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Mi capita di cominciare questa breve escursione nel territorio delle Epistolae Aemilianae di
Giovanni Battista Morgagni esattamente dalla fine e, forse, non è un caso. Dal momento che
mi sono interessato involontariamente e, purtroppo, a lungo della questione del ‘vero
Rubicone’ (qualunque cosa ciò voglia dire) mi è venuto spontaneo chiedermi, data l’affinità
di impostazione e la contiguità temporale fra il Morgagni e gli altri agguerriti studiosi
romagnoli, se avesse anche lui trattato in qualche modo la questione. Sono presto
accontentato: scorrendo sommariamente la lista degli argomenti, proprio nell’ultima delle
Epistolae incorro in una dotta disquisizione su Cesena e sul Savio (da buon Forlivese il
Morgagni relega incidentalmente e alla fine eventuali discussioni su ‘cose cesenati’ e non
tratta di ‘cose riminesi’) nello svolgimento della quale non resiste, ovviamente, neppure lui,
alla tentazione di lambire la questione del corso del fiume Rubicone a quel tempo al centro
della più infiammata delle contese fra dotti Cesenati e Riminesi, ma subito conclude (e con
questo paragrafo conclude pure le Aemilianae):
Vorrei che tu prendessi quel che ho scritto qua e là sul Rubicone così come ti ho detto all’inizio. A
dire la verità non ho fatto altro se non confessare candidamente, mentre leggevo la maggior parte di
quanto scritto da una parte e dall’altra sull’argomento e pubblicato fino all’anno 1744, in quali passi
si appuntassero i miei dubbi. Confesso anche che non mi sfugge quanti uomini e di che levatura
parteggino per i Riminesi; per quanto alcuni fra i più recenti, quasi dimentichi di sé, concordino ora
con quelli ora coi Cesenati. Quanto a me che ho e ho avuto amici fra gli uni e gli altri cultori della
verità non meno di me, se dopo tutto quel che è stato battuto e ribattuto da entrambe le parte fossero
prodotti nuovi argomenti come sento che accadrà passerò volentieri dalla parte dell’opinione che mi
parrà che mi levi più facilmente i miei dubbi. Saluti. (Morgagni, 1931, p. 238).
C’è un po’ tutto il Morgagni delle Aemilianae in questo semplice passo: il culto (si oserebbe
dire ‘scientifico’, ma nel senso che questo termine ha nel XVIII secolo) della verità, l’uso di
un latino vera e propria lingua artificiale della scienza del tempo, che non ha più alcun
riscontro col parlato, la limitata circolazione di questo tipo di scritti a una ristretta cerchia
di accademici che sono tra l’altro amici personali o, comunque, legati da vincoli derivanti
dalla condivisa educazione e cultura, il municipalismo storico, l’uso sofisticato, ma limitante
delle fonti secondarie e letterarie, la retorica della dissertazione come tecnica
d’argomentazione, l’uso di uno stile difficile e convoluto che marca a un tempo l’autore
come un dotto e come un ‘vir’ dalla conclamata fama e autorevolezza e restringe il suo
uditorio a un cerchio di suoi pari, l’impostazione per così dire ‘hobbistica’ del medico e
scienziato che nel suo tempo libero ritorna con la mente ai suoi luoghi natali e si diletta col
gioco della filologia e della storia, ma pure non sfugge un sottinteso vuoi diplomatico vuoi
politico laddove l’autore si sgancia prudentemente dalla questione per non inimicarsi né gli
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uni né gli altri fra i contendenti. Curioso, ma fino a un certo punto, che anche l’eclettico ed
enciclopedico riminese Giovanni Bianchi (o Iano Planco), animatore della contesa sul
Rubicone, esercitasse la professione medica e fosse altresì considerato sommo letterato e
filosofo e, non a caso, si trova fra i corrispondenti di Giovanni Battista Morgagni.
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dimenticanza o un semplice momento di commozione nella descrizione della sua città
natale?
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A tale proposito, riporto con estremo interesse un progetto del Liceo Classico di Forlì (per
l’appunto intitolato a Giovanni Battista Morgagni) di edizione e traduzione online delle
Aemilianae, di cui purtroppo è uscita finora solo l’Epistola IX
(http://www.morgagnipatologo.it/epistolaix/epistola-ix-la-traduzione). Si tratta della
epistola più forlivese di tutte: dedicata all’origine della città e alla descrizione dei
monumenti e delle cose notabili di Forlì da un punto di vista storico e documentale. È
comunque interessante che gli studenti del Liceo Morgagni abbiano immediatamente
individuato quali siano le difficoltà di rendere in Italiano le Aemilianae:
le difficoltà non sono state poche: non solo perché non siamo latinisti del calibro di Bernardini, ma
anche perché ci siamo trovati davanti all’immagine di una Forlì che non è più la nostra e che abbiamo
cercato di ricostruire, per capire meglio, anche attraverso letture e approfondimenti dell’argomento.
(http://www.morgagnipatologo.it/epistolaix/epistola-ix/introduzione).
Fatto sta che, per quanto siano stati fatti diversi tentativi di volgere in Italiano tutte le
Aemilianae (nell’introduzione all’edizione del 1931 si fa cenno ad un tentativo di Enrico
Bottini), solo uno sia andato a buon fine e non può essere un caso.
La versione Italiana
È per questo, allora, che l’unico ‘volgarizzamento’ mai pubblicato delle Aemilianae sia stato
quello di Ignazio Bernardini (1803-1871) e sia stato pubblicato a stampa in occasione
dell’edizione, già citata, del 1931 così come degno di nota è il fatto che nel 1931 si pubblichi
un testo della prima metà del secolo precedente fino ad allora rimasto manoscritto.
Nel 1841 Camillo Versari aveva pensato di far tradurre a Bartolomeo Borghesi, allora in
esilio a San Marino, le Aemilianae, che aveva, però, prontamente opposto un diniego dovuto
allo scarso tempo a disposizione e probabilmente un calo di interesse per l’argomento; per
quanto lo studioso proclami l’importanza del testo e l’utilità (anzi la necessità) di una sua
traduzione in Italiano, prova – se mai ce ne fosse stato bisogno – che cent’anni dopo il latino
non è più la lingua dei dotti e che la lingua della ricerca e della comunicazione scientifica è
ormai l’Italiano.
La fortuna del volgarizzamento è dovuta, se così si può, a un duplice ripiego: Versari riceve
un rifiuto da Bartolomeo Borghesi e ripiega sull’amico forlivese e sacerdote Ignazio
Bernardini e così nel 1931 si ripiega sulla versione in Italiano del presule forlivese, non
avendo a disposizione alcun’altra traduzione, se non il testo manoscritto (che fa parte della
Collezione Piancastelli) del Bernardini.
Uomo di chiesa e di scuola Bernardini è la figura adatta per formazione e interessi a dedicare
buona parte del suo tempo a una traduzione tanto importante per la storia della città quanto
laboriosa dal punto di vista tecnico (negli ultimi anni della vita pensava a cimentarsi nella
traduzione anche di quel seguito ideale delle Aemilianae che sono le Aemilianae di Girolamo
Ferri). È un uomo della Restaurazione sopravvissuto all’Unità d’Italia.
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Ignazio Bernardini nasce a Forlì il 29 luglio 1803 e viene avviato dodicenne agli studi presso
il locale seminario; studi che completa brillantemente nel 1820 (anche grazie a una
cappellania nel frattempo conferitagli nella chiesa della Santissima Trinità) e consegue
altresì la consacrazione sacerdotale. Unanime il giudizio dei suoi insegnanti: il Brandi,
rettore del seminario, lo dice “in tutto e per tutto esemplare”, l’Orsini al momento della
consacrazione lo proclama «ingenio, studio profectuque rite laudabilem», finché nel 1840 ottiene
la cattedra di Grammatica Superiore e Umanità presso il locale Ginnasio Pubblico,
mantenuta fino al 1860, quando lascia l’insegnamento anche a causa delle radicali riforme
apportate alla Pubblica Istruzione in quegli anni. Nel 1859 diviene canonico della Cattedrale
di Forlì e pochi mesi dopo gli viene offerto il posto di Segretario ed Archivista del Capitolo,
con in più il beneficio di Santa Caterina in San Mercuriale. Muore dopo lunga malattia l’8
aprile 1871.
La sua formazione e la sua carriera scolastica si collocano pertanto in un’epoca di transizione
fra quelli che sono gli indirizzi e gli ordinamenti della Restaurazione a quelli che sono i
nuovi indirizzi e ordinamenti del primo periodo unitario con tutto ciò che ne consegue. Di
conseguenza e del tutto coerentemente con quest’impostazione, l’Italiano del Bernardini è
il tipico Italiano della prima metà dell’800, quando ormai lingua dell’insegnamento e della
comunicazione delle classi colte è sì la lingua ufficiale della Penisola ormai prossima
all’unificazione, ma non è ancora una lingua effettivamente parlata dal popolo (se non in
Toscana e nel Lazio); risente, pertanto, fortemente di una letterarietà e, se vogliamo,
artificialità, che l’allontanano in parte dalla nostra attuale sensibilità. Se da un canto l’ovvia
frequentazione della lingua latina e la familiarità coi suoi costrutti che ha il traduttore (che
in tale contesto linguistico si è formato) consentono una grande naturalità nella
trasposizione degli stessi da una lingua all’altra – come già rilevato d’altronde anche in sede
di pubblicazione – il risultato finale poteva già nel 1931 essere considerato arcaizzante o,
comunque, non rispondente ai gusti letterari del tempo.
L’utilità (e il successo) della traduzione del Bernardini (condotta sul testo del 1763 prima
della revisione di Augusto Campana del 1931) rimangono, però, innegabili e fondamentali
anche adesso per chi voglia accostarsi in un qualche modo alla lettura delle Aemilianae. Ai
suoi tempi, sopperì anche alla scarsa circolazione del testo del Morgagni. Antonio Vesi, per
esempio, collezionista e antiquario, lamentava il fatto di non riuscire a trovare una copia
delle Aemilianae da acquistare.
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La dissertazione sotto forma di lettera inviata ad amici e colleghi è la forma abituale della
comunicazione fra accademici. Nel XVIII secolo — età d’oro delle Accademie —
l’accademico è essenzialmente un corrispondente e Morgagni è stato praticamente da
sempre un accademico: a soli 14 fu iscritto all’Accademia dei Filergiti perché a Forlì appunto
nel 1696 aveva difeso pubblicamente la filosofia peripatetica. Nel 1699 fu ammesso
nell’Accademia degli Inquieti. Il 22 aprile 1712 fu ascritto all’Accademia dei Ricovrati di
Padova. Fu socio di numerose altre accademie italiane, tra cui l’Accademia dei Fisiocritici
di Siena (1728), l’Accademia cesenate dei Filomati (1730), l’Accademia degli Agiati di
Rovereto (1753) e così via.
Morgagni stesso premette al sommario delle sue Epistolae un breve paragrafo introduttivo,
che rende ragione del titolo dell’opera e delinea in nuce il suo svolgimento:
Sono pubblicate ora per la prima volta queste quattordici epistole storico-critiche; dette “Emiliane”
non solo perché per la maggior parte sono state scritte un tempo in Emilia, ma anche perché tutte
riguardano le Antichità e la Geografia di una parte non modesta di quella provincia così come
mostreranno qui di seguito gli argomenti delle singole epistole e il sommario (Morgagni, 1931, p. 5).
Incidentalmente, può essere divertente notare che l’Emilia (da cui paradossalmente
prendono nome le Aemilianae) altro non sia che la Romagna che il paludamento latino
traveste nell’Aemilia che a sua volta come ‘provincia’ (augustea) altro non sia che la
Legazione Pontificia.
EPISTOLA I
Si confuta un nuovo accusatore di Flavio Biondo (1392-1463) sul luogo di nascita di Cornelio
Gallo (§ 1 e ss.). Si mostrano gli errori dell’accusatore (§ 10 e ss.). Frattanto si tratta dei versi
attribuiti a Gallo (§ 12 e ss.). In che periodo Licoride abbia seguito Marco Antonio in Gallia
(§ 15), in che anno sia nato Gallo (§ 16) e perché non sembra che possa essere stato originario
di Fréjus (§ 17). Chi sia stata Licoride (§ 18 e ss.). Si illustrano i passi di Cicerone su di lei e
quelli di Plutarco contro alcuni interpreti (§ 19 e ss.). Quale sia il genere letterario di Gallo
(§ 24).
EPISTOLA II
Il motivo per cui sia stata scritta quest’Epistola (§ 1). Errano quelli che pensano che il Bedesis
e il Vitis siano stati lo stesso fiume. Quale sia stato dei due fiumi forlivesi il Bedesis e come
verificarlo. Né i Polentani né i Veneti fanno cingere Ravenna da questi fiumi (§ 4). Né questi
due fiumi ai tempi di Plinio e per molti secoli seguenti poterono essere confluenti nei pressi
di Ravenna (ibid. e ss.). Di più si indicano due passi di Agnello da emendare e alcuni errori
del Cluver. Si congettura (§ 6) che per Plinio il Bedesis fosse il Montone e il Vitis il Ronco e
a questo proposito si mostrano (§ 7) le allucinazioni di Alberto, Filippo Ferrari e Michel-
Antoine Baudrand (ibid.). Perché Plinio possa sembrare avere omesso il Montone (§ 8) e si
conferma che per lui il Vitis fosse il Ronco (§ 9 e ss.). E fra quelle cose si scopre evidentissimo
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l’errore del Cluver e dei suoi accoliti sull’antica Solona (§ 10). La maggior parte dei geografi
e le loro tavole si sbagliano gravemente su quei due fiumi (§ 11). Se bisogni leggere “Vitis”
in Plinio o, invece, “Utis” (§ 12 e ss.). Si conferma quanto congetturato nel paragrafo § 7 (§
14 e ss.).
EPISTOLA III
Si dà l’argomento di questa e delle epistole seguenti (§1 e ss.). Dei cinque fiumi che
scorrevano un tempo fino alle paludi di Ravenna si considera per primo il Po. Uno solo dei
rami del Po attraversava Ravenna, tuttavia non di quest’età come credono alcuni interpreti
di Dante (§ 3). Da dove cominciasse quel ramo e che quel punto sia da chiamare Fossa
Augusta e non Angusta (§ 4). Come si sia ridotta la sua ampiezza al punto da essere
scomparsa non senza errori dei geografi (§ 5). E, intanto, si trattano alcune cose tramandate
da Agnello sul sarcofago in porfido di Teodorico che sono difficilmente conciliabili con
scritti di autori posteriori (§ 10). Si congettura dove sia stata Budrio (§ 12).
EPISTOLA IV
Si tratta del secondo e del terzo fiume: l’Anemone e il Bedesis (§ 1). Si indicano alcuni errori
dei geografi (§ 2). Errano quelli che credono che in italiano si debba dire “Amone” e non
“Lamone” e come sia nata per la prima volta questa voce (§ 3) e da dove (§ 4) vengano altri
nomi dell’Anemone (ibid.). Gli errori dei geografi sui loro percorsi (§ 5). Il Bedesis. L’errore
di interpretazione su Dante a proposito di due fiumiciattoli da cui prende origine; e poi gli
altri errori nelle tavole geografiche (§ 6). Quando per la prima volta furono fatti confluire in
un unico corso a monte della città (§ 7 e ss.). E quali ponti e quando furono costruiti (§ 10).
L’antico percorso di entrambi i fiumiciattoli attraverso la città e che cosa se ne deduca (§ 11).
Sono considerati i passi di Agnello che sembrano riguardare il Bedesis (§ 12). Altre sul
Bedesis (§ 14).
EPISTOLA V
Il quarto e il quinto fiume: il Vitis e il Savio. Si conferma il nome del Vitis (§ 1). Il nome
Ronco tratto dal castello Ronco: sui ponti costruiti su esso in tempi diversi e come si debba
leggere un’iscrizione sul ponte (§ 2). Si cerca da dove sia chiamato anche Acquedotto: dove
il nome della chiesa e del fondo dello stesso nome (§ 3). Se dall’Acquedotto di Teodorico (§
4) o piuttosto dei Romani: dove si dicono altre cose dell’Acquedotto Ravennate (§ 5). Che
cosa si possa cercare che riguardi il Palazzo di Teodorico a Galeata e l’Acquedotto (§ 6).
Quesiti sui marmi presso l’Abbazia di Sant’Ellero di cui al § 3 posti non così lontano invano
che riguardano l’Acquedotto: e pure si tratta di una colonnella che guarda verso l’Abbazia
si indica che cosa fosse e perché vi sia incisa una doppia iscrizione con lettere fra loro
invertite (§ 7). Si soppesa un passo del Boccaccio sui fiumi e da quello si deduce qualcosa
contro il Cluver (§ 8). Gli errori di altri sugli altri nomi del Ronco (§ 9). Il Savio. Su questo
gli errori dei geografi recenti e se dipendano da un verso di Lucano (§ 10). Più su quel verso
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(ibid. e ss.). Di passaggio si notano queste altre allucinazioni di altri (§ 11). Dove (§ 12) si
parla della città di Crustumium (Conca) ricordata presso Anastasio il Bibliotecario. Il Savio
sembra essere stato deviato e in che tempo dal porto di Classe, semmai fosse in esso
confluito (§ 13 e ss.).
EPISTOLA VI
Da quali limiti fossero circoscritte le paludi di Ravenna soprattutto dal mare e verso oriente
(§ 1). Il costruttore e l’ampiezza del porto di Classe (§ 2). Se Plinio abbia scritto – come dicono
molti – che il faro di questo porto fosse il più grande di tutti quelli dell’Impero Romano e se
la torre sacra di Santa Maria in Porto fosse il faro. Di questa chiesa chi si crede fossero i
costruttori e in che tempo (§ 3). Le fondamenta del faro di Classe che si dice siano state
trovate altrove (§ 4). Si descrive il mosaico in cui si crede sia rappresentato il faro. Si indicano
i limiti della città di Classe e della Cesarea (§ 5). Perché sia stata costruita la città di Classe e
fino a quando presso di essa sia stata la flotta dei Romani (§ 6 e ss.). E fra queste si indaga a
quale dei tre Valentiniani Vegezio abbia inviato i libri De Re Militari o se non piuttosto a
Teodosio II (§ 7). La città di Classe e fino a quando sia rimasta (§ 9). La via e la città Cesarea
(§ 10). Il ponte Candiano e se ci sia mai stato un fiume di quel nome e un tempo ricchissimo
d’acque (§ 11 e ss.). Fra queste cose si notano gli errori dei geografi e di altri (§ 12). Che fiume
(§ 13) si debba intendere in una vecchia iscrizione di nome Badrino (§ 14 e ss.) Sul fiume
Vatreno e come si debba leggere e accogliere un passo di Marziale (§ 15). La confluenza del
Vatreno nel Po cambiata non solo una volta (§ 17).
EPISTOLA VII
Sul lido di Ravenna ad occidente (§ 1). Si considerano (§ 2) alcuni passi di Agnello (§ 3 e ss.).
Sul porto di Ravenna. Le cause delle variazioni del porto di Ravenna Quale iscrizione sia
stata mandata a Ravenna per essere scolpita sotto la statua del Pontefice.
EPISTOLA VIII
L’argomento delle epistole successive (§ 1). Gli errori dei geografi sui primi due alvei del Po
(§ 2) e sul Vatreno (§ 3) e sulla Selva Lucana (§ 4). Sui fondatori della città di Cotignola (ibid.)
Gli errori dei geografi sul fiume Anemone (§ 5). Modigliana o Castro Mutilo di Livio (§ 6 e
ss.). Quesiti su dove fosse l’antica Solona; dove, forse, bisognerebbe cercarla (§ 10). Errori
dei geografi sui fiumi di Forlì.
EPISTOLA IX
Quando sia stata fondata Forlì (§ 1) né fanno difficoltà i silenzi di Strabone e di Mela (§ 2).
Fin quando sia stata chiamata Livia, dove su due iscrizioni (§ 3) e perché rimangano così
poche iscrizioni: fra queste due famose per i nomi dei consoli che vi sono scritti (§ 4). Il Foro
fondato tra due fiumiciattoli (§5). La sua lunghezza antica e l’esigua larghezza attuale.
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Perché le sue quattro vie maggiori siano chiamate ‘borghi’ (§ 8). I ponti sull’altro dei due
fiumiciattoli restituiti dall’iscrizione e come quell’iscrizione si debba leggere (§ 9). Si
indagano le cause dei nomi peculiari con cui sono chiamati i singoli borghi e le porte. (§ 10).
Le porte un tempo erano più di quattro. Le mura, i fossati e le tre rocche da cui era difesa la
città, in che data sembra possano essere cominciate e ripristinate (§ 11). L’antico foro e il
nuovo in che tempo sia stato edificato (§ 13). Si indicano i nomi di quattro vescovi forlivesi
da aggiungere al catalogo dei vescovi in cui mancano (§ 14). Come la loro cronologia possa
essere resa più esatta (§ 15) e possano essere conosciuti fino a dodici nomi di pretori forlivesi
del XIII secolo (ibid.). Si esaminano le cause, per cui documenti antichi della città siano
andati persi, soprattutto gli incendi, dei quali per ogni secolo sono indicati i maggiori (ibid.).
EPISTOLA X
Si tratta di nuovo del poeta Cornelio Gallo e in primo luogo come sia da distinguere da altri
che erano stati confusi con lui (§1-2). Si distinguano le gesta di altri attribuite erroneamente
a lui e quelle vere di lui (§ 3 e ss.). Una causa di morte più credibile per lui (§ 6) e un modo
certo (§ 7). I suoi scritti quali sono supposti, quali dubbi, quali certe e queste fino a quando
sono state conservate ((§ 8-9). In che considerazione sia stato tenuto presso gli altri poeti
(ibid. e § 10). Aggiunte da fare a quanto scritto nell’Epistola I sul tempo in cui Citeride abbia
seguito Marco Antonio (§ 11). Altre cose su Gallo ora dubbie ora certe (§ 12). Le difficoltà
nel determinare la sua patria (§ 13). Le ragioni di quelli che sostengono che fosse originario
di Fréjus e la risposta a queste (§ 14 e ss.). Fra queste, sui molti significati della parola
“foroiuliense” (§ 17-18-19). Di più su Forum Iulii Narbonense. Ragioni per cui bisogni credere
piuttosto che Gallo sia originario di Forlì. (§ 20-21).
EPISTOLA XI
In primo luogo si tratta di Biondo: si conferma che il suo nome fosse Flavio e si mostra che
nome abbia avuto il suo avo, da cui si deducono alcune cose (§ 1). La probità di Biondo: e
tutto ciò che disse contro il vescovo di Recanati bisogna intendere che lo disse del
predecessore e nient’affatto del successore Nicolò dall’Aste (§ 2). Lo scritto che sembra
conservato inedito ad Oxford è la sua Italia Illustrata: suoi i libri difficili a scriversi e quanto
utili a suo tempo di Roma Istaurata (ibid.). Da quali occupazioni preso scrisse quei libri e le
Storie: Pare non avere amato la patria più del dovuto (§ 5). Non con pari equità da parte di
alcuni (§ 3-4). Si difende la sua fiducia in quell’iscrizione che scrisse sul Rubicone (§ 6-7). Ci
si chiede che cosa si debba pensare di quella tegola forlivese che si crede riguardi lo storico
Sesto Rufo (§ 8 e ss.). Sulla vita, i meriti e gli scritti di Girolamo Mercuriale, editi ed inediti,
più cose e sugli scritti o sulla vita sono annotate non poche allucinazioni di alcuni (§ 11 e
ss.). Su Giacomo della Torre ed altri medici, filosofi etc. Forlivesi. (§ 16 e ss.). Sui cardinali e
sui vescovi (§ 12).
EPISTOLA XII
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Si torna ai fiumi Forlivesi. Si tratta del Vitis e delle città ad esso adiacenti, mentre si notano
gli errori dei geografi (§ 1-2). Vari nomi di Galeata di cui si conferma che il nome una volta
fosse il municipio detto Mevaniola (ibid. e ss.). Gli errori dei geografi (§ 6-7). Si propongono
le iscrizioni della rocca di Meldola sia quelle edite con la nota degli errori sia quelle inedite
con annotazioni (§ 7 e ss.).
EPISTOLA XIII
Si spendono alcune parole all’inizio sulla Pineta di Ravenna, poi su Forlimpopoli e
Bertinoro, dopo avere notato alcuni errori o di geografi o di altri (§ 1 e ss.). Fra questi si
scrive della collocazione di quel Foro e delle città vicine. (§ 3) e della Cosmografia di un
anonimo Ravennate (§ 4) poi di un’iscrizione che erroneamente è ritenuta riguardare
Forlimpopoli (§ 5). Il nome di Bertinoro da alcuni proposto in un modo da altri in un altro
il nome di Pietra di Onorio dato al luogo sulla quale una volta alcuni sono stati indotti in
grave errore (§ 9 e ss.).
EPISTOLA XIV
Infine il discorso verte sul fiume Savio e alle città adiacenti e in primo luogo di Sarsina (§ 1
e ss) dove si notano gli errori ora nello scrivere il suo nome, ora nel Che cosa sia la Tribù
Sapinia (§ 5). Il nome di Cesena e gli errori che lo riguardano (§ 6). Perché sia detta “curva”
e Flavia Papia (§ 7-8). I vini di Cesena (§ 9). Cervia non è una citta antica, ma neppure tanto
recente (§ 11-12). Che luogo fosse detto “Ad Novas” e il villaggio presso il Porto di Cesena (§
13 e ss.). E di seguito qualche dubbio sulla controversia sul vero Rubicone degli antichi (§
25 e ss.).
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Agli illustrissimi e nobilissimi signori,
al Gonfaloniere e
a tutti gli altri Conservatori della città di Forlì e
a tutto il Consiglio della Città:
ciò che affermai nell’epistola con cui dedicai ai vostri predecessori gli Adversaria Anatomica Sexta,
o padri illustrissimi, quarantatré anni fa, che se Dio, elargitore di tutti i beni, mi avesse concesso a
sufficienza e la vita e le forze, ci sarebbe stato forse chi mi avesse stimato avere avuto qualche
risultato nell’anatomia e non essere stato l’ultimo di tutti anche se fornito di nessun altro ausilio che
la fatica e l’impegno, ora, rileggendolo, grato riconosco che la Divina Beneficienza mi ha dato
abbastanza forze e più che abbastanza di vita, ma non so e, se lo sapessi, non ardirei dirlo, ho
compiuto ciononostante qualcosa di degno della nostra Città. Questo so: non mi sono mai distratto,
neppure nelle ore di tempo libero, dallo studio dell’anatomia a meno che non dovessi rispondere ad
amici eruditi che mi chiedevano qualcosa d’altro o la fervida calura estiva mi trattenesse dal fare
autopsie sui cadaveri. In quel tempo dell’anno non muovendomi neppure una volta da qui, mi
sembrava esaltassi l’aspetto della patria carissima e delle città vicine per consumare quel che mi
restava dell’ozio in un’investigazione ulteriore di quelle cose su cui già avevo scritto due epistole a
Padova. Così, ne ho scritte altre dodici presso di voi o piuttosto le ho buttate giù, sperando, che mi
sarebbe stato dato il tempo di rivederle semmai, come avevo deciso, sarei potuto tornare da Voi, così
da finire i miei ultimi anni lì dove avevo passato i primi. Ora, poiché, però, oltre alla vecchiaia
avanzata e alla salute cagionevole, non una sola causa, per altro a voi notissima, mi ha costretto a
cambiare i miei piani, vi invio queste stesse Epistole almeno scritte per me così come sono. Infatti,
oltre alla prima e alla seconda non le ho rilette, perché sapevo che avrei potuto portare a compimento
lì alcune cose ed altre su cui avevo dubbi se non facendo indagini ed informandomi principalmente
sulla nostra città, ma anche su quelle vicine. Ma i Dotti e gli esperti di storia e dei luoghi sia nostrani
sia d’altre parti dell’Emilia — è mia opinione — compiranno ciò che io non ho potuto tanto più di
buon grado quando riconosceranno che in nessun modo ho attribuito alla patria più di quanto sia
vero di quanto poté essermi noto. Infatti, autentico amor di Patria non è attribuirle false, ma vere
lodi: amore che se è vi è parso chiaro da me profuso sia in presenza che in assenza in altre cose
ovunque e comunque mi sia stato permesso, vi prego, o padri illustrissimi, di voler accettare
benignamente quest’estrema testimonianza di animo ossequioso e grato verso di Voi e volere
abbracciare con quella stessa umanità di sempre anche i miei. Saluti. (Morgagni, 1931, pp. 3-4).
Scritta a ben 43 anni di distanza dalla dedica degli Adversaria Anatomica Sexta alla fine
del suo percorso scientifico e pubblico, quando ormai la preoccupazione principale è la
pubblicazione della sua Opera Omnia e l’acquisizione di uno status di benemerito presso i
suoi concittadini, volta anche ad assicurare oltre alla posizione sociale sua anche quella dei
suoi familiari, la dedica premessa alle Aemilianae è un vero programma politico culturale.
Oltre a ribadire il suo amor di patria indiscusso per la città di Forlì e a rivendicare i suoi
meriti scientifici, propone la figura di sé come cittadino modello, che distrae tempo prezioso
alle sue occupazioni (la professione, la docenza e lo studio) per servire la propria comunità
con le sue ricerche storiche, contributo essenziale alla sua fama e vero e proprio dovere
civico.
Evento fondamentale nella vita di Giovanni Battista Morgagni, infatti, è stato senza dubbio
l’iscrizione al Patriziato forlivese, le cui lunghe e complesse fasi sono ripercorse in questo
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libro da Anna Rosa Bambi. Ora, un patrizio pur godendo di tanti e diversi privilegi ha
almeno un obbligo di un certo rilievo: dare lustro alla propria città e Morgagni lo fa prima
ampiamente con la sua opera e la sua rinomanza scientifica internazionale quale princeps
anatomicorum, poi, con le Epistolae Aemilianae stesse. La città di Forlì non poté che riconoscere
questi meriti, e lo fece, commissionando un busto del Morgagni, ancora vivente, collocato
poi nel 1863, sopra la porta di ingresso della Sala Grande del Pubblico Palazzo, con
un’iscrizione solenne, decretandone così la definitiva ascrizione, al pantheon delle glorie
cittadine.
Fonti e bibliografia
Le Epistolae Aemiliane furono incluse negli Opuscula Miscellanea editi nel quinto volume
dell’Opera Omnia di G. B. Morgagni, pubblicata a Venezia da Remondini nel 1764.
Nel 1931 vennero ristampate a San Marino dalle Arti Grafiche di Filippo della Balda per il
Comune di Forlì con il titolo Epistolae Aemiliane Quattuordecim Historico - Criticae De
Antiquitatibus et Geographia non modicae partis Provinciae Aemiliae, l’introduzione di Paolo
Amaducci, la cura e una nota bibliografica di Augusto Campana. A questa edizione si è fatto
riferimento nelle citazioni di questo saggio. Sempre nel 1931 ne venne edita la prima
traduzione in italiano, opera di Ignazio Bernardini, a Forlì, dalla Poligrafica Romagnola. Su
questo testo vedi anche: C. Versari Camillo, Sei discorsi consacrati alla vita, alle opere, allo elogio,
alle onoranze, alla sapienza filologica, filosofica e medica di Giambattista Morgagni, letti ed offerti
dal prof. cav. Camillo Versari alla illustre Società Medico-Chirurgica di Bologna, Bologna 1872, pp.
11-12; E. Bottini Massa, Giambattista Morgagni e i suoi rapporti con la patria, in Forum Livii, III
(1928), pp. 3-12; A. Pasini, Un incarico letterario a G.B. Morgagni, in La Piê, XVIII (1949), pp.
;M. Nicolini, G.B. Morgagni, le epistole emiliane e Marino Moretti, in La Piê, XVIII (1949), pp. ;
A. Spallicci, “Epistole Emiliane” di G. B. Morgagni, in La Piê, XL (1971), pp. 94-100 e M. Feo,
Filologia e storia: Augusto Campana e l’edizione delle Epistolae Aemilianae di Giambattista
Morgagni, in Ecdotica, 2005, pp. 163-169.
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