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Gianluca Braschi

IN VISTA DI UNA RIEDIZIONE DELLE EPISTOLAE AEMILIANE

Mi capita di cominciare questa breve escursione nel territorio delle Epistolae Aemilianae di
Giovanni Battista Morgagni esattamente dalla fine e, forse, non è un caso. Dal momento che
mi sono interessato involontariamente e, purtroppo, a lungo della questione del ‘vero
Rubicone’ (qualunque cosa ciò voglia dire) mi è venuto spontaneo chiedermi, data l’affinità
di impostazione e la contiguità temporale fra il Morgagni e gli altri agguerriti studiosi
romagnoli, se avesse anche lui trattato in qualche modo la questione. Sono presto
accontentato: scorrendo sommariamente la lista degli argomenti, proprio nell’ultima delle
Epistolae incorro in una dotta disquisizione su Cesena e sul Savio (da buon Forlivese il
Morgagni relega incidentalmente e alla fine eventuali discussioni su ‘cose cesenati’ e non
tratta di ‘cose riminesi’) nello svolgimento della quale non resiste, ovviamente, neppure lui,
alla tentazione di lambire la questione del corso del fiume Rubicone a quel tempo al centro
della più infiammata delle contese fra dotti Cesenati e Riminesi, ma subito conclude (e con
questo paragrafo conclude pure le Aemilianae):

Vorrei che tu prendessi quel che ho scritto qua e là sul Rubicone così come ti ho detto all’inizio. A
dire la verità non ho fatto altro se non confessare candidamente, mentre leggevo la maggior parte di
quanto scritto da una parte e dall’altra sull’argomento e pubblicato fino all’anno 1744, in quali passi
si appuntassero i miei dubbi. Confesso anche che non mi sfugge quanti uomini e di che levatura
parteggino per i Riminesi; per quanto alcuni fra i più recenti, quasi dimentichi di sé, concordino ora
con quelli ora coi Cesenati. Quanto a me che ho e ho avuto amici fra gli uni e gli altri cultori della
verità non meno di me, se dopo tutto quel che è stato battuto e ribattuto da entrambe le parte fossero
prodotti nuovi argomenti come sento che accadrà passerò volentieri dalla parte dell’opinione che mi
parrà che mi levi più facilmente i miei dubbi. Saluti. (Morgagni, 1931, p. 238).

C’è un po’ tutto il Morgagni delle Aemilianae in questo semplice passo: il culto (si oserebbe
dire ‘scientifico’, ma nel senso che questo termine ha nel XVIII secolo) della verità, l’uso di
un latino vera e propria lingua artificiale della scienza del tempo, che non ha più alcun
riscontro col parlato, la limitata circolazione di questo tipo di scritti a una ristretta cerchia
di accademici che sono tra l’altro amici personali o, comunque, legati da vincoli derivanti
dalla condivisa educazione e cultura, il municipalismo storico, l’uso sofisticato, ma limitante
delle fonti secondarie e letterarie, la retorica della dissertazione come tecnica
d’argomentazione, l’uso di uno stile difficile e convoluto che marca a un tempo l’autore
come un dotto e come un ‘vir’ dalla conclamata fama e autorevolezza e restringe il suo
uditorio a un cerchio di suoi pari, l’impostazione per così dire ‘hobbistica’ del medico e
scienziato che nel suo tempo libero ritorna con la mente ai suoi luoghi natali e si diletta col
gioco della filologia e della storia, ma pure non sfugge un sottinteso vuoi diplomatico vuoi
politico laddove l’autore si sgancia prudentemente dalla questione per non inimicarsi né gli
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uni né gli altri fra i contendenti. Curioso, ma fino a un certo punto, che anche l’eclettico ed
enciclopedico riminese Giovanni Bianchi (o Iano Planco), animatore della contesa sul
Rubicone, esercitasse la professione medica e fosse altresì considerato sommo letterato e
filosofo e, non a caso, si trova fra i corrispondenti di Giovanni Battista Morgagni.

La tradizione del testo


Che posto occupano le Aemilianae nell’ambito della sterminata e varia produzione di Sua
Maestà Anatomica Giovanni Battista Morgagni? Un resoconto minuzioso della tradizione
del testo manoscritto e delle sue edizioni è nella nota bibliografica a cura di Augusto
Campana in appendice all’edizione a stampa del 1931, resa possibile dalle Celebrazioni
Morgagnane di quell’anno particolarmente sontuose, data l’importanza a cui assurge — per
ovvie ragioni— la città di Forlì negli anni Venti e Trenta del Novecento. Oltre alla citata
pubblicazione dell’edizione a stampa delle Aemilianae si pubblica il volgarizzamento di
Ignazio Bernardini, si trasferisce un monumento al Morgagni al centro della piazza che
porta il suo nome, si conia una medaglia celebrativa.
Il testo autografo delle Epistolae Aemilianae, insieme a tutto il fondo dei manoscritti e
documenti morgagnani, è conservato presso la Biblioteca “Aurelio Saffi” di Forlì, cui è
pervenuto dopo varie peripezie. Secondo la notizia di Augusto Campana in appendice
all’edizione del 1931 fa parte del volume VIII della collezione: nel volume sono presenti le
minute dell’Epistola I e dell’Epistola II nonché la bella copia dell’Epistola II, le minute delle
Epistole II-XIV: la contrapposizione fra le Epistole I e II e le III-XIV è costitutiva del testo al
punto che la I e la II potrebbero essere state pensate come epistole isolate con una loro storia,
un loro dedicatario e una data di composizione ben precisa, mentre le III-XIV
costituirebbero un ‘corpus’ unitario composto dal Morgagni in tempi successivi e
discontinui, ma, tenendo in mente un progetto di studio e ricerca, che va al di là della
discussione di singole questioni in singole epistole concepite come dissertazioni autonome
e complete. Oltre al testo delle Aemilianae, nel fondo, sono presenti le minute del
frontespizio, la citazione di Marziale (in epigrafe al testo stampato), la minuta della dedica
premessa all’edizione a stampa, l’introduzione all’indice-sommario e l’indice-sommario
stesso.
Le minute delle Epistole contengono anche oltre alle notazioni a margine che nel loro
complesso vanno a costituire l’indice-sommario anche diverse note ad uso personale del
Morgagni stesso, nonché i numeri delle pagine dei libri citati, i nomi degli autori che, poi,
Morgagni decise di non nominare espressamente nel testo definitivo a stampa, nonché
alcune note esplicative a proprio uso personale. Dell’epistola I, scritta espressamente e
dedicata a Giorgio Viviano Marchesi, esiste una copia in pulito che il Morgagni scrisse di
proprio pugno e in bella copia per il dedicatario, ora nella Collezione Piancastelli.
Le Epistola Aemilianae contano due sole edizioni a stampa: quella del 1763 nelle Opera Omnia
curata dal Morgagni e quella già citata del 1931 curata da Augusto Campana. La prima
edizione a stampa fu particolarmente laboriosa e difficile e uscì in parti separate in diversi
anni a Venezia per i tipi dei Remondini. Campana arriva a contare fino a cinque versioni
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differenti degli Opuscula Miscellanea (quelli che contengono appunto le Epistolae Aemilianae
e costituiscono il V e ultimo tomo dell’Opera).
Colpisce immediatamente e costituirà un cruccio per ricercatori e collezionisti la rarità degli
esemplari stampati. Campana ne riesce a tracciare solo sette di cui nessuno nelle biblioteche
pubbliche della Romagna, ma tre in mano ai privati (una in quelle di Carlo Piancastelli) e
quattro in Biblioteche fuori delle Romagna (Archiginnasio di Bologna, Universitaria e Civica
di Padova, Comunale di Verona). Bartolomeo Borghesi, a cui fu chiesto in seguito di
pubblicarne una traduzione in Italiano, ne ebbe fra le mani due copie: una di Michele Rosa
e una di Girolamo Ferri, che pensò, infatti, di scrivere una continuazione delle Aemilianae
con lo stesso titolo.
L’edizione dell’Opera Omnia del Morgagni, ormai universalmente famoso come fondatore
dell’anatomia patologica, fu una sorta di glorificazione dello scienziato lui vivente e
l’occupò per buona parte dei suoi ultimi anni. Anche in questo caso, mentre il Morgagni
continuava a vivere e ad insegnare a Padova, l’edizione fu portata a termine a Venezia
presso la tipografia del Remondini. A questo proposito scrive Antonio Larber, archiatra
della città di Bassano, che fu, pertanto, probabilmente il collaboratore ‘in loco’ dell’edizione
degli Opuscula Miscellanea del 1764:

Ma prima di terminare questa prefazione non mi asterrò brevemente dall’avvertire in anticipo i


Lettori e anche dal pregarli di non adirarsi troppo o di stupirsi se quegli errori li hanno offesi in
quest’edizione che fu quanto più possibile accurata e corretta.

Insomma, ci furono parecchi errori e — come prosegue il Larber — in particolare l’edizione


delle Aemilianae fu particolarmente sfortunata, se al momento della stampa si era persa
un’intera pagina del testo originale che fu recuperato in seguito ed inserito negli errata
corrige. A detta del Campana, però, il testo perso non è quello che compare a p. 84 in quella
sede, ma un secondo di cui ci informa una lettera a Francesco Maria Zanotti. Ed è solo un
esempio delle difficoltà oggettive in cui fu portata a termine l’edizione del 1764.
Fra i tanti altri meriti l’edizione critica di Augusto Campana e la ristampa del 1931 hanno
anche quello di mettere in evidenza l’apparato delle note e delle numerosissime citazioni
del Morgagni, da cui si evince la sua predilezione per le fonti classiche (come già detto), ma
anche la sua capacità di spaziare da quelle a quelle medievali e rinascimentali (un posto
privilegiato occupano nelle sue fonti sempre Dante e Flavio Biondo). Significativo che
nell’Epistola IX Morgagni lamenti la perdita di tantissima documentazione forlivese in
seguito ai numerosi incendi cui Forlì era andata soggetta nella sua lunga storia, mettendo
in luce, anche se non con estrema chiarezza, la distinzione tra fonti primarie e secondarie,
tra fonti archivistiche e bibliografiche.
L’opera di schedatura del Morgagni deve essere stata amplissima ed accurata. Deliziosa è,
pertanto, la notazione: «Ora come ora non ricordo di aver letto chi per primo edificò la torre
del Palazzo» (Morgagni, 1931, p. 156). Un’ammissione di mancanza di fonti, di

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dimenticanza o un semplice momento di commozione nella descrizione della sua città
natale?

La scelta del Latino


L’uso del latino in ambito scientifico-letterario nel XVIII secolo è ancora la norma. Il latino
è, ovviamente, la lingua della Chiesa e anche la lingua dell’Università, ma è pure la lingua
della trattatistica letteraria, delle Accademie e, perfino, della Letteratura e della poesia. È
solo nel 1754 che Antonio Genovesi decide di impartire le sue lezioni in Italiano: una nuova
cattedra per una nuova materia spiegata in una nuova lingua. Nelle scuole gli studenti
continuano ad apprendere eloquenza e letteratura, filosofia e teologia in latino e si
esercitano a scrivere e a comporre in questa lingua. Non c’è da stupirsi, per tanto, se la
stragrande maggioranza della produzione scientifica e letteraria di Giovanni Battista
Morgagni sia in latino.
Sono gli illuministi francesi e, specificamene, gli Enciclopedisti ad abbandonare
programmaticamente l’uso del latino nella letteratura scientifica (in favore del Francese,
ovviamente) anche per rimarcare volutamente il cambio di paradigma scientifico e
sottolineare l’attenzione ai nuovi ceti borghesi antiaccademici, che aspirano ora a cimentarsi
nell’agone scientifico e letterario al pari degli aristocratici.
È d’Alembert nei suoi Mélanges de littérature et de philosophie (1759-1767) ad aprire le ostilità,
giudicando assurda la preponderanza del latino nella letteratura scientifica a cui non a caso
risponde proprio in Romagna Girolamo Ferri con le sue Pro linguae Latinae usu epistulae
adversus Alambertium, pubblicate a Faenza nel 1771, generalmente note, appunto, col titolo
di Lettere Alambertiane, ma è una battaglia di retroguardia. Da notare, però, che d’Alembert
stesso aveva sostenuto il latino come lingua internazionale e convenzionale e poteva vantare
lui stesso una solida formazione classica.
Il latino sopravvivrà, comunque, ancora per molto, ma in ambito scientifico solo nelle
scienze umane e, principalmente, nella filologia classica. Del resto in ambito toscano e
soprattutto galileiano l’Italiano si era già imposto come lingua della comunicazione
scientifica. Notevole a questo proposito è il particolare che Morgagni, pur richiamandosi
alla tradizione galileiana, abbia scritto tutte le sue opere scientifiche (e soprattutto le
maggiori: Epistolae Anatomicae, Adversaria anatomica, De sedibus et causis morborum per
anatomen indagatis) in latino, non essendo “di madre lingua toscana”, ma del resto il latino
scientifico oltre ad offrire l’ovvio vantaggio di essere la lingua internazionale per eccellenza
del tempo, offriva anche quello di non essere più soggetto (almeno dal XV secolo in poi) alla
naturale evoluzione storica di tutte le lingue parlate.
Tanto più che l’interesse per le lettere classiche e la filologia in Morgagni è evidente sia dalle
Aemilianae stesse dove una parte preminente delle citazioni e delle testimonianze portate a
sostegno delle argomentazioni provengono dai classici, dove sono riportate, descritte e
commentate diverse epigrafi e dove ben due delle Epistolae (la I e la X) sono espressamente
dedicate alla questione del luogo di nascita di Cornelio Gallo, poeta latino contemporaneo
di Augusto e di Virgilio (cui sembra dedicata — almeno originariamente — l’Ecloga IV)
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nonché politico e generale romano, primo Praefectus Aegypti sia dai sei volumi del fondo
morgagnano presso la Biblioteca Saffi di Forlì, dedicati ad annotazioni e studi su diversi
autori latini (Aulo Cornelio Celso, Giulio Cesare, Cicerone, Giustino, Tito Livio, Lucrezio,
Lucilio, Marziale, Plauto, Quintiliano, Quinto Sereno Sammonico, Senofonte, Silio Italico,
Tibullo e Virgilio).
Se, dunque, la scelta del latino come lingua delle Aemilianae è, fuor di ogni dubbio, fin
dall’inizio la più naturale e la più congeniale all’autore per via della sua formazione e della
sua collocazione accademica, è pure congruente al disegno di rappresentare la storia locale
dal punto di vista di un’erudizione onnicomprensiva, enciclopedica e sostanzialmente
‘antistorica’ quasi i rapporti fra le città e i territori e i popoli che li abitano fossero quelli per
sempre fissati e descritti dall’antiquari per cui Forlì sarà sempre per sempre Forum Livii,
Cesena Caesena, Sarsina Sassina e i fiumi che scorrono e modificano il territorio romagnolo
saranno gli stessi di quelli che scorrevano ai tempi antichi e i loro percorsi e i loro nomi più
veri (“originari” secondo una vera ossessione filologica tipica di quest’erudizione) sono
quelli restituiti dalle fonti classiche dopo un attento esame.
Il latino del Morgagni è, dunque, il tipico latino degli eruditi. È un latino ispirato a quello
dei tardi umanisti, irrigidito e nelle forme e nel lessico; è, per definizione e aspirazione
programmatica, una lingua colta che esclude ogni riferimento diretto al contesto attuale, che
esclude ogni espressione popolare, ogni influenza del parlato: una lingua senza diacronia,
per cui accanto a un termine tratto dal De Agri Cultura di Catone può convivere uno di
Ammiano Marcellino o, perfino Boezio e accanto a un termine tecnico giuridico uno
teologico o filosofico. È un latino convoluto e difficile da rendere in Italiano, dai periodi
lunghissimi e complicati che spesso riempiono un intero paragrafo; un latino che ha tenuto
a distanza, forse, lettori e traduttori ed ha contribuito in parte alla scarsa circolazione del
testo.
A ciò si aggiunge quella preferenza del latino accademico settecentesco di riabilitare a mo’
di sfoggio erudito forme già cadute in disuso nel latino classico, ma presenti, per esempio,
in numerose iscrizioni del periodo arcaico. Così per esempio sicut sarà sempre sicuti, dum
sarà per lo più dumtaxat oppure si usano tutt’a un tratto termini rari come assecla.
L’ispirazione viene ovviamente dal latino giuridico e/o scolastico il cui modello è
ironicamente la lingua delle XII Tavole, a cui si ispirano, tra l’altro, diversi statuti di famose
ed onorate Accademie.
Naturalmente, non tutta la difficoltà del dettato morgagnano è imputabile al latino
accademico, ma qualcosa anche alla redazione forse non definitiva nella quale ci sono
pervenute le Aemilianae. Scrive per esempio Paolo Amaducci nel 1931 nell’introduzione alla
stampa della traduzione del Bernardini:
è pur vero che, per lo stile quanto mai denso di pensieri e svolgentesi in teorie lunghe e serrate di
proposizioni, e per essergli, a sua confessione, mancato e il tempo e il modo di emendare là dove gli
pareva, ed era, necessario per rendere anche più chiara e precisa l’idea, si palesa, quant’altro mai,
difficile ad essere interpretato degnamente.

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A tale proposito, riporto con estremo interesse un progetto del Liceo Classico di Forlì (per
l’appunto intitolato a Giovanni Battista Morgagni) di edizione e traduzione online delle
Aemilianae, di cui purtroppo è uscita finora solo l’Epistola IX
(http://www.morgagnipatologo.it/epistolaix/epistola-ix-la-traduzione). Si tratta della
epistola più forlivese di tutte: dedicata all’origine della città e alla descrizione dei
monumenti e delle cose notabili di Forlì da un punto di vista storico e documentale. È
comunque interessante che gli studenti del Liceo Morgagni abbiano immediatamente
individuato quali siano le difficoltà di rendere in Italiano le Aemilianae:

le difficoltà non sono state poche: non solo perché non siamo latinisti del calibro di Bernardini, ma
anche perché ci siamo trovati davanti all’immagine di una Forlì che non è più la nostra e che abbiamo
cercato di ricostruire, per capire meglio, anche attraverso letture e approfondimenti dell’argomento.
(http://www.morgagnipatologo.it/epistolaix/epistola-ix/introduzione).

Fatto sta che, per quanto siano stati fatti diversi tentativi di volgere in Italiano tutte le
Aemilianae (nell’introduzione all’edizione del 1931 si fa cenno ad un tentativo di Enrico
Bottini), solo uno sia andato a buon fine e non può essere un caso.

La versione Italiana
È per questo, allora, che l’unico ‘volgarizzamento’ mai pubblicato delle Aemilianae sia stato
quello di Ignazio Bernardini (1803-1871) e sia stato pubblicato a stampa in occasione
dell’edizione, già citata, del 1931 così come degno di nota è il fatto che nel 1931 si pubblichi
un testo della prima metà del secolo precedente fino ad allora rimasto manoscritto.
Nel 1841 Camillo Versari aveva pensato di far tradurre a Bartolomeo Borghesi, allora in
esilio a San Marino, le Aemilianae, che aveva, però, prontamente opposto un diniego dovuto
allo scarso tempo a disposizione e probabilmente un calo di interesse per l’argomento; per
quanto lo studioso proclami l’importanza del testo e l’utilità (anzi la necessità) di una sua
traduzione in Italiano, prova – se mai ce ne fosse stato bisogno – che cent’anni dopo il latino
non è più la lingua dei dotti e che la lingua della ricerca e della comunicazione scientifica è
ormai l’Italiano.
La fortuna del volgarizzamento è dovuta, se così si può, a un duplice ripiego: Versari riceve
un rifiuto da Bartolomeo Borghesi e ripiega sull’amico forlivese e sacerdote Ignazio
Bernardini e così nel 1931 si ripiega sulla versione in Italiano del presule forlivese, non
avendo a disposizione alcun’altra traduzione, se non il testo manoscritto (che fa parte della
Collezione Piancastelli) del Bernardini.
Uomo di chiesa e di scuola Bernardini è la figura adatta per formazione e interessi a dedicare
buona parte del suo tempo a una traduzione tanto importante per la storia della città quanto
laboriosa dal punto di vista tecnico (negli ultimi anni della vita pensava a cimentarsi nella
traduzione anche di quel seguito ideale delle Aemilianae che sono le Aemilianae di Girolamo
Ferri). È un uomo della Restaurazione sopravvissuto all’Unità d’Italia.

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Ignazio Bernardini nasce a Forlì il 29 luglio 1803 e viene avviato dodicenne agli studi presso
il locale seminario; studi che completa brillantemente nel 1820 (anche grazie a una
cappellania nel frattempo conferitagli nella chiesa della Santissima Trinità) e consegue
altresì la consacrazione sacerdotale. Unanime il giudizio dei suoi insegnanti: il Brandi,
rettore del seminario, lo dice “in tutto e per tutto esemplare”, l’Orsini al momento della
consacrazione lo proclama «ingenio, studio profectuque rite laudabilem», finché nel 1840 ottiene
la cattedra di Grammatica Superiore e Umanità presso il locale Ginnasio Pubblico,
mantenuta fino al 1860, quando lascia l’insegnamento anche a causa delle radicali riforme
apportate alla Pubblica Istruzione in quegli anni. Nel 1859 diviene canonico della Cattedrale
di Forlì e pochi mesi dopo gli viene offerto il posto di Segretario ed Archivista del Capitolo,
con in più il beneficio di Santa Caterina in San Mercuriale. Muore dopo lunga malattia l’8
aprile 1871.
La sua formazione e la sua carriera scolastica si collocano pertanto in un’epoca di transizione
fra quelli che sono gli indirizzi e gli ordinamenti della Restaurazione a quelli che sono i
nuovi indirizzi e ordinamenti del primo periodo unitario con tutto ciò che ne consegue. Di
conseguenza e del tutto coerentemente con quest’impostazione, l’Italiano del Bernardini è
il tipico Italiano della prima metà dell’800, quando ormai lingua dell’insegnamento e della
comunicazione delle classi colte è sì la lingua ufficiale della Penisola ormai prossima
all’unificazione, ma non è ancora una lingua effettivamente parlata dal popolo (se non in
Toscana e nel Lazio); risente, pertanto, fortemente di una letterarietà e, se vogliamo,
artificialità, che l’allontanano in parte dalla nostra attuale sensibilità. Se da un canto l’ovvia
frequentazione della lingua latina e la familiarità coi suoi costrutti che ha il traduttore (che
in tale contesto linguistico si è formato) consentono una grande naturalità nella
trasposizione degli stessi da una lingua all’altra – come già rilevato d’altronde anche in sede
di pubblicazione – il risultato finale poteva già nel 1931 essere considerato arcaizzante o,
comunque, non rispondente ai gusti letterari del tempo.
L’utilità (e il successo) della traduzione del Bernardini (condotta sul testo del 1763 prima
della revisione di Augusto Campana del 1931) rimangono, però, innegabili e fondamentali
anche adesso per chi voglia accostarsi in un qualche modo alla lettura delle Aemilianae. Ai
suoi tempi, sopperì anche alla scarsa circolazione del testo del Morgagni. Antonio Vesi, per
esempio, collezionista e antiquario, lamentava il fatto di non riuscire a trovare una copia
delle Aemilianae da acquistare.

Un sommario delle Epistolae Aemilianae


Superfluo dilungarsi in questa sede sulla fortuna del genere epistolare nell’ambito della
comunicazione scientifica. Nello stesso corpus morgagnano (a riprova che la forma della
lettera, specie se indirizzata a un collega o generalmente alla comunità scientifica, è la forma
più usuale di condivisione delle informazioni nel mondo scientifico del ‘700) sono presenti
sia le Epistolae Anatomicae Duodeviginti sia (e proprio negli Opuscula) le Epistolae Anatomicae
Duo. Lo stesso De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, pubblicato nel 1763, è
formato da settanta «Epistole Anatomico-Mediche».

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La dissertazione sotto forma di lettera inviata ad amici e colleghi è la forma abituale della
comunicazione fra accademici. Nel XVIII secolo — età d’oro delle Accademie —
l’accademico è essenzialmente un corrispondente e Morgagni è stato praticamente da
sempre un accademico: a soli 14 fu iscritto all’Accademia dei Filergiti perché a Forlì appunto
nel 1696 aveva difeso pubblicamente la filosofia peripatetica. Nel 1699 fu ammesso
nell’Accademia degli Inquieti. Il 22 aprile 1712 fu ascritto all’Accademia dei Ricovrati di
Padova. Fu socio di numerose altre accademie italiane, tra cui l’Accademia dei Fisiocritici
di Siena (1728), l’Accademia cesenate dei Filomati (1730), l’Accademia degli Agiati di
Rovereto (1753) e così via.
Morgagni stesso premette al sommario delle sue Epistolae un breve paragrafo introduttivo,
che rende ragione del titolo dell’opera e delinea in nuce il suo svolgimento:

Sono pubblicate ora per la prima volta queste quattordici epistole storico-critiche; dette “Emiliane”
non solo perché per la maggior parte sono state scritte un tempo in Emilia, ma anche perché tutte
riguardano le Antichità e la Geografia di una parte non modesta di quella provincia così come
mostreranno qui di seguito gli argomenti delle singole epistole e il sommario (Morgagni, 1931, p. 5).

Incidentalmente, può essere divertente notare che l’Emilia (da cui paradossalmente
prendono nome le Aemilianae) altro non sia che la Romagna che il paludamento latino
traveste nell’Aemilia che a sua volta come ‘provincia’ (augustea) altro non sia che la
Legazione Pontificia.

EPISTOLA I
Si confuta un nuovo accusatore di Flavio Biondo (1392-1463) sul luogo di nascita di Cornelio
Gallo (§ 1 e ss.). Si mostrano gli errori dell’accusatore (§ 10 e ss.). Frattanto si tratta dei versi
attribuiti a Gallo (§ 12 e ss.). In che periodo Licoride abbia seguito Marco Antonio in Gallia
(§ 15), in che anno sia nato Gallo (§ 16) e perché non sembra che possa essere stato originario
di Fréjus (§ 17). Chi sia stata Licoride (§ 18 e ss.). Si illustrano i passi di Cicerone su di lei e
quelli di Plutarco contro alcuni interpreti (§ 19 e ss.). Quale sia il genere letterario di Gallo
(§ 24).

EPISTOLA II
Il motivo per cui sia stata scritta quest’Epistola (§ 1). Errano quelli che pensano che il Bedesis
e il Vitis siano stati lo stesso fiume. Quale sia stato dei due fiumi forlivesi il Bedesis e come
verificarlo. Né i Polentani né i Veneti fanno cingere Ravenna da questi fiumi (§ 4). Né questi
due fiumi ai tempi di Plinio e per molti secoli seguenti poterono essere confluenti nei pressi
di Ravenna (ibid. e ss.). Di più si indicano due passi di Agnello da emendare e alcuni errori
del Cluver. Si congettura (§ 6) che per Plinio il Bedesis fosse il Montone e il Vitis il Ronco e
a questo proposito si mostrano (§ 7) le allucinazioni di Alberto, Filippo Ferrari e Michel-
Antoine Baudrand (ibid.). Perché Plinio possa sembrare avere omesso il Montone (§ 8) e si
conferma che per lui il Vitis fosse il Ronco (§ 9 e ss.). E fra quelle cose si scopre evidentissimo
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l’errore del Cluver e dei suoi accoliti sull’antica Solona (§ 10). La maggior parte dei geografi
e le loro tavole si sbagliano gravemente su quei due fiumi (§ 11). Se bisogni leggere “Vitis”
in Plinio o, invece, “Utis” (§ 12 e ss.). Si conferma quanto congetturato nel paragrafo § 7 (§
14 e ss.).

EPISTOLA III
Si dà l’argomento di questa e delle epistole seguenti (§1 e ss.). Dei cinque fiumi che
scorrevano un tempo fino alle paludi di Ravenna si considera per primo il Po. Uno solo dei
rami del Po attraversava Ravenna, tuttavia non di quest’età come credono alcuni interpreti
di Dante (§ 3). Da dove cominciasse quel ramo e che quel punto sia da chiamare Fossa
Augusta e non Angusta (§ 4). Come si sia ridotta la sua ampiezza al punto da essere
scomparsa non senza errori dei geografi (§ 5). E, intanto, si trattano alcune cose tramandate
da Agnello sul sarcofago in porfido di Teodorico che sono difficilmente conciliabili con
scritti di autori posteriori (§ 10). Si congettura dove sia stata Budrio (§ 12).

EPISTOLA IV
Si tratta del secondo e del terzo fiume: l’Anemone e il Bedesis (§ 1). Si indicano alcuni errori
dei geografi (§ 2). Errano quelli che credono che in italiano si debba dire “Amone” e non
“Lamone” e come sia nata per la prima volta questa voce (§ 3) e da dove (§ 4) vengano altri
nomi dell’Anemone (ibid.). Gli errori dei geografi sui loro percorsi (§ 5). Il Bedesis. L’errore
di interpretazione su Dante a proposito di due fiumiciattoli da cui prende origine; e poi gli
altri errori nelle tavole geografiche (§ 6). Quando per la prima volta furono fatti confluire in
un unico corso a monte della città (§ 7 e ss.). E quali ponti e quando furono costruiti (§ 10).
L’antico percorso di entrambi i fiumiciattoli attraverso la città e che cosa se ne deduca (§ 11).
Sono considerati i passi di Agnello che sembrano riguardare il Bedesis (§ 12). Altre sul
Bedesis (§ 14).

EPISTOLA V
Il quarto e il quinto fiume: il Vitis e il Savio. Si conferma il nome del Vitis (§ 1). Il nome
Ronco tratto dal castello Ronco: sui ponti costruiti su esso in tempi diversi e come si debba
leggere un’iscrizione sul ponte (§ 2). Si cerca da dove sia chiamato anche Acquedotto: dove
il nome della chiesa e del fondo dello stesso nome (§ 3). Se dall’Acquedotto di Teodorico (§
4) o piuttosto dei Romani: dove si dicono altre cose dell’Acquedotto Ravennate (§ 5). Che
cosa si possa cercare che riguardi il Palazzo di Teodorico a Galeata e l’Acquedotto (§ 6).
Quesiti sui marmi presso l’Abbazia di Sant’Ellero di cui al § 3 posti non così lontano invano
che riguardano l’Acquedotto: e pure si tratta di una colonnella che guarda verso l’Abbazia
si indica che cosa fosse e perché vi sia incisa una doppia iscrizione con lettere fra loro
invertite (§ 7). Si soppesa un passo del Boccaccio sui fiumi e da quello si deduce qualcosa
contro il Cluver (§ 8). Gli errori di altri sugli altri nomi del Ronco (§ 9). Il Savio. Su questo
gli errori dei geografi recenti e se dipendano da un verso di Lucano (§ 10). Più su quel verso
9
(ibid. e ss.). Di passaggio si notano queste altre allucinazioni di altri (§ 11). Dove (§ 12) si
parla della città di Crustumium (Conca) ricordata presso Anastasio il Bibliotecario. Il Savio
sembra essere stato deviato e in che tempo dal porto di Classe, semmai fosse in esso
confluito (§ 13 e ss.).

EPISTOLA VI
Da quali limiti fossero circoscritte le paludi di Ravenna soprattutto dal mare e verso oriente
(§ 1). Il costruttore e l’ampiezza del porto di Classe (§ 2). Se Plinio abbia scritto – come dicono
molti – che il faro di questo porto fosse il più grande di tutti quelli dell’Impero Romano e se
la torre sacra di Santa Maria in Porto fosse il faro. Di questa chiesa chi si crede fossero i
costruttori e in che tempo (§ 3). Le fondamenta del faro di Classe che si dice siano state
trovate altrove (§ 4). Si descrive il mosaico in cui si crede sia rappresentato il faro. Si indicano
i limiti della città di Classe e della Cesarea (§ 5). Perché sia stata costruita la città di Classe e
fino a quando presso di essa sia stata la flotta dei Romani (§ 6 e ss.). E fra queste si indaga a
quale dei tre Valentiniani Vegezio abbia inviato i libri De Re Militari o se non piuttosto a
Teodosio II (§ 7). La città di Classe e fino a quando sia rimasta (§ 9). La via e la città Cesarea
(§ 10). Il ponte Candiano e se ci sia mai stato un fiume di quel nome e un tempo ricchissimo
d’acque (§ 11 e ss.). Fra queste cose si notano gli errori dei geografi e di altri (§ 12). Che fiume
(§ 13) si debba intendere in una vecchia iscrizione di nome Badrino (§ 14 e ss.) Sul fiume
Vatreno e come si debba leggere e accogliere un passo di Marziale (§ 15). La confluenza del
Vatreno nel Po cambiata non solo una volta (§ 17).

EPISTOLA VII
Sul lido di Ravenna ad occidente (§ 1). Si considerano (§ 2) alcuni passi di Agnello (§ 3 e ss.).
Sul porto di Ravenna. Le cause delle variazioni del porto di Ravenna Quale iscrizione sia
stata mandata a Ravenna per essere scolpita sotto la statua del Pontefice.

EPISTOLA VIII
L’argomento delle epistole successive (§ 1). Gli errori dei geografi sui primi due alvei del Po
(§ 2) e sul Vatreno (§ 3) e sulla Selva Lucana (§ 4). Sui fondatori della città di Cotignola (ibid.)
Gli errori dei geografi sul fiume Anemone (§ 5). Modigliana o Castro Mutilo di Livio (§ 6 e
ss.). Quesiti su dove fosse l’antica Solona; dove, forse, bisognerebbe cercarla (§ 10). Errori
dei geografi sui fiumi di Forlì.

EPISTOLA IX
Quando sia stata fondata Forlì (§ 1) né fanno difficoltà i silenzi di Strabone e di Mela (§ 2).
Fin quando sia stata chiamata Livia, dove su due iscrizioni (§ 3) e perché rimangano così
poche iscrizioni: fra queste due famose per i nomi dei consoli che vi sono scritti (§ 4). Il Foro
fondato tra due fiumiciattoli (§5). La sua lunghezza antica e l’esigua larghezza attuale.
10
Perché le sue quattro vie maggiori siano chiamate ‘borghi’ (§ 8). I ponti sull’altro dei due
fiumiciattoli restituiti dall’iscrizione e come quell’iscrizione si debba leggere (§ 9). Si
indagano le cause dei nomi peculiari con cui sono chiamati i singoli borghi e le porte. (§ 10).
Le porte un tempo erano più di quattro. Le mura, i fossati e le tre rocche da cui era difesa la
città, in che data sembra possano essere cominciate e ripristinate (§ 11). L’antico foro e il
nuovo in che tempo sia stato edificato (§ 13). Si indicano i nomi di quattro vescovi forlivesi
da aggiungere al catalogo dei vescovi in cui mancano (§ 14). Come la loro cronologia possa
essere resa più esatta (§ 15) e possano essere conosciuti fino a dodici nomi di pretori forlivesi
del XIII secolo (ibid.). Si esaminano le cause, per cui documenti antichi della città siano
andati persi, soprattutto gli incendi, dei quali per ogni secolo sono indicati i maggiori (ibid.).

EPISTOLA X
Si tratta di nuovo del poeta Cornelio Gallo e in primo luogo come sia da distinguere da altri
che erano stati confusi con lui (§1-2). Si distinguano le gesta di altri attribuite erroneamente
a lui e quelle vere di lui (§ 3 e ss.). Una causa di morte più credibile per lui (§ 6) e un modo
certo (§ 7). I suoi scritti quali sono supposti, quali dubbi, quali certe e queste fino a quando
sono state conservate ((§ 8-9). In che considerazione sia stato tenuto presso gli altri poeti
(ibid. e § 10). Aggiunte da fare a quanto scritto nell’Epistola I sul tempo in cui Citeride abbia
seguito Marco Antonio (§ 11). Altre cose su Gallo ora dubbie ora certe (§ 12). Le difficoltà
nel determinare la sua patria (§ 13). Le ragioni di quelli che sostengono che fosse originario
di Fréjus e la risposta a queste (§ 14 e ss.). Fra queste, sui molti significati della parola
“foroiuliense” (§ 17-18-19). Di più su Forum Iulii Narbonense. Ragioni per cui bisogni credere
piuttosto che Gallo sia originario di Forlì. (§ 20-21).

EPISTOLA XI
In primo luogo si tratta di Biondo: si conferma che il suo nome fosse Flavio e si mostra che
nome abbia avuto il suo avo, da cui si deducono alcune cose (§ 1). La probità di Biondo: e
tutto ciò che disse contro il vescovo di Recanati bisogna intendere che lo disse del
predecessore e nient’affatto del successore Nicolò dall’Aste (§ 2). Lo scritto che sembra
conservato inedito ad Oxford è la sua Italia Illustrata: suoi i libri difficili a scriversi e quanto
utili a suo tempo di Roma Istaurata (ibid.). Da quali occupazioni preso scrisse quei libri e le
Storie: Pare non avere amato la patria più del dovuto (§ 5). Non con pari equità da parte di
alcuni (§ 3-4). Si difende la sua fiducia in quell’iscrizione che scrisse sul Rubicone (§ 6-7). Ci
si chiede che cosa si debba pensare di quella tegola forlivese che si crede riguardi lo storico
Sesto Rufo (§ 8 e ss.). Sulla vita, i meriti e gli scritti di Girolamo Mercuriale, editi ed inediti,
più cose e sugli scritti o sulla vita sono annotate non poche allucinazioni di alcuni (§ 11 e
ss.). Su Giacomo della Torre ed altri medici, filosofi etc. Forlivesi. (§ 16 e ss.). Sui cardinali e
sui vescovi (§ 12).

EPISTOLA XII

11
Si torna ai fiumi Forlivesi. Si tratta del Vitis e delle città ad esso adiacenti, mentre si notano
gli errori dei geografi (§ 1-2). Vari nomi di Galeata di cui si conferma che il nome una volta
fosse il municipio detto Mevaniola (ibid. e ss.). Gli errori dei geografi (§ 6-7). Si propongono
le iscrizioni della rocca di Meldola sia quelle edite con la nota degli errori sia quelle inedite
con annotazioni (§ 7 e ss.).

EPISTOLA XIII
Si spendono alcune parole all’inizio sulla Pineta di Ravenna, poi su Forlimpopoli e
Bertinoro, dopo avere notato alcuni errori o di geografi o di altri (§ 1 e ss.). Fra questi si
scrive della collocazione di quel Foro e delle città vicine. (§ 3) e della Cosmografia di un
anonimo Ravennate (§ 4) poi di un’iscrizione che erroneamente è ritenuta riguardare
Forlimpopoli (§ 5). Il nome di Bertinoro da alcuni proposto in un modo da altri in un altro
il nome di Pietra di Onorio dato al luogo sulla quale una volta alcuni sono stati indotti in
grave errore (§ 9 e ss.).

EPISTOLA XIV
Infine il discorso verte sul fiume Savio e alle città adiacenti e in primo luogo di Sarsina (§ 1
e ss) dove si notano gli errori ora nello scrivere il suo nome, ora nel Che cosa sia la Tribù
Sapinia (§ 5). Il nome di Cesena e gli errori che lo riguardano (§ 6). Perché sia detta “curva”
e Flavia Papia (§ 7-8). I vini di Cesena (§ 9). Cervia non è una citta antica, ma neppure tanto
recente (§ 11-12). Che luogo fosse detto “Ad Novas” e il villaggio presso il Porto di Cesena (§
13 e ss.). E di seguito qualche dubbio sulla controversia sul vero Rubicone degli antichi (§
25 e ss.).

Epistole forlivesi ed epistole ravennati


Abbiamo già visto che le prime due Epistolae sono leggermente diverse dalle altre: riportano
una data precisa e in calce e hanno un destinatario (/dedicatario) conosciuto e preciso (anche
la terza ha un dedicatario, ma è dedicata genericamente “a un amico”). L’Epistola I è dedicata
a Giorgio Viviano Marchesi (1681-1759), poligrafo, storico ed erudito forlivese, ed è datata
Padova il 26 maggio 1729, l’Epistola II è dedicata al cardinale Simone Maria Poggi (1685-
1749), gesuita, storico, poeta e drammaturgo ed è datata Padova, 14 giugno 1738. La dedica
al Gonfaloniere, ai Conservatori, al Consiglio e alla città di Forlì è datata Padova, 16 ottobre
1762. La pubblicazione a stampa è nella terza parte degli Opuscula Miscellanea a Venezia nel
1764.
Sembra che grosso modo si possano attribuire le Epistolae I, II, VIII, IX, X, XI e XII alla
trattazione di argomenti che si riferiscono al Forlivese, mentre le Epistolae III, IV, V, VI, VII e
XIII si riferiscono al Ravennate; l’Epistola XIV affronta questioni relative al Cesenate (fino a
lambire il Riminese). Che le Epistolae III e seguenti costituiscano un corpo unitario lo si
evince dallo stesso Morgagni che chiude l’Epistola III con un cenno significativo: «resta da
parlare del Lamone. Lo faremo nelle lettere che seguiranno.» (Morgagni, 1931, p.58). Segno
12
evidente di un cambiamento di progetto rispetto all’idea delle prime due Epistolae già
scritte: un disegno di più ampio respiro di un’opera sulla geografia storica della Romagna.
Le Epistolae I, X e XI si riferiscono sì al Forlivese, ma più specificamente a due personaggi
dei quali uno sicuramente Forlivese (Flavio Biondo) e l’altro (Cornelio Gallo) la cui terra di
origine è, invece, dai più identificata con Fréjus. Il primo è sicuramente un’eccellenza
Forlivese, del secondo si può dire ben poco, essendoci rimasto niente di lui (Cornelio Gallo
— sembra — è stato fatto oggetto ai suoi tempi, dopo essere caduto, in disgrazia di una vera
e propria damnatio memoriae).
Si potrebbe affermare che mentre tre Epistolae trattano di personaggi storici, le altre undici
hanno come protagonista il territorio: tre sono di argomento storico-biografico, undici di
argomento storico-geografico. Di più: le epistole per così dire “ravennati” costituiscono un
blocco, un corpus quasi omogeneo come se la dissertazione travalicasse i limiti dell’epistola
e prendesse la forma di un piccolo trattato in cinque capitoli (qualcosa come “I cinque fiumi
di Ravenna”). Il Lamone, il Bidente, il Ronco, il Montone, il Savio, il Po, il Rubicone sono i
veri protagonisti della trattazione morgagnana.
Forse, il superamento della forma epistolare avrebbe potuto dare risultati interessanti, se
proseguito, ma avrebbe anche richiesto molto più tempo ed elaborazione storico-
documentaria: avrebbe portato, infine, al superamento del paradigma della ricerca storica
locale come nobile passatempo dell’uomo di cultura; avrebbe certo richiesto ricerche sul
campo che l’autore, risiedendo per lo più a Padova, era di fatto impossibilitato a svolgere.
Data l’ampiezza e la varietà dei temi trattati l’abbandono dell’epistola, inevitabilmente
legata per le convenzioni del genere a un andamento discorsivo e, se si vuole, desultorio
nella successione degli argomenti avrebbe potuto benissimo sfociare, se Morgagni avesse
veramente avuto tempo di dedicarvi tutte le sue forze, in una forma ‘enciclopedica’.
Del resto non stupisca l’apparente dicotomia fra epistole di argomento forlivese ed epistole
di argomento ravennate. I fiumi descritti che sono i veri protagonisti delle Aemilianae col
loro carico di storia e di ricordi scendono in buona parte dall’Appennino, se si può dire,
‘forlivese’ e sfociano sulla costa ‘ravennate’. L’ambito geografico e spaziale dell’opera di
Morgagni è chiaramente la Legazione Apostolica di Romagna con sede a Ravenna
(ufficialmente, infatti, Exarchatus Ravennae) di cui Forlì è, comunque, uno dei poli principali.
Uno dei pochi momenti, se vogliamo, ‘narrativo’ (ma, forse, più semplicemente
‘contestuale’) delle Aemilianae è l’incipit dell’Epistola II: è lo stesso cardinal Giulio Alberoni,
Legato di Romagna (1735-1740) ad accompagnare Morgagni (che si trovava a Forlì) in visita
alle opere pubbliche che si andavano facendo in quel di Ravenna sotto la sua direzione.
Quale rappresentazione più icastica dell’ambito vuoi geografico e spaziale vuoi politico in
cui si svolge la ricerca del Morgagni?

Morgagni come geografo


Due sono gli argomenti principali delle Aemilianae a detta dello stesso Morgagni: le antichità
e la geografia. Se per un uomo colto del ‘700, le antichità sono principalmente la critica
testuale delle opere latine (e in minor misura greche) e l’epigrafia, per le quali per altro
13
Morgagni ha sempre mostrato un grande interesse, la geografia è soprattutto la geografia
storica: una geografia in cui fondamentale è l’apporto e lo studio delle fonti classiche e
letterarie, una sorta di confronto serrato tra la descrizione che hanno dato i geografi del
passato e quella che dànno i geografi del presente, filtrata, in ogni caso, da una certa
inevitabile predilezione per la toponomastica. Ovviamente, nella pratica della geografia
(specie di quella in maggior misura fisica che antropica) sarebbe essenziale il lavoro sul
campo, la rilevazione e, infatti, vi ricorre anche Morgagni sia pure in absentia e per interposta
persona: numerose sono le trascrizioni di epigrafi conservate nel fondo dei manoscritti
morgagnani da lui raccolte o commissionate e che vanno a costituire la già ricca bibliografia
alla base delle Epistolae.
Ora, circa l’interesse di Morgagni per la geografia sembra che soltanto si debbano
aggiungere due considerazioni di un certo interesse. La prima riguarda una caratteristica
saliente comune a quasi tutti gli eruditi romagnoli del periodo: una certa ossessione per
l’idrografia (storica). Nelle Aemilianae la stragrande maggioranza delle controversie trattate
sembrano riguardare corsi e denominazioni di fiumi (ivi compresi ponti e località finitime),
fiumi che vanno dal Savio al Santerno. In questo senso la ‘contesa sul Rubicone’ (se così,
vogliamo chiamarla) ne verrebbe derubricata a caso particolare di una più ampia e accesa,
corale discussione sull’intera idrografia romagnola. Ed è ben naturale che così sia, perché i
fiumi della Romagna sono davvero un tratto caratteristico della geografia e della geologia
della regione, senza contare la loro importanza antropica ed economica anche in ragione del
loro carattere eminentemente torrentizio per le città costruite in prossimità dei loro corsi. E
sono i fiumi anche (e soprattutto in questa storia) confini, delimitano proprietà e
distinguono comuni e distretti. Di qui, forse, una ragione delle tanto animate, se non
animose, controversie di cui a noi giunge in prima istanza l’eco dalle controversie dei dotti.
Il che mi porta alla seconda considerazione: il XVIII è anche il secolo delle grandi rilevazioni
catastali, un punto di svolta nella descrizione del territorio che passa da una descrizione
puramente generica e discorsiva (per quanto sempre più precisa col passare degli anni) a
una scientifica e particellare. In quest’ottica la vera e propria schedatura di tutte le
informazioni geografiche e storiche sul territorio attuata con grande attenzione dal
Morgagni costituisce il presupposto ideale del grande lavoro, poi, svolto finalmente sul
campo dai geometri.

Morgagni come politico


Così come all’inizio ho parlato della fine; anzi, proprio dall’ultimo paragrafo dell’ultima
epistola sono partito, mi capita ora di riflettere, alla ricerca del senso ultimo dell’operazione
letteraria del Morgagni che abbandona il campo della medicina, dell’anatomia e, più
genericamente, della scienza per inoltrarsi in quello dell’erudizione, della storia e della
geografia sulla dedica che ha voluto giustamente apporre alle sue Aemilianae:

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Agli illustrissimi e nobilissimi signori,
al Gonfaloniere e
a tutti gli altri Conservatori della città di Forlì e
a tutto il Consiglio della Città:

ciò che affermai nell’epistola con cui dedicai ai vostri predecessori gli Adversaria Anatomica Sexta,
o padri illustrissimi, quarantatré anni fa, che se Dio, elargitore di tutti i beni, mi avesse concesso a
sufficienza e la vita e le forze, ci sarebbe stato forse chi mi avesse stimato avere avuto qualche
risultato nell’anatomia e non essere stato l’ultimo di tutti anche se fornito di nessun altro ausilio che
la fatica e l’impegno, ora, rileggendolo, grato riconosco che la Divina Beneficienza mi ha dato
abbastanza forze e più che abbastanza di vita, ma non so e, se lo sapessi, non ardirei dirlo, ho
compiuto ciononostante qualcosa di degno della nostra Città. Questo so: non mi sono mai distratto,
neppure nelle ore di tempo libero, dallo studio dell’anatomia a meno che non dovessi rispondere ad
amici eruditi che mi chiedevano qualcosa d’altro o la fervida calura estiva mi trattenesse dal fare
autopsie sui cadaveri. In quel tempo dell’anno non muovendomi neppure una volta da qui, mi
sembrava esaltassi l’aspetto della patria carissima e delle città vicine per consumare quel che mi
restava dell’ozio in un’investigazione ulteriore di quelle cose su cui già avevo scritto due epistole a
Padova. Così, ne ho scritte altre dodici presso di voi o piuttosto le ho buttate giù, sperando, che mi
sarebbe stato dato il tempo di rivederle semmai, come avevo deciso, sarei potuto tornare da Voi, così
da finire i miei ultimi anni lì dove avevo passato i primi. Ora, poiché, però, oltre alla vecchiaia
avanzata e alla salute cagionevole, non una sola causa, per altro a voi notissima, mi ha costretto a
cambiare i miei piani, vi invio queste stesse Epistole almeno scritte per me così come sono. Infatti,
oltre alla prima e alla seconda non le ho rilette, perché sapevo che avrei potuto portare a compimento
lì alcune cose ed altre su cui avevo dubbi se non facendo indagini ed informandomi principalmente
sulla nostra città, ma anche su quelle vicine. Ma i Dotti e gli esperti di storia e dei luoghi sia nostrani
sia d’altre parti dell’Emilia — è mia opinione — compiranno ciò che io non ho potuto tanto più di
buon grado quando riconosceranno che in nessun modo ho attribuito alla patria più di quanto sia
vero di quanto poté essermi noto. Infatti, autentico amor di Patria non è attribuirle false, ma vere
lodi: amore che se è vi è parso chiaro da me profuso sia in presenza che in assenza in altre cose
ovunque e comunque mi sia stato permesso, vi prego, o padri illustrissimi, di voler accettare
benignamente quest’estrema testimonianza di animo ossequioso e grato verso di Voi e volere
abbracciare con quella stessa umanità di sempre anche i miei. Saluti. (Morgagni, 1931, pp. 3-4).

Scritta a ben 43 anni di distanza dalla dedica degli Adversaria Anatomica Sexta alla fine
del suo percorso scientifico e pubblico, quando ormai la preoccupazione principale è la
pubblicazione della sua Opera Omnia e l’acquisizione di uno status di benemerito presso i
suoi concittadini, volta anche ad assicurare oltre alla posizione sociale sua anche quella dei
suoi familiari, la dedica premessa alle Aemilianae è un vero programma politico culturale.
Oltre a ribadire il suo amor di patria indiscusso per la città di Forlì e a rivendicare i suoi
meriti scientifici, propone la figura di sé come cittadino modello, che distrae tempo prezioso
alle sue occupazioni (la professione, la docenza e lo studio) per servire la propria comunità
con le sue ricerche storiche, contributo essenziale alla sua fama e vero e proprio dovere
civico.

Evento fondamentale nella vita di Giovanni Battista Morgagni, infatti, è stato senza dubbio
l’iscrizione al Patriziato forlivese, le cui lunghe e complesse fasi sono ripercorse in questo
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libro da Anna Rosa Bambi. Ora, un patrizio pur godendo di tanti e diversi privilegi ha
almeno un obbligo di un certo rilievo: dare lustro alla propria città e Morgagni lo fa prima
ampiamente con la sua opera e la sua rinomanza scientifica internazionale quale princeps
anatomicorum, poi, con le Epistolae Aemilianae stesse. La città di Forlì non poté che riconoscere
questi meriti, e lo fece, commissionando un busto del Morgagni, ancora vivente, collocato
poi nel 1863, sopra la porta di ingresso della Sala Grande del Pubblico Palazzo, con
un’iscrizione solenne, decretandone così la definitiva ascrizione, al pantheon delle glorie
cittadine.

Fonti e bibliografia
Le Epistolae Aemiliane furono incluse negli Opuscula Miscellanea editi nel quinto volume
dell’Opera Omnia di G. B. Morgagni, pubblicata a Venezia da Remondini nel 1764.
Nel 1931 vennero ristampate a San Marino dalle Arti Grafiche di Filippo della Balda per il
Comune di Forlì con il titolo Epistolae Aemiliane Quattuordecim Historico - Criticae De
Antiquitatibus et Geographia non modicae partis Provinciae Aemiliae, l’introduzione di Paolo
Amaducci, la cura e una nota bibliografica di Augusto Campana. A questa edizione si è fatto
riferimento nelle citazioni di questo saggio. Sempre nel 1931 ne venne edita la prima
traduzione in italiano, opera di Ignazio Bernardini, a Forlì, dalla Poligrafica Romagnola. Su
questo testo vedi anche: C. Versari Camillo, Sei discorsi consacrati alla vita, alle opere, allo elogio,
alle onoranze, alla sapienza filologica, filosofica e medica di Giambattista Morgagni, letti ed offerti
dal prof. cav. Camillo Versari alla illustre Società Medico-Chirurgica di Bologna, Bologna 1872, pp.
11-12; E. Bottini Massa, Giambattista Morgagni e i suoi rapporti con la patria, in Forum Livii, III
(1928), pp. 3-12; A. Pasini, Un incarico letterario a G.B. Morgagni, in La Piê, XVIII (1949), pp.
;M. Nicolini, G.B. Morgagni, le epistole emiliane e Marino Moretti, in La Piê, XVIII (1949), pp. ;
A. Spallicci, “Epistole Emiliane” di G. B. Morgagni, in La Piê, XL (1971), pp. 94-100 e M. Feo,
Filologia e storia: Augusto Campana e l’edizione delle Epistolae Aemilianae di Giambattista
Morgagni, in Ecdotica, 2005, pp. 163-169.

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