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Femminismo per il 99%.

Un
manifesto
written by Francesca Pignataro
Avevo circa 16 anni quando, grazie alla mia professoressa di storia, lessi il primo
saggio femminista della mia vita. Ricordo di aver concluso il libro, era “Dalla
parte delle bambine” di Elena Gianini Belotti, e di aver pensato: la lotta
femminista è una lotta etica e giusta, perché allora non siamo tutte femministe e
tutti femministi?

La mia era una domanda molto ingenua che appiattiva la questione della
subordinazione delle donne nella storia. Non mi rendevo conto che il problema
era rappresentato dal privilegio di alcuni a discapito di altre: gli uomini
storicamente trassero vantaggi dalla loro posizione di dominio e chi gode di un
privilegio difficilmente sceglie di rinunciarvi. Il movimento femminista punta al
raggiungimento della parità sociale, politica, giuridica ed economica tra i sessi,
ma questo cosa significa? Significa operare una ristrutturazione sociale per
ridistribuire equamente diritti, possibilità e risorse (materiali e simboliche) tra
uomini e donne. Un sogno per una parte della popolazione, un incubo per chi
rischierebbe di perdere una posizione comoda e vantaggiosa.

Il privilegio non è però rappresentato solo dal sesso – rigorosamente maschile –


esistono più tipologie di privilegio. Appartenere ad una classe sociale
economicamente agiata pone le donne e gli uomini che ne fanno parte in una
posizione di privilegio rispetto agli altri; è questa consapevolezza che denota una
forte linea di frattura tra femministe liberali e femministe marxiste. Il colore della
pelle e la provenienza geografica attribuiscono un ulteriore privilegio a chi nasce
bianco e, preferibilmente, nel “nord del mondo”, aspetto sottovalutato dalle
femministe liberali finché non emerse la corrente del black feminism.
Ma di che femminismo dovremmo allora occuparci? Di
quello che Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e
Nancy Fraser definiscono “femminismo per il
99%”. Le tre studiose, all’interno del loro manifesto,
pongono un’asprissima e provocatoria critica verso il
femminismo liberale che sposa il sistema sociale e di
produzione capitalistico. Il problema del capitalismo,
spiegano, è che esso «ha costruito una nuova e
moderna forma di sessismo, sostenuta da inedite
strutture istituzionali. La sua mossa chiave è stata
quella di separare la produzione delle persone dalla
produzione per il profitto, assegnando la prima
mansione alle donne e subordinando questa mansione all’altra», creando così una
gerarchia tra lavoro produttivo e riproduttivo. Il primo è appannaggio tipicamente
maschile ed è un lavoro salariato, il secondo è svolto dalle donne ed è totalmente
gratuito. Il primo coinvolge la sfera pubblica, il secolo relega in una dimensione
privata.

Aruzza, Bhattacharya e Fraser accusano il femminismo liberale di esser diventato


un’ancella del capitalismo. Oggi il problema del capitalismo è che «dopo aver
avvelenato l’atmosfera, irriso ogni pretesa democratica, teso fino al punto di
rottura le nostre società e degradato le condizioni di vita della vasta maggioranza,
questa forma di capitalismo ha alzato la posta in gioco per ogni lotta sociale,
trasformando ogni timido tentativo di conquistare riforme modeste in battaglie
all’ultimo sangue per la sopravvivenza». In quest’ottica, il femminismo
ancillare al capitalismo non può che essere un “femminismo dell’1%” che
si batte per il diritto di farsi avanti di un’esigua minoranza di donne. È il
femminismo che vuole portare le donne in posizioni di potere per occupare i posti
dove prima sedevano gli uomini, ignorando il 99% di donne che non è al potere o
non è interessata al potere. Questo è il femminismo della meritocrazia sopra la
parità e dell’illusione che il “merito” sia un concetto oggettivo. Il mito della
meritocrazia dimentica però, o fa finta di dimenticare, che esistono variabili socio-
economiche che pongono alcune donne in una posizione di privilegio rispetto alle
altre e, in virtù di questo privilegio, queste donne hanno più chance di emergere
sulle altre. Ma non è solo questo il problema.

Le donne bianche di classe medio-alta spesso si sono affrancate dall’obbligo del


lavoro riproduttivo e di cura esternalizzando la propria oppressione verso altre
donne, generalmente donne di classe economica più bassa e/o provenienti dal
“sud del mondo” dando vita a quella che Arlie Hochschild ha definito “global care
chain”. La sociologa si riferisce ad una serie di contatti personali attorno al
mondo basati sul lavoro di cura, che può essere pagato o meno. Insomma, la
liberazione delle donne bianche ed economicamente agiata passa così attraverso
lo sfruttamento delle donne più povere e razzializzate. Come nel capitalismo,
un’esigua minoranza rappresentata dai capitalisti sfruttava un cospicuo numero di
operai in nome del profitto; nel femminismo liberale dell’1% un esiguo numero di
donne sfrutta il restante 99% in virtù della propria emancipazione.

Ma allora qual è la proposta del femminismo per il 99% di Aruzza, Bhattacharya e


Fraser? È un femminismo marxiano attento alle questioni di classe, un
femminismo anticapitalista e antirazzista che fa propria la causa
ecologista. È un femminismo politicizzato ed internazionalizzato che fa dello
sciopero uno strumento di lotta. Aruzza, Bhattacharya e Fraser non sono solo tre
studiose e autrici del manifesto di cui abbiamo parlato, ma sono infatti state le
principali organizzatrici degli scioperi internazionali delle donne, che hanno reso
di nuovo l’otto marzo una giornata di rivendicazioni politiche, negli Stati Uniti.

Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser, Femminismo per il


99%. Un manifesto, Laterza, Bari 2019, pp. 96, euro 14

*Francesca Pignataro

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