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Recenti indagini epidemiologiche segnalano la relazione tra

l’esperienza di traumi psicologici nell’infanzia e diversi disturbi


psicopatologici nell’età adulta, caratterizzati Il volume descrive in dettaglio
e con numerosi esempi cIinici i differenti sintomi con cui i processi
dissociativi possono manifestarsi e tratta diffusamente le linee guida che
devono ispirare a psicoterapia di tutti i disturbi riconducibili allo sviluppo
della personalità in contesti relazionali traumatici.
Ocr e conversione a cura di Natjus

Ladri di Biblioteche
Dal catalogo

G. Liotti, F. Monticelli (a cura di)


I sistemi motivazionali nel dialogo clinico
Il manuale AIMIT

O. van der Hart, E.R.S. Nijenhuis, K. Steele


Fantasmi nel sé
Trauma e trattamento della dissociazione strutturale

M. Steinberg, M. Schnall
La dissociazione
I cinque sintomi fondamentali
Giovanni Liotti, Benedetto Farina

SVILUPPI TRAUMATICI
Eziopatogenesi, clinica e terapia della
dimensione dissociativa
www.raffaelIocortina.it

ISBN 978-88-6030-397-4
© 2011 Raffaello Cortina Editore
Milano, via Rossini 4

Prima edizione: 2011

Stampato da
Consorzio Artigiano LVG, Azzate (Varese)
per conto di Raffaello Cortina Editore
INDICE

Introduzione

Capitolo 1
Disturbi conseguenti allo sviluppo traumatico: il problema nosografico
Il disturbo post-traumatico da stress

II disturbo post-traumatico da stress complesso

Il quadro clinico del DPTSc: una base per lo studio dello sviluppo
traumatico

Capitolo 2
Trauma e dissociazione: i concetti di base e la loro storia

Definizione di trauma psicologico

Storia del concetto di trauma psicologico

La dissociazione come conseguenza del trauma: storia di un concetto

Capitolo 3
La riflessione contemporanea sulla dissociazione

Distacco e compartimentazione

I sintomi di distacco dissociativo


I sintomi di compartimentazione

La dissociazione somatoforme

Deficit metacognitivi e alessitimia post-traumatica

Altri contributi recenti allo studio della dissociazione

Capitolo 4
Le dinamiche motivazionali nelle esperienze traumatiche e la
disorganizzazione dell’attaccamento

I sistemi motivazionali nella prospettiva evoluzionista

Attivazione del sistema di difesa nella risposta ai traumi

Ruolo del sistema di attaccamento nella risposta ai traumi

Ricerche sul ruolo dell’attaccamento nella risposta ai traumi

La disorganizzazione dell’attaccamento

Continuità fra disorganizzazione dell’attaccamento e disturbo


traumatico dello sviluppo

Capitolo 5
Sequele dell’attaccamento disorganizzato e sviluppo traumatico: un
nuovo modello teorico della dissociazione

Influenza della disorganizzazione dell’attaccamento sullo sviluppo della


personalità

Considerazioni sul ruolo delle strategie controllanti nello sviluppo della


personalità
Dalle strategie controllanti alle risposte dissociative ai traumi

Metacognizione, SMI e strategie controllanti

Un modello teorico del trauma e della dissociazione

I molteplici itinerari psicopatologici aperti dalla disorganizzazione


dell’attaccamento

Il modello teorico di fronte allo studio neuroscientifico del trauma e


della dissociazione

Capitolo 6
Sviluppo traumatico e dissociazione nei quadri clinici di disturbi diversi

La dimensione traumatico-dissociativa e la classificazione categoriale


dei disturbi mentali
II multiforme panorama diagnostico dello spettro traumatico-
dissociativo

Effetti patogeni separati per memorie traumatiche esplicite e processi


dissociativi?

DBP oppure spettro di disturbi di personalità post-traumatici?

Difficoltà di diagnosticare i sintomi dissociativi nell’usuale pratica


clinica Guida pratica per la valutazione dei segni clinici dello sviluppo
traumatico

Capitolo 7
Relazione terapeutica e piano generale di trattamento

Una visione d’insieme del piano di cura

Relazione terapeutica
Esperienza relazionale correttiva e controllo degli enactment

Control-Mastery Theory e gestione dei test relazionali in terapia

Cosa fare e cosa non fare per la costruzione dell’alleanza terapeutica

Effetti sul terapeuta della relazione con pazienti traumatizzati

Trattamenti in setting multipli integrati

Capitolo 8
Stabilizzazione dei sintomi e fasi successive della terapia

Stabilizzazione dei sintomi

Lavoro su memorie traumatiche e relative fobie di stati interni

Integrazione degli stati dell’io dissociati

Terza fase della psicoterapia

Capitolo 9
Tecniche e procedure specifiche nel trattamento dei disturbi dello
spettro traumatico-dissociativo

Terapie cognitivo-comportamentali del trauma e della dissociazione

EMDR

Mindfulness e psicoterapie sensomotorie

Psicoterapia sensomotoria

Terapie di gruppo, familiari e di coppia


Le terapie farmacologiche nel trattamento dello sviluppo traumatico

Ricordi traumatici e false memorie

Resilience e creatività

Bibliografia

Indice analitico
INTRODUZIONE

Le relazioni nelle quali chi abitualmente accudisce un bambino1 lo


espone anche a maltrattamenti, abusi o grave trascuratezza emotiva
(neglect) influenzano in maniera stabile lo sviluppo mentale, e sono ritenute
capaci di causare vulnerabilità a un’ampia varietà di disturbi psichici non
solo durante l’infanzia, ma anche in età adulta. Tale vulnerabilità, è stato
argomentato, si riflette in una sindrome specifica, riconducibile alla
dimensione di attività mentale che riguarda le funzioni integratrici di
memoria e coscienza, che potrebbe essere diagnosticata attraverso una serie
di precisi criteri diagnostici (Herman, 1992a; van der Kolk et al., 2005).
Questa convinzione è tanto diffusa fra psicopatologi e psicoterapeuti,
quanto ancora in attesa di un riconoscimento nosografico che permetta lo
studio epidemiologico della diffusione, all’interno delle diverse categorie
diagnostiche proposte dal DSM (APA, 2000), di sindromi o cluster di
sintomi riconducibili all’esistenza di memorie traumatiche e caratterizzati
prevalentemente dalla dissociazione. L’assenza di un’entità nosografica ben
delimitata, che permetta di identificare la sindrome dello sviluppo
conseguente a relazioni in cui all’accudimento si sovrappongono
maltrattamento e traumi cumulativi, discende dalla scelta del DSM di non
includere considerazioni eziologiche e dimensionali fra i criteri con i quali
vengono identificati i disturbi mentali.
Tuttavia, nel DSM proprio il trauma psicologico costituisce una
notevole eccezione alla regola della rinuncia a considerazioni
dimensionali ed eziologiche nell’identificazione dei disturbi
psicopatologici. Con l’introduzione della diagnosi di Disturbo Acuto da
Stress (das) e di Disturbo Post-Traumatico da Stress (dpts), infatti, il DSM
ha riconosciuto che almeno due categorie diagnostiche richiedono la
considerazione della loro causa fra i criteri da usare per la diagnosi.
Disponiamo dunque di categorie diagnostiche per identificare i disturbi
conseguenti a eventi traumatici quando il trauma si verifica entro un periodo
di 6 mesi prima dell’insorgere della sintomatologia, ma non quando
esperienze traumatiche, spesso ripetute e cumulative, si sono verificate
molti anni prima dell’esordio sintomatico riconosciuto. Per i casi in cui il
trauma che ha causato, o concorso a causare, un disturbo con le
caratteristiche del DPTS ma che sia insorto più di 6 mesi dopo l’evento
traumatico, il DSM suggerisce di ricorrere alla diagnosi di DPTS a esordio
ritardato. Questa diagnosi, tuttavia, non copre adeguatamente i casi in cui
gli sviluppi di esperienze traumatiche nell’infanzia hanno condotto a
disturbi più complessi, come i disturbi dissociativi, alcuni tipi o sottotipi di
disturbi di personalità, e forse i sottotipi di altri disturbi di Asse I
accomunati dalla presenza di sintomi dissociativi che si aggiungono a, e si
intersecano con, i sintomi classici del disturbo d’ansia o dell’umore. Sono
state proposte nuove categorie diagnostiche, che permetterebbero di ovviare
ai problemi creati dal fatto che la diagnosi di DPTS non può essere estesa
alle conseguenze di traumi lontani nel tempo. In particolare, è stata proposta
una serie di entità diagnostiche (molto simili fra loro), che permetterebbe di
identificare, fino all’età adulta, gli esiti patologici di traumi ripetuti e
cumulativi dell’infanzia, cioè i possibili esiti psicopatologici di una storia di
sviluppo che si verifica in contesti nei quali gli eventi traumatici tendono a
ricorrere. A questo tipo di storia di sviluppo ci riferiremo nel libro col
termine sintetico “sviluppo traumatico”.
Per la precisione, ricordiamo che ben quattro categorie diagnostiche
sono state proposte per identificare il disturbo nucleare che consegue a uno
sviluppo traumatico: Disturbo Traumatico dello Sviluppo (DTS,
developmental trauma disorder, van der Kolk, 2005), Disturbo
PostTraumatico da Stress complesso (DPTSc, complex post-traumatic
stress disorder, Herman, 1992a), Disturbo da Stress Estremo Non Altrimenti
Specificato (dsenas, disorder of extreme stress not otherwise specified;
Pelcovitz et al., 1997), Disturbo Post-Traumatico di Personalità (DPTP,
post-traumatic personality disorder, Classen et al., 2006).Tuttavia, il DSM
non ha finora accolto queste proposte diagnostiche. Manca ancora, dunque,
una diagnosi ufficialmente riconosciuta che permetta di rintracciare un
cluster di sintomi post-traumatici (essenzialmente dissociativi) con origine
in uno sviluppo traumatico, capace di aggiungersi, in forme diverse di
comorbilità, a quelli che caratterizzano i vari disturbi dell’adulto.
Questa mancanza comporta tre conseguenze assai rilevanti. La prima è
che possiamo effettuare ricerche epidemiologiche sulla prevalenza e
incidenza del DPTS nell’infanzia o nell’età adulta, ma non altre che
determinino prevalenza e incidenza nella popolazione adulta di
un’eventuale unica sindrome riconducibile a traumi infantili che, ponendosi
in comorbilità con un qualsiasi altro disturbo elencato nel DSM-IV, ne
complichi diagnosi e trattamento. La seconda conseguenza è che, mentre si
mettono a punto trattamenti specifici per il DPTS, non si può facilmente
organizzare una ricerca che valuti l’efficacia di interventi miranti a curare la
suddetta ipotetica sindrome quando essa compaia non come un puro DPTS
cronico a esordio ritardato, ma all’interno di altri quadri clinici - cioè come
complicanza, riconducibile a traumi infantili, di altri disturbi dell’adulto. La
terza conseguenza attiene alla particolare importanza di variabili relazionali
nella genesi e nella cura dei disturbi correlati a traumi: la rilevanza estrema
dei contesti relazionali che non proteggono il bambino dai traumi o
addirittura ne siano causa è evidente nell’età infantile, ma può essere meno
evidente quando se ne incontrino le conseguenze solo in età adulta.
L’assenza di una diagnosi che copra la continuità della sindrome di cui ci
occupiamo, dall’infanzia all’età adulta, può infine costituire un ostacolo
notevole allo studio dell’aspetto relazionale dell’esperienza traumatica
(Williams, 2009).
Questo libro si propone di contribuire a chiarire, a chi si prepara alle
professioni di psichiatra, psicologo clinico o psicoterapeuta e a ogni clinico
interessato all’argomento, tre aspetti fondamentali del problema nosografico
e clinico fin qui riassunto:

1) quale sembra essere l’insieme o cluster di sintomi che segue a


sviluppi traumatici, in qualunque età della vita esso si manifesti e a
qualunque altro disturbo del DSM si associ in comorbilità;
2) per quali ragioni esso va considerato in una prospettiva relazionale
che tenga conto di come i contesti traumatici che lo hanno causato hanno
influenzato lo sviluppo delle competenze interpersonali del paziente;
3) quali strategie terapeutiche sembrano più opportune per
compensare o correggere sia i sintomi del cluster sia più in generale le
conseguenze relazionali degli sviluppi traumatici.
La multiforme varietà dei processi mentali e dei sintomi dissociativi che
caratteristicamente accompagnano e seguono lo sviluppo della personalità
in contesti traumatici, e i tipici dilemmi relazionali che non di rado
affliggono chiunque entri in rapporti significativi con pazienti provenienti
da storie traumatiche di sviluppo, sono stati abbondantemente descritti nella
letteratura psichiatrica e psicoterapeutica internazionale degli ultimi due
decenni. Tuttavia, mancano nel nostro Paese compendi generali di base,
adatti al clinico che cerchi una prima fonte di informazione su quest’ambito
della psicopatologia e della terapia. Scopo di questo libro è offrire al lettore
italiano una sintetica e, per quanto possibile, semplice introduzione alla
psicopatologia e alla clinica dei disturbi dell’adulto che è stato esposto a
contesti traumatici di sviluppo. Perché questo scopo primario non si risolva
solo nella trattazione della semeiotica e nelle indicazioni pratiche sul
trattamento, ma permetta anche una comprensione teorica dei processi
relazionali implicati nella genesi dei disturbi e nella loro terapia, il libro
persegue l’ulteriore obiettivo di riassumere una visione dello sviluppo
offerta dalla recente ricerca sull’attaccamento e sull’intrinseca
(evoluzionisticamente fondata) intersoggettività dei processi di costruzione
della personalità.
Il tema teorico sottostante agli aspetti centrali e più qualificanti del libro
è basato su due premesse. La prima consiste nel fatto che il cervello e la
mente umana si sono evoluti allo scopo di gestire relazioni interpersonali
sempre più complesse. Se tali relazioni sono disturbate e traumatizzanti, lo
sviluppo della mente individuale e persino delle strutture neurologiche che
la sottendono può essere modificato negativamente. La seconda premessa
consiste nel fatto che la psicopatologia derivante dagli sviluppi traumatici è
riconducibile alla dis-integrazione di strutture e funzioni che hanno lo scopo
di adattarsi all’ambiente interpersonale e che si sviluppano nei primi
contatti con esso. Questo tema centrale affiorerà con crescente chiarezza nel
percorso di lettura che conduce, dai primi due capitoli che trattano di
nosografia, di storia e dei concetti di base che connettono trauma e
dissociazione, ai capitoli successivi che trattano dei contesti relazionali
dello sviluppo traumatico, della diffusione dei sintomi riconducibili allo
sviluppo traumatico all’interno dei disturbi elencati dal DSM-IV, e di
trattamento.
Il capitolo 1 discute le quattro diagnosi proposte per definire il nucleo
fondamentale del disturbo che accompagna o segue lo sviluppo traumatico.
Esso inoltre introduce l’argomento che verrà poi ripreso nel capitolo 6: tale
nucleo si può osservare praticamente sempre in alcune categorie
nosografiche del DSM, e può complicare, in una sorta di comorbilità, il
quadro clinico in non pochi casi diagnosticabili con altre categorie.
Il capitolo 2 presenta un quadro d’insieme dei concetti di base necessari
per comprendere le caratteristiche cliniche del suddetto nucleo - trauma e
dissociazione - e della storia del loro sviluppo. Il capitolo 3 riassume alcuni
fra i molti contributi teorico-clinici contemporanei allo studio della
dissociazione. Allo scopo di informarne il lettore con minore esperienza
clinica dei sintomi dissociativi, il capitolo 3 si sofferma estesamente sulla
fenomenologia clinica della dissociazione, con numerosi esempi.
I capitoli 4 e 5 sono destinati a presentare un modello teorico che spiega
come gli sviluppi traumatici siano radicati in contesti interpersonali con
caratteristiche precise e ben indagabili secondo il programma di ricerca
della developmental psychopathology. Il capitolo 4 tratta dell’evoluzione e
dell’organizzazione gerarchica dell’architettura di base della mente,
necessaria per comprendere i rapporti funzionali che intercorrono fra il
sistema di difesa (attacco e fuga,fight-flight), inevitabilmente innescato
durante l’esposizione a eventi traumatici, e il sistema di attaccamento. La
disorganizzazione dell’attaccamento è spiegata in questo capitolo sulla base
dell’interazione conflittuale e paradossale fra sistema di difesa e sistema di
attaccamento. Il capitolo 5 descrive le conseguenze dell’attaccamento
disorganizzato precoce e dei traumi subiti durante il successivo sviluppo,
mettendo a fuoco in particolare come altri sistemi motivazionali
interpersonali vengano progressivamente coinvolti e come la dissociazione
si manifesti all’interno di queste dinamiche interpersonali. Saranno oggetto
di attenzione, nel capitolo 5, anche alcuni dati della ricerca neuroscientifica
che possono contribuire alla comprensione degli sviluppi traumatici e della
dissociazione.
Un tema interessante dei capitoli 4 e 5 è che alcune forme di relazione
di attaccamento nel primo anno di vita, pur non implicando l’evidente
maltrattamento del bambino, ma talora solo l’interazione con un genitore
particolarmente vulnerabile a esperienze dissociative, sembrano capaci di
avviare percorsi di sviluppo analoghi, seppure meno gravi, a quelli che
conducono al disturbo traumatico dello sviluppo e poi ai disturbi implicanti
dissociazione in età adulta. Questa osservazione potrebbe rivelarsi utile
nello studio della diffusione di sintomi dissociativi, e in particolare in alcuni
casi clinici diagnosticabili in diverse categorie del DSM nei quali non si
riscontrano evidenti traumi.
Di questo tema si occupa il capitolo 6, che tenta una panoramica delle
categorie diagnostiche del DSM-IV al cui interno è più probabile, in
percentuali di casi variabili da disturbo a disturbo, rintracciare la sindrome
che consegue a disorganizzazione dell’attaccamento e sviluppi traumatici.
Nel capitolo si offrono alcune riflessioni sui motivi - attualmente solo
ipotizzabili ma suffragati dai dati di ricerca sull’attaccamento
disorganizzato e sui traumi infantili - per cui tale sindrome può manifestarsi
all’interno dei più diversi quadri clinici, talora con connessioni evidenti fra
memorie traumatiche e sintomi dissociativi, talaltra con la presenza di
sintomi dissociativi in assenza di traumi espliciti ed evidenti, altre volte
ancora con memorie traumatiche non accompagnate da chiari sintomi
dissociativi. Conclude il capitolo 6 una guida dettagliata al riconoscimento,
nel corso del dialogo clinico, dei possibili indicatori della sindrome adulta
conseguente a disorganizzazione dell’attaccamento e sviluppo traumatico:
sintomi dissociativi che si presentino in maniera elusiva, indizi di storia
personale traumatica e di probabile disorganizzazione dell’attaccamento,
stili di memoria autobiografica, reazioni controtransferali del terapeuta, e
altri.
Oltre a costituire un fattore di rischio per diversi disturbi psichiatrici in
età adulta, l’attaccamento disorganizzato e gli sviluppi traumatici sono
spesso causa di particolari e caratteristiche difficoltà terapeutiche, che
pongono specifici problemi e dilemmi al clinico. Il capitolo 7, dopo aver
presentato nelle sue linee generali il piano strategico del trattamento, si
sofferma sulla relazione terapeutica, vettore essenziale della cura dei
pazienti con storie di sviluppo traumatico: superare con successo i dilemmi
posti dalla perdita di fiducia nelle relazioni di aiuto, e dalle opposte paure
che in questi pazienti albergano sia per la vicinanza emotiva sia per la
perdita del sostegno del terapeuta - tipiche conseguenze di tali storie -
richiede al clinico maggiore attenzione e perizia rispetto alle altre
psicoterapie. Il capitolo 8 descrive in dettaglio le fasi della psicoterapia:
dalla prima, rivolta alla stabilizzazione dei sintomi più disturbanti, alla
seconda che concerne il lavoro sulle memorie traumatiche e culmina
nell’integrazione degli stati dell’io dissociati, alla terza che si concentra
sullo sviluppo e la conferma delle nuove capacità acquisite. Infine, il
capitolo 9 passa in rassegna alcune tecniche terapeutiche specifiche che
sono state proposte per affrontare particolari aspetti della dissociazione e
delle memorie traumatiche e l’uso delle terapie farmacologiche in queste
condizioni psicopatologiche.
Il piano del libro che abbiamo esposto suggerisce di rivolgere al lettore
alcune avvertenze preliminari. La critica più frequente mossa a chi si
occupa di disturbi da traumi e di disorganizzazione mentale è quella di
riconoscere elementi di trauma e dissociazione in gran parte della
psicopatologia. Alcuni utilizzano i termini “pan-traumatismo” (Williams,,
2009) e “iper-dissociativismo” con allusione dispregiativa a una sorta di
difetto metodologico di base che distorce l’osservazione come una lente
troppo spessa sul naso. Riteniamo che, in parte, questa critica abbia
fondamento e giustificazione, almeno nel caso di questo libro.
Può certamente essere considerato iper-dissociativismo l’assumere
come premessa che la conseguenza più importante dei traumi psicologici va
ricercata nei più elevati livelli evolutivi e funzionali della mente (cioè nella
disgregazione della coscienza e della memoria autobiografica), e non ai
livelli evoluzionisticamente e funzionalmente diversi della memoria
semantica e delle emozioni. Poiché i tre livelli sono funzionalmente
intercorrelati, è possibile la scelta metodologica opposta, di considerare non
la dissoluzione della coscienza, ma il turbamento emotivo causato dal
trauma, o le strutture di significato con cui il trauma viene gestito, come
centro privilegiato dell’attenzione clinica, della formulazione di ipotesi di
ricerca e dell’interpretazione dei dati: forse ciò comporterebbe una meno
frequente percezione di sintomi e processi dissociativi all’interno delle più
diverse sindromi psicopatologiche. Inoltre, l’estensione del concetto di
trauma (trauma relazionale precoce) all’attaccamento disorganizzato, che è
un fenomeno diffuso nella popolazione generale e particolarmente diffuso
nelle famiglie a rischio di sviluppi psicopatologici, può giustificare la critica
di pan-traumatismo.
Ci sia consentito a questo riguardo, per amore della buona forma
letteraria così rara nelle trattazioni scientifiche, citare l’opinione di uno
scrittore, e non di un metodologo della scienza. Albert Camus nota un vizio
intrinseco alle opere che pretendono di analizzare i fenomeni partendo da
una precisa premessa metodologica:

I metodi implicano una metafisica e scoprono, a loro insaputa, le


conclusioni che a volte pretendono di non conoscere ancora. Così le ultime
pagine di un libro sono già implicite nelle prime.2

Abbiamo cercato di fare del vizio una virtù: consapevoli del ruolo
centrale svolto nelle nostre argomentazioni dalla tesi che gli sviluppi
traumatici causano alterazioni della coscienza, e consapevoli anche della
ricorsività dei temi trattati, abbiamo deliberatamente lavorato affinché le
ultime pagine del libro, che trattano della terapia dei disturbi correlati a
traumi fossero già implicite nelle prime, che trattano di nosografia e di
disgregazione della coscienza. Inoltre, non abbiamo avuto la pretesa di
scoprire alcunché di nuovo. Infine, il nostro scopo non è tanto argomentare
su quale percentuale della psicopatologia sia di natura dissociativa, quanto
fornire un compendio delle conoscenze cliniche sui disturbi correlati a
sviluppi traumatici, e inquadrarle in una cornice teorica sostenuta dai dati di
ricerca sulla disorganizzazione dell’attaccamento. Già alla fine
dell’Ottocento Hughlings Jackson affermava che, di fronte a una
moltitudine di dati che per di più vanno accumulandosi, il bisogno di teorie
e ipotesi di lavoro non si riduce, ma si fa più intenso.3 Abbiamo dunque
formulato una teoria eziopatogenetica capace di fornire coerenza ai
numerosi e talora apparentemente contraddittori dati clinici e di ricerca che
connettono esperienze traumatiche e sintomi dissociativi all’interno di un
gran numero di disturbi elencati dal DSM-IV. Siamo consapevoli che la
teoria proposta non è l’unica possibile, e amiamo ricordare a questo
riguardo la lezione di Karl Popper:

Ogni qualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile,


prendilo come un segno che non hai capito né la teoria né il problema
che si intendeva risolvere.4

Uno scritto che abbondi nel riassumere dati di ricerca e si addentri in


argomentazioni teoriche atte a darne senso e coerenza corre poi un rischio,
bene identificato dal grande scrittore argentino Jorge Luís Borges:

Generalmente, il consenso che l’uomo in qualità di lettore accorda


a un rigoroso ragionamento dialettico non è altro che una pigra
incapacità di esaminare le prove addotte dallo scrittore insieme a una
vaga fiducia nella lealtà di quest’ultimo. Ma, una volta chiuso il
volume e svanita la lettura, nella sua memoria resta appena una sintesi
più o meno arbitraria di tutto ciò che ha letto. Onde evitare un così
grosso inconveniente, nei paragrafi che seguono abbandonerò ogni
severa trama logica e accumulerò gli esempi.5

Per limitare il rischio di incorrere troppo gravemente in questo


inconveniente, e avendo primario interesse che nel lettore di questo libro
non svanisca appena chiuso il volume il senso della sua utilità per il lavoro
clinico, pur non abbandonando le trame logiche e il rigoroso ragionamento
dialettico abbiamo affidato agli esempi concreti delle memorie dei nostri
pazienti la loro rappresentazione. A volte gli esempi sono forniti da
materiale clinico diretto: lettere, scritti, trascritti di colloqui. Abbiamo
chiesto il permesso ai nostri pazienti di pubblicare le loro parole e i
frammenti delle loro storie, modificando quanto mo-dificabile perché la loro
identità fosse nascosta e tutelata. Dobbiamo gratitudine a chi ci ha permesso
di dare, ogni volta che è stato possibile, la concretezza dell’esperienza
vissuta alle trame concettuali generali di cui si compone il nostro lavoro.
Così i primi ringraziamenti, doverosi, vanno a loro, i pazienti.
Grazie poi ai colleghi e amici dell’Associazione per la Ricerca sulla
Psicopatologia dell’Attaccamento e dello Sviluppo, con i quali da anni
condividiamo i dubbi, la fatica e gli entusiasmi suscitati sempre dallo studio
degli sviluppi traumatici. Grazie, e molte, all’editore Raffaello Cortina,
anche per la generosa pazienza mostrata di fronte ai continui rinvii nella
consegna del manoscritto. E grazie al lettore, per la disponibilità a dedicare
parte del suo tempo e la sua attenzione alle pagine che seguono.

1. Useremo il maschile non per un atteggiamento sessista, ma per


mitigare il tasso, già elevato in ogni trattazione scientifica, di ineleganza
letteraria che sarebbe incrementato a dismisura se ogni volta dovessimo
ricorrere a locuzioni come “il bambino o la bambina”, “la terapeuta o il
terapeuta”, “le pazienti o i pazienti”, e via dicendo. Se un giorno si
concordasse di usare femminile per ogni riferimento agli esseri umani in
generale, aderiremmo volentieri alla nuova usanza.
2. A. Camus (1934), Il mito di Sisifo, tr. it. in Opere, Bompiani, Milano
2000, p. 213.
3. Per una selezione delle opere di Hughlings Jackson vedi J. Taylor,
Selected Writings of John Hughlings Jackson, Basic Books, New York
1958.
4. K.R. Popper (1972), La conoscenza oggettiva: un punto di vista
evoluzionistico, tr. it. Armando, Roma 1975, p. 352.
5. J.L. Borges (1925), Inquisizioni, tr. it. Adelphi, Milano 2001, p. 75.
1

DISTURBI CONSEGUENTI ALLO SVILUPPO


TRAUMATICO: IL PROBLEMA NOSOGRAFICO

Una delle malattie più diffuse è la diagnosi.

KARL KRAUS1

Un buon modo per cominciare a riflettere sull’inadeguatezza delle


attuali classificazioni diagnostiche dei disturbi che conseguono a traumi
psicologici è soffermare l’attenzione su un dato di ricerca: da un vasto
studio multicentrico che ha coinvolto circa 1700 bambini esposti a
esperienze traumatiche è emerso che mentre il 78% aveva subito traumi
ripetuti e molteplici in un lungo intervallo di tempo e presentava
un’evidente sofferenza psicologica, solo un quarto rispondeva alla diagnosi
di DPTS (Spinazzola et al., 2005). In presenza di indicazioni precise che lo
sviluppo si è verificato in un contesto di traumi ripetuti e ricorrenti, la
diagnosi di DPTS non appare dunque adeguata a identificare il tipo di
sofferenza che ne consegue. E' verosimile che quadri clinici diversi dal
DPTS esprimano meglio i sintomi psicopatologici di cui un bambino può
soffrire nel corso di uno sviluppo traumatico.
Per comprendere i motivi dell’inadeguatezza del DPTS nell’identificare
durante l’infanzia i disturbi connessi a sviluppi traumatici, e nell’età adulta i
punti di arrivo degli itinerari psicopatologici che iniziano con uno sviluppo
traumatico, inizieremo con alcune considerazioni sulla categoria
diagnostica del DPTS come appare nel DSM-IV. Successivamente,
considereremo le proposte avanzate per risolvere il problema nosografico
posto dall’inadeguatezza del DPTS rispetto alla complessità degli esiti
psicopatologici degli sviluppi traumatici.
IL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS

Il DPTS, ricordiamo, è una sindrome basata sulla presenza di quattro


gruppi di sintomi che possono emergere dopo una o più esperienze
traumatiche: a) sintomi provocati dal rivivere in maniera intrusiva e non
volontaria l’esperienza traumatica; b) sintomi da evitamento del ricordo del
trauma, come l’evitare luoghi, situazioni o persone che ricordano
l’esperienza traumatica; c) ottundimento emotivo (emotional numbing); d)
sintomi da eccessiva attivazione (hyperarousal), come stati di allarme
frequenti o continui, ipervigilanza, insonnia, irritabilità (APA, 2000).
L’introduzione del DPTS fra le categorie diagnostiche del DSM,
avvenuta col DSM-III nel 1980, ha permesso di identificare e caratterizzare
la sofferenza di molti pazienti reduci da esperienze traumatiche, aprendo
così la strada a importanti ricerche epidemiologiche (Andreasen, 2010). Da
queste ricerche è emerso che la maggioranza degli individui di una
popolazione occidentale sperimenta almeno una volta nella vita un evento
potenzialmente traumatico, e che fino a una su quattro delle persone esposte
al trauma ha probabilità di sviluppare un DPTS (Hidalgo, Davidson, 2000).
Il DPTS è dunque un disturbo frequente. Tuttavia, stimare la frequenza
delle risposte patologiche a eventi traumatici sulla base della sola categoria
diagnostica del DPTS è probabilmente riduttivo e fuorviante. Essendo stata
concepita per descrivere le reazioni psicopatologiche a un singolo evento
traumatico, o a un numero limitato di traumi che si verificano in un arco di
tempo molto circoscritto, la categoria diagnostica del DPTS mal si adatta a
descrivere le complesse e fluttuanti forme psicopatologiche con cui si
manifestano gli esiti di esperienze traumatiche ripetute in archi di tempo
molto ampi, in particolare se queste sono avvenute in periodi lontani di anni
dal momento in cui il paziente accede all’osservazione psichiatrica
(nell’infanzia di un paziente ormai adulto, per esempio), e specialmente se
di esse il paziente conserva scarsa, incerta memoria (Bryant, 2010; Ford,
2009; Herman, 1992a).
Verosimilmente, dunque, le forme della psicopatologia dell’adulto che
affondano le radici in esperienze traumatiche cumulative dell’infanzià non
possono, per lo più, essere catturate dalla diagnosi di DPTS (Chu, 2010). Se
si considera che il numero di bambini maltrattati è decine di volte superiore
a quello degli individui traumatizzati in guerra o dei superstiti a gravi
disastri (Fairbank, Fairbank, 2009), sembra legittimo ipotizzare che i
disturbi correlati a traumi siano molti di più dei pur tanti diagnosticabili
come DPTS (De Bellis, 2005).2
La categoria diagnostica del DPTS mostra limiti anche per quanto
riguarda la specificità del disturbo che pretende di classificare. Uno studio
epidemiologico dimostra che la diagnosi di DPTS si associa con un’altra
diagnosi di Asse I nel 79% dei casi, e nel 33 % dei casi con una diagnosi di
Asse II (Kessler et al., 1995). Se si considera che i sintomi di questi altri
disturbi di Asse I sono probabilmente essi pure legati all’esperienza
traumatica o da essa influenzati, e che quelli di Asse II forse riflettono
quella ben nota vulnerabilità a rispondere a un dato trauma col DPTS che è
causata da traumi precedenti, si può concludere che più di otto volte su
dieci la diagnosi di DPTS non è sufficiente a catturare la complessità della
sofferenza legata al trauma. Molto recentemente, l'American Journal of
Psychiatry ha dedicato l’editoriale dei numeri di giugno e agosto 2010 a
questo tema. In entrambi è sottolineato che i criteri del DPTS descritti dal
DSM-IV (e quelli dell’imminente DSM-v) non riescono a descrivere la
complessità della realtà clinica del trauma, specie di quello cumulativo che
avviene nell’infanzia (Bryant, 2010; Chu, 2010).
Infine, le particolari caratteristiche della vita mentale del bambino e le
particolari risposte evocate dalla ripetizione del trauma in un ambiente
familiare maltrattante non sono del tutto colte dai criteri del DPTS per
identificare cosa sia traumatico nell’infanzia, né i sintomi derivanti dai
particolari tentativi di adattamento dei bambini a relazioni familiari
traumatiche, fonte di maltrattamenti e abusi ripetuti e cumulativi.

IL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS COMPLESSO

Nel tentativo di superare i limiti del DPTS Judith Herman ha proposto


di chiamare complex post-traumatic stress disorder (cPTSD; DPTS
complesso, DPTSc) il quadro clinico che compare nelle vittime di traumi
complessi (Herman, 1992a). Per “traumi complessi”, distinti dai traumi
singoli (come incidenti stradali, episodi isolati di violenza, terremoti e altre
catastrofi naturali), si intendono eventi traumatici multipli che si ripetono in
intervalli di tempo prolungati. I traumi complessi sono tipicamente di tipo
interpersonale, come gli abusi e i maltrattamenti inflitti all’interno di
relazioni alle quali la vittima non può sottrarsi: tali sono, per esempio, le
relazioni fra la vittima e i suoi carnefici in un carcere in cui si pratichi la
tortura, o le relazioni fra un bambino e un genitore maltrattante.
L’effetto del trauma complesso, verosimilmente, è particolarmente
grave se esso si verifica durante il periodo di maturazione della personalità
(Ford, Courtois, 2009). Interferendo con lo sviluppo delle capacità di
autoregolazione psicobiologica, di adattamento all’ambiente interpersonale
e di costruzione dell’immagine di sé, il trauma complesso dell’infanzia e
dell’adolescenza può provocare, oltre ai classici sintomi del DPTS, anche
deficit nella regolazione delle emozioni, impulsività, gravi problemi
relazionali, somatizzazioni, dissociazione fra stati dell’io e alterazione
dell’identità (Herman, 1992a). A questo quadro clinico si dovrebbe
applicare, dunque, il nome di DPTSc.
Herman, van der Kolk e altri clinici e ricercatori esperti di patologie
correlate a traumi psicologici si fecero presto promotori dell’inserimento
nel DSM-IV del quadro clinico del DPTSc, suggerendo per esso anche la
denominazione di disorder of extreme stress non othenvise specified
(DESNOS; Disturbo da Stress Estremo Non Altrimenti Specificato, DSE-
NAs). Gli studi epidemiologici per la verifica dei criteri del DPTS nel
DSM-IV hanno suffragato le tesi della Herman, dimostrando che le
esperienze traumatiche prolungate di natura interpersonale, specie durante
lo sviluppo, non sono adeguatamente descritte dai sintomi del DPTS ma
producono l’insieme di sintomi descritto dal DPTSc o DSENAS (van der
Kolk et al., 2005). Successive ricerche hanno ulteriormente ribadito in
modo inequivocabile l’utilità del DPTSc (o DSENAs) nel catturare la
sintomatologia derivante dallo sviluppo traumàtico e da altre forme di
esperienze traumatiche croniche di natura interpersonale (Ford, Courtois,
2009; Roth et al., 1997). Infine alcuni studi neurobiologici hanno
recentemente confermato l’esistenza di una forma di DPTS associata a
prolungate esperienze traumatiche nell’infanzia e caratterizzata da
meccanismi patogenetici dissociativi (Lanius et al., 2010b).
Nonostante queste conferme empiriche, il disturbo per il quale sono stati
proposti i nomi DPTSc e DSENAS non è stato riconosciuto nel DSM-IV
come un quadro clinico separato: i sintomi che lo descrivono sono stati
invece inseriti tra i “sintomi associati” al quadro principale del DPTS nei
casi di traumi infantili e di natura interpersonale: “Modulazione delle
emozioni deficitaria, autodistruttività e comportamenti impulsivi, sintomi
dissociativi, sintomi somatoformi, sentimenti di inefficacia personale,
vergogna, disperazione, sensazione di essere permanentemente danneggiati,
ostilità, ritiro sociale, sensazione di costante minaccia, problemi relazionali
e alterazione della personalità” (APA, 1994).
Recentemente Judith Herman ha rivelato per quale motivo l’American
Psychiatric Association nel 1994 non ha ritenuto di inserire il DPTSc nel
DSM-IV come quadro diagnostico separato: non si adatta perfettamente alla
categoria dei disturbi d’ansia (nella quale è inserito il DPTS), e la sua
collocazione appropriata sarebbe tra i disturbi dissociativi, tra quelli di
somatizzazione o tra i disturbi di personalità (Herman, 2009). Molti, a
iniziare dalla stessa Herman, concordano con l’osservazione che il DPTSc
non può essere considerato fra i disturbi d’ansia, ma ritengono che sarebbe
opportuno capovolgere il problema e inserire anche il DPTS, oltre al
DPTSc, nella classe dei Disturbi Dissociativi. Altri, in alternativa,
osservano che effettivamente il DPTSc può essere concepito come una
variante del Disturbo Borderline di Personalità (DBP) aggravata da una più
ampia presenza di sintomi dissociativi e somatoformi.
In effetti, è già da tempo noto che una percentuale elevata di pazienti
con diagnosi di DBP riferisce storie di sviluppo traumatiche e presenta
sintomi dissociativi più evidenti rispetto ad altri pazienti con la stessa
diagnosi ma senza storie traumatiche: sarebbe quindi logico pensare che la
diagnosi di DPTSc si adatti bene a questo sottogruppo di pazienti,
modificando però il nome “DPTSc” in modo da evidenziare l’appartenenza
del disturbo all’Asse II e non all’Asse I come il DPTS. Un gruppo di
ricercatori canadesi ha suggerito di inserire il quadro clinico del DPTSc fra
i Disturbi di Personalità, col nome di Disturbo Post-Traumatico di
Personalità (DPTP), distinguendolo dal DBP sulla base della possibilità di
rintracciare, oppure no, storie traumatiche, e sulla base della maggiore o
minore evidenza di sintomi dissociativi (Classen et al., 2006).
Questa proliferazione di proposte per trovare una collocazione al pur
preciso e identificabile quadro clinico del DPTSc illustra bene i seri
problemi nosologici che si incontrano quando l’ideologia con la quale il
DSM perviene alla sua classificazione dei disturbi deve confrontarsi col
trauma complesso - cioè in buona sostanza con lo sviluppo traumatico.
Riteniamo che la difficoltà di sistemazione nosografica dipenda dalla natura
dissociativa dei processi patogenetici alla base dello sviluppo traumatico.
La dissociazione si estende come una dimensione psicopatologica su
differenti aree del funzionamento psichico, e per tale ragione mal si adatta
all’ideologia categoriale del DSM. Pensare a uno spettro post-traumatico
(Bremner, 2005; Helling, 2009) composto da disturbi diversi ma tutti
riconducibili a sviluppi traumatici, e tutti collocabili nella dimensione della
dissociazione, potrebbe rivelarsi la sola via d’uscita da questa impasse
nosologica. In altre parole, la collocazione del DPTS tra i disturbi d’ansia
del DSM-IV - nonostante sia argomentabile che i sintomi che lo
caratterizzano e i processi psicopatologici che lo provocano appartengono
alla dimensione dissociativa (Frewen, Lanius, 2006; Holmes et al., 2005) - è
uno degli ostacoli da rimuovere perché il DPTSc o DSENAS sia finalmente
considerato come una legittima categoria nosografica del DSM.
Mentre i clinici che lavorano con pazienti adulti possono attendere
senza particolare urgenza che il problema della collocazione nosografica

Tabella 1.1 Criteri diagnostici per il disturbo traumatico dello sviluppo


(tratto da van der Kolk, 2005).

Cluster A: Esposizione a violenza interpersonale e grave


trascuratezza nell’accudimento
Custer B: Disregolazione emotiva e nelle funzioni fisiologiche
B.1 Inabilità a modulare e tollerare stati emotivi negativi
B.2 Disturbi nella regolazione delle funzioni corporee di base come
disturbi del sonno, dell’alimentazione, iper-reattività agli stimoli sensoriali
B.3 Stati dissociativi, dissociazioni somatoformi
B.4 Marcata alessitimia intesa come difficoltà nel riconoscere,
descrivere e comunicare sensazioni corporee, stati emotivi, desideri e
bisogni

Cluster C: Disturbi comportamentali e cognitivi


C.1 Incapacità nel percepire ed evitare o difendersi dalle minacce o
allarme eccessivo per stimoli minacciosi, sia ambientali sia relazionali
C.2 Alterazioni nella capacità di proteggersi ed esposizione a situazioni
rischiose
C.3 Disturbi comportamentali derivanti da manovre di autoconforto
(masturbazione cronica, stereotipie motorie, automutilazioni, abuso di
sostanze)
C .4 Comportamenti automutilanti reattivi o abituali
C.5 Difficoltà a pianificare, iniziare o completare un compito,
concentrarsi su un compito, organizzarsi per ottenere benefici

Cluster D: Disturbi nella percezione di sé e delle relazioni


interpersonali
D.1 Disturbi nelle relazioni di attaccamento (difficoltà di separazione,
timore nel ricongiungimento)
D.2 Sentimenti di avversione per se stessi, senso di inaiutabilità,
convinzioni di mancanza di valore, incapacità, essere sbagliati o difettosi
D.3 Senso di sfiducia nei propri confronti e nei confronti degli altri con
atteggiamenti ipercritici o di rifiuto verso le persone più vicine (caregiver)
D.4 Comportamenti aggressivi (verbali e fisici) anche verso i caregiver
D.5 Comportamenti inappropriati di vicinanza e fiducia verso estranei
anche con comportamenti sessuali inappropriati
D.6 Difficoltà o incapacità a regolare il contatto empatico (eccessivo
coinvolgimento o distacco nelle situazioni sociali)

Cluster E: Sintomatologia del DPTS


Cluster F: Difficoltà nel funzionamento globale familiare, sociale,
scolastico, comportamentale

del DPTSc venga risolto, i clinici che lavorano con bambini il cui
sviluppo avviene in ambienti traumatici sentono in modo particolare
l’urgenza di disporre di strumenti diagnostici adeguati. Nella psicopatologia
dell’infanzia e dell’adolescenza, infatti, l’inadeguatezza dei criteri del
DPTS per diagnosticare gli effetti di traumi interpersonali complessi è
ancora più evidente che nella psicopatologia dell’età adulta (Speranza,
Nicolais, 2009). Inoltre, manca al neuropsichiatra infantile e allo psicologo
clinico dell’età evolutiva la possibilità di ricorrere a diagnosi di disturbo di
personalità, con le quali almeno in parte si può identificare il quadro clinico
del DPTSc. Infine, colmare la mancanza di un quadro diagnostico dell’età
evolutiva espressamente legato allo sviluppo traumatico è reso ancora più
urgente dalla possibilità a questa età di prevenire la stabilizzazione della
sintomatologia. Per questi motivi, gli psichiatri e psicologi clinici del Child
Traumatic Stress Network (CTSN) statunitense (una rete di professionisti e
centri di assistenza al trauma infantile) hanno ripreso, con alcune modifiche,
i criteri diagnostici del DPTSc declinato nella clinica dell’età evolutiva,
attribuendogli il nome di Disturbo Traumatico dello Sviluppo (DTS; van
der Kolk, 2005). Il quadro clinico del DTS è riassunto nella tabella 1.1.
All’inizio del 2009 un comitato del CTSN ha formulato la proposta di
inserire il DTS nella quinta versione del DSM. E' da augurarsi che la
commissione per il DSM-V riconosca la diagnosi di DTS e che la estenda
agli adulti, recuperando l’idea del DPTSc.

IL QUADRO CLINICO DEL DPTSc: UNA BASE PER LO


STUDIO DELLO SVILUPPO TRAUMATICO

Il quadro clinico del DPTSc prevede sette gruppi di sintomi (tabella


1.2): alterazioni della regolazione di emozioni e impulsi, sintomi
dissociativi e difficoltà dell’attenzione, sintomi somatoformi, alterazioni
nella rappresentazione o percezione di sé, alterazioni nella rappresentazione
o percezione delle figure maltrattanti, disturbi relazionali, alterazioni dei
significati personali.

Alterazioni della regolazione delle emozioni e degli impulsi

I pazienti con traumi complessi tipicamente hanno difficoltà, talora


gravi, a regolare e modulare emozioni primarie come paura e collera. Fanno
parte di questi sintomi anche la tendenza a comportamenti impulsivi

Tabella 1.2 Criteri diagnostici per il DPTSc o DSENAS (tratto da van


der Kolk et al., 2005).
1. Alterazioni nella regolazione delle emozioni e del
comportamento: a) Alterazione nella regolazione delle emozioni; b)
Difficoltà di modulazione della rabbia;
c) Comportamenti autolesivi; d) Comportamenti o preoccupazioni
suicidane; ,
e) Difficoltà nella modulazione del coinvolgimento sessuale; f)
Tendenza eccessiva a comportamenti a rischio (scarsa capacità
autoprotettiva)
2. Disturbi della coscienza e dell’attenzione: a) Amnesia; b)
Episodi dissociativi transitori, depersonalizzazione
3. Somatizzazioni: a) Disturbi al sistema digerente; b) Dolori cronici;
c) Sintomi cardiopolmonari; d) Sintomi da conversione; e) Sintomi da
disfunzioni sessuali
4. Alterazioni della percezione di sé: a) Senso di impotenza e scarsa
efficacia personale; b) Sensazione di essere danneggiati; c) Senso di colpa e
di responsabilità eccessivi; d) Vergogna pervasiva; e) Idea di non poter
essere compresi;
f) Minimizzazione
5. Alterazioni nella percezione delle figure maltrattanti: a)
Tendenza ad assumere la prospettiva dell’altro; b) Idealizzazione del
maltrattante; c) Timore di danneggiare il maltrattante
6. Disturbi relazionali: a) Incapacità o difficoltà ad avere fiducia
negli altri; b) Tendenza a essere rivittimizzato; c) Tendenza a vittimizzare
gli altri
7. Alterazioni nei significati personali: a) Disperazione e senso di
inaiutabilità; b) Visione negativa di sé; c) Perdita delle convinzioni
personali

e autolesivi, e probabilmente anche problemi di craving che inducono in


alcuni di questi pazienti lo sviluppo di disturbi da abuso di alcol e sostanze
stupefacenti. E' importante notare che l' attivazione emotiva intensa dovuta
alla scarsa modulazione può produrre un circolo vizioso in cui l’emozione
non modulata determina dis-integrazione cognitiva la quale peggiora la
possibilità di regolare lo stato emotivo che di nuovo aggrava le difficoltà di
integrazione cognitiva (dissociazione). Le neuroscienze stanno
documentando come le esperienze traumatiche durante specifiche fasi dello
sviluppo mentale possano provocare modificazioni stabili delle reti neurali
coinvolte nel compito di regolare le emozioni (De Bellis, 2005; Schore,
2009a).

Sintomi dissociativi e difficoltà di attenzione

Oltre a stati di depersonalizzazione e derealizzazione fanno parte di


questo gruppo disturbi della memoria autobiografica e amnesie dissociative.
In questo gruppo di sintomi sono compresi anche deficit dell’attenzione e
delle capacità metacognitive (o di mentalizzazione).

Somatizzazioni

Recuperando la tradizione psicopatologica dei primi del Novecento e


sulla base delle crescenti prove sperimentali, gli estensori dei criteri del
DPTSc o DSENAS hanno inserito tra le conseguenze dello sviluppo
traumatico sia i sintomi pseudoneurologici descritti nei Disturbi di
Conversione del DSM-IV, sia altri tipi di sintomi somatoformi come i
disturbi gastrointestinali funzionali e le sindromi dolorose croniche.

Alterazioni nella percezione e rappresentazione di sé

Traumi interpersonali prolungati durante lo sviluppo sono spesso causa


di senso di impotenza e scarso senso di efficacia personale, sensazione di
inaiutabilità e disperazione. Si sviluppano inoltre rappresentazioni
contrapposte e ambivalenti, di aver subito gravi torti ed esserne
permanentemente danneggiati, e di responsabilità personale per le
esperienze traumatiche con conseguenti sentimenti di colpa e vergogna.

Alterazioni nella percezione delle figure maltrattanti

La dipendenza da coloro che sono la causa dell’esperienza traumatica


può provocare la tendenza a idealizzare le figure maltrattanti, ad assumerne
le convinzioni distorte e addirittura a proteggerli. Ferenczi chiamava
“identificazione con l’aggressore” (Ferenczi, 1933) questo paradossale stile
relazionale osservabile non solo nei bambini che subiscono traumi
intrafamiliari, ma anche negli adulti vittime di abusi interpersonali in età
evolutiva. La teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969) lo spiega col bisogno
di adattarvisi per ottenere comunque un minimo di vicinanza protettiva, sia
nel caso dei genitori maltrattanti durante l’infanzia, sia in quello di altre
figure di riferimento nella vita adulta come coniugi, fidanzati, insegnanti,
datori di lavoro ma anche carcerieri nel caso di lunghe prigionie in cui la
vittima non ha altri a cui rivolgere la potente tendenza a cercare conforto in
un membro del gruppo sociale. Questa alterazione nella percezione
dell’aggressore spesso causa la tendenza alla rivittimizzazione, cioè a
mettersi in situazioni relazionali nuove a rischio di ripetizione del
maltrattamento.

Disturbi relazionali

I contesti relazionali traumatici influenzano lo sviluppo delle


competenze interpersonali causando tipicamente gravi difficoltà a riporre
fiducia negli altri, oscillazioni fra ricerca di vicinanza protettiva e paura
dell’intimità affettiva, e comportamenti inappropriati di controllò della
relazione, sino talora all’uso della violenza. Talora, le relazioni affettive
divengono instabili a causa della drammaticità dello scambio emotivo, in
maniera simile a quella tipicamente riscontrata nel disturbo borderline di
personalità. Talaltra, al contrario, sono affettivamente appiattite dal
continuo sforzo di compiacere l’altro, verso il quale si sviluppa una
patologica dipendenza, come tipicamente si osserva anche nei pazienti con
disturbo di personalità dipendente. Altre volte ancora, spicca un evitamento
dell’intimità affettiva che ricorda il disturbo di personalità evitante. Anche
l’oblatività coatta può essere un segno delle conseguenze relazionali di uno
sviluppo traumatico.

Alterazioni nei significati personali

La difficoltà se non l’impossibilità a sfuggire alle esperienze


traumatiche, provocate da coloro che in altri momenti hanno fornito se non
anche conforto e calore affettivo almeno cura (altrimenti il paziente
maltrattato in famiglia non sarebbe sopravvissuto), causa in questi pazienti,
oltre alla generale visione negativa di sé ricordata sopra, una serie di
credenze patogene. Per fare solo alcuni esempi fra i tanti possibili, la
convinzione che è sempre drammatico manifestare dissenso verso una
persona a cui si è affettivamente legati, oppure la credenza che è necessario
dedicare il proprio corpo alla gratificazione sessuale dell’altro ma non alla
propria, o la credenza che sia impossibile perseguire sia mete di autonomia
sia mete di vicinanza affettiva.

Questo insieme di sintomi, comunque un giorno lo si vorrà chiamare


(DPTSc, DSENAS, DPTP, DTS, o altrimenti),3 costituisce il punto di
riferimento per tutte le considerazioni che svilupperemo nel resto del
volume. E' pertanto opportuno esemplificarlo con qualche caso clinico.

Giulio è un paziente di circa 30 anni inviato a una psicoterapia per


il trattamento di un Disturbo da Attacchi di Panico con Agorafobia
complicato da sintomi somatoformi. Nonostante un deciso
miglioramento iniziale della sintomatologia e l'instaurarsi di una buona
relazione terapeutica, dopo pochi mesi Giulio interrompe bruscamente
la psicoterapia nella convinzione di essere stato trascurato dal
terapeuta durante un momento di difficoltà. Alcune settimane più tardi
il paziente ricontatta il terapeuta chiedendo di riprendere la terapia e
comunicando imbarazzo, senso di colpa e di indegnità per averla
interrotta. Da quel momento Giulio svelerà al terapeuta alcuni aspetti
di sé che aveva tenuto nascosti nella prima fase del trattamento, nel
timore di essere “giudicato male”: un ambiguo e profondo senso di
sfiducia nei confronti delle persone a lui più vicine e la contemporanea
convinzione di essere “geneticamente portato a fare del male agli
altri”. Durante le fasi successive della terapia emergeranno inoltre
numerosi altri problemi: difficoltà a modulare e gestire la paura ma
anche la rabbia, con conseguenti difficoltà interpersonali, invalidanti
sindromi dolorose al volto e ai denti, e sintomi dissociativi sotto forma
di depersonalizzazioni e derealizzazioni (che precedono e non seguono
gli attacchi di panico). Emergeranno inoltre memorie traumatiche
intrusive di un'infanzia caratterizzata da abusi emotivi e fisici da parte
del padre, e da grave trascuratezza da parte della madre.

Un secondo caso clinico, quello di Anna, mostra le notevoli


somiglianze, in diversi pazienti, della sindrome che sembra conseguire allo
sviluppo traumatico. Come si noterà dalla descrizione che segue, mentre
Giulio aveva sintomi somatoformi a complicare un quadro clinico di panico
e agorafobia, il quadro clinico di panico e claustrofobia di Anna era invece
complicato da atteggiamenti (senso ipertrofico di responsabilità) che
ricordano il disturbo ossessivo-compulsivo. Al di là di questa superficie
sintomatologica, traspariva in entrambi lo stesso insieme di sintomi
caratteristico del DPTSc.

Anna, una donna di circa trentanni, aveva richiesto una


psicoterapia a indirizzo cognitivo-comportamentale su consiglio della
sua psicoanalista, allo scopo di eliminare o mitigare alcuni invalidanti
sintomi d'ansia che il trattamento psicoanalitico (durato alcuni anni e
giudicato da entrambe soddisfacente) non era riuscito a scalfire. Anna
presentò al terapeuta cognitivo-comportamentale un problema, che
doveva essere oggetto circoscritto della terapia secondo la proposta
dell'inviante, caratterizzato da attacchi di panico, claustrofobia e
somatizzazioni (colite spastica), particolarmente frequenti e invalidanti
in situazioni di stress emotivo. Tuttavia, sin dal primo incontro
emersero anche, dal racconto di Anna, segni di variabilità dell'umore,
un pervasivo senso generale di minaccia, difficoltà a controllare la
rabbia nei confronti del partner e alterazioni della coscienza in forma
di sporadici sintomi dissociativi. Non erano presenti elementi
sufficienti per poter diagnosticare la presenza di disturbi di personalità,
ma l'insieme di questi segni non permetteva neppure di escludere un
disturbo di personalità borderline.
Quando le fu proposta la possibilità di essere accompagnata dal
terapeuta in un’esposizione graduale alle situazioni temute (tipica
tecnica cognitivo-comportamentale per i sintomi ansioso-fobici) Anna
rispose seccamente che ciò le sarebbe stato impossibile: pur
speranzosa del buon esito del trattamento, sosteneva che non sarebbe
stata in grado di tollerare l'ansia e di affidarsi ad altri, specialmente nei
momenti di difficoltà. Anna aggiunse che la sua generale sfiducia negli
esseri umani era, paradossalmente, diretta in modo particolare alle
figure che tentavano di prendersi cura di lei. Ulteriori difficoltà
ostacolavano, fin dalle fasi iniziali del trattamento, la prosecuzione
della terapia secondo le strategie lineari della classica terapia
cognitivo-comportamentale per i disturbi ansioso-fobici. Anna viveva
le somatizzazioni ansiose con forte e circolare senso di minaccia: la
loro comparsa determinava in lei la preoccupazione incoercibile che
ciò l'avrebbe esposta a situazioni umilianti e a inimmaginabili,
catastrofiche conseguenze sociali e lavorative. Infine, a complicare la
terapia, interveniva un senso di vergogna e indegnità connesso all’idea
che in qualche modo fosse sua la responsabilità dei sintomi, come pure
di ciò che le era accaduto nell’infanzia. A proposito di ciò che le era
accaduto nell’infanzia, Anna iniziò a raccontare al terapeuta il terrore,
il senso di minaccia e di impotenza provati in casa, assistendo ai
frequenti e drammaticamente violenti litigi tra i suoi genitori, e
successivamente in occasione di maltrattamenti e abusi fisici e psichici
durante la sua infanzia e l’adolescenza. Cominciava così a prendere
forma il resoconto di una storia traumatica di sviluppo.

Il quadro clinico del DPTSc che abbiamo appena descritto e illustrato


con due esempi risulterà certo immediatamente comprensibile al clinico
esperto, che ben conosca il concetto di trauma psicologico, il rapporto fra
trauma e dissociazione, la natura dei processi mentali dissociativi e i diversi
tipi di sintomi che li manifestano (nella duplice forma dell’alienazione e
della compartimentazione), il problema posto dalla dissociazione
somatoforme, e la storia di tutti questi concetti. Per questo lettore esperto il
lungo capitolo seguente risulterà superfluo. Gli altri lettori potranno invece
trovare nel capitolo 2 tutti i concetti di base necessari per comprendere le
riflessioni dei capitoli successivi, capitoli che riguardano l'eziologia dei
disturbi conseguenti a sviluppi traumatici, la loro disseminazione all’interno
di diverse categorie diagnostiche del DSM, e la strategia della psicoterapia
necessaria per tentare di curarli con qualche speranza di successo.

1 K. Kraus (1909), Detti e contraddetti, tr. it. Adelphi, Milano 1992, p.


240.
2 Secondo il Dipartimento per la salute pubblica degli Stati Uniti
d’America circa l’1% dei bambini sperimenta una condizione di
maltrattamento o abuso. Tra questi bambini maltrattati circa il 60% è
vittima di neglect, il 13% sperimenta più di una forma di abuso, il 10%
subisce violenze fisiche e poco più del 7% violenze sessuali (Fairbank,
Fairbank, 2009).
3 Nei capitoli successivi useremo prevalentemente il nome DPTSc,
perché è il primo a essere stato proposto, perché riguarda anche la
popolazione clinica adulta e perché richiama l’attenzione sulla natura
complessa (cumulativa) dell’esperienza traumatica, più che sulla sua
caratteristica, meno frequente, di essere estrema. Useremo talora il termine
DTS quando il contesto suggerisce la presenza di disturbi già in età
infantile.
2

TRAUMA E DISSOCIAZIONE: I CONCETTI DI


BASE E LA LORO STORIA

Il fantasma senza pace di Pierre Janet, scacciato dal castello da


Sigmund Freud un secolo fa, ritorna oggi per tormentare i suoi
discendenti.

PHILIP M. BROMBERG1

Le definizioni di trauma e di dissociazione, e le evoluzioni storiche di


questi concetti, sono così intrecciati fra loro che è utile presentarli insieme.
Le diverse sezioni di questo capitolo tratteranno quindi della definizione di
trauma psicologico, della storia del concetto di trauma in psicopatologia,
poi della travagliata storia del concetto di dissociazione come tipica risposta
al trauma.
Aver ben presente l’impalcatura concettuale riassunta in questo capitolo
e illustrata con abbondanti esemplificazioni cliniche nel successivo, sarà
essenziale per affrontare, nella seconda parte del libro, l’analisi di un
modello teorico adatto a comprendere l’eziopatogenesi degli sviluppi
traumatici, la considerazione della possibile diffusione degli esiti di tali
sviluppi entro diverse categorie dei disturbi psicopatologici dell’adulto, e le
riflessioni sulla terapia.

DEFINIZIONE DI TRAUMA PSICOLOGICO

Per il DSM-IV il trauma psicologico è anzitutto “l’esperienza personale


diretta di un evento che causa o può comportare morte o lesioni gravi, o
altre minacce all’integrità fisica” (apa, 1994). Inoltre, la definizione di
trauma psicologico deve essere estesa a includere aspetti relazionali:
minacce gravi non all’integrità fisica di un organismo ma al tessuto delle
sue relazioni. E' considerato trauma psicologico l’essere'presenti a “un
evento che comporta morte, lesioni o altre minacce all’integrità fisica di
un’altra persona; o il venire a conoscenza della morte violenta o inaspettata,
di grave danno o minaccia di morte o lesioni sopportate da un membro della
famiglia o da altra persona con cui si è in stretta relazione” (APA, 1994).
Tale definizione appare ancora insufficiente: una grave minaccia può
essere implicita in situazioni non direttamente legate all’integrità fisica,
come nel caso della grave trascuratezza emotiva dei genitori nei confronti
del bambino. Per questo motivo la definizione del DSM-IV, rispetto a quella
del DSM-III, si è arricchita del criterio A2 nel DPTS che indaga il modo di
percepire l’evento traumatico della vittima: la risposta al trauma comprende
“paura intensa, sentimenti di impotenza o di orrore”. L’elemento di
percepita totale impotenza, in particolare, appare di cruciale importanza
nella stessa definizione di trauma, e non solo nella descrizione delle risposte
a un evento traumatico. In altre parole, il trauma psicologico, sebbene abbia
un carattere di oggettiva gravità, è sempre definito in rapporto alle capacità
del soggetto di sostenerne le conseguenze. In questo senso, il trauma è
definito come un evento emotivamente non sostenibile per chi lo subisce.
L’abbandono è traumatico quando avviene nell’infanzia dove le cure da
parte degli adulti sono essenziali e la condizione di abbandono è una grave
minaccia; diversamente dalla vita adulta dove ciò, sebbene possa essere
un’esperienza dolorosa, non dovrebbe rappresentare, di per sé, un trauma.
La possibilità di reagire efficacemente a una minaccia pone dunque il
confine tra un’esperienza estrema e grave ma non necessariamente patogena
e il trauma psicologico. Uno studioso dell’Olocausto descrive il senso di
inevitabilità del trauma con queste parole: “La prima condizione della
situazione estrema è che non vi è via di fuga, non c’è luogo in cui scappare,
se non la tomba” (Beebe Tarantelli, 1992). Vivere una situazione
minacciosa alla quale è impossibile sottrarsi o reagire efficacemente
neutralizzandola, e contro la quale non si ottiene sufficiente aiuto o
sostegno da altri - soprattutto se la situazione traumatica è continua o
frequente come negli sviluppi traumatici - genera dunque un senso di
sfiducia conseguente all’impotenza, che diventa uno degli elementi clinici
più comuni e importanti nei disturbi correlati ai traumi. “Il trauma psichico
è il dolore degli impotenti. Nel momento del trauma, la vittima è resa
inerme da una forza soverchiante” (Herman, 1992a, p. 51).
Riassumendo i concetti fin qui esposti: per evento traumatico si intende
un evento stressante, dal quale non ci si può sottrarre, che sovrasta le
capacità di resistenza dell’individuo (van der Kolk, 1996). Dunque un fatto
isolato, grave ed estremo (per esempio, un terremoto, una violenza sessuale,
un incidente stradale), o una circostanza più duratura ma sempre circoscritta
nel tempo (per esempio, i mesi di prigionia durante una guerra).
L’espressione sviluppo traumatico si riferisce invece a condizioni stabili di
minaccia soverchiante da cui è impossibile sottrarsi che costellano,
ripetendosi con effetti cumulativi, ampi archi di tempo dello sviluppo
individuale (per esempio, le condizioni di violenza e trascuratezza ripetute a
cui è esposto per anni un bambino che cresce in una famiglia maltrattante).
Lo sviluppo traumatico è, come si è detto nel capitolo precedente, l’esempio
più frequente e importante di trauma complesso.
Recentemente, è stata suggerita l’esistenza di ancora un altro tipo di
trauma, non identificato dalla letteratura “classica” sul DPTS non solo
perché complesso, ma anche perché assolutamente caratteristico, per la sua
intrinseca natura, dei primi due anni di vita. Si tratta del trauma relazionale
precoce (Schore, 2003,2009a) che caratterizza interazioni fra il bambino e
chi lo accudisce marcate da una sorta di contagio della paura continuamente
e inconsapevolmente espressa dall’adulto e “assorbita” dal bambino. Di
questo tipo di trauma, che coincide con la disorganizzazione
dell’attaccamento e che è particolarmente interessante per lo studio degli
sviluppi traumatici, tratteremo estesamente nel capitolo 4.

STORIA DEL CONCETTO DI TRAUMA PSICOLOGICO

Pierre Janet, che operò in Francia tra la fine dell’Ottocento e la prima


metà del Novecento, è considerato il pioniere della moderna
psicotraumatologia. Buona parte delle moderne teorie sui disturbi
posttraumatici da stress è conforme alle idee di Janet, se non direttamente
basata su esse (Howell, 2005, pp. 50-53). Per Janet, come per il DSM-IV, il
trauma psicologico è un evento identificabile in base alle “emozioni
veementi”, che sopraffanno le capacità dell’individuo di gestirle nella
coscienza (vedi van der Kolk, van der Hart, 1989).
L’idea di trauma psicologico, responsabile di disturbi che all’epoca
erano chiamati isterici, era già presente nell’opera di immediati
predecessori o contemporanei di Janet: vanno ricordati a questo riguardo i
nomi del francese Briquet, del tedesco Oppenheim, dell’inglese Page e
dell’americano Putnam (per maggiori notizie, vedi Ellenberger, 1970; Dell,
O’Neil, 2009;van der Kolk et al., 1996; van der Hart, Dorahy, 2009).
Tuttavia, il merito di avere definito chiaramente il concetto di trauma
psicologico e descritto minuziosamente la natura delle sue conseguenze
psicopatologiche va certamente attribuito a Janet.
Sigmund Freud non solo aderì inizialmente alle tesi di Janet,2 ma fornì
uno dei più importanti contributi allo studio dell’origine traumatica
dell’isteria ipotizzandone l’origine in abusi sessuali nell’infanzia. In un
secondo tempo, tuttavia, Freud rivide le sue iniziali teorie, ne divenne
severo critico, contestò il lavoro di Janet e ne negò l’influenza sul proprio.
Nella seconda fase della sua opera Freud rinnegò decisamente l’effetto delle
esperienze traumatiche reali nello sviluppo psicopatologico: i sintomi
isterici per Freud divennero, come è ben noto, l’espressione simbolica del
conflitto tra desideri inconsci e difese dell’io. Dopo la morte di Freud, per
più di mezzo secolo, l’ortodossia psicoanalitica seppellì le teorie sul trauma.
Gli psicoanalisti che tentarono di recuperare questi concetti, da Sàndor
Ferenczi a John Bowlby, rischiarono di essere bollati come “eretici”.
Insieme all’effetto di una teoria influente come quella psicoanalitica,
altri fattori, di natura politica, contribuirono certamente alla progressiva,
pressoché totale scomparsa dell’interesse per i traumi psicologici fra
psichiatri e psicologi. Per esempio, l’impatto emotivo sui combattenti della
Prima guerra mondiale, osservato dagli psichiatri militari dell’epoca,
incontrò subito il tentativo delle autorità militari e politiche di minimizzarne
la portata. Pur essendo stato scoperto che l’esposizione prolungata a scene
di morte violenta provocava quadri nevrotici simili all’isteria, la scoperta fu
in qualche modo occultata. Nonostante l’evidenza schiacciante delle
conseguenze emotive traumatiche tra i combattenti (che tra quelli britannici
raggiunse il 40%), la ricerca delle cause e dei rimedi si incagliò su
insinuanti spiegazioni moralistiche che vedevano nelle reazioni al trauma
segni di pigrizia, codardia e “l’odioso nemico del disfattismo” (Herman,
1992b). Ancora nel secondo dopoguerra, nonostante gli effetti del conflitto
mondiale, era viva in molti la convinzione dell’inesistenza dei disturbi da
trauma.
Le conseguenze emotive degli orrori della Seconda guerra mondiale,
tuttavia, finirono per riaccendere l’interesse sui traumi psichici superando
l’interdizione teorica posta dalla psicoanalisi dell’epoca e i pregiudizi degli
ambienti militari e della società. La realtà dei sopravvissuti ai
combattimenti e alle prigionie, dei pochi scampati all’Olocausto e degli
orfani ha finito per costringere psichiatri e psicologi - ma anche le autorità
militari e civili - a occuparsi delle esperienze traumatiche. Lo psichiatra
statunitense Abraham Kardiner nel 1947 pubblicò insieme al collega
Herbert Spiegel un saggio clinico sul trauma bellico divenuto un classico:
War, Stress and Neurosis. Basandosi sulle idee del trauma e della
dissociazione di Janet, Kardiner gettò le basi per le moderne categorie
diagnostiche dei disturbi post-traumatici e indicò le prime linee guida per la
loro terapia.3
Se la rinascita dell’interesse per gli effetti patologici dei traumi può
essere fatta risalire al decennio che seguì la fine della Seconda guerra
mondiale, fu necessario attendere la tragedia della guerra nel Vietnam
perché i disturbi post-traumatici ottenessero il necessario pieno
riconoscimento da parte della comunità scientifica, e l’altrettanto necessario
pieno riconoscimento sociale come problema di sanità pubblica. Il
rinnovato interesse degli psichiatri e le crescenti pressioni sociali dovute
alla contestazione della guerra, spinsero la pubblica amministrazione
statunitense ad aprire centri specializzati per il recupero dei soldati
traumatizzati. Furono finanziate ricerche che, fra gli altri meriti, ebbero
quello di generare una crescente attenzione verso altri generi di trauma:
violenza sulle donne e sui bambini, tentati omicidi, disastri civili, effetti di
catastrofi naturali, tortura. Nel 1980 l’American Psychiatric Association
(apa), con molti anni di colpevole ritardo, ma comunque in anticipo su altre
istituzioni scientifiche, inserì nella terza edizione del proprio sistema
diagnostico, il Diagnostic and Statistical Manual ofMental Disorders
(DSM-III), la diagnosi di Disturbo Post-Traumatico da Stress (dpts). Veniva
così finalmente restituita piena dignità alla psicotraumatologia. Il grafico
che segue (figura 2.1) illustra con grande chiarezza gli effetti che tale
riacquistata dignità ha avuto sulla comunità scientifica.
L’esplosione di pubblicazioni scientifiche sui traumi psicologici e il
DPTS dopo il 1980 ha potentemente influenzato anche la comunità
psicoanalitica, dalla quale provengono contributi di grande interesse per la
comprensione delle patologie collegate a traumi (Albasi, 2006,2009;
Bromberg, 1998,2009; Horowitz, 1986; Howell, 2005; Krystal, 1988).
Come recentemente ha ricordato Ammaniti, nel mondo della psicoanalisi
“la realtà si è imposta obbligando a riconoscere che lo sviluppo infantile

Figura 2.1 Nel grafico sono riportate le frequenze con le quali


appare nella letteratura medica (PubMed;
www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed) l’associazione tra i termini “trauma -
abuso” e “fegato - rene”: è interessante notare che a partire dagli anni
Ottanta, da quando l’APA ha introdotto la diagnosi di DPTS,
l’interesse degli studiosi per gli effetti traumatici di esperienze estreme
ha avuto un’accelerazione ragguardevole.

è fortemente influenzato dall’ambiente come il caso delle carenze, dei


traumi e degli abusi che lasciano segni indelebili nella psiche non ancora
matura del bambino” (Ammaniti, 2009). Lo psicoanalista Philip Brom-berg,
con la sua consueta sorridente originalità, ha commentato così le recenti
evoluzioni della psicoanalisi in merito al ruolo del trauma in psicopatologia
(come anticipato in esergo a questo capitolo): “Se si leggesse l’attuale
letteratura psicoanalitica come un romanzo gotico a puntate, non sarebbe
difficile intravedere il fantasma senza pace di Pierre Janet, scacciato dal
castello da Sigmund Freud un secolo fa, ritornare oggi per tormentare i suoi
discendenti” (Bromberg, 1998, p. 119).

LA DISSOCIAZIONE COME CONSEGUENZA DEL TRAUMA:


STORIA DI UN CONCETTO
Trauma e dissociazione in psicopatologia sono concetti strettamente
associati, non solo nell’evidenza epidemiologica del rapporto causale tra
sviluppo traumatico e sintomi o disturbi dissociativi (Dutra et al., 2009), ma
anche e soprattutto nel meccanismo patogenetico del trauma. Il trauma
attiva arcaici meccanismi di difesa dalle minacce ambientali (immobilità
tonica o freezing prima, e immobilità cataplettica dopo le reazioni di
attacco-fuga) che provocano il distacco dall’usuale esperienza di sé e del
mondo esterno e conseguenti sintomi dissociativi (depersonalizzazione e
derealizzazione). Questo distacco implica una brusca sospensione
nell’esercizio delle normali capacità di riflessione e mentalizzazione
(metacognizione), e quindi un ostacolo all’integrazione dell’evento
traumatico nella continuità della vita psichica. Da tale dis-integrazione delle
memorie traumatiche rispetto al flusso continuo dell’autocoscienza e della
costruzione di significati deriva la frammentazione delle rappresentazioni di
sé, o meglio la molteplicità non integrata degli stati dell’io, che caratterizza
la dissociazione patologica.
Questa sintesi, i cui elementi verranno approfonditi nel successivo
capitolo 3, è frutto di una lunga storia, importante da conoscere per
comprendere il concetto di dissociazione, e che ricapitoleremo
concentrandoci sui contributi di tre dei suoi protagonisti: John Hughlings
Jackson (nato nel 1835 e morto nel 1911), Pierre Janet (nato nel 1859 e
morto nel 1947) e Ernest Hilgard (nato nel 1904 e morto nel 2001).

John Hughlings Jackson

Secondo Jackson la mente, radicata nel mondo naturale, consiste in


un’organizzazione gerarchica di strutture e funzioni mentali che, riflettendo
la storia evoluzionistica, integra livelli anatomo-funzionali sempre più
complessi in coordinazione tra loro. Ogni livello superiore si coordina con
quelli inferiori e li modula, costruendo le loro rappresentazioni. Il livello
più basso comprende le funzioni più semplici e automatiche come i riflessi,
le percezioni semplici e le reazioni automatiche. A un livello più elevato
appartengono le funzioni della vita di relazione, che si integrano con le
funzioni del livello inferiore organizzandole e asservendole agli scopi
sociali sempre più complessi determinati dalla storia dell’evoluzione delle
specie. Al livello più alto la mente rappresenta se stessa integrando l’attività
delle sue componenti inferiori. Rappresentando se stessa la mente produce
ciò che chiamiamo coscienza, che per Jackson costituisce dunque il livello
più alto della capacità integrativa della mente, ma anche, per la sua
complessità e per la sua origine recente nella storia dell’evoluzione, quello
più vulnerabile.
L’architettura morfofunzionale della mente ipotizzata da Jackson, oltre
ad anticipare le tesi dell’antropologia e della psicologia evoluzionista
contemporanea (vedi capitolo 3), superava la dicotomia mente-corpo, allora
largamente dominante in psicologia, in una concezione che oggi
chiameremmo biopsicosociale (Ceccarelli et al., 2004). In particolare, tale
architettura è fortemente relazionale perché è fondata sul principio che la
mente si sia evoluta allo scopo di adattarsi alla relazione sempre più
complessa con l’ambiente sino all’adattamento alla vita sociale dei
mammiferi e ai complessi scambi interpersonali possibili all’uomo(Ey,
1975; Farina et al., 2005; Liotti et al., 2008a).
Per Jackson la psicopatologia dissociativa consiste nella dissoluzione
funzionale della capacità integratrice dei livelli superiori, ovvero della
coscienza. La conseguenza della dissoluzione della coscienza non si
manifesta solamente col deficit della funzione integratrice superiore, ma
anche con l’emersione incontrollata e disordinata di quella inferiore non più
regolata da essa. Il modello di organizzazione mentale e di dissoluzione di
Jackson permette di spiegare perché la patologia dissociativa non è limitata
alla comparsa di alterazioni della coscienza come la depersonalizzazione o
il disorientamento spaziotemporale, ma si esprime anche con l’emersione
incontrollata di memorie traumatiche (come nel DPTS) oppure con la
difficoltà di modulare lo stato emotivo, come nel DBP (Meares, 2000;
Schore, 2009a). Le teorie di Jackson sui principi generali dell’architettura
mentale e del meccanismo psicopatologico della dissoluzione hanno
influenzato le opere di Freud e soprattutto le idee sul trauma e la
dissociazione di Janet. E' stata ripresa da Piaget e, negli anni Settanta, dallo
psichiatra Henri Ey:

Alla fine del XIX secolo vi sono stati tre grandi medici
psicopatologi. Soltanto uno dei tre (S. Freud) ha raccolto nel e col
movimento del bilanciere epistemico il trionfo e la gloria della sua
opera. Gli altri due (H. Jackson e P. Janet) sono rimasti nella
penombra. Sarebbe tempo che una più esatta visione delle cose li
ricollocasse al loro rispettivo posto; voglio dire, mantenendo a
ciascuno ogni dovuto riguardo, sul loro piedistallo. (Ey, 1975, p. 227)

Pierre Janet

Janet descrisse dettagliatamente l’effetto frammentante e


disorganizzante delle esperienze traumatiche sullo sviluppo affettivo e
cognitivo dell’individuo (van der Kolk, van der Hart, 1989). La teoria
generale di Janet sul funzionamento mentale deriva sostanzialmente
dall’opera di Jackson. Janet, come Jackson, poneva al vertice
dell’organizzazione mentale la coscienza, alla quale attribuiva alcune
specifiche funzioni di integrazione. In particolare, Janet considerava tre
aspetti della funzione integratrice della coscienza:

a) la sintesi personale, ovvero la capacità di creare un’organizzazione


coerente delle memorie e dell’esperienza di sé che permette di sperimentare
un sentimento d’identità costante;
b) la presentificazione, ovvero la capacità attiva della mente di
concentrarsi sul presente senza vagare tra le memorie del passato
confondendole con il momento presente;
c) la funzione di realtà, che consiste nella capacità della mente di agire
sulla realtà modificandola consapevolmente secondo gli scopi
dell’individuo. Per Janet la funzione di realtà implica una profonda
consapevolezza degli stati d’animo e delle convinzioni proprie e altrui.
Inoltre, essa esprime la capacità libera dell’individuo di autodetermi-narsi.
Esistono molte analogie tra la funzione di realtà e le funzioni metacognitive
o di mentalizzazione della letteratura contemporanea (Allen et al., 2008;
Falcone et al., 2003; van der Hart et al., 2006).

Secondo Janet la psicopatologia post-traumatica consiste nella perdita


della coerenza e dell’integrazione delle attività psichiche (désagregation),
conseguente alla progressiva dissoluzione delle funzioni di coscienza a
iniziare dalla funzione di realtà per poi estendersi alla presentificazione e
alla sintesi personale.4 Un aspetto cruciale di questa teoria patogenetica è
costituito dall’idea che le memorie traumatiche non vengono rimosse
(perché intollerabili) dopo essere state registrate, ma fin dall’inizio non si
integrano nella sintesi personale attraverso la funzione di realtà.
Diversamente dunque da quanto sostenne poi Freud trattando del costituirsi
della mente inconscia, non vi è bisogno nel caso dei traumi di postulare un
meccanismo di rimozione, dopo l’iniziale registrazione, che abbia lo scopo
di proteggere la mente dal dolore della memoria traumatica: di fronte al
trauma si creano direttamente le condizioni (deficit di integrazione) per un
difetto di registrazione dell’evento nella memoria e per la sua separazione
dal flusso abituale della coscienza.
Durante il lavoro terapeutico con le sue pazienti Janet comprese anche
che le memorie delle esperienze traumatiche - memorie che oggi
distingueremmo in sensoriali o implicite, semantiche ed episodiche - se
ripetute durante lo sviluppo possono unirsi al di fuori della coscienza,
formando vere e proprie personalità secondarie dissociate fra loro (cioè
escluse dalla sintesi personale) ma capaci di riemergere
improvvisamente nella coscienza alternandosi fra loro. Egli fu quindi anche
uno dei precursori dello studio della personalità multipla ovvero, come
attualmente viene chiamata, del disturbo dissociativo dell’identità.
Nonostante la sua importanza, l’opera di Janet fu per molti anni
pressoché dimenticata. Ellenberger la definì “una grande città sepolta sotto
le ceneri, come Pompei” (Ellenberger, 1970). Dopo la morte di Charcot, il
suo successore alla direzione della Salpètrière, Babinski, trascurò gli studi
sull’isteria e Janet fu isolato. Janet non ebbe mai una scuola, né allievi.
Inoltre fu oscurato da Freud, con il quale entrò in un insanabile contrasto.
Così la psichiatria dinamica, con le sole eccezioni dell’opera di Ey e di
Sullivan (Bromberg, 1998; Farina et al., 2005) perse progressivamente
interesse per la psicopatologia janetiana della dissociazione, fino a quando
essa fu risuscitata, a opera di Hilgard, per dar conto di una serie di dati
emersi da ricerche sperimentali.

Ernest R. Hilgard

In una serie di ricerche controllate sul comportamento dei soggetti posti


in stato di ipnosi, Hilgard osservò che se da un lato durante la trance i
soggetti non reagivano agli stimoli dolorosi, dall’altro ne mostravano
consapevolezza attraverso la scrittura automatica (forma di comunicazione
operata durante lo stato di trance, dove il soggetto descrive le sue
esperienze mediante scrittura mentre mantiene uno stato di coscienza
alterata). Fenomeni analoghi sono osservabili anche nei pazienti epilettici
quando mostrano di ricordare ciò che è accaduto durante una loro crisi
anche se in quel momento non apparivano vigili né coscienti e al termine
della crisi erano assolutamente immemori e inconsapevoli di quanto
accaduto (Blumenfeld, 2009). Per dar ragione di queste osservazioni,
Hilgard formulò l’ipotesi - controversa - dell’osservatore nascosto (hidden
observer), e l’ipotesi collaterale - assai meno controversa - che esistano
livelli separabili di attività cosciente, di cui la capacità di comunicare agli
altri esperienze avvolte nell’oscurità di uno stato di vigilanza alterato è solo
uno dei molti esempi. Hilgard descrisse questa teoria, chiamandola
neodissociativista, nel volume Divided Consciousness: Multiple Controls in
Human Thought and Actions, che ebbe una prima edizione nel 1977 e una
seconda dieci anni più tardi (Hilgard, 1986). Fin dalla prima edizione, il
libro divenne un classico della psicologia sperimentale. La mente, il libro
sosteneva, non è dotata di un solo polo di controllo delle azioni e della
consapevolezza ma piuttosto di diversi livelli che in peculiari condizioni
possono mostrare la loro molteplicità.
La coscienza, dunque, sembra composta da diversi livelli funzionali,
proprio come ipotizzato da Janet. Per l’influenza di Hilgard nell’ambito
della psicologia sperimentale, si inaugurò così una nuova stagione di
interesse per i fenomeni dissociativi.
Le intuizioni di Hilgard trovarono conferma in alcuni esperimenti
neuropsicologici condotti su pazienti affetti da neglect visuospaziale -un
disturbo conseguente a lesioni cerebrali (di solito a carico di un solo
emisfero cerebrale) che provoca la perdita di consapevolezza del contenuto
di una parte del campo visivo. Marshall e Halligan pubblicarono il caso
clinico di una paziente affetta da neglect visuospaziale a cui veniva
mostrato un disegno in cui erano raffigurate due case identiche in tutto
eccetto che per un particolare: il lato sinistro di una delle due case era
colpito da un incendio. I due ricercatori chiesero, come da prassi, di
ricopiare il disegno. La paziente, che soffriva di un neglect sinistro, come ci
si aspettava non disegnò la parte sinistra delle case poiché non ne era
consapevole. Quando i neuropsicologi chiesero alla loro paziente in quale
casa avrebbe preferito abitare ella rispose che la domanda era sciocca dal
momento che le case erano identiche. Invitata comunque a scegliere decise
(14 volte su 17) per la casa senza fiamme, mostrando di operare scelte in
base a conoscenze di cui non era consapevole (Marshall, Halligan, 1988).
Questo fenomeno è oggi noto in neuropsicologia come conoscenza
implicita (Bisiach et al., 1990). Esperimenti come quelli di Marshall e
Halligan eseguiti in pazienti ai quali era stato reciso il corpo calloso (la
maggiore via di comunicazione tra i due emisferi cerebrali) hanno fornito
risposte simili (Gazzaniga, 1998), mostrando in pazienti neurologici
fenomeni che oggi chiameremmo di compartimentazione: fenomeni di
separazione e segregazione, nell’accesso alla coscienza, di informazioni o
memorie precedentemente integrate o in condizioni normali facilmente
integrabili tra loro. Recentemente è stato osservato che tra i danni
neurobiologici conseguenti a sviluppi traumatici, in cui sintomi dissociativi
di compartimentazione sono spesso osservabili, vi sono alterazioni anche
morfologiche del corpo calloso (Teicher et al., 2002).5
L’importanza, per la clinica del trauma e della dissociazione, della teoria
neodissociazionista di Hilgard e delle ricerche neuropsicologiche che la
suffragano sta nell’aver fornito sostegno scientifico ai ricercatori e ai clinici
che in quegli anni, mostrando rinnovato interesse per i disturbi post-
traumatici e dissociativi, tornavano a utilizzare le fino allora dimenticate
teorie janetiane. Anche grazie a questa rilegittimazione scientifica negli
ultimi trent’anni è letteralmente esplosa la produzione di letteratura clinica
che ha utilizzato, più o meno consapevolmente, la prospettiva
neodissociazionista di Hilgard e la neuropsicologia cognitiva della
coscienza - talora confrontandole e integrandole con i contributi della
psicoanalisi al cui interno pure andava sviluppandosi un crescente interesse
per la dimensione dissociativa e per i traumi.
Il prossimo capitolo riassumerà alcuni di questi contributi recenti allo
studio della dissociazione post-traumatica, e prenderà le mosse da tale
riassunto per una descrizione dettagliata della fenomenologia clinica della
dissociazione.

1. P.M. Bromberg (1998),


2. Ellenberger sostiene che l’influenza di Janet sulla prima parte
dell’opera di Freud è ovvia: “I metodi e i concetti di Freud furono modellati
su quelli di Janet a cui sembra essersi ispirato costantemente” (Ellenberger,
1970, p. 621).
3. E' degna di nota l’intuizione di Kardiner che la rievocazione delle
memorie traumatiche non potesse essere, di per sé, una pratica terapeutica,
nozione oggi confermata dalle terapie efficaci per il DPTS. Kardiner indicò
nel consolidamento del sostegno relazionale e nella riduzione del senso di
impotenza le strade maestre per la cura.
4. Nella terminologia di Janet, “dissociazione” era solo uno dei termini con
cui riferirsi alla fondamentale risposta della mente ai traumi. Altri,
come désagrégation (“disgregazione”, “disintegrazione”), gli apparivano
preferibili. L’uso dominante attuale del termine “dissociazione” è legato alla
storia del concetto negli Stati Uniti d’America, dove Janet tenne una
fortunata serie di lezioni e conferenze.
5. Ricordiamo che sintomi dissociativi possono essere anche causati da
problemi primariamente neurologici, come le lesioni anatomiche cerebrali
da traumi o neoplasie, l’epilessia, gli stati infettivi e tossici anche indotti da
sostanze stupefacenti. I sintomi dissociativi provocati da cause organiche,
come quelli provocati dal trauma psichico, intaccano l’integrazione
funzionale dei livelli mentali superiori. Al di là di questo aspetto comune, il
tema delle somiglianze e delle differenze fra sintomi dissociativi
"neurologici” e “psicologici” è così complesso da non poter essere trattato
in questo libro, dai cui intenti peraltro esula. E' però interessante notare che
gli eventi psicologicamente traumatici, specie se occorrono nelle prime fasi
dello sviluppo, possono causare alterazioni microanatomiche cerebrali.
3

LA RIFLESSIONE CONTEMPORANEA SULLA


DISSOCIAZIONE

I fatti gravi stanno fuori dal tempo, sia perché in essi il passato
immediato rimane come scisso dal futuro, sia perché le parti che li
formarono non paiono consecutive.

JORGE LUIS BORGES1

La letteratura psicopatologica contemporanea sulla dissociazione si è


andata arricchendo di un numero tanto grande di contributi, che è
impossibile riassumerli anche in un libro che avesse dimensioni ben
superiori: a nostro avviso, non vi è riuscita neppure Timponente opera
curata da Dell e O’Neil, Dissociation andthe Dissociative Disorders: DSM-
V and Beyond, che raccoglie le principali teorie contemporanee in oltre 800
pagine di testo a doppia colonna (Dell, O’Neil, 2009).
Per gli scopi di questo volume, è utile concentrarsi in questo capitolo su
tre soli dei contributi contemporanei allo studio della: dissociazione (altri
saranno oggetto di particolare attenzione nei capitoli 4 e 5). Il primo è la
distinzione fra due tipi fondamentali di dissociazione, distacco e
compartimentazione, che si manifestano con due classi diverse di sintomi
clinici. Traendo spunto da questa distinzione, coglieremo l’occasione per
informare il lettore meno esperto su come appaia clinicamente la
dissociazione, la cui fenomenologia clinica è necessario conoscere a fondo
per diagnosticare e curare le sindromi conseguenti a sviluppi traumatici. Il
secondo contributo su cui ci soffermeremo riguarda la dissociazione
somatoforme, anch’essa di grande rilievo clinico. Il terzo contributo
riguarda i punti di contatto fra dissociazione e deficit metacognitivi o di
mentalizzazione, tema che è attualmente al centro dell’attenzione di alcune
opere innovative della letteratura psicopatologica e psicoterapeutica. I
contributi della ricerca sullo sviluppo della personalità nel contesto dei
primi legami di attaccamento sono tanto importanti che a essi, e alla teoria
della molteplice motivazione innata alla relazione di cui fa parte la teoria
dell’attaccamento saranno dedicati i due capitoli successivi.
Per esigenze di spazio altri contributi recenti allo studio della
dissociazione saranno solo menzionati, non trattati, nella breve sezione
finale di questo capitolo.

DISTACCO E COMPARTIMENTAZIONE

Un elenco parziale dei sintomi con cui possono manifestarsi i processi


dis-integrativi comprende derealizzazione, depersonalizzazione, stati di
confusione mentale, stati di trance e possessione, stati di assorbimento e
attenzione divisa, amnesia psicogena, ricordi intrusivi, gravi difficoltà
nell’organizzare narrazioni autobiografiche coerenti, confusione e
alterazione del senso di identità, stati dell’io multipli e non integrati che
possono talora arrivare a configurarsi come identità o personalità multiple
alternanti, e gravi difficoltà a regolare gli stati emotivi (Brown, 2006). Per
mettere ordine in questa variegata congerie di sintomi, anche sulla base del
loro ipotizzabile diverso meccanismo di genesi, è stato proposto
recentemente di ripartirli in due categorie: detachment e
compartmentalixation (Holmes et al., 2005), traducibili in italiano come
“distacco”2 e “compartimentazione”. La distinzione fra sintomi di distacco
dissociativo e sintomi di compartimentazione mostra l’influenza, nello
studio della coscienza, delle scienze cognitive contemporanee, che possono
aggiungere interessanti contributi allo studio della disgregazione della
coscienza attuato da Janet attraverso i concetti di presentificazione, sintesi
personale e funzione di realtà.
I sintomi dissociativi di distacco rimandano tutti, direttamente,
all’esperienza di sentirsi alienati dalle proprie emozioni, dal proprio corpo,
dal senso usuale della propria stessa identità, dal senso usuale di familiarità
di realtà ambientali note. Un termine classico della psicopatologia,
alienazione, esprime bene l’essenza di questa radicale, perturbante
alterazione dell’esperienza cosciente di sé (depersonalizzazione) e del
proprio mondo circostante (derealizzazione). La forma di coscienza
che appare alterata nel distacco o alienazione è quella in prima persona,
nota nella scienza cognitiva anche come coscienza fenomenica e
contrapposta alla coscienza in terza persona, nota anche come coscienza
cognitiva o di accesso (Di Francesco, 2000). Il mondo della coscienza
fenomenica è il mondo dei qualia, caratterizzato da un’evidente natura
qualitativa, preverbale, dei suoi componenti: sensazioni, sentimenti,
emozioni e in genere immagini mentali fra le quali un ruolo centrale per la
coscienza è svolto dall’immagine corporea (Damasio, 1999). Riteniamo che
i sintomi dissociativi di alienazione (detachment) siano quelli che più
direttamente esprimono l’effetto patologico dis-integrativo delle esperienze
traumatiche sulle funzioni mentali. Per usare una felice espressione di
Albasi, il primo effetto patogeno del trauma è quello di “far perdere la
confidenza con l’esperienza interna” (Albasi, 2009).
I sintomi dissociativi di compartimentazione (compartmentalization)
riguardano invece la coscienza in terza persona o cognitiva, chiamata anche
coscienza di accesso perché i suoi componenti sono prevalentemente
verbali o rappresentati da immagini mentali alle quali si ha accesso
cosciente, e spesso deliberato, attraverso la parola. In questo tipo di sintomi,
sono impediti i confronti e le connessioni semantiche fra contenuti mentali
che normalmente dovrebbero poter entrare simultaneamente nel campo
della coscienza dell’io. Esempi prototipici di sintomi di
compartimentazione sono l’amnesia dissociativa (in cui un ricordo non è
più accessibile a causa del processo dissociativo) e gli stati dell’io non
integrati (dove è impedita la sintesi di significati che forniscano coerenza o
comunque coesione alle narrazioni di episodi autobiografici diversi e alle
diverse rappresentazioni semantiche di sé). La compartimentazione,
secondo alcuni, è l’espressione sintomatica più compiuta della
dissociazione. Nella teoria strutturale della dissociazione (van der Hart et
al., 2006), la compartimentazione fra stati dell’io che normalmente
dovrebbero essere integrati fra loro costituisce la patologia dissociativa,
della quale i sintomi di detachment appaiono allora come modalità
espressive del processo che la produce, non come caratteristiche qualificanti
delle diverse sindromi o disturbi dissociativi.

I SINTOMI DI DISTACCO DISSOCIATIVO


Il 21 aprile 1992, nella prigione di San Quintino, in California, dopo
numerosi rinvìi fu eseguita una condanna a morte a distanza di molti anni
dall’ultima. Robert Harris fu giustiziato per il brutale omicidio di due
adolescenti. Nel 1994, sulle pagine dell'American Journal of Psychiatry, tre
psichiatri della Stanford University esplorarono l’effetto psicologico del
macabro evento sui 18 giornalisti che vi avevano direttamente assistito
(Freinkel et al., 1994). Dopo circa un mese dall’esecuzione ai giornalisti
furono somministrati alcuni questionari da cui risultò che più della metà di
essi ricordava che al momento dell’esecuzione si era sentito estraniato o
distaccato dalle altre persone, che le cose intorno erano sembrate irreali e
“come in sogno”, che aveva perduto il senso del tempo. Inoltre un terzo di
loro aveva percepito se stesso come un estraneo, o si era sentito distaccato
dai propri pensieri, emozioni e sensazioni corporee. Sempre un terzo aveva
sperimentato confusione mentale e disorientamento spaziotemporale.
Nonostante i rilevanti sintomi dissociativi da detachment che
accompagnarono l’esperienza, dopo qualche settimana nessuno dei
giornalisti che aveva completato lo studio mostrò sintomi o segni di disturbi
psichici rilevanti.
I ricercatori di Stanford spiegarono l’intensa reazione dissociativa dei
giornalisti recuperando le tesi avanzate da Janet: un evento capace di
evocare emozioni veementi aveva causato lo scollegamento dei livelli
funzionali normalmente sovrapposti e integrati delle funzioni mentali. La
tesi di Janet, che non vede nella dissociazione una difesa mentale dal dolore
del trauma ma un cedimento strutturale delle funzioni cerebrali nel loro
ordinamento gerarchizzato, è oggi condivisa anche da alcuni psicoanalisti.
Russell Meares, per esempio, scrive:

[...] la dissociazione è la manifestazione di una sottile


disorganizzazione del funzionamento cerebrale ingenerata dall’effetto
dirompente delle emozioni associate con l’evento traumatico. Non è in
tale occasione una difesa. (Meares, 2000, p. 63)

Esperienze di depersonalizzazione come quelle descritte nell’articolo di


Freinkel e collaboratori (1994), esemplificano la possibilità che la
dissociazione si manifesti episodicamente e transitoriamente in risposta a un
evento traumatico, senza determinare disturbi durevoli come il Disturbo
Post-Traumatico da Stress (DPTS). Altre volte la sensazione di essere
distaccati dalle proprie emozioni, oppure una condizione di ottundimento
emotivo che nella terminologia anglosassone è noto come emotional
numbing (Holmes et al., 2005), persistono per mesi dopo il trauma ed
entrano a far parte del quadro clinico di un DPTS acuto o cronico. Questo
stato di anestesia emotiva può andare da forme relativamente sopportabili
che i pazienti descrivono come sentirsi “distanti dalle cose” o “poco
coinvolti emotivamente”, fino a forme estreme che possono essere
sperimentate con un senso di totale annichilimento vitale e di morte
interiore.

Altre forme della depersonalizzazione

Un’altra forma di detachment è il vuoto mentale terrifico che,


episodicamente o in maniera durevole e stabile, può comparire all’interno di
un disturbo dissociativo o di personalità, non di rado ricollegabile a uno
sviluppo traumatico. I pazienti italiani talora la descrivono come “un buco
nero” e gli anglosassoni come blank spell (momento di vuoto irreale, come
se si divenisse preda di un incantesimo). Queste forme, non rare, della
depersonalizzazione sono a volte tanto intollerabili da poter indurre chi le
sperimenta a tentare di riappropriarsi dell’esperienza di sé tramite potenti
sensazioni dolorose ottenute con lesioni autoinferte come il tagliarsi o il
procurarsi ustioni (Linehan, 1993; Nock, 2010).
Altre volte ancora, la depersonalizzazione patologica si esprime con la
sensazione di essere distaccati dal corpo o da parti di esso. Una nostra
paziente esprimeva questa esperienza di distacco dal corpo con
l’affermazione “non ci sono dentro”. Se vadano considerate forme di
depersonalizzazione corporea anche le modificazioni dell’immagine
corporea, a volte clamorose, che si osservano nei disturbi del
comportamento alimentare e nel disturbo da dismorfismo corporeo, è un
interessante quesito. Tendiamo a rispondervi affermativamente, almeno
quando la percezione alterata del corpo o di parti di esso si accompagna a
stati di coscienza altrettanto alterati, oppure a una marcata sensazione di
estraneità e di irrealtà. Ne forniamo due esempi, uno letterario e uno clinico.
L’esempio letterario è tratto da Uno, nessuno e centomila di Luigi
Pirandello (ma si ricordi anche il famoso racconto di Kafka, La
metamorfosi):
Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto,
subito, nella riflessione che dunque - possibile? - non conoscevo bene
neppure il mio stesso corpo, le cose mie che più intimamente
m’appartenevano. Il naso, le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a
guardarmele per rifarne l’esame [...] come se quel difetto del mio naso
fosse un irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell’universo.3

Ed ecco l’esempio clinico:

Mara riferì al suo psicoterapeuta che, nei momenti in cui avvertiva


una generale, dolorosa sensazione di "essere un’altra”, aveva anche
strane esperienze di allarme nell'osservare parti del proprio corpo.
“Non so se può capirmi”, disse al terapeuta, “ma quando sono in
quello stato posso guardare la mia gamba, saper bene che è la mia, ma
avere paura di metterci la mano sopra”. Mara temeva, pur
riconoscendo pienamente l’irrazionalità di questa paurosa idea, che il
tatto le avrebbe rivelato un qualche fondamento del senso di estraneità
a se stessa che avvertiva - come se la sua gamba potesse non sentire il
contatto che la mano percepiva, o viceversa.

La sensazione di estraneità a se stessi - efficacemente descritta nel titolo


del volume dedicato ai fenomeni dissociativi dalla psichiatra Marlene
Steinberg The Stranger in the Mirror (La dissociazione. I cinque sintomi
fondamentali; Steinberg, Schnall, 2001) - può manifestarsi anche con
un’esperienza di alienante passività e di perdita della consapevolezza di
essere i soggetti delle proprie azioni, di avere il controllo su di esse (self-
agency). In tal caso i pazienti possono sentirsi guidati dall’esterno, oppure
possono avvertire un senso di sdoppiamento e percepirsi come osservatori
delle azioni che compiono. Un perfetto esempio di questo tipo di
depersonalizzazione è fornito dal protagonista del racconto L'amore fatale
di McEwan:

Come il personaggio di un sogno vivevo al tempo stesso in prima e


in terza persona. Agivo, e mi vedevo agire. Avevo dei pensieri e li
vedevo scorrere su uno schermo. E come in un sogno, le mie reazioni
emotive erano inesistenti o incongrue.4
Lo stato di estraneità a se stessi può assumere forme anche più eclatanti,
in cui il paziente si percepisce fisicamente lontano dal proprio corpo tanto
da poterlo osservare dall’esterno. Questo fenomeno, indicato nei testi di
psicopatologia descrittiva col termine autoscopia, è anche noto come
“esperienza fuori dal corpo” (Out of Body Experience, OBE). Una ricerca
condotta con tecniche di neuroimaging funzionale conferma che l'OBE è
causata da processi di dis-integrazione delle funzioni cerebrali superiori
(Blanke et al., 2004).

Derealizzazione

Per quanto spesso i sintomi di detachment mescolino i due elementi, di


alienazione dall’esperienza di sé (depersonalizzazione) e di
alienazione dall’esperienza della realtà esterna (derealizzazione), può essere
utile, al fine di informarne il lettore meno esperto, descrivere separatamente
anche quest’ultima. Nello stato di derealizzazione si ha la sensazione di
essere separati dal mondo esterno come da un diaframma, o come se lo si
vedesse attraverso una lastra di vetro, metafora che allude all’impressione
che quanto è percepito sia diventato intangibile (il tatto è il senso sovrano
nel decidere che una percezione non sia illusoria). In altri casi, i pazienti
scelgono espressioni che più direttamente alludono a un sentimento di
irrealtà che pervade non il loro rapporto con la realtà esterna (con la quale
hanno perso l’usuale intimo contatto), ma la stessa natura di essa, divenuta
“piatta”, “senza colore”, “senza vita”, ammantata da una patina di irrealtà
“come le cose e le persone di un sogno” (Brown, 2006). I pazienti possono
descrivere queste sensazioni con espressioni del tipo: “Le cose intorno a me
sembrano strane e irreali” o “E' come se non mi arrivasse il senso di ciò che
vedo” oppure “Le persone sembrano esseri artificiali, macchine”. Questo
stravolgimento del rapporto con la realtà può assumere la forma di una
dispercezione dove gli oggetti possono cambiare forma, contorni e persino
misura (micropsia, macropsia) - oppure con la sensazione che luoghi o
persone conosciuti possano apparire poco familiari o addirittura del tutto
sconosciuti. Il resoconto delle esperienze di derealizzazione, contenuto
nella lettera di una paziente con una storia di trauma relazionale precoce,
offre un buon esempio di questo tipo di detachment:
Non le ho scritto finora della sensazione di distanza dalle persone e
dalle cose legata all'ansia perché avevo paura che nel farlo mi venisse
l’ansia e che mi scollegassi. Mi è capitata la prima volta con il primo
attacco di panico. Talvolta, quando si è angosciati capita di sentirsi
come dentro una capsula, come dietro una parete di vetro, in una
stanza insonorizzata, incapaci di comunicare col mondo. Come se gli
altri ti parlassero e tu non avessi la forza, la concentrazione di
ascoltarli, come se parlassero ma le parole non ti arrivassero, le voci
hanno lo stesso suono di quando da bambina ti addormentavi mentre i
grandi parlavano, mentre ti addormentavi i suoni erano come lontani,
venivano come da uno schermo televisivo, erano dietro lo schermo,
non erano lì. La paura, allora, l’angoscia che viene è quella di non
poter più interagire veramente con gli altri, di non poter più
comunicare. Come i pazzi. Si ha paura di diventare pazzi. La prima
volta che ho avuto un attacco, in seguito a una canna, avevo paura di
aver perso il contatto con il mondo, e pensavo, guarda cosa ho fatto!
Per una sciocchezza ho perso l'intelligenza, per una canna io ho perso
tutto. Mi sentivo rovinata a vita. Era colpa mia, come sempre. E l'unica
cosa che riusciva solo un po’ a tranquillizzarmi era chiamare il mio
fidanzato, parlare al telefono con lui. Mi dava l’idea che ancora potevo
essere in comunicazione con qualcuno, non ero “separata. ” Essere
connessi con gli altri, questo sembra essere il più grande obiettivo
quando hai l’ansia.

Altri sintomi di distacco dissociativo

Oltre che con la depersonalizzazione e la derealizzazione, che ne


costituiscono gli esempi prototipici, i sintomi di detachment possono
manifestarsi anche nella forma di alterazioni quantitative della vigilanza
(stati di torpore o sopore, sino alla momentanea perdita totale della
vigilanza che alcuni pazienti descrivono come “svenimento” anche se agli
astanti la coscienza del paziente appariva almeno parzialmente conservata).
Infine, il detachment può manifestarsi con modificazioni qualitative dello
stato di coscienza: disorientamento spaziotemporale come quello riportato
da alcuni dei giornalisti dello studio di Freinkel e collaboratori (1994),
esperienze di estasi come nella trance rituale, stati di coscienza alterata
come negli stati crepuscolari, oniroidi e ipnoidi della letteratura
psicopatologica classica, e nel grave stato confusionale privo di base
organica che a volte compare transitoriamente in alcuni disturbi implicanti
dissociazione. Una nostra paziente con una pesante storia di abuso infantile
descriveva l’aspetto confusionale dei suoi sintomi di detachment
raccontando di sentirsi in quei momenti “come dentro una lavatrice: tutto
gira attorno vorticosamente, tutto è confuso e non capisco più nulla”.

I SINTOMI DI COMPARTIMENTAZIONE

I processi dissociativi messi in moto dai traumi (incluso il trauma


relazionale precoce che caratterizza l’attaccamento disorganizzato) mentre
possono riflettersi nei sintomi di detachment che abbiamo appena descritto,
a un livello meno manifesto ostacolano sempre le operazioni di sintesi,
integrazione e regolazione degli stati dell’io che normalmente producono un
senso di sé unitario e coeso. Il risultato di questo ostacolo sono i sintomi di
compartimentazione, rappresentati dalla tipica amnesia dissociativa, da altre
distorsioni della memoria, e dalla coesistenza di stati dell’io diversi fra loro
che i pazienti non riescono a integrare in modo tale da mantenere un senso
di sé unitario e rappresentazioni di sé sufficientemente coese.
L’amnesia dissociativa è definita dal DSM-IV-TR come l’incapacità di
rievocare importanti notizie personali, di solito di origine traumatica, troppo
estesa o troppo completa per poter essere spiegata, dal paziente stesso,
come una normale dimenticanza (APA, 2000). Spesso i pazienti si
accorgono di queste lacune nella memoria per una testimonianza esterna.
Eccone un esempio:

Eva - una paziente ventiduenne inviata per la psicoterapia con una


diagnosi di DBP e una storia traumatica di sviluppo (abusi sessuali
protrattisi dai quattro agli otto anni di età, a opera del nonno paterno
cui era spesso affidata, e infine scoperti dalla madre) - aveva deciso di
porre termine alla relazione con un corteggiatore. Dopo l’ennesimo
deludente incontro, un martedì sera, era tornata a casa ripromettendosi
di dichiarare, durante un successivo prossimo incontro previsto per il
fine settimana, tutte le ragioni del suo disappunto (delle quali non
aveva mai parlato) e poi chiedere di non vedersi più. E'va ricordava di
aver messo a punto mentalmente, in maniera assai ordinata, mentre
camminava verso casa quel martedì sera, l’elenco delle rimostranze
che si proponeva di fare il sabato successivo. Poi, ricordava solo di
aver cenato, essersi messa a letto e aver dormito fino a quando, la
mattina successiva, era stata svegliata da una telefonata del suo
corteggiatore. Nella conversazione telefonica, l’uomo si dichiarava
sconcertato per quello che lei gli avrebbe detto al telefono la sera
prima, quando ancora non era ora di cena. Ed elencava, nell’ordine
esatto in cui E'va le aveva pensate, le ragioni del disappunto della
ragazza, con le quali lui non concordava. Per quanto si sforzasse di
ricordare la telefonata serale, la cui esistenza era inequivocabilmente
testimoniata dalla corrispondenza di quel che il corteggiatore
contestava con quel che lei aveva pensato, E'va non vi riusciva. Non vi
riuscì durante la conversazione telefonica del mattino, né nei giorni
seguenti, né in tutte le occasioni dei mesi successivi in cui tentò di
rievocare l’accaduto - come se nella sua memoria si fosse prodotto un
buco tanto circoscritto quanto insondabile.

E' appena necessario notare che lacune della memoria come quella
narrata da E'va non rientrano fra le ordinarie dimenticanze, e che doverne
ammettere resistenza nella propria vita quotidiana mina profondamente il
senso di padronanza sul proprio comportamento e sulla propria memoria
tanto necessario per preservare un minimo senso di autoefficacia.
Un tipo di compartimentazione più grave dell’amnesia dissociativa è la
fuga dissociativa, caratterizzata dall’allontanamento improvviso e
inaspettato da casa o dall’abituale posto di lavoro, accompagnato
dall’incapacità di ricordare il proprio passato e da confusione circa la
propria identità personale (APA, 2000). Casi di fuga sono descritti e
pubblicizzati dai mezzi di informazione sia per rintracciare l’identità dei
pazienti ma anche, talvolta, per la spettacolarità di questi disturbi. Ne
riportiamo uno dalla cronaca recente:

Il mistero dello smemorato di Monza è stato svelato: si chiama


Carlo ed è di Muggiò, comune limitrofo. Lo ha riconosciuto suo padre,
dopo che il trentenne è stato ripreso dalle telecamere dei telegiornali
mentre lanciava un appello: “Non ricordo chi sono, se qualcuno mi
conosce si faccia vivo per piacere”. Il giovane si era presentato lo
scorso 25 ottobre all’ospedale San Gerardo di Monza in preda a
un’amnesia. E da quel giorno è ricoverato nel reparto di Psichiatria a
causa di un’amnesia dissociativa psicogena. Dato che da allora
nessuno ha chiesto di lui, sono stati gli stessi medici del reparto a
chiedere se fosse d’accordo a lanciare un appello. Questa mattina,
finalmente, qualcuno si è fatto vivo. Padre e figlio da tempo non sono
più in buoni rapporti, così l’anziano non si era preoccupato davanti alla
lunga assenza del giovane. [...] Per il momento il ragazzo non ha
ancora riconosciuto il padre né il suo datore di lavoro, anch’egli giunto
al San Gerardo dopo l’appello televisivo.5

Altri sintomi di compartimentazione sono distorsioni della memoria


meno clamorose dell'amnesia dissociativa, ma non meno capaci di minare il
basilare sentimento di autoefficacia. Per esempio, l'emergere di ricordi
traumatici dell’infanzia, a lungo dimenticati (dissociati), è non di rado
accompagnato da valutazioni del tutto erronee circa la frequenza con cui si
sono verificati o circa la veridicità del ricordo.

Luisa aveva ricordato all’improvviso, all’età di 32 anni, i rapporti


incestuosi a cui il padre l’aveva costretta da quando era una bambina
di sette e fino all’adolescenza. Fu l’orrore di questo ricordo a
convincerla a iniziare una psicoterapia, fino ad allora evitata. Dopo il
riemergere del ricordo fino ad allora dissociato, Luisa si convinse che
questi rapporti incestuosi si erano verificati quasi quotidianamente.
Solo dopo tre anni dalla riemersione della memoria traumatica Luisa si
rese conto, spontaneamente, che gli incontri sessuali col padre
dovevano essere stati molto più sporadici. La compartimentazione
dissociativa, per Luisa trentaduenne, era mutata da una massiccia
amnesia dissociativa a una dissociazione fra memoria semantica
(l’impressione generale che l’incesto fosse avvenuto “sempre”, cioè
ogni giorno) e memoria episodica (ricordo di singoli episodi di
rapporti sessuali col padre, ben collocati nel tempo, come quello
verificatosi in un ben preciso pomeriggio natalizio).

La vulnerabilità alla dissociazione delle funzioni mnestiche è concausa


a volte di un particolare e assai controverso disturbo, che può sovrapporsi al
quadro clinico di altri disturbi implicanti dissociazione, e a volte
configurarsi come un disturbo iatrogeno: la sindrome del falso ricordo
(Taub, 1999). La sindrome del falso ricordo è una condizione in cui
l’identità della persona e le sue relazioni interpersonali s’incentrano
progressivamente attorno al ricordo di un’esperienza traumatica che
è obiettivamente falsa, ma in cui la persona crede fermamente. E' necessario
che il clinico abbia accurata nozione della possibilità (ripetiamo:
controversa) di questa sindrome prima di accingersi al lavoro terapeutico o
medico-legale con pazienti che vengono da storie di sviluppo traumatico.
Torneremo sul tema nei capitoli sulla psicoterapia degli esiti adulti di
sviluppi traumatici.
Gli esempi estremi di compartimentazione sono offerti dal Disturbo
Dissociativo dell'Identità (DDl). Diversamente dagli altri disturbi dello
spettro traumatico-dissociativo dove il senso di sé può essere vago, incerto,
deficitario e incoerente, ma rimanere comunque unitario, nel caso del DDI il
senso di sé si sdoppia o si moltiplica in diverse personalità, talvolta
paradossalmente coerenti e stabili al loro interno, con autonomi “io” che,
alternandosi fra loro, assumono il controllo del comportamento, dei
pensieri, e della memoria. A causa di traiettorie evolutive e fattori causali
ancora poco conosciuti la compartimentazione degli stati dell’io nel DDI
non si scompone in maniera disorganizzata ma si aggrega attorno a vere e
proprie identità, multiple e alternanti, denominate in psicopatologia alter.
Gli alter possono manifestarsi in maniera completa ed evidente con
cambiamenti di voce, comportamento, stile di vita, attitudini, motivazioni e
ricordi personali. Possono però manifestarsi anche in maniera incompleta e
subdola, con cambiamenti parziali di stato dell’io, con comportamenti
particolari o con la comparsa di differenti singoli aspetti della personalità,
dotati però ciascuno di un proprio e separato senso di sé (van der Hart et
al., 2006). Esempi di queste forme incomplete di alter possono essere la
comparsa di una mimica totalmente estranea al paziente, oppure un ricordo
intrusivo dove il soggetto agente non corrisponde all’identità del paziente.
Le forme incomplete di manifestazione degli alter posso indurre errori
diagnostici perché confuse con deliri di influenzamento, allucinazioni (la
“voce nella testa” riferita da alcuni pazienti può essere la voce di un alter) o
fluttuazioni dell’umore attribuite erroneamente a disturbi bipolari a cicli
rapidi.
Daniela è un’impiegata di 34 anni, separata e senza figli, che da
pochi anni si è trasferita in città da un piccolo paese di provincia in
occasione del matrimonio. Daniela frequenta pochi amici, conducendo
una vita appartata in un quartiere di periferia. A seguito della
separazione dal marito inizia a soffrire di improvvise e atipiche
variazioni dell’umore che vengono considerate episodi maniacali di un
disturbo bipolare e trattate con farmaci antipsicotici e stabilizzatori
dell'umore. A causa di un'ennesima crisi particolarmente drammatica
dove viene sorpresa in comportamenti seduttivi inappropriati e in uno
stato di ebbrezza alcolica (inusuali per il suo carattere) la paziente
viene portata al Pronto Soccorso. Lo psichiatra di guardia attraverso un
attento esame delle condizioni psichiche della paziente e una
ricostruzione della storia del disturbo si rende conto che nelle crisi (che
si presentavano con modalità e durata inusuali per il disturbo bipolare)
la paziente mostrava un cambiamento repentino e drammatico della
personalità. Durante le fasi critiche la paziente si riferiva a se stessa,
alla se stessa delle fasi intercritiche, in terza persona, come se fosse un
altro individuo, con espressioni sprezzanti del tipo “quella povera
idiota”. Daniela, descritta dai pochi amici come remissiva e passiva,
nelle crisi si mostrava decisa, autoritaria e sin troppo intraprendente. A
ciò si aggiungeva che durante le lunghe fasi intercritiche la paziente
nulla o poco ricordava di ciò che le accadeva durante le crisi. Queste
amnesie lacunari erano state attribuite, arbitrariamente ed
erroneamente, agli effetti collaterali dei farmaci che ella era costretta
ad assumere durante gli episodi di scompenso. Alla paziente fu
diagnosticato un DDI e venne avviata a una psicoterapia durante la
quale emerse una storia di grave maltrattamento infantile: Daniela,
figlia unica, era cresciuta in un contesto di isolamento rurale dove
riceveva cura e compagnia solamente dalla madre psicotica.

Le forme complete di alter sono probabilmente relativamente rare,


mentre più frequente è il riscontro, nella pratica clinica, di stati dell’io poco
o affatto integrati fra loro che però non mostrano il grado di complessità
necessario per porre la diagnosi di DDI, e sono meno nettamente separati
l’uno dall’altro dalla barriera dell’amnesia dissociativa. In altre parole, gli
stati dell’io non integrati sono caratterizzati da atteggiamenti e
rappresentazioni di sé divergenti, che non riescono praticamente mai ad
avere accesso simultaneo alla coscienza dove le operazioni metacognitive
potrebbero permettere la costruzione di strutture di significato capaci di
creare una forma di coesione se non di coerenza fra loro. Il DSM-IV
suggerisce la diagnosi di Disturbo Dissociativo Non Altrimenti Specificato
(ddnas) per i casi clinici in cui - insieme in genere a sintomi d’ansia,
instabilità dell’umore e sintomi di distacco dissociativo, sussiste la presenza
di stati dell’io non integrati. Va notato che questi stati sono anche
caratteristici del dbp, dove la teoria psicoanalitica li attribuisce al
meccanismo di difesa chiamato splitting, per molti versi formalmente anche
se non psicodinamicamente simile alla dissociazione.
L’identificazione di stati dell’io non integrati richiede spesso notevole
perizia clinica, e particolare attenzione ad altri sintomi di
compartimentazione (amnesie lacunari, per esempio), a sintomi e fenomeni
di detachment anche modesti, oppure al momento esatto della comparsa di
sintomi somatoformi, perché a volte tali sintomi segnalano la transizione da
uno stato dell’io all’altro oppure la compresenza simultanea, alle soglie
della coscienza, dei due stati non integrati. Va inoltre enfatizzato che per
identificare stati dell’io non integrati è utile di regola prendere le mosse da
narrazioni autobiografiche episodiche, e non dalle descrizioni di sé che il
paziente può costruire e riferire utilizzando solo la memoria semantica.6
Eccone un esempio.

Luigi si era presentato al suo psicoterapeuta più volte nel corso di


vent'anni, ogni volta persistendo nel trattamento per alcuni mesi, al
massimo un anno, e ogni volta interrompendolo contro il parere del
terapeuta. Le richieste di terapia erano sempre motivate da crisi di un
legame sentimentale o da abbandoni da parte della compagna del
momento, e le interruzioni premature dalla risoluzione della crisi, da
un nuovo incontro sentimentale o dalla decisone di rassegnarsi alla
solitudine. L'ultima richiesta di terapia - Luigi era ormai un
quarantenne - era motivata dal dubbio tormentoso se rinunciare al
proposito di evitare ogni impegno affettivo durevole e accettare i rischi
di una nuova convivenza, oppure rinunciare a proseguire in una
relazione affettivamente e sessualmente appagante e proteggersi così
dal dolore di un eventuale nuovo abbandono. Il terapeuta si rese conto
di essersi fino ad allora mosso, in sintonia con lo stile delle
autodescrizioni e narrazioni di Luigi, sul piano della conoscenza
semantica, condividendo riflessioni sulla dipendenza, e provando a
confutare credenze patogene riflesse dalle descrizioni che Luigi offriva
di sé, delle compagne, dei rapporti amorosi, della solitudine (per
esempio, “non credo che una donna possa mai amarmi davvero”, “non
posso vivere se non ho accanto qualcuno che mi ami”, “ho avuto un
pessimo rapporto con mia madre”, “mio padre era affettuoso, ma poco
presente”, “Maria è bella, facciamo bene l’amore, mi piace da morire,
ma è inaffidabile e forse troppo intelligente per me”). Questa volta
decise di ottenere da Luigi descrizioni precise di episodi concreti che
riguardassero il suo rapporto con la nuova compagna, e durò non poca
fatica a ottenerne qualcuna, come se Luigi avesse un qualche deficit di
accesso alla memoria autobiografica episodica. La fatica costata per
avere accesso alla memoria episodica fu però ben ripagata. Luigi
raccontò di un giorno preciso, di un recente pomeriggio domenicale in
cui, dopo un rapporto sessuale particolarmente appagante per
entrambi, lei aveva detto qualcosa di scherzoso che al terapeuta
sembrò un invito a scoprirsi, a uscire dalla relazione di ruolo “amici
che ogni tanto si incontrano” e a progettare qualcosa di più duraturo,
ma che a Luigi era apparsa come una critica e un’irrisione. Luigi aveva
provato un’improvvisa, acuta emozione che era un misto di paura e di
rabbia, e l’impulso a uscire immediatamente dalla casa di lei e non
vederla più. Aveva pensato: “Ecco, ci siamo, cominciano gli attacchi,
fra poco mi dirà anche lei che ne ha abbastanza di me, e io soffrirò di
nuovo, intollerabilmente, come in passato”. Ma qualcosa, non sapeva
cosa, lo aveva trattenuto dall’andarsene o dal manifestare la sua collera
e la sua paura. Forse, ipotizzava, il desiderio di non perdere
un’opportunità affettiva potenzialmente importante, ma non ne aveva
coscienza o memoria. “Così, dottore, sono restato e ho dormito con
lei”, concluse Luigi, “ma non mi ricordo assolutamente nulla di quel
che è successo da quel momento alla mattina dopo, quando siamo
andati entrambi a1 lavoro. Solo, devo essermi svegliato con un gran
mal di testa, perché ricordo che già arrivato al lavoro ho dovuto
prendere la mia solita ... [omissis, nome commerciale di un
analgesico]”. Il terapeuta potè riconoscere che cefalee e modeste
lacune mnestiche erano sempre state presenti nei resoconti di Luigi, e
che solo ora ne coglieva le possibili implicazioni: il sintomo doloroso e
l’amnesia erano manifestazioni della transizione da uno stato dell’io
che rifiutava le relazioni amorose come condizione di pericolo e
sofferenza a un altro stato dell’io che viceversa cercava disperatamente
un rapporto amoroso sicuro e stabile. Non si trattava, come aveva
sempre pensato, di un conflitto fra desiderio di dipendenza e paura
della dipendenza, ma di una compartimentazione.

La differenza fra il classico concetto di conflitto e quello di


dissociazione è espressa da Bromberg, sinteticamente ed efficacemente,
così: “La dissociazione [...] entra in azione perché il conflitto è intollerabile
[...] non perché è spiacevole” (Bromberg, 2006, p. 8), e a differenza del
semplice conflitto non comporta un semplice rinnegamento difensivo di una
delle polarità, ma una totale alienazione da interi aspetti di sé incompatibili
con lo stato dell’io dominante in un dato momento.

LA DISSOCIAZIONE SOMATOFORME

Una serie di recenti ricerche (Farina et al., in corso di stampa b; Ni-


jenhuis, 2009) ha dimostrato che pazienti con alcuni tipi di disturbi
somatoformi hanno elevati punteggi alle scale che misurano la
dissociazione e presentano sintomi dissociativi (di distacco e di
compartimentazione) coesistenti con quelli somatoformi. Reciprocamente,
se si usa uno strumento di misura della presenza di sintomi somatoformi in
una popolazione di pazienti con diagnosi di disturbo dissociativo, si
ottengono sistematicamente punteggi molto più elevati di quelli riscontrati
in altre popolazioni cliniche. Infine, anche nelle popolazioni non cliniche i
punteggi più elevati alle scale di misura della dissociazione correlano con i
punteggi più elevati alle scale di misura dei sintomi somatoformi. E' stato
argomentato, in accordo con la psicopatologia classica dell’isteria sostenuta
da Janet, che i sintomi dissociativi e alcuni tipi di sintomi somatoformi
abbiano radici comuni nei processi dissociativi, concetto che Nijenhuis ha
proposto di racchiudere nella dizione dissociazione somatoforme. Il
concetto non era estraneo al primo Freud:

Paralisi e contratture isteriche possono essere provocate dalla


suggestione ipnotica e questi prodotti artificiali hanno, fin nei minimi
dettagli, le stesse caratteristiche degli attacchi isterici spontanei che
spesso vengono provocati da un trauma. (Freud, 1924, p. 80)

Alcuni studiosi (Decety, Lamm, 2007; Haven, 2009; Voon et al., 2010)
sostengono che, al contrario di altri fenomeni dissociativi determinati da un
difetto di integrazione top-down (ovvero di regolazione superiore sui
sistemi inferiori), i sintomi dissociativi somatoformi riconoscono un
comune deficit integrativo di tipo bottom-up, causato dalla mancata
integrazione dei dati provenienti dai centri nervosi inferiori, sedi delle
afferenze e delle memorie somatoviscerali (bottom), con le capacità
rappresentazionali e riflessive della coscienza (up). La dissociazione
somatoforme comporta alterazioni della normale integrazione tra coscienza,
memoria esplicita, volizione e gli schemi somatoviscerali e percettivo-
motori che costituiscono la base per la percezione corporea di sé (schema
corporeo), della propria rappresentazione sociale (immagine corporea), e
per la comprensione dello stato emotivo. I sintomi che ne derivano variano
da quelli di conversione, in cui sono alterati le funzioni, il controllo e la
consapevolezza di alcune parti del corpo, a sindromi dolorose psicogene, a
somatizzazioni.

Sintomi da conversione

I sintomi somatoformi storicamente riconosciuti come espressione della


dissociazione traumatica sono quelli da conversione: pseudoparalisi,
pseudocrisi epilettiche, deficit della vista e di altre funzioni sensoriali,
disturbi dell’equilibrio (l’antica astasia-abasia isterica) e in generale una
vasta gamma di disturbi neurologici, di regola transitori e reversibili, dove
non è possibile dimostrare una lesione nervosa. La loro appartenenza alla
dimensione dissociativa e l’origine traumatica ipotizzata sin dalla metà
dell’Ottocento è stata ampiamente dimostrata da ripetuti studi empirici tanto
che recentemente diversi studiosi ne invocano l’inserimento tra i Disturbi
Dissociativi nel DSM-V (Brown et al., 2007) come avviene già nell'ICD-10
(who, 1992).

Sintomi da dolore psicogeno


La dissociazione somatoforme può manifestarsi tipicamente con la
comparsa di dolori acuti e cronici. Le memorie degli abusi fisici e sessuali
possono presentarsi attraverso la sola componente somatica (implicita) del
ricordo, dissociata dagli eventi che l’hanno prodotta. Come ha
suggestivamente scritto van der Kolk, anche se la mente non ricorda l’abuso
il corpo ne ha memoria, ne tiene conto: the body keeps the score (van der
Kolk, 1994).
Recentemente è stato scoperto che le aree cerebrali deputate
all’elaborazione cognitiva del dolore fisico sono le stesse che si attivano per
l’elaborazione del dolore provocato da problemi interpersonali, come
l’essere rifiutati dagli altri (Eisenberger et al., 2007; Eisenberger et al.,
2006; Eisenberger et al., 2003). Questa sovrapposizione, tra l’altro, è
probabilmente alla base della modulazione che le relazioni interpersonali
producono sul dolore fisico, osservata anche da Leonardo Sciascia:

Curioso come il dolore fisico, anche quando ha causa stabile, se


non peggio indeclinabile, si possa attenuare e crescere, mutare di
intensità e qualità, secondo le occasioni e gli incontri.7

I ricercatori hanno dimostrato che la mente normalmente riesce a


distinguere consapevolmente l’origine dei due tipi di dolore grazie a vie di
comunicazione nervosa che informano sull’origine del pericolo segnalato
dal dolore, fisica o interpersonale (Eisenberger et al., 2007). E possibile
immaginare che i processi dis-integrativi agiscano anche a questo livello
confondendo l’origine della minaccia e producendo un dolore localizzato
fisicamente e identificato come prodotto da cause fisiche, ma procurato da
situazioni interpersonali. Ricordiamo a questo proposito quanto ci ha scritto
un nostro paziente con una storia di abuso fisico e trascuratezza affettiva
grave nell’infanzia:

Quando mi capita una situazione stressante, che per me può essere


il dover sostenere una conversazione con una persona con la quale non
sono in intimità, mi accade qualcosa di strano. Nel caso per esempio di
una conversazione inaspettata o molto impegnativa comincio ad avere
dei dolori ai muscoli della faccia con un interessamento più importante
nella zona della mandibola. Ultimamente ho un forte dolore tra
orecchio, zigomo e arcata dentaria destra di origine sconosciuta che si
acuisce nel momento in cui ho una situazione di forte stress. Nel
momento in cui sono un po’ meno sotto pressione questi dolori vanno
scemando gradatamente lasciando però il segno. E' molto difficile da
gestire questo insieme di dolori perché complicano notevolmente
l’aspetto relazionale della mia vita. Per me il dolore è qualcosa che
riconduce a una sensazione totalizzante di paura e di conseguenza ne
risente in modo rilevante anche il mio umore. Mentre mi vengono
questi dolori l'impossibilità di gestirli mi terrorizza.
Sono in balia di emozioni ingestibili che aumentano il dolore e la
paura. Certe volte questo mi fa perdere contatto con la realtà.

Somatizzazioni

Tra le somatizzazioni di origine psicotraumatica più comuni ci sono i


disturbi a carico del sistema gastrointestinale, di quello muscolo-scheletrico
(specie dolori lombari) e di quello genito-urinario (vaginismo, dispareunia,
ejaculazione dolorosa, minzione dolorosa) (Farina et al., in corso di stampa
b). Alcuni di questi sintomi di somatizzazione sono così patognomonici
della dissociazione somatoforme da garantire sufficiente potere
discriminante alla forma breve del questionario col quale si conducono le
ricerche su questo tipo di dissociazione (Farina et al., in corso di stampa a;
Martino et al., 2008). Troviamo testimonianza dell’esperienza delle
somatizzazioni di origine dissociativa nello stream of consciousness che
occupa le pagine di un famoso romanzo di Giuseppe Berto:

[...] l'insoluto problema etiologico delle crisi nervose, ossia quale


fosse la causa e principio degli stravolgimenti paurosi che ogni tanto
sopravvenivano a farmi perdere il contatto con la realtà esterna e
talvolta perfino quella interna vale a dire con me stesso, ma capirci
qualcosa è un affare a quanto pareva complicatissimo data la varietà e
la labilità dei sintomi concreti e la tecnica del tutto subdola che aveva
il male per aggredirmi, poiché come mi sembra di aver già detto non
sempre si serviva delle cinque lombari e dell’idea del suicidio, qualche
volta veniva anche attraverso comuni dolori di pancia o semplici
movimenti di gas intestinali cose che per me sono collegate al concetto
di cancro, oppure con dolorini all'emitorace sinistro e formicolìi al
braccio pure sinistro da collegarsi si capisce al concetto di infarto del
miocardio, oppure anche con un banale mal di testa o dolore
reumatico, o anche con certi arcani rimescolìi delle due grosse
ghiandole riproduttive.8

DEFICIT METACOGNITIVI E ALESSITIMIA POST-


TRAUMATICA

Le funzioni metacognitive (Dimaggio, Lysaker, 2010; Falcone et al.,


2003) o di mentalizzazione (Allen et al., 2008; Fonagy, Target, 2008), cui è
dedicata tanta giustificata attenzione nella letteratura psicopatologica e
psicoterapeutica contemporanea, possono essere concepite come il livello
più “alto” (l'highest level di Jackson) delle capacità autoriflessive e di
controllo della coscienza. In quanto tali, capacità di mentalizzazione e
funzioni metacognitive sono estremamente sensibili sia all’effetto
dirompente delle emozioni che ne alterano la normale operatività quanto a
quello delle esperienze traumatiche infantili che ne compromette lo
sviluppo (Liotti, Prunetti, 2010). Nei processi, nei fenomeni e nei sintomi
dissociativi è in genere possibile riconoscere facilmente l’uno o l’altro dei
deficit metacognitivi identificabili con la Metacognition Assessment Scale
(Semerari et al., 2003): dal deficit di autoriflessività di alcuni tipi di distacco
dissociativo, al deficit di integrazione della compartimentazione, al deficit
di mastery evidente nelle forme di depersonalizzazione in cui il paziente,
con la perdita del senso di self-agency, si percepisce come spettatore
passivo, non attore, di quanto pensa, prova e fa. Fonagy e i suoi
collaboratori affermano chiaramente che dissociazione (intesa come
processo mentale, non come l’uno o l’altro dei sintomi con cui si manifesta
in psicopatologia) e deficit di mentalizzazione sono quasi sinonimi (Allen et
al., 2008; Fonagy, Target, 2008).
Tra le deficitarie capacità metacognitive legate allo sviluppo traumatico
è possibile inserire anche l'alessitimia post-traumatica. L’alessitimia
(difficoltà di percepire e identificare gli stati emotivi) è associata a diverse
condizioni dello sviluppo e a molteplici tratti di personalità. Tuttavia sono
numerose le osservazioni cliniche e i dati sperimentali che la attribuiscono a
esperienze traumatiche interpersonali dell’infanzia come il neglect e
l’abuso, oppure che l’associano a quadri clinici dello spettro post-
traumatico e alle loro difficoltà di trattamento (Helling, 2009; McLean et
al., 2006). Secondo alcuni studiosi l'aléssitimia posttraumatica è un disturbo
generato da uno stato di compartimentazione strutturale della personalità in
cui è ostacolata l’integrazione delle informazioni sulle variazioni dello stato
corporeo generate dalle emozioni e le capacità rappresentazionali ed
esecutive delle funzioni mentali superiori (Clayton, 2004; Decety,
Moriguchi, 2007; van der Hart et al., 2006). In altre parole, oltre a essere
una delle più evidenti forme di deficit metacognitivo, l’alessitimia può
anche essere considerata una delle manifestazioni dei processi dis-
integrativi o dissociativi che seguono ai traumi. Uno studio empirico
controllato ha dimostrato un alto livello di alessitimia nel DPTS complesso
e la correlazione tra l’alessitimia e dissociazione, disregolazione emotiva e
somatizzazioni (McLean et al., 2006). Abbiamo già ricordato che molto
recentemente Lanius e collaboratori hanno sostenuto l’esistenza di un
sottotipo “dissociativo” di DPTS derivante da esperienze traumatiche
ripetute nell’infanzia e caratterizzato da una particolare forma di
ottundimento e appiattimento emotivo che i ricercatori sostengono essere di
natura dissociativa (Lanius et al., 2010b).
I punti di contatto fra i due ambiti di indagine empirica e riflessione
teorico-clinica, quello della dissociazione da una parte e quello dello studio
della mentalizzazione o metacognizione dall’altra, promettono numerose
reciproche fecondazioni.

ALTRI CONTRIBUTI RECENTI ALLO STUDIO DELLA


DISSOCIAZIONE

I limiti di spazio permettono solo di accennare ad alcuni fra i molti


altri temi che occupano clinici e ricercatori impegnati in diversi ambiti dello
studio contemporaneo dei processi di integrazione e dis-integrazione. Dei
contributi della neurobiologia abbiamo già fatto cenno nel capitolo
precedente, trattando dell’opera di Hilgard, e vi torneremo estesamente in
un capitolo successivo. A quelli della ricerca sullo sviluppo della
personalità in contesti di attaccamento dedicheremo i prossimi due capitoli.
Qui ci soffermeremo brevemente su pochi altri temi.
Uno dei temi che scegliamo almeno di menzionare riguarda il rapporto
della dissociazione con l’attenzione e la memoria, come queste sono
studiate nella scienza cognitiva contemporanea. Un altro tema concerne le
diverse risposte al problema se esista oppure no una forma normale di
dissociazione. Il terzo tema, col quale concluderemo questa sezione del
capitolo, è il dubbio posto da alcuni recenti contributi alla letteratura
scientifica sull’assioma centrale della psicotraumatologia janetiana: il
rapporto di causa ed effetto che intercorre fra trauma e dissociazione.

Attenzione e memoria

II ruolo dell’attenzione e delle funzioni esecutive nella genesi della


dissociazione è oggetto di alcune linee di ricerca basate sulle concezioni
della scienza cognitiva contemporanea. Un deficit della capacità di “tener
fuori” dall’attenzione e quindi dalla coscienza gli stimoli irrilevanti
all’esecuzione di un compito è fortemente correlato tanto a un’elevata
tendenza alla dissociazione in campioni non clinici, quanto alla presenza di
sintomi dissociativi e storie traumatiche dello sviluppo in campioni clinici
(De Prince, Freyd, 2004; DeMarni Cromer et al., 2006). Questa linea di
indagine promette di identificare gli specifici meccanismi sottili della dis-
integrazione delle funzioni mentali superiori. Ricerche volte a studiare le
funzioni esecutive nei disturbi dello spettro post-traumatico hanno
confermato una generale alterazione delle capacità di controllo e
coordinazione dei processi cognitivi nei pazienti con sviluppo traumatico
(Dell’Osso et al., 2010; Frewen, Lanius, 2006; Haaland, Landro, 2009).
E' importante considerare, nello studio della dissociazione, non solo il
funzionamento dell’attenzione e delle funzioni esecutive, ma anche la
distinzione fra diversi sistemi di memoria proposta dalla scienza cognitiva
(memoria implicita, semantica, episodica e autobiografica). Meares ha dato
importanti contributi a questo tema di riflessione clinica (Meares,
1995,1999,2000), su cui esistono anche studi empirici controllati (per
esempio, McNally et al., 2006). Per fare un solo esempio dell’importanza di
questa distinzione fra diversi sistemi di memoria: si osserva talora in
pazienti che lamentano la perdita della capacità di provare alcun sentimento
nell’interazione con la realtà esterna, in modo tale da suggerire sintomi di
depersonalizzazione e derealizzazione, un’apparente dissociazione fra
percezione di sé e del mondo in un dato momento, e registrazione di tale
percezione nella memoria autobiografica. Il paziente appare allora
curiosamente incerto sul proprio mondo interiore, che gli appare irreale. Da
un lato, fa l’inferenza logica di aver probabilmente provato normali
emozioni in un episodio recente della sua vita, e dall’altro non conserva
alcun ricordo di quei sentimenti. In un caso che abbiamo avuto in
supervisione, una paziente rispondeva, drammaticamente angosciata, alla
sua terapeuta che indagava cosa avesse provato in alcuni episodi appena
riferiti: “Non so se ho provato qualcosa”. Un altro paziente, la cui
testimonianza riferiremo nel capitolo 6 trattando della valutazione clinica
dei sintomi dissociativi, usava la metafora del cinematografo: era come se
quel che aveva provato appartenesse al protagonista di un film a cui
ricordava di avere assistito, ma subito dopo l’esperienza lui (il parlante in
seduta) era “uscito dal cinema” e non conservava traccia alcuna in memoria
delle emozioni provate. O forse, pensava con grande inquietudine, in realtà
non le aveva mai provate?
Una testimonianza simile si trova nell’autobiografia del grande regista
svedese, Ingmar Bergman,9 dove sono anche riferiti sintomi di
somatizzazione e un’esperienza drammatica “fuori dal corpo”. In questi casi
è precluso l’accesso alla memoria delle emozioni provate - e si tratterebbe
quindi di un sintomo di compartimentazione dissociativa - ma al contempo
l’esperienza è riferita come un distacco emozionale. Lo studio attento dei
sistemi di memoria potrebbe forse dimostrare che la distinzione fra sintomi
di compartimentazione e di detachment non è affatto netta.

Dissociazione normativa, oppure taxon separato?

Oltre a quello del confronto fra clinica della dissociazione e contributi


della scienza cognitiva contemporanea, il secondo contributo recente che ci
interessa almeno menzionare riguarda il dubbio se la patologia dissociativa
sia da considerare come estremo di un continuum che ha all’altro estremo
una forma normale di dissociazione, oppure se la dissociazione sia sempre
da considerare un processo patologico, e vada quindi distinta
qualitativamente e non solo quantitativamente da quei normali spostamenti
dell’attenzione che entro limiti fisiologici riescono in parte a escludere
informazioni interne ed esterne disturbanti. La tesi del continuum è
sostenuta da molti clinici, e con particolare chiarezza di argomenti da
Bromberg (1998,2006). A favore di essa, Butler (2006) ha recentemente
avanzato stringenti argomentazioni e una pregevole rassegna della
letteratura. Esistono però ricerche i cui risultati depongono a favore della
tesi opposta, che la dissociazione patologica va considerata come un taxon
nettamente separato dal funzionamento mentale normale. Tali sono, per
esempio, un importante studio longitudinale di Ogawa e collaboratori
(1997) e altri studi condotti su ampi campioni non clinici (Farina et al., in
corso di stampa a). Il quesito resta dunque irrisolto.

Il trauma causa la dissociazione?

La mole di osservazioni cliniche e di dati di ricerca che connettono


l’esperienza traumatica alla dissociazione può apparire schiacciante, e far
pensare che un legame unifattoriale unisca la prima, come causa, alla
seconda, come effetto (Dutra et al., 2009). Tuttavia, recenti accurate analisi
critiche della letteratura dimostrano che non vi sono prove convincenti di un
lineare rapporto causale fra traumi e disturbi dissociativi (Kihlstrom, 2005).
Il rapporto fra trauma e dissociazione esiste, ma è probabilmente
multifattoriale e non lineare (Giesbrecht, Mercklebach, 2008). Fattori di
dissociazione potrebbero essere riscontrati in esperienze di grave assenza di
sintonia comunicativa fra il bambino e chi quotidianamente interagisce con
lui, senza che per questo l’interazione sia traumatica, in particolari
esperienze di attaccamento dove chi dà cura è emotivamente fragüe ma non
maltrattante, in anomalie della costruzione di reti neurali nel cervello del
bambino concausate da variabili genetiche, e in altre condizioni ancora.
All’opposto, l’esposizione a traumi anche gravi non è affatto seguita
costantemente da evidenti e durevoli processi mentali dissociativi. ”
Queste considerazioni rendono necessario un nuovo modèllo teorico
della dissociazione e del suo rapporto col trauma psicologico. Il nuovo
modello deve spiegare in maniera congrua tanto la risposta mentale a traumi
singoli che si verificano in qualunque momento della vita, quanto l’effetto
di traumi ripetuti e cumulativi che si verificano nel corso dello sviluppo
(deve in altre parole essere applicabile tanto al DPTS quanto al DPTSc e al
dts). Deve dar ragione della possibilità che sintomi dissociativi siano
presenti in pazienti che non riferiscono storie di maltrattamenti o altri
traumi evidenti, e viceversa che alcuni pazienti senza sintomi dissociativi (o
con sintomi dissociativi elusivi?) riferiscano storie personali traumatiche.
Deve, soprattutto, permettere di cogliere il tipo e il senso dei contesti
interpersonali correiabili alle risposte patologiche ai traumi, perché lo
sviluppo traumatico evidentemente avviene in contesti interpersonali, e
perché la psicoterapia dei disturbi che ne derivano richiede una conoscenza
approfondita di come gestire e correggere, nella relazione terapeutica, le
difficoltà interpersonali tipiche in questi pazienti.
Tesi centrale di questo libro è che la teoria dell’attaccamento di John
Bowlby, insieme all’ampia mole di ricerca che ne è conseguita e nel
contesto di una compiuta teoria neojacksoniana dell’organizzazione
mentale, possa costituire l’asse portante della suddetta trama concettuale
unitaria, capace di offrire coerenza e organizzazione ai dati di ricerca su
trauma e dissociazione che continuano ad accumularsi. A questo modello
teorico saranno dedicati i due successivi capitoli.

1. J.L. Borges (1949), L’Aleph, tr. it. Feltrinelli, Milano 1952, p. 61.
2. Il termine detachment in inglese ha un alone semantico leggermente
diverso da quello dell’equivalente italiano “distacco”, e per questo sarebbe
forse preferibile conservarlo senza traduzione o renderlo con “alienazione”.
3. L. Pirandello (1926), Uno, nessuno e centomila, Rizzoli, Milano
2007, pp. 49-50.
4.I. McEwan (1997), L'amore fatale, tr. it. Einaudi, Torino 1997, pp. 24-
25.
5. Vedi www.tgcom.mediaset.it/cronaca/articoli/articolo465084.
6. Nella memoria episodica, le informazioni sono collocate nel tempo e
nello spazio, come accade nel resoconto di eventi che hanno un inizio e una
fine precisi. La memoria semantica, invece, è rappresentata da significati
generali, applicabili indipendentemente dal ricordo di episodi specifici. Con
l’espressione memoria autobiografica si intende la memoria, sia specifica ed
episodica sia generale e semantica, che si riferisce alla storia personale
dell’individuo (Tulving, 1985).
7. L. Sciascia (1988), Il Cavaliere e la Morte, in Opere, Bompiani,
Milano 2002, vol. 2, p. 435.
8. G. Berto (1964), Il male oscuro, Rizzoli, Milano 20046, p. 161.
9.I. Bergman (1987), Lanterna magica, tr. it. Garzanti, Milano 1987.
4

LE DINAMICHE MOTIVAZIONALI NELLE


ESPERIENZE TRAUMATICHE E LA
DISORGANIZZAZIONE DELL’ATTACCAMENTO

Egemone [hegemonikon] in noi è ciò che si risveglia [... ] mi


risveglio per fare opera d’uomo.

MARCO AURELIO1

Ciò che, per maturazione e apprendimento, si sviluppa nell’essere


umano - a partire dalla prima infanzia e potenzialmente per tutto l’arco
della vita - è anzitutto un insieme di disposizioni o tendenze frutto
dell’evoluzione che ha portato alla specie Homo sapiens. In questo senso, le
disposizioni che progressivamente si sviluppano hanno una base innata, e
sono essenzialmente comuni alle specie animali (i primati)
evoluzionisticamente vicine all’uomo. L’interazione fra le tendenze innate
ad agire in direzione di precise mete biologiche e biosociali da una parte, e
dall’altra gli apprendimenti connessi ai risultati dell’operare di queste
tendenze, compone sistemi chiamati motivazionali (Lichtenberg, 1989;
Liotti, Monticelli, 2008), di controllo del comportamento (Bowlby, 1969) o
emozionali (Panksepp, 1998). Per molti versi essi ricordano i sistemi di
azione della psicologia janetiana (van der Hart et al., 2006).
Questi sistemi, per i quali scegliamo il termine motivazionali, sono in
stato di inattività (“dormono”) fino a che specifiche contingenze ambientali
o condizioni dell’organismo non li rendono egemoni (he-gemonikon, nel
pensiero di Marco Aurelio) risvegliandoli a governare, finalizzandole,
condotta e attività mentale. Pur operando in quella dimensione inconscia
che è già radicata nella fisiologia del cervello di tutte le specie mammifere, i
sistemi motivazionali di base sono potenzialmente regolabili dalle funzioni
superiori della coscienza (l’opera d’uomo cui aspira Marco Aurelio). Negli
sviluppi traumatici questa opera d’uomo viene ostacolata e a tratti
totalmente impedita, perché il trauma perentoriamente risveglia quel
sistema di livello gerarchico inferiore, il sistema di difesa, incompatibile
come vedremo con le funzioni di livello superiore e capace anzi di inibirle.
La conoscenza del livello organizzativo di base della mente - un livello
essenzialmente motivazionale, emozionale e relazionale - è indispensabile
per studiare a fondo il rapporto fra il trauma, le risposte dissociative dei
livelli superiori, e i contesti interpersonali in cui trauma e dissociazione
prendono forma (Liotti, Gilbert, in corso di stampa; Liotti, Monticelli, in
corso di stampa; Liotti, Prunetti, 2010). La conoscenza delle dinamiche
motivazionali interpersonali coinvolte negli sviluppi traumatici, inoltre,
costituisce la cerniera fra lo studio psicopatologico dei disturbi che ne
conseguono e la logica del loro trattamento. Senza tale conoscenza è
difficile cogliere il motivo per cui alcuni aspetti specifici della relazione
terapeutica, di cui parleremo nei capitoli finali, sembrano indispensabili per
l’efficacia del trattamento, al di là delle diverse tecniche usate da terapeuti
di diverse scuole.
Lo studio del livello organizzativo e motivazionale di base della mente,
se condotto in una prospettiva evoluzionista, invita a focalizzare
l’attenzione su quelle unità di regolazione della condotta, frutto di
variazione e selezione naturale, che nelle neuroscienze cognitive sono
chiamate moduli.

I SISTEMI MOTIVAZIONALI NELLA PROSPETTIVA


EVOLUZIONISTA

I processi dell’evoluzione, basati sulla selezione naturale, hanno


condotto a strutture anatomiche che, al di là delle differenze specie-
specifiche, sono omologhe nelle varie specie animali (come l’occhio, i
polmoni o lo scheletro). Tali processi hanno anche prodotto moduli
funzionali, cerebrali e mentali, che appaiono altrettanto omologhi.2I sistemi
motivazionali possono essere concepiti come moduli specializzati in
funzioni essenziali per la sopravvivenza e per la vita sociale, ciascuno dei
quali è funzionalmente indipendente da ciascun altro: nella terminologia
di Fodor, i moduli sono incapsulati (Fodor, 1983). Ogni modulo di questo
tipo, una volta attivato, organizza le funzioni mentali e la condotta nella
direzione della meta del corrispondente sistema motivazionale, fino a che
tale meta non è raggiunta o abbandonata. A quel punto, in funzione dei
cangianti contesti ambientali o dei mutevoli bisogni corporei e relazionali,
un diverso sistema motivazionale interviene in genere a organizzare, in
direzione di una nuova meta, comportamento, emozioni e contenuti
cognitivi.
Nelle specie più vicine all’uomo, i sistemi motivazionali che regolano le
diverse forme basilari di relazione sociale sono ambientalmente labili, cioè
sono plasmati dall’apprendimento in maniera sempre più individuale man
mano che ci si avvicina alla complessità del cervello umano. In altre parole,
i sistemi motivazionali vanno considerati come potenti propensioni o
tendenze all’azione dotate di una base innata ma poi influenzate
dall’apprendimento, non come incoercibili e immodificabili istinti. Nel caso
del sistema di attaccamento, le risposte fornite dall’ambiente sociale alle
richieste di cura, codificate in complesse strutture di memoria e aspettativa
chiamate Modelli Operativi Interni (MOI), sono state oggetto di estese e
accurate indagini empiriche. Come è ormai diffusamente noto, diversi tipi
di MOI organizzano le manifestazioni del sistema di attaccamento nella
direzione della sicurezza (quando le risposte alle richieste di cura e conforto
avanzate dal bambino sono state soddisfacenti in modo costante e
prevedibile) oppure nella direzione di diverse forme di insicurezza, note
come stili evitante, ambivalente e disorganizzato (quando tali risposte sono
state in vari modi insoddisfacenti).
L’insieme dei diversi sistemi motivazionali costituisce, in ogni specie,
un’architettura gerarchica che riflette la sequenza con cui essi sono
comparsi nell’evoluzione della vita sulla Terra, come previsto nella classica
teoria di Hughlings Jackson (vedi capitolo 2). In questa organizzazione
gerarchica si formano così diversi livelli funzionali. I sistemi
evoluzionisticamente più recenti (per esempio, nell’uomo, quelli che
motivano all’intersoggettività o alla costruzione di strutture di significato)
acquistano funzioni di relativo controllo - attivandoli, inibendoli o
modulandoli - sui sistemi di regolazione della relazione sociale
evoluzionisticamente più antichi (per esempio, quelli che motivano alla
competizione per il rango sociale, alla formazione della coppia sessuale o
alla ricerca di vicinanza protettiva da un conspecifico). Questi ultimi
acquistano a loro volta funzioni di controllo su quelli ancora più arcaici,
deputati all’interazione con l’ambiente non sociale (per esempio, quelli che
motivano alla ricerca di cibo, o alla difesa dai pericoli ambientali attraverso
la fuga e la lotta). La tabella 4.1 offre una visione sintetica dell’architettura
gerarchica, composta da tre diversi livelli, della motivazione umana.
L’organizzazione gerarchica dei molteplici sistemi motivazionali
acquista negli animali più vicini all’uomo, e in massimo grado in Homo
sapiens, un crescente grado di flessibilità. Nell’uomo, gli specifici stimoli
ambientali capaci di attivare un qualsiasi sistema di livello gerarchico
inferiore possono farlo direttamente, eludendo il controllo del livello
gerarchico intermedio e creando una situazione in cui sistemi del livello più
alto e quelli del sistema più basso possono essere attivi in parallelo. Per fare
un semplice esempio, durante una cena sociale possiamo filosofeggiare
interiormente (funzione superiore) mentre mangiamo (funzione inferiore),
senza curarci troppo di interagire con gli altri commensali sul piano del
rango sociale, della seduzione erotica, o della ricerca-offerta di cura e
conforto (funzioni di livello intermedio). Per denotare questa flessibilità
nell’accesso degli stimoli ambientali ai livelli alti e bassi della gerarchia
motivazionale - una flessibilità, si noti, il cui costo è l’aumentata possibilità
che si creino conflitti fra sistemi simultaneamente attivi - è stato proposto il
termine eterarchia (Berntson, Cacioppo, 2008) in sostituzione di gerarchia.
Un aspetto clinicamente importante del

Tabella 4.1 Architettura morfofunzionale della motivazione (modificato


da Liotti, Monticelli, 2008, p. 11).
funzionamento flessibile ed eterarchico dell’insieme dei sistemi
motivazionali è che, mentre è facile che sistemi motivazionali appartenenti
a diversi livelli siano simultaneamente “risvegliati”, è meno facile che siano
attivi nello stesso momento due diversi sistemi appartenenti allo stesso
livello gerarchico. Tendenzialmente, l’attivazione di un sistema di un dato
livello inibisce quella degli altri sistemi dello stesso livello. Questo aspetto
del funzionamento eterarchico della motivazione umana è clinicamente
importante, perché spiega come la mente si difende dalla dissociazione
usando sistemi dello stesso livello (cioè sistemi interpersonali) rispetto a
quello di attaccamento che, come discuteremo nel seguito del capitolo, è
primariamente e specificamente coinvolto nella risposta dissociativa ai
traumi.
Nella gerarchia o eterarchia della motivazione umana, il livello di base è
composto dai sistemi evoluzionisticamente più antichi già presenti nei
rettili, mentre il livello intermedio, tipico dei mammiferi, comprende i
sistemi che regolano ciascun tipo di interazione fondamentale
dell’individuo con i membri della propria specie (i conspecifici). Infine, il
livello gerarchicamente sovraordinato dell’architettura motivazionale, tipico
dell’uomo - the high est level nella concezione di Jackson - è costituito dai
sistemi evoluzionisticamente più recenti: sistemi che motivano alla
condivisione intersoggettiva dell’esperienza, alla costruzione di strutture di
significato, e a quella janetiana sintesi personale dei diversi significati che
culmina nell’esperienza di un Io che si percepisce nel tempo passato,
presente e futuro.3

Il primo livello dell’architettura motivazionale

I sistemi motivazionali del primo livello corrispondono a moduli


cerebrali che impegnano reti neurali del tronco encefalico (Panksepp,
1998). Essi regolano condotte le cui mete riguardano l’omeostasi corporea,
oppure sono rivolte a gestire particolari contingenze ambientali non sociali,
come la ricerca di cibo (che include il sistema motivazionale predatorio) o
la difesa da ogni minaccia alla sopravvivenza. Fra questi, il più importante
ai fini della comprensione delle risposte ai traumi è il sistema di difesa, che
sarà trattato nella sezione successiva di questo capitolo.

Il secondo livello dell’architettura motivazionale

I sistemi motivazionali del secondo livello corrispondono a


moduli cerebrali rappresentati nell’archipallio, noto anche come cervello
antico mammifero o sistema limbico (Panksepp, 1998). Essi regolano le
interazioni sociali finalizzate a chiedere cura (attaccamento), dare cura
(accudimento), definire il rango sociale (dominanza o subordinazione),
cooperare per raggiungere uno scopo condiviso, formare e mantenere la
coppia sessuale (Gilbert, 1989; Liotti, 1994/2005; Panksepp, 1998). Dato
che ciascuno di questi sistemi regola uno specifico aspetto delle relazioni
interpersonali nell’uomo, essi sono stati chiamati Sistemi Motivazionali
Interpersonali (SMI). Gli SMI coordinano e regolano i comportamenti e le
emozioni tipici di ciascuna forma d’interazione interpersonale che è emersa
nell’evoluzione dei mammiferi, e sono caratterizzati da una profonda
tendenza a sintonizzarsi reciprocamente nei due individui interagenti,
probabilmente anche grazie alla mediazione, a un livello precosciente,
dell’attività dei neuroni specchio (Liotti 1994/2005; Liotti, Monticelli,
2008). L’attivazione dell’attaccamento in un individuo tende a risvegliare il
sistema di accudimento nell’altro che in quel momento con lui o lei
interagisce; il sistema di rango innescato in un individuo attiva lo stesso
sistema nell’altro e conduce alla fine a un rapporto fra dominante e
subordinato che è sempre regolato da questo SMI. E lo stesso può dirsi per i
sistemi sessuale e cooperativo. Lo scambio non verbale di emozioni che è
alla base del cosiddetto contagio emozionale (Hatfield et al., 1993) illustra
con grande chiarezza la forte tendenza alla sintonizzazione dello stesso
SMI, o di SMI complementari (attaccamento e accudimento) negli individui
interagenti.
Una descrizione dettagliata delle emozioni, e ancor più precisamente
delle sequenze di emozioni tipiche di ciascun sistema interpersonale è
offerta dalle opere di Gilbert (1989) e di Liotti (1994/2005,2001). Qui ci
limiteremo a ricordare, a titolo di esempio, che l’ostacolo al conseguimento
della meta del sistema di attaccamento determina una tipica sequenza di
protesta (collera e paura), tristezza fino alla disperazione, e distacco
emozionale, mentre l’ostacolo al conseguimento della meta del sistema di
rango determina la sequenza paura - vergogna - umiliazione. Ogni SMI dà
inoltre luogo a una specifica forma di percezione e cognizione
interpersonale (Liotti, Gilbert, in corso di stampa). Per esempio, il sistema
di attaccamento comporta la percezione di sé come vulnerabile e bisognoso
di aiuto e conforto, e dell’altro come fonte di sostegno e protezione. Invece
il sistema cooperativo facilita la percezione di sé e dell’altro come simili
nell’intenzionalità (Tomasello, 1999) e affiancati pariteticamente nel
perseguire un obiettivo comune (Liotti, 1994/2005).

Il terzo livello dell’architettura motivazionale

I sistemi motivazionali del terzo livello impegnano reti neurali della


neocorteccia. Essi organizzano le propensioni tipicamente umane a
condividere l’esperienza (intersoggettività), a comprendere e prevedere la
realtà, a riflettere sui contenuti mentali propri e altrui (metacognizione,
mentalizzazione, Teoria della Mente) - utilizzando per questi fini tutti e tre i
tipi fondamentali di conoscenza: implicita, esplicita semantica ed esplicita
episodica (Tulving, 1985). Le facoltà superiori della mente umana, tuttavia,
non poggiano mai sul vuoto del puro pensiero, ma operano sui processi dei
sistemi motivazionali dei livelli più bassi e possono esserne profondamente
influenzate. Per esempio, l’attivazione del sistema di attaccamento inibisce
in qualche misura l’uso delle capacità metacognitive (Alien et al., 2008;
Fonagy, Target, 2008), l’attivazione del sistema di difesa lo blocca
praticamente del tutto (Cantor, 2005, pp. 5556; Rauch et al., 1996), mentre
il sistema cooperativo sembra facilitarlo (Liotti, 1994/2005; Cortina, Liotti,
2010).

ATTIVAZIONE DEL SISTEMA DI DIFESA NELLA RISPOSTA AI


TRAUMI

Sopravvivere in un ambiente difficile, come è certamente l’ambiente in


cui si è sviluppata ogni forma di vita sulla Terra, dove oltre ai pericoli
dell’ambiente inanimato vi sono quelli continuamente proposti dai predatori
di altre specie, richiede l’operare di un sistema motivazionale dedicato alla
difesa dell’incolumità. L’evoluzione ha fornito ogni specie animale di un
sistema che motiva a cercare scampo - attraverso strategie molteplici,
alcune diverse da specie a specie, ma che implicano tutte la fuga e la lotta -
ogni volta che si incontrino eventi minacciosi per la vita o per l’incolumità
(gli eventi che costituiscono l’essenza del concetto di trauma secondo la
definizione del DSM). In molte specie di mammiferi e certamente in Homo
sapiens, il sistema di difesa si esprime con quattro risposte fondamentali,
riassumibili nella letteratura anglosassone con quattro iniziali “f”: fight
(lotta), flight (fuga), freezing (immobilità ipertonica con conservata
padronanza sulla motilità) e faint (immobilità ipotonica o cataplettica, con
perdita della padronanza sulla motilità).
Complessi pattern emozionali e schemi corrispondenti di attivazione
neurovegetativa accompagnano tali risposte (Clerici, Veneroni, 2011).
In una prospettiva evoluzionista, è possibile ricondurre quasi tutti i
sintomi principali del Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPJS)
all’attivazione del sistema di difesa (Cantor, 2005). L’analisi che Cantor
(2005) ha condotto sullo stress post-traumatico come manifestazione di
un’attivazione abnorme del sistema di difesa non riguarda soltanto sintomi
facilmente riconducibili alla paura/fuga (flight) e alla predisposizione
all’attacco (fight) -ipervigilanza, iperattivazione neurovegetativa, irritabilità,
paura ed evitamento di situazioni che ricordano l’evento traumatico - ma
anche stati soggettivi problematici come le memorie intrusive, il rivivere il
trauma, l’ottundimento (numbing) e i deficit metacognitivi.
Il sistema di difesa, quando attivato da una minaccia grave alla quale si
è sopravvissuti, e anche da una minaccia mortale alla quale sia esposto un
altro con cui si sia in stretta relazione affettiva,4 implica per ragioni di
adattamento evoluzionistico una memorizzazione forzata e ripetitiva
dell’evento traumatico. E' questa la base per le memorie intrusive in cui il
paziente con DPTS rivive il trauma (non potendolo propriamente ricordare
come un evento passato, a causa del concomitante deficit metacognitivo
indotto, come vedremo, proprio dall’attività del sistema di difesa).
Ricordare in modo vivido e come se lo si rivivesse, in maniera privilegiata
rispetto ad altri eventi del passato, condizioni e situazioni che hanno
determinato pericolo di vita ha un evidente valore evoluzionistico di
adattamento, ed è diventata una strategia automatica mobilizzata dal
sistema di difesa (per un’analisi neurobiologica degli automatismi mnestici
coordinati dal sistema di difesa, vedi Cantor, 2005, pp. 57-66).
E' degno di nota che in natura, con la sola eccezione di Homo sapiens, il
sistema di difesa non si attiva quasi mai nell’interazione con i conspecifici,
dove l’aggressività nella vita sociale è ritualizzata (cioè non mira
all’uccisione del conspecifico) e compare in genere come manifestazione
del sistema competitivo di rango (dominanza e subordinazione). Nella
nostra specie invece - e solo in misura assai minore in poche altre specie di
mammiferi5- si assiste con impressionante frequenza alla tragedia che ha
meritato un disonorevole termine riferito solo, appunto, all’uomo: omicidio.
Homo homini lupus, avevano già riconosciuto gli antichi: solo l’uomo può
comportarsi come un predatore (di cui il lupo è figura emblematica) verso
un proprio simile, uccidendolo.
Evitare ogni confusione fra attivazione del sistema di difesa e
attivazione del sistema competitivo di rango è di importanza fondamentale
nello studio dei traumi in generale e degli sviluppi traumatici in particolare.
Come è noto, la probabilità di risposte patologiche ai traumi è relativamente
bassa quando la minaccia alla vita e all’incolumità deriva da eventi
catastrofici naturali come terremoti, inondazioni e uragani, oppure
dall’aggressione di un predatore, mentre è molto alta quando analoga
minaccia è frutto della deliberata intenzione di un altro essere umano
(Yehuda et al., 1998). Probabilmente, i fondamenti evoluzionistici della
mente umana, che abbiamo in comune con tutti i mammiferi in generale e
con i primati in particolare, non sono fatti per gestire la minaccia alla vita
proveniente dai membri della propria stessa specie. In altri termini,
l’attivazione del sistema di difesa all’interno dell’interazione con un
conspecifico non è frutto di un adattamento darwiniano classico.6 Il sistema
di difesa si è evoluto in tutte le specie, dai rettili ai mammiferi, come un
adattamento darwiniano finalizzato a fronteggiare l’aggressione di un
predatore appartenente a un’altra specie, non di un conspecifico: le sue
regole di funzionamento innate non prevedono di dover fronteggiare
l’aggressione non ritualizzata, ma di tipo predatorio e dunque distruttiva, di
un proprio simile. L’aggressività ritualizzata fra conspecifici, tipica del
sistema competitivo di rango, non è di regola traumatica proprio perché
corrisponde a un adattamento darwiniano (la costituzione di un gruppo
sociale attraverso la definizione del rango favorisce la sopravvivenza sia dei
dominanti sia dei subordinati), e non prevede la distruzione fisica
dell’antagonista.
In che modo l’itinerario evoluzionistico che ha condotto a Homo
sapiens sia arrivato a permettere che nell’interazione fra conspecifici si
attivi il sistema predatorio finalizzato all’uccisione, e di conseguenza anche
l’attivazione del sistema di difesa nella vittima dell’aggressione, è un
importante problema per l’etologia umana e l’antropologia evoluzionista. In
attesa che questi settori delle scienze umane offrano una risposta
soddisfacente al problema, si è tentati di pensare"che ne sia responsabile la
relativa libertà dalle propensioni evoluzionisticamente fondate, permessa
dall’emergere della coscienza umana. Le opere della coscienza (Liotti,
2001) non sembrano tutte e sempre vantaggiose per la sopravvivenza della
nostra specie, né per il suo adattamento all’ambiente. Anche per questa
ragione è stata autorevolmente avanzata l’ipotesi che la coscienza umana,
con le sue tipiche funzioni superiori (menta-lizzazione, metacognizione,
memoria autobiografica, intersoggettività), non sia comparsa come un
classico adattamento darwiniano - nel qual caso le sue manifestazioni
sarebbero tutte caratterizzate da vantaggi per sopravvivenza e adattamento -
ma piuttosto come una proprietà emergente da preesistenti adattamenti
darwiniani. Nel linguaggio della moderna teoria dell’evoluzione, la
coscienza umana è probabilmente uno spandrel (pennacchio)
evoluzionistico (Gould, Lewontin, 1979). Uno spandrel è una proprietà
emergente dalla forma complessa che durante la speciazione può assumere
un insieme di adattamenti darwiniani, così come in architettura un
pennacchio emerge, non previsto, dall’accostamento di diverse strutture
previste e create dall’architetto per la loro funzione.7 Uno spandrel
sopravvive nelle generazioni successive solo se comporta sostanziali
vantaggi per sopravvivenza e adattamento. Tuttavia, a differenza degli
adattamenti darwiniani classici comparsi direttamente per variazione e
selezione naturale, uno spandrel può comportare anche simultanei e seri
svantaggi (Gould, Lewontin, 1979). L’aggressività distruttiva fra
conspecifici potrebbe essere uno degli svantaggi di quel pennacchio
evoluzionistico che è, probabilmente, la coscienza di ordine superiore tipica
di Homo sapiens.
Il marcatore dell’attivazione, nell’incontro interumano, dell’aggressività
predatoria e della difesa da essa - sistemi motivazionali destinati dalla
selezione naturale a innescarsi solo nell’interazione fra esseri viventi
appartenenti a specie diverse - è la profonda dolorosa esperienza di
alienazione dalla comune appartenenza alla specie. Primo Levi ne ha fatto il
tema di Se questo è un uomo, tragica cronaca autobiografica del trauma
complesso di un sopravvissuto alla Shoah.

RUOLO DEL SISTEMA DI» ATTACCAMENTO NELLA


RISPOSTA AI TRAUMI

E' verosimile che, come argomenta efficacemente Cantor (2005), i


sintomi del DPTS, e in generale le singole risposte a ciascuno degli eventi
minacciosi che si cumulano negli sviluppi traumatici, denotino un’abnorme
persistenza dell’attività del sistema motivazionale di difesa dopo che esso
sia stato risvegliato da un trauma. E' anche verosimile che il sistema di
difesa permanga a lungo e abnormemente attivato quando il suo innesco è
dovuto all’aggressione distruttiva di un essere umano, perché questo
sistema è un adattamento darwiniano finalizzato a fronteggiare attacchi di
predatori, non l’aggressione distruttiva dei conspecifici. Tuttavia,
quest’ipotesi non spiega perché alcune vittime di traumi vanno incontro
all’attivazione persistente del sistema di difesa, mentre altre, che non
sviluppano un DPTS in risposta al trauma, ne sono preservate. Inoltre, negli
sviluppi traumatici che costituiscono l’oggetto centrale del nostro interesse,
la complessità delle esperienze dissociative e la loro influenza sulla
personalità in formazione non possono essere spiegate solo in termini di
iperattivazione del sistema di difesa. Per spiegare i fattori di rischio e i
fattori protettivi che influenzano la risposta al trauma, e soprattutto per
comprendere gli sviluppi traumatici, è dunque necessario rivolgere
l’attenzione ad altri sistemi motivazionali. I dati teorici e di ricerca
disponibili indicano che è opportuno pensare anzitutto al sistema di
attaccamento.
Il sistema motivazionale di attaccamento ha una funzione protettiva che
si esercita attraverso la ricerca attiva di vicinanza a un membro familiare
del gruppo sociale (Bowlby, 1969). Esso si è evoluto, nella vita sociale
degli uccelli e dei mammiferi, con la funzione di proteggere l’individuo,
oltre che dai pericoli ambientali (funzione in cui si aggiunge al sistema di
difesa), anche da altre forme di vulnerabilità (incluse l’impossibilità di
procacciarsi da soli il cibo, tipica dei piccoli di queste specie, la solitudine e
il dolore di ogni origine). Nell’uomo e in poche altre specie di mammiferi,
il sistema di attaccamento svolge la funzione di chiedere aiuto e conforto ai
propri simili durante tutto l’arco di vita, e non solo nell’infanzia (Bowlby,
1969).8
Il sistema di attaccamento è dunque risvegliato, sostanzialmente, dalla
paura e dal dolore, soprattutto se intensi e prolungati. Condizioni
dell’ambiente e dell’organismo diverse da dolore e paura attivano invece gli
altri sistemi motivazionali sociali. Il sistema di accudimento è risvegliato da
segnali di attaccamento emessi da un conspecifico (esempio tipico di tali
segnali è il pianto di separazione del bambino, che attiva il sistema di
accudimento nei suoi familiari). Il sistema sessuale è attivato dal
corteggiamento oltre che dagli specifici equilibri neuroendocrini.
Il sistema di rango è attivato dalla competizione per accaparrarsi ogni
risorsa ambientale limitata e appetibile. Infine, il sistema cooperativo è
attivato dall’invito a condividere l’attenzione per un qualsiasi oggetto o
aspetto della realtà (Tomasello, 1999).
Anche la più succinta descrizione dei meccanismi di attivazione degli
SMI, com’è quella appena fornita, rende chiaro come il sistema di
attaccamento, e non altri SMI, sia necessariamente e sempre risvegliato, in
congiunzione con il sistema di difesa, durante e dopo le esperienze
traumatiche. Il concomitante risveglio del sistema di attaccamento potrebbe
spiegare perché alcune persone, se esposte a traumi, vanno incontro a
un’iperattivazione durevole del sistema di difesa e dunque a un DPTS,
mentre altre hanno un’attivazione del sistema di difesa che perdura solo fino
a che perdura l’evento traumatico, e dunque non sviluppano i durevoli
sintomi del DPTS. La variabile principale che media la diversa risposta ai
traumi, patologica oppure non tale, potrebbe infatti essere il diverso stile di
attaccamento.
Ogni persona sviluppa, a partire dalla prima infanzia, uno stile
individuale di richiesta di cura e conforto, in funzione delle diverse risposte
fornite al bambino da chi abitualmente lo accudisce, madre, padre o altra
persona (caregiver).9 La ricerca empirica ha identificato quattro stili o
pattern di attaccamento (per una descrizione sintetica ma accurata, vedi
Attili, 2007, pp. 29-36): sicuro (B), insicuro-evitante (A), insicuro-
ambivalente (C) e disorganizzato (D). Se fonte di insicurezza circa la
possibilità di ricevere aiuto in situazioni di paura e dolore, le
risposte ottenute dai caregiver durante lo sviluppo della personalità
potrebbero divenire fattori di vulnerabilità capaci di indurre risposte
patologiche ai traumi. Mentre i MOI dell’attaccamento sicuro, in caso di
allarme e dolore, permettono di prevedere facile ed efficace accesso
all’aiuto del caregiver, i MOI degli attaccamenti insicuri sottendono
previsioni incerte o addirittura negative circa la disponibilità degli altri a
fornire aiuto e conforto, e dunque lasciano la vittima di un trauma in una
condizione sfavorevole all’elaborazione della conseguente memoria. Così, i
MOI di attaccamento insicuro - limitando la fiducia di ottenere aiuto e
conforto dopo un trauma, e riducendo la capacità di chiederli efficacemente
-possono causare la perdurante intensa attivazione del sistema di difesa che
si esprime come DPTS.

RICERCHE SUL RUOLO DELL’ATTACCAMENTO NELLA


RISPOSTA AI TRAUMI

Numerose ricerche dimostrano che la mancanza di supporto sociale in


prossimità dell’esperienza traumatica gioca un ruolo chiave nella genesi del
DPTS (Brewin et al., 2000; Lauterbach et al., 2007a; Lauterbach et al.,
2007b; Scarpa et al., 2006; Schumm et al., 2006). Il dato si può interpretare
come il risultato di un ostacolo ambientale alla funzione del sistema di
attaccamento. L’assenza di sostegno sociale impedisce infatti alla vittima
del trauma di ricevere cura e aiuto, e dunque non consente al sistema di
attaccamento di esercitare la sua funzione mitigante l’attivazione del
sistema di difesa anche qualora la vittima avesse un MOI di attaccamento
sicuro.
Se poi un MOI insicuro ostacola la capacità di chiedere aiuto e conforto,
di percepirne la disponibilità nell’ambiente sociale o di utilizzarli, il rischio
di sviluppare un DPTS aumenta anche in presenza di sostegno sociale
offerto alle vittime di eventi traumatici (Feng et al., 2007). Gli studi
effettuati sulle conseguenze dell’attacco terroristico alle torri gemelle di
New York hanno evidenziato che i sintomi di DPTS sviluppati da persone
con precedente storia di attaccamento sicuro sono significativamente minori
rispetto agli individui insicuri (Fraley et al., 2006). Anche altri studi
controllati hanno dimostrato che l’insicurezza dell’attaccamento è correlata
ad aumentato rischio di DPTS o a sintomi post-traumatici più gravi
(Aspelmeier et al., 2007; Bailey et al., 2007; Elwood et al., 2007; Stovall-
McClough, Cloitre, 2006). I dati di alcune fra queste ricerche suggeriscono
che, fra i diversi tipi di attaccamento insicuro; quello disorganizzato
potrebbe costituire il maggior fattore di rischio per il DPTS.10
Il MOI dell’attaccamento disorganizzato si può considerare, su basi
teoriche, una struttura mentale che facilita la risposta dissociativa ai traumi
(Cassidy, Mohr, 2001; Liotti, 1992,2004). Uno studio longitudinale (Ogawa
et al., 1997) ha offerto considerevole sostegno a quest’ipotesi: bambini in
età scolare e adolescenti che durante il loro secondo anno di vita erano stati
classificati come disorganizzati nell’attaccamento, rispondevano a eventi
traumatici con la dissociazione in misura significativamente maggiore
rispetto ai coetanei provenienti da storie di attaccamento organizzato, sicuro
o insicuro che ne fosse il sottotipo. Poiché le esperienze dissociative che si
manifestano nel corso di un evento traumatico o immediatamente dopo
(dissociazione peritraumatica) sembrano predire lo sviluppo del DPTS
(Ozer et al., 2003), l’assunto che la disorganizzazione dell’attaccamento
costituisce un terreno fertile per le patologie correlate a traumi non sembra
irragionevole. C’è inoltre compatibilità fra l’elevata frequenza dei disturbi
psicopatologici correlati a traumi osservata dagli epidemiologi e la
diffusione nella popolazione di questo fattore di rischio. L’attaccamento
disorganizzato è infatti piuttosto frequente nella popolazione generale,
costituendo il 15% circa degli stili di attaccamento osservati nei campioni di
bambini provenienti da famiglie a basso rischio di psicopatologia e la
maggioranza di tali stili nei bambini che crescono in famiglie ad alto rischio
(Lyons-Ruth, Jacobvitz, 2008).
La base motivazionale della disorganizzazione dell’attaccamento
consiste nell’attivazione conflittuale o paradossale di entrambi i sistemi che
abbiamo fin qui considerato come caratterizzanti la risposta ai traumi,
attaccamento e difesa. Una tipica dinamica motivazionale, successiva alla
disorganizzazione dell’attaccamento nel primo anno di vita, coinvolge
inoltre, come vedremo nel prossimo capitolo, i sistemi di accudimento e di
rango (e talora forse anche il sistema sessuale). Questo coinvolgimento di
altri SMI è tale da poter costituire occasione di difficoltà relazionali e nella
regolazione delle emozioni durante lo sviluppo della personalità. La sua
importanza come fattore di rischio per la propensione a rispondere ai traumi
con la dissociazione, e la sua influenza sulla genesi di difficoltà relazionali e
di regolazione delle emozioni - elementi tipici del DTS - rendono la
disorganizzazione dell’attaccamento meritevole di particolare attenzione
nello studio degli sviluppi traumatici. A essa dedicheremo i paragrafi
successivi.

LA DISORGANIZZAZIONE DELL’ATTACCAMENTO

La disorganizzazione dell’attaccamento (DA) È stata osservata fin dagli


inizi degli anni Ottanta (Main, Stadtman, 1981) in bambini nel corso del
secondo anno di vita, durante i brevi (tre minuti) episodi di separazione e
ricongiungimento con il caregiver che si susseguono nella Strange Situation
Procedure (SSP). La DA è stata però studiata in maniera dettagliata e inserita
fra gli stili di attaccamento soltanto alcuni anni dopo, col nome di categoria
D o disorganizzata/disorientata (Main, Hesse, 1990; Main, Solomon, 1986).
La DA è caratterizzata dal crollo delle strategie di attenzione e
comportamento durante la SSP: il bambino mostra condotte
contraddittorie o incoerenti, simultanee o in rapida sequenza, quando il suo
sistema di attaccamento, risvegliato dalla separazione, guida le sue risposte
fino al ritorno del caregiver. A volte la DA si manifesta con comportamenti
incoerenti che suggeriscono decisamente la compartimentazione
dissociativa descritta nel capitolo 3 (Main, Morgan, 1996): movimenti di
avvicinamento al caregiver seguiti in maniera abnormemente veloce e
apparentemente immotivata da movimenti di allontanamento, o addirittura
avvicinamento e allontanamento simultanei, come se la condotta fosse
guidata da due centri di iniziativa e significato diversi, nessuno dei quali è
inibito come accade nel conflitto, e nessuno dei quali è integrato con l’altro
in una soluzione unitaria (sono stati osservati bambini che, mentre si
avvicinavano al caregiver dopo la separazione, attivamente ne evitavano lo
sguardo girando la testa in direzione opposta, col risultato di un’evidente
disorganizzazione della deambulazione). Altre volte la DA si manifesta con
condotte che suggeriscono invece l’alienazione o detachment dissociativo:
il bambino può apparire estraniato, restare improvvisamente immobile e
con lo sguardo assente, o irrigidirsi come nel freezing tipico del sistema di
difesa (Attili, 2007; Main, Morgan, 1996).
A partire dai dati raccolti con l’Adult Attachment Interview (AAI), è
stato possibile dimostrare che la DA nel bambino è fortemente correlata alla
presenza di lutti o traumi non risolti nella memoria del caregiver (Main,
Hesse, 1990). Ancor più forte è la correlazione fra DA nel bambino e stati
mentali del caregiver caratterizzati da ostilità e impotenza (Lyons-Ruth et
al., 2005), ovvero dalla forte tendenza ad abdicare le funzioni di
accudimento (Solomon, George, 2011). Una recente ricerca suggerisce che
tutti gli stati mentali del caregiver correlati con la DA del bambino abbiano
in comune la dissociazione: anche forme estreme di fallimento del caregiver
nel sintonizzarsi con la comunicazione del bambino, se non sono
accompagnate dalla dissociazione, non correlano con la DA (Out et al.,
2009).
Alleli presenti nel patrimonio genetico di alcuni individui possono
favorire la comparsa della DA, ma non determinarla (Bakermans-Kra-
nenburg, van Ijzendoorn, 2007; Frigerio et al., 2009). In assenza delle
caratteristiche relazionali create da traumi non risolti o da atteggiamenti
insieme ostili e impotenti nel caregiver, bambini potenzialmente predisposti
per via genetica alla DA di fatto non la sviluppano. Quanto alle
caratteristiche della relazione col caregiver che determinano il crollo di ogni
coerente strategia attentiva e comportamentale nel bambino (più facilmente
in presenza di alcuni assetti genetici), è stato ipotizzato che siano incentrate
sull'esperienza emotiva della paura impotente. La paura indotta dal
caregiver non è risolvibile con la fuga o l'attacco mediati dal sistema di
difesa del bambino, e ciò per le caratteristiche della concomitante
attivazione del sistema di attaccamento. Il bambino dall'attaccamento
disorganizzato sperimenta dunque, allo stesso tempo, paura e impotenza
(fright without solution, “paura senza sbocco”; Main, Hesse, 1990).
Il caregiver può provocare paura nel bambino, mentre lo accudisce,
attraverso atteggiamenti apertamente aggressivi (fino a volte all'ostilità o
alla violenza) conseguenti in genere alla sofferenza interna indotta da
memorie traumatiche, specie se ampiamente irrisolte - in questo caso il
caregiver è apertamente frightening (spaventante). Oppure, la paura può
essere indotta per una sorta di contagio emotivo, come accade quando il
caregiver inconsapevolmente esprime paura connessa alle proprie memorie
dolorose mentre accudisce il bambino, o quando si assorbe in tali memorie
perdendo la sintonia comunicativa col piccolo (Hesse, Main, 2006; Lyons-
Ruth et al., 2005; Main, Hesse, 1990). In questo secondo caso, il caregiver è
spaventato/impotente (frightened), ed è solo indirettamente frightening. Il
fatto che esistano due vie che conducono allo stesso esito, la DA, passando
l'una attraverso maltrattamenti espliciti del bambino o comportamenti
violenti intrafamiliari, e l'altra attraverso il solo contagio emotivo della
paura impotente, è importante clinicamente, perché può spiegare i casi (pur
relativamente rari) in cui una patologia dissociativa o uno sviluppo simile al
classico sviluppo traumatico espresso nel DTS non appaiono associati a
evidenti maltrattamenti (Hesse et al., 2003; Hughes, 2006; Hughes et al.,
2006). La possibilità che lo stesso effetto sull’attaccamento del bambino si
produca tanto nell’interazione con un caregiver fragile e spaventato quanto
in quella con un caregiver portato a esplosioni di violenza (verbale oppure
fisica), è catturata dalla sigla con la quale vengono caratterizzati nella
ricerca i genitori i cui figli sviluppano un attaccamento disorganizzato: FF,
frightened/frightening (Main, Hesse, 1990). I caregiver FF, come si è detto
sopra, presentano memorie non elaborate di lutti o traumi, responsabili del
loro atteggiamento. Per identificare i caregiver il cui comportamento è
capace di spaventare il bambino direttamente (ostilità, hostility) o
indirettamente (impotenza, helplessness), ma le cui memorie traumatiche
appaiono elaborate secondo i criteri dell’AAI (che non coincidono con i
criteri clinici di elaborazione), è stata proposta la sigla HH (hostile/helpless;
LyonsRuth et al., 2003).
I segnali emotivi provenienti dal caregiver FF o HH, che consistano in
esplosioni di violenza verbale o anche fisica oppure in manifestazioni di
paura e impotenza, sono frutto dell’attivazione dei sistemi di attaccamento
(dolore registrato nella memoria traumatica) e di difesa (sempre attivo
insieme all’attaccamento tanto nelle esperienze quanto nelle memorie
traumatiche). In nessun modo l’architettura innata della motivazione
presente nel bambino potrà decodificarli (attraverso il sistema pure innato
dei neuroni specchio) come pertinenti al sistema di rango, dove
l’aggressività dell’altro è relativamente innocua e gestibile, come la propria
paura, con la sottomissione. Necessariamente, la paura e l’ostilità espresse
(spesso inconsapevolmente) dal caregiver risveglieranno allora nel bambino
il sistema di difesa e un’emozione di paura simile a quella che si prova nei
confronti di un predatore.
Si noti che la paura non è disorganizzante di per sé, ma anzi conduce di
regola a tre tipi di risposte ben organizzate: fuga/attacco (sistema di difesa),
ricerca di vicinanza protettiva e conforto (sistema di attaccamento), oppure
sottomissione (sistema competitivo di rango). La paura diviene
disorganizzante solo quando non trova soluzione nell’una o nell’altra di tali
risposte organizzate, per esempio perché esse, entrando in contrasto l’una
con l’altra, si ostacolano reciprocamente. Nella DA, il caregiver rappresenta
per il bambino, simultaneamente, sia una fonte di pericolo sia di protezione:
per questa ragione la paura del bambino non può trovare soluzione nel
comportamento di allontanamento né in quello di avvicinamento, e per
questa ragione il comportamento si disorganizza. Una ricerca di Schuengel
e collaboratori offre prove dirette a sostegno dell’ipotesi che il contagio
della paura (dal caregiver spaventato al bambino) o l’induzione diretta di
paura (attraverso comportamenti violenti o comunque ostili del caregiver)
sono la causa della DA nel bambino (Schuengel et al., 1999).
Nei termini della teoria multimotivazionale evoluzionista, si può
esprimere il nucleo centrale della DA affermando che, nell’interazione con
un caregiver che induce paura mentre al contempo offre cura, il
comportamento e le emozioni del bambino vengono governate
simultaneamente da due sistemi motivazionali innati che entrano in un
irrisolvibile conflitto.11 Il sistema motivazionale di difesa induce la
tendenza alla fuga dal caregiver (Attili, 2007) perché percepito come
minaccioso direttamente (quando è violento) o indirettamente (quando è
spaventato o disorientato). Il sistema di attaccamento induce,
simultaneamente, la tendenza opposta ad avvicinarsi al caregiver per
cercare conforto e protezione. Si noti che normalmente il sistema di
attaccamento viene attivato simultaneamente al sistema di difesa, ma non
verso la stessa realtà ambientale. Nel caso di un bambino spaventato da un
cane, per esempio, il sistema di difesa lo spinge a fuggire dal cane, mentre
simultaneamente il sistema di attaccamento lo porta ad avvicinarsi al
caregiver: i due sistemi funzionano armonicamente e in sinergia, non in
conflitto insolubile come nel caso della DA.
E' verosimile su basi teoriche, e in parte suffragato da dati empirici, che
il MOI costruito nella DA sia multiplo e non integrato (Liotti, 1992,
2004,2006,2009; Main, Morgan, 1996), oltre che emotivamente carico
dell’esperienza drammatica della paura senza soluzione. In altre parole, il
MOI disorganizzato è intrinsecamente dissociato (compartimentato) rispetto
ai suoi contenuti rappresentativi: di sé (rappresentato allo stesso tempo
come bisognoso di cura, ricettore di cura, e minacciato), e dell’altro
(rappresentato simultaneamente come disposto a offrire cura, incapace di
offrirla, violento, spaventato e impotente).

CONTINUITÀ FRA DISORGANIZZAZIONE


DELL’ATTACCAMENTO E DISTURBO TRAUMATICO DELLO
SVILUPPO

La situazione relazionale che conduce alla DA può essere considerata


come un trauma relazionale precoce, secondo le efficaci argomentazioni,
anche neurobiologiche, di Schore (Schore, 2003,2009a) che saranno riprese
nei prossimi due capitoli. In accordo con la definizione di trauma fornita dal
DSM-IV (APA, 2000), nella DA il bambino sperimenta emozioni veementi, e
allo stesso tempo l’impotenza dolorosa che caratterizza ogni autentica
esperienza traumatica. Come nei traumi, nella DA il funzionamento
motivazionale di base coniuga in maniera conflittuale motivazioni di difesa
e di attaccamento. La dissociazione o dis-integrazione delle funzioni
mentali che tipicamente accompagna le risposte patologiche ai traumi è
presente anche nella DA, tanto, come abbiamo visto, nella dimensione della
compartimentazione quanto in quella dell’alienazione o detachment.
Ne consegue che la DA può essere considerata come un modello,
particolarmente ben indagabile, del caratteristico rapporto fra le variabili
che insieme concorrono a determinare il quadro clinico del Disturbo
Traumatico dello Sviluppo (DTS) e del Disturbo Post-Traumatico da Stress
complesso (DPTSc): trauma, detachment dissociativo, rappresentazioni di
sé non integrabili (compartimentazione) e assetto motivazionale che,
coniugando disarmonicamente attaccamento e difesa, ostacola le relazioni
interpersonali e crea notevoli distorsioni della rappresentazione di sé-con-
l’altro (vedi le tabelle 1.1 e 1.2 nel capitolo 1). Nell’adulto, questo quadro
sembra poter condurre, come discuteremo nel capitolo 6, a diverse
condizioni psicopatologiche oltre ai disturbi dissociativi e al disturbo
borderline di personalità (Classen et al., 2006; Dutra et al., 2009; Hesse et
al., 2003; Liotti, 1992,2004,2006). Osservazioni teorico-cliniche (Liotti,
2004) e un’importante ricerca controllata longitudinale (Ogawa et al., 1997)
sostengono quest’ipotesi, inducendo a considerare la DA nei primi due anni
di vita come un fattore di rischio, attivo poi in tutto l’arco della vita, non
solo per il DPTS ma in genere per tutte le patologie correlate a traumi e
dissociazione. La prospettiva di Schore (2003,2009b), che vede nelle
condizioni relazionali in cui si sviluppa la DA un autentico trauma (trauma
relazionale precoce; vedi capitolo 2) porterebbe anzi, logicamente, a
studiare la DA come il primo dei traumi cumulativi che conducono al DTS.
I traumi cumulativi a cui è sottoposto il bambino che sviluppa un DTS
avvengono di regola in un contesto familiare, oppure il contesto familiare è
composto da caregiver così vulnerabili emotivamente e così impotenti da
non riuscire a proteggere un figlio piccolo ripetutamente vittima di traumi a
opera di persone esterne alla famiglia - nel qual caso si configurerebbe
comunque quel tipo di trauma intrafamiliare noto come neglect.
Verificandosi nell’ambiente intrafamiliare, a opera diretta o indiretta dei
caregiver, i traumi cumulativi del DTS sono tutti comunque capaci di
indurre una DA nel bambino, anche qualora essa non si fosse già prodotta
nei primi due anni di vita. Se ne può trarre la conclusione che la DA nei
primi due anni di vita può essere legittimamente considerata tanto come un
fattore di rischio per risposte patologiche a traumi successivi, quanto come
un trauma relazionale precoce che così appare come il primo dei traumi
cumulativi capaci di condurre al DTS.
Esistono dati empirici a sostegno dell’ipotesi che la DA nel primo anno
di vita costituisce un fattore di vulnerabilità alla stessa ampia gamma di
disturbi psicopatologici a cui conduce lo sviluppo traumatico conseguente a
successivi traumi intrafamiliari (per rassegne, vedi Dozier, Rutter, 2008;
Levy, 2005; Lyons-Ruth, Jacobvitz, 2008). Due spiegazioni, non
mutuamente esclusive, sono possibili: (1) le famiglie in cui è più probabile
che si manifesti la DA nei figli durante il primo anno di vita potrebbero in
alta percentuale essere anche quelle in cui è più probabile che il bambino
sia esposto a traumi cumulativi durante il successivo sviluppo; (2) la DA,
anche quando non è dovuta a condotte maltrattanti dei genitori durante
l’accudimento, implica la mobilizzazione di processi mentali dissociativi
(Liotti, 1992,1999,2004; Lyons-Ruth et al., 2003; Main, Morgan, 1996).
Queste riflessioni sulla DA, il trauma relazionale precoce e il possibile
successivo sviluppo di un DPTSc, convergono nel richiamare l’attenzione
sul contesto relazionale dei disturbi correlabili a traumi - un contesto
relazionale caratterizzato intersoggettivamente dalla disintegrazione delle
rappresentazioni mentali: tanto delle rappresentazioni dell’attaccamento nel
bambino quanto di quelle dell’accudimento nel caregiver (Liotti,
1994/2005, 2006; Lyons-Ruth et al., 2003; Lyons-Ruth et al., 2005;
Solomon, George, 2011). Il tema è stato ampiamente esplorato nell’ambito
della ricerca sulla trasmissione intergenerazionale dei traumi (Lieberman et
al., 2007) e dei pattern di attaccamento (van IJzendoorn, Bakermans-
Kranenburg, 1997). Un’importante conseguenza per la psicopatologia di
questa prospettiva intersoggettiva è la critica radicale alla concezione ancor
oggi dominante, che la dissociazione patologica sia una risposta difensiva ai
traumi il cui scopo primario è la protezione dal dolore mentale, e che solo
secondariamente si riflette in gravi alterazioni del senso di sé. Al contrario,
la dissociazione appare come una disintegrazione primaria del tessuto della
coscienza e dell’intersoggettività,12 mentre la protezione dal dolore è un
aspetto secondario e collaterale che fra l’altro spesso fallisce (vedi anche
Liotti, 2006). Ancor più: non solo la dissociazione non è primariamente una
difesa dal dolore mentale, ma da essa la mente deve difendersi: essendo
un’esperienza che può arrivare al limite dell’annichilimento, essa richiede
che qualche altra operazione mentale difenda l’Io da essa.
Nel prossimo capitolo 5 riassumeremo i risultati delle ricerche su altre
influenze della DA nel corso dello sviluppo, studiate piuttosto
dettagliatamente nella fascia di età compresa fra i 3 e i 6 anni. Queste
ricerche da un lato indicano con quali strategie la mente del bambino può
difendersi dall’esperienza della dissociazione (indotta dalla
disorganizzazione dell’attaccamento e dai traumi), e dall’altro aprono la
strada a un nuovo modello teorico della dissociazione, particolarmente
adatto a comprendere le complessità dello sviluppo traumatico e dei disturbi
che ne conseguono.

1. Marco Aurelio, Ricordi, tr. it. Chiantore, Torino 1948, II2,1 - V, 1.


2. Si dice omologa, nella biologia evoluzionista, ogni struttura
anatomica e ogni funzione che non solo appare simile in diverse specie
animali, ma ha anche una ben rintracciabile comune origine nei processi di
selezione naturale.
3. La presentificazione, la sintesi personale e la funzione di realtà di cui
parlò Pierre Janet (vedi capitolo 2) includono, nel linguaggio delle scienze
cognitive contemporanee, i processi continuamente operanti della memoria
autobiografica, semantica ed episodica.
4. La possibilità che il sistema di difesa si attivi anche quando la
minaccia grave riguarda un’altra persona (si ricordi la definizione di trauma
nel DSM-IV) illustra bene i principi gerarchici ed eterarchici del
funzionamento motivazionale complessivo. Gli SMI, come l’attaccamento e
l'accudimento, appartenendo a un livello superiore, controllano i sistemi
motivazionali dal livello inferiore com’è il sistema di difesa, e possono
risvegliarlo quando la minaccia riguarda non direttamente l’incolumità
dell’individuo, ma quella di un altro con cui vi sia un legame implicante
abitualmente la cura richiesta oppure offerta.
5. Leoni e gorilla maschi adulti uccidono talora i piccoli che le
femmine hanno avuto da un precedente partner, per assicurare migliori cure
della madre alla propria prole. Un mammifero adulto, a parte Homo
sapiens, non uccide invece un altro adulto del proprio gruppo sociale e in
genere della propria specie.
6. Un adattamento darwiniano è frutto di variazione e selezione
naturale. Un carattere viene selezionato per il suo valore di adattamento
secondo il ben noto meccanismo identificato da Charles Darwin: favorendo
sopravvivenza e riproduzione, tende a estendersi, nel tempo, a tutti i
membri della specie, perché quelli che non lo possiedono vivono e si
riproducono meno. Sarebbe paradossale che un carattere favorente
l’uccisione di qualunque conspecifico comparisse come un classico
adattamento darwiniano perché allora si estenderebbe a tutti i membri della
specie e ciò implicherebbe il rischio di estinzione reciproca.
7. L’esempio classico di pennacchio architettonico è lo spazio
triangolare che emerge fra colonne e archi di una cupola. Le colonne sono
strutture portanti necessarie, e gli archi che riducono il peso della cupola
sono altrettanto indispensabili e previsti dall’architetto, ma quello spazio
triangolare che vediamo sopra il capitello della colonna non ha altrettanto
necessaria funzione: emerge per le proprietà formali dell’accostamento di
strutture/funzioni necessarie. Il pennacchio, emerso in modo imprevisto
rispetto alle strette necessità di adattamento all’ambiente, può poi rivelarsi
molto utile, ma si tratta di un’utilità non rigidamente preprogrammata come
quella degli adattamenti darwiniani classici, e che può coesistere con aspetti
non adattativi.
8. I comportamenti e le emozioni coordinate dal sistema di attaccamento
riguardano primariamente la richiesta di cura e di protezione dalle minacce
ambientali, non altre forme di vicinanza interpersonale. Madri e padri sono
motivati dal proprio sistema di accudimento quando rispondono al pianto o
alla paura del loro bambino, che in quel momento è invece motivato dal
proprio sistema di attaccamento. L’attaccamento dunque contribuisce
insieme ad altri SMI alla costruzione dei legami affettivi, e non è sinonimo
di relazione intima e durevole.
9. Visto che chi offre abitualmente cura a un bambino è di solito ma non
sempre uno dei suoi genitori, abbiamo scelto di conservare il più generale
termine della letteratura specialistica inglese, caregiver, che non è
traducibile in italiano. Inoltre useremo, per uniformità di stile discorsivo, il
maschile (il caregiver) pur se è evidente che ci si riferisce anche e
soprattutto alla madre, o altra figura femminile di accudimento.
10. Una recente ricerca condotta su 60 veterani olandesi esposti a traumi
di guerra non ha però riscontrato alcun significativo effetto protettivo
dell’attaccamento sicuro nei confronti del rischio di sviluppare un DPTS
(Harari et al., 2009). E' possibile che traumi particolari come quelli di
guerra, o come la tortura, annullino l’effetto protettivo che la sicurezza
nell’attaccamento offre nei confronti di altri tipi di trauma.
11. Potenzialmente, nel bambino che interagisce con un caregiver FF o
HH potrebbero attivarsi anche il sistema di accudimento (di fronte alla
paura impotente espressa dal caregiver) e il sistema di rango (nel tentativo
di placarne l’aggressività con la sottomissione, o di disciplinarne la
condotta con la dominanza). Tuttavia, ciò sembra richiedere almeno tre anni
di maturazione prima che se ne possano cogliere i segni, come diremo nel
prossimo capitolo trattando delle cosiddette strategie disorganizzate-
controllanti. Una delle ragioni di questo ritardo nella comparsa di segni
evidenti di attivazione di questi sistemi nell’interazione fra il bambino con
DA e il caregiver FF o HH sta nelle proprietà del sistema eterarchico
composto dai sistemi motivazionali. I sistemi dello stesso livello (come
sono gli SMI di attaccamento, di accudimento e di rango), se risvegliati
simultaneamente, tendono a inibirsi reciprocamente, mentre i sistemi di
diverso livello (come attaccamento e difesa) non hanno questa intrinseca
tendenza all’inibizione reciproca quando sono attivati insieme. Un notevole
grado di maturazione delle funzioni di livello ancora superiore (funzioni
metacognitive di coscienza) è necessario per superare la tendenza degli SMI
all’inibizione reciproca.
12. E' ormai da più parti efficacemente argomentato che coscienza di sé
e intersoggettività sono inestricabilmente connesse fra loro (vedi, per
esempio, Liotti, 1994/2005; Siegei, 1999; Stern, 2004).
5

SEQUELE DELL’ATTACCAMENTO
DISORGANIZZATO E SVILUPPO TRAUMATICO:
UN NUOVO MODELLO TEORICO DELLA
DISSOCIAZIONE

Il nulla sepolcrale distrugge l'io pensante.

VOLTAIRE1

Si è ricordato nel capitolo 3 come il detachment dissociativo e l’accesso


impossibile a importanti memorie autobiografiche (compartimentazione)
possano a volte arrivare al limite dell'annichilimento, alla minacciosa
sensazione di una prossima scomparsa del senso di sé nell’abisso del “nulla
sepolcrale”. Essendo la DA precoce parte di un processo intersoggettivo che
implica dissociazione in entrambi i partecipanti, ed essendo fonte di gravi
esperienze traumatico-dissociative l' esposizione del bambino a traumi
intrafamiliari, è possibile che una tale orribile esperienza di annichilimento
sia ripetutamente presente negli sviluppi traumatici fin dai primi anni di
vita. Lo studio delle sequele della DA suggerisce che, di fronte a una tale
minaccia alla continuità del senso di sé, i bambini che vanno incontro a uno
sviluppo traumatico mettono in atto operazioni mentali e interpersonali che
difendono l'io da essa, e sono ben più complesse del semplice tentativo,
tipico nel quadro del DPTS, di evitare le memorie traumatiche.
Riassumeremo in questo capitolo le ricerche principali sulle sequele
della DA nel corso del successivo sviluppo e ne trarremo spunto per un
modello teorico della risposta dissociativa ai traumi centrato sull’idea che la
mente, e la relazione interumana, tendono a difendersi dalla dissociazione
più di quanto si difendano con la dissociazione dal dolore del trauma. Il
modello teorico, particolarmente adatto a comprendere la natura
profondamente intersoggettiva dell’esperienza disgregante tipica dello
sviluppo traumatico, agevola anche il confronto fra le nozioni su trauma e
dissociazione che emergono dalla clinica e quelle fornite dalla ricerca
nell’ambito delle neuroscienze. Una panoramica dei contributi delle
neuroscienze alla comprensione della dissociazione, che contribuisce a
chiarirne la natura essenziale, occupa il paragrafo conclusivo del capitolo.

INFLUENZA DELLA DISORGANIZZAZIONE


DELL’ATTACCAMENTO SULLO SVILUPPO DELLA
PERSONALITÀ

Alcuni dati di ricerca suggeriscono che la DA precoce abbia fra le sue


conseguenze, nel corso del successivo sviluppo della personalità,
caratteristiche difficoltà nelle relazioni interpersonali (Moss et al., 2006),
una deficitaria capacità di regolare le emozioni di stress (Schore, 2003) e un
più generale ostacolo allo sviluppo oppure all’esercizio delle capacità
metacognitive e di mentalizzazione (Bateman, Fonagy, 2004) - oltre alla già
citata tendenza a reagire a traumi successivi con la dissociazione (Liotti,
1992,2004,2006; Ogawa et al., 1997). Per una rassegna generale, accurata e
recente, della ricerca sull’influenza che la DA esercita sullo sviluppo
cognitivo-emotivo-sociale successivo, si veda il capitolo a essa dedicato
nella nuova edizione del Manuale dell’attaccamento (Lyons Ruth,
Jacobvitz, 2008).
Nonostante l’importanza clinica evidente di queste conseguente della
DA, il dato di ricerca più interessante riguarda però, a nostro avviso, una
specifica influenza della DA precoce sugli equilibri motivazionali e
interpersonali successivi: lo sviluppo, intorno ai tre anni di età, delle
cosiddette strategie controllanti. La grande maggioranza (almeno l’80%) dei
bambini che durante il secondo anno di vita erano apparsi disorganizzati
nella Strange Situation Procedure (ssp), tra il terzo e il sesto anno di età
mostra verso il caregiver un tipico comportamento organizzato, anche se
insolito e alla lunga disfunzionale. Tale comportamento organizzato è
chiamato “controllante” perché tende a mantenere coercitivamente
l’attenzione del caregiver attraverso strategie punitive (cioè di critica, di
minaccia competitiva e di opposizione) oppure accudenti (cioè di
attaccamento invertito). In letteratura sono reperibili trattazioni delle
strategie controllanti, che illustrano sia come esse appaiono nel corso dello
sviluppo che segue immediatamente la DA precoce (Hennighausen, Lyons-
Ruth, 2005; Hesse et al., 2003; Lyons-Ruth, Jacobvitz, 2008), sia come si
manifestano nel corso del dialogo clinico con adulti che vengono da
probabili storie di DA e traumi (Monticelli et al., 2008). Qui ne proponiamo
un dettagliato riassunto, e un’originale interpretazione in termini di
dinamiche motivazionali.

Strategie controllanti punitive

Nella strategia controllante punitiva, già nel corso del terzo anno di vita,
bambini il cui attaccamento precoce era stato disorganizzato nel corso del
primo e del secondo anno cercano di organizzare i comportamenti di
relazione col caregiver mediante atteggiamenti ostili, coercitivamente
dominanti o sottilmente umilianti. Il bambino può sviluppare strategie
controllanti punitive per effetto di influenze relazionali diverse, ma tutte
riferibili all’attivazione del sistema competitivo di rango in contesti ove
sarebbe più opportuna la regolazione della condotta da parte del sistema di
attaccamento nel bambino, e del sistema di accudimento nel caregiver. In
alcuni casi strategie controllanti punitive sono innescate nel bambino da
condotte apertamente critiche e dominanti del genitore (subroutine di sfida e
di dominanza del sistema di rango) a cui il figlio risponde con simmetrica
opposizione, mentre altre volte è l’atteggiamento sottomesso o di sconfitta
del caregiver (subroutine di resa e di subordinazione del sistema di rango) a
stimolare l’atteggiamento dominante del bambino. Sulle ricerche che
permettono queste riflessioni, evidenziando per esempio come non sia raro
che genitori feriti da memorie traumatiche assumano inconsapevolmente
atteggiamenti deferenti e sottomessi già verso figli neonati, si veda la sintesi
offerta da Hesse e collaboratori (2003).
Quando nelle situazioni quotidiane (per esempio, di brevi separazioni
all’interno dell’ambiente domestico, che di regola attiverebbero con
modesta intensità il sistema di attaccamento) si innesca nel bambino il
registro motivazionale di rango (che si esprime con una condotta aggressiva
mirante alla dominanza), il sistema di attaccamento viene automaticamente
inibito. Il MOI dell’attaccamento disorganizzato viene così escluso
dall’accesso al livello superiore dell’organizzazione mentale e non
interferisce, disgregandole, con le funzioni della coscienza.
Simultaneamente, anche nel caregiver interagente viene facilitato lo
slittamento dell’attività mentale, dallo stato spaventato e spaventante -
legato a memorie traumatiche e coordinato ai sistemi di attaccamento e
difesa che inibiscono il sistema di accudimento - a un altro stato anch’esso
espressivo del “risveglio” del sistema di rango: uno stato mentale
improntato dalla contesa per la dominanza oppure dalla sottomissione.
L’abituale espressione pronta e intensa di aggressività dominante nel
bambino che sviluppa una strategia controllante punitiva potrebbe aprire il
varco ai cosiddetti disturbi esternalizzanti dell'infanzia, in cui emozioni
veementi vengono prontamente espresse, e talora al disturbo oppositivo
dello sviluppo (Moss et al., 2004).

Strategie controllanti accudenti

Nella strategia controllante accudente, il bambino mostra condotte


apertamente consolatorie e protettive nei confronti del genitore vulnerabile
e palesemente sofferente per traumi o lutti irrisolti, e a volte se ne prende
cura con atteggiamenti volti a rivitalizzarlo. Può accadere persino che un
bambino abusato consoli il genitore che gli chiede lamentosamente perdono
dopo essere stato maltrattante. Si produce così un’indebita e paradossale
inversione dei ruoli dell’attaccamento: il sistema di accudimento si risveglia
nel bambino (al posto di quello di attaccamento) durante le interazioni col
genitore, che invece è motivato durante le interazioni col figlio dal proprio
sistema di attaccamento. Analogamente a quanto accade nelle strategie
controllanti punitive, in quelle accudenti lo SMI dell’attaccamento viene
così inibito nel bambino. Il sistema di attaccamento è invece potenziato e
confermato, nel genitore ferito dalla vita e vulnerabile, dall’atteggiamento
accudente del figlio. In entrambi i tipi di strategia controllante, punitiva e
accudente, l’attivazione di un diverso SMI “addormenta” il sistema di
attaccamento del bambino anche quando stimoli ambientali o interni
all’organismo del piccolo (purché di durata e intensità contenute)
tenderebbero viceversa a risvegliarlo. Il MOI disorganizzato collegato al
risveglio del sistema di attaccamento è dunque tenuto lontano, in entrambi i
tipi di strategia controllante, dalla possibilità di influenzare la coscienza
(disgregandola) e la condotta (rendendola caotica).
E' facile immaginare come gli atteggiamenti consolatori diretti al
caregiver del bambino controllante-accudente possano essere
particolarmente apprezzati e rinforzati non solo nel contesto familiare, ma
anche da persone diverse (insegnanti, educatori, amici), commosse
nell’osservare tanta affettuosa delicatezza di sentimenti in un bambino così
piccolo. Inoltre, i bambini con strategie controllanti accudenti appaiono
spesso particolarmente obbedienti e responsabili, il che non di rado assicura
loro buone prestazioni scolastiche (coi risultati delle quali possono
rivitalizzare i loro dolenti fragili genitori, rendendoli orgogliosi di avere
così bravi figlioli).
Il senso di responsabilità e la sottomessa obbedienza dei bambini con
strategie controllanti accudenti si spiega con il risveglio del sistema di
rango (insieme a quello di accudimento) nella relazione col caregiver.
Tuttavia nelle strategie controllanti accudenti, diversamente da quanto
accade in quelle punitive, il sistema di rango opera nella direzione
tendenziale della sottomissione, non in quella della dominanza. Pur
confortato dall’atteggiamento accudente del figlio, un genitore fragile può
infatti intuire di essere infantilizzato nella relazione col figlio
genitorializzato, e di conseguenza sentire il bisogno di riaffermare la
propria autorità nella relazione. Il genitore può così tentare di riaffermare la
propria autorità con comportamenti di dominanza, a cui il bambino
controllante-accudente tende a rispondere sottomettendosi per non turbare
con la ribellione un genitore sempre tanto fragile e vulnerabile. Dato che nel
sottomettersi si assume una rappresentazione di sé come inferiore all’altro
per forza, capacità e competenza, potrebbero aver origine in queste
dinamiche motivazionali interpersonali alcune visioni negative di sé e una
peculiare forma di anassertività che permangono fino in età adulta -
coniugate peraltro ad atteggiamenti di affettuosa disponibilità e generosità
che assicurano benevolenza e approvazione sociale.
Le strategie controllanti accudenti potrebbero essere all’origine dei
disturbi internalizzanti nel bambino (Moss et al., 2004). Nei disturbi
internalizzanti ansia, depressione e senso ipertrofico di responsabilità si
manifestano spesso nella forma di una generica inibizione vitale o di vari
malesseri psicosomatici, più raramente con evidenti sintomi depressivi e
d’ansia. Disturbi di Asse I e disturbi di personalità dell’adulto caratterizzati
da particolare tendenza alla scrupolosità, anassertività e ansia sociale
potrebbero trovare a volte origine in questa particolare forma di sviluppo,
che è legittimo chiamare traumatico se si considera la DA un trauma
relazionale precoce.

Altre possibili strategie controllanti

Nella cornice concettuale della teoria multimotivazionale evoluzionista,


le strategie controllanti sono tutte spiegabili come condotte che tendono a
inibire il sistema di attaccamento quando esso è associato al MOI
disorganizzato, impedendo la disorganizzazione della condotta e
dell’esperienza soggettiva che caratterizzano l’attivazione di tale sistema. In
questo senso, esse appaiono come difese dall’esperienza della dissociazione
connessa al MOI di attaccamento disorganizzato (che, si ricordi, può
comportare annichilimento ed essere equivalente al “nulla sepolcrale”). La
teoria che vede la dissociazione sempre e solo come difesa dal dolore fisico
e mentale causato dal trauma psicologico appare, in questa cornice
concettuale, decisamente limitata.2
Se è corretta questa interpretazione del fatto che le strategie controllanti
seguono tipicamente, nel corso dello sviluppo, la DA precoce - se cioè tali
strategie hanno la funzione di proteggere il bambino da esperienze
dissociative connesse all’attivazione del MOI disorganizzato attraverso
l’attivazione di altri SMI al posto dell’attaccamento - allora è possibile
ipotizzare l’esistenza di strategie controllanti che utilizzano ancora un altro
SMI: quello sessuale. Alcune riflessioni teoriche e osservazioni cliniche
collegano infatti, in alcuni casi, la DA nel secondo anno di vita alla
possibile sessualizzazione della relazione con il genitore in età scolare
(Erickson, 2000; Hesse et al., 2003; Shane et al., 1997). Le classiche
osservazioni e speculazioni cliniche che indussero Freud a formulare la
teoria del complesso di Edipo potrebbero trovare riscontro, in un numero
limitato di casi, in questa possibile ulteriore conseguenza della DA. Si noti
però che la sessualizzazione del rapporto col genitore ha in questo caso
finalità difensive rispetto all’annichilimento dissociativo connesso alla DA,
e talora non si manifesta solo con fantasie e comportamenti vagamente
sessualizzati del bambino, ma è confermata e tragicamente rafforzata da
esperienze reali d’incesto nel corso dello sviluppo traumatico.
Ancora un’altra conseguenza della DA è ipotizzabile: esiste infatti la
possibilità dell’inibizione massiva di ogni forma di relazione interpersonale
emotivamente carica, da qualunque SMI essa sia regolata, al fine di
impedire, con l’evitamento di qualsiasi forma di vicinanza agli altri,
l’attivazione del sistema di attaccamento e con essa del MOI
disorganizzato.
Questa possibilità è suggerita da un interessante dato di ricerca, anche
se per il momento esso è limitato a un numero di casi troppo piccolo per
consentire generalizzazioni sicure. In uno degli studi longitudinali
dell’attaccamento nel corso dello sviluppo (Main et al., 2005), è stata
somministrata l’Adult Attachment Interview (aai) a giovani adulti che erano
stati classificati nell’attaccamento durante il loro secondo anno di vita
attraverso la SSP.3 In linea generale, come in altri studi longitudinali
(Grossmann et al., 2005) si è osservata una notevole coerenza nel corso
dello sviluppo, evidenziata a 19 anni dalla maggioritaria corrispondenza fra
pattern di attaccamento rilevato nella SSP (sicuro, evitante o
ambivalente/resistente) e stato mentale relativo all’attaccamento rilevato
all’AAl (sicuro/autonomo, svalutante l’attaccamento o invischiato). Fa
eccezione lo stato mentale all’AAl rilevato nei giovani che a due anni di età
erano stati classificati nella categoria della DA. Di questi, la metà circa
dimostrava uno stato mentale irrisolto rispetto a lutti e traumi, come
previsto dalle ormai numerose ricerche che connettono ciascuno stato
mentale rilevato all’AAl a un preciso pattern di attaccamento nella SSP.4
L’altra metà mostrava invece uno stato mentale svalutante (dismissing).
Risposte di tipo “svalutante i bisogni di attaccamento”, peraltro, erano già
osservabili a 6 anni, oltre che tipicamente nella quasi totalità dei bambini
che avevano mostrato un pattern evitante nella SSP, anche in un
sottogruppo minoritario di bambini che invece a due anni appartenevano al
gruppo della DA (gli altri provenienti da questo gruppo, invece, che ne
costituivano la grande maggioranza, mostravano a 6 anni una delle due
attese strategie controllanti sopra descritte). Questo dato di ricerca
longitudinale suggerisce che, nel corso dello sviluppo ulteriore, una metà
circa dei bambini con DA che avevano sviluppato una strategia controllante
tra i 3 e i 6 anni, si erano mossi nella direzione di una massiva inibizione
dei bisogni di relazione, col risultato di arrivare anche a una svalutazione
dei bisogni di attaccamento (lo stato mentale dismissing rilevato all’AAI).
Da adulti, questa massiccia inibizione della relazionalità rende la loro AAI
simile a quella di chi proviene fin dall’inizio da una storia (non traumatica
per definizione) di attaccamento evitante nella prima infanzia. Sul piano
teorico-clinico, ci si può attendere che lo stato AAI dismissing di chi
proviene da una storia (non traumatica) di attaccamento evitante sia diverso
da quello di coloro che vi giungono partendo da una storia di DA e sviluppo
traumatico. Nei secondi, la svalutazione dei bisogni di attaccamento e di
relazione dovrebbe infatti accompagnarsi a sottili o meno sottili indicatori
di paura dell’intimità affettiva, che invece tipicamente mancano nei primi.
L’attuale sistema di codifica dell’AAI non permette però una tale sottile
discriminazione. Per questa ragione, Lyons-Ruth e collaboratori hanno
proposto modificazioni dei criteri di codifica dell’AAI, rendendoli più
sensibili a rilevare la paura e gli altri effetti di storie traumatiche di sviluppo
(ostilità e impotenza, soprattutto) nei trascritti dell’intervista, inclusi quelli
che a prima vista sembrano classificabili dismissing (Lyons-Ruth et al.,
2003; Lyons-Ruth et al., 2005).
In conclusione, possono far parte delle conseguenze psicopatologiche
della DA anche itinerari di sviluppo che, partendo da essa ed essendo
seguiti da incerte strategie controllanti, esitano infine in un ritiro dalle
relazioni quasi schizoide o simile a quello del disturbo evitante di
personalità. Liotti e Gumley (2008) hanno discusso la possibilità che alcuni
fra questi itinerari siano implicati nella genesi di un sottogruppo di disturbi
schizofrenici riconducibili a sviluppi traumatici, e di quelle gravi sindromi
dissociative un tempo note come psicosi isteriche (van der Hart, Witzum,
2008), oggi spesso inserite fra le psicosi atipiche, la cui diagnosi
differenziale con la schizofrenia non è sempre facile.

L'intersoggettività nella genesi delle strategie controllanti

Il fatto che le strategie controllanti si sviluppino a partire dalla DA


come una difesa di fronte all’esperienza della dissociazione - esperienza
disorientante, confondente, a volte annichilente e comunque paurosa - non
implica che tale difesa sia da intendersi come esclusivamente o
prevalentemente intrapsichica. E' probabile che la scelta del tipo di strategia
controllante da parte del bambino (punitiva, accudente, sottomessa,
sessualizzata, o basata sull’inibizione di ogni relazionalità) sia concausata
dai corrispondenti atteggiamenti del caregiver. Come si è detto, lo stato
mentale del caregiver (e il suo comportamento) durante l’interazione col
bambino è altrettanto disorganizzato rispetto all’accudimento quanto il
comportamento (e presumibilmente lo stato mentale) del piccolo è
disorganizzato rispetto all’attaccamento (per dati di ricerca, vedi Solomon,
George, 2011). Di conseguenza, entrambi i membri di questa diade
interagente sul piano dell’attaccamento-accudimento sono egualmente
motivati a por fine al caotico, insostenibile stato che intersoggettivamente
condividono. Qualsiasi propensione a usare un altro SMI al posto di quelli
di attaccamento e di accudimento si sia sviluppata nella storia di vita del
genitore, è probabile che egli o ella vi faccia ricorso durante l’interazione
col figlio. Vista la forte tendenza alla sintonizzazione degli SMI negli
individui interagenti (il contagio emotivo), è allora inevitabile che nel
bambino si risvegli il sistema corrispondente. Lo scenario in cui prendono
forma le strategie controllanti è dunque intersoggettivo e radicato nella
conoscenza implicita - o meglio, per usare un termine più espressivo della
natura dinamica e continuamente mutevole di questo scenario, nel
conoscere relazionale implicito (Stern, 2004).
Se così prendono forma - e si mantengono nell’interazione - le diverse
strategie controllanti, la conseguenza è che la difesa dalla dissociazione non
può essere preferenzialmente abbandonata attraverso la sola presa di
coscienza individuale, ma deve trovare la sua prima base in un’interazione
che mobilizzi altri SMI. E' questa la base concettuale che giustifica
l’insistenza di tanti clinici sul potenziale correttivo dell’esperienza
relazionale concreta nel corso del trattamento di pazienti con sviluppi
traumatici. La ricerca attiva, da parte del clinico, dell’esperienza relazionale
correttiva può essere guidata dal classico concetto di empatia, da quelli di
enactment e di self-disclosure (Bromberg, 2006; Howell, 2005; Lyons-Ruth
et al., 1999) o da quello di monitoraggio dei vari SMI alla ricerca di un
assetto interattivo della relazione terapeutica che privilegi il sistema
cooperativo e la riparazione delle rotture nell’alleanza (Liotti, 2001; Liotti
et al., 2005a; Liotti, Prunetti, 2010; Prunetti et al., 2008).

CONSIDERAZIONI SUL RUOLO DELLE STRATEGIE


CONTROLLANTI NELLO SVILUPPO DELLA PERSONALITÀ
Le strategie controllanti, nonostante i loro aspetti sfavorevoli per lo
sviluppo della personalità, costituiscono condotte parzialmente adatta-tive
tanto per il caregiver quanto per il bambino. Nella vita quotidiana di una
famiglia le strategie controllanti permettono di affrancare la relazione fra
genitore e figlio dalla caotica disorganizzazione e dalle spesso ingestibili
esperienze dissociative tipiche della DA. Le interazioni con la figura del
genitore disorganizzante diventano più stabili e coerenti rispetto alle
precedenti, conferendo sul piano personale una maggiore solidità
all’esperienza di sé (Lyons-Ruth, Jacobvitz, 2008). Inoltre è ipotizzabile
che, nei momenti in cui il sistema di attaccamento è inibito dalla
cooptazione vicariante e difensiva dei sistemi di rango o di accudimento, i
bambini in età scolare che provengono da una DA precoce mentalizzino
meglio (esercitino meglio le loro capacità metacognitive) rispetto ai
momenti in cui invece il sistema di attaccamento torna pienamente attivo.
Dati di ricerca a sostegno di quest’ipotesi emergono dal lavoro di Hill e
collaboratori (2008) e sono stati discussi da Cortina e Liotti (2010) e da
Liotti e Gilbert (in corso di stampa).
I vantaggi offerti dallo sviluppo di strategie controllanti - maggiore
coerenza nella rappresentazione di sé e nella condotta interpersonale, e
maggiore fruibilità di alcune abilità metacognitive - non sono privi di un
considerevole costo psicologico, a spese della capacità di discriminazione
fine fra alcune importanti emozioni. Le strategie controllanti, infatti,
comportano il susseguirsi di emozioni simili nell’esperienza soggettiva
grezza, ma diverse nell’intenzionalità perché coordinate da diversi SMI.
Quando, per esempio, nell’esperienza quotidiana del bambino la collera che
fa parte della protesta per la separazione (sistema di attaccamento) viene
seguita immediatamente dalla collera che invece mira a conseguire
dominanza (sistema di rango) - come accade nelle strategie controllanti
punitive - è difficile che il bambino sviluppi la capacità metacognitiva di
discriminare adeguatamente fra i due stati mentali. Un esempio analogo è
offerto dalla sensazione di conforto (che fa parte delle operazioni del
sistema di attaccamento) e dal non molto dissimile sentimento di tenerezza
protettiva (che invece è un aspetto delle attività mentali coordinate dal
sistema di accudimento) - due stati mentali che si susseguono e si
sovrappongono continuamente nell’esperienza del bambino con una
strategia controllante accudente. La difficoltà nello sviluppo della capacità
di discriminazione sottile fra emozioni importanti nei processi di percezione
interpersonale spiega almeno in parte i maggiori problemi comportamentali
osservati nei bambini in età scolare che provengono da attaccamenti precoci
disorganizzati (Moss et al., 2006), rispetto ai bambini con attaccamento
organizzato (sicuro, insicuro-evitante e insicuro-resistente).

DALLE STRATEGIE CONTROLLANTI ALLE RISPOSTE


DISSOCIATIVE AI TRAUMI

Le strategie controllanti, come si è detto, riducono la possibilità che il


MOI disorganizzato emerga alla coscienza nella maggior parte delle
situazioni quotidiane che possono risvegliare il sistema di attaccamento, e
così entro i limiti della loro tenuta tendono a preservare il bambino, nel
corso dello sviluppo, dall’esperienza della dissociazione. Intense e durevoli
attivazioni del sistema di attaccamento possono però superare le capacità di
tenuta di tali strategie provocandone il collasso e, di conseguenza, il
riemergere incontrollato degli stati mentali disorganizzati e dissociati legati
al MOI di attaccamento disorganizzato.
Un esempio di collasso delle strategie controllanti in presenza di stimoli
che attivano durevolmente o intensamente lo SMI di attaccamento è offerto
dalle osservazioni sulle risposte al Separation Anxiety Test di bambini in
età scolare, che erano stati disorganizzati nell’attaccamento durante il
secondo anno di vita (Hesse et al., 2003). Mentre le strategie controllanti
possono ancora permettere a molti fra questi bambini di fornire racconti
coerenti in risposta a scene che attivano il sistema di attaccamento (per
esempio, una sequenza di disegni che mostrano un bambino lasciato solo a
casa dai genitori), un’ulteriore attivazione del sistema (per esempio,
attraverso una foto dei genitori posta sul tavolo a cui il bambino è seduto, in
assenza dei suoi caregiver, mentre risponde al test) determina quasi sempre
la comparsa di risposte disorganizzate. Le storie che il bambino deve
costruire a completamento della sequenza di immagini divengono, oltre che
formalmente incoerenti, anche irrealistiche e spesso a contenuto
catastrofico.
Il collasso delle strategie controllanti indotto dall’esposizione a
situazioni che attivano durevolmente e intensamente il sistema di
attaccamento può essere dovuto a traumi, ma anche ad altri attivatori del
sistema, come per un bambino sono i pur civilmente ma comunque a lungo
discussi propositi di separazione coniugale dei genitori, o per un adulto è
ogni minaccia di abbandono avanzata da un partner affettivo importante.
Anche la formazione di un nuovo legame affettivo, non solo la sua rottura, è
un processo che implica l’intensa e protratta attivazione dello SMI di
attaccamento. Inoltre, come vedremo, esistono eventi di vita che riescono a
invalidare le strategie controllanti direttamente, al di là dell’attivazione
diretta e protratta del sistema di attaccamento. Il collasso delle strategie
controllanti può spiegare i casi in cui gravi sintomi dissociativi compaiono
in risposta a eventi di vita non particolarmente dolorosi, e in particolare può
spiegare il DPTS a esordio ritardato, in modo assai più soddisfacente di
quello permesso dall’assunto che la dissociazione costituisca una difesa
mentale dal dolore indotto dal trauma. Il DPTS a esordio ritardato, in cui un
evento traumatico viene rivissuto a distanza di molti anni durante i quali
apparentemente il trauma non aveva causato alcun disturbo clinicamente
evidente, costituisce un utile spunto di riflessione per comprendere come
possano comparire in età adulta disturbi riconducibili a storie di sviluppo
traumatico, senza che nell’infanzia e nell’adolescenza siano comparsi
evidenti sintomi di alcun altro disturbo clinicamente rilevante (ma tale
potrebbe rivelarsi il DTS, se mai la diagnosi venisse accettata nelle
nosografie ufficiali).
Dobbiamo a Paul Dell (comunicazione personale) un esempio clinico di
DPTS a esordio ritardato che illustra particolarmente bene il ruolo delle
strategie controllanti.

Un veterano della guerra del Vietnam era stato vittima di un


gravissimo evento traumatico durante una battaglia. Non aveva però
sviluppato alcun sintomo di DPTS e, congedato dal servizio militare,
era vissuto senza sintomi riferibili ad alcun disturbo sull'Asse I del
DSM. Trascorsi ben otto anni dopò il congedo, in occasione di una
separazione coniugale chiesta dalla moglie, cominciò a rivivere gli
eventi del trauma bellico in modo vivido, intrusivo e frammentario,
tanto durante incubi notturni quanto a volte nella veglia. Insieme a
questo per lui sorprendente ritorno di memorie mai dimenticate, ma su
cui si era fino ad allora soffermato solo occasionalmente e senza
particolare angoscia, emersero sintomi dissociativi (derealizzazione,
numbing) e gli altri sintomi del DPTS. Il rapporto con la moglie,
caratterizzato da atteggiamenti di critica e di dominanza fin da prima
della sua partenza per il Vietnam, corrispondeva allo stile relazionale
verso le figure di attaccamento chiamato controllante-punitivo. Il
collasso di questa strategia controllante, dovuto alla separazione, aveva
probabilmente determinato l'emergere di un MOI disorganizzato, e con
esso di imponenti processi dissociativi. I sintomi dissociativi post-
traumatici così emersi a distanza di anni dal trauma evidenziavano non
solo la mancata elaborazione e integrazione della memoria traumatica,
ma anche il fatto che tale mancata elaborazione era stata tenuta
nascosta dall’inibizione dei bisogni di attaccamento, attraverso
l'attivazione vicariante del sistema competitivo di rango, tipica delle
strategie interpersonali controllanti-punitive.

Un altro esempio clinico, descritto anche altrove (Liotti, 2011), riguarda


il Disturbo Post-Traumatico da Stress complesso (DPTSc conseguente a un
DTS) e illustra come esso possa essere solo in parte assimilato alla
comparsa di un DPTS a esordio ritardato.

Diana, un medico nei suoi trentanni di età, molto dedita alla cura
dei suoi pazienti, aveva sempre conservato memoria dell’incesto subito
per anni, quando era preadolescente. Diana non sembrava aver mai
sofferto da bambina di un DPTS, né in seguito aveva mai avuto
sintomi dissociativi. Episodicamente, aveva sofferto di depressione
dell’umore, che aveva diagnosticato da sola e curato attraverso Γ
autosomministrazione di farmaci antidepressivi. Solo un clinico capace
di riconoscere il DPTSc (o il DTS) avrebbe forse potuto diagnosticare
che questi episodi di depressione facevano parte di un quadro clinico
più complesso, determinato da uno sviluppo traumatico. Infatti, nessun
sintomo dissociativo evidente era presente negli episodi depressivi di
cui Diana aveva sofferto prima dei suoi 33 anni: accompagnavano tali
episodi solo disturbi di relazione (tendenza all'isolamento sociale
alternata a periodi di forte dipendenza dalle poche relazioni
sentimentali), una marcata tendenza a emozioni di vergogna e di colpa
abnorme, una pronunciata diffidenza verso gli altri e un’ancor
maggiore sfiducia in se stessa (si ricordi qui il quadro clinico del
DPTSc). Sintomi dissociativi evidenti comparvero solo intorno ai
trent’anni, quando la sorella minore di Diana, che lei era stata convinta
di avere preservato dalle morbose attenzioni sessuali del padre, le
rivelò di essere stata più volte forzata all’incesto quando era ancora
bambina. La minore ignorava che un’identica tragica esperienza aveva
gravato anche l’infanzia della sorella maggiore. Diana iniziò solo da
allora a soffrire di sintomi post-traumatici dissociativi. Prima di
addormentarsi, aveva vivide e quasi allucinatorie immagini
angosciose, in cui una figura maschile “nera e imponente, come una
gigantesca ombra” si avvicinava di notte al suo letto: un sintomo che
potrebbe permettere la diagnosi di DPTS a esordio ritardato. Questa
esperienza infatti sconcertava Diana che sapeva bene, da medico, come
tali immagini siano tipiche nelle bambine vittime di traumi sessuali
incestuosi, ma lei da bambina era certa di non averle mai avute.
Perché, si chiedeva, comparivano solo adesso, a distanza di oltre
ventanni da quegli eventi? Durante il giorno Diana soffriva d’ansia,
depersonalizzazione, senso di intorpidimento mentale (numbing), e
tendenza a evitare la sessualità - che prima aveva vissuto senza
eccessive difficoltà e che solo ora diventava un intollerabile stimolo
alla rievocazione del trauma infantile. La ricostruzione della storia
della paziente nel corso della psicoterapia rivelò che fin da bambina
Diana si era dedicata prima alla cura della madre sofferente di un
disturbo bipolare, e poi della sorella minore. Essendo il disturbo
bipolare un dimostrato fattore di rischio per la DA dei bambini accuditi
da un caregiver che ne soffra (Radke-Yarrow et al., 1985; Teti et al.,
1995), è probabile che Diana abbia avuto un attaccamento precoce
disorganizzato, e successivamente abbia sviluppato una strategia
controllante-accudente capace di inibire il MOI disorganizzato. La
stessa vocazione professionale di Diana, e il modo molto accudente
con cui seguiva i suoi pazienti, erano probabilmente influenzati dal suo
percepirsi chiamata a fornire cura e conforto agli altri. La sorella
minore, che lei era stata per anni sicura di aver preservato dall’incesto,
era stata ed era tuttora certamente oggetto privilegiato delle attenzioni
accudenti di Diana. L’aver scoperto che la sua capacità di proteggere la
sorella era stata un’illusione aveva provocato il collasso della strategia
controllante-accudente, e il riemergere del MOI disorganizzato con la
sua coorte di processi dissociativi.

METACOGNIZIONE, SMI E STRATEGIE CONTROLLANTI


Una momentanea perdita di tenuta delle strategie controllanti può essere
rivelata, oltre che da altri fenomeni dissociativi, anche da un uso
improvvisamente deficitario delle abilità metacognitive (mentalizzazione)
all’interno di un dialogo.5 Questa possibilità è illustrata da una ricerca
(Prunetti et al., 2008) in cui un campione femminile di pazienti borderline
all’inizio del trattamento rispondevano con una ridotta capacità di
mentalizzazione ad atteggiamenti empatici del terapeuta in seduta. O
meglio, subito dopo un intervento empatico del terapeuta le pazienti
rispondevano in modi che segnalavano un lieve increménto nella capacità
metacognitiva di riconoscere le proprie emozioni, ma anche un netto
peggioramento nella capacità di integrare il pensiero e il discorso in una
narrativa coerente.
L’interpretazione dei dati di ricerca di Prunetti e collaboratori (2008) è
che la stimolazione dell’attaccamento - conseguente alla percezione che le
pazienti hanno della benevolenza dei terapeuti - mette in crisi
momentaneamente le strategie controllanti. Di conseguenza, il MOI
disorganizzato tende a emergere nella relazione terapeutica disturbando le
capacità di integrazione o sintesi personale della paziente, mentre
contemporaneamente il sostegno offerto empaticamente al riconoscimento
delle emozioni agisce beneficamente su un altro aspetto delle capacità
metacognitive: il riconoscimento delle emozioni e la discriminazione fra
esse. Si noti che a questi due aspetti diversi della metacognizione o
mentalizzazione si è già fatto cenno nella sezione precedente: essi sembrano
entrare in contrasto fra loro nella DA e nelle sue sequele controllanti.
Se l’oscillazione nella tenuta delle strategie controllanti in funzione
delle sollecitazioni al sistema di attaccamento può esprimersi, nel corso
dello sviluppo, non solo con evidenti sintomi post-traumatici e dissociativi
(come per il sopravvenire di eventi traumatici), ma anche con più sottili
ostacoli all’esercizio delle capacità di mentalizzazione che vanno
sviluppandosi nel bambino (come per più modeste e meno durevoli
sollecitazioni al risveglio dell’attaccamento), le implicazioni per lo studio
dello sviluppo di personalità che segue alla DA sono considerevoli. Tutti i
deficit metacognitivi o di mentalizzazione che caratterizzano i disturbi di
personalità (Fonagy et al., 2002; Semerari et al., 2003) e altri disturbi
psicopatologici (Allen et al., 2008; Dimaggio, Lysaker, 2010) potrebbero
trovare terreno fertile, nel corso di uno sviluppo traumatico, per prodursi e
mettere radici.
I rapporti fra tutte le variabili connesse alla DA e agli sviluppi
traumatici - esercizio mutevole delle abilità metacognitive o di
mentalizzazione, contesto intersoggettivo del momento (regolato dai diversi
SMl), disturbi delle relazioni interpersonali, ed emersione di sintomi
dissociativi - sono evidentemente importanti anche nella pratica clinica in
generale e psicoterapeutica in particolare. Essi sono stati discussi in
relazione alla terapia in vari scritti degli autori (Cortina, Liotti, 2010; Liotti,
1994/2005; Liotti, Gilbert, in corso di stampa; Liotti et al., 2008b; Liotti et
al., 2005a; Liotti, Prunetti, 2010; Prunetti et al., 2008), e verranno ripresi
nei capitoli dedicati al trattamento degli esiti di sviluppi traumatici. Per la
loro complessità, prima di esaminarne le ricadute nella pratica clinica è però
opportuno riassumerli e formalizzarli in uno schematico modello teorico. A
questo compito è dedicata la prossima sezione.

UN MODELLO TEORICO DEL TRAUMA E DELLA


DISSOCIAZIONE

L’ipotesi che connette trauma e dissociazione alle complèsse dinamiche


motivazionali della DA, delle strategie controllanti e del loro collasso,
svolgerà la funzione di cornice concettuale di base nei capitoli di
psicopatologia e di psicoterapia che seguono. Il modello teorico che tale
ipotesi tende a configurare, e che è possibile sostenere con i dati di ricerca
riassunti in questo capitolo, è sintetizzabile in tre punti:

1. I sintomi dissociativi di rilievo clinico che compaiono in risposta a un


trauma potrebbero essere spesso, se non sempre, il risultato di processi
mentali legati all’attivazione del sistema motivazionale di attaccamento, e
richiedere che tale sistema sia regolato da un MOI disorganizzato. In altre
parole, in assenza di un MOI disorganizzato - o in alternativa di assenza di
preclusioni ambientali ad avere risposte alle esigenze di cura e conforto - i
processi dissociativi conseguenti a traumi non sono fonte di sintomi
dissociativi particolarmente rilevanti, ma solo di alterazioni transitorie delle
funzioni integratrici della memoria e della coscienza (derivanti dalle
operazioni del sistema di difesa finalizzate a ridurre il dolore fisico e a
inibire l’attività mentale superiore; Cantor, 2005).
2. La cooptazione difensiva di altri SMI (di rango, di accudimento, di
formazione della coppia sessuale) riesce a inibire il sistema di attaccamento
in coloro che provengono da una storia di attaccamento disorganizzato e
quindi a proteggere, talora anche per molti anni, dall’esperienza della
dissociazione. Il dolore del trauma causa dissociazione patologica e
durevole in quanto induce il collasso di strategie controllanti preesistenti da
molto tempo all’evento. Analogo effetto possono avere però anche eventi
non francamente traumatici, ma capaci di invalidare una strategia
controllante sul piano comportamentale quotidiano (come la separazione
coniugale del veterano del Vietnam) o su quello dei significati personali
(come la rivelazione che la sorella minore fece a Diana).

3. Prima che un nuovo trauma o altri eventi di vita capaci di invalidare


le strategie controllanti portino all’emergere di sintomi dissociativi, un
disturbo traumatico dello sviluppo può essere suggerito a volte solo da
sintomi tipici di altri disturbi di Asse I (come la depressione di Diana), o di
Asse II (come i disturbi di personalità che possono derivare dall’uso
continuo di strategie controllanti, dall’inibizione dell’attaccamento e dai
deficit metacognitivi che ne conseguono).

Si noterà come il modello qui esposto (vedi anche figura 5.1) offra
un’interpretazione della patologia dissociativa come fallimento grave
dell’intersoggettività conseguente al collasso delle strategie controllanti, e
di conseguenza suggerisca il recupero dell’intersoggettività come
fondamento e fine della cura (tema che sarà discusso nel capitolo 7). Alcune
riflessioni sul ruolo della vergogna nella genesi dei sintomi dissociativi
possono illustrare le peculiarità del nostro modello rispetto ad altre teorie
della dissociazione che pure ne sottolineano gli aspetti relazionali.
Molti clinici esperti di trattamento dei disturbi post-traumatici
sottolineano il ruolo dell’emozione di vergogna in questa dimensione della
psicopatologia (Irwin, 1998; Lee et al., 2001), e quest’impressione clinica è
sostenuta da dati di ricerca che dimostrano la forte correlazione fra
propensione alla vergogna e risposte dissociative ai traumi (Andrews et al.,
2000; Talbot et al., 2004). Il dato clinico e di ricerca è interpretato spesso
come se l’effetto dissociativo fosse intrinseco all’esperienza estrema di
vergogna fatta dalla vittima all’interno dell’interazione traumatica con
l’abusante. Il modello teorico che qui esponiamo sostiene
un’interpretazione diversa: non solo la vergogna non è in sé dissociante, ma
essa è l’ultimo argine che le difese della mente, e per l’esattezza le strategie
controllanti basate sul rango, oppongono a quell’annichilimento della
coscienza intersoggettiva che, a nostro avviso, è l’essenza della
dissociazione.

Figura 5.1 Modello dello sviluppo traumatico.

La vergogna, per quanto spiacevole, è un’emozione normalmente


esperita dallo sconfitto in tutte le contese per il rango, dove ha il senso di
segnalare l’incipiente atto di sottomissione del subordinato al dominante
(Trower, Gilbert, 1989). Essa non può essere quindi un fattore di
disgregazione della coscienza intersoggettiva, visto che l’esperienza di
corrispondenza reciproca delle emozioni provate resta ben chiara sia nella
mente del dominante, che percepisce la vergogna dello sconfitto come
complementare al senso di trionfo che prova, sia nella mente dello sconfitto,
che percepisce il trionfo del dominante come complementare alla propria
umiliazione. La correlazione fra vergogna e dissociazione è piuttosto
interpretabile col fatto che, subito prima che la vittima precipiti nell’abisso
della disgregazione di coscienza e intersoggettività — subito prima che la
relazione interumana si dissolva in un incontro che coincide atrocemente
con quello fra la preda e il predatore annullando ogni disposizione innata a
percepirsi come conspecifici - la mente della vittima tenta invano di
ancorarsi all’ultima interpretazione possibile dell’incontro che ancora
conservi la natura di uno scambio fra membri della stessa specie: quello,
appunto, mediato dall’aggressività ritualizzata nelle contese per il rango
sociale.6 Invalidata dal comportamento di aggressività distruttiva e niente
affatto ritualizzata dell’abusante, anche questa interpretazione automatica
dell’esperienza traumatica come incontro interumano motivato dal sistema
agonistico di rango cessa, e anche la vergogna che la accompagnava
scompare nell’abisso del vuoto dissociativo dominato dall’assurdo
evoluzionistico di comportamenti di predazione e difesa attivi verso un
membro della propria specie.
Le ricerche che mostrano la correlazione statisticamente significativa fra
disposizione alla vergogna e tendenza alla dissociazione (Andrews et al.,
2000; Talbot et al., 2004) evidenziano probabilmente la relazione che la
dissociazione ha con l’attaccamento disorganizzato e con il collasso delle
strategie controllanti basate sul sistema motivazionale di rango, che si
esprimano con atteggiamenti punitivi e dominanti oppure con atteggiamenti
di sottomissione. L’esperienza interumana fondata così spesso sul sistema di
rango attivato per proteggere dall’annichilimento dissociativo
dell’intersoggettività spiega l’alto punteggio alle scale di valutazione della
vergogna in persone che, proprio per la ripetuta esperienza anche della
dissociazione connessa al collasso delle strategie controllanti basate sul
rango e al riemergere del MOI di attaccamento disorganizzato, hanno anche
elevati punteggi nelle scale di misura della dissociazione. Nel capitolo 8 il
tema sarà ripreso, con una descrizione delle implicazioni del nostro modello
nella gestione clinica dei sentimenti di vergogna durante il trattamento dei
pazienti con storie di attaccamento disorganizzato e sviluppo traumatico.

I MOLTEPLICI ITINERARI PSICOPATOLOGICI APERTI DALLA


DISORGANIZZAZIONE DELL ATTACCAMENTO

La figura 5.1 mostra come i bambini che sviluppano la loro personalità


in contesti traumatici vadano incontro a ripetuti cicli di esperienze
dissociative (legate a traumi) e di ripristino delle strategie controllanti
(derivanti dall’originaria DA). In questi casi sarà presente il quadro clinico
del DTS o del DPTSc (vedi le tabelle 1.1 e 1.2 nel capitolo 1 ), oppure un
disturbo riconosciuto dal DSM-IV che con tale quadro clinico abbia
relazione. In ogni caso, il modello teorico riassunto nella figura 5.1 prevede
che significativi sintomi dissociativi (inclusi quelli somatoformi) facciano
parte del quadro clinico. In particolare, il modello teorico prevede che la
ripetuta esperienza del collasso delle strategie controllanti, causata dal
frequente ripetersi di traumi a opera delle figure di attaccamento, conduca il
bambino a temere le emozioni di attaccamento che preludono a tali
catastrofiche esperienze di dis-integrazione. Allo stesso tempo, tale costante
paura di un aspetto importante della propria vita emotiva induce a cercare la
vicinanza delle figure di attaccamento e a temerne abnormemente la perdita.
Si costituisce così la base delle fobie degli stati interni comunemente
osservate nei pazienti con DPTSc (van der Hart et al., 2006), e in
particolare delle opposte coesistenti fobie delle emozioni di attaccamento e
delle emozioni di minacciata perdita dell’attaccamento (un’estesa
trattazione di queste fobie sarà oggetto dei capitoli 7 e 8). A loro volta, le
opposte fobie degli stati interni costituiscono il fondamento degli stati
dell’io non integrati (dissociazione del tipo della compartimentazione).
La figura 5.1 mostra anche la tendenza alla trasmissione
intergenerazionale sia della DA sia dei traumi: divenuti adulti, i bambini
che provengono da uno sviluppo traumatico hanno un’elevata probabilità di
trasformarsi in genitori spaventati e che incutono paura ai figli mentre li
accudiscono (genitori frightened/frightening, FF), oppure tendenti a
mostrare ostilità (hostility) e impotenza (helplessness) durante
l’accudimento della prole (genitori hostile/helpless, HH). Si comprende così
la tendenza a ripetersi dello sviluppo traumatico e dei disturbi che ne
conseguono, di generazione in generazione, nelle stesse famiglie.7 Non le
colpe dei padri, come sostiene un famoso passo della Bibbia, ma i disturbi
traumatici dello sviluppo ricadono sui figli “fino alla settima generazione”,
cioè praticamente all’infinito, a meno che non intervenga una psicoterapia o
un’altra esperienza di vita correttiva capace di ripristinare nel genitore una
certa sicurezza nella dimensione relazionale dell’attaccamento-
accudimento. E' questo il tema di ricerca noto negli studi sull’attaccamento
come sicurezza guadagnata, earned security (Roisman et al., 2002).
La figura 5.1, infine, suggerisce anche che l’alternato ripetersi di traumi
e di ripristino delle strategie controllanti non è un’inevitabile conseguenza
della DA. Molti bambini con un attaccamento disorganizzato nei primi due
anni di vita (probabilmente la maggioranza e in particolare quelli che sono
accuditi da genitori spaventati e vulnerabili ma non violenti o
esplicitamente maltrattanti) possono non vedere scosse le loro strategie
controllanti, a opera di traumi o altri eventi capaci di attivare
perentoriamente il loro sistema di attaccamento, per lunghi anni o
addirittura per tutta la vita. In questi casi le strategie controllanti potranno
manifestarsi, dall’infanzia alla vita adulta, con peculiari problemi nello stile
di vita e di relazione (Moss et al., 2009; Moss et al., 2004; Moss et al.,
2006), forse persino con disturbi di personalità, ma non compariranno in
maniera evidente i tratti e i sintomi caratteristici del DTS (o DPTSc), a
partire dai sintomi dissociativi. Eppure, il modello teorico prevede che la
tendenza alla dissociazione permanga latente anche in questi casi, pronta a
manifestarsi con brevi disagi oppure anche con veri e propri disturbi
caratterizzati da fenomeni o sintomi dissociativi più o meno larvati, in
qualsiasi momento della vita si verifichi una potente e durevole attivazione
del sistema di attaccamento - causata non solo da traumi, ma anche da
invalidazioni delle rappresentazioni di sé collegate alle strategie
controllanti, dalla formazione di nuovi legami affettivi o dalla loro rottura.
Se queste previsioni del modello teorico sono corrette, c’è dunque da
attendersi che numerosi diversi itinerari psicopatologici si possano aprire a
partire dalla DA precoce e dalle strategie controllanti che ne conseguono.
Proviamo a ipotizzarli, esaminando ogni aspetto del modello teorico.

Disorganizzazione dell’attaccamento

Itinerari psicopatologici diversi sono probabilmente già facilitati dai


diversi tipi di DA. La ricerca sull’attaccamento mostra come una tendenza
all’organizzazione dell’attaccamento, dovuta presumibilmentè all’opera
delle funzioni mentali superiori ostacolata ma non abolita dalla
mobilizzazione del sistema motivazionale di difesa, sia rilevabile in quasi
tutti i casi di DA. Si diagnostica quindi sempre, in quest’ambito di ricerca,
lo stato disorganizzato-altrimenti-sicuro (d/b), lo stato disorganizzato-
altrimenti-evitante (d/a), e lo stato disorganizzato-altrimenti-resistente (d/c).
E' verosimile che i casi d/b siano relativamente più protetti dal seguire un
qualsiasi itinerario psicopatologico, e che i casi D/A e d/c predispongano a
itinerari psicopatologici diversi. In tutti questi casi, tuttavia, permane fino
all’età adulta la tendenza a rispondere ai traumi con la dissociazione,
dimostrata dalla ricerca longitudinale di Ogawa e collaboratori ( 1997). __
L’ipotesi che eventi e processi avviatisi durante il primo anno di vita,
come sono quelli che conducono alla costruzione nella memoria implicita
dei MOI di attaccamento in generale e dell’attaccamento disorganizzato nel
caso che ci interessa, esercitino un effetto tanto durevole sulle funzioni
mentali coscienti e inconsce potrebbe apparire implausibile. Quest’ipotesi è
però suffragata dalle ricerche longitudinali sull’attaccamento (Grossmann et
al., 2005; Sroufe, 2005), e da un altro, recente e accuratissimo studio
anch’esso longitudinale che dimostra gli effetti, durevoli fino all’età adulta,
del tipo di accudimento materno ricevuto nel primo anno di vita (Maselko
et al., 2010). Sull’ipotesi si può quindi fare un certo affidamento.

Strategie disorganizzate/controllanti di tipo punitivo

Una strategia controllante punitiva che non sia continuamente invalidata


da traumi intrafamiliari, perdurando negli anni e manifestandosi in
esperienze di dominanza sui caregiver, potrebbe concepibilmente radicarsi
in atteggiamenti narcisistici di superiorità e autoesaltazione, e in
un’esasperata aggressività competitiva. Come previsto dalle teorie della
psicologia del sé (Kohut, 1971), questa grandiosità mantiene però le sue
radici nell’estrema insicurezza dell’attaccamento. La tendenza alla
dissociazione mantenuta dal MOI disorganizzato può manifestarsi con
esperienze di vuoto devitalizzato e terrifico, tipiche dei momenti in cui
l’organizzazione narcisistica della personalità va incontro allo scompenso
(Dimaggio et al., 2003; Semerari et al., 2003). Le talora molto evidenti
caratteristiche di alienazione (detachment) e compartimentazione
dissociative presenti in questi momenti di vuoto troverebbero così una
facile spiegazione.
Non è impossibile ipotizzare, in aggiunta, che varianti della strategia
controllante punitiva, probabilmente in presenza di violente e frequenti
esperienze traumatiche, contribuiscano a plasmare la tendenza a
comportamenti antisociali. Nei gravissimi casi descritti da Fonagy e Target
(2008) in un recente contributo allo studio del trauma e dell’attaccamento,
quest’ipotesi sembra trovare un’illustrazione clinica nelle storie di evidente
DA seguite da atteggiamenti di sfida nei confronti delle figure di
attaccamento e da traumi di impressionante violenza. Nelle note cliniche di
Fonagy e Target è ben evidenziata la presenza di sintomi dissociativi
concomitanti a notevoli deficit di mentalizzazione. Come è noto, in alcune
forme estreme di comportamento antisociale grave e ripetuto (per esempio,
in alcuni serial killer), è stata osservata o sospettata una grave
compartimentazione dissociativa, tanto da far pensare alla comorbilità col
disturbo dissociativo dell’identità o personalità multipla (Allison, 1984): il
dato sembra ben spiegabile all’interno del nostro modello teorico.
Infine, è nostra impressione che almeno in alcuni casi abbiano analoga
origine atteggiamenti e stati mentali paranoicali. L’analisi delle esperienze
infantili reali del Presidente Schreber (sulle cui Memorie di un malato di
nervi si basò Freud per la sua teoria della paranoia), offerta da Morton
Schatzman (1973) in un suo ormai classico libro, illustra bene la possibilità
che la paranoia emerga da una strategia disorganizzata/controllante mirante
alla dominanza (la vocazione professionale del Presidente Schreber la
testimonia e le notizie biografiche la confermano), innescata su una storia di
gravi maltrattamenti.8I clamorosi aspetti dissociativi presenti nel delirio
dello sfortunato giudice, e i sintomi somatoformi (anch’essi evidentemente
dissociativi) che segnarono l’esordio del suo disturbo, sono spiegabili con la
riattivazione di un MOI disorganizzato.
Può apparire sorprendente che un giudice intemerato come Schreber, e
criminali come quelli descritti da Fonagy e Target provengano da storie di
vita infantile analoghe nell’essere centrate sulla DA e su uno sviluppo
traumatico in cui l’abnorme attivazione del sistema di rango gioca un ruolo
decisivo. La sorpresa è mitigata dalla considerazione degli altri fattori che
possono intervenire a dettare scelte digita, visioni del mondo e direzione
dell’itinerario psicopatologico: caratteristiche del corredo genetico
individuale, contesto sociale in cui prende forma lo sviluppo, modalità di
comunicazione intrafamiliare, e tipo specifico di traumi a cui si è esposti.

Strategie disorganizzate/controllanti di tipo accudente

L’ambito della psicopatologia a cui possono indirizzare le strategie


controllanti accudenti è anzitutto quello, a cui si è accennato sopra, del
senso di responsabilità ipertrofico che inevitabilmente si sviluppa nei
bambini chiamati a prendersi cura troppo precocemente di genitori
fisicamente o emotivamente fragili e vulnerabili. Ne deriva la tendenza a
sviluppare sentimenti di colpa abnormi, studiati dettagliatamente dalla
psicopatologia cognitiva a proposito del disturbo ossessivo-compulsivo
(Mancini, Gangemi, 2004; Mancini, 2001), e dal San Francisco Psy-
chotherapy Research Group che ha opportunamente distinto la colpa da
separazione, che ostacola l’autonomia dal genitore sofferente, dalla colpa
del sopravvissuto che ostacola invece il godimento di successi (O’Connor et
al., 1997).
Il frequente coinvolgimento nelle strategie accudenti del sistema di
rango operante nella direzione della sottomissione comporta, come si è
detto (vedi sopra il paragrafo dedicato a esse), propensione allo sviluppo di
rappresentazioni negative di sé nel senso dell’inferiorità, dell’incompetenza
e della vergogna, che si aggiungono al senso di colpa per responsabilità. E'
facile vedere qui in formazione un itinerario di sviluppo che potrebbe
sfociare in diversi quadri clinici dei disturbi d’ansia e dell’umore. Tuttavia,
questi elementi patogeni delle strategie controllanti accudenti
corrispondono anche ai criteri diagnostici 4,5 e 7 del DSENAS (vedi tabella
1.2 del capitolo 1): l’eventuale comparsa di sintomi dissociativi (criterio 2)
oppure somatoformi (criterio 3), e di disturbi relazionali (criterio 6) e nella
regolazione delle emozioni (criterio 1), permetterebbe di formulare anche
tale diagnosi in comorbilità col disturbo d’ansia o dell’umore.
Un altro quadro clinico a cui potrebbe predisporre la strategia
controllante accudente è costituito dall’abnorme dipendenza, derivante dal
senso di incapacità personale e dalla tendenza alla sottomissione per
compiacere l’altro, coniugati alla limitazione dell’autonomia imposta
dall’inconscia colpa da separazione. Se l’itinerario di sviluppo prende
questa direzione, e se si manifestano di fronte alla separazione attivazioni
del MOI di attaccamento capaci di condurre a sintomi dissociativi che
possono prendere la forma del vuoto disorganizzato e terrifico, è chiaro che
ci si troverebbe di fronte all’inizio dello sviluppo di un disturbo dipendente
di personalità (vedi la descrizione di questo disturbo, e in particolare dello
stato di vuoto disorganizzato, offerta da Carcione, Conti, 2003).

Strategie disorganizzate/controllanti coinvolgenti la sessualità

La sessualizzazione del rapporto fra il bambino e il genitore FF ο HH


potrebbe essere uno dei modi per inibire la dimensione dell’attaccamento-
accudimento ed evitare la conseguente grave disorganizzazione della
condotta relazionale. Questa eventualità aumenta il rischio di esperienze
reali di incesto, e nel corso dello sviluppo del figlio può creare, anche in
assenza di abuso sessuale incestuoso, specifici problemi coinvolgenti la
sessualità.
Ci è capitato di osservare diversi casi clinici (con diversa diagnosi
DSM), in cui a una storia infantile indicativa di attaccamento controllante
sessualizzato corrispondeva, in età adulta, una forte tendenza a
comportamenti indiscriminati di seduzione e anche alla promiscuità
sessuale, coniugata a volte a risposte sessuali abnormi: eiaculazione
precoce, perdita dell’erezione al momento della penetrazione, disorgasmia,
frigidità. Queste disfunzioni sessuali sembrano tradire la motivazione non
primariamente sessuale, ma difensiva dell’atteggiamento iper-erotico di
questi pazienti: l’itinerario di sviluppo che coniuga difensivamente
attaccamento (che resta latente rispetto a intenzioni ed emozioni coscienti) e
sessualità (che invece appare nella coscienza come il movente della ricerca
di incontro con l’altro), conduce a una distorsione delle risposte sessuali
apparentemente contrastante con la ricercata molteplicità di incontri erotici
e con la promiscuità.9

Inibizione massiva della relazionalità

Si è già accennato all’ipotesi che la tendenza all’isolamento sociale, "di


tipo evitante (nel senso del disturbo evitante di personalità) o di tipo
schizoide, possa trarre origine da una strategia mirante a inibire
l’attaccamento disorganizzato attraverso la limitazione di ogni incontro
interumano, e dunque attraverso l’inibizione più o meno-estesa di ogni
forma di relazione emotivamente coinvolgente. Spetterà alla ricerca futura
determinare se e quanto spesso questo itinerario di sviluppo aperto dalla DA
e dal successivo sviluppo traumatico possa condurre, in aggiunta ai fattori
di rischio specifici oggetto di indagine nella genètica del comportamento, al
disturbo evitante di personalità e a disturbi dello spettro schizofrenico
(Liotti, Gumley, 2008).
Le ricerche sulla schizotipia - intesa sia come controparte a bassa
intensità di alcuni sintomi schizofrenici presente in popolazioni non
cliniche, sia come disturbo schizotipico di personalità - offrono, a questo
riguardo, interessanti spunti di riflessione. Esistono prove di una consistente
correlazione fra le misure della schizotipia e della dissociazione in
campioni clinici e non clinici (Giesbrecht, Mercklebach, 2008), e di una
particolarmente evidente relazione fra schizotipia e sintomi di
depersonalizzazione (Watson, 2001). Analisi fenomenologiche confermano
la somiglianza dei costrutti schizotipia e depersonalizzazione, e studi dei
profili di reattività neurovegetativa nei due disturbi segnalano anch’essi
alcuni aspetti in comune (per una rassegna, vedi Simeon, Hamilton, 2008).
Gli studi esistenti di neuroimaging, e studi clinici di casi singoli depongono
invece per una diversità dei due costrutti al di là di queste rilevate
somiglianze (Simeon, Hamilton, 2008). Nella depersonalizzazione cronica
anomalie funzionali a carico della corteccia sensoriale e delle aree limbiche
costituiscono il nucleo del profilo neùrobiologico, mentre nella schizotipia
la sede principale di irregolarità è nelle aree prefrontali. Queste osservazioni
potrebbero corrispondere a un dato clinico molto chiaro: pazienti con
depersonalizzazione hanno un’intatta prospettiva cognitiva sull’esperienza
di sé distorta, mentre gli schizotipici sviluppano convinzioni bizzarre a
partire da un’analoga distorsione dell’esperienza di sé.
In sintesi, chi si occupa della sovrapposizione fra i costrutti di
schizotipia e dissociazione ritiene che le correlazioni e le differenze
osservate vadano spiegate sulla base di modelli complessi, almeno
bifattoriali (Giesbrecht, Mercklebach, 2008; Watson, 2001), non
riconducibili cioè a un solo fattore come l’esposizione a traumi
nell’infanzia oppure un qualche aspetto del temperamento geneticamente
determinato (la cosiddetta apertura all’esperienza o la tendenza a
fantasticare). Il nostro modello teorico presenta, appunto, caratteristiche
multifattoriali: (1) la DA precoce - non rilevabile con misure di self-report
che richiedono la memoria autobiografica, attiva solo a partire dai tre anni
di età; (2) il trauma, come definito dal DSM-IV e studiabile attraverso
misure di self-report; (3) le strategie controllanti e le loro conseguenze sullo
sviluppo psicosociale; (4) l’impatto delle ripetute esperienze dissociative
sulle strutture di significato personale in costruzione durante l’infanzia e
l’adolescenza. Secondo tale modello, le somiglianze fra schizotipia e
depersonalizzazione potrebbero derivare da un’inibizione estesa della
relazionalità (cioè di tutti gli SMl) comune ai due disturbi e riconducibile a
sua volta alle sequele di un attaccamento precoce disorganizzato.10 La
dissociazione presente in entrambi i disturbi è ipoteticamente riconducibile
alla momentanea riattivazione del MOI disorganizzato di fronte a situazioni
stressanti e alle dinamiche relazionali (separazioni, tentata formazione di
nuovi legami affettivi) sempre presenti anche se limitate dalla tendenza
all’inibizione della relazionalità. Fattori di rischio specifici per l’uno o
l’altro disturbo dovrebbero poi associarsi a questa base comune,
indirizzando lo sviluppo psicopatologico nell’una o nell’altra direzione.
Sappiamo poco sulla natura di tali specifici fattori di rischio, salvo che nella
depersonalizzazione cronica sembrano giocare un ruolo fondamentale gli
abusi emozionali (includenti abituali insulti, denigrazioni continue,
esposizione al ridicolo in pubblico, disprezzo), mentre altri eventi
traumatici (violenze fisiche, molestie sessuali) sono riferiti più raramente
che negli altri disturbi correlabili a sviluppi traumatici (Simeon, 2009).

Tipologia del trauma evolutivo ed età di esposizione

Recenti ricerche indicano che diversi tipi di trauma evolutivo (neglect,


abuso fisico, abuso sessuale, abuso emozionale), e diverse età di
esposizione alle esperienze traumatiche, determinano danni neurobiologici
differenti (Andersen et al., 2008; De Bellis, 2005). E' verosimile che
determinino anche l’apertura di diversi itinerari psicopatologici. Per
esempio, la riattivazione di un MOI disorganizzato causata dal dolore di una
grave umiliazione pubblica a cui il genitore esponga deliberatamente il
bambino innesca i processi dissociativi in contesti relazionali, motivazionali
(sistema di rango) e di significato ben diversi dai contesti relazionali,
motivazionali (sistema sessuale) e di significato implicati dall’incesto. La
disgregazione riguarda allora rappresentazioni di sé-con-l’altro e forme
generali di relazione tanto differenti da poter avviare lo sviluppo di
sindromi cliniche diverse nell’implicare deficit metàcognitivi e di
regolazione delle emozioni, e convinzioni patogene, influenti in ambiti
diversi dell’esperienza umana.

Deficit di regolazione delle emozioni

Gli sviluppi traumatici, secondo il nostro modello teorico, offrono


occasioni continue tanto di emozioni veementi quanto di ostacoli alla
possibilità di mentalizzarle, regolarle, e riconoscerle empaticamente nella
mente dell’altro. L’emotività intensa e sregolata dei pazienti non è posta
spesso al centro dell’attenzione nella trattazione dei disturbi dissociativi, ma
certo lo è in quelle di altri disturbi che possono avere origine, almeno in una
significativa percentuale di casi, nello sviluppo traumatico. Di questi il
DBP, che sarà oggetto di particolare attenzione nel prossimo capitolo, è
l’esempio prototipico. Anche se non è posta al centro dell’attenzione nella
trattazione di tutti i disturbi dello spettro post-traumatico e dissociativo, il
deficit di regolazione delle emozioni è evidente clinicamente in tutte queste
sindromi, sia quando prende la forma di frequenti manifestazioni emotive
intense o addirittura esplosive, sia quando invece - a causa probabilmente
delle diverse strategie controllanti - prende la forma dell’ipoemotività e
dell’ottundimento (numbing;) tipica, per esempio, della depersonalizzazione
cronica (Lanius et al., 201 Ob).
Il tentativo di padroneggiare un’esperienza emotiva tanto gravemente e
continuamente perturbata può condurre coloro che vengono da una storia di
sviluppo traumatico all’uso di sostanze o a comportamenti alimentari
abnormi che possono divenire abituali.

Una nostra paziente, Viola, con una presumibile DA precoce e una


successiva strategia controllante-accudente, sviluppò in età prescolare
un tipico pavor nocturnus (disturbo da terrore nel sonno), al quale
trovava rimedio grazie alla presenza della sorella maggiore che
dormiva nella stessa stanza. I genitori, infatti, avevano negato ogni
aiuto e anzi avevano proibito severamente di essere disturbati durante
la notte. Quando, intorno ai sei anni di età, le due sorelle furono poste
a dormire in camere separate, Viola cominciò a portare con sé, prima
di andare a dormire, un pezzo di pane carpito in cucina, nascondendolo
sotto il cuscino: sbocconcellandolo dopo i risvegli notturni, riusciva in
qualche modo a calmarsi, o almeno a trattenere l’urlo o il pianto che
avrebbero svegliato i genitori. Viola soffrì per tutta l’adolescenza e
l’età adulta di un disturbo da alimentazione incontrollata, e delle sue
conseguenze sul piano della salute corporea.

Un imponente studio epidemiologico, l'Adverse Childhood Expériences


(ace) Study, ha fornito un’analisi sia retrospettiva sia prospettica degli
effetti a lunga scadenza dei traumi infantili in oltre 17.000 individui,
dimostrandone l’influenza nella genesi di una vasta gamma di malattie
medico-internistiche oltre che psichiatriche (Anda et al., 2009; Brown et al.,
2009; Felitti, 2009). E' presumibile che, in una percentuale ancora da
stabilire di queste malattie internistiche, sintomi dissociativi (inclusa la
dissociazione somatoforme) e problemi di relazione connessi alla DA
accompagnino stili di vita disadattativi la cui origine può essere rintracciata
nel deficit di regolazione emotiva prevista dal nostro modello per tutti gli
sviluppi traumatici.

E' importante sottolineare che le nostre riflessioni sugli esiti degli


sviluppi traumatici in età adulta non implicano affatto che tutti i disturbi
diagnosticabili nelle varie categorie del DSM-IV abbiano una tale origine.
E' possibile e anzi probabile che a disturbi simili fra loro, e tutti
diagnosticabili nelle categorie del DSM-IV, si arrivi per itinerari che non
implicano uno sviluppo traumatico: rigettiamo quindi la possibile critica
che le nostre riflessioni implicano un iperdissociativismo o una visione pan-
traumatica della psicopatologia e delle malattie psicosomatiche. Il senso
principale delle nostre riflessioni è che una certa gamma di disturbi,
diagnosticabili in diverse categorie del DSM ma non includenti tutti i casi
di quella diagnosi, può essere riconducibile anche allo sviluppo che prende
forma a partire dalla DA precoce, eventualmente seguita dalle esperienze
traumatiche segnalate dai questionari self-report:
Un’analisi delle categorie diagnostiche del DSM-IV all’interno delle
quali è possibile, secondo i dati di ricerca disponibili, rintracciare gli
elementi segnalati dal nostro modello teorico dello sviluppo traumatico sarà
offerta nel prossimo capitolo. A conclusione di questo, segnaleremo come il
modello possa confrontarsi con alcuni dati provenienti da ricerche
neurobiologiche.

IL MODELLO TEORICO DI FRONTE ALLO STUDIO


NEUROSCIENTIFICO DEL TRAUMA E DELLA DISSOCIAZIONE

Il radicamento nella biologia e nell'epistemologia evoluzionista è


comune alle neuroscienze e alla teoria multimotivazionale fin qui riassunta.
Per questa comune radice concettuale, il modello appena presentato è
particolarmente adatto al confronto con i dati della ricerca sul cervello che,
accumulandosi progressivamente, aiutano a comprendere la natura degli
sviluppi traumatici e della dissociazione. Le teorie neurobiologiche dei
sistemi motivazionali ed emozionali (Berntson, Cacioppo, 2008; Panksepp,
1998; Solms, Kaplan Solms, 2000), le prospettive delle neuroscienze
ispirate dalla teoria dell’attaccamento (Schore, 2003,2009a; Siegel, 1999) e
dalla visione neojacksoniana della mente (Decety, Lamm, 2007; Farina et
al., 2005; Schore, 2003; Siegel, 1999; Solms, Kaplan Solms, 2000),
costituiscono una cornice concettuale che permette di confrontare il nostro
modello dello sviluppo traumatico e della dissociazione con alcuni dati
della ricerca recente sul cervello. Concluderemo dunque le nostre riflessioni
sul modello teorico dello sviluppo traumatico e della dissociazione con un
breve esame di alcuni studi pertinenti emersi nell’ambito delle
neuroscienze.11 Cominceremo con quelli forse più noti.

Studi sulla risposta neuroendocrina allo stress traumatico cronico

Lo stress cronico indotto da relazioni interpersonali che causano traumi


ripetuti e ravvicinati (come accade nelle forme più gravi di sviluppo
traumatico) provoca una risposta neuroendocrina capace di causare danni
microanatomici cerebrali, in particolare a carico delle ramificazioni
dendritiche dell’ippocampo (struttura della corteccia cerebrale preposta
all’integrazione delle informazioni nella memoria). E' la ben nota, e
controversa, ipotesi della neurotossicità che noradrenalina e glucocorticoidi,
entrambi normalmente privi di effetti neurotossici quando sono prodotti in
sequenza nella risposta allo stress, potrebbero esercitare sulle connessioni
sinaptiche quando vengono secreti simultaneamente per effetto della
ripetizione ravvicinata dei traumi (per una rassegna critica dei numerosi
studi al riguardo, vedi Bremner, 2005).
Più precisamente, l’ipotesi che stiamo esaminando afferma che
l’attivazione cronica di corticosteroidi e lo stato iperadrenergico, indotti da
costanti stati di allarme durante lo sviluppo traumatico, provocano
l’inibizione della neurogenesi e della differenziazione delle cellule nervose
(inibendo i fattori di crescita nervosa come il nerve growth factor o il bdnf),
ostacolano lo sviluppo dendritico e la formazione di sinapsi (azioni grazie
alle quali si ramificano e si integrano stabilmente le mappe cerebrali),
attivano azioni di potatura (pruning) delle connessioni nervose esistenti e
inducono fenomeni di morte cellulare (De Bellis, 2005; Schore, 2009a;
Schuder, Lyons-Ruth, 2004; Wagner et al., 2010). Ciò causerebbe la
riduzione del volume dell’ippocampo nei pazienti con storie infantili di
traumi gravi e ripetuti, che è stata osservata in numerosi studi (per esempio,
Vermetten et al., 2006).
Studi sull’organizzazione cerebrale durante lo sviluppo traumatico

La reattività alle condizioni di stress cronico e la formazione di mappe e


connessioni cerebrali sono entrambe mediate dal corredo genetico che, a
sua volta, può essere influenzato dallo stress durante lo sviluppo
(interazione geni-ambiente) (Perroud et al., 2008; Wagner et al., 2010).
L’alterazione delle connessioni sinaptiche causata dallo stress cronico, che
abbiamo appena esaminato, può innescarsi su questa complessa interazione
geni-ambiente durante lo sviluppo e la progressiva organizzazione interna
del cervello, con risultati a volte altamente patogeni. Si potrebbe creare
infatti, in alcune vittime di sviluppi traumatici, una ricorsività fra
vulnerabilità al trauma geneticamente determinata, esposizione a traumi
ripetuti e alterazioni cerebrali tanto a livello microanatomico che di
organizzazione dei sistemi cerebrali di gestione dello stress. Poiché i sistemi
cerebrali di gestione dello stress, che sviluppano il loro centro
gerarchicamente sovraordinato nell’emisfero destro, sono ampiamente
plasmati dalle esperienze concrete di attaccamento nel primo anno di vita
(Schore, 2009a; Schuder, Lyons-Ruth, 2004), si realizza in questi casi una
complessa interazione patologica fra le mappe cerebrali corrispondenti al
sistema di difesa, quelle corrispondenti allo SMI di attaccamento, e quelle
che presiedono alle funzioni integratrici della memoria. Un esempio degli
esiti gravemente patologici di questa circolarità epigene-tica è offerto da
studi condotti su bambini esposti alla violenza durante la prima infanzia,
con l’effetto di rafforzare la predisposizione genetica a sviluppare disturbi
del controllo di emozioni e impulsi: ne derivano comportamenti aggressivi
ancora evidenti durante l’adolescenza e la vita adulta (Cimili et al., 2009;
Mead et al., 2010).
La risposta allo stress cronico durante lo sviluppo si manifesta dunque a
diversi livelli dell’organizzazione cerebrale: alterazioni della
neurotrasmissione, riduzione di volume e funzionalità di strutture cruciali
per la memoria autobiografica (l’ippocampo), organizzazione abnorme delle
reti neurali implicate nell’integrazione delle esperienze relazionali (come il
giro del cingolo dove sono probabilmente mappate le disposizioni innate
alla relazione), e di quelle implicate nella regolazione degli stati emotivi
(corteccia prefrontale e vie di connessione tra questa e le strutture
limbiche). Ne può conseguire una ridotta specializzazione funzionale degli
emisferi cerebrali (Grulli et al., 2009; Mead et al., 2010), e un’alterazione
della capacità di networking, ovvero di lavoro integrato e connettività tra le
strutture corticali superiori e le strutture inferiori limbiche e
troncoencefaliche (Frewen, Lanius, 2006; Lanius et al., 2010b; Schore,
2009a; Spitzer et al., 2004; Sullivan et al., 2006). Verrebbero così
disconnesse fra loro (dissociate) strutture cerebrali che costituiscono il
substrato anatomico dell’organizzazione gerarchica in cui le funzioni
superiori (memoria e coscienza) ricevono informazioni da, ed esercitano un
controllo su, quelle inferiori (SMI e sistema di difesa). L’alterata
connessione fra i diversi livelli dell’organizzazione cerebrale è
probabilmente il principale corrispettivo neurologico della triade
sintomatica del DTS: alterazioni della coscienza, disturbi della regolazione
delle emozioni e disturbi somatoformi (Lanius et al., 2010b; van der Kolk et
al., 1996). Se quest’ipotesi si rivelasse corretta, potremmo considerare la
corrispondente ricerca neurobiologica come un esempio di plastica
illustrazione di quel che il nostro modello intende per organizzazione
gerarchica dei vari livelli della motivazione (i livelli delle funzioni superiori
coscienti, degli SMI e della motivazione non sociale), e per dissociazione
funzionale fra questi diversi livelli.
Notiamo che la conoscenza degli effetti neurologici dello sviluppo
traumatico, oltre a essere rilevante per la comprensione della psicopatologia
dissociativa, può assistere concretamente il clinico nell’elaborare la
strategia terapeutica. Le crescenti prove di un’alterazione del networking
fra strutture cerebrali come effetto di uno sviluppo traumatico suggeriscono
al terapeuta di considerare con cura l’ostacolo che questo difetto strutturale
pone all’efficacia degli interventi psicologici e farmacologici (Lanius et al.,
2010a; Lanius et al., 2010b; Pannu Hayes et al., 2009). Non aspettandosi
una pronta risposta favorevole, ma allo stesso tempo sapendo che le terapie
psicologiche possono determinare un aumento della plasticità
neurobiologica e un cambiamento delle strutture morfofunzionali cerebrali
sia in età evolutiva (Kay, 2009) sia in età adulta (Fuchs, 2004; Kumari,
2006; Letizia et al., 2007; Nardo et al., 2010; Thomaes et al., 2009), il
terapeuta può trovare un equilibrio dialettico fra il desiderio di effetti
terapeutici rapidi e l’indebitamente pessimistico scoraggiamento. Il valore
di un tale equilibrio dialettico è particolarmente evidente nel lavoro clinico
sui problemi di regolazione delle emozioni così tipici degli sviluppi
traumatici (Lanius et al., 2010b).
Il terapeuta saprà di dover prevedere tempi lunghi perché dovrà aggirare
progressivamente le difficoltà e i limiti imposti dal deficit neurologico delle
vie di integrazione cortico-limbiche, ma sarà anche incoraggiato a
perseverare nell’impresa dal conoscere i recenti studi che dimostrano come
la psicoterapia possa condurre a un recupero delle capacità integratrici
anche da un punto di vista neurobiologico (Stein, 2008).
L’importanza del problema clinico posto dal deficit di regolazione delle
emozioni giustifica un approfondimento sugli studi neurobiologici che ne
hanno indagato i meccanismi cerebrali sottostanti.

Studi neurobiologici sul deficit di regolazione delle emozioni

Tecniche neurofisiologiche e di neuroimaging hanno dimostrato, in


pazienti con sviluppo traumatico, l’alterazione del controllo esercitato dalla
corteccia frontale e prefrontale sulle strutture limbiche che mediano le
emozioni (De Bellis, 2005; Dell’Osso et al., 2010; Lanius et al., 2010b;
Schore, 2009a). Questa linea d’indagine, oltre a dimostrare un deficit di
controllo top-down sulle strutture limbiche ha permesso l’iniziale
identificazione dei meccanismi psicobiologici bottom-up che sembrano
implicati nel deficit di mentalizzazione emotiva (Alien et al., 2008). Forse il
dato più interessante per il confronto fra il nostro modello teorico e queste
indagini delle neuroscienze riguarda l’effetto inibitorio che l’attivazione
delle reti neurali corrispondenti al sistema di attaccamento normalmente
esercita sulla mentalizzazione (per una rassegna e una discussione critica,
vedi Fonagy, Target, 2008). Si può presumere che un’organizzazione
abnorme del sistema di attaccamento (in particolare la DA e le sue sequele
controllanti) moltiplichi questo normale effetto inibitorio. Inoltre, la DA, le
strategie controllanti e il contesto interpersonale traumatizzante si
manifestano tra l’altro con difficoltà comunicative nella vita quotidiana del
bambino, e ciò si riflette, secondo le neuroscienze contemporanee, in
ulteriori ostacoli alla regolazione metacognitiva delle emozioni. Studi
condotti con la risonanza magnetica funzionale dimostrano infatti che il
semplice identificare e nominare verbalmente, nel dialogo con l’altro, le
emozioni modera l’attivazione dell’amigdala di fronte a stimoli emotigeni
(Lieberman et al., 2007). La possibilità di condividere gli stati emotivi con
gli altri rappresenta uno dei più potenti fattori di regolazione e controllo
delle aree cerebrali implicate nel generare risposte emotive, sia durante lo
sviluppo sia nella vita adulta (Decety, Meyer, 2008).
Particolarmente interessante per il nostro modello teorico è infine un
recente studio di neuroimaging che indaga i correlati cerebrali delle risposte
a immagini mentali di cura e conforto ricevuti (Compassionate Focused
Imagery, CFI; Gilbert, 2005; Rockliff et al., 2008)3 Usualmente la CFI
determina risposte mentali di maggiore calma (self-soothing) e risposte
psicofisiologiche di riduzione dell’ansia-stress (Rockliff et al., 2008).
Tuttavia, in persone con attaccamenti altamente insicuri e con una visione
molto negativa di sé (analoga al criterio diagnostico della sfiducia in sé e
negli altri così tipico del DPTSc), l’esposizione alla CFI può viceversa
causare un paradossale incremento dell’ansia (Rockliff et al., 2008). Il
nostro modello prevede tale paradossale risposta, e la considera
conseguenza dell’attivazione di un MOI di attaccamento disorganizzato
legato alla memoria della paura senza soluzione: i risultati della ricerca di
Rockliff e collaboratori (2008) costituiscono dunque un sostegno
sperimentale iniziale al nostro modello teorico. Orbene, il recente studio di
neuroimaging che ci pare particolarmente interessante per il nostro modello
teorico dimostra che, mentre la CFI determina attivazione della corteccia
prefrontale ventrolaterale in coloro che vi rispondono con riduzione
dell’ansia, essa è accompagnata e seguita da attivazione della corteccia
prefrontale dorsolaterale in coloro che invece vi rispondono con un
incremento d’ansia (Longe et al., 2010). Avremmo, quindi, in questa
diversa risposta cerebrale a stimoli che attivano il sistema di attaccamento
un chiaro corrispettivo neurologico della specificità patogena
dell’attaccamento disorganizzato, che come si è detto comporta secondo la
nostra teoria un simultaneo e conflittuale risveglio della tendenza a cercare
vicinanza protettiva a una fonte di conforto (sistema di attaccamento) e di
quella a fuggire dalla stessa fonte, che appare anche simultaneamente
minacciosa (sistema di difesa).

Il sistema di difesa e la risposta vagale dorsale


Itinerari di indagine neurobiologica diversi da quello seguito nello
studio appena citato di Longe e collaboratori (2010) possono anch’essi
contribuire a identificare il corrispettivo cerebrale dell’attivazione
conflittuale dei sistemi di attaccamento e difesa, che nel nostro modello è
alla base delle risposte dissociative ai traumi e della DA. Contributi a
questo riguardo provengono dalle ricerche neurobiologiche su: (1) il
sistema arcaico di difesa contro i predatori, (2) il meccanismo cerebrale
dell’impotenza (helplessness) che si produce di fronte a traumi a cui non si
può sfuggire, e (3) il sistema cerebrale implicato nel fronteggiare lo stress
post-traumatico (Clerici, Veneroni, 2011). Frewen e Lanius (2006), Porges
(2001), Schore (2009a) e Seligman (1975) sono tra gli autori di questo
genere di contributi, a cui rimandiamo il lettore interessato (Clerici,
Veneroni, 2011; Frewen, Lanius, 2006; Porges, 2001; Schore, 2009a;
Seligman, 1975). Qui, per ragioni di spazio, dobbiamo limitarci a uno solo
dei tre temi, e abbiamo scelto il più importante per la comprensione delle
risposte dissociative ai traumi: offriamo dunque una sintesi di quanto le
conoscenze neurobiologiche offrono sul funzionamento del sistema di
difesa.
L’arcaico sistema di difesa troncoencefalico prevede strategie diverse di
risposta automatica alla minaccia predatoria: (1) reazioni di fuga sostenute
da un’immediata attivazione adrenergica; (2) reazioni di immobilità tonica
(freezing) in cui la preda al fine di non essere notata dal predatore e
prepararsi alla fuga si blocca in uno stato di attivazione sostenuto sempre
dal sistema adrenergico; (3) immobilità cataplettica, sostenuta invece da una
reazione del nucleo vagale dorsale che blocca qualsiasi reazione di fuga o
difesa (Porges, 1997,2001).
Quando il predatore ha raggiunto la preda e questa è completamente
senza scampo si attiva una risposta estrema e arcaica di blocco di qualsiasi
reazione di fuga o difesa, che implica da un lato la brusca estrema riduzione
del tono muscolare e dall’altro la disattivazione totale delle vie di
connessione tra le strutture corticali superiori e quelle inferiori limbiche e
troncoencefaliche. Questa strategia di difesa finale e disperata è stata
appropriatamente chiamata “fuga quando non v’è via di fuga” (escape when
there is no escape) (Putnam, 1997), ed è descritta da Porges (1997), Scaer
(2001) e Schore (2009a). Oltre a offrire l’estrema difesa dal dolore questa
risposta, che simula la morte, può indurre alcuni predatori ad abbandonare
la preda come reazione all’istintivo disgusto per gli animali già morti: essa
è quindi dotata di valore evoluzionistico di sopravvivenza e si è formata
come un adattamento darwiniano classico.
Il substrato neurofisiologico dell’immobilità cataplettica è situato nel
complesso vagale dorsale ovvero in alcuni nuclei del nervo vago che
risiedono nel tronco dell’encefalo (Schore, 2009a; Schore, 2009b).
L’arcaica risposta vagale dorsale causa la disconnessione temporanea tra le
strutture superiori corticali (responsabili della percezione consapevole, che
può restare attiva) e quelle limbiche e troncoencefaliche dalle quali
giungono ai centri della coscienza i segnali emotivi e dolorosi, e dalle quali
prendono origine le risposte motorie di fuga, attacco o richiesta di aiuto e
provoca un’immediata disattivazione dei sistemi neurofisiologici che
sostengono lo stato di coscienza. Una conseguenza di questo processo può
anche essere la perdita dello stato di vigilanza: si pensi allo svenimento di
fronte a un’emozione intensa, chiamata per l’appunto reazione vagale. Di
solito però la risposta vagale dorsale nelle vittime di traumi (specie la
violenza inferta da mano d’uomo) non esclude del tutto la coscienza: la
tragica conseguenza è la sensazione di non poter reagire, di non poter
muovere un muscolo, di non poter gridare per chiedere aiuto riferita a volte
dalle vittime. E' anche possibile che la disconnessione temporanea e
funzionale tra le strutture somatosensitive, il cervello emotivo e la
coscienza si manifesti con sintomi dissociativi da detachment:
derealizzazione, depersonalizzazione e perdita dell’apprezzamento
consapevole del significato emotivo degli eventi (Barbas et al., 2003).
Secondo Brown (2006) e Schore (2009a), questo meccanismo di difesa
arcaica può essere alla base della mancata integrazione tra attivazione
emotiva (amigdala), processi di attribuzione di significato agli eventi
(corteccia prefrontale destra), memoria implicita (ippocampo) e memoria
esplicita (corteccia frontale e prefrontale sinistra). Più in generale essa può
contribuire all’ipoemotività e all’hypoarousal che nei disturbi implicanti
dissociazione spesso si alternano con l’iperemotività e l'hyperarousal, e che
appaiono centrali nella depersonalizzazione.
E' possibile considerare i deficit metacognitivi momentanei durante
l’attivazione del sistema motivazionale di difesa come risultato
dell’inibizione adattativa della corteccia frontale durante l’attivazione del
sistema: adattativa, perché comportamenti rapidi ed estremi come quelli
richiesti da circostanze che minacciano la vita sarebbero ostacolati dalle
lente funzioni riflessive mediate dalla corteccia frontale. Tuttavia, questa
risposta adattativa del sistema di difesa si trasforma in disadattativa nelle
condizioni di vita che stabilmente si associano allo sviluppo traumatico: la
difficoltà a ricordare e descrivere le ripetute esperienze traumatiche (dovuta
al fatto che esse risvegliano il sistema motivazionale di difesa) può portare
a gravi limitazioni delle capacità riflessive o di mentalizzazione e ad
altrettanto gravi concomitanti limitazioni nella descrizione di sé all’interno
di nuove esperienze relazionali: ne è un esempio l’alessitimia
posttraumatica. Questa limitazione è ben illustrata da studi di neuroimaging
che dimostrano una forte inibizione della corteccia frontale, e soprattutto
dell’area di Broca (dialogo esterno e interno), ogni volta che pazienti con
disturbi dello spettro post-traumatico rievocano le memorie irrisolte causa
della loro perdurante sofferenza emotiva (Rauch et al., 1996).

Neurobiologia della dissociazione somatoforme

Mentre i fenomeni dissociativi di detachment e compartimentazione


corrispondono a un difetto di integrazione tra strutture superiori, e il deficit
di regolazione delle emozioni è riconducibile alla carente modulazione top-
down delle strutture neocorticali sul cervello limbico, almeno alcuni tipi di
sintomi dissociativi somatoformi sembrano riconoscere un deficit
integrativo di tipo bottom-up fra i centri del cervello viscerale e le aree
neocorticali (Decety, Lamm, 2007; Helling, 2009).
La disgregazione dell’esperienza nella dissociazione somatoforme, in
altre parole, sarebbe riconducibile alla mancata integrazione delle
informazioni provenienti dai centri nervosi inferiori, sedi delle afferenze e
delle memorie somatoviscerali (bottom), con le informazioni elaborate nelle
mappe cerebrali superiori connesse alle capacità rappresentazionali e
riflessive della coscienza (up). In particolare, la dissociazione somatoforme
comporta una deficitaria integrazione fra i dati della coscienza e della
memoria esplicita da una parte, e dall’altra gli schemi somatoviscerali che
costituiscono la base per la percezione del corpo (schema corporeo), e la
rappresentazione di come esso può apparire agli altri (immagine corporea).
Un’adeguata funzione dello schema corporeo e dell’immagine corporea in
relazione alle funzioni superiori della coscienza, è bene ricordare, è
necessaria per la comprensione dei propri stati emotivi, come ha dimostrato
la ricerca neurobiologica di Antonio Damasio (1994,1999).
Nell’ambito delle patologie dello spettro traumatico-dissociativo che si
manifestano con alterazioni della motilità, la ricerca neurobiologica ha pure
offerto importanti chiarificazioni e illustrazioni dei meccanismi cerebrali
implicati. Uno studio recente (Voon et al., 2010), condotto con risonanza
magnetica funzionale, ha dimostrato che nei pazienti con disturbi di
conversione l’involontarietà dei sintomi motori è determinata dalla
temporanea disconnessione bottom-up di un’area corticale implicata nella
self-agency, ovvero nel senso di controllo delle proprie azioni.

1. Voltaire (1756), Poema sul Terremoto di Lisbona, tr. it. Hyroniche


Edizioni Telematiche, 2006.
2. E' possibile che, avendo esperienza della dissociazione come effetto
diretto dei traumi e della DA, il bambino che viene da uno sviluppo
traumatico apprenda poi a usarla semiconsapevolmente e
semideliberatamente anche per distrarsi da un qualsiasi stato mentale
sgradevole. Quest’uso difensivo della dissociazione appare comunque
secondariamente nel corso dello sviluppo, e non rappresenta l’aspetto
centrale della disgregazione delle funzioni di coscienza.
3.I partecipanti a questo studio longitudinale, che dura da oltre ventanni,
erano anche stati studiati rispetto allo stile di attaccamento a 6 anni, oltre
che nel secondo anno di vita e poi nel diciannovesimo.
4. Questi studi, e le meta-analisi successive, dimostrano al di là di ogni
ragionevole dubbio che uno stato mentale adulto (AAI) autonomo predice
sicurezza dell’attaccamento nella prole osservata nella SSP, uno stato
mentale svalutante (dismissing) predice il pattern evitante nella SSP, uno
stato mentale invischiato (entagled, preoccupied) predice il pattern
resistente o ambivalente, e uno stato mentale irrisolto (unresolved) predice
la DA.
5. Non esiste probabilmente alcuna differenza sostanziale fra i due
concetti di processo dissociativo e di deficit metacognitivo (o di
mentalizzazione) transitorio e contesto-dipendente. Alcuni casi clinici
pubblicati (Fonagy, 1999; Liotti, Prunetti, 2010), trattati secondo l’una o
l’altra di queste prospettive concettuali, suggeriscono che anche nella
pratica clinica i due concetti possono ampiamente sovrapporsi: la differenza
sta nel modo di tipizzare i diversi aspetti che dissociazione e deficit
metacognitivo possono assumere. Si ricordi anche la sovrapposizione dei
concetti di dissociazione e di deficit metacognitivo, menzionata nel capitolo
3: dissociazione e deficit metacognitivi si producono tipicamente insieme
come conseguenza del collasso delle strategie controllanti e dell’attivazione
di un MOI disorganizzato.
6. L’aggressività di rango è chiamata ritualizzata dagli etologi perché, a
differenza di quella dei sistemi motivazionali di difesa e di predazione, non
mira a danneggiare gravemente o a uccidere l’altro.
7. Queste affermazioni sono sostenute da una mole imponente di dati di
ricerca. Per una rassegna, vedi Lyons-Ruth, Jacobvitz, 2008.
8. Ricordiamo che gli scritti del padre del Presidente (un Pediatra che
propagandò con grande successo all’interno della comunità medica tedesca
i propri metodi psicopedagogici inconsapevolmente ma atrocemente sadici)
documentano, se considerati insieme alle Memorie del figlio, questa
ricostruzione della vicenda.
9. E' appena il caso di ricordare che attaccamento e sessualità si
alternano nella formazione di importanti legami affettivi dell’adulto del
tutto normalmente. Manca qui però la finalità difensiva della coniugazione
dei due sistemi: non c’è il fine di proteggersi, attraverso l’inibizione
dell’attaccamento operata cooptando al suo posto il sistema sessuale, dalla
paura senza sbocco e dalla dissociazione implicati dall’attivazione di un
MOI disorganizzato. Nella normalità, c’è dunque pieno accesso alla
coscienza tanto delle intenzioni ed emozioni di attaccamento quanto di
quelle sessuali.
10. L’inibizione della relazionalità dei pazienti con depersonalizzazione
cronica è rilevabile nei sintomi di alienazione da tutte le emozioni di
relazione, e nelle genericamente attenuate risposte neurovegetative
(hypoarousal), segno verosimilmente di una diffusa inibizione delle
emozioni connesse agli SMI. Le relazioni interpersonali deficitarie
costituiscono il primo criterio diagnostico del disturbo schizotipico di
personalità.
11. Intendiamo offrire qualche esempio di ricerche sul cervello
pertinenti al tema del trauma e della dissociazione, non certo esplorare il
vasto ambito delle neuroscienze della coscienza, dove le riflessioni sulla
dissociazione sono spesso centrali (vedi, per esempio, il rilievo dato alla
dissociazione nella teoria neurobiologica della coscienza di Edelman,
1989).
6

SVILUPPO TRAUMATICO E DISSOCIAZIONE


NEI QUADRI CLINICI DI DISTURBI DIVERSI

Una storia personale di abuso, specie durante l’infanzia, sembra


rappresentare uno dei maggiori fattori che predispongono una persona
a diventare un paziente psichiatrico.

JUDITH HERMAN1

Se è vero che solo una parte delle persone esposte allo sviluppo
traumatico presenterà disturbi mentali da adulto, è altrettanto vero che
un’ampia proporzione, e forse la maggior parte di coloro che sviluppano un
qualsiasi disturbo psichiatrico proviene da storie traumatiche dello
sviluppo (Weich et al., 2009): la stima varia da circa il 40 al 70% dei casi
(Herman, 1992a). Secondo gli studiosi del Neuroscience Institute della
Princeton University (uno dei laboratori statunitensi più attivi nello studio
degli effetti dello stress sul cervello), stress e trauma sono in assoluto i più
importanti fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi mentali (Leuner et
al., 2010).
In altri termini, stati mentali riferibili a storie di sviluppo traumatico e a
sintomi dissociativi possono essere presenti in maniera variabile -
episodicamente e sporadicamente oppure più stabilmente, in maniera velata
e riconoscibile solo al clinico esperto oppure in maniera evidente e persino
clamorosa, in pressoché tutti i casi di un dato disturbo o in percentuali
variabili di essi - in quasi tutti i disturbi psichiatrici conosciuti. Spiegel
(2006) riferisce e commenta uno studio di Foote e collaboratori, dove il
29% dei pazienti ricoverati in una clinica psichiatrica con le diagnosi più
diverse avevano un quadro clinico compatibile con la diagnosi aggiunta o
alternativa di disturbo dissociativo. La diagnosi non era stata fatta dai
medici della clinica, e ciò permette a Spiegel (2006) di riflettere sui motivi
per cui la frequenza della psicopatologia dissociativa è sottostimata nella
prassi psichiatrica corrente.
Inoltre, osservazioni cliniche confermate da ricerche controllate
suggeriscono la presenza di una relazione significativa tra gravità del
quadro clinico e presenza di una storia di sviluppo traumatico e/o di
fenomeni dissociativi. Se a complicare il quadro clinico di un qualsiasi
disturbo riconosciuto nel DSM-IV intervengono memorie di uno sviluppo
traumatico, maggior tendenza alla dissociazione e sintomi dissociativi, il
caso appare di solito non solo più complesso, ma anche più difficile da
trattare sia con i farmaci sia con le tecniche psicoterapeutiche usualmente
èfficaci per gli altri pazienti con la stessa diagnosi (Magrin et al., in corso di
stampa).
Impliciti nella considerevole letteratura sulla frequenza di sviluppi
traumatici e dissociazione nei quadri clinici più diversi, e sulla capacità che
essi hanno di ostacolare il buon esito degli usuali trattamenti, sono alcuni
importanti temi di riflessione: _

1. Esiste un problema nosologico di base posto dal fatto che il DSM-


IV sposa una prospettiva decisamente categoriale mentre per dar conto delle
patologie dissociative sarebbe necessaria una prospettiva dimensionale: la
conseguenza è che tutte le categorie diagnostiche del DSM-IV sembrano
attraversate trasversalmente dalla dimensione dissociativa.
2. Il panorama psicopatologico degli esiti dello sviluppo traumatico e
della DA finisce per essere, specie in età adulta, decisamente multiforme, ed
è quindi necessario specificare i fattori che conducono dall'asse centrale di
tale sviluppo ai diversi itinerari che, divergendo da esso, esitano in quadri
clinici diversi. Interessanti contributi a questo riguardo possono essere
offerti dal modello teorico presentato nel capitolo precedente.
3. E necessario chiarire il ruolo relativo rispettivamente giocato, nella
genesi di questi complicati quadri clinici, dai sintomi dissociativi e dalle
memorie dei traumi - tema anche questo in cui il suddetto modello può
offrire importanti chiarificazioni.
4. E' necessario che i clinici siano messi in grado di valutare con
precisione l'eventuale presenza di storie traumatiche e/o di sintomi
dissociativi in un caso clinico, indipendentemente dall'iniziale diagnosi
permessa dal DSM-IV: è infatti diffusa l'impressione che una tale attenzione
diagnostica, nonostante sia decisamente maggiore oggi rispetto ai decenni
passati, non sia ancora sufficientemente sviluppata nella comunità allargata
di psichiatri, psicologi clinici e psicoterapeuti.

LA DIMENSIONE TRAUMATICO-DISSOCIATIVA E LA
CLASSIFICAZIONE CATEGORIALE DEI DISTURBI MENTALI

La molteplicità di sintomi con cui può manifestarsi il processo


dissociativo, e dei quadri clinici che sembrano avere origine comune nella
DA e nello sviluppo traumatico, illustra bene la differenza fra una nosologia
strettamente categoriale e una nosologia dimensionale. La prima è basata
sulla distinzione dei sintomi in base a una metaforica geografia politica:
ansia, umore, percezione, attenzione, corporeità, personalità e identità
vengono cioè considerati come territori confinanti, all’interno di ciascuno
dei quali si identifica il nucleo essenziale di una data sindrome clinica. Una
nosologia dimensionale inviterebbe invece a caratterizzare le manifestazioni
psicopatologiche cogliendo l’insieme delle funzioni alterate in base al
principale meccanismo che ne compromette l’ordine: nel caso che ci
interessa, il meccanismo della disintegrazione delle funzioni mentali
superiori conseguente al trauma, alla sua ripetizione e verosimilmente
anche alla DA e alle sue sequele.
La psicopatologia che deriva da un tale meccanismo o processo non è
limitabile a circoscritti aspetti della vita mentale, come l'umore o alcune
categorie di emozioni, e non è identificabile soltanto in base a essi. Il
meccanismo patogeno della dissociazione si rivela nella dissoluzione, a
volte temporanea e contesto dipendente, ma a volte anche cronica e stabile
come tratto di personalità, del normale funzionamento integrato di tutte le
funzioni psichiche. La dis-integrazione post-traumatica si esprime dunque
con alterazioni della coscienza che assumono forme molteplici, come
molteplici sono i livelli funzionali che compongono ciò che chiamiamo
coscienza, e molteplici i livelli mentali a essi subordinati e da essi
controllati.
Il fatto che la psicopatologia conseguente alla DA e allo sviluppo
traumatico, oltre a potersi manifestare con quadri clinici più specifici (come
i disturbi dissociativi), intervenga spesso a rendere più complesse patologie
e disturbi descrittivamente diversi tra loro, si riflette talora in un florilegio
sintomatologico che costringe i clinici a formulare contemporaneamente
diverse diagnosi nello stesso paziente, alimentando il ricorso al controverso
e travisante concetto di comorbilità (Krueger, Bezdjian, 2009; Maj, 2005;
Pincus et al., 2004). E' bene sottolineare che l’origine comune nella DA e
nel successivo sviluppo traumatico, e la caratteristica fondamentale e
comune della dis-integrazione janetiana, non devono far pensare a una
vulnerabilità diffusa e generica. Al contrario, tale vulnerabilità si manifesta
con i segni ben distinti, per quanto variegati e complessi, che abbiamo
descritto nel capitolo 3.

IL MULTIFORME PANORAMA DIAGNOSTICO DELLO SPETTRO


TRAUMATICO-DISSOCIATIVO

Il grande e crescente numero di studi che dimostra la presènza di storie


di sviluppo traumatico e di sintomi dissociativi in gruppi di pazienti con
diverse diagnosi del DSM contiene, com’è inevitabile, non poche
controversie. Per alcune di queste categorie, come i disturbi dissociativi
(DD) esiste notoriamente un ampio accordo sulla percentualmente molto alta
presenza dello sviluppo traumatico tra i pazienti che ne soffrono, anche se
esistono qualificate voci discordanti, secondo le quali mancano ancora
prove certe di un’eziologia traumatica per i DD (Kihlstrom, 2005). Per altre
categorie diagnostiche - incluso il Disturbo Borderline di Personalità (DBP),
in cui sono stati identificati sottogruppi più o meno percentualmente
numerosi di casi che riportano storie di sviluppo traumatico - sussiste ancor
più diffuso il dubbio se sia o no essenziale il ruolo che le memorie
traumatiche svolgono nell’eziopatogenesi della sindrome (Paris, 1998;
Watson et al., 2006). Nonostante tali dubbi e pur essendo necessarie molte
altre indagini controllate prima di poter arrivare a conclusioni definitive,
sulla base dei dati esistenti si può considerare acquisita la nozione che storie
traumatiche e/o sintomi dissociativi sono presenti in sottogruppi di pazienti
con i seguenti disturbi:

1) Disturbo da Attacco di Panico con o senza agorafobia (DAP;


Gulsun et al., 2007; Marshall et al., 2000; Michelson et al., 1998; Pastucha
et al., 2009);
2) Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC; Fontenelle et al., 2007;
Grabe et al., 1999; Liotti, Costantini, in corso di stampa; Lochner et al.,
2004; Rufer et al., 2006);
3) altri disturbi d’ansia (Fontenelle et al., 2007; Warshaw et al., 1993);
4) Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA;2 Ardovini, 2006;
Fuller-Tyszkiewicz, Mussap, 2008; La Mela et al., 2010; McShane, Zirkel,
2008; Vanderlinden, Vandereycken, 1997);
5) Disturbi da Uso di Sostanze (DUS; Anda et al., 2002; Dube et al.,
2002; Edwards et al., 2006; Enoch, 2006; Johnson et al., 2010);
6) Disturbi Somatoformi (DS; Roelofs et al., 2002; Sar et al., 2004;
Spitzer et al., 2008);
7) schizofrenia e altre psicosi (Conus et al., 2009; Moskowitz et al.,
2008; Read et al., 2005; Ross, 2009; Spauwen et al., 2006);
8) Disturbi dell'Umore (DU; Garno et al., 2005; Lewis et al., 2010; Lu
et al., 2008; Thase, 2009; Weich et al., 2009; Wills, Goodwin, 1996);
9) Disturbi di Personalità - DP (per una rassegna vedi Dolan-Sewell et
al., 2001).

A questa lista vanno aggiunte malattie di pertinenza della medicina


interna (cardiovascolari e autoimmuni in particolare), per le quali è stato
dimostrato che lo sviluppo traumatico è un significativo fattore di rischio
psicosomatico (Dong et al., 2004a; Dong et al., 2004b; Dube et al., 2009;
Felitti, 2009). Si può ritenere accertato, grazie alle accurate indagini
epidemiologiche esistenti, che lo sviluppo traumatico esercita un’influenza
negativa, statisticamente significativa, sia sulla salute mentale sia su quella
fisica (Felitti, 2009; Sachs-Ericsson et al., 2009). Anche recenti valutazioni
critiche e rigorose degli studi esistenti sull’azione patogena dei traumi
precoci, e due studi su un campione di oltre 5000 persone, concordano nel
ritenere dimostrato che le esperienze traumatiche infantili hanno potenti
associazioni con l’esordio di molti tipi di disturbo mentale (cioè con molte
diverse diagnosi DSM) per tutto l’arco della vita (Green et al., 2010;
McLaughin et al., 2010).

EFFETTI PATOGENI SEPARATI PER MEMORIE TRAUMATICHE


ESPLICITE E PROCESSI DISSOCIATIVI?
Un problema che resta aperto nella vasta letteratura sulla dimensione
traumatico-dissociativa nelle diverse categorie del DSM è, come si è
accennato, se la dissociazione sia il meccanismo esclusivo attraverso cui il
trauma esercita la sua influenza patogena, oppure esistano altri meccanismi,
e se la dissociazione possa comparire indipendentemente da esplicite
memorie traumatiche. In altre parole, è dibattuto il quesito se la
dissociazione sia connessa al trauma (rilevato negli studi epidemiologici, si
noti, con questionari self-report) in modo unifattoriale, per cui non può
esservi dissociazione senza trauma e il trauma non può esercitare il suo
effetto patogeno che attraverso la dissociazione - oppure se sia necessario
un modello multifattoriale della dissociazione, che contempli la possibilità
che memoria traumatica (valutata con self-report) e dissociazione siano
almeno in parte indipendenti fra loro nell’esercitare la propria azione
patogena. I risultati di due studi illustrano il problema.
Mulder e collaboratori (1998) hanno rilevato, in un campione di oltre
1000 adulti scelti a caso nella popolazione generale, due variabili: le storie
di abuso sessuale o di maltrattamento fisico nell’infanzia, e la presenza di
sintomi dissociativi ricorrenti (il 6% circa mostrò di soffrirne). Nel gruppo
che soffriva di sintomi dissociativi, rispetto a tutti gli altri, le memorie di
abusi sessuali erano 2,5 volte più frequenti, quelle di maltrattamenti fisici 5
volte più frequenti, e la presenza di diagnosi psichiatriche 4 volte più
frequente. L’analisi statistica di questi dati ha messo in dubbio l’attesa
relazione diretta fra memorie di abuso sessuale e sintomi dissociativi in età
adulta, mentre ha confermato tale relazione per il maltrattamento fisico
(Mulder et al., 1998).
Incerte relazioni fra trauma e dissociazione sono state rilevate anche in
uno studio di Marshall e collaboratori (2000), che indaga le differenze fra
pazienti con DAP (con o senza agorafobia) sofferenti di grave
depersonalizzazione durante gli attacchi di panico, e pazienti con la stessa
diagnosi che non soffrono in maniera altrettanto evidente di sintomi
dissociativi. Contrariamente alle aspettative, non emerge da questo studio
alcuna prova di una relazione fra sintomi gravi di depersonalizzazione e
memorie infantili traumatiche: gli autori concludono il loro scritto
affermando l’esigenza di un modello multifattoriale della dissociazione, che
non la riduca soltanto alla risposta ai traumi (Marshall et al., 2000).
Il modello discusso nel precedente capitolo - che connette fra loro in
modo dinamico, nel corso dello sviluppo, Disorganizzazione
dell’Attaccamento (DA), strategie controllanti, traumi e dissociazione - può
contribuire a chiarire questi risultati. Se infatti la dissociazione può apparire
come manifestazione della riattivazione di un MOI di attaccamento
disorganizzato, e se il trauma genera dissociazione soprattutto (o forse
soltanto) determinando il collasso delle strategie controllanti, è possibile
che sintomi dissociativi compaiano in assenza di traumi evidenti, come
effetto di altre influenze capaci di invalidare le suddette strategie. Per
esempio, potrebbe innescare processi e sintomi dissociativi non solo un
trauma, non solo un’esperienza che invalidi una strategia controllante (si
ricordi il caso di Diana discusso nel precedente capitolo), ma anche la
durevole e intensa stimolazione del sistema di attaccamento (e dunque del
MOI disorganizzato eventualmente connesso al sistema) che si verifica
all’interno di una nuova e desiderata relazione affettiva. Se tale ipotesi è
corretta, esiste la possibilità che un MOI disorganizzato derivante dalla DA
precoce non si manifesti per anni, tenuto “addormentato” dalle strategie
controllanti, grazie all’assenza di traumi successivi e di eventi invalidanti le
strategie controllanti nel corso dello sviluppo, per poi risvegliarsi,
determinando la comparsa di sintomi dissociativi, come effetto di
contingenze interpersonali niente affatto traumatiche.
Ne conseguirebbe, nelle ricerche che indaghino solo sintomi dissociativi
da una parte, e dall’altra memorie traumatiche esplicite (non quelle
inevitabilmente implicite della DA), la possibilità di osservare legami
statistici incerti e contraddittori fra le due variabili. L’effetto di mediazione
esercitato dalla DA e dalle strategie controllanti nel rapporto fra memorie
traumatiche esplicite e sintomi dissociativi dovrebbe allora divenire oggetto
di attenzione in future ricerche.
Non si può, inoltre, escludere che altre esperienze mediate dal sistema
di attaccamento, pur non apparendo come espliciti maltrattamenti o non
comportando paura senza sbocco nell’attaccamento precoce, esercitino
un’influenza dissociante sulle funzioni mentali superiori. Le pressioni
esercitate da figure di attaccamento sul bambino, e miranti a fargli ritenere
vere versioni di eventi familiari diverse da quelle che derivano dalla sua
esperienza diretta, sono candidate a un tale ruolo patogenetico nelle
patologie implicanti dissociazione: la versione diretta dell’evento
memorizzata dal bambino viene infatti, in tali casi, dissociata da quella che
arriva a ritenere vera per non perdere l’approvazione delle figure di
attaccamento (Bowlby, 1988, pp. 95-113).
Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) È stato estesamente studiato
sia in riferimento allo sviluppo traumatico, sia dal punto di vista della sua
appartenenza allo spettro traumatico-dissociativo, sia in relazione specifica
alla DA. Dedicare attenzione al DBP è quindi un buon modo per
approfondire il tema delle intersezioni fra DA precoce, traumi successivi e
processi mentali di dis-integrazione nella genesi dei disturbi psicopatologici
dell’adulto.

DBP OPPURE SPETTRO DI DISTURBI DI PERSONALITÀ


POST-TRAUMATICI?

Il DBP - col suo quadro clinico di gravi difficoltà relazionali,


dipendenza, impulsività, deficit nella regolazione delle emozioni e problemi
dell’identità - è stato da più parti associato al trauma relazionale precoce e
al successivo sviluppo traumatico (Gunderson, 2009). Alcuni studi
epidemiologici riportano storie infantili di abuso sessuale e maltrattamento
fisico tra il 70% e il 90% circa dei casi (Gunderson, 2009; Lewis, Grenyer,
2009). Altre ricerche suggeriscono un’elevata comorbilità tra DBP e DPTS,
che in alcuni studi arriva a circa il 60% dei casi - un tasso di prevalenza ben
superiore a quello della popolazione generale (che si aggira intorno al 10%
(Zanarini et al., 1998). Inoltre in metà circa dei pazienti con DBP sono
presenti rilevanti sintomi dissociativi, possibile segno della natura dis-
integrativa dei suoi processi patogenetici e dell’appartenenza del DBP allo
spettro dei disturbi post-traumatici (Howell, Blizard, 2009; Zanarini,
Hyman, 2009).
Il DBP, come si è detto nel capitolo 3, presenta particolari somiglianze
col DPTS complesso (DPTSc). Entrambi sono caratterizzati da disturbi
nella regolazione delle emozioni e del controllo degli irnpulsi, da instabilità
nelle relazioni affettive, dalla presenza di sintomi dissociativi e da
alterazioni del senso d’identità. Inoltre i pazienti con diagnosi di DBP e
quelli con DPTSc presentano le medesime convinzioni negative su sé e
sugli altri che si riflettono nel profondo senso di sfiducia, e nel timore
costante di poter essere feriti o di poter danneggiare gli altri. Infine i due
disturbi sembrano presentare simili difficoltà terapeutiche, elevati tassi di
ricadute, associazione con disturbi d’ansia, dell’umore e da abuso di
sostanze, ed elevati tassi di suicidio (Lewis, Grenyer, 2009). Herman e van
der Kolk tendono a considerare il DBP sostanzialmente assimilabile al
DPTSc, ma molti controbattono che i due disturbi, benché assai simili e
talvolta sovrapposti, devono rimanere distinti. I sostenitori della distinzione
tra i due quadri clinici fanno notare che la presenza di una storia traumatica
dello sviluppo è un criterio costitutivo per il DPTSc, mentre nel DBP, benché
frequente, non è sempre dimostrabile. E' possibile ribattere che molti studi
empirici sulla relazione tra sviluppo traumatico e DBP hanno utilizzato
concezioni ristrette del trauma evolutivo confinandolo all’abuso sessuale o
fisico, trascurando l’effetto dei ben più frequenti traumi relazionali precoci
e del neglect. Altri ritengono che sia opportuno distinguere i due disturbi
sulla base della presenza di tratti di personalità biologicamente determinati
nel DBP: solo quest’ultimo sarebbe il risultato dell’interazione tra
esperienze traumatiche interpersonali durante lo sviluppo e una specifica
predisposizione biologica (Lewis, Grenyer, 2009). Torna qui l’ipotesi della
multifattorialità della dis-integrazione psicologica, per la quale non solo le
memorie traumatiche esplicite possono essere correlate alla dissociazione.
Il nostro modello teorico suggerisce, a questo riguardo, di considerare
separatamente due tipi di esperienze infantili coinvolte nella genesi dei
primi processi dissociativi: la DA nei primi due anni di vita (che a sua volta
può essere facilitata, come si è ricordato nel capitolo 4, da particolari assetti
genetici) e i traumi fisici e sessuali negli anni successivi. Classen e
collaboratori (2006) hanno utilizzato questa distinzione, ricordando che il
grave trauma infantile cronico (inteso come il risultato di ripetute
esperienze di maltrattamento e abuso durante lo sviluppo) ha effetti diversi
dal meno grave attaccamento disorganizzato (DA), nel quale il bambino,
esposto all’interazione con un genitore particolarmente vulnerabile ma non
maltrattante, sperimenta paura come effetto del contagio emotivo, non di
un’aggressione. Secondo Classen e collaboratori (2006), la DA conduce a
un quadro clinico che potrebbe conservare il nome DBP, mentre
l’esposizione al trauma infantile cronico provocherebbe un quadro clinico
diverso a cui hanno attribuito il nome di Disturbo Post-Traumatico di
Personalità (dptp). Il DPTP potrebbe poi manifestarsi con due sottotipi,
denominati disorganizzato (dptp-d) e organizzato (DPTP-ο), a seconda che
al trauma cronico e ripetuto si associ, oppure no, l’ulteriore fattore di dis-
integrazione rappresentato dalla DA. I tre quadri clinici sono fra loro simili
in quanto implicano momenti di dis-integrazione delle funzioni mentali
superiori, ma diversi per grado e tipi di fenomeni e processi dissociativi. Il
quadro clinico in cui non vengono riportate memorie traumatiche risalenti
all’infanzia e prevalgono difficoltà relazionali, rapide oscillazioni delle
rappresentazioni di sé-con-l’altro, emozioni sregolate e impulsività - mentre
i sintomi dissociativi più gravi sono meno frequenti e meno evidenti -
sarebbe secondo questa proposta quello a cui riservare il nome DBP. Il
DPTP-O sarebbe caratterizzato da memorie traumatiche infantili e da
evidenti sintomi post-traumatici: iperattivazione alternata a ottundimento
emotivo, irritabilità, intrusione di memorie traumatiche, evitamento di
condizioni associate al trauma, e sintomi dissociativi (sia di detachment sia
di compartimentazione) più frequenti e prolungati. Infine, il DPTP-O
assommerebbe in sé le più evidenti difficoltà relazionali del DBP e i più
marcati sintomi post-traumatici del DPTP-o, esitando in uno stile di vita
particolarmente caotico (Classen et al., 2006).
Nella diagnosi differenziale DBP e DPTP-O si distinguerebbero
facilmente, oltre che per la diversa intensità, frequenza e durata dei sintomi
dissociativi, sulla base di due criteri: (a) l’atteggiamento relazionale, specie
nella dimensione dell’attaccamento-accudimento: allo stile richiedente e
confuso del DBP si contrapporrebbe lo stile evitante nel DPTP-O; (b) lo
stile cognitivo ed emotivo: oscillante tra convinzioni e sentimenti positivi e
negativi nel caso del borderline, cronicamente incapace di sentimenti e
convinzioni positive nel caso del DPTP-O. Il DPTP-D potrebbe essere
facilmente riconosciuto dal clinico per l’estrema caoticità dello stile di vita
e di relazione, caratterizzato da esplosioni frequenti di rabbia
incontrollabile, alternanti atteggiamenti di dipendenza passiva e di reattività
aggressiva, paure molto intense, comportamenti gravemente impulsivi, atti
autolesivi e tentativi ripetuti di suicidio.
Inoltre, le oscillazioni dell’identità nel DPTP-D aumentano di ampiezza e
di intensità, manifestandosi con sintomi di compartimentazione che rendono
il quadro clinico assai vicino a quello del disturbo dissociativo dell’identità.
La proposta di Classen e collaboratori (2006) - con la quale non
concordiamo solo per la scarsa attenzione che presta alle strategie
controllanti e perché riteniamo improbabile l’esistenza di un tràuma cronico
e cumulativo intrafamiliare non accompagnato dalla DA - illustra molto
efficacemente come una sola variabile (la DA), se aggiunta alle altre due
chiamate in causa dalle teorie psicologiche sulla genesi del DBP (trauma e
deficit di integrazione mentale), permetta già di considerare le differenze fra
i possibili quadri clinici che emergono dallo sviluppo traumatico, simili a
strade divergenti che si diramano da un’unica piazza. L’aggiunta di altre
variabili - le diverse strategie controllanti, i diversi tipi di traumi
(emozionali, fisici, sessuali, di neglect), i diversi periodi o fasi dello
sviluppo della personalità in cui colpiscono - promette di rendere più chiaro
come avvenga che la stessa manifestazione psicopatologica, la cui essenza è
la disgregazione della coscienza, possa entrare con i suoi sintomi
fondamentali all’interno dei più diversi quadri clinici.
Tradurre in un’efficace pratica diagnostica questa comprensione di
come i sintomi dissociativi possano essere diffusi all’interno di varie
categorie del DSM - necessaria per esempio per differenziare fra loro,
qualora si accogliesse la proposta di Classen e collaboratori (2006), il DBP
dal DPTP - non è facile nella prassi usuale e quotidiana di psichiatri,
psicologi clinici e psicoterapeuti.

DIFFICOLTÀ DI DIAGNOSTICARE I SINTOMI DISSOCIATIVI


NELL’USUALE PRATICA CLINICA

La valutazione diagnostica dei sintomi dissociativi eventualmente


presenti in una qualsiasi categoria diagnostica del DSM-IV può essere
ostacolata da almeno sei fattori:

1) l’attenzione del clinico può essere catturata dalla maggiore


evidenza degli altri sintomi e dalla loro molteplicità;
2) non esiste ancora una diagnosi specifica, salvo il caso dei disturbi
dissociativi per i quali la ben nota SCID-D (Steinberg, 1994) costituisce una
guida diagnostica, che sia centrata sui segni indicativi di uno sviluppo
traumatico, predittivo di almeno latente dissociazione;
3) i sintomi dissociativi, oltre a essere multiformi, spesso appaiono e
scompaiono rapidamente, motivo questo a volte di minore attenzione da
parte del paziente che si concentra nel dialogo diagnostico sui più durevoli
concomitanti sintomi d’ansia o depressivi;
4) i sintomi di compartimentazione non sono di solito dichiarabili
apertamente dal paziente: non si ha, per definizione, memoria di un’amnesia
dissociativa, né si può sapere in chiara coscienza di avere stati dell’io non
integrati;
5) non di rado il paziente teme, denunciando un’esperienza
particolarmente perturbante come una depersonalizzazione, di essere
riconosciuto o di riconoscersi come “pazzo”, ed essendo inoltre terrorizzato
dal ricordo dell’esperienza può tendere ad alludervi solo marginalmente;
6) i sintomi dissociativi sono spesso difficili da descrivere
verbalmente. I pazienti vi alludono talora con metafore e similitudini (“Mi
sento come un quadro appeso a una parete” diceva una paziente, e non
intendeva con ciò indicare di sentirsi non vista come persona negli incontri
sociali, ma di perdere la percezione della tridimensionalità del corpo). Più
spesso, vi alludono in termini che possono denotare anche esperienze
comuni e non dissociative: “A volte vedo tutto buio”, “Mi sento
accasciato”, “Non mi riconosco più”, “Mi sembra di essere in pezzi”, “La
mia vita è diventata piatta”, “Mi sembra di essere sempre addormentato”,
“Ho la testa nelle nuvole”, “Mi sento lontano da tutto e tutti”, “Mi sembra
di vivere una vita non mia”, e molti altri.

Di fronte a questi motivi di difficoltà, e vista l’importanza di


diagnosticare l’eventuale componente dissociativa di un disturbo
(componente che predirebbe una risposta insoddisfacente ai trattamenti
disponibili), è opportuno disporre di una guida agibile durante il dialogo
clinico, che permetta almeno di sospettare la presenza di sintomi, fenomeni
e processi dis-integrativi frammisti ai sintomi tipici di una qualsivoglia
categoria diagnostica.3

GUIDA PRATICA PER LA VALUTAZIONE DEI SEGNI CLINICI


DELLO SVILUPPO TRAUMATICO

In alcuni casi la richiesta d’aiuto del paziente o la diagnosi con il


quale arriva all’osservazione possono avvisare sin dall’inizio della presenza
di uno sviluppo traumatico, delle difficoltà terapeutiche cui si potrebbe di
conseguenza andare incontro, e delle precauzioni da prendere per la loro
gestione: pazienti che lamentano sintomi riconducibili chiaramente ai
meglio noti disturbi dissociativi e borderline ricevono di regola le
corrispondenti diagnosi, e sono avviati ai protocolli di trattamento e alle
tecniche terapeutiche specifiche di cui parleremo nei prossimi capitoli.
In altri casi è invece difficile riconoscere sin dall’inizio la presenza della
psicopatologia dis-integrativa. I pazienti con storie traumatiche di sviluppo
possono presentarsi al clinico con sintomi e quadri clinici assai vari e solo
dopo l’inizio del trattamento possono emergere la psicopatologia e le
difficoltà relazionali tipiche dello sviluppo traumatico (si ricordi in
proposito il caso di Giulio descritto nel capitolo 1). Tipicamente le difficoltà
relazionali compaiono proprio quando la relazione terapeutica,
consolidandosi, risveglia il MOI dell’attaccamento disorganizzato. Per
questo motivo è necessario che il clinico, oltre alla consueta attenzione con
cui deve valutare la diagnosi non solo all’inizio ma per tutto il corso del
trattamento, tenga anche conto della possibile comparsa, durante la terapia,
di segni clinici specifici dello sviluppo traumatico.
Scopo di questa sezione non è soltanto fornire una guida all’assessment
del paziente, ma anche illustrare le linee generali del ragionamento clinico
volto al riconoscimento di alcuni possibili indicatori dello sviluppo
traumatico. Per questa ragione illustreremo con esempi clinici dettagliati
alcuni aspetti del lavoro clinico volto a identificare segni e indizi, nel
dialogo col paziente adulto, di un disturbo correlato allo sviluppo
traumatico. Questo lavoro riguarda anzitutto gli indizi nella storia del
paziente che suggeriscono, oltre all’esposizione a traumi, l’attaccamento
precoce disorganizzato e le successive strategie controllanti - tre temi
trattati nelle successive due sottosezioni. Poi, come descritto nelle ulteriori
sottosezioni, il lavoro di raccolta di indizi che potrebbero deporre per un
disturbo dello spettro traumatico-dissociativo si rivolge a ogni informazione
disponibile su eventuali dubbi diagnostici (anche di altri clinici),
all’indagine su eventuali sintomi dissociativi latenti, e alla valutazione dei
deficit metacognitivi.

Indizi nella storia del paziente

Una prova diretta dello sviluppo traumatico è, per definizione, la


presenza di traumi ripetuti nell’infanzia. Anche nei primi colloqui di una
valutazione diagnostica o di una psicoterapia può emergere il ricordo di
trascuratezza o maltrattamenti subiti nel corso dello sviluppo. Tuttavia, non
è raro che le memorie traumatiche vengano deliberatamente sottaciute, o ne
sia impedito l’accesso alla coscienza da processi dissociativi di
compartimentazione. E' anche possibile il caso opposto, che memorie
traumatiche riferite si rivelino poi falsi ricordi. E' quindi necessario che il
clinico presti attenzione ad altri indizi nella storia riferita dal paziente, che
possano suffragare memorie traumatiche riferite o far sospettare che ve ne
siano di non riferite.
Trascuratezza e maltrattamento possono essere importanti indizi di
sviluppo traumatico anche quando sono riferibili alle relazioni affettive
della vita adulta: rimanere invischiati in relazioni coniugali maltrattanti è
segno presuntivo di una storia di sviluppo traumatica, e il possibile sintomo
di un DPTSc. A volte il trauma relazionale precoce può essere segnalato da
elementi biografici indiretti che suggeriscono l’indisponibilità emotiva del
caregiver (uno degli antecedenti della DA nel bambino è l’atteggiamento
del genitore abdicante alle funzioni di accudimento; Solomon, George,
2011). La DA precoce del paziente può anche essere inferita con discreto
grado di probabilità da elementi biografici che suggeriscono il contagio
emotivo di dolore e paura nell’interazione con i genitori. Esempi di questi
elementi biografici sono i lutti o le gravi malattie che abbiano colpito il
caregiver subito prima della nascita del paziente o nelle prime fasi del suo
sviluppo, e le condizioni di vita avverse che abbiano caùsato difficoltà
emotive estreme in un familiare convivente. Indizi per sospettare una DA
possono anche essere gravissime difficoltà economiche e problemi
lavorativi assillanti, alti livelli di conflittualità tra i genitori, violenza
domestica (anche solo verbale), degrado sociale, e gravi, prolungati disturbi
psichiatrici nei caregiver (specie depressione ricorrente, alcolismo o psicosi
maggiori).
Si può sospettare una DA anche notando le modalità narrative con le
quali i pazienti raccontano la storia della propria infanzia. Quando la storia
delle esperienze infantili nel rapporto con i genitori appare molto confusa e
difficile da ricostruire, è possibile che memorie traumatiche stiano
interferendo con la narrazione. Quando il paziente, narrando confusamente
la propria storia, fa ricorso solo a memorie semantiche (per esempio, “mia
madre era sempre ansiosa”) e non riesce a fornire memorie episodiche che
le esemplifichino (per esempio, non risponde adeguatamente alla domande
del clinico: “Mi potrebbe fare un esempio di quel che faceva o diceva sua
madre quando era ansiosa?”), si può sospettare un deficit della memoria
autobiografica causato dalle sequele della DA o da un’alessitimia post-
traumatica.4 Per questo motivo è particolarmente importante che il clinico,
di fronte a descrizioni di sé e degli altri basate soprattutto su aggettivi e
significati generali chieda al paziente esempi concreti riferiti a episodi della
sua vita passata circoscritti nel tempo e nello spazio.
Sebbene la ricostruzione di eventi legati a un’infanzia traumatica sia
una fonte preziosa di informazioni e contribuisca significatamente
all’azione terapeutica nelle fasi avanzate del trattamento, deve essere
condotta con prudenza. Non deve essere mai forzata, poiché le memorie
traumatiche, oltre a causare spesso un sentimento di vergogna che, rivelato
oppure no, incide comunque negativamente sull’alleanza terapeutica,
potrebbero provocare l’attivazione di processi psicopatologici dis-
integrativi. Il seguente caso clinico ne offre un esempio.

Elisa, 38 anni, venne avviata a una psicoterapia per il trattamento


della sintomatologia post-traumatica emersa dopo un prolungato
ricovero in ospedale a seguito di un grave incidente stradale per il
quale aveva rischiato la vita. Dopo aver raccolto le informazioni sugli
eventi più recenti e sulla sintomatologia, il terapeuta iniziò una
sistematica ricostruzione della storia di sviluppo che si rivelò ben
presto una storia traumatica innescatasi su una probabile DA precoce.
Durante le sedute dedicate alla ricostruzione della storia infantile la
paziente appariva collaborativa ma del tutto distaccata emotivamente: i
contenuti drammatici emergevano in un racconto frammentato, a tratti
profondamente incoerente, e non erano mai contrassegnati da
indicatori non verbali del dolore emotivo che Elisa aveva certamente
provato. Solamente durante il terzo incontro dedicato alla ricostruzione
della storia personale il terapeuta si accorse che Elisa rispondeva alle
domande in uno stato parzialmente dissociato di cui conservava una
debole memoria. Quando il terapeuta, a causa dell'incoerenza dei
ricordi, tornò su alcuni di essi, la paziente apparve sorpresa e ignara di
aver svelato alcuni particolari scabrosi della sua vita che in precedenza
non aveva osato raccontare a nessuno.

Se la ricostruzione, anche sommaria, degli elementi di una storia di


sviluppo attiva memorie traumatiche, è dunque bene rimandarne
l’approfondimento a fasi successive della terapia, quando i pazienti hanno
raggiunto un maggior senso di sicurezza e di autocontrollo (Courtois et al.,
2009; Liotti et al., 2005b; van der Hart et al., 2006; Vanderlinden,
Vandereycken, 1997).
Un altro problema nella ricostruzione della storia dei pazienti è
rappresentato dalle false memorie. I disturbi a carico della memoria auto-
biografica, la scarsa fiducia in sé e nella propria capacità di ricordare,
l’estrema dipendenza di alcuni pazienti nei confronti dei loro terapeuti
possono indurre la formazione di falsi ricordi. E' ampiamente dimostrata,
infatti, la possibilità di manipolare la memoria altrui e indurre ricordi non
autentici attraverso tecniche che sfruttano la tendenza a costruire narrazioni
coerenti (anche in assenza di ricordi precisi), la suggestionabilità
dell’individuo, e l’autorevolezza di colui che induce il falso ricordo (Loftus,
1997,2003; Piaget, 1945; Schacter, 1996). Al fine di compiacere
inconsapevolmente un terapeuta alla ricerca di eventi traumatici, oppure per
dare coerenza a ricordi frammentati o consistenza a contenuti emotivi
difficilmente rappresentabili, è possibile che alcuni pazienti riferiscano
eventi traumatici non realmente accaduti. Anche per questo motivo è
importante che il terapeuta proceda con la ricostruzione delle memorie
traumatiche, in qualsiasi fase della terapia, con estrema cautela senza che le
proprie convinzioni sul ruolo delle esperienze traumatiche possano indurre
falsi ricordi nei propri pazienti. Sono documentati numerosi casi di
induzione di falsi ricordi traumatici causati da psicoterapeuti incauti o
ingenui (Loftus, 1997).
E' possibile inoltre che falsi ricordi siano stati innestati durante
l’infanzia o nelle fasi successive dello sviluppo da figure di riferimento,5
come nel caso seguente:

Ada, una giovane donna con un disturbo dissociativo, aveva


raccontato al suo terapeuta di essere stata oggetto di attenzioni sessuali
da parte del padre. Tuttavia, la ricostruzione dettagliata della sua storia
infantile dimostrò che tali ricordi erano assai poco plausibili. Nei
periodi in cui era collocato il ricordo delle molestie Ada aveva
incontrato il padre molto di rado e sempre in presenza di altre persone.
I genitori erano separati e il padre viveva stabilmente all’estero con
una nuova compagna. Nelle fasi successive della terapia emerse che la
madre di Ada dopo la separazione dal marito aveva iniziato a soffrire
di prolungati episodi depressivi e deliri di persecuzione nei confronti
dell’ex marito, verso il quale aveva sempre conservato un grande
rancore per essere stata lasciata e perché un’altra donna le era stata
preferita. La madre di Ada si era opposta a qualsiasi tentativo del
marito di vedere la figlia giungendo ad accusarlo di molestie sessuali
nei confronti della piccola. Molestie sconfessate dagli organi giudiziari
ma rimaste nella memoria di Ada.

Indicatori di strategie controllanti

Per il clinico, la conoscenza delle strategie controllanti è importante. Se


i sistemi motivazionali inevitabilmente coinvolti in tutte le esperienze
traumatiche sono il sistema di difesa e il sistema di attaccamento, negli
sviluppi traumatici che seguono la DA altri sistemi motivazionali
intervengono, insieme al sistema di attaccamento, a costituire lo stile
interpersonale della personalità premorbosa. La conoscenza delle complesse
dinamiche interpersonali in cui attaccamento, difesa, dominanza e
sottomissione, accudimento e talora anche sessualità si susseguono e
sovrappongono come sequela della DA precoce, permette di apprezzare il
valore di protezione (dalla dissociazione) di atteggiamenti interpersonali
che altrimenti potrebbero apparire solo controproducenti. In assenza di
questi atteggiamenti i pazienti sarebbero esposti, secondo il nostro modello,
a disorganizzazione della condotta e a esperienze dissociative molto più
frequenti.
Indizi di strategie controllanti sono:

1) la marcata tendenza a rispondere con opposizione, critiche negative


e atteggiamenti sprezzanti all’atteggiamento benevolo del terapeuta di
fronte alla sofferenza del paziente (strategia controllante-punitiva);
2) la dichiarazione da parte del paziente di non saper mai dir di no alle
richieste di aiuto e attenzione da parte degli altri, o di essere da sempre il
punto di riferimento per le difficoltà di amici e familiari anche della
precedente generazione (strategia controllante accudente);
3) uno stile di vita sessuale promiscuo senza particolare capacità di
godere della sessualità; .
4) una forte tendenza all’isolamento sociale accompagnata da
esperienze di disorganizzazione della condotta in occasioni in cui si sia
formato un iniziale legame affettivo.
Precedenti diagnosi psichiatriche incompatibili fra loro

La presenza di uno sviluppo traumatico può essere sospettata a partire


dalla difficoltà di collocare i pazienti in un’unica categoria diagnostica, a
causa della sua multiforme presentazione clinica e dell’assenza di
una diagnosi ufficiale che, come quella del DPTSc, permetterebbe di
riconoscerne gli esiti in una serie di precisi criteri diagnostici. Se un
paziente riporta l’aver ricevuto diagnosi diverse, a volte incompatibili,
formulate in precedenza da diversi specialisti, è possibile che ciò sia
avvenuto a causa della complessità del quadro clinico che consegue allo
sviluppo traumatico (Courtois et al., 2009). Un elevato numero di
trattamenti sospesi prematuramente può essere un altro indizio di cui tener
conto. La presenza di sintomi post-traumatici e dissociativi, tipica degli esiti
di sviluppi traumatici, è infatti un fattore predittivo di mancata risposta
favorevole ai trattamenti usualmente efficaci quando esiste un quadro
clinico simile a quello presentato dal paziente, ma privo di tali sintomi.

Sintomi dissociativi latenti o poco evidenti

I sintomi dissociativi legati a sviluppi traumatici non sono sempre


evidenti, sono talora presenti saltuariamente, e non sempre sono riportati
dal paziente. Inoltre, la conoscenza dei sintomi dissociativi sembra ancora
inadeguata in una percentuale forse elevata di psichiatri, psicologi clinici e
psicoterapeuti. Per queste ragioni, e per la frequente comorbilità con altri
quadri clinici, la corretta diagnosi e di conseguenza una terapia
adeguatamente mirata è non di rado ostacolata (Herman, 2009; Steinberg,
Schnall, 2001). La presenza iniziale anche solo di alcuni dei sintomi
elencati nelle tabelle del capitolo 1 (tabelle 1.1 e 1.2) dovrebbe suggerire al
terapeuta un’indagine specifica e approfondita della possibile presenza di
sintomi dissociativi sfuggiti all’attenzione.
La psicopatologia dissociativa (specialmente quella riferibile ai sintomi
di compartimentazione) è una “psicopatologia nascosta” (Kluft, 2009). Non
bisogna attendersi che i pazienti siano sempre in grado di riferirla
spontaneamente. Le amnesie dissociative non possono, per definizione,
essere riferite spontaneamente se nessuno ha nominato al paziente suoi
comportamenti (troppo complessi o recenti per essere spiegati con
un’ordinaria dimenticanza) al cui ricordo non ha accesso, o se tali
comportamenti non hanno lasciato tracce tangibili (per esempio, la presenza
nell’armadio guardaroba di un abito della taglia del paziente, di recente
fattura, che non ricorda di avere acquistato). I sintomi di
depersonalizzazione sono a volte così perturbanti o terrorizzanti che i
pazienti evitano, consapevolmente o no, di porvi l’attenzione necessaria per
riferirli. Stati dell’io dissociati possono non comparire a lungo, anche per
anni, nel campo di coscienza che il paziente condivide col clinico.
Dunque, la psicopatologia dissociativa va esplorata attivamente, e
questa esplorazione richiede particolare attenzione, perizia e buona
conoscenza della fenomenologia con cui si manifesta, soprattutto di quella
rivelatrice di stati dell’io non integrati. L’identificazióne di stati dell’io non
integrati può avere inizio dal notare alcuni atteggiamenti e comportamenti
dei pazienti durante le sedute: il paziente è perplesso e disorientato su ciò
che sta dicendo, ha espressioni facciali discordanti, cambia rapidamente
sentimenti e convinzioni verso l’argomento di cui si sta parlando, e ha
momenti di distrazione perché si concentra su stimoli interni che
accompagnano l’emersione di uno stato dell’io, dissociato. Esempi di tali
stimoli interni distraenti sono sintomi somatoformi attivati nella transizione
dallo stato dell’io usuale a un altro fino a quel momento dissociato dalla
coscienza, oppure emozioni che divengono tanto intense e non regolabili da
disorganizzare l’eloquio del paziente (Kluft, 2009).
Altri indizi di stati dell’io non integrati possono emergere da compiti di
auto-osservazione, assegnati ai pazienti perché riferiscano al terapeuta, per
iscritto, episodi problematici avvenuti nell’intervallo fra una seduta e l’altra,
che siano a loro giudizio significativi ed esemplificativi delle difficoltà
interpersonali per cui hanno chiesto trattamento.6 Esemplare a questo
proposito è ciò che Anna, la paziènte con somàtizzazioni e disturbi d’ansia
descritta nel primo capitolo, scrive in una lettera in risposta al compito di
auto-osservazione assegnatole.

La rabbia è montata piano piano, senza che me ne rendessi conto,


mentre mio marito usava la frase carina che oggi un tizio aveva detto:
“Per me tu e Luca siete la coppia, gli unici che dopo tanto tempo state
ancora insieme”, per ricalcare il solito stereotipo su noi due, e cioè che
lui è il santo che sopporta e io la stronza da sopportare. Lo ha fatto
scherzando all’inizio, certo, ma man mano il discorso è diventato
sempre più serio ed è venuto fuori che quest’ultimo periodo, che io
ricordavo come idilliaco per il nostro rapporto, in realtà lui lo
ricordava come al solito, e cioè: io che sono nervosa, io che lo tratto
male, lui che non mi sopporta.
Io gli dico, allibita, guarda che forse ricordi un periodo precedente
a venti giorni fa almeno, non può essere, tu stesso mi dicevi che ero
troppo buona e non ti sembrava vero ! Fatto sta che lui continuava a
mantenere la sua posizione, io mi sentivo innanzitutto frustrata, anche
idiota, perché le mie percezioni non corrispondono mai a quelle degli
altri, e probabilmente avevo vissuto un idillio solo nella mia testa (è lì
che deve avvenire tutto, del resto); in secondo luogo, non riuscivo a
capire perché dopo una serata tenera, mentre eravamo a letto e io
volevo a tutti i costi leggere almeno mezz'ora perché è una delle poche
cose che mi rendono felice, lui dovesse impedirmi di leggere per
ripetermi il solito cliché della stronza che sono: perché? A un certo
punto gliel'ho detto. Lui si è scusato, ha capito che mi ero alterata. Ha
fatto la sua solita faccia spaventata. Io mi sono alzata per andare sul
divano: l'ira è arrivata senza che fisicamente me ne accorgessi. Una
volta in soggiorno ho lanciato di colpo il cellulare per terra, senza
prevederlo, come un gesto automatico fatto sovrapensiero. Di solito
anche nella rabbia c'è un istante, infinitesimale, di decisione: stavolta
no, il cellulare è andato giù come da solo. Come se non ci fossi io in
quel momento. Così, quando il mio cellulare nuovo e Aghetto, regalo
dei miei genitori, con la suoneria di Heidi che non ha nessuno e mi ha
scaricato mia sorella, le mie foto con Luca, i miei sms di lavoro, si è
rotto, io ho iniziato a urlare contro Luca, dicendogli che non era lui
l'uomo adatto a me, che è l'anti-uomo per me, che è un uomo che non
solo non mi aiuta a stare tranquilla, ma che, quando io sono tranquilla,
a leggere il mio libro senza rompere i coglioni a nessuno, mi deve far
scattare i nervi, dicendomi la merda che sono, ed ecco che quella
merda io la divento. Contento? Lui non dice nulla a parte scusa, dice
che non sono una merda, che non lo ha detto, ma forse sarebbe meglio
che mi attaccasse, perché lo sento la rabbia come una cosa che
occupa il corpo, una specie di energia fortissima, violenta, che deve
uscire, e quindi urlo contro di lui fino a farmi venire il fiato corto, non
respiro bene, sento la voglia di distruggere le cose, cerco di non farlo,
stringo i pugni, cammino avanti e indietro. Piango a singhiozzi,
picchio la porta, la rovino, è piena di buchi, mi metto le mani tra i
capelli, vado avanti e indietro, avanti, indietro, digrigno i denti, aspetto
che la furia mi passi ma non passa, d'un tratto - nemmeno me ne
accorgo - tiro un calcio contro il vetro della portafinestra, che cade giù.
Quando vedo il vetro spaccato, tutti i frammenti sul terrazzo, mi
sembra la fine, il precipizio. Mi butto per terra, piango forte, mi sento
mia madre: pazza, come lei. Però finisce. E' il vetro l'evento. Il punto
di catastrofe. Dopo, è solo pianto. Dopo, è Luca che si alza per
riparare il mio danno. Umiliato. Io che lo attacco ancora, come una
vera sadica. Con sarcasmo. Sprezzante. Lui che chiede solo scusa,
come uno schiavo. O come uno che ai pazzi non può che dare ragione.
Io ho schifo di me stessa. Penso che mi lascerà. Penso che è una
relazione che nessuno può desiderare. Penso di essere una donna che
nessuno può voler avere accanto. Penso che è colpa di mia madre. E di
mio padre. Mi sento in colpa verso mia madre e mio padre. Per il
cellulare, solo per quello, ma è un senso di colpa fortissimo. Penso, per
superstizione, che quello stronzo che ci ha definito l'unica coppia
ancora in vita ci ha portato iella, che voleva il nostro male e lo ha
ottenuto. Lo odio, gli auguro il male, lo voglio lontano da me. Provo a
immaginare i pensieri di Luca, e come può sentirsi umiliato un uomo,
un maschio dico, di 40 anni, quando è trattato così, provo a
immaginare i pensieri di Luca, e so che sta male. Credo che la paura di
Luca mi mandi in bestia più di tutto, penso che se lui reagisse forse io
riuscirei a placarmi, che è perché so che non mi ucciderà che tiro la
corda sempre un po' di più, che con mio padre non l'avrei mai fatto,
perché ho sempre temuto che potesse uccidermi. Penso che sono
sempre punto e a capo. Che non miglioro mai, che sono pazza. Che è
una specie di brutta eredità. Mi domando che cosa potrei arrivare a
fare, mi vedo prendere i vetri, tagliarmi, tagliare Luca, penso che non
posso fidarmi di me. Penso che su tutta la terra nessuno si merita meno
di Luca di subire del male, penso che nessuno mi voglia bene come
Luca, eppure potrei fargli del male, non solo come stasera, in fondo io
non sono diversa da mio padre.
E' utile mettere esplicitamente in evidenza alcuni elementi importanti
che emergono dal compito di auto-osservazione di Anna. L'emozione di
disappunto causata da un'osservazione del marito percepita come
invalidante, evidentemente non regolata, si trasforma in collera
incontenibile e disorganizzante quando Anna percepisce lo spavento del
marito (la paura nell'interazione con la figura di attaccamento è un marker
centrale della DA precoce, e se compare in relazioni successive risveglia il
MOI disorganizzato corrispondente). La paziente mostra chiari segni di
detachment nel momento in cui rompe il cellulare (“Come se non ci fossi io
in quel momento"), ma ancor più chiari sono i segni della
compartimentazione, cioè dell'emergere di uno o forse più stati dell'io non
integrati: “Di solito anche nella rabbia c'è un istante, infinitesimale, di
decisione: stavolta no, il cellulare è andato giù come da solo''; “L'ira è
arrivata senza che fisicamente me ne accorgessi”; e, in evidente
contraddizione, “Sento la rabbia come una cosa che occupa il corpo''. Lo
stato dell'io non integrato è ulteriormente confermato dalla mancanza di
sintesi personale ovvero dalle molteplici e incoerenti rappresentazioni di sé,
dei genitori e del marito, verso i quali si sente contemporaneamente in colpa
e maltrattata, vittima e persecutore. Commentando un'analoga situazione
Russel Meares scrive:

La mia ipotesi è che la sua rabbia improvvisa sia una forma minore
di dissociazione. Essa si trova in uno stato di coscienza alterato; il
futuro e il passato sono virtualmente assenti. Inoltre è presente un
disturbo a carico della memoria. Lç'osservazione del marito evoca il
ricordo di esperienze passate di mortificazione, ma poiché esse sono
"inconsce” né lei né il marito riconoscono che essa si trova nella morsa
di un sistema di memoria traumatica. L'esperienza è collocata nel
presente. (Meares, 2000)

Deficit di regolazione delle emozioni e sintomi di grave sfiducia in sé e


negli altri

La lettera di Anna testimonia, oltre all'esistenza di stati dell'io non


integrati, il deficit di regolazione delle emozioni e le convinzioni negative
su sé e sugli altri tipiche dello sviluppo traumatico. Comportamenti
aggressivi verbali e fisici verso le figure di riferimento, sfiducia in sé e negli
altri, autodenigrazione, senso di inaiutabilità, sentimenti di vergogna e
colpa, convinzioni di incapacità, di essere radicalmente sbagliati e
inaccettabili, e sintomi somatoformi, se associati, suggeriscono un DPTSc e
invitano a indagare sulla presenza anche di sintomi dissociativi non evidenti
a prima vista. Trascurarne l’importanza e considerare rilevanti solo i
sintomi eventualmente concomitanti di un più noto disturbo di Asse I (come
un disturbo d’ansia o un disturbo somatoforme) non sembra evento raro
nella pratica clinica corrente.
Uno psichiatra assai competente e con grande esperienza clinica, ma
con poca familiarità per i disturbi traumatici dello sviluppo, aveva intuito in
uno dei sintomi del DPTSc, la grave sfiducia in se stessa, il motivo per cui
una sua paziente, per la quale proponeva la diagnosi di disturbo d’ansia
complicato da somatizzazioni, non aveva tratto giovamento da una
precedente psicoterapia di cui tuttavia conservava un buon ricordo. “E' una
paziente difficile, si sente sbagliata dentro! ”, commentò inviando la
paziente a un altro psicoterapeuta per un nuovo tentativo. La natura
dissociativa dei sintomi somatoformi, la presenza di sintomi di
compartimentazione, e le non rare manifestazioni di emotività non regolata
gli erano sfuggiti, e non poteva quindi aggiungerli ai motivi di scarsa
efficacia degli interventi farmacologici e psicoterapeutici fino ad allora
tentati.

Sentimenti di paura, confusione e noia nel terapeuta

La comparsa di sentimenti di impotenza e persino paura nel terapeuta


durante il dialogo clinico, sia quando questa è motivata da gravi
manifestazioni dissociative o da gesti autolesivi del paziente, sia soprattutto
quando assume una forma subdola che non sembra chiaramente associata a
elementi psicopatologici particolarmente gravi, potrebbe conseguire
all’attivazione del MOI disorganizzato del paziente nella relazione
terapeutica (vedi per esempio Bonucci, Meterangelis, 1993).
Altri sentimenti e stati mentali dello psicoterapeuta possono derivare
dalla sintonizzazione con stati mentali dissociativi o
disorganizzati/controllanti dei pazienti. Una sensazione di sonnolenza
incoercibile e inusuale, non accompagnata da sentimenti di noia
nell’ascoltare il paziente, oppure un senso di confusione o di
disorientamento nel terapeuta (Intreccialagli, 1993), possono essere
indicatori di uno stato di coscienza che diviene alterato e simile a una trance
ipnotica proprio per effetto dello sforzo di sintonizzarsi con l’esperienza
soggettiva frammentata del paziente. Infine l’alessitimia post-traumatica,
con la caratteristica assenza di emozioni e di episodi vividamente
autobiografici nel discorso del paziente, può indurre nel terapeuta un
progressivo sehso di noia durante le sedute.
Quando il terapeuta prende le mosse da questi sentimenti insoliti per
comprendere cosa li abbia provocati, possono emergere sintomi di un
DPTSc o elementi di una storia di sviluppo traumatica e permettere una
riformulazione diagnostica.

Stile narrativo e memoria autobiografica

Lo stile narrativo di ogni persona, non solo quando racconta la storia


delle sue esperienze infantili ma anche quando la conversazione verte su
fatti recenti della sua vita, può essere indicativo del suo modo di mantenere
coerenza di sé (Falcone et al., 2003). Ricordiamo che la narrazione delle
vicende della propria esistenza è frutto della memoria autobiografica, che
comprende una componente semantica (descrizione generalizzata delle
esperienze e dei caratteri del proprio passato lontano o recente, del tipo
“Mia madre è sempre stata molto apprensiva durante la mia infanzia” o
“Mio marito di questi tempi è nervosissimo e non fa che criticarmi”) e una
componente episodica (racconto di eventi specifici collocabili in archi di
tempo limitati e inferiori alle 24 ore, come: “Quando la zia mi accompagnò
a casa in ritardo senza preavvertirla, mia madre entrò in uno stato di
panico” o “Ieri mio marito ha esagerato con le critiche, mi sono infuriata e
me ne sono andata a dormire da un’amica”).
La capacità di riferire memorie autobiografiche specifiche o episodiche
sembra ridotta in pazienti depressi e con storie traumatiche, la cui
narrazione diviene eccessivamente ricca di generalizzazioni semantiche
(Dalgleish et al., 2003; Kruyken, Brewin, 1995). Russell Meares ha
espresso questo fenomeno di ipergeneralizzazione nella memoria
autobiografica affermando che essa somiglia più a un resoconto che a un
racconto (Meares, 2000). Deprivata di un senso di sé come agente delle
proprie vicende e intensamente partecipe dei propri stati emotivi, ridotta
spesso a un catalogo di problemi familiari, lavorativi e di salute espresso in
un linguaggio povero di metafore e di eventi significativi, gravata dalla
devitalizzazione alessitimica, la narrazione di sé offerta da questi pazienti
appare a volte singolarmente piatta. Va tuttavia segnalato che altre ricerche
non hanno confermato questa impressione clinica e gli studi controllati
(Dalgleish et al., 2003; Kruyken, Brewin, 2003) che la hanno pure
evidenziata. Probabilmente, l’ipergeneralizzazione semantica nella memoria
autobiografica caratterizza i pazienti che sono certi di aver subito traumi
nell’infanzia ma non riescono a ricordarli in sufficiente dettaglio, mentre è
assente in quelli, altrettanto numerosi, che invece ne conservano continua o
intermittente memoria (McNally et al., 2006).
Nella fase iniziale di valutazione dei pazienti che riferiscono traumi
infantili per testimonianze esterne ma non ne conservano ricordi dettagliati
è dunque particolarmente raccomandabile che il clinico esplori la capacità
generale del paziente di riferirsi alla memoria autobiografica specifica.
L’uso di tecniche di valutazione della memoria episodica recente come
quella di auto-osservazione guidata, nota come ABC, dei terapeuti
cognitivisti (Bermudes et al., 2009, pp. 208-209), o come la breakfast
interview (Stern, 2004), possono mettere in risalto il limitato accesso del
paziente ai ricordi autobiografici specifici, che diviene così uno degli
indicatori clinicamente più interessanti dei possibili esiti di processi
dissociativi post-traumatici.
Anche al di fuori delle suddette tecniche di intervista, è sempre utile che
il clinico chieda espressamente al paziente di descrivere nel dettaglio gli
episodi problematici che rappresentano al meglio la sua sofferenza e che
hanno motivato la richiesta d’aiuto. L’analisi deve essere mirata a esplorare
nella narrazione del paziente l’esperienza che ha di sé nelle differenti
componenti: cognitiva, emotiva, comportamentale, somatica, cenestetica, e
il loro grado di integrazione nella vita quotidiana. In tal modo, si può o
identificare rapidamente un’eventuale difficoltà di accesso alla memoria
autobiografica episodica, oppure ottenere informazioni che permettono di
comprendere la natura dissociativa di sintomi che, nei resoconti
autobiografici semantici, possono essere facilmente confusi con sintomi
d’ansia o depressivi. Un esempio è offerto da un breve brano del trascritto
della prima seduta con Andrea, un paziente il cui ottundimento emotivo
legato alla depersonalizzazione era stato in precedenza confuso con
l’appiattimento affettivo della depressione. Andrea, uno stimato
professionista di 38 anni si era trasferito per motivi lavorativi in una città
diversa. Inviato dallo psichiatra della città d’origine a un collega operante
nella nuova destinazione con la diagnosi di distimia e disturbo di
personalità evitante, Andrea iniziò una psicoterapia per essere sostenuto,
secondo le raccomandazioni dell’inviante, nella difficile fase di
trasferimento. Durante il primo colloquio, il terapeuta (T) cercò appena
possibile un tema concreto riguardante un arco di tempo limitato, in modo
da poter poi procedere a esplorare il funzionamento della memoria
episodica di Andrea (A).

T: “Come sono andate le vacanze?”


A: “Be’, sì, insomma. Ero come al solito depresso. Ma non tanto da
non fare le cose, solo che le facevo con sforzo, mmh..., non me le
godevo, ero distaccato.”
T: "Come mai non riusciva a godersi le cose? Era triste?”
A: “Mah... ero triste perché non riuscivo a godere delle cose. Le
vedevo ma non mi davano piacere. Sia ciò che mi accadeva sia quello
che provavo era come dietro a uno schermo. Non mi sembrava di
viverlo ma di vederlo al cinema.”
T: “Mi fa un esempio?”
A: “Be’, mi ricordo quando sono andato a vedere le rovine di Ostia
Antica... erano veramente interessanti, non c'era dubbio, ma era come
se le vedessi al cinema, Sì, sono belle ma stanno lì, come in un film.
Forse mi sono pure piaciute là per là, ma io poi è come se fossi uscito
dal cinema.”

La domanda cruciale del terapeuta, in questo scambio, è “Mi fa un


esempio?”. Andrea mostra, in risposta, di avere accesso alla memoria
autobiografica episodica, e con la narrazione dell’episodio di Ostia Antica
emerge l’indicazione che la metafora dello schermo e del cinema presente
nella prima descrizione generale del suo stato d’animo si riferiva a uno stato
non solo e non tanto depressivo, ma piuttosto dissociativo. Nella narrazione
semantica, Andrea afferma in generale (memoria semantica) di non aver
tratto durante le vacanze alcun piacere da esperienze che avrebbero dovuto
esserne fonte, sintomo compatibile con la depressione. Tuttavia, appena il
discorso si incentra sulla memoria episodica, Andrea afferma di dubitare
della propria esperienza emotiva positiva (“Forse mi sono pure piaciute là
per là”), come se questa non riuscisse a entrare nella memoria
autobiografica episodica e potesse essere solo inferita: un marcatore
piuttosto affidabile della dinamica mentale dissociativa che si riflette nella
depersonalizzazione.

Deficit metacognitivi

Nel capitolo 3 abbiamo sostenuto che, insieme alla memoria


autobiografica, le capacità metacognitive possono essere concepite come il
livello più “alto” delle capacità autoriflessive e di controllo che
costituiscono la coscienza umana, e che la loro alterazione è una
caratteristica cruciale dei processi psicopatologici dis-integrativi. Ne
discende che la valutazione delle funzioni metacognitive e dei loro deficit
dovrebbe essere uno dei compiti clinici indispensabili per l’identificazione
degli effetti dello sviluppo traumatico e per la pianificazione della terapia.
Le procedure e le tecniche di valutazione dei deficit metacognitivi
coincidono in gran parte con le strategie che abbiamo finora descritto
trattando dell’esame dello stile narrativo del paziente e delle reazioni del
terapeuta (Falcone et al., 2003; Semerari et al., 2003). A queste strategie di
valutazione si può aggiungere l’analisi differenziata delle diverse capacità
metacognitive (di integrazione, autoriflessività, decentramento,
differenziazione, mastery, funzioni esecutive), e l’individuazione dei
particolari stati mentali e delle situazioni interpersonali in cui le capacità
metacognitive subiscono variazioni negative (Semerari et al., 2003). Di
particolare importanza per la terapia dei pazienti con DPTSc è la pronta
valutazione delle capacità di padroneggiamento e controllo (mastery) delle
situazioni problematiche, sia in seduta sia nella vita quotidiana. La profonda
sfiducia in sé e negli altri, il deficitario controllo delle emozioni e le
alterazioni dissociative della coscienza inficiano notevolmente, nei pazienti
con sviluppi traumatici, le capacità di mastery, che quindi devono essere
oggetto di continua attenzione e di pronto sostegno psicoterapeutico per
evitarne il consolidamento iatrogeno e per prevenire l’interruzione
prematura della terapia.
La capacità di riconoscere la complessa e a volte sfuggente
sintomatologia che consegue a sviluppi traumatici fin dalle fasi iniziali del
trattamento permette al clinico di muoversi appropriatamente nel
trattamento, prevenendo per quanto possibile le inevitabili difficoltà
relazionali che questi pazienti incontrano nelle relazioni di cura, o
preparandosi a gestirle efficacemente nella misura in cui esse appaiono
inevitabili. Nel prossimo capitolo, il primo dedicato alla terapia, inizieremo
trattando il primo e più delicato compito della cura: la regolazione della
relazione terapeutica.

1. J. Herman (1992), Guarire dal trauma, tr. it. MaGi, Roma 2005, p.
28.
2. La scoperta di una relazione fra DCA e sviluppo traumatico è stata
all’origine dello studio ACE ricordato nel capitolo 5 (Felitti, 2009).
3. Sarebbe naturalmente possibile somministrare a ogni paziente
strumenti come la Dissociative Experience Scale (DES; Bernstein, Putnam,
1986), i cui alti punteggi fanno sospettare la presenza di sintomi
dissociativi. Tuttavia, nel corso delle usuali interviste diagnostiche nella
pratica quotidiana, la somministrazione di questionari è poco praticabile se
non altro per ragioni di tempo. Inoltre, tali questionari non esortano al
successivo dialogo clinico approfondito sugli elementi del sospetto
diagnostico.
4. Questa inferenza è giustificata solo se la narrazione del paziente, oltre
che basata su significati generali (per esempio, tratti del carattere descritti
con aggettivi) e incapace di ricordare episodi, è confusa, frammentaria,
disorganizzata. Una narrazione semantica lucida è segno di un attaccamento
precoce evitante, non disorganizzato (Attili, 2007).
5. E' celebre la falsa memoria di Piaget per la quale egli ricordava nei
minimi particolari di essere stato vittima di un tentativo di rapimento all’età
di due anni. Ricordo che si rivelò successivamente del tutto inventato e
indotto dalla sua bambinaia per nascondere una relazione amorosa di
quest’ultima (Piaget, 1945).
6. Il razionale dei compiti di auto-osservazione è di conservare memoria
dettagliata dell’episodio, che potrebbe ridursi in precisione nel tempo che
intercorre prima della seduta successiva, e di minimizzare l’interferenza di
emozioni di vergogna, maggiormente sentite, di solito, nel resoconto fatto
faccia a faccia.
7

RELAZIONE TERAPEUTICA E PIANO GENERALE


DI TRATTAMENTO

Breuer si sentì rimbrottato e respinto. Come mai Nietzsche si era


raffreddato così di colpo? [...] ciascuno dei due rimproveri, si rese
conto, era venuto dopo che lui gli aveva teso la mano piena di
comprensione. Che cosa significa? Che il professor Nietzsche non può
tollerare che gli altri lo accostino offrendo aiuto?

IRVIN D. YALOM1

Non esistono attualmente prove che i trattamenti farmacologici


disponibili, da soli, siano di efficacia più che sintomatica nella cura dei
pazienti con disturbi conseguenti allo sviluppo traumatico (DPTS, DD,
DBP e DPTSc in comorbilità con le più diverse diagnosi DSM). Il consenso
degli esperti afferma che, se si intende mirare a un tentativo di cura i cui
effetti siano più stabili e profondi, è necessaria una psicoterapia individuale,
con l’eventuale supporto di una terapia di gruppo, e di una terapia
farmacologica per gestire i sintomi più disturbanti (isstd, 2005; van der Hart
et al., 2006).
La psicoterapia individuale dei disturbi conseguenti allo sviluppo
traumatico presenta, oltre ad alcune difficoltà specifiche, un problema di
ordine generale: i sintomi ai quali si rivolge (le alterazioni della memoria e
della coscienza, i deficit metacognitivi, le difficoltà a regolare le emozioni e
le relazioni interpersonali, le credenze patogene di sfiducia e inaiutabilità)
costituiscono contemporaneamente i maggiori ostacoli a un’adeguata
relazione di cura. Il modello teorico dello sviluppo traumatico proposto nel
capitolo 5 spiega bene la coincidenza fra principali sintomi del DPTSc e
motivi di difficoltà nella relazione terapeutica con i pazienti che ne
soffrono, illustrandone la comune origine dalla disorganizzazione
dell’attaccamento (DA). La conseguenza logica del modello teorico è che la
psicoterapia deve, fin dalle sue prime fasi, prestare particolare attenzione
alle complesse dinamiche della DA e delle strategie controllanti che lo
seguono nel corso dello sviluppo, così come esse si manifestano nella
relazione terapeutica.
Le dinamiche dell’attaccamento disorganizzato e delle strategie
controllanti rendono difficile l’instaurarsi del clima di fiducia e
collaborazione tipico delle relazioni d’aiuto efficaci, che in psicoterapia è
chiamata alleanza terapeutica, e sulla quale i clinici di tutti gli orientamenti
concordemente si basano per avviare e mantenere un trattamento (Allen et
al., 2008). La costruzione dell’alleanza terapeutica è di particolare e
fondamentale importanza nella psicoterapia dei pazienti con DPTSc
(ricordiamo che usiamo qui il termine per tutta la classe dei disturbi
conseguenti a sviluppo traumatico, per i motivi descritti nel capitolo 1).
Non solo l’alleanza permette qui, come per tutti gli altri pazienti in
psicoterapia, un’adeguata indagine delle dinamiche sottostanti ai sintomi e
un’adesione del paziente alle tecniche volte a modificarle: essa espone il
paziente a un’esperienza emozionale e relazionale che gli consente di
rivedere e correggere le credenze patogene legate alle relazioni infantili
traumatiche. Tale è l’importanza dell’alleanza terapeutica, che solo nelle
fasi successive della cura si aggiungono, alla sua difficile costruzione, gli
altri compiti specifici per il trattamento dei pazienti con storie traumatiche
dello sviluppo: il controllo degli stati dissociativi di detachment e dei
sintomi somatoformi, il superamento della fobia di alcuni stati mentali, la
gestione delle memorie traumatiche, la regolazione delle emozioni,
l’integrazione delle diverse parti di sé.
Tratteremo in questo capitolo solo il primo e più delicato compito della
psicoterapia del DPTSc: la costruzione dell’alleanza terapeutica, la gestione
delle sue inevitabili difficoltà, e la riparazione delle sue rotture,
premettendovi soltanto il piano generale del trattamento in cui si inquadra. I
prossimi capitoli saranno dedicati alla descrizione delle successive fasi del
protocollo terapeutico e alla sintetica descrizione delle principali tecniche
per il trattamento delle patologie dello spettro traumatico-dissociativo.

UNA VISIONE D’INSIEME DEL PIANO DI CURA


La specificità e la complessità del trattamento dei disturbi conseguenti
allo sviluppo traumatico ha spinto gli specialisti di differenti orientamenti a
formulare linee guida e protocolli terapeutici per orientare il lavoro clinico
(Courtois et al., 2009). Nonostante alcune inevitabili differenze, molti sono
gli aspetti comuni tra le diverse linee guida. In particolare, il denominatore
comune a tutte consiste nel procedere per tre fasi, ciascuna propedeutica
alla successiva: la fase di sicurezza e stabilizzazione dei sintomi, la fase di
integrazione delle memoriè traumatiche e delle parti di sé dissociate, e la
fase di stabilizzazione e crescita delle abilità acquisite (Classen et al., 2006;
Courtois et al., 2009; Herman, 1992b; Liotti et al., 2005b; Miti, Onofri, in
corso di stampa; van der Hart et al., 2006).
Nella prima fase il compito principale della terapia è quello di ottenere
condizioni di sicurezza per il paziente, sia all’interno della relazione
terapeutica (costruendo una buona alleanza), sia all’esterno della terapia
con la stabilizzazione dei sintomi più invalidanti (sintomi di detachment
dissociativo, atti impulsivi e comportamenti a rischio, emozioni sregolate di
collera, ansia e tristezza, e ripetizione di relazioni abusanti). E' necessario
aver ottenuto l’obiettivo della prima fase, la condizione di sicurezza (e una
stabile alleanza terapeutica), per affrontare il delicato lavoro della seconda
fase della terapia: la ricostruzione e l’integrazione delle memorie
traumatiche e l’inizio del processo di integrazione delle diverse parti di sé
dissociate. Se si procedesse alla ricostruzione delle memorie traumatiche
senza aver guadagnato la necessaria sicurezza, il paziente potrebbe rivivere
con inutile e controproducente dolore il trauma, andrebbe incontro a
processi dissociativi più frequenti e gravi, e la terapia avrebbe un effetto
iatrogeno. Nella terza fase della terapia, che si può affrontare se si è avuto
successo nelle prime due, il paziente, grazie al nuovo senso di sicurezza e
fiducia (nei confronti di sé e degli altri), alla riduzione dei sintomi e al
lavoro di integrazione (sintesi personale), potrà essere aiutato a compiere
nuove esperienze che gli consentano di sperimentare nuove abilità
relazionali e dirigersi con autonomia verso i propri scopi esistenziali.
Questo percorso terapeutico a fasi successive raramente segue un
andamento lineare. Più spesso è stato descritto con la forma di una spirale
(Herman, 1992b), dove è necessario ripercorrere circolarmente le fasi
precedenti, soprattutto la prima, incentrata sulle dinamiche relazionali
abnormi. Ma in una buona terapia, come in una spirale, ogni giro sarà più
breve e tenderà verso il centro della meta (Courtois et al., 2009).
RELAZIONE TERAPEUTICA

Nella prima fase della psicoterapia l' attenzione del terapeuta è


focalizzata sulle dinamiche relazionali abnormi per rivolgersi al paziente in
modo che conquisti almeno un minimo senso di sicurezza e fiducia, che il
trauma cumulativo ha danneggiato (Herjnan, 1992b). Nello sforzo richiesto
da questa protratta attenzione il terapeuta sarà aiutato dal sapere che la
stabilità dell’alleanza e la fiducia tra terapeuta e paziente sono
propedeutiche per gli obiettivi successivi del trattamento: aumentare la
mentalizzazione favorendo anche l’espressione e la condivisione degli stati
emotivi, migliorare l’efficienza delle capacità metacognitive di controllo
delle emozioni e del comportamento, correggere credenze patogene che
ostacolano la vita di relazione e l’adattamento alle strutture sociali,
aumentare la sintesi personale e integrare le rappresentazioni di sé
dissociate.
L’urgenza di ottenere risultati possibili solo a lungo termine, come la
regolazione delle emozioni e l’integrazione degli stati dell’io dissociati, può
essere il principale ostacolo nelle prime fasi del trattamento, inducendo il
terapeuta ad assumere atteggiamenti eccessivamente direttivi e ostacolando
l’alleanza. Il terapeuta dovrà quindi aver ben presente che un piano di
trattamento complesso come quello qui delineato non può svolgersi in
tempi brevi, ma anche che i vantaggi possono giustificare ampiamente la
sua lunga durata. Una recente rassegna dei trattamenti disponibili per i
disturbi correlati a traumi (Schottenbauer et al., 2008) suggerisce che
trattamenti protratti, e che tengano conto delle complesse dinamiche
relazionali e della storia di sviluppo dei pazienti con disturbi post-traumatici
complessi, appaiono assai più efficaci, a lunga scadenza, dei trattamenti
brevi miranti alla pur necessaria remissione sintomatica. La capacità del
paziente con trauma evolutivo di affidarsi con conti-

Tabella 7.1 Compiti principali della relazione terapeutica nel


trattamento dello sviluppo traumatico.
1. Costituire un'esperienza relazionale correttiva sui MOI da AD
e sulle strategie controllanti
2. Regolare e modificare la fobia dell'attaccamento
3. Aumentare le capacità di prendersi cura di sé e di evitare
condotte a rischio
4. Promuovere la regolazione delle emozioni
5. Costituire il dialogo per il confronto di convinzioni rigide e
disadattative e delle credenze patogene
6. Creare una base sicura per l'esplorazione condivisa delle
memorie traumatiche
7. Premiare l’esercizio delle funzioni metacognitive

nuità a una relazione di cura è compromessa dalle memorie di relazioni


traumatiche che il paziente rivive durante l’interazione col terapeuta più che
ricordarle come eventi del passato e accadute in altri contesti. Inoltre, le
strategie controllanti generate a partire dalla DA, e la dis-integrazione
mentale che consegue ai momenti in cui tali strategie collassano e riaffiora
il MOI disorganizzato, pongono di regola seri ostacoli al tentativo del
terapeuta di conseguire e mantenere l’alleanza. E' dunque necessario che il
terapeuta disponga di strumenti concettuali che lo aiutino a comprendere,
per regolarle, le dinamiche motivazionali implicate nello sviluppo
traumatico.

Regolazione delle dinamiche motivazionali

Un utile concetto per attendersi, riconoscere e gestire le manifestazioni


della DA e delle strategie controllanti all’interno della relazione terapeutica
è quello di fobia degli stati interni, coniato da clinici particolarmente esperti
nel trattamento del DPTSc (Allen et al.] 2008; van der Hart et al., 2006). I
pazienti con storie traumatiche sembrano spesso e tipicamente reagire con
paura ed evitamento alla percezione interna di emozioni e desideri, e in
particolare di quelli, tanto positivi che negativi, correlati all’attivazione del
sistema di attaccamento. La fobia dell’attaccamento si spiega facilmente se
si tiene presente che già nella primissima infanzia la DA implica che
emozioni e desideri di vicinanza siano seguiti da esperienze relazionali
traumatiche: tali emozioni e desideri divengono dunque segnali
condizionati di prossimo pericolo. Con questa fobia di stati interni legati a
sentimenti di vicinanza ottenuta o desiderata coesiste di solito l’opposta
fobia di perdita dell’attaccamento (van der Hart et al., 2006): i segnali
emozionali di incipiente o possibile allontanamento della figura di
attaccamento divengono anch’essi, a causa della perdurante paura senza
sbocco tipica della DA, non normalmente temuti ma intollerabili. Le
strategie controllanti emergono proprio per tenere a freno le occasioni di
paura fobica tanto dei desideri di vicinanza a una figura di attaccamento
(segnali ormai che riattivano memorie traumatiche) quanto delle prospettive
di vederla allontanarsi o perderla.
Nel corso della vita, queste fobie opposte e coesistenti sono
continuamente confermate e rafforzate: i pazienti con attaccamento
disorganizzato nell’infanzia e successivi traumi gravi o cumulativi hanno
necessariamente associato il collasso delle strategie controllanti e
l’attivazione delle emozioni e bisogni di attaccamento a conseguenze
interiori drammatiche: frammentazione terrifica dell’esperienza soggettiva,
paura senza soluzione, depersonalizzazione. Non meraviglia che abbiano
imparato a temere i segni interni di attivazione della motivazione di
attaccamento (emozioni di desiderio di conforto, per esempio, o di piacere
per l’aiuto ricevuto), e che si sforzino inconsciamente di evitarla ricorrendo
a transizioni verso altri sistemi motivazionali, cioè a rinnovate strategie
controllanti.
Guidati dalla conoscenza del modello teorico proposto nei capitoli 5 e 6,
gli psicoterapeuti possono riconoscere quel che accade nei momenti in cui
le strategie controllanti scompaiono sotto la pressione di un dolore troppo
forte e di un crescente bisogno di aiuto: il dialogo clinico diventa
incoerente, compaiono idee a contenuto catastrofico spesso correlate a
memorie traumatiche, emerge ansia ingestibile (la paura senza soluzione
dell’attaccamento disorganizzato originario), e si manifestano sintomi
dissociativi (talora anche durante le sedute) e la sintomatologia già presente
peggiora. Si potrà allora comprendere il senso dello sforzo che non di rado i
pazienti, in queste condizioni di caos dissociativo, inconsapevolmente
compiono per ripristinare, nelle relazioni interpersonali in generale e anche
nella relazione terapeutica, interazioni competitive, di accudimento o
sessualizzate.
Da queste considerazioni si può dedurre che, dal punto di vista delle
dinamiche motivazionali da ricercare nel corso del trattamento, sono
concepibili due strategie basilari per il trattamento psicologico del DPTSc.
La prima strategia si propone di evitare per quanto possibile l’attivazione
del sistema di attaccamento nella relazione terapeutica sostituendolo con il
sistema motivazionale interpersonale cooperativo (base dell’alleanza
terapeutica). La seconda strategia si propone invece l’obiettivo più
ambizioso di curare la fobia dell’attaccamento, vale a dire correggere il
MOI disorganizzato nella direzione dell’attaccamento sicuro. Ogni tecnica
che si desideri usare per trattare aspetti specifici della sintomatologia
(interpretativa, cognitivista, basata sulla mentalizzazione, dialettico-
comportamentale, interpersonale o di EMDR)2 deve poggiare, se le
premesse del modello sono valide, sull’una o sull’altra di queste due
strategie motivazionali, o meglio sulla loro appropriata alternanza.

Evitare l’attivazione dell’attaccamento disorganizzato

Per limitare il più possibile l’attivazione del sistema motivazionale di


attaccamento e quindi dei problemi connessi al MOI disorganizzato, il
terapeuta deve muoversi su due piani: accettare provvisoriamente
le strategie controllanti che permettono un dialogo non disorganizzato e,
appena possibile, ricercare un’alleanza terapeutica fondata sull’attivazione
del sistema motivazionale cooperativo.
Riconoscere gli indicatori della presenza delle strategie controllanti
permette al clinico di mantenere un equilibrio consapevole nella relazione
terapeutica quando questa appare minacciata dalle continue critiche al
terapeuta (segno di una strategia controllante punitiva), da condotte o
fantasie di seduzione sessuale (segno di una strategia controllante
sessualizzata) o dall’indebita ed eccessiva preoccupazione del paziente di
essere troppo “pesante” e di causare emozioni negative al terapeuta (segno
di una strategia controllante accudente).
Considerata l’innata tendenza alla sintonizzazione dei Sistemi
Motivazionali Interpersonali (smi) nelle relazioni autentiche e partecipate
(come deve essere quella terapeutica) sarà inevitabile che il terapeuta venga
contagiato emotivamente e avverta in se stesso le emozioni corrispondenti a
quelle provate dal paziente. La collera o il senso di impotenza di fronte a un
controllo punitivo, l’attivazione erotica di fronte al controllo sessualizzato,
subdole e inappropriate sensazioni di benessere nel caso del controllo
accudente.3 Tuttavia, a differenza di altre relazioni in cui la sintonizzazione
motivazionale può attivare circolarità interpersonali disadattative, nella
relazione terapeutica è possibile bloccare l’attuazione di cicli interpersonali
patogeni. Il terapeuta, grazie alla consapevolezza del proprio stato emotivo,
al controllo metacognitivo delle sue reazioni e alla conoscenza del modello
esplicativo, può evitare la ripetizione confermante di schemi esperienziali
relativi ai MOI patogeni del paziente. Il clinico esperto, per esempio,
anziché rispondere con irritazione alle critiche mosse da un paziente
controllante punitivo, può cercare insieme al paziente nuove strategie
comunicative e relazionali. E' il caso di pura fantasia offerto dal romanzo di
Yalom citato nell’epigrafe di questo capitolo: Breuer, impegnato nella cura
dei sintomi somatoformi di Nietzsche, inizialmente si scontra con la fobia
dell’attaccamento del filosofo e con il rifiuto della cura motivato dalla
convinzione di Nietzsche che ogni scambio interumano è finalizzato a
conquistare potere nelle relazioni (il sistema di rango nell’elenco degli SMI
presentato nel capitolo 5). Riuscirà tuttavia a coinvolgerlo nel trattamento
offrendogli un rapporto di scambio paritetico, cioè risvegliando nel filosofo
il sistema motivazionale della cooperazione. Con questa scelta clinica del
protagonista, lo psicoterapeuta Breuer, si evidenzia la conoscenza profonda
che l’autore del romanzo (Yalom è un esperto psicoterapeuta) ha della
cornice interpersonale più adatta a sostituire l’attaccamento disorganizzato
nella cura del trauma dello sviluppo. L’attivazione dello SMI cooperativo,
oltre a favorire la continuità della coscienza e sorreggere le capacità
metacognitive, è generalmente l’unico SMI a non contenere nei suoi MOI
memorie di schemi relazionali traumatici (Liotti, 1994/2005).
Le fondamentali modalità con cui è possibile in genere attivare uno
scambio cooperativo paritetico nella relazione terapeutica sono descritte da
Liotti (2001) e in vari capitoli del libro curato da Liotti e Monticelli (2008).
Avviare un’interazione cooperativa nella relazione terapeutica, tuttavia, non
è un’operazione semplice e dal risultato scontato. Un rapporto che si forma
con una richiesta d’aiuto (benché professionale) inevitabilmente attiverà lo
SMI dell’attaccamento al quale il terapeuta, per rispondere empaticamente,
dovrà altrettanto inevitabilmente replicare con un certo grado di
accudimento. Inoltre, le condizioni di asimmetria iniziale della relazione
terapeutica (il terapeuta, più forte ed esperto, che riceve il paziente nel
proprio ambiente, e il paziente, reso debole dal bisogno, ospitato in un
luogo inizialmente estraneo e comunque non suo) non favoriscono
l’equilibrio paritetico. Infine, come abbiamo potuto osservare nei precedenti
capitoli, la cooperazione e la reciprocità sono esperienze difficilmente
accessibili in coloro nei quali il trauma relazionale ha impedito i rapporti
basati sulla fiducia.
Nonostante queste difficoltà è possibile modificare la qualità
dell’interazione relazionale tra paziente e terapeuta e volgerla alla
cooperazione paritetica. Il cambiamento dell’assetto motivazionale nella
relazione terapeutica non può avvenire però attraverso una presa di
coscienza intellettuale ma solo grazie al concreto sviluppo del loro rapporto.
Il terapeuta, allineandosi al paziente e alleandosi con lui negli obiettivi
preventivamente condivisi o spontaneamente concordati durante la terapia
gli può consentire di sperimentare nel vivo della loro interazione una
condizione di reale pariteticità in un contesto d’aiuto.4 Ci sembra utile a
questo proposito raccontare quanto avvenne durante le fasi iniziali della
terapia con Sofia, una nostra paziente, lavoratrice scrupolosa e stimata
professionista, che aveva iniziato a soffrire di rituali di controllo compulsivi
scatenati dall'idea ossessiva di poter provocare gravi danni ai suoi clienti a
causa di un errore su lavoro. Ciò faceva sentire la paziente, oltre che molto
allarmata, dominata anche da forti sentimenti di autosvalutazione e depressa
nell'umore.

Dopo alcuni mesi di trattamento, durante i quali era stata raggiunta


una significativa riduzione della sintomatologia ossessiva e una buona
alleanza terapeutica, Sofia iniziò a mostrare un progressivo
peggioramento del tono dell’umore accompagnato da sentimenti di
sfiducia nella terapia, sentita come non più efficace, e ostilità verso il
terapeuta accusato di essere incapace di aiutare concretamente. Il
terapeuta supponendo l’attivazione impropria dello SMI competitivo
(di rango), ma trascurando l’idea che ella stesse attivando strategie di
controllo punitive per evitare stati dis-integrati, cercò il cambiamento
del registro interpersonale attraverso l’esplorazione di possibili
significati alternativi e benevole interpretazioni, allo scopo di
mentalizzare le dinamiche in atto della loro relazione. La
sintomatologia depressiva peggiorò ulteriormente, oscillando tra
sempre più accentuati sentimenti di indegnità e improvvisi attacchi di
ira e sconforto. Fecero la comparsa crisi bulimiche, stati dissociativi, e
la paziente iniziò a comunicare vaghe idee di suicidio. Il
peggioramento sintomatico e lo stallo terapeutico che si erano
manifestati generarono nel terapeuta preoccupazione, insofferenza per
la paziente e sconforto. Il terapeuta decise allora di comunicare
apertamente alla paziente le sue preoccupazioni e le difficoltà che
avvertiva nel lavoro terapeutico. Le propose di iniziare, parallelamente
alla psicoterapia, un trattamento farmacologico con un altro specialista
per contenere i sintomi depressivi e bulimici. A tale proposta Sofia,
contrariamente a quanto il terapeuta aveva immaginato, reagì con
soddisfazione per la conferma delle difficoltà della sua situazione.
Nelle sedute successive comparve una strategia controllante-
accudente: Sofia sembrò invertire la direzione del rapporto di
attaccamento-accudimento prendendosi lei cura del terapeuta
attraverso la segnalazione di lievi miglioramenti, l’affermazione che le
cure farmacologiche non le erano poi così necessarie, e rassicurandolo
sui tentativi di suicidio. Il nuovo assetto interpersonale consentì la
ripresa del dialogo terapeutico non più minacciato dalla drammaticità
dei sintomi. Ciò permise a Sofia di comunicare, e al terapeuta di
comprendere, quanto era avvenuto. Ella aveva vissuto gli interventi
interpretativi ed esplicativi come implicite affermazioni del suo scarso
valore in un confronto col terapeuta percepito come migliore di sé ma
giudicante. Questo sembrava anche lo schema della sua relazione di
attaccamento alla madre, professionista di successo anche lei, che
aveva dovuto dividersi tra il lavoro e l’accudimento dell’unica figlia
dopo essere divenuta prematuramente vedova, quando Sofia aveva
appena due anni. Sofia raccontò al terapeuta i suoi pochi ricordi
d’infanzia, la sua vita tesa al continuo perfezionismo per evitare le
critiche della madre quando questa tornava la sera a casa dopo averla
lasciata da sola tutto il giorno. Di contro il terapeuta rivelò a Sofia, con
autentica e sofferta partecipazione, quanto fosse dispiaciuto di aver
inconsapévolmente rinnovato l’umiliazione patita nell’infanzia. Il
terapeuta propose a Sofia di modificare il contratto terapeutico
chiedendo alla paziente di segnalargli quali atteggiamenti in terapia
potevano, seppur involontariamente, sollecitarle un senso di scarso
valore o di umiliazione. Ne nacque una nuova fase della terapia dove
la paziente aiutava il terapeuta nella prevenzione di possibili fallimenti
empitici. Il terapeuta d'altra parte accettava implicitamente che Sofia
potesse interpretare, talvolta, le offerte di cura come umiliazioni,
semplicemente segnalandole la difficoltà che egli incontrava quando si
sentiva criticato. Il nuovo compito terapeutico aveva orientato,
implicitamente ma concretamente, la relazione terapeutica su un piano
cooperativo e paritetico e offriva la possibilità di esplicitare e
mentalizzare credenze patogene ed emozioni negative nel qui e ora
delle sedute ancorandole alle memorie condivise degli episodi della
terapia e non del passato.

Come è accaduto nel caso di Sofia, le difficoltà provocate dalle strategie


controllanti o dal loro collasso emergono generalmente nel corso della
terapia, quando al consolidarsi della relazione d’aiuto nel paziente si
attivano il sistema dell’attaccamento e le strategie per inibirlo. Per prevenire
o contrastare queste difficoltà è bene che il terapeuta metta in atto il prima
possibile le manovre utili ad avviare la cooperazione paritetica. Nei
prossimi paragrafi di questo capitolo descriveremo alcune modalità per
ottenerla.
Riflessioni interessanti ed esaurienti su questa prima strategia di
gestione delle dinamiche motivazionali sono riferite da Dworkin (2005),
che le coniuga alla tecnica EMDR Anche in questo tipo di trattamento delle
memorie traumatiche, relativamente schematico e breve, la relazione
terapeutica è ritenuta fondamentale. Essa deve basarsi su una reciprocità di
cooperazione fra terapeuta e paziente, che rimanda al tema generale
dell’alleanza terapeutica e, dal punto di vista della teoria multimotiva-
zionale evoluzionista, al sistema cooperativo. Sin dal titolo originale della
sua opera, EMDR and the Relational Imperative, Dworkin (2005) afferma
che quello dell’alleanza è un vero e proprio imperativo relazionale perché il
trattamento con l’EMDR di questa classe di pazienti possa sperare di avere
successo. Se il valore fondamentale dell’alleanza terapeutica è riconosciuto
da una pratica terapeutica relativamente lineare e breve come l’EMDR, a
ragione ancora maggiore lo è in altre prassi terapeutiche più lunghe e
complesse, sia nella psicoterapia in generale (Lingiardi, 2002; Safran,
Muran, 2000) sia, in misura del tutto particolare, nel trattamento di disturbi
conseguenti a DA e traumi (Cotugno et al., 2008; Manaresi et al., 2008;
Prunetti et al., 2008; van der Hart et al., 2006).

Curare la fobia dell’attaccamento


Trattare la fobia dell’attaccamento dopo aver ottenuto una
stabilizzazione temporanea della relazione attraverso la ricerca di alleanza è
certamente un obiettivo psicoterapeutico ambizioso e complesso, ma anche
inevitabile almeno nei casi più gravi di DPTSc. Il trattamento di ogni altro
problema potrebbe rivelarsi impraticabile se non si fronteggiasse e
superasse tale fobia, visto che lo stesso livello elevato di sofferenza e il
semplice trovarsi in presenza di una persona (il terapeuta) benevola e
disposta a offrire aiuto e conforto inevitabilmente attiva nel paziente, nel
corso di una psicoterapia prolungata, il sistema motivazionale
dell’attaccamento (Liotti, 2007; van der Hart et al., 2006). In secondo
luogo, ottenere un cambiamento del MOI disorganizzato nella direzione
della sicurezza è condizione per rimuovere un fondamentale fattore di
rischio di ricadute in caso di ritraumatizzazione, e soprattutto è una
necessità imprescindibile se si mira a modificare anche lo stile
interpersonale e la qualità generale di vita dei pazienti.
Nel trattamento della fobia dell’attaccamento, come per tutte le fobie,
l’esposizione graduale alla situazione temuta, accompagnata dal
riconoscimento e dalla rivalutazione delle credenze patogene, rende
possibile di modificare i significati minacciosi associatisi ai normali
sentimenti di attaccamento durante le esperienze infantili traumatiche. Nel
trattare una fobia dell’attaccamento la relazione terapeutica fornisce
continue occasioni di esperienze emozionali correttive quando il terapeuta
riesce a mettere in evidenza la sua struttura, aiuta a riconoscerne le origini
nel passato, e invita a sperimentare, in maniera progressiva e prudente,
un’interazione di cura con caratteristiche differenti da quella traumatica
avuta durante lo sviluppo. Nel perseguire questo obiettivo il terapeuta deve
regolare con molta attenzione la distanza relazionale e le offerte di
protezione al paziente. A questo scopo, se resta essenziale non risvegliare il
sistema di attaccamento del paziente con offerte di vicinanza protettiva (per
esempio, aumentando la frequenza delle sedute di fronte alla sofferenza del
paziente, prolungandone la durata, o mostrandosi enfaticamente
compassionevole), è necessario che il terapeuta si mostri disponibile a
fornire (prudentemente) conforto quando il paziente lo richiede
espressamente (van der Hart et al., 2006). Recuperare poi prontamente
l’atteggiamento cooperativo può essere il modo più efficace per mantenere
un equilibrio dialettico (Linehan, 1993) fra vicinanza emotiva protettiva e la
giusta distanza che evita l’attivazione protratta di un MOI disorganizzato.
Per ottenere la riduzione della fobia dell’attaccamento, il terapeuta, oltre
a regolare la relazione con il paziente, deve anzitutto rendere il paziente
consapevole della natura di tale fobia e della sua origine. Un modo efficace
di perseguire questo duplice obiettivo - mantenere un assetto relazionale
cooperativo-paritetico e insieme informare il paziente sulla fobia
dell’attaccamento - è quello noto nelle terapie cognitive come
normalizzazione. Sostanzialmente, le risposte di allarme ed evi-tamento di
fronte all’esperienza interna di emozioni di attaccamento vanno ricondotte
alla normale reazione di paura che chiunque avrebbe di fronte a
un’esperienza in sé innocua e persino desiderabile, ma che è divenuta
premonitrice di eventi dolorosi nel contesto traumatico di sviluppo. Talvolta
è utile condividere con il paziente in maniera semplice i principi della teoria
patogenetica che può spiegare i suoi problemi e che guida il trattamento.
Più che assumere un atteggiamento pedagogico, il terapeuta idealmente
associa questo compito di informazione alle esperienze concrete del
paziente attivate nella relazione terapeutica, come è avvenuto nel caso di
Giulio (già descritto nel capitolo 1).

Giulio, ricordiamo, aveva interrotto dopo alcuni mesi la


psicoterapia nella convinzione di essere stato trascurato dal terapeuta
durante un momento di difficoltà, come gli accadeva durante
l’infanzia, quando la madre era incapace di proteggerlo dagli abusi
emotivi e fisici ricevuti dal padre. Dopo alcune settimane, sotto la
spinta di nuovi e più intensi malesseri, Giulio ricontattò il terapeuta per
riprendere la terapia. Al momento del primo incontro dopo la brusca
interruzione Giulio avvertì senso di colpa e il timore che il terapeuta l'
avrebbe maltrattato o rifiutato. Il terapeuta sovvertendo le aspettative
patologiche e la circolarità interpersonale disadattativa, accolse con
sincero piacere il paziente mostrandogli autentica comprensione per
ciò che era accaduto. Il terapeuta inoltre colse l'occasione per
condividere con il paziente quanto sapeva sulle dinamiche
dell'attaccamento disorganizzato e dello sviluppo traumatico: che esse
espongono a rappresentazioni simultanee positive e negative verso
qualsiasi caregiver, che inducono timore di lasciarsi andare a
sentimenti positivi con la conseguenza di allentare la sorveglianza di
fronte a prevedibili nuovi maltrattamenti o trascuratezze dei caregiver,
e altro ancora. Giulio notò insieme al terapeuta quanto queste
conoscenze potessero chiarire ciò che era accaduto, e sollevarlo da
sensi di colpa e indegnità. Ciò consentì alla relazione terapeutica di
riprendere il suo corso, al paziente di provare minore timore di essere
maltrattato e rifiutato, e al terapeuta di riconoscere esplicitamente e
validare come normale e utile il desiderio di aiuto e conforto che aveva
motivato Giulio a ricontattarlo.

In questo esempio clinico traspare la condotta terapeutica essenziale per


quella che potremmo chiamare una desensibilizzazione dalla fobia
dell’attaccamento: guidare con prudenza e gradualmente il paziente ad
apprezzare l’innocuità delle emozioni di conforto provate durante la cura,
enfatizzandone gli aspetti positivi e distinguendole dalla obiettiva
pericolosità che esse hanno avuto nei contesti di sviluppo dove potevano
divenire indicatori di successive risposte violente o spaventate da parte di
un caregiver.
E' importante ricordare che la fobia dell’attaccamento tipicamente si
accompagna, nel paziente con una storia di sviluppo traumatica, alla fobia
opposta dell’abbandono (van der Hart et al., 2006). Insieme alle manovre
per gestire e superare la prima è importante identificare e trattare anche la
seconda. In tal senso, è bene fondare l’alleanza terapeutica e il senso di
sicurezza fornito dalla relazione terapeutica su atteggiamenti e precauzioni
che assicurino al paziente la prevedibilità della cura e della protezione, non
su quella costante disponibilità del terapeuta che i pazienti dipendenti e
spaventati dall’idea dell’abbandono mostrano spesso di desiderare. La
prevedibilità e la certezza dell’aiuto vengono assicurate dal rispetto delle
norme del setting, ma anche dalla possibilità di stabilire con il paziente
canali comunicativi ben regolati anche per le richieste di aiuto fuori dalle
sedute e per le emergenze (per i dettagli sulle modalità da seguire vedi i
paragrafi successivi). La costante disponibilità del caregiver, oltre a essere
irrealistica per due adulti impegnati in una relazione professionale, finirebbe
per confermare i timori dei pazienti di poter davvero essere abbandonati e
minare il senso di sicurezza in sé e negli altri. Anche in questo caso è utile
condividere apertamente con il paziente queste considerazioni e il
significato degli atteggiamenti del terapeuta nella relazione con lui, sia
premettendo e condividendo gli obiettivi e i confini del loro lavoro
congiunto, sia commentando validandole, quando il contesto lo consente, le
inevitabili difficoltà che compaiono nella relazione tra paziente e terapeuta
nel loro difficile compito.

ESPERIENZA RELAZIONALE CORRETTIVA E CONTROLLO


DEGLI ENACTMENT

Sia quando il terapeuta si trova a evitare l’attivazione del MOI


disorganizzato attraverso la ricerca di scambi cooperativi, sia quando è
impegnato a trattare direttamente la fobia dell’attaccamento, egli tiene
presente che la relazione terapeutica costituisce per il paziente occasione di
esperienze emozionali concrete capaci di correggere gli schemi profondi
che regolano le sue emozioni, i suoi significati personali e i suoi
comportamenti. Come affermò Franz Alexander nel 1946: “In tutte le forme
di psicoterapia eziologica, il principio terapeutico di base è lo stesso:
riesporre il paziente, sotto circostanze più favorevoli, a situazioni emotive
che lui non potè affrontare nel passato. Il paziente, per essere aiutato, deve
passare attraverso un’esperienza emozionale correttiva adatta per riparare
l’influenza traumatica di esperienze precedenti” (Alexander, 1946). Per
ottenere questo effetto correttivo la relazione terapeutica deve avere
carattere di autenticità e partecipazione empatica che espongono il
terapeuta, però, a sperimentare personalmente le emozioni negative e le
difficoltà indotte dalla DA e dalle strategie controllanti del paziente.
E' pressoché inevitabile che in alcuni momenti il terapeuta, anche il più
attento e preparato, imbrigliato nelle difficoltà relazionali causate dalla
paura senza sbocco o dalle dinamiche interpersonali delle strategie
controllanti, non riesca a conservare sufficienti capacità metacognitive e
agisca, inconsapevolmente, i propri sentimenti controtransferali provocando
fallimenti empatici.
Alcuni psicoanalisti hanno descritto e definito con il termine enactment
questa mutua impossibilità che terapeuta e paziente mentalizzino sempre
l’attivazione delle dinamiche inconsce della loro relazione (Bromberg,
2008; Stern, 2008,2009). Si pensi al terapeuta che, nel comprensibile timore
dei potenziali rischi che corre il suo paziente, si allarmi tanto da cercare, più
o meno inconsciamente, di interrompere egli stesso la terapia. Oppure alla
situazione in cui il terapeuta ceda con collera alle critiche controllanti
punitive del suo paziente o, peggio, si faccia controllare in maniera
accudente lasciandosi blandire o accudire in una situazione di cura invertita,
senza rendersene conto.
Nei momenti di forte attivazione delle dinamiche disorganizzate o
controllanti è inevitabile che l’esperienza emotiva del paziente influenzi
quella del terapeuta e che ciò produca enactment da parte di entrambi.
Essenziale allo scopo della terapia è che il terapeuta se ne accorga e che
condivida apertamente quanto è accaduto con il paziente trasformando un
possibile fallimento empatico in una preziosa opportunità terapeutica.
L’enactment del terapeuta attiva le memorie delle esperienze relazionali
traumatiche, ma allo stesso tempo la recuperata consapevolezza del clinico
e la conseguente correzione del suo atteggiamento permettono di
trasformare in vivo gli schemi disfunzionali traumatici e di elaborare le
memorie a esso associate. Secondo alcuni clinici esperti di trauma e
dissociazione il superamento degli inevitabili enactment è la parte
essenziale della psicoterapia dei pazienti con storie traumatiche. Per questi
studiosi la comparsa degli enactment reciproci non è un evento
indesiderabile, lo è invece l’indefinita mancanza di riflessività del terapeuta
a tale riguardo (Stern, 2008). Inoltre è raccomandabile che la risoluzione
degli enactment preceda sempre gli interventi di mentalizzazione, altrimenti
questi non potrebbero agire sull’esperienza concreta rimanendo interventi
puramente intellettuali (Bromberg, 2008).
Per gestire gli enactment il terapeuta in alcune occasioni deve
apertamente comunicare al paziente la propria esperienza emotiva. Se ciò
non avvenisse le emozioni intense del terapeuta rischierebbero di costituire,
al pari di altre esperienze dissociate, fattori che non entrando nella
condivisione reciproca e nella narrazione aperta rimangono inaccessibili
all’elaborazione e alla condivisione. La comunicazione aperta del proprio
stato d’animo, indicata con l’espressione inglese self-disclosure, deve essere
comunque ben dosata e non deve mai oltrepassare i confini di una relazione
professionale terapeutica.

CONTROL-MASTERY THEORY E GESTIONE DEI TEST


RELAZIONALI IN TERAPIA

La Control-Mastery Theory (CMT, teoria della padronanza-controllo),


sviluppata dalla ricerca sul processo psicoterapeutico (Weiss, 1993) e
orientata al conseguimento di condizioni di sicurezza nel dialogo clinico,
può offrire strumenti concettuali particolarmente efficaci per orientare il
terapeuta nella complessa gestione della relazione terapeutica. Secondo la
CMT il paziente nella sua relazione col terapeuta è guidato da un piano
inconscio (plan) indirizzato alla ricerca di sicurezza. Nella prospettiva
cognitivo-evoluzionista, questo piano inconscio corrisponde al valore
evoluzionistico della vicinanza protettiva, corrispondente all’innata
disposizione a chiedere aiuto che costituisce il fondamento dello SMI di
attaccamento.
Concordemente con il modello basato sulla teoria dell’attaccamento, la
CMT prevede che nella ricerca della sicurezza con il terapeuta il paziente
attiverà inconsciamente credenze e aspettative negative costruite durante le
sue relazioni primarie con i genitori. Nel caso del trauma relazionale
precoce, il piano inconscio che guida alla ricerca di sicurezza nella
relazione è ostacolato da credenze patogene sviluppate a partire dal MOI
disorganizzato. Queste credenze portano il paziente ad aspettarsi, più o
meno coscientemente (e spesso del tutto inconsciamente), che il terapeuta
sia incapace o non voglia rispondere ai suoi bisogni di attaccamento e si
comporti in maniera ostile, ripetendo le risposte negative e disorientanti dei
genitori. I momenti in cui le credenze patogene del paziente guidano la sua
percezione del significato della condotta del terapeuta in seduta, e il suo
comportamento nei confronti del terapeuta, sono esperiti da entrambi i
membri della coppia terapeutica come problematici. Questi momenti di
difficoltà della relazione terapeutica sono chiamati test nella CMT, perché
in essi sono messe alla prova le credenze patogene del paziente circa la
relazione di aiuto e circa la raggiungibilità della sicurezza relazionale. Se le
risposte del terapeuta nei momenti di test sono tali da favorire il piano del
paziente e confutare le credenze patogene, si osservano importanti
mutamenti della relazione terapeutica nella direzione della sicurezza e
dell'autenticità. Le condizioni di sicurezza così raggiunte favoriscono nel
paziente la capacità di ricordare esperienze relazionali traumatiche e di
riflettere criticamente su di esse, come ha dimostrato la ricerca sul processo
psicoterapeutico effettuata per anni dal San Francisco Psychotherapy
Research Group (Weiss, 1993). Viceversa, se le risposte del terapeuta nei
momenti di test sono tali da confermare le credenze patogene del paziente
(se cioè esse si configurano come una sorta di ripetizione dei traumi
relazionali originari), si assiste a crescente insicurezza della relazione e
inautenticità del dialogo terapeutico. Tutti gli interventi del terapeuta
(qualsiasi sia il suo orientamento), possono, su tali basi, essere classificati in
due categorie fondamentali: interventi a favore (pro-plan) o contro (anti-
plan) il piano inconscio di sicurezza del paziente.
La CMT (Weiss, 1993) ha identificato una serie di test, prevalentemente
guidati da credenze di colpa abnorme, di rifiuto delle sue esigenze o di
radicale inaiutabilità, che offre un'utile guida al terapeuta. Valutando le
risposte del paziente ai suoi interventi alla luce di questa lista di credenze
patogene, è più facile la scelta clinica di una risposta che possa orientare la
relazione terapeutica nella direzione della sicurezza. Un esempio può
illustrare il ragionamento clinico basato sulla CMT.

Ida si trovò a chiedere per la seconda volta, angosciata, al suo


psicoterapeuta se con una storia come la sua fosse o no possibile per
lei sperare di essere in grado di costruire una famiglia. Aggiunse che
credeva che non fosse possibile: non aveva mai conosciuto suo padre,
era stata gravemente maltrattata da una madre psicotica e, quando la
madre fu ricoverata in ospedale psichiatrico, era stata affidata, ancora
bambina, a un Istituzione dove aveva subito ulteriori abusi. La
conseguenza di tutto ciò, pensava Ida, era lo stile tempestoso delle sue
relazioni affettive e l'incapacità di scegliere un partner affidabile, che
avevano causato l'interruzione di ogni tentativo di convivenza con un
compagno. Vista l'età di Ida al momento della presa in carico (la
paziente aveva allora 45 anni), il terapeuta non poteva immaginare che
ci fossero grandi prospettive di iniziare e mantenere una relazione
stabile dalla quale potessero nascere figli. La prima volta che Ida gli
aveva posto la domanda il terapeuta aveva notato una risposta avversa
(ansia e irritazione) al suo intervento, che era consistito nell’affermare
che esistevano altre possibilità di realizzazione personale al di fuori di
un'esperienza di maternità. Così, quando la paziente gli ripetè la
domanda qualche seduta dopo la prima in cui l'aveva posta, rispose che
non sapeva se ciò sarebbe stato possibile, ma non escludeva che Ida
avesse ragione nel ritenerlo improbabile. La reazione di Ida fu di
sollievo e grande serenità. La paziente commentò che era importante
sapere che il suo ragionamento, la sua valutazione delle proprie
difficoltà relazionali, apparivano congrui al terapeuta. La credenza
patogena che Ida aveva sottoposto a test nella relazione terapeutica era
che, come negli ambienti invalidanti della sua infanzia, chi si prendeva
cura di lei avrebbe liquidato con sufficienza le valutazioni che lei
faceva dei suoi problemi.

COSA FARE E COSA NON FARE PER LA COSTRUZIONE


DELL'ALLEANZA TERAPEUTICA

Sebbene alcune delle indicazioni che ci apprestiamo a elencare,


riassumendo ed esplicitando ulteriormente quanto fin qui discusso, sono
suggerite dal buon senso e facilitano il processo di cura se applicate a ogni
relazione terapeutica, esse diventano essenziali e imprescindibili nel lavoro
con persone che hanno subito un attaccamento traumatico. Queste regole
sono la base per la costruzione di una relazione che possa nello stesso
tempo costituire un’esperienza relazionale correttiva, fornire il necessario
senso di sicurezza (l'obiettivo della prima fase terapeutica) e costruire la
cornice per i diversi compiti successivi che il clinico deve affrontare nella
terapia del trauma e della dissociazione (Kinsler et al., 2009). Elencheremo
le regole su cosa fare e cosa evitare nella costruzione dell’alleanza e nella
riparazione delle sue rotture entro una serie di categorie, riguardanti
l’atteggiamento generale del terapeuta, la particolare necessità di autenticità
e chiarezza, la formulazione di obiettivi condivisi, la validazione delle
esperienze emotive, gli interventi di mentalizzazione, il sentimento di
fiducia, la previsione delle difficoltà, le regole del setting.

Atteggiamento generale del terapeuta

Il terapeuta dovrebbe, idealmente, dimostrarsi costantemente aperto,


sincero, accogliente, calmo, gentile, rispettoso, autenticamente interessato
ed empaticamente sintonizzato con i bisogni del paziente. Ciò corrisponde a
quello che ogni essere umano desidera ricevere in una relazione d’aiuto e
che di norma i pazienti con trauma relazionale precoce non hanno potuto
avere.
Un simile atteggiamento non è facile da tenere con pazienti
cronicamente traumatizzati sin dall’infanzia, a causa delle loro difficoltà
relazionali e dei test cui ripetutamente sottopongono le proprie tenaci
credenze patogene nella relazione col terapeuta. Tuttavia il compito di
costruire una relazione terapeutica che possa favorire esperienze emozionali
correttive e sovvertire i cicli interpersonali patogeni obbliga il terapeuta a
recuperare quanto più prontamente possibile questi atteggiamenti qualora li
abbia momentaneamente perduti. Per fare ciò il clinico, come già ricordato,
deve essere in grado sorvegliare costantemente il suo stato d’animo e le sue
reazioni controtransferali. Particolarmente utili a questo riguardo possono
essere incontri di supervisione con un collega esperto di trattamento del
DPTSc.

Autenticità e chiarezza

Tra le caratteristiche della comunicazione tra terapeuta e paziente


autenticità e chiarezza sono le principali. Nel caso del trauma relazionale
precoce e dello sviluppo traumatico questi elementi sono vitali per
l’alleanza terapeutica. I pazienti con attaccamento traumatico temono di
regola le reazioni emotive di chiunque dia loro cura e, nei momenti di
interazioni significative con essi, mancano delle capacità metacognitive
necessarie per attribuire i giusti significati a ciò che accade nella relazione.
Ne consegue che non raramente emozioni vissute dal terapeuta (enactment)
ma non chiaramente comunicate, percepite a livello non verbale dal
paziente grazie al normale contagio emotivo che sappiamo essere mediato
dai neuroni specchio, possono attivare ciclicità interpersonali disadattative e
ostacolare il processo terapeutico. Inoltre i pazienti cronicamente
traumatizzati nello sviluppo si aspettano il peggio da coloro che si prendono
cura di loro: ciò costituisce il motivo di erronee attribuzioni di malevole
intenzioni da parte del paziente nei confronti dei terapeuti. Per questo
motivo è essenziale la comunicazione chiara delle proprie intenzioni, dei
confini della relazione, dei compiti reciproci, e, talvolta, del proprio stato
d’animo. A questo proposito abbiamo già accennato alle tecniche di self-
disclosure, di rivelazione dello stato d’animo e di altre notizie personali che
riguardano il terapeuta: tecniche potenzialmente preziose anche se, per
diventarlo nella concretezza del processo terapeutico, richiedono estrema
cautela. Qui aggiungeremo una breve nota sul rapporto che intercorre fra
autenticità del terapeuta e ricerca di uno scambio comunicativo basato sulla
motivazione di cooperazione paritetica.
Se esistono modalità di dialogo clinico che possono favorire
l’attivazione del sistema cooperativo in entrambi i membri della diade di
una psicoterapia individuale (per esempio, l’uso frequente del “noi” nel
riferirsi al lavoro terapeutico e la chiara definizione concordata di obiettivi
congiunti; Prunetti et al., 2008), è essenziale che il terapeuta per farsi certo
dell’attivazione del sistema cooperativo nel paziente, senta in sé gli stati
mentali tipici della cooperazione paritetica durante lo scambio clinico. In
caso contrario, se alle parole pronunciate che indicano cooperazione fra pari
corrispondesse uno stato mentale del terapeuta orientato alla percezione
della propria superiorità sul paziente o alla sua commiserazione, la regola
aurea dell’autenticità verrebbe tradita, e nel paziente verrebbe attivato per lo
scambio non verbale in corso, al posto del sistema cooperativo, il sistema di
rango o quello di attaccamento. E' ben noto ai clinici esperti come
disciplinare la propria mente per percepire il paziente non solo come un
individuo sofferente, gravato da memorie traumatiche e con gravi deficit
metacognitivi, ma anche e soprattutto come una persona con cui fruire di
un’autentica cooperazione in un interessante lavoro congiunto. La regola
aurea è di focalizzare l’attenzione sulle risorse umane del paziente, più che
sui suoi deficit.

Formulazione di obiettivi condivisi e compiti reciproci

Terapeuta e paziente giungono a incontrarsi ognuno con i propri


obiettivi che inizialmente possono essere solo in parte, e implicitamente,
coincidenti. E' un compito generalmente utile in psicoterapia (e cruciale nel
trattamento dei disturbi da sviluppo traumatico) la condivisione esplicita
degli obiettivi e la loro coordinazione. La formulazione di obiettivi comuni
e condivisi tra paziente e terapeuta, ai quali coordinarsi reciprocamente è
una delle strategie più efficaci per attivare lo SMI cooperativo (Liotti,
1994/2005). Il terapeuta dovrebbe sempre chiedere al paziente di esprimere
le mete cui desidera che tenda la psicoterapia, e tener conto delle risposte
date nel formulare per la propria parte la meta iniziale del lavoro congiunto.
La meta potrà poi ovviamente essere riformulata da entrambi i membri della
diade terapeutica in funzione di quanto emergerà progressivamente
dall’esplorazione clinica, ma chiedere fin dall’inizio al paziente quale sia la
propria è un atto di cooperazione, spesso inatteso da chi si rivolge a un
clinico. Inoltre la formulazione degli obiettivi concreti del paziente può
costituire un primo intervento di validazione dei suoi bisogni e di
mentalizzazione delle sue aspirazioni.

Validazione delle emozioni e interventi di mentalizzazione

Uno dei i fattori traumatici più frequenti è il neglect, ovvero la


negazione dei bisogni fisici ed emotivi essenziali, a volte legata a estrema
trascuratezza e a volte mediata da atteggiamenti violentemente critici del
caregiver e dall’assenza di interazioni che favoriscano la mentalizzazione.
Per questo uno dei compiti essenziali del terapeuta nello sviluppo
traumatico è un atteggiamento di riconoscimento e validazione degli stati
mentali, delle reazioni emotive e delle convinzioni del paziente (Linehan,
1993). Il lavoro di validazione delle esperienze e delle convinzioni del
paziente si deve estendere a quelle disfunzionali e patogene, mostrando
come esse siano comprensibili risultati di esperienze riconducibili alla storia
traumatica del paziente, opponendosi in tal modo all'altrimenti inevitabile
destino di farle divenire, criticandole come irrazionali, conferma di altre
convinzioni patogene: quelle di essere sbagliato, stupido, pazzo.
Riconoscere lo stato d’animo del paziente in seduta con frasi del tipo:
“Mi sembra che lei sia arrabbiato per ciò che è capitato”, oppure il senso
delle sue convinzioni personali: “Mi rendo conto per quale ragione lei pensa
questo”, sono elementi che non devono mai essere trascurati in terapia
poiché permettono di esercitare le funzioni metacognitive del paziente e
consentono di dare quella legittimità e consistenza al lavoro mentale che chi
è sopravvissuto a una storia traumatica nello sviluppo solitamente non
possiede (si ricordi a questo riguardo l’esempio clinico di Ida, riportato
sopra). I pazienti con DPTSc provano spesso colpa e vergogna per i loro
comportamenti patologici e per gli altri sintomi, compresi i gravi problemi
relazionali che si manifestano anche nella relazione con il terapeuta.
Quest’ultimo ha quindi il compito di dare validità e possibilità di
comprensione anche (e soprattutto) a questi aspetti problematici del
paziente, favorendo la correzione delle credenze negative su se stessi che
mantengono colpa e vergogna solo dopo aver riconosciuto la legittimità di
queste emozioni nell’ambito di ogni umana esperienza. Ciò può essere
ottenuto anche grazie alla condivisione, in maniera semplice e
comprensibile, delle conoscenze psicopatologiche del terapeuta che possano
offrire una spiegazione alle loro difficoltà. Come è avvenuto nel caso di
Giulio, molti nostri pazienti si sono sentititi rinfrancati dall’apprendere i
possibili motivi per i loro comportamenti altrimenti incomprensibili.
Mostrando a un nostro paziente gli studi sui deficit nella regolazione
emotiva causati dal trauma dello sviluppo egli potè comprendere una delle
ragioni che non gli consentivano di frenarsi negli accessi d’ira e di sentirsi,
circolarmente, un essere spregevole e non diverso dal padre che lo aveva
picchiato sin dalla prima infanzia. Da quel momento egli si sentì meno
oppresso da intollerabili visioni negative di sé e sviluppò gradualmente la
capacità metacognitiva di padroneggiamento della collera. Il
riconoscimento e la condivisione esplicita dello stato mentale del paziente
costituiscono dunque efficaci interventi di mentalizzazione. Essi hanno lo
scopo di dare maggiore attenzione agli stati mentali propri e altrui e di
coltivare la consapevolezza della molteplicità delle prospettive.
Il lavoro di validazione e normalizzazione ha, infine, l’essenziale scopo
di promuovere nel paziente il senso di fiducia in sé. Essere riconosciuto nei
bisogni e nelle proprie convinzioni e avere comprensibili spiegazioni di
stati d’animo e comportamenti apparentemente assurdi e maligni costituisce
l’opportunità per il paziente di sentire i propri stati d’animo e le proprie
convinzioni non come radicalmente“sbagliate” ma solo appropriate ai
contesti dello sviluppo traumatico e non generalizzabili ad altri contesti
interattivi.

Fiducia nel terapeuta

La maggior parte dei clinici esperti nella terapia del trauma relazionale
precoce sa che il raggiungimento della fiducia nel terapeuta non può essere
una prerogativa iniziale della terapia, come si richiede in altre situazioni
cliniche, quanto piuttosto uno degli obiettivi della terapia.
Il terapeuta quindi non dovrà aspettarsi la fiducia incondizionata dal
paziente o porla come requisito per il proprio lavoro, ma questa dovrà
essere faticosamente raggiunta modificando le aspettative negative e il
timore di affidarsi. L’ottenimento della fiducia del paziente costituisce uno
dei compiti della prima fase della terapia, è un obiettivo che a volte richiede
tempi lunghi, e di regola è sottoposto a quei continui test relazionali di cui
si è parlato in precedenza.

Prevedere le difficoltà del paziente

Il paziente, sia nel riferire i propri momenti problematici sia nel


condividere le difficoltà che emergono nella relazione con il terapeuta, può
mostrare difficoltà ed essere reticente o confuso. A causa dello scarso senso
di fiducia, delle difficoltà di mentalizzazione ma soprattutto per la vergogna
e i sensi di colpa tipici dei sopravvissuti ai traumi dello sviluppo, i pazienti
possono inibire la capacità di confidarsi e sottrarre alla relazione terapeutica
fondamentali elementi di comprensione. Per questo il terapeuta dovrà tener
sempre presenti queste difficoltà, riconoscerne gli indizi e prevederne la
comparsa. Talvolta è utile offrire esplicitamente al paziente occasioni per
aprirsi con frasi del tipo: “A volte le persone con storie di sofferenza
infantile come la sua possono sentirsi intimoriti nel dover comunicare il
proprio disagio: capita anche a lei?”.

Definizione e difesa delle regole del setting

Il mantenimento e la cura delle regole del setting e dei confini della


relazione terapeutica, come più volte ripetuto, è essenziale. Puntualità,
regolarità nei modi e nei luoghi delle sedute offrono ai pazienti rispetto e
sicurezza. E' emblematica a questo proposito la domanda di un paziente che
si era rivolto a uno psicoterapeuta dopo aver abbandonato la terapia con il
precedente poiché questi aveva trasferito per ben quattro volte il proprio
studio in un anno: “Chi in quella relazione era veramente instabile?”
(Kinsler et al., 2009). La definizione chiara degli obiettivi terapeutici e delle
regole del setting protegge la coppia terapeutica dalla inevitabile confusione
motivazionale e dalle aspettative irrealistiche o negative verso la relazione
di cura. Il rispetto dei confini della relazione, valore importante per
qualsiasi terapia, è ovviamente essenziale nei casi dove le motivazioni
interpersonali possono essere patologicamente confuse dalle strategie
controllanti.
Tra i compiti iniziali del contratto terapeutico è bene includere la
definizione dei contatti all’infuori delle sedute e le questioni relative al
pagamento dell’onorario. La disponibilità a essere contattato tra una seduta
e l’altra, per esempio con brevi conversazioni telefoniche in ore del giorno
prestabilite, è una buona pratica terapeutica e rappresenta talvolta
l’occasione per offrire ai pazienti (trascurati dai loro caregiver durante lo
sviluppo) esperienze relazionali correttive. Tuttavia essa deve essere
regolamentata in maniera definita sin dall’inizio: i pazienti con storie
traumatiche sono spesso assai richiedenti. Essi talvolta possono mettersi in
situazioni di pericolo, e a causa anche della loro grave sofferenza possono
necessitare di misure d’emergenza e persino di ricovero.
I loro legittimi bisogni possono essere talvolta pressanti o enfatizzati e
possono mettere a dura prova la resistenza e la pazienza del terapeuta.
Come abbiamo osservato riguardo al trattamento della paura
dell’abbandono, il terapeuta che non pone limiti alle richieste dei pazienti
rischia di trovarsi in condizione di eccessivo carico, e potrebbe reagire alla
stanchezza con emozioni inappropriate. Abbiamo già ricordato, inoltre, che
una reazione di stanchezza e rifiuto da parte di un terapeuta eccessivamente
carico di richieste potrebbe circolarmente confermare nel paziente il timore
di essere trascurato e abbandonato dal caregiver. Infine un terapeuta sempre
disponibile, oltre a essere a forte rischio di burnout, non rappresenta un
buon modello per la crescita e l’autonomia del paziente. Egli deve quindi
stabilire chiaramente con il paziente i modi e i tempi dei loro contatti fuori
dalle sedute. Infine è bene curarsi anche del valore simbolico del denaro e
delle questioni relative al pagamento dell’onorario. I pazienti maltrattati o
trascurati dalle figure di riferimento possono essere più predisposti a
confondere alcuni aspetti del rapporto professionale con il terapeuta,
equivocando i significati implicati nel pagamento dell’onorario. Può essere
perso di vista il senso dello scambio professionale vedendo nell’onorario
del terapeuta il prezzo pagato per il loro poco valore umano, oppure il
pagamento delle sedute può dar loro il senso di essere sfruttati
economicamente.

EFFETTI SUL TERAPEUTA DELLA RELAZIONE CON PAZIENTI


TRAUMATIZZATI
Il compito di comprendere empaticamente i problemi del paziente
riconducibili a esperienze traumatiche a volte molto brutali, così importante
per il successo della psicoterapia del DPTSc, comporta per il curante un
carico emozionale che è stato chiamato compassion fatigue, fatica da
compassione (Figley, 2002). A ciò si aggiunge l’impegno emotivo, e non
solo di attenzione, richiesto nella costruzione dell’alleanza terapeutica e
nella continua riparazione delle sue rotture di fronte all’attivazione di
strategie controllanti o di un MOI disorganizzato. Sopportare la sensazione
di inefficacia della terapia quando assiste ai comportamenti autolesivi e
pericolosi dei suoi pazienti, essere oggetto dei loro attacchi, e adattarsi
dialetticamente alle loro oscillazioni comportamentali e sintomatiche, è
un’esperienza che può mettere a dura prova l’equilibrio emotivo del
terapeuta. James Chu ha definito la terapia del trauma complesso come un
viaggio sulle montagne russe (Chu, 1998), talmente stressante da poter a
volte provocare nel terapeuta una sindrome traumatica secondaria, chiamata
anche stato traumatoide, contagio traumatico, e trauma vicario (Pearlman,
Caringi, 2009). Osservazioni cliniche naturalistiche e studi controllati
hanno individuato quattro fattori di rischio per la comparsa di trauma
vicario nel terapeuta: a) il grado di coinvolgimento empatico; b) la gravità
del trauma e dei sintomi dei pazienti; c) le caratteristiche personali e la
presenza di storie traumatiche nel terapeuta; d) il contesto protetto o non
protetto della psicoterapia.
Il meccanismo neurofisiologico della comprensione empatica del dolore
si basa sul rispecchiamento (mirroring) dell’altrui condizione dolorosa,
ottenuta tramite una simulazione interna che comporta l’attivarsi delle
proprie aree del dolore (Decety, 2009). Empatizzare col dolore altrui
significa dunque provare realmente un certo grado di dolore, proporzionale
al grado di coinvolgimento affettivo con coloro con i quali si empatizza
(Jackson et al., 2005). Il grado di coinvolgimento empatico del terapeuta, e
la qualità e quantità delle esperienze paurose e dolorose dei suoi pazienti,
determinano dunque il grado dell’esperienza di paura e dolore nel terapeuta.
L’aggiuntivo fattore di rischio per il trauma vicario nel terapeuta,
rappresentato dalle caratteristiche personali del terapeuta, riguarda in
particolare il suo stile di attaccamento. Uno studio condotto su
psicoterapeuti impegnati nel trattamento del trauma ha dimostrato che uno
stile di attaccamento insicuro predice maggiori sintomi di trauma vicario
rispetto all’attaccamento sicuro (Pearlman, Caringi, 2009). Secondo alcune
indagini controllate, la maggioranza dei terapisti che scelgono di lavorare
con il trauma complesso provengono da storie personali di esperienze
traumatiche (Wilson, Thomas, 2004). Tuttavia il ruolo della storia
traumatica di sviluppo del terapeuta nel favorire il trauma vicario è ancora
controverso. Alcuni sostengono (e siamo tra loro) che aver sperimentato e
superato esperienze traumatiche dello sviluppo o provenire da storie di
attaccamento disorganizzato può costituire un vantaggio per il terapeuta in
quanto la sua esperienza diretta gli potrà permettere una comprensione
profonda dei fenomeni e dei vissuti dei pazienti. D’altra parte però la scelta
professionale di occuparsi di traumi può sottendere a un bisogno di
autoguarigione per una sofferenza ancora presente che può nuocere tanto al
terapeuta che ai suoi pazienti. E' bene che il clinico che intenda lavorare con
pazienti con storie traumatiche dello sviluppo e che proviene egli stesso da
un simile passato sia ben consapevole del rischio di ritraumatizzazione che
questo lavoro comporta.
Infine un altro fattore di rischio per lo sviluppo di una sofferenza
professionale da contagio traumatico è il contesto di lavoro. Un terapeuta
che lavori in isolamento e non possa accedere all’aiuto fornito da
collaborazioni professionali come il lavoro in setting multipli integrati, le
intervisioni o le supervisioni, rischia maggiormente di sviluppare il trauma
vicario. Per questo motivo la prevenzione e la cura del trauma vicario
passano soprattutto attraverso il miglioramento del contesto professionale in
cui lavora il terapeuta e specificatamente nel supporto fornito dalla
collaborazione con altri colleghi (Pearlman, Caringi, 2009). I trattamenti
multipli integrati, grazie alla condivisione del carico emotivo e delle
responsabilità professionali tra i terapeuti e ad altre specifiche proprietà
terapeutiche, costituiscono una delle tecniche più diffuse ed efficaci nel
trattamento delle patologie dello spettro traumatico-dissociativo.

TRATTAMENTI IN SETTING MULTIPLI INTEGRATI

In alcuni pazienti o in alcune condizioni cliniche la gravità e


complessità dei sintomi psicopatologici, le difficoltà indotte dalle dinamiche
attivate dal MOI disorganizzato e l’effetto disturbante delle memorie
traumatiche innescate dalla relazione terapeutica non sono sostenibili da un
solo terapeuta o da una sola forma di trattamento. In questi casi
l’impossibilità di costruire una relazione terapeutica stabile e le precarie
condizioni di sicurezza del paziente e del terapeuta rendono necessario il
ricorso a trattamenti in setting multipli che, se integrati fra loro,
costituiscono una delle maggiori risorse terapeutiche per la cura dello
sviluppo traumatico (Liotti et al., 2008). Nel caso del Disturbo Borderline
di Personalità (dbp) l’impiego di Trattamenti Multi-Setting Integrati
(TMSI)5 è largamente diffuso e raccomandato nelle linee guida
internazionali (Farina, Rainone, 2005). Per questo motivo ci riferiremo
essenzialmente all’uso dei TMSI nei pazienti con DBP, anche se quanto
verrà esposto può essere applicato a tutte le condizioni cliniche causate o
complicate dalla DA (Farina, Liotti, 2005; Liotti et al., 2008).
Con il termine TMSI si intende l’uso contemporaneo nel medesimo
paziente di trattamenti diversi, forniti da terapeuti differenti in setting
separati ma in coordinazione tra loro. I TMSI vanno distinti dalla
combinazione di trattamenti differenti forniti dalla medesima figura in un
unico setting, come nel caso dello psicoterapeuta che, essendo anche
psichiatra, prescrive farmaci ai propri pazienti. I TMSI vanno anche distinti
dalla pratica di associare diverse terapie con clinici diversi operanti
ciascuno nel proprio setting, ma senza che i responsabili di ciascun
trattamento siano in contatto sistematico e in coordinazione tra loro.
La più frequente forma di TMSI combina la psicoterapia individuale
con la terapia farmacologica fornita da un diverso psichiatra che però è
consapevole del lavoro psicoterapeutico e dialoga costantemente con lo
psicoterapeuta sul caso che trattano insieme. Meno frequenti, ma non rare,
sono le combinazioni della psicoterapia individuale con quella di gruppo,
familiare o di coppia. Più raramente, soprattutto nei pazienti più gravi, è
necessario combinare anche tre diverse forme di trattamento, come nel caso
della terapia individuale e quella di gruppo, accompagnate dalla
prescrizione di terapie farmacologiche (Farina, Rainone, 2005).
L’efficacia dei trattamenti multipli nei pazienti difficili è nota da tempo.
Dai risultati di una meta-analisi condotta negli anni Settanta era emerso che
gli esiti di terapie combinate risultavano superiori a quelli di qualsiasi forma
di terapia condotta singolarmente (Luborsky et al., 1975). La prima forma
di psicoterapia dimostratasi efficace nel DBP attraverso uno studio
controllato, la terapia dialettico-comportamentale (Linehan, 1993)
utilizzava un terapeuta individuale e uno di gruppo in due setting diversi ma
integrati. Eppure, per diverso tempo, soprattutto in campo psicoanalitico, la
pratica di associare più trattamenti nei pazienti borderline è stata ritenuta
dannosa in quanto avrebbe facilitato la tendenza a scindere e proiettare
aspetti parziali e contraddittori di sé nei diversi setting colludendo con la
tendenza a scindere difensivamente rappresentazioni parziali e opposte del
sé o degli oggetti esterni (Clarkin et al., 1999; Gabbard, 2005; Kemberg,
1975). La complessa e difficile realtà clinica del paziente borderline (e di
tutti i pazienti con storie traumatiche gravi) tuttavia, ha gradualmente
imposto ai clinici di combinare trattamenti diversi, prescindendo dalle
regole dottrinarie. Alla fine degli anni Ottanta, Waldinger e Frank
scoprirono che circa il 90% degli psicoanalisti intervistati ammettevano che
i loro pazienti borderline seguivano quasi di regola anche terapie
farmacologiche (Waldinger, Frank, 1989). Più recenti studi epidemiologici
sul trattamento dei disturbi di personalità hanno confermato che il 75% dei
pazienti segue almeno due forme di terapia nello stesso tempo (psicoterapia
individuale e farmacoterapia, ma anche diverse forme di psicoterapia). E
questo accade significativamente di più tra i borderline che tra gli altri
disturbi di personalità (Zanarini et al., 2004). L’esigenza di combinare più
trattamenti nei pazienti borderline ha permesso di superare il divieto
imposto dalla dottrina. Lo psicoanalista John Gunderson per esempio
(internazionalmente riconosciuto come uno dei massimi esperti nel
trattamento del DBP), invertendo le prescrizioni imposte dai principi
teorici, ha sostenuto che, quando coordinati, due clinici impegnati nel
trattamento dello stesso caso possono fornire un contenitore per le scissioni
e le proiezioni, permettendo di trattenere in cura il paziente borderline
(Gunderson, 2001). La moderna scuola psicoanalitica inglese ha mutato
l’iniziale diffidenza nel raccomandare la presenza di molteplici figure
terapeutiche impegnate in setting distinti: se integrati tra loro, i setting
paralleli sono oggi considerati ideali per superare le difese dei pazienti e le
intense risposte emotive che essi suscitano nei terapeuti (Bateman, Fonagy,
2004). Nel 2001 l’American Psychiatric Association ha pubblicato una
guida pratica con le linee generali per il trattamento del DBP indicando i
TMSI come forma ideale per la cura dei pazienti borderline (APA, 2001).

Principi generali dei TMSI: integrazione e cooperazione tra i terapeuti


Il generale consenso sull’uso di trattamenti multipli per i DBP è tale da
aver determinato tra i clinici di ispirazioni teoriche diverse un sostanziale
accordo anche sui principi generali che dovrebbero regolare tali strategie
terapeutiche. Questi principi generali possono essere riassunti come segue:
a) i due terapeuti devono essere in costante contatto e ciò deve essere a
conoscenza del paziente; b) il paziente deve comprendere i confini e gli
obiettivi distinti dei due setting pur potendo scambiare informazioni con i
singoli terapeuti su ciò che accade negli altri setting; c) il rapporto tra i
terapeuti deve essere aperto e collaborativo: eventuali crisi nel rapporto tra i
terapeuti, spesso, sono elementi legati al lavoro terapeutico e vanno trattati
come sintomi del paziente; d) questi tre principi, come la fiducia
nell’efficacia stessa della co-terapia, debbono essere condivisi dai due
terapeuti impegnati nel trattamento, prescindendo dalla eventuale diversità
dei loro ruoli specifici e della scuola di appartenenza di ciascuno (Farina,
Rainone, 2005).
Nei differenti TMSI è soprattutto importante, dunque, conseguire
l’integrazione tra le diverse figure di cura e i diversi setting (Bateman,
Fonagy, 2004). Le linee guida per il trattamento del DBP dell’American
Psychiatric Association prescrivono che “fornire trattamenti ottimali per i
DBP [...] frequentemente richiede un gruppo di lavoro che coinvolga clinici
diversi. Se i membri del gruppo lavorano in maniera collaborativa l’intero
trattamento ne beneficia [...] è essenziale che il coordinamento di tutto il
piano di cura sia assicurato da una chiara definizione di ruoli, piani per
superare le crisi, e regolari comunicazioni tra i clinici impegnati” (APA,
2001).
Tutte le riflessioni sui trattamenti multipli nei pazienti gravi concordano
anche sulla necessità di riparare, grazie a tale coordinamento (ricorrendo se
necessario alla supervisione congiunta) quegli inevitabili errori di
sintonizzazione interpersonale che spesso sono alla base di crisi devastanti
della relazione di cura, del drop-out dei pazienti e del burn-out dei terapeuti.
E' proprio l’incessante processo di riparazione delle relazioni terapeutiche
ciò che accomuna il lavoro clinico di tutti i clinici, di qualunque Scuola e
specializzazione, in qualunque setting siano impegnati nel trattamento
congiunto di questo tipo di pazienti (Kernberg, 2003). Kemberg e i suoi
collaboratori, per esempio, sostengono che, nel caso di un trattamento
integrato psicoterapia-farmacoterapia nei pazienti borderline il medico
responsabile della gestione dei farmaci deve avere familiarità con il
modello psicodinamico della terapia e i due curanti dovrebbero comunicare
dopo ogni seduta (Clarkin et al., 1999). Altri, invece, sostengono che il
ritmo degli incontri tra i co-terapeuti può essere più libero. Tale ritmo
dovrebbe rispondere solo al reciproco bisogno di sostenersi, di commentare
l’evoluzione clinica del caso, e di affrontare i problemi contingenti della
relazione col paziente o della relazione tra co-terapeuti. Anche in questo
caso, comunque, i sostenitori della tesi di un ritmo libero per gli incontri fra
co-terapeuti concordano con l’idea che la durata e il clima emotivo dei
contatti tra i curanti sono indici della qualità del processo psicoterapico
(Liotti et al., 2005a).
I fattori terapeutici specifici dei TMSI - quelli non derivanti da ciascun
singolo intervento ma dalla loro integrazione - sono, secondo il modello
esposto in questo volume, almeno tre: la modulazione dell’attivazione del
MOI disorganizzato e la protezione della relazione terapeutica, la
salvaguardia delle condizioni di sicurezza del terapeuta, l’esercizio
facilitato delle capacità metacognitive.

Modulazione del MOI disorganizzato e protezione della relazione


terapeutica

La presenza di due figure terapeutiche distinte che operano in setting


diversi riduce l’intensità dell’attivazione dell’attaccamento permettendone
una più facile modulazione e mitigando le reazioni fobiche verso di esso.
Per fare un solo esempio intuitivo, il paziente avrà attivato il sistema di
attaccamento verso il terapeuta che si assenta per ferie o malattia meno
intensamente se sa che in quel periodo può contare sulla presenza dell’altro
terapeuta. Poiché, come si è detto, l’attivazione intensa e prolungata
dell’attaccamento può esporre il paziente all’esperienza disorientante,
dissociata e spesso terrorizzante dell’emergere di un MOI disorganizzato
alle soglie della coscienza, una maggiore modulazione dell’attività di tale
sistema riduce il rischio della comparsa di processi e sintomi dissociativi.
La presenza contemporanea di due caregiver offre la possibilità di superare
la paura senza sbocco inevitabilmente attivata quando il MOI
disorganizzato e le memorie traumatiche sono attivate su un’unica figura, e
ciò può preservare la relazione terapeutica da quei test relazionali
insuperabili che alcuni pazienti gravi pongono in terapia.
Salvaguardia delle condizioni di sicurezza del terapeuta

La sicurezza del terapeuta è una condizione essenziale, s’è detto, per la


conduzione della terapia con i pazienti con attaccamento traumatico. La
gravità dei sintomi, soprattutto quelli che minacciano la sicurezza del
paziente (come i tentativi di suicidio, la persistenza di relazioni abusanti, le
automutilazioni) ma anche la difficile sostenibilità degli attacchi alla terapia
e a chi la fornisce (derivanti dall’attivazione di strategie di controllanti
punitive e peggiorate dall’impulsività) possono minacciare il senso di
sicurezza del terapeuta. Se solo, il terapeuta allarmato da questi
comportamenti del paziente si troverà a ripetere il ruolo del caregiver
spaventato e spaventante. La presenza di un’altra figura terapeutica, un
collega con cui collaborare, permetterà di condividere la responsabilità del
paziente e di costituire un dialogo tra i clinici in cui esprimere in maniera
aperta le proprie preoccupazioni, mentalizzare ed evitare che esse finiscano
per produrre enactment e fallimenti empatici.

Miglioramento delle capacità metacognitive

Il lavoro di intervisione e condivisione fra i terapeuti, oltre a facilitare il


senso di sicurezza, migliora le loro capacità metacognitive durante le sedute
col paziente (il poter pensare a un collega disposto a capirci e immaginare il
dialogo con lui offre la possibilità di svincolare le proprie reazioni emotive
dai MOI traumatici anche durante le sedute). Inoltre, l’effetto della
condivisione dei contenuti delle diverse terapie tra i terapeuti in un clima di
fiducia e collaborazione permette di offrire anche al paziente l’occasione di
esercitare le sue facoltà metacognitive. Infatti, nel momento in cui
l’attivazione del MOI disorganizzato (o delle strategie controllanti) dovesse
compromettere la qualità della relazione con un terapeuta e di conseguenza
la possibilità di mentalizzare la crisi, potrà intervenire il secondo terapeuta.
Quest’ultimo, in virtù di un’alleanza momentaneamente migliore, avrà la
possibilità di riflettere criticamente insieme al paziente sulla crisi della
relazione col primo terapeuta. L’effetto di ciò è triplice: si può commentare
e mentalizzare i contenuti dello stallo relazionale offrendo al paziente la
possibilità di condividere le dinamiche relazionali inconsce in gioco, si
esercita la capacità di riflettere sulle proprie e altrui attività mentali in
generale, si mantiene una relazione d’aiuto, evitando l’interruzione del
trattamento. Infine, l’esporre il paziente alla cooperatività paritetica del
lavoro coordinato tra i due terapeuti, e all’esercizio della metacognizione
che essa richiede, gli permette di sperimentare, attraverso la concreta
esperienza, dinamiche relazionali per lui spesso nuove e correttive. Una
paziente con un grave disturbo dissociativo al termine di un TMSI disse ai
terapeuti: “Mi sono resa conto che voi avete un modo simile di comportarvi
con me: spesso dite cose diverse, ma il senso è lo stesso. Questo non
succedeva con i miei genitori: quando c’era un problema da risolvere loro
dicevano cose completamente opposte e io non sapevo mai cosa pensare e
come comportarmi” (Castelli Gattinara, Cotugno, 2005).

Difficoltà e limiti dei TMSI

Nonostante la diffusa convinzione dell’utilità dei TMSI, segnalata dalla


loro indicazione nelle linee guida per il trattamento del DBP e confermata
dalla pratica clinica, questi presentano qualche indubbio svantaggio e alcuni
limiti. Il primo di essi è rappresentato dal costo, in termini economici e di
fatica, sia per i pazienti sia per i terapeuti. Dover affrontare due o più
terapie aumenta l’onere economico del trattamento, sia per la comunità nel
caso questo venga fornito dal servizio sanitario nazionale, sia per gli
individui e le loro famiglie nel caso le terapie avvengano in un ambito
libero-professionale. Ugualmente per i terapeuti è faticoso e oneroso
doversi coordinare per gli incontri e le intervisioni sul paziente, che
richiedono spostamenti, telefonate, discussioni emotivamente faticose e
tempo che, nella libera professione, non può essere fatturato al paziente.
Infine la pratica clinica segnala alcuni limiti nell’applicazione di terapie
multiple integrate. Alcuni pazienti vivono l’autenticità e la condivisione fra
diverse figure di cura come intollerabilmente minacciose: la paura di
ricordare tutti insieme, in famiglia, eventi traumatici che hanno coinvolto il
bambino e uno dei caregiver è comune nell’esperienza dei pazienti con
DPTSc, e può essere esportata nella relazione con due terapeuti che
comunicano fra loro. In altre condizioni, è difficile o impossibile per ancora
altre ragioni offrire due relazioni di cura contemporanee al paziente. Nel
caso di Ada descritto nel capitolo 6, per fare un esempio, la madre aveva
così fortemente invalidato l’affidabilità del padre, da provocare nella figlia
una sorta di fobia per la molteplicità delle fonti di cura.

1. Y.D. Yalom (1992), Le lacrime di Nietzsche, tr. it. Neri Pozza, Milano
2006, p. 105.
2. EMDR: Eye Movement Desensitization and Reprocessing,
desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari. Questa
tecnica, messa a punto da Shapiro (1995), è descritta nel capitolo 9.
3. Le reazioni controtransferali del terapeuta di fronte al controllo
accudente del paziente dipenderanno anche, in parte, dallo stile di
attaccamento del terapeuta stesso. Divenirne consapevole, e imparare a
monitorare costantemente le proprie reazioni emotive durante il dialogo
clinico (lo sviluppo cioè di una “mente disciplinata” nel terapeuta), sono
tappe essenziali nella formazione degli psicoterapeuti che vogliano trattare
il DPTSc.
4. Offrire e chiedere aiuto sono compiti relazionali che nell’uomo
possono svolgersi, oltre che nella dimensione motivazionale
dell'attaccamento-accudimento, anche in quella della cooperazione
paritetica, dove sono scambievoli.
5. Per definire l’uso contemporaneo e integrato di più trattamenti nella
terapia del DBP sono utilizzate diverse espressioni nella letteratura
anglosassone: integrated multimodal approach (Tuker et al., 1992),
multiple-treater setting (Gabbard, 1994), co-therapy (APA, 2001),
combined treatments (Linehan, 1993; Simpson et al., 2004), one-team
model treatment (Bateman, Fonagy, 2004). Sebbene non ci siano motivi per
preferire l'una o l’altra terminologia, usiamo l’espressione Terapia Multi-
Setting Integrata (TMSI) per sottolinearne l’aspetto più importante:
l’integrazione dei setting.
8

STABILIZZAZIONE DEI SINTOMI E FASI


SUCCESSIVE DELLA TERAPIA

E' come se mente e corpo si staccassero l’una dall’altro, o come se


l’io essenziale si riducesse a un punto. [...] Forse è così che impazzirò
alla fine. Forse alla fine volerò in pezzi e sarò perso a me stesso per
sempre.

JOHN BANVILLE1

Fin dalla prima fase della terapia, mentre si familiarizza con i cicli
interpersonali abnormi che impegnano il paziente e il suo interlocutore in
ogni relazione di aiuto, e mentre li contrasta in modo da ottenere il più alto
grado possibile di sicurezza nella relazione terapeutica, lo psicoterapeuta è
chiamato ad aiutare il paziente a comprendere e mitigare i sintomi più
destabilizzanti. Fin da questa prima fase i bersagli dell’attenzione del
terapeuta sono dunque, insieme alla costruzione dell’alleanza, eventuali
comportamenti impulsivi che minacciano l’incolumità o la stessa vita del
paziente, quelli che minacciano la stabilità della relazione terapeutica, le
eventuali relazioni affettive in cui il paziente rischia o sperimenta una
ritraumatizzazione, le sindromi depressive, ansiose o ossessive gravi che
frequentemente accompagnano il DPTSc, l’uso di sostanze o i
comportamenti alimentari abnormi, e soprattutto possibili sintomi
dissociativi di alienazione terrorizzanti come quello descritto nell’epigrafe.
Scopo di questa fase non è tanto la scomparsa di tali sintomi, ma
l’aumentata capacità del paziente di comprenderne la natura, controllarli, e
tollerarne il ripetersi senza esserne sconvolto o travolto.
Ottenuta questa stabilizzazione dei sintomi più perturbanti, sarà
possibile passare alle operazioni terapeutiche della seconda fase:
identificazione e graduale superamento delle fobie degli stati interni, lavoro
sulle memorie traumatiche, identificazione e integrazione degli stati dell’io
dissociati. La terza fase mira alla valutazione congiunta del nuovo modo di
funzionamento mentale integrato e allo sviluppo delle capacità relazionali e
metacognitive che lo accompagnano.

STABILIZZAZIONE DEI SINTOMI

Mentre presta grande attenzione alla relazione terapeutica, il clinico che


tratta pazienti con DPTSc deve confrontarsi spesso, fin dalla prima fase del
trattamento, con sintomi perturbanti diversi per ciascun paziente. Talora
l’insonnia, talaltra l’ansia e il panico, altre volte reazioni fobiche,
depressione, comportamenti parasuicidari o idee di suicidio, comportamenti
autolesivi, pattern ossessivo-compulsivi, disturbi del comportamento
alimentare, uso di sostanze, sintomi dissociativi di detachment, flashback e
altri disturbi della memoria opprimono il paziente e lo motivano alla
richiesta di cura. E' essenziale che questi sintomi siano subito presi in
considerazione, e trattati anche con terapie farmacologi-che
(preferibilmente fin dall’inizio in un regime di trattamerito in setting
paralleli integrati) o con Tecniche Cognitivo-Comportamentali (tcc).2 Lo
scopo di questo tempestivo intervento è di sostenere la fiducia, talora assai
scarsa, che il paziente ripone nella possibilità di una riduzione del
complesso malessere che lo affligge, non necessariamente quello di ottenere
una pronta remissione totale che è di regola impossibile nelle fasi iniziali
del trattamento. L’obiettivo dell’intervento iniziale è quello di mostrare al
paziente che non si è impotenti neppure di fronte a sindromi a volte assai
complesse, e che è possibile ridurre la sofferenza rendendola tollerabile.
Nel prossimo capitolo il lettore troverà un paragrafo dedicato ai principi
generali dell’uso delle terapie farmacologiche e delle TCC nel controllo
della sintomatologia specifica del DPTSc (dissociazione, somatizzazione e
disregolazione emotiva). Non è evidentemente opportuno invece, nello
spazio limitato di queste pagine, elencare i farmaci che è possibile usare, o
le TCC che si possono impiegare per fobie, pattern ossessivo-compulsivi,
depressione e comportamenti alimentari abnormi: mancherebbe lo spazio
per descrivere meccanismi d’azione, vantaggi, ed effetti collaterali dei
farmaci, e ancor più per descrivere le complesse procedure delle TCC. Il
lettore meno esperto di questi argomenti dovrà riferirsi all’abbondante
letteratura scientifica esistente sulla psicofarmacoterapia e sulla terapia
cognitivo-comportamentale di ansia, panico, depressione, sintomi
ossessivo-compulsivi e comportamenti alimentari abnormi. Tratteremo
invece qui di seguito due argomenti che è meno facile reperire in letteratura:
la gestione degli eventuali comportamenti parasuicidari e dei sintomi di
detachment, e concluderemo la sezione con alcune note sullo sviluppo delle
capacità metacognitive e di regolazione delle emozioni.

Gestione dei sintomi parasuicidari

Se il paziente manifesta fin dalle prime sedute comportamenti


parasuicidari, o rivela fantasie di suicidio, è altamente raccomandabile
stabilire un contratto terapeutico in cui il paziente si impegna a rinunciare,
in linea di principio, a procurarsi nocumento e in particolare a porre termine
volontariamente alla propria vita. Questa misura, che può apparire ingenua,
in realtà ha dato prova di notevole efficacia nel diminuire il rischio di
suicidio (Linehan, 1993). E' appena il caso di ricordare che il terapeuta
dovrà esercitare tatto e grande abilità tecnica nel proporre il contratto,
presentandolo come una necessità logica e come un aspetto dell’impegno
bilaterale suo e del paziente. Necessità logica, perché l’impegno a curarsi
richiede il persistere in vita e fare quanto è possibile per non nuocere
gravemente a se stessi. Impegno bilaterale perché ciascuno dei due
contraenti la relazione assicura all’altro puntualità e rispetto degli
appuntamenti, che non si dovrebbe ritirare mettendosi deliberatamente in
condizione di mancarvi. In tal modo il contratto di non danneggiarsi
gravemente e non mettere a repentaglio la propria vita rientra nelle forme
dell’alleanza terapeutica, e non appare come una paura egoistica del
terapeuta o come una sorta di ricatto affettivo.
A nostro parere, il contratto di rinuncia a mettere in atto comportamenti
suicidari o parasuicidari esercita spesso un effetto implicito di correzione
delle aspettative più gravemente patogene dei pazienti con storie di traumi
gravi e cumulativi nel corso dello sviluppo. Se i traumi dell’infanzia sono
stati cumulativi, è probabile che siano stati inflitti da uno o entrambi i
genitori, o che uno o entrambi i genitori non abbiano voluto proteggere il
figlio. Se sono stati gravi, è probabile che nel corso di essi il bambino abbia
avvertito una minaccia alla propria vita. Si è così formato in questi pazienti
con traumi complessi particolarmente gravi la convinzione patogena (di
regola inconscia o per meglio dire implicita) che chi si prende cura di loro
può essere indifferente alla loro morte, oppure addirittura desiderarla.
L’atteggiamento del terapeuta, dichiarando implicitamente “voglio che tu
viva e che il tuo corpo non subisca alcun danno procurato da mano umana”
può cominciare a esercitare un effetto correttivo su questa credenza
patogena.
Prezioso è il suggerimento della terapia dialettico-comportamentale
(Linehan, 1993), di eleggere a bersaglio privilegiato per l’attenzione del
terapeuta, in ogni seduta che segua al suddetto contratto e per tutta la durata
della terapia, anzitutto le fantasie suicidane e i comportamenti parasuicidari,
e poi i comportamenti che mettono a rischio la relazione terapeutica. Solo
se questi sono assenti nel dialogo proposto dal paziente, o se l’alleanza
terapeutica e il contratto sono stati ripristinati nel corso della seduta, è
legittimo occuparsi di qualsiasi altro aspetto del trattamento, inclusa la
gestione di sintomi depressivi o d’ansia. In tal modo diviene gradualmente
chiaro al paziente che il terapeuta intende davvero e profondamente non
solo che resti in vita, ma anche non perdere un solo momento del tempo che
si è concordato di trascorrere insieme. E' questa un’intenzione non espressa
soltanto a parole, ma dimostrata dai movimenti dell’attenzione del
terapeuta, e dunque capace di indurre, nel conoscere relazionale implicito
(Stern, 2004), un’esperienza correttiva di sicurezza nell’attaccamento,
ottenuta all’interno di una cornice relazionale di impegno congiunto e
paritetico (il contratto) piuttosto che di sentimentale accudimento.
Resta naturalmente una scelta clinica legittima del terapeuta sottolineare
esplicitamente, quando lo ritiene necessario, che poco potrà fare per
l’incolumità del paziente al di fuori del patto di collaborazione concordato,
per evitare che il paziente, i cui confini di sé sono a volte assai labili, gli
attribuisca la responsabilità dei propri atti autolesivi. Atteggiamenti
impliciti di questo tipo del paziente possono indurre, specie nel terapeuta
meno esperto, uno stato d’ansia capace di riattivare la circolarità viziosa del
caregiver spaventato e spaventante. Ovviamente è compito della
competenza professionale del terapeuta giudicare se per prevenire la messa
in atto di un proposito di suicidio sia necessario il ricovero, ma in genere
questa misura estrema può essere evitata se l’alleanza terapeutica è solida.
Un’esperienza che ripaga il terapeuta dell’inevitabile angoscia prima
provata è sperimentare quanto sia efficace, di fronte a un paziente che
esprime fantasie suicidane, rispondervi prontamente con frasi del tipo: “Lei
sa che non sono d’accordo, e che abbiamo un contratto che dà priorità, di
fronte all’assalto di questi suoi pensieri e del suo dolore, alla prosecuzione
del nostro lavoro congiunto. Vogliamo esplorare insieme quando e come, in
questi giorni, sono emersi questi pensieri, o quando ha cominciato a provare
un dolore troppo intenso?”.

Gestione dei sintomi di detachment

Nella prima fase della terapia di un DPTSc talora l’aspetto del quadro
clinico più perturbante è rappresentato da sintomi dissociativi di detachment
o alienazione, il più frequente dei quali è la depersonalizzazione. Ottenere
un certo grado di controllo e tolleranza di tali sintomi è allora una priorità.
La strategia più appropriata sembra quella della normalizzazione: dare un
nome al sintomo (per esempio: “Sembra che in certi momenti lei provi
quello che noi strizzacervelli chiamiamo depersonalizzazione”) e
dimostrare di conoscerlo e non esserne allarmato è il primo passo che il
terapeuta può compiere per attuarla. Il paziente, infatti, è non di rado
convinto che il sintomo sia raro, a volte persino di essere il solo a provarlo,
che medici e persino psichiatri non lo conoscano, o che sia indice di perdita
prossima di ogni controllo mentale sulla realtà e su se stesso. Apprendere
dal terapeuta che il sintomo ha un nome preciso, che è ben conosciuto da
oltre un secolo nella storia della medicina, che non è affatto segno di una
patologia mentale necessariamente grave e tanto meno incurabile, e che è
comune (tanto da essere il terzo per frequenza, dopo ansia e depressione, fra
tutti i sintomi di stress emozionale), è di solito profondamente rincuorante
per il paziente.
Il secondo passo che il terapeuta può compiere nella normalizzazione
dei sintomi di alienazione consiste nel suggerire al paziente che si tratta
dell’esasperazione di stati mentali che tutti normalmente provano, non di
uno stato mentale totalmente estraneo alla comune esperienza umana.
Blandi o meno blandi sentimenti di irrealtà possono essere transitoriamente
provati da tutti nei sogni, nelle esperienze di déjà-vu o di jamais-vu (Farina,
1999), in condizioni di stress e nella risposta a eventi stressanti o traumatici.
Il problema che terapeuta e paziente devono affrontare insieme è dunque
comprendere perché e come il sentimento di irrealtà (del mondo esterno, di
sé o del proprio corpo) sia diventato per il paziente così intenso, frequente o
persistente. Se il paziente concorda nel considerare questo un interessante
compito congiunto, si può procedere al terzo passo della normalizzazione:
identificare se vi sono ricorrenze significative delle condizioni in cui il
sintomo di alienazione compare, o si esaspera aumentando d’intensità. Con
questo terzo passo, il terapeuta intende suggerire che crede all’esistenza di
un senso indagabile alla base di un sintomo apparentemente insensato e
“alieno”. Di solito, questi tre passi della tecnica di normalizzazione sono
sufficienti a permettere un sufficiente grado di tolleranza dei sintomi di
detachment, e la stabilizzazione delle reazioni emotive e cognitive a essi.
L’indagine sugli antecedenti ricorrenti dei sintomi di alienazione può
rivelare che essi si manifestano come una sorta di evitamento del dolore
mentale, come aspetto del riemergere di una memoria traumatica, ma
soprattutto, nella nostra esperienza, come manifestazione della fobia
dell’attaccamento così tipica in chi proviene da storie di DA e di successivi
traumi intrafamiliari. Sentimenti di vicinanza o di desiderio di vicinanza
protettiva attivano una reazione fobica che consiste nel tentativo di
annullarli, e tale annullamento di sentimenti potenti si manifesta come
depersonalizzazione. Un esempio clinico che illustra questo tipo di
antecedente, il caso di Lia, sarà fornito nella prossima sezione dedicata
all’integrazione degli stati dell’io dissociati.
A volte i pazienti con DPTSc sviluppano l’abitudine a comportamenti
autolesivi nel tentativo di contrastare stati mentali di alienazione,
specialmente quando questi prendono la forma di stati di vuoto mentale (il
blank spell di cui abbiamo parlato nel capitolo 3 ). Tentando di procurarsi
dolore - con tagli, ustioni di brace di sigaretta, forme estreme di
tricotillomania e onicofagia - perseguono lo scopo di recuperare qualche
contenuto di coscienza attraverso uno stimolo corporeo intenso (Linehan,
1993). In questi casi, mentre manifesta netto dissenso richiamandosi al
contratto di non ledere i propri tessuti viventi, il terapeuta riconosce che
l’obiettivo di uscire dallo stato di alienazione è valido, e per questo motivo
suggerisce comportamenti alternativi, che pur configurandosi come stimoli
corporei intensi non comportano altrettanto danno. Per esempio, consiglia
di sostituire tagli e ustioni con l’immergere la testa in acqua fredda, o
applicare sulla guancia una borsa di ghiaccio. L’uso della borsa di ghiaccio
per contrastare depersonalizzazione e derealizzazione è un esempio delle
tecniche dette di grounding, che naturalmente possono essere usate anche
nei casi in cui i sintomi di detachment dissociativo non sono seguiti da
comportamenti autolesivi.

Gestione dei sintomi di alienazione con tecniche di grounding

Le tecniche di grounding (letteralmente, in inglese: atterrare,


agganciarsi al terreno) consistono nella ricerca e nella promozione degli
stimoli sensoriali provenienti dal mondo esterno (luci, suoni), dal corpo
(sensazioni corporee) o da altre attività mentali fortemente motivanti, allo
scopo di ancorare il paziente dissociato alla concreta realtà (interna ed
esterna) e orientarlo nel tempo presente e nello spazio contrastando gli stati
dissociativi di alienazione e di numbing (Chu, 1998; Miti, Onofri, in corso
di stampa). Quando vengono condotte in maniera appropriata queste
tecniche terapeutiche hanno dimostrato di migliorare significativamente la
sintomatologia dissociativa e il senso di padroneggiamento del paziente nei
confronti della sua sofferenza (Levin, Spauster, 1994). In generale è
essenziale promuovere il contatto con la realtà istruendo il paziènte a
riconoscere i primi indizi di uno stato dissociativo e mettere in atto alcuni
accorgimenti per facilitare il proprio orientamento spaziotemporale. Spesso
coloro che soffrono di stati di alienazione possono cercare conforto
ritirandosi in luoghi appartati, scarsamente illuminati e isolati; oppure
quando i sintomi dissociativi sono causati da paura intensa, memorie
traumatiche e flashback i pazienti tendono a rifugiarsi in luoghi protetti, per
esempio nascondendosi sotto le coperte del letto, che sono spesso prive di
stimoli ambientali. Paradossalmente queste manovre autoprotettive possono
peggiorare la sintomatologia dissociativa. Al contrario è bene che i pazienti
trovino ricovero in luoghi ben illuminati in maniera tale da non perdere il
contatto visivo con l’ambiente circostante. Attrezzare il proprio habitat con
calendari, orologi e oggetti familiari, ed entrare in contatto con persone ben
conosciute (anche solo telefonicamente), sono strategie elementari ma di
comprovata efficacia (Chu, 1998). Mantenere il contatto visivo con
l’interlocutore è un’altra manovra semplice e indicata per contenere o
evitare lo stato di alienazione. Diverse crisi dissociative in seduta sono state
risolte naturalmente quando il terapeuta con voce rassicurante e ferma ha
chiesto al paziente di mantenere il contatto degli sguardi. Alcuni pazienti
con storie traumatiche possono invece essere spaventati dall’incrociarsi
degli sguardi, in questo caso è raccomandato che il terapeuta chieda al
paziente di osservare con attenzione e di descrivere altri elementi
dell’ambiente circostante come i mobili della stanza, gli oggetti che lo
circondano, il colore del cielo o i movimenti delle mani del terapeuta stesso
(manovra coincidente con le tecniche di EMDR). A volte è utile spostare
l’attenzione del paziente sulle sue sensazioni cenestesiche chiedendogli di
descrivere la posizione del suo corpo o di parti di esso, la sensazione di
caldo o freddo oppure le sue emozioni in quel momento.
Tra le altre tecniche di grounding sperimentate con successo troviamo:
ascoltare la musica preferita, leggere un libro, toccare gli oggetti familiari
nominandoli a voce alta, accarezzare il proprio animale domestico, ripetersi
frasi del tipo “adesso sono al sicuro e ciò che provo è un ricordo del
passato” oppure “io sono qui adesso”, toccarsi e nominare parti del proprio
corpo, concentrarsi sul respiro e sulle sensazioni corporee, usare tecniche di
rilassamento. Negli ultimi anni sono state sviluppate tecniche di
rilassamento e yoga specifiche per i pazienti con disturbi traumatico-
dissociativi (vedi prossimo capitolo). L’attività sportiva, aumentando i
livelli di endorfine e stimolando le afferenze sensitive cenestesiche, è una
delle manovre di grounding più diffuse ed efficaci.
A nostro avviso, ogni volta che ciò sia possibile, il modo migliore per
padroneggiare la depersonalizzazione è condividere ciò che si sta vivendo
con una persona di cui ci si fida. A volte è utile che questa persona sia il
terapeuta, ed è in tal caso bene programmare contatti telefonici
estemporanei fuori dalle sedute. Se non sono disponibili persone di fiducia
nel momento in cui il paziente avverte l’insorgere incipiente della
depersonalizzazione, il paziente può anche scrivere al terapeuta raccontando
ciò che gli accade.
Per gestire sintomi di alienazione attraverso l’immediata comunicazione
della propria esperienza sono necessarie fiducia nell’altro e una buona
alleanza terapeutica, spesso difficili da ottenere nei pazienti che vengono da
storie di cronica traumatizzazione interpersonale. Le diverse tecniche di
grounding descritte necessitano inoltre di gradi differenti di abilità cognitive
(concentrazione, attenzione) che negli stati dissociativi possono essere
esercitate con difficoltà. Per questi motivi è importante che il clinico sappia
individuare con abilità la tecnica più adatta al paziente per evitare che il
fallimento della manovra abbia l’effetto iatrogeno di confermare le
credenze patogene di sfiducia e inaiutabilità. Talora è necessario
accompagnare le tecniche di grounding con interventi miranti ad aumentare
le abilità metacognitive.

Sviluppo delle capacità metacognitive e di regolazione delle emozioni

I sintomi di alienazione sono esempi di forme estreme di deficit


metacognitivo, e spesso emergono nel contesto di emozioni tanto veementi
da non poter essere regolate. Essi potrebbero costituire una difesa
dissociativa volta ad annullare specificamente il dolore del trauma, come
sostiene la teoria ancora prevalente. Potrebbero essere il risultato di un
tentativo di inibire globalmente l’emotività troppo intensa e sregolata tipica
degli sviluppi traumatici (Linehan, 1993), o ancora potrebbero esprimere un
aspetto, non difensivo, dell’attivazione di un MOI di attaccamento
disorganizzato e del sistema motivazionale di difesa (come sostiene il
nostro modello teorico cognitivo-evoluzionista). Infine, i sintomi di
alienazione potrebbero segnalare la transizione da uno stato dell’io
dissociato a un altro come suggeriscono, sulla base dell’originaria teoria di
Janet, van der Hart e collaboratori (2006). In tutti questi casi, i sintomi di
detachment sono di regola correlati a deficit metacognitivi e spesso sono
preceduti o seguiti da emotività sregolata (si ricordi il caso di Anna
descritto nel capitolo 6). Per questa ragione, l’eventuale presenza di sintomi
di alienazione rende ancor più necessaria l’attenzione che il terapeuta fin
dalla prima fase della terapia dedica in ogni caso, che siano presenti o
assenti sintomi di detachment e comportamenti autolesivi, al sostegno e
sviluppo delle capacità di mentalizzazione e di regolazione delle emozioni
nel paziente.
Le strategie utilizzabili per aumentare le capacità di mentalizzazione o
metacognitive, e le capacità di regolazione delle emozioni, sono descritte
dettagliatamente in opere già citate, a cui si rimanda il lettore (Allen et al.,
2008; Bateman, Fonagy, 2004; Dimaggio, Semerari, 2003; Linehan, 1993).
Qui segnaliamo in aggiunta, come particolarmente adatto a svolgersi nella
dimensione del colloquio clinico diretto fin dalla prima fase della terapia, il
sostegno all’esercizio della memoria autobiografica specifica ottenuto
chiedendo al paziente, ogni volta che se ne presenti l’occasione, di
soffermarsi sugli eventi che nomina (anche quando li nomina di sfuggita o
indirettamente), per ricostruire il contesto in cui si sono verificati (luogo,
tempo e circostanze), le emozioni o sensazioni corporee provate, i pensieri
che le hanno accompagnate, e le azioni compiute. Una sofisticata
discussione delle potenzialità di questo metodo conversazionale per
l’incremento delle capacità riflessive nei pazienti traumatizzati
(metacognizione o mentalizzazione), volto a ottenere resoconti simili a una
cronaca ben fatta, è offerta da Meares (2000).
Il modello cognitivo-evoluzionista dello sviluppo traumatico suggerisce
contesti specifici del dialogo col paziente in cui è più probabile ottenere
buoni risultati con le prassi cliniche che favoriscono la meta-cognizione: si
tratta dei contesti in cui i sistemi motivazionali attivi sono anzitutto e
idealmente quello cooperativo, ma anche quelli implicati nelle strategie
controllanti del paziente. Quando il terapeuta identifica comportamenti del
paziente, all’interno del dialogo clinico, motivati dal sistema competitivo di
rango, oppure dal sistema di accudimento, e pensa di poterli considerare
espressione, rispettivamente, della strategia controllante-punitiva o della
strategia controllante-accudente, sarà utile, nella prima fase della terapia e
fino a che il paziente non abbia conquistato una stabile capacità di
mentalizzare durante lo scambio clinico, rinunciare ad atteggiamenti
interpretativi e privilegi l’occasione per sostenere in modi più semplici le
funzioni riflessive. Il terapeuta, in queste circostanze, non dovrà dunque
tentare esplicitamente di ricondurre il significato di queste strategie a una
difesa contro i suoi desideri di attaccamento, implicanti il rischio della
dissociazione a causa del MOI di attaccamento disorganizzato. Piuttosto,
tenendo presente che in quel momento le strategie controllanti esprimono
un tentativo di preservare dalla dissociazione le funzioni riflessive superiori
minate dai MOI della DA, farà bene a usare le capacità metacognitive
ridotte ma presenti, sostenendole col chiedere al paziente cosa prova e cosa
pensa nel qui e ora.

LAVORO SU MEMORIE TRAUMATICHE E RELATIVE FOBIE DI


STATI INTERNI

Una volta che il paziente abbia ottenuto una sufficiente stabilizzazione


dei sintomi, l’alleanza terapeutica sia stata ottenuta e ripetutamente
ripristinata dopo le inevitabili rotture, e le capacità metacognitive siano
state adeguatamente sostenute, è possibile dare inizio alla seconda fase della
terapia, centrata sull’esame più attivo e attento delle memorie traumatiche
rispetto all’ascolto eventuale di esse durante la prima fase, e poi
sull’integrazione. Talora il lavoro sulle memorie traumatiche nella seconda
fase della terapia costituisce un ritorno su ricordi che il paziente ha
spontaneamente riportato durante la prima fase.

Atteggiamento del terapeuta posto di fronte a ricordi traumatici nella


prima fase della terapia

Il lavoro sulle memorie traumatiche, quando il paziente vi accenna


durante la prima fase della terapia, deve limitarsi a tre classi di intervento
del terapeuta. La prima è un ascolto attento e rispettoso di qualsiasi cosa il
paziente dica, durante il quale il terapeuta focalizza l’attenzione interna sul
pensiero delle risorse che hanno permesso al paziente di sopravvivere al
trauma che narra. Lo scopo di perseguire un tale tipo di ascolto focalizzato
sulle risorse che hanno permesso di gestire il trauma, anziché sui deficit che
ne sono conseguiti, è di mantenere un atteggiamento interiore cooperativo-
paritetico e di ridurre in sé l’attivazione, peraltro in qualche misura
inevitabile e necessaria, del sistema motivazionale di accudimento. In altre
parole, durante il racconto del paziente e subito dopo, il terapeuta deve
evitare di assumere atteggiamenti di orrore e indignazione verso chi ha
inflitto tali sofferenze al paziente bambino, di compatimento, e di desiderio
di compensare il paziente per i danni subiti. L’enactment di eventuali
sentimenti di pena da parte del terapeuta (oggi sappiamo che basta l’opera
dei neuroni specchio perché il paziente lo percepisca sul volto o nel tono di
voce del terapeuta) incoraggerebbe l’ulteriore attivazione del sistema di
attaccamento, già inevitabilmente risvegliato nel paziente dall’atto di
narrare un dolore a una persona disposta all’aiuto. Il rischio che riemerga un
MOI disorganizzato a livello implicito, non gestibile all’inizio della terapia
dal paziente privato di capacità metacognitive proprio dall’emergere delle
memorie traumatiche (van der Kolk, 1996), sarebbe così incrementato.
La seconda classe di interventi da usare, subito dopo la prima appena
descritta, quando il paziente racconta spontaneamente ricordi di traumi
infantili durante la prima fase della terapia, consiste nel riconoscere con
poche semplici parole, senza enfasi o commiserazione, l’entità della
sofferenza provata, e indicare con chiarezza che il terapeuta sarà sempre
pronto ad ascoltare ogni racconto che il paziente vorrà fare di episodi
traumatici, ma senza chiedere ulteriori dettagli oltre a quanto il paziente ha
spontaneamente riferito. Il motivo di questa scelta clinica è triplice: ( 1) il
paziente deve sapere che il terapeuta è pronto in ogni momento ad ascoltare
il racconto delle sue sofferenze, comunque voglia liberamente riportarlo,
ma che ritiene utile farlo in tempi e modi che rispettino le scelte, al
riguardo, del paziente; (2) il paziente non ha all’inizio del trattamento
sufficienti capacità metacognitive e di controllo per rispondere
fruttuosamente a interventi interpretativi del terapeuta che prendano le
mosse dal ricordo traumatico rievocato; (3) durante e subito dopo tale
rievocazione il paziente prova di solito sentimenti intensi di dolore mentale,
paura (Holmes, 2004), impotenza, colpa e vergogna (Herman, 1992b; Lee et
al., 2001) che sarebbero alimentati da un’indagine dettagliata del terapeuta
sull’evento traumatico appena raccontato. L’alleanza terapeutica che si tenta
faticosamente di costruire e ricostruire durante la prima fase della terapia
sarebbe minata dall’atto di esporre ulteriormente il paziente a tali sentimenti
chiedendogli di sostare sul ricordo che li ha evocati più a lungo di quanto
non abbia voluto fare spontaneamente. In ogni caso, il terapeuta deve avere
presente che il paziente, narrando episodi traumatici dell’infanzia, sta
parlando direttamente o indirettamente di membri della propria famiglia che
li hanno provocati o non hanno protetto da essi, e che come membro di tale
famiglia prova intensa vergogna - e inoltre prova spesso anche colpa,
conseguente all’attribuzione di responsabilità a se stesso per il trauma
subito (l’idea di aver causato col proprio comportamento il maltrattamento
di un familiare, e di essere almeno in parte colpevole dell’accaduto, è
assolutamente tipica negli sviluppi traumatici) (Herman, 1992b).
Piuttosto che cercare di confutare le credenze patogene che
accompagnano e seguono le esperienze di traumi cumulativi nell’infanzia,
nellaj prima fase della terapia il terapeuta dovrebbe costruire ipotesi molto
accurate su quale forma esatta esse possano aver assunto. A tale scopo, è
indicata la terza classe di interventi con i quali il terapeuta può rispondere,
nelle prime sedute, al racconto spontaneo di traumi: domande rivolte al
paziente su se e come creda che gli eventi traumatici del passato stiano
esercitando un’influenza sulla sua vita attuale. Il terapeuta che ritiene che
tali influenze sulla vita attuale sono mediate da credenze patogene su sé e
sugli altri costruite durante e dopo l’esposizione a traumi cumulativi, potrà
notare che molto raramente il paziente risponde in questi termini. Di solito,
infatti, la risposta del paziente alla suddetta domanda del terapeuta non
allude a credenze patogene potenzialmente sempre modificabili, ma a
immodificabili tratti negativi della personalità propria e altrui che, a suo
giudizio, hanno causato il trauma e che l’esperienza traumatica ha
rafforzato. Il paziente non dirà, per esempio: “Questa esperienza mi induce
ancor oggi a chiedermi se l’altro con cui sto mi voglia davvero bene come
dice”, il che rivelerebbe che è vicino a comprendere che vige in lui la
convinzione di dovere per prudenza esplorare senza fidarsi la tenuta di
sentimenti di affetto che gli vengano rivolti. Piuttosto, esprimerà il concetto
ipergeneralizzato di valere nulla, e di non potersi aspettare alcunché di
buono dagli altri. Proprio questo tipo di credenza generalizzata suggerisce
al terapeuta l’importanza di sostenere i processi metacognitivi e di
conseguire un buon rapporto empatico e di alleanza prima di poter
procedere nella seconda fase della terapia a un più attento e approfondito
lavoro sulle memorie traumatiche. Un elegante studio randomizzato
controllato di Cloitre e collaboratori, brillantemente commentato da Bryant,
ha dimostrato l’importanza di far precedere all’approfondito lavoro clinico
sulle memorie traumatiche una fase preparatoria che incrementi le
competenze relazionali e metacognitive dei pazienti con storie infantili di
traumi (Bryant, 2010; Cloitre et al., 2010).

Lavoro sulle memorie traumatiche nella seconda fase della psicoterapia

Le memorie traumatiche comportano di regola l’incompleta


integrazione del ricordo nel flusso continuo dell’autocoscienza, a causa dei
processi dissociativi di detachment e compartimentazione. La conseguenza
della dis-integrazione di queste memorie è che esse influenzano il
comportamento e le reazioni emotive dei pazienti, disorganizzandoli, senza
che essi ne siano pienamente consapevoli. Nel capitolo 6 abbiamo trattato le
modalità per riconoscere la presenza di memorie traumatiche e individuare
gli effetti che queste esercitano su stati mentali, comportamenti, reazioni
emotive e narrazioni dei pazienti. E' ora il momento di descrivere i principi
generali del lavoro clinico volto a integrare le memorie traumatiche nel
flusso continuo della coscienza di sé.
E' bene sottolineare che lo scopo del trattamento delle memorie
traumatiche non è quello di far emergere un contenuto rimosso, ma
piuttosto quello di ricostituire l’interezza degli eventi vissuti, di associare le
diverse componenti frammentate (emotiva, sensoriale, motoria, cinestesica,
cognitiva), assimilarle e permetterne l’integrazione nella narrazione
autobiografica del paziente al fine di evitare o mitigarne l’effetto
disorganizzante. Poiché le memorie traumatiche provocano intensi e
soverchianti stati emotivi è necessario che tale lavoro di integrazione sia
preceduto da quello sulla regolazione delle emozioni e sul trattamento della
fobia di alcuni stati mentali associati agli eventi traumatici. Le reazioni
emotive sregolate e disorganizzanti sono provocate sia dall’emersione
incontrollata dei sentimenti (soprattutto di paura, vergogna e rabbia)
associati ai dolorosi eventi del passato, sia dalle risposte automatiche e
preriflessive di fobia degli stati mentali connessi ai maltrattamenti e abusi
subiti nell’infanzia. E' un errore comune tra i terapeuti meno esperti quello
di avviare la ricostruzione delle memorie traumatiche senza aver ottenuto
una sufficiente capacità del paziente di tollerare le emozioni e gli altri stati
mentali associati al trauma (van der Hart et al., 2006). Per stabilizzare
emotivamente il paziente e permettergli di affrontare le intense emozioni
connesse alle memorie traumatiche il terapeuta ha a disposizione i risultati
raggiunti attraverso la regolazione della relazione terapeutica nella prima
fase: migliore capacità di mentalizzare, aumentate capacità di controllo e
senso di maggiore sicurezza. Può inoltre usare alcune tecniche specifiche,
come quelle di validazione e di mindfulness impiegate dalla terapia
dialettico-comportamentale (Linehan, 1993), le terapie sensomotorie e
l’EMDR (di esse si tratterà nel prossimo capitolo). In generale è necessario
che il terapeuta favorisca l’esposizione graduale del paziente agli stati
mentali associati al trauma, e lo aiuti a riconoscerli, sperimentarli
progressivamente e comunicarli verbalmente durante le sedute. Studi di
risonanza magnetica funzionale hanno dimostrato che riconoscere e
verbalizzare gli stati emotivi produce di per sé un aumento significativo di
controllo della neocorteccia sull’attività del sistema limbico (Lieberman et
al., 2007). Diversi specialisti ritengono utile in questa fase del trattamento
l’uso di terapie farmacologiche per mitigare l’intensità delle reazioni
emotive e migliorarne la regolazione (Miti, Onofri, in corso di stampa; van
der Hart et al., 2006).
Un esempio particolarmente importante di emozione vissuta
catastroficamente dai pazienti traumatizzati è la vergogna (Lee et al., 2001).
La vergogna è un sentimento pervasivo nelle vittime di abusi infantili, è
solitamente provocato e sostenuto da un generalizzante senso di indegnità e
mancanza di valore, e non di rado precede immediatamente la comparsa di
stati dissociativi (Irwin, 1998). Nel nostro modello teorico, la vergogna non
va considerata causa della dissociazione, ma estremo baluardo opposto agli
stati mentali di annichilimento e di estrema alienazione dal mondo
relazionale tipici del detachment (vedi capitolo 5). In quanto aspetto di una
strategia controllante basata sul sistema motivazionale interpersonale di
rango, la vergogna (che segnala sottomissione al dominante; Trower,
Gilbert, 1989) è ancora un’emozione di relazione. Il collasso anche di
questa strategia controllante, causato da situazioni che attivano troppo
potentemente il sistema di attaccamento, spiega il motivo per cui la
vergogna spesso precede immediatamente la comparsa di sintomi
dissociativi: una volta che sia collassata l’estrema strategia controllante
basata sul rango, emerge il MOI disorganizzato con tutto il suo potenziale
dissociativo. Questa ipotesi permette al terapeuta di vaìidare la vergogna del
paziente come tentativo di mantenersi in relazione con l’altro - sia pure in
una relazione particolarmente sgradevole e basata su percezioni
interpersonali infondate. Meglio, in altre parole, una relazione sgradevole
con un dominante che l’abisso dissociativo dell’estrema solitudine interiore
pur in presenza di un altro essere umano significativo. Parlare della
vergogna come di un’emozione dotata di senso, all’interno di una relazione
empatica e collaborativa ove se ne riconosce l’universale presenza
nell’esperienza umana, evita che il paziente si percepisca indegno
all’interno dello scambio clinico. Una volta validata così la vergogna, potrà
iniziare il processo di regolare questa emozione. Il terapeuta procederà con
l’assistere il paziente nel compito di individuare, tramite tecniche di auto-
osservazione, gli episodi di vita in cui ha provato un’insostenibile vergogna
o le strategie messe in atto per evitarla. Attraverso l’esposizione graduale a
queste memorie episodiche (non necessariamente traumatiche) prende
forma il superamento della fobia per la vergogna, ovvero la
decatastrofizzazione di questo sentimento e delle sensazioni corporee a esso
associate. Questo lavoro permetterà in seguito al paziente di vivere con
meno allarme la ricostruzione di una memoria traumatica alla quale sia
associato un intenso sentimento di vergogna, ed evitare sintomi dissociativi
durante o dopo la seduta.
Altre fobie di stati mentali associate alle memorie traumatiche sono
quelle relative ad alcuni bisogni (primo fra tutti il bisogno di chiedere aiuto)
e quelle che coinvolgono il proprio corpo, solitamente vissuto dalle vittime
di traumi (specie sessuali) con vergogna e disgusto (van der Hart et al.,
2006). Tra queste è tipica la fobia legata ai desideri e agli stimoli erotici che
i pazienti con storie di abuso sessuale infantile possono associare alle
esperienze traumatiche. In questi casi è talvolta utile avviare un trattamento
integrato con uno specialista sessuologo (Ivaldi, Mantione, 2005).
Solo dopo aver stabilito con il paziente una buona alleanza, condiviso
gli scopi del lavoro che ci si appresta a compiere, e sperimentato l’aumento
delle capacità metacognitive e di controllo degli stati emotivi, è possibile
procedere alla rievocazione guidata delle memorie traumatiche.
La prima operazione per la ricostruzione guidata di una memoria
traumatica è ricostituire la funzione janetiana di presentificazione, ovvero di
distinzione tra passato e presente, ricostruendo con il paziente i confini
temporali dell’evento da condividere in seduta. Ciò permetterà al terapeuta
di aiutare il paziente ad ancorare le dolorose emozioni connesse al trauma a
un avvenimento del passato ed evitare che queste sconfinino nel presente
disorganizzandolo. E' utile ricordare costantemente al paziente i confini
temporali degli eventi trattati con frasi del tipo: “Capisco quello che prova
in questo momento ma rammenti che ciò che mi sta raccontando è accaduto
diverso tempo fa, è finito e lei non è più in pericolo”. Per questo motivo è
anche importante che il lavoro sulle memorie traumatiche avvenga sempre
dopo la stabilizzazione e quando il paziente è pienamente al di fuori di
situazioni di minaccia (relazioni abusanti coinvolgimento ancora attuale nei
contesti familiari traumatici). In caso contrario non è possibile al paziente
porre un confine tra il passato minaccioso e il presente, e il lavoro sulle
memorie potrebbe essere confondente e iatrogeno. Per ottenere un costante
livello di presentificazione durante il lavoro sulle memorie traumatiche è
utile che il terapeuta ricorra talvolta alle tecniche di grounding appena
descritte, per tenere il paziente nel qui e ora della seduta mentre egli rievoca
esperienze del passato. E' utile quindi chiedere al paziente di tenere sempre
presente i dati della realtà presente (l’arredamento della stanza, la data
segnata sul calendario, il conforto che egli può avere nel luogo dove si
svolge la terapia) distinguendoli dagli elementi delle vicende traumatiche.
A questo proposito è cruciale monitorare costantemente sia il livello di
coscienza del paziente sia il suo stato di sofferenza con domande esplicite
volte ad adattare l’intensità del lavoro di esposizione alla capacità del
paziente di sopportarla. Anche in questo caso, se non si procedesse con
cautela la terapia potrebbe avere effetti iatrogeni (Classen et al., 2006).
Il secondo compito del lavoro sulle memorie traumatiche consiste
nell’integrazione delle differenti componenti dell’evento: le emozioni e le
sensazioni corporee, le immagini mentali, i significati generali e specifici
derivanti dall’accaduto. La tecnica che si può impiegare non è diversa da
quella già usata nelle prime fasi della terapia per il lavoro sulla memoria
episodica non traumatica. Si può utilizzare, in alternativa alla già ricordata
tecnica EMDR di cui tratteremo nel capitolo 9, la tecnica cognitivo-
comportamentale chiamata ABC, oppure una modalità di indagine clinica
simile alla breakfast interview (Stern, 2004), citate nel capitolo 6. Questa
volta però lo scopo è permettere al paziente di ricostruire in maniera
integrata le componenti frammentate delle proprie vicende traumatiche
all’interno della memoria condivisa tra paziente e terapeuta, utilizzando
l’aumentata capacità di mentalizzazione favorita dalla relazione. Durante
questa fase il terapeuta dovrà frenare gradualmente e con cautela
l’evitamento dei contenuti e degli stati mentali associati al trauma.
In una successiva fase, dopo che i ricordi hanno assunto l’integrità e la
sintesi necessarie e il paziente è in grado di rievocarli con livelli emotivi
contenuti, è possibile avviare la scoperta guidata dei significati generali con
domande del tipo: “Come questo può aver influenzato ciò che lei pensa di
sé e degli altri?”, oppure “Crede che quello che mi sta raccontando può aver
influenzato la sua idea di essere una persona indegna?”. E' importante
proseguire il lavoro anche su convinzioni più specifiche e sui temi
particolari derivanti dagli eventi traumatici ricordati: “Lei ha detto di aver
in qualche modo contribuito agli abusi che ha dolorosamente subito, mi
aiuta a capire come?”. In tal modo, oltre a saldare i diversi frammenti delle
memorie traumatiche, la terapia può agire sulle convinzioni disfunzionali e
sui cicli interpersonali patogeni che queste hanno prodotto.
Se il lavoro di integrazione delle memorie traumatiche nella narrazione
autobiografica corrisponde alla janetiana opera di sintesi personale, i suoi
effetti terapeutici si manifestano con l’aumento di un’altra funzione mentale
descritta da Pierre Janet: la fonction du réel, ovvero di realizzazione delle
memorie ora integrate. Dopo il lavoro di integrazione delle memorie
traumatiche il paziente non acquista solamente il pieno ricordo e la
comprensione intellettuale di ciò cui è stato esposto durante l’infanzia, ma
mostra gli effetti dell’integrazione del ricordo nella sua personalità e nel suo
funzionamento generale. La capacità ora acquisita di distinguere ciò che è
accaduto in altre circostanze nel passato da ciò che accade nel momento
presente gli permette di agire sulla realtà con nuove strutture cognitive
senza essere disturbato dall’effetto disorganizzante delle memorie
traumatiche.

Cautele da osservare durante il lavoro clinico sulle memorie


traumatiche

Il lavoro sulle memorie traumatiche è un compito difficile che richiede


particolari cautele. E' bene dividere le sedute dedicate alla ricostruzione
delle memorie traumatiche in tre parti: la prima dedicata alla preparazione
del paziente al lavoro, la seconda all’esposizione guidata e al lavoro sui
ricordi, la terza invece per riepilogare quanto è avvenuto, condividerne
ancora i significati e riportare il paziente al presente in maniera stabile e
conclusiva (Kluft, 1993; van der Hart et al., 2006). In caso contrario il
paziente potrebbe ritrovarsi dopo la seduta, da solo, nella morsa dei ricordi
traumatici senza l’aiuto protettivo e consapevole del terapeuta. Inoltre,
durante il lavoro di integrazione delle memorie traumatiche è importante
che il terapeuta sia consapevolmente equilibrato e si liberi dal rischio di
un’eccessiva fascinazione per i contenuti dei ricordi o quello della
collusione con l’evitamento difensivo dei pazienti, errori questi non
infrequenti in questa fase del lavoro clinico.
E' appena necessario ribadire che in nessun caso il terapeuta deve
insistere per conoscere i più minuti ulteriori dettagli degli episodi traumatici
riferiti, e ciò vale in particolar modo per le violenze sessuali. Forzare il
paziente oltre i limiti del ricordare che al momento trova accettabili è
sempre un errore grave, che implica la rottura dell’alleanza terapeutica, la
perdita delle condizioni di sicurezza nel dialogo, e a volte la percezione del
paziente di subire una nuova violenza. I dettagli minuti delle memorie
traumatiche non sono mai necessari: è sufficiente che di esse sia riferito
quanto basta ad assicurare una comprensione congiunta dell’accaduto.
Neppure è utile cercare di ricostruire la memoria di un gran numero di
eventi traumatici di cui il paziente con DPTSc è stato vittima durante lo
sviluppo della personalità: due o tre episodi, o persino uno solo
emblematico, sono sufficienti.
Dell’ultima precauzione che il terapeuta deve prendere quando svolge il
lavoro clinico sulle memorie traumatiche, precauzione volta a evitare il
rischio di evocare e confermare inconsapevolmente false memorie, sarà
discusso in dettaglio, vista la sua importanza, nel capitolo 9.

INTEGRAZIONE DEGLI STATI DELL’IO DISSOCIATI

L’integrazione degli stati dell’io dissociati si può considerare culmine e


coronamento del processo terapeutico del DPTSc e in generale dei disturbi
correlabili a sviluppi traumatici, sia quando tali stati si manifestano come
aspetti non perfettamente integrati della personalità (come per esempio nei
casi meno gravi di disturbo borderline di personalità), sia quando
raggiungono la complessità delle personalità alternate (alter) separate da
barriere di amnesia dissociativa (tipiche dei casi più gravi di disturbo
dissociativo dell’identità), sia infine quando compaiono in una forma
intermedia fra questi due estremi (come può osservarsi nei numerosi tipi di
comorbilità fra diverse diagnosi DSM complicate da sintomi dissociativi).
Il clinico attento ai processi mentali dissociativi può talora osservare
che l’integrazione è avvenuta spontaneamente (senza cioè particolari
interventi mirati esplicitamente a conseguirla), come effetto del
miglioramento delle capacità metacognitive o di mentalizzazione ottenuta
con le strategie psicoterapeutiche disponibili (Alien et al., 2008; Dimaggio
et al., in corso di stampa; Dimaggio, Semerari, 2003), e anche come effetto
del superamento progressivo di tutte le fobie degli stati interni ottenuta
attraverso le procedure descritte in precedenza (van der Hart et al., 2006). In
questi casi, è di solito chiaro che con l’integrazione il processo terapeutico
ha raggiunto il suo culmine e coronamento. Nel superare ogni fobia degli
stati interni il paziente è divenuto necessariamente anche più abile nel
mentalizzare, cioè nel riconoscere come i propri stati mentali e quelli degli
altri come transitori e dipendenti dal contesto relazionale, e non più come
proprietà generali, onnipresenti e immodificabili, dell’io e della realtà
esterna. Ha quindi accesso simultaneo o in rapida sequenza ai diversi stati
dell’io prima separati dalla fobia l’uno dell’altro e dalla barriera
dissociativa. Ne consegue la possibilità di costruire strutture di significato
che, distinguendoli e contestualizzandoli, connettono fra loro i diversi stati
dell’io: è questo sostanzialmente ciò che s’intende per integrazione e per
sintesi personale.
Una splendida metafora della compartimentazione dissociativa e della
possibilità di una successiva integrazione è offerta da un gioiello della
letteratura italiana, Il visconte dimezzato.3 In questa novella di Italo Calvino
le due metà del protagonista (una buona e una malvagia come nel famoso
libro di Stevenson),4 separate da un trauma quasi mortale, si alternano sulla
scena del mondo non incontrandosi mai, e possono riunificarsi solo quando
altri, che le hanno incontrate entrambe in momenti diversi, ne testimoniano
la duplice simultanea realtà. Fuor di metafora, l'integrazione degli stati
dell’io dissociati richiede un contesto interpersonale unitario dove
l'interlocutore del paziente si accorga della loro esistenza e della loro
separatezza nella coscienza e nella memoria, e operi in modo da segnalarla
(esplicitamente oppure implicitamente) al paziente.
Il seguente esempio clinico illustra come l'integrazione possa avvenire
spontaneamente, dopo una lunga psicoterapia che, dopo aver incrementato
le capacità metacognitive, aveva identificato e risolto due opposte fobie
degli stati interni della paziente, senza mai avere però trattato
esplicitamente i corrispondenti stati dell’io dissociati.

Lia, 49 anni, aveva terminato due diverse lunghe psicoterapie, una


psicoanalitica e una cognitivista, durate complessivamente oltre
ventanni. Le fobie degli stati interni erano state progressivamente
risolte. Lia, il cui disturbo in passato aveva soddisfatto tutti i criteri per
la diagnosi di DPTSc (ma la prima diagnosi era stata di DBP in
comorbilità con la bulimia nervosa), e che aveva sofferto di intensi e
gravi sintomi dissociativi di detachment, poteva ora avere accesso a
tutte le sue emozioni, che fossero piacevoli o dolorose, e legate a
eventi presenti oppure al rivivere memorie traumatiche. Durante una
seduta di follow-up, a distanza di due mesi dal termine concordato
dell'ultima terapia, Lia raccontò con soddisfazione al terapeuta di aver
compreso il motivo delle drammatiche interruzioni di tutte le sue
relazioni coniugali e affettive. "Avevo sempre pensato che le mie storie
amorose seguissero uno schema ripetitivo”, disse Lia, “Prima un uomo
cortese e piacevole mi prestava attenzione, poi io, incredula di poter
essere amata, mi davo a lui per gratitudine con tutta me stessa, e dopo
un poco senza motivo lui cominciava ad aggredirmi e criticarmi in
modi durissimi, cosa che anche se sopportata per anni non poteva che
condurre a una rottura definitiva. Ora ho capito che c’era un altro
aspetto di me a suscitare l'ostilità crescente dei miei due mariti e del
mio compagno. Appena ero dentro la relazione, appena cominciavamo
a vivere insieme, io mi estraniavo dentro, letteralmente non c’ero più,
non provavo più nulla. Un po’ come nella depersonalizzazione su cui
abbiamo lavorato tanto in terapia. Ero credo sempre gentile e
affettuosa nel comportamento, ma non pensavo o provavo più nulla
quando ero in presenza del mio partner. Magari avevo orgasmi, ma in
qualche modo non me ne importava. Quando ero con loro ero sempre
convinta di essere innamorata e non sapevo bene di non esserci, di
essere lì ma allo stesso tempo di non partecipare interiormente a nulla,
e però alcuni amici mi hanno detto che quando mi vedevano con il mio
compagno o con mio marito non sembravo affatto innamorata. Ma non
facevo caso a quello che dicevano, non mi chiedevo mai perché gli
amici lo dicessero. Oggi penso che gli uomini della mia vita dovevano
accorgersene che in qualche modo non c’ero, e questo doveva
esasperarli.”
Il terapeuta commentò: “Dunque c’erano come due parti di lei, una
convinta di essersi data anima e corpo a suo marito o al suo compagno,
e l'altra, memore dei dolori passati nelle prime relazioni affettive, che
proprio a causa del timore del rinnovarsi del dolore si estraniava, forse
a volte fino al punto di produrre stati di depersonalizzazione”. "Proprio
così”, replicò Lia, “ma allora io non lo sapevo, solo adesso, ripensando
alla mia vita, l'ho capito.” “Direbbe ora”, chiese il terapeuta, “che le
passassero per la coscienza, nell'estraniarsi, pensieri di pericolo
conseguente a un legame affettivo?” “Oh, sì, certamente”, rispose Lia,
“ma quella che si credeva innamorata non sapeva nulla di questi
pensieri e dell'estraniamento, e non capiva perché venisse aggredita.”
Nella seconda psicoterapia si era parlato a lungo della fobia della
perdita e dell’opposta fobia dei sentimenti di attaccamento, ma mai,
nelle due terapie, si era nominata resistenza di parti separate di sé. I
due stati dell’io reciprocamente dissociati, quello desideroso di
intimità affettiva e l’altro che la temeva, erano apparsi insieme e si
erano solo ora ricomposti spontaneamente, grazie al superamento di
tali fobie nella relazione terapeutica, in una coscienza unitaria di sé,
che dava senso a tutto ciò che era accaduto a Lia nelle sue relazioni
affettive. Lia ora non giudicava negativamente nessuna delle due parti
(e questo, di imparare a osservare senza giudicarlo il proprio mondo
interno, era stato uno dei compiti del trattamento): era legittimo
desiderare un amore, ma altrettanto legittimo, viste le esperienze
dell’infanzia, temere questo sentimento ed evitarlo. Solo ora che la
lacerazione dissociativa si era risolta in un normale conflitto fra
desiderio e paura, Lia e il terapeuta pensavano che le sarebbe stato
possibile tentare l’avventura di una quarta convivenza con buone
probabilità di successo.

Se casi come quello di Lia testimoniano che l’integrazione può avvenire


spontaneamente, come effetto indiretto (nel senso di non deliberatamente
cercato) di una buona psicoterapia che riduca la paura del proprio mondo
interno e favorisca lo sviluppo della mentalizzazione, in altri casi il
riconoscimento e l’integrazione degli stati dell’io dissociati devono essere
cercati deliberatamente perché il trattamento dei disturbi conseguenti a
sviluppi traumatici possa dirsi concluso con successo. Anche se mancano
ancora studi controllati al riguardo, gli studi "in aperto” esistenti suffragano
la tesi che senza tale integrazione i risultati anche molto positivi della
psicoterapia non sono stabili (Brand et al., 2009). Dedicheremo quindi i
prossimi paragrafi di questa sezione a delineare le linee guida per
l'identificazione degli stati dell’io dissociati e la loro deliberata
integrazione.

Condizioni per l'integrazione nella relazione terapeutica

Già nella prima fase della terapia, la riparazione delle rotture


dell’alleanza terapeutica può aver comportato l’inizio del processo di
integrazione. Ciò accade, tipicamente, quando il terapeuta nota i segni
dell’esistenza simultanea, nel paziente di desideri intensi di ricevere aiuto e
conforto, e di forti tendenze a estraniarsi dal dialogo clinico - espressione di
solito del latente MOI di attaccamento disorganizzato. Per esempio, il
paziente può chiedere pressantemente di essere aiutato a risolvere un
dilemma che avverte come di vitale importanza, o di ottenere strumenti che
gli permettano di fronteggiare un sintomo perturbante, ma poi non mettere
mai in atto le indicazioni al riguardo fornite dal terapeuta, e a volte
affermare di ricordare poco o nulla di quel che gli è stato detto in seduta. Di
fronte a queste indicazioni dell’esistenza di due stati mentali separati - uno
in cui il paziente chiede vicinanza protettiva e l’altro in cui, estraniandosi,
la evita - il terapeuta può rispondere offrendo questa ipotesi al paziente (con
prudenza), e chiedendogli se trova adeguata la descrizione del suo duplice
stato mentale. E' necessario che, nel farlo, il terapeuta abbia ben presente la
differenza fra conflitto (dove il paziente è fin dall’inizio consapevole di
avere in sé tendenze opposte in merito alla richiesta di aiuto) e
dissociazione (dove tale consapevolezza manca). Sarà sempre utile che il
terapeuta proceda validando entrambe le tendenze opposte, senza chiedere
sia pure indirettamente al paziente di risolvere l’antinomia con una
decisione a favore dell’una o dell’altra. Per esempio, può aggiungere
all’ipotesi che presenta al paziente un commento del tipo: “E' normale
sentire a volte un forte bisogno di aiuto quando si è angosciati, ma è anche
comprensibile che si tema di riceverlo se in passato si è sofferto per le
azioni delle persone a cui erano rivolti desideri di vicinanza, comprensione
e protezione”.
Se il paziente finisce per riconoscersi nella descrizione di due stati
mentali separati offerta dal terapeuta, il lavoro di integrazione si può
ritenere iniziato: nello spazio mentale del dialogo col terapeuta le due
rappresentazioni di sé, una che chiede aiuto e l’altra che, percependolo,
evita la vicinanza emotiva e si assenta, sono per la prima volta accostate
nella coscienza.

Identificazione degli stati dell’io dissociati nella seconda fase della


terapia

Che sia oppure non sia già iniziato il lavoro di integrazione nella prima
fase della terapia (e nella prima fase tipicamente inizia all’interno della
relazione terapeutica, come modo per affrontare rotture dell’alleanza), nei
casi in cui gli stati dell’io dissociati siano complessi e articolati (come gli
stati alternanti, alter, dei DDl) è necessario procedere alla loro
identificazione durante la seconda fase del trattamento, anche all’interno di
contesti della vita del paziente diversi dalla relazione terapeutica. La via
maestra per farlo passa attraverso il dialogo che verte su elementi della
memoria autobiografica specifica del paziente, come indicato nel capitolo 6.
Un’esperienza clinica concreta può esemplificare utilmente il modo di
procedere.

Aldo, narrando la propria infanzia gravata da seri traumi, aveva


accennato al terapeuta - durante la prima fase di una psicoterapia
richiesta per superare la difficoltà di relazioni affettive durevoli (a
quarant'anni non aveva avuto alcuna esperienza di convivenza con una
compagna) - che da bambino, per consolarsi dalla solitudine, giocava
mentalmente con due compagni immaginari, creazione della sua
fantasia. Uno aveva solo il cognome, Diamanti, ed era freddo,
distaccato e ambizioso di successi scolastici, sociali ed economici.
L’altro, Piero, aveva solo il nome di battesimo, era animato dalla
ricerca di affettuose amicizie e amava leggere favole e storie ma non le
materie scolastiche.
Nel dialogo terapeutico Aldo si lamentava spesso della sua
situazione lavorativa, sicura ed economicamente vantaggiosa ma arida
e sviluppatasi in un ambiente molto competitivo. Diceva che il suo
grande desiderio di amicizia ne era quotidianamente frustrato, che non
tollerava lo sforzo di attenzione che il suo lavoro richiedeva, e che a
suo avviso la fatica e l’angoscia costante per il lavoro erano la causa
principale della difficoltà a costruire una relazione coniugale. Ciò
nonostante, la sua carriera lavorativa era stata di notevole successo.
Nel riferire con grande angoscia il dolore mentale che il suo lavoro gli
procurava, Aldo ricorreva soltanto alla memoria autobiografica
generica o semantica: non sembrava in grado, anche sollecitato, di
riferire alcun preciso episodio che esemplificasse le sue difficoltà.
Ricorreva sempre ad affermazioni generiche: “Sono tutti gelidamente
arrivisti nel lavoro, non si curano di te, hanno tutti una gran fretta e ti
mettono urgenza, e io non ce la faccio a lavorare sotto pressione”,
oppure “In questo periodo ho pensato, come mi accade sempre più
spesso da anni, che farei meglio a licenziarmi, ma ho paura che poi
finirei sotto i ponti”.
Un lungo lavoro terapeutico fu necessario per conseguire, nella
prima fase della terapia, da un lato una certa stabilizzazione dei
sintomi somatoformi, di panico e di grave depressione lamentati da
Aldo (con tecniche di terapia cognitiva e anche attraverso una cura
farmacologica), e dall’altro una condizione di sicurezza relazionale
(attraverso l'esercizio sistematico dell’empatia per le angosce
lavorative dichiarate dal paziente). Il terapeuta decise allora che era
tempo di dare inizio alla seconda fase della terapia, e lo fece offrendo
sistematicamente guida e sostegno nel ricostruire insieme, durante le
sedute, episodi della vita recente di Aldo in cui fossero specificati
contesto, emozioni provate, pensieri che accompagnavano tali
emozioni, e azioni compiute. Così Aldo riuscì faticosamente, in seduta,
a raccontare alcuni episodi di una sua recente giornata lavorativa: un
dialogo con una collega durante la pausa pranzo, un incontro durante
un viaggio di lavoro, una cerimonia sociale in cui aveva dovuto parlare
in pubblico. L’incremento delle capacità metacognitive ottenuto
commentando come stati mentali transitori i pensieri e le emozioni
riferite da Aldo fu notevole. Ogni tanto, affioravano spontaneamente
ricordi più dettagliati ed episodici dei traumi infantili, che
permettevano al terapeuta di ricostruire, insieme al paziente, l’origine
di alcune sue credenze patogene, e di riferirle in modo ipotetico alle
caratteristiche dei due compagni immaginari dell’infanzia, che così
vennero nominati sempre più spesso, ma senza mai riferirsi a essi
come a parti separate della personalità di Aldo.
Nel corso della ricostruzione di un recente episodio di impegno
pressante sul lavoro, mentre Aldo descriveva la propria sofferenza nel
tenere “a forza” l’attenzione concentrata, il terapeuta affermò che tanta
tenacia nel fronteggiare il desiderio di evadere dall’impegno era una
risorsa preziosa, che aveva permesso ad Aldo il bene non disprezzabile
della sicurezza economica, e forse anche qualche soddisfazione per i
riconoscimenti lavorativi ricevuti. Due sedute dopo, Aldo arrivò in
seduta con un atteggiamento misto di entusiasmo e stupore. “Mi è
successa una cosa incredibile”, esordì, e raccontò un episodio.
Partecipava per motivi di lavoro a una riunione di personaggi altolocati
inerente al suo lavoro e soffriva per gli atteggiamenti supponenti dei
partecipanti che sembravano motivati solo all’autoincensamento.
Pensava: “Ma perché ho accettato di partecipare a questa roba quando
il capo me l’ha proposto? Avrei potuto evitarlo senza difficoltà”.
Mentre rifletteva così, aveva udito nella mente una sorta di voce,
chiara e sonora, che replicava: “Come, perché ho accettato? A me
piace moltissimo stare qui! ”. Poi, un pensiero aveva continuato il
discorso della voce interna: “Anche il dottore riconosce che senza la
mia presenza saremmo in miseria”. Aldo suggerì che poteva trattarsi di
Diamanti, che fino ad allora non era mai comparso nel dialogo
terapeutico perché convinto di essere rifiutato dal terapeuta: lo vedeva
intento solo a validare empaticamente le emozioni negative provate nel
lavoro dall’altra parte di sé, quella ispirata al secondo compagno
immaginario dell’infanzia, Piero. Lo stato dell’io, complesso come
l’alter di un DDl, si era ricreduto ascoltando “tra le quinte”
l’osservazione del terapeuta che validava il suo sforzo di rendere bene
nel lavoro, nonostante il tentativo di evaderne di “Piero”.
Nel prosieguo della psicoterapia, emerse che tutta la parte della
vita di Aldo ispirata da Diamanti era stata taciuta al terapeuta, non
deliberatamente ma automaticamente e senza alcuna coscienza
dell’omissione. Solo la parte di vita ispirata a Piero - amicizie,
passatempi, predilezioni letterarie, aspirazione a una vita meditativa e
non di azione, e soprattutto sofferenza per l’aridità e la competitività
dell’ambiente lavorativo - era stata narrata (e la narrazione era
avvenuta nella modalità della memoria semantica). L’integrazione di
questi due stati dell’io di Aldo cominciò con la descrizione, ora
corredata di più frequenti narrazioni episodiche, sia delle affettuose
amicizie di cui era capace la parte di sé che si concordò di chiamare
Piero, sia del mondo sociale, delle ambizioni, dei successi lavorativi e
della visione della vita dell’alter che si concordò di chiamare
Diamanti.

Cautele nel lavoro di integrazione degli stati dell'io dissociati

La prima cautela che il terapeuta deve esercitare nell’identificare gli


stati dell’io non integrati è di evitare di reificarne l’esistenza come vere
personalità distinte e indipendenti, per esempio, attribuendo loro un nome
proprio. La sola eccezione riguarda i casi di DDI nei quali il nome già esista
nella mente del paziente da prima dell’inizio della terapia, come
nell’esperienza riferita da Aldo. Anche in questi casi, il clinico dovrà
ricordare sempre, e farlo capire chiaramente al paziente, che ciò di cui si
parla sono modi di funzionamento mentale separati fra loro più di quanto
sia usuale, ma non autentiche identità indipendenti: sono, appunto, stati
dell’io ovvero parti sé. Procedere diversamente implica il rischio di
confermare piuttosto che mitigare le tendenze dissociative.
Un’altra importante misura cautelativa, mirante a minimizzare il rischio
che il paziente, o il terapeuta, si lascino tentare dal fascino che non di rado
esercita la dissociazione, è il ricorso alle tecniche di normalizzazione. Si
può utilmente condividere col paziente l’idea che ogni essere umano ha un
senso di sé basato su relazioni di ruolo: per esempio, nel contesto di una
gara sportiva il senso di sé è diverso da quello che si ha mentre si accudisce
un figlio, e in ciascuno dei due contesti sono diverse non solo le emozioni e
i pensieri, ma anche le memorie che tendono a emergere nella coscienza.
Oppure, quando si è di buon umore si ha difficoltà a rievocare una
rappresentazione di sé nei momenti di dolore, e viceversa si ricordano con
difficoltà i propri successi quando si è d’umore depresso. Gli stati dell’io
dissociati possono essere utilmente descritti al paziente come
un’esasperazione di questo normale modo di funzionamento mentale.
E poi necessario non solo raccogliere quanti più dati possibile sulle
caratteristiche degli stati dell’io dissociati - predilezioni, idiosincrasie,
timori, e soprattutto fobie - ma farlo sempre senza alcun atteggiamento
giudicante. Al contrario, per ogni stato dell’io è necessario che il terapeuta
eserciti empatia e un atteggiamento di validazione. Può apparire difficile
validare uno stato dell’io all’interno del quale il paziente compia, per
esempio, atti autolesionisti o esprima odio verso se stesso o gli altri.
Tuttavia, se ci si concentra sugli obiettivi perseguiti da ogni parte di sé, la
validazione è di regola possibile. Per esempio, procurarsi ferite è, per il
paziente, un modo per tentare di regolare stati mentali perturbanti
(tipicamente, stati di vuoto mentale o vere depersonalizzazioni): l’obiettivo
è valido, è solo il metodo che è criticabile e da sostituire con altri. L’ostilità
verso se stessi o gli altri può essere validata come un modo per proteggersi
da aggressioni o per stimolare in se stessi condotte più adeguate, il cui
difetto non sta nell’obiettivo, ma nell’eccesso non necessario di emozioni
negative. A questo riguardo, è utile una metafora: lo stato dell’io che
esprime odio o disprezzo è come un servitore troppo zelante, che eccede
nella protezione.
La validazione di tutti gli obiettivi perseguiti dalle diverse parti
dissociate della personalità, pur se opposti fra loro, è premessa necessaria
per la loro integrazione. Questa, infatti, spesso procede contestualizzando i
diversi obiettivi: in diversi contesti è possibile e spesso persino desiderabile
mirare a obiettivi fra loro apparentemente incompatibili. Per esempio, uno
stato dell’io che miri esclusivamente a proteggere dal dolore di un
abbandono potrebbe utilmente intervenire mirando a prendere le distanze da
un partner incerto sulla prosecuzione del legame, mentre uno stato dell’io
alla ricerca spasmodica di una relazione durevole potrebbe intervenire in un
momento successivo più favorevole a esplorare la possibilità di un
chiarimento. Queste osservazioni potrebbero apparire banali se non si tiene
presente che gli stati dell’io dissociati tendono ad avere una visione
assolutistica, a escludersi vicendevolmente, e ad alternarsi nel controllo
dell’azione in modo caotico e controproducente. Nell’esempio di una
relazione affettiva in crisi, lo stato dell’io dipendente che mira a mantenere
la relazione a ogni costo potrebbe attivarsi in maniera assolutamente stabile
e continua di fronte all’incertezza dell’altro, col rischio di esasperarlo con
assillanti richieste d’affetto, e viceversa lo stato dell’io che mira a
proteggersi dal dolore attraverso l’isolamento e il ritiro affettivo preventivo
potrebbe emergere e persistere nella chiusura proprio quando l’altro, fino a
qualche tempo prima indeciso se proseguire nella relazione, ci ripensa e
tende ad avvicinarsi.

Dialogo interno fra gli stati dell'io dissociati

I commenti del terapeuta finalizzati a validare gli obiettivi dei singoli


stati dell’io dissociati e a mostrarne l’utilità quando vengono perseguiti in
contesti opportuni, ben distinti fra loro, e con modalità appropriate, aprono
la strada all’invito rivolto al paziente a mettere in atto deliberatamente un
dialogo interno fra le parti prima separate di sé. Esercitando il dialogo
interno fra le parti di sé, il paziente si troverà così a chiedersi quando
potrebbe esercitarne una, e quando l’altra, assicurando così a ciascuno stato
dell’io un ruolo nell’economia generale della propria esistenza. In linea di
principio, nel commentare quel che il paziente riporta di un tale dialogo
interno quando lo ha esercitato fra una seduta e l’altra, il terapeuta dovrebbe
rendere sempre chiaro che a suo giudizio nessuno stato dell’io deve essere
eliminato, e che tutti possono svolgere un ruolo utile se integrati.
L’esercizio di questo tipo di dialogo interno aumenta considerevolmente le
capacità metacognitive del paziente: al posto di stati dell’io che si
susseguivano senza memoria l’uno dell’altro, e ciascuno con una visione
assolutistica di sé, traspare ora alla coscienza del paziente la possibilità di
considerare che esistono in sé diversi aggregati di intenzioni, abilità e
propensioni che possono essere visti come stati transitori di una sola mente.
Un tale incremento delle capacità metacognitive è particolarmente
favorevole all’indagine sulle eventuali residue credenze patogene, che
peraltro emergono di regola più chiaramente proprio nel dialogo interno fra
gli stati dell’io, dove assumono la forma della percepita antinomia fra valori
e obiettivi che invece devono essere reciprocamente compatibili. Per fare un
solo esempio, nelle credenze patogene di colpa del sopravvissuto (Weiss,
1993), comuni nei sopravvissuti ai traumi, sono spesso percepiti come
inconciliabili il successo e la gratificazione personale da una parte, e la
lealtà familiare a genitori vulnerabili e feriti dalla vita. Il paziente può
sentirsi colpevole di godere delle proprie capacità professionali o di ora più
felici rapporti affettivi, quando pensa che tale felicità è stata assente nella
vita dei suoi genitori o fratelli. Una tale credenza patogena, che equipara a
un danno per altri (tormentosamente amati e infelici) l’esperienza della
propria felicità, può rivelarsi nel dialogo interno fra uno stato dell’io che
aspira a godere autonomamente della propria vita e uno stato dell’io,
derivante da strategie controllanti-accudenti, centrato sull’oblatività coatta.

Memorie traumatiche come base per comprendere le funzioni degli stati


dell’io dissociati

Durante il lavoro di integrazione, le memorie traumatiche forniscono la


base per comprendere come abbiano preso forma le caratteristiche di
ciascuno stato dell’io. Se nella prima fase del trattamento è preferibile
evitare ogni indagine dettagliata sul ricordo di episodi troppo dolorosi, che
potrebbe evocare potenti fobie di stati interni prima che il paziente sia in
grado di gestirle, nella seconda fase una tale indagine dettagliata può
prendere forma, quando necessaria, non solo con maggiore sicurezza, ma
anche con la chiarezza del suo obiettivo resa possibile al paziente
dall’aumentata capacità di mentalizzare. Per esempio, il paziente può
esplorare come uno stato dell’io che alberga sentimenti di indegnità
personale possa essere nato all’interno di episodi traumatici dell’infanzia,
con la funzione di sottomettersi a un genitore maltrattante per mitigarne i
momenti di furia violenta, e come uno stato dell’io che al contrario
alberga sentimenti di grandiosità narcisistica sia emerso come conseguenza
del sentirsi chiamato, bambino, a sopperire con le sue doti di affetto e di
intelligenza, talora con successo, all’infelicità dello stesso genitore.

“Mia madre era così infelice”, raccontava Evita al suo terapeuta


durante la fase di integrazione, “e io mi sentivo una dea quando
riuscivo a farla contenta con i miei successi a scuola”. Questa memoria
semantica di Evita, indicativa di una strategia controllante accudente,
era emersa in un dialogo che mirava a comprendere le origini di uno
stato dell’io portatore di un senso di onnipotenza nel donare tempo,
allegria e anche denaro ad amici e conoscenti che le sembravano tristi
“per renderli contenti”, anche quando lo sforzo non era richiesto e non
prometteva buon esito. Più in là nella stessa seduta, in risposta alle
domande del terapeuta che le chiedeva come ritenesse conciliabile
questo senso di poter dar cura senza limiti col sentimento di sfiducia in
se stessa che pure a tratti aveva riferito, Evita ricordò in dettaglio uno
dei molti episodi traumatici della sua infanzia. La madre, in risposta a
una piccola disubbidienza, l’aveva aggredita con violenza tale da
richiedere poi l’intervento dei medici di un Pronto Soccorso. Lo
scenario mutato della memoria, esplorato a fondo, implicò il ricordo
del disperato e vano tentativo di Evita di calmare la madre, mentre la
picchiava con un bastone, dichiarandosi meritevole della punizione. “E
lo credevo davvero, di essere un verme”, commentò Evita. La paziente
aveva sviluppato una strategia controllante accudente, e sulla base di
questa, durante episodi di violente percosse, una strategia aggiuntiva di
totale sottomissione implicante una visione negativa di sé dissociata da
quella di grandiosa capacità di accudire. Non fu difficile, quindi,
trovare nelle memorie della sua relazione drammatica con la madre
l’origine di entrambi gli stati dell’io, di euforica onnipotenza oblativa
l’uno e di profonda indegnità l’altro, che in passato avevano indotto
uno psichiatra a diagnosticare un disturbo bipolare.

Nell’ambito di una ricerca di comprensione della comune origine di


stati dell’io apparentemente opposti, che il paziente ora comincia a
integrare, esplorazioni molto dettagliate di eventi traumatici acquistano ai
suoi occhi una motivazione chiara e comprensibile: all’interno delle
memorie di quegli episodi, le funzioni di ciascuno stato dell’io si rivelano
con la pregnante intensità dell’esperienza vissuta.

TERZA FASE DELLA PSICOTERAPIA

L’assimilazione e la sintesi dei frammenti di ricordi traumatici,


l’incrementata capacità metacognitiva, la capacità di narrazione
autobiografica episodica, e l’integrazione almeno iniziale, nel dialogo
interno, degli stati dell’io prima dissociati, permettono solitamente al
paziente di sperimentare la realtà con nuovi atteggiamenti. La scomparsa o
almeno il buon controllo delle fobie dell’attaccamento, che a volte
permettono al clinico di ipotizzare che il paziente abbia costruito un nuovo
MOI più sicuro rispetto a quello precedente di attaccamento disorganizzato,
e l’aumentata capacità di percezione e condotta interpersonale sul piano
cooperativo e paritetico, aprono per il paziente l’accesso a esperienze
interpersonali, al di fuori del setting psicoterapeutico, nuove e migliori delle
precedenti. Tuttavia, qualora questi risultati comincino a essere valutabili
grazie al lavoro svolto nella seconda fase della psicoterapia, il trattamento
non deve essere interrotto, ma proseguire con una terza fase.
Il ruolo del terapeuta nella terza fase del protocollo terapeutico sarà
quello di confermare, sostenere e promuovere le nuove capacità del
paziente, dialogando sul modo con cui il paziente le esercita nella vita
quotidiana. La durata della terza fase della psicoterapia non deve essere
breve: il paziente è sempre estremamente vulnerabile alla sfiducia nei
rapporti interpersonali, e la percezione di essere un peso di cui il terapeuta è
ansioso di liberarsi può riattivare la sfiducia in sé e negli altri. Meglio
dunque che la terapia prosegua, eventualmente concordando una riduzione
della frequenza delle sedute (che usualmente è di due incontri ogni
settimana nelle prime due fasi, anche se alcuni psicoterapeuti e pazienti
trovano sufficiente una sola seduta settimanale fin dall’inizio del
trattamento), per almeno alcuni mesi dopo l’inizio dell’integrazione. E
anche quando, avendolo discusso ampiamente e avendo eventualmente
ripreso il lavoro sulla fobia della perdita dell’attaccamento svolto nella
seconda fase, si avvicina il termine della psicoterapia, è bene che il
commiato lasci esplicitamente aperta la prospettiva di sporadici incontri. Un
buon modo con cui il terapeuta può prendere commiato dal paziente è
raccomandargli di non far trascorrere troppi mesi senza dare notizie, e di
chiedere un appuntamento ogni tanto anche se tutto va bene. L’idea è che la
terapia termina, ma la relazione permane nel mondo interno di entrambi, ed
è sensato rinnovarne la memoria con qualche sporadico incontro.

1. J. Banville (1993), Isola con fantasmi, tr. it. Guanda, Parma 2009, p.
180.
2. Alcuni clinici usano l’ipnosi per ottenere una rapida riduzione dei
sintomi. A nostro parere l’uso dell’ipnosi è tendenzialmente controindicato
nel DPTSc, perché potrebbe potenziare le dinamiche dissociative, e perché
implica un abbandono della relazione cooperativa e paritetica.
3.I. Calvino (1952), II visconte dimezzato, Mondadori, Milano 1993.
4. R.L. Stevenson (1886), Lo strano caso del Dottor Jekill e del Signor
Hyde, tr. it. Einaudi, Torino 1996.
9

TECNICHE E PROCEDURE SPECIFICHE NEL


TRATTAMENTO DEI DISTURBI DELLO
SPETTRO TRAUMATICO-DISSOCIATIVO

Tutto mentiva, anche la memoria.

LEONARDO SCIASCIA1

Ognuno dei compiti che il terapeuta si propone nelle diverse fasi della
terapia del DPTSc, e in particolare quello mirante alla stabilizzazione dei
sintomi, può essere facilitato dall’uso di specifiche tecniche
psicoterapeutiche. Le tecniche terapeutiche che possono essere utilmente
impiegate sono state appena nominate nel capitolo precedente, per non
distogliere l’attenzione dalla successione strategica delle operazioni
terapeutiche fondamentali. In questo capitolo ne discuteremo l’utilità e ne
descriveremo più in dettaglio alcune, con la preliminare avvertenza che per
la loro applicazione sono assolutamente necessarie una formazione
specifica e un’esperienza pratica guidata da esperti, che non può essere
fornita da un libro.
Nel capitolo troveranno spazio anche alcune note sulla sindrome della
falsa memoria, rischio iatrogeno da cui è indispensabile guardarsi quando si
lavora sulle memorie traumatiche, e considerazioni generali sull’uso di
psicofarmaci nel corso del trattamento del DPTSc.

TERAPIE COGNITIVO-COMPORTAMENTALI DEL TRAUMA E


DELLA DISSOCIAZIONE
Nonostante il numero ancora limitato di studi controllati e alcuni difetti
metodologici, vanno accumulandosi dati di ricerca che indicano nelle
tecniche della Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) strumenti efficaci
per il trattamento non solo del DPTS, ma anche del DPTSc (Brand et al.,
2009; Cloitre, 2009; Ehlers et al., 2010; Foa et al., 2000; ISSD, 2005;
Jackson et al., 2009; Miti, Onofri, in corso di stampa; Resick et al., 2003).
Questi studi segnalano l’utilità, per la cura del DPTSc, del caratteristico
atteggiamento di tutte le forme di TCC: focalizzare il trattamento
direttamente e primariamente sui sintomi. Nella fase di stabilizzazione
descritta nel capitolo precedente è importante, come si è detto, mitigare sia i
sintomi cardine del trauma complesso (dissociazione, somatizzazione,
emozioni non regolate, memorie traumatiche, difficoltà relazionali, disturbi
del comportamento e convinzioni disfunzionali su di sé) sia quelli associati
come la depressione, l’ansia, i pattern ossessivo compulsivi, il panico, i
comportamenti alimentari abnormi o l’uso di sostanze (Brand et al., 2009;
Deblinger et al., 2010; Ehlers et al., 2010; Linehan, 1993; Resick et al.,
2002; Resick et al., 2003). Nel corso del tempo sono state anche sviluppate
diverse forme di TCC specificamente rivolte alla cura degli eventi
traumatici, del trauma complesso e della dissociazione.2
Elenchiamo alcuni elementi comuni, caratteristici di tutte le forme di
TCC, che secondo il nostro modello contribuiscono a spiegarne l'efficacia
nella cura del DPTSc (Foa et al., 2000; Jackson et al., 2009).

Empirismo collaborativo

Diversamente da ciò che accade in altre forme di psicoterapia, il


rapporto tra terapeuta-paziente nelle diverse forme di TCC è basato
sull’empirismo collaborativo, ovvero su una relazione paritetica di alleanza
in vista del raggiungimento degli scopi concordati. Questo tipo di relazione
terapeutica, facilitando la modulazione dell’attaccamento e l’attivazione del
sistema motivazionale cooperativo, svolge un ruolo fondamentale nel
trattamento di tutti i disturbi conseguenti a sviluppi traumatici.

Psicoeducazione sui sintomi e sulle loro cause


Una caratteristica peculiare della TCC è quella di fornire al paziente
chiare spiegazioni sulla natura dei suoi disturbi e dei processi di
trattamento. La psicoeducazione è particolarmente efficace nel ridurre la
sofferenza dei pazienti con storie traumatiche poiché spesso consente di
mitigare i sentimenti di colpa e vergogna originati dal ritenersi in qualche
modo causa delle proprie sofferenze, e di cominciare a esaminare
criticamente pregiudizi negativi su di sé. Inoltre, la conoscenza appropriata
dei meccanismi di alcuni sintomi, in particolare quelli dissociativi, permette
di identificarli e gestirli.

Definizione di obiettivi specifici

Un altro aspetto tipico delle TCC è la definizione, sia all’inizio sia nel
corso della terapia, di obiettivi concordati e definiti. Il lavoro per singoli e
definiti obiettivi permette, al momento del loro raggiungimento anche
parziale, l’aumento del senso di efficacia personale e di autocontrollo così
profondamente leso nel DPTSc.

Esplorazione delle credenze patogene e scoperta guidata

La TCC si è evoluta con lo scopo di modificare le credenze che i


pazienti sviluppano nell’infanzia per adattarsi a un ambiente patogeno, ma
che diventano poi disadattative in altri contesti interpersonali. La tecnica
della scoperta guidata, ovvero dell’osservazione sistematica, priva di
giudizio negativo, dei contenuti mentali e degli schemi cognitivi al fine di
coglierne gli aspetti disadattativi attuali pur riconoscendone il valore
adattativo quando questi si sono formati, permette allo stesso tempo sia di
validarli sia di riconoscerne il potenziale patogeno (Linehan, 1993).

Tecniche di esposizione

Nella cura del trauma complesso, il valore delle esperienze emotive


correttive e delle tecniche di esposizione graduale alle situazioni temute non
può essere sottovalutato. Le tecniche di esposizione possono svolgersi in
vivo o nell’immaginazione guidata, molto utilizzata nella TCC e nelle sue
derivazioni (come l’EMDR) per il trattamento delle memorie traumatiche
(Rauch, Foa, 2008).

Possibilità di integrazione con altri trattamenti

La TCC, tradizionalmente, non esclude l’uso contemporaneo di altre


tecniche terapeutiche ma piuttosto lo incoraggia. Essa inoltre si presta bene
a essere combinata sia con le terapie farmacologiche sia con interventi in
setting multipli integrati tra loro. Infine, la TCC ben si adatta al protocollo
di trattamento descritto nei capitoli precedenti, intervenendo in ciascuna
fase con tecniche e modalità differenti.
Negli ultimi anni, alle caratteristiche appena elencate le TCC hanno
aggiunto una particolare attenzione agli aspetti interpersonali della
psicoterapia e alla regolazione dello stato emotivo, aspetti che, come è stato
ampiamente descritto in precedenza, sono essenziali nella cura del trauma
complesso (Chard, Buckley, 2010; Jackson et al., 2009; La Rosa, Muscetta,
2010; Liotti, 2007; van der Hart et al., 2006).

EMDR

L’EMDR, acronimo per Eye Movement Desensitization and Reprocessing


(Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari), è uno
dei trattamenti più diffusi e con maggiori prove di efficacia nella cura del
DPTS (Cloitre, 2009; Ehlers et al., 2010). La tecnica può rivelarsi utile
anche nel trattamento delle memorie traumatiche del DPTSc (Korn, Leeds,
2002) e dei Disturbi Dissociativi (DD; Miti, Onofri, in corso di stampa).
Sebbene non vi siano attualmente sufficienti prove sperimentali a sostegno,
si ipotizza che l’EMDR promuova l’integrazione delle memorie
traumatiche (nonché la regolazione degli stati emotivi e la revisione delle
convinzioni negative patogene a esse connessi) attraverso un potenziamento
della comunicazione fra i due emisferi cerebrali. Tale potenziamento
sarebbe conseguibile tramite i movimenti oculari alternati (spostamento
dello sguardo alternativamente a sinistra e poi a destra durante la
rievocazione delle memorie traumatiche), oppure tramite la stimolazione
alternata delle parti sinistra e destra del corpo (per esempio, toccando
alternativamente la mano destra e sinistra del paziente (Propper et al.,
2007).
I movimenti oculari saccadici ritmici o la stimolazione bilaterale
alternata vengono indotti dal terapeuta durante la rievocazione
dell’immagine traumatica (stimolazione a sinistra), e delle convinzioni
negative a essa legate (stimolazione a destra). Seçondo l’ipotesi
dell’ideatrice dell’EM-DR (Shapiro, 1995), si otterrebbe così l’integrazione
delle informazioni elaborate da ciascuno dei due emisferi cerebrali, con
conseguente risoluzione dei condizionamenti emotivi traumatici. Daniel
Siegel e altri autori sostengono che il potenziamento della comunicazione
interemisferica perseguito da chi usa la tecnica EMDR sia dovuto
soprattutto al rapido alternarsi del focus attentivo del paziente sullo stimolo
interno (traumatico e non integrato) e su quello esterno (il movimento
oculare indotto, lo stimolo sensoriale). Le differenti strategie di
elaborazione dell’informazione di ciascun emisfero cerebrale verrebbero
così a integrarsi reciprocamente (Schubert, Lee, 2009; Siegel, 2002).
L’ipotesi avanzata sul funzionamento dell’EMDR è compatibile con i
crescenti dati di letteratura che descrivono un’alterazione dell’equilibrio
interemisferico tra gli individui che sviluppano un DPTS (Boscarino,
Hoffman, 2007; Choudhary, O’Carroll, 2007; Farina et al., in submission), e
con l’ipotesi di un danno specifico all’emisfero destro in coloro che
subiscono esperienze traumatiche durante lo sviluppo (Schore, 2009a).
L’EMDR, pur essendo teoricamente riconducibile alla prospettiva
janetiana, è compatibile con i principi teorici di altri indirizzi terapeutici,
può essere combinata con altri trattamenti (Castelli Gattinara, 2009;
Shapiro, 1995), e può essere inserita nel lavoro sulle memorie traumatiche
durante la psicoterapia del DPTSc (cioè nella seconda delle tre fasi del
protocollo descritto nei capitoli precedenti). La tecnica EMDR va inserita
nella seconda fase, perché è necessario che prima di dedicarsi al lavoro
terapeutico specifico sulle memorie traumatiche dell’infanzia sia stata
raggiunta una buona alleanza terapeutica e ottenuta una certa
stabilizzazione dei sintomi più invalidanti. La regolazione della relazione
terapeutica e la promozione di un clima cooperativo sono peraltro
considerate, da diversi clinici esperti di EMDR, la condizione necessaria
per applicare questa tecnica a qualsiasi disturbo correlato a traumi
psicologici, siano tali traumi recenti oppure risalenti all’infanzia di pazienti
adulti (Castelli Gattinara, 2009; Dworkin, 2005).
La tecnica EMDR prevede una prima fase di raccolta delle informazioni
e di preparazione del paziente. In tale fase si individua il ricordo traumatico
da trattare, le emozioni che vi si associano o le convinzioni negative che ne
sono generate. Nel caso vi siano diverse memorie traumatiche da elaborare,
il terapeuta procederà focalizzando l’attenzione su un singolo e specifico
ricordo traumatico alla volta, al fine di frazionare il lavoro di
desensibilizzazione e aumentare la probabilità di esito positivo
promuovendo così il senso di padronanza del paziente sulle memorie
traumatiche (Miti, Onofri, in corso di stampa). Durante la fase di
preparazione si chiede al paziente di individuare, oltre alle immagini
disturbanti, le emozioni, le sensazioni fisiche e le convinzioni negative
associate a esse. Infine si invita il paziente a formulare credenze e
convinzioni positive su di sé da opporre a quelle negative emerse dal
trauma e che costituiscono l’obiettivo della rielaborazione e ristrutturazione
cognitiva.
Nella fase successiva si procede con la desensibilizzazione attraverso la
provocazione dei movimenti oculari o la stimolazione alternata delle parti
sinistra e destra del corpo durante l’esposizione immaginativa al ricordo
traumatico precedentemente individuato. Si invita il paziente a concentrarsi
alternativamente sulle diverse componenti del ricordo (l’immagine, la
cognizione negativa, le sensazioni fisiche) e sugli stimoli esterni. Quando la
tecnica si rivela efficace i ricordi traumatici vengono vissuti con maggiore
chiarezza e minore intensità, le emozioni associate divengono tollerabili e si
assiste a un cambiamento delle convinzioni negative legate all’evento preso
in esame. Solo dopo aver ottenuto risultati positivi su un singolo ricordo si
può proseguire estendendo il lavoro a un’altra memoria traumatica.
La tecnica EMDR, come le altre modalità di lavoro terapeutico sulle
memorie traumatiche descritte nel precedente capitolo, facilita l’esercizio
delle capacità metacognitive e consente il superamento della fobia degli
stati interni associati al trauma. La tecnica EMDR, infine, può essere
combinata con altre forme di trattamento focalizzate sul trauma, sia nello
stesso setting sia nei trattamenti in setting multipli integrati.

MINDFULNESS E PSICOTERAPIE SENSOMOTORIE


Nei capitoli precedenti abbiamo più volte ricordato che le esperienze
traumatiche dello sviluppo provocano una difettosa regolazione dei processi
psicobiologici. I pazienti adulti che provengono da storie traumatiche sono
particolarmente vulnerabili a diverse malattie organiche, e soffrono spesso
di invalidanti somatizzazioni viscerali, di sindromi dolorose anche croniche,
o di sintomi dissociativi somatoformi come l’anestesia o le paralisi da
conversione. Non pochi pazienti che soffrono di DPTSc si sentono allarmati
per l’impossibilità di controllare il proprio corpo che avvertono come
minaccioso e dal quale si sentono in qualche modo “traditi” (Fisher, Ogden,
2009). Talora le somatizzazioni del DPTSc sono provocate dall’attivazione
degli elementi sensomotori e cenestesici di memorie traumatiche dissociate,
talaltra dalla difficoltà a regolare le emozioni e le loro componenti viscerali.
I sintomi somatoformi, uniti al ricordo di abusi e maltrattamenti fisici,
provocano solitamente la formazione di convinzioni negative riguardo al
proprio corpo, che viene vissuto con paura e vergogna oppure con
sentimenti di rabbia e disprezzo. Vivendo le informazioni che gli
provengono dal corpo con paura, vergogna, disgusto e rabbia, il paziente
con DPTSc tende a evitarle e quindi a escluderle dal processo terapeutico.
Le emozioni non riconosciute come tali e vissute sul piano corporeo come
segnali da evitare divengono sempre più difficili da regolare. Si instaurano
così circoli viziosi in cui gli aspetti somatici delle emozioni e i sintomi
somatoformi divengono circolarmente conseguenze e causa della sofferenza
e ne impediscono la cura.
Alcuni elementi del trattamento del DPTSc implicano la focalizzazione
su aspetti sensomotori dell’esperienza del paziente: si pensi alle tecniche di
grounding. Tuttavia, gran parte dei modelli psicoterapeutici trascura il
trattamento specifico delle componenti somatiche del trauma e della
dissociazione. Per compensare questa trascuratezza, negli ultimi anni sono
state sviluppate forme di psicoterapia centrate sugli aspetti sensomotori del
disagio psichico, sull’integrazione mente-corpo e sulla capacità di osservare
l’esperienza corporea anche sgradevole senza giudicarla negativamente, con
lo scopo di intervenire sui meccanismi dissociativi bóttom-up, ovvero
partendo dalle sensazioni fisiche e non dalle funzioni mentali superiori
(vedi i capitoli 3 e 5). La Terapia basata sulla Mindfulness (TbM; Follette,
Vijay, 2008; Herbert, Didonna, 2006) e la Psicoterapia Sensomotoria (PSM;
Haven, 2009; Ogden et al., 2006) sono ampiamente impiegate nel
trattamento dei sintomi corporei e psicobiologici del DPTSc. Entrambe
queste metodiche, come I’EMDB, possono essere praticate da sole sebbene
trovino la migliore applicazione alla cura del DPTSc quando sono
combinate con altre forme di psicoterapia e inserite nella seconda fase del
protocollo come contributo alla stabilizzazione dei sintomi, alla regolazione
delle emozioni e (soprattutto la TbM) all’incremento della metacognizione
(Fisher, Ogden, 2009).

Terapia basata sulla mindfulness

La terapia basata sulla mindfulness (letteralmente, “piena


consapevolezza”) prende origine da tecniche di meditazione orientali che
promuovono le capacità di concentrare l’attenzione sull’esperienza di sé nel
momento presente cercando di assumere un atteggiamento di “osservatore
distanziato” e modalità non giudicanti verso i contenuti mentali che si
osservano scorrere in sé. Lo scopo è quello di incrementare la
consapevolezza dei propri pensieri, delle proprie emozioni e delle
sensazioni fisiche, nel momento presente, cercando di non agire o reagire a
esse ma, al contrario, accettandole (Herbert, Didonna, 2006). L’impiego
della TbM nel trattamento dei sintomi del DPTSc ha una tradizione
consolidata sebbene non esistano studi controllati che ne abbiano misurato
l’efficacia (Cloitre et al., 2006; Follette, Vijay, 2008; Herbert, Didonna,
2006; Michal et al., 2007).
Poiché la mindfulness migliora la capacità di sperimentare sensazioni,
emozioni e pensieri disagevoli frenando il loro evitamento, si è dimostrata
una tecnica utile per la gestione dei sintomi del DPTS, sia quelli da
evitamento sia quelli da iperattivazione o da ottundimento emotivo (vedi
capitolo 1). Inoltre, grazie al potenziamento della capacità di concentrarsi
sulle sensazioni corporee e sui propri stati mentali integrandoli
reciprocamente, sembra indicata per trattare alcuni sintomi da detachment
come i sintomi di depersonalizzazione corporea (Michal et al., 2007).

PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA

La PSM è stata sviluppata nei primi anni Ottanta e si è evoluta dalle


tecniche di mindfulness con il preciso intento di integrarsi ad altre forme di
psicoterapia orientate alla cura delle esperienze traumatiche dello sviluppo e
del trauma relazionale precoce (Fisher, Ogden, 2009). Il suo scopo
principale è quello di aiutare il paziente a regolare le funzioni
neurovegetative alterate dallo sviluppo traumatico e a modificare i sintomi
somatoformi e le convinzioni negative sul corpo. Secondo Ogden e
collaboratori la PSM è un approccio volto al ripristino del senso di sé
fondato sui processi bottom-up, ovvero della capacità integrativa degli
schemi sensomotori e cenestesici (Ogden et al., 2006). Il primo compito
della PSM è quello di migliorare la capacità del paziente di autoregolare
l’attivazione corporea esagerata causata dalla disregolazione emotiva
traumatica ed evitare che questa possa causare l’inaccessibilità ad alcuni
stati mentali problematici e a provocare difficoltà terapeutiche o interruzioni
precoci del trattamento. Nella PSM il terapeuta, piuttosto che focalizzare
l’attenzione sui contenuti mentali si concentra sulla postura, sulle tensioni
muscolari, sui movimenti e sulle esperienze corporee del paziente,
incoraggiandolo a sperimentare e riconoscere gli elementi di base delle
sensazioni fisiche e ad associarle allo stato emotivo e ai pensieri di quel
momento. Anche l’esercizio empatico del terapeuta è volto soprattutto
all’esperienza corporea del paziente e alla sintonizzazione con i suoi stati
somatici. Dopo aver raggiunto un sufficiente grado di alleanza il compito
del terapeuta nella PSM è quello di invitare il paziente a focalizzarsi con
cautela sulle sensazioni corporee legate a momenti di difficoltà o alle
convinzioni patogene, senza giudicarle immediatamente (utilizzando quindi
una tecnica tipica della mindfulness). Con domande del tipo “Cosa prova
nel suo corpo quando pensa questo?” oppure “Come incide nel suo corpo
questo stato emotivo? Dove lo sente nel corpo?” il terapeuta tenta di
favorire nel paziente una migliore conoscenza delle sensazioni fisiche legate
al trauma, di bloccare l’evitamento causato dalla qualità negativa
dell’esperienza corporea e di promuovere, progressivamente, un senso di
sicurezza e di padronanza relativo al corpo (Fisher, Ogden, 2009). Nello
stesso tempo il terapeuta aiuta il paziente, attraverso tecniche specifiche, a
regolare l’attivazione somatica causata dalle emozioni disregolate
promuovendo ulteriormente il senso di padronanza sul proprio corpo.
Queste tecniche possono essere di grande utilità nella prima fase della
terapia dei pazienti con DPTSc perché facilitano una migliore regolazione
delle emozioni e favoriscono le capacità metacognitive (autoriflessività e
mastery), oltre a contribuire alla correzione di alcune credenze patogene.
Nella seconda fase della terapia le tecniche della PSM possono essere
utilmente impiegate per la gestione delle memorie traumatiche. Il
riconoscimento e la gestione delle componenti somatiche e viscerali delle
memorie,traumatiche possono essere strumenti preziosi per collocare i
frammenti dei ricordi traumatici nel passato e per il lavoro di integrazione.
A questo scopo ci si concentra sulle reazioni motorie e posturali legate al
trauma. E' utile aiutare il paziente a riconoscere, nella mimica, nella
gestualità e nella postura la ripetizione degli schemi motori indotti dal
sistema di difesa: i segni degli schemi di lotta e di fuga (pugni stretti,
tensione muscolare generalizzata, difficoltà a rimanere seduti), difreezing
(postura rigida, occhi sgranati, numbing emotivo) oppure di sottomissione
(sguardo verso il basso, flessione del capo). Il paziente in grado di
individuare precocemente l’attivazione del sistema motivazionale di difesa
ne potrà riconoscere più facilmente le conseguenze comportamentali,
cognitive e relazionali e padroneggiarle, anche al di fuori della seduta.
Secondo i terapeuti della PSM queste tecniche sono utili anche nella terza e
conclusiva fase della terapia del trauma poiché aiutano il paziente a
superare i timori legati ai rapporti affettivi e ad alcuni stati interni
migliorando la sua capacità di integrare le diverse parti di sé (Fisher,
Ogden, 2009). Lo scopo esplicito della PSM è quello di raggiungere una
maggiore integrazione mente-corpo, una modificazione degli schemi
sensomotori e delle convinzioni patogene legate al corpo e un maggior
senso di mastery attraverso un percorso bottom-up (Fisher, Ogden, 2009).
Le tecniche di sintonizzazione corporea tra terapeuta e paziente oltre a
migliorare il controllo sul corpo e sui sintomi somatoformi offrono, tra
l’altro, la possibilità di rafforzare l’alleanza terapeutica.

TERAPIE DI GRUPPO, FAMILIARI E DI COPPIA

I principi generali della terapia e le tecniche terapeutiche finora descritti


sono usualmente applicati nel contesto di terapie individuali. Tuttavia sia i
principi generali sia gran parte delle tecniche (TCC, PSM, TbM, TDC)
possono essere applicate con successo anche alle terapie di gruppo,
familiari e di coppia (Astrachan et al., 2010; Courtois, Ford, 2009). Inoltre,
sin dalla definizione del DPTS, dei DD e del DBP nel DSM-III del 1980,
sono stati sviluppati approcci terapeutici originali per affrontare nella
terapia di gruppo o con gruppi di sostegno i principali problemi della
dimensione traumatico-dissociativa: il trauma e le sue memorie, i sintomi
da iperattivazione o da ottundimento emotivo, le emozioni sregolate, i
sintomi dissociativi, le difficoltà relazionali, i comportamenti a rischio
(Bloom et al., 2003; Cukor et al., 2010; ISSD, 2005; Linehan, 1993). Negli
ultimi anni sono state affinate anche tecniche terapeutiche sistemico-
relazionali specifiche per il DPTSc (Courtois, Ford, 2009). Terapie di
gruppo, familiari e di coppia vengono sempre più spesso utilizzate nei
Trattamenti MultiSetting Integrati (TMSI) dei pazienti difficili (Farina,
Rainone, 2005).
L’utilizzo di gruppi terapeutici, di supporto e di autoaiuto appare
sensato soprattutto nella prima fase del protocollo terapeutico. In tali
contesti di gruppo i pazienti possono ricevere informazioni sulla propria
sintomatologia, confrontare le proprie esperienze su un piano di pariteticità
con gli altri e dunque, secondo la teoria che attribuisce alla relazione
cooperativa paritetica il massimo livello di fruibilità delle capacità
metacognitive (Liotti, 1994/2005), cominciare a riflettere su esse meglio di
quanto farebbero nei contesti di iniziale dialogo individuale con un
terapeuta percepito nella dimensione motivazionale dell’attaccamento
(come potenziale fonte di cura e conforto) o del rango (come figura
dominante che darà prescrizioni a cui è necessario conformarsi). Inoltre, i
contesti di gruppo i cui membri soffrono di disturbi consimili contrastano il
senso di isolamento ed estraneità che è uno dei sentimenti più diffusi nel
DPTSc (ISSD, 2005).
Incontri di terapia familiare in contesti di co-terapia col trattamento
individuale (TMSI) possono rivelarsi di importanza cruciale durante le
prime fasi della cura di pazienti ancora molto giovani e che vivono in
famiglie neglecting, con genitori emotivamente fragili e vulnerabili o al
contrario violenti, i cui comportamenti abusanti in passato hanno costituito
le radici dell’attuale DPTSc. L’obiettivo dell’intervento familiare in questi
casi è di mitigare l’atmosfera emozionale molto intensa in queste famiglie e
monitorare mitigandole le strategie controllanti-accudenti e controllanti-
punitive che tipicamente vi dominano, in modo che il trattamento
individuale possa svolgersi con il minor grado di interferenza possibile da
parte dei membri della famiglia (Ceccarelli, Morganti, 2005; Chouhy,
Ceccarelli, 1993).
LE TERAPIE FARMACOLOGICHE NEL TRATTAMENTO DELLO
SVILUPPO TRAUMATICO

La complessità dell’adattamento al trauma relazionale precoce non


permette la gestione dei disturbi che ne derivano esclusivamente con
Terapie Psicofarmacologiche (TPF). Tuttavia, come avviene nel DBP, nel
DPTS e nei disturbi dissociativi, l’impiego di farmaci nei pazienti con
DPTSc è indicato per la gestione di alcune aree sintomatiche specifiche
(come la disregolazione emotiva o lo scarso controllo degli impulsi,
l’irritabilità e i sintomi intrusivi) oppure per trattare i frequenti disturbi in
comorbilità come quelli dell’umore o d’ansia (Miti, Onofri, in corso di
stampa; Opler et al., 2009; Stein et al., 2006).
Sebbene il mancato riconoscimento del DPTSc come entità nosografica
autonoma abbia frenato la realizzazione di specifici protocolli di ricerca,
diversi studi hanno esaminato l’impiego delle TPF nei pazienti con trauma
complesso e storie di maltrattamento e abuso infantile, concludendo che
l’uso di psicofarmaci è indicato come supporto alla psicoterapia e mai come
trattamento esclusivo (Corrigan et al., 2010; Friedman, 1997; Opler et al.,
2006; Opler et al., 2009; Stein et al., 2006; van der Kolk et al., 2007). In
questi pazienti la TPF ha lo scopo principale di stabilizzare il paziente nella
prima fase della terapia e consentire al terapeuta di procedere nella
realizzazione delle prime mete del trattamento: la costruzione dell’alleanza
terapeutica, la ricerca della sicurezza del paziente, la modulazione dei
sintomi più invalidanti. A questo scopo l’utilizzo di farmaci antidepressivi,
stabilizzatori dell’umore e antipsicotici atipici si è rivelato utile per
modulare le emozioni sregolate, l’irritabilità e la disforia, per contenere i
disturbi del comportamento e gli atti autoaggressivi, parasuicidari e
suicidari, e per mitigare le somatizzazioni.
Le categorie di farmaci più utilizzati a questo scopo sono gli inibitori
selettivi della ricaptazione della serotonina (ISRS), gli antidepressivi atipici
(come nel caso della levosulpiride per i disturbi somatoformi), i
betabloccanti (per mitigare gli effetti da iperattivazione simpatica), gli
stabilizzatori dell’umore (litio, carbamazepina, acido valproico, topiramato
e altri) e gli antipsicotici di seconda generazione, in particolare ri-speridone,
quetiapina e olanzapina (Bartzokis et al., 2005; Mucci et al., 1995; Opler et
al., 2009; Rouillon et al., 2001). Non di rado i pazienti con DPTSc si
rivolgono al clinico a causa della comparsa di un disturbo d’ansia (attacchi
di panico, ansia generalizzata, claustrofobia), per un’alterazione dell’umore,
per abuso di sostanze, per disturbi del comportamento alimentare o per
l’esordio di un disturbo correlato o associato al trauma complesso: in questi
casi è spesso necessario ricorrere alle TPF per superare i sintomi iniziali che
altrimenti ostacolerebbero il protocollo terapeutico generale.
Le TPF, come altri elementi della clinica del trauma complesso,
presentano spesso difficoltà di gestione. Una di queste è che i pazienti con
DPTSc hanno spesso una bassa aderenza alle regole terapeutiche e quindi
anche scarsa compliance alle TPF. Inoltre i frequenti problemi di
impulsività impongono particolari cautele per la prescrizione di sostanze
psicotrope, di cui il paziente potrebbe abusare, in casi estremi anche
assumendone dosi eccessive per atti parasuicidari o suicidari.

Modalità d’uso dei farmaci, significati impliciti e cautele

La necessità di un trattamento farmacologico costituisce l’occasione più


frequente per avviare una co-terapia (TMSI). L’opera congiunta e
coordinata dello psicoterapeuta e dello psichiatra che gestisce la cura
farmacologica assicura al paziente, oltre ai benefici dei singoli interventi,
gli effetti terapeutici specifici dei TMSI descritti nel capitolo 7. Quando una
componente del TMSI è la cura farmacologica, è di cruciale importanza che
lo psichiatra che somministra farmaci lo faccia con modalità particolari e
adatte al contesto. Per esempio, dovrà evitare di menzionare gli effetti dei
farmaci come antagonisti di una qualsiasi emozione, come suggerito da
termini di uso comune come “ansiolitico” e “antidepressivo”. Il motivo è
che il concetto di farmaco come antidoto e antagonista di una qualsiasi
emozione contrasterebbe col lavoro dello psicoterapeuta che, validando le
emozioni, espone il paziente all’idea che nessuna emozione, neppure la più
sgradevole, è di per sé negativa per la vita, proprio come il dolore corporeo
è un frutto dell’evoluzione che protegge la vita segnalando che esiste una
situazione dannosa con cui confrontarsi. Le emozioni sono patologiche non
per loro natura intrinseca, ma per eccesso o difetto di intensità dovuto a
deficit nella loro regolazione. Lo psichiatra dovrà dunque segnalare al
paziente che segue in un TMSI che lo scopo della prescrizione è mitigare
l’intensità abnorme di un’emozione, non assoldare una sorta di killer
chimico che elimini quell’emozione. E farà bene ad aggiungere che le
riduzioni di dosaggio e l’interruzione della cura farmacologica saranno
effettuate in accordo con lo psicoterapeuta oltre che col paziente, quando
tutti e tre avranno motivo di ritenere acquisite sufficienti capacità di
regolare quell’emozione con mezzi psicologici propri. Offrono piena
dignità scientifica a questa modalità di prescrizione recenti ricerche (per una
rassegna, vedi Merens et al., 2007) a sostegno della tesi che gli ISRS
esercitano il loro effetto terapeutico intervenendo sui processi cerebrali di
elaborazione dell’informazione emozionale sociale, non abolendo stati
emozionali preesistenti o suscitandone ex novo altri antagonisti.
Come per qualsiasi altra azione terapeutica anche per la prescrizione dei
farmaci psicotropi devono essere considerati i significati di tipo relazionale,
espliciti e soprattutto impliciti, e le difficoltà derivanti dall’attaccamento
disorganizzato. I pazienti con storie di sviluppo traumatico possono essere
riluttanti ad assumere psicofarmaci per la generale sfiducia, e talora
diffidenza, che nutrono per qualsiasi fonte di aiuto. Il farmaco può rientrare,
come altri elementi della relazione terapeutica, nel vortice costituito dal
bisogno di cura e dal timore che chi la offre si riveli anche pericoloso o
profondamente inefficiente - vortice generato dalla disorganizzazione
dell’attaccamento. La fobia dell’attaccamento, in altre parole, può
manifestarsi come paura esasperata della dipendenza dal farmaco, o dei
disturbi collaterali che esso può indurre. Il senso di minaccia che i pazienti
post-traumatici tipicamente provano verso le sensazioni corporee nuove e
non controllabili può prendere la forma di una farmacofobia non appena
insorgano effetti collaterali pur banali e transitori. Queste considerazioni
non devono però indurre il clinico a trascurare la possibilità che a volte i
pazienti siano comprensibilmente allarmati dai pesanti effetti collaterali
sperimentati in precedenza, in occasione di terapie assunte in modo non
appropriato a causa di errori diagnostici.
Accanto a questi significati negativi che il paziente, implicitamente o
esplicitamente, può attribuire all’assunzione di farmaci è bene considerare
anche quelli più positivi determinati dagli effetti delle TPF. L’eventuale
risposta terapeutica al trattamento farmacologico può costituire l’occasione
per rafforzare il senso di fiducia nella cura e consolidare l’alleanza
terapeutica. Un esempio ci è offerto dall’uso degli ISRS che, grazie alla loro
capacità di modulare l’intensità degli stati emotivi negativi, sono spesso
considerati particolarmente indicati per il trattamento del DPTS (Keane et
al., 2006) e del DPTSc (Stein et al., 2006). Il paziente che risponde al
trattamento con ISRS potrà sentirsi più capace di autoregolazione delle
emozioni e in grado di affrontare situazioni che precedentemente gli
provocavano eccessivo disagio e che per questo motivo evitava. Ciò può
migliorare il senso di fiducia in sé e nella terapia, e spingere il paziente a
esplorare nuove esperienze che possono divenire emotivamente correttive.
Se da una parte la remissione in tempi rapidi di alcuni sintomi
invalidanti può facilitare l’alleanza terapeutica e la fiducia nella terapia,
dall’altra le mancate risposte al trattamento possono confermare le credenze
patogene sulla inefficacia o la dannosità delle cure in generale. Anche per
questo motivo è raccomandabile che le TPF non vengano somministrate
dallo psicoterapeuta ma da un’altra figura professionale all’interno di un
TMSI. La scelta del farmaco deve inoltre essere condivisa dal paziente e
accompagnata da spiegazioni accurate ed esaurienti sulle modalità di azione
(regolazione delle emozioni, non loro “cancellazione” dall’esterno), sui
possibili effetti collaterali e sui tempi d’azione. Il raggiungimento dei
dosaggi terapeutici, inoltre, dovrebbe essere il più graduale possibile, in
modo da permettere al paziente di familiarizzarsi con gli effetti positivi e
negativi del farmaco discutendo ripetutamente con lo psichiatra il
significato che vi attribuiscono. A tale scopo, è utile che i pazienti con
DPTSc possano avere contatti telefonici con lo psichiatra in cui esprimere
dubbi e perplessità.
Un’ulteriore precauzione deve essere utilizzata per l’effetto che i
farmaci possono avere sulla dissociazione e le somatizzazioni. Da una parte
l’attenuazione di stati emotivi intensi e negativi grazie all’uso di un farmaco
può indirettamente alleviare sia i sintomi dissociativi della coscienza sia
quelli somatoformi. Tuttavia è bene evitare che l’effetto di attenuazione
delle emozioni vada a rafforzare l’ottundimento posttraumatico (numbing),
provocando così un peggioramento dei sintomi di detachment.

RICORDI TRAUMATICI E FALSE MEMORIE

Nel capitolo precedente abbiamo accennato al rischio in cui può


incorrere il terapeuta, di favorire o confermare inconsapevolmente falsi
ricordi, durante la ricostruzione della storia del paziente nella prima fase
della terapia, e soprattutto durante il lavoro di integrazione delle memorie
traumatiche nella seconda fase. L’induzione o la conferma di un falso
ricordo in psicoterapia può rappresentare un duplice problema: da una parte
può costituire un ostacolo al processo terapeutico poiché può interferire con
la necessaria neutralità del terapeuta, e dall’altra può determinare un
problema medico-legale. La letteratura scientifica e le cronache riportano
numerosi casi di terapeuti incauti che hanno indotto false memorie:
terapeuti talvolta condannati a risarcire le vittime di infondate accuse di
abusi, ma anche terapeuti che sono stati vittime dei falsi ricordi dei loro
pazienti (Dalenberg, Palesh, 2010; Loftus, 2003). E' bene sottolineare che lo
scopo del trattamento delle memorie traumatiche non è quello di far
emergere un contenuto rimosso o di accertare una verità giuridicamente
rilevante, ma piuttosto quello di integrare e assimilare i frammenti dei
ricordi traumatici al fine di aumentare le capacità di presentificazione,
realizzazione e sintesi personale del paziente (ISSD, 2005; van der Hart et
al., 2006). La ricostruzione della verità storica in psicoterapia è importante
per validare l’esperienza del paziente, non per assicurare alla giustizia i
colpevoli dei maltrattamenti e degli abusi.
Alcune ricerche hanno documentato che oltre il 75 % dei ricordi che
emergono durante una terapia sono corroborabili da prove sicure, e altre
ricerche dimostrano che la produzione di falsi ricordi è legata più alla
propensione a fantasticare tipica di ciascun individuo che alla dimensione
traumatico-dissociativa e agli interventi per curarla (Dalenberg, Palesh,
2010). Tuttavia la ricerca scientifica sul tema della ricostruzione delle
memorie in psicoterapia e sulla loro affidabilità è assai controversa e
lontana ancora dal poter fornire precise indicazioni al clinico. Per evitare,
dunque, di incorrere nel problema delle false memorie e delle sue
conseguenze medico-legali è importante che il terapeuta proceda con alcune
precise cautele. La ricostruzione delle memorie traumatiche, in qualsiasi
fase della terapia, deve essere condotta con estrema prudenza assumendo il
già ricordato atteggiamento di neutralità verso i ricordi che vengono
rievocati dal paziente, senza forzare mai il ricordo né rispondervi
emotivamente con giudizi di orrore e condanna. E' utile che il clinico
registri le sedute o prenda appunti che riportino fedelmente la data, i
contenuti delle memorie rievocate dal paziente, indicando con quali
interventi del terapeuta sono state raccolte, commentate, accolte. Ciò lo
potrà aiutare sia a confrontare i ricordi che emergono nelle diverse fasi della
terapia, sia a evitare possibili conseguenze medico-legali.
E' importante rilevare che non sempre il lavoro sulle memorie
traumatiche conduce a un preciso ricordo degli eventi del passato. Anche le
tecniche terapeutiche volte alla ricostruzione e all’integrazione dei ricordi
come l’EMDR non assicurano alcuna veridicità delle memorie rievocate
(Miti, Onofri, in corso di stampa). A volte il paziente rimane incerto e
dubbioso su ciò che è realmente accaduto nella propria infanzia. La ricerca
delle prove degli abusi può divenire inutile se non addirittura
controproducente (Dalenberg, Palesh, 2010). Quando ciò si verifica, quando
il paziente diviene perplesso ed esitante su alcuni ricordi e avverte, come il
protagonista di II Cavaliere e la Morte di Sciascia, che anche la memoria
può mentire, è molto importante che il terapeuta lo aiuti a tollerare
l’incertezza della memoria,3 che empatizzi con lui su quanto possa essere
angoscioso vivere con tali dubbi, piuttosto che rincorrere la spesso
impossibile ricerca della verità.

RESILIENCE E CREATIVITÀ

L’osservazione clinica e la ricerca dimostrano l’esistenza di fattori


protettivi anche nei contesti di sviluppo traumatico. La capacità di resistere
alle condizioni avverse durante lo sviluppo traumatico è definita nella
letteratura scientifica internazionale con il termine resilience (Bertetti, 2008;
Zaccagnino et al., in corso di stampa), intraducibile vocabolo inglese
(“resilienza” è un brutto neologismo) che suggerisce flessibilità, elasticità e
capacità di un materiale di assorbire urti senza subirne deformazioni
durevoli. Talvolta il trauma, provocando l’emersione dei fattori di
resilience, sembra addirittura fortificare l’individuo e costituire
un’esperienza formativa. La resilience può dipendere da variabili sia
psicobiologiche sia socioculturali. Contrariamente a quanto ritenuto in
passato, è un processo suscettibile di sviluppo piuttosto che un tratto stabile
della personalità (Rutter, 2008).
Lo studio dei fattori che permettono lo sviluppo della resilience è di
fondamentale importanza per comprendere più a fondo le risposte ai traumi
psicologici, per mettere a punto strategie preventive volte a contenere gli
effetti del trauma relazionale precoce, e anche per migliorare le tecniche
psicoterapeutiche di cui ci siamo occupati in questo capitolo. La sicurezza
nell’attaccamento precoce è certamente un fattore di resilience qualora il
bambino sia esposto a traumi durante il successivo sviluppo. Offrire
sicurezza nell’attaccamento al bambino esposto a traumi che non abbia
beneficiato di un attaccamento sicuro nei primi due anni di vita è un
obiettivo fondamentale nella prevenzione dei disturbi posttraumatici
dell’infanzia, ma anche una possibile meta, peraltro ambiziosa, negli adulti
che si presentano al clinico avendo ormai sviluppato un DPTSc. Ottime
fonti di conoscenza dei metodi di prevenzione e di intervento volti a
sviluppare sicurezza dell’attaccamento nei bambini esposti a traumi sono i
capitoli del Manuale dell’attaccamento firmati da Dozier e Rutter (2008) e
da Berlin e collaboratori (2008).
Lo spazio limitato di questo libro e le nostre incomplete conoscenze non
consentono di discutere qui altri fattori di resilience. Tuttavia, prima di
concludere la trattazione degli sviluppi traumatici e dei loro esiti
nell’adulto, vogliamo suggerire due temi di riflessione sui processi mentali
che sembrano proteggere dagli effetti patogeni a lunga scadenza dei traumi
psicologici, o volgere tali effetti nella direzione non solo di disturbi
psicopatologici ma anche di concomitanti positivi sviluppi della conoscenza
personale. Riflettere su questi due temi può essere di notevole utilità per il
clinico impegnato nella cura di un paziente che abbia tentato
spontaneamente di fronteggiare l’esperienza traumatica attraverso il ricorso
alla spiritualità o alla creatività artistica.
La prima fonte di riflessione che invitiamo a considerare riguarda la
protezione dagli effetti patogeni dei traumi psicologici offerta talora
dall’adesione a un credo religioso o a una forma di spiritualità. Dati di
ricerca al riguardo sono riassunti da Granqvist e Kirkpatrick (2008). Può
non essere facile, per un clinico formato al rigore del ragionamento
scientifico, considerare con autentica empatia gli sforzi di un paziente di
dare senso alla propria esperienza traumatica attraverso il ricorso a un credo
religioso o a una ricerca personale di spiritualità. Tuttavia, il clinico
dovrebbe essere avvertito degli effetti talora sorprendentemente positivi di
tali sforzi e di conseguenza, pur mantenendo un atteggiamento neutrale
rispetto alle convinzioni religiose del paziente, apprezzarne empaticamente
il valore di sostegno alla psicoterapia. Forse, ogni profonda e sincera ricerca
di senso esistenziale anche dopo aver subito esperienze avverse gravemente
traumatiche è un fattore che facilita, nell’adulto, lo sviluppo della
resilience.
La seconda fonte di riflessione riguarda la creatività che, a giudicare
dalla biografia e dalle opere di alcuni artisti, sembra capace di contrastare
gli effetti patogeni più gravi dell’esperienza traumatica. Chi abbia avuto
occasione di considerare l’infanzia traumatica di Dostoevskij e i disturbi
psicopatologici che ne sono derivati a complicare l’epilessia, potrà
apprezzare come il gigantesco sforzo di creazione artistica di questo sommo
gli abbia permesso di conseguire l’integrazione di quegli stati dell’io
separati che si riflettono nei caratteri dei fratelli Karamazov.4 E per limitarci
a romanzieri e poeti, trascurando altri artisti che ci hanno lasciato
capolavori musicali o pittorici, come non ricordare le storie di vita di
Céline, di Tolkien, di Pirandello, di C.S. Lewis, di T.E. Lawrence, di
Rebora, di tanti altri reduci della Grande Guerra, e il ruolo che le loro opere
hanno svolto nel loro sforzo di dar senso alle proprie esperienze traumatiche
e contenere i gravi disturbi psicopatologici che ne erano conseguiti?5 Talora
queste espressioni di creatività artistica hanno avuto successo nel mitigare o
persino risolvere il disturbo psicopatologico, come nei casi di Tolkien, di
Lewis e di Rebora, e talora non sembrano invece averne permesso alcuna
remissione, come nei casi di Céline e di Lawrence, ma sempre hanno
trattenuto chi li ha scritti dal precipitare nell’abisso assurdo dell’alienazione
post-traumatica che Voltaire chiamò “nulla sepolcrale”. Se dunque un
paziente con DPTSc si trova a parlare della propria creatività artistica col
terapeuta, è doveroso che il clinico non assuma atteggiamenti freddamente
interpretativi o, peggio, da critico letterario, ma risponda con partecipazione
empatica riconoscendo la preziosa creazione di senso, per sé e per gli altri,
che questo aspetto della vita del paziente consente di perseguire e opporre
al “nulla sepolcrale” che il trauma prefigura e minaccia.

E' appena necessario ricordare che il tema della resilience non è il solo
che le lacune conoscitive degli autori e le esigenze di spazio non hanno
permesso di trattare in sufficiente dettaglio. E' nostra speranza che questo
libro abbia contribuito a confermare o creare nelle lettrici e nei lettori
l’interesse per gli sviluppi traumatici, e che sia qualcuno fra le nostre lettrici
e i nostri lettori a offrire, con ulteriori studi e ricerche, un contributo a
colmare i nostri vuoti conoscitivi. E altrettanto grande speranza è che la
guida alla comprensione e al trattamento degli esiti degli sviluppi
traumatici, offerta a chi si accinge a trattare coloro che ne soffrono, valga a
mitigare l’offesa alla vita, alla fiducia, all’amore e alla speranza inferta da
ogni trauma psicologico.

1. Leonardo Sciascia (1988), II Cavaliere e la Morte, in Opere,


Bompiani, Milano 1989, p. 457.
2. Alcuni esempi sono: la Trauma-Focused Cognitive Behavioral
Therapy (Deblinger et al., 2010), la Cognitive Processing Therapy (Resik et
al., 2002), la Contextual Behavioral Trauma Therapy (Follette et al., 2009).
Per una loro trattazione rimandiamo alle relative voci bibliografiche.
3. Nel capitolo 6 si è fatto cenno agli studi che dimostrano la fallibilità
della memoria in tutti gli individui. Può essere utile al paziente con ricordi
incerti normalizzare la sua esperienza attraverso letture divulgative
sull’argomento, come il classico di Daniel Schächter Alla ricerca della
memoria (tr. it. Einaudi, Milano 2007).
4. Un’appassionata discussione dell’unità tematica delle opere di
Dostoevskij, riconducibile allo sforzo di integrazione di stati dell’io
dissociati attraverso la creazione artistica, è offerta nel libro di René Girard
(1963), Dostoevskij, dal doppio all’unità (tr. it. Edizioni SE, Milano 2005).
5.I disturbi post-traumatici di grandi scrittori e poeti inglesi reduci dalla
Grande Guerra sono oggetto di una descrizione letterariamente brillante e
storicamente accurata nel romanzo di Wu Ming Stella del mattino (Einaudi,
Torino 2008).
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INDICE ANALITICO

Abdicante (stato mentale), 135


Abuso, 36,109, 111, 128,130,193;
vedi anche Trauma psicologico
Accudimento vedi Sistema motivazionale dell'
Adattamento darwiniano, 73,75,119
Adult Attachment Interview (AAl), 79, 81,93
Aggressività, 72-74,81,103 Agorafobia, 29,126,128
Alessitimia post-traumatica, 59,136,144
Alienazione, 45,54,63,79,83,87,107, 120,131,142,180,183-184,192,
220;
vedi anche Detachment Alleanza terapeutica, 136,150,158,165,
166,171,182,198
Alter, 53,54,196,199
Alterazione dell’identità, 22
Amnesia dissociativa, 45,50,133,196
Ansia, 23,54,91,108,118,126,133, 145,154,181,217 nel terapeuta, 182
Antidepressivi, 217
Attaccamento disorganizzato, 78-80, 89,96,101-105,118,134,150,154;
vedi anche Sistemi motivazionali dell’attaccamento Autenticità,
162,166,178
Blank spell, 47,184 Bulimia nervosa, 197
Colpa, 27,108,143,168,169,189,204 Comorbilità, 125,129,139
Compartimentazione, 41,45,50-56,60, 79,83,87,104,132,135,139,196
Competizione, 68,76 Control-Mastery Theory, 163,165 Controllanti,
strategie vedi Strategie controllanti Conversione, 27,57,121,212
Cooperativo vedi Sistema motivazionale Cooperazione, 156,167,175
Coscienza, 37-38,40,44,45,57,61,74, 89,119-121
Creatività, 223
Credenze patogene, 28,55,149,152, 159,163,190,209
Depersonalizzazione, 38,44,46-48, 110,112,120,128,133,139,154, 183-
184,186
Depressione, 91,98,133,135,137,144146,157,179-183,202,208,217-218
Derealizzazione, 91,135,145,180,208 Detachment, 45,54,63,79,
83,87,107, 120,131,142,180,183-184,192, 220; vedi anche Alienazione
Developmental psychopathology, 13 Difesa intrapsichica, 46,54 sistema di,
36,66,69,71-75,80,82,85, 94,101,106,118-120 Dis-integrazione,
26,37,61,83,104,130 Disgregazione della coscienza, 39,44 Dissociative
Expériences Scale (DES), 133 Dissociazione continuum, 63
difesa dal dolore, 32,39,46
dimensione, 23,57,124 normativa, 63
processo,50,56,101, 111, 125, 127,130
somatoforme, 30,56,57,59,120-121 strutturale della personalità, 46,60
taxon, 63
tipi di vedi Alienazione; Detachment Disturbo borderline di personalità
(dbp), 23, 126,129-132,173,216 d’ansia generalizzato, 126,218 da attacco di
panico, 29,126 da stress estremo non altrimenti specificato (dsenas),
22,26,108 da uso di sostanze, 24,112,126 del comportamento alimentare
(DCA), 47,126,180,218 dell’umore, 127 di personalità, 23,
91,100,105, 126,174
dissociativo dell’identità (did), 40, 53,107,132,196
ossessivo-compulsivo (doc), 29, 108,126
post-traumatico da stress complesso (dptsc), 21,25,83,98 post-
traumatico da stress (dpts), 35, 46,72,83,98 post-traumatico di personalità
(dptp), 23,129,131 schizofrenico, 126 schizotipico di personalità, 110-111
somatoforme, 56,116,126,143,217 traumatico dello sviluppo (dts), 24,
25,83,102,243 Dolore psicogeno, 57
Emozioni in rapporto ai sistemi motivazionali, 67,70
regolazione delle, 22,25,88,108,112, 117,129,142,187,215 soverchianti
(overwhelming), 33, 46,60
validazione, 168 Empatia, 95,200,202,223 Empirismo collaborativo,
208 Enactment, 95,161-163,177,188
Esperienza fuori dal corpo vedi OBE Esperienza relazionale correttiva,
95, 152,161,165 Esplorazione vedi Sistema motivazionale esplorativo
Eterarchia, 68 Evoluzionismo epistemologia, 113 prospettiva
motivazionale, 66,72, 82 teoria gerarchica neojacksoniana, 37 Eye
Movement Desensitization and Reprocessing (emdr), 154,158,185, 194,210
False memorie, 137,195,220-221
Farmacologiche, terapie, 149,174,180, , 191,217-218
Fasi della terapia alleanza, 151,165
integrazione, 196
lavoro sulle memorie traumatiche, 188,195
stabilizzazione, 151,179,180 sgg. Fiducia, 28,77,150,152,165,169
Fobia
degli stati interni, 153,196,212 della perdita, 198,206 dell’attaccamento,
153,155,159-161 Fonction du réel (funzione di realtà), 39,194
Frightened/frightening (ff), 80,81,104
Fuga dissociativa, 51
Gerarchia di sistemi motivazionali, 68;
vedi anche Jackson, J.H.
Groundingy 184-186
Hidden observer, 40 Hilgard, E., 40-42 Hostile/helpless (hh), 81,105
Hyperarousal, 20,120 Hypoarousal, 111, 120
Immagine corporea, 45,47,57,121 Impotenza, 27,32,79-81,105,118 del
terapeuta, 143 Indegnità, 192,204 Integrazione, strategie terapeutiche,
196,201
Intersoggettività, 67,71, 85,94,102
Jackson, J.H. (jacksonismo o
neojacksonismo), 37-38,64,67, 69,114
Janet, P (janetiano), 33,38-40,44,46, 56,65,125,194,211
Lavoro sulle memorie traumatiche, 188, 190,195
Livelli funzionali gerarchici, 67-71
Mastery, 60,147,215 Memoria autobiografica episodica (specifica),
26,55,62,110,115,136,137, 144-146 autobiografica semantica
(generalizzata), 15,52,55,62,69, 71,146,200-201,205 falsa vedi False
memorie Mentalizzazione, deficit di, 26,37,39, 59-
61,71,99,100,107,117,152, 163,165,168,187,196 Metacognition Assessment
Scale (MAS), 60
Metacognizione vedi Mentalizzazione
Mindfulness, 212 -214 Modello Operativo Interno (MOI), 67,77
Motivazione, architettura generale, 68-71
Neglect
tipo di trauma, 21,60,84, 111, 130,168 visivo-spaziale, 41 Networking,
116
Neurobiologia e neuroscienze del trauma e della dissociazione,
26,66,113-121 Neuroni specchio, 70,81,166,189 Numbing (emotional
numbing;), 20,46, 72,112,185,215,220
Oblatività, 28,204 Osservatore nascosto vedi Hidden observer Ostilità,
22,81,105,202 Out of the Body Experience (OBE), 48
Panico, 126,128,180,181,208 Parasuicidari, sintomi, 180-183,217,218
Paura, senza sbocco, 80,102,129,153, 162,167
Pennacchio (.spandret), 74 Personalità nel disturbo post-traumatico,
129-132 sviluppo in contesti traumatici, 22,28, 60,75,88,95,100,104
Psicoterapia sensomotoria, 214; vedi anche Terapia
Regolazione emotiva, deficit di, 24,60, 180,214,217 Relazione
terapeutica, 95,100,134,143, 149,152 Resilience, 222-224 Risposta vagale
dorsale, 118-120
Schema corporeo, 57,121 Schizotipia, 110 Self-disclosure, 95,163,166
Setting, 165,170 Sessualità, 68,109,138 disturbi della, 24,28 Sfiducia,
24,32,130,142,147,149, 186,206 Sicurezza, condizioni di del paziente,
151,163,173,195 del terapeuta, 173,177 Sintesi personale,
39,44,69,100,142, 152,194 Sistemi motivazionali accudimento, 70,76,80,
84, 89,101, 105,154,187,188 attaccamento, 27,67,70,75-77 cooperazione
paritetica, 76,95, 154-156,158,159,167,187 difesa, 68-74 esplorazione, 68
predazione, 103 rango, 68,70,72-78,89-91 sessuale, 70,76,92,101
territoriale, 68 Somatizzazioni, 23,27,59,212,217 Stati dell’io non integrati,
37,44,45, 50-54,104,133,139,140,196-199 Strange Situation Procedure
(SSP), 79, 88 Strategie controllanti accudente 90,94,109,138 punitiva, 89-
90,94,106,138 sessualizzata, 94,155
Tecniche cognitivo-comportamentali, 180
Terapia
dialettico-comportamentale, 174,182
di gruppo, 216 familiare, 216
farmacologica, 217
fasi della, 151,179
in setting multipli, 173
piano generale, 151
Trauma psicologico complesso, 22,33,171,208
da guerra, 20
definizione, 31
nel DSM, 32
relazionale precoce, 33,83,129 tipi, 20,111
Validazione, 168-169,203
Vergogna, 27,102-103,143,169,192, 212
Violenza, 21,35, 81,115,135
Vittima, 21,27,32,77,103 Vulnerabilità, 21,52, 84,115,125 Vuoto
mentale, 47,71,103,106,109,184

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