c’era un po’ fuori mano a cui nessuno (che, poi, non era vero: anche qualcun altro) pensava e lì parcheggiavamo nelle notti bolse d’estate — gonfie mongolfiere, bolle di caldo in riva al mare in una spiaggia (a me ignota ed incredibilmente) —, lì nel buio a volte sopra un cordolo in piazzole inesistenti oppure improvvisate oppure fuori del tutto da ogni regola noi quattro complicemente lasciavamo l’auto modesti e divertiti moschettieri all’avventura, ma, poi, sono finite le trasferte a Milano Marittima in notturna con tutti quegli abbagli clamorosi, sono cambiate le auto, le occasioni, le persone la voglia di serate come quelle, sono disperse in cielo tutte quante le mongolfiere, si sono congedati i moschettieri e, alla fine, hanno chiuso anche il parcheggio.
Tutte le cose passano e con esse
passiamo noi.
A San Bartolo c’era una cabina
del telefono al fianco della chiesa da cui ti ho fatto la mia prima chiamata. Timido, ho esitato anche troppo col mio invito e la mia voce era del timbro lieve del miele d’asfodelo, del colore del fiordaliso aggiunto ad un mannello di frumento (i miei colori preferiti il giallo, sono e l’azzurro, il viola, il nero, sì, ma non per forza in quest’ordine: inevitabilmente, la mia stagione preferita è sempre stata l’estate) ed in pellegrinaggio sono passato a rivedere non sai quante volte la cabina per me santa reliquia di un’era primitiva e passionale, quando era tutto più elementare e, forse, sconvolgente; perfino qualche volta ti ho pensata nel punto esatto in cui scoppiano tutti i palloncini, (poi, — chi lo sa perché? — tutto è finito): ho finito i gettoni ed ho cambiato non so più quanti numeri e apparecchi ed alla fine (ma chi usa più il fisso al giorno d’oggi?) hanno rimosso pure le cabine.