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ISBN 978-88-6843-724-4
Materiali
a cura di
Raffaele Brancati e Andrea Maresca
con testi di Emanuele Brancati, Raffaele Brancati, Andrea Maresca e Manuel Romagnoli
Ringraziamenti
Si ringrazia il gruppo di studiosi e amici che, nel tempo, ha discusso con noi
o ha collaborato alle attività che a vario titolo sono confluite nelle riflessioni
presentate in questo volume: Alessandro Arrighetti, Anna Giunta, Dario
Guarascio, Lelio Iapadre, Giuseppina Maiorano, Emanuela Marrocu, Mario
Pianta, Stefano Usai, Fabrizio Traù, Antonello Zanfei.
Il lavoro è debitore, in molte sue parti, di un progetto (in corso di
pubblicazione) realizzato per la Commissione Europea, DG ECFIN, i cui autori
sono citati nella quarta di copertina. Un ringraziamento particolare per i
commenti e le discussioni va alle persone che ci hanno seguito nel corso del
lavoro e, in particolare, a Jean Charles Bricogne, Damiano G. Briguglio, Marie
Donnay, Heiko Hesse, Michiel Humblet, Dimitri Lorenzani, Dino Pinelli, Vito
Reitano.
Siamo inoltre grati all’ISTAT per la collaborazione e in particolare il nostro
ringraziamento va a Roberto Monducci e Stefano Costa.
Le indagini campionarie non sarebbero state possibili senza il contributo
determinante del Comitato Scientifico e di quello Tecnico e, in particolare, di
Giorgio Alleva (fino alla sua nomina a presidente dell’ISTAT), di Giovanni
Barbieri, di Marco Centra, di Piero D. Falorsi e di Alberto Zuliani.
Naturalmente le posizioni espresse nel volume non riflettono
necessariamente le opinioni delle singole persone citate.
Prefazione
Raffaele Brancati
Indice
1 Introduzione ...................................................................................................... 9
2 Le letture della competitività italiana ............................................................. 19
3 I mutamenti dello scenario ............................................................................. 23
4 La proiezione internazionale: i comportamenti delle imprese...................... 29
5 Una sintesi degli approfondimenti econometrici .......................................... 43
6 L’evoluzione dei “motori” della competitività durante la crisi ...................... 49
7 Le politiche: il disegno .....................................................................................59
8 Le politiche: i suggerimenti tratti dall’analisi .................................................65
9 Appendice: le fasi della Politica Industriale italiana ...................................... 75
10 Appendice: l’indagine MET ............................................................................. 81
11 Riferimenti bibliografici ................................................................................. 85
Indice delle figure ................................................................................................ 89
Indice delle tabelle............................................................................................... 90
1 Introduzione
- pag. 9 -
concentrazione fra le imprese al di sopra dei 10 addetti, laddove appaiono critici gli
aspetti legati alle scelte strategiche e alle potenzialità specifiche dell’impresa2.
C’è un ulteriore aspetto non secondario da sottolineare: questi soggetti “in
movimento” non solo rappresentano una quota maggioritaria del sistema
industriale nazionale con la loro numerosità, sia in termini di imprese che di
occupati, ma costituiscono anche una tipologia di imprese per la quale è ragionevole
attendersi forti potenzialità di miglioramento in termini di produttività,
competitività e crescita (Aghion e Howitt, 2006; Acemoglu, et al., 2006).
***
Ne deriva che gli spostamenti di questi soggetti intermedi verso l’alto,
attraverso il consolidamento della loro strategia di crescita, o verso il basso, con
l’abbandono dei sentieri dinamici, sono in grado di determinare le tendenze
generali dell’industria nazionale. Analogo impatto quantitativo si può avere con
ogni processo di upgrading, anche quando un’impresa statica si avvia lungo
percorsi di crescita.
In un’ottica di policy, quindi, intervenire attraverso politiche di rafforzamento
delle strategie di queste imprese, dinamiche ma fragili, può portare a un
apprezzabile vantaggio per l’intero sistema economico.
***
Se questi sono soggetti importanti, almeno per una parte significativa delle
politiche di supporto alle imprese e in misura particolare per le regioni meridionali,
l’attenzione dei policy maker dovrebbe concentrarsi sulle loro caratteristiche, sulle
problematiche che incontrano, sui vincoli alla realizzazione delle proprie strategie di
sviluppo.
Queste problematiche e vincoli rappresentano la reale “domanda” di intervento
del sistema produttivo. Interventi costruiti sulla domanda, a partire dalle esigenze
delle imprese, con regole di accesso e di selezione disegnate non solo per rispettare
meccanismi amministrativi estranei alle logiche di impresa, ma soprattutto per
favorire – e garantirsi - l’accesso di questi soggetti, rappresenterebbero una novità
significativa rispetto al passato.
Ciò è tanto più vero quando le politiche e gli strumenti sembrano essere stati già
tutti utilizzati e tutti con esperienze deludenti o fallimentari. Non è sempre vero che
le politiche attuate siano state fallimentari, ma la capacità di distinguere e di
analizzare i risultati, soprattutto approfondendo meccanismi e pratiche, non è
prassi diffusa.
- pag. 10 -
In realtà, uno dei più grandi limiti registrati nel campo delle politiche per le
imprese risiede proprio nell’incapacità non solo di imparare dai propri errori3, ma
anche di riproporre e adattare interventi di successo già sperimentati magari in
ambiti diversi. Oltretutto è necessario considerare che la bontà di un intervento
pubblico non dipende solo dal suo disegno generale, ma anche –e forse soprattutto -
dalle procedure attuative che ne determinano inevitabilmente successo o fallimento.
La componente amministrativa non è oggetto di approfondimento in questo
lavoro, ma rappresenta il vero “convitato di pietra” di ogni azione di politica
economica in materia.
Lo scopo del lavoro svolto è il tentativo di portare analisi ed evidenze empiriche
per sostenere le opinioni espresse con riferimento al ruolo dell’eterogeneità delle
imprese presenti nel sistema produttivo approfondendone strategie, caratteristiche
ed effetti sulla crescita.
Chiaramente non si ha la pretesa di offrire un quadro al di sopra di ogni
possibile dubbio (viste anche le difficoltà tecniche e pratiche delle dimostrazioni da
sviluppare), ma si vuole almeno sostenere posizioni ragionevoli per le quali le
evidenze empiriche - il più possibile rigorose - non smentiscano le ipotesi di base.
La logica sottostante ai lavori che conduciamo come gruppo di ricerca MET si
basa su pochi passaggi essenziali.
Si parte dal presupposto che i motori della competitività, da tempo
identificati in letteratura e negli indirizzi di policy nella capacità innovativa e di
ricerca e nella valorizzazione dei vantaggi competitivi da parte delle imprese, si
distribuiscono in modo non omogeneo tra i diversi gruppi di imprese.
Queste, spesso per caratteristiche proprie, seguono strategie di crescita molto
diverse tra loro e anche differenti da ciò che la teoria suggerirebbe4.
Ne consegue che l’eterogeneità delle imprese deve essere osservata prima e
inglobata poi nei modelli di analisi per cercare di coglierne gli effetti senza limitarsi
a osservare le differenze tra soggetti di diverse dimensioni.
La nostra tesi è che quella parte delle politiche pubbliche destinata al supporto
della capacità competitiva possa essere più efficace se identifica in modo granulare i
suoi target e gli obiettivi e se disegna i suoi interventi a partire dalla domanda,
ovvero dai bisogni, dalle criticità e dai vincoli che le imprese registrano nella
realizzazione delle loro strategie di crescita.
Come detto, un secondo aspetto essenziale, che in queste note non sarà
affrontato direttamente, riguarda l’attenzione che dovrebbe essere posta ai
meccanismi operativi che disciplinano tutti i passaggi tecnici e amministrativi che
- pag. 11 -
regolano gli interventi del sostegno pubblico. Interventi efficaci devono facilitare
l’accesso e basarsi molto sui servizi oltre che su interventi di natura finanziaria.
Le regole amministrative, a legislazione data, rappresentano un vincolo, ma
un’adeguata assistenza diretta e il dialogo con gli operatori interessati - se gestito in
modo appropriato - rappresenta un valore rilevante e può persino ridurre gli abusi
oltre che garantire una corretta gestione delle politiche.
Certamente l’analisi dei dettagli operativi costituisce un passaggio essenziale
della politica di intervento e probabilmente una manutenzione “straordinaria” di
tutti gli interventi in essere a livello di governo centrale o di governi regionali
potrebbe avere risultati sorprendenti, sia in termini di risultati che di consenso da
parte degli operatori.
***
La comprensione dei tanti aspetti che possono essere riferiti al tema della
“competitività dell’industria italiana” non è agevole.
Alla fine di settembre 2017 ha occupato spazio sui quotidiani e sui siti di diversi
paesi il Global Competitiveness Report elaborato per il World Economic Forum da
firme prestigiose. La posizione dell’Italia (come è consuetudine per questa tipologia
di indicatori) era disastrosa e senza particolari miglioramenti negli ultimi anni.
La graduatoria vedeva il nostro paese molto lontano dalle condizioni di
eccellenza: molto lontani da paesi con ottime performance sui mercati come la
Germania, ma anche altrettanto distanti da paesi con andamenti peggiori dei nostri
sui mercati mondiali come il Regno Unito o la Francia e persino il Belgio.
Ciò che colpisce, e che rende non attendibile l’intera graduatoria, tuttavia, è la
straordinaria vicinanza dell’indice sintetico italiano con quello, per esempio, del
Ruanda, il cui indicatore è separato da quello italiano per un solo decimo di punto.
L’analisi più dettagliata degli indicatori per tipologia rende ancor più surreale il
quadro: persino paesi come il Camerun e il Madagascar (e quasi tutti gli altri visto
che l’Italia è intorno al 120imo posto su 138 paesi) si caratterizzerebbero per un
mercato del lavoro e per mercati finanziari (!!!) molto più efficienti di quello
italiano.
Il nodo di un tale palese errore di misurazione5 sembrerebbe risiedere nelle
modalità di costruzione degli indicatori di base, in gran parte ricavati, nel caso
italiano, da un questionario distribuito presso un centinaio di dirigenti nazionali, –
non è chiaro se sulla base di un campionamento o con altri criteri - chiamato a
esprimere giudizi (non comparati) sui vari aspetti del proprio paese.
Il valore di un tale indicatore può essere valutato da ciascuno, ma è evidente la
sua totale mancanza di fondatezza.
5 Per quanto si possa essere critici nei confronti del funzionamento dei mercati italiani, la
stessa definizione di “mercati finanziari” per questi paesi parrebbe azzardata.
- pag. 12 -
Rimangono due aspetti. Il primo riguarda una seria questione sociologica e
tocca le ragioni che portano dirigenti nazionali a esprimere giudizi così negativi
rispetto a quanto fanno i loro omologhi di altri paesi su quasi tutte le nostre
istituzioni sociali, politiche ed economiche.
Il secondo – più rilevante - è che una tale informazione comunque ha portato a
discutere – sia pur fugacemente - di un tema di nessun rilievo sostanziale e
completamente privo di ricadute e di orientamenti per la politica pubblica con ampi
spazi sui media.
Ben più serie sono le indicazioni, sempre di carattere aggregato, che vengono
dalle fonti ufficiali.
Le grandezze che attengono a un fenomeno complesso come quello della
competitività sono molto numerose e riguardano, per esempio, la grande quantità
di dati che rappresentano le posizioni internazionali: flussi finanziari e monetari,
saldi di bilancia commerciale, saldi di bilancia dei pagamenti, dati sui flussi di
esportazioni in valore e in volume, quote sul commercio mondiale, a loro volta
espresse a prezzi correnti, a prezzi costanti e con varie elaborazioni possibili, con
periodizzazioni e confronti tra paesi volta a volta diversi.
In tutti i casi, le varietà di dati offerti e il quadro desumibile può essere talmente
variabile da disorientare chiunque: persino il quadro derivante dagli studi è
particolarmente disomogeneo.
Certamente ci sono stati periodi, come quello che va dalla metà degli anni ’90 al
2010, in cui il quadro era sostanzialmente coerente e negativo per quasi tutti gli
indicatori: era il segnale inequivocabile di una difficoltà particolare del nostro
sistema produttivo pressoché generalizzata a esclusione di poche realtà isolate.
Le spiegazioni di questa tendenza negativa erano sufficientemente chiare e
condivise da molti studiosi: poca presenza sui mercati internazionali, bassa
produttività, poca ricerca, poca innovazione (laddove presente, era di natura
marginale perché non sostenuta da attività di R&S), specializzazioni settoriali
sbagliate, dimensioni di impresa troppo ridotte per consentire di sostenere la
competizione globale, sostegno istituzionale poco efficace e ridottissimo e aspetti di
sistema riferiti alla cattiva qualità dell’istruzione, del sistema giudiziario e di
numerose altre grandezze rilevanti.
Tutto ciò ha spiegato in misura adeguata (anche se il peso dei diversi elementi è
stato assai diverso) la lunga fase di rallentamento della produzione industriale
nazionale e la difficoltà sui mercati internazionali, aggravata da un livello della
domanda interna particolarmente penalizzante.
Gli stessi elementi di debolezza appena ricordati, che non sono mutati in misura
così radicale con l’inizio del secondo decennio del secolo nuovo, non ci forniscono
molti indizi per comprendere i “motori” delle fasi di relativo successo come
- pag. 13 -
sembrano quelle registrate a partire dal 20116. È come se le interpretazioni proposte
fossero asimmetriche: sono in grado di spiegare bene le fasi di difficoltà, ma non
sembrano avere categorie adeguate a comprendere le eventuali evoluzioni positive.
L’interpretazione che noi vogliamo proporre è la seguente: nel sistema
produttivo italiano convivono soggetti caratterizzati da diversi gradi di dinamismo e
di crescita sui mercati; se si amplia o si contrae la fascia delle imprese dinamiche
con spostamenti di dimensioni significative, tale andamento si riflette sul dato
aggregato.
Ciò che va studiato, al di là degli effetti di composizione - pure rilevanti - sono le
determinanti di tali spostamenti per comprendere cosa li guida e cosa li limita. Le
tendenze di questi spostamenti sono anche in grado di anticipare fenomeni e
tendenze generali. Lo studio di queste determinanti rappresenta lo scopo
fondamentale del nostro lavoro.
***
La competitività è un concetto prevalentemente microeconomico.
Può essere legata a reti di impresa, all’appartenenza a catene del valore, alla
presenza in determinati territori con strutture sociali e storiche specifiche, può
dipendere dal sistema di regole in cui si opera e dal funzionamento dei diversi
mercati; può anche dipendere da misure di policy e da molti altri fattori esterni
all’impresa (il cui peso può essere molto rilevante), ma poi rimane la capacità
dell’impresa stessa di vendere beni servizi, di organizzare adeguatamente i fattori
strategici della produzione e di individuare percorsi e modalità di sviluppo.
Per diversi motivi, non ultima la disponibilità di dati con affidabilità e
completezza informativa adeguate, la presenza di studi sulla competitività su basi
microeconomiche non è così diffusa e ancor meno lo è su dati aggiornati e in grado
di cogliere i rapidi processi di trasformazione in corso (Altomonte, et al., 2011).
A partire dal 2010/2011 i segnali di cambiamento si sono fatti sempre più
evidenti almeno con riferimento alla competitività internazionale dell’industria
italiana. Che cosa è cambiato? Quali sono le interpretazioni che possono essere date
a queste trasformazioni?
In parte sono cambiate le dinamiche dei mercati mondiali e le nostre
specializzazioni settoriali geografiche sono risultate meno negative rispetto al
passato. Ma certamente è cambiata l’attitudine e l’orientamento delle imprese (o
meglio, di un numero consistente di esse) rispetto ai principali driver della
competitività.
Tutte le fasce dimensionali, in particolare quelle che vanno dalle dimensioni
piccole fino alle dimensioni medio-grandi, hanno compreso - in quote variabili, ma
6 Una spiegazione che viene riproposta per l’evoluzione positiva recente riguarda il ruolo delle
grandi imprese il cui peso sulle esportazioni totali sembrerebbe crescente (Bugamelli et al, 2017).
Va sottolineato, tuttavia, come il maggiore incremento delle quote non sia legato alle grandi
imprese, bensì a quelle di dimensione intermedia.
- pag. 14 -
importanti - che la ricerca, l’innovazione e la penetrazione in nuovi mercati
rappresentano la via principale per la crescita.
Hanno cercato di realizzare queste strategie innovative come meglio potevano,
con le risorse che avevano, scontando una difficoltà particolare legata anche a un
livello della domanda interna molto modesto e sapendo che questa non avrebbe
avuto tassi di crescita rilevanti per un lungo periodo di tempo.
In modo particolare si è modificato l’atteggiamento delle aziende che hanno
cercato di integrare sempre più le attività dinamiche tra loro: internazionalizzazione
con innovazione e, soprattutto, innovazione con ricerca, nel tentativo di superare o
almeno di ridurre quello che in passato è stato uno dei tratti negativamente
distintivi delle imprese italiane.
Una breve panoramica descrittiva può aiutare a presentare le definizioni di
imprese “statiche” (quelle cioè che non realizzano alcuna strategia dinamica
attraverso nuovi investimenti, azioni innovative, spese in Ricerca e Sviluppo, ricerca
di nuovi mercati, ancora una percentuale altissima degli operatori), di imprese “in
movimento” o intermedie (quelle che realizzano almeno una delle azioni descritte) e
di eccellenze (ovvero quelle che presentano strategie complete in tutte le linee di
attività indicate).
Nelle figure che seguono si presentano le evoluzioni delle categorie nel corso
della crisi.
Figura 1.1. Imprese industriali per tipologia di dinamismo, in termini di addetti (totale
Italia = 100).
70
60
50
40
30
20
10
0
2008 2009 2011 2013 2015
Eccellenze 14,3 12,6 13,2 15,7 22,2
In movimento 63,3 47,3 46,8 52,1 52,7
Statici 22,4 40,1 40,0 32,1 25,1
- pag. 15 -
A livello nazionale, i cambiamenti sono evidenti e descrivono adeguatamente le
tendenze registrate: con l’impatto della crisi, la prima reazione delle imprese
industriali è stata quella di contrarre tutte le spese legate alle strategie di crescita
con un arretramento marcato tra il 2008 e il 2009 che si mantiene sostanzialmente
invariato fino al 2011.
Da quell’anno si avvia una generale tendenza alla crescita delle imprese
proattive, sia intermedie che, soprattutto, di quelle che attivano una gamma
completa di azioni per la crescita. Il passaggio tra le tipologie diviene quindi un
elemento coerente con le tendenze generali avutesi.
Una suddivisione per classe dimensionale (Figura 1.2) rende più chiara la
dinamica realizzata. Se appare evidente la forte riduzione delle imprese statiche con
il crescere della dimensione, va sottolineato come i tentativi di reazione (le imprese
intermedie) siano già presenti in oltre il 50% dei soggetti a partire da classi
dimensionali ridottissime (5-9 addetti) con la massima concentrazione nelle fasce
intermedie. Va anche sottolineato come, per le imprese al di sopra dei 50 addetti, i
valori percentuali delle imprese intermedie e con strategie di crescita integrate
siano non lontane da quelle delle grandi imprese.
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
1-4 5-9 10-49 50-249 250 e oltre
Eccellenze 1,5% 4,1% 8,3% 34,5% 44,0%
In movimento 28,9% 50,7% 61,1% 53,5% 47,6%
Statici 69,7% 45,3% 30,7% 12,0% 8,3%
- pag. 16 -
Figura 1.3. Imprese industriali per tipologia di dinamismo e ripartizione geografica, in
termini di addetti (totale della Ripartizione = 100)
60
50
40
30
20
10
0
2011 2015 2011 2015 2011 2015 2011 2015
Italia Nord Centro Sud
Eccellenze 13,2 22,2 16,5 28,0 11,8 16,0 5,8 4,2
In movimento 46,8 52,7 47,4 52,1 47,3 53,6 44,5 54,1
Statici 40,0 25,1 36,1 19,8 41,0 30,5 49,7 41,7
***
La nostra tesi, con riferimento agli aspetti regionali e a quelli riferibili
specificamente al Mezzogiorno, è che le determinanti e i “motori” siano
sostanzialmente analoghi nei diversi territori; ciò che cambia è la loro diffusione, le
diverse criticità e il sistema di vincoli che devono essere esplicitamente presi in
considerazione, con approfondimenti ad hoc, per costruire politiche pubbliche
adeguate.
Per essere chiari, l’ipotesi è che la ricerca e l’innovazione, insieme a una
maggiore apertura internazionale, costituiscano i motori della crescita in ogni
- pag. 17 -
regione italiana. Ciò che cambia in modo significativo, e le nostre indagini portano
evidenze in questo senso, sono le modalità di svolgimento delle attività dinamiche.
Se consideriamo la ricerca, per esempio, diversi territori sono caratterizzati da un
maggiore o minore ricorso a relazioni strutturate con imprese o con laboratori, da
maggiori o minori relazioni con università e diversità nei canali di finanziamento.
La presenza di vincoli per quanto riguarda le competenze e molti altri aspetti di
rilievo da approfondire.
Le politiche pubbliche a sostegno delle imprese devono avere molte leve, ma
tutte finalizzate a obiettivi ben definiti: la comprensione di dettaglio dei fenomeni è,
quindi, elemento determinante.
***
Le note che seguono approfondiscono (spesso rinviando a lavori tecnici già
pubblicati o in corso di pubblicazione con differenti modalità e sul sito www.met-
economia.it) il tema dell’eterogeneità delle imprese italiane per lo più utilizzando
database originali, provando a portare evidenze empiriche a sostegno delle tesi
esposte.
In modo particolare, si è cercato di sottoporre a stima la diversa capacità di
sostenere la competitività internazionale delle imprese nei casi in cui le strategie
siano parziali o si abbiano passaggi tra i diversi stati (da innovatori senza ricerca e
innovatori con ricerca, ruolo delle grandezze rilevanti per l’ingresso e l’uscita dai
mercati,…) offrendo, e questo rappresenta il contributo più innovativo del lavoro,
un primo supporto alle tesi.
- pag. 18 -
2 Le letture della competitività italiana
- pag. 19 -
perfomance (Arrighetti e Traù 2012; Brancati, 2015) e sulla presenza diffusa di
processi di ristrutturazione attraverso i quali le imprese hanno provato a
riposizionarsi verso segmenti produttivi a più alto valore aggiunto, a migliorare la
qualità dei prodotti e, più in generale, ad aumentare i propri sforzi per adattarsi ad
uno scenario competitivo in rapido mutamento (De Nardis e Pensa, 2004; De
Nardis e Traù, 2005; Cipolletta e De Nardis, 2012; Arrighetti e Ninni, 2014).
Queste stesse pressioni competitive hanno rappresentato un’importante sfida
anche per i distretti industriali, storicamente considerati come uno dei motori
principali della crescita per l’industria italiana, e hanno portato a profondi
mutamenti dell’architettura distrettuale e a forti differenziazioni nei percorsi
intrapresi anche in risposta all’emergere delle catene globali del valore (De Marchi
et al., 2013; Brancati et al., 2017).
Più in generale, secondo questo filone, il trend negativo delle performance sui
mercati internazionali va anche reinterpretato alla luce di uno scenario di nuove e
crescenti pressioni competitive collegate all’adozione dell’euro, all’arrivo sulla scena
di nuovi grandi attori, alla rivoluzione dell’ICT.
Le note che seguono vogliono contribuire a questo dibattito adottando un
approccio microeconomico, basato su dati a livello di impresa, che sia in grado
quindi di tener conto dell’elevata eterogeneità delle imprese italiane. Più nel
dettaglio, il lavoro vuole identificare i fattori determinanti della competitività
internazionale per comprendere le prospettive del tessuto produttivo nazionale e
suggerire alcune efficaci raccomandazioni di policy.
Il lavoro sfrutta una notevole quantità di informazioni sul periodo della crisi
attraverso dati aggiornati che derivano da diverse fonti statistiche e che consentono
di approfondire i cambiamenti recenti avvenuti nei comportamenti e nelle
performance delle imprese. I dati di maggiore rilevanza derivano da due dataset.
Il primo, di fonte ISTAT, è un panel costruito ad hoc nell’ambito del ‘‘Rapporto
sulla competitività dei settori’ e incrocia informazioni di carattere strutturale
(addetti, settore di attività, area di localizzazione, appartenenza a gruppi, etc.) con
le principali grandezze economiche di interesse (valore aggiunto, produttività del
lavoro, quota di fatturato esportato, redditività, etc.).
Una seconda fonte di dati, funzionale allo scopo di rilevare la natura
multidimensionale della competitività e di tenere in considerazione il profilo
strategico delle imprese, è rappresentato dai dati dell’indagine campionaria MET
nelle sue diverse edizioni. L’indagine è diretta alle imprese dell’industria in senso
stretto e dei servizi alla produzione e prevede un disegno campionario basato su tre
strati di interesse: classe dimensionale, le venti regioni italiane e 12 settori
economici (cfr. Capitolo 10 “Appendice: l’indagine MET”).
Uno dei tratti caratteristici dell’indagine è rappresentato dall’assenza di soglie
dimensionali: sono infatti intervistate anche le imprese con meno di 10 addetti, che
rappresentano, come noto, una fetta considerevole delle aziende italiane. L’indagine
- pag. 20 -
consta di 5 rilevazioni (2008, 2009, 2011, 2013 e 20157) e copre un periodo che
parte dall’immediato approssimarsi del fallimento di Lehman Brothers fino ai primi
anni di uscita dalla crisi. In totale sono state realizzate fino al 2015 circa 120 mila
interviste alle imprese, per una media di 24 mila interviste per wave. I dati di fonte
campionaria sono stati poi allineati ai dati bilancio (CRIF-Cribis D&B),
naturalmente solo per la componente legata alle società di capitali e alle
cooperative.
Prima di passare al cuore delle analisi proposte, vale la pena di definire meglio
l’oggetto del lavoro e i confini entro i quali opera.
In primo luogo lo studio si basa su analisi a livello di impresa sull’industria in
senso stretto e ai servizi alla produzione. I dati disponibili si riferiscono
esclusivamente al caso italiano, le comparazioni con altri paesi sono realizzate solo
per le statistiche aggregate dello scenario derivato dalle statistiche pubbliche.
Inoltre, le evidenze sono fortemente caratterizzate dal punto di vista temporale
essendo riferite prevalentemente ad uno scenario quasi interamente recessivo
(2008-2015 per l’indagine campionaria, e 2011-2014 per il panel ISTAT). Va ancora
precisato che i fattori istituzionali e di contesto territoriale, che pure possono
influenzare sensibilmente la competitività delle aziende, sono considerati esogeni
nell’ambito degli approfondimenti econometrici realizzati.
La strategia econometrica utilizzata – richiamata in modo sintetico nelle sue
linee metodologiche essenziali e nei risultati nel capitolo dedicato - consente di
identificare gli effetti delle variabili di interesse osservate al netto di tutti i fattori
(non osservati) temporali, settoriali e specifici dell’impresa (ciclo economico,
domanda aggregata, contesto istituzionale e regimi tecnologici), senza tuttavia
consentirne l’identificazione e la quantificazione degli effetti attribuibili a questi
fattori.
Il focus principale del lavoro mira all’identificazione a livello micro dei
principali driver della competitività internazionale, in termini di strategie e
comportamenti adottati dalle singole imprese.
- pag. 21 -
- pag. 22 -
3 I mutamenti dello scenario
- pag. 23 -
Figura 3.1. Produttività del lavoro (Valore aggiunto per addetto) nel manifatturiero.
Migliaia di euro.
0-9 10-19
Germania Spagna Francia Italia
45 55
40 50
35 45
30 40
25 35
20 30
2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014
20-49 50-249
58 75
56
70
54
65
52
50 60
48 55
46
50
44
42 45
40 40
2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014
250 e oltre Totale
95 75
90 70
85 65
80 60
75 55
70 50
65 45
60 40
2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014
Fonte: EUROSTAT.
- pag. 24 -
Tabella 3.1. Distribuzione del numero di imprese e del valore aggiunto per classe
dimensionale delle imprese. Manifatturiero, valori percentuali.
Classe dimensionale (numero di addetti)
0-9 10-19 20-49 50-249 250 o più
Numero di imprese
EU a 28 82,9 8,0 5,1 3,4 0,8
Germania 65,1 17,4 7,7 7,8 2,0
Spagna 84,1 7,4 5,5 2,5 0,4
Francia 87,6 5,4 4,1 2,4 0,6
Italia 82,9 9,9 4,8 2,1 0,3
Valore aggiunto (al costo dei fattori)
EU a 28 6,7 5,5 8,8 22,8 56,1
Germania 3,4 4,4 5,2 19,7 67,3
Spagna 9,6 7,0 13,9 26,8 42,7
Francia 8,3 5,0 9,2 20,3 57,3
Italia 11,9 11,5 15,6 27,7 33,3
Fonte: elaborazioni su dati EUROSTAT.
- pag. 25 -
Tale evoluzione è avvenuta con caratteri di forte fragilità e spesso con
l’incapacità di realizzare una presenza continuativa sui mercati internazionali.
Il prolungato declino delle quote italiane di export sul commercio mondiale
sembra essersi interrotto, tanto che a partire dal 2010 le performance delle
esportazioni italiane sono state di poco inferiori rispetto a quelle tedesche e migliori
di molti altri paesi esportatori, come Francia, Inghilterra, Olanda e Belgio. Questo
trend positivo è stato favorevolmente influenzato sia dalla composizione geografica
delle esportazioni italiane, sia dal positivo andamento della domanda di beni per i
settori in cui l’Italia ha una specializzazione produttiva.
130
120
110
100
90
80
2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015
Francia Germania Italia Spagna Belgio Olanda
Fonte: elaborazioni su dati EUROSTAT.
- pag. 26 -
Tabella 3.2. Distribuzione delle esportazioni in valore per settore del manifatturiero.
Valori percentuali, medie biennali.
- pag. 27 -
- pag. 28 -
4 La proiezione internazionale: i comportamenti delle imprese
- pag. 29 -
Tabella 4.1. Imprese esportatrici e valore delle esportazioni per classe dimensionale delle
imprese, 2014.
Francia Germania
Imprese Esportazioni Esportazioni Imprese Esportazioni Esportazioni
Numero di esportatrici per impresa esportatrici per impresa
addetti Migliaia %
Miliardi % Migliaia di Migliaia % Miliardi % Migliaia di
di euro euro di euro euro
Fino a 9 77,8 65,2 84,7 20,1 1.089 114,4 57,7 33,6 4,3 378
10-49 28,6 23,9 41,6 9,9 1.457 56,6 28,7 60,0 6,8 1.208
50-249 9,6 8,0 62,5 14,8 6.510 21,1 10,5 127,6 13,9 6.719
250 e oltre 3,3 2,8 233,0 55,2 70.376 6,4 3,0 752,2 74,9 124.778
Non specificato 2,1 - 16,2 - 7.667 116,3 - 151,7 - 1.305
Totale 121,4 100 438,1 100 3.608 314,8 100 1125,0 100 3.506
Italia Spagna
Imprese Esportazioni Esportazioni Imprese Esportazioni Esportazioni
esportatrici per impresa esportatrici per impresa
Numero di Migliaia % Miliardi % Migliaia di Migliaia % Miliardi % Migliaia di
addetti di euro euro di euro euro
Fino a 9 127,4 66,1 23,6 6,2 185 108,0 72,4 26,1 11,7 242
10-49 53,2 27,6 69,1 18,2 1.298 30,8 20,6 33,3 14,9 1.081
50-249 10,2 5,3 113,8 30,1 11.158 8,2 5,5 52,4 23,5 6.406
250 e oltre 1,9 1,0 172,1 45,5 92.308 2,2 1,5 111,0 49,8 49.390
Non specificato 27,1 - 20,3 - 748 44,5 - 20,9 - 469
Totale 219,8 100 398,9 100 1.814 193,7 100 243,7 100 1.258
Nota: Le quote per classe dimensionali non considerano i valori “non specificati”.
Fonte: Elaborazioni su dati EUROSTAT.
Figura 4.1. Distribuzione del margine intensive di export (quota del fatturato esportato
sul fatturato totale) per classe dimensionale delle imprese.
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
p10 p25 p50 p75 p90
1-9 0,5 2,0 8,9 32,5 64,4
10-49 0,4 2,1 13,0 43,0 70,4
50-249 2,1 12,9 40,5 66,3 82,2
250 e oltre 6,4 26,5 53,7 72,8 85,1
Fonte: elaborazioni su microdati ISTAT.
- pag. 30 -
Le stime dell’indagine campionaria MET evidenziano (Figura 4.2) come, fatta
100 la popolazione degli esportatori al 2011, nel 2013 circa il 42% delle micro-
imprese aveva interrotto le vendite all’estero. Il tasso di persistenza aumenta
considerevolmente al crescere delle dimensioni aziendali: la quota di esportatori in
entrambi i periodi è del 77% tra le piccole imprese, del 94% tra le medie e del 97%
tra le grandi aziende.
Figura 4.2. Grado di persistenza delle attività di export: status nel 2013 delle imprese che
esportavano nel 2011.
120
100
80
60
40
20
0
1-9 10-49 50-249 250 e oltre
Non più esportatori 41,9 23,1 6,3 2,5
Esportatori persistenti 58,1 76,9 93,7 97,5
- pag. 31 -
Infine, le aziende che operano con l’estero si caratterizzano per un maggiore
impiego di laureati: la presenza di un personale qualificato è un indicatore delle
capacità tecnologiche e gestionali disponibili all’interno dell’impresa.
La presenza di un capitale umano più qualificato si manifesta in un maggior
costo del lavoro per addetto rispetto a quanto si osserva per le imprese domestiche,
segnalando una maggiore propensione verso le strategie di valorizzazione delle
competenze tecnologiche in contrapposizione a quelle di mera riduzione dei costi
(Dosi et al., 2015).
Tabella 4.2. Confronto tra le caratteristiche delle imprese esportatrici e di quelle che
vendono solo sul mercato interno.
Non
Non Esportatric Non Esportatric Non Esportatric Esportat
esportatri
esportatrici i esportatrici i esportatrici i rici
ci
1-9 58,6 62,0 2,8 8,7 0,0 0,0 21,6 27,9
10-49 65,4 80,3 13,6 27,0 0,0 5,4 29,2 36,4
50-240 66,2 86,3 52,7 70,5 4,2 8,5 34,3 44,4
250 e
75,0 87,2 64,3 95,5 6,5 11,6 38,7 49,9
oltre
Totale 59,1 71,5 3,8 22,2 0,0 0,9 22,9 33,6
Fonte: elaborazioni su microdati ISTAT.
- pag. 32 -
Figura 4..3. Confronto della distribuzione8 della produttività del lavoro tra imprese
esportatrici e imprese con solo mercato interno.
Non solo le imprese esportatrici sono più produttive, ma fanno registrare anche
performance di crescit
crescita
a migliori.
migliori. Il confronto tra i principali percentili delle
distribuzioni del tasso di crescita del valore aggiunto tra il 2011 e il 2014, sul totale
delle imprese attive nel periodo, mostra come le imprese esportatrici abbiano avuto
migliori performance rispetto
spetto alle aziende che operano sul mercato locale.
I valori rilevati indicano una forte polarizzazione dei ri
risultati,
sultati, con drammatiche
contrazioni del livello di attività e con segmenti rilevanti di imprese che sono
cresciute con tassi di variazione molto elevati,
elevati, non solo nel caso degli esportatori,
esportatori,
ma anche in quello delle imprese domestiche.
Può essere utile sottolineare un fenomeno che si riscontra in tutte le variabili
considerate
considerate,, quando si osserva la loro distribuzione.
Come detto, g gli
li esportatori sono sistematicamente migliori degli altri con livelli
più elevati di quasi tutte le grandezze. Solo quando si arriva alla coda della
distribuzione, ovvero si considerano le eccellenze assolute (nel caso considerato gli
ultimi percentili del
della
la distribuzione) le differenze scompaiono e si possono avere
8 Il grafico riporta le funzioni di densità di probabilità (pdf) della produttività del lavoro,
espressa come va valore
lore aggiunto per addetto. Le pdf sono state stimate mediante funzioni Kernel
(Epanechnikov
Epanechnikov). ). I dati sulla produttività sono stati standardizzati per settore e anno (dividendo
ciascuna osservazione per la mediana della corrispondente distribuzione nel settore j al
tempo t. I settori sono dettagliati al 2° digit ATECO 2007 mentre il tempo si riferisce all’anno di
rilevazione delle indagini campionarie.
- pag. 33 -
persino performance migliori per i non esportatori. Ciò rafforza l’opinione espressa
che non sono i casi di eccellenza assoluta quelli che rilevano, ma lo spostamento
verso la crescita o il ripiegamento del corpo principale della struttura produttiva. Le
eccellenze esistono sempre e trovano da sole la loro strada per raggiungere i propri
obiettivi.
Figura 4.4. Performance durante la seconda ondata della crisi: tassi di crescita del
Valore Aggiunto tra il 2011 e il 2014.
100
80
60
40
20
0
-20
-40
-60
-80
-100
p10 p25 p50 p75 p90
Non esportatrici -76,5 -37,7 -7,1 23,7 80,3
Esportatrici -52,9 -20,7 3,0 29,8 76,7
Nota: i dati si riferiscono alla popolazione di imprese attive sia nel 2011 che nel 2014.
Fonte: elaborazioni su microdati ISTAT.
- pag. 34 -
grandezza nell’anno iniziale (come segnalato dal forte calo del valore aggiunto nel
periodo precedente a quello considerato).
Questo elemento non è presente nel confronto relativo alle imprese esportatrici.
Ad ogni modo, le grandezze in esame non sembrano essere in grado di spiegare
pienamente le differenze tra imprese domestiche ad alta crescita e non. Una parte
rilevante del fenomeno può essere ricondotto, presumibilmente, alla presenza di
rendite di posizione, la presenza di domanda idiosincratica o l’operare in nicchie di
mercato.
Al contrario, quando si passa al confronto tra le imprese esportatrici, gli
elementi discriminanti delle performance tendono ad emergere in maniera più
evidente, con un ruolo rilevante legato ai comportamenti innovativi.
Tabella 4.3. Caratteristiche delle imprese ad alta crescita, confronto tra imprese
esportatrici e imprese che vendono sul solo mercato interno.
Imprese con mercato
Imprese Esportatrici
domestico
Ad alta
Ad alta crescita Restanti Restanti
crescita
Imprese con attività di R&S sul totale 3,0% 6,0% 43,0% 33,0%
Crescita del Valore aggiunto in t-1 (mediana) 2,37 4,25 5,14 2,71
Crescita del Valore aggiunto in t-1 (25° percentile) -30,89 -9,93 -9,67 -8,13
Nota: I dati si riferiscono alle imprese intervistate sia nella rilevazione 2011 che in quella 2013. Le imprese
‘ad alta crescita’ sono quelle che hanno valori uguali o superiori al 90° percentile della distribuzione, del
settore specifico, del tasso di crescita del Valore Aggiunto tra il 2011 e il 2014. Le imprese ‘restanti’ sono
quelle con valori inferiori al 90° percentile. ). I dati sulla produttività sono stati standardizzati per settore e
anno (dividendo ciascuna osservazione per la mediana della corrispondente distribuzione del settore
specifico per ciascun anno.
Fonte: Indagine MET, panel 2011-2013.
- pag. 35 -
competitivi (Dosi e Nelson, 2010). In tal senso, quindi, rappresentano un fattore
chiave per la competitività internazionale (Dosi et al., 2015) e, allo stesso tempo, un
indicatore della presenza di “capacità dinamiche”, vale a dire abilità organizzative
delle imprese di gestione delle risorse a disposizione per rispondere in maniera più
efficace all’evoluzione dello scenario competitivo (Teece e Pisano, 1994).
Il processo innovativo, proprio come il concetto di competitività, è un fenomeno
complesso e articolato che deve essere studiato da più angolazioni, ognuna della
quali può aggiungere elementi informativi (Smith, 2004; Castellani e Koch, 2015). I
dati ricavabili dalle indagini MET offrono diversi contributi sul tema.
Un primo aspetto di interesse riguarda la diffusione di imprese che hanno
introdotto innovazioni, tecnologiche o organizzative, sulla base dell’intero panel di
imprese intervistate tra il 2008 e il 2015.
Il confronto con le imprese domestiche chiarisce in maniera ancora più marcata
quanto l’innovazione e l’internazionalizzazione siano fattori strettamente
interconnessi (Bernard e Jensen, 2004; Wagner, 2007; Dosi et al. 2015).
La quota di innovatori tra le imprese che esportano è due volte più alta di quella
rilevata tra le aziende che operano sul mercato domestico (39% contro il 19%). Tale
associazione è confermata per tutte le classi dimensionali e appare ancora più
discriminante nel segmento delle imprese meno strutturate.
Figura 4.5. Percentuale di imprese innovatrici per classe dimensionale, confronto tra
imprese esportatrici e aziende che vendono solo sul mercato interno.
80
70
60
50
40
30
20
10
0
1-9 10-49 50-249 250 e oltre Totale
Non esportatrici 17,9 31,8 35,4 43,6 19,5
Esportatrici 32,8 45,4 56,7 68,1 38,9
- pag. 36 -
Il rilievo dei percorsi innovativi è rafforzato da un ulteriore evidenza: premesso
che la capacità innovativa tende ad aumentare al crescere della dimensione, per
ognuna delle classi dimensionali considerate la quota di imprese esportatrici che ha
introdotto innovazioni è superiore a quella che si osserva nella classe dimensionale
immediatamente più alta relativa a quelle domestiche. In altre parole, gli
esportatori di piccola dimensione (10-49 addetti) hanno innovato più
frequentemente delle imprese domestiche di media dimensione (50-249).
In sostanza, la dimensione è un fattore rilevante, ma ciò non impedisce
l’attivazione di funzioni orientate alla crescita con investimenti, innovazioni e
persino attività di ricerca nei modi e nelle forme possibili. Anche se le imprese
piccole e piccolissime hanno maggiori difficoltà ad accedere e a governare le risorse
e le capacità necessarie ad innovare, l’innovazione non è loro preclusa e,
paradossalmente, assume un carattere ancora più discriminante per le prospettive
di crescita.
Con innovazioni
Con innovazioni di
Con innovazioni di prodotto organizzative/manageriali/comme
processo
rciali
- pag. 37 -
Un’ulteriore prospettiva per analizzare i nessi tra pattern innovativi e
internazionalizzazione si focalizza sui processi adottati dalle imprese per
incrementare le conoscenze tecnologiche e di mercato. Tali processi possono essere
più o meno formalizzati, a seconda o meno che le conoscenze siano acquisite
attraverso attività strutturate di R&S oppure attraverso le attività realizzate in altre
fasi produttive, come nel caso dell’acquisizione di brevetti o dell’apprendimento
realizzato attraverso il “fare” (learning by doing).
Anche se entrambi i percorsi, formali e informali, giocano un ruolo importante
per gli avanzamenti tecnologici, le attività codificate di R&S sono comunemente
considerate più efficaci. Tradizionalmente la mancanza di modelli innovativi basati
sulla R&S è stato considerato uno dei principali fattori di debolezza del tessuto
produttivo italiano, a causa di una maggiore propensione all’utilizzo di innovazioni
incrementali non originate da attività formali di ricerca.
La Figura 4.6 sintetizza la diffusione e l’impegno nel campo della R&S,
confrontando i risultati, ricavati dall’intero panel di aziende intervistate tra il 2008
e il 2015, tra esportatori e aziende impegnate nel solo mercato interno.
Figura 4.6. Imprese che svolgono R&S e spesa per attività di R&S (in percentuale del
fatturato – asse destro), confronto tra imprese esportatrici e domestiche.
80 5,0
70 4,5
4,0
60
3,5
50 3,0
40 2,5
30 2,0
1,5
20
1,0
10 0,5
0 0,0
No No No No No
Export Export Export Export Export
export export export export export
Totale 1-9 10-49 50-249 250 e oltre
Imprese con R&S 4,7 24,2 3,9 16,2 11,1 31,1 17,8 51,8 23,7 69,6
Spesa R&S (% fatturato) 0,4 1,5 0,4 1,2 0,8 1,9 1,0 2,5 1,3 4,5
Fonte: Indagine MET (database pooled delle 5 rilevazioni).
- pag. 38 -
Anche in questo caso emerge la forte associazione tra attività di R&S e
coinvolgimento internazionale. La percentuale di imprese che svolge attività di R&S
è molto più alta tra le imprese esportatrici, 5 volte superiore a quella delle aziende
domestiche (24% vs 5%). La maggiore propensione alla ricerca è confermata dai
confronti realizzati per ognuna delle classi dimensionali considerate, anche se
l’intensità delle differenze tende ad aumentare al crescere del numero di addetti: tra
le imprese non esportatrici gli incentivi a dedicare risorse alla R&S non crescono
altrettanto intensamente al crescere delle dimensioni quanto avviene nel caso delle
aziende che esportano. In altre parole, per un’impresa di grandi dimensioni lo
svolgere attività di R&S è un requisito necessario per essere competitiva sui mercati
esteri. Cosa che non avviene per le grandi imprese domestiche, a causa di una
minore pressione all’upgrading tecnologico.
Come visto nel caso delle innovazioni, l’abbinamento dimensione-
internazionalizzazione non esaurisce l’eterogeneità osservata. Infatti, per ognuna
delle classi dimensionali la quota di esportatori coinvolta in progetti di R&S è
superiore a quella che si riscontra nella classe di addetti immediatamente
successiva delle imprese che operano solo sui mercati nazionali. Per citare un
esempio, le imprese esportatrici di piccola dimensione mostrano una propensione
alla R&S superiore a quella delle medie imprese domestiche (31% vs 18%). Risultati
analoghi a quelli appena presentati emergono quando si considera l’intensità di
investimenti in ricerca e sviluppo (in percentuale del fatturato).
Sino a questo punto la competitività internazionale è stata analizzata
considerando come oggetto di studio le imprese che vendono sui mercati
internazionali.
Naturalmente la competitività esterna e l’internazionalizzazione sono fenomeni
più ampi e complessi. Come evidenziato da diversi filoni di ricerca,
l’internazionalizzazione è il risultato di un processo multiforme dove la conoscenza
tecnologica, le capacità organizzative e l’attitudine all’apprendimento interagiscono
in risposta al contesto estero, producendo differenti performance e percorsi
organizzativi (Castellani e Zanfei, 2006).
La letteratura sul tema, e le evidenze disponibili anche per il caso italiano
(Rapporti sulla competitività dei settori, ISTAT, vari anni), segnala come a forme di
internazionalizzazione più strutturate corrisponda una maggiore complessità delle
imprese coinvolte. Al crescere della complessità delle forme di
internazionalizzazione, dal mero export/import al commercio bidirezionale, sino ad
arrivare al caso delle multinazionali, aumenta sia la dimensione media (numero di
addetti) che il livello di produttività.
La superiorità tecnologica si accompagna a una maggiore domanda di lavoro
qualificato che implica un costo del lavoro per addetto maggiore. Le imprese che
hanno forme di internazionalizzazione più complesse, inoltre, hanno margini
intensivi di export superiori, una maggiore capacità di raggiungere i mercati più
distanti, una maggiore varietà di prodotti venduti e una platea di paesi serviti più
- pag. 39 -
ampia. Al di là di questi aspetti, l’innovazione gioca un ruolo fondamentale per
assicurare i livelli di competitività richiesti sui mercati internazionali. Ciò avviene
sia attraverso l’introduzione di innovazioni che tramite i percorsi di apprendimento
che l’impresa realizza operando in ambienti più competitivi.
La Tabella 4.5 riporta i risultati ricavati dall’indagine campionaria relativi alla
diffusione di innovazione e ricerca a seconda delle differenti modalità di
internazionalizzazione osservate.
La tassonomia proposta, nella quale le diverse modalità considerate non sono
mutualmente esclusive (nel senso che ogni impresa può appartenere a più gruppi),
organizza le forme di internazionalizzazione a seconda della complessità della
presenza estera: esportatori, importatori, two-way trader (export e import),
imprese che appartengono a catene globali del valore (GVC), esportatori globali
(imprese con un fatturato esportato superiore al 50% del fatturato totale e che
vendono in paesi extra-UE), IDE (imprese che hanno realizzato investimenti diretti
esteri) e imprese a controllo estero.
Collaborazioni
Innovazioni esterne per
Innovazioni Innovazioni Innovazioni Attività di
(almeno un R&S (sul totale
di prodotto di processo organizzative R&S
tipo) imprese con
R&S)
- pag. 40 -
La tabella suggerisce che la propensione all’innovazione aumenti in funzione di
diverse grandezze.
La prima è la distanza: le imprese che vendono su mercati più distanti tendono
ad essere più innovative delle altre imprese esportatrici.
La seconda dimensione rilevante è il numero di attività realizzate all’estero: per
citare un esempio, le imprese che importano ed esportano allo stesso tempo
tendono ad essere più innovative dei meri esportatori/importatori. Si tratta di
un’evidenza importante, che conferma come anche le importazioni possano essere
un canale rilevante di apprendimento e, in ultima istanza, di competitività (Aristei
et al., 2013).
Il terzo elemento si riferisce direttamente alla tipologia di presenza nel paese
estero. Le imprese italiane che hanno internazionalizzato la loro produzione, nel
caso in oggetto attraverso investimenti diretti esteri, sono il gruppo più innovativo
tra quelli considerati.
Infine, un ulteriore questione tocca la tipologia di relazioni stabili nei paesi
esteri. Infatti, le imprese che appartengono a catene del valore globali e le aziende
italiane che appartengono a gruppi esteri innovano più frequentemente dei semplici
esportatori, poiché possono beneficiare di trasferimenti di conoscenza nell’ambito
delle loro relazioni produttive con i clienti o con l’impresa madre.
Risultati analoghi a quelli presentati per l’innovazione emergono anche quando
si considerano le attività realizzate nel campo della ricerca. In sostanza, il messaggio
che si vuole evidenziare è che l’eterogeneità presente nelle forme di
internazionalizzazione non può essere spiegata ricorrendo ad un unico fattore, è
necessario piuttosto ricorrere ad una molteplicità di grandezze. Allo stesso modo, la
competitività internazionale è il frutto di una varietà di fenomeni e fattori che la
determinano. Questo aspetto può essere chiarito ricorrendo ad una semplice
evidenza statistica, come riportato nella Figura 4.7, che raffigura la funzione di
densità (Kernel) della produttività del lavoro, standardizzata per la distribuzione
per anno di rilevazione e settore di attività.
Nel dettaglio sono confrontati tre tipologie di imprese internazionalizzate: le
imprese che esportano soltanto e le imprese che importano ed esportano allo stesso
tempo, a loro volta suddivise in due gruppi a seconda o meno che realizzino attività
di R&S.
Le tre curve hanno la medesima forma, ma la posizione cambia al crescere del
numero di attività internazionali e di R&S realizzate. La distribuzione dei two-way
trader che non svolgono R&S è traslata verso destra (maggiore produttività)
rispetto a quella dei meri esportatori, confermando il fatto che le importazioni
possono aiutare le imprese ad incrementare la propria efficienza. Inoltre, la
distribuzione dei two-way trader con progetti di R&S è ulteriormente traslata verso
destra, segnalando che i percorsi innovativi possono essere discriminanti per i livelli
di produttività. Si tratta di una semplice evidenza esplorativa, che mostra tuttavia
come la competitività internazionale sia un fenomeno complesso.
- pag. 41 -
Figura 4 4.7.. Produ ttività del lavoro9, confronto sulla
Produttività base della forma di
internazionalizzazione e della presenza di attività di R&S.
- pag. 42 -
5 Una sintesi degli approfondimenti econometrici
- pag. 43 -
consentito di catturare sia componenti cicliche (effetti comuni a tutte le imprese ma
che variano nel tempo) che shock di domanda specifici per determinati settori e
regioni (effetti temporali e interazioni con indicatori di settore e regione/provincia
di appartenenza). Infine, per eliminare ogni potenziale problema residuo di
autoselezione o di endogeneità, sono state effettuate analisi su sottocampioni di
imprese (non esportatrici nel periodo precedente alla rilevazione) e sono state
impiegate tecniche di matching (Coersened Exact Matching) che consentissero una
selezione di imprese con caratteristiche simili, ma che differissero esclusivamente
per la variabile oggetto di studio (trattamento).
Le analisi sul margine estensivo di export (probabilità di essere esportatori)
sono basate su modelli probabilistici lineari o modelli Probit con effetti random
aumentati con la media temporale di ogni regressore (Mundlak correction).
Le analisi sul margine intensivo (quota di export, performance e crescita della
produttività) si basano invece su modelli lineari panel con effetti fissi temporali e a
livello di impresa. I dettagli metodologici e empirici del lavoro, così come i risultati
delle stime effettuate, saranno disponibili nel documento Study on firm-level
drivers of export performance and external competitiveness in corso di
pubblicazione come European Commission discussion paper e successivamente
disponibili sul sito www.met-economia.it.
I principali risultati dell’analisi possono essere ricondotti alle seguenti aree
tematiche:
- pag. 44 -
all’elevata persistenza dei fenomeni, rimossa attraverso l’utilizzo di effetti fissi.
La non significatività della variabile di produttività è certamente collegata al
suo lento cambiamento nel tempo e agli espliciti controlli per una serie di
attività (innovazione, R&S, investimenti, etc.) che guidano la sua evoluzione
nel breve periodo.
Questa evidenza, combinata con la significatività dei risultati preliminari,
implicitamente sottolinea il ben noto processo di autoselezione delle imprese
più produttive nei mercati internazionali.
In sostanza, la produttività non ha effetti diretti sul cambiamento di status da
soggetti che operano solo sul mercato interno (domestici) ed esportatori, ma
ha effetti rilevanti per l’upgrading (per esempio attraverso una crescita della
quota di fatturato esportato), o per evitare l’uscita dal mercato internazionale.
Di contro, l’introduzione di innovazioni, lo svolgimento di attività di ricerca e
sviluppo e investimenti di altra natura continuano a mostrare un effetto
fortemente positivo e significativo sulla probabilità di esportare, specialmente
in mercati lontani (extra UE).
Simili risultati vengono riscontrati anche nello studio della probabilità di nuovi
ingressi sul mercato internazionale (sottocampione di imprese non
internazionalizzate nel periodo precedente).
Il ruolo giocato dalle attività innovative è confermato anche per il margine
intensivo di export (quota di export o crescita del valore esportato sul
fatturato). L’introduzione di innovazioni implica una crescita media del valore
esportato di circa l’8.5%.
Inoltre, sebbene il livello di produttività non giocasse un chiaro ruolo per
l’ingresso sui mercati internazionali, emerge invece come una determinante
fondamentale delle performance estere, e segnale della elevata capacità di
competere sui mercati.
I risultati sono consistenti anche con modelli a equazioni simultanee in grado
di tener conto di fattori non osservabili che guidano al contempo la probabilità
di export e di innovazione. L’approccio empirico consente inoltre di
evidenziare i limiti e le determinanti che incidono sulla probabilità di
innovazione. L’attività di ricerca gioca naturalmente un ruolo primario.
È opportuno sottolineare come, non solo la ricerca svolta internamente, ma
anche l’attività di ricerca esterna, tipicamente impiegata da imprese meno
strutturate, accresca la probabilità di innovare.
Il razionamento sul credito bancario è fortemente (e negativamente) collegato
con la capacità innovativa delle imprese ed il suo impatto è significativamente
ridotto da fenomeni di relationship lending (accumulazione di informazioni da
parte della banca attraverso rapporti ripetuti con soggetti relativamente
opachi).
Infine, si segnala un ruolo importante giocato da componenti strutturali (età e
dimensioni) così come dall’ambiente in cui opera l’impresa (appartenenza a
- pag. 45 -
gruppi e network di aziende) attraverso la generazione di spillover ed
esternalità positive.
Tipologia di innovazione.
Alla luce del ruolo cruciale giocato da attività di innovazione e ricerca, l’analisi
ha affrontato e evidenziato diverse componenti di eterogeneità nei fenomeni di
interesse. Tra le varie tipologie di innovazione, l’introduzione di nuovi prodotti
sembra dominare strettamente altre forme di innovazione (di processo o
organizzative-gestionali) che risultano ampiamente non significative nello
spiegare sia la probabilità di export che le effettive performance internazionali.
Tuttavia, l’analisi ha mostrato un ruolo indiretto delle innovazioni di processo
e organizzativo-gestionali attraverso una sostanziale crescita della produttività
anche di breve periodo (incrementi superiori al 15%).
- pag. 46 -
consentono alle imprese, specialmente alle nuove entranti, di colmare
eventuali divari strutturali con le imprese già internazionalizzate.
- pag. 47 -
- pag. 48 -
6 L’evoluzione dei “motori” della competitività durante la crisi
Le analisi proposte nei capitoli precedenti hanno identificato una serie di fattori
determinanti per la competitività internazionale delle imprese italiane. Questi
fattori sono riferiti sia a caratteristiche strutturali persistenti che ai profili strategici
dell’impresa.
In particolare, le diverse analisi hanno evidenziato il ruolo discriminante che
assumono i percorsi innovativi nel raggiungimento di vantaggi competitivi. Più
precisamente, le analisi econometriche hanno fatto emergere come i pattern
dell’innovazione possano agire sia in maniera diretta che indiretta (ad esempio
attraverso incrementi della produttività) sulla capacità delle imprese di competere
sui mercati internazionali.
L’identificazione dei drivers della competitività ha un valore per sé che,
tuttavia, deve essere integrato dall’osservazione a livello aggregato della diffusione
di questi fattori e dalla loro evoluzione per comprendere lo scenario competitivo
nazionale e delle diverse regioni.
La rilevanza di tali evidenze nell’ottica del policy maker fa riferimento
esplicitamente alla comprensione delle dinamiche spontanee in corso.
I risultati presentati in questo capitolo si basano sulle variazioni osservate
attraverso le rilevazioni campionarie MET, che coprono, come segnalato in
precedenza, l’intero arco della crisi.
Un elemento di interesse è riferito all’evoluzione stessa della propensione
internazionale, misurata in questo caso attraverso la percentuale di imprese che
vendono all’estero e dalla quota media di fatturato esportato. La Figura 6.1 mostra
la percentuale di imprese esportatrici, fatto 100 la popolazione di imprese nazionale
dell’industria in senso stretto.
La crescita delle imprese esportatrici è stata continua, anche se il 2011, con
l’arrivo della seconda ondata della crisi che ha colpito più pesantemente il mercato
interno, ha rappresentato l’avvio di una fase di significativa accelerazione. La quota
di esportatori è infatti passata dal 18,5% del 2008 al 18,6% del 2009, per poi
arrivare al 20,5% del 2015.
L’incremento della proiezione internazionale ha riguardato tutte le classi
dimensionali, anche se con diverse velocità. Nelle micro-imprese la reazione al
crollo della domanda interna è avvenuta con maggiore ritardo rispetto alle aziende
più strutturate; nel 2011, infatti, la percentuale di aziende esportatrici con meno di
9 addetti era addirittura calata, successivamente, tuttavia, è seguito un significativo
aumento portando nel 2015 la percentuale di imprese esportatrici a un livello
superiore a quello pre-crisi.
Al di sopra dei 10 addetti, al contrario, il trend positivo è stato continuo, con
incrementi particolarmente marcati nelle fasce intermedie, rappresentative della
piccola e media impresa.
- pag. 49 -
Figura 6.1. Percentuale di imprese esportatrici per classe dimensionale e anno
dell’indagine campionaria.
90%
80%
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
Totale 1-4 5-9 10-49 50-249 250 e oltre
2008 18,5% 12,6% 28,6% 35,9% 70,3% 76,6%
2009 21,1% 13,6% 22,7% 37,8% 67,7% 85,1%
2011 18,6% 8,1% 22,8% 45,6% 73,9% 80,1%
2013 20,5% 11,7% 34,0% 46,4% 75,4% 78,4%
2015 20,5% 11,8% 33,9% 47,6% 80,2% 81,7%
Figura 6.2. Propensione all’export (fatturato esportato in % del fatturato totale) per
classe dimensionale e anno dell’indagine campionaria.
45
40
35
30
25
20
15
10
5
0
Totale 1-4 5-9 10-49 50-249 250 e oltre
2008 19,4 3,7 8,3 14,0 27,8 29,9
2011 20,1 2,1 7,4 17,6 29,6 35,6
2015 26,4 3,5 10,9 18,0 41,1 41,9
- pag. 50 -
All’interno di questo scenario che ha caratterizzato il coinvolgimento
internazionale dei produttori, è utile analizzare l’evoluzione nella crisi delle
determinanti della competitività internazionale.
Il primo elemento informativo si riferisce alla quota di imprese che ha
introdotto almeno un’innovazione (di prodotto, di processo o
organizzative/commerciali) nel triennio precedente all’anno in cui sono state
condotte le indagini (Figura 6.3).
Lo scoppio della crisi ha portato a un drastico calo delle imprese innovatrici, a
causa sia della caduta della domanda che della minore disponibilità di risorse
finanziarie necessarie allo sviluppo e all’introduzione di nuove tecnologie. L’avvento
della seconda ondata della crisi e la percezione della prolungata stagnazione della
domanda interna hanno spinto un crescente numero di imprese verso
comportamenti proattivi per far fronte al ciclo economico. Questi fattori hanno
determinato una ripresa della quota di soggetti innovativi tra il 2011 e il 2013,
proseguita anche nel biennio successivo: nonostante ciò, nel 2015 la percentuale di
coloro che hanno introdotto innovazioni resta ancora al di sotto dei livelli pre-crisi.
Figura 6.3. Percentuale di imprese che hanno introdotto almeno un’innovazione, per
classe dimensionale e anno della rilevazione.
90%
80%
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
Totale 1-4 addetti 5-9 10-49 50-249 250 e oltre
2008 35,6% 30,0% 40,4% 56,4% 67,3% 82,4%
2009 19,8% 16,7% 20,5% 26,4% 40,6% 54,5%
2011 12,5% 8,2% 12,7% 23,6% 43,6% 59,5%
2013 20,0% 16,0% 27,0% 30,8% 43,0% 50,6%
2015 28,6% 22,9% 35,5% 48,9% 62,8% 70,0%
- pag. 51 -
complessiva. Già a partire dai 10 addetti, le imprese innovative rappresentano circa
la metà degli operatori, sino ad arrivare ad oltre il 60% delle imprese con più di 50
addetti.
La dinamica osservata nelle diverse regioni conferma il trend nazionale: in tutte
le regioni si è assistito tra il 2011 e il 2015 ad un forte aumento della quota di
imprese innovatrici.
In questo stesso arco temporale, per oltre il 70% delle regioni, la percentuale di
imprese che ha introdotto innovazioni è più che duplicata, con incrementi
particolarmente accentuati per la Lombardia e la Sardegna, mentre in Veneto,
Umbria e Marche l’incremento è stato molto più contenuto.
La mera diffusione dell’innovazione in termini di numero di imprese non tiene
conto del diverso impatto economico di quelle più grandi, che pur numericamente
ridotte hanno effetti in termini di addetti e di valore aggiunto molto rilevanti.
Una comparazione della propensione innovativa nelle diverse regioni, che tenga
conto di questo aspetto, può essere realizzata ponderando diversamente le
osservazioni sulla base del numero di addetti impiegati, come mostrato nella Figura
6.5.
Fatto 100 il valore nazionale, le regioni che mostrano, al 2015, il maggiore
impegno innovativo sono l’Emilia Romagna e il Friuli Venezia Giulia, seguite da
Lombardia, Veneto e Piemonte. Questo è il gruppo delle regioni che influenza in
maniera prevalente gli output innovativi aggregati a livello nazionali. Si tratta infatti
delle uniche regioni con una presenza innovativa superiore al dato medio italiano.
Le regioni del Centro si collocano su un gradino intermedio con valori che
vanno da un indice pari a circa 85 per la Toscana sino ad arrivare all’Umbria che si
avvicina al dato complessivo.
Le regioni meridionali sono in posizione arretrata con un indice innovativo che
in media è di circa il 25% inferiore alla media Italia, anche se si registra un quadro
piuttosto eterogeneo, con la Sardegna che si avvicina ai valori osservati per le
regioni centrali, la Campania, la Puglia e la Basilicata in posizione intermedia, e,
infine, la Calabria e la Sicilia che presentano la più bassa propensione
all’innovazione.
Va sottolineata, tuttavia, la forte accelerazione che, anche nelle regioni
meridionali, si è registrata nel volgere di 4 anni con un aumento superiore al 100%
nella diffusione di innovazioni (in termini di numero di soggetti).
- pag. 52 -
Figura 6.4. Percentuale di imprese che hanno introdotto almeno un’innovazione,
dettaglio regionale. Indagini 2011 e 2015.
40%
35%
30%
25%
20%
15%
10%
5%
0%
2015 2011
100
80
60
40
20
- pag. 53 -
Tornando alle tendenze più generali, alcuni approfondimenti possono essere
rivolti alle tipologie di innovazioni introdotte.
La dinamica osservata in precedenza è confermata, anche se con alcune
differenze, sia per le innovazioni di prodotto che per quelle di processo e
organizzativo-commerciali.
Le innovazioni di prodotto sono quelle che hanno maggiormente risentito degli
effetti della crisi. La quota di imprese che ha introdotto nuovi prodotti è infatti
calata in maniera drammatica, passando dal 25% del 2008 al 12% del 2009. Il calo è
proseguito sino al 2011 (8%), per poi subire una ripresa progressiva sino al 2015,
tuttavia i livelli restano ancora distanti da quelli precedenti al 2008.
Nel caso delle innovazioni di processo e di quelle organizzative il calo seguito
alla crisi è stato relativamente meno intenso e, per le innovazioni di processo, nel
2015 il recupero post-crisi è stato ormai completato.
Si può dire, in sostanza, che in attesa di una piena ripresa della domanda
aggregata, a partire dal 2011 le imprese abbiano realizzato un impegno significativo
alla ricerca di un miglioramento dei livelli di efficienza attraverso nuovi processi
tecnologici e nuove pratiche organizzative.
Figura 6.6. Tipologie di innovazioni introdotte, per anno della rilevazione campionaria.
30%
25%
20%
15%
10%
5%
0%
Di prodotto Di processo Organizzative/commerciali
2008 24,8% 15,1% 14,3%
2009 12,5% 9,8% 12,5%
2011 8,0% 5,6% 5,6%
2013 13,8% 9,1% 7,1%
2015 20,1% 14,8% 11,9%
- pag. 54 -
A seguito della prima fase della lunga crisi, la quota di soggetti impegnati in
investimenti in ricerca e sviluppo è calata dal 9,2% dell’indagine del 2008 al 5,8%
della rilevazione condotta l’anno successivo.
La ripresa dei soggetti attivi nel campo della R&S è iniziata già nel 2011 (6,3%)
per poi subire un progressivo e più significativo incremento, arrivando al 9,9% nel
2013 e al 12,9% nel 2015.
Si tratta di un’evidenza di grande rilievo, che segnala come i livelli pre-crisi
(almeno in termini di imprese coinvolte) siano stati recuperati già tra il 2011 e il
2013 e come il tessuto produttivo abbia acquisito una maggiore consapevolezza del
ruolo della R&S per ottenere vantaggi in uno scenario caratterizzato da crescenti
pressioni competitive.
In questo senso, il sistema produttivo che esce dalla crisi può essere inteso come
maggiormente innovativo rispetto a quello esistente al 2008.
Naturalmente la propensione alle attività di R&S, può essere influenzata dai
processi di selezione intercorsi durante la crisi, nell’ipotesi che i soggetti meno
innovativi siano fuoriusciti dal mercato.
Se si considera l’evoluzione espressa in termini assoluti, si conferma il trend di
crescita segnalato indicando un incremento del numero di imprese che ha investito
in R&S, anche se il superamento del valore pre-crisi risulterebbe essere avvenuto
solo nell’ultima rilevazione.
A ogni modo, la dinamica aggregata risulta prevalentemente influenzata dal
comportamento delle micro-imprese.
Infatti, se si considerano le aziende comprese nell’intervallo 10-249 addetti, la
ripresa delle attività è arrivata già prima dell’avvento della seconda ondata della
crisi. Al di sopra dei 250 addetti, la crescita è stata progressiva, senza una riduzione
della quota di imprese con R&S nella prima fase dello scoppio della crisi finanziaria
(probabile effetto di selezione).
La positiva ripresa delle attività di ricerca è confermata dall’analisi
dell’evoluzione del margine intensivo di spesa in R&S (Figura 6.8): le risorse
dedicate, in percentuale del fatturato, sono in crescita dal 2009, dopo il drammatico
crollo registrato a seguito della prima ondata recessiva.
Tra il 2013 e il 2015 si è registrata un importante accelerazione, grazie
soprattutto ad un incremento delle risorse impiegate nelle fasce dimensionali più
piccole, al contrario, tra le imprese di media e grande l’intensità di spesa è ancora
ampiamente al di sotto dei livelli pre-crisi.
- pag. 55 -
Figura 6.7. Percentuale di imprese che ha svolto attività di R&S, per classe dimensionale
e anno della rilevazione.
80%
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
Totale 1-4 addetti 5-9 10-49 50-249 250 e oltre
2008 9,2% 5,3% 11,1% 22,5% 45,6% 53,7%
2009 5,8% 2,6% 6,1% 12,7% 31,8% 57,3%
2011 6,3% 2,0% 6,0% 17,5% 40,7% 64,1%
2013 9,9% 5,9% 11,5% 23,3% 44,7% 60,2%
2015 12,9% 9,9% 12,7% 22,4% 52,1% 67,2%
0
Totale 1-4 addetti 5-9 10-49 50-249 250 e oltre
2008 ,95 ,66 1,09 1,98 3,19 4,95
2009 ,27 ,17 ,28 ,48 1,12 3,43
2011 ,39 ,19 ,42 ,99 1,59 3,77
2013 ,48 ,37 ,42 ,92 1,87 3,06
2015 1,21 1,11 1,05 1,69 2,14 2,98
- pag. 56 -
Il trend di crescita delle attività di R&S non solo è confermato in tutte le regioni
italiane, ma ha coinvolto in maniera significativa anche le regioni meridionali,
nonostante un livello ancora al di sotto di quello medio nazionale.
In Lombardia e in Friuli Venezia Giulia si osserva la maggiore diffusione di
imprese con spese in ricerca, riguardando circa il 17% delle aziende attive. Subito al
di sotto si collocano il Veneto, l’Emilia Romagna, il Lazio e l’Umbria. Tra le regioni
meridionali quelle che registrano il più alto impegno sono l’Abruzzo e la Campania,
mentre la Basilicata occupa il gradino più basso.
Figura 6.9. Percentuale di imprese che svolge attività di R&S, dettaglio regionale.
Indagini 2011 e 2015.
20%
18%
16%
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
2015 2011
- pag. 57 -
innovazioni tecnologiche, la quota di imprese che ha svolto attività di R&S è
raddoppiata tra il 2008 e il 2015, passando dal 20% al 40%. Tale tendenza è
comune a tutte le classi dimensionali: anche le micro e piccolissime imprese,
quindi, stanno cercando di migliorare il proprio profilo innovativo e le loro
conoscenze tecnologiche attraverso attività di ricerca codificata.
In conclusione, si può affermare che la crisi ha agito in diversi modi sui percorsi
innovativi intrapresi dalle aziende.
Per iniziare, l’incertezza generata, i dubbi sulle strategie da intraprendere e la
mancanza di risorse finanziarie disponibili hanno profondamente ridotto la
propensione ad innovare e ad investire in attività di R&S nella fase iniziale della
crisi. Con la recessione si è avuta una ricomposizione delle tipologie di innovazioni
che ha favorito una relativa maggiore diffusione delle innovazioni di processo e
organizzative a segnalare la ricerca di guadagni di efficienza da parte delle imprese.
Il prolungarsi della fase di difficoltà ha successivamente mutato l’atteggiamento
di molte imprese, per le quali è divenuto progressivamente più stringente l’esigenza
di adottare comportamenti innovativi anti-ciclici.
In altre parole, la seconda ondata della crisi, come detto, ha messo in dubbio la
sostenibilità di atteggiamenti di mera attesa e minimizzazione dei costi e dei rischi.
A questo riguardo i dati hanno evidenziato il trend di forte ripresa delle attività
innovative a partire dal 2011 e il cambiamento delle modalità di realizzazione delle
innovazioni. E’ stato infatti descritto in precedenza come il modello innovativo
tradizionale delle piccole imprese italiane, basato su innovazioni incrementali, non
basate su acquisizioni di conoscenza tramite attività di ricerca, sia stato messo in
forte discussione all’interno di uno scenario che vede una progressiva e forte
crescita del modello di innovazione basato sulla R&S.
Il tessuto produttivo italiano che esce dalla crisi è più “innovativo” e
consapevole delle determinanti della competitività di quello presente prima del
2008. I dati microeconomici hanno evidenziato la presenza di profondi mutamenti
nella struttura industriale. Allo stesso modo, tali mutamenti si accompagnano a
tendenze estremamente eterogenee, non rendendo possibile chiarire se la maggiore
diffusione relativa delle imprese innovative sia il frutto dei processi di selezione a
favore delle imprese più efficienti oppure il risultato di una accresciuta
consapevolezza presso tutti gli operatori.
Al di là di quali siano le cause possibili, il cambiamento avvenuto a partire dal
2011 è un dato di fatto con dinamiche interne particolarmente rilevanti e rapide,
oltre che, come si è visto in precedenza, caratterizzate ancora da molte fragilità. Si
tratta di tendenze da sostenere e che possono formare una base per un nuovo
percorso di crescita.
- pag. 58 -
7 Le politiche: il disegno
11 E’ appena il caso di sottolineare come tutto faccia riferimento alla Politica Industriale. Essa è
costituita da una gamma molto ampia di strumenti e di strategie e va dai sistemi di regolazione
generale dei mercati e di alcuni mercati in modo particolare, alla gestione della domanda pubblica,
fino a orientamenti specifici, come nel caso della Green Economy o della scelta di sistemi di
mobilità da privilegiare. In queste pagine si ragiona solo di una linea specifica delle politiche
industriali rappresentata dal sostegno a quelle tendenze delle imprese private considerate
meritevoli di supporto.
12 Dopo aver occupato per anni le prime pagine dei più importanti quotidiani italiani con la
tesi di un’industria privata nazionale sussidiata, la questione è lentamente evaporata fino a far
scrivere all’ex commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, Carlo Cottarelli:
“…avrete notato che, a parte qualche finanziamento per le aree disagiate e per interventi di importo
minore, il settore industriale italiano non riceve finanziamenti rilevanti dallo Stato…” (Cottarelli,
2015)
13 Non si considerano tali le cosiddette best practice europee spesso definite su basi troppo
fragili e ben prima che gli effetti potessero essere riconosciuti. Peraltro la presentazione di queste
- pag. 59 -
capacità di poter essere trasferiti in contesti, per esempio regionali, differenti.
Persino il parlare di casi di successo è stato messo in secondo piano, forse per non
andare contro il senso comune.
La logica sottostante alla presente analisi è che uno sforzo per migliorare
l'efficacia del disegno di politica industriale potrebbe utilmente essere orientato in
due direzioni prevalenti: una specificazione più accurata degli obiettivi e un disegno
tecnico degli strumenti che parta dalla esplicitazione della “domanda” delle imprese
e non dalla riproposizione di regole e meccanismi amministrativi predeterminati o
appropriati solo per il rispetto di regolamenti.
Si tratta, nella sostanza, di un reale rovesciamento di prospettiva che richiede
una condivisione di indirizzi e attività specifiche (non di produzione legislativa, se
non in casi minori, ma di messa a punto regolamentare) e di un ruolo del settore
pubblico molto orientato anche a servizi di accompagnamento.
La “domanda” di policy da parte delle imprese, prioritaria in questo disegno,
può essere approssimata dall’insieme di criticità operative, difficoltà a
intraprendere percorsi di crescita, vincoli allo sviluppo rappresentati dalle quantità
e qualità dei fattori produttivi - in primo luogo costituiti dalle competenze e dal
capitale -, ma anche dalle disponibilità di servizi qualificati e da reti di imprese.
Sono aspetti sui quali appropriate misure sono in grado di avere effetti, come
avviene in diversi paesi leader in questo campo, a partire dalla Germania.
Si tratta di una domanda che, per sua stessa natura, è differenziata a seconda
dei diversi profili e caratteristiche di imprese ed è utile cercare di distinguere tali
problematiche sulla base di analisi descrittive e interpretative approfondite. I test di
sperimentazione diretta degli strumenti, naturalmente, rimangono essenziali14.
Le analisi svolte in queste pagine mirano all'individuazione di obiettivi più
specifici in termini di caratteristiche delle imprese e all'identificazione dei principali
fattori di competitività, nonché di molti problemi e vincoli che i diversi gruppi di
operatori incontrano. L’obiettivo è quello di offrire informazioni per corrette
interazioni tra il disegno delle politiche e l'universo eterogeneo delle imprese.
La politica può essere progettata per incoraggiare strategie dinamiche e
alleviare i vincoli principali che limitano le attività degli attori più interessanti
(individuati a grandi linee nei capitoli precedenti, ma che necessitano di
approfondimenti mirati).
Una volta definiti gli scopi e le caratteristiche delle politiche da conseguire, la
parte gestionale-amministrativa e la sua idoneità a raggiungere gli obiettivi
rappresenta un problema fondamentale troppo spesso trascurato.
pratiche non toccava quasi mai i dettagli operativi da cui trarre eventuali possibilità di
riproposizione.
14 Si tratta di un lavoro impegnativo sul quale i policy maker o le istituzioni di attuazione
dovrebbero impegnarsi in misura consistente: essi offrono un servizio e la conoscenza accurata dei
fruitori dovrebbe essere aspetto essenziale.
- pag. 60 -
Non è compito di questo lavoro l’approfondimento degli aspetti di gestione
amministrativa e di pratiche seguite nelle diverse fasi di disegno procedurale, di
accesso, di selezione e di certificazione: certo, un’operazione di manutenzione
straordinaria degli strumenti in essere per cercare di renderli più amichevoli nei
confronti delle imprese e più orientati al raggiungimento degli obiettivi potrebbe
essere un’attività meritevole di un impegno esplicito con ridotto utilizzo di risorse e
potenzialità rilevanti.
Le regole devono comunque essere rispettate: in attesa di poter cambiare quelle
meno sensate, un serio lavoro di assistenza da parte delle amministrazioni può
essere desiderabile ed efficace.
Prima di affrontare direttamente i suggerimenti di policy derivanti in modo
specifico dalle elaborazioni svolte, riteniamo utile proporre un breve cenno alla
storia della nostra politica industriale nel dopoguerra, che ripercorra le diverse fasi,
i diversi obiettivi e gli strumenti che hanno caratterizzato un lunghissimo periodo.
Lo scopo è quello di mostrare come nei diversi cicli vi sia stato un susseguirsi di
iniziative con una gamma completa di strategie, con oscillazioni periodiche e
ritorni.
Come spesso si afferma: il diavolo sta nei dettagli (o seguendo la versione
crociana originale: il paradiso è nei dettagli).
***
La storia della politica industriale italiana può essere fatta risalire agli anni '50
con l'intervento straordinario per l'Italia meridionale, ma possiamo identificare, a
livello nazionale, due periodi principali caratterizzati da punti di svolta delle
politiche nazionali.
Il primo punto di svolta rilevante delinea l'emergere della politica industriale
nazionale italiana e comincia, seppure con un certo grado di arbitrarietà, alla metà
degli anni '70: negli anni immediatamente successivi alla prima crisi petrolifera,
con una recessione assoluta nel 1975, il primo periodo di vera grande difficoltà
dell'industria italiana del dopoguerra.
Il secondo punto di svolta può essere identificato nell'ultimo decennio del
secolo, e in particolare in un anno fatidico sotto molti profili, il 1992: i Trattati
dell'Unione Europea, la creazione del mercato unico europeo, l’emergere di nuove
forze politiche fortemente radicate nelle regioni più ricche del paese, la crisi
monetaria e la pressione dei vincoli di bilancio che si sono determinati (con molte
altre trasformazioni politiche e sociali di rilievo) hanno portato a una revisione
sostanziale della politica in corso.
A questi due grandi cicli sembrerebbe essersene aggiunto un terzo avviato da
pochi anni e in attesa di un ulteriore consolidamento delle tendenze.
Il cambiamento si può riconoscere negli anni di uscita dalla lunga crisi con le
misure adottate a partire dal 2014. In questo ultimo caso le novità sono molte e
toccano diversi aspetti. Al di là di quelli culturali sul modo in cui vengono percepite
le politiche per le imprese, si è assistito a una progressiva revisione di numerosi
- pag. 61 -
strumenti, all’accelerazione dell’orientamento “tecnologico” delle misure (Smart
specialization e Industria 4.0) e all’utilizzazione di strumenti convenzionali e “non
convenzionali” come quelli finanziari forniti da Agenzie e Istituti pubblici.
Per offrire una sorta di promemoria di cambiamenti spesso dimenticati si
ripropone, in appendice, una cronologia sommaria delle varie politiche industriali
seguite in Italia dalla fine della seconda guerra mondiale ai giorni nostri con i
cambiamenti della struttura, delle caratteristiche, delle strategie e dei principali
strumenti adottati descritti solo nelle loro linee essenziali (cfr. Appendice: le fasi
della politica industriale).
In oltre 60 anni sono stati testati quasi tutti i possibili sistemi di intervento.
Le strategie seguite spaziano dal sostegno generico all'accumulazione del
capitale e al lavoro (sia qualificato che non qualificato), a incentivi specifici di
settori chiave, incluse le sovvenzioni a quelli che si considerano in letteratura come i
driver generali della crescita (R&S, innovazioni o internazionalizzazione), fino alla
decontribuzione del costo del lavoro, alla defiscalizzazione decennale per i nuovi
impianti e giungono a comprendere le politiche per il sostegno al capitale di rischio,
oltre a molto altro ancora.
Ancor più interessante è la scelta degli strumenti tecnici - che per la verità non
sembra sempre consapevole per quanto concerne gli effetti -: si è passati da
strumenti con base generale (ovvero verso tutti coloro che effettuavano determinati
investimenti o svolgevano specifiche attività) a quelli con meccanismi premiali (si
pensi al procedimento di selezione basato su criteri orientati al risparmio di risorse
pubbliche per unità di occupazione e sulla scelta delle imprese apparentemente più
solide dei primi bandi della legge 488/92), da strumenti molto selettivi (interventi
per il capitale di rischio), fino al ritorno a strumenti generalissimi quali quelli che
prevedono un credito di imposta automatico in relazione a spese determinate.
L'elenco degli strumenti utilizzati può essere esteso ulteriormente e oggi è
difficile trovarne di nuovi, almeno nelle loro definizione generale, mai sperimentati
e potenzialmente più efficaci: interventi diretti con le imprese pubbliche, quote di
spesa fissa per regioni o aree da privilegiare, sostegni al capitale di rischio in molte
forme diversificate, concessione di garanzie pubbliche per l'accesso al credito,
prestiti partecipativi, contributi agli investimenti, prestiti agevolati, riduzione dei
costi del lavoro, incentivi all'assunzione, sostegni all’avviamento e incentivi alle
nuove imprese, sovvenzioni ai brevetti, sovvenzioni alle esportazioni, sostegno alla
ricerca e alla innovazione, incentivi alla realizzazione di reti di impresa, voucher
per l’acquisto di servizi e molte altre possibilità.
La cassetta degli attrezzi nominalmente15 usata è impressionante, i risultati non
sono generalmente considerati positivi e lo scenario sembra lasciare poca speranza
per nuove politiche efficaci.
15 E’ bene ricordare che in un elenco sommario come quello esposto si affiancano operazioni
da miliardi di euro ad altre capaci di erogare somme irrisorie. Oltretutto, alcuni degli strumenti
- pag. 62 -
Ugualmente, intensità degli aiuti e strumentazione tecnica hanno subito
profonde trasformazioni e si sono seguite molte strade diverse.
Le tecnicalità non possono che essere la più evidente e credibile
rappresentazione delle diverse visioni del mercato e del ruolo del settore pubblico e
raffigurano una lunga parabola.
***
Qualunque sia stata la strategia seguita e gli strumenti tecnici utilizzati, la spesa
per gli Aiuti di Stato in Italia, spesa già diminuita notevolmente dagli anni Ottanta
(quasi dimezzata rispetto al PIL all'inizio del nuovo millennio), si è ulteriormente
contratta in termini assoluti e in relazione al PIL anche in rapporto alla maggior
parte dei paesi europei16. Persino durante la Grande Crisi il grado di sovvenzioni
all'industria italiana è diminuito apprezzabilmente. A ribadire una possibile
inversione di tendenza, i flussi di spesa per Aiuti registrano dal 2014 una, sia pur
lieve, crescita.
hanno conosciuto attuazioni molto ritardate e dotazioni trascurabili rispetto agli stessi obiettivi e
alle funzioni proposte.
16 Commissione europea: State Aid Scoreboard, European Commission, DG Comp,
http://ec.europa.eu/eurostat/tgmcomp/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=compsa
_02&plugin=1
- pag. 63 -
- pag. 64 -
8 Le politiche: i suggerimenti tratti dall’analisi
La ragione che sta alla base dell’analisi sin qui condotta risiede nel tentativo di
offrire informazioni per migliorare l'efficacia del disegno di politica pubblica a
partire dall'individuazione di obiettivi più specifici in termini di caratteristiche delle
imprese da sostenere.
Se le politiche da rinnovare devono partire da un’accurata analisi della
“domanda”, le misure appropriate per ridurre freni e vincoli alla diffusione di
comportamenti dinamici possono essere costruite solo avendo cura di identificare
con ragionevole precisione le imprese target.
Si è detto che un tale obiettivo può essere raggiunto attraverso una specifica
"granularità" delle analisi applicata allo studio delle determinanti principali della
competitività e della loro interazione con la popolazione delle imprese. Le nostre
analisi sottolineano aspetti solo in parte noti.
In modo particolare, ci si concentra sugli elementi comportamentali e strategici
che rimangono rilevanti anche dopo aver considerato le grandezze discriminanti
tipiche come la dimensione di impresa o l’appartenenza settoriale e geografica.
Proprio con riferimento alla grandezza “dimensione”, viene sottolineato come
l’elemento distintivo del sistema nazionale nel campo delle esportazioni non sia
stato tanto la grande diffusione delle imprese di piccola e piccolissima dimensione,
ma piuttosto la loro scarsa capacità innovativa e il loro modesto dinamismo in
relazione a imprese analoghe di altri paesi, che ha contribuito a determinare le
difficoltà sui mercati registratasi in periodi recenti.
Le stesse analisi svolte sembrano confermare l'esistenza di profondi processi di
ristrutturazione in corso e avviatisi durante la crisi con il coinvolgimento di un
numero crescente di società; tutto questo si sta traducendo in un riposizionamento
e in un miglioramento strategico nei diversi segmenti della produzione e del
mercato che si è riflesso nei positivi andamenti dei dati macroeconomici.
Non vogliamo sostenere, evidentemente, che la dimensione di impresa non
abbia rilievo, ma solo che esistono anche altri fattori che spiegano competitivtà e
performance: questi aspetti hanno un peso particolarmente elevato in un orizzonte
temporale di breve-medio periodo e possono avere efficacia anche a “struttura
produttiva data”.
Ancor di più, se si ragiona di politiche, è agendo sui motori dello sviluppo che
possono essere avviati processi che sono in grado - almeno potenzialmente - di
portare, attraverso un miglioramento delle performance, anche a un
consolidamento dimensionale. Va sottolineato, a tale proposito, come non sia
necessario porsi obiettivi irrealistici con una scala caratteristica di altre economie
(500 e più dipendenti), ma le nostre evidenze mostrano che si possono raggiungere
elevati livelli di efficienza, almeno nel caso italiano, già in un intorno dei 50 addetti
o persino a un livello inferiore.
- pag. 65 -
Il nostro contributo è stato principalmente orientato all'approfondimento del
ruolo dei diversi fattori di competitività delle aziende industriali italiane e ha offerto
un'analisi analitica e disaggregata degli elementi che caratterizzano la loro attività
nel corso della Grande Crisi degli ultimi anni.
In generale, questo sforzo ha confermato il ruolo fondamentale svolto dalle
attività di produzione e diffusione di conoscenze, come la R&S e le innovazioni,
nella loro funzione di “motori” della competitività internazionale.
Si sottolineano, tuttavia, aspetti specifici legati all’eterogeneità delle imprese e
dei loro comportamenti.
In sintesi, quindi, una parte non marginale delle possibilità di successo deriva
dai profili strategici propri delle imprese, dalle loro capacità tecnologiche e dai
comportamenti proattivi, in particolare nelle attività innovative anche a parità di
altri aspetti strutturali.
A questo proposito i dati documentano numerose trasformazioni negli ultimi
anni: in modo particolare vanno segnalati due aspetti fortemente collegati. La
crescita dell’apertura internazionale del sistema produttivo e la diminuzione della
diffusione del modello "tradizionale" italiano caratterizzato da innovazioni
incrementali senza attività di ricerca e sviluppo. Quest’ultimo fenomeno,
interpretato sempre come sintomo di debolezza, esiste ancora, ma si assiste a una
rapida trasformazione verso un modello che integra R&S e innovazione. Così pure i
processi in corso di integrazione e di sviluppo delle diverse strategie dinamiche
sembrano avere effetti significativi.
Inoltre, dopo un crollo iniziale della quota di imprese innovative nel periodo
2008-2009, il sistema industriale italiano ha registrato un graduale recupero nella
diffusione di imprese proattive dopo il 2010-2011. In alcuni di questi casi, come per
esempio nel campo delle attività di ricerca e sviluppo, la quota delle imprese
interessate a strategie dinamiche nel 2015 ha superato significativamente il suo
valore pre-crisi.
Nell'ambito di questo quadro, l'analisi empirica ha adottato adeguate tecniche
econometriche per correggere le stime da effetti collaterali indesiderati e isolare i
fattori di competitività esterna con un particolare focus sui comportamenti delle
imprese che hanno un ruolo strategico per la propria attività.
L'insieme dei risultati è estremamente ampio e si occupa di un numero
significativo di dimensioni che arricchiscono la letteratura esistente e forniscono
suggerimenti di qualche interesse per le politiche future.
Coerentemente con le principali interpretazioni della performance
internazionale italiana i principali risultati e suggerimenti politici possono essere
raggruppati in quattro ambiti principali.
- pag. 66 -
Di seguito si presentano prima le considerazioni riferite ad alcuni concetti
chiave e, successivamente, alcuni schematiche indicazioni.
Produttività
Si conferma quanto già diffusamente descritto in letteratura e cioè il ruolo
fondamentale svolto dalla produttività per la competitività internazionale, che si
associa stabilmente con una maggiore probabilità di internazionalizzazione: un
incremento di produttività è associato ad una probabilità di esportazione superiore.
Inoltre, la produttività ha un impatto critico sulle performance internazionali
delle imprese (cioè sui margini intensivi – crescita della quota di fatturato
esportato) e – in negativo - sulla decisione di uscire dai mercati esteri (+ 4% di
crescita delle esportazioni e -2% di probabilità di ritornare solo sui mercati interni).
Si tratta di una questione essenziale in quanto l'uscita dai mercati internazionali,
come documentato dalle statistiche descrittive aggregate, è stata estremamente
rilevante (circa il 20% delle imprese internazionalizzate tra il 2011 e il 2014) anche
in periodi caratterizzati da livelli di domanda interna relativamente bassi e da forti
incentivi a collocare all’estero la produzione.
Questo aspetto muta una volta tenuto conto delle caratteristiche persistenti
delle imprese, cioè quelle che non cambiano nel tempo. In questo caso la
produttività perde importanza nello spiegare la modifica dello status delle imprese
che operano solo sui mercati nazionali per portarle a esportare.
Si potrebbe ritenere poco rilevante questo aspetto se si considera che senza
crescita della produttività ci sarà poi, come detto, una maggiore probabilità di uscita
dai mercati. Va considerato, tuttavia, come comunque il nuovo ingresso in mercati
internazionali, anche in assenza di R&S e innovazione, ha un effetto
particolarmente virtuoso sulle prestazioni di vendita - secondo le stime effettuate -,
specie se si prolunga nel tempo e non è episodico. Il circuito virtuoso, anche se parte
dalla semplice vendita all’estero, può mettersi in moto attivando nel tempo anche
breve R&S, innovazioni e crescita della produttività secondo un processo
apparentemente inverso a quello tradizionalmente considerato (dalla ricerca alla
produttività e, infine, alla competitività internazionale).
Alla luce dei nostri risultati, si può sostenere che la produttività rappresenta un
fattore essenziale per il successo e la permanenza sui mercati internazionali, ma
non si ritiene che sia un fattore essenziale delle nuove scelte di
internazionalizzazione (cioè nuovi ingressi). A questo proposito, le misure politiche
dovrebbero tener conto di un effetto così eterogeneo con la capacità di differenziare
gli interventi volti ad aumentare il numero delle imprese internazionalizzate (un
aspetto rilevante per la crescita della competitività attraverso meccanismi di
apprendimento e di esportazione), dalle misure orientate al rafforzamento della
posizione internazionale e alla crescita di soggetti precedentemente
internazionalizzati. Nel primo caso, azioni più specificamente commerciali e di
- pag. 67 -
servizi per mercati non adeguatamente conosciuti possono essere molto efficaci,
mentre, nel secondo caso, si tratta di realizzare azioni di rafforzamento con
innovazione e ricerca mirate.
Ricerca e innovazione
Oltre alle caratteristiche strutturali di base, si registra un effetto sulla
competitività internazionale particolarmente significativo per gli investimenti in
strategie dinamiche. L'introduzione di innovazioni, il coinvolgimento in progetti di
R&S, nonché l'impegno di nuovi investimenti, hanno un effetto importante sulla
presenza in mercati esteri e sulla crescita delle quote anche di natura diretta, ovvero
dopo aver considerato l’effetto indiretto che passa attraverso una crescita della
competitività: effetti diretti per esempio legati al maggior potere di mercato di
prodotti nuovi o alla maggiore capacità di penetrazione degli stessi.
L'introduzione delle innovazioni è ancora più importante per raggiungere
destinazioni extraeuropee e per incidere sulle strategie di cambiamento delle
imprese: cioè l'ingresso e l'uscita dai mercati internazionali.
Ciò che va sottolineato in modo particolare, tuttavia, è proprio l’effetto
cumulativo delle strategie dinamiche: esiste cioè un “premio” specifico quando le
attività di innovazione si aggiungono a quelle di R&S con un significativo
incremento degli effetti attesi. I coefficienti relativi agli effetti di strategie innovative
associate all'investimento in R&S sono due o tre volte più grandi delle innovazioni
isolate (4,1% contro 1,7% nella probabilità di esportazione e + 11,7% vs + 6,6% nella
crescita delle vendite all'esportazione).
Inoltre, il percorso seguito nelle strategie dinamiche intraprese in passato
(aggiungendo o riducendo le azioni: per esempio integrando progressivamente le
attività dinamiche anziché realizzandole isolatamente) ha ulteriori effetti sulla
competitività internazionale delle imprese (circa il + 5% di probabilità di
esportazione).
Questo aspetto viene visto, quindi, come un supporto diretto alle tesi espresse
secondo le quali il processo di upgrading delle imprese intermedie manifesta
potenzialità ed effetti particolarmente rilevanti e come politiche specifiche possano
avere impatti attesi elevati.
Tra i diversi tipi di innovazioni, i nuovi prodotti dominano le altre forme di
innovazione (di processo o di tipo organizzativo-manageriale), specialmente nel
caso di società che non esportavano in precedenza. Questo perché i nuovi prodotti
sono la forma principale dell'innovazione che non viene prevalentemente
incorporata nel livello di produttività. Come da attese, le stime segnalano che le
innovazioni di processo e organizzative possono avere un ulteriore effetto indiretto
sull'esportazione aumentando la produttività delle imprese.
Le strategie innovative presentano effetti dis-proporzionali per le prestazioni
internazionali delle imprese che erano meno produttive e più piccole: i valori
- pag. 68 -
registrati segnalano un effetto maggiore sulle esportazioni delle azioni dinamiche
rispetto alle imprese inizialmente più produttive e più grandi.
Questo risultato consente di candidare strategie innovative come potenziali
strumenti per ridurre il divario tra grandi e produttive e l'insieme delle imprese
meno strutturate, che sono obiettivi ideali per le misure politiche.
L'esistenza di progetti di R&S è correlata a consistenti aumenti della probabilità
di introdurre innovazioni. Va sottolineato come questo effetto non sia limitato
all'investimento in R&S effettuato all'interno dell'impresa, ma si estenda anche alle
imprese che realizzano attività di R&S all’esterno, attraverso collaborazioni con
altre imprese o con laboratori e università.
Un altro fattore importante per stimolare la capacità innovativa delle imprese è
legato all'ambiente operativo: le grandezze rilevanti sono diverse e si va
dall'affiliazione ad un gruppo all'instaurazione di stretti rapporti con altre imprese
nazionali (ovvero la presenza di reti di impresa).
Infine, il ruolo dei vincoli finanziari è particolarmente significativo nel
determinare la capacità di innovazione di un'impresa; all’interno di questo aspetto,
pur limitandosi nelle stime econometriche alle relazioni creditizie che
rappresentano il canale più diffuso nell’attuale situazione italiana, la presenza di
stretti legami con la banca principale di riferimento è rilevante per ridurre le
asimmetrie informative che penalizzano le PMI innovative.
In termini di raccomandazioni di policy, si conferma il ruolo fondamentale
svolto dalle spese in R&S e dalle innovazioni (nuovi prodotti che influenzano
direttamente la competitività internazionale e le innovazioni di processo /
organizzazione che operano con una maggiore crescita della produttività).
La nostra analisi pone anche l’accento su alcuni fattori particolarmente
interessanti. Innanzitutto, la presenza di effetti disproporzionali nelle strategie
dinamiche significa che il miglioramento delle strategie innovative per le aziende
più fragili (meno piccole e meno produttive), associato ad un premio per coloro che
propongono strategie integrate (innovazione e R&S) e agli effetti della riduzione
della discontinuità di comportamenti proattivi, identifica un profilo di soggetti ben
identificati (per certi versi riconducibile alle imprese in movimento citate in
apertura) che possono costituire il target di una parte rilevante delle politiche
industriali.
Analogamente, i vincoli finanziari limitano severamente l'attività delle imprese
potenzialmente innovative. Il loro effetto va al di là degli attriti generici nel mercato
del credito ed è particolarmente accentuato quando il riferimento è dato dai
programmi di R&S e di innovazione.
Non tutto deve essere risolto nell’ambito del mercato del credito e il ricorso più
esteso a interventi sull’equity deve essere oggetto di interventi adeguati, ma
l’accesso al credito e la riduzione del rischio per progetti ad alta tecnologia deve
rappresentare un riferimento stabile e specifico delle politiche pubbliche.
- pag. 69 -
Dimensione d’impresa e appartenenza a gruppi
La visione dominante del sistema produttivo italiano sottolinea l'eccessivo
numero di aziende di micro-dimensioni nella struttura industriale associata a una
ridotta diffusione delle grandi imprese. Le nostre analisi e i confronti disponibili
consentono di trarre un quadro più articolato del sistema industriale.
Le poche analisi econometriche disponibili su basi microeconomiche disponibili
in letteratura non sono adeguatamente capaci di catturare il ruolo delle società di
dimensioni minori: sono, infatti, basate principalmente su indagini che escludono
dal loro perimetro di osservazione le imprese al di sotto dei 10 o dei 20 addetti.
Le statistiche descrittive aggregate sembrano documentare che la principale
debolezza del sistema italiano non deve essere attribuita all'eccessiva diffusione
delle micro-imprese (la cui quota non è molto diversa rispetto a quella di Francia e
Spagna, per esempio), ma piuttosto alla loro performance relativamente
insoddisfacente. L’analisi suggerisce che l'eterogeneità dell'insieme delle strategie
dinamiche ha portato, anche all'interno della stessa classe di dimensioni, a risultati
e livelli di efficienza sostanzialmente diversi. Inoltre, all'interno della classe delle
piccole imprese c'è una differenza significativa tra le aziende sotto e oltre dieci
dipendenti. Per questi ultimi (> 10), le evidenze descrittive ed empiriche
sottolineano le prestazioni più elevate dell'Italia rispetto ad altre economie di
riferimento europee.
Le analisi econometriche confermano sempre il ruolo positivo della dimensione
e dell'affiliazione a gruppi aziendali, ma questo aspetto viene in parte mitigato dalla
presenza di effetti disproporzionali con maggiore efficacia relativa dei cambiamenti
strategici per le imprese dinamiche ma ancora fragili.
Chiaramente, le dimensioni delle imprese non possono essere facilmente
inserite come obiettivi specifici per le politiche, almeno non direttamente. Tuttavia,
dai risultati empirici risulta che misure di policy orientate al rafforzamento di
attività innovative e di creazione di conoscenze, alla riduzione della loro
discontinuità e ai vincoli finanziari specifici per la loro attuazione possano
esplicitamente aiutare le piccole imprese che sono disposte a intraprendere percorsi
dinamici. Peraltro, per questa via, si può giungere a un consolidamento anche
dimensionale delle aziende purché sia chiaro che l’obiettivo – almeno nel caso
italiano – non è realisticamente quello di salti dimensionali particolarmente elevati,
con qualche eccezione sempre possibile, ma piuttosto il raggiungimento di elevati
livelli di efficienze che, per il sistema nazionale, sono raggiungibili a scale
dimensionali ridotte (come detto in precedenza anche in un intorno dei 50 addetti).
- pag. 70 -
È stato spesso utilizzato nelle interpretazioni, si pensi alla ben nota metafora del
Calabrone ricordata da Becattini, come fattore capace di compensare le inefficienze
derivanti dalle piccole dimensioni aziendali permettendo di raggiungere una scala
più ampia a livello di rete rispetto alla piccola dimensione delle singole unità.
Allo stesso modo, il coinvolgimento delle imprese nelle Catene Globali del
Valore è spesso citato come un fattore determinante per spiegare il successo o la
debolezza sui mercati internazionali, a seconda della loro diffusione e, soprattutto,
dei diversi modi di partecipazione delle imprese coinvolte.
La nostra analisi conferma il ruolo delle reti locali nel determinare la crescita
dell'innovatività, attraverso l'opportunità di scambi di conoscenze, così come
l'effetto dell’appartenenza a GVC17. I risultati mostrano un impatto medio positivo
del coinvolgimento nelle GVC, ma evidenzia, al tempo stesso, la presenza di forti
diversità nel modo in cui i partecipanti alle GVC hanno affrontato la crisi.
Mentre i fornitori di elevata competenza con connessioni internazionali stabili
(cioè "GVC cosiddette relazionali") presentano una propensione significativa ad
impegnarsi in attività innovative e progetti di R&S, altri modi di partecipazione del
GVC non hanno effetti diretti così significativi rispetto alle altre aziende. Questa
eterogeneità di comportamenti si riflette anche nella produttività differenziale e
nella crescita delle vendite.
Nel complesso, mentre il processo di upgrading all’interno delle GVC deve
operare attraverso la stabile attuazione e l’incremento della Ricerca e Sviluppo e
delle attività innovative, il rafforzamento delle reti locali può essere visto come un
elemento positivo per il rafforzamento delle strategie esistenti. Complessivamente,
l'aggiornamento delle strategie dinamiche si presenta come fattore critico anche
all'interno delle reti di impresa variamente intese e del sistema GVC, anche al di là
dei componenti specifici del settore.
***
I principali elementi in termini di suggerimenti di policy che si derivano dal
lavoro, in larga misura riferibili alla utilità di sostenere processi di integrazione e
completamento delle strategie dinamiche e di aiutare le imprese “intermedie” a
svilupparsi, possono essere sintetizzati anche come segue:
- pag. 71 -
impresa e per ogni territorio: le politiche devono avere analisi specifiche
dedicate a comprendere le caratteristiche dei bisogni.
Il ruolo del capitale umano come vincolo e come driver della competitività
costituisce un nodo essenziale delle politiche pubbliche. È del tutto evidente
- pag. 72 -
che azioni basate sulla conoscenza come quelle focalizzate sulla R&S e sui
processi innovativi non possono ignorare la crescita delle competenze e
facilitare gli sforzi delle imprese nel miglioramento delle risorse umane o di
acquisirne dall’esterno per poter condurre il proprio processo di
modernizzazione.
- pag. 73 -
- pag. 74 -
9 Appendice: le fasi della Politica Industriale italiana
- pag. 75 -
Caratteristica della Politica Strategie esplicite e
Anni
Industriale strumenti utilizzati
- pag. 76 -
Caratteristica della Politica Strategie esplicite e
Anni
Industriale strumenti utilizzati
- pag. 77 -
Caratteristica della Politica Strategie esplicite e
Anni
Industriale strumenti utilizzati
- pag. 78 -
Caratteristica della Politica Strategie esplicite e
Anni
Industriale strumenti utilizzati
- pag. 79 -
- pag. 80 -
10 Appendice: l’indagine MET
L’indagine MET si è affermata come un’analisi unica per la sua estensione, per
la sua rappresentatività (territoriale, settoriale e dimensionale) e per il rigore con
cui viene condotta (cfr. note metodologiche pubblicate sul sito www.met-
economia.it).
L’obiettivo è stato quello di fornire un quadro ampio e con sufficiente dettaglio
territoriale, dimensionale e settoriale di alcuni aspetti significativi della vita delle
imprese: si tratta di una delle più vaste indagini sulle imprese, anche in ambito
europeo, con circa 120 mila interviste realizzate alle imprese tra il 2008 e il 2015
(una media di 24 mila imprese intervistate per ciascuna rilevazione – 2008, 2009,
2011, 2013 e 2015).
Tabella 10.1. Numerosità delle indagini MET e composizione percentuale per classe
dimensionale delle imprese.
2008 2009 2011 2013 2015
- pag. 81 -
Tabella 10.2. Confronto tra le principali indagini campionarie sulle imprese italiane
Indagine MET Community Innovation Invind EFIGE
Survey (ISTAT) (Banca d’Italia) (Consorzio
Europeo)
- pag. 82 -
Per l’identificazione della dimensione delle imprese si è fatto riferimento alla
segmentazione di queste ultime in classi, dove ciascuna classe è definita in funzione
del numero degli addetti delle imprese stesse. In base a tale segmentazione le
imprese dell’universo di interesse si ripartiscono in quattro classi: micro-imprese
(imprese con un numero di addetti compreso tra 1 e 9), piccole imprese (imprese
con un numero di addetti compreso tra 10 e 49), medie imprese (imprese con un
numero di addetti compreso tra 50 e 249), grandi imprese (imprese con un numero
di addetti uguale o superiore a 250)19.
Il disegno del campione ha previsto venti ripartizioni per quanto concerne lo
strato del territorio e quattro ripartizioni per quanto concerne lo strato della classe
dimensionale delle imprese, 80 celle in totale (20 territori * 4 classi dimensionali).
La strategia adottata del campionamento stratificato porta a notevoli guadagni
nell’efficienza delle stime senza di fatto abbandonare l’idea del campionamento
casuale semplice, che nel campionamento stratificato vale all’interno degli strati.
La numerosità complessiva del campione è pari in media a 24.000 osservazioni
(interviste a buon fine per ciascuna rilevazione). Tale numerosità è stata
determinata sulla base della dimensione dell’universo e dall’assunzione di un errore
campionario stabilito a priori ed inferiore allo 0,6% nell’ipotesi di massima
variabilità del fenomeno osservato.
Sono stati infine considerate particolari sottopopolazioni di interesse, per le
quali l’allocazione garantisce un livello predeterminato di accuratezza delle stime:
tra queste il settore manifatturiero, alcune regioni sovra-campionate e il gruppo di
imprese che presentano maggiore probabilità di registrare presenza di attività di
ricerca e innovazione20 (lo scopo, in questo caso, è di ottenere stime più precise per
fenomeni che sono rari se rapportati all’intero universo, ma che rappresentano
un’area di studio di particolare rilievo).
Il criterio di allocazione seguito è definito in modo non proporzionale,
controllando tuttavia la misura dello scostamento dal campione proporzionale al
fine di non aumentare in misura eccessiva l’effetto del disegno. Il disegno prevede
quindi la pianificazione ex ante dei domini di studio e la predeterminazione
dell’attendibilità delle stime.
Le indagini contengono una componente longitudinale, relativa a un
sottocampione di imprese intervistate in più rilevazioni.
19 Classificazione Eurostat.
20 Tali imprese sono definite in base ai risultati della rilevazione immediatamente precedente,
identificando gli strati del campione con più alta incidenza di imprese innovative. Pianificando
opportunamente la numerosità campionaria in tali strati (definiti sempre dalla distribuzione
congiunta della regione, del settore di attività economia e dalla classe dimensionale) è stato
possibile controllare ex-ante il livello di accuratezza delle stime riferite alla sottopopolazione di
imprese innovative.
- pag. 83 -
Sotto il profilo metodologico la raccolta dei dati si è configurata come
un’indagine quantitativa realizzata con tecnica mista: interviste via web ricorrendo
al Sistema Cawi (Computer assisted web interview) e interviste telefoniche
effettuate con il Sistema Cati (Computer assisted telephone interview). Nel corso
degli anni alle interviste via web è stato dato un peso progressivo sino ad arrivare a
costituire la stragrande maggioranza delle interviste realizzate nell’ultima
rilevazione.
Ulteriori dettagli sulla metodologia di indagine sono disponibili sul sito
www.met-economia.it.
- pag. 84 -
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Indice delle figure
figura 1.1. Imprese industriali per tipologia di dinamismo, in termini di addetti (totale italia
= 100). ............................................................................................................................ 15
figura 1.2. Imprese industriali per tipologia di dinamismo e classe dimensionale, in termini
di numero di imprese, 2015. .......................................................................................... 16
figura 1.3. Imprese industriali per tipologia di dinamismo e ripartizione geografica, in
termini di addetti (totale della ripartizione = 100) ....................................................... 17
figura 3.1. Produttività del lavoro (valore aggiunto per addetto) nel manifatturiero. Migliaia
di euro. .......................................................................................................................... 24
figura 3.2. Esportazioni di merci in valore. Numeri indice, 2010=100. .............................. 26
figura 4.1. Distribuzione del margine intensive di export (quota del fatturato esportato sul
fatturato totale) per classe dimensionale delle imprese. ............................................. 30
figura 4.2. Grado di persistenza delle attività di export: status nel 2013 delle imprese che
esportavano nel 2011...................................................................................................... 31
figura 4.3. Confronto della distribuzione della produttività del lavoro tra imprese
esportatrici e imprese con solo mercato interno. ......................................................... 33
figura 4.4. Performance durante la seconda ondata della crisi: tassi di crescita del valore
aggiunto tra il 2011 e il 2014. ........................................................................................ 34
figura 4.5. Percentuale di imprese innovatrici per classe dimensionale, confronto tra
imprese esportatrici e aziende che vendono solo sul mercato interno. ....................... 36
figura 4.6. Imprese che svolgono r&s e spesa per attività di r&s (in percentuale del fatturato
– asse destro), confronto tra imprese esportatrici e domestiche. ................................ 38
figura 4.7. Produttività del lavoro, confronto sulla base della forma di
internazionalizzazione e della presenza di attività di r&s. ........................................... 42
figura 6.1. Percentuale di imprese esportatrici per classe dimensionale e anno dell’indagine
campionaria. ................................................................................................................. 50
figura 6.2. Propensione all’export (fatturato esportato in % del fatturato totale) per classe
dimensionale e anno dell’indagine campionaria. ......................................................... 50
figura 6.3. Percentuale di imprese che hanno introdotto almeno un’innovazione, per classe
dimensionale e anno della rilevazione. .......................................................................... 51
figura 6.4. Percentuale di imprese che hanno introdotto almeno un’innovazione, dettaglio
regionale. Indagini 2011 e 2015. ....................................................................................53
figura 6.5. Propensione innovativa nelle regioni: percentuale di imprese innovative
ponderato per il numero di addetti delle imprese, italia=100. .....................................53
figura 6.6. Tipologie di innovazioni introdotte, per anno della rilevazione campionaria. ...54
figura 6.7. Percentuale di imprese che ha svolto attività di r&s, per classe dimensionale e
anno della rilevazione. ...................................................................................................56
figura 6.8. Spesa in r&s, in percentuale del fatturato............................................................56
figura 6.9. Percentuale di imprese che svolge attività di r&s, dettaglio regionale. Indagini
2011 e 2015. .................................................................................................................... 57
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Indice delle tabelle
tabella 3.1. Distribuzione del numero di imprese e del valore aggiunto per classe
dimensionale delle imprese. Manifatturiero, valori percentuali. .................................25
tabella 3.2. Distribuzione delle esportazioni in valore per settore del manifatturiero. Valori
percentuali, medie biennali. .......................................................................................... 27
tabella 4.1. Imprese esportatrici e valore delle esportazioni per classe dimensionale delle
imprese, 2014. ............................................................................................................... 30
tabella 4.2. Confronto tra le caratteristiche delle imprese esportatrici e di quelle che
vendono solo sul mercato interno. ............................................................................... 32
tabella 4.3. Caratteristiche delle imprese ad alta crescita, confronto tra imprese esportatrici
e imprese che vendono sul solo mercato interno. .........................................................35
tabella 4.4. Tipologie di innovazioni introdotte, confronto tra imprese esportatrici e
aziende che vendono solo sul mercato interno. Valori percentuali. ............................. 37
tabella 4.5. Attività innovative per tipologia di internazionalizzazione. .............................. 40
tabella 10.1. Numerosità delle indagini met e composizione percentuale per classe
dimensionale delle imprese. .......................................................................................... 81
tabella 10.2. Confronto tra le principali indagini campionarie sulle imprese italiane ........ 82
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ISBN 978-88-6843-724-4
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