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dramma, ma ebbe in compenso la gloria di vincere il mondo, e qui
ebbe assai di che compensarsene. — In conclusione, un dramma
nazionale era impossibile a Roma; e quanto alla bella e patetica
tragedia di Atene, che sarebbe venuta a fare in mezzo ad un popolo
di usuraj e di soldati, con tutte quelle delicatezze d’arte che
inebbriavano la colta popolazione di Atene? Che interesse potevano
prendere quelle turbe ardenti, e senza gusto, per uomini della
leggenda omerica, per la caduta delle antiche monarchie, per quegli
incesti, per quegli assassinj, che eccedettero le forze umane, delitti
comuni agli Dei ed agli uomini, che le giurisdizioni della terra non
possono punire? Che pietà potevano esse sentire per que’ figli
maledetti, per que’ sovrani ciechi ed erranti, per quelle vergini
sospese alle braccia de’ vecchi, o chinate come statue sull’urne
funerarie, o di loro mano componenti nel sepolcro il corpo d’un
fratello, e sempre conservando in mezzo delle più dolorose prove la
grazia e la bellezza, senza aver mai quelle lagrime moderne che
solcano le guancie ed insanguinano gli occhi, nè quelle smorfie di
dolori la cui invenzione risale a Seneca? E se la tragedia trapiantata
così dalla Grecia sul teatro di Roma, avesse saputo, come l’epopea,
imitata da Virgilio, e come l’ode imitata da Orazio, riprodurre nella
bella lingua latina tutte le armonie e le grazie della lingua d’Atene,
che noja non avrebbe dato questa musica dell’anima a’ sensi
avvezzi al pugilato ed ai combattimenti di bestie, abbrutiti dalla vista
del sangue grondante sotto i colpi del cesto o dei corpi lividi per le
ammaccature, e che prestava l’orecchio assai più volontieri agli urli
degli orsi che al ritmo delle strofe alate che rapivano il popolo di
Atene e l’aristocrazia di Roma?»
Lance, nelle sue Vindiciæ romanæ tragediæ [97], raccolse, ciò
malgrado, frammenti di ben quaranta tragici. Otto Ribbeck [98]
publicò del pari Tragicorum romanorum reliquiæ: ma nondimeno la
tragedia latina, come dissi testè, restò di molto addietro dalla greca, i
cui capolavori, che noi italiani abbiamo egregiamente tradotti da
Felice Bellotti, rimarranno sempre, infin che vivrà ombra di letterario
gusto, meritamente ammirati.
Queste tragedie tutte del teatro latino, è più che naturale che al
Teatro di Pompei venissero rappresentate; ma pare altresì che a’
greci autori chiedessero colà le opere e si rappresentassero sulle
scene pompejane e nel loro originale le tragedie più cospicue de’
greci poeti.
Già una delle tre tessere teatrali d’avorio che furono rinvenute negli
scavi, quella, cioè, che offre da un lato l’immagine in rilievo di un
anfiteatro con il pegma nel centro, vedemmo come nel rovescio
portasse l’indicazione del posto, a cui apriva l’ingresso, in caratteri
greci, e forse una tale particolarità potrebbe essere un indizio che
quella tessera, diversa dall’altra che porta caratteri latini e che
annunzia la commedia di Plauto, fosse in caratteri greci perchè
greco lo spettacolo; non altrimenti che si usa da noi, lorchè si
rappresenta la commedia francese, che affissi, programmi e biglietti
sono nella stessa lingua composti e distribuiti. Ma più che questa,
valse di prova ad altri la tessera portante pure nel rovescio parole
greche, che si pretesero leggere per Αῖςκυλο, cioè di Eschilo; con
che si volle inferire che nelle città della Campania si
rappresentassero ancora le tragedie del più antico tra i sommi tragici
greci nel loro nativo idioma.
Ora, poichè sono a dire di quella tessera, credo fornire la diversa
interpretazione di chi, esaminate altrimenti le parole del rovescio
greche ed indagato il disegno del gettone, volle conchiudere
significar esso invece la tessera dell’infimo posto. Negli oggetti
confusi che vi son rappresentati si può distinguere una porticella alla
quale si giunge per una scaletta ed alquante barriere a croce, ciò
che parve a Barré, continuatore di Mazois [99], indicare la galleria di
legno, od altrimenti l’impalcato che erigevasi sulla sommità delle
mura degli anfiteatri o teatri, pari al loggione dei teatri moderni. Ciò
ritenuto e considerando che le parole greche del rovescio sono
scritte testualmente così: ΑΙCΧ . ΥΛΟΥ, vale a dire con un punto nel
mezzo, mal si potrebbe allora sostenere che si debba ravvisarvi il
nome di Eschilo. Forse ΑΙCΧ potrebbe essere l’abbreviatura di
αίςκροῦ, posto cattivo, ΥΛΟΥ potrebbe essere la forma scorretta di
ὔλης, di legno, ed indicare allora l’ultimo banco destinato agli schiavi,
alle cortigiane ed alla plebe.
Ma per tornare all’argomento delle rappresentazioni greche, è assai
verisimile che esse potessero aver luogo massime ne’ teatri della
Campania, dove la lingua greca invece rimase, più che in Roma,
conosciuta e più popolare; nè è rado che pur oggidì nelle città e
paesi dell’antica Magna Grecia si oda tuttavia l’antico linguaggio
materno. E notisi che nelle agiate famiglie romane la lingua greca
costituiva la base della educazione, come il latino e il greco furono
della nostra. I giovani si esercitavano a composizioni nel greco
idioma ed erano incamminamento a maggiori. Han tratto a quest’uso
i seguenti versi di Persio:
Questo giambo del Poeta era per Cinnamo fatto cavaliere per intrighi
dell’amante, da barbiere ch’egli era, e che non potendo comparir nel
foro, era passato in Sicilia, dove gli dice: non potendo più vendere il
suo plauso nel teatro, sarà costretto ritornare barbiere.
Cicerone poi racconta al suo Attico d’aver udito in Roma un Antifonte
attore, di cui nessuno più meschino e sfiatato, nihil tam pusillum,
nihil tam sine voce [105], che tuttavia palmam tulit, fece furore; come
molto piacque, valde placuit, certa Arbuscula, attrice d’un merito non
superiore. Costoro di certo avevano mercanteggiato quel plauso,
che lo stesso Oratore Romano, nell’arringa Pro Publio Sextio,
afferma si comperasse nei teatri e nei comizj.
Plauto poi nella Cistellaria ci fa sapere che il choragus, finita la
commedia, dava a bere agli attori che avevano fatto il loro dovere, e
saranno stati vino e bevande calde.
Vediamo ora il rovescio della medaglia.
Lo stesso Cicerone summentovato, parlando di Oreste, attore, dice
che fu cacciato dal teatro non modo sibilis, sed etiam convicio, non
coi sibili soltanto, ma benanco colle ingiurie, e che se un attore
avesse fatto un movimento in aria non in corrispondenza della
musica, od avesse peccato di una sola sillaba, lo si fischiava e
copriva di urli, exibilatur, esploditur, theatra reclament [106].
Così non mancava ciò che or diremmo, col vocabolo consacrato, la
clique, e Terenzio esperimentò l’opera d’un partito contrario comitum
conventus, l’odierna consorteria, massime nell’Ecira, stata a lui
fischiata per ben due volte; ciò che per altro non impedì che
piacesse alla terza volta.
Ai cattivi attori poi si gettavano, a segno di sfregio maggiore, e pomi
e noci e talvolta anche pietre, la quale ultima dimostrazione fu poi
dagli edili con ispeciale editto interdetta. Siccome poi gli attori erano
per lo più schiavi, così come si apprende dalla suddetta Cistellaria e
dall’Asinaria di Plauto, quando cattivi o svogliati, venivano a
spettacolo finito battuti.
«Ma non bisogna dimenticare, scrive il sullodato Alianelli, un
personaggio umile, modesto, stretto in una buca, che niuno
plaudisce, di cui niuna rivista teatrale parla mai, e che non pertanto è
necessario, che deve sempre stare presente a sè stesso, sempre
attento. Il lettore ha già capito che parlo del suggeritore. Nei teatri
romani gli attori imparavano le parti, nè più nè meno che si fa ai
tempi nostri, e perciò vi era il suggeritore e si chiamava Monitor.»
Pompeo Festo ricorda il monitor come quegli che avverte, monet,
l’istrione sulla scena, ed in questo senso è ricordato anche da
un’iscrizione antica riportata dal Morcelli nella sua Dissertazione
sulle tessere con annotazioni del dottor Giovanni Labus [107].
Dopo tutto, nel chiudere questo capitolo e quanto interessa il teatro
tragico e l’argomento delle sceniche rappresentazioni, a non perdere
di vista il principal subbietto del mio libro, accennerò appena della
questione largamente agitatasi fra i dotti che un solo veramente
fosse il teatro in Pompei, e questo fosse quello che ho finito di
descrivere, sotto la denominazione di teatro tragico, e che l’altro
teatro non fosse già destinato alla commedia e all’egloga e a
musicali rappresentazioni, ma unicamente l’Odeum nella più stretta
sua significazione, o quanto dire una semplice pertinenza del Gran
Teatro, ove si sperimentavano non solo i componimenti, ma gli attori,
i suonatori, tibicini e fidicini, o suonatori di tibia, di lira e di cetra, i
danzatori, i coristi e quante persone insomma dovevano prendere
parte in tali spettacoli, prima di esporsi nel gran teatro. Trovo
ricordato che siffatto argomento sia stato molto illustrato dal signor
Mario Musamesi, erudito architetto di Catania, nella sua Esposizione
dell’Odeo Greco tuttora esistente nella di lui città, e che un estratto di
quest’opera con savie osservazioni ed aggiunte sia comparso nel
Giornale de’ Letterati Pisani dell’anno 1823; ma nè l’opera del
Musamesi, nè questo giornale non essendomi stato possibile di
procacciarmi, nè d’altronde presumendo io, come ho già più d’una
volta in quest’opera protestato, di entrare in polemiche
archeologiche, che lascio volontieri ai dotti, ben diverso essendo
l’intento del mio libro, mi parve di non dovermi discostare dalla
opinione più generalmente accettata che il minor teatro designa
come esistente a sè e col nome di Teatro Comico.
Anfiteatro di Pompei. Vol. II, Cap. XIV.