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Considerato lo scopo, in diverse misure espresso ed implicito, del presente volume e della mostra dalla

quale prende le mosse, di mappare, in maniera coscienziosamente, senz’altro risolutamente non


esaustiva, la “ricerca sonora nel campo delle arti sperimentali in Italia”, la prospettiva1 tematica dalla
quale sono chiamato ad intervenire in questo progetto, quella della voce — campo di ricerca all’interno
del quale mi muovo con il passo felpato e la faccia tosta dell’impostore di professione, attrezzato
solamente di qualche considerazione inappropriata —, apre (come d’altronde fa sempre il suono,
anch’esso eterno imbucato) la premessa iniziale a questioni di ordine estetico, politico ed
epistemologico. Che ciò sia possibile non è da intendere come verifica della tenuta del programma alla
ricerca delle sue fragilità, quanto come riconoscimento della fecondità concettuale della voce come
figura attraverso cui pensare. In primo luogo, perché la voce porta alle estreme conseguenze la
questione della prospettiva, il “punto”2 da cui ascolto e da cui parlo, che avendo a che fare con la
soggettivazione, la materializzazione, con il mettersi al mondo parlando e ascoltando(si), ha anche di
conseguenza tutto a che vedere con la produzione, alla quale partecipiamo (ontogeneticamente) o
meno (sociogeneticamente) dell’identità come percezione di tali coordinate. Parlandoci dalla sua
posizione a metà tra individualità e collettività, la voce come mezzo di identificazione (e
disidentificazione)

possibilità di parlare per, parlare a nome di.

ALT: voce come sintesi, mostra/mappa come sintesi

La voce non è più, o meglio non è mai stata, quello che sembra. Le prove sono ovunque, e sempre ci
sono state. Forse non abbiamo saputo ascoltare, o più probabilmente abbiamo sentito ciò che volevamo
sentire. La macchina mitologica, popolata da teste parlanti e voci disincarnate e ventriloquata in corpi e
oggetti che diventano dispositivi, ha fornito il terreno immaginativo per lo sviluppo di ogni sorta di
macchina parlante. Se questa rimediazione di ataviche intuizioni così come altre apparenti
concatenazioni teleologiche solitamente finiscono ad allungare le fila della narrazione lineare e moderna
del progresso, possiamo forse imparare di più invertendo i poli di questa supposta linea. Da clonazioni
timbriche e deepfake non dobbiamo desumere la logica dell’appropriazione macchinica in chiave
guerrigliera di una proprietà umana: non si tratta di “ri-incantare” la voce infondendole una nuova dose

1
Audit come alternativa a “punto di vista” quando si parla di suono?
2
Oppure qui?
di valore magico che non ha mai perso, né tanto “scoprire” il lato magico di tecnologie che hanno
sempre sognato e avuto allucinazioni. Si tratta invece di riscoprire la voce come tecnologia, sia nel senso
foucaltiano della tecnologia del sé, che in senso proprio, meccanicistico, senza che tale prospettiva serva
lo scopo di un ritorno al positivismo. La

Vocum discrimina: La voce come soglia

Se non siamo mai stati moderni, figuriamoci post-umani. Molt3 di noi non sono nemmeno mai stat3
uman3 (Hailey, Halberstam & Livingstone). Le linee invisibili che separano il dentro e il fuori dell’Uomo
sono pattugliate con un collettivo dispendio di forze maggiore di quello impiegato dalle nazioni del
mondo nel rinforzo dei confini territoriali. Esattamente come accade per essi, la loro stessa esistenza ha
origine ed è sostenuta dall’incessante avvistamento di non-umani, creature nomadi del Fuori, da tenere
alla larga, anche grazie al continuo spostamento delle soglie. Invisibili perché immaginarie, certo, ma
alcune frontiere non hanno bisogno di vedette perché i loro limiti sono tracciati da sensi altri dalla vista. I
confini appaiono allora più sfumati, e proprio per questo sono sorvegliati anche più strenuamente. La
voce è stata assoggettata a questa funzione discriminatoria da tempo immemore - da quando, appunto,
alcuni di noi possono dirsi umani. La negoziazione dei territori della vocalità sembra riaccendersi in
tempi di incertezza, quando nuove forze costringono i confini degli imperi del possibile ad adattarsi in
nuove configurazioni. La parola fine, in questa incessante produzione di senso, non è mai scritta anche
quando sembra scolpita sulla pietra. Com’è noto, la firma di Aristotele giace a calce di una prima,
importante legiferazione in materia. Nella sua Politica, il filosofo greco individua nella capacità
articolatoria ciò che differenzia la phoné semantiké, la voce significante dell’uomo, dalla voce
passivamente in balia delle passioni, degli animali. Curiosamente, secondo Aristotele, la voce umana
trae il suo aspetto significante aspirando alla idealità delle lettere, cioè il codice di notazione della stessa
oralità. Come vedremo, la cattura paradossale che imbriglia la voce in un complicato rapporto con la
tecnica, avrà effetti duraturi. Per quanto riguarda la differenza stabilita da Aristotele tra uomini e
animali, l’argomentazione del filosofo ha il suo centro nell’impossibilità degli animali di comunicare le
cause delle proprie passioni. Perché gli animali siano a tutti gli effetti considerati cittadini della polis
greca, devono avere la possibilità di dibattere nell’arena pubblica. Quest
Prima di venire chiusa per sempre, e riaperta solo in tempi recenti, ad uso di una ristretta bolla di
intellettuali, la questione della definizione dei territori della vocalità è stata tema di intenso dibattito per
secoli.

CHINA MIEVILLE

Il figlio di un fabbro ebreo viene giustiziato per un crimine. Il padre, sconvolto dal dolore e animato dal
desiderio di vendetta, inveisce contro i cristiani e dà colpi contro le porte delle loro case. Gli abitanti del
villaggio cominciano a chiamarlo “il fabbro pazzo”. Così l’uomo, rinchiuso nella sua bottega si mette di
buona lena a fabbricare chiodi e spranghe. Un giorno, dopo aver barricato con le spranghe le porte delle
case dei cristiani e sistemato i chiodi lungo le strade, appicca fuoco al villaggio. Chi non riesce a scappare
muore soffocato all’interno della casa in cui è bloccato, mentre chi si riversa per le strade muore trafitto
dai chiodi del fabbro. Da allora, una testa di metallo posta in cima alla torre della chiesa del villaggio
annuncia l’arrivo e la partenza di ogni ebreo: “Ebreo in Távara. Ebreo fuori di Távara”. Questa storia,
portata alla luce da Massimo Pettorino e Antonella Giannini attraverso una fittissima rete di rimandi che
fa capo ad un testo di Gabriel Naudé (a cui, ironicamente, si deve la coniazione della parola
“bibliografia”) risale alla Spagna dell’Inquisizione, e ne conserva tutto il carattere. Il racconto presenta
una evidente funzione propagandistica in senso antisemita, e possiamo ipotizzare che la sua messa in
circolo sia opera dell’Inquisizione stessa. La relazione in senso inversamente proporzionale tra l’atrocità
commessa dal fabbro e l’applicazione di un dispositivo di controllo posto a sua reazione sembra volta a
far apparire le pratiche dell’Inquisizione come tutto sommato ragionevoli. In linea con il suo scopo
propagandistico, la voce nella storia si impone come voce della legge: la sentenza che condanna il figlio,
le dicerie della comunità che giudica il fabbro, e naturalmente la voce della sentinella meccanica. Che la
testa di metallo si “limiti” ad enunciare l’ingresso e la partenza dal villaggio di ogni ebreo non fa che
rinforzare l’autorità dell’istituzione che ha posto il dispositivo parlante a vegliare sui paesani dall’alto del
suo simbolo più perfetto. L’enunciazione constativa di una voce senza soggetto, la cui automazione è
legittimata e allo stesso tempo produce la propria sedicente neutralità, tradisce la sua vera funzione
performativa (Butler). O come già avevano capito Deleuze e Guattari, ogni affermazione è una parola
d’ordine (D&G). In questo senso, la testa parlante di Távara preconizza i contemporanei dispositivi per
l’“identificazione automatica dell’accento” dei richiedenti asilo in uso negli uffici per il controllo della
migrazione di paesi come Germania e Paesi Bassi, dando prova della natura ambigua espressa nel
significato molteplice del verbo discriminare, inteso come strumento di potere dietro la facciata
imparziale del riconoscimento. Interessantemente, è proprio nell’Europa del ‘500 che possiamo tracciare
le origini epistemologiche del pensiero scientifico (Gillispie) che avrebbe portato alla moderna
“oggettività meccanica”(Daston) su cui esso fonda la propria sedicente imparzialità giustificando oggi
l’applicazione automatizzata di tali strumenti di discriminazione. Come tutt3 sappiamo però, questo
periodo storico è un’epoca di crisi segnata dalla lotta tra sistemi di pensiero contrapposti tra di loro, che
vede prevalere di volta in volta e caso per caso, localmente, il nascente umanesimo e ataviche
superstizioni. Se il lavoro di storici come Eugenio Battisti è servito a dimostrare come classicismo
umanista e moderno pensiero scientifico, pur nel Rinascimento, fossero in realtà tendenze minoritarie
che si stagliano sullo sfondo di una realtà quotidiana profondamente segnata da una vivissima
immaginazione e spiritualità popolari, non è sufficiente rovesciare i termini di questa dialettica per
comprenderne il rapporto. Come sostenuto da Erik Davis in Techgnosis, scienza moderna e religione,
esoterismo, occultismo e spiritualismo sono sempre state coinvolte in una danza di mutui debiti e
ispirazioni, che rende spesso difficile tracciare nette linee di separazione. Possiamo immaginare allora
che non sia un caso che lo spazio nel racconto del fabbro ebreo si configuri come un campo di battaglia.
La piazza dove il figlio del fabbro è giustiziato, il laboratorio dove il padre si rinchiude per elaborare il suo
piano di vendetta, le case in cui i concittadini rimangono intrappolati, le strade in cui si riversano per
scappare dall’incendio: il villaggio e i suoi spazi pubblici e privati diventano teatro di una guerra di
posizione tra norma e deviazione, senso e nonsenso, comunità e alterità. In questo scenario, il ruolo
assegnato alla tecnica è quello, invero suo proprio, di mediazione ambigua. Da un lato, gli strumenti
forgiati dal fabbro hanno il carattere diabolico che da tempi immemori si associano al loro creatore, la
quale figura e i simboli ad essa annessi, come la fornace, si ritengono addirittura modello delle
rappresentazioni medievali del diavolo stesso (REF), entrambi protagonisti di quella che si ritiene la fiaba
più antica del mondo Indo-Europeo (REF). D’altro canto, la testa meccanica posta a misura di sicurezza,
nonostante la sua funzione conservativa associata al ruolo pastorale e disciplinare della Chiesa, ha tratti
non meno perturbanti. Che svolgano il lavoro del diavolo o quello di Dio, tutti questi oggetti occupano
posizioni liminali e svolgono funzioni di sbarramento, delimitando spazi, sorvegliandone i confini e
precludendone l’attraversamento. In virtù della sua collocazione però, la testa meccanica ha un ruolo
ulteriormente ambiguo. Che sebbene serva lo scopo di sorvegliarne il confine, la sentinella parlante non
sia posta alle porte della città bensì in cima alla torre della chiesa, serve non solo a rafforzarne
l’autorevolezza ma soprattutto a disincarnare ulteriormente l’enunciazione di un corpo già senza
soggetto, privandola di un posto nel mondo terreno. Il disconoscimento della natura tropica della voce,
necessario a legittimarne il carattere imparziale su cui fonda la sua funzione securitaria, è riconosciuto
dalla filosofa della tecnoscienza come il più classico dei “trucchi di Dio”, aspetto ultraterreno che della
voce che coincide per lo psicanalista Mladen Dolar con la voce dell’ideologia (CHECK). Scissa fra tecnica e
magia, la testa parlante appartiene a quelle voci della macchina che creando un “effetto di interiorità”
(Napolitano CHECK) danno l’illusione che ci sia un soggetto a parlare al fondo degli ingranaggi. Allo
stesso tempo deve implicare l’assenza di un soggetto di enunciazione per giustificare la sua funzione
automatica.
PER TESI

Il figlio di un fabbro ebreo viene giustiziato per un crimine. Il padre, sconvolto dal dolore e animato dal
desiderio di vendetta, inveisce contro i cristiani e dà colpi contro le porte delle loro case. Gli abitanti del
villaggio cominciano a chiamarlo “il fabbro pazzo”. Così l’uomo, rinchiuso nella sua bottega si mette di
buona lena a fabbricare chiodi e spranghe. Un giorno, dopo aver barricato con le spranghe le porte delle
case dei cristiani e sistemato i chiodi lungo le strade, appicca fuoco al villaggio. Chi non riesce a scappare
muore soffocato all’interno della casa in cui è bloccato, mentre chi si riversa per le strade muore trafitto
dai chiodi del fabbro. Da allora, una testa di metallo posta in cima alla torre della chiesa del villaggio
annuncia l’arrivo e la partenza di ogni ebreo: “Ebreo in Távara. Ebreo fuori di Távara”. Questa storia,
portata alla luce da Massimo Pettorino e Antonella Giannini attraverso una fittissima rete di rimandi che
fa capo ad un testo di Gabriel Naudé (a cui, ironicamente, si deve la coniazione della parola
“bibliografia”) risale alla Spagna dell’Inquisizione, e ne conserva tutto il carattere. Il racconto presenta
una evidente funzione propagandistica in senso antisemita, e possiamo ipotizzare che la sua messa in
circolo sia opera dell’Inquisizione stessa. La relazione in senso inversamente proporzionale tra l’atrocità
commessa dal fabbro e l’applicazione di un dispositivo di controllo posto a sua reazione sembra volta a
far apparire le pratiche dell’Inquisizione come tutto sommato ragionevoli. In linea con il suo scopo
propagandistico, la voce nella storia si impone come voce della legge: la sentenza che condanna il figlio,
le dicerie della comunità che giudica il fabbro, e naturalmente la voce della sentinella meccanica. Che la
testa di metallo si “limiti” a constatare l’ingresso e la partenza dal villaggio di ogni ebreo non fa che
rinforzare l’autorità dell’istituzione che ha posto il dispositivo parlante a vegliare sui paesani dall’alto del
simbolo che più perfettamente incarna il suo ruolo pastorale. La funzione securitaria in senso razzista
della testa meccanica è evidente, ma compiuta da dietro la maschera dell’oggettività. Nei termini della
filosofia del linguaggio potremmo dire che l’enunciazione constativa tradisce la sua vera funzione
performativa (Butler) oppure che, come già avevano capito Deleuze e Guattari, ogni affermazione è una
parola d’ordine (D&G). Per mantenere la messinscena della neutralità, l’ideologia della pura
osservazione, diventa allora essenziale che l’enunciato sia formulato da una voce senza soggetto, dalla
non-posizione della morale ultraterrena. La sentinella immobile è una macchina il cui sguardo panottico
dal centro del villaggio accoglie in un istante le periferie della regione la cui sovranità è posta a
sorvegliare. La sua voce è quella binaria del giudizio indifferente messo a servizio della discriminazione
della differenza. In questo senso, la testa parlante di Távara preconizza i contemporanei dispositivi per
l’“identificazione automatica dell’accento” dei richiedenti asilo (in uso negli uffici per il controllo della
migrazione di paesi come Germania e Paesi Bassi) con inquietantissima accuratezza. In questo senso, la
testa parlante di Távara preconizza i contemporanei dispositivi per l’“identificazione automatica
dell’accento” dei richiedenti asilo in uso negli uffici per il controllo della migrazione di paesi come
Germania e Paesi Bassi, dando prova della natura ambigua espressa nel significato molteplice del verbo
discriminare, inteso come strumento di potere dietro la facciata imparziale del riconoscimento.
Interessantemente, è proprio nell’Europa del ‘500 che possiamo tracciare le origini epistemologiche del
pensiero scientifico (Gillispie) che avrebbe portato alla moderna “oggettività meccanica”(Daston) su cui
esso fonda la propria sedicente imparzialità giustificando oggi l’applicazione automatizzata di tali
strumenti di discriminazione.
Il figlio di un fabbro ebreo viene giustiziato per un crimine. Il padre, sconvolto dal dolore e animato dal
desiderio di vendetta, inveisce contro i cristiani e dà colpi contro le porte delle loro case. Gli abitanti del
villaggio cominciano a chiamarlo “il fabbro pazzo”. Così l’uomo, rinchiuso nella sua bottega si mette di
buona lena a fabbricare chiodi e spranghe. Un giorno, dopo aver barricato con le spranghe le porte delle
case dei cristiani e sistemato i chiodi lungo le strade, appicca fuoco al villaggio. Chi non riesce a scappare
muore soffocato all’interno della casa in cui è bloccato, mentre chi si riversa per le strade muore trafitto
dai chiodi del fabbro. Da allora, una testa di metallo posta in cima alla torre della chiesa del villaggio
annuncia l’arrivo e la partenza di ogni ebreo: “Ebreo in Távara. Ebreo fuori di Távara”. Questa storia,
portata alla luce da Massimo Pettorino e Antonella Giannini attraverso una fittissima rete di rimandi che
fa capo ad un testo di Gabriel Naudé (a cui, ironicamente, si deve la coniazione della parola
“bibliografia”) risale alla Spagna dell’Inquisizione, e ne conserva tutto il carattere. Il racconto presenta
una evidente funzione propagandistica in senso antisemita, e possiamo ipotizzare che la sua messa in
circolo sia opera dell’Inquisizione stessa. La relazione in senso inversamente proporzionale tra l’atrocità
commessa dal fabbro e l’applicazione di un dispositivo di controllo posto a sua reazione sembra volta a
far apparire le pratiche dell’Inquisizione come tutto sommato ragionevoli. In linea con il suo scopo
propagandistico, la voce nella storia si impone come voce della legge: la sentenza che condanna il figlio,
le dicerie della comunità che giudica il fabbro, e naturalmente la voce della sentinella meccanica. Che la
testa di metallo si “limiti” a constatare l’ingresso e la partenza dal villaggio di ogni ebreo non fa che
rinforzare l’autorità dell’istituzione che ha posto il dispositivo parlante a vegliare sui paesani dall’alto del
simbolo che più perfettamente incarna il suo ruolo pastorale. La funzione securitaria in senso razzista
della testa meccanica è evidente, ma compiuta da dietro la maschera dell’oggettività. Nei termini della
filosofia del linguaggio potremmo dire che l’enunciazione constativa tradisce la sua vera funzione
performativa (Butler) oppure che ogni affermazione è una parola d’ordine la cui legge esige di essere
riconosciuta (D&G). Per mantenere la messinscena della neutralità, l’ideologia dell’osservazione pura,
diventa allora essenziale che l’enunciato sia formulato da una voce senza soggetto, dalla non-posizione
della morale ultraterrena. La sentinella è una macchina il cui sguardo panottico dal centro del villaggio
accoglie in un istante le periferie della regione che è posta a sorvegliare, la cui voce disegna con
inquietante indifferenza i confini della propria comunità. A noi “moderni” tutto ciò non potrà che
ricordare le intelligenze artificiali di cui sono ormai piene le nostre città e i nostri uffici statali. Oggi i
confini geografici degli stati-nazione immaginati come limiti esterni della politica sono marcati a tratto
indelebile da dispositivi che ricalcano inquietantemente i tratti della testa parlante di Távara. Ma cosa
c’è nella voce che, dall’Europa del ‘500 a quella del 2024, la intreccia strettamente al territorio e ai suoi
limiti? Che cosa la rende oggetto di discriminazione, e soggetto

La sua voce è quella binaria del giudizio indifferente messo a servizio della discriminazione della
differenza.

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