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M. Steinberg, M. Schnall
La dissociazione
I cinque sintomi fondamentali
Giovanni Liotti, Benedetto Farina
SVILUPPI TRAUMATICI
Eziopatogenesi, clinica e terapia della
dimensione dissociativa
www.raffaelIocortina.it
ISBN 978-88-6030-397-4
© 2011 Raffaello Cortina Editore
Milano, via Rossini 4
Stampato da
Consorzio Artigiano LVG, Azzate (Varese)
per conto di Raffaello Cortina Editore
INDICE
Introduzione
Capitolo 1
Disturbi conseguenti allo sviluppo traumatico: il problema nosografico
Il disturbo post-traumatico da stress
Il quadro clinico del DPTSc: una base per lo studio dello sviluppo
traumatico
Capitolo 2
Trauma e dissociazione: i concetti di base e la loro storia
Capitolo 3
La riflessione contemporanea sulla dissociazione
Distacco e compartimentazione
La dissociazione somatoforme
Capitolo 4
Le dinamiche motivazionali nelle esperienze traumatiche e la
disorganizzazione dell’attaccamento
La disorganizzazione dell’attaccamento
Capitolo 5
Sequele dell’attaccamento disorganizzato e sviluppo traumatico: un
nuovo modello teorico della dissociazione
Capitolo 6
Sviluppo traumatico e dissociazione nei quadri clinici di disturbi diversi
Capitolo 7
Relazione terapeutica e piano generale di trattamento
Relazione terapeutica
Esperienza relazionale correttiva e controllo degli enactment
Capitolo 8
Stabilizzazione dei sintomi e fasi successive della terapia
Capitolo 9
Tecniche e procedure specifiche nel trattamento dei disturbi dello
spettro traumatico-dissociativo
EMDR
Psicoterapia sensomotoria
Resilience e creatività
Bibliografia
Indice analitico
INTRODUZIONE
Abbiamo cercato di fare del vizio una virtù: consapevoli del ruolo
centrale svolto nelle nostre argomentazioni dalla tesi che gli sviluppi
traumatici causano alterazioni della coscienza, e consapevoli anche della
ricorsività dei temi trattati, abbiamo deliberatamente lavorato affinché le
ultime pagine del libro, che trattano della terapia dei disturbi correlati a
traumi fossero già implicite nelle prime, che trattano di nosografia e di
disgregazione della coscienza. Inoltre, non abbiamo avuto la pretesa di
scoprire alcunché di nuovo. Infine, il nostro scopo non è tanto argomentare
su quale percentuale della psicopatologia sia di natura dissociativa, quanto
fornire un compendio delle conoscenze cliniche sui disturbi correlati a
sviluppi traumatici, e inquadrarle in una cornice teorica sostenuta dai dati di
ricerca sulla disorganizzazione dell’attaccamento. Già alla fine
dell’Ottocento Hughlings Jackson affermava che, di fronte a una
moltitudine di dati che per di più vanno accumulandosi, il bisogno di teorie
e ipotesi di lavoro non si riduce, ma si fa più intenso.3 Abbiamo dunque
formulato una teoria eziopatogenetica capace di fornire coerenza ai
numerosi e talora apparentemente contraddittori dati clinici e di ricerca che
connettono esperienze traumatiche e sintomi dissociativi all’interno di un
gran numero di disturbi elencati dal DSM-IV. Siamo consapevoli che la
teoria proposta non è l’unica possibile, e amiamo ricordare a questo
riguardo la lezione di Karl Popper:
KARL KRAUS1
del DPTSc venga risolto, i clinici che lavorano con bambini il cui
sviluppo avviene in ambienti traumatici sentono in modo particolare
l’urgenza di disporre di strumenti diagnostici adeguati. Nella psicopatologia
dell’infanzia e dell’adolescenza, infatti, l’inadeguatezza dei criteri del
DPTS per diagnosticare gli effetti di traumi interpersonali complessi è
ancora più evidente che nella psicopatologia dell’età adulta (Speranza,
Nicolais, 2009). Inoltre, manca al neuropsichiatra infantile e allo psicologo
clinico dell’età evolutiva la possibilità di ricorrere a diagnosi di disturbo di
personalità, con le quali almeno in parte si può identificare il quadro clinico
del DPTSc. Infine, colmare la mancanza di un quadro diagnostico dell’età
evolutiva espressamente legato allo sviluppo traumatico è reso ancora più
urgente dalla possibilità a questa età di prevenire la stabilizzazione della
sintomatologia. Per questi motivi, gli psichiatri e psicologi clinici del Child
Traumatic Stress Network (CTSN) statunitense (una rete di professionisti e
centri di assistenza al trauma infantile) hanno ripreso, con alcune modifiche,
i criteri diagnostici del DPTSc declinato nella clinica dell’età evolutiva,
attribuendogli il nome di Disturbo Traumatico dello Sviluppo (DTS; van
der Kolk, 2005). Il quadro clinico del DTS è riassunto nella tabella 1.1.
All’inizio del 2009 un comitato del CTSN ha formulato la proposta di
inserire il DTS nella quinta versione del DSM. E' da augurarsi che la
commissione per il DSM-V riconosca la diagnosi di DTS e che la estenda
agli adulti, recuperando l’idea del DPTSc.
Somatizzazioni
Disturbi relazionali
PHILIP M. BROMBERG1
Alla fine del XIX secolo vi sono stati tre grandi medici
psicopatologi. Soltanto uno dei tre (S. Freud) ha raccolto nel e col
movimento del bilanciere epistemico il trionfo e la gloria della sua
opera. Gli altri due (H. Jackson e P. Janet) sono rimasti nella
penombra. Sarebbe tempo che una più esatta visione delle cose li
ricollocasse al loro rispettivo posto; voglio dire, mantenendo a
ciascuno ogni dovuto riguardo, sul loro piedistallo. (Ey, 1975, p. 227)
Pierre Janet
Ernest R. Hilgard
I fatti gravi stanno fuori dal tempo, sia perché in essi il passato
immediato rimane come scisso dal futuro, sia perché le parti che li
formarono non paiono consecutive.
DISTACCO E COMPARTIMENTAZIONE
Derealizzazione
I SINTOMI DI COMPARTIMENTAZIONE
E' appena necessario notare che lacune della memoria come quella
narrata da E'va non rientrano fra le ordinarie dimenticanze, e che doverne
ammettere resistenza nella propria vita quotidiana mina profondamente il
senso di padronanza sul proprio comportamento e sulla propria memoria
tanto necessario per preservare un minimo senso di autoefficacia.
Un tipo di compartimentazione più grave dell’amnesia dissociativa è la
fuga dissociativa, caratterizzata dall’allontanamento improvviso e
inaspettato da casa o dall’abituale posto di lavoro, accompagnato
dall’incapacità di ricordare il proprio passato e da confusione circa la
propria identità personale (APA, 2000). Casi di fuga sono descritti e
pubblicizzati dai mezzi di informazione sia per rintracciare l’identità dei
pazienti ma anche, talvolta, per la spettacolarità di questi disturbi. Ne
riportiamo uno dalla cronaca recente:
LA DISSOCIAZIONE SOMATOFORME
Alcuni studiosi (Decety, Lamm, 2007; Haven, 2009; Voon et al., 2010)
sostengono che, al contrario di altri fenomeni dissociativi determinati da un
difetto di integrazione top-down (ovvero di regolazione superiore sui
sistemi inferiori), i sintomi dissociativi somatoformi riconoscono un
comune deficit integrativo di tipo bottom-up, causato dalla mancata
integrazione dei dati provenienti dai centri nervosi inferiori, sedi delle
afferenze e delle memorie somatoviscerali (bottom), con le capacità
rappresentazionali e riflessive della coscienza (up). La dissociazione
somatoforme comporta alterazioni della normale integrazione tra coscienza,
memoria esplicita, volizione e gli schemi somatoviscerali e percettivo-
motori che costituiscono la base per la percezione corporea di sé (schema
corporeo), della propria rappresentazione sociale (immagine corporea), e
per la comprensione dello stato emotivo. I sintomi che ne derivano variano
da quelli di conversione, in cui sono alterati le funzioni, il controllo e la
consapevolezza di alcune parti del corpo, a sindromi dolorose psicogene, a
somatizzazioni.
Sintomi da conversione
Somatizzazioni
Attenzione e memoria
1. J.L. Borges (1949), L’Aleph, tr. it. Feltrinelli, Milano 1952, p. 61.
2. Il termine detachment in inglese ha un alone semantico leggermente
diverso da quello dell’equivalente italiano “distacco”, e per questo sarebbe
forse preferibile conservarlo senza traduzione o renderlo con “alienazione”.
3. L. Pirandello (1926), Uno, nessuno e centomila, Rizzoli, Milano
2007, pp. 49-50.
4.I. McEwan (1997), L'amore fatale, tr. it. Einaudi, Torino 1997, pp. 24-
25.
5. Vedi www.tgcom.mediaset.it/cronaca/articoli/articolo465084.
6. Nella memoria episodica, le informazioni sono collocate nel tempo e
nello spazio, come accade nel resoconto di eventi che hanno un inizio e una
fine precisi. La memoria semantica, invece, è rappresentata da significati
generali, applicabili indipendentemente dal ricordo di episodi specifici. Con
l’espressione memoria autobiografica si intende la memoria, sia specifica ed
episodica sia generale e semantica, che si riferisce alla storia personale
dell’individuo (Tulving, 1985).
7. L. Sciascia (1988), Il Cavaliere e la Morte, in Opere, Bompiani,
Milano 2002, vol. 2, p. 435.
8. G. Berto (1964), Il male oscuro, Rizzoli, Milano 20046, p. 161.
9.I. Bergman (1987), Lanterna magica, tr. it. Garzanti, Milano 1987.
4
MARCO AURELIO1
LA DISORGANIZZAZIONE DELL’ATTACCAMENTO
SEQUELE DELL’ATTACCAMENTO
DISORGANIZZATO E SVILUPPO TRAUMATICO:
UN NUOVO MODELLO TEORICO DELLA
DISSOCIAZIONE
VOLTAIRE1
Nella strategia controllante punitiva, già nel corso del terzo anno di vita,
bambini il cui attaccamento precoce era stato disorganizzato nel corso del
primo e del secondo anno cercano di organizzare i comportamenti di
relazione col caregiver mediante atteggiamenti ostili, coercitivamente
dominanti o sottilmente umilianti. Il bambino può sviluppare strategie
controllanti punitive per effetto di influenze relazionali diverse, ma tutte
riferibili all’attivazione del sistema competitivo di rango in contesti ove
sarebbe più opportuna la regolazione della condotta da parte del sistema di
attaccamento nel bambino, e del sistema di accudimento nel caregiver. In
alcuni casi strategie controllanti punitive sono innescate nel bambino da
condotte apertamente critiche e dominanti del genitore (subroutine di sfida e
di dominanza del sistema di rango) a cui il figlio risponde con simmetrica
opposizione, mentre altre volte è l’atteggiamento sottomesso o di sconfitta
del caregiver (subroutine di resa e di subordinazione del sistema di rango) a
stimolare l’atteggiamento dominante del bambino. Sulle ricerche che
permettono queste riflessioni, evidenziando per esempio come non sia raro
che genitori feriti da memorie traumatiche assumano inconsapevolmente
atteggiamenti deferenti e sottomessi già verso figli neonati, si veda la sintesi
offerta da Hesse e collaboratori (2003).
Quando nelle situazioni quotidiane (per esempio, di brevi separazioni
all’interno dell’ambiente domestico, che di regola attiverebbero con
modesta intensità il sistema di attaccamento) si innesca nel bambino il
registro motivazionale di rango (che si esprime con una condotta aggressiva
mirante alla dominanza), il sistema di attaccamento viene automaticamente
inibito. Il MOI dell’attaccamento disorganizzato viene così escluso
dall’accesso al livello superiore dell’organizzazione mentale e non
interferisce, disgregandole, con le funzioni della coscienza.
Simultaneamente, anche nel caregiver interagente viene facilitato lo
slittamento dell’attività mentale, dallo stato spaventato e spaventante -
legato a memorie traumatiche e coordinato ai sistemi di attaccamento e
difesa che inibiscono il sistema di accudimento - a un altro stato anch’esso
espressivo del “risveglio” del sistema di rango: uno stato mentale
improntato dalla contesa per la dominanza oppure dalla sottomissione.
L’abituale espressione pronta e intensa di aggressività dominante nel
bambino che sviluppa una strategia controllante punitiva potrebbe aprire il
varco ai cosiddetti disturbi esternalizzanti dell'infanzia, in cui emozioni
veementi vengono prontamente espresse, e talora al disturbo oppositivo
dello sviluppo (Moss et al., 2004).
Diana, un medico nei suoi trentanni di età, molto dedita alla cura
dei suoi pazienti, aveva sempre conservato memoria dell’incesto subito
per anni, quando era preadolescente. Diana non sembrava aver mai
sofferto da bambina di un DPTS, né in seguito aveva mai avuto
sintomi dissociativi. Episodicamente, aveva sofferto di depressione
dell’umore, che aveva diagnosticato da sola e curato attraverso Γ
autosomministrazione di farmaci antidepressivi. Solo un clinico capace
di riconoscere il DPTSc (o il DTS) avrebbe forse potuto diagnosticare
che questi episodi di depressione facevano parte di un quadro clinico
più complesso, determinato da uno sviluppo traumatico. Infatti, nessun
sintomo dissociativo evidente era presente negli episodi depressivi di
cui Diana aveva sofferto prima dei suoi 33 anni: accompagnavano tali
episodi solo disturbi di relazione (tendenza all'isolamento sociale
alternata a periodi di forte dipendenza dalle poche relazioni
sentimentali), una marcata tendenza a emozioni di vergogna e di colpa
abnorme, una pronunciata diffidenza verso gli altri e un’ancor
maggiore sfiducia in se stessa (si ricordi qui il quadro clinico del
DPTSc). Sintomi dissociativi evidenti comparvero solo intorno ai
trent’anni, quando la sorella minore di Diana, che lei era stata convinta
di avere preservato dalle morbose attenzioni sessuali del padre, le
rivelò di essere stata più volte forzata all’incesto quando era ancora
bambina. La minore ignorava che un’identica tragica esperienza aveva
gravato anche l’infanzia della sorella maggiore. Diana iniziò solo da
allora a soffrire di sintomi post-traumatici dissociativi. Prima di
addormentarsi, aveva vivide e quasi allucinatorie immagini
angosciose, in cui una figura maschile “nera e imponente, come una
gigantesca ombra” si avvicinava di notte al suo letto: un sintomo che
potrebbe permettere la diagnosi di DPTS a esordio ritardato. Questa
esperienza infatti sconcertava Diana che sapeva bene, da medico, come
tali immagini siano tipiche nelle bambine vittime di traumi sessuali
incestuosi, ma lei da bambina era certa di non averle mai avute.
Perché, si chiedeva, comparivano solo adesso, a distanza di oltre
ventanni da quegli eventi? Durante il giorno Diana soffriva d’ansia,
depersonalizzazione, senso di intorpidimento mentale (numbing), e
tendenza a evitare la sessualità - che prima aveva vissuto senza
eccessive difficoltà e che solo ora diventava un intollerabile stimolo
alla rievocazione del trauma infantile. La ricostruzione della storia
della paziente nel corso della psicoterapia rivelò che fin da bambina
Diana si era dedicata prima alla cura della madre sofferente di un
disturbo bipolare, e poi della sorella minore. Essendo il disturbo
bipolare un dimostrato fattore di rischio per la DA dei bambini accuditi
da un caregiver che ne soffra (Radke-Yarrow et al., 1985; Teti et al.,
1995), è probabile che Diana abbia avuto un attaccamento precoce
disorganizzato, e successivamente abbia sviluppato una strategia
controllante-accudente capace di inibire il MOI disorganizzato. La
stessa vocazione professionale di Diana, e il modo molto accudente
con cui seguiva i suoi pazienti, erano probabilmente influenzati dal suo
percepirsi chiamata a fornire cura e conforto agli altri. La sorella
minore, che lei era stata per anni sicura di aver preservato dall’incesto,
era stata ed era tuttora certamente oggetto privilegiato delle attenzioni
accudenti di Diana. L’aver scoperto che la sua capacità di proteggere la
sorella era stata un’illusione aveva provocato il collasso della strategia
controllante-accudente, e il riemergere del MOI disorganizzato con la
sua coorte di processi dissociativi.
Si noterà come il modello qui esposto (vedi anche figura 5.1) offra
un’interpretazione della patologia dissociativa come fallimento grave
dell’intersoggettività conseguente al collasso delle strategie controllanti, e
di conseguenza suggerisca il recupero dell’intersoggettività come
fondamento e fine della cura (tema che sarà discusso nel capitolo 7). Alcune
riflessioni sul ruolo della vergogna nella genesi dei sintomi dissociativi
possono illustrare le peculiarità del nostro modello rispetto ad altre teorie
della dissociazione che pure ne sottolineano gli aspetti relazionali.
Molti clinici esperti di trattamento dei disturbi post-traumatici
sottolineano il ruolo dell’emozione di vergogna in questa dimensione della
psicopatologia (Irwin, 1998; Lee et al., 2001), e quest’impressione clinica è
sostenuta da dati di ricerca che dimostrano la forte correlazione fra
propensione alla vergogna e risposte dissociative ai traumi (Andrews et al.,
2000; Talbot et al., 2004). Il dato clinico e di ricerca è interpretato spesso
come se l’effetto dissociativo fosse intrinseco all’esperienza estrema di
vergogna fatta dalla vittima all’interno dell’interazione traumatica con
l’abusante. Il modello teorico che qui esponiamo sostiene
un’interpretazione diversa: non solo la vergogna non è in sé dissociante, ma
essa è l’ultimo argine che le difese della mente, e per l’esattezza le strategie
controllanti basate sul rango, oppongono a quell’annichilimento della
coscienza intersoggettiva che, a nostro avviso, è l’essenza della
dissociazione.
Disorganizzazione dell’attaccamento
JUDITH HERMAN1
Se è vero che solo una parte delle persone esposte allo sviluppo
traumatico presenterà disturbi mentali da adulto, è altrettanto vero che
un’ampia proporzione, e forse la maggior parte di coloro che sviluppano un
qualsiasi disturbo psichiatrico proviene da storie traumatiche dello
sviluppo (Weich et al., 2009): la stima varia da circa il 40 al 70% dei casi
(Herman, 1992a). Secondo gli studiosi del Neuroscience Institute della
Princeton University (uno dei laboratori statunitensi più attivi nello studio
degli effetti dello stress sul cervello), stress e trauma sono in assoluto i più
importanti fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi mentali (Leuner et
al., 2010).
In altri termini, stati mentali riferibili a storie di sviluppo traumatico e a
sintomi dissociativi possono essere presenti in maniera variabile -
episodicamente e sporadicamente oppure più stabilmente, in maniera velata
e riconoscibile solo al clinico esperto oppure in maniera evidente e persino
clamorosa, in pressoché tutti i casi di un dato disturbo o in percentuali
variabili di essi - in quasi tutti i disturbi psichiatrici conosciuti. Spiegel
(2006) riferisce e commenta uno studio di Foote e collaboratori, dove il
29% dei pazienti ricoverati in una clinica psichiatrica con le diagnosi più
diverse avevano un quadro clinico compatibile con la diagnosi aggiunta o
alternativa di disturbo dissociativo. La diagnosi non era stata fatta dai
medici della clinica, e ciò permette a Spiegel (2006) di riflettere sui motivi
per cui la frequenza della psicopatologia dissociativa è sottostimata nella
prassi psichiatrica corrente.
Inoltre, osservazioni cliniche confermate da ricerche controllate
suggeriscono la presenza di una relazione significativa tra gravità del
quadro clinico e presenza di una storia di sviluppo traumatico e/o di
fenomeni dissociativi. Se a complicare il quadro clinico di un qualsiasi
disturbo riconosciuto nel DSM-IV intervengono memorie di uno sviluppo
traumatico, maggior tendenza alla dissociazione e sintomi dissociativi, il
caso appare di solito non solo più complesso, ma anche più difficile da
trattare sia con i farmaci sia con le tecniche psicoterapeutiche usualmente
èfficaci per gli altri pazienti con la stessa diagnosi (Magrin et al., in corso di
stampa).
Impliciti nella considerevole letteratura sulla frequenza di sviluppi
traumatici e dissociazione nei quadri clinici più diversi, e sulla capacità che
essi hanno di ostacolare il buon esito degli usuali trattamenti, sono alcuni
importanti temi di riflessione: _
LA DIMENSIONE TRAUMATICO-DISSOCIATIVA E LA
CLASSIFICAZIONE CATEGORIALE DEI DISTURBI MENTALI
La mia ipotesi è che la sua rabbia improvvisa sia una forma minore
di dissociazione. Essa si trova in uno stato di coscienza alterato; il
futuro e il passato sono virtualmente assenti. Inoltre è presente un
disturbo a carico della memoria. Lç'osservazione del marito evoca il
ricordo di esperienze passate di mortificazione, ma poiché esse sono
"inconsce” né lei né il marito riconoscono che essa si trova nella morsa
di un sistema di memoria traumatica. L'esperienza è collocata nel
presente. (Meares, 2000)
Deficit metacognitivi
1. J. Herman (1992), Guarire dal trauma, tr. it. MaGi, Roma 2005, p.
28.
2. La scoperta di una relazione fra DCA e sviluppo traumatico è stata
all’origine dello studio ACE ricordato nel capitolo 5 (Felitti, 2009).
3. Sarebbe naturalmente possibile somministrare a ogni paziente
strumenti come la Dissociative Experience Scale (DES; Bernstein, Putnam,
1986), i cui alti punteggi fanno sospettare la presenza di sintomi
dissociativi. Tuttavia, nel corso delle usuali interviste diagnostiche nella
pratica quotidiana, la somministrazione di questionari è poco praticabile se
non altro per ragioni di tempo. Inoltre, tali questionari non esortano al
successivo dialogo clinico approfondito sugli elementi del sospetto
diagnostico.
4. Questa inferenza è giustificata solo se la narrazione del paziente, oltre
che basata su significati generali (per esempio, tratti del carattere descritti
con aggettivi) e incapace di ricordare episodi, è confusa, frammentaria,
disorganizzata. Una narrazione semantica lucida è segno di un attaccamento
precoce evitante, non disorganizzato (Attili, 2007).
5. E' celebre la falsa memoria di Piaget per la quale egli ricordava nei
minimi particolari di essere stato vittima di un tentativo di rapimento all’età
di due anni. Ricordo che si rivelò successivamente del tutto inventato e
indotto dalla sua bambinaia per nascondere una relazione amorosa di
quest’ultima (Piaget, 1945).
6. Il razionale dei compiti di auto-osservazione è di conservare memoria
dettagliata dell’episodio, che potrebbe ridursi in precisione nel tempo che
intercorre prima della seduta successiva, e di minimizzare l’interferenza di
emozioni di vergogna, maggiormente sentite, di solito, nel resoconto fatto
faccia a faccia.
7
IRVIN D. YALOM1
Autenticità e chiarezza
La maggior parte dei clinici esperti nella terapia del trauma relazionale
precoce sa che il raggiungimento della fiducia nel terapeuta non può essere
una prerogativa iniziale della terapia, come si richiede in altre situazioni
cliniche, quanto piuttosto uno degli obiettivi della terapia.
Il terapeuta quindi non dovrà aspettarsi la fiducia incondizionata dal
paziente o porla come requisito per il proprio lavoro, ma questa dovrà
essere faticosamente raggiunta modificando le aspettative negative e il
timore di affidarsi. L’ottenimento della fiducia del paziente costituisce uno
dei compiti della prima fase della terapia, è un obiettivo che a volte richiede
tempi lunghi, e di regola è sottoposto a quei continui test relazionali di cui
si è parlato in precedenza.
1. Y.D. Yalom (1992), Le lacrime di Nietzsche, tr. it. Neri Pozza, Milano
2006, p. 105.
2. EMDR: Eye Movement Desensitization and Reprocessing,
desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari. Questa
tecnica, messa a punto da Shapiro (1995), è descritta nel capitolo 9.
3. Le reazioni controtransferali del terapeuta di fronte al controllo
accudente del paziente dipenderanno anche, in parte, dallo stile di
attaccamento del terapeuta stesso. Divenirne consapevole, e imparare a
monitorare costantemente le proprie reazioni emotive durante il dialogo
clinico (lo sviluppo cioè di una “mente disciplinata” nel terapeuta), sono
tappe essenziali nella formazione degli psicoterapeuti che vogliano trattare
il DPTSc.
4. Offrire e chiedere aiuto sono compiti relazionali che nell’uomo
possono svolgersi, oltre che nella dimensione motivazionale
dell'attaccamento-accudimento, anche in quella della cooperazione
paritetica, dove sono scambievoli.
5. Per definire l’uso contemporaneo e integrato di più trattamenti nella
terapia del DBP sono utilizzate diverse espressioni nella letteratura
anglosassone: integrated multimodal approach (Tuker et al., 1992),
multiple-treater setting (Gabbard, 1994), co-therapy (APA, 2001),
combined treatments (Linehan, 1993; Simpson et al., 2004), one-team
model treatment (Bateman, Fonagy, 2004). Sebbene non ci siano motivi per
preferire l'una o l’altra terminologia, usiamo l’espressione Terapia Multi-
Setting Integrata (TMSI) per sottolinearne l’aspetto più importante:
l’integrazione dei setting.
8
JOHN BANVILLE1
Fin dalla prima fase della terapia, mentre si familiarizza con i cicli
interpersonali abnormi che impegnano il paziente e il suo interlocutore in
ogni relazione di aiuto, e mentre li contrasta in modo da ottenere il più alto
grado possibile di sicurezza nella relazione terapeutica, lo psicoterapeuta è
chiamato ad aiutare il paziente a comprendere e mitigare i sintomi più
destabilizzanti. Fin da questa prima fase i bersagli dell’attenzione del
terapeuta sono dunque, insieme alla costruzione dell’alleanza, eventuali
comportamenti impulsivi che minacciano l’incolumità o la stessa vita del
paziente, quelli che minacciano la stabilità della relazione terapeutica, le
eventuali relazioni affettive in cui il paziente rischia o sperimenta una
ritraumatizzazione, le sindromi depressive, ansiose o ossessive gravi che
frequentemente accompagnano il DPTSc, l’uso di sostanze o i
comportamenti alimentari abnormi, e soprattutto possibili sintomi
dissociativi di alienazione terrorizzanti come quello descritto nell’epigrafe.
Scopo di questa fase non è tanto la scomparsa di tali sintomi, ma
l’aumentata capacità del paziente di comprenderne la natura, controllarli, e
tollerarne il ripetersi senza esserne sconvolto o travolto.
Ottenuta questa stabilizzazione dei sintomi più perturbanti, sarà
possibile passare alle operazioni terapeutiche della seconda fase:
identificazione e graduale superamento delle fobie degli stati interni, lavoro
sulle memorie traumatiche, identificazione e integrazione degli stati dell’io
dissociati. La terza fase mira alla valutazione congiunta del nuovo modo di
funzionamento mentale integrato e allo sviluppo delle capacità relazionali e
metacognitive che lo accompagnano.
Nella prima fase della terapia di un DPTSc talora l’aspetto del quadro
clinico più perturbante è rappresentato da sintomi dissociativi di detachment
o alienazione, il più frequente dei quali è la depersonalizzazione. Ottenere
un certo grado di controllo e tolleranza di tali sintomi è allora una priorità.
La strategia più appropriata sembra quella della normalizzazione: dare un
nome al sintomo (per esempio: “Sembra che in certi momenti lei provi
quello che noi strizzacervelli chiamiamo depersonalizzazione”) e
dimostrare di conoscerlo e non esserne allarmato è il primo passo che il
terapeuta può compiere per attuarla. Il paziente, infatti, è non di rado
convinto che il sintomo sia raro, a volte persino di essere il solo a provarlo,
che medici e persino psichiatri non lo conoscano, o che sia indice di perdita
prossima di ogni controllo mentale sulla realtà e su se stesso. Apprendere
dal terapeuta che il sintomo ha un nome preciso, che è ben conosciuto da
oltre un secolo nella storia della medicina, che non è affatto segno di una
patologia mentale necessariamente grave e tanto meno incurabile, e che è
comune (tanto da essere il terzo per frequenza, dopo ansia e depressione, fra
tutti i sintomi di stress emozionale), è di solito profondamente rincuorante
per il paziente.
Il secondo passo che il terapeuta può compiere nella normalizzazione
dei sintomi di alienazione consiste nel suggerire al paziente che si tratta
dell’esasperazione di stati mentali che tutti normalmente provano, non di
uno stato mentale totalmente estraneo alla comune esperienza umana.
Blandi o meno blandi sentimenti di irrealtà possono essere transitoriamente
provati da tutti nei sogni, nelle esperienze di déjà-vu o di jamais-vu (Farina,
1999), in condizioni di stress e nella risposta a eventi stressanti o traumatici.
Il problema che terapeuta e paziente devono affrontare insieme è dunque
comprendere perché e come il sentimento di irrealtà (del mondo esterno, di
sé o del proprio corpo) sia diventato per il paziente così intenso, frequente o
persistente. Se il paziente concorda nel considerare questo un interessante
compito congiunto, si può procedere al terzo passo della normalizzazione:
identificare se vi sono ricorrenze significative delle condizioni in cui il
sintomo di alienazione compare, o si esaspera aumentando d’intensità. Con
questo terzo passo, il terapeuta intende suggerire che crede all’esistenza di
un senso indagabile alla base di un sintomo apparentemente insensato e
“alieno”. Di solito, questi tre passi della tecnica di normalizzazione sono
sufficienti a permettere un sufficiente grado di tolleranza dei sintomi di
detachment, e la stabilizzazione delle reazioni emotive e cognitive a essi.
L’indagine sugli antecedenti ricorrenti dei sintomi di alienazione può
rivelare che essi si manifestano come una sorta di evitamento del dolore
mentale, come aspetto del riemergere di una memoria traumatica, ma
soprattutto, nella nostra esperienza, come manifestazione della fobia
dell’attaccamento così tipica in chi proviene da storie di DA e di successivi
traumi intrafamiliari. Sentimenti di vicinanza o di desiderio di vicinanza
protettiva attivano una reazione fobica che consiste nel tentativo di
annullarli, e tale annullamento di sentimenti potenti si manifesta come
depersonalizzazione. Un esempio clinico che illustra questo tipo di
antecedente, il caso di Lia, sarà fornito nella prossima sezione dedicata
all’integrazione degli stati dell’io dissociati.
A volte i pazienti con DPTSc sviluppano l’abitudine a comportamenti
autolesivi nel tentativo di contrastare stati mentali di alienazione,
specialmente quando questi prendono la forma di stati di vuoto mentale (il
blank spell di cui abbiamo parlato nel capitolo 3 ). Tentando di procurarsi
dolore - con tagli, ustioni di brace di sigaretta, forme estreme di
tricotillomania e onicofagia - perseguono lo scopo di recuperare qualche
contenuto di coscienza attraverso uno stimolo corporeo intenso (Linehan,
1993). In questi casi, mentre manifesta netto dissenso richiamandosi al
contratto di non ledere i propri tessuti viventi, il terapeuta riconosce che
l’obiettivo di uscire dallo stato di alienazione è valido, e per questo motivo
suggerisce comportamenti alternativi, che pur configurandosi come stimoli
corporei intensi non comportano altrettanto danno. Per esempio, consiglia
di sostituire tagli e ustioni con l’immergere la testa in acqua fredda, o
applicare sulla guancia una borsa di ghiaccio. L’uso della borsa di ghiaccio
per contrastare depersonalizzazione e derealizzazione è un esempio delle
tecniche dette di grounding, che naturalmente possono essere usate anche
nei casi in cui i sintomi di detachment dissociativo non sono seguiti da
comportamenti autolesivi.
Che sia oppure non sia già iniziato il lavoro di integrazione nella prima
fase della terapia (e nella prima fase tipicamente inizia all’interno della
relazione terapeutica, come modo per affrontare rotture dell’alleanza), nei
casi in cui gli stati dell’io dissociati siano complessi e articolati (come gli
stati alternanti, alter, dei DDl) è necessario procedere alla loro
identificazione durante la seconda fase del trattamento, anche all’interno di
contesti della vita del paziente diversi dalla relazione terapeutica. La via
maestra per farlo passa attraverso il dialogo che verte su elementi della
memoria autobiografica specifica del paziente, come indicato nel capitolo 6.
Un’esperienza clinica concreta può esemplificare utilmente il modo di
procedere.
1. J. Banville (1993), Isola con fantasmi, tr. it. Guanda, Parma 2009, p.
180.
2. Alcuni clinici usano l’ipnosi per ottenere una rapida riduzione dei
sintomi. A nostro parere l’uso dell’ipnosi è tendenzialmente controindicato
nel DPTSc, perché potrebbe potenziare le dinamiche dissociative, e perché
implica un abbandono della relazione cooperativa e paritetica.
3.I. Calvino (1952), II visconte dimezzato, Mondadori, Milano 1993.
4. R.L. Stevenson (1886), Lo strano caso del Dottor Jekill e del Signor
Hyde, tr. it. Einaudi, Torino 1996.
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LEONARDO SCIASCIA1
Ognuno dei compiti che il terapeuta si propone nelle diverse fasi della
terapia del DPTSc, e in particolare quello mirante alla stabilizzazione dei
sintomi, può essere facilitato dall’uso di specifiche tecniche
psicoterapeutiche. Le tecniche terapeutiche che possono essere utilmente
impiegate sono state appena nominate nel capitolo precedente, per non
distogliere l’attenzione dalla successione strategica delle operazioni
terapeutiche fondamentali. In questo capitolo ne discuteremo l’utilità e ne
descriveremo più in dettaglio alcune, con la preliminare avvertenza che per
la loro applicazione sono assolutamente necessarie una formazione
specifica e un’esperienza pratica guidata da esperti, che non può essere
fornita da un libro.
Nel capitolo troveranno spazio anche alcune note sulla sindrome della
falsa memoria, rischio iatrogeno da cui è indispensabile guardarsi quando si
lavora sulle memorie traumatiche, e considerazioni generali sull’uso di
psicofarmaci nel corso del trattamento del DPTSc.
Empirismo collaborativo
Un altro aspetto tipico delle TCC è la definizione, sia all’inizio sia nel
corso della terapia, di obiettivi concordati e definiti. Il lavoro per singoli e
definiti obiettivi permette, al momento del loro raggiungimento anche
parziale, l’aumento del senso di efficacia personale e di autocontrollo così
profondamente leso nel DPTSc.
Tecniche di esposizione
EMDR
PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA
RESILIENCE E CREATIVITÀ
E' appena necessario ricordare che il tema della resilience non è il solo
che le lacune conoscitive degli autori e le esigenze di spazio non hanno
permesso di trattare in sufficiente dettaglio. E' nostra speranza che questo
libro abbia contribuito a confermare o creare nelle lettrici e nei lettori
l’interesse per gli sviluppi traumatici, e che sia qualcuno fra le nostre lettrici
e i nostri lettori a offrire, con ulteriori studi e ricerche, un contributo a
colmare i nostri vuoti conoscitivi. E altrettanto grande speranza è che la
guida alla comprensione e al trattamento degli esiti degli sviluppi
traumatici, offerta a chi si accinge a trattare coloro che ne soffrono, valga a
mitigare l’offesa alla vita, alla fiducia, all’amore e alla speranza inferta da
ogni trauma psicologico.