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I.

La novella nel Duecento

Le origini

Il termine “novella” deriva dall’aggettivo latino novus che significa “notizia


nuova”,”novità”. È una breve narrazione in prosa che racconta un fatto verosimile,
si svolge intorno ad un unico avvenimento dominante e si distingue da altri racconti
brevi per il suo carattere realistico. Spunti novellistici sono presenti già nei poemi
di Omero (XII-VIII sec. a.C.), nelle Storie di Prodotto (V sec. a.C.), nel Satyricon
di Petronio (I sec. d.C.) e nell’ Asino d’oro di Apuleio (II sec. d.C.).

In croato: novella = pripovijetka, pripovijest, prica, kratka prica

In inglese: novella = short story, tale

Nella tradizione croata:

pripovijetka, pripovijest = spesso viene interpretata (giustamente o meno) come una


forma media, un genere letterario tra la novella e romanzo.

kratka prica = forma anche più breve della novella

La scelta del tema nella novella è libera, i temi possono essere diversi – destini umani,
caratteri, avvenimenti, esperienze individuali, osservazioni, che però, in quanto un
genere breve, deve trattare molto precisamente e specificatamente.

L’attenzione, sinteticità ed il corso della trama nel racconto, devono essere messi in
risalto per poter realizzare l’impressione di congruità.

La novella, di regola, inizia con un introduzione, in cui vengono esposti i dati precisi e
sintetici relativi ai caratteri/carattere o avvenimenti/avvenimento che si va a
narrare, per provocare delle aspettative nel lettore.

A prescindere dalla necessità di “chiudere” in qualche modo il sintetico narrare tipico


della novella, per realizzare l’impressione e chiudere il ciclo di congruità,

per realizzare le aspettative del lettore, per accontentare la sua curiosità perché il lettore
possa avere l’impressione che è stato detto tanto quanto necessario, la novella

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solitamente termina in un punto preciso, forte, con un messaggio importante per il
tema, con un anticlimax, oppure con degli effetti stilistici.

Molte novelle vengono collegate in cicli, in modo che una figuri come novella
introduttiva, spiegando i legami tra le altre. (Shahrazad).

La novellistica ha, nel Duecento, un carattere di freschezza e originalità che si esprime in


alcuni validi testi come il Libro de' sette savi opera di traduzione dal francese di
una trama narrativa che ebbe in seguito diffusione in tutte le letterature, i Conti di
antichi cavalieri, anch'essi derivati dal francese, un poema formato di varie storie
cavalleresche e, soprattutto, il Novellino, chiamato anche Le cento novelle antiche
o Libro del bel parlare, che trova nella borghesia comunale che stava affermandosi
in quel periodo, con i suoi ideali di gentilezza, di cortesia, di sottile intelligenza e
del bel parlare, la sua migliore celebrazione.

Il "Novellino", da non confondersi con l'opera omonima del 1476 (appunto, Il Novellino)
di Masuccio Salernitano, passato all'indice dei libri proibiti, è senza dubbio una
delle più notevoli opere in prosa del secolo. Della sua storia esterna, poco di sicuro
si può affermare ancora oggi malgrado i numerosi studi fatti su di essa. L'opera
dovette essere composta non prima del 1281 e non dopo il 1300 e si discute se da
uno o da più autori; certamente il compilatore fu unico e a lui, quasi sicuramente, si
deve il Proemio dove i contenuti dell'opera e i suoi scopi sono indicati con
sufficiente chiarezza e sintesi: sebbene la fonte fosse quasi certamente di area
toscana, alcuni non escludono che le sue origini siano venete.

Vi si legge:

"... e acciò che li nobili e gentili sono nel parlare e ne l'opere quasi com'uno specchio
appo i minori, acciò che il loro parlare è più gradito, però ch'esce di più delicato
stormento, facciamo qui memoria d'alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di
belli riposi e di belle valentie, di belli donari e di belli amori, secondo che per lo
tempo passato hanno fatto già molti. E chi avrà cuore nobile e intelligenzia sottile sì
li potrà simigliare per lo tempo che verrà per innanzi, e argomentare e dire e
raccontare in quelle parti dove avranno luogo, a prode e a piacere di coloro che non
sanno e disiderano di sapere...".

La brevità quasi schematica del maggior numero dei racconti del "Novellino" (cento in
tutto) è parsa per lungo tempo dovuta all'immaturità e semplicità dello scrittore, ma
un più accurato studio dell'opera ha rivelato che esso non può essere inteso nella
sua realtà se non inquadrandolo sullo sfondo della civiltà culturale medievale.

La brevità e la schematicità del Novellino sono volute dal suo autore, e sono dovute a
precisi intenti stilistici e morali.

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Gli aneddoti e le brevi narrazioni erano collocati infatti nel Medioevo nei trattati morali
come esempi di verità o riprove degli insegnamenti e delle esortazioni, e perciò
erano tanto più efficaci quanto più brevi e calzanti.

Il Novellino trasporta nel volgare, con esperta disciplina retorica e stilistica, proprio gli
esempi delle scritture medievali, pertanto il suo pregio sta proprio nella sua rapidità
ed essenzialità. Il Novellino perciò non è da considerarsi l'inizio ingenuo ed
elementare della novellistica italiana, ma un documento in volgare della matura
civiltà letteraria del Medioevo latino. Pertanto non si dovrebbe guardare questa
opera tenendo l'occhio al Decamerone, ma allo sfondo di cultura al quale si
collega, e se da esso si vuole guardare al Decameron, si può farlo solamente per
rendersi conto di quale rivoluzione abbia operato nell'ambito letterario l'opera di
Giovanni Boccaccio. Il Novellino ha pertanto singolari pregi di vivacità, di
disegno essenziale e anche di felice rilievo. Sono narrazioni brevi, ma
proporzionate e armoniche, ravvivate da un gusto narrativo che va dal tragico al
fiabesco, dal comico al drammatico, il tutto scritto in una lingua toscanamente
viva e schietta.

II. La novella nel Trecento

Se nel Duecento la novella aveva mirato sia ad educare che a dilettare, nel Trecento
queste finalità prendono vie diverse: da una parte novelle di pura ispirazione morale
e religiosa, dall'altra novelle che intendono essenzialmente dilettare. Di ispirazione
religiosa e morale sono le novelle di Jacopo Passavanti, frate domenicano, che
incluse nel suo libro di prediche intitolato Lo specchio di vera penitenza. Si tratta di
racconti di grande rilievo drammatico, in cui si avverte sempre la presenza dell'al di
là come conseguenza della condotta dell'uomo sulla terra. Anche I Fioretti di San
Francesco, aneddoti sulla vita del Santo raccolti da un ignoto frate francescano,
sono pervasi di profondo spirito religioso: non cupo come nei racconti del
Passavanti, ma gioioso, sereno, tipicamente francescano. L'opera I Fioretti di San
Francesco è un florilegio sulla vita di San Francesco d'Assisi e dei suoi discepoli
di cui è dubbia l'attribuzione al frate Giovanni dei Marignoli. Per molto tempo la
critica ha creduto trattarsi della traduzione di un Floretum che era andato perduto,
ma in seguito si è constatato che si trattava di una delle tradizioni del Trecento del
testo latino di dubbia attribuzione degli Actus beati Francisci et sociorum eius. Si
fa risalire la prima stampa sicura dei Fioretti all'anno 1476 a Vicenza "per Lunardo
Longo rector de la giesia de sancto Paulo de Vicenza". Si possiedono ben dodici
manoscritti contenuti in altrettanti codici tra i quali i più completi sono quelli
trecenteschi, il Laurenziano LXXXIX e il Vaticano Capponiano 184, i
quattrocenteschi Riccardiani, il cinquecentesco Magliabecchiano XXXVIII.16
della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Il testo era in origine diviso in
cinquantadue capitoli ma già nelle edizione risalenti al secolo XV il primo capitolo
venne sdoppiato in due parti distinte e si arrivò così ad avere un testo di
cinquantatré capitoli. L'opera si può intendere divisa in due sezioni che differiscono
per le tematiche e per la cronologia. La prima sezione, che è introdotta da un
proemio, tratta della nascita dell'ordine francescano, della vita del santo del quale

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descrive le qualità e la perfezione delle sue prediche oltre a trattare dei fatti
compiuti dalla prima generazione di frati. La seconda sezione tratta invece della
generazione successiva, quella dei frati marchigiani coprendo così più di un secolo
di storia dell'ordine. Alcuni capitoli dell'opera possono poi considerarsi delle
complete agiografie che si soffermano su personaggi esemplari come nei capitoli
che narrano del frate Bernardo, Leone, Masseo e di Chiara.

Scritte invece per dilettare ed indifferenti ad ogni pretesa morale sono le novelle di
Giovanni Boccaccio, novelle tra le più belle non solo di questo secolo, ma di tutta
la letteratura italiana. Sono cento e sono tenute insieme da un racconto cornice che
è il seguente: nella peste del 1348 dieci giovani fiorentini, tre uomini e sette donne,
per evitare il contagio si rifugiano nel contado e qui, per trascorrere lietamente il
tempo, raccontano per dieci giorni una novella ciascuno, per questo il titolo
dell'opera è Decamerone, che, secondo l'etimologia greca, significa, dieci giornate.
La caratteristica dell'opera risiede innanzi tutto nell'utilizzo da parte di Boccaccio
della cornice, espediente di cui l'autore si serve per indicare i temi delle giornate e
dare giudizi a riguardo delle novelle. Queste vengono pertanto ad inserirsi in questo
complesso apparato narrativo proveniente dalla tradizione indiana che nel XIII
secolo trova nella toscana fiorentina il centro narrativo più prolifico della storia.
Inoltre da sottolineare è l'interesse boccacciano per il mondo femminile, al quale
per l'appunto viene destinato il libro nell'intento di distrarle dai mali d'amore.
Argomento delle novelle sono la gaia vita cortese, l'esuberanza esplosiva dell'amore
in tutti i suoi infiniti atteggiamenti, l'astuzia sottile che pone in ridicolo i creduloni.
Un mondo, insomma, in cui l'intelligenza e la bellezza dominano incontrastate e
non conoscono remore morali. In questo mondo vivono mille personaggi, uomini e
donne, giovani e vecchi, buoni e cattivi, furbi e sciocchi, onesti e furfanti, nobili e
sguatteri, tutti così vivamente rappresentati, che una volta incontrati non si
dimenticano più. Ed è proprio in questa grande abilità di delineare caratteri, oltre
che in quella di tessere trame, la grande arte di Boccaccio.

Boccaccio ebbe nel suo secolo diversi imitatori. Tra questi il migliore fu Franco
Sacchetti che scrisse il Trecentonovelle, ideato intorno al 1385, ma realizzato in
parte tra il 1392 e 1396, senza un piano e un ordinamento. Si tratta appunto di
trecento novelle che si rifanno ad alcuni temi boccacceschi, per lo più brevi e piene
di brio, ma lontane dalla grande arte di Boccaccio. Per quanto Sacchetti riprenda
più o meno apertamente motivi boccacciani il suo stile si discosta notevolmente
dall'arte del narrare tipico di quest'ultimo, fino a creare un'opera per molti versi
completamente differente dal Decamerone. La grande innovazione di Sacchetti sta
nel suo proporsi come narratore delle proprie novelle, assottigliando la distanza
fino allora esistente tra narratore e destinatario.

FRANCO SACCHETTI fu figlio di un mercante. Nacque a Ragusa, Dalmazia nel


1332, ma intraprese la carriera paterna, stabilendosi a Firenze dal 1363.

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Ricoprì numerosi e importanti incarichi politici per conto della Repubblica: fu
ambasciatore a Bologna (1376), membro degli Otto di Balìa (1383) e podestà in
alcune città della Toscana e della Romagna tra cui San Miniato.

Di cultura non profondissima, Sacchetti trae il materiale per le proprie opere dall'intensa
esperienza di vita, riprendendo i modelli letterari dell'età precedente alla sua: La
battaglia delle belle donne di Firenze con le vecchie (ante 1354) è una
rielaborazione di motivi boccacciani mentre il Libro delle Rime, in cui raccolse
opere composte in vari periodi, è un repertorio di liriche in cui si sviluppano in
maniera convenzionale le tematiche moralistiche e amorose.

In seguito ad una serie di lutti familiari (un figlio e un fratello morirono a breve distanza
l'uno dall'altro), Sacchetti si dedicò ai 49 capitoli delle Sposizioni dei Vangeli
(1378-1381), meditazioni in prosa su brani del Vangelo. Particolarmente congeniale
alla sua vena compositiva fu il genere della novella; nel Trecentonovelle, ideato
forse a Bibbiena nel 1385 ma scritto non prima del 1392 a San Miniato, Sacchetti
raccoglie senza nessun ordine storie di varia lunghezza in uno stile piuttosto
semplice e immediato, ricalcato sul parlato vivace e immediato della società
popolana e borghese. Delle novelle, originariamente trecento come si intuisce dal
titolo, ce ne sono pervenute soltanto 223. Morì a San Miniato, Pisa nel 1400.

La novella si afferma negli ultimi secoli del Medioevo come narrazione di avventure
prive di scopi etico-religiosi e con la finalità di intrattenere e divertire. Essa diventa
ben presto il genere favorito del ceto mercantile, un pubblico, questo, di media
cultura che trova nella novella il gusto della narrazione, il divertimento, la virtù da
esaltare e i difetti da condannare della classe sociale cui appartiene. Drammatiche
storie d’amore, beffe tra amici, duelli tra nobili famiglie, battute argute di umili
persone, trovano dignità letteraria nella raccolta del Novellino (cento brevi novelle
di autore anonimo toscano del XII sec.) e soprattutto nel Decameron di Giovanni
Boccaccio. Specchio della civiltà mercantile dell’epoca, l’opera fonde in modo
particolarmente originale la tradizione del mondo cavalleresco-feudale, i contenuti
realistici dei fabliaux, l’exemplum religioso, gli elementi fantastici orientali e quelli
riconducibili alla beffa. Così novelle patetiche si trovano accanto a novelle
umoristiche, a vicende esemplari che narrano vizi e a virtù in uno stile vivace, che
utilizza la lingua parlata o in uno stile classico e latineggiante.

1. Il Decamerone - Novelle nel Decamerone.

Le antiche raccolte di novelle, dal Novellino duecentesco al Decamerone, alle raccolte


quattrocentesche e cinquecentesche, fino a quel punto di svolta che è il Cunto de li
cunti di Basile, sono dei bazar di roba messa insieme, con un fasto rituale ancora
visibile, benché lontano dalle nostre abitudini. Il Decamerone somiglia a quei
vecchi suk arabi dove trovavi profumi, gioielli, spezie, stoffe che venivano da tutte
le parti, e ogni merce portava con sé il ricordo delle linee di circolazione dei

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commerci nel nord Africa. Le raccolte novellistiche erano collezioni di aneddoti,
favole, leggende, motti arguti, d’origine scritta e orale. La varietà di questi
zibaldoni dipendeva da una vasta circolazione di motivi narrabili, legata alle rotte
dei pellegrini e dei mercanti. Per questi tramiti debbono essere giunti molti esempi
di narrativa araba, indiana, provenzale e francese, che hanno trasformato i modi dei
racconti nostrani. Le prime due novelle del Decamerone parlano di mercanti
fiorentini a Parigi, un buon terzo delle altre sono ambientate in luoghi d’Europa e
del Mediterraneo, come vicende o emblemi o fantasie di terre lontane. In tutte si
vede l’afflusso di materiali eterogenei, passati da una tradizione all’altra. Ed è ciò
che rendeva le raccolte novellistiche degli empori di mercanzie pregiate, dove ogni
storia ha la natura del frammento disperso, come le reliquie dei santi o i gioielli
portati in Europa dagli antichi viaggiatori. È una narrativa di motivi intrecciati,
dove ognuno vale in sé come memoria di accadimenti nel vasto mondo; e parla
d’un mondo ancora inteso come un tessuto di meraviglie, alla maniera di Marco
Polo e dei viaggiatori arabi.

2. Il Novellino

Quel libro di novellette che ora chiamiamo il Novellino, composto tra il 1280 e il 1300,
resta l’esempio d’una narrativa fatta con l’accumulo di pezzi di riporto, sparsi ed
eterogenei, collegati da nessun motivo oltre al gusto del narrare. Si è pensato a un
compilatore che disponesse d’una vasta biblioteca nel nord Italia, forse nella Marca
Trevigiana, perché il Novellino si distingue per la grande quantità di spunti presi
direttamente dai libri. Benché il suo titolo originale (Libro di novelle et di bel
parlar gientile) si inquadri in una tradizione già viva di raccolte novellistiche,
questo libro resta un unicum nel campo delle forme narrative. Perché è come un
esperimento per ridurre il fenomeno chiamato “raccontare storie” al suo nucleo
minimo. Che cos’è una storia? È un collegamento tra fatti antecedenti e
conseguenti. Per gli antichi era una specie di effetto ottico, definito post hoc propter
hoc, per cui ciò che viene prima in un racconto ci dà l’impressione d’essere la causa
di ciò che viene dopo, anche, se non si tratta d’una conseguenza logica. Tutto il
narrare è un gioco di effetti illusori. Ma come si produce l’effetto che una storia
debba concludersi in punto preciso? L’interruzione non è una conclusione. La
conclusione giustifica il racconto, perché è il momento in cui l’ascoltatore vede o
crede di vedere il significato o la morale della storia. Nei ritagli nel Novellino il
modo usuale è quello di concludere la novella con un motto o con una risposta
arguta che risolve un contrasto. Anche dove si tratta di ritagli da romanzi noti, come
nella novellina LXV, che riassume un episodio del Roman de Tristan di Béroul, la
conclusione cade dove si ricompone un conflitto – e in questo caso si tratta del
conflitto tra Tristano e re Marco, ricomposto grazie ad un “savio avedimento”
(sotterfugio). La nota finale sul “savio avedimento”, che è l’inganno della regina
Isotta per nascondere al marito il proprio adulterio con Tristano, funge da morale e
da insegnamento. In questo senso produce l’effetto illusorio d’una conclusione.

Il carattere esemplare del Novellino sta in una fine arte del racconto scritto: arte del
ritaglio e della miniaturizzazione di episodi già narrati nei libri. Questi sono spunti

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che (come dice il prologo) il lettore di “cuore nobile e intelligenzia sottile” può
usare per farne a sua volta dei racconti offerti a chi desidera istruirsi. Il fasto rituale
delle novellette sta in questo “sapere” racchiuso nell’involucro del “bel parlare”,
come un monile o un anello che racchiuda un motto sapienziale. La
miniaturizzazione dei racconti consiste nella loro brevità, che racchiude i “fiori del
parlare”, le “belle risposte” e le “cortesie” vantate nel prologo. Ecco il senso della
riduzione d’ogni frammento libresco a un nucleo minimo di parole, quelle
strettamente necessarie per creare l’effetto del racconto concluso. In alcuni casi
basta addirittura una frase a far tutto, come a esempio nella novella XVII: “Pietro
tavoliere [mercante], fu grande uomo d’avere [fu uomo molto ricco], e venne tanto
misericordioso [e divenne così caritatevole] che ‘mprima tutto l’avere dispese a’
poveri di Dio [che dapprima diede tutte le sue ricchezze ai poveri], e poi, quando
tutto ebbe dato, et elli si fece vendere [dopo aver tutto dato, si mise in vendita come
schiavo], e ‘l prezzo diede ai poveri tutto” [e diede il ricavato ai poveri]. La
consecuzione dei fatti qui culmina in ciò che noi chiameremmo un colmo, il “più di
così non si può”, ossia un comportamento impensato o impensabile – il mercante
che vende perfino se stesso per dare il guadagno ai poveri. Il che fa l’effetto d’una
conclusione, perché è come se il pensiero non potesse procedere oltre e dovesse
fermarsi a riflettere. Questo è un modo di usare e incanalare sparsi pezzi di
racconto, mescolando motivi che vengono da fonti diverse, come succederà spesso
nelle future novelle. Altrove può trattarsi d’un paradosso, d’una burla, d’un
inganno; ma l’arte novellistica dell’effetto conclusivo tocca sempre qualcosa che dà
l'idea dell’eccesso, del colmo, dell’imparagonabile, e che ci lascia sospesi in uno
stato di stupore o di meraviglia.

Il Decamerone nel passato non era studiato come l’esempio d’un genere narrativo, bensì
solo come l’opera di Boccaccio. L’abitudine di studiare i testi letterari solo in
quanto opere di autori illustri ha oscurato per secoli la tradizione della novella.
Soltanto nell’ultimo secolo sono diventate facilmente accessibili le raccolte di
Sacchetti, Masuccio, Sermini, Sercambi, Fortini, Straparola Grazzini e altri. Con
questo allargamento d’orizzonte si è cominciato a vedere come i narratori abbiano
abbandonato lo schematismo dei vecchi racconti morali, dando più peso ai dettagli,
alle figure dei personaggi, alle tonalità della lingua secondo i tipi di racconto. Si
intuisce anche l’esistenza d’un diffuso collezionismo dei motivi narrabili, legato
all’abitudine di scambiarsi aneddoti e storie: usanza innestata sulle pratiche della
conversazione quotidiana, che diventano la componente centrale di questo nuovo
sistema narrativo. Sulla scia del Decamerone e del Trecentonovelle di Sacchetti, la
novella fiorisce come genere prevalentemente toscano, ma anche ibrido e anomalo.
Infatti è una narrativa dove non c’è una netta separazione tra tragico e comico, tra
tono maggiore e tono minore, tra gioco immaginativo e verosimiglianza. Una
novella poteva essere fiaba, leggenda, burla, motto celebre, cronaca cittadina,
tragedia storica, avventura in terre lontane, oppure l’esempio morale nelle prediche
di San Bernardino o le facezie del Piovano Arlotto. Rispetto ai generi letterari
affermati, si può dire che fino al Cinquecento la novella non rappresenti un vero
genere letterario (nonostante la grande fama goduta da Boccaccio), ma il semplice
riaffiorare d’una usanza cittadina o borghigiana: lo scambio di storie, favole,

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facezie giunte all’orecchio, trattenimento spicciolo, chiacchiera conviviale ma
anche recita da strada, come esisteva per le strade di Roma ai tempi di Plinio, e
come esiste ancora in vari angoli del mondo. Tutto questo ha reso la novella un
genere un po’ equivoco, poco riconoscibile, soprattutto fuori dalla Toscana. Ed è
interessante che, nella sua Piazza universale di tutte le professioni del mondo
(1585), Tomaso Garzoni accenni solo di sfuggita al mestiere del novellieri, nel
Discorso L, e li identifichi con gli inventori di burle (“burlieri”), dunque mettendo
Boccaccio in compagnia dei buffoni di corte. Poi nel famoso Discorso CIV,
dedicato ai ciarlatani di piazza, Garzoni non nasconde la sua schietta opinione su
cosa fosse il novellare: un puro imbroglio e abbaglio delle parole. “Qui si tesse la
favola… Il plebeo s’arriccia, il villano stremisce alla novella che vien raccontata...”

In realtà la novella non s’è mai staccata del tutto dallo sfondo in cui Garzoni la colloca,
vuoi come burla depositata nelle carte, fola o diceria da pubblica piazza,
intrattenimento di corte, o recita in raduni conviviali come quelli evocati in molte
raccolte novellistiche. Rispetto ai generi di maggior prestigio, come il poema epico,
la lirica e l’oratoria, la novella si distingue per quest’altro tipo di circolazione, non
chiuso negli spazi della pagina scritta. Si sa di novelle di Sacchetti raccontate fino a
pochi anni fa nelle campagne toscane. Una rara scena in ambito popolare è descritta
in una lettera di Andrea Calmo, commediografo, poeta e attore veneziano, morto
nel 1571. Parla dell’ascolto di novelle in una taverna veneta, attorno a narratori con
repertori di storie in voga, i quali raccontano: “le più stupende panzane, stampie e
immaginative [le più stupende panzane, stramberie e invenzioni] del mondo, de
comare oca, del fraibolan [del pifferaio], del osel bel verde [dell’uccellin bel
verde], de statua de legno [della statua di legno], de bossolo de le fade [del bossolo
delle fate], d’i porceleti [dei porcellini], de l’asino che adete romito [dell’asino che
si fece romito], del sorze che andete in pelegrinazo [del sorcio ch’andò in
pellegrinaggio], del lovo che se fiese miedigo [del lupo che si fece medico], e tante
fanfalughe che non bisogna dir [e tante fanfaluche che non è il caso di dire] ”
(Lettere, libro IV, 42). Si riconoscono in questo repertorio varie storie che
gireranno in tutta Europa, cominciando da quella di Comare l’Oca, che darà il titolo
alla raccolta favolistica di Perrault, Les Contes de Ma Mère l’Oye (1687). Simili
usanze di racconti in comitiva accompagnano tutta la tradizione della novella, negli
intrattenimenti campestri, di stalla o di cortile, con repertori di fiabe, storie di
meraviglie e aneddoti buffi: in Rome, Naples et Florence, nel 1826, Stendhal
registra simili narrazioni in ambito popolare; e dice che arrivando una sera a
Calstelfiorentino, ha trovato una “compagnia di braccianti [che] improvvisavano,
ognuno al suo turno, racconti in prosa d’un genere come quello delle mille e una
notte”. E aggiunge: “Ho passato una serata deliziosa, dalle sette a mezzanotte,
ascoltando quei racconti [dove] il meraviglioso più stravagante crea avventure che
portano a sviluppare le passioni più vere e più impreviste”.

I nostri nonni, da bambini, ascoltavano fiabe e novelle su streghe e banditi, nelle riunioni
di stalla. Tutto questo ci rimanda ad abitudini che arrivano quasi fino a noi, come
pratiche di conversazione e di intrattenimento, fuori dalla testualità fissa dei libri.

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Il carattere misto dei materiali novellistici, senza limiti precisi tra la forma scritta e orale,
è stata la grande spinta vitale della novella; perché attraverso i motivi narrabili che
passavano da un narratore all’altro senza nessuna sorveglianza nascevano
variazioni imprevedibili. Un motivo novellistico tra i più diffusi è quello della
donna malmaritata, con marito stupido e geloso, la quale risolve la situazione
accoppiandosi con un amante simpatico. Questo tema trova una notevole variante
in una novella di Sermini, dove la donna per sottrarsi al marito beve una pozione
che la fa sembrare morta (Novelle, 1). Qualche decennio più tardi ritroviamo il
motivo della pozione in una novella di Masuccio, ma applicata a un altro tema
diffuso, quello dei due innamorati ostacolati dalle famiglie (Novellino, 33). Nel
secolo seguente, il racconto è rielaborato da Luigi Da Porto, nella lunga novella di
Giulietta e Romeo (Storia di due nobili amanti): novella poi ripresa da Bandello
(Novelle, II, 9), per finire attraverso altri passaggi nelle mani di Shakespeare.
L’esempio mostra come un motivo narrabile si ri-orienti di continuo, perché il fatto
stesso di circolare lo traduce in una serie di variazioni di cui non conosciamo i
margini precisi – infatti niente ci assicura che non ci fossero versioni orali con
orientamenti ancora diversi, rispetto a quelli noti. Tutto questo è lontano dal nostro
modo di pensare, perché per noi ogni racconto corrisponde necessariamente ad un
testo unico, chiuso entro i limiti dello spazio scritto. La novella invece si dichiara
sempre come racconto d’un racconto, udito dal narratore che lo ripete per noi.
Questa è la differenza della novella rispetto ai racconti moderni: nella novella non
esiste l’idea del racconto originale, il racconto d’autore come lo intendiamo ora,
bensì quella d‘una ripetizione con continue varianti. Ed è come in musica: un
motivo implica sempre certe variazioni secondo lo stile di chi lo esegue. Viceversa,
i racconti moderni sono concepiti come parte di una testualità fissa, in cui parrebbe
che la lingua si fosse già tutta oggettivata e purificata nella scrittura. Il risultato è un
narrare chiuso, come immunizzato e sottratto all’incontrollabile circolazione delle
parole.

Sulla scia del Decamerone e del Trecentonovelle, scrivere novelle è diventato un


passatempo privato, borghese, con tratti già stereotipati, sintassi modesta,
ancoraggio nel sentito dire locale. Ma anche in queste novelle si mantiene il senso e
la forma del racconto orale, dove chi narra si rivolge agli ascoltatori per mettere in
comune la storia che racconterà, come in una presupposta convergenza di gusti.
Così Sermini: “…perché non passi senza alcuna memoria, una piacevole novelletta
alle mie orecchie venuta, mi piace narrarvi” (Novelle, 1). È questo che distingue la
novella dal racconto storico: non una testimonianza sui fatti narrati, quanto una
compagnia d’ascolto che testimonia (“in effige”, per così dire) una comunanza di
gusti e di abitudini. Sercambi attaca: “Piacevoli donne, e voi altri, venerabili
persone, a me occorse in nella mente una novella la quale a vostro contentamento
dirò” (Novelle, 8). La compagnia di ascolto è parte stabile della cornice del
Decamerone, dove un gruppo di giovanotti e donzelle si scambiano racconti. Anzi,
si può dire che la novella nella sua forma più tipica sia precisamente questo: la
messa in scena d’uno scambio di racconti, con un appello agli ascoltatori, come
richiamo all’essenza dialogica del novellare: “Piacevoli donne e voi graziosi
gioveni, fu, non è ancor molto, in una nostra villa non guari lontana dalla città..."

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(Fortini, Notti, I). E questa diventa una specie di segnatura che marca la tradizione
più tipica della novella, basata su dialoghi, pratiche di conversazione e scambi da
narratore a narratore.

Nell’anonimo Novellino duecentesco si legge che il libro tratta di “fiori del parlare, di
belle cortesie e belle risposte”. La novella nasce come sviluppo di cerimonie cortesi
ed è largamente modellata sui modi del dialogo nei testi medievali. Boccaccio ha
elaborato quei cerimoniali con la cornice in cui sono incassati i racconti: ossia la
storia di sette donzelle e tre giovani fiorentini che vanno in campagna per sfuggire
alla peste e si raccontano novelle a turno per dieci giorni. Quella è la compagnia
d’ascolto, da cui si sviluppano dialoghi e commenti alle storie narrate; e che ci dà il
senso d’entrare in un luogo di amichevoli conversarî, dove il dialogo cortese si
mescola alla conversazione urbana, arguta, libera da censure dogmatiche.
L’innovazione di Boccaccio sta nell’usare gli schemi di conversazione per
amalgamare materiali narrativi eterogenei sul filo del discorso. E come avviene
nelle conversazioni, anche qui ognuno ha un turno di parola per raccontare una
storia; poi ogni storia fa venire in mente qualcosa di simile a un altro narratore e si
creano catene di storie su temi simili. Dopo Boccaccio, è Masuccio Salernitano che
porta l’impianto conversativo delle novelle alla forma più stilizzata. Il suo
Novellino distingue le fasi del turno di parola, dividendole in un esordio sotto
forma di presentazione oratoria della novella per definirne il tema o lo scopo
morale, in una narrazione e infine in un commento conclusivo dell’autore. È un
modo per presentare gli schemi di conversazione come un cerimoniale, con cui la
merce pregiata dei racconti trova un fasto che li esalta, portandoli all’altezza dei
romanzi cortesi, con racconti che sembrano imitare le illustrazioni miniate di quei
libri. E già nel prologo, detto Parlamento de lo autore al libro suo, l’immagine
del libro di novelle come una nave incantata ricorda la nef de joie e de deport dei
romanzi arturiani, scena d’una conversazione favolosa su temi d’amore e di svago.

3. Shahrazad

Nelle novelle di Sacchetti non esiste la messinscena della compagnia di narratori-


ascoltatori, né la presentazione oratoria delle novelle per annunciare il loro tema. Il
Trecentonovelle si regge sui modi elementari della ricreazione comica, che
servono a far svaporare le disgrazie individuali nelle risate collettive. L’istinto
narrativo di Sacchetti segue modi mimici ritmi a scansioni rapide, orecchiati sul
dialogo familiare, sul litigio comico, dove tutto torna sempre al grembo
comunitario, alle chiacchiere del sentito dire locale. La festa qui è soltanto
sospensione del lavoro, momento di riposo ascoltando racconti. L’elaborata
messinscena di Boccaccio ha già perso contatto con questi modi semplici di
ricreazione, e per quanto il Decamerone preceda il Trecentonovelle di circa 30
anni, sembra già proiettato in un’altra era. È la differenza tra il narratore paesano e
un nuovo narratore che si richiama all’esperienza allargata dei viaggi e dei
commerci e dei racconti venuti da lontano. In generale si sa poco di come siano
giunti in Europa molti esempi di novellistica orientale, dai tempi delle crociate e
poi per vari secoli, presumibilmente per via orale e attraverso viaggiatori veneziani

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(F. Gabrieli, Dal mondo dell’Islam, 1954). Comunque, la cornice del
Decamerone, con la compagnia di narratori che si scambiano storie, deriva da un
imprestito venuto dall’oriente: ed è un modulo della novellistica arabo-persiana che
sarà conosciuto in Europa solo quattro secoli dopo, con la prima traduzione delle
Mille e una notte, realizzata da Antoine Galland. Nelle Mille e una notte lo
scambio di storie avviene tra Shahrazad, sua sorella Dinarzade e il sultano
Schahriar. Ogni notte Dinarzade sveglia Shahrazad invitandola a raccontare storie
fino all’alba; e Scherazade racconta storie che destano la curiosità nel sultano, in
modo da poter riprenderle la notte successiva, e poi di notte in notte - così
sfuggendo alla morte che la aspetta secondo il decreto di Schahriar. Se Shahrazad
narrando inganna il sultano e sospende la propria condanna, i narratori di
Boccaccio ingannano il tempo in epoca di peste, e sospendono l’incombenza della
morte. Nei due casi c’è uno schema comune, dove i racconti si propongono come
una sospensione dell’incombenza del tempo che ci porta verso la morte o le
disgrazie della vita; e così i racconti prendono il senso d’un incantamento in cui gli
uomini dimenticano tutto il resto. Nella storia di Shahrazad ogni racconto è un
inganno; nessuno è al servizio d’una verità: tutti servono solo per sospendere il
tempo di vita, di novella in novella, di giorno in giorno.

3. Struttura

Le novelle iniziavano sempre con tempi indefiniti come l’imperfetto, che è una
temporalità di scorcio, nel vago della lontananza: “Fu già in Siena uno dipintore,
che avea nome Mino, il quale avea una sua donna assai vana…” (Sacchetti,
Trecentonovelle, 84). E' la forma più antica di racconto, ed è il tipico attacco delle
fiabe: “C’era una volta…” L’imperfetto sospende tutto nell’atto del dire, del
narrare, ed è questo che produce un alone immaginativo nelle parole; una specie di
in illo tempore come quello dei racconti mitici. Le novelle passano ai tempi
puntuali quando si tratta d’un fatto che rompe un tran tran consueto: “Avvenne un
giorno che…” Ma anche le vicende intermedie hanno una temporalità di scorcio,
finché si arriva al punto memorabile della storia. Questo è sempre presentato con
un tempo puntuale, il passato remoto, passato assoluto che accentua la tensione del
racconto. Andreuccio da Perugia, ingannato dalla Siciliana, caduto nella discarica
di escrementi, si ritrova di notte nel vicolo e “cominciò a batter l’uscio e gridare; e
tanto fece così che molti circostanti vicini desti, si levarono.”(Dec. II, 5). Con
questo tempo verbale il racconto diventa più teso; ma è una scena dove niente è
spiegato, niente descritto; l’azione in corso è appena accennata; e qui “immaginare”
vuol dire più che altro riconoscere un movimento di ombre verso cui la nostra
attenzione è attratta, e con cui si produce una sospensione più netta del tempo
vissuto – dove il telefono non suona più per noi, e rumori del traffico nella strada
accanto non arrivano più al nostro orecchio. Altro esempio: la scena dove Nastagio
degli Onesti vede sopraggiungere la donna ignuda attaccata dai cani e dal cavaliere
nero nella pineta di Ravenna (Decamerone, V,8): quella pineta è un “là” ipotetico
che ci costringe a uno sforzo immaginativo per figurarci l’improvviso confluire
dell’aldilà e della vita terrena in un’unica scena. Non c’è nessuna descrizione
d’ambiente; c’è solo lo slancio del dire, del narrare, che crea una sospensione dove

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balenano fantasmi imprecisati, ma sufficienti per produrre quell’altra sospensione
che consiste nel dimenticare se stessi.

I racconti che mirano alla sospensione del tempo hanno bisogno di cerimonie d’avvio,
con l’anda d’un bel parlare che crea l’effetto d’un tempo indefinito - non il tempo
dei fatti, ma quello del dire e del narrare. Nella novella di tipo boccaccesco, era
questa la funzione dell’esordio, sempre stilisticamente elevato, che creava
l’atmosfera del racconto: “Ornate donne e amorosi giovani, io voglio, [in] scambio
di ridere, farvi con la mia favola meravigliare” (Grazzini, Cene, 9). L’esordio
serviva a mettere l’ascoltatore al corrente del tenore della novella narrata, colmando
le distanze - come quando s’invita qualcuno a casa propria e la cerimonia
dell'accoglimento abolisce l’estraneità. Le narrative moderne aboliscono i
cerimoniali e fanno un lavoro inverso: partono da un'estraneità del lettore, che
dovrà scoprire da solo di cosa si parla e cosa succede, come se si ritrovasse di colpo
in un paese sconosciuto. Ad esempio il Mastro-don Gesualdo di Verga (1889), tra
i più grandi romanzi europei del suo secolo, comincia con il fuoco nella notte in
casa Trao: le urla, il subbuglio, i vicini che accorrono, i salvataggi. Ma noi non
sappiamo chi siano questi Trao, non sappiamo niente dell'ambiente e della storia. E'
vero che poi tutto sarà chiarito, gli antecedenti saranno dipanati; ma davanti a
quell'inizio il lettore si trova come se piombasse in uno stato d’emergenza. Non
viene guidato cerimonialmente nel racconto, ma catapultato nei fatti. L’inizio di
Mastro-don Gesualdo è uno straordinario esempio di narrativa moderna che porta
in sé qualcosa vicino a una sintomatologia d’origine: quella dell’estraneità
dell’individuo moderno rispetto al proprio ambiente. In ciò si vede il segno della
vita urbana, degli individui che si sfiorano per strada in mutua lontananza, ognuno
chiuso nel proprio guscio. La situazione in cui piomba il lettore con il fuoco in casa
Trao dà subito l’idea d'una dimensione di vita dove tutti diventeranno estranei
rispetto a tutti gli altri. Premonizione formidabile sui tempi a venire, fino
all'immagine di don Gesualdo solo nella sua stanza, malato, isolato, che ascolta da
lontano le voci del mondo.

Nella narrativa che sorge alla fine del XIX secolo, i romanzi e racconti debbono
impostare la narrazione su valori di verità relativi alla vita corrente; e non può più
esserci la sospensione nel tempo indefinito del narrare come nelle forme narrative
antiche (“C’era una volta”, “Narrasi”). Caratteristico delle nuove forme è l’uso del
linguaggio come serie di didascalie sceniche (“Egli disse”, “Essa si voltò e
rispose”, “Giovanni ebbe un sussulto e si destò” ), dove i fatti non sono più lasciati
nella vaghezza immaginativa, ma affidati a una descrizione puntuale, nella distanza
del vedere. All’inizio d’un romanzo di Maupassant, Bel Ami (1885) si dice:
“Quando la cassiera gli ebbe dato il resto della moneta da cento soldi, Georges
Duroy uscì dal ristorante”. Tutto è posto subito nella distanza del vedere, come
indicazione dell’oggettività impersonale dei fatti. I fatti si svolgono su un piano di
fondo senza contatto con chi legge; senza il “qui” immaginoso dove in un romanzo
di Balzac o Stendhal il narratore confidava al lettore i suoi commenti, a mo’ di
divagazione. Ora non ci sono più commenti né divagazioni. Subito tutto assume il
sapore di estraneità dei fatti “oggettivi”. Ciò dipende molto dall’uso sistematico del

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passato remoto, che essendo un tempo puntuale presenta i fatti come avvenuti in un
luogo e in un momento precisi; dunque fa sì che tutte le frasi diventino asserzioni
assolute. Ed è come quando Cartesio dice che posso concepire l’idea di triangolo
senza il contributo dei sensi. Sì, io intuisco l’idea di triangolo perché lui mi dice
come è fatto, e posso ricostruirmelo in mente. Così mi ricostruisco in mente questa
scena. Il mondo è diventato un fatto oggettivo là davanti ai miei occhi. Bene, non
c’è più bisogno di immaginarsi niente. Dice Cartesio: “le favole fanno immaginare
molti avvenimenti come possibili, che non lo sono affatto” (Discours de la
méthode, I). L’immaginazione è la causa prima dell’inganno dei racconti, questo si
sa.

4. Trame novellistiche.

Due cose adunano lo sparso mondo delle novelle, facendone una narrativa senza
precedenti: il Decamerone, lettura di riferimento per più di tre secoli, e la passione
del dialogo e dello scambio, propria d’una classe dedita agli scambi, quella dei
mercanti. Protagonisti di centinaia di novelle, i mercanti sono una razza di gente
pratica, pronta a tutti gli incontri, che sa aderire all’eterogenea sostanza del mondo.
“Conviene nella moltitudine delle cose, diverse qualità di cose trovarsi”, dice
Boccaccio a conclusione del Decamerone. È il principio dell’ibridismo
novellistico, e va assieme a un’idea della vita terrena come variabilità e
mutevolezza, che richiede perpetui adattamenti, negoziati e scambi. Questo si
applica alle trame novellistiche, dove la sorpresa viene dall’eterogeneità degli
incontri e casi, che producono continui ribaltamenti delle situazioni. Lo schema
elementare nelle favole e novelle consiste nel porre una situazione e ribaltarla. Poi
possono esserci due ribaltamenti, in andata e in ritorno, come nella novella di
Andreuccio, che va a Napoli per affari; è truffato dalla Siciliana, perde i soldi; ma
nell’avventura notturna trova l’anello dell’arcivescovo, recupera i soldi e torna a
casa ricco. Possono esserci ribaltamenti plurimi: Landolfo Rufolo, ricco mercante,
parte per fare affari, questi vanno male; allora lui si fa corsaro; di nuovo ricco;
catturato dai genovesi, di nuovo in disgrazia; ma la nave fa naufragio; lui si trova a
galleggiare su una cassa di gioielli, di nuovo ricco (Dec. II, 4). Può esserci il
ribaltamento paradossale: Ser Ciappelletto, ateo, ladro, sodomita, bugiardo, alla
fine fatto santo (Decamerone, I, 1). L’eterogeneità dei casi si coniuga con una
ontologia del mutevole, cioè con l’idea d’una perpetua instabilità negli stati di cose.
“Considero le cose di questo mondo non avere stabilità alcuna, ma essere sempre in
mutamento” (Decamerone, Conclusione). Questa concezione è la molla di tutti gli
alti e bassi che animano le trame novellistiche. La minaccia del mutevole incombe
sulle ricchezze, sugli amori, sugli affari, ed è personificata dalla figura mitologica
della Fortuna: “Ma la fortuna, nemica de’ beni umani, disturbatrice dei piaceri
terreni, contraria alle voglie dei mortali…” (Grazzini, Cene, II, 6). Al centro di
questo universo sempre in altalena, c’è il simbolo della Ruota del Tempo, dove ciò
che è in alto è destinato a cadere in basso, e viceversa: “Mirabile certamente è la
instabil varietà del corso della nostra vita [… ] Vedrai oggi uno nel colmo innalzato
d’ogni buona ventura, che dimane troverai caduto con rovina ne l’abisso delle
estreme miserie” (Bandello, Novelle, III. 68). Questo è un mondo dove,

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nell’eterogeneo flusso di situazioni e casi disparati (“l’instabil varietà”, dice
Bandello), niente è mai del tutto in salvo; dunque un mondo con un alto tasso di
imprevedibile. Il che ha una conseguenza sulle trame: quella degli effetti di
meraviglia, prodotti dai prodigi, dalla violenza o dalle stranezze del fato.

5. Effetti di meraviglia.

Le sorprese con meraviglia sono punti con un tacito risvolto numinoso, come paradossi
della sorte, esempi dell’instabile Ruota del Tempo che porta con sé l’impensato o
l’impensabile. In una novella alla quarta giornata del Decamerone, c’è la ragazza
Isabetta innamorata del suo Lorenzo. Poi i suoi fratelli glielo uccidono, allora lei
prende la testa di Lorenzo e la mette in un vaso assieme a una pianta di basilico,
pianta che ogni giorno irrora con le sue lacrime. Dopo di che: “Il basilico divenne
bellissimo e odorifero molto” E’ un passaggio che ricorda i crolli patologici con
fissazioni ossessive, ma anche le forme di destino tragico con metamorfosi nei miti
greci: come il destino di Dafne, di Progne e Filomela, che l’eccesso del soffrire
trasforma in un lauro, in una rondine e in un usignolo. Simile è la metamorfosi
dove Isabetta, da normale ragazza innamorata si trasforma in un mostro del dolore;
dopo di che fa fiorire il basilico con le sue lacrime. Altro eccesso del soffrire che
produce una mutazione naturale impensata. La meraviglia riflette un colmo
emozionale, un traboccamento verso la dismisura, verso la soglia del non umano o
d’una follia arcaica, con il senso dell’uomo travolto dalla violenza inconsulta del
fato. L’effetto di meraviglia esiste anche sul versante comico. La prima novella del
Decamerone, quella su Ser Ciappelletto, concentra il gioco delle sorprese
precisamente su un effetto di meraviglia. Le attese dipendono dalla presentazione di
Ser Ciappelletto come bugiardo, ateo, falsario, ladro, bestemmiatore, assassino e
sodomita; mentre la sorpresa spunta a metà racconto, nella sua confessione col
frate, dove il suddetto si spaccia per ferventissimo credente. Questo diventa poco a
poco un punto d'eccesso, perchè ad ogni battuta di Ser Ciappelletto si va oltre tutte
le aspettative, e ogni volta spalanchiamo gli occhi per il crescendo delle sue
invenzioni da falsario, fin quando sappiamo che è diventato un santo del luogo. E’
il colmo che un tipo come lui sia canonizzato come santo, ed è un punto d'eccesso
paradossale che corrisponde sul lato comico all’eccesso del dolore di Isabetta. Le
sorprese con meraviglia hanno questo tacito risvolto: come mutazioni paradossali
che portano verso un divenire impensato o impensabile. La novella non sorprende
con i fatti narrati ma con le metamorfosi dell'impensato. Ricordiamo quella novella
di Basile, nella prima giornata del Cunto de li cunti, dove la moglie del re riesce a
ingravidarsi con una pozione magica, ma per i fumi della pozione si ingravida
anche la serva, e si ingravidano perfino i mobili, i tavoli, gli armadi, che
partoriscono degli armadietti e dei tavolini. Questa mi sembra la sintesi paradossale
degli effetti impensati di meraviglia, una tendenza al metamorfismo generale.

Quando si legge Boccaccio, Sacchetti, Masuccio, Grazzini, Fortini o Basile, a ogni


novella si ha il senso che raccontare sia una festa. L’estro ameno dei nostri
novellatori era legato a raduni di allegre brigate, e buttava sempre in giochi di
stravaganza, d’oscenità, o nelle burle crudeli di Grazzini o nel capriccio delle

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parole che fanno una danza come in Basile. L’esaltazione novellistica non è
pensabile se non come evento festivo che sospende le usanze pratiche della vita
quotidiana, e raduna una compagnia in un luogo di lieti conversarî, dove si
consuma cibo e parole e ricchezza. Il tema privilegiato era sempre nel segno d’una
burla, con virtuosismi immaginativi che rendono memorabili certi giochi del “far
credere”, ingannare, turlupinare mariti gelosi, menar per il naso gli stolti, creare
sotterfugi, travisare una cosa per l’altra. Le metamorfosi dell’inganno sono al
centro dell’invenzione novellistica, con punte ineguagliabili come quella di Ser
Ciappelletto che diventa santo a forza di frottole, o del Grasso Legnaiolo, a cui
riescono a far credere d’essere diventato il compare Matteo. Tutto ciò porta con sé
un’ebbrezza, uno stato esilarante: come se il novellare fosse un uso benefico e
purgativo dell’umana propensione alla credulità, all’imbecillità - a illudersi,
ingannarsi, allucinare una cosa per l’altra. Il brio narrativo vive di questi giochi
illusori, sprechi di parole, ghiribizzi e stravaganze che sospendono ogni serietà dei
discorsi, ogni serio proposito per la vita. Nello stesso tempo la licenza festiva della
novella ha un’aria di fronda, come sfida ai “barbagianni” (categoria indicata nel
Pecorone di Giovanni Fiorentino), agli ottusi, ai gretti, ai bigotti. Di più: narratore
e ascoltatore sembrano già da sempre uniti dal gusto dei sottintesi e delle facezie,
che implicano un’apertura mentale, una sottigliezza ironica, un’indipendenza di
testa.

6. Lo spirito della novella.

Lo spirito della novella è lo spirito della beffa, e la beffa, la burla, l’inganno sono innanzi
tutto racconti per corbellare qualcuno. Calandrino è la figura boccaccesca del
corbellato per eccellenza, e appena sente dire che nel paese di Bengodi v’è una
montagna di parmigiano e un fiume di vernaccia, è subito preso all’amo dalle
parole. Poi va in cerca della pietra che rende invisibili, con i suoi soci beffardi
Bruno e Buffalmacco, i quali fingono di non vederlo più; sicché lui, credendosi
invisibile, quando torna a casa e s’accorge che sua moglie lo vede benissimo, la
vuole ammazzare di botte perché crede gli abbia rovinato la magia (Decamerone,
VIII, 3). Il centro di questi racconti è l’eccesso di stupidità, che si porta dietro la
profanazione comica di ciò che la stupidità accetta supinamente. Ad esempio:
Puccio, a forza di sentir prediche, vuole diventare santo; al che un monaco promette
di aiutarlo e gli prescrive certe penitenze, dove Puccio si consuma in digiuni,
mentre il monaco in un’altra stanza prende piacere con sua moglie (Decamerone,
III, 4). Lo spirito della novella è uno scetticismo fantasioso che ci illumina su un
generale inganno: l’inganno delle parole per spacciare come dogmi le rimasticature
di ciarle, i castelli di panzane, i panegirici di frottole, le prediche dei preti per
inebetire le folle o le invenzioni dei frati per sfogare le voglie carnali. Ed ecco una
storia su questi temi: un abate convince Ferondo di esser morto e già arrivato in
purgatorio, dove lo trattiene per un po’ con belle invenzioni, per godersi intanto sua
moglie. Quando poi Ferondo miracolosamente resuscita, va in giro a raccontar alla
gente “novelle sulle anime dei loro parenti” e “le più belle favole del mondo de’
fatti del purgatorio”, e “la rivelazione statagli fatta per la bocca del Ragnolo
Braghiello [L’angiolo Gabriello]” (Decamerone, III, 8). Sono esempi di inganni

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delle parole, dove non c’è più divario tra ingannatore e ingannato: le fole dell’uno
producono le panzane dell’altro, e tutto scivola nella generale tendenza degli
uomini ad essere presi all’amo dalle chiacchiere. Questa vertigine generalizzata
produce mostri, perchè il mondo così pesantemente inquadrato dalle ciarle è simile
a quello di Ferondo quando parla del purgatorio, e ogni ciarla diventa un raggiro
del proprio simile, rintontito dalle parole.

Nel Decamerone una buona metà delle novelle parla di inganni, raggiri, eccessi di
stupidità, effetti comici delle burle. Questa è materia privilegiata di racconto, quasi
l’immaginario allo stato puro, paragonabile solo a quello dei poemi cavallereschi,
come volo di testa. Ma la massa dei creduli e ottusi che popolano queste novelle fa
anche pensare a uno stato di idiozia diffusa nell’umanità. Dante parlava della
“mente” come parte superiore dell’anima, dove si colloca la virtù intellettiva; e
diceva che molti paiono essere del tutto privi di tale facoltà, perciò sono chiamati
“amenti e dementi” (Convivio, III, ii, 19). Va anche ricordata la novella boccacesca
su Guido Cavalcanti, il quale, trovandosi un giorno presso una chiesa dove sono
delle arche sepolcrali, accerchiato da una banda d’amici intenzionati a trascinarlo
con loro, risponde: “Voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace”. Poi, con un
salto da “uomo leggerissimo”, scavalca l’arca e se ne va. La sua battuta viene
spiegata dal capo brigata così: egli ha voluto dire che “noi e gli altri uomini idioti e
non letterati siamo, a comparazione di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che
uomini morti, e per ciò, qui essendo [presso le arche sepolcrali], siamo a casa
nostra” (Decamerone,VI, 9). La nozione di “uomini morti” è simile a quella di
Dante, il quale, parlando di chi non segue nessuno studio o disciplina, diceva: “è
morto [come uomo] ed è rimasto bestia” (Convivio, IV, vii, 14). La battuta ha senso
anche in rapporto alla filosofia averroista di cui Guido è stato studioso, e dove uno
dei punti critici era la proposizione “Homo non intelligit” – da intendere: chi
comprende non è il singolo, ma l’intelletto generale che raduna tutti gli uomini. Ciò
implica che dove non vi sia uno sviluppo mentale per risalire dai propri fantasmi
immaginativi alle forme dell’intelletto generale, l’uomo resta un “uomo materiale”,
“semplice” o “grosso”, come si diceva nelle novelle. Dai “dementi” di Dante agli
“uomini morti” di Guido c’è la linea d’un dubbio sulle facoltà umane, che tocca
una vasta zona del pensiero d’epoca. È anche il senso riposto delle beffe: come è
possibile che un Calandrino sia detto uomo razionale? Lo spirito della novella ha
l’aria d’un umanesimo ribaltato, che anziché convincerci che umanità e razionalità
sono la stessa cosa, ci mette nella posizione di cogliere la formula della loro
massima distanza (“Homo non intelligit”).

La figura comica più proverbiale nella storia della novella è Calandrino: “uom semplice”,
con una “semplicità” da cui da cui Bruno e Buffalmacco “gran festa prendevano”.
Il semplice deriva dalla figura evangelica dei poveri di spirito destinati al regno dei
cieli, ma qui assume il ruolo di zimbello degli uomini di mente sottile. Sullo sfondo
di queste implicazioni, si profila una strana novella di Sercambi – quella su Ganfo
pellicciaio,“omo materiale e grosso di pasta”, altro semplice tra i più memorabili
(Novelle, 2). Dunque Ganfo va ai Bagni di Lucca per curarsi; ma quando deve
entrare in acqua e vede tante persone, si chiede: “Tra tanti, come farò a

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riconoscermi?” Allora si mette un segno di croce sulla spalla, ed entrato in acqua
guarda il segno e si dice: “Sì sono proprio io”. Poi però l’acqua spazza via il suo
segno di croce e lo deposita su un altro bagnante, al quale Ganfo dice: “Tu sei io e
io son tu”. E l’altro per mandarlo al diavolo gli risponde: “Va’ via, tu sei morto”. Al
che Ganfo si crede morto, torna a casa, si stende sul letto, si lascia mettere nella
bara. (Ganfo è sempre come se obbedisse agli ordini o alle ingiunzioni delle parole,
prendendo tutto alla lettera). Poi, mentre lo portano al cimitero, per strada una
cliente gli manda una maledizione, perché gli aveva portato una pelliccia da
riparare e lui è morto senza restituirgliela. E Ganfo risponde nella bara: “Se io fossi
vivo come sono morto, ti risponderei come si deve”. Racconto d‘una idiozia
misteriosa e assoluta, che ricorda le comiche del cinema muto; ma dà anche l’idea
d’un paradiso dei semplici, essendo peraltro intitolato De simplicitate. Niente qui
indica che l’uomo sia uomo in quanto creatura razionale; al contrario, c’è una viva
incertezza su cosa sia la razionalità, e su quella coincidenza con se stessi che
chiamiamo “io”, nonché sui segni che ci mettiamo addosso per distinguerci dagli
gli altri – parodia dell’identità razionale che tutti perpetuiamo.

Uno degli sviluppi più sintomatici delle burle novellistiche non va cercato nei testi
letterari, bensì nella voga delle beffe cittadine. Erano beffe architettate da artisti
d’un genere quasi teatrale, perché implicavano una messinscena e una recita delle
parti per ingannare la vittima designata. L’esempio più celebre è una beffa
organizzata a Firenze nell’anno 1409, architettata da Filippo Brunelleschi, con una
brigata d’artisti e artigiani fiorentini, e un vasto concorso di comparse. La beffa
sarà narrata in molte versioni, tra cui la più ampia è attribuita ad Antonio Manetti,
redatta attorno al 1446, a cui si dà il titolo di La novella del Grasso legniaiuolo.
Vittima designata: “il Grasso”, artigiano intagliatore, che “aveva un poco del
semplice”. Si tratta d’una recita collettiva per far sì che il Grasso creda d’essere
diventato un tal Matteo. Dunque, quando torna a casa alla sera, una voce che
sembra la sua gli grida da dentro: “Matteo vai via che ho da fare”. Passa un amico e
lo saluta: “Buonasera Matteo”. Lui va in piazza ed è arrestato su denuncia d’un
creditore che lo identifica come Matteo. Si chiede: “Sono forse Calandrino a esser
diventato un altro senza accorgermene?” Il Grasso vede l’ombra della beffa, ma
trovando mezza città concorde nel prenderlo per Matteo smette di far resistenza,
per non essere trattato da scemo. Ciò non toglie che sia travagliato dall’idea d’una
possibile metamorfosi di se stesso, e che a momenti cominci a crederci, stimolato
dalle chiacchiere dei suoi persecutori. A un certo punto gli organizzatori della beffa
mandano un prete, ignaro dello scherzo, per convincere il Grasso a smetterla di
credersi il Grasso; e questo prete lo rimprovera per la sua ostinazione, perché si fa
ridere dietro come strambo. Secondo il prete la stramberia si cura con i buoni
esempi: esempi dei “valenti uomini” che con “lo scudo della pazienza” superano
ogni avversità. Qui la beffa retroagisce dalla burla al sempliciotto alla caricatura di
untuose figure delle morale: quelli che incarnano una sicura coincidenza con sé
stessi, ciò che loro chiamano coscienza - col motto incosciente di Ganfo: “io sono
proprio io”. Nella storia del Grasso c’è il senso di un’incursione da parte dei
fantasmi pubblici della morale, i fantasmi d’un “dover essere”, che sconvolgono il
luogo delle immagini della mente e vi impiantano i segni d’un ordine coercitivo

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esterno. In realtà è la storia di un’incertezza fondamentale che riguarda tutti, tra
l’idea d’una coincidenza con se stessi e il senso d’una estraneità a se stessi:
incertezza disonorevole, da tenere sempre nascosta, perché somiglia alla pazzia.

Nella schiera dei semplici va inscritto il Mariotto di Grazzini, che faceva ridere tutti con
le sue castronerie, perché “credeva in cose tanto sciocche e goffe” da sembrare
piuttosto una bestia addomesticata che un uomo vero e proprio (Cene, II, 2). E
come il Puccio boccaccesco a forza di ascoltare i frati voleva diventare santo, così
Mariotto a forza di ascoltare prediche non vedeva l’ora di morire - perché gli era
stato detto che “questa vita non era vita, anzi una vera morte“, e invece “chi
moriva, di là cominciava a vivere una vita senza affanni”. Questo è l’avvio del
racconto. Dopo di che sua moglie si prende nel letto un amante; e i due assorti
nell’acre piacere dello spasmo genitale sono seccati dal grullo Mariotto che invoca
la morte, per cui decidono di metterlo in una bara e spedirlo al cimitero. Potrebbe
essere una comica come quella di Ganfo, se non fosse per come si risolve. Grazzini
segue la filosofia boccaccesca d’un determinismo naturale, come quello che
produce l’attrazione tra i sessi. Ma in Grazzini il determinismo tocca tutti i
comportamenti umani, come esempi d’una natura indifferente a qualsiasi ordine
morale. E non ci sono santi né eroi; ci sono solo trucidi e sciocchi; e una vita
governata da scelleratezze e sordide mene Ma ecco allora che il semplice non è più
come Calandrino, un balordo marginale rispetto al saldo mondo dei Bruno e
Buffalmacco. Mariotto incarna l’essenza pura della bestialità di questo mondo,
dove niente ha la salda trama del reale, tutto pare un incubo di fantasmi posticci.
Come quando sulla via del cimitero, dopo essersi cacato addosso, lui salta fuori
dalla bara; e a quel punto si capisce che niente è controllabile, tutto svaria e tracolla
nell’insensato. L’acqua dell’Arno prende fuoco, lui resta bruciato in Arno, quasi
obbedendo a un detto popolare fiorentino; e dopo non somiglia più a un uomo, ma
ad un “ceppo di pero verde, abbronzato e arsiccio”. Proprio quella morte comica fa
di lui una figura che spicca tra tutte le maschere d’una bestialità nascosta dietro le
norme dei traffici quotidiani; mentre lui, fin dall’inizio vicino all’essenza della pura
bestialità, morendo regredisce a purissima materia vegetale, come quella da cui
nascerà Pinocchio. E questa mi sembra la conclusione ideale di tutte le leggende
novellistiche sull’idiozia dei “semplici”.

7. L’eredità provenzale.

Nel prologo alla prima giornata del Decamerone, Boccaccio annuncia lo scopo delle sue
cento novelle. Queste sono narrate per dare sollievo a chi ne ha bisogno, dice, ma in
particolare alle donne con amori segreti, costrette a nascondere le loro fiamme
amorose e perciò tanto più assillate dai pensieri. Che il narrare sia una cura contro
le tristezze e gli affanni è un’idea antica, che in qualche modo associava l’arte
narrativa a un sapere medico di tipo ippocratico. La novità nell’annuncio di
Boccaccio sta nell’indicare una cura non più rivolta a pratiche e usi esterni, ma alla
dimensione dei pensieri intimi e delle fantasie incontrollabili. La familiarità con
tale dimensione è attribuita soprattutto alle donne, perché più soggette alla
reclusione nell’ambito familiare. Le donne, soggette ai “comandamenti de’ padri,

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delle madri, de’ fratelli e de’ mariti,”, chiuse nelle loro stanze, dice l’autore,
rimuginano pensieri facilmente inclini alla malinconia, quando siano mossi o
insidiati da forti desideri. Queste turbe sono l’oggetto della cura novellistica e
anche il punto d’intesa con le donne amorose a cui il libro si rivolge. È un punto
d’intesa che si colloca nella sfera intima dei fantasmi amorosi; ciò che Dante
chiama “la secretissima camera de lo cuore”: ossia l’interiorità come luogo
completamente immaginario, e proprio perciò sede di tutti i tremori ed emozioni
del corpo. Nei suoi cenni introduttivi Boccaccio sembra ripercorrere la via dei poeti
provenzali, che usavano la poesia come alleanza segreta con la donna, segno di
amori da tenere nascosti nel luogo immaginario dell’interiorità. Ed ecco le donne
con amori segreti a cui è destinato il libro, che fanno pensare a casi simili nelle
storie dei poeti provenzali, ma anche ai modi di devozione alla donna sviluppate
nella lirica italiana: modi che lo stesso Boccaccio ha ripreso ed esaltato nelle sue
precedenti opere e nei suoi versi. Così il Decamerone recupera la ricerca dei poeti
provenzali, d’un contatto tra genere maschile e femminile che non sia esteriore
come quello del matrimonio. Il mezzo di contatto per i poeti provenzali era la
poesia, come alleanza segreta e intima con la donna, e qui sono queste “cento
novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo” – che nell’ultima pagina
l’autore chiama “le mie novelle per cacciar la malinconia delle femmine”.

Nella novella di Masetto da Lamporecchio, due novizie parlano dell’amore e una dice di
aver udito “che tutte le altre dolcezze del mondo sono una beffa rispetto a quella
quando la femina usa con l’uomo” (Dec. III, 1). Si capisce l’insistenza di Boccaccio
nell’evocare il piacere carnale provato dalle donne. È un richiamo alle “leggi di
natura” da cui il corpo è regolato, e all’amore come una potenza di natura che è
“vano voler contrastare” (Decamerone, IV, introduz.) L’amore visto come “legge
di natura” giustifica l’arbitrarietà degli impulsi sessuali, e di conseguenza giustifica
anche le mogli che sfogano quegli impulsi fuori dal matrimonio. Ad esempio,
Madonna Filippa, denunciata per adulterio, convince i giudici di non aver fatto
niente di male, in base a questo ragionamento: che lei non si è mai negata al marito,
ma avendo in corpo qualche bisogno in più, e non volendo gettarlo ai cani, le è
parso giusto prendersi un amante (Decamerone, VI, 7). In realtà, a una veduta
d’insieme, parrebbe che gli sfoghi carnali delle mogli abbiano poco sapore senza
l’inganno ai mariti; perché un buon venti per cento di novelle presentano mogli che
optano per le “dilettose gioie” con l’amante, mentre il numero di mogli non
adultere è veramente minimo in tutto il libro. Certo, la moglie che gabba il marito
con una frottola mentre gode con l’amante, è un motivo tra i più ricorrenti in tutta
la nostra novellistica; ma in Boccaccio prende un sapore diverso dal solito. Anche
nei racconti più vicini alla farsa sessuale popolare, gli amori muliebri
extramatrimoniali nel Decamerone prendono il senso d’una sovranità che si
realizza tramite l’arbitrio; perché i sotterfugi, gli inganni, i nascondimenti,
realizzano l’arbitrio d’un piacere carnale senza più le sorveglianze di marito o
famiglia (Decamerone, VII, 2, 4, 9). Cito la novella di quel marito che si spaccia
da confessore per cogliere in fallo la moglie; ma la moglie gli ribalta l’inganno, lo
mette dalla parte del torto e lo tradisce a piacimento: “Per che la savia donna, quasi
licenziata a’ suoi piaceri [divenuta libera nei suoi piaceri]”, “poi più volte con lui

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[con l’amante] buon tempo e lieta vita si diede” (Decamerone, VII, 5).
Conclusione con una strana leggerezza, dove l’arbitrio del piacere sembra
l’adesione ad una amicizia tra i sessi che non ha più niente di esteriore. Ci sono
altre novelle che andrebbero studiate da questo punto di vista. Il piacere degli
amanti diventa una sovranità intima, sottratta alle censure della consapevolezza, per
il sotterfugio che rende segreto il loro piacere. Come nell’esempio di Tristano e
Isotta: tenuta segreta, l’amicizia tra uomo e donna si realizza nella dimensione più
immaginaria possibile, che è anche la più impenetrabile, e perciò ha l’aspetto d’una
piena sovranità. Anche questo fa parte dello spirito della novella, come residuo
d’un esperimento mentale tentato dai provenzali, di cui restano tracce fino alla
storia della Montanina di Sermini (Novelle, 1), quella di Mariotto e Ganozza di
Masuccio (Novellino, 33), di Giulietta e Romeo di Da Porto, e fino a Shakespeare.

8. Sull’eros nel Decamerone.

Le novelle boccacesche sfuggono a qualsiasi assegnazione morale, anche là dove


presentano modelli di comportamento esemplare. L'atto di Federigo degli Alberighi
di offrire all'amata il falcone, ultima sua risorsa, è un modello di devozione e
nobiltà; ma è anche un colmo paradossale che ci colpisce come uno strano gioco
della sorte, non come un esempio da seguire. E la silenziosa costanza di Griselda
nell’obbedire alla “matta bestialità” del marito ci lascia sbalorditi, anche ammirati,
ma è un monstrum in cui non potremo mai vedere una virtù condivisa da altri
umani. In Boccaccio manca del tutto una metafisica della virtù, sostituita da un
determinismo di natura, come quello che produce l’attrazione tra i sessi. Per questo
l’unica vera colpa individuabile nel Decamerone è la colpa del disamore,
condannata nella novella di Nastagio degli Onesti con una pena infernale, e in
quella di Tedaldo degli Elisei con queste decise parole: “L’usare la dimestichezza
d’un uomo [per] una donna è peccato naturale”, “il discacciarlo da malvagità di
mente procede” (Decamerone, III, 7). Il naturalismo boccaccesco si regge
semplicemente sulla favola di quel tale che, vissuto sempre in isolamento assieme a
un padre ascetico, la prima volta che vede delle donne desidera soltanto quelle, e il
resto non conta più niente per lui.. Morale: “ha più forza la natura che
l’ingegno”(Decamerone, IV, introduz.). La “natura” è la potenza attrattiva tra i
sessi, come un incantesimo generale che guida le vite degli uomini. Ma questa
attrattiva non si distingue mai dal suo fondo illusorio: l’abbaglio delle apparenze, i
miraggi delle favole, i travisamenti della passione. Nell’introduzione alla quarta
giornata c’è chi deride l’autore per la sua passione per le donne, consigliandogli di
trovar del pane per risolvere quella fame, e d’andare a cercarselo nelle favole (nelle
illusioni). Al che l’autore risponde: che i poeti trovarono più risorse nelle favole che
i ricchi nei loro tesori. L’intreccio tra attrazioni dell’eros e illusioni delle favole non
è negato, bensì presentato come ciò con cui “i poeti fecero fiorire la loro età”
(riferimento ai maggiori poeti del dolce stil novo, indicati qualche pagina prima
come maestri d’amore). La novella boccaccesca crea sempre l’esaltazione narrativa
con le ombre dell’illusorio, spandendo inganni, sotterfugi, abbagli e raggiri, come
quelli delle mogli per imbrogliare i mariti; e per il resto narra semplicemente i
movimenti d’attrazione tra i sessi (solo una ventina di novelle parlano d’altro), che

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hanno l’aria d’essere l’infinita ripetizione d’un gioco, o il gioco del mondo. Ed è il
risultato del naturalismo boccaccesco: se l’eros è una follia che porta a seguire
un’attrazione irresistibile attraverso le ombre di ciò che è illusorio (le ombre che
avvolgono tutta la terra come una marea, diceva Giordano Bruno), questa follia è
però integrata nella natura e nel gioco del mondo.

9. Coda.

Il Cinquecento è il secolo in cui la novella diventa un genere letterario riconosciuto, di


moda, e un genere che tutti si sentono di poter praticare - un po’ come succede col
romanzo al giorno d’oggi. Cosi diventa una forma ufficiale, ancora ibrida, ma
ufficializzata dall’uso, e con libri che stabiliscono cosa sia e come si debba scrivere
una novella. Nel 1573 è dato alle stampe un Decamerone ripulito nella lingua e
nelle parti licenziose, messo in regola secondo i canoni dei libri correnti, e secondo
un’uniformità letteraria ormai prescritta. Si capisce che la novella boccacesca è una
memoria illustre, ma con una vivacità fuori epoca, che stona con gli stili in voga.
Una cosa che si può notare negli stili dei novellieri cinque-seicenteschi, è una
patina d’indifferenza sistematica che avvolge i loro testi, rendendoli quasi tutti
come appiattiti nello stesso stampo oratorio, con una sparizione della singolarità del
diverso. Qui sto cercando d’abbozzare un panorama di fondo senza nessun valore
critico, ma che mi serve per far capire quale miracolo sia stato l’apparizione di Lo
Cunto de li cunti di Basile, nell’anno 1634. Lo cunto è nello stesso tempo un
seguito della tradizione boccaccesca, e la fine di questa tradizione con l’apertura
verso un altro genere – quello della fiaba. Come in nessun’altra raccolta di racconti
per trecento anni, qui si vede riapparire la festosità del narrare e l’ebbrezza
dell’illusorio. E questo per un effetto regressivo, con il ritorno a un prima della
novelle, al tipo di racconto minimo e più elementare: quello per bambini, affidato
da tempo immemorabile alle nonne. Dice una narratrice di Boccaccio: “Quando
c’invecchiamo, né marito né altri ci vuol vedere, anzi ci cacciano in cucina a dir
delle favola colla gatta e noverare le pentole e le scodelle” (Decamerone, V.10).
Quel genere infimo diventa uno spettacolo di parole, un intrattenimento senza
nessuna volontà di narrare i “fatti del mondo”, e che svuotandosi di senso prende il
senso d’una parodia generale del milieu per cui è stato confezionato. Dice Michele
Rak, che le fiabe di Basile erano scritte per riempire le conversazioni del dopo
pasto, come gioco cortigiano inteso a far sorridere la smorta nobiltà napoletana. E
pensando alla storia della principessa che non riusciva a ridere, con cui il Cunto si
apre, c’è da credere che la festosità barocca fosse più o meno arenata in simili
secche. Ma la felice ebbrezza che attraversa questo libro viene da un’altra parte;
viene dal dialetto napoletano, dalla raccolta di modi di dire napoletani, e dalla
raccolta di fiabe delle nonne, per la prima volta ordinate e raccontate in modo da
farne veramente un genere. E in tutto questo fin dall’apertura si sente l’eco del
sapere di Shahrazad, il sapere del narratore-guaritore che sa tenere il tempo sospeso
con l‘artificio delle parole, allontanando di racconto in racconto l’incombenza della
morte: “L’ultima felicità dell’uomo è il sentire racconti piacevoli, perché ascoltando

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cose amabili, gli affanni evaporano, i pensieri fastidiosi vengono sfrattati e la vita si
allunga” (Basile, Cunto, Apertura.)

III. La novella nel Quattrocento

La novellistica quattrocentesca, come accade per molti aspetti della cultura del XV
secolo, è in parte connotata da una ripresa del volgare in chiave umanistica. Vedono
così la luce il Paradiso degli Alberti di Giovanni Gherardi da Prato (1367-1442) e
Le Porrettane del bolognese Giovanni Sabbadino degli Arienti. In questo periodo
però il fenomeno più importante nell'ambito del genere è rappresentato
dall'affermazione della novella spicciolata, cioè trasmessa come testo singolo
avulso da qualsiasi struttura organica o 'incorniciata' di ascendenza decameroniana.
Fra le spicciolate si distinguono la Historia de duobus amantibus (rielaborata da
Enea Silvio Piccolomini in forma di epistola umanistica) e soprattutto la Novella
del Grasso legnaiuolo (la cui versione più elaborata è quella pervenutaci sotto il
nome dell'astrologo Antonio Tucci Manetti), in cui si racconta con dovizia di
particolari la beffa ordita da Filippo Brunelleschi (con la complicità di Donatello) ai
danni di un ingenuo ebanista.
Il clima culturale dell'umanesimo, volto all'esaltazione dei valori individualistici
dell'ingegno e dello spirito critico, recupera da Boccaccio soprattutto il tema del
motto e della facezia, cioè di un parlare pronto e scaltrito grazie al quale il
personaggio manipola a suo vantaggio una situazione problematica. Vanno
ricondotte a questo filone la raccolta Motti e facezie del Piovano Arlotto,
compilazione anonima di 218 aneddoti conclusi da un motto arguto, ma anche il
Liber facetiarum di Poggio Bracciolini, gli Apologhi di Leon Battista Alberti e i
Detti piacevoli di Poliziano.
Un posto a sé, nel panorama della novellistica quattrocentesca, spetta infine a
Masuccio Salernitano, autore del Novellino. In questa raccolta (costituita da 50 testi
suddivisi in cinque decadi tematiche) una notevole inventività narrativa e
linguistica perviene a esiti ambigui, ora di pura e cruda comicità, ora di cupezza
grottesca, assai distanti dall'equilibrio del modello decameroniano - rispetto al
quale si rafforza notevolmente lo spunto misogino. L'opera venne messa quasi
subito all'Indice per la frequenza del tema osceno e anticlericale.

Giovanni Gherardi, detto Giovanni da Prato, nacque probabilmente nel 1367 e morì
intorno al 1445. Notaio, poeta, cultore della grande tradizione volgare fiorentina,
elaborò anche un progetto per la cupola di S. Maria del Fiore. Nel 1426 si ritirò a
Prato dove compose Il Paradiso degli Alberti. L'opera, articolata in cinque libri, ma
incompiuta, riferisce dei conversari tenuti nella primavera del 1389 da una lieta
brigata fiorentina nella villa del Paradiso di proprietà di Antonio di Niccolò degli
Alberti (da qui il titolo attribuito all'opera dal Wesselofsky, suo primo editore, nel
1867). Un'invenzione, dunque, che ricalca quella del Decameron di Boccaccio,
senonché in questo caso il rapporto cornice/novelle è tutto sbilanciato in direzione
della cornice, che rappresenta la parte preponderante del racconto. In ragione del
ruolo secondario delle novelle, nove in tutto, l'opera acquista più la fisionomia del
romanzo che non quella del novelliere.

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Giovanni Sabbadino degli Arienti (Bologna 1445 ca-1510) fu notaio e letterato, al
servizio dei Bentivoglio di Bologna e degli Este di Ferrara. Scrisse De civica salute
(trattato della pudicizia, in onore della moglie), Le Porrettane (1483, raccolta di
sessantuno novelle dedicate a Ercole d'Este dove immagina che un’ allegra brigata
per sfuggire la peste del 1475 si ritira ai bagni della Porretta e qui passa il tempo in
piacevole novellare. Non c’è nulla che riveli in Porrettane il novellatore di razza.
Sono lunghe e complicate storie d’amore, narrazioni scolorite e fredde; aneddoti
poverissimi e diluiti in una prosa greve e monotona, artificiosa e zeppa di
provincialismi e latinismi), trattato della pudicizia Gynevera de le clare donne
(1490, dedicata a Ginevra Sforza Bentivoglio, raccolta di trentatre biografie di
donne illustri).

La novella nel Cinquecento

La novella del Cinquecento è boccaccesca: boccacceschi sono i temi, boccacceschi i


personaggi. Solo che quella che era stata licenza in Boccaccio, diventa ora, molto
spesso, oscenità. La ragione sta nel fatto che la novella in questo secolo, più che
proporsi un intento letterario, persegue un intento di intrattenimento e divertimento,
divertimento di una società sensuale, tutta intrisa di terrenità, disinteressata ai
grandi temi della morale, della fede, della politica. Il modello più vicino al
Boccaccio fu Matteo Bandello, autore di poco più che duecento novelle. Non
senza ragione Bandello chiamava "casi" le sue novelle. In esse, infatti, il caso e non
il personaggio (come era stato invece in Boccaccio) è il vero protagonista. Matteo
Bandello (Castelnuovo Scrivia, 1485 – Bassens, 1561) è stato uno scrittore
italiano del Cinquecento. Tra il 1494 e il 1497 era seminarista presso il convento
dei monaci della Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano ed era il nipote del
priore. Qui ebbe modo di osservare Leonardo da Vinci intento nella realizzazione
dell'Ultima cena sulla parete del refettorio. Nella Novella LVIII (1497) raccontava
come Leonardo lavorasse attorno al Cenacolo: "Soleva [...] andar la mattina a
buon'ora a montar sul ponte, perché il cenacolo è alquanto da terra alto; solve, dico,
dal nascente sole sino a l'imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma
scordatosi il mangiare e il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui,
tre e quattro dì che non v'avrebbe messa mano e tuttavia dimorava talora una o due
ore del giorno e solamente contemplava, considerava ed essaminando tra sé, le sue
figure giudicava. L'ho anco veduto secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava,
partirsi da mezzo giorno, quando il sole è in lione, da Corte vecchia ove quel
stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Grazie ed asceso sul
ponte pigliar il pennello ed una o due pennellate dar ad una di quelle figure, e di
solito partirsi e andar altrove". Compiuti gli studi a Pavia, condusse vita mondana
nonostante fosse entrato a far parte dell'ordine dei Domenicani (dal quale uscirà nel
1526). Dopo aver lavorato come diplomatico al seguito di diversi signori, sfruttò i
legami con il re di Francia (presso la cui corte aveva soggiornato per due anni) per
diventare vescovo di Agen, cittadina francese in cui visse fino alla morte.
L'importanza letteraria di Bandello va ricercata - più che in alcune opere minori
come un Canzoniere in stile petrarchesco ed ai capitoli de "Le tre Parche" - nella
ampia produzione di novelle (in totale 214) contenute in tre libri pubblicati nel

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1554 ed in una quarta parte pubblicata postuma nel 1573. Proprio per il tipo di
pubblico per cui erano pensate, quello cortigiano, le novelle di Bandello non
seguono il modello boccacciano. I racconti, infatti, non fanno parte di una
struttura unitaria come nel Decameron, ma sono dedicati, singolarmente, tramite
lettere dedicatorie, a personaggi dell'epoca. Per quanto concerne il problema della
lingua, Bandello rifiutò i canoni bembeschi, preferendo un linguaggio di uso
tipicamente cortigiano. William Shakespeare conobbe la traduzione francese delle
novelle di Bandello, da cui trasse il soggetto per le commedie Molto rumore per
nulla e La dodicesima notte. Anche la tragedia Romeo e Giulietta si ispira a un
testo di Bandello, che aveva rielaborato un racconto del vicentino Luigi Da Porto,
l'Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti, scritta nel 1529. Lo scrittore
che adunò in una specie di ultima silloge lo spirito della prosa narrativa nell'Italia
cinquecentesca fu Matteo Bandello. Testimone d'una storia tra le più intense e
inventive d'ogni epoca, avvertì ed espresse come pochi altri il senso fortunoso del
suo tempo. Frate dell'ordine di San Domenico, cortigiano nelle placide corti e fin
nei marziali accampamenti, esperto di genti varie per aver solcato « mille mari e
mille fiumi », letterato di sicura dottrina umanistica, tutte le sue vive esperienze
tradusse in quel sontuoso Novelliere per il quale fu perfino esaltato come l'Ariosto
in prosa, e il Boccaccio del Cinquecento. I suoi sensi e il suo spirito tendono a
quella storia vorremmo dire più vera che è la cotidiana vita degli uomini, la vita che
si suol chiamare privata, e che di fronte alla storia ufficiale può essere paragonata al
nudo nelle arti figurative: una realtà che nel mutare delle fogge e maniere in cui si
manifesta l'impronta ascosa dei tempi è più ferma e più duratura qualcosa di
perenne e tuttavia sempre diverso nelle serie degli uomini. Tutte le volte che l'arte
prende a materia affetti e passioni reali nella vita circostante, lavora su questo «
nudo » della storia, che è l'animo umano nelle sue vicende d'ogni giorno, d'ogni
ora, eterno valore cosmico: è l'animo umano, di fronte agli avvenimenti che si
dicon grandi e storici per l'astrazione che aggruppa in unità i rilievi esterni,
dimenticando che la vera storia visse solo nella mente e nel cuore dei singoli che ad
essa parteciparono, può essere attivo o alieno, può accettarli o respingerli o
rimanere inerte e indifferente.

Or quando s'è parlato dell'importanza storica del Novelliere di Matteo Bandello come di
un documento capitale della vita del Cinquecento, s'intendeva essenzialmente
riguardare, anche se qualche volta s'ingenerò equivoco, lo spirito cinquecentesco di
quell'opera che specchia vivissimamente i costumi e le passioni quotidiane dell'età
sua.
In questo senso non v'è scrittore del Cinquecento, non il Castiglione o il Casa, non
il Vasari, neppure il Cellini, neppure gli storici di professione, dai minori ai
massimi quali il Machiavelli e il Guicciardini, che sia così ricco di sostanza storica,
così serenamente veritiero, per non aver l'autore messo l'animo a rappresentare una
tendenza piuttosto che un'altra. Il tempo vi respira e palpita, sia che si accennino
vicende vicine, sia che si, narrino, secondo che nei luoghi frequentati dal Bandello
sono apprese, le vicende di terre lontane...

I suoi canoni di novellatore son chiari. Innanzi tutto, senza che abbia a farne

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esplicita professione, non pare che egli senta il bisogno di ricorrere alla fantasia per
inventar fatti àttraenti e singolari: forse pensa che far ciò non sia neppur lecito:
certo, il curioso e il meraviglioso egli lo trova nei casi che avvengono « a la
giornata ». Lo colpisce e quasi rapisce la varietà dei casi umani:Non mira il cielo
con tanti occhi in terra, allora che è più lucido e sereno, quanti sono i vari e
fortunevoli casi che in questa vita mortale avengono.
Mirabili nel vero son tutti quei casi che fuor dell'ordinario corso del nostro modo di
vivere a la giornata accadono, e spesso quando gli leggiamo c'inducono a
meraviglia, ancora che talvolta molti uomini, non avendo riguardo a la santità
dell'istoria che deve esser con verità scritta, come leggono una cosa che abbia del
mirabile o che lor paia che non dovrebbe esser di quel modo fatta, dicono: Forse
non avvenne così, ma chi questo fatto scrisse l'ha voluto a modo suo adornare.

Di simili fatti il secolo è riboccante: « E se mai fu età ove si vedessero di mirabili e


differenti cose, credo io che la nostra età sia .una di quelle, ne la quale, molto più
che in nessun altra, cose degne di stupore, di compassione e di biasimo accadono ».
Or di fronte a queste mirabili e differenti cose il novelliere ha il dovere della
fedeltà: certo, può colorirne e adornarne i particolari, ma non sì che da « storia » si
mutino in « favola ».

Ecco un principio in cui consiste la fondamentale poetica del Bandello. Perciò la «


inizial finzion » di assoluta verità in cui egli compone le novelle, che hanno per lui
intima sostanza storica, vuol esser data da una conversazione nei circoli che
frequenta: e la novella vuol esser perciò corale, come quella a cui partecipa con
dispute, interruzioni, sentenze, commozione, sorriso, il coro dei presenti, nel cui
seno essa è nata per una ragione non rara di analogia. E anche qui si svela il
particolare carattere del Bandello, che cerca nella vita d'ogni giorno le sue
occasioni di novella, e non in uno straordinario avvenimento, qual'è per esempio la
peste nel portentoso preludio del Decamerone.

Noi oggi, per la civile necessità di discorrere coi nostri simili, abbiamo anche altre
maniere, che non sian quelle del discorso diretto; ma un tempo la conversazione era
costume sociale d'alta importanza, e fu per le corti, e più tardi per i salotti, una vera
e propria arte del dire. La vita moderna, così rapida e meno attenta a certi valori
formali, ha attenuato o distrutto quel modo oratorio, e le orazioni che oggi in luogo
di ascoltare leggiamo, sono gli articoli dei giornali. Allora invece era necessaria una
vera e propria arte del conversare, ed era una virtù studiatissima e assai diffusa, che
rispondeva alla maggior lentezza e al maggiore ozio dei tempi, e della quale si
vedono i riflessi perfino nel discorrere tutto oratorio, secondo i canoni della
retorica, che fanno i personaggi di novelle e drammi, quale che sia la classe sociale
alla quale appartengono. A quel senso di prosa sillogistica, con la maggiore, la
minore, e la conseguenza; a quel parlare ornato, che ha il suo esordio, la sua
dimostrazione, la sua mozione di affetti, anche nei più semplici discorsi, non si
sottrae nemmeno il Machiavelli, che pure diede una sprezzatura di rapidità al suo
periodo, nemmeno l'eslege Cellini, il quale nella sua autobiografia riferisce propri e
altrui discorsi, che sono piccole orazioni secondo le regole del ben dire. Qual tono

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oratorio si raggiungesse poi alle corti nel tempo di Matteo Bandello, testimonia la
vera e propria orazione sull'amor platonico che il Castiglione attribuisce a Pietro
Bembo : il quale aveva parlato: « con tanta veemenzia, che quasi pareva tratto e
fuor di sé... tenendo gli occhi verso il cielo, come stupido. Era il tempo dei «
dicitori » e perfino degli « aedi », se di Antonio Bologna, le cui tragiche vicende
son materia d'una novella bandelliana, è detto che « sonò di liuto e cantò un pietoso
capitolo, che egli dei casi suoi aveva composto ed intonato »; e si ricordi ciò che
scrive il Castiglione circa poesia e musica. In quel cerchio mondano trova o finge
verosimilmente le occasioni delle sue novelle, e talora rende con improvviso tocco
il senso vivo della conversazione, come quando un suo narratore esce a dire: « Caso
veramente degno di pietà e compassione, e da far lacrimar le pietre, nonché voi
tenere e dilicate donne, che già le belle lacrime sugli occhi avete ». Il più delle volte
poi i fatti raccontati nascono da un'analogia con un fatto recente: le novelle del
Bandello sono parallele come le vite di Plutarco. Il tempo e il luogo presenti
improntano e coloriscono anche i tempi e i luoghi evocati, le cronache e le storie
antiche, come lettere remote, e tutto acquista la nuova vita della conversazione in
cui i fatti son ricordati, per un confronto o per un gusto di eleganza umanistica o
per un capriccio di bravura. Così la romana Lucrezia, che si uccide per l'onta di
Sesto nella novella narrata da Baldassar Castiglione, anzi nel saggio di critica
storica che accademicamente egli recita, è un'eroina cinquecentesca. Allo stesso
modo il racconto dell'infelice amore di Massinissa e Sofonisba, narrato dopo la
lettura dei Trionfi petrarcheschi in cui viene evocato, è tutto colorito dalla simpatia
cinquecentesca che a quel fatto si volgeva.All'ozio letterario del raccoglitor di
novelle, Matteo Bandello ebbe il genio conforme del cortegiano, del viaggiatore, e,
soprattutto, vorrei dire, del frate, che sempre, anche se non ha mai confessato
alcuno, ha per educazione la minuta e inquisitoria curiosità del confessore.

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Novelle tra le più vivaci e interessanti del secolo le compose Anton Francesco Doni, un
letterato che scrisse e si interessò di tutto.

Anton Francesco Doni (Firenze, 16 maggio 1513 – Monselice, settembre 1574) è stato
un letterato, editore e traduttore italiano. Non si hanno notizie attendibili della
famiglia, delle prime vicende biografiche e della formazione del Doni. Il Doni
affermò di appartenere a una famiglia aristocratica di Firenze, discendente da due
papi (chiamati Dono I e Dono II) e perseguitata dai Medici; di aver vestito l'abito
dei Servi di Maria e di aver svolto l'attività di maestro di dottrina al convento
dell'Annunziata; di aver lasciato i Serviti e la città di Firenze attorno al 1540, esser
diventato prete, e aver iniziato un vagabondaggio per varie città dell'Italia
settentrionale (Genova, Alessandria, Pavia, Milano).

Nel 1542 si recò a Piacenza, dove frequentò per qualche tempo la facoltà di
Giurisprudenza, entrò a far parte dell' Accademia Ortolana con il nome di
Semenza e iniziò la sua attività letteraria: nel 1543 infatti uscì a Piacenza, per i tipi
del Simonetta, un suo volume di Lettere. Nel 1544 si recò a Venezia, dove si fermò
poco tempo prima di recarsi a Roma e di nuovo a Firenze (dove aprì una tipografia
e divenne primo segretario dell' Accademia degli Umidi). Nel 1547 si recò di
nuovo a Venezia dove entrò nell'Accademia Pellegrina e si dedicò definitivamente
alla professione di letterato. Carattere polemico entrò in violente diatribe col
Domenichi e con l'Aretino, in precedenza suoi intimi amici [1]. Nella città lagunare
scriverà la maggior parte delle sue opere. Nel 1555 si recò a Pesaro nella speranza
di ottenere un impiego presso il duca Guidobaldo II della Rovere. L'impiego
sfumò per le beghe di Pietro Aretino a cui il Doni rispose con un libello infamante
in cui fra l'altro prediceva la morte dell'Aretino entro l'anno; profezia avveratasi.
Nel 1664 abbandonò nuovamente Venezia e, dopo brevi soggiorni ad Ancona e a
Ferrara, si ritirò con un figlio a Monselice, dove risiedette fino alla morte.

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Doni scrisse numerosissime opere, tra l’altro il seguente: Pistolotti amorosi del Doni, con
alcune altre lettere d'amore di diversi autori, ingegni mirabili et nobilissimi. In
Vinegia : appresso Gabriel Giolito de Ferrari e fratelli, 1552. È una raccolta di
lettere d'amore, la maggior parte delle quali scritte dallo stesso Doni. In uno di
questi Pistolotti sono inserite le Stanze villanesche dello Sparpagliola alla Silvana
sua innamorata, che nel 1550 erano stati pubblicati a parte a Bologna, e sono state
ristampate autonomamente a cura di Giuseppe Baccini nel 1887. In quest'opera il
Doni, dichiara esplicitamente il proprio fastidio per le sdolcinature amorose dei
petrarchisti, molto numerosi nel secolo XVI La zucca del Doni fiorentino. Diuisa
in cinque libri di gran ualore, sotto titolo di poca consideratione. Il ramo, di
chiacchiere, baie, & cicalamenti. I fiori, di passerotti, grilli, & farfalloni. Le foglie,
di dicerie, fauole, & sogni. I frutti, acerbi, marci, & maturi. & Il seme; di chimere,
& castegli in aria, In Venetia : appresso Fran. Rampazetto : ad instantia di Gio.
Battista, & Marchio Sessa fratelli, 1565.; I Marmi del Doni, Academico Peregrino.
Al mag.co et eccellente S. Antonio da Feltro dedicati, In Vinegia : per Francesco
Marcolini, 1552. È un'opera di dialoghi bizzarri. Il Doni finge di essere stato
tramutato in un uccello, libero di volare e di ascoltare le conversazioni di chi si
raduna, per chiacchierare, sui "marmi", le scalinate in marmo del Duomo di
Firenze. Come moltissime opere del Doni, anche questa è uno zibaldone satirico.
Nel dialogo Carafulla e Ghetto Pazzi del Ragionamento primo Doni fa ipotizzare al
buffone Carafulla teoria eliocentrica ad appena nove anni di distanza dalla
pubblicazione del De Revolutionibus orbium coelestium di Copernico e 80 anni
prima della pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di
Galileo Galilei!

Mondi celesti, terrestri, et infernali, de gli Academici pellegrini: composti dal Doni;
mondo piccolo, grande, misto, risibile, imaginato, de pazzi, & massimo, inferno, de
gli scolari, de malmaritati, delle puttane, & ruffiani, soldati, & capitani poltroni,
dottor cattivi, legisti, artisti, degli vsurai, de poeti & compositori ignoranti, In
Vinegia : appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, 1562. È anch'essa un'opera di
dialoghi bizzarri, nella quale tuttavia il Doni espone l'utopia di una società
anarchico-comunista ordinata secondo l'Utopia di Tommaso Moro e con
reminiscenze de Repubblica platonica. La prima traduzione italiana dell'Utopia di
Tommaso Moro, ad opera di Ortensio La filosofia morale, del Doni, tratta da molti
degni scrittori antichi prudenti. Scritta per amaestramento uniuersale de gouerni, &
reggimento particolare de gli huomini; con modi dotti, & piaceuoli nouelle, motti,
argutie, & sententie, In Venetia : appresso li heredi di Marchio Sessa, 1567.

Anche le novelle di Giovanni Francesco Straparola, riunite nelle Piacevoli notti, si


fanno leggere con piacere per il modo sciolto e garbato con cui l'autore racconta le
sue storie, alcune delle quali di argomento fiabesco. Altri autori di novelle furono il
Agnolo Firenzuola ed il Lasca e lo stesso Niccolò Machiavelli, che fu il più
pensoso e serio scrittore del secolo. Sua è infatti la novella Belfagor arcidiavolo.

La novella del Cinquecento è boccaccesca: boccacceschi sono i temi, boccacceschi i


personaggi. Solo che quella che era stata licenza in Boccaccio, diventa ora, molto

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spesso, oscenità.
La ragione sta nel fatto che la novella in questo secolo, più che proporsi un intento
letterario, persegue un intento di intrattenimento e divertimento, divertimento di
una società sensuale, tutta intrisa di “terrenità”, disinteressata ai grandi temi della
morale, della fede, della politica.

La novella nel Seicento

Nel Seicento la novella ebbe poca valenza letteraria, investita anch'essa dalla decadenza
di questo secolo. Uno scrittore di racconti ci fu (e anche valido): il napoletano
Giambattista Basile, autore de Lo cunto de li cunti. Ma i suoi racconti sono da
considerarsi più simili alle fiabe che alle novelle. Giambattista Basile (Napoli,
1566 o 1575 – Giugliano in Campania, 1632) è stato un letterato e scrittore
italiano di epoca barocca, primo a utilizzare la fiaba come forma di espressione
popolare.

Fu detto anche il Boccaccio napoletano. Lo Cunto de li Cunti , ovvero “ Lo


trattenemiento de' peccerille ” è l'opera più importante realizzata da
Giambattista Basile. Il titolo non deve però trarre in inganno: il Cunto, opera
squisitamente letteraria, non era affatto dedicato ai bambini, bensì ad un
pubblico maturo, pur se rozzo e incolto quale era quello dei casali, capace
d'intendere i frequentissimi doppi sensi che caratterizzavano le metafore. “ Lo
Cunto de li cunti ” fu pubblicato postumo con il nome del suo autore
anagrammato in quello di Gian Alesio Abbatutis . Nelle edizioni posteriori ebbe il
sottotitolo di “ Pentamerone ”, sia a ricordo dell'opera di Boccaccio, cui si
avvicina nella cornice, sia a somiglianza delle raccolte di novelle orientali,
strutturalmente costruite su un racconto centrale attorno al quale ruotano tutti gli
altri. Il Cunto infatti presenta una struttura circolare: un racconto all'interno del
quale sono narrati altri quarantanove racconti. L'opera è divisa in cinque giornate di
recitazione comica e ciascuna giornata si chiude con un'egloga di argomento
morale recitata da due servi-attori. L'atmosfera ricostruita nel Cunto è quella che si
respirava nei casali, tipiche aggregazioni di cortili intorno ad un corpo centrale,
all'interno dei quali si radunava la gente comune per trascorrere qualche ora
ascoltando piacevolmente i “trattenimenti”cioè le narrazioni di racconti. Il Cunto è
un'opera di grande sapienza e tecnica letteraria, unica nel sollevarsi dal generale
grigiore della novellistica secentesca, e per questo definito dalla critica “ il primo e
più illustre fra quanti libri di fiabe esistano nella civiltà europea ” . Basile si
accosta al mondo della fiaba popolare con la sensibilità propria dell'artista che ad
essa infonde “ il lume e il suono e l'anima del suo umano sentire ” . Dotato di
una struttura flessibile, in continuo ed aperto contrasto con i canoni del racconto
umanistico , con gli schemi e i vincoli del genere favolistico classico, Il Cunto
rappresenta un'innovazione in ambito favolistico e crea un unicum letterario di
massimo spessore. Ogni racconto presenta la stessa struttura e la stessa logica:
come incipit e chiusura c'è un proverbio che ha il compito di smorzare il tono

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fortemente espressivo ed audace del racconto stesso. Gli eventi narrati sono disposti
secondo la medesima sequenza logica : il conflitto, l'allontanamento e il viaggio, il
ritorno e il cambiamento di status.
Questa struttura fa del Cunto un sofisticato racconto multiplo, destinato a diventare
un modello narrativo denominato racconto fiabesco, successivamente diffuso nelle
tradizioni del racconto europeo. Non tutti sanno che proprio “ Il Cunto de li cunti
” è stato la fonte di ispirazione di gran parte della letteratura fiabesca europea e i
più noti racconti quali “Cenerentola”, “La bella addormentata nel bosco”, “Il Gatto
con gli stivali”, sono il risultato di riduzioni o adattamenti dei racconti di Basile. Il
cunto divenne un libro noto, fu tradotto in altre lingue europee già alla fine del
Seicento, e da queste traduzioni presero spunto autori come Perrault, i fratelli
Grimm altri per scrivere le fiabe nella forma cui che le conobbe il resto del mondo .
Il tema dominante nell'intera opera è il rapporto speculare che esiste tra realtà e
finzione: attraverso la menzogna e l'invenzione della favola, Basile racconta la
verità del mondo. Solo la quarantanovesima fiaba non è una finzione, ma è il
racconto delle vicende personali della narratrice, la principessa Zoza, che rompe
così l'incantesimo. Indefinito è l' asse temporale, così come quello spaziale:
l'ambientazione non è quasi mai riconducibile a luoghi reali o identificabili. Anche i
protagonisti hanno nomi e caratteri che non dicono nulla sulla loro identità, sul loro
“io”. La sola indicazione che li connota e li inserisce all'interno della realtà è
l'appartenenza ad una certa gerarchia sociale: sono re, principesse, villani o
mercanti, membri di una gerarchia che li pone in alto o in basso nella scala sociale.
La metamorfosi è un importantissimo tema che ripercorre l'intera opera e la
connota ancora una volta di una dimensione dinamica ed attiva. La realtà in
continua evoluzione, il divenire dei fatti e delle storie è una risoluzione, una tappa
obbligatoria del percorso tracciato all'interno del “ Pentamerone ”: ecco il filo
conduttore dell'opera. Tutti i protagonisti prima del termine del racconto cambiano
sempre la propria condizione: determinante in Basile è il cambiamento di status.
Attraverso un viaggio o una trasformazione, i personaggi realizzano il passaggio a
ranghi più alti. Essi passano dalla povertà alla ricchezza, dalla solitudine al
matrimonio, dalla bruttezza alla bellezza, da un rango inferiore ad uno superiore.
Questo passaggio avviene sempre attraverso eventi sui quali intervengono poteri
violenti e capricciosi, quasi sempre impersonati da orchi e fate. La costante
presenza del cambiamento e, soprattutto, del miglioramento è uno degli elementi
ricorrenti in una società quale quella del XVII secolo, tendenzialmente statica, ma
pervasa dal desiderio di modernità. Il viaggio è l'altro tema ricorrente e
protagonista dell'intera raccolta. L' allontanamento, il distacco, l'esilio forzato, sono
aspetti riproposti da Basile in ogni fiaba. La partenza rappresenta sempre un
momento di rottura, la rinuncia di condizione nota per una nuova, spesso per luoghi
sconosciuti, non agevoli e ricchi di insidie.

Autore di un libro di novelle e facezie, alcune piacevoli e vivaci, fu Giovanni Sagredo


autore de L'Arcadia in Brenta e Lorenzo Magalotti che, pur essendo soprattutto
uno scienziato, seppe raccontare alcune novelle con una prosa spigliata e moderna.

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La novella nel Settecento

Sembra che il Settecento, pur avendo tante cose da dire in campo di rinnovamento dei
costumi, della politica, della giustizia, dell'economia, della letteratura e della
lingua, non abbia trovato il tempo di scrivere novelle. Poche, infatti, ne furono
scritte, ed anche queste poche, mosse più da un interesse pedagogico che dal
disinteressato gusto del raccontare. Un'eccezione possono essere considerate le
novelle di Gasparo Gozzi, arguto riformatore, scritte in una lingua semplice e
priva di artifici e di piacevole lettura. Gasparo Gozzi è stato uno scrittore,
intellettuale e letterato italiano. Nacque a Venezia, al civico 2939 del sestiere di
San Polo, nel 1713 da una famiglia nobile di origine friulana. Fu fratello di Carlo
Gozzi. Morì a Padova, il 26 dicembre 1786.
Compì gli studi presso il collegio dei padri Somaschi di Murano fino al 1732,
quando, a causa delle difficoltà economiche dovute al dissesto del patrimonio di
famiglia, dovette mantenersi con il suo lavoro di letterato realizzando traduzioni di
grandi umoristi antichi e moderni.Nel 1738 sposò la poetessa Luisa Bergalli, più
vecchia di lui di dieci anni, con la quale, nel 1746, prese in gestione il Teatro
Sant'Angelo e nel 1747, con il fratello Carlo, fondò l'Accademia letteraria
tradizionalista dei Granelleschi, provando a dar vita ad un repertorio teatrale
moderno che escludeva l'uso delle maschere, con scarsa approvazione. Nel 1748,
fallita l'impresa del teatro, Gasparo si impiegò presso il procuratore Foscarini che lo
aiutò a scrivere il primo volume della "Storia della letteratura veneziana" , che sarà
pubblicato nel 1752, e si dedica con la moglie a molti lavori in anonimato,
soprattutto traduzioni dal francese e dal latino. Importanti sono sue Novellette e
racconti, e I poeti son oggi salmonei.

Nel 1750 esce la sua prima opera letteraria originale, il primo volume di Lettere diverse a
cui farà seguito nel 1752 il secondo, dove lo scrittore manifestò doti di umorista e
moralista leggero e penetrante, che saranno le costanti di tutta la sua opera. Al

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contrario del fratello Carlo, più legato alle antiche consuetudini nobiliari, Gasparo
non rifiutò di cimentare la sua abilità di letterato in un'attività prettamente
commerciale quale il giornalismo.
Tra il 1760 e il 1762 lo scrittore redasse da solo tutti i numeri della Gazzetta
veneta (bisettimanale, uscì dal febbraio 1760 al gennaio 1761), del Mondo morale
e dell'Osservatore veneto (prima settimanale, poi bisettimanale, uscì dal febbraio
1761 all'agosto 1762). In seguito divenne funzionario dei Riformatori dello Studio
di Padova, la magistratura veneziana che si occupava della politica culturale della
Repubblica di Venezia, e svolse per molti anni con buon senso e apertura mentale
l'incarico di sovraintendente alle stampe e revisore (censore) dei libri.

Nella "Gazzetta" confluivano fatti di cronaca, narrati con chiarezza e vivacità, scenette di
fantasia e recensioni librarie e teatrali; l'"Osservatore" affrontava temi di portata
più ampia, con un linguaggio più complesso e un tono più sostenuto.
Rilevante fu la composizione di una serie di ritratti psicologici in cui sono applicati
a personaggi moderni, delineati con maestria, le regole di un genere "minore": il
ritratto satirico morale, praticato nell'antichità dal Greco Teofrasto e nel Seicento
dal francese Jean de La Bruyère. Durante l'arco di alcuni decenni (1745-1781) si
dedicò alla realizzazione dei Sermoni poetici in endecasillabi sciolti in cui,
narrando aneddoti personali, delinea con ironico anticonformismo diversi aspetti
del costume contemporaneo. Tra i suoi interventi critici sono da ricordare: la
recensione de I rusteghi di Carlo Goldoni, e la polemica col gesuita Saverio
Bettinelli nella quale difende la grandezza di Dante Alighieri ed evidenzia il
carattere organico ed unitario delle tre cantiche. Nella recensione de I rusteghi,
esaltava la capacità di Goldoni di illuminare mille minute circostanze in
movimento. Gozzi era moderatamente aperto all'innovazione e consapevole della
resistenza che la tradizione avrebbe opposto all'invito degli intellettuali illuministi a
riformare il mondo. Per questo motivo nelle proprie pagine dipinse il ritratto di un
ambiente intellettuale troppo colto per non intuire la decadenza degl'ideali della
propria tradizione, ma anche troppo fine e riflessivo per abbracciare con entusiasmo
le nuove istanze radicalmente eversive. Il linguaggio presenta un carattere raffinato
e anticonformista che, nonostante l'impeto umoristico e la concretezza, si distacca
dalla realtà popolare e quotidiana.

Più studiata, invece, perché modellata su quella di Giovanni Boccaccio, è la lingua con
cui Antonio Cesari scrisse le sue novelle, che certamente non sono dei capolavori
di fantasia. Antonio Cesari (Verona, 17 gennaio 1760 – Ravenna, 1º ottobre
1828) è stato un linguista, scrittore e letterato italiano. Appartenente all'ordine di
san Filippo Neri, fu l'iniziatore del purismo del XIX secolo proponendo, nella sua
Dissertazione sullo stato presente della lingua italiana del 1808 – 1809 a esclusivo
modello linguistico il tosco-fiorentino del Trecento la cui eccellenza appariva, a
suo dire, in tutti gli scritti anche non letterari di quel periodo. Le sue teorie, che si
rifanno alle proposte nelle Prose della volgar lingua del Bembo, volevano essere
una reazione all'"imbarbarimento" della lingua italiana avvenuto nel Settecento
per l'influsso delle dominanti culture francesi e inglesi. Queste tesi furono difese
per tutta la vita e in tutte le opere: nella sua nuova edizione del Vocabolario della

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Crusca, 1806 – 1811, che comprendeva solo vocaboli utilizzati dagli scrittori anche
minori del Trecento, nel dialogo Le Grazie (1813), nelle traduzioni delle Odi di
Orazio e delle commedie di Terenzio. Tra il 1824 e il 1826, pubblicò le Bellezze
della Commedia di Dante Alighieri; l'opera, strutturata in trentaquattro dialoghi,
undici per l'Inferno e per il Purgatorio e dodici per il Paradiso, è un'originale
analisi linguistica e stilistica della Divina Commedia, tendente a superare i limiti
dei contemporanei commenti storico-eruditi. Mentre voltava l'Imitatio Christi nel
nostro bel volgare fiorentino, si trovò alle prese con un difficile problema: come
tradurre "sane bene equitat, qui gratiam dei equitat"? Bisognava evitare la parola
cavalcare, che oltre ad essere un po' bassa per la presente materia, si poteva prestare
ad equivoci profani. Non del tutto soddisfatto di come aveva risolto il problema
nella prima edizione, passò trent'anni di notti insonni; finalmente, quando stava per
dare alla luce la seconda edizione, si ricordò della bella espressione del Trecento
"andar di portante". Eureka! Tradusse quindi: "Va assai ben di portante chi dalla
grazia di Dio è portato". Quest'episodio, che riferisce egli stesso nella prefazione
dell'opera, dovrebbe essere posto ad esempio ad ognuno che si avvicina al mestiere
del traduttore. Nella sua scrittura risalta la passione per la parola elegante, vista e
assaporata in una sua autonoma purezza.

La novella nell'Ottocento

L'Ottocento fu un secolo fondamentalmente romantico nella prima parte, verista nella


seconda e la novella ne seguì le correnti.

La cauta innovazione nella continuità - metrica e strutturale - della novella


protottocentesca in rapporto ai suoi antecedenti veniva movimentata nel profondo
dalla nuova onda di propagazione proveniente dalla narrativa inglese in verso e in
prosa (e da Bürger): è attraverso questo complesso rapporto di suggestioni e
d'interazioni che la struttura compatta e lineare della novella pre e protottocentesca
entra in crisi, rapportandosi non solo alla progressione frammentata e convulsa
della narrazione byroniana, ma anche ai nessi scorciati, alla subordinazione della
descrittività all'azione narrativa (non più epica bensì lirica ed episodica), e
soprattutto agli effetti della sfumatura, del silenzio, dell'eco e del rimando, secondo
la fenomenologia tracciata da Josephine Miles per la ballata e la romanza inglese.
Mettendo a frutto l'episteme romantica, sancita da Wellek e Peckam,
dell'organicismo dinamico di contro alla linearità meccanicistica di marca
settecentesca, è possibile evidenziare che la prima fase della novella romantica in
Italia si apre ad accogliere stratificazioni complesse, fondate sullo sfuocamento
delle risposte emotive, con i grandi termini della natura che prendono parte
all'azione, liricamente orientata verso la storia di anime, e sulla coalescenza di
soggetto e oggetto, che risolve la descrittività nella meditazione, con una
lievitazione strutturale della novella verso la dimensione compositiva del poemetto,

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se in verso, e del racconto, se in prosa. Negli anni Venti la sperimentazione
novellistica si compie nell'ambito della produzione in versi (Tedaldi Fores, Grossi,
Benzone, Carrer, Sestini, Pellico). Ne scaturisce una tavolozza romantica dalle
vivacissime tinte convenzionali, la quale opera una regressione temporale che
diverrà canonica per l'evoluzione del genere, tingendosi di alonature
rivendicativamente patriottiche: già presenti, del resto, nell'invito rivolto da Berchet
a Tedaldi Fores, dalle colonne del «Conciliatore» a volersi «affratellare cogli
argomenti desunti dalle storie nostre e dai nostri costumi». Di contro, la novella
storica o pedagogica in prosa prosegue un'evoluzione senza insorgenze,
alimentandosi ad un materiale erudito che cede al gusto della ricostruzione
antiquaria (Gherardo de' Rossi, De Cristoforis, Ferdinando Mamiani, Alessandro
D'Azia, Orintia Romagnoli Sacrati, Davide Bertolotti e Cesare Balbo: quest'ultimo
ripristina la funzione della cornice). Le fermentazioni del romanzo storico
tralucono dalle novelle lombarde in ottave di un Cantù, di un Torti, di un Carcano;
ma è solo attraverso la prosa – scriveva Balbo – che è possibile pervenire ad una
pittura nuova del reale: «mutando tempo o paese, non è dubbio che si muterebbero
le tinte del colorito [...]. Alberi, e case, e prati, e monti, e cielo, vi sono dappertutto;
ma hanno contorni e tinte diverse in ogni paese, e chi sa queste riprodur sulla tela,
fa paesi molto diversi. [ E] la natura umana è anche più varia che non quella degli
alberi, o delle rupi, o dei cieli. E noi scrittori buoni o cattivi della natura umana,
avendo il vantaggio di questa somma varietà di essa secondo i tempi e i luoghi
diversi, se sapessimo profittare di tal varietà e ben descriverla, potremmo senza
dubbio far quadri sempre nuovi, sempre varj, sempre interessanti». Così negli anni
Trenta la novella in prosa, liberandosi dalla soggezione a quella in versi, assume
un'impronta originale ed un'autonomia espressiva anche nella dimensione del
racconto (Bazzoni, Scribani, Cantù, Tommaseo. Ma, più in generale, anche quando
permane la forma della novella, la narrazione appare volta sempre ad un tratteggio
più analitico, meno contratto, soprattutto lì dove l'indugio descrittivo (Saluzzo
Roero, Cibrario, Renucci, Viale) verte su usi e costumi locali. È l'itinerario che,
attraverso la storia, produce la regionalizzazione del genere, intensificando la spinta
realistica, nell'ambito di una tipologia policentrica e polimorfica: nel '34 escono le
«Novelle varie piemontesi» di Nicolosino; nel '37 la «Giovanna dei Contuso» di
Carlo Leoni, tratta dalla storia di Padova; nel '35 «La belva» di Dalbono, una
novella abruzzese; nel '33 una novella del Serio, di argomento siciliano, seguita
l'anno dopo da «L'amante vampiro», anch'essa di ambientazione siciliana, del La
Farina. Sempre in ambito meridionale, precedute nel '35 da un 'antologia di
«Novelle di autori napoletani», vengono stampate nel '36-37 le «Scene del cholera
di Napoli», nelle quali la regionalizzazione tocca il suo apice di contemporaneità
realistica, che impronta pure le «Scene e costumi» del napoletano Pier Angelo
Fiorentino ('35) e il «Pietro Valbruna» di Andrea Passaro. Questa svolta decisa
verso la regionalizzazione dei contenuti – che costituisce il background genetico
del verismo e che si traduce, per taluni autori, in un rinnovamento profondo delle
tecniche e delle strutture narrative – non è altrettanto percepibile, in linea
generalizzata, nella novella storica in verso, la quale, pur attingendo di preferenza a
leggende ed episodi di marca municipale, risulta caratterizzata piuttosto da una
decisa suggestione grossiana (Cagnoli, Cabianca, Gazzino). Fa eccezione la «scuola

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calabrese»: già nel '29 Campagna aveva pubblicato una leggenda in terzine,
«L'abate Gioachino», in cui la barbaricità delle fosche vicende di sangue era
indisgiungibile dall'osmosi condizionante del paesaggio silvestre e di una società ai
margini della storia; e più ancora questi aspetti venivano rinforzati da
«Gl'incogniti» (1832) del Giannone; e poi negli anni Quaranta (come similmente
avviene in Sardegna) il Gallucci, l'Anselmi, il Mauro, il Miraglia, il Padula, il
Presterà danno vita ad una serie di novelle in cui la matrice byroniana viene
regionalizzata e politicizzata al massimo attraverso la mitografia di un brigantismo
ribellistico, che solleva il realismo del colore locale a situazioni e momenti di
tragedia greca e che è latore di un'istanza risorgimentale decisamente orientata in
senso democratico-rivoluzionario. I vettori narrativi sono ormai indirizzati in senso
realistico; ed anche la novella in versi ricerca timbri prosastici, attraverso
l'abbandono dell'ottava e la conversione agli sciolti: un'alternativa metrica presente
già agli inizi del genere, riproposta poi dal Tommaseo nello straripare dell'ottava e
sancita infine dall'«Edmenegarda» del Prati (1841), con la sua scelta - traumatica
nel contesto manzoniano e grossiano - di porre ad epicentro della narrazione un
caso adulterino, attinto dal dato cronachistico. E, sia in verso che in prosa,
l'impianto storico si protende decisamente verso la modernità, abbandonando il
goticismo medievale ed ancorandosi progressivamente all'età presente (il
«Rodolfo» del Prati, 1853). La spinta verso il regionale ed il popolare, immanente
al culto romantico del folklore, viene acuita dalla suggestione vittorhughiana e dalla
rapidissima acquisizione della Sand, che improntano le due linee dominanti degli
anni Quaranta: la prima, la più praticata, è quella del racconto popolare come
denunzia della sopraffazione ma anche come ritrovamento delle radici demologiche
(Linares, Somma, Dall'Ongaro, Romani, Sacchi, Sant'Ambrogio); la seconda,
diversamente articolata a seconda del contesto regionale, è caratterizzata da una più
incisiva cattura del reale, sia esso quello dell'ambiente rusticale (le novelle friulane
di Tami e della Percoto, con il felice contemperamento, secondo la formula
tommaseana, della lingua con il dialetto); o quello della borghesia veneziana di
Mondini e di Girardi; o quello del proletariato suburbano torinese di Felice Rocca;
o, infine, il microcosmo paesano della calabrese de' Nobili. Sul versante dello
sperimentalismo formale, risultati tra i più interessanti sono raggiunti tra il '42 ed il
'45 dal fiorentino Thouar nel filone della narrativa per ragazzi, il sottogenere
indubbiamente più frequentato a livello di consumo editoriale: Thouar sfugge il
precettismo della narrazione a tesi, riduce drasticamente o omette le parti narrative
e descrittive affidandosi in toto al dialogo per dare al lettore la possibilità di
«comporre da se stesso più completamente la vita e ritrarre l'indole delle persone
che gli son fatte conoscere per poco tempo e con brevi colloqui».È la strada che
conduce alla metamorfosi della novella romantica nel racconto come strumento
privilegiato di penetrazione del reale. La novellistica comparata di Imbriani, di De
Gubernatis, la mimesi classicistica di Fanfani e Zambrini divengono epicedi del
genere stesso. E, sintomaticamente, a parte le propagginazioni di un Bersezio, di un
Gualdo, di un Mastriani, l'ultima fase della novella romantica è caratterizzata da un
ritorno alle origini, da una labile riconsacrazione nella storia o dalla regressione nel
territorio svaporante della leggenda, cui fa da contrappunto tombale la corrosione
sarcastica di una topologia avvertita come irrimediabilmente surannée. Così Abba

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riprende la novella in verso per imprimere nell'Arrigo (1866) un ritmo da epopea
alla celebrazione unitaria; e similmente fa De Micheli due anni dopo con le novelle
in prosa «I due liberali» e «Claudio», che coprono gli anni dal '31 al '68 e nelle
quali la storia non è tratteggio ma, appunto, mitografia unitaria. Sul versante
leggendario, il recupero è operato nel '56 da Biagio Miraglia in «Cinque novelle
calabresi», nel '61 dal «Garibaldi» di Capuana (in cui confluiscono ambedue le
linee enucleate), nel '64 da una leggenda in ottave di Rossi Scotti, nel '67 dal Praga
di «Fiabe e leggende», nel '69 dal Prinetti di «Leggenda vogherese». Ma,
correlativamente, nel '56 e nel '67 Visconti Venosta e Ferrari operano, l'uno in versi,
l'altro in prosa, una sarcastica irrisione della Crociata e della topologia gotica; e nel
'65 Betteloni scrive «L'ombra dello sposo, fola da sera d'inverno» (in nona rima,
sull'esempio dei rimatori antichi) che sembra quasi costruito con mimesi parodica
ed irridente sulla «Lenore» del Bürger.
Se questo è il quadro di riferimento, la ricerca consentirà di articolare in modo
esaustivo tipologie, tempi e modi evolutivi e, soprattutto, di dar vita ad un archivio
vastissimo di dati testuali. Una volta esperite le ricerche bibliografiche ed una volta
raccolto il materiale più significativo, si prevede di dar vita ad una serie di edizioni
critiche dei testi maggiormente rappresentativi, a livello storicizzante ed espressivo,
del genere letterario (ed essi, insieme a numerosi altri, verranno digitalizzati e
riversati in rete); ad una serie di monografie critiche in cui saranno elaborati, a
livello storico-critico i risultati scaturiti dalla ricerca; e ad un cd-rom, in cui
archiviare (mediante un piccolo motore di ricerca che consenta di ordinarli per
mappatura regionalizzata e per sottogeneri narrativi) i dati bibliografici scaturiti
dall'esplorazione di questo autentico continente sommerso che è, allo stato attuale
delle ricerche, la novella romantica, ed in particolare quella in versi.

Il romantico Giuseppe Giusti, poeta di satire politiche, ma anche autore di belle pagine
di prosa, scrisse alcune novelle argute e briose. Giuseppe Giusti (Monsummano
Terme, 12 maggio 1809 – Firenze, 31 marzo 1850) è stato un poeta italiano
Figlio di Domenico, possidente terriero[1] e di Giulia Chiti, donna facoltosa
pesciatina. La famiglia era stata innalzata al rango nobiliare quattro anni prima
della sua nascita, nel 1805. Dopo aver studiato a Montecatini, Firenze, nel
seminario di Pistoia, nel Collegio dei Nobili di Lucca, si iscrisse alla facoltà di
Giurisprudenza dell'Università di Pisa presso la quale, dopo un'interruzione di tre
anni dovuta sia ai dissidi con il padre, che lo criticava per la vita sregolata, sia a
particolari vicende politiche, si laureò nel 1834.Dopo la laurea, si trasferì a Firenze
per esercitare la professione; lì entrò in contatto con il mondo dei potenti, cui
avrebbe rivolto i suoi Scherzi. Nella capitale toscana, conobbe Gino Capponi,
esponente liberale e direttore del Gabinetto Viesseux, che molto influì sulla sua
coscienza politica e sulla sua poetica. Negli anni a seguire, mentre componeva Le
poesie, compì viaggi a Roma, Napoli e, nel 1845, a Milano, dove conobbe
Alessandro Manzoni, con il quale avrebbe mantenuto una fitta corrispondenza.
Nel 1847, entrò a far parte della Guardia civica e iniziò ad apprezzare le riforme
granducali, precedentemente oggetto della sua critica feroce. Nel 1848, durante i
moti toscani, entrò nella politica attiva e fu eletto deputato al parlamento di Firenze,
dove appoggiò le tesi moderate dei governi Ridolfi e Capponi. Con il rientro del

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Granduca Leopoldo II, ritornò a vita privata, anche a causa delle sue precarie
condizioni di salute. Contrasse, infatti, una terribile forma di tubercolosi polmonare
e, nel 1850, morì. Fu sepolto nel cimitero di San Miniato al Monte, sulla collina di
Firenze. Le sue composizioni, peraltro caratterizzate da un piacevole e fluido verso
e da un umorismo pungente e venate, talvolta, da una sottile malinconia, hanno
come cornice la piccola provincia toscana. Furono pubblicate dapprima in forma
sparsa, poi raccolte in varie edizioni nel 1844, 1845, 1847. Fra le più note:
Sant'Ambrogio, Il re Travicello, Il brindisi di Girella, satira della "morale" dei
voltagabbana e degli approfittatori, Le memorie di Pisa, Il papato di Prete Pero. Tra
le opere in prosa è da ricordare Memorie inedite che furono pubblicate solo nel
1890 col titolo di Cronaca dei fatti di Toscana e una raccolta di "Proverbi toscani",
pubblicati anch'essi postumi (1853). Assai interessante il ricco "Epistolario", dal
quale emerge la sua viva parlata toscana e l'adesione alle tesi manzoniane sulla
lingua.

Agli ideali romantici s'ispirò anche Edmondo De Amicis, scrittore e pedagogo


italiano,autore del popolarissimo libro Cuore, scritto per i ragazzi, fatto di novelle,
forse un po' patetiche, ma di piacevole lettura. Edmondo De Amicis nacque a
Oneglia, il 21 ottobre 1846, e morì a Bordighera, il 11 marzo 1908. Il romanzo
Cuore, è considerato uno dei testi più popolari della letteratura italiana per ragazzi,
assieme a Pinocchio di Carlo Collodi. De Amicis studiò a Cuneo, e frequentò poi
il liceo a Torino. A sedici anni entrò nell'Accademia militare di Modena, dove
divenne ufficiale.

Nel 1866 come luogotenente partecipò alla battaglia di Custoza e assistette alla sconfitta
patita dai Sabaudi a causa dell'incapacità dei comandi di gestire la larga superiorità
numerica. Fu questo forse che fece nascere in lui la delusione che lo spinse ad un
certo punto a lasciare l'esercito. In quel periodo era comunque prevalente lo spirito
patriottico e vedeva l'esercito come primo luogo in cui si andava formando l'unità
d'Italia. Considerava la disciplina militare come valido metodo educativo. A
Firenze, dove si era recato per servizio, scrisse su questi temi e sulla propria
esperienza una serie di bozzetti, che poi sarebbero stati raggruppati nella raccolta
La vita militare (1868) pubblicata per la prima volta su L'Italia militare organo del
ministero della guerra. Quando poco dopo lasciò l'esercito divenne inviato per la
Nazione di Firenze, assistendo tra l'altro alla presa di Roma nel 1870. In questo
periodo le sue corrispondenze andarono a formare i libri di viaggio Spagna (1872),
Ricordi di Londra (1873), Olanda (1874), Marocco (1876), Costantinopoli
(1878/79), Ricordi di Parigi (1879). Fu il 17 ottobre 1886, primo giorno di scuola,
che l'editore Treves fece uscire nelle librerie Cuore, che da subito ebbe grande
successo, tanto che in pochi mesi si superarono le quaranta edizioni e ci furono
traduzioni in decine di lingue. Il libro fu molto apprezzato anche perché ricco di
spunti morali attorno ai miti del Risorgimento italiano. Fu invece criticato dai
cattolici per l'assenza totale di tradizioni religiose (i bambini di Cuore non
festeggiano nemmeno il Natale), specchio delle aspre controversie tra il Regno
d'Italia e Papa Pio IX dopo la presa di Roma. Alla vita scolastica dei figli Ugo e
Furio si ispirò Edmondo De Amicis per scrivere il suo romanzo più famoso. Negli

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anni attorno al 1890 De Amicis si avvicinò poi al socialismo fino ad aderirvi nel
1896. Questo mutamento di indirizzo è visibile nelle sue opere successive, in cui
presta molta attenzione alle difficili condizioni delle fasce sociali più povere e
vengono completamente superate le idee nazionalistiche che avevano animato
Cuore. Amico di Filippo Turati, collaborò a giornali legati al partito socialista
come la Critica sociale e La lotta di classe. Abbiamo quindi libri come Sull'oceano
(1889) sulle condizione dei poverissimi emigranti italiani e poi Il romanzo di un
maestro (1890), Amore e ginnastica (1892), Maestrina degli operai (1895), La
carrozza di tutti (1899). Inoltre scrisse per Il grido del popolo di Torino numerosi
articoli di ispirazione socialista che furono poi raccolti nel libro Questione sociale
(1894). Le ultime cose che scrisse furono L'idioma gentile (1905), Ricordi d'un
viaggio in Sicilia (1908), Nuovi ritratti letterari e artistici (1908). Morì nel 1908 a
Bordighera, nella casa di un altro grande scrittore del Novecento, George
MacDonald. I suoi ultimi anni furono rattristati dalla morte della madre a cui era
molto legato e dagli attacchi continui della moglie Teresa Boassi, che culminarono
con il suicidio del figlio ventiduenne Furio, disperato a causa della situazione
familiare ormai infernale.

Cuore è un libro per ragazzi scritto nel 1886, pubblicato nel 1888. Fu un grande successo,
tanto che de Amicis divenne lo scrittore più letto d'Italia. L'ambientazione è
l'indomani dell'unità d'Italia, e il testo ha il chiaro scopo di insegnare ai giovani
cittadini del Regno le virtù civili, ossia l'amore per la patria, il rispetto per le
autorità e per i genitori, lo spirito di sacrificio, l'eroismo, la carità, la pietà,
l'obbedienza e la sopportazione delle disgrazie.

Scrittore per ragazzi fu anche Carlo Lorenzini, noto con lo pseudonimo di Collodi,
autore di Pinocchio ma anche di fiabe e novelle. Carlo Collodi, all'anagrafe Carlo
Lorenzini (Firenze, 24 novembre 1826 – Firenze, 26 ottobre 1890), è stato uno
scrittore e giornalista italiano. È noto soprattutto come autore del romanzo Le
avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, più noto come Pinocchio. Nel
1856 utilizzò per la prima volta lo pseudonimo di Collodi. Collodi è il nome di una
frazione di Pescia, di cui era originaria la madre. Le avventure di Pinocchio. Storia
di un burattino è il titolo di un romanzo scritto da Collodi (pseudonimo dello
scrittore Carlo Lorenzini) a Firenze nel 1881 e pubblicato nel 1883 dalla Libreria
Editrice Felice Paggi con le illustrazioni di Enrico Mazzanti. Si tratta di un
classico della cosiddetta letteratura per ragazzi. Il romanzo ha come protagonista
un notissimo personaggio di finzione, appunto Pinocchio, che l'autore chiama
impropriamente burattino, pur essendo morfologicamente più simile a una
marionetta (corpo di legno, presenza di articolazioni) al centro di celeberrime
avventure. Il personaggio di Pinocchio - burattino umanizzato nella tendenza a
nascondersi dietro facili menzogne e a cui cresce il naso in rapporto ad ogni bugia
che dice - è stato fatto proprio con il tempo anche dal mondo del cinema e da
quello dei fumetti. Sulla sua figura sono stati inoltre realizzati album musicali e
allestimenti teatrali in forma di musical. Nelle intenzioni di Collodi pare non vi

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fosse quella di creare un racconto per l'infanzia: nella prima versione, infatti, il
burattino moriva, impiccato a causa dei suoi innumerevoli errori. Solo nelle
versioni successive, pubblicate a puntate su un quotidiano (il Giornale per
bambini diretto da Ferdinando Martini, a partire dal n. del 7 luglio del 1881), la
storia venne modificata con il classico finale che oggi si conosce, con il burattino
che assume le fattezze di un ragazzo in carne ed ossa. Va detto che la letteratura per
ragazzi dell'Ottocento cominciava a riservare un sensibile riguardo verso opere
talvolta tristi e crudeli, come ad esempio quelle del Dickens, che scaraventavano
sul giovane lettore le amare emozioni suscitate dalla vita di un bambino nella
rivoluzione industriale, quasi che il supporto pedagogico della novellistica
dovesse irrinunciabilmente muovere da un "fiat" di pronta disillusione. Tutto ciò
senza contare poi un certa influenza per il tenebroso, se non addirittura l'orrido,
ereditata dal romanzo gotico, che nell'ottocento si è frequentemente intrecciato con
il recupero di racconti e favole della tradizione popolare, come avvenuto in
Germania con i Fratelli Grimm. In ciò, che era ormai consuetudine, non è dunque
strano incontrare crudeltà e cattiveria (poi alleviate nel succedersi delle versioni)
anche nell'opera del Collodi che, a rileggerla scevri di addolcimenti della memoria
infantile, potrebbe oggi non risembrarci tanto allegra. E del resto, su altri filoni
letterari di primaria diffusione, erano i tempi in cui il verismo verghiano
nervosamente andava a rimestare il peggio dell'esistenza popolana. Di fatto, quasi
nessuno scrittore componeva davvero (sentitamente) per il pubblico infantile, ma
piuttosto scriveva quanto l'idealità pedagogica abbracciata gli suggeriva.
Comunque, va ribadito che l'iniziale creazione collodiana era attendibilmente
rivolta ad un pubblico adulto, come del resto la storia personale dell'autore aiuta
ad ipotizzare. Molti commentatori effettivamente convengono che Pinocchio,
piuttosto che una favola per ragazzi, sia in effetti un'allegoria della società
moderna, uno sguardo impietoso sui contrasti tra rispettabilità e libero istinto, in un
periodo (fine Ottocento) di grande severità nell'attenzione al formale. Al di là
dell'apparente ottimismo pedagogico, il romanzo è in realtà tristemente ironico, a
volte addirittura satirico, proprio con riferimento a quella pedagogia formale e, più
in generale, contro alcune contraddizioni ed inadeguatezze dell'educazione, delle
maniere e dell'istruzione Ottocentesche. L'utilizzo di irrealtà nella costruzione della
narrazione, non fa poi che mostrare da un lato l'abilità dialettica dell'autore, e
dall'altro enfatizza con il paradosso dell'artificialità vigorosi attacchi inespressi a
talune componenti della società. La presenza, ad esempio, formalmente
ineccepibile delle "api industriose", che compiono zelantemente ed
impersonalmente il loro compito sociale, così come il giudice, sottilmente ed
impercettibilmente va a tramutarsi dopo poco in una sensazione di certo disagio
verso quel mondo ordinato e deterministico, suggestione emotiva che appunto
richiama Charles Dickens, ma che evoca anche taluni echi della politica stradaiola
dalla quale l'autore non era rimasto incontaminato. Non tutti condividono
l'interpretazione che ne deduce inclinazioni verso il picaresco, certamente l'angolo
di osservazione della storia è, conformemente al tempo di edizione, popolaresco.

Esiti più ricchi e vitali ebbe la novella verista. Il catanese Giovanni Verga, che del
verismo fu il più illustre rappresentante, scrisse bellissime novelle, di cui le più

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famose raccolte sono Novelle rusticane e Vita campestre. In queste novelle, come
nel suo più famoso romanzo, I Malavoglia, egli s'ispirò agli stenti, alle fatiche, al
duro destino della povera gente della sua Sicilia e lo fece con una prosa che sarebbe
dovuta essere oggettiva ed impersonale ed invece è personalissima e ricca di tanta
umana empatia.

Giovanni Carmelo Verga (Vizzini, 2 settembre 1840 – Catania, 27 gennaio 1922) è


stato uno scrittore italiano, considerato il maggior esponente della corrente
letteraria del verismo. Il padre, Giovanni Battista, era di Vizzini, dove la famiglia
Verga aveva delle proprietà, e discendeva dal ramo cadetto di una famiglia alla
quale appartenevano i baroni di Fontanablanca; la madre si chiamava Caterina
Mauro e apparteneva ad una famiglia borghese di Catania. Il piccolo Giovanni fu
registrato all'anagrafe di Catania, tuttavia alcuni sostengono che sia nato in
contrada Tiepidi, nel territorio di Licodia Eubea nei pressi di Vizzini, ove la
famiglia si trovava per evitare l'epidemia di peste che affliggeva Catania. Verga
ricevette una buona istruzione: compiuti gli studi primari e medi si iscrisse alla
scuola di Antonino Abbate, scrittore, fervente patriota e repubblicano, dal quale
assorbì il gusto letterario romantico ed il Patriottismo.

Abbate faceva leggere ai suoi allievi le opere di Dante, Petrarca, Ludovico Ariosto,
Torquato Tasso, Vincenzo Monti, Manzoni e pagine dell'Estetica di Hegel;
inoltre proponeva anche il romanzo storico-patriottico I tre dell'assedio di
Torino (scritto nel 1847) del poeta catanese Domenico Castorina, che era lontano
parente di Verga. La formazione del Verga narratore avvenne sulle pagine di
Castorina e su "Il Progresso e la Morte" dell'Abbate e a soli quindici anni, tra il
1856 ed il 1857, Verga scrisse il suo primo romanzo d'ispirazione risorgimentale
"Amore e patria" rimasto inedito. I suoi studi superiori non furono regolari.
Iscrittosi nel 1858 alla Facoltà di legge all'Università di Catania, non terminò i
corsi, preferendo dedicarsi all'attività letteraria e al giornalismo politico. Con il
denaro datogli dal padre per concludere gli studi, il giovane pubblicò a sue spese il
romanzo "I carbonari della montagna" (1861- 1862), un romanzo storico che si
ispira alle imprese della Carboneria calabrese contro il dispotismo napoleonico di
Murat. Con l'arrivo di Garibaldi a Catania veniva istituita la Guardia Nazionale
e il Verga si arruolava prestando servizio per circa quattro anni, ma non avendo
inclinazioni per la disciplina militare se ne liberò con un versamento di 3100 lire
(equivalenti a circa 12700 euro attuali) alla Tesoreria Provinciale.

Nel 1863 pubblicò a puntate sulle appendici della rivista fiorentina "La nuova Europa" il
suo terzo romanzo, "Sulle lagune", nel periodo in cui, ottenuta ormai l'Italia
l'indipendenza, Venezia è ancora sotto la potenza austriaca. Il romanzo narra la
vicenda sentimentale di un ufficiale austriaco con una giovane veneziana in uno
stile severo e privo di retorica. Entrambi innamorati della vita finiranno per morire
insieme.Verga lavorò frequentemente anche ad Acitrezza ed Acicastello. L'attività
letteraria del Verga, dopo le prime opere giovanili e senza rilievo, può essere divisa
in due fasi: una prima dove egli studiò l'alta società e gli ambienti artistici, unendo
residui romantici e modi scapigliati con la tendenza generica a una letteratura

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"vera" e "sociale" e una seconda che può propriamente essere definita quella
verista.

L' attività letteraria del Verga, dopo le prime opere giovanili e senza rilievo, può essere
divisa in due fasi: una prima dove egli studiò l'alta società e gli ambienti artistici,
unendo residui romantici e modi scapigliati con la tendenza generica a una
letteratura "vera" e "sociale"; una seconda che può propriamente essere definita
quella verista.

Verga racconta, nelle novelle raccolte in Vita dei campi, un ambiente che conosceva bene,
ossia quello contadino, descrivendo le persone, tra cui spiccano Cavalleria
rusticana e Rosso Malpelo.

Rosso Malpelo, pubblicata nel 1880, è uno dei capolavori del Verismo, raccolta in Vita
dei Campi di Giovanni Verga. In essa descrive la realtà di povertà e sfruttamento
delle classi disagiate in Sicilia alla fine del XIX secolo, realtà che egli conosceva
ma che emergeva altresì dalle inchieste del Regno d'Italia da poco formatosi
(1861). Principalmente, l'opera è un ritratto, umanissimo e di grande attualità, di un
adolescente condannato dai pregiudizi popolari e dalla violenza della gente
all'emarginazione e ad una tragica fine (similmente al padre), oltre ad un duro
lavoro nelle cave di rena siciliane.

Nonostante il principio dell'impersonalità, che caratterizza gli scrittori veristi, Verga


lascia trasparire nettamente di provare pietà per Malpelo, che è un "vinto", in
quanto non ha alcuna possibilità di sottrarsi al suo destino. Fa capire che i ragazzi
come lui reagiscono al male che viene loro fatto infliggendo altrettanta sofferenza e
cercando di reprimere i sentimenti di compassione pur di sopravvivere
(emblematici sono i comportamenti rudi del protagonista nei confronti di
Ranocchio e dell'asino). Per rendere più realistico il racconto, inoltre, decide di
esprimersi con parole dialettali e modi di dire popolari; per descrivere Malpelo, il
cui nome già lo caratterizza come personaggio negativo, almeno secondo credenze
popolari secondo le quali i capelli rossi erano collegati al male, lo paragona spesso
ad una bestia. Inoltre, Verga, usa un linguaggio realistico, descrivendo in maniera
neutra e oggettiva i maltrattamenti che Malpelo subisce, con il risultato di causare
un profondo disagio nel lettore, forzandolo ad una riflessione sulle pessime
condizioni in cui la vita del povero ragazzino versava.

Inoltre progettò un ciclo di cinque romanzi, I vinti, dei quali, però, scrisse solo i primi
due: I Malavoglia (1881) e Mastro-don Gesualdo (1888), ai quali interpose Il
marito di Elena (1882), romanzo indeciso fra la vecchia maniera e la nuova. Gli
altri tre non sono scritti: La duchessa di Leyra (rimangono solo i primi capitoli),
L'onorevole Scipioni e L'uomo di lusso. Questi ultimi, in ordine, dovevano narrare:
la sconfitta di quella vanità che può sussistere solo ad un alto livello sociale, la
sconfitta nelle ambizioni politiche tese alla conquista del potere, e la sconfitta
nell'ambizione dell'artista che aspira alla gloria.

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Verga, come voleva la poetica del naturalismo e sopratutto del verismo, si propose
d'esaminare la società italiana nei suoi strati sociali ed umani più bassi, colta
nell'aspetto tipico della sua Sicilia.

I Malavoglia è la storia di una famiglia, i cui membri sono rimasti sconfitti nel loro
grande sforzo per uscire dalla miseria: è la lotta per il progresso allo stato
elementare, in un ambiente i cui problemi sono quelli del pane quotidiano, e le
possibilità di mobilità sociale sono ridotte a zero.

Mastro-don Gesualdo è la sconfitta di chi, vinta la battaglia per una migliore condizione
economica, aspira alla promozione sociale e spera di conquistarla attraverso un
matrimonio.

Terminato Mastro-don Gesualdo, Verga compose altre raccolte di novelle: Don


Candeloro e compagni, dove la visione della vita raggiunge l'aridità sentimentale, e
una raccolta di novelle milanesi Per le vie.

Storia di una capinera, è uno dei primi romanzi brevi (o storia lunga) scritto e
pubblicato da Giovanni Verga: un romanzo epistolare con elementi romanzati, che
viene però presentato come documento di vita vissuta.

Nel 1905 compose infine un romanzo tratto da un dramma che aveva scritto nel 1903
dallo stesso titolo, Dal mio al tuo dove si assiste all'evolversi del suo pensiero
sociale.

Egli infatti, quando il movimento operaio si rafforzò e cominciò ad organizzarsi, passò da


una adesione commossa alla diffidenza.

Il romanzo descrive il voltafaccia di un capolega operaio che, avendo sposato la figlia del
padrone, si trova sia economicamente che socialmente dalla parte finora contestata.

Oltre la composizione delle sue opere maggiori, Verga va ricordato per il suo contributo
alla nascita in Italia di un teatro verista.

Egli infatti scrisse la sceneggiatura di alcune sue novelle, Cavalleria rusticana e La lupa
alle quali seguirono opere scritte espressamente per il teatro, come In portineria e
Dal tuo al mio.

La poetica di Verga esprime un grande pessimismo, che unisce l'impossibilità


dell'elevazione del proprio essere, con quella di tipo economico o sociale: lo
troviamo nei Malavoglia, dove la famiglia che vuole elevarsi economicamente
finisce letteralmente per disintegrarsi, e in tutte le sue altre opere. Alla base del
pessimismo di Verga sta la profonda convinzione che la società moderna sia
dominata dal meccanismo della lotta per la vita. Alla fine, Verga ci vuol fare capire
che non dobbiamo mai lasciare quello che abbiamo, perché andremmo incontro alla
sconfitta: "mai lasciar la strada vecchia per quella nuova".

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Nella Prefazione al Ciclo dei vinti, dalla quale si apprende l'ideologia verghiana, egli
afferma, fra l'altro, che l'autore non deve intervenire perché non ha il diritto di
giudicare e di criticare gli eventi: chi scrive deve quindi usare la tecnica
dell'impersonalità, che si configura come il modo più adatto per esprimere una
realtà di fatto, ovvero la presenza incontrastata del Male nel mondo. La vita è infatti
una dura lotta per la sopravvivenza, e quindi per la sopraffazione: un meccanismo
crudele che schiaccia i deboli e permette ai forti di vincere. È questa la legge della
natura – la legge del diritto del più forte – che nessuno può modificare in quanto
necessaria.

Si perviene perciò all'illegittimità di giudizio e di critica da parte dell'autore, dato che il


cambiamento non è comunque possibile: tanto vale lasciare che le cose vadano
come devono naturalmente andare. Quella della natura è una legge dura e spietata –
che già Darwin aveva intuito e formulato nella legge della selezione naturale e che
il darwinismo sociale aveva fatto propria – e ad essa non ci sono alternative: come
direbbero i latini, dura lex sed lex. L'autore deve solamente limitarsi a fotografare
la realtà, descrivendo i meccanismi che ne stanno a fondamento; la posizione
verghiana è pertanto diversa da quella di Emile Zola: non c'è denuncia, bensì solo
constatazione nuda e cruda della realtà per quella che è. Il verismo autentico si
attua perciò solamente nella forma, e la letteratura assume la funzione di studiare
ciò che è dato e quindi di rappresentare fedelmente il reale. Verga non è però
indifferente ai problemi del suo tempo, in quanto conservatore, galantuomo del Sud
e non socialista: è significativo infatti che parli dopotutto dei vinti e non dei
vincitori. Il suo linguaggio lucido e disincantato lo porta però a scrivere della realtà
denunciandone la crudeltà senza mitizzazioni: non c'è pietismo, ma solo
osservazione lucida del vero. È questa la concezione pessimistica di Verga circa la
condizione umana nel mondo, una condizione che l'uomo non può modificare
perché gli è fondamentalmente propria. Egli, alla pari di chi scrive, deve solamente
limitarsi alla nuda constatazione di uno spettacolo immutabile, in cui ogni giudizio
o proposta di cambiamento si rivelano vani ed insignificanti. In questo senso, le
possibilità umane nel mondo sono pesantemente limitate.

Tale visione è pessimistica e tragica perché Verga, positivisticamente, non credeva nella
Provvidenza, e Dio è assente dai suoi libri; ma non credeva nemmeno in un
avvenire migliore da conquistarsi sulla terra, con le forze degli uomini.

Vinto è chiunque voglia rompere con il passato in maniera improvvisa e clamorosa, senza
esservi preparato, mentre coloro che accettano il proprio destino con rassegnazione
cosciente posseggono saggezza e moralità.

La scoperta dell'umanità delle plebi, l'analisi del risvolto negativo del progresso, e quindi
delle lacrime e del sangue di cui esso grondava, dietro la sua facciata rilucente,
spinsero Verga a considerare il presente e il futuro con un pessimismo che lo
indusse alla critica della società borghese, ma anche alla rinuncia sfiduciata ad ogni
tentativo di lotta.

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Verga, pur avendo frequentato ambienti aperti e spregiudicati, restò intimamente legato
alla mentalità siciliana profondamente tradizionalista e fatalista; anche l'ideologia
politica restò epidermica e retorica, senza abbracciare le teorie socialiste.

Il contatto con la borghese e disinvolta società milanese (1872 – 1893) lo spinse a


ripensare l'intero codice dei valori.

Secondo la sua visione, la rappresentazione artistica deve conferire al racconto l'impronta


di cosa realmente avvenuta; per far questo deve riportare “documenti umani”; ma
non basta che ciò che viene raccontato sia reale e documentato: deve anche essere
riportato in modo da porre il lettore “faccia a faccia col fatto nudo e schietto”, in
modo che non abbia l'impressione di vederlo attraverso “la lente dello scrittore”.
Per questo lo scrittore deve “eclissarsi”, cioè non deve comparire nel narrato con le
sue reazioni soggettive, le sue riflessioni, le sue spiegazioni, come nella narrativa
tradizionale. L'autore deve inoltre “mettersi nella pelle” dei suoi personaggi,
“vedere le cose coi loro occhi ed esprimerle colle loro parole” (regressione). In tal
modo, la sua mano “rimarrà assolutamente invisibile” nell'opera, tanto che l'opera
dovrà sembrare “essersi fatta da sé”, “essere sorta spontanea come fatto naturale,
senza serbare alcun punto di contatto col suo autore”, proprio come una fotografia.

Nelle sue opere effettivamente l'autore si “eclissa” , si cala “nella pelle” dei personaggi,
vede le cose “coi loro occhi” e le esprime “colle loro parole”. A raccontare infatti
non è il narratore onnisciente tradizionale, che riproduce il livello culturale, i
valori, i principi morali, il linguaggio dello scrittore stesso ed interviene
continuamente nel racconto ad illustrare gli antefatti o le circostanze dell'azione, a
tracciare il ritratto dei personaggi, a spiegare i loro stati d'animo e le motivazioni
psicologiche dei loro gesti, a commentare e giudicare i loro comportamenti, a
dialogare col lettore, ma un occhio che osserva i fatti senza darne interpretazione;
starà poi al lettore, sulla scorta delle proprie idee e convinzioni, dare un significato
a ciò che l'autore ha riportato sulle pagine del libro. In questo modo, la letteratura
verghiana si configura come scientifica ed oggettiva, capace di esporre delle
vicende senza l'intrusione teoretica dello scrittore.

Il punto di vista dell'autore non si avverte -quasi- mai nelle opere di Verga: la “voce” che
racconta si colloca tutta all'interno del mondo rappresentato, è allo stesso livello di
personaggi.

Verga vede la società come una specie di giungla intricata, in cui gli uomini sono costretti
alla violenza ed alla sopraffazione, per sopravvivere; una giungla in cui vige la
spietata -ma naturale- legge del più forte. In questo senso, è possibile porre delle
analogie con lo stato di natura teorizzato da Hobbes, per cui l'uomo è lupo degli
altri uomini ("homo homini lupus"); la differenza sta però nel fatto che questa
condizione non è stata superata, secondo Verga, dalla costituzione di uno Stato
legiferante, bensì vige ancora in tutta la sua crudeltà nella vita di tutti i giorni,
sopratutto tra le classi sociali più disagiate.

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La cosiddetta "svolta" verista nacque dal proposito di contrapporre alla mentalità
borghese la schiettezza di un'umanità umile, travagliata, eppure capace di
conservare intatti i valori tradizionali ed affettivi. A tal fine Verga teorizzò uno stile
antiromanzesco il cui fulcro fu il canone dell'impersonalità.

Come verista, Verga intese svelare le conseguenze eticamente negative del progresso
economico, voluto ed attuato dalla borghesia.

Verga, nella convinzione che il romanzo moderno dovesse rappresentare tutta la società,
accettò le linee generali del naturalismo, descrivendo accuratamente l'ambiente e il
momento storico, indispensabili alla spiegazione della psicologia dei personaggi,
che immise direttamente nell'azione lasciando che il loro carattere si svelasse
attraverso il loro comportamento.

Egli, inoltre, insistette in modo particolare sull'impersonalità narrativa, affermando che


lo scrittore deve restare assolutamente invisibile, e il romanzo deve avere
l'impronta dell'avvenimento reale, e l'opera d'arte deve apparire un fatto naturale,
senza serbare alcun punto di contatto con la personalità dell'autore.

Nelle opere del Verga, il narratore è calato nella vicenda per mentalità, linguaggio,
cultura, canoni di giudizio, valori etici, consuetudini e si rivolge, apparentemente,
ad ascoltatori appartenenti a quella stessa società. In Rosso Malpelo si può, ad
esempio, parlare di narratore corale. Nella prefazione a "L'amante di Gramigna",
Verga sostenne che oggetto del romanzo devono essere i fatti veri, e quindi degni
di analisi scientifica, ma che la letteratura non è solo questo. Il romanzo deve infatti
basarsi sull'obiettività ed è da considerarsi riuscito quando ha la naturalezza della
realtà e l'autore dimostra di essere al di fuori della vicenda che narra. Verga, anche
nella lingua, perseguì un'aderenza assai rigorosa ai personaggi e all'ambiente
utilizzando il discorso indiretto libero che rendeva bene la tecnica dello
straniamento che l'autore usava. Inoltre, Verga fa ampio uso di termini ed
espressioni dialettali, persino volgari, per mantenere una forte corrispondenza con il
mondo reale. La narrazione è dominata da una prosa "parlata", intessuta di
dialoghi, apparentemente incolore, nella quale si avverte la cadenza dialettale e che
fa uso del discorso indiretto libero. L'uso del proverbio, con la sua suggestione di
saggezza arcaica, ha la funzione di evocare un mondo mitico ormai morente,
edificato e cristallizzato al di là del tempo, ricco di valori e tradizioni, ma anche di
pregiudizi e meschinità. Alla stessa finalità risponde la concatenazione di periodi e
capitoli mediante la ripetizione di un termine o di un'espressione, oppure certe
formule che individuano i caratteri salienti di un personaggio e che sono
espressione di luoghi comuni, fortemente radicati nella mentalità popolare.

La soluzione linguistica fu originale, infatti, la lingua era, per i veristi italiani, il


problema più grave perché avevano intorno a sé una società più regionale che
nazionale, e una lingua nazionale solo a livello letterario.

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Giovanni Verga fu il solo, dei veristi, ad avere il coraggio di adottare una soluzione
radicale: non una lingua parlata, che non c'era; non il dialetto, che avrebbe costretto
il libro in un ambito regionale; bensì una lingua italiana intessuta di espressioni e
vocaboli dialettali, adatta a caratterizzare i personaggi ed a nascondere l'autore,
costruita sulla stessa semplice struttura sintattica del dialetto siciliano, al fine di
semplificarne la lettura da parte di persone poco istruite.

Il verismo è una corrente letteraria italiana nata all'incirca fra il 1875 e il 1895 ad opera
di un gruppo di scrittori - per lo più narratori e commediografi - che costituirono
una vera e propria "scuola" fondata su precisi principi. il verismo ( o realismo) è un
movimento letterele che si diffonde in italia nell' ulimo trentennio dell' ottocento
dietro la spinta di una analogo movimento francese, il naturalismo. i veristi italiani
riprendono i principi del naturalismo francese calandoli però in una situazione
storica diversa. in italiainfatti, l' uindustrializzazione che ha investito l' europa , in
particolare l' inghilterra e la francia, è solo agli inizi, per di più la raggiunta unità
politica ha aggravato problemi già esistenti come il profondo divario tra nord e sud.
Nasce, infatti, proprio in questi anni la cosidetta "questione meridionale", che
permolti aspetti è ancora oggi irrisolta. il verismo acquisice così un carattere
regionalistico, nel senso che gli scrittori analizzano e gìdescrivono nelle loro opere
le proprie realtà regionali in tutta la loro crudezza e drammacità, con toni a volte
decisamente pessimisti. i caratteri fondamentali del verismo si possono così
sintetizzare: rappresentazione di una precisa realtà umana e socilae in modo obbitti,
quasi fotografico, narrazione impersonale dei fatti, utilizzo di un linguggio
semplice e diretto.

Una caratteristica distintiva del verismo rispetto ad altre tecniche narrative, è l'utilizzo del
principio dell'impersonalità, tecnica che, come mostra il Verga, consente
all'autore di porsi in un'ottica di distacco nei confronti dei personaggi e
dell'intreccio del racconto. L'impersonalità narrativa è propria di una narrazione
distaccata, rigorosamente in terza persona e, ovviamente, in chiave oggettiva,
priva, cioè, di commenti o intrusioni d'autore che potrebbero, in qualche maniera,
influenzare il pensiero che il lettore si crea a proposito di un determinato
personaggio o di una determinata situazione. Il verismo, come si vede in Verga – si
interessa molto delle questioni socio-culturali dell'epoca in cui vive e si sviluppa. In
Giovanni Verga, per esempio, ritroviamo in molte opere la questione della
situazione meridionale, dei costumi e delle usanze, del modo di vivere assai
diverso rispetto a quelli del nord Italia.

Secondo Verga, non è possibile che un personaggio di umili origini riesca in qualche
modo, per quanto esso valga, a riemergere da quella condizione in cui è nato. Non è
possibile che un povero diventi ricco. In questo caso vi è la consueta eccezione
narrativa nella novella “La roba”, in cui il povero e umile contadino Mazzarò
riesce a divenire ricco, grazie al suo impegno. Ma anche giunto a una condizione
relativamente benestante, o quanto meno comoda, il personaggio non potrà mai
vivere tranquillamente, non potrà mai integrarsi in quello che si definisce
l'ambiente alto-borghese, proprio perché egli non vi appartiene di nascita. Questo

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principio triste e sconsolante ha come soggetto narratori popolari, quasi sempre
contadini o artigiani, che spiegano a modo loro la vicenda, talvolta usando idiotismi
popolari o espressioni gergali. Gli autori veristi, in particolare Verga, tendono ad
usare un linguaggio non colto, che si caratterizza per l'assenza di segni
grammaticali, celebre è anche l'artificio di regressione. È da citare, da ultimo, il
principio della concatenazione e della concatenazione opposta; il primo consiste nel
porre a poca distanza parole di significato analogo, il secondo di mettere una parola
e subito dopo il suo contrario. Si termina con la ripetizione narrativa, la quale,
come si capisce, privilegia le ripetizioni.

Alla gente semplice di campagna toscana s'ispirò, invece, Renato Fucini, che fu un
fecondo autore di novelle, raccolte nei volumi Le veglie di Neri, Nella campagna
toscana, All'aria aperta.

Grazia Deledda, anche se vissuta tra l’Ottocento e il Novecento, fu assai vicina all'arte
del Verga e alla poetica verista. Maria Grazia Cosima Deledda nacque a Nuoro,
27 settembre 1871 e morì a Roma, 15 agosto 1936, scrittrice originaria della
Sardegna vinse il Premio Nobel per la letteratura nel 1926. Il mondo rude e
primitivo della sua Sardegna è scenario di buona parte dei suoi romanzi e delle sue
novelle. Penultima di sei figli, cresce in una famiglia benestante. Il padre, Giovanni
Antonio, era un imprenditore e agiato possidente, fu poeta improvvisatore, e
sindaco di Nuoro nel 1892; la madre, Francesca Cambosu, era una donna
religiosissima, allevò i figli con estremo rigore morale. Dopo aver frequentato le
scuole elementari, Grazia venne seguita, privatamente, da un professore ospite di
una sua parente che le impartì lezioni di italiano, latino e francese; i costumi del
tempo non consentivano alle ragazze una istruzione completa oltre quella primaria
e in generale degli studi regolari. Successivamente approfondì, da autodidatta, gli
studi letterari. Importante per la formazione letteraria di Grazia Deledda, nei
primi anni della sua carriera da scrittrice, fu l'amicizia con lo scrittore sassarese
Enrico Costa, colui che per primo ne comprese il talento. Esordì come scrittrice
con alcuni racconti pubblicati sulla rivista "L'ultima moda" quando affiancava
ancora alla sua opera narrativa quella poetica.Nell'azzurro, pubblicato da
Trevisani nel 1890 può considerarsi la sua opera d'esordio. Ancora in bilico tra
l'esercizio poetico e quello narrativo si ricordano, tra le prime opere, Paesaggi edito
da Speirani nel 1896. Nel 1900, sposò Palmiro Madesani, funzionario del
Ministero delle Finanze conosciuto a Cagliari nell'ottobre del 1899, la scrittrice si
trasferì a Roma e in seguito alla pubblicazione di Anime oneste del 1895 e di Il
vecchio della montagna del 1900, oltre alla collaborazione sulle riviste "La
Sardegna", "Piccola rivista" e "Nuova Antologia", la critica inizia ad interessarsi
alle sue opere, che vantano prefazioni di nomi quali Ruggero Bonghi e Luigi
Capuana. Nel 1903 pubblica Elias Portolu che la conferma come scrittrice e la
avvia ad una fortunata serie di romanzi e opere teatrali: Cenere (1904), L'edera
(1906), Sino al confine (1911), Colombi e sparvieri (1912), Canne al vento (1913),
L'incendio nell'oliveto (1918), Il Dio dei venti (1922). La sua opera fu stimata da
Capuana e Verga oltre che da scrittori più giovani come Enrico Thovez, Pietro
Pancrazi e Renato Serra.

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Luigi Capuana nasce a Mineo, in provincia di Catania, da una famiglia di agiati
proprietari terrieri e a Mineo frequenta le scuole comunali. Nel 1851 si iscrive al
Reale Collegio di Bronte che lascia dopo solo due anni per motivi di salute,
proseguendo comunque lo studio da autodidatta. Conseguita la licenza si iscrive,
nel 1857, alla Facoltà di giurisprudenza di Catania che abbandona nel 1860 per
prendere parte all'impresa garibaldina in funzione di segretario del comitato
clandestino insurrezionale di Mineo e in seguito come cancelliere nel nascente
consiglio civico. Risale al 1861 la leggenda drammatica in tre canti "Garibaldi"
pubblicata a Catania dall'editore Galatola. Nel 1864 si stabilisce a Firenze per
tentare "l'avventura letteraria" e vi rimarrà fino al 1868. A Firenze frequenta gli
scrittori più noti dell'epoca, tra i quali Aleardo Aleardi e nel 1865 pubblica i suoi
primi saggi critici sulla "Rivista italica", diventando nel 1866 critico teatrale della
"Nazione". Nel 1867 pubblica sul quotidiano fiorentino la sua prima novella dal
titolo "Il dottor Cymbalus" che prende a modello il racconto di Dumas figlio "La
boîte d'argent".

Nel 1868 ritorna in Sicilia pensando di rimanervi per poco tempo ma la morte del padre
e i problemi economici, lo costringono a rimanere nell'isola.
Diventa dapprima ispettore scolastico, poi consigliere comunale di Mineo e infine
viene eletto sindaco del paese. Fu in questo periodo che si accosta alla filosofia
idealistica di Hegel e ha modo di leggere "Dopo la laurea", un saggio del medico
hegeliano e positivista Angelo Camillo De Meis in cui il pensiero filosofico si
salda alla problematica letteraria, rimanendo entusiasta dalla sua teoria
dell'evoluzione e morte dei generi letterari. Nel 1875, Capuana si reca per un
breve soggiorno a Roma e nello stesso anno, su consiglio dell'amico Giovanni
Verga, si trasferisce a Milano dove inizia a collaborare al Corriere della Sera
come critico letterario e teatrale.

Nel 1877 esce a Milano la sua prima raccolta di novelle, Profili di donne, edita da Brigola
e nel 1879, ancora influenzato da Émile Zola, il romanzo Giacinta, considerato il
manifesto del verismo italiano.

Nel 1880, nello stesso anno in cui Verga pubblica Vita dei campi, Capuana, che è un
entusiasta divulgatore del naturalismo francese e contribuisce con Verga a
elaborare la poetica del verismo italiano, raccoglie i suoi articoli su Zola, i
Goncourt, Verga e altri scrittori dell'epoca in due volumi di Studi sulla letteratura
contemporanea (1890-1892) e ritorna a Mineo, dove inizia a scrivere il romanzo
che lo renderà celebre vent'anni dopo, dal titolo Il Marchese di Roccaverdina
(originariamente Il Marchese di Santaverdina).

Dal 1882 al 1883 lo scrittore risiede a Roma e dirige il "Fanfulla della Domenica". Gli
anni fino al 1888 li trascorrerà a Catania e a Mineo, per tornare infine a Roma dove
vi rimarrà fino al 1901. In questi anni la sua produzione letteraria fu ricchissima.
Nel 1882 pubblica una raccolta di fiabe dai molti motivi folkloristici, "C'era una
volta", le raccolte di novelle "Homo" (1883), "Le appassionate" (1893), "Le
paesane"(1894) e i migliori saggi critici nei quali, staccandosi dal naturalismo,

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rivela una propria estetica dell'autonomia dell'arte. Sempre di questo periodo sono i
suoi romanzi più noti, tra i quali "Profumo", che apparve dapprima in 10 puntate su
"Nuova Antologia" dal luglio al dicembre 1890 e in volume nel 1892 e "Il
Marchese di Roccaverdina" (1901). Nel maggio del 1888 va in scena, al teatro
Sannazzaro di Napoli, una commedia in cinque atti tratta dal romanzo "Giacinta"
con buon successo di critica e di pubblico. Nel 1900 lo scrittore ottiene la cattedra
di letteratura italiana presso l'Istituto Femminile di Magistero a Roma,
approfondisce la sua amicizia con D'Annunzio e conosce Pirandello che è suo
collega al Magistero. Lavora inoltre al romanzo "Rassegnazione" che esce in
cinque puntate su "Flegrea" dall'aprile al maggio dello stesso anno. Nel 1902
Capuana si trasferisce a Catania, per insegnare lessicografia e stilistica
all'università. Tra le sue ultime opere vi sono i volumi di fiabe e novelle,
Coscienze (1905), Nel paese di Zagara (1910), Gli Americani di Rabbato (1912).
Muore il 29 novembre 1915 a Catania, poco dopo l'entrata in guerra dell'Italia.

Capuana fu l'assertore più convinto e teoricamente preparato del verismo, sostenitore


instancabile del "metodo impersonale" che vide pienamente realizzato nelle opere
dell'amico Verga, in quelle del De Roberto e in parte nelle proprie, ebbe anche
notevoli doti di critico che certo furono superiori alle sue capacità inventive dove
veniva spesso a mancare proprio quella "forma vitale" che egli cercava nell'opera
d'arte. Nel primo periodo della sua critica, nel "Il Teatro italiano contemporaneo.
Studi sulla letteratura contemporanea", la poetica del verismo che Capuana aveva
elaborato si poneva come regola fondamentale quella di ritrarre direttamente dal
vero.
Questo significava che lo scrittore doveva assumere dalla vita contemporanea la
materia e narrare fatti realmente accaduti, senza limitarsi a ritrarli dall'esterno, ma
ricostruendo la storia cogliendo e rivelando tutto il processo mediante il quale il
fatto si era prodotto. La ricostruzione doveva avvenire attraverso il metodo
scientifico perché il più idoneo a far parlare le cose direttamente impedendo che
l'autore si servisse dei fatti come di un pretesto per esprimere sé stesso. Bisognava
pertanto usare l'impersonalità. Per poter inoltre condurre una ricostruzione del
tutto veritiera era necessario usare una prosa duttile e viva, non retorica, che
risultasse aderente ai fatti.
Si richiedeva pertanto un linguaggio che non alterasse in nessun modo il mondo
che si voleva rappresentare. Conoscere la realtà che l'artista voleva rappresentare
significava perciò conoscere tutti i nuovi strumenti che la cultura contemporanea
poteva fornire, dall'indagine dei processi psicologici secondo i principi della
fisiologia alla documentazione folkloristica per rappresentare il mondo contadino.
Queste regole, proprie di tutti i veristi, rivelano in Capuana una grande apertura
verso tutte le novità culturali che spiega la simpatia che lo scrittore proverà, a
settanta anni, verso il futurismo, come anche la sua passione per l'allora nascente
arte della fotografia. Più di un critico ha rimproverato a Capuana il gusto per la
sperimentazione, ma è stato proprio questo gusto per la novità che gli consentì di
difendere sempre le nuove tendenze e di farsi interprete della narrativa verghiana e
delle opere del naturalismo francese. In seguito lo scrittore si dimostrò pronto a
cogliere le tendenze spiritualistiche, estetizzanti e irrazionali, e fu incuriosito dalla

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parapsicologia. Capuana fu inoltre pronto ad abbandonare il verismo con "Gli
"Ismi" contemporanei" e "Arte e scienza", quando riconobbe che esso
rappresentava solamente uno dei tanti ismi della letteratura contemporanea.
L'attività di critico trova riscontro nell'opera narrativa di Capuana dove, fin dagli
inizi, con la raccolta di novelle "Profili di donne" del 1877 si coglie il tema
principale della sua ricerca, quello della psicologia femminile, teso a ricostruire
narrativamente i processi generatori dei "fatti umani" con un gusto per i racconti
che hanno dello straordinario ricchi di situazioni misteriose e personaggi
enigmatici. Nel 1879 Capuana pubblica il suo primo vero romanzo, Giacinta, nel
quale si avverte una esclusiva attenzione per il "documento umano". Nel romanzo
si racconta la storia di una donna che, avendo subito una violenza sessuale da
bambina, si trova a dover scontare con tutta la sua vita e fino al suicidio la "colpa"
che il pregiudizio sociale non le perdona. Capuana, attraverso il punto di vista di
un medico, cerca di rappresentare il personaggio "da scienziato" ma, come dice il
Ghidetti "il" dottore, può solo prendere pessimisticamente atto di una
predestinazione senza riuscire (anche per la grande confusione, è lecito dedurre, di
maestri e dottrine che aveva in testa, proprio come il giovane Capuana) a penetrare
il segreto di una rivolta consumata tutta all'interno della condizione femminile ed
esaurita e spenta dall'autodistruzione". Ed infatti l'unico aiuto che la scienza potrà
dare a Giacinta sarà il curaro, il veleno che il dottore le aveva dato come
medicamento per il padre e con il quale la donna si ucciderà. Giacinta fu il primo
romanzo naturalista italiano e al suo apparire fu definito immorale. Esso, come lo
stesso autore dichiara nella prefazione, fu composto dopo la lettura di Balzac, di
Madame Bovary di Flaubert e dei Rougon Macquart di Zola. Il romanzo è
puramente naturalista, c’è l’attenzione per i fatti patologici, in questo caso
patologia morale, l’amore che diviene ossessione quindi malattia. La figura che ne
emerge è quella del medico, che da scienziato può intervenire nella realtà malata e
curarla. In esso, tuttavia, il Capuana non si sofferma tanto sugli elementi
"patologici" di Giacinta, quanto sulle sue reazioni consce e inconsce di fronte alla
realtà. L'autore vuole penetrare "il segreto di certe azioni", vuole mostrare,
nell'apparente incoerenza del comportamento della donna, una coerenza che, pur in
contrasto con le leggi della ragione, rientrano in un sistema psico-fisiologico.
La violenza, subita da bambina, è quindi la chiave che spiega, in termini
deterministici, ogni scelta di Giacinta che, anche se inspiegabile, la condurrà alla
scelta estrema: il suicidio. Sul piano della tecnica narrativa siamo lontano
dall’impersonalità di Verga, in Giacinta è presente il narratore onnisciente che
osserva i fatti dall’esterno ed interviene con i suoi commenti. Il romanzo Profumo,
fu pubblicato nel 1891, ma era in precedenza uscito dalla "Antologia" nel secondo
semestre del 1890. In esso sono evidenti le influenze del naturalismo zoliano e gli
elementi ispirati alla fisiologia e alla patologia compaiono come in Giacinta anche
se Capuana sembra voler ritornare al nucleo centrale della sua ispirazione, cioè
all'indagine psicologica. Con questo romanzo lo scrittore si avvia verso il romanzo
psicologico moderno, risalendo all'infanzia dei protagonisti e ritrovando i germi del
male in azioni che sono in apparenza trascurabili. Rientrano nel racconto anche
scene e immagini regionali con la descrizione pittoresca delle folle paesane in
movimento, come la festa della Passione e la processione dei Flagellanti. Caso più

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unico che raro, lo stesso anno del libretto (1891), nacque la commedia omonima in
lingua, e poi, nel 1902, quella in dialetto malgrado il parere contrario di Verga, che
non credeva in una « Malìa » in siciliano, e che fu portata alle stelle da Giovanni
Grasso e Mimì Aguglia.

La musicò Francesco Paolo Frontini che, prima di accingersi alla stesura dell'opera,
fece leggere il libretto a Mario Rapisardi e a Verga. Rapisardi lo trovò
«bellissimo». Verga ne fu «entusiasta». Il successo dell'opera si rinnovò a Bologna,
Milano, Torino e al Teatro Nazionale di Catania. «A leggere l'opera anche oggi» -
scriveva il maestro Pastura alla morte del Frontini - «un brivido di commozione ci
avvince. Il dramma del Capuana trovò in Frontini un commentatore raffinato e
preciso, un musicista che facendo musica seppe fare anche della psicologia. Jana,
Nedda, Cola e Nino sono tratteggiati con profondo intuito e con una indagine
psicologica che mette a nudo le loro anime inquiete, che precisa i caratteri, che ne
riassume la tragedia». Sempre a proposito di Malìa, l'accento è stato posto ancora
sull'isterismo della protagonista Jana, nata agli albori degli studi freudiani. Ma il
capolavoro di Capuana fu un altro romanzo Il marchese di Roccaverdina
pubblicato nel 1901, dopo circa quindici anni di lavoro. Il romanzo, che intreccia
motivi di carattere sociologico, sulla linea della più tipica narrativa verista,
all'elemento psico-patologico, è estremamente interessante. La storia narrata è
quella del marchese di Roccaverdina che, per ragioni di convenienza sociale, dà in
sposa la giovane contadina che tiene in casa come serva-amante a un suo
sottoposto, Rocco Criscione, che si impegna a rispettarla come una sorella ma che
in seguito, avvelenato dal sospetto, uccide a tradimento, lasciando che venga
incolpato del delitto un altro contadino. La vicenda, che si snoda sullo sfondo di
una campagna siciliana arida e desolata con un ritmo cupo e ossessivo, è narrata in
flash-back dal marchese come ricordo angoscioso e come confessione. Il tema
dominante, tutt'altro che facile, è quello della progressiva follia del protagonista
dalle prime paure spiritistiche ai vari tentativi di placare l'angoscia e il rimorso con
la religione, con il lavoro, con il matrimonio, con il materialismo e l'ateismo,
fino alla follia, alla demenza, alla morte. Esso è risolto felicemente dal narratore
con una formula realistica che non insiste sul caso patologico, come in Giacinta e in
Profumo, ma si serve di una vicenda umana per risalire alla complessa psicologia
dei personaggi. Prevale in questa opera di Capuana la fredda analisi a danno
dell’abbandono poetico e fantastico.

Tra le opere narrative migliori di Capuana sono da annoverare le novelle ispirate alla vita
siciliana, ai personaggi e ai fatti grotteschi e tragici della propria provincia, come
nel realismo bozzettistico di alcuni racconti della raccolta "Le paesane" e in altre
che non presentano situazioni drammatiche, ma sono divertenti e cercano sempre di
mettere in evidenza il lato comico anche se il caso si fa serio.Nelle novelle
numerosi sono i ritratti dei canonici, dei prevosti, dei frati cercatori con la passione
della caccia, del gioco e della buona tavola, tipici di tanti personaggi della narrativa
del secondo Ottocento. Le fiabe, scritte in una prosa svelta, semplificata al
massimo, ricche di ritornelli, cadenze e cantilene rimangono forse l'opera più
felice del Capuana. Esse non nascono da un interesse per il patrimonio folkloristico

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siciliano e non vengono raccolte come documenti della psicologia popolare, ma
nascono dall'invenzione. Di queste l'unico volume reperibile è: Si conta e si
racconta (Muglia Editore, 1913; Pellicanolibri, 1985)

Il romanzo che ha avuto maggiore verve ispirativa è stato Il marchese di Roccaverdina


che è stato alla base di due film con lo stesso titolo: Gelosia. Il primo è di
Ferdinando Maria Poggioli, del 1942, sceneggiato da Sergio Amidei, con Luisa
Ferida nel ruolo di Agrippina Solmo e Roldano Lupi in quello del marchese. Il
secondo, del 1953, è invece diretto da Pietro Germi, su sceneggiatura di Giuseppe
Berto, con Marisa Belli (Agrippina), Erno Crisa (marchese) e Paola Borboni.
Entrambi sono ottimi risultati, il primo con una forte impronta verista, il secondo
con un'ottima ambientazione.

Un posto a parte spetta a Ugo Tarchetti, che, pur essendo vissuto a metà dell'Ottocento,
sembra preludere con la sua narrativa a temi e gusti che torneranno nel secolo
seguente. I suoi Racconti, infatti, ispirati da una pura acrobazia intellettuale, si
muovono ai confini dell'assurdo.

Gabriele D'Annunzio, vissuto tra Ottocento e Novecento, fu poeta, romanziere,


drammaturgo ed anche autore di novelle. E fu proprio con le novelle che compì le
prime esperienze letterarie, che nonostante fossero ancora legate all'arte verista,
intravedevano numerose direzioni di innovamento, segnando la fine della
narrazione del "dato umano" tipica del verismo ed inaugurando una scrittura che
poco dopo darà i suoi miglior frutti nel versante del decadentismo europeo. Nelle
sue raccolte Terra vergine e Le novelle della Pescara, l'ambiente è sempre la sua
aspra terra d'Abruzzo, altera, pagana e selvaggia.

Gabriele D'Annunzio o D'Annunzio come soleva firmarsi (Pescara, 12 marzo 1863 –


Gardone Riviera, 1º marzo 1938) è stato uno scrittore, militare e politico
italiano, simbolo del decadentismo ed eroe di guerra. Occupò una posizione
preminente nella letteratura italiana dal 1889 al 1910 circa e nella vita politica dal
1914 al 1924. Sia in letteratura che in politica lasciò il segno ed ebbe un influsso
(più o meno diretto) sugli eventi che gli sarebbero succeduti.

Gabriele D'annunzio era figlio di Francesco Paolo Rapagnetta e di Luisa de Benedictis.


Fu adottato da una zia materna, prendendo il cognome dallo zio. Terzo di cinque
fratelli, visse un'infanzia felice, distinguendosi per intelligenza e vivacità. Della
madre erediterà la fine sensibilità, del padre il temperamento sanguigno, la passione
per le donne e la disinvoltura nel contrarre debiti, cosa che portò la famiglia da una
condizione agiata ad una difficile situazione economica. Non tardò a manifestare
una personalità priva di complessi e inibizioni, portata al confronto competitivo con
la realtà. Una testimonianza ne è la lettera che, ancora sedicenne (1879), scrive a
Giosuè Carducci, il poeta più stimato nell'Italia umbertina, mentre frequenta il
liceo al prestigioso istituto Cicognini di Prato. Nel 1879 il padre finanziò la

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pubblicazione della prima opera del giovane studente, Primo vere, una raccolta di
poesie che ebbe presto successo. Accompagnato da un'entusiastica recensione
critica sulla rivista romana Il Fanfulla della Domenica, il successo del libro venne
aumentato dallo stesso D'Annunzio con un espediente: fece diffondere la falsa
notizia della propria morte per una caduta da cavallo. La notizia ebbe l'effetto di
richiamare l'attenzione del pubblico romano sul romantico studente abruzzese,
facendone un personaggio molto discusso. Dopo aver concluso gli studi liceali
presso il Liceo Classico G.B.Vico di Chieti, giunse a Roma nel 1881, con una
notorietà che andava crescendo.

I dieci anni trascorsi nella capitale (1881-1891) furono decisivi per la formazione dello
stile comunicativo di D'Annunzio, e nel rapporto con il particolare ambiente
culturale e mondano della città si formò quello che possiamo definire il nucleo
centrale della sua visione del mondo. L'accoglienza nella città fu favorita dalla
presenza in essa di un folto gruppo di scrittori, artisti, musicisti, giornalisti di
origine abruzzese (Scarfoglio, Michetti, Tosti, Masciantonio, Barbella, ecc.) che
fece parlare in seguito di una "Roma bizantina".

La cultura provinciale e vitalistica di cui il gruppo si faceva portatore appariva al


pubblico romano, chiuso in un ambiente ristretto e soffocante - ancora molto
lontano dall'effervescenza intellettuale che animava le altre capitali europee -, una
novità "barbarica" eccitante e trasgressiva; D'Annunzio seppe condensare
perfettamente, con uno stile giornalistico esuberante, raffinato e virtuosistico, gli
stimoli che questa opposizione "centro-periferia" "natura-cultura" offriva alle attese
di lettori desiderosi di novità.

D'Annunzio si era dovuto adattare al lavoro giornalistico soprattutto per esigenze


economiche, ma attratto alla frequentazione della Roma "bene" dal suo gusto per
l'esibizione della bellezza e del lusso, nel 1883 sposò, con un matrimonio "di
riparazione", nella cappella di Palazzo Altemps a Roma, Maria Hardouin duchessa
di Gallese, da cui ebbe tre figli (Mario, Gabriellino e Veniero). Tuttavia, le
esperienze per lui decisive furono quelle trasfigurate negli eleganti e ricercati
resoconti giornalistici. In questo rito di iniziazione letteraria egli mise rapidamente
a fuoco i propri riferimenti culturali, nei quali si immedesimò fino a trasfondervi
tutte le sue energie creative ed emotive.

Il primo grande successo letterario arrivò con la pubblicazione del suo primo romanzo, Il
piacere nel 1889. Venne presto a crearsi un vero e proprio "pubblico dannunziano",
condizionato non tanto dai contenuti quanto dalla forma divistica, un vero e proprio
star system ante litteram, che lo scrittore costruì attorno alla propria immagine. Egli
inventò uno stile immaginoso e appariscente di vita da "grande divo", con cui nutrì
il bisogno di sogni, di misteri, di "vivere un'altra vita", di oggetti e comportamenti-
culto che stava connotando in Italia la nuova cultura di massa.

Tra il 1891 e il 1893 D'Annunzio visse a Napoli, dove compose il suo secondo romanzo,
L'innocente, seguito dal Il trionfo della morte e dalle liriche del Poema

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paradisiaco. Sempre di questo periodo è il suo primo approccio agli scritti di
Nietzsche che vennero in buona parte fraintesi, sebbene ebbero l'effetto di liberare
la produzione letteraria di D'Annunzio da certi residui moralistici ed etici. Tra il
1893 e il 1897 D'Annunzio intraprese un'esistenza più movimentata che lo
condusse dapprima nella sua terra d'origine e poi ad un lungo viaggio in Grecia.

Nel 1897 volle provare l'esperienza politica, vivendo anch'essa, come tutto il resto, in un
modo bizzarro e clamoroso: eletto deputato della destra, passò quasi subito nelle
file della sinistra, giustificandosi con la celebre affermazione «vado verso la vita».

Sempre nel 1897 iniziò una relazione con la celebre attrice Eleonora Duse, con la quale
ebbe inizio la stagione centrale della sua vita. Per vivere accanto alla sua nuova
compagna, D'Annunzio si trasferì a Settignano, nei dintorni di Firenze, dove
affittò la villa "La Capponcina", trasformandola in un monumento del gusto
estetico decadente. È in questo periodo che si situa gran parte della drammaturgia
dannunziana che è piuttosto innovativa rispetto ai canoni del dramma borghese o
del teatro dominanti in Italia e che non di rado ha come punto di riferimento la
figura attoriale della Duse.

L'idillio con la Duse si incrinò nel 1904, dopo la pubblicazione de Il fuoco. Nel 1910
D'Annunzio fuggì in Francia: già da tempo aveva accumulato una serie di debiti e
l'unico modo per evitare i creditori era oramai diventato la fuga dall'Italia.
L'arredamento della villa fu messo all'asta e D'Annunzio per cinque anni non
rientrò in Italia.

A Parigi era un personaggio noto, era stato tradotto da Georges Hérelle e il dibattito tra
decadenti e naturalisti aveva a suo tempo suscitato un grosso interesse già con
Huysmans. Ciò gli permise di mantenere inalterato il suo dissipato stile di vita
fatto di debiti e frequentazioni mondane. Pur lontano dall'Italia collaborò al
dibattito politico prebellico, pubblicando versi in celebrazione della guerra di
Libia o editoriali per diversi giornali nazionali (in particolare per il Corriere) che a
loro volta gli concedevano altri prestiti.

Nel 1910 Corradini aveva organizzato il progetto dell'Associazione Nazionalista


Italiana, al quale D'Annunzio aderì inneggiando a una nazione dominata dalla
volontà di potenza e opponendosi all' «Italietta meschina e pacifista».

Dopo il periodo parigino si ritirò ad Arcachon, sulla costa Atlantica, dove si dedicò
all'attività letteraria in collaborazione con musicisti di successo (Mascagni,
Débussy,...), compose libretti d'opera, soggetti per film (Cabiria).

Nel 1915 ritornò in Italia, dove rifiutò la cattedra di letteratura italiana che era stata di
Pascoli; condusse da subito una intensa propaganda interventista. Il discorso
celebrativo che D'Annunzio pronunciò a Quarto (4 maggio 1915) suscitò
entusiastiche manifestazioni interventiste. Con l'entrata in Guerra dell'Italia, il 24
maggio 1915 (il cosiddetto "maggio radioso"), D'Annunzio si arruolò volontario e

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partecipò ad alcune azioni dimostrative navali ed aeree. Per un periodo risiedette in
quel di Cervignano del Friuli perché così poteva essere vicino al Comando della III
Armata, comandante della quale era Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d' Aosta,
suo amico ed estimatore.

Nel gennaio del 1916, costretto a un atterraggio d'emergenza subì una lesione all'altezza
della tempia e dell'arcata sopraccigliare, urtando contro la mitragliatrice del suo
aereo. Non curò la ferita per un mese e ciò portò alla perdita di un occhio. Visse
così un periodo di convalescenza, durante il quale fu assistito dalla figlia Renata.
Tuttavia, ben presto tornò in guerra. Contro i consigli dei medici, continuò a
partecipare ad azioni belliche aeree e di terra. In quel periodo compose Notturno
utilizzando delle sottili strisce di carta che gli permettevano di scrivere nella più
completa oscurità, necessaria per la convalescenza dalla ferita che l'aveva
temporaneamente accecato. L'opera venne pubblicata nel 1921 e contiene una serie
di ricordi e di osservazioni. Al volgere della guerra, D'Annunzio si fa portatore di
un vasto malcontento, insistendo sul tema della "vittoria mutilata" e chiedendo, in
sintonia con una serie di voci della società e della politica italiana, il rinnovamento
della classe dirigente in Italia. La stessa onda di malcontento, trovò ben presto un
sostenitore in Benito Mussolini, che di qui al 1924 avrebbe portato all'ascesa del
fascismo in Italia.

Nel 1919 organizzò un clamoroso colpo di mano paramilitare, guidando una spedizione
di "legionari", partiti da Ronchi di Monfalcone (ribattezzata, nel 1925, Ronchi dei
Legionari in ricordo della storica impresa), all'occupazione della città di Fiume,
che le potenze alleate vincitrici non avevano assegnato all'Italia. Con questo gesto
D'Annunzio raggiunse l'apice del processo di edificazione del proprio mito
personale e politico.

L'11 e 12 settembre 1919, la crisi di Fiume. La città, occupata dalle truppe alleate, aveva
chiesto d'essere annessa all'Italia. D'Annunzio con una colonna di volontari occupò
Fiume e vi instaurò il comando del "Quarnaro liberato".

Il 12 novembre 1920 viene stipulato il trattato di Rapallo: Fiume diventa città libera,
Zara passa all'Italia. Ma D'Annunzio non accettò l'accordo e il governo italiano, il
26 dicembre 1920, fece sgomberare i legionari con la forza.

Per quello che riguarda il rapporto tra il Mussolini e D'Annunzio, va detto che
D’Annunzio, disilluso dall'esperienza da attivista, si ritirò in un'esistenza solitaria
nella sua villa di Gardone Riviera, divenuto poi il Vittoriale degli Italiani. Qui
lavorò e visse fino alla morte curando con gusto teatrale un mausoleo di ricordi e di
simboli mitologici di cui la sua stessa persona costituiva il momento di attrazione
centrale. L'ascendente regime fascista lo celebrò come uno dei massimi e più
fecondi letterati d'Italia. Tuttavia i rapporti tra D'Annunzio e Mussolini furono
sempre tiepidi e arrivarono persino a momenti di aperto scontro. Uno dei culmini

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dell'antipatia fra i due si ebbe con la marcia su Roma, che D'Annunzio non
sostenne e dalla quale si distanziò. Morì nella sua villa il 1º marzo 1938 per
un'emorragia cerebrale. Il regime fascista fece celebrare in suo onore i funerali di
stato.

Alcune volte la fortuna di cui un autore gode è il frutto di scelte consapevoli, di una
capacità strategica di collocarsi nel centro di un sistema culturale che possa
garantirgli le migliori opportunità che il suo tempo ha da offrirgli. D'Annunzio
aveva cominciato a "immaginarsi" poeta leggendo Giosuè Carducci negli anni del
liceo; ma la sua sensibilità per la trasgressione e il successo dal 1885 lo portò ad
abbandonare un modello come quello carducciano, già provinciale e superato in
confronto a quanto si scriveva e si dibatteva in Francia, culla delle più avanzate
correnti di avanguardia - Decadentismo e Simbolismo. Il suo giornale gli
assicurava l'arrivo di tutte le riviste letterarie parigine, e attraverso i dibattiti e le
recensioni in esse contenuti, D'Annunzio poté programmare le proprie letture
cogliendo i momenti culminanti dell'evoluzione letteraria del tempo.

Fu così che conobbe Théophile Gautier, Guy de Maupassant, Max Nordau e


soprattutto Joris-Karl Huysmans, il cui romanzo À rebours costituì il manifesto
europeo dell'estetismo decadente. In un senso più generale, le scelte di D'Annunzio
furono condizionate da un utilitarismo che lo spinse non verso ciò che poteva
rappresentare un modello di valore "alto", ideale, assoluto, ma verso ciò che si
prestava a un riuso immediato e spregiudicato, alla luce di quelli che erano i suoi
obiettivi di successo economico e mondano.

D'Annunzio non esitava a "saccheggiare" ciò che colpiva la sua immaginazione e che
conteneva quegli elementi utili a soddisfare il gusto borghese ed elitario insieme del
"suo pubblico". D'altronde, a dimostrazione del carattere unitario del "mondo
dannunziano", è significativo il fatto che egli usò nello stesso modo anche il
pensiero filosofico.

Gli autori contemporanei più letti in Europa negli anni 1880 e 1890 furono senza dubbio
Schopenhauer e Nietzsche; da essi lo scrittore trasse non più che spunti e motivi
per nutrire un universo di sentimenti e valori che appartenevano già a lui da
sempre, e che facevano parte dell'atmosfera culturale che si respirava in un
continente agitato da venti di crisi nazionalistiche, preannunzio della Grande
guerra. La scelta di nuovi modelli narrativi e soprattutto linguistici - elemento
questo fondamentale nella produzione dannunziana - comportò anche, e forse
soprattutto, l'attenzione verso nuove ideologie. Ciò favorì lo spostamento del
significato educativo e formativo che la cultura positivista aveva attribuito alla
figura dello scienziato verso quella dell'artista, diventato il vero "uomo
rappresentativo" di fine ottocento - primo novecento: "è più l'artista che fonde i
termini che sembrano escludersi: sintetizzare il suo tempo, non fermarsi alla
formula, ma creare la vita".

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Spregiudicatezza e narcisismo, slanci sentimentali e calcolo furono alla base anche dei
rapporti di D'Annunzio con le numerose donne della sua vita. Quella che
sicuramente più di ogni altra rappresentò per lo scrittore un nodo intricato di affetti,
pulsioni e di artificiose opportunità fu Eleonora Duse, l'attrice di fama
internazionale con cui egli si legò dal 1898 al 1901. Non c'è dubbio infatti che a
questo nuovo legame debba essere fatto risalire il suo nuovo interesse verso il
teatro e la produzione drammaturgica in prosa (Sogno di un mattino di
primavera, La città morta, Sogno di un tramonto D'Autunno, La Gioconda,
La gloria) e in versi (Francesca da Rimini, La figlia di Jorio, La fiaccola sotto
il moggio, La nave e Fedra). In quegli stessi anni, la terra toscana ispirò al poeta
la vita del "signore del Rinascimento fra cani, cavalli e belli arredi", e una
produzione letteraria che rappresenta il punto più alto raggiunto da D'Annunzio nel
repertorio poetico.

Nei cinque libri delle Laudi, che costituiscono l'opera poetica più nota e famosa di
D'Annunzio, viene sviluppato il concetto di Superomismo. Sembra un'eccezione
l'Alcyone, in cui si riflettono i momenti più felici della sua panica immersione nel
paesaggio fiorentino e versiliese e in cui apre la strada al periodo del Notturno, ma
questa fusione non è in contrasto con le ideologie dei due precedenti libri, infatti
essa può essere raggiunta solo dal "Superuomo" poiché egli è la creatura superiore.
L' Alcyone è considerato dalla critica il più autentico di tutto il materiale
dannunziano. Un'esistenza segnata, per altro verso, da quell'edonismo sperperatore
già menzionato a proposito dell'impronta ricevuta dal padre: incurante della realtà e
dei sentimenti altrui, D'Annunzio oscillò tra Firenze e la Versilia curando le proprie
pubblicazioni, che non erano comunque sufficienti a coprire le spese del suo
esagerato tenore di vita, e intrecciando ripetutamente rapporti sentimentali con
diverse donne.

D'Annunzio e Giovanni Pascoli, l'altro grande poeta del Decadentismo italiano, si


conoscevano personalmente, e, benché caratterialmente e artisticamente molto
diversi, il Vate stimava il collega e recensì positivamente le liriche pascoliane e
Pascoli considerava D'Annunzio come il suo fratello minore e maggiore. Alla
morte del Pascoli (1912) D'Annunzio gli dedicò l'opera Contemplazione della
morte.

Negli anni immediatamente precedenti il Primo conflitto mondiale nella mentalità


collettiva e negli ambienti culturali di tutta l’Europa si affermò un diffuso
atteggiamento ottimistico e di esaltazione, non di rado accompagnato da contenuti
politico-ideologici. Questo stato d’animo generale, legato al clima culturale della
Belle époque d’inizio secolo, fu poi ribattezzato Superomismo, sulla base di
un’esegesi poi dimostratasi errata dei testi di Nietzsche. D'Annunzio intuì lo
smisurato potere che si può trarre dai mezzi di comunicazione di massa e
compartecipò a questo fenomeno fino a divenirne uno dei maggiori propugnatori.
Il piacere fisico e gestuale della parola ricercata, della sonorità fine a sé stessa,
della materialità del suono proposta come aspetto della sensualità, aveva già
caratterizzato la poetica delle "Laudi"; ma con le opere teatrali egli aveva

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maturato uno stile il cui scopo era conquistare fisicamente il pubblico in un
rapporto sempre più diretto e meno letterario. Facendo leva sul “mito di Roma”
e su una vasta mitologia nazionale post-risorgimentale, creò un modulo retorico
dall’aspetto al contempo combattivo ed elitario: l'abbandono della prosa
letteraria e l'immersione nel rito collettivo della guerra si presentò come un
tentativo di conquistare la folla, da un lato per dominarla dall’altro per annullarsi
in essa, nell’ideale comunione totale tra capo e popolo. E in queste orazioni il
popolo prendeva le forme impressionistiche dell’ «umanità agglomerata e
palpitante», mentre il capo era un re-filosofo, ora riproposto come profeta della
patria.
La retorica bellica di d’Annunzio trovò un largo consenso nella popolazione,
affascinata dal suo carisma e dall’aura di misticità che lo circondava. Egli elaborò
in questo modo un immaginario per la propaganda interventista, la quale sarà la
premessa e il prototipo della propaganda fascista nel primo dopoguerra.

Opere: Primo vere (raccolta poetica, 1879), Canto novo (raccolta poetica, 1882), Terra
vergine (racconti, 1882), Il piacere (romanzo, 1889), Giovanni Episcopo (romanzo,
1891), L'innocente (romanzo, 1892), Poema paradisiaco (raccolta poetica, 1893),
Il trionfo della morte (romanzo, 1894), Le vergini delle rocce (romanzo, 1895),
La città morta (tragedia, 1899), La Gioconda (tragedia, 1899), Il fuoco (romanzo,
1900), Francesca da Rimini (tragedia, 1902), La figlia di Iorio (dramma, 1903),
Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi (ciclo di raccolte poetiche, 1903-
1912), La fiaccola sotto il moggio (tragedia, 1905), La nave (tragedia, 1908),
Forse che sì forse che no (1910), Le martyre de Saint Sébastien (dramma, 1911),
Contemplazione della morte (prose, 1912), Notturno (prosa autobiografica,
1916), Il compagno dagli occhi senza cigli (1928), Le cento e cento e cento pagine
del libro segreto di Gabriele D'Annunzio tentato di morire (prosa autobiografica,
1935).

La novella del Novecento

Nel Novecento la novella presenta una varietà infinita di aspetti. Innanzi tutto i suoi
confini geografici e storici diventano meno precisi, perché non è facile distinguerla
dalla pagina di memoria, dall'appunto di viaggio, dalle riflessioni su tema, dal
documento socio-ambientale, dalla satira di costume e spesso si fa confluire in quel
genere letterario che viene definito del racconto breve.

La novella del Novecento non sempre è trama, ma molto spesso è memoria, riflessione,
intimismo, documento, satira, partecipazione sociale, ricerca della bella pagina.

Agli inizi del secolo, Alfredo Panzini, autore di romanzi e di novelle, appare come un
narratore un po' antiquato, ma dalla prosa nitida ed elegante con venature di satira
e di costume.

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Nella prima metà del Novecento, Luigi Pirandello è l'autore più noto anche al di là dei
confini d'Italia. Più famoso come autore di commedie, scrisse anche romanzi e
novelle, Novelle per un anno. A base delle sue opere è l'indagine sui recessi più
misteriosi della coscienza, sull'essenza stessa dell'io.

Luigi Pirandello, nato ad Agrigento nel 1867, compì i suoi studi a Palermo, Roma e si
laureò in lettere presso l'università di Bonn (in Germania) nel 1891. Tornato in
Italia nel 1892, prese residenza a Roma, dove trascorse poi gran parte della sua vita,
collaborando a vari giornali e riviste, e insegnando per oltre vent'anni letteratura
italiana presso l'Istituto superiore di Magistero (dal 1897 al 1922). È da notare che
nel 1904 ebbe inizio una grave crisi mentale della moglie (afflitta da una forma
morbosa di gelosia), che costituì per lo scrittore una vera e propria tragedia
familiare, e che non rimase, forse, senza influsso sulla sua dolorosa concezione del
mondo.Negli anni del dopoguerra si dedicò sempre più decisamente all'attività
teatrale e fu così che nel 1925 fondò a Roma il Teatro d'arte, dando vita - per alcuni
anni - ad una propria compagnia drammatica.
Nel 1934, mentre si faceva sempre più largo e profondo l'interesse suscitato in tutto
il mondo dalla sua opera teatrale, gli fu conferito Premio Nobel per la letteratura.
Morì a Roma, in seguito ad un attacco di polmonite, nel 1936.

Pirandello come Svevo viene definito uno scrittore isolato, difficile da inquadrare in un
movimento letterario ben definito. Nelle sue opere sono rappresentate le riflessioni
sull'esistenza e sul ruolo dell'uomo nella società, affermando che non è possibile
trovare alcuna soluzione positiva alla crisi che coinvolge e sconvolge i singoli
individui, il tessuto sociale e le istituzioni. Pirandello rifiuta il Positivismo e si
reputa testimone attento e consapevole della crisi della sua epoca.
La poetica pirandelliana si basa su alcuni nuclei concettuali: il vitalismo e il caos
della vita. Il vitalismo è la tesi secondo cui la vita non è mai né statica né
omogenea, ma consiste in un'incessante trasformazione da uno stato all'altro. Nella
vita e nel suo flusso eterno, Pirandello avverte, da un lato disordine, causalità e
caos, dall'altro percepisce disgregazione e frammentazione. Egli sente i rapporti
sociali inautentici, rifiuta le forme e le ipocrisie imposte dalla società; a questo
proposito, il pessimismo dello scrittore è totale e ciò lo si nota anche - nelle sue
opere - dai personaggi, i quali sono posti sempre in situazioni paradossali, svelando
così la contraddittorietà dell'esistenza umana.
Dal rifiuto della società organizzata nasce una figura ricorrente in Pirandello, quella
del "forestiero della vita", l'uomo cioè si isola e si esclude, è colui che guarda
vivere gli altri e se stesso dall'esterno con un atteggiamento "umoristico", in una
prospettiva di autoestraniazione.
Il relativismo nel sostenere che è impossibile giungere a stabilire una verità,
insieme al soggettivismo, legano Pirandello al clima culturale del primo Novecento,
cioè alla fase in cui si compie la crisi del Positivismo. Egli interpreta in modo
originale l'atmosfera decadente, traendo dall'esperienza concreta del suo tempo i
suggerimenti per un'analisi lucida ed amara della natura della realtà; ma, se per
alcuni motivi la sua posizione rientra nell'ambito di quello che si è soliti definire
Decadentismo, sotto altri aspetti egli lo ha già superato. Pirandello è stato

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considerato un autore "filosofico" più attento ai contenuti che alle soluzioni
stilistiche e che non si limita a teorizzare le sue concezioni, ma le usa come
materia, ne fa l'oggetto delle proprie composizioni. Con le sue opere, la letteratura
italiana esce dall'ambito nazionale e acquista respiro europeo. Oltre al convinto
riconoscimento delle sue autentiche doti poetiche e della sua lucida coscienza
critica e culturale, è peraltro da rilevare l'eccezionale importanza del Pirandello
anche nella storia della tecnica teatrale, sia per quanto riguarda la modernità e la
complessità dei problemi affrontati, sia per novità del linguaggio e delle forme di
rappresentazione (lingua molto espressiva; sintassi analitica; ecc.).

Le novelle erano considerate le opere più durature, ma i critici moderni hanno


cambiato tale opinione ritenendo le opere teatrali più degne di essere
ricordate. Fare distinzione tra i contenuti delle novelle (o i romanzi) e le opere
teatrali è difficile, in quanto molte novelle sono state messe in opera a teatro ad
esempio: Ciascuno a suo modo deriva dalla novella Si gira...; Liolà ha il tema
preso da un capitolo de Il fu Mattia Pascal; La nuova colonia viene già
presentata in Suo marito.

Analizzando le novelle possiamo renderci conto che ciò che manca veramente è una
delineazione tematica, una cornice, infatti sono presenti un crogiolo di
personaggi ed eventi.

Il tempo in cui le novelle sono ambientate non è definito, infatti alcune sono
nell'epoca umbertina, poi giolittiana e del dopo-giolitti; cose diversa dalle
novelle così dette siciliane, nelle quali il tempo non è fissato, ma è un tempo
antico, di una società che non vuole cambiare e che è rimasta ferma.

I paesaggi delle novelle sono vari; per quelle dette siciliane si ha spesso il tipico
paesaggio rurale, anche se in alcune troviamo il tema sociale del contrasto tra
le generazioni dovuto all'unità d'Italia. Altro ambiente delle novelle
pirandelliane è la Roma umbertina o Giolittiana.

I protagonisti sono sempre alla presa con il male di vivere, con il caso e con la morte.
Non troviamo mai rappresentanti dell'alta borghesia, ma quelli che potrebbero
essere i vicini della porta accanto: sarte, balie, professori, piccoli proprietari di
negozi che hanno una vita sconvolta dalla sorte e da drammi famigliari.
I personaggi ci vengono presentati così come appaiono, è difficile trovare
un'approfondita analisi psicologica. Le fisionomie sono spesso eccentriche, per
il sentimento del contrario, hanno un carattere opposto a come si presentano.
I personaggi parlano e ragionano nel presentarsi per come essi sentono di
essere, ma alla fine saranno sempre preda del caso, che li farà apparire diversi
e cambiati.

Parte della critica ha creduto di rintracciare una linea di sviluppo definitiva


all'interno dell'opera narrativa di Pirandello, ora contrapponendo le novelle
‘siciliane' alle ‘borghesi', ora invece sottolineando l'evoluzione della poetica

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pirandelliana da una prima fase genericamente veristica fino all'etrema
caratterizzazione surreale. Ma il realismo, l'interesse sociologico delle novelle
sono soltanto apparenti: i personaggi, siano essi i piccoli borghesi capitolini o i
contadini siciliani, possono essere presi dal vero ma vengono deformati dalla
penna del narratore che li tramuta in maschere, caricature estreme di
un'unica radicale incapacità di vivere. In realtà la produzione del Pirandello
novelliere ha carattere aperto, con connotati di vero e proprio laboratorio per
sperimentazioni di forme narrative. Le novelle hanno soprattutto
rappresentato per l'autore un banco di prova sul quale saggiare quei temi
portati a piena maturazione negli altri generi, in particolare nel teatro.

Pirandello è uno dei più grandi scrittori di novelle. Per tutta la sua vita proverà a
completare "novelle per un anno", così chiamate perché il suo intento era
quello di scrivere 365 novelle, una per ogni giorno dell'anno. Arriverà a 241
nel 1922, solo postume ne usciranno ancora 15.

Massimo Bontempelli, anche lui drammaturgo e narratore ebbe il pregio di


raccontare storie irreali ed impensabili con lucida e realistica chiarezza.

Narratore elegante, ma per certi versi legato agli interessi del verismo è Corrado Alvaro,
che con la sua narrativa, fatta di romanzi e novelle, si ispira spesso alla vita
problematica della gente del meridione d'Italia.

Per buona parte del secolo Alberto Moravia autore di romanzi e novelle, I racconti
romani, ha rappresentato un importante punto di riferimento nella narrativa
italiana. Con una prosa precisa, aderente alle cose, realistica. Moravia ha espresso
un ricco quadro di costume, borghese e popolare, rappresentato con oggettività e
senza alcuna pretesa morale.

Contemporaneamente Dino Buzzati, autore di romanzi e novelle fa argomento della sua


narrativa le ansie, le paure, le angosce, gli incubi che vivono nel fondo della
coscienza dell'uomo, creando situazioni di surrealistica potenza.

Una trascrizione surrealistica della vita contemporanea ispira anche le novelle di Achille
Campanile ed Ennio Flaiano.

Il mondo della memoria e delle esperienze di vita è invece il motivo ispiratore


fondamentale delle novelle di Michele Saponaro, Natalia Ginzburg, Giorgio
Saviane, Vittorio Gassman.

Alla rievocazione d'ambiente, condotta in chiave tra ironica e sentimentale si rifanno le


novelle di Giuseppe Marotta, Luca Goldoni, Ugo Gregoretti, Luciano De
Crescenzo, Gianni Rodari, Massimo Grillandi, Primo Levi, Alberto Moravia,
Giorgio Bassani, Dino Buzzati, Italo Calvino, Antonio Tabucchi e di tanti altri
scrittori, noti e meno noti, che vanno ad arricchire questo genere letterario ancora
oggi, e forse più che mai, attuale pur con le sue mille sfaccettature.

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Importante è anche la novellistica femminile: tra le autrici più importanti e di successo
del Novecento, va ricordata Ada Negri, che con Le solitarie apre alla problematica
della condizione femminile, attraverso un insistito autobiografismo.

Il racconto è una narrazione in prosa di contenuto fantastico o realistico di minore


estensione rispetto al romanzo.

Nel racconto lo scrittore tratteggia in poco spazio un ambiente o una situazione, nella
quale muove personaggi, a volte uno solo, senza possibilità di grande sviluppo.

Chi si esprime nella dimensione del racconto normalmente né compone una serie, e il suo
mondo interiore si estrinseca in una costellazione di racconti: ciascun testo, per
quanto in sé concluso (a differenza dei capitoli di un romanzo è portatore di una
storia completa), va visto in collegamento unitario con gli altri appartenenti alla
stessa raccolta.

Se riferito ad una specifica persona, il racconto - di formato più o meno esteso - diventa
biografico. Se il racconto è scritto in riferimento a sé stessi, si è davanti ad un
racconto autobiografico.

Il racconto breve è un genere letterario vero e proprio?

Nato per "riempire brevi spazi di lettura", soprattutto a beneficio della stampa
periodica che guadagnava pubblico, a partire dalla seconda metà del secolo
XIX, negli Stati Uniti, il racconto breve comincia ad acquisire una importanza
sempre maggiore, fino ad ottenere praticamente la stessa dignità del romanzo.
La "moda" della narrazione di corto respiro finisce per diventare, nelle
tradizioni letterarie di alcuni paesi (l'Argentina, ad esempio) il "genere
nazionale". Uscendo da una prospettiva più tipicamente letteraria, comunque,
la narrazione breve è il genere più antico, nato con la tradizione orale e con i
racconti egiziani, con quelli dell'India millenaria, con Le mille e una notte, e
testimoniato ovunque (persino nella letteratura non scritta dell'america
precolombiana).

Tra le definizioni che si sono tentate per delimitare il racconto breve, ci piace
particolarmente quella di Luis Entralgo: "Un racconto che nel corso di non
molti minuti -quindici, trenta, sessanta- ci fa conoscere la nascita, lo sviluppo e
la conclusione di una azione umana inventata dall'immaginazione. Il racconto,
insomma, è la promessa di una evasione sul termine della quale possiamo già
contare al momento di iniziare la lettura. E questo poter contare con la fine di
qualcosa (..) non costituisce, mi chiedo, uno dei più costanti incentivi
dell'uomo, sia che questi misuri il tempo con esattissimi cronometri sia che lo
misuri per l'altezza del sole o il passare dei giorni?"
Proprio a causa di questo suo "svilupparsi a termine" un racconto breve vive
soprattutto dello stile e del temperamento del suo autore, mentre un romanzo
può essere caratterizzato anche solo dalla storia che racconta e dal

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concatenarsi degli eventi (cfr. romanzi d'appendice). A differenza di quanto
accade con un racconto breve, infatti, ad un romanzo la cui storia ci
appassioni possiamo perdonare vizi stilistici e superficialità concettuali. In un
rcconto breve più che mai, come sostiene Evelyn Waugh, "lo stile non è un
attraente ornamento applicato ad una struttura funzionale, ma fa parte
dell'essenza stessa (..) e le sue proprietà necessarie sono lucidità, eleganza e
individualità."

Come si costruisce un racconto breve?

Naturalmente non esiste una ricetta precisa, proprio in virtù della forte impronta
che ha l'autore sul racconto breve. Tuttavia, analizzando le differenze tra una
short story ed una narrazione di più ampio respiro, possiamo provare a
catalogare alcune evidenze.
Innanzitutto la necessità di eliminare dal racconto breve tutto ciò che è
superfluo, perchè non ci sono gli spazi del romanzo per affrontare i temi in
maniera articolata. Un buon racconto è soprattutto privazione: di solito non
descrive fino in fondo, piuttosto suggerisce, affidando l'immaginazione del
particolare tralasciato al patto segreto tra lo stile dell'autore e la personalità
del lettore. Il lettore di racconti brevi, infatti, cerca emozioni e non
informazioni. Come consiglia Henry James, un racconto bisognerebbe "farlo
tremendamente conciso, -con un piglio o un ritmo molto breve e la più
stringata scelta di particolari- in altre parole riassumere intensamente e tenere
a freno gli sviluppi laterali. Dovrebbe essere un piccolo goiello di splendente e
vivida forma."
Raymond Carver, uno dei massimi autori di short stories degli ultimi anni,
dichiarava: " Adoro il guizzo rapido di un buon racconto, l'eccitazione che
spesso scaturisce dalla frase d'apertura, il senso di bellezza e di mistero che i
migliori sanno evocare (...) Ecco lo scopo che voglio raggiungere con i miei
racconti: trovare le parole giuste, le immagini precise, usare la giusta e
corretta punteggiatura in modo che il lettore sia catturato e coinvolto nella
storia e distolga gli occhi dalla storia solo se la sua casa prende fuoco (...) Se
siamo fortunati, autore e lettore insieme, finiremo l'ultima riga di un racconto
e poi rimarremo seduti per un minuto, con calma...".Infine, registriamo
l'opinione di uno dei massimi cuentisti del secolo, Julio Cortazar: " In questo
senso, il romanzo e il racconto si possono paragonare analogicamente al
cinema e alla fotografia, nel senso che un film è innanzittutto un 'ordine
aperto', romanzesco, mentre una fotografia riuscita presuppone una rigorosa
limitazione previa, imposta in parte dal campo ridotto che l'obiettivo
comprende e inoltre dal modo in cui il fotografo utilizza esteticamente tale
limitazione. Fotografi del calibro di Cartier-Bresson o di un Brassai
definiscono la loro arte come un apparente paradosso: quello di ritagliare un
frammento della realtà, fissandogli determinati limiti, ma in modo tale che
quel ritaglio agisca come un'esplosione che apra su una realtà molto più ampia
(...) dunque il fotografo e lo scrittore di racconti si vedono obbligati a scegliere
e a circoscrivere un'immagine o un avvenimento che siano significativi (..) che

63
siano capaci di agire sullo spettatore o sul lettore come una specie di
'apertura', di fermento che proietti l'intelligenza e la sensibilità verso qualcosa
che va molto oltre l'aneddoto visivo o letterario contenuti nella foto o nel
racconto. Uno scrittore argentino che ama molto la boxe [Adolfo Bioy Casares,
n.d.r.] mi diceva che, in quella lotta che si instaura sempre fra un testo e il suo
lettore, il romanzo vince ai punti, mentre il racconto deve vincere per 'knock
out'.

I. Sfuggenza del racconto

Gli scrittori scrivono racconti brevi. Il racconto breve "moderno" non ha nulla da
invidiare al romanzo in quanto forma, espressione delle aporie e dei modi di
sentire della modernità, e anzi, come ha sostenuto Guido Guglielmi, sembra
essere nel Novecento la struttura narrativa ispiratrice del romanzo. Eppure il
racconto come "genere" è stato a lungo trascurato dalla critica e dalla teoria.
Dopo alcuni interventi classici (Poe, Matthews) e qualche lucida incursione
formalista (Ejchenbaum) bisogna aspettare gli anni Sessanta del Novecento
perché ritorni vivo l'interesse teorico e critico per il racconto breve.
Tuttavia, nonostante il risveglio di interesse, incoraggiato dalla produzione
degli scrittori, che a varie ondate prediligono le forme brevi, il racconto
continua a essere considerato un genere minore o addirittura inconsistente. La
narratologia non si è preoccupata di metterne in luce eventuali peculiarità,
privilegiando un'analisi della narratività o della narrazione in generale, e
molti studiosi hanno messo in evidenza la natura proteiforme e sfuggente del
racconto. Indubbiamente l'uso della forma breve è antichissimo, coincide forse
con le origini stesse della narrazione orale, e ciò, invece di favorire il suo
riconoscimento, contribuisce a renderne meno chiare le peculiarità.

II. La situazione italiana

In Italia in particolare il racconto è stato considerato dagli studiosi, e a volte anche


dagli scrittori, una debolezza, una mancanza: o mero esercizio in funzione di
opere maggiori, o pratica venale, o ripiego dovuto all'impraticabilità di generi
più alti. Questo misconoscimento è paradossale, perché la letteratura italiana
ha invece una «vera vocazione», come ha scritto Italo Calvino (e come
mostrano alcuni saggi qui raccolti), per il racconto breve e per le forme brevi
in generale. Molti autori non mancano di sottolinearlo, ma spesso come se
fosse un fenomeno di cui vergognarsi.
Quando si riconosce l'esistenza del racconto come genere, spesso se ne
individua solo un tipo particolare. E spesso lo si rifiuta. Per fare un esempio,
Sandro Veronesi ha dichiarato di diffidare del racconto breve perché, secondo
lui, tende a ridursi a un procedimento ad effetto, a un'idea che esplode con un
colpo di scena (oltre ad avere altri difetti, come essere spesso commissionato,
ed essere destinato a un pubblico più vasto). Veronesi sembra parlare di un
modello particolare di racconto, che ricorda molto le short stories di O. Henry
analizzate da Ejchenbaum, contraddistinte dall'enfasi sul finale.

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Analogo rifiuto, ma con prospettive diverse, è quello di Gianni Celati per il
racconto moderno nella forma a suo dire prevalente, «moraviesca», sottomessa
al romanzo, nella quale si addensa una «narrativa naturalistica di ristagno»,
che fa dell'individuo, dei concetti, della psicologia e dei fatti sociali «la carota»
per «amministrare i pensieri di chi legge». E naturalmente Celati propone un
suo modello, dispersivo, centrifugo, monadico, e nomadico di racconto che
«non ha bisogno di arrotondare i bordi» 11 ed è più vicino alla novella antica
perché fonte di meraviglia e di stupore e terreno di «metamorfosi
dell'impensato».In altri casi si è assimilato senza incertezze il racconto al
romanzo. Per fare un esempio meno recente, un critico come Debenedetti
(peraltro autore di racconti brevi), discorrendo dell'avversione per il romanzo
di De Robertis e in generale dei letterati italiani del primo Novecento, ha
esteso questa sindrome anche alla narrazione breve e non si è chiesto se
racconto o novella costituiscano una forma particolare di narrazione, se vi sia
una continuità di genere delle forme brevi, o se essi abbiano una specifica
dimensione storica. Ha considerato racconto e romanzo sullo stesso piano, e
separato entrambi nettamente, non solo dalla lirica, ma da ogni forma di
narrazione frammentaria o inconclusa. Visione opposta a quella di Celati, ma
in qualche modo complementare.

III. L'«area di genere» del racconto breve

Di là da queste visioni parziali, influenzate da poetiche personali, ha un senso


chiedersi se il racconto sia un genere e quali forme assuma? Io penso di sì per
almeno due ragioni. La prima è quella suggerita da Guglielmi, ossia che il
racconto possa essere una chiave di lettura della letteratura del Novecento e di
quella contemporanea. E lo stesso Celati lo conferma, e già Calvino lo
suggeriva, anche se in modo diverso da Celati, nelle Lezioni americane. La
seconda è che una riflessione sul racconto come genere può contribuire a
rinfrescare, a mio parere, l'intera riflessione sui generi contemporanei.
Ma è possibile, dopo il Novecento, parlare di generi? Credo che non solo sia
possibile, ma quanto mai necessario. Certamente non è più possibile parlarne
se non in termini di famiglie, di campi di forza, di insiemi dinamici che si
sovrappongono, influenzano e attraggono vicendevolmente. Quindi occorre
allargare lo sguardo, ragionare sul «tempo grande». Allora forse potremo
andare oltre l'evidenza empirica da cui siamo partiti, e cioè che il racconto
breve esiste, essendo dotato di una sua riconoscibilità intuitiva; e forse anche
scavalcare la classificazione editoriale della prosa che Calvino stigmatizzava,
ridotta a distinguere soltanto, salvo qualche eccezione, tra "racconti" e
"romanzo".
L'esistenza di un genere può essere sicuramente suggerita da fattori empirici,
usi editoriali, ricorrenze paratestuali, ecc., ma può essere confermata solo dal
fatto che il "genere" così costituito possa divenire un punto di vista da cui
guardare tutti gli altri generi.
E il racconto, in tutta la sua estensione, sembra soddisfare questa esigenza. Ma
"in tutta la sua estensione" significa accogliere tutte le sue manifestazioni, cioè

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considerarlo al tempo stesso con uno sguardo sincronico e con uno sguardo
diacronico, vederlo come repertorio di forme e coglierlo nelle scelte che il
tempo ha fatto, nelle discontinuità decisive della sua storia. Perché un genere
non è un luogo vuoto, una funzione dove un testo incontra altri testi, ma un
polo d'attrazione che fa incontrare i testi quando diviene una forma simbolica,
ossia quando si è affermato nella storia, presso autori e lettori, acquisendo
un'importanza che lo trascende o pretende di trascenderlo. Così diviene una
prospettiva da cui guardare la letteratura e il mondo. E il racconto ha uno
sguardo parziale, di scorcio, per definizione.
Forse tre o quattro volte il racconto ha acquisito questa importanza: tra la fine
del Duecento e il Quattrocento, tra Seicento e Settecento, e nel Novecento. Ma
senza mai venire meno, e anzi trasformandosi, o mimetizzandosi, in altri secoli
e secondo i luoghi (ad esempio la novella tedesca nell'Ottocento).
Ecco perché è più utile considerare un genere come un continuum, come
un'area in cui si confrontano diversi usi, percezioni e temperie culturali. Non si
può trascurare che i secoli di pensiero critico e di letteratura ai quali in
qualche modo possiamo accedere continuano a crescere. Questa è la nostra
condizione storica, che ci pone continuamente di fronte all'incrocio, allo
scontro, alla tangenza di paradigmi incommensurabili, se solo si va un poco
sotto la superficie della "comunicazione". E quel che si può fare è cercare di
configurare in senso dinamico e provvisorio un'area, un campo di forze, con la
consapevolezza heisenberghiana che l'osservatore, anche se piccolo, fa parte di
quel campo. Mi pare che tutti i vari modi di vedere la novella e il racconto, di
isolare una forma differenziandola da altre, di opporre o assimilare il racconto
ad altri generi definiscano - nel loro complesso e non presi uno a uno - questo
campo di forze, articolando le tendenze che a distanza di secoli o in un
particolare tempo e luogo dialogano all'interno dell'«area di genere» del
racconto breve. E queste tendenze si articolano intorno a un altro elemento,
più importante di quanto non sembri, che costituisce l'unità di fondo di
quest'area: si tratta di narrazioni in cui la brevità non è un fatto puramente
esteriore, legato all'estensione materiale, bensì, come hanno affermato gli
studiosi più avvertiti, un fatto costitutivo, che riguarda intrinsecamente il
modo di narrare, e quindi lo statuto, l'ontologia del racconto breve.
«Pensiero corto», dice Celati, «brevity», diceva Poe. Comunque lo si chiami è
evidente che è al tempo stesso uno stile e un'epistemologia: è un aspetto che ha
a che fare, prima che col narrare, con l'enunciare, con il proferir parola come
atto parziale e incompleto.

Indubbiamente il principio retorico e gnoseologico della brevitas non è sufficiente di


per sé a delimitare l'area del racconto breve. Anzi, è un principio aperto,
interpretabile, che non preclude le più varie possibilità di realizzazione. In
effetti il racconto, se è un genere, è un genere problematico e anomalo come il
romanzo, anche se per motivi opposti. Laddove il romanzo fagocita, il racconto
digiuna. E ciò determina anche in parte il loro rapporto, che può arrivare,
complice un consimile disturbo di realtà e di relazione, alla distanza più
assoluta o alla coincidenza più inaspettata dei due generi. Il racconto è un

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genere radicale, estremo, che può incarnare con la stessa naturalezza la
purezza letteraria e la semplicità triviale, la significatività epifanica e il
nonsense. Adotta con grande duttilità, a volte nello stesso autore, forme aperte
e forme chiuse. Molto simile in ciò al romanzo, anche se diversissimo nei modi
di attuazione e nelle strategie: il racconto permette di «aggiustare il tiro»,
come dice Domenico Starnone, invece di abbandonarsi «alla folla dei fatti».
Per usare una metafora cinematografica, è come opporre il piano-sequenza
(magari cento piani-sequenza) al montaggio.

IV. Novella e racconto

Una delimitazione (che qui non si tenterà) più che per esclusioni dovrebbe procedere
quindi per polarizzazioni, raccogliendo e tenendo in tensione tra loro le forme-
limite che il racconto ha assunto e le rispettive opposte interpretazioni critiche.
Analoghe polarizzazioni andrebbero fatte valere per i rapporti con gli altri
generi, giacché nessuno di questi da sé solo riesce a inquadrare una specificità
del racconto breve. Inevitabilmente soffermarsi sulle forme narrative brevi
implica un raffronto, o un'opposizione, di queste ultime con il romanzo, con il
saggio, con il trattato, con la lirica, con il dramma, ecc. (ma anche con il
cinema, con la fotografia, con la posta elettronica, con i blog, con le fanfiction,
ecc.). E in primo luogo comporta, e ha comportato di fatto, una discussione dei
rapporti tra novella e racconto.
Per quanto riguarda l'ultimo punto (relazione novella-racconto), va rilevato
che la discussione ha avuto importanza soprattutto per la tradizione italiana.
Ma credo invece che il legame con la novella abbia un interesse teoretico
fondamentale nella definizione dell'area di genere del racconto breve.
Abbiamo già avuto, attraverso Debenedetti, un'idea del contesto in cui è nato il
dibattito sul racconto novecentesco in Italia. Il racconto si fa strada attraverso
una riconquista della prosa. Viene appiattito sul romanzo. Continua a
chiamarsi prevalentemente novella. Non viene riconosciuto per lungo tempo
come un genere autonomo. In effetti alla squalifica, o all'incertezza, della
prosa che caratterizza gli anni dei frammentisti vociani e in parte dei rondisti,
a cui seguirà, a ridosso della guerra, un clima di ostilità alla poesia, si aggiunge
in Italia, a differenza che in altre tradizioni letterarie, il misconoscimento dei
«generi», e quindi di forme narrative diverse dal romanzo che forse hanno
caratteri propri, radici profonde e un ruolo non secondario. In altre tradizioni
il racconto trova un suo posto, perché è legato a periodi inconfondibili e ad
autori significativi della modernità. Pensiamo a Maupassant, Gogol' o
Hoffmann. In area tedesca, all'inizio del Novecento la novella, dopo la sua
ripresa romantica, è stata motivo di dibattito, per autori come Musil,
Auerbach, Simmel, Benjamin, quasi come problema di critica militante. Per
non parlare di tradizioni in cui il racconto ha avuto un'importanza
universalmente riconosciuta, come la anglo-americana, la latino-americana o
la russa, dove la riflessione sulle forme brevi ha avuto anche recentemente uno
spazio maggiore. In questi paesi forse ha giovato proprio un minor vincolo con

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il retaggio della novella trecentesca, e il racconto è stato percepito come
fenomeno essenzialmente moderno, originale e autoctono.

In Italia si è dovuti passare per l'asserzione di una netta cesura tra novella e
racconto per poter far avanzare il dibattito. Elio Pagliarani e Walter Pedullà,
nell'introduzione alla loro antologia I maestri del racconto italiano (1964),
partono proprio da una discussione delle differenze tra novella e racconto. E
sulla scorta di Lukács, Benjamin e Antonio Russi, oppongono la forma chiusa,
puramente epica della novella alla forma aperta, problematica e lirica del
racconto.
Alberto Asor Rosa, nell'introdurre la sua antologia La novella occidentale
dalle origini a oggi (1960), percorrendo la strada in senso inverso (dalla novella
antica ai nostri giorni), inserisce quest'ultima in una scala gerarchica che va
dall'aneddoto al romanzo, definito «genere superiore». E infine avverte del
«salto» che la prosa narrativa compie nel passaggio all'«età contemporanea»,
assumendo «forme e nomi nuovi». La novella diviene il genere preferito dai
conservatori e dai passatisti; il racconto le è superiore nel «suo impegno di
pensiero e umano»; ma nel racconto è «minore che nella novella l'elemento
dell'arte pura, della paziente e tenace ricerca stilistica».
Come vediamo si dichiarava la medesima rottura, anche se su basi diverse. Ed
era una distinzione che si muoveva, non senza cautele, verso un
riconoscimento di genere. Per quanto riguarda la dialettica illustrata da
Pagliarani e Pedullà, l'abbiamo già vista ripresentarsi, con valori e punti di
riferimento invertiti, in Celati.
Credo che questo scambio delle parti confermi perfettamente come si stia
parlando in realtà di una stessa area, in cui ciascuno assegna a questa o quella
forma la posizione congeniale alla propria poetica o alla propria visione
critica. Tuttavia, nonostante le indubbie differenze tra modelli della novella
antica e modelli del racconto moderno che si possono di volta in volta mettere
a punto, credo che, in questi termini (antico/moderno) una distinzione di
principio sia profondamente errata. Anche Guglielmi non dà peso a una simile
distinzione sul piano teorico.
Il racconto breve del Novecento è più vicino alla novella trecentesca che al
romanzo dell'Ottocento, per una serie di fattori intuibili, ma che possono
essere anche rilevati facilmente attraverso ogni tipo di analisi. Già Šklovskij,
per non parlare di Ian Watt mostravano la grande distanza della novella di
Boccaccio dai romanzi ad esempio di Richardson e Fielding, e gli stessi
argomenti potrebbero benissimo essere fatti valere per riconoscere alla forma
breve, novella o racconto, una autonomia sostanziale e tratti di lunga durata.
E tra questi tratti può essere individuata innanzitutto una serie di strategie
testuali, che consistono nell'uso di elementi coesivi, riduttivi, intensivi e
stranianti, tipici della forma breve ma graduabili secondo diversi livelli di
compattezza e di organicità.
Se invece guardiamo alla novella e al racconto dal punto di vista del romanzo,
o in funzione del suo sviluppo, rischiamo di cadere nella retorica del «non
ancora» e del «non più», dove il racconto è solo preparazione, o dissoluzione,

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di qualcosa di più compiuto e di più complesso. Se diamo invece alla forma
breve una sua autonomia, allora vediamo come al suo interno si apra una ricca
articolazione di forme.

V. Racconto e romanzo

Certamente è più che legittimo guardare alla novella dal punto di vista del romanzo.
Ho già detto che credo che si debba pensare ai generi in questo modo, come
uno sguardo sugli altri generi. E in questo senso il racconto è principio
generativo e dissolutivo del romanzo, una sorta di coscienza sperimentale
esterna.
Lukács è uno dei fautori di questo punto di vista. Per Lukács il fiorire delle
forme brevi contraddistingueva le epoche di transizione. Di là dall'idea
dell'alternarsi di «forme piccole» e «forme grandi», di piccola epica e di
grande epica, l'interpretazione di Lukács mette in luce la natura sperimentale
del racconto. E fa cogliere un'interna articolazione entro quelle che chiamava
«forme epiche minori», o «forme epiche prive di totalità». Anche nel caso di
Lukács si perveniva in fondo all'individuazione di un'area di genere, che
permetteva di invertire il punto di vista, e di guardare il romanzo dal punto di
vista della novella. Operazione che compirà Benjamin leggendo le Affinità
elettive di Goethe, e che porterà alle estreme conseguenze discutendo di
Leskov e di Döblin. In effetti possiamo individuare tanto nel romanzo quanto
nel racconto, nella loro area di genere, la stessa dialettica di forze centripete e
di forze centrifughe di cui parlava Bachtin. E se questo è vero oggi per quasi
tutti i generi contemporanei (in fondo «romanzizzazione» significa anche
questo), lo è particolarmente per tutto il Novecento per il racconto e per il
romanzo. È questa somiglianza di famiglia che permette innesti straordinari,
come in Svevo e Pirandello, che fanno implodere, rispettivamente, il romanzo e
la novella.

VI. Tra centripeto e centrifugo

Anche molti critici contemporanei, come Mary Louise Pratt, sono convinti della
continuità funzionale tra racconto e romanzo, o addirittura perseverano in ciò
che Pratt stigmatizza, ossia suggeriscono la subordinazione del primo al
secondo nel momento stesso in cui la negano. Ma è possibile far entrare il
racconto, in tutte le sue manifestazioni, nell'orbita del romanzo?
Evidentemente no, tanto è vero che la maggior parte degli autori, da Poe a
Cortazár, dallo stesso Lukács fino a critici e scrittori contemporanei come May
e Carver, e da noi proprio Moravia e Calvino, hanno sostenuto una stretta
somiglianza con la lirica. Ma così come è insufficiente definire il racconto
esclusivamente in opposizione al romanzo, anche questa intersezione d'area
non fa che mettere a fuoco solo alcune caratteristiche e alcuni modelli di
racconto. Apre i confini entro i quali la forma breve era stata rinchiusa.
Tuttavia se la distinzione di principio tra lirica e prosa non sembra avere più
alcun valore esplicativo, l'asse lirica-prosa non sembra nemmeno l'asse

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portante delle forme letterarie contemporanee. E anche questo è un segno
dell'autonomia dell'area forma breve. Piuttosto l'apertura dei confini fa venire
in mente la posizione di Giorgio Manganelli, che addirittura sosteneva che
tutto è racconto tranne il romanzo, il quale «può svolgersi solo uccidendo
possibili racconti». Proprio Manganelli ci permette allora di concludere
individuando due modelli, due forme generative di novella che possono essere
indicate come due polarità dell'area di genere del racconto breve: Il Novellino
e il Decameron. In fondo già in questo tratto due-trecentesco si esprimono
forme che rimangono produttive, a volte in esplicita antitesi, a volte ibridate,
fino ai nostri giorni. Si potrebbe anche dire che l'uno rappresenta le ragioni
del "racconto" e l'altro le ragioni della "novella", se si vuole conservare la
terminologia, ma non si tratta di istituire gerarchie di valore o cronologiche.
Certo non è una polarità che esaurisce l'argomento: è una polarità (di tipo
formale-strutturale) delle tante che possono essere individuate nell'area di
genere del racconto breve.
Con tutte le cautele si può dire che, come mostrano anche alcuni dei saggi qui
raccolti, al primo filone appartengono scrittori come Manganelli e Gadda (il
quale tuttavia compie notevoli incursioni nel secondo filone); al secondo,
scrittori come Pirandello, Savinio (il quale tuttavia compie notevoli incursioni
nel primo filone) e Landolfi, ma anche per certi versi Calvino.Il Novellino, che
Segre indica come vero capostipite del genere novella, incarna, secondo
Manganelli, un'epistemologia del discontinuo e dell'incommensurabile, e dei
mondi paralleli; ed è «un libro radicalmente bastardo», anzi irriducibile a un
libro, un «solaio narrativo», un «groviglio di oggetti discontinui e consumati».
Manganelli lo connota come un'opera che ha «coscienza della conclusione»,
che raccoglie i frammenti, i residui di linguaggio di un mondo perduto,
osservato dal punto di vista funereo del «verno», e riattingibili solo attraverso
«minuscole visioni». Nondimeno il suo linguaggio è tutt'altro che «semplice e
schietto come si dice contrapponendolo al Boccaccio» e la sua sopravvivenza
ne mostra di fatto la forza inaugurale.
Il Decameron non incarna assolutamente un progetto romanzesco, ma
inaugura a sua volta, con la cornice, un modello formale di racconto del tutto
differente, dove la letterarietà si propone in modo organico e orientato al
lettore, laddove nel Novellino era disorganica e disorientante: Il Novellino si
apre dichiarando la sua natura di archivio («facciamo qui memoria d'alquanti
fiori di parlare [...]»),ma nello stesso tempo offre una sorprendente teoria
dell'uomo parlante che è un'antropologia della conversazione distribuita,
dietro l'apparente funzione esemplare della raccolta.
Forse in entrambe le misure si esprime, in modo differente, ma efficacemente,
quel problema contemporaneo di fare della bêtise uno strumento di cattura dei
frammenti che ci stanno intorno, e fare altresì dei frammenti un elemento di
stupore, di interrogazione. «E se i fiori, che proporremo, fossero mischiati
intra molte altre parole, non vi dispiaccia; ché 'l nero è ornamento dell'oro e,
per un frutto nobile e dilicato, vale talora tutto un orto e, per pochi belli fiori,
tutto uno giardino».

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La metanovella è quel tipo di novella in cui l'autore dà pochissimo rilievo allo
sviluppo della trama (o decide di non svilupparla affatto) in favore di
un'analisi approfondita sulle tecniche narrative o sul processo di creazione
della novella stessa o di un personaggio. Può accadere che un personaggio o
l'autore in prima persona abbattano il muro che separa il lettore da ciò che sta
leggendo e si mettano a spiegare, ad esempio, il perché di certe scelte
narrative, dimostrando quindi che quella è narrazione, non vera storia,ed è
creata dalla sua mente seguendo determinati schemi. In certi casi l'autore può
arrivare a esternare i suoi gusti in fatto di letteratura, i suoi scopi espressivi o
ad assumere toni polemici nei confronti di argomenti o avvenimenti a lui
contemporanei. I principali autori italiani di metanovelle sono Giovanni
Boccaccio e Luigi Pirandello.

Novella potrebbe essere definita il testo narrativo meno esteso e di argomento più
circoscritto rispetto al romanzo. La differenza tra il racconto e la novella è, più
che altro, di natura storico-terminologica, cioè è dovuta alla prevalenza
dell’uso di un termine o dell’altro a seconda dell’epoca storica, piuttosto che a
una differenza sostanziale tra due sottogeneri fra loro vicini: in Italia, a partire
dall’Ottocento si diffuse l’uso di “racconto” per designare il genere narrativo
che fino ad allora era stato generalmente definito “novella”.

Novella e fiaba: differenze

Anche se gli autori di novelle utilizzano nei loro testi vicende e personaggi di
derivazione fiabesca, numerose sono le differenze tra i due generi. Le novelle,
come le fiabe, sono brevi narrazioni, però le prime appartengono alla sfera
letteraria, le altre affondano le radici storiche nella mentalità dei popoli
primitivi e sono state tramandate oralmente. L’ambientazione spazio-
temporale generica e indeterminata, i personaggi “tipo” intercambiabili per
qualsiasi tempo e luogo, distinguono la fiaba dalla novella. Una novella può
presentare motivi fiabeschi, ma ha una determinatezza spazio-temporale,
descrive realisticamente gli ambienti e caratterizza i personaggi con una
precisa identità sociale.

La struttura narrativa della novella

Nella sua forma più semplice la struttura narrativa della novella è la seguente:
* Il narratore esterno presenta gli elementi utili a comprendere la vicenda.
* L’avvenimento centrale mette in moto l’azione: ha uno sviluppo e raggiunge
un momento di massima tensione narrativa.
* La conclusione può presentare il ribaltamento della situazione iniziale con
soluzioni inaspettate.
* I personaggi maturano per le vicende vissute e acquistano consapevolezza

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La novella nella storia

Le raccolte più antiche, di carattere fantastico e avventuroso, provengono


dall’Egitto (2000 a.C.), dall’area babilonese (Racconto di Ahiqar, VI
secolo a.C.), e soprattutto indiana (Pañcatantra, IV secolo d.C., dai caratteri
più simili a quelli della favola), i cui spunti confluirono nella celebre raccolta
di novelle arabe Le mille e una notte (databili a partire dal IX secolo).

La novellistica orientale esercitò i suoi influssi sulla letteratura greca e su quella


latina: se ne ritrovano echi nelle Milesie (100 ca. a.C.) di Aristide di Mileto e
all’interno di più lunghi testi narrativi, come il Satyricon di Petronio Arbitro,
le Metamorfosi di Apuleio e l’omonima opera di Ovidio.

In età medievale si ha una fioritura di novelle, ispirate alla letteratura orientale


indiano-buddista. Il Libro dei sette savi contiene quattordici novelle narrate
da sette precettori per rinviare l’esecuzione di un principe ingiustamente
accusato. Alcune di queste novelle provengono dal mondo arabo, dall’opera Le
mille e una notte, che raccoglie storie fantastiche e fiabe indo-persiane-egiziane
(Aladino, Alì Baba, ecc.).

Nel Medioevo la novellistica ebbe una straordinaria diffusione e venne rielaborata


in varie forme narrative quali fabliaux, racconti didattico-allegorici, romanzi
cavallereschi, o costituì un genere letterario a sé stante, come avvenne nel
Decameron di Giovanni Boccaccio, che rappresentò un punto di riferimento
costante nella novellistica medievale e rinascimentale.

I fabliaux

Nelle letterature occidentali, attraverso la meditazione arabo-orientale, la


novella ha un suo sviluppo autonomo nei secoli XII-XIII. In Francia nasce la
tradizione narrativa dei fabliaux, componimenti brevi e di ambientazione
realista, dal tono satirico e beffardo, inizialmente recitati nelle piazze e poi
messi in forma scritta. Alcuni temi audaci ritornano nel Decameron di
Boccaccio, come quello della confusione notturna tra i letti: nel fabluau Il
mugnaio e i clerici vagantes, si narra di due studenti universitari (i chierici
delle università medievali) che, derubati da un mugnaio, per vendetta ne
seducono la figlia e la moglie, in un gioco di equivoci notturni.

L’exemplum

In Italia è un esempio narrativo ai fini dell'educazione popolare da parte di


predicatori Francescani e Domenicani, come Iacopo Passivanti, l’autore
dell’opera Specchio di vera penitenza. L’exemplum trova il suo modello nelle

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parabole evangeliche, poi gradualmente si sviluppa secondo lo schema della
narrazione breve.

All’esempio di Boccaccio si ispira il Novellino (postumo, 1476) di Masuccio


Salernitano; nel Rinascimento, in seguito alle teorie di Pietro Bembo sulla
questione della lingua, il Decameron fu considerato un modello anche sul
piano stilistico ed espressivo, come risulta dalle Novelle di Matteo Bandello.
Nella novellistica francese spiccano le Cent nouvelles (1460 ca.), racconti
burleschi di autore ignoto, e l’Heptaméron (rimasto incompiuto e pubblicato
postumo nel 1558) di Margherita d’Angoulême.

Nel XVIII secolo “The Spectator” dei britannici Joseph Addison e Richard Steele
pubblicò brevi prose ispirate alla realtà contemporanea, così come avvenne nel
secolo seguente per l’americano Washington Irving, che prese di mira la
società newyorkese.

Nell’Ottocento il successo del racconto fu agevolato dalla sua diffusione su riviste


popolari e letterarie. In età romantica comparvero i racconti dei tedeschi
Heinrich von Kleist, E.T.A. Hoffmann e Hans Theodor Storm, degli
statunitensi Edgar Allan Poe e Nathaniel Hawthorne, e di Nikolaj Gogol’,
considerato l’iniziatore del realismo russo. Il racconto in Europa risentì della
distaccata osservazione del reale tipica del naturalismo francese e del verismo
italiano, efficacemente rappresentato dalle novelle di Giovanni Verga. I temi
dell’irrazionale, dell’ironia e del sogno caratterizzarono invece i racconti della
scapigliatura lombarda, soprattutto in autori come Arrigo Boito e Iginio Ugo
Tarchetti; agli inizi del Novecento gli sfondi siciliani della narrativa verghiana
riappaiono, con intonazione molto diversa, nelle Novelle per un anno di Luigi
Pirandello.

Nel racconto dell’Ottocento, all’interesse per l’evento si sostituì quello per le


motivazioni del comportamento dei protagonisti, mentre lo scrittore tendeva a
diventare un perfetto regista del meccanismo narrativo, di cui elaborava
attentamente la successione delle sequenze e l’attribuzione delle parti ai
rispettivi interpreti. La cura per il montaggio del testo narrativo è tipica
dell’opera di Poe, che espose il suo metodo nella recensione (1842) dei Racconti
narrati due volte di Hawthorne.

Un altro maestro del racconto che influenzò intere generazioni di narratori fu lo


statunitense Henry James, il quale ne espose i principi teorici nella prefazione
all’edizione definitiva delle sue opere.

All’attenzione per l’introspezione psicologica dimostrata da Michail Lermontov si


contrappone l’interesse per la vita nelle campagne russe descritta da Ivan
Turgenev. Alla sovrapposizione di sogno e realtà presente nel Cappotto di
Gogol’, le cui novelle mescolano elementi umoristici e grotteschi, si ricollega il
racconto fantastico di Fëdor Dostoevskij Il coccodrillo. Un diverso filone

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narrativo emerse nella Morte di Ivan Iljič di Lev Tolstoj (che fu tradotto in
italiano da Tommaso Landolfi, egli stesso autore di raffinati racconti). Una
sorridente malinconia affiora nella narrativa di Anton Čechov, che punta
soprattutto alla rappresentazione dei caratteri dei personaggi.

Mentre Honoré de Balzac e Gustave Flaubert divennero famosi più per i romanzi
che per i racconti, la narrativa di Prosper Mérimée trovò invece la sua
dimensione ideale nelle storie brevi (fra cui Colomba, Carmen e Il vaso
etrusco), che all’interesse per il mondo delle passioni uniscono uno stile
distaccato. Alle Lettere dal mio mulino (1869) è legata la popolarità di
Alphonse Daudet, che scrisse anche opere di intonazione naturalistica. Gli
esempi più notevoli del naturalismo francese sono offerti dalle novelle di Guy
de Maupassant che, con perfetto equilibrio compositivo, tracciano un
dettagliato affresco della società francese di fine Ottocento.

Nel XX secolo la produzione di racconti si moltiplicò in tutto il mondo. Il filone


grottesco e surreale di cui Franz Kafka fu tra i massimi rappresentanti ebbe in
Italia ottimi sviluppi nelle raccolte di Massimo Bontempelli, Dino Buzzati e
Tommaso Landolfi. L’interesse per problematiche psicologiche e sociali
caratterizza invece i racconti di Italo Svevo, aperti alle esperienze della cultura
europea attraverso le frequentazioni dell’autore con James Joyce, che in Gente
di Dublino (1914) diede un’efficace rappresentazione della vita dei suoi
concittadini. Fra gli esempi più significativi del Novecento italiano si segnalano
i racconti di Carlo Emilio Gadda, Alberto Moravia, Cesare Pavese e Italo
Calvino.

È nella narrativa statunitense che il racconto conobbe la sua massima fioritura. Agli
inizi del secolo troviamo autori come Mark Twain, O. Henry (famoso per i
paradossi e le conclusioni a sorpresa), Stephen Crane, Willa Cather e
Sherwood Anderson, che in Winesburg, Ohio (1919) dimostrò come alla
fragilità della trama possa corrispondere una migliore definizione dei
caratteri. Molti racconti di Ernest Hemingway sono ricchi di dettagli
apparentemente insignificanti, che invece contribuiscono a evidenziare le
diverse sfumature degli stati psicologici. William Faulkner sondò i profondi
recessi della mente umana delineando al tempo stesso i tratti di un Sud mitico.

Dopo la seconda guerra mondiale, fra i più raffinati autori statunitensi troviamo
John Cheever e John Updike, noti per l’ironico distacco con cui descrissero la
vita nelle periferie cittadine del Nord. Esperimenti narrativi d’avanguardia
furono condotti da Kurt Vonnegut, Donald Barthelme e Joyce Carol Oates.
L’opera di Raymond Carver si iscrive tutta nell’ambito del genere racconto,
ed è soprattutto a lui – ma anche a Grace Paley e ad Ann Beattie – che negli
anni Ottanta si ispirò un’intera generazione di giovani narratori (i cosiddetti
“minimalisti”) quali David Leavitt, Jay McInerney, Bret Easton Ellis e Susan
Minot.

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La letteratura ebraica israeliana trova abbondanti fonti di ispirazione nelle
tradizioni della letteratura yiddish, magistralmente interpretate dallo scrittore
polacco naturalizzato statunitense Isaac Bashevis Singer.

La narrativa dell’Africa subsahariana interpreta spesso le difficili situazioni


politiche e sociali dei paesi d’origine e le problematiche femminili in genere. È
questo il caso della britannica Doris Lessing, nota per le sue Storie africane
(1951). Altri interpreti di rilievo sono Es’kia Mphahlele e Nadine Gordimer, di
cui si ricordano le raccolte Selected Stories (1976) e Qualcosa là fuori (1984).

La narrativa asiatica unisce raffinati richiami alle antiche tradizioni a moderne


sperimentazioni formali, come avviene per i giapponesi Akutagawa Ryunosuke
e Mishima Yukio, e l’indiano Rabindranath Tagore.

Nella narrativa della letteratura latinoamericana, un maestro riconosciuto del


racconto è l’argentino Jorge Luis Borges, ma occorre anche ricordare il suo
connazionale Julio Cortázar, la brasiliana Clarice Lispector e il colombiano
Gabriel García Márquez.

Nell’ottocento il romanzo è il genere guida. È un genere senza un modello


precostituito, che nasce dalla mescolanza degli stili (e dunque dallo
sperimentalismo) e che può svilupparsi solo in presenza di un pubblico vasto di
lettori. In Europa e negli USA fra l’inizio del secolo e il 1840 fioriscono vari
sottogeneri di romanzo: il romanzo storico, il romanzo sociale e realistico, il
romanzo-confessione, il romanzo fantastico, il romanzo di formazione. Nel
romanzo storico ottocentesco la storia non è più semplice cornice, ma diventa
protagonista, determinando il comportamento dei personaggi. Il problema che
il romanzo storico pone e che sarà per anni al centro delle discussioni, è quello
della convivenza di storia e invenzioni e della prevalenza del primo aspetto
rispetto al secondo. La fortuna del romanzo storico in Italia comincia dal 1827,
anno della prima edizione de I Promessi Sposi. Dopo Manzoni il romanzo
storico si diffonde grazie a Massimo d’Azeglio (1798-1866), Tommaso Grossi
(1790-1853), Cesare Cantù (1804-1895) e Domenico Guerrazzi (1804-1873). A
partire dal 1840 questo genere mostra segni di crisi e tende a trasformarsi in
romanzo di ambientazione contemporanea. Di questo tipo di romanzo
possiamo distinguere tre varietà:
1) Il romanzo campagnolo, rappresentato da Ippolito Nievo (1831-1861);
2) Il romanzo storico della contemporaneità, che ha i suoi testi più significativi
in Cento anni di Giuseppe Rovani (1818-1874) e soprattutto nelle Confessioni
di un italiano, ancora di Nievo;
3) Il romanzo-Confessione rappresentato da Fede e bellezza di Niccolò
Tommaseo (1802-1874).
-In Europa e negli USA sono questi gli anni in cui si affermano i grandi
narratori romantici. Limitandosi solo ai maggiori, basta citare Emily Bronte
(1818-1848) e Dickens (1812-1870) per l’Inghilterra, Poe (1809-1849) e
Mellville (1819-1891) per gli USA, Stendhal (1783-1842) e Balzac (1799-1850)

75
per la Francia, Hoffmann (1776-1822) per la Germania, Puskin (1799-1837) e
Gogol’ (1809-1852) per la Russia per avere un’idea della straordinaria
fioritura del romanzo in questo periodo.

Germania

La parola “novella” deriva dal linguaggio giuridico, in particolare dalla legislazione di


Giustiniano, e sta a indicare la cosa nuova, la novità, il paragrafo prima non
presente che viene aggiunta al Codex già esistente quale ampliamento di una legge.
In tedesco anche nella lingua giuridica attuale la parola Novelle viene usata
esattamente nello stesso significato. Come tutte le parole, anche questo sostantivo
si è emancipato nel corso dei secoli dal suo significato originario. La parola italiana
novella, alla quale si rifà la definizione del genere in tedesco, già nel Medioevo non
ha più niente a che vedere con il significato giuridico originale. Trasferito in abito
letterario, il termine novella viene usato di solito per indicare un'opera in prosa di
breve respiro, nella quale si narra qualcosa di nuovo. La novità può consistere nella
trama della storia ovvero nel modo in cui questa viene raccontata, un modo diverso
rispetto a una precisa e fissa tradizione. Quale genere letterario autonomo la novella
nasce in Italia all'inizio del Rinascimento dall'esigenza di raccontare qualcosa di
strano e prima sconosciuto. Esponente originale di questo genere è ovviamente
Giovanni Boccaccio con il suo Decameron. Nella letteratura tedesca la parola
Novelle entra invece soltanto molti secoli dopo. Nel Seicento il concetto letterario
italiano di novella viene per lo più tradotto con Historie o con Neu Fabel. Solo
nella seconda metà del Settecento il termine si impone come tale anche in ambito
linguistico tedesco, passando da “novella” a “Novelle”. La Novelle come genere
letterario dal profilo preciso si afferma nel mondo di lingua tedesca soltanto nel
tardo Settecento e assume immediatamente un carattere assai diverso e assai più
ampio di quello che essa aveva avuto originariamente nei grandi modelli d'area
romanza, nelle novelle classiche di Boccaccio o di Cervantes. Nel passaggio dai
paesi di lingua romanza a quelli oltre il limes la novella perde innanzitutto sia il suo
tono lieto, sia il suo dichiarato intento didattico. Benché sia sempre molto difficile
definire con regole e schemi precisi un genere letterario, si può tuttavia ritenere un
criterio valido quello secondo cui la novella è un lavoro in prosa, di solito più breve
del romanzo, in cui viene riferita una particolare situazione, un evento o un
conflitto inusitato, oppure viene illustrato un aspetto inusuale di un certo
personaggio. Insomma: la novella racconta in una breve storia qualcosa che è fuori
dal comune. La lunghezza o brevità di una novella può essere estremamente
variabile: ci sono testi di pochissime pagine (Novellette) e altri lunghi in pratica
quanto un romanzo. La novella non è fissabile entro uno schema preciso neppure
per quello che riguarda i temi trattati. Sul piano della forma essa presenta spesso

76
grandi affinità con altri generi della prosa (quali l'aneddoto, la leggenda, la fiaba, la
storia ecc.), tanto da rendere quasi impossibile una sua precisa enucleazione. Inoltre
essa è spesso vicinissima anche al dramma e viene non di rado affiancata alla
ballata. La novella può essere introdotta da un narratore che non si identifica con il
protagonista della storia presentata; si parla allora di Rahmennovelle, ossia di
“novella a cornice”. L’eroe della novella è in genere un personaggio del tutto
passivo, vittima di un fatto straordinario, che gli capita all'improvviso, in maniera
assolutamente imprevista. Di norma si tratta di un evento che assume importanza
decisiva nella vita del personaggio, tanto da sembrare al narratore degno di essere
registrato. Non è indispensabile che l'avvenimento riferito sia tragico o abbia
conseguenze tragiche: deve però sempre produrre una trasformazione essenziale
nella vita di chi lo sperimenta. A produrre questi cambiamenti importanti, a
provocare questa svolta del destino dei personaggi è molto spesso Eros, inteso
come forza prorompente della natura che emerge all’improvviso e travolge quanti
incontra. Poiché il fatto narrato capita a chi lo vive come un vero colpo di fulmine,
la novella presuppone una concezione irrazionale e fatalistica dell'esistenza. Visto
che nella novella tutto si concentra su un unico avvenimento, essa deve avere una
forma severa e ben misurata, non può disperdersi in divagazioni: non lascia al
narratore la libertà di digressione che gli concede invece il romanzo. Il romanzo
può permettersi di innestare nuove trame sul filone principale, di dilungarsi e
dilatarsi. La novella invece si dipana lungo una linea circolare che ruota attorno a
un unico punto propulsore, che non può mai essere perso di vista finché il cerchio
non si sia chiuso. Questo centro onnipresente differenzia la novella anche dalla
fiaba, che invece da questo punto catalizzatore può anche prescindere. Lo sviluppo
di una fiaba è più simile a quello di un romanzo: si parte da un certo punto e si
perviene a un punto molto diverso e molto lontano. La fiaba, come il romanzo, può
narrare l'intero sviluppo della vita di una persona. Questo teoricamente può farlo
anche la novella, ma allora tutta l’esistenza di un personaggio è vista nella
particolare prospettiva di un solo, fondamentale, evento centrale e costruita
esclusivamente partendo da questo angolo visuale. La riflessione teorica sulle
peculiarità del genere letterario della novella inizia in Germania nell’ultimo scorcio
del Settecento.
Christoph Martin Wieland (1733-1813), nella seconda edizione del suo Don
Sylvio von Rosalva del 1772, dà una spiegazione del significato di questo genere
di componimento in prosa: novelle sono a suo dire quei racconti „che si
differenziano dai grandi romanzi per semplicità di struttura e per la ridotta
estensione della trama".
La parola Novelle non si impone tuttavia tanto facilmente nel mondo tedesco, tanto
che lo stesso Wieland nel 1805, introducendo la sua Novelle ohne Titel della
raccolta Hexameron von Rosenhain, spiega come questo tipo di componimento si
differenzi dalla fiaba, trattandosi di un racconto che non si svolge né nei paesaggi
immaginari della pura fantasia né in regioni utopistiche o ideali, bensì nel mondo
concreto e reale che ci circonda. Nella Novelle, dunque, tutto è comprensibile e gli
eventi in essa narrati, anche se non appartengono alla norma della quotidianità,
sono perlomeno sempre plausibili e possibili.

77
Friedrich Schlegel (1772-1829), sul fronte romantico, presenta la novella come un
aneddoto capace di suscitare interesse di per sé, oltre i confini dell'ambiente
culturale in cui viene concepito; per questa ragione la novella deve avere un
contenuto estremamente accattivante, che la renda accessibile anche a chi non
conosce il preciso background storico-culturale da cui essa è scaturita. La tensione
che la novella deve creare nel lettore non dipende tanto dalla natura dell'evento
narrato, quanto dalla capacità del narratore di porgere un soggetto in maniera
interessante. Secondo Schlegel molte storie anche già note potrebbero essere
rinarrate in chiave “novellistica”, perché la vera forza della novella non sta
nell'originalità dei contenuti, ma nell’abilità di chi la scrive.
Un simile modo di intendere la novella è ovviamente condizionato dall'estremo
soggettivismo del Romanticismo, che tende anche in questo caso a interpretare in
maniera personale una forma narrativa di per sé oggettiva. Sempre stando a
Friedrich Schlegel la novella sarebbe un genere letterario particolarmente coltivato
dalle classi colte, troverebbe cioè nell’ambiente dei più istruiti il terreno ideale su
cui germogliare e raggiungerebbe il suo apice artistico in forma di novella
simbolica.
Il genere novellistico è coltivato anche da Johann Wolfgang von Goethe (1749-
1832), che per esempio inserisce la novella Die wunderlichen Nachbarskinder
[Gli stravaganti figli dei vicini] già nel romanzo Die Wahlverwandtschaften [Le
affinità elettive, l809].
E’ però il poeta anziano a perseguire l’intento di fornire un racconto paradigmatico
di questo genere letterario. Nel 1827 Goethe pubblica così un testo narrativo che
intitola emblematicamente Novelle. Proprio a proposito di questo lavoro egli dà al
suo segretario Eckermann, nel colloquio del 29 gennaio del 1827, una definizione
del genere considerata per molti anni illuminante e vincolante: la Novelle, sostiene
Goethe, altro non è che una vicenda inaudita realmente accaduta. Inaudita
(unerhört) essa lo è sia perché non è mai stata udita prima, quindi costituisce una
novità, sia perché suscita sconcerto e scalpore, come vuole appunto l’aggettivo nel
suo significato traslato. Per Goethe, come per Wieland, è dunque fondamentale che
il fatto narrato sia realmente accaduto, non sia frutto di mera fantasia, ma risulti
credibile al lettore. Goethe concorda poi con Schlegel sul fatto che la novella sia
genere adatto alle persone colte, che a quel tempo sono sempre anche persone
abbienti e benestanti. La Novelle di Goethe si apre con la partenza di un principe
per una partita di caccia; la sua giovane moglie, rimasta a casa, decide di visitare,
insieme a uno zio e al cavaliere Honorio, il rudere di un castello che la coppia ha
intenzione di restaurare. I tre si mettono in viaggio, ma un incendio alla fiera del
paese interrompe la loro cavalcata. All’improvviso si lancia su di loro una tigre
scappata da un serraglio; la principessa si salva, rifugiandosi su un monte, mentre
Honorio, innamorato della giovane dama, affronta la belva che infine riesce a
uccidere. Poi anche un leone fugge dal recinto, ma i proprietari pregano questa
volta Honorio di non attaccare la fiera, perché il loro figliolo, con l’aiuto del suo
flauto, riuscirà ad rabbonirla e riportarla in cattività. Il principe, tornato dalla
caccia, permette che si faccia questo tentativo, e in effetti il giovane flautista, simile
al biblico Daniele, placa con la sua musica il leone che gli si sdraia al fianco e si
lascia togliere una spina dalla zampa. E’ l’amore a vincere, non la forza in questo

78
componimento in cui le affinità con la fiaba sono molte ed evidenti, benché
l‘intento di Goethe fosse quello di fornire un exemplum estetico del genere della
novella, una storia che deve avere un numero limitato di personaggi, essere ben
compattata e proporzionata, narrare un fatto stravagante ma plausibile.

Un altro autore della cosidetta Goethezeit che si è espresso sulla teoria della novella
è Ludwig Tieck (1773-1853), secondo il quale queste genere narrativo può avere le
caratteristiche più varie, può essere comico o tragico, profondo o superficiale, serio
o faceta, ma deve sempre contenere un punto essenziale, un punto di svolta
(Wendepunkt), un momento che si inserisce nella narrazione come qualcosa di
straordinario e comporta conseguenze del tutto inaspettate. La novella può essere
quindi un po' tutto, purché presenti questa cesura che ne spinge lo sviluppo in una
direzione assolutamente imprevista e tuttavia probabile. Tieck insomma dilata il
concetto di novella in maniera forse eccessiva, salvando però quel punto centrale e
cruciale, che avvicina l’azione della novella a quella di un dramma classico, dove
pure di solito è presente un “punctum saliens”.

Fra i romantici il genere della novella trova grande diffusione, anche se le loro
prose sfociano spesso nel fiabesco e nel portentoso, travalicando i limiti di questo
genere letterario e avvicinandosi molto alla fiaba. Un esempio fra le novelle di
Achim von Armin (1781-1831) è Isabella von Ägypten oder Kaisers Karl des
fünften erste Liebe [Isabella d’Egitto ovvero Il primo amore dell’imperatore Carlo
V, 1819], dove si narra di un’esotica fanciulla, principessa di zingari, che giunge
alla corte di Carlo, ancora giovinetto, con uno strano seguito, costituito da
personaggi magico-fiabeschi. Isabella, Bella nel testo, si innamora di Carlo e cerca
di sedurlo per avere un figlio di sangue regale. Quando Carlo sale al trono, Isabella,
ormai madre, fugge via, lasciandolo il monarca solo e vittima di un’inquietudine e
di una sete di potere di cui si libererà solo nella tomba. La donna tenta invece di
tornare sulle rive del Nilo, da dove proviene, per fondarvi un nuovo regno. Si tratta,
anche in questo caso, di una novella spuria, perché di continuo oscillante fra i toni
del resoconto storico erudito e quelli portentosi del Märchen.

Storia d’amore, d’onore e di morte è la invece la novella a cornice di Clemens


Brentano (1778-1842) Die Geschichte vom braven Kasperl und dem schönen
Annerl [La storia dell’audace K. e della bella A., 1818], dove un’anziana nonna
cerca di dare decorosa sepoltura al proprio nipote e alla di lui fidanzata, entrambi
cresciuti orfani, i quali sono considerati indegni di una corretta sepoltura, l’uno
perché suicida, l’altra perché infanticida. Sulla vicenda dei due disgraziati si innesta
la riflessione di Brentano sull’arte e la sua legittimazione anche a prescindere da
una sua immediata utilità sociale.

Una novella tipicamente romantica è Das Marmorbild [La statua di marmo, 1819]
di Joseph von Eichendorff (1788-1857), ambientata in una fantastica Lucca
medioevale che fa da sfondo ai turbamenti del giovane cavaliere Florio, diviso fra
l’amore per la bellezza perfetta e inquietante di Venere, che è insieme donna e
statua, e quello per la casta Bianca, che ricambia il suo amore. Carattere di una

79
fantasmagoria più cupa hanno i racconti di Heinrich von Kleist (1777-1811),
assimilabili alla novella, sempre dominati da un insondabile demonismo. Anche qui
un esempio per i molti possibili: Michael Kohlhass, opera pubblicata nel 1808. Il
ricco mercante del titolo è animato da un profondo senso di giustizia che tenta di
far trionfare con prussiana inflessibilità. Quando un signorotto sassone gli sequestra
per arbitrio i cavalli e maltratta, oltre alle bestie, anche il suo fedele servitore,
Kohlhaas, querela colui che ha perpetrato l’abuso; costui però è protetto dagli
organi di potere, tanto che Kohlhaas si vede rifiutata l’incriminazione. Il tentativo
di sporgere denuncia al principe elettore del Brandeburgo non ha esito migliore.
Kohlhass, indignato per l’ingiustizia di chi amministra la giustizia, decide allora di
imporre da sé il diritto, si trasforma in masnadiero e danneggia in ogni modo
possibile il signorotto che lo scelto come vitti ma del suo dispotico arbitrio. Alla
fine però il galantuomo trasformatosi per esasperazione in ribelle viene arrestato e
potrebbe salvarsi dal patibolo consegnando ai nemici la profezia sul futuro della
dinastia sassone racchiusa nel medaglione che porta al collo. Kohlhaas tuttavia non
cede, e sul patibolo, prima di morire, ingoia la profezia e muore da uomo che, da
retto ed equanime, si è fatto criminale per amore di giustizia. Anche in questo caso
pochi sono i personaggi e la narrazione vigorosa è tutta dipanata intorno al
momento di svolta nella vita Kohlhaas, determinato dalle vessazioni del vigliacco
notabile. L’unico componimento in prosa di Georg Büchner (1813-1837) è pure
una novella: Lenz, testo uscito postuma nel 1839, è incentrato sul poeta dello
Sturm und Drang Jakob Michael Reinhold Lenz (1751–1792), vittima di una grave
forma di psicosi, di cui lo scrittore medico analizza con competenza il decorso
altalenante fra punte di panico e allucinazione e momenti di pausa fino alla
definitiva caduta nel baratro della follia.

Pubblicata nel 1856 e intrisa della lieve malinconica dell’epoca Biedermeier, la


novella Mozart auf der Reise nach Prag [M. in viaggio per Praga] di Eduard
Mörike (1804-1875), descrive la sosta del musicista salisburghese - che insieme
alla moglie si sta recando nella capitale boema per assistere alla prima
rappresentazione del “Don Giovanni” - in un borgo, dove, durante una passeggiata
in un parco, egli coglie un’arancia, ignaro che l’albero da cui il frutto pendeva è
destinato quale dono di nozze a Eugenia, la figlia di un conte. Questi, prima adirato
con il trasgressore, lo ospita poi in casa propria quando si rende conto che il
presunto malandrino è di fatto il famoso compositore. Mozart, con la propria
personalità affascinante, fa trascorrere ai suoi ospiti una giornata indimenticabile,
altalenante fra la gaiezza congenita del personaggio e la mestizia di che sente vicina
la morte. Anche in questo caso tutta la vicenda è incentrata su questo breve
soggiorno che diventa dominante nella novella, considerata una delle più accurate e
stilisticamente più riuscite della letteratura tedesca. Benché l’autore volesse
esplicitamente dissociarsi dal genere della novella, di carattere novellistico sono
anche i racconti di Adalbert Stifter (1805-1868) raccolti con il titolo Bunte Steine
[Pietre colorate, 1853]; fra di essi uno dei più famosi è Bergkristall [Cristallo di
rocca], tristissima storia di due fanciulli che, smarrito il cammino, sono costretti a
trascorrere fra i ghiacci la notte di Natale.
Per l’intero Ottocento la novella è amata e coltivata nel mondo di lingua tedesca,

80
anche se spesso confusa con la Erzählung, il racconto, da essa in vero non sempre
distinguibile con facilità. In tutta l’epoca del cosiddetto Realismo poetico si assiste
a una fioritura di questo genere letterario. Maestri a questo riguardo sono tre autori
svizzeri, assai diversi tra loro: Jeremias Gotthelf (pseudonimo di Albert Bitzius,
1797-1854), Gottfried Keller (1819- 1890), e Conrad Ferdinand Meyer (1825-
1898). Sanguigne e radicate nel rude ambiente alpino sono le novelle del bernese
Gotthelf che narrano vicende di ascesa sociale e di miseria, di onestà e avidità, di
amore e di odio in un mondo da strapaese, dominato dal volere divino e lontano
dalla dimensione consolatoria dell’idillio. La novella più famosa di Gotthelf,
pastore protestante nella cui prosa echeggiano sempre toni da predica, è Die
schwarze Spinne [il ragno nero, 1824], in cui l’immondo insetto del titolo, uno dei
molti travestimenti del diavolo, sparge morte e sofferenza in una comunità
valligiana che ha perso fiducia in Dio, finché il sacrificio di una madre non pone
per sempre fine alla sua furia deleteria e permette alla gente della valle di tornare a
vivere serena come un tempo.
Con spirito sornione e mordace sbeffeggia invece i suoi connazionali Keller nella
raccolta in due volumi Die Leute von Seldwyla [La gente di S., 1856 e 1873):
protagonisti delle storie sono gli abitanti di una piccola città di provincia inventata
che diventa allegoria della Svizzera, un paese a cui lo scrittore guarda con affetto e
insieme con lucido spirito critico. Della raccolta fa parte una delle novelle più
amate e ammirate della letteratura tedesca, Romeo und Julia auf dem Dorfe
[Romeo e Giulietta al villaggio], rivisitazione rusticana dell’amore infelice dei due
patrizi rampolli dei Capuleti e dei Montecchi già cantato da Shakespeare. Pezzi di
magistrale bravura narrativa sono presenti anche nella successiva raccolta di
novelle di Keller, le Zürcher Novellen [Novelle zurighesi, 1876-77], pure in due
volumi, dove invece dello houmor a dominare è il tratto storico-documentaristico,
perché l’autore tende qui a illustrare la tradizione e con esse le radici della
mentalità, non priva di difetti, dei propri concittadini.
Impostazione ciclica ha infine Das Sinngedicht [La poesia del senso, 1881], in cui
Reinhart, un giovane erudito, e Lucie, molto sicura di sé, si raccontano,
commentandole, diverse storie d’amore, in cui emerge con evidenza, in un abile
gioco di chiaroscuri, il contrasto fra essere e apparenza, fra verità e metafora.
Zurighese come Keller, ma animato da uno spirito più aristocratico ed elitario,
Conrad Ferdinand Meyer preferisce di solito collocare le sue novelle in un’epoca
passata: da Das Amulett [L’amuleto, 1873] - ambientato all'epoca della Riforma e
delle lotte fra cattolici e calvinisti - a Plautus um Nonnenkloster [Plauto in
convento, 1881] - giocato sul contrasto fra una Riforma intransigente fino alla
menzogna nel suo esasperato teocentrismo e un Umanesimo antropocentrico e
quindi più indulgente e più onesto - e così avanti fino alle ultime novelle della sua
produzione Die Versuchung des Pescara [La tentazione del marchese di Pescara,
1887] e Angela Borgia (1891) che hanno per sfondo il Rinascimento italiano,
epoca tanto amata e ammirata da Meyer che tuttavia non si astiene dall’analizzarne
anche gli aspetti più infidi e torbidi.
Nel corso del diciannovesimo secolo continua anche la riflessione teorica su questo
genere narrativo. La più nota teoria ottocentesca sulla novella in area tedesca è
quella del premio Nobel Paul Heyse (1830-1914), che anche sul piano creativo

81
coltiva con acribia e successo questa forma di prosa breve. Fra le sue
numerosissime novelle forse la più famosa è L’Arrabiata (1855), ritratto di
un’indomita fanciulla nella cornice solare di Capri. Nel 1871 Heyse pubblica
insieme al suo amico Hermann Kurz (1813-1873) una raccolta di novelle,
Deutscher Novellenschatz [Tesoro novellistico tedesco], dove nell'introduzione
espone la sua teoria detta del “falco” (Falkentheorie). Secondo Heyse la novella,
presentandoci un particolare destino umano, un conflitto intellettuale o morale,
deve essere in grado di rivelare al lettore, mediante un evento inusuale, un aspetto
nuovo e imprevisto di una personalità. Il fascino della novella sta nella sua capacità
di illustrare in poche linee, rinchiuse di solito entro una cornice, l’imporsi, in una
determinata situazione, di una legge di natura diversa da quella che ci si
aspetterebbe, quasi che il narratore fosse un chimico che prova a isolare determinati
elementi di una precisa combinazione e a osservare che tipo di reazione essi
avrebbero se messi a contatto con altri elementi, con i quali non sono mai entrati
prima in contatto. La storia narrata in una novella, sempre stando a Heyse, deve
avere un profilo severo, essere cioè estremamente concisa e aderire in sostanza alla
tecnica novellistica del Boccaccio. Ognuna delle cento novelle del Decameron è
introdotta da un breve sommario, come nota Heyse, di sole cinque righe. La nona
fiaba del quinto giorno, dice che Federico degli Alberti ama non riamato e, avendo
speso tutti i suoi averi in pompa cortigiana, è ormai povero, non gli resta che un
unico falco che egli serve a pranzo alla donna adorata, sua ospite. Costei, venendo a
conoscenza di questo fatto, cambia opinione su Federico, si innamora di lui, lo
sposa e lo rende ricco. Questo è lo spunto per la teoria del “falco” di Heyse, dove
l’animale indica l’elemento isolato e peculiare, quello che distingue la storia narrata
nella novella da mille altre possibili storie consimili. Nella novella, infatti, spesso
c'è un oggetto che serve da punto di riferimento, che assume valore simbolico,
offrendo anche una chiave interpretativa della storia narrata, la quale deve avere
una struttura rigorosa, concentrandosi su un fatto senza cedere alla tentazione di
parentesi e sconfinamenti. La novella non propone lo sviluppo del personaggio,
eppure, presentandolo come travolto da un evento straordinario, lo sottopone, se
non a un processo di formazione come vuole il classico “Bildungsroman”, a una
improvvisa trasformazione. Diversamente che nel romanzo tradizionale, la novella
non presenta lo sviluppo graduale di una personalità, ma un ribaltamento del suo
modo di vivere e di concepire l’esistenza. Questo rivolgimento è causato da un
evento che è una specie di cartina al tornasole, è la molla che porta a evidenza
quello che nel personaggio era fino a quel momento latente. L’energia ctonica che
affiora d’improvviso nella novella come una furia può essere di natura psichica o
dipendere dalla realtà esterna; è però sempre presentata come qualcosa di fortuito,
come un gioco del caso che si trasforma in forza del destino.
Molte novelle sembrano confermare la “teoria del falco” di Heyse. Un albero
secolare è per esempio l’oggetto chiave intorno a cui gravita la vicenda di Friedrich
Mergel, protagonista della novella di Annette von Droste-Hülshoff (1797-1848)
Die Judenbuche [Il faggio dell’ebreo, 1842], ambientata nella tetra e minacciosa
brughiera della Westfalia; qui l’assassino Friedrich finisce per togliersi la vita
impiccandosi allo stesso faggio sotto cui molti anni prima aveva deposto i cadaveri
delle sue vittime.

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Il violino invece, suonato sempre e soltanto a livello dilettantistico, è l’oggetto su
cui si convoglia la tensione narrativa della novella di Franz Grillparzer (1791-
1872) Der arme Spielmann [Il povero suonatore, 1848], pacata e malinconica
denuncia dell’incomprensione e dell’isolamento a cui è condannato l’artista in una
realtà attenta soltanto all’utilità e al profitto. L’autore, per la verità, non aveva
scientemente voluto definire novella questo che è il suo racconto più celebre; di
fatto però il testo presenta molte caratteristiche proprie di questo genere narrativo.
Tenendo conto che l’elemento peculiare della novella è la sorpresa, è il verificarsi
di un fatto inusitato che indirizza gli eventi verso un finale inatteso, possono essere
considerate novelle moltissimi componimenti di breve respiro della baronessa
morava Marie von Ebner-Eschenbach (1830-1916), benché, anche in questo caso,
l’autrice li definisca Geschichten, storie. Sospese fra le istanze conservatrici
dell’artistocrazia e le nuove spinte democratiche della borghesia, le novelle della
Ebner-Eschenbach, sostenute da una serena ironia, diventano il riflesso di un
mondo nel quale le proteste rivoluzionarie del 1848 hanno segnato una cesura di
cui non si può non tener conto. Emblematica in questo contesto è la vicenda dei due
nobiluomini al centro della novella Die Freiherren von Gemperlein [I baroni v.
G., 1889], due fratelli che incarnano l’uno l’apertura alle nuove tendenze liberali,
l’altro la difesa caparbia di privilegi secolari in crisi e che alla fine, incapaci
entrambi di trovar moglie, lasciano che la loro schiatta, priva di successori, si
estingua. Un’analoga realtà storica fa da sfondo alle Novelle aus Österreich
[Novelle austriache, 1876] del viennese Ferdinand von Saar (1833-1906),
attraversate da un senso di invincibile tragicità. Anche in questo caso soltanto un
esempio, quello di Leutnant Burda [Il sottotenente B., 1887], vittima della sua
stessa megalomania, personaggio che anticipa il destino di altri ufficiali al centro di
molte novelle del Novecento, come Leutnant Gustl [Il sottotenente G., 1900] o
Spiel im Morgengraun [Gioco all’alba, 1927] di Arthur Schnitzler (1862-1931),
entrambe imperniate sulla sottile denuncia del vuoto di valori su cui si regge il
codice d’onore di una casta militare tanto ambiziosa quanto inetta. Di là della
tematica del militare un po’ vanesio, dall’uniforme scintillante e dalla sostanziale
inconsistenza morale, la novella è genere congeniale a Schnitzler: si pensi a
capolavori come Fräulein Else [La signorina E., 1926], tutta costruita su monologo
interiore della protagonista suicida, o a Traumnovelle [Doppio sogno, 1926] - resa
assai famosa anche dalla recente e tanto discussa reinvenzione cinematografica di
Stanley Kubric “Eys wide shut” - dove i due benestanti coniugi Fridolin e Albertine
distruggono la stabilità del loro rapporto sentimentale e la loro stessa identità
partendo da un colloquio sui reciproci desideri profondi e inconfessati che, se
lasciati in libertà, travalicano e travolgono le barriere della morale borghese. In un
seducente e sfuggente gioco di sguardi e di incontri altalenanti fra sogno e realtà si
dissolve l’ordine, la misura, la sicurezza di un’esistenza che si rivela in verità fatta
di apparenza e di menzogna.
Nel mondo asburgico del primo Novecento, assillato dalla coscienza della fine e
quindi più propenso all’impressione e al frammento che al grande affresco, la
novella è nel complesso preferita al romanzo d’ampio respiro; si pensi all’opera di
scrittori come Franz Werfel (1890-1945), famoso sì presso i suoi contemporanei
per i suoi lunghi e non di rado prolissi romanzi, oggi invece assai più apprezzato

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come autore di narrazioni brevi, o di Stefan Zweig (1881-1942), la cui produzione
novellistica è attualmente considerata di valore assai superiore alle sue molte
biografie romanzate, amatissime dal pubblico fino agli anni cinquanta del
Novecento. Di entrambi questi scrittori soltanto un titolo paradigmatico fra i molti
citabili Un tipico spaccato di quello che Werfel definiva “un mondo al crepuscolo”
offre la sua novella Das Trauerhaus (1927). "La casa del cordoglio" del titolo è in
verità una casa di piacere di Praga, costretta a chiudere i battenti dopo la morte del
proprietario, un ebreo avaro e sfruttatore, il cui decesso coincide con l’assassinio di
Francesco Ferdinando a Sarajevo e quindi con lo scoppio della prima guerra
mondiale. Lo "splendore polveroso e già un po' rognoso" del bordello diventa così
sarcastica allegoria dell'agonizzante impero danubiano. Riconosciuta come il
capolavoro della narrativa di Stefan Zweig, Schachnovelle [Novella degli scacchi,
1942], mette a confronto dinanzi a una scacchiera il metodo di gioco
dell’intellettuale Dr. B., basato sull’astrazione, e quello del rozzo Mirko Czentovic,
fondato invece sulla tecnica consumata e i trucchi del mestierante. Nella sfida fra i
due, portavoce rispettivamente dell’attività dello spirito e di quella brutale della
prassi politica, a vincere è la barbarie; dal gioco Czentovic, dietro la cui figura si
adombra Hitler, esce trionfante, mentre il Dr. B. cade in preda alla disperazione e
alla follia. Anche nella Germania dei cosiddetti Gründerjahre, l’epoca della
costituzione del Secondo Reich, la novella è genere amato da molti scrittori.
Proprio alle guerre che portarono la Prussia al rango imperiale si ispirano le
Kriegsnovellen [Novelle di guerra, 1895] di Detlev von Liliencron (1844-1909),
animate dal desiderio di presentare l’ufficiale prussiano come un campione di
altruismo e di abnegazione. Alla penna di Theodor Storm (1817-1888), nato come
Liliencron in uno Schleswig-Holstein ancora danese, si devono pure numerose
novelle, fra le quali una delle più note è Immensee [La tenuta di I., 1850], storia di
un amore non realizzato, rivissuto in flash back dall’anziano io narrante in una serie
di tenere evocazioni del suo rapporto con Elisabeth, finita sposa di un altro. Inserita
nella cupa e fantasmagorica cornice del lugubre paesaggio frisone, sempre
minacciato dal pericolo di catastrofiche inondazioni, è la novella a cornice Der
Schimmelreiter [Il cavaliere sul destriero bianco, 1888], sorta di testamento
artistico del vecchio Storm, che in quest’opera recupera la tradizione della saga
locale, popolata di spettri e supportata da pregiudizi. Protagonista del vero e proprio
racconto interno alla cornice (Binnenerzählung) è proprio un audace costruttore
d’argini la cui caparbia volontà d’affermazione viene tuttavia travolta dalla furia
della natura: una violenta esondazione di quel mare su cui ha cercato di imporsi con
la costruzione di un possente terrapieno annienta la sua famiglia e spinge il
protagonista disperato suicida fra i flutti.

Dal paesaggio che gli ha dato i natali, la marca di Brandenburgo, prende spesso
ispirazione per le sue novelle anche Theodor Fontane (1819-1898). Così ad
esempio Grete Minde (1880), opera ambientata all'epoca dei conflitti di religione
dopo la Guerra dei Trent'anni e scritta anche per compiacere il gusto del pubblico,
dove lo scrittore mescola forme tipiche della ballata e della cronaca storica con
quelle della novella vera e propria. Altra novella ballatesca è Ellernklipp (1881),
sorta di breve romanzo giallo a fondo storico, basato sulle vicende di un assassino

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realmente esistito. Su uno scandalo all'interno della società berlinese – la vicenda
della moglie di un facoltoso industriale, la quale abbandona il marito e i tre figli per
fuggire a Roma con l’amante - si basa invece L’Adultera (1880); motivo di
scalpore fra i benpensanti, la novella, giocata su un uso magistrale della
conversazione, riscosse subito il plauso dei Naturalisti per la sua audacia e
veridicità. Fontane torna alla sua Marca con Schhach von Wutenow (1882); da
alcuni considerato un vero e proprio romanzo più che una novella, questo
componimento narrativo ambientato all’inizio dell’Ottocento intreccia la storia
collettiva con quella privatissima dell’ufficiale prussiano che dà il titolo all’opera.
Frequentando il salotto di una mondana signora, Schach si invaghisce della di lei
figliola, che sarebbe bella come la madre, se il vaiolo non le avesse deturpato il
volto. Una sera, rimasto solo con la ragazza, l’ufficiale, che da tempo la corteggia,
ne ottiene i favori, al che la madre lo invita a ricorrere a nozze riparatrici. In un
primo momento l'ufficiale, deriso dai compagni, si ritira nella sua tenuta; ma poi,
per intervento dello lo stesso re di Prussia, al militare vengono imposte le nozze.
Schach obbedisce, ma il giorno stesso del matrimonio, dopo la cerimonia, si uccide
sulla carrozza che lo sta riportando a casa. L’opera di Fontane, pur radicata nei
canoni dello stile narrativo ottocentesco, si avvicina già per molti versi alle istanze
innovatrici del naturalismo, benché l’ambiente che fa da sfondo alle sue prose sia
quasi esclusivamente quello dell’alta borghesia o della classe aristocratica. Il
mondo dei proletari è invece al centro della “Novellistische Studie” Bahnwärter
Thiel [Il casellante T.,1887] di Gerhart Hauptmann (1862-1946). Dal primo
felice matrimonio con la dolce e malaticcia Minna, Thiel ha un figlio, Tobias, che
resta orfano di madre in età tenerissima. La seconda moglie del casellante, la rozza
e robusta Lene, maltratta Tobias e lo trascura, tanto che il piccolo finisce sotto un
treno; colto da follia omicida, Thiel uccide allora la moglie e il suo secondo figlio
neonato e finisce in manicomio. Se alcuni tratti visionari di questa novella già
lasciano trasparire un superamento precoce dei canoni naturalistici, con il trionfo di
un panico utopismo si conclude la novella più celebre di Hauptmann, Der Ketzer
von Soana [L’eretico di Soana, 1918], storia di un prete che, travolto dal vitale
demonismo di Eros, getta la tonaca per amore di una fanciulla, nata per di più da un
amore incestuoso, e quindi di ritira con lei nella pace di un idillio alpestre in cui si
placano, nell’appagamento, tutte le pulsioni anarcoidi della sensualità.
All’immediatezza sanguigna dello stile di Hauptmann fa da contraltare la molle
raffinatezza di Thomas Mann (1875-1955), che esordisce proprio come autore di
novelle con la raccolta Der kleine Herr Friedemann [Il piccolo signor F., 1898]. Il
testo che dà il titolo al volume è la storia di un giovane che, storpio per via di una
caduta provocata, quand'era neonato, dalla sbadataggine di una balia ubriacona,
vive una vita di totale sublimazione, fatta di libri, arte e musica, finché a trent'anni
si innamora perdutamente di una signora che, disdegnando il suo amore, lo spinge
ad annegarsi in un fiume. Il contrasto fra Arte e Vita, centrale nell’intera
produzione di Mann, è anche il filo conduttore del suo secondo volume di novelle,
Tristan (1903), di cui la storia più nota è Tonio Kröger, incentrata sulla
dilacerazione di un giovane, diviso fra la vocazione artistica e il fascino della vita
borghese. Il capolavoro novellistico di Mann è il celeberrimo racconto Der Tod in
Venedig [Morte a Venezia, 1912], in cui l’anziano intellettuale Aschenbach, colto

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da una travolgente passione per un efebico adolescente, si abbandona alle forze del
dionisiaco, rinnegando il proprio passato e votandosi, oltre che a un culto sfrenato
del giovane, alla morte sicura in una Venezia appestata da una letale epidemia.
Anche se definite Erzählungen, molte delle brevi prose di Mann presentano le
caratteristiche della novella; così per esempio la porsa tarda Die Betrogene
[L’inganno, 1953], in cui la matura protagonista scambia per un segnale di ritorno
alla vitalità della giovinezza i sintomi di una malattia letale. Carattere più
immediatamente provocatorio hanno le novelle degli Espressionisti, che pure fanno
ricorso con frequenza a questo genere letterario. Un esempio è Die Ermordung
einer Butterblume [L’assassinio di un ranuncolo, 1910] di Alfred Döblin (1878-
1957), in cui, attraverso i sensi di colpa di un buon borghese che senza riflettere
decapita per via un ranuncolo, lo scrittore illustra in tono satirico la falsità
dell’amore che i cosiddetti benpensanti dichiarano di provare per la natura.
Comprende sette novelle di rigorosa fattura il volume di Georg Heym (1887-1912)
Der Dieb [Il ladro], pubblicato postumo nel 1913, che parla solo “di malati folli, di
paralitici e di cadaveri” . Incentrata sul problema della fame quale causa scatenante
della rivoluzione francese è la novella Der fünfte Oktober [l cinque ottobre]. Der
Irre [Il pazzo] consta di una serie di immagini di crudeltà al centro delle quali c’è
uno psicopatico uscito dal manicomio, mentre Das Schiff [la nave] narra delle
angosce dell’ultimo superstite di una nave colpita da un’epidemia di peste, ormai in
preda ai deliri della febbre.La novella che dà il titolo alla raccolta parla del furto dal
Louvre della Monna Lisa di Leonardo da Vinci – davvero occorso nel 1910 -,
perpetrato da un folle che vede nella donna la radice d’ogni male e considera quindi
il proprio gesto un atto di redenzione.
Uno die maggiori teorici dell’Espressionismo, Kasimir Edschmid (pseudon. di
Eduard Hermann Wilhelm Schmid, 1890-1966 ) è anche appassionato scrittore di
novelle. Già nel 1915 Edschmid ottiene grande successo con la sua prima raccolta
novellistica Die sechs Mündungen [I sei sbocchi], che contiene tra l’altro un testo
chiave per illustrare lo stile e la poetica di questo scrittore. La novella Der Lazo [Il
lazo], che illustra la storia di un ricco borghese il quale, saturo del cosiddetto
mondo civile, cerca di costrursi un’esistenza nuova nel Far West, in uno spazio di
libertà, non condizionato dalle convenzioni sociali, è il modello di base su cui in
seguito Edschmid fonda – variando ambientazione geografica e temporale – tutte le
sue numerose novelle.
La novella può avere come tema la progettazione del futuro, ma anche essere
medium della memoria. E’ il caso questo della novella a cornice del Alexander
Lernet-Holenia (1897-1976) Der Baron Bagge [Il barone B., 1936], il cui
protagonista, in stato di incoscienza in seguito a una grave ferita di guerra, si
muove in un "regno di mezzo", in uno spazio sfuggente, in bilico fra la vita e la
morte. Bagge, letteralmente fuori di sé, vive nel delirio – metafora di un io
dissociato, che non distingue più la propria profonda verità dalla maschera sociale
che si costringe a indossare - una serie di esperienze che al suo risveglio svaniscono
come un sogno. Ancor più tormentato è il processo di autoriflessione a cui si
sottopone Ludwig II di Baviera nella novella di Klaus Mann (1906-1949)
Vergittertes Fenster [Finestra con inferriata, 1937], dove il re risulta in cattività
non solo per le condizione oggettive in cui vive, ma soprattutto perché è prigioniero

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del proprio demone interiore. Con l’avvento del nazionalsocialismo, la novella si fa
a volte anche strumento di resistenza. Per l’indipendenza dell’arte contro il
dispotismo estetico del Nazismo, basato su terrore e repressione, si schiera Stefan
Anders (1906-1970) nella novella storica El Greco malt den Großinquisitor {El
greco dipinge in Grande Inquisitore, 1936], così come nel segno della resistenza al
regime è concepita un’altra sua novella, ambientata all’epoca della guerra civile
spagnola, Wir sind Utopia [Noi siamo utopia, 1943], dove un ex monaco, anche
nel momento di massimo pericolo per la propria incolumità, si dichiara a favore
della lotta non violenta. Un momento di ritorno alla novella rigorosa di tipo
classico è segnata dall’opera di autori come Werner Bergengruen (1892-1964) e
Getrud von Le Fort (Auguste Lina Elsbeth Mathilde Petrea, 1876–1971). In Drei
Falken [Tre falconi, 1937] Bergengruen recupera la teoria del falco di Paul Heyse
con l’intento di scrivere una novella rigidamente ortodossa. Nella sua storia egli
trasforma però il rapace di boccacesca memoria in un simbolo di purezza e nobiltà.
Un noto falconiere del regno di Napoli ha lasciato in preziosa eredità tre falconi,
disponendo che alla sua morte vengano messi all’asta, che il ricavato dalla vendita
dei primi due vada in beneficenza e che la somma ottenuta con la cessione del terzo
vada ai suoi eredi. Cecco però, il figlio naturale del falconiere, un burattinaio
storpio ma interiormente libero, non mette all’asta l’uccello che gli è toccato in
sorte e lo lascia invece volare in libertà per non condizionare con la ricchezza la
propria vita. Vittima è invece la monaca protagonista della novella più nota della Le
Fort Die Letzte am Schafott [L’ultima al patibolo, 1931]. Muore infatti da martire
Blanche, l’ultima delle sedici Carmelitane di un convento parigino, eliminate dai
rivoluzionari il 17 luglio 1794. La novizia, prima terrorizzata dall’idea della morte,
accetta alla fine il martirio come le proprie sorelle. Sorta di “anima bella” di
classica fattura, Blanche è al centro di un componimento di severa struttura
architettonica, che ricorda, nel suo rigore formale, le novelle del Rinascimento.
Anche alla fine della seconda guerra mondiale, dopo il 1945, nella storia della
novella tedesca sembrano non esserci tempi morti. Il genere novellistico continua
ad essere amato e coltivato anche nella seconda metà del Novecento. La novella
berlinese Der Ptolemäer [L’uomo tolemaico, 1949] di Gottfried Benn (1886-
1956), gravita attorno al dilemma della dicotomia fra essere e pensiero. Vi si
susseguono tre tipi umani che incarnano tre diversi modi di reagire a una realtà
ridotta a una distesa di macerie: c’è la proposta escapistica del proprietario di un
istituto di bellezza che invita alla fuga “Nella terra del loto”; quindi “Il soffiatore di
vetro” che, nonostante tutto, continua a credere nella propria arte, pur consapevole
della sua fragilità, e infine “L’uomo tolemaico” appunto, alla ricerca di una nuova
saggezza in grado d’affrontare il disagio di un mondo da ricostruire. Nonostante il
sottotitolo, quest’opera, condizionata dal particolare momento storico, è più un
saggio di riflessione sul dopoguerra che un vero e proprio racconto a carattere
novellistico. Un ritorno alla novella di tipo tradizionale, ma con chiari intenti
innovativi, si ha a partire dagli anni sessanta. In Katz und Maus [Gatto e topo
1961] di Günter Grass (1927), sullo sfondo di una realtà dominata dai nazisti, con
la loro retorica e la loro estetizzazione della guerra, si consuma la storia
d’emarginazione di un ragazzo che per via del suo pomo d’Adamo
sovradimensionale e straordinariamente mobile, è costretto, per farsi accettare, a

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eccezionali esibizioni sportive, che tuttavia non lo salvano dal suo mortale
isolamento. Molti sono i tratti che questa storia ha in comune con la novella di tipo
canonico, chiaro però è anche l’intento dello scrittore di rinnovare questo genere
narrativo mediante una continua frantumazione del flusso narrativo, frammentato in
epidosi e aneddoti, dove non è più rispettata la tradizionale successione
cronologica.
Altri romanzieri di successo che si dedicano anche alla novella, sono Martin
Walser, che in Ein fliehendes Pferd [Un cavallo volante, 1978] mette a confronto
due amici e le relative consorti, recuperando il tradizionale “Wendepunkt”; oppure
Christoph Hein (1944) che per esempio in Der fremde Freund [L’amico estraneo,
1982], partendo da un angolo visuale esterno e distante, disvela il processo di
progressivo straniamento – e di conseguente isolamento - procurato agli individui
in una società, quella della ex DDR, condizionata da un rigido sistema politico ed
economico.
Alla penna di Patrick Süskind (1949), pure autore di romanzi dal successo quasi
leggendario, si deve anche una novella, accolta invece dal pubblico con freddezza:
Die Taube [La colomba, 1987]. Il solitario Jonathan Noël, custode di una banca
parigina, trascorre un’esistenza di totale aridità e uniformità, finché una colomba
che viene a posarsi sulla sua soglia lo induce a ritornare indietro nel tempo, alla
propria infanzia, all’anno 1942, quando i suoi genitori erano stati deportati in un
capo di concentramento.
Nella novella dello scrittore svizzero Thomas Hürlimanns (1950) Das Gartenhaus
[La casa con giardino, 1989] un alto ufficiale in pensione viene spinto nella “terra
di nessuno della follia” in seguito alla morte di suo figlio, trauma di fronte al quale
lentamente gli si rivela l’inconsistenza della sua vita di buon borghese. Ancora sulle
vicende del secondo conflitto mondiale torna infine l’ultima novella di Günter
Grass, diventata un bestseller già a poche settimane dalla sua pubblicazione: Im
Krebsgang [A passo di granchio, 2002]. Vi si narra del naufragio di una nave da
crociera, occorso nel Baltico in una gelida notte di gennaio del 1945 per opera di un
sottomarino russo, in cui persero la vita migliaia di persone. Nell’andatura del
granchio si adombra la volontà di raccordare presente e passato rievocando, ancora
una volta, una “uneröhrte Begebenheit”, una vicenda inaudita che diventa simbolo
di ogni catastrofe dalla quale l’umanità è perennemente minacciata.

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