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Bricconcello disse Paganel gli insegner la geografia.

Siccome John Mangles si era assunto il compito di farne un


marinaio, Glenarvan un uomo di cuore, il maggiore un giovane
dal sangue freddo, Lady melena un essere buono e generoso, Mary
Grant un allievo riconoscente a simili maestri, Robert doveva
evidentemente diventare un uomo perfetto (Verne, 1867).
Lidentit del geografo
1. Prologo
Che cosa sia la geografia questione sempre felicemente aperta, che ho tentato altrove di impostare
(Zanetto, 1992) in modo da rendere la risposta una variabile dipendente dalle sollecitazioni sociali tipiche di una societ
geograficamente e storicamente collocata. Darsi unidea operativa ed appagante del Mondo, per saper condurre i nostri
passi a percorrerlo (e sapendo ritornare), dare un senso al qui grazie alla sua contestualizzazione nel (quasi) infinito
altrove. In fondo si tratta di rendere visibile (o prefigurabile) laltrove, esigenza che il trascorrere di epoche e civilt fa
compito assai vario: dalle carte per i navigli di Enrico il Navigatore alle proiezioni in terra dellaldil di Cosma
Indicopleuste. Ma con una comunanza stretta della funzione della geografia nei pi vari frangenti.
Senza Navi o Destrieri collocchio solo/ Scorrer Potrai Citt Provincie e Regni/ E giugnere
dalluno allaltro Polo.
Con questa promessa il pittore veronese Sebastiani Lazzari , nella seconda met del XVIII secolo, ornava il suo
Natura morta con mappamondo e cocomero, in unepoca che si accingeva a metter a frutto il Mondo, cupidamente
visto come risorsa da valorizzare. Ma non difficile scorgere gli equivalenti di quelle citt, province e regni nella
nostra come in altre epoche e frangenti, dalla geopolitica di Haushofer ai geografi postmodernisti attenti a dissetare la
societ contemporanea afflitta dalla mancanza di senso e di identit.
Contuttoci resta ironicamente stimolante la famosa risposta del geografo americano alla nostra domanda:
Geography is what geographers do. La questione, vero, si sposta di poco, ma portando il punto di vista nelle
esperienze personali, nelle biografie dei geografi anzich nella sistematizzata produzione disciplinare le illuminazioni
non sono poche. Non si tratta peraltro di una esperienza inedita, esplorata dapprima dalla Buttimer (1983) e
splendidamente incorporata nellaltra da Gould (1988). Riducendo la geografia alla prassi dei geografi si capisce meglio
che si tratta di un originale contributo alla costruzione del mondo, sia quando se ne preconizza una forma logica, o se
ne discopre un divenire appena annunciato, o lo indirizza davvero decidendo le linee di unazione umana (per usare la
dizione cara, tra gli altri, a Pierre George) a qualsiasi scala. Una costruzione del mondo che privilegia una particolare
risoluzione della sua rappresentazione: quella in cui si pu apprezzare il dispiegamento spaziale delle forme assunte
dagli ecosistemi sottoposti a intenzionali e progettate azioni delle societ umane, forme in cui si leggano le dinamiche
naturali e le tecnologie, le culture, i conflitti delle popolazioni.
Era geografia, quella che mi provocava nella lista inquietante e lunga delle deleghe scritte sulla mia cartellina
che segnava il mio posto al tavolo tondo della giunta comunale di Venezia, perch erano capitoli di un apparato
decisionale che avrebbe dato forme a un territorio, attraverso norme e regolamenti (commercio e mercati, ambiente), ma
anche pure parole e numeri (toponomastica e statistica), o vere decisioni di fare materialmente, come per il porto, il
parco scientifico o linnovazione tecnologica.
Portare cos vistosamente a confluenza il mio essere ricercatore e il mio fare lamministratore locale mi
echeggiava in mente un film in cui un ufficiale (smargiasso conquistatore di ragazze ammaliate dalla divisa, dallo
stipendio e dallardimento) si presentava fin dal titolo anche come gentiluomo, cio rispettoso della dignit della
corteggiata e non traditore della sua parola. Ma questa coesistenza (Hackford, 1982) cos poco credibile da apparire
come una tipica favola ben intonata alla psicologia femminile, una riedizione del Principe Azzurro, come questo un po
troppo dolce ed evanescente. Professore ed assessore, scienziato e operatore, autore di scritti e di concrete forme (pur
sempre in relazione a territori), unintersezione di insiemi altrettanto favolosa nel senso di cose belle da pensare se il
mondo fosse semplice abbastanza da apparirci pi buono nella sua banalit posticcia? A chi rassomiglia di pi un
geografo, ad un esploratore lacero e silenzioso, o al cieco immaginatore di mappamondi di Vermeer, come il
cosmografo camaldolese fra Mauro di San Michele di Murano, sedentari sistematizzatori di esperienze altrui? Che ne
del sapere scientifico quando si inalvea nel solco dellazione sociale?
Stava concludendosi il mio quadriennio di amministratore non eletto quando, sollecitato dal tema di una tavola
rotonda cui ero stato invitato (in occasione delle Giornate della Geografia di Catania, nel 1997), mi sono trovato a
formalizzare per la prima volta una risposta personale, vissuta, alla domanda tante volte posta: cos la geografia, chi
il geografo?
Discorrere di identit non semplicissimo, poich allude ad un essere la stessa cosa (idem), qualit che pu
assumere connotazioni assai varie. Si pu intendere lidentit come unidentificazione, cio riconoscersi specie
emotivamente in altri, una chiamata ad esistenza a completamento della soggettivit attraverso limmedesimazione;
ma anche come una imitazione, un voler assumere le sembianze se non le qualit, anche con lo scopo di ingannare se
non di raggiungere un modello, un eroe (emulazione); ma assumere o riconoscere unidentit ha a che fare anche con

lassunzione di una forma esteriore nel solco di un conformismo comportamentale o estetico, per esempio per ottenere
laccettazione di un gruppo. Tutte accezioni utili al nostro ragionamento, come vedremo; ma il senso che ci interessa di
pi, per ora, quello dellaccettazione da parte di un gruppo, i cui membri si dicono esplicitamente uguali nel senso di
equivalenti e non surrogabili da esterni al gruppo stesso. Poich, si diceva, una disciplina scientifica altro non che un
sapere organico e vagliato fino a fornire una rappresentazione coerente e testata, nonch socialmente riconosciuta.
Giacch le discipline non preesistono alla ricerca, non sono date per calco dalla realt, ma ne sono comode (ed
arbitrarie) letture parziali, cosicch esse possono nascere, dividersi, riunirsi, scomparire secondo meri criteri di
economicit sociale.
2. Identit come differenza (antagonismo):
La teoria della classificazione applicata ad unit areali un campo classico della geografia quantitativa, che
tenta di individuare regioni e processi di regionalizzazione attraverso il riconoscimento di gruppi di aree in qualche
modo analoghe o, almeno, sia massimamente simili tra di loro che massimamente diverse da altri gruppi (Zanetto,
1984). Uno dei modi pi immediati e costruttivi per definire lidentit di una categoria, come quella dei geografi,
dunque lindividuazione dei confini, di quelle separazioni per distanza qualitativa che minimizzano la varianza interna
del gruppo (i geografi) e massimizzano la varianza tra i gruppi (i geografi e i cultori di altre discipline).
Come dice magistralmente Claudio Magris (1997, 43-44), senza ricorrere a concetti statistici:
Ogni identit anche orribile, perch per esistere deve tracciare un confine e respingere chi sta
dallaltra parte. Solo un odio pi grande supera gli odi pi piccoli, che si riaccendono quando
non c pi un nemico comune.
Evidentemente Magris si riferisce alle identit etniche, ma con un po di ironia il suo discorso non fa una
grinza anche quando lo si applichi alle corporazioni accademiche.
Orbene, se di confini si tratta, esploriamone alcuni, quelli in cui mi sono imbattuto nella pratica del mio
mestiere di geografo, esplorando terreni conoscitivi comuni ai geografi e ad adepti di altre identit scientifiche, dai quali
mi sono sentito distinto e distinguibile per prassi, capacit, coinvolgimento. Cos prendevano lavvio le mie
argomentazioni alle Giornate di Catania, che mi risolvo a scrivere solo oggi, anche perch completano un ragionamento
gi pubblicato in precedenza e che do qui per letto (Zanetto, 1992), col quale definivo una disciplina come una prassi
socialmente riconosciuta e dichiaravo unadesione al relativismo nella riflessione scientifica di cui dir meglio pi oltre
e che a Catania qualcuno ha preteso scambiare per nichilismo inconcludente.
Nella mia esperienza, di tali confini, ne ho sperimentati almeno cinque, a volte con sorpresa, altre con stizza.
Ma sempre con un corroborante senso di alterit orgogliosa (tratto essenziale e legittimo, ci insegna Lvi Strauss, di
ogni identit), che sempre a Catania invece sembrata a qualcuno una sindrome dellassediato. Oltre quei confini,
che narrer qui, metaforicamente, in forma di luoghi che li possano meglio comunicare a dei geografi, non trovo
geografi, bench anche laggi si pratichino temi e problemi che possono parere i nostri stessi.
Confine 1. Il terreno: una pecora morta, ma non ancora cibo, mi divide dai pianificatori . Per qualche
anno, allinizio degli anni novanta, e fino a che limpegno nella giunta comunale di Venezia non me lha impedito, ho
fatto parte di un articolato gruppo di lavoro dellUNEP, lorganismo delle Nazioni Unite che si dedica ai problemi
dellambiente, presso la sua sede di Spalato che si occupa della regione mediterranea. Quel gruppo, guidato da Srdjan
Truta, era incaricato dalla Banca Mondiale di tracciare le linee di un possibile sviluppo turistico del tratto mediano della
costa albanese, il pi suscettibile di inserimento nel mercato balneare per la vastit delle sue spiagge sabbiose prive
quasi completamente di insediamenti. Lattenzione della Banca Mondiale faceva seguito ai sussulti di unAlbania
appena uscita dallisolamento cui si era condannata per mezzo secolo, e che lavevano resa un fantastico laboratorio di
geografia, in cui lassenza di automobili si mescolava alle antenne paraboliche, i carretti a traino animale con i telefax.
Col gruppo di lavoro ho partecipato a tre missioni a Tirana, con alcune prudenti e pianificatissime escursioni in
campo, cio sulla costa sabbiosa e deserta, inframmezzata da lagune e orlata verso la pianura di bonifica recente da una
profonda pineta artificiale. Le strade, per quanto scomode, non arrivavano alla costa che agli estremi dei duecento
chilometri di spiaggia sabbiosa, in prossimit di Durazzo a nord e di Valona a sud; dal mare, col gommone di cui
eravamo dotati, non si vedeva alcunch per la piattezza del profilo costiero. Gli assistenti locali messi a disposizione di
un governo entusiasta ma imprudente erano scelti per le loro esperienze allestero, cosicch avevamo s un linguaggio
comune (quello scientifico internazionale) ma non potevamo contare su qualcuno che conoscesse il suo territorio. Solo
le mie insistenze ottennero alla fine che i geografi dellAccademia e delluniversit, accuratamente epurati per le loro
collusioni col regime comunista, potessero dischiudere il forziere della loro esperienza del terreno, descritta in volumi
stampati su carta rudimentale o manoscritti. Man mano che parlavo con loro mi si schiarivano le idee ed ingigantiva la
curiosit di percorrere quel paese che sapeva di Balcani, ma anche di Mediterraneo, di paesaggio alpino, di socialismo e
colonialismo italiano, di Turchia e Venezia come il Peloponneso, ma dove gli unici camion erano cinesi e i
terrazzamenti, corredati di dighe di terra, citavano le risaie cinesi, come gli immensi viali di Tirana affollati solo di
biciclette.

Durante una delle missioni, il gruppo, stipato in due antiquate vetture ministeriali, lasci finalmente Tirana e si
avventur in visita ufficiale a Valona. Finalmente il paesaggio. Villaggi e cittadine di bonifica, piccoli poderi
cooperativi, vecchi cultivar frutticoli, gran risparmio di suolo come si faceva nellera preindustriale, case rurali tipiche
in rapida successione di forme diversissime. Noiosissimi incontri ufficiali a Valona, tentativo di evasione da parte mia
per vedere almeno una parte della citt e non solo il municipio e il ristorante panoramico, tentativo stroncato poco dopo
aver intravisto una magnifica moschea miracolosamente conservata tra le spianate della citt nuova socialista e siamo di
nuovo sulla via del ritorno, di nuovo a quaranta km/h al massimo, tra mucche che rientrano a casa da sole, biciclette,
polli, donne e bambini che tornano al villaggio, qualche fiammante trattore dono del governo greco, vecchie fabbriche
abbandonate e tante, tante buche.
La corsa lentissima rallenta in prossimit di una cittadina; la strada la attraversa e, poich vi si sta svolgendo un
mercato allaperto, affollata. La vettura si fa strada pian piano tra la folla e la merce, spesso deposta a terra su stuoie,
circondata da clienti e conversatori accoccolati nella posizione di riposo tipica dei Balcani. Capisco con difficolt che
loggetto dellattenzione di un gruppetto, appeso ad un palo della luce, una pecora squartata e non ancora scuoiata; in
breve diventer merce, ma non ancora cibo, ai miei occhi piuttosto un cadavere, un segno della violenza con cui le
civilt pastorali convivono dolcemente. Dalle mie parti i regolamenti igienici ottocenteschi prescrivevano che le carni
trasportate in citt a spalla dai garzoni dei macellai fossero coperte da teli bianchi che le nascondessero alla vista dei
passanti, per non turbarne la sensibilit. Quella folla quieta che stima la bont dellanimale ucciso (quelli non venduti
torneranno a casa sulle loro gambe e si macella solo il venduto, sul posto) mi incuriosisce, mi sento sotto un cielo
inedito, lansia dellesploratore esplode, chiedo una sosta. Che mi viene negata: siamo una missione internazionale,
quelle stupidaggini folkloristiche, quei dettagli possono al pi attrarre i turisti.
Non ho potuto insistere, ma avevo capito che in quellauto eravamo di stirpi scientifiche diverse: i planners,
pianificatori addetti al disegno di territori futuri, non erano geografi. Pretendevano di strutturare territori senza averli
percorsi, senza averne decodificato i segni delle civilt che li avevano conformati, senza aver interrogato le forme
naturali, senza aver indagato quellinsieme di segni che unisce la natura e la cultura e che costituiscono il paesaggio, le
sue case, i suoi campi, il suo cibo, fino a dettagli tanto piccoli quanto rivelatori. Chi rinuncia al terreno, non geografo,
fa un altro mestiere.
Inutile dire che i miei piani di evasione si perfezionarono, e con essi le escursioni, fino a farmi capire una
trama territoriale affascinante su cui ho potuto continuare a lavorare (per esempio: Lai e Zanetto, 2002).
Confine 2. Il concreto: una questione di capannoni mi divide dagli economisti. Quando mi avviavo alla
carriera accademica, allinizio degli anni settanta, la politica e la cultura venete erano concentrate su una presa di
coscienza di una nuova identit regionale, forgiata da una tanto attesa modernizzazione industriale finalmente
trionfante. Si stava scoprendo che tutto era gi avvenuto, ma in forme inattese, cos diverse da quelle annunciate dalla
tradizionale industria tessile pedemontana e dal colossale agglomerato di industria pesante di Porto Marghera che la
transizione dal Veneto rurale a quello dei distretti manifatturieri era passata a lungo inosservata. in quegli anni che si
prende a parlare di modello veneto di industrializzazione, poco prima che cominciasse lidealizzazione e il rimpianto
della ruralit, col collegato revival etnico.
Due allora abbastanza giovani economisti, in quegli anni davano un giudizio della industrializzazione minuta
cos sprezzante da definire il Veneto una regione in via di sottosviluppo, che non prendeva la strada della grande
fabbrica e della concentrazione metropolitana additata dal triangolo industriale, rifiutando il taglio delle radici rurali
specie sul piano della cultura e delle relazioni industriali. Dalla loro stessa parte politica di progettava un raddoppio
della zona industriale in laguna e si temeva una sua imitazione concorrenziale in quel di Padova, che tentava di dotarsi
di un canale navigabile con esito lagunare. Si confrontavano allora due culture politiche e sociali, che potremmo dire
oggi bianca e rossa, i cui modi prediletti di industrializzazione hanno avuto sorti, come sappiamo, assai diverse: Porto
Marghera ha visto la sua industria pesante entrare in una crisi mortale fin da quegli anni, il modello veneto ha celebrato
un lungo trionfo che solo oggi esplicita le sue debolezze.
Con questi temi mi sono confrontato negli anni in cui ho concentrato le mie attivit di ricerca e didattiche nella
facolt di economia, gli anni ottanta; mi colpiva la mancanza di una capacit interpretativa dei fenomeni in corso:
lindustrializzazione diffusa che dilagava in una parte nettamente conterminata della regione e ne lasciava altre, del tutto
refrattarie, in preda allemigrazione, la crisi della grande industria portuale. Si prediligeva luna o laltra senza saperne
mostrare la logica e quindi senza saperne prevedere le dinamiche, le esigenze, ladeguatezza al contesto della divisione
spaziale del lavoro alle varie scale geografiche. Pensavo che tutto questo potesse essere dominio degli studi economici,
ma nel mettere in campo la variet spaziale della tradizione rurale veneta - cos nota e ovvia per i geografi quale chiave
interpretativa degli assetti territoriali, come avevo imparato da Luigi Candida e le sue ricerche sulla casa rurale veneta
mi avvedevo che parlavo una lingua diversa, che evocavo una complessit eccessiva per la riconduzione alle generalit
astratte e matematizzabili delleconomia, una interpretazione ricca di sfumature fastidiose e, soprattutto, legata ad una
concreta situazione regionale.
Poco importava che quello schema (sintetizzato in Zanetto 1981 e 1985) trovasse conferma puntuale dalle mie
esplorazioni in regioni analoghe dallUngheria allInghilterra, dal Canad alla Polonia: la ricerca su casi concreti,
fossero insediamenti portuali o industriali, per non dire poi di quelli turistici, erano merce di scarto per gli economisti e
unico motivo di entusiasmo per me, quando scoprivo le differenze di orizzonte culturale, sociale, ambientale nei

capannoni, pur cos simili tra loro, a Marghera e dieci chilometri pi in l, nelle campagne del Veneto bianco. Cosicch
chi accetta tutta la complessit necessaria a capire, a costo di negarsi la possibilit di una risposta, ha altre appartenenze
rispetto a chi privilegia la semplicit e leleganza formale di unequazione, a costo di prendere una forma inedita di
sviluppo per uninvoluzione senza futuro.
Confine 3. La teorizzazione necessaria: un giardino in forma di campagna e la gioia negata della
narrazione fa da confine con gli storici. Allinizio degli anni ottanta, lavventurosa storia delluniversit italiana ha
conosciuto uninebriante novit: i dipartimenti. Le facolt erano cresciute di molte volte, sia per numero di studenti che
di docenti e, avevano moltiplicato i corsi di laurea, cosicch le strutture pi fini della ricerca, eredi della cattedra
attorniata di assistenti, erano troppo piccole. Anche il Laboratorio di Geografia Economica della Facolt di Economia e
Commercio dellUniversit degli Studi di Venezia (fondato negli anni venti e migrato, durante i miei anni da studente,
dalla sede originaria - al secondo piano di Ca Foscari - nel piano nobile di Ca Soranzo), conflu in un grande
Dipartimento di Scienze Economiche, che trov presto una sede unitaria in diverse localizzazione fino allattuale nel
macello di San Giobbe a Canaregio.
Credo sia stata questa confluenza e la conseguente perdita di identitificabilit degli studi geografici in una
biblioteca specifica, in una struttura amministrativa e fisica, la diluizione di unatmosfera dominata da carte geografiche
vacchie e nuove a spingermi a ricostruire la storia della geografia cafoscarina, nella quale si era costituita la prima
cattedra italiana di geografia economica. Questa mia prima e ultima ricerca darchivio, dai primi indizi mi port a
ricostruire personaggi, relazioni, atmosfere culturali, vere genealogie di pensiero, imparentamenti con altre discipline e
vicende della politica e delleconomia locali, scontri intestini alla disciplina, fieri contrasti culturali, ma anche
schiettamente politici. In breve, unintera corrente di pensiero riemergeva da un oblio in cui laveva relegata la
scomparsa dei testimoni e non ancora ripescata lo scandaglio degli storici (vedine un brano in Zanetto, 2001).
Primo Lanzoni emerse ben presto come la figura chiave di una storia che mi appariva come la scoperta di una
genealogia, di una galleria di antenati che mi aiutava a dare senso alla mia condotta di ricercatore. Saturo di letture,
intriso di atmosfere tra otto e novecento, non trovai di meglio, per stendere un primo esito delle mie ricerche, che di
isolarmi in una fresca e verde estate inglese. La biblioteca della nuovissima sede della University of Kent, alla periferia
di Canterbury, nella quale attraverso larghe finestrature al piano terra penetrava la campagna inglese
scenograficamente ordinata, fu la scena di questa azione di scrittura; una lunga, appassionata narrazione dei fatti, del
loro significato, e concatenamento. Non ho mai scritto cos piacevolmente e distesamente, avrei potuto continuare per
dozzine di pagine un racconto avvincente ma sconfinato. Fu fissando lo sguardo attraverso la finestra sul verde
smagliante del Kent, che mi sgoment la differenza con la sofferta stesura di poche righe che mi era consueta, con la
mia solita autocondanna alla sintesi, a non scrivere niente che fosse gi scritto e citabile, che non fosse lesposizione di
una connessione causale tra fatti. Scoprii allora che il fascino della ricerca stava nelle regole strette della teorizzazione,
nel trovare spiegazioni di fatti territoriali attraverso i fatti territoriali, nel sapere dare senso ai frutti dellazione umana
sulla natura senza interrogare altri che questi artefatti.
Ho invidiato allora limmensit del campo propria della ricerca storica, la facilit con cui essa si risolve in
narrazione senza limiti. La geografia unaltra cosa, costretta com a dar ragione dei fatti con la teoria: avevo visto un
altro bench sfumato e pi labile - confine, e il mio articolo (Zanetto, 1985) divent la riprova di un assunto, con tagli
che lo fecero assai pi smilzo bench sia rimasto, credo, il mio scritto pi lungo.
Confine 4. Il relativismo delle rappresentazioni geografiche: le cascate colorate a Niagara mi indicano il
confine con i naturalisti. Per la mia formazione culturale e accademica stato fondamentale un soggiorno canadese,
presso lUniversit de Montral, nel secondo semestre del 1982. Fino ad allora, limpostazione economica dei miei studi
e lappassionata esperienza cognitivista e delladozione di modelli e strumenti quantitativi mutuati dalla fisica e la
statistica mi aveva procurato non pochi problemi di ricomposizione con la matrice geomorfologica che pervadeva tanta
geografia italiana e che avevo avvicinato durante la frequenza della Scuola di Perfezionamento bolognese e
laffascinante esperienza dei primi annunci della geografia umanistica anglosassone. In Canad mi era apparsa subito
pi chiara la funzione della geografia fisica, dato che non potevo dare per scontate delle caratteristiche dello scenario
cos diverse da quelle cui ero abituato in Europa e che mi sembravano irrilevanti solo perch comuni. La vastit degli
spazi nordamericani una parte non trascurabile della loro geografia, come le specificit del clima laurenziano, la
levigatezza della morfologia glaciale imposta a rilievi antichi, le brusche variazioni di quel clima continentale.
Ma il modo di vivere e costruire le citt, i segni imposti dalla colonizzazione francese, cos facilmente
distinguibili da quella inglese, i profumi etnici dei quartieri della metropoli mi spiegavano tanto di pi. Nel cuore
dellle Jsus, isola fluviale limitrofa a quella su cui sorge la parte centrale di Montral e da questa separata da un ramo
del San Lorenzo, in una pacifica e colorata giornata del lento autunno canadese, con il cielo terso e luminoso quanto sa
farlo il vento dellArtide, davanti ad una chiesetta di legno costruita dai primi contadini della Nuova Francia tre secoli
prima, immaginavo il valore ai loro occhi e orecchi - di quei primi rintocchi di campana sotto il cielo del Nuovo
Mondo, per un pugno di famiglie isolate di l dalloceano, intente a rimettere radici su una terra nuova e sconfinata, a
rifare di quel suolo appena sboscato un nuovo luogo ricco di significati.
Come evitare, vivendo un po laggi, una visita a Niagara Falls? Il loro primo annuncio, correndo in bus, fu, al
di sopra della fitta vegetazione boscosa che copriva la pianura, una nuvola trasparente di schizzi. Era lei, la divinit
promessa dagli Indiani al gesuita francese che laveva descritta per la prima volta agli Europei. Giunti sul ciglio del

dirupo nel quale si inabissano le acque di un fiume immenso per larghezza, non potemmo che riconoscere unaltra
manifestazione di gigantismo americano, come davanti alle torri gemelle di New York, o i mirtilli neri coltivati.
Osservammo canonicamente le cascate da un battellino che si avvicinava al punto in cui finiscono rombanti nel fiume
sottostante, poi da una piattaforma che ti porta lo sguardo ben oltre il confine con gli Stati Uniti, infine, perfino
coperti da un buffissimo e avvolgente impermeabile e stivaloni gialli passando dietro la cortina dacqua.
Limponenza di quel salto dacqua, la possanza quieta con cui il fiume scorreva fino al salto, la vastit della
pianura circostante, toglievano rilievo ai segni della presenza umana, che pur comprendendo centrali elettriche, strade,
citt, insediamenti turistici invadenti fino alla petulanza. Su tutto parevano stendersi le battute della sinfonia di vorjak,
la naturalit oggettivamente constatabile dominare la geografia.
La sera, dalla terrazza dellalbergo, chi cenava poteva godere della vista della cascata principale, e del suo
rombo. Fino a che la luce del giorno non scompariva. Il mio stupore fu grande quando la cascata si illumin,
riemergendo dalla notte: fasci potenti di luce le consentivano di restare la dominatrice della scena, ma il bello venne
subito dopo: regolarmente, la luce si faceva colorata alternando una serie di colori: le cascate di Niagara si facevano
rosa, verdoline, azzurrognole Del paesaggio canadese mi avevano colpito la forza, la decisione con cui lazione
umana interveniva sul paesaggio, imprimendo segni forti per riuscire a contraddire una natura immensa e un po
monotona. Rieccolo, questo tentativo, lurlo di presenza, in forma di colore imposto alle cascate, che apparivano
evidentemente pi interessanti cos imbellettate, controvoglia antropizzate, trasformate sfacciatamente in spettacolo
caramelloso. Se limponenza di quella naturalit mi impressionava, la banalit orgogliosa di quellatto di sottomissione
mi affascinava: capire quellinsediamento turistico, che cosa rappresentavano le cascate per me o per i suoi visitatori,
per chi aveva progettato quella fruizione era la sfida che mi interessava raccogliere. Senza capire questo, non c
conoscenza del luogo: di l, tra chi le capisce come fatto naturale indipendente dalla rappresentazione (plurima) dei suoi
abitanti e visitatori (abitanti effimeri), non abitano geografi.
Confine 5: la disciplina scientifica: un petrolchimico da chiudere (o no?) fa da spartiacque tra geografi e
gestione politica, tra rappresentazione e costruzione empirica del territorio. Prima di diventare veneziano,
arrivando in laguna, vedevo le ciminiere della zona industriale di Porto Marghera stagliarsi contro lo stesso cielo che
faceva da sfondo alla selva dei campanili che mi divertivo gi a riconoscere, pelle irsuta della citt verso il cielo; invece
quella agglomerazione di fabbriche e citt, da una parte e laltra della ferrovia prima di entrare sul ponte traslagunare,
non mi riguardava: non era Venezia. Ne era piuttosto lossessione: tutti ne parlavano, di porto, petrolchimico, cantieri
navali: dal movimento studentesco ai manifesti per le strade, alle scritte cubitali sui muri lungo la ferrovia: ma erano
lontanissimi dagli oggetti della mia curiosit, portata semmai a quel che restava del porto passeggeri e le sue bianche
chiglie di transatlantico che ancora solcavano la laguna.
Fu lo studio della geografia dei porti, sulla scia di Adalberto Vallega, Andr Vigari e Brian Hoyle a guidare la
mia curiosit in quellinterludio tra pianura veneta e citt lagunare, a farne un luogo geografico da spiegare. Le
conclusioni arrivarono presto: potevo gi esporle con gentile provocazione nel corso della prima visita allimmenso
stabilimento petrolchimico. La direzione dellazienda aveva invitato una rappresentanza delle associazioni ambientaliste
come Italia Nostra cui appartenevo e mi limitai a chiedere al direttore quale sarebbe stata la localizzazione ottima di un
petrolchimico, in unottica puramente economica, ben sapendo che la (Zanetto, 1989) la logica localizzativa che aveva
guidato quellinsediamento apparteneva ad una fase geo-economica finita (nel 1985) da un pezzo.
Mi era diventato chiaro perch quegli insediamenti erano cos estranei a Venezia, perch le due culture urbane
di Venezia e Mestre fossero cos lontane, se non nelle rimasticature pseudomarxiste degli intellettuali di allora, tutti
salotto e petrolchimico. Del destino di Marghera si dibatteva ovunque, si pagavano ricerche di ogni tipo, come se la
teoria geografica delle zone di industrializzazione costiera non avesse gi detto e spigato e preconizzato tutto il
necessario per agire. Di una di queste ricerche venni chiamato a far parte, in ossequio allinteresse da sempre tributato
dai geografi cafoscarini alle cose portuali, ma le mie analisi si scontrarono presto con la vulgata ufficiale e un
preconcetto politico: Marghera speciale, non se ne pu accettare il declino, leterno dibattito continui e foraggiare la
politica locale e il suo rapporto con quella nazionale (non cambiato granch di questultimo aspetto, tranne la
sostituzione del ministero dellAmbiente a quello delle partecipazioni Statali).
E cos il mio rapporto fu gentilmente censurato e riscritto in forma di ragionamento a scala globale, dove non
era necessario che si capisse come fosse illusorio e dilatorio cercare di tenute fuori dalla laguna le dinamiche portuali
intersecate a quelle industriali ed urbane di Shanghai e San Francisco. Nella sede del dopolavoro della Montedison
(oggi un pezzetto riusato del parco scientifico di Venezia) nessuno cos disse che Marghera era da chiudere, ma il mio
rapporto usc in una bella e sfortunata rivista (Zanetto, 1989), e divent un punto fermo nelle analisi economiche locali.
Dieci anni pi tardi, una subdola azione politica di un movimento ambientalista, con atteggiamenti eticamente
assai discutibili, stava mettendo alle strette lultimo grande stabilimento industriale dellarea, sopravvissuto scalcagnato
e invecchiato, ma ancora a galla. Quindicimila persone vi trovavano il pane quotidiano e la ricchezza prodotta per il
paese non era poca. Le leggi vigenti vi erano rispettate, bench le malefatte contro la qualit ambientale fossero note
ormai a tutti. Ma non era questo un buon motivo per addebitare al petrolchimico il ruolo di capro espiatorio e fonte di
tutti gli inquinamenti dei sedimenti lagunari.
Con unenergica azione informativa sullopinione pubblica si evit il sequestro dellimpianto, tra lo stupore
degli ambientalisti che ben conoscevano gli esiti delle mie ricerche sullindustria pesante costiera, la waterfront
rivitalisation, il nuovo ruolo dei porti. Ma sperimentavo, in quella fine degli anni 90, come gli approdi di un ricercatore

non siano travasabili senza mediazione negli atti di governo di una giunta municipale, cosicch se mai da temere il
governo dei filosofi quello dei geografi pu non esserne da meno, perch il prezzo pagato con la costituzione di una
disciplina scientifica, come per ogni specializzazione, la perdita del contesto: lultimo degli errori consentito a chi
gestisce la cosa pubblica.
Era successo cos anche quando avevo partecipato a indurre il ministro dei beni culturali a revocare il decreto
con cui aveva inibito lesercizio del commercio nellarea marciana (aveva, in altri termini, cacciato degli sconci
banchetti di paccottiglia gradita ai turisti pi beceri da piazza San Marco). Anche in quel caso la considerazione di tutti
gli interessi in gioco, la giusta considerazione della continuit, configgevano con i miei ragionamenti di geografo del
turismo ed il declino dellattrattivit delle mete di turismo culturale.
Ma ricercatore e amministratore (peggio se questi tributario del consenso popolare: il politico) hanno doveri e
diritti diversi: a noi geografi non consentito mentire, ma ci concesso di non rispondere a tempo ai problemi; i politici
possono o debbono dare una rappresentazione proficua della realt, ancorch falsa (non sto parlando dei mentitori per
fini personali o iniqui), ma devono avere risposte tutto e subito.
Quel confine mi era capitato di valicarlo troppo spensieratamente, tra un petrolchimico ed un banchetto di
souvenir, mi ero spinto troppo aldil di quel confine tra geografi e amministratori, era tempo di tornare dallaltra parte
del Canal Grande1.
3. Identit come uguaglianza (solidariet)
Lidentit del geografo dunque definibile con una serie di differenze, di confini. Ma, come per qualsiasi classe di
oggetti, per costruire quella dei geografi occorre supporre che la variet interna tra di essi sia minore di quella sancita da
tali differenze. Ho avuto modo di ribadire altrove come la cumulabilit della nostra produzione sia un requisito fondante
dellesistenza della disciplina, ed anche un metodo rozzo come quello dei riferimenti bibliografici in coda ad un articolo
ha pi rilievo di quanto non parrebbe a prima vista. Ma il fatto che una disciplina esiste se i suoi membri sono solidali,
si cercano, si parlano, si accordano su temi di ricerca, si riconoscono E si accettano attraverso lindicazione di comuni
antenati (Zanetto, 1985b descrive il tema applicato alla mia universit). Il lavorio di colleghi come Massimo Quaini e
Ilaria Caraci, poi di Francesco Micelli ci hanno reso meglio consapevoli del solco su cui ci troviamo, i geografi italiani,
ad operare. Ma la nostra prassi, cos parcellizzata e poco integrata mi riporta ad una notazione illuminante di un
antropologo:
la somiglianza di famiglia diventata il nostro vero tab (). Nellidea che noi non ci facciamo da soli () c
qualcosa che non ci va gi (La Cecla, 2000, 162 e sgg.).
La cultura contemporanea ha talmente enfatizzato lindividuo da scioglierlo da legami di lignaggio, facendone una
monade splendente di luce propria, che non ha conosciuto infanzia e mai conoscer vecchiaia, nato perfetto e morto in
scena. Forse per questo che ci sbarazziamo di infanti e vecchi, relegandoli a cure di specialisti e nascondendoli come
oscene variazioni del modello o, per quanto possibile, camuffandoli da adulti o giovani. Forse per questo che la nostra
produzione tanto meglio pensata come pregiata quanto una rottura con la tradizione, una smentita degli antecessori,
una dimostrazione che cera bisogno di noi per porre rimedio alle sciocchezze del passato.
Certo pi facile essere bravi se si lunico cultore di un problema, magari per definizione irrilevante, se si ricomincia
perpetuamente daccapo, se si reinventa lacqua calda gi studiata per decenni da altre discipline. Le osservazioni di
Berardo Cori (1993) sono impeccabili ed significativo che non siano, mi risulta, state riprese neanche per smentirle o
criticarle. E vero: molti geografi italiani si definiscono con ardite metafore per evitare di dire geografia: perfino i
Sistemi Informativi detti in tutto il mondo geografici qui da noi sono diventati territoriali. E se lidentit dei gruppi
locali appare strenuamente difesa da ogni confronto o intrusione, la pratica di una supposta comunit nazionale va
scemando sempre pi. Non solo rifiutiamo di fatto la comune ascendenza come se ci vergognassimo dei nostri vecchi,
ma vedo scomparire anche un senso di comune e condivisa responsabilit verso le giovani generazioni di ricercatori,
con la scomparsa di un senso di paternit scientifica nutrito di aiuto, di guida, di critica: come se tutto fosse lodevole,
e tutto al tempo stesso irrilevante nella produzione dei giovani, come ovvio che accada se manca un progetto culturale
di ricerca della disciplina. Per colpa naturalmente dei colleghi, il disprezzo verso i quali sembra troppo spesso lunico
fondamento della nostra personale autostima.
Non vorrei sembrare desideroso di una strutturazione obbligante della disciplina, ma la geografia italiana ha bisogno di
una comunit e, di conseguenza, di una genealogia riconosciuta, di una fratellanza: opportuno ribadire che
ci che diventa centrale per capire la storia non sono le identit (individuali o collettive) ma le differenze e le
selezioni. Ogni cultura non va vista come un tutto coeso, ma come un fascio di temi di cui ogni individuo la
variazione potenzialmente una linea centrifuga (Benvenuto, 2000, 134).
Ma essere geografo significa riconoscersi negli altri geografi, accettare una genealogia, una logica di gruppo e delle sue
gerarchie. Riusciamo ad alludervi pudicamente solo negli impliciti paradigmi che presiedono alle valutazioni
1

Cio da Ca Farsetti, sede municipale, a Ca Foscari, sede centrale delluniversit cui d il nome.

concorsuali, nellidea di intellettuale e della sua funzione sociale (come nel confuso dibattito sulla professione di
geografo, che ricompare periodicamente nei nostri congressi), nel rapporto tra ricerca e didattica ed il ruolo della
geografia nella formazione universitaria, nel rapporto tra universit e territorio vedi Cori a Barcellona nel senso di
servizio ad una comunit locale o nazionale o internazionale).
Anche quando la nostra personale identit ne soffre, quando ad esempio la figura tradizionale e consolidata del
geografo si tinge di grigio e stantio sentore di archivista. Tra i pochi geografi espliciti della letteratura, quelli pi vividi
a me noti sono delineati proprio cos: il Paganel di Jules Verne descritto come un fanciullo grande, sempre distratto,
con un buffo armamentario che comprende un cannocchiale a bandoliera accanto a taccuini ed oggetti tanto
imbarazzanti quanto inutili su un pittoresco abbigliamento da esploratore reso buffo da enormi occhiali rotondi.
Simpatico, devoto alla scienza e prezioso, ma un po suonato.
Non ci va meglio col geografo di Saint-Exupry (1943), secondo il quale i libri di geografia non passano mai di moda.
E molto raro che una montagna cambi di posto. E molto raro che un oceano si prosciughi. Noi descriviamo delle cose
eterne (p. 76). Anche per lui il geografo si nutre di resoconti di viaggio, ma non viaggia, guida lazione laddove non ha
mai agito. Simbolo della conoscenza speculativa e teorizzante, diventa fatalmente un affettuoso e pedante catalogatore.
Cos dovremmo far meglio i conti con le rare autobiografie di geografi, apertamente osteggiati ma mai discussi (per
esempio Rocco (2002) ma di pi ancora Ferro (1983).
proprio cerchiamo un parametro esterno di valutazione del nostro operare, i mercati sono almeno tre: la produzione
scientifica (e Cori ha detto tutto sulla nostra assenza dalla letteratura internazionale), la formazione (ed i corsi di studio
in scienze geografiche sono proprio pochi!), lassistenza allo sviluppo locale e regionale. Solo questultimo non
considerato dal sistema di valutazione del nostro ministero, che in base agli altri ha emesso dei verdetti tanto
indiscutibili quanto preoccupanti. Correre da soli pu apparentemente pagare di pi, ma solo a breve termine, come
ogni camuffamento.
4. Ed il centro? Lidentit come autorappresentazione, se fosse vero che non conviene vestire divise.
Mi sembra infine che, al di l di differenze e uguaglianze, distinzioni da altre discipline e intercambiabilit tra membri
della stessa disciplina, un discorso sullidentit abbia bisogno di essere sostenuto da un senso di esistenza, da
unautorappresentazione che ci rende capaci contribuire con dei contenuti alla forma della comunit. Il concetto mi
chiarissimo per lidentit etnica, pi facilmente intrisa delle motivazioni profonde dellessere:
Lidentit mia, sento che sono io e che non potrei essere nientaltro che quello che sono. Potrebbe finire qui
lidentit, senza ulteriori aggettivi. Un interno di persona, ma anche unidentit recintata, che tiene il mio io murato
vivo, un gioco tutto solitario (). Aggrego laggettivo veneta, identit veneta appunto, e avverto che lidem non
pi lo stesso. Non sono pi mio, mi esproprio per cos dire, lidentico esce allaperto, si mette in relazione, va alla
scoperta di un comune sentire, se ci sar. Lidentit diventa un sentimento plurale, la ricerca di un linguaggio ()
Come cantare in coro, tra nonni e figli (Lago, 1999, 202).
Il modo per cos dire intimo di fare il geografo si mette, solo dopo!, in cerca di una comunit, incapace questa di darti
un senso, come se mancasse uno dei due necessari termini di un dialogo tra singolo e comunit. Sono stato
personalmente indotto a cercare le radici del mio fare il geografo dalla, per me, stupefacente ma legittima affermazione
di un collega (e non rest lunico!) di essere diventato geografo per caso o per opportunit.
Il ricordo pi lontano, il simbolo pi comunicativo di questo mio apprendistato un francobollo ungherese, il 20 filler
(centesimo di fiorino) azzurro-verde di una serie che rappresenta le opere del regime socialista intento alla
modernizzazione del paese negli anni Cinquanta. Una serie di edifici pubblici nuovi di zecca vi si proponevano come
conquiste, allineati nella mia collezione di scolaro cui la radio imponeva drammatiche narrazioni della rivolta di
Budapest del 1956. I resoconti paludati e impersonali dei mass media di allora parlavano di un mondo lontano, di l
dalla Cortina di Ferro, pieni di persecuzioni e violenze: sembravano fiabe, ma io sapevo che quelledificio verdolino
esisteva davvero, al sole, mentre io ne vedevo la rappresentazione in un francobollo stampato nello stesso luogo, che mi
garantiva dellesistenza dellaltrove, quello e mille altri, promessa di variet del mondo, di in finitezza dellesperienza
potenziale del mondo senza la quale il nostro abitare si fa presto stolido.
E cominciata allora la mia passione per la rappresentazione del mondo, nutrita da insegnanti appassionati e dalla pratica
delle carte geografiche, pozzo infinito di mondi possibili nel senso di esperibili. Solo di recente ho rinvenuto una
comunicabile espressione di tale appassionata ricerca, dellansia di dare forma allaltrove, sempre capace di stupirti per
variet e coerenza e sempre diverso dalla nostra immaginazione come la vita dei personaggi pirandelliani:
Venezia ha il mondo sul palmo della mano. Ogni nave che arriva reca nella propria stiva un tesoro di menzogne e di
inganni rinvenuto in terre lontane(Cowan, 1998, 138).

Cos si figura latteggiamento di fra Mauro, rinchiuso nelleremo camaldolese di San Michele di Murano, placidamente
immerso nella laguna veneta, immobile e segregato interprete dei resoconti dei naviganti e sistematizzatore nel suo
planisfero della forma del mondo.
Come va il mio mondo? Spalancato e pieno di ondulazioni eccolo sul mio tavolo, immenso orbe di terreno indocile.
Zone di puro spazio si estendono sino ai confini estremi cui pu giungere la mia immaginazione. un mondo fatto ben
pi che di regni e continenti. un reame noto solo a coloro che hanno occhi per vedere linvisibile o a coloro che sono
pronti a elevarsi al di sopra della luce dellintelligibile (Cowan, 1998, 133).
Se quando mi sono accinto allopera avessi saputo il vuoto che avrebbe finito per circondarmi, forse avrei scelto di
rimanermene al sicuro dietro queste mura di meditazione invece di dirigermi alla scoperta dellorbe terracqueo ()
Sono affascinato da ci che la mia mappa non rivela ()Mi sono stancato del gi noto? Quanto pi incontro persone
che mi trasmettono le loro conoscenze dello spazio e del tempo, tanto pi comincio a credere che il vero oggetto della
mia peregrinante ricerca sia di consentirmi di entrare in estasi. Costoro portano nel mio studio un senso di sgomento e
nientaltro() Quante tempeste hanno attraversato su navi che tentavano di raggiungere un lido? Molte, per la verit.
Uomini cos diversi da gente come me () e tuttavia, le differenze tra noi si manifestano ancora di pi ogni volta che
mi chino su questa mappa () Questi viaggiatori sono divenuti gli occhi e gli orecchi del mondo (Cowan, 1998, 134136).
Quasi unerotizzazione della carta, descritta in termini metaforicamente ben pi esplicita da Federspiel (1992), che tesse
una trama romanzesca attorno ad un planisfero tatuato sulle rotondit di una bella ragazza.
Ho ritrovato la stessa passione in una senile narrazione dellorigine della sua straordinaria produzione scientifica in
Walter Christaller
Un pericolo sventato, grazie a Luigi Candida: la Geografia come cose da bimbi, ovvero la disciplina come coercizione e
negazione del divertimento. Lerotizzazione della carta.
La geografia come Viaggio e mondi possibili (soggettivismo): Vienna virtuale: il mio esempio di Vienna un
omaggio a Quine (Ogni volta che qualcuno pensa a Vienna, per esempio, si verifica un preciso evento neurale, che
possiamo descrivere in termini strettamente neurologici (), ma ci non significa affatto credere che saremo mai in
grado di tradurre il significato mentalistico generale pensare a Vienna in termini neurologici. Gli eventi mentali
sono fisici, ma il linguaggio mentalistico li classifica in modi incommensurabili con le classificazioni esprimibili in
linguaggio fisiologico. W. Quine, Quidditates, Milano, Garzanti, 1991). Su Vienna come su qualsiasi oggetto del
mondo non ci sono etichette, come quelle su scatole e bottiglie che dicono il nome del prodotto contenuto: ripartizioni e
aggregazioni di oggetti cambiano di fatto a secondo della persona e del momento. (Benvenuto, 2000, 125 e sgg.).
Quel che mi fa gioioso facendo il geografo: Narrare i luoghi? O passarvi con passo lieve e teorizzare? Santiago de
Compostela e segno delle mani: Nel mondo ci sono luoghi in cui un arrivo o una partenza vengono misteriosamente
moltiplicati dai sentimenti di quanti nello stesso luogo sono arrivati o da l ripartiti (Nooteboom, 1994, 9 e sgg.).
Popper e il Mondo Tre (quello che viene inventato grazie al gioco creativo di un linguaggio nato per descrivere e
comunicare l'sperienza), ovvero le regole linguistiche della geografia e la diversit dei suoi linguaggi: carta falsa e
menzogna della pianificazione, calcolo statistico, modelli e zia di Christaller (qui ho bisogno di pi righe e tempo)
Gli acquerelli di Donald Evans, sotto forma di francobolli (Chatwin, 1990).

Ma allora una specificazione si impone: cosa fa diversi abitante, viaggiatore, geografo?


Labitante il luogo, egli naturalizza la sua storia di rapporti con lambiente e la comunit, un conservatore istintivo.
Il viaggiatore ha esperienza di alternative, innovatore, libero, progettista. (Zanetto, 1991)
Il geografo costruisce immagini del mondo, appaganti e operative. Non abitante, non neanche abitante effimero
come il viaggiatore, logos dellesperienza dei luoghi, cio non narra, indica la grammatica della narrazione.
(qui vorrei far confluire i ragionamenti precedenti, ma forse casser il paragrafo e lo lascer immaginare a chi legge i
ragionamenti precedenti).

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