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Presiede il Tribunale il dottor Rosario Trainito; Giudici Togati i dottori Salvatore Minì e Giovanni

De Simone. La Pubblica Accusa è sostenuta dal sostituto Procuratore della Repubblica, dottor
Pasquale Lo Torto. Cancelliere il Dottor Viviani.
Gli imputati detenuti, Dolci, Zanini, Termini, Speciale, Abbate, scortati da carabinieri, sono condotti
in Tribunale con le manette ai polsi e incatenati.
Appena dichiarata aperta l’udienza, l’avvocato Battaglia chiede la parola.

AVV. BATTAGLIA. Rilevo, anche a nome degli altri colleghi della difesa, che gli imputati detenuti
si trovano ancora ammanettati e incatenati...
P.M. La cosa era stata concordata per ragioni di ordine pubblico.
AVV. BATTAGLIA (continuando). E ciò in aperta violazione dell’art. 427 del Codice di Procedura
Penale, il quale dispone che l’imputato assista all’udienza «libero nella persona». Chiedo quindi che
si provveda secondo legge.
P.M. Aderirei alla richiesta qualora il Presidente non si opponesse.
PRESIDENTE. Capo-scorta dei detenuti, tolga le manette ai detenuti.

Viene data lettura del decreto di citazione contenente i capi di imputazione.

PRESIDENTE. Imputato Danilo Dolci, alzatevi e venite qui, nel pretorio.

Dolci si porta dal banco degli accusati fin davanti lo scranno


del Tribunale.

PRESIDENTE. Narrate quel che avete da dire in ordine ai fatti che formano oggetto della causa.
DOLCI. Un giorno del novembre scorso, vicino a casa nostra nel quartiere Spine Sante di Partinico,
morì una bambina di cinque mesi, – che pesava due chili e duecento grammi, – buttando fuori tutte
le budella.
Morì perché la famiglia non aveva potuto assisterla, e non era stata ricoverata in tempo. La madre
della piccola aveva incaricato la bambina più grande di venire da noi per avere aiuto. La bambina si
mise a giocare lungo la strada e si dimenticò. E noi arrivammo anche questa volta quando ormai era
troppo tardi.
Questo non è un episodio, un fatto isolato. A Partinico casi simili succedono spesso: la stessa Opera
Maternità e Infanzia documenta con statistiche ufficiali che la percentuale della mortalità infantile è
dell’8,7 per cento. Questo fatto mi fece nuova, profonda impressione: non si riusciva più a salvare i
singoli casi, ad aiutare uno per uno tutti quelli che venivano a chiedere soccorso. Avevamo fatto
qualcosa, ma dovevamo fare assai di più. Non bastava certo segnalare e documentare alle autorità
come si vive a Partinico. Avevamo già detto che i trecentocinquanta «fuorilegge» della zona
avevano avuto dallo Stato italiano, per educarli, solo seicentocinquanta anni di scuola, in
complesso, ed oltre tremila anni di galera. Bastino ancora tre soli dati: di questi trecentocinquanta
«fuorilegge», uno solo di loro aveva padre e madre che avevano frequentato la quarta elementare; a
Trappeto nel ’54-’55, su dieci classi elementari erano stati cambiati quarantatré maestri; la pesca
fuorilegge continuava scopertamente da undici anni e chi si moveva per impedirla era deriso dalle
stesse Guardie di Finanza.
A Montelepre il Ministro del lavoro aveva aperto cantieri-scuola. Ma a Partinico niente di
sostanziale era cambiato. Abbiamo rivolto diversi appelli al Presidente della Repubblica, al
Presidente del Consiglio, a tutti i deputati e a tutti i senatori. Anche ad altre autorità abbiamo rivolto
appelli per chiedere soprattutto lavoro, scuola per i ragazzi, assistenza ai figli dei condannati.

Sapevamo che troppo pericolo presentava la situazione: negli ultimi due anni, sedici 1 sono stati i
delitti nella zona di Partinico, fra uccisioni e suicidi. Per tale situazione noi abbiamo mandato alla
stampa e alle autorità documentazioni e appelli con la fiducia che le cose cambiassero. Ma le cose
non cambiarono.
Qualcosa si apriva, nell’animo della popolazione di Partinico: si cominciava a partecipare alla vita
comunale, per esempio, si andava ai diversi Sindacati. Noi desideravamo proprio questo, che la
gente cioè, al di fuori di ogni settarismo, si mettesse in movimento per entrare di fatto in un clima
civile, in un mondo moderno.
Alla fine dello scorso novembre la situazione divenne tesa. Sempre più numerosi i furti; anche
nostri vicini di casa andavano a rubare limoni. Un uomo è stato accusato di aver ucciso suo fratello
per tremila lire. La gente veniva da noi per chiederci aiuto, e venivano a frotte. Non erano casi
singoli, casi isolati.
Erano troppi. Telegrafammo ancora alle autorità. Era arrivato dicembre e voi sapete cosa significhi
l’inverno per i miseri. Noi non volevamo che la gente andasse a rubare o a commettere delitti. Cosa
potevamo fare? La popolazione faceva pressione perché si trovasse una soluzione, un rimedio.
Così per la prima volta siamo andati sulla trazzera vecchia detta di Valguarnera, a due chilometri
dall’abitato. Una strada tutta rovinata. A causa dei sassi scombinati e delle buche non potevano
passare i carri, e la gente chiedeva che venisse aggiustata. Io non sono un anarchico, noi non
eravamo degli anarchici, non intendevamo disfare quella strada: volevamo, potevamo aggiustarla. Il
commissario di Pubblica Sicurezza comandò di tornare a casa, promettendo che il lavoro sarebbe
arrivato; e noi quella volta ritornammo: dovevamo essere particolarmente prudenti, era una grave
responsabilità muoversi, in campagna, senza testimoni, con da una parte uomini che sono padri di
famiglia e dall’altra parte guardie che non sono abituate né agli scioperi, né, credo, al lo studio e
all’osservanza della Costituzione. E poi avevo avuto un invito dalla televisione di Torino per
andarvi a parlare dei nostri problemi. Così quel giorno tornammo a casa e, dopo aver parlato coi
disoccupati e le loro famiglie, preparai il testo per la televisione.
Partii per Torino. A Roma mi sono incontrato con Mauro Gobbini, Carlo Levi, Valerio Volpini,
Leone Bortone, Maria Sacchetti Fermi, Guido Calogero, Alberto Carocci e Beniamino Segre.
A Pisa con Aldo Capitini e Walter Binni.
A Firenze Con Enzo Enriques Agnoletti, Maria Chiappelli, Romano Bilenchi, Ettore Bernabei, la
signora Rosselli, Giovanni Michelucci e altri.
A Milano con Elio Vittorini, Franco Alasia, Riccardo Bauer, Piero Malvezzi, Adriano Alloisio e suoi
amici.
A Torino con Franco e Gigliola Venturi, Norberto Bobbio, Giulio Einaudi, Luigi Barale, Umberto
Facca e altri.
A tutti questi amici esponevo il nostro proposito, le nostre esigenze: non abbandonare a se stessa la
popolazione, parteciparla, tornare a lavorare; sulla trazzera vecchia, per esempio. Tornarci in modo
pacifico ma pienamente consapevole; senza alcun disordine ma tornare, per lavorare, e duramente.
Riattare quella trazzera, metterla in condizione di essere transitata; fare insomma un lavoro vero,
generoso, anche per rendere palese che anche a Partinico c’è una grande ricchezza, il lavoro; che le
braccia non mancano al possibile miracolo di cambiare la faccia di quella terra.
Lo stesso proposito di lavorare sulla trazzera vecchia io esposi alla televisione senza che il revisore
politico della RAI sollevasse obiezione alcuna, tranne qualche «limata» più di forma che di
sostanza.
Ero preoccupato, non potevamo in coscienza muoverci se soltanto si poteva supporre che potesse
succedere alla gente qualche male come in quei giorni a Venosa, e prima altrove. Dicevo e chiedevo
a tanti, per raccogliere le opinioni di vari gruppi, per essere più sicuramente esatto.
Poi tornai. Nel ritorno incontrai a Roma Ignazio Silone, Mario Alicata, Vittorio Gorresio, Corrado
Cagli, Raniero Panzieri e Cesare Zavattini.
A Partinico, ancora abbiamo mandato alle autorità e alla stampa un appello: dicevamo che non
potevamo stare con le mani in mano, dicevamo che non lavorare è un reato contro la propria
famiglia e la società. Non possiamo stare in mezzo alla strada, oziosi, come lazzaroni o come
bambini.
Le autorità ci dicano quali lavori si debbono fare e noi li faremo. Abbiamo sempre affermato che
per salvarsi bisogna lavorare, come dice anche l’articolo 4 della Costituzione italiana, il quale
afferma che il lavoro è un dovere oltre che un diritto. Noi siamo convinti che la Costituzione è una
cosa seria. Non lo aveva detto anche il Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, nel suo
messaggio? Lo hanno detto tutti i morti della Resistenza, che sono morti per la Costituzione.
La Costituzione in Italia è la sola legge della quale non ci dobbiamo vergognare.
Allora, abbiamo digiunato un giorno. Ma il commissario di Pubblica Sicurezza lo aveva proibito ed
eravamo stati diffidati ad andare a lavorare, sulla trazzera rotta, per tutti.
Si era deciso di stare a digiunare per un’intera giornata. Un digiuno collettivo proprio per significare
che le cose del mondo non possono cambiare al meglio senza meditare insieme, senza purezza,
senza sacrificio. Noi ci riunivamo per meditare in silenzio cosa si sarebbe potuto fare per cambiare
il nostro piccolo mondo. Le autorità di Pubblica Sicurezza mi chiamarono e mi dissero che la
manifestazione non era autorizzata.
Io risposi che il digiunare non è affatto un reato; in un posto così isolato poi, seduti davanti al mare,
sulla spiaggia di San Cataldo. Il tenente dei carabinieri dubitava fortemente che fosse lecito andare
in molti sulle spiagge. Facendogli io presente che ogni estate da piccolo ero andato al bagno, alle
spiagge popolate di Rimini o della riviera ligure, senza il permesso della polizia, il tenente
esprimeva gran dubbi sulla mia veridicità: – Forse c’erano degli agenti tra i bagnanti.
Se dobbiamo stare distanti gli uni dagli altri, dissi, porteremo un metro e staremo a distanza
precisata, di un metro, un metro e venti, un metro e cinquanta, due metri uno dall’altro: quanto ci si
dice. Noi non intendiamo andare contro legge: noi siamo per la legge e per la giustizia. Quando al
funzionario di Pubblica Sicurezza, a proposito del lavoro, feci presente l’articolo 4 della
Costituzione, mi disse: – Dolci mio, Dolci mio, queste sono utopie, – e lo diceva come con un certo
affetto.
Il lunedì del digiuno...
PRESIDENTE. Lei non è chiamato a rispondere per il digiuno.
DOLCI. Verrò subito anche al resto. Il lunedì del digiuno alla mattina pioveva forte, e noi nella
notte avevamo saputo che a Trappeto e a Balestrate i carabinieri, la sera tardi, avevano diffidato tutti
i capibarca a digiunare a San Cataldo. La gente si era offesa per quel divieto. Poiché a noi
importava il digiuno più che il luogo del digiuno, alle quattro di mattina si decise che i pescatori di
Trappeto (apolitici) rimanessero nella loro Casa del Pescatore, a Trappeto; i pescatori di Balestrate
(apolitici) nella loro Casa del Pescatore, a Balestrate; i disoccupati di Partinico, alla Camera del
Lavoro e alla U.I.L., che soprattutto avevano appoggiato la iniziativa. E opportuno fu decidere così,
perché in un rapido sopralluogo, con giornalisti, fotografi e più tardi un cronista della
Radiotelevisione, vedemmo che solo intorno a Trappeto stavano circa duecento agenti con camion,
camionette, ecc. Muoversi verso San Cataldo, a parte l’inutile bagnarsi per tutta la giornata, avrebbe
potuto determinare un urto: e a noi anche premeva presentare a tutti, e a noi stessi prima, un
biglietto da visita: «Siamo così, vogliamo muoverci da gentiluomini».
Soltanto alcuni, non avvisati in tempo, scesero, malgrado la pioggia intermittente, alla spiaggia di
Ciammarita, ma da noi furono avvisati di ritornare: superflua fu la pressione degli agenti. Nella
mattinata spedimmo dei telegrammi alle autorità e ci fu una riunione al Municipio di Partinico: io vi
partecipai in ritardo e solo di passaggio, perché si parlava di distribuire ciotole di minestra e
pensavo che non era quello il modo per risolvere il problema della disoccupazione, del lavoro.
Questo il lunedì.
Il mercoledì, in una riunione tenuta alla Camera del Lavoro di Partinico (la U.I.L. all’ultimo
momento si era ritirata e gli altri gruppi, tutti invitati, non avevano ufficialmente aderito: ma
partecipava gente di ogni colore, o incolore), si precisò come andare a lavorare gratuitamente sulla
trazzera vecchia. In quella riunione parlò anche il professor Lucio Lombardo-Radice. Dicemmo in
modo chiaro che, se l’azione doveva essere generosa, nessuno poi doveva saltar fuori a dire:
«Datemi i soldi per il lavoro fatto sulla trazzera vecchia». Doveva essere un movimento
disinteressato; se poi ci avessero dato del lavoro, come speravamo, la gente non avrebbe dovuto
dire: «Mandate a lavorare me perché io ho scioperato», ma doveva andare a lavorare prima chi
aveva più bisogno.
Signor Presidente, giochiamo a carte scoperte. Se ci avessero impedito di lavorare, noi saremmo
stati otto ore seduti per terra, con le braccia conserte. Volevamo, anche, fare della trazzera un ufficio
di collocamento effettivo.
PRESIDENTE. Ma se il progetto era di non essere pagati e la manifestazione aveva solo valore
simbolico, perché vi siete rifiutati di sciogliervi, dicendo che volevate lavorare per otto ore? Non
bastava solo mezz’ora di lavoro, in maniera simbolica?
DOLCI. Io non ho detto che l’azione era simbolica. Volevamo lavorare sul serio.
Per non violare la legge andammo sulla trazzera vecchia alla spicciolata, con gli strumenti di lavoro.
Debbo precisare che non avevamo nemmeno un temperino per tagliare il pane.
PRESIDENTE. Non è contestato il porto d’armi abusivo.
AVV. TAORMINA. Ma dallo spirito del verbale di denunzia risulta che la Pubblica Sicurezza
considerava armi gli strumenti di lavoro.
DOLCI. Ripeto che non avevamo con noi alcuna arma, nemmeno un temperino, e questo voleva
essere un nuovo simbolo. La gente capiva proprio questo: che era finito il tempo dei mitra, che la
rivoluzione doveva cominciare dal di dentro. Basta con l’epoca in cui si sparava.
Dopo circa dieci minuti che si stava lavorando sulla trazzera vecchia, ma eravamo ancora in pochi
perché non tutti erano ancora giunti, arrivò un tenente dei Carabinieri, con alcuni militi, che ci
intimò di smettere di lavorare. Noi continuammo. – Ma come, – disse il tenente, – non ubbidite
all’ordine della Polizia?
Io ero in questo stato d’animo: se mi ordinano, signor Presidente, d’ammazzare mio padre, o Lei, o
il signor Pubblico Ministero o qualunque altro, io non lo faccio perché mi ripugna alla coscienza:
perché è un reato. Io considero un reato verso la terra e verso gli uomini smettere di lavorare, –
esattamente, – perché tutti dobbiamo lavorare e non per noi ma per tutti. E poi ci avevano fatto
troppe promesse e nessuna, da molti anni, era stata mai mantenuta.
Comandato di allontanarmi, credendo di essere arrestato, mi sono allontanato accompagnato da tre
agenti, ed è stato allora che ho incontrato il commissario di Pubblica Sicurezza La Corte: io volevo
stringergli la mano e gliel’ho tesa, per sottolineare il carattere pacifico del movimento, ma lui si è
voltato dall’altra parte e non me l’ha voluta stringere. Fu anche allora, poco dopo, che incontrai gli
altri poliziotti che si recavano sulla trazzera vecchia con manganelli e, mi pare, bombe lacrimogene.
Dissi ad un ufficiale: – Mi raccomando, non fate del male a quella povera gente.
Dopo più di un chilometro e mezzo, incontrai Abbate, quasi vicino al commissario capo Di Giorgi,
che stava con un gruppo vicino all’abitato. Questi disse agli agenti di lasciarmi libero. Al che gli
feci presente che sarei ritornato sul posto del lavoro con gli altri e, per altra strada più lunga, perché
non me lo impedissero, in parte sulla Nazionale in parte attraverso i campi, corsi con Ciccio Abbate
dove erano gli altri.
Arrivato, volevano che mi allontanassi, ed io domandai se mi si volesse allontanare o arrestare.
C’era già il commissario Di Giorgi che parlava alla gente, e sentii che diceva di non ascoltare i
nostri consigli perché eravamo dei sobillatori. Io volevo che la legge fosse rispettata e ho precisato,
citando l’articolo 4, che nello spirito della Costituzione non garantire il lavoro è da assassini. Vidi
che il commissario, a sentir la parola «assassini», rimase come folgorato. L’atteggiamento della
polizia era pressappoco così: «Noi rappresentiamo la legge, la legge ha ragione, noi abbiamo
sempre ragione». Comandò di arrestarmi. Mi sedetti per terra, imitando Gandhi. Allora mi
sollevarono di peso; furono quattro o cinque agenti di P.S. a sollevarmi trasportandomi prono,
tenendomi per i polsi e per i piedi. Poi, accorgendosi che così avrebbero potuto spaccarmi qualcosa,
mi capovolsero e mi trasportarono supino.
PRESIDENTE. Quanto pesa lei?
DOLCI. Peso novantacinque chili e sono alto un metro e ottantadue centimetri.
Ogni tanto, quando gli agenti erano stanchi, mi lasciavano giù, nel fango. Io raccomandavo alla
gente di lavorare, ma di rispettare la polizia. Dicevo agli operai di sedersi per terra se impediti. Di
questa azione io ne avevo parlato a Roma anche a Guido Calogero, ed avevamo precisato che
doveva essere un’azione tipica della non violenza, alla indiana, per così dire.
Riconosco che, ancora dalla camionetta, io raccomandavo: – Andate a lavorare, prendete le pale.
Ecco, io non avrei altro da dire. Prima vorrei sapere però se durante il processo si discuteranno
anche le accuse che sono state fatte contro di me dal Commissario e dal senatore Santi Savarino in
un articolo apparso sul «Giornale d’Italia».
PRESIDENTE. No. Qui si discuteranno soltanto i fatti pertinenti al processo.
AVV. BATTAGLIA. Vorrei avanzare due domande ed una precisazione. Prima domanda: ha udito
l’imputato squilli di tromba?
DOLCI. Io non sono sordo. Ci sento benissimo. Ho visto un agente di P.S. con la tromba, ma non ho
udito nessuno squillo. Devo però precisare che da quel luogo mi avevano allontanato per più di
mezz’ora.
AVV. BATTAGLIA. Ha avuto i pantaloni lacerati dalla Polizia?
DOLCI. Scuciti, quando mi sollevarono: dalla coscia fino al risvolto, ma escludo che l’abbiano fatto
di proposito.
AVV. BATTAGLIA. L’imputato Dolci ha chiesto se doveva difendersi dalle accuse mossegli dal
Senatore Savarino ed il Presidente ha risposto negativamente. Chiedo quindi che venga ordinato lo
stralcio dal processo del verbale del 19 febbraio 1956, a foglio 159, in cui il commissario La Corte
ha trasfuse integralmente le accuse e le insinuazioni, contro Danilo Dolci, del Senatore Savarino.
Non è possibile che rimanga in atti un illegale documento di accusa dal quale l’imputato non possa
difendersi. Dichiariamo ad ogni modo fin d’ora che ci opporremo alla lettura di quel verbale.
PRESIDENTE. Ripeto che non dobbiamo sconfinare dai limiti legali del processo. Il verbale non
sarà letto.

L’avvocato Battaglia chiede la parola e svolge anche a nome


dei difensori un incidente sulla incostituzionalità dell’art. 18
delle Leggi di Polizia, chiedendo che si sospenda il giudizio in
corso, si scarcerino gli imputati e si rimettano gli atti alla
Corte Costituzionale per la risoluzione dell’incidente. In via
subordinata chiede il rinvio della causa a nuovo ruolo, in
attesa che la Corte Costituzionale decida su analogo incidente
sollevato dinanzi al Tribunale di Enna in data 12 gennaio
1956, in seguito al quale la Corte Costituzionale, investita del
procedimento, ha ordinato la pubblicazione delle ordinanze
stesse sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 23, del 28 gennaio 1956.

AVV. BATTAGLIA. L’art. 18 delle Leggi di Polizia è in aperto conflitto con l’art. 17 della
Costituzione Repubblicana. Per quale ragione? Non certo perché l’art. 18 richieda il preavviso. Ma
perché, mentre l’art. 17 della Costituzione stabilisce che le riunioni in luogo pubblico possono
essere vietate soltanto per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica, l’art. 18
consente invece che esse siano vietate e disciolte soltanto per la mancanza del preavviso. Su questo
punto un Giudice Costituzionale, Ernesto Battaglini, ha espresso la propria opinione rilevando il
contrasto tra le due norme e la incostituzionalità di quella delle Leggi di Polizia.

Dopo lo svolgimento completo dell’incidente, il P.M. si oppone all’accoglimento delle istanze della
difesa perché «manifestamente infondate». L’avvocato Comandini replica ribadendo la necessità di
distinguere le questioni di «abrogazioni» da quelle di «incostituzionalità», e insiste nella richiesta.
Il Tribunale si riserva di decidere dopo gli interrogatori degli altri imputati, e ordina di proseguire
nel dibattimento.

AVV. SORGI. Debbo denunciare una grave violazione. Sono presenti nell’aula, da molto tempo, il
brigadiere Festa e il tenente Petralito, testimoni verbalizzanti, i quali assistono al dibattimento
nonostante le precise disposizioni di legge che lo vietano. Chiedo che essi siano chiamati da lei,
Signor Presidente, e venga loro contestata questa circostanza.

Chiamato, il brigadiere Festa confessa di essere rimasto in aula in ascolto. Invano viene chiamato il
tenente Petralito che si era intanto eclissato (ilarità nell’aula). La protesta dell’avvocato Sorgi è stata
inserita a verbale.
Si procede quindi all’interrogazione degli imputati Troia, Guzzardi, Loria, Stabile, Autovino
Lorenzo, Autovino Leonardo, Mazurco, Geraci, Abbate, Macaluso, Fofi, Puleo, Gallo, Avvenire,
Ania, Speciale e Zanini, i quali confermano le dichiarazioni rese in periodo istruttorio.

TERMINI. Confermo il precedente interrogatorio. In occasione della diffida fattami dal


commissario Dottor La Corte in presenza del tenente Petralito e del maresciallo di P.S. Piazza, io
feci presente che noi ci riunivamo per esercitare un nostro diritto, quello sancito dall’art. 4 della
Costituzione, e che conseguentemente tale riunione non poteva essere vietata. Al che il commissario
La Corte mi disse: – Questo lo dirà al Magistrato.
Mi fu detto che ero fermato solo dopo che avevamo raggiunto lo stradale Partinico-Alcamo,
conseguentemente non avevo motivo di opporre resistenza.

Si dà quindi lettura degli interrogatori resi dagli imputati contumaci: Ferrante, Barretta, Leonardo e
Drago.
Ore 17
Il Tribunale si ritira in Camera di Consiglio per deliberare sull’incidente sollevato dall’avv.
Battaglia e, rientrato in aula alle ore 19, pronuncia ordinanza con la quale l’incidente di
incostituzionalità viene dichiarato «manifestamente infondato»; l’istanza di rinvio viene respinta.

Udienza del 24 marzo 1956, ore 9


Presiede il Tribunale il dottor Rosario Trainito; Giudici Togati i dottori Salvatore Minì e Giovanni
De Simone. La Pubblica Accusa è sostenuta dal sostituto Procuratore della Repubblica, dottor
Pasquale Lo Torto. Cancelliere il Dottor Viviani.
Gli imputati detenuti, Dolci, Zanini, Termini, Speciale, Abbate, scortati da carabinieri, sono condotti
in Tribunale con le manette ai polsi e incatenati.
Appena dichiarata aperta l’udienza, l’avvocato Battaglia chiede la parola.

AVV. BATTAGLIA. Rilevo, anche a nome degli altri colleghi della difesa, che gli imputati detenuti
si trovano ancora ammanettati e incatenati...
P.M. La cosa era stata concordata per ragioni di ordine pubblico.
AVV. BATTAGLIA (continuando). E ciò in aperta violazione dell’art. 427 del Codice di Procedura
Penale, il quale dispone che l’imputato assista all’udienza «libero nella persona». Chiedo quindi che
si provveda secondo legge.
P.M. Aderirei alla richiesta qualora il Presidente non si opponesse.
PRESIDENTE. Capo-scorta dei detenuti, tolga le manette ai detenuti.

Viene data lettura del decreto di citazione contenente i capi di imputazione.

PRESIDENTE. Imputato Danilo Dolci, alzatevi e venite qui, nel pretorio.

Dolci si porta dal banco degli accusati fin davanti lo scranno


del Tribunale.

PRESIDENTE. Narrate quel che avete da dire in ordine ai fatti che formano oggetto della causa.
DOLCI. Un giorno del novembre scorso, vicino a casa nostra nel quartiere Spine Sante di Partinico,
morì una bambina di cinque mesi, – che pesava due chili e duecento grammi, – buttando fuori tutte
le budella.
Morì perché la famiglia non aveva potuto assisterla, e non era stata ricoverata in tempo. La madre
della piccola aveva incaricato la bambina più grande di venire da noi per avere aiuto. La bambina si
mise a giocare lungo la strada e si dimenticò. E noi arrivammo anche questa volta quando ormai era
troppo tardi.
Questo non è un episodio, un fatto isolato. A Partinico casi simili succedono spesso: la stessa Opera
Maternità e Infanzia documenta con statistiche ufficiali che la percentuale della mortalità infantile è
dell’8,7 per cento. Questo fatto mi fece nuova, profonda impressione: non si riusciva più a salvare i
singoli casi, ad aiutare uno per uno tutti quelli che venivano a chiedere soccorso. Avevamo fatto
qualcosa, ma dovevamo fare assai di più. Non bastava certo segnalare e documentare alle autorità
come si vive a Partinico. Avevamo già detto che i trecentocinquanta «fuorilegge» della zona
avevano avuto dallo Stato italiano, per educarli, solo seicentocinquanta anni di scuola, in
complesso, ed oltre tremila anni di galera. Bastino ancora tre soli dati: di questi trecentocinquanta
«fuorilegge», uno solo di loro aveva padre e madre che avevano frequentato la quarta elementare; a
Trappeto nel ’54-’55, su dieci classi elementari erano stati cambiati quarantatré maestri; la pesca
fuorilegge continuava scopertamente da undici anni e chi si moveva per impedirla era deriso dalle
stesse Guardie di Finanza.
A Montelepre il Ministro del lavoro aveva aperto cantieri-scuola. Ma a Partinico niente di
sostanziale era cambiato. Abbiamo rivolto diversi appelli al Presidente della Repubblica, al
Presidente del Consiglio, a tutti i deputati e a tutti i senatori. Anche ad altre autorità abbiamo rivolto
appelli per chiedere soprattutto lavoro, scuola per i ragazzi, assistenza ai figli dei condannati.

Sapevamo che troppo pericolo presentava la situazione: negli ultimi due anni, sedici 1 sono stati i
delitti nella zona di Partinico, fra uccisioni e suicidi. Per tale situazione noi abbiamo mandato alla
stampa e alle autorità documentazioni e appelli con la fiducia che le cose cambiassero. Ma le cose
non cambiarono.
Qualcosa si apriva, nell’animo della popolazione di Partinico: si cominciava a partecipare alla vita
comunale, per esempio, si andava ai diversi Sindacati. Noi desideravamo proprio questo, che la
gente cioè, al di fuori di ogni settarismo, si mettesse in movimento per entrare di fatto in un clima
civile, in un mondo moderno.
Alla fine dello scorso novembre la situazione divenne tesa. Sempre più numerosi i furti; anche
nostri vicini di casa andavano a rubare limoni. Un uomo è stato accusato di aver ucciso suo fratello
per tremila lire. La gente veniva da noi per chiederci aiuto, e venivano a frotte. Non erano casi
singoli, casi isolati.
Erano troppi. Telegrafammo ancora alle autorità. Era arrivato dicembre e voi sapete cosa significhi
l’inverno per i miseri. Noi non volevamo che la gente andasse a rubare o a commettere delitti. Cosa
potevamo fare? La popolazione faceva pressione perché si trovasse una soluzione, un rimedio.
Così per la prima volta siamo andati sulla trazzera vecchia detta di Valguarnera, a due chilometri
dall’abitato. Una strada tutta rovinata. A causa dei sassi scombinati e delle buche non potevano
passare i carri, e la gente chiedeva che venisse aggiustata. Io non sono un anarchico, noi non
eravamo degli anarchici, non intendevamo disfare quella strada: volevamo, potevamo aggiustarla. Il
commissario di Pubblica Sicurezza comandò di tornare a casa, promettendo che il lavoro sarebbe
arrivato; e noi quella volta ritornammo: dovevamo essere particolarmente prudenti, era una grave
responsabilità muoversi, in campagna, senza testimoni, con da una parte uomini che sono padri di
famiglia e dall’altra parte guardie che non sono abituate né agli scioperi, né, credo, allo studio e
all’osservanza della Costituzione. E poi avevo avuto un invito dalla televisione di Torino per
andarvi a parlare dei nostri problemi. Così quel giorno tornammo a casa e, dopo aver parlato coi
disoccupati e le loro famiglie, preparai il testo per la televisione.
Partii per Torino. A Roma mi sono incontrato con Mauro Gobbini, Carlo Levi, Valerio Volpini,
Leone Bortone, Maria Sacchetti Fermi, Guido Calogero, Alberto Carocci e Beniamino Segre.
A Pisa con Aldo Capitini e Walter Binni.
A Firenze Con Enzo Enriques Agnoletti, Maria Chiappelli, Romano Bilenchi, Ettore Bernabei, la
signora Rosselli, Giovanni Michelucci e altri.
A Milano con Elio Vittorini, Franco Alasia, Riccardo Bauer, Piero Malvezzi, Adriano Alloisio e suoi
amici.
A Torino con Franco e Gigliola Venturi, Norberto Bobbio, Giulio Einaudi, Luigi Barale, Umberto
Facca e altri.
A tutti questi amici esponevo il nostro proposito, le nostre esigenze: non abbandonare a se stessa la
popolazione, parteciparla, tornare a lavorare; sulla trazzera vecchia, per esempio. Tornarci in modo
pacifico ma pienamente consapevole; senza alcun disordine ma tornare, per lavorare, e duramente.
Riattare quella trazzera, metterla in condizione di essere transitata; fare insomma un lavoro vero,
generoso, anche per rendere palese che anche a Partinico c’è una grande ricchezza, il lavoro; che le
braccia non mancano al possibile miracolo di cambiare la faccia di quella terra.
Lo stesso proposito di lavorare sulla trazzera vecchia io esposi alla televisione senza che il revisore
politico della RAI sollevasse obiezione alcuna, tranne qualche «limata» più di forma che di
sostanza.
Ero preoccupato, non potevamo in coscienza muoverci se soltanto si poteva supporre che potesse
succedere alla gente qualche male come in quei giorni a Venosa, e prima altrove. Dicevo e chiedevo
a tanti, per raccogliere le opinioni di vari gruppi, per essere più sicuramente esatto.
Poi tornai. Nel ritorno incontrai a Roma Ignazio Silone, Mario Alicata, Vittorio Gorresio, Corrado
Cagli, Raniero Panzieri e Cesare Zavattini.
A Partinico, ancora abbiamo mandato alle autorità e alla stampa un appello: dicevamo che non
potevamo stare con le mani in mano, dicevamo che non lavorare è un reato contro la propria
famiglia e la società. Non possiamo stare in mezzo alla strada, oziosi, come lazzaroni o come
bambini.
Le autorità ci dicano quali lavori si debbono fare e noi li faremo. Abbiamo sempre affermato che
per salvarsi bisogna lavorare, come dice anche l’articolo 4 della Costituzione italiana, il quale
afferma che il lavoro è un dovere oltre che un diritto. Noi siamo convinti che la Costituzione è una
cosa seria. Non lo aveva detto anche il Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, nel suo
messaggio? Lo hanno detto tutti i morti della Resistenza, che sono morti per la Costituzione.
La Costituzione in Italia è la sola legge della quale non ci dobbiamo vergognare.
Allora, abbiamo digiunato un giorno. Ma il commissario di Pubblica Sicurezza lo aveva proibito ed
eravamo stati diffidati ad andare a lavorare, sulla trazzera rotta, per tutti.
Si era deciso di stare a digiunare per un’intera giornata. Un digiuno collettivo proprio per significare
che le cose del mondo non possono cambiare al meglio senza meditare insieme, senza purezza,
senza sacrificio. Noi ci riunivamo per meditare in silenzio cosa si sarebbe potuto fare per cambiare
il nostro piccolo mondo. Le autorità di Pubblica Sicurezza mi chiamarono e mi dissero che la
manifestazione non era autorizzata.
Io risposi che il digiunare non è affatto un reato; in un posto così isolato poi, seduti davanti al mare,
sulla spiaggia di San Cataldo. Il tenente dei carabinieri dubitava fortemente che fosse lecito andare
in molti sulle spiagge. Facendogli io presente che ogni estate da piccolo ero andato al bagno, alle
spiagge popolate di Rimini o della riviera ligure, senza il permesso della polizia, il tenente
esprimeva gran dubbi sulla mia veridicità: – Forse c’erano degli agenti tra i bagnanti.
Se dobbiamo stare distanti gli uni dagli altri, dissi, porteremo un metro e staremo a distanza
precisata, di un metro, un metro e venti, un metro e cinquanta, due metri uno dall’altro: quanto ci si
dice. Noi non intendiamo andare contro legge: noi siamo per la legge e per la giustizia. Quando al
funzionario di Pubblica Sicurezza, a proposito del lavoro, feci presente l’articolo 4 della
Costituzione, mi disse: – Dolci mio, Dolci mio, queste sono utopie, – e lo diceva come con un certo
affetto.
Il lunedì del digiuno...
PRESIDENTE. Lei non è chiamato a rispondere per il digiuno.
DOLCI. Verrò subito anche al resto. Il lunedì del digiuno alla mattina pioveva forte, e noi nella
notte avevamo saputo che a Trappeto e a Balestrate i carabinieri, la sera tardi, avevano diffidato tutti
i capibarca a digiunare a San Cataldo. La gente si era offesa per quel divieto. Poiché a noi
importava il digiuno più che il luogo del digiuno, alle quattro di mattina si decise che i pescatori di
Trappeto (apolitici) rimanessero nella loro Casa del Pescatore, a Trappeto; i pescatori di Balestrate
(apolitici) nella loro Casa del Pescatore, a Balestrate; i disoccupati di Partinico, alla Camera del
Lavoro e alla U.I.L., che soprattutto avevano appoggiato la iniziativa. E opportuno fu decidere così,
perché in un rapido sopralluogo, con giornalisti, fotografi e più tardi un cronista della
Radiotelevisione, vedemmo che solo intorno a Trappeto stavano circa duecento agenti con camion,
camionette, ecc. Muoversi verso San Cataldo, a parte l’inutile bagnarsi per tutta la giornata, avrebbe
potuto determinare un urto: e a noi anche premeva presentare a tutti, e a noi stessi prima, un
biglietto da visita: «Siamo così, vogliamo muoverci da gentiluomini».
Soltanto alcuni, non avvisati in tempo, scesero, malgrado la pioggia intermittente, alla spiaggia di
Ciammarita, ma da noi furono avvisati di ritornare: superflua fu la pressione degli agenti. Nella
mattinata spedimmo dei telegrammi alle autorità e ci fu una riunione al Municipio di Partinico: io vi
partecipai in ritardo e solo di passaggio, perché si parlava di distribuire ciotole di minestra e
pensavo che non era quello il modo per risolvere il problema della disoccupazione, del lavoro.
Questo il lunedì.
Il mercoledì, in una riunione tenuta alla Camera del Lavoro di Partinico (la U.I.L. all’ultimo
momento si era ritirata e gli altri gruppi, tutti invitati, non avevano ufficialmente aderito: ma
partecipava gente di ogni colore, o incolore), si precisò come andare a lavorare gratuitamente sulla
trazzera vecchia. In quella riunione parlò anche il professor Lucio Lombardo-Radice. Dicemmo in
modo chiaro che, se l’azione doveva essere generosa, nessuno poi doveva saltar fuori a dire:
«Datemi i soldi per il lavoro fatto sulla trazzera vecchia». Doveva essere un movimento
disinteressato; se poi ci avessero dato del lavoro, come speravamo, la gente non avrebbe dovuto
dire: «Mandate a lavorare me perché io ho scioperato», ma doveva andare a lavorare prima chi
aveva più bisogno.
Signor Presidente, giochiamo a carte scoperte. Se ci avessero impedito di lavorare, noi saremmo
stati otto ore seduti per terra, con le braccia conserte. Volevamo, anche, fare della trazzera un ufficio
di collocamento effettivo.
PRESIDENTE. Ma se il progetto era di non essere pagati e la manifestazione aveva solo valore
simbolico, perché vi siete rifiutati di sciogliervi, dicendo che volevate lavorare per otto ore? Non
bastava solo mezz’ora di lavoro, in maniera simbolica?
DOLCI. Io non ho detto che l’azione era simbolica. Volevamo lavorare sul serio.
Per non violare la legge andammo sulla trazzera vecchia alla spicciolata, con gli strumenti di lavoro.
Debbo precisare che non avevamo nemmeno un temperino per tagliare il pane.
PRESIDENTE. Non è contestato il porto d’armi abusivo.
AVV. TAORMINA. Ma dallo spirito del verbale di denunzia risulta che la Pubblica Sicurezza
considerava armi gli strumenti di lavoro.
DOLCI. Ripeto che non avevamo con noi alcuna arma, nemmeno un temperino, e questo voleva
essere un nuovo simbolo. La gente capiva proprio questo: che era finito il tempo dei mitra, che la
rivoluzione doveva cominciare dal di dentro. Basta con l’epoca in cui si sparava.
Dopo circa dieci minuti che si stava lavorando sulla trazzera vecchia, ma eravamo ancora in pochi
perché non tutti erano ancora giunti, arrivò un tenente dei Carabinieri, con alcuni militi, che ci
intimò di smettere di lavorare. Noi continuammo. – Ma come, – disse il tenente, – non ubbidite
all’ordine della Polizia?
Io ero in questo stato d’animo: se mi ordinano, signor Presidente, d’ammazzare mio padre, o Lei, o
il signor Pubblico Ministero o qualunque altro, io non lo faccio perché mi ripugna alla coscienza:
perché è un reato. Io considero un reato verso la terra e verso gli uomini smettere di lavorare, –
esattamente, – perché tutti dobbiamo lavorare e non per noi ma per tutti. E poi ci avevano fatto
troppe promesse e nessuna, da molti anni, era stata mai mantenuta.
Comandato di allontanarmi, credendo di essere arrestato, mi sono allontanato accompagnato da tre
agenti, ed è stato allora che ho incontrato il commissario di Pubblica Sicurezza La Corte: io volevo
stringergli la mano e gliel’ho tesa, per sottolineare il carattere pacifico del movimento, ma lui si è
voltato dall’altra parte e non me l’ha voluta stringere. Fu anche allora, poco dopo, che incontrai gli
altri poliziotti che si recavano sulla trazzera vecchia con manganelli e, mi pare, bombe lacrimogene.
Dissi ad un ufficiale: – Mi raccomando, non fate del male a quella povera gente.
Dopo più di un chilometro e mezzo, incontrai Abbate, quasi vicino al commissario capo Di Giorgi,
che stava con un gruppo vicino all’abitato. Questi disse agli agenti di lasciarmi libero. Al che gli
feci presente che sarei ritornato sul posto del lavoro con gli altri e, per altra strada più lunga, perché
non me lo impedissero, in parte sulla Nazionale in parte attraverso i campi, corsi con Ciccio Abbate
dove erano gli altri.
Arrivato, volevano che mi allontanassi, ed io domandai se mi si volesse allontanare o arrestare.
C’era già il commissario Di Giorgi che parlava alla gente, e sentii che diceva di non ascoltare i
nostri consigli perché eravamo dei sobillatori. Io volevo che la legge fosse rispettata e ho precisato,
citando l’articolo 4, che nello spirito della Costituzione non garantire il lavoro è da assassini. Vidi
che il commissario, a sentir la parola «assassini», rimase come folgorato. L’atteggiamento della
polizia era pressappoco così: «Noi rappresentiamo la legge, la legge ha ragione, noi abbiamo
sempre ragione». Comandò di arrestarmi. Mi sedetti per terra, imitando Gandhi. Allora mi
sollevarono di peso; furono quattro o cinque agenti di P.S. a sollevarmi trasportandomi prono,
tenendomi per i polsi e per i piedi. Poi, accorgendosi che così avrebbero potuto spaccarmi qualcosa,
mi capovolsero e mi trasportarono supino.
PRESIDENTE. Quanto pesa lei?
DOLCI. Peso novantacinque chili e sono alto un metro e ottantadue centimetri.
Ogni tanto, quando gli agenti erano stanchi, mi lasciavano giù, nel fango. Io raccomandavo alla
gente di lavorare, ma di rispettare la polizia. Dicevo agli operai di sedersi per terra se impediti. Di
questa azione io ne avevo parlato a Roma anche a Guido Calogero, ed avevamo precisato che
doveva essere un’azione tipica della non violenza, alla indiana, per così dire.
Riconosco che, ancora dalla camionetta, io raccomandavo: – Andate a lavorare, prendete le pale.
Ecco, io non avrei altro da dire. Prima vorrei sapere però se durante il processo si discuteranno
anche le accuse che sono state fatte contro di me dal Commissario e dal senatore Santi Savarino in
un articolo apparso sul «Giornale d’Italia».
PRESIDENTE. No. Qui si discuteranno soltanto i fatti pertinenti al processo.
AVV. BATTAGLIA. Vorrei avanzare due domande ed una precisazione. Prima domanda: ha udito
l’imputato squilli di tromba?
DOLCI. Io non sono sordo. Ci sento benissimo. Ho visto un agente di P.S. con la tromba, ma non ho
udito nessuno squillo. Devo però precisare che da quel luogo mi avevano allontanato per più di
mezz’ora.
AVV. BATTAGLIA. Ha avuto i pantaloni lacerati dalla Polizia?
DOLCI. Scuciti, quando mi sollevarono: dalla coscia fino al risvolto, ma escludo che l’abbiano fatto
di proposito.
AVV. BATTAGLIA. L’imputato Dolci ha chiesto se doveva difendersi dalle accuse mossegli dal
Senatore Savarino ed il Presidente ha risposto negativamente. Chiedo quindi che venga ordinato lo
stralcio dal processo del verbale del 19 febbraio 1956, a foglio 159, in cui il commissario La Corte
ha trasfuse integralmente le accuse e le insinuazioni, contro Danilo Dolci, del Senatore Savarino.
Non è possibile che rimanga in atti un illegale documento di accusa dal quale l’imputato non possa
difendersi. Dichiariamo ad ogni modo fin d’ora che ci opporremo alla lettura di quel verbale.
PRESIDENTE. Ripeto che non dobbiamo sconfinare dai limiti legali del processo. Il verbale non
sarà letto.

L’avvocato Battaglia chiede la parola e svolge anche a nome


dei difensori un incidente sulla incostituzionalità dell’art. 18
delle Leggi di Polizia, chiedendo che si sospenda il giudizio in
corso, si scarcerino gli imputati e si rimettano gli atti alla
Corte Costituzionale per la risoluzione dell’incidente. In via
subordinata chiede il rinvio della causa a nuovo ruolo, in
attesa che la Corte Costituzionale decida su analogo incidente
sollevato dinanzi al Tribunale di Enna in data 12 gennaio
1956, in seguito al quale la Corte Costituzionale, investita del
procedimento, ha ordinato la pubblicazione delle ordinanze
stesse sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 23, del 28 gennaio 1956.

AVV. BATTAGLIA. L’art. 18 delle Leggi di Polizia è in aperto conflitto con l’art. 17 della
Costituzione Repubblicana. Per quale ragione? Non certo perché l’art. 18 richieda il preavviso. Ma
perché, mentre l’art. 17 della Costituzione stabilisce che le riunioni in luogo pubblico possono
essere vietate soltanto per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica, l’art. 18
consente invece che esse siano vietate e disciolte soltanto per la mancanza del preavviso. Su questo
punto un Giudice Costituzionale, Ernesto Battaglini, ha espresso la propria opinione rilevando il
contrasto tra le due norme e la incostituzionalità di quella delle Leggi di Polizia.

Dopo lo svolgimento completo dell’incidente, il P.M. si oppone all’accoglimento delle istanze della
difesa perché «manifestamente infondate». L’avvocato Comandini replica ribadendo la necessità di
distinguere le questioni di «abrogazioni» da quelle di «incostituzionalità», e insiste nella richiesta.
Il Tribunale si riserva di decidere dopo gli interrogatori degli altri imputati, e ordina di proseguire
nel dibattimento.

AVV. SORGI. Debbo denunciare una grave violazione. Sono presenti nell’aula, da molto tempo, il
brigadiere Festa e il tenente Petralito, testimoni verbalizzanti, i quali assistono al dibattimento
nonostante le precise disposizioni di legge che lo vietano. Chiedo che essi siano chiamati da lei,
Signor Presidente, e venga loro contestata questa circostanza.

Chiamato, il brigadiere Festa confessa di essere rimasto in aula in ascolto. Invano viene chiamato il
tenente Petralito che si era intanto eclissato (ilarità nell’aula). La protesta dell’avvocato Sorgi è stata
inserita a verbale.
Si procede quindi all’interrogazione degli imputati Troia, Guzzardi, Loria, Stabile, Autovino
Lorenzo, Autovino Leonardo, Mazurco, Geraci, Abbate, Macaluso, Fofi, Puleo, Gallo, Avvenire,
Ania, Speciale e Zanini, i quali confermano le dichiarazioni rese in periodo istruttorio.

TERMINI. Confermo il precedente interrogatorio. In occasione della diffida fattami dal


commissario Dottor La Corte in presenza del tenente Petralito e del maresciallo di P.S. Piazza, io
feci presente che noi ci riunivamo per esercitare un nostro diritto, quello sancito dall’art. 4 della
Costituzione, e che conseguentemente tale riunione non poteva essere vietata. Al che il commissario
La Corte mi disse: – Questo lo dirà al Magistrato.
Mi fu detto che ero fermato solo dopo che avevamo raggiunto lo stradale Partinico-Alcamo,
conseguentemente non avevo motivo di opporre resistenza.

Si dà quindi lettura degli interrogatori resi dagli imputati contumaci: Ferrante, Barretta, Leonardo e
Drago.
Ore 17
Il Tribunale si ritira in Camera di Consiglio per deliberare sull’incidente sollevato dall’avv.
Battaglia e, rientrato in aula alle ore 19, pronuncia ordinanza con la quale l’incidente di
incostituzionalità viene dichiarato «manifestamente infondato»; l’istanza di rinvio viene respinta.

Udienza del 27 marzo 1956, ore 8,20


DI GIORGI. Commissario capo di P.S. Confermo le
dichiarazioni rese in periodo istruttorio.
Insisto nell’affermare che il Dolci non diede pugni né calci, devo però far presente, che il Dolci si
dimenava con le braccia per svincolarsi dagli agenti che lo avevano afferrato.
Il Dolci, come ebbi a notare, fece l’atto di volersi sedere a terra abbassandosi, ma poi si rialzò. Non
appena il Dolci si rialzò, sopraggiunsero le guardie e lo afferrarono. Ebbi modo di notare che anche
lo Abbate e lo Speciale si dimenavano con le braccia per divincolarsi dagli agenti che li avevano
afferrati.
Insisto nell’affermare che il Dolci, non appena io lo invitai ad allontanarsi facendogli presente che
diversamente avrei dovuto arrestarlo, ebbe a profferire al mio indirizzo le seguenti parole: – Mi
arresti se può – e immediatamente dopo aggiunse: – Chi va contro di noi è un assassino –. Nel dire
ciò il Dolci diceva di esercitare un diritto sancito dalla Costituzione, al che, io risposi: – Per me
esiste un articolo della legge di P.S. che devo fare osservare, quindi si allontani.
L’espressione «chi va contro di noi è un assassino» fu ripetuta dallo Speciale, dall’Abbate e da altri
due che poi in ufficio ho identificato per il Ferrante e il Macaluso. Tale espressione come ben potei
percepire fu ripetuta dallo Zanini e dal Termini che se ne stavano al di là del torrentello a circa
dieci-quindici metri di distanza da me.
DOLCI. Erano cinquanta metri circa: non si poteva sentire.
DI GIORGI. In quel momento mi trovavo nel punto in cui la trazzera sale dolcemente a curva.
Quando io percepii le parole di cui parlavo, e vidi il Dolci, lo Abbate e lo Speciale che cercavano di
divincolarsi dagli agenti che li avevano afferrati, stavano vicino a me, a distanza dai tre a sei metri,
il commissario di P.S. La Corte, il tenente dei carabinieri Petralito e parecchi agenti e carabinieri
che non so indicare. Quando io mi mossi per recarmi sul posto di cui ho parlato, cioè nel punto dove
la trazzera sale a gomito, lasciai la camionetta dei carabinieri a circa duecento metri, dopo non me
ne accorsi più anche perché non potevo accorgermene. Pertanto non so dove si trovava la
camionetta quando fu afferrato il Dolci e condotto verso la camionetta stessa.
Io incontrai il Dolci e lo Speciale all’inizio della trazzera vecchia, accompagnati da due agenti, poco
prima avevo incontrato lo Abbate che si avviava verso la trazzera vecchia e gli avevo domandato la
carta di identità, ciò feci perché lo Abbate era senza strumento di lavoro ed ebbi tuttavia
l’impressione che egli fosse diretto alla trazzera vecchia.
Lo Abbate in quel momento portava una cravatta rossa.
In altri termini io vidi prima di tutti lo Abbate che veniva dal paese e si recava verso la trazzera
vecchia; dopo circa dieci minuti vidi il Dolci e lo Speciale accompagnati da due agenti di P.S.
Quando incontrai il Dolci e lo Speciale notai che stava con loro anche lo Abbate che come ho detto
avevo visto un dieci minuti prima. Come ho deposto in periodo istruttorio, appena vidi per la prima
volta il Dolci e lo Speciale in compagnia dell’Abbate lungo la trazzera vecchia, io raccomandai ai
predetti di non ritornare nel posto al che essi mi risposero che non potevano promettermelo; infatti il
Dolci, lo Speciale e lo Abbate ritornavano verso il grosso dei dimostranti. Io proseguii pure verso il
grosso dei dimostranti e li raggiunsi là dove la trazzera forma un gomito ed è in salita. Il Dolci, lo
Abbate e lo Speciale invece si avviarono verso lo stesso punto per altra via, alla mia destra, anzi,
alla mia sinistra, per una strada che va verso la campagna cui camminavano a passo svelto. Quando
fummo sul posto ove la trazzera fa gomito, mi fermai perché i dimostranti venivano agitando gli
strumenti di lavoro, fra costoro notai subito il Dolci, lo Abbate e lo Speciale.
Io percorsi la trazzera per un tratto con la camionetta, a un certo punto la dovetti lasciare perché la
trazzera era impraticabile.
Io percorsi in camionetta un tratto della trazzera lungo da trecento a quattrocento metri. Dal punto
dove fu lasciata la camionetta per la impraticabilità della seconda trazzera, al gomito della trazzera
stessa ove io raggiunsi i dimostranti intercede una distanza di circa duecento-duecentocinquanta
metri.
Io percorsi la trazzera sia per la parte percorsa in camionetta sia per quella percorsa a piedi. Il tratto
in camionetta lo percorsi da solo perché avevo lasciato il tenente Cosentino dove avevo incontrato
lo Abbate. Il tratto a piedi lo percorsi in compagnia del detto tenente Cosentino. Davanti a noi
camminavano lungo la stessa trazzera il commissario La Corte e il tenente Petralito.
Al momento del fermo del Dolci, il ten. Cosentino si trovava alla mia sinistra vicino al torrentello e
a lui io diedi subito l’ordine di andare a fermare il Termini e lo Zanini che si trovavano oltre il
torrentello.

COSENTINO, S. ten. di P.S. Confermo la mia dichiarazione. La frase «chi è contro di noi lavoratori
è un assassino» fu profferita dal Dolci e ripetuta da altri, uno dei quali era quel tale che io e il
commissario Di Giorgi avevamo incontrato mentre ci recavamo verso la trazzera vecchia, costui
portava una cravatta rossa e fu identificato al commissariato per Abbate Francesco. Quando fu
profferita dal Dolci e dagli altri la frase su accennata «chi è contro di noi ecc.» io mi trovavo
accanto al dottor Di Giorgi.

LA CORTE, commissario di P.S. L’invito di non allontanarsi e di completare le otto ore lavorative
fu rivolto dal Dolci, dallo Speciale e da altri che non so indicare. La frase «chi è contro di noi ecc.»
pronunziata dal Dolci, fu ripetuta in coro dalla gran maggioranza degli altri dimostranti, compresi
quelli che si trovavano oltre il torrente. Di questi io identificai lo Zanini, lo Speciale, lo Abbate che
conoscevo, aggiungo che fu ripetuta anche dal Termini. Per quanto riguarda l’imputazione di
resistenza, specifico che il Dolci in un primo tempo fu trasportato di peso dagli agenti con la faccia
e l’addome rivolti verso il basso. In un secondo tempo lo capovolsero e così il Dolci venne a
trovarsi con la pancia e l’addome verso l’alto. Durante il trasporto egli cercava di divincolarsi
agitando gli arti superiori senza dar pugni, e agitando alla stessa maniera gli arti inferiori senza dar
calci; tuttavia colpì qualcuno degli agenti con le mani e con i piedi. Presso a poco allo stesso modo
si comportarono lo Abbate e lo Speciale. Per il trasporto del Dolci furono impiegati circa otto
agenti. Il Dolci salì sulla camionetta senza opporre resistenza passiva mentre lo Abbate e lo Speciale
ostacolavano l’opera degli agenti appoggiando i piedi sulla camionetta stessa. Io accompagnai il
Dolci, lo Speciale e lo Abbate durante il loro trasporto verso la camionetta, dopo presi posto nella
camionetta e accompagnai i predetti fino al Commissariato di Partinico.
Per quanto riguarda il Narzisi debbo fare presente che di lui si occupò il mio collega Di Giorgi; mi
consta tuttavia che fu chiamato un fotografo di Partinico che non so indicare e che costui accertò
che nessuna pellicola era stata impressionata.
Insieme a Narzisi furono accompagnati nel mio Commissariato altri fotografi, credo due. Non
ricordo se in occasione della diffida fatta al Termini il 29 gennaio 1956, il Termini mi abbia fatto
presente che agivano in forza dell’art. 4 della Costituzione che concepiva il lavoro come un diritto e
come un dovere e che io abbia risposto: «di questo poi ne parlerà al Magistrato...».

Viene contestato al teste quanto risulta da lui dichiarato al Consigliere Istruttore circa la presenza di
Abbate sul posto di lavoro nella prima fase, quando cioè il detto Abbate e il Dolci furono per la
prima volta allontanati.

LA CORTE. Confermo, e ricordo che lo Abbate fu il secondo ad essere allontanato.

A questo punto si contesta al teste quanto dichiarato dal teste Di Giorgi, che cioè lo Abbate fu
incontrato dal Di Giorgi alle porte del paese (a più di due chilometri di distanza e a più di mezz’ora
di strada) mentre si recava verso il posto della manifestazione.

LA CORTE. Non so spiegarmi la mia contraddizione con il teste Dr. Di Giorgi; è certo comunque
che io una prima volta feci allontanare prima il Dolci e poi l’Abbate.

PETRALITO, ten. dei Carabinieri. Confermo le dichiarazioni precedentemente fatte. Non posso
confermare la circostanza di avere visto nella prima fase anche lo Abbate perché non sono certo di
averlo visto. Null’altro da aggiungere alla deposizione resa in periodo istruttorio. L’espressione
profferita dal Dolci: «chi è contro ecc.» fu ripetuta dagli altri, quasi da tutti gli altri, ma non so
indicare nessuno di quelli che la ripeterono.
Il Termini e lo Zanini si trovavano al di là del fiume a circa trenta-quaranta metri da me e non potei
percepire le parole da essi pronunciate. Quando io sentii pronunciare la frase incriminata, il
commissario Di Giorgi e il commissario La Corte si trovavano vicini a me alla distanza di circa tre
metri.
Per quanto riguarda l’imputazione di resistenza posso solo dire di aver visto che il Dolci, lo Abbate
e lo Speciale si dimenavano per divincolarsi dagli agenti che li trasportavano. In mia presenza i
predetti non diedero né calci né pugni. Aggiungo che fui io il primo ad afferrare il Dolci per un
braccio. Il Dolci appena fu afferrato da me si voltò all’indietro tentando di svincolarsi e rivolto agli
altri dimostranti li invitava a restare sul posto e a non avere paura.
Al momento del fermo del Dolci, si trovava vicino a me il brig. Festa, il quale se non ricordo male
partecipò inizialmente al trasporto del Dolci, dopo rividi il Festa vicino alla camionetta.
Nella circostanza del fermo lo Speciale ebbe a protestare in mia presenza contro il brigadiere Festa
assumendo che costui gli avesse dato del porco, non ricordo se si sia anche lamentato di aver
ricevuto un pugno da parte dello stesso Festa, anzi escludo di avere sentito lo Speciale di avere
ricevuto un pugno.
A questo punto su richiesta dell’avv. Sorgi si richiede all’imputato Dolci se lo stesso aveva invitato
il signor Narzisi perché intervenisse alla manifestazione e ne ritraesse qualche scena.
DOLCI. Non avevo invitato soltanto una persona: avevo invitato la stampa italiana, la RAI e la TV
perché volevo che si controllasse quello che noi facevamo, e che ci muovevamo da gentiluomini:
perché volevamo dei testimoni, – soprattutto dopo quanto era avvenuto a Venosa pochi giorni
prima.

PIANA, guardia di P.S. Confermo quanto dichiarato in istruttoria.

FESTA, brig. dei CC. Confermo la deposizione resa in istruttoria. Sono stato presente in udienza
mentre venne discussa dai difensori la questione sulla legittimità costituzionale dell’art. 18 della
legge di P.S. Durante l’interrogatorio del Dolci non ero stato in aula.
Nego di aver dato un pugno allo Speciale. Io partecipai per alcuni passi al trasporto del Dolci e
notai che questi si dimenava per divincolarsi dando gomitate e agitando i piedi. Il Dolci in un primo
tempo fu trasportato in posizione prona. Finché io partecipai al trasporto del Dolci questi fu
trasportato sempre in posizione prona. Il Dolci veniva trasportato di peso da agenti che lo
trattenevano per le braccia e per le gambe. Dopo di che io lasciai il Dolci, mi occupai dello Speciale
che io accompagnai fino alla camionetta. Lo Speciale veniva trasportato pure per le braccia e per le
gambe però con la faccia rivolta verso l’alto. Egli si dimenava agitando pure le braccia e le gambe
però con maggiore violenza di quanto non facesse il Dolci.

CRIVELLARO, car. Confermo la deposizione resa in istruttoria. Il Dolci agitava le braccia e le


gambe anche mentre veniva trasportato in posizione prona. Durante tale periodo, cioè mentre
veniva trasportato in posizione prona, io fui colpito con un piede dal Dolci nell’atto in cui questi si
dimenava.
Nulla so dire di specifico sulla condotta esplicata da Speciale, Abbate, Zanini, e Termini; notai pero
che anche costoro cercavano di divincolarsi dimenandosi. In un primo tempo sollevammo dal suolo
il Dolci, io e il tenente Petralito che poco dopo fu sostituito dal brigadiere Festa, il quale partecipò
al trasporto per poco tempo e poi si interessò dello Speciale.

TORRE, car. Confermo la deposizione resa in istruttoria.


Io mi occupai di Macaluso e dello Speciale. Notai che il Termini si trovava al di là del torrente a
circa quindici metri di distanza. Io prestavo servizio come addetto alla stazione di Partinico. Quando
fu pronunziata la frase «chi è contro di noi lavoratori è un assassino», il tenente Petralito era vicino
a me.
Viene contestato al teste che il tenente Petralito ha dichiarato che il Termini si trovava a circa trenta
o quaranta metri di distanza da lui e che esso Petralito non percepì le parole oltraggiose pronunziate
dal Termini.
TORRE. Insisto nel confermare quanto ho già dichiarato, il Termini si trovava a circa quindici metri
di distanza da me ed io percepii che il Termini ripeté le frasi oltraggiose.
CAPRETTI, m.llo di P.S. Confermo quanto ho dichiarato in periodo istruttorio. Il Termini in un
primo tempo veniva condotto da due agenti i quali lo tenevano afferrato ciascuno per un braccio. Lo
stesso cercava di divincolarsi dando spintoni colle braccia e si rifiutava di oltrepassare il fiume. In
un secondo tempo, e precisamente dopo l’ordine di arresto, il Termini non oppose più resistenza e si
decise ad oltrepassare il fiume. Il torrente si poteva attraversare perché era provvisto di pietre
larghe; difatti, quasi tutti lo attraversarono.
Ore 16,20
Le guardie di P.S. Pirrotta, Polcarelli, Di Saverio, De Cristofaro e Tanco confermano quanto hanno
dichiarato in istruttoria.

PETROSILLO, guardia di P.S. Confermo la deposizione da me resa.


Non sono in grado di precisare gli atti di violenza compiuti dal Dolci. In un primo momento notai
che il Dolci si dimenava e cercava di divincolarsi.
AVV. VARVARO. Chiedo che il teste Petrosillo sia invitato a riconoscere l’imputato Abbate di cui
aveva affermato di ricordare i movimenti.

Nel frattempo la Difesa aveva invitato l’imputato Abbate, che era il primo a sinistra sul banco degli
imputati, a scambiare il proprio posto con quello dell’imputato Speciale. Il teste Petrosillo, dopo
essersi avvicinato e aver guardato tutti gli imputati, indica per Abbate il primo a sinistra: che è
invece Speciale (ilarità nell’aula).

PETROSILLO. Accompagnavamo l’Abbate, io, l’agente Capone e un vicebrigadiere dei Carabinieri


in borghese di cui ignoro il nome. L’Abbate, come ho detto, io non lo conoscevo, come ho detto
prima, però gli altri dicevano che detta persona si chiamava Abbate.
L’Abbate cercava di farmi cadere non in un torrente (come era stato dichiarato in istruttoria) che
era rimasto dietro di noi, ma in una pozza d’acqua che si era formata con la pioggia lungo la
trazzera (ilarità nell’aula).

A domanda della Difesa l’Ufficio dà atto che il teste, invitato a riconoscere l’imputato Abbate,
prima che si avvicinasse verso gli imputati, si era espresso nei seguenti termini: «Lo conosco perché
l’ho accompagnato io».

DI LECCE, guardia di P.S. Confermo la deposizione da me resa in istruttoria.

CAPONE, guardia di P.S. Confermo la deposizione da me resa in istruttoria. Conobbi per la prima
volta l’Abbate in occasione del servizio eseguito il 2 febbraio alla trazzera vecchia di Partinico.
Sono in grado di poterlo riconoscere fra gli altri imputati.

Speciale e Abbate intanto, mentre due difensori si erano alzati, si erano rapidamente scambiati di
posto. Invitato a riconoscere l’Abbate, il teste indica per Abbate lo Speciale (grande ilarità e rumori
nell’aula).
Il P.M. protesta contro la Difesa affermando che essa ha compiuto una «indelicatezza», inducendo
gli imputati a cambiare il loro posto, senza aver prima ottenuto il permesso dal Presidente.

AVV. BATTAGLIA. Dichiaro al Pubblico Ministero che indelicatezze di questo genere non ci
pesano e che siamo anche disposti a ripeterle quando esse giovino all’accertamento della verità e
dell’attendibilità dei testimoni.

CAPONE. Non so precisare le parole dette dal Dolci quando invocava l’art. 4 della Costituzione,
ricordo che egli diceva che dovevano lavorare per otto ore e pronunciò inoltre l’espressione: «Chi è
contro di noi lavoratori è un assassino».

LOMBARDO, guardia di P.S. Confermo la deposizione resa in istruttoria.


Il Termini oppose resistenza dopo che furono suonati i tre squilli di tromba, in quanto si rifiutava di
oltrepassare il torrente e diceva: – Se volete mi dovete trasportare di peso –. Allora io l’afferrai sotto
un braccio per portarlo avanti ma egli mi dava gomitate per svincolarsi, tanto che mi fece sporcare
di fango.

Su richiesta dell’avv. Varvaro viene contestata al teste la deposizione contraddittoria, resa dal
tenente Cosentino ai ff. 48-51.
LOMBARDO. La deposizione extragiudiziale a f. 136 fu da me rilasciata al capo dell’Ufficio del
XIII Reparto Mobile.

SIMOLA, guardia di P.S. Confermo la deposizione resa in istruttoria.

ZANINI. Appena mi furono applicate le manette io, che ero


seduto, opposi resistenza passiva tanto che gli agenti cercarono
di trasportarmi di peso. Durante l’opera che il teste qui
presente svolgeva per trasportarmi, insieme agli altri suoi
colleghi, anzi da solo, egli riportò una lesione. Preciso che
riportò tale lesione a un dito perché mi trascinava da solo per
mezzo delle catenelle e tenendo il dito in un anello di esse.

VALERIO VOLPINI. Lo scorso gennaio, credo il 3 o il 4, verso


mezzogiorno, incontrai a Roma Danilo Dolci che conoscevo da
circa sette anni e col quale avevo rapporti epistolari e diretti. Il
Dolci era in compagnia di un mio collega di italiano e storia e
di un bambino di circa undici anni che faceva parte del Borgo
di Dio, istituzione che era stata creata da Dolci a Trappeto.
Il Dolci a Roma tenne una conversazione alla quale io partecipai; in tale conversazione si parlò di
una manifestazione che il Dolci si proponeva di tenere in Partinico e che doveva dimostrare alle
autorità le condizioni di disoccupazione della popolazione di Partinico e anche la possibilità di
lavoro che offriva quella zona.
Anch’io portai il contributo della mia parola e raccomandai espressamente al Dolci di non
politicizzare, cioè di mantenere la manifestazione entro i limiti della apoliticità.
Intendevo riferirmi a limiti umanitari, apostolici, non di parte, e raccomandavo che fosse esclusa
qualsiasi speculazione di parte: il Dolci era d’accordo su ciò, anzi era addirittura il suo pensiero che
io ribadivo. Non ricordo se in quella circostanza il Dolci abbia indicato il giorno in cui avrebbe
dovuto aver luogo la manifestazione. Nella conversazione di cui ho parlato, il Dolci ebbe a dire
espressamente che era suo proposito di comportarsi in modo del tutto pacifico; ciò dicendo egli non
fece altro che confermare la sua indole che aborriva da qualsiasi idea di violenza: la sua condotta
era ispirata a principî assolutamente pacifici e di fraternità. Il Dolci inoltre ebbe a precisare che egli
si preparava a liberare i bisognosi di Trappeto: ad elevarne lo spirito attraverso l’esempio della
nonviolenza, dell’amore per il bello, e attraverso l’educazione spirituale.
Ho composto un’antologia di poesia religiosa contemporanea nella quale sono riportate diverse
liriche del Dolci.
VITTORIO GORRESIO. Verso il 18 gennaio u.s. ebbi
occasione di incontrare a Roma il mio amico Danilo Dolci e da
lui fui informato circa le manifestazioni che intendeva svolgere
di lì a pochi giorni a Partinico. Il carattere dell’azione doveva
essere assolutamente pacifico e a questo scopo egli aveva
predisposta una sua scrupolosa organizzazione.
Nessuno doveva essere armato nemmeno del coltello per tagliarsi il pane; per calmare comunque gli
spiriti, alla vigilia si sarebbe compiuto un digiuno propiziatorio; il giorno seguente si sarebbe dato
opera ai lavori per la riparazione di una trazzera, lavoro non puramente simbolico, ma altresì
corrispondente ad una effettiva ragione di pubblica utilità.
Mi disse Danilo Dolci, concludendo, che la sua certezza nell’atteggiamento pacifico dei braccianti
era assoluta e che la sua speranza più viva era che incidenti non avessero comunque a prodursi, per
evitare che nell’animo dei braccianti si producesse la sensazione di amara delusione nel vedersi
respinti da una società al cui benessere e al cui sviluppo aspiravano a collaborare.

GIGLIOLA VENTURI. ... Verso la metà dello scorso gennaio,


Danilo Dolci venne a Torino per parlare alla Televisione dalla
quale era stato invitato a spiegare il programma del suo
lavoro. In tale circostanza io, che conoscevo il Dolci, ebbi
occasione di parlare con lui e da lui appresi il proposito che
egli aveva di tenere a Partinico una manifestazione che
chiamava «festa del lavoro» e colla quale si proponeva di
dimostrare alle autorità e alla società la volontà di lavoro che
avevano tutti i disoccupati di Partinico.
Tale manifestazione doveva essere preceduta da un digiuno collettivo.
Il Dolci mi disse che la manifestazione doveva essere condotta in modo pacifico e avrebbe
raccomandato ai dimostranti di subire con rassegnazione ogni eventuale violenza da parte degli altri
e di non reagire, sedendosi a terra e incrociando le braccia. Si proponevano di ascoltare, se impediti
al lavoro, della musica.
Il 1 febbraio successivo, il Dolci mi telefonò informandomi che l’indomani si sarebbe recato coi
disoccupati di Partinico ad eseguire dei lavori sulla trazzera che era in stato di abbandono. Nel dirmi
ciò mi fece presente che era preoccupato per eventuali reazioni dell’autorità e mi pregò che il
comitato che da due anni esisteva in Torino, in favore di quelle zone, gli facesse pervenire un
telegramma di adesione e solidarietà.
GERACI. La mattina del 2 febbraio u.s., mentre percorrevo la
trazzera vecchia per recarmi in contrada «Zannu» notai delle
forze di polizia e vidi alcuni agenti trasportare di peso un
uomo che poi seppi chiamarsi Danilo Dolci. Non sentii
profferire parole oltraggiose di sorta. A un certo momento
quelli della polizia mi fecero tornare indietro. Il Dolci non
opponeva resistenza e si limitava a protestare dicendo: – Che
cosa stiamo facendo noi, vogliamo lavorare.

LA ROSA. Ricordo che mi trovai a passare per la trazzera vecchia la mattina del 2 febbraio 1956
quando intervenne la polizia. Vidi lo Speciale fra due agenti e notai che non opponeva resistenza.

LA CORTE. Il 2 febbraio u.s. fui presente alla trazzera vecchia quando vi era la polizia e notai che
Danilo Dolci dichiarava pubblicamente che quello che facevano era entro legge. A un certo
momento Danilo Dolci si mise a sedere per terra e gli agenti lo sollevarono di peso e lo
trasportarono. In mia presenza il Dolci non commise atti di violenza. Non sentii suonare squilli di
tromba.

CANNATELLA. Io vidi lo Speciale sulla camionetta e notai che era calmo.

NOBILE. Conforme al precedente, io mi trovavo in compagnia del Cannatella.

VITTONE. In occasione dell’Assemblea che io tenni alla Camera del Lavoro di Partinico, la stessa
mattina del 2 febbraio 1956, subito dopo il fermo del Dolci e degli altri, tutti quelli intervenuti non
sapevano spiegare la ragione del fermo, giacché dicevano che questi e gli altri non opposero
resistenza né commisero atti di violenza. In particolare, uno degli intervenuti fece presente che il
Dolci aveva detto testualmente: «Chi non garantisce il lavoro secondo lo spirito della Costituzione,
è un assassino».

CARDAMONE. Confermo quanto ho dichiarato in istruttoria.

Udienza del 28 marzo, ore 9,30


LUCIO LOMBARDO-RADICE. Confermo quello che ho
detto al Giudice Istruttore; vorrei però aggiungere tre
precisazioni.
In primo luogo, voglio ricordare che quando Danilo Dolci (di ritorno da Torino) si trattenne a Roma
per qualche giorno alla fine dello scorso gennaio, volle discutere con molti amici romani l’azione
che egli intendeva promuovere perché i disoccupati di Partinico trovassero lavoro. Oltre che con me
e mia moglie, Danilo ne parlò, ad esempio, con il professor Beniamino Segre, Accademico Linceo,
ordinario di geometria superiore all’Università di Roma. Io mi dichiarai piuttosto contrario alla idea
di un digiuno collettivo prima della giornata di lavoro sulla trazzera; Danilo mi rispose che egli
voleva essere assolutamente sicuro che non vi sarebbero stati scontri violenti, e che perciò riteneva
necessario che la giornata sulla trazzera fosse preceduta da una giornata di purificazione, di
meditazione silenziosa collettiva, di alto raccoglimento spirituale.
In secondo luogo, debbo dire che nella riunione del 1° febbraio alla Camera del Lavoro di Partinico
(alla quale partecipai, e presi la parola per portare un saluto e un augurio), nessuno pensò alla
eventualità di arresti nella manifestazione dell’indomani. Si trattava, forse, di nostra scarsa
conoscenza di certi articoli dei vecchi codici; in realtà, avevamo il diritto di non credere a certe
asserzioni delle autorità locali, le quali avevano dichiarato pochi giorni prima illegale il digiunare su
suolo demaniale. La preoccupazione, e grave!, era un’altra; era che tutto procedesse in modo civile
e pacifico, senza scontri e incidenti; i nostri uomini erano infatti sotto la dolorosa impressione, dico
meglio, sotto l’incubo dei recenti fatti di Venosa, della morte del giovane bracciante disoccupato
Rocco Girasole.
In terzo luogo, ricordo perfettamente che in quella riunione fu il segretario della Camera del Lavoro
di Partinico, Salvatore Termini, a mettere in guardia con molta energia i partecipanti contro voci che
egli aveva raccolte, e che riteneva messe in giro ad arte da «sciagurati», e cioè contro la voce che
sarebbe stato pagato un salario a chi avrebbe partecipato l’indomani al lavoro sulla trazzera vecchia.
Termini disse con forza che la manifestazione era disinteressata, che si sarebbe lavorato otto ore
senza alcun compenso.

AVV. BATTAGLIA. Sa precisarmi il teste se Danilo Dolci ha invitato giornalisti, fotografi,


operatori cinematografici sulla trazzera vecchia per testimoniare e documentare che la
manifestazione si sarebbe svolta in forma pacifica?

LOMBARDO-RADICE. Sì, la sera del 2 febbraio si parlò anche di questo. Fui invitato anch’io ma
non ho potuto accettare perché avevo impegni universitari e ripartii per Palermo la sera stessa.
Ricordo che Danilo Dolci mi volle a cena con sé. Fu consumata una cena assai modesta,
insufficiente.

A questo punto l’imputato Danilo Dolci spontaneamente dichiara:

DOLCI. Tengo a precisare che l’espressione da me profferita: «non garantire il lavoro, secondo lo
spirito della Costituzione, è da assassini», si può dire che era premeditata: corrispondeva a uno stato
d’animo non improvviso, ma maturato attraverso lungo esame che io avevo fatto del problema del
lavoro e della possibilità della sua soluzione. Ciò e confermato da alcuni manifesti che la Camera
del Lavoro e la U.I.L., su mio suggerimento, avevano affisso in Partinico, nei quali manifesti era
soltanto riportato l’art. 4 della Costituzione, e da 295 pagine del mio libro Banditi a Partinico
pubblicato dall’editore Laterza nel novembre 1955.

MARIA FERMI SACCHETTI. ... Nel gennaio scorso Danilo


Dolci passò da Roma due volte. Verso il 3, fu a casa mia. Si
preparava ad andare a Torino e a Milano, per parlare alla TV.
Già allora parlò dell’azione alla trazzera, che, come intesi,
doveva essere un’opera del tutto pacifica, rivolta non solo a
migliorare la trazzera, ma a incoraggiare i braccianti e i
disoccupati in disperata povertà, perché si muovessero su una
via giusta: abbandono di ogni forma di violenza, lavoro inteso
come diritto e dovere insieme.
Danilo Dolci tornò dopo il 20 gennaio. Aveva una modesta macchina, che sarebbe servita per
portare al mare, d’estate, i bambini di Partinico. Io lo accompagnai su questa macchina a Napoli,
dove dovevo recarmi presso parenti. Durante il viaggio parlammo a lungo. Era tutto preso dalla
preparazione del suo progetto per la trazzera: si preoccupava soprattutto di improntarlo a un
carattere di nonviolenza, di opera del tutto pacifica. E per questo voleva che i partecipanti fossero
completamente privi non solo di armi, ma anche di temperini per tagliare il pane. Si proponeva di
obbedire ad eventuali imposizioni della polizia, smettendo di lavorare e sedendosi pacificamente, se
fossero stati invitati a interrompere il lavoro. Voleva anzi che sul luogo, in tal caso, si eseguisse
della musica che elevasse lo stato d’animo dei presenti. Io gli credetti, perché credo di aver capito il
suo pensiero: che tutti si muovano su una base di pacifica intesa; convinto che il male non si
combatte col male, pronto alla resistenza fino all’estremo sacrificio, ma sempre senza mala
violenza.
Perciò non credetti quando i primi resoconti dei giornali dissero che aveva insultato la polizia,
gridando: «assassini», pensai subito che le sue parole fossero state mal capite, nel momentaneo
turbamento e confusione, e che l’accusa di assassinio fosse rivolta non alla polizia intervenuta, ma a
tutta la nostra società che, tollerando la miseria, è complice di rovina e di morte.
Lo conosco da anni. Fui a Trappeto nel 1952, e un anno dopo a Trappeto e Partinico. La mia fiducia
in lui e nei suoi amici mi ha indotta a consentire di buon grado quando, qualche settimana fa, mia
figlia Gabriella mi chiese il permesso di recarsi a Partinico, per dare un aiuto in un momento di
bisogno.

ALBERTO CAROCCI. ... Dolci mi parlò più volte della


manifestazione che intendeva organizzare per condurre
gruppi di disoccupati a fare dei lavori di utilità pubblica ai
quali le autorità non provvedevano. Egli vedeva in ciò due
obbiettivi: da un lato, destare i poteri pubblici dalla loro
indifferenza richiamandone l’attenzione sulla necessità di
opere che venivano trascurate; dall’altro, il valore educativo
che un tal lavoro avrebbe avuto sulla popolazione, col
sottolineare che la cosa pubblica è la cosa di tutti e di ciascuno,
e che lavorare per il bene pubblico è lavorare per il bene di
ciascuno di noi. Anche per questo, il lavoro di riparazione
della vecchia trazzera doveva essere compiuto gratuitamente.
Danilo Dolci non poteva neanche concepire che la manifestazione non avesse carattere
rigorosamente pacifico, nonviolento, civilissimo. È ovvio che soltanto in questa forma la
manifestazione aveva un senso. Egli anzi non la chiamava neanche manifestazione, ma «festa», e
pensava che dovesse essere allietata da musica, e che dovesse essere preceduta da un digiuno quasi
come da una preparazione spirituale.
...

NORBERTO BOBBIO. ... Conosco Danilo Dolci dal gennaio


1954, e ho avuto frequenti occasioni di intrattenermi con lui e
ascoltarlo. Aggiungo che sono l’autore della prefazione
dell’ultimo lavoro di Dolci, Banditi a Partinico.
L’ultima volta che ho visto il Dolci è stato il 12 gennaio scorso; l’indomani egli doveva parlare alla
televisione ed esporre pubblicamente il suo programma di azione. Di tale programma egli mi parlò
il 12 gennaio, in particolare mi disse che si proponeva di attuare in Partinico una manifestazione la
quale doveva consistere nella esecuzione di lavori in una pubblica trazzera abbandonata, da parte di
disoccupati di quella zona. Egli tenne a precisare il carattere apolitico della manifestazione e
l’assoluta assenza di qualsiasi idea di lucro. La manifestazione doveva avere un carattere anche
simbolico.
Il Dolci ancora una volta affermò che era lontana dal suo animo ogni idea di violenza e che avrebbe
attuato la manifestazione solo se avesse avuto la certezza che nessuno dei partecipanti avesse usato
la violenza.
Quanto ebbe a dirmi quel giorno il Dolci, confermava quello che egli aveva scritto nei propri libri
che io ben conoscevo.

ELIO VITTORINI. ... Conosco Danilo Dolci da due anni. È


stato un religioso dell’ordine dei servi di Maria, mio amico di
vecchia data, a presentarmelo. Io ero in principio diffidente.
Inclino sempre a diffidare delle attività in cui si mescolano le
manifestazioni religiose e le rivendicazioni sociali. Ma appena
ho conosciuto Danilo le mie riserve sono cadute. Quanto alle
sue idee, quanto ai suoi propositi, quanto soprattutto ai suoi
metodi (i suoi metodi di tipo indiano che molti trovano così
sconcertanti), debbo dire che li giudico i più adatti per la
Sicilia. Nell’Italia settentrionale non sarebbero forse
pertinenti. I digiuni e le altre forme di protesta passiva cui
Danilo ricorre potrebbero anzi riuscire, nell’Italia
settentrionale, addirittura ridicole. Ma la Sicilia somiglia
molto all’India. Io sono siciliano, signor Presidente, e lo so fin
dalla mia infanzia. Esiste in Sicilia la stessa profonda
separazione tra le classi, la stessa segregazione classista, che
esiste tuttora in gran parte dell’India. Inoltre le masse
contadine siciliane hanno una sensibilità a fondo religioso non
diversa da quella delle masse popolari indiane. In una
situazione di tipo indiano è proprio con l’azione di tipo indiano
svolta da Danilo che si hanno le maggiori probabilità di
portare le masse a inserirsi nello Stato e a rendervi lo Stato
presente in senso moderno. In India vi sono decine di uomini
come Danilo che vanno promuovendo, e in sostanza
preparando, nelle zone meno progredite della società,
l’intervento riformatore dello Stato, e il governo non li
ostacola affatto, anzi li aiuta. Anche in Sicilia ci vorrebbero
decine di uomini come Danilo che il governo non ostacolasse e
anzi li aiutasse.
Danilo, incontrato a Milano il 12 o l’11 gennaio, mi spiegò che la manifestazione del digiuno
collettivo sarebbe stata fatta anche per richiamare l’attenzione delle autorità sulla pratica criminosa
della mafia di mare e cioè dei motopescherecci che pescano con reti a strascico o addirittura a
mezzo di esplosivi nelle acque prossime alle rive distruggendo in tal modo il pesce appena nato e
privando perciò d’ogni futura risorsa i pescatori poveri dei villaggi costieri. La seconda
manifestazione avrebbe dovuto invece mostrare contemporaneamente che le trazzere lungo le quali
i contadini di Partinico si recano ai campi richiedevano urgenti opere di riparazione, e che esisteva
in Partinico un lavoro di grande utilità pubblica in cui impiegare i disoccupati. Io osservai in
proposito che era molto grave lasciar mancare il lavoro dove esiste una tradizione di banditismo, e
in effetti lo trovo molto più grave che altrove anche se so rendermi conto di come,
nell’amministrazione quotidiana, possa riuscire più facile governare su dei banditi che su dei
cittadini. Danilo poi mi espose il modo in cui intendeva condurre la manifestazione per assicurarne
lo svolgimento pacifico ed evitare che nascesse il più piccolo motivo di attrito con la polizia. Mi
disse che chi voleva parteciparvi avrebbe dovuto prima convincersi che non c’era da ricavarne
alcuna retribuzione economica. Mi disse che si sarebbe avuta cura di non portare nemmeno un
temperino col quale spartirsi il pane. Mi disse che durante i lavori si sarebbe fatta un po’ di musica
con delle armoniche da bocca per render festevole l’atmosfera e mantenerla più facilmente serena.

MAURO GOBBINI. L’ultima volta che ho veduto Danilo Dolci


è stata nel gennaio scorso a Roma dove era venuto per parlare
e per consigliarsi con gli amici sulla manifestazione che
intendeva fare il 2 febbraio e alla quale egli dava il nome di
«festa del lavoro».
L’idea di una simile azione era nata già da tempo, nei giorni del digiuno del Dolci nel novembre-
dicembre 1955 durante il quale potei essergli vicino. Da anni ormai andava documentando la
gravità della situazione della zona all’autorità ed all’opinione pubblica, ma raramente s’era fatto
qualcosa, mai comunque sufficiente; quel digiuno personale di sette giorni doveva essere perciò un
richiamo ed una protesta insieme, perché finalmente ci si muovesse. E fu proprio dal modo come i
braccianti e i pescatori di Partinico reagirono a quell’azione individuale di Danilo, che egli
comprese che ci si poteva ormai rivolgere a quegli stessi braccianti e pescatori per un’azione in
comune. Già l’ultimo giorno del suo digiuno, digiunammo anche noi in trenta con Danilo. Era
necessario andare cauti, ma non si poteva aspettare oltre e soprattutto bisognava muoversi insieme.
Così cominciò la lenta preparazione della «festa del lavoro» del 2 febbraio.
Danilo si era rivolto ai «banditi» con amore e fiducia, sapeva benissimo però che spesso nella loro
considerazione la violenza era l’unico mezzo di salvezza dalla fame e che facilmente essi si
illudevano che la violenza stessa potesse portare la vita. Ma del resto questa «inversione di
metodo», come la chiama Danilo, non era solo di quei «banditi»; l’autorità, la polizia, avevano
risposto quasi sempre con la violenza, uccidendo, alle loro richieste: ebbene, la manifestazione del 2
febbraio doveva dimostrare all’autorità, alla società, che i braccianti e i pescatori di Partinico
avevano acquistato coscienza dei loro diritti e dei loro doveri, che si ricredevano sull’illusione che
la violenza potesse dare la vita e chiedevano all’autorità e alla società di essere messi nelle
condizioni di divenire liberi cittadini, non più banditi. Danilo, che da anni vive tra essi, parlò più
volte separatamente con ciascuno dei braccianti che voleva partecipare alla manifestazione del 2
febbraio per sincerarsi che veramente essi avevano compreso il modo e lo spirito con cui si sarebbe
dovuta celebrare quella «festa del lavoro».
Ci si doveva recare alla trazzera con i soli arnesi di lavoro, col pane per il pasto del mezzogiorno
che avrebbe spezzato la giornata lavorativa di otto ore, si doveva essere serenamente disposti a
sopportare qualsiasi provocazione o violenza della polizia perché si capisse dagli altri che essi
braccianti desideravano solo compiere un lavoro utile alla comunità, qual è la riparazione di una
strada sconnessa e impraticabile, applicando l’articolo 4 della Costituzione che sancisce come
dovere e diritto di ogni cittadino il lavoro. La musica, di Bach ed altri classici, avrebbe dovuto
essere elemento essenziale nella festa di quella giornata e ad essa Danilo e gli altri vollero
prepararsi digiunando insieme per un giorno, il 30 gennaio scorso. Si sarebbero dovuti riunire in
riva al mare sulla spiaggia di San Cataldo, ma la polizia tentò di impedire questo. Poi, due giorni
dopo, come era stato annunciato per mezzo della stampa, i braccianti si recarono sulla trazzera
vecchia a lavorare. Qui Danilo Dolci e gli altri furono arrestati, ma non sta a me parlare di questi
fatti: questa volta, purtroppo, non c’ero.

GIOVANNI NARZISI. La mattina del 2 febbraio io mi


trovavo nella trazzera vecchia per la ripresa cinematografica
di alcune scene della manifestazione che si doveva svolgere
quel giorno; ciò avevo fatto in seguito ad accordi con Danilo
Dolci. Ero stato a Partinico e Trappeto anche il lunedì
precedente e avevo ripreso alcune scene della manifestazione
del digiuno.
Quel giorno era con me un operatore della televisione.
La mattina del 2 febbraio giunsi sul posto quando Danilo Dolci era già stato condotto sulla
camionetta della polizia ed ebbi modo di riprenderlo in quella situazione.
Ripresi alcune scene relative all’arresto di Zanini. In tale circostanza potei notare che alcuni agenti
si buttarono addosso allo Zanini e lo trattenevano; in tale circostanza notai che Zanini non oppose
resistenza in quanto non diede né pugni né calci.
In un primo tempo io ripresi le scene col teleobiettivo ad una distanza che non so precisare, ma
dalla quale potevo tuttavia vedere col teleobiettivo tutto quello che si svolgeva.
Mi ero trovato in riva al torrente. Quando gli agenti stavano conducendo verso di me lo Zanini, io a
un certo momento mi vidi oltrepassato da loro, così per riprendere lo Zanini fui costretto a tornare
indietro: in tal modo ripresi lo Zanini stesso di fronte. Fu in questo momento che gli agenti si
gettarono addosso a me: mi tolsero con violenza la macchina da presa che ruppero in tre pezzi.
Gli agenti mi gettarono addirittura a terra e mi sporcarono di fango. Quindi fui accompagnato al
Comando di Pubblica Sicurezza dove fui trattenuto fino al pomeriggio. Insieme a me furono fermati
e trattenuti due miei amici, uno dei quali teneva una macchina fotografica di mia proprietà. Al
Commissariato, dopo che mi fu presa la pellicola, mi fu restituita la macchina da presa: rotta,
naturalmente. La pellicola sequestrata riguardava tutte le scene riprese il 2 febbraio tranne quella
relativa al trasporto in camionetta di Danilo Dolci, che rimase in mio potere, e altre che
riguardavano scene di ambiente non attinenti alla manifestazione.
Per operare il distacco della pellicola dalla macchina da presa, fu chiamato dal Commissario un
privato fotografo di Partinico.
Prima che io riprendessi le scene relative all’arresto dello Zanini, avevo ripreso la scena del
trasporto del Dolci in camionetta alle porte del paese di Partinico. Dopo seguii tale camionetta fino
al Commissariato di Partinico, la ripresi ancora una volta e subito dopo ritornai con una macchina di
passaggio sulla trazzera vecchia. La macchina dovette fermarsi a un certo tratto oltre il quale non
poteva andare perché la via era impraticabile; io allora scesi dall’automobile e mi avviai con la
macchina da presa dove era radunata la polizia.
Non so precisare il punto dove si fermò l’automobile con la quale tornai verso la trazzera, posso
dire che si fermò su un punto fangoso: da tale punto io mi mossi per andare a ritrarre le scene
relative al fermo di Zanini e percorsi un notevole tratto di strada a piedi, e di corsa, tanto che mi
affaticai e fui costretto a fermarmi due o tre volte.
La pellicola era stata tolta dalla mia macchina da presa dal fotografo di Partinico; avrebbe potuto
essere utilizzata. L’operazione di distacco fu fatta con le opportune cautele per evitare infiltrazioni
di luce. La pellicola avrebbe potuto essere sviluppata solo fuori Partinico perché qui manca
l’attrezzatura necessaria.

TERMINI. Zanini fu fermato in mia presenza da parte degli agenti i quali gli misero le manette.
Dopo, gli agenti in mia presenza tolsero allo Zanini le manette. Successivamente alcuni agenti
m’invitarono ad allontanarmi con loro ed io camminai in loro compagnia fino allo stradale
nazionale. Prima di allontanarmi notai che allo Zanini avevano rimesso le manette e proprio in
questo momento notai come gli agenti si buttarono addosso al Narzisi.

CARLO LEVI. Ho conosciuto personalmente Danilo Dolci


l’estate scorsa nel mese di luglio, quando mi recai in Sicilia per
un viaggio, uno degli scopi principali del quale era, appunto,
rendermi conto direttamente dell’opera che egli svolgeva a
Trappeto, che io conoscevo già indirettamente attraverso i suoi
scritti, le testimonianze e i racconti di amici degni di fede. La
sua prima qualità, il suo valore più sostanziale, che si riflette
dalla sua persona nelle sue opere, nelle sue realizzazioni
pratiche, come l’asilo, l’università popolare, i progetti di
bonifica, le inchieste, gli studi, l’assistenza, i progetti di lavoro
e di cultura, è quello della fiducia, della fiducia che egli sparge
attorno a sé e che permette ai miseri, in mezzo ai quali egli
vive e della cui vita egli partecipa, di aprire gli occhi alla
speranza e di trovare forza e sicurezza nella strada che essi
percorrono, con le loro forze, verso l’esistenza. Per questo egli
si incontra nel profondo con l’origine stessa di quel grande
movimento di autocreazione che porta un popolo, condannato
da secoli a vivere fuori della società, nella miseria e nella
destituzione, nella condizione di alienati e di banditi, fuori cioè
dalla stessa esistenza come persone umane, a raggiungere
l’affermazione dell’esistenza, della coscienza della persona, a
diventare, cioè, uomini e cittadini. Per questo l’opera di Danilo
Dolci è opera di Stato, tende a creare quelli che soli possono
essere i fondamenti stessi di uno Stato democratico, sì che io
ritengo sarebbe dovere e onore delle autorità di uno Stato che
democratico si chiama, cooperare in tutti i modi,
positivamente, a questa sua opera, che è, insieme, opera di
cultura, in quanto c’è di più reale e profondo in questo
termine. Questa la ragione per cui il suo lavoro è stato seguito
con tanta attenzione da tutti gli uomini della cultura viva
italiana, ed il suo arresto ha provocato, in tutti gli uomini di
cultura, una così profonda emozione.
...
Vengo ora ai fatti più precisi di cui sono a conoscenza, e che riguardano, direttamente il digiuno e il
lavoro sulla trazzera. Vidi Danilo Dolci ripetutamente nel mese di gennaio, a Roma e a Torino, dove
egli era venuto in viaggio per consultarsi con altri amici e con me sull’azione che intendeva
svolgere, e parlarne particolarmente alla televisione, da cui era stato invitato. Parlammo a lungo di
questa azione ed ebbi modo di rendermi esatto conto del suo significato.
Prima preoccupazione di Danilo Dolci era che l’azione non avesse comunque, mai, per nessuna
ragione, carattere di violenza e di disordine, e che fossero prese tutte le precauzioni e le misure
necessarie e che non potesse verificarsi nessun incidente di questo genere. Lo stesso digiuno, che
doveva precedere il lavoro sulla trazzera, era già un modo di affermare il carattere pacifico e il
valore morale dell’azione. Ma egli, che si trovava a operare tra un popolo misero, abituato a una
lunga tradizione di ribellione individuale, mi affermò che non avrebbe iniziato l’azione progettata se
non quando avesse riscontrato, esaminandoli a uno a uno, che tutti i partecipanti avessero inteso il
carattere dell’azione, fino a richiedere a tutti di andare al lavoro, non soltanto disarmati, ma
lasciando a casa anche i comuni temperini o coltelli adoperati per tagliare il pane; anzi, egli aveva
progettato, si sarebbe dovuto svolgere, a mezzogiorno, come un atto rituale, la cerimonia della
spezzatura del pane con le mani, dopo le ore del lavoro del mattino, a indicare insieme il rifiuto di
ogni violenza e il valore del lavoro e del nutrimento comune.
Così egli aveva deciso coi suoi compagni che nessuna resistenza si sarebbe fatta, per nessuna
ragione, a nessun intervento della forza pubblica, poiché, come è stato detto da altri, la fiducia che è
fondamento dell’azione di Dolci, non è soltanto quella che nasce, come un fiore, tra i miseri e gli
oppressi, ma si allarga a tutti gli uomini, anche a coloro che sono condannati a essere potenti e
oppressori. Era quindi chiaramente esclusa, da quanto ripetutamente mi disse il Dolci, non solo ogni
intenzione, ma anche ogni possibilità che egli e i suoi compagni potessero, per nessuna ragione,
resistere e tanto meno oltraggiare i rappresentanti della forza pubblica: fatti che avrebbero
contraddetto la natura stessa dell’azione progettata.
Questa doveva cominciare con il digiuno collettivo. Il significato di questo digiuno, a quanto egli
mi disse, (o a quanto io ho creduto di capire), era non soltanto un atto di comunanza, una
preparazione collettiva, un gesto di raccoglimento comune. Era qualche cosa di più. In un popolo
costretto, nella serie lunghissima degli anni, alla miseria e alla fame, e per il quale il digiuno,
involontario e quotidiano, è l’atroce e dolorosa abitudine di ogni giorno e si accompagna a un senso
antico di soggezione, di inferiorità, a un senso di colpa, di rimorso per un peccato mai commesso,
questo digiuno volontario e collettivo era un atto di esteriorizzazione della coscienza, una
liberazione totale dei complessi più profondi, un portare alla luce del sole, davanti agli occhi di tutti,
la condizione disumana in cui sono costretti a vivere, e che così portata fuori, rivelata, diventa
l’affermazione prima di una raggiunta condizione umana. Quello che è oscura colpa e vergogna,
diventa affermazione di esistenza e di vita, quello che è atroce martirio, diventa umana gloria. Così
nella iconografia, nelle immagini dei santi, noi li vediamo rappresentati mentre portano in mano gli
strumenti del loro martirio. Li portano nelle mani, li mostrano al mondo esterno, e quello strumento
di martirio non è più tale, ma simbolo della santità e della vita vera. Questo è il significato del
digiuno secondo quanto io ho inteso. Lo stesso significato, la stessa intenzione, la stessa volontà di
creazione del senso dell’esistenza in uomini che non lo hanno ancora raggiunto e che lo vanno
raggiungendo, si intendeva dare al lavoro collettivo sulla trazzera. Anche questo non doveva essere,
nelle sue intenzioni, una semplice, per quanto legittima, rivendicazione sindacale, ma affermare il
valore umano, il valore di esistenza del lavoro per uomini banditi da questo privilegio comune a
tutti gli uomini, forzatamente esclusi da questo che secondo la Costituzione italiana è insieme un
diritto e un dovere. Col dimostrare coi fatti di essere capace di adempiere questo dovere di ogni
cittadino e di ogni uomo, si veniva ad affermare, per ciascuno dei partecipanti, il valore stesso della
propria umanità, e insieme il valore dello Stato. Appunto per questa ragione fu detto esplicitamente
che il lavoro doveva essere qui eseguito senza la pretesa di alcun compenso. Ma non doveva essere
un lavoro simbolico, un gesto, una manifestazione, doveva essere un lavoro reale, che durasse otto
ore, come tutti i lavori reali, che portasse a un vantaggio e a una utilità pubblica, come tutti i lavori
reali: perché rappresentava l’ingresso di questi lavoratori, per tanto tempo banditi e impediti, nella
comunità reale degli uomini.
PRESIDENTE. Mi pare che abbia terminato la sua testimonianza. C’è qualche domanda da fare?
CARLO LEVI. Vorrei, se mi è permesso, aggiungere ancora qualche parola nella mia qualità di
testimone, o, se si vuole, piuttosto in quella, mi sia consentito, di esperto di lingua e di cose
letterarie. Ho appreso dai giornali che Danilo Dolci sarebbe accusato di avere rivolto a un agente
della forza pubblica una frase ingiuriosa che suonerebbe all’incirca: «Chi ci impedisce di lavorare è
un assassino». Ora, io credo, pure senza essere stato presente all’episodio, di poter escludere in
modo assoluto, e di poterlo provare con documenti, che il Dolci abbia pronunziato una simile frase
rivolgendola al commissario in modo ingiurioso; e questo non soltanto per le assicurazioni e le
affermazioni che ho fatto prima. Una frase che suona analoga, ma che ha tutt’altro significato, dà
inizio alla prima pagina del suo libro Banditi a Partinico, ed è, direi, quasi il filo conduttore di tutto
il suo pensiero, l’idea fondamentale attorno a cui si organizza la sua visione del mondo e dei
problemi sociali e umani. Dice questa frase, che cito qui a memoria: «Noi viviamo in un mondo di
condannati a morte da noi». Sì, fino a quando esistono degli uomini condannati a non essere tali, a
vivere in una condizione che è precedente alla stessa esistenza, fino a quando esiste l’esclusione e
l’alienazione, noi ne siamo tutti responsabili, noi siamo tutti degli assassini. Tutti, nessuno escluso.
Io sono un assassino, e anche Lei, signor Presidente, è un assassino, e anche Danilo Dolci è un
assassino. Questo è il senso della frase che ritorna e domina ogni pagina di quel libro. Come Ella
vede, è l’opposto di quanto si pretende che egli abbia detto al commissario. Basta aprire il libro alla
prima pagina, e non occorre che saper leggere per capire il testo e il senso della frase pronunciata
sulla trazzera, che, anziché ingiuriosa, è certo delle più alte e nobili che possa pronunciare un uomo.
Udienza del 29 marzo, ore 9.30
Il Pubblico Ministero pronuncia la sua requisitoria chiedendo
che gli imputati vengano condannati per tutti i delitti loro
ascritti. Così la riporta «La Stampa»:

«Si tratta d’una comunissima vicenda, ed è necessario quindi che la discussione si mantenga nei
suoi limiti strettamente giudiziari. Non bisognerà quindi né sconfinare sul terreno politico né
prendere in esame le personalità letterarie che ci hanno onorato con la loro presenza. Il processo si
deve discutere al di fuori delle psicosi mistiche di cui tanto si è parlato in questi giorni. Quello che
interessa a me, P.M., ed a voi, giudici, sono i fatti accaduti sull’antica strada di campagna a
Partinico la mattina del 2 febbraio, per stabilire se in quell’occasione furono commessi o no dei
reati».
Dopo questa premessa, il dott. Lo Torto si è trovato dinanzi ad un primo interrogativo: se è, cioè, da
ritenersi o no legittimo il cosiddetto sciopero alla rovescia organizzato da Danilo Dolci.
«Io non sono qui per negare il diritto di sciopero, che anzi è consacrato e garantito dalla
Costituzione, – ha chiarito il P.M., – ma lo sciopero è un’astensione dal lavoro. Come poter ritenere
che la manifestazione di Danilo Dolci sia da inquadrarsi in quella forma di sciopero contemplata dal
nostro ordinamento giuridico? Se si dovesse, infatti, considerare legittimo il cosiddetto sciopero alla
rovescia, quante fantasie sbrigliate userebbero questo comodo copricapo per raggiungere fini
illeciti. La Costituzione garantisce il lavoro al cittadino, ma non afferma, né avrebbe potuto, che
questo lavoro si può ottenere anche attraverso l’arbitrio. Se così fosse infatti verrebbe sovvertito
l’ordine generale dello Stato».
E ancora: «Siamo certi che Dolci sia stato coerente con i suoi principî pacifici? O non risulta,
invece, che fu lo stesso Dolci, con il proprio atteggiamento, a creare un’atmosfera di tensione?
Infine vi è da osservare che tutti sono concordi nel riferire come egli abbia opposto resistenza, come
egli si sia divincolato dagli agenti. Che cosa si vuole di più per ritenere Danilo Dolci responsabile?
Gli uomini di cultura sono venuti a parlare delle sue idee, dei suoi progetti, delle sue finalità. Ma i
fatti sono quelli che contano agli effetti della legge. Se riterrete, voi giudici, che gli scopi di Danilo
Dolci sono nobili, accordate pure le attenuanti generiche e la sospensione della pena: ma non
potrete dire che egli non ha violato la legge. È per questo che io vi chiedo la condanna di:
Dolci, Termini, Speciale e Abbate a mesi 8 e giorni 28 di reclusione, L. 8.400 di multa, mesi 1 e
giorni 2 d’arresto e L. 8.000 di ammenda;
Zanini: (art. 99) anno 1, mesi 1, giorni 12 di reclusione, L. 12.600 di multa, mesi 2 di arresto, L.
12.000 di ammenda;
Geraci: giorni 10 di arresto, L. 6.000;
Macaluso e Ferrante: mesi 4 di carcere, giorni 25 di reclusione, L. 12.600 di multa, mesi 1 di arresto
e giorni 2 e L. 8.000 di ammenda;
Fofi: giorni 15 di reclusione, L. 8.000 di multa, mesi 1 di arresto e giorni 2, L. 8.000 di ammenda.
Tutti gli altri a giorni 15 di reclusione, L. 8.000 di multa, giorni 22 di arresto e L. 2.000 di
ammenda».

AVV. FEDERICO COMANDINI. Non è, il nostro, un compito


facile. Confessiamolo.
Nella misurata requisitoria del P.M., tra gli argomenti d’accusa è affiorata più di una volta
l’implicita negazione del dubbio. Noi non abbiamo dubbi, aperti o sottaciuti che siano, sulla
intrinseca validità delle nostre tesi.
...

So che l’ironia è facile. Il materialismo storico accanto allo spirito evangelico, Dio e Satana. La
fede e la dialettica marxista, Dolci e Termini, Volpini e Lombardo-Radice. La contrapposizione
manichea non ammette eccezioni o commistioni sacrileghe. Se non fosse un fuor d’opera, potrei
ricordare ai facili critici che uno dei padri della Chiesa, Tertulliano, usava chiamare naturaliter
christiani quei pagani del suo tempo che alla carità cristiana ispiravano la loro vita e le loro azioni,
pur senza condividere, almeno consapevolmente, i principî della fede di Cristo; e li opponeva e li
contrapponeva – fin d’allora! – ai «fedelissimi cristiani» che limitavano il loro ossequio religioso
alla ripetizione di formule disseccate, dalle quali s’era dileguato lo spirito di redenzione degli umili,
che è lo spirito del Vangelo.
La carità cristiana non è, per questi imputati, la sussiegosa elargizione di un’elemosina. È una
grande affermazione umana: del diritto di tutti alla vita, al lavoro che redime, al dovere che esalta,
alla fraternità che vince il bruto e brutale spirito di violenza. Da un lato, stanno il mitra e la vendetta
ripudiati e respinti, dall’altro la redenzione fraterna in un clima di solidarietà sociale. Da un lato –
sono parole di Norberto Bobbio, premesse al libro di Dolci, Banditi a Partinico – stanno «la
miseria, la fame, la follia, la disperazione di un piccolo quartiere di una cittadina della Sicilia»,
dall’altro «l’indifferenza, l’incuria, il cinismo, la prepotenza» di quella società che dovrebb’essere
fondata sulle leggi e sulla giustizia.
Provate – dice Bobbio – dopo aver letto le pagine di quel libro, provate – posso aggiungere – dopo
aver visto a Partinico il quartiere Spine Sante (e potrei ancor dire: dopo aver visto tanti altri
quartieri di città grandi e piccole, in Sicilia e nel continente), provate a pronunziare parole come
«giustizia, diritto, legge», e vedrete che suono diverso, che significato pregnante esse acquistano.
Ecco perché la causa è difficile e il nostro compito è arduo quant’altri mai. Soltanto per questo.
Badate: non sono considerazioni marginali, è il punctum crucis del dibattito, è il cuore del problema
che questo processo pone, giudici, innanzi a voi. La Costituzione contro il testo unico delle leggi di
pubblica sicurezza; la nuova casa e la vecchia, slabbrata e diruta, che si ostina a non cadere; l’Italia
che si fa, si afferma, si redime e la vecchia Italia che vuol resistere, ma che giorno per giorno, ora
per ora, istante per istante, si avvia, ineluttabilmente, a morire.
Danilo non ha «scoperto» la Sicilia e i suoi mali. Non è venuto tra voi, siciliani, con l’animo del
missionario in terra selvaggia. Non si è accinto al suo lavoro con la distaccata superiorità di chi
guarda e giudica e aiuta dall’alto. No. Niente di più falso. Nessuna deformazione è più perfidamente
sottile di questa. Danilo è venuto, o meglio è tornato dove già visse giovinetto, a dire ai pescatori di
Trappeto e di Balestrate e ai «banditi» di Partinico – banditi per la miseria dal consorzio civile – che
i loro problemi sono, devono essere i problemi di tutti gli italiani, e del mondo della coltura innanzi
tutto; che gli uomini di coltura – gli «intellettuali» – devono viverli e soffrirli e risolverli con loro,
in uno spirito di fraternità e di rispetto alle leggi; condannata la violenza; da «gentiluomini». Su
questo terreno, Danilo si è incontrato con Termini, con gli organizzatori sindacali, con i lavoratori
organizzati che la solidarietà sociale aiuta ad uscire dalla cerchia dei loro miserrimi interessi
personali (primum vivere...), chiusa ad ogni luce di libertà e di pensiero.
E insieme hanno pronunziato una parola semplice e vera.
Bando alla violenza è stata ed è la parola di questi violenti. Bando all’odio la parola di questi
sobillatori. Bando all’ingiustizia, la parola di questi delinquenti.
Con questo animo, con questi dichiarati intendimenti, Danilo ha chiesto, ha invocato il lavoro per i
poveri di Partinico. Ecco il 30 gennaio lo sciopero della fame sulla spiaggia di Balestrate, donde i
motopescherecci di frodo sono alfine scomparsi per opera sua.2 Nonostante lo spiegamento delle
forze di polizia, che vietano ai disoccupati di digiunare in pubblico, sulla riva del mare (poiché
sembra che digiunare in pubblico, secondo gli organi di polizia, sia un delitto per chi spesso è
costretto al digiuno privato), il digiuno si fa. È un digiuno dimostrativo, fatto per invocare la
istituzione di cantieri di lavoro.
A Partinico, il lavoro da fare c’è; le braccia ci sono, e quante!; e il lavoro redime, la vanga scaccia il
mitra. Anche a Partinico, c’è una legge sull’imponibile di mano d’opera. È una legge dello Stato.
Partinico fa parte dello Stato. Ma a Partinico la legge non si applica (come quella sulla pesca di
frodo nelle acque basse, della quale si ricordano solo quando la questione, agitata da Dolci, fa
temere che scoppi uno scandalo). Il sindaco dice: «Sulle trazzere comunali non si può lavorare,
sono impraticabili, c’è il fango». Danilo risponde: «Lavoreremo per togliere il fango, per riempire
le buche, per rendere praticabile la trazzera vecchia; in silenzio, rispettando le leggi, senza violenze.
Lavoreremo sodo, per otto ore, senza compenso. Ci comporteremo da gentiluomini. Nessuno potrà
impedirci di far questo».
È il suo programma di azione. E non soltanto il suo. È il programma di Termini, di Abbate, di
Speciale, degli organizzatori sindacali, dei lavoratori. Il 2 febbraio tutti andranno, alla spicciolata,
sulla trazzera vecchia. Pacifici, disarmati, uniti in un proposito fraterno.
Non è un programma d’azione clandestino. Non vogliono cogliere nessuno di sorpresa. Danilo è
andato a Roma; ha esposto il suo pacifico intendimento alla Televisione di Torino; ha telegrafato al
Presidente della Repubblica; ha domandato ai giornalisti, ai fotografi, ai reporter cinematografici di
venire a vedere. A vedere degli uomini che vogliono soltanto lavorare. Non entro in particolari, li
sapete. I colloqui con la signora Fermi, sorella del grande fisico scomparso, con Gigliola Spinelli
Venturi, con Volpini, cristiano e democristiano, con Carlo Levi che ha visto e ha scritto sulle Spine
Sante una pagina difficilmente dimenticabile del suo libro Le parole sono pietre. La preoccupazione
che non accada nulla; che sia una azione da «gentiluomini» (come è facile, ma come è falsa, l’ironia
degli scettici!); che la musica – Bach e Vivaldi – sollevi e mantenga, se sarà necessario, gli spiriti in
un’atmosfera di semplice ma profonda spiritualità (e anche qui l’ironia suona facile e falsa); che si
invochi soltanto la legge, la più alta delle nostre leggi, la Costituzione Repubblicana; che anche i
temperini restino a casa, fuori dalle tasche: «Romperemo il pane con le mani!»: non per diffidenza
verso gli uomini, ma perché il proposito di nonviolenza dev’essere così rigorosamente evidente da
togliere ogni pretesto agli agenti della forza pubblica che per avventura volessero – facile previsione
– intervenire e perquisire.
«Non avrete compenso». Lo ha detto Termini, lo hanno detto tutti nella riunione del giorno avanti
alla Camera del Lavoro. Testi insospettabili lo confermano: Cardamone, Lombardo-Radice,
Pettineo. Nessuno s’aspetta di essere retribuito.
E questa è – secondo la denunzia, cioè secondo la polizia – «sobillazione delle masse, in dispregio
delle leggi».
Ma il Pubblico Ministero dice che alcuni funzionari ed agenti hanno sentito dire in loco:
«completate le otto ore di lavoro per avere il compenso»; e argomenta, nella sua requisitoria scritta,
che se l’aspettazione, la implicita od esplicita promessa del compenso non ci fosse stata, non
avrebbero senso le otto ore: bastava un gesto simbolico. Non è così. Nel proposito degli
organizzatori, non c’era la comoda scappatoia del «simbolo». Lavoro sul serio doveva essere, e non
gesto facile ed effimero. D’altronde, è fin troppo agevole dimostrare che la promessa del compenso
in loco non ci fu. È una finestra finta sulla facciata dell’accusa. Bisognava dar corpo all’illazione
che si legge nella denunzia: «per avere poi il pretesto di chiedere al Sindaco una remunerazione che
sapevano di non poter ottenere»; e costruire su queste più che friabili fondamenta il castello di carte
dell’imputazione per l’art. 633 C.P., del quale mi occuperò tra un istante. Così, pezzo per pezzo, dal
3 al 9 al 12 al 13 febbraio l’accusa si monta e si completa. Crescit eundo.
Il sottotenente dei carabinieri Cosentino suggerisce il tema; l’agente Petrosillo lo ribadisce: «Dolci
disse: non vi allontanate, qualcuno pagherà»; il carabiniere Capone e l’agente Di Saverio fanno eco;
e infine il commissario di Partinico, La Corte, afferma – con la perentoria sicurezza che lo condurrà
più di una volta, nell’istruttoria dibattimentale, a cozzare contro l’evidente realtà – che non solo
Dolci promise, ma Abbate e Speciale ripeterono la promessa, «tanto che i lavoratori fecero cor o
gridando: “Avemu a travagghiari ottu uri, accussì semu pagati”».
Strano comportamento degli imputati, che la sera innanzi (è accertato: lo ammette anche il Pubblico
Ministero) avvertono esplicitamente: «non avrete compenso», e poi la mattina del 2 febbraio,
inopinatamente e contro ogni logica, si fanno – secondo l’accusa – a promettere il contrario.
Basterebbe questo a far dubitare delle più o meno serotine affermazioni di Cosentino e degli altri.
Ma c’è un altro fatto che distrugge ogni dubbio e rivela l’intenzionale artificio di queste
affermazioni. È quel «coro» che La Corte sente e che nessuno degli altri ha sentito: non il tenente
Petralito, non il brigadiere Festa, non il maresciallo Crivellaro, non il carabiniere Tanco. Tutti
costoro erano sul posto, nello stesso posto degli altri, e non hanno sentito affatto parlare di
compenso, e tanto meno hanno sentito il «coro», illusione acustica del commissario La Corte. Una
voce isolata poteva sfuggire, ma il «coro» no. Il «coro» (duole doverlo dire, ma non è possibile
tacerlo) inchioda senza rimedio chi l’ha udito alla berlina della inattendibilità.
Su un altro punto devo spendere una parola, prima di andar oltre. Una parola soltanto, perché –
devo darne atto al Pubblico Ministero – dell’argomento, proposto e intenzionalmente sottolineato
durante l’istruttoria scritta, all’udienza non si è parlato più. È l’argomento della «roncola». Nella
trazzera vecchia, quando tutti se n’erano andati un carabiniere ha trovato una roncola. Questa
roncola era stata vista anche prima, agitarsi per l’aria quando i lavoratori, a dire della polizia,
levavano in alto e squassavano gli arnesi di lavoro. Ma nessun agente, nessun carabiniere l’aveva
toccata; né alcuno è stato in grado di dire chi l’avesse. Strano. Più strano che chi l’aveva la abbia
abbandonata in loco. Un’altra finestra finta. Anche nelle sedute medianiche ci sono gli «apporti».
Possiamo dunque ripetere, con assoluta certezza, che tutti erano senz’armi, che tutti sapevano di
lavorare senza compenso.
...

Fissati questi elementari concetti, è facile escludere dal campo della causa l’imputazione relativa
all’art. 18 del testo unico, cioè al mancato preavviso.
La manifestazione del 2 febbraio (il Pubblico Ministero ha molto insistito su questa qualificazione)
era uno «sciopero a rovescio». I disoccupati si recavano sulla trazzera vecchia non per discutere,
non per pronunziare o per ascoltare discorsi: per lavorare. Non si «riunirono» neppure
topograficamente. Andavano alla trazzera alla spicciolata, per vie diverse, ciascuno per suo conto.
Sulla trazzera lavoravano a gruppetti, distanti gli uni dagli altri uno, due, cinque, dieci metri; alcuni
al di qua, altri al di là del torrente, trenta o quaranta metri lontano. Qualificare questa una
«riunione» è, sotto tutti gli aspetti, una arbitraria estensione della norma. Non fu una «riunione».
Potreste, senza cader nell’assurdo, considerare «riunioni» quelle degli operai lungo le strade,
quando compiono su di esse lavori di riattamento. Nessuno ha mai pensato di obbligare le imprese
appaltatrici a dar preavviso alla pubblica sicurezza di coteste «riunioni» dei loro operai in luogo
pubblico; e il perché è chiarissimo: perché riunioni non sono.
Il Pubblico Ministero non mi risponda che si tratta di ipotesi diverse, perché gli operai delle imprese
appaltatrici compiono un lavoro legittimo, e i «banditi» di Dolci e di Termini no. Sulla legittimità o
illegittimità del lavoro sulla trazzera dovrò intrattenervi brevemente tra poco: per ora, mi basta
osservare che discuterne a proposito del significato che dev’essere attribuito alla parola «riunione»
ai fini dell’art. 18 sposta il problema su un piano completamente diverso. La legittimità o la
illegittimità dello scopo non può trasformare in una riunione quella che non è obiettivamente tale.
Dunque, «riunione» no (e «assembramento» secondo gli articoli 20 e seguenti, lo vedremo a
proposito della imputazione relativa all’art. 24, neppure). Il primo addebito, la pretesa violazione
dell’art. 18, cade perciò dalle fondamenta. Gli manca il punto di appoggio, è campato in aria.
Eccoci, dunque, alla seconda imputazione: l’art. 633 del Codice Penale, l’occupazione abusiva di
suolo pubblico, per trarne profitto. Di questo addebito vi parlerà il collega Taormina, che se ne
intende per lunga e dolorosa esperienza di difensore. A me siano consentite soltanto brevissime
osservazioni.
La contraddizione dell’accusa è palese. Quella che, per applicare l’art. 18 del testo unico, è, secondo
il Procuratore della Repubblica, una riunione, per applicare l’art. 633 del Codice Penale si trasforma
in una cosa del tutto diversa: una «invasione» e una «occupazione di terre». Quid est veritas,
Pubblico Ministero?
Vorremmo saperlo da voi. Anzi, la nostra indiscreta curiosità si spinge più oltre. Vorremmo sapere
con quale logica, presupponendo la sussistenza del reato di cui all’art. 633, potete pretendere che
Dolci e gli altri dessero alla Pubblica Sicurezza, a sensi dell’art. 18, il preavviso che in un giorno, in
un’ora, in un luogo determinato, l’avrebbero commesso. Obbligo giuridico per il delinquente di
svelare in anticipo alla polizia i suoi propositi criminosi? È un piccolo mostro giuridico.
Il vero è che, come non c’è violazione dell’art. 18, non c’è violazione dell’art. 633, perché col loro
«sciopero a rovescio» Danilo e i suoi compagni non commisero illecito alcuno, non infransero
alcuna norma di legge. Dico di più: compirono un atto civilmente e socialmente meritorio. Per
questo ci sentiamo tutti solidali con loro; anzi, come ha ben detto Calamandrei, un poco i complici
loro.
Il Pubblico Ministero ha detto: «Se fosse stato uno sciopero, niente da ridire. Lo sciopero è un
diritto, sancito dalla Costituzione. Ma dello sciopero a rovescio la Costituzione non parla, voi
difensori non potete indicarmi una sola norma di legge che lo autorizzi. Ergo, lo sciopero a rovescio
è un abuso, è un illecito che la legge divieta». Dunque, a prendere alla lettera le parole del Pubblico
Ministero, tutto ciò che non è espressamente previsto dalla legge è vietato; e così rigorosamente
vietato da costituire illecito penale. So benissimo che questo non è, non può essere il suo pensiero;
ma proprio perché il ragionamento porta a questa assurda conseguenza, che egli stesso non può
condividere, è evidente che il ragionamento è sbagliato. È sbagliato, dico, in quanto per concludere
alla illiceità di un atto – specie nel campo penale – non basta constatare che nessuna norma lo
riconosce specificamente, in titulo, come un diritto, ma occorre indicare la norma che ne fa espresso
divieto. È questo un elementare principio dei regimi che, come il nostro, riconoscono e tutelano la
libertà piena del cittadino nell’ambito delle leggi; a differenza di quelli che negano la libertà per
«concedere» soltanto determinate e circoscritte libertà, al plurale.
Ora ripetiamolo ancora, per la nostra Costituzione, il lavoro non è soltanto un diritto, è un dovere.
Rileggiamo l’art. 4, quell’articolo che si invocava il 29 gennaio al Commissariato di P.S. di
Partinico e poi, il 2 febbraio, sulla trazzera vecchia. «Lo dirà al magistrato», rispose a Termini il
preveggente commissario La Corte, «di animo profetico dotato». Lo accontentiamo:
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono
effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le sue possibilità e la propria
scelta un’attività o una funzione che concorra al progresso morale e materiale della società.
Questo dice l’art. 4. E lo «sciopero a rovescio» è lavoro anziché astensione dal lavoro, lavoro
diretto ai fini per i quali la Costituzione riconosce il diritto di sciopero. In sé e per sé, non può
dunque essere illecito. Illecito diventa se lede i diritti altrui. L’accusa dice che gli imputati hanno
leso questi diritti, occupando arbitrariamente la trazzera comunale «per trarne profitto». È l’art. 633
C.P.; come il furto, come l’appropriazione indebita, un reato contro il patrimonio. Ed è reato di
danno.
Perché esista, occorrono – cito il Manzini, scrittore di tendenza autoritaria e illiberale – un dolo
generico («la coscienza di agire senza diritto contro legittimi interessi altrui») e un dolo specifico
(«lo scopo di entrare nel possesso dell’immobile e di occupare perciò il terreno privandone il
legittimo possessore, al fine di trarne profitto»).
Vi ho già detto – e dimostrato – che il fine, o la speranza, di ricavare un profitto dal lavoro che
facevano sulla trazzera, gli imputati non l’ebbero mai. Sapevano che non avrebbero avuto
compenso. Il «coro» del commissario La Corte («gridavano: “Avemu a travagghiari ottu uri, accussì
semu pagati”») è pura fantasia: una finestra finta, ripeto, sulla facciata dell’accusa.
Ma non soltanto per questo l’ipotesi criminosa dell’art. 633 è toto coelo lontana dalla realtà dei fatti:
mancano anche gli estremi dell’invasione, dell’occupazione, dello spossessamento. E manca
l’estremo del danno.
Invasione, no. Si può parlare di invasione soltanto con riferimento a terreni non destinati al transito
di tutti i cittadini, come invece è una trazzera. Per contro, l’occupazione e lo spossessamento sono
possibili in linea di massima anche se riguardano una pubblica via; ma occorre che «l’introduzione
arbitraria dimostri in modo inequivoco la volontà di sostituirsi al possessore attuale nel suo
sfruttamento, con privazione del regolare godimento da parte di costui della cosa». Non sono mie
queste parole: sono della Corte di Cassazione, e si leggono in una sentenza del 14 novembre 1952,
ricorrente Mezzadri.
Se paragonate questa massima all’intenzione e all’azione degli imputati, allo scopo che
perseguivano e alle conseguenze obiettive del loro operato, l’ipotesi dell’art. 633 si dilegua come
nebbia al sole.
Coscienza di agire contro legittimi interessi altrui? Quali interessi? Quelli del Comune, del quale si
migliora senza pretendere compenso un bene demaniale (la trazzera) rendendola più idonea allo
scopo al quale è destinata, cioè al pubblico transito? Voi avvertite l’assurdo. Strano reato contro il
patrimonio quello che incrementa il patrimonio dell’offeso. Il ladro, il truffatore, il colpevole di
appropriazione indebita, il danneggiatore «sottraggono, o guastano»; Dolci e i dimostranti di
Partinico «aumentano e migliorano». E l’art. 633 è reato di danno.
Scopo di privare del bene il legittimo possessore sostituendosi a lui nel possesso? Mutamento o
impedimento alla naturale destinazione del terreno? Ma quando mai gli operai che lavorano su una
pubblica via hanno «spossessato» l’ente pubblico che la possiede? Quando mai hanno voluto
«sostituirsi a lui nel possesso»? E chi ha, non dico dato, ma tentato la dimostrazione, o soltanto
formulato l’ipotesi che sulla trazzera, durante il lavoro, fosse impedito o limitato il pubblico
transito? Non sono venuti avanti a voi dei testi di Partinico che durante il lavoro passarono di là
tranquillamente, in piena libertà?
Ecco perché dell’artificiosa costruzione dell’art. 633 non resta pietra su pietra.
Devo aggiungere – e chiedo venia a Taormina d’avere invaso, io sì, ma senza l’intenzione di trarne
profitto, il suo campo – che lo stesso Manzini aggiunge a quelli già ricordati un altro, e di per sé
decisivo rilievo: «Il fine di esercitare un preteso diritto – egli scrive – anche se questo diritto non è
sussistente esclude la punibilità». E Danilo e gli altri «invocavano la Costituzione»; affermavano il
loro diritto al lavoro, che è anche compimento di un dovere; nell’ambito in cui potevano spiegare la
loro azione, cercavano di promuovere le condizioni per rendere, senza danno di alcuno, effettivo
questo diritto, come vuole l’art. 4 della Costituzione.
So bene che si tratta di una norma programmatica, di attuazione non immediata, e so che sulla
distinzione i giuristi disquisiscono da anni; ma so anche che l’animo di Dolci e dei manifestanti a
questo soltanto era inteso: ad affermare un diritto, e a compiere, insieme, un dovere. Il che, secondo
la denunzia, è «sobillazione delle masse, in dispregio delle leggi!».
Via l’art. 633 dal novero delle accuse.
Dolci, Termini, Speciale, Abbate, tutti sono dunque legittimamente, civilmente, sacrosantamente al
lavoro. Se subiranno violenze, sono ben decisi a sopportarle senza reagire. Secondo l’accusa,
invece, queste intenzioni pacifiche, dichiarate, ribadite, ostentate, dissimulavano propositi violenti.
Ed ecco le altre imputazioni: la disobbedienza all’intimazione di sciogliersi, articolo 24 del testo
unico; da parte di Dolci e degli altri sei la «istigazione a non obbedire all’ordine di desistere dal
lavoro» (parole che si leggono nella requisitoria del Pubblico Ministero), che, «sparpagliati tra i
lavoratori» essi avrebbero commesso, articolo 414 n. 2 del C.P.; infine, l’oltraggio e la resistenza
violenta. Ne tratterò brevemente: il mio è uno sguardo circolare al panorama della causa; agli altri e
più valenti difensori la dimostrazione specifica, precisa, vorrei dire matematica che si desume dalle
risultanze processuali.
Disobbedienza all’ordine di scioglimento, art. 24. Voi ricordate – ed io non devo richiamarle alla
vostra memoria – circostanze, prove, osservazioni già fatte. A Danilo Dolci fu strappata di mano
una pala per impedirgli di lavorare. Gliela strappò il tenente Petralito, quando, alla prima
esortazione ad allontanarsi, Dolci fu sordo, e seguitò, «imperterrito e noncurante», a «delinquere»
(cioè a lavorare). Anche agli altri agenti e carabinieri strapparono di mano gli arnesi di lavoro.
Come può permettersi Abbate, che è pescatore, di mettersi a fare il badilante? Non può. O libertà
dei cittadini! C’è un vincolo corporativo, per la polizia: semel abbas... Questi, signori, sono
altrettanti atti arbitrarî: altri anelli della catena. L’ordine di sciogliersi non è ancor dato quando
Danilo, strappatagli di mano la pala, è portato via.
Incontra il commissario Di Giorgi: «Non torni sul posto». «Non glielo prometto», risponde Danilo.
E torna sulla trazzera. Torna per una via più lunga, con Speciale e con Abbate che arriva allora dal
paese. Prendono una via traversa, in mezzo ai campi. Il commissario Di Giorgi, invece, sale in
camionetta e si avvia alla trazzera vecchia per la via più breve, scende a duecento metri dal luogo
dove si lavora, percorre a piedi i duecento metri, arriva, fa dare i tre squilli.
È evidente, signori, che il commissario Di Giorgi arriva sulla trazzera prima di Dolci, di Speciale e
di Abbate, e fa dare i tre squilli quando Dolci, Speciale e Abbate – che sono a piedi, e seguono una
via più lunga – non sono ancora tornati in loco. Ma il commissario Di Giorgi dice che arrivarono
prima di lui, e che, quando furono dati i tre squilli, erano certamente presenti. Assurdo. Se vuol
sostenere l’assurdo, il commissario Di Giorgi si metta almeno d’accordo col suo collega La Corte:
«Diedi ordine di suonare i tre squilli – dice La Corte, a foglio 62 del processo. – Alcuni smisero di
lavorare; altri, i più, non si mossero, anche perché “poco dopo sopravvennero” Dolci, Speciale e
l’altro che avevo visto allontanare e che vidi tornare sul posto, che gridavano: Compagni, rimanete
al lavoro».
Dunque, quando furono dati i tre squilli, Dolci, Speciale e Abbate non c’erano; ed è ovvio che per
affermare che contravvennero all’ordine di scioglimento, occorrerebbe dimostrare almeno (e dovete
dimostrarlo voi, Pubblico Ministero) che avevano sentito od erano stati informati dell’intimazione
data a norma dell’art. 23 del testo unico.
Comunque sia di ciò – ed è ragione di per sé sufficiente per assolvere Dolci, Speciale e Abbate –
dobbiamo qui affermare la legittimità della resistenza, con tutta l’energia che ci è imposta dal
dovere di difendere non gli imputati soltanto, ma i diritti di libertà. L’ordine di scioglimento non
poteva esser dato. Non era dovuto il preavviso. Il lavoro sulla trazzera era pienamente lecito, e non
infrangeva alcun divieto di legge. Non c’era un «assembramento». Non c’erano state manifestazioni
o grida sediziose, le quali soltanto, a norma dell’art. 20 del testo unico, rendono legittimo lo
scioglimento: nel capo di imputazione, l’art. 20 del testo unico non è neppure menzionato. Non
c’erano le «comprovate ragioni di ordine pubblico e di incolumità pubblica» cui l’art. 17 della
Costituzione subordina lo scioglimento. Il Questore di Palermo – sola autorità competente, per l’art.
18 quarto comma del testo unico, ad impedire che la manifestazione abbia luogo – non aveva preso
alcun provvedimento. Non armi, non tumulto. Nulla. C’era solo – torno a ripeterlo: è il Leitmotiv
della causa – da un lato la Costituzione, l’articolo 4, il diritto al lavoro, il dovere del lavoro;
dall’altro non il testo unico, ma una interpretazione e una applicazione del testo unico
assolutamente arbitrarie: gente portata via, arnesi di lavoro strappati... «Avevano il diritto di non
obbedire, e non obbedirono». Voi non siete, signori, il Tribunale che giudica Crainquebille
nell’amaro racconto di Anatole France: anche da questo addebito assolverete.
E assolverete per le stesse ragioni dall’imputazione dell’art. 414 n. 2 del Codice Penale:
l’istigazione, che si addebita a Dolci, a commettere la contravvenzione dell’art. 24. I due fatti, nella
loro entità giuridica, sono necessariamente collegati: simul cadent aut simul stant. Si potrebbe
aggiungere che, in ogni modo, convinto della legittimità della resistenza, Danilo non ebbe mai
l’intenzione dolosa di incitare a commettere un reato; il che, sotto l’aspetto soggettivo, porterebbe
alla stessa conseguenza. Dev’esserci l’intenzione specifica di istigare a reato. Se l’intenzione non
c’è, il fatto si configura sotto l’aspetto della colpa, e non è punibile. È classico, in tal senso, il caso
del prof. Ruata dell’Università di Perugia, presidente della Lega internazionale contro la
vaccinazione, che fu assolto per mancanza di dolo dall’imputazione di istigazione a commettere il
reato previsto dagli articoli 129 e 300 della legge sanitaria, testo unico del 1907.
Vengo (e mi avvio rapidamente alla fine) al delitto di oltraggio. La versione di Danilo vi è nota:
«Tornando sul posto, ho visto il commissario Di Giorgi che parlava agli uomini dicendo loro di
sciogliersi e di non stare ad ascoltare me, sobillatore. Io, sentendomi così apostrofato, risposi che
non ero tale, perché il lavoro non è solo un diritto, ma per l’art. 4 della Costituzione è un dovere;
che sarebbe stato un assassinio non garantire alle persone il lavoro secondo lo spirito della
Costituzione. Nego di aver rivolto frasi ingiuriose nei confronti della polizia».
I verbalizzanti riferiscono diversamente. Affermano di avere udito: «Chi va contro noi lavoratori è
un assassino», o: «Chi è contro i lavoratori è un assassino».
Pubblici funzionari da una parte, e dall’altra un imputato che ha diritto di mentire. Semplice, sembra
dire il Pubblico Ministero. Troppo semplice. Innanzi tutto perché Danilo non mente: è leale, è
pronto a riconoscere e a confessare la verità, anche quando ne ha danno. E invece dall’altra parte...
Vi faccio grazia di molte e amare considerazioni che mi urgono dentro. Non intendo di inasprire un
dibattito che si è mantenuto finora, e si manterrà fino alla fine, nonostante tutto, sul tono di grande
serenità che voi per primo, signor Presidente, gli avete impresso. Per questo, e soltanto per questo,
non voglio ricordare gravissime affermazioni che sul tema di certe «veridicità» si leggono in
pubbliche sentenze. Mi basta di enumerare ravvivandole nel vostro ricordo – semplice
enumerazione, senza particolari specifici che occuperebbero troppo tempo – le contraddizioni, le
incongruenze, le assurdità dei verbalizzanti che il dibattito ha messo in crudissima luce; in questo
singolare processo nel quale i testi de visu sono soltanto quelli dell’accusa, e testi a difesa non sono
possibili, perché bastò indicare tre testi – Avvenire, Stabile e Loria – che dissero di essere stati alla
trazzera vecchia per lavorare, perché il Pubblico Ministero li incriminasse immediatamente ,
abbassandoli (o elevandoli) al rango di imputati.
Permettetemi di ricordare il fatto senza commenti. Paragonate la richiesta di incriminazione che si
legge a foglio 81 del processo («furono sul posto coi manifestanti, dunque devono rispondere di
tutti i reati addebitati a costoro»), con le pagine della requisitoria scritta che si riferiscono all’art. 24
– «Alcuni dicono: ci allontanammo. Ma non è vero. Gli imputati sono, tra i centocinquanta, “quelli
le cui fisionomie restarono più impresse ai verbalizzanti”». Anche Avvenire, Stabile e Loria? Traete
voi, da questa constatazione, le debite conseguenze. Se siano ammissibili tali forme di pressione
morale, non noi dobbiamo dire. Dovete dirlo voi, signori giudici.
Per fortuna, ci bastano i verbalizzanti, in continuo contrasto tra loro, in contrasto con la logica dei
fatti, con la comprovata realtà delle cose. Le affermazioni di Dolci e degli altri imputati sono
coerenti, costanti, univoche. Dall’altra parte, le fenditure si allargano e fanno crollare l’edificio di
accusa.
Quanti inesplicabili rovesciamenti, quante «armonie dissonanti».
Intanto, come credere che i propositi di non violenza, così chiaramente affermati prima della
manifestazione del 2 febbraio, si siano tanto radicalmente e senza motivo trasformati in azioni
proterve, di intenzionale violenza? E – con più specifico riferimento all’imputazione di oltraggio –
come non osservare che alcuni degli agenti, e più specificamente il brigadiere Capone, pongono essi
stessi in rilievo che Dolci invocava l’art. 4 della Costituzione e immediatamente dopo parlava di
assassinio, così che il discorso era unico e collegato? Infine: possiamo considerare senza sospetto,
come un muro di granito, incrollabile, le apodittiche affermazioni di costoro, che sotto certi aspetti,
contrastano e praticamente si elidono le une con le altre?
Ripeto che non è mio compito entrare nella minuziosa critica delle prove, e il mio discorso (ve ne
chiedo venia) è stato anche troppo diffuso.
Ma è vero o non è vero che il commissario Di Giorgi sostiene l’assurdo quando – come ho già
ricordato – sostiene che una via diritta e più breve, percorsa per tre quarti in camionetta, esige
maggior tempo che un tragitto traverso, di chilometri, percorso a piedi fuori dalle vie battute? E
l’assurdo non diventa palese – se pur non intenzionale – travisamento della verità quando il
commissario La Corte lo smentisce circa la presenza di Dolci, di Speciale e di Abbate sulla trazzera,
al momento dei tre squilli?
È vero o non è vero che il commissario La Corte smentisce nettamente che Dolci e gli altri – lo
vedremo – dessero pugni o calci: «agitavano le braccia e muovevano i piedi, ma pugni e calci non
ne dettero»? e che lo stesso commissario afferma categoricamente che «Dolci salì sulla camionetta
senza opporre resistenza», mentre altri – in varie e contraddittorie guise – si affannano a dipingere
sulla facciata dell’accusa un’altra «finestra finta»?
È vero o no che il commissario Di Giorgi esclude che l’Abbate fosse in un primo tempo presente
sulla trazzera (lo incontrò che veniva dal paese mentre gli agenti portavano via Dolci e Speciale,
che egli fece rilasciare), mentre il commissario La Corte asserisce il contrario (e non è vero), e il
tenente Petralito, in contrasto con l’uno e con l’altro, giura che Abbate non si mosse mai dalla
trazzera, fin quando – avvertito il contrasto – ripiega confusamente sul dubbio?
È vero o no che alcuni negano che le parole «oltraggiose» di Dolci siano state ripetute da altri,
mentre il tenente Petralito ne fa addirittura «un coro», senza peraltro saper indicare uno solo dei
«coristi»?
È vero o no che, secondo alcuni – lo stesso tenente Petralito – Termini e Zanini essendo al di là del
torrente, a trenta o quaranta metri, le loro parole non si percepivano affatto, mentre secondo altri – i
due commissari – si percepivano benissimo perché la distanza era soltanto di dieci o quindici metri?
È vero o no che un carabiniere – del quale è carità tacere il nome – ha qui riconosciuto, con bella
sicurezza, nello Speciale l’Abbate perché noi difensori – che, è ben noto, siamo capaci di tutto,
anche di far sparire o di sottrarre, come ha scritto un giornale indipendente e obiettivo, il
documentario cinematografico della manifestazione del 2 febbraio – avevamo suggerito ai due
imputati di cambiar posto?
È vero o no che secondo il verbalizzante Capritti il Termini oppose resistenza «solo prima
dell’ordine di arresto» (singolare resistenza, quella di un uomo libero dei suoi movimenti, che si
vuol costringere a guadare o a traversare un fiume!), e lo Zanini sempre; mentre il sottotenente
Cosentino afferma con sicurezza il contrario?
È vero o no che il tenente Petralito ebbe a ricevere le immediate lagnanze di Speciale contro il
brigadiere Festa, che gli aveva inferto un pugno?
È vero o no che sono irritualmente apparsi alla ribalta del processo quei tre testi – Lombardo, De
Cristofaro e Simula – i quali dovevano con dichiarazioni «prefabbricate» (una vera e propria novità
dal punto di vista del rito!) accusare il Termini di resistenza, in contrasto col sottotenente Cosentino,
che del Termini si occupò soltanto lui?
È vero o non è vero, infine, che fu arbitrariamente sequestrato il documentario cinematografico e
brutalmente spezzata la macchina dell’operatore; che, per contro, nessun ordine o verbale di
sequestro legalmente dato ed eseguito risulta dalle carte processuali – sottraendosi così la prova più
evidente del carattere pacifico e non violento della manifestazione e dell’osservanza più rigorosa, da
parte degli imputati, del rispetto alla legge?
Potrei continuare. Ma quel che ho detto basta perché voi non crediate ai verbalizzanti sulla parola;
perché siate persuasi che sulle loro affermazioni soltanto non si può condannare.
D’altronde, nel valutare – anche sotto l’aspetto morale le posizioni di questi carabinieri, di questi
agenti, è difficile e sarebbe ingiusto non tener conto dei doveri di disciplina, anche se non
rettamente intesi, dell’obbedienza gerarchica, che da loro si esige cieca ed assoluta; del timore
reverenziale che li possiede di fronte alle affermazioni, alle tesi, agli ordini dei superiori. Diciamolo
francamente, con assoluta lealtà: quando i superiori hanno sposato una tesi, quando si sono
impegnati in un senso, quando hanno redatto un verbale, come possono i dipendenti non adottare
quella tesi, non sottoscrivere quel verbale? E quando lo hanno sottoscritto, come possono poi
smentirlo avanti al magistrato? Far questo potrebbero soltanto se dai superiori (e non soltanto dai
superiori immediati, che in definitiva, in rapporto ai gradini più alti della gerarchia, si trovano nelle
stesse condizioni) non dipendessero la carriera, la sede, le note caratteristiche, le promozioni, il
pane quotidiano. Tutte queste circostanze li impegnano, li immobilizzano, li inchiodano alla loro
croce. Ecco perché a Lombardo, a De Cristofaro e a Simula si fanno irritualmente sottoscrivere le
dichiarazioni «prefabbricate» alle quali ho accennato più sopra, prima di indicarne i nomi al
magistrato. Per questo l’episodio ha un significato illuminante.
Ha dunque ragione Danilo: egli invocò il diritto al lavoro sancito dalla Costituzione, e aggiunse che
a negarlo si commetteva un assassinio. È la stessa frase che, prima dei fatti, si legge in un suo
telegramma al Presidente della Repubblica.
Ma anche a ritenere per certo che le parole di Danilo siano state quali non furono, cioè quelle e
quelle soltanto che i verbalizzanti hanno riferito, come è possibile pensare che Dolci le rivolgesse ai
funzionari e agli agenti della forza pubblica in servizio d’ordine sulla trazzera? Dipendono forse da
loro l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, la creazione delle condizioni che traducano in
realtà nel nostro paese il precetto programmatico che esso contiene? Incombe ai commissari e agli
agenti di Pubblica Sicurezza, ai subalterni e ai militi dell’arma di promuoverne l’attuazione? O non
sono anch’essi uomini che lavorano e si affaticano, e talvolta si mortificano in un lavoro troppo
spesso ingrato e pesante; uomini che portano il loro peso, ed hanno un cuore come gli altri, e
obbediscono contro voglia agli ordini quando li sentono iniqui – sulla trazzera vecchia di Partinico e
altrove – ma disobbedire non possono senza compromettere la loro posizione, le loro famiglie, il
loro avvenire? Danilo lo sa, e non li offende. La sua invettiva passa sopra il loro capo e va oltre, più
lontano e forse più in alto: a chi difende con le unghie e coi denti i suoi privilegi, a chi calpesta e
disapplica le leggi, a chi sbarra con le armi dell’ingiustizia, della prepotenza e financo del delitto le
strade che la Costituzione vuole aperte ai lavoratori. Leggete gli appelli che Danilo ha rivolto
pubblicamente, prima del 30 gennaio, alle autorità, alla stampa, a tutti gli italiani: quel che ho avuto
l’onore di esporvi troverà in essi la più chiara riprova.
Per tutte queste ragioni, signori, anche l’imputazione di oltraggio deve venir meno, per Danilo e per
tutti.
Ultima della non breve serie è la resistenza. Articolo 337 del Codice Penale «per avere usato
violenza agli agenti e ai carabinieri che li stavano traendo in arresto, tentando di respingerli con la
forza e colpendoli con calci». Se fosse vero! Ma vero non è.
Si sa che la resistenza passiva o comunque non violenta o minacciosa non è reato. L’esempio
classico che gli autori citano è appunto quello del gettarsi o sedersi in terra dopo l’arresto. La
violenza è dunque elemento essenziale perché sussista il reato previsto dall’art. 337. E dev’essere
violenza intenzionale: la volontà del reo diretta ad usare violenza o minaccia. Chiedo scusa di dover
dire cose assolutamente elementari e banali; ma sono quelle che risolvono a favore degli imputati il
problema. Corollario di esse è che non basta «afflosciarsi», come qualcuno ha detto di Dolci, o
«appesantirsi», come hanno detto altri, e neppure «divincolarsi», come hanno detto i più. Occorrono
i calci, come ben dice il capo di imputazione, o i pugni, che nel capo di imputazione non sono
espressamente menzionati, dei quali però si fa ugualmente carico dall’accusa a Danilo e ai suoi
compagni di prigionia.
Ora, è assolutamente certo che pugni e calci non furono dati. Da nessuno. Lo stesso Pubblico
Ministero lo ha riconosciuto, quando vi ha parlato di una violenza degradata, attenuata, ridotta al
minimo, ad un divincolarsi, che starebbe ai margini della violenza vera e propria, o addirittura al
confine della non violenza. È questo il punto della requisitoria nel quale il dubbio dell’accusatore è
più evidentemente affiorato.
Pugni o calci od atti di resistenza non passiva non ne ha visti il commissario Di Giorgi. Per il
tenente Cosentino, «fu solo necessario prenderli di peso, perché non volevano camminare». Il
commissario La Corte dice che «non davano calci né pugni, agitavano le braccia divincolandosi e
muovevano i piedi», e aggiunge che «neppure quando fu issato sulla camionetta Dolci oppose
resistenza». Secondo il tenente Petralito «cercavano di svincolarsi, ma non fecero alcuna reazione
violenta. Si abbassavano, forse al fine di sedersi per terra».
«Qualche agente fu colpito da quei movimenti – precisa Cosentino – ma non so da chi, né quale».
Circostanza, questa, assai strana, che mi ricorda la risposta data da un contrabbandiere e consacrata
a verbale, in un lontano processo contro alcuni ufficiali della Guardia di finanza a Milano, al quale
partecipai come difensore. Il contrabbandiere lamentava di aver ricevuto un pugno, che gli aveva
fatto cadere un dente: «Quale dente?», chiese l’istruttore; ed egli – nel più evidente imbarazzo –
rispose, e la risposta fu verbalizzata: «Un dente imprecisato».
...
Intorno a voi, intorno a noi tutti, quando deciderete la sorte di Dolci e dei suoi compagni, dovranno
tacere tutte le voci, e risuonerà soltanto la più alta: quella della Costituzione. E con essa la voce del
supremo Magistrato della Repubblica, che della Costituzione è custode e garante: parlo di Giovanni
Gronchi. Ascoltatela:
Io credo fermamente che sia interesse fondamentale della democrazia realizzare pacificamente
l’inserzione delle masse lavoratrici nella vita dello Stato. E credo che a soddisfare tale esigenza non
si giunga se non attraverso il riconoscimento concreto dei nuovi diritti e della nuova posizione del
lavoro.
Il vostro solo delitto, Dolci, Termini, Speciale, manifestanti di Partinico, è stato di lavorare per
questo.
Signori, ho finito.

AVV. FRANCESCO TAORMINA. ... Non è questo il processo


di Dolci, non lo è nel senso che vano sarebbe ritenerlo esaurito
con una sentenza qualunque essa sia. Danilo è un testimone di
questa nostra aggressiva miseria; egli diventa protagonista
della vicenda per esserne più consapevole ed autorevole
testimone.
Questo è, invece, il processo ai diseredati di Partinico che voi dovete giudicare considerandoli
anche rappresentanti dei diseredati di tutta l’Isola, di tutta Italia ed, in particolare, di questo
nobilissimo e martoriato Mezzogiorno.
Si tratta di parti lese, Signori, si tratta di vittime anche se gli organi di polizia, e l’alto potere che
dirige e sovrasta, hanno voluto tradurre queste vittime dinanzi a voi nella veste di imputati. Intanto
essi sono i difensori dell’ordine giuridico costituzionale! Mi occupo in collegio con gli altri
colleghi, di tutti gli imputati; ho un particolare incarico per Domenico Macaluso, il giovane
sindacalista militante. È uno studente in legge, un «fuori corso», cioè uno di quelli che ritarda il
traguardo della laurea; onoriamolo, Signori, questo giovane che non si è fermato lungo la strada
degli studi per sedersi ed oziare o peggio: egli ha camminato, e come! Egli ha dato una pausa ai suoi
studi impegnandosi in altri doveri. Non è ancora un dottore in scienze giuridiche ma ha lottato per la
trasformazione sociale. Orbene egli è chiamato dinanzi a voi come imputato ed è, invece, ben a
ragione, un accusatore; egli si confonde con tutti gli altri imputati cioè con tutti gli altri accusatori.
...

Quale era l’atmosfera di quella esemplare vicenda; quale era, Signori?


Atmosfera di entusiasmo, atmosfera di piena consapevolezza. Non v’erano solo Dolci, Macaluso,
Speciale, ecc. Ascoltate, Signori, quanto dice uno degli imputati; vi sentirete – anche se da noi
dissenzienti – orgogliosi come noi di tanta serietà morale del nostro popolo: «Fummo noi stessi ad
essere tenaci ed a non lasciarci convincere all’invito di desistere dalla manifestazione di protesta»
(foglio 73, dichiarazione Loria Carlo).
...

Che vale la norma costituzionale dell’abolizione della pena di morte per i colpevoli di gravi delitti
se per gli innocenti, sol perché miseri, è dettata, dalla iniqua società, la morte?
Ed eccoci, ora, all’assurdo della imputazione di invasione di terreni: eccoci all’art. 633 del C.P. Si
tratta della imputazione più ricorrente in questo dolorante Mezzogiorno d’Italia. L’imputazione che
ha accompagnato la lotta dei contadini e dei braccianti per la riforma agraria.
Art. 633 C.P.! Strumento di repressione che si tenta di rendere più idoneo, fortunatamente invano, in
sede legislativa di riforma del Codice Penale, recentemente, soprattutto eliminando la «necessità»
del dolo specifico.
Ecco come significativamente si esprimeva al Senato della Repubblica il relatore di maggioranza:
«L’art. 633 del C.P. richiede per il delitto di invasione il dolo specifico rappresentato dallo scopo di
occupare e di trarre profitto. Da ciò numerose controversie ritenendosi che l’occupazione dovesse
essere considerata solo ai fini del dolo specifico e che in sé e per sé non dovesse essere considerata
come un elemento materiale del reato».
Persino il Manzini, giurista che nella coscienza democratica della nazione è segnato negativamente,
– rammentiamo come, in servizio del regime fascista, ebbe a sostenere la retroattività della pena di
morte, – ha dovuto, commentando l’art. 633 del C.P., affermare che la parola «terreni» va intesa
come «fondi».
Ma perché la pubblica accusa non ha ricalcato alcuni rilevanti precedenti? Perché non ha ritenuto di
rubricare al posto del delitto di cui all’art. 633 C.P. quello di danneggiamenti?
Sarebbe stata una sistemazione di causa più seria almeno dal punto di vista della «formalità» della
imputazione. Dolci, Macaluso, e gli altri, imputati ai sensi degli articoli 110, 112, 635, 625 n. 7 del
C.P.!
Ah, ciò non poteva avvenire poiché la trazzera non era praticabile; persino le camionette della
polizia non vi potevano transitare. Gli imputati non danneggiavano ma miglioravano la trazzera.
Orbene, Signori del Tribunale, bisognava avere il coraggio di non denunziare. Bisognava avere il
coraggio di non sostenere l’accusa poiché il fatto attribuito agli imputati non costituisce reato. Sì,
non costituisce reato il fatto di avere applicato il proprio lavoro, pur senza l’autorizzazione dei
pubblici poteri, nella trazzera vecchia di Partinico al fine di renderla transitabile. Tutto può pensarsi
possibile in questo processo: magari che si commetta l’errore di ritenere l’oltraggio e la resistenza
ma mai che si cada nell’assurdo di ritenere applicabile l’art. 633 del C.P. Ma chi sono, Signori,
infine, questi «scioperanti alla rovescia»? Sono i difensori dell’ordine morale e dell’ordine giuridico
assieme. Dell’ordine giuridico nella sua più alta espressione: la Costituzione.
Essi hanno difeso non solo l’art. 4 della Costituzione al quale si sono appassionatamente richiamati
ma anche l’articolo 2:
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili
di solidarietà politica, economica e sociale.
Essi hanno difeso e difendono, integralmente, nello spirito e nella lettera, la Costituzione della
Repubblica Italiana.
Essi si inseriscono, con una pagina di alta nobiltà, nella polemica spesse volte mediocre, quasi
sempre astratta e sterile, cioè fuori dalla realtà umana, sulla precettività o non precettività delle
norme costituzionali; essi dicono, non per loro come persone determinate, ma per tutti:
l’ordinamento giuridico non può condurre alla liceità dell’assassinio, l’ordinamento giuridico deve
garantire il lavoro e con il lavoro la vita.
Questi scioperanti alla rovescia sono nell’orbita del diritto. Signori, sono nell’orbita
dell’ordinamento giuridico coloro che protestano per lo scarso compenso al loro lavoro: essi
esercitano, per migliorare questo compenso, il diritto di sciopero. Come sarebbe possibile
considerare fuori dell’ordinamento giuridico coloro che protestano perché manca il lavoro?
Non possiamo eludere, per conto nostro non eluderemo, il dovere, che è anche dovere morale,
oltreché di serietà giuridica, di stabilire l’equivalente dello sciopero per il lavoratore disoccupato.
Questa gente ci guida, Signori, ci guida in uno sforzo eroico di non denunziare la frattura fra
l’ordine giuridico e l’ordine morale e sociale. La frattura vi è e loro, le vittime, lottano perché non ci
sia; e noi li condanneremo?
E voi li condannerete?
Signori, quanto sangue e quanta violenza nella storia della vita degli uomini. Qualche volta,
purtroppo, sangue e violenza accompagnano anche le svolte in avanti di questa travagliata storia
degli uomini; ma di questo sangue e di questa violenza spesso sono stati responsabili coloro che non
hanno saputo rendere giustizia avendone il dovere. Non hanno saputo o voluto accompagnare gli
uomini nella loro lotta per la giustizia!
...
Ore 17

AVV. NINO SORGI. Signori del Tribunale, intervengo solo per


sottoscrivere quanto hanno detto i colleghi Taormina e
Comandini, aggiungendo una esortazione: non vogliate
considerare i fatti di questo processo come un episodio isolato
e quindi concluso.
Nessun fatto umano è compiuto in sé, nessuno è comprensibile se non lo si consideri storicamente,
nei suoi precedenti mediati ed immediati, nei suoi riflessi economici, sociali e culturali. Ciò è tanto
più vero per i Giudici, che si accingono a giudicare fatti che hanno conosciuto solo dal racconto di
persone, molte delle quali la passione ha allontanato dalla verità, come di frequente accade quando
la polizia è essa stessa, o presume di essere, parte offesa nei fatti che denuncia.
Due fatti di per sé dissimili possono apparire identici a chi li consideri obiettivamente e
freddamente: staccati dalle condizioni che l’hanno determinato.
L’ucciso dalla folgore – ad esempio – non è in sé diverso dall’ucciso dall’uomo, due vite troncate e
sottratte alla società: ma il primo subì l’effetto del caso, talvolta assolutamente inevitabile, il
secondo denuncia l’esplodere della più grave delle passioni, quella che induce l’uomo a sopprimere
il prossimo suo, fatto questo del quale ognuno è responsabile in diversa misura, ognuno che
partecipi alla società in cui vive.
È accaduto che le carte del processo abbiano ignorato i veri protagonisti: i «banditi», gli staccati da
una società che non riesce ad evitare a molti dei suoi componenti una delle peggiori sofferenze: la
fame. La fame oscura, senza prospettive, elusa ma non placata da uomini i quali, pur
sopravvivendo, non possono evitare di perdere uno ad uno i segni della loro umanità.
Protagonista del processo è Partinico: un nome che, sfrondato dalla retorica vuota e mendace di
certi politicanti mafiosi in cerca di voti, ricorda delitti e persecuzione indiscriminati, carabinieri e
cittadini uccisi dalle sventagliate dei mitra; popolo tolto alle case ed allineato sulla strada a subire
odiose perquisizioni e ricatti. E frattanto collusioni e imbrogli e complicità delittuose delle quali si
sono macchiati tutti indistintamente i poteri dello Stato, fattosi infine nemico e persecutore dei
diseredati, cioè della stragrande maggioranza del popolo.
Ma Partinico non è che l’esempio tipico ed esasperato di una situazione che si ripete con notevole
frequenza e simiglianza in tutta l’Isola e nel meridione d’Italia: i diseredati di Partinico si dibattono
nella stessa insostenibile situazione in cui si dibattono i pescatori di Trappeto, frodati della pesca nel
loro mare, i braccianti di Riesi e di Resuttano e di Mazzarino oppressi nel feudo dal gabellotto
mafioso, i minatori di Serradifalco e di Lercara, i contadini assetati di Mussomeli, i braccianti
affamati di Venosa e di Barletta.
Questo è l’ordine di cose che si vuol conservare a qualsiasi costo, ma che per la sua intrinseca
ingiustizia genera inevitabilmente la ribellione.
E la ribellione più diretta, antica e tipica è quella del bandito, inizialmente atto di disperazione ed
insieme di fierezza, vendetta di un uomo che lungamente oppresso ma non privo di coraggio
imbraccia il fucile ed applica la sua grossolana legge del taglione che ai suoi occhi ha il fascino
dell’immediatezza e di una sua logica fatale: «a cu ti leva u pani levacci la vita».
Questi – voi lo sapete – non sono paradossi, e la parabola di Giuliano è ben impressa nella
coscienza di ciascuno di noi a ricordare oltretutto la incapacità di quest’ordine, che pur viene
continuamente «ristabilito», a risolvere i suoi più gravi problemi di struttura.
La fine di Giuliano consacra appunto l’impotenza di uno Stato ridottosi al compromesso ed
all’imbroglio famoso, pur di non rinnegare alcuni suoi autorevoli esponenti.
Al tenente Petralito, che, senza una parola, rifiutando ogni discussione, ha strappato la vanga di
mano a Danilo, con gesto estremamente conciso ed autorevole, voglio ricordare che ben più lunghe
e cordiali furono le discussioni dei tutori dell’ordine con Giuliano.
E ricordo soltanto quanto è affermato in una sentenza che pure ignora ben più gravi verità.
Ma – sia detto ad onor del vero e dei diseredati – l’individuale ribellione del bandito non è la sola
levatasi a sottolineare la insostenibilità della situazione: altre la cronaca ne ricorda, consapevoli e
legali, protese solo ad imporre il rispetto della legge e dei bisogni insopprimibili di chi soffre la
fame. Sono le proteste dei lavoratori riuniti nelle leghe, nei loro sindacati, inquadrati dietro una
bandiera a scioperare per reclamare non tanto l’abolizione dei feudi o la spartizione delle grandi
ricchezze, ma appena l’applicazione di leggi che portano il nome di Gullo e di Segni, e che tra noi
sono rimaste lungamente ignorate, pur essendo consacrate e valide non meno delle altre leggi, non
meno di quelle che impongono di pagare i tributi o di andare a combattere.
Soltanto io, giovane avvocato e non dei più occupati, dal 1944 al 1949, nei distretti delle Corti di
Palermo e Caltanissetta, ho difeso oltre trecento tra contadini e minatori che hanno avuto oltre
cinquecento anni di carcere, rei soltanto di aver reclamato l’applicazione delle leggi.
In verità quasi sempre fu incentivo alle procedure un incidente, un fatto specifico determinato da
una repressione massiccia ed indiscriminata, spinta fino a provocare l’esplosione di una folla
esasperata: e le imputazioni furon quelle stesse delle quali oggi ci occupiamo: violenza, resistenza,
oltraggio...
Ma nello stesso periodo di tempo quaranta fra sindacalisti e dirigenti di partito sono stati uccisi con
l’agguato mafioso: trentotto archiviazioni hanno consacrato l’impunità dei rei (i cui nomi vengono
tuttora mormorati dalla gente); due soli processi: uno dei quali si è concluso con l’assoluzione degli
imputati e l’altro, per l’assassinio di Turiddu Carnevale, è ancora in corso.
Questa situazione ha un suo profondo significato: quest’«ordine» che manda in galera il bandito
(quando ci riesce e sappiamo a qual prezzo) ma con maggior frequenza chi si batte per
l’applicazione delle leggi, quest’ordine che non riesce ad individuare e punire i responsabili di
innumerevoli delitti, è fuori dalle leggi più profonde di umanità ed è fuori dalle sue stesse leggi
scritte.
Queste cose vanno lungamente meditate dai giudici, così come lungamente e profondamente furono
meditate da Danilo e dagli altri imputati prima di agire e la loro azione fu per questo concepita
come atto di amore e di fraternità per dimostrare che è ancora possibile uscire dagli schemi odiosi
della lotta e del sangue.
Da tempo si gridava a Partinico: «Basta coi mitra, vogliamo lavoro!». Ma il grido non era stato
ascoltato, il lavoro c’era e c’è tuttavia, il denaro, a quanto sostengono autorevoli personalità, è stato
stanziato, ma il paese vegeta tra pessime strade e poche fognature e la gente muore anche di fame!
Si volle sottolineare questo stato di cose, si volle dimostrare che i «banditi» di Partinico vogliono
essere gentiluomini desiderosi di lavorare, consapevoli che la Carta Costituzionale garantisce il
lavoro come diritto e lo impone come dovere, si volle dunque adempiere generosamente il dovere in
attesa ed in fiducia che lo Stato ristabilisse il diritto di lavorare.
Mi si chiederà: perché a Partinico? Perché non altrove?
Risponderò con una frase di Danilo: perché bisognava, per cominciare, «rompere la crosta» in
qualche punto, perché bisognava scuotere i responsabili della situazione dalla loro indifferenza,
stesa, come una crosta di gelo, a comprimere ogni impulso di generosità.
Ciò andava fatto non a caso a Partinico, ma proprio perché l’azione lungamente meditata voleva
essere, ed è stata, atto di amore profondo e di sacrificio, di fiducia in tutti e di speranza.
Questo atto di amore doveva iniziarsi a Partinico perché là da anni era stato seminato coi mitra
l’odio, ed ormai vi fioriva rigoglioso e la gente aveva preso dimestichezza col delitto: là dunque
bisognava rompere la crosta e seminare la fiducia negli uomini e l’amore. Ciò non poteva avvenire
che bandendo ogni violenza, con atto di persuasione, in sacrificio. Come il frutto che cadendo
dall’albero cessa di vivere per penetrare nella terra e farsi seme e dar vita alla pianta nuova, con
questo spirito Danilo giunse a Trappeto e poi a Partinico, e là disteso sul letto della bimba morta per
mancanza di aiuti, dimenticata addirittura, intraprese il suo digiuno per scuotere gli altri
dall’indifferenza, disposto anche a morire ed a farsi seme egli stesso.
Questi i precedenti, queste le condizioni ambientali che determinarono i fatti che vi accingete a
giudicare ed i protagonisti sono numerosi, sono falangi di «banditi», di scacciati da una società, che
essi vogliono rendere migliore e nella quale vogliono rientrare da gentiluomini.
Li guida oggi Danilo Dolci, un uomo di cultura, un poeta. Volpini ci ha detto che Dolci si accingeva
a curare una antologia della poesia religiosa per i tipi di Vallecchi, quando decise di abbandonare il
suo lavoro per venirsene a Trappeto.
È questa la circostanza nuova essenziale che va profondamente meditata e compresa se si vuol
trovare la verità nel groviglio di accuse contrastanti e inverosimili.
Perché mai un uomo di cultura abbandona la poesia per venire a Spine Sante? Perché si interessa
dei diseredati? Perché, avendo agito come ha agito, ritrova attorno a sé la solidarietà operante dei
più qualificati rappresentanti della cultura viva, italiana e straniera?
Cos’è mai accaduto perché questi uomini di cultura abbandonino il loro mondo di meditazione e di
creazione e vengano ad affondare i piedi nel fango della trazzera vecchia?
In verità, se questo è un fatto nuovo nella cronaca di questi tempi non è nuovo nella storia, ed io non
tenterò, in quest’aula dove ha parlato Norberto Bobbio, di analizzare i motivi profondi che legano,
che debbono legare, la cultura viva alla politica. Ricorderò soltanto che non vi può essere cultura
laddove lo Stato non si preoccupi di determinare le condizioni perché il popolo acceda alla cultura e
quindi alla civiltà, eliminando l’analfabetismo, garantendo dignità di vita, libertà di conoscere e di
credere nei valori più elevati; non v’è cultura dove l’ignoranza è sfruttata per il controllo e
l’oppressione dello spirito popolare, e l’oscurantismo è strumento odioso di conservazione.
Sulla trazzera di Partinico la cultura italiana ha difeso innanzitutto se stessa ed i suoi valori, come
già era avvenuto durante il fascismo nelle galere ed al confino, durante la Resistenza che vide
impegnati in prima fila gli uomini che sono venuti a testimoniare per Danilo.
Oggi la cultura italiana è impegnata nello sforzo di rendere operante la Costituzione ed effettiva la
democrazia, e quindi il progresso che avvicini il popolo ai valori della cultura.
All’infuori di ognuno di noi è avvenuto che questo appaia sempre più il processo alla cultura, alla
Resistenza, allo Stato, quale dovrebbe essere in applicazione dei principî della Carta Costituzionale.

Soltanto ora mi pare possibile ed opportuno parlare dei fatti per i quali si procede, ma non intendo
addentrarmi in una disamina tecnico-giuridica. Lo hanno già fatto Comandini e Taormina, lo farà
ancora l’onorevole Varvaro, col quale tante altre volte ho condiviso l’onere della difesa in processi
simili a questo. Cercherò piuttosto di fare – per così dire – un bilancio della verisimiglianza fra le
accuse incerte e contraddittorie e le serene affermazioni degli imputati.
Si assume dunque che gli agenti siano stati offesi con la frase «Chi è contro di noi lavoratori è un
assassino».
Abbiamo chiesto: chi l’ha detto? in quali circostanze?
Il commissario Di Giorgi ha risposto: «Dolci l’ha detto, tutti l’hanno ripetuto!». «In coro?». «In
coro!».
Ma gli agenti Di Lecce e Capone che pure erano sul posto, non hanno sentito il coro, e non sono
sordi, e non l’ha sentito l’agente Tanco, il quale riferendo che Dolci ebbe a profferire la frase dopo
aver invocato la Costituzione, apre una breccia che consente di intravedere la verità.
Si assume che, al fine di indurre i disoccupati a recarsi sulla trazzera, si sarebbe promessa una
remunerazione onde alcuni agenti riferiscono che i lavoratori, invitati a sciogliersi, abbiano risposto,
sempre in coro, «ottu uri avemu a travagghiari, accussì semu pagati». E questa circostanza dovrebbe
costituire il presupposto della assurda imputazione di invasione di terreni.
Ma il tenente Petralito, il brigadiere Festa e gli agenti Tanco e Petrosillo non hanno sentito questo
altro coro ed erano sul posto. Si parla di resistenza alla forza pubblica attuata con pugni e calci, ma
qui al dibattimento vengono esclusi e i pugni e i calci, e si afferma solo che gli imputati si
dimenassero. Ma si ammette che furono presi e sollevati come sacchi; e trascinati, né ci si spiega
come Dolci portato bocconi, in maniera da potergli disarticolare le braccia e le gambe, abbia potuto
in ogni modo dimenarsi.
Non v’è verità elementare – noi diciamo – che non possa intuirsi ed immaginarsi tosto che venga
enunciata.
Provate ad immaginare la resistenza così descritta, provate ad immaginare i due cori!
Ma se neppure i cori della finzione scenica riescono ad avvicinarsi alla realtà, ed appaiono
artificiosi e ridicoli agli stessi spettatori che pur sono predisposti alla finzione!
Contro questa accusa, sul piano della logica e del confronto delle risultanze processuali è stato già
dimostrato che non vi fu oltraggio né resistenza né violenza di alcun genere.
Ora – addirittura prescindendo dalle risultanze processuali – cercherò di dimostrare che oltraggio e
violenza non potevano né dovevano verificarsi, perché l’azione era stata meditata e voluta come
esemplare dimostrazione della possibilità di condurre i disoccupati a reclamare il loro diritto al
lavoro in forma elevatissima, in generosa dedizione ed in pratica dimostrazione di ciò che poteva
essere fatto per occupare centinaia di braccia.
Quali fossero le intenzioni di Danilo ve lo hanno detto autorevolissimi testimoni, che vi hanno
spiegato perché quel giorno non si sarebbe portato sulla trazzera neppure il temperino per tagliare il
pane, ed a mezzogiorno si contava di frangere il pane con le mani in un rito di pace, ed alla musica
si sarebbe affidato il compito di distendere gli animi ed aiutarli a comprendere e ad amare ciò che si
stava facendo.
Quando si è parlato di musica qualcuno ha sorriso incredulo: può dunque la musica aver luogo fra i
disoccupati che reclamano lavoro? Perché no?
Quando questi stessi «banditi» furono vestiti di una divisa, inquadrati e spediti a farsi ammazzare e
ad ammazzare fuori dalle loro terre, per motivi che molti di loro non intuivano neppure, che
funzione ebbe la fanfara che li precedette e li guidò rumorosamente?
Che funzione ebbe – noi chiediamo – quella fanfara, se non quella di esaltare retoricamente gli
spiriti e risvegliare gli istinti della violenza?
Perché sorridere dunque quando si dice che alla musica di Bach si intendeva affidare il compito di
elevare gli spiriti all’amore ed alla nonviolenza?
Quali fossero i suoi propositi Dolci stesso aveva esplicitamente detto alla Televisione, assumendo
quindi un pubblico e solenne impegno:
C’era una strada di campagna, delle più necessarie, quasi impraticabile. La pioggia, il tempo, ne
avevano scoperte le sconnesse ossa tra fangosi affossamenti. Piuttosto che rimanere per mesi e mesi
con le mani in mano, non è meglio mettersi ad aggiustarla? Centinaia di braccianti ci stanno:
cominciano ad intuire che le vere rivoluzioni si fanno generosamente, con la testa a posto –
sacrificandosi esattamente per tutti, non sparando.
Ma – si dirà – se queste furono le intenzioni, la realizzazione trascese nella violazione della legge:
non è la prima volta che l’azione superi e tradisca l’intenzione.
Questo può accadere talvolta, tutte le volte che un’azione strettamente determinata ad uno scopo
contingente s’imbatta nell’imprevisto che minacci di renderla infruttuosa o di paralizzarla
addirittura: così nella rissa può avvenire che taluno dei contendenti, accecato dall’altrui efficace
reazione, perda la misura ed uccida pur avendo voluto solo percuotere; o che il ladro, scoperto e
minacciato, uccida senza averlo prima voluto, per salvarsi dalla cattura; così è accaduto che gruppi
di dimostranti, che intendevano occupare un feudo o una fabbrica, durante la repressione violenta
delle forze dell’ordine, abbiano perduto il controllo delle loro azioni e, protesi a conseguire il loro
scopo, abbiano percosso o oltraggiato chi li voleva impedire.
Ma questo non poteva, non doveva accadere a Danilo ed ai suoi compagni: il loro scopo non era
essenzialmente riparare la trazzera, ma, riparandola, dimostrare che i disoccupati erano capaci di
intendere ed attuare il lavoro come dovere, prima di reclamarlo come un diritto.
La nonviolenza – insomma – era il fine essenziale dell’azione, tendente innanzitutto ad affermare
questo nuovo linguaggio tra gli uomini.
Sicché trascendere, ingiuriare, percuotere o anche solo resistere, avrebbe importato non conseguire
lo scopo, anzi rinnegarlo clamorosamente.
E la frase oltraggiosa?
Si vuole una testimonianza genuina, una interpretazione autentica di ciò che Dolci ha detto al
commissario Di Giorgi sulla trazzera? La si cerchi in un documento non sospetto, perché stampato e
diffuso alcuni mesi prima del fatto, nel libro di Danilo sui «banditi», e nell’avvertenza che precede
tutta l’opera si leggerà:
Tra noi c’è un mondo di condannati a morte da noi.
Talvolta, anche per giusta sofferenza, tenta di ribellarsi: col mitra e la galera si risponde.
Si smetta di star dalla parte dei più forti, di lasciare a loro la possibilità di soffocare gli altri, proprio
per sistema, alla luce del sole. Non credo che tutti siamo tanto crudeli da voler continuare ad
ammazzare, e a lasciar ammazzare, così. Non ci credo. Si sappia, anche, e la vita non può non
scorrere.
Null’altro: il bilancio della verosimiglianza è completo. Le cifre sono allineate e non rimane che
tirare le somme.
Da una parte gli accusatori i quali, dopo aver contrapposto alla Costituzione il testo unico di
pubblica sicurezza, in una interpretazione aberrante, oggi, fors’anche in buona fede, forse deviati
dall’accesa passione che confonde il loro ricordo, dicono di aver visto ciò che non hanno visto, di
aver sentito ciò che non hanno sentito. E cercano di offrire una prova che naufraga continuamente
nella contraddizione e nella inverosimiglianza.
Dall’altra Danilo, un uomo che nel culto della verità, nella fiducia in tutti, ha trovato i motivi
essenziali della sua vita, e Turiddu Termini, il vecchio sindacalista che ha indicato senza sbagliare
fatti e persone, e Ignazio Speciale, e Abbate, il pescivendolo fattosi bracciante, e Zanini che nel
lavoro cercava nuova dignità.
Se non vi fossero i numerosi argomenti che vi abbiamo detto, basterebbe – io credo – a far credere
loro, il tono di elevata verità con cui Danilo e gli altri hanno parlato in quest’aula.
Assolvete dunque, pienamente, questi imputati che nessun delitto hanno commesso. E, con loro,
assolvete Calamandrei e chi ha voluto la Resistenza e la Costituzione, assolvete Levi e Vittorini,
Silone e Lucio Lombardo-Radice: tutti si sono detti coimputati.
Assolvete Maria Sacchetti Fermi, questa candida donna che tutta la vita ha impiegato a cercare un
ideale di bontà. E lo ha trovato in galera!
Assolvete sua figlia Gabriella, adolescente venuta a Borgo di Dio per aiutare dopo l’arresto di
Danilo.
Assolvete tutti noi, onorando la Costituzione!

AVV. ANTONINO VARVARO. Signor Presidente, signori


giudici, stamane, ascoltando il Pubblico Ministero mentre
pronunciava la sua requisitoria, io mi sentivo sospingere verso
di lui, nel momento stesso in cui chiedeva delle condanne, da
un vivo moto di simpatia perché intuivo il tormento mal
dissimulato attraverso il quale si esprimevano le burocratiche
esigenze del suo ufficio.
È pur vero che non è facile, almeno entro certi limiti, che una sentenza apertamente contraddica un
vasto testimoniale di funzionari e agenti di Polizia onde conviene a noi restare sul terreno di una
critica obiettiva per ricercare, nelle incrinature e nei contrasti di quel testimoniale, la prova della
innocenza degli imputati.
...

Nella mia veste di difensore degli imputati Termini, Speciale, Abbate e Zanini, io non posso
esimermi dalla dimostrazione che l’espressione oltraggiosa attribuita a Danilo Dolci non si possa
attribuire affatto anche agli altri.
Sotto questo profilo il rapporto e i singoli funzionari fanno affermazioni grottesche e contraddittorie
insieme. Grottesca è l’ipotesi della ripetizione corale della frase attribuita al Dolci da parte di tutti
gli scioperanti noti ed ignoti. Contraddittorie sono le testimonianze di accusa in quanto, mentre tutti
gli imputati avrebbero ripetuta la frase incriminata, sta di fatto che parecchi testimoni, funzionari ed
agenti, affermano di non averla udita pur essendosi trovati accanto a quegli altri che sostengono il
contrario.
Ma vi è di più. Parecchi di quei testimoni, funzionari ed agenti, che avevano affermato di avere tutti
i presenti pronunciata la frase offensiva, alle nostre precise contestazioni hanno dovuto rispondere
di non essere in grado di indicare neanche un solo nome.
Ora, tale essendo la situazione processuale, non credo che si possa attribuire alcun valore alle
testimonianze che indicano or l’uno or l’altro imputato, e affermare che esista l’ombra di una prova
che la frase di Danilo sia stata ripetuta da altri. E ripetuta non poteva essere, perché la frase è
particolarmente di Danilo Dolci; direi che è fisionomicamente sua.
Si tratta dunque di un artificio. Processi di questo genere non nascono né si sviluppano come gli
altri. Fatti gli arresti, i rapporti di denuncia devono giustificarli. I fatti si succedono alla rovescia;
non è che il rapporto segua alla consumazione di un delitto, tutt’altro. Gli arresti si fanno sotto lo
specioso pretesto di evitare disordini, più tardi è il rapporto che costruisce il reato. Questa,
purtroppo, è la prassi, questa la dolorosa realtà che ci ha fatto assistere, in questi anni, alle peggiori
macchinazioni, particolarmente nei processi politici.
Ma le verità nascoste e camuffate giungono per mille rivoli alla pubblica opinione. Noi sappiamo
perché Danilo e i suoi compagni vennero tratti in arresto. Sappiamo che in un segreto colloquio
qualcuno disse che vi era stato costretto perché temeva che entro qualche giorno gli scioperanti...
alla rovescia di Partinico sarebbero divenuti migliaia. E sappiamo quindi che la polizia cercava
affannosamente una parola, un gesto purchessia, che le permettesse la solita, ormai abusata
denuncia per resistenza ed oltraggio.
Dicevo prima che oltraggio non ci fu e che avrei invocata una testimonianza sicura. Si tratta del
commissario La Corte il quale per fornire la dimostrazione della responsabilità collettiva, afferma
che le espressioni oltraggiose «trovano riferimento nella coscienza dei capeggiatori – leggi Danilo
Dolci – che le avevano scritte nell’articolo pubblicato sul giornale “L’Ora” a pagina 7 colonna 3
capoverso decimo del 1° andante».
Si tratta di un messaggio al Presidente della Repubblica nel quale si dice:
Non per disperazione oggi digiuniamo, ma nella speranza di contribuire perché l’Italia diventi un
paese civile. Sappiamo che lavorando generosamente siamo la vita. Chi ci impedisce è assassino:
non paghiamo le tasse perché il nostro paese, dal mare alla terra, sia una mala galera in mano ai
prepotenti.
Il giornale scrive che il messaggio è firmato: «Mille cittadini che credono nell’art. 4 della
Costituzione».
Ecco il riferimento del commissario di P.S.; ecco la frase di Dolci. Ma a chi andava il messaggio?
Forse ai poliziotti? No, al Presidente della Repubblica invece, presso il quale quelle parole
dovevano necessariamente trovare la più alta comprensione perché si ricollegavano a quell’altro
messaggio rivolto agli italiani appassionatamente citato stamane da Federico Comandini.
La parola «assassino» e la frase che la contiene erano quindi riferite, così nel messaggio firmato dai
«Mille cittadini» come la mattina del 2 febbraio sulla trazzera, a quelle forze retrive, inerti ed
immobili che impediscono il lavoro a coloro che ne hanno bisogno.
È pertanto meschina l’affermazione che, pronunciandole sulla trazzera, Danilo Dolci avesse voluto
offendere funzionari o agenti di polizia.
Quali riflessioni, signori giudici, suggerisce questo processo! Riflessioni amare. Questa mattina il
Pubblico Ministero diceva che l’episodio del 2 febbraio non è uno sciopero, perché sciopero è
astensione dal lavoro; aggiungeva che lo sciopero è un diritto sacrosanto. Il 2 febbraio non vi fu
dunque sciopero, ma il suo contrario, cioè una riunione di lavoratori che invece di astenersi dal
lavoro andavano a lavorare sulla trazzera. E questo non è sacrosanto: è delitto.
Per parte mia ho sempre ammirato gli operai che scioperano, perché in questa lotta organizzata, essi
trovano la possibilità di realizzare le loro legittime aspirazioni di vita, di lavoro, di giusto salario.
Però sta di fatto che quando c’è uno sciopero, vi sono dei benpensanti che dicono: «Lo sciopero è
deprecabile perché l’astensione di migliaia di braccia dal lavoro impoverisce il paese». Ma quando,
invece di impoverire il paese, gli operai cercano il lavoro che non hanno ad aggiustare una vecchia
trazzera impraticabile, allora quegli stessi benpensanti inorridiscono e gridano al delitto.
È impossibile immettere nell’ordine giuridico simili contrasti. E quando ci si fanno entrare a forza,
così come si tenta con processi come questo, è proprio in tale modo che si scuote l’ordine giuridico
che non può essere disordine sociale per la contraddizione che non consente.
Vero è che esiste anche un commissario Di Giorgi il quale alza la testa e dice: «Per me c’è solo il
testo unico di P.S. e la Costituzione non conta». Purtroppo in Italia può ancora avvenire ciò. La
Costituzione è lettera morta o quasi, almeno per la preponderante opinione del potere esecutivo.
Vivi o applicati sono invece il Codice Penale fascista e il Testo Unico di P.S. che pur sì roventi
proteste sollevarono già allora, mentre adesso, purtroppo, vengono difesi dai poteri costituiti sino al
punto che un commissario si permetta di dire che la realtà si chiama legge di P.S. e la Costituzione è
un’utopia.
Perciò sono da elogiare quei giovani magistrati i quali costantemente e decisamente affermano il
precetto costituzionale contro la legge di P.S. e credo che essi rappresentino davvero le grandi
promesse della magistratura italiana e lo slancio giovanile verso l’avvenire, nello stesso momento in
cui rimangono assertori dell’ordine giuridico nazionale, poiché non è possibile che la legge
disarmonizzi con la vita costituzionale di un paese.
Persiste in Italia, signori giudici, un’incertezza del diritto che provoca gravi sbandamenti. E io spero
che voi seguirete la via giusta, che non può esservi sbarrata dalle bizantine sottilizzazioni tra il
precetto e il programma.
Quanto a noi, abbiamo fatto e continueremo a fare i commessi viaggiatori della Costituzione
italiana, dell’art. 4, dell’art. 17 e anche del diritto di sciopero, Pubblico Ministero. Abbiamo dovuto
difendere contadini processati per avere chiesto la applicazione della legge sull’imponibile di mano
d’opera e quella di riforma agraria, i disoccupati che forti della Costituzione affermavano il loro
diritto al lavoro; abbiamo difeso persino cittadini processati per avere proclamato il diritto umano di
scongiurare la guerra. E quasi sempre ci siamo trovati di contro, orribile mostro giuridico, il T.U.
della legge di P.S. e l’immancabile tortuosa denuncia per resistenza ed oltraggio. A Piana degli
Albanesi durante una manifestazione per la pace veniva ucciso da un proiettile sparato dalla forza
pubblica il contadino Lo Greco mentre, nella piazza del paese, osannava, senza offendere alcuno,
alla pace. È superfluo dire che invece di procedere contro l’uccisore, in quella occasione si
procedette contro i manifestanti.
Ora, attraverso tutte queste lotte, gli operai, i contadini, i braccianti siciliani hanno formato la loro
coscienza sociale e ciò è avvenuto perché a differenza di quanto accadeva nel 1866 o nel 1891 o nel
1944, allorché la protesta popolare si esprimeva con l’incendio dei Municipi o con l’assalto alle
case dei feudatari o degli affamatori, oggi i lavoratori si muovono con guide illuminate e ferme. I
sacrifici, le carcerazioni preventive, le condanne, vengono sopportati serenamente. Oggi non si
piange nella prigione quando vi si entra per reati di questo genere, perché si ha consapevolezza di
non avere fatto alcunché contro la società.
Attraverso tutto questo travaglio, dicevo, si è perfezionata la coscienza collettiva in forza della
quale gli operai, i braccianti, i contadini e i disoccupati sanno lottare in forma civile e legale,
lontana da ogni violenza, per il diritto al lavoro e per la giustizia sociale; cioè per l’attuazione della
Costituzione italiana. E io credo che non esista ideologia politica progressista e rivoluzionaria nel
nostro paese alla quale non appaia sufficiente che si attui la Costituzione della Repubblica.
Per tutto questo io ben posso affermare che l’azione elevatissima di Danilo Dolci ha potuto
effettuarsi in quanto ha trovato a Partinico in formazione una coscienza collettiva consapevole del
fatto che non è praticando la violenza che si possono realizzare le legittime aspettative delle classi
più disagiate.
Che cosa avviene dunque? Che cosa è questo duplice fenomeno per cui in carcere, con le manette ai
polsi, si sono uniti la cultura e il lavoro e contemporaneamente in tutto il paese queste due grandi
forze si fondono nella difesa e nella solidarietà?
Al fondo di tutto ciò vi è indubbiamente l’anelito di giustizia e di rinnovamento del popolo; vi è la
condanna dello sfruttamento, della disoccupazione, della miseria e della incapacità di eliminare
queste vecchie piaghe della società italiana. Vi è anche la collettiva disapprovazione di certi metodi
polizieschi che confondono con l’ordine pubblico la muta e disperata sopportazione della povera
gente.

... Riguardo a Zanini e Termini il testimoniale è addirittura disgustante.


Poiché non v’erano elementi per rinviarli a giudizio e lo stesso tenente Cosentino, pur assumendo di
potere esser preciso sul loro comportamento, sostanzialmente negava che avessero compiuto atti
positivi di resistenza, il 19 febbraio la polizia introduceva di frodo nel processo le dichiarazioni
prefabbricate in questura da quattro agenti dei quali giammai erasi fatta menzione.
È venuto fuori così un capitolo Zanini, sovraccarico di contraddizioni perché i testimoni rimasero
sprovveduti di fronte alle contestazioni del giudice e della difesa e il dispositivo della caserma non
funzionò.
L’uno dice che il tenente Cosentino fece apporre le manette allo Zanini, mentre l’altro afferma
esattamente il contrario, cioè che gliele fece togliere; si dice dall’uno che le manette gli furono
applicate in seguito alle violenze e l’altro, invece, assume che fu dopo lo scioglimento dei polsi che
egli reagì a gomitate e spintoni; afferma Simula che in seguito ad uno spintone di Zanini cadde a
terra e si ferì a un dito, mentre De Cristofaro nega caduta e ferita dichiarando che il collega Simula
per poco non cadde; narrano questi due testi che le manette vennero applicate a Zanini all’inizio
dell’operazione di sgombro della trazzera, cioè nel punto in cui gli imputati stavano a lavorare e
invece l’ing. Narzisi lo trova coi polsi legati alle porte del paese, cioè al punto di arrivo e non a
quello di partenza. Infine mentre l’agente Simula narrò come e qualmente lo Zanini fu da lui
costretto ad attraversare il torrente e quindi accompagnato in paese, il suo collega De Cristofaro
testimonia che fu condotto via per altra strada, senza attraversare il corso d’acqua.
Si tratta, come ognun vede, di sostanziali alterazioni della verità che denunciano la natura posticcia
di questo materiale probatorio al quale non vi è giudice che possa affidare la sua decisione.
La verità è che Zanini altro non fece che rifiutarsi di abbandonare la trazzera. All’ingiunzione di
allontanarsi rispose sedendo a terra e dicendo: «Di qui non mi muovo». Così erasi infatti stabilito:
«Se non ci lasceranno lavorare, resteremo sulla trazzera per otto ore al giorno».
Rifacciamoci, se pure con un senso di pena, al brutale episodio narrato dal Narzisi, teste non legato
alla polizia né a chi, da lontano, ha tirato le fila di tante marionette.
Narzisi è un operatore cinematografico. Allorché, proveniente da Partinico, si trova nella trazzera,
vede un gruppo di agenti scagliarsi sullo Zanini, ridurlo all’impotenza, applicargli le manette e
trascinarlo verso la camionetta. Cerca di riprendere quella scena edificante da un lato e dall’altro,
correndo intorno al gruppo. Ma qualcuno se ne accorge e subito si riproduce contro di lui l’episodio
che egli aveva fotografato. La macchina da presa va in pezzi ed egli stesso viene malmenato e
scaraventato su un’automobile. Naturalmente sparisce il documento fotografico che avrebbe, meglio
di ogni testimonianza umana, servito a questo processo per denunciare i metodi della polizia.
Ciò che stupisce di più non è, tuttavia, il modo selvaggio di sgombrare una vecchia trazzera dalla
presenza di pacifici disoccupati, quanto l’audace tentativo di rovesciare il senso dei fatti. Ma voi,
signori giudici, non avete bisogno di questo film scomparso, vi basta la critica onesta degli atti
processuali per dire, nella vostra sentenza, che Zanini non fu autore, ma vittima di atti violenti.
Anche per Salvatore Termini si è fatto ricorso, nella carenza delle prove, al testimone preparato in
caserma e introdotto tardivamente: l’agente Lombardo che, naturalmente, ha parlato di spintoni e
gomitate.
Ma a prescindere che il tenente Cosentino contraddice, con minuziosi particolari, questa
affermazione, sta di fatto che Termini non aveva motivo alcuno per usare violenza alla forza
pubblica, perché non era stato fermato. E io oppongo a qualsiasi parola accusatrice la pregiudiziale
che Termini non avrebbe in alcun caso fatto resistenza, perché anzitutto è un uomo responsabile. Ha
cinquantadue anni, operaio egli stesso, vive da molti anni fra gli operai guidandoli, come segretario
della Camera del Lavoro, nelle lotte sindacali.
Gli impegni presi la sera innanzi erano chiari e precisi: evitare incidenti, non portare armi di sorta,
non rispondere ad alcuna provocazione. Egli pertanto doveva fornire il primo esempio di una
disciplina che aveva insegnato ai compagni.
In secondo luogo il Termini andava sulla trazzera sapendo già che sarebbe stato arrestato, o almeno
processato. Era stato il commissario La Corte a preavvertirlo imprudentemente quando, il 29
gennaio, lo diffidò a non organizzare manifestazioni pubbliche. In quella occasione il Termini
rispose che lo sciopero è un diritto tutelato dalla Costituzione e il commissario gridò: «Questo lo
dirà al magistrato».
Anche per ciò il Termini aveva motivo di guardarsi bene dal fornire alla polizia alcun pretesto. Il
suo contegno fu corretto sino al punto che nessuno aveva pensato fermarlo sino a quando si giunse
in paese.
L’arresto avvenne all’ultimo momento e per il solo motivo della sua qualità di dirigente sindacale.
Io deploro l’arresto e la denuncia del Termini come fatti illeciti e ho fiducia che il Tribunale non
abbia un’opinione diversa dalla mia.
... Ignazio Speciale ha fatto quello che lealmente ha riconosciuto, e che doveva fare: non
allontanarsi di sua volontà, lasciarsi trasportare passivamente dagli agenti sino all’accogliente
camionetta.
Infine qualche rilievo per Abbate.
Tre testimonianze a suo carico; tre falsi accertati.
La prima testimonianza è del tenente Cosentino, il quale ha deposto al dibattimento che: «la frase
oltraggiosa fu profferita dal Dolci e da altri, uno dei quali con la cravatta rossa che fu identificato al
commissariato per Abbate Francesco»; senonché egli, deponendo dinanzi al giudice istruttore il 9
febbraio, cioè sette giorni dopo l’affermata identificazione, aveva detto: «... uno che aveva la
cravatta rossa del quale non so precisare il nome». Come spiegare tale contrasto? Confusione?
Cattivi ricordi più tardi rinfrescati? Niente affatto. Abbate non fu mai identificato al commissariato,
per il semplice motivo che egli non vi entrò mai. È il maresciallo Piazza che smentisce bruscamente
il Cosentino affermando – foglio 59 del processo – che Dolci, Speciale e Abbate giunsero in
caserma, dove egli si trovava, in camionetta e con lo stesso mezzo furono da lui accompagnati a
Palermo. E a domanda specifica risponde: «I tre arrestati non scesero dalla camionetta nei locali del
commissariato». Primo falso.
La seconda testimonianza è dell’agente Petrosillo il quale narrò al giudice che «insieme al collega
Capone invitò Abbate a seguirlo, ma egli oppose resistenza dimenandosi, agitando le braccia e
dando spintoni per divincolarsi e farci cadere nel torrente».
Gli contestammo al dibattimento che lungo il percorso da lui stesso descritto non v’era alcun
torrente, ed egli, con magnifica disinvoltura, rispose che se non era un torrente era una buca fangosa
della trazzera.
Infine, voi lo ricordate signori giudici, lo invitammo a dirci se era in grado di riconoscere l’Abbate
fra gli imputati presenti, e rispose con sussiego che certamente era in grado di farlo perché lo aveva
accompagnato sulla trazzera; si avanzò verso il gruppo e indicò Speciale invece di Abbate. Ecco il
secondo falso.
La terza testimonianza è del collega di costui: l’agente Capone.
Anch’egli avrebbe accompagnato Abbate sulla trazzera, anch’egli aveva parlato di spintoni.
Anch’egli al dibattimento si dice in grado di riconoscere l’Abbate. Anch’egli si avanza col dito
proteso verso uno degli imputati e dice: è questo. E come l’altro fallisce il bersaglio. Ed ecco il
terzo falso.
I fatti dimostrano che dicevo il vero affermando che la tecnica dei processi di questo tipo consiste
nel creare, con qualsiasi artificio, reati e prove, per dare una veste decente a queste folli operazioni
di polizia.
Ed ora, signori giudici, io chiudo questa mia esposizione con immensa fiducia che la vostra
sentenza sarà quale noi la aspettiamo: una sentenza giusta. Vale a dire una sentenza che assolva tutti
gli imputati per tutte le imputazioni che a loro sono state contestate. Che li assolva per non avere
commesso i fatti dalle accuse di oltraggio e resistenza e, per tutto il resto, perché i fatti non
costituiscono reato.
Abbiamo vissuto in questi due mesi vicende poco piacevoli a causa della strana atmosfera di
eccezionale rigore creata attorno a questo processo. Sono stati adottati provvedimenti che non
hanno, quasi, precedente alcuno, sbagliando di grosso, a mio avviso, sia sotto il profilo giuridico
che sotto quello dell’opportunità.
Ma oggi siamo all’epilogo in un clima del tutto diverso.
I fatti di questa causa hanno avuto ed hanno un’eco nazionale; essi denunciano antichi mali della
Sicilia che attendono, che reclamano provvidenze e riforme strutturali non più prorogabili.
Perciò questo processo è per noi motivo di nuove speranze.
Non può lo Stato ulteriormente permettere che centinaia di migliaia di uomini validi se ne stiano,
per mesi, inerti, nella miseria, mentre la Sicilia attende proprio dall’umano lavoro la sua legittima
rinascita. Quelli che in questo genere di processi si suol chiamare facinorosi o ribelli o sobillatori,
sono invece i creatori del benessere sociale e saranno per certo i costruttori di una società nuova.
Noi difendiamo qui il lavoro, la cultura e la libertà. Difendiamo, cioè, la Costituzione della
Repubblica Italiana.
E chiediamo che sia assolta.

Udienza del 30 marzo, ore 8,30


AVV. ACHILLE BATTAGLIA. Illustre Presidente, signori
Magistrati di Palermo, consentitemi di entrare
immediatamente nel vivo della causa. Vi dirò poi la grande
speranza che avete fatto sorgere in noi, per la serenità di
questo dibattimento. Ora mi urge cogliere un aspetto della
causa che non mi sembra ancora sufficientemente
approfondito.
Qui c’è un cittadino che si è fatto un impegno di onore di non ricorrere alla violenza, di non violare
la legge e di rispettare le autorità. Chi sia questo cittadino, non interessa, per ora, di conoscere; che
cosa rappresenti Danilo Dolci per la cultura italiana, per la società italiana, per le nostre migliori
speranze, non intendo neppure accennare. È un cittadino consapevole dei diritti garantitigli dalla
Costituzione Repubblicana e che vuole esercitarli nell’ambito delle leggi e dei regolamenti in
vigore: ma che per dichiarata decisione non ubbidirà agli ordini delle autorità quando essi saranno
contrari alla Costituzione e alla legge. È il suo diritto, e il suo dovere, e, in realtà, è il dovere di tutti
noi. Ma Danilo Dolci sa che ciò pone in allarme e in reazione tutti coloro che sono da lungo tempo
abituati ad ottenere sempre supina obbedienza, anche al di là di quel limite e senza quelle riserve.
Perciò prende tutte le cautele necessarie non solo a non uscire dalla legalità, ma anche a non fornire
alcun pretesto all’accusa di esserne uscito. Ecco un punto essenziale della causa che bisogna
fermare: la pazienza, la accortezza, la tenacia e la cautela con cui Dolci ha cercato di precostituirsi
la prova di non aver violato la legge.
Egli si propone di dimostrare che in un paese di disoccupati c’è lavoro per tutti, e braccia disposte a
compierlo in modo proficuo per la collettività. Ma siccome è stato tempestivamente avvertito che le
sue azioni saranno facilmente travisate, e si vorrà farle apparire come violente e sovvertitrici,
percorre tutta l’Italia, dallo Jonio alle Alpi, spiegando a tutti, in conversazioni private e in
conferenze pubbliche, alla televisione e alla radio, ciò che effettivamente farà. Il nostro più fermo
proposito – dice – è quello di rispettare le leggi e l’autorità: e non faremo nessuna violenza a
nessuno, qualunque cosa ci venga fatta ed opposta. A Partinico, altra volta, è corso il sangue: gli
uomini sono corsi ad armarsi di mitra e sono divenuti fuorilegge. Questa volta – dice – non ci
muoveremo finché non sarà stato abbandonato ogni più lontano proposito di violenza. Lasceremo a
casa, non dico le roncole e i mitra, ma perfino il coltello per tagliare il pane. «Frangeremo il pane,
con le mani»: questo è il motto e la parola d’ordine.
E siccome so, aggiunge Danilo, che la «crosta resiste», – e che non si vorrà credere alla onestà della
nostra condotta, – chiederò che l’Italia colta venga ad assistere e possa farci testimonianza.
Vengano, a Partinico, il 2 febbraio, gli uomini di scienza, di lettere, e di cultura, e assistano al nostro
operare.
E non basta. La faziosità in cui è caduto il nostro paese e dalla quale ci andiamo faticosamente
liberando – e dovremo liberarci completamente se vorremo vivere in civiltà – è ancora tale che
persino gli uomini di pensiero e di cultura non sono ascoltati serenamente. È possibile che venga
irrisa anche la testimonianza dell’Italia colta: e allora chiedo e voglio la documentazione fotografica
di ciò che avverrà sulla «trazzera» di Partinico il 2 febbraio. Voglio che venga consacrato in una
pellicola cinematografica il comportamento mio e dei miei compagni.
Così è avvenuto. Hanno lasciato a casa persino i coltelli del pane, signori della Polizia. Non avete
potuto sequestrare una sola arma presso i numerosi fermati. Si sono preparati a frangere il pane, con
le mani. E quando alla loro azione si è opposta la violenza altrui, non hanno reagito, e si sono
lasciati trascinare di peso sino alle camionette. Il loro comportamento è stato consacrato in una
pellicola cinematografica che ha colto alcune scene che ora si dicono più gravi. Dal carcere
dell’Ucciardone, felice che tutto si fosse svolto nella legalità, Danilo Dolci ha potuto lanciare un
messaggio al paese: «I banditi – questo è ormai l’attributo dei poveri e dei diseredati messi al bando
della vita civile – si sono comportati da “gentiluomini”... Né una parola né un gesto oltraggioso!».
È mai possibile che, a questo punto, la documentazione fotografica venga distrutta, la testimonianza
dell’Italia colta venga irrisa, e che proprio coloro che hanno soppresso il documento, e vogliono
screditare le testimonianze, dicano: «Credete a noi! Credete ad occhi chiusi. Essi hanno usato
violenza ed hanno oltraggiato!»? Ma quale maggiore prudenza si poteva usare, quale più accorta
cautela escogitare? E chi ci difenderà – in che modo ciascuno di noi cittadini potrà difendersi da una
ingiusta accusa – se contro la documentazione e la testimonianza dovrà prevalere la parola dei
nostri accusatori?
Chi potrà difenderci se non i giudici del nostro Paese? Quando vi abbiamo visto ordinare, illustre
Presidente, che venisse respinto dal processo un verbale di polizia irrituale e tendenzioso, ci è
sembrato che voi vi accingeste a farlo. Ecco la grande speranza che avete acceso in noi: sentiamo
che Voi vorreste riprendere completamente le grandi tradizioni del Giudice, che non è partecipe del
Potere e del suo apparato: ma che si pone tra il potere e il cittadino in difesa del diritto e della
libertà di quest’ultimo.
Il mio illustre amico Calamandrei è noto, in Italia e fuori, per l’alta opera scientifica da lui prodotta,
ed anche per l’Elogio del Giudice scritto da un Avvocato. Io non ho prodotto opere scientifiche, e
non sono noto per avere elogiato i giudici e le loro sentenze; ma piuttosto per aver espresso censure,
assai spesso aspre, sebbene mai irriguardose. C’è una cosa, tuttavia, di cui sono orgoglioso, e che
mi consente di parlare sempre a fronte alta dinanzi a Magistrati come Voi. Sono uno di coloro che
ha più difeso – con maggiore impegno e maggiore assiduità, in ogni momento – l’autonomia del
potere giudiziario e il Consiglio Superiore della Magistratura. L’ho fatto quando l’indipendenza del
giudice era investita dalla epurazione; quando la Costituente si accingeva a dettare il comando
costituzionale dell’art. 104; quando sono stati elaborati o presentati i progetti Zoli e Di Pietro, sul
Consiglio Superiore, che non hanno soddisfatto le esigenze di quel comando. Continuo a farlo,
nonostante le defezioni di molti. Sono convinto che soltanto il potere giudiziario, nella sua assoluta
indipendenza ed autonomia, e sotto il presidio del suo Consiglio Superiore, può assicurare ai
cittadini dello Stato moderno l’ultima difesa rimasta loro contro l’esorbitanza dell’esecutivo.
Questo vi chiediamo: che siate con noi, in difesa del diritto e della libertà dei cittadini, contro
l’ingiusta esorbitanza del potere. E vi diciamo: Danilo Dolci e i suoi compagni non hanno mai
compiuto né violenza né oltraggio. Non sono mai usciti dalla legalità, neppure per compiere
infrazioni contravvenzionali. Altri è uscito dalla legalità, altri ha violato per primo la legge. Volete
ascoltare la nostra dimostrazione?
Danilo Dolci torna da Torino a Partinico il 25 gennaio. E dopo aver preso gli accordi, ed esposto i
programmi che sapete, a Roma e a Firenze, passa alla loro attuazione. Prepara un giorno di digiuno
sulla spiaggia di Trappeto, e un giorno di lavoro per accomodare la trazzera vecchia di Partinico.
Ma il 29 gennaio, nell’ufficio di P.S. di Partinico, Dolci e Termini vengono diffidati. Alle ore 16 del
29 gennaio, noi siamo ancora nella legalità; voi, signori della Polizia, ne eravate già usciti!
E infatti: primo, perché diffidati? Secondo, in che modo diffidati? Terzo, da chi diffidati? Tre
domande che svelano tre eccessi di potere, tre illegalità, tre arbitrii.
Sono stati «diffidati» perché il 30 gennaio (dice la diffida a foglio 7) essi si proponevano di
digiunare sulla spiaggia di Trappeto. È dunque vietato anche il digiuno? Voi dite che l’art. 4 della
Costituzione non è precettizio, e che quindi non esiste un diritto al lavoro. Ma oserete negare che
esista almeno un diritto al digiuno? E che chi digiuna da solo, in casa propria, per gran parte
dell’anno, possa farlo per una volta in pubblico, e in compagnia di altri? Oserete dire che le nostre
spiagge possono liberamente affollarsi di bagnanti festosi, ma non possono accogliere i digiunanti?
Tanto illegale e tanto arbitraria era questa pretesa di impedire il digiuno che sebbene esso abbia
avuto luogo – sia pure in luoghi e con modalità diverse da quelle stabilite – e sebbene vi abbiano
partecipato oltre mille persone – voi preferite ignorarlo, e fingere che non abbia avuto luogo.
La seconda ragione per cui sono stati «diffidati» è perché essi si proponevano di riparare la
«trazzera vecchia» di Partinico. Ma è dunque vietato di accomodare le trazzere? La cosa è sembrata
così assurda che un deputato al Parlamento – che non è certo un estremista e non appartiene
neppure alla opposizione – l’on. Ugo La Malfa, nel suo intervento su questo caso, ha lanciato
l’esclamativo: «Benedetto chi accomoda le nostre trazzere!». Ieri sera, in quest’aula, mentre parlava
l’on. Varvaro, mi è giunta una lettera che ora vi leggerò. È firmata da un magistrato in attualità di
servizio, da uno di voi.
Ricorda che in un paese civile, avendo i disoccupati del luogo proceduto alla riparazione di una
strada malandata, non solo non furono imprigionati, ma furono pubblicamente ringraziati e
ricevettero un solenne attestato di riconoscenza: «Finché – dice la lettera – nel nostro paese si
insisterà nei sistemi usati a Partinico e non si sentirà che il lavoro arricchisce chi lo compie e chi ne
beneficia, non diverremo un paese civile».
Ma si dice, – e questa è la terza ragione per cui essi sono stati «diffidati», – il lavoro sulla trazzera
avrebbe dato luogo ad una pubblica riunione che l’autorità di Polizia ha il potere di vietare, a sensi
dell’art. 18 della legge di P.S. Io nego questo diritto, ne ho già dette le ragioni, e probabilmente
tornerò a parlarne. Ma qui nego maiorem: nego, cioè, che recarsi a lavorare su una strada significhi
dar vita a una pubblica riunione! E ad ogni modo, signor commissario di Partinico, avete forse il
diritto di vietare le riunioni senza neppure precisare perché? Solo il questore può farlo, e non a suo
arbitrio, ma per «comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica».
Ecco dunque la prima illegalità, il primo eccesso di potere. Danilo Dolci e Salvatore Termini sono
stati diffidati per ragioni che non avrebbero potuto consentirlo. Essi, tuttavia, hanno deciso di
rispettare gli ordini, anche se illegali. Prima della diffida, avevano deciso di digiunare in pubblico, e
dopo la diffida, hanno digiunato in privato: e nello stesso modo, come dimostrerò, prima della
diffida avevano deciso di lavorare riuniti «e dopo la diffida hanno lavorato isolati».
Ma in che modo sono stati diffidati? Io non conosco altro istituto se non la «diffida di polizia»
prevista dall’art. 164 della Legge di P.S., e dall’art. 305 del Regolamento. È un odioso
provvedimento, riservato soltanto agli oziosi, ai vagabondi, ai diffamati per delitti gravissimi e alle
persone socialmente pericolose. È l’istituto che precede l’ammonizione e il confino. Non siamo
riusciti, in otto anni di vita democratica, a liberarci dell’istituto del confino e da quello
dell’ammonizione. Ma la diffida, almeno, è stata aggiornata. E mentre per il testo del 1931
potevano diffidarsi anche le persone giudicate pericolose «per gli ordinamenti politici dello Stato»,
oggi la diffida è riservata, ripeto, agli oziosi, ai vagabondi, ai diffamati per delitti gravi ssimi e alle
persone socialmente pericolose. Tra queste non potranno certo collocarsi né Danilo Dolci né
Salvatore Termini!
Era, dunque, una diffida illegale, e Termini ha fatto benissimo quando si è rifiutato di firmarla. La
Suprema Corte di Cassazione, con una sentenza che è riportata anche nel Commentario al T.U. di
Pubblica Sicurezza che è nella vostra Camera di Consiglio, ha affermato che chi si rifiuta di
sottoscrivere alla diffida in tal modo impartita non contravviene neppure ad un ordine legalmente
dato. Ecco dunque la seconda illegalità, il secondo eccesso di potere: vi siete serviti di un odioso
strumento che la legge destina soltanto a persone socialmente pericolose od indegne, per diffidare
dei galantuomini.
E da chi sono stati diffidati? Dal commissario di P.S. di Partinico, nell’Ufficio di Polizia di
Partinico! Avete dunque dimenticato che tanto per l’art. 164 della legge di polizia, quanto per l’art.
305 del Regolamento «è solo il questore» che può procedere alla diffida? E questa è la terza
illegalità.
Alle ore 16 del 29 gennaio – ecco il dato di fatto che deve costituire il punto di partenza di tutti i
nostri ragionamenti – Danilo Dolci ed i suoi erano ancora nella legalità; voi, signori della polizia, ne
eravate usciti per tre ragioni, tre volte!
Ma, si dice, Dolci è uscito dalla legalità dopo il 29 gennaio, e prima del 2 febbraio, perché non ha
provveduto al preavviso della riunione in luogo pubblico che si accingeva a compiere. Qui mi
sembra che si cada nel grottesco. Voi mi avete vietato di digiunare il giorno 30 e di lavorare il
giorno 2 febbraio. Ed allora io mi sono proposto di digiunare in privato e di lavorare «senza dar
luogo a pubblica riunione». E che cosa pretendete? Volete anche il preavviso? Volete che io vi
dichiari che farò ciò che non intendo fare e che voi già mi avete vietato di fare? E come si può
pretendere il «preavviso» per una riunione pubblica, quando questa è già vietata?
Si può dunque concludere che neppure dal 29 al 2 febbraio Danilo Dolci ed i suoi siano usciti dalla
legalità. Ma l’accusa li incalza e dice che ne sono usciti proprio il giorno 2 perché hanno partecipato
ad una «riunione» in luogo pubblico vietata dalla polizia. Non è vero. Essi hanno lavorato alla
trazzera, ma non hanno effettuato alcuna riunione: e ciò è tanto vero che negli stessi verbali della
polizia si parla costantemente di «manifestazione illegale», ma non si parla di «riunione». Non ho
bisogno di ricordare all’Ecc.mo Tribunale le osservazioni già compiute dai miei illustri colleghi, e
particolarmente dall’avv. Comandini sulla definizione di «riunione», sulla sua distinzione da
«assembramento», ecc. Penso invece che si possa dimostrare per tabulas, e cioè attraverso le stesse
dichiarazioni della polizia verbalizzante, che sulla trazzera vecchia di Partinico non si è verificata
nessuna riunione, né nel senso giuridico del termine, né secondo la sua accezione comune.
E infatti il verbale di polizia con cui si inizia il processo reca: «Verso le ore 6, servizi di
avvistamento disposti nella notte (sembra addirittura una operazione di guerra!) segnalarono che
individui isolati od a piccoli gruppi, muniti di vanghe, piccozze e roncole (bugia!) attraverso le
campagne si dirigevano verso Motisi: per cui si aveva la esatta sensazione che i dimostranti
dovevano concentrarsi in un tratto della trazzera vecchia distante circa km 3».
Ecco il punto. Essi procedevano isolati o a piccoli gruppi. Si è avuta la sensazione che dovessero
concentrarsi: ma, di fatto, si sono o non si sono concentrati? Il verbale continua:
«La massa, costituita da oltre centocinquanta persone, dava inizio ai lavori di sterramento per un
tratto di circa duecento metri». Dunque: se essi si fossero collocati in fila indiana, l’uno dopo
l’altro, sarebbero stati distanziati non meno di un metro e 25 l’uno dall’altro; ma poiché è ovvio
che, lavorando di piccone, di vanga e di badile, ci si dispone a gruppi di tre, quattro persone
ciascuno, si può concludere che questi gruppi erano distanziati l’uno dall’altro non meno di quattro
o cinque metri.
È possibile parlare di riunione o anche soltanto di assembramento in una situazione di questo
genere? Lavoratori singoli, a piccoli gruppi, si recano a lavorare su duecento metri di strada, e si
dispongono in modo da non riunirsi e da non assembrarsi. In verità, essi hanno mantenuto fede
all’impegno preso: come avevano digiunato in privato perché era stato loro proibito il digiunare in
pubblico, hanno lavorato separati perché era stato loro proibito di lavorare riuniti.
Ormai, sono già passate alcune ore del mattino del 2 febbraio. Gli imputati esercitano un loro diritto
e lo esercitano senza violare nessuna norma di legge o di regolamento, nella piena legalità. Ma voi
incalzate e dite: la illegalità era nel lavoro stesso che essi compivano; e avete contestato il reato
dell’art. 633, come se avessero invaso un fondo privato, commettendo un reato contro il patrimonio,
a scopo di lucro.
Assurda imputazione. Non ho nulla da aggiungere agli argomenti già prospettati dagli avvocati
Comandini, Taormina, Sorgi e Varvaro. Ma mi permetto ripetere l’esclamazione dell’on. La Malfa:
«Benedetto chi accomoda le nostre trazzere!». Essi lavoravano gratuitamente, con l’impegno di non
chiedere a nessuno compenso di sorta: lavoravano per divenire partecipi della dignità del lavoro
umano; per migliorare se stessi e per rendersi utili alla collettività. Rendevano transitabile una
strada comunale su cui non era più possibile transitare. Benedetti coloro che accomodano le nostre
trazzere!
Ciononostante, la polizia ha preteso che il lavoro cessasse, e per ottenerlo ha fatto ricorso alla
norma dell’art. 20 della legge di P.S. Ciò significa: primo, che ha ritenuto esistere una «riunione
pubblica», nel significato tecnico del termine, ed ho già dimostrato che questo non era; secondo, che
ha ritenuto questa riunione sediziosa, e questo è assolutamente in contrasto con le dichiarazioni
degli stessi verbalizzanti. In nessun passo del verbale di denuncia, in nessuna deposizione dei
diciotto verbalizzanti, in nessuna pagina del processo si dice o si ipotizza che sulla trazzera di
Partinico siano avvenute manifestazioni sediziose, o siano state lanciate grida sediziose, in modo da
mettere in pericolo l’ordine pubblico o la sicurezza dei cittadini (come richiede l’art. 20 della legge
di polizia per autorizzare gli «scioglimenti»).
Ma si afferma che gli imputati abbiano resistito. A che cosa? In che modo? Non eseguire un ordine
non significa affatto resistere attivamente! Lasciarsi cadere in terra o lasciarsi trasportare di peso
fino alle camionette potrà integrare una resistenza passiva, non punibile, e non un delitto di
resistenza attiva!
Eppure essi avevano il diritto di resistere, anche attivamente, visto che questo prezioso istituto della
«legittimità della resistenza» è stato di nuovo introdotto nel nostro ordinamento giuridico, appena
liberata Roma dal fascismo, prima ancora che ne fosse liberato tutto il territorio nazionale. Se
all’ordine di abbandonare il lavoro che stavano compiendo avessero attivamente resistito, sarebbero
discriminati, ai sensi dell’art. 4 del D.L. 14 settembre 1944: proprio in virtù di questo antico istituto
di libertà che ha costituito la pietra angolare di tutta la nostra civiltà occidentale. Ma Dolci non
ammette mala violenza, neppure quella in difesa del diritto: e perciò gli imputati non hanno
resistito, non hanno usato violenza, non hanno oltraggiato, non hanno istigato nessuno a compiere
reati.
Anche qui mi riporterò alla dimostrazione fornita al Tribunale dagli illustri colleghi Varvaro, Sorgi e
Comandini. Non potrei ripeterla senza sciuparla. Ma aggiungerò un argomento, e fornirò una
risposta ad un interrogativo del P.M., rimasto ancora insoluto.
Il P.M., infatti, ritiene che la resistenza sia stata opposta «nel secondo tempo», dopo che Dolci,
allontanato dal luogo una prima volta, vi è tornato. Resistenza a che cosa? Resistenza agli arresti del
secondo momento. E appunto per questo, non potendo contestare che nel primo tempo non vi fu
neppure alcuna volontà di resistere, spera di dimostrare che essa vi fu nel secondo. Il suo
interrogativo è questo: «Come mai Danilo Dolci, che nel primo momento, alla semplice richiesta di
allontanarsi, “docilmente si allontanò”, la seconda volta disse, invece, al funzionario di polizia:
“No, non mi allontano, mi arresti pure, se può”? Si veda su questo punto – dice il P.M. –
l’interrogatorio dell’imputato Macaluso a foglio 12».
Prima di rispondere, osserverò che il significato della circostanza posta in luce da questa domanda
non può sfuggire a nessuno, e non è certo sfuggito all’illustre rappresentante dell’accusa. Dunque,
se il commissario Di Giorgi, incontrato Dolci tra gli agenti dinanzi alle prime case di Partinico, non
avesse loro ordinato di rilasciarlo in libertà, non si sarebbe avuta alcuna resistenza! Anzi: tutto si
sarebbe chiuso con una manifestazione di ubbidienza, e addirittura di docilità, quale mai la polizia
ha ottenuto altrove! E allora, come è possibile, a questo punto, parlare ancora di propositi
preordinati alla resistenza, di programmi di violenza, fortunatamente sventati dalle forze
dell’ordine? Non basta questa sola circostanza, a dimostrare la illegalità delle decisioni adottate
contro gli imputati, e già decise, come è stato ricordato, fin dal 29 gennaio?
Rimane la domanda: perché dunque Danilo, avendo nel primo momento seguito docilmente i
gendarmi, ha detto, invece, nel secondo momento: «Non mi allontano, mi arresti se può»? Occorre
evidentemente indagare su ciò che ha pensato e creduto Dolci nel primo momento e su ciò che ha
pensato e creduto nel secondo. E poiché il P.M. ha invocato la parola di Macaluso, a foglio 12 del
processo, è proprio in questa pagina, scelta dall’accusa, che vogliamo trovare la risposta. Dolci, a
foglio 1, aveva già raccontato l’episodio del primo tempo con le seguenti parole: «... Ho continuato
a lavorare senza rispondere: al che il tenente, urtatosi, mi ha preso la pala dalle mani e mi ha
consegnato a tre agenti con i quali mi sono allontanato verso il paese». Evidentemente, vedendosi
consegnato a tre agenti, Danilo ha ritenuto di essere stato fermato o arrestato. E poiché ritiene di
non dover resistere neanche ad un arresto arbitrario, si è allontanato docilmente tra gli stessi . Ed
ecco la risposta di Macaluso alla domanda del P.M. in relazione al secondo momento. Foglio 12:
«Intanto il dr. Di Giorgi, che era già arrivato, dava disposizioni perché gli operai si allontanassero.
L’invito fu espressamente rivolto a Dolci, il quale desiderava sapere il motivo, ed espressamente
domandava se era loro intenzione di fermarlo o addirittura di arrestarlo. Il Commissario rispose che
era solo necessario che si allontanasse. A tale precisazione (soltanto in seguito a questa!) il Dolci si
rifiutava: al che fu preso dagli agenti e trascinato di peso sino alla camionetta».
Ecco dunque la risposta alla domanda del P.M.: e tutto è ben chiaro. Nel primo momento Dolci
ritiene di essere stato arrestato; e siccome è nella sua dottrina, nella sua predicazione, e nel suo
costume, non resistere neppure ad un arresto arbitrario, seguì docilmente gli agenti ai quali era stato
consegnato. Giunto in prossimità di Partinico seppe che nessuno aveva deciso il suo arresto: egli,
dunque, aveva collaborato, senza volerlo, alla consumazione dell’arbitrio che si stava compiendo a
danno suo e dei suoi compagni. Allora, nel secondo momento, quando gli si chiede ancora di
allontanarsi, si informa espressamente e domanda se «era loro intenzione arrestarlo». E poiché
ancora si risponde di no, non si muove. Perciò dice: «Arrestatemi, se potete! Spontaneamente non
posso e non debbo muovermi».
È resistenza attiva, questa? È violenza a pubblico ufficiale il rifiuto di collaborare alle loro
iniziative? Quale anima di schiavi ci siamo dunque fatti per pensare che al solo invito arbitrario di
un gendarme il cittadino abbia l’obbligo di dimenticare il suo programma di azione e i suoi impegni
d’onore verso propri fratelli; e senza che nessuno lo dichiari in arresto debba spostarsi da un luogo
all’altro, e fare una cosa piuttosto che un’altra, collaborando così non già a realizzare il proprio
diritto, ma a realizzare l’arbitrio che si compie contro di lui?
Ecco dunque sulla domanda del P.M., con il deposto da lui indicato, con la pagina del processo da
lui prescelta, la nostra risposta: essa costituisce la riprova sicura che Danilo Dolci e i suoi compagni
non hanno mai opposto resistenza a un ordine di fermo e di arresto venuto dalla polizia. Si sono
mantenuti fedeli alla propria fede: «non resistere, non ricorrere alla violenza; ma neppure
collaborare spontaneamente alla realizzazione dell’arbitrio!».
Ed ecco, infine, l’argomento che vorrei aggiungere a quelli così compiutamente esposti dai miei
colleghi illustri. È stato girato sul posto un documentario delle scene che vi si sono svolte: sia pure
troppo tardi per cogliere il trasporto di Dolci fino alla camionetta, ma abbastanza presto per
consacrare le modalità nelle quali è avvenuto quello di Zanini. Il film è stato girato inquadrando la
scena col teleobiettivo dal momento in cui, accompagnato dagli agenti, ha oltrepassato l’operatore
(ed anche dopo questo momento, quando il fotografo riuscì a spostarsi di corsa per riprendere le
ultime scene). La polizia, che è in possesso di questo documentario, dice che Zanini ha resistito e ha
fatto violenza. Ebbene, lo mostri! Finché voi terrete nascosto questo documento, finché non lo
esibirete in Tribunale, abbiamo il sacrosanto diritto di concludere che è un documento a nostro
favore e contro di voi. Lo avete sottratto illegalmente al fotografo, senza neppure redigere un
verbale di sequestro, lo avete nascosto. Non avete neppure affermato di averlo distrutto. Ma finché
non vi deciderete a mostrarlo al magistrato, non è possibile che questi pronunci una sentenza di
condanna. La magistratura italiana non ha ancora così gravi precedenti di inciviltà nella storia dei
suoi processi.
Altri paesi conoscono iniquità di questo genere. Danton fu condannato per falso documentale senza
che l’accusatore esibisse al collegio giudicante il documento, che si diceva falsificato: ma il
Tribunale rivoluzionario di Parigi è ancora sotto l’onta di quella decisione. Jeffreys si coprì di
infamia nascondendo i libelli famosi per cui condannava a morte i presbiteriani. Ed è pagina
vergognosa anche quella del processo Dreyfus, in cui i giudici condannarono su prove sottratte
all’esame della difesa (ma almeno presentate, sia pure segretamente, in camera di consiglio!).
L’Italia non ha precedenti di questo genere.
Finché l’autorità di polizia riterrà opportuno mantenere nascosto il documentario che fu girato sulla
«trazzera vecchia» di Partinico, e che ha consacrato gli episodi che oggi si vogliono dire violenti,
noi non saremo condannati dai giudici del nostro paese.
Signori, ho quasi finito. Ho parlato in tono aspro, può darsi eccessivo. Ma proprio ieri sera mi sono
caduti gli occhi su una sentenza della Corte Federale Svizzera, riportata da un Trattato di diritto
costituzionale fornitomi da cortesi colleghi di Palermo, e che ricordo di aver letto anche nella
monografia sui «delitti contro l’onore» del Florian:
Accusare sui pubblici fogli la gendarmeria di violare la legge e di recare attacco alla libertà
individuale, in dipendenza di fatti avvenuti e constatabili, o che si asseveri di conoscere, non è fare
ingiuria: ma espletare un diritto e compiere un dovere di buon cittadino; come ogniqualvolta si
censurino atti arbitrari o abusi amministrativi.
Questa è la civiltà in cui crediamo. Questa è la civiltà liberale per cui ci siamo battuti, per cui
abbiamo resistito, in nome della quale abbiamo rovesciato la dittatura ed abbiamo creato un nuovo
Stato. Queste sono le regole secondo le quali anche noi, italiani, vogliamo vivere. Il nostro apparato
statale, che abbiamo ereditato dalla dittatura, e che non è ancora aggiornato ai nuovi principî, ricorre
troppo spesso alla forza. Consentitemi un ultimo avvertimento: «Cessate dal ricorrere alla forza,
quando essa non è giustificata!».
Cessate dal ricorrere alla forza bruta perché essa è controproducente – dice Danilo Dolci –; e questo
è il suo motivo e il fondo della sua predicazione. Noi diciamo: «Cessate dal ricorrere alla forza,
perché alla forza non ci piegheremo più. Abbiamo acquistato a prezzi di patimenti e di sangue la
coscienza dei nostri diritti di libertà. Sappiamo che abbiamo il dovere di difenderli. Li difenderemo:
e alla forza non ci piegheremo più!».
Per questo è vero ciò che diceva ieri l’on. Varvaro: che Danilo ha trovato in Partinico un terreno già
pronto e già lavorato. A Partinico era stato già dimostrato che la forza non piega gli animi
coraggiosi. Lo dimostrò l’imputato Termini quando raccolse dal sangue lo stemma del suo partito
colpito dai mitra e dalle bombe di Giuliano, e dopo averlo deterso dal sangue, lo riappese
fermamente sulla porta della Sezione. «Attento a quello che fai, – gli fu detto. – Qui impera la forza
e si muore». Termini rispose: «Abbiamo il dovere di morire, se questo è necessario, ma dobbiamo
riaffermare il nostro diritto».
Da quel giorno il ricorso alla forza cominciò ad essere sconfitto a Partinico: sia che esso si
manifestasse nelle forme brutali e primitive del bandito Giuliano, sia che acquistasse quella
parvenza – solo parvenza – di legalità di cui alcune autorità costituite finirono col fornirlo. La
«crosta» cominciava ad incrinarsi. Ma questo grande moto di un popolo, che finalmente si era reso
conto del proprio diritto, e intende affermarlo e difenderlo, non può essere arrestato con piccoli
espedienti di polizia. Non vi illudete di fermarlo con misure straordinarie.
Durante la storica discussione svoltasi dinanzi alla Camera dei Comuni per l’abolizione dei borghi
putridi, lord Russell ricordò che una tremenda mareggiata aveva sconvolto le coste del suo paese.
L’oceano, gonfiatosi, era penetrato nelle case degli uomini e le aveva travolte. E disse della povera
signora Partington che era stata vista per l’ultima volta sulla soglia del suo casolare, mentre tentava
di arrestare con la scopa i marosi che le penetravano in casa. Era stata una ottima donna, al lavatoio
e alla fontana: ma contro l’oceano non la poté, e fu travolta.
Quando lord Russell ricordò questo episodio, si volse verso i suoi contraddittori e disse: «Messeri,
mettetevi il cuore in pace: state queti ed abbiate giudizio. Non fate come la povera signora
Partington».

AVV. PIERO CALAMANDREI. Signori Giudici, questo


processo avrebbe potuto concludersi, meglio che colla parola
mia, colla parola di un giovane. Le parole dei giovani sono
parole di speranza, preannunziatrici dell’avvenire: e questo è
un processo che preannuncia l’avvenire.
Avrebbe dovuto parlare prima l’imputato, Danilo Dolci, che è un giovane; e dopo di lui, non per
difenderlo ma per ringraziarlo, il più giovane dei suoi difensori, l’avvocato Antonino Sorgi.
Se si fosse fatto così, questo processo sarebbe finito da cinque giorni; e da cinque giorni Danilo
Dolci e gli altri imputati, i cosiddetti «imputati» sarebbero tornati a Partinico, invece di tornarvi,
come vi torneranno, soltanto stasera, dopo l’assoluzione, a far Pasqua colle loro famiglie.
Ma forse, per la risonanza nazionale e sociale di questo processo, è stato meglio che sia avvenuto
così: che abbiano parlato anche i vecchi e i meno giovani; e non brevemente.
E così l’onore e la responsabilità di chiudere la discussione e di rivolgervi, signori Giudici, l’ultima
preghiera che vi accompagnerà in camera di consiglio, sono toccati a me; non solo per la mia età,
ma forse anche perché io sono qui, unico tra i difensori, soltanto un avvocato civilista, cioè un
avvocato che non ha esperienza professionale di processi penali.
Questo, infatti, non è un processo penale: o almeno non è quello che i profani si immaginano,
quando parlano di un processo penale.
Nel processo penale il pubblico concentra i suoi sguardi sul banco degli imputati, perché crede di
vedere in quell’uomo, anche se è innocente, il reo, l’autore del delitto: l’uomo che ha ripudiato la
società, che è una minaccia per la convivenza sociale.
L’imputato è solo, inconfondibile, diverso agli occhi del pubblico da tutti gli altri uomini, isolato
dentro la sua gabbia e, anche quando la gabbia non c’è, isolato dentro la sua colpa.
Ma questo non è un processo penale: dov’è il reo, il delinquente, il criminale? Dov’è il delitto, in
che consiste il delitto, chi lo ha commesso?
Angosciose domande: alle quali forse neanche il P.M., nella sua misurata requisitoria che abbiamo
ammirato non tanto per quello che ha detto quanto per quello che ha lasciato intendere senza dirlo,
saprebbe in cuor suo dare una tranquillante risposta.
Non a caso qui il banco degli imputati e quello dei difensori sono così vicini, fino a parere un banco
solo. Dove sono gli imputati e dove i difensori? Qui, in realtà, o siamo tutti difensori o siamo tutti
imputati.
In quest’aula, da qualunque parte ci volgiamo, nei vari seggi di essa, non ci sono altri che uomini
che si trovano qui, perché hanno voluto e vogliono prestare ossequio alla legge: osservarla, servirla.
La sigla e quasi si direbbe il vertice magico di questo processo è in quella formula laconica
intarsiata con caratteri antichi sulla cattedra ove siedono i giudici. Non è la solita frase che in altre
aule si legge scritta sul muro al di sopra delle teste dei giudici, quella frase che suscita tante
speranze ma anche tante perplessità: «La legge è uguale per tutti». No: il motto di quest’aula è
molto più laconico, misterioso e conciso come la risposta di un oracolo: «La legge».
Questo è l’imperativo categorico che ci tiene tutti qui incatenati dallo stesso dovere, appassionati
dalla stessa passione: de legibus.
Il Tribunale che siede è per definizione l’organo che, amministrando giustizia, fa osservare la legge.
Il P.M., che siede al lato del collegio giudicante, è il rappresentante della legge.
Noi avvocati siamo qui, al nostro posto, per difendere la legge.
Dietro a noi, a fianco degli imputati e sulle porte, i commissari e gli agenti di polizia sono gli
esecutori della legge.
E poi ci sono questi imputati: imputati di che? Mah... di nient’altro che di aver voluto anch’essi
servire la legge: di aver voluto soffrire la fame e lavorare gratuitamente allo scopo di ricordare agli
immemori il dovere di servire la legge.
Ma allora vuol dire che siamo qui tutti per lo stesso scopo: quale è il punto del nostro dissidio, qual
è il tema del nostro dibattito? Perché noi avvocati stiamo a questo banco e gli imputati dietro a noi e
i giudici nei loro seggi più alti? Di che stiamo noi discutendo?
In verità io non riesco a riconoscere su queste facce di imputati, così tranquille e serene, le tristi
impronte della delinquenza; né riesco a scoprire nelle umane facce dei carabinieri che stanno
accanto a loro la fredda insensibilità dell’aguzzino. Io so che essi, quando mettono le manette a
questi imputati, si sentono in fondo al cuore umiliati e addolorati di questo crudo cerimoniale, che
pure hanno il dovere di compiere: quando la mattina gli imputati entrano in quest’aula incatenati,
come prescrive il regolamento di polizia, non sono essi che provano rammarico e vergogna per
quelle catene. Ho visto coi miei occhi che, nonostante quei polsi serrati nelle manette, le loro facce
rimangono serene e sorridenti; ma un’ombra di mestizia traspare sui volti di chi li accompagna.
No no, il dissidio non è qui, in quest’aula: il dissidio è più lontano e più alto. Sarebbe follia pensare
che Danilo abbia potuto indirizzare agli agenti che lo arrestarono, fatti della stessa carne di questi
che oggi lo accompagnano, l’epiteto di «assassini». Danilo non parlava e non parla a loro. Gli
assassini ci sono, ma sono fuori di qui, sono altrove: si tratta di crudeltà più inveterate, di tirannie
secolari, più radicate e più potenti; e più irraggiungibili.
Di quello che è avvenuto, signori del Tribunale, non si deve dar colpa alla polizia, la quale è
soltanto una esecutrice di ordini che vengono dall’alto. In quanto a me, vi dirò anzi che ho sentito
dire che io dovrei esser debitore, verso qualcuno degli agenti che hanno deposto in questo processo,
di speciali ragioni di gratitudine. Dai resoconti dati dalla stampa su una delle prime udienze, alla
quale io non ho potuto partecipare, ho appreso che io dovrei ringraziare quel funzionario di polizia
che oggi è commissario a Partinico, il dottore La Corte, del trattamento di favore che egli mi
avrebbe usato a Firenze, nel periodo in cui egli apparteneva alla polizia della repubblica di Salò:
pare che nella sua deposizione egli abbia detto che mi trattò con speciale riguardo perché, quando
venne al mio studio per arrestarmi, arrivò un quarto d’ora dopo che io ero uscito e così lasciò
ineseguito il suo mandato. In verità io non mi ricordo di lui: e non so se debbo esser grato a lui per
essere arrivato un quarto d’ora dopo o a me stesso per essere uscito un quarto d’ora prima. Ma in
ogni modo sono anche disposto ad essergli riconoscente: non sono queste vicende personali le cose
che contano in questo processo.
Quello che conta è un’altra cosa: conoscere il perché umano e sociale di questo processo, collocarlo
nel nostro tempo; vederlo, come tu ben dicevi, o amico Sorgi, storicamente, in questo periodo di
vita sociale e in questo paese.
Io ho ammirato, lo ripeto, la misura con cui ha parlato il P.M.; ma su due delle sue premesse
(oltreché, ben s’intende, su tutte le sue conclusioni) non posso essere d’accordo: e cioè quando egli
ha detto che questa è «una comunissima vicenda giudiziaria», e quando ha detto che per deciderla il
Tribunale dovrà tener conto della legge, ma non delle «correnti di pensiero» che i testimoni hanno
portato in quest’aula.
Dico, con tutto il rispetto, che queste due affermazioni mi sembrano due grossi errori non soltanto
sociali, ma anche specificamente giuridici.
Non sono d’accordo sulla prima premessa. Questo non è un processo «comunissimo»: è un processo
eccezionale, superlativamente straordinario, assurdo. Questo non è neanche un processo: è un
apologo. Un processo in cui si vorrebbe condannare gente onesta per il delitto di avere osservato la
legge, anzi per il delitto di avere preannunciato e proclamato di volere osservare la legge: arrestati e
rinviati a giudizio sotto l’imputazione di volontaria osservanza della legge coll’aggravante della
premeditazione!
Per renderci conto con distaccata comprensione storica della eccezionalità e assurdità di questo
processo, bisogna cercare di immaginare come questa vicenda apparirà, di qui a cinquanta o a cento
anni, agli occhi di uno studioso di storia giudiziaria al quale possa per avventura venire in mente di
ricercare nella polvere degli archivi gli incartamenti di questo processo, per riportare in luce
storicamente, liberandolo dalle formule giuridiche, il significato umano e sociale di questa vicenda.
Quali apparirebbero agli occhi dello storico gli atti più significativi di questo processo?
La sua attenzione si fermerebbe prima di tutto su quella ordinanza del giudice istruttore, colla quale,
per negare agli arrestati la libertà provvisoria, si è testualmente affermato la «spiccata capacità a
delinquere del detto imputato»: il «detto imputato», per chi non lo sapesse, sarebbe Danilo Dolci.
Suppongo che il magistrato che scrisse questa frase non abbia immaginato, al momento in cui la
scrisse, il senso di sgomento che in centinaia di migliaia di italiani questa frase ha suscitato, quando
l’hanno letta riferita sui giornali: senso di sgomento per lui, non per Danilo Dolci.
Ma, insomma, questa frase è stata scritta; e tra cinquant’anni lo storico la potrà leggere e potrà dire
a se stesso: «Ecco, ho avuto la mano felice: ho trovato un caso interessante, il processo di un gran
delinquente, un caso tipico di “spiccata capacità a delinquere”».
Ma che cosa ha fatto mai Danilo Dolci per dimostrare questa sua «spiccata capacità»?
La capacità a delinquere, per me avvocato civilista, ha due aspetti: uno giuridico e uno sociale.
Sotto l’aspetto giuridico mi pare che essa sia la tendenza e la attitudine a violare il diritto altrui;
sotto l’aspetto sociale mi pare che sia la incapacità di intendere che la vita in società è fatta di
solidarietà e che senza altruismo non vi è civiltà. Il delinquente è essenzialmente un infelice esiliato
nel suo sfrenato egoismo, un solitario incapace di vivere in società.
Dunque lo storico che si metterà a sfogliare questo processo, quando saranno da lungo tempo caduti
e dimenticati quegli articoli della legge di pubblica sicurezza e del Codice penale di cui stiamo qui a
discutere da una settimana (quegli articoli che somigliano a quei gusci vuoti che rimangono
attaccati ai tronchi degli ulivi quando già ne è volato via l’insetto vivo), scorrerà attentamente gli
incartamenti per ricercarvi le prove di questa «spiccata capacità a delinquere» che l’ordinanza
istruttoria con tanta durezza preannuncia. E, senza perdersi in sottili acrobazie di dialettica
giuridica, si domanderà umanamente: che cosa avevano fatto di male questi imputati? In che modo
avevano offeso il diritto altrui? In che senso avevano offeso la solidarietà sociale e mancato al
dovere civico di altruismo?

Lo storico arriverà a trovare documentati nel seguito del processo due «misfatti».
Io mi limito a leggere qualche passo di un solo documento: di un documento che è ancora nelle mie
mani e che dà a questa mia difesa il carattere non solo di una testimonianza ma anche, come ieri vi
dicevo, di una complicità.
Quando, alla fine dello scorso gennaio Danilo Dolci, dopo essere stato a Torino per consultarsi coi
suoi amici sulle azioni che si proponeva di svolgere a Partinico, passò da Firenze nel viaggio di
ritorno, venne al mio studio per consigliarsi anche con me come legale ed esser sicuro che quello
che stava per fare rientrasse perfettamente nei limiti delle leggi. Non mi trovò; e allora mi lasciò una
copia del foglietto che in questo momento vi sto leggendo, con questa nota scritta di suo pugno:
«Speravo di vederti e di avvisarti. Un saluto con affetto. Tuo Danilo». Quando tornai dopo due
giorni, e lessi il foglietto, il quale conteneva, come ora vi dirò, il programma di quello che stava per
succedere a Partinico, trovai che niente di quello che era preannunciato in tale programma poteva in
qualsiasi modo andar contro alle leggi o ai regolamenti di polizia: e per questo mi guardai bene
dall’avvertire Danilo Dolci, che intanto era ritornato a Partinico, di astenersi dal fare quello che si
proponeva. Se in quello che ha fatto c’è qualche cosa di contrario alla legge, sono dunque
responsabile anche io di complicità; e forse la mia responsabilità è più grave della sua, perché io
dovrei avere quella conoscenza tecnica delle leggi che Danilo non ha.
Dunque, vi dicevo, in questo documento che sto per leggervi c’è la prova di due misfatti.
Il primo misfatto è quello che si proponevano di compiere lunedì 30 gennaio i pescatori di Trappeto.
Si legge testualmente in questa dichiarazione:
Abbiamo ripetutamente documentato alle autorità direttamente responsabili e all’opinione pubblica,
per anni e anni, la pesca fuori legge della zona, gravissimo danno a tutti noi pescatori e
all’economia nazionale.
Ci è profondamente doloroso e offensivo constatare che lo Stato non sa far rispettare le sue leggi
più elementari, più giustificate: i mezzi di informazione e di pressione normali in uno Stato civile,
qui sono stati assolutamente inefficaci.
Decisi a far rispettare le leggi, promoviamo un movimento che non si fermerà fino a quando il buon
senso e l’onestà non avranno trionfato. Inizieremo lunedì 30 gennaio, digiunando per 24 ore.
Seguono circa trecento firme. Tra loro sono anche numerosi vecchi e ragazzi con piena coscienza
dell’azione.
Questo è dunque il primo misfatto. Le circostanze sono semplici e chiare. Una piccola popolazione
di poveri pescatori vive alla meglio colla pesca del suo mare. Per legge, il tratto di mare più vicino
alla costa è riservato alla pesca della popolazione rivierasca; i motopescherecci devono tenersi al
largo. Ma qui i motopescherecci, per vecchio sistema, si beffano sfrontatamente della legge; da
tempo vengono a pescare nel mare vicino alla riva, predando il pesce che dovrebbe dar da vivere ai
piccoli pescatori. Così i pescatori locali non hanno più da pescare; questa sistematica rapina dei
motopescherecci appartenenti a grandi società organizzate e protette dalle autorità, condanna i
piccoli pescatori a morire di fame. Ricorrono alle autorità; ma le autorità non provvedono.
Protestano, ma le autorità non ascoltano. Il contrabbando continua: qualcuno pensa che le autorità
siano d’accordo coi contrabbandieri; che ci sia qualcuno in alto che partecipa agli utili del
contrabbando.
Allora che cosa fanno i pescatori che da anni reclamano giustizia e non riescono ad averla da chi
dovrebbe darla: si ribellano? Si mettono a tumultuare? Rubano? Commettono violenze?
Niente di tutto questo. Arriva Danilo in mezzo a loro e dice: «Voi non avete da mangiare: non avete
di vostro altro che la fame. L’unica protesta che vi rimane è questa: la vostra fame. Siete abituati a
digiunare, andiamo tutti insieme a digiunare sulla spiaggia del mare. Stiamo a guardare, digiunando,
i contrabbandieri protetti dalle autorità, che continuano a far rapina del pesce che la legge vorrebbe
riservato a voi. Consoliamoci insieme col nostro digiuno; mettiamo in comune questo nostro unico
bene, la fame. E per essere più sereni, porteremo sulla spiaggia qualche disco e ascolteremo la
musica di Bach». (Qualcuno ha sorriso su questo particolare della musica: non ha ricordato che
anche nella prima guerra mondiale questo era il motto dei fanti inchiodati nelle trincee: «canta che ti
passa»).
Allora vengono fuori i commissari di polizia, gli agenti dell’ordine. Voi pensereste che intervengano
finalmente per rimettere nella legalità i motopescherecci contrabbandieri e per far cessare la loro
rapina.
No: gli agenti dell’ordine intervengono per pigliarsela con Danilo: per diffidare Danilo e i pescatori
dal mettere in atto il loro proposito.
– Non è permesso digiunare: vi vietiamo formalmente di digiunare.
– Ma come possiamo non digiunare se non abbiamo più pesce da pescare?
– Non importa: digiunate a casa vostra, in privato, in segreto. È un delitto digiunare in pubblico.
Digiunare in pubblico vuol dire disturbare l’ordine pubblico.
L’ordine pubblico di chi? L’ordine pubblico di chi ha da mangiare. Non bisogna disturbare con
spettacoli di miseria e di fame la mensa imbandita di chi mangia bene; non bisogna che la gente ben
nutrita, che va sulla spiaggia a passeggiare per meglio digerire il suo pranzo, sia disturbata dalla
molesta vista dei pallidi affamati.
Questo è il primo misfatto: ora viene il secondo.
Si legge sul solito documento.
I cittadini di Partinico, donne comprese, proseguiranno l’azione giovedì 2 febbraio come è detto
nella loro dichiarazione:
Milioni di uomini nelle nostre zone stanno sei mesi all’anno colle mani in mano. Stare sei mesi
all’anno colle mani in mano è gravissimo reato contro la nostra famiglia e contro la società.
Solo qui in Partinico su 25.000 abitanti siamo in più di 7.000 colle mani in mano per sei mesi
all’anno e 7.000 bambini e giovanetti non sono in grado di apprendere quanto assolutamente
dovrebbero. Non vogliamo essere dei lazzaroni, non vogliamo arrangiarci da banditi: vogliamo
collaborare esattamente alla vita, vogliamo il bene di tutti: e nessuno ci dica che questo è un reato.
È nostro dovere di padri e di cittadini collaborare generosamente perché cambi il volto della terra,
bandendo gli assassinî di ogni genere. Chiediamo alle autorità di collaborare con noi, indicando
quali opere dobbiamo fare e come: altrimenti, assistiti da tecnici, cominceremo da alcune delle più
urgenti.
Perché sia più limpido a tutti il nostro muoverci, digiuneremo lunedì 30 gennaio, giovedì 2 febbraio
cominceremo il lavoro. Frangeremo il pane, colle mani.
Vogliamo essere padri e madri anche noi, e cittadini.
Seguono circa settecento firme. Anche le circostanze di questo secondo misfatto sono chiare.
Ci sono a Partinico, oltre i pescatori, altre migliaia di disoccupati. La Costituzione dice che il lavoro
è un diritto e un dovere. Allora, che cosa fanno questi settemila disoccupati: invadono le terre dei
ricchi, saccheggiano i negozi alimentari, assaltano i palazzi, si danno alla macchia, diventano
banditi?
No. Decidono di lavorare: di lavorare gratuitamente; di lavorare nell’interesse pubblico.
Nelle vicinanze del paese si trova, abbandonata, una trazzera destinata al passo pubblico; nessuno ci
passa più, perché il Comune non provvede, come dovrebbe, alla sua manutenzione; è resa
impraticabile dalle buche e dal fango. Allora i disoccupati dicono: «Ci metteremo a riparare
gratuitamente la trazzera, la nostra trazzera. Ci redimeremo, lavorando, da questo avvilimento
quotidiano, da questa quotidiana istigazione al delitto che è l’ozio forzato. In grazia del nostro
lavoro la strada tornerà ad essere praticabile. I cittadini vi passeranno meglio. Il sindaco ci
ringrazierà». Che cosa è questo? È la stessa cosa che avviene quando, dopo una grande nevicata, se
il Comune non provvede a far spalare la neve sulle vie pubbliche, i cittadini volenterosi si
organizzano in squadre per fare essi, di loro iniziativa, ciò che la pubblica autorità dovrebbe fare e
non fa; è la stessa cosa che avviene, e spesso è avvenuta, quando, a causa di uno sciopero degli
spazzini pubblici, i cittadini volenterosi si sono messi a rimuovere dalle strade cittadine le
immondizie e in questo modo si sono resi benemeriti della salute di tutti.
Giustamente uno dei difensori che mi hanno preceduto, il collega Taormina, ha detto che questo è
un caso di negotiorum gestio: un caso, si potrebbe dire, di esercizio privato di pubbliche funzioni
volontariamente assunte dai cittadini a servizio della comunità e in ossequio al senso di solidarietà
civica.
Allora, per impedire anche questo secondo misfatto, arrivano i soliti commissari La Corte e Di
Giorgi, e questa volta non si limitano alle diffide. Questa volta fanno di più e di meglio:
aggrediscono questi uomini mentre pacificamente lavorano a piccoli gruppi dispersi sulla trazzera,
strappano dalle loro mani gli strumenti del lavoro, li incatenano e li trascinano nel fango, tirandoli
per le catene come carne insaccata, come bestie da macello.

Bene.
Rimane dunque inteso che digiunare in pubblico è una manifestazione sediziosa; che lavorare
gratuitamente per pubblica utilità, per rendere più strada una pubblica strada, è una manifestazione
sediziosa.
... E a questo punto interviene il giudice istruttore a dare il suo giudizio: «spiccata capacità a
delinquere».
E poi prende la parola il P.M.: «Otto mesi di reclusione a Danilo Dolci e ai suoi complici».
Bene.
Ma come può essere avvenuto questo capovolgimento, non dico del senso giuridico, ma del senso
morale e perfino del senso comune?
Guardiamo di rendercene conto con serenità.
Al centro di questa vicenda giudiziaria c’è, come la scena madre di un dramma, un dialogo tra due
personaggi, ognuno dei quali ha assunto senza accorgersene un valore simbolico.
È, tradotto in cruda prosa di cronaca giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra
Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della
coscienza, alle «leggi non scritte» che preannunciano l’avvenire.
Nella traduzione di oggi, Danilo dice: «Per noi la vera legge è la Costituzione democratica»; il
commissario Di Giorgi risponde: «Per noi l’unica legge è il testo unico di pubblica sicurezza del
tempo fascista».
Anche qui il contrasto è come quello tra Antigone e Creonte: tra la umana giustizia e i regolamenti
di polizia; con questo solo di diverso, che qui Danilo non invoca leggi «non scritte». (Perché, per
chi non lo sapesse ancora, la nostra Costituzione è già stata scritta da dieci anni).
Chi dei due interlocutori ha ragione?
Forse, a guardare alla lettera, hanno ragione tutt’e due.
Ma a chi spetta, non dico il peso e la responsabilità, ma dico il vanto di decidere, sotto questo
contrasto letterale, da che parte è la verità: a chi spetta sciogliere queste antinomie?
Siete voi o Giudici, che avete questa gloria: voi che nella vostra coscienza, come in un alambicco
chimico, dovete fare la sintesi di questi opposti.

E qui affiora il secondo punto sul quale io mi trovo in dissidio colle premesse affermate dal P.M.:
quando egli ha detto che i giudici non devono tener conto delle «correnti di pensiero», che i
testimoni accorsi da tutta Italia hanno fatto passare in quest’aula.
Ma che cosa sono le leggi, illustre rappresentante del P.M., se non, esse stesse, correnti di pensiero?
Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo libro dei codici
che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte.
E invece le leggi son vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro
tempo, lasciarvi entrare l’aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il
nostro sangue e il nostro pianto.
Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, spregevoli giuochi da legulei; affinché diventino
sante, vanno riempite colla nostra volontà.
Voi non potete ignorare, signori giudici, poiché anche voi vivete la vita di tutti i cittadini italiani, il
carattere eccezionale e conturbante del nostro tempo: che è un tempo di trasformazione sociale e di
grandi promesse, che prima o poi dovranno essere adempiute: felici i giovani che hanno davanti a sé
il tempo per vederle compiute!
Questo è uno di quei periodi, che ogni tanto si ripresentano nella vita dei popoli, in cui la gloria di
poter costruire pacificamente l’avvenire, il vanto di poter guidare entro la legalità questa
trasformazione sociale che è in atto e che non si ferma più, spetta soprattutto ai giudici. Nella storia
millenaria del nostro paese più volte si sono presentati questi periodi di trapasso da un ordinamento
sociale ad un altro, durante i quali l’altissimo compito di adeguare il diritto alle esigenze della
nuova società in formazione è stato assunto dalla giurisprudenza: basta pensare ai responsa dei
prudentes, che hanno gradualmente fatto vivere nella rigidezza del diritto quiritario lo spirito
cristiano trionfante nella legislazione giustinianea, o alle opiniones doctorum, che attraverso la
decisione di singoli casi giudiziarî hanno introdotto negli schemi del diritto feudale lo spirito
umanistico del diritto comune.
Anche oggi l’Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio
che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità
promessa dalla Costituzione.
La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunciatrici del futuro: «pari dignità
sociale»; «rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana»;
«Repubblica fondata sul lavoro»; «diritto al lavoro»; «condizioni che rendano effettivo questo
diritto»; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia «una esistenza libera e dignitosa»...
Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più
ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno udito queste promesse, e che vi hanno
creduto e che ci si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possano ora esser
condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente e senza far male a nessuno, che
queste promesse siano adempiute come la legge comanda?
Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto
fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come
scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall’alto. Affinché la legalità discenda dai codici
nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro non dal di fuori: le leggi che il popolo
rispetta, perché esso stesso le ha volute così.
Ricordate le parole immortali di Socrate nel carcere di Atene? Parla delle leggi come di persone
vive, come di persone di conoscenza: «Le nostre leggi, sono le nostre leggi che parlano». Perché le
leggi della città possano parlare alle nostre coscienze, bisogna che siano, come quelle di Socrate, le
«nostre» leggi.
Nelle più perfette democrazie europee, in Inghilterra, in Svizzera, in Scandinavia, il popolo rispetta
le leggi perché ne è partecipe e fiero: ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non
c’è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri!
Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle
leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un
nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore
che domina, ma la signoria resta: dello straniero, delle nobiltà, dei grandi capitalisti, della
burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo.
Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della
legalità e della giustizia una idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per
schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per
soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami.
Nella prefazione che Norberto Bobbio ha dettato per il libro di Danilo Dolci, Banditi a Partinico, è
riportato come tipico un episodio.
– Ho fatto più di quattro domande per avere la pensione, – dice il padre. Niente. Mi mandano a
chiamare i carabinieri: «ci vuole questo documento». Subito facciamo questo documento, subito.
Poi mandano a chiamare in Municipio e mi dicono che ci voleva stato di famiglia, atto
matrimoniale, fede di nascita, fede di morte di mio figlio, tutto. Ci ho fatto tutto. Ci ho mandato in
Municipio stesso, da lì a Roma. Niente. Dal 1942. È dodici anni ca ci combattu colla pensione –. E
la moglie: – Have a cridere che a mia mi ritiraru lu librettu e mi dissiru: «Ora se ne pò ire che vossia
have la pensione».
Questa è la maledizione di Partinico; ma questa è sempre stata anche la maledizione d’Italia. In ogni
regione d’Italia più o meno è così: le leggi per gli umili non contano. Per avere giustizia dagli uffici
amministrativi occorre farsi raccomandare da qualche personaggio importante o strepitare. Ma forse
neanche strepitare conta; perché se strepita il povero, viene il commissario Di Giorgi che lo porta in
prigione.
E allora ecco Danilo: «Basta con questa maledizione, basta con questa sfiducia; ma basta anche
colla violenza. Voi dovete credere nelle leggi; voi dovete credere nella giustizia di chi governa. La
legge è come una religione (una religione di cui quest’aula giudiziaria è un tempio). Perché la legge
faccia i suoi miracoli, bisogna crederci».
È un ingenuo? È un illuso?
Danilo è stato paragonato a Renzo dei Promessi Sposi, nella famosa scena dell’osteria.
Ricordate? «Pane, abbondanza, giustizia». Lo sente dire da Ferrer, che era una specie di prefetto di
quei tempi. E Renzo ci crede: anche lui si mette a ripetere «pane, abbondanza, giustizia». E va a
finire nelle mani dei birri.
Anche Danilo è andato a finire in prigione. È dunque anche lui soltanto un ingenuo? Soltanto un
illuso?
No: Danilo è qualche cosa di più.
Non dimentichiamo come è cominciata la vicenda di Danilo. Il caso determinante della sua vita è
stato l’incontro con un bambino morto di fame. Quando nell’estate del 1952 Danilo ebbe visto
morire di fame il figlioletto di Mimmo e Giustina Barretta, allora egli si accorse di trovarsi «in un
mondo di condannati a morte»; e gli apparve chiara l’idea che questo mondo non si redime colla
violenza, ma col sacrificio. Fu allora che disse: «Su questo stesso letto dove questa creatura
innocente è morta di fame, io, che potrei non esser povero, mi lascerò morire di fame come lui, per
portare una testimonianza, per dare colla mia morte un esempio, se le autorità non si decideranno a
provvedere». E dopo una settimana di digiuno, che già aveva ridotto Danilo in fin di vita, le autorità
finalmente intervennero, non per pietà, ma per liberarsi dalla responsabilità di lasciarlo morire; e si
decisero a offrire subito le prime somme occorrenti per pagare i debiti dei pescatori e dei braccianti
del luogo, e per iniziare i lavori di sistemazione delle strade e delle acque. Poi nuovamente si
fermarono: ma soltanto così Danilo era riuscito a svegliare il torpore burocratico dei padroni.
Ma ecco che qui entra ancora in scena il commissario Di Giorgi, che in questo dramma rappresenta
la quotidiana piattezza del conformismo, la voce scettica dei benpensanti: «Danilo Danilo, sono
utopie, sono illusioni!» («fanatismo mistico», ha detto ieri il P.M.).
Par che dica, il commissario Di Giorgi: «Danilo, ma chi te lo fa fare? Sei giovane, sei istruito, sei un
architetto, uno scrittore. Non sei di queste terre desolate. Torna ai tuoi paesi. Lascia i poveri di
Partinico in compagnia della loro miseria e della loro fame... Danilo, chi te lo fa fare?».
La voce del buon senso, la voce dei benpensanti; ma Danilo non è un benpensante, non segue la
rassegnata e soddisfatta voce del buon senso.
Danilo mi fa venire in mente lo storia di fra Michele Minorita. È una antica cronaca fiorentina,
rievocante la figura di un monaco, appartenente all’ordine dei «fratelli della povera vita», che
praticavano la povertà assoluta e predicavano che nel Vangelo Cristo e gli Apostoli non avevano
mai riconosciuto la proprietà privata. Il papa Giovanni XXII condannò questa affermazione come
eresia: e fra Michele per averla predicata fu condannato, nel 1389, al rogo.
La cronaca racconta la prigionia e il processo, e descrive il corteo che accompagnò dalla prigione al
supplizio il condannato e le sue soste lungo la strada, come se fossero le stazioni della Via Crucis.
Dal carcere del Bargello per arrivare al rogo egli passa, scalzo e vestito di pochi cenci, in mezzo
agli armigeri, per le vie di Firenze. Due ali di popolo lo stanno a vedere: e gli lanciano al passaggio
frasi di incitamento o di scherno, invocazioni esaltate o beffardi consigli. I più lo consigliano
all’abiura: «Sciocco, pentiti, pentiti, non voler morire, campa la vita!». Ed egli risponde mentre
passa senza voltarsi: «Pentitevi voi de’ peccati, pentitevi delle usure, delle false mercatanzie».
(Forse tra quel pubblico che lo incitava a pentirsi e a non voler morire c’era anche, pieno di buone
intenzioni, il commissario Di Giorgi: «Illusioni, utopie; chi te lo fa fare?»).
A un certo punto quando ormai è vicino al rogo, poiché ancora uno dei presenti torna a gridargli:
«Ma perché ti ostini a voler morire?», egli risponde: «Io voglio morire per la verità: questa è una
verità, ch’io ho albergata in me, della quale non se ne può dare testimonio se non morti». E con
queste parole sale sul rogo; ma proprio mentre stanno per far fuoco, ecco che arriva un messo dei
Priori a fare un ultimo tentativo, per persuaderlo a smentirsi e così salvargli la vita. Ma egli dice di
no. E uno degli armigeri di fronte a questa fermezza, domanda: «Ma dunque costui ha il diavolo
addosso?»; al che l’altro armigero, nel dar fuoco, risponde (e par di sentire la sua voce strozzata dal
pianto): «Forse ci ha Cristo».
Per questo, signori Giudici, voi avete visto le «correnti di pensiero», che in questo momento sono
vicine a Danilo sfilare in quest’aula a testimoniare. Esse non sono arrivate qui per esercitare su di
voi pressioni o intromissioni sulla vostra coscienza intemerata e fiera: sono venute soltanto per
testimoniare la loro solidarietà a Danilo. Ma questa solidarietà della cultura italiana per Danilo
Dolci è un fatto, che voi non potete ignorare; siete anche voi uomini del nostro tempo, e anche voi
sentite il dovere di valutarle, di spiegarle storicamente.
Come si può spiegare questa solidarietà? Certamente voi avete avvertito nelle parole di questi
testimoni non soltanto un senso di solidarietà e quasi di complicità con Danilo, ma altresì un senso
più profondo, quasi direi di umiliazione e di contrizione di questa cultura; per aver tardato tanto ad
accorgersene, che fosse Danilo a dare l’esempio.
Il carattere singolare ed esemplare di Danilo Dolci è proprio qui: di questo uomo di cultura, che per
manifestare la sua solidarietà ai poveri non si è accontentato della parola parlata o scritta, dei
comizi, degli ordini del giorno e dei messaggi; ma ha voluto vivere la loro vita, soffrire la loro
fame, dividere il loro giaciglio, scendere nella loro forzata abiezione per aiutarli a ritrovare e a
reclamare la loro dignità e la loro redenzione.
Questa è la singolarità di Danilo: qualcuno potrebbe dire l’eroismo; qualcun altro potrebbe anche
essere tentato di dire la santità.
Qui e fuori di qui siamo in molti a pensare e a ripetere che la cultura, se vuol esser viva e operosa,
qualcosa di meglio dell’inutile e arida erudizione, non deve appartarsi dalle vicende sociali, non
deve rinchiudersi nella torre d’avorio senza curarsi delle sofferenze di chi batte alla porta di strada.
Tutto questo lo diciamo e lo scriviamo da decenni; ma tuttavia siamo incapaci di ritrovare il
contatto fraterno colla povera gente. Siamo pronti a dire parole giuste; ma non sappiamo rinunciare
al nostro pranzo, al nostro comodo letto, alla nostra biblioteca appartata e tranquilla. Tra noi e la
gente più umile resta, per quanto ci sforziamo, come uno schermo invisibile, che ci rende difficile la
comunicazione immediata. Il popolo ci sente come di un altro ceto: sospetta che questa fraternità di
parole sia soltanto oratoria.
Per Danilo no. L’eroismo di Danilo è questo: dove più la miseria soffocava la dignità umana, egli ha
voluto mescolarsi con loro e confortarli non coi messaggi ma colla sua presenza; diventare uno di
loro, dividere con loro il suo pane e il suo mantello, e chiedere in cambio ai suoi compagni una
delle loro pale e un po’ di fame.
Questo intellettuale triestino, che se avesse voluto avrebbe potuto costruirsi in breve, coi guadagni
del suo lavoro di artista, una vita brillante e comoda in qualche grande città e una casa ricca di
quadri e di libri, è andato a esiliarsi a Partinico, nel povero paese rimasto impresso nei suoi ricordi
di bambino, e si è fatto pescatore affamato e spalatore della trazzera per far intendere a questi
diseredati, colla eloquenza dei fatti, che la cultura è accanto a loro, che la sorte della nostra cultura è
la loro sorte, che siamo, scrittori e pescatori e sterratori, tutti cittadini dello stesso popolo, tutti
uomini della stessa carne.
Egli ha fatto quello che nessuno di noi aveva saputo fare. Per questo sono venuti qui da tutta Italia
gli uomini di cultura a ringraziarlo: a ringraziarlo di questo esempio, di questo riscatto operato da
lui, agnus qui tollit peccata di una cultura fino a ieri immemore dei suoi doveri.

Certo, Danilo Dolci non è un personaggio comodo per i commissari di pubblica sicurezza. Io mi
immagino i loro discorsi: «In fondo, un brav’uomo. Ma uno scervellato, un seccatore, un
piantagrane».
Mi viene in mente una lettera scritta pochi giorni fa dal mio amico Jemolo a una altissima autorità.
Dopo avere attestato l’altezza morale di Danilo, egli continuava: «Certo sarà noioso per le autorità
costituite; ma pensa quanto lo saranno stati a loro tempo san Francesco o san Bernardino da Siena».
Sì, i santi sono noiosi: e in generale, anche senza disturbare i santi, è certo che in questa società
compressa da una crosta di accomodante scetticismo sono noiosi in generale gli uomini onesti, gli
uomini che prendono le cose sul serio. Per chi sta bene e ha la vita facile, sono insopportabili questi
importuni che ricordano col loro esempio, fastidioso come un rimprovero vivente, che nel mondo
esiste la onestà e la dignità.
Imparai da ragazzo su qualche antologia un episodio della vita di un santo; in questi giorni mi è
tornato in mente. Vi confesso che a Firenze, prima di partire per venir qui, invece di consultare i
codici per prepararmi a questa discussione, mi son messo a ricercare nelle vite dei santi il testo
preciso di questo episodio: mi pareva di ricordarmi che fosse nella vita di san Filippo Neri, ma non
l’ho trovato. Forse è nella vita di Don Bosco.
Certo, o l’uno o l’altro, si trattava di un santo: ma finché fu vivo era considerato come un terribile
seccatore dai ricchi, alle cui porte andava a battere ogni giorno per chiedere carità per i poveri. A
tutti i momenti se lo ritrovavano dinanzi: li perseguitava colle sue preghiere, fino a che anche i più
avari, pur di levarselo di torno, gli davano quel che chiedeva: e lui correva a portare pane agli
affamati.
Un giorno andò a bussare alla porta di un signore ricchissimo, ma particolarmente iracondo e
prepotente: e tanto insiste, nonostante i ripetuti dinieghi, che questo alla fine, gonfio d’ira, lo investì
di ingiurie e lo prese a schiaffi. Il santo stette impassibile a ricevere le percosse, senza muoversi,
come se fosse il pagamento di una cosa dovuta: senza neanche ripararsi il viso colle mani (forse lo
fece per non essere imputato, dal P.M. di quei tempi, di «resistenza»). E alla fine, quando quel
prepotente si fu sfogato, riprese candidamente: «Sta bene, questi sono per me: il conto torna. Ma ora
bisogna riprendere il nostro discorso: bisogna che tu mi dia i denari per i poveri...».
Io mi auguro che il P.M. ritrovi per conto suo il testo originale dove questo episodio è raccontato per
esteso. Siamo d’accordo: anche Danilo è un seccatore: per questo gli hanno messo i ferri; per questo
lo hanno arrestato; per questo lo hanno trascinato nel fango; per questo lo vorrebbero tenere per altri
otto mesi in prigione.
E sia pure. E poi? E i disoccupati di Partinico? E la fame di Partinico? E i bambini che muoiono di
fame a Partinico? Che darete ad essi? Che parola di speranza e di conforto uscirà per essi dalla
vostra sentenza?
No, questa non è, onorevole signor P.M., una «comunissima vicenda giudiziaria». Questo non è il
processo di Danilo Dolci. Su quella panca degli imputati non c’è lui; altre colpe, altre incurie, altre
crudeltà, altri delitti siedono su quella panca: tutti li conosciamo, anche voi li conoscete.
Questa non è la causa di Danilo; e neanche di Partinico; e neanche della Sicilia. È la causa del
nostro Paese: del nostro Paese da redimere e da bonificare.
Si parla tra i giuristi di «bonifica costituzionale»; siate voi, magistrati, gli antesignani di questa
bonifica.
Nella Maremma della mia Toscana, nelle terre incoltivate che si distribuiscono ai contadini, per
poter arrivare a seminare bisogna prima spezzare la crosta di tufo pietroso che vi è depositata da due
millenni di alluvioni; per spezzarla occorrono i trattori: e solo così, sotto quella crosta, si trova la
terra fertile e fresca, e in essa, ancora intatte, le tombe dei nostri padri etruschi.
Bisogna in tutta Italia spezzare nello stesso modo questa crosta di tradizionale feudalismo e di inerte
conformismo burocratico che soffoca la nostra società: e ritrovare sotto la crosta spezzata il popolo
vivo, il popolo sano, il popolo fertile, il popolo vero del nostro paese: e le tradizioni di saggia ed
umana equità che esso ha conservato dai lontani millenni.
Vorrei, signori Giudici, che voi sentiste con quale ansia migliaia di persone in tutta Italia attendono
che voi decidiate con giustizia, che vuol dire anche con indipendenza e con coraggio, questa causa
eccezionale: e che la vostra sia una sentenza che apra il cuore alla speranza, non una sentenza che
ribadisca la disperazione.
Colleghi e amici siciliani, noi siamo venuti in Sicilia, e vi ringraziamo di averci consentito di essere
qui al vostro fianco, per dirvi che tutto quello che vi addolora, tutto quello che vi offende, addolora
e offende anche noi. Questa vostra angoscia è anche la nostra angoscia: anche noi ci sentiamo
bruciare dal vostro sdegno. Vogliamo anche noi prendere sulle nostre spalle, coll’aiuto della
Costituzione, il destino del nostro Paese.
Qualche giorno fa, sfogliando un giornale straniero, vi ho letto una notizia dall’Italia che mi ha fatto
arrossire. C’era scritto, a proposito di questo processo di Danilo, questo titolo: «In Italia a chi
chiede il rispetto della Costituzione si nega la libertà provvisoria».
Non è vero, non è vero! Signori Giudici, diteci che non è vero! Permetteteci di dire agli stranieri che
non è vero!
Voi dovete aiutarci, signori Giudici, a difendere questa Costituzione che è costata tanto sangue e
tanto dolore; voi dovete aiutarci a difenderla, e a far sì che si traduca in realtà.
Vedete, in quest’aula, in questo momento, non ci sono più giudici e avvocati, imputati e agenti di
polizia, ci sono soltanto italiani: uomini di questo Paese che finalmente è riuscito ad avere una
Costituzione che promette libertà e giustizia.
Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i
vivi, a difendere questa Costituzione che vuol dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia e
pari dignità!
Ore 11,45
Il Tribunale si ritira in Camera di Consiglio a deliberare. Alle ore 18 viene letto dal Presidente il
dispositivo di sentenza.

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

L’anno millenovecentocinquantasei, il giorno trenta del mese di marzo.


Il Tribunale Penale di Palermo, Sezione I, composta dei signori:
1) Trainito Dott. Rosario, Presidente di Sezione,
2) De Simone Dott. Giovanni, Giudice,
3) Minì Dott. Salvatore, Giudice,
con l’intervento del P.M., dott. Lo Torto, Sostituto Procuratore della Repubblica, e con l’assistenza
del Cancelliere sottoscritto, ha pronunziato la presente sentenza nel procedimento penale contro:
Dolci Danilo, Ignazio Speciale, Termini Salvatore, Zanini Carlo, Abbate Francesco, Macaluso
Domenico, Ferrante Gaetano, Fofi Goffredo, Geraci Nicolò, Mazzurco Gioacchino, Ania Giuseppe,
Drago Gaspare, Autovino Leonardo, Autovino Lorenzo, Troia Giuseppe, Guzzardi Leonardo,
Barretta Liborio, Gallo Gaetano, Arminio Leonardo, Avvenire Giovanni, Stabile Bartolomeo, Loria
Carlo, Puleo Francesco.

Premesse le imputazioni, si conferma l’ordinanza dibattimentale con la quale era stata rigettata
l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 18 T.U.L.P.S., sollevata dal Collegio dei difensori.

Ciò premesso, entrando nel merito del processo, il Collegio ritiene opportuno esaminare per prima
l’imputazione di invasione dei terreni, attribuita, tranne che al Geraci, a tutti gli imputati. La prova
dei fatti che concretano tale imputazione emerge dalla deposizione dei verbalizzanti, che sorpresero
tutti gli imputati nell’atto di eseguire lavori di sterramento in un tratto della Trazzera Vecchia di
Partinico, e dalle dichiarazioni degli imputati medesimi, i quali, ad eccezione del Mazzurco, che ha
recisamente negato di aver partecipato alla manifestazione, ed ha giustificato la sua presenza
occasionale con l’addurre che in quel momento si avviava verso un fondo di sua proprietà, hanno
ammesso di aver partecipato alla manifestazione anzidetta, escludendo però qualsiasi fine di lucro e
qualsiasi proposito di chiedere una mercede alla Autorità preposta alla gestione della Trazzera
Vecchia.
Quasi tutti i testi di discolpa, ai quali il Dolci aveva reso noto il suo piano, hanno tenuto a precisare
che il Dolci aveva fatto presente che esulava dalla progettata manifestazione dello «sciopero alla
rovescia», qualsiasi idea di profitto diretto o indiretto. In particolare i testi che erano stati presenti
alla riunione tenutasi il 1° febbraio 1956 presso la Camera del Lavoro di Partinico (Prof.
Cardamone f. 120, Prof. Pettineo f. 121, Prof. Lombardo-Radice f. 181) hanno concordemente
dichiarato che il Dolci, il Termini e gli altri organizzatori della manifestazione avevano fatto
presente che i manifestanti non avrebbero avuto diritto ad alcun compenso, giacché la
manifestazione doveva avere il carattere simbolico di una protesta.
Contro tale assunto stanno però le deposizioni di quasi tutti i verbalizzanti, i quali sentirono
pronunziare dal Dolci e da parecchi altri manifestanti le parole: «dobbiamo lavorare otto ore, perché
così potremo avere diritto al compenso». Il Collegio, pur riconoscendo che gli imputati avessero in
un primo momento escluso qualsiasi idea di profitto dalla progettata manifestazione, non può fare a
meno, di fronte alla evidenza delle prove, che si ricavano dalle precise ed ineccepibili affermazioni
dei verbalizzanti, di ritenere che il proposito di conseguire un profitto sia insorto negli imputati la
stessa mattina del 2 febbraio 1956.
La esistenza del fine di lucro è indirettamente confermata dal proposito che i manifestanti avevano
di lavorare per otto ore, di compiere cioè una intiera giornata lavorativa, conformemente a quanto si
verificava nei normali rapporti di lavoro. Tale circostanza, a dire il vero, non esclude in modo
assoluto che i manifestanti, come è stato affermato dal Dolci e dai testi di discolpa, volessero attuare
una manifestazione che, oltre a costituire una protesta simbolica alle Autorità e alla società, desse
un risultato pratico di pubblica utilità, quello dell’effettiva riparazione della Vecchia Trazzera.
Nell’equivoco tra le contrastanti interpretazioni della circostanza in esame, il Collegio ritiene che
sia più attendibile quella aderente al fine di lucro, perché la protesta simbolica avrebbe potuto
realizzarsi anche con un lavoro di brevissima durata e perché il fine di lucro è stato accertato
attraverso le inequivoche affermazioni fatte dal Dolci e da molti altri manifestanti la mattina del 2
febbraio in seguito all’invito di scioglimento delle forze della polizia.
La condotta testé esaminata integra in tutti i suoi estremi il reato di cui all’art. 633 C.P. (invasione di
terreni) aggravato ai sensi del capoverso perché al fatto hanno partecipato più di dieci persone.
Il Supremo Collegio (Sez. II 17/3/1955 pres. Trasimeni, rel. Cortese, P.M. Polimeno, concl. conf.)
ha affermato il principio che, nel delitto di invasione di terreni, il dolo specifico di trarre profitto
dalla invasione non richiede affatto che si tratti di profitto immediato e diretto, piuttosto che
mediato ed indiretto. È solamente richiesto che lo scopo del profitto, nella sua accezione più ampia,
di disposizione utile della cosa, fuori della già prevista ipotesi della occupazione (immissione nel
possesso del terreno) abbia il suo presupposto materiale nella invasione di terreni o edifici, pubblici
o privati, cioè che a questa si ricolleghi comunque, come ad un antecedente storico, logico,
psicologico. Con la citata sentenza è stata esaminata una fattispecie presso a poco analoga a quella
in esame, ed è stato ritenuto che la esecuzione dei lavori arbitrari in un terreno che è stato invaso
con la finalità di ottenere il pagamento della mercede (nella specie, invasione di una pubblica strada
con lo scopo suddetto) è sicuramente posta in essere con lo scopo di trarre profitto dalla compiuta
invasione, il cui conseguimento non è necessario perché riguarda non il fatto costituitivo del reato,
ma il fine dell’agente, mentre è sufficiente la sua realizzabilità, che, nella specie, si sarebbe potuta
estrinsecare in una pretesa sattisfattoria nei confronti dell’Ente Pubblico che si beneficiava delle
compiute migliorie.
Con altra sentenza (Sez. II 10-6-1955 pres. Siravo, rel. Dall’Asta, P.M. Mattioli concl. conf. Proc.
pen. contro Vasumi ed altri) il Supremo Collegio ha affermato che oggetto della invasione può ben
essere qualsiasi terreno e, in particolare, una carrareccia che appartenga alla Pubblica
Amministrazione, e che sarebbe arbitrario limitare la previsione normativa agli edifici ed alle sole
terre coltivate. Con la stessa sentenza il Supremo Collegio ha anche affermato il principio che il
reato di invasione di terreni non è escluso dal preteso fine di pubblica utilità perseguito dagli
occupanti.
Né vale a discriminare il reato in esame la convinzione che avevano i manifestanti di adempiere ad
un dovere o di esercitare un diritto sulla base dell’art. 4 della Costituzione.
Da tale norma erano stati in effetti ispirati il Dolci e gli altri manifestanti a progettare ed attuare il
cosiddetto «sciopero alla rovescia», come può rilevarsi dall’esplicito riferimento che il Dolci ne
aveva fatto nel suo appello agli «amici di Partinico» pubblicato nel «Nuovo Corriere» del 1°
febbraio 1956 e nel giornale «L’Ora» dello stesso giorno.
Eccone il testo integrale:

Amici di Partinico,
i «banditi» di Partinico vogliono diventare cittadini italiani, vogliono una veramente civile società.
Lunedì, digiunando, meditando assieme, ci siamo preparati limpidamente alla festa di giovedì:
lavorare. Nessuno ci potrà impedire di lavorare, insieme, disciplinatamente. Sarebbe bollato di
infamia per i secoli chi osasse impedirci. Ma noi siamo certi che non ci sarà nessuno tanto crudele.
Facciamo appello alla coscienza di tutti i popoli, d’Italia e del mondo.
È dato all’uomo per le eterne leggi respirare e lavorare; anche la più alta legge dello Stato non può
non riconoscerlo: lo specifica l’art. 4 della Costituzione.
Non tradiremo le nostre famiglie, non tradiremo le nostre leggi: il lavoro è l’organizzazione del
caos, è verità che incarnandosi in vita migliora il mondo.
Questo paese può diventare, per le sue naturali ricchezze, oggi sciupate, un angolo dei più belli
della terra, dove tutti si potrà vivere veramente da uomini. Nessuno rimanga con le mani in mano; o
occupate in modo indegno: il lavoro è utile solo se utile ad uno come a tutti.
Uomini e donne, giovani e non più giovani che ancora potete aiutare, gente di ogni partito, di ogni
idea: rimbocchiamoci le maniche e usciamo da questa puzza materiale e spirituale. Se non
cerchiamo noi di toglierci da questa mortificante puzza, – noi che, immersi, la soffriamo, – chi mai
possiamo aspettare che ce ne venga a togliere? Se manca uno, mancano tutti. Perdoniamo a chi ha
fatto del male, ma cerchiamo, per noi, e per tutti, i rapporti anche strutturali più perfetti. Siamo
uomini di pace. Sono sicuro che non ci sarà nessuno che ci impedirà in questa sacra opera.
DANILO
Che il Dolci e gli altri imputati fossero stati ispirati dallo art. 4 della Costituzione è confermato dal
fatto che, qualche giorno prima della manifestazione del 2 febbraio, per suggerimento del Dolci,
erano stati stampati ed affissi in Partinico alcuni manifesti nei quali era stata integralmente ed
esclusivamente riportata la detta norma, e, in modo ancor più immediato, dal richiamo esplicito che
essi fecero alla stessa per sostenere, di fronte ai funzionari ed agenti della Forza pubblica che
avevano intimato ad essi di sciogliersi, la legittimità della loro azione e per giustificare la loro
disubbidienza all’ordine di scioglimento.
L’art. 4 della Costituzione sancisce in realtà il diritto dei cittadini al lavoro ed il dovere dei
medesimi di svolgere la loro attività secondo le loro possibilità e la loro scelta, purché concorra al
progresso materiale e spirituale della società. Ma tale diritto che peraltro la Costituzione proclama
in modo generico e indeterminato, come impegno e come promessa di una più efficace tutela del
lavoro, deve essere esercitato in relazione ad un lavoro la cui esecuzione non si risolva in una
lesione del diritto altrui. Il concetto della non esorbitanza del lavoro nella sfera giuridica degli altri
soggetti a maggior ragione deve ritenersi implicito nel lavoro inteso come dovere, giacché
l’adempimento di un dovere non può che risolversi in un vantaggio per gli altri consociati, giammai
in un danno.
Ed è strano che il Dolci, che è geometra ed è anche apprezzato scrittore, abbia potuto interpretare la
norma in esame nel modo aberrante che lo indusse a violare la sfera del diritto del Comune di
Partinico senza il consenso del legale rappresentante di esso.
Ma l’erronea interpretazione dell’art. 4 della Costituzione non può, come si è detto, discriminare la
condotta posta in essere dagli imputati; tranne che non si voglia sovvertire il principio fondamentale
della presunzione assoluta della conoscenza della legge, presunzione la quale importa che la legge
deve ritenersi strettamente conosciuta dai cittadini e che parifica negli effetti sia l’assoluta
ignoranza della legge, che l’imperfetta conoscenza della stessa.
L’ignoranza di una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità solo nella ipotesi che abbia
determinato un errore sul fatto costituente reato (art. 47 C.P.). Però l’erronea conoscenza dell’art. 4
della Costituzione da parte del Dolci e compagni, non si è risolta in un errore sui presupposti di
fatto che l’art. 633 C.P. considera elemento materiale del reato di invasione. L’elemento materiale di
tale reato si concreta infatti nella occupazione di un terreno o di un edificio altrui inscio domino, ed
è ovvio che l’ignoranza dell’art. 4 della Costituzione non abbia potuto determinare negli imputati la
convinzione di una inversione in loro favore del possesso o della proprietà della Trazzera occupata,
o della esistenza del consenso del proprietario alla occupazione della medesima.
Nemmeno potrebbe ritenersi legittima la condotta degli imputati sotto il profilo dell’art. 40 della
Costituzione che sancisce il diritto di sciopero.
Lo sciopero lecito, previsto dalla citata norma della Costituzione, si concreta esclusivamente nella
volontaria astensione dal lavoro ed è determinato dal fine di indurre gli imprenditori a concedere un
miglioramento del salario o delle altre condizioni di lavoro, ovvero ad impedirne un peggioramento.
Lo sciopero presuppone pertanto un rapporto di lavoro.
L’esecuzione arbitraria di lavori nell’altrui proprietà, anche se è determinata dal fine di indurre i
proprietari ad assumere al lavoro gli occupanti, non è sciopero, o almeno non rientra nelle ipotesi di
sciopero garantito dall’art. 40 della Costituzione.
La condotta degli imputati, limitatamente alla occupazione della Trazzera Vecchia ed alla
esecuzione dei lavori in essa intrapresi, è stata indubbiamente ispirata da motivi di alto valore
morale e sociale.
Lo stato di grave disagio, materiale e morale, di una massa rilevante di cittadini di Partinico,
Balestrate e Trappeto, determinato prevalentemente dalla loro disoccupazione, aveva
profondamente colpito il Dolci, che aveva dato prova di una eccezionale pietà per la miseria del
prossimo, tanto che, alla vita agiata e comoda, che avrebbe potuto condurre con il normale impiego
della sua intelligenza e della sua cultura, aveva preferito la sofferenza fisica degli infelici di quella
zona, con i quali si era confuso per trarre la spinta implacabile e costante ad occuparsi seriamente
dei loro problemi.
L’appello pubblicato nei due quotidiani «L’Ora» e «Nuovo Corriere» del 1° febbraio 1956, il
discorso pronunciato dal Dolci alla Radiotelevisione di Torino il 13-1-1956 per rendere di pubblica
ragione la manifestazione del digiuno e dello sciopero alla rovescia, che ebbe poi ad effettuare il 30
gennaio e il 2 febbraio 1956, l’indagine statistica da lui fatta sui fenomeni della zona anzidetta
(analfabetismo, percentuale di disoccupati, condizioni sanitarie, etc.) e riportata dettagliatamente nel
suo libro Banditi a Partinico, pubblicato dall’editore Laterza di Bari, confermano la volontà tenace
del Dolci ad affrontare e risolvere seriamente il problema della disoccupazione in Partinico e
dintorni e della elevazione morale degli strati miseri della sua popolazione, che il bisogno aveva
deviato verso il banditismo e che poteva essere ricondotta nel ruolo al quale tutti gli uomini hanno
diritto nel consorzio civile.
E non pare che la nobiltà dei suoi fini possa essere minimamente offuscata dalla pubblicità data ai
suoi progetti, pubblicità che non è sintomo di desiderio di notorietà, ma strumento utile per indurre
gli altri animosi ad imitare il suo esempio e, soprattutto, per richiamare l’attenzione delle Autorità
competenti verso i gravi problemi della disoccupazione e della miseria.
Da tali fini fu indubbiamente ispirata la manifestazione del 2 febbraio concretatasi con l’arbitraria
occupazione della Trazzera Vecchia.
La medesima ispirazione ebbero anche gli altri imputati, i quali erano stati addirittura catechizzati
dal Dolci a considerare quella manifestazione come strumento alla soluzione del problema della
disoccupazione in generale, oltre che nei riflessi della loro particolare situazione.
L’elevatezza del fine che ispirò il Dolci e compagni importa necessariamente l’applicazione
dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 C.P., e ciò indipendentemente dalla valutazione dell’efficienza
dei mezzi adoperati per il conseguimento di esso. Pertanto non è necessario esaminare se
l’occupazione della Trazzera Vecchia di Partinico e la esecuzione dei lavori sulla medesima
costituisce protesta idonea ad indurre le autorità responsabili ad esaminare ed affrontare con
maggior impegno il grave problema della disoccupazione nel territorio di Partinico.
L’esistenza del delitto di invasione di terreni aggravata ai sensi dell’art. 633 cpv. C.P., rende
superflua l’indagine se l’intervento degli imputati e delle molte altre persone non identificate nel
tratto della Trazzera Vecchia, dove si erano iniziati i lavori di sterramento, costituisca riunione nel
significato tecnico previsto dall’art. 18 T.U. Leggi di P.S. Infatti, anche a voler ammettere che tale
convegno di persone costituisca riunione nel significato anzidetto, la contravvenzione di cui all’art.
18 T.U. Leggi di P.S. dovrebbe ritenersi assorbita nel reato di invasione di terreni, del quale
costituirebbe la circostanza aggravante di cui all’art. 633 cpv. C.P. nel suo substrato materiale.
Ricorrerebbe in tale ipotesi una particolare fattispecie di reato complesso del quale costituirebbe la
circostanza aggravante un fatto che, considerato in modo autonomo, integrerebbe gli estremi della
riunione non preavvisata ai sensi dell’art. 18 T.U. Legge P.S. (art. 84 C.P.).
Consegue da ciò che gli imputati debbono essere assolti dalle imputazioni in esame, in
considerazione che la relativa contravvenzione deve ritenersi assorbita nel reato complesso di
invasione di terreni.
Nei confronti del Geraci, che non partecipò alla manifestazione del 2 febbraio, la contravvenzione
di cui all’art. 18 a lui attribuita non potrebbe configurarsi per la inesistenza della riunione come
reato autonomo. Il Geraci deve comunque essere assolto perché si limitò a partecipare alla riunione
del 1° febbraio tenutasi nella Camera del Lavoro di Partinico e non è risultato che abbia svolto
attività intesa a promuovere la manifestazione dell’indomani.
Consegue altresì che non può nemmeno sussistere la contravvenzione di cui all’art. 24 T.U. Legge
di P.S. la quale presuppone, come antecedente logico e giuridico, una riunione abusiva come
contravvenzione autonoma.
La disobbedienza all’ordine di scioglimento intimato dalla Polizia, che è stata erroneamente
contestata come infrazione all’art. 24 T.U., integra tuttavia gli estremi della contravvenzione di cui
all’art. 650 C.P. in considerazione che l’ordine di scioglimento costituiva un provvedimento
legittimo inteso a far desistere gli imputati dalla condotta antigiuridica della occupazione della
Trazzera.
Il Dolci (vedi deposizione di quasi tutti i verbalizzanti), lo Speciale (vedi deposizione La Corte,
Petralito e Di Lecce) e lo Zanini (vedi deposizione teste Cosentino) non si limitarono a disubbidire
all’ordine di scioglimento, ma pubblicamente istigarono gli altri manifestanti a commettere tale
disobbedienza. I medesimi debbono essere pertanto dichiarati colpevoli del reato, di cui all’art. 414
1a p. n. 2 C.P., che data la esclusione della contravvenzione di cui all’art. 650 C.P., nel quale si è
sostanzialmente concretata l’inosservanza della intimazione di scioglimento.
Va rilevato al riguardo che per la sussistenza del reato di istigazione a delinquere non è necessario
che il reato che forma oggetto della istigazione sia effettivamente commesso, ma è sufficiente che
l’istigazione concerna un fatto astrattamente preveduto dalla legge come reato. Non è necessario
indagare pertanto nella fattispecie se i manifestanti a cui l’istigazione era stata rivolta, abbiano alla
loro volta disubbidito in conseguenza di tale istigazione o indipendentemente da essa.
Passando all’esame di resistenza va rilevato anzi tutto che il Dolci, lo Abbate e lo Speciale, come è
risultato dalle concordi deposizioni dei verbalizzanti Di Giorgi, La Corte, Petralito, Festa, Crivellaro
e Petrosillo, commisero i pretesi atti di violenza mentre venivano trasportati di peso per le braccia e
per le gambe verso la camionetta della Polizia.
Quasi tutti i testi su indicati in periodo istruttorio avevano genericamente affermato che il Dolci, lo
Abbate e lo Speciale, durante il trasporto cercavano di divincolarsi agitando le braccia e le gambe e
sferrando qualche pugno e qualche calcio. Al dibattimento però hanno escluso la circostanza dei
calci e dei pugni, insistendo tuttavia nel dire che il Dolci, lo Abbate e lo Speciale cercavano di
divincolarsi agitando il corpo e dimenando le braccia e le gambe. È risultato inoltre che il Dolci, lo
Abbate e lo Speciale all’invito dei funzionari della polizia di seguirli verso la camionetta si erano
rifiutati, sedendosi per terra e avevano per tale contegno costretto gli agenti a trasportarli di peso.
Sul conto dell’imputato Termini i testi Capritti e Cosentino hanno affermato che lo stesso – essendo
stato afferrato per un braccio – tentava di divincolarsi rifiutandosi di oltrepassare il torrente, e
giustificando tale rifiuto con l’addurre che non era in grado di farlo. In seguito a tale rifiuto il
Termini fu lasciato libero tanto che poté percorrere un tratto di strada in compagnia dell’on. Vittone,
che era venuta sul posto per assistere alla manifestazione.
La condotta estrinsecata dai predetti Dolci, Termini, Abbate e Speciale, quale si evince dalla
esposizione che precede, non integra a giudizio di questo Collegio il reato di resistenza.
È pacifico in dottrina ed in giurisprudenza che la violenza richiesta quale elemento del reato in
esame deve consistere nella estrinsecazione di atti positivi, e che la mera disubbidienza e la
cosiddetta resistenza passiva – la quale si riscontra tra l’altro nell’atto di chi si siede a terra per non
essere tradotto – non concretano l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 337 C.P. Anche il divincolarsi o
l’agitarsi integrano l’elemento materiale del reato di resistenza, sia pure nella fattispecie più lieve.
Ma la violenza deve essere anche volontaria perché si possa rispondere di «resistenza a pubblico
ufficiale». Atti di violenza colposi o addirittura involontari, non integrano tale reato il quale
richiede, come requisito essenziale, che la violenza sia diretta in modo specifico ad impedire che il
pubblico ufficiale esplichi un atto del suo ufficio o servizio.
In questa ultima categoria debbono essere inclusi i movimenti corporei rilevati dai verbalizzanti
nelle persone del Dolci, dell’Abbate, e dello Speciale. Bisogna considerare al riguardo che i detti
imputati venivano trasportati di peso da agenti della forza pubblica e sostenuti da costoro per i
quattro arti. Qualcuno come il Dolci per un tratto di strada era stato sostenuto con la faccia rivolta
all’ingiù e successivamente era stato ribaltato con la faccia all’insù. È naturale che i movimenti
incriminati siano stati compiuti dal Dolci, dallo Speciale, e dallo Abbate nel tentativo di trovare una
posizione meno scomoda di quella a cui erano costretti dall’insolito trasporto.
La fisiologia insegna che qualsiasi organismo vivente, dotato di sistema nervoso, quando venga
allontanato dalle posizioni abituali che occupano nello spazio, scatena involontariamente un
complesso di movimenti intesi a riportare il corpo nella posizione abituale. Tali movimenti si
estrinsecano spesso in maniera automatica e sono l’espressione di riflessi che la scienza medica
chiama «posturali». Riflessi di questo tipo hanno nel sistema nervoso il loro centro in sedi
subcorticali e quindi indipendenti da ogni attività psichica.
A maggior conferma di ciò va rilevato che ben diverso sarebbe stato il comportamento dei detti
imputati se avessero voluto realmente opporsi con resistenza attiva; essi non avrebbero certamente
permesso agli agenti di trasportarli come cose inanimate e si sarebbero sobbarcati all’incomodo
trasporto dopo una energica colluttazione.
Giova tener presente, al fine di escludere il dolo negli atti di violenza compiuti dal Dolci,
dall’Abbate e dallo Speciale, che il Dolci, nel comunicare il suo progetto della riparazione della
Trazzera ai propri autorevoli amici, e nel darne pubblica notizia attraverso il messaggio letto alla
Televisione di Torino il 13-1-1956 e attraverso l’appello dell’1-2-1956, integralmente riportato nella
presente sentenza, aveva espressamente dichiarato che i manifestanti non avrebbero usato alcuna
violenza, precisando che, in caso di ostacolo da parte della Forza Pubblica, si sarebbero limitati a
disubbidire sedendosi sul terreno. Mal si concilierebbe con la tesi opposta la circostanza del digiuno
che, secondo gli intendimenti del Dolci, resi noti nel modo anzidetto, avrebbe dovuto precedere,
come di fatto avvenne, la manifestazione dello sciopero alla rovescia e avrebbe dovuto trasfondere a
tale cerimonia un’impronta di religiosa spiritualità. Non possono nutrire sentimenti di violenza
persone che praticano il digiuno senza alcuna costrizione e nemmeno sotto la spinta di precetti di
una confessione religiosa militante.
«Siamo uomini di pace», dice fra l’altro il Dolci nel menzionato appello del 1° febbraio 1956.
«Basta con i mitra», dice altrove.
Non c’è parola del Dolci che possa ingenerare il benché minimo dubbio di una sua condotta
violenta. Tutto ciò che egli ha scritto non è che un anelito alla pace, alla fratellanza, alla giustizia in
un mondo migliore.
La posizione del Termini in ordine alla imputazione di resistenza è diversa da quella del Dolci, dello
Abbate e dello Speciale, ma le conseguenze giuridiche si equivalgono. Non può dirsi infatti che il
rifiuto e l’azione del divincolarsi non costituisca materialmente un atto di violenza, quando perché il
Termini non poteva essere costretto ad oltrepassare un torrente nelle condizioni disagevoli che esso
offre dopo una notte di pioggia continua. Ciò senza considerare che il Termini poteva benissimo
essere accompagnato a Partinico senza bisogno di oltrepassare il torrente, come in effetti avvenne.
È bene però dare atto che tale rifiuto fu giustificato dallo stesso Commissario Di Giorgi, capo delle
Forze di Polizia che esplicavano il servizio dal 2 febbraio, tanto che lo stesso invitò gli agenti a
lasciare libero il Termini, confidando nella promessa fatta da costui che non sarebbe scappato.
Molto confusa è la posizione processuale dello imputato Zanini in ordine del reato in esame.
Secondo il teste Cosentino lo Zanini in un primo tempo si sarebbe rifiutato di seguire gli agenti
standosene seduto e dopo sarebbe stato trasportato di peso dagli agenti stessi. Durante il trasporto
avrebbe tentato di divincolarsi.
Secondo i testi Simula e De Cristofaro lo Zanini avrebbe dato spintoni e gomitate non appena gli
furono tolte le catenelle, provocando in tal modo la caduta del Simula il quale avrebbe in
conseguenza riportata una escoriazione al dito medio della mano destra.
È bene segnalare che i testi Simula e De Cristofaro furono indicati tardivamente dal Commissario di
P.S. La Corte, che trasmise al Consigliere Istruttore le relative dichiarazioni extragiudiziali con
rapporto del 16-2-1956. Tale circostanza e la stranezza del comportamento che, secondo il Simula e
il De Cristofaro, avrebbe tenuto lo Zanini, il quale avrebbe usata violenza contro gli agenti dopo che
gli erano state tolte le catenelle, quando cioè nessun motivo aveva di usarne e avrebbe avuto anzi
motivo di essere grato a quelli che lo avevano liberato, fanno seriamente dubitare della attendibilità
delle deposizioni del Simula e del De Cristofaro. Tale stato di dubbio è poi aggravato dalla
deposizione del teste Narzisi che fu presente all’atto del fermo dello Zanini e ha escluso qualsiasi
atto di violenza da parte di costui. Il Narzisi anzi avrebbe ritratto con la sua macchina da ripresa
cinematografica l’episodio anzidetto. Il dubbio si accresce ancora più perché non è stata prodotta la
pellicola tolta alla macchina da presa del Narzisi, sequestrata dalla Polizia, e perché nemmeno è
stata fatta menzione di tale sequestro.
Se si potesse avere il convincimento dalla deposizione del teste Cosentino si dovrebbe concludere,
come per il Dolci, lo Speciale e l’Abbate, con la pronunzia di assoluzione sotto il profilo che il fatto
non costituisce reato. Ma una affermazione in tal senso presuppone che le prove contrastanti siano
assolutamente inattendibili.
Non potendosi fare una assoluta affermazione al riguardo rimane, nei confronti dello Zanini, un
grave stato di dubbio, per cui il Collegio ritiene conforme a giustizia assolverlo dall’imputazione in
esame per insufficienza di prove.
Resta ora da esaminare l’imputazione di oltraggio.
È controverso se la frase pronunziata dal Dolci sia quella risultante dagli atti e dalle deposizioni dei
verbalizzanti: «Chi è contro di noi lavoratori è un assassino» ovvero quella ammessa dal Dolci:
«Non garantire il lavoro secondo lo spirito della Costituzione è un assassinio». È certo però, come
risulta in modo inequivoco dalle concordi deposizioni di quasi tutti i verbalizzanti, che la frase
pronunziata dal Dolci fu poscia ripetuta dal Termini, dallo Abbate, dallo Speciale, dallo Zanini, dal
Macaluso e dal Ferrante.
È probabile che i verbalizzanti non abbiano percepito nella sua precisa struttura la frase in questione
e l’abbiano involontariamente riferita con qualche alterazione. Ciò può facilmente spiegarsi
considerando che in quella circostanza vi era confusione, dovuta allo stesso numero imponente dei
dimostranti, e considerando anche che l’attenzione dei verbalizzanti doveva essere fortemente
impegnata nell’adempimento del delicato servizio.
Questo Tribunale ritiene più attendibile che la frase in questione sia stata pronunziata secondo la
struttura verbale assunta dal Dolci.
Osserva al riguardo che il Dolci, prima di pronunziare la frase in questione aveva fatto presente ai
funzionari di polizia che la manifestazione era lecita, perché i manifestanti non facevano altro che
compiere un lavoro e perché il lavoro è un diritto espressamente sancito dall’art. 4 della
Costituzione.
Immediatamente dopo il Dolci pronunziò la frase incriminata.
Tale immediatezza di legame tra la giustificazione che il Dolci aveva dato alla condotta sua e degli
altri manifestanti, con l’espresso riferimento alla Costituzione, e la frase incriminata, dimostra che il
Dolci intendeva protestare perché fino a quel momento la norma anzidetta non aveva avuto concreta
applicazione.
È assurdo che la protesta potesse essere indirizzata contro i Funzionari della Polizia, ai quali non
poteva addebitarsi nessuna colpa per la lamentata deficienza, e che tanto garbo avevano usato verso
i dimostranti, come lo stesso Dolci ha ripetutamente ammesso.
Giova anche considerare che la parola «assassinio» ricorreva frequentemente nel linguaggio del
Dolci, il quale se ne serviva per esprimere in modo figurato e con drammatica crudezza, l’incuria
delle autorità responsabili la quale, secondo il suo convincimento, avrebbe dato causa alla
disoccupazione.
Nel messaggio pronunziato dal Dolci alla Televisione di Torino, tra l’altro si legge:
Le persone che in questi giorni si commuovono leggendo le pagine di Levi che illuminano Turiddu
Carnevali, meditino che di Turiddi Carnevali, politici o no, a migliaia, a diecine di migliaia,
lentamente se ne assassinano ogni giorno.
La parola assassinio o frasi di analogo significato si incontrano sovente nel libro del Dolci, Banditi
a Partinico, nel quale i miseri, banditi da ogni benessere materiale e morale, sono dal Dolci
considerati come «condannati a morte».
Per queste considerazioni il Collegio può tranquillamente affermare che la frase pronunziata dagli
imputati è quella assunta dal Dolci e che tale frase, non essendo diretta ai verbalizzanti e
contenendo una mera protesta contro una situazione, non dipendente dalla condotta di costoro, non
costituisce reato di oltraggio.
La pena in ordine al reato di invasione di terreni (art. 633 cpv. C.P.) e alla contravvenzione di cui
all’art. 650 C.P. per i quali deve essere affermata la responsabilità di tutti gli imputati, può essere
congruamente stabilita nelle seguenti misure:
Per il reato di invasione di terreni: mesi due e gg. 15 di reclusione e L. 12.000 di multa. Detta pena
può essere ridotta di un terzo e portata a mesi uno e giorni 20 di reclusione e L. 8.000 di multa in
applicazione alla circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e socia le che il
Collegio ritiene di concedere a tutti gli imputati, in riguardo alle alte finalità che essi intendevano
perseguire e che sono state già ampiamente considerate.
Per il reato di cui all’art. 650 C.P.: L. 6.000 di ammenda.
Deve essere inoltre affermata la responsabilità del Dolci, Speciale e Zanini in ordine al reato di
istigazione a delinquere per il quale può essere congruamente inflitta la pena di L. 6.000 di multa.
Nei confronti dello Zanini la pena deve essere aumentata della metà per la contestata recidiva.
Conseguentemente la pena complessiva a lui inflitta viene elevata a mesi due e gg. 15 di reclusione
L. 21.000, di multa e L. 9.000 di ammenda.
Nei confronti di tutti gli imputati, ad eccezione dello Zanini, dello Abbate, di Autovino Leonardo,
del Guzzardi, dello Arminio, e dello Stabile, i cui precedenti penali non lo consentono, l’esecuzione
della pena pecuniaria può essere sospesa ai sensi dell’art. 163 C.P.
In conseguenza della condanna penale tutti i condannati sono tenuti in solido al pagamento delle
spese processuali. Il Dolci, lo Speciale, il Termini, lo Zanini, lo Abbate, il Macaluso ed il Ferrante
sono tenuti inoltre al pagamento delle spese per il rispettivo mantenimento in carcere durante la
custodia preventiva.
Deve essere disposta l’immediata escarcerazione del Dolci, dello Speciale, del Termini e dello
Abbate avendo costoro scontato con la carcerazione preventiva la pena detentiva alla quale vengono
condannati con la presente sentenza.

P.Q.M.

il Tribunale, visti gli artt. 633 cpv., 414 pp. n. 2, 650, 6 n. 1, 99 Cod. Pen. 483, 488, e 477 Cod.
proc. Pen.,

DICHIARA

Dolci Danilo, Speciale Ignazio, Termini Salvatore, Zanini Carlo, Abbate Francesco, Macaluso
Domenico, Ferrante Gaetano, Fofi Goffredo, Mazzurco Gioacchino, Ania Giuseppe, Drago
Gaspare, Autovino Leonardo, Autovino Lorenzo, Troia Giuseppe, Guzzardi Leonardo, Barretta
Liborio, Gallo Gaetano, Arminio Leonardo, Avvenire Giovanni, Stabile Bartolomeo, Loria Carlo,
Puleo Francesco d’Ignoto, colpevoli del reato di invasione di terreni aggravato ad essi ascritto,
nonché della contravvenzione di cui all’art. 24 T.U. Legge di P.S., il Dolci, lo Speciale e lo Zanini,
inoltre, del reato di cui all’art. 414 pp. C.P., e, concedendo a tutti i predetti l’attenuante dei motivi di
particolare valore morale e sociale, limitatamente alla invasione di terreni,

CONDANNA

il Dolci e lo Speciale alla pena complessiva di mesi uno e giorni 20 di reclusione, L. 14.000 di
multa e L. 6.000 di ammenda ciascuno; lo Zanini a mesi due e giorni 15 di reclusione, L. 21.000 di
multa e L. 9.000 di ammenda; tutti gli altri a mesi uno e giorni 20 di reclusione, L. 8.000 di multa e
L. 6.000 di ammenda; tutti, in solido, alle spese processuali, e il Dolci, lo Speciale, il Termini, lo
Zanini, lo Abbate, il Macaluso, e il Ferrante inoltre, ciascuno alle spese della rispettiva custodia
preventiva.
Visti gli artt. 163 C.P. e 487 C.P.P.
ORDINA

che l’esecuzione della pena pecuniaria sia sospesa nei confronti di tutti gli imputati, ad eccezione
dello Zanini, dello Abbate, di Autovino Leonardo, del Guzzardi, dello Arminio e dello Stabile.
Visto l’art. 479 C.P.P.
ASSOLVE

inoltre, il Dolci, lo Speciale, il Termini, lo Abbate e lo Zanini dalla imputazione di resistenza, i


primi quattro perché il fatto non costituisce reato e lo Zanini per insufficienza di prove.
ASSOLVE

anche i detti Dolci, Speciale, Termini, Zanini, Abbate, Macaluso, Ferrante, nonché il Fofi Goffredo
e il Geraci Nicolò dalla contravvenzione di cui all’art. 18 T.U. Legge di P.S. perché il fatto non
costituisce reato.

ASSOLVE

infine, Termini Salvatore, Abbate Francesco, Macaluso Domenico e Ferrante Gaetano, dalla
imputazione di cui all’art. 414 pp. n. 2 C.P. per insufficienza di prove.
ORDINA

l’immediata scarcerazione del Dolci, dello Speciale, del Termini e dello Abbate, se non detenuti per
altra causa.
Palermo, 30 marzo 1956
Contro questa sentenza si sono appellati tanto gli imputati che il Pubblico Ministero e il Procuratore
generale.

Alla stampa. Palermo, 30 marzo 1956


Ringrazio uno per uno tutti coloro che hanno sofferto per il rinnovamento delle nostra zona, per il
ristabilimento della verità e della dignità, tutti coloro che hanno faticato per liberare dalla galera i
miei amici, della Camera del Lavoro o no, e me. Sinceramente ringrazierei anche, se non sentissimo
l’anima a lutto per i mali ed i morti degli ultimi tempi, chi in galera ci ha chiuso, chi ci ha voluto
condannare: questi, in poche settimane, credo, inconsciamente sono riusciti a rendere cosciente
l’opinione pubblica più di quanto si sarebbe potuto con normali fatiche di anni.
Se nella zona di Partinico (ma non posso crederlo) torneranno a pescare fuori legge i
motopescherecci; se i figli, le famiglie dei carcerati e degli invalidi, continueranno a non essere
assistiti; se i ragazzi non potranno andare tutti a scuola; se alla gente disperata per miseria materiale
e morale ancora scapperanno le usate «ammazzatine»; se il fiume Jato continuerà a sciupare le sue
acque a mare, non si potrà più dire che di questi mali e delle loro cause «non si sapeva», che
nessuno aveva avvisato.
Confesso che son quasi sgomento a dire, ad altri che a me stesso, le poche cose che sto per dire: se
sbaglio mi si corregga.
La meraviglia, o l’incredulità o l’episodico sdegno di tanti di noi italiani per le violenze di
Mussomeli, Sciara, Venosa, Partinico, Comiso, Barletta, ecc., ancora denunciano la nostra staccata
ignoranza per quanto ormai dovrebbe essere a tutti ovvio: queste non sono che locali manifestazioni
di un corpo insano.
Anche per quanto riguarda la zona di Partinico i mali avevano vecchia e appariscentissima radice:
negli anni 1924-25, circa duecento persone vi erano state assassinate; centinaia e centinaia di
disperati «volontari» erano poi da lì partiti a sparare per pochi soldi contro spagnoli ed africani;
dopo l’ultima guerra, la locale ribellione dei miseri, sfruttata poi sanguinosamente dai potenti contro
i miseri stessi, ha avuto eco mondiale; come qualcuno di noi era stato diffidato dal commissariato di
polizia e dalla tenenza dei carabinieri a organizzare pubblici digiuni e necessari lavori, così prima
era stato diffidato dalla mafia pena la morte, per esempio, ad entrare nella Camera del Lavoro. E
così via, qui come altrove.
Vi ricordate quando, perché una parte di noi non fosse scannata o gassificata; perché si potesse
leggere, pensare, ascoltare e parlare liberamente; perché si potesse vivere tutti da uomini nuovi,
siamo stati capaci di fame, galera e rischi di ogni genere? Ci siamo forse assopiti, anche se ci
sembra di dare tutti noi stessi nel modo migliore, che oggi (non possiamo non vederlo) si trovano
ancora tra noi dei condannati a morte, a centinaia di migliaia, a milioni forse?
È necessaria ancora la spinta eroica della Resistenza, delle più alte Resistenze al male prepotente,
illimpidendola ed approfondendola nei metodi e nei fini. Un nuovo grande sforzo etico politico
occorre: se qualcosa è cambiato negli ultimi anni, è troppo poco e si dà tempo e modo a pericolosi
mali di radicarsi irrobustendosi, come appare sempre più chiaramente a chi vuol vedere.
Non si garantisce il lavoro a tutti; manca una vera libertà di pensiero, di espressione, di azione; non
si assicura la vita agli invalidi e ai figli dei carcerati, l’istruzione a tutti; si discute di riforme, di
rivoluzione o di Dio mentre la cameriera serve a tavola per andarsene poi sola a masticare in cucina;
gli stipendiati del nostro Stato sono costretti a dare ai propri figli un pane che ha per prezzo anche la
percentuale delle «marchette»; trattiamo i carcerati con pene inzuppate di vendetta (sempre
ricorderò quei condannati, da dieci anni e per altri dieci o venti, sconvolti, cupidamente intenti, tra
le sbarre, alla copula di due gatti in giardino, mentre la radio del carcere trasmetteva frenetica un
incontro di pugilato; sull’alto muraglione stava ipocritamente scolpito: Omnia vincit amor).
Meglio in galera con le vittime che «liberi» se privilegiati. Se attenti non preveniamo, tra poco
rivedremo il confino politico, l’esilio e, ancora un po’ più in là, si riaccenderebbero i roghi per
coloro che vogliono profondamente la verità, per gli «eretici», assistenti i prefetti con la candela in
mano.
Basta con le ipocrisie sistematiche; rifiutiamoci di obbedire quando ci comandano dei delitti: oggi la
nostra Costituzione è l’unica legge della quale non ci dobbiamo vergognare. Chi è stato
ammanettato, incatenato perché aveva cercato di difenderla, si è sentito, anche se pesante di colpe,
come incordato con Cristo in una diversa Pasqua, con Gandhi, con i puri morti della Resistenza di
sempre.
All’Ucciardone un giorno, durante «l’aria» nei cubicoli, alla testa di un poveraccio (non so qual
malanno avesse combinato), tenuta improvvisamente ferma al muro da un detenuto, un altro calò
spietati colpi con un legno a spigoli vivi. Nessuno dei vicini è intervenuto in difesa: poi, nessuno
sapeva nulla, nemmeno il colpito. Il «saggio» consiglio di tutti, comprese le guardie, – mentre negli
animi covava tacita l’aspettativa dell’inesorabile vendetta, – era di non immischiarsi in queste
faccende, nelle faccende degli altri.
Possiamo noi assistere così, zitti in disparte con le mani in mano, al sistematico assassinio, in
qualsiasi modo avvenga, di centinaia di migliaia, di milioni di bambini, vecchi, malati, madri, padri,
al nostro suicidio; possiamo noi assistervi passivi, solo perché queste male violenze vengono
perpetrate soprattutto dai più «forti», solo perché da quella parte ci sono i mitra, ci sono i soldi?
Non deve essere ciascuno di noi, anche se non ha con sé né una banca né un esercito né un
temperino, anche se senza divisa (tanto più e più se in divisa, e vive di quella), disciplinato tutore
delle più alte leggi?
Si moltiplichino e approfondiscano gli studi organici di valorizzazione, degli uomini e della terra,
dal basso, esattamente in modo che la realizzazione dell’intelligente e pieno impiego avvenga per
sana economia.
Non lasciar respirare, esprimersi, lavorare, ordinatamente vivere gli altri, secondo l’alta dignità
dovuta a ciascun uomo, è malattia. E ai minorati, ai pazzi (pur amandoli; pur consapevoli della
miopia di ciascuno di noi; pur sapendo che ogni macchina, ogni struttura, ogni rapporto hanno il
loro attrito) non va lasciata in mano la vita degli altri, di tutti: oggi non possiamo più
sistematicamente tradire, fuori da ogni fanatico dogmatismo, i contributi essenziali del
cristianesimo, del liberalismo, del gandhismo, del socialismo, affatto antitetici nel loro nucleo
vitale.
Non vorremo per anima alcun odio, ma risoluto e intelligente amore, e profondamente coordinato,
per tutti.
Più scendiamo a vivere sotto, individui e organizzazioni, tra le vittime più mortificate, più
paralizzate: e più e meglio la gente prosegue libera, coi suoi piedi; le sane riforme di strutture
avvengono quando il popolo si muove con limpida forza a conquistarle. La nuova coscienza darà la
forza di risolvere i problemi. Non basta l’idea del lievito a far lievitare il pane: occorre proprio il
lievito, e nella pasta.
E i domani amati verranno, anche se oggi quasi non par vero.
DANILO DOLCI

1 9 aprile ’56. Stasera un altro giovane è stato assassinato in Partinico, con una pugnalata al cuore:
diciassette. Dallo spavento una vecchia presente è morta, lì sul colpo.
23 aprile ’56. Un’altra donna assassinata in via della Madonna: diciannove.
5 maggio ’56. Un altro assassinato, il quarto in quattro settimane: venti.
29 maggio ’56. Il cadavere di un giovane è stato trovato, ormai in putrefazione, nella cisterna della
sua casa.
7 giugno ’56. Un colpo di pistola in testa ad uno: ma questo pare che scampi.
2 30 maggio ’56. La pesca fuorilegge da 20 giorni è ricominciata come prima.

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