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La Giustizia dal Medioevo al XIX Secolo

Strumenti di tortura (in parte autentici e in parte riprodotti) testimoniano la crudeltà delle antiche pratiche punitive basate sull’uso della
tortura e del supplizio capitale.

Tra i reperti esposti in questa prima sezione si segnalano alcune gogne, il banco di fustigazione, l’ascia per la decapitazione, la spada di
giustizia utilizzata per la decapitazione di Beatrice Cenci nel 1599, la riproduzione della “Vergine di Norimberga”, il collare spinato.

La sedia di tortura, detta “ungherese”, di cui il museo possiede una riproduzione, rappresenta uno degli innumerevoli strumenti
inquisitori utilizzati nei secoli XVI e XVII per ottenere la confessione di donne accusate di stregoneria. La “briglia delle comari”, reperto
autentico, rinvenuto nel fiume Adda, nel comune di Pizzighettone, è una maschera di ferro che veniva applicata sul volto di donne
accusate di maldicenza e calunnia. Scudisci, fruste, un’ampia raccolta di catene (ferri) utilizzate per punire, contenere o trasportare i
condannati ai lavori forzati testimoniano la crudele condizione dei famigerati bagni penali dell’Ottocento.

La sala dedicata alla giustizia sul finire del Settecento e nell’Ottocento (che chiude il percorso del piano terra) ospita il mantello rosso
che Mastro Titta, al secolo Giovan Battista Bugatti, boia del papa, indossava in occasione delle esecuzioni in piazza; una forca
proveniente da Alba; tre ghigliottine, tra queste la ghigliottina che era innalzata in Piazza del Popolo a Roma e che funzionò fino al
1869; gli oggetti che l’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato utilizzava per il conforto dei condannati a morte: “bussole” per la
raccolta delle elemosine, la veste del confortatore che aveva il compito di prendersi cura dell’anima del condannato a morte, gli
stendardi con i crocifissi che venivano innalzati durante il corteo che conduceva il condannato al patibolo e i bicchieri di zinco dal quale il
condannato beveva l’ultimo sorso di vino prima del taglio della testa.

Il boia: una figura ai confini col sacro


Voglio parlarvi di una figura che oggi nella gran parte del mondo occidentale è sparita, ma che ha
lasciato dietro di sé ricordi e saperi troppo preziosi per essere dimenticati: la figura del boia.

Il boia è una di quelle figure che si tramandano dall'inizio della storia dell'uomo, fin dai primi
agglomerati sociali infatti si contraddistingueva una figura che aveva il monopolio dell'esecuzione
delle punizioni, figura -è giusto notarlo- che era sempre scissa da quella del giudice che comminava
la pena. Ma quello di cui voglio parlarvi è il boia nel nostro occidente a partire dal Medioevo delle
monarchie nazionali, infatti è in quest epoca che la figura del nostro si delinea, assume le
caratteristiche e i privilegi con cui il folklore ce lo tramanda.

Entrare nel ruolo: il boia diventava tale per nomina diretta del re, o in sostituzione di questo, della
capo della comunità, una volta conferita la carica, questa era vita natural durante e poteva essere
abbandonata solo con la morte: la carica di boia era ereditaria e passava di padre in figlio, nel caso il
boia non avesse figli, la carica passava al parente maschio più vicino... la cosa interessante è che
l'ereditarietà di tale carica non venne soppressa nemmeno con l'abolizione dei censi, che vietava
ogni passaggio di mestiere pubblico fra parenti -questo sia in Francia, che in Spagna che in
Germania-.

l'abbigliamento: scarpe nero lucide, rendigote e parrucca, il boia indossa la stessa veste del re
nell'esecuzione delle sue mansioni, rappresentando la lunga mano del monarca sul corpo del reo.

L'abitazione: le regole a cui era sottoposto il boia per quanto riguarda la sua abitazione erano ferree:
in Spagna era l'unica a dover essere pitturata completamente di rosso, in Francia e Germania era
posta sempre al di fuori delle mura cittadine accanto al bordello e all'obitorio.

Orario di lavoro: la prima esecuzione del boia avveniva sempre all'alba, era sempre pubblica -tranne
rare occasioni per motivi di ordine pubblico-, e si concludeva in mattinata. Il boia era anche addetto
alla tortura ovviamente, e questa lo occupava fino al tramonto, momento in cui finiva il suo orario
giornaliero. All'abolizione della tortura, il lavoro del boia si decurtò tanto da non occupargli più di
poche ore la mattina.

Retribuzione: il boia veniva retribuito in varie maniere: stipendiato dal tribunale, aveva anche diritto
sugli introiti dei bordelli, aveva palazzine proprie fuori città che poteva affittare anonimamente (ma
se il contraente scopriva che il padrone di casa era boia, poteva rescindere il contratto senza pagar
penale), aveva percentuali anche sulle merci esposte sui banchi dei pegni -Germania, Francia-.
Divieti: al boia era vietato entrare in luoghi pubblici, prendere l'ostia senza guanti neri, girare per le
strade senza segni di riconoscimento (cappello nero a tubo, stemma con mannaia, ecc)

Privilegi: al boia dopo l'esecuzione passava la proprietà del corpo del reo, che veniva di solito
venduto agli obitori o alle università, oppure "lavorato" dal nostro che ne estraeva grassi, filtri,
succhi che avevano varie "poteri", sia come filtri d'amore che come veleni. In Francia il boia aveva
diritto a mettersi in testa alle processioni religiose e anche quello di celebrare matrimoni, nel caso la
Chiesa o i genitori della coppia fossero contrari. Il boia poteva anche esercitare legalmente la
funzione di medico -Germania, Spagna, Filandia-, quando gli ambienti accademici avevano
dichiarato incurabile il caso; era esentato insieme ai suoi figli dal servizio militare.

Status sociale: il boia era il "reietto" per eccellenza, insieme al becchino e al fabbricante di casse da
morto, veniva riconosciuto un sapere sulla morte che lo rendeva un "contaminato", da non toccare
né da guardare pena la morte stessa. Al boia era difficile trovare moglie, poiché nessuna donna era
disposta a condividerne l'emarginazione, sebbene il nostro possedesse consistenti ricchezze
derivanti dalla sua attività, allo stesso modo i suoi figli venivano ghetizzati e allontanati dalla
comunità fin da piccoli.
Nonostante il boia fosse un lavoro legale, riconosciuto e che riceveva onoreficienze pubbliche (il
boia come i nobili, aveva lo stemma di famiglia), il suo nome era innominabile all'interno
dell'apparato statale, tanto che il suo stipendio passava sotto la voce "spese straordinarie" o "spese
speciali", e non aveva alcun contratto di assunzione (questo è tanto più paradossale perché continua
ancora oggi, ad esempio in Turchia o negli Stati Uniti!).
Il desiderio di vendicarsi e di fare giustizia attraversa la nostra storia. Fin dalla notte dei tempi, infatti, l'uomo ha
sentito il bisogno di ricevere riparazioni ad un atto ingiusto ricevuto (delitto, ingiuria, offesa, oltraggio, sopruso,
angheria), in misura equivalente al torto subito. Il concetto di pena, tuttavia, è mutato nel corso dei secoli:
dapprima, la pena fu considerata esclusivamente come punizione necessaria per un misfatto, successivamente
come metodo per il recupero sociale di chi commette un crimine.
Se, inizialmente, la "punizione" per un misfatto era per lo più un sentimento di vendetta, applicato generalmente
in modo abbastanza soggettivo e arbitrario, con l'istituzione della società e delle autorità politiche nasce il
concetto di pena legato alle regole che gli uomini si danno.
La pena si presenta innanzi tutto come "legge del taglione", secondo cui è giusto infliggere al reo lo stesso
male da questi provocato.
La "pena del taglione" è un principio di diritto consistente nella possibilità riconosciuta, ad una persona che
riceve un'offesa, di infliggere all'offensore una pena uguale all'offesa ricevuta. Tagliare la mano ad un ladro, la
lingua allo spergiuro e giustiziare l'assassino erano pratiche quotidiane che non erano discusse o criticate.
Sebbene la formalizzazione della legge del taglione sia spesso accostata alla Bibbia, ilprincipio è in realtà
ancor più antico, poiché se ne ha una codificazione nel Codice di Hammurabi (una raccolta di leggi stilate
durante il regno del re babilonese Hammü-Rabi, che regnò dal 1792 al 1750 avanti Cristo). Già presso i
Babilonesi, dunque, la pena per i vari reati è spesso identica al torto o al danno provocato.
La più celebre citazione della legge del taglione la ritroviamo nella Bibbia: «Colui che colpisce un uomo
causandone la morte, sarà messo a morte» (Esodo, XXI,12), «Occhio per occhio, dente per dente, mano per
mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido» (Esodo XXI, 24-25). Il
ricambio dell'offesa ricevuta entrata nella legislazione biblica, tuttavia, fu annullato e ribaltato dal Cristo: «Avete
inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti
percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu
lascia anche il mantello. [...] io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli
del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e
sopra gli ingiusti» (Matteo, V, 38-45).
Quando a Cristo fu chiesto il parere su un crimine per il quale era prevista la lapidazione, la sua risposta fu
quella di abolire tale punizione: «Chi si sente senza peccato, scagli la prima pietra» (l'episodio di riferisce alla
lapidazione dell'adultera - Giovanni, VIII, 7).
Le parole di Cristo saranno a loro volta ribaltate dai comportamenti che la Chiesa di Roma assumerà nel corso
dei secoli.
Anche il testo sacro per l'Islam, il Corano, fa riferimento al ricorso alla legge del taglione, tuttavia contiene
anche precetti miranti ad umanizzare i rapporti fra gli uomini.
Il principio del taglione fu utilizzato anche nel diritto romano del periodo arcaico, e molto più tardi nell'antico
diritto germanico.
Nell'antica Roma fu codificato nella "Legge delle XII Tavole" (V sec. a.C.). Nella Tabula I, si legge: Si membrum
rupsit, ni cum eo pacit, talio esto (liberamente traduco: "Se un tale romperà un membro a qualcuno, se non
interviene un accordo, si applichi la legge del taglione").
Ovviamente la legge del taglione prevedeva anche la pena di morte per l'assassino, ma - come vedremo - si
moriva anche per altri delitti. Anticipando, si può affermare che, nel corso dei secoli, la pena di morte è stata
considerata soprattutto un modo per mettere ordine.

Già presso le comunità preistoriche la pena di morte era presente come sanzione. Purtroppo, essendo le
leggi tramandate solo oralmente non sono giunte a noi testimonianze di codici penali scritti.
Nel passaggio dalle forme consuetudinarie del diritto alle codificazioni scritte, la pena di morte è prevista in tutti
i codici delle civiltà antiche.
Come già riferito, la prima raccolta di leggi in cui si descrivono le pene da comminare a chi infrange le regole, è
il Codice babilonese di Hammurabi. Presso i Babilonesi la pena di morte era una sanzione prevista, non solo
per l'omicidio, ma anche per i crimini come il furto, il sacrilegio e le mancanze nell'esecuzione del proprio lavoro
che portavano alla morte colposa.
Si legge nel Codice di Hammurabi: "Posto che un costruttore abbia edificato una casa, ma la sua opera non
abbia fatto salda e la casa che edificò sia crollata ed abbia ucciso il padrone della casa, questo costruttore sarà
ucciso". La gravità della colpa e della pena comminata, tuttavia, dipendevano dalla classe sociale a
cui appartenevano il colpevole e la vittima.
Anche presso gli Egizi, la pena capitale era applicata, oltre per coloro che
infrangevano la "Regola universale" (Maat) - tra cui offendere o attentare alla vita del faraone - anche per
La garrota
l'omicidio, il sacrilegio, il furto, lo spionaggio e le infrazioni fiscali. Le sentenze erano uguali per tutti, nobili e
plebei, ricchi e poveri. L'applicazione della pena capitale prevedeva spesso l'annegamento nel Nilo all'interno di
un sacco chiuso, oppure la decapitazione.
L'antica Grecia non si sottrasse alla pena capitale. Tuttavia, se molti la consideravano strettamente collegata
all'idea di giustizia (terrena e divina), altri preferirono superare quest'idea legata al semplice concetto di
punizione come vendetta, rivolgendo le attenzioni alle finalità educative (exemplum) verso l'insieme della
società.
Platone, ad esempio, credendo nella relazione proporzionale tra crimine e pena, e pur considerando l'utilità
delle pene per l'espiazione di una colpa del colpevole e per la prevenzione di ulteriori mali, preferiva far
comminare in maniera eccezionale e solo per reati gravissimi la pena capitale (crimini contro lo Stato,
assassinio premeditato, crimini gravi contro i genitori).
Pittaco (650 a. C. - ca 570 a.C.), divenuto uno dei sette savi di Grecia, usurpatore del potere a Sparta, perdonò
il poeta Alceo che aveva contro di lui cospirato ed ucciso suo figlio Tirreo, dicendo essere il perdonare più allo
Stato utile che il punire: "Il perdono è migliore della vendetta".
Nel mondo latino, almeno nei primi secoli, erano puniti con la morte solo i crimini considerati di pubblico
tradimento, mentre per i delitti privati si applicava la legge del taglione.
Da quanto si apprende dalla Legge delle XII Tavole, la pena capitale era eseguita mediante decapitazione,
fustigazione a morte, impiccagione, taglio degli arti, annegamento, rogo, sepoltura da vivi (specie per le vestali
che si macchiavano del reato di infedeltà). Per tutti coloro che non avevano la cittadinanza romana, invece, si
prescriveva la crocifissione. I primi cristiani, colpevoli di voler sovvertire l'ordine pubblico, furono destinati
invece ad una morte ancor più crudele: si preferì darli in pasto alle belve durante manifestazioni pubbliche.

Nel Medioevo europeo molti potevano comminare pene, anche quella capitale. Questo perché il sistema
feudale tipico del periodo fu caratterizzato da una grande sovrapposizione di poteri: il potere dello Stato era
certamente riconosciuto al re o all'imperatore, ma a questi si affiancavano sia i feudatari sia i magistrati
cittadini, investiti entrambi del compito di amministrare la giustizia. Accanto al potere politico, vi era tuttavia
anche quello religioso, molto influente sui poteri civili, tanto che quest'ultimi divennero spesso il braccio armato
della fede. Tutto questo determinò il frequente e discutibile utilizzo della pena di morte. Questa, che poteva
essere decretata anche per i reati di furto (oltre che per tradimento e sacrilegio), si eseguiva attraverso la
decapitazione, l'impiccagione, l'annegamento e tramite torture.
Anche la Chiesa di Roma non si sottrasse a questa pratica, assumendo la figura del giudice e demandando ai
poteri civili l'esecuzione.
Il cristianesimo alle sue origini fu una religione perseguitata, basti ricordare che il suo fondatore, il Cristo, subì
la pena capitale attraverso la crocifissione. Poiché contrastava con i poteri pubblici, il cristianesimo fu dichiarato
una religione strana et illicita (decreto senatoriale), exitialis (perniciosa, Tacito), prava et immodica (malvagia e
sfrenata, Plinio),nova et malefica (nuova e malefica, Svetonio), tenebrosa et lucifuga (oscura e nemica della
luce, dall'Octavius di Minucio), detestabilis (detestabile, Tacito), e i suoi seguaci furono messi a morte e spesso
dati in pasto alle belve.
A partire dal 313, con l'editto di tolleranza che pose fine alla persecuzione, la Chiesa si conquistò un posto
d'onore all'interno dell'impero, diventando finanche religione di Stato. Nel 315 fu decretata la pena di morte per
chi perseguitava gli ebrei convertiti (i cristiani) alla nuova religione dell'impero; in seguito la condanna iniziò ad
essere inflitta a chi, all'opposto, passava dal cristianesimo all'ebraismo.
Col passare del tempo, la stessa Chiesa prese posizione in materia di pena capitale,sposando essa stessa
pratiche abominevoli quali le torture e le esecuzioni nel periodo della Santa
Inquisizione. Ed ecco accendersi i roghi anche per chi solo si discostava dalle posizioni della Chiesa, sia sul
piano dogmatico sia su quello politico e scientifico, ecco accorrere migliaia di uomini al richiamo pontificio della
"Guerra santa" contro l'infedele, ecco comparire teorie che giustificavano sul piano teologico il ricorso
all'assassinio, vietato dal V Comandamento.
L'uso della pena capitale in ambito cristiano è stato legittimato dagli stessi padri della Chiesa, sant'Agostino e
san Tommaso d'Aquino, sulla base del principio della "conservazione del bene comune", in nome del quale
diveniva lecito uccidere singoli malfattori.
L'argomentazione di Tommaso d'Aquino (1225-1274), ad esempio, era la seguente: come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando una persona è divenuta un
pericolo per la comunità o è causa di corruzione degli altri, essa deve essere eliminata per garantire la salvezza
di tutta comunità (Summa theologiae II-II, 29, artt. 37-42). Il teologo, tuttavia, sosteneva che la pena andasse
inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti.
Anche Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) aveva sostenuto la liceità della pena di morte, arrivando a coniare il
termine "malicidio" (malicidium): pur restando degno d'amore in quanto uomo, un pagano ostile o un criminale,
quando non vi era altro mezzo per impedire il crimine che commetteva, poteva essere ucciso per estirpare il
male che era in lui.
La condanna capitale restò nella maggior parte degli ordinamenti giuridici europei fino alla fine del 1700.

Per tutto il Medioevo, sia in Europa sia in Medio Oriente, il tratto fondamentale delle esecuzioni capitali è
stato la spettacolarità: esse diventarono vere e proprie celebrazioni collettive dotate di una prorompente
scenografia con tanto di pubblico. Chiaramente queste manifestazioni servirono sia "vendicare" la società sia a
manifestare tutto il carattere terrorizzante ed esemplare dell'atto.
Tra i metodi di morte utilizzati nell'antichità e nel Medioevo troviamo quelli più semplici (impiccagione,
decapitazione, annegamento, lancio da un dirupo, lapidazione, crocifissione, rogo, sbranamento, sotterramento
o immersione, trafissione con frecce, morte per fame e sete, sparo di cannone) e quelli più complessi
(allungamento, bollitura, garrota, metodo del cavallo, letto incandescente, pressatura, posa del calderone,
metodo della vergine di ferro, morte da insetti, metodo del pendolo, scorticamento, ruota).
Tralasciando i metodi più semplici, i quali non hanno bisogno di spiegazioni, illustriamo invece quelli più
complessi che meglio interpretano la "fantasia" perversa che la legge aveva in questo periodo.
L'allungamento consisteva nel legare una persona ai polsi e alle caviglie con corde, che poi erano tirate da parti
opposte con argani (o bestie) fino al frazionamento del corpo.
Con la bollitura il condannato moriva in un calderone pieno d'acqua fatto bollire lentamente, al contrario con il
metodo del letto di ferro (o sedia) la vittima era lasciata morire gradualmente mentre il ferro sul quale
poggiavano si riscaldava fino all'incandescenza.
La Garrota consisteva in una panchina sulla quale veniva fatto sedere il condannato che si appoggia ad un palo
intorno al quale passa un cerchio di ferro che lo stringe alla gola; una manovella a vite stringe sempre di più il
cerchio finché sopravviene la morte per strangolamento, mentre un cuneo di ferro provoca la rottura delle
vertebre celebrali.
Si moriva anche per pressatura, ossia quando il condannato era posto fra due lastre di pietra e quella superiore
era caricata da pesi sino allo schiacciamento dello sfortunato.
Con il metodo del cavallo di legno, la vittima era posta a cavalcioni su una struttura a V, quindi erano posti dei
pesi ai suoi piedi affinché egli fosse tirato sino alla morte per divisione del corpo.
Ancor più crudele era la morte con il metodo del calderone. In pratica un recipiente di ferro era posto sullo
stomaco del reo con l'apertura in basso e pieno di topi, quindi era riscaldato e i roditori, per uscire, non
potevano fare altro che rosicchiare lo stomaco del condannato.
La vergine di ferro, invece, consisteva in una sorta di sarcofago di legno o ferro dalla forma femminile, vuoto da
dentro e riempito con chiodi. Dopo aver inserito all'interno il condannato, si chiudeva il portello e l'occupante
era trafitto dai chiodi o, come di diceva, era "abbracciato dalla vergine".
La morte da insetti era lunga e dolorosa, poiché il condannato era fissato al suolo e, dopo essere
cosparso di una sostanza dolce, era abbandonato per essere mangiato lentamente da insetti.
La morte col pendolo era una doppia violenza, fisica e psicologica, poiché il
condannato, che giaceva sulla schiena, vedeva scendere lentamente verso il suo corpo una lama mentre
Il rogo
ondeggiava come un pendolo.
Per quanto riguarda lo scorticamento, al condannato era tolta a strisce la pelle con svariati strumenti.
Il supplizio della ruota, infine, consisteva nel legare il condannato ad un cerchio esterno di una ruota, che era
fatta rotolare lungo un pendio spinato.
La Rivoluzione francese portò una novità: se fino ad allora le condanne differivano a seconda dell'estrazione
sociale, da ora in poi tutti divenivano uguali anche nel modo di morire. Così, su proposta di un medico francese,
Joseph-Ignace Guillotin (1738 - 1814), furono abolite le differenze di condanna con l'introduzione della
ghigliottina.
Contrariamente a quanto comunemente si crede, la ghigliottina non fu inventata dal dottor Guillotin, da cui il
nome. Si ha notizia di meccanismi somiglianti già dal Trecento in Irlanda e Inghilterra. In una stampa del 1307,
conservata presso il British Museum di Londra, è raffigurata infatti l'esecuzione di un certo Murdoc Ballag
attraverso un attrezzo simile all'attuale ghigliottina. Notizie di meccanismi con lama si hanno anche nel
Cinquecento nella Roma papalina.

Con il pensiero illuminista cominciò ad affacciarsi un ripensamento sulla validità della pena di morte: «Non è
dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della
nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non
essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Con questa dichiarazione d'intenti
inizia un lungo capitolo (il XXVIII) che il giurista Cesare Beccaria inserì nel suo pamphlet Dei delitti e delle
pene (1764), con lo scopo di dimostrare l'inefficacia della condanna capitale come mezzo di prevenzione del
crimine, ma anche la sua illegittimità sul piano giuridico. Argomentava Beccarla, a sostegno delle sue tesi, che
con questa pena lo Stato per punire un delitto ne commetteva uno a sua volta: «Parmi un assurdo che le leggi,
che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio».
La condanna di Beccaria, tuttavia, non fu espressa in termini assoluti: «La morte di un cittadino non può
credersi necessaria, che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e
tal potenza, che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione
pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di un cittadino divien dunque necessaria quando la
nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell'anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di
leggi». La seconda ragione, invece, si presenta «quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per
distogliere gli altri dal commettere delitti». Comunque il giurista italiano sosteneva di gran lunga la prigione a
vita anziché la pena capitale.
L'idea del Beccaria di sostituire la pena capitale con la prigione a vita piacque in particolare al granduca di
Toscana Leopoldo I, che nel 1786 abolì non solo la pena di morte ma anche la tortura (anche se la legge
rimase in vigore solo quattro anni, poiché lo stesso Leopoldo la reintrodusse contro "ribelli e sollevatori"). La
prima abolizione di fatto appartiene comunque alla piccola Repubblica di San Marino: l'ultima esecuzione
ufficiale risale al 1468, mentre l'abolizione definitiva fu sancita per legge nel 1865.
Nonostante il dibattito acceso da Beccaria, in Italia e fuori, il boia lavorò incessantemente fino alla fine del XVIII
secolo.
A partire dal XIX secolo, in numerosi Stati, prima Europei e poi in molti altri, la pena di morte fu abolita e
sostituita dal carcere a vita. Nell'ultimo secolo ed a tutt'oggi essa ha continuato e continua ad essere applicata
in prevalenza dai governi dittatoriali, come mezzo di eliminazione del dissenso, ma anche in Stati che si
dichiarano democratici come gli Stati Uniti d'America.

In Italia, tutti gli Stati preunitari (ad eccezione della Toscana) prevedevano la pena di morte, che nel 1889 fu
tuttavia abolita dall'ordinamento del Regno con l'approvazione quasi all'unanimità da parte di entrambe le
Camere del nuovo codice penale (durante il ministero di Giuseppe Zanardelli). La pena capitale restava però in
vigore nel codice penale militare e in quelli coloniali. Tuttavia, la pena di morte era stata de facto abolita grazie
al Decreto di amnistia del 18 gennaio 1878 di Umberto I di Savoia.
Con il fascismo, la pena di morte fu reintrodotta per i più gravi delitti politici contro lo Stato (1926)
e per quelli comuni (1930 - Codice Rocco). La sua abolizione, anche se non definitiva e totale,
arrivò con la caduta del fascismo: il decreto legislativo n. 159 del 27 luglio 1944 la sostituì con la
pena dell'ergastolo, pur conservandola per i reati fascisti e di collaborazione con i nazi-fascisti.
Il 10 maggio 1945 fu reintrodotta come misura temporanea ed eccezionale
solo per reati considerati gravi, come "partecipazione a banda armata", "rapina con uso di violenza" ed
"estorsione". Dal 1945 al 1947, anno della sua abolizione totale si contano ottantotto esecuzioni capitali.
L'ultima sentenza capitale fu eseguita 4 marzo 1947 alle 7.45 alle Basse di Stura vicino Torino: Francesco La
Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D'Ignoti furono fucilati perché colpevoli di strage a seguito di una rapina
avvenuta due anni prima in una cascina di Villarbasse (Torino), in cui dieci persone furono trucidate a bastonate
e gettate ancora vive in una cisterna.
Con la nuova Costituzione della Repubblica italiana del 27 dicembre 1947 la pena capitale è bandita, salvo che
nei casi previsti dalle leggi militari di guerra. All'articolo 27 si legge infatti: "Le pene non possono consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la
pena di morte". La Legge costituzionale 2 ottobre 2007, n. 1, ha eliminato definitivamente dall'ordinamento
italiano la pena di morte, anche dalle leggi militari di guerra (eliminazione peraltro già avvenuta in via ordinaria
con legge 13 ottobre 1994, n. 589).

Per quanto riguarda il piccolo Stato vaticano, la pena capitale non è prevista per alcun reato dal 1967, solo
il 12 febbraio 2001, su iniziativa di Giovanni Paolo II, è stata rimossa dalla Legge fondamentale della Città del
Vaticano. Dal Catechismo della Chiesa cattolica no!
Infatti, a tutt'oggi, il Catechismo della Chiesa cattolica (1997) parla della pena di morte all'interno della
trattazione sul quinto Comandamento, "Non uccidere", e più specificamente nel sottotitolo che tratta della
legittima difesa.
In questo contesto si legge al numero 2267: "L'insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il
pieno accertamento dell'identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando
questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani.
Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall'aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del
bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di
cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l'ha commesso,
senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
«sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti»".(l'ultimo paragrafo è un chiarimento
aggiunto da Giovanni Paolo II, ripreso dall'enciclica Evangelium vitae, 56: AAS 87 - 1995 - 464).
A primo acchito sembra che la Chiesa rispetti il V comandamento, "non uccidere", purtroppo non è così. Infatti,
quando si afferma che sono rari i casi "di assoluta necessità di soppressione del reo", si ammette che in
qualche caso la pena di morte è ammessa. Verrebbe da domandarsi: la Chiesa, attraverso il pontefice non ha
più volte ribadito il diritto alla vita, poiché essa è per i cristiani un dono di Dio, che è l'unico ad avere il diritto di
donarla e di toglierla?

Autunno del Medioevo

"Nel passato cerchiamo sempre le origini del nuovo e vogliamo sapere in che modo sorsero i
pensieri e le espressioni di una vita che si affermò pienamente in tempi successivi. Ogni epoca
desta in noi maggior interesse, quando troviamo una promessa del futuro. Basta pensare
infatti al fervore che ha accompagnato ogni indagine sulla civiltà del Medioevo nella speranza
di scoprirvi i germi della cultura moderna. [...] In questo libro noi abbiamo cercato di vedere
nei secoli XIV e XV non già gli albori del Rinascimento, ma il tramonto del Medioevo, quella che
è stata, nel suo ultimo periodo di vita, la civiltà medievale, fatta ormai simile a un albero
completamente sviluppato e carico di frutti troppo maturi."

Johan Huizinga

Nacque nel 1872 in Olanda, a Gröningen; già a scuola si appassionò alla storia ma i suoi primi
studi furono di linguistica: apprese l’ebraico, l’arabo, storia della linguistica; a Lipsia frequentò
lezioni di lituano, sanscrito e irlandese antico. Nel 1897, di ritorno a Groningen, discusse la tesi
di dottorato sul giullare di corte nel teatro sanscrito. Da questa data e per otto anni insegnò
storia presso la scuola media di Haarlem pur pubblicando contemporaneamente articoli di
letteratura e religione indiana. Nel 1903 divenne lettore di cultura e letteratura indiana antica
all’Università di Amsterdam, intanto i suoi studi prendevano un nuovo corso incentrandosi sulle
origini di Haarlem e tra i suoi interessi si affacciava una nuova e prepotente passione per la
pittura. Nel 1905, nominato finalmente professore di storia all’università di Gröningen, scelse
come argomento della lezione inaugurale l’elemento estetico delle rappresentazioni storiche,
dove la comprensione della storia viene definita come una evocazione di immagini. Come
sottolinea Haskell (1996), fu fondamentale per Huizinga, come per altri storici tra cui Max
Friedlander, la mostra Les Primitifs flamands et l’Art ancien tenutasi a Bruges nel 1902; sembrò
allora di poter rileggere la storia sotto un’altra luce e, scrive Huizinga, di considerare «il tardo
medioevo non come un preannunzio di ciò che verrà, ma come l’estinguersi di ciò che se ne
va». Fu soprattutto l’arte di Van Eyck a indurlo a riconsiderare la civiltà del rinascimento
fiammingo e queste teorie vennero esposte nel saggio L’arte dei Van Eyck nella vita del loro
tempo pubblicato nel 1916 e incorporato nel 1919 ne L’Autunno del Medioevo, originariamente
intitolato Nello specchio di Van Eyck. Nel saggio rifiutava la netta linea di demarcazione
tracciata da Burckhardt tra rinascimento e medioevo e partiva dallo stile dei Van Eyck
considerandolo il compiuto sviluppo dello spirito del tardo medioevo: il cosiddetto realismo
altro non era che una cura del dettaglio tale da porre tutto sullo stesso piano, misticismo e
materialismo, sacro e profano erano ridotti ad un sistema di rigide futilità tipico delle culture in
declino.

Il carattere innovativo del metodo di Huizinga risiede soprattutto nel valore e nel peso dato alle
immagini all’interno dell’indagine storica, sia nel suo studio più noto che nel successivo La
civiltà olandese del Seicento; questo valore è affermato più volte dallo stesso autore là dove
scrive: «La nostra capacità di percepire i tempi passati, il nostro organo storico, per così dire,
diventa sempre più marcatamente visivo» (Haskell 1966: 423).

L’autunno del Medioevo

Pubblicato ad Harlem nel 1919, il saggio Autunno del Medioevo. Studi su forme di vita e di
pensiero dei secoli quattordicesimo e quindicesimo in Francia e in Olanda dello storico olandese
Johan Huizinga può essere considerato come l’antitesi dell’assunto teorico di un’altra grande
pietra miliare della storiografia della cultura: La civiltà del Rinascimento in Italia di Jacob
Burckhardt. Se in quest’ultima opera il mito del rinascere di una nuova cultura sulle orme di
quella classica è il tema portante, che ha come corollario la ben distinta separazione epocale
nei confronti del medioevo e dell’affermazione di un uomo nuovo, faber fortunae suae, nel
saggio di Huizinga, che ha come campo d’indagine il mondo franco-borgognone del
Quattrocento, si enuncia la sostanziale continuità culturale tra l’autunno medievale e la
primavera rinascimentale: come dice l’autore stesso si “è cercato di vedere nei secoli XIV e XV
non già gli albori del Rinascimento, ma il tramonto del Medioevo, quello che è stata, nel suo
ultimo periodo di vita, la civiltà medievale, fatta ormai simile a un albero completamente
sviluppato e carico di frutti troppo maturi”. A distanza di decenni, le conclusioni di Huizinga
sono fortemente attaccabili, forse ancor più di quelle del suo illustre obiettivo polemico.
Tuttavia il fascino delle pagine di Autunno del Medioevo, oltre che nell’eccezionale efficacia
pittorica, sta proprio nell’aver individuato in quello scorcio di storia europea – ben in anticipo
sulle moderne metodologie d’indagine storiografica che poggiano sull’analisi dell’immaginario
antropologico – i meccanismi psicologici collettivi di un’epoca di tormentata transizione
culturale.

Un esempio della persistenza dei “toni crudi della vita” nel pieno del Quattrocento “umanista”
viene offerto in queste pagine, dove Huizinga ricorda l’efferatezza che accompagnava
comunemente ogni azione giudiziaria, e il grande successo popolare che riscuotevano tali
esibizioni di crudeltà.

Crudeltà e terrore nel tardo Medioevo

Ciò che ci colpisce nella crudeltà giudiziaria del tardo Medioevo, non è la perversità morbosa,
ma il gaudio bestiale e ottuso, il diletto da fiera che il popolo ci provava. I cittadini di Mons
comprano un capobanda di briganti a un prezzo altissimo per il solo piacere di vederlo
squartare, cosa “dont le peuple fust plus joyeulx que si un noveau corps sainct estoit
resuscité”. Nel 1488, durante la prigionia di Massimiliano a Bruges, l’aculeo è posto su un palco
nel mercato sotto gli occhi del re prigioniero, e il popolo non si sazia mai di veder torturare i
magistrati sospetti di tradimento e, quando essi supplicano di essere giustiziati, vi si oppone
per poter godere più a lungo delle loro torture.

Fino a quali estremi, per niente cristiani, giungesse proprio la mescolanza di fede e desiderio di
vendetta, lo dimostra la consuetudine dominante in Francia e in Inghilterra, di rifiutare ai
condannati a morte non solo il viatico, ma anche la confessione: non si volevano salvare le loro
anime; anzi, si voleva aggravare l’affanno mortale colla certezza delle pene infernali. Invano
papa Clemente V aveva prescritto nel 1311 di concedere almeno il sacramento della penitenza.
Filippo di Mézières, sognatore politico, insistette più volte per ottenerlo, prima presso Carlo V
di Francia, poi presso Carlo VI. Ma vi si oppose il cancelliere Pietro d’Orgemont, la cui “forte
cervelle”, dice Mézières, era più difficile a smuovere che una pietra da mulino; e Carlo V, quel
re savio e pacifico, dichiarò che in vita sua quella consuetudine rimarrebbe immutata. Solo
quando la voce di Giovanni Gerson si unì a quella di Mézières, con cinque considerazioni,
contro l’abuso, uscì l’editto imperiale del 12 febbraio 1397 che accordava la confessione al
condannato. Pietro di Craon, ai cui sforzi si doveva il decreto, fece erigere una croce di pietra
presso il patibolo di Parigi, sotto la quale i Frati Minori potevano assistere i malfattori. Ma
nemmeno allora la vecchia consuetudine scomparve del tutto; poco dopo il 1500 il vescovo di
Parigi, Stefano Ponchier, si vede obbligato a rinnovare l’ordine di Clemente V. Nel 1427 un
giovane cavaliere predatore è impiccato a Parigi. Al momento dell’esecuzione, un alto
funzionario, il gran tesoriere del reggente, viene a sfogare il suo odio sul condannato,
impedendo che gli sia concessa la confessione che domanda; insultandolo, sale sulla scala
dietro a lui, lo batte con un bastone e picchia anche il boia, poiché esortava la vittima a
pensare alla salute della sua anima. Il boia impaurito, si affretta troppo; il capestro si spezza, il
povero malfattore cade, si rompe le gambe e le costole e deve, in quelle condizioni, risalire la
scala.

Mancavano nel Medioevo tutti quei sentimenti che hanno reso timido e oscillante il nostro
concetto di giustizia: l’idea della semi-responsabilità, l’idea della fallibilità del giudice, la
coscienza che la società è corresponsabile dei misfatti del singolo, la questione se non val
meglio correggere il colpevole che farlo soffrire. O forse si dovrebbe dire: non mancava un
oscuro sentimento di ciò, ma si concentrava, non espresso, in un immediato impulso di
compassione e di perdono, che, indipendentemente dalla colpa, improvvisamente interrompeva
la crudele soddisfazione per il trionfo della giustizia. Laddove noi conosciamo delle pene ridotte
o inflitte con esitanza e quasi con cattiva coscienza, la giustizia medioevale non conosce che i
due estremi: la piena misura di una pena crudele o la grazia. E per concedere la grazia non ci
si domanda, come ora, se il colpevole meriti di essere graziato per ragioni speciali; ogni colpa,
anche la più palese, può essere, ad ogni momento, pienamente condonata. In pratica quei
condoni non erano sempre dovuti alla pura pietà: tante volte l’intervento di parenti influenti
procura “lettres de rémission” a un condannato, e i contemporanei lo raccontano con una
naturalezza che a noi reca meraviglia. Tuttavia la maggior parte di quelle lettere riguarda non
illustri violatori della legge, ma povera gente del popolo che non godeva di protezione in alto
luogo.

Il contrasto immediato fra crudeltà e compassione domina i costumi anche al di fuori


dell’amministrazione della giustizia. Da un lato s’incontra la più spietata inumanità verso i
bisognosi e gl’invalidi; dall’altro una tenerezza illimitata e un profondo sentimento di fraternità
verso i malati, i poveri, i dementi, simili a quelli che troviamo nella letteratura russa, e anche
ivi uniti alla crudeltà. Il piacere delle esecuzioni capitali è almeno accompagnato e fino a un
certo punto giustificato da un forte senso di giustizia finalmente soddisfatto. Nella incredibile,
ingenua durezza e insensibilità, nel crudele scherno, nella malignità con cui si considerano le
sventure dei poveri, manca anche quell’elemento. Il cronista Pietro di Fenin, narrando la
distruzione di una masnada di briganti, conclude colle parole: “et faisoit-on grant risée, pour ce
que c’estoient tous gens de povre estat”.

A Parigi si fa, nel 1425, un “esbatement” di quattro ciechi coperti di una corazza che
combattono per un maialino.

Velasquez ci ha tramandato le malinconiche facce di quelle nane che ancora al suo tempo
erano in onore alla Corte di Spagna. Esse rappresentavano un divertimento assai ricercato
nelle corti principesche del ’400. Negli artistici “entremets” delle grandi feste di corte
mettevano in mostra le loro arti e la loro deformità. Conosciutissima era Madame d’Or, la
bionda nana di Filippo di Borgogna; la faceano lottare coll’acrobata Hans. Alle feste di nozze di
Carlo il Temerario con Margherita di York nel 1468, Madame de Beaugrant, “la naine de
Mademoiselle de Bourgogne”, appare vestita da pastorella su un leone d’oro più grande di un
cavallo. Il leone apre e chiude la bocca e canta versetti di benvenuto. La pastorella è offerta in
dono alla giovane duchessa e messa sulla tavola.

Non conosciamo lamenti sulla sorte di quelle donnette, bensì partite contabili che ci dicono
qualcosa di più su di esse. Ci narrano come una duchessa mandasse a prendere una di quelle
nane dalla casa paterna, come il padre o la madre la conducesse, e come essi venissero anche
qualche volta a vederla, e ricevessero una mancia “au pere de Belon la folle, que estoit venu
veoir sa fille...”. Tornava a casa il padre ben lieto e onorato del servizio a corte di sua figlia? Nel
medesimo anno un magnano di Blois fornì due collari di ferro, uno “pour attacher Belon la folle
et l’autre pour mettre au col de la cingesse de Madame la Duchesse”.

Come si procedesse con i dementi, risulta dalla relazione sul trattamento fatto a Carlo VI, che,
essendo re, ebbe certamente delle cure ben diverse da quelle prodigate agli altri. Per cambiare
biancheria al povero folle non s’era trovato di meglio che di farlo spaventare da dodici uomini
tinti di nero, come se i diavoli venissero a prenderlo.

C’è tanta ingenuità nella durezza di cuore di quei tempi, che la condanna ci muore sulle labbra.
Sul più bello di un’epidemia di peste che funestava Parigi, i duchi di Borgogna e di Orléans
chiedono che si istituisca una corte d’amore a scopo di distrazione. Durante un intervallo dei
terribili eccidî degli Armagnacchi nel 1418, il popolo di Parigi fonda nella chiesa di
Sant’Eustachio, la confraternita di Sant’Andrea; preti e laici, tutti portano una corona di rose
rosse; la chiesa ne è piena e odora, “comme s’il fust lavé d’eau rose”. Quando finalmente i
processi contro le streghe, che nel 1461 avevano imperversato a Arras come un flagello
infernale, furono aboliti, la cittadinanza celebrò la vittoria del diritto con una gara di “folies
moralisées”: primo premio un giglio d’argento, quarto un paio di capponi; le tormentate
vittime erano già morte da un pezzo.

Così cruda e così variopinta era la vita, che essa poteva aspirare in un medesimo istante
l’odore di sangue e di rose. Il popolo, come un gigante dalla testa di bimbo, oscillava tra
angosce infernali e i più ingenui piaceri, fra una crudele durezza e una singhiozzante
tenerezza. Viveva sempre tra gli estremi: dalla completa rinunzia ai piaceri del mondo a un
attaccamento frenetico alla ricchezza e ai godimenti, dall’odio più cupo a una bonarietà
ridanciana.

Poco ci è rimasto del lato luminoso di quella vita: si direbbe che tutta la lieta dolcezza e
serenità dell’anima del ’400 si sia immersa nella sua pittura e cristallizzata nella trasparente
purezza della sua sublime musica. Spento è il riso di quelle generazioni; il suo naturale
attaccamento alla vita e la sua gioia incurante rimangono soltanto nella canzone popolare e
nella farsa. È sufficiente perché nella nostra nostalgia della bellezza di altri tempi si aggiunga
anche il desiderio del secolo soleggiato dei Van Eyck. Chi però studi a fondo quell’epoca riesce
soltanto a stento a tener fermo l’aspetto giocoso, perché al di fuori della sfera dell’arte regna il
buio. Nei minacciosi ammonimenti dei sermoni, negli stanchi gemiti della letteratura, nelle
monotone relazioni delle cronache e dei documenti, dappertutto grida il pittoresco peccato e
piange la miseria.

I tempi posteriori alla Riforma non hanno più visto i peccati capitali dell’orgoglio, dell’ira e
dell’avarizia nel sanguigno rigoglio e nella svergognata disinvoltura con cui andavano in giro tra
l’umanità del quindicesimo secolo. Quell’orgoglio smisurato di Borgogna! E tutta la storia di
quella stirpe, dal primo atto di bravura cavalleresca con cui si inizia la fortunata carriera del
primo Filippo, all’amara invidia di Giovanni senza Paura e al nero desiderio di vendetta dopo la
sua morte, al lungo splendore di quell’altro Magnifico, Filippo il Buono, fino alla pazza
caparbietà per cui perisce l’ambizioso Carlo il Temerario, non è tutta un’epopea di orgoglio
eroico? I loro paesi erano i più rigogliosi dell’Occidente: la Borgogna, grave di forza come il suo
vino, “la colérique Picardie”, la Fiandra ricca e golosa. Sono i medesimi paesi dove fioriscono in
tutto il loro splendore la pittura, la scultura e la musica e dove impera il più violento spirito di
vendetta e dove una barbarica prepotenza si sfoga liberamente fra i nobili come fra i borghesi.

Di nessun peccato si fu più coscienti a quei tempi quanto dell’“avarizia” o cupidigia. Orgoglio e
avarizia si possono contrapporre come il peccato del tempo antico e quello del tempo nuovo.
L’orgoglio è il peccato dell’epoca feudale e gerarchica, in cui i possessi e le ricchezze sono poco
mobili. Allora il potere non è ancora essenzialmente collegato colla ricchezza; è più personale,
e per essere riconosciuto deve manifestarsi con grande apparato: un numeroso seguito di
fedeli, ornamenti preziosi, un contegno pieno di sussiego. La coscienza di essere qualcosa di
più degli altri viene di continuo alimentata dal pensiero feudale e gerarchico mercé forme
espressive: omaggi e ossequi offerti in ginocchio, solenni prove d’onore, pompa maestosa,
tutte cose che fanno apparire quella superiorità come qualcosa di molto reale e di legittimo.

La superbia è un peccato simbolico e teologico; le sue radici si perdono nel terreno di tutte le
concezioni della realtà e della vita. Superbia era l’origine di ogni male; l’orgoglio di Lucifero il
principio e la causa di ogni perdizione. Così aveva giudicato Sant’Agostino e così si continuò a
credere: la superbia è la fonte di tutti gli altri peccati, è la radice e il tronco su cui essi
crescono. Ma accanto al passo biblico che appoggiava questa concezione: A superbia initium
sumpsit omnis perditio, ve n’era un altro: Radix omnium malorum est cupiditas. E riferendocisi
ad esso, si poteva anche considerare l’avarizia come la radice di ogni male; poiché per
cupiditas, che come tale non si trova nella serie dei peccati capitali, qui s’intendeva avaritia,
come era detto anche in un’altra lezione del testo. Sembra che, soprattutto dal secolo XIII in
poi, la convinzione che fosse la sfrenata avarizia a corrompere il mondo, abbia scacciato la
superbia dal suo posto di primo e più fatale dei peccati nella valutazione della gente. L’antico
primato teologico della superbia cede al sempre più forte coro di proteste, che imputano alla
sempre crescente avarizia tutta la nequizia dei tempi. Quanto non l’ha maledetta Dante: la
cieca cupidigia!

All’avarizia manca il carattere simbolico e teologico della superbia; essa è il peccato naturale e
materiale, un istinto puramente terrestre. È il peccato di un’epoca in cui la circolazione del
denaro ha trasformato e sconvolto le condizioni del potere. La valutazione della dignità umana
diventa un calcolo aritmetico. Un campo molto più vasto si è ora aperto alla soddisfazione dei
desideri sfrenati e all’accumulazione di ricchezze. E quelle ricchezze non hanno ancora la
spettrale impalpabilità che il credito moderno ha conferito al capitale: è ancora il giallo oro che
eccita la fantasia. E l’impiego del denaro non ancora ha il carattere automatico e meccanico del
continuo investimento dei capitali: la soddisfazione sta ancora tra gli estremi dell’avidità e dello
spreco. Nello spreco l’avarizia si sposa all’antico orgoglio: e questo era ancora più forte e vivo;
l’idea feudale e gerarchica non aveva ancora perduto nulla del suo splendore; la gioia del lusso
e della pompa, della sontuosità e magnificenza era ancora vermiglia.

Precisamente l’unione con l’orgoglio primitivo conferisce all’avidità o cupidigia del tardo
Medioevo quel tono di immediatezza e di passionalità, di esasperazione che i tempi più recenti
sembrano aver perduto completamente. Il Protestantesimo e il Rinascimento hanno dato
all’avarizia un contenuto etico, l’hanno legalizzata in quanto utile fattore di prosperità. Le sue
stigmate si attenuano a misura che la rinuncia a tutti beni terreni viene apprezzata con minor
convinzione. Nel tardo Medioevo, invece, imperava ancora l’insoluto contrasto fra l’avarizia
peccaminosa e la carità o la povertà volontaria.

Dappertutto risuonano, nella letteratura e nelle cronache di quell’epoca, l’amaro odio contro i
ricchi e il lamento per l’avarizia dei grandi: nel proverbio come nel pio trattato. Qualche volta
c’è come un vago presentimento della lotta di classe, che è in grado di esprimersi soltanto con
i mezzi dello sdegno morale. In questo campo i documenti possono darci, altrettanto bene
quanto le fonti narrative, l’esatta sensazione del tono della vita di quel tempo, poiché da tutti
gli atti dei processi trapela la più sfacciata avarizia.

Nel 1436 il servizio divino in una delle più frequentate chiese di Parigi fu interrotto per
ventidue giorni perché due mendicanti si erano azzuffati e un po’ di sangue aveva profanato la
chiesa; e il vescovo non voleva riconsacrarla prima che i mendicanti gli avessero consegnato
una certa somma, che i poveracci non avevano. Il vescovo, Giacomo du Châtelier, aveva la
reputazione di essere “ung homme très pompeux, convoicteux, plus mondain que son estat ne
requeroit”. Però, nel 1441 sotto il suo successore, Dionigi di Moulins, le cose erano al
medesimo punto: per quattro mesi non si poté né seppellire né far processioni nel cimitero
degli Innocenti, il più famoso e più ricercato di Parigi, perché il vescovo esigeva più di quanto
la chiesa potesse procurare. Questo vescovo era detto “homme très peu piteux à quelque
personne, s’il ne reçevoit argent ou aucun don qui le vaulsist, et pour vray on disoit qui’il avait
plus de cinquante procès en Parlement, car de lui n’avoit on rien sans procès”. Bisogna tener
dietro alla storia dei nuovi ricchi di quei tempi, di una famiglia d’Orgemont, ad esempio, in
tutta la bassezza della sua taccagneria e litigiosità, per capire l’odio violento del popolo, l’ira
dei predicatori e poeti che si sfogava continuamente contro i ricchi.

Il popolo non può capire la propria sorte e gli avvenimenti dell’epoca altro che come una
successione ininterrotta di malgoverno e di sfruttamento, di guerre e di saccheggi, di carestia,
miseria e pestilenza. Le forme croniche che la guerra soleva assumere, i torbidi continui nelle
città e nelle campagne provocati da ogni sorta di malfattori, la perpetua minaccia di una
giustizia dura e non degna di fiducia, e, in più, la paura opprimente dell’inferno, dei diavoli,
delle streghe, alimentavano un senso di generale insicurezza, che era fatto per dare uno
sfondo nero alla vita. Non soltanto la vita degli umili e dei poveri trascorreva nell’incertezza.
Anche in quella dei nobili e dei magistrati i più gravi cambiamenti di fortuna e i continui pericoli
sono quasi di regola. Matteo d’Escouchy, piccardo, è uno storico del genere che il ’400 ha
prodotto in grande quantità: la sua cronaca, semplice, esatta, imparziale, piena di rispetto per
l’ideale cavalleresco e imbevuta della tradizionale tendenza moralistica, ci fa pensare a un
onesto scrittore che abbia dedicato il suo talento a un coscienzioso lavoro storico. Invece, che
vita dell’autore ha rimesso in luce dai documenti l’editore di questa opera! Matteo d’Escouchy
inizia la sua carriera di magistrato come consigliere, scabino, giurato, prevosto della città di
Péronne fra gli anni 1440 e 1450. Sin dal principio lo troviamo coinvolto in una specie di faida
colla famiglia del procuratore della città, Giovanni Froment, faida che si svolge in una serie di
processi. Il procuratore procede contro d’Escouchy accusandolo ora di frode ora di assassinio,
ora di “excès et attemptaz”. A sua volta, il prevosto perseguita la vedova del suo nemico con
una inchiesta per stregoneria di cui essa era sospettata; ma la donna sa ottenere un mandato
che costringe d’Escouchy a rimettere la sua inchiesta nelle mani della giustizia. L’affare giunge
davanti al Parlamento di Parigi, e per la prima volta d’Escouchy conosce la prigione.

Sei volte ancora ve lo ritroviamo come accusato e una volta come prigioniero di guerra. Ogni
volta si tratta di giustizia penale e più di una volta è messo in catene. La gara di reciproche
accuse fra le due famiglie si fa più aspra fino a portare a una violenta zuffa, nella quale il figlio
di Froment lo ferisce. I due assoldano dei sicarî per insidiarsi a vicenda la vita. Quando
finalmente i documenti tacciono su questa lunga querela, ecco comparire altri guai. Questa
volta il prevosto è ferito da un frate. Seguono nuove lagnanze, poi nel 1461 d’Escouchy va a
stabilirsi a Nesles, a quanto sembra, perché sospettato di delitti. Ciò non gli impedisce però di
far carriera: diventa “bailli, prevôt” di Ribemont, “procureur du roi” a Saint-Quentin; è fatto
nobile. Dopo altri ferimenti, prigionie e ammende, lo troviamo militare; combatte nel 1465 per
il re a Montlhéry contro Carlo il Temerario, ed è fatto prigioniero. Torna da un’altra campagna
mutilato. Poi si sposa, ma ciò non significa affatto per lui l’inizio di una vita tranquilla. Lo
ritroviamo arrestato sotto l’accusa di contraffazione di sigilli e condotto a Parigi “comme larron
et murdrier”, implicato in una nuova faida con un magistrato di Compiègne, le cui azioni
doveva inquisire; sottoposto alla tortura confessa la sua colpa, non può ricorrere in appello, è
condannato, riabilitato e di nuovo condannato finché le tracce di quell’esistenza di odio e di
persecuzione scompaiono dagli atti.

Ogni volta che seguiamo le vicende di personaggi menzionati nelle fonti di quell’epoca, ci sorge
davanti una siffatta immagine di vita terribilmente agiata. Si leggano, per esempio, i particolari
che Pietro Champion ha raccolto sul conto di tutti coloro che sono nominati o ricordati da Villon
nel suo Testamento, o le annotazioni di Tuetey al giornale del Borghese di Parigi. Sono sempre
processi, delitti, liti e persecuzioni senza fine. E questa è la vita di gente qualunque, che vien
ricavata da atti giudiziari, ecclesiastici o da altri documenti. Le cronache come quella di
Giacomo du Clerq, una collezione di misfatti, o il diario di Filippo di Vigneulles, cittadino di
Metz, potrebbero forse darci un quadro troppo nero della loro epoca; e parimenti le “lettres de
rémission”, che ritraggono la vita di tutti i giorni con tanta vivacità ed esattezza, appunto
perché trattano di delitti, illuminano forse troppo esclusivamente i lati cattivi della vita. Ma
qualsiasi assaggio, fatto su materiale ordinario, non fa che confermare le più fosche idee.

È un mondo cattivo. Il fuoco dell’odio e della violenza divampa, l’ingiustizia è potente; il diavolo
copre colle sue ali nere una tetra terra. E l’umanità attende l’imminente fine d’ogni cosa. Ma gli
uomini non si convertono; la Chiesa combatte invano e invano gemono e ammoniscono
predicatori e poeti.

di Luigi G. de Anna
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Il boia nel Medioevo, un lavoro difficile e una fama tragica, secondo Hannele
Klemettilä

Si è da poco conclusa la Settimana della cucina rinascimentale, organizzata presso il


ristorante Sergio’s di Turku. A parte le ottime ricette preparate dallo chef Paco, ha fatto bella figura
la brochure illustrativa sulla cucina rinascimentale e secentesca, scritta da una delle più affermate
esperte finlandesi nel campo della medievistica, la dott.ssa Hannele Klemettilä, autore tra l’altro
proprio di un corposo volume sulla gastronomia medievale (Keskiajan keittiö, Jyväskylä, Atena,
2007). Hannele Klemettilä si è però affermata nel campo della medievistica internazionale con un
interessante lavoro che illustra, da un punto di vista di storia culturale, la figura del boia.

Esiste infatti nella storia della società europea, un personaggio che può essere considerato essere la
controparte del cavaliere. Quanto questo è nobile, tanto l'altro è laido, quanto più il cavaliere è
espressione di una cultura raffinata, tanto più costui è l'espressione della feccia dell'umanità.
Eppure è rispettato, utile e insostituibile. Costui è il boia, l'uomo che, con un colpo di spada, o con
la corda ben aggiustata può dare la morte o la sofferenza a chi è stato condannato.
Di questo personaggio, che così spesso incontriamo nella letteratura e nell'iconografia medievale,
in realtà si sa poco e quel poco è inficiato da stereotipi addirittura di origine cinematografica. Il
boia incappucciato, insomma, in sostanza non è esistito. Il boia ha però un nome, un cognome,
soprattutto una professione che lui considera essere onorevole e gli altri, non solo i giustiziandi,
disonorevole, seppur indispensabile.

Su questo personaggio gli storici si sono soffermati in maniera cursoria, lasciando alla fantasia
popolare il compito di costruire l'immagine del boia medievale. E la fantasia popolare non ha
mancato di distorcerne la natura e la funzione. Quella del boia è per forza di cose una delle figure
più tragiche della società medievale (e non solo di questa). Il sistema giudiziario ne impone la
funzione di esecutore delle pene capitali e delle torture decretate dai tribunali. Ed egli cerca di farlo
nella maniera professionalmente più efficiente. Appuntoprofessionalmente. Dalla sua abilità
dipende non la vita (come si direbbe per tante altre professioni, a cominciare da quella medica, con
la quale ha del resto relazione per via delle sue conoscenze dell'anatomia) ma la morte della
persona che gli viene affidata. E la morte deve essere inflitta secondo criteri che sono stati
precedentemente prestabiliti. Può essere rapida, come nel caso della decapitazione dei nobili
nemici del potere che li ha condannati, oppure lenta e dolorosa, come nel caso dei traditori del
medesimo. E se il boia fallisce, rischia lui stesso di essere messo al posto di colui che ha fatto
morire troppo dolorosamente o troppo rapidamente. Mestiere pericoloso dunque il suo, che si
apprende dopo un lungo tirocinio, ecco perché la professione del boia si tramanda di padre in
figlio, come qualsiasi altra scienza o conoscenza del mondo medievale. Si crea così quell'orgoglio
di casta, che contrasta con il disprezzo nutrito di chi ad essa non appartiene. Il boia deve eseguire
ciò che la società gli impone, ma della sua dedizione al potere da cui dipende egli pagherà un caro
prezzo.

Per meglio capire questo personaggio così complesso, possiamo oggi ricorrere acome dicevamo in
apertura allo studio diHannele Klemettilä (foto V.-M. Väärä) , presentato originariamente come
tesi di dottorato di ricerca (The Executioner in late Medieval French culture, Turun yliopisto, Turku
2003, 326 pp., pubblicato in finlandese come Keskiajan pyövelit, Jyväskylä, Atena, 2004.)
Si tratta di un lavoro di grande interesse, che meriterebbe di essere tradotto in italiano, non solo per
il tema trattato, abbiamo detto poco familiare alla storiografia contemporanea, ma anche per la
metodologia. Questa indubbiamente risale alle esperienze maturate dalla scuola della nouvelle
histoire, e cioè si basa su un'analisi accurata della mentalità dell'epoca, ma anche sullo studio
dettagliato delle fonti iconografiche, che vanno dalle miniature che accompagnano i
cosiddetti Libri delle ore (libri di preghiere spesso riccamente illustrati di esempi edificanti) ai
manoscritti, ai quadri che illustrano soprattutto le vite dei santi martirizzati. Il loro martirio infatti
segue i modelli della coeva tecnica di punizione capitale.

La "domanda" di boia aumenta nel medioevo col passare dei secoli, e questo è in relazione
all'"incivilimento" della società, il che è solo una apparente contraddizione, infatti alla primitiva
vendetta barbarica subentra la legge e di conseguenza la pena che essa determina. Il boia si assume
in sostanza il ruolo non soltanto pratico di giustiziere o di esecutore, ma anche di restauratore di
una giustizia violata. La sua figura aumenta dunque di importanza col passare dei secoli e sembra
raggiungere il suo apice tra XIV e XV secolo, come ci hanno indicato Jacques Delarue in Le
métier de bourreau du Moyen Age à aujourd'hui del 1979, oppure Christiane Raynaud in La
violence au Moyen Age del 1990, o Ruth Mellinkoff in Outcasts del 1993. E' quest'ultima a
ricordarci come il boia vada inserito nella categoria di quei marginali che produce la mentalità
medievale. La definizione di marginale è certamente la più appropriata, infatti il boia non è un
reietto, del tipo di quelli studiati da Bronislaw Geremek, dato che egli fa parte a tutti gli effetti della
società e da essa non viene espulso come avviene per i poveri, gli afflitti da certe malattie o per i
vagabondi.

La storia del sacrificio ci porterebbe lontano, ma alcuni suoi aspetti rientrano nello studio del personaggio di cui
stiamo scrivendo. Certe modalità di esecuzione sono infatti estremamente rivelatrici di un simbolismo che
permane al di là dei tempi pagani. Ad esempio ci sono modi dignitosi e modi offensivi di dare la morte. Quello
dignitoso discende appunto dalla tipologia esecuzionaria del sacrificio, che comprende sia lo spargimento di
sangue (la decapitazione) sia, in altri contesti, la sua negazione (il soffocamento ottenuto con vari mezzi). Da
una parte il sangue deve essere infatti sparso perché il sacrificio si compia, dall'altra esso, se nobile, non deve
essere diffuso. Hannele Klemettilä ci fornisce peraltro alcuni esempi di esecuzioni di nobili, sulle cui modalità
sarebbe interessante poter disporre di una più ampia documentazione, anche per quanto riguarda l'Italia, la cui
modalità di esecuzione variava a seconda del crimine per cui erano stati giudicati.

Esecuzione di Luigi XVI

Molti furono ovviamente i nobili che nel corso della storia subirono la pena capitale, basti pensare a Corradino
di Svevia, portato al supplizio dai francesi insieme ad altri giovani nobili ghibellini, come ci racconta Giovanni
Villani, con gran corteggio e pompa. Raramente infatti il re o la regina vengono uccisi senza questo rispetto per
il loro rango, e questo se chi ne ha ordinato la morte è un loro pari (ad esempio nel caso delle esecuzioni
nell’Inghilterra della Riforma), mentre se è la rivoluzione ad organizzarne l’esecuzione non mancheranno i
rimandi derisori, come nel caso del berretto frigio messo in capo a Luigi XVI.Ugualmente, intorno al morituro si
esercita un rituale che ha molti aspetti nobiliari, infatti nel mondo ispanico nasce la consuetudine di far
accompagnare il condannato a morte, di qualunque rango egli sia, dai rappresentanti di una confraternita
preposta proprio a questa funzione di consolare il condannato nel suo ultimo viaggio. In Sicilia abbiamo dunque
la Confraternita dei Bianchi, rigidamente nobiliare, ma a Palermo è presente anche una meno conosciuta
Confraternita degli Agonizzanti, cui concorrevano anche i non nobili. L’ammissione in queste Confraternite era
molto ambita ed era un innegabile segno di distinzione.

Ma poi le cose cambiarono. La rivoluzione francese fa della triste carretta il veicolo del dileggio e i sovrani e i
nobili vengono portati alla ghigliottina senza più quel contorno di ritualità sacrale che aveva sempre
accompagnato la morte del nobile, concedendogli un’ultima gratificazione. La ghigliottina diviene strumento
diegalité mortuaria, non ci sono più distinzioni nel modo di dare la morte per aristocratici o plebei. La
democrazia crea una morte unica e programmata. Il Terrore lascerà dunque la sua lunga scia di teste mozzate
segnando, anche in questo, l'inizio dei nuovi tempi. All’esecuzione individuale (anche se non mancano esempi
medievali di uccisioni di massa, ma si trattava della vendettapost pugnam, come nel caso dei Sassoni
sterminati da Carlo, non ancora Magno) si sostituirà quella di massa.

Le fosse di Katyn o le foibe carsiche possono essere elevate a simbolo di questa applicazione della morte
secondo ideologia, che quindi non bada tanto al singolo ma al numero di nemici da far sparire.

Oggi il boia, sventuratamente, esiste ancora. Negli Stati Uniti si è creata la morte che si ritiene più indolore
possibile. L'iniezione che prima addormenta e poi uccide. Tutto in un ambiente sterile, da sala operatoria di un
ospedale. C'era nel medioevo, nel tragico medioevo, questa grandezza della morte rituale. Oggi la società
uccide ancora, ma toglie al condannato l’unico privilegio che gli era concesso: la sua dignità di fronte alla
morte.

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