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White powder gold

Per chi non ne avesse mai sentito parlare, cominciamo col


dire cos’è la white powder gold. Si tratta, come appunto risulta
chiaro dalla semplice traduzione dall’inglese, di una bianca
polvere d’oro. Essa è stata associata ad un elemento
imprescindibile per la vita degli annunaki (abitanti del pianeta
Nibiru, da cui deriverebbe la Terra), al pane bianco (o di luce)
egizio, alla manna biblica, alla Sacra Arca dell’Alleanza, alla pietra
filosofale degli alchimisti, alla panacea di tutti i mali, all’oro
monoatomico, ad un superconduttore capace di ripristinare il
DNA umano, alla materia capace di rendere invisibili, onniscienti,
immortali, e capace di piegare lo spazio-tempo. Roba da niente
insomma. Ma andiamo per gradi.

Secondo un’opinione abbastanza diffusa tra gli alchimisti, la


polvere bianca d’oro avrebbe origini antichissime.

Si ritiene che le antiche popolazioni della


Mesopotamia, in particolare i sumeri,
fossero giunti a produrre ed utilizzare il
platino o metalli pregiati affini. Negli
antichi reperti sumeri (c.d. Old sumerian
records), stando a certe interpretazioni e
traduzioni della loro scrittura cuneiforme,
vi sarebbe menzione di una “highward fire
stone of white gold”, da cui si fa desumere
che i sumeri avessero nelle loro
disponibilità una particolare “pietra di
Immagine: Wikipedia fuoco, d’oro bianco” e avessero sviluppato
una avanzata conoscenza della metallurgia.

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Gudea, sovrano della città di Lagash, con ampi poteri di fatto
in tutta la Mesopotamia centro-meridionale dal 2144 al 2124
a.C., fece costruire il tempio del dio Ningirsu, nel quale ci sono
molte iscrizioni, alcune delle quali confermerebbero questa
ipotesi:

“Il pastore costruisce il tempio con metallo prezioso... Egli


costruisce l'Eninnu con pietre preziose...”

Altre fonti (Reverend James Baikie) riferiscono però, più


precisamente, di polvere d’oro procurata presso la montagna di
Khakku, e altre ancora (John M. Lundquist) di argento e oro in
polvere estratti dalla montagna di Kimash, o di una pietra rossa
(“fire stone”) che si trovava a Melluha .

Questa enigmatica polvere bianca sembra fosse in uso anche


presso i babilonesi, che la chiamavano “an-na”, cioè “pietra di
fuoco”. Quando questa pietra veniva lavorata in pani conici
(“shem”) assumeva una forma conica, e quindi il nome di “shem-
an-na”.

Anche gli antichi egizi erano a conoscenza di questa polvere


mistica. Loro la chiamavano MFKZT. Lo sappiamo grazie alla
spedizione dell’egittologo e archeologo inglese Sir William
Matthew Flinders Petrie (1853–1942).

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Questi, nel 1904, era in esplorazione
presso l’altipiano del Sinai, sul monte
Horeb, cioè il monte in cui – secondo la
Bibbia – Dio diede i dieci comandamenti a
Mosè. Oggi il monte è conosciuto col nome
di Serabit El Khadim. Fu qui che egli
ritrovò i resti di un antico tempio egizio
Sir Flinders Petrie dedicato alla dea Hator, risalente
by Philip Alexius de László probabilmente al 2.600 a.C. circa.

In alcune zone del tempio (correlate soprattutto alla


dodicesima dinastia dei faraoni), e di fronte alla Grotta-Santuario
di Hathor appunto, Flinders Petrie trovò una grande quantità
(diverse tonnellate) di polvere/cenere bianca purissima, priva di
residui di carbone o di brace, che non si riuscì a identificare con
certezza.

Un’ipotesi era che si trattasse della suddetta “shem-an-na.


Ciò trovava riscontro in alcune incisioni e geroglifici rinvenuti
nel tempio stesso: un personaggio alle spalle di Thutmosi IV e la
Dea Hator che espone degli oggetti conici descritti come “pane
bianco”; il tesoriere Sobekhotep che porge la Shem-an-na di
forma conica al faraone Amenhotep III; Thutmosi III e
Amenonhotep III che presentano il cono del pane bianco agli Dei.
Altre iscrizioni indicavano tale polvere raggruppata in coni
indicati come "pane bianco” o “pane di luce". Facevano
riferimento probabilmente proprio a tale sostanza, chiamandola
“mfkzt” Alcuni studiosi hanno suggerito, in modo forse
fantasioso, che questa parola dovrebbe pronunciarsi "mufkuzt",

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ed è possibile che il suono di questa parola ricordi il rumore
generato dal metallo nobile quando viene trasformato in polvere.

Accanto a un corpo fisico, gli Egizi credevano che gli uomini


possedessero un "corpo di luce" (chiamato ka), che si credeva
rimanesse in vita nell' aldilà, ma che doveva anch’esso essere
nutrito per svilupparsi e prosperare. Il cibo del ka era la luce, e la
sostanza che generava la luce era la “mfkzt”, o polvere bianca
ricavata dall'oro.

Queste scritte comunque suggerivano che sul monte Serabit,


probabilmente, si produceva questa polvere bianca.

Non è neppure un caso che questo ritrovamento si ebbe sul


monte Serabit, dove Dio diede i dieci comandamenti a Mosè.
Infatti questa polvere viene nominata proprio nell'Esodo, come
cibo del popolo d'Israele, dopo la fuga dall'Egitto: è la “manna”
(vocabolo molto simile a “shem-an-na”).

“ […] evaporato lo strato di rugiada, apparì sulla


superficie del deserto qualcosa di minuto, di
granuloso, fine come brina gelata in terra. A tal
vista i figli d'Israele si chiesero l'un l'altro: «Che
cos'è questo?» perché non sapevano che cosa fosse.
E Mosè disse loro: «Questo è il pane che il Signore vi
ha dato per cibo. Ecco ciò che ha prescritto in
proposito il Signore: ne raccolga ognuno secondo le
Popolo d'Israele proprie necessità, un omer a testa, altrettanto
raccoglie la manna
ciascuno secondo il numero delle persone coabitanti
nella tenda stessa così ne prenderete».
Immagine: Wikipedia.

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Così fecero i figli d'Israele e ne raccolsero chi più chi meno.
Misurarono poi il recipiente del contenuto di un'omer; ora colui
che ne aveva molto non ne ebbe in superfluo e colui che ne aveva
raccolto in quantità minima non ne ebbe in penuria; ciascuno
insomma aveva raccolto in proporzione delle proprie necessità”

Nel Nuovo Testamento è anche scritto:

“A colui che prevarrà, Io darò in cibo la manna segreta. E gli


darò una pietra bianca”.

La Bibbia ci dice anche che la manna è contenuta anche


nell’Arca dell’Alleanza, che Dio commissionò a Mosè.

L'Arca è descritta nell'Esodo (25, 10-


21; 37, 1-9) come una cassa
di legno di acacia rivestita d'oro , al cui
interno erano conservati un vaso d'oro
contenente, un omer [unità di misura]
di manna, la verga fiorita di Aronne e
le Tavole della Legge. (Ebrei 9:4;).
Replica of the Ark of the Covenant in the
Royal Arch Room of the George Washington
Masonic National Memorial. Photo by Ben
Immagine: Wikipedia Schumin on December 27, 2006.

Leggenda vuole che l'Arca fosse in grado di adornarsi di un


alone di luce, e che da essa potessero scaturire lampi e fulmini
(vedremo più avanti come questo aspetto sarà funzionale ad
alcune teorie “moderne”).

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Queste testimonianze sono tutte accomunate dal fatto che
tale polvere sembra essere commestibile, ed avere proprietà
misteriose, forse medicamentose. Forse si trattava di una sorta
di elisir di lunga vita. La manna era il cibo del Signore, la shem-
an-na e l’mfkzt erano pane bianco, ingerito da antichi popoli
mesopotamici e da faraoni.

Tutto ciò ha certamente dei punti di contatto con l’alchimia.

Il termine alchimia deriva dall'arabo, al (articolo) e


kimiyà (pietra filosofale). Quest’ultima parola discenderebbe dal
termine greco khymeia (fondere, colare insieme) a sua volta
derivato da khumatos (lingotto). Un'altra etimologia vuole che
questo termini derivi invece dall’egizio Al Kemi (l’arte egizia:
gli antichi egizi chiamavano la loro terra Kemi, e nel mondo
antico erano considerati potenti maghi). Il vocabolo potrebbe
infine derivare dal termine cinese kim-iya (succo per fare l'oro).

Le autentiche origini dell’alchimia sono ancora controverse,


ma è opinione comune che si possa distinguere un’alchimia
occidentale - derivata dall’antico Egitto, attraverso i greci, gli
antichi romani, il mondo islamico e l’Europa - e un’alchimia
orientale, connessa al taoismo cinese. La prima, secondo la
leggenda, risalirebbe al dio Thot, chiamato Ermes-Thoth o Ermes
il “tre volte grande”, meglio noto col nome greco di Ermes
Trismegistus. Egli avrebbe scritto i quarantadue libri della
conoscenza, che avrebbero coperto tutti i campi dello scibile, fra
cui anche l'alchimia. La Tavola di Smeraldo di Ermes
Trismegistus è generalmente considerata la base per la pratica e
la filosofia alchemica occidentale.

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La seconda alchimia (quella orientale) deriva probabilmente dal
Ts'an T'ung Ch'i ( 142 a.C.). Si tratta di un commentario al Libro
delle Mutazioni, in cui l'autore (Wei Po-Yang) afferma che i
contenuti del libro stesso, delle dottrine taoiste e dei
procedimenti alchemici, siano variazioni di un'unica materia con
nomi diversi.

Va accennato che altri studiosi fanno risalire a periodi e


circostanze diverse le origini dell’alchimia, sulla cui discussione
non possiamo tuttavia dilungarci in questa sede.

È comunque oggetto di disputa se questi due filoni


(occidentale e orientale) abbiano avuto una comune origine, e/o
si siano vicendevolmente influenzati.

Mentre l’alchimia occidentale era più incentrata sulla


trasmutazione dei metalli (pietra filosofale), quella orientale era
maggiormente connessa con la medicina (immortalità - elisir di
lunga vita). Questi due filoni, con i relativi interessi, possono
comunque essere considerati in un unicum, per cui la pietra
filosofale era spesso equiparata all'elisir di lunga vita, e
viceversa.

I grandi obiettivi dell’alchimia erano comunque tre:


conquistare l’onniscienza; trasmutare i metalli vili in oro; creare
la panacea universale.

Il fine ultimo di ogni alchimista era la creazione di una


sostanza (che poteva essere una polvere, una pietra, o un
liquido) che permetteva la realizzazione dei tre grandi obiettivi
alchemici. Questa sostanza è nota con il nome di “pietra
filosofale”.

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L’alchimia è, secondo una definizione di H. Sheppard: "l'arte
di liberare parti del Cosmo dall'esistenza temporale e di
raggiungere la perfezione che per i metalli è l'oro, per l'uomo la
longevità, poi l'immortalità e infine la redenzione".

Nel Medioevo l'alchimia sviluppò molteplici aspetti che nella


sua tradizione occidentale tuttora la caratterizzano. Essa si
strutturò in tre principali settori: l’alchimia metallurgica (basata
sulla perfezione dei metalli), l’alchimia farmacologica (basata sul
corpo umano e sull’elisir di lunga vita) e l’alchimia spirituale
(basata sulla incorruttibilità e sulla salvezza spirituale dell’essere
umano). Tutti comunque accomunati dall'idea di perfezione
materiale, raggiunta tramite il ritorno allo stato di materia prima.

La lettura dell'alchimia come arte della trasmutazione di


metalli in oro era comprensibilmente oggetto di interesse per le
corti e i sovrani, avidamente interessati all’aspetto
materiale. Anche la curia papale si interessò di alchimia, per le
medesime ragioni veniali ma anche nella misura in cui veicolava
l'idea di un prezioso elixir, oro potabile, o quintessenza, capace di
donare l'incorruttibilità.

Come ha scritto Serge Hutin:

“Il processo alchemico produce la perfezione della materia


attraverso una serie di operazioni che mirano alla creazione di un
medio capace di unire stabilmente il corpo (cioè la solidità propria
della materia) e l'anima (cioè il carattere di incorruttibilità
proprio della sostanza spirituale). Il medio, per essere tale, deve
unire in sé gli opposti: l'oro opera questa congiunzione a livello dei
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metalli, ed è dunque il prodotto ricercato da quanti considerano
l'alchimia una pratica a livello puramente metallurgico; l'elixir
come agente materiale della perfezione di tutte le cose congiunge
in sé il carattere immutabile della pietra con quello generativo
della vita; la quintessenza appare come la manifestazione del
principio unitivo vero e proprio, materia prima da cui tutta la
realtà ha origine, ma raffinata e purificata in modo tale da
manifestare il suo carattere di spirito; e l'oro potabile costituisce il
farmaco sovrano, che unisce l'incorruttibilità del metallo e
l'assimilabilità del nutrimento”.

Già Teofilo (monaco del XII secolo) aveva parlato dell’oro


spagnolo, ottenibile a partire dal rame, pur senza alcun accenno
alla commestibilità di quest’ultimo né a presunti elisir. Per la
creazione dell’oro spagnolo necessitavano ingredienti quali rame
rosso, sangue umano, aceto, e polvere di basilisco:

“[…] con la polvere macinata dei basilischi, unita a un terzo di


sangue essiccato e macinato di uomo dai capelli rossi, e temprata
con aceto molto forte in un recipiente pulito si può trasformare il
rame in oro. Prese sottili foglie di rame rosso purissimo, si
ricoprono del preparato e si mettono sul fuoco, quindi si tolgono
quando sono diventate bianche dal calore e dopo averle di nuovo
immerse nel composto si lavano e si ripete l'operazione finché il
composto non ha "mangiato" tutto il rame. Così si ottiene oro
adatto a qualsiasi opera”.

Le virtù medicinali dell'oro erano tramandate da una


tradizione antichissima, e sembravano trovare conferma in
alcuni scritti del XIII secolo, dove l’oro è di nuovo menzionato
come elemento commestibile e dalle proprietà guaritrici.
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Ne parlò già verso la metà del 1200 Avicenna, il
“principe dei medici”, il cui Canone costituì per
decenni un autorevole testo di riferimento per la
medicina.
Immagine:
Wikimedia Commons

L' idea che oltre ai quattro elementi che compongono la


materia (terra, acqua, aria, fuoco) esistesse una quinta sostanza
incorruttibile (quintessenza), era già nota nel Medioevo. La
quintessenza poteva esprimere in sé tutte le proprietà e le
qualità dei quattro elementi della materia, anche se
contraddittorie tra loro: ad un tempo bruciare ed essere liquida
(fuoco e acqua). E il prodotto della distillazione del vino, che
dalla metà del duecento aveva interessato gli ambienti medici
occidentali, era proprio acqua ardente.

Così, quando iniziarono a diffondersi i vini medicinali (vino


infuso in sostanze medicamentose) si iniziò a proporre anche
una nuova ricetta: il vino “aurificato”, nel quale cioè era stato
tenuto l’oro in infusione (sotto forma di barretta, lingotto, foglia,
limatura ecc).

Ne parlò certamente già Arnaldo da Villanova (ca.1240-


1311), medico presso la corte spagnola nonché presso il
pontefice Bonifacio VIII. Egli era interessato a rendere più
efficace la pratica della medicina (fu autore di opere mediche) e a
tale scopo non disdegnava di ricorrere ad un approccio
alchemico. Si occupò anche di distillazione.
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In una lettera sull'alchimia scritta al Re di
Napoli, ecco come egli si esprimeva:
Immagine Wikimedia

“Sappi, o Re, che i sapienti misero nelle loro opere molte cose e
molti modi di procedere, come ad esempio: il dissolvere, il
coagulare e molti vasi e pesi; ciò fecero, per accecare gli ignoranti
e per dichiarare solo agli intelligenti il loro Opus.
E nota, o Re, che i sapienti hanno rivelata l’Opera con poche
parole, sebbene ve ne abbiano aggiunte molte altre, affinché
fossero compresi se non dai sapienti. Ed i sapienti, in verità, dissero
che la pietra è una sola, ed è composta da quattro nature; queste
quattro nature sono: il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra.

E questa pietra, è simile alla pietra all’apparenza e al


tatto, ma non nella sua natura; ed è chiamata pietra, come una
cosa composta.

Questo composto, se è condotto per via retta, è ciò che si


cerca; in lui non vi è nulla di superfluo o di mancante, anzi: tutto
quello che è nella pietra è a lei necessario e non ha bisogno di
nient’altro. E detto composto, ovvero pietra, è di una sola natura,
ed una sola cosa; la qual cosa, nella decozione del fuco, assume
diversi colori prima di diventare il lapis bianco e perfetto.

E nota, o Re, che più l’anzidetta pietra sta nel fuoco,


tanto più aumenta la sua qualità: il che non avviene per tutte le
altre cose, le quali, nel fuoco bruciano e perdono l’umidità radicale.
11
La suddetta pietra, tutta sola nel fuoco, sempre migliora e accresce
la sua qualità; e il fuoco è il suo nutrimento. Questo, è uno dei segni
evidenti per riconoscere il lapis stesso, e ciò intendi bene”.

La ricerca farmacologica passava così attraverso il


miglioramento dell’abilità di preparazione dell’oro medicinale. E
proprio la distillazione rappresenta il passo successivo in questa
ricerca. Fu Giovanni da Rupescissa a scrivere, nel 1351-52, il
Liber de consideratione quintae essentiae, nel quale unificava
pratica alchemica e tecnica distillatoria del vino.

Immagine: www.abc.net.au/radionational/programs/artworks/john-of-rupescissa/3287210

Attraverso il surriscaldamento dell’oro (o la calcinazione


della sua polvere), la sua infusione nel vino, e successive
distillazioni, si otteneva la quintessenza, il principio occulto nei
corpi materiali, l’unitarietà che si cela dietro l’apparente
dualismo spirito-materia. Di fatto una panacea, una medicina
universale, un elisir di eterna giovinezza. Il c.d. “oro potabile”,
qualcosa di simile al farmaco taoista che avrebbe garantito
l’immortalità.

Si affermava sostanzialmente l’idea di una quintessenza


dell’oro.

12
Prima ancora era stato Ruggero Bacone (1214 circa –1294)
a parlare dell'oro alchemico come inesauribile fonte di ricchezza
per la cristianità, ma anche come medicinale capace di
prolungare la vita.

Il filosofo e missionario catalano Raimondo Lullo (1235 –


1316) si dice che abbia invece trasmutato oro e argento in rame
e ferro, praticando cioè una trasmutazione inversa, salvo poi
praticare quella “giusta”, più redditizia, per il re Edoardo III
d’Inghilterra. Si racconta che Edoardo avesse predisposto per
Lullo un laboratorio all’interno della torre di Londra. Grazie alle
sue trasmutazioni vennero così forgiate delle monete d’oro
soprannominate “raimondini”: i “Rose Nobles”.

Pare che Edoardo III si fosse impegnato a


non usare le monete d’oro contro i cristiani,
bensì soltanto per la preparazione di una
crociata contro i Turchi. Invece si servì di
quest’oro per invadere la Francia nel 1337.
Raimondo Lullo si sarebbe allora rifiutato di
compiere altre trasmutazioni, e per questo
Immagine Wikimedia venne rinchiuso prigioniero nella stessa torre,
dalla quale riuscì comunque ad evadere per
tornare a Maiorca.

Elias Ashmole, nel suo Theatrum Chemicum Britannicum,


scrisse che:

“Secondo una verità non scritta, dell’oro sarebbe stato fatto


per proiezione o moltiplicazione alchemica da Raimondo Lullo,
nella torre di Londra. Questi pezzi d’oro, secondo questa
tradizione, ne recano la prova scritta. Sul diritto vi si vede incisa
13
l’immagine di un re su una nave, per indicare che era il signore dei
mari, ed al rovescio si vede una croce fiorita con leoncelli su cui sta
scritto: Iesus autem transiens per medium eorum ibat. Ovvero:
così come Gesù passava invisibile e nel modo più segreto in mezzo
ai Farisei, così quest’oro è stato fatto per mezzo di un’arte segreta
ed invisibile in mezzo agli ignoranti”.

Michael Maier (1568 – 1622) medico e


alchimista che fu alla corte di Rodolfo II,
avrebbe confermato questa tesi nel suo Symbola
aureae mensae, nel quale c’è un passo dove è
scritto che Raimondo, nella Torre [di Londra],
ha fatto dell’oro puro, successivamente
chiamato “i nobles di Raimondo”, di cui Maier
Immagine Wikimedia
stesso avrebbe visto alcuni esemplari.

Spostiamoci ora al XV secolo, durante il quale visse un noto


alchimista francese dal nome di Nicolas Flamel.

Egli stesso disse che, nel XIV secolo, venne in possesso del
“Libro di Abramo l’Ebreo”, che lo avrebbe ispirato ad
intraprendere la sua ricerca sui segreti dell’alchimia. Grazie
all’aiuto di tal Maestro Chances, di Lione (morto poco dopo), egli
sarebbe presto giunto a comprendere i segreti di quel libro. La
legenda vuole che Flamel riuscì nella trasmutazione
del piombo in argento nel gennaio del 1382, e poco dopo in
quella del piombo in oro. Analoga trasmutazione sarebbe poi
riuscito a compierla con la sua anima. Non si conosce con
certezza la data né la circostanza della morte di Flamel, e si crede
infatti che egli avesse per primo raggiunto il massimo obiettivo
dell’alchimia: creare la pietra filosofale, che dona l’immortalità.
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Nicolas Flamel, immagine wikipedia.

Amans-Alexis Monteil (1769 - 1850), storico francese, scrisse


che Flamel era stato visto, vivo e vegeto insieme a sua moglie
Perenelle, circa quattrocento anni dopo la sua morte. È un fatto
che la sua tomba venne ritrovata vuota.

L’archeologo Paul Lucas, testimoniò nel libro Voyage dans la


Turquie (1719), che durante una spedizione a Bursa per conto
del re Luigi XIV aveva avuto notizie di Flamel da un filosofo
appartenente ad un gruppo di Sette Saggi. Uno dei sette era
Flamel, e possedeva la Pietra Filosofale. Il saggio gli rivelò che
Flamel e Perenelle erano vivi, e si trovavano in India.

In quello che si ritiene essere il testamento di Flamel, scritto


in linguaggio criptato per su nipote, egli spiega diverse
procedure alchemiche e vi si legge che :

“quando il più nobile metallo [oro] era essiccato e fissato, dava


come risultato una polvere fine [polvere d’oro], e questa polvere
era la Pietra Filosofale”.

Anche l’alchimista Eirenaeus Philalethes si era riferito alla


pietra filosofale sotto forma di polvere d’oro. Scriveva nel suo

15
Introitus apertus ad occlusum regis palatium (Amsterdam, 1667)
che:

“La nostra pietra non è altro che oro assimilato al più alto
grado di purezza e sottile fissazione […] Il nostro oro, non più
volgare, è lo scopo ultimo della Natura”.

Oro purissimo dunque, che però è polvere [sottile] e si


chiama pietra in quanto è fissa, stabile, capace di resistere
all’azione del fuoco.

Presso la corte dell'imperatore Rodolfo II,


Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1576
al 1612, il geniale John Dee (1527–1608) si
narra che compì una trasmutazione del piombo
in oro, davanti a testimoni.

John Dee, Imm Wikimedia

Il fisico tedesco Johann Frederick Schweitzer (1625-1709)


detto Helvetius (forse già medico del principe D’Orange),
racconta nel suo libro The Golden Calf, che nel 1666 ebbe un
incontro fatidico con uno sconosciuto alchimista che gli avrebbe
lasciato in dono una polvere metallica custodita in una scatola
d’avorio, con la quale – gli disse - avrebbe potuto tramutare in
oro un’oncia e mezzo di piombo.

16
Johann Helvetius tentò l’esperimento
davanti alla moglie e ai figli, seguendo le
istruzioni dello sconosciuto alchimista. Riuscì a
produrre oro autentico. L’ispettore della zecca
olandese Porelius fece valutare l’oro dal
gioielliere Brechtel, il quale dichiarò che l’oro in
questione aveva una caratura perfino maggiore
Helvetius, Imm. Wikimedia dell’oro naturale.

Recentemente poi, la stessa sorte di Flamel sembra essere


toccata a Fulcanelli, pseudonimo di un autore di libri
di alchimia del XX secolo, la cui identità non è nota. Menzionato
anche ne L’alchimista di Paulo Coelho, Frank Zappa gli ha
dedicato una canzone intitolata But who was Fulcanelli?.

Le sue opere furono pubblicate in Francia dal suo fedele


discepolo Eugene Canseliet, che ne preserverà l’anonimato, tanto
da venire sospettato di essere lui il vero Fulcanelli. Anche Julien
Champagne , il suo illustratore morto nel 1932, non rivelò mai
l’identità di Fulcanelli, così anch’egli fu sospettato insieme a
Canseliet. Da dichiarazioni di quest’ultimo sappiamo che
Fulcanelli aveva “completato l’Opera” (probabilmente nel 1926),
aveva cioè ottenuto la pietra filosofale, e si era reso irreperibile,
forse invisibile. Canseliet lo avrebbe rincontrato nel 1952 a
Siviglia, in un castello. Secondo le sue parole, Fulcanelli aveva
113 anni ma ne dimostrava quanti lui (cioè 53).

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Secondo un’altra leggenda Fulcanelli sarebbe l’attuale nome
assunto da Flamel stesso, evidentemente ancora vivo.

Il vero merito di Fulcanelli è comunque quello di essere stato


un autentico alchimista dei tempi moderni, anzi l’ultimo
alchimista. Come scrisse Paolo Lucarelli, egli fu:

"alchimista operativo nel senso più antico del termine


ricostruiva, partendo dal simbolismo ermetico, i punti principali
della Grande Opera illustrandone i principi teorici e la prassi
sperimentale con un dettaglio e una precisione mai visti prima"

E Fulcanelli nei suo scritti accenna all’oro potabile come


anima del mondo, spirito universale, sperma della natura e
principio di fertilità, moltiplicazione e prosperità di tutto il
mondo.

Un suo terzo libro, mai dato alle stampe, il Finis Gloriae


Mundi, sarebbe un’opera conclusiva che rivelerebbe alcune
inquietanti scoperte che legano il mondo degli antichi alchimisti
a quello dei fisici nucleari.

E con la fisica nucleare moderna – come vedremo più avanti


– la nostra polvere d’oro sembra avere un qualche legame.

La questione dell’oro in polvere torna prepotentemente alla


ribalta nel 1995 quando, al Forum on New Science a Fort Collins
(Colorado), si parla di Orbitally Rearranged Monoatomic
Elements (ORMEs), ovvero di oro monoatomico, e delle sue
immense potenzialità. Qualche mese dopo (già 1996) “Nexus
Magazine” pubblicava un articolo in cui si raccontava come David
18
Radius Hudson aveva fortunosamente scoperto questa polvere
nel suo appezzamento di terra. Si trattava di un super-
conduttore capace di interagire con il DNA umano, migliorandolo.

Vi si legge: “questa sostanza elusiva [sfuggente, inafferrabile]


non solo ha proprietà di super-conduttore che trascendono il
tempo e lo spazio, ma è in grado di elevare la coscienza umana e
ripristinare un perfetto stato di salute”.

Nel 2002 venne ritrovata una sostanza polverosa bianca


all’interno di un cerchio nel grano, a Sompting, che fece molto
scalpore. Alcuni ritennero che si potesse trattare della polvere
d’oro alchemica. Si determinò poi che quella polvere conteneva
biossido di silicio, e quell’episodio venne collegato allora con il
cerchio nel grano di Chilbolton (2001), che si riteneva fosse una
risposta aliena ad un messaggio invitato nello spazio dal SETI.
Conteneva infatti, stilizzate nel grano, le stesse informazioni di
quel messaggio, con l’aggiunta dell’indicazione del silicio nel DNA
umano.

Nel 2004 accadono due eventi che portano nuovamente alla


ribalta questa tematica.

1) Laurence Gardner (1943 - 2010), saggista e docente


di revisionismo storico britannico, da alle stampe uno dei
suoi tanti libri controversi: "Le misteriose origini dei Re del
Graal”. In questo libro si parla, tra le altre cose, della nostra
white powder gold, ripercorrendone le presunte origini e
magnificandone le proprietà, accennando anche a possibili
futuri utilizzi in campo medico e ingegneristico.

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2) Il 9 maggio a Torino si tiene un molto pubblicizzato seminario
di Alchimia e Spagyria, in gran parte incentrato proprio
sull’oro monoatomico e sulle sue incredibili proprietà.

In breve, tra il 1996 e il 2004 si diffonde l’idea che questa


misteriosa polvere magica abbia le seguenti proprietà:
antigravitazionalità, cura del cancro, superconduttività, capacità
di piegatura dello spazio-tempo, capacità di trasformazione dei
fenomeni biologici, fisiologici e psicologici verso “livelli
vibrazionali” più alti.

Gardner sosterrà poi che l’Arca di Mosè (nella quale come


abbiamo detto è contenuto 1 omer di manna) si trova ancora nel
luogo in cui venne nascosta originariamente nel 1307, cioè
sospesa sopra il labirinto di Chartres. Ma grazie a questa polvere
d’oro è invisibile, perché proiettata in una dimensione parallela.

Infine è opportuno un accenno alla teoria di


Zecharia Sitchin (1922 – 2010), scrittore
contemporaneo atzero con passaporto
statunitense, che ci riporta all’inizio del nostro
articolo, cioè ai Sumeri. A lui fa capo infatti la c.d.
“teoria dell’antico astronauta”, secondo la quale
la creazione dell'antica cultura sumera è dovuta
alla razza aliena dei Nephilim (in ebraico) o
Annunaki (in sumero), proveniente dal pianeta
Sitchin, Imm. Wikimedia
Nibiru, un pianeta del sistema solare non più
esistente, ma già presente nella mitologia
babilonese.

Secondo Sitchin la Terra si sarebbe originata da un


catastrofico impatto tra Nibiru ed un altro pianeta che si trovava
tra Marte e Giove: Tiamat. Nibiru sarebbe stata popolata da una
20
razza tecnologicamente avanzata e simile a quella umana, gli
Anunnaki (che compaiono nella Bibbia col nome
di Nephilim ed Elohim). Secondo Sitchin gli Annunaki sarebbero
arrivati sulla terra circa 450mila anni fa, alla ricerca di minerali e
in particolare d'oro, il quale era necessario per riparare la loro
atmosfera rarefatta.
Sitchin ha congetturato infatti che su Niburu fossero presenti
finissime polveri d'oro, capaci di stabilizzarne l’atmosfera.
Successive speculazioni hanno voluto vedere nel fenomeno delle
scie chimiche un piano di modificazione della biosfera terrestre,
allo scopo di renderla adatta ad esseri con un metabolismo ed un
genotipo diversi da quello umano: gli Annunaki appunto.

Oggi la white powder gold si vende in pastiglie, polvere e


fialette, anche su vari siti internet.

Se state però pensando di acquistarla, vi consigliamo prima


di ultimare la lettura di questo articolo.

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21
La fantastica e affascinante storia fin qui esposta potrebbe
essere raccontata da un differente punto di vista, se solo ci
proponessimo di mettere sotto la lente di ingrandimento ciò che
sembra non quadrare.

Ufficialmente la scoperta del platino è datata ai primi anni


del 1800. L’ipotesi secondo cui gli antichi sumeri fossero già in
grado di produrlo, o di farne uso, si fonda su basi precarie e
sembra azzardata. Ciò che sappiamo con certezza è che i sumeri
per costruire e adornarne utilizzavano vari materiali, tra cui –
nonostante la mancanza di pietre della regione mesopotamica -
alcune pietre come la diorite (di grande uso anche presso gli
egizi). Assunto che il concetto di “prezioso” è relativo al tempo e
al contesto nel quale viene utilizzato, non c’è ragione per ritenere
che le “pietre preziose” dei popoli mesopotamici debbano
riferirsi proprio al platino.

La “Sham-an-na” dei babilonesi e degli egizi sembra invece


essere più un contenitore (una pietra focale di forma conica) che
non un contenuto, a meno che non si voglia applicare un
processo interpretativo secondo il quale la riduzione in polvere
di questa pietra focale costituisca la shem-an-na stessa, e che
questa sia proprio la polvere bianca qui presa in esame.

E cos’era veramente la polvere ritrovata nel 1904 dalla


spedizione di Petrie?

Molti ritengono si trattasse di turchese polverizzato (la zona


era infatti ricca di miniere per l’estrazione del turchese, già
utilizzate con certezza durante l’epoca faraonica). Ma il turchese
22
è verde. Quindi altri ritengono si trattasse di residui di fusione
del rame, che però producono un materiale scuro. Improbabile
sembrò anche l’ipotesi che potesse trattarsi di scorie
dell'estrazione del manganese delle adiacenti miniere di Umm
Bughma, o di residui di combustioni di ossa (per assenza di
residui biologici all'interno di queste ceneri bianche) come pure
di vegetali o di alcali. Poteva forse trattarsi di ceneri derivate
dall’uso di fuochi a scopo religioso, ma le fumigazioni erano una
pratica più diffusa tra i semiti che non tra gli egizi.

Allora cosa?

Si tratta del contenuto della pietra focale conica? Si tratta di


un altro nome per indicare la stessa cosa (la “Shem-an-na”)? O di
altro ancora? Difficile dirlo. Forse per nostra ignoranza, ma non
siamo a conoscenza di analisi chimiche e scientifiche svolte su
questa polvere, che certamente potrebbero diramare molti
dubbi.

Tuttavia è bene sapere che durante l’ottava dinastia la regina


Hat-Shep-Sut restaurò il tempio di Hathor e fece costruire nelle
immediate vicinanze un santuario per il Dio “Sopdu”. Questa
divinità, tra le principali adorate nella zona di Serabit, è
conosciuta anche con il nome di Horus di Shesmet, il cui nome
compare infatti negli antichissimi testi delle piramidi . Negli
stessi testi compare anche il nome della "Dea Shesmet.t",
variante rituale della Dea Hathor, e compagna di Horus. Il fatto
interessante è però che lo "Shesmet" è anche un minerale (la
formula 1784-1785 di Faulkner così recita: "Il Faraone è legato a
questo suo seggio fatto di Shesmet”) che si estraeva, molto
probabilmente, proprio nella zona Serabit e che dava il nome ad
23
una sorta di cintura (“shesmet-girdle”) che il Dio "Sopdu"
indossava abitualmente. Egli era infatti ritenuto
un guerriero asiatico, raffigurato con una cintura e una lunga
ascia, e si ritiene fosse considerato anche il protettore
delle miniere della zona del Sinai.

Immagine: mysteriousworld.com

Questo minerale riporta quindi abbastanza esplicitamente


alla strana polvere bianca ritrovata nella spedizione di Petrie.

Cosa dire della “manna” citata nell’Esodo?

Che è citata come pane del Signore. Non come polvere d’oro.
Del resto nella Torah, la manna è paragonata ad una pietra di
cristallo, e in altri casi al Coriandrum sativum, pianta dai fiori
bianchi con frutti aromatici che in antichità trovò impiego come
pianta medicinale, ed è stata anche raffigurata in alcune tombe
egizie come offerta rituale.

Se poi la Bibbia dice che la manna era contenuta nell’Arca


della Sacra Alleanza, è pur vero che al momento
dell'inaugurazione del Tempio di Salomone essa conteneva
24
soltanto le Tavole della Legge (Deuteronomio 10, 1-5; 1 Re 8, 9; 2
Cronache 5, 2-10).

Anche qui l’interpretazione “mistico-alchemica” che se ne


vuole dare sembra unidirezionale e forzata, come pure precario
appare il nesso di diretta derivazione con i precedenti sumeri,
mesopotamici o egizi.

Veniamo a Teofilo, di cui desta sorpresa l’inaspettata


concessione al mondo della superstizione, del folclore e della
magia, allorché egli descrive la sua ricetta su come creare l'oro
spagnolo. Ma si trattava di una ricetta per ottenere oro “adatto a
qualsiasi opera”, non essendoci alcun riferimento alla
commestibilità, né ad elisir di lunga vita, o a particolari proprietà
mistiche.

Come è scritto su Wikipedia:

“Non è possibile dare una spiegazione razionale secondo la


nostra mentalità a questa ricetta, ma in fondo non è neanche
necessario volerla ridurre ai nostri schemi mentali, piuttosto è più
interessante valutare quali conoscenze e quale humus culturale
avevano portato a rendere plausibile una credenza del genere ai
tempi di Teofilo.
[…]

In definitiva quindi Teofilo in questa ricetta avrebbe incorporato


inconsapevolmente un brano alchemico alla deriva nel sapere
europeo medievale, e lo avrebbe collocato in un contesto
completamente estraneo all'alchimia, arricchito però da rimandi a

25
una fitta rete di suggestioni del sapere tradizionale di stampo
orale”.

Inoltre Teofilo descrive un processo di trasformazione, non


di trasmutazione (che è invece un processo tipicamente
alchemico). La differenza è sostanziale perché quest’ultima
implica un totale e perfetto mutamento della sostanza, attraverso
l’operato di un alchimista che, in primis, riporti il metallo vile allo
stato liquido per poi riequilibrarlo con esalazioni di zolfo e
mercurio, per poi ri-solidificarlo in oro (l’alchimista"solve et
coagula"). Evidente che questo non sia il caso di Teofilo.

Non ci sembra partecipe di questa storia neppure Avicenna.


Personaggio controverso e indubbiamente geniale, filosofo,
medico, matematico di grande valore. Autore del “Canone della
medicina”, un testo che sarà di riferimento per tutta la medicina
fino al 1700. Ciò che lo rese invece una autorità tra gli alchimisti
fu il “De anima in arte alchemiae”, che tuttavia è da ritenersi
quasi certamente apocrifo. Egli era anche sperimentatore, ma
sembra certo che fosse un nemico dell’alchimia, e che la
osteggiasse apertamente. Nel suo “De congelatione et
conglutinatione lapidum” era contenuta una critica radicale alla
possibilità della trasmutazione. Se anche avesse mostrato
interesse per l’alchimia, o se avesse parlato di un elisir di lunga
vita, non per questo egli ci sembra parte in causa della storia che
qui stiamo raccontando.

Diverso forse il caso di Arnaldo da Villanova, sicuramente


molto addentrato nel mondo alchemico, e i cui testi sembrano
avere un richiamo più esplicito alla polvere bianca di cui stiamo
qui discorrendo. Tuttavia il “Lapis” di cui egli parla nella lettera
26
al Re di Napoli, è verosimilmente da intendersi più su un piano
allegorico - metaforico che non concreto: la pietra è la nostra
natura (di zolfo,mercurio e sale) e l’iniziatico è come una pietra
grezza e nera (alla stregua del piombo di Saturno). Questa pietra
va estratta dalla miniera (l’uomo sociale, collettivo) e separato
dal mercurio (isolato dalle influenze esterne, finché soffrendo
non liberi il suo spirito). Al termine di questo processo si ottiene
il lapis (la pietra, la natura umana) bianco, puro, purificato…

Ma quand’anche non volessimo convenire su una


interpretazione allegorica, sarà bene tenere nella dovuta
considerazione il fatto che l’alchimia - oggi considerata più come
una sorta di proto-chimica e di proto-medicina – nel Medioevo
era ritenuta una vera e propria scienza, ed era largamente
praticata. In essa la componente scientifica era fortemente
mescolata a quella “magica”.

Immagine: www.summagallicana.it/lessico/a/alchimia.htm

27
Citando Enrico Galavotti:

“Nel medioevo fu molto sviluppata l'alchimia, perché si


credeva, a torto, di poter ottenere l'oro fondendo lo zolfo col
mercurio”

Così, non è difficile trovare alchimisti che discorrevano (non


necessariamente con riscontri pratici o efficaci) su tematiche
come la conversione del metallo in oro, o la quintessenza, o la
panacea, piuttosto che l’onniscienza. Diverso (e ben più
complesso ed aleatorio) è unificare tutte queste voci in un’unica
nomenclatura (“white powder gold”), da intendersi come
elemento presente in modo inequivocabile e costante dai sumeri
ai nostri giorni, e come sostanza dalle proprietà
onnicomprensive.

Chiarito questo equivoco, occupiamoci brevemente anche di


Raimondo Lullo.

A Lullo furono attribuite dai suoi seguaci (ad esempio


Tommaso de Myésier, nel testo Electorium Remundi) numerose
opere a carattere alchemico, ma i più illustri esperti sono
d’accordo nel ritenerle quasi certamente tutte apocrife. Ad
esempio il libro De Secretis Naturae, pubblicato nel 1541 a nome
di “R. Lullo”, era probabilmente la copia del De Secretis Naturae
fatto bruciare da papa Gregorio XI nel 1372. L’autore era tal
Raimundo de Terraga, un ebreo convertito dedito alle scienze
occulte, che visse “por los anos 1370, esto es en siglo en que muriò
Ramon Lull”. Chi volesse approfondire questi aspetti troverà
abbondante materiale negli scritti dello storico spagnolo J.R. de
Luanco, e nel “Biblioteca Chimica”, di J. Ferguson.
Su Lullo non c’è comunque alcun riferimento esplicito a nulla
che possa somigliare alla polvere d’oro bianca, mentre numerosi
28
sono i nessi con il tema della semplice trasmutazione di metallo
vile in oro. Ai nostri fini quindi, ci interessa marginalmente.
Le monete d’oro di cui si narra egli fosse l’artefice (le “Rose
Noble”) furono in commercio per molto poco tempo, poiché
venivano esportate in Europa (dove valevano di più) a scopo di
lucro. Questo poco tempo corrisponde a pochissimi anni durante
il regno di Edoardo IV, tra il 1464 e il 1470. All’epoca Lullo era
morto da tempo.
Si è ritenuto allora che le monete furono sì coniate sotto
Edoardo IV, ma con l’oro che Lullo aveva trasmutato durante il
regno di Edoardo III. Si ritiene, come detto, che Lullo smise poi di
trasmutare oro per Edoardo III quando questi ne fece uso per
attaccare la Francia. Allora Lullo fuggì dall’Inghilterra – dove il
Re lo aveva fatto imprigionare perché egli si rifiutava di
trasmutare altro oro. La dimostrazione di ciò sarebbe la frase
incisa sul retro delle “Rose Noble”:
Iesus autem transiens per medium eorum ibat.

Immagine: wikipedia

Cioè: ma Gesù passando in mezzo a loro se ne andò.


Questa frase secondo alcuni doveva riferirsi a Lullo, che come
Gesù in mezzo ai farisei, lasciò l’Inghilterra in mezzo agli inglesi,
senza essere notato. O secondo altri doveva significare che quella
moneta era stata creata tramite un’arte invisibile in mezzo agli
ignoranti come invisibile fu Gesù in mezzo ai farisei.

29
Interpretazioni legittime ma opinabili, che non costituiscono
affatto prova. Leggende più che altro. Come quella secondo la
quale l’oro di queste monete dovesse essere necessariamente
trasmutato.

Giovanni da Rupescissa fu invece, tra le altre cose, autentico


alchimista, e come tale interessato a trasmutare i metalli in oro
(tema affrontato nel suo Liber Lucis) e a creare la panacea
universale (tema affrontato nel suo De quinta essentia). Non
sembra tuttavia che questi due interessi (comuni del resto a tutti
gli alchimisti) trovino una sintesi in nulla che somigli ad una
commestibile polvere d’oro. Nel primo caso, la trasformazione
dei metalli in oro, rappresenta per Rupescissa una risorsa
materiale per soccorrere i poveri. Nel secondo caso, alla
quintessenza “che possa conservare dalla putrefazione il corpo
umano, soggetto a corruzione”, si giungerebbe attraverso la
teoria umorale (di Ippocrate di Coo), medicamenti a base di
alcool, e ripetute distillazioni di sostanze organiche.

Nulla di strano se – citando Paravicini Bagliani – l’oro


potabile era uno strumento alchimistico “destinato a radicarsi
con forza nella coscienza culturale europea fino a diventare
l' elixir per eccellenza, il principale veicolo sul quale si
concentrarono per secoli e fino al XVIII sec. le aspirazioni
occidentali ad un'estensione della propria vita e ad un
ringiovanimento del corpo”.

In termini sintetici e brutali: la presenza dell’oro tra i


materiali con cui ottenere la quintessenza, faceva di Rupescissa
30
un alchimista, in un’epoca in cui si andava affermando tra gli
alchimisti l’idea di una quintessenza dell’oro. Sic et simpliciter.

Semmai proprio queste presunte (e mai realizzate) proprietà


dell’oro, e la convinzione che questo si potesse ottenere in via
alchemica, spiegano perché i regni barbarici europei del basso
medioevo furono – a differenza di altre civiltà incentrate sulle
attività mercantili – pessimi ricercatori ed estrattori d’oro (ad
eccezione di quello prelevato nei saccheggi o nelle crociate).

Nicolas Flamel invece, trascorse verosimilmente l’ultimo


periodo della sua vita scrivendo libri di alchimia, e
predisponendo la sua inumazione, che avvenne – per suo stesso
volere - nella navata di Saint Jacques la Boucherie. La chiesa fu
abbattuta durante la Rivoluzione, e adibita a deposito di armi e
munizioni. Della originaria chiesa rimase ben poco, e così pure
della tomba di Flamel, che del resto era stata probabilmente già
depredata in precedenza dalle guardie francesi inviate da Luigi
XIII e da Richeliueu. La “scomparsa” di Flamel è così divenuta
leggenda, e come tale non ci sono testimonianze “storiche”
(leggasi attendibili) né elementi concreti – evidentemente! – a
sostengo dell’ipotesi di una sua immortalità. Tra l’altro il libro da
cui Flamel disse di aver estrapolato i saperi per creare la pietra
filosofale, sarebbe – a suo stesso dire – imputabile ad “Abramo
l’ebreo”. La ricostruzione più verosimile che possa dirci chi fosse
quest’uomo (che sembra abbia influenzato in qualche modo
anche Aleister Crowley) ne data la nascita al 1362. Alquanto
curioso se, come vuole la leggenda, Flamel aveva già per le mani
il libro nel 1357. Di questo libro infine, non c’è alcuna traccia, se
31
non alcune copie verosimilmente non autentiche (l’unico
presunto autentico è il manoscritto Figures Hieroglyphiques
d’Abrahm Juif, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, ma
differisce in molte parti dal testo raccontato da Flamel). Non è da
escludere che l'intera vicenda del libro, altro non sia che una
mera metafora del percorso iniziatico di Flamel.

Anche il suo testamento, stampato a Londra nel 1806 da J. e


E. Hodson, è probabilmente un'invenzione successiva, scritta sul
finire del 1700 in Francia in seguito ad un risorgere
dell'interesse verso Flamel. Dell’autentico testamento,
menzionato da Borel tra i testi alchemici, non v‘è traccia.

Nulla sappiamo invece su Eirenaeus Philalethes, se non che


fu un alchimista del XVII secolo sotto falso nome (alcuni
avanzano l’ipotesi che potesse trattarsi dell’americano George
Starkey). La sua opera pare abbia influenzato successivi scritti di
Newton, Leibniz, e Locke, e si narra che anch’egli riuscì a
compiere l’opera, a realizzare la pietra filosofale.

Cherry Gilchrist, recensendo nel 1996 su “Gnosis Magazine”


gli “Alchemical Works” di Philaletes, scrisse che:

“Anonimato e paranoia erano caratteristiche tradizionali della


visione del mondo alchemico […] Questi scritti furono prodotti
in un tempo in cui un fermento nobile ribolliva in un mondo che
iniziava ad aprirsi alla scienza. Fu un periodo strano, paradossale,
quello in cui la pratica dell'alchimia ispirò la scienza ... Le opere
di Filalete sono state utilizzate da Newton nei suoi esperimenti ...

32
Filalete dovrebbe essere letto come un serio contributo
alla alchimia occidentale”.

Secondo alcuni alchimisti egli avrebbe seguito le orme di


Flamel, ed i suoi stessi metodi. Altri ritengono invece che
Philaletes fosse un seguace di Artephius (alchimista andaluso
vissuto nel XII secolo, a sua volta influenzato da un alchimista
chiamato Adfar), particolarmente interessato all’ossido di
mercurio e all’utilizzo del bagnomaria sullo zolfo.

Per il resto, come crediamo di aver chiarito in precedenza, di


disquisizioni su preparati contenenti zolfo e mercurio, come
pure di allusioni all’oro, in un libro di un alchimista, sarebbe
strano non trovarne.

Che dire riguardo John Dee? Personaggio certamente


intrigante e geniale, è stato regolarmente e ripetutamente
catapultato dalla letteratura all’interno di qualsiasi mistero.
Inevitabile per un personaggio come lui, geografo, matematico
ma anche alchimista presso la corte della regina Elisabetta I, con
importanti entrature in mezza Europa, dedito all'occultismo,
alla divinazione e alla filosofia ermetica, e in combutta con
l’enigmatico mascalzone Edward Kelley. Pertanto Dee sarebbe
l’autore del misterioso manoscritto Voynich, forse anche del
Necronomicon, e avrebbe trasmutato piombo in oro presso la
corte di Rodolfo II. Quale luogo migliore della corte di Rodolfo II,
anch’essa sempre al centro di innumerevoli racconti mistici,
occulti, esoterici (dei “cortigiani” in questo caso faceva parte
anche il già menzionato Michael Maier, che – ricorderete - si
espresse in favore della attribuzione dei “Rose Noble” all’opera
di trasmutazione di Raimondo Lullo). Resta da chiarire – se non
33
altro - come mai Rodolfo II, dopo questo incontro col genio
londinese, lo bandì dalle sue terre, manco disdegnasse l’oro.

E Johann Frederick Schweitzer, in arte Helvetius? La


leggenda secondo cui egli trasmutò piombo in oro seguendo le
indicazioni di un anonimo viandante presenta anche sul piano
narrativo degli elementi sospetti e delle lacune che la fanno
apparire poco credibile. Inoltre egli è la fonte di se stesso.
Porelius e Brechtel probabilmente valutarono un oro
presentatogli da Helvetius, ma è da chiarire come quest’ultimo lo
ottenne. Sul piano storico nulla è possibile dire con certezza: lo
storico dell’alchimia Hermann Kopp, studiando questo caso,
sospese il giudizio, non pronunciandosi né per la sua veridicità
ne per la sua mendacità.

Come abbiamo visto, la polvere d’oro richiamò fortemente


l’attenzione pubblica a cavallo dei due secoli, a partire dal 1995-
1996, grazie alle dichiarazioni di George Radius Hudson.

Chi è costui?

Una sua foto è visibile all’indirizzo: https://monatomic-


gold.com/wp-content/uploads/2015/05/Hudson.jpg

Il “Phenix NewTimes” definiva David Radius Hudson: “un


enigmatico contadino, un guru New-Age, che sostiene di aver
trovato nella sua terra una cura miracolosa per la riparazione del
DNA, e ha intrapreso una campagna per la riproduzione in serie”.
Un contadino che, ironia della sorte, si ammalò proprio mentre
stava commercializzando questa panacea. Del resto – dichiarò la
34
Signora Hudson – suo marito la vendeva soltanto, ma non
assumeva questa sostanza per sé (cosa per altro smentita da
innumerevoli fonti e dichiarazioni dello stesso Sig. Hudson).
Soltanto lui era in grado di trovarla e di riprodurla perché
questi preziosi elementi che formano la polvere esisterebbero in
una forma che non può essere rilevata dalla maggior parte
dei metodi analitici. Hudson chiama questa forma
"monoatomica", ed egli ha definito la sua scoperta "elementi
monoatomici orbitalmente riarrangiati”, facendone il nome per
una società di capitale con responsabilità limitata (ORMEs).
Hudson, leggendo libri di alchimia, era venuto a
conoscenza di questa polvere d’oro, e si era convinto che la sua
polvere fosse proprio la stessa, l’elisir di lunga vita raccontato
nei testi alchemici. Aveva anche sottoposto questa polvere al
chimico John Sickafoose, il quale tuttavia non fu in grado di
identificarla con sicurezza. Ciò nonostante Hudson riuscì a
convincere un medico, il dottor David Payne, che questa polvere
avesse proprietà miracolose anche contro l’AIDS, e così questo
misterioso ritrovato finì anche per essere sperimentato come
medicina. Almeno finché il dottor Payne – a seguito della morte
di una paziente – fu temporaneamente sospeso e indagato. Le
autorità stabilirono che la morte fu causata da sciami di batteri
nella sostanza che il medico gli aveva suggerito di assumere.
Hudson perse una causa civile intentata dal marito e dalla madre
della vittima. Da allora smise di fornire questa polvere ai malati,
e invece iniziò ad offrire una iscrizione (per cinquecento dollari)
alla “Fondazione Scienza dello Spirito”, che lavorava in parallelo
con la ORMEs.
Oggi – come detto - questa polvere è ancora venduta in alcuni
siti web, nei quali dopo averne magnificate le incredibili
proprietà, nel disclaimer si declina ogni responsabilità, e si
chiarisce – per fortuna – che questo prodotto non ha nulla a che
fare con diagnosi, cure, prevenzione, trattamenti medici. Infine si

35
consiglia il parere del medico prima di assumerlo anche solo
come coadiuvante dietetico.
In una società meno moderna, come può essere quella
medievale, in cui non esiste l’Organizzazione Mondiale della
Sanità, né associazioni di consumatori, né NAS, né Guardia di
Finanza, difficile dire l’impatto che avrebbero avuto le
dichiarazioni di Hudson.

Ma c’è chi vi crede anche ai nostri giorni. Allora un ulteriore


chiarimento sull’oro monoatomico proviene da Silvano Fuso,
laureato in chimica (indirizzo chimico-fisico), Dottore di Ricerca
in Scienze Chimiche, ricercatore nel campo della spettroscopia
molecolare presso l'Università di Genova, coautore di diverse
pubblicazioni nel settore su riviste internazionali:

“Dal punto di vista scientifico si tratta di puri vaneggiamenti


privi di alcun senso. Quando poi si afferma che tale sostanza
potrebbe essere utilizzata nella cura del cancro è doveroso
cominciare a preoccuparsi. Già la denominazione "oro
monoatomico" desta non poche perplessità . L'aggettivo
monoatomico infatti si riferisce generalmente a un elemento che
abbia molecole costituite da un solo atomo. Ora questo è possibile
solamente se tra atomo e atomo non esiste alcune legame chimico
e quindi questa situazione si può verificare solamente in un gas (gli
unici elementi monoatomici sono infatti i cosiddetti gas nobili). L'
"oro monoatomico" che viene commercializzato è sotto forma di
polvere, si tratta quindi un solido e pertanto non può essere
monoatomico in questo senso. Se invece per monoatomico si
intende costituito da un solo tipo di atomi, questo vale per
qualsiasi elemento allo stato puro e non si capisce quindi in che
cosa consista l'eccezionalità del prodotto. Laurence Gardner e
36
tutti coloro che decantano le proprietà dell'oro monoatomico si
rifanno alla tradizione alchemica utilizzando concetti e principi
che sono da tempo stati confutati dalla chimica moderna. In più
utilizzano in modo del tutto improprio termini e concetti scientifici
moderni. Anche l'idea secondo la quale l'oro monoatomico
entrerebbe in risonanza con il DNA non ha alcun senso dal punto
di vista scientifico”.

Già, Laurence Gardner.

All’interno di questa storia compare non prima del 2002, ma


assume gradualmente un ruolo predominante, tanto che l’intera
faccenda che vi stiamo raccontando si sviluppa in gran parte a
ritroso, a partire dalle sue dichiarazioni.

Nel 2002 fu lui infatti a suggerire al ricercatore di cerchi nel


grano Andy Thomas che la polvere ritrovata nel crop circle di
Sompting del 2001 potesse essere la famigerata white powder
gold, in uso presso gli alchimisti dai tempi dei tempi. Disse che,
se effettivamente si trattava di questa polvere, avrebbe
contenuto degli elementi di Platino, Palladio, Iridio, Rodio,
Rutenio o Osmio (come sostenuto da David Radius sul già
menzionato articolo in “Nexus Magazine”, 1996). In questa
polvere c’era invece presenza di Silicio, e da ciò prese corpo una
nuova complessa e artificiosa speculazione che voleva legare
questa polvere ad ET, ed al crop circle di Chilbolton (conosciuto
come “Arecibo Reply”) sempre del 2001.

Dissertando sulla “teoria dell'intelligenza di rete” di


Grazyna Fosar e Franz Bludorf, sulla iper-comunicazione a livello
di DNA, e sulla teoria del fisico Matti Pitkänen, relativa alla
capacità di memoria dell’acido desossiribonucleico, si tentava di
37
sostenere che la comunicazione tra Arecibo e gli alieni sarebbe
potuta avvenire con tempistiche e modalità del tutto diverse ed
inaspettate rispetto ai canoni della nostra scienza.

Una analisi più ponderata (di laboratorio) su questa


polvere fu invece svolta dall’investigatore Rodney Asby:

“La composizione elementare suggerisce che erano presenti


solo ossidi o idrossidi […] il campione non era un minerale di
composizione complessa, piuttosto una miscela di tre o più
composti chimici di base, la più comune è la silice della sabbia
(SiO 2), calce viva (CaO) e calce spenta (Ca
(OH) 2 ). Collettivamente, questi sono indicativi di un materiale
cementizio. Tale conclusione è corroborata anche dalla presenza
di oligoelementi quali l’ alluminato di calcio (Ca 2 Al 2 O 5) e
tracce di composti di alluminio e ferro del cemento di Portland […]
il problema è semmai la consistenza della sabbia, non del tipo
comunemente usato in edilizia. Invece, era di una granulometria
più fine variabile da 100 micron a meno di 2 micron. Inoltre, i
grani più piccoli erano delle forme più pure di silice. Tutti gli
elementi di prova hanno suggerito che la sabbia proveniva da una
fonte atipica ma naturale. Varie idee sono state considerate -
sabbia destinata a sabbiatura o fusione di precisione, anche sabbia
sahariana - ma nessuna ha fornito un riscontro convincente con
queste. Nonostante questo, non sono riuscito a trovare alcuna
prova del fatto che questo materiale non abbia avuto origine
terrena”.

Abbiamo così la sgradevole sensazione che alla fine dei


conti si tratti soltanto di una manciata di materiale cementizio.
Oppure del “coconino”, che è una polvere bianca del tutto
analoga alla white powder gold, e che si trova in Arizona, sia a
Coconino Peak sia all’interno e nei pressi del Meteor Crater (per
38
una strana casualità, vicinissimi a dove viveva Hudson). Alcuni
ritengono anche che queste particelle sferiche di biossido di
silicio si formino dalla fusione della sabbia posata dal vento sugli
steli prima dell’azione termica. Bisognerebbe solo scoprire come
siano arrivate a Sompting.

Ma è nel 2004 che Gardner si impone definitivamente sulla


scena del mistero, pubblicando il libro "Le misteriose origini dei
Re del Graal”, di cui abbiamo già detto nella prima parte. È a
partire da questo libro che si impongono retroattivamente le
innumerevoli meraviglie attribuite alla famosa polvere bianca, da
un futuro ancora sconosciuto a ritroso fino ai Sumeri e oltre. Si
mette infatti in relazione tutto ciò non solo col lontano passato,
ma con recenti scoperte nel campo della fisica. Si iniziano così a
diffondere alcune idee, a nostro personale avviso fuori controllo
e forse perniciose.

Alcuni fisici nucleari scoprirono negli anni Ottanta che


quando determinati atomi sono posti in uno stato di velocissima
rotazione, le particelle elementari attorno al nucleo si riordinano
e iniziano a roteare ad una velocità maggiore. Come risultato
delle orbite riordinate, le emissioni elettromagnetiche degli
elementi roteanti sono differenti rispetto al loro spettro
ordinario. I fisici nucleari – si dice ancora - non hanno
riportato alcun successo nel produrre questo processo
attraverso il bombardamento ad alte energie. Tuttavia (ed
ecco che l’elemento scientifico si mescola e cede il passo a quello
fantascientifico) la natura ha i suo metodi a bassa tecnologia e
bassa energia per produrre ciò all’interno delle viscere della
Terra: la polvere d’oro bianca. Essa sarebbe presente ovunque
nel suolo, soprattutto in terreni vulcanici. Non è stata mai
trovata: perché? Semplice: nella sua forma monoatomica, non si
39
manifesterebbe nello spettro visibile delle strumentazioni che
abbiamo in uso. Così alcuni metalli preziosi vivrebbero in uno
stato modificato, in cui non si visualizzano più le loro proprietà
elettriche, spettroscopiche, chimiche o termiche.
Alcuni sedicenti o pseudo-ricercatori hanno sostenuto che
gli effetti prodotti da questa panacea possono essere
prodotti attraverso la bio-superconduttività che migliora il pieno
potenziale del DNA. Questa polvere, quando ingerita, entrerebbe
nel sangue per pervadere l’intero corpo. Come? Essendo
chimicamente inerte, i suoi effetti non si esplicano per reazione
chimica, ma in via energetica. Questi elementi si inoculano nelle
cellule, e generano “essenza di vita”. Accrescendo l’essenza a
livello cellulare, consentono lo sviluppo di una intelligenza più
spirituale, e il raggiungimento di uno stato olistico funzionale.
Questo è sostanzialmente il tono ed il livello delle
argomentazioni, che lasciamo giudicare al lettore.
In successivi libri Gardner non abbandonerà questo stile,
né questi temi. Si occuperà a lungo dell’Arca dell’Alleanza,
ritenendola capace di trasformare l'oro nella misteriosa sostanza
bianca, la quale avrebbe anche la facoltà di apparire e
scomparire durante il suo processo creativo, e grazie ai non
meglio definiti “campi di MFKTZ” potrebbe aprire una porta
interdimensionale fra due mondi. E qui siamo allo Stargate. La
Sacra Arca dell'Alleanza sarebbe stata costruita con un metallo
dalle proprietà magiche, la cui polvere permetterebbe di
proiettare la materia nello spazio-tempo. Tale materia sarebbe
un derivato del noto metallo conduttore detto "oro
monoatomico", che ad Alessandria di Egitto fu anticamente
identificato con la pietra filosofale. Ad esso sarebbero affidate le
speranze degli scienziati di tutto il mondo per la messa in opera

40
del teletrasporto. E così via, parafrasando Silvano Fuso, di
vaneggiamento in vaneggiamento.

Nella convinzione che qualsiasi serio scienziato inorridisca di


fronte a simili congetture, ciò che dobbiamo aggiungere è
soltanto che Gardner non è un chimico, né uno scienziato,
neppure uno storico-scientifico, bensì un saggista, al più uno
storico alternativo. Non crediamo si offenderebbe se lo
paragonassimo a Dan Brown. Nei suoi libri si mescolano
sapientemente ed efficacemente elementi storici a speculazioni
fantasiose, prive però di ogni comprovabilità.

Secondo Wikipedia:

“Gardner viene talvolta chiamato "Chevalier Labhran de Saint


Germain", "Addetto Presidenziale al Consiglio Europeo dei
Principi" e "Priore delle Chiese Celtiche - Sacro Fratello di Sangue
di San Colombano" . Egli afferma inoltre di essere Storiografo
Reale Giacobita della Casa Reale degli Stewart. È un sostenitore
di Michael Lafosse, in particolare delle affermazioni di
quest'ultimo di discendere dalla Casa degli Stuart, che Gardner
ritiene discenda direttamente da Gesù Cristo.
Alcuni storici affermano che egli sia un propugnatore della teoria
del complotto implicando, con ciò, che le sue siano opere
di pseudostoria, scarsamente documentate e non erudite”.

Non molto vogliamo dilungarci infine su Fulcanelli e sulla


teoria dell’antico astronauta di Sitchin, la cui attinenza stricto

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sensu con l’argomento qui preso in esame (la polvere bianca
degli alchimisti) è sostanzialmente a latere. Sul primo nulla c’è da
aggiungere al fatto che fosse un rispettabile alchimista. Non
sappiamo neppure chi si celi dietro questo pseudonimo, e
addurre ch’egli abbia raggiunto l’immortalità ci sembra
evidentemente opera di fede incondizionata nelle libere, gratuite
e inconfutabili (perché prive di ogni riscontro) dichiarazioni di
Eugene Canseliet e Julien Champagne.

La teoria dell’antico astronauta di Sitchin (nota anche come


teoria “Nibiru”, “Annunaki”, “Pianeta X”) presta invece il fianco a
numerose critiche, e si basa sostanzialmente su alcune personali
interpretazioni dell’autore non universalmente riconosciute, ed
anzi osteggiate dalla comunità scientifica e non solo da questa.

Ad esempio il famoso sigillo sumero, denominato VA 243


(reperto n. 243 presso il Vorderasiatische Museum di Berlino)
costituisce il fulcro delle ipotesi di Sitchin. In questo sigillo – dice
Sitchin – si vede il Sole attorniato da undici globi. Quindi,
considerando che gli antichi consideravano il Sole e la Luna come
pianeti, questo sigillo mostra dodici pianeti. Ne consegue che i
sumeri conoscevano un dodicesimo pianeta oltre Plutone: il
Pianeta X, Nibiru appunto.

Eppure è tutt’altro che dimostrato che quel sole raffiguri


proprio il nostro Sole (i sumeri non lo rappresentavano così), e
che gli undici globi rappresentino pianeti (più probabilmente si
tratta di stelle). Inoltre sono molteplici le incongruenze tra la
rappresentazione del sigillo e la reale struttura del nostro
sistema solare. Infine il sigillo – stanti al testo contenuto in esso –
non tratta affatto di astronomia. Senza considerare che nessun
42
documento archeologico né astronomico abbia mai potuto
apportare sostegno, neppure indiretto, all’ipotesi ventilata da
Sitchin, il quale – dal canto suo – sembra incapace di rispondere
alle numerose obiezioni che gli sono state mosse.

Per finire non risparmiamo neppure a lui una citazione


wikipediana:

“Le controverse teorie di Sitchin, basate sulla sua personale


interpretazione dei testi sumeri, sono considerate pseudoscienza
dalla comunità scientifico-accademica, ma registrano un buon
seguito nell'ambito della letteratura popolare”.

Come per Gardner e Dan Brown, ci vien da dire che non


dovremmo lasciare che la storia venga scritta da autori fantasy o
di letteratura popolare, per quanto bravi possano essere.

Ci vien anche da dire, concludendo, che abbiamo la fastidiosa


sensazione che i tempi moderni stiano rischiando di trasformare
ciò che era una leggenda ed un’arte di antica tradizione e pratica
(l’alchimia con le sue vocazioni spirituali e filosofiche, ma anche
come contributo alla ricerca chimica, all’invenzione di
apparecchi da laboratorio, allo sviluppo delle tecniche di
sublimazione, distillazione, calcinazione ecc) nella burlesca
strumentalizzazione a sostegno di deliranti costrutti della
fantasia, o peggio nella grottesca commercializzazione di un
prodotto miracoloso degno di una Wanna Marchi.

43
Di Leonardo Dragoni

Per “Cropfiles.it”

© 2012

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