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Metodologia:
Come metodo di ricerca ho utilizzato sia un approccio più classico ai testi, sia una vera e propria
esperienza sul campo. In primo luogo, mi sono dedicata lettura di libri, saggi, articoli sul tema delle
stragi nazifasciste per avere un’idea generale dell’argomento. Per approfondire il caso da me scelto
di San Terenzo Monti mi sono dedicata alla lettura di varie fonti, partendo dai libri per arrivare a
saggi, interviste e documentari vari. Successivamente la vicinanza del luogo, che dista circa 40
minuti da casa mia, mi ha permesso di intraprendere una vera e propria ricerca sul campo. Questa è
stata a mio parere l’esperienza più bella e interessante perché mi ha permesso di raccogliere
numerose testimonianze, di visitare dal vivo i luoghi dell’accaduto, di parlare con persone che
hanno vissuto la strage in famiglia anche se non direttamente.

Parole chiave 5

Abstract .

titolo

Introduzione:
“Io ne parlo sempre, ma dicono: sarebbe meglio che non ne parlassi più perché non fa bene
neanche alla salute.. […] qualcuno forse avrà dimenticato, ma io non ho dimenticato.”
Questo è un passo tratto dalla testimonianza di Maria Vangeli (libro poetiche e politiche del
ricordo) che ci mostra come certi eventi rimangano impressi nella mente e come sia difficile
dimenticarli nonostante il passare del tempo. Lei era solo una bambina quando avvenne l’eccidio e
fu, in particolare, la spettatrice della morte del parroco del villaggio, Don Michele Rabino, da parte
dei reparti tedeschi nel 19 agosto del 44.
Stiamo parlando in particolar modo della strage di San Terenzo Monti, perpetrata dai nazisti
nell’estate del 44. Questo è il caso che ha catturato maggiormente la mia attenzione e che ho deciso
di trattare per vari motivi. In primo luogo, la vicinanza del paese rispetto alla mia città ha reso anche
più vicino a me la vicenda e mi ha permesso di recarmi suo luogo, fare “ricerca” sul campo e sentire
varie testimonianze. Inoltre mi hanno colpito da una parte tutti i particolari dell’accaduto, gli
intrecci, i malintesi e le speranze andate in frantumi. Dall’altra parte il caso di San terenzo è uno dei
tanti casi in cui si è andata a creare, tra i sopravvissuti, una vera e propria memoria divisa.
Prima di iniziare a trattare singolarmente la strage vorrei spiegare brevemente il contesto storico nel
quale è accaduta e cosa intendiamo per stragi nazifasciste in Italia.

Cosa sono le stragi nazifasciste in Italia?


Durante la seconda guerra mondiale, in particolare nel periodo tra il 1943 e il 1945, furono
perpetrate le stragi nazifasciste in tutta la penisola italiana. Gli eccidi provocarono circa 10mila
morti tra i civili. Una delle regioni più colpite d’Italia è sicuramente la Toscana, la quale conta 280
eccidi soprattutto nell’estate del 1944. I protagonisti di queste violenze furono non solo le SS
naziste ma anche i soldati della Wermacht, della Luftwaffe e i fascisti della Repubblica di Salò
(definiti “ragazzi di Salò”). Queste stragi colpirono per lo più dei civili inermi: donne, bambini e
anziani, che fino a quel momento pensavano di essere al sicuro. La storiografia ha mostrato come
quello tedesco fosse un piano ben preciso, una vera “guerra ai civili” che mirava, tra le altre cose, a
terrorizzare la popolazione e a sciogliere ogni legame tra quest’ultima e la Resistenza.
I metodi: È importante a mio parere notare, come sostiene Paolo Pezzino nel suo libro “La politica
del massacro”, come questa non sia stata un’unica guerra ai civili, ma vi siano state forme e pratiche
della violenza diverse in base agli obiettivi, i quali cambiano in base ai tempi e ai luoghi. Anche
Gianluca Fulvetti nel suo libro “uccidere i civili” sostiene che ci sia una razionalità strumentale a
monte di degli episodi criminali. Possiamo parlare di un primo metodo che è quello della
rappresaglia, il quale include tutti i massacri attuati in risposta a un’azione partigiana o a una
rivolta. La seconda tipologia è il rastrellamento antipartigiano che comprende tutti i massacri e
gli eccidi commessi nel corso delle azioni antipartigiane. Una terza tipologia viene definita le
“stragi dell’ultimo giorno” cioè quelle compiute in movimento e con il fronte vicino. Queste stragi
in particolare mostrano come il legame tra le azioni violente e la presenza partigiana non fosse
essenziale al fine dell’operazione. I tedeschi in questi casi miravano semplicemente allo
sfruttamento delle risorse dei civili e all’occupazione del territorio. Ci sono ancora tre tipologie di
violenze: le operazioni commesse nel corso di ripulitura e desertificazione, i massacri di tipo
razziale e i massacri eliminazionisti. Nelle prime i tedeschi mirano a uno svuotamento di alcuni
territori che si trovano nei pressi di obiettivi strategici. Nel secondo caso invece i massacri sono
legati all’appartenenza ebraica delle vittime. L’ultimo caso infine ci da una spiegazione di quelle
stragi apparentemente irrazionali, spiegabili solo attraverso l’intenzione dei nazisti di giustiziare
un’intera comunità.
Considerando che parliamo di “razionalità procedurale” delle stragi possiamo dire che quello che i
tedeschi avevano in mente era una strategia politica e militare ben precisa. Distruggere ed eliminare
vasti territori e popolazioni serviva loro per proteggere le vie di approvvigionamento dai partigiani,
facilitare la difesa nelle linee interessate, sfruttare le risorse per la guerra e in qualche modo punire
l’ex alleato per averlo “tradito”.
Possiamo inoltre parlare di “fasi” legate all’occupazione tedesca in Italia che vanno dall’inizio
dell’occupazione settembre 1943-marzo 1944 fino alla liberazione novembre 1944-aprile 1945. A
noi interessa in particolar modo la sesta fase che va dai primi di giugno del 1944 a metà di
settembre dello stesso anno. È in questo periodo che vengono compiute moltissime stragi, 47 per
l’esattezza, che costarono la vita a 1.214 persone. Furono per lo più rappresaglie e rastrellamenti
compiuti sistematicamente dai tedeschi per difendere la linea gotica. Quest’ultima, detta anche
“linea verde”, è la posizione di resistenza organizzata dai tedeschi lungo l’appennino che
incominciava ad essere minacciata dalle attività resistenziali dei vari paesini e per questo doveva
essere protetta. Questa fase conosce il suo apice nei territori della Versilia e Massa-Carrara dove
sono stati compiuti 26 eccidi che corrispondono al 30 percento dei morti in toscana. Tra le vari
stragi è presente il mio oggetto di studio: la strage di San Terenzo Monti.
Eccidio di San Terenzo Monti:
Il paese di San Terenzo Monti è situato nella vallata del torrente Bardine, nel comune di Fivizzano,
provincia di Massa-Carrara. La strage è stata effettuata in tre siti principali: il borgo di San Terenzo
nel quale è stato ucciso il parroco, la frazione di Valla dove è avvenuto il rastrellamento e a Bardine
dove sono stati uccisi 53 prigionieri deportati dalla Versilia.
Tutto iniziò il 10 agosto del 1944 quando il paese venne occupato da un gruppo delle SS per
compiere, come d’abitudine, razzia di bestiame e viveri in seguito a un attacco partigiano che portò
alla morte di due tedeschi. Questi ultimi tornarono il 14 17 dello stesso mese, quando il parroco del
paese, don Michele Rabino,invitò i tedeschi a dirigersi verso un altro luogo dato che le risorse erano
ormai terminate . Questi allora si spostarono verso il paesino di Bardine, dove requisirono il
bestiame. Ma nella strada di ritorno subirono un attacco a sorpresa da parte di alcuni gruppi
partigiani: gli “Ulivi” di Carrara, ai quali si unirono i “Gerini” di Sarzana e alcuni uomini del
“Parodi”. La guerriglia, che durò dalle due alle quattro ore, provocò la morte di ben 16 tedeschi e
due feriti, mentre due partigiani persero la vita. È importante sottolineare come i partigiani
detenessero armi avanzate per l’occasione. Quel combattimento, infatti, non sarebbe stato possibile
senza la suddetta attrezzatura, reperita casualmente in seguito a un errore di consegna delle armi da
parte di un aereo alleato. Oligeri racconta la testimonianza di un partigiano, Giorgio Dazzi(?), :
“Con un lancio alleato che era stato fatto per sbaglio sul finire di luglio del 44 avevano ricevuto delle armi
nuovissime di alta tecnologia. Era un lancio di armi e di due commandos, la missione gecchered(?). I due
commandos dovevano essere paracadutati sull’alta Versilia, alla formazione Bardelloni. Per un errore del
pilota o perché l’aereo era stato intercettato, invece di imboccare marina di Pisa e venire in su seguendo il
fiume, era piena notte, il segnale dove sganciare era dato da dei falò accesi dai partigiani in montagna.
Hanno imboccato la foce del Magra e li ha tratti in inganno che a Canova di Aulla c’era stata una
rappresaglia tedesca dove avevano dato fuoco a dei casolari che ancora ardevano, quindi li hanno buttati li.
La gente del paese ha visto all’alba questi paracaduti sugli alberi e qualcuno è andato ad avvisare i
partigiani.”

Dopo l’attacco partigiano gli abitanti di Bardine e parte di quelli di San Terenzo si rifugiarono
altrove, spaventati per una possibile rappresaglia tedesca. Un elemento importante da tenere
presente è che il tenente tedesco Albert Fischer, capo del reparto di Fosdinovo, tornato in paese per
raccogliere i cadaveri dei soldati tedeschi, avrebbe rassicurato la popolazione di San Terenzo
promettendo che nessuna rappresaglia sarebbe stata compiuta contro i civili. . Dopo questa
rassicurazione solo parte della popolazione decise di scappare. Questo elemento è importante
perché ha permesso ai sopravvissuti di riflettere su ciò che sarebbe potuto succedere se nessuno
avesse lasciato il paese. Inoltre, è interessante notare come questa “rassicurazione” da parte di
Fischer abbia alterato la memoria delle persone. Infatti, alcune persone del paese sostennero che i
colpevoli siano stati i civili che non si sono fidati dei tedeschi. Mentre questi ultimi invece, i veri
perpetuatori dell’eccidio, vennero considerati come semplici esecutori di una violenza precisa e
risaputa alla stregua di una inevitabile catastrofe naturale.
“E son stati galantuomini…Perchè quello che han detto han mantenuto.. perché han preso tutto fuori”
(testimonianza di Silvio Tonelli).

Tornando agli eventi storici, il 19 agosto i reparti tedeschi si recarono in paese per rivendicare la
morte dei camerati, ma temendo di non trovare nessuno si portarono con se 53 uomini prelevati da
Lucca e Pietrasanta. Questi vennero uccisi in maniera rituale:
“Li hanno voluti uccidere non a caso. Li hanno voluti uccidere in una maniera barbara e crudele: erano stati
impiccati con del filo spinato alla gola e le mani conserte in modo che non si potessero liberare. Poi gli
hanno sparato alle gambe in modo tale che dal dolore non potessero piu tenersi con quelle e hanno ceduto
fino a strangolarsi. Li hanno messi da un lato e dall’altro della strada. Chi ha dovuto poi vedere cosa era
successo a Bardine doveva passare tra questa fila di cadaveri. Era stato lasciato un cartello con su scritto
che era la risposta all’attacco partigiano di Bardine e questa sarà la fine di sarà sorpreso a dare sepoltura ai
cadaveri.” Roberto oligeri
Qui risiede un linguaggio pubblico della violenza, una violenza che vuole essere mostrata per
intimidire appositamente la popolazione e rompere ogni legame tra essa e la Resistenza. Solo tre
giorni dopo i cadaveri vennero staccati dagli alberi e dai pali da un gruppo di uomini guidato da
Almo Baracchini, un giovane uomo di 20 anni sfollato da Postella. Quest’ultimo, facendosi prestare
la macchina fotografica, si preoccupò di fotografare tutti i cadaveri appesi. Egli fu il primo a
staccare i cadaveri e a dare l’esempio. In seguito, i cadaveri furono portati vicino al fiume per
seppellirli in una fossa comune.
(foto dal museo di san terenzo monti)
Dopo questo evento, gli uomini di Reder si diressero prima a Bardine dove rastrellarono alcune
persone e nella frazione di Valla compirono il massacro. Qui centodue persone vennero rinchiuse
prima in una casa, poi fatte uscire e marciare su e giù per una strada. Solo dopo il comando del
tenente Reder furono uccise a colpi di mitragliatrice. Tra le vittime vi erano donne, bambini, anziani
del paese, ma anche sfollati di La Spezia, Carrara e abitanti delle località vicine come Bardine e San
Terenzo. Ci fu solo una sopravvissuta, Clara Cecchini, una bambina di soli sette anni, che si salvò
grazie ai corpi degli altri che la ripararono in parte dai proiettili. Inoltre, altre due persone riuscirono
a fuggire: Alba Terenzoni e sua figlia Adelitta.
Ci sono ancora due passaggi importanti da evidenziare: la morte del parroco e il pranzo delle truppe
all’osteria di Mario Oligeri. Per quanto riguarda la morte di Don Michele Rabino, egli fu ucciso
quella stessa mattina del massacro dai nazisti di fronte alla bambina Maria Vangeli durante le loro
faccende quotidiane. Don Michele fu l’unico abitante ucciso all’interno del paese di San Terenzo
Monti, per questo si pensa che fosse un obiettivo ben preciso. Un’ipotesi dei sopravvissuti è che i
tedeschi ritenessero il parroco responsabile di avere un accordo con i partigiani, dato che era stato
lui a invitarli ad andare nel paese di Bardine e si era rifiutato di salire sulla camionetta con loro
poco prima dell’attacco. In realtà il parroco non rivestiva nessun ruolo all’interno della Resistenza
ma tentava esclusivamente di cercare dei compromessi tra la popolazione e i nazisti.
Le stesse truppe tedesche successivamente si diressero nell’osteria di Marco Oligeri, il quale il
giorno della strage perse tutta la sua famiglia composta da moglie e quattro figli. Durante il pranzo,
definito “pranzo della morte” proprio per il motivo seguente, secondo la testimonianza dell’oste,
sarebbe arrivato un referente tedesco con un messaggio per il tenente Reder, contenente l’ordine di
uccisione dei civili di Valla. Senza alcun scrupolo l’ordine venne firmato. Successivamente Reder
stesso chiese ad Oligeri dove fossero i suoi familiari ma senza ottenere risposta da quest’ultimo.
Purtroppo, si trovavano a Valla, dove si stava per compiere la rappresaglia.
“Perché Reder gli ha anche chiesto dov’erano i suoi familiari a Oligeri, e lui non ce l’ha voluto dire… Che
forse se ce lo diceva… forse li salvava..”

Un altro particolare che non avevo letto in alcun libro è quello dello “scambio a Valla”. Sempre dal
racconto di Oligeri emerge il fatto di un uomo che al fine di salvare parte della sua famiglia durante
la strage decide, per mezzo della menzogna, di fare uno “scambio tra persone”.
EGLIIIIIIIIIIIIIIIIIII era il direttore dell’ufficio del registro di Fivizzano, proveniente da Carrara e
per il suo lavoro aveva la possibilità di muoversi ovunque senza impedimenti. Il 19 agosto era a
Fivizzano quando scoprì che le figlie e la moglie erano sotto ostaggio a Valla. A quel punto ideò un
piano per salvarle. Chiese a due ragazze di accompagnarlo in paese per portare le sue valigie e
queste accettarono. Una volta arrivati sul posto, l’uomo barattò con i tedeschi per salvare la sua
famiglia, lasciando al macello due giovani donne che non erano, ovviamente a conoscenza della
situazione. Questo episodio può sembrare irrilevante rispetto a tutto ciò che è accaduto quel giorno,
però mi ha fatto pensare a cosa si è disposti a fare in quelle situazioni estreme, al limite, per tenere a
fianco a sè i propri cari, proteggerli dal male e dal dolore.
I temi che desidero trattare riguardano innanzitutto il concetto di memoria divisa e il rapporto tra
popolazione civile e i partigiani. Sempre riguardo questi temi tratterò brevemente altri due casi
affini per sottolinearne i punti in comune e le differenze.
Rapporto tra popolazione civile e partigiani:
Un’unica immagine pubblica della Resistenza: per quanto riguarda l’Italia, a partire dalla fine
della Seconda Guerra Mondiale, è stato fondato il mito della” nuova Democrazia” basato sulla
guerra di resistenza contro l’occupazione tedesca. “La Repubblica nata dalla resistenza” è questa
l’espressione utilizzata in quegli anni che ci permette di comprendere il bisogno della creazione di
questa storia. Dopo l’alleanza tra fascismo e nazismo e l’apporto distruttivo della guerra nel tessuto
sociale ed economico, si sentiva da parte dello stato, l’esigenza di mostrare come il consenso
italiano non fosse del tutto rivolto verso Mussolini. Le bande armate sono diventate così il simbolo
di un riscatto della nazione dal passato fascista, che serviva per farla passare come “vittima” e non
come soggetto coinvolto. Si sentiva come la necessità di ricostruire un’identità nazionale collettiva
positiva che riconciliasse tutte le spaccature legate al conflitto. LaResistenza rappresenta cosi un
classico esempio di “uso pubblico della storia” (guerra ai civili, pezzino, battini pag xi)nel quale il
discorso storiografico è rivolto anche verso fini politici e ideologici.
Tutto ciò portò con sè vari problemi. All’interno di questa cornice nazionale non furono inseriti
alcuni soggetti: basti pensare alle vittime civili dei bombardamenti da parte degli alleati oppure le
vittime di stupri e di violenze compiute dall’esercito italiano, la persecuzione razziale e i soldati, i
quali una volta tornati in patria non ricevettero alcun tipo di riconoscimento. Dall’altra parte invece
la narrazione pubblica ha incluso al suo interno tutte le vittime delle stragi nazifasciste. Queste
ultime sono state ricordate come martiri, eroi, morti per la patria, dimenticando che queste persone
molte volte non avevano niente a che fare con laResistenza.
Nonostante si è cercato di costruire una memoria nazionale in maniera più omogenea possibile, vi è
una divisione tra la memoria del nord e del sud. La lotta del meridione contro gli ex alleati non
viene considerata alla pari di quella del Nord, anzi dopo la seconda guerra mondiale, venne
sminuita. Tutto cio portò alla creazione, nel nord, di una “comunità immaginata” nella quale la
popolazione civile aveva combattuto contro il fascismo e il nazismo in maniera organizzata,
unitaria. Mentre a sud vi era una comunità che aveva reagito all’occupazione alla stregua delle
antiche ribellioni della plebe, in maniera sporadica e di breve respiro. Il sud viene quindi
caratterizzato da arretratezza e viltà. (si puo scrivere mooooooolto meglio) (nonn so se è necessario)
È con la pubblicazione del libro di Claudio Pavone del 1991 “Una guerra civile. Saggio storico sulla
moralità della resistenza” che si sono aperti gli studi riguardo alla resistenza nella sua complessità.
Lo studioso è stato il primo a mettere in luce come la guerra non sia stata solo una guerra patriottica
ma anche civile e di classe. Possiamo definirla civile perché hanno combattuto italiani partigiani
contro italiani fascisti e di classe perché si sono scontrate due classi sociali: i contadini e la classe
operaia da una parte e le classi dirigenti dall’altra. Gli studi approfonditi sulla resistenza hanno
mostrato come in realtà non ci sia un’unica memoria ma memorie contrastate, divergenti, non
aderenti a quella nazionale, contrastate e messe a tacere per anni. Sarebbero tre le memorie
dimenticate secondo Paolo Pezzino nel suo libro guerra ai civili:
1)La memoria degli esuli di salo (da capire meglio).
2)La memoria dell’uomo qualunque, dell’uomo che ha fatto parte della “zona grigia” riprendendo il
termine di Primo levi.
“L’uomo qualunque sicuramente ha abitato in quest’area più che in quella della resistenza civile o
passiva, e indubbiamente non si è mai riconosciuto nella memoria collettiva che ha sorretto la
formazione dell’Italia democratica e antifascista”
3)Infine vi è la memoria dei famigliari, amici, parenti delle vittime delle stragi nazifasciste in Italia.
In alcune di queste comunità si è creata una memoria irriducibile a quella nazionale, che vede come
colpevoli dei massacri perpetrati, non i tedeschi, ma i partigiani. Questi ultimi avrebbero attivato il
potenziale di violenza dei nazisti, considerati alla stregua di una catastrofe naturale. La memoria
delle popolazioni dei paesi che hanno subito il massacro è stata negata per anni, nascosta, non
considerata da parte dello Stato. Non è stata riconosciuta in alcun modo se non dopo anni e anni
dall’accaduto. Tra queste memorie vi è anche quella di San Terenzo Monti.
Utilizzando un lessico antropologico, si può più propriamente parlare di memoria divisa. Con
questo termine si intende una contrapposizione più o meno netta tra la memoria locale e la memoria
resistenziale che caratterizza determinati paesi italiani (Civitella è il caso più famoso) ma non solo.
La memoria divisa, come sostiene Paolo Pezzino nel libro “crimini e memorie di guerra”,
caratterizza tutta l’Europa post-bellica. ((((Per fare un esempio europeo basti pensare al paesino
francese di Oradour-Sur-Glane, nel quale è avvenuta una strage nazifascista il 10 giugno 1944 nella
quale persero la vita 642 persone. Questo eccidio è un caso particolare perché inizialmente vi era
una memoria perfettamente integrata con quella nazionale, grazie all’impegno da parte dello stato
nell’aver inserito questa strage all’interno di una cornice istituzionale. Infatti il paese non venne
ricostruito e le rovine furono lasciate intatte per istituire un museo della memoria all’aperto. Al
momento del processo giudiziario però si creò un profondo disaccordo sulle punizioni da conferire
ai perpetuatori della strage perché alcuni di loro erano francesi. Così una parte dei civili credeva che
queste persone, in quanto francesi, non dovessero subire l’ergastolo, ma i sopravvissuti ovviamente
non erano d’accordo. Da qui si è costruita una vera e propria memoria divisa. Anche se questo caso
è differente da quelli italiani ci permette comunque di notare come la memoria divisa si sviluppi
anche in altri luoghi e contesti.)))))
Tornando al caso italiano è importante sottolineare come vi sia una differenza tra le memorie divise
a seconda del fatto che i paesi si trovassero a Nord della Linea Gotica o a Sud di essa. In questi
ultimi la Resistenza si è concentrata in un tempo molto breve e viene percepita come qualcosa di
esterno dalle comunità contadine che abitano i vari paesi. I gruppi partigiani vengono considerati
come persone superficiali e sventate che mettono in pericolo la popolazione con le loro
rappresaglie. C’è una contrapposizione tra la comunità e i partigiani del loro paese, considerati dei
“falsi partigiani” che sono nettamente distinti dai “veri partigiani” del nord. I territori a nord della
linea gotica sono caratterizzati da una memoria collettiva meno stereotipata. Molti civili in questi
casi sono stati anch’essi partigiani ma nonostante cio vi è una contrapposizione. Essi tendono a
criticare non la Resistenza in generale quanto piuttosto certe formazioni e certi capi partigiani.
Vedremo meglio di seguito come a San terenzo monti, dove c’è un nesso causale stretto tra il
massacro e la rappresaglia partigiana, gran parte della popolazione polemizzi contro Memo, capo
della formazione degli Ulivi.
Il caso di San Terenzo è a mio parere molto interessante proprio per il fatto che è uno dei pochi
paesi nel quale a seguito dell’attacco partigiano è arrivata la risposta tedesca. Mentre in molti altri
luoghi nel quale si è formata comunque una memoria antipartigiana, questo nesso non sembra
sussistere (ad esempio a Sant’Anna di Stazzema). Per comprendere bene questo punto è importante
riprendere la storia di San Terenzo Monti e capire il legame tra i civili e i partigiani.
La maggior parte della popolazione vede come colpevoli del massacro i partigiani della formazione
Ulivi, della brigata Muccini. Quest’ultima era formata da ex gappisti di Carrara, i quali fino a quel
momento avevano sempre agito in città. Qui dopo un attacco potevano nascondersi tra i cittadini,
sicuri del fatto che i nazisti non avrebbero massacrato un’intera cittadina. Ma nei paesi di montagna
la situazione era diversa. Dopo il loro attacco a sorpresa contro i tedeschi la risposta di questi ultimi
non esitò ad arrivare.
La ricerca di un capro espiatorio da parte della popolazione da un lato e il nesso causale così diretto
dall’altro, ha contribuito alla formazione di una memoria antipartigiana abbastanza marcata.
Fosse Ardeatine a Roma e San Terenzo per me sono uguali eh! Perché non si spara se poi ce ne andiamo.
Spara e poi accetta quello che tu hai fatto:... il contrattacco! Non che te ne fuggi, vai in salvo,
sull’Appennino! [...] Sì... loro [i tedeschi] hanno razziato, indubbiamente... Ma che tu! Sapevano! C’erano
scritti i manifesti in paese! Un tedesco dieci italiani... lo leggevo io che avevo  anni! Lo avran letto
anche loro! (Alberto Sauro Chinca, 1935, intervista del 19 dicembre 2001).

Come sostiene Claudio Manfroni nel suo saggio “Poetiche e politiche del ricordo” non sono rimaste
tracce dei manifesti con i quali i tedeschi minacciassero la popolazione. Quindi questo è un luogo
comune che si è costruito nel tempo ed emerge dalle interviste svolte recentemente. Anche Roberto
Oligeri, figlio di Mario Oligeri, in una sua testimonianza:
“A livello locale non risulta che siano stati affissi questi cartelli. Molta gente era anche analfabeta.
Se tra i pochi che sapevano leggere e scrivere mi hanno detto che non c’erano vuol dire che non
c’erano. Altra bufala: “noi sapevamo cos’era successo a sant’anna di stazzema”. In realtà non
sapevano neanche che esistesse.” - Testimonianza del giorno tot -
Nonostante sia fittizio è comunque importante perché ci mostra come nella ricostruzione del passato
intervengono esperienze e conoscenze acquisite dopo l’accaduto. Lo stesso studioso della memoria,
Frederic Bartlett, sostiene che l’atto psichico del ricordare non è semplicemente individuale, ma è
connesso al mondo vitale e delle pratiche comunicative, evidenziando una dimensione sociale del
ricordo. Si parla in questo caso di «visione interpretativa>> della memoria. La memoria ha a che
fare con la risignificazione dell’evento. Questo concetto viene trattato bene da Halbwachs il quale
parla di «memoria collettiva>> e di quadri sociali. Si differenzia per questo da Bartlett, il quale
introduce il concetto di schema per indicare delle strutture stabili e resistenti all’oblio nei quali i
ricordi si plasmano. I quadri sociali di halbwachs invece non si limitano a selezionare i ricordi, ma
li riproducono. Essi sono antecedenti a qualsiasi ricordo e fanno riferimento a un gruppo sociale.
Quindi secondo lo studioso, ricordare significa ricordare insieme. L’atto del ricordo viene inserito
in una dimensione che lega i soggetti al loro gruppo.
Tutto questo vale per la memoria, ma in casi come questi, dove sono avvenute delle stragi, parliamo
in particolare di memoria di guerra. Quest’ ultima si realizza creando continuità tra singoli, gruppi e
società che include queste due forme di ricordo (memoria autobiografica e collettiva) e le articola
all’interno di memoria più ampia, che spesso non viene condivisa da tutti, soprattutto da persone
che sostengono di aver vissuto quell’esperienza in maniera diretta. Le memorie di guerra
acquisiscono caratteristiche particolari all’interno del processo memoriale piu ampio perche fanno
riferimento a eventi che orientano, condizionano il ricordo seguendo linguaggi differenti a seconda
che questo ricordo riporti a un evento vissuto piu o meno personalmente. Piu si è vicini
all’esperienza originaria (piu si è parte di una famiglia o comunità) piu si è dentro processo che
favorisce trasmissione di memorie ricche e conflittuali; piu si è lontani si aderisce a linguaggio piu
distaccato e omogeneo, piu vicino ai paradigmi promossi dalle istituzioni pubbliche.

Anche a San Terenzo sono avvenuti questi processi di memoria collettiva.

Tornando al rapporto tra popolazione e partigiani, Le accuse da parte della popolazione nei
confronti di questi ultimi sono di due tipi. In primo luogo sono stati accusati sia di aver sferrato un
attacco troppo vicino al paese e sia di non essere intervenuti durante le operazioni tedesche, in
difesa degli abitanti. Per quanto riguarda la prima accus in realtà, come dirà anche Oligeri e non
solo in più interviste, i partigiani sono intervenuti perché gli era stato chiesto esplicitamente da dei
compaesani. Questi ultimi, stanchi delle razzie continue da parte dei nazisti, si rivolsero
disperatamente ai partigiani chiedendogli di intervenire nonostante il rischio fosse ben chiaro. I
partigiani in realtà non avevano intenzione di sferrare l’attacco, tanto che votarono anche se agire o
meno. Alla fine decisero di farlo, preoccupandosi di informare il paese di Bardine di sfollare il
prima possibile perché i tedeschi sarebbero tornati da li a poco.
Sempre Oligeri di fronte a questo fatto sostiene che:
“Qui c’era stato un attacco da parte della formazione partigiana Ulivi, che era stata caldamente e userei
termini più incisivi, gli era stato chiesto il suo intervento per attaccare SS provenienti da Fosdinovo per
prendere bestiame da Bardine. (…) I partigiani erano intervenuti perché c’era stata la richiesta in segreto da
dei compaesani. Questo è importante soprattutto per persone della mia generazione degli anni 50, perché
questo ci è sempre stato taciuto. Ci è stato detto che i tedeschi non facevano nulla, magari erano anche
bravi. La storia è questa, non è la storia dei partigiani che ‘rompevano le scatole’.”

Per quanto riguarda la seconda accusa gioca a sfavore dei partigiani il tempo che intercorre tra
l’attacco a Bardine e la rappresaglia tedesca. Le quarantotto ore tra i due eventi sono bastate alla
popolazione per colpevolizzare i partigiani dell’accaduto. Secondo loro hanno sbagliato ad attaccare
e a ritirarsi, lasciando indifesi centinaia di persone. In loro difesa i gappisti hanno detto di non aver
a disposizione abbastanza armi e di essere disorganizzati per un attacco del genere.
Nonostante queste chiare testimonianze di come dovrebbero essere andati i fatti, molti civili per
anni hanno continuato a considerare i tedeschi come i veri responsabili dell’accaduto. Essi sono
semplicemente un meccanismo automatico scattato a causa dei partigiani, i quali hanno sbagliato ad
agire dato che erano a conoscenza delle conseguenze. Nonostante il passare del tempo, spiega
Oligeri, la situazione non è migliorata. Ancora fino a pochi anni fa i sopravvissuti non volevano
credere al fatto che ai partigiani fosse stato esplicitamente chiesto l’intervento ma continuarono a
deresponsabilizzare le truppe tedesche.
Questo forte rapporto causa effetto ricercato dagli stessi tedeschi sia attraverso il conteggio delle
vittime, sia attraverso l’uccisione macabra e rituale dei 53 prigionieri, aveva lo scopo di spezzare i
rapporti tra popolazione e resistenza. Ed è quello che fece anche per gli anni successivi.
Sicuramente un altro fatto che non permise di risanare la situazione è il fatto che i partigiani stessi,
con il passare degli anni, lodarono sempre più l’azione compiuta il 17 agosto, come una delle
migliori operazioni compiute dalla Resistenza. Questo non fece altro che aumentare l’astio dei civili
nei loro confronti, i quali vedevano in questa celebrazione una mancanza di rispetto nei confronti
delle persone che avevano perso la vita. Per questi motivi gli anni successivi furono anni particolari.
Innanzitutto, la strage del paese, così come altre in Italia, non vennero inserite all’interno di una
cornice istituzionale, se non molti anni dopo proprio per la presenza di questa memoria divisa. A
differenza di altri luoghi come Sant’Anna di Stazzema, ad esempio, San Terenzo monti entrò dopo
nella memoria pubblica e non ebbe la stessa notorietà di altri paesi, nonostante l’alto numero di
vittime che apporta la lunigiana (circa 600 vittime in totale).
Il poco interesse da parte delle istituzioni portò la popolazione a chiudersi e a occuparsi da sola
della conservazione della memoria. Anche le cerimonie inizialmente erano religiose e private,
dedicate a un pubblico ristretto. Da queste ovviamente erano esclusi i partigiani, in particolare quelli
della formazione Ulivi. Solo più avanti con il tempo, negli anni 90, con l’esplosione degli studi
sulla memoria e sul ricordo, la situazione cambiò. Anche San Terenzo Monti assunse notorietà sul
piano nazionale come i paesi di Sant’anna di Stazzema o Montesole. Nonostante questo sia venuto
tardi, spiega Oligeri che loro hanno sempre intrapreso iniziative locali e individuali, come la
costruzione del museo ad esempio. Quest’ultimo, costudito da Oligeri, si trova in uno dei punti più
alti del paese ed è dedicato al parroco Don Michele Rabino. A suo interno troviamo foto, video-
documentari, giornali e molto altro. è il risultato di un grande impegno da parte della popolazione
per non dimenticare e per non far dimenticare agli altri cio che è successo. Infatti durante gli anni
sono state organizzate gite scolastiche e visite guidate per tramandare la memoria del paese.
Un’altra iniziativa importante è stata il gemellaggio che va avanti da 39 anni con la comunità
tedesca di Steinhagen. Con il passare del tempo invece le cerimonie sono diventate sempre più
importanti a livello istituzionale. Nel 1997 visita del presidente della repubblica oscar luigi scalfaro
e la visita di due borgomastri tedeschi negli anni 2000.

Dal punto di vista politico: la giustizia- processo di bologna


Ancora qualcosa sulla memoria divisa- leggere da pag 90 libro poetiche e poltiche del ricordo
Udu Surer-
Mia esperienza personale sul campo
Oradour p.24:
il nome del padre- Udu Surer:
Infine vorrei trattare una vicenda che mi ha particolarmente colpito, quella di Udu surer. Ho
conosciuto udu e suo figlio al settantasettesimo anniversario della strage. Udu è il figlio di Josef
Maier, il quale faceva parte della sedicesima divisione delle SS. racconta Udu di un padre presente
fisicamente ma assente emotivamente. Era duro nei suoi confronti, lo picchiava, voleva per lui la
vita da soldato e non sarebbe andato bene nient’altro. udu non si trovava con lui, sentiva di essere
diverso. Prediligeva la strada intellettuale piuttosto che quella manuale, ad esempio, e già qui c’era
un punto di divisione. Udu non voleva intraprendere la carriera da militare e così decise di iscriversi
a giurisprudenza. Una volta laureato si è spostato con sua moglie, ….., dalla quale ha deciso di
prendere il cognome. I motivi per cui ha fatto questa scelta sono molteplici. Innanzitutto, non aveva
un buon rapporto con il padre, non voleva portare con se il peso e la colpa di cio che avevano fatto i
nazisti. Lui provava un senso di colpa per essere tedesco e appartenere a una famiglia di nazisti. Suo
padre 16 divisione SS. È diventato membro del battaglione Walter Reder (responsabile del maggior
numero di violenze sui civili). Suo padre era u uomo pericoloso, cercava di picchiarlo. Padre
fisicamente presente, emotivamente assente. Il suo impegno era di formare i bimbisecondo il suo
gusto. Suo padre era artigiano, manuale, UDU piu intellettuale. Voleva che lui facesse il soldato, se
no non era uomo. con il matrimonio ha cambiato cognome prendendo il cognome della moglie.
Odio verso italiani perché avevano voltato le spalle ai tedeschi. Cittadinanza benemerita a udu
surer.

Trattoria Oligeri: qui vennero dettate le condizioni per il mezzogiorno. Oligeri aveva la moglie e 4
figli. La staffetta porse dei fogli a Reder sui quali c’erano dei numeri sopra e Reder firma i 3 fogli->
era l ‘ordine di uccidere tutte le persone. Quando Reder usci dalla trattoria il gruppo di soldati che
era rimasto li portarono via tutto quello che c’er e dettero anche fuoco alla roba.
Gli hanno detto che avrebbero fatto una foto. Adelitta Musetti sopravvissuta.
La durezza dell’occupazione deriva dall atteggiamento negativo delle stesse truppe tedesche nei
confronti degli italiani coniderati traditori, si parla di secondo tradimento (primo quando entra a
fianco dll’intesa) quindi atteggiamento duro nei confronti dei civili. L esercito di occupazione deve
ritrarre i beni primari alla popolazione.
Andrea quartieri
Reder viene consegnato agli italiani-> processo al tribunale militare di bologna nel 51 per una serie
di episodi e lo condnnano all ergastolo. Unico ufficiale tedesco che conta anni di carcere insiee a un
altro condannato a Roma. Dopo di che reder verrà graziato e tornerà in austria dove manifesta
convinzione nazista dicendo che quello che aveva fatto in italia era giusto.
I proessi di la spezia verona e roma-> iiziano da procura militare di la spezia nel 92. È successo
tardi perché i fascicoli erano stati archiviati all’inizio anni 60.

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