61 b.
20 Aristofane, Le vespe, v. 1185. Cfr. la favola di Esopo / topi e le d on n olf
(éd. Chambry, n. 237). Le donnole addomesticate svolgevano in casa la
stessa funzione dei gatti oggi.
21 Platone, Le leggi, 7, 793 e.

136
/ragazzi: Veducazione

niente in casa, perché i bambini non possono restare fer­


mi neanche un momento e la platagé è un giocattolo loro
adatto.22

Se le nacchere facevano troppo rumore, la madre e,


quando si trovava in casa, il padre erano da compiangere!
Il gioco della palla (.sphaira) e quello dei dadi (astragali)
erano praticati senz’altro fin dalla prima infanzia, ma an­
che gli adolescenti li prediligevano; ne riparleremo. Altri
giocattoli erano anche più propri della prima infanzia: per
esempio i piccoli carri che vediamo trascinati dai bambini
nella pittura vascolare. Strepsiade ne aveva comprato uno a
suo figlio Fidippide:

Obbediscimi —gli dice —perché anch’io un giorno, me


ne ricordo ancora, ti ho obbedito quando avevi sei anni
e balbettavi ancora. Il primo obolo che ho ricevuto come
eliasta, l’ho usato per comprarti alle feste di Zeus un pic­
colo carro.23

Molte feste religiose, non solo quelle di Zeus ma soprat­


tutto le A ntesterie, alla fine di febbraio, ospitavano giochi
a cui partecipavano anche i bambini e nel corso dei quali
cera l ’uso di acquistare loro giocattoli, come carri, vasi di
dimensione adatta a loro, specie di oinochoes in miniatura
dove i pittori rappresentavano bambini quasi sempre nu­
di, con un cordone di amuleti sul petto a guisa di sciarpa,
intenti a giocare. Tali amuleti (probascania) si credeva che

22 Aristotele, Politica., V, 6, 1.
23 Aristofane, Le nuvole, vv. 8 61-8 6 4.

137
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

potessero scacciare il malocchio, il destino avverso, le ma­


lattie. I ragazzi dovevano giocare quasi nudi nel gineceo,
mentre le bambine, rappresentate sugli stessi vasi, di solito
erano sommariamente vestite.
Gli archeologi hanno trovato, negli scavi, molte figurine
in terracotta che servivano da giocattoli per la prima in­
fanzia, soprattutto denteruoli di varie forme, cavalli, ruo­
te, e ogni sorta di animali: maiali, galli, colombe ecc. Per
le bambine cerano bambole, alcune delle quali articolate
{neurospastd}.1'
M a i giocattoli preferiti dai bambini erano forse i meno
costosi che si costruivano da soli. Strepsiade vanta a Socrate
l’intelligenza di suo figlio:

Era ancora un ragazzino non più alto di un soldino di


cacio e già modellava casette d’argilla, scolpiva navi di le­
gno, costruiva piccoli carri e, con la scorza delle melagra­
ne, faceva delle bellissime raganelle.2425

Dionigi il tiranno, quand’era ragazzo e non aveva com­


pagni di gioco a causa dell’estrema diffidenza di sua madre,
per tenersi occupato «costruiva carri, lampade, sedie e ta­
voli di legno».26
I bambini non si divertivano solo con statuette costruite
in casa o acquistate rappresentanti animali, ma anche con
veri animali, soprattutto cani, come vediamo nelle pitture
vascolari, ma anche anatre, quaglie, topi e donnole e per-

24 Cfr. per esempio A. Laumonier, E xplorationA rchéologique d e D élos (fase.


23, 1956), Les figu rin es en terre cuite, n. 258, 265, 1340, 13 4 4, 1346.
25 Aristofane, Le nuvole, vv. 8 78 -88 1.
26 Plutarco, D ione, cap. 9.

138
I ragazzi: l'educazione

sino rane. In questo caso il gineceo si trasformava in una


specie di piccolo allevamento.

Ad Atene non cera, come a Sparta e in altre città doriche,


niente di corrispondente al p edonom o. Lo stato non poteva
disinteressarsi completamente delle condizioni nelle quali
si svolgeva l’educazione, almeno dal punto di vista morale.
Le leggi di Solone obbligavano i genitori a mandare i figli
a scuola non prima dell’alba e a portarli a casa prima del
tramonto, per evitare il pericolo della strada buia e vietava­
no ai giovani e agli stranieri di entrare nella scuola quando
vi si trovavano i bambini, e per combattere la pederastia.27
M a tali prescrizioni, come si vede, non riguardavano affatto
l’insegnamento vero e proprio: né quello del gram m atista, né
quello del p ed otrìb o (insegnante di ginnastica) e nemmeno
del citarista. Non è neanche certo che la legge imponesse
ai genitori di mandare i figli a scuola; in mancanza di una
legge scritta l’obbligo scolastico era però certamente imposto
dal costume la cui forza non era meno coattiva.28 Tuttavia i
magistrati della città e soprattutto gli strateghi potevano for­
se disinteressarsi abitualmente dell’educazione dei bambini
che condizionava il valore dei futuri efebi, cioè dei difensori
della città? Un decreto del demo di Eieusi, della metà del IV
secolo, onorava lo stratega Derchilo soprattutto «per il modo
in cui aveva vigilato sull’educazione dei ragazzi del demo»;
tale decreto era stato inciso a cura del demarca e dei genitori
dei ragazzi che, riconoscenti, avevano assunto l’iniziativa di

27 Eschine, C ontro Tim arco, 9-12.


28 Cfr. H.I. M arrou, H istoire d e l'éd u ca tion dans l ’a ntiquité, pp. 496-497,
nota 3.

139
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

questa onorificenza.29 Tale documento non consente di af­


fermare che gli strateghi avessero fra le loro attribuzioni abi­
tuali anche quella dell’educazione dei ragazzi ma indica, per
10 meno, che potevano, in certe circostanze, occuparsene.
Comunque, si trattasse dell’insegnamento delle lettere o
di quello della musica o della ginnastica, il triviu m dell’edu­
cazione greca, il maestro ospitava gli allievi in casa sua e non
in un edificio pubblico costruito a spese dello stato. Ciò è
evidente, per ciò che riguarda il grammatista e il citarista. Per
11 pedotribo bisogna distinguere le palestre degli efebi e degli
uomini adulti, che esistevano nei ginnasi pubblici, e le pale­
stre riservate ai bambini; ci risulta che queste ultime fossero
palestre private, di proprietà dei pedotribi di cui portavano
il nome, per esempio la «palestra di Taureas», la «palestra di
Sibyrtios».30
Possiamo dunque affermare che ad Atene l’educazione
era pressoché libera e lasciata all’iniziativa dei singoli. Anche
nel caso speciale dei «pupilli della nazione» cioè dei figli dei
cittadini morti per la patria, il cui mantenimento era assicu­
rato a spese del tesoro pubblico, lo stato si limitava a pagare
l’educazione dei suoi pupilli a maestri privati. Analogamen­
te, quando nel 480 gli ateniesi, in occasione dell’avanzata di
Serse, trasportarono donne e bambini a Trezene, «i trezeni»
ci dice Plutarco «decretarono che rifugiati fossero nutriti a
spese dello stato, che ognuno ricevesse due oboli, che i bam­
bini avessero il permesso di cogliere frutta dappertutto e che
si pagasse p e r loro un salario a un maestro d i scuola».31

29 S ylloge ìnsc. g r p III, 956.


30 Platone, C arm ide, 153 a-, Plutarco, A lcibiade, 3.
31 Plutarco, Temistocle, 10.

140
Iragazzi: l ’e ducazione

Di solito, naturalmente, erano i genitori a pagare le spe­


se di educazione dei loro figli. Ne conseguiva che i figli dei
cittadini ricchi o agiati potevano continuare i loro studi fino
all’efebia mentre quelli dei poveri si fermavano prima, spesso
appena avevano appreso i primi elementi della cultura.32 Cer­
ti ragazzi imparavano appena a scrivere. Conosciamo l’aned­
doto relativo a quell’ateniese che, nel 482, chiese ad Aristide
di scrivere il suo stesso nome sulla pietra dell’ostracismo, per­
ché non sapeva scrivere.33 M a l’istruzione sembra essersi am­
piamente diffusa ad Atene nel corso del V secolo: nell’ultimo
terzo di tale secolo, nel periodo della guerra del Pelopon­
neso, non ci sono illetterati fra i personaggi di Aristofane:
persino il rozzo Strepsiade delle N uvole, persino il grossolano
salumiere Agocrito dei C avalieri sanno leggere e scrivere.34

Atene aveva certamente delle scuole già prima delle guer­


re persiane. Aristofane, nelle N uvole, rievoca questa «antica
educazione» che aveva ricevuto la generazione dei «marato-
nomachi», cioè dei combattenti di Maratona (490 a.C.):

Prima di tutto i ragazzi non dovevano farsi sentire aprir


bocca; poi si vedevano marciare in strada, in buon ordine,
tutti quelli di uno stesso quartiere, per recarsi dal citarista,
senza mantello e a ranghi serrati, anche se nevicava fitto
come farina.35

32 Cfr. Platone, P rotagora, 326 c : «I figli dei ricchi, mandati a scuola prima
degli altri, ne escono dopo».
33 Plutarco, A ristide, 7.
34 Aristofane, Le nuvole, vv. 18-24 (Strepsiade fa il conto, per iscritto, dei
suoi debiti); I ca valieri, 188-189.
35 Aristofane, Le nuvole, vv. 963-965.

141
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

È probabile che in certe scuole si imparassero sia la let­


tura e la scrittura sia rudimenti della musica. Comunque,
la famosa coppa di Duri rappresenta un grammatista e un
citarista nella stessa stanza36. Ma, se crediamo a ll’esposizio­
ne fatta da Protagora sull’educazione nel dialogo di Platone
che porta il suo nome, l’insegnamento del citarista normal­
mente era successivo a quello del grammatista e quello del
pedotribo a quello del citarista:

Gli insegnanti, quando i bambini sanno già leggere, fanno


loro declamare in classe, seduti su sgabelli, i versi dei gran­
di poeti e li costringono a impararli a memoria... I citari­
sti, a loro volta, quando l’allievo sa suonare lo strumento,
gli fan conoscere altre belle opere, le opere dei poeti liri­
ci... Più tardi ancora, si manda il ragazzo dal pedotribo.37

È probabile che l’educazione intellettuale, la musiké, che


comprendeva le lettere e la musica propriamente detta pre­
cedesse l’insegnamento della ginnastica, mentre a partire
dall’età di 14 anni circa la cultura fisica prevalesse su quella
intellettuale senza però sostituirla.
Non appena il piccolo ateniese raggiungeva l’età per an­
dare a scuola, passava, almeno nelle famiglie agiate che ave­
vano più schiavi, dalla sorveglianza della nutrice a quella
del pedagogo. Questi è uno schiavo addetto alla sua perso­
na, la cui funzione era di accompagnarlo dappertutto e di
insegnargli le buone maniere («la civiltà puerile e onesta»),

36 Cfr. per esempio, E. Pottier, D ouris e t lesp ein tres d e vases grecs, Laurens,
Paris 1906, p. 112, fig. 22.
37 Platone, Protagora, 325 c-e.

142
I ragazzi: l'educazione

impiegando, in certi casi, per farsi obbedire, anche castighi


corporali, soprattutto le verghe. Era il pedagogo che la mat­
tina accompagnava il bambino dal maestro portandone il
bagaglio (tavolette per scrivere, stili, libri, e più tardi cetra e
oboe). Poi per tutto il tempo che il bambino passa a scuola,
lo aspetta o in una sala speciale38 o nella classe stessa. Sulla
coppa di Duri già citata è certamente un pedagogo e non un
éraste (innamorato) che con le gambe incrociate e un lungo
bastone in mano sta seduto su uno sgabello con la testa ri­
volta verso il bambino che recita un poema epico. Assisten­
do alla lezione quindi il pedagogo può fargliela ripetere a
casa. I maestri si siedono su cattedre dai piedi ricurvi, dei
«troni», mentre gli allievi, i pedagoghi e i maestri assistenti
hanno solo tavolette a piedi diritti e senza schienale (bathra).
Non avevano tavole: con tavolette di cera rigide era agevole
scrivere sulle ginocchia; si poteva anche usare una foglia di
papiro. Demostene dirà a Eschine, che era figlio dell’assi­
stente di un maestro di scuola:

Fin dall’infanzia, sei stato allevato nella più grande indi­


genza, svolgendo, a fianco di tuo padre, la funzione di au­
siliario in una scuola, preparando l’inchiostro (col quale si
scriveva su foglie di papiro), lavando gli sgabelli, scopando
la sala con un ruolo di servo e non di fanciullo libero.39

I maestri, e soprattutto gli aiuti che retribuivano, con


una parte delle somme loro versate dai genitori degli allievi,

38 II p ed a gogeion , o sala d ’attesa dei pedagoghi, se dobbiamo così interpre­


tare questa parola nel Demostene del D iscorso sulla corona, 258, ma può
darsi che la parola sia un semplice sinonimo di didascaleion, aula scolastica.
39 Demostene, D iscorso sulla corona, 258 (cfr., la nota precedente).

143
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

dovevano essere assai poco pagati. Un’altra pittura vasco­


lare ci mostra un maestro di scuola con lo stilo in mano
«sporgersi della sedia in un movimento di veemente rim­
provero, l’indice levato e minaccioso, come se rimproveras­
se la marmaglia affidata alle sue cure».40 Bisogna aspettare
i sofisti della seconda metà del V secolo per incontrare dei
veri e propri professori che godessero di prestigio sufficien­
te per farsi degnamente retribuire i propri servigi. Sembra
d ’altra parte che chiunque potesse, fino allora, improvvisar­
si maestro, a patto che sapesse leggere e scrivere; infatti non
veniva richiesto nessun diploma. Se lo stato esercitava un
controllo era solo dal punto di vista morale, non da quello
della cultura e della competenza degli insegnanti.
L’uso del riposo settimanale, di origine ebraica, era sco­
nosciuto ai greci. I giorni festivi erano irregolarmente disse­
minati secondo le date delle feste religiose di ogni città. Ma
certi mesi, come quello di A nthesterion (febbraio), ad Atene,
comprendevano tanti giorni di «vacanza» che dovevano so­
migliare pressa poco alle «vacanze estive» degli scolari di
oggi. L’avaro di Teofrasto «quando i suoi figli, per malattia,
stanno a casa da scuola, trattiene la corrispondente retri­
buzione al maestro; e per tutto il mese di A nthesterion, in
cui le feste erano numerose, non li manda a scuola per non
pagare del tutto».41 Inoltre, per ogni ragazzo cerano le feste
di famiglia e personali (compleanno, cerimonia del taglio
dei capelli che segnava la fine dell’infanzia ecc.) ed eventi
importanti come il matrimonio che provocavano assenze
supplementari.

40 E. Pottier, D ouris..., op. cit., p. 112 e fig. 23.


41 Teofrasto, C aratteri, éd. O. Navarre, p. 100.

144
I ragazzi: ^educazione

Il ragazzo cominciava evidentemente con l’imparare a


leggere, poi a scrivere. Quindi, doveva apprendere a recitare
a memoria i nomi delle lettere dell’alfabeto, alfa, beta, ga m ­
ma, delta ecc, che si imprimeva nella mente con dei versi
mnemotecnici. Tali nozioni, stoicheia (elementi), erano cir­
condate da un rispetto quasi religioso; esse non servivano
d ’altra parte solo a contrassegnare le lettere dell’alfabeto ma
anche i numeri, e a segnare gli intervalli musicali. La pe­
dagogia antica, fortemente ripetitiva, non aveva niente che
potesse anche lontanamente apparentarsi al nostro «metodo
globale». Si andava lentamente dal semplice al complesso,
dalla lettera alla sillaba di due lettere (cioè: B, A=BA), poi
a quelle di più lettere; si abituava il bambino a pronunciare
parole particolarmente difficili e rare come lynx. Non si cer­
cava per nulla di rendergli più facili le cose; i maestri sem­
bravano pensare che se avesse vinto la difficoltà più grande,
il resto l’avrebbe poi appreso più facilmente. Cerano silla­
bari dove ogni parola veniva data in sillabe.
Si affrontava poi la lettura, tanto più difficile per i ragaz­
zi dato che le edizioni normali non avevano punteggiatura
e le parole non erano nemmeno divise le une dalle altre da
spazi bianchi, come vediamo in molte iscrizioni che ci so­
no rimaste.42 Il bambino imparava a leggere ad alta voce e
continuava in seguito a fare altrettanto, perché sembra che
la lettura silenziosa non fosse praticata: ognuno leggeva da
sé ad alta voce o si faceva leggere ciò che gli interessava da
un servo. Per questo l’opera di Plutarco che spiega come i

42 È la scriptio contìnua. Per descriverla V. Coulon ha affermato bizzarra­


mente, nell’edizione Bude di Aristofane, I, p. VI: «Esso (il testo) non con te­
n eva n é p a role n é fra si, né accenti o segni di interpunzione».

145
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

ragazzi debbano leggere i poemi è intitolata: C om esi co n vie­


n e ch e i ragazzi ascoltino i p oem i.
Lo scolaro si esercitava poi a scrivere le lettere su una ta­
voletta di legno spalmata di cera all’interno di una cornice
vuota sulla quale tracciava i caratteri con uno stilo e che
aveva anche un’estremità piatta e arrotondata che serviva a
cancellare. Tali tavolette, equivalenti alle nostre lavagnette,
potevano essere semplici, doppie, o multiple e, in quest’ul­
timo caso, gli elementi che la componevano erano collegati
con delle cerniere o cordicelle che passavano per dei buchi.
Il maestro cominciava a disegnare con un tratto leggero i
caratteri sulla cera e l’allievo ripassava premendo. Si poteva
anche scrivere con l’inchiostro su foglie di papiro; l’inchio­
stro era fornito in forma solida, spezzato e poi diluito dal
maestro o da uno dei suoi aiutanti; come penna si usava
una canna tagliata e spezzata a metà. Si usavano anche gli
ostraca, cioè pezzi di terracotta che servivano soprattutto per
le «brutte copie». Gli scolari usavano anche regoli a forma di
croce (come quella che si vede appesa al muro nella coppa di
Douris già citata) per disporre le lettere su una linea e anche
esattamente le une sotto le altre secondo la disposizione det­
ta stoichedon, tipica delle iscrizioni dell’epoca. Forse cerano
concorsi di calligrafia come quelli che conosciamo con cer­
tezza per il periodo ellenistico.43
Con metodi così rudimentali, l ’apprendimento della let­
tura e della scrittura poteva durare molto a lungo e richiedere
talvolta tre o quattro anni. Appena il ragazzo sapeva leggere

43 Concorso segnalato da iscrizioni e da un epigramma AéYAntologia, VI,


308: «Vincitore degli altri ragazzi, per avere bene modellato le sue lettere,
Connaros ha ricevuto in premio 80 astragali...».

146
I ragazzi: l ’e ducazione

e scrivere correntemente si esercitava a imparare a memoria


dei versi, poi brani sempre più lunghi dei poeti e prima di
tutto del principale, Omero, l’autore à&WIliade e àt\YOdis­
sea. Ciò che, nel primo secolo della nostra era, scrisse il retore
Eraclito, era certamente valido per il secolo di Pericle:

Fin dall’età più tenera, alla mente ingenua dei bambini


che fanno i loro primi studi si fornisce Omero come nutri­
ce; si può quasi dire che al nostro spirito si fa succhiare il
latte dei suoi versi. Cresciamo ed egli è sempre con noi...44

Omero era considerato dai greci l’educatore per eccellen­


za, e il grammatista non ne traeva, per i suoi allievi, lezioni
di estetica ma di morale e di religione e, in senso anche più
generale, di vita, perché Omero insegnava tutto ciò che un
uomo degno di questo nome deve sapere: le attività del tem­
po di pace e del tempo di guerra, i mestieri, la politica e la di­
plomazia, la saggezza e la cortesia, il coraggio, i doveri verso
i genitori e verso gli dei... Accanto a Omero i poeti epici del
Ciclo avevano un posto del tutto subordinato ma Esiodo e,
ad Atene, Solone fornivano anch’essi dei soggetti di studio. E
certamente una scena essenziale quella che la coppa di Dou-
ris, insieme ad altre pitture vascolari, ci presenta rappresen­
tando, al centro dell’aula scolastica, il maestro che srotola un
papiro sul quale sono scritti i primi versi di un poema epico e
li fa imparare al giovinetto seduto di fronte a lui. Tutti i libri
si presentavano allora sotto forma di rotoli di papiro.
L’aritmetica completava l’insegnamento. È noto che i gre­
ci contrassegnavano le cifre con le lettere dell’alfabeto com­

44 Cfr. F. Buffière, Les m ythes d ’H om ère e t la p en sée grecq u e, p. 10.

147
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

pletate con tre lettere antiche, poi scomparse dalla scrittura:


il digam m a che era uguale a 6, il koppa, uguale a 90 e il
sampi, uguale a 900. Cerano quindi 9 segni per le unità (da
alfa a theta), nove per le decine (da iota a koppa) e nove per
le centinaia (da ro a sampi). Oltre il 999 ci si serviva di chi-
lioi (1000) e m urìoì (10.000) o si scriveva 1000 impiegando
n nalfa con uno iota a sinistra e si proseguiva così. I calcoli
erano difficili perché i greci, che ignoravano lo zero, attribu­
ivano alle diverse lettere un valore di posizione. Si servivano
così per i calcoli elementari delle dita, secondo curiose regole
di calcolo digitale45 e per i calcoli più complicati di piastre
da calcolo e &z\Yabaco, una tavoletta sulla quale delle divi­
sioni convenzionali, tracciate in precedenza, separavano vari
ordini di unità e dove si ponevano dei gettoni: un metodo
empirico che sopravvive oggi nell’Oriente musulmano. Na­
turalmente, gli scolari imparavano le tabelline delle moltipli­
cazioni, materializzandole, come facevano i pitagorici, con
l’aiuto di punti disposti in quadrato.
Non crediamo che il piccolo ateniese del V secolo abbia
imparato a scuola i primi elementi della geometria piana. Il
suo modesto bagaglio si riduceva senz’altro a qualche nozio­
ne sulle frazioni semplici: la dracma valeva sei oboli, quindi
bisognava sapere, per esempio, che il quarto della dracma
valeva un obolo e mezzo.
Ecco in che cosa consisteva il sapere di Strepsiade quan­
do questi si recava al «pensatoio» di Socrate per impararne
di più.

45 Cfr. H.I. M arrou, H istoire d e V éducation dans l ’a ntiquité, p. 219 e la tav.


di fronte alla p. 216.

148
I ragazzi: l ’e ducazione

Storicamente, l’insegnamento della musica in Grecia era


più antico di quello delle lettere. In ogni epoca, i greci ama­
rono molto la musica e la danza46 e considerarono l’appren­
dimento del canto e degli strumenti musicali come la base
di ogni educazione liberale. Già nell’epoca omerica, i cantori
iaoidot) che celebravano le glorie degli eroi dei tempi antichi
sono circondati di considerazioni e riguardi, come proclama
Ulisse presso i Feaci: «Non c’è uomo quaggiù che non debba
agli aedi stima e rispetto: non imparano infatti essi dalla M u­
sa le loro opere? la Musa che predilige la stirpe dei cantori».47
Gli eroi stessi e il maggiore fra loro, Achille, che incarna il
più alto ideale dei greci, non disdegnavano la musica: quan­
do i messi di Agamennone arrivano presso di lui, lo trovano
mentre «rallegra la sua anima traendo suoni chiari da una
bella cetra, strumento meraviglioso con le corde d’argento...
Il suo cuore ne trae piacere. Egli canta le gesta degli eroi».48
E significativo che il nome stesso di musica derivi da
quello delle Muse, le dee che presiedevano a tutte le atti­
vità intellettuali e artistiche dell’uomo: la musica appariva
infatti ai greci come la parte essenziale e il miglior simbolo
di tutta la loro cultura. L’uomo colto, infatti, era il musikòs
anér. Temistocle riconosceva che la sua educazione era in­
completa perché non aveva imparato a suonare la cetra.49
Noi diciamo che «la musica addolcisce i costumi» ma per i
greci essa era la condizione primaria di ogni civiltà e ogni
modificazione alla tecnica musicale sembrava loro perico­
losa e tale da modificare l’equilibrio morale di tutto il cor­

46 Cfr. L. Séchan, La dan segrecq u e antique, Editions de Boccard, Paris 1930.


47 Odissea, V ili, vv. 4 79 -48 1.
48 Iliade, IX, w . 186-189.
49 Plutarco, Temistocle, 2.

149
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

po civico, dello stato stesso.50 Sappiamo la fondamentale


importanza che i pitagorici attribuivano alla musica nella
loro concezione della vita umana, una concezione fondata
sull’armonia universale dei numeri che reggeva gli intervalli
musicali. In questo, Pitagora e i suoi discepoli svilupparono
scientificamente una tendenza naturale dell’uomo greco.51
L’incanto, in senso forte, che provavano i greci a ll’a­
scolto di una bella musica è espresso mirabilmente su va­
si come il cratere del museo di Berlino che rappresenta
Orfeo che suona la lira e canta di fronte a quattro traci,
visibilmente soggiogati: giustamente è stato proposto per
questa scena il titolo «il trionfo della musica».52 Altre pit­
ture vascolari, come le lek ythoi funerarie a fondo bianco, ci
mostrano spesso, di fronte alla stele di una tomba, un gio­
vane, talvolta seduto, talvolta in piedi, che canta accompa­
gnandosi con la lira in mezzo a un gruppo di persone che
paiono ascoltarlo in religioso silenzio.

Si tratta, si è detto, dell’offerta musicale che i sopravvis­


suti fanno ai parenti o aliammo che non è più. Questo
povero corpo, che si pensa continui a vivere sottoterra, ha
bisogno di qualcosa di diverso dalle libagioni: ha bisogno
del piacere dello spirito. Ecco perché persino nella tom­
ba si cerca di fargli piacere facendogli giungere in suono
delle melodie che l’hanno deliziato mentre era in vita.53

50 Platone, R epubblica, IV, 4 2 4 C; Plutarco, Agis, 10.


51 Cfr. P. Boyancé, Le cu lte des M uses chez les philosophes grecs, Éditions de
Boccard, Paris 1936, passim.
52 Cfr. C. Dugas, Aison et la p ein tu re céram ìque à A thènes à l'ép oq u e d e
Périclès, fig. 2.
53 P. Girard, L’éd ucation athénienne..., cit. p. 183.

150
I ragazzi: l'educazione

La cetra o lira era uno strumento a corde la cui cassa


di risonanza in origine si dice fosse fatta con il guscio di
una tartaruga: il dio Ermes bambino avrebbe inventato lo
strumento per gioco.54 Sul versante cavo della cassa, rico­
perto da una pelle tesa, erano adattati due montanti ricurvi
e tenuti insieme, nella parte superiore, da una traversa che
nella cetra di Achille era d’argento. Di solito sette corde le­
gavano tale traversa all’estremità inferiore dello strumento.
Un ponticello infine, separava le corde dalla pelle. Cerano
anche lire più perfezionate a 8 o 9 corde. Si suonava la cetra
pizzicando le corde con le dita o facendole vibrare con una
piccola lam ina chiamata p lettro, che era attaccata allo stru­
mento con un nastro.
L’.aulos, strumento a fiato, viene di solito chiamato in età
contemporanea flauto, ma somigliava più a un oboe benché
avesse di solito due tubi divergenti a partire dall’imbocca­
tura. Tali tubi percorsi da fori, e anche le linguette o a n ce
che producevano le vibrazioni, erano di canna. I professio­
nisti dell'aulos fissavano lo strumento alla bocca con una
specie di museruola di strisce di cuoio (phorbeia) che copri­
va loro una parte delle guance, ma bambini rappresentati
nella pittura vascolare non se ne servono mai. Cetra e oboe
erano costruiti in laboratori specializzati; il padre del retore
Isocrate si era arricchito dirigendo una fabbrica di oboi.55
Molto numerosi sono i vasi che ci mostrano bambini che
imparano a suonare la cetra o l’oboe dal maestro di musi­
ca.56 Il maestro è seduto su un sedile a spalliera e l’allievo di

54 Cfr. L'inno om erico a Ermes, vv. 2 4-6 1.


55 Cfr. l’inizio della Vita d i Isocrate, éd. Bude di Isocrate, I, p. XXXIII.
56 Cfr. P. Girard, L’éd ucation athénienne..., cit., figg. alle pp. 103, 105, 109,
111, 165, 171, 173.

151
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

fronte a lui su uno sgabello, o il professore suona egli stesso


10 strumento per mostrare al bambino come lo deve affer­
rare o lo fa suonare battendogli il tempo; oppure suonano
entrambi. L’insegnamento era dunque empirico e si faceva
a orecchio, senza musica scritta. Ciò ci può sembrare oggi
sorprendente ma la musica greca era monodica e quindi più
facile da imparare di una musica polifonica.
La cetra, a differenza dell’oboe, lasciava la bocca libera per
11 canto e spesso i citaristi sono rappresentati con la bocca
aperta nell’atto di cantare accompagnandosi. Così faceva già
Achille, come abbiamo visto, e questa pratica era così cor­
rente che una sola parola serviva a designare il cantore che si
accompagnava con la cetra: citaredo. Su un vaso, ad esempio,
vediamo rappresentato una specie di trio: il maestro canta
suonando la cetra e l ’allievo di fronte a lui lo accompagna
con l’oboe.
I bambini imparavano dunque il canto insieme alla mu­
sica strumentale. Le parole delle canzoni erano tratte dai
poeti lirici e il citarista doveva sforzarsi di mantenere la
tradizione pura da ogni innovazione. Aristofane ci mostra
i giovani ateniesi che imparavano prima di tutto a canta­
re senza incrociare le gambe (atteggiamento considerato
scorretto) «O Pallade, di città distruttrice terribile!» oppu­
re «Un suono che porta lontano...» sostenendo la melodia
trasmessa dagli antenati. Se qualcuno faceva il buffone o si
permetteva qualche inflessione del genere di quelle che oggi
sono alla moda dopo Frinis così penose da modulare «era
percosso per aver voluto abolire le Muse».57
Lo strumento nobile per eccellenza era la cetra. L’oboe,

,7 Aristofane, Le nuvole, vv. 9 66 -97 2 .

152
I ragazzi: l educazione

probabilmente proveniente dalla Beozia, conobbe però una


vasta fama ad Atene nel V secolo. M a Alcibiade già odiava
uno strumento che, quando lo si suonava, deformava il vol­
to.58 La superiorità della cetra era affermata soprattutto dal
mito del dio citaredo Apollo che, di fronte al giudizio delle
Muse, vinceva il satiro aulete Marsia, un mito illustrato da
un celebre bassorilievo di Mantinea.59 Plutarco, citando un
verso di Sofocle, ci insegna che Yaulas «era riservato inizial­
mente alle cerimonie funebri e vi adempiva una funzione
priva di prestigio e splendore».60 Nel IV secolo, l’oboe era
probabilmente suonato solo da musicisti professionali o da
cortigiane; il nome di «suonatrice di aulos» (auletrìx) diven­
ne sinonimo di etera.61 A quell’epoca, vediamo anche, nelle
pitture vascolari, donne che suonano l’arpa e, soprattutto
nelle cerimonie religiose di tipo orgiastico, il tamburello. Nel
IV secolo cominciano a comparire i primi virtuosi; il suono
della cetra si diversifica e si complica; e infatti Aristotele esa­
mina a lungo, nella Politica, il problema se l’insegnamento
della cetra debba seguire i progressi dell’arte musicale; con­
clude saggiamente che tale insegnamento debba mirare solo
a formare dilettanti abili e non professionisti.62 M a «il divor­
zio sempre crescente fra musica scolastica e arte viva»63 pro­
durrà poco a poco la decadenza dell’insegnamento musicale.
I giovani ateniesi usavano le loro doti musicali per con­
tribuire al successo delle feste del demo, della tribù e della

58 Plutarco, A lcibiade, 2.
59 Cfr. C. Picard, La sculpture antique, II, p. 197, fig. 81.
60 Plutarco, De F.delphico, 394, B-C.
61 Cfr. Plutarco, D ialogo su ll’a m ore, 753 D.
62 Aristotele, Politico, 1338 b, 38.
63 L’espressione è di H.I. Marrou, Histoire d e l ’éducation dans lantiquité, p. 198.

153
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

città, con cori di canto e danza. Nel 480, dopo Salamina,


il futuro poeta Sofocle, quindicenne, aveva condotto, nudo
e unto d ’olio, con la lira in mano, un coro di fanciulli che
cantavano il peana della vittoria.64
In simili circostanze eccezionali, ma anche normal­
mente, in occasione di grandi feste religiose della cit­
tà venivano nominati dei coreghi - cittadini scelti per tale
funzione perché erano ricchi e potevano assumerne le spese -
che dovevano trovare e far istruire da corodidascali (maestri
del coro) dei gruppi di bambini raccolti per cantare insieme
brani lirici in onore degli dei. Il canto corale non richiedeva
molte prove perché si eseguiva sempre all’unisono o, nel caso
di cori misti, in ottava, perché i greci, come abbiamo detto,
ignoravano la polifonia. Di solito, tali manifestazioni insieme
religiose e artistiche si svolgevano sotto forma di concorsi fra
diversi cori, ognuno formato da dieci tribù. Il corego del coro
vittorioso riceveva come premio un tripode e talvolta accade­
va che per amore della gloria egli offrisse il tripode esponen­
dolo sulla pubblica strada su un basamento costruito a sue
spese; una strada di Atene, interamente fiancheggiata da tali
offerte, si chiamava la via dei Tripodi. Tale era l’origine del
monumento coregico di Lisicrate che possiamo ammirare an­
cor oggi ad Atene e che reca tale iscrizione datata al 335 a.C.:

Lisicrate, figlio di Lisitide, del demo di Kikinna era co­


rego quando la tribù di Acamantide fu vittoriosa al con­
corso dei fanciulli. Teone suonava l’oboe; Lisiade di Atene
aveva istruito il coro; Euainetos era arconte.65

64 Vita d i Sofocle, 3 (Sofocle, éd. Bude, I, p. XXXIII).


65 S ylloge insr. gra ec., cit., III. 1087.

154
I ragazzi: Veducazione

Il gusto dei greci per gli esercizi fisici era altrettanto an­
tico e altrettanto forte quanto il loro amore per la musica:
per comprenderlo basta leggere la descrizione dei giochi fu­
nerari celebrati da Achille in onore di Patroclo, nel canto
XXIII àt\YIliade o quella dei giochi nel palazzo di Alci­
noo e la prova dell’arco a Itaca, n<z\YOdissea, nei canti V ili
e XXI. Ovunque i greci abbiano costruito una città, due
edifici compaiono sempre, caratteristici della loro civiltà: il
teatro e lo stadio.
Non sappiamo esattamente a che età il giovane atenie­
se cominciasse a esercitare il suo corpo sotto la direzione
del pedotribo, forse dagli 8 anni,66 ma più probabilmente
verso i 12 anni, quando frequentava già da parecchi anni
la scuola del grammatico e del citarista. Gli allievi del pe­
dotribo erano suddivisi in due «classi»: i «piccoli» (paides)
che probabilmente avevano dai 12 ai 15 anni e i «grandi»
(neaniscoi), dai 15 ai 18 anni.67
Mentre l’insegnamento delle lettere e quello della musica
poteva essere impartito in qualunque stanza, la ginnastica
richiedeva spazi speciali, una palestra. Essa era costituita es­
senzialmente da un terreno a cielo aperto di forma quadrata
e circondato da mura; su un lato si trovavano piccole stanze
coperte che probabilmente servivano da spogliatoi, sale di
riposo con banchi {esedre), sale da bagno, depositi di olio e
sabbia, perché, come vedremo, questi prodotti erano neces­
sari agli esercizi fisici dei greci. La palestra era ornata di busti
del dio Ermes, patrono dei ginnasi. Vi si potevano esercitare
tutti gli sport che esamineremo tranne la corsa a piedi che

66 Cfr. H.I. M arrou, H istoire d e l'édu ca tion ..., cit., p. 504, note 1, 2 e 3.
67 Cfr. Platone, Lysìs, 2 0 6 d.

155
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

doveva essere praticata su un terreno più vasto: il pedotribo


doveva allora condurre i suoi allievi allo stadio.
Il pedotribo regnava sulla palestra, vestito di un man­
tello di porpora che talvolta si toglieva per dimostrare un
esercizio. Portava anche un lungo bastone forcuto, che era
l’insegna della sua funzione e gli serviva anche a correggere
duramente i ragazzi indisciplinati o maldestri e a separare i
lottatori. Spesso aveva ai suoi ordini dei monitori che sceglie­
va, a quanto ci risulta, fra gli allievi più grandi e più dotati.
Tre caratteristiche sono tipiche della ginnastica greca: la
nudità completa dell’atleta (il termine «ginnastica» deriva
da gim n os che significa nudo), l’abitudine di ungersi con
l ’olio e l’accompagnamento di oboe durante gli esercizi.
Tucidide attribuiva le due prime caratteristiche a ll’influen­
za di Sparta:

I lacedemoni - egli dice - furono i primi che si mostraro­


no nudi e che, apparendo in pubblico senza abiti, si un­
sero d’olio per le competizioni sportive. Un tempo, anche
per disputare le prove olimpiche, gli atleti portavano una
specie di cintura che nascondeva loro il sesso.68

I giovani ginnasti che vediamo nella pittura vascolare


non portano né cintura né calzature e sono di solito a testa
nuda sotto il sole ardente tranne alcuni che portano talvolta
un berretto di pelle.
Gli accessori indispensabili al ragazzo che si recava in
palestra erano: la spugna per le abluzioni, il flacone dell’o­
lio (alabastro), e la spazzola a fili di bronzo (striglie), una

68 Tucidide, I, 6.

156
I ragazzi: l ’e ducazione

specie di spatola d all’estremità ricurva. Prima degli esercizi


si lavava alla fontana, o, quando la palestra ne era dotata,
in una grande vasca di pietra, poi si strofinava il corpo
con l’olio e si spargeva le membra di sabbia o polvere che
si faceva cadere addosso fra le dita aperte. Si giustificava
questa pratica in nome dell’igiene affermando che proteg­
geva il corpo dalle intemperie. Dopo la seduta lo striglie
era necessario per sgrassare la pelle dallo strato d ’olio e di
polvere mescolato a sudore. Poi, naturalmente, il ragazzo
si lavava di nuovo.
Certamente ogni palestra aveva almeno un suonatore di
oboe. Il suo compito consisteva nel segnare il ritmo non solo
agli esercizi di addestramento del genere che oggi chiamia­
mo «ginnastica svedese» ma anche, ad esempio, al lancio del
disco o del giavellotto e agli altri sport: vediamo su certi vasi
gli auleti con lo strumento legato alle gote dalla p h orb eia 69
che suonano l’oboe mentre i ragazzi si esercitano.70
Fin d all’epoca di Pisistrato, nel VI secolo, alla festa del­
le Panatenee c’era un concorso riservato ai bambini per le
cinque prove del p en ta tlon , cioè la lotta, la corsa, il salto, il
lancio del disco e il lancio del giavellotto.
La lotta era lo sport per eccellenza, che aveva anche dato
il suo nome (pale) alla palestra. I bambini cominciavano a
dissodare il terreno con una zappa, strumento spesso rap­
presentato sui vasi in cui sono dipinte scene di ginnasti­
ca. Ciò costituiva già di per sé un esercizio salutare. Poi
i ragazzi si affrontavano due a due, con la testa bassa e le
braccia tese in avanti, cercando di colpirsi e afferrarsi sia

69 Cfr. p. 151.
70 Cfr., per esempio P. Girard, L’e ducation..., cit., figg. delle pp. 193 e 199.

157
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

per le braccia sia per il collo o il busto. Si trattava di far


cadere l ’avversario restando in piedi. Il match si disputava
in tre riprese. Il pedotribo insegnava tutti i tipi di presa e il
modo per pararla e tale insegnamento aveva prodotto tutto
un vocabolario tecnico che era diventato familiare agli ate­
niesi; tale vocabolario è usato dagli scrittori in molte frasi
metaforiche7172e Luciano se ne servirà più tardi in un passo
erotico àcW AsinoP In occasione dei concorsi di ragazzi o di
adulti si formavano le coppie di lottatori traendole a sorte
con delle fave su cui erano scritte le lettere dell’alfabeto due
per due (due alfa, due beta ecc.). Se i concorrenti erano in
numero dispari si metteva nell’urna anche una fava con­
trassegnata da un ga m m a e chi la tirava a sorte era tenuto
di riserva per combattere con uno dei vincitori dei primi,
combattimenti, designato a sua volta dalla sorte, e così via
di seguito.73
La corsa comportava diverse varianti: la corsa di velocità,
su una distanza di uno stadio (che a seconda delle città po­
teva equivalere a distanze leggermente diverse ma comun­
que di circa 180 metri) o del doppio stadio (diaulos) o del
quadruplo stadio (hippios); e la corsa di fondo che poteva
arrivare a 24 stadi, cioè a più di 4 chilometri. Tutti questi
percorsi si facevano per andata e ritorno fra la linea di par­
tenza: dello stadio contrassegnata da una serie di cippi (co­
lonne tronche) e l’estremità del terreno. Arrivato in fondo
allo stadio, il corridore girava intorno a un cippo (term o) e
tornava al punto di partenza donde ripartiva se la distanza

71 Cfr., per esempio, P. Louis, Les m étaphores d e P laton, Les Belles Lettres,
Paris 1945 p. 214.
72 Luciano, L’a sino, capp. 8-10.
73 Luciano, H ermotimos, cap. 40; cfr. L. Robert, H ellenica, VII, p. 106-113.

158
I ragazzi: l ’e ducazione

della corsa era superiore al doppio stadio. Tali cippi sono


conservati, per esempio, a Epidauro e compaiono su molti
monumenti.74 I corridori greci alla partenza non piegavano
un ginocchio a terra ma aspettavano il segnale in piedi, il
busto teso in avanti, i piedi molto ravvicinati.
Ci risulta che i greci abbiano praticato soltanto il salto in
lungo con rincorsa. Per questo esercizio, come per la lotta,
i bambini cominciavano col delimitare lo spazio all’interno
del quale dovevano ricadere dopo il salto. Poi saltavano,
di solito tenendo in ogni mano un manubrio (halteres) il
cui nome era apparentato col verbo hallom ai, che significa
saltare. Tali attrezzi di pietra o di piombo erano a forma di
semisfere vuote per permettere alla palma della mano di
aderire alla cavità oppure, come i manubri moderni, erano
costituiti da due masse unite da un fusto per l’impugna­
tura, ma ricurvo. Il peso variava da 1 a 5 chilogrammi. I
manubri servivano anche per gli esercizi di preparazione e
rilassamento. Nel salto permettevano di rafforzare l’effetto
del bilanciamento delle braccia. L’atleta Faillos di Crotone
avrebbe così saltato a una distanza di più di 16 metri.
I dischi erano di bronzo e pesavano da 1 a 4 chilogram­
mi. I bambini dovevano lanciare dischi meno pesanti di
quelli degli adulti. La base di partenza era limitata solo di
fronte e ai lati. Il lancio del disco comportava due movi­
menti successivi:

74 Cfr. le illustrazioni dell’articolo di F. Chamoux, «Bulletin de Correspon-


dances helleniques» 81 (1957), pp. 141-159: a suo parere la stele raffigurata
sul celebre bassorilievo dell’«Atena malinconica» è uno dei fermata-, si trat­
terebbe di un ex voto di un atleta vincitore della corsa nei giochi panate-
naici. M a questa tesi è stata contestata da C. Picard, «Revue archeologique»
1 9 5 8 ,1, pp. 95-98.

159
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Dopo aver sollevato il disco a due mani, il discobolo si


chinava in direzione del lancio avanzando il piede sinistro,
poi si rialzava vigorosamente, ruotando il dorso da destra
a sinistra sulle anche; col braccio descriveva un grande
cerchio all’indietro; nella seconda fase il disco ridiscende­
va, il corpo si fletteva e il piede sinistro che si era riportato
indietro durante l’ascesa del disco tornava in avanti con le
dita piegate e le unghie si trascinavano sul suolo.75

Tale seconda fase era rappresentata dall’atteggiamento


del Discobolo di Mirone. Il disco era cosparso di sabbia
perché non scivolasse fra le dita. Nel punto dove il disco era
caduto si conficcava un picchetto per permettere il parago­
ne fra i concorrenti.
Il giavellotto, arma abituale da caccia e da guerra, serviva
anche nello sport. Il giavellotto da lancio, dalla lunghezza
approssimativamente pari al corpo del lanciatore e grosso
circa un dito, era privo di punta, per evitare incidenti, ma
zavorrato all’estremità; nel centro di gravità recava un pro­
pulsore a bracciale {ancylé) in cuoio di una quarantina di
centimetri che si arrotolava intorno all’asta e terminava con
un anello in cui il lanciatore introduceva l’indice e il medio
della mano destra. Tale propulsore, imprimendo al giavel­
lotto un moto rotatorio, raddoppiava o triplicava la portata
del lancio. Nella pittura vascolare i lanciatori di giavellotto
portano spesso una specie di compasso e uno di essi sembra
camminare contando i passi dietro un monitore:76 è pro-

75 J. Charbonneaux, La scu lp tu re g r ecq u e classique, I, pp. 2 2-2 4, tavv. 4,


5, 6 c.
6 Cfr. P. Girard, L 'éducation..., cit., p. 205, fig. 24.

160
I ragazzi: l 'e ducazione

babile che il compasso servisse a tracciare, alla voluta, un


cerchio a ll’interno del quale il giavellotto doveva cadere.
Era il tiro mirato ma gli atleti potevano anche gareggiare a
chi lanciava lo strumento più lontano.
Al di fuori delle cinque prove classiche, i bambini pote­
vano praticare anche il pugilato o il pancrazio. Nel pugila­
to le mani erano fasciate da bende di cuoio. Lo spazio del
combattimento non era limitato e non cerano interruzioni.
Lo stesso per il pancrazio, esercizio ancora più brutale in
cui quasi tutti i colpi erano permessi, compresi quelli della
lotta, i colpi di piede e i pugni, le torsioni delle membra ecc.
Era vietato solo cacciare le dita negli occhi dell’avversario.
In generale i due pancratiasti si rotolavano a terra nel fango
(perché il suolo era non solo dissodato come per la lotta o
il salto ma anche inondato d ’acqua). Il combattimento ave­
va termine quando uno dei due avversari, sfinito, alzava le
braccia per indicare che si arrendeva e per questo la boxe e
il pancrazio a Sparta non erano praticati: uno spartiate non
deve mai dichiararsi vinto.77
Come vediamo lo sport greco poteva essere rude e vio­
lento. Come ha scritto Marrou, «quando immaginiamo “gli
atleti nudi sotto il cielo dell’Ellade” non dobbiamo pensare
all’immagine immateriale che ce ne danno i poeti neoclas­
sici; bisogna vederli sotto il sole e nel vento che solleva la
polvere, con la pelle coperta di grasso e di terra, senza par­
lare dei lottatori del pancrazio che si rotolavano nel fango
macchiati di sangue...».78

77 Plutarco, L icurgo , 19, 9; cfr. R. Flacelière, «Revue des Études Grecques»


61, 1948, pp. 4 0 0 -4 0 1.
78 H.I. M arrou, H istoire d e l ’éducation..., cit., p. 179.

161
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Per quanto riguarda però i ragazzi, i pedotribi veglia­


vano certamente a evitare ogni eccesso, secondo i saggi
precetti di Aristotele. Tale filosofo, come sconsigliava ai
maestri di musica di voler formare dei virtuosi, sconsiglia­
va ai pedotribi di addestrare degli atleti capaci di trionfare
nei grandi giochi della Grecia e raccomandava loro di far
praticare ai giovani tutti gli sport in modo che fossero
perfettamente equilibrati piuttosto che spingerli a stabilire
un record in uno solo.79
Oltre al penthatlon, al pugilato e al pancrazio, i ragazzi
praticavano vari esercizi di rilassamento al suono dell’o­
boe: movimenti delle membra inferiori e superiori {chei-
ronom id), gioco della palla e del cerchio,80 punching-ball
(coricos: un sacco pieno di sabbia appeso a ll’altezza del
petto per esercitarsi nel pugilato). I ragazzi di buona fa­
m iglia praticavano anche, dalla più tenera età, l’equita­
zione perché i greci in ogni tempo hanno amato i cavalli.
Imparavano la danza propriamente detta? Non crediamo,
ma gli esercizi di palestra li preparavano certamente a di­
ventare buoni danzatori se lo desideravano. La corsa con
le fiaccole (lam padedrornici), ben attestata nelle feste, non
costituiva l’oggetto di un apprendimento particolare, per
praticarla bastava essere un buon corridore. Un fatto sin­
golare è che non si attesta mai nei concorsi una prova di
nuoto, mentre i greci come sappiamo erano un popolo di
m arinai e avevano un’espressione idiomatica in cui l ’idio­

79 Aristotele, P olitica, V, 3, 3; Etica a N icom aco, II, 2, 6.


80 Per i giochi con la palla, si possono vedere due bassorilievi arcaici, C.
Picard, La v ie p r iv é e dans la G rece classique, tav. XLVII e, per il cerchio,
il vaso rappresentante Ganimede col gallo, J. Charbonneaux, La sculpture
g recq u e classique, I, tav. 14.

162
I ragazzi: l ’e ducazione

ta veniva definito «chi non sa né leggere né nuotare».81


Le prove di remo e le regate erano anch’esse eccezionali.
Probabilmente questa circostanza si può spiegare col fatto
che i greci provenivano dal nord, dal continente e che la
serie tradizionale delle prove dei giochi era stata fissata in
un lontano passato, quando non erano ancora diventati
m arinai.82

Abbiamo già parlato della pederastia a proposito dell’e­


ducazione spartiate. Per quanto tale tema sia imbarazzan­
te non lo si può passare sotto silenzio; l ’amore per i ragazzi
ha avuto un ruolo troppo importante nell’educazione gre­
ca. Persino la parola amore (eros) è usata assai di rado, nei
testi dell’età classica, quando si tratti dell’attrazione fra i
due sessi, ed è invece riservata quasi esclusivamente a ll’a­
more omosessuale. Un poeta come Eschilo che non aveva
mai rappresentato in teatro l ’amore-passione tra un uomo
e una donna aveva assunto come soggetto dei suoi M irm i-
d on i l ’amore carnale fra Achille e Patroclo (mentre VIliade
alludeva a un’amicizia calda ma pura fra i due eroi). La
tradizione era così forte in Grecia, a questo riguardo, e
così persistente, che ancora in età romana Plutarco, pur
essendo un ottimo marito e padre di famiglia numerosa, si
ritenne in dovere di dedicare molte pagine del suo D ialogo
s u ll’a m ore a dimostrare che le ragazze, dopo tutto, poteva­
no suscitare sentimenti appassionati allo stesso modo dei
ragazzi.83

81 Platone, L eggi, 6 8 9 d.
82 Cfr. H.I. M arrou, H istoire d e l ’éducation..., cit., pp. 168-169.
83 Plutarco, D ialogo su ll’a m ore, 766 E-768 B. Cfr. più sopra il cap. Ili, p. 92.

163
La vita quotidiana in Grecia nei secolo di Pericle

Si dirà che questo stato di cose dipendeva, ad Atene, dal


fatto che le fanciulle vivevano recluse e restavano ignoranti?
M a a Sparta, dove si mostravano in pubblico seminude e
dove nemmeno i ragazzi coltivavano la propria mente, la
pederastia fioriva (o infuriava) più largamente e apertamen­
te che nella stessa Atene.
In compenso è innegabile che la nudità dei giovinetti
presso il pedotribo abbia favorito la pederastia. Le nume­
rose pitture vascolari che rappresentano ragazzi ed efebi
intenti a esercizi ginnici recano iscrizioni come kalos, che
equivalgono a dediche a «bei ragazzi».
M a bisogna andare più in là con le interpretazioni. H.I.
Marrou ha giustamente sottolineato l’origine militare della
omosessualità in Grecia. Prima di tutto essa fu una forma-
di «cameratismo guerriero» che sopravviverà al medioevo
ellenico e che però si conserverà meglio negli stati dorici
che conobbero una «ossificazione» arcaicizzante delle lo­
ro istituzioni. In apparenza sembrerebbero i dori ad aver
introdotto tali costumi nell’Ellade. La città greca, anche
evoluta come l’A tene del secolo di Pericle, restava un «club
maschile», un «ambiente maschile chiuso» vietato all’altro
sesso, dove l’attaccamento appassionato di un uomo (éras-
té) all’adolescente dai 12 ai 18 anni circa (erom ené) poteva
generare nobili sentimenti di coraggio e di onore. Il famoso
«battaglione» di Tebe del IV secolo era un esempio tipico
di valore collettivo sostenuto e cementato da amicizie omo­
sessuali. E fin dal VI secolo ad Atene, i celebri «tirannicidi»
sembrano aver agito più che per amore della libertà, perché
un figlio del tiranno Pisistrato aveva osato posare gli oc­
chi sul bell’A rmodio, amato da Aristogitone. Plutarco cita
molti casi analoghi in altre città, nelle quali l’uccisione del

164
I ragazzi: l ’e ducazione

tiranno fu in realtà un atto ispirato dalla gelosia o dalla


vendetta amorosa,84 quindi un delitto passionale, ma i ti­
rannicidi furono celebrati come liberatori, per cui gli onori
loro dedicati si riflessero sull’amore maschile.85
Presso il grammatista, il citarista e il pedotribo il giova­
ne ateniese imparava delle nozioni, delle tecniche, dei mo­
vimenti ma non un’educazione morale propriamente detta.
Essa è certamente la più difficile a impartire e per esempio,
ai nostri giorni in Francia, non basta aver cambiato il no­
me di «Ministero della Pubblica Istruzione» in «Ministero
dell’Educazione nazionale» per garantire immediatamente
una migliore educazione. Forse il pedagogo se ne incarica­
va? M a era uno schiavo: come avrebbe potuto insegnare le
virtù peculiari di un uomo libero? Il padre, educatore natu­
rale, era troppo occupato dagli affari della città. Restava solo
la possibilità di una influenza esercitata da un ragazzo più
grande, nei confronti di uno più giovane. Ad Atene, sembra
che le leggi di Solone vietassero agli uomini che non aveva­
no nessun compito da svolgervi l’accesso non solo alla scuola
ma anche alle palestre, ma i dialoghi di Platone ci dimostra­
no che tale divieto non era rispettato: il Lisia, ad esempio,
ci fa entrare in compagnia di Socrate e di vari giovani suoi
amici nella palestra di Micco dove ammirano il «bel Lisia».
In queste occasioni un uomo poteva notare un adolescente
e sedurlo con le sue attenzioni; se l’adolescente vi rispondeva
e si legava a lui d ’affetto, si creava fra loro una intimità che,
certamente, poteva restare asessuata ma che spesso assumeva
un altro carattere. Spesso tale amicizia era esaltante sia per

84 Plutarco, D ialogo..., cit., 7 60 B-C.


85 Su questo, cfr. H.I. M arrou, H istoire d e l ’éducation..., cit., pp. 55-58.

165
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

il più adulto, animato da un ardente desiderio di proteggere


e formare Yeromene, sia per il più giovane pieno di ricono­
scenza e di ammirazione per Véraste. Tale era, per lo meno,
l’ideale della pederastia «pedagogica» come la definivano gli
antichi: l’amore che si consacra a un’anima giovane e dotata
e che, attraverso l’amicizia, arriva alla virtù.86
Forse bisognerà spingersi a dire che lo stato incoraggia­
va tali legami? Certamente no, se erano di natura sessuale.
Anche a Sparta, e a Creta, dove pure la pederastia si mani­
festava apertamente, i rapporti fisici e, a più forte ragione,
la violenza esercitata su un efebo erano vietati e, almeno in
linea di principio, vietati dalla legge. Per Atene, la lettu­
ra del C ontro T im arco di Eschine ci dimostra chiaramente
come l ’opinione pubblica fosse contraria, almeno quanto
le leggi, alla prostituzione, il prossenetismo e la violenza
esercitati sugli adolescenti. M a i partigiani della pederastia
affermavano che si trattava sempre di amicizie molto pure
e Platone ne fa la condizione dell’ascesa dell’anima verso
il Bello e il Bene e il principio stesso di ogni conoscenza
veramente superiore.
Ammettiamo che l ’amore di Socrate per Alcibiade sia re­
stato puro, con grande disappunto del giovane,87 ma, come
dirà Plutarco, «se l ’amore per i ragazzi si nega alla voluttà
lo fa per vergogna e timore del castigo; poiché ha bisogno
di un onesto pretesto per avvicinare dei bei ragazzi, mette
avanti l’amicizia e la virtù. Si copre di polvere nel ginnasio,
prende bagni freddi, alza le sopracciglia; esteriormente si
dà l ’aria di un filosofo e di un saggio a causa della legge,

86 Plutarco, D ialogo su lla m ore, 750 D.


87 Platone, Simposio, 217 a -219 e.

166
I ragazzi: /educazione

poi di notte, quando tutto tace dolce è raccogliere quando


il guardiano è assente».88 Una massima tipicamente greca
dice che la bellezza fisica è «il fiore della virtù» come se l ’a­
nima modellasse sempre il corpo e come se a un bel corpo
dovesse sempre accompagnarsi una bella anima.
In certe regioni del mondo greco, e in certe epoche, resi­
stenza di «club maschili» suscitò in risposta la formazione di
«club femminili», e all’omosessualità maschile rispose il saf­
fismo. Saffo fu, nella Lesbo del VI secolo, una educatrice e,
insieme, una grandissima poetessa che gli antichi ponevano
al livello di Omero. Dirigeva una specie di «pensionato» per
fanciulle dove fra maestre e allieve si tessevano amicizie amo­
rose.89 M a nella Grecia di Pericle non c’era nulla di analogo.

L’insegnamento che il giovane ateniese riceveva dalla


scuola era, come abbiamo visto, elementare, e non risulta
che, nella prima metà del V secolo, ad Atene, ne fosse ga­
rantito uno più elevato. M a nella seconda metà del secolo,
apparvero innovazioni fondamentali in materia di educa­
zione, grazie all’apporto dei sofisti. Tale termine, in origine,
non aveva niente di peggiorativo, anzi indicava uomini in­
sieme abili e sapienti, capaci di comunicare agli altri la loro
scienza o le loro capacità.
Già in altre regioni della Grecia, e specialmente nell’i­
sola di Coo, cerano state scuole di medicina. Già nel VI
secolo i filosofi ionici si erano interrogati sulla costituzione
dell’universo e alcuni di loro, come Senofane di Colofone,
avevano avuto, assai prima di Platone, l’audacia di criticare

88 Plutarco, D ialogo..., cit., 752 A.


89 Cfr. H.I. M arrou, H istoire d e l ’éducation..., cit., pp. 64-67.

167
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

l’immortalità degli dei di Omero. M a sembra che i pitago­


rici siano stati i primi a creare una vera e propria scuola di
insegnamento superiore, antenata delle nostre università, a
Metaponto e Crotone, nella M agna Grecia. Vi insegnavano
soprattutto matematica e filosofia. Allievi e maestri si radu­
navano in una specie di confraternita religiosa posta sotto
il patronato delle Muse, che si dedicava agli studi; anche
le scuole, successive, di Platone, di Aristotele e di Epicuro
assunsero la stessa forma esteriore perché presso gli anti­
chi quasi tutte le attività dell’uomo rientravano più o meno
nelle categorie del sacro: le rappresentazioni teatrali, anche
quando si trattava di commedie di Aristofane fra le più li­
cenziose e irriverenti verso gli dei, si svolgevano nel quadro
di cerimonie religiose e le discussioni più libere dei filosofi
sul mondo e sugli dei si svolgevano intorno agli altari delle
Muse alle quali si dedicava il culto.90
M a coloro che soprattutto si impegnarono a sistematiz­
zare e diffondere le nuove conoscenze furono i sofisti. Non
insegnavano in un luogo ben determinato perché quei pri­
mi professori «di scuola superiore» erano conferenzieri iti­
neranti, sempre «in trasferta». Le esibizioni che davano del
loro sapere e del loro talento verbale attiravano gli allievi
che si mettevano al loro seguito e li accompagnavano di
città in città perché erano prima di tutto degli educatori.
Insegnavano, sotto il nome generale di «filosofia», tutto ciò
che costituiva allora il sapere e che non si imparava alla
scuola elementare: la geometria, la fisica, l’astronomia, la
medicina, le arti e le tecniche, e soprattutto la retorica e la
filosofia propriamente detta.

90 Cfr. C. Boyancé, Le cu lte des M uses..., cit., passim .

168
I ragazzi: l ’e ducazione

Le pretese dei sofisti erano dunque universalistiche e


perciò prestavano il fianco alle critiche e alle crudeli ironie
di un Socrate e di un Platone. Il loro fine comune era di
formare uomini di prim’ordine, insieme abili e sapienti e
soprattutto capaci di impressionare le masse e muoverle,
degli uomini di stato, insoma, l ’élite della città. Essi, infat­
ti, insegnavano, che Vareté si poteva insegnare.91 L’areté, la
virtus dei latini, era l’insieme delle qualità che fanno l’uo­
mo eccellente e lo rendono abile e illustre.
Molti giovani ateniesi desideravano intensamente acqui­
sire tale sapere, condizione della virtù. Era per loro un av­
venimento quando un sofista celebre arrivava in città. Un
dialogo di Platone ci mostra l’emozione e l ’attesa ansiosa
del giovane Ippocrate che sveglia Socrate prima che faccia
giorno per supplicarlo di presentarlo a Protagora di Abde-
ra, di passaggio da Atene. I due si recano in casa del ricco
Callia, un «mecenate» che dava di buon grado ospitalità
ai sofisti. Là, già dal vestibolo, Socrate e Ippocrate vedono
Protagora che passeggiando si intrattiene con gli ateniesi
delle migliori famiglie: il padrone di casa Callia, i due figli
di Pericle, Carmide...

Cerano anche Antimoero di Mende, il miglior discepolo


di Protagora, dal quale imparava il mestiere di sofista per
poi esercitarlo egli stesso. Altri lo seguivano ascoltando
la loro conversazione, per la maggior parte stranieri che
Protagora aveva portato al suo seguito da tutte le città che
aveva attraversato coll’incanto della sua voce, come un
novello Orfeo e costretti a seguirlo per effetto di tale fasci­

91 Cfr. P rotagora di Platone, che discute proprio di questo argomento.

169
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

no; ma nel coro cera anche qualche ateniese. «La vista di


tale coro mi procurò una grande gioia» racconta Socrate
«per la bellezza delle evoluzioni con le quali aveva cura di
non trovarsi mai davanti a Protagora; ogni volta che que­
sti faceva un mezzo giro con coloro che gli erano vicini,
in prima linea, gli uditori che si trovavano di dietro, in un
insieme ammirevole, aprivano i ranghi a destra e a sinistra
e, con un movimento circolare, si trovavano dietro di lui:
era meraviglioso».

Socrate riconosce anche altri sofisti nel gruppo: Ippia di


Elide, che si interessava a tutto ed era sapiente in ogni cosa,
prefigurazione di un Pico della Mirandola, e Prodico di
Ceo, che, con Gorgia di Lenóni, era uno dei più celebri,
maestri di retorica.92
I sofisti non erano disinteressati come Socrate; facevano
pagare le loro lezioni assai care, ma erano i soli a dispensare
una vera cultura generale e a formare degli oratori. La folla si
burlava spesso di questi intellettuali sontuosamente vestiti,
pretenziosi e pedanti che fornivano occasione di scherzo ai
poeti comici. Aristofane, nelle N uvole, rappresenta l’atenie­
se Socrate come uno di loro, chiuso in un «pensatoio» dove
stava sospeso in una grande cesta a studiare più da vicino i
fenomeni atmosferici e gli astri. Noi sappiamo che Socrate
aveva un suo ideale morale e una esigenza fondamentale di
verità che lo distinguevano dai sofisti, spesso utilitari e più
preoccupati dell’efficacia pratica che del rigore intellettuale
e morale, ma l’ateniese medio non si accorgeva di queste
sfumature. Queste prese in giro, scotto da pagare alla glo­

92 Platone, Protagora, 315 a-b.

170
I ragazzi: l ’e ducazione

ria, non impedivano però ai sofisti di guadagnare molto


denaro e di promuovere un certo umanesimo che Socrate e
Platone criticano e purificano, certamente, ma che comun­
que contribuì incontestabilmente allo sviluppo dei gruppi
dirigenti greci.
L’obiezione più grave che Platone e Socrate avanzavano
contro l’insegnamento dei sofisti era che la virtù alla quale
miravano in fondo si burlava di ciò che noi chiamiamo vir­
tù oggi: il C allide del G orgia pone il suo ideale di potenza
al di là del bene e del male. La vita e la morte di Socrate
costituiscono invece una testimonianza contro tale immo­
ralismo. Dodici anni dopo che questi ebbe bevuto la cicuta,
nel 387, nell’anno in cui la «pace del Re» restituì alle città
greche una certa tranquillità, Platone fondò la sua scuola
al ginnasio dell’A ccademia.93 Il maestro e i suoi discepoli
cercavano insieme la verità in lunghe discussioni «dialet­
tiche» di cui i dialoghi platonici ci offrono la trasposizio­
ne letteraria. M a non bisogna ingannarsi: questa specie di
università, la prima a essere aperta in Grecia, non dava solo
un insegnamento intellettuale; era anche una comunità re­
ligiosa sull’esempio della scuola pitagorica in cui i filosofi e
gli apprendisti filosofi, uniti nel culto delle muse, ma anche
nel ricordo di Socrate, cercavano di condurre una vita pu­
ra, che preparasse l ’anima, libera dalla contaminazione del
corpo, ad accedere dopo la morte alla contemplazione di
Dio. La «vita filosofica» era una preparazione alla morte e
impegnava l’essere nella sua integrità. Platone non si disin­
teressava certamente della città terrena, di cui anzi delineo
un piano ideale (e utopico) nella R epubblica e nelle L eggi,

93 A proposito dell’Accademia cfr. cap. I, p. 45.

171
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

ma mirava anche più in alto e più lontano, guardando al


destino celeste dell’uomo.94
Nel IV secolo l ’attività dei sofisti sarà continuata dall’a­
teniese Isocrate, la cui scuola di eloquenza si innalzerà a
rivaleggiare con l ’A ccademia. Isocrate era un retore che si
pretendeva filosofo benché la filosofia propriamente det­
ta lo interessasse solo nella misura in cui serviva a fornire
a ll’oratore una cultura generale e dei temi da sviluppare:
la considerava come una «propedeutica» a ll’apprendimento
dell’arte oratoria. Sappiamo che questo dibattito si è risolto,
nel corso dei secoli, a favore di Platone: ad esempio nel liceo
francese lo studio della filosofia segue quello della retorica e
costituisce il coronamento degli studi. Ed è incontestabile
che Platone sia in qualche modo il «padre» dell’insegna-.
mento della filosofia nei licei, come Isocrate di quello della
retorica.
Tale promozione degli studi intellettuali nella élite del­
la p olis greca produsse una certa disaffezione nei confronti
della cultura fisica. Gli allievi dei sofisti spesso criticavano
l’educazione tradizionale che produceva degli atleti dai cor­
pi splendidi ma leggeri di testa. Abbiamo già osservato che
nel IV secolo già declinava l’insegnamento della musica.95
Invece quello del disegno venne introdotto proprio allora.
Pare che i giovani ateniesi venissero esercitati soprattutto
a disegnare figure umane, a carboncino su tavole di legno
levigato. Aristotele dava ai maestri di disegno gli stessi con­
sigli che al citarista e al pedotribo; auspicava che facesse

94 Cfr. soprattutto il F edone di Platone. Si può leggere utilmente anche V.


Goldschmidt, La réligion d e Platon, Puf, Paris 1949.
95 Cfr. p. 153.

172
/ ragazzi: l ’e ducazione

lavorare i suoi allievi non nell’ambizione di farne degli ar­


tisti ma solo per formare il loro gusto e permettere loro di
apprezzare meglio le opere d’arte.96
Così grazie ai sofisti l’elemento intellettuale dell’educa­
zione divenne a poco a poco dominante mentre era subor­
dinato e accessorio nell’anticap a id eia , che si era conservata
immutata a Sparta.

96 A ristotele, P o litic a , V, 2 , 3 e 6.
V

Il lavoro e i mestieri

Ai sofisti si rimproverava di farsi pagare le lezioni e tale criti­


ca è profondamente rivelatrice dello stato d ’animo dei greci,
antichi nei riguardi delle professioni e dei mestieri. Noi di­
ciamo oggi che «ogni lavoro merita un salario» e la retribu­
zione di un servizio reso ci sembra una cosa non solo natu­
rale ma giusta. Non era così ai tempi di Pericle, quando le
idee riguardanti l’organizzazione sociale risalivano all’epoca
arcaica ed erano immutate dall’età di Esiodo.
Per il poeta delle O pere e i gio rn i il genere di vita miglio­
re, certamente faticoso ma tale da assicurare pienamente la
dignità dell’uomo, è quello del contadino proprietario che
ricava dal suo terreno di che nutrire e vestire se stesso e i suoi,
di che soddisfare tutti i bisogni della sua famiglia. Dipendere
da un altro per la sopravvivenza quotidiana sembrava ai gre­
ci, attaccatissimi alla libertà, una servitù intollerabile. L’uomo
veramente libero deve essere pienamente padrone di se stesso:
come può esserlo chi riceve un salario da un altro? Per Ome­
ro la peggiore delle condizioni umane era quella dell’operaio
agricolo, del thetes, cioè del proletario costretto dalla mise-

174
Il lavoro e i mestieri

ria a vendere le proprie braccia.1 L’ideale era dunque quello


dell’autarchia individuale o almeno familiare, che può essere
praticata integralmente solo in campagna. Esiodo costruiva
da sé il proprio aratro e tutti gli strumenti di cui si serviva.
I vestiti li fornivano le donne di casa che filavano la lana e
poi la tessevano. Il contadino delle O pere e i gio rn i può essere
costretto a fare qualche transazione, ma in linea di princi­
pio ciò gli ripugna: il commercio marittimo lo inorridisce.12
Certamente nel secolo di Pericle l’evoluzione economica
moltiplicò gli scambi; inoltre erano nate alcune industrie e
l’acquisto di certi strumenti fabbricati in laboratori specia­
lizzati era diventato più vantaggioso di quanto non fosse la
loro costruzione domestica. Tuttavia l’antica ripugnanza per
il lavoro retribuito restava. In pieno IV secolo, Aristotele po­
trà ancora scrivere:

Si dovrebbe rifiutare la qualifica di cittadino a tutti coloro


che hanno bisogno di lavorare per vivere... La città perfetta
non farà dell’operaio (banausos) un cittadino. Non è pos­
sibile praticare la virtù politica conducendo la vita di un
operaio, di un salariato... A Tebe una legge escludeva dalle
funzioni pubbliche tutti i commercianti che non avessero
cessato la loro attività lucrativa da almeno dieci anni... Noi
chiamiamo mestieri operai quelli che alterano le disposizio­
ni del corpo e i lavori retribuiti che impediscono allo spirito
ogni elevatezza e ogni agio.3

1 Omero, Odissea, XI, vv. 487-491: è la celebre risposta di Achille a Ulisse,


agli Inferi.
2 Cfr. A. Aym ard, L’id ée d e tra va il dans la G rece archatque, «Journal de
Psychologie» 41, 1948, pp. 29-50).
3 Aristotele, P olitica, III, 3, 2 -4 e V, 2, 1-2.

175
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Platone e Senofonte esprimono idee analoghe a queste.4


Tuttavia questi tre scrittori sembrano esprimere, su questo
punto, una tradizione aristocratica che, nella sua purezza, si
era conservata solo a Sparta. Socrate era più realista. Non
solo amava frequentare le botteghe e gli artigiani e affermava
che c’era molto da imparare da loro, ma, nei M em orabili, lo
vediamo cercare di convincere un ateniese a far lavorare i
suoi, persone libere, a suo carico e che non poteva nutrire:

Non sai che Nausichide non solo nutre se stesso e i suoi


schiavi fabbricando farina, ma alleva mandrie di porci e di
buoi e fa abbastanza economie da soccorrere spesso i biso­
gni dello stato? Chirebe, che fa il pane, mantiene tutta la
sua famiglia e gode di benessere; Demeas di Collito fab­
brica tuniche e Menome mantelli, e la maggior parte degli
abitanti di Megara si nutrono confezionando abiti corti...
Perché i tuoi sono persone libere, pensi che non debbano
fare altro che mangiare e dormire.5

Infatti ad Atene, nonostante il parere contrario di Aristo­


tele, i cittadini che esercitavano un mestiere avevano diritto a
partecipare all’assemblea (quando potevano venirci) alla pari
con gli altri. Una legge dispensava dall’obbligo di nutrire il
padre il figlio a cui questi non avesse fatto imparare nessun
mestiere e un’altra legge condannava l’ozio: abbiamo citato in
precedenza un passo di Plutarco che dimostra chiaramente la
differenza di mentalità, a questo proposito, fra Sparta e Atene.6

4 Platone, G orgia, 512 c. Senofonte, E conom ico, 4, 2-3.


5 Senofonte, M em orabili, 2, 7.
6 Cfr. il passo di Plutarco, L icurgo, 24, 3, citato nel cap. II, p. 86.

176
Il lavoro e i mestieri

Solone stesso era diventato negoziante per restaurare il pa­


trimonio familiare che il padre aveva intaccato, ma Plutarco,
riferendo questo fatto, sente il bisogno di giustificare questa
attività. Egli richiama il verso di Esiodo: «Lavorare non ha
niente di vergognoso» e ricorda che il commercio era allora
in onore.7 M a quando scriveva che nessun giovane di buo­
na famiglia avrebbe voluto essere uno scultore come Fidia o
Policleto, un poeta come Anacreonte, Filemone o Archiloco,
rifletteva i pregiudizi dell’aristocratica Beozia dove era nato.8
In generale, infatti, gli ateniesi riconoscevano la digni­
tà del lavoro dell’artista e i pittori di vasi firmavano orgo­
gliosamente le loro opere; estendevano anche la stima che
riservavano alla coltivazione della terra (quando era praticata
àAYautourgos, il proprietario stesso)9 alla banca e alle attività
commerciali di alto livello. Il padre di Demostene era un
armiere e quello di Isocrate dirigeva una fabbrica di oboi ma
l’autore della Vita del retore tiene a precisare che gli oboi era­
no costruiti da schiavi e che il padre di Isocrate si limitava a
dirigerne il lavoro.10
Ad Atene, come nella maggior parte delle città greche, co­
munque - con l’eccezione di Sparta - erano considerati di­
sonorevoli solo il lavoro manuale e il commercio al minuto.
Tucidide fa dire a Pericle:

Da noi non è una vergogna essere poveri, è vergognoso


non fare niente per uscire dalla miseria. Qui, gli uomini

7 Plutarco, Solone, 2, 5-7.


8 Plutarco, P ericle, 2, 1.
9 Euripide, nella sua E lettra, ha fatto àtW autourgos, il parito di Elettra, un
personaggio molto simpatico.
10 Cfr. l ’éd. Bude di Isocrate, I, p. XXXIII.

177
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

si occupano sia dei loro interessi privati sia degli interessi


pubblici; aver imparato una professione non ci induce a
non occuparci di politica.11

Lo studio della terminologia è spesso rivelatore delle idee


più diffuse a livello popolare. Infatti il termine banausos, il
più usato ad Atene per indicare prima gli operai del fuoco
(metallurgici e vasai) poi tutti i lavoratori manuali, ave­
va una sfumatura fortemente peggiorativa, molto più del
termine d em iou rgos che letteralmente significa «lavoratore
pubblico» e che indicava sia i lavoratori m anuali che quelli
intellettuali che oggi definiremmo «liberi professionisti»,
come i medici. M a nelle regioni ioniche l ’operaio era chia­
mato spesso cheironax e tale parola, formata con ch eir (ma­
no) e anax (capo), e che potremmo tradurre con «mastro»,
era assolutamente onorevole. In molte città industriali e
commerciali, come Corinto, i lavoratori non erano affatto
disprezzati.1112 M a ad Atene i lavori manuali erano eseguiti
principalmente da schiavi e meteci: i cittadini liberi vi si
rassegnavano solo se costretti dalla necessità.13

Al tempo di Omero e di Esiodo gli scambi erano essen­


zialmente dei baratti; talvolta si usavano lingotti di metal­
lo prezioso ma non monete. Si usava calcolare il valore di
una cosa o di una persona in capi di bestiame: un’arma­
tura o una donna valevano un certo numero di armenti.
La moneta che venne introdotta in Grecia, a quanto

11 Tucidide, 2, 40.
12 Erodoto, 2, 167. Cfr. anche P. Chantraine, Trois nom s g r ecs d e l ’a rtisan ,
in M elanges offerts à M gr d e D iès (1956), pp. 41-47.
13 Cfr. cap. II, p. 87.

178
Il lavoro e i mestieri

risulta, a partire dal VII secolo, era ancora ingombrante e


scomoda; si presentava in forma di sbarrette di ferro e tale
è il significato originale della parola obolo. Sappiamo che a
Sparta tale moneta restò in uso più a lungo che altrove e se
ne deduce che il legislatore Licurgo in questo modo volle
porre un ostacolo al lusso e alla corruzione.14
Fino all’epoca delle guerre persiane, le monete d’oro e
d ’argento erano assai rare in Grecia, a causa della mancan­
za di metalli preziosi. Sole fornitrici erano le miniere della
costa tracia e delle isole di Taso e Sifnos. Venivano sfruttati
giacimenti di piombo argentifero anche in Attica, a sud del
paese, nel Laurio, ma solo nel 483 venne scoperto un filone
molto più ricco, quello di Maronea, «una sorgente d’argen­
to, un tesoro che la terra nascondeva».15Tale scoperta diede
un contributo rilevante alla vittoria di Salamina grazie al­
la legge navale di Temistocle,16 e permise una abbondante
battitura di moneta. La dracma attica pesava 4,36 grammi
d ’argento ed era di una lega assai pura (fino a 983 millesimi
di metallo prezioso). Nella «casa della moneta» (a rgyroco-
p eio n ) di Atene17 si coniavano anche monete da 2 dracme
(didracm e) e da 10 dracme {decadracm e) ma soprattutto da
4 dracme (<tetradracm e). Al di sopra della decadracma, an­
eli essa rara, si conoscevano solo unità «di sconto»: la m ina,
che valeva 100 dracme, e il talento che valeva 60 mine, cioè
6000 dracme. I pezzi inferiori alla dracma erano anch’essi
battuti in moneta ed erano l'obolo, che era la sesta parte di
una dracma (si noti che per quel che riguarda la moneta il

14 Plutarco, L icurgo, 9.
15 Eschilo, P ersiani, v. 238.
16 Cfr. J. Labarbe, La loi navale d e Thémistocle, pp. 10-51.
17 Cfr. L. Robert, Etudes d e num ism atique grecq u e, Paris 1951, p. 105 e sgg.

179
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

sistema dodicesimale era sopravvissuto al predominio ge­


nerale di quello decimale), la moneta da tre oboli (triobolo)
e da due oboli {diobolo) e le frazioni dell’obolo, i tre quarti
{tritemorion), il quarto {tetartemorion) e l’ottavo {emitetar-
tem orion). Tutte queste monete recavano incisa la testa di
Atena con l’elmo e la corona di foglie d’olivo su un verso e
sull’altro la civetta, uccello di Atena, la falce di luna, il ra­
mo d ’olivo e le prime tre lettere del nome Atene. Tali mone­
te venivano chiamate «le civette del Laurio» e un proverbio
diceva che era inutile «portare delle civette ad Atene» cioè
dell’acqua alla fonte. L’incisione di tali monete conservò
a lungo un carattere arcaico, probabilmente perché non si
voleva cambiare niente in una moneta consacrata d all’uso e
assai valutata sul mercato internazionale.
Ogni città indipendente godeva del diritto di battere mo­
neta ma solo alcune città erano riuscite a diffondere i loro ti­
pi monetari. Così avvenne per la moneta di Egina, col sim­
bolo della tartaruga, la cui staterà pesava circa 12 grammi
e per la moneta di Cizico la cui staterà (detta citizene), col
segno del tonno, era di elettro, una lega di oro e argento. La
difficoltà sorgeva quando si trattava di cambiare tali monete
di sistemi diversi le une con le altre. Nel mercato, la plura­
lità delle monete facilitava le frodi. Il poeta comico Difilo
mise in scena un mercante che chiedeva 10 oboli attici per
un grosso pesce; l ’acquirente sta per consegnargli 10 oboli
attici ma l ’altro protesta e pretende di aver chiesto 10 oboli
di Egina; l ’obolo attico valeva solo i 7/10 di quello di Egina.
Per mettere fine a queste difficoltà, ma soprattutto per
garantire il predominio delle sue «civette», Atene, con la
guerra del Peloponneso, impose a tutte le città della Con­
federazione il suo sistema di pesi, di misure e di mone­

180
Il lavoro e i mestieri

te.18Aristofane mise in parodia tale decisione negli U ccelli,


dove i «mercanti di decreti» propongono un regolamento
secondo il quale «le popolazioni della città sulle Nuvole
useranno gli stessi pesi, misure e leggi degli Olofixiani».19
Nella P a ce fa una pesante allusione al decreto di Atene che
imponeva una multa di 5 talenti alle città alleate sul cui
territorio un ateniese fosse morto di morte violenta.20
Il tributo complessivo (phoros) pagato ad Atene dalle città
della Confederazione creata da Aristide dopo Salamina era
inizialmente di 460 talenti all’anno. Durante la guerra del
Peloponneso, quando le riserve accumulate da Pericle nel
tesoro del tempio di Atena furono assorbite dal costo delle
operazioni militari, tale tributo fu aumentato a più riprese
fino a tre volte la cifra iniziale e ciononostante, soprattut­
to dopo la disastrosa spedizione siciliana, Atene mancava
di denaro. L’emigrazione temporanea dei peloponnesiaci in
Attica interruppe anche lo sfruttamento delle miniere del
Laurio, perché gli schiavi avevano approfittato della situa­
zione per fuggire. Si dovette allora far fondere le statue d’oro
massiccio per battere moneta e ci si decise a usare il bronzo.
M a tale pratica nel V secolo ebbe breve durata. Un ateniese,
in una commedia di Aristofane, dice a un altro: «ti ricordi
del decreto che abbiamo votato insieme sulle famose monete
di bronzo?». E il suo interlocutore gli risponde:

18 M.N. Tod, A Selection o f Greek H istorical Inscriptions, I, n. 67, ma altri


esemplari di questo decreto sono stati trovati successivamente: cfr. J. e L.
Robert, «Bulletin épigraphique» della «Revue des Études Grecques» 6 4 ,19 5 1 ,
pp. 152-153, n. 70.
19 Aristofane, U ccelli, vv. 10 4 0-10 4 1.
20 Aristofane, La p a ce, vv. 169-172; cfr. l ’articolo di P. Roussel, L’a m en d e d e
Chios in «Revue des Études Anciennes», cit., 1933, pp. 385 -38 6 .

181
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

Sì, tanto più che quella moneta mi ha portato sfortuna.


Avevo appena venduto dell’uva e me ne stavo andando
con la bocca piena di monete di bronzo, poi ritornai all’A­
gorà per comprare della farina ma, proprio mentre stavo
per ritirare il mio sacco, l’araldo gridò: nessuno accetti più
monete di bronzo; solo l’argento ha corso.21

Già prima abbiamo citato l ’abitudine degli ateniesi di


portare le monete in bocca.22 Comunque le monete di
bronzo rinacquero ad Atene nel IV secolo e vi si affermaro­
no definitivamente.
Le monete d ’oro erano più che altro le d a rich e (dal nome
del re Dario), coniate dai persiani col simbolo dell’arciere.
Negli ultim i anni della guerra del Peloponneso, quando il
gran re sostenne finanziariamente gli spartani, si diffusero
così largamente in Grecia che il rapporto di valore fra oro e
argento cadde da 13 1/3 a 10 fra il 450 e il 336.
La moneta ateniese, come abbiamo detto, non era la sola
ad aver corso in un gruppo di città, ma in età classica è
attestata una sola moneta coniata non da una singola città
ma da un organismo internazionale: la moneta anfizionica,
coniata verso il 338, recante l ’effigie di due divinità dell’A n-
fizionia delfica, Demetra e Apollo. Ci fu forse in questa
occasione un tentativo di unificazione monetaria che non
sembra avere però avuto successo.23
L’epoca di Pericle vide anche l’avvio della pratica del pre­
stito a interesse. Fino allora si praticavano solo la tesauriz­

21 Aristofane, Le d on n e in assem blea, vv. 815-822.


22 Cfr., a proposito dei funerali, il cap. Ili, pp. 122-123.
23 Cfr. E. Bourguet, L’a dm inistration fin a n cière du sa nctuaire p yth iq u e au
IV siècle.

182
Il lavoro e i mestieri

zazione e Yeranos, cioè il prestito senza interesse. M a l’allar­


gamento dell’attività economica esigeva «investimenti» e per
compensare il rischio delle perdite sembrò legittimo, nono­
stante le proteste di molti filosofi, che il creditore ricevesse
un interesse. Alla fine del V secolo, cominciarono ad appari­
re i banchieri che nella maggior parte dei casi erano meteci
0 liberti e le orazioni processuali del IV secolo su cause di
successione ci rivelano che interi capitali erano collocati in
prestito a credito. I procedimenti più diffusi per valorizzare
1 propri capitali erano di prestarlo a interesse elevato o di ac­
quistare schiavi per poi affittarne l’opera allo stato o a privati.
I prestiti venivano fatti a scadenza molto ravvicinata e gli
interessi dovevano essere pagati a ogni «luna nuova», cioè al­
la fine di ogni mese lunare. Strepsiade che si era indebitato
per accontentare la dispendiosa passione di suo figlio per gli
sport ippici, in piena notte si sveglia preoccupato da questio­
ni di denaro: «Io deperisco» afferma «vedendo la luna che mi
porta il 20 del mese e i giorni successivi perché gli interes­
si corrono».24 L’interesse normale dell’argento ammontava a
una dracma per mina ogni mese, cioè era a un tasso del 12%.
Il tasso del 10% (a 5 oboli per mina) era un tasso di favore
e spesso veniva addirittura praticato quello di 9 o 10 oboli,
cioè del 20%. Gli usurai, naturalmente, pretendevano anche
di più. Lo stato, almeno normalmente, non si occupava di
porre limitazioni al tasso di interesse. Cerano però anche
eccezioni attestate: la città di Delfi, sotto l’arcontato di Ca-
dis, agli inizi del IV secolo, proibì di prestare a un interesse
superiore a tre oboli per mina al mese, cioè a più dell’8,57%,
e si trattava della mina delfica, da 70 dracme; si arrivava a un

24 Aristofane, Le nuvole, vv. 16-18.

183
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

interesse del 6% circa, calcolato secondo l’uso corrente della


mina equivalente a 100 dracme.25

La vita del contadino proprietario sul suo fondo restava


l ’ideale per i greci ai tempi di Senofonte, come lo era ai
tempi di Esiodo e gli elleni fondarono colonie nel Medi-
terraneo, in Italia, in Gallia, in Spagna, in Africa e persino
nella Russia meridionale allo scopo di trovare delle terre per
la loro popolazione eccedente, che un suolo secco e povero
non bastava a nutrire. L'.Economico di Senofonte contiene
un inno a ll’agricoltura. Essa non si limita a produrre i beni
necessari all’esistenza, ma migliora anche il corpo e l’anima
di coloro che vi si dedicano:

Tenendo in esercizio coloro che lavorano la terra con le


proprie mani, essa conferisce loro un vigore virile, facen­
doli alzare di buonora e costringendoli a dure marcie...
La terra incita anche i coltivatori a difendere il loro pa­
ese con le armi, perché i raccolti che fa crescere sono in
balia del più forte, disponibili a tutti... La terra, che è
una divinità, insegna anche la giustizia... L’agricoltura ci
insegna a comandare agli altri perché, per essere un buon
agricoltore, bisogna ispirare ai propri operai ardore nel
lavóro e abitudine a obbedire volentieri... Aveva ragione
colui che ha detto che l’agricoltura è madre e nutrice del­
le altre arti. Quando l’agricoltura è florida, tutte le altre
sono prospere.26

25 Cfr. T. Homolle, «Bulletin de Correspondance hellénique» 50, 1926, p. 87.


26 Senofonte, E conom ico , 5, 4-17.

184
Il lavoro e i mestieri

Insomma, la coltivazione della terra forma i migliori cit­


tadini e i migliori soldati.
Il regime della proprietà fondiaria variò molto in Grecia,
secondo le epoche e i paesi. A Sparta, ogni spartiate posse­
deva un fondo {cleros) di estensione media che in linea di
principio era inalienabile e che veniva coltivato dagli iloti.
Infatti poiché gli spartiati non dovevano esercitare nessun
mestiere se non quello delle armi, qualcun altro doveva pur
coltivare la terra per loro. Ognuno di essi riceveva, per vi­
vere, i prodotti del suo cleros in natura, cioè, ogni anno, 70
medimmi di grano e 12 per sua moglie, cioè circa 4000 chi­
logrammi complessivi, e frutti - olive e uva soprattutto - in
proporzione. M a il sistema del cleros non venne applicato
sempre con rigore e non si riuscì a impedire l’arricchimen­
to di alcune famiglie a spese della maggior parte delle al­
tre; rapidamente infatti la proprietà fondiaria lacedemone
si concentrò nelle mani di un piccolo numero di cittadini
che allargavano progressivamente i loro fondi.27 In molte
' altre regioni del mondo greco, per esempio in Tessalia e in
Beozia, il regime del latifondo sembra essere stato la regola
in ogni tempo; i piccoli prorietari come Esiodo erano rari
e spesso ebbero a soffrire delle prepotenze dei grandi che il
contadino di Ascra chiamava «Re».
In Attica quasi tutte le grandi proprietà degli Eupatridi
nel VI secolo erano state suddivise, come abbiamo visto
prima.28 La maggior parte dei cittadini viveva, su un pro­
prio terreno, dei frutti di esso. Abbiamo visto come Seno-
fonte distingua il proprietario che coltiva il suo appezza­

27 Cfr. P. Roussel, Sparte, pp. 71-78.


28 Cfr. cap. I, p. 49.

185
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

mento con le proprie mani (autourgos), spesso con l ’aiuto di


qualche schiavo, da colui che si lim ita a sorvegliare il lavoro
dei campi sulle sue terre, come fa Iscomaco, l’interlocutore
di Socrate nell 'Economico. M a c’era un terzo tipo di pro­
prietario fondiario: colui che viveva esclusivamente in città
e affidava le sue terre a un conduttore che si impegnava a
fornirgli i prodotti della terra in natura o in denaro. Pericle,
che era trattenuto in città dalla sua attività di uomo di sta­
to, faceva vendere dal suo amministratore tutti i prodotti
dei suoi terreni e, col denaro che ne ricavava, provvedeva
giorno per giorno alle necessità di casa sua.
Prima della guerra del Peloponneso, le condizioni del
proprietario agrario in Attica, anche quando disponeva di
un piccolo appezzamento, dovettero essere buone.
Almeno lo fanno supporre i rimpianti del brav’uomo
Strepsiade al pensiero del villaggio che è stato costretto a
lasciare a causa del conflitto.29 In realtà «le pianure della
Mesogea, del Cefiso, di Eieusi rendevano bene quanto a
cereali e legumi; la Diacria era coperta di belle vigne, lungo
il Parnaso abbondavano il pascolo e il bosco ceduo; sul­
le colline le api riempivano le siepi, e ovunque gli oliveti
producevano olio che si alzava al prezzo dell’oro».30 M a il
«piano di Pericle», che consistette nello svuotare le campa­
gne abbandonandole alle incursioni del nemico per fare di
Atene e del Pireo una fortezza da dove le triremi partissero
per attaccare le coste del Peloponneso, fu, alla lunga, fu­
nesto per l ’agricoltura attica, soprattutto per la produzione
di olivo e vite che costituivano le principali ricchezze del

29 Cfr. cap. I, pp. 51-53.


30 Cfr. G. Glotz, Le travati dans la G rèce a n cien n e , p. 303.

186
Il lavoro e i mestieri

paese. Ci volle del tempo per ricostruire i vigneti abbattuti;


gli olivi distrutti rappresentarono un vero disastro perché ci
vogliono più di dieci anni perché un giovane olivo cominci
a dare dei frutti e molti di più perché raggiunga il massimo
della produttività. Altre cause ancora accelerarono il decli­
no dell’agricoltura in Attica e in altre regioni della Grecia,
dove gli appezzamenti finirono per suddividersi in piccolis­
simi possedimenti con i prodotti dei quali non poteva vive­
re nemmeno una modesta famiglia. L’aumento generale dei
prezzi, d ’altra parte, costrinse il piccolo proprietario a in­
debitarsi; spesso a vendere il suo campo a uno speculatore.
La tecnica agricola, anche in età classica, restava del tut­
to rudimentale. Fra i cereali si coltivavano solo il grano e
l ’orzo in quantità, per di più, insufficienti: l’A ttica doveva
importare dalla Sicilia, d all’Egitto e dalla Tracia e dalle rive
del ponto Eusino la maggior parte del suo approvigiona-
mento in cereali. Tre erano i periodi di semina: in prima­
vera, in estate e in autunno. L’aratro che non si era molto
perfezionato dai tempi di Esiodo, trainato da buoi, assai
rari in Attica, o da muli, permetteva un’aratura poco pro­
fonda, che veniva completata con la zappa e la vanga.31 La
battitura del grano si svolgeva come si fa ancor oggi in certe
zone della Grecia: si stendevano le spighe su una superficie
lastricata in un punto esposto al vento e le si facevano cal­
pestare da cavalli o muli attaccati, con una lunga corda,
a un perno centrale che girava in tondo. Il grano era poi
battuto, di solito dalle donne, in un mortaio con pestelli di
legno o di pietra.32 A partire dal IV secolo, «agronomi» gre­

31 Cfir. P. Cloché, Les classes, les m étiers, le trofie, tav. V i li , 1.


32 Cfr. P. Cloché, ivi, tav. IX, 2.

187
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

ci studiarono l ’insolazione e la natura dei terreni, cercando


di migliorarne la resa con dei fertilizzanti. M a soprattutto
fu studiata l’arboricoltura.
La raccolta delle olive si faceva a mano o per mezzo di
lunghe canne flessibili e la pressatura in un mortaio mu­
nito di un becco o, in fondo, di un foro di scarico lungo
il quale scorreva la sansa (a m orgé) di cui ci si serviva come
ingrasso o per ungere cuoio o legno. Si usava anche un vero
e proprio mulino per l’olio, formato da due pietre, una fissa
e l ’altra mobile che si incastravano lu n a nell’altra. La polpa
era poi pressata da un apposito strumento.33
La vendemmia si faceva al suono dell’oboe che stimolava
lo zelo degli operai, come ritmava gli esercizi del ginnasio.
Lo strumento per la spremitura del vino era una specie di
catino portatile in legno, dal fondo leggermente inclinato
perché il liquido colasse attraverso un beccuccio scendendo
in un vaso posto al di sotto. Il grappolo era premuto con i
piedi, sempre al suono dell’oboe, da operai che si tenevano
con una mano a una sbarra, per mantenersi in equilibrio.34
Fra gli alberi da frutto il più diffuso doveva essere il fico.
Trigeo rievoca, nella Pace, il ricordo dei fichi freschi e dei
grappoli di fichi secchi che cerano prima della guerra.35
Il solo zucchero di cui disponessero gli antichi era quello
fornito dalle api. Gli alveari dell’Imetto davano il miele più
apprezzato e più costoso. Trigeo dice a Polemos, che usava
miele attico: «Ti consiglio di prendere un altro miele. Quel­
lo costa quattro oboli. Risparmia il miele attico».36

33 Cfr. P. Cloche, iv i , tavv. XXIII, 2 e X, 2.


34 Cfr. P. Cloché, ivi, tavv. X I e XII.
35 Aristofane, La p a ce , vv. 571-579; cfr. più sopra cap. I, p. 52.
36 Aristofane, ivi, vv. 253-254.

188
Il lavoro e i mestieri

Nel V secolo, le verdure consumate dagli ateniesi, che


erano considerate un lusso, venivano soprattutto dai paesi
vicini, dalla Beozia e dalla Megaride. M a gli agricoltori at­
tici riuscirono anche a produrre cavoli, lenticchie, cipolle,
piselli e aglio e persino a far acclimatare le cucurbitacee egi­
ziane. I fiori erano oggetti di cure speciali: erano necessari
per le ghirlande e le corone usate in tutte le feste pubbliche
e private.
L’allevamento di buoi e cavalli non era prospero in Attica,
dove mancavano pascoli grassi che costituivano invece una
delle maggiori risorse delle pianure della Tessalia e della Beo­
zia. M a asini e muli abbondavano e li si usava per la maggior
parte dei trasporti.37 L’allevamento dei maiali era assai diffu­
so: Platone riteneva i porcai necessari allo stato38 e i candidati
alla iniziazione ai misteri eleusini non dovevano fare molta
fatica per procurarsi, in cambio di tre dracme, i maiali ne­
cessari alla cerimonia del Falera.391 confini del paese (escha-
tiai) in montagna, alimentavano greggi numerose di capre e
pecore. Strepsiade diceva al figlio giovinetto: «Quando sarai
grande condurrai le capre sul monte Felleo come tuo padre,
vestito di una pelle di capra».401 montoni fornivano non solo
latte e carne, come le capre, ma anche la lana, materia pri­
ma indispensabile alla confezione degli abiti. M a le greggi
erano le nemiche naturali dei campi coltivati che saccheg­
giano appena la sorveglianza dei pastori si allenta e certe cit­
tà decisero per questo di vietare l’allevamento delle capre.41

37 Cfr. P. Cloché, Les classes..., cit., tav. X X X V II.


38 Platone, R epubblica, 2, 373 C.
39 Aristofane, La p a ce, v. 374. Cfr. anche il cap. V ili.
40 Aristofane, Le nuvole, vv. 71-72.
41 Cfr. L. Robert, H ellenica, VII, pp. 161-170.

189
La vita quotidiana in Grecia nel secolo dì Pericle

Nel secolo di Pericle, ad Atene, l’importanza dell’in-


dustria crebbe continuamente e la stragrande maggioran­
za della popolazione urbana traeva i mezzi di sussistenza
d all’esercizio di un mestiere. Molti però si svolgevano a
domicilio. M a se la maggior parte delle ateniesi tesseva­
no e filavano a casa, e molte facevano il pane, numerose
acquistavano già dal panettiere pane e dolci oppure, una
volta soddisfatti i bisogni della famiglia, lavoravano la lana
per dei clienti e andavano al mercato a vendere filo, nastri,
abiti, berretti, corone.42 I compiti più sgradevoli e faticosi
erano riservati in primo luogo agli schiavi, poi ai meteci. I
cittadini costituivano una specie di «aristocrazia operaia»43
e ben raramente accettavano, anche temporaneamente,
funzioni da manovale. Inoltre si assentavano di frequente.
dal lavoro per recarsi all’A ssemblea o in tribunale dove ri­
cevevano «gettoni di presenza».
Nonostante che in Attica si fosse verificata una innega­
bile concentrazione industriale non si può ancora parlare
di fabbriche. Il laboratorio più importante che conosciamo
impiegava 120 schiavi: era la fabbrica di armi del meteco
Cefalo, padre di Lisia. Molte imprese che venivano ritenute
importanti avevano meno di 50 operai. Solo le miniere del
Laurio assorbivano folle di schiavi, suddivisi però fra più
appaltatori. Per i lavori pubblici, come le costruzioni navali,
lo stato forniva le materie prime e frazionava gli appalti fra
numerosi piccoli imprenditori ognuno dei quali allestiva
un modesto cantiere.

42 Cfr. il passo dei M em orabili di Senofonte, citato più sopra alle pp. 175-
176.
43 G. Glotz, Le traudii dans la G rece an cien n e, p. 315.

190
Il lavoro e i mestieri

Lo stato non si preoccupava affatto di regolamentare il


lavoro se non per garantire l’ordine e proteggere la proprietà
pubblica. I suonatori di cetra e oboe - etere nella maggior
parte dei casi - non dovevano chiedere più di 2 dracme
al giorno e se più uomini si disputavano la stessa donna
gli astinom i la aggiudicavano per estrazione a sorte.44 Nelle
miniere del Laurio che appartenevano allo stato, era vietato
abbattere i piloni di sostegno o affumicare le gallerie. A
parte questo, le condizioni di lavoro non erano oggetto di
alcuna legislazione. La legge della domanda e dell’offerta
era sovrana. I disoccupati andavano a offrire le loro brac­
cia al Colonos, sull’A gorà, dove potevano essere assunti per
una giornata o per periodi più lunghi, ad arbitrio dell’ac­
quirente. I contratti annuali di lavoro si rinnovavano di so­
lito il 16 del mese A ntesterion, in febbraio.
L’unico sussidio che lo stato apportava, di tanto in tanto,
ai proletari era la riduzione della disoccupazione con lavori
pubblici. Secondo Plutarco, essa fu una delle ragioni dell’ab­
bellimento dell’Acropoli, iniziata sotto l’amministrazione di
Pericle e questo celebre testo ci fornisce anche una impres­
sionante enumerazione delle categorie che approfittarono di
tale occasione:

Quanto alla popolazione operaia, Pericle non volle che essa


fosse privata del salario né che lo ricevesse senza far nulla.
Quindi propose risolutamente al popolo grandi proget­
ti di costruzione e piani di opere che potessero occupare
molti mestieri, per un lungo periodo... Le materie prime
—pietre, bronzo, avorio, ebano, cipresso —sarebbero state

44 Aristotele, C ostituzione d i Atene, 50, 2.

191
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

lavorate dai diversi operai: carpentieri, modellatori, fab­


bri, tagliapietre, tintori, fonditori doro, scultori in avorio,
pittori, smaltatori, cesellatori, conduttori e carreggiatori,
mercanti, piloti e marinai, carradori, costruttori di vettu­
re e carrozze, cardatori, tessitori, conciatori, terrazzieri...
Così le esigenze dell’impresa avrebbero diffuso il benesse­
re, per così dire, in tutte le età e fra tutte le abilità.45

Spesso ogni artigiano aveva il proprio figlio come suc­


cessore e gli trasmetteva le pratiche e i segreti del mestiere.
Spesso inoltre i bambini erano collocati come apprendisti
presso un padrone con un contratto e per suscitare l ’emu­
lazione fra apprendisti accadeva persino che si organizzas­
sero fra loro dei concorsi, per esempio nei laboratori dei -
ceramisti.46
Ad Atene cerano circa 60 giorni festivi a ll’annó, molto
inegualmente ripartiti nei vari mesi. Il lavoro cominciava
la mattina assai di buonora per finire solo al tramonto.
Non era solo Filocleone, il giudice maniaco, a levarsi al
canto del gallo:47

Appena canta il gallo, tutti balzano dal letto per mettersi


all’opera, vasai, fabbri, calzolai, conciatori di fibbie. Al­
tri si mettono in cammino, appena si sono calzati, che è
ancora notte.48

45 Plutarco, P ericle , 12,


46 P. Cloché, Les classes..., tav. X X I, 1. Fra gli apprendisti impegnati a deco­
rare vasi, in questa pittura, notiamo, a destra, una fanciulla.
47 Aristofane, Le vespe, vv. 100-102.
48 Aristofane, Gli u ccelli, vv. 4 8 9 -4 9 2 .

192
Il lavoro e i mestieri

Alla fine del V secolo, il salario normale di un operaio


non specializzato era di una dracma al giorno ma nel corso
del IV secolo aumentò più o meno come il costo della vita.
Certi tecnici erano pagati a cottimo, come vediamo dalle
iscrizioni che ci hanno tramandato i costi per la costru­
zione di edifici. I salari dovevano assicurare più o meno la
sopravvivenza di un operaio celibe ma non permettevano
di mantenere una famiglia anche tenendo conto della ec­
cezio n ale sobrietà dei greci che si accontentavano spesso
di un pezzo di pane, due cipolle e tre olive in tutta la
giornata.
Tranne che per i manovali, la maggior parte dei mestieri
richiedeva abilità, competenza e non si riduceva alla ripeti­
zione meccanica e monotona di gesti. Esigua era talvolta la
differenza fra artigiano e artista, molte attività artigianali
richiedevano gusto e un certo senso estetico. Molti operai
avevano l’abitudine di cantare nei laboratori e talvolta il la­
voro era ritmato dal suono dell’oboe. Ma gli schiavi negli­
genti o pigri erano crudelmente frustati e sorvegliati per­
ché non si appropriassero del prodotto del loro lavoro. Uno
dei servi che, all’inizio della P ace di Aristofane, impasta
per lo scarabeo del suo padrone Trigeo disgustosi bocconi
fatti di escrementi, esclama: «Credo che di una cosa non
mi si possa certo accusare; nessuno può affermare che io
mangi la pasticceria che lavoro!».49 Sappiamo che per im­
pedire agli schiavi di mangiare la pasta che impastavano o
i dolci che cuocevano si mettevano loro al collo dei collari
a cerchio il cui raggio era più lungo delle loro braccia e che
aveva lo stesso effetto di una museruola.

49 Aristofane, La p a ce, vv. 13-14; Ateneo, 5 48 c.

193
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

Il macchinario era di una semplicità primitiva e a bassis­


sima produttività.
I minatori disponevano di una lampada a olio, in piom­
bo o in terracotta che riponevano in una nicchia della pa­
rete e che poteva ardere per una decina di ore. I gruppi di
operai si succedevano senza soluzione di continuità. Le
gallerie ben raramente superavano laltezza di un metro,
spesso erano più basse e costringevano i minatori a lavo­
rare in ginocchio o sdraiati. Per scongiurare il rischio di
crolli i minatori lasciavano, a intervalli diversi, delle co­
lonne di minerale che costituivano come una impalcatura,
ma appaltatori avidi facevano abbattere queste specie di
pilastri compromettendo la sicurezza dei lavoratori. I poz­
zi di aerazione essendo assai rari, l’aria doveva essere quasi-
irrespirabile. Dietro il minatore che lavorava col piccone,
il martello e lo scalpello cerano aiutanti, talvolta donne,
che raccoglievano il minerale in speciali carrelli e lo tra­
sportavano, piegate in due, verso i pozzi o delle scale di
legno attraverso le quali risalivano alla superficie. Il mine­
rale veniva pestato in mortai e poi da pietre molari, quindi
lavato e infine fuso con un forno. Il piombo così ottenuto
era venduto sul mercato sotto forma di blocchi di circa 15
chilogrammi contrassegnati dal marchio del fabbricante.
L’argento veniva raffinato, e ceduto all’argyrocopeion, pres­
so il quale serviva alla fabbricazione di monete.50
I lavoratori dell’argilla erano numerosi e presenti so­
prattutto ad Atene nel quartiere del Ceramico, un nome
significativo. Gli antichi usavano infatti l’argilla non so­
lo per gli oggetti che attualmente sono fatti di maiolica

Cfr. É. Ardaillon, Les m ines d u L aurion dans l ’a ntiquité, passim .

194
Il lavoro e i mestieri

o porcellana, ma per molti altri che oggi sono in legno


(per esempio i tini, che allora erano giare di terracotta:
p ith o i)', in vetro (le coppe per bere: ku likes ), o in metal­
lo (le pentole: c h y trai). Si fabbricavano così vasi di forma
estremamente varia per tutti gli usi possibili ivi compre­
se le lampade.51 Una piastra votiva corinzia rappresenta
l’estrazione dell’argilla.52 In Attica cerano due cave d’ar­
gilla, la più importante delle quali era a Capo Colias, die­
ci chilometri a sud di Atene. Per rendere l’argilla più rossa
e meno porosa vi si aggiungeva dell’ocra rossa (m iltos)
o vermiglia: un’iscrizione ci informa che nel IV secolo
Atene si assicurò il monopolio del vermiglione dell’isola
di Ceo.53
Il tornio del vasaio, già in uso in età omerica, era rima­
sto del tutto rudimentale: era un semplice piatto disposto
su un’asse verticale che il vasaio faceva girare a mano o
che era messo in moto da un aiutante. Il vaso, una volta
modellato, era fatto seccare al sole, poi lisciato e infine de­
corato. Anticamente i decoratori dipingevano personaggi
in nero sul fondo rosso della terracotta; nel V e IV secolo
essi delineavano le figure, che venivano lasciate del colore
dell’argilla, con un tratto nero, poi tutto il fondo veniva
coperto dalla vernice nera: erano i vasi a figure rosse, suc­
cessivi a quelli a figure nere. I pittori disponevano, oltre al
nero e al rosso, di diversi colori: il bianco, che serviva da
fondo in molti vasi funerari, il rosso violaceo, e, raramente,
l’azzurro e il rosa, l’oro e il bruno. La vernice nera, a base

51 Cfr. per esempio, per le più importanti di queste forme, C . Dugas, La


céra m iq u egrecq u e, fig. pp. 8, 10 e 15.
52 P. Cloche, Les classes..., cit., tav. XVIII, I.
53 M.N. Tod, A Selection o f Greek H istoricalInscriptions, II, 162.

195
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

di ossido di ferro, molto resistente e di una bella lucentez­


za metallica, veniva applicata con un pennello spesso, poi
il vaso veniva cotto al forno, un’operazione estremamente
delicata. Quando si trattava di vasi artistici (perché molti
dei vasi che ammiriamo nei musei non servirono mai a un
uso pratico ma vennero creati per il piacere degli occhi)
il vasaio firmava la sua opera: «tiz io » h a fa tto e il pittore
scriveva: «tiz io » h a d ip in to . Conosciamo perciò i nomi di
molti artigiani alcuni dei quali furono grandi artisti. Tutta
la pittura dell’epoca classica è andata distrutta ma i vasi ci
permettono di farcene un’idea.
Su alcuni vasi sono rappresentate delle forgie: il forno,
più alto della statura di un uomo, doveva essere almeno di
due metri e la sua combustione era attivata con un soffietto­
fatto di pelle di capra, un otre. Su un’incudine un operaio
teneva, per mezzo di una lunga tenaglia, un pezzo di me­
tallo che un altro modellava a colpi di martello. In quasi
tutti i laboratori rappresentati vediamo appesi ai muri dei
vasi che certamente contenevano bevande per rinfrescare
ogni tanto gli operai. Essi di solito erano completamente
nudi, talvolta coperti da leggerissimi indumenti. Vedia­
mo anche artigiani in atto di fondere i diversi pezzi di
una statua di bronzo, che sarebbero poi stati collegati con
tenoni. Altri stanno lisciando e lucidando la superficie di
una statua colossale.54 In età classica, la Grecia, che aveva
avuto belle foreste, era completamente disboscata e doveva
importare legno dalla Macedonia, dalla Tracia, dall’Asia
Minore e dalla Magna Grecia. È col legno della Tracia
che Atene costruiva la maggior parte delle sue navi. Gli

54 Cfr. P. Cloché, Les classes..., cit., tavv. XXIII, 1 e 3; tav. X X IV, 1 e 2.

196
Il lavoro e i mestieri

strumenti di cui si servivano i falegnami sono raffigura­


ti sulla stele funeraria di un fabbricante di letti: sgorbie,
compassi, oggetti curvi per disegnare le forme. Su alcuni
vasi vediamo un carpentiere intento a squadrare una trave
con una specie di martello dal lungo manico, un ebanista
che fa un buco in un cofanetto con un succhiello azionato
da un archetto e uno scultore che intaglia con lo scalpello
un herm es di legno.55
Il taglio e la lisciatura delle pietre venivano eseguiti con
ammirevole precisione. Sappiamo che la Grecia aveva cave
di un marmo splendido, soprattutto nell’isola di Paros e
in Attica, lungo le pendici del Pentelico e che disponeva
anche di un bellissimo calcare azzurrognolo, come quello
diffusissimo a Delfi. Gli operai lasciarono ai due lati delle
pietre rettangolari o sulla circonferenza dei tamburi di co­
lonne dei «tenoni da trasporto» che permettevano l’innal-
zamento, eseguito poi con macchine rudimentali formate
da lunghe travi, da un cavo, una puleggia e un organo; i
tenoni in seguito venivano abbassati. Le pietre erano ri­
gorosamente tenute insieme da ramponi di piombo, la cui
forma varia a seconda delle epoche (a coda di rondine, a
T), fornendo agli archeologi un’indicazione cronologica.
Sappiamo che i greci molto spesso amavano dipingere sul­
la pietra: la maggior parte delle statue e dei bassorilievi in
marmo erano ravvivati da colori, soprattutto rosso e blu:
le stele incise o scolpite erano anch’esse dipinte e le lettere
delle iscrizioni non erano solo incise ma anche dipinte, di
solito in rosso.
Il cuoio era lavorato da conciatori (skytodepses, byrso-

55 Cfr. P. Cloché, ivi, tavv. X X V I, X X V II, 3 e 4, XX V III, 1.

197
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

depses) prima di essere usato dal calzolaio (skytotomos,


skytes). Certi conciatori furono importanti industriali e si
diedero alla politica, come Cleone e Anito. Su un vaso ve­
diamo un calzolaio che taglia una calzatura su misura con
un procedimento molto semplice; il cliente posa un piede
su uno zoccolo di legno o di pietra sostenuto dal tavolo da
lavoro; con una mano si appoggia sulla testa dell’operaio
che taglia il cuoio con un trancetto intorno al piede del
cliente. Vediamo anche, su un altro vaso, un calzolaio che
lavora su un pezzo di cuoio che sta tagliando; al muro sono
sospesi un trancetto, pezzi di cuoio e forme per calzature.56
Ci sono anche laboratori distinti per calzature da uomo e
da donna.57
La filatura e tessitura erano praticate soprattutto dal--
le donne a domicilio ma cerano anche laboratori dove si
lavorava la lana. Si cominciava a lavare la lana in acqua
calda, poi si cardavano i fiocchi stirandoli e stringendoli
fortemente lungo una gamba tesa ma per questa operazione
ci si poteva anche servire di un oggetto in ceramica detto
onos o epinetron. E la forma stessa di questi oggetti che ce
ne suggerisce l’uso. Si trattava di un semicilindro di argilla
nella cavità del quale si inserivano il ginocchio e una parte
della coscia. L’operaia premeva i fiocchi di lana sulla super­
ficie leggermente rugosa della parte superiore àeXYonos. Poi
la lana era fissata alla conocchia. La filatrice non era sempre
seduta: in un vaso ne vediamo una che, in piedi, maneggia
abilmente la conocchia e il fuso. Infine il filo di lana era
tessuto su un telaio rudimentale, verticale: una volta fissato

56 Cfr. P. Cloché, ivi, tavv. X X X , 2 e X X X I, 1.


57 Senofonte, C iropedìa, 8, 2, 5.

198
Il lavoro e i mestieri

l’ordito, i fili della trama erano intrecciati con una navetta


(,kerkis ).58
Il tintore (bapheus) sottoponeva le stoffe di lana o di lino
a una lunga e minuziosa preparazione prima di tuffarle nel
bagno per la tintura, perché, in seguito, il colore resistesse
al lavaggio e non stingesse.59 Infine il lavapanni (cnapheus)
trattava nel suo laboratorio il tessuto nuovo al quale applica­
va l’appretto ma anche, come ai giorni nostri, i vestiti usati
da pulire. Li poneva in grandi bacini pieni di acqua con ag­
giunta di potassio o in grandi recipienti di «terra da lavatoi»
(argilla smetecica), poi li strizzava. Il poveretto di Teofrasto
«quando porta il mantello al lavandaio gli raccomanda di
non usare l’argilla perché si sporchi meno in fretta».60

Agricoltori e artigiani spesso vendevano direttamente


i loro prodotti senza intermediari. L’acarnese portava in
città i suoi sacchi di carbone e il contadino i suoi frutti, le
sue verdure, i suoi formaggi, il vino e l’olio. I fabbricanti
di lampade, di calzature, di armi o di vasi offrivano, sul­
la porta delle loro botteghe, gli oggetti preparati dai loro
schiavi. Così il calzolaio del mimo di Eronda, Kerdon,
era insieme costruttore e commerciante. Pitture vascolari
ci mostrano un acquirente davanti all’esposizione di un
vasaio, mercanti d’olio che chiamano clienti vantando la
qualità della loro merce e riempiono un vaso e anche dei

58 Cfr. P. Cloché, Les classa..., cit., tavv. XX V III, 1 e 2; X X IX , 1, 2 e 5. È


istruttivo paragonare le tecniche delle filatrici e tessitrici nei villaggi greci
contemporanei: cfr. P. de la Coste-Messelière —G. de M iré, D elphes (ed. du
Chéne, 1943), tavv. 9 e 11.
59 Platone, R epubblica, IV, 4 2 9 d-439 b.
60 Teofrasto, C aratteri, 10, 14.

199
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

pescatori che portano la loro pesca al mercato.61 Ma c’era-


no anche molti venditori che acquistavano dal produttore
e vendevano al pubblico. Tutti coloro che praticavano il
commercio al dettaglio si chiamavano capelo i e tale espres­
sione aveva una sfumatura fortemente peggiorativa non
implicita nel termine em poroi che designava i negozianti,
coloro che si dedicavano al commercio all’ingrosso, so­
prattutto marittimo.
Tutti i proprietari di negozio erano cap elo i, prima di
tutto i proprietari di spacci di bevande e cibi: i vinai, i
venditori di «granaglie, verdure e passati» o «di aglio e di
pane e gli osti».62 Soprattutto sull’Agorà e nelle strade più
vicine alla pubblica piazza si ammassavano i mercanti:

Tutti coloro che hanno qualcosa da vendere, schiavi con


stoffe appena tessute, artigiani del Ceramico, di Meli-
to o di Scambonide, contadini partiti dai loro villaggi
prima dell’alba, megaresi che spingevano davanti a sé i
maiali, pescatori del lago Copais si incrociano in tutti i
sensi. Attraverso i viali alberati, raggiungevano i quar­
tieri assegnati ai diversi mercanti, separati da recinzioni
mobili. Successivamente, alle ore fissate del regolamento,
si aprono i mercati di verdura, di frutta, di formaggio, di
pésce, di carni di bue e di maiale, di volatili e selvaggina,
di vino, di legno, di vasi, di nastri, tessuti e chincaglie­
rie. C ’è anche un angolo per i libri. Ogni mercante ha il
suo posto dietro pagamento di una tassa; all’ombra di un
parasole o di una tenda fa la sua esposizione su cavalletti,'

61 Cfr. P. Cloché, Les classes..., cit., tavv. X X X II-X X X IV e X X X V I.


62 Aristofane, Lisistrata, vv. 457-458.

200
Il lavoro e i mestieri

vicino al suo carro e alle sue bestie che intanto riposano.


I clienti vanno innanzi e indietro, vengono interpella­
ti, facchini e factotum offrono i loro servigi. Urla, im­
precazioni, dispute: gli agoranomes non sanno a chi dare
credito. Quando i mercati all’aperto vengono chiusi, la
clientela si sposta in quelli coperti, bazar all’orientale al
cui fondo cerano le casse.63

I piccoli commercianti avevano una cattiva reputazione:


li si sospettava di falsificare le monete e i pesi, nonostante la
sorveglianza dei m etronom i., o la qualità delle merci. Anche
se erano evidentemente onesti, il mestiere che esercitava­
no restava screditato. Aristofane non si stanca di ricordare
malignamente che la madre di Euripide vendeva verdure
al mercato; le donne che si guadagnavano la vita in strada
o sull’Agorà erano ancora più mal viste degli uomini e fa­
cilmente erano sospettate di facili costumi. Il mercante di
salsicce dei C a v a lie ri di Aristofane si sente dire da uno dei
servi di Demos: «Hai tutto per diventare un demogogo:
voce volgare, nascita vile, aria da mascalzone».64
Nonostante le strade disagevoli, che spesso erano solo
piste che traversavano i fiumi a guado, molti mercanti am­
bulanti facevano lunghi tragitti con i loro carichi e le loro
bestie da soma, asini o muli col basto da carico o attaccati a
carri a due o quattro ruote per andare a proporre, per esem­
pio, agli ateniesi i prodotti della grassa Beozia. Aristofane ci
mostra un ateniese che «mercanteggia» con un tebano che
ha portato dal suo paese ógni sorta di selvaggina, di volatili,

63 G. Glotz, Le trava ti dans la G rèce ancien n e, pp. 345 -34 6 .


64 Aristofane, C avalieri, vv. 217-218.

201
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

di pesci, in specie le famose anguille del lago Copaide che


facevano la delizia dei buongustai.65
Tuttavia, poiché le comunicazioni terrestri erano diffici­
li, e costose, il commercio all’ingrosso, quello degli empo-
ro i, si svolgeva soprattutto per mare.
Nel secolo di Pericle il Mediterraneo era stato liberato
dai pirati grazie alla talassocrazia ateniese che aveva con­
tinuato ad affermarsi incessantemente dopo la vittoria di
Salamina e la nascita della lega marittima delio-attica.
Navi da guerra a tre ordini di remi, le trieres, garantivano
la supremazia navale di Atene e l’ordine sul mare. Pote­
vano circolare, senza temere altri pericoli se non i flutti e
il cattivo tempo, le navi mercantili chiamate «rotonde» o
«cave» in contrapposizione con le navi da guerra più affila-.
te e meno profonde. A differenza delle trie re che dovevano
la loro velocità ai remi, le navi rotonde, molto più lente,
andavano sopprattutto a vela e i remi avevano solo una
funzione sussidiaria. I greci conoscevano l’uso delle anco­
re ma ignoravano quello del timone ruotante intorno a un
asse verticale e si è pensato che tale carenza abbia contri­
buito a limitare la stazza delle loro navi: le navi mercantili
più grosse trasportavano meno di 400 tonnellate, circa tre
volte il tonnellaggio di una trireme. Ma tale limitazione
del tonnellaggio aveva anche altre ragioni: come si sarebbe
potuto, con i mezzi meccanici sommari di cui allora si
disponeva, tirare le navi in secco durante la cattiva sta­
gione quando il mare era grosso? L’assenza di buone carte
marittime, di bussole e di fari potenti rendeva pericolosa
la navigazione notturna; si navigava quasi solo di giorno

65 Aristofane, Gli acarnesi, vv. 8 7 0 -88 0 .

202
Il lavoro e i mestieri

e nella bella stagione, cercando di non perdere di vista la


terra. Si seguivano le coste da presso o si passava di iso­
la in isola in modo da trovare un riparo al tramonto del
sole. Per recarsi dal Pireo in Sicilia di solito si passava per
Corcira e Taranto. Le imbarcazioni erano rimorchiate a
terra per mezzo di false chiglie. Per evitare di fare il giro
del Peloponneso si passava dal golfo Saronico al golfo di
Corinto facendosi trascinare su dei tronchi di legno lungo
tutto il diolcos , il cui tracciato era vicino e in certi punti
tangenziale a quello dell’attuale canale.66
Il Pireo, con la sua rada immensa e i suoi bacini ben
riparati, eclissò i due porti di Corinto, quello di Egina
che aveva a lungo rivaleggiato con esso e tutti gli altri siti
marittimi della Grecia. Era il centro di una attività mol­
to più ampia di quella dell’Agorà, nella stessa misura in
cui il commercio marittimo di Atene superava quello di
terra e le fortune degli em poroi - cittadini e meteci - su­
peravano i modesti averi dei capeloi. I commercianti che
dovevano mettere a disposizione rilevanti fondi inizia­
li e correre grandi rischi erano aiutati talvolta dai ban­
chieri che prestavano loro denaro e elevatissimi interes­
si. Da tutta questa attività che lasciava libera - tranne,
come abbiamo visto, quella riguardante il commercio
dei cereali - lo stato traeva vantaggio perché percepiva,
per mezzo di una società esattoriale, un diritto di dogana
di un centesimo, poi di un cinquantesimo del valore di
tutte le merci che passavano dal Pireo.

66 Sul diolcos, cfr. «Bulletin de Correspondance hellénique» 81, 1957, pp.


526-528, e le figg. 1-8 e G. Roux, Pausanias en C orinthie, Les Belles Lettres,
Paris 1959, pp. 8 8 -8 9 e fig. 2 e 3.

203
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

L’egemonia politica di Atene le permetteva di tutelare


anche la propria egemonia commerciale. Prima di tutto,
per permettere agli arsenali del Pireo di continuare a co­
struire nuove navi a pieno ritmo bisognava far venire il
legno dalla Tracia e molte altre materie prime da diversi
paesi e la predominanza di Atene le assicurava un mono­
polio di diritto - come quello sul vermiglione dell’isola di
Ceo - o un monopolio di fatto. Come dirà l’autore della
R epubb lica d egli aten iesi, un opuscolo molto istruttivo che
ci è pervenuto fra le opere di Senofonte:

In tutta la Grecia e presso i barbari, esiste un popolo che


sia capace di arricchirsi come gli ateniesi? Se il legno da
costruzione abbonda in una data città o in un’altra il ferro, .
il rame o il lino, come commercializzare tali merci se non
si coinvolge nei propri interessi la città sovrana dei mari?
Così noi abbiamo le navi: uno ci fornisce il legno, un altro
il ferro, un altro il rame, quellaltro ancora il lino, un altro
infine la cera... Senza estrarre niente dalla terra, mi procuro
tutto per mare.

Un altro passo della stessa opera ci dà un’idea dell’abbon­


danza e della varietà delle merci che affluivano al Pireo da
ogni paese:

Le calamità con cui Zeus colpisce l’agricoltura sono fu­


neste ai paesi continentali, ma facili a sopportare per i
popoli marittimi perché non tutte le regioni ne soffrono
nello stesso periodo; quindi dalle contrade fertili i viveri
arrivano sempre a coloro che dominano il mare. D’altra
parte, se è possibile far valere le più piccole cose, quanti

204
Il lavoro e i mestieri

mezzi offre loro questo dominio dei mari e il commercio


che favorisce, per variare i piaceri della tavola! Ciò che c’è
di più delizioso in Sicilia o in Italia, i prodotti di Cipro,
dell’Egitto, della Libia, del Ponto, del Peloponneso e di
altri paesi, tutto ciò si raccoglie in uno stesso luogo, grazie
al dominio del mare.67

Ma ciò che interessava agli ateniesi, più di tutte le deli­


zie della tavola, era l’approvvigionamento in cereali perché
l’Attica produceva troppo poco orzo e grano per nutrire la
sua popolazione. Il mercato del grano del Pireo (alphitopo-
lis) doveva sempre mantenere riserve sufficienti a nutrire la
città e l’esercito. Alla prima seduta di ogni pritania, cioè
dieci volte l’anno, l’Assemblea ascoltava un rapporto sullo
stato degli approvvigionamenti. Leggi severe fissavano le
obbligazioni dei commercianti in grano e dei negozianti
semi-ali’ingrosso (sitopo lai), quelle dei panettieri e mugnai
per bandire ogni simulazione, ogni forma di accaparramen­
to che avrebbe rarefatto il pane facendone salire il prezzo.
La messa in esecuzione di tali leggi era affidata al collegio
dei sitophilakes che sorvegliavano il commercio del grano e
la vendita di farina e pane.
I paesi grandi produttori di cereali erano lontani: l’E­
gitto, la Sicilia, il Ponto Eusino. Possiamo dire che la que­
stione degli approvvigionamenti di grano abbia sempre
dominato la politica ateniese perché le spedizioni militari
verso l’Egitto e la Sicilia che si conclusero entrambe, nel
V secolo, con due catastrofi erano state intraprese almeno
parzialmente per ragioni economiche e il desiderio di assi­

67 Pseudo-Senofonte, La repubblica d egli ateniesi, cap. 2.

2 05
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

curarsi il controllo dei grani provenienti dal Ponto Eusino


costringeva Atene a considerare il Chersoneso in Tracia
e gli altri suoi domini lungo la strada degli Stretti come
essenziali alla sua sopravvivenza. Nel IV secolo, le iscri­
zioni relative ai principi del Bosforo Cimmerio sono molto
istruttive: Satiro, poi suo figlio Leuco e i suoi nipoti, Spar-
toco e Pairisade, accordarono o confermarono rilevanti
privilegi agli importatori ateniesi.68 Nel 354, Demostene,
all’inizio della sua carriera di oratore, dirà davanti a un
tribunale ateniese:

Immagino che lo sappiate; come ogni altro paese del


mondo, siamo importatori di grano. Ma la quantità di
grano che ci giunge da tutti gli altri mercati è palesemen- .
te equivalente a quella che ci arriva dal Ponto Eusino.
E comprensibile. Oltre al fatto che il grano abbonda in
quella contrada (l’attuale Crimea), Leuco, che ne è so­
vrano, ha conferito la franchigia ai negozianti che lo im­
portano ad Atene e le navi dirette al nostro paese sono
autorizzate, dalla voce del banditore, a caricare per pri­
me... Quel principe percepisce un diritto di un trentesi­
mo dagli esportatori di grano. La quantità di grano che,
dal suo paese, ci arriva può essere valutata da 400.000
médimmi (più di 200.000 ettolitri), cifra che può essere
verificata sui registri dei sitophilakes. Di conseguenza, su
300.000 medimmi ci fa dono prima di tutto di 10.000 e
sui 1000 che restano, di 3000 all’incirca. Ed è così lon­
tano dal volerci togliere queste condizioni di favore che,
avendo fondato una nuova sede commerciale a Teodosia

68 M .N. Tod, A Selection ofG reek H istorical Inscriptions, II, 115 e 167.

206
Il lavoro e i mestieri

che, a dire dei marinai, non è in nulla seconda a quella


del Bosforo, ci conferisce la franchigia anche là... C’è di
più; due anni fa, nel corso di una generale carestia, ci
inviò una quantità di grano non solo sufficiente ai vostri
bisogni ma tale che ne restò un beneficio di 15 talenti di
cui Callistene ebbe l’amministrazione.69

Come si vede, anche dopo la perdita della sua egemonia


politica, nel 404, Atene conserverà in gran parte la sua su­
premazia nel commercio. In ciò, sarà superata solo molto
tempo dopo il periodo storico che noi stiamo prendendo in
considerazione da Alessandria e da Rodi.

Del «mestiere» di maestro e di professore abbiamo par­


lato nel capitolo precedente. Avremo l’occasione di parlare,
a proposito dellamministrazione della giustizia, di quella
specie di avvocati che erano i logografi e, a proposito della
vita artistica e religiosa, dei sacerdoti, indovini e artisti. Fra
le professioni che oggi chiamiamo «libere» solo una ci sem­
bra il caso di presentare in questa sede: la medicina.
A dire il vero, Platone non sembra considerare la medi­
cina come una «arte liberale».70 Ciò dipende senz’altro dal
fatto che molti ciarlatani si facevano passare per medici.
Non esisteva, in effetti, alcun diploma e chiunque pote­
va proclamarsi medico. Molti pretesi guaritori operavano
con formule magiche o interpretando i sogni; quest’ultimo
metodo era praticato in grande nel santuario di Asclepio a
Epidauro, di cui riparleremo.

69 Demostene, C ontro Leptino, 31-33.


70 Platone, A lcibiade, 131.

207
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

Ma cerano anche veri medici. Erano in generale uomi­


ni liberi. Ma avveniva talvolta che un uomo ricco facesse
imparare a un suo schiavo la medicina per farsi curare e i
medici stessi avevano i loro schiavi che facevano da aiutanti
e acquisivano così la pratica dell’arte.
La medicina, fiorente in Egitto da secoli, aveva in Grecia
lunghe tradizioni che risalivano almeno all’epoca omerica.71
I filosofi ionici si interessavano molto alle teorie mediche e,
come abbiamo visto nel capitolo precedente, molti sofisti
nel V secolo pretendevano di insegnare, fra l’altro, anche la
medicina. C ’era un centro di formazione medica a Cnido e
forse un altro a Crotone, patria del celebre Democede, che
fu medico pubblico a Egina, poi ad Atene prima di passare
al servizio di Policrate di Samo e infine del re Dario.72 Ma -
sembra che la medicina, non solo empirica ma razionale;
sia nata nell’isola di Coo dove la famiglia degli Asclepiadi
si trasmetteva le conoscenze da essa acquisite di padre in
figlio senza rifiutare di comunicarle anche ad apprendisti
medici, estranei al genos.
L’illustre Ippocrate di Coo nacque verso il 460 a.C.: è il
padre, se non della medicina, almeno di un metodo fon­
dato esclusivamente sulla osservazione e la ragione e anche
di un vero e proprio «umanesimo medico» che si esprime
in mòdo toccante nel g iu ram en to , nel trattato d e ll’A n tica
m ed icin a e negli aforismi del Corpus hippocraticum . Ecco
alcuni paragrafi del Giuramento:

71 N ell’Iliade, gli asclepiadi Macaone e Podaliro curano i feriti. Cfr. anche


Iliade, XI, v. 514 e Odissea, X V II, v. 3 84.
72 Erodoto, III, 125-137.

208
Il lavoro e i mestieri

Non somministrerò mai il veleno a nessuno, anche se me


lo si chiederà; non darò mai a una donna delle droghe per
farla abortire; in qualsiasi casa io entri, vi entrerò per la
salute dei malati, astenendomi da qualsiasi ingiustizia e da
qualsiasi misfatto volontario, soprattutto dalla seduzione
di donne e ragazzi sia schiavi che liberi.

Vediamo in questi passi una deontologia medica già


compiuta e si è potuto giustamente scrivere:

La deferenza dell’uomo per l’uomo in generale, senza di­


stinzione di classe né di origine, non era un atteggiamento
diffuso, nemmeno sul piano dell’insegnamento morale,
nell’Antichità greca e romana; su questo punto è impos­
sibile non riconoscere che il medico ippocratico, col suo
modo di pensare e di agire, superava la mentalità della sua
epoca.73

I pedotribi di cui abbiamo parlato nel precedente capi­


tolo erano costretti dallo loro attività a praticare una specie
di «medicina dei ginnasi». Dovevano essere degli igienisti e
dei dietisti per poter consigliare agli atleti il miglior regime
alimentare e massaggiatori e conciaossa per ridurre le frat­
ture, lussazioni e contusioni. Eradico di Selimbria, dopo
essere stato a lungo pedotribo, si ammalò e diventò medi­

73 L. Bourgey, O bserva tion e t ex p érien ce ch ez les m éd ecin s d e la co llectio n


h ip p ocra tiq u e, p. 2 7 0 . C fr. anche «Bulletin de l ’Association G uillaum e
Budé: Lettres d ’hum anité» 3, 19 4 4 , pp. 3 3 -7 0 , l ’articolo di René Du-
mesnil su Ippocrate e la traduzione del trattato La m ed icin a a n tica , di
P. Festugière.

209
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

co.74 Cerano «medici per atleti»75 e anche medici militari


che, come si legge nell’Ilia d e , accompagnavano gli eserciti
nelle campagne per curare i feriti, come vediamo, per esem­
pio, nell 'A n ab asi?6
Gli apprendisti medici si formavano presso un maestro
nell’arte di dare una diagnosi e una prognosi e nell’esegui-
re tutte le operazioni manuali necessarie, come il salasso,
il clistere, l’applicazione di ventose (se ne sono trovate in
corno e in bronzo). Imparavano anche a praticare alcune
operazioni chirurgiche superficiali ma la conoscenza della
anatomia restava molto limitata perché i costumi e la men­
talità religiosa si opponevano alla dissezione dei cadaveri
umani: si sezionavano solo gli animali.
Il pubblico aveva a disposizione libri di medicina77 e po-.
teva procurarsi direttamente i farmaci presso il farm aco -
polo o farmacista78 che si riforniva a sua volta dal rizotom o
(tagliatore di radici) perché la raccolta di piante medici­
nali dalla più remota antichità era considerata una parte
essenziale dell’arte di guarire. Ma il più delle volte i medici
preparavano loro stessi le medicine che somministravano
ai loro malati. Avevano dei laboratori e alcuni di loro pote­
vano anche ospitare in casa loro i malati il cui trattamento
volevano sorvegliare dappresso. Altri medici erano ambu­
lanti e, come i sofisti, si recavano nelle diverse città per of­
frire i loro servigi. Una istituzione largamente attestata e
caratteristica è quella dei medici pubblici (<dem osioi ia tro i).

74 Platone, R epubblica, III, 4 0 6 a-b.


75 Cfr. L. Robert, H ellenica, IX, p. 25 e sgg.
76 Senofonte, Anabasi, III, 4, 30; V, 5, 4; VII, 2, 6.
77 Platone, Fedro, 2 6 8 c.
78 Aristofane, Tesmoforie, v. 504.

210
Il lavoro e i mestieri

Abbiamo segnalato più in alto il caso di Democede di Cro­


tone. Verso la metà del V secolo una tavoletta di bronzo di
Idalion, a Cipro, ci permette di conoscere il contratto sti­
pulato fra tale città e il medico Onasilos e i suoi fratelli che
si impegnavano, dietro una retribuzione globale, a curare i
feriti di guerra.79 Ad Atene, i medici pubblici erano scelti
dallAssemblea dei cittadini di fronte alla quale esibivano
i loro titoli.80 La città li retribuiva, metteva loro a dispo­
sizione un locale per le visite, le operazioni e il ricovero
dei malati e le medicine erano pagate dallo stato. Le spese
richieste da questo servizio sociale erano coperte da una
tassa speciale, Viatrico ri. I malati che non avevano i mezzi
per ricorrere alle cure di un medico privato erano dunque
curati gratuitamente come nei moderni ospedali.
In Grecia ben raramente operavano specialisti mentre,
almeno secondo Erodoto, già ne esistevano molti in Egitto.
La specialità meglio conosciuta è quella dell’oculista che
Curava gli occhi dei clienti soprattutto con dei colliri. C ’e-
’rano dentisti capaci di otturare i denti con piombo e di
indorarli. Una battuta scherzosa di Aristofane può far sup­
porre che esistessero specialisti per le malattie intestinali.81
Le donne potevano essere medici ma di solito erano con­
finate a compiti di infermiera e, soprattutto, di levatrice.
Socrate era figlio di una ostetrica e Platone lo fa parlare a
lungo di questa professione a proposito della sua m aieu tica,
l’arte di far partorire le menti.82 Per le malattie intime le

79 C.D. Buck, The Greek Dialects, The University o f Chicago Press, Chicago,
1955, pp. 210-213.
80 Platone, G orgia, 455 b.
81 Aristofane, Le d on n e in assem blea, vv. 363 -36 4 .
82 Platone, Teeteto, 149 a e sgg.

211
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

donne, per pudore, esitavano a ricorrere a un medico e fa­


cevano appello più spesso a donne del loro sesso. La nutrice
di Fedra, che parla come una contemporanea di Euripide,
dice alla sua padrona:

Se soffri di un male che non si deve dire, ecco le donne


che potranno aiutarti a calmarlo; se si tratta di un acci­
dente che si può rivelare, parla in modo che il tuo caso sia
segnalato ai medici.83

Ma, oltre alle levatrici, le «guaritrici», anche più dei


«guaritori», ricorrevano alle pratiche magiche e ai sistemi
delle «mammane».

83 Euripide, Ip p olito, vv. 2 9 3 -2 9 6 .


VI

Gli abiti e la to ile tte

I medici greci attribuivano grande importanza all’igiene,


alle cure del corpo e agli esercizi fisici. Per gli uomini e,
almeno a Sparta, anche per le donne, la pratica della gin­
nastica era ritenuta indispensabile alla salute e al benessere
(èu exia). Socrate stesso, in età già avanzata, faceva esercizi
ginnici «per ridurre il ventre che superava la giusta misura».1
I ragazzi imparavano fin dalla prima infanzia a bagnarsi e a
nuotare in mare e nei fiumi (rari in Grecia, e spesso in sec­
ca); quelli di Sparta si bagnavano ogni giorno nell’Eurota,
anche d’inverno. Gli uomini adulti si comportavano nello
stesso modo ma Nausicaa e le sue serve che si bagnavano
nel fiume dopo aver lavato la biancheria, non avranno imi­
tatrici in età classica, quando le donne si bagneranno in
pubblico solo in occasione di certe feste religiose; vedendo
Frine bagnarsi in occasione dei misteri eleusini (probabil­
mente nella baia del Falero, durante la curiosa cerimonia
àt\Y h a la d é mystai\ in mare, misti!) o delle feste in onore di

1 Senofonte, Simposio, 2.

2 13
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Posidone, il pittore Apelle ha concepito, probabilmente, la


sua Afrodite Anadiomène.2
Pisistrato e i suoi figli, nel VI secolo, avevano dotato Ate­
ne di fontane monumentali dove le donne riempivano le lo­
ro conche ma dove si poteva anche, quando le bocche erano
disposte molto in alto, lavarsi come sotto una doccia met­
tendosi direttamente sotto il getto: molti vasi a figure nere ci
mostrano scene di questo genere che diventano poi rare nei
vasi a figure rosse. Se la fontana disponeva di un bacino di
raccolta delle acque, era proibito bagnarvisi per evitare even­
tuali contagi. NellAtene del V secolo ci si bagnava di rado nel­
le pubbliche fontane perché si erano formate altre abitudini.
Era l’epoca in cui si moltiplicavano palestre e ginnasi. Tali
impianti erano dotati di fontane, vasche per abluzioni e an­
che piscine (lontra). La piscina circolare del ginnasio di Delfi
aveva 9,70 metri di diametro e quasi 2 metri di profondità,
ed era possibile nuotarvi. Gli atleti si lavavano in vasche di­
sposte sotto le fontane prima di fare un bagno collettivo nella
piscina.31 ginnasi erano situati, ove possibile, vicino al mare,
a un corso d’acqua o a una fonte (quello di Delfi era vicino
alla fonte Castalia) per rendere più facile l’installazione di
impianti balneari. Verso la fine del V secolo il bagno all’a­
perto venne in genere abbandonato a favore della stanza da
bagno, più comoda, dove l’acqua veniva convogliata e ricade­
va per mezzo di tubature di piombo; si sono trovati anche di­

2 Ateneo, XIII, 5 9 0 f. Uso qui e in seguito i dati che traggo d all’opera di R.


Ginouvès B alaneutiké, R echerches su r le baiti dans l ’a n tiq u ité grecq u e, Paris
1962. L’autore mi ha permesso di leggere in anticipo il manoscritto e mi ha
autorizzato a servirmene; lo ringrazio vivamente.
3 Cfr. J. Jannoray, L egym n a se d e D elphes, Éditions de Boccard, Paris 1953,
p. 61 e sgg.

2 14
Gli abiti e la toilette

spositivi ad acqua corrente per il lavaggio dei piedi. All’epoca


in cui Aristofane metteva in scena le N uvole, nel 423, sembra
non ci fossero ancora bagni caldi nei ginnasi, ma solo nei
bagni pubblici di cui parleremo in seguito;4 successivamente
anche i ginnasi ospiteranno stufe il cui calore provocava una
traspirazione intensa. Il ginnasio contribuì certamente molto
a diffondere in Grecia l’abitudine della pulizia del corpo.
I Greci dell’età classica conoscevano anche il bagno di
pulizia e di rilassamento in una vasca da bagno individua­
le, come già facevano gli eroi omerici. La vasca (pyelos) era
il più delle volte in terracotta e perciò assai fragile; poteva
anche essere intagliata in un blocco di pietra o costruita
con sassolini battuti in un mortaio e poi rivestiti di un ma­
teriale collante. Le vasche di Olinto, a forma pressa poco
rettangolare, avevano un fondo che si rialzava da un lato
formando una specie di sedia, come le nostre «vasche a se­
dere» e non avevano foro di scarico. In queste vasche il cor­
po non poteva immergersi completamente; la persona che
faceva il bagno doveva spargersi l’acqua sul corpo da sé o
farsela spargere da un servo, per mezzo di un vaso o di una
spugna. Le vasche grandi e profonde dove ci si poteva di­
stendere completamente erano, si diceva, cose da sibariti.5
Bacili e bacinelle, circolari o ovali, di metallo, di terra­
cotta o di legno servivano per lavaggi parziali o per il bagno
dei bambini. Per il bagno dei piedi si usava una bacinella
poco profonda di metallo, sorretta da tre piedi decorati da
zampe di leone. Ma l’impianto da bagno più diffuso in età
classica era la grande vasca circolare profonda, sorretta da

4 Aristofane, Le n u vole , v. 991 e vv. 1045 e sgg.


5 Ateneo, XII, 519 E.

215
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

un piede molto largo e svasato sormontato da un capitello,


di solito ionico: nella pittura vascolare a figure rosse è rim ­
pianto più frequente nella stanza da bagno, sia in casa sia
in palestra. Tali vasche erano spesso intagliate nella pietra o
modellate in terracotta. Dovevano essere riempite a mano
(tranne quelle dei ginnasi che erano spesso poste sotto una
fontana) e vuotate pure a mano. D’inverno l’acqua veniva
prima riscaldata in un bacile.
I bagni caldi però erano ritenuti, soprattutto dai «laco­
nizzanti», una pratica che rammolliva. Aristofane lascia in­
tendere che molti ateniesi spingevano l’imitazione di Spar­
ta fino al disdegno non solo per la raffinatezza ma persino
per la pulizia.6
I bagni pubblici ad Atene esistevano già dal V secolo e
divennero anche più numerosi nel IV. I clienti vi usavano
vasche basse e piatte con un sedile del tipo che abbiamo
appena descritto e anche piscine. Il più delle volte le vasche
erano disposte a corona intorno a una sala circolare; alcuni
di questi gruppi erano disposti in ambienti riscaldati, si­
mili a una sauna. Ma a parte questi ambienti particolari, i
bagni pubblici erano generalmente riscaldati, come l’acqua
per le abluzioni. Erano diretti, a nome del proprietario, da
un «padrone di bagno» (b alan eus ) che percepiva una par­
te del prezzo di entrata (due calchi, cioè due centesimi),
sorvegliava l’ordine nello stabilimento e dirigeva il lavoro
degli schiavi o «garzoni del bagno»; questo personaggio era
spesso pittoresco, chiassoso e di cattiva fama. I garzoni sor­
vegliavano il livello del riscaldamento, spandevano l’acqua
sui bagnanti e li cospargevano d’olio.

6 Aristofane, Gli uccelli, v. 1282.

2 16
Gli abiti e la toilette

Non si andava ai bagni pubblici solo per lavarsi ma anche


- almeno così facevano le persone agiate - per incontrare
amici e chiacchierare. I personaggi austeri come Focione
non vi si facevano vedere,7 ma le persone più modeste vi
gustavano molto volentieri il rilassamento e la comodità del
bagno e vi si soffermavano a lungo per scaldarsi, d’inver­
no, quando in casa non avevano fuoco.8 In molti di questi
stabilimenti sembra ci fossero sale riservate alle donne ma
le frequentavano solo le ateniesi delle classi povere, le corti­
giane e le schiave. Le ateniesi della borghesia si bagnavano
a casa, in una vasca dove il più delle volte si doveva stare in
piedi, in una stanza del gineceo, e scene di questo tipo sono
rappresentate in molti vasi.
I greci non conoscevano il sapone. Nel IV capitolo ab­
biamo visto che gli atleti, al ginnasio, si sfregavano il corpo
con sabbia e olio e poi spazzolavano la pelle con uno stri­
glie prima di lavarsi. Per il bagno probabilmente usavano
un carbonato di sodio impuro, estratto dal suolo, o una
soluzione di potassio ottenuta da ceneri di legno (la stessa
che serviva a far la lisciva per le stoffe: conia, litro ti) o un’ar­
gilla speciale (sm egm a , ch alestraio n , k im o lia gè). Aristofane
fa dire a Diceopoli: «Mai, da quando vado al bagno, ho
sofferto del potassio che mi mordeva gli occhi come oggi»
e altrove parla del «piccolo Cligene, il padrone di bagni più
truffaldino fra quanti regnano su una lisciva di sedicente
soda mescolata a ceneri e sulla terra di Cimolo».9 Ma Ci-
molo, una delle Cicladi, produce, ancor oggi, una specie di

7 Plutarco, F ocione, 4.
8 Aristofane, Fiuto, v. 535, cfr. anche più sopra il cap. I, p. 36.
9 Aristofane, Gli acarnesi, vv. 17-19; Le rane, vv. 709-712.

2 17
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

calcare ricco di sodio chiamato chim olea. Sembra che i si­


racusani del tempo di Teocrito, nel III secolo, usassero, per
lavarsi le mani, come sapone, una pasta poco consistente,
una specie di crema.101
Spesso si faceva il bagno prima del pasto serale. Era un
uso così diffuso che «fare il bagno» equivaleva a dire «an­
dare a pranzo». Socrate notoriamente prendeva cura più
del suo spirito che del suo corpo ma quando era invitato a
pranzo faceva un bagno prima di recarsi a pranzare da un
amico:

Avevo incontrato Socrate ben lavato, coi sandali ai pie­


di, cose non normali per lui. Gli ho chiesto dove stava
andando per essersi fatto così bello. «A cena da Agatone .
- mi rispose - ho accettato per oggi di essere suo ospite;
per questo ho abbellito la mia toilette-, bisogna essere belli
quando si va da un bel ragazzo».11

In occasioni come questa si andava anche dal barbie­


re. Gli ateniesi amavano passarvi il tempo chiacchierando
e scambiandosi le ultime novità, come dice l’Invalido di
Lisia12 ma attribuivano anche molta importanza, come i
«criniti» achei di Omero all’acconciatura dei capelli, dei lo­
ro baffi e della barba che portavano lunghi o semilunghi,
secondo la moda dell’epoca e della classe sociale. Il bar­
biere-parrucchiere curava anche le unghie delle mani e dei
piedi.

10 Teocrito, Le siracusane, v. 3 0 (cfr. la nota di P.-E. Legrand).


11 Platone, 174 a.
12 Cfr. la citazione di Lisia, P er l ’invalido, 20, qui sopra al cap. I, p. 26.

218
Gli abiti e la toilette

Solo dopo Alessandro i greci cominciarono a farsi radere


completamente barba e baffi. In età classica il rasoio era uno
strumento di toilette più femminile che maschile, perché per
eliminare i peli superflui le donne si depilavano con la cande­
la13 o con speciali paste ma anche con il rasoio. In Aristofane,
una donna che vuole farsi passare per un uomo dice: «Ho
cominciato a buttar via il rasoio per essere tutta villosa e non
somigliare per niente a una donna» e in un’altra commedia
Euripide dice ad Agatone: «Dovrai avere sempre un rasoio
con te; prestacelo» solo per alludere ai costumi effeminati di
questo poeta. Quando Prassagora chiede alle sue compagne
di travestirsi per andare all’Assemblea e prendervi il potére, in­
giunge loro di mostrare le barbe finte che si sono procurate.14

«Non molto tempo fa» scrive Tucidide «per ostentazione


di lusso le persone anziane delle classi privilegiate portava­
no ancora abiti di lino e trattenevano la crocchia (crobilo)
dei capelli inserendovi delle “cicale” d’oro».15

Non sappiamo se si trattava di spille d’oro a forma di cica­


le - non ne sono state trovate - o di spirali d’oro che, quando
chi le portava camminava, producevano un rumore vaga­
mente simile al canto delle cicale. Osservando la testa del
«cavaliere Rampin» al Louvre si ammira l’eleganza della sua
pettinatura a riccioli con le trecce simmetricamente disposte
dietro a ciascuno orecchio. Gli uomini si pettinavano con la
stessa ricercatezza delle k o rai dell’Acropoli.

13 Cfr. Aristofane, Le d on n e in assem blea, vv. 12-13.


14 Aristofane, Le d o n n e in assem blea, vv. 65 e 68-72; Le tesm oforie, vv. 215-
218. Cfr. anche P. Lévèque, A gatone (1955), p. 39.
15 Tucidide, I, 6.

219
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Ma, dopo le guerre puniche, ad Atene quasi solo i ragaz­


zi tenevano i capelli lunghi; quando si avvicinavano all’età
dellefebia li tagliavano dedicandoli agli dei. Invece a Spar­
ta i bambini portavano i capelli rasati e gli adulti la capi­
gliatura lunga che ad Atene era imitata solo dagli eleganti e
dalla classe dei cavalieri. Il poveretto di Teofrasto si faceva
rasare per economia, per andare meno spesso dal barbie­
re.16 Gli schiavi erano sempre rasi. La maggior parte degli
ateniesi liberi in età classica portavano i capelli molto corti,
come per esempio i magistrati del fregio delle Panatenee.17
Quanto alla barba, in età arcaica spesso veniva tagliata
a collare ma, nell’età di Pericle, la si lasciava crescere sulle
guance e la si tagliava in forma ovale e a punta.
Se uomini e donne si pettinavano in modo assai simile
in età arcaica, le ateniesi dell’età classica conservarono e ad­
dirittura svilupparono le pettinature complicate che i mari­
ti avevano abbandonato da tempo. Non portavano i capelli
sciolti sulle spalle tranne che in occasione di certe feste. I
capelli corti erano la regola per le schiave ma suonatrici ed
etere facevano eccezione: la suonatrice di oboe del «trono
Ludovisi» porta una crocchia trattenuta dal cecrifalo, una
specie di sciarpa strettamente avvolta che serrava i capelli
dalla fronte alla nuca e li tratteneva all’indietro. Le donne
libere si tagliavano i capelli solo per periodi ben determina­
ti, in caso di lutto. Le fanciulle portavano spesso semplici
bande che portavano i capelli in cima alla testa e lasciavano
libera la fronte. I capelli delle k o rai dell’Acropoli sono lega­
ti in lunghe trecce che scendono sul petto e sulla schiena,

16 Teofrasto, C aratteri, 10.


17 Cfr. J. Charbonneaux, La scu lptu re g recq u e classique, I, tav. 69.

220
Gli abiti e la toilette

mentre quelli delle ateniesi del tempo di Pericle erano in ge­


nere increspati e arricciati e spinti con varie pettinature in
alto o all’indietro. Gli archeologi hanno trovato pettini, per
esempio, sull’Agorà di Atene, un doppio pettine di olivo
con 31 denti fini da una parte e 20 grossi dall’altro, decora­
to al centro da un motivo di ovoli e punte di lancia incisi.18
Altri pettini sono d’osso, d’avorio, di bronzo o di madre-
perla. Alcuni hanno decorazioni veramente artistiche.
Si tingevano i capelli soprattutto per renderli artificial­
mente biondi, il colore più apprezzato. Si usavano anche
false trecce e parrucche.
Abbiamo detto che le donne depilavano i peli superflui,
o li rasavano. Impiegavano anche creme di bellezza, ogni
specie di profumi che acquistavano dal m yropolion e di bel­
letti. Iscomaco dice, parlando della giovane moglie:

Un giorno l’ho vista tutta truccata di cerussa per avere la


pelle ancor più chiara del solito, di orcaneto, per sembrare
più rosata di quanto non sia in realtà, e con alti tacchi per
sembrare più alta di quanto non sia naturalmente.

Queste cure valgono alla giovane sposa un lungo sermo­


ne del marito eppure lei vi aveva fatto ricorso per piacergli
di più perché era una donna onesta.19 Le cortigiane, peral­
tro, non solo usavano il bianco di cerussa e il rossetto di
orcaneto come belletto, ma sottolineavano anche le soprac­
ciglia e gli occhi con matite nere e brune e non ignoravano
l’uso del reggiseno (strophion ). Le civette dell’età di Pericle

18 Cfr. «Bulletin de Correspondance hellénique» 80, 1956, p. 237, fig. 6.


19 Senofonte, E conom ico, 10.

221
La vita quotidiana in Grecia n el secolo d i Pericle

avevano, come vediamo, molte risorse e non abbiamo anco­


ra parlato dei gioielli che tratteremo più avanti.

I greci conoscevano vagamente l’esistenza di prodotti tes­


sili esotici come la seta20 o il cotone che Erodoto chiamava
«lana vegetale»,21 letteralmente «la lana che viene da un al­
bero», ma avevano a disposizione il lino e le pellicce di certi
animali, soprattutto il pelo della capra che veniva tessuto
per farne stoffe grossolane (saccos), e la lana.
Abbiamo parlato nel capitolo precedente della filatura e
tessitura della lana, compito primario delle donne greche. Il
lino era coltivato in Oriente e in Asia Minore da dove i greci
lo importavano o grezzo o già lavorato. Poi la pianta venne
acclimatata in molte regioni della Grecia, in Tracia, in Mace-.
donia, in Acaia e in certe isole come Creta, Cipro, Amorgo.
I gambi del lino erano seccati al sole, poi si procedeva alla
macerazione in acqua tiepida; poi il lino veniva nuovamente
asciugato, battuto su una pietra con un maglio per separare
la scorza dalle fibre interne che erano poi filate e tessute.
II costume antico, greco e romano, non era, come il nostro,
aderente al corpo, tagliato e cucito; era semplicemente drap­
peggiato. Consisteva in un semplice rettangolo di stoffa quale
usciva dal laboratorio del tessitore e del tintore o del follatore;
avvolgeva liberamente il corpo e solo in certi casi era tratte­
nuto da una cintura, una fibbia o qualche punto di cucitura.

La seminudità che accidentalmente poteva essere prodotta


dal movimento del drappeggio si mostrava in ogni occa-

20 Aristotele, H istoria A nim alium , V, 9, 11.


21 Erodoto, III, 47 e 106.

222
Gli abiti e la toilette

sione della vita pubblica come la vediamo sulle pitture e


sculture antiche, e appariva del tutto naturale. Schiavi,
operai, contadini, marinai dovevano dare continuamente
lo spettacolo di spalle e schiene scoperte, braccia e gambe
bruciate dal caldo o dal freddo, quasi patinate dal conti­
nuo contatto con l’aria aperta.22

Questa seminudità, sopportabile grazie al clima e all’a­


bitudine, non stupiva nessuno in un paese dove gli atleti si
esibivano completamente nudi. Quintiliano dirà della to­
ga: non deve né strangolare né fluttuare. E in realtà l’abito
antico non doveva essere né stretto, al punto da paralizzare
i movimenti, né fluttuante al punto da impacciarli.
Gli uomini non portavano biancheria; la tunica, che
copriva direttamente la pelle, faceva anche da camicia.
Il tipo più primitivo e più semplice di tunica (che spesso
faceva anche da mantello) era Yexomis l’abito che lascia­
va una spalla scoperta (ex-om os). L’exomide era per eccel­
lenza l’abito degli schiavi, di tutti gli operai liberi e della
maggior parte dei soldati. Corta, trattenuta alla vita da un
semplice nodo o da una fibbia, poteva essere aperta o cu­
cita sulla coscia destra, e lasciava comunque libera la parte
destra del corpo. Particolarmente apprezzati gli exomidi
fabbricati a Megara.
La tunica propriamente detta, o chitone, quando era
corta, differiva dall’exomis perché di solito era fermata su
entrambe le spalle con laccetti o fibbie. Quando il re Cle-
omene nel momento di precipitarsi in Alessandria con la
spada in mano per una lotta disperata, «rompe la cucitu­

22 L. Heuzey, H istoire du costum e antique..., p. 5.

223
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

ra che fermava la sua tunica sulla spalla destra» trasfor­


ma praticamente il suo chitone in un ex o m isP La tunica,
chiusa da una cintura, disegnava intorno alla vita una serie
di ampie pieghe denominate kolpos ed era accompagnata
spesso da una seconda cintura, più larga e messa più in
alto, il zoster, cinturone in cuoio di carattere militare che
formava un secondo colpos, come vediamo nel cavaliere in
piedi davanti al suo cavallo nel fregio delle Panatenee.2324
Per dormire, si teneva la tunica che serviva da camicia
da notte come da giorno ma si toglieva la cintura. «Se ti
succede qualcosa in paese» dice Esiodo «i vicini accorro­
no senza cintura mentre i parenti prima se la mettono».25
I bambini portavano tuniche corte senza cintura, come
quella del giovane Teseo sulla celebre coppa di Eufronio,.
del Louvre.26
Ma la lunga tunica degli antichi ionici, che «cadeva fino
ai piedi», non era stata completamente abbandonata in età
classica; era limitata alle cerimonie e alle occasioni ufficia­
li, ed era portata da sacerdoti, citaredi e alcuni atleti con­
correnti di pubblici giochi. L’auriga di Delfi è vestito «della
lunga tunica dei cocchieri, la x istis bianca tradizionale che
si portava durante le corse. Essa scendeva fino alle caviglie
in lunghe pieghe parallele, a partire dalla cintura che era
posta molto in alto, sopra lo stomaco... Sopra la cintura, la
tunica era rimboccata vistosamente, soprattutto ai fianchi.

23 Plutarco, C leom ene, 37, 2.


24 Cfr. J. Charbonneaux, La sculpture..., cit„ I, tav. 62.
25 Esiodo, Le op ere e i g io r n i , v. 3 44.
26 Cfr. C. Dugas e R. Flacelière, Thésée, im ages e t récits, Éditions de Boc-
card, Paris 1958, tav. 9; vediamo anche il giovane Trailo in un’altra coppa
di Eufronio: E. Pottier, D ouris..., p. 89, fig. 18.

224
Gli abiti e la toilette

Disegnava in avanti e all’indietro una scollatura puntuta e


terminava su spalle e braccia in una cucitura che formava
molte arricciature. Il gioco combinato di tale cucitura e
del cordoncino che passava sotto le ascelle formava le ma­
niche che scendevano a coprire le braccia a metà».27
La tunica, anche corta, aveva molto spesso le maniche,
talvolta lunghe, che dovevano essere cucite, certamente
per imitazione del costume persiano.28
Il mantello portato abitualmente dai greci, Vh im atio n ,
era un rettangolo di lana a un solo pezzo che si drappeg­
giava intorno al corpo senza nessuna fibbia. Un h im atio n
del tipo più semplice, di stoffa grossolana e privo di orna­
menti, come quello che portavano i filosofi, si chiamava
tribon («mantello comune») mentre Vh im atio n di lana più
fine e spesso adorno di bande colorate che portavano le
persone più eleganti si chiamava ch lan is. Il lungo bastone,
sormontato da una testa di gruccia, spesso si accompa­
gnava al mantello: quando ci si fermava ci si appoggiava
sul bastone in modo che questo trattenesse sotto l’ascella
la piega dell’h im atio n in un atteggiamento familiare, così
spesso rappresentato su bassorilievi e pitture vascolari.29
I bambini spartiati, dice Plutarco, «a partire dal dodi­
cesimo anno non portavano più tunica e ricevevano un
solo mantello per tutto l’anno».30 Molti ateniesi, sia per
imitare i costumi spartani,31 sia perché poveri, portavano
anch’essi solo il mantello direttamente sulla pelle. Socrate

27 F. Chamoux, L’a u rige d e D elphes, Éditions de Boccard, Paris 1955, p. 51.


28 Cfr. L. Heuzey, H istoire du costum e antique..., pp. 8 0-8 4.
29 Cfr. per esempio, P. Cloche, Les classes..., cit., tav. X X IV B e X X X B.
30 Plutarco, L icurgo, 16, 12.
31 Cfr. F. Ollier, Le m irage spartiate, cit., I, pp. 172-173 e 184-185.

225
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

faceva così; e molti filosofi lo imitavano. «Tu vivi a piedi


nudi e senza tunica» gli diceva Antifone.32 D’altra parte, il
mantello era abbastanza ampio per coprire tutto il corpo;
solo se un vento violento lo sollevava si scorgeva l’assenza
della tunica. Ma sembra che ad Atene l’uso di portare il
mantello direttamente sulla pelle fosse una bizzarria.
Per drappeggiarsi l ’ h im atio n ci si coprivano prima di
tutto le spalle lasciando cadere sul davanti le due punte
che formavano gli angoli inferiori del rettangolo di stoffa,
poi il braccio destro teso faceva passare le pieghe sul brac­
cio sinistro, già piegato per riceverle o sulla spalla sinistra,
da cui ricadevano a punta sulla schiena. E questo i greci
chiamavano drappeggiarsi a destra {épi dexia)\ tale gesto
consisteva nell’afferrare il lembo del mantello con la mano
destra, spostarlo prima a destra e poi buttarlo a sinistra.
Negli U ccelli di Aristofane, Posidone dice al dio Triballo,
una divinità barbara che si ritiene ignori i costumi greci:

Che cosa fai? E così che ti drappeggi a sinistra? Vuoi cam­


biare di lato e drappeggiarti il mantello così, épi dexiaì
Come, disgraziato! sei fatto come Laispodias?33

Lo stratega ateniese Laispodias aveva delle ulcere, o va­


rici, alla gamba sinistra e faceva ricadere perciò il mantello
a sinistra per nasconderle perché, se si fosse drappeggiato
come gli altri, la gamba sinistra si sarebbe scoperta du­
rante la marcia (se non portava la tunica corta). Socrate,

32 Senofonte, M em orabili, I, 6.
33 Aristofane, Gli uccelli, vv. 1568-1569; cfr. F. Robert, «Revue des Études
Grecques» 70, 1957, pp. XVI-XVII.

226
Gli abiti e la toilette

nel Teeteto di Platone, si burla degli zotici «che non sanno


portare il mantello sulla spalla sinistra, come gli uomini
liberi».34
Gli antichi oratori, Solone, Pericle, Temistocle, Aristide,
parlavano alla tribuna avvolti nel mantello che nascondeva
loro entrambe le braccia; solo il braccio destro emergeva
dalle pieghe impedendo qualsiasi «gesto», qualsiasi «azio­
ne» oratoria. Tale è l’atteggiamento della statua di Solone
a Salamina, secondo Eschine che cita ad esempio questo
atteggiamento riservato degli uomini pubblici di un tem­
po, per condannare con più forza la veemente agitazione di
Demostene, noto come «tigre» (,thérion ).35
Questo è anche l’atteggiamento della copia di una statua
forse di Sofocle.36 Il bordo àt\Y him atio n poteva essere por­
tato anche fino al mento o anche passato sulla testa, come
un cappuccio. Ma ai tempi di Eschine, di Demostene, gli
oratori parlavano alla tribuna con il mantello passato sotto
l’ascella destra, attraverso il petto, come una sciarpa fino
alla spalla sinistra; questo sistema lasciava il braccio destro
completamente libero «fuori dall’h im atio n ». Nelle D onne in
assem blea, Prassagora dice alle compagne: «dovremo votare
per alzata di mano scoprendo un braccio solo fino alla spal­
la».37 Questo tipo di voto (icheirotonia ) poteva essere pratica­
to solo se spalla e braccio destro erano liberi dal mantello.
Talvolta, per avere i movimenti del corpo più liberi, se si
voleva impegnarsi in un’azione violenta, si piegava in due

34 Platone, Teeteto, 175 e.


35 Eschine, C ontro Tim arco, 25.
36 Cfr. L. Heuzey, H istoire d u costum e antique..., p. 102, fig. 53, cui si può
paragonare la statua di Demostene, p. 30, fig. 19.
37 Aristofane, Le d o n n e in assem blea, vv. 266-267.

227
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Yh im atio n nel senso della lunghezza, ma quando lo si pie­


gava così bisognava fermarlo alla spalla sinistra con una
fibbia, come una exom ide o una clam id e. Dopo la sconfitta
di Cheronea, anche i vecchi vennero arruolati per aiutare la
difesa della città contro Filippo che minacciava Atene:

«Si potevano vedere» dice l’oratore Licurgo «uomini col


corpo indebolito dall’età, affrancato dalle leggi rispetto al
servizio militare, circolare dovunque in città, tutti sfiniti e
quasi “sulla soglia della tomba”, il mantello piegato e fissato
alla spalla con una fibbia».38

Avevano quindi trasformato il loro mantello del tempo


di pace per adattarlo alla vita militare.
La clam id e, il mantello militare per eccellenza, di solda­
ti, efebi e cavalieri, probabilmente di origine tessalica, era
di stoffa più spessa e più rigida e sempre fermato sulla spalla
con una fibbia. Tale mantello, molto corto, si gonfiava, col
vento, dietro chi lo portava quando correva o cavalcava e
gli artisti hanno tratto da questo movimento della stoffa
bellissimi effetti, ad esempio sul fregio del Partenone, dedi­
cato alle Panatenee.39 La clamide, troppo aperta e fluttuan­
te, non poteva avvolgere il corpo come Yh im atio n e sosti­
tuire così la tunica.. Spostando la fibula intorno al collo e
alle spalle era facile, se lo si desiderava, liberare il braccio
sinistro invece di quello destro. Ci si poteva anche servire
della clamide, arrotolata intorno al braccio sinistro, come
di un elementare scudo, come fece Alcibiade in punto di

38 Licurgo, C ontro L eocrate, 40.


39 Cfr. J. Charbonneaux, La sculpture..., cit., I, tav. 64.

228
Gli abiti e la toilette

morte, uscendo dalla sua casa in fiamme.40 La clamide, di


solito tinta in porpora, resterà per tutta l’antichità il man­
tello militare più abituale: i soldati del governatore Pilato,
prima di incoronare Gesù di spine, lo rivestirono di uno
dei loro mantelli, una clamide «scarlatta» (M atteo , 27, 28).
Gli schiavi, in Grecia, non avevano un costume tipico,
dovevano essere vestiti pressa poco come i meteci e gli ate­
niesi delle classi povere.

Il costume femminile non differiva fondamentalmente


da quello maschile. Particolari cure, ricerche di civetteria
potevano conferirgli un aspetto assai diverso ma si trattava
sempre di un panno rettangolare di lana o di lino come
usciva dal laboratorio del tessitore e che veniva adattato li­
beramente al corpo con fibbie o qualche punto cucito. Fo-
cione e sua moglie erano tanto poveri che avevano un solo
mantello di cui si servivano per uscire a turno. Tuttavia la
disposizione, il colore, il panneggio della stoffa non erano
gli stessi per i due sessi. Nelle D onne in assem blea Prassago-
ra e le sue compagne non condividevano coi mariti solo i
bastoni e le grosse calzature {embades), ma anche i mantelli
e Blepyros, ridotto a infagottarsi nel piccolo mantello color
zafferano di sua moglie, si rende ridicolo.41
L’abbigliamento femminile più rudimentale era quello
delle fanciulle spartane di cui i poeti ateniesi si beffavano.42
Era il peplos aperto e corto che serviva sia da tunica sia da
mantello. Consisteva in uno scialle di lana molto stretto,

40 Plutarco, A lcibiade , 39.


41 Aristofane, Le d on n e in assem blea, vv. 311-312.
42 Cfr. cap. Ili, p. 89.

229
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

semplicemente legato da una fibbia su entrambe le spalle,


senza cuciture e senza cintura. Solo una metà del corpo
era interamente coperta da quest’abito sommario, l’altra si
scopriva a ogni movimento. I giovani spartani, ci riferisce
Plutarco, portavano «delle specie di tuniche le cui ali non
erano cucite in basso e si aprivano scoprendo loro le cosce
durante il passo, per cui venivano chiamate ph ain o m erid es
(«quelle che mostrano le cosce»).43

La donna che avesse tessuto un rettangolo di stoffa di di­


mensioni maggiori del magro peplo delle giovani spartiate
era costretta a ripiegare, con delle fibbie, tutto il tessuto
che superava la sua altezza, nel senso della lunghezza. Lo
scialle di lana, rimanendo sempre aperto a un lato, si dop­
piava nella parte superiore e se ne ricavava un abito che
nella parte di sopra era più o meno lungo ma che faceva
un pezzo solo con la parte inferiore, senza cuciture. Se
le proporzioni eccedevano rispetto a quelle del busto nel
senso della larghezza, i bordi liberi ricadevano lungo l’a­
pertura laterale in una cascata di pieghe che appesantiva­
no l’abbigliamento.44

Una donna vestita con questo peplo poteva infilare una


mano sotto la piega, in un gesto familiare che troviamo in
molte statuine, soprattutto quelle che servivano come sup­
porto agli specchi.
Se la piega era abbastanza lunga, la parte posteriore po­
teva essere riportata sulla testa in modo da formare una

43 Plutarco, Vite p a ra llele : L icurgo e N uma, 3, 6-7.


44 L. Heuzey, H istoire du costum e antique..., p. 156.

230
Gli abiti e la toilette

specie di velo o cappuccio. Su alcune stele funerarie sono


rappresentate donne così drappeggiate.
Quando la piega restava nella posizione normale, poteva
essere divisa in due parti alla vita, con una cintura; tale era
l’abbigliamento di A ten a P arthenos di Fidia, almeno in base
alle copie che ne abbiamo.45 La cintura non solo mantene­
va le pieghe a posto ed evitava di scoprire la gamba destra
camminando, ma metteva in evidenza il busto e contribu­
iva a conferire una figura nobile e severa; se il tessuto non
veniva tirato sul petto poteva anche determinare lo sbuffo
di pieghe che i greci chiamavano kolpos.
Infine, il peplo poteva anche essere chiuso da una cuci­
tura, dal fianco fino ai piedi, in modo da permettere solo il
passaggio delle braccia. Il peplo aperto si poteva sistemare
solo in forme asimmetriche, mentre il peplo chiuso aveva
la forma di una specie di cilindro, ed era piuttosto simme­
trico. Anch esso poteva essere ripiegato e fissato con una
cintura. Così erano maestosamente vestite le ergastines (la­
voratrici) del Partenone, nel fregio delle Panatenaiche che
vediamo al Louvre.46
Nel corso di una guerra fra Atene e Egina di cui igno­
riamo la data esatta, ma che fu certamente anteriore al 485
a.C., ci racconta Erodoto, gli egineti riportarono una così
completa vittoria che gli ateniesi morirono tutti tranne uno:

Questi, di ritorno da Atene, annunciò il disastro; a questa


notizia, le donne i cui mariti erano partiti per Egina, in­
dignate che egli solo si fosse salvato, circondarono da ogni

45 Cfr. J. Charbonneaux, La sculpture..., cit., I, tav. 46.


46 Cfr. J. Charbonneaux, ivi, tav. 83.

231
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

parte lo sventurato e lo crivellarono con le fibbie dei loro


abiti, mentre ognuna gli chiedeva dov’era suo marito. Egli
morì così e gli ateniesi considerarono tale misfatto delle
loro donne come una cosa ancor più terribile del disastro.
Non sapendo quale castigo infliggere a quelle donne, im­
posero loro di cambiare l’abito che portavano con quello
ionico; infatti, prima di tale epoca, le donne ateniesi por­
tavano il costume dorico, assai simile a quello di Corinto;
al posto di quello, si fece loro adottare la tunica di lino,
perché non si potessero più servire di fibbie. A dire il vero,
tale costume non è propriamente ionico, ma della Caria;
infatti l’abito delle donne greche dell’antichità era, per
tutte, quello che noi oggi chiamiamo dorico.47

Quest’ultima affermazione è assai contestabile e noi non


siamo tenuti a prendere alla lettera il racconto dì Erodoto;
è probabile che il mutamento dell’abbigliamento femmi­
nile in Atene sia stato il prodotto di una lenta evoluzione,
e non la conseguenza di un drammatico incidente come
quello che ci racconta lo storico. Ma certamente dobbia­
mo assumerne la distinzione fra il peplo, di solito di lana,
trattenuto da fibbie, e la tunica di lino, cucita, quasi cer­
tamente più recente. I greci, in tutte le epoche, avevano
usato la lana dei loro montoni per vestirsi, mentre il lino,
come si è prima detto, veniva importato, soprattutto dalla
Ionia, prima di acclimatarsi in varie regioni della Grecia
propriamente detta. Il lino dovette essere a lungo conside­
rato come un tessuto di lusso e il suo uso si diffuse a poco a
poco, inizialmente fra le persone eleganti delle classi agiate.

47 Erodoto, V, vv. 87-88.

2 32
Gli abiti e la toilette

Ma possiamo comunque ritenere che l’antico peplo di lana,


abbandonato dalle donne più civettuole, restò però l’abito
delle contadine, della maggior parte delle donne del popolo
e delle schiave. Come gli architetti del Partenone accosta­
vano fregi dorici e ionici, le donne ateniesi portavano tal­
volta il peplo detto «dorico», talvolta la fine tunica (chiton)
di lino a piegoline detta «ionica». Sullo stesso bassorilievo
di Eieusi, della metà del V secolo, Demetra è severamente
vestita col peplo mentre sua figlia Core porta una elegante
tunica di lino.48
La tunica di lino, come il peplo, era costituita da un solo
pezzo di stoffa rettangolare, come usciva dal laboratorio del
tessitore, ma i due bordi laterali del rettangolo erano cuciti
assieme e i bordi superiori di ogni lato erano raccolti sulla
spalla e sulle braccia e tenuti insieme da una doppia serie di
punti di cucitura e talvolta da fibbie, in modo da formare
lunghe maniche. La cintura formava un colpos più o meno
profondo secondo la lunghezza della stoffa. Spesso, la tuni­
ca di lino era pieghettata con un rudimentale procedimen­
to di «pieghettatura con l’unghia» perché non sembra che
gli antichi abbiano conosciuto l’uso del ferro da stiro. La
lunga tunica poteva, come il peplo, avere una doppia piega
sul petto e sulla schiena.
Sopra la tunica, un abito meno caldo del peplo, le donne
portavano d’inverno varie specie di mantelli; per esempio,
un semplice scialle fissato in forma di sciarpa su una spalla,
o un piccolo mantello rotondo {enkykloì), o un peplo usato
come manto, o un lungo h im atio n drappeggiato, simile a
quello maschile, ma il cui lembo cadeva di solito, con più

C fr. J. C harbonneaux, L a sc u lp tu re ..., cit., I, tav. 4 1.

233
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

eleganza, davanti e non di dietro (chlanid é). Talvolta questo


mantello, piegato più volte nel senso della lunghezza, cade­
va in avanti, dalle braccia e, nella pittura vascolare, assume
l’aspetto di una lunga sciarpa.49
Nel IV secolo, le giovani donne eleganti rappresentate
dalle terracotte di Tanagra si avvolgono freddolosamente in
ampi mantelli drappeggiati con sapienza che coprono quasi
interamente la tunica e talvolta sono portate anche sulla
testa a guisa di cappuccio.50
Naturalmente anche, se le ateniesi delle classi povere
continuavano a tessere i propri abiti, gli artigiani di alcune
città si erano fatti una grande fama in determinate speciali­
tà tessili. L’isola di Amorgo esportava ricche tuniche di lino
che si vendevano care mentre il lino di Sicilia era più a buon
mercato51.1 lunghi abiti di lino di Corinto {calasireis) erano
pure molto apprezzati. Chio, Mileto e Cipro vendevano in
un vasto mercato i loro vestiti ricamati. A Pellene si confe­
zionavano mantelli molto apprezzati e il bisso, una qualità
molto fine di lino, filato a Patrasso, era assai ricercato dalle
donne più eleganti.
Euripide ci descrive una donna del suo tempo mentre
prova il vestito nuovo, quando, in M ed ea , un messo raccon­
ta come Glauce, la figlia del re di Corinto che ha appena
sposato Giasone, riceve la corona e la tunica avvelenate,
mortali doni della maga gelosa che glieli ha fatti portare
dai suoi figli:

49 Cfr. L’alabastro di Pasiade, riprodotto in L. Heuzey, H istoire d u costum e


antique..., tav. V, di fronte alla p. 2 20.
50 Cfr. J. Charbonneaux, La sculpture..., cit., II, tav. 104 e E. Pottier, D iphi-
los e t Les M odeleurs d e Terres cu ites grecq u es, passim .
51 Platone, L ettera XLLL, 3 63 a.

234
Gli abiti e la toilette

Alla vista del completo, non si tenne più e tutto concesse


al marito. Non erano lontani da casa, i suoi figli e il loro
padre, che lei già aveva preso il peplo iridato per abbigliar­
sene. Si pose la corona d’oro sui riccioli e con uno specchio
lucente si aggiustava la pettinatura, sorridendo all’imma­
gine inanimata della sua persona. Poi, alzatasi dalla sua
poltrona, traversò l’appartamento posando con grazia un
piede di eccezionale bianchezza trasportata dal piacere di
quei doni: e molte e molte volte gettava lo sguardo sui
talloni sui quali stava, ritta in punta di piedi.52

Quest’ultimo tratto, il più pittoresco, è facile da inter­


pretare. Glauce voltava la testa e si guardava i talloni stando
sulla punta dei piedi per vedere come cadeva l’abito e che
effetto faceva visto di dietro.

La corona doro della principessa Glauce è uno di quei ric­


chi ornamenti che la donna greca amava posarsi sull’accon­
ciatura quando «si vestiva» per una festa o un invito impor­
tante. Gli ateniesi del tempo delle guerre persiane, con il loro
crobilo arricchito di «cicale» d’oro non erano meno vanitosi
delle loro mogli, ma la moda maschile divenne ben presto
più austera tranne in certe circostanze, per le cerimonie reli­
giose o i pranzi ufficiali. I giovani eleganti della classe ricca,
i «cavalieri» di Aristofane, dai lunghi capelli, non disdegna­
vano forse quegli ornamenti e talvolta avevano persino anelli
di metallo alle caviglie. Un d an d y come il poeta Agatone,
che a quanto ci risulta ostentava un abbigliamento quasi

52 Euripide, M edea, vv. 1156 -116 6 ; sull ultimo verso, cfr. la nota dell’edi­
zione H. Weil.

235
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

femminile, portava certamente dei gioielli ma si trattava di


un’eccezione appariscente. In età classica, nelle circostanze
normali della vita, i gioielli erano praticamente riservati alle
donne tranne gli anelli col sigillo (sphragis) di cui gli uomini
si servivano per sigillare, con argilla o cera, tutte le lettere e i
documenti di cui volevano garantire il segreto.
Le donne portavano abitualmente collane, braccialetti,
orecchini e anelli intorno alle caviglie. I pesanti collari con
pendenti dell’età micenea e arcaica, come la collana di Ar­
monia per la quale Erifile tradì i suoi doveri, divennero rari
nell’età di Pericle e furono sostituiti da catenelle più leggere
alle quali talvolta venivano appesi amuleti.
I bracciali si portavano al polso ma anche fra gomito e
spalla, quando la parte alta del braccio restava nuda fuori dal
peplo; erano a forma di spirale o di semplici anelli d’oro o d’ar­
gento che potevano essere chiusi da una figura; il più delle
volte avevano la forma di un serpente arrotolato su se stesso.
L’uso di forarsi il lobo inferiore dell’orecchio per appen­
dervi dei gioielli è di ogni tempo. I greci del tempo di Pericle
non portavano alle orecchie gli ornamenti pesanti e compli­
cati della gioielleria micenea ma, il più delle volte, rondelle di
metallo prezioso decorate a forma di fiore o figure di animali
come amuleto. La moda degli anelli alla caviglia o al polpac­
cio era molto diffusa e pare avesse “un significato religioso o
piuttosto magico (apotropaico).
Naturalmente le donne custodivano i loro gioielli in un
cofanetto che facevano portare da una schiava quando vole­
vano adornarsene; è una scena spesso rappresentata sui vasi o
in rilievi funerari, come l’ammirevole stele di Hegeso.53

53 C fr. J. C harbonneaux, L a sc u lp tu re ..., cit., II, tav, 57.

236
Gli abiti e la toilette

Fra gli accessori della toilette femminile non vanno dimen­


ticati il ventaglio e 1 ombrello, assai utili in un paese caldo e
soleggiato come la Grecia.
Il ventaglio greco non aveva niente in comune col ven­
taglio moderno a pieghe che si richiude su stesso e si apre a
semicerchio. Era un semplice schermo, di solito a forma di
foglia di aro o di palma il cui picciolo faceva da manico, o
a forma di cuore; come i ventagli rigidi, di sottili foglie di
legno, di cui si servivano le giovani signore eleganti rappre­
sentate dalle statuette di Tanagra.54 Talvolta il ventaglio era
circolare o a forma di piccola palma. I ventagli potevano es­
sere di vari colori: verdi, blu, bianchi, talvolta dorati.
Lombrello (skiadion ), come lo vediamo rappresentato su
bassorilievi e vasi del V secolo, somiglia invece, nella struttu­
ra, agli ombrelli di oggi. E un oggetto costituito da una stof­
fa rotonda tesa su un certo numero di bastoncini convergenti
tenuti insieme da un anello che scivola liberamente lungo un
bastone che serve da manico. Per eleganza, talvolta veniva­
no disposti all’estremità dei bastoncini, intorno allombrello,
delle frangie. Il parasole (che poteva anche servire da para­
pioggia) raramente era rappresentato chiuso. Quasi sempre
era portato da una schiava, che si poneva dietro la donna e
la proteggeva. Tali ombrelli probabilmente avevano un ruolo
religioso analogo a quello dei baldacchini in certe processio­
ni, come quella delle Panatenee e delle Sciroforie nel corso
delle quali davanti al sacerdote di Posidone e alla sacerdotessa
di Atena veniva portato un ombrello bianco, ma erano anche
oggetti profani grazie ai quali le donne eleganti proteggeva­
no il candore del loro colorito.

54 C fr. per esempio E. Pottier, D ip h ilo s..., cit., tav. X X I.

237
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Socrate, e, certamente, molti schiavi e la gente del po­


polo in generale camminavano a piedi nudi nelle strade
di Atene e in periferia. I personaggi rappresentati sui vasi
raramente erano calzati e certamente, in casa, ateniesi di
ambo i sessi stavano il più delle volte a piedi nudi. Fuori
casa, l’uso di sandali e calzari era però diffusissimo. Ma il
poveretto rappresentato da Teofrasto per economia calzava
le scarpe solo a partire da mezzogiorno.
Per le calzature e per i cappelli di cui presto parleremo,
è difficile far corrispondere i molti nomi che forniscono i
testi con le rappresentazioni che ci presentano i monumen­
ti; molte delle identificazioni proposte restano incerte. Le
calzature erano spesso fatte su misura; in questo caso il cal­
zolaio tagliava direttamente la suola intorno al piede del
suo cliente.55 I sandali consistevano in semplici suole che
potevano essere di sughero, di legno o di cuoio “annodate
alla caviglia e ai polpacci con delle stringhe e lasciavano
scoperto il piede. L'em bas, stivaletto di tipo corrente che
portavano gli uomini in viaggio, era una calzatura chiusa
allacciata sul davanti e completata in alto da un risvolto;
Yendrom is era analogo, ma non aveva risvolto. Il coturno,
di origine lidia, che si dice Eschilo abbia trasformato per
adattarlo al teatro, era una calzatura con la suola alta me­
no sagomata dei precedenti dato che la si poteva calzare
indifferentemente al piede destro e sinistro, da cui deriva­
va il soprannome di «coturno» attribuito all’uomo di stato
Teramene che i suoi nemici accusavano di passare troppo
facilmente da un partito all’altro.56

55 Cfr. cap. V, p. 198.


56 Senofonte, E lleniche, II, 3, 30-31.

2 38
Gli abiti e la toilette

Le calzature femminili avevano forme molto più varie ed


eleganti. I nomi di alcune, come le persiche o le laconiche,
indicano chiaramente la loro origine ma è più difficile descri­
verle. Sappiamo che, per sembrare più alte, le donne si servi­
vano di specie di tacchi che inserivano fra il piede e la calza­
tura perché sembra che i calzolai antichi ignorassero i tacchi
posti sotto la suola. Un poeta comico dice: «Le donne troppo
piccole si mettono del sughero negli stivaletti». Il cuoio delle
scarpe era tinto in diversi colori, nero, rosso, bianco o giallo.
Come per i vestiti, gli artigiani di molte città fabbricavano
modelli famosi, come quelli di Argo, di Sicione e di Rodi.
Un mimo di Eronda ci consente di entrare da un calzo­
laio che era anche, come molti suoi colleghi, un mercante di
scarpe. Questo mimo è del III secolo ma è probabile che già
nel IV secolo le donne eleganti di Atene trovassero presso i
fornitori una larga scelta e che la scena descritta da Eronda
avrebbe potuto svolgersi uguale cinquanta o cent’anni prima.
Due clienti entrano nel negozio e il calzolaio Kerdon si af­
fretta a riceverle, le fa sedere, sollecita al lavoro i suoi servitori
e presenta i diversi modelli della sua collezione di cui vanta la
qualità. Ci informa, di passata, che tredici schiavi lavorano
nel suo laboratorio, poi dice:

Esaminate questi modelli di ogni tipo: Sicione, Ambra-


eia, gialli, tinta unita, verde pappagallo, di corda, panto­
fole, babbucce ioniche, montanti, pantofole scollate, rosso
gambero, sandali argivi, scarlatte alla «giovinetta» per la
marcia: dite quale desidera il vostro cuore...
una cliente: Questo paio che mi stai mostrando, a che
prezzo me lo vuoi vendere? Ma non farci scappare con un
rombo di tuono troppo violento.

239
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

kerdon: Giudicala tu stessa e fissa il prezzo in conseguenza.


Ma indica un prezzo che dia il pane a coloro che lavorano...
la cliente: Che cosa brontoli? Non potresti dire franca­
mente il prezzo, quale che sia?
kerdon: Signora, questo paio vale una mina (cioè 100 drac­
me, una somma notevole); puoi guardarlo di sopra e di sot­
to: neanche se Atena in persona volesse acquistarlo, potrei
scontarle un soldo.
la cliente: Capisco, Kerdon, perché il tuo negozio è pieno
di prodotti belli e costosi; sorvegliali bene.

Il mercanteggiamento continua sullo stesso tono scher­


zoso.57

Resta infine il capitolo dei cappelli. Gli uomini di solito


andavano a testa nuda in città e si coprivano il capo solo in
campagna; in città portavano il cappello solo gli stranieri di
passaggio. In guerra il copricapo era costituito da un casco
metallico. I pugili avevano una specie di casco di cuoio.
Il p ilo s era un cappello di bell’aspetto, alto, di forma più
o meno conica o a punta che poteva avere una visiera per
proteggere dal sole e anche recare diversi ornamenti. Di
solito era in feltro ma di un feltro di buona fattura e relati­
vamente rigido perché non si appiattisse troppo facilmente.
Poteva essere anche in cuoio e persino in metallo. Erodoto
chiamava p ilo s l’alta tiara dei persiani.58 Tale copricapo po­
teva anche servire da casco militare.59

57 Eronda, M im i, VII, vv. 5 6-8 5 (con dei tagli).


58 Erodoto, III, 12.
59 Cfr. per esempio, una stele funeraria incisa, P. Guillon, La B éotie an ­
tique, tav. XXIV.

240
Gli abiti e la toilette

La parola p ilid io n , diminutivo di p ilo s, indicava invece


un copricapo assai diverso (come in francese casquette, ber­
retto, non è un «piccolo casco»). Semplice calotta di feltro
o di lana era, innanzitutto, una specie di berretta di not­
te che talvolta i medici raccomandavano di portare ai loro
pazienti per tenere la testa bene al caldo.60 Questo stesso
berretto, senza visiera e privo di qualsiasi ornamento, era
portato anche in campagna dagli schiavi e dalla gente del
popolo: contadini, passatori, artigiani, battellieri, marinai.
Era il copricapo del dio Efesto, patrono degli operai. Un
ateniese di rango si sarebbe vergognato a passeggiare per
le strade di Atene con un cappello così popolare, così tra­
scurato: Solone l’aveva però fatto in circostanze particolari,
allo scopo di far credere di essere fuori di sé.61
La cun é era un berretto di cuoio (letteralmente: in pelle
di cane) la cui forma e uso erano simili a quelli del p ilid io n .
Il p ilo s, anche munito di visiera, proteggeva assai poco
dall’ardore del sole. Il copricapo dei viaggiatori, che portava
anche Ermes, il messaggero celeste, era di preferenza il p e-
taso, largo cappello di feltro o di paglia a bordi assai larghi e
a corpo basso munito di nastri che permettevano di legarlo
al collo e lasciarlo cadere indietro sul dorso. Un cappello di
questo tipo doveva essere fissato sulla testa perché offriva
una vasta presa al vento ma proteggeva efficacemente dal
sole e dalla pioggia.
Le donne, come abbiamo detto, si coprivano la testa con
un lembo di tunica o del mantello drappeggiato a guisa di

60 Platone, R epubblica, III, 4 0 6 d.


61 Cfr. R. Flacelière, «Revue des Études Anciennes» 49, 1947, pp. 235-247:
il copricapo di Solone.

241
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

cappuccio. Il cecrifalo di cui abbiamo anche parlato era una


specie di sciarpa, di «fazzoletto da testa» annodato intorno
ai capelli più che un vero e proprio cappello. Ma le donne
disponevano anche di un copricapo rotondo il cui centro si
innalzava a punta, la th o lia che, in sostanza, era una varian­
te del petaso. Le statuette di Tanagra mostrano con quale
eleganza molte donne sapessero portare la th o lia.
VII

Pasti, giochi e divertimenti

Le giornate di lavoro e anche le riunioni di ogni tipo, quelle


deirAssemblea, dei tribunali o delle feste religiose, comin­
ciavano di regola al levar del sole. L’ateniese, prima di uscire
di casa alle prime luci dell’alba, prendeva un leggero pa­
sto (acratism os) che di solito consisteva in un piccolo pane
d’orzo o di grano intinto in un po’ di vino puro (acratos).
"Poteva anche rendere un po’ più abbondante questo primo
pasto con un po’ di olive o di fichi.
La divisione della giornata in ore non poteva essere molto
precisa nella Grecia antica. Anticamente si designavano in
maniera assai vaga i diversi momenti, che erano l’alba, l’ora
in cui il mercato è più affollato (cioè metà mattina), mezzo­
giorno, il pomeriggio e la sera. Ma già a metà del V secolo
i greci disponevano di vari apparecchi di misurazione del
tempo: il quadrante solare o gnomone, ereditato dall’orien­
te e la clessidra ad acqua che indicava la durata tramite lo
scorrere regolare di una certa quantità di liquido. L’orologio
idraulico, fondato sullo stesso principio, non esisteva ancora
in età classica. Praticamente ad Atene la lancetta verticale

2 43
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

eretta sul piano orizzontale dello gnonome dall’astronomo


Metone sulla Pnice, o le lancette degli altri quadranti solari,
alcuni dei quali potevano essere spostati, indicavano, con la
lunghezza variabile dell’ombra proiettata, il momento fissa­
to per un appuntamento o un invito. Si misurava in piedi la
lunghezza dell’ombra. Nelle D onne in assem blea, Prassagora
dice al marito: «Tu non avrai altra preoccupazione, quando
l’ombra sarà di 10 piedi, che di andare tutto allegro a ce­
na».1 Un frammento del poeta comico Eubulo ci parla di
un grosso mangiatore che «invitato a cena da un amico che
gli aveva detto di venire quando l’ombra era di 20 piedi,
prese la misura dall’aurora al levar del sole e si presentò che
l’ombra era ancor più lunga di 2 piedi: spiegò che arrivava
un po’ tardi, avendo avuto da fare e che si era liberato solo,
per il far del giorno».12 Poiché tutti gli inviti a cena avevano
luogo la sera, era come se uno, invitato per le otto di se­
ra, arrivasse alle otto di mattina. Anche quando l’uso dello
gnomone divenne abituale non sembra che i greci abbiano
preso l’abitudine di numerare le ore a partire dal levar del
sole come faranno i romani. Le divisioni della giornata re­
starono dunque assai vaghe e approssimative e ciò doveva
influenzare anche il ritmo della loro vita.
Verso il mezzogiorno o nel corso del pomeriggio i greci
consumavano un pasto assai sommario e rapido (ariston ).
Alcuni assumevano una specie di merenda verso sera
Chesperisma) ma il pasto di gran lunga più abbondante ave­
va luogo di solito alla fine della giornata o anche di notte:
era la cena ideipnori).

1 Aristofane, Le d on n e in assem blea, vv. 651-652.


2 Eubulo, ed. Kock dei frammenti di comici, 119; in Ateneo, I, 8 b-c.

244
Pasti, giochi e divertim enti

Di solito che cosa mangiavano i greci, a casa loro? La


maggior parte, soprattutto ad Atene, erano rinomati per
la loro sobrietà causata dal clima e dalla scarsa fertilità del
suolo. Ma gli abitanti della fertile e pianeggiante Beozia
erano noti come forti mangiatori e la loro ghiottoneria,
come la loro grossolanità, erano fonte di scherno. Ma la
predilezione per la buona tavola e il vino che veniva loro
attribuita era probabilmente effetto dei pregiudizi di vici­
ni malevoli.3 Il regime alimentare degli spartiati passava
invece per essere ancor più frugale di quello degli ateniesi,
ma si trattava anche in questo caso, probabilmente, di un
«miraggio» in senso contrario.
Omero già chiamava gli uomini «mangiatori di farina».
I cereali, soprattutto orzo e grano, di cui come abbiamo
detto gli ateniesi dovevano importare forti quantità, costi­
tuivano la base della loro alimentazione. Quando Platone,
nella R epubb lica , volle tracciare il quadro di una vita sana e
primitiva, scrisse:

Gli uomini, per nutrirsi, prepareranno, con orzo o con


frumento, della farina che faranno abbrustolire o impaste­
ranno, ne faranno delle belle gallette e pani che serviran­
no su paglia o su foglie ben pulite.4

La farina d’orzo impastata in gallette è la m az a , cibo es­


senziale nella vita di tutti i giorni. Secondo una prescrizione
di Solone, il pane di frumento propriamente detto (artos) in
pani rotondi doveva essere mangiato solo in giorni di festa.

3 Cfr. P. Guillon, La B éotie antique, pp. 79-92.


4 Platone, R epubblica, II, 3 72 b.

245
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

Ma certamente nell’Atene del secolo di Pericle tutti i giorni


si trovava dal panettiere sia la m aza sia il pane di frumento
(mentre un tempo ogni famiglia si cuoceva il suo pane),
ma la m aza costava assai meno e i poveri dovevano quasi
sempre accontentarsene.
Ogni alimento solido che si accompagnava al pane si
chiamava opsom verdure, cipolle, olive, carne, pesce, frutta
e dolci. Le verdure erano rare e, in città, relativamente care,
tranne le fave e le lenticchie che si consumavano soprattutto
in purea {etnos) era questo il cibo spesso e sostanzioso di cui
Eracle, noto mangiatore, era ghiotto secondo Aristofane.5
Si consumavano molto formaggio, cipolle e aglio, soprat­
tutto nell’esercito, presso il quale i più delicati lamentavano
la dieta grossolana e monotona.6 Le olive abbondavano ia
Attica, almeno prima della guerra del Peloponneso, e ci si
serviva di esse soprattutto per l’olio ma se ne mangiavano
anche molte.
La carne era costosa, tranne quella di maiale (un porcel­
lino di latte valeva 3 dracme)7 e i poveri di città la mangia­
vano solo di tanto in tanto in occasione dei sacrifici perché
quasi tutte le feste religiose contemplavano scene di macel­
lazione e terminavano con solenni mangiate. Ma in campa­
gna i proprietari agiati potevano mangiare in abbondanza
maiali, volatili, capretti, montoni e naturalmente la selvag­
gina che si procuravano cacciando.
La maggior parte degli ateniesi di città dovevano nutrirsi
molto più spesso di pesce che di carne. E significativo che

5 Aristofane, Le rane, vv. 62-63.


6 Aristofane, La p a ce, vv. 529 e 1127-1129.
7 Aristofane, La p a ce, v. 374.

246
Pasti, giochi e divertim enti

il termine opson, che come abbiamo detto designava ogni


companatico, sia poi passato a indicare più propriamente
il pesce, tanto che il termine del greco moderno per «pe­
sce» ne deriva direttamente. Insieme al pane, il pesce era
probabilmente il cibo principale della popolazione urbana.
Ogni aumento del prezzo delle sardine e acciughe del Fale-
ro preoccupava la popolazione più modesta che temeva di
doversi privare di un alimento dei più forniti e più pitto­
reschi dell’Agorà. Talune specie particolarmente saporite e
ricercate costavano troppo per figurare sulle tavole dei po­
veri, come le celebri anguille del lago Copaide; gli ateniesi
erano infatti ghiotti di pesce d’acqua dolce quanto di pesci
marini, come il tonno. Amavano anche i frutti di mare,
conchiglie e molluschi, e le seppie e i calamari che abbon­
davano lungo le coste dell’Eubea e che costituivano una ri­
sorsa così importante per i pescatori di Eretria che tale città
aveva assunto, come segno distintivo della sua moneta, un
calamaro.8
Mercanti di conserve in salamoia (tarichos ) vendevano
pesce e carne conservati sotto sale o affumicati.
Il pasto poteva finire con un dessert (*tragèm a ): frutti fre­
schi o secchi, soprattutto fichi, noci e uva o dolci al miele.
Erano le donne di casa, soprattutto le schiave, a cucina­
re. Nel IV secolo cominciamo a vedere nelle case cuochi e
pasticcieri professionali, alcuni dei quali scrivono persino
dei libri di «arte culinaria». Platone cita «Thearion il pastic­
ciere, Mithecos, autore di un trattato sulla cucina siciliana
e Sarambos, il vinaio, tre eminenti conoscitori di dolci, cu­

8 Cfr. R. Flacelière, «Revue des Études Anciennes» 50, 1948, pp. 211-217;
Temistocle, gli abitanti di Eretria e i calamari.

2 47
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

cina e vini».9 Quasi tutti i cibi si mangiavano con le mani


perché si ignorava l’uso della forchetta. Le gallette piatte di
m aza o di grano potevano servire da piatti ma si usavano
anche piatti e scodelle di legno, terracotta o metallo e per
mangiare puree o piatti bolliti si usavano cucchiai simili ai
nostri talvolta col manico fittamente decorato. Per la carne
era necessario l’uso dei coltelli.
Il cibo più gradito dagli spartiati nel pasto in comune
era il famoso brodetto nero, specie di denso umido in cui
entravano come ingredienti carne di maiale, sangue, ace­
to, sale. Plutarco ci narra che per assaggiare questo celebre
piatto «un re del Ponto acquistò un cuoco spartano e si fece
da lui servire il brodo nero, ma lo trovò cattivo e il cuoco
così commentò: “Re, questo cibo va mangiato dopo un ba-.
gno nell’Eurota”».10 Questo aneddoto conferma anche per
Sparta, dove l’idroterapia non era diffusa come altrove, l’u­
so di bagnarsi prima del pasto. Un alimento intermedio fra
il cibo solido e la bevanda era il kykeon, bevanda rituale dei
misteri eleusini che veniva bevuto spesso anche dai conta­
dini greci. Era una mistura di farina fine d’orzo e acqua che
si poteva aromatizzare con varie piante come la menta o il
timo, un alimento frugale che si riteneva avesse proprietà
medicinali:

Nella Pace di Aristofane, Trigeo, temendo di aver fatto


indigestione di frutta, riceve da Ermes il consiglio di be­
re del kykeon profumato con puleggio. Era evidentemente
una ricetta da contadini. Nella stessa opera, il kykeon è

9 Platone, G orgia, 518 b.


10 Plutarco, L icurgo, 12, 13.

2 48
Pasti, giochi e divertim enti

vantato dal coro come una specialità della vita dei campi.
Fra i benefici della pace che il contadino ritrova tornando
a casa figura il kykeon al timo con cui si ristora nel cuore
dell’estate. Un passo dei Caratteri di Teofrasto mostra il
carattere popolare del kykeon e indica come la buona so­
cietà disdegnasse ormai quella rustica bevanda. Il suo «ru­
stico» ha bevuto un kykeon prima di andare in assemblea
e al vicino, infastidito dal suo alito, dice che nessun fiore
ha un profumo gradevole come il timo.11

Per bere ci si serviva di tazze come il cothon spartano, in


legno o in metallo, quest’ultimo soprattutto nell’esercito,
come ci informa Plutarco.

La smaltatura che lo copriva impediva di distinguere la


sporcizia dell’acqua che i soldati sono costretti a bere e che
li disgusterebbe; inoltre il fango che insozzava il liquido
era trattenuto all’interno dai bordi della tazza e l’acqua
arrivava così più pura alla bocca.112

Ma ad Atene, nelle case private, si usavano soprattutto


coppe di terracotta.
La bevanda più diffusa era certamente l’acqua, il cui gu­
sto e la cui freschezza erano apprezzati anche dai buongu­
stai. Si bevevano anche latte, soprattutto di capra, e una
specie di idromele, miscela di miele e acqua. Ma era la vite
a fornire la bevanda reale, il «dono di Dioniso». In campa­

11 A . Delatte, Le cycéon, b reu va ge rìtu el des m ystères d ’E leusis, Les Belles


Lettres, Paris 1955, p. 2 7 dove sono citati: Aristofane, La p a ce, vv. 7 1 2 e
1169 e Teofrasto, C aratteri, 4, 2-3.
12 Plutarco, L icurgo, 9, 8.

249
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

gna, dopo la vendemmia, si beveva il vino dolce. La fab­


bricazione del vino era assai diversa da quella attuale; la
fermentazione in tini non era praticata né a lungo né si­
stematicamente e la conservazione del prezioso liquido era
perciò molto difficile.
Per garantirla si mescolava il vino ad acqua salata o ad
altri ingredienti, probabilmente col sistema con cui si fab­
brica attualmente in Grecia il vino resinato, anche se non
risulta che gli antichi abbiano mai aggiunto resina al vino.
Si aggiungevano spesso aromi come il timo, la menta o la
cannella, e talvolta del miele. Si faceva anche il vino cotto.
Ogni paese produttore di un vino celebre aveva i suoi par­
ticolari sistemi di conservazione.
Il vino destinato al consumo immediato era posto in
otri di pelle di capra o di maiale mentre quello che andava
esportato veniva versato in grandi giare di terracotta (p i-
thoi) che sostituivano i nostri tini, poi in anfore anch’esse di
argilla, le cui pareti interne erano spalmate di pece. Le anse
delle anfore erano marcate col nome del mercante di vino e
di certi magistrati locali il cui sigillo serviva da «denomina­
zione d origine». I vini di Taso, di Chio, di Lesbo, di Rodi
e di altre località erano particolarmente rinomati. L’espor­
tazione e l’importazione dei vini erano regolate, soprattutto
a Taso, da leggi che colpivano con sanzioni particolari le
frodi e garantivano un vero e proprio protezionismo.13
Assai di rado si beveva vino puro (acratos ). Prima di ogni
pasto, in un grande vaso chiamato cratere, si componeva
una miscela, più o meno alcoolica, di acqua e vino. Già

13 Cfr. Insc. Gr., XII, 3 4 7 ,1 e anche J. Poilloux, R echerches su r l ’histoire et les


cultes d e Thasos, Editions de Boccard, Paris 1954, pp. 37-45.

250
Pasti, giochi e divertim enti

nell’Iliade Achille, quando riceve gli ambasciatori di Aga­


mennone, ordina a Patroclo: «Prendi il cratere più grande,
figlio di Menezio, fa’ la miscela più forte e versa in tutte
le coppe».14 In età classica il vino era allungato con quan­
tità più o meno ingenti d’acqua, secondo le circostanze. I
servi attingevano al cratere con lunghi mestoli col manico
ricurvo, di argilla o di legno, o con oinochoes e riempivano
con essi le coppe dei convitati. Il vino serviva anche, nelle
cerimonie religiose, alle libagioni in onore degli dei, ma il
culto di certe divinità escludeva il vino e le loro libagioni si
facevano col latte.

Se gli spartiati assumevano regolarmente in comune i


loro pasti, comunque tutti i greci amavano i banchetti in
occasione di feste familiari, della città e di tutti gli eventi
degni di essere celebrati, come i successi ai concorsi degli
atleti o dei poeti, o l’arrivo o la partenza di un amico. I
banchetti {symposia) hanno anche fatto nascere un genere
letterario specifico, come attestano, fra l’altro, opere quali i
Sim posi di Platone e Senefonte e, molto più tardi, i Sym po-
siaca di Plutarco e i D eipnosofisti di Ateneo.
La parola sym posion che traduciamo con «banchetto»
significa letteralmente «riunione di bevitori». Infatti ogni
pranzo di gala e ogni banchetto di confraternita religiosa
o di associazione (thiasos) comportavano due tempi succes­
sivi: prima il soddisfacimento della fame, il pasto propria­
mente detto, poi (ma questa seconda parte non era affatto
secondaria per importanza perché dava il nome al simposio
e durava di solito più a lungo) l’assunzione della bevanda,

14 O m ero, Ilia d e , IX , vv. 2 0 2 -2 0 3 .

251
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

soprattutto vino, accompagnata da ogni sorta di diverti­


menti in comune, diversi a seconda delle occasioni e dell’e­
poca: conversazioni, giochi, ascolto di musica, danze ecc.
Ma non bisogna pensare che nella prima parte del banchet­
to non si bevesse e nella seconda non si consumasse alcun
alimento solido; sappiamo al contrario che i convitati man­
giando potevano, se lo desideravano, farsi servire da bere e
che in seguito, nel corso del simposio propriamente detto,
continuavano spesso, per eccitare la sete, a sgranocchiare
dei «dolcetti» (tragem atd ), come frutta secca o fresca, fave o
lenticchie secche, ciambelline ecc.15
Si trattava sempre, ad Atene come nei sissiti spartiati, di
pasti fra uomini e anche in questo caso emerge il carattere
della società greca che già abbiamo indicato nel capitolo.
IV a proposito dell’educazione e della pederastia; le donne
libere erano rigorosamente escluse dalle riunioni della vita
sociale come da tutte quelle della vita politica. In compenso
avevano, in certe feste religiose, banchetti a esse strettamen­
te riservati, come ad esempio, ad Atene, le Tesmoforie. Nel
Sim posio di Platone, Diotima, la straniera di Mantinea, non
figura come convitata; Socrate si limita a riportarne le paro­
le che crede di aver udito dalle sue labbra e che, nonostante
tale finzione letteraria, sono semplicemente l’enunciazione
dei suoi stessi pensieri o addirittura di quelli dell’autore
del testo, Platone.16 In realtà, nel secolo di Pericle le donne
normalmente non comparivano nei banchetti se non per
servire gli uomini, nella seconda parte della riunione, come
musicanti, danzatrici o cortigiane.

15 Cfr. Aristofane, La pace-, v. 1136.


16 Platone, Sim posio , 201 d-c.

252
Pasti, giochi e divertim enti

Amici o membri di uno stesso gruppo {eteria) decidevano


talvolta di riunirsi alternativamente presso l’uno o l’altro di
loro portando ognuno la sua parte ,di cibo e bevanda: era un
eranos. Ma il più delle volte i banchetti avevano luogo per in­
vito di un ospite abbastanza ricco per sostenere tutte le spese
della riunione. Di solito gli inviti erano abbastanza improv­
visati; si incontravano degli amici all’Agorà o per strada e li
si invitava a cenare; accadeva anche che un invitato portasse
con sé, di sua iniziativa, un amico che non era stato invitato
dal padrone di casa. I parassiti, tanto derisi dai poeti comici,
cercavano sempre il sistema per mangiare e bere bene.
Arrivati alla casa dell’ospite, si toglievano le scarpe, i ser­
vi lavavano i piedi agli invitati che passavano poi nella sala
dei banchetti. I convitati erano spesso incoronati di foglie o
fiori e potevano anche portare sul petto ornamenti chiamati
hypothim ydes}7 In generale, essi mangiavano coricati o con
le gambe tese su un letto con il busto leggermente inclinato
sostenuto da cuscini come si vede in tante pitture vascola­
ri o bassorilievi che rappresentano scene di banchetto. Il
numero e la disposizione di tali letti erano, naturalmente,
variabili: di solito due convitati, talvolta tre si sdraiavano
sullo stesso letto. Come oggi, si ponevano problemi di eti­
chetta e di precedenza. I posti più onorifici erano vicino
al padrone di casa che poteva indicare a ogni convitato il
suo posto ma non lo faceva sempre. I tavoli erano piccoli
e spostabili; potevano essercene uno per invitato o uno per
letto; alcuni erano quadrati o rettangolari, altri rotondi, a
tre piedi. Gli schiavi vi disponevano i cibi in porzioni già
pronte in vasi o piatti.

17 Plutarco, M o tti, III, 1, 6 4 7 E.

253
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

Quando i convitati erano a posto, i servi presentavano


loro il bacile per lavarsi le mani (chernips), una pratica tanto
più utile visto che i cibi si mangiavano con le dita. Il pasto
cominciava spesso col propom a , una parola che si potrebbe
tradurre con «aperitivo»; era una coppa di vino aromatiz­
zato che si beveva facendolo girare prima di cominciare a
mangiare.18 Non cerano tovaglioli; ci si asciugava con pezzi
di mollica di pane che poi si buttavano, con ossa e altri
avanzi, ai cani di casa che si aggiravano fra i piedi dei tavoli
e dei letti come spesso si vede sui documenti illustrati di cui
disponiamo.
Certi commensali invitati solo per il simposio propria­
mente detto arrivavano alla fine della prima parte della ce­
na. Le libagioni cominciavano con una bevanda dedicata
agli dei e soprattutto a Dioniso, la «buona divinità» che
aveva donato il vino agli uomini. La libagione consisteva
nel bere una piccola quantità di vino puro spargendone
qualche goccia e invocando il nome del dio. Poi si designa­
va, spesso a sorte, il «re del banchetto» (sim posiarca ) la cui
funzione principale consisteva nel fissare le proporzioni di
vino e d’acqua e nel decidere quante coppe ogni invitato
doveva bere. Era d’uso brindare alla salute di ogni invitato,
a turno. Chi disobbediva al re del banchetto doveva subi­
re una specie di punizione, come danzare nudi o fare tre
volte il giro della sala portando fra le braccia la suonatrice
di oboe la cui presenza era di rigore. Spesso i banchetti si
chiudevano nell’ubriachezza generale e varie pitture vasco­
lari ci mostrano donne che sostengono e trascinano a fatica
a casa i bevitori completamente fuori di sé.

18 A teneo, II, 6 6 c-d.

254
Pasti, giochi e divertim enti

Nel Sim posio di Platone incontriamo prima di tutto So­


crate che si reca «ben lavato, coi sandali ai piedi, cose non
abituali per lui», dal poeta Agatone che l’aveva invitato con
alcuni amici per celebrare a casa sua la vittoria che aveva
conseguito in un concorso di poesia tragica. Per strada So­
crate invita un suo amico, Aristodemo, che non era stato
convocato da Agatone e, poiché Socrate si era attardato
per meditare un problema che gli era venuto in mente,
Aristodemo arriva per primo. Agatone subito, lo invita e
manda immediatamente un servo a cercare Socrate, poi
prega Aristodemo di prendere posto sul letto dove già sta
sdraiato il medico Erisimaco e uno schiavo gli fa lavare le
mani. Agatone comanda ai servi di portare il pasto senza
aspettare Socrate che arriva quando il banchetto è già a
metà.

Dopo che Socrate si fu accomodato in un letto (vicino


ad Agatone, al posto d’onore) ed ebbe mangiato, tutti
bevvero, cantarono l’inno al dio (Dioniso) e adempirono
agli altri riti abituali. A questo punto ci si mise a bere.19

Ma poiché molti convitati avevano già molto bevuto il


giorno prima, decisero di comune accordo «invece di usa­
re questa riunione per ubriacarsi, di bere solo per trarne
piacere» senza che nessuno, cioè nessun simposiarca, im­
ponesse ai convitati il numero di coppe da vuotare. Poi
Erisimaco propose di «invitare la suonatrice di oboe a fare
una passeggiata (che suoni per se stessa a suo piacere, o per
le donne di casa) e di impiegare il tempo della riunione a

19 Platone, Sim p o sio , 17 6 a .

255
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

discutere insieme su un tema convenuto». Fedro propose


allora come tema di discussione l’elogio dell’amore.20
Leggiamo poi, successivamente, i discorsi di Fedro, di
Pausania, di Erisimaco (al quale il poeta Aristofane cede
il turno perché afflitto da un tenace singhiozzo, ricevendo
subito dal medico una «ricetta» sui diversi sistemi per far­
selo passare), poi di Aristofane, guarito, e alla fine, dopo
una interruzione, di Agatone e di Socrate stesso che prima
dialoga con Agatone e poi espone le sue idee sul tema, o
piuttosto quelle di Platone attribuendole alla sacerdotessa
Diotima.
Socrate aveva appena finito di parlare che improvvisa­
mente «si senti battere alla porta del cortile dal quale ve­
niva un gran frastuono di festa, e si sentiva la voce di una
suonatrice di oboe». Agatone ordinò agli schiavi di andare
a vedere che cosa succedeva:

Si intese allora dal cortile la voce di Alcibiade compieta-


mente ubriaco che gridava a squarciagola che gli si dicesse
dov’era Agatone, che lo si portasse da lui. Lo si accompa­
gnò al banchetto, dove arrivò sostenuto dalla suonatrice
e da alcuni amici. Ed eccolo comparire alle soglie della
sala coronato di foglie d’edera con violette e la testa piena
di nastri: «Buonasera, signori» disse. «Ammettete un uo­
mo completamente ubriaco, parola mia, a bere con voi? O
dovrò sloggiare di qui subito accontentandomi di coprire
con queste ghirlande Agatone per il quale sono venuto?».21

20 Ivi, 176 d-\77 c.


21 Ivi, 2 12 c-e.

256
Pasti, giochi e divertim enti

Alcibiade viene invitato a entrare e ad accomodarsi sul


letto del padrone di casa, fra questi e Socrate che all’inizio
non riconobbe. Agatone ordinò ai servi di togliergli i calza­
ri. Alcibiade proclamò allora che bisognava ancora bere e si
autodesignò, nella sua qualità di uomo già ebbro, come sim-
posiarca. Comandò che gli venisse portata una grande coppa
di vino o piuttosto un psycter, il vaso per rinfrescarsi dove il
narratore ci spiega che erano contenuti otto cotyles, cioè più
di due litri e un quarto.2223Il recipiente venne riempito, egli lo
vuotò completamente e poi costrinse Socrate a bere la stessa
quantità di vino. Invitato a parlare, pronunciò il suo famoso
elogio di Socrate: in vino v e n t a s i Poi Socrate volle fare, a sua
volta, l’elogio di Agatone e gli chiese di cambiare posizione,
restando sullo stesso letto, per trovarsi di nuovo al suo fianco.

Ma aH’improwiso giunse una nuova banda di gente in festa


alla porta; trovandola aperta perché qualcuno stava uscen­
do tirarono diritto davanti a sé e si accomodarono sui letti.
Un frastuono generale riempì allora la sala e, abolito ormai
ogni ordine, fummo costretti a bere vino senza misura.24

Alcuni convitati a quel punto se ne andarono, altri si


addormentarono; Agatone, Aristofane e Socrate restarono
soli a bere e a discutere. Infine Aristofane e poi Agatone
cedettero al sonno. Allora Socrate, che poteva bere grandi

22 Cfr., su questo passo, e sui diversi tipi di p sycter , G. Daux, «Revue des
Études Grecques» 55, 1942, pp. 268-269.
23 Cfr. l ’interessante articolo di P. Boyancé: P laton Et Le Vin, in «Bulletin
de l’Association Guillaum e Budé: Lettres d ’humanité» 10, decembre 1951,
pp. 3-19.
24 Platone, Simposio, 2 2 3 b.

257
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

quantità di vino senza problemi, «si alzò e partì; prese la


strada per il Liceo e, dopo essersi lavato, passò il resto della
giornata come l’avrebbe fatto normalmente. Poi, quando
la giornata fu così trascorsa, verso sera, rientrò a casa per
riposare». Così si conclude il Sim posio di Platone.

Quello di Senofonte, dopo un breve preambolo, comin­


cia così: «Alle grandi Panatenaiche ci furono delle corse di
cavalli. Callia, figlio di Ipponico, vi portò il giovane Au­
tolycos, che amava e che aveva vinto il premio alle gare del
pancrazio. Dopo la fine delle corse, Gallia si recò a casa sua
al Pireo, seguito da Autolycos, da suo padre e da Nikeratos.
Scorse Socrate, Critobulo, Antistene e Carmide» e li invitò
tutti a cena, per la sera stessa, con Autolycos e suo padre,.
certamente per festeggiare la vittoria al pancrazio del suo
giovane érom ène. Nella sala del banchetto, Autolycos, la cui
bellezza attirava tutti gli sguardi, si accomodò presso suo
padre. I convitati mangiavano in silenzio quando, all’im-
provviso, venne bussato alla porta. Era il buffone parassi­
ta Filippo accompagnato da uno schiavo che chiedeva da
mangiare per sé e il suo servo. Gallia lo invita a prendere
posto. «Tu trovi i nostri convitati seri; arrivi in tempo per
farli ridere.» Ma le facezie di Filippo non fanno affatto ri­
dere i convitati. Allora egli smette di mangiare, si copre con
un velo la testa, si stende sul letto facendo finta di piange­
re e ciò impietosisce i presenti che lo esortano a mangiare
promettendogli di ridere alle prossime sue spiritosaggini.25
«Quando furono portate via le tavole, si furono fatte le
libagioni e cantato il peana» cioè quando iniziò il simpo­

25 Senofonte, Sim po sio , cap. I.

258
Pasti, giochi e divertim enti

sio propriamente detto, un battelliere siracusano si presentò


per offrire uno spettacolo (comos) con una troupe formata
da tre giovani: una buona suonatrice di oboe, una danzatri­
ce-acrobata e un bel ragazzo che suonava la cetra e danzava.
È probabile che il ricco Gallia avesse già assunto il siracusa­
no e il suo gruppo per distrarre gli invitati. Senofonte ce lo
fa capire dicendoci che l’«impresario» siracusano produceva
i suoi danzatori e suonatori per denaro.
Ebbe allora inizio un concerto di cetra e di oboe. Callia
propose di far portare dei profumi ma Socrate vi si oppose
dicendo che l’uso dei profumi si addiceva solo alle donne.
(Nella sala dei banchetti, come nei ginecei, cerano gli alti
brucia-profumi, th ym iaterìa, che si usavano anche nelle ce­
rimonie religiose. I greci facevano grande uso di profumi,
in tutte le circostanze).26 Quindi, al suono dell’oboe, la dan­
zatrice eseguì un esercizio ritmato con dodici cerchi, quin­
di fece un esercizio pericoloso con un cerchio circondato di
spade attraverso il quale passò saltando e ognuno dei suoi
numeri suscitò gli ammirati commenti dei convitati. Quindi
fu la volta del ragazzo di danzare e Socrate fece allora un
gentile elogio della danza o piuttosto della ginnastica ritmica
che gli piacerebbe praticare «per ridurre il suo ventre, fuori
misura, a più giuste proporzioni». Il buffone Filippo parodiò
poi, grottescamente, i due danzatori. Socrate fece deliberare
che si sarebbe bevuto moderatamente e non per ubriacarsi,
poi, dopo che il ragazzo ebbe cantato un pezzo accompa­
gnandosi alla chitarra, avviò una conversazione: ognuno dei

26 Questi thym iaterìa sono rappresentati spesso sulle pitture vascolari: cfr.
per esempio M . Metzger, Les répresentations dans la céram iq u e a ttiq u e du IV
siècle, Éditions de Boccard, Paris 1951, tav I, 1 e II, 2. Su un certo uso delle
parole, cfr. Aristofane, Lisistrata, vv. 938-947.

259
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

convitati avrebbe dovuto indicare la virtù o l’arte alla quale


attribuiva maggior valore e cercare di giustificarne l’eccellen­
za; ne segue una conversazione scherzosa e casuale. Poi ebbe
luogo una divertente gara di bellezza fra Socrate e Critobulo.
Più tardi alcuni convitati proposero che ci si divertisse con
un «gioco dei ritratti», ma altri si opposero e Socrate ripor­
tò l’accordo, stupendo tutti con l’intonare una canzone. La
danzatrice si apprestò a fare un nuovo numero di acrobazia
su un tornio da vasaio, ma Socrate chiese al siracusano un
gioco meno pericoloso e più calmo. Mentre l’impresario e la
sua compagnia lasciavano la sala per fare i necessari prepa­
rativi, i convitati si intrattennero sul tema dell’amore che in
fondo rappresenta il soggetto principale dell’opera di Seno-
fonte come del Sim posio di Platone. Dopo tale conversazione,.
il giovane Autolycos si ritirò accompagnato dal padre e il si­
racusano presentò una specie di mimo nel quale il danzatore
e la danzatrice interpretavano le parti di Arianna e Dioniso
al suono dell’oboe. Il gentile spettacolo divenne ben presto
lascivo:I

I due attori sembravano due amanti impazienti di soddi­


sfare l’amore che da lungo tempo li sollecitava. A vederli
tenersi strettamente abbracciati, come si apprestassero ad
andare insieme a letto, i convitati celibi giurarono di spo­
sarsi entro breve tempo e quelli che lo erano già balzarono
a cavallo e galopparono dalle loro spose per godere di loro.
Socrate e qualche altro che era rimasto con lui, se ne anda­
rono a passeggiare con Callias per raggiungere Autolycos
e suo padre. Così terminò il banchetto.27

27 Senofonte, Sim po sio, capp. V II-IX .

260
Pasti, giochi e divertim enti

Il Sim posio di Senofonte, pur essendo anch’esso una tra­


sposizione letteraria della realtà, sembra aver conservato più
fedelmente di quello di Platone il carattere abituale dei gai
conviti. Vediamo in esso persino Socrate intonare una can­
zone e infatti soprattutto nei simposi e nelle feste religiose
gli adulti avevano occasione di mettere a profitto l’educa­
zione musicale ricevuta in gioventù:

Nei banchetti soprattutto i canti erano la forma natura­


le della gioia; la lira circolava fra i convitati, talvolta, con
un ramo di mirto o di alloro in mano, ognuno recitava, a
turno, un verso, che il vicino accompagnava con la lira o il
flauto. Tutti pagavano di persona, i vecchi come i giovani
ed è piacevole vedere nei vasi quelle simpatiche figure di
borghesi calvi che l’età aveva appesantito senza privarli di
una specie di robusta eleganza, rinfrescarsi fra una canzone
e l’altra. Questi bevitori colti recitavano versi di Simonide
in onore di Crio, l’atleta di Egina, o cantavano «bevi, bevi
in questo giorno felice», o anche versi più elevati come «No,
non sei morto, caro Armodio!». Erano gli inni di Cratino:
«Doro dai sandali da sicofante» o «Artigiano di uomini
saggi», o i brani di Eschilo, Euripide, o le strofe di Saffo o
Alceo. Anche poeti popolari come Teognide, Anacreonte,
Kirdia, Ermione alimentavano i concerti improvvisati che
si prolungavano talvolta per tutta la notte.28

Certamente i banchetti potevano essere rallegrati anche


da veri e propri spettacoli da camera, come quelli dell’impre­
sario siracusano, ma solo se l’ospite era abbastanza ricco per

28 P. Girard, L’édu cation athénienne..., p. 182.

261
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

assoldare una troupe di artisti. Nella maggior parte dei casi, i


convitati si divertivano a minor prezzo, coi propri mezzi. Essi
ricorrevano, al di fuori della musica e delle canzoni, a libere
conversazioni (di solito più simili ai discorsi casuali a botta e
risposta del Sim posio di Senofonte che a quelli colti e sapien­
temente organizzati sullo stesso tema dell’opera di Platone)
a giochi di società come enigmi, sciarade, imitazioni (citate,
queste ultime, da Senofonte) che piacevano molto all’intel­
ligenza sottile e raffinata degli ateniesi, sia con giochi di de­
strezza il più diffuso dei quali sembra essere stato il cottabo.
Abbiamo detto che qualsiasi simposio cominciava con
libagioni in onore degli dei, soprattutto Dioniso; si beveva
una piccola quantità di vino puro, poi si spargeva qualche
goccia invocando il nome della divinità. Nel corso della,
riunione i bevitori, invece di versare al suolo la libagione, si
divertivano a colpire un bersaglio con il vino che restava sul
fondo della coppa. In questa speciale libagione, non si invo­
cava il nome della divinità, ma si pronunciava quello della
persona amata: se il liquido cadeva sul piatto o sul vaso pre­
fissato si traeva un presagio favorevole intorno al successo
della seduzione amorosa. Anche le donne, nei banchetti loro
riservati, o le cortigiane invitate a quelli degli uomini prati­
cavano questo cottabo «erotico»: su un vaso di Eufronio, una
donna nuda distesa sul letto da banchetto, tiene nella mano
destra l’ansa di una coppa dicendo: lancio questo per te, Lea-
gro. Teramene, in punto di morte, mise in parodia quest’uso:
condannato a morte da Crizia, uno dei trenta tiranni, «quan­
do dovette bere la cicuta, si racconta che gettò, come nel gioco
del cottabo, l’ultima goccia dicendo: “Alla salute di Crizia”».29

29 Senofonte, E llen ich e , II, 3, 56.

2 62
Pasti, giochi e divertim enti

Il cottabo era tanto in voga che se ne inventarono di­


verse versioni a partire dalla forma elementare che abbia­
mo descritto. Il vaso che serviva da bersaglio poteva essere
riempito d’acqua con piccole sottocoppe di terracotta che
galleggiavano alla superficie del liquido; bisognava mira­
re quelle piccolissime imbarcazioni e lanciarvi il vino con
tanta abilità da farle rovesciare e andare a fondo; il premio
veniva assegnato a chi aveva provocato il maggior numero
di questi naufragi in miniatura.
Infine, qualcuno ebbe l’idea di innalzare una lunga asta
verticale di metallo che finiva con una punta sulla quale
veniva collocato in equilibrio un piattino; il giocatore do­
veva far cadere il piatto lanciandovi il residuo della coppa e
sembra che il colpo fosse giudicato particolarmente riuscito
quando il piattino, cadendo, colpiva una specie di podelli-
na o coppa capovolta fissata sull’asta di metallo a due terzi
d’altezza.
Tale gioco di carattere dionisiaco (perché naturalmen­
te si accompagnava all’assunzione di molte coppe di vino)
era praticato soprattutto nei banchetti ma anche in luo­
ghi pubblici frequentati dagli oziosi, soprattutto nei bagni.
Il premio fissato per il vincitore del cottabo poteva esse­
re costituito da uova, mele, dolci, un paio di sandali, una
collana, dei nastri, una coppa, una palla, o semplicemente
un bacio della persona amata. Sembra che il giocatore fos­
se giudicato non solo in base all’abilità nel raggiungere il
bersaglio ma anche in base all’eleganza del gesto col quale
muoveva la coppa.

Nel capitolo IV abbiamo parlato dei giocattoli e giochi


della prima infanzia ma non abbiamo ancora detto niente

2 63
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

dei modi di divertirsi dei ragazzi, degli adolescenti e de­


gli adulti, questi ultimi non meno appassionati del gioco. I
giochi principali dei bambini e dei ragazzi cambiano assai
poco da un popolo all’altro e da un’epoca all’altra e la mag­
gior parte di essi sono praticati oggi come lo erano nella
Grecia antica in forme identiche o simili. I bambini ate­
niesi e di tutta la Grecia giocavano a palla, al cerchio, con
la trottola, con gli astragali e «alla campana»; praticavano
l’altalena, il salto e l 'ephedrism os, che consisteva nel porta­
re sulla schiena il proprio compagno di gioco. Giocavano
anche con le biglie, sostituite da noci, secondo varie regole:

Un modo era di lanciare una noce contro altre tre proba­


bilmente disposte a piramide... il vincitore si aggiudicava
le quattro noci. Nel gioco noto come homilla o delta si -
tracciava per terra un cerchio o un triangolo all’interno
del quale la noce lanciata doveva ricadere; si può pensare
che in caso di successo tutte le noci che erano cadute fuo­
ri dal bersaglio andavano al vincitore. Un’ultima variante
sostituiva alla figura tracciata al suolo una fossa o un vaso
posto a terra...; il premio era probabilmente lo stesso delle
varianti precedenti.30

Si giocava anche con cocci di ceramica o pietre, a chi le


lanciava più vicino a una linea tracciata a terra.31

30 F. Chapouthier, «Syria» 31, 1954, p. 199, dall’elegia di O vidio, Nux; ma


questo gioco con le noci è attestato in età classica e F. Chapouthier cita un
vaso attico della fine del V secolo (fig. 16, p. 200) dove crede di poter rico­
struire questo gioco, praticato da tre ragazzi.
31 Cfr. J. Taillard, «Revue des Études Anciennes» 58, 1956, p. 191: questo
gioco si chiamava ostrakinda.

264
Pasti, giochi e divertim enti

Il gioco che oggi chiamiamo «yo yo» era anche noto


agli antichi greci: si trattava di due dischi tenuti insieme
da una sbarretta cilindrica intorno alla quale si arrotolava
una cordicella, una delle cui estremità era fissata a un dito
della mano destra del giocatore. Forse l’efebo di Anticitera
praticava questo gioco.32 Lo yo yo poteva essere di legno o
di metallo ma i nostri musei possiedono anche esemplari
votivi in ceramica; sappiamo che i giovani greci di entram­
bi i sessi quando raggiungevano l’adolescenza avevano l’abi­
tudine di offrire a certe divinità i giochi della loro infanzia
o oggetti votivi che ne riproducevano la forma.
Ragazzi ed efebi praticavano esercizi di equilibrio; su una
coppa del Louvre si vede un giovane che regge sul piede sini­
stro alzato un vaso la cui ansa lo fa penzolare verso il basso.33
Ilascoliasm os era un concorso fra giovani che rivaleggiavano a
chi teneva per più tempo in equilibrio un otre pieno di vino e
cosparso d’olio; l’otre e il suo contenuto andavano al vincito­
re. Tale gioco era praticato soprattutto in certe feste rustiche
' in onore di Dioniso.34 Si conoscevano anche i trampoli.
Il gioco con la palla, che eseguono già, rte\Y O dissea,
Nausicaa e le sue compagne, non era riservato ai bambini
e, come oggi, poteva essere praticato in molti modi diver­
si. Un bassorilievo del Ceramico mostra degli adolescenti
completamente nudi che giocano a palla con bastoni ricur­
vi che fanno pensare 2W hockey attuale.35 Gli adulti stessi
giocavano a pallone nei ginnasi dove uno spazio speciale

32 Cfr. A . Gardner, «Journal o f Hellenic Studies» 43, 1923, pp. 142-143 e


C. Picard, La v ie p r iv é e dans la G rèce classique, tav. LVIII.
33 Cfr. C. Picard, ivi, tav, LIX, fig. 1.
34 H. Jeanmaire, D ionysos, p. 4 2.
35 Cfr. C. Picard, La v ie privée..., cit., tav. XLVII, fig. 3.

265
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

era riservato a tale attività. È però difficile distinguere net­


tamente alcuni di questi giochi da certi esercizi ordinati
dal pedotribo, dato che essi si praticavano allaria aperta ed
erano utili allo sviluppo del corpo e alla sua agilità.
Gli antichi, giovani e vecchi, si divertivano molto con gli
animali domestici, spesso crudelmente. Un bassorilievo ar­
caico ci mostra due efebi seduti l’uno di fronte all’altro; uno
di essi ha davanti un cane, l’altro un gatto impegnati in sin­
goiar tenzone; dietro ogni efebo un uomo in piedi segue la
lotta con passione; si tratta probabilmente di scommettito­
ri.36 Tuttavia i gatti, a differenza dei cani, erano rari nell’an­
tica Grecia. I greci avevano in casa soprattutto donnole ad­
domesticate che davano la caccia ai topi. I combattimenti di
animali in generale si svolgevano fra galli ai quali si faceva­
no mangiare aglio o cipolle per eccitarne la bellicosità; si at­
taccavano loro, alle unghie posteriori, degli speroni di bron­
zo per renderne più pericolosi i colpi. Tali combattimenti,
spesso rappresentati sui vasi, davano luogo a scommesse e
un buon gallo da combattimento selezionato costava assai
caro. Ad Atene si organizzavano ogni anno combattimenti
di galli, in teatro, a cura dei magistrati cittadini.
I giochi d’azzardo erano numerosi, dal gioco «pari o di­
spari» praticato con monete di bronzo (chalkin da), fave o
astragali ai diversi tipi di giochi coi dadi (cuboi). Il L isia di
Platone ci mostra, in una palestra, dei ragazzi che, il giorno
di una festa di Ermes patrono dei ginnasi, «dopo aver offerto
il sacrificio giocavano a pari o dispari con degli astragali che
gettavano in un cesto; altri, in cerchio, li osservavano».37

36 Cfr. C. Picard, La sculpture antique, I, p. 397, fig. 119.


37 Platone, Lisia, 2 0 6 e.

266
Pasti, giochi e divertim enti

Il gioco dei dadi si praticava di solito con 3 dadi di


terracotta le cui sei facce erano contrassegnate da lettere
che valevano delle cifre (A=l; B=2) o da nomi più o meno
abbreviati indicanti i primi sei numeri. L’unità o «asse» si
chiamava cubos,38 II colpo migliore o «colpo di Afrodite»39
era «tre volte sei»; il peggiore era il «tre volte cubo», o «tre
volte uno», un «colpo da cane».
Il gioco detto «delle cinque righe» metteva a confronto
due giocatori che spingevano delle pietre a guisa di pe­
doni, su legnetti, secondo le indicazioni fornite dai dadi
tirati a sorte.40 I greci conoscevano un gioco analogo al
nostro «gioco dell’oca». La p e tte ia ricordava piuttosto il
«tric trac» o il gioco della dama ed era molto antico; già
gli eroi di Omero e i pretendenti di Penelope «giocavano
coi gettoni».41
Quotidianamente non mancavano le distrazioni agli
ateniesi che frequentavano l’Agorà e gli altri luoghi pub­
blici, come i ginnasi dove molti ateniesi, anche adulti, si
dedicavano agli esercizi fisici. Il divertimento più abituale,
ma non il minore, era il passeggiare nelle strade, sulle pub­
bliche piazze, nei negozi dei barbieri, nei laboratori e em­
pori di ogni tipo; ci si scambiavano le notizie e si facevano
lunghe conversazioni; Socrate apprezzava molto quelle oc­
casioni di contatto. Sull’Agorà si producevano anche gio­
colieri, buffoni, mimi, prestigiatori, danzatori e pagliacci

38 Cfr. P. Wuilleumier, D é à jo u e r d e Tarente, in «Istros» I, 1934, pp. 14-18:


dado da gioco di Taranto.
39 Eschilo, A gam ennone, vv. 32-33.
40 Cfr. J. Taillardat, «Revue des Études Anciennes» 58, 1956, p. 193.
41 Cfr. per esempio, Odissea, I, v. 107. Sulla dubbia «naumachia», cfr. H. van
Effenterre, «Bulletin de Correspondance hellénique» 79, 1955, pp. 541-548.

267
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

di ogni risma. Cerano anche, ad Atene, marionettisti e un


teatro di ombre precursore del k arag eu z orientale. È a esso
che probabilmente pensava Platone quando immaginava il
famoso mito della caverna dove le ombre si proiettavano
sul fondo di roccia. I concerti erano numerosi all’Odeon,
soprattutto nei giorni di festa.
Tucidide fa dire a Pericle, nel suo elogio dei soldati mor­
ti sul campo dell’onore che è anche un elogio della città, di
tutte le sue leggi e dei suoi costumi:

Per riposarci del lavoro, abbiamo preparato per il nostro


spirito molte distrazioni mettendo in onore giochi e feste
che si succedono dall’inizio alla fine dell’anno e, nella
vita privata, divertimenti il cui fascino, un giorno dopo
l’altro, dissipa la tristezza.

Delle feste della città parleremo più avanti nel capitolo


dedicato alla vita religiosa.42
La caccia e la pesca erano, come oggi, per alcuni un
mestiere vero e proprio, per altri una semplice distrazio­
ne. Senofonte nel C inegetico considera la caccia una parte
necessaria e importante dell’educazione di un adolescente
perché esercita il corpo, abitua ai pericoli e prepara quindi
alla guerra, ma idee di questo tipo avevano corso in Laco-
nia più che in Attica ed erano ispirate a Senofonte dalla sua
ammirazione per Sparta, dove si praticava addirittura la
caccia agli iloti, cioè agli uomini.43 Tuttavia molti atenie­

42 Tucidide, II, 38.


43 Cfr. E. Delebecque, Essai su r la v ie deX énophon, Klincksieck, Paris 1957,
pp. 173-181.

268
Pasti, giochi e divertim enti

si agiati certamente praticavano la caccia come uno sport


anche se l’A ttica era una delle regioni greche meno ricche
di selvaggina.
In età micenea e arcaica nelle montagne e nelle foreste
della Grecia vivevano molte specie animali e fiere, in spe­
cial modo leoni e la caccia grossa ha lasciato importanti
tracce nella mitologia ellenica che annovera molte divinità
cacciatrici, ed eroi cacciatori, piamente elencate da Seno-
fonte all’inizio del C inegetico. In età classica restava qual­
che fiera sopravvissuta, soprattutto lupi (che nemmeno og­
gi sono del tutto scomparsi), ma si cacciavano soprattutto
cinghiali, cervi, tantissime lepri e uccelli, pernici, quaglie,
allodole ecc. La commedia di Aristofane G li u ccelli enu­
mera una grandissima quantità di specie alate, di non sem­
pre facile identificazione.
Fra le tecniche di caccia praticate nel secolo di Pericle,
quella di più antica tradizione era probabilmente la trappo­
la. Per gli uccelli e la piccola selvaggina di pelo si facevano
' trappole a pania, a laccio, a molla.44 Bisogna aggiungere,
per la grande selvaggina che si voleva catturare viva, le trap­
pole a fossa descritte da Senofonte. Si scavava una fossa pro­
fonda dai bordi irregolari e scoscesi e la si copriva con del
fogliame per renderla invisibile. Si piantava vicino un palo
al quale si legava un agnello il cui belato attirava l’animale
carnivoro, il fogliame cedeva sotto il peso e l’animale cade­
va sul fondo della trappola. Per tirarlo fuori si calava nella
fossa una gabbia aperta che conteneva un pezzo di carne;
quando l’animale era entrato nella gabbia, questa veniva
chiusa e tirata fuori.

44 Cfr. P. Cloché, Les classes..., cit., p. 2 4, fig. 9 e tav. XIV, fig. 5.

2 69
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Gli uccelli potevano essere cacciati con frecce lanciate


con l’arco o con pietre fiondate. Le altre armi da caccia
erano il giavellotto, l’ascia, il pugnale, la mazza, il bastone,
usato quest’ultimo abitualmente nella caccia alla lepre.

Gli antichi - scrive P. Chantraine - non disponevano di


armi da lancio potenti e precise e praticavano solo ecce­
zionalmente l’equitazione. Quindi la selvaggina doveva
essere prima attirata in trappole o tagliole per poi veni­
re abbattuta dai colpi dei cacciatori. Il Cinegetico di Se­
nofonte è istruttivo al riguardo. Nella caccia alla lepre il
cacciatore, con l’aiuto di un cane, da muta, costringeva
la lepre a correre e cercava di spingerla verso la tagliola. Il
sorvegliante della tagliola (arkyoros), o lo stesso cacciatore,
abbatteva poi l’animale a colpi di bastone, se esso non ri- -
usciva a sottrarsi vivo dalla trappola. Si distinguevano: 1°
Yarkys, piccolo e sottile, composto di fili a tre per tre; era
lungo circa m 1,15 e alto quasi un metro; 2° gli enodia, più
solidi, formati da 12 fili, in questo caso più lunghi (da 4 a
9 metri) e che si disponevano lungo le strade e nei crocevia
dei sentieri; 3° i dictya a 16 dita usati per la cattura della
selvaggina di ogni genere e per la recinzione di vaste aree,
larghe da 20 a 50 metri; le forche sulle quali si ponevano
queste trappole erano alte più di 45 metri.45

L’uso dei cani da caccia, poco efficace se ci si serviva di trap­


pole e tagliole, era indispensabile per la caccia alla rete, così
diffusa che la parola che designa il cacciatore in greco, kynegos,

45 P. Chantraine, Ètudes sur le vocabu lairegrec, Klincksieck, Paris 1956, p. 64.

270
Pasti, giochi e divertim enti

significa «conduttore di cani».46 Il Cinegetico di Senofonte insi­


ste lungamente sull’allevamento e l’addestramento dei cani da
attacco e da inseguimento. Certe razze di cani della Laconia
erano particolarmente noti per la loro abilità e velocità. Cani
da caccia dalle sottili orecchie puntute e dai musi affilati sono
rappresentati su vasi e steli di età classica. Un vaso a figure
nere mostra un cacciatore con la testa circondata da un ber­
retto di feltro (pilidion) che si affretta nella sua corta tunica
rivoltata (euzonos) recando in spalla un bastone da caccia 0la-
gobolori) al quale sono sospesi una lepre e una volpe; presso di
lui il cane sembra uno di quei cani della Laconia di cui Ari­
stotele dice che hanno un po’ del cane e un po’ della lepre.47

La pesca, più della caccia, rappresentava un vero e pro­


prio mestiere e abbiamo già detto che i greci, e soprattutto
gli ateniesi, si nutrivano più di pesce che di carne. Non
sarebbe venuto in mente a Senofonte di scrivere un’opera
sulla pesca, come ha fatto per la caccia, perché la pesca
•sembrava ai greci un’attività assai meno nobile della caccia.
Platone esaminando nelle L eggi il valore educativo di en­
trambe rivolge ai giovani questo ammaestramento:

Amici, possiate non prendere mai il gusto né il piacere


della pesca in mare o all’amo o con qualsiasi tecnica per
catturare gli animali acquatici e nemmeno per la pigra
pesca in cui le nasse - che dormiate o stiate svegli —fanno
loro tutto il lavoro.48

46 Cfr. P. Chantraine, ivi, p. 84.


47 P. Cloché, Les classes..., cit., tav. X V e didascalia; cfr. anche Aristotele,
Storia naturale, V i li , 28 e P. Cloché, ivi, tav. X V I.
48 Platone, Le leggi, 8 23 e.

271
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

Plutarco rincarerà la dose esprimendo un’opinione già dif­


fusa in età classica quando scrive che la pesca non ha niente
di glorioso ed è indegna di un uomo libero perché richiede
più astuzia che forza e non è, come la caccia, occasione di
un salutare esercizio.49 Bisognerà attendere Oppiano e i suoi
H alie u tic a, nel II secolo dopo Cristo, per incontrare un trat­
tato sulla pesca scritto in greco. Tuttavia allusioni letterarie
e tracce figurative ci permettono di conoscere le tecniche
antiche della pesca che assomigliano molto a quelle di oggi e
si sono sviluppate assai meno di quelle della caccia. Si richia­
mavano i pesci piccoli con vermi o insetti e quelli grossi con
pesci piccoli. Si usavano anche, come oggi, esche artificiali
come le «mosche» fatte di fili di lana rossa. Era anche usata
la tecnica della linea di fondo, senza canna da pesca.
Una coppa del V secolo rappresenta un ragazzo accocco^
lato, con le ginocchia piegate, su una roccia scoscesa al di
sopra del mare; tiene nella mano destra una canna da pesca
e nella sinistra un paniere di pesci; nell’acqua trasparente il
pittore ha rappresentato dei pesci, una piovra e una nassa.50
La nassa è una specie di paniere di vimini, talvolta largo
e di forma rotonda, talaltra allungato e puntuto alle estre­
mità; il principio era lo stesso di oggi: un intreccio di ba­
stoncini impediva al pesce di uscire, una volta entrato.
Le lenze da pesca, come quelle da caccia, erano di forme
divertentissime. Si distinguevano, grosso modo, il giacchio,
lenza a forma di imbuto munito di piombini che si lanciava
distendendolo sull’acqua per poi ritirarlo, e la paranza o
lenza da traino, un lungo rettangolo del quale i pescatori

49 Plutarco, D e sollertia anim alium , 9.


50 P. Cloché, Les classes..., cit., tav. X V II, fig. 7.

2 72
Pasti, giochi e divertim enti

fissavano le estremità e che trascinavano spingendo il pesce


verso luoghi appositi; con quest’ultima tecnica molte bar­
che potevano partecipare alla stessa operazione.
Una pesca che associa il principio della nassa e quello
della canna è il tipo detto «alla tonnara»; si tratta di una in­
stallazione fissa formata da lenze e pioli: i pesci sono spinti
in una specie di labirinto fino a un imbuto dove vengono
catturati quando il pescatore tira su una lenza che costitui­
sce il fondo di questa specie di «camera di morte».
La pesca all’arpione o col tridente si praticava contro i
cetacei ma anche contro i pesci di media taglia, soprattutto
i tonni. La pesca al tonno è una di quelle che richiedono
l’organizzazione più complessa e il concorso di più persone.
Alcuni pescatori erano incaricati di spiare da determinati
osservatori l’arrivo dei banchi di tonni e lo segnalavano ai
pescatori incaricati di spingere i pesci verso le reti, probabil­
mente come i pescatori greci di oggi che «per questo fanno
rumore con tamburi, pietre legate a una corda colpendo
la superficie dell’acqua, agitandola coi piedi, battendo un
bastone su una superficie di legno».51 Le barche si avvicina­
vano poi le une alle altre e i tonni, spinti a fior d’acqua nelle
reti, erano trafitti a colpi di tridente o finiti a mazzolate.
Nella pesca al pesce spada si poneva una rete in mare e
i pescatori la trascinavano alle estremità in modo da for­
mare un semicerchio; quando la rete era abbastanza chiusa
alcuni pescatori entravano in acqua e massacravano i pesci
spada a colpi di arpione.
Infine i greci praticavano la pesca con le torce o «con la
nave a fuoco» che così descrive Oppiano:

51 L. Robert, H ellenka, X, p. 272.

273
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Se certe specie di pesci si catturano al levar del giorno,


altri si catturano la sera; alle prime ombre della notte, i
pescatori accendono una torcia e, manovrando le loro leg­
gere barche, portano la cupa morte ai pesci fiduciosi: ral­
legrati dalla fiamma resinosa del pino essi saltano intorno
all’imbarcazione per vedere la fatale luce della sera e si
offrono ai colpi impietosi dei tridenti.52

Questa tecnica di pesca è ancora in uso soprattutto lun­


go le coste dell’isola di Lesbo.53
Molti giochi che prima abbiamo descritto comporta­
vano una mimica espressiva e abbiamo già detto quanto
i greci fossero sensibili all’eleganza dei gesti, si trattasse di
drappeggiarsi nel mantello o di lanciare il contenuto della,
coppa nel gioco del cottabo.54
Oggi i popoli mediterranei, e in particolare il popolo
greco, accompagnano e talvolta sostituiscono le parole con
molti, vivaci movimenti: si dice che «parlano con le mani»,
e anche con tutto il corpo. Facevano lo stesso anche in
passato?
I greci dell’età di Pericle, come quelli di oggi, dicevano
«no» con la testa, gettandola indietro e alzando il mento
(ananeuo) e non scuotendo la testa da destra a sinistra e da si­
nistra a destra. Quando si incontravano si salutavano alzan­
do la mano destra ma non conoscevano il «bacio di saluto»
in uso a Roma. La stretta di mano era sempre riservata a certi
gesti di carattere religioso e aveva il senso di un impegno so-

52 Oppiano, H alieutica, IV, 6 4 0 -6 4 6 ; cfr. F. Vian, «Revue de Philologie»


28, 1954, pp. 50-51.
53 Cfr. Stratis M yrivilis, N otre-D am e d e la Sirène, p. 31, p. 113 ecc.
54 Cfr. più sopra cap. VI, p. 2 2 5 -22 6 e cap. VII, p. 2 6 3 e sgg.

274
Pasti, giochi e divertim enti

lenne.55 Spesso sulle stele funerarie si vedono il morto e uno


dei parenti sopravvissuti scambiarsi una stretta di mano.
In teatro e all’assemblea, l’approvazione si esprimeva con
applausi (crotos) e clamori e la disapprovazione con fischi e
grida.56 Ma sembra che tali rumorose manifestazioni (thoru -
boi) siano state rare sotto l’amministrazione di Pericle e sia­
no diventate frequenti solo dopo la sua morte. Sappiamo in
ogni caso che gli oratori dei tempi di Pericle parlavano alla
tribuna senza fare alcun gesto, con «le mani sotto il mantel­
lo», mentre all’epoca di Demostene e di Eschine non si pe­
ritavano di gesticolare e di sostenere la veemenza delle loro
parole con quella dell’azione oratoria.57 Si può supporre che
la differenza nell’atteggiamento degli oratori corrisponda a
un diverso comportamento del pubblico che si dimostrava
sempre più agitato e rumoroso. Aristofane che ammirava la
riservatezza e la dignità degli ateniesi del passato si scanda­
lizzava della volgarità di quelli del suo tempo.
Certi gesti, nella vita quotidiana, avevano un significato
simbolico. Si schioccavano le dita, con la mano levata in alto,
per esprimere gioia, come forse fa l’efebo di Maratona. Per
burlarsi di qualcuno e deriderlo non gli «si faceva un palmo
di naso», ma si tendeva verso di lui il medio piegando a pu­
gno le altre dita della mano (skim alizo ). Il «dito medio» era,
peri greci come per i latini, in fam is d ig itu s : era perciò un ge­
sto di scherzo osceno analogo al nostro «fare le fiche».58 Mol­
ti gesti erano imposti dalla religione o dalla superstizione. Si
distoglievano gli occhi da qualsiasi spettacolo che si riteneva

55 Cfr. K. Sittl, D iegeb à rd en d er G riechen u ndR óm er, pp. 78-81.


56 Cfr. soprattutto Platone, L eggi, 3, 7 0 0 c.
57 Cfr. più sopra cap. VI, p. 226-227.
58 P. Mazon, editore di Aristofane, La p a ce , nota al v. 549.

275
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

potesse contaminare e si sputava per allontanare un cattivo


presagio o l’effetto di una parola o di un incontro considerati
sgradevoli: il superstizioso di Teofrasto «alla vista di un paz­
zo o di un epilettico era preso da un brivido e sputava nel­
la piega del proprio mantello».59 Quando un greco soffriva,
piangeva e, a più forte ragione, sentiva la morte avvicinarsi,
si velava il viso con un lembo del mantello per pudore e per
evitare agli altri uno spettacolo di cattivo augurio.60
Il lutto, infine, dava luogo a manifestazioni che oggi ci
sembrano eccessive:

Le donne gemono e si lamentano; tutti piangono, ci si


batte il petto e ci si strappano i capelli insanguinandosi le
guance; talvolta ci si strappava i vestiti spargendosi della
polvere in testa e i vivi erano allora più da compiangere dei
morti perché, spesso, si rotolavano a terra battendo la testa
contro il suolo mentre il morto, nella sua bella e decorosa
acconciatura, tutto carico di corone, era esposto su un alto
giaciglio preparato come per una solenne processione.61

Questa descrizione, dovuta a Luciano, è posteriore di


parecchi secoli all’età classica, ma molti testi e documenta­
zioni pittoriche e scultoree attestano che le manifestazioni
di lutto, nel secolo di Pericle, erano poco meno violente.62

59 Teofrasto, C aratteri, X V I, 14.


60 Cfr. la narrazione degli ultimi istanti di Socrate in Platone, F edone, 117
c e 118 a.
61 Luciano, S ul lutto, 12.
62 Cfr. più sopra cap. Ili, p. 122 e sgg.
Vili

La vita religiosa. Il teatro

Spesso i greci sono considerati dei razionalisti, e a giusta ra­


gione, nel senso che essi hanno creato la scienza e la filosofia
e che molti dei loro filosofi hanno sottoposto le tradizioni
religiose del loro popolo a una critica acre e corrosiva.1 Ma
il popolo greco nel suo insieme, come tutti i popoli dell’an­
tichità, era penetrato del sentimento del sacro12 che la parola
tham bos (di origine preellenica) caratterizza assai bene: si
trattava della paura, del timore reverenziale che suscita ogni
forza, ogni essere soprannaturale che si crede di distinguere
nella natura e nel mondo umano.3 Infatti l’universo, per
l’uomo antico, era popolato di divinità, grandi e piccole,
benevole e temibili, ed era questa la legittimazione del po-

1 Cfr. itvecchio libro di P. Decharme, La critiq u e des traditions religieuses


chez les grecs, che ancora oggi conserva quasi interamente il suo valore e
interesse.
2 La dimostrazione è stata fatta di nuovo recentemente da E.R. Dodds,
The Greeks a n d The Irrational, Sather classical lectures, voi. 25, University o f
California Press, Berkeley 1951.
3 A.-J. Festugière ha acutamente analizzato la nozione di th a m b os nella sua
H istoiregén éra le des réligion , G rèce-R om e , A. Quillet, Paris 1944, pp. 4 1-4 2 .

277
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

liteismo che, dopo una fase animista, assunse ben presto in


Grecia un aspetto antropomorfico. Nel tempo

in cui il cielo sulla terra


camminava e respirava in un popolo di dei,4

gli uomini credevano all’esistenza di innumerevoli di­


vinità tutte vicine e quasi palpabili da cui dipendevano il
benessere e la disgrazia dei mortali sulla terra e, dopo la
morte, nell’al di là, regno di Ades. Tutta la loro vita era
scandita dal ritmo delle feste religiose della famiglia, del
demo, della tribù, della città e dalla minuziosa esecuzione
dei riti ereditati dagli antenati (tà p a tr ia ).
E vero che in Grecia, a partire dal VI secolo, fra i filosofi,,
ci furono degli «spiriti forti», degli atei, inizialmente isolati,
che divennero poi più numerosi nella seconda metà del V
secolo all’epoca dei sofisti, che appare un po’ come la pre­
figurazione del nostro XVIII secolo, il «secolo dei lumi» e
della lotta antireligiosa.5 Un Pericle, un Tucidide, pur ade­
guandosi ai riti civici e familiari, sembrano avere avuto una
fede estremamente limitata nell’efficacia delle cerimonie re­
ligiose e nella veracità degli oracoli. Quando Pericle, a letto
per la peste che ben presto l’avrebbe portato alla tomba nel
429, ricevette la visita di un amico «gli mostrò un amuleto
che le donne gli avevano appeso al collo come prova che
doveva stare ben male per sopportare simili sciocchezze».6
Ma uomini molto più rappresentativi dell’ateniese «medio»,

4 A. De Musset, all’inizio di Rolla.


5 Cfr. qui sopra per i sofisti, il cap, IV, p. 168 e sgg.
6 Plutarco, P ericle , 38, dall 'Etica di Teofrasto.

2 78
La vita religiosa. Il teatro

uno stratega come Nicia, uno scrittore come Senofonte, era­


no animati da una pietà che confinava con la superstizione.
Anche filosofi come Socrate e il suo discepolo Platone, che
criticò violentemente la mitologia di Omero, credevano al
soprannaturale,7 eppure Socrate bevette la cicuta perché
condannato per empietà.
Molti filosofi, come più tardi il platonico Plutarco, erano
a mezza strada fra la «fede del carbonaio» e l’incredulità,
su una v ia m ed ia fra la superstizione e l’ateismo che sem­
bravano loro errori altrettanto gravi. Solo a partire dal III
secolo la scuola di Epicuro raccolse intorno a sé un numero
rilevante di non credenti; i filosofi del Giardino non erano
atei ma gli dei che riconoscevano erano relegati lontani dal
mondo e non si occupavano affatto delle vicende umane;
ciò produceva negli epicurei un’indifferenza pratica nei ri­
guardi della religione e spesso una dichiarata ostilità per la
pietà tradizionale.8
La città antica era una società che nel nostro attuale
linguaggio definiremmo «totalitaria». Era impensabile al
suo interno la distinzione fra temporale e spirituale; i sa­
cerdoti, che facevano a meno della «vocazione», erano i
magistrati della città. Era così logico che i filosofi che face­
vano aperta professione di ateismo o le cui credenze fosse­
ro sospette venissero considerati violatori delle leggi della
città e del «patto sociale»: non si poteva essere un buon
ateniese senza credere alla potenza di Atena, patrona della
città, e a quella di suo padre Zeus. Per questo vari processi
per empietà, nel V e IV secolo, furono intentati contro

7 Cfr. V. Goldschmidt, La religion d e P laton, Puf, Paris 1949.


8 Cfr. A.-J. Festugière, E picure et ses dieux, P u f Paris 1946.

2 79
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

filosofi. Quello contro Socrate fu il più celebre: accusato,


nel 399, «di non credere agli dei che la città riconosce, di
tentare di introdurre nuove divinità e così di corrompere i
giovani» fu condannato a morte. Prima di lui, Anassagora
di Clazomene, il maestro di Pericle, Protagora di Abde-
ra, Diagora di Melo, tutti e tre stranieri, ma che aveva­
no esercitato ad Atene una notevole influenza, erano stati
giudicati in processi per empietà.9 1 poeti tragici, Eschilo,
Euripide non erano al riparo da tali accuse ma, con una
incoerenza che può meravigliare, la commedia godeva di
una ben maggiore libertà: Aristofane poteva impunemente
mettere Demetra, negli U ccelli, nella imbarazzante situa­
zione di dover far spuntare una spiga di grano quando gli
uccelli hanno beccato il chicco e rappresentare, nelle R an e r
Dioniso, il dio del teatro, in onore del quale erano recita­
te tutte le rappresentazioni sia comiche sia tragiche, come
un vigliacco e un fanfarone; erano buffbnate, che nessuno
prendeva sul serio.
I riti più antichi della religione greca, una religione senza
dogmi né libri sacri, erano certamente i riti pastorali e agra­
ri destinati a garantire la fecondità delle greggi e la fertilità
dei campi:

Immaginiamoci un contadino greco. Come gli umili di


ogni tempo, si alzava presto, all’alba. Nella penombra del
mattino, cercava le stelle... Salutava il sole lanciandogli un
bacio con la mano, come salutava la prima rondine o il
primo nibbio... Più che il sole invocava la pioggia e tal­

9 Cfr. E. Derenne, L esp roc'esd’im p iétéin ten tésa u x p h ilosop h esA th èn esa u V‘
etIV ’ siècle a va n t Jésus-C hrist, Vaillant- Carmanne, Liège 1930.

280
La vita religiosa. Il teatro

volta la frescura. Guardava la più importante altura delle


vicinanze, talvolta incoronata di nubi perché lassù, sulla
cima della montagna, aveva sede Zeus che raduna le nubi,
lancia il tuono, concede la pioggia. Era là che viveva il
gran dio... Il rombo del tuono era il segno del suo potere e
della sua presenza, talvolta della sua collera.10

Lo stesso linguaggio testimonia la forza di quelle cre­


denze; i greci non dicevano «piove» o «tuona», ma «Zeus
piove», «Zeus tuona».
L’acqua è rara in Grecia, e quindi preziosa. Per questo
i corsi d’acqua erano sacri. Un esercito non attraversava
un fiume senza offrirgli un sacrificio perché il fiume stesso
era una divinità. Esiodo prescriveva di non varcare mai un
corso d’acqua senza dire una preghiera e senza lavarsi le
mani nelle sue acque. Le ninfe, termine che significa sem­
plicemente «fanciulla», incantavano le montagne, le grotte
fresche, i boschetti, i prati, le fonti; le ninfe marine si chia­
mavano Nereidi e una di esse, Teti, fu madre di Achille.
Erano divinità benefiche ma potevano diventare temibili se
le si offendeva o semplicemente le si trascurava; quando un
uomo diventava pazzo, si diceva che era stato «preso dal­
le ninfe» {nympholeptos). Anche le morti improvvise erano
attribuite a un intervento divino: le frecce invisibili degli
dei arcieri, Apollo e Artemide. Il culto consisteva essenzial­
mente in preghiere, sacrifici e purificazioni. Si pregava di
solito in piedi, con le braccia levate al cielo quando ci si ri­
volgeva a Zeus o ad altre divinità celesti o rivolte verso terra
quando si pregava Ades o altre divinità infere. Si invocava

10 M.P. Nilsson, La réligion p o p u la ire dans la G rece antique, pp. 6-7.

281
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

il dio o la dea, si ricordavano gli atti di pietà che l’orante


aveva compiuto, si formulava l’oggetto della preghiera co­
me fa, nel I canto àt\Y Iliade, il sacerdote Crise rivolgendosi
al suo dio, Apollo:

Tu, divinità dall’arco d’argento, ascolta le mie parole,


protettore di Crise, di Cilla, la divina, potente signore di
Tenedo, o Sminteo! Se per te ho apparecchiato un tem­
pio che ti è stato gradito, se per te ho mai bruciato grasse
cosce di tori e di capre, esaudisci la mia preghiera: che ai
Danai i tuoi strali facciano pagare le mie lacrime.11

Ci si rivolge agli dei quasi sempre per uno scambio; l’of­


ferta è fatta in vista di un favore per sé o di un aiuto contro,
i propri nemici. Nelle preghiere ufficiali della città, Atene
chiede agli dei, e innanzitutto ad Atena e a Zeus, Il «benes­
sere e la salute dei cittadini, delle loro donne e dei loro figli
e di tutto il paese e dei suoi alleati».

Le offerte che accompagnano normalmente le preghiere


possono essere una libagione di vino o latte o qualche dolce
(pélanos) posto sull’altare, o frutti e primizie del raccolto.
Ma i sacrifici più importanti erano sanguinosi. Nell’età più
antica si credeva che gli dei chiedessero vittime umane e
il sacrificio di Ifigenia, per esempio, rappresenta il ricordo
leggendario di quei sacrifici umani ai quali ovunque, in
epoca classica, si sostituirono sacrifici di animali. Si sgozza­
vano montoni o pecore, vacche o buoi, maiali, capre o ca­
pri. Ogni divinità aveva le sue preferenze: si offrivano a Po-1

11 Omero, Iliade, I, vv. 37-42.

282
La vita religiosa. Il teatro

sidone soprattutto tori, ad Atena vacche, ad Artemide e ad


Apollo capre. Asclepio chiedeva soprattutto galli o galline,
altri colombe o cani o cavalli. Le ecatombi —letteralmente
«sacrifici di cento buoi» - e l’offerta a Posidone del sacrificio
di tre animali, un toro, un ariete e un verro {suovetaurilé)
sono attestati già in Omero.12 Le vittime dovevano essere
sempre teléio i, cioè sane e senza difetti. Il sesso e il colore
non erano indifferenti: alle divinità femminili si sacrifica­
vano di solito delle femmine, alle divinità celesti animali
di colore bianco o chiaro e alle divinità infernali vittime di
colore scuro o nero.
La cerimonia di solito aveva luogo il mattino, all’alba.
L’altare era decorato di fiori e ghirlande di foglie. I sacerdoti
vestiti di bianco e tutti gli assistenti portavano una corona.
La vittima era parata con corone e nastri di lana; le corna,
talvolta, dorate. Con l’acqua lustrale contenuta nel vaso
chiamato chernios si aspergevano la vittima e gli assistenti.
Sull’altare si accendeva un fuoco e vi si gettavano grani
d’orzo e qualche pelo tagliato dalla testa della vittima. Do­
po la preghiera il sacrificatore apriva con un coltello la gola
della bestia tirandole indietro la testa; il sangue, colando,
bagnava l’altare. Di solito si bruciava in onore degli dei
solo una piccola parte della vittima, cioè un pezzo di co­
scia e un po’ di quel grasso il cui fumo (cnisa )13 gli olimpi
amavano respirare, secondo Omero. Le carni dell’animale
venivano fatte a pezzi e suddivise fra i sacerdoti e i fedeli
che potevano consumarle sul posto o portarsele a casa. Ma

12 Per il su ovetaurile, si veda l ’Odissea, XI, vv. 130-131.


13 I padri della chiesa si stupiranno che «gli dei che avevano in sorte il net­
tare e l ’ambrosia fossero deliziati dall’odore putrido delle ossa carbonizzate»
(Teodoreto di Ciro, Terapeutica, VII, 15).

283
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

in certi sacrifici offerti alle divinità infernali o ai morti


la vittima veniva interamente consumata: era l’olocausto.
Spesso un indovino assisteva al sacrificio; esaminando le
viscere ancora calde dell’animale, soprattutto il fegato, ne
traeva indicazioni sulla volontà degli dei. Un sacrificio era
una scena di macelleria che si concludeva normalmente
con un pasto.
L’olocausto era usato anche come sacrificio di purifica­
zione individuale o collettiva. Come tutti i popoli anti­
chi, i greci temevano molto l’impurità rituale, impurità di
tutto l’essere umano, corpo e anima che non includeva il
concetto, relativamente recente, di colpa morale, di «pec­
cato»: era impuro tutto ciò che riguardava la nascita e la
morte, ogni omicida, anche se aveva ucciso a buon dirittov
per legittima difesa. Non ci si poteva avvicinare all’im­
magine degli dei e alle cerimonie di culto se non si era
in condizione di purezza rituale; altrimenti, in virtù del
sentimento del tham bos, ci si dovevano aspettare la collera
e la vendetta divine. Ogni sacrificio, ma anche ogni seduta
dell’assemblea politica, ad Atene, come abbiamo visto, co­
minciava con riti di purificazione, con acque lustrali. Ogni
casa dove c’era stato un decesso, come il palazzo di Odis­
seo dopo l’uccisione dei proci, doveva essere purificata, in­
sieme ai suoi abitanti. Per tali purificazioni si usava spesso
acqua di mare e, se si svolgeva un sacrificio, si sgozzava il
più delle volte un maiale il cui sangue serviva pure per la
lustrazione. Il dio di Delfi, Apollo Pizio, che, secondo la
leggenda, aveva purificato Oreste dopo l’assassinio di sua
madre, era ritenuto la divinità purificatrice per eccellenza:
egli stesso, dopo aver ucciso il serpente Pitone, aveva do­
vuto purificarsi. Anche ogni parola empia doveva essere

284
La vita religiosa. Il teatro

espiata immediatamente, almeno con uno sputo che aveva


un valore di purificazione.14
Il culto dei morti, come ha dimostrato Fustel de Cou-
langes, nella C ité an tiq u e svolgeva un importante ruolo
nell’esistenza dei sopravvissuti. Cominciava già il terzo
giorno dopo i funerali.15 Nei giorni anniversari, ci si recava
alla tomba e si offrivano al defunto libagioni e sacrifici che
si concludevano con un pasto funebre. Le libagioni di latte
e di vino, le offerte di alimenti, di sale, di focacce, di frutta
erano presentate in vasi il cui fondo era forato per permet­
tere al cibo e alla bevanda di raggiungere il defunto che
si riteneva continuasse a vivere sotto terra e si rallegrasse
di ciò che gli si offriva, come le ombre evocate da Odis­
seo nella N ekya del canto XI del{'O dissea che si precipita­
no avidamente verso il sangue nero delle vittime sgozzate
per riprendere, bevendo, un po’ di forza... In casa, presso
l’altare domestico, si conservava un’immagine del morto:
un’iscrizione del II secolo avanti Cristo ci informa che tale
immagine doveva essere incoronata di alloro due volte al
mese, alla luna nuova e il sette.16 E probabile che tale rito o
un rito analogo fosse osservato anche in età classica.

Le feste, insieme religiose e civiche, erano particolarmen­


te numerose e brillanti ad Atene, dove Pericle, come abbia­
mo visto nell’elogio funebre che Tucidide gli mette in bocca

14 Cfr. L. M oulinier, Le p u r et Vimpur dans la p en sée des Grecs, d ’H om ère à


Aristote, passim e, per lo sputo in funzione purificatrice, p. 74.
15 Cfr. più sopra cap. Ili, p. 126.
16 A tto di affrancamento delfico, G riec. D ial. Inschr. D elphi, 1807; cfr.
L. Lerat, Un Lot d e D elphes su r les D evoirs des E nfants en vers leurs Parents,
«Revue de Philologie» 17, 1943, p. 82.

285
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

in onore dei cittadini morti per la patria, annoverava fra i


meriti della città «il concorso delle feste che si succedono
dall’inizio alla fine dell’anno».17 Tutti contribuivano a esal­
tare insieme i sentimenti religiosi e il patriottismo, la fede
negli dei e la fierezza nazionale. Solo la guerra poteva so­
spendere il ciclo di tali grandi riunioni periodiche o almeno
attenuarne lo splendore; per questo Aristofane nella P ace ci
mostra appunto la pace personificata, scortata, dopo che gli
sforzi dei contadini dell’Attica l’hanno infine fatta uscire
dalla caverna dove giaceva sotto le pietre, da due «madami­
gelle d’onore», che sono Opora, la dea delle messi e Teoria,
la dea degli spettacoli e delle feste. La felicità della pace era
rappresentata, per un ateniese del tempo di Pericle, soprat­
tutto dall’abbondanza materiale e dalla gioia delle grandi
feste o p an égyries ; un po’ come le grida della plebe romana
in onore dei p an em et circenses, con la differenza che Teoria
rievocava piaceri di livello più elevato di quelli del circo.
La maggior parte delle feste, se non tutte, comportavano
dei giochi che avevano luogo sotto forma di concorso {ago­
ni)-. concorsi ginnici e atletici nella maggior parte dei casi,
dei quali abbiamo parlato a proposito dell’educazione,18 ma
anche concorsi lirici e musicali, drammatici, di tragedia e
di commedia e persino concorsi di bellezza, cioè di forma e
prestanza, per uomini e donne.
Esaminiamo le più importanti feste religiose del calen­
dario ateniese e caratterizziamo con qualche cenno le più
importanti.19 Durante la guerra del Peloponneso, una ri­

17 Cfr. qui sopra cap. VII, p. 268.


18 Cfr. più sopra cap. IV, p. 157 e sgg.
19 L’opera essenziale è quella di L. Deubner, A ttische Feste.

286
La vita religiosa. Il teatro

forma del calendario, introdotta per ristabilire la corrispon­


denza fra il mese lunare e l’anno solare, provocò un certo
turbamento nei tempi della celebrazione delle feste. Ciò
diede l’occasione ad Aristofane per far rivolgere dal coro
delle N uvole questi scherzosi rimproveri da parte della luna:

Voi disponete le vostre giornate senza metodo e sconvol­


gete il calendario per cui a ogni momento gli dei se la
prendono con la luna, quando sono privati di un banchet­
to, o rientrano a casa senza aver avuto la loro festa, che
l’ordine dei giorni avrebbe dovuto recar loro. E quando
è il giorno in cui si deve offrire un sacrifìcio? Voi ve lo
chiedete e vi date da soli la risposta, e spesso, mentre gli
dei digiunano in memoria di Memnone o Sarpedonte fate
delle allegre libagioni.20

L’anno ufficiale - civile e religioso - iniziava in luglio,


nel mese di E catom beon che più anticamente si chiamava
C ronion perché, il 12, nella gioia della conclusione della
mietitura si festeggiava Crono (Saturno), padre di Zeus e
sua moglie Rea (Cibele), la madre degli dei. I C ronia (come
a Roma i Saturnalid) erano festeggiati da padroni e schia­
vi insieme in un gaio e rumoroso banchetto all’interno di
ogni famiglia, ma la festa aveva anche un carattere pubbli­
co e nazionale. Il 16 dello stesso mese veniva celebrato il sa­
crificio dei Synoikia che rievocava il sinecismo compiuto da
Teseo, lontana origine dell’unità dell’Attica e della potenza
ateniese. Alla fine dell3E catom beon si celebrava la grande fe­
sta nazionale di Atena, patrona della città, le P anatenee.

20 Aristofane, Le nuvole, vv. 6 15 -6 2 2.

287
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

La festa annuale di tal nome durava due giorni, ma ogni


4 anni veniva celebrata con particolare solennità e durava
almeno quattro giorni. Nei concorsi ginnici, che compren­
devano in special modo delle corse con le fiaccole (lam -
pad ed ro m ie ),21 gli atleti vincitori ricevevano rami di olivo
sacro in anfore dette «panatenaiche» la cui decorazione era
costituita da un lato dall’immagine di Atena Promachos
(cioè «che combatte in prima fila») in piedi fra due colon­
ne e, dall’altra, la rappresentazione del concorso (per esem­
pio, la corsa a piedi) nel corso del quale era stato vinto il
premio. Poi si svolgeva una grande processione (la stessa
rappresentata sul grande fregio marmoreo del Partenone)
che, partendo dal Ceramico, attraversava il centro di Ate­
ne per portare solennemente sull’Acropoli il peplo ricamato
ogni anno da fanciulle scelte, che avrebbe vestito la sta­
tua cultuale di Atena; i sacerdoti e tutti i corpi della città,
compresi i rappresentanti dei meteci, formavano un lungo
corteo accuratamente ordinato accompagnato dagli efebi a
cavallo. Arrivati sull’Acropoli davanti al vecchio tempio di
Atena Poliade (cioè protettrice della città) si sacrificavano
prima di tutto 4 buoi e 4 montoni poi, sul grande altare
posto davanti al Partenone, si sgozzavano altrettante vacche
quante bastavano a nutrire l’intera città e fu certamente
questa ecatombe a dare il nome al mese nel corso del quale
essa si svolgeva.
Nel Boedrom ion (settembre) venivano celebrati i misteri
eleusini di cui ci riserviamo di parlare più avanti e i Boe-

21 Questo genere di corse era molto popolare e veniva organizzato anche in


occasione delle feste di Efesto, di Prometeo, di Pan: si veda M . Delcourt,
H éphaistos ou la légen d e d u m agicien , Les Belles Lettres, Paris 1957, pp.
200-203.

288
La vita religiosa. Il teatro

dromia, le feste in onore di Apollo Boedromio, cioè «colui


che viene in aiuto durante la battaglia». Anche tale festa
prevedeva un sacrificio e una processione.
Il mese più ricco di feste era Pyanopsion (ottobre). Il 7
avevano luogo le semine accompagnate da riti estrema-
mente singolari e antichi: si offriva al dio un piatto di fave
(pyanoi) e altre verdure miste a farina di frumento, poi si
portava in processione un ramo d’olivo, Yeiresione, avvolto
di lana e carico di primizie, che era un talismano di fertilità
mentre un corteo di ragazzi cantava:

L’eiresioné porta dei fichi, dei pani grassi,


Un piccolo vaso di miele, dell’olio per ungersi
La coppa di vino puro che l’inebria e l’addormenta.22

Un’altra processione di carattere analogo si svolgeva per


le Oscoforie in onore di Dioniso: un corteo di adolescenti,
guidato da due ragazzi am fitaleis ,23 portava dei rami di vite
carichi di grappoli. Il sacrificio e la libagione si svolgevano
al grido liturgico di éléleu iu iu . Poi cerano danze e corse
fra efebi.24
L’11, 12 e 13 dello stesso mese avevano luogo le Tesmo-
fo rie , feste di Demetra Tesmoforia che vegliava sia sulla
semina che sulla fecondità delle donne. Solo le ateniesi
sposate vi partecipavano: gli uomini erano rigorosamente
esclusi.25 Le donne si preparavano a tale festa astenendosi

22 Plutarco, Vita d i Teseo, 22.


23 Cioè ragazzi con madre e padre ancor vivi: cfr. più sopra cap. Ili, p. 99.
24 M i sembra molto probabile, nonostante le riserve di H. Jeanmaire,
Dionysos, p. 4 8 6 , che le O schophoria fossero una festa per la vendemmia.
25 Cfr. Aristofane, Le tesm oforie.

2 89
La vita quotidiana in Grecia n el secolo d i Pericle

per alcuni giorni da qualsiasi rapporto sessuale.26 Il primo


giorno, chiamato A nodos (salita) si riportavano alla luce
degli oggetti sacri (maiali da latte, simulacri di pasta degli
organi sessuali e serpenti) che erano stati seppelliti 4 mesi
prima: tale rito di magia agraria è simile a quello che veni­
va praticato in onore di Atena da due adolescenti chiamate
arréfore. Il secondo giorno, chiamato N esteia (digiuno) le
donne si astenevano da qualsiasi cibo. Il terzo, chiamato
C alligeneia (bella generazione) offrivano a Demetra ogni
specie di frutti della terra, farinate e formaggio, poi si lan­
ciavano epiteti osceni, manipolavano statuette rappresen­
tanti l’organo femminile, mangiavano semi di melograno
e si flagellavano con rami verdi, tutti riti che si riteneva
favorissero la fecondità.
Le A paturia, feste civiche delle fratrie, duravano anch es­
se 3 giorni. I due erano contrassegnati da sacrifici e ban­
chetti. Nel corso del terzo, chiamato C ureotis, il padre di
famiglia presentava ai membri della sua fratria i figli legitti­
mi nati nel corso dell’anno per farveli regolarmente iscrive­
re; ognuno immolava in questa occasione una capra o una
pecora sull’altare di Zeus Fratrio e di Atena Fratria.
Infine il 30 del mese Atena Ergané (operaia), dea degli
artigiani, ed Efesto, dio dei fabbri, ricevevano in occa­
sione delle Chalkeia l’omaggio dei lavoratori del bronzo
0chalkeis) e delle altre «corporazioni».27 Gli operai offriva­
no ad Atena un prodotto della loro industria, un «capo­
lavoro», come i contadini offrivano le primizie del raccol­
to. Sono state trovate dediche di questo genere ad Atena

26 Cfr. Teodoreto di Cirro, Terapeutica, XII, 73.


27 Cfr. M . Delcourt, Héphaistos..., cit., pp. 195-200.

290
La vita religiosa. Il teatro

Ergané, come quella di un certo Bacchios il cui epitaffio,


anch’esso conservato, ci informa che era un vasaio e che
aveva riportato il primo premio in un concorso fra artigia­
ni: «Bacchios ha offerto (questo ex voto) come primizia ad
Atena Ergané dopo essere stato incoronato dai suoi com­
pagni di tiaso».28
Nel mese di Posidéon (dicembre) la festa degli A lo a (da
alos, il campo seminato) aveva per oggetto la conservazio­
ne del grano che stava germogliando, come le Tesmoforie
dovevano favorire la semina. Si sacrificava a Demetra, a
sua figlia Core e anche a Posidone che dava il nome al me­
se e che prima di diventare dio del mare era stato anch’egli
una divinità ctonia (Galéochos). Gli uomini non parteci­
pavano alle A lo a, tranne qualche magistrato incaricato
di sorvegliare la cerimonia; invece vi prendevano parte le
cortigiane, che erano escluse, come gli uomini, dalle Te­
smoforie. L’organo maschile deputato alla generazione, il
fallo, sembra essere stato al centro del rito: un vaso conser­
vato a Londra ci mostra una donna che sta versando una
polvere, da una scatola, su dei falli di terracotta piantati in
terra come se fossero spighe di grano.29
Il fallo aveva molta parte anche nelle feste in onore di
Dioniso che erano concentrate (almeno le più antiche) nei
mesi invernali. Durante le Dionisie agrarie, o rurali, ce­
lebrate nel mese di Posidéon una processione campestre
portava solennemente il fallo dietro una donna che recava

28 C. Michel, R ecueil d ’inscriptw ns grecques, 1957 (dedica) e 1820 (epitaffio).


Il tiaso era un’associazione religiosa alla quale aderivano persone della stessa
professione.
29 Cfr. la riproduzione di questo pelik é di Londra nell’opera citata di L.
Deubner, A ttische Feste, tav. 3, fig. 3.

291
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

un cesto (ca n efora ).30 Il decreto ateniese relativo alla colo­


nia di Brea (in Tracia), verso il 445 avanti Cristo, stipu­
lava un accordo secondo il quale gli abitanti di tale città
dovevano inviare ad Atene «per le grandi Panatenee una
vacca e una panoplia e, per le Dionisie, un fallo».31 Tale
festa dava luogo a divertimenti come se ne vedono ancora
oggi nei paesi: giovani contadini cercavano di tenersi in
equilibrio su otri gonfi e oliati {ascoliasm osf2 e le allegre
bande rumorose dei co m o i (termine che è all’origine dei
cori «comici») si spargevano per le strade e i vicoli del vil­
laggio cantando e danzando, e lanciando rozze o oscene
galanterie a tutti e a tutte coloro che incontravano sulla
loro strada. A partire dal V secolo i demi più ricchi ag­
giunsero a quei divertimenti delle rappresentazioni dram-.
matiche.
In G am elion (gennaio), il mese dei matrimoni (ga m oi)
si celebrava la festa dei G am elia o Teogamici che rievocava
l’unione divina di Zeus ed Era e anche un’altra festa di
Dioniso, le L enèe. Non si trattava, come è stato creduto,
di una festa della spremitura del vino (lenos), che sareb­
be strana, a tanti mesi dalla vendemmia, ma di una festa
orgiastica delle L enai, un altro termine che designava le
Menadi o Baccanti, donne possedute dal delirio bacchico.
Esse danzavano sul luogo sacro detto L enaion le loro dan­
ze estatiche e sfrenate.33 Dioniso era il dio del ditirambo e
del teatro e quindi questa festa prevedeva rappresentazioni
liriche e drammatiche; molte opere di Aristofane, fra l’al­

30 Cfr. Aristofane, Acarnesi, vv. 247-262.


31 M .N. Tod, A Selection ofG reek H istoricalInscrìptions, I, 44, 1, 11-13.
32 Cfr. più sopra cap. VII, p. 265.
33 Cfr. H. Jeanmaire, Dionysos, pp. 44-47.

292
La vita religiosa. Il teatro

tro gli A carnesi, i C avalieri, le Vespe, furono rappresentate


alle Lenee, per i soli ateniesi e meteci, mentre alle G randi
D ionisie di marzo molti delegati delle città alleate venuti a
portare i tributi potevano partecipare alle rappresentazio­
ni teatrali. Aristofane quindi approfittò di questa assenza
degli alleati per attaccare Cleone, la sua «bestia nera»:

Siamo tra noi, è il concorso del Lenaion, gli stranieri non


ci sono; i tributi non sono stati portati e gli alleati non
sono ancora arrivati in città; noi siamo soli oggi, solo il
puro frumento della città, mentre i meteci ne sono, per
così dire, la crusca.34

Un’altra grande festa di Dioniso, dio del vino, si svolge­


va in A nthesterion (febbraio); le A ntesterie, come le Tesmo-
ferie di Demetra in Pyanopsion, occupavano il 12 e il 13
del mese, Il primo giorno del «triduo», chiamato P ithoigia
(apertura degli orci) si aprivano i p ith o i in terracotta dove il
vino era conservato, dal raccolto autunnale. In quel giorno
o nel successivo, chiamato Coès (i piccoli vasi per versare
il vino; cfr. le coefore) aveva luogo un concorso di bevitori:
bisognava ingoiare il più rapidamente possibile, al segnale
dato da un suono di tromba, il vino contenuto in un vaso;
il vincitore riceveva una corona di foglie e un otre di vino.
Molti di questi vasi sono stati trovati e spesso sono deco­
rati da scene rappresentanti bambini che giocano e coro­
ne, perché le Antesterie erano anche una festa infantile.35
Il secondo giorno, si faceva una processione che scortava

34 Aristofane, A carnesi, vv. 504-508.


35 Cfr. più sopra cap. IV, p. 137.

293
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Dioniso montato su un carro a forma di nave; i membri


del seguito portavano, a quanto risulta, delle maschere e
si può paragonare questa cerimonia al nostro carnevale. Il
ruolo del dio era interpretato dall’arconte re e la basilissa,
sua moglie, doveva unirsi a lui in una ierogam ia . Il terzo
giorno della festa, chiamato C hytroi (le marmitte), aveva
invece un carattere del tutto diverso: era dedicato ai mor­
ti e ai moribondi. Si preparavano in pentole di terracotta
una minestra di legumi e graminacee diverse (pansperm ia)
che bisognava consumare prima della notte e il principale
sacrificio era offerto a Ermes Psicopompo, la guida delle
ombre agli inferi. Per scongiurare la cattiva sorte, infine, si
diceva alla fine del terzo giorno: «Alla porta le K eres (dee
della morte); sono finite le Antesterie!».36
Antesterion era anche il mese delle C loia, feste di Deme-
tra C loe, e delle D iasie, la maggior festa ateniese”in onore
di Zeus.
Nel mese di E laphebolion (marzo), con l’arrivo della
primavera e la fine dell’inverno, si celebravano sacrifici di
richiesta di grazia ad Atena (P rocharisteria) e soprattutto
le grandi Dionisie della città, la seconda «stagione» teatra­
le dopo le Lenèe, che attirava molti stranieri perché nella
stagione primaverile, alla fine del periodo delle tempeste,
molte navi riprendevano a solcare l’Egeo. La festa, la cui
magnificenza si poteva paragonare solo a quella delle Pa-
natenee, durava 5 giorni; il 9 erano presentati i ditirambi,
il 10 le commedie, e dall’l l al 13 le trilogie tragiche segui­
te ognuna da un dramma satiresco. Vi torneremo quando
parleremo del teatro.

36 C fr. H. Jeanm aire, D ionysos, pp. 4 8 -5 6 .

294
La vita religiosa. Il teatro

In M unychion (aprile), il 16, la festa dei Munychia, pre­


vedeva una processione in onore di Artemide alla quale si
portavano dolci circondati da fiaccole accese.
In Thargelion (maggio) si celebravano le Targelie in ono­
re del fratello di Artemide, Apollo, il dio purificatore per
eccellenza. Il primo giorno, il 6, la città era purificata col
rito dei pharm ak oi, non senza analogia con l’uso ebraico del
«capro espiatorio». Due uomini percorrevano le strade della
città; venivano percossi a colpi di rami di fico e di piante di
cipolla marina (skilles) così cacciati dalla città: con loro ve­
niva allontanata ogni contaminazione, tutti i m iasm i di cui
li si riteneva impregnati. Il 7 si offriva ad Apollo il thargelos,
un dolce o una minestra di cereali, che costituivano l’offerta
delle primizie della prossima mietitura. Il 25 venivano le
P lyntenia, cioè la festa del bagno della dea Atena; si portava
al Falera la vecchia statua in legno (xoanon ) di Atena Poliade
e la si tuffava in mare con il suo peplo; dopo l’immersione
venivano offerti alla dea dolci fatti di fichi secchi. In forza
"del culto delle immagini si riteneva che l’idolo incarnasse
la dea stessa. Il bagno aveva un valore di purificazione di
tutta la città di cui Atena era patrona e le feste principali di
Thargelion assicuravano la lustratio collettiva della città che
doveva renderla degna della grazia divina del raccolto.
Infine, l’ultimo mese dell’anno ateniese, chiamato Ski-
rophorion (giugno), era quello delle Scirophoria, una festa i
cui riti ci sono poco noti e che prevedeva probabilmente un
sacrificio comune a Demetra, Core, Atena e Posidone; delle
D ipolie o B u fron ie nelle quali si sacrificava a Zeus un bue da
lavoro; delle A rretoforie, una festa in onore di Atena, alcuni
riti della quale, praticati da due fanciulle chiamate arreto-
fo re, erano analoghi a quelli dell’Anados delle Tesmoforie.

2 95
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Come avrete notato abbiamo enumerato dieci mesi


dell’anno ateniese. Restavano M eta geitn ion (agosto) e M ai-
m a cterion (novembre). Anch’essi avevano le loro cerimonie
religiose ma le feste di M eta geitn ia e di M aim acteria sono a
malapena citate nei testi a noi noti. Quanto abbiamo detto
basta comunque a dimostrare che Tucidide non esagera­
va quando faceva dire a Pericle che Atene celebrava feste
dall’inizio alla fine dell’anno. Abbiamo persino trascurato
di citare le feste di divinità secondarie come Asclepio, degli
eroi, come le Tesèe, e le feste dei culti stranieri importati dai
meteci come le B endidèe, celebrate a partire dal V secolo al
Pireo, in onore della dea tracia Bendis.
Abbiamo detto che nelle Dionisie agrarie, nelle Grandi
Dionisie urbane e nelle Lenaia si svolgevano rappresenta-,
zioni teatrali. Il teatro era, con lo stadio, il monumento più
caratteristico della città greca di una qualche importanza
e sappiamo che in Attica, oltre al teatro situato sul fianco
sud dell’Acropoli nel santuario di Dioniso Eleuterio cerano
altri teatri in molti demi, in special modo al Pireo, a Col-
lito, a Salamina, a Eieusi, a Thoricos, a Ramnunte, teatri
che servivano alle rappresentazioni delle Dionisie agrarie.
Parliamo del teatro nel capitolo dedicato alla vita religio­
sa, perché tutte le rappresentazioni drammatiche avevano
luogo in un santuario di Dioniso, in occasione di una sua
festa, sotto la presidenza di un suo sacerdote, ed erano or­
ganizzate, come i giochi ginnastici che accompagnavano
altre feste, sotto forma di concorso.
Tutti sanno che i teatri greci erano situati all’aperto, di
solito sulle pendici di una collina che sosteneva i gradini del
theatron che circondava l'orchestra circolare in cui il coro si
muoveva intorno all’altare di Dioniso davanti al prosk enion

296
La vita religiosa. Il teatro

che si staccava dalla skené (in origine una semplice tenda,


nella quale si vestivano coreuti e attori). Il teatro di Dioniso
ad Atene risale, nel suo assetto attuale, all’età romana men­
tre il magnifico teatro del santuario di Epidauro ha meglio
conservato l’aspetto che aveva in età classica.37 In tutti que­
sti teatri l’acustica era eccellente.38
Ad Atene, prima delle Lenee e delle Grandi Dionisie, i
più alti magistrati della città, l’arconte eponimo e l’arconte
re, preparavano con molto anticipo le rappresentazioni. Si
designavano prima di tutto i coregi, cioè i cittadini ricchi
che lo stato incaricava di assoldare, mantenere e allestire
a proprie spese i cori tragici e comici formati, i primi da
quindici e, i secondi, da ventiquattro coreuti. I poeti che
desideravano partecipare al concorso - a cui erano ammessi
anche gli stranieri, cioè i greci non ateniesi - «chiedevano
un coro» all’arconte che li sceglieva a suo libito ma doveva
poi rendere conto al popolo di tale scelta. Il poeta metteva
in scena la sua opera e «istruiva» il coro; poteva però farsi
aiutare o anche sostituire da un maestro del coro (corod id a -
scalo) perché il compito era grave e richiedeva molte e diver­
se attitudini. Il coro cantava e danzava al suono dell’oboe,
per cui una tragedia o una commedia antica erano uno
spettacolo completo che, dal punto di vista esteriore, somi­
gliava a un’opera lirica o a un m u sic-h all dei nostri giorni.
L’arconte sceglieva poi l’attore principale o p rotagonista che
aveva ai suoi ordini gli attori che recitavano il secondo e
il terzo ruolo, deuteragonista e tritagonista. Nessuna don­

37 Cfr. J. e G . Roux, Grece, A rthaud, Paris 1957, tavv, a pp. 74-75 e 104-
105.
38 Cfr. E. Canac, L’a coustique des théatres antiques, in «La Revue scienti-
fique», mai 1951, pp. 151-169.

297
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

na interpretava ia commedia o la tragedia e tutti i ruoli


femminili erano interpretati da uomini; ciò rendeva me­
no strano luso di portare sul viso la maschera. Quando
era stata stabilita la triplice lista dei coregi, dei poeti e dei
protagonisti bisognava coordinarli, fare cioè in modo che
ogni poeta avesse un corega e un protagonista. Nel corso
di un’assemblea popolare, i nomi dei coregi designati erano
messi in un’urna e la sorte fissava l’ordine secondo il quale
ognuno di loro sarebbe stato chiamato a scegliere il suo po­
eta. Con questo procedimento nel 472, il giovane Pericle,
nominato corego, scelse Eschilo che presentava la trilogia
che comprendeva i P ersian i. Anche i protagonisti erano at­
tribuiti ai poeti dalla sorte; più tardi ogni protagonista potè
interpretare successivamente una tragedia di ogni poeta, il.
che dava più possibilità a ogni autore di affermarsi.
Tutti questi preliminari si concludevano col proagon, la
presentazione generale dei poeti e delle loro compagnie,
che si svolgeva nell’Odeon vicino al teatro, un edificio al
coperto soprattutto riservato ad audizioni musicali. Ogni
poeta dichiarava dall’alto di un podio il suo nome, i titoli e
gli argomenti delle sue opere, i nomi dei suoi interpreti. La
cerimonia aveva la funzione che oggi hanno i manifesti. Le
rappresentazioni stesse, come ogni riunione, cominciavano
al mattino poco dopo il levar del giorno. Era necessario,
se si voleva assistere, prima del calar del sole, a quattro o
cinque opere teatrali che presupponevano danze e brani
lirici lasciando tuttavia qualche intervallo fra ogni rappre­
sentazione, visto anche che ogni tragedia o ogni commedia
venivano interpretate senza interruzione alcuna. Questa era
la «razione» quotidiana teatrale degli spettatori in 4 giorni
consecutivi delle Grandi Dionisie: dopo una prima gior­

298
La vita religiosa. Il teatro

nata contrassegnata dalla processione dionisiaca e una se­


conda dedicata ai concorsi unicamente lirici dei ditirambi,
il terzo giorno era dedicato alle commedie, tre e più tardi
cinque, di diversi autori; i tre giorni successivi erano dedi­
cati alla tragedia e ognuno di essi era occupato interamente
dall’opera di uno dei tre poeti scelti dall’arconte, che poteva
consistere in una tetralogia o in una trilogia più un dram­
ma satiresco.
Gli ateniesi che seguivano l’intero ciclo delle Grandi
Dionisie assistevano dunque, oltre ai ditirambi, a 15-17
opere teatrali in 4 giorni e ascoltavano quindi circa 20.000
versi, recitati o cantati! Possiamo sorprenderci di una tale
«capienza» ma le lunghe serie di versi omerici recitati, per
esempio, alle Panatenee avevano abituato gli uditori a una
attenzione pressoché instancabile.
Le donne che non potevano essere attrici potevano però
accedere al teatro come spettatrici.39 Il prezzo dei posti era
di due oboli (terza parte di una dracma), ma lo stato ver­
sava la somma ai cittadini poveri attingendo al fondo per
gli spettacoli (theoricorì). I posti di prima fila erano riservati
ai sacerdoti e ai magistrati e agli ateniesi e stranieri che
avevano ricevuto il privilegio della p ro ed ria. I buleuti, gli
efebi, i meteci avevano un settore loro riservato nei banchi
del theatron-, le donne erano probabilmente raggruppate nei
gradini più alti. Ognuna delle dieci tribù aveva un settore
riservato. Nonostante tali precauzioni la sistemazione del
pubblico nei posti non andava talvolta esente da disordini
e litigi e i rhabdochi (portatori di verga) incaricati di as­
sicurare l’ordine nel teatro talvolta dovevano intervenire.

39 C fr. più sopra cap. I li, p. 109.

299
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Certamente, data la lunghezza eccezionale delle sedute, gli


ateniesi, nonostante la proverbiale sobrietà, si portavano da
bere e da mangiare. Talvolta dei coregi particolarmente ge­
nerosi facevano distribuire al pubblico focacce e vino. Le
rappresentazioni si dovevano certamente svolgere in una
atmosfera di kermesse.
Tuttavia conservavano un carattere religioso e si apriva­
no con una purificazione eseguita col sangue di un porcel­
lino; il sacerdote di Dioniso sedeva al centro della prima
fila di fronte all’altare del suo dio, posto al centro dell’or­
chestra.
Dopo la lustrazione si traeva a sorte l’ordine nel quale si
sarebbero rappresentate le opere dei concorrenti. A ll’inizio
di ogni opera un araldo suonava la tromba. Nonostante il.
carattere religioso della festa, il pubblico manifestava ru­
morosamente le sue reazioni; applaudiva, fischiava, batte­
va i piedi.40 Certi poeti assoldavano una personale claque.
Possiamo stupirci della licenziosità dell’antica commedia
ma non dobbiamo dimenticare il carattere peculiare del
culto di Dioniso; le Dionisie si aprivano con una proces­
sione il cui stendardo era costituito da un fallo e il comos
da cui la commedia prendeva origine era caratterizzato da
un eccesso di allegria spesso brutale. Alla fine del concor­
so avevano luogo il giudizio e la distribuzione dei premi.
Prima della festa era stata formulata la lista dei giudici, poi
ridotta a dieci nomi con l’estrazione a sorte. I dieci giudici
siedevano probabilmente in teatro in posti loro riservati.
Tutti votavano alla fine della rappresentazione, ma veniva­
no ulteriormente estratti a sorte i cinque nomi validi per

40 C fr. più sopra cap. V II, p. 2 7 5 .

300
La vita religiosa. Il teatro

il giudizio definitivo. Si procedeva così: un’urna conteneva


le dieci tavolette dove i giudici avevano consegnato il voto
e una seconda conteneva cinque cubi neri e cinque bian­
chi; era valido solo il voto tratto contemporaneamente a
un cubo bianco. Tali precauzioni erano prese per evitare
il rischio di intrighi sleali da parte dei poeti e dei coregi;
a proposito del funzionamento della giustizia nel capitolo
seguente troveremo precauzioni ancora più accurate. Ma
la folla cercava ugualmente, talvolta, di far pressione sul­
la giuria provocando scene violente nel corso delle quali i
rabdochi avevano il loro bel da fare. Platone con un aristo­
cratico disdegno chiamava il pubblico delle rappresenta­
zioni drammatiche una te atro c raz ia.41
Tre premi erano assegnati per ogni categoria, tragica e
comica: al poeta, al corego e al protagonista. Tali premi
consistevano in una semplice corona di edera; solo i vin­
citori del ditirambo ricevevano, sembra, un tripode. Bi­
sogna però distinguere da questi premi gli onorari, che
certamente erano proporzionali al successo ottenuto, che
spettavano ai poeti e ai protagonisti. I coregi vincitori de­
dicavano talvolta a Dioniso un monumento che perpetua­
va il ricordo della loro vittoria e della gloria che ne riceve­
vano; ci è rimasto quello a Lisicrate.42
L’indomani dell’ultimo giorno di festa il popolo si ra­
dunava in teatro per esaminare la gestione dell’arconte che
aveva organizzato il concorso e gli votava un elogio o un
biasimo.

41 Platone, Le leggi, III, 701 a.


42 Cfr. più sopra cap. IV, p. 154.

301
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

La coregia di cui abbiamo parlato a proposito del teatro


era una liturgia, cioè un servizio pubblico e, nello stesso
tempo, una specie di imposta che colpiva i cittadini più
ricchi. Ma implicava anche un onore e infatti il corego vin­
citore non esitava, talvolta, a fare ulteriori spese per consa­
crare agli occhi dei concittadini il ricordo della rappresen­
tazione nella quale il «suo» poeta aveva trionfato in parte
grazie a lui.
Altri cittadini ricchi erano designati per altre liturgie: la
trierarch ia (allestimento e comando di una nave da guerra,
una triere)-, gin n asiarch ia (organizzazione di giochi ginna­
stici e fornitura dellolio necessario agli atleti); hestiasis (fi­
nanziamento di un pranzo pubblico per i membri di una
tribù). Nell’esercizio delle loro funzioni tali cittadini erano,
considerati magistrati a carattere sacro e chi li insultava,
come Midia che schiaffeggiò in pieno teatro Demostene
quando questi era corego, si esponeva a pene severe. Se essi
si mostravano generosi e devoti al pubblico erano conside­
rati evergeti, cioè benefattori del popolo. Se certi ateniesi,
evergeti loro malgrado, spendevano il loro denaro molto
malvolentieri, altri vi vedevano il mezzo per acquistare, per
sé e la propria famiglia, una reale popolarità. Non bisogna
dimenticare che la filotim ia , il desiderio degli onori e della
gloria, era un sentimento profondo e assai diffuso nell’A-
tene del secolo di Pericle dove era facile trovare esempi di
evergetism o del tutto volontario e spontaneo.
Cimone, figlio di Milziade, impiegò le sue ricchezze e
il bottino delle sue campagne militari a vantaggio dei suoi
concittadini; aprì le sue proprietà per permettere ai mete­
ci e agli ateniesi meno abbienti di cogliere frutti delle sue
terre e ogni giorno offriva loro un pasto semplice ma suffi-

302
La vita religiosa. Il teatro

dente, una specie di mensa popolare a molti poveri; della


sua casa aveva insomma fatto un «pritaneo comunitario»,
ci dice Plutarco, pensando al costume di prendere i pasti
in comune coi cittadini emeriti. Anche Cimone ordinava
ai giovani ricchi che gli facevano da guardia del corpo di
scambiare i propri abiti con gli ateniesi anziani e mal vestiti
che incontravano e di distribuire ai poveri mendicanti delle
pubbliche piazze delle monete.43
Ma erano soprattutto le feste e i concorsi a fornire l’oc­
casione per spettacolari elargizioni. Nicia si era reso celebre
col fasto che aveva ostentato quando condusse la «teoria»
ateniese a Deio. Si diceva che aveva anche trasportato un
ponte prefabbricato ad Atene, splendidamente decorato di
pitture, dorature, corone e tappeti che congiunse le isole di
Renea e Deio per tutta la durata della festa.44
Anche in occasione delle grandi feste panelleniche di
Olimpia, di Delfi (P itia ), dell’Istmo e di Nemea, accompa­
gnate da concorsi i cui vincitori Pindaro celebrò nelle sue
O di trionfali, i greci ricchi e ambiziosi facevano a gara a
chi si rendeva più benemerito e illustrava la sua patria con
le più folli prodigalità, che talvolta li mandavano in rovina.
La partecipazione di Alcibiade ai giochi olimpici del 416
suscitò l’ammirazione di tutta la Grecia; non solo, grazie al­
la ricchezza e alla qualità delle sue scuderie, potè far correre
contemporaneamente nove equipaggi di carri a suo nome
e riportare il primo premio, il secondo e il quarta, cosa che
non si era mai vista, ma fece innalzare una immensa ten­
da dove dopo il sacrificio fece offrire un pasto sontuoso a

43 Plutarco, C im one, 10. Cfr. più sopra cap. I, p. 49.


44 Plutarco, N icia, 3.

303
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

un’enorme folla di pellegrini.45 Gli invidiosi pretendevano


però che le città di Efeso, Chio e Lesbo, alleate di Atene,
avessero fornito gratuitamente ad Alcibiade tenda, vittime
e vino e persino che uno degli equipaggi che aveva fatto
correre non gli apparteneva.46
Il santuario di Zeus a Olimpia, vicino alle rive dell’A l-
feo, costituiva ogni 4 anni un luogo di raduno {panegirici)
per i greci di tutte le città. L’importanza di questa festa
p en teterica, cioè che si celebrava alla fine del 4° anno dopo
la precedente, come le grandi Panatenee, era tale che la sola
cronologia valida in tutta la Grecia si fondava sull’era delle
Olimpiadi che iniziava nel 776 avanti Cristo. La battaglia
di Salamina, ad esempio (480 a.C.) era datata al primo an­
no della 75a Olimpiade (74x4=296 e 776-296=480). Anche
gli schiavi e i barbari potevano assistere alle feste olimpiche,
ma non le donne sposate. A Olimpia, soprattutto, i gre­
ci assumevano la consapevolezza della loro unità profonda
nonostante le proprie divisioni politiche. Una vera e propria
fiera si teneva fuori dal recinto sacro a Zeus e si potevano
gustare distrazioni per tutti i gusti e non solo i giochi spor­
tivi. Sofisti e molti scrittori, in tale occasione, davano pub­
blica lettura delle loro opere. Così fecero anche Erodoto,
Gorgia, Lisia, Isocrate; quest’ultimo non lesse il suo discor­
so che aveva chiamato Panegirico personalmente perché lo
aveva composto in vista delle p a n e g iria di Olimpia.

45 Su quest’uso delle skinai, cfr. L. Robert, Le sanctuaire d e Sinuri, p. 50 e


H ellenica, X, p. 287, dove è segnalata la somiglianza con il cardak turco; nei
paesi arabi, soprattutto in Egitto in occasione di matrimoni e altri avveni­
menti, si elevano grandi tende di tela sotto le quali si accolgono gli invitati.
46 Andocide, IV, 2 9-3 0; Isocrate, S ul tiro, passim . Cfr. anche J. Hatzfeld,
A lcibiade, pp. 13 0 -131 e 139-140.

304
La vita religiosa. Il teatro

La festa durava sette giorni. Nel primo venivano offerti


sacrifici all’altare di Zeus e ai sei doppi altari eretti secondo
la leggenda da Eracle, libagioni alle tombe dell’eroe Pelo-
pe eponimo del Peloponneso, e si procedeva alle formalità
preparatorie dei giochi. Nei cinque successivi si svolgevano
le prove sportive: dieci per adulti e tre per bambini. Gli
uomini fatti si misuravano in quattro corse veloci: lo sta­
dio, il d iau lo s, o doppio percorso, il dolicos (corsa lunga,
probabilmente di 6 stadi) e la corsa in armi, poi nella lotta,
nel pugilato, nel pancrazio, nel pentatlon, che consisteva in
cinque prove47 e infine nelle corse di quadrighe, dove si era
imposto Alcibiade nel 416, e nella corsa di cavalli montati.
Per i ragazzi cerano la corsa di uno stadio, la lotta e il pugi­
lato. Tutte queste prove si disputavano sotto la sorveglian­
za degli d 'ellan o d ici (giudici dei greci). Il settimo e ultimo
giorno, infine, era caratterizzato da una solenne processio­
ne e da un banchetto. I nomi dei vincitori, gli olimpionici,
erano proclamati dall’araldo, accompagnati dal nome del
loro padre e della loro città. Come premio, ricevevano una
semplice corona d’olivo ma la loro gloria era immensa e
riverberava sulla loro famiglia e la loro città. Atene ricom­
pensava i cittadini che avevano trionfato a Olimpia con il
«mantenimento nel Pritaneo»48 e si diceva che una città, per
accogliere straordinariamente un Olimpionico, non aveva
esitato a far abbattere, in occasione del suo ritorno, una
parte delle mura per farlo entrare da una porta dove nessu­
no fino allora era passato.

47 Cfr. più sopra cap. IV, p. 157.


48 Platone, A pologia d i Socrate, 36 d.

305
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

Culti della città e culti dei santuari panellenici basta­


vano ad appagare le aspirazioni religiose del popolo greco.
Un ateniese poteva effettivamente credere nella dea Atena,
come Ippolito che nella omonima tragedia di Euripide nu­
triva per Artemide una quasi mistica pietà, ma Ippolito era
anche un orfico. I culti pubblici con le loro cerimonie spes­
so grandiose, avevano sempre qualcosa di un po’ freddo e
impersonale: si rivolgevano agli dei in vista della prospe­
rità collettiva delle diverse città e anche di tutta la Grecia
ma non si interessavano alla felicità individuale dell’essere
umano, in questa vita o nell’altra: lo stesso culto dei morti
si occupava di nutrire le «ombre» ma non garantiva la loro
felicità - o infelicità - nell’aldilà.
Invece le religioni misteriche promettevano ai loro adep­
ti una immortalità felice, a patto che si facessero iniziare e
osservassero i riti, indipendentemente da ogni nozione di
comportamento meritorio o peccaminoso, e avevano per
fine la salvezza individuale degli uomini. La parola greca
m ysterìon comporta l’idea di un segreto riservato a un cer­
to numero di privilegiati, e le nozioni apparentate di m i­
stica e m isticism o circolavano più o meno embrionalmente
in tali sette. Alcune furono tenute in sospetto da parte
dello stato mentre i misteri di Eieusi, riconosciuti e pro­
tetti da Atene, godettero di una situazione di particolare
favore che conferì loro, in tutta l’antichità, un’eccezionale
importanza.
Abbiamo già detto che i Grandi Misteri di Eieusi erano
celebrati nel mese di Boedrom ion (settembre), in onore di
Demetra e di sua figlia Core.49 Le due dee vegliavano sui

49 Cfr. più sopra p. 288.

306
La vita religiosa. Il teatro

cereali e anche sui morti che, come il grano, erano sepol­


ti sotto terra. I misteri hanno subito probabilmente anche
influenze orfiche e dionisiache. L’Inno omerico a Demetra,
che ci è stato conservato, narra il mito del ratto di Core
da parte di Ades e la «ricerca» della madre disperata che,
accolta a Eieusi, cerca di conferire l’immortalità al giovane
Demofonte e che poi fonda il suo culto misterico.
Ecco l’ultimo verso dell’inno, una specie di «beatitudine»:

Felice chi possiede, fra gli uomini, la visione di questi mi­


steri. Ma chi non è iniziato ai santi riti non avrà lo stesso
destino quando soggiornerà, morto, nelle umide tenebre.

Eieusi, demo dell’Attica, era a ventidue chilometri da


Atene. Il 14 del mese di Boedromion gli oggetti sacri (ierà)
contenuti in un cesto erano portati con grande pompa da
Eieusi a Atene dove venivano deposti nell’E leusinio n. Il 15
i candidati all’iniziazione si raccoglievano nel Pecile; tutti
erano ammessi, anche gli schiavi e i barbari, ma non gli
assassini non purificati e coloro la cui voce non era «intelli­
gibile cioè probabilmente coloro che non sapevano parlare
greco e non potevano dunque pronunciare adeguatamente
le formule rituali. Il 16, i misti si recavano alla rada del
Falero per una curiosa cerimonia di purificazione: a un
ordine dei sacerdoti che gridavano «a mare i misti» tutti
correvano a tuffarsi in acqua trascinando con sé un porcel­
lino che veniva poi sacrificato.50 Il 19, una grande e solenne
processione riconduceva attraverso la Via Sacra da Atene a
Eieusi il cesto mistico in mezzo ai canti e a grida di «lacco,

50 Cfr. a proposito del bagno di Frine, più sopra cap. VI, p. 213.

307
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

lacco!». Infine a Eieusi, dopo un giorno di digiuno, trascor­


revano, dal 21 al 23, le due notti dell’iniziazione. Ma ciò
che si svolgeva in quelle due notti doveva restare segreto e
chiunque rivelasse ciò che aveva visto e udito era passibile
di morte. Il segreto è stato così accuratamente conserva­
to che solo qualche testo tardo, soprattutto dei padri della
Chiesa, ci permette di intravvedere in che cosa consisteva
l’iniziazione. La grande sala dove si svolgevano i riti segreti,
il telesterion , è stato messo in luce dagli scavi: è un vasto
quadrilatero di 50 metri di lato con sei ranghi di 7 colon­
ne di cui si vedono ancora i basamenti; i gradini, in parte
intagliati nella roccia, permettevano di trovare posto fino a
tremila persone.
La prima notte conferiva il livello inferiore alla inizia­
zione. Il digiuno dei misti era rotto, come quello di Deme-
tra nell’Inno omerico, dall’assunzione del kikeon, bevanda
rituale di acqua, semola e puleggio.51 Poi gli oggetti sacri
contenuti nel cesto erano svelati ai misti e da essi manipola­
ti. Si trattava probabilmente di simulacri di organi sessuali
maschili e femminili. Il misto doveva pronunciare questa
formula: «Ho digiunato, ho bevuto il kikeon, ho preso l’og­
getto nella cesta e, dopo aver compiuto l’atto, l’ho messo
nel paniere e poi di nuovo dal paniere nel cesto». Si can­
tavano anche canti sacri, diretti da sacerdoti della famiglia
degli Eumolpidi (cioè «i buoni cantori»).
La seconda notte era quella nella quale i misti iniziati
l’anno precedente diventavano époptis (misti «contemplan­
ti») e raggiungevano il livello più elevato di iniziazione. La

51 Cfr. A. Delatte, Le cycéon, b reu va ge ritu el des m ystères d ’E leusis, e più


sopra cap. VII, pp. 248-249.

3 08
La vita religiosa. Il teatro

sala del Telesterion era immersa nella più totale oscurità e


i misti dovevano spostarvisi in un’atmosfera di angoscia e
paura creata da canti lugubri. Poi, improvvisamente le tor­
ce, attributo caratteristico di Demetra e di Core e simbolo
di rivelazione, illuminavano vivamente il centro della sala.
Si mostrava allora agli iniziati «l’ammirevole mistero di una
spiga mietuta» e probabilmente anche una ierogamia, vero
e proprio dramma liturgico.
Un prezioso frammento del retore Temistio, falsamente
attribuito a Plutarco,52 dice:

L’anima, al momento della morte, prova la stessa impres­


sione di coloro che sono iniziati ai misteri... Prima ci so­
no corse incerte, penosi giri a vuoto, marce inquietanti e
senza fine attraverso le tenebre. Prima della fine, il timore,
il brivido, il tremito, i sudori freddi, lo spavento sono al
culmine. Ma in seguito, una luce meravigliosa si offre agli
occhi, si passa in luoghi puri e praterie dove echeggiano
canti, dove si vedono danze; parole sacre e apparizioni di­
vine ispirano un rispetto religioso. Mentre l’uomo, appena
iniziato e perfetto, divenuto libero può passeggiare senza
alcuna costrizione, celebra i Misteri con una corona in
testa, vive con uomini puri e santi, vede in terra la folla
dei non iniziati schiacciarsi e accalcarsi nel fango e nelle
tenebre e, per timore della morte, attardarsi fra i mali in­
vece di credere nella felicità dell ’al di là.

I misteri di Dioniso promettevano certamente, come


quelli di Demetra, la felicità nell’al di là; i loro adepti, rag-

52 Cfr. M.P. Nilsson, Les croyances réligiem es d e la G rece an tiq u e , p. 179.

309
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

gruppati in tia s i dove si entrava per iniziazione, praticavano


il rito dell 'om ofagia divorando le carni crude di un animale
sgozzato.
Più difficile è stabilire in che cosa consistesse in età clas­
sica l’orfismo, cioè la corrente di idee religiose che si ri­
chiamava al cantore trace Orfeo, profeta di Dioniso che
aveva esercitato il potere magico della musica ed era sceso
agli inferi prima di essere straziato e divorato dalle Mena­
di. L’orfismo aveva i suoi ciarlatani, sferzati da Platone53 e
che a suo parere promettevano ai ricchi di liberarli da ogni
male e di danneggiare i loro nemici, dietro compenso, con
sacrifici e riti magici. Ma Platone si ispirava, a sua volta, a
idee orfiche, il che dimostra che egli stimava le credenze,
se non gli uomini, dellorfismo. Si è sostenuto che «lorfi-.
smo... in età classica non era una dottrina e quasi neanche
un culto... ma piuttosto dei libri di cui non sappiamo quasi
niente».54 E però probabile che nel V secolo esistessero se
non una religione orfica, almeno piccoli gruppi di uomini
che praticavano la «vita orfica», che hanno prodotto la leva
dei teologi e dei moralisti del grande movimento mistico
legato al dio «orgiastico» Dioniso.
La teogonia orfica e il mito di Dioniso-Zagreo e dei Tita­
ni sono assai singolari. Secondo gli orfici, a causa di un’an­
tica colpa che fa pensare al peccato originale (uccisione del
giovane Zagreo da parte dei Titani, antenati degli uomini)
l’anima umana è prigioniera nel corpo come in una prigio­
ne o in una tomba (som a = sem a) e deve percorrere un ciclo
di esistenze e reincarnazioni successive. Ma per coloro che

53 Platone, R epubblica, II, 3 64 -36 5 a.


54 L. Moulinier, O rphée et l ’o rphism e à l ’époque classique, pp. 115-116.

310
La vita religiosa. Il teatro

conoscono la rivelazione di Orfeo si apre una via di salvez­


za. L’orfico deve condurre una vita di astinenza, rinuncia e
ascesi. E vegetariano, perché la credenza nella trasmigrazio­
ne delle anime implica il rispetto della vita universale. L’ani­
ma deve sbarazzarsi di tutto ciò che è carnale e materiale per
liberarsi della terra e innalzarsi verso la dimora divina (la
conclusione del Fedone di Platone). Amuleti incisi su lamine
d’oro trovati nella Magna Grecia e a Creta ci hanno con­
servato le parole che l’iniziato doveva rivolgere alle divinità
infernali (ma il loro carattere orfico non è sicuro):

Vengo da una comunità di puri, o pura sovrana degli infe­


ri...; infatti mi onoro di appartenere alla tua razza fortuna­
ta, ma il destino mi ha abbattuto... Sono balzato fuori dal
ciclo delle gravi pene e dei dolori e mi sono lanciato con
lesto piede verso la corona desiderata; mi sono rifugiato
nel seno della Signora, regina degli inferi.

E la dea risponde:

O fortunato! O felice! Sei diventato un dio, da uomo


che eri.

L’iniziato concludeva infine con la misteriosa formula:

Capretto, sono caduto nel latte.55

Nella religione ufficiale si pregavano gli dei e si offrivano


loro sacrifici per la prosperità della città; nei culti misterici

55 C. Michel, R ecu eil d ’in scription sgrecq u es, cit., n. 1330.

311
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

si cercava di ottenere, con l’iniziazione, promesse di vita fe­


lice nell’al di là. Ma gli uomini, in Grecia come dovunque
neH’antichità, volevano di più: desideravano conoscere la
volontà degli dei per il presente e per l’avvenire, conoscere
anticipatamente gli eventi futuri. Qui interveniva la divi­
nazione.
Il termine latino d ivin a tio indica da solo il posto essen­
ziale che la divinazione occupava nella religione antica, per­
ché includeva etimologicamente tutti i d ivin a , cioè tutte
le caratteristiche divine; e la divinazione era l’aspetto più
vivo nella religione in Grecia e a Roma. In greco, l’indo­
vino si chiamava m antis e la divinazione mantiké, termine
che indica inizialmente soprattutto la divinazione intuitiva,
ispirata, e che probabilmente è apparentato con il termine
m ania (follia o estasi) e con M ainas (la Menade). Tuttavia
i greci conoscevano anche la divinazione induttiva o artifi­
ciale {entechnos, technik é) che si fonda sull’osservazione, da
parte dell’indovino, di diversi fenomeni considerati segni
certi {semeia) della volontà degli dei.
Ci sono presagi di ogni tipo: prodigiosi (ogni spettacolo
anormale o strano, ogni nascita di un mostro animale o
umano era un segno temibile);56 atmosferici (la pioggia, il
tuono erano segni di Zeus) o visivi (ogni incontro inatte­
so, soprattutto fatto al mattino quando si esce di casa è di
buono o cattivo augurio) o acustici (ogni parola che si sente
pronunciare improvvisamente, ogni rumore, grido o suono
inatteso costituiscono un cledòn , presagio uditivo, suscetti­

56 Cfr. Plutarco, P ericle , 6, dove la nascita di un ariete unicorno in una fat­


toria appartenente a Pericle è interpretata diversamente d all’indovino Lam­
pone e dal filosofo Anassagora, entrambi amici dell’uomo di stato ateniese.

3 12
La vita religiosa. Il teatro

bile di interpretazione); e infine fisiologici: ogni movimento


involontario prodotto dall’epilessia (male sacro) o sempli­
cemente ogni ronzio d’orecchi o starnuto è dotato di signi­
ficato perché la volontà umana non li determina. Quando
Telemaco sternutisce, sua madre Penelope vi individua un
presagio di buon augurio57 e anche ntW A nabasi quando,
dopo un discorso di Senofonte, un soldato si mette a ster-
nutire «a quel rumore tutto l’esercito, con slancio unanime,
adorò il dio».58
In Epiro, a Dodona, presso un santuario di Zeus che
è probabilmente il più antico di tutti gli oracoli greci, le
Selle prevedevano l’avvenire secondo il brusio che il vento
produceva agitando i rami delle querce (alberi sacri a Zeus)
o percuotendo dei bacili di bronzo sospesi l’uno accanto
all’altro. Ma i presagi più numerosi si traevano dagli ani­
mali, vivi o morti. Il volo degli uccelli e le loro strida erano
particolarmente rivelatori della volontà degli dei per ragioni
che Plutarco ci spiega:

Nella scienza dell’avvenire, la parte più importante e più


antica è quella che si chiama scienza degli uccelli. Essi,
grazie alla loro rapidità, alla loro intelligenza e alla finez­
za dei movimenti coi quali si dimostrano attenti a tutto
ciò che colpisce la loro sensibilità, si pongono come veri e
propri strumenti al servizio della divinità. Essa imprime
loro movimenti diversi e trae da loro mormorii e grida.
Talvolta li tiene sospesi, talaltra li lancia impetuosamente
o per interrompere certi atti, certe volontà degli uomini o

57 Omero, O dissea , X VII, vv. 5 41-546.


58 Senofonte, Anabasi, III, 2, 9.

313
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

per favorirli. Per questo Euripide chiama gli uccelli «mes­


saggeri degli dei».59

L’aquila, uccello di Zeus, fornisce un presagio favorevole


o sinistro a seconda che compaia a destra o a sinistra. L’or-
nitomanzia era talmente praticata, fin dall’epoca omerica,
che le parole greche che significano «uccello» {ornis, oionos)
significano anche «presagio».
A proposito dei sacrifici, abbiamo già alluso alla ierosco-
p ia , metodo divinatorio probabilmente importato dall’E-
truria che consisteva nèllesaminare i visceri di un animale
appena sgozzato per trarne indicazioni sulla volontà divi­
na. In special modo si analizzavano, del fegato, l’aspetto
dei lobi, la vescicola biliare e la vena porta. N eìY E lettra di
Euripide, Oreste, prima di uccidere Egisto, lo assiste per
un sacrificio i cui funesti presagi annunciano l’assassinio
imminente:

Egisto prende dalle mani di Oreste le viscere consacrate


e le osserva. Manca al fegato un lobo, la vena porta e i
canali vicini alla vescicola biliare mostrano al suo sguar­
do funeste escrescenze. Oreste chiede: «Perché hai un’aria
così scoraggiata?» «Straniero - risponde Egisto - temo un
inganno da uno di fuori. Ho un nemico mortale, il figlio
di Agamennone che è in guerra contro la mia casa».60

L’assenza di un lobo del fegato era il segno più sicu­


ro che l’esame dei visceri poteva fornire: così furono av-

59 Plutarco, D e sollertia anim alium , 22.


60 Euripide, Elettra, vv. 826-833.

314
La vita religiosa. Il teatro

vertiti dalla fine prossima Cintone, Agesilao, Alessandro


Magno.61
Ma il nome stesso di mantiké, col quale i greci indicava­
no la divinazione, suggerisce che a loro parere i metodi più
validi erano quelli della divinazione ispirata, estatica, nella
quale un uomo o una donna ricevevano direttamente un
messaggio da dio.
\lonirom anzia, divinazione coi sogni, costituiva una stra­
da intermedia fra la divinazione induttiva e quella intuitiva.
Una convinzione antica e non ancora del tutto scomparsa
crede che certi sogni costituiscano una rivelazione divina e
libri dal titolo del tipo La ch ia v e d ei sogn i trovano ancora
oggi dei lettori. In Omero, i sogni mandati dagli dei sono
molti e li troviamo anche nella tragedia antica dalla quale
sono passati, ad esempio, nella tragedia francese del XVII
secolo. Ma Y onirocritica (interpretazione dei sogni) era
un’arte complessa perché molti sogni erano ingannevoli.
Un grande santuario dell’Argolide, quello di Epidauro,
particolarmente prospero nel IV secolo, era celebre per le
guarigioni miracolose. I pellegrini, la sera, si coricavano
sotto il portico di incubazione {abaton, coim eterion ) e vi si
addormentavano. Durante il sonno guarivano, nella mag­
gior parte dei casi in seguito a un sogno nel quale vedeva­
no Asclepio, dio della medicina e figlio di Apollo, venire
presso di loro, toccare e manipolare la loro parte malata
o rivelare loro una «ricetta» che al risveglio si affrettava­
no ad applicare. Le stele di Epidauro ci hanno riferito i

61 L’importanza del fegato nella divinazione ebbe due rilevanti conseguen­


ze: fece avanzare molto presto la conoscenza di quest’organo e influenzò
direttamente la teoria di Platone e di Aristotele sulla divinazione e, in gene­
rale, le loro dottrine fisiologiche.

315
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

«verbali» di molti «miracoli» di questo tipo: una donna


monocola riacquista completamente la vista, un bambino
muto si mette improvvisamente a parlare, un uomo guari­
sce dall’ulcera ecc.62
L’uomo addormentato si trova in uno stato di incoscien­
za che favorisce l’approccio col divino. La morte imminen­
te sviluppa anch’essa le facoltà divinatorie che sono latenti
in ogni uomo. Ilia d e , Patroclo ed Ettore, nel momen­
to della morte, predicono le circostanze della morte im­
minente del loro uccisore eppure non sono indovini, come
Calcante o Eleno.63
Ma profeti e profetesse qualificati possono anche, in
stato di «entusiasmo», cioè, nel senso greco del termine, di
possessione divina o di estasi, rivelare le volontà di Zeus
trasmesse soprattutto dal figlio Apollo, il dio della divina­
zione e della purificazione per eccellenza.
Nel II secolo della nostra era, l’incredulo Luciano enu­
mererà così i principali santuari oracolari di Apollo in un
passo ironico e divertente; parla Zeus:

Apollo, con la professione assorbente che si è scelto, è


quasi assordato dai seccatori che vengono a chiedergli
degli oracoli. Talvolta deve andare a Delfi, un momento
dopo si precipita a Colofone, di là passa a Xantos poi,
sempre di corsa, a Claro e ai Branchidi; in una parola,
dovunque la profetessa, dopo aver bevuto la bevanda sa­
cra, masticato il lauro ed essersi agitata sul tripode, gli

62 Cfr. ad esempio, per maggiori particolari, A.-J. Festugière, in H istoire


générale..., cit., pp. 12 8 -136 .
63 Cfr. anche la predizione di Socrate ai propri giudici: Platone, A pologia
d i Socrate , 39 c.

316
La vita religiosa. Il teatro

chiede di apparire bisogna che arrivi puntuale per emet­


tere gli oracoli per filo e per segno se non vuole nuocere
al prestigio della sua arte.64

La profezia direttamente ispirata da Apollo è quella, per


esempio, della troiana Cassandra di cui Eschilo ci mostra le
estasi divinatorie ne\YAgamennone. E anche quella di varie
Sibille e probabilmente anche di profeti chiamati «bakis» e
certamente della Pizia di Delfi.
Il santuario panellenico di Apollo Pizio a Delfi, in Foci-
de, nel cuore della Grecia centrale, era celebre per i giochi
pitici che si celebravano ogni 4 anni come le Olimpiadi,
per Y A nfizionia dei popoli vicini al santuario che ebbe una
funzione importante, talvolta nefasta, nella storia degli
stati greci ma anche e soprattutto per il suo oracolo, il più
famoso e celebrato dell’età classica. Si è detto che la Pizia,
una semplice contadina di Delfi che per tutta la durata
delle sue funzioni doveva mantenere una completa castità,
si limitasse a tirare a sorte delle fave per rispondere alle
domande che dovevano sempre essere poste sotto forma di
alternativa fra un sì e un no. Certamente, il caso affidato
all’estrazione a sorte era un sistema molto diffuso nella
Grecia classica, per conoscere la volontà divina, ed è certo
che la clero m an zia era praticata a Delfi in età classica, ma
i singoli e le comunità al santuario di Apollo chiedeva­
no soprattutto la risposta ispirata della Pizia che, seduta
sul fatidico tripode, in stato di estasi, ntìY adyton (luogo
proibito) sotterraneo del tempio, proclamava la volontà
di Zeus rivelatale da suo figlio. Come si otteneva questa

64 Luciano, La doppia accu sa , cap. I.

317
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

condizione di «entusiasmo»? Non ne sappiamo niente di


preciso, ma l’ipotesi oggi più accreditata è che si trattasse
di una specie di autosuggestione, di s e lf hypnotism , un fe­
nomeno religioso diverso dalla crisi isterica e di cui sono
noti molti esempi.65
Chi voleva interrogare l’oracolo pagava innanzitutto una
tassa chiamata pelanos, poi offriva il sacrificio preliminare
di una capra; essa, dopo essere stata sgozzata, era cosparsa
d’acqua e se rabbrividiva e, trasaliva sotto la doccia fredda,
si deduceva che Apollo era disposto a profetizzare.66 La Pi­
zia allora, dopo essersi purificata alla fonte Castalia, entrava
nel tempio e, in un altare interno, faceva delle fumigazioni
di alloro e farina d’orzo, poi scendeva nella parte sotter­
ranea del tempio dedicato alla divinazione, il m an teio n .
Coloro che la volevano consultare scendevano anch’essi,
nell’ordine loro assegnato dal privilegio della p ro m an tia,
che alcuni avevano, e dall’estrazione a sorte, ma si ferma­
vano, con i sacerdoti e i profeti, in una sala loro riservata
mentre la Pizia continuava da sola il suo cammino verso l a ­
dy ton vicino; richiedenti e sacerdoti l’udivano profetizzare
ma non potevano vederla. La Pizia pronunciava i «veridici»
e «infallibili» oracoli di Apollo chiamato anche L oxias, cioè
«ambiguo», perché spesso le sue risposte erano equivoche.

65 Cfr. soprattutto P. Amandry, La M antique a p ollin ien n e à Delphes-, R.


Flacelière, Le d élire d e la P ythie est-il urie legen d e?, «Revue des Études A n-
ciennes» 52, 1950, pp. 3 06 -32 4 ; M . Delcourt, L’o ra cle d e D elphes ; H.W.
Parke e D.E. W orm ell, The D elphic Oracle.
66 Questa «prova della capra» ci è testimoniata solo attraverso Plutarco, in
età tarda, ma probabilmente veniva praticata anche in età classica. Se la ca­
pra restava immobile sotto la doccia, la consultazione poteva essere pericolo­
sa e persino mortale per la Pizia: cfr. Plutarco, Sulla sparizione d egli oracoli ,
cap. 51.

318
La vita religiosa. Il teatro

N eW adyton si trovavano la statua di Apollo, la tomba di


Dioniso (il cui culto a Delfi era molto importante, e con­
tribuisce a spiegare il delirio della Pizia, perché Dioniso è
per eccellenza il dio dell «orgia» e dell’estasi), e Yomphalos o
ombelico della terra, antico betilo, pietra sacra di forma ap­
prossimativamente conica e il tripode su cui sedeva la Pizia.
Non possiamo qui parlare diffusamente deH’immensa
influenza religiosa, politica, morale esercitata dagli oracoli
della Pizia, soprattutto nelle epoche di fede più profonda,
cioè nel VI e V secolo, prima dell’apparizione dei sofisti che
coincide con un certo intiepidimento della fede e quindi
della fiducia negli oracoli. Ma ancora in pieno IV secolo,
Platone nel suo progetto utopico prescrive che tutte le que­
stioni relative al culto e alla morale siano rette dall’oracolo
di Delfi al quale quel grande spirito attribuiva una benefica
influenza sullo sviluppo della civiltà greca.67

La divinazione non era quindi praticata, come avviene


oggi nei paesi civili, clandestinamente, da «veggenti» o indo­
vine; era un’istituzione ufficiale riconosciuta dagli stati che
consultavano essi stessi la Pizia e affiancavano degli indovini
ai magistrati civili e militari: Lampone, l’amico di Pericle,
che fu una specie di «ministro dei culti», era un indovino.
La frontiera fra religione e superstizione era spesso in­
certa. Infatti nel ritratto del superstizioso descrittoci da
Teofrasto troviamo molti dei rituali menzionati in questo
capitolo a proposito della religione, ma spinti all’assurdo.
Ecco il ritratto:

67 Sull’influenza esercitata dall’oracolo di Delfi, cfr. soprattutto J. Defradas,


Les thèm es d e la propagande delphique.

319
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Il giorno della festa delle Coe, dopo essersi purificato le


mani e asperso di acqua lustrale, il superstizioso esce dal
tempio con un ramo di alloro fra i denti e così va in giro
tutto il giorno.68 Se una donnola gli attraversa la strada69
non si muove prima di aver visto passare un’altra persona o
aver lanciato tre sassolini lungo la strada. Mettiamo che in
casa abbia visto un serpente: se è grosso invoca Sabazio,70
se è un serpente sacro fa innalzare immediatamente sul
posto una cappella. Quando passa davanti a quelle pietre
oliari che si vedono nei crocevia ci versa tutto l’olio della
sua lekythos71 e non si allontana prima di essere caduto
in ginocchio ed essersi prosternato. I topi gli hanno rosic­
chiato un sacco di farina? Si rivolge all’esegeta72 per sapere
che comportamento deve tenere e se l’esegeta gli risponde -
di farci mettere una pezza dal conciatore non si arrende
ugualmente e corre a offrire un sacrificio espiatorio.73 È
uomo da fare continuamente purificare la casa convinto

68 II giorno di Choes era il secondo delle Antesterie: cfr. p. 2 9 4 . L’alloro,


come l ’acqua di mare, e l ’aglio, citati in seguito, erano creduti dotati di
virtù purificatrici.
69 Cattivo presagio, come il grido della civetta o un oggetto roso dai topi,
citati più oltre.
70 Dio straniero, di origine tracia, il cui culto penetrò in Grecia come quel­
lo di Bendis, fin dal V secolo: il serpente era uno dei suoi attributi abituali.
71 Si tratta di betyles , o pietre sacre ad A pollo Argivo, che erano sotterrate
avvolte in bende di lana, come Yomphalos delfico e unte d ’olio.
72 L’esegeta era un interprete delle cose divine che ad Atene godeva del
rango dei magistrati: cfr. J.H. Oliver, TheA thenian E xpounders o fth e S acred
andA ncestral Law, The Johns Hopkins Press, Baltimore 1950.
73 Si veda quanto dice Bione di Boristene, frammento 45: «Che cosa c’è
di straordinario se un topo che non ha niente da mangiare rosicchia il tuo
sacco? Straordinario sarebbe come diceva scherzosamente Arcesilao, se il
sacco divorasse il topo!».

320
La vita religiosa. Il teatro

che sia perseguitata da Ecate.74 Se per strada sente il gri­


do di una civetta si impressiona e non va avanti prima di
aver pronunciato la formula «Atena se la porti via». Evita
di camminare su una tomba, di avvicinarsi a un morto o
a una donna che ha appena partorito, dicendo di tenere
molto a non caricarsi di una impurità. Nel quarto e ven­
tiquattresimo giorno del mese,75 dopo aver dato ordine a
quelli di casa di preparare del vino caldo, esce per acqui­
stare rami di mirto, incenso, dolci sacri poi, rientrato a
casa, passa tutto il giorno a incoronare le immagini di Er­
mafrodito.76 Quando fa un sogno si reca dagli interpreti di
sogni (oneirocrìtes), dagli indovini, dagli auguri per sapere
quali dei o dee deve invocare. Ogni mese, per rinnovare la
sua iniziazione, va a trovare i preti orfici {orfeotelestes) in­
sieme alla moglie (o, se non è libera, alla sua nutrice) e dei
figli. E di quella gente che si vede, in riva al mare, praticare
abluzioni minuziose. Se scorge uno di quei portatori di co­
rone d’aglio che si incontrano nei crocevia77 torna a casa,
si inonda dalla testa ai piedi, fa venire delle sacerdotesse
e chiede loro di purificarlo con una cipolla marina o col
cadavere di un giovane cane da trascinare in tondo intor­
no a lui. Alla vista di un folle o di un epilettico è preso da
brividi e sputa nella piega dell’abito.78

74 Dea dei sortilegi magici e delle apparizioni notturne; cfr. più avanti p.
323.
75 Giorni considerati nefasti (apophrades ).
76 O di Ermes? Il testo dei manoscritti non è sicuro.
77 «Si usava offrire a Ecate, nei crocicchi, vivande che vi si imputridivano.
Si tratta, credo, degli uomini incaricati di portar via questi resti. Il super­
stizioso si riteneva contaminato se li incontrava.» (Nota di O. Navarre alla
sua edizione dei C aratteri.)
78 Teofrasto, C aratteri, cap. X VI.

321
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Se poi si rompeva un fermaglio legandosi le calzature


del piede, destro o sinistro, era sempre un presagio, buono
o cattivo.79 Non bisogna credere che i superstiziosi fossero
tutti uomini del popolo, privi di cultura. Un ricco uomo di
stato, come Nicia, uno scrittore discepolo di Socrate, come
Senofonte, si circondavano di indovini e di cresm ologi (rac­
coglitori di oracoli) e praticavano riti minuziosi quasi come
quelli del superstizioso di Teofrasto. Sappiamo che dopo
una eclissi di luna, un presagio molto importante, Nicia
perse il suo esercito e morì egli stesso tragicamente in Sicilia.

Che cosa dissero gli ateniesi alla notizia del disastro? Co­
noscevano il coraggio personale di Nicia e la sua ammi­
revole costanza. Non pensarono neanche a rimproverargli
di aver seguito le regole religiose. La sola cosa che trova­
rono da rimproverargli fu di aver portato con sé un indo­
vino ignorante. Infatti avrebbe dovuto sapere che per un
esercito in ritirata, la luna che nasconde la sua luce è un
presagio favorevole.80

La magia, che offriva ricette efficaci per asservire il mondo


inanimato e gli esseri viventi e anche per costringere gli dei a
porre la loro potenza al servizio degli uomini, non era scono­
sciuta in Grecia nell’età classica ma si può dire che fosse agli
inizi, rispetto all’immenso sviluppo che avrà in età ellenisti­
ca e romana. I greci stessi la consideravano di origine stra­
niera e di importazione orientale: la più grande maga della

79 Menandro, frammento 109.


80 Fustel de Coulanges, La C ité antique, Hachette, Paris 189515, p. 2 64 , da
Tucidide, VII, e Plutarco, N icia, 23.

322
La vita religiosa. Il teatro

leggenda, Medea, era una barbara, nata in Colchide; Eschilo


mostra agli spettatori una scena di negromanzia, revocazio­
ne di un morto, nella tragedia I p ersian i in cui il coro dei
Fedeli, in una scena quasi allucinante, fa uscire dalla tomba
il vecchio re Dario. Ci sono molte tracce di pratiche magiche
nell 'Iliade e soprattutto nell 'Odissea e i magi della Tessaglia
erano celebri in età classica, perché si attribuiva loro il potere
di far scendere la luna sulla terra e di provocare quindi le
eclissi del nostro satellite.81 Medea, però, proprio in Tessaglia
si era stabilita con Giasone per praticarvi la sua arte.
I riti degli orfeotelestes di cui parla Teofrasto, cioè dei sacer­
doti orfici di basso rango di cui Platone dice che sfruttavano
i ricchi promettendo di garantire la loro felicità e la sfortuna
dei loro nemici con degli incantesimi, appartenevano già alla
magia, come il cerchio di purificazione tracciato dalle sacer­
dotesse col cadavere di un giovane cane: doveva trattarsi di
un culto di Ecate (dea che Teofrasto cita in un altro passo del
suo ritratto del superstizioso). Questa divinità inquietante,
patrona degli orfici e dei maghi, era probabilmente anch’essa
venuta dalla Tracia, come Bendis e Sabazio, ed era insieme
lunare e ctonia. La credenza popolare faceva di lei una po­
tenza temibile, infernale nel senso malvagio del termine, che
manda gli spettri e i terrori notturni. M aga per eccellenza,
conosceva tutte le formule amorose e il suo culto era soprat­
tutto diffuso fra le donne.
Una pratica di magia amorosa, per il V secolo, ci è indi­
rettamente attestata da Pindaro che ne attribuisce l’inven­
zione ad Afrodite, non a Ecate. E a proposito dell’amore che
Giasone deve ispirare a Medea, principessa della Colchide,

81 Platone, G orgia, 513 a.

3 23
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

se vuole conquistare il vello d’oro: «La dea di Cipro, dall’al­


to dell’Olimpo, attacca su una ruota infrangibile il torcolo
(iynx) dal piumaggio variegato, legato alle quattro estremità
portando per la prima volta agli uomini l’uccello del deli­
rio...».82 Il torcolo deve il suo nome alla mobilità della testa
che fa ruotare in tutte le direzioni. È associato alla ruota e
il termine iynx designa sia il solo uccello sia l’insieme ruo­
ta-uccello; la ruota ha il valore di «cerchio magico»: su un
vaso del terzo quarto del V secolo si vede la madre di una
giovane ateniese, il mattino delle nozze di sua figlia, far ruo­
tare intorno a un bastoncino la ruota magica che attirerà
sulla nuova coppia i doni di Afrodite.83 Ruote con uccelli,
soprattutto in terracotta, sono conservate nei nostri musei;
dovevano servire per riti magici di ogni tipo.84 Nel III seco­
lo, Teocrito ci presenta, nel suo poema intitolato Le m aghe
(Farmakeutriai), una giovane donna abbandonata dal suo
amante che ha deciso di incatenarlo a sé con riti efficaci.
Chiede alla serva dei rami di alloro e dei filtri, poi invoca,
fra altre divinità, Ecate e Medea, infine canta un ritornello
incantatorio che doveva accompagnare i giri del rhom bos co­
stituito dalla ruota con gli uccelli:

Iynx, attirami quest’uomo, il mio amante.

A partire dalla prima metà del IV secolo si diffonde anche


in Attica l ’uso delle tavolette di maledizioni. Si trattava di un

82 Pindaro, P itiche, IV, vv. 2 13-216.


83 Milligen, P ein tu re d e vases antiques, tav. XLV; cfr. l ’articolo di J.L. de La
Genière citato nella nota successiva, pp. 28-29.
84 J. de la Genière, Urie rou e à oiseaux du ca b in et des m édailles, «Revue
d ’Études Anciennes» 60, 1958, pp. 27-35.

324
La vita religiosa. Il teatro

rito magico col quale ci si proponeva di nuocere a dei nemici,


soprattutto agli avversari processuali, votandoli alle divinità
infernali, Ermes, Ecate e Persefone, letteralmente attaccando­
li a esse, in chiodan doli nel regno dei morti con la pratica del
«votare» alla morte. Spesso si enumeravano le diverse parti
del corpo del nemico, le sue facoltà spirituali, per punirlo
in tutta la persona. I nomi dei personaggi così votati alla
morte venivano circondati con una rete di fili, poi la lamina
di piombo su cui era incisa l’imprecazione veniva arrotolata
intorno a un chiodo di ferro e sepolta.85

85 Cfr. C. Michel, R e c u e ild ’inscription sgrecq u es, n. 1391-1325, e L. Robert,


C ollection F roehner, I, n. 11-12.
IX

La giustizia

Il funzionamento della giustizia ci è noto solo per quanto


riguarda Atene. Per le altre città greche abbiamo solo in­
formazioni scarse e insufficienti. A Sparta, città aristocra­
tica, la giustizia doveva essere molto più sbrigativa che ad
Atene. Tucidide ci narra minuziosamente come Pausania,
accusato di tradimento, fu messo sotto accusa dagli efori
e murato vivo nel tempio di Atena Calkioecos dove si era
rifugiato ma non ci dice se era comparso davanti a un
tribunale.1
Il potere di esercitare la giustizia era un privilegio rea­
le: in Omero ed Esiodo erano i re, portatori di scettro, a
emettere le sentenze (them istes). NellAtene democratica di
Pericle tale potere reale era esercitato dal popolo che lascia­
va alla venerabile assemblea dellAreopago solo certe cause
di assassinio. Come proclamava fieramente Filocleone nelle
Vespe di Aristofane:

1 Tucidide, I, 13 0 -134 .

326
La giustizia

Questo nostro potere di giudicare non cede di fronte a


nessuna regalità. Che felicità, che fortuna possono essere
complete come quelle di un giudice? ... Non è grande la
mia potenza, grande quanto quella di Zeus?2

M a prima di esporre il funzionamento dei tribunali credo


sia il caso di parlare brevemente di una istituzione profonda­
mente ateniese, più politica che giudiziaria, che permetteva
al popolo di allontanare provvisoriamente dalla città un cit­
tadino senza però fargli un vero processo, senza neanche for­
mulare nessuna imputazione nei suoi confronti: l’ostracismo.

«L’ostracismo era una forma di penalità propria degli


ateniesi, una forma di esilio che essi infliggevano senza al­
tra ragione che quella del loro gradimento, con la semplice
emissione su ostraca (pietre di ceramica) di un voto su un
nome.»3 Fu d isten e, vero fondatore, dopo Solone, della
democrazia ateniese alla fine del VI secolo, che istituì l’o­
stracismo come baluardo contro i tentativi di tirannia, per
impedire in futuro a possibili emuli di Pisistrato di impa­
dronirsi del potere. È significativo che fra le prime vittime
dell’ostracismo figurino Alcibiade il Vecchio e Megacle,
il primo collaboratore, il secondo nipote dell’inventore di
tale istituzione. La condanna per ostracismo è preventiva:
non punisce una colpa ma cerca di renderla impossibile.
Reprime la pretesa reale o supposta alla tirannia, gli atteg­
giamenti che sono o sembrano ambiziosi, si sostiene unica­
mente su un «processo di tendenza».

2 Aristofane, Le vespe, vv. 5 49 e 620.


3 J. Carcopino, L’o stracism e athénien, p. 5.

327
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

C era al massimo un voto di ostracismo ogni anno e solo


se un’assemblea preparatoria dell’Ecclesia aveva deciso di
praticare, nel corso dell’anno, una ostracoforia. Si svolgeva
una assemblea preliminare e qualche settimana più tardi, se
era il caso, si teneva una «assemblea di ostracismo» nel cor­
so della sesta e settima pritania cioè d ’inverno, nei mesi di
P oseidon e di A ntesterion, ricchissimi di feste,4 in occasione
delle quali i contadini dell’A ttica, liberi dai lavori agricoli
più importanti, venivano spesso in città.
L’assemblea dell’' ostracoforia era una riunione eccezionale
dell’Ecclesia, presieduta non dal solito gruppo di funziona­
ri ma dai nove arconti e dai cinquecento membri della Bulé
e non si teneva, come le normali assemblee, sulla Pnice o
in un teatro, ma sull’A gorà come nei tempi più antichi..
Quel giorno «si dotava l ’A gorà di barriere d ’assi nelle quali
si formavano dieci ingressi attraverso i quali i cittadini en­
travano per tribù e deponevano i loro voti».5 Sono state tro­
vate moltissime tavolette per ostracismo soprattutto dopo
l’avvio degli scavi americani sull’A gorà.6 Il voto era segreto
ma gli analfabeti erano costretti a far scrivere da un vicino
il nome dell’uomo che volevano ostracizzare.7
Lo spoglio di quel mucchio di tavolette doveva essere
un compito lungo e ingrato. Secondo Plutarco, «gli arconti
cominciavano a contare il numero complessivo delle tavo­

4 Cfr. più sopra cap. V ili, pp. 291 e 293.


5 Filocoro, frammento 79 b.
6 Cfr. J. Carcopino, op. cit., tavv. I, II, III. G li ostraca più di recente scoper­
ti sono stati pubblicati nella rivista «Hesperia». Il numero totale degli ostra­
ca noti nel 1952 era di 1650: cfr. A.E. Raubitschek, in Actes d u I I congrès
In tern a tion a l d ’ép igra p h iegrecq u e et latine, p. 62.
7 Cfr. l’aneddoto narrato da Plutarco a proposito dell’ostracismo di Aristi­
de, più sopra cap. IV, p. 141.

328
La giustizia

lette. Se il numero era inferiore a 6000 l’ostracismo non


era valido. Altrimenti, calcolavano i suffragi toccati a ogni
nome e l’araldo proclamava a voce alta quello di colui che
ne aveva ottenuto il maggior numero».8
L’ostracizzato aveva 10 giorni di dilazione per dire ad­
dio alle persone care e prepararsi una sistemazione fuori
dall’A ttica. Manteneva però la disponibilità dei suoi beni,
il che differenziava l’ostracismo dal normale esilio (p h ygé)
che si accompagnava alla confisca dei beni. L’ostracizzato
non poteva avvicinarsi ad Atene oltre l’Eubea e l’A rgolide
ma, a parte questo, restava libero di abitare dove voleva e di
cambiare dimora a suo piacere. Accadeva anche che l’ostra­
cismo venisse revocato e che l’ostracizzato venisse richiama­
to, per decreto dell’A ssemblea del popolo, prima della fine
dei 10 anni. Gli ateniesi quando si sentirono minacciati
da un immenso pericolo perché Serse andava preparando
l’invasione della Grecia, prima di Salamina, proclamarono
Un’amnistia generale per ricostituire, di fronte al pericolo,
una specie di union sacrée; tutti gli ostracizzati poterono
tornare, cioè Megacle, prozio di Pericle, Alcibiade il Vec­
chio, Santippo, padre di Pericle, e Aristide detto «il giu­
sto» che rientrarono ad Atene. In seguito furono colpiti da
ostracismo Temistocle, il vincitore di Salamina, Cimone,
figlio di Milziade, Tucidide, figlio di Melesia, avversario di
Pericle (da non confondere con l’omonimo storico) e, verso
la fine della guerra del Peloponneso, il demagogo Iperbolo.
L’ostracismo cadde poi in disuso.

8 Plutarco, A ristide, 7. Secondo Filocoro, il numero di 6 0 0 0 non era il q uo­


rum dei votanti ma il numero m inimo di voti per l ’ostracismo. J. Carcopino
ha preferito l ’ipotesi di Filocoro a quella di Plutarco. Il dubbio sussiste.

329
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Una differenza fra l’organizzazione della giustizia nell’an­


tichità e quella dei giorni nostri nei paesi civili consiste nel
fatto che, almeno ad Atene, non esisteva un «pubblico mi­
nistero»: la giustizia non perseguiva autonomamente i reati,
i magistrati prendevano solo molto raramente l’iniziativa di
una incriminazione e non cerano «procure della Repubbli­
ca». In tutte le cause private {dikai) solo la persona che si
riteneva lesa o un suo rappresentante legale (in caso di mi­
nori, donne, meteci e schiavi) poteva intentare un processo,
fare una citazione e farsi ascoltare in udienza, talvolta col
sostegno di una specie di avvocato, chiamato sinègoro. Per
le cause pubbliche (graphai), quando cioè si trattava di atti
presunti lesivi dell’interesse generale, ogni cittadino, chi «lo
volesse» {ho bulom enos) poteva decidere di considerarsi leso,
in quanto membro della comunità e aveva dunque il diritto,
se non addirittura il dovere, di «venire in aiuto» alla legge
presentando una denuncia presso il magistrato. Da questo
stato di cose derivava il fatto che lo stato era praticamente
costretto a incoraggiare la denuncia e ciò favoriva lo svilup­
po del fenomeno dei sicofanti.
In caso di danno materiale causato alla città dall’infrazio­
ne delle leggi sul commercio, le dogane e le miniere, i singoli
che prendevano l’iniziativa erano «interessati» al processo
che provocavano: se l’accusato veniva giudicato colpevole,
avevano un premio che nel V secolo ammontava ai tre quar­
ti, e nel IV alla metà della multa inflitta. M a per evitare che
venissero intentate troppe azioni per ragioni di interesse o
per semplice desiderio di nuocere, per le dikai, le due par­
ti interessate dovevano consegnare prima del processo una
certa somma come rimborso delle spese processuali {prita-
neid)\ nelle gra ph ai solo l’accusatore era tenuto al deposito

330
La giustizia

{parastasis). Se desisteva o non otteneva almeno un quinto


dei voti al processo, doveva pagare una multa di 1000 drac­
me. In entrambi i casi, il dibattito {agori) si svolgeva solo fra
le due parti: il magistrato istruttore era incaricato solo di
raccogliere le dichiarazioni formulate, di registrare le prove
e le testimonianze presentate dagli avversari poi, di solito, di
presiedere il tribunale. Esso, in tutti i casi, si comportava da
giuria muta, che ascoltava le tesi avverse e si pronunciava alla
fine. M a i giudici, molto numerosi, manifestavano talvolta i
loro sentimenti con «movimenti diversi (tborubos).
I magistrati istruttori erano, nella maggior parte dei ca­
si, gli arconti: l’arconte re per le cause relative al culto e gli
omicidi, l’arconte eponimo per il diritto privato relativo
ai cittadini, il polemarco per gli affari che interessavano i
meteci e gli stranieri, i tesmoteti quando erano in gioco gli
interessi materiali della città. Così Platone ci mostra, all’i­
nizio dell’E utifrone, l’indovino così chiamato e Socrate che
si incontrano davanti al Portico Reale dove aveva il suo seg­
gio l’arconte re: Eutifrone viene a deporvi un’accusa contro
suo padre, colpevole ai suoi occhi di avere violato la «pietà»
lasciando morire di fame uno schiavo assassino, e Socrate
è convocato dall’arconte re a causa della denuncia fatta da
Meleto che lo accusa di empietà e di corruzione della gioven­
tù, accusa per la quale sarebbe morto.
Tuttavia ad Atene c’era una polizia. I capi erano i ma­
gistrati chiam ati «gli Undici» o «sorveglianti dei malfat­
tori», incaricati di arrestare qualsiasi ladro o criminale
fosse colto in flagrante; se confessava, facevano eseguire
la pena immediatamente, altrimenti lo portavano in tri­
bunale. Potevano anche farlo incarcerare, sorvegliavano le
prigioni e seguivano tutte le cause a procedura sommaria

331
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

che presupponevano la detenzione preventiva. Interveni­


vano soprattutto quando un cittadino arrestava lui stesso
un delinquente {apagoge) o quando era necessario che un
magistrato si recasse nel luogo dove si trovava un criminale
per arrestarlo {aphegesis) o, infine, in casi di denuncia {en-
deixis). Erano anche incaricati delle esecuzioni: fu un servo
degli Undici a portare a Socrate la cicuta. M olti erano i tri­
bunali ad Atene. Il più antico e venerabile era certamente
l’Areopago che dai tempi di Pericle aveva perso ogni pote­
re politico ma che continuava a giudicare i casi di delitto
premeditato, di ferite inflitte con l ’intenzione di uccidere,
di incendio di una casa abitata e di avvelenamento; poteva
condannare a morte in caso di assassinio o a ll’esilio, con
confisca dei beni, in caso di ferite.
I Cinquanta e un efeto (giudici delle cause criminali) si
suddividevano in tre tribunali: il P alladio giudicava le cau­
se di omicidio involontario e di istigazione a ll’omicidio e
pronunciava la pena dell’esilio a tempo determinato, senza
confisca dei beni. Il D elfinio era competente se l ’arconte re,
incaricato dell’istruttoria, aveva deciso che l ’omicidio era
scusabile o legittimo. Un terzo tribunale, a F reatto sulle
rive del mare, giudicava coloro che, temporaneamente esi­
liati per omicidio involontario, commettevano un nuovo
delitto con premeditazione: l ’accusato, ancora contamina­
to e quindi nella impossibilità di entrare in città, presen­
tava la sua difesa da una barca di fronte ai giudici seduti
lungo la spiaggia.
Infine un quinto «tribunale del sangue» era formato
d all’arconte re e dai re delle tribù, radunati di fronte al
Pritaneo. La natura delle cause ivi giudicate dimostra che
la sua origine è antichissima: «Condanna in contumacia

332
La giustizia

il criminale ignoto e giudica gravemente l’animale o l ’og­


getto di pietra, ferro o legno che ha causato la morte di un
uomo, prima di purificare il territorio facendolo trasporta­
re o gettare al di là delle frontiere».9
M a non erano i «tribunali del sangue» che davano ad
Atene il suo carattere particolare nel campo della giusti­
zia e che la differenziavano dalle altre città greche. Era la
giurisdizione popolare àeìYEliea, le cui attribuzioni erano
quasi universali e lasciavano fuori solo gli omicidi. Certa­
mente molti atti della vita pubblica erano puniti dalla Bulé
e anche l ’Ecclesia, assemblea plenaria del popolo, aveva il
diritto di giudicare i reati più gravi contro la sicurezza del­
lo stato; nel 406 infatti gli strateghi vincitori alle Arginu-
se, ma accusati di aver trascurato il salvataggio dei soldati
periti nel naufragio, furono giudicati e condannati in due
drammatiche sedute dell’assemblea.10

L’assemblea del popolo deteneva tutti i poteri, ivi com­


presi quelli giudiziari, ma non poteva bastare a tutto ed era
la sua emanazione, l’Eliea, a sua volta molto numerosa, che
giudicava nelle sue diverse sezioni la maggior parte dei pro­
cessi. Ogni cittadino di almeno trentanni e non privo dei
diritti politici poteva farne parte. Il numero degli eliasti o
dicastes era fissato in 6000, che era il quorum delle sedute
plenarie dell’Ecclesia, la frazione del popolo che si consi­
derava equivalente, in pratica, al popolo intero; abbiamo
infatti detto che erano necessari almeno 6000 suffragi per
rendere valido l’ostracismo.

9 G. Glotz, La citégrecq u e, p. 275.


10 Senofonte, E lleniche , I, 7.

333
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Se ogni ateniese, volendolo, aveva molte possibilità di


diventare buleuta e pritano almeno una volta nella vita,11
ne aveva ancor di più di diventare giudice perché la Bulé
comprendeva solo 500 membri e l’Elica era dieci volte più
numerosa.
Ogni anno, i nove arconti, assistiti dal loro segretario,
procedevano a ll’estrazione a sorte di 600 nomi di ognuna
delle dieci tribù su una lista di candidati preparata dai de­
mi in proporzione alla popolazione. La procedura dell’e­
strazione a sorte era analoga a quella in uso per la designa­
zione dei buleuti.1112
I diversi tribunali dell’Elica (molti potevano funzionare
contemporaneamente) avevano delle giurie di 501 e tal­
volta di 1001, 1501 e persino 2001 persone. Il numero più.
frequente era però 501.
La ripartizione degli eliasti fra i diversi tribunali era ese­
guita con infinite precauzioni, destinate a impedire alle
parti di conoscere anticipatamente il nome di qualche giu­
dice. Possiamo descrivere dettagliatamente queste opera­
zioni minuziose come si svolgevano al tempo di Aristotele
ora che la scoperta e la identificazione di frammenti di
cleroteria (macchine per l’estrazione a sorte), trovate negli
scavi dell’A gorà, ci hanno permesso di comprendere per­
fettamente i tre capitoli della C ostituzione d i A tene di Ari­
stotele che ci sono pervenuti m utili e che non erano ancora
stati pienamente interpretati prima di questa scoperta. La
C ostituzione d i A tene fu pubblicata nel 1891 ricavandola da
un papiro che è l’unica nostra fonte per ricostruire il testo.

11 Cfr. più sopra cap. II, p. 68.


12 Cfr. più sopra cap. II, pp. 66-67.

334
La giustizia

Questo è uno di quei casi in cui due discipline, in questo


caso la papirologia e la archeologia, si aiutano reciproca­
mente e si completano.13
Prima dell’alba del giorno in cui si dovevano tenere delle
sedute dell’Elica, gli eliasti si alzavano nelle ultime ore della
notte e si dirigevano verso i tribunali alla luce delle lampade
portate dai loro giovani schiavi,14 Si presentavano di fronte
all’ingresso dei tribunali assegnati alla loro tribù, portando
la propria «carta d’identità» di eliasta, cioè una tavoletta di
bronzo o di legno (secondo le epoche) sulla quale era inciso
il nome accompagnato dal patronimico e dal demodico e
anche una delle prime dieci lettere dell’alfabeto da A a K,
che indicava a quale sezione della sua tribù apparteneva l’e-
liasta, perché i 600 eliasti di ogni tribù erano suddivisi in 10
sezioni di 60 ciascuna. Per malattia o per una qualche altra
ragione, il numero degli eliasti doveva essere spesso inferiore
a 60. Il Filocleone delle Vespe, chiuso da suo figlio in casa,
mancherà, ad esempio, all’appello. Sono state trovate tavo­
lette di eliasti, come quella di Dionisio, figlio di Dioniso,
di Coilé, con la lettera A nell’angolo: Dioniso apparteneva
quindi alla prima sezione della sua tribù. Tutti sapevano che
il demo di Coilé faceva parte della tribù Hippothontis.
Davanti a ll’ingresso di ogni tribù si trovava uno dei nove
arconti e, per la decima, il segretario dei tesmoteti, assistiti
da apparitori, che erano schiavi pubblici. Da ogni lato della
porta di ognuno di questi ingressi, era pronto un cleroteriom

13 Si tratta dei capitoli 6 3-6 5 della C ostituzione d i Atene. I due articoli di


S. D ow ai quali mi riferisco sono stati pubblicati in «Hésperia», suppl. 1,
1937, pp. 198-215; A llotm ent m achines, e «Harvard Studies in Classical
Philology» 50, 1939, pp. 1-34: A ristotele, th è K léroteria a n d th è Courts.
14 Cfr. Aristofane, Le vespe, vv. 219, 2 4 8 , 257.

335
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

ce rierano perciò due per tribù, in totale venti. Il cleroterion


era un alto pilastro di marmo la cui facciata anteriore era in­
cisa da fenditure orizzontali destinate a ricevere le tavolette
degli eliasti; tali fenditure erano disposte le une sopra le altre
in cinque colonne. Al di sopra di ognuna di tali colonne
erano incise le lettere A-B-F-A-E per il primo cleroterion e
Z-H-0-I-K per il secondo cleroterion di ogni tribù. In un
angolo di ogni pilastro era praticato un condotto verticale
svasato in alto, a forma di imbuto dal quale cadevano verso
il basso i dadi che vi si gettavano ma solo uno a uno, grazie a
una specie di meccanismo di chiusura simile a un rubinetto,
che si trovava all’estremità inferiore di uscita del condotto.
Oggetti circolari simili a biglie sembrerebbero più comode
ma Aristotele è formale: si usavano dei cubi simili a quelli,
usati nel gioco dei dadi, di bronzo, bianchi e neri.
A ogni ingresso, oltre ai due cleroteria, erano pòste dieci
scatole ognuna delle quali era contrassegnata da una delle
prime dieci lettere dell’alfabeto. Ogni giudice poneva la sua
tavoletta nella scatola recante la stessa lettera scritta sulla sua
tavoletta. L’apparitore scuoteva le scatole e da ognuna l’arcon­
te estraeva a caso una tavoletta. Il primo eliasta il cui nome
era estratto da ogni scatola era chiamato l’«affissatore» perché
doveva inserire la propria tavoletta e poi quelle dei colleghi
mano a mano che venivano estratte nelle fenditure del clero­
terion. Ognuno dei dieci «affissatori» di ogni tribù riempiva,
a partire dall’alto, le fenditure della serie verticale (canonis)
recante la lettera corrispondente alla sua sezione. Alla fine
tutti i nomi dei giudici presenti erano affissi sul cleroterion.
Allora l’arconte faceva la somma totale dei nomi affissi
lungo la serie meno dotata, cioè dove le assenze erano state
più numerose; conoscendo il numero dei giurati necessario

336
La giustizia

per le udienze della giornata, determinava di conseguenza


il numero dei dadi bianchi e neri da gettare negli imbuti di
ciascun cleroterion. Gli eliasti i cui nomi erano affissi sulla
colonna più corta sapevano subito che erano stati eliminati
e potevano andarsene a casa. Supponiamo, per esempio, che
un certo giorno fosse necessario formare quattro giurie di
500 membri ciascuna, quindi designare 2000 eliasti, quindi
200 per tribù e 100 per ogni cleroterion. L’arconte metteva
nell’imbuto (100:5) venti dadi bianchi. Supponiamo anche
che la colonna meno guarnita contenesse quarantacinque
nomi: egli metteva (45-20) venticinque dadi neri. I dadi
bianchi e neri venivano gettati contemporaneamente perché
si ripartissero casualmente lungo la conduttura.
Ogni dado bianco che usciva dalla macchina valeva per
una serie orizzontale di cinque tavolette, e così per ogni dado
nero; quindi se il primo dado che usciva era bianco le prime
cinque tavolette di ogni colonna (quelle degli «affissatoti» di
ogni sezione) erano validi per quel giorno e i nomi dei loro
possessori erano immediatamente proclamati dall’araldo. Se
il secondo dado era nero i cinque eliasti le cui tavolette erano
poste in seconda fila in ogni colonna erano congedati: per
quel giorno non avrebbero fatto i giudici. E così di seguito.
Oltre ai cleroteria e alle dieci scatole contenenti le tavolet­
te degli eliasti della tribù, l’arconte disponeva anche di due
urne e di altre scatole in numero uguale a quello dei tribu­
nali da fornire. Le due urne una a fianco di ogni cleroterion
contenevano delle ghiande in numero uguale al numero dei
giurati da designare in cinque sezioni di ogni tribù, con­
trassegnate dalle lettere dell’alfabeto a partire dall’undicesi­
ma (A) che designavano i tribunali da fornire (lettere a loro
volta estratte a sorte). Nel caso che abbiamo immaginato,

337
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

per 4 giurie di 500 membri, ogni vaso posto a fianco di un


cleroterion doveva comprendere ghiande contrassegnate da
una lettera: 25 con lettera A, 25 con lettera M, 25 con la N
e 25 con la O. Il giudice tirava in aria la ghianda estratta per
mostrarne la lettera prima di tutto all’arconte che presiedeva
l’operazione. Questi, dopo aver letto la lettera, metteva la ta­
voletta del giudice nella scatola che portava la stessa lettera.
Poi l ’eliasta mostrava ancora la sua ghianda all’apparitore
che gli consegnava un bastone - insegna del giudice in fun­
zione - del colore del tribunale che portava la stessa lettera
della sua ghianda in modo che fosse costretto a entrare nel
tribunale che gli era stato assegnato dalla sorte e non in un
altro; se lo avesse fatto il colore del bastone avrebbe imme­
diatamente denunciato la frode perché i tribunali avevano,
gli stipiti della porta dipinti ognuno di un diverso colore
e il giudice doveva recarsi al tribunale la cui porta aveva il
colore del suo bastone e la stessa lettera della sua ghianda.
Intanto gli «affissatoti» restituivano le loro tavolette a co­
loro che la sorte aveva escluso e gli apparitori portavano al
tribunale le scatole che racchiudevano i nomi dei membri
della tribù che componevano ogni tribunale. Li consegna­
vano poi ai giudici designati dalla sorte e li restituivano ai
colleghi dopo l ’udienza; le tavolette avrebbero consentito
poi di fare l ’appello per il pagamento della indennità (m i-
sthos dicasticos), perché i giudici ricevevano uno, due o tre
oboli al giorno, secondo le epoche.
Nel capitolo LXVI della C ostituzione d i A tene, Aristotele
continua spiegando in modo altrettanto minuzioso come
veniva estratto a sorte il nome del magistrato che presiedeva
a ogni tribunale. Abbiamo notato che il numero dei giurati
di ogni tribunale era sempre impari (di solito era di 501)

338
La giustizia

per evitare che si potesse verificare la parità dei voti mentre


il sistema del cleroterion forniva sempre un numero pari di
giurati (500) ma ignoriamo come venisse designato l’ulti­
mo eliasta. Il magistrato che presiedeva aveva diritto di vo­
to? E dubbio. Poi Aristotele spiega con molti dettagli come
veniva designato, fra i giurati, colui che doveva sorvegliare
l’acqua della clessidra che misurava il tempo a disposizione
delle parti e dei loro difensori, coloro che sorvegliavano le
schede di voto e coloro che distribuivano, come abbiamo
detto, l’indennità di presenza ai colleghi. M a noi evitere­
mo di entrare in questi particolari. Ci è sembrato invece
interessante attardarci sui modi di ripartizione degli eliasti
per dimostrare la cura meticolosa con cui la democrazia
ateniese presiedeva al funzionamento dei tribunali, eviden­
temente per evitare qualsiasi forma di frode e soprattutto
ogni intesa fra le parti e i membri del tribunale che le avreb­
be giudicate. Con questo sistema nessun difensore poteva
conoscere anticipatamente la composizione del tribunale
dinanzi al quale avrebbe dovuto apparire.
Naturalmente i tribunali dell’Eliea non potevano tenere
le loro sedute nei giorni in cui si tenevano le sedute dell’A s­
semblea perché tutti gli eliasti erano cittadini e membri
dell’Ecclesia. Non si riunivano nemmeno, per ragioni re­
ligiose, nei giorni di festa, ritenuti nefasti. Il corso della
giustizia era quindi spesso ritardato.
Finalmente gli eliasti arrivano nel tribunale loro asse­
gnato. Ricevono un gettone (sym bolon) che, al momento
del voto, scambieranno con un altro che darà loro diritto
all’indennità. Si siedono nei banchi di legno ricoperti da
trecce di giunco. Il magistrato che presiede l’udienza siede
su un’alta cattedra (bema) in fondo alla sala, circondato dal

339
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

suo segretario o cancelliere, da un araldo pubblico e dagli


arcieri sciti che garantivano l’ordine nei tribunali come in
Assemblea. Di fronte a lui si trova la tribuna dei difensori,
fiancheggiata a destra e a sinistra da quelle delle due parti.
C ’è anche una tavola sulla quale si contano i voti. Il pubbli­
co che può assistere alle udienze tranne nei casi di processo
a porte chiuse si ammassa vicino all’ingresso ed è separato
dai giudici con una barriera. Appena inizia l ’udienza, a un
segnale dato dal presidente, la porta viene chiusa.
A ll’inizio dell’udienza del tribunale, il cancelliere legge
l’atto d ’accusa e la risposta scritta della difesa, contenute nel
dossier. Poi il presidente dà la parola successivamente all’ac­
cusa e alla difesa. Ogni cittadino implicato in un processo
poteva parlare personalmente. Se si giudicava incapace d i
farlo, affidava la propria causa a un uomo del mestiere (logo­
grafo) e la imparava a memoria: molte orazioni che ci sono
state trasmesse, di Lisia, Demostene ecc., vennero scritte su
commissione di un cliente. Si poteva anche chiedere al tri­
bunale il permesso, in genere accordato, di farsi aiutare, o
talvolta sostituire, da un amico più eloquente (sinègore) che
non era un avvocato di mestiere e non veniva retribuito. Gli
ateniesi non ancora maggiorenni, gli schiavi e gli affrancati
venivano rappresentati in tribunale dai rispettivi padri, ma­
riti, tutori legali, padroni o protettori (prostates).
Tranne che nel caso in cui un presagio atmosferico di
cattivo augurio facesse sospendere la seduta, come avveniva
per l ’assemblea, i dibattiti si svolgevano senza interruzione e
dovevano chiudersi il giorno stesso. Si doveva limitare ener­
gicamente il tempo entro il quale le parti potevano parlare
e replicare. Per questo si usava la clessidra o l’orologio ad ac­
qua. Per tutta la durata del dibattimento gli eliasti si limita­

340
La giustizia

vano ad ascoltare. Subito dopo l’araldo li chiamava a votare.


Ognuno di loro doveva farlo secondo coscienza e seguendo
gli estremi del giuramento prestato, senza consultazioni reci­
proche o discussioni. Nel V secolo, ogni giudice poneva un
sassolino (pséphos) o una conchiglia in una delle due urne
davanti alle quali passava, una destinata ai voti favorevoli
all’accusato, l’altra per quelli di condanna. Nel IV secolo,
per tutelare la segretezza del voto si escogitò un altro siste­
ma: ogni giurato riceveva due rotelline di bronzo con inse­
rite dentro due asticelle di metallo, una piena e l’altra vuota.
Sono state trovate alcune di queste rotelline con l’iscrizione
«voto pubblico» (psephos demosia). Gli eliasti sfilavano ancora
davanti alle urne ma solo la prima era valida. Essi tenevano
le rotelline nascondendo l’estremità dell’asticella fra il pollice
e l’indice e ponevano nella prima urna la rotellina con l’a­
sticella vuota per condannare, quella piena per assolvere, poi
mettevano la rotellina rimanente nella seconda urna.
Quando l ’accusato era giudicato colpevole a maggioran­
za, la sua pena poteva essere già fissata per legge, ma ci po­
teva anche essere la necessità di una «fissazione della pena»,
quindi di una successiva votazione. Quest’ultimo caso, ad
esempio, si verificò al processo di Socrate nel 399 a.C. La
parola spettava allora all’accusato che indicava la pena che
gli sembrava più giusta. Socrate dichiarò che la sua coscien­
za gli diceva di non meritare nessun castigo ma piuttosto
una ricompensa per i servigi resi agli ateniesi, e chiese di
essere nutrito nel Pritaneo come i grandi benefattori dello
stato, come gli olimpionici. Tali affermazioni in bocca a un
accusato giudicato colpevole sfioravano l’insolenza ed egli
fu condannato a morte: gli eliasti non apprezzavano che ci
si prendesse gioco di loro.

341
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Quando l’accusato veniva assolto, e se il suo accusato­


re non aveva ottenuto nemmeno 1/5 dei voti, questi veniva
condannato a una multa e talvolta persino a ilatim ia, cioè
alla perdita dei diritti civili. E quanto accadde a Eschine, nel
330, quando perse il processo intentato contro Ctesifonte,
cioè contro Demostene, nell’affare della corona: fu condan­
nato alla pesantissima multa di 1000 dracme. Una disposi­
zione di questo tipo si rese necessaria per limitare l’attività
dei sicofanti sempre pronti ad accusare un loro concittadino.
Come abbiamo detto, in mancanza del pubblico ministero,
le leggi incoraggiavano i delatori assegnando loro una parte
dei beni confiscati all’accusato se questi veniva riconosciuto
colpevole.
Il rischio di incorrere essi stessi nella pena se non prova­
vano la loro accusa era la logica controparte di tale vantag­
gio e doveva indurli a riflettere prima di intentare'un’azione
giudiziaria.
Evidentemente un sistema giudiziario così particolare,
che esigeva la partecipazione di vere e proprie folle di elia-
sti, non poteva che sviluppare in molti ateniesi il gusto della
procedura giudiziaria e della lite al punto che Atene poteva
essere chiamata una «città dei tribunali», una D icaiopolis. Le
vespe di Aristofane, di cui Racine si è ricordato scrivendo
i sudi Plaideurs, denunciano scherzosamente tale pericolo.
Ciò che soprattutto Le vespe criticavano erano le conseguen­
ze della indennità giudiziaria istituita come risarcimento per
la perdita di tempo provocata dalla frequenza alle sedute: gli
oziosi, gli incapaci si precipitavano ai tribunali per prendere
il gettone di presenza. Si sarebbe potuto organizzare la giu­
stizia con una procedura più snella e con un minor numero
di giurati. M a dobbiamo riconoscere nelle istituzioni giudi­

342
La giustizia

ziarie di Atene lo stesso spirito democratico che affidava in


ultima istanza al popolo il governo della città. L’Ecclesia,
come abbiamo visto, deteneva il potere giudiziario, come
tutti gli altri e molti processi politici venivano decisi al suo
interno, soprattutto quando accusati erano gli strateghi. M a
l’assemblea non poteva esaurire tutto. L’Eliea, delegazione
dell’Assemblea, composta, come il consiglio, da cittadini di
tutte le tribù, quindi veramente rappresentativa del popolo
ateniese, doveva comprendere un numero abbastanza elevato
di membri per conservare un carattere popolare che ne giu­
stificasse la sovranità, dato che i giudizi erano senza appello.
Nel corso dell’istruttoria, le testimonianze degli schiavi
non erano valide se non venivano ottenute con la tortura
(fustigazione, cavalletto, manette o ruota), ma l’uso di que­
sti sistemi era sempre preceduto da una contrattazione: una
parte offriva di sottoporre i suoi schiavi alla «questione», o
metteva la parte avversa in condizione di dover sottoporre i
suoi. Forse la tortura non era molto crudele e costituiva una
specie di «formalità richiesta dalla situazione dello schiavo
che avrebbe potuto temere la vendetta del padrone se avesse
parlato senza esservi costretto con la forza.15 E comunque
certo che nessun cittadino libero, ateniese, meteco o stra­
niero veniva m ai sottoposto a tortura.

Come la procedura del giudizio, anche le pene differiva­


no a seconda che colpissero cittadini, meteci o schiavi. Le
pene pecuniarie erano: la multa, il pagamento delle spese,
la confisca totale o parziale dei beni; le pene afflittive erano

15 Dareste, O razioni civ ili d i D em ostene (P laidoyers civils d e D ém osthène),


p. 17.

343
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

l’esilio a tempo (p hygé) o definitivo {aeiphygia), la privazio­


ne dei diritti civili {atimia), la prigione (che era applicata ai
cittadini solo se in attesa di giudizio, o ai non cittadini), la
flagellazione sulla ruota,16 la marcatura a ferro rovente, e la
gogna (xyla), supplizi riservati agli schiavi, infine la morte di
cui parleremo più avanti. Esistevano anche pene infamanti
di carattere arcaico e religioso come l’interdizione, rivolta
alle donne adultere, di portare ornamenti e di entrare nei
templi, l’imprecazione contro i sacrileghi, pronunciata in
contumacia, l’iscrizione ignominiosa su una stele e la priva­
zione della tomba.
Il magistrato che aveva presieduto il tribunale faceva sti­
lare dal cancelliere l’atto di giudizio e lo inviava ai magistrati
incaricati di farlo eseguire: agli Undici, capi dei carcerieri
e del boia, o ai pra ctores che esigevano le multe, o ai p oleti
incaricati di vendere in asta pubblica i beni confiscati, e di
consegnare, se del caso, all’accusatore il premio dovuto e ai
tesorieri di Atena la decima legale.
Molti cittadini e stranieri condannati a pene pecuniarie al
di sopra dei loro mezzi potevano sottrarsi alla condanna con
un volontario esilio: così fece Eschine dopo il processo della
Corona e Demostene stesso dopo l’affare di Arpalo. Anche
Socrate avrebbe potuto, dopo la condanna a morte, uscire
di prigione e andare in esilio. Bevve la cicuta, un sistema
di esecuzione non crudele, una specie di suicidio tollerato.
Quale era invece la sorte normale dei condannati a morte?
Nelle E um enidi di Eschilo Apollo, cacciando dal suo
tempio delfico Torrido coro delle Erinni che inseguivano
Oreste, dice lóro:

16 Aristofane, La pace, v. 452.

344
La giustizia

Non siete degne di avvicinarvi a questa dimora. Il vostro


posto è nei luoghi della giustizia dove si mozzano le teste,
si strappano gli occhi, si squarciano le gole o, per inaridir­
ne la fecondità, si porta via ai fanciulli il fiore della loro
giovinezza, dove si mutila o si lapida, o dove si sciorina il
lungo lamento degli uomini impalati.17

Non si deve per questo supporre che Eschilo, come spes­


so molti tragici greci, pensasse a realtà ateniesi del suo tem­
po: in particolare la castrazione dei fanciulli corrispondeva
a un costume orientale sconosciuto in Grecia.
Qual era dunque il sistema più frequente di esecuzione
capitale?
Nel 1915 in una fossa comune scoperta al Falero, ante­
riore all’età classica, si scoprirono 17 cadaveri che portava­
no una gogna metallica al collo e intorno a entrambi i polsi
e entrambi i piedi. Tali scheletri senza dubbio appartene­
vano a condannati che, prima di spirare, erano esposti alla
gogna su una grande piattaforma (resti di legno aderivano
ancora alle maniglie metalliche). Si trattava probabilmente
di pirati catturati e messi a morte.18
Erodoto ci informa che gli ateniesi nel 479, «catturarono
il persiano Artayctes, governatore di Sestos e lo legarono vi­
vo su una tavola».19 Plutarco ci narra che Pericle dopo aver
domato la rivolta dell’isola di Samo, nel 439, fece legare un
certo numero di abitanti di Samoa dei pali nell’A gorà di

17 Eschilo, E um enidi, v. 185-190.


18 L’opera di Kéramopoullos, Ho apotym panism os, risale al 1923: cfr. an­
che L. Gemer, S ur l ’e x écution capitale , in «Revue des Etudes Grecques» 37,
1924, pp. 261-293.
19 Erodoto, VII, 33.

345
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Mileto e glieli lasciò per 10 giorni di seguito per poi farli


finire a colpi di mazza.20 Aristofane ci mostra Mnesiloco at­
taccato a una piattaforma da un arciere scita e così esposto,
come Andromeda sulla roccia.21 Parla anche, altrove, dello
«strumento di legno a cinque fori», al quale Cleone doveva
essere applicato,22 che corrispondevano evidentemente alle
cinque maniglie, una per la testa e quattro per le estremità.
Louis Gernet scrive:

Testimonianze archeologiche e letterarie ci permettono di


ricostruire con precisione questo atroce supplizio. Il con­
dannato, nudo, era attaccato con cinque maniglie e un
palo piantato al suolo, era vietato portargli alcun soccorso
o sollievo fino a morte. Tale supplizio aveva qualche ana­
logia con la crocifissione, nella quale però la perdita di
sangue dovuta al fatto che mani e piedi erano inchiodati,
abbreviava l’esecuzione. Uno degli elementi essenziali (di
tale supplizio) era la gogna che comprimeva la mascella
inferiore e che, per il peso del corpo, aggiungeva strazio
alla sofferenza. Si può immaginare quale fosse l’agonia del
suppliziato, prolungata per giorni e giorni. Che tale siste­
ma di esecuzione sia stato praticato dagli ateniesi non può
che modificare le nostre idee sul loro diritto penale...; se
né possono seguire le tracce fino alla fine del IV secolo.23

Era questo Yapotympanismos, termine che in genere ad


Atene designava l’esecuzione capitale? Lo si è pensato ma

20 Plutarco, P ericle, 28.


21 Aristofane, Tesmoforie, vv. 9 30 -10 14 .
22 Aristofane, I cavalieri, vv. 1037-1049.
23 L. Gernet, «Revue des Études Grecques» 37, 1924, pp. 264-265.

346
La giustizia

non è certo. In che cosa consisteva Yapotympanismosì Era


una bastonatura a morte? O forse la decapitazione? Attual­
mente è impossibile dirlo.24
I supplizi avevano comunque luogo fuori città, vicino
alle Lunghe M ura del Nord fra Atene e il Pireo: un giorno,
ci dice Platone, «Leontias risalendo dal Pireo fiancheggian­
do il muro settentrionale, scorse dei cadaveri nel luogo dei
supplizi».25 Tale luogo era diverso dal baratro, un antico
precipizio situato a ovest dellAcropoli dove, fin dalla remo­
ta antichità, venivano precipitati certi condannati a morte.
La precipitazione nel baratro sembra esser stata riservata
ai casi di sacrilegio e ai delitti politici. La lapidazione, rara­
mente attestata, sembra essere stata destinata anch’essa agli
empi e ai traditori ma come forma di esecuzione sommaria
compiuta dal popolo stesso sotto la spinta dell’indignazio­
ne; nel 479 il buleuta Licida che aveva proposto di accettare
le offerte di Mardonio venne lapidato immediatamente dai
colleghi e dai cittadini presenti.26 L’esposizione a una tavola
puniva soprattutto i pirati e i colpevoli colti in flagrante di
furto e delitti infami. Gli altri condannati a morte, se non
avevano il permesso di bere la cicuta in prigione, subivano
il misterioso supplizio àtW apotympanismos.

Certamente il funzionamento della giustizia ad Atene


non era del tutto soddisfacente e molte delle critiche di Ari­
stofane nelle Vespe erano fondate. Bisogna spingersi anche
più in là e riconoscere che i principi stessi del diritto in

24 Cfr. K urt Latte, R eai Enzyklopàdie, suppl. VII, al termine Todesstrafe,


colonne 16 0 6 -16 0 8 .
25 Platone, R epubblica, IV, 4 3 9 e.
26 Erodoto, IX, 5.

347
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Attica non erano né fermi né costanti. L’assenza di un codi­


ce lasciava troppo spazio ai giudici popolari che, nella loro
immensa maggioranza, non avevano nessuna formazione
giuridica e si lasciavano spesso trascinare dalle loro pas­
sioni, secondo simpatie e antipatie profonde; basta leggere
qualche brano di orazione giudiziaria per rendersi conto
che la captatio b en evolen tia e consisteva di solito nel lusin­
gare l ’orgoglio popolare e nel far passare l’accusato per un
modesto uomo del popolo, nemico naturale dei ricchi e dei
potenti. L’«apologia» di Socrate come ce l ’ha tramandata
Platone dovette essere un’eccezione quasi unica per il tono
di aristocratica altezzosità che l’anima. Il sistema giudizia­
rio ateniese favoriva anche la moltiplicazione dei sicofanti.

M a bisogna anche tener conto dell’evoluzione del diritto


e riconoscere che, dalla legislazione di Dracone (VII seco­
lo), che già rappresentava un miglioramento rispetto all’e­
poca anteriore, il diritto e la giustizia avevano compiuto
in Atene grandi progressi. Il più importante fu l ’abolizione
delle pene collettive e il riconoscimento della responsabilità
personale, perché in età arcaica non solo il colpevole, l’as­
sassino erano colpiti ma tutta la sua fam iglia.27 Il vecchio
principio della legge del taglione «occhio per occhio, den­
te pér dente» in Atene era applicato solo eccezionalmente
all’età di Pericle, quando le pene pecuniarie, almeno per i
cittadini, tendevano a sostituire quelle afflittive.
Quella che va invece criticata è l ’efficacia pratica di tale
sistema giudiziario. Gli ateniesi si preoccupavano molto di

27 Cfr. G. Glotz, La solid a rité d e la fa m ille dans le d ro it crim in el en Grèce,


p. 4 0 6 e sgg., passim .

3 48
La giustizia

esercitare il giudizio con equità, con ogni tipo di garanzia


di imparzialità e conformandosi il più possibile alle idee
morali del loro tempo. Tutti i giudici dell’Eliea prestavano
un giuramento nell’atto di assumere le loro funzioni e lo si
può ricostruire combinando diversi passi di autori antichi.
Eccolo: «Voterò adeguandomi alle leggi e ai decreti, quelli
dell’A ssemblea del popolo e quelli della Bulé. Nei casi che
il legislatore non ha previsto adotterò la soluzione più giu­
sta senza lasciarmi guidare da amicizia o ostilità. Ascolterò
con la stessa attenzione le due parti. Lo giuro per Zeus, per
Apollo, per Demetra. Se sarò fedele a questo giuramento,
che la mia vita sia felice; se spergiuro, maledizione ricada su
di me e sulla m ia famiglia».
Perché idealizzare, come ha teso a fare, fra gli altri G.
Glotz, le istituzioni giuridiche ateniesi, come le altre isti­
tuzioni democratiche del secolo di Pericle? Un sistema giu­
diziario che ha prodotto la condanna di Socrate, «l’uomo
del quale possiamo dire che fra tutti quelli del suo tempo
fu il migliore, insieme il più saggio e il più giusto»28 era
certamente ben lungi dall’essere perfetto, anche in rappor­
to al suo tempo. Bisogna riconoscere che Atene, nonostan­
te meritori sforzi, non arrivò, nel campo della giustizia, a
quella a cm é, a quel punto di perfezione al quale arrivò nelle
lettere, nelle arti, nella filosofia. Certamente non aveva le
capacità giuridiche che avrebbero avuto i romani ai quali è
giusto attribuire questa parte nella creazione di quel patri­
monio di cultura che ha contribuito all’origine della nostra
stessa cultura.

28 Platone, F edone, 118 a.


X

La guerra

In generale si tende a pensare che i regimi democratici sia­


no più pacifici delle dittature. Non era così nell’A ntichità:
infatti la democrazia ateniese, almeno ai tempi di Pericle,
si dimostrò bellicosa, conquistatrice, imperialista.1 Dopo le
guerre persiane, in occasione delle quali aveva contribuito
più di ogni altra città alla sconfitta degli invasori, Atene volle
attribuirsi l’egemonia sulla Grecia e conservarla nonostante
le aspirazioni all’indipendenza delle città cosiddette «alleate»,
ma in realtà sottoposte ad Atene, e l’ostilità di Sparta e dei
suoi alleati del Peloponneso che non potevano accettare la
supremazia ateniese.
Per conquistare e consolidare il proprio dominio sulle isole
del mar Egeo e su molte delle città marittime della costa asia­
tica, per garantirsi anche l’approvvigionamento in cereali, che
veniva per la maggior parte dal Ponto Eusino e doveva passare

1 Cfr. il notevole studio di J. de Romilly, Thucydide et l ’im périalism e athénie,


Les Belles Lettres, Paris 1947, e il suggestivo libro di A. Thibaudet, La cam ­
p a g n e u vee Thucydide, Édition de la Nouvelle Revue Frammise, Paris 1922.

350
La guerra

per gli Stretti2 Atene aveva bisogno di una numerosa flotta


commerciale e di una potente marina da guerra. Sappiamo
che dopo l’azione decisiva di Temistocle negli anni che pre­
cedettero Salamina (480),3 la talassocrazia ateniese dominò
tutto il bacino orientale del Mediterraneo fino al crollo del
404. Nel IV secolo, Atene tenterà di impadronirsi nuova­
mente del controllo dei mari, che aveva perso, soprattutto a
partire dal 377, anno in cui venne creata la seconda Confe­
derazione marittima. Inoltre, durante tutto il periodo classi­
co, Atene ebbe anche bisogno di un esercito di terra, per far
fronte agli attacchi dei vicini della Beozia e del Peloponneso
e per cercare, in certi casi, di attaccarli. M a su questo terreno
Atene fu spesso ridotta sulle difensive, di fronte agli opliti di
Sparta e Tebe. Quando Isocrate propose, per far cessare le
rivalità funeste fra greci, una suddivisione dell’egemonia fra
Atene e Sparta, pensava evidentemente ad associare la poten­
za navale degli ateniesi alla potenza terrestre dei lacedemoni.

Tale potenza di terra di Sparta si fondava soprattutto su


un sistema educativo totalmente orientato verso la prepara­
zione alla guerra, che abbiamo già descritto.4 Dai 16 ai 20
anni l’adolescente diventava irén di primo, secondo, terzo e
quarto anno. L’«irenato» corrispondeva all’efebia attica che
durava però esattamente la metà: due anni.
A 20 anni ogni spartiate era reclutato nell’esercito atti­
vo ma la sua formazione militare non era ancora completa:
«L’educazione degli spartiati si prolungava fino in età ma­

2 Cfr. più sopra cap, V, pp. 205 -20 6 .


3 Cfr. J. Labarbe, La loì n avale d e Thémistocle.
4 Cfr. più sopra cap, IV, pp. 127-133.

351
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

tura».5 Dai 20 ai 30 anni i giovani guerrieri continuavano


a vivere insieme ai loro «compagni di tenda» e a prende­
re i pasti in comune, anche se erano sposati; non potevano
entrare nell’A gorà e non esercitavano i diritti politici. Una
certa vita familiare cominciava solo a partire dai 30 anni,
nonostante anche gli adulti continuassero a prendere i pasti
in comune. A 60 anni, infine, lo spartiate era congedato dal
servizio militare e poteva far parte del Senato (Gerusia), ma
passava ancora molto del suo tempo nei ginnasi a sorvegliare
gli esercizi dei ragazzi e le lotte degli irenes. Non è dunque
esagerato il dire che tutta la sua vita era dedicata alla guerra.
L’esercito spartiate, comandato da uno dei due re spesso
sorvegliati dagli efori, comprendeva essenzialmente gli opliti,
cittadini a pieno diritto o p er ieci di cui più avanti descri­
veremo la panoplia. Questa fanteria pesante era divisa in 5
reggimenti {mores) comandati da p olem a rch i che avevano ai
loro ordini i locaghi, comandanti di battaglione, i p en tecon -
tarchi, comandanti di compagnia, e gli enom otarchi, coman­
danti di sezione. Le diverse unità manovravano con grande
agilità, che costituiva oggetto di ammirazione per l’atenie­
se Senofonte, soprattutto nel passaggio dalla formazione di
marcia in colonna a quella di combattimento in linea: un
moto di conversione spostava rapidamente tutte le sezioni
all’altezza della sezione di testa che si era intanto fermata.
Se una truppa nemica appariva da dietro, ogni fila compiva
una sapiente contromarcia, in modo che i migliori soldati si
trovavano sempre di fronte al nemico in prima fila.6

5 Plutarco, L icurgo, 24.


6 Senofonte, R epubblica d ei lacedem on i, II, 5-10; cfr. l ’edizione di F. Ollier
e il suo commento delle pp. 57-62, assai chiaro ed esauriente.

352
La guerra

Gli opliti di Sparta si distinguevano al primo sguardo


da quelli delle altre città per il colore della loro tunica e
per la capigliatura. La tunica era interamente rossa di por­
pora, perché, si diceva «non si vedesse il sangue», mentre
nell’esercito ateniese solo gli abiti degli ufficiali erano ador­
ni di strisce di porpora. Portavano poi i capelli lunghi, il
che, nella Grecia dei tempi di Pericle, costituiva un vistoso
arcaismo. Prima della battaglia lavavano e pettinavano la
loro capigliatura che normalmente doveva essere assai tra­
scurata. Prima della battaglia delle Termopili un cavaliere
persiano, inviato da Serse in osservazione verso il campo di
Leonida, riuscì a scorgere i soldati spartiati «alcuni dei qua­
li» ci racconta Erodoto «facevano esercizi ginnici mentre
altri si pettinavano».7
Sparta riponeva tutta la sua fiducia negli opliti, decisi a
morire al posto di combattimento piuttosto che arretrare.
Aveva poca cavalleria. La disciplina era dura negli accam­
pamenti dove la minima infrazione alla disciplina era puni­
ta con la bastonatura, mentre le infrazioni più gravi erano
punite con la morte o la degradazione militare e la perdita
dei diritti civili. La sola debolezza di Sparta dal punto di
vista militare, una debolezza che però alla lunga si rivelò
mortale, era la scarsità di uomini, Xoligantropia. I suoi opli­
ti erano sempre straordinari, ma a un certo punto non ce
n’erano quasi più... La casta degli Eguali, la cui esistenza
materiale era legata alla proprietà rurale dei cleroi coltivati

7 Erodoto, VII, 2 0 8 . Si tratta certamente di un rito che si ritrova anche


presso altri popoli; cfr. l ’inizio del cantico di Débora, Libro d ei giu d ici, 5,
2: «In Israele i guerrieri hanno sciolto le loro capigliature» (cioè si sono pre­
parati al combattimento). I beduini praticano ancora quest’uso prima della
battaglia.

353
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

dalle classi inferiori, restava ermeticamente chiusa e, per


egoismo, limitava anche il numero di figli, nonostante che
le perdite in battaglia continuassero a farla diminuire e,
letteralmente, fondere. A Platea, nel 479, erano schierati
5000 opliti spartiati (accompagnati da 5000 opliti perieci e
da una massa di 35.000 iloti con armamento leggero);8 un
secolo più tardi, a Leuttra, nel 371, cerano ormai solo 700
opliti di Sparta.910
M a nonostante il numero ridotto, grazie alla perfetta
preparazione e il senso dell’onore e della disciplina, gli opliti
di Sparta restarono quasi sempre dominatori incontrastati
dei campi di battaglia, fino allo scontro di Leuttra quando
furono vinti d all’esercito tebano di Epaminonda.
I beoti avevano invece una delle migliori cavallerie della.
Grecia. I loro opliti non portavano lo scudo rotondo nor­
male, ma uno leggermente svasato da ogni lato.™ Nel IV
secolo, Gorgida creò il famoso «battaglione sacro» di Te­
be, truppa scelta di soli 300 uomini concepita come unità
d ’assalto. Gli opliti di tale battaglione erano spesso, come
a Sparta, legati da rapporti amorosi che si pensava aumen­
tassero il valore guerresco e l’omogeneità del gruppo. A Te­
be, quando un giovane raggiungeva l ’età del reclutamento
nell’esercito, era il suo eraste che gli offriva l’equipaggia­
mento militare completo, la p a n op lia .n Infine Epaminonda

8 Erodoto, IX, 28.


9 Senofonte, E lleniche, VI, 4, 15.
10 Cfr. L. Lacroix, Le bouclier, em b lèm e des B éotiem , «Revue belge de philo-
sophie et d ’histoire» 3 6, 1958, pp. 5-30, con tavv. II-IV.
11 Plutarco, D ialogo su lla m ore, 761 B. «L’essenza della pederastia greca è di
essere una corporazione di guerrieri», secondo H.I. M arrou, L’histoire d e
l ’éducation..., p, 57. Cfr. più sopra cap. IV, p. 164 e sgg.

354
La guerra

superò la tattica, rimasta immutata, dei lacedemoni con un


nuovo sistema di combattimento, l’attacco in ordine obli­
quo con cui batté i guerrieri spartani, ben poco numerosi.

Ad Atene, come abbiamo visto, l’infanzia e la prima


adolescenza si sviluppavano più liberamente e in condizio­
ni diverse rispetto a Sparta,12 senza l’ossessione di creare
una élite guerriera. M a il giovane ateniese si esercitava as­
siduamente in palestra sotto la direzione del pedotribo e la
ginnastica era una preparazione implicita al mestiere delle
armi: la lotta, la corsa, il salto, il lancio del disco svilup­
pavano la destrezza, l ’agilità, il vigore; la quinta prova del
pentathlon, il lancio del giavellotto, inoltre, era già un ve­
ro e proprio esercizio militare. Per gli uomini che avevano
superato l’«età dell’efebia», la ginnastica costituiva anche il
miglior sistema per «mantenersi in forma» ed esercitarsi fra
una campagna e l’altra. Nel V secolo certamente tutti gli
ateniesi, a ogni età, perseguivano questa preparazione atle­
tica che li manteneva sempre pronti a sostenere le fatiche
m ilitari ma a partire dal IV secolo si osserva una relativa
disaffezione nei confronti dello sport che Senofonte così
rileva: «Nelle città rari sono coloro che praticano esercizi
fìsici».13 In quest’epoca le città greche tendono sempre più
ad assoldare soldati di mestiere, mercenari stranieri, mentre
prima della guerra del Peloponneso gli eserciti greci erano
quasi solamente costituiti da cittadini.
Ogni ateniese doveva servire il suo paese dai 18 ai 60
anni. Dai 18 ai 20 è efebo ed esegue il suo apprendistato

12 Cfr. più sopra cap. IV, p. 132 e sgg.


13 Senofonte, E lleniche, VI, 1, 5.

355
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

militare. Dai 20 ai 50, come «oplite del catalogo (lista di


reclutamento)» o come cavaliere faceva parte dell’esercito
attivo, una parte delle cui classi - e talvolta tutte - erano
mobilitate all’inizio di ogni campagna militare fuori del
paese {exodos). Dai 50 ai 60 anni faceva parte dei veterani,
presbytatoi, che formavano con gli efebi e i meteci di tutte le
età una specie di esercito territoriale incaricato di difendere
le frontiere e le fortificazioni dell’Attica. In tempo di pace,
il grosso dellesercito era una sorta di m ilizia a disposizio­
ne, tranne gli efebi che invece, per due anni, erano intera­
mente occupati nelle esercitazioni e perciò esentati da ogni
dovere politico e anche da ogni partecipazione alle attività
dei tribunali; erano cittadini appena entrati nell’efebia, ma
cominciavano a esercitare i loro diritti solo dopo i due anni
del «servizio militare».
L’ateniese doveva dunque alla città 42 anni di "servizio e
ognuna di queste 42 «classi» era designata col nome di un
eroe eponimo; i cittadini che avevano compiuto i 60 anni
erano liberi da ogni obbligo militare e diventavano dietèti,
arbitri pubblici, qualcosa come i nostri «giudici di pace».14
A ll’inizio della guerra del Peloponneso nel 431, Atene
possedeva un esercito attivo di 13.000 opliti, 1000 cavalieri
e un esercito territoriale di 1400 efebi (circa 700 per contin­
gente), 2500 veterani e 9500 meteci, in tutto circa 27.400
uomini.15
Contrariamente a una diffusa teoria tedesca, riteniamo
sicuro che Yefebia esistesse già nel V secolo; gli opliti di M a­

14 Aristotele, C ostituzione d i Atene, 53, 4; distingue accuratamente i 42 epo­


nimi delle classi militari da quelle delle dieci tribù.
15 Tucidide, II, 13; cfr. G. Glotz e R. Cohen, H istoire grecq u e, II, pp. 2 23
esgg.

356
La guerra

ratona avevano certamente ricevuto una formazione m ili­


tare. Ci si può chiedere se, però, non ne fossero esentati
gli ateniesi della classe povera, i feti, in generale impiegati
come rematori nella flotta. Per il IV secolo, Aristotele ci de­
scrive minuziosamente l’istituzione che forse rispetto a ll’età
di Pericle aveva subito qualche modifica.
A ll’inizio dell’anno attico, nel mese di E catom beon, i gio­
vani ateniesi di 18 anni venivano iscritti fra i dem otes, cioè
fra i membri del demo del loro padre. L’assemblea del demo
verificava la loro età e decideva, col voto, se erano di nascita
legittima e di condizione libera; qualsiasi contestazione ve­
niva rimandata a un tribunale dell’Eliea e il giovane ritenu­
to colpevole di impostura veniva immediatamente venduto
dallo stato come schiavo. La Bulé sottoponeva poi gli efebi
a un nuovo esame. Le attitudini fisiche dei giovani veniva­
no certamente valutate sia dall’assemblea del demo sia dalla
Bulé e ancora da un tribunale in caso di contestazione.16
Poi gli efebi, nel tempio della dea Aglaure, a nord dell’A ­
cropoli, prestavano questo giuramento, la mano tesa sull’al­
tare:

Non disonorerò le armi sacre che porto; non abbandonerò


il mio compagno di combattimento; lotterò per la difesa
dei santuari e dello Stato e trasmetterò alla posterità una
patria non diminuita ma più grande e potente, nella mi­
sura delle mie forze e con l’aiuto di tutti. Obbedirò ai ma­
gistrati, alle leggi stabilite e a quelle che saranno debita­
mente istituite; se qualcuno vorrà abbatterle, glielo impe­

16 Aristofane, Le vespe, 578, dove l ’eliaste Pilocleone dice: «Quando i ragaz­


zi passano l ’ispezione, ci fa piacere guardare il loro sesso».

357
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

dirò con tutte le mie forze e con l’aiuto di tutti. Onorerò


il culto dei miei padri. Chiamo a testimoni le divinità:
Aglaure, Estia, Enio, Enialio, Ares e Atena Areia, Zeus,
Thallo, Auxo, Egemone, Eracle, i confini della patria, il
grano, l’orzo, le vigne, i fichi e gli olivi.17

Questa lista di divinità, soprattutto Aglaure, Thallo e


Auxo, e l’inclusione dei confini e dei frutti dell’A ttica han­
no un forte carattere arcaico: questa formula di giuramento
è sicuramente anteriore al V secolo.
Per dirigere gli efeb i il popolo sceglieva un sofronista
(censore) per ogni tribù su proposta di una lista di tre nomi
scelti dai padri degli efebi e un cosm ete (ordinatore) capo di
tutto il corpo degli efebi; questi nominava gli istruttori de-,
gli efebi (p ed otrib i) e degli speciali maestri che insegnava­
no loro a combattere come opliti (<oplom achia), a tirare con
l’arco e a lanciare il giavellotto. A ll’epoca di Aristotele si era
aggiunto un istruttore per la manovra della catapulta, da
poco inventata.18 L’abito distintivo degli efebi era la cla m id e
che sembra essere stata nera.19 L’anno di servizio si apriva
due mesi dopo l ’inizio dell’anno civile, in B oedrom ion. Co­
smete e sofronisti «cominciavano a far visitare ai loro efebi
i santuari dell’A ttica (che avrebbero dovuto difendere), poi
si recavano al Pireo dove aveva sede la loro guarnigione, a
M unichia e a ll’A cte... I sofronisti ricevevano dalla tribù il
denaro per gli efebi (4 oboli a testa al giorno) e acquista-

17 Cfr. L. Robert, Études épigraphiques etphilologiqu.es , Champion, Paris 1938,


pp. 296-307.
18 Aristotele, C ostituzione d i Atene, 4 2 , 3.
19 Cfr. piu sopra cap. VI, p. 2 0 0 e, per il colpre, P. Roussel, Les chlam ydes noires
des éphèbes athéniens, in «Revue des Études Anciennes» 43, 1941, pp. 163-165.

358
La guerra

vano il necessario per il pasto in comune di tutti, perché il


pranzo era consumato insieme da tutta la tribù».20
Forse già nel collegio degli efebi si praticava la divisione
fra fanti e cavalieri, ma non è sicuro; ciò che è certo è che
il cosmete doveva preoccuparsi di rendere gli efebi buoni
cavalieri e di insegnare loro a lanciare le frecce da cavallo.21
Così passava il primo anno, alla fine del quale «un’as­
semblea del popolo che si teneva in teatro passava in rivista
gli efebi che sfilavano in ordine serrato; allora ricevevano
dallo stato uno scudo rotondo e una lancia, facevano marce
m ilitari nell’A ttica e si accampavano nelle fortezze».22 Nel
corso del secondo anno gli efebi erano p erip o lo i, cioè solda­
ti «di pattuglia» intorno alle fortezze di Eleutere, di File e
Ramnunte.23
Soprattutto a Ramnunte, iscrizioni del IV secolo ci per­
mettono di documentare con evidenza pittoresca la vita de­
gli efebi e anche i loro rapporti con la popolazione locale:
«Per i contadini e i pescatori di Ramnunte il soggiorno di
"un grosso contingente di giovani costituiva un comodis­
simo “mercato” per i prodotti dei campi e della pesca. La
collaborazione fra il demo e la guarnigione era molto stret­
ta... Gli efebi avevano compiti m ilitari ma formavano spes­
so una truppa assai poco disciplinata... Più che agli esercizi
m ilitari propriamente detti, quei giovani si dedicavano agli
esercizi del ginnasio, complemento necessario alla vita del
soldato. Gli esercizi richiedevano un abbondante consumo
di olio» e i cittadini di Ramnunte vi contribuivano con

20 Aristotele, C ostituzione d i Atene, 4 2 , 3.


21 A. M artin, Les cavaliers athéniens, p. 327.
22 Aristotele, C ostituzione d i Atene, 4 2 , 4.
23 Cfr. L. Robert, H ellenica, X, pp. 283 -29 2 : Peripolarques.

359
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

le loro offerte, con una generosità che veniva loro ricono­


sciuta, con la gratitudine e con onori (corone) consegnate
dagli efebi e dai loro capi. Il piccolo teatro di Ramnun-
te era particolarmente animato grazie alla presenza degli
efebi: «Seduti ai posti d ’onore (della p roed ria ) i magistrati
del demo e gli ufficiali della guarnigione prendevano parte
agli spettacoli che vi si celebravano», soprattutto concorsi
di commedie:

Il dio delle Lenee portava gaiezza ai demoti e ai soldati,


pubblico campagnolo e un po’ rozzo, fatto più per sentire
le battute pesanti dell’antica commedia che le finezze sofi­
sticate di una tragedia di Euripide... La vita dei contadini
si elevava a contatto degli efebi: abitudini più cittadine
si introducevano allora creando nuovi bisogni che hanno
lasciato traccia nei monumenti.24

L’oplite, il fante ad armamento pesante di Sparta o di


Atene, che manterrà la supremazia sui campi di battaglia
per tutto il V secolo e oltre aveva una «panoplia» formata
di armi difensive e offensive.25
Il casco attico del V secolo (cranos) era meno pesante
di quello delle epoche precedenti e adorno di un cimiero
meno ingombrante. Si componeva, al di sopra di una ca­

24 J. Pouilloux, La forteresse d e R ham nonte, Éditions de Boccard, Paris 1954,


pp. 81-82.
25 Cfr. per esempio l ’oplite Aristio, J. e C. Roux, Grece, tav. 80: la scena
della partenza del guerriero, C. Dugas, Alton, fig. 3 e le molte tavole dell’o­
pera di P. Couissin, La v iep u b liq u e e tp r iv é e des anciens grecs: Les institutions
m ilitaires et navales, tavv. VII-XXI. Per un’epoca più antica, è interessante
consultare P. Courbin, «Bulletin de Correspondances helleniques» 8 1,195 7 ,
pp, 322 -38 6 , tavv. I-III.

360
La guerra

lotta di feltro, di una semisfera metallica sormontata da un


cimiero che ne riproduceva la curvatura e di copriguance
mobili, talvolta di un coprinaso e di un protegginuca. La
corazza (thorax), nella maggior parte dei casi in bronzo, era
formata da due placche, anteriore e posteriore, riunite con
fermagli o ganci e si fermava poco sópra la cintura lascian­
do le cosce quasi interamente scoperte. Spesso era adorna
di disegni a punta o di linee incise che sottolineavano la
muscolatura del torace. Invece delle corazze di metallo si
portava talvolta una specie di giubba di lino o cuoio rin­
forzato da lamelle di metallo. Infine le gambe erano spesso
coperte dal ginocchio alla caviglia con gambali di bronzo
{cnemides) il cui uso tende però a sparire nel corso del V se­
colo. Lo scudo (aspis) attico, a differenza di quello incavato
lateralmente dei beoti, era rotondo e di bronzo, di circa
0,90 metri di diametro; poteva anche consistere in dischi
di pelle di bue cuciti e mantenuti insieme da una cornice di
metallo o di legno e rinforzati anteriormente con placche
di metallo. La parete esterna era sempre convessa e portava
al centro un punzone (om phalos) talvolta adorno di una
testa di Gorgone dotata di valore religioso (a p otrop aico: di
protezione contro la cattiva sorte) o di altri emblemi (epise-
mes); tale decorazione poteva anche essere molto ricca, pur
senza rivaleggiare con quella dello scudo di Achille, opera
del dio Efesto. La parete interna era munita di una, poi
di due m aniglie dove l ’oplite passava la mano e il braccio
sinistro; fuori del combattimento si passava nella m ani­
glia una corda che permetteva di appendersi lo scudo alle
spalle. Talvolta lo scudo recava un prolungamento verso
il basso, una specie di grembiule a frange, certamente di
cuoio, per proteggere le gambe dei guerrieri. I piedi dell’o-

361
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

plita, in età classica, in generale erano nudi mentre quelli


deH’«uomo di bronzo» dei tempi arcaici erano coperti di
calzature metalliche.
Le armi offensive erano analoghe a quelle del tempo di
Omero e avevano subito meno variazioni di quelle difen­
sive. Erano sempre la lancia e la spada. La lancia (dory),
arma d ’attacco, era un lungo bastone in legno, di circa 2
metri a una estremità del quale era fissata una punta di
metallo, o piatta, a forma di foglia, o massiccia, a forma
di piramide allungata. L’impugnatura, di solito in legno
di frassino, era ricoperta di corregge di cuoio nel punto
in cui la si teneva; nella parte inferiore aveva una specie
di tacco di metallo che doveva fare da contrappeso alla
punta e che in certi casi era a sua volta puntuto, per cui la.
lancia poteva essere usata da entrambe le parti. La spada
(xiphos) non era una semplice daga, ma un’arma da guerra
che poteva sostituire la lancia in un combattimento corpo
a corpo. La spada dell’oplita aveva una lam a rettilinea a
doppio taglio e poteva arrivare a una lunghezza di 0,60
metri, impugnatura compresa. La si portava sospesa alla
spalla sinistra con una bandoliera. Dopo le guerre per­
siane l’oplita portava anche una spada corta, appena più
lunga di un pugnale.
Sotto il comando supremo dell’arconte polemarco, poi
degli strateghi, il corpo degli opliti ateniesi era diviso in die­
ci unità comprendenti i fanti di tutte le dieci tribù e coman­
date dai dieci tassiarchi, ufficiali eletti dal popolo che porta­
vano un mantello adorno di larghe fasce di porpora;26 ogni
tassiarca nominava i comandanti di compagnia (locaghi).

26 Cfr. Aristofane, La p a ce, vv. 3 0 3 e 1172-1173.

362
La guerra

Lo stratega ateniese Ificrate, nel IV secolo, creò un corpo


di p elta sti ai quali diede un equipaggiamento più leggero di
quello dell’oplita ma che non ci è noto. Sembra che lo scudo
(peltri) fosse di giunco e incavato, un po’ a forma di quarto
di luna e che la corazza di metallo fosse sostituita da una
specie di tunica di lino. I peltasti, molto più mobili degli
opliti, fecero meraviglie sui campi di battaglia.
Il peltaste era un oplita alleggerito: il suo armamento
offensivo consisteva, come per l’oplita, di una lancia e una
spada. Gli eserciti greci avevano anche truppe leggere prive
di apparato difensivo tranne un piccolo scudo: frombolieri,
lanciatori di giavellotto (acontistes) e arcieri, per non parlare
di quella specie di artiglieria che era costituita, a partire dalla
seconda metà del IV secolo, dagli addetti a una nuova mac­
china chiamata catapulta: grazie alla torsione di corde o di
fasci di crine che naturalmente tendono a tornare rettilinee,
la catapulta lanciava frecce su una traiettoria quasi diritta.
La fionda antica (sphendone) era costituita da una lunga
cordicella di lana o crine che reggeva una tasca di cuoio
dove si metteva una pietra o una palla d ’argilla, di piombo,
di bronzo a forma di fuso; il fromboliere imprimeva a ll’in­
sieme un rapido movimento rotatorio, poi abbandonava
improvvisamente una estremità di una delle cordicelle; la
pietra o la palla veniva proiettata dalla forza centrifuga fino
a quasi 200 metri di distanza.
Il giavellotto da guerra (acontiori), una specie di lancia
di ridotte dimensioni, era munito di un propulsore come
quello che abbiamo descritto per giavellotti da esercitazione
di cui si servivano i giovani in palestra.27

27 Cfr. più sopra cap. IV, p. 160.

3 63
La vita quotidiana in Grecia n el secolo d i Pericle

Prima delle guerre mediche, ad Atene cerano anche ar­


cieri 0toxotai) in costume scitico che certamente non erano
barbari ma ateniesi vestiti appositamente in foggia bizzarra
che fungevano da valletti d ’arme per gli opliti e i cavalieri
e da truppe leggere. A Maratona, nel 490, l’esercito ate­
niese non comprendeva però né arcieri né cavalieri,28 ma
i molti arcieri e cavalieri delle armate persiane costrinse­
ro Atene a formare corpi m ilitari analoghi. Arcieri ateniesi
combatterono a Salamina e a Platea (480-479) e ai tempi
della guerra del Peloponneso i loro effettivi raggiungevano
i 1600 uomini. Tali arcieri venivano assoldati fra i cittadini
più poveri, i proletari {feti). Portavano l ’arco tradizionale a
doppia curva:

Hanno le braccia e le gambe nude, il busto e la parte alta


delle cosce coperte da un giustacuore aderente o da un
corto chitone; calzavano qualche volta degli stivaletti, la
testa era coperta da un casco leggero o da un berretto
simile al berretto tracio; come norma generale, gli arcieri
non avevano armi difensive e portavano la faretra sulle
spalle.29

Bisogna distinguere rigorosamente questo corpo di ar­


cieri à piedi e quello di arcieri a cavallo (hippotoxotai) dagli
arcieri sciti acquistati per la prima volta da Atene quando
creò la confederazione marittima nel 477. Questi schiavi di
origine barbara costituivano la polizia di Atene soprattutto

28 Erodoto, VI, 112.


29 A. Plassart, Les archers d ’A thènes, «Revue des Études Grecques» 2 6, 1913,
p. 202.

364
La guerra

nei tribunali, nell’Ecclesia e nelle assemblee di ogni natura;


non erano soldati ma poliziotti. Portavano pantaloni {ana-
xyrides) che scendevano loro fino alle caviglie, che ad Atene
erano il tipico costume barbaro, un alto berretto, in genera­
le a punta, che copriva la parte posteriore della testa e rica­
deva sulla nuca, l’arco, il go rite (che non era l’abituale faretra
ma un contenitore per le frecce chiuso da una pelle mobile
che si attaccava alla cintura, sulla parte sinistra), e una pic­
cola daga e talvolta un’ascia. Arrivavano a circa un migliaio.
Inizialmente stavano accampati sotto delle tende in mezzo
all’A gorà, poi vennero dislocati sul colle dell’A reopago da
dove dominavano la città bassa che dovevano sorvegliare.30
Dopo Maratona venne creato anche un corpo di cavalie­
ri che disponeva prima di 300, poi di 600, infine di 1000
cavalli. Tale corpo era reclutato fra le due classi censitarie
più fortunate, la seconda delle quali si chiamava appun­
to classe dei cavalieri {hìppeis). Non era infatti lo stato che
forniva il cavallo, e l’allevamento dei cavalli era un privile­
gio dei cittadini ricchi. I figli di buona famiglia «avevano
prima o poi occasione di caracollare nei pressi di Colono
o in città nelle processioni: arrivavano all’età militare già
esercitati nell’equitazione ed erano dunque adatti a servire
in cavalleria dopo i loro due anni di servizio».31
Era Yipparco, comandante supremo della cavalleria ate­
niese eletto annualmente dal popolo, a reclutare i cavalieri,
pare appena usciti dall’efebia, ma tale scelta doveva essere
confermata dalla Bulé che passava ogni anno in rivista (do­
cim asia) i cavalieri e i loro cavalli. L’ipparco aveva ai suoi

30 A. Plassart, ivi, pp. 187-195.


31 G. Glotz e R. Cohen, H istoiregrecq u e, II, pp. 3 4 3 -3 4 4 .

365
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

ordini i dieci fila r ch i che comandavano ognuno lo squa­


drone di una tribù, quindi circa cento uomini.
Il cavaliere ateniese era armato di due lance e di una spa­
da, di solito curva come una daga (copis). Portava la corazza
dell’oplite e lo scudo solo in occasione di parate e sostituiva
i cnemidi di bronzo che avrebbero ferito i fianchi del ca­
vallo con stivali di cuoio. In certe epoche ha anche vestito
l’abbigliamento dei cavalieri traci: pesante mantello di lana,
ginocchiere e berretto in pelle di volpe. Montava a pelo,
senza sella né staffe e il cavallo era coperto da una sempli­
ce bardatura senza ulteriori protezioni. Nel IV secolo però
l’equipaggiamento della cavalleria si appesantì e Senofonte
consiglia ai cavalieri di portare una corazza fatta su misura
e dei guardamano e di proteggere il cavallo soprattutto sot-,
to il ventre con delle coperte.32
I cavalieri, per il loro stesso reclutamento, erario aristo­
cratici, in confronto agli opliti e alla fanteria leggera, tutti a
piedi. Avevano la naturale «alterigia» dell’«uomo a cavallo»
che, montato sul suo nobile animale, considera i suoi simili
d all’alto al basso. Senofonte, nel IV secolo, partecipava a
questo stato d ’animo. Spesso avevano atteggiamenti «laco­
nizzanti» e si facevano crescere i capelli lunghi alla moda
spartiate. Che bell’aspetto ostentano sul fregio delle Pana-
tenee sul Partenone! Nella sua commedia I cavalieri, Aristo­
fane li rappresenta con una netta simpatia, un po’ ironica,
come valorosi attaccati ai vecchi costumi e al patriottismo
di un tempo, come nemici naturali del demagogo Cleone.
L’esercito ateniese comprendeva anche ogni tipo di servizio
ausiliario come quello dei corrieri, chiamati h em erod rom i

32 Senofonte, A rte equestre, cap. 12.

366
La guerra

perché per adempiere la loro missione di collegamento o


di invio di notizie ad Atene dovevano essere in grado di
correre per un’intera giornata ibernerà) prima di affidare il
messaggio a un altro corriere.33 Cerano anche medici mi­
litari per curare i feriti, come nell’esercito di Agamennone
sotto Troia, e indovini il cui ruolo era molto importante,
come vedremo.
Per trasmettere rapidamente notizie importanti, i greci
non si servivano solo di corrieri ma anche di segnali lu­
minosi che, grazie a diversi collegamenti, costituivano una
vera e propria rete di «telegrafia ottica».34

Ad Atene, soprattutto, il giuramento degli efebi e la loro


visita ai santuari conferivano un carattere religioso all’in­
gresso nella carriera delle armi. Molti rituali contrassegna­
vano inoltre, per gli eserciti delle città greche, l’inizio di
ogni campagna militare e le diverse tappe della guerra. Pri­
ma di decidere una guerra si consultavano gli dei rivolgen­
dosi, ad esempio, all’oracolo dell’A pollo Pizio o a oracoli e
indovini locali. Una volta decisa la guerra, si iniziavano le
ostilità solo dopo che l’araldo, personaggio investito di un
carattere sacro, aveva proceduto alla dichiarazione solenne
di rottura della pace. L’araldo avrebbe anche portato, se si
fossero verificate, le proposte di tregua o di pace.
Lo stato di guerra fra i due stati si caratterizzava giu­
ridicamente con l’interruzione di tutti i rapporti fra loro,
tenuti da araldi (akéryctos).

33 Cfr. H. Bengston, Aus d er L ebensgeschichte eines grìech isch en D istanzlaù-


fers, «Symbolae Osloenses» 32, 1956, pp. 35-39.
34 Cfr. Eschilo, A gam ennone, v. 8 e sgg. e soprattutto Tucidide, 11, 9 4 , 1.

367
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Prima di iniziare la campagna, bisogna consultare nuo­


vamente gli dei e talvolta interpretare le loro risposte ambi­
gue e contraddittorie. Tucidide che credeva a sua volta poco
agli oracoli si vede costretto ad alludere ai chresm oi, diffu­
si ad Atene ai tempi della guerra del Peloponneso a causa
della notevole influenza che esercitavano sulle opinioni e i
sentimenti delle folle.
Quando l ’esercito era pronto a partire non poteva met­
tersi in marcia a qualsiasi data. Gli spartiati arrivarono a
Maratona solo dopo la battaglia perché gli scrupoli religiosi
avevano impedito loro di entrare in guerra prima della luna
piena. La spedizione in Sicilia intrapresa in un giorno nefa­
sto si concluse come è noto in una catastrofe: gli dei puni­
vano crudelmente le negligenze in questo campo. Quando,
l’esercito stava per partire, il suo capo offriva un sacrificio e
pronunciava delle preghiere. Soprattutto se era devoto co­
me Nicia, non trascurava di portare con sé le immagini de­
gli dei di Atene e un braciere portatile dove bruciava senza
interruzione un fuoco acceso al focolare della città. Portava
con sé molti indovini perché, per tutta la durata della cam­
pagna, nessuna decisione importante poteva essere presa
senza consultare preventivamente gli dei.
Ed ecco alla fine i due eserciti schierati in battaglia l’uno
di fronte a ll’altro. In ogni campo il capo, assistito dai suoi
indovini, indirizzava agli dei delle preghiere «votando» le
persone e i beni dei nemici. Immolava anche vittime e gli
indovini cercavano di leggere i presagi nelle viscere ancora
fumanti. Avveniva anche che avendo uno degli avversari
già iniziato un’azione, l ’altro ancora non osava difendersi se
gli dei non avevano ancora dato un segnale chiaro. A Platea
l’esercito spartiate immobile, con le armi al piede e lo scudo

3 68
La guerra

a terra, subì una grandinata di frecce in attesa che gli dei


parlassero.35
Nella lotta, gli dei e gli eroi non abbandonavano i loro fe­
deli ma combattevano per loro. «Alla battaglia di Maratona,
di fronte ai Medi, molti soldati ateniesi credettero di scorgere
Teseo in armi che si lanciava alla loro testa contro i barbari.»36
Nei tempi antichi, come nell 'Iliade, si facevano prigionieri
solo per immolarli perché gli dei avevano diritto al sacrificio
umano che era stato loro promesso, tranne che quando si
pensava di trarre un buon riscatto dal prigioniero. Ancora
in età classica, di frequente, i nemici vinti venivano spietata­
mente massacrati sul campo di battaglia o persino, ancor più
crudelmente, dopo il combattimento, quando si erano già
arresi. I feriti venivano finiti. Quando una città veniva presa,
i vecchi, le donne e i bambini venivano passati a fil di spada e
coloro ai quali veniva fatta grazia erano venduti come schia­
vi. Questo era il diritto di guerra che la religione consacrava,
anzi imponeva.
Solo i morti avevano diritto a un trattamento di favore, se
così si può dire. Il vincitore aveva il dovere di seppellire i suoi
e di accordare una tregua ai vinti, se sopravvivevano, perché
potessero fare lo stesso.
Ai nemici morti e ai prigionieri si toglievano le armi (come
già ne\YIliade). Esse, ammonticchiate sul campo di battaglia
o raggruppate su tronchi d’albero, costituivano il trofeo che si
dedicava agli dei e che era sacro e oggetto di culto; tale ma­
nichino coperto d’alberi era considerato una statua divina.37

35 Erodoto, IX, 6 1-62.


36 Plutarco, Teseo, 35.
37 Cfr.- G .-C . Picard, Les trophées rom ains, Editions de Boccard, Paris 1957,
pp. 13 -6 4 : Le troph ée grec.

369
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

Innalzare il trofeo significava manifestare agli occhi di tutti


la vittoria perché per poterlo fare bisognava essere rimasti pa­
droni del campo di battaglia. Talvolta alla fine di combatti­
menti incerti ognuno degli avversari innalzava un suo trofeo.
In età classica non tutto il bottino era dedicato agli dei,
solo una decima parte (decaté). Tale era l’origine di monu­
menti spesso fastosi, gruppi di statue o tesori che affollavano
le vie sacre dei santuari panellenici, come quello di Delfi, dei
quali più tardi il patriottismo greco di Plutarco, sacerdote di
Apollo Pizio, si sarebbe scandalizzato:

Questi monumenti che circondano la divinità da tutte le


parti, primizie e decime che sono frutto del massacro, di
guerre e saccheggi e questo tempio pieno di spoglie e di
bottini sottratti a dei greci, si può vederli senza indignar­
si? Come non compiangere gli elleni quando si legge sulle
loro belle offerte iscrizioni vergognose quali: «Brasida e gli
acanti sulle spoglie degli ateniesi», «gli ateniesi sulle spoglie
dei corinzi», «i focidesi sulle spoglie dei tessali» ecc.?38

Le terre del nemico venivano devastate nel corso delle


campagne di guerra (dato che gli eserciti vivevano nel paese
stesso) e sembrava normale tagliare messi e alberi, anche gli
olivi pur lenti a fruttificare dopo il trapianto; dopo la vittoria
il territorio avversario apparteneva al vincitore che lo trattava
a suo piacere e poteva arrivare persino a far radere al suolo le
abitazioni, facendo sparire ogni traccia di vita dalla superficie.
Quando si concludeva un trattato di pace gli dei presie­
devano naturalmente a questo atto solenne, come a quello

38 Plutarco, S ugli oracoli della Pizia, cap. 15.

370
La guerra

dell’entrata in guerra; li si invocava nella formula del giu­


ramento come garanti e tale giuramento era sigillato da un
sacrificio speciale.

L’esercito viveva nel paese, ma prudentemente portava


anche con sé dei viveri, non fosse che per sopravvivere pri­
ma di avere varcato le frontiere dell’avversario. Così, il cit­
tadino ateniese chiamato alla mobilitazione, doveva met­
tere nel suo sacco, o piuttosto nel suo cesto (plécos), di che
nutrirsi per tre giorni: soprattutto pane, formaggio e olive,
cipolle e aglio. Aristofane parla del sacco che manda odore
di cipolla e che simboleggia tutte le scomodità della vita
militare.39
La maggior parte delle battaglie in età classica erano
scontri brutali di falangi che si precipitavano lu n a incontro
all’altra a passo di corsa cantando il p ea n a , quando la trom­
ba aveva .lanciato il segnale d ’attacco come fecero gli ate­
niesi a Maratona; ci si sforzava di ridurre il tempo nel quale
le armi lanciate da truppe leggere dell’avversario potevano
causare perdite, e di fare in odo che lo ch o c provocato dalle
lance fosse più violento e irresistibile. Anche i lacedemoni,
i più celebri in Grecia in fatto di manovre e i più esercitati,
assumevano la formazione prima di affrontare il nemico
e la conservavano per tutta la durata dell’azione salvo casi
di necessità assoluta perché ogni cambiamento di tattica
a contatto con l’avversario era pericolosa. Il combattimen­
to si risolveva in azioni individuali, m on om a ch ie o duelli a
coppie. La strategia restò rudimentale almeno fino all’epo­
ca di Ificrate e Epaminonda. La profondità normale, presso

39 Aristofane, La p a ce, vv. 528-529.

371
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

gli spartiati, era di 8 ranghi, entro i quali ogni uomo occu­


pava circa un metro quadrato, tranne se i capi ordinavano
di stringere gli spazi e combattere gomito a gomito, «scudo
contro scudo». In fondo, se si fa astrazione dai carri che
servivano, in Omero, solo a condurre i capi sul campo di
battaglia e ad allontanarsene più rapidamente, le battaglie
di fanteria, nel secolo di Pericle, non differivano fondamen­
talmente da quelle descritte nt\YIliade, infatti Omero pas­
sava per un maestro sempre attuale di arte militare.
M a l ’apparizione della cavalleria, dopo Maratona, cam­
biò notevolmente l ’aspetto delle battaglie. Innanzitutto es­
sa aveva la funzione di svolgere missioni di ricognizione e
presa di contatto. Nel 394, di fronte a Corinto, il giovane
ateniese Dexileos perì con altri 4 cavalieri in una missione
particolarmente pericolosa che gli era stata affidata con al­
tri compagni: il suo monumento funerario al cimitero del
Ceramico lo rappresenta in atto di uccidere con la lancia un
nemico calpestato dal suo cavallo.40
La cavalleria serviva anche a inseguire i nemici in fuga
per massacrarli. Solo un uomo coraggioso e padrone di se
stesso come Socrate, fra i fanti in fuga é soprattutto fra
gli opliti appesantiti dalle armi che portavano, aveva qual­
che speranza di salvezza. Alcibiade racconta, in un’opera di
Platone, quale fu il comportamento del filosofo durante la
rotta di Delio nel 424 (quando Socrate aveva quarantasei
anni):

40 Cfr. il bassorilievo, G. Fougère, A thènes e t ses en virons, Hachette, Paris


1906, p. 143 e le iscrizioni, M .N . Tod, A S election o f Greek H istorical In-
scriptions, II, 10 4 e 105.

372
La guerra

Quando arrivò mi trovavo vicino a lui; avevo un cavallo,


lui aveva le armi dell’oplite. Si ritirava in mezzo allo sban­
damento generale cominciato dai nostri uomini e mar­
ciava insieme a Ladies. A questo punto il caso me lo fece
incontrare; gli gridai di avere coraggio, gli dissi che non li
avrei abbandonati. In questo caso ho potuto meglio che a
Potidea esaminare Socrate perché il fatto di essere a caval­
lo mi permetteva di aver meno da temere. Prima di tut­
to, superava di molto Laches quanto a presenza di spirito.
Avevo l’impressione che egli avanzasse, come dice un tuo
verso, Aristofane, esattamente come in Atene «gonfiando
il petto fieramente e lanciando occhiate oblique», portan­
do con calma l’attenzione in tutte le direzioni, verso amici
e nemici; non lasciando dubitare a nessuno, nemmeno da
lontano, che se ci si incontrava con lui fosse uomo da non
difendersi, e con solido vigore. Ed era questo che garanti­
va, a lui come all’altro, la sicurezza della ritirata; perché in
guerra non si ama imbattersi in valorosi di questa tempra
mentre chi fugge disordinatamente viene inseguito.41

Dopo la presa e il saccheggio da parte delle truppe di


Serse nel 480, Atene venne ricostruita e le sue mura vennero
rinforzate soprattutto per azione di Temistocle. L’architet­
tura militare farà grandi progressi nel IV secolo, come di­
mostrano le rovine di Messene, Le diverse fortezze dell’at­
tica giocavano un ruolo secondario e quella di Ramnunte,
che inizialmente era un semplice posto di sorveglianza, non
meritò il nome di cittadella che dopo i lavori iniziati nel

41 Platone, Sim posio , 221 a-b. Il verso citato da Aristofane (che assiste al
simposio) è il v. 3 6 2 delle N uvole.

373
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

412 durante la guerra di Decelia; le mura e le fortificazioni


furono in seguito profondamente rimaneggiate.42
Gli eserciti del V secolo non disponevano di macchine da
assedio efficaci, le città ben situate, fortificate e difese erano
ben difficili da prendere con la forza: nel corso della guerra
del Peloponneso che durò quasi 30 anni, i lacedemoni e i
loro alleati sconvolsero più volte l’A ttica ma non cercarono
nemmeno di assalire l ’insieme, fortemente difeso, costitui­
to da Atene e dal Pireo uniti dalle Lunghe M ura. Solo una
scalata a sorpresa o il blocco dei rifornimenti potevano im­
porsi alla resistenza di una città decisa a difendersi; qualche
volta anche un traditore che apriva le porte. Per abbreviare
i termini di questo sforzo gli assediami potevano arrivare
a intercettare le acque correnti prendendo la città per sete,-
con un procedimento considerato sleale e vietato dall’A nfi-
zionia delfica.43
Nel IV secolo Enea Tattico scrisse un’opera che ci è stata
tramandata sull’arte di difendere una postazione assedia­
ta. Vi si trova ogni genere di consiglio minuzioso e astuto
sulla chiusura e protezione delle porte, le parole d ’ordine e
i segnali, le postazioni d ’osservazione da stabilire, le sortite
da effettuare specialmente di notte, le ronde, le macchine
da assedio che cominciavano a fare la loro apparizione e
le màcchine con le quali gli assediati potevano opporvisi,
come appiccare fuoco alle macchine degli assediami (che
erano soprattutto in legno), come impedire le scalate, in­
somma tutti gli stratagemmi per sventare i tentativi nemici.
Enea raccomanda anche, nelle notti buie e tempestose, di

42 Cfr. J. Pouilloux, La forteresse d e R ham nonte, cit., pp. 9-66.


43 Eschine, Sull'am basciata, 115.

374
La guerra

attaccare fuori dalle mura dei cani che da lontano avviste­


ranno spie e transfughi e potranno svegliare una sentinella
addormentata; sappiamo in effetti che i cani svolsero una
funzione non trascurabile nella guardia delle fortezze.44
A ll’epoca da noi considerata, non era ancora arrivato il
tempo della falange macedone e dello sviluppo dell’arte
dell’assedio (p oliercetica ) che conferirono alla guerra dell’e­
poca ellenistica un aspetto molto diverso, più lontano da
quello delle battaglie àt\YIliade. Il IY secolo fu tuttavia un
secolo di transizione e di progressi rapidi nell’arte militare.
M a la potenza di Atene si esercitò soprattutto per mare:
nel V secolo essa esercitò una vera e propria talassocrazia.
Tuttavia ancora nel 490, l’anno di Maratona, non ave­
va una flotta degna di questo nome, e nemmeno una ca­
valleria. Un uomo, Temistocle, è a ll’origine della potenza
navale di Atene. Egli comprese, senza aspettare l’oracolo
della Pizia che diceva che «solo mura di legno erano ine­
spugnabili», che la città, per difendersi validamente contro
la flotta di Egina e soprattutto la minaccia della spedizione
di Serse, aveva bisogno di numerose navi da guerra. Egli
avrebbe trasformato molti opliti ateniesi in soldati di ma­
rina e marinai, benché lo si sia poi accusato di aver trasfor­
mato nobili guerrieri in «vili galeotti».45 Approfittando del­
la scoperta di un nuovo e più ricco filone nelle miniere del
Laurio, «la fonte d ’argento nascosta dalla terra»46 impose la
decisione che gli ateniesi invece di dividersi i benefici dello

44 Enea Tattico, nella collezione Loeb (1948). Per la funzione dei cani, cfr.
P. Roussel, «Revue des Études Grecques» 43, 1930, pp. 361-371.
45 Plutarco, Temistocle, 4; Platone e altri filosofi pensavano che l ’esistenza di
una marina da guerra fosse un male per lo stato.
46 Cfr. più sopra cap. V, pp. 191, 194-195.

375
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

sfruttamento, che ammontavano a cento o forse duecento


talenti,47 prestassero ai 100 cittadini più ricchi il capitale
per costruire delle trieres. D’altra parte fece iniziare grandi
lavori pubblici al Pireo che sostituì, come porto, la scomoda
rada del Falere; i bacini di Zea e M unichia, che dovevano
servire da arsenali, furono riparati e fortificati. Le costru­
zioni e tutti i preparativi furono condotti così rapidamente
che nel 480 a Salamina, Atene potè schierare 147 navi da
guerra pronte a prendere il mare e 53 altre di riserva, per
una flotta di complessive 200 triere. Nel corso del V secolo,
grazie alle risorse dei tributi pagati dalle città sottoposte al
dominio ateniese, la flotta aumenterà ancora; nel V e IV se­
colo, arriverà a una cifra compresa fra le 400 e le 300 triere,
un numero largamente sufficiente per garantire il dominio-
di Atene sul mar Egeo e gli stretti.
Anticamente le navi da guerra costruite dai greci erano
soprattutto p en ta còn tore manovrate da 50 rematori disposti
su una sola fila im onères). Nel V secolo, e fino in età ro­
mana, la nave da guerra di tipo normale era la triere, nave
a tre file di remi. I bacini navali di Zea ci permettono di
avanzare delle ipotesi sulle dimensioni dello scafo: circa 50
metri di lunghezza e meno di 7 di larghezza. Il rapporto
fra lunghezza e larghezza era dunque inferiore a un settimo
mentre nelle navi commerciali, chiamate «navi rotonde»,
superava un quarto:48 le triere erano «navi lunghe.
La chiglia e i fianchi costituivano lo scheletro dello sca­
fo. Nella parte posteriore la chiglia si incurvava verso l’alto
fino al livello del ponte; davanti presentava una barra che

47 Cfr. J. Labarbe, La loi n avale d e Ihém istocle, cit., p. 4 2.


48 Sulla marina commerciale, cfr. più sopra cap. V, pp. 202-203.

376
La guerra

reggeva il timone. La costruzione di solito era in legno di


pino tranne la chiglia, fatta di quercia perché fosse in grado
di reggere al trascinamento a terra che veniva praticato di
solito nella marina antica. I giunti erano calafatati con cera
e stoppa. Infine, lo scafo era cosparso di una mano di cera
sulla quale si dipingevano gli emblemi: davanti di solito due
grandi occhi di valore apotropaico come gli episem es dello
scudo dell’oplite. La Poppa si innalzava in volute o in collo
di cigno formando Yaphlaston che, con il timone, costituiva
il trofeo navale in caso di cattura. Il timone talvolta, insieme
agli occhi dello scafo, componeva una testa d’animale, come
il gruppo di un cinghiale.49 La triere di solito aveva un sol
albero, con un pennone e una vela quadrata; quando non
serviva, l’albero era sdraiato verso poppa appoggiato su spe­
ciali supporti. La triere infatti navigava a vela solo lontano
dal nemico; quando si voleva andare in fretta, si ricorreva
anche ai remi, ma durante il combattimento i remi erano
il solo mezzo di locomozione. La direzione era conferita da
due grandi remi fissati all’esterno, ai due lati della poppa.
Non ancora chiarito, nella disposizione delle triere, è il
posto delle tre file di rematori:

Sulle traverse che univano i fianchi della nave erano col­


locati dei banchi (thranos)...; una seconda fila poteva esse­
re collocata facendo sedere i rematori sulle traverse stesse
(zygos) praticando dei portelli di passaggio per i remi...;
infine, al di sopra delle traverse, nella stiva {thalamos) si
poteva far entrare una terza fila di remi con i portelli cor-

45 Cfr. tavv. X X V II-X X IX del libro di P. Couissin, La v iep u b liq u e e tp r iv é e


des a nciens grecs: les institutions m ilitaires e t navales.

ò li
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

rispondenti. La triere ateniese ha 170 rematori, di cui 62


thranites (31 da ogni lato), 54 zygites e 54 thalamites. È
probabile che i portelli di passaggio fossero in quinconce,
come i banchi dei rematori.50

I remi erano naturalmente di ineguale lunghezza, a se­


conda dell’altezza di ogni fila rispetto al pelo dell’acqua:
quelli dei thranites che fornivano lo sforzo più duro erano
di più di 3 metri, quelli dei thalam ites, circa 1,60 metri.
Avveniva talvolta che ogni rematore doveva portare con sé
il suo remo, la correggia di cuoio che lo teneva legato allo
scalmo e il cuscino, anch’esso di cuoio, che posava normal­
mente sul sedile di legno.51
Ai 170 rematori si aggiungevano altre 30 persone che poe­
tavano a 200 gli effettivi completi di una trireme; una decina
di p érin ei incaricati della manovra delle vele e dell’uso dei
bacili per eliminare l’acqua eventualmente infiltrata a bor­
do, una decina di soldati di marina (epibati), equipaggiati da
opliti, collocati a poppa per respingere gli assalitori in caso
di arrembaggio o di saltare sul ponte dell’avversario; infine il
trierarca e il suo stato maggiore: il pilota, il sorvegliante (ke-
leustes) incaricato di trasmettere gli ordini e dare la cadenza
ai rematori con l’assistenza di un suonatore di oboe, l’ufficiale
di prua (proreus), il cambusiere incaricato degli approvvigio­
namenti e qualche sottoufficiale, sorveglianti dei rematori.

L’organizzazione della trierarchia (letteralmente: coman­


do della triere) risale ai tempi di Temistocle. Era una litur-

50 P. Couissin, ivi, pp. 97-98.


51 Tucidide, II, 93.

378
La guerra

g ià , come la coregia.521 trierarchi erano designati, ogni an­


no, dagli strateghi, scelti fra i cittadini in grado di sostenere
tale incarico costoso e non fra i migliori marinai perché, se
10 stato forniva lo scafo e probabilmente l’attrezzatura della
nave e l’equipaggio, il trierarca doveva sostenere comunque
forti spese: doveva montare il sartiame a sue spese, eventual­
mente completarlo e provvedere alle riparazioni e alla ma­
nutenzione durante la campagna. Comandava la nave, ma
11 pilota, capo dell’equipaggio che era ai suoi ordini, era un
esperto marinaio che gli forniva eventuali consigli tecnici.
Verso la fine della guerra del Peloponneso, i cittadini era­
no troppo impoveriti per sopportare il peso della trierarchia.
51 permise allora a due sintrierarchi di allearsi per dividere
le spese di una sola triere. Ciascuno comandava l’imbarca­
zione per 6 mesi. Nel IV secolo, la situazione finanziaria si
era così aggravata che si ideò il sistema delle sim m orie, per
ripartire più equamente tale grave impegno pubblico.
I rematori erano prevalentemente ateniesi delle classi più
povere, teti, qualche volta meteci e persino, quando comin­
ciò a farsi sentire la carenza di uomini, schiavi ai quali si
prometteva la libertà se si comportavano bene. Per dotare di
equipaggio solo 200 triremi ci volevano più di 40.000 uomi­
ni! Il soldo quotidiano variava da tre oboli a una dracma. La
partenza di una flotta ateniese dal Pireo era un grande spet­
tacolo, soprattutto quando si trattava di una spedizione im­
portante come quella che salpò, nel luglio 415, per la Sicilia:

Gli ateniesi e i loro alleati che si trovavano ad Atene, sce­


sero, il giorno fissato, fin dall’aurora al Pireo e si imbar­

52 Cfr. più sopra cap. V ili, p. 302.

379
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

carono per la partenza. Con loro erano venuti si può dire


tutti coloro che erano rimasti in città, cittadini e stranieri.
Ognuno accompagnava i suoi: chi gli amici, chi i parenti;
altri i figli. Durante il tragitto, le speranze si mescolavano
alle lacrime. Ma, grazie a ciò che si offriva ai loro sguardi,
bastava aprire gli occhi perché tornasse loro la speranza
nella propria forza...
Alla flotta i trierarchi avevano con grandi spese dedicato
ogni cura. Lo stato dava a ogni uomo dell’equipaggio una
dracma al giorno e forniva 60 unità rapide consistenti in
vascelli non attrezzati, più quaranta trasporti di truppe
con personale scelto. I trierarchi aggiungevano al salario
dello stato un’indennità complementare per i rematori di
prima linea (thranites) e per gli ufficiali e avevano anche
pensato a provvedere una decorazione sontuosa; ognuno
aveva speso largamente perché la sua nave si segnalasse per
il bell’aspetto e la rapidità della marcia...
Quando l’imbarco fu completato e tutto il materiale col­
locato al suo posto, la tromba comandò il silenzio. Era il
momento delle preghiere prima della partenza: le si recitò
non su ogni nave separatamente ma tutte contemporanea­
mente, alle parole di un araldo. In tutto l’esercito, si era
versato vino nei crateri; soldati e capi presero le libagioni
in coppe d’oro e d’argento. A terra, la folla dei cittadini e
di tutti coloro che erano presenti per ragioni di amicizia
si univa alle preghiere. Dopo il canto del peana e l’assun­
zione delle libagioni, la flotta uscì dal porto; le navi prima
si schierarono in fila ma ben presto cominciarono a fare a
gara in velocità, fino a Egina.53

53 Tucidide, VI, 30-32, 2.

380
La guerra

Purtroppo, ben presto la trireme Salaminica, special-


mente destinata, come la Paralia54 ai messaggi ufficiali del­
lo stato, arrivò per intimare a Alcibiade, uno dei tre co­
mandanti in capo, di rientrare ad Atene per rispondere di
un’accusa di sacrilegio e l’orgogliosa A rm ada subì un com­
pleto disastro. Molto istruttivi per lo studio della tattica e
degli stratagemmi marittimi sono i capitoli del libro VII di
Tucidide, dove lo storico ci racconta le battaglie navali di
fronte a Siracusa, che provocarono la perdita della numero­
sa e splendida flotta. La strategia navale è un’arte difficile.
Gli ateniesi vi eccellevano, come gli spartiati non avevano
eguali nella manovra degli opliti. Il fine era di speronare il
fianco delle navi nemiche; per riuscirvi bisognava prima di
tutto rompere e aggirare la flotta avversaria e portarvi lo
scompiglio. Una manovra pericolosa è quella che consiste
nel passare velocemente lungo il fianco della nave nemica:
arrivando alla sua altezza l’aggressore ritirava i remi e, con
là prua, cercava di fracassare quelli dell’avversario che di­
ventava a quel punto una preda facile.
Per realizzare in mare manovre di tale precisione, biso­
gnava disporre di equipaggi molto esercitati. Senofonte ci
racconta come, nel IV secolo, Ificrate, creatore dei peltasti,
che fu anche un grande ammiraglio 6navarca) formava il
personale della sua squadra:

Prima di tutto lasciò sul posto le grandi vele, come se fosse


prossima la battaglia... Spesso anche, avvicinandosi alla
costa dove la flotta doveva consumare il pasto di mez-

,4 È la nave che porrò ad Atene la notizia della sconfìtta di Egospotami


(Senofonte, Elleniche, II, 2, 3).

381
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

zogiorno o della sera, faceva dirigere la testa della flotta


verso il largo, quando si avvicinava al punto di sbarco, poi
comandava una conversione che collocava la prua delle
triremi di fronte alla riva e, a un segnale, le faceva partire
gareggiando, in velocità, fino a che non approdavano; ed
era allora una grande ricompensa essere i primi ad andare
a cercare dell’acqua e i primi a mangiare. Nella navigazio­
ne durante il giorno, a un dato segnale, faceva disporre la
squadra talvolta in colonna e talvolta in linea.55

Questo testo ci indica anche che le flotte greche restava­


no di solito vicinissime a terra, dato che i marinai consu­
mavano abitualmente i pasti a terra.

A Sparta i guerrieri morti in combattimento erano se­


polti nel loro mantello di porpora che serviva da sudario,
coperti di rami d’olivo. Le loro tombe recavano il nome
mentre le tombe degli altri lacedemoni erano anonime.56
Ad Atene, dopo ogni campagna, si riportavano piamen­
te in città le ossa dei guerrieri uccisi e si facevano loro fu­
nerali nazionali:

Tre giorni prima dei funerali, si innalzava una tenda sotto


la quale si deponevano i resti dei morti e ognuno doveva
portare al suo morto delle offerte (soprattutto bende di
lana e ghirlande di foglie e fiori, rami, vasi funebri). Ve­
nivano poi trasportati su carri, dentro bare di cipresso,

55 Senofonte, E lleniche, VI, 2, 27-30.


56 Plutarco, L icurgo, 27, w . 2-3; cfr. anche R. Flacelière, «Revue des Études
Grecques» 61, 1948, pp. 4 0 3 -4 0 5 .

382
La guerra

una per tribù. Si trasportava anche un letto vuoto, desti­


nato ai dispersi. I cittadini e gli stranieri che lo volevano
potevano far parte del corteo di accompagnamento. Le
donne circondavano le bare e lanciavano gemiti. Le bare
venivano collocate in un monumento pubblico, innalzato
nel più bel quartiere della città (il Ceramico), e un orato­
re scelto dallo stato pronunciava l’elogio che il valore dei
morti aveva meritato.57

Nel 431, Pericle in persona pronunciò l’épitafios logos di


cui Tucidide ci ha tramandato il ricordo.
Sul monumento funerario i nomi dei morti erano incisi
per tribù, sotto una intestazione assai semplice: «Elenco de­
gli ateniesi morti in una certa campagna, della tribù degli
eretteidi (ad esempio)...» spesso accompagnata da un breve
poema, un epigramma funerario che esaltava il loro eroi­
smo e la bellezza dell’esempio che avevano lasciato.58
La nazione si assumeva il mantenimento degli orfani di
guerra e la loro educazione fino a ll’efebia. Allora aveva luo­
go, in teatro, in occasione della festa delle Grandi Dionisie,
la consegna solenne dell’armatura completa (panoplia) of­
ferta dallo stato a ogni orfano:

Prima che si iniziasse la rappresentazione delle tragedie,


l’araldo avanzava, presentava gli orfani i cui padri erano
morti in guerra, adolescenti vestiti dell’equipaggiamento
dell’oplita, e pronunciava la più bella delle proclamazioni:

57 Tucidide, II, 34.


58 Cfr. ad esempio, M .N. Tod, A Selection ofG reek H istoricalInscriptions, I,
4 8 e 59.

383
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

«Il popolo ha allevato fino all’adolescenza questi giovani i


cui padri sono morti da valorosi guerrieri; ora li arma con
questa armatura completa; li lascia perseguire ognuno la
sua carriera raccomandandoli alla Buona Fortuna e li in­
vita a occupare i primi posti (proedria) a teatro».59

Gli ateniesi che sopravvivevano alle ferite ma restavano


malati o storpi, venivano aiutati dallo stato: una legge, at­
tribuita a Pisistrato, ordinava che i mutilati fossero nutriti
a spese della città.60 Questa legge va distinta da quella che
accordava una pensione di 2 oboli al giorno a tutti gli in­
validi civili caduti in povertà.61 L’invalido per il quale Lisia
scrisse la sua commovente orazione non era certamente un
invalido di guerra; altrimenti avrebbe altamente proclama­
to i suoi meriti militari, nel momento in cui si voleva sop­
primere la sua pensione!

Gli opliti ateniesi di Maratona, quelli di Sparta alle Ter­


mopili e a Platea, i marinai e gli epibati di Atene a Salamina
hanno salvato la Grecia; senza di loro la civiltà che abbiamo
descritto sarebbe perita prima di svilupparsi pienamente,
l’Ellade sarebbe diventata una satrapia persiana. M a dopo
le guerre mediche la Grecia rivolse contro se stessa le pro­
prie energie e la propria esperienza bellica. Uno degli episo­
di più atroci e più significativi della guerra del Peloponneso
fu la vicenda di Melos, nel 416. Questa piccola isola dorica
del mar Egeo (dove nel 1820 venne scoperta la Venere di

59 Eschine, C ontro C tesifonte, 154.


60 Plutarco, Solone, 31.
61 Aristotele, C ostituzione d i Atene, 49, 4.

3 84
La guerra

Milo) aveva, agli occhi di Atene, il grave torto di voler re­


stare neutrale fra «i due grandi» allora in guerra. Tucidide
ci riferisce il tragico dialogo fra gli emissari di Atene e i
magistrati di Melos, la cui «morale» suona come quella di
una favola di Esopo: «La ragione del più forte è sempre la
migliore». I meli non cedettero; l ’esercito ateniese assediò
l’isola per più di un anno, perché la resistenza di questo
pugno d ’uomini gelosi della loro indipendenza fu eroica; in
una sortita uccisero anche molti assediami. Gli ateniesi fu­
rono costretti a mandare dei rinforzi e allora fu la fine che
Tucidide riferisce in poche parole: «La postazione fu più
vigorosamente assediata; sopravvenne un tradimento e gli
abitanti si arresero a discrezione agli ateniesi. Essi uccisero
tutti gli uomini in età da portare le armi e vendettero come
schiavi le donne e i fanciulli».62 Da sottolineare che i meli
erano greci, non barbari.
I massacri di questo genere e le perdite nei combattimen­
ti terrestri e navali indebolirono la Grecia e la spopolarono
al punto che nel secolo successivo le città dovettero assol­
dare dei mercenari in sempre maggior numero: quindi si
affidavano a soldati che non combattevano da cittadini, per
patriottismo, ma per vivere, in cambio di un salario. Già
nel 399, i «diecimila» greci àtWAnabasi, fra i quali si trova­
va l’ateniese Senofonte che ne racconterà le vicende, erano
soldati di mestiere che mettevano la loro spada al servizio
del migliore offerente. La loro storia «mette in piena luce
le fatali conseguenze di una lunga guerra che lasciava gli
antichi combattenti in condizione di doversi arruolare in
qualsiasi campo come mercenari: segna l’inizio di un’epo­

62 Tucidide, V, 4 -116 .

385
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

ca di eserciti formati da una soldatesca avida e brutale».63


Ben presto questi avventurieri non avranno più bisogno di
traversare il mare per guadagnarsi la vita al servizio di un
principe persiano: le città greche stesse, nelle loro rinascen­
ti contese, cominceranno a strapparsi i loro servigi a caro
prezzo. Inutilmente Demostene esorterà i suoi concittadini
ad armare le proprie triremi e ad arruolarsi come opliti; essi
preferirono, contro Filippo, affidarsi a mercenari, e si de­
cisero a combattere personalmente quando era già troppo
tardi, a Cheronea (338) dove le migliori truppe di Atene e
Tebe soccombettero sotto i colpi della falange macedone.
Questa civiltà, che la guerra aveva salvato, fu poi indebo­
lita e compromessa proprio dalla guerra. Le lotte fratricide
fra greci svuotarono a poco a poco l’Ellade del suo sangue
migliore, offrendo così una preda facile al conquistatore
prima macedone, poi romano.

63 G. Glotz e R. Cohen, H istoiregrecq u e , III, p. 4 2.


Sguardo d ’insieme

Il secolo di Pericle, che abbiamo arbitrariamente definito


all’inizio di questo libro come l’età classica del V e IV seco­
lo, non è che una tappa nel corso più che millenario dell’e­
voluzione della Grecia antica. Tappa certamente privilegia­
ta e brillante per molti aspetti. M a non abbiamo potuto
fare a meno di parlare né di Omero né dell’arcaismo greco,
né, d ’altra parte, della civiltà ellenistica che, a partire da
Alessandro, diffondendosi al di fuori del limitato ambiente
greco, e raggiungendo buona parte del mondo allora cono­
sciuto, sarà lo sviluppo finale dell’ellenismo. La civiltà greca
possiede infatti dei caratteri costanti che emergono già in
età omerica e che non spariranno mai completamente nem­
meno sotto l’impero romano.
Tappa brillante e privilegiata il secolo di Pericle? Non
sono sicuro che la lettura dei capitoli che precedono ne sug­
geriscano un giudizio così lusinghiero... Quando si delinea
la vita quotidiana di un paese dato, a un dato momento, ci
si condanna a mostrare soprattutto l’aspetto esteriore delle
cose, proprio in quanto hanno di più banale, cioè di più

387
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

«quotidiano». Abbiamo parlato della città bassa di Atene,


delle sue stradine maleodoranti, mal disposte, prive di il­
luminazione di notte, delle sue case spesso inospitali e ar­
chitettonicamente mediocri ma non abbiamo detto niente
dellAcropoli con i suoi ineguagliabili monumenti: i Propi­
lei, il tempio della Vittoria Aptera, l’Eretteion, il Partenone
le cui rovine costituiscono ancora la gloria di Atene. Ab­
biamo enumerato i mestieri più umili praticati dai poveri
di questo popolo industrioso e dotato di un gusto sicuro,
ma non abbiamo parlato che di rado e allusivamente dei
capolavori della scultura e della pittura. Abbiamo descrit­
to minuziosamente la ripartizione degli eliasti nei diversi
tribunali ma non abbiamo detto niente dell’eloquenza di
un Lisia o di un Demostene. Abbiamo citato qualche pas­
so di autori antichi, soprattutto Aristofane, perché ci sem­
brava rievocassero con freschezza qualche aspetto della vita
quotidiana, ma abbiamo passato sotto silenzio la poesia di
Pindaro, l’opera storica di Tucidide, la filosofia di Platone.
Abbiamo descritto l’organizzazione delle rappresentazioni
teatrali a proposito delle feste religiose ma che cosa abbia­
mo detto delle più belle tragedie di Eschilo, Sofocle ed Eu­
ripide? A proposito dell’educazione e delle scuole abbiamo
appena accennato allo sviluppo della geometria e della ma­
temàtica a ll’epoca di Platone, sviluppo che porta in germe
la splendida fioritura della scienza ellenistica.
Questo libro può comunque servire da antidoto a una
certa letteratura, francese e di altri paesi che, a partire dal
Rinascimento, presenta ai lettori una Grecia ideale, im ­
maginaria, sognata ma non reale. Dobbiamo «credere can­
didamente che» come è stato scritto «la giornata di ogni
uomo aveva la ritmica serenità di un bel dramma di Sofo-

3 88
Sguardo d ’insieme

eie»?1 Dobbiamo «elogiare collettivamente l’eccellente igie­


ne, il sano vigore di un popolo che, per dire il vero, non si
lavava m ai i denti, non usava fazzoletti, si asciugava le dita
nei capelli, sputava per terra e moriva, a scelta, di malaria
e di tubercolosi, anche quando non infuriavano peste e
carestia? È stupefacente che uno spirito critico come Taine
abbia immaginato una Grecia di giochi “divini e rustici” e
concorsi di bellezza dove cerano praticamente solo Veneri
di M ilo...».12
Ciò che colpisce lo storico dell’antichità è l’analogia, la
parentela e talvolta l’identità fra i costumi di popoli diversi
che si ignorarono fra loro ma che condividevano le stesse
condizioni a causa dell’evoluzione più o meno parallela del­
le tecniche, dei sistemi di vita e anche, in una certa misura,
delle rappresentazioni intellettuali. Molti aspetti della vita
quotidiana che abbiamo osservato, e tratti dei riti religio­
si e usanze di ogni tipo, si ritrovano anche in altri popo­
li dell’antichità; persiani, babilonesi, egizi, ebrei, accanto,
naturalmente, a non meno significative differenze. M a il
mistero, il «miracolo», se così lo si vuole chiamare, è che
solo in Grecia, in condizioni materiali assai poco diverse,
tutto sommato, rispetto a quelle di altri paesi, venne elabo­
rata una cultura intellettualmente e artisticamente più alta
e votata a un più lungo avvenire.
Le lacune inevitabili del nostro libro a proposito della
letteratura, della filosofia, della scienza e dell’arte greche
sono facili da colmare perché esistono su questi begli ar­
gomenti eccellenti opere. A proposito dell’arte vorrei però

1 C . Picard, La v ie p r iv é e dans la G rèce classique, p. 97.


2 C. Picard, ivi.

389
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

citare un passo di un grande scrittore greco contempora­


neo, Nikos Kazantzakis, che completa e prolunga ciò che
abbiamo detto degli artigiani nel capitolo V, poiché non
cera, nella Grecia antica, una soluzione netta della conti­
nuità dell’esperienza di a rtigia n i e artisti:

Guardate bene una scultura della grande epoca classica.


Non è immobile. Un invisibile fremito di vita la percorre,
vibra impercettibilmente come l’ala di un falco quando
plana nel cielo. Un occhio esercitato scopre che questa
scultura completa un movimento che dominava nelle ope­
re della precedente generazione, preparando la forma delle
opere future. La statua vive, si muove, perpetua la tradi­
zione e prepara il futuro con un’audacia disciplinata. Gli -
antichi non amavano le brusche evoluzioni. Accettavano
piamente la tradizione e la superavano solo adeguandovi-
si. Se un creatore trovava una soluzione tecnica, un nuovo
atteggiamento, un nuovo sorriso, tutti accoglievano que­
sta scoperta come un bene comune... L’arte non era una
questione personale; l’artista rappresentava la sua città e
la sua razza e non aveva altro scopo che di immortalare il
grande istante vissuto dalla collettività. I suoi rapporti col
popolo erano stretti.3

Questo popolo greco, così resistente al lavoro e così co­


raggioso sui campi di battaglia - che ha continuato questa
tradizione di valore, come hanno dimostrato l ’insurrezione
dei greci nel 1821 per l ’indipendenza e il loro ammirevole

3 N. Kazantzakis, D u m on t S in ai à Vile d e Vénus. C arnets d e voyage, Pion,


Paris 1958, pp. 205 -20 6 .

390
Sguardo d ’insieme

coraggio durante l’ultima guerra mondiale - questo popolo


ha dunque trasmesso, attraverso la mediazione di Roma,
lezioni eterne alla nostra civiltà (un ktema eis aei, secon­
do l’espressione di Tucidide, un’acquisizione per sempre).
Tuttavia lo splendore dell’Ellade non ha sbalordito solo gli
scrittori che ne hanno dato una visione falsamente paradi­
siaca, come abbiamo visto; ha accecato anche veri e propri
storici. Non solo vive ancora oggi, come nell’antichità, un
«miraggio spartiate»,4 ma anche e soprattutto un «miraggio
ateniese» e più in generale un «miraggio greco».
Spesso si leggono degli apprezzamenti poco sfumati che
somigliano a luoghi comuni: l ’A tene di Pericle offrirebbe il
modello incomparabile e definitivo della perfetta democra­
zia; la morale della Grecia antica, degli «eroi» di Plutarco
e dei saggi stoici, sarebbe superiore alla nostra; gli elleni
sarebbero stati insieme razionalisti e ottimisti, fiduciosi
nelle sole forze della ragione umana e convinti che questa
terra non è per l’uomo che una «valle di lacrime». Vediamo
quanti elementi di realtà colgano questi giudizi sulla poli­
tica, la morale, la concezione generale della vita dei greci
antichi. Gli ateniesi hanno inventato la libertà civica e la
democrazia, e questo rappresenta un merito immenso, e
ne hanno dato, almeno con Pericle, grazie a ll’autorità di
questo dirigente che sapeva persuaderli autorevolmente,
un notevole esempio. M a possiamo dimenticare gli schiavi,
l’imperialismo espansivo di Pericle, la sua durezza nel re­
primere le rivolte? Il regime ateniese, già sotto Pericle, sof­
friva di molte tare e sarebbe semplicistico attribuirle tutte
solo ai successori come Cleone. Atene, la più liberale delle

4 È il titolo di un libro di F. O llier sull’idealizzazione di Sparta.

391
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

città greche, ci appare spesso come una città dura, egoi­


sta, crudele e vorremmo dire addirittura «totalitaria»: con
quanta parsimonia, soprattutto, accordava l ’ambito titolo
di «cittadino»!
La morale greca più diffusa in età classica non era affatto
quella degli «eroi di Plutarco». Certamente l ’ateniese «bello
e buono» {kalos kai agathos), il gen tlem a n di razza nobile,
identificava bellezza e virtù, bruttezza e vizio e si astene­
va spontaneamente da ogni menzogna, da ogni bassezza:
si preoccupava troppo della sua reputazione {doxa) ed era
troppo avido di onori e di stima {filotim ia). M a è indubbio
che si trattava di una morale fondata sulla pubblica opinio­
ne, sul «che cosa diranno di me» e quindi fragile, come Pla­
tone ha dimostrato. Certamente i giovani che popolano i
suoi dialoghi sono leali, simpatici e affascinanti ma, tranne
le lezioni di Socrate, ben raramente messe in pratica, niente
impedisce loro di diventare, con l ’età, degli Alcibiade o dei
Calliche, perché il desiderio di essere forti e potenti, per
acquistare gloria, prevale in loro su ogni altro sentimento.
Il santuario di Apollo Pizio a Delfi ebbe certamente
un’immensa influenza religiosa e morale. M a le massime
dei saggi incise nel vestibolo del tempio non professavano
affatto una morale eroica d’«impegno» e di «superamento»
di se stessi. «Conosci te stesso» (massima che Socrate adottò
conferendogli un significato nuovo) significava: «Conosci
la tua condizione umana e i suoi limiti, non esporti, con
l ’eccesso, alla vendetta della N emesis divina». Gli altri due
principi: «Nulla di troppo» e «Quando ti impegni, vai in­
contro alla sventura» consigliavano di osservare la misura
in tutte le cose e di temere soprattutto i moti di un eccessi­
vo zelo a favore degli altri, ciò che noi chiamiamo la carità.

392
Sguardo d ’insieme

Lezione di saggezza, certamente, ma di saggezza prudente


e «borghese».5
Ci sembra elevata soltanto la morale di alcuni filosofi di­
scepoli di Socrate, i cui precursori sono pitagorici e orfici: la
morale di un Platone che aspira all’identificazione dell’uo-
mo col Bene assoluto, cioè a Dio, attraverso l’ascesi e la con­
templazione6 o di un Aristotele, fondata sulla virtù fonda-
mentale della magnanimità.7 M a quanti discepoli avevano
maestri di così alta saggezza? In generale, si può dire che il
politeismo tendeva a degenerare in superstizione più che a
elevare il livello morale delle masse.8 1 culti misterici stessi,
come quelli di Eieusi, non chiedevano ai loro adepti di vi­
vere santamente per raggiungere la felicità e l ’immortalità,
che erano invece garantite dal rito magico dell’iniziazione,
per quanti peccati potessero essere commessi dall’inizia­
to: Diogene si burlava della beatitudine eterna dispensata
al brigante che si era fatto iniziare ma rifiutata al virtuoso
Epaminonda che, se non si fosse fatto iniziare, avrebbe do­
vuto eternamente annaspare nel fango infernale.
Infine, l’amore per la vita di cui tanto chiacchierano
molti autori a proposito della Grecia antica è certamente
esistito: gli elleni, come tanti uomini di tanti altri paesi e di
tutti i tempi, hanno amato la vita e, prima di tutto, la luce
del sole, la chiarezza trasparente del loro cielo quasi sem­
pre sereno che è così duro lasciare per avviarsi alle ombre
dell’A de. M a hanno gustato gli incanti dell’esistenza senza

5 Cfr. J. Defradas, Les thèm es d e la p rop a ga n d e delphique, pp. 268-283.


6 Cfr. A . Diès, P laton, Flammarion, Paris 1930.
7 Cfr. R.A. Gauthier, M agnanim ité, Vidéal d e gra n d eu r dans la philosoph ie
p a ien n e e t dans la th éologie ch rétienne, Vrin, Paris 1951.
8 Cfr. più sopra cap. V i li , pp. 319-322.

393
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

illusioni, senza ottimismo, con gli occhi bene aperti sulla


condizione umana che in generale comporta almeno tanto
male quanto bene:

Si altera profondamente la vera immagine dei greci se li si


mostra fiduciosi verso la vita. È vero il contrario. La loro
convinzione più diffusa era che la vita è dura, che gli dei,
gelosi e impietosi, ci mandano più pene che gioie e che il
solo bene inalienabile dell’uomo, cioè che gli resta quando
ha perso tutto, è la grandezza d’animo con cui domina la
sorte avversa. L’uomo è più forte del suo destino, è forse
questa la parola definitiva della saggezza greca.9

A questo proposito le concezioni dei greci sono rima--


ste sempre quelle delVIliade', nell’allegoria delle due giare,
Achille, parlando a Priamo disperato, non immagina nep­
pure il caso, pur inverosimile, irreale in cui Zeus potrebbe
dare a un uomo solo del bene; è già molto avere ricevuto dal
dio supremo, come Peleo, come Priamo stesso, qualche an­
no di fortuna, perché molti, nella loro vita, non conoscono
che la miseria.101Teognide proclama:

Il più desiderabile di tutti i beni sulla terra è di non essere


mài nati, di non avere mai visto gli ardenti raggi del sole;
oppure, una volta nati, di varcare al più presto le porte
dell’Ade e di riposare sotto un folto mantello di terra.11

9 A.-J. Festugière, S ur urie épitaphe d e Sim onide, in «La vie intellectuelle»


25 gennaio 1937, p. 302.
10 Iliade, X X V I, v. 529 e sgg. Cfr. R. Flacelière, introduzione a H om ère,
coll. Plèiade, Gallimard, Paris 1955, pp. 47-50.
11 Teognide, vv. 4 2 5 -4 2 8 .

394
Sguardo d ’insieme

Erodoto pensa che «coloro che gli dei amano muoiono


giovani»;12 i cori tragici consigliano spesso: «Guardatevi
dal dire che un uomo è fortunato prima che sia morto
perché che cosa sapete di ciò che gli dei gli riservano?»
ed Euripide, facendo eco a Teognide, afferma che biso­
gnerebbe piangere su colui che viene al mondo ed è così
promesso alla sventura e accompagnare con canti di gioia
chi è morto e ha finito di soffrire.13

Abbiamo voluto mostrare i greci antichi e soprattutto gli


ateniesi come sono stati con le loro miserie ma anche la loro
grandezza. Essa prevale talmente che ci è sembrato, proprio
per questo, inutile idealizzare un popolo come questo. Gli
ateniesi hanno giustiziato ingiustamente Socrate, ma So­
crate era ateniese e quale uomo, semplicemente uomo, fu
mai grande come è stato Socrate?

12 È la conclusione implicita della storia dei gemelli di Argo, Cleobi e Bito-


ne, le cui statue sono state trovate negli scavi di Delfi; Erodoto, I, 31.
13 Euripide, frammento 449.
B ibliografia essenziale
Quasi tutti i libri contemporanei da me consultati sono ci­
tati in nota; ma ritengo ugualmente utile elencare almeno
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Indice analitico
abaco 148 aedi 149
abbigliamento 2 2 9 -2 3 2 , 2 35 aeiphygia 3 4 4
aborto 1 1 8 -11 9 A fro d ite 52, 116, 2 14 , 267, 3 2 3 -
A carnania 19 324
A carne (demo e porta) 2 2 , 51, 59 A fro d ite Pàndemos, tempio di 116
Accademia 12,24,27,43-47,171-172 Agam ennone 13 4 , 149, 2 51, 267,
acconciature 2 18 -2 2 1 3 14 , 317, 3 6 7
Acheloo, fium e 19, 4 6 A gatarco 7, 4 1
A chille 13 4 , 149, 151-152, 155, Agatone 2 18 -2 19 , 2 35 , 2 5 5 -25 7
163, 175, 2 51, 2 8 1 , 3 61, 3 9 4 Agesilao 315
acmé 3 4 9 A glaure 3 58
acontion 3 6 3 - tempio di 3 57
acontistes 3 6 3 agone 2 8 6 , 331
acratismos 2 4 3 A gorà 2 1-2 2 , 2 4 -2 8 , 32, 37, 45,
acratos 2 4 3 , 2 5 0 6 0 , 6 2, 79, 8 2 , 110, 182, 191,
A cropoli 9, 2 0 -2 4 , 2 7-2 8, 3 0 , 61, 2 0 0 -2 0 1, 2 0 3 , 2 2 1, 247, 253,
191, 2 1 9 -2 2 0 , 2 8 8 , 2 9 6 , 347, 267, 3 2 8 , 3 3 4 , 3 45, 352, 365
357, 3 8 8 agoranom i 3 0 , 68
A cte 3 58 agricoltura 184, 18 6 -1 8 7
A de 4 8 , 9 2 , 3 9 3 -3 9 4 A grilé 2 2 , 4 8
A driano, im peratore 2 2 A kéryctos 3 6 7
adyton 3 17 -3 19 alabastro (recipiente) 156

409
La vita quotidiana in Grecia nel secolo d i Pericle

A lceo 2 61 A n ito 198


Alcibiade 10 -11, 4 1 - 4 2 , 59, 140, A nodos 2 9 0
153, 16 6 , 207, 2 2 8 -2 2 9 , 2 5 6 - Antesterie 137, 2 9 3 -2 9 4 , 3 2 0
257, 3 0 3 -3 0 5 , 3 7 2 , 3 8 1, 3 9 2 A nthesterion (febbraio) 144, 2 9 3
Alcibiade il Vecchio 327, 3 2 9 A ntifon te 3 4 , 125
A lcm ane 12 9 A ntistene 9, 35, 4 6 , 2 5 8
A lessandria 10 8 -1 0 9 , 207, 2 2 3 anziani, rispetto per gli 12 0 , 12 2 ,
Alessandro M agno 105, 315 303
A lfeo, fium e 19, 3 0 4 apagogé 3 32
alim entazione 2 45 A paturia 2 9 0
A lké, tenutaria di bordello 116 A pelle 2 14
Alkm enes 10 aphegesis 3 3 2
allevam ento aphlaston 3 7 7
- di buoi e cavalli 19, 18 9 apodetti 6 8
- di asini e m uli 189 Apollo 37, 97, 120, 153, 182, 281-
- di ovini 189 2 8 2 -2 8 4 ,2 9 5 ,3 15 -3 2 0 ,3 4 4 ,3 4 9
- di suini 189 - A pollo A rgivo 3 2 0
A lo a 2 91 - A pollo Boedrom io 2 8 9
alos 291 - A pollo C lario 3 16
alphitopolis 2 0 5 - A pollo Loxias 318
A m fìs 117 - A pollo Patroos 25
amis 4 2 - A p o llo Pizio 7 3 , 116, 2 8 4 ,
A m m one, santuario di 31 317, 367, 3 7 0 , 3 9 2
amorgé 188 A pollodoro 7
A m orgo 2 2 2 , 2 3 4 apophrades 3 21
amphitales 9 9 A pothetes 12 0
Anacreonte 177, 2 61 apotropaico 2 3 6 , 3 6 1, 3 7 7
ananeuo 2 74 apotym panism os 3 4 6 - 3 4 7
Anassagora 7-8, 10, 74, 2 8 0 , 3 12 arboricoltura 188
anaxyrides 3 65 Archelao 7
ancylé 16 0 architettura m ilitare 3 7 3
A ndocide 4 1, 3 0 4 arcieri sciti (poliziotti in Atene) 63,
andraprodistai 78 8 2, 8 4, 3 4 0 ,3 6 4
androon 3 8 , 4 1, 105, 110 arconte polem arco 7 1, 3 6 2
A nfìarao, santuario di 3 1-32 arconte re 6 8 , 116 , 2 9 4 , 297, 331-
A nfìd ro m ie 121 3 32
A nfìp oli, battaglia di 10 arconti 3 0 , 6 8 -6 9 , 3 2 8 , 3 3 1, 3 3 4 -
A nfìzion ia delfica 317, 374 335

4 10
Indice analitico

ardanion 12 4 armi 7 3 ,7 7 ,8 0 ,1 3 3 ,1 8 4 ,1 8 5 ,1 9 0 ,
A rdetto, m onte 21 199, 270, 305, 355, 357, 360,
Areopago 2 1 ,3 0 ,6 1 ,3 2 6 ,3 3 2 ,3 6 5 3 6 2 , 3 6 4 , 367-369, 371-373,
Ares 358 385
- colle di 3 0 A rm o d io 16 4 , 261
—tempio di 25 A rretoforie 2 9 5
arété 169 A rtafern e 8
Arginuse, battaglia delle 11, 6 6 , A rta s e rs e ll 11
69, 3 33 A rtem ide 5 0, 9 7-9 8, 132, 2 81,
Argolide 1 8 ,3 1 5 ,3 2 9 2 8 3 , 2 95 , 3 0 6
A rgyrocopeion 179, 19 4 artigianato 19 3 -19 9
A ristide 8, 29, 5 8, 141, 181, 227, - e arte 3 9 8 -3 9 0
3 2 8 -3 2 9 artos 245
A ristippo 9 Asclepiadi 2 0 8
Asclepio 207, 2 8 3 , 2 9 6 , 315
A ristofan e 9 -1 0 , 12 , 14, 3 3, 3 6 ,
ascoliasmos 2 6 5 , 2 9 2
39, 4 2 - 4 3 , 4 5 , 4 7 -4 9 , 5 1-52 ,
Aspasia 9, 74, 113, 117
6 0 , 6 2 -6 5 , 8 3 - 8 4 , 10 4 , 1 0 6 -
aspis 361
107, 1 0 9 -1 1 3 , 11 6 , 1 2 0 -1 2 3 ,
assedi 3 7 4 -37 5
1 3 4 -1 3 8 , 14 1, 145, 152, 16 8 ,
astinom i 3 0 -3 1, 6 8 , 191
170, 18 1-18 3 , 18 8 -1 8 9 , 19 2 -
astragali 137, 14 6 , 2 6 4 , 2 6 6
193, 2 0 0 - 2 0 2 , 2 1 0 -2 1 1 , 2 15 -
Atena 2 7 9 ,2 8 2 - 2 8 3 ,2 8 7 ,2 9 0 ,2 9 5 ,
217, 2 19 , 2 2 6 -2 2 7 , 2 2 9 , 2 35 ,
306
2 4 4 , 2 4 6 , 2 4 8 - 2 4 9 ,2 5 2 ,2 5 6 -
- A tena A reia 3 58
257, 2 59 , 2 6 9 , 2 7 5 , 2 8 0 , 2 8 6 -
- A tena Ergané 2 9 0 -2 9 1
2 87, 2 8 9 , 2 9 2 -2 9 3 , 3 2 6 -3 2 7 ,
- A tena Fratria 2 9 0
335, 3 4 2 , 3 4 4 , 3 4 6 -3 4 7 , 357,
- A tena Nike 10,
362, 3 66 , 371, 373, 388
- A t e n a Poliade 2 8 8 , 2 9 5
Aristogitone 16 4
- A tena Promachos 2 8 8
ariston 2 4 4 A teneo 4 1 - 4 2 , 7 8 , 116-117, 193,
Aristotele 12, 30, 4 1, 4 6 , 6 0 , 68, 2 14 -2 15 , 2 4 4 , 2 51, 2 5 4
75-76, 8 6, 9 2 , 9 4 ,9 7 ,1 0 9 , 111, A tim ia 57, 10 2 , 12 2 , 3 4 2 , 3 4 4
118-119, 12 3 , 136-137, 153, atropampais 13 0
162, 168, 172-173, 175-176, A ttica 17-18, 20, 2 3, 32, 37, 4 7,49 ,
191, 2 2 2 , 2 7 1 , 315, 3 3 4 -3 3 6 , 51, 53, 57, 59, 6 8, 71, 78, 85,
338-339, 356-359, 3 8 4 , 3 93 9 5 ,1 2 7 ,1 7 9 ,1 8 1 ,1 8 5 - 1 8 7 ,1 8 9 -
arkyoros 2 7 0 190, 195, 197, 2 05, 2 46 , 2 6 8 -
arkys 2 7 0 269, 286-287, 2 9 6 , 307, 324,

411
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

328-329, 3 48 , 356, 358-359, Bulé 8 2, 3 28 , 3 3 3 -3 3 4 , 349, 357,


374 365
attica, econom ia 50 Buleuterion 2 5, 6 7
attiche, tribù 10 7 buleuti 6 6 -6 7 , 69, 2 9 9 , 3 3 4
aulé 38 byrsodepses 197
aulos 117, 13 2 , 151, 153
autourgos 177, 186
A uxo 358 caccia e pesca 2 6 8 -2 7 4
calasireis 2 3 4
Calcante 3 16
Bacchilide 41 Calcide 74
bagni 2 14 -2 17 C allia 9, 4 2 , 169, 2 5 8 -2 5 9
balaneus 2 16 Callicrate 9
banausos 175, 178 Calligeneia 2 9 0
banchetti 2 5 1-2 5 4 calzature 13 0 , 15 6 , 19 8 -19 9 , 2 29,
bapheus 199 2 3 8 -2 3 9 , 3 2 2 , 3 6 2
basilissa, moglie d ell’arconte re canefora 2 9 2
294 canonis 3 3 6
battaglione tebano 16 4 , 3 5 4 cantori (aedi) 149, 3 0 8
bathra 14 3 capeloi 2 0 0 , 2 0 3
bema 61, 3 3 9 Capo Colias, cava di argilla 195
Bendidèe 2 9 6 C arefilo 7 3-7 4
Bendis 7 2 , 2 9 6 , 3 20 , 3 2 3 C aria 7 8 , 2 3 2
Beozia 19, 3 2 , 153, 177, 185, 189, C arm ide 30
2 0 1 , 2 4 5 , 351 Cassandra 77, 3 17
betilo 319 Castalia, fonte 2 14 , 318
bevande 19 6 , 2 0 0 catalogo 3 5 6
Bione di Boristene 3 2 0 catapulta 3 58 , 3 6 3
Bisanzio 78 catharm a 63
Boedrom ia 2 8 8 cavalleria 3 7 2 , 3 7 5
Boedrom ion (settembre) 288, cecrifalo 2 2 0 , 2 4 2
3 0 6 -3 0 7 , 3 58 Cefalo, padre di Lisia 72-74, 8 0,
Bosforo Cim m erio (stretto di 190
Kerc) 2 0 6 Cefìso, fium e 19, 4 6
bouagos 13 0 —pianura del 18 6
Branchidi 3 16 celibato
Brea 2 9 2 - a d A t e n e 91
Bufronie 2 9 5 - a Sparta 91

4 12
Indice analitico

C eo 12 4 , 170, 195, 2 0 4 cleros 185


ceramica, arte della 2 0 , 19 4 -1 9 7 cleroteria 3 3 4 , 3 3 6 -3 3 7
Ceram ico 2 1-2 2 , 2 4 -2 5 , 27, 4 4 , cleroterion 3 3 5 -3 3 9
59, 6 2 , 67, 8 4 , 116, 19 4 , 2 0 0 , clessidra ad acqua 2 4 3 , 3 39
2 65, 2 8 8 , 3 7 2 , 3 8 3 d is te n e 2 2 , 25, 59, 6 8 , 3 2 7
cerchio, gioco 162 cnapheus 19 9
cetra 151-153 cnemides 3 61
chalestraion 2 17 C nido 1 1 ,2 0 8
chalkeis 2 9 0 cnisa 2 3 8
chalkinda 2 6 6 coefore 13 4
cheironax 178 C oile 33
cheirotonia 6 6 , 2 2 7 colacreti 6 8
chernips 2 5 4 , 2 8 3 Colchide 3 2 3
Cheronea, battaglia di 15, 5 8 ,2 2 8 , collegialità delle m agistrature 69
386 C ollito 2 2 , 27, 59, 176, 2 9 6
Chersoneso 2 0 6 C olofone 167, 3 16
C hio 7, 7 8 , 2 3 4 , 2 5 0 , 3 0 4 colonie elleniche 18 4
chitone 2 2 3 , 2 2 4 , 3 6 4 C olono 11, 4 4 , 3 65
chresmoi 3 6 8 Colonos Agoraios 2 1, 2 4 , 191
chytra 195 com battim enti di anim ali 2 6 6
Cillene, m onte 17 com m edia 2 9 7 -2 9 8 , 3 0 0
C im olo 2 17 com mercio al m inuto 17 7
.Cimone 9, 25, 4 5, 49, 3 0 2 -3 0 3 , comos 259, 3 0 0
315, 3 2 9 concubine 11 2 , 114
Cinosarge 27, 4 6 conia 2 17
Cipro 7 8 , 2 0 5 , 2 1 1 , 2 2 2 , 2 3 4 , 3 2 4 Coo, scuola medica di 7 4 ,1 6 7 ,2 0 8
Cirene 9, 119 Copaide, lago 2 0 2 , 2 4 7
C iro 1 1 ,2 8 3 copricapi 2 4 0 -2 4 2
citaredo 152-153 coprologi 3 0
citarista 1 3 9 -1 4 2 , 152, 155, 165, corale, musica (a Sparta) 154
172 C orcira 9, 2 0 3
Cizico 18 0 C ore 2 3 3 , 2 9 1 ,2 9 5 , 3 0 6 -3 0 7 , 3 0 9
clamide 2 2 8 , 2 2 9 , 3 58 Coregia 51, 71
chlanide 2 3 4 corego 1 5 4 ,2 9 8 ,3 0 1 - 3 0 2
C laro 3 16 C o rin to 9, 17, 74, 178, 2 3 2 , 2 3 4 ,
Cledòn 3 12 372
Cleone 10, 198, 2 9 3 , 3 4 6 , 3 6 6 , —golfo di 2 0 3
391 corodidascalo 2 9 7

4 13
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

corsa 15 8 -159 D elfi 7 3, 116 , 12 2 , Ì83, 197, 2 14 ,


cortigiane 3 0 , 110 , 11 2 , 115-117, 2 8 4 , 3 0 3 , 3 16 -3 17 , 319, 3 70,
153, 217, 2 2 1 , 2 5 2 , 2 6 2 , 291 3 9 2 ,3 9 5
cosmete 3 5 8 -3 5 9 - auriga di 2 2 4
cosmetici 2 2 1 D elfinio 3 32
cothon 2 4 9 Delio, rotta di 8, 1 1 -1 2 , 3 7 2
cottabo 2 6 2 -2 6 3 , 2 7 4 Deio 3 8 , 7 8 , 3 0 3
coturno 2 3 8 delta 145, 2 6 4
cotyle 2 5 7 D em arato 56
demarco 59
cranos 3 6 0
Dem etra 182, 2 33 , 2 8 0 , 289, 293,
C ratino 7, 2 61
2 95, 3 0 6 -3 0 9 , 3 4 9
cresmologi 3 2 2
- D em etra Tesmoforia 2 8 9 ,
C reta 1 6 6 , 2 2 2 , 3 1 1
2 91
criptia 7 6, 83, 12 8 , 13 2
- D em etra C loe 2 9 4
C òse 2 8 2 demiourgos 178
crobilo 219, 2 3 5 demo 2 2 , 3 1 ,4 4 , 5 9 - 6 0 ,1 3 9 ,1 5 3 -
Cronia, C ronion 2 8 7 154, 2 7 8 , 307, 3 35, 357, 359-
C rono 2 8 7 360
Crotone 159, 168, 2 0 8 , 2 11 Democede 2 0 8 , 2 11
crotos 2 7 5 D em ocrito 9, 12
cubos 2 6 7 D em ofonte 3 0 7
culto dei m orti 1 2 6 , 2 85 , 3 0 6 demosioi iatroi 2 1 0
Cunassa, battaglia di 11 Demostene 12 , 2 6 , 2 9, 3 4 , 37-
cuné 2 4 1 39, 4 2 - 4 3 , 59, 6 2 , 6 4 , 8 1, 93,
9 6 - 9 7 , 1 0 7 - 1 0 8 ,1 1 2 , 1 1 4 ,1 1 6 ,
cuoio, lavorazione del 2 7 ,1 5 1 ,1 6 0 -
12 4 -1 2 5 , 143, 177, 2 0 6 -2 0 7 ,
161, 188, 197-198, 2 2 4 , 2 3 8 -
227, 2 7 5 , 3 0 2 , 3 4 0 , 3 4 2 -3 4 4 ,
2 41, 3 61-3 6 3, 3 6 6 , 3 78
3 8 6 ,3 8 8
Cureótis 2 9 0
demotes 3 57
D erchilo, stratega di Eieusi 13 9
despoina 8 8 , 1 0 6
darica 182 deuteragonista 2 9 7
D ario 8, 55, 18 2 , 2 0 8 , 3 23 D iacria 18 6
D ati 8 Diagora 2 8 0
dazi doganali 2 0 3 diaiteterion 3 8
decadracm a 179 Diasie 2 9 4
deipnon 2 4 4 diaulos 158, 3 0 5

4 14
Indice analitico

dictyon 2 7 0 dram m a satiresco 2 9 4 , 2 9 9


dietèti 3 5 6 D rom os 2 4 , 2 7
D ifìlo 18 0
dike 8 6
dike argias 8 6 Ecate 3 21, 3 2 3
dike hybreos 83 Ecatombeon (luglio) 287, 3 57
D inarco 74 ecclesia 57, 6 0 - 6 1 , 69
diobolo 18 0 ecphora 125
Diogene 10, 35, 3 9 3 educazione dei giovani 12 7 -173
D ione Crisostom o 9 7 - ad A tene 1 3 2 -1 3 9
D ionigi il Vecchio 11 - a Sparta 12 7 -12 8
Dionisie 27, 6 8 ,2 9 1 -2 9 4 ,2 9 6 -3 0 0 , efebia 7 1, 9 4 , 141, 2 2 0 , 351, 355-
3 83 3 5 6 , 3 65, 3 8 3
D ioniso 2 0 -2 1, 61, 8 4 , 109, 2 49, Efeso 74, 3 0 4
2 5 4 , 2 6 0 , 2 6 2 , 2 6 5 , 2 8 9 , 2 9 1- Efesteion 2 4
2 9 3 , 2 9 6 -2 9 7 , 3 0 0 -3 0 1 , 3 0 9 - Efestie 72
3 10 , 319, 3 35 Efesto 76, 2 4 1, 2 8 8 , 2 9 0 , 361
- D ioniso Eleuterio 2 1, 2 9 6 efeto 3 3 2
- D ioniso Zagreo 3 10 Efìalte 9, 30, 135
- secondo tem pio di 10 efori 3 2 6 , 3 52
diosemeia 65 Egemone 3 58
D iotim a 2 5 2 , 2 5 6 Egina 7 8 , 1 8 0 , 2 0 3 , 2 0 8 ,2 3 1 ,2 6 1 ,
D ip ylo n 2 4 375, 3 8 0
, ditiram bi 2 9 4 , 2 9 9 Egisto 314
divinazione 3 12 , 3 15 -3 16 , 3 18 -3 19 Egospotami, battaglia di 11, 3 81
divorzio 10 2 , 11 3 , 153 eiresione 2 8 9
docimasia 67, 69, 3 6 5 Elaphebolion (marzo) 2 9 4
dodici dei d e ll’O lim p o, altare dei Elea 9
25 Eleno 3 16
D odona 3 13 Eieusi 2 0 , 2 4 , 4 8 , 139, 2 9 6 , 3 0 6 -
donne, condizione delle 8 8 -1 2 6 3 0 8 ,3 9 3
- ad A tene 88 - bassorilievo di 2 3 3
- a Lesbo 89 - pianura di 18 6
- a S p a r t a 89 eleusini, misteri 5 6 , 8 4 , 189, 2 13 ,
d ory 3 6 2 248, 288, 3 06 , 393
doxa 3 9 2 Eleusinion 3 0 7
dracma 6 7 ,1 4 8 ,1 7 9 ,1 8 3 ,1 9 3 ,2 9 9 , eliasti 33, 6 8 , 333-337, 3 3 9 -3 4 2 ,
3 7 9 -38 0 388

415
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

ellanodici 3 0 5 254, 258, 272, 279, 281, 292,


ellenismo 3 8 7 2 9 8 , 3 33 , 3 4 6 -3 4 7 , 3 6 5 , 3 78,
ellenotam i 6 8 380
embas 2 3 8 Eracle 4 8 , 2 4 6 , 3 0 5 , 3 58
em itetartem orion 18 0 eranos 183, 2 5 3
Empedocle 8 -9 eraste 9 2 , 3 5 4
emporos 2 0 0 , 2 0 2 -2 0 3 Eretria 2 4 7
enctesis 7 1 Eretteo 10, 4 4 , 59
endogam ia 93 Eridano, fium e 2 4 , 4 4 , 4 6
endrom is 2 3 8 Erim anto, m onte 17
Enea Tattico 3 7 4 -3 7 5 Erinni, santuario delle 83, 3 4 4
engyesis 9 4 , 9 6 -9 7 , 101 Ermes 4 5 ,1 5 1 ,1 5 5 ,2 4 1 , 2 4 8 ,2 6 6 ,
Enialio 3 58 321, 325
Enio 3 58 —Ermes Psicopompo 2 9 4
enkyklos 2 3 3 Ermippo 7
Enneacrunos 31 Eradico 2 0 9
enodia 2 7 0 Erodoto 8, 10, 3 6 , 5 6 , 74, 9 0 -9 1,
Enopide 7 178, 2 0 8 , 2 11, 2 2 2 , 231-232,'
enom otarchi 352 2 4 0 , 3 0 4 , 3 45 , 347, 3 5 3 -35 4 ,
entechnos 3 1 2 3 6 4 , 3 69 , 3 9 5
Epam inonda 12 , 3 5 4 , 3 7 1, 3 9 3 eroe eponim o 3 5 6
epaulia 101 Eroi eponimi, monumento agli 25
ephodia 63 eromene 9 2 , 16 4 , 16 6
ephedrismos 2 6 4 Eronda 1 9 9 ,2 3 9 - 2 4 0
epibati 3 7 8 , 3 8 4 eros 9 2 -9 3 , 163
Epicarmo 7 Eros 45
epiclere 9 4 , 118 eschatiai 5 4 , 18 9
Epicuro 58, 168, 2 7 9 Eschilo 7-9, 13 4 , 163, 179, 2 3 8 ,
Epidauro 11, 159, 207, 2 9 7 2 6 1, 267, 2 8 0 , 2 9 8 , 317, 3 23,
- stele di 315 3 4 4 -3 4 5 , 367, 3 8 8
epigamia 113 Eschine 37, 6 4 , 139, 14 3 , 166,
epinetron 198 227, 2 75 , 3 4 2 , 3 4 4 , 3 74, 3 8 4
episemes 3 6 1, 3 7 7 esecuzioni capitali 3 4 4 - 3 4 7
epistate 6 1, 6 3, 6 7 esedra 155
époptis 3 0 8 esegeti 65
Era 4 4 , 4 6 , 7 5, 8 0, 9 5, 97, 12 3 , esercizi fìsici 89, 13 2 , 155, 2 13 ,
129, 13 8 , 14 3 , 161, 169, 2 0 3 , 267, 355
2 14 , 2 18 , 2 29 , 237, 2 4 1 , 2 4 8 , - chironom ia 16 2

4 16
Indice analitico

- lam padedrom ia 16 2 Euripide 8 -11, 89, 9 2 , 103, 107,


- palestra 157 114, 177, 2 0 1, 2 1 2 , 219, 2 3 4 -
^ alab astro 156 2 35 , 2 6 1, 2 8 0 , 3 0 6 , 3 14 , 3 6 0 ,
- striglie 156 3 8 8 ,3 9 5
-p a n c ra z io 161 euthyna 69
- non praticato a Sparta 161 Eutifrone 11, 331
- pentatlon 157, 3 0 5 euzonos 2 7 1
- corsa 158-159 evergeti, evergetismo 3 0 2
- lancio del disco 1 2 8 ,1 5 9 ,3 5 5 exodos 3 5 6
- lancio del giavellotto 355 exomis 2 2 3 -2 2 4
- ancylé 16 0
- lo tta 157-159, 161, 3 0 5
- salto in lungo 159 Faeinos 74
falange macedone 375, 3 8 6
-h a lte re s 159
- pugilato 16 1-16 2 , 3 0 5 Falera 189, 2 13 , 247, 2 9 5 , 307,
3 45 , 3 7 6
- non praticato a Sparta 161
fallo 2 9 1 -2 9 2 , 3 0 0
- c o ric o s 16 2
Fano, etera 116
esilio 7 0 -7 1, 327, 3 29, 3 3 2 , 3 4 4
farm acopolo 2 1 0
- d e fin itiv o 3 4 4
Farnabazo 11
- tem poraneo 3 4 4
feste 3 0 , 6 8 , 7 2 , 8 4 , 89, 1Ò 4-105,
Esiodo 9 4, 117, 13 6 , 147, 174-175,
109, 13 6 -13 7 , 14 4 , 153-154,
177-178, 18 4 -185 , 187, 2 2 4 ,
16 2 , 189, 2 13 , 2 2 0 , 2 4 3 , 2 4 6 ,
2 8 1 ,3 2 6
2 51-2 5 2, 2 6 1, 2 65 , 2 6 8 , 2 78 ,
esposizione dei neonati 118
2 8 5 -2 9 1, 2 9 4 -2 9 6 , 3 0 3 -3 0 4 ,
Estia 3 58
328, 388
Esopo 13 6 , 3 85
Fidia 7, 9, 177, 2 31
etere 115, 117, 191, 2 2 0 - A ten a Parthenos 2 31
eteria 2 53 fìlarco 3 6 6
etnos 2 4 6 filatu ra e tessitura 198, 2 2 2
Ettore 3 16 - lana 198
Eubea 247, 3 2 9 - lino 2 2 2 , 2 2 9 , 2 3 2 -2 3 4
Eubulo 2 4 4 Filé, porta 2 2
Eufronio 2 2 4 , 2 6 2 Filippo II di M acedonia 12 , 6 4 ,
Eum olpidi 3 0 8 386
Eupatridi 49, 185 Filolao 7
Eupoli 7, 9 fìlo tim ia 3 0 2 , 3 9 2
Eurimedonte, battaglia di 9 Fitea 31

4 17
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

flotta 8 ,1 1 , 7 1, 3 5 1 ,3 5 7 ,3 7 5 -3 7 6 , Gorgida 3 5 4
3 7 9 -3 8 2 gram m atista 13 6 , 13 9 -14 0 , 142,
Focione 4 1, 10 6 , 217, 2 2 9 147, 165
fratria 6 0 , 10 1, 2 9 0 graphé 3 3 0
Freatto (tribunale) 3 3 2
Frigia 11, 4 8 , 78
Frine 1 1 5 - 1 1 7 ,2 1 3 ,3 0 7 halàdé m ystai 2 1 3
funebri, riti 12 4 , 153, 3 8 2 halteres 159
Fustel de Coulanges 8 4 , 91, 2 8 5 , Hegeso, stele di 4 4 , 2 3 6
322 hem erodrom i 3 6 6
hesperisma 2 4 4
hestiasis 3 0 2
Galéochos 2 91
him ation 2 2 5 -2 2 8 , 2 3 3
G am elia 2 9 2
hippeis 3 65
G am elion (gennaio) 97, 2 9 2
hippios 158
Gam os 9 7-9 8
hippotoxotai 3 6 4
G elone 8
hodopoioi 31
geroboskia, gerotrofìo 12 2
hypothim ydes 2 53
G erusia 3 52
gestualità 2 2 6 -2 2 7 , 2 7 4 -2 7 6
Giasone 2 3 4 , 3 2 3
iatricon 2 11
gineceo 89, 103, 110, 113 , 13 8 -
Ictino 7, 9
139, 217, 2 5 9
Idalion, tavoletta di 2 11
gineconom o 111
ieroduli 82
ginnasi 45-47, 2 14 -2 17
ginnasiarchia 3 0 2 ierogamia 2 9 4 , 3 0 9

ginnastica 155-157, 2 13 -2 15 ieroscopia 3 14


giochi e giocattoli Ifìcrate 4 1, 3 6 3 , 3 7 1 , 3 81
- d e l l ’infanzia 1 3 7 ,2 6 4 - 2 6 5 Ifigenia 11, 2 8 2
- dei ragazzi 2 6 5 Ilisso, fium e 19, 2 1, 4 6
giochi d ’azzardo 2 6 6 iloti 1 8 ,8 3 , 8 6 , 1 3 2 , 1 8 5 ,2 6 8 ,3 5 4
giorni festivi 14 4 , 192 Imera, battaglia di 8
giustizia 2 6 , 59, 18 4 , 2 07, 3 01, Im etto 17, 2 0 , 51, 18 8
3 2 6 , 3 3 0 , 3 3 3 , 339, 3 4 2 , 3 45, incesto 93, 110
3 4 7 -3 4 9 industrie 175
gnomone 2 4 3 - 2 4 4 infanticidio 119
Gorgia 8 ,1 1 ,7 4 ,1 7 0 - 1 7 1 ,1 7 6 ,2 1 1 , Iperbolo 3 2 9
2 4 8 , 3 0 4 , 3 23 Iperide 4 3 , 115, 116

4 18
Indice analitico

ipparco (com andante della caval­ lam padedrom ia 162


leria ateniese) 3 65 Lam pone 3 1 2 , 319
Ipparco, figlio di Pisistrato 4 4 lancio del disco 1 2 8 ,1 5 7 ,1 5 9 ,3 5 5
Ippia di Elide 170 lancio del giavellotto 157, 355
Ippia, figlio di Pisistrato 1 1 ,4 0 ,7 4 , Laurio, monte 2 0 , 79, 8 0, 85, 179,
170 181, 190, 191, 375
Ippocrate 7, 4 2 , 74, 169, 2 0 8 -2 0 9 - “civette del” 180
ippocratica, deontologia 2 0 8 - m iniere del 7 9 -8 0 , 85, 179,
Ippodamo 2 3 , 74 181, 19 0 -19 1, 3 75
irèn 13 0 lavoro e salari 190
Iscomaco, proprietario d i schiavi lega beotica 57
7 9 - 8 0 , 9 0 , 9 4 , 10 1, 105, 18 6 , lega m arittim a delio-attica 2 0 2
221 - seconda lega m arittim a 351
Isea 74, 1 1 4 -11 6 legno, approvvigionamento e lavo­
Isocrate 151, 17 2 , 177, 3 0 4 , 351 razione del 7 2 , 19 6 -19 7
isotelia 7 1 lekythos 4 4 , 12 3 , 150, 3 2 0
Istmiche 3 0 3 Lenaion 2 9 2 -2 9 3
Lenèe 2 9 2 , 2 9 4
lenos 2 9 2
kalos kai agathos 3 9 2 Leonida 8, 353
kapnodoké 3 6 Lesbo 12 , 89, 167, 2 5 0 , 2 7 4 , 3 0 4
Kazantzakis, Nikos 3 9 0 Leuco, principe del Bosforo C im ­
keleustes 3 7 8 m erio 2 0 6
kerkis 199 Leuttra, battaglia di 12 , 3 5 4
kim olia gé 2 1 7 Licabetto 21
K ird ia 2 6 1 Liceo 2 7 ,4 6 - 4 7 ,2 5 8
kolpos 2 2 4 , 2 3 1 Licida, buleuta 3 4 7
korai 2 19 -2 2 0 Licurgo, leggi di 127, 179 >
kykeon 2 4 8 -2 4 9 Licurgo, oratore e uom o politico
kulikes 195 ateniese 2 2 8
kynegos 2 7 0 Lisandro 11
kyria ecclesia 2 6 1 Lisia 9, 12, 2 6 , 4 0 , 7 3-7 4, 8 0 , 8 2,
kyrios 95 10 4 , 133, 165, 190, 2 18 , 2 6 6 ,
304, 340, 384, 388
Lisicrate, m onum ento di 2 4 , 154,
Laconia 7 6 , 12 8 , 2 6 8 , 2 7 1 3 01
lagobolon 2 7 1 litron 2 17
Laispodias, stratega ateniese 2 2 6 liturgie 5 0, 7 1, 3 0 2

4 19
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

locaghi 3 5 2 , 3 6 2 M enandro 84, 9 2 , 95, 103, 118,


Locride 18 322
logografi 2 0 7 M enecrate di Siracusa 78
lotta 1 5 7 ,3 0 5 M esogea 18 6
loutra 2 14 Messene 3 7 3
Luciano 158, 2 7 6 , 3 1 6 -3 1 7 M etageitnia 2 9 6
Lunghe M u ra 2 2 , 347, 3 74 M etageitnion (agosto) 2 9 6
lutrofora 4 4 , 9 8 M etaponto 16 8
meteci 69-75, 2 9 3
m etronom i 3 0 , 6 8 , 2 0 1
M acedonia 7 3 , 19 6 , 2 2 2 M etroon 25
M agna G recia 16 8 , 19 6 , 311 miasmi 2 9 5
m aia 12 0 M icale, battaglia navale 8
M aim acteria 2 9 6 m ikkizom énos 13 0
M aim acterion (novembre) 2 9 6 M ileto 7, 113 , 115, 2 3 4 , 3 4 6
m ania 3 12 miltos 195
m anteion 3 18 M ilziade 8, 29, 4 9
m antiké 3 12 , 3 15 -3 19 m ina 179, 1 8 3 -1 8 4
mantis 3 1 2 m iniera, lavoro in 19 4
M aratona, battaglia di 8, 51, 141, M iran e 7, 16 0
356-357, 3 6 4 -3 6 5 , 3 6 8 -3 7 2 , M irto, presunta seconda moglie di
3 75, 3 8 4 Socrate 114
m aratonom achi 51, 58, 141 misthos 5 8, 6 2 , 3 3 8
m arina com m erciale 2 0 2 -2 0 3 M nesicle 9
m arm o, lavorazione del 19 7 Mnesiptolema, figlia di Temistocle
m atrim onio 8 8 -11 7 93
—età ideale per il 9 4 m oneta 17 8 -1 8 2
—cerim onie del 97-101 M ontaigne 110
maza .2 4 5 -2 4 8 m oriai 4 4
M edea 1 0 3 ,3 2 3 - 3 2 4 M unichia 3 5 8 , 3 7 6
medici m ilitari 2 10 , 3 6 7 M unychia 2 5 8
medicina 2 0 7 -2 10 M unychion (aprile) 2 9 5
m edim m o 4 9 M useion 21
M egara 176, 2 2 3 musiké 14 2
M egaride 18, 18 9 musikòs anér 149
M elesia 3 2 9 m yropolion 2 2 1
M elilo 2 2 , 27, 4 1, 59, 2 0 0 mysterion 3 0 6
M elos 77, 3 8 4 -3 8 5

420
Indice analitico

navarca 381 O nasilos, medico 2 11


navigazione 2 0 2 -2 0 7 onirocritica 315
Neaira, etera 116 onirom anzia 315
Nemea 19 onos 198
Nereidi 2 8 1 opliti 352
Nesteia 2 9 0 O pora 2 8 6
neurospasta 13 8 O ppiano 2 7 2 -2 7 4
Nicia 10, 81, 2 7 9 , 3 0 3 , 3 2 2 , 3 6 8 opson 2 4 6 -2 4 7
N infe 21 orchestra 21
- collina delle 21 O reste 1 3 4 , 2 8 4 , 3 1 4 , 3 4 4
ninfeutria 9 8 O rfeo 1 5 0 ,3 1 0 -3 1 1
nome orfica, teogonia 3 10
- dem odico 59, 335 orfism o 3 0 9
- patronim ico 59, 335 ornam enti e gioielli 2 3 5 -2 3 7
nomos 56 ornis 314
nympholeptos 2 8 1 ornitom anzia 3 14
O scoforie 2 8 9
ostraca 14 6 , 3 2 7 -3 2 8
obolo 12 3 , 137, 14 8 , 17 9 -18 0 ostracismo 55, 7 0 , 327-329, 3 33
O deon 2 6 8 , 2 9 8 ostracoforia 3 2 8
Odisseo 2 8 4 -2 8 5
oichia 3 7
.oikos 3 8 , 101, 118 paideia 173
oinochoe 137, 251 Pairisade, principe del Bosforo Cim ­
oligantropia 353 merio 2 0 6
O lim pia 3 0 3 -3 0 5 palé 157
O lim piadi, era delle 3 0 4 palestra 155-157
olimpici, giochi 3 0 3 -3 0 5 palla, gioco della 162
O lim po, m onte 17 Palladio 3 32
O linto 1 4 ,3 8 - 4 1 , 2 1 5 pallaké 114
ololygé 12 4 Pan 2 8 8
Omero 18, 76-77, 106, 134, 136, Panatenee 4 5, 7 2 , 157, 2 2 8 , 237,
147,167-168, 17 4 -1 7 5 ,1 7 8 ,2 18 , 287, 2 9 2 , 2 9 4 , 2 99 , 3 0 4
245, 251, 267, 279, 282-283, - fregio delle (sul Partenone)
3 1 3 ,3 1 5 ,3 2 6 ,3 6 2 , 3 7 2 ,3 8 7 89, 2 2 0 , 2 2 4 , 2 3 1 , 3 6 6
omofagia 3 10 pancrazio 16 1-16 2 , 2 5 8 , 3 0 5
omphalos 3 19 -3 2 0 , 361 pansperm ia 2 9 4
om phalotom os 121 Panticapeo

421
La vita quotidiana in Grecia n el secolo di Pericle

parastasis 331 2 6 8 -2 6 9 , 2 7 4 -2 7 6 , 2 7 8 , 2 8 0 ,
Parmenide 9, 12 2 8 5 -2 8 6 , 2 9 6 -2 9 8 , 3 0 2 , 3 12 ,
Parnaso, monte 17, 2 0 , 186 319, 3 2 6 , 3 29, 3 3 2 , 3 4 5 -3 4 6 ,
parochos 9 9 3 4 8 -3 5 0 , 353, 357, 3 7 2 , 3 83,
Paros, m arm o di 19 7 387, 391
Parrasio 7, 73 perischoinism a 21
Partenone 9 , 6 1 ,8 9 ,2 2 8 ,2 3 1 ,2 3 3 , peristiarchoi 63
288, 366, 388 Persefone 3 25
Pasion, schiavo affrancato 81, 84 petaso 2 4 1 , 2 4 2
pastas 3 8 , 4 0 petteia 2 6 7
Patrasso 2 3 4 phainomerides 89, 2 3 0
Patroclo 155, 163, 2 51, 3 16 pharm akoi 2 9 5
peana 2 5 8 , 3 7 1 , 3 8 0 phorbeia 151, 157
pedagogo 14 2 -1 4 3 phoros 181
pederastia 9 2 , 13 1, 139, 16 3 -16 7 phygé 329, 3 4 4
pedonom o 13 9 pilidion 2 4 1 , 2 7 1
pedotribo 13 9 -1 4 2 , 1 5 5 -1 5 8 ,1 6 4 - pilos 2 4 0 -2 4 1
165, 172, 2 0 9 , 2 6 6 , 355 Pindaro 9, 3 0 3 , 3 2 3 -3 2 4 , 3 8 8 -
pelanos 318 pirateria, elim inazione della 7 7
Peleo 3 9 4 Pireo 8 ,2 2 - 2 3 , 3 0 ,4 8 ,7 4 , 8 0 ,1 1 6 ,
Pellene 2 3 4 186, 2 0 3 -2 0 5 , 2 5 8 , 2 9 6 , 347,
Pelope 3 0 5 358, 374, 376, 3 7 9
pelta 3 6 3 —arsenali del 2 0 4
peltasti 3 6 3 , 3 8 1 Pisistrato 2 2 ,4 0 ,4 4 ,1 5 7 ,1 6 4 , 2 1 4 ,
Penelope 267, 3 13 327, 3 8 4
Peneo, fium e 19 Pithoigia 2 9 3
pentacosiom edim m i 49 pitici, giochi 3 17
pentatlon 157-161 Pizia 1 1 6 ,3 1 7 - 3 1 9 ,3 7 0 ,3 7 5 .
pentecontaetia 14 Platea 3 4
pentecontarco 352 - battaglia di 8, 14, 3 4 , 354,
Pentelico, monte 17, 2 0 364, 368, 384
- cava di m arm o 19 7 Platone 10 -12 , 4 2 , 45-47, 56, 72,
Pericle 8 -10 , 14-15, 2 3 , 2 8 , 30, 74-75, 7 8, 81, 8 6-8 7, 9 2, 109,
3 2 -3 3 , 3 6 , 4 2 - 4 3 , 4 9 -5 0 , 57, 113, 117-118, 129, 133, 136,
59, 69, 7 2 , 74, 111, 113 , 147, 14 0 -14 2 , 150, 155, 163, 165-
164, 167, 169, 174-175, 177, 172, 176, 189, 199, 207, 2 10 -
18 1-18 2 , 18 6 , 19 0 -1 9 2 , 2 0 2 , 2 11, 2 18 , 227, 2 3 4 , 2 41, 245,
2 2 0 -2 2 1 , 227, 2 3 6 , 2 4 6 , 252, 247-248, 251-252, 255-258,

422
Indice analitico

2 6 0 -2 6 2 , 2 6 6 , 2 6 8 , 2 71, 2 7 5 - prigione di Socrate 33


276, 2 79, 3 01, 3 05, 3 10 -3 11, pritaneia 3 3 0
3 15 -3 16 , 319, 3 23, 331, 347- Pritaneo 6 4 , 3 0 5 , 3 3 2 , 3 4 1
349, 3 72 -37 3 , 375, 3 8 8 , 3 9 2 - pritani 2 2 , 25, 6 1-6 9
393 probascania 13 7
Plutarco 18, 25, 3 2 -3 4 , 41, 45, 47, probuleum a 6 3
49-50, 58, 8 6 , 89, 9 3 , 9 8 ,1 0 0 - Prodico 74, 170
101, 10 6 , 114 -116 , 118, 120, proedria 2 9 9 , 3 6 0 , 3 8 4
123, 12 8 -1 3 0 , 138, 14 0 -141, prom antia 318
145, 149-150, 153, 161, 163- Prometeo 9, 2 8 8
167, 176-177, 179, 191-192, propais 13 0
217, 2 2 4 -2 2 5 , 2 2 9 -2 3 0 , 2 4 8 - Propilei 9, 6 1, 3 8 8
249, 251, 253, 2 7 2 , 278-279, propom a 2 5 4
2 89, 3 03 , 3 0 9 , 3 12 -3 14 , 318, proprietà fondiaria, strutture della
3 2 2 , 3 2 8 -3 2 9 , 3 4 5 -3 4 6 , 352, 185
3 54, 3 6 9 -3 7 0 , 375, 3 8 2 , 3 8 4 , proreus 3 7 8
3 91-3 9 2 proskenion 2 9 6
Pnice 2 1, 5 8 -6 2 , 2 4 4 , 3 2 8 prostates 7 1, 3 4 0
polem arco 6 8 , 7 1, 3 31, 3 6 2 protagonista 2 9 7
poleti 6 8 , 3 4 4 Protagora 8, 11, 4 2 , 74, 14 1-14 2 ,
Policleto 7, 11, 17 7 16 9 -17 0 , 2 8 0
Policrate, tiran n o di Sarno 2 0 8 protiron 38
Poliene 4 1 psephos 3 4 1
Poiignoto 7, 73 Pseudo-Aristotele 41
polis 5 4 , 7 5, 172 Pseudo-Demostene 10 8 , 11 2 ,
polizia 6 2 , 8 2 , 3 3 1, 3 6 4 116, 12 4 -1 2 5
Portico Reale (o di Zeus) 2 4 , 331 Pseudo-Dicearco 2 8
Posidippo 118 psiathos 4 3
Posidone 18, 2 14 , 2 2 6 , 237, 2 8 2 - psycter 2 5 7
283, 291, 295 pugilato 16 1-16 2 , 3 0 5
Potidea 9, 3 7 3 Pyanopsion (ottobre) 2 89 , 2 9 3
practores 6 8 , 3 4 4 pyanos 2 8 9
Prassitele 11, 116
presagi 3 1 2 -3 1 4 , 3 6 8
presbytatoi 3 5 6 rabdochi 3 01
prestito a interesse 182 Rea 2 8 7
prestito senza interesse 183 Renea 3 0 3
Priam o 3 9 4 religione 2 7 7 -2 9 5

423
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

- preghiere 2 8 1 -2 8 3 Senofonte 10-12, 3 0-31, 37-38, 50,


- purificazioni 2 8 1 , 2 8 4 -2 8 5 6 5 - 6 6 , 7 5 ,7 9 ,9 0 , 9 2 ,1 0 2 ,1 0 5 ,
- sacrifìci 2 8 1 -2 8 7 113, 176, 184-185, 190, 198,
- ecatombe 2 8 3 204 -20 5 , 210 , 2 13 , 2 21, 226,
-o lo c a u s to 2 8 4 238, 2 58 -26 2 , 2 6 8 -2 7 1, 279,
- suovetaurile 2 8 3 313, 3 22, 333, 352, 354-355,
- rhobidas 13 0 3 6 6 ,3 8 1 -3 8 2 , 385
- rhombos 3 2 4 Serse I 8
- rizotom o 2 1 0 sicofanti 3 3 0 , 3 4 2 , 3 4 8
R odi 207, 2 39 , 2 5 0 simmachia 55
sim m oria 3 7 9
Sim onide 2 6 1, 3 9 4
Sabazio 3 2 0 , 3 2 3 simposiarca 2 5 4

Saffo 89, 167, 2 61


S im posio di Platone 2 52 , 255 -25 8
S im posio di Senofonte 2 5 8 -2 6 2
Salam ina 2 9 6
sinègoro 3 3 0
- battaglia navale di 8, 2 2 ,
sinoichia 3 7
154, 179, 181, 2 0 2 , 227, 3 0 4 ,
sintrierarchi 3 7 9
3 29, 351, 3 6 4 , 3 7 6 , 3 8 4
Sitalkes, re di Tracia 6 4
salto in lungo 159
sitopolai 2 0 5
Sam o 78
skené 2 9 7
Santippe 114
Skia 67
Santippo 3 2 9
skiadion 2 3 7
Saronico, golfo 2 0 3
skim alizo 2 7 5
Satiro, principe del Bosforo C im ­
Skirophorion (giugno) 2 9 5
merio 2 0 6
Skytes, skytodepses, skytotom os
Scam bonide 2 2 , 27, 37, 59, 2 0 0 197-198
schiavi 7 5 -8 5 Socrate 7, 11, 3 3, 35, 3 8, 4 2 , 4 6 -
- impiego degli 8 0 4 7 , 5 5 - 5 6 ,8 2 ,9 0 , 9 2 ,1 0 1 , 1 0 5 ,
- mercati degli 79 113 -114 , 13 6 , 138, 148, 165-
- prezzo degli 7 9 166, 169-171, 176, 186, 211,
schiavitù, concezioni sulla 7 5 -7 7 2 13 , 2 18 , 2 2 5 -2 2 6 , 2 3 8 , 252,
Sciro, isola 25 2 55-261, 267, 2 76 , 2 7 9 -2 8 0 ,
Sciroforie 2 3 7 305, 316, 3 2 2 , 3 31-332, 3 41,
Segesta 10 3 4 4 , 3 4 8 -3 4 9 , 3 72 -37 3 , 3 92 -
segnaletica a distanza 3 6 7 393, 395
semeion 6 2 sofisti 4 6 , 74, 14 4 , 167-174, 2 0 8 ,
Senofane 167 2 10 , 2 7 8 , 319

424
Indice analitico

Sofocle 7, 9 -11, 4 4 , 93, 153-154, Targelie 2 9 5


227, 3 8 8 tarichos 2 4 7
sofronista 3 58 tassiarchi 3 6 2
Solone 49, 7 8 , 8 6 , 111, 116, 118, teatro 8 4 , 109, 155, 2 7 7 -3 0 2
12 2 -1 2 5 , 139, 147, 165, 177, teatrocrazia 3 01
227, 2 4 1 , 2 4 5 , 327, 3 8 4 Tebe 7-8, 13, 55, 16 4 , 175, 351,
Sparta 10 -14 , 18, 5 0, 55-56, 70, 354, 386
7 2 ,7 4 , 83, 85, 89, 9 1 ,9 9 ,1 0 1 , techniké 3 1 2
12 0 , 12 2 , 12 7 -13 1, 13 3 -1 3 4 , teleios 2 8 3
139, 156, 161, 16 4 , 16 6 , 173, Telemaco 3 13
176, 177, 179, 185, 2 13 , 2 16 , Telesio 35
2 2 0 , 2 4 8 , 2 6 8 , 3 2 6 , 3 50 -35 1, Telesterion 3 0 9
353-355, 3 6 0 , 3 8 2 , 3 8 4 , 391 Temistio 3 0 9
sphaira 13 7 Temistocle 8-9, 2 2 -2 3 , 9 3, 114,
sphendone 3 6 3 140, 149, 179, 227, 247, 329,
sphragis 2 3 6 351, 3 73 , 3 75, 3 7 8
stadio 1 5 5 - 1 5 9 ,2 9 6 ,3 0 5 Teocrito 47, 10 8 -10 9 , 2 18 , 3 2 4
- doppio stadio 158-159 Teodoreto di C irro 2 9 0
- quadruplo stadio 158 Teofrasto 12 , 10 6 , 12 3 , 144, 199,
staterà 18 0 2 2 0 , 2 3 8 , 2 49, 2 7 6 , 2 7 8 , 319,
Stoa Pecile 25 3 2 1-3 2 3
Stobeo 91 Teogamia 2 9 2
.stoicheia 145 Teognide 2 6 1, 3 9 4 , 3 95
strateghi 6 6 - 6 9 Teoria 2 8 6
Stretti, problem a degli 2 0 6 , 351 Teramene 2 3 8 , 2 6 2
strigile 156 term a 158
suovetaurile 2 8 3 Term opili 353, 3 8 4
supplizi 3 4 4 - 3 4 7 terrem oti 18
sym bolon 3 3 9 Tesèe 2 9 6
symposia 251 Teseion 9, 2 4
Synoikia 2 8 7 Teseo 18 ,2 0 , 5 9 ,2 2 4 ,2 8 7 ,2 8 9 ,3 6 9
- santuario di 25, 83
Tesmoforie 1 0 4 ,2 5 2 ,2 8 9 ,2 9 1 ,2 9 5
Taigeto, catena di m onti 17, 12 0 tesmoteti 69, 3 31, 335
Taine, H ippolyte 3 8 9 tesorieri di A tena 6 8 , 3 4 4
talassocrazia ateniese 2 0 2 , 351 Tessalia 19, 185, 189
talento 17 9 -181 tetartem orion 180
Taranto 2 0 3 teti 5 8 , 3 5 7 , 3 6 4 , 3 7 9

425
La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle

Teti 2 8 1 2 7 8 , 2 8 5 , 2 9 6 , 3 2 2 , 3 2 6 , 3 56,
thalam ites 3 7 8 3 6 7 -3 6 8 , 3 7 8 , 3 8 0 -3 8 1 , 3 83,
thalam os 3 8 , 10 0 , ò l i 3 8 5 , 3 8 8 , 3 91
T hallo 3 58 Tucidide, figlio di M elesia 3 2 9
tham bos 277, 2 8 4 Turi 74
T hargelion (maggio) 2 9 5
thargelos 2 9 5
theoricon 2 9 9 «Undici» (magistrati di polizia)
thirides 3 6 3 3 1-3 3 2 , 3 4 4
tholia 2 4 2
Tholos (Atene) 25, 67
thorax 361 Venere di M ilo 3 8 4
Thoricos 2 9 6 V ia dei Tripodi 2 4 , 27, 154
thorubos 2 7 5 , 331 V ia delle Panatenee 2 4
thranites 3 7 8 , 3 8 0 V ia Sacra 2 4 , 4 8 , 3 0 7
thranos 3 7 7 vino 2 4 9 -2 5 4
threnoi 12 4 Voliagm eni, santuario di A pollo
thym iaterion 2 5 9 Soster 3 7
thyroros 10 0
tiaso 2 91
T itani 3 10 Xantos 3 16
toichorichos 3 4 xenelasia 70
toxotai 3 6 4 xiphos 3 6 2
Tracia 6 4 , 74, 7 8 , 115, 187, 196, xistis 2 2 4
204, 206, 222, 292, 323 xyla 3 4 4
tragedia 2 9 7 -2 9 9
tragèma 2 4 7
trapeziti 7 3 Zea 3 7 6
Trasibulo 11 Zeus 18, 2 4 , 50, 61, 65, 97, 137,
Trezene 18, 14 0 2 0 4 , 2 79, 2 8 1 -2 8 2 , 287, 2 9 0 ,
tribunali 3 3 1 -3 4 3 2 9 2 , 2 9 4 -2 9 5 , 3 0 4 -3 0 5 , 3 12 -
trierarchia 51, 7 1, 3 0 2 , 3 7 8 , 3 7 9 317, 327, 3 4 9 , 3 5 8 , 3 9 4
triere 2 0 2 ,3 0 2 , 3 7 6 ,3 7 7 ,3 7 8 , 3 7 9 —Zeus Agoraios, altare di 61
triobolo 18 0 - Zeus Fratrio 2 9 0
tritagonista 2 9 7 Zeusi 11, 73
tritem orion 18 0 zoster 2 2 4
Tucidide 9, 11, 14, 2 0 , 3 4 , 7 2 , 77, zygites 3 78
111, 156, 177-178, 219, 2 6 8 , zygos 3 7 7
Indice
Cronologia del secolo di Pericle 7
Premessa 13

I L’ambiente: città e campagna 17


II La popolazione: cittadini, meteci,schiavi 54
III Le donne, il matrimonio e la famiglia 88
IV I ragazzi: l’educazione 127
V II lavoro e i mestieri 174
VI Gli abiti e la toilette 213
VII Pasti, giochi e divertimenti 243
V ili La vita religiosa. Il teatro 277
IX La giustizia 326
X La guerra 350

Sguardo d ’insieme 387

Bibliografia essenziale 397


Indice analitico 407
Finito di stam pare nel mese di gennaio 2 0 1 8
a cura di R C S M ediaG roup S.p.A.
presso Ha G rafica Veneta - via M alcanton, 2 - Trebaseleghe (PD)

Printed in Italy
Un viaggio nel
cuore della Grecia
classica, alle radici
della nostra civiltà.

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