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Fabio Roscalla
Nella sezione Scientifica Pavia University Press pubblica esclusivamente testi scientifici
valutati e approvati dal Comitato scientifico-editoriale.
L’autore è a disposizione degli aventi diritti con cui non abbia potuto comunicare,
per eventuali omissioni o inesattezze.
In copertina: elaborazione di immagini raffiguranti Demostene (incisione, Skara, Svezia, Collezione di ritratti
della Biblioteca della Diocesi e della Contea <https://creativecommons.org/licenses/by/4.0/legalcode>)
e Basilio Magno (icona, Monte Athos)
Printed in Italy
A Maria Cristina,
perché ne tragga qualche giovamento per la sua futura professione.
Sommario
Premessa................................................................................................................. 1
Abstracts.................................................................................................................. 131
Premessa
Solo poche parole, soprattutto per sgomberare il campo da possibili equivoci: le pagine
che seguono non contengono un’ennesima riconsiderazione generale sull’eikos, né tanto
meno un riesame di tematiche connesse al concetto di verosimile, da me affrontate in
anni ormai lontani (Roscalla 1989). Al riguardo sono stati prodotti, anche recentemente,
ottimi studi e quindi si rischierebbe solo di ribadire una volta di più il già noto, senza
considerare che indagini di questo tipo richiederebbero il concorso di più competenze.
L’obiettivo che mi sono proposto è più circoscritto. Mi interessava osservare da vicino il
funzionamento dell’eikos, come esso e alcune categorie logico-retoriche collegate siano
state concretamente impiegate in alcune tipologie di discorso. Il tribunale e il pulpito,
come recita il titolo, non indicano quindi il punto di partenza e di arrivo di una ricerca
lineare, ma rimandano solo ai due ambiti toccati, la cui lontananza, non solo cronologica,
già di per sé rivela la lunghissima durata e lo svariato impiego dell’eikos.
Ho privilegiato l’analisi dei testi, cercando di far parlare il più possibile loro. Tale
scelta mi ha permesso di avvicinare la pratica di composizione degli oratori, scoprendo
la forza ma anche la debolezza del verosimile, come esso, a seconda dei bisogni, possa
venire sfruttato nella sua qualità di potente strumento d’indagine pure in ambito scientifico,
ma anche come ne sia riconosciuta la connaturata fragilità, i limiti di una categoria che
descrive pur sempre un’approssimazione al vero, una copia della realtà. Ciò spiega perché,
soprattutto in ambito giuridico, l’eikos sia più ricorrente in certi tipi di processo, a supporto
di specifiche argomentazioni, sebbene mantenga una duttilità d’uso.
Il primo capitolo, riprendendo principalmente i testi della grande oratoria attica, li
rilegge in un’ottica particolare, offrendo – spero – elementi aggiuntivi per affrontare
anche problemi più generali, non da ultimo la natura dei discorsi antichi giunti fino a
noi, frutto dei vincoli e delle esigenze della reale pratica del processo, dell’assemblea
o del consiglio e della rielaborazione letteraria intervenuta nel momento della scrittura
e della pubblicazione. Il secondo capitolo si può dire che si sia formato quasi da solo
come una progressiva scoperta, costringendomi in territori per me inusuali, con tutti i
rischi connessi con l’esplorazione di zone sconosciute. Ho corso il pericolo. Certamente
molti aspetti sono sfuggiti e probabilmente parecchie tematiche non sono state neppure
intraviste, ma l’uso dell’eikos nell’oratoria cristiana e nella controparte coeva pagana
è così copioso che richiederebbe anche in questo caso un concorso di più specialisti;
rintracciarne tutti gli impieghi è impresa disperata. Ho praticato così alcuni ‘carotaggi’,
saggiando, per continuare la metafora archeologica, solo alcune ‘trincee’, lasciando
ad altri o ad altro momento lo scavo in esteso. Come nel primo capitolo, l’interesse è
stato rivolto principalmente ai testi, alle loro articolazioni argomentative. Ho limitato
qualsiasi discorso generale non fondato direttamente sui documenti e ho accennato solo,
anche per evidenti problemi di competenza, agli aspetti teologici connessi con le varie
2 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
argomentazioni. Sono però convinto che una rilettura della Patristica con l’attenzione
rivolta all’eikos può produrre risultati interessanti, non solo per l’ambito della retorica.
A differenza dei testi affrontati nel primo capitolo, quelli esplorati nel secondo non credo
siano altrettanto conosciuti; per di più non sono sempre di agevole reperibilità in edizioni
a stampa. Per questo ho abbondato nelle traduzioni, in particolare dei passi più ambigui,
e nella citazione del greco. Se ciò può appesantire la lettura, spero che consenta un più
agevole controllo ed una eventuale confutazione di quanto ho cercato di ricostruire.
Certo molto manca in questo volume, soprattutto, come si diceva, un’indagine
più accurata ed estesa dell’eikos in ambito cristiano. Parecchio è sfuggito dalla rete,
probabilmente anche di fondamentale, ma per questa parte ho cercato di privilegiare un
preciso filone, quello delle quaestiones e delle responsiones, che tanto risentirono della
retorica classica. Se pertanto per i testi dell’oratoria attica la ricerca è pressoché esaustiva,
lo stesso non si può dire per i documenti della nuova fede.
Particolarmente interessante infine, a proposito di eventuali completamenti, sarebbe
un’indagine di come oggi si sfrutti la categoria del verosimile nella pratica forense e nella
discussione dei contenuti teologico-dottrinari, aspetti sui quali non sono a conoscenza di
trattazioni specifiche.
Da ultimo, ma solo in ordine di esposizione, rivolgo un sentito ringraziamento a Gigi
Spina. Quando mi propose a Francesca Piazza per un saggio sull’eikos nell’oratoria in
vista di una raccolta di interventi poi confluiti nel volume Verità verosimili (Piazza, Di
Piazza 2012), ero tutto immerso in Senofonte e ben lontano da tali tematiche. Ho accettato
con entusiasmo. Ho accantonato, pensavo solo per poco, Senofonte e mi sono tuffato
a rileggermi i testi. Ma il lavoro mi è cresciuto tra le mani. Una redazione breve del
primo capitolo è parte del volume curato appunto da Francesca Piazza e Salvatore Di
Piazza (Roscalla 2012), che ringrazio anche per aver consentito la ripresa di quelle pagine
qui di molto ampliate; il secondo capitolo invece è il risultato delle carte raccolte anche
successivamente.
Ma un grazie tutto particolare va ancora, come sempre, più di sempre, a Diego Lanza.
La pensione, se lo ha allontanato da Pavia, non lo ha privato del piacere di seguire con la
stessa passione e con immutato coinvolgimento, sia pur da lontano, i vecchi amici, come
ama chiamarli lui, socraticamente restio ad arrogarsi qualsiasi etichetta di maestro, anche
se molti, ego quoque, si onorano di considerarsi immeritatamente suoi allievi. Se qualche
cosa di buono è contenuto in queste pagine, è certo anche merito loro.
Capitolo 1
Retori in azione
Estrapolata dal suo contesto – l’orazione Sull’ambasceria tradita contro il nemico di sempre
Eschine – l’affermazione di Demostene è, nella cruda considerazione sulla natura degli
uomini e sui loro numerosi espedienti escogitati per sfuggire ad una pena, una disincantata
ammissione dei limiti di qualsiasi verità giudiziaria e in definitiva della giustizia umana
di ogni luogo e tempo. È difficile, anzi impossibile, trovare un reo confesso; i processi
sono così, il più delle volte, la messa in scena di menzogne per oscurare i fatti, a cui
invece Demostene invita i giudici a prestare attenzione, per quanto essi possono esserne
stati direttamente partecipi, senza lasciarsi fuorviare neppure dai testimoni presentati
dalla parte avversa. Pretesti, mezze verità o aperte falsità stanno dunque alla base di
qualsiasi ricostruzione dei processi, ne costituiscono la linfa, insieme alle deposizioni,
spesso estorte a schiavi sotto tortura, nelle mani degli oratori che se ne servono con abilità
retorica per presentare un quadro favorevole, coerente e credibile, in grado di annientare
4 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
la controparte: ciò concorre a costituire il quadro di quello che il più delle volte definiamo
‘verosimile’, l’ambito dell’eikos, sebbene la categoria abbracci significati ben più ampi,
non riconducibili a una semplice vicinanza o adesione alla sfera del vero.
Le parole di Demostene, nel loro realismo, mettono in chiaro l’ambigua pericolosità
dell’eikos, in bilico tra verità e menzogna, tra pretesti e ragioni legittime, tra realtà e finzione.
Una precisazione, poco prima del passo citato, ne svela la natura. Demostene, anticipando
eventuali mosse dell’avversario, afferma che non è possibile che Eschine gli muova ora certe
accuse che prima non aveva mai avanzato: «eppure le dirà, e per Zeus anche in modo credibile
(kai; mh; Div ej ijkovtwı ge, 19, 215)». Non bisogna dunque – lascia intendere Demostene – che
i giudici si facciano fuorviare da un eijkw;ı lovgoı, la cui elaborazione diventa, a partire dal V
secolo, stando ai documenti a nostra disposizione, un momento fondamentale della pratica e
della riflessione retorica di qualsiasi oratore di dikanikoi; lovgoi, in particolare quando è alle
prese con un processo indiziario, dove le parti in causa hanno come fine non l’accertamento
del vero, ma l’affermazione nell’agon processuale.1 L’eikos non è garanzia di verità, ma solo
di persuasione, da cui però i giudici non dovrebbero farsi sopraffare.
Anche nella Roma repubblicana del I sec. a.C., in un contesto politico e giuridico
diverso, il verosimile ha un peso schiacciante. Se Demostene in un’accusa vuole mettere
in guardia i giudici contro le potenziali pericolosità insite nell’uso dell’eikos, un giovane
Cicerone, nella veste di difensore di Roscio Amerino, ne rimarca l’utilità, sottolineando
come non si debba dar libero corso ad accuse non costruite sul verosimile. Il verosimile
diventa garanzia di una corretta azione giuridica nella tutela degli interessi dello Stato e dei
singoli. Cicerone affida alla Pro Sesto Roscio Amerino (55 ss.) una riflessione di carattere
generale, sorprendente per chi è ancora alle prime armi. La difesa del suo assistito andava a
toccare molti uomini politici influenti e per questo l’oratore sente la necessità di affermare
come in una comunità sia utile la presenza di molti accusatori, perché con il timore sia
tenuta a freno l’audacia di chi aspira a prevaricare. Ci deve però essere una misura: non
bisogna farsi prendere in giro (illudamur) dagli accusatori, pur nell’accettazione che anche
chi non ha commesso alcun male non è esente dal sospetto (suspicione tamen non caret). Si
deve pertanto essere comprensivi con colui che muove accuse, anche se l’atto dell’accusa
in sé può apparire meschino, perché questo è l’unico modo per garantire la punizione di
un eventuale colpevole. È necessario comunque che l’accusatore abbia sempre qualche
elemento da presentare come indizio di un comportamento colpevole o sospetto (criminose
ac suspiciose dicere);2 solo così può dare l’impressione di non voler scientemente
prendersi gioco della corte e muovere semplici calunnie (ludificari et calumniari sciens).
1
Opportunamente fa notare Yunis (2005, pp. 196-197): «[…] the Greek word for a trial in court, agōn
(literally “competition”), was entirely apt: an Athenian trial was an all-out verbal contest between two
litigants vying to persuade a large audience of average, anonymous citizens to vote in their favor and
against the opponent».
2
Al sintagma Cicerone ricorre anche nel Brutus (131) a proposito di L. Cesuleno, menzionato subito di
seguito ad un altro noto accusator, M. Bruto, il quale, pur appartenendo ad un casato nobile e avendo un
padre eccellente, si dette a una tale infamante pratica, come se fosse una professione. Nessuno era abile
come Cesuleno, ascoltato direttamente da Cicerone, nel parlare in modo da suscitare più sospetti e una
maggiore convinzione di colpevolezza (suspiciosius aut criminosius diceret).
Capitolo 1. Retori in azione 5
In una comunità è comunque più utile che un innocente, dopo essere stato sottoposto a
giudizio, venga assolto, piuttosto che un colpevole non affronti un processo. Gli accusatori
sono quindi dei veri e propri guardiani della società e Cicerone li paragona alle oche e ai
cani del Campidoglio, allevati a spese pubbliche nel ricordo del loro comportamento in
occasione dell’invasione gallica. Allo stesso modo anche gli accusatori sono ricompensati,
ottenendo un quarto dei beni dei condannati, ma devono attaccare come i cani coloro che
lo meritano; questo sarà molto apprezzato dal popolo. È quindi concesso abbaiare anche
in presenza di un fondato sospetto (in suspicione latratote), quando ci saranno suffragate
ragioni per credere che qualcuno abbia commesso un’azione illecita (cum veri simile erit
aliquem commisisse). Il verosimile agisce da discrimine tra un atto infamante, censurabile
e vergognoso e un servizio utile per la comunità, garanzia di un controllo sociale:
Questo può essere concesso; se però muoverete un’accusa in modo da incolpare qualcuno dell’uccisione
del padre3 e non potete dire perché lo ha fatto (quare) o in che modo (quo modo) e abbaierete senza un
fondato sospetto, certo nessuno vi taglierà le gambe,4 ma, se conosco bene questi giudici, quella lettera
che a tal punto non vi piace che odiate anche tutte le Calende,5 ve la imprimeranno con tale forza sulla
fronte che in seguito non potrete accusare nessuno se non i vostri casi.
La riflessione di Cicerone esula dai confini contingenti del processo per Roscio e assume
risvolti più generali, investendo anche la sfera politica: il verosimile è ciò che distingue
il calunniatore di professione dal vero retore, che anche ricorrendo all’accusa si mette al
servizio della res publica. In mancanza di prove certe, la suspicio giustifica il procedimento
legale, ma deve essere sostenuta dalla presentazione del movente (quare) e dalla
ricostruzione dell’evento (quo modo), sempre rispondenti al plausibile. Solo per questa
via si può persuadere in modo costruttivo. La separazione tra accusator e calumniator
corre lungo il tenue filo del verosimile, tra una custodia vigile e un abbaiare inconcludente,
3
Ricordo che Roscio era accusato di parricidio.
4
La leggenda narra che le oche del Campidoglio salvarono Roma con il loro starnazzare, sostituendosi
ai cani che invece dormirono. Per questo motivo ogni anno si spezzavano le gambe ad alcuni cani,
crocifiggendoli.
5
La lettera è la C o la K (littera tristis), iniziale di condemno e di calumniator; la lettera A (iniziale di
absolvo) era detta invece salutaris. Alle Calende, la cui lettera iniziale è sempre la C, si dovevano pagare
gli interessi, quindi per i debitori erano dies tristes. L’uso d’imprimere la C sulla fronte dei calunniatori
era stata introdotta dalla lex Remmia, con molta probabilità in età sillana, intorno all’81 a.C., ma non
manca chi retrodata la norma al 91 a.C. Rispondeva alla necessità di limitare gli abusi dello ius accusandi.
Sebbene scarse siano le notizie in merito alla legge, si può credere che a giudicare sulla calunnia fosse lo
stesso organo che istituiva il processo principale e che il procedimento potesse avere inizio solo a seguito
dell’assoluzione dell’imputato. Se l’accusato avesse deciso di presentare istanza contro l’accusatore, questa
doveva essere inoltrata durante il processo principale e non dopo la conclusione. Sulla pena sono state
avanzate diverse ipotesi: oltre al marchio a fuoco della lettera, la privazione dello ius accusandi, l’infamia
o la pena stessa che sarebbe toccata all’imputato ingiustamente accusato. Probabilmente non si comminava
una singola pena. In particolare sul marchio della lettera è stata anche proposta un’interpretazione
simbolica dell’espressione ciceroniana ad caput adfigent. La lettera poteva essere inserita semplicemente
nella lista del pretore vicino al nome dei calunniatori riconosciuti. Sulla lex Remmia rimando ai lavori di
Camiñas (1984) e di Centola (1999), da cui ho tratto le informazioni qui presentate.
6 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
come era costume dei cani del popolo che, presenti certamente nel contesto della Pro
Roscio alla mente di Cicerone, affollavano le tribune di Atene.
I passi richiamati sono a loro modo emblematici, aiutando a circoscrivere alcuni ambiti
del verosimile, una categoria essenziale del processo, ma ambigua e pericolosa, che non
può aspirare da sola al raggiungimento della verità: è un’arma nelle mani dell’oratore,
che la può sfruttare per calunniare o per accusare, costruendo menzogne o producendo
elementi concreti per difendere la comunità da eventuali assalti di uomini privi di scrupolo,
di cui Roma pullulava alla fine della repubblica e anche oltre.
Ma lasciamo Roma e ritorniamo ad Atene. Un’analisi della categoria dell’eikos nell’ora-
toria ateniese, presupposto necessario per comprendere tutti gli ulteriori sviluppi anche fuori
della Grecia classica, non può oggi prescindere dalle osservazioni che Elisa Avezzú formulò
ormai più di vent’anni fa. Nonostante gli studi successivi dedicati all’argomento6 e sebbene
la sua indagine fosse condotta con una prospettiva molto mirata, cioè con l’attenzione rivolta
alle dinamiche tra il verosimile e il meraviglioso (thaumaston), le conclusioni allora raggiunte
si impongono ancora per la concisa precisione e per l’efficace formulazione:
[…] l’eikos sta a segnalare la ricostruzione di chi offre la propria immagine di sé, laddove il
thaumaston è proposto come immagine dell’avversario ed equivale a squalificarlo: riducendo
tutto al comune denominatore dell’eikos, le due parti si muovono proponendo un verosimile-
probabile che supera quello dell’avversario, e opponendo pertanto ad un eikos un eikoteron, al
‘probabile’ un ‘più probabile’. In tal modo vengono ad essere ambigui i confini che separano il
‘meno probabile’ dal thaumaston.
Così, eikos e thaumaston sono le due alternative, le uniche due, entro le quali si muove il giudice:
non accettare ciò che è mallon eikos significa trasgredire all’eikos in quanto tale e porsi in una
situazione di thaumaston di fronte alla città (Avezzú 1989, p. 25).7
Non c’è nulla da aggiungere a questa lucida sintesi. Non è quindi mia intenzione ribadire il
noto. Il mio scopo è quello di verificare come operativamente venga sfruttato l’eikos nella
costruzione dei discorsi e per questo è necessario un percorso paziente attraverso i testi,
prima di tentare di definire alcune tendenze generali e idee portanti. Può essere utile partire
da un passo conosciuto di un’orazione lisiana.
6
Non è possibile qui richiamare anche solo i principali studi dedicati all’eikos nei vari campi di
applicazione e in particolare nell’oratoria. Mi limito a citare per un quadro generale Butti de Lima (1996),
Schmitz (2000) e Hoffman (2008), lavori a cui rimando anche per ulteriori approfondimenti bibliografici.
7
Per un quadro sintetico sull’eikos nei vari campi di utilizzo cfr. Butti de Lima (1996, pp. 151-170).
8
Prova evidente di come la Contro Eratostene, come del resto tutte le altre orazioni, abbia subito una
rielaborazione prima della pubblicazione e abbia chiari intenti letterari, non essendo la riproposizione
Capitolo 1. Retori in azione 7
Eratostene, le torbide trame dei Trenta ai danni dei meteci per dimostrare l’infondatezza
della tesi difensiva.
Su un evento centrale della recente storia ateniese, su cui il dibattito doveva essere ancora
aperto e acceso, l’eikos diventa dunque, in mancanza di testimoni diretti, lo strumento
di persuasione privilegiato in possesso dell’oratore. Nello stringente ragionamento
lisiano, esso è la chiave che permette di penetrare nella riunione segreta dei Trenta,
aiuta a fornire la ricostruzione più logica e plausibile, contraddicendo la linea difensiva
di Eratostene, e nel contempo suggerisce il comportamento conveniente che i giudici
dovranno tenere per il bene della città, configurandosi come un potente catalizzatore di
fedele di quanto effettivamente pronunciato nel processo. La pratica dell’interrogatorio (erotesis) tra le
parti in causa era diffusa, cfr. Butti de Lima (1996, p. 24, n. 24), più comune di quanto sia riflesso nei testi
a nostra disposizione; si veda anche Todd (2002).
9
Seguo la proposta d’integrazione di Canter, poi generalmente accolta, sebbene sulla collocazione
dell’avverbio si possa discutere. Non è da escludere una sua posposizione in prossimità del verbo
all’infinito, in modo da negare quest’ultimo («a chi era verosimile che meno si desse l’ordine…»), come
avviene nella frase immediatamente successiva. Si creerebbe così una perfetta simmetria di costruzione e
ciò conferirebbe ancora più forza retorica alla categoria dell’eikos.
8 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
temi funzionali alla propaganda democratica. La traduzione del passo, in cui si rende
l’ambito dell’eikos ricorrendo sempre alla verosimiglianza, se da una parte permette
di cogliere il martellante impiego di tale termine, dall’altra non dà conto precisamente
della sua complessità semantica. L’eikos, oltre ad essere una categoria logico-retorica,
circoscrive una convenienza di condotta.10 Non è possibile, non è opportuno – conclude
Lisia – stare ad ascoltare le giustificazioni dei Trenta, in quanto, se sarebbe ammissibile
e comprensibile il perdono nel caso in cui in città ci fosse stato un potere più forte che
avesse imposto gli ordini – anzi un tale sentimento sarebbe in tal caso quasi lodevole –
ora, sulla base di come si sono sviluppati i fatti, ciò si rivelerebbe del tutto contrario al
costume del buon cittadino.11
In un processo dalle marcate ricadute politiche come quello mosso ad Eratostene,
l’eikos serve come forte manipolatore della pubblica opinione: è l’oratore a richiamare i
giusti sentimenti che la collettività, rappresentata dai giudici, deve nutrire nei confronti
della controparte. Non si abbia timore ad assecondare la richiesta di Lisia con il voto;
essa risponde a giustizia e a utilità e in tal modo chi segue gli inviti del retore assolve un
proprio dovere. L’eikos assume così un’altra importante valenza, creando una consonanza
tra accusa e giudici, nel riconoscimento dei valori comuni della democrazia e del buon
cittadino, espediente spesso sfruttato anche altrove da Lisia.12 «Noi non abbiamo voluto
tradire e crediamo neppure voi, se riflettete sul fatto che vi sdegnereste moltissimo con
noi e vi vendichereste quando sbagliassimo, come è conveniente (eijkovı) fare con chi
commette ingiustizia (27, 15)»: cosi è espresso nella Contro Epicrate, probabilmente
un funzionario accusato di furto e di corruzione (cfr. Medda 1995, vol. II, pp. 317-319).
10
Cfr. per esempio anche Lys. 1, 6, dove l’eikos segnala l’orizzonte di attesa al cui interno si deve
riportare un fatto o un comportamento. Nel passo Eufileto lega all’eikos le attenzioni e le cure riservate
alla moglie nei primi tempi del matrimonio. Per un dettagliato quadro riassuntivo, con ampia bibliografia,
sugli svariati usi dell’eikos nei vari ambiti con le diverse accezioni semantiche si veda l’introduzione
al volume da lei curato di Wohl (2014, pp. 1-14). Sullo sviluppo del verbo e[oika e delle forme ad esso
connesse, dal significato di ‘essere simile’ a quello di ‘essere verosimile/probabile’ cfr. Hoffman (2008).
11
Lisia nella Contro Eratostene ricorre all’eikos ancora all’interno della digressione dedicata al ritratto
di Teramene ‘coturno’. A seguito del governo di Teramene i fatti della città vanno diversamente rispetto
a quanto ci si poteva attendere ed era logico e conveniente che accadesse (perievsthken ou\n th/' povlei
toujnantivon h] wJı eijko;ı h\n, 64). Era giusto (a[xion) infatti che i fautori di Teramene morissero, eccetto
quelli che poi gli si opposero, mentre «ora vedo che ci si difende richiamandosi a lui e che quelli del suo
seguito cercano di ricevere onori, come se egli fosse stato causa di molti beni e non di grandi mali». In tal
caso l’eikos investe la convenienza di comportamento dell’intera città, non solo dei giudici.
12
In Lys. 3, 31 si trova l’espressione ‘compiere un’azione più folle di quanto è verosimile (ajnohtovterovn
ti poiei'n tw'n eijkovtwn)’, cioè fare qualche atto di pazzia che contravvenga quanto di solito avviene.
Si deduce che vi sono comportamenti considerati normali (ta; eijkovta): chi deroga, agisce contro ciò
che conviene alla città. Si veda anche Lys. 18, 17: «Se giovasse alla vostra parte che alcuni conservino
i loro beni, mentre ad altri sia confiscato ingiustamente il patrimonio, sarebbe comprensibile che voi
trascuriate le nostre parole (eijkovtwı a]n hjmelei'te tw'n uJf jhJmw'n legomevnwn). Ma ora tutti sareste
d’accordo nell’ammettere (pavnteı a]n oJmologevsaite) che la concordia è il bene più grande per la città,
mentre la guerra civile è causa di tutti i mali […]». Indirettamente si comprende come alla base della
determinazione di un comportamento rispondente all’eikos vi sia una condivisione di vedute («tutti
sareste d’accordo […]»).
Capitolo 1. Retori in azione 9
13
«Chi avremmo ragione di onorare (a]n eijkovtwı ma'llon timw/'men) più dei morti qui sepolti? (2, 76)».
14
Un caso chiaro si può riscontrare in Antiph. V 48. Si veda anche Isocr., De big. 14 e Ad Loch. 11-12.
15
Cfr. Dem. 36, 26.
10 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
di una persona solo perché ha buona fama e abilità retorica,16 di essere più benevoli nei
confronti di coloro che sono in pericolo e quindi hanno subìto un’accusa, prestando un
ascolto attento e silenzioso,17 di non perdonare coloro che sono andati contro le leggi,
chi ha perseverato nella malvagità, chi ha tradito e chi ha contravvenuto per denaro.18
Tra i Proemi demostenici, parti scritte per esordi o per sezioni di discorsi e che quindi
spesso raccolgono argomenti tipici facilmente adattabili per la loro genericità alle diverse
occasioni, si ricorda che, se è comprensibile (eijkovı ejstin) nutrire risentimento, visto
quello che si sta patendo, non è comprensibile né corretto (oujkevt jeijko;ı oujd jojrqw'ı e[con
ejstivn) prendersela indistintamente con tutti e non con chi è colpevole (38, 2). Sempre
nel Corpus demostenico si trova in apertura di orazione (50, 1) il richiamo a rivolgere
particolare cura a processi come quello che si sta celebrando perché, sebbene investa una
causa privata, il danno è pubblico; pertanto «come non sarebbe utile che su questi fatti voi
giudichiate correttamente dopo aver prestato ascolto? (pw'ı oujc uJpe;r touvtwn eijkovı ejstin
ajkouvsantaı uJma'ı ojrqw'ı diagnw'nai…)».19
All’interno di una tale casistica, che, come si nota, è molto variegata, esemplare è
l’orazione XIV di Lisia rivolta contro Alcibiade, il figlio del discusso statista, accusato di
essere passato dalla fanteria oplitica alla cavalleria senza aver superato il regolare esame.
Si tratta anche dell’occasione per esternare tutto l’odio nei confronti del padre. È giusto
(a[xion, 14, 23) – dice l’accusa – che i giudici ascoltino la malvagità di Alcibiade figlio
per sapere che non lo assolverebbero seguendo una giusta linea di condotta (eijkovtwı),
con la motivazione che nel caso specifico in esame si è sì macchiato di colpa, ma poi
in tutto il resto è stato integerrimo. Dalla rassegna dei suoi comportamenti risulterebbe
infatti meritevole secondo giustizia della condanna a morte (dikaivwı a]n aujtou' qavnaton
katayhfivzoisqe). Lisia sfrutta abilmente, qui come altrove, la contiguità tra dikaion
ed eikos,20 che definisce la correttezza di un comportamento non regolato da norme di
legge, ma che concorre comunque a formare il buon cittadino, il quale in tribunale deve
essere in grado di andare anche al di là della legge scritta. Ciò è tanto più vero in questo
processo, in cui l’oratore chiede ai giudici di non essere solo tali, ma di porsi anche come
16
Cfr. Dem. 52, 1.
17
Cfr. per es. Dem. 57, 1. Non manca però anche l’invito contrario, a seconda dell’opportunità di chi
parla: è giusto venire in aiuto all’accusa e nutrire un comprensibile odio (eijkovtwı a]n ojrgivzoisqe)
nei confronti della controparte (Dem. 40, 5). Per la richiesta di attenzione e di ascolto rispondente a
giustizia e a convenienza (eijkovtwı), cfr. anche Dem. 23, 4: chi parla afferma di non aver mai operato
per guadagnarsi la fiducia della gente. Nell’occasione vuole mettere in luce un fatto grave; se sarà
sostenuto e se sarà ascoltato attentamente, la situazione sarà salva e si infonderà coraggio a chi pensa
di poter fare del bene alla città. Sulle richieste e le modalità dell’ascolto si veda pure Dem. 18, 160; 19,
213; Antiph. V 4.
18
Cfr. Dem. 19, 302; 58, 24.
19
Per l’invito a tenere una certa condotta, ritenuta conveniente, all’interno del processo e a svolgere
determinate considerazioni in vista del verdetto si veda per esempio anche Lys. 30, 13.
20
Cfr. anche Dem. 18, 294. Nell’orazione Sulla corona Demostene afferma che, se si togliesse di mezzo
ogni menzogna e ogni parola detta per ostilità e si osservasse chi sono veramente (wJı ajlhqw'ı) coloro
sui quali tutti dovrebbero far ricadere verosimilmente e giustamente (eijkovtwı kai; dikaivwı) l’accusa
dell’accaduto, si scoprirebbe che si tratterebbe di persone simili a Eschine e non a Demostene.
Capitolo 1. Retori in azione 11
nomoqevtai (4), perché ogni loro decisione avrà ripercussioni su analoghi casi futuri,
farà insomma giurisprudenza.21 Per svolgere nel miglior modo questo compito, per non
assolvere Alcibiade contravvenendo all’eikos, è eikos (24) che i giudici, come ascoltano la
difesa, ascoltino anche l’accusa per vedere se riesce a mostrare le colpe degli imputati nei
confronti della comunità, senza tacere i mali degli antenati. Come si può notare, l’orazione
XIV sfrutta l’eikos a diversi livelli,22 richiamando la correttezza della procedura e la
convenienza di comportamento, ricordando alla giuria i propri doveri.23 È quanto attua
anche Demostene nella Contro Timocrate, in cui è riassunto in modo incisivo quello che
l’oratore definisce il carattere della città (to; th'ı povlewı h\qoı, 24, 171), che dovrebbe
essere incarnato anche da chi afferma di voler agire a vantaggio della collettività: esso
consiste nell’avere compassione dei deboli, nel non permettere la violenza ai forti e ai
potenti, nel non trattare con insolenza la moltitudine, adulando chi di volta in volta è
considerato potente. Come si vede, un vero codice etico presentato ai giudici in base al
quale essi dovrebbero molto più ragionevolmente e convenientemente (ma'llon…eijkovtwı)
condannare Timocrate che assolverlo.
All’eikos Lisia si affida ancora, a pochi anni di distanza dalla Contro Eratostene, in un
altro processo dai forti risvolti politici, legato com’è sempre alle vicende dei Trenta. Subito
in apertura di orazione, dunque in posizione particolarmente enfatica, l’accusa afferma
che Agorato «fece cose tali per le quali ora è comprensibilmente (eijkovtwı) odiato da me
e, se il dio lo vuole, da voi sarà giustamente (dikaivwı) punito (13, 1)». L’eikos arriva anche
qui a confinare con il dikaion, il primo individuando una convenienza di comportamento
imposta o consigliata a seconda dei casi dall’utile personale o collettivo,24 dal costume e
21
Il diritto attico non conosce comunque la giurisprudenza come è intesa oggi; cfr. Yunis (2005, p. 194):
«[…] one crucial difference between an Athenian trial and its modern counterpart gave rhetoric a scope
for operation in Athenian courts that is scarcely possible in a modern court of law. Athenian trials lacked
any mechanism for considering on the basis of norms derived from the law itself [corsivo dell’autore]
what the law was and what the law required in the case at hand. That is, Athenian trials were not informed
by the demands of jurisprudence, which might inhibit the litigants’ naked pursuit of victory by enforcing
adherence to independently established norms of law».
22
All’eikos si ricorre ancora a 14, 31 per sconfessare una possibile linea di condotta difensiva della controparte,
la quale potrebbe rimproverare agli Ateniesi un atteggiamento incoerente. Non sarebbe logico (eijkovı) che gli
Ateniesi abbiano ricompensato di doni Alcibiade padre di ritorno dall’esilio e che ora il figlio sia biasimato
per l’esilio di quello. Ma sarebbe tremendo (deinovn) – ribatte l’accusa – che, una volta compreso l’errore di
valutazione, gli Ateniesi abbiano tolto i doni ad Alcibiade e ora assolvano il figlio. Rientra in richiami di questo
tipo pure l’esortazione di Demostene della Contro Midia (37), in cui si mettono in guardia i giudici di fronte
alle strategie difensive dell’imputato, che tenterà di sfuggire alla punizione adducendo casi più gravi dei suoi:
«ma, signori ateniesi, mi sembra bene che voi vi comportiate ragionevolmente (poiei'n a]n eijkovtwı) in modo
contrario, se vi deve stare a cuore il meglio per la collettività».
23
Cfr. anche Lys. 7, 13: dopo un’affermazione che ha la forza di una massima (tutti gli uomini in casi
come quelli presentati nel dibattimento si comportano avendo di mira non il gusto di compiere un atto
violento, ma il proprio guadagno), il discorso ricorda come sia conveniente (eijkovı) che i giudici tengano
fisso questo metro di giudizio (ou{tw skopei'n) e allo stesso modo che gli avversari muovano accuse
secondo questo criterio, mostrando quale guadagno poteva derivare dal reato.
24
Il primo termine della Contro Agorato è proprio proshvkei: Lisia afferma subito come risulti nello
stesso tempo conveniente e spetti sia ai giudici sia all’accusatore vendicare coloro che sono morti per
12 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
Giudizio tradotto e riportato da Medda (1995, vol. II, p. 126) (orig. Fr. Blass [dargestellt von], Die
26
Attische Beredsamkeit, Erste Abtheilung, Von Gorgias bis zu Lysias, Leipzig, Teubner, 18872, p. 536).
14 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
suo peso nella strategia difensiva: qui l’argomentazione è ancora più labile, poco chiara,
non sempre coerente e del tutto mancante di prove, proprio quando se ne sentirebbe di
più il bisogno. Si affronta infatti il tema nevralgico: l’imputato cerca di giustificare per
quale motivo i beni di Aristofane e della famiglia siano risultati inferiori alle attese. A
tal fine egli stabilisce un’analogia tra questi ultimi e i beni del generale Conone (presso
il quale Nicofemo servì) e del figlio Timoteo. Due padri quindi e due figli a confronto:
Conone e Nicofemo da una parte, Timoteo e Aristofane dall’altra. La verosimiglianza
dell’argomentazione addotta parte da un periodo ipotetico irreale (34):
Ammettiamo che uno di voi abbia dato (ei[ tiı uJmw'n e[tuce douvı) la figlia o la sorella a Timoteo,
il figlio di Conone, e che in assenza di quest’ultimo, in seguito a calunnia, le sue sostanze fossero
state confiscate e che dopo una vendita totale la città non abbia ricavato neppure quattro talenti
d’argento; per questo riterreste giusto (hjxiou'te a[n) che anche i suoi parenti perissero, in quanto
non sarebbe risultata neppure una piccolissima parte degli averi che si riteneva in loro possesso?
Quanto si deduce dall’ipotesi irreale viene spostato sul piano della realtà, del sapere
condiviso da tutti; da qui scaturiscono le conclusioni verosimili, con un movimento tipico,
come si vedrà anche altrove, dell’argomentazione fondata sull’eikos:
Tutti sapete (pavnteı ejpivstasqe) che Conone era il comandante, mentre Nicofemo eseguiva i
suoi ordini. Dunque (ou\n) è verosimile (eijkovı) che Conone abbia lasciato solo una piccolissima
parte dei guadagni a qualcun altro, cosicché, se pensano che Nicofemo ne avesse molti,
dovrebbero ammettere che quelli di Conone siano stati più di dieci volte tanto. Inoltre (e[ti dev)
è evidente che essi (faivnontai) non hanno mai avuto contrasti, cosicché è verosimile (w{ste
eijkovı) che anche in tema di averi la pensassero allo stesso modo, cioè di lasciare qui il sufficiente
al figlio e di trattenere tutto il resto presso di loro. Conone aveva infatti a Cipro una moglie e un
figlio, Nicofemo una moglie e una figlia e ritenevano che i beni là fossero per loro al sicuro come
anche quelli che avevano qui ad Atene (35-36).27
Dall’irrealtà alla realtà, dal piano dell’ipotesi al verosimile, a quanto cade sotto gli occhi di
tutti: Lisia intreccia abilmente i piani del discorso, la cui concatenazione logica è sostenuta
dal martellante ricorso all’eikos e dai nessi di inferenza (ou\n/e[ti dev), proprio nei punti in cui
la deduzione è oggettivamente più debole. Tutta la sezione inoltre è aperta con una formula
di invocazione e di esortazione rara e solenne: «orsù per gli dei dell’Olimpo, fate questa
osservazione, o signori giudici (fevre pro;ı qew'n: ou{tw ga;r skopei'te, w\ ãa[ndreıÃ dikastaiv,
34)». Opportunamente Marzi nota che tale espressione è «qui usata per dare forza a una
serie di argomenti non facili da sostenere, specie da un personaggio ingenuo, inesperto
e timido, come Lisia vuol far apparire l’oratore (e che forse era tale anche nella realtà)»
(Marzi 2006, p. 490, n. 66). In effetti, che Conone e Nicofemo non abbiano mai lasciato
intravvedere (faivnontai) alcuna diversità di veduta in altro campo, è una debole garanzia
di un loro eventuale analogo comportamento anche in ambito finanziario.
27
Tra Atene e il regno cipriota di Evagora vigeva il diritto di contrarre matrimoni. Conone e Nicofemo in
tal modo si formarono sull’isola una nuova famiglia perfettamente legale.
Capitolo 1. Retori in azione 15
Con la stessa abile scelta retorica viene sviluppata la restante arringa. Questa volta
l’ipotesi di partenza è presentata con una protasi possibile, sebbene non auspicabile28
– «se confiscaste (eij dhmeuvsaite, 38) i beni di Timoteo e ne ricavaste meno (ejlavttw
d jeij ejx aujtw'n lavboit j) che da quelli di Aristofane» – per chiudersi con una apodosi
irreale: «per questo – chiede l’imputato ai giudici – riterreste giusto (hjxiou'te a[n) che i
suoi parenti perdano i loro patrimoni?». L’illogicità della conclusione e l’ingiustizia della
situazione che si creerebbe,29 sintetizzate, vengono sancite ancora una volta con il ricorso
all’ambito dell’eikos: «ma, o signori giudici, sarebbe assurdo (ajll j oujk eijkovı, w\ a[ndreı
dikastaiv, 39)».30
I beni di Conone, alla sua morte, sulla base del testamento risultarono effettivamente
inferiori all’attesa. Aristofane, il cui padre fu un sottoposto di Conone e pertanto con un
patrimonio comprensibilmente inferiore a quello del generale, e che non si risparmiò per
giunta nelle liturgie in favore della città, è naturale che alla fine non si ritrovi gli averi
presunti. «Cosicché – si conclude – non a ragione ci accusereste (oujk a]n eijkovtwı hJma'ı
aijtiw/'sqe), perché i beni di Aristofane appare evidente che sono più di un terzo di quelli
di Conone, che sono riconosciuti essere stati correttamente valutati da lui stesso (44)».
Logicità deduttiva, correttezza argomentativa e comportamento ispirato a giustizia e
ad equità vanno dunque di pari passo e vengono presentati sotto la comune categoria
dell’eikos, che serve a tratteggiare la condotta del polites e a sostenere le inferenze.
Componenti che per la nostra sensibilità appartengono a due ambiti distinti, alla sfera
retorico-argomentativa e a quella etica, sono avvertiti come parti di un’unità inscindibile:
parlare bene, con coerenza, significa in ultima istanza formulare discorsi nell’interesse
della città e agire secondo le regole di comportamento del buon cittadino.
Ma la perizia di Lisia non si limita a questo. Ultima operazione dal forte impatto
persuasivo è l’assimilazione dell’eikos alle prove, ai tekmeria. Si tratta di un passaggio
sottile, presentato come naturale, ma assolutamente non scontato: il verosimile assurge ad
elemento inconfutabile di prova. È su tale slittamento di piani che si fonda tutta la parte
conclusiva:
Io dunque (ãou\nÃ) non ritengo giusto, o signori giudici, che, dopo aver fornito così numerose
e grandi prove (ou{tw polla; kai; megavla tekmhvria parascomevnouı), noi veniamo rovinati
ingiustamente (45).
28
«Volesse il cielo che ciò non avvenisse (o} mh; gevnoito), a meno che non ne debba derivare un grande
vantaggio per la città», si affretta ad aggiungere l’imputato.
29
Proprio l’articolazione argomentativa credo sia un forte elemento a favore della lezione hjxiou'te
(attestata dal codice Palatino 88) rispetto ad ajxioi'te del Laurenziano LVII 4, che formerebbe un’apodosi
della possibilità.
30
Per il ricorso al verosimile all’interno di una ricostruzione ipotetica, si veda anche Isocr., De Cleon.
30. L’avverbio eijkovtwı sostiene una deduzione possibile (eijkovtwı a[n tiı uJmw'n pisteuvseie toi'ı
lovgoiı toi'ı toutwniv), ma il periodo ipotetico ha una protasi irreale (eij…ejteleuvthsen). I giudici
quindi troveranno che tutto è l’opposto rispetto a quello a cui avrebbero potuto prestar fede (nuni; de; pa'n
toujnantivon euJrhvsete).
16 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
Io ho sentito dire da mio padre e da altri anziani che non solo ora, ma anche nei tempi precedenti,
vi siete ingannati in merito alle sostanze di molti, i quali in vita avevano fama di essere ricchi,
ma, una volta morti, si rivelarono molto diversi rispetto a quanto pensavate (45).
Se vi sembra dunque che noi diciamo cose verosimili e forniamo prove sufficienti (eijkovta levgein
kai; iJkana; tekmhvria parevcesqai), o signori giudici, in tutti i modi che avete a disposizione
abbiate pietà di noi (53).32
31
Si moltiplicano in questo punto le espressioni volte a sottolineare il comune consenso di tutti: pavnteı
w[/onto (46), ejlevgeto (46), w{ı fasi (48), pavnteı i[ste (48), oJmologoumevnwı (48).
32
Spesso i giudici sono esortati a valutare cosa sia più verosimile e su questo a formulare il giudizio; cfr.
anche Lys. 7, 38.
33
Su questo aspetto si veda oltre.
Capitolo 1. Retori in azione 17
l’eikos l’elemento predominante, l’unico a poter esercitare una forza persuasiva. I giudici
devono essere in grado di esaminare eijkovta34 e l’ascolto privo di condizionamenti,
pregiudizi ed ostilità, come richiesto in apertura di orazione e spesso ribadito anche altrove
come un vero e proprio topos, risponde ad un atteggiamento eikos.
L’orazione Per i beni di Aristofane, meglio di ogni altra, permette dunque non solo
di verificare l’efficacia dell’eikos nel discorso giudiziario, ma anche di osservare come
si costruisce concretamente un’argomentazione verosimile, attraverso quali snodi essa si
presenti come l’unica credibile, occultando abilmente anche le insite debolezze.
34
Demostene nella Contro Neera (59, 11) arriva ad invitare i giudici a considerare, partendo proprio
dall’esame di quanto è verosimile (skopei'te…ejk tw'n eijkovtwn logizovmenoi), che cosa sarebbe potuto
capitare a chi sta parlando, a sua moglie e a sua sorella se Apollodoro fosse caduto nelle macchinazioni
di Stefano.
35
L’impiego effettivo per i processi dei discorsi logografici di Isocrate è comunque dubbio; potrebbe
trattarsi di esercitazioni utilizzate nella sua scuola, ma ciò è ininfluente per le considerazioni qui presentate.
36
Sulla stretta connessione, non sempre unidirezionale, tra tekmeria ed eikos è illuminante un passo
dell’orazione lisiana Contro Andocide. Chi parla afferma che a sostegno della sua tesi è in grado di
formulare una congettura verosimile traendo prove da molte parti (pollacovqen de; e[cw tekmairovmenoı
18 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
suffragata da un sapere condiviso: tutti sanno (a{pantaı eijdevnai, 5) che chi calunnia è
in possesso di abilità retoriche, ma è privo di mezzi; il bersaglio preferito sono coloro
che al contrario non sono abili a parlare, ma hanno beni. Da questo assunto principale,
con la constatazione che Nicia è più ricco di Eutino ma sa parlare di meno, deriva la
prima deduzione: non ci sarebbe alcun motivo per cui (w{ste oujk e[sti di jo{ ti) fosse Nicia
ad accusare senza fondate ragioni (ajdivkwı) Eutino, in quanto non ne ricaverebbe alcun
profitto. Isocrate ha abilmente predisposto lo svolgimento argomentativo per la deduzione
verosimile, che viene presentata come una conseguenza imposta naturalmente: dal fatto
stesso si può capire (ejx aujtou' a[n tiı tou' pravgmatoı gnoivh, 6) che è molto più credibile
(polu; ma'llon eijkovı) che Eutino negasse il deposito, piuttosto che Nicia richiedesse
del denaro mai versato. L’affermazione centrale viene inoltre rinforzata da un’ulteriore
constatazione presentata come incontrovertibile sulla scorta della sua evidenza (dh'lon
gavr): «tutti commettono ingiustizia per guadagno», frase che nella sua sintetica incisività,
senza aver bisogno di altre spiegazioni, acquista la forza di una gnome. In una situazione
politica come quella instaurata dai Trenta, in cui tutto era sconvolto e non si tenevano
più i processi, era inutile muovere accusa per chi, come Nicia, subiva ingiustizia, mentre
personaggi come Eutino non avevano nulla da temere nel rubare. Non era strano quindi
(w{ste…oujde;n h\n qaumastovn, 7) che Eutino si fosse appropriato ingiustamente di una
somma ricevuta a quattr’occhi, quando avevano il coraggio di negare i prestiti coloro
che li ricevevano alla presenza di testimoni, mentre non era credibile (oujk eijkovı) che
Nicia, in un momento in cui non riusciva ad ottenere soddisfazione neppure chi aveva un
credito secondo la legge (dikaivwı), pensasse di muovere un’accusa ingiusta (ajdivkwı) per
guadagnare qualche cosa.
L’eikos viene qui rafforzato dal thaumaston:37 accostate, le due categorie concorrono
indirettamente a descrivere il regime dei Trenta, in cui la soppressione dei normali rapporti
democratici causa il ribaltamento dei valori e l’interruzione di comportamenti attesi e valutabili
come normali. Il periodo dei Trenta è il regno dell’irrazionale, dell’incredibile, dove non è
possibile neppure l’atto più legittimo, quello cioè di richiedere giustizia quando si subisce
un torto: è il regno del thaumaston, non dell’eikos. L’argomentazione retorica trasmette in tal
modo anche un chiaro giudizio politico e nel clima di restaurazione democratica favorisce la
creazione del consenso nei giudici, ricordando implicitamente a loro che un comportamento
giusto e corretto può rispondere solo all’eikos, bandito dai Trenta.
Questa connotazione politica dell’eikos percorre anche la seconda parte dell’orazione in
cui Isocrate rimette in discussione i risultati raggiunti e presenta l’ipotesi, introdotta come
eijkavzein, 20). Con un'inversione di rapporti rispetto alla Contro Eutino, in questo caso i tekmeria sono
dunque preparatori all’eikos, ne costituiscono la base.
37
La contrapposizione thaumaston-eikos è ampiamente sfruttata in più luoghi dall’oratoria attica con
diverse finalità. Si veda per es. Isocr., Paneg. 1-2: l’oratore si è chiesto spesso con stupore (pollavkiı
ejqauvmasa) come mai i fondatori dei giochi ginnici considerarono le doti fisiche così degne di essere
ricompensate, mentre non hanno accordato alcun onore a coloro che si danno da fare per gli interessi
comuni, di cui sarebbe stato ragionevole che si prendessero cura. Si noti anche il caso in cui thaumaston ed
eikos ricorrono accostati in particolari contesti enfatici, per es. Isocr., Ant. 209 e Phil. 124: «chi a ragione
non si meraviglierebbe per quanto è accaduto (tivı oujk a]n eijkovtwı ta; sumbebhkovta qaumavseie) […]?».
Capitolo 1. Retori in azione 19
irreale,38 che nulla impedisse a Nicia di muovere false accuse. Sarebbe facile capire (rJadv/ ion
gnw'nai, 8) che non avrebbe attaccato comunque Eutino e l’evidenza è offerta di nuovo dalla
verosimiglianza. Ancora una volta a sostenere l’intera impalcatura viene posta un’asserzione
generale data per scontata, come rimarca la particella gavr: chi infatti intende comportarsi così
non comincia dagli amici, ma accusa uomini di cui non ha rispetto né timore; inoltre attacca i
ricchi incapaci di agire e che sono isolati. Eutino è l’opposto di questo prototipo: «quindi non
c’è nessuno contro il quale, meno di lui, avrebbe potuto muovere accusa (9)». D’altro canto
Eutino, proponendosi di rubare, non avrebbe trovato persona migliore da vessare.
Ma esiste un’ultima prova, schiacciante, valevole più di tutte le altre. Il modo di
presentarla è sempre il medesimo. Il fondamento è un’affermazione assolutamente non
scontata, fatta passare come a tutti nota e soprattutto come da tutti condivisa che riguarda
un giudizio politico sull’operato dei Trenta: «tutti infatti sapete (pavnteı ga;r ejpivstasqe)
che a quel tempo era più pericoloso essere ricchi che commettere ingiustizia (12)». Il
ribaltamento dei valori democratici ispirati a giustizia e l’insorgere di comportamenti
contrari a quanto secondo verisimiglianza si sarebbe portati ad accettare spingono a
concludere che Eutino era tenuto in considerazione per le sue colpe, mentre Nicia era
bersagliato per le sue ricchezze poiché «coloro che avevano nelle mani la città non
punivano i colpevoli, ma sottraevano a chi aveva e consideravano coloro che commettevano
ingiustizia persone fidate, i ricchi invece nemici (12)».
Il megiston tekmerion si fonda dunque su un giudizio opinabile, comunque soggettivo,
di una vicenda storica e a questo si aggiunge un ultimo tassello, decisivo nell’ottica
difensiva, garanzia che quanto è stato detto risponde effettivamente al vero.39 Nicia a quel
tempo era alle prese con altre preoccupazioni ben maggiori, preso di mira da un certo
Timodemo che gli estorse trenta mine, minacciandolo di arresto immediato se non avesse
versato la somma.
Come è allora verosimile (kaivtoi pw'ı eijkovı) che Nicia sia giunto ad un tale punto di pazzia da
calunniare altri quando era lui in pericolo di vita, tramare contro i beni non suoi quando non riusciva
a conservare i propri, crearsi altri nemici oltre a quelli che già aveva, chiamare in causa ingiustamente
coloro dai quali non sarebbe stato in grado di ottenere soddisfazione neppure se avessero ammesso di
aver rubato, cercare di avere di più quando non gli era possibile avere l’equo e sperare nel guadagno
di quello che non versò quando era costretto a pagare quanto non ricevette? (14-15).
Il comportamento verosimile diventa parte integrante della prova, anzi della prova regina
ed è garanzia della verità della ricostruzione presentata. Sarebbe stato molto interessante
verificare la risposta di Lisia, che, a quanto si ricava,40 avrebbe composto il discorso per
38
Cfr. 8: eij kai; mhde;n aujto;n ejkwvluen.
39
Si veda il § 14: «Che sia vero quello che dico (kai; tau'q jo{ti ajlhqh' levgw), ve lo potrebbe testimoniare
(a]n…marturhvseien) lo stesso Eutino». In un processo dunque privo di testimoni, il testimone principe a
favore dell’accusa potrebbe risultare l’imputato stesso, che verrebbe a sostenere la ricostruzione presentata
come verosimile.
40
Cfr. Frr. L 38 e XCVIII 70 Thalheim; 57, 117-119 Carey. Si veda in proposito Medda (1995, vol. II,
p. 508, n. 51 e p. 545, n. 90). Medda osserva che «la testimonianza del Pap. Oxy. 2537 rivela l’esistenza
20 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
l’imputato, per conoscere se e in che misura anch’egli facesse ricorso alla categoria del
verosimile in un processo tutto indiziario41 come Per i beni di Aristofane.
Sta di fatto che la Contro Eutino fece molto parlare di sé, fino a diventare quasi un caso.
Isocrate la ricorda nel Panegirico (188), invitando «coloro che discutono sui discorsi
(tou;ı de; tw'n lovgwn ajmfisbhtou'ntaı) a smettere di scrivere contro l’orazione sul
deposito e sugli altri argomenti di cui ora ciarlano», segno evidente dell’acceso dibattito
sorto su questo particolare logos, al quale rispose Antistene42 e che dovette comunque
riscuotere numerosi consensi, diventare presto un classico dell’oratoria attica, come si può
dedurre dalle lodi di Filostrato (Vit. Soph. I 17). Il retore lo menziona insieme all’Archidamo
tra le opere migliori di Isocrate (a[rista de; tw'n ∆Isokravtouı frontismavtwn), per il
vigore (ijscuvn) e per la sua sequenzialità argomentativa in cui «un pensiero scaturisce
dall’altro (novhma…ejk nohmavtwn)».
La Contro Eutino è in ultima analisi la storia di un’amicizia finita male per motivi
di denaro. Eutino era cugino di Nicia (ajneyiovı, 9) e in forza di questo legame Nicia
pensava di potersi fidare. Anche questa particolare circostanza fornisce elementi per una
ricostruzione favorevole all’accusa. Una situazione simile dovette fare da sfondo nella
Contro Teomnesto di Lisia, di cui i papiri hanno restituito alcuni frammenti, dal nostro
punto di vista assai significativi. Da quanto si può dedurre, l’accusatore ha prestato trenta
mine a Teomnesto perché egli a sua volta versasse la somma a Teozotide, senza superare
così il limite di tempo fissato, per evitare di cadere in protesto. Anche qui l’amicizia diventa
un punto forte, rimarcato con enfasi, fondamento del quadro verosimile delineato: «ho
di due discorsi lisiani Per Eutino contro Nicia», ulteriore prova, mi sembra, di quanto il dibattito attorno
al discorso fosse acceso e andasse oltre la contingenza del processo. Le cause sul deposito di denaro, per
la loro natura particolare, dovettero essere un tema ricorrente anche all’interno delle scuole di retorica.
41
Per un altro impiego simile dell’eikos in Lisia si veda 16, 5. Si tratta della dokimasia di Mantiteo,
contro il quale era stata mossa l’accusa di aver servito come cavaliere sotto i Trenta e quindi di aver
parteggiato per la tirannide prima ed essere ora a favore della fazione oligarchica. Mantiteo ricorda subito
di essere stato spedito dal padre con il fratello nel Ponto tempo addietro il disastro di Egospotami e di
essere ritornato cinque giorni prima del rientro dei democratici dal Pireo. Non è pertanto credibile, «non
è verosimile che giunti in tale frangente desiderassimo partecipare ai pericoli degli altri», cioè dei Trenta,
quando ormai era chiara la loro imminente caduta. La base fondamentale dell’accusa viene così demolita
con una semplice deduzione verosimile che chiama in causa non elementi concreti, ma atteggiamenti e
comportamenti che l’oratore descrive come scontati e comuni alla maggior parte delle persone, anzi alla
totalità, in modo che chi non si riconosce nelle conclusioni presentate si sente escluso, per così dire, dal
consesso degli uomini. L’eikos diventa l’arma per smontare le tesi della controparte, oltre che per sostenere
le proprie. Un altro caso in cui Lisia ricorre ancora all’eikos per contrastare le posizioni dell’avversario si
ritrova a 3, 25, l’orazione Contro Simone, una causa di ferimento a seguito di uno scontro tra Simone e un
anonimo cittadino, il parlante, in lotta per un giovane di cui sono entrambi innamorati. Non è eikos quanto
asserisce Simone in merito alla restituzione di una somma di denaro, anzi è una sua macchinazione (3, 26).
Anche per la ricostruzione della rissa, Simone non sarebbe attendibile, né bisogna pensare che «queste
cose siano verosimili, ma che poi siano andate diversamente (tau'ta eijkovta ãmevnÃ, a[llwı de; peri; aujtw'n
pevpraktai, 3, 37)». L’accettazione dell’eikos comporta dunque di conseguenza la risoluzione del caso
in un determinato senso. Ma all’eikos può essere sempre opposto in un processo un eikos più plausibile.
42
Ricaviamo la notizia dall’elenco delle opere di Antistene conservatoci da Diogene Laerzio (VI 15), in
cui compare un Pro;ı to;n ∆Isokravtouı ∆Amavrturon.
Capitolo 1. Retori in azione 21
dato trenta mine a Teomnesto che era mio amico (…o[nºti d jeJtaivrw/)…; prima di questo
fatto Teomnesto era mio amico e compagno (fivloı kai; eJtai'roı), ora invece, persuaso dai
miei nemici (uJpo; tw'n ejmw'n ejcqrw'n)…; prima che accadesse questo dissidio (diªaforºavn),
non gli ho creato problemi, né gli ho chiesto del denaro». Nel giro di pochi righi il rapporto
quasi fraterno tra i due è ribadito in modo martellante.43 Nulla di più naturale quindi
(w{sper eijkovªıº) che il prestito sia avvenuto senza testimoni (a[nªeºu martuvrwn) (Fr. LVa,
41a Thalheim; 65, 151 Carey).
Lisia ancora all’eikos ricorre in un altro punto per argomentare che non è sostenibile la
tesi secondo cui la parte lesa abbia prestato ad altri i beni e che Teomnesto a sua volta si
sia rivolto ad estranei e non al suo fidato amico di un tempo. Da quanto si può evincere dal
testo frammentario, anche in questo caso, come nella Contro Eutino, l’eikos è preparatorio
al mega tekmerion,44 con una struttura argomentativa simile dunque a quella utilizzata
da Isocrate, prova dell’esistenza di stilemi consolidati. Anche qui il mega tekmerion
lascia intravedere tutta la sua debolezza, fondato com’è su un comportamento precedente
tenuto dall’imputato in occasione di una coregia, quando Teomnesto non esitò a ricorrere
all’amico per l’allestimento di un coro maschile.
Un’arringa deve dunque sfruttare tutte le risorse argomentative per poter offrire,
in assenza di evidenze inconfutabili, un quadro coerente; in particolare per risultare
credibile deve essere in grado di presentarsi come più verosimile della controparte. Deve
saper anticipare quindi anche le controdeduzioni altrettanto verosimili dell’avversario,
confutandole in anticipo e confinandole nell’ambito dell’incredibile, dello strano,
dell’impossibile, dell’irrazionale. Questo è il vantaggio dell’accusa, che parla per prima
davanti ai giudici. L’orazione, così congegnata, si struttura in tal modo in due parti. Alla
presentazione delle proprie ragioni seguono le tesi probabili dell’accusato, che vanno
preventivamente smontate per offrirgli minor spazio di movimento. Lo scopo dell’eikos
in tal caso è di privare l’avversario del maggior numero possibile di armi che avrebbe
a disposizione, fino a ridurlo, nella migliore delle ipotesi, all’impossibilità di opporre
una plausibile difesa. È quello che lascia intuire un altro frustolo di papiro (Fr. LVa, 41c
Thalheim; 65, 152 Carey), riconducibile sempre alla Contro Teomnesto, in cui si legge
«questo è quello che dico alla sua affermazione di aver preso da altri». Allo stesso modo
l’eventuale tesi di aver pagato di tasca propria viene passata sotto la lente dell’eikos.
Nonostante le lacune, lo svolgimento del pensiero è chiaro: come è verosimile (pw'ºı eijkovı
ejstin) che abbia sopportato di arrivare al pericolo estremo e di offrire ai suoi nemici
43
Sul peso che le relazioni di amicizia e di parentela hanno all’interno delle orazioni si veda Lanni (2005,
in particolare p. 116): «When relatives or friends face each other in court, speakers describe the long-term
relationship and interaction of the parties and seek to represent themselves as honoring the obligations
traditionally associated with bonds of philia (“friendship”) and to portray their opponents as having violated
these norms. As Christ [The Litigious Athenian, Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press,
1998, p. 167] points out, litigants at times exaggerate the intimacy of their past relationship in order to present
their cases in terms of a breach of philia».
44
«Pertanto come è verosimile (pªw'ıº eijkovı) che i miei beni vengano dati ad altri e che a lui da altri sia
dato il prestito? Sul fatto che non ritenne giusto ricevere in prestito da altri, vi dirò una grande prova (mevga
uJmªi'ºn tekmhvrion ejrw', Fr. LVa, 41b Thalheim; 65, 151 Carey)».
22 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
un tale potere? Chi si affiderebbe alla sorte, se anche gli succedesse qualche cosa di
improvviso, così da mettere a repentaglio la vita e il patrimonio se risultasse insolvente
dopo il tramonto del sole? Se dunque ne avesse avuto direttamente la possibilità, avrebbe
subito pagato il dovuto.
Gradiremmo leggere di più di questa orazione, ma anche solo da quanto i frammenti
ci restituiscono, proprio dal confronto con la Contro Eutino possiamo presupporre
l’esistenza di topoi utilizzati in occasione di orazioni riguardanti il deposito di una somma
di denaro, in cui mancano testimoni. Ne è un indizio il fatto che, come Lisia, si comporta
infatti anche Isocrate nella parte finale della Contro Eutino, organizzando il discorso in
due blocchi distinti: «riguardo a questi aspetti è sufficiente quanto è stato detto (peri; me;n
ou\n touvtwn iJkana; ta; eijrhmevna). Ma forse Eutino dirà (i[swı d jEujquvnouı ejrei'), ciò che
già prima ha affermato… (16)». La sua difesa (se avesse voluto rubare, si sarebbe tenuto
tutta la somma e non solo un terzo) è smentita da quello che Isocrate presenta come una
verità da tutti risaputa e indirettamente ammessa (pavntaı uJma'ı eijdevnai): tutti gli uomini,
quando pianificano dei crimini, pensano già anche alle possibili armi difensive e quindi
la sottrazione solo di un terzo sarebbe premeditata. A sostegno della confutazione della
eventuale difesa di Eutino, l’accusa si dice in grado di portare esempi e mostrare così che
Eutino non fu né il solo né il primo a tenere una simile condotta (17).
Isocrate non passa all’esemplificazione che avrebbe avuto forse un potere persuasivo
maggiore, e conclude,45 cercando di smontare anticipatamente la costruzione difensiva di
Eutino,46 con l’affermazione che sarebbe facile usare in favore di Nicia gli stessi argomenti
a cui potrebbe ricorrere la difesa di Eutino (rJa/vdion eijpei'n o{moia th'/ Eujquvnou ajpologiva,/
19). Dire le stesse cose per la difesa e per l’accusa: il sofismo del pensiero svela, forse
inavvertitamente, la debolezza congenita all’eikos, a tutte le ricostruzioni verosimili,
esponendo lo stesso logos isocrateo a svariate possibili obiezioni e controdeduzioni.
Le cause per il deposito di denaro, che dovettero rappresentare una percentuale elevata dei
processi tra la fine del V e l’inizio del IV secolo, per la loro natura certo complesse, favorirono
dunque di conseguenza la riflessione sulla procedura migliore da tenere. È interessante in
proposito quanto si può ancora ricavare da un frammento lisiano della Contro Callifonte47
in cui si contesta una mancata restituzione, questa volta totale, del denaro. Chi reclamava
la sottrazione della somma portò come testimoni gente estranea, scelta assolutamente
naturale, corretta, condivisibile (eijkovtwı tou;ı e[xwqen ei[cet∆ a]n marturou'ntaı) se il caso
avesse riguardato un oltraggio o una percossa o altri atti di violenza di tal genere, ma visto
che il processo aveva per oggetto la restituzione di un deposito (peri; ãparaÃkataqhvkhı
ajpodovsewı), non bisognava (ejcrh'n) produrne altri se non familiari, che necessariamente
erano a conoscenza dei fatti. Anche Isocrate nella Contro Eutino, pur non producendoli
come testimoni, perché di nessun peso in quanto non presenti al momento dell’avvenuto
45
Il brusco finale lascia comunque supporre che sia andato perduto l’epilogo.
46
Anche nella parte finale dell’Eginetico Isocrate anticipa le ipotizzabili tesi della parte avversa («ma
forse ricorreranno al solo argomento che resta a loro…», 42) e, per smontare la prevista linea difensiva, si
fa ricorso anche all’eikos (cfr. § 45).
47
Cfr. Fr. LXXII 52a Thalheim; 84, 194 Carey.
Capitolo 1. Retori in azione 23
deposito, accenna ai familiari e agli amici. Tutti i congiunti (pavnteı oiJ suggenei'ı kai; oiJ
ejpithvdeioi, 20) erano al corrente che Nicia aveva affidato il denaro in suo possesso a Eutino,
che quindi non avrebbe mai potuto negare di averlo almeno ricevuto.48
Non si pensi però ad applicazioni di strutture puramente ripetitive. All’interno della
casistica dei processi per prestiti o depositi di denaro, un’interessante variante della
situazione delineata dalla Contro Eutino e dalla Contro Teomnesto è rappresentata dal
Trapezitico di Isocrate. Prezioso documento per la storia finanziaria ateniese, l’orazione
vede coinvolto il noto banchiere Pasione, accusato di essersi appropriato illegalmente
di una somma di denaro affidatagli. Sebbene la causa riguardi un banchiere, l’impianto
generale è il medesimo: anche qui mancano testimoni e la parte lesa mette subito in chiaro
la difficile situazione in cui si trova, per il fatto che i contratti con i banchieri di prassi
avvengono senza testimoni (a[neu martuvrwn, 2). È quindi assai arduo dover affrontare
processi con persone di questo tipo che, oltre a tutto, dispongono di molti amici, di
grandi quantità di denaro e hanno reputazione di uomini fidati proprio in virtù della loro
professione. Nonostante le premesse, chi parla si dice fiducioso di poter mostrare senza
ombra di dubbio che è stato privato del denaro da Pasione.
L’accusa passa alla dettagliata esposizione dell’intricatissima vicenda,49 corroborandola
con il sostegno dei martyres. Il discorso infatti non si profila come amartyros, sebbene
manchino testimoni diretti sull’evento più importante, il deposito di denaro. Come è
costume in casi analoghi, si previene la difesa, questa volta con la convinzione (hJgou'mai,
24) che la controparte si baserà su un documento considerato dall’accusa falso, ma che in
mancanza di testimoni verrà fatto valere da Pasione come la prova principe. Al documento
falsificato l’accusatore contrappone la richiesta di prestare attenzione a lui, cioè alle sue
parole, invitando i giudici ad una attenta disamina (ejk touvtou skopei'sqe, 25).
È attraverso la forza del ragionamento che si cerca dunque di togliere efficacia ad
una prova che pare concreta, tangibile, mostrando come innaturale (uJperfuevı, 30) quello
che Pasione potrebbe voler far credere, arrivando al mevgiston tekmhvrion (31) – secondo
una sequenza ricorrente, volta ad aumentare progressivamente l’enfasi – e al preventivo
discredito dei testimoni che potrebbero essere prodotti dall’avversario.50 Il concorso
dell’esame delle azioni di Pasione (ejk tw'n e[rgwn tw'n Pasivwnoı, 44) e dell’ascolto di
chi è a conoscenza dei fatti (para; tw'n a[llwn tw'n eijdovtwn) dovrebbe dunque produrre un
quadro che nelle attese si spera risulti favorevole. Ma è ancora una volta l’eikos a sostenere
le argomentazioni di maggior impatto persuasivo. Non è verosimile51 che, trovandosi
già in una situazione difficile, l’accusa si sia imbarcata volontariamente in un processo
per rivendicare una somma che non le spettava. Più credibile è un attacco di Pasione.
Sfruttando lo stesso motivo della Contro Eutino,52 chi – afferma la parte lesa – sarebbe
48
Sul peso assegnato alla testimonianza dei parenti in processi di questo tipo di natura finanziaria cfr.
anche Dem. 30, 23.
49
Fino al § 23.
50
«Forse, signori giudici, vi presenterà testimoni di questo, e cioè che io negai […]» (38).
51
Cfr.: kaivtoi povteron eijkovı… (46).
52
Si vedano i già citati §§ 14-15.
24 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
giunto a muovere una falsa accusa al punto da tramare contro i beni altrui, quando era in
pericolo la stessa vita? Con quale speranza o con quale disegno avrebbe preso di mira
Pasione?53 La forza retorica delle interrogative, esattamente come nella Contro Eutino,
concorre a configurare un comportamento impossibile, assolutamente poco credibile,
che arriva a sconfinare nella pazzia e nell’insipienza.54 È evidente dunque l’impiego di
topoi ricorrenti, di modalità discorsive comuni, come è confermato anche dal richiamo
ai rapporti amichevoli intercorrenti tra i due, a cui accenna pure il Trapezitico (47),55 e
dall’invito a considerare quanto strane e incredibili siano le affermazioni di Pasione (th;n
ajtopivan kai; th;n ajpistivan) e illogico (ajlogwvtera) ciò che egli prospetta (48).
La Contro Eutino, da collocare appena dopo la caduta dei Trenta, dovette fungere
da modello per lo stesso Isocrate, che ne riutilizza diversi motivi ancora a distanza di
anni,56 perfino impiegando sintagmi simili,57 fino al megiston tekmerion conclusivo (53),
in realtà il secondo presentato come tale:58 la non concessione dello schiavo a conoscenza
del deposito perché venisse interrogato sotto tortura. Non esiste mezzo di confutazione più
certo (e[legcoı ijscurovteroı, 53) nelle transazioni con i banchieri, le quali non avvengono
alla presenza di persone libere in grado di fungere da testimoni. Nulla è più credibile e
veritiero della tortura: se i testimoni si possono reperire, sebbene non siano stati presenti ai
fatti, le deposizioni sotto tortura svelano senza ombra di dubbio chi dice il vero. Siamo alla
stretta finale dell’orazione e proprio al culmine dell’arringa Isocrate a ben vedere permette
ancora una volta di coglierne la debolezza intrinseca, aggiungendo che Pasione, pur
sapendo tutto ciò, «volle che voi congetturiate sul fatto (eijkavzein…peri; tou' pravgmatoı),
piuttosto che ne veniate a conoscenza chiaramente (safw'ı eijdevnai, 54)». Privati della
testimonianza sotto tortura che sola permetterebbe una ricostruzione senza lati oscuri, i
giudici devono accontentarsi di una approssimazione, di una verità condizionata; l’eikos
non può pretendere di raggiungere il saphes. La battaglia processuale si deve dunque
giocare sul terreno dell’eikos, e l’abilità dell’oratore consiste nel fornire un eikos più
credibile di quello della controparte. Come appare sempre più evidente, il verosimile entra
in strette relazioni con tutti gli elementi costitutivi del processo, concorrendo a creare una
fitta rete di rimandi, sfruttati in maniera diversa a seconda della necessità del momento.
L’eikos, interagendo con i testimoni e le prove, supporta o sostituisce l’elemento debole
del discorso giuridico e appare ineliminabile.59
53
Cfr. § 46.
54
Cfr. § 47 dove ricorrono i termini maniva e ajmaqiva.
55
Per un ulteriore parallelo cfr. Contro Eutino 16 e Trapezitico 48.
56
Per alcune allusioni a fatti storici presenti nel testo (cfr. in particolare § 36 con la battaglia di Cnido), la
data del Trapezitico può essere collocata attorno al 393 a.C.
57
Cfr. Contro Eutino 7 (movnoı para; movnou) e Trapezitico 50 (movnoı pro;ı movnon), per indicare il carattere
privato del deposito, avvenuto non alla presenza di testimoni.
58
Come si è già ricordato, si veda il § 31.
59
Molto pertinenti sono le considerazioni di Butti de Lima (1996, pp. 74-75), in linea con quanto emerge
dalla presente analisi: «L’eikos […] ha esclusivamente una funzione di collegamento all’interno del
discorso, e quindi si presenta come strumento narrativo per eccellenza. Proprio perché elimina l’aspetto
decisionale che in vario modo era contenuto negli altri mezzi di prova, l’eikos evidenzia i legami
della narrazione, e quindi la possibilità di riportare nel discorso i fatti passati. In discorsi che devono
Capitolo 1. Retori in azione 25
Osservando tali fatti e con in mente tutto il resto, votate come è giusto. Avete garanzie sufficienti
(pivsteiı…iJkanavı) derivanti da testimoni, prove, elementi verosimili (ejk martuvrwn, ejk tekmhrivwn,
ejk tw'n eijkovtwn), secondo cui costoro, pur ammettendo di aver preso tutti insieme i miei beni,
“rappresentare”, davanti a un pubblico, gli avvenimenti accaduti, l’eikos lega passato e presente nell’idea
stessa di continuità; è, in certo modo, garanzia della possibilità di questa rappresentazione».
60
Dal 363 con le azioni Contro Afobo, fino al 362-1 con la Contro Onetore, per un totale di cinque
discorsi.
61
Rimando per ulteriori approfondimenti a Cobetto Ghiggia (2007).
62
La dote versata andava a far parte integralmente del patrimonio del marito, il quale, in caso di
allontanamento della moglie, doveva rifondere l’ammontare devoluto all’atto del matrimonio. La famiglia
della sposa poteva agire sui beni sottoposti a garanzia della dote. Demostene a questo punto non poteva
vantare alcuna priorità rispetto ad Onetore nei confronti di Afobo, che si configura come loro comune
debitore.
63
Demostene era disposto ad offrire uno schiavo e richiese tre serve da sottoporre a tortura (cfr. 30, 27;
35-36).
64
Questo sarà poi fatto valere nel secondo discorso contro Onetore (31, 1) come un vero e proprio
tekmerion.
26 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
affermano di averli spesi, senza averli spesi, ma avendoli tutti. Con queste considerazioni bisogna
che voi prevediate come noi ci comporteremo, sapendo che io, recuperato il mio patrimonio grazie a
voi, vorrò secondo ogni verosimiglianza (eijkovtwı) versare le liturgie, riconoscente del fatto che mi
avete restituito secondo giustizia (dikaivwı) le mie sostanze, costui invece, se lo renderete padrone
dei miei beni, non farà nulla di tutto ciò (28, 23-24).
Le varie componenti del processo sono qui presentate in una climax che risente ancora
tanto dell’influsso della scuola e non a caso già la tradizione antica era incerta se attribuire
tutti i discorsi concernenti la tutela direttamente a Demostene o al maestro Iseo, che, stando
all’anonimo compilatore della hypothesis dell’orazione 31, potrebbe averli rivisti per la
pubblicazione.65 Demostene sembra voler rimarcare di aver svolto bene il suo compito.
Tocca ora ai giudici tirare le conclusioni: il verosimile e il giusto vanno di pari passo;
è fondato attendersi che Demostene ricompensi i suoi concittadini versando i contributi
dovuti, se sarà risarcito in ossequio alla legge.
Nell’orazione Contro Onetore, tecnicamente una divkh ejxouvlhı, cioè un caso per la
restituzione di un bene già legalmente aggiudicato al querelante, il ricorso agli elementi
verosimili è pertanto enfaticamente rimarcato,66 sebbene non si escluda la confutazione
che si fonda anche sui fatti conclamati67 e l’intervento di testimoni.68 L’eikos concorre a
smascherare le trame intercorse tra Afobo e il parente Onetore, i quali, negando contro ogni
verosimiglianza69 il ricorso a testimoni nelle transazioni avvenute tra i due,70 presentano
la loro difesa come un logos amartyros. Tutto ciò è abilmente riassunto nella perorazione
finale (37 ss.), un altro interessante squarcio sul processo e sul peso da assegnare ai vari
elementi dell’argomentazione. Demostene invita i giudici a considerare sia per i dibattimenti
privati che per quelli pubblici la tortura come lo strumento di prova più sicuro. Quando
sono disponibili liberi e schiavi e si deve condurre un’indagine (euJreqh'nai to; zhtouvmenon)
poiché il fatto non è evidente, il consiglio è di non ricorrere alla testimonianza dei liberi, ma
di sottoporre a tortura gli schiavi: questo è il modo in cui si potrà cercare di scoprire la verità
(zhtei'te th;n; ajlhvqeian euJrei'n). Tutto ciò è comprensibile (eijkovtwı, w\ a[ndreı dikastaiv).
È già accaduto infatti che alcuni testimoni non testimoniarono il vero, mentre mai nessuno
sottoposto a tortura è stato sconfessato perché non sarebbero state vere le affermazioni
rilasciate in quell’occasione. La condotta di Onetore è un’evidente negazione di un
65
Nella hypothesis ricorre il verbo diwrqw'sqai.
66
Cfr. 30, 10: «è chiaro anche da ciò che è verosimile (dh'lon de; kai; ejk tw'n eijkovtwn) che per i motivi che
ho esposto preferirono essere debitori, piuttosto che mischiare la dote nelle sostanze di Afobo che stavano
per correre il rischio del processo». In tal modo Demostene cerca di escludere ogni plausibilità alle tesi
degli avversari: nessuno potrebbe dar credito alla loro discolpa (oujd j a]n tauvthn th;n skh'yin eijkovtwı
aujtw'n tiı ajpodevxaito).
67
Cfr. 30, 14.
68
Cfr. in particolare 30, 18.
69
Cfr. 30, 22.
70
Cfr. l’espressione «da solo a solo» (movnoı movnw/, 30, 22; movnoi movnw/ 30, 23) a rimarcare il carattere
privato dell’accordo. Ricordo che un’espressione simile, come si è già visto, ricorre anche nella Contro
Eutino (movnoı para; movnou, 7), all’interno di una ricostruzione verosimile di un fatto legato alla restituzione
di un prestito.
Capitolo 1. Retori in azione 27
È evidente che se avesse posto sulla casa ipoteche giuste (dikaivouı) ed effettivamente reali
(o[ntwı ajlhqei'ı), in modo giusto (dikaivwı) avrebbe posto anche quelle sul terreno. Ma se quelle
le ha poste false (yeudei'ı), volendo subito operare ingiustamente (ajdikei'n boulovmenoı), è
chiaro (eijkovı) che anche queste non sono vere (oujk ajlhqei'ı) (31, 3).
testimoni che ne sono al corrente». Si passa ora dunque ai martyres che sembrano avere
una forza persuasiva superiore. Le contraddizioni di Afobo e le deposizioni diventano così
il mega tekmerion: «potreste avere una prova più grande del fatto che costui ora non dice
nulla di vero, se non che chiaramente non afferma le stesse cose che ha affermato all’inizio
riguardo agli stessi argomenti? A me infatti pare che non se ne possa trovare nessuna più
grande di questa (5)». Tutto ciò, insieme ad altri elementi che qui non è utile ripercorrere,
deve smascherare il fine di Onetore, quello di rendere la sorella, in compagnia di Afobo,
padrona dei beni di Demostene (11).71
71
Nell’orazione XXIX Demostene lascia intendere il ricorso all’eikos (cfr. § 46) da parte di Afobo su
un aspetto specifico della causa, a cui egli oppone una controdeduzione volta a mostrare una maggiore
plausibilità della sua ricostruzione. A sostegno della propria tesi egli ricorre ad una ripresa pressoché
letterale di 27, 55-57. Si tratta però di un inserimento poco comprensibile in una orazione per la causa di
falsa testimonianza intentata da Afobo contro Phanos, testimone a favore di Demostene nel precedente
processo. L’orazione XXIX, che chiude il trittico contro Afobo, si presenta infatti come un discorso
pronunciato in difesa di Phanos e quindi non riguarda più strettamente la questione della tutela. Tutto ciò
fa propendere per un inserimento del tema, già precedentemente sviluppato, in una raccolta da utilizzare in
un eventuale prosieguo della causa contro Afobo. Non è neppure da scartare l’ipotesi che l’orazione XXIX
sia un prodotto di scuola; in tal caso risulterebbe ancora più interessante la centralità dell’eikos, in quanto
lo scopo della sezione sarebbe appunto quella di costruire un’argomentazione più verosimile rispetto a
quella presentata dalla controparte (cfr. Cobetto Ghiggia 2007, in particolare pp. 130-131), un esercizio
che doveva essere comunemente richiesto ai giovani retori.
72
La paternità demostenica è tutt’altro che certa; cfr. Gernet (1954, p. 151).
Capitolo 1. Retori in azione 29
indiretto, presentando come sarebbe dovuta essere la condotta della controparte se si fosse
comportata in maniera verosimile, arrivando a suggerire cosa avrebbero dovuto affermare
Lampis e Formione durante la citazione in giudizio se le cose fossero andate come essi
cercano ora di far credere:
Lampis, o Ateniesi, che era presente alla mia citazione, non osò per niente dire che aveva
ricevuto la somma in oro da costui e neppure disse ciò che era verosimile dicesse (oujd∆ o} eijko;ı
h\n ei\pe): ‘Crisippo, tu sei matto! Perché lo citi? L’ha data a me infatti la somma in oro’. Non
solo Lampis non ha pronunciato parola, ma neppure costui ritenne giusto parlare in presenza di
Lampis, al quale ora dice di aver dato la somma in oro. Eppure sarebbe stato proprio verosimile
(kaivtoi eijkovı g j h\n), o Ateniesi, che dicesse ‘perché mi citi, o benedetto uomo? L’ho data a lui
che è qui presente la somma in oro’ e che nello stesso tempo presentasse Lampis a confermare.
Ora invece nessuno dei due, in una tale circostanza, ha detto nulla di ciò. Come prova che dico
il vero, prendimi la testimonianza di chi mi assisteva nella citazione (14-15).
In questa drammatizzazione della prosklesis, l’eikos, proprio come sulla scena, serve
a ricostruire una condotta credibile che l’imputato non seguì. Con un effetto teatrale il
verosimile serve a smascherare ciò che l’accusa vuol far passare come un’evidente
menzogna. Allo stesso modo, come si sostiene quasi a conclusione dell’orazione (40), se
bisogna giudicare sulla base delle prove presentate (touvtoiı tekmaivresqai), non sarebbe
accettabile (oujk eijko;ı h\n) quello che Formione probabilmente intende far credere: un
cittadino che ha sempre versato tutte le contribuzioni per avere buona fama (i{na par∆
uJ m i' n eujdoxw'men) non può voler calunniare Formione con il rischio di gettare al vento
il prestigio acquistato attraverso un comportamento corretto ed irreprensibile (th;n
uJpavrcousan ejpieivkeian).73 I giudici dunque aiuterebbero Crisippo secondo giustizia
73
Un simile uso dell’eikos si ritrova anche in Dem. 36, 55, In difesa di Formione (non la stessa persona
dell’orazione precedente), riconosciuta già dai contemporanei come un capolavoro di Demostene e in
generale di tutta l’oratoria forense. Il comportamento pregresso di un individuo diventa un elemento
discriminante per incolpare o discolpare: «un uomo ingiusto in tutte le situazioni, avrebbe potuto,
all’occasione, commettere ingiustizia anche nei confronti di costui, ma colui che non ha mai commesso
ingiustizia nei confronti di nessuno, anzi ha beneficato molti di sua spontanea volontà, in che modo
verosimilmente (ejk tivnoı eijkovtwı a]n trovpou) avrebbe potuto commettere ingiustizia nei confronti solo
di costui tra tutti?». Così è pure in Dem. 44, 38, la Contro Leocare (per un affare di successione), orazione
probabilmente non di Demostene, che attesta però tutta la persistenza del motivo: «un uomo che contro
il vostro decreto crede giusto ricevere il fondo per lo spettacolo prima che il suo nome venga iscritto tra
gli Otrinei, visto che era proveniente da un altro demo, non pensate che contesti l’eredità contro la legge?
Oppure colui che prima della sentenza del tribunale pianifica guadagni così ingiusti, come è verosimile
(pw'ı eijkovı) che si affidi alla causa giudiziaria? Colui che infatti ha ritenuto di prendere ingiustamente il
fondo per lo spettacolo, è chiaro (dh'lon) che ha ragionato ora allo stesso modo anche riguardo all’eredità».
Non vi è possibilità di sottrarsi alla ferrea legge del tropos: la reputazione di un individuo, il suo passato
o la condizione economica diventano discriminanti, a favore o a sfavore. Per un ulteriore esempio di
un’argomentazione condotta in tal modo cfr. Dem. 40, 25 dove, all’interno di una causa che investe il
riconoscimento della prole, si intende provare la presenza di una dote fondandosi sul fatto che non sarebbe
stato conveniente (prosh'ken) che un padre, stimato stratego, permettesse che suo figlio sposasse una
donna senza beni, né è credibile (eijkovı ejstin) che poi tale donna (la madre di chi parla) sia andata sposa
in seconde nozze privata della dote dai fratelli. L’eikos viene sfruttato anche per suffragare la tesi che chi
30 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
(dikaivwı a]n ou\n bohqhvsasqe hJmi'n). L’eikos supporta il dikaion, ne diviene un elemento
ineliminabile, aiutando a rintracciare i comportamenti propri del buon cittadino: l’epieikeia,
come la stessa lingua rimarca, può solo darsi in presenza di eikos, a cui i giudici devono
uniformarsi nel loro verdetto. Essi infatti ritengono che uomini come Formione, che
chiedono a prestito denaro senza garanzie, non solo commettono ingiustizia nei confronti
dei malcapitati in cui si imbattono, ma anche danneggiano l’intero commercio: hanno
ben ragione – afferma l’oratore – a pensarla in tal modo (eijkovtwı, 51). L’eikos diventa
così anche l’occasione per tracciare le linee di una corretta politica economica, utile alla
collettività: vanno tutelati prima di tutto i finanziatori, perché «il benessere per chi si dà
agli affari deriva non da chi riceve un prestito, ma da chi dà in prestito; né una nave, né un
armatore, né un passeggero è possibile che salpi qualora venga tolta la parte data da chi
presta. Le leggi contengono molti e begli aiuti per loro, ma bisogna che voi vi mostriate a
cooperare nel correggere comportamenti sbagliati e a non assecondare i malvagi per trarre
l’utile massimo dal mercato. Ciò si realizzerà se difenderete quelli che rischiano il loro
denaro e non li consegnerete alle ingiustizie di belve come costoro (52)».74
sta muovendo l’accusa è stato effettivamente riconosciuto dal padre, contrariamente a quanto dicono i suoi
fratellastri: se sua madre non avesse portato con sé la dote, come invece fece la madre dei fratellastri, non
si capirebbe perché il padre avrebbe riconosciuto il querelante e non gli altri figli: la tesi della controparte,
anticipata (wJı ou|toi fhvsousin), secondo la quale il padre avrebbe agito così per mostrare il proprio favore
al figlio e alla prima moglie (morta quando il bambino era ancora in tenera età) non è credibile. La madre
dei fratellastri, una donna avvenente, già da prima e poi in seguito, si era messa a frequentare il padre:
«pertanto sarebbe stato molto più verosimile (w{ste polu; ma'llon eijkovı h\n) che egli per la donna viva, di
cui era innamorato, disonorasse il figlio della morta, piuttosto che per me e per la morta non riconoscesse
i figli nati da chi era viva e aveva legami con lui (27)».
74
Sullo stato finanziario e delle banche è interessante un passo dell’orazione pseudo demostenica Contro
Timoteo (il noto uomo politico). Per colpa di uomini come l’imputato le banche falliscono (aiJ travpezai
ajnaskeuavzontai): quando essi sono in difficoltà, chiedono denaro a prestito e presumono che per il loro
nome (dia; th;n dovxan) devono aver accordata la fiducia (pisteuvesqai); quando poi hanno il liquido a
disposizione, non lo restituiscono, ma lo sottraggono (68).
Capitolo 1. Retori in azione 31
tale non è, anzi non è strano (a[topon); inverosimile (oujk eijkovı, 14) risulta piuttosto
quello che vorrebbe sostenere Callimaco e pertanto, vista la sua natura di ingiusto
calunniatore, non c’è nulla che possa destare meraviglia (oujde;n qaumastovn) nel suo
comportamento.75 Anche in mancanza di testimoni (eij…mhvte tw'n pepragmevnwn h\san
mavrtureı, 16), in questa particolare situazione, se si fosse dovuto giudicare sulla base di
discorsi verosimili (eij…e[dei d jejk tw'n eijkovtwn skopei'n), non sarebbe stato difficoltoso
conoscere la verità. L’eikos è infatti dalla parte di chi parla e depone contro Callimaco.
Se egli avesse l’abitudine di commettere delle colpe, verosimilmente (eijkovtwı) potrebbe
essere creduto colpevole anche nei confronti di Callimaco. Ma non ha mai danneggiato
alcun cittadino, né lo ha mai esposto al pericolo di vita, non ha mai manomesso gli
elenchi dei politai.
Pur in presenza dunque di testimoni, che renderebbero superfluo il ricorso così
diffuso all’eikos, Isocrate decide di sfruttarlo, accoglie in un certo qual modo la sfida,
in quanto l’avversario, sulla base di ciò che si può intuire, proprio sull’eikos fonderà la
sua linea processuale. Isocrate non si sottrae dunque dal combattere con le stesse armi
dell’avversario, svolgendo l’orazione come se fosse un logos amartyros. Si tratta di
un bell’esempio di strategia difensiva, volta a rimarcare la forza delle proprie ragioni
e della propria abilità argomentativa, non evitando di affrontare la controparte sul suo
stesso terreno, con le stesse armi scelte da quella. Come sempre avviene, si cerca quindi
di dimostrare come inverosimile il comportamento ipotizzato dall’avversario. L’eikos,
secondo un modulo tipico, fa leva sulla condotta pregressa dell’individuo, la cui fama
deve indirizzare il verdetto: «e dunque vi sembra che chi sotto i Trenta si presentò come
un uomo integerrimo, avrebbe atteso questo periodo per commettere ingiustizie, in cui
anche chi prima si era macchiato di colpe si pentiva? Ma la cosa più tremenda di tutte (o}
de; pavntwn deivnotaton)…» (18).76
Martyres ed eikos si profilano come i due elementi dotati di maggiore forza di ogni
linea di difesa o di accusa.77 Poter contare su entrambi garantisce un grande vantaggio
all’oratore, ma l’abilità di chi parla emerge di più quando ci si affida principalmente
75
L’eikos ricorre ancora al § 15.
76
Lanni (2005, in particolare pp. 121-123) sottolinea come il più comune tipo di argomentazione non
legale ricorrente nei discorsi a noi noti sia proprio l’uso delle evidenze del carattere di un individuo: «The
first justification for character evidence we meet in the speeches is that it assists the jury in finding facts
through an argument from eikos or probability» (pp. 121-122). Ricorrere al carattere significa dunque, in
ultima istanza, ricorrere al verosimile. Per Lanni il carattere è il mezzo più pertinente d’inchiesta in un
mondo privo delle moderne tecniche d’investigazione forense e di raccolta delle prove. In assenza di prove
schiaccianti, il carattere è un garante di colpevolezza o d’innocenza.
77
Non manca il caso in cui l’eikos è utilizzato anche per smontare le deposizioni presentate dalla
controparte. Nella Contro Stefano I (Dem. 45, 14), un processo per falsa testimonianza, Apollodoro cerca
di dimostrare la inaffidabilità dei testimoni, in quanto le loro affermazioni sono contrarie non solo all’eikos
ma anche all’eulogon, al sensato: essi hanno testimoniato cose che mai nessuno avrebbe commesso. I
testimoni vengono così relegati nella sfera dell’incredibile. Ciò è con forza ribadito al § 36: quello che è
confutato come falso in relazione a comportamenti verosimili, ai tempi e ai fatti accaduti (toi'ı eijkovsi,
toi'ı crovnoiı, toi'ı pepragmevnoiı), Stefano non esitò a testimoniarlo. L’eikos opera da selettore di verità
per screditare la parte avversa.
32 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
all’eikos, che diventa quindi nel processo attico la categoria retorica qualificante,78
fatte salve comunque la calibrata armonia e il giusto equilibrio di tutte le componenti.
È ancora esemplificativo quanto si legge nell’orazione Sul corego (30 s.) di Antifonte,
un’accurata analisi sugli elementi del processo e sul loro utilizzo, tanto più inattesa perché
collocata all’interno di un’argomentazione che può far valere fatti concreti, in cui quindi
oggettivamente non si sentirebbe un bisogno così pressante dell’eikos. La riflessione pare
dunque assumere una funzione principalmente didattica ed esplicativa. Antifonte sostiene
che, se si cercasse di esporre i fatti ricorrendo alle semplici parole senza fornire testimoni,
si potrebbe osservare che le parole sono mancanti di testimoni (martuvrwn…tou;ı lovgouı
touvtouı ejndeei'ı); allo stesso modo se si fornissero testimoni, ma poi non si indicassero
prove in accordo con i testimoni (tekmhvria…toi'ı marturou'sin o{{moia), l’orazione
potrebbe essere sottoposta a critiche, risultando carente. Ciò che bisogna perseguire è
la presentazione di discorsi verosimili (touvı te lovgouı…eijkovtaı), di testimoni che si
accordino con i discorsi, di fatti che vadano di pari passo con i testimoni (toi'ı lovgoiı
tou;ı mavrturaı oJmologou'ntaı kai; toi'ı mavrtusi ta; e[rga) e di prove che scaturiscano
dagli stessi fatti (tekmhvria ejx aujtw'n tw'n e[rgwn). L’orazione che tende alla perfezione
nasce dunque da un’armonia di tutte le componenti, sapientemente dosate dall’oratore. La
78
Come si riscontra già in Aristotele (si veda per es. Rhet. 1355b, 35 ss.), la tradizione retorica classificherà
l’eikos tra le pisteis entechnoi, cioè le prove proprie dell’arte, differenziandole da quelle atechnoi, quali
le testimonianze (anche quelle degli schiavi sotto tortura), le leggi e le citazioni. Diversamente da queste
ultime, l’eikos richiede una particolare perizia, in quanto deve essere trovato, escogitato, non è già a
disposizione. Attraverso l’eikos dunque il retore può mostrare le sue capacità, mettendo in campo tutti
i modi conosciuti per convincere l’uditorio. Se per Aristotele e per la riflessione teorica seguente pisteis
entechnoi e atechnoi sono rigorosamente separate, la pratica mostra tuttavia come l’eikos, costruito dal
retore, sfrutti appieno le pisteis atechnoi, non potendone fare a meno, ne costituisca anzi il collante. Il peso
esercitato da una tale classificazione si può facilmente misurare nella hypothesis dell’orazione pseudo
demostenica Contro Timoteo (XLIX), in cui si registra che la maggior parte della dimostrazione (ta;ı me;n
pleivstaı ajpodeivxeiı) si fonda sulle pisteis atechnoi, in particolare testimonianze e citazioni (marturiw'n
kai; proklhvsewn); alcune però fanno ricorso anche agli argomenti tecnici, cioè alle argomentazioni
verosimili. La Contro Timoteo è un ulteriore esempio di accusa per mancata restituzione di denaro
dato in prestito. Apollodoro cerca di smontare la ricostruzione dell’avversario, sostenendone la non
verosimiglianza (36) e mostrando invece che è ragionevole credere che egli ora stia dicendo il vero (pw'ı
oujk eijkovı ejstin uJma'ı hJgei'sqaiv me tajlhqh' levgein…, 38). A ciò si aggiunge anche il richiamo finale (67):
non è credibile che ci si sottoponga a giuramenti con chi si è dimostrato spergiuro. Segue immediatamente
(68), in un punto di particolare enfasi, la domanda rivolta ai giudici sui sentimenti nutriti nei confronti
degli insolventi di pagamento: «se infatti vi adirate giustamente con quelli, perché commettono azioni
ingiuste verso di voi, come non è verosimile (pw'ı oujk eijkovı ejstin) venire in aiuto a coloro che non
compiono nulla di ingiusto?». In questo modo chi parla e i giudici grazie all’eikos sono accomunati da un
medesimo sentore, mentre la parte avversa ne è completamente esclusa, strategia retorica spesso impiegata.
L’orazione è dunque costruita rispettando le norme dell’argomentazione giudiziaria, ricorrendo a tutti i
mezzi a disposizione, come si ricorda nel periodo finale: «di quanti fatti, o giudici, potevo presentarvi
testimoni (mavrturaı), ve li ho presentati, ed inoltre con il ricorso anche a prove (ejk tekmhrivwn) vi ho
mostrato che Timoteo è debitore a mio padre. Vi chiedo dunque di aiutarmi a riscuotere dai debitori
quanto mio padre mi lasciò (69)». È tuttavia interessante sottolineare che nell’esortazione finale gli eikota
non sono menzionati, come se si trattasse di elementi deboli, poco influenti per inculcare l’idea di aver
raggiunto la verità dei fatti. Anche in questo caso la natura ibrida dell’eikos è evidente.
Capitolo 1. Retori in azione 33
79
La questione della revisione delle orazioni dopo il processo è molto complessa, ma marginale rispetto
al tema principale di questo studio. Per valutare l’entità delle modificazioni che possono essere intercorse
tra il processo e la scrittura del discorso in vista della pubblicazione mi limito a ricordare che, nei due
casi in cui possediamo le orazioni di entrambi i contendenti di uno stesso procedimento (Demostene ed
Eschine per l’ambasceria tradita del 343 a.C. e per il conferimento della corona del 330 a.C.), le due parti
attribuiscono all’altra affermazioni che non si ritrovano nelle nostre versioni dei testi. Si veda Todd (2005,
in particolare pp. 108-109).
80
Molto utile è quanto sottolinea Lanni (2005); a proposito dell’ampio ricorso a elementi non strettamente
legali all’interno delle orazioni afferma (p. 117): «the frequency and centrality of discussion of the
background and interaction of the parties in our surviving popular court speeches indicate that this type
of information was considered relevant to the jury’s decision. It has been suggested that the prevalence of
such nonlegal arguments indicates that Athenian litigants and jurors regarded the court process as serving
primarily a social role – the assertion of competitive advantage in a narrow stratum of society – rather than
a “legal” function. One scholar [D. Choen, Law, Violence, and Community in Ancient Athens, Cambridge,
Cambridge University Press, 1995, p. 90], for example, explains the tendency to discuss the broader
34 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
con piccole offese che investivano persone meno abbienti, non doveva richiedere una tale
elaborazione né per le accuse, né per le difese.81 Spesso le fini deduzioni condotte proprio
con il ricorso all’eikos sembrano non solo richiedere un pubblico colto e preparato, ma
anche presupporre una lettura vigile e meditata, che permetta di riprendere quanto esposto
in precedenza. Fruito in altro modo, un discorso così strutturato rischia di sortire l’effetto
contrario, risultando eccessivamente complesso, poco comprensibile, tanto più che la giuria
non è precedentemente informata sui fatti, in quanto il diritto attico non richiede ai giudici,
cittadini non specialisti, alcuna istruttoria dei casi su cui sono chiamati ad esprimersi. Tutto
deve compiersi nel ristretto arco di tempo del processo, in cui non è neppure previsto un
consulto collettivo del collegio giudicante: ogni giudice esprime individualmente il proprio
voto.82 Nelle cause pubbliche la discussione avveniva nell’ambito della giornata; in quelle
private da un massimo complessivo di circa 78 minuti (39 per parte per i casi più gravi),
si scendeva fino a 36 nelle diadikasiai in cui non era richiesto il secondo intervento.83 Il
sottile esame dei fatti si scontra dunque con la compressione del processo, che non sembra
concedere molto tempo per un esame così dettagliato delle argomentazioni prodotte.84 Ciò
spiegherebbe la richiesta, rivolta a più riprese ai giudici, di prestare attenzione, ma non è
neppure da escludere che il martellante ricorso dell’eikos agisse prima di tutto a livello
emotivo sulle coscienze degli individui, che si sentono in tal modo richiamati da una parola
d’ordine a svolgere il loro dovere di cittadini.
conflict between the parties as evidence that litigants were engaged in a competition for prestige unrelated
to the “ostensible subject of the dispute”: “rather than thinking in terms of a ‘just resolution’ of the dispute
one should think instead of how the game of honor is being played”».
81
Si vedano in proposito le osservazioni di Todd (2005, in particolare p. 106).
82
Difficile dire cosa influenzasse di più i giudici e non è detto che ciò che persuadeva un giudice
persuadesse in egual misura anche il suo vicino; cfr. Todd (2005, p. 107).
83
Nei casi privati non rientravano nel conteggio del tempo la lettura di leggi, decreti, documenti e le
deposizioni dei testimoni. Nei dibattimenti pubblici la divisione della giornata includeva anche tutte le prove.
84
Su questi aspetti dell’organizzazione del processo attico, all’interno di un discorso più generale, cfr.
Butti de Lima (1996, pp. 37 ss.).
85
Quella di Diodoro è una deuterologia, ad integrazione del primo discorso di accusa sostenuto da
Euctemone.
86
Prima lettera ad Ammeo, 4.
Capitolo 1. Retori in azione 35
l’esordio di Demostene sulla scena politica ateniese con una orazione giudiziaria dai forti
risvolti pubblici. Androzione sosterrebbe che gli accusatori avrebbero dovuto presentare
l’accusa presso i Tesmoteti, rischiando di pagare una multa di mille dracme nel caso di
smentita. Essi invece hanno mosso accuse accompagnate da calunnie prive di fondamento
(aijtivaı kai; loidorivaı kenavı), intralciando il lavoro di giudici non competenti nella
materia specifica oggetto del procedimento. È l’occasione per presentare una sintetica
lezione di diritto attico, con l’invito ai giudici ad osservare che calunnia (loidoriva) e
accusa (aijtiva) sono ben diverse (kecwrismevnon) dalla confutazione (e[legcoı).
C’è accusa quando uno, servendosi del nudo discorso (yilw/' crhsavmenoı lovgw/)/ , non fornisce
alcuna garanzia (pivstin) di ciò che dice, c’è invece confutazione quando di ciò che si dice uno
mostra contestualmente (oJmou') anche il vero (tajlhqevı). È pertanto necessario che coloro che
confutano o mostrino prove (tekmhvria) attraverso le quali possano svelare a voi la credibilità
(to; pistovn), o pronuncino argomenti verosimili (ta; eijkovta fravzein), oppure presentino
testimoni (mavrturaı parevcesqai). Non è infatti possibile essere testimoni oculari di alcuni
fatti (aujtovptaı…katasth'nai87), ma se uno mostra qualcuno di questi mezzi, voi ritenete con
giusta ragione (eijkovtwı) di avere ogni volta una confutazione sufficiente della verità (iJkano;n
e[legcon…th'ı ajlhqeivaı). Dunque, per venire a noi, la nostra dimostrazione non si basa su
discorsi verosimili (ejk lovgwn eijkovtwn), né su prove (tekmhrivwn), ma su un uomo per il quale
è possibile a costui [i.e. Androzione] chiedere una punizione, un uomo che ha fornito un
documento nel quale c’è tutta la vita di costui, che si presta ad essere chiamato a rendere conto
della sua testimonianza (Dem. 22, 22-23).
Non interessa qui richiamare nel dettaglio i collegamenti con l’azione processuale
contro Androzione. Il passo in sé, anche estrapolato dal contesto, evidenzia un’acuta
consapevolezza del ruolo e del peso da assegnare alle varie componenti di una causa.
Accusa e calunnia dunque si collocano su un piano differente rispetto alla confutazione:
le prime due non attengono alla sfera della verità. Anche l’accusa ha uno statuto ambiguo,
pericolosamente contiguo alla maldicenza: è il livello minimo dell’azione procedurale,
l’atto scritto o orale presentato davanti al giudice competente, privo di qualsiasi veste
retorica e non accompagnato da elementi aggiuntivi a sostegno; ricorre alle nude parole, a
una comunicazione puramente referenziale.
L’elenchos invece richiede la pistis, deve risultare credibile, mirare al convincimento
e ha come fine, almeno professato, il vero e può essere realizzato, tra l’altro, con le
ricostruzioni verosimili, procedura necessaria, insieme ai testimoni e alle prove, quando
non si è stati testimoni oculari, condizione comune di qualsiasi tribunale in cui non si
può presumere che i giudici, almeno nella stragrande maggioranza, siano stati presenti
ai fatti. Alla vista dunque si sostituisce l’ascolto della parola, altrui, nel caso migliore
dei testimoni, o quella di chi parla, la quale, per essere autorevole, deve essere sostenuta
dall’eikos. Anche in questo passo di Demostene si coglie dunque che l’eikos è avvertito
come un rimedio ad una condizione non ottimale, un mezzo a cui è imprescindibile
Propongo di leggere katasth'nai al posto del generalmente accolto katasth'sai, oppure inserire dopo
87
ricorrere, sebbene esso non possa garantire l’assoluta veridicità della ricostruzione. È
difeso quando è necessario, ma l’oratore non si fa scrupoli a indicarne, a seconda dei
contesti, anche i limiti.
Una tale consapevolezza non si sviluppa solo all’interno dell’oratoria. Martin Hose
(Hose 2000) ha messo ben in luce il variegato utilizzo dell’eikos nei tragici e in particolare
come ad esso, non più sfruttato progressivamente nelle sezioni delle difese, si connetta
l’errore di valutazione nell’interpretazione del passato o nella pianificazione del futuro.
Il teatro, come il tribunale, è uno dei luoghi del controllo e dell’indirizzo della pubblica
opinione: non è quindi di poco conto che in due ambiti vitali per la conservazione della
democrazia si agitino tendenze contrapposte. In tribunale i cittadini sono spesso sollecitati
a giudicare servendosi anche di deduzioni verosimili; a teatro sono spettatori di quanto
fallace possa rivelarsi alla resa dei conti l’eikos.88 Se, fondandosi sui dati in nostro possesso,
si può affermare che sulla scena l’eikos fu sfruttato in discorsi di difesa fino agli anni
venti del V sec. a.C., ad esso si ricorse poi progressivamente come categoria interpretativa
che ha però connaturato in sé l’errore. Una tale debolezza dell’eikos è rimarcata anche
nella ricostruzione degli eventi storici, in particolare da Tucidide: quando si ha a che fare
con il verosimile o con il plausibile, bisogna mettere in conto una componente di rischio
non determinabile con precisione; nella ricostruzione o nell’interpretazione del passato
si può sbagliare, nella pianificazione del futuro si può presagire una realtà differente da
quanto poi si realizzerà. Nella tragedia a correggere il corso degli eventi e a riportarli sul
preventivato binario può sempre intervenire il deus ex machina; la realtà è invece più
complessa e se l’eikos viene applicato male o è male interpretato in tribunale e anche
in assemblea, le conseguenze possono essere molto gravi per l’imputato o per l’intera
collettività. È probabilmente questa riflessione a così ampio raggio, sviluppatasi in diversi
ambienti all’interno dei luoghi istituzionali della polis, che ha spinto gli oratori a non
limitarsi solo all’impiego dell’eikos, ma ad inserire anche considerazioni di metodo sul
verosimile, il più delle volte per sostenerlo, per contrastare le molte voci dubbiose, quando
non decisamente contrarie, in merito a tale categoria.
Non si tratta solo di tragedia; anche la commedia gioca la sua parte. La battuta di
Fidippide delle Nuvole nel suo confronto con il padre, con l’accostamento di eikos e di
dikaion, con il richiamo alla tradizione e con le riflessioni sul valore del nomos, non suona
solo come la parodia delle argomentazioni processuali, ma credo instilli anche il sospetto che
l’eikos possa sostenere pure una causa ingiusta, portando al convincimento della correttezza
di tesi contrarie al proprio interesse, come alla fine sarà indotto ad ammettere Strepsiade:
Fi.: Dimmi un po’, non è giusto (divkaion) che anch’io allo stesso modo mi prenda cura di te e ti
picchi, perché anche questo è prendersi cura, picchiare? Come mai il tuo corpo dovrebbe essere
privo di percosse e il mio no? Anch’io sono nato libero. «Piangono i figli, ma non credi bene che
88
Gli anapesti conclusivi di alcune tragedie euripidee, pur sospettati di essere spuri, sono comunque
indicativi per comprendere come questo tema sia diventato oggetto di riflessione, tanto da condensare il
senso di molti intrecci: «Molte sono le forme del divino. Molte cose gli dei compiono inaspettatamente.
Quanto ci si aspetta (ta; dokhqevnt j) non si realizza, mentre il dio trova la via per ciò che è inatteso (tw'n
ajdokhvtwn)». Si vedano Elena, Alcesti, Andromaca e Baccanti. In Medea il primo verso ha forma diversa.
Capitolo 1. Retori in azione 37
un padre pianga?». Tu dirai che questo è quello che fa di norma (nomivzesqai) un bambino; io
invece opporrei che i vecchi sono due volte bambini. È normale (eijkovı) che i vecchi piangano
più dei giovani, quanto meno è giusto (h\tton divkaion) che essi sbaglino (1410-1419).
Mi sembra, miei coetanei, che dica cose giuste (divkaia). Sembra anche a me che il conveniente
vada di pari passo a queste considerazioni (ka[moige sugcwrei'n dokei' touvtoisi tajpieikh'). È
normale (eijkovı) che noi piangiamo se non facciamo il giusto (divkaia).
Dunque, se si esce dalla situazione comica, l’eikos, da sostenitore dei valori della demo-
crazia,89 nelle mani di oratori senza scrupoli può passare a minacciare le fondamenta della
stessa città, confondendo il comune interesse.
Infatti senza dubbio, come abbiamo detto all’inizio di questo discorso, chi si accinge a diventare
in maniera adeguata un abile oratore non deve aver parte per niente alla verità (oujde;n ajlhqeivaı
metevcein devoi) riguardo a fatti giusti e buoni, o anche riguardo a uomini tali per natura o per
educazione. In generale infatti nei tribunali a nessuno interessa la verità (ajlhqeivaı mevlein oujdeniv)
di queste cose, ma il persuasivo (tou' piqanou');90 questo è il verosimile a cui deve rivolgere
l’attenzione colui che si accinge a parlare con arte. Neppure bisogna dire talvolta gli stessi fatti
accaduti, qualora siano accaduti in modo non verosimile, ma ciò che è verosimile, sia in una
accusa sia in una difesa e in generale chi parla deve perseguire il verosimile e, dette molte cose,
salutare il vero. Questo infatti, trovandosi in tutto il discorso, dà pieno compimento all’intera arte.
Il tribunale è dunque il regno dell’eikos, come dire il luogo del trionfo il più delle volte della
dissimulazione, della parzialità, quando non apertamente della menzogna, nonostante gli
sforzi dei retori ad avvicinare una tale categoria ai grandi valori positivi della democrazia
ateniese. Spesso citato, il passo, estrapolato dal suo più ampio contesto, viene presentato
89
È interessante sottolineare che l’eikos nelle Nuvole (412-419) ricorre anche connesso a comportamenti
non consueti per il buon cittadino – anzi ne rappresentano il ribaltamento sofistico – quando il coro elenca
a Strepsiade le qualità richieste a chi vuole frequentare Socrate. Tra gli altri atteggiamenti, un uomo abile
(dexiovn) è conveniente (eijkovı) che ritenga come bene supremo «vincere con l’azione, con il consiglio e
combattendo con la lingua».
90
Cfr. anche Theaet. 162e dove è espressa per bocca di Socrate la contiguità tra eijkovı e piqanologiva,
opposti all’ajpovdeixiı e all’ajnavgkh, le uniche valide per supportare le argomentazioni geometriche. Si
tratta di una distinzione interessante, che mostra come l’eikos, contrariamente al concetto moderno di
probabilità, non trovi spazio nel discorso matematico-scientifico antico. La teoria della probabilità ha
creato un solco profondo con il passato. Su questo aspetto si veda Gallagher (2014).
38 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
come una generica constatazione del ruolo dell’eikos. Non va invece trascurato che
Socrate inserisce queste affermazioni all’interno di una complessa argomentazione volta
a delineare la migliore forma possibile di costruzione dei discorsi. Conoscere la natura
dell’anima per poter esercitare la forza della persuasione: è questo che Socrate espone
poco prima, come ideale tensione e difficile percorso. Esistono generi di discorsi e generi
di anime: bisogna saper adattare i primi ai secondi, la forza del discorso consiste in una
psychagogia. Si tratta di una procedura complessa che richiede molto tempo ed impegno,
assolutamente sconosciuta a coloro che praticano l’arte retorica. Chi sa svelare il limite
dell’eikos, la sua vera natura, è colui che conosce la verità, in quanto «chi conosce la verità
sa trovare nel modo migliore anche le somiglianze» (273d 2-6) e, dal momento che l’eikos
«nasce nei più grazie alla somiglianza», solo costui è in grado di possedere una vera arte
dei discorsi. Questo è ciò che Socrate e Fedro si sentono di dire a Tisia, che si è limitato a
fornire una semplice casistica su come sfruttare l’eikos.91
So. Hai certamente studiato con attenzione Tisia. Allora Tisia ci dica anche questo, se non intende
dire che il verosimile sia qualche cosa di diverso rispetto a quello che sembra alla moltitudine.
Fe. E che cosa d’altro?
So. E fatta, come sembra, questa scoperta di sapere e di arte, scrisse così: se un uomo debole
e coraggioso malmena uno robusto e codardo e gli porta via un mantello o qualche altra cosa
e viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve dire il vero. Il codardo deve dire di non
essere stato malmenato da uno solo, il coraggioso; l’altro invece deve confutarlo, dicendo
che erano soli e servirsi di questa motivazione: ‘come avrei potuto, mingherlino come sono,
mettere le mani addosso a uno così?’. L’altro non ammetterà la sua viltà ma, mettendo le mani
su altre menzogne, potrebbe velocemente opporre all’avversario una confutazione. Riguardo
anche ad altri fatti sono più o meno cose di questo genere che vengono dette con arte. Non è
così, Fedro? (273b-c).
91
Correggendo la visione più condivisa, Bryan (2014) sostiene in modo persuasivo che in Platone
esiste uno spazio per una considerazione positiva dell’eikos all’interno del processo filosofico, partendo
dall’osservazione che l’eikos è simile alla verità (273d). Esso diventa un mezzo della retorica filosofica per
guidare l’anima attraverso la verità. Platone opererebbe dunque una netta distinzione tra l’eikos sofistico e
retorico dei tribunali e l’eikos proprio dei filosofi, non opposto ma contiguo al vero. In tal modo le parole
di Socrate sono una contestazione delle convinzioni di Tisia. Racconti verosimili, stando in relazione con
racconti veri che descrivono originali stabili, non son svincolati del tutto dal vero. In questa prospettiva gli
eikotes logoi, di cui si parla nel Timeo, non sono pertanto discorsi squalificati, mancanti (si veda p. 42, n.
28) e l’eikos diventa uno strumento nelle mani del dialettico, perché è l’unico che permette di rintracciare
ciò che è simile al vero (cfr. p. 46: «in the mouth of sophists, to eikos is unpredictable and dangerous;
employed by the philosopher, however, it can be a respectable tool of respectable persuasion»).
Capitolo 1. Retori in azione 39
sperimentazione e di riflessione sia stata sottoposta tale categoria. Non è mia intenzione
riconsiderare l’eikos nella riflessione aristotelica, indagine che richiederebbe ben altro
spazio e su cui già molto è stato detto, anche recentemente.92 Appare evidente, da quanto
fin qui esposto, come la forza dell’eikos sia dovuta in ambito retorico, in ultima analisi,
alla sua duttilità, al fatto di non tendere all’universale e al necessario, ma di muoversi
all’interno della genericità, di quanto avviene nella maggior parte dei casi. È proprio
questo stato non costrittivo, non strettamente necessario e assoluto, che permette sempre
di accostare ad un verosimile un altro verosimile. Ciò che costituisce dunque la sua
debolezza su un piano ontologico o strettamente logico è quanto ne garantisce l’utilità in
una arringa, potendo inculcare in chi giudica, a seconda dell’opportunità di chi vi ricorre,
o la convinzione che il fatto è avvenuto appunto secondo le consuete modalità per eventi
simili, o, all’opposto, che esso non può essere ricondotto al ‘per lo più’. La Retorica
porta dunque alle estreme conseguenze le osservazioni del Fedro, chiarendo sul piano
teorico perché il tribunale può essere solo lo spazio del verosimile e non della verità: sia
chi parla sia chi formula un verdetto è alle prese nella fattispecie con un giudizio viziato,
con un ragionamento capzioso, non fondato principalmente sulla necessità, secondo la
terminologia aristotelica con un paralogismo.
È utile ripercorrere da vicino lo svolgersi dell’argomentazione. Aristotele parte
determinando i concetti (ejnqumhvmata), che derivano, a quanto si dice comunemente
(levgetai), da quattro elementi: il verosimile (eijkovı), l’esempio (paravdeigma), la prova
(tekmhvrion), il segno (shmei'on). Ritroviamo qui tutti gli elementi di ogni discorso
giudiziario ed è a questo che in effetti Aristotele guarda con particolare attenzione. I
concetti che nascono dall’unione di quanto è o sembra per lo più (ta; me;n ejk tw'n wJı ejpi; to;
polu; h] o[ntwn h] dokouvntwn sunhgmevna ejnqumhvmata) derivano dal verosimile; quelli che
sono il frutto di un ragionamento induttivo (di jejpagwgh'ı) – sia che si tratti di uno solo sia
di più elementi – quando, considerato l’insieme, poi si deduce ciò che riguarda la parte,
sono concetti fondati sull’esempio (dia; paradeivgmatoı); i concetti prodotti attraverso il
necessario e che sempre è (dia; ajnagkaivou kai; ãajei;Ã o[ntoı) si formano con il ricorso alla
prova; quelli infine fondati sull’insieme o su ciò che si trova nella parte, nel caso in cui vi
sia o non vi sia (dia; tou' kaqovlou h] tou' ejn mevrei o[ntoı, ejavn te o]n ejavn te mhv), si ottengono
attraverso i segni.
Con queste definizioni, poiché il verosimile non riguarda ciò che sempre avviene,
ma quanto accade per lo più (to; eijko;ı ouj to; ajei; ajlla; to; wJı ejpi; to; poluv), è chiaro
che argomentazioni che ricorrono all’eikos è sempre possibile smentirle (luvein) con una
obiezione (e[nstasin), ma la smentita è solo apparente (fainomevnh), non è sempre vera (oujk
ajlhqh;ı ajeiv), in quanto chi cerca di obiettare smentisce non mostrando che l’argomento
non è verosimile, ma che non è necessario. In altre parole, Aristotele suggerisce che
chi obietta dovrebbe tendere a smentire ciò che investe l’ambito del necessario, non
del verosimile. Ne consegue, con queste premesse, che è sempre possibile (ajei; e[sti)
che si trovi in una situazione di vantaggio (pleonektei'n) la difesa rispetto all’accusa,
grazie a questo escamotage logico, cioè ad una argomentazione capziosa (dia; tou'ton
92
Rimando, anche per ulteriori rinvii bibliografici, a Piazza (2012).
40 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
93
Ben esplicita questo snodo del testo Freese (1926), traducendo «by the employment of this fallacy»
(p. 339).
94
Non sempre una cosa è insieme verosimile e necessaria. La tradizione in questo punto è però tutt’altro
che chiara e il testo è stato sottoposto a numerosi tentativi di emendamento. La lezione seguìta è quella
proposta da Ross (1959), che corregge l’imperfetto del verbo essere (h\n) con un congiuntivo (h\)/ ,
aggiungendo anche a[m jajeiv e restituendo una protasi eventuale; diversamente si legge in Dufour (1960):
ouj ga;r a]n h\n ãwJı ejpi; to; polu; kai;Ã eijko;ı ajll jajei; kai; ajnagkai'on («non sarebbe una cosa che capita per
lo più e verosimile, ma che succede sempre e necessaria», con una apodosi irreale). Altri propongono,
senza l’integrazione (ãwJı ejpi; to; polu; kai;Ã) avanzata per primo da Vahlen, più semplicemente ouj ga;r a]n
h\n eijko;ı ajll jajei; kai; ajnagkai'on: «non sarebbe verosimile, ma una cosa che accade sempre e necessaria»:
cfr. per es. Cope, Sandys (1970); Freese (1926).
95
Annota opportunamente Freese (1926, p. 339, n. c): «the important point in the conclusion drawn is that
the judge thinks it is not his business to decide, because the argument is not necessary, whereas his duty is
to decide, not about things that are necessary but about things that are probable».
Capitolo 1. Retori in azione 41
Colui che organizzò l’intera faccenda e che si prese cura da più tempo perché la situazione
andasse a finire nel modo in cui poi andò, era Antifonte, tra gli Ateniesi del suo tempo a nessuno
inferiore per virtù, il migliore nella capacità di riflessione e nell’esprimere ciò che pensava; non
si presentava volentieri all’assemblea (ejı me;;n dh'mon), né in nessun altro processo (ajgw'na) ma,
in sospetto al popolo per la ben nota incisività retorica, era la sola persona che potesse essere di
grandissimo aiuto a chi parlava sia in tribunale sia in assemblea (kai; ejn dikasthrivw/ kai; ejn dhvmw/)
e gli chiedesse consiglio. Quando la democrazia fu ristabilita, la condizione dei Quattrocento,
successivamente mutata, peggiorava a causa del popolo ed essi furono chiamati in giudizio, egli,
accusato per questi stessi fatti, perché collaborò all’instaurazione dell’oligarchia, fece senza
ombra di dubbio la migliore difesa in un processo di accusa capitale tra quelle sostenute fino ai
miei tempi.
Con Antifonte si apre per noi il grande capitolo della prosa attica. Restio dunque a
qualsiasi discorso politico o giuridico, persona schiva, dovette lasciare però un’impronta
profonda in entrambi i generi oratori. Gradiremmo conoscere la magistrale orazione di
cui Tucidide conservava un così vivo ricordo97 e ci piacerebbe sapere se e in che misura il
retore sfruttasse anche in questa occasione l’eikos a cui fa ampio ricorso nelle Tetralogie,
96
In proposito si veda Roscalla (1989).
97
Ci sono noti solo scarni frammenti da papiri e da lessicografi.
42 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
tanto che si può ben dire che egli sembra voler sperimentarne in queste orazioni, fittizie
e prodotto di scuola, tutte le potenzialità. Non è comunque irrilevante, da quanto si legge
nelle sei colonne frammentarie di un papiro egizio pubblicate nel 1907 da Jules Nicole,
che si trovi pure nella sua apologia il ricorso del termine per sostenere un punto che appare
nevralgico. Antifonte non aveva alcun motivo per il quale di solito si desidera un cambio
costituzionale: non doveva sfuggire a processi per ingiustizie commesse, vendicarsi per
torti subìti e cercare di non subirne in avvenire (col. II). Anzi, stando alle affermazioni della
stessa accusa, egli in democrazia era solito scrivere cause per altri da cui ricavava lauti
guadagni, attività che sarebbe risultata impossibile in oligarchia; in democrazia esercitava
un forte predominio personale (ªejºn≥≥ d≥ª≥e; th'i dh∕moº∕kraªtivai ij∕divºai oJ kraªtw'n ∕ eijmi ejgwv),
mentre in oligarchia per l’arte retorica non si attendeva di poter ricavare grande prestigio
(ejk ªde; ∕ tou' levgein ejn ∕ me;n th'i ojli∕garcivai oujde∕no;ı e[≥mªellon ∕ a[xioı e[sesqaªi, col. III).
«Orsù, come sarebbe verosimile – chiede l’oratore – che io desiderassi l’oligarchia? (fevrªe
∕ dh; pw'ı eijkovªı ∕ ejstin ejme; ojlªi∕garcivaı ejpiqumei'n…)»: espressione fortemente enfatica,
in cui l’eikos è rinforzato dalla forma avverbiale (fevre) e dalla particella asseverativa (dhv).
98
Ricordo che la prima difesa di cui ci resta attestazione letteraria riconducibile all’ambito dell’eikos è
contenuta all’interno dell’inno omerico ad Ermes, considerato come il più tardo della raccolta, databile
probabilmente anche agli inizi del V secolo. Il giovane dio si difende dall’accusa di aver sottratto le
mandrie di buoi ad Apollo sostenendo che, data la sua giovane età, non ha proprio le fattezze del ladro,
non assomiglia ad un uomo forte (ou[te bow'n ejlath'ri krataiw/' fwti; e[oika, 265), cioè – si deduce – non
è credibile che sia colpevole. L’attestazione è tanto più rilevante in quanto tutta la scena è inserita in un
contesto che rimanda all’ambiente giuridico. Ermes risponde ad Apollo irato assicurando che non ha visto
nulla (oujk i[don, 263), non sa nulla (ouj puqovmhn), non ha sentito nulla da altri (oujk a[llou mu'qon a[kousa), non
può offrire informazioni (oujk a]n mhnuvsaim ,j 264) e non può aspirare alla ricompensa per l’informazione, al
mhvnutron. Gli dei e Zeus per primo, che su proposta di Ermes poco oltre saranno richiesti di fungere da veri
giudici (do;ı de; divkhn kai; devxeo para; Zhni; Kronivwni, 312), si stupirebbero molto (kaiv ken dh; mevga qau'ma
met∆ ajqanavtoisi gevnoito, 270) che un infante sia stato in grado di sottrarre dei buoi e quindi Apollo parla in
modo non convincente (to; d∆ ajprepevwı ajgoreuveiı, 272). La difesa di Ermes si fonda dunque su strategie
argomentative ben note: la verosimiglianza della sua posizione e il tentativo di relegare nell’ambito del
thaumaston quanto sostiene la controparte. Non manca in questa sintetica difesa neppure la disponibilità
di Ermes a pronunciare il solenne giuramento (mevgan o[rkon ojmnou'mai, 274) per sancire che non solo non
è il colpevole (ai[tioı, 275), ma anche che non è stato testimone oculare (mhvte tin∆ a[llon o[pwpa bow'n
klopo;n uJmeteravwn, 276), come viene ancora ribadito poco oltre (v. 310). Ma, nonostante la plausibilità,
si tratta di un discorso vano, inutile (a{lion…mu'qon, 280). La voce narrante lo ribadisce riconoscendo che
Apollo dice la verità (nhmerteva fwnw'n, 315) e a buon diritto (oujk ajdivkwı, 316) teneva prigioniero Ermes
che invece «con stratagemmi e scaltre parole voleva ingannare il dio dall’arco d’argento (317-318)». Quello
che infine si istruisce al cospetto degli dei, che si riuniscono vocianti come giudici di un tribunale umano,
è un processo in piena regola. È presente la bilancia della giustizia e Apollo espone minuziosamente i fatti,
premettendo che il suo discorso non è debole (ajlapadnovn, 334), per mostrare la colpevolezza di Ermes, che
a sua volta ribatte appellandosi alla verità della sua ricostruzione, ribadita poi ancora quasi in chiusura (to; dev
t∆ ajtrekevwı ajgoreuvw, 380), affermazione tanto più ironica per chi conosce la vera natura del dio: «o padre
Capitolo 1. Retori in azione 43
potrebbe indagare all’interno del corpus, ma mi limito alla Tetralogia I, non solo una prova
su come articolare un discorso fondato sull’eikos per contrastare quello dell’avversario,
ma anche un’occasione per metterne in luce i limiti e le debolezze nel raggiungimento
della verità. Il processo è immaginato contro un tale sospettato di omicidio: un uomo fu
colpito a morte insieme al suo servo, senza però che i due fossero spogliati degli averi.
Il servo, sopravvissuto all’aggressione, riportato a casa, riferì di aver riconosciuto il
colpevole, appunto il citato in giudizio dai parenti del defunto. L’imputato era un nemico
di antica data del morto e, incriminato da costui per furto sacrilego, era in attesa di
giudizio. Su queste basi e sulla testimonianza dello schiavo si fonda l’accusa. Si tratta
dunque ancora una volta di un processo per la maggior parte indiziario e l’imputato ha
buon gioco nel ribaltare a suo vantaggio le ragioni addotte, avanzando l’ipotesi che i
colpevoli siano ladri di vesti che non spogliarono la vittima per l’arrivo di passanti. Un
discorso verosimile si contrappone pertanto ad un altro per cercare di convincere della sua
maggiore verosimiglianza.
Con questo quadro degli eventi, in particolare il primo discorso di difesa (a, 2) è
uno sfoggio dell’eikos, che investe due ambiti: la ricostruzione della vicenda, che viene
condotta badando al rispetto della maggiore o minore verosimiglianza, e la delineazione
dello stato dell’imputato. Per quanto riguarda la ricostruzione della vicenda, è credibile
che la vittima, vagando di notte, reduce da un banchetto durante la festa della Dipolie, sia
incorso in briganti che avevano intenzione di privarlo delle vesti. Ciò che dunque viene
proposto dalla difesa non è inverosimile, come sostiene l’accusa, ma rispetta perfettamente
l’eijkovı (oujk ajpeikovvı, wJı ou|toiv fasin, ajlla; eijkovvı, a, 2, 5). Con il sostegno del verosimile
chi parla procede ad istruire l’uditorio, che non ha conoscenza preventiva della vicenda;
qui si colloca la dimensione informativa dell’oratore, il cui scopo non è comunque quello
di raggiungere l’aletheia.
Zeus, ti dirò la verità (ejgwv soi ajlhqeivhn ajgoreuvsw); io sono infatti sincero (nhmerthvı) e non so mentire
(oujk oi\da yeuvdesqai, 368-369)». Ermes accusa che Apollo, quando si recò da lui in cerca della mandria,
non portò testimoni oculari (mavrturaı oujde; katovptaı, 372). Gli ordinava con costrizioni di informarlo,
ma egli – lo ribadisce ancora (377) – non assomiglia ad un ladro di buoi e giura di nuovo con solenne
giuramento (mevgan d jejpimaivomai o{rkon, 383) per sancire la sua innocenza. Zeus ride, vedendo Ermes
che con abilità cercava di respingere le accuse (eu\ kai; ejpistamevnwı ajrneuvmenon, 390). La sua decisione
di imporre ad Ermes di guidare Apollo al luogo in cui aveva nascosto le vacche è la condanna della difesa,
tutta fondata sul verosimile, del giovane dio, al quale non restò che obbedire (ejpepeivqeto, 395). L’articolata
sezione dell’inno, nella sua presentazione puntuale del processo, sembra voler svelare tra l’altro anche i
limiti dell’eikos, mettendo in guardia su come esso possa essere sfruttato da abili ingannatori e spergiuri che
cercano di nascondere le loro ingiustizie, come è stato fatto nel mito, un vero racconto fondatore, dal dio
protettore dei ladri. Forza pericolosa e limite dell’eikos sembrano dunque due componenti essenziali, dato
tanto più significativo se, oltre alla seriorità dell’inno, si accetta anche l’ipotesi che l’origine del poeta o il
luogo di composizione/redazione sia l’Attica, la regione della grande produzione dell’oratoria giudiziaria;
si veda Cassola (1975, p. 174). Sul ruolo centrale di Antifonte nel diritto attico cfr. Butti de Lima (1996,
p. 45), il quale, pur contestando personalmente una visione strettamente evoluzionistica, ricorda come,
sulla scia del lavoro di Friedrich Solmsen (Antiphonstudien, Untersuchungen zur Entstehung der attischen
Gerichtsrede, Berlin, Weidmann, 1931), «si è potuto constatare nei discorsi di Antifonte il momento in cui
avviene un cambiamento verso l’uso razionale dei mezzi probatori, non più verificabile, perché ultimato,
nei discorsi del IV secolo».
44 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
Alla luce di tale ricostruzione, Antifonte offre alla difesa la possibilità di utilizzare tutti
gli strumenti a disposizione di un discorso giudiziario, prima di tutto i shmei'a (a, 2, 5):
il fatto che la vittima non fu spogliata dice poco sul reale movente iniziale. Chi ha ucciso
può essersi trovato nella condizione di non riuscire nel suo intento e così potrebbe essere
stato costretto, dal sopraggiungere di passanti, a non completare la spoliazione per non
essere colto sul fatto. Ma si potrebbe avanzare anche un’altra ipotesi: la vittima è stata
eliminata perché testimone involontaria di un’ingiustizia commessa da altri. Se si sospetta
poi l’imputato per rivalità ed inimicizia, non si deve pensare che egli fosse l’unico ad odiare
chi fu ucciso e quindi «quelli che lo odiavano non molto meno di me, e non erano pochi,
come non sarebbe credibile che lo abbiano ucciso più di me (pw'ı oujk eijko;ı h\n a]n ejmou'
ma'llon, a, 2, 6)?».
Non solo i shmei'a sono sottoposti al vaglio dell’eikos, per meglio dire, subordinati ad
esso. Anche la testimonianza di chi seguiva la vittima alla luce dell’eikos non è accettabile:
non era possibile, non risulta credibile (oujk eijko;ı h\n, a, 2, 7) che in preda al pericolo
riconoscesse gli omicidi; molto più verosimile pensare che la testimonianza sia stata
estorta dai padroni. Ma sono soprattutto le deduzioni conclusive della difesa che appaiono
particolarmente pregnanti:
Se qualcuno ritiene che le verosimiglianze equivalenti alle verità (eij dev tiı ta; eijkovta ajlhqevsin
i[sa) testimonino contro di me, rifletta al contrario su questo punto, e cioè che sarebbe stato
più verosimile (eijkovteron h\n) che, badando alla sicurezza dell’impresa, me ne guardassi
e non fossi presente al fatto, piuttosto che costui, nel momento in cui veniva percosso, mi
riconoscesse (a, 2, 8).
99
Diversa è invece la formulazione socratica di Plat., Phaedr. 273d ss., su cui si è già discusso e per la quale
rimando a p. 38 nota 91. Faccio notare che Socrate parla di un processo di somiglianza al vero (di oj mJ oiovthta
tou' ajlhqou'ı), mentre in questo caso l’aggettivo i{soı presuppone una totale sovrapposizione alla verità. Si
darebbe quindi un verosimile in nulla differente dall’accaduto.
Capitolo 1. Retori in azione 45
processo intentatogli dalla vittima: se fosse stato riconosciuto colpevole, sarebbe stato
privato del patrimonio, ma non avrebbe rischiato la pena di morte o, in subordine, l’esilio.
Se sarà invece riconosciuto colpevole in questo processo, lascerà in eredità ai figli cattiva
fama, oppure dovrà andarsene esule a mendicare, vecchio, senza patria, in terra straniera.
Proprio all’esame dell’eikos dunque tutte le accuse risultano prive di fondamento (a[pista,
a, 2, 10), incredibili; è l’eikos che regola l’insieme degli elementi su cui si costruisce il
processo: semeia, martyria, pistis.
Un’ulteriore svolta argomentativa di estremo interesse è racchiusa nella perorazione
finale. Questa volta però l’eikos non è invocato come elemento a sostegno; l’imputato
capovolge i termini di riferimento, il rapporto in precedenza costituito tra il piano della
realtà/verità e quello del verosimile: è giusto (divkaiovı eijmi, a, 2, 10) che sia assolto
«anche se verosimilmente ho ucciso l’uomo, ma non realmente (eij kai; eijkovtwı me;n o[ntwı
de; mhv)», cioè anche se possono esserci delle ragioni verosimili che possono far credere
che egli sia l’assassino, anche se il verosimile può dunque incastrarlo. Sfruttando tutte le
risorse concesse dalla lingua, con opposizioni semantiche d’impronta sofistica, dopo aver
costruito tutta la difesa sul sostegno dell’eikos, a questo punto chi parla, ben conscio del
limite di qualsiasi ricostruzione dei fatti così condotta, se ne svincola, per ribadire che la
presentazione dei fatti da parte dell’accusa è opinabile. Se dunque l’eikos può manipolare
e controllare semeia, martyria e pistis, non è sempre automaticamente conciliabile con
l’aletheia. Quale sarebbe la verosimiglianza che spingerebbe ad inchiodare l’imputato? Il
fatto di aver subito un’accusa per furto di beni sacri. Era chiaro – rimarca l’imputato – che
egli dovesse difendersi, vista l’infondatezza della procedura, e del resto senza la sua difesa
non sarebbe stato neppure verosimile pensare a lui come al colpevole (ouj ga;r a]n eijkovtwı
ejdovkoun ajpoktei'nai aujtovn), ma il compito dei giudici è di incriminare chi si è macchiato
di colpa, non quelli che avrebbero motivi per uccidere.
A ragione Marzi afferma che «le Tetralogie sono un manuale scolastico che vuole
avviare gli allievi ai procedimenti della retorica e della logica piuttosto che a quelli
del diritto; esercitarli all’uso dell’eijkovı nei casi dubbi piuttosto che a mantenersi
rigorosamente entro i limiti della legislazione vigente […]» (cfr. Marzi, Feraboli 1995, p.
26): la Tetralogia I ne è un chiaro esempio, in quanto la difesa è una minuziosa risposta
all’accusa nella sua argomentazione costruita su una puntuale contrapposizione speculare.
Dopo una generale affermazione che è difficile scoprire e confutare un colpevole poiché
chi agisce, se dotato ed esperto, cerca in ogni modo di starsene al sicuro, proteggendosi
da ogni sospetto, l’accusa invita i giudici ad essere ben disposti ad accogliere qualunque
verosimiglianza e a prestarvi fortemente credito (uJma'ı crhv… ka]n ojtiou'n eijko;ı
paralavbhte, sfovdra pisteuvein aujtw/,' a, 1, 2), affermazione dalla quale emerge
chiaramente il condizionamento che l’eikos deve svolgere sulla pistis, proprio come
cercherà di fare poi anche la difesa.100 Si tratta di uno stato richiesto necessariamente dai
Sulla relazione tra pistis ed eikos in un ambito apologetico si veda quanto Erodoto riferisce a proposto
100
di Cleomene di Sparta, indizio di come lo storico fosse influenzato anche dalla logografia attica. Accusato
di non aver conquistato Argo, sebbene sembrasse un’operazione semplice, il re dichiara le sue ragioni
che apparvero agli Spartani credibili e verosimili (pistav te kai; oijkovta, VI 82, 2), a prescindere – nota
46 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
processi indiziari ed in effetti il prosieguo del discorso dell’accusa è una dettagliata teoria
di eikota a proprio favore e contrari alla difesa, anticipandone eventuali argomentazioni
per limitarne il raggio d’azione.101 Prima di tutto non è verosimile che la vittima sia stata
uccisa da comuni malfattori:102 essi si sarebbero accaparrati delle vesti; ipotesi che, come
si è visto, coglie proprio la difesa, mostrando che vi è spazio per deduzioni maggiormente
verosimili rispetto a quelle presentate dall’accusa. Non fu neppure uccisa da un ubriaco:
il colpevole sarebbe stato riconosciuto dai compagni del simposio. Da scartare è anche
l’eventualità di una rissa degenerata o che si sia trattato di uno scambio di persona. La
difesa sembra dunque messa alle strette dopo un tale particolareggiato esame, che porta
a propendere per una premeditazione (ejx ejpiboulh'ı, a, 1, 5) di chi aveva un interesse ad
agire: chi è più verosimile (ma'llon eijkovı) che abbia assalito la vittima di colui che già
in passato aveva subito gravi danni e si attendeva di subirne ancora? Se tutte le ipotesi
avanzate hanno pure un grado di plausibilità, ve n’è una più verosimile che incastrerebbe
in modo inconfutabile l’imputato, il quale, per il rancore covato, comprensibilmente tramò
(eijkovtwı me;n ejpebouvleusen, a, 1, 6), comprensibilmente uccise, cercando di difendersi
dall’ostilità della vittima (eijkovtwı d jajmunovmenoı th;n e[cqran ajpevkteine to;n a[ndra).
L’eikos dunque, non avendo alcun aggancio con fatti concreti, si fonda sostanzialmente sui
sentimenti presunti dell’imputato, di cui si restituisce il processo psicologico: il desiderio
di vendetta, che non ha fatto riflettere sul rischio dell’azione, e il timore di mali imminenti
che si sarebbero riversati. L’accusa arriverebbe così a incastrare l’imputato, provandone la
Erodoto – se esse fossero vere o false (ou[te eij yeudovmenoı, ou[te eij ajlhqeva levgwn, VI 82, 1), e così riuscì
a sottrarsi agli accusatori. Nota in proposito Vassallo (2007, p. 698): «questa associazione di aggettivi, che
non compare altre volte, apre uno squarcio interessante che fa scorgere qualcosa anche al di là del fatto in
sé, giacché mostra che la plausibilità garantita dall’oijkovı può diventare a sua volta criterio di affidabilità,
sicché se questa affidabilità pure non coincide in assoluto con il vero, è buon parametro per prendere una
posizione conoscitiva o pragmatica». Tale osservazione ben si applica tanto più all’ambito giuridico.
101
Il motivo è svolto ancora più diffusamente in Antiph. VI 18 (Sul corego): «quando un delitto
premeditato avviene di nascosto, in mancanza di testimoni, è necessario che sulla base dei discorsi (ejx
aujtw'n tw'n lovgwn) dell’accusatore e dell’accusato si indaghi e si persegua con tenacia la conoscenza di
tali fatti (th;n diavgnwsin poiei'sqai kai; qhreuvein), si cerchi di capire nei dettagli ciò che si nasconde sotto
le parole pronunciate (ejpi; smikrw'n uJponoei'n ta; legovmena) e che si voti sull’accaduto fondandosi su
congetture (eijkazovntaı) più che su un chiaro sapere (savfa eijdovtaı)». Sebbene ciò non sia richiesto dal
processo in questione, in cui si può contare su testimoni e tutto è avvenuto alla luce del sole (cfr. § 19), chi
parla istruisce i giudici sulla vana speranza di raggiungere in generale in un tribunale una conoscenza certa
e incontrovertibile. Il voto nasce in ultima analisi dall’esame dei logoi di fronte ai quali bisogna assumere
il ruolo del cacciatore (qhreuvein), sapendo scovare sempre il sotteso. La congettura a cui i giudici sono
chiamati li avvicina dunque al medico o allo storico; pur non esercitando per professione il loro compito,
essi dovrebbero sviluppare una capacità tecnica raffinata, che solo lo studio della retorica potrebbe
fornire. La congettura, sebbene non garantisca una conoscenza certa, è l’unico mezzo a disposizione per
avvicinarsi al vero. L’importante è procedere con metodo, come indica qui Antifonte. Sulla convenienza
a non formulare congetture avventate, prive della necessaria analisi preventiva, si veda anche il richiamo
in Isocr., Ant. 158 (ajskevptwı eijkavzein).
102
Ou[te ga;r kakouvrgouı eijko;ı ajpoktei'nai to;n a[ndra (a, 1, 4): è integrazione già proposta dallo
Stephanus, sebbene non esattamente in questo punto del paragrafo, nell’edizione parigina del 1575. Il senso
non è comunque in discussione. Irrilevante ai nostri fini è poi la precisa collocazione dell’affermazione
all’interno del testo.
Capitolo 1. Retori in azione 47
Coloro che tramano sarebbero inconfutabili se non fossero confutati né da chi era presente né
dalle verosimiglianze (a, 1, 9).
Con queste premesse sono ancora particolarmente pregnanti, sia per l’abilità retorica che
per le considerazioni teoriche, le repliche della tetralogia. Il secondo discorso dell’accusa
ha uno scopo ben preciso: provare che la difesa non è stata condotta secondo le regole e
pertanto non può essere accolta. Non è più in gioco la dimostrazione della colpevolezza
dell’imputato; ciò, nell’opinione dell’accusa, è già stato provato nel primo intervento
(ejn tw/' protevrw/ lovgw/ ajpedeivxamen, a, 3, 1). Il vero imputato diventa ora il discorso e
l’errato utilizzo della categoria dell’eikos: «ora proveremo a dimostrare che non si è difeso
correttamente (oujk ojrqw'ı)».104 Per indebolire le ragioni della difesa l’accusa opta per una
accurata costruzione argomentativa che privilegia il periodo ipotetico dell’irrealtà: lo scopo
è di rimarcare anche sul piano linguistico la non plausibilità del verosimile avanzato dalla
difesa. Le ipotesi presentate da quest’ultima vengono così relegate nell’ambito dell’irreale
e ciò è suffragato da una potente marca stilistica.105 La causa è tutta fondata sulla plausibilità
della ricostruzione: la verità non è oggetto di ricerca e non è neppure problematizzata.
Alla testimonianza della difesa che poteva sembrare verosimile vengono così
contrapposti argomenti che vogliono apparire ancora più verosimili. L’assenza dal luogo
del delitto dell’accusato non è più verosimile (eijkovteron, a, 3, 5) della sua presenza.106 Le
contribuzioni che egli versò in favore della città sono solo prova del suo benessere, non del
fatto che non uccise; anzi, proprio per il timore di perdere la sua agiatezza è tanto verosimile
quanto empio che abbia ucciso (eijkovtwı me;n ajnosivwı de; ajpevkteine to;n a[ndra, a, 3, 8).
103
A proposito dei testimoni, l’accusa dice che ne avrebbe presentati molti se ve ne fossero stati. Fu
presente però solo lo schiavo, il quale, raccolto vivo, disse di aver riconosciuto tra gli assalitori solo
l’imputato (a, 1, 9). Si tratta di un punto debole, stranamente poco sfruttato dalla difesa, alla luce del peso
che l’unione di verosimile e testimonianza acquista nella chiusura.
104
Poco oltre (§ 4) si afferma che ci si sbaglia anche a ritenere poco credibile la testimonianza dello
schiavo (oujk ojrqw'ı…levgousin). La correttezza argomentativa diventa dunque un aspetto nevralgico
accanto alla verosimiglianza.
105
Primo punto esaminato (§ 2) è la possibilità che ci si trovi davanti a persone che sono fuggite prima di
riuscire a spogliare la vittima: se gli assassini fossero fuggiti (ei[te…w/[conto), coloro che sopraggiunsero,
se avessero trovato (eij…hu|ron) il padrone morto e ancora vivo lo schiavo che poi testimoniò, lo avrebbero
interrogato e avrebbero riferito ai familiari gli esecutori del fatto (ajnakrivnanteı…h[ggeilan a]n hJmi'n);
l’imputato di conseguenza non sarebbe accusato (kai; oujc ou|toı a]n th;n aijtivan ei|cen). Coloro che poi
correvano rischi minori, è difficile pensare come avrebbero potuto tramare nei confronti della vittima
(oujk oi\d∆ o{pwı a]n ma'llon ejpebouvleusan aujtw/', a, 3, 3). Ancora poco oltre (§ 6), per la valutazione del
rischio derivato dall’eventuale processo da sostenere, si ricorre all’irrealtà: finché la vittima era in vita,
non c’era speranza di scampare al processo: «non si sarebbe mai lasciato convincere da lui (ouj ga;r a]]n
ejpeivqeto aujtw/')».
106
Al comparativo per illustrare proprio il medesimo punto ricorre anche la difesa (cfr. a, 2, 8).
48 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
Se da una parte l’accusa tenta di smontare le ipotesi dell’avversario, dall’altra non trascura
di ribadire il ruolo essenziale del verosimile proprio per contrapporsi all’argomento che più
di tutti tra quelli avanzati dall’accusato sembra sminuirne il credito, là dove l’imputato
afferma che, se anche ci fossero ragioni verosimili (eijkovtwı) che lo inchiodassero, egli non
ha ucciso realmente (o[ntwı) e compito dei giudici è di perseguire non chi avrebbe ragioni
per uccidere, ma chi ha commesso effettivamente l’atto (a, 2, 10). Il richiamo dell’accusa a
questo particolare punto è scoperto, ne vengono riprese testualmente le parole: «affermando
che gli assassini non sono quelli che verosimilmente, ma quelli che realmente hanno ucciso
(ouj tou;ı eijkovtwı me;n ajll∆ o[ntwı ajpokteivnantaı, a, 3, 8), riguardo agli uccisori dice
bene». Questa affermazione però è valida quando si hanno dei rei confessi o delle persone
colte sul fatto, «se fosse chiaro (fanerovn) a noi chi sono quelli che lo hanno ucciso». Visto
che però non sono stati svelati gli uccisori (mh; dedhlwmevnwn de; tw'n ajpokteinavntwn),
«costui e nessun altro potrebbe essere (a[n…ei[h) il suo uccisore, confutato dagli elementi
verosimili (uJpo; tw'n eijkovtwn ejlegcovmenoı)». La colpevolezza dell’imputato viene così
ricondotta all’interno di un orizzonte possibile: la forza e la debolezza del verosimile, da
sfruttare a seconda dei momenti delle orazioni, sono strettamente dipendenti dalla costruzione
della frase in cui l’eikos è inserito, alternativamente impiegato in contesti irreali o possibili.
La Tetralogia I è nelle parole dell’accusa l’apologia del processo indiziario; in assenza
di un reo confesso o di un colpevole colto sul fatto, cioè nei casi più frequenti, solo la
verosimiglianza può permettere di condurre una ricerca del colpevole, garantendone
la punizione. Non c’è altro spazio per l’istruzione del processo. Senza l’eikos tutti gli
altri elementi che concorrono alla ricerca di un colpevole si sviliscono. Come aggiunge
immediatamente l’accusa, «atti di questo tipo non si compiono in presenza di testimoni
(ejpi; martuvrwn), ma di nascosto (kruptovmena) (a 3, 8)». L’eikos svela dunque ciò che
resterebbe nascosto, dalle riunioni segrete dei Trenta nella ricostruzione della Contro
Eratostene di Lisia alle illegalità più o meno gravi che avvengono tutti i giorni nella città.
Nel caso specifico la stessa difesa dell’imputato diventa un elemento per portare alla luce
la sua colpevolezza (fanerw'ı ejk th'ı auJtou' ajpologivaı ejlegcqei;ı diafqeivraı, a, 3, 9) e
ciò può avvenire attraverso il ribaltamento del verosimile presentato dallo stesso imputato.
Tale tetralogia è dunque anche, se non principalmente, una riflessione di metodo sulle
procedure processuali, sui modi e sui limiti per l’individuazione dei colpevoli, sugli spazi
riservati all’accusa, sulle contromisure adottabili dalla difesa, sugli eventuali rischi sociali
in cui si incorrerebbe se non si desse peso all’eikos, come emerge ancora chiaramente dalle
ultime sottolineature che l’accusatore consegna ai giudici con tono perentorio (a, 3, 9):
Noi non vi chiediamo nulla, ma vi diciamo soltanto che se costui ora non è confutato né dalle
verosimiglianze, né dalle testimonianze (eij mhvte ejk tw'n eijkovtwn mhvte ejk tw'n marturoumevnwn
ou|toı nu'n ejlevgcetai), non c’è più nessuna confutazione contro gli imputati (oujk e[stin e[ti tw'n
diwkomevnwn e[legcoı oujdeivı).
Di fronte a queste inquietanti considerazioni generali dell’accusa, l’ultima parola della difesa
sembra inizialmente spostare il centro di interesse, avanzando il sospetto di una cospirazione,
ma è sempre l’eikos il termine di riferimento e al grado di maggiore o minore verosimiglianza
con cui l’accusa ha condotto il suo secondo intervento l’imputato oppone di nuovo la sua
Capitolo 1. Retori in azione 49
opinione. Se per l’accusa non è più verosimile (oujk eijkovteron, a, 4, 4) credere che chi si
imbatte in uccisioni o ferimenti si dilegui senza chiedere informazioni, invece di fermarsi per
prestare soccorso e capire cosa sia accaduto, l’imputato non è dello stesso avviso: «io credo
invece (ejgw; de;…dokw') che non vi sia nessun uomo così focoso e coraggioso che, trovati a
ora indebita della notte dei corpi ancora palpitanti, non cerchi di fuggire, girando indietro,
piuttosto che informarsi sui malfattori, rischiando la propria vita (a, 4, 5)». Le certezze della
difesa ridefiniscono le coordinate della verosimiglianza, in un curato gioco di costruzione del
periodo che sfrutta tutte le risorse della lingua greca, non facilmente traducibili in italiano:
Se costoro [i passanti] fecero ciò che era più verosimile, quelli che li uccisero per le vesti
verosimilmente non potrebbero più essere assolti, ed io sono liberato da ogni sospetto.
Il periodo ipotetico si apre con una protasi implicita che presenta la circostanza considerata
dall’accusa come più verosimile (touvtwn de; ma'llon a} eijko;ı h\n drasavvntwn), da cui
discendono due apodosi, la prima possibile, con una negazione (oujk a]n e[ti eijkovtwı
ajfivointo), che colloca la conseguenza nella sfera logica dell’irrealtà.107 Il ragionamento
è sottile: se tutto fosse andato come prospettato dall’accusa, i colpevoli sarebbero già
stati individuati, ma tale possibilità, puramente linguistica, contrasta con la realtà. In
effetti le cose non stanno così; anche la seconda apodosi reale (ejgw; de; ajphvllagmai th'ı
uJpoyivaı) non è vera: l’imputato è ben lungi dall’essere sollevato da ogni sospetto. L’eikos
dell’accusa è stato ribaltato contro l’accusa stessa. Seguendo la verosimiglianza della
parte avversa si arriverebbe a delineare una realtà che contrasta con quanto sta in effetti
capitando. Le conseguenze tratte dall’eikos dell’accusa non trovano riscontro nei fatti. Pur
sfruttando tutte le risorse dell’eikos a suo vantaggio, l’imputato cerca dunque di uscire dai
confini imposti da un tale rigido tipo di argomentazione, ricorrendo ad altre categorie e
spostandosi sul piano dei fatti e della realtà. Su questa base egli intende chiarire (dhlwvsw,
a, 4, 8) anche che non era presente all’evento, deducendolo non dalla verosimiglianza ma
dai fatti (oujk ejk tw'n eijkovtwn ajll j e[rgw/).108
107
Il passo, nevralgico nell’architettura del discorso difensivo, non è di semplice comprensione e lettura, a
partire dal verbo ajfivointo (seconda mano del Crippsianus o Burneianus 95 [A]), forma non paradigmatica
di ottativo del presente di ajfivhmi, accolta dalle più recenti edizioni con esclusione di Gernet (1923),
che corregge in a{yainto, ammettendo però l’oscurità del periodo («le texte et le sens du passage sont
incertains», p. 65, n. 1) e così traduce: «il était vraisemblable aussi que ceux qui avaient tué les victimes
pour les dédouiller les abandonnassent». È interessante notare che la prima mano correttoria di A,
dello stesso scriba del codice che ha ajfivwnto, introduce ajfivonto, lezione anche di N (l’Oxoniensis o
Bodleianus), altra forma non paradigmatica, da intendersi come imperfetto; in tal caso si avrebbe però
una apodosi irreale. Sul passo si vedano Decleva Caizzi (1969, p. 205) e Maidment (1960, pp. 78-79), con
commento e traduzione non del tutto convincenti.
108
A questo fine l’imputato è disposto a sottoporre alla tortura i suoi schiavi e le sue schiave per provare
che egli dormiva in casa la notte del delitto: non era difficile ricordarsene perché era la festa delle Dipolie
(§ 8). Riguardo al benessere economico, per mantenere il quale l’accusato avrebbe agito, uccidendo
secondo verosimiglianza (eijkovtwı, § 9), viene avanzato un quadro del tutto opposto (polu; tajnantiva)
altrettanto plausibile: sono gli sfortunati che cercano di cambiare le cose. Chi è nell’agio non ha alcun
vantaggio nel ricercare il mutamento perché può trovarsi alla fine in uno stato peggiore.
50 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
Se infatti come guardare con gli occhi e ascoltare con le orecchie, allo stesso modo fosse secondo
natura (kata; fuvsin) che i giovani usino violenza, mentre i vecchi siano moderati, non ci sarebbe
bisogno del vostro verdetto (g, 4, 2).
Una tale constatazione ha una conseguenza di non poco conto: se il tribunale è il regno
dell’eikos, la sua assimilazione alla physis comporterebbe in ultima istanza l’inutilità di
qualsiasi pronunciamento: il dato si imporrebbe da sé e verrebbero a cadere tutti i tentativi
di sottrarsi alla giustizia. Il paradosso serve ad Antifonte per ribadire come il verosimile non
sia un criterio assoluto, in quanto non potrà mai assurgere allo stesso livello dell’aletheia,
sostenuta dalla regolarità della natura.110 Se ciò è la causa della debolezza dell’eikos,111
109
L’accusa si servirebbe di prove non verosimili (oujk eijkovsi tekmhrivoiı, g, 4, 2).
110
Si veda tuttavia quanto Vassallo (2007, p. 709) crede di poter ravvisare nelle Storie di Erodoto: «anche
il mondo della physis allora è il luogo dell’opinione, e la gnome anche sugli oggetti della natura si
struttura inseguendo la ricchezza e la coerenza delle informazioni, che si organizzano sull’esperienza non
meno che su una conoscenza più o meno sistematizzata». A sostegno Vassallo rimanda a Gianotti (1988,
p. 709, nota 58), «che parla di kata; oijkovı in termini di “ordine naturale”».
111
Anche Gagarin (2014), attraverso l’analisi in particolare della Tetralogia I e dell’Apologia di Palamede
di Gorgia, mette in luce la debolezza dell’argomentazione con l’eikos, sebbene essa sia in alcuni casi
inevitabile; si veda per esempio p. 20: «factual evidence is more powerful than eikos arguments, even
though it is being used to support a false case. In other words, eikos arguments are not a better guide to the
truth than direct evidence, but sometimes they are the only means available for supporting a true case».
Nella pratica forense gli argomenti costruiti attraverso l’eikos sono sempre considerati inferiori alle prove
e alle testimonianze. In Antifonte si asserisce la priorità della verità sull’eikos, dei fatti sugli argomenti
(cfr. p. 23). Il tentativo in alcuni casi è quello di dimostrare la non validità delle prove e delle testimonianze
e a questo scopo si fa ricorso all’eikos. Se però le prove e le testimonianze vengono accolte come valide,
esse hanno un peso schiacciante. Un esempio interessante è fornito dall’orazione IX di Iseo Per l’eredità
di Astifilo, che mostra una stretta correlazione tra argomenti fondati sull’eikos e i fatti. In questo caso ad
essere contestato è il testamento di Astifilo, che certificherebbe l’adozione del figlio di Cleone, cugino del
defunto. In tal modo il figlio sarebbe nominato erede. Sono soprattutto i testamenti ad essere sottoposti a
contestazione. L’unico documento la cui autenticità non è mai messa in dubbio è la legge. In Dem. 26, 24
si legge che la punizione per la citazione di una legge inesistente è la morte.
Capitolo 1. Retori in azione 51
si rivela anche il suo punto di forza, potendo introdurre una componente di dubbio in
una ricostruzione che si volesse presentare in modo inequivocabile come vera.112 Sono
riflessioni che poi troveranno sviluppo, come si è accennato, nella Retorica di Aristotele
e presuppongono tesi opposte di chi vorrebbe assumere l’eikos come un universale per
fenomeni non regolati da ferree leggi di natura, valido sempre e dovunque, come sempre
operano l’udito o la vista.
Ma le osservazioni di maggior impatto persuasivo della prima Tetralogia sono
riservate alla chiusura del secondo discorso difensivo (§ 10), in cui l’accusato cerca di
svelare apertamente il gioco della controparte, offrendo indirettamente altra materia di
riflessione generale sulla natura dei processi. A suo dire l’accusa parte da considerazioni
verosimili (ejk de; tw'n eijkovtwn) e costruisce l’impianto accusatorio avanzando come ipotesi
l’avvenuta confutazione dell’accusato (prospoiouvmenoiv me ejlevgcein), per poi concludere
però che costui è l’omicida, non verosimilmente, ma realmente (oujk eijkovtwı ajll∆ o[ntwı).
Ritroviamo la stessa opposizione già incontrata. Ancora una volta sottili distinzioni lessicali
fanno emergere profonde contraddizioni: la precisione logica, sintattica e semantica è del
resto una cifra caratteristica dello stile di Antifonte, che tende anche altrove ad attenersi il
più possibile ai fatti.113 Si sconfina dunque dall’eikos alla realtà: è questo salto di statuto
ontologico, dalle pesanti conseguenze giudiziarie, che viene contestato.114 Il limite e la
pericolosità di una tale procedura sono subito sottolineati dall’imputato, secondo il quale
del resto buona parte dei dati verosimili è a suo favore; non solo, lo sono anche i tekmeria.
112
Tale uso ambivalente dell’eikos si ritrova pure nella prima orazione del corpus antifonteo – sulla quale
si sono concentrati i maggiori dubbi di autenticità – una causa reale, in cui un figlio accusa la matrigna
per la morte del padre. Egli, giovane ed inesperto, assolvendo il compito della vendetta affidatogli dal
genitore in punto di morte, si trova a doversi scontrare contro chi sarebbe meno opportuno muovesse
causa, cioè i parenti più prossimi: costoro sarebbe stato verosimile che si assumessero la vendetta del
defunto e sostenessero l’accusatore (§ 2). Tutto è avvenuto pertanto in modo contrario a quanto ci si
attenderebbe. Chi parla tiene implicitamente a sottolineare subito in apertura che ogni caso non può
rispondere a un criterio di verosimiglianza, in tal modo indebolendo anche un’eventuale difesa fondata
sulla non credibilità che a colpire la vittima siano stati dei congiunti. L’eikos diventa tuttavia poco oltre un
sostegno per l’accusa quando si rimarca il rifiuto della difesa di sottoporre a tortura gli schiavi. Nel caso in
cui la consegna degli schiavi fosse stata proposta dalla difesa e rifiutata dall’accusa, sarebbe stata utilizzata
dalla difesa come prova di innocenza. A parti mutate è dunque verosimile (eijkovı, 11) che tale rifiuto sia
considerato indizio di colpevolezza. Un invito ai giudici ad oltrepassare i limiti dell’eikos si ritrova anche
nel secondo discorso di difesa della seconda Tetralogia. Se è comprensibile (eijkovı, 1) che l’accusatore,
concentrato sulla sua azione, non abbia capito la difesa, è compito (crhv) di chi deve formulare il verdetto
conoscere che le parti in causa, valutando il fatto con spirito di parte, pensano entrambe di dire secondo
verosimiglianza il giusto (eijkovtwı divkaia eJkavteroi auJtou;ı oijovmeqa levgein); spetta però ai giudici
osservare con scrupolo religioso (oJsivwı oJra'n proshvkei) l’accaduto. La verosimiglianza dunque, che qui
definisce l’atteggiamento di una delle parti chiamate in giudizio, si oppone alla necessità a cui sono tenuti
i giudici; al giusto fondato su criteri verosimili presentato nei processi dai contendenti viene opposto il più
alto comportamento pio richiesto ai dikastai.
113
Cfr. Bonazzi (2006, in particolare p. 132, n. 38), che a sua volta rimanda a Gagarin (2002).
114
D’altra parte l’accusa, come si è ricordato, ha precedentemente sottolineato che non vi è altro modo di
procedere in caso di processo indiziario, in assenza di un reo confesso o di un omicida colto in flagrante
(a, 3, 9). Allo stesso modo Eschine nella Contro Timarco (§ 91) afferma che, nel caso in cui uno commetta
un reato e neghi la sua colpevolezza, la verità in tribunale è ricercata sulla base del verosimile.
52 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
Svelata dunque la subdola condotta dell’accusa, la difesa si riappropria di tutti gli elementi
classici del dibattimento, non da ultimo anche degli indizi (tav te i[cnh tou' fovnou).
L’accusato è consapevole di toccare temi molto delicati, di mettere in crisi la validità
stessa dell’atto giudiziario, di allarmare la sensibilità dei giudici, che potrebbero avvertire
come vano il loro compito. Tiene dunque ad affermare che, al di là del caso in questione, la
vicenda, che svolge un ruolo emblematico, non impedisce di confutare i colpevoli, come
vorrebbe far credere l’accusa,115 ma offre solo la possibilità di difendersi adeguatamente
a coloro che sono chiamati in processo. In presenza di un peso schiacciante assegnato
all’eikos, assunto come criterio unico ed assoluto di verità, non soggetto a diversi gradi di
attendibilità, qualsiasi difesa non potrebbe più operare; relegata in posizione subalterna,
non riuscirebbe a presentare una sua verosimile ricostruzione (§ 10):
Visto che tutte le accuse contro di me sono state confutate come indegne di fede (ajpivstwn),
non è vero che, se sarò assolto, non vi saranno elementi da cui trarre materia con cui confutare
dei malfattori; piuttosto, se sarò condannato, non vi è nessuna difesa sufficiente per gli accusati
(oujdemiva ajpologiva toi'ı diwkomevnoiı ajrkou'sav ejstin).
115
Cfr. a, 3, 9.
116
Per la tesi contraria si veda per es. Pendrick (2002).
117
Tra i bersagli di Antifonte, Bonazzi (2006) individua nella sua lettura dei frammenti dell’opera Sulla
verità la debolezza della legge, che altro non è se non opinione: «l’unica realtà è infatti ciascun singolo
individuo, mentre le leggi della polis, rivolte come sono a un’astratta collettività di cittadini, riescono al
massimo a costruire un consenso esteriore e artificiale, che si rivela però incapace di tutelare i reali (reali
in quanto naturali) interessi dei singoli» (p. 129). Il saggio di Bonazzi ben mette in luce che le analisi di
Antifonte si prestano come un «efficace strumento di critica dell’ideologia democratica» (p. 132).
Capitolo 1. Retori in azione 53
che poi diventerà fondamentale, come si è già osservato, nella generazione futura dei
retori operanti nella democratica Atene: l’aggancio ai valori condivisi dalla polis, al
comportamento del buon cittadino, che farà dell’eikos quasi una parola d’ordine, un
richiamo necessario e sufficiente per istruire i giudici e per indirizzarli nelle loro scelte,
ribadendo a loro da quale parte stare se vogliono servire la causa democratica, creando il
consenso e la complicità tra chi parla e chi ascolta. Se l’eikos non è un universale naturale,
esso diventa un universale sociale. Tutto ciò non è rintracciabile in Antifonte, è potente
invenzione ideologica di altri. L’eikos di Antifonte è unicamente un procedimento retorico
e logico che serve alla ricostruzione dei fatti e come tale viene sfruttato ed indagato.
Passando dalle mani dell’oligarca a quelle degli oratori della grande stagione
dei processi dell’Atene democratica, l’eikos, non limitato solo all’ambito logico ed
argomentativo, acquista forza persuasiva. Questa operazione garantirà a tale categoria una
duttilità d’uso e una lunga sopravvivenza. Basta spesso il richiamo ad esso per rassicurare
i giudici che quanto viene presentato ha il sigillo della plausibilità e della convenienza,
a prescindere dalle argomentazioni che lo accompagnano. Ma per tutte le ricostruzioni
verosimili resta sempre valida la constatazione contenuta in due versi del poeta tragico
Agatone, il frequentatore di Socrate, che dovettero piacere molto ad Aristotele, tanto che
egli li ricorda nella Retorica (1402a 10) e vi allude nella Poetica (1456a 24-25). Essi
suonano come un monito rivolto a tutti i giudici, non solo di Atene e dell’età classica:
Questo si potrebbe dire facilmente verosimile, che ai mortali capitano molte cose inverosimili.
Ai giudici e ai retori spetta dunque, a ben vedere, la fatica di Tantalo: una volta ricostruito
un quadro verosimile, si deve sempre mettere in conto che tutto può essere vano.
118
Quest’ultimo ha parlato per amore di verità (meta; tou' ajlhqou'ı, 50), disposto ad affrontare qualsiasi
sofferenza. Lo schiavo poteva essere allettato dalla prospettiva della libertà e ciò spiega le due versioni
contrastanti che ha fornito. Dall’interrogatorio sotto tortura dei due testimoni deve essere ricavato il
dikaion e l’eikos (§ 49).
119
Analoga espressione si ritrova in Erodoto nell’analisi condotta dallo storico sui reali sentimenti di
Demarato nei confronti degli Spartani (wJı me;n ejgw; dokevw, kai; to; oijko;ı ejmoi; summavcetai, VII 239, 2).
54 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
testimonianza, il peso di una prova. Questo è il punto: in una visione agonale del processo,
bisogna cercare di trarre dalla propria parte le testimonianze. Le prove e ancor di più i
dati verosimili devono coincidere con il giusto. La difesa chiede ai giudici di esaminare
(skopei'te, 49) il dikaion e l’eikos, quasi a voler sovrapporre le due categorie, inculcando
così l’idea che il verosimile, il suo verosimile presentato, sia un tutt’uno con il giusto.
Non ci sarebbe alcun movente ad aver spinto all’omicidio l’imputato, neppure ragioni
economiche, che «in modo verosimile e con verità (59)» ricadrebbero contro gli stessi
accusatori, mossi forse dal desiderio di sottrarre beni a Eussiteo: con un altro sintagma
pregnante (eijkovtwı meta; th'ı ajlhqeivaı) in questo caso verosimile e verità vanno di
pari passo, non creano alcun cortocircuito; le due componenti, di norma inconciliabili,
trovano un punto d’incontro, in una formulazione che non dovette passare inosservata per
le valenze non comuni.
La difesa, molto elaborata, non si limita al caso maggiore: al suo interno infatti
l’apologia principale ne contiene un’altra, quella a favore di Licino, colui al quale Eussiteo
avrebbe avuto intenzione di comunicare l’avvenuto omicidio, evidentemente perché
commesso per conto di quello. Anche la difesa di Licino è tutta sostenuta dall’eikos (§ 60),
a sua volta suffragato, come diventerà poi pratica abituale nel IV secolo, da un mevgiston
tekmhvrion (61): non è ragionevole pensare che Eussiteo abbia agito per conto di Licino
quando non aveva alcun bisogno di denaro e Licino era più povero di lui.120 La difesa,
qui richiamata nelle sue linee generali, procede con un serrato argomentare ed Eussiteo
non difende solo se stesso e Licino, va oltre, offrendo, sempre sulla base dell’eikos, la sua
ricostruzione, quasi a voler provare che il suo ragionamento ha una forza schiacciante.
Rimane però il fatto che la vittima è sparita e che il cadavere non è stato ritrovato. Se si
vuole indagare anche su questo aspetto, è necessario avanzare congetture (eijkavzein, 64),
esercizio richiesto allo stesso modo (ejx i[sou) alle due parti, al quale l’imputato non si
sottrae, svelando inevitabilmente ancora una volta i limiti dell’eikos su cui aveva fino a
quel punto costruito tutta la sua linea difensiva. È questa la parte dell’orazione più ricca
di implicazioni teoriche, che pongono anche a livello esegetico alcuni interrogativi di non
semplice soluzione.
C’è in proposito un passaggio molto significativo. Dice l’imputato (§ 65) che per chi ha
commesso il fatto (tw/' de; poihvsanti) l’esposizione (ajpovdeixiı) è facile e, nel caso in cui
non voglia presentare una relazione dell’evento come esso è accaduto (mh; ajpodeivxanti), è
sempre agevole fornire delle buone congetture, proporre cioè una ricostruzione verosimile
efficace (eu\ eijkavsai). ‘Fare una ricostruzione verosimile efficace’, a ben vedere, altro
non è se non cercare il modo di scagionarsi, pur colpevoli, riversando su innocenti la
propria colpa. In tal modo Eussiteo, dopo aver fondato tutta la sua difesa sull’eikos, lo
indebolisce, smascherandone i limiti per il raggiungimento della verità. L’eikos non è
Un passo interessante per cogliere il legame spesso instaurato dagli oratori tra eikos e tekmerion è Lys.
120
VI 20. Chi parla spera che la controparte riceva la giusta punizione, anche se a distanza di tempo: il dio
non punisce immediatamente (così opera la giustizia umana): «spero dunque che egli paghi le sue colpe e
non ci sarebbe per me nulla di strano (qaumavsion de; oujdevn) […]. Sono in grado di congetturarlo, traendo
prove da molte parti (pollacovqen de; e[cw tekmairovmenoı eijkavzein) […]».
Capitolo 1. Retori in azione 55
Non riteniate che la mia assoluzione dipenda dalle mie eventuali congetture efficaci (mhde; eja;n
eu\ eijkavzw, ejn touvtw/ moi ajxiou'te th;n ajpovfeuxin ei\nai), ma mi basti dimostrare me stesso non
colpevole del fatto (ajnaivtion ajpodei'xai tou' pravgmatoı).
121
Non penso che si possa sbrigativamente risolvere questa parte come dominata da un semplice «gioco
dell’eijkovı», come crede Marzi (Marzi, Feraboli 1995, p. 176, n. 62) sulla scorta di Gernet, che vi coglie,
stando alle parole dello stesso Marzi, «un umorismo un po’ altero, proprio della maniera di Antifonte», in
quanto qui «la personalità dell’avvocato traspare sotto quella del suo cliente». Un’interessante riflessione
che lascia intravvedere ancora una volta il limite a cui va incontro l’eikos nell’accertamento congetturale
della verità si trova nell’Antidosis (53). Isocrate, per dimostrare la sua innocenza, visto che l’accusa fittizia
che lo riguarda investe logoi, non potrà fare nulla di meglio che produrre logoi. Se fosse stato chiamato
a rispondere su atti commessi (peri; pravxeiı), non sarebbe stato in grado di presentarli ai giudici (uJmi'n
aujta;ı parascei'n), ma «voi sareste costretti a farvi un’opinione congetturando da quanto viene detto
(ajnagkaivwı ei\cen eijkavzontaı uJma'ı ejk tw'n eijrhmevnwn diagignwvskein), come meglio potrete». Isocrate
ribadisce dunque la stretta connessione tra l’eikos e la pratica retorica e come esso condizioni e determini
difese e accuse. L’ascolto dei discorsi isocratei, presentati qui nel contempo dall’accusa come causa di
colpa e dalla difesa come prova di innocenza, elimina la dovxa, l’opinione soggettiva dei giudici, per
guidarli verso una chiara conoscenza (ouj doxavsanteı ajlla; safw'ı eijdovteı, 54).
56 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
interessanti per sfruttarli a loro vantaggio se si fosse presentata l’occasione. Viene così
anche richiamato il tentato omicidio di un padrone da parte di uno schiavo dodicenne:
se non si fosse spaventato e non si fosse dato alla fuga, l’atto sarebbe stato portato a
compimento e a rischiare sarebbero stati tutti gli altri schiavi. È un invito a non esprimere
un verdetto frettoloso, ma nello stesso tempo è ancora una volta la constatazione del
limite di una ricostruzione puramente verosimile: «nessuno infatti avrebbe mai pensato
che quello schiavo osasse tanto (oujdei;ı ga;r a]n w/[eto to;n pai'da tolmh'saiv pote tou'to,
69)». La realtà va spesso oltre l’immaginazione. La fretta fu mala consigliera anche nei
confronti degli Ellenotami, accusati di aver mal gestito i fondi statali. Tutti furono uccisi,
tranne uno, e solo più tardi la vicenda si chiarì. L’unico rimasto in vita non fu giustiziato,
ma intanto tutti gli altri morirono ingiustamente. Ciò insegna a sottoporre i fatti alla prova
del tempo (meta; tou' crovnou basanivzein ta; pravgmata, 71), senza cedere all’ira e alla
calunnia per garantire la normalità della convivenza civile:
È normale (eijkovı ejsti) che paghino le colpe coloro che commettono ingiustizia, e che invece
ricevano pietà coloro che rischiano ingiustamente (73).
L’unico eikos riconosciuto in modo inequivocabile e che non comporta rischi, anzi è
sinonimo di giustizia ed equità, è dunque quello che concorre a determinare le regole
della comunità e per questo motivo gli oratori sono attenti a far passare come universali
sociali i comportamenti che corrispondono a quanto essi intendono per verosimile. Ma
al verosimile e alle congetture122 operanti nei processi deve essere anteposto il tempo, il
vero inquisitore. È il tempo che deve istruire i giudici nel loro compito; questo sembra
l’insegnamento più profondo di tutta l’orazione, riassunto in una frase che ha la forza
persuasiva di una sentenza dal tono quasi tragico:
Giorno che succede a giorno, o signori, molto giova ad allontanare la mente dall’ira e a scoprire
la verità dei fatti accaduti (72).123
122
Per il limite della congettura si veda anche Lycurg. Ad. Leoc. 28. L’oratore invita a considerare come
egli abbia condotto un esame giusto attorno ai fatti (dikaivan th;n ejxevtasin). Sua intenzione infatti è che i
giudici su colpe così gravi non si esprimano in base a ricostruzioni verosimili, congetturali (eijkavzontaı),
ma dopo essere venuti a conoscenza della verità (th;n ajlhvqeian eijdovtaı). Emerge con tutta evidenza
l’approssimazione di molti processi, alle prese con l’impossibilità di far valere gli e[rga e costretti a
ricorrere all’eijkovı che è pur sempre di grado minore rispetto all’ajlhvqeia. A ciò Licurgo vuole opporsi,
recuperando la verità dei fatti, normalmente considerata estranea ai processi, come il già citato passo del
Fedro rimarca attraverso le parole di Socrate (cfr. 272d-73a).
123
Un simile concetto si ritrova in Lys. XIX 6. Vengono richiamati processi in cui più imputati sono
giudicati per la stessa accusa: «nella maggior parte dei casi gli ultimi ad essere giudicati vengono assolti.
Infatti li ascoltate quando ormai avete deposto l’ira e allora accogliete ben disposti le confutazioni (tou;;ı
ejlevgcouı h[dh ejqevlonteı ajpodevcesqe)».
Capitolo 1. Retori in azione 57
Sono pertinenti osservazioni di Luciano Canfora (Canfora 1974, p. 18)124 che ci spingono
a riflettere su come le differenti circostanze in cui si tiene il logos symbouleutikos rispetto
al logos dikanikos influiscano anche sull’utilizzo dell’eikos. Chi parla in assemblea deve
valutare il diverso grado di attenzione dell’uditorio e il mutevole clima in cui è chiamato
ad operare: difficile, anzi controproducente, è pertanto svolgere un’argomentazione
o una ricostruzione dei fatti secondo le abitudini del tribunale. L’oratore politico, pur
provenendo da precedenti o parallele esperienze giudiziarie, in quanto per chi voglia
parlare in assemblea «la strada maestra sono i processi politici» (Canfora 1974, p. 18),125
deve essere in grado di attuare altre strategie, limitando o tralasciando del tutto quelle a cui
è più avvezzo. È il discorso giudiziario il terreno privilegiato dell’eikos. Ciò spiega perché,
a fronte di un uso esteso e variegato nei processi, si registra un’occorrenza più limitata, o
comunque finalizzata a scopi diversi, nei logoi epideiktikoi e symbouleutikoi a noi rimasti.
Già la tradizione retorica antica appare ben consapevole di una tale caratteristica: Dionigi
di Alicarnasso con espressioni efficaci parla di Lisia come del migliore a presentare la
congettura e l’esempio (tou' eijkovtoı a[ristoı oJ ajnh;r eijkasth;ı kai; tou' paradeivgmatoı,
Lys. 19) nella ricostruzione del fatto e altrove lo giudica più credibile rispetto a Isocrate
nel proporre congetture della verità (th'ı ajlhqeivaı piqanwvteron eijkasthvn, Isocr. 11).
La sintetica ed incisiva descrizione delle caratteristiche delle tre forme discorsive
riportata nella Retorica (1414a 8 ss.) può illuminare ancora meglio sulle cause della
conseguente diversa valorizzazione dell’eikos. Dice Aristotele che l’elocuzione nei
discorsi politici è del tutto simile alla pittura in chiaroscuro. Quanto più è grande la massa
delle persone, tanto più lontano deve essere collocato il punto di osservazione; i dettagli
sono inutili (ta; ajkribh' periverga), anzi dannosi (ceivrw faivnetai). L’elocuzione forense
invece è più precisa (ajkribestevra). Ciò è ancora più vero quando la causa è presentata
davanti a un giudice unico, in quanto sono richiesti meno orpelli retorici (ejlavciston ga;r
e[nesti rJhtorikh'ı). È infatti più facile abbracciare con uno sguardo ciò che è proprio
dell’azione giuridica (to; oijkei'on tou' pravgmatoı) e ciò che è estraneo; manca la contesa
e il giudizio è puro, non è inficiato da elementi esterni, non pertinenti. Questo sarebbe il
motivo per cui, secondo Aristotele, non sono gli stessi oratori ad eccellere in ciascuna
delle pratiche discorsive. Dove è concesso maggiore spazio alla recitazione (uJpovkrisiı),
là si trova minore precisione (h{kista ajkrivbeia e[ni) e ciò accade soprattutto nei casi
in cui si ricorre alla voce (fwnh'ı), in particolare alla voce alta. L’elocuzione epidittica
infine è la più adatta alla scrittura (grafikwtavth), in quanto essa trova il suo compimento
124
Sull’attitudine di Demostene all’improvvisazione, riscontrabile anche nella redazione scritta dei
discorsi, sono utili i lavori di Dorjahn (1947, 1950, 1952).
125
Emblematico è il caso di Demostene.
58 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
proprio nella lettura (to; ga;r e[rgon aujth'ı ajnavgnwsiı) ed è seguita in questa graduatoria
dall’elocuzione giudiziaria.
Aristotele dunque, attraverso il confronto con la tecnica pittorica, dispone le tre forme
discorsive su una scala in cui le variabili risultano la precisione nei dettagli (ajkrivbeia),
la recitazione, cioè l’abilità dell’oratore a sostenere la parte come sulla scena, l’uso della
voce (fwnhv), la migliore adattabilità alla scrittura e il rispetto del tema da trattare, secondo
una gradualità che può essere così visualizzata:126
126
Colloco tra parentesi quadra i dati che Aristotele non esplicita direttamente. Sul passo della Retorica
si veda Pepe (2013, pp. 219 ss.).
Capitolo 1. Retori in azione 59
Mi sembra che uno, o signori ateniesi, postosi a calcolare con giustizia quanto gli dei ci hanno
concesso, sebbene molte cose non vadano come si deve, tuttavia sarebbe a loro assai grato, e
a ragione (eijkovtwı). L’aver subìto infatti (gavr) molte perdite in guerra, uno lo imputerebbe
giustamente alla nostra trascuratezza, ma il fatto che in precedenza (pavlai) non si è patito nulla
di ciò e che si è prospettata per noi un’alleanza, se volessimo ricorrervi, a controbilanciare questi
eventi, io lo considererei come un beneficio della loro benevolenza.127
Demostene sintetizza qui in una frase un lungo processo analitico, una riflessione meditata
sugli avvenimenti della recente storia ateniese, confrontandoli con eventi più lontani nel
tempo (pavlai), per concludere con delle indicazioni pratiche per l’immediato futuro,
con la prospettiva di possibili alleanze. La contingenza del momento non richiede una
spiegazione più dettagliata, una esplicitazione di tutti i passaggi che hanno portato alla
conclusione sulla necessità di una guerra contro Filippo attraverso il sostegno a Olinto.
È sempre l’eikos, molto sfruttato in questo inizio di orazione, a supportare la proposta
già presentata poco prima. Anche in tal caso Demostene tralascia i dettagli e va al cuore
del problema: se gli abitanti di Olinto fossero stati spinti alla guerra dagli Ateniesi, essi
si sarebbero mostrati alleati poco sicuri, ma tutto si è verificato spontaneamente, con un
indubbio vantaggio e visto che ora, in seguito alle recriminazioni di Filippo contro di
loro, essi lo odiano, «è normale (eijkovı) che nutrano un odio radicato per quanto temono e
hanno subìto (7)». Demostene dunque non propone ai suoi concittadini un salto nel buio:
si prospetta, a ragion veduta, un futuro favorevole.
È secondo tale schema e per sostenere considerazioni di questo tipo che viene sfruttato
l’eikos nelle demegorie demosteniche: è naturale attendersi che gli dei stiano dalla parte
degli Ateniesi contro Filippo (11, 2); nessun greco deve temere ragionevolmente la guerra
di cui si sta trattando sulla base di quanto avveniva nel passato (14, 35); bisogna stare
127
Per ulteriori casi di eijkovtwı seguito da gavr cfr. per es. 4, 1 (l’apertura della Filippica I, per giustificare
il comportamento tenuto da Demostene che si presenta a parlare per primo); 4, 24 (è naturale la cattiva
condotta dei mercenari: non si può pensare di comandare quando non si paga); 8, 41 (nulla più del regime
ateniese Filippo cerca di contrastare e lo fa a ragione, perché non può mantenere un dominio sicuro fino
a che in Atene vige la democrazia); 10, 47 (probabilmente passo pensato per un proemio di un’eventuale
nuova Filippica: un altro, Filippo, ha occupato il posto che spettava agli Ateniesi nel momento in cui essi
hanno trascurato di compiere il loro dovere; è normale che sia così: egli si è impossessato senza disturbo
di una prerogativa onorifica, grande e splendida). L’espressione si riscontra ampiamente all’interno del
corpus demostenico anche nei discorsi giudiziari, segno che è un modulo tipico dell’oratore e della sua
scuola; cfr. 17, 13, 25; 23, 209; 24, 24, 210; 25, 97; 26, 5; 34, 51; 36, 30; 44, 3, 53, 67; 57, 4, 33; 59, 41-42;
61, 30; Ep. III, 25. Si veda anche Isoc., Ant. 136, 292, 295.
60 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
attenti a non comportarsi in modo che agli occhi degli altri Filippo non appaia giustamente
meritevole della loro amicizia (14, 37); non c’è nulla di strano che sia molto difficile
per gli Ateniesi fare ciò che si deve (15, 30), è anzi normale che si verifichino situazioni
come quelle descritte dall’oratore (15, 31). L’eikos e la semplice forma avverbiale servono
dunque a sostenere l’argomentazione128 o ad accompagnare la descrizione di una realtà
concreta in cui gli Ateniesi si trovano o che dovranno affrontare secondo le previsioni.
È su questa realtà che l’oratore politico deve agire, presentando un quadro chiaro degli
eventi, proponendo rimedi, prospettando alternative o eventuali correttivi.
Un bell’esempio di una tale struttura si trova nella parte finale della Filippica IV.129 Qui
l’espressione ricorre due volte all’interno di quella che si presenta nel contempo come una
delle più acute analisi dei mali di Atene e un dettagliato progetto di rinnovamento politico.
È logico che un altro, nella fattispecie Filippo, sia favorito dalla sorte, diventi potente e
padrone della situazione (e{teroı, ou|toı eujdaivmwn kai; mevgaı kai; pollw'n kuvrioı gevgonen,
eijkovtwı, 47), visto lo stato in cui si trovano gli Ateniesi, che hanno abbandonato i costumi
degli avi. Dopo questa affermazione il discorso procede cercando di convincere che lo
stato di isolamento della città è del tutto naturale: è normale che si viva la presente realtà,
non c’è nulla di strano, è una conseguenza inevitabile:
Sebbene i fatti dei Greci siano divisi tra tante fazioni e tanti poteri, se bisogna dire schiettamente
la verità, si potrebbe vedere che presso nessuno le sedi del comando e delle decisioni per i fatti
greci sono più abbandonate che presso di noi. Ed è normale (eijkovtwı); nessuno infatti (ou[te
ga;r…oujdeivı), né perché amico, né perché si fida, né perché ha paura discute con noi (53).
In tal modo chi parla si rappresenta in grado di dominare gli eventi, di non esserne in balìa,
aumentando il suo tasso di autorevolezza, mostrandosi rassicurante. Se si seguiranno le
proposte, le contromisure produrranno risultati consequenziali e certi, in quanto sono stati
previsti con gli stessi procedimenti che hanno garantito la corretta analisi del presente.
Non è comunque escluso dal logos symbouleutikos un impiego dell’eikos che ricalca
più da vicino quello dell’azione processuale, in particolare quando si vuole mettere in luce
qualche ingiusta condotta. È il caso dell’orazione Su Alonneso, attribuita ad Egesippo.
Filippo considera la strategica isola delle Sporadi settentrionali un suo possesso e quindi la
cessione agli Ateniesi, che la rivendicherebbero senza fondati motivi, è una sua benevola
concessione. Egli l’aveva liberata dai pirati e ciò gli garantirebbe il possesso. Ma – fa
notare l’estensore del logos – non è difficile dimostrare l’infondatezza del ragionamento,
che non risponde a giustizia (divkaioı, 3). Chi si vendica dei pirati, che occupano territori
altrui per farne la base del loro potere, se dicesse che quei territori, una volta liberati,
diventano suo possesso, «non direbbe certamente cose verosimili (oujk a]n dhvpou eijkovta
levgoi)». «Se infatti ammetteste questo, che cosa impedirebbe che, se dei pirati prendessero
Ai fini della presente indagine sono ininfluenti la natura e la paternità, discussa fin dall’antichità, della
129
Filippica IV, molto probabilmente un discorso composito. Sulla Filippica IV e più in generale sui discorsi
assembleari demostenici, demegorie reali o opere pamphlettistiche, cfr. Canfora (1974, pp. 19-22; 27-28)
e Canfora (2006, p. 114).
Capitolo 1. Retori in azione 61
Il principio dunque per un corretto esame di tutti gli aspetti è pensare di non conoscere nulla
prima di apprendere, soprattutto sapendo che già molti hanno cambiato opinione. Nel caso in cui
voi ora vi troviate ad essere convinti di queste cose, penso che anch’io per quanto mi riguarda
con poche parole sembrerò parlare in senso opposto in modo ragionevole (kai; aujto;;ı ajntilevgein
eijkovtwı dovxein) e vi appaia che dica il meglio (3).
L’oratore, nella sua capacità di anticipare le misure da adottare, non deve temere di opporsi
alle idee della maggioranza quando le congiunture sono sfavorevoli, anche se non è
sempre facile trovare accoglienza. È la situazione delineata pure sullo sfondo del Proemio
38. Si rimarca tra l’altro la difficoltà non solo nel dare i consigli, ma anche semplicemente
nel farsi ascoltare. Se è dunque comprensibile (eijkovı ejstin, 2), visto che ci si trova in un
momento critico, nutrire del risentimento (ojrgivlwı uJma'ı e[cein), non è comprensibile e
non è giusto (oujkevt jeijko;ı oujd jojrqw'ı e[con ejstivn) prendersela indistintamente con tutti
e non con chi ne è causa, anche perché bisognerebbe essere riconoscenti nei confronti
di coloro che possono illustrare come le situazioni che restano da affrontare andranno
meglio (ta; de; loipa; pw'ı e[stai beltivw levgein e[conteı). Pure con il rischio di dover
subire qualche cosa di spiacevole, l’oratore, come in passato, non si sottrae dal consigliare
(o{mwı d∆ ajnevsthn sumbouleuvswn, 3), in quanto ha la ferma convinzione di avere proposte
migliori degli altri da sottoporre al vaglio dei concittadini. Presentarsi come il politico
in grado di suggerire soluzioni migliori è pertanto essenziale, la condizione preliminare
per poter predisporre favorevolmente l’assemblea. Non c’è nulla di strano che coloro che
62 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
da sempre e con pervicacia sono i fautori dell’oligarchia e che continuano anche ora a
mantenere lo stesso atteggiamento vengano confutati, «ma ci si potrebbe a ragione stupire
(a[n tiı eijkovtwı qaumavsai) di più del fatto che voi, pur sapendo ciò, spesso ascoltate con
più piacere costoro rispetto a quelli che parlano per voi»: così è l’attacco del Proemio 42.
I proemi raccolgono dunque un ampio repertorio di motivi presentabili con il sostegno
dell’eikos, delle cui risorse anche il symboulos vuole mostrarsi abile conoscitore,130 sebbene,
non dovendo ricostruire cause indiziarie, ma prevedere il futuro per prospettare strategie
efficaci, il suo compito sia più che altro quello di congetturare: l’eikos si concretizza nella
speciale forma dell’eikasia.131 A questa ricorre Demostene nella parte finale della seconda
Filippica (33), dove egli si augurerebbe di aver torto pur di non vedere la città di Atene
precipitare nelle difficoltà paventate: «penso che le azioni di Filippo vi affliggeranno un
giorno più di quelle attuali. Vedo infatti che la situazione si sta modificando e non vorrei
che mie congetture fossero corrette (oujci; bouloivmhn a]n eijkavzein ojrqw'ı), ma temo che
ciò sia ormai troppo vicino». Come è detto nel congedo di orazione (37), non è necessario
entrare nei dettagli; basta all’oratore richiamare alcuni eventi per mettere in guardia i
suoi concittadini e per rinfrescare a loro la memoria, a mo’ di appunto (tau't j ou\n wJı
me;n uJpomnh'sai nu'n iJkanw'ı ei[rhtai), con l’augurio che, con l’aiuto degli dei, non se ne
130
Sul ricorso all’eikos da parte di figure che esercitano le funzioni di consiglieri sono interessanti alcune
vicende raccontate da Erodoto. È un argomento fondato appunto sull’eikos a far propendere Dario in merito
alla sua successione al potere in favore di Serse e non di Artobazane. Lo spartano Demarato consiglia a
Serse di far valere, oltre alle altre ragioni addotte, anche il fatto che egli era il primo nato dopo che Dario
diventò re. Anche a Sparta – sostiene Demarato – era uso (ou{tw nomivzesqai, VII 3, 3) che, in presenza
di figli nati prima che il padre fosse salito al trono e di un nato durante il regno, la successione spettasse
a quest’ultimo, in contrasto con la tradizione difesa da Artobazane e invalsa presso tutti i popoli in base
alla quale era il più anziano a ricevere il trono. «Non era dunque né conveniente né giusto (ou[te oijko;ı ei[h
ou[te divkaion) che un altro ricevesse la dignità regale». L’eikos nel ragionamento di Demarato entra in tal
modo in una stretta concatenazione con il dikaion e con il nomos, che travalica le istituzioni dei singoli
popoli finendo per imporsi in ambiti diversi. Il suggerimento di Demarato risultò vincente in quanto Dario,
riconoscendo che Serse parlava giustamente (levgoi divkaia, VII 3, 4), nominò lui come re. Serse sembra
aver appreso la lezione dell’eikos e ad esso ricorre in prima persona proprio in risposta a Demarato, che
lo ammoniva a stare in guardia nei confronti degli Spartani, i quali, seppur pochi, non cederebbero mai al
nemico (VII 103, 3). Le considerazioni del re, fondate a suo parere su una totale verosimiglianza (panti;
tw'/ oijkovti), che porterebbe a concludere sulla schiacciante superiorità dei Persiani, non si riveleranno
però corrette. È ancora Serse a ricevere un consiglio fondato sull’eikos, questa volta da Mardonio, che,
per spronarlo alla spedizione in Grecia, fa valere la ragione che «non è giusto (oujk oijkovı ejsti) che gli
Ateniesi, commessi molti mali ai Persiani, non paghino per le colpe che hanno compiuto (VII 5, 2)».
Sempre in ambito persiano all’eikos nel racconto erodoteo fa appello pure Atossa per convincere Dario a
muovere guerra ai Greci (III 134, 2): ci si aspetta (oijko;ı d jejstiv) infatti che un uomo giovane e padrone
di grandi ricchezze dimostri qualche cosa di grande. Così i Persiani sapranno da chi sono governati. È
evidente che Erodoto sfrutta in tali casi strutture retorico-argomentative già ampiamente sperimentate, di
cui dimostra di avere ampia conoscenza. Sull’eikos in Erodoto si veda Vassallo (2007).
131
Sulla stretta contiguità tra eikos ed eikasia cfr. Vassallo (2007, p. 694). Diversamente da quanto
sostiene Butti de Lima, la congettura non sembra un’attività puramente riflessiva dello storico, che se
ne servirebbe, in contrapposizione alle informazioni raccolte, per costruire il suo racconto, in modo che
«l’attività di eikazein si distingue chiaramente dall’uso dell’eikos» (Butti de Lima 1996, p. 159). Tra le
varie forme discorsive esiste invece maggiore fluidità rispetto a quanto si è portati a pensare.
Capitolo 1. Retori in azione 63
debba poi fare una disamina accurata (wJı d ja]n ejxetasqeivh mavlist∆ ajkribw'ı mh; gevnoit∆)
a proprie spese.
Non manca all’opposto anche un uso più propriamente demegorico dell’eikos
all’interno di logoi dikanikoi, come è riscontrabile nell’orazione Sull’ambasceria tradita,
un’accusa in un processo dalle forti tinte politiche contro Eschine, reo di aver rallentato
volutamente le operazioni di pace con Filippo per concedergli la possibilità di concludere
operazioni vantaggiose in Grecia. Demostene sostiene che, ad un esame attento,
l’incriminazione dei membri dell’ambasceria non sarebbe l’inizio di una pericolosa
ostilità contro Filippo (ajrch; genhvsetai pro;ı Fivlippon e[cqraı, 134), come alcuni
potrebbero temere. Questo passo segnerebbe anzi l’inizio di un’amicizia vantaggiosa per
gli Ateniesi (filivaı ajrch; sumferouvshı uJmi'n, 135), perché Filippo si convincerà di avere
a che fare con persone che non si lasciano corrompere, che puniscono i corrotti e con i
quali è quindi meglio intrecciare rapporti e non operare con l’inganno e la frode. Si tratta
di una conclusione non avventata, ma tratta da dati verosimili (ejk tw'n eijkovtwn, 135), che
Demostene ritiene di poter esporre (kai; tou't∆ oi[omai deivxein). La tesi è sottile, di non
immediata comprensione, e il richiamo all’eikos ben si presta a corroborarla. Essa parte
da una considerazione generale, dal forte impatto retorico, sulla volubilità dell’assemblea
popolare, descritta come «la cosa più instabile tra tutte e la più incostante, come nel mare
un’onda mossa quando accade che si agita; uno va l’altro viene, a nessuno interessa degli
affari pubblici, né se ne ricorda (136)». Con questa premessa generale Demostene ricorre
al confronto con il caso di Timagora, citato già in precedenza nell’orazione,132 un fatto
di una ventina di anni prima,133 tutto sommato marginale, ma che dovette fare scalpore,
tanto che il personaggio è ricordato come esempio di ambasciatore corrotto e punito
con la morte. Il Gran Re aveva dato a Timagora quaranta talenti per realizzare il suo
piano, ma quando quest’ultimo, ritornato ad Atene, venne smascherato dal compagno di
ambasceria Leone e venne messo a morte, capì che aveva speso del denaro per chi non
solo non era padrone degli eventi, ma anche non riuscì a salvare la propria vita. Edotto,
Artaserse restituì Anfipoli, che aveva già registrato come sua città alleata, e non cercò
più di corrompere nessuno. Ecco pronta la conclusione verosimile, tratta da un evento
istruttivo, a cui Demostene giunge: «la stessa cosa avrebbe fatto Filippo se avesse visto
che uno di questi134 pagava per le sue colpe, e anche ora, se lo vedesse, lo farà. Ma poiché
sente che essi tengono discorsi, hanno buona fama tra voi, giudicano altri, che cosa farà?
Cercherà di spendere molto, quando gli è possibile spendere poco e vorrà conciliarsi il
favore di tutti, quando gli è possibile conciliarsi due o tre? Sarebbe un folle (maivnoito
mevnta[n) (138)».
L’eikos, tratteggiando il comportamento di Filippo, ne prospetta la condotta, ispirata
da un piano lucido. Anche altrove135 Demostene sottolinea le mirate scelte del Macedone,
come il suo disegno politico sia coerente e ciò pone ancora più in risalto la posizione
132
Cfr. § 31 e anche, più avanti, § 191.
133
Per la precisione nel 367 a.C.
134
Si allude ai componenti dell’ambasceria.
135
Cfr. Phil. IV 14.
64 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
ondivaga degli Ateniesi, che, all’opposto, spesso non sanno come comportarsi, subendo
gli eventi, sempre passivi di fronte a quanto capita.
Il motivo delle valutazioni di Filippo, questa volta lusinghiere, nei riguardi degli
Ateniesi trova spazio anche l’anno prima del processo sulla corrotta ambasceria nella
Filippica II (10 ss.). Demostene evidenzia sempre come tali valutazioni, fondate sulla
storia pregressa, rispondano all’eikos:
Da queste azioni siete stati giudicati i soli tra tutti che non trascurerebbero i diritti comuni
dei Greci per un guadagno, né cambierebbero con nessun favore o utilità la benevolenza nei
confronti dei Greci. E questa constatazione è naturale (kai; tau't jeijkovtwı)…
A guidare verso una tale conclusione è la grande storia della città a partire dalle imprese
contro i Persiani. La stagione di Maratona e di Salamina viene richiamata e si contrappone
ai comportamenti dei Tebani e degli Argivi, che non si fecero scrupolo a combattere a
fianco del barbaro e quindi Filippo, fidandosi della costanza dei comportamenti, pensa
che essi lo avrebbero lasciato agire indisturbato, anzi lo avrebbero agevolato in cambio di
vantaggi personali.
Egli dunque sa che entrambi questi popoli avranno a cuore l’interesse personale e che non
baderanno a ciò che conviene ai Greci nel loro complesso. Riteneva dunque che, se avesse scelto
voi, vi avrebbe scelto come amici per atti giusti, se invece avesse anteposto quelli, li avrebbe
avuti come collaboratori della sua ingordigia. Per questo sceglie quelli invece di voi, sia allora,
sia ora (12).
È l’eikos ad ispirare molte scelte di Filippo, come deve ispirare qualsiasi abile consigliere,
che sa unire le doti dello storico e del logografo. Dall’analisi del passato egli ricava le
contromisure da proporre e i fatti assurgono a elementi di prova.136 Anche il discorso
politico ha i suoi giudici: di fronte a una proposta i cittadini sono chiamati ad esprimersi
come veri kritai137 e così il discorso politico ricalca in molti passaggi le movenze del
discorso giudiziario.
Come Demostene ammonisce nella Filippica III (68-70), non serve dire a posteriori:
«chi avrebbe pensato che questo occorresse?». Ne sono prova gli abitanti di Olinto: essi
«potrebbero raccontare ora molti fatti che, se li avessero previsti, li avrebbero salvati».
Prevedere gli eventi è una dote, la principale, del consigliere. Quando essi sono accaduti,
non si dà più alcun vantaggio. Con il ricorso all’efficace metafora della nave, Demostene
ricorda che, fino a quando lo scafo è salvo, tutti devono cooperare perché niente e nessuno
lo capovolga; dopo che è sommerso, la fatica è vana. Atene, nella particolare circostanza,
136
Al tekmerion Demostene si appella anche in Sull’ambasceria tradita (44) in stretta unione con l’eikos
per smascherare le vere intenzioni di Eschine. Il futuro si può solo congetturare attraverso prove, come
in un tribunale, sulla base dell’accaduto. È interessante in proposito anche l’espressione, apparentemente
poco ortodossa, che si legge nel Panegirico di Isocrate (141): «se bisogna provare il futuro sulla base di
quanto è accaduto (eij de; dei' ta; mevllonta toi'ı gegenhmevnoiı tekmaivresqai)». In una tale prospettiva si
può ragionare sul futuro come se già si avessero a disposizione delle prove su quanto deve ancora accadere.
137
Cfr. Phil. I 15.
Capitolo 1. Retori in azione 65
è ancora in tempo e se qualcuno chiede cosa fare, Demostene è pronto a rispondere con
una proposta da mettere ai voti.
È un modello che permarrà nel tempo. Con queste caratteristiche Cassio Dione (13,
54, 2) ritrae ancora Annibale, ricorrendo ad un termine raro, già utilizzato da Tucidide
(I 138, 3) a proposito di Temistocle: eijkasthvı. Come il grande statista ateniese era il
più competente a giudicare con il minimo di riflessione questioni immediate e per i fatti
futuri era il migliore a congetturare per il periodo più lungo di tempo (tw'n mellovntwn
ejpi; plei'ston tou' genhsomevnou a[ristoı eijkasthvı), così il condottiero punico, oltre a
saper disporre con sicurezza quello che di volta in volta si presentava, a prevedere il
futuro e ad essere abilissimo consigliere nella gestione ordinaria degli eventi (bouleuthvı
te tou' sunhvqouı iJkanwvtatoı), era assai preciso proprio nell’immaginare l’inatteso
(eijkasth;ı tou' paradovxou ajkribevstatoı), doti che gli permettevano di organizzare,
come Temistocle, nel minor tempo possibile e con prontezza la situazione e, anticipando
di molto con il ragionamento il futuro, di analizzarlo come se fosse presente.
Nessuno di voi pensi che mentre tutti gli altri conoscono quanta forza abbia per persuadere il
piacere ai giudici (toi'ı krivnousin), solo gli uomini di cultura (tou;ı de; peri; th;n filosofivan
o[ntaı) ignorano l’efficacia della benevolenza, perché sanno anche questo molto meglio di tutti
gli altri. Sanno inoltre che gli argomenti verosimili (ta; me;n eijkovta), le prove (ta; tekmhvria)
e ogni tipo di garanzie (pa'n to; tw'n pivstewn ei\doı) giovano soltanto per la parte per la quale
ciascuno di questi viene pronunciato, aver fama invece di persona perbene (to; de; dokei'n ei\nai
kalo;n kajgaqovn) non solo offre maggiori garanzie al discorso (to;n lovgon pistovteron), ma anche
pone in maggior onore le azioni di chi ha una tal fama (ta;ı pravxeiı tou' th;n toiauvthn dovxan
e[contoı ejntimotevraı katevsthsen); per questo scopo bisogna che si impegnino le persone
dotate di senno (toi'ı eu\ fronou'si), più che per ogni altra cosa (279-280).
Sono affermazioni molto utili per comprendere ancora meglio perché i mezzi retorici
propri del dikanikos logos devono trovare uno spazio più limitato o comunque un impiego
differente nei grandi discorsi politici ed epidittici – in particolare nella forma nascente
dell’elogio in prosa – se l’oratore aspira non al semplice guadagno garantito dall’attività
di logografo, ma ad ottenere onore e fama presso la comunità di tutti i Greci.
Con tali premesse, qual è dunque lo spazio dell’eikos all’interno del genere demegorico
ed epidittico? L’Archidamo sviluppa un’interessante riflessione che accosta il politico
allo storico. Isocrate pone in bocca ad Archidamo l’affermazione secondo la quale la più
grande e sicura alleanza è garantita dal compiere il giusto, perché è verosimile (eijkovı,
59) che anche la benevolenza degli dei accompagni chi si comporta così, se bisogna
provare il futuro sulla base degli avvenimenti accaduti (ei[per crh;; peri; tw'n mellovntwn
tekmaivresqai toi'ı h[dh gegenhmevnoiı).138 Il passato è dunque sfruttato come prova per
138
Sulla relazione tra tekmhvrion e futuro cfr. p. 64, nota 136. Espressione simile a quella dell’Archidamo
si trova in Paneg. 141.
Capitolo 1. Retori in azione 67
congetturare e progettare il domani. In questo modo il politico deve saper leggere all’interno
di quanto è accaduto per poter indirizzare la sua azione e lo strumento dell’indagine è
l’eikos. Il suo discorso, per essere persuasivo e per poter presentare elementi concreti in
un ambito incerto quale il futuro, non può fare a meno di congetture ricavate dal vissuto
o di considerazioni desumibili da atteggiamenti o situazioni già sperimentate. Archidamo
ricorda ai suoi sudditi nel fittizio discorso isocrateo anche gli aiuti esterni che possono
arrivare da alcuni capi stranieri o da Greci: «in essi ragionevolmente (eijkovtwı) potremmo
riporre grandi speranze per il futuro (63)»; oppure mette in guardia di fronte agli insulti
che è naturale (eijkovı) attendersi dai Messeni se avranno la meglio e potranno trattare alla
pari con i loro antichi padroni, considerata la schiavitù a cui sono stati sottoposti (96). Non
è un’eventualità tanto remota se, come Archidamo aveva già prospettato, la storia conosce
esempi di mutamento, che hanno arriso agli stessi Spartani. Si tratta di un argomento
assai semplice (ejpi; to;n aJplouvstaton h[dh tevryomai tw'n lovgwn, 40) e proprio per questo
assolutamente verosimile:
Se mai nessuno di coloro che si trovano in disgrazia si fosse rialzato, né avesse vinto i nemici,
sarebbe normale (eijkovı) che neppure noi avremmo sperato di avere la meglio combattendo. Se
invece spesso è accaduto che coloro che hanno una potenza superiore furono sconfitti dai più
deboli e gli assedianti furono sbaragliati dagli assediati, cosa c’è di strano (tiv qaumastovn) se
anche i fatti attuali subiranno un mutamento?139
Si ritrova la ben nota opposizione tra eikos e thaumaston, più volte sfruttata all’interno del
tribunale, ora qui proiettata nella lettura di fatti storici: l’Archidamo è un bell’esempio di
come le considerazioni fondate sul verosimile e l’attendibile possano agire nel discorso
politico, un modello che il novantenne Isocrate140 intende fornire non solo al giovane figlio
del re Agesilao in uno dei momenti più critici della storia spartana, ma ad ogni guida, tanto
che l’orazione, assai probabilmente un esercizio retorico, tra gli antichi destò una generale
ammirazione per la cura compositiva, lo stile animato, teso a destare sentimenti patriottici
validi per tutti.141 L’eikos non serve qui solo, come nel discorso storico o giuridico, per
ricostruire faticosamente il passato, esso è utile anche per prospettare sulla base del
passato il futuro, così da determinare le scelte. Esso ricorre principalmente anche in tale
contesto ai tekmeria e svolge il ruolo di ponte tra passato e futuro, ancorato com’è sempre
alle esigenze del presente. In questa capacità di leggere dentro ai fatti, l’oratore è in grado
di cogliere anche la verosimiglianza, la logicità di quanto è accaduto, che non è il frutto
del semplice caso. «Delle nostre speranze – dice Isocrate nella Pace (29) – non se ne è
realizzata nessuna, al contrario sono derivati odi, guerre e grandi spese. Ed è naturale
(eijkovtwı). Anche in passato infatti (kai; ga;r to; provteron) a seguito della stessa invadenza
ci siamo cacciati nei rischi estremi, dall’offrire invece la città giusta e dal fornire aiuto a
chi subisce ingiustizia e dal non desiderare i beni altrui acquistammo l’egemonia da parte
139
Per un ulteriore richiamo all’eikos nel discorso di Archidamo si veda ancora § 75, dove si prevede la
durezza dello scontro militare se gli Spartani vorranno combattere.
140
La data più probabile dell’Archidamo è attorno al 366 a.C.
141
Cfr. Philostr., Vite dei Soph. 505 e Dion. Al., Isocr. 9.
68 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
dei Greci di loro spontanea volontà. Ciò disprezziamo ora in modo irragionevole (nu'n
ajlogivstwı) e già da molto tempo in modo troppo sconsiderato (kai; livan eijkh/' polu;n h[dh
crovnon)».
Con la struttura più volte ricorrente nelle demegorie demosteniche (l’avverbio seguito
da gavr), Isocrate passa a spiegare i fatti sulla base di considerazioni verosimili per poi
indirizzare le scelte e suggerire i comportamenti nell’oggi. Guidato sempre dall’eikos
allo stesso modo è in grado di leggere le condotte altrui, interpretare le posizioni degli
avversari, coglierne le ragioni, spiegarne le scelte:
Oltre a ciò, quello che ora non siamo in grado di riprendere a causa della guerra e della forte
spesa, lo otterremo facilmente con l’ambasceria. Non pensiate che Chersoblepte combatterà per
il Chersoneso, né Filippo per Anfipoli, quando vedranno che noi non aspiriamo a nulla che è di
altri. Ora infatti a ragione (nu'n me;;n ga;r eijkovtwı) temono che la città sia confinante con i loro
domini (22).
Sempre all’interno della Pace trova spazio anche una riflessione sui timori e i sospetti dei
signori assoluti che arrivano a dubitare pure degli amici e dei compagni e perfino dei familiari,
affidandosi a mercenari, atteggiamento comprensibile (eijkovtwı, 113) se si considera il
destino dei tiranni che li hanno preceduti. Ciò serve ancora per richiamare l’attenzione
degli Ateniesi sui loro casi presenti, mettendoli in guardia sul fatto che anche l’egemonia
marittima può sortire gli stessi effetti della tirannide. Isocrate li invita a meditare sul fatto
che ciò che essi vedono negli altri, lo ignorano in loro stessi, inserendo un’acuta osservazione
di metodo: «eppure è indizio non piccolo di chi ha una predisposizione assennata (tw'n
fronivmwı diakeimevnwn oujk ejlavciston…shmei'on) apparire di riconoscere lo stesso modo
di agire in tutti i casi simili (h]n ta;ı aujta;ı pravxeiı ejpi; pavntwn tw'n oJm J oivwn faivnwntai
gnwrivzonteı, 114)», principio che sta alla base di qualsiasi considerazione verosimile.
L’eikos è riconosciuto dunque indirettamente come guida di chi è dotato di intelligenza.
Pare di leggere passaggi di demegorie demosteniche, per le argomentazioni presentate,
per gli artifici stilistici a cui si fa ricorso e anche per gli spunti di riflessioni teoriche che si
trovano a volte tra le righe, eppure la Pace, come gli altri discorsi isocratei, è ben lontana,
si sa, dal vivo delle scelte politiche immediate. Dal punto di vista delle strumentazioni
impiegate Isocrate e Demostene non sono però così distanti: si ritrovano nel primo le
stesse strategie, calate dal secondo nel dibattito assembleare; logos symbouleutikos ed
epideiktikos appaiono a livello formale più omogenei di quanto si possa essere spinti a
credere.142 Entrambi gli oratori adattano strutture ben note anche al logos dikanikos, da cui
essi hanno preso le mosse nei loro esordi.
Non si pensi però che l’eikos sia una categoria meccanica, di facile utilizzo; non
sempre univoche sono le sue applicazioni e non sempre trasparenti ed immediate possono
Per comodità inglobo nel discorso epidittico le opere isocratee non riservate al tribunale, anche se per
142
ciascuna di esse andrebbero meglio determinati il pubblico e le occasioni, problema complesso, comunque
marginale rispetto ai temi qui trattati, per il quale rimando a Nicolai (2004, pp. 37-127). Molto efficacemente
Nicolai (2004, p. 54) definisce le opere di Isocrate come una «l e t t e r a t u r a s p e r i m e n t a l e i n
p r o s a a f f i d a t a a l c a n a l e s c r i t t o r i o» (spaziato dell’autore).
Capitolo 1. Retori in azione 69
Non so se ritenere che a voi non interessi nulla degli affari comuni o che ve ne diate sì pensiero,
ma siete giunti a tal punto di insensibilità da non accorgervi in quale disordine si trovi la città.
[…] Ed è logico che patiamo in base a quello che facciamo (kai; tau't ej ijkovtwı kai; poiou'men kai;
pavscomen); nulla infatti può andare a buon fine a persone che non hanno deliberato bene riguardo
all’intera amministrazione, ma nel caso in cui riescano ad operare felicemente riguardo ad alcune
azioni o per fortuna o per merito di qualcuno, poco dopo ripiombano nelle stesse difficoltà. Ciò si
potrebbe conoscere da quanto ci è capitato (ejk tw'n peri; hJma'ı gegenhmevnwn, 9 ss.).
È dunque ancora una volta la storia il fondamento della deduzione presentata. La superiorità
degli Ateniesi del tempo passato derivava dalla loro costituzione, dal potere accordato al
consiglio dell’Areopago, chiamato a vigilare sulla temperanza e sull’ordine morale, «in
modo tale che è normale (eijkovtwı) che esso superasse i consessi dei Greci (37)». È quindi
molto più corretto biasimare coloro che incrinarono quel retto sistema di governo e non
i giovani d’oggi: «pertanto rimprovererei a ragione (eijkovtwı) non costoro, ma molto più
giustamente coloro che poco prima di noi governarono la città (50)». Come nel discorso
giuridico quindi, esiste sempre la possibilità di architettare un eikos più verosimile del
precedente. In questo caso non bisogna arrestarsi all’interpretazione apparentemente
più scontata: all’eikos della massa l’oratore oppone un eikos di livello superiore, quasi
a sostenere che l’uso di un tale strumento richiede preparazione e capacità, abilità nel
ripercorrere gli eventi e nel cogliere quanto si può ripresentare.
Anche nella lettura dei fatti passati per indirizzare il consenso, il discorso epidittico o
assembleare, quando fa appello all’eikos, non può sottrarsi all’utilizzo degli stessi mezzi
del discorso giuridico. L’oratore diventa giudice della storia. È illuminante in proposito il
Panegirico nel punto in cui Isocrate cerca di difendere la città da quelle che egli presenta
come vere e proprie accuse (tine;ı hJmw'n kathgorou'sin, 100): Atene sarebbe stata causa
di mali per i Greci dopo la conquista del potere sul mare, come dimostrano le vicende
dei Meli e dei Scionei. Ciò per Isocrate non è segno (shmei'on, 101) di malgoverno, visto
Nessun bene e nessun male sopraggiungono da soli agli uomini, ma la ricchezza e il potere sono
143
accompagnate dalla stoltezza e dall’intemperanza, la povertà e l’umiltà dalla saggezza e dalla misura (§ 4).
70 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
che si sono puniti coloro che, nella considerazione dell’oratore, fecero guerra ad Atene,
ma una prova ancora maggiore (polu;…mei'zon tekmhvrion) di buona amministrazione. Se
inoltre altri in circostanze analoghe si fossero comportati in modo più mite, si avrebbe
ragione nel rimproverare gli Ateniesi (eijkovtwı a]n hJmi'n ejpitimw/'en, 102), ma, visto che ciò
non avvenne, è giusto lodarli (ejpainei'n). Non esistono in altre parole appigli nel passato
a cui aggrapparsi per muovere una plausibile accusa. La forza argomentativa del discorso
giuridico, fondato su prove e segni, esce dall’ambito ristretto del tribunale ed informa pure
il discorso epidittico che può sconfinare anche nell’epainos.
Con la stessa procedura Isocrate interpreta, secondo i propri fini, un altro periodo della
recente storia greca per cercare di convincere in merito all’opportunità di una coalizione
della Grecia contro la Persia. Se si dimostrasse che il Gran Re riuscì a sconfiggere
contemporaneamente Atene e Sparta, a ragione (eijkovtwı, 139) coloro che cercano di
dissuadere dalla spedizione in Asia tenterebbero di incutere paura agli Ateniesi; «ma se
questo non avvenne e quando noi e gli Spartani eravamo alla pari egli, appoggiando uno
dei due, ne ha reso più prestigiose le sorti, questo non è segno della sua forza (shmei'on
th'ı ejkeivnou rJwvmhı)».
I fatti sono così assunti in qualità di paradigmi, la cui contiguità nell’argomentazione
con l’eikos Aristotele metterà in luce, come si è già ricordato, nella Retorica. Scopo
dell’oratore sarà allora quello di servirsene in modo efficace per ridurre al minimo il
pericolo d’incappare in controdeduzioni. Isocrate rivendica sempre nel Panegirico144 il
suo corretto uso degli esempi e ancora una volta in un contesto che richiama l’ambito del
processo, in quanto il suo scopo è proprio quello di evitare una tale accusa (feuvgwn…
tauvthn th;n aijtivan, 144). Servirsi male degli esempi del passato significa prestare il fianco
all’attacco di deduzioni non verosimili, di proposte quindi inaccettabili o poco efficaci.
Nel caso specifico del Panegirico, Isocrate è volto a dimostrare come siano infondate le
paure nei confronti dei Persiani che, chiamati a combattere da soli, in più occasioni, anche
contro i Greci, mostrarono la loro debolezza e mollezza dei costumi. Si tratta comunque di
conseguenze del tutto preventivabili:
Nulla di ciò è avvenuto in modo illogico (ajlovgwı), ma tutto è accaduto secondo quanto ci
si poteva attendere (eijkovtwı). Non è infatti possibile che persone così educate e governate
partecipino della restante virtù né che innalzino nelle battaglie un trofeo sui nemici (150).
144
Cfr. § 143: «nessuno potrebbe dire che non mi servo correttamente degli esempi (ouj dikaivwı crw'mai
toi'ı paradeivgmasin), né che perdo il tempo su fatti di poco conto, tralasciando le azioni più importanti».
145
Una riflessione storica che muove da altri presupposti, che non dà così peso all’eikos, è quella che
ipotizza un andamento dei fatti diverso da quanto effettivamente accaduto. Quali sviluppi si sarebbero potuti
avere, se si fosse verificato un determinato evento? Si tratta di una tipica domanda di storia controfattuale,
di cui si possono rintracciare esempi in Atene, in particolare dopo la fine della guerra del Peloponneso,
nella storiografia, nell’oratoria forense, epidittica ed anche assembleare. Gli Ateniesi adottarono logiche
controfattuali generalmente per immaginare come gli eventi avrebbero potuto prendere un corso migliore.
Capitolo 1. Retori in azione 71
legge il futuro anche quando si rivolge a Filippo: nessun altro greco potrà mai compiere
un’impresa simile a quella a cui l’oratore sta esortando il re macedone, né è probabile
(eijkovı) che tra i barbari si formi un’altrettanta potenza se Filippo distruggerà quella
esistente (Phil. 141). L’esortazione alla guerra contro il Gran Re, che percorre l’intero
Panegirico, è tutta fondata su una lettura verosimile del presente e del passato. Si chiede
Isocrate: «quali vantaggi vorremmo avere alla vigilia di far guerra al Re, oltre a quelli di
cui già ora disponiamo? (160)». Sfruttando le tante possibili basi di appoggio e la minaccia
di una guerra vasta che circonda l’Asia, i Greci non devono perdere tempo ad esaminare
troppo dettagliatamente quanto accadrà (ta; sumbhsovmena livan ajkribw'ı ejxetavzein, 162),
lasciando che i Persiani consolidino le loro posizioni lungo la costa ionica, occupando città
ed isole; «se saremo noi ad occuparle per primi, è probabile (eijkovı) che coloro che abitano
la Lidia, la Frigia e la restante regione interna siano in potere di coloro che muoveranno
da quelle zone (163)».
I Greci devono pertanto, fondandosi sul verosimile, fare tesoro degli errori commessi
dai predecessori, che sono stati troppo attendisti, costretti poi a rimediare con lotte molto
aspre. È ancora nella chiusura del Panegirico che ricorre l’eikos come fondamento
per spronare alla guerra. Non solo le costanti delle imprese, ma anche le regole di
comportamento verrebbero rispettate se si seguissero i consigli di Isocrate, perché è
normale (eijkovı, 184) che i Greci, che non sono privi di coraggio e se ne sanno servire in
giusta misura, nutrano odio nei confronti di uomini come i Persiani.
Presentandosi in ultima istanza come il vero conoscitore ed interprete dell’eikos,
l’oratore infonde sicurezza nell’uditorio, inculcando la convinzione che le sue parole non
sono avventate, sono il frutto di una meditata riflessione e di uno studio. Se, secondo
le prospettive di chi parla, è normale e del tutto comprensibile che si sia verificato un
certo evento e se la ricostruzione dei fatti accaduti nel passato è condivisibile, è plausibile
credere a lui anche quando avanza soluzioni o richiama a determinati comportamenti.
L’eikos conferisce autorevolezza alle affermazioni di colui che vi ricorre.
Tucidide però avanza pure l’ipotesi che sarebbe potuto finire peggio. Anche il ripensamento del passato
con un tale approccio ha conseguenze importanti su come immaginare e progettare il futuro. Su questi
aspetti cfr. Tordoff (2014).
72 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
il tema trattato da Policrate, è quello di mostrare come si deve condurre un’accusa e una
difesa.146
Il Busiride è così un elogio non solo del mitico re, ma anche della costituzione e dei
costumi egizi di cui Busiride è considerato il fondatore. È proprio su questo punto che
vertono le riflessioni di metodo più interessanti ai nostri fini. Isocrate – anticipando le
possibili obiezioni di Policrate – avanza che gli si potrebbe rimproverare di non essere
in grado di dimostrare che Busiride è stato l’artefice di tutto quanto egli sostiene (§ 30).
Ricorrendo al linguaggio tecnico del processo, egli riconosce di non poter svolgere alcuna
dimostrazione in merito (oujdemivan e[cw levgein ajpovdeixin); accetterebbe però una tale
critica da altri, ma non da Policrate, che non si sarebbe dimostrato un retore avveduto, in
quanto dei supposti meriti di Busiride non ha neppure lui fornito alcuna garanzia (oujdemivan
pivstin ei[rhkaı, 31). Quel che è peggio, ancor più di Isocrate, non avrebbe pronunciato
nulla di credibile (pistav, 32). Isocrate invece ha considerato Busiride artefice di nulla
di impossibile (oujdeno;ı…tw'n ajdunavtwn), ma solo di consuetudini e di una costituzione
attuabili da persone perbene; Policrate, da parte sua, di ciò che mai nessun uomo fece.
Come si può notare, Isocrate ribadisce come egli si muova all’interno del probabile, del
reale, dell’eikos appunto, da cui Policrate si è allontanato. Prelevando le argomentazioni
del discorso giuridico e applicandole ad un ambito nuovo, Isocrate esclude dal suo elogio
il meraviglioso, che renderebbe poco credibile la lode. Il verosimile diventa in tal modo la
categoria discriminante per rileggere anche il mito, per renderlo plausibile e per garantirgli
una presa sul presente. Se si esaminasse dunque il suo discorso – continua Isocrate –
nessuno potrebbe a ragione biasimarlo, anche perché non contiene nessuna menzogna.
Se si fosse attribuito a Busiride ciò che altri incontestabilmente hanno compiuto, sarebbe
apparso ardito. Ma poiché i fatti menzionati non hanno una singola paternità, ma sono un
patrimonio comune della collettività (ejn koinw/' tw'n pragmavtwn o[ntwn, 35) e su di essi
è possibile solo esprimere opinioni (doxavsai), chi analizza muovendo da considerazioni
credibili (ejk tw'n eijkovtwn skopouvmenoı) non potrebbe indicare nessun altro personaggio
come autore delle istituzioni egizie più di Busiride, che vanta una discendenza divina,
potenza e fama: «non conviene (proshvkei) infatti che uomini sprovvisti di tutte queste
qualità siano stati più di quello gli scopritori di beni tanto grandi (35)». Anche nell’analisi
del mito, come nel processo, l’eikos incontra il prosekon.
Dall’assemblea al mito, dalla pressante attualità politica al recupero del più oscuro
passato, il tragitto è solo apparentemente lungo. L’oratoria deliberativa ed epidittica,
sperimentando tutte le risorse dell’eikos, mostra come dal punto di vista argomentativo
vi sia una stretta contiguità, pur nella diversità delle singole opzioni, tra tali pratiche
discorsive, sulle quali è sempre fortemente operante il modello del dibattito giuridico.
146
Cfr. §§ 9 e 44.
Capitolo 2
1
Si vedano le osservazioni in proposito di Hoffman (2008).
74 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
2
L’influenza del verosimile in ambito scientifico è attestata indirettamente anche da Plutarco. Nel De
defectu oraculorum (410A ss.) è presentata la stravagante teoria, riferita dal dotto spartano Cleombroto
durante un incontro a Delfi con il grammatico Demetrio di Taso, sostenuta dai sacerdoti di Ammone.
Dall’osservazione che la lampada del fuoco del tempio ogni anno bruciava una quantità sempre minore di
olio, essi avevano concluso che gli anni tendono progressivamente a ridursi. «È infatti verosimile (eijko;ı
gavr) che in un tempo minore sia minore ciò che viene consumato (410B)». Allo stupore dei presenti e
di Demetrio che afferma come sia sciocco ricavare ipotesi di una tale portata da fatti tanto insignificanti,
Cleombroto oppone che «non concedere che cose piccole siano segni di cose grandi sarà di ostacolo a
molte arti, perché accadrà che si sottrarranno a molte le dimostrazioni (ajpodeivxeiı), a molte altre i principi
regolatori (proagoreuvseiı, 410D)». Chi dunque vorrà opporsi alle credenze dei sacerdoti di Ammone non
dovrà trascurare il verosimile e anche Ammonio, presente alla discussione, pur scettico, avanza alla fine
una spiegazione plausibile del fenomeno dell’olio, appellandosi alla secchezza e all’umidità dell’aria e al
fatto che, come si è più volte osservato, il fuoco consuma più o meno materia a seconda del suo vigore
e dunque «non è inverosimile (ouj…ajpeikovı) che l’olio ricavato da un rampollo giovane sia prima non
produttivo e acquoso e che poi, maturato su piante complete e coagulatosi, risulti più forte e alimenti
meglio pure da eguale quantità (411D)». Anche Ammonio dunque non si sottrae a fornire una spiegazione
fondata sull’eikos, elemento irrinunciabile di qualsiasi deduzione scientifica.
3
‘Simile al vero’ si esprime dunque in greco con o{moion toi'ı ajlhqinoi'ı – espressione non perfettamente
sinonimica di eikos, in quanto il sintagma tende a connotare una riproduzione il più vicino possibile ad una
realtà materiale – e l’eikasia dell’artista è ciò che permette la sua realizzazione.
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 75
proposito del mito di Cerbero riferisce che secondo Ecateo il cane dell’Ade presente al
Tenaro sarebbe stato in realtà un serpente con questo nome e afferma che il Milesio «trovò
un discorso verosimile (lovgon eu|ren eijkovta, 3, 25, 5)», egli non fa altro che applicare a
un racconto tradizionale la categoria ampiamente sviluppata nell’ambito della retorica
per spiegare lo sforzo del logografo nell’eliminazione di tutto ciò che poteva risultare
fantasioso.
Si tratta di un processo ben noto a chi parla in tribunale, nel consiglio o nell’assemblea.
L’oratore che inizia il suo discorso ricorrendo alla meraviglia provocatagli da certi
comportamenti o pensieri intende collocare la situazione che sta prospettando fuori
dall’ambito dell’eikos e quindi di un atteggiamento accettabile in campo giuridico
o politico. L’apertura dei Memorabili – almeno nei primi due capitoli del primo libro
una vera e propria apologia senofontea di Socrate in risposta all’accusa di Policrate –
è da questo punto di vista assai istruttiva. Non è il luogo per trattare diffusamente del
ritratto socratico, mi preme solo evidenziarne un aspetto trascurato. Senofonte riferisce
di essere rimasto più volte meravigliato (pollavkiı ejqauvmasa sono le parole di esordio)
pensando a quali argomentazioni siano ricorsi gli accusatori per convincere gli Ateniesi
che Socrate fosse meritevole della pena di morte. In tal modo non solo confina nella sfera
del thaumaston le motivazioni degli accusatori di Socrate, ma anche avverte che in quella
circostanza gli Ateniesi non si conformarono all’eikos, il solo ammesso a cittadini che
vogliano assolvere il loro dovere.4
Se questa è la forma esteriore dei Memorabili, essi al loro interno riportano la condotta
di Socrate, anche i tratti che possono apparire più eccentrici e paradossali, all’ambito
dell’eikos, a partire dai rapporti con Alcibiade e Crizia.5 Il fatto che Socrate sia riuscito
a imporre a loro un comportamento casto e misurato quando essi erano giovani, quando
cioè era comprensibile, quasi scusabile (eijkovı), che fossero meno riflessivi e meno
capaci di autodominio, per l’accusatore evidentemente non è degno di lode. Si sarebbe
invece dovuto valutare Socrate secondo giustizia e verisimiglianza in altro modo. Nessun
educatore e nessun padre possono essere ritenuti responsabili dei comportamenti sbagliati
dei giovani a loro affidati o degli stessi figli se questi, dopo averli frequentati mantenendo
un comportamento consono, poi per altre vie si sono corrotti.
Tutta la vita di Socrate era volta a crescere cittadini rispettosi delle norme della
città, a formare una comunità di kaloi; kajgaqoiv. Egli stesso ricorre spesso all’eikos per
istruirli: per descrivere la condotta da tenere nella spartizione dei poteri (2, 6, 24); per
indicare ad Aristippo come comportarsi con le schiave di casa (2, 7, 10-11); per spiegare
a Dionisiodoro l’opportunità che chi ha delle doti apprenda l’arte dello stratego (3, 1, 3).
In tal modo Senofonte connette l’eikos con il dikaion. Si potrebbe continuare con altre
esemplificazioni. Il Socrate senofonteo è l’uomo che ha vissuto nel rispetto dell’eikos e
sull’eikos ha fondato molte delle sue deduzioni, esortando i suoi interlocutori a seguirlo
sulla stessa strada.6
4
Per il thaumaton nei Memorabili cfr. anche 1, 1, 20, con una perfetta chiusura ad anello, e 1, 2, 1.
5
Cfr. 1, 2, 26-28.
6
Cfr. per es. 3, 3, 9; 3, 4, 5; 3, 7, 2; 3, 8, 10; 3, 11, 3; 3, 12, 7; 3, 14, 3; 4, 5, 8; 4, 6, 5; 4, 6, 11; 4, 6, 14.
76 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
I Memorabili, particolare esempio di logos sokratikos, sono dunque, pur con i doverosi
distinguo, strettamente congiunti al genere del logos dikanikos e rappresentano una prova
di come la categoria dell’eikos contribuì anche alla creazione di nuove pratiche discorsive,
come quelle del ritratto socratico. La cornice dell’opera senofontea è quella del discorso
giuridico, aperto dal thaumaston e chiuso da una richiesta esplicita di formulazione di un
verdetto rivolta al fruitore dell’opera, come se ci si trovasse in un tribunale: «se a qualcuno
non risulta sufficiente quanto qui presentato, confrontando il carattere di altri uomini con
ciò, esprima il suo verdetto (ou{tw krinevtw, 4, 8, 11)».
Alle stesse categorie retoriche ricorre pure l’incipit dell’Apologia di Platone, sebbene
con scopi antitetici. Socrate, affermando subito in apertura di essere rimasto meravigliato
in particolare da una tra le tante menzogne che i suoi accusatori pronunciarono (mavlista
de; aujtw'n e}n ejqauvmasa tw'n pollw'n w|n ejyeuvsanto, 17a), quella cioè secondo la quale
egli sarebbe un abile oratore, tende a ricondurre al thaumaston le accuse mossegli, le quali
potranno essere confutate sulla base dei semplici fatti (ejxelegcqhvsontai e[rgw/, 17b), senza
dunque neppure il ricorso all’eikos, in quanto risulta già sufficientemente chiaro7 che non
è così come sostengono i suoi denigratori. Il vero che Socrate ripete più volte di voler
pronunciare non è il frutto dell’eikos, del ricorso a tutti i mezzi retorici con cui si costruiscono
i discorsi adorni (kekalliephmevnouı ge lovgouı), che normalmente si sentono pronunciare
nei tribunali. Ciò che Socrate ammette della sfera semantica dell’eikos è rappresentato
unicamente dagli eijkh/' legovmena (17c), le parole dette a caso, quelle della comunicazione
quotidiana, la sola da lui conosciuta. Ma gli eijkh/' legovmena costituiscono l’antitesi assoluta
dell’eijkw;ı lovgoı. Tutto ciò non deve creare stupore nei giudici (17d), anche se il rischio è
grande, in quanto si contravviene ad un modello di comportamento ormai consolidato. Sia
dunque negli atteggiamenti, sia nelle scelte retoriche il Socrate platonico si svincola dalla
sfera dell’eikos, anche se è ben consapevole che con tale scelta rischia a sua volta di cadere
nell’ambito del thaumaston in cui è suo intento confinare gli accusatori. È però un rischio
necessario, se si vuole opporre ad una vuota convenzione delle parole una convenienza
dell’essere. In questa differente strategia d’uso delle categorie retoriche, segno di un’opposta
volontà di rappresentazione del maestro, la meraviglia del Socrate dell’Apologia platonica
viene assunta in prima persona dal Senofonte dei Memorabili.
Se tali considerazioni sono condivisibili, è almeno curioso il totale azzeramento
di questa opposizione operato dalla tradizione antica, di cui si può scorgere traccia in
Cicerone, il quale, presentando la struttura delle Tusculanae disputationes in cui sarebbero
confluite le cinque giornate di discussioni tenute in villa, così si esprime (I 8):
Invitavo a porre l’argomento su cui si voleva ascoltare ed io, stando seduto o camminando,
discutevo. Ho pertanto raccolto le scholai, come le chiamano i Greci, di cinque giorni in
altrettanti libri. Si procedeva in modo che io a mia volta ribattevo dopo che, chi voleva sentire,
aveva espresso la sua opinione. Questo è, come sai, il vecchio costume socratico: argomentare
ribattendo l’opinione di un altro. Infatti così Socrate riteneva che si potesse trovare più facilmente
che cosa fosse più simile al vero (quid veri simillimum esset).
7
Cfr. 17b: mhd∆ oJpwstiou'n faivnwmai deino;ı levgein.
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 77
Se si esce dal campo della retorica del V-IV secolo a.C. e in generale della prosa classica,
appare subito evidente, anche ad una lettura cursoria delle testimonianze, come al semplice
eikos si alterni l’espressione oujk ajpeikovı/ajpeoikovı ‘non è inverosimile’. La litote è solo in
parte sinonimica; sottintende un non irrilevante cambio di prospettiva, imposto prima di tutto
dalle mutate esigenze comunicative. Esichio la spiega come equivalente a oujde;n ajpo; trovpou
(s.v.), notazione registrata anche da Fozio e dalla Suda, con l’aggiunta dell’indicazione che
quest’ultima è la forma preferita dagli atticisti.9 Si ha però l’impressione che non si tratti
solo di una predilezione generica di dialetto o di stile, quanto piuttosto di peculiarità di
uso dei singoli autori, come per esempio di Plutarco e di Galeno, che vi fanno ricorso con
significati non sempre esattamente sovrapponibili a quelli di oujk ajpeikovı. Nella prosa del
8
Per le opere degli autori cristiani, di non agevole reperibilità, sono riportati gli estremi del TLG e della
principale edizione cartacea di riferimento.
9
Polluce nell’Onomasticon IX 129 ss. all’interno di distinzioni sinonimiche contrappone l’ajpeikovı,
accostato all’ajnovmoion, ai sostantivi oJmoivwsiı, eijkasiva, tuvpwsiı, che rimandano tutti nell’accezione
propria – si noti – alla sfera artistica. Il greco conosce solo il verbo ajpeoikevnai, ma non il sostantivo
concreto dalla medesima radice, come dall’aggettivo ajnovmoioı non sarebbe derivato secondo il
grammatico, nonostante per esempio le attestazioni platoniche, il verbo corrispondente, mentre esiste il
sostantivo ajnomoiovthı.
78 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
V-IV secolo la presenza di oujde;n ajpo; trovpou nel dialogo platonico lascia intuire come
l’espressione dovesse essere un frequente intercalare del parlato in accezioni circoscritte,
anche in questo caso in parte differenti rispetto a quelle riconducibili alla sfera dell’eikos,10
per ribadire soprattutto la pertinenza e l’esattezza di un’affermazione o di una procedura.
Nei nuovi ambiti di utilizzo invece non si è chiamati a fornire generalmente un verosimile
di partenza, quanto a contrastare obiezioni già mosse, o comunque presupposte, formulate in
merito a determinate tesi e quindi a difendere e a corroborare concetti sottoposti ad attacchi. È il
caso dell’esegesi e dell’apologetica. Se quindi l’eikos è l’espressione per eccellenza del retore
che nei dibattiti reali dell’Atene classica ricerca la persuasione per ottenere il voto favorevole
dei giudici o dell’assemblea, oujk ajpeikovı può definirsi la locuzione dell’ermeneutica e della
difesa della nuova fede, utilizzata com’è soprattutto nell’esegesi testuale e dagli autori cristiani
nella loro polemica antipagana. Non è irrilevante che in tutta l’oratoria di V-IV secolo a.C.
ajpeikovı ricorra una sola volta in un’antilogia di Antifonte (a, 2, 5) in cui chi parla contraddice
le precedenti affermazioni degli avversari: «non è inverosimile (oujk ajpeikovı), come costoro
affermano, bensì verosimile (ajlla; eijkovı)».11
10
Così per es. in Plat. Theaet. 143c: Euclide spiega come decise di riportare per iscritto il dialogo avvenuto
tra Socrate, Teodoro e Teeteto immaginando che Socrate non lo riferisse a lui, ma parlasse direttamente
con i suoi interlocutori, evitando così di inserire ad ogni cambio di battuta fastidiose espressioni come ‘io
dissi’o ‘egli concordò’. Terpsione, per approvare la scelta, ricorre a kai; oujdevn ge ajpo; trovpou «proprio per
niente in modo sconveniente/hai fatto proprio bene». Si confronti anche, con valori analoghi, Soph. 225a,
Phil. 34a, Phaedr. 278d, Rep. 470b, Tim. 89e, Crat. 421d.
11
In altro genere si veda Thuc. 6, 55, in cui lo storico è impegnato a definire chi comandò dopo Pisistrato.
La ricerca si fonda su deduzioni verosimili in base alle quali si deve concludere che fu Ippia a regnare.
Era naturale infatti (eijko;ı ga;r h\n, 6, 55, 1) che il più vecchio dei fratelli fosse il primo a sposarsi e in
effetti sulla stele delle ingiustizie dei tiranni collocata sull’acropoli si menzionano i figli solo di Ippia. Non
è pertanto irragionevole (oujde; tou'to ajpeikovtwı, 6, 55, 2) che il suo nome sia riportato per primo dopo
quello del padre, segno dell’anzianità e del potere ereditato. A riprova dell’ampio utilizzo dell’espressione,
che tende poi a soppiantare il semplice eikos in contesti puramente sinonimici, si veda il trattato Peri;
euJrevsewı, opera attribuita al retore Ermogene. Nella sezione dei proemi (1, 1 rr. 45 ss.), da costruire
badando all’occasione e alla disposizione di chi deve giudicare, per un dikaniko;ı lovgoı, così avaro del
sintagma nella produzione dell’età classica, si legge anche il seguente esempio: «Che voi siate adirati, o
signori giudici, e indispettiti per l’accaduto, non è per niente strano (oujde;n ajpeikovı ejsti), sdegnandovi
con costui per quanto osò e commiserando quelli per quanto patirono». In sede incipitaria si veda anche
l’esordio della seconda lettera dello pseudo Eschine. La forza della tradizione non è imperante neppure in
Elio Aristide; nonostante il vagheggiamento del passato attico che, sulla scorta di Isocrate, percorre tutta
la sua produzione, non mancano orazioni del genere epidittico dove al semplice eijkovı si preferisce oujde;n
ajpeikovı (cfr. per es. 13, 162 Jebb; 13, 192 Jebb; 14, 222-223 Jebb; 31, 394 Jebb).
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 79
potenziale critica. È questa l’operazione a cui Porfirio sottopone più volte il testo omerico.
Un caso esemplare riguarda la vicenda di Glauco e Diomede, in particolare la convenienza
delle parole che il primo rivolge al secondo. A quanto si ricava dalle sue Quaestiones
Homericae (Z 200-201), doveva essere un argomento dibattuto quale fosse il motivo per
cui Bellerofonte divenne inviso a tutti gli dei ed evitò la relazione con gli uomini e in
particolare a cosa si riferissero i versi di Il. VI 200-201: «Ma quando anch’egli fu in odio a
tutti, allora errava, solo, per la pianura Alea». Sono le parole di Glauco che, presentando la
sua stirpe a Diomede, ricorda le imprese del glorioso nonno, «a cui gli dei diedero bellezza
e ardore amabile (Il. VI 156-157)». Come può – ci si chiede – non apparire priva di senso
(oujk ajfrovnwı) la rivelazione dell’odio degli dei nei confronti del suo avo, da cui stava per
dipendere, a seguito del riconoscimento di Diomede, l’occasione di stringere un’amicizia
fondata sui vincoli dell’ospitalità (th;n th'ı xenivaı filivan)? Diomede infatti, alle parole
di Glauco, immediatamente pianta la lancia e con dolci parole esclama che egli è per lui
un antico ospite da parte di padre (h\ rJav nuv moi xei'noı patrwvi>ovı ejssi palaiovı, VI 215),
ricordando i trascorsi tra Dioneo e Bellerofonte. Glauco dunque avrebbe parlato in modo
sconveniente.
Porfirio non accetta le critiche rivolte alla narrazione e, per difendere la pertinenza
delle parole di Glauco, procede ad una minuziosa esegesi. Fa notare innanzitutto che
Glauco non è stato ancora riconosciuto come ospite da Diomede e quindi è tenuto a rendere
conto di sé presentando le vicende del nonno in modo semplice e veritiero piuttosto che
in vista di un favore (aJploi>kwvteron…kai; ajlhqevsteron ma'llon h] kecarismevnwı). Come
poco prima egli dileggia, per condannare l’arroganza di Diomede, la condizione umana
con la celebre similitudine delle foglie (VI 145-149),12 così ora cerca di raggiungere lo
stesso scopo ricorrendo direttamente ad esempi tratti dalla propria famiglia (di joijkeivwn
paradeigmavtwn).
La similitudine delle foglie fungerebbe dunque da premessa alla ripresa, per così dire
anaforica, dei versi oggetto d’indagine e, dal momento che gli uomini sono soliti riportare
lo stato di buona sorte all’amore degli dei mentre la sfortuna alla loro ostilità, Glauco
«ha riferito il mutamento verso il peggio (th;n metabolh;n ejpi; to; cei'ron) di Bellerofonte
coerentemente (eijkovtwı) all’ostilità degli dei». Che il mutamento fosse grande, lo
chiariscono poi le disgrazie elencate e «dunque – conclude Porfirio – non è strano (oujk
ajpeikovı) che egli, soffrendo smisuratamente per la perdita dei figli, sia diventato amante
della solitudine e lamentandosi invochi gli dei come se fosse in odio a loro. Ciò che dunque
quello ha condannato come sfortunato sul suo conto, era verosimile (eijko;ı h\n) che il
discendente riconoscesse come assegnato alla stirpe». Ragioni psicologiche e osservazioni
stilistiche si intrecciano nella ricerca dell’eikos. L’analisi dettagliata del passo è volta a
indagarne la coerenza, in netto contrasto con chi la metteva in dubbio. Nelle parole di
Glauco non si deve dunque riconoscere alcuna traccia di mancanza di senno, di scarso
acume. Il personaggio e l’autore sono così salvi.
12
Il testo non è sicuro, ma ciò non invalida il senso generale. Nell’edizione curata da Schrader (1880) si
legge dievsure ta; ajnqrwvpina to; fruvagma tou' Diomhvdouı kaqairw'n; emenda MacPhail (2011) nel modo
seguente: dievsure ta; ajnqrwvpina to; fruvagma tou' Diomhvdouı kaqairou'nta.
80 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
La procedura seguita per il noto episodio di Glauco e Diomede si ritrova applicata anche
in altre occasioni, pure in passi di minore rilevanza, che però sono rivelatori degli interessi
della critica e dei criteri dell’esegesi. Ne è un esempio l’analisi di un verso del catalogo delle
navi («guidavano i Traci Acamante e l’eroe Piroo», Il. II 844), sentito in contraddizione
(mavcesqai dokei', Quaestiones Homericae B 844) con Il. XI 221-222: «Ifidamante figlio di
Antenore, grande e valoroso, che era cresciuto in Tracia». Da quest’ultimo verso infatti si
desumerebbe che il re dei Traci fosse Ifidamante. In tal caso Porfirio ricerca la soluzione
(luvsiı) nella lingua (ejk levxewı),13 o, meglio, nel significato di un termine legato al contesto,
«in quanto quelli di Acamante non guidano tutti i Traci». A sostegno della tesi egli riporta
il verso dell’Iliade che immediatamente segue, dove si specifica che i Traci in oggetto
sono «quelli che l’Ellesponto dalle acque impetuose circonda», cosicché Reso e Ifidamante
durante il loro regno possono essere stati poi loro aiutanti.
Un’analoga difficoltà presenterebbe anche Il. II 848 («Pirecme comandava i Peoni dagli
archi ricurvi»), in contrasto con Il. XXI 140, da cui si deduce che Asteropeo fosse re dei
Peoni. Questa volta la soluzione non è da ricercare nella lexis, ma potrebbe essere trovata
nell’opportunità richiesta dalla narrazione, nell’occasione (luvoito d∆ a]n tw/' kairw/)' : «non
è infatti poco plausibile (oujk ajpeikovı) che Asteropeo, con il prolungarsi della guerra, sia
giunto guidando alcuni Peoni». La lysis dunque, che si può raggiungere sempre attraverso
la ricerca dell’eikos, con la confutazione delle posizioni di chi scorgeva l’apeikos in alcuni
punti della dizione epica, passava concretamente attraverso diverse modalità, come i due
casi presentati lasciano intendere, in cui gli elementi invocati sono la lexis e il kairos.
L’esercizio della lysis nell’età di Porfirio è una pratica già ben consolidata.14 Applicata
a testi poetici, in particolare Omero, risale a prima di Aristotele. Lo attesta la Poetica, che
presenta un’ampia casistica di problemi da indagare, distinguendoli in rapporto non solo
all’arte poetica in sé, ma anche al linguaggio (ta; de; pro;ı th;n levxin oJrw'nta dei' dialuvein,
1461a 9-10).15 Già dalla testimonianza aristotelica emerge come al poeta non sia concesso
uscire dall’orizzonte di attesa; anche il fantasioso o l’impossibile sono da ricondurre entro
le rigide regole della plausibilità e della convenienza. Aristotele riprende e rilancia le
linee di una lunga e feconda esegesi: «in generale l’impossibile (to; ajduvnaton) bisogna
riportarlo o alla poesia, o al meglio o a quanto generalmente si crede (pro;ı th;n dovxan).
In rapporto alla poesia infatti è preferibile un credibile (piqanovn) impossibile rispetto a
13
Su questo tipo di lyseis, che investono problemi letterari e più precisamente aspetti della lingua o dello
stile, si veda Combellack (1987), che ne offre un’ampia casistica. Altre lyseis fissate dalla tradizione
grammaticale sono quelle desunte dal carattere (ajpo; tou' proswvpou), dall’occasione o dalla situazione
(ajpo; tou' kairou') e dal costume (ajpo; tou' e[qouı).
14
I casi discussi rientrano nella nota categoria degli ‘scandali analitici’, così definiti da Rossi (1978, pp.
97-99, in particolare p. 97), su cui si possono vedere anche le osservazioni di Ferrari (2007, pp. 19-33). Per
un altro esempio rintracciabile all’interno della tradizione scoliastica in cui la lysis è in stretta relazione
con l’eikos cfr. Sch. vet. in Od. 5, 333. Anche in un tale contesto la soluzione si basa sulla lexis: ci si chiede
perché solo Ino, la figlia di Cadmo, provi pietà per Odisseo. Ciò sarebbe dovuto alla sua precedente natura
umana e quindi è ragionevole che, avendo sperimentato le sofferenze umane, provi pietà per Odisseo
(eijkovtwı oijkteivrei).
15
Aristotele alla fine del cap. 25 (1461b 24-25) dice che le luvseiı presentate sarebbero dodici, ma ciò non
corrisponde a quanto effettivamente esposto. Si veda in proposito Lanza (1987), nota ad loc.
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 81
un incredibile (ajpivqanon), anche se possibile (1461b 9-12)». Scopo del poeta come del
retore è dunque la persuasione dell’uditorio, che può essere raggiunta solo attraverso
una presentazione plausibile. Aristotele aggiunge che quanto si dice illogico talvolta non
è tale, «perché è verosimile anche che accada qualche cosa contro la verosimiglianza
(eijko;ı ga;r kai; para; to; eijko;ı givnesqai, 1461b 15)». In tal modo quando l’inverosimile
è ammesso, esso deve essere sempre controllato dal verosimile e su questa base viene
spiegato secondo un processo di normalizzazione.
Già per Aristotele dunque, coerentemente ai principi generali di poetica, la soluzione
di molte lyseis non può prescindere dall’esame dell’eikos, la cui osservanza deve essere
sempre garantita. La critica a un poeta passa attraverso la negazione dalla verosimiglianza
e allo stesso modo la difesa dalle obiezioni deve essere condotta necessariamente
attraverso il recupero di tale criterio, sentito come imprescindibile a qualsiasi livello, dal
linguistico al contenutistico. Quest’ultimo in particolare, quando si presentassero delle
contraddizioni, doveva sottostare alle stesse regole a cui si sottopongono i trattati in prosa,
di cui non mancano le confutazioni, come anche le lyseis.16 Anche in questo specifico
esercizio critico l’eikos occupa un posto di primo piano. Ce ne offre indirettamente una
prova emblematica proprio Aristotele, citato in un passo delle Quaestiones convivales di
Plutarco (VIII 10, 734 C ss.) a proposito di un curioso problema: perché si presta meno
fede ai sogni autunnali? Per alcuni la questione sembrava essere stata risolta da Aristotele
(ejdovkei lelukevnai th;n ajporivan ∆Aristotevlhı, 734 E) e che non si dovesse ricercare altro
o altro dire (oujde;n…dei'n zhtei'n oujde; levgein), se non che la causa è dovuta ai frutti che,
essendo ancora giovani e nel pieno delle loro forze, producono nel corpo molta aria che
arreca disordine. La prova di questa teoria sta nel confronto con il comportamento del vino
e dell’olio: «non è infatti verosimile (ouj ga;r…eijkovı) che il vino solo ribolla e fermenti,
né che l’olio, qualora sia recente, nelle lampade produca crepitìo». È probabile che qui
Plutarco riporti testualmente l’argomentazione aristotelica, in cui l’inferenza verosimile è
basilare per la risoluzione: lysis ed eikos appaiono dunque un binomio inscindibile della
ricerca, non solo letteraria, quando si devono affrontare casi aporetici. È sul versante
scientifico il corrispettivo del procedimento indiziario utilizzato nel processo.
Con gli stessi criteri, Porfirio procede anche affrontando problemi di più ampio respiro,
come nell’interpretazione, ancora oggi spesso dibattuta, del significato da assegnare a moira
in Il. VI 488-489 (Quaest. Hom. ad Il. 6,488). È istruttivo ripercorrere la sua procedura.
Egli parte puntualizzando preliminarmente che in Omero il termine avrebbe tre valenze
differenti, presentandosi di volta in volta come hJ eijmarmevnh, ciò che noi intendiamo in
modo generico con ‘destino’, hJ merivı, la ‘parte assegnata a ciascuno’ e come to; kaqh'kon,
il ‘giusto ordine’, ‘ciò che si deve compiere’ o ‘ciò che è giusto che avvenga’. Porfirio
opera dunque un’acuta distinzione per nulla banale tra ‘significante’, to; shmai'non,
e ‘significato’ di una parola. Ai passi citati a supporto di tale ricostruzione è aggiunta
un’ulteriore interessante osservazione: i discorsi in questione non sono pronunciati dal
poeta, ma sono messi in bocca a personaggi diversi, in modo funzionale alla mimesis e
Cfr. 1461b 15-16: «quello che è detto in modo contraddittorio (ta; d juJpenantivwı eijrhmevna), si deve
16
esaminare come le confutazioni nei trattati in prosa (oiJ ejn toi'ı lovgoiı e[legcoi)».
82 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
pertanto «non vi è nulla di strano (oujde;n ajpeikovı) che personaggi differenti (ta; diavfora
provswpa) siano in disaccordo tra loro (diafwnei'n…pro;ı a[[llhla)».
Al di là della specifica osservazione e del contenuto oggetto d’indagine, è interessante
ancora una volta notare il modo in cui viene condotta l’esegesi. Anche qui si presuppone
un’obiezione sottesa all’assunto di partenza: alcuni ricercarono (ejzhvthsavn tineı) come
mai il poeta in Il. VI 488-489 chiami il destino ‘immutabile’, mentre nell’Odissea lo
presupponga ‘trasgredibile’ (parabatovn), come nel caso di Od. I 35-36.17 È chiaro che
l’obiezione di alcuni nasce non solo dalla contraddizione che essi riscontrerebbero tra i
due passi, ma anche dalla necessità che ne deriverebbe di dover presupporre un destino
modificabile da parte di uomini o dei. La salvaguardia della coerenza passa questa volta
attraverso la ricerca di passi che provino come moira possa assumere diverse accezioni, ma
soprattutto dall’acuta presa d’atto che all’autore non sono ascrivibili tutte le affermazioni
dei suoi diversi personaggi (oujk ejk tou' poihtou', ejk de; proswvpwn diafovrwn), il cui uso
risponde ai bisogni della rappresentazione (eijı mivmhsin paralhfqevntwn). Autore e
personaggi sono dunque due entità diverse e non vanno confuse.18 Resta così fermo che
per Omero, in quanto autore, il fato come hJ eijmarmevnh è immutabile: i versi citati lo
provano, senza contare che ve ne sarebbero molti altri «in base ai quali è chiaro che Omero
chiama il destino di morte non trasgredibile (ajparavbaton)». La coerenza di Omero come
poeta è ancora una volta salva e la contraddizione è solo apparente, un abbaglio di chi si
lascia fuorviare dai diversi punti di vista dei singoli personaggi.
Come si nota, le varie procedure sono tutte chiamate in causa per garantire ciò che sembra
essere il vero obiettivo esegetico, quello di salvaguardare la compattezza del testo e la logicità
argomentativa dell’autore, che non può presentare cedimenti. La negazione dell’apeikos, in
risposta alle obiezioni di alcuni, è il fine ultimo e a ciò concorrono analisi testuali sorrette
da concetti anche sorprendentemente moderni. Ne è prova ancora una lettura del canto XIII
dell’Odissea, in cui Porfirio si interroga su un aspetto che ha colpito molto i critici, quello
riguardante l’atteggiamento dei Feaci. In particolare stupisce quando essi deposero ad Itaca
Odisseo senza svegliarlo, stranezza (th;n…ajtopivan) che – ci dice Porfirio (Quaest. Hom. ad
Odyss. 13, 119) – insieme al sonno inopportuno (a[kairon u{pnon) dell’eroe cercò di risolvere
(dialuvein peirwvmenoı) Eraclide Pontico, per il quale invece «inopportuni (ajtovpouı) sono
coloro che non congetturano (tou;ı…mh; stocazomevnouı) sull’intero comportamento dei
Feaci, partendo da quanto ha detto il poeta (ejx w|n ei[rhken oJ poihthvı)».
Un aspetto circoscritto diventa così l’occasione per interpretare la complessiva
descrizione del singolare popolo dei Feaci e il punto di partenza è ancora una volta la
17
wJı kai; nu'n Ai[gisqoı uJpe;r movron ∆Atreivd> ao / gh'm j a[locon mnhsthvn («come anche ora Egisto sposò
oltre il giusto la legittima moglie dell’Atride»). Qui Porfirio interpreta l’espressione uJpe;r movron come ‘in
violazione del destino’. Sul suo significato rinvio alle osservazioni di West, Heubeck (1981) dove si annota
che i termini ai\sa e moi'ra sono anche usati «in senso più lato a proposito di ciò che è conveniente, giusto, o
ragionevole attendersi» e quindi in questo caso va riscontrata «l’idea dell’andare al di là del limite normale,
dell’ottenere una porzione superiore a quella dovuta di una certa cosa» (pp. 190-191).
18
Già Aristotele nella Poetica afferma che in rapporto al detto bene o al detto non bene bisogna indagare
non solo se è importante o di poco conto, ma bisogna considerare anche chi è che parla o agisce, rivolto a
chi, o quando, per che cosa o in vista di che cosa (1461a 4 ss.).
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 83
spiegazione di Omero con il ricorso al solo Omero: ogni parte, anche quella apparentemente
più singolare, ha una sua plausibile giustificazione interna. Spetta al critico saperla
individuare. I Feaci sarebbero amanti della loro condizione e temono di vederla minacciata da
possibili usurpatori esterni. Per questo vivono divisi tra una cordiale ospitalità (filoxenivan)
e il bisogno di allontanare urgentemente chi giunge da loro (tacei'anv te ajpovpemyin pro;ı
tou;ı ejlqovntaı). Essi fanno di tutto per rimanere nascosti e non rivelare quanto distano
dagli altri popoli, conducendo un’esistenza isolata su un’isola felice, dediti ad occupazioni
contrarie alla guerra. Per Eraclide Pontico, che Porfirio accoglie senza riserve, non si può
comprendere lo strano comportamento tenuto nei confronti di Odisseo se non si considerano
queste premesse generali. In tal modo tutto risulta spiegabile: «essendo dunque tali e visto
che essi abitano una terra di questo tipo, non è per nulla strano (oujde;n ajpeikovı) che si
guardino dall’essere scacciati dal loro suolo, scoperti da chi può fare guerra, e che rinviino
velocemente gli stranieri, non per amore di ospitalità».
Risponde pertanto a ragione (oujde;n ou\n a[logon/eu[logon dev) tutto il comportamento dei
Feaci: il rinvio rapido dei forestieri prima che si impossessino dei loro beni e la paura nei
confronti di Odisseo, avvertito come potenziale minaccia, poiché egli è abile in guerra e per
di più ha una patria brulla ed angusta. Ne deriva che la descrizione omerica è coerente, come
dimostrano le citazioni portate a supporto. Tutto s’intona (sunw/dovn ejsti), anche i dettagli
della collocazione geografica dell’isola dei Feaci, lontana dalla Grecia, e l’affermazione che
essi ricondurranno facilmente in patria Odisseo. Allo stesso modo è chiaro (dh'lon o{ti) a cosa
tenda il comportamento di questo singolare popolo, volto a non rivelare dove vive. Lo sforzo
esegetico è inoltre quello di dimostrare che non esistono lati oscuri, contraddizioni all’interno
del testo, neppure nell’affermazione che i Feaci lasciarono ad Itaca ancora addormentato
Odisseo, esposto al rischio di essere attaccato da qualche persona. Neppure in questo essi
mancarono a un dovere: con l’approdo avevano esaurito il loro compito, come da accordi, e
pertanto, comportandosi così, non si macchiarono di empietà. Era prioritario per loro ritornare
all’isola prima che Odisseo si svegliasse, per non svelare da che parte riprendessero il mare
nel ritorno. Se poi si vuole concedere anche il sentimento di amore per il prossimo (ei[ tina
filanqrwpivan dei' aujtoi'ı ajpodou'nai pro;ı to;n ∆Odusseva), si può sempre ricorrere al fatto
che (e[xesti levgein), tra le profezie di Tiresia riferite a loro da Odisseo, essi sentirono anche
quella che preannunciava la vendetta dell’eroe sui nemici e che egli non avrebbe subìto nulla
di male. Potevano quindi lasciare da solo Odisseo, senza il timore di esporlo a rischi.
Quella presentata da Porfirio sulla scorta di Eraclide Pontico è una vera e propria difesa
e come tale egli la considera (th;n ajpologivan poiouvmeqa), esplicitando qual è il fine per
cui si conduce una tale analisi, perché è stata svolta e contro quale altra tesi (para; tiv). C’è
chi infatti oppone, anzi apertamente accusa (oiJ me;n ga;r kathgorou'nteı), che i Feaci così
agendo avrebbero corso il rischio di essere mal giudicati (ajdoxiva/ peripesei'n), senza però
dimostrare in aggiunta che essi, se non si fossero comportati così, non avrebbero ricavato
alcun beneficio.19 Questo è quanto dovevano fare coloro che non sono disposti a trasmettere
una tale difesa esegetica (tou;ı mevllontaı mh; paradwvsein ajpologivan). Spesso infatti in
Il testo tradito non dà senso in base a quanto si propone di dimostrare Porfirio. Seguo gli emendamenti
19
di Schrader (1890).
84 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
un solo atto esiste del bene e del male, positivo e negativo non sono nettamente separabili
ed è preferibile optare per il bene che fuggire il male. Per questo motivo azioni del genere
non devono essere disprezzate. Da qualsiasi punto di vista i Feaci sono dunque scusabili:
non ebbero paura di mostrare che vollero tener nascosto il luogo in cui vivevano.
Come si nota, la spiegazione si fonda su complesse argomentazioni, a volte anche
cavillose, che nelle intenzioni del critico prendono le mosse (ajformhv) dal testo. Si offrono
però anche altre possibilità per individuare le ragioni in base alle quali i Feaci non corsero
il pericolo della cattiva fama. Esse non sono fondate sui versi omerici (ejkto;ı tw'n ejpw'n).
Si può dunque spiegare Omero ricorrendo ad Omero, ma anche prescindendo dal testo.
Il passo di Porfirio è in parte lacunoso, ma ciò che ancora segue ci permette di intuire a
cosa il critico mirasse. Si potrebbe dire – egli aggiunge – che i Feaci non svegliarono
Odisseo per non sembrare di voler esigere il ringraziamento del ritorno in patria (uJpe;r tou'
mh; dokei'n cavrin th'ı parapomph'ı ajpaitei'n) o per non essere trattenuti da lui, oppure
Omero così pianificò per il seguito (h] ou{twı wj/konovmhse dia; ta; eJxh'ı), in quanto Odisseo
sarebbe stato ucciso dai pretendenti, se fosse ritornato non in incognito, giustificazioni che
non trovano fondamento nei versi. Molteplici sono dunque le opzioni a disposizione del
critico, che ha il dovere di conoscerle e di vagliarle, non solo per meglio intendere un testo,
ma anche, anzi prima di tutto, per difendere o attaccare un autore nelle scelte compiute.
C’è ancora una domanda a cui Porfirio intende rispondere a margine di questo canto dei
Feaci: riguarda la collocazione temporale. Perché lo sbarco avvenne di notte? (dia; poivan
aijtivan h[[gagon to;n ∆Odusseva th'ı nukto;ı eijı ∆Iqavkhn). Anche in questo caso non si tratta
di una curiosità isolata, ma di un aspetto dibattuto, come si può notare dal modo con cui
Porfirio presenta la questione. Alla domanda di alcuni (fasiv tineı), che sottintende le
loro perplessità, il critico contrappone la sua proposta, che ripropone nella sostanza la
stessa idea di fondo: i Feaci, amanti di una vita comoda, inesperti della guerra, non vollero
riaccompagnare Odisseo di giorno per non permettere che altri, vista la nave, potessero
capire dove fosse la loro patria e andassero poi a devastarla. Non si tratta comunque
dell’unica possibile spiegazione: altri (a[lloi dev) giustificano tale scelta imputando tutto al
sapiente piano di Atena, che in questo modo impedì ai pretendenti di vedere Odisseo e di
tramare contro di lui.20
Diverse erano dunque le domande e variegate le ricerche condotte sul testo, segno di un
vivace dibattito. Alcune di esse possono sembrare oggi ingenue o banali, altre mantengono
ancora una loro validità, seppur riformulate in modi differenti ma, oltre ad essere una
preziosa testimonianza dello studio attento del testo, sono prima di tutto una dimostrazione
del metodo e del valore assegnato alla coerenza narrativa. L’efficacia di un testo e la perizia
di un autore si misurano soprattutto in base alla rispondenza al verosimile, alla credibilità
e alla convenienza delle affermazioni o degli atti descritti. Lo si coglie ancora da una
sintetica nota ai versi 192 ss. di Odissea XXIV. Il riferimento è all’incontro all’Ade tra
Agamennone e Amfimedonte, ucciso tra i pretendenti da Odisseo. Al termine del racconto
di Amfimedonte, Agamennone loda Odisseo per la virtuosa moglie. Alcuni dicono che
Sul passo dei Feaci cfr. anche Sch. vet. in Od. 13, 119, in cui si riporta la testimonianza di Eraclide
20
Pontico.
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 85
21
Porfirio, come anche Eraclide Pontico ed Eustazio, di seguito richiamato, è un anello di una lunga
catena di esegeti, la cui attività è attestata dalla tradizione scoliastica. Molti altri casi si potrebbero portare,
tratti appunto dagli scoli, da cui emerge dunque come l’eikos e le forme correlate (eijkovtwı, ajpeikovı,
ajpeoikovı) servano, a seconda dei casi, per convalidare la convenienza di certe espressioni, per introdurre
delucidazioni, per esplicitare il non detto, per difendere la pertinenza di ragionamenti, per approvare
scelte espositive, per avanzare ipotesi, per sciogliere difficoltà, per sostenere alcune lezioni testuali o
l’etimologia di termini. La casistica è molto ampia: alla categoria si ricorre in sostanza ogni volta in cui
è richiesta una lysis. Come segno di approvazione nei confronti dell’autore spesso si trova l’espressione
eijkovtwı ei\pe/prosevqhke/e[fh/fhsiv. L’avverbio è usato quasi unicamente per confermare e, oltre che
nell’esegesi omerica, compare ampiamente anche negli scoli agli Elementi di Euclide. Entrando nello
specifico di qualche altra esemplificazione, si può ricordare Sch. vet. in Il. 10, 447a, 447b, dove si indaga
se mantenere il nome proprio Dovlwn, sostituito da alcuni con la forma participiale dolw'n, nell’accezione
sinonimica di now'n, in quanto Diomede, che si rivolge all’eroe, non potrebbe sapere quale sia il suo nome.
Ma, oltre al fatto che il nome proprio ritorna poco oltre (v. 478), è normale (eijkovı) che si conoscessero i
nomi di alcuni, vista la durata della guerra, in particolare di Dolone, figlio dell’araldo, e per di più «ricco
d’oro e di bronzo» (v. 315). Risponde dunque a verosimiglianza che si accompagnasse al padre. Ettore
inoltre usava radunare i Troiani chiamandoli per nome (v. 300). Un altro caso curioso riguarda il dubbio
da dove Patroclo prenda la radice medica, che alcuni chiamano di Achille, per curare la ferita di Eurifilo.
Secondo alcuni la portava sempre con sé per utilizzarla al momento del bisogno. È invece assai probabile
(mavlista eijkovı) che l’abbia presa al momento, prelevandola da un prato vicino, fondandosi sulle sue
conoscenze botaniche (Sch. vet. in Il. 11, 846; cfr. anche Sch. rec. in Il. Theodori Meliteniotis 11, 846 e
Sch. vet. in Il. [= D Scholia] 11, 845), dove invece è avanzato come verosimile che Patroclo, in quanto
medico, portasse con sé la radice per i casi necessari. Una risposta a chi ha voluto interpretare come poco
conveniente (mikroprepe;ı kai; tapeinovn) il fatto che Arete, la moglie di Alcinoo, chieda ad Odisseo
innanzitutto delle vesti è contenuta in Sch. vet. in Od. 7, 238. Molti sono i motivi per i quali incominciò
da qui e comunque è verosimile che la moglie per prima riconosca (ejpignw'nai) le vesti. È infatti proprio
della natura femminile tessere, curare e maneggiare gli abiti. Difficoltà interpretative presenta Od. 3, 245,
a proposito del regno di Nestore (tri;ı ga;r dhv mivn fasin ajnavxasqai gevne j ajndrw'n). È singolare in questo
luogo l’uso di ajnavssw con l’accusativo, con la conseguenza che gevnea esprime durata, mentre trivı
assume valore aggettivale. Il verso propriamente andrebbe dunque inteso «regnò per tre volte durante
generazioni di uomini» e quindi «regnò per tre generazioni». Ciò però sembra in contrasto con Il. 1, 250-
252: «per lui si erano già estinte due generazioni di uomini mortali, che prima con lui crebbero e nacquero
a Pilo divina e con la terza regnava (meta; de; tritavtoisin a[nassen)». In Sch. vet. in Od. 3, 245 è messa
in luce l’incongruenza: «ora dice che regna per la terza volta, là invece una volta, ma che visse fino alla
terza generazione (ejkei' de; a{pax, biw'nai de; ejpi; trivthn geneavn)». Se comunque si considerano spuri i tre
versi (i.e. 244-246), il senso, conclude lo scolio, non subisce alcun danno. La difficoltà, stando sempre allo
scolio, è ben presente anche a Porfirio, che ricorda inoltre come gli antichi calcolassero per generazione
trent’anni. Chi ha trascorso al comando due periodi di trent’anni e sta compiendo il terzo (oJ gou'n ejn tw/'
a[rcein duvo triakontaetivaı paradramw;n kai; th;n trivthn ejlauvnwn) è verosimile (eijkovtwı) che si dica
che regni per la terza volta (tri;ı ajnavxai). Sul periodo del regno di Nestore dunque è evidente che ci fosse
86 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
attività esegetica individua nell’eikos un valido supporto per difendere o per attaccare le
scelte dell’autore oggetto di studio. Se ne trova traccia negli Scholia vetera all’Iliade (17,
234-235) a commento del desiderio dei Troiani, esortati da Ettore, di strappare ad Aiace il
cadavere di Patroclo, desiderio per nulla strano (oujk ajpeoiko;ı me;n to; ejlpivsai tau'ta tou;ı
Trw'aı) se si osserva come Omero contrappose a tutta la massa dei Troiani proprio Aiace
(o{ra dev, pw'ı ajntevqhke tw//' panti; plhvqei tw'n Trwvwn to;n Ai[anta). Nonostante il poeta
definisca i Troiani ‘stolti’ (nhvpioi, 17, 236), non va ravvisata neppure in questo caso alcuna
incoerenza: l’aggettivo, se da un lato serve ad ingigantire il loro ardore (ejdeinopoivhse
th;n proqumivan tw'n Trwvwn), dall’altro preannuncia il futuro, soddisfacendo il desiderio
di chi ascolta (proanafwnei' to; ejsovmenon eijı ejpiqumivan tw'n ajkouovntwn, Sch. vet. in Il.
17 236a). Negli Scholia recentiora sempre all’Iliade (19, 124) si legge la spiegazione
dell’espressione ou[ oiJ ajeikevı, impiegata per indicare che ‘non è indegno’ per Euristeo,
figlio di Steleo e della stirpe di Perseo, regnare sugli Argivi: l’aggettivo è chiosato, oltre
che con deinon e chalepon, con apeikos, indizio chiaro del suo uso ormai comune e del
suo spettro semantico che tende sempre più ad estendersi.
Sulla stessa linea esegetica si colloca anche Eustazio. Il suo ampio commento ai versi
311 ss. del canto VI dell’Iliade è assai istruttivo (Comm. Ad Hom. Il., vol. II p. 319 ed. Van
der Valk). Teano, sacerdotessa di Atena a Troia, su invito di Ecuba e delle altre donne, dona
il peplo e chiede che Diomede possa cadere sotto le porte Scee, promettendo alla dea in
caso di esaudimento il sacrificio di dodici vacche: «così disse e Atena fece cenno di no (VI
311)», verso in cui Eustazio ravvisa una predizione (proanafwvnhsiı)22 volta a rassicurare
l’ascoltatore filogreco che Diomede non subirà danno alcuno. Ciò però può apparire come
una smentita dell’indovino Eleno, che aveva consigliato per l’appunto di rivolgersi ad
Atena. Ancora una volta è interessante seguire lo sviluppo del ragionamento dell’esegeta,
teso a salvare la coerenza23 del testo a costo anche di reperire cavillose motivazioni. È
un dibattito aperto e Porfirio trova una soluzione per salvare l’espressione omerica dell’Odissea. Per il
suo ricorso all’eikos Porfirio è ricordato ancora in Sch. vet. in Od. 3, 296, dove ci si chiede perché il testo
dica che Borea fa rotolare una grande onda (mevga ku'ma kulivndei), mentre Noto la spinge (wjqei') contro un
dirupo ad occidente. La soluzione questa volta è trovata nel significato proprio dei verbi e nel fenomeno
descritto: kulivndw indica propriamente l’azione di far scendere ciò che è collocato in alto, wjqevw quella di
condurre a forza ciò che sta più in basso. Omero sa che la nostra parte abitata è più a nord, più esposta a
Borea, mentre l’altro emisfero è più a sud, più esposto a Noto e più basso. Ne deriva che correttamente,
verosimilmente (eijkovtwı), Omero disse che Borea, soffiando dall’alto, fa rotolare le onde, Noto invece,
spirando dal basso, le spinge. Considerando che Ilio e l’Ellesponto stanno più a nord dell’Ellade, chiama
ajnavplouı e ajnagwghv (ajnav indicando il movimento dal basso verso l’alto) il tragitto dall’Ellade ad Ilio.
Poiché inoltre nessuna città e isola greca nel Catalogo è più a nord di Ilio e a nord le notti sono più lunghe,
ragionevolmente (eijkovtwı) Omero dice che ad Itaca la notte è lunghissima; il riferimento è ad Od. 15,
392-394. Si veda anche Sch. in Od. (libri g-d), 3, 295a. Affrontando il tema dell’influenza delle categorie
aristoteliche sull’attività esegetica alessandrina, in particolare di Aristarco, tratta anche dell’eikos Schironi
(2009, in particolare pp. 283-288).
22
Si noti che la proanafwvnesiı è chiamata in causa anche da Porfirio, come si è visto poco prima (Sch.
vet. in Il. 17 236a), segno dell’importanza che essa assume in ambito esegetico.
23
‘Salvare il verosimile’ (diaswvsasqai to; eijkovı), principio per una corretta scelta e per un comportamento
consono, è efficace espressione di Elio Aristide (Ai Rodiesi, sulla concordia XXIV [Keil] 11), probabilmente
ripresa dalla tradizione retorica. Egli la impiega, con una variante ininfluente, anche nell’orazione Contro
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 87
possibile infatti opporre (e[stin eijpei'n) che in realtà Atena nega non le richieste di Eleno,
ma di Teano, che non si è limitata a chiedere che Diomede venisse trattenuto lontano da
Troia, secondo le parole dell’indovino, ma che trovasse la morte davanti alle Porte Scee:
«non è dunque Eleno che esortò in modo inconcludente, ma Teano a pregare male e per
questo motivo non è stata esaudita».
Anche i versi immediatamente seguenti (313-317) sono sottoposti ad indagine con
modalità per i nostri interessi assai curiose. Omero menziona l’abitazione di Alessandro,
dalla quale per Eustazio si può dedurre la rozzezza del Troiano. Questa volta sotto la
lente d’ingrandimento cade la pertinenza di certe espressioni e si arriva a concludere
che non è fuori luogo (oujk a]n ei[h ajpeoikovı) la scelta terminologica operata dal poeta
nel denominare aujlhv anche il tukto;n davpedon, in quanto questo non si trova per natura
(fuvsei), ma è il risultato di un lavoro di artigiani (ajll jejx ejpitecnhvsewı tektovnwn). Non
solo nell’analisi del racconto, ma anche nello studio del lessico l’eikos resta dunque un
riferimento assolutamente imprescindibile nel lavoro dell’esegeta.
Platone, per i quattro (XLVI [Keil] 128), una dimostrazione di come l’accusa mossa da Platone nel Gorgia
a Milziade, Temistocle, Pericle e Cimone non sia necessaria rispetto all’assunto di partenza del dialogo e
non rispetti in molti punti la verosimiglianza. Tutta la confutazione di Platone è costruita come se fosse un
discorso di difesa e pertanto il ricorso all’eikos diventa ancora più interessante, indicando il legame con un
preciso genere di discorso. Sulla base delle motivazioni presentate da Elio Aristide il verosimile è conservato
(to; eijko;ı ou{tw swvzetai) se si pensa che non sia stato Pericle ad indurre gli Ateniesi alla pratica smodata dei
discorsi e alla loquacità. Si tratta di una deduzione tipica del processo. L’espressione è resa da Behr (1986)
con «it is most probable» (p. 158). Lo scolio ad loc. (Sch. vet. in Ael. Arist., Tett. 128, 3) la spiega «come
se l’oratore dicesse il necessario e il conseguente (wJsanei; e[lege to; ajnagkai'on kai; to; ajkovlouqon)». Essa
ritorna anche negli scoli. I discorsi che Telemaco rivolge a Nestore sono simili a quelli di Odisseo (muqoiv
ge ejoikovteı) e non si direbbe che un giovane possa parlare con tanto senno (a[ndra newvteron w|de ejoikovta
muqhvsasqai, Od. III 124-125). Le parole di Telemaco – così chiosa lo scolio – sono proprie di una persona
più matura rispetto alla sua età (presbuvteroi…th'ı hJlikivaı), contengono considerazioni logiche e assennate
(kai; pavnu to; eijko;ı ejn aujtoi'ı swvzetai, cfr. Sch. vet. in Od. 3, 124 e Sch. in Od. [libri g-d], 3, 124a).
88 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
rivolto ai classici l’altro alla Sacra Scrittura, è fulgido esempio ancora il bizantino Fozio.
Nel suo commento al Vangelo di Matteo egli mostra come i metodi della scuola retorica
possano essere fruttuosamente applicati alla Bibbia. È esemplare l’estesa spiegazione
del cap. 26, snodo del racconto, che introduce la sezione finale della passione e della
resurrezione. L’attenzione è rivolta nello specifico all’unzione ricevuta da Gesù a Betania
da parte di un’anonima donna in casa del lebbroso Simone, atto che provocò lo sdegno dei
discepoli (oiJ maqhtai; hjganavktesan, 26, 8): essi vi videro un inutile spreco del prezioso
olio profumato che si sarebbe potuto vendere per distribuirne il ricavato ai poveri.
L’unzione, dalla forte valenza simbolica, è centrale e viene raccontata in modi
differenti anche dagli altri evangelisti, e proprio sulle differenze si concentra gran parte
dell’esegesi. Fozio rimarca prima di tutto l’accoglienza dell’omaggio da parte del Dio che
‘conosce i cuori’ (oJ kardiognwvsthı qeovı, Comm. In Mat., 91)24 e che tutto sa, in contrasto
con l’atteggiamento degli stessi discepoli che, in quanto uomini, non vedono altro che
l’apparenza (to; fainovmenon) e si fermano all’aspetto materiale, il consumo dell’olio. Ma
non tutti i discepoli sono mossi indistintamente dagli stessi sentimenti, in quanto, se tutti
gli altri si appellano al bene che si sarebbe potuto arrecare ai poveri (th;n tw'n penhvtwn…
eujpoii>van) con il denaro ricavato dalla vendita dell’unguento, per Giuda l’elemosina è solo
un pretesto, un semplice velo (parapevtasma) che non riesce a celare la causa profonda
del suo sdegno, la brama della ricchezza (e[rwti…filargurivaı).
L’esegesi in questo punto è particolarmente interessante. Una tale precisazione infatti
non trova alcun fondamento in Matteo, che non menziona Giuda.25 Fozio opera in tal
caso una contaminazione con Giovanni per ricostruire un racconto dal suo punto di vista
plausibile ed evidenziarne contenuti più profondi: «questo è quello che mostrò – dice il
patriarca – anche Giovanni con un atto analogo compiuto dalla sorella di Lazzaro, Maria».
Il racconto di Giovanni in realtà non è sovrapponibile a quello di Matteo: è sempre
ambientato a Betania, ma appunto in casa di Lazzaro; la donna inoltre non è lasciata
anonima. È infatti Maria che versa l’olio sui piedi, non sulla testa, e li asciuga con i capelli;
gli altri discepoli non proferiscono parola, «non essendo pronti né inclini – nota Fozio – a
rimproverare comportamenti del genere (a{te dh; mh; provceiroi o[nteı mhde; propetei'ı
toi'ı toiouvtoiı ejpitima'n)». Chi parla è solamente lo svergognato (ajnaivscuntoı) Giuda,
i cui veri sentimenti vengono svelati dall’evangelista, che aggiunge come il traditore agì
«non perché gli stesse a cuore la sorte dei poveri, ma perché era un ladro, e teneva la
borsa (Gv. 12, 6)». Fozio enfatizza dunque questa diversa disposizione dei discepoli per
isolare Giuda da tutti gli altri, che in tal modo nell’importanza assegnata all’elemosina
non contravvengono agli insegnamenti del maestro. Giuda invece, che ha sempre accesa
la passione per il denaro (flegmai'non e[cwn ajei; to; th'ı filargurivaı pavqoı), si altera tutte
le volte che vede il pericolo di una possibile perdita di guadagno.
24
Riporto la numerazione come appare nel TLG, che riproduce l’edizione, da me non direttamente
controllata, di J. Reuss, Matthäus-Kommentare aus der griechischen Kirche (Texte und Untersuchungen),
61, Berlin, Akademie, 1957.
25
Matteo introduce Giuda subito dopo, esponendo come egli si fosse recato dai sommi sacerdoti per
fissare il prezzo del tradimento (26, 14-16). Non entra come personaggio nell’episodio dell’unzione.
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 89
Conclusa l’analisi del comportamento dei discepoli, Fozio passa alla reazione di Gesù,
ricavando le due cause in base alle quali non bisogna rimproverare la donna: la prima perché
fece una bella azione nei confronti del Messia, come dice lo stesso Signore,26 giustificazione
sufficiente per i discepoli animati da buoni sentimenti in quanto a loro basta la testimonianza
del maestro; la seconda perché la donna ha agito in vista della sepoltura,27 osservazione che
sarebbe rivolta nello specifico a Giuda. Fozio chiosa il passo, presentando l’inespresso nei
Vangeli, quello che sarebbe sotteso alle parole di Gesù: «tu rimproveri questa donna e fai finta
di darti pensiero per l’elemosina? Tu che corri per la mia morte, tu che sei bramoso di uccidere
il benefattore, giudichi questa donna inadatta a versarmi il profumo, tu che ti immagini e ti
dai pensiero per l’uccisione, la sepoltura e le vesti funebri? Provi pietà per un povero, tu che
vendi colui che non ha “dove deporre il capo”? Hai compassione di un altro, tu che tradisci
il maestro?». L’esegesi foziana si spinge così fino ad ampliare lo stesso dettato evangelico,
creando un testo parallelo, quasi a voler sopperire all’imperizia retorica dell’originale.
Il bersaglio conclamato è quindi Giuda: quella dei poveri è una prophasis, che Fozio
intende smascherare. Egli estende l’osservazione all’anonima donna della casa del
lebbroso Simone, sebbene non nasconda come essa sia pertinente al racconto giovanneo:
È per la sorella di Lazzaro che Gesù diceva questo rivolto a lui, quando egli da solo per
l’arroganza della mente, per il disprezzo del maestro e per la passione della ricchezza andava
dicendo: «perché questo olio non si è venduto e non si è dato il ricavato ai poveri?». E infatti
allora Gesù dice: «lasciala fare, lo ha conservato per il giorno della mia sepoltura», in ogni
modo cercando di frenarlo nel suo tentativo e nella malvagia decisione, mettendo davanti agli
occhi quello che meditava e stava per compiere. Ma nulla può essere di giovamento ad un’anima
assorbita dall’amore per la ricchezza e dal rinnegamento.
La minuziosa lettura, fin qui sviluppata con il confronto incrociato che spesso porta a fondere
i diversi racconti, si approfondisce ancora di più. Il patriarca, riassumendo, ribadisce che
le donne coinvolte nell’unzione del Signore all’interno dei Vangeli sono tre, tutte animate
«da molta fede e da una fervente passione, la prima in Luca,28 la seconda in Giovanni e
la terza in Matteo e Marco. Questi ultimi due infatti ricordano la stessa persona».29 Sono
gli atteggiamenti e la condizione dei personaggi femminili a cadere ora sotto la lente
d’ingrandimento. Se la donna in Giovanni era nota per la sua pietà religiosa (eujlabeiva)/ , le
altre due rientravano tra le persone riprovevoli. Se la prima è la sorella di Marta, legata da
un vincolo di amicizia con il Signore, le altre si trovano nell’abitazione di un lebbroso e di
26
[Ergon ga;r kalo;n hjrgavsato eijı ejmev (Mt. 26, 10); kalo;n e[rgon hjrgavsato ejn ejmoiv (Mc. 14, 6); nulla
in Giovanni. Fozio, che riprende nella sua spiegazione il sostantivo e l’aggettivo e modifica il verbo
ejrgavzomai con poievw (ejpoivhsen), ritorna dunque all’esegesi di Matteo.
27
Il richiamo alla sepoltura è in Matteo (26, 12), Marco (14, 8) e, sia pur con accenti leggermente diversi,
in Giovanni (12, 7).
28
Fozio introduce così anche il racconto di Luca (7, 36-49) dell’incontro a casa di un fariseo tra Gesù e
una peccatrice (aJmartwlovı, 7, 37).
29
Proprio il numero delle donne coinvolte nell’atto dell’unzione – su cui a detta di Fozio non vige
il consenso – è il tema centrale dell’indagine dei passi interessati, riproposta con movenze simili alla
presente, nelle Ad Amphilochium quaestiones (48, 1 ss., PG101, 358 ss.).
90 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
Non ritenevano infatti di compiere un’azione indecorosa (ouj ga;r ajpeiko;ı ejnovmizon poiei'n),
non sopportando che una peccatrice lo versasse su quella testa pura, se ciò che veniva versato era
anche dell’olio profumato. Era invece naturale (eijko;ı dev) che essi considerassero anche questo:
se il maestro disprezza tutto, si avvia alla morte (di continuo infatti ormai lo diceva a loro), se
costui dunque si appresta a morire, quale utilità può esserci nel versare l’olio profumato? Perciò
anche il Signore dice, spiegandosi in riferimento a questo stesso pensiero, ‘ha fatto ciò per la mia
sepoltura’; è come se dicesse: dalle vostre considerazioni sul fatto che non bisognava che venisse
versato l’olio profumato a me, visto che disprezzo tutto e mi avvio alla morte, da questo di più
io traggo ragioni per coronare di lodi la donna. ‘Per la mia sepoltura’ infatti ‘ha fatto questo’. A
tutti gli altri discepoli il discorso del Signore potrebbe essere pronunciato così adattato, a Giuda
invece come è stato detto in precedenza. In rapporto infatti alle diverse considerazioni di coloro
che mostrarono insofferenza, era naturale (eijko;ı h\n) che anche il Signore parlasse, adattando il
discorso al pensiero di entrambi, e che chi ascoltava cogliesse la spiegazione in relazione a ciò
che era consapevolmente proprio di ciascuno.32
30
Cfr. Gv. 12, 1: oJ ou\n ∆Ihsou'ı pro; e}x hJmerw'n tou' pavsca h\lqen eijı Bhqanivan…
31
Cfr. Mc. 14, 1: h\n de; to; pavsca kai; ta; a[zuma meta; duvo hJJmevraı.
32
All’eikos Fozio ricorre anche nell’analisi dello stesso atto dell’unzione nelle Ad Amphilochium
quaestiones, negli stessi punti dell’argomentazione con corrispondenze quasi letterali (48, 210 ss., PG101,
368B-D).
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 91
Per scovare il senso profondo della vicenda descritta, Fozio ricorre quindi in ultima analisi
all’eikos, arrivando a scrivere quasi un testo di completamento, facendosi interprete del
pensiero di Gesù. Alle perplessità del tutto comprensibili dei discepoli, che comunque
mantengono un comportamento conveniente, Fozio accosta la legittima risposta del
maestro, volta a mettere in luce come anche l’atto della donna abbia una sua ragione
profonda. A un verosimile se ne accosta un altro; racconti analoghi, che presentano
situazioni in parte discordanti, acquistano così tutti una loro chiara spiegazione e insieme
contribuiscono a fornire un quadro unitario di Gesù, garanzia anche di veridicità storica.
33
In generale sulla natura e gli scopi delle quaestiones e delle responsiones rimando a Rinaldi (2012), utile
per la ricostruzione del dibattito critico in atto e per l’ulteriore bibliografia. Se le quaestiones sembrano mosse
da istanze prevalentemente apologetiche, nelle responsiones prevalgono quelle dottrinali. Già gli antichi si
interrogarono sulla nascita e sull’evoluzione del genere. Cicerone (De fin. II 1 ss.) parla di Gorgia come del primo
che introdusse la quaestio in una riunione: essa consiste «nell’invitare ad esprimere l’argomento su cui qualcuno
volesse sentire parlare». Cicerone sarebbe tentato di definirla un’abitudine ardita, quasi sfacciata, se non fosse
poi passata ai filosofi dell’Accademia. Nella maggioranza dei casi, come per l’appunto anche nell’Accademia,
chi pone la domanda poi tace e viene opposto un discorso continuo, diversamente dal costume socratico
dell’incalzante domanda e risposta, rimasto isolato e seguito solo da Arcesilao, che invitava gli interlocutori
non tanto a formulare domande, ma ad esporre le loro tesi e a difenderle finché potevano, ribattendo alle sue
osservazioni. La scrittura delle quaestiones rappresenta per Cicerone un mezzo fondamentale per conoscere a
fondo tutte le parti della filosofia (omnes… eius partes atque omnia membra tum facillume noscuntur, cum totae
quaestiones scribendo explicantur): permette di comprendere come essa sia un’ammirabile concatenazione e
sequenza di argomenti, legati gli uni agli altri e connessi tra loro (De nat. deor. I 9).
34
I Problemata mancano di una risposta unica alle domande poste. Per esempio nei Problemi fisici
aristotelici si espongono le diverse possibili risposte. Le soluzioni proposte non hanno nulla di prescrittivo
e di definitivo. La scelta ultima spetta al lettore; si veda Jacob (2004, in particolare p. 42). Si tratta
di un esercizio intellettuale; in assenza di elementi decisivi, si mettono alla prova schemi possibili di
argomentazione e si sottopone la stravaganza dei fenomeni alla razionalità di un rapporto di causa-effetto;
in proposito utili osservazioni si leggono sempre in Jacob (2004, p. 46).
35
Un’attività scoliastica o della adnotatio era condotta anche sui testi biblici, attestata per esempio
già nel caso di Eusebio. Si vedano gli Scholia in Matthaeum, gli Scholia in Canticum canticorum o le
92 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
Sia nella forma delle quaestiones che delle responsiones si tratta dunque di un genere
che si sviluppa e trova alimento all’interno della scuola, in un contesto comunitario, in
cui l’esposizione scritta, che fissa talvolta precedenti reali discussioni, non arriva ad una
soluzione e richiede la fattiva collaborazione dell’interlocutore.36 Spesso il tema della
ricerca era proposto da qualche allievo, come ci lascia intuire un prezioso passo del De
vita contemplativa (75), opera attribuita a Filone, in cui si descrive un’abituale riunione
che si teneva ogni cinquanta giorni all’interno della comunità ebraica dei Terapeuti,
filosofi asceti vissuti sulle rive del lago Maryut in Egitto: chi la presiedeva (oJ provedroı),
una volta ottenuto il silenzio,37 o ricercava personalmente qualche cosa presente nel testo
sacro (zhtei' ti tw'n ejn toi'ı iJeroi'ı gravmmasin), oppure risolveva problemi proposti da
altri (uJp∆ a[llou protaqe;n ejpiluvetai). Non si preoccupava di dar prova di sé, non era
spinto dalla fama retorica che poteva guadagnare, ma dal desiderio di osservare con più
precisione alcuni punti (qeasavsqai dev tina poqw'n ajkribevsteron). Raggiunto lo scopo
(qeasavmenoı), condivideva i risultati con chi cercava di analizzare a fondo, anche se non
era dotato della sua acutezza (mh; fqonh'sai toi'ı eij kai; mh; oJmoivwı ojxudorkou'si), ma aveva
comunque un simile desiderio di apprendere (to;n gou'n tou' maqei'n i{{meron paraplhvsion
e[cousi). Si tratta di un’utile documentazione perché ci attesta, al di là dell’evidente tono
elogiativo, una pratica di esegesi del testo sacro, già osservata in contesti ebraici, quale
Adnotationes in Genesim, dove sono contenute brevi note di commento a punti particolari del testo. In
proposito Zamagni (2004, in particolare pp. 11-13).
36
Sulla scrittura come forma di archiviazione e di trasmissione di un lavoro intellettuale svolto nell’oralità
e fondato sulla ricerca collettiva già ad Alessandria cfr. Jacob (2004, in particolare p. 51). Neri (2004) si
chiede se si possono scorgere nel dialogo tucidideo dei Meli e degli Ateniesi delle consonanze con il genere
delle quaestiones et responsiones. Per definire un genere secondo Neri è essenziale l’individuazione di
comuni usi linguistici e di condivise pratiche comunicative, per cui, se le quaestiones devono essere definite
un genere letterario a sé stante, lo possono soltanto su presupposti formali, sulla base del rispetto di un
codice di leggi dell’enunciazione e di costanti di forme esterne (l’espressione) e interne (l’organizzazione
del testo). Dopo aver riconosciuto nel dialogo tucidideo una struttura traducibile in quaestio e responsio,
individua alcune parole chiave, tra le quali anche eijkovı, utilizzato dai Meli nei capitoli 85-97 (p. 76), ma
non coglie come tale categoria regoli effettivamente anche le vere e proprie quaestiones et responsiones
dell’età cristiana; così conclude: «c’est en vain que l’on chercherait dans les mots des Méliens et des
Athéniens des traces de ce lexique zétématique dont déjà A. Gudeman [“luvseiı”, RE, XIII/2, Stuttgart
1927, 2511-2529, p. 2517] avait fourni un régeste exhaustif» (p. 78). Neri, allineandosi a Dörrie per il
quale «im Ganzen sind die vor- u. auβerchristlichen Ansätze zur E. [i.e. Erotapokriseis] spärlich» (p.
78), propone piuttosto di cercare altrove l’Ur-Typen, cioè nella letteratura sapienziale e didattica del
Vicino Oriente, nelle catene simposiali individuabili in Teognide o nei Carmina convivalia attici, fino alle
Instructions of Cormac, un testo gnomico irlandese del IX secolo d.C. che riporta un dialogo sul tema del
potere tra il leggendario re e suo figlio. È forse possibile invece individuare, seguendo proprio l’eikos,
una stretta continuità con i precedenti classici della discussione filosofica e della prima critica letteraria e
testuale. Zamagni, all’interno di un’accurata schedatura dei termini utilizzati in senso tecnico da Eusebio,
che rimanderebbero espressamente allo specifico genere di appartenenza, affida ad una scarna nota il
suggerimento che altre parole, oltre a quelle da lui individuate, meriterebbero un’accurata analisi, tra cui
ei[kw e eijkovtwı ([2004]2, p. 88, n. 12).
37
Questo è il senso che con buona approssimazione è ricavabile dal testo lacunoso: oJ provedroı aujtw'n,
pollh'ı aJpavntwn hJsucivaı genomevnhı è integrazione che si legge nell’edizione di Cohn, Reiter (1915).
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 93
poi si svilupperà in ambienti cristiani.38 È una situazione con forti analogie, a ben vedere,
con quella dei simposi del periodo classico, occasioni di discussione e di risoluzione di
varie questioni.39
Questo doveva essere, per sommi capi, il quadro culturale entro cui si formarono e
operarono i primi autori cristiani, Eusebio compreso. Storico del cristianesimo nascente,
più che teologo, nell’esegesi è seguace dell’interpretazione allegorica. Con le sue
Quaestiones evangelicae40 presenta un caso emblematico di quanto peso il verosimile
avesse all’interno di una tale produzione, dove presto si definirono categorie logiche e
stilemi retorico-espositivi ricorrenti, processo tanto più interessante perché c’è chi ha
voluto vedere nelle Quaestiones le obiezioni al più agguerrito avversario del Cristianesimo
antico, il Porfirio del perduto Contro i Cristiani. Una tale struttura esegetica si manterrà
nella sostanza e nella forma inalterata per secoli. Vale dunque la pena osservarne il
funzionamento ricorrendo a qualche esempio.
Nelle Quaestiones ad Stephanum, dedicate ai racconti dell’infanzia e a risolvere
principalmente le incongruenze genealogiche, emerge più che altrove l’interesse storico
di Eusebio, teso a difendere la veridicità dei Vangeli e quindi la loro attendibilità, con
chiari intenti polemico-apologetici.41 All’eikos Eusebio ricorre per spiegare la parentela
tra Maria ed Elisabetta. Nella tipica formula si rivolge all’interlocutore invitandolo a
non meravigliarsi (mh; qaumavsh//ı, 889, 14, PG22, 889A) se si legge che Maria è parente
(suggenhvı) di Elisabetta, sebbene esse appartengano a tribù diverse, la prima a quella di
Giuda, la seconda a quella di Levi. Tutto il popolo ebraico era infatti di un’unica stirpe
e quindi le tribù erano tutte imparentate tra loro. Bene dunque l’angelo ha chiamato
Elisabetta, nel momento dell’annunciazione, parente di Maria e «altrove è giusto (eijkovı)
che Elisabetta sia chiamata parente di Maria dal luogo, per il fatto che abitava presso la
tribù di Giuda, dalla quale proveniva Maria (889, 25-27, PG22, 889B)». Il fondamento
della deduzione è la ricerca storica, che porta a concludere in favore dell’assoluta esattezza
38
Per Eusebio come primo autore ad avere utilizzato tra i cristiani il genere delle quaestiones et
responsiones, sotto la probabile influenza proprio del giudeo Filone, cfr. Zamagni (2004, in particolare pp.
7 ss.), a cui rimando anche per l’ampia e aggiornata bibliografia.
39
Sul rapporto tra esegesi e banchetto rinvio sempre a Jacob (2004, p. 51) e a Slater (1982, in particolare
pp. 346 ss.). Una tale pratica si può scorgere già nel Simposio platonico, nel dialogo tra Socrate e Diotima,
presentato come un vero e proprio insegnamento: «questo dopo ciò, disse, o Socrate, cercherò di insegnarti
(peiravsomaiv se didavxai, 204d1-2)»; «tutte queste cose mi insegnava… (ejdivdaskev me, 207a 5)». In un
momento di difficoltà di Socrate di fronte alle richieste di Diotima (204d) Platone non solo sembra ritrarre
la pratica della lezione, ma anche ricorre, per descriverla, ai termini che poi diventeranno canonici.
La risposta (ajpovkrisiı) richiede (poqei') un’ulteriore domanda (ejrwvthsin), alla quale sul momento
(proceivrwı) Socrate non sa ribattere. Attraverso la sostituzione momentanea dell’oggetto d’indagine si
arriva a formulare una risposta più facile, fino a concludere che la risposta è esaustiva, ha raggiunto il suo
scopo e quindi ha termine (tevloı dokei' e[cein hJ ajpovkrisiı, 205a 3).
40
L’opera doveva avere come titolo Peri; tw'n ejn toi'ı eujaggelivoiı zhthmavtwn kai; luvsewn, cfr. Zamagni
(20042, p. 81). Sulla preferenza in genere dell’interpretazione letterale su quella allegorica rimando a
Zamagni (2004, p. 13, n. 13).
41
L’accusa rivolta agli evangelisti di non essere storici accurati doveva essere un luogo comune; si veda
per alcuni rimandi Rinaldi (1989, in particolare p. 115, n. 75).
94 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
dell’affermazione e a riprova viene addotta anche la testimonianza di Luca (1, 39), secondo
la quale Maria si mosse e in fretta si recò in una città di Giuda, nella casa di Zaccaria, a
rendere omaggio ad Elisabetta. Dal momento che la legge di Mosè non assegnava in eredità
alle tribù dei sacerdoti una terra fissa, perché il Signore Dio è loro parte, ma imponeva a
loro di abitare in mezzo a tutta la popolazione e Zaccaria con Elisabetta abitava in una città
della tribù di Giuda, da cui proveniva Maria, «è verosimile (eijkovı, 889, 37, PG22, 889C)
che anche per questa ragione esse siano state chiamate parenti». Ma non è inverosimile
(oujk ajpeikovı, 889, 38, PG22, 889C) – aggiunge immediatamente Eusebio – che la causa
sia anche la somiglianza del carattere per il quale furono ritenute entrambe degne del piano
salvifico, l’una accogliendo il Salvatore, l’altra il suo precursore, partecipi dell’unico
Santo Spirito: soprattutto per questo a un più alto grado esse partecipavano dell’unica
parentela secondo Dio (mia'ı th'ı kata; Qeo;n suggeneivaı, 889, 42-43, PG22, 889C).
Motivazioni storiche e ragioni teologiche vengono sapientemente calibrate per arrivare
alla conclusione. Con l’attenzione propria del critico del testo Eusebio procede attraverso
una minuziosa analisi delle fonti, interpretate alla ricerca dell’eikos per concludere che
tutto è coerente e giustificabile e che quindi sono infondati i dubbi da cui la ricerca ha
preso le mosse: la lysis è raggiunta, il punto non necessita di ulteriori indagini, il caso è
chiuso, come sancisce la risoluta formula di chiusura: «questo punto deve essere risolto
così (ajlla; tou'to me;n ou[twı ajpolutevon, 889, 43-44, PG22, 889C42)».
Un’analoga struttura si ripresenta per spiegare l’annuncio dell’angelo che Dio darà a
Gesù il trono di Davide, chiara intenzione di voler significare che Davide è il progenitore di
colui che nascerà da Maria. Ma come giustificare questa parentela assegnata al Salvatore?
Secondo le indicazioni dell’apostolo Paolo, sul solco della legge di Mosè, la donna è il
corpo del marito, che ne è come il capo. Se è il marito pertanto che viene registrato e come
capo rientra nel computo della genealogia, «Maria, ormai intimamente legata a Giuseppe,
aiuta a procurare a giusto titolo la genealogia (eijkovtwı sunantilambavnesqai), quando in
particolare è stato dimostrato che essa appartiene non solo alla sua stessa tribù, ma anche
alla stessa gente e famiglia (889, 53 ss., PG22, 889D-892A)».
Come sarebbe stato altrimenti verosimile (pw'ı ga;r a[llwı eijko;ı h\n) che l’angelo dicesse questo
alla Vergine, se non ammettendo che ella discende da Davide? Non le avrebbe infatti detto, se
non fosse da Davide, «Dio darà a lui il trono di Davide suo padre»; «di quale padre?» avrebbe
chiesto infatti a ragione (eijkovtwı a]n h[reto) la Vergine, ammettendo che non conosce uomo e
saputo che sarà avvolta dallo Spirito Santo, se non fosse stato chiaro il discorso perché rivolto a
una figlia di Davide. Perciò a ragione (e[nqen eijkovtwı) Luca dice: «salì anche Giuseppe, perché
era della casa e della famiglia di Davide, dalla Galilea, dalla città di Nazareth, in Giudea, in una
città di Davide chiamata Betlemme per farsi registrare insieme con Maria, sua sposa, che era
incinta».
La frase è espunta dall’edizione di Zamagni (2008), mentre è conservata dall’edizione Mai del 1847.
42
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 95
892, 22, PG22, 892B), non come se Maria si fosse recata da sola a farsi registrare, ma come
se fosse con Giuseppe della casa e della famiglia di Davide; si hanno a disposizione le
dimostrazioni (ajpodeivxeiı) per un’interpretazione di questo tipo (th'ı toiauvthı eJrmhneivaı
tou' lovgou) da tutto quanto è stato esposto in precedenza (ejk tw'n proapodedomevnwn).
Difficoltà genealogiche sono affrontate anche nella terza quaestio, in particolare le
differenze riscontrabili tra Matteo e Luca: per quale motivo il primo elenca le stirpi dai
successori di Davide e Salomone fino a Giacobbe e a Giuseppe, il secondo invece presenta
la discendenza in ordine inverso (ejnantivwı genealogw'n, 893, 50 s., PG22, 893D) rispetto
a Matteo dai figli di Davide e di Natan43 fino a Eli e a Giuseppe? In questo caso Eusebio
vuole ricercarne il senso dalle stesse espressioni impiegate e quindi invita ad osservare con
attenzione il testo (ajtene;ı ou\n tai'ı levxesin aujtai'ı ejpereivswmen th;n eJautw'n diavnoian,
893, 53 s., PG22, 893D), producendosi in una minuziosa analisi che si snoda attraverso
diverse tappe. A una prima spiegazione (ajpovdosiı, 896, 37, PG22, 896C) si fa seguire un
altro ragionamento con lo scopo di chiarire ciò che è lasciato inespresso e che soggiace ad
un livello più profondo (a[lloı baqu;ı kai; ajpovrjrJhtoı44…lovgoı, 896, 38-39, PG22, 896C)
e quindi risulta teologicamente più pregnante: Matteo sarebbe interessato a presentare la
nascita di Gesù secondo la carne, volendo dimostrare che Giuseppe effettivamente proviene
da Davide; per questo egli colloca opportunamente la genealogia subito in apertura del suo
racconto, «dove era opportuno (o{qen ejcrh'n, 896, 42, PG22, 896C)». A Luca invece non
preme la genealogia naturale e pertanto la inserisce dopo il battesimo di Gesù, volendo
rimarcare la condizione di figlio di Dio di ognuno che rinasce nello Spirito. In Luca quindi
è sottesa una profonda ragione soteriologica, lucidamente perseguita. Ai diversi scopi
corrisponde coerentemente (eijkovtwı, 896, 57, PG22, 896D) una diversa collocazione
espositiva della genealogia, non all’inizio, ma al momento del battesimo. Questo è anche
il motivo dell’ordine inverso, dai più recenti progenitori fino ai primi padri: colui che è
rinato nel battesimo è estraneo alla nascita nella carne e ai padri peccatori secondo la
carne, in quanto figlio di Dio e di tutti coloro che hanno vissuto in modo irreprensibile
secondo Dio. Non è privo di ragione che Luca non menzioni uomini colpevoli e peccatori,
ricordati invece da Matteo. Anche la genealogia – il luogo di inserimento all’interno dei
Vangeli e l’ordine dell’esposizione – non è il frutto del caso.
La precisazione addotta da Eusebio dal punto di vista teologico è di particolare
importanza: è supportata dall’eikos ed è ulteriormente suffragata dall’esempio dell’apostolo
Paolo, che ebbe un padre giudeo, non credente, com’è naturale (wJı eijkovı, 897, 13, PG22,
897A). Se pertanto qualcuno volesse esporre la genealogia di Paolo secondo la carne, «di
chi naturalmente si ricorderebbe (tivnoı eijkovtwı a]n ejmnhvsqh) se non del padre secondo
la carne? Se invece un altro a sua volta volesse mostrare la sua nascita in Cristo, di chi
farebbe naturalmente (eijkovtwı) menzione se non soprattutto di colui che lo rigenerò
secondo Dio? (897, 15-19, PG22, 897A-B)». Poco oltre, a chiusura di tale spiegazione,
evidenziando il carattere universale del Cristianesimo, Eusebio ribadisce: «pertanto noi
43
Nell’edizione Zamagni (2008) è riportato anche kai; tw'n tou' Navqan, omessa da Mai. Se così, si deve
intendere «da Davide, Natan e dai figli di Natan».
44
In Zamagni (2008) non si legge baqu;ı kai; ajpovrjrJhtoı, presente nella seconda edizione Mai.
96 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
che tra le genti abbiamo creduto nel Cristo di Dio, generati nella carne da padri stranieri,
siamo diventati figli di Abramo, essendo diventati figli di Cristo e dei discepoli di Cristo.
Cosicché noi siamo iscritti anche in una seconda successione di stirpe, molto più forte (polu;
kreivttona) di quella secondo la carne, a causa della rinascita secondo Cristo (897, 34-36,
PG22, 897C)». Coerentemente con questo progetto Luca, prefiggendosi di raccontare la
rinascita nello Spirito, non percorre la stessa strada di Matteo, omettendo figure screditate e
procedendo attraverso persone irreprensibili. Le diversità non sono segno di contraddizione,
non minacciano la credibilità degli evangelisti, tutt’altro, sono la prova della loro ricchezza,
della profondità a cui il loro racconto può arrivare. Esse sono interpretate, attraverso la vigile
sorveglianza dell’eikos, per spiegare ragioni teologiche non immediatamente evidenti.45
Quando il testo può sembrare esposto a critiche per la presentazione di alcune informazioni,
è dunque sempre l’eikos che indica la via da percorrere per sciogliere il nodo dell’aporia,
come è evidente ancora per il computo delle successioni. Poiché l’evangelista Matteo si
sarebbe prefisso di conteggiare non le successioni (diadocavı) ma le generazioni (geneavı), «a
ragione potrebbe essere liberato da ogni accusa (eijkovtwı pavshı ajpoluvoit∆ a]n kathgorivaı,
924, 17; PG22, 924B)».46
Se la genealogia non è un aspetto marginale, pure tutto l’inizio del Vangelo di Matteo
riguardante il concepimento è a giusta ragione considerato da Eusebio come un momento
cruciale, da cui discendono verità di fede di non facile accettazione sul piano razionale. Ciò
che si propone non è dunque un semplice esercizio esegetico-testuale, ma una complessa
interpretazione teologica. È così possibile comprendere con la ragione (logismw/' labei'n,
881, 36, PG22, 881C) che chi viveva ancora sotto il potere della carne e che vedeva aggirarsi
il Cristo come un uomo comune in mezzo alla folla avesse difficoltà nel credere alla nascita
da una giovane che non conobbe matrimonio e che ciò avvenne senza l’intervento di un
padre (divca patrovı, 881, 40, PG22, 881C). Non era neppure vantaggioso (lusitelevı,
881, 42, PG22, 881C) divulgare a tutti che Maria generò Gesù non avendolo concepito con
Giuseppe. Ciò avrebbe comportato secondo la legge di Mosè una giusta accusa, in quanto
Maria avrebbe perso la verginità prima del matrimonio. Sulla base di queste stringenti
considerazioni anche di opportunità, Eusebio conclude che convenientemente (eijkovtwı,
881, 45, PG22, 881C) la Scrittura con precisione (ajkribw'ı, 881, 45, PG22, 881C) afferma
che «prima che andassero a vivere insieme, [Maria] si trovò incinta (Mt. 1, 18)».
45
L’universalità, che emerge con forza nella terza quaestio, ritorna nella nona, dove si indaga la presenza
nella genealogia di Matteo anche di Ruth, variamente interpretata dalla tradizione, introdotta secondo
Eusebio con lo scopo di annunciare verosimilmente (eijkovtwı, 917, 18, PG22, 917B) la chiamata e
l’adozione di chi non appartiene al popolo d’Israele. Questo sarebbe il motivo di una tale menzione da
parte dell’evangelista, che così attraverso la sua persona insegna a noi, appartenenti ad altri popoli, che,
«lasciate le abitudini della propria patria, saremo ricolmati verosimilmente (eijkovtwı) anche di tutti i
beni che ne conseguono» (917, 20 ss., PG22, 917B). Più che dall’origine straniera di Ruth, l’attenzione
dell’evangelista può essere stata attratta dal modo eccezionale con cui rimase incinta e generò, prefigurando
la vicenda di Maria e di Cristo.
46
Si veda anche 928, 15, PG22, 928A, dove la difficoltà è risolta sempre sulla base di una spiegazione
ricondotta all’ambito del verosimile. Eusebio non perde mai occasione per ribadire come la Scrittura si
esprima in modo pertinente ed appropriato (cfr. 928, 44, PG22, 928C; 929, 50, PG22, 929D).
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 97
Eusebio con un rigoroso sforzo terminologico cerca di indicare con sempre maggiore
precisione che la scoperta dello stato di Maria avviene proprio nell’imminenza della loro
coabitazione. La formulazione della Scrittura è puntuale e vuole significare che Maria non
concepì prima del matrimonio (mh; pro; gavmou suneivlhfe, 881, 47, PG22, 881D), né prima
che andasse da suo marito (mhde; pro; tou' para; to;n a[ndra ejlqei'n, 881, 48, PG22, 881D),
ma, «dopo che Giuseppe si legò a lei e Maria stette da lui e fu considerata da tutti sua
moglie, quando stavano insieme l’uno con l’altra, ormai sul punto di iniziare la convivenza
matrimoniale, proprio, per così dire, nel momento prima che andassero a vivere insieme
(aujth'ı wJı eijpei'n w{raı pri;n h] sunelqei'n aujtouvı), si trovò incinta dello Spirito Santo (881,
48 ss., PG22, 881D)». Tutto questo era stato predisposto dal piano divino (w/kj onovmhto,
884, 1, PG22, 894A) in modo assai utile (pagcrhsivmwı, 881, 54, PG22, 881D), perché i
più rimanessero all’oscuro. Se si fosse scoperta la condizione di Maria quando si trovava
ancora presso la sua famiglia, sarebbe stato naturale (ka]n eijko;ı h\n, 884, 2, PG22, 884A)
che il fatto venisse rivelato, perché si sarebbe concluso che era stata messa incinta da uno
sconosciuto. Maria sarebbe stata messa a morte secondo la legge, comunque non sarebbe
scampata ad un pesante oltraggio, in quanto non sarebbe stata considerata una testimone
credibile per sé e per quanto le era capitato. Nessuno le avrebbe creduto, né Giuseppe, da
tutti considerato un uomo giusto, l’avrebbe accolta in casa sua.
Tutto è quindi accaduto secondo l’oikonomia di Dio e risponde pertanto a
verosimiglianza e a convenienza (diovper eijkovtwı, 884, 11, PG22, 884A) che la scoperta
avvenne non quando era ancora presso i suoi genitori, ma quando era già da Giuseppe,
«all’interno per così dire della normale relazione matrimoniale (par jaujth;n wJı eijpei'n
th;n tou' gavmou tavxin, 884, 13-14, PG22, 884A)». Le attese della gente, l’eikos dei più,
si uniscono dunque a quelle della Scrittura, queste ultime tengono conto delle prime e le
soddisfano pienamente: l’azione di Dio è verosimile perché non prescinde dalle plausibili
reazioni delle persone a un evento così straordinario e in sé poco credibile.
Ma da chi, se non da Giuseppe, si sarebbe potuto scoprire lo stato di Maria? Anche
il comportamento di Giuseppe, informato dallo Spirito Santo, risulta adeguato. Appena
avvenne la scoperta, Eusebio, riprendendo le parole di Matteo (1, 19) dice che egli
decise di licenziarla in segreto (lavqra/ ajpolu'sai aujthvn, 884, 25, PG22, 884B) e di non
sottoporla a pubblico oltraggio.47 È ancora una volta l’intervento dello Spirito Santo ad
operare secondo il piano salvifico, in quanto in caso contrario Giuseppe avrebbe dovuto
denunciare Maria. Altrimenti «come potrebbe essere giusto colui che si sforza di mettere
in ombra e di coprire l’azione contraria alla legge? Non sarebbe verosimile (oujk eijkovı)
che l’evangelista lo chiami giusto per questi atti (884, 35 ss., PG22, 884C)». È invece
assolutamente pertinente48 che l’evangelista chiami Giuseppe ‘giusto’, visto che egli
comprese che il concepimento avvenne tramite lo Spirito Santo e quindi ritenne il piano
47
In questo luogo (cfr. 884, 28; 34, PG22, 884B-C) Eusebio ricorre al verbo deigmativzw utilizzato
anche da Matteo (1, 19). Normalmente tradotto con ‘ripudiare’, il verbo, come si legge in Kittel (1966, p.
819), «rarissimo […] significa esportare, portare, mostrare in pubblico». In Matteo «Giuseppe non vuole
portare Maria davanti a un tribunale, esponendola al pubblico ludibrio».
48
Cfr. 884, 37 ss., PG22, 884C.
98 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
di Dio più importante della vita da trascorrere con lui. Coerentemente (eijkovtwı, 884, 41,
PG22, 884C) dunque Matteo afferma che Giuseppe pensò di licenziare Maria in segreto,
senza sottoporla per causa sua a pubblico oltraggio.49
L’eikos pervade tutta l’esegesi delle Quaestiones ad Stephanum. Anche il quarto punto
esplicativo (885, 1 ss., PG22, 885A-B) della prima quaestio, dedicata a risolvere il motivo
per cui gli evangelisti descrivono la genealogia di Gesù da Giuseppe e non da Maria, fa
leva su schemi argomentativi ormai noti e ben collaudati. L’angelo, ricorrendo in modo
adeguato (eijkovtwı, 885, 3, PG22, 885A) ad un sogno, si rivolge a Giuseppe, svelando il
grande evento. Eusebio fa notare che qui Giuseppe viene chiamato da Matteo prima di tutto
‘figlio di Davide’ proprio in vista del Messia, altrimenti sarebbe stato chiamato ‘figlio di
Giacobbe’. Il piano di Dio (oijkonomiva, 885, 24, PG22, 885B) è teso a lasciare gli increduli
all’oscuro della gravidanza della Vergine e tale piano si chiarisce a Eusebio attraverso la
Sacra Scrittura (ejk th'ı qeivaı uJpofaivnetaiv moi grafh'ı, 885, 25, PG22, 885B); esiste
un disegno sotteso che progressivamente viene svelato: in tal modo mediante l’opera di
commento egli partecipa del mistero divino. La dimostrazione che ne segue (885, 24 ss.,
PG22, 885B ss.) è dunque finalizzata a spiegare come la generazione di Gesù dallo Spirito
sia stata utilmente taciuta ai più e come Giuseppe abbia svolto il ruolo di padre. Nessuno
avrebbe creduto a una nascita da Dio, come poi gli atti dell’esistenza di Gesù e i giudizi
sul suo conto dimostrano.50 È dunque in modo appropriato (eijkovtwı, 888, 9, PG22, 888A)
49
Eusebio fa seguire un sottile esame lessicale sulla pertinenza dell’uso del verbo deigmativzw e non di
paradeigmativzw. Se quest’ultimo induce a pensare alla manifestazione a tutti di chi ha agito male e a
una volontà di infamante accusa (th;n ejpi; kakw'ı pravxanti eijı pavntaı favnerwsivn te kai; diabolhvn, 884,
51-52, PG22, 884D), il primo trasmette solo l’intenzione di rendere evidente un fatto (to; fanero;n ajplw'ı
poih'sai, 884, 53, PG22, 884D).
50
Questa lettura del concepimento di Maria investe uno dei punti essenziali dei Vangeli e di tutto il
messaggio del Cristo, cioè la sua credibilità e il motivo per cui Cristo stesso invitò più volte i suoi discepoli
a non svelare la sua vera natura. La maggior parte di coloro che allora lo vedevano nella sua umile figura
(eujtele;ı sch'ma, 888, 21, PG22, 888B) non avrebbe creduto. Così anche in occasione della trasfigurazione
sul monte intimò ai discepoli di non dire nulla a nessuno fino a quando non sarebbe risorto dai morti.
«È verosimile infatti (eijko;ı gavr) che neppure a questo credesse la maggior parte degli uomini di allora
(888, 25-26, PG22, 888B)». Se Gesù riteneva opportuno che non venisse divulgata la sua vera origine,
tanto più bisognava che si tacessero le circostanze della generazione da una vergine, perché tutto venisse
rivelato al momento cruciale (eijı ejpithvdeion kairovn, 888, 29, PG22, 888B) della verità sul suo conto,
cioè al momento della resurrezione, dell’assunzione ai cieli e della sua considerazione come Parola di Dio,
destinata a percorrere tutto il mondo. Questo momento coincide anche con la chiamata dei popoli, quando le
sue parole divine raggiunsero il loro termine e le previsioni e le predizioni, confermate dai fatti, divennero
in modo evidente credibili. Se dunque – continua Eusebio – da parte degli uomini del nostro tempo, che
accolgono tutto ciò e che hanno conosciuto la sua natura superiore a quella dell’uomo, si ammette in modo
verosimile che sono credibili questi fatti che riguardano la nascita e tutto il resto (eijkovtwı tav te loipa; kai;
ta; th'ı genevsewı pista; ei\nai oJmologei'tai, 888, 40-41, PG22, 888C), non era così per il tempo di Gesù.
Gli evangelisti si rivolgevano agli Ebrei del momento e quindi anche la presentazione della genealogia
di Gesù da Giuseppe e non da Maria era una necessità. Se avessero privilegiato la linea materna, oltre
al fatto che sarebbe stato sconveniente (ajprepevı, 888, 45, PG22, 888D) e contrario alla Sacra Scrittura
perché nessuno aveva mai avuto una genealogia matrilineare, Gesù sarebbe apparso privo di padre e ciò
sarebbe stato causa di cattiva reputazione e di accusa (dusfhmivaı oJmou' kai; kathgorivaı, 888, 49-50, PG22,
888D). Presentando la genealogia in modo conveniente (crhsivmwı, 888, 50, PG22, 888D), essi riuscirono
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 99
che viene svolta la genealogia del padre, perché Giuseppe era l’unico tramite per garantire
una nascita legittima a Cristo, per non indurre all’empietà i più che, ignorando il fatto,
avrebbero oltraggiato la nascita del Salvatore ricoprendola di dysphemia. La coerenza
si unisce strettamente all’utilità e alla funzionalità, al crhvsimon.51 Non tutto può essere
svelato nello stesso momento a tutti. C’è un kairos52 che nel piano d’amore Dio ha fissato.
Così alla lente dell’eikos viene sottoposta anche la descrizione della nascita e degli
eventi immediatamente successivi, presentati diversamente in Matteo e in Luca: il primo
riferisce l’adorazione dei Magi e la fuga in Egitto da Betlemme, il secondo, tacendo i due
fatti, introduce la presentazione di Gesù al tempio e il ritorno a Nazareth otto giorni dopo
la nascita. La questione riguarda i tempi implicati nei due resoconti. Secondo Eusebio
nell’annuncio di Luca non vi è nulla che contrasta il verosimile: Maria e Giuseppe non
trovarono una casa o un albergo libero al momento del parto, visto l’affollamento, com’è
credibile (wJı eijkovı, 933, 10, PG22, 933A),53 in occasione del censimento voluto da
Augusto, al cui periodo l’evangelista lega la nascita del Messia. Se si osserva il resoconto
di Matteo, la questione più spinosa riguarda invece il tempo occorso ai Magi per percorrere
il tragitto dalla loro terra fino in Giudea. Poiché il sorgere della stella cometa deve
coincidere con la nascita del Messia, che all’ottavo giorno secondo Luca fu presentato al
tempio, non è verosimile (ouj…eijkovı, 933, 29-30, PG22, 933B) che in un tempo così breve
i Magi abbiano coperto il tragitto: «se infatti dicono mentre si informano “dov’è il re dei
Giudei che è stato partorito? Abbiamo visto la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”, essi
indicano non colui che è stato partorito oggi, come qualcuno potrebbe presumere (wJı a[n
tiı uJpolavboi), nel tempo in cui si informavano su questi fatti, ma colui che nacque allora,
quando apparve a loro (933, 32 ss., PG22, 933C)».
Quando apparve la stella e quanto fu il tempo trascorso tra l’apparizione e l’arrivo dei
Magi a Gerusalemme presso Erode è ricostruito da Eusebio rintracciando indizi tra le pieghe
dello stesso racconto di Luca: «è lo stesso evangelista che te lo insegnerà (933, 41, PG22,
933C)». Come per il testo omerico si cerca di spiegare i luoghi oscuri di un autore attraverso
il ricorso all’autore stesso, nulla deve essere rintracciato altrove e tutto risulta alla fine
coerente. Erode si informò del tempo dell’epifania della stella e chiese ai Magi di indicargli
poi esattamente il luogo della nascita. Quando però poi capì di essere stato raggirato dai
Magi, che non avevano fatto più ritorno da lui, adirato, diramò l’ordine di uccidere tutti i
a ricollegare Maria a Davide, mostrando la stirpe della sposa attraverso il promesso sposo. Secondo la
legge di Mosè il matrimonio si poteva contrarre solo all’interno dello stesso genos e della stessa phyle e
quindi la registrazione dell’uomo era sufficiente per identificare anche la donna. Chi viveva secondo la
legge non prendeva moglie altrove, ma solo dalla phyle paterna: nello specifico questa era quella di Giuda;
il demos e la patria erano quelle di Davide. L’attenzione storica di Eusebio porta a prospettare la soluzione
della quaestio. Quando dunque viene presentato Giuseppe della phyle di Giuda, del kleros e della patria
di Davide, ne consegue la stessa provenienza anche per Maria (889, 7-9, PG22, 889A). Il recupero della
tradizione ebraica, l’interpretazione della legge di Mosè e la ricerca del verosimile permettono di offrire
anche in questo caso una spiegazione assolutamente plausibile e coerente del testo evangelico.
51
Si noti la concentrazione della forma avverbiale a 888, 6 e 14, PG22, 888A.
52
Cfr. 888, 6-7, PG22, 888A.
53
Cfr. anche 933, 15, PG22, 933A; 936, 13, PG22, 936A.
100 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
nati a Betlemme e nel suo territorio da quel momento fino a due anni prima, chiaro indizio
che era trascorso un tale lasso di tempo dalla nascita di Gesù e dalla conseguente partenza
dall’Oriente dei Magi. Eusebio può così concludere, salvando attraverso la deduzione i testi
dei due evangelisti, che essi non presentano alcuna discrepanza: «si mostra dunque in modo
non ambiguo (ajnamfibovlwı) che non è lo stesso il momento nel quale secondo Luca il
nostro Salvatore è nato e quello nel quale secondo Matteo i Magi d’Oriente giunsero (936, 4
ss., PG22, 936A)». A sostegno vengono addotte anche altre prove, sempre ricavate dai testi.
Luca dice che Giuseppe e Maria non trovarono posto in un alloggio a Betlemme, perché
non c’era un albergo disponibile, «come è verosimile (wJı eijkovı), a causa del censimento
di tutti coloro che, dalla casa e dalla famiglia di Davide, da tutti i luoghi accorrevano nella
suddetta città (936, 13-15, PG22, 936A)». Il Salvatore fu così collocato in una mangiatoia.
Matteo a proposito dei Magi non dice che essi trovano Gesù deposto in una mangiatoia
(oujk ejn favtnh/ keivmenon, 936, 21-22, PG22, 936B) come i pastori, ma lo vedono dentro
ad una casa (e[ndon ejn oijkiva,/ 936, 23, PG22, 936B) in compagnia della madre. Eppure
Luca riferisce che non c’era posto per loro nell’albergo. Se per Luca dunque il tempo della
nascita coincide con il tempo del censimento, «Matteo invece racconta i fatti accaduti due
anni dopo (tale era il tempo su cui Erode si informò da loro [i.e. dai Magi]), cosicché, visto
che c’era tranquillità in Betlemme, secondo Matteo trovarono disponibilità di un alloggio
(936, 29-33, PG22, 936B-C)».
A dare ancora un più solido sostegno all’intera ricostruzione è di nuovo l’eikos, con
il richiamo alle possibili abitudini della sacra famiglia: «era infatti verosimile (h\n eijkovı)
che non solo per la seconda volta, ma spesso visitassero il luogo, a ricordo dell’incredibile
evento (936, 2-4, PG22, 936A)». In questo modo è salvata non solo la coerenza interna
di ciascun racconto preso separatamente, ma – ciò che più conta per garantire la generale
attendibilità storica del messaggio evangelico – la loro perfetta consonanza: «i fatti
presenti presso i sacri evangelisti non sono certo dissonanti (oujk a[ra diafwnei', 933, 52-
53, PG22, 933D)». Questa è dunque la lysis anche per tale questione, che raggiunge lo
scopo che più sta a cuore ad Eusebio, consegnata insieme alle altre come segno di sincero
affetto54 a Stefano, con il quale doveva intercorrere un continuo e fecondo scambio di idee,
alimento della ricerca.55
Appare sempre più evidente che i testi biblici, come Omero, non possono presentare
contraddizioni, coni d’ombra: è in gioco non solo il valore narrativo dell’autore, il suo
prestigio letterario, come poteva essere per gli autori classici, ma ancor di più la veridicità
del messaggio evangelico, la sua storicità, che non può contravvenire alle regole dello
spazio e del tempo. Eusebio, da storico, è tutto proteso in questa ricerca. Quelli che
54
Così nel congedo; cfr. 936, 37, PG22, 936C.
55
Si veda per esempio 892, 39-40, PG22, 892C: «questo era il secondo dei problemi proposti da te (to;
deuvteron tw'n uJpo; sou' protaqevntwn tou'to h\n)». Così si legge in apertura della seconda questione. Il
ricorso al tempo passato (‘era’) e l’indicazione che si tratta di un dubbio sollevato da Stefano dimostrano
come l’esposizione sia il punto di arrivo di una precedente riflessione sollecitata dallo stesso Stefano, a
cui l’opera è ora rivolta. Un simile quadro si ricava dall’inizio delle Quaestiones evangelicae ad Marinum,
dove l’espressione introduttiva è la seguente: «chiedevi per prima cosa (hjrwvtaı de; to; prw'ton, 937, 14,
PG22, 937A)».
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 101
possono apparire come errori non sono tali, non sono imputabili all’autore, ma ad un
limite del lettore.
Il medesimo intento ispira anche le Quaestiones evangelicae ad Marinum che, a quanto
dice in apertura lo stesso Eusebio (937, 7 ss., PG22, 937A), fecero seguito a due raccolte
di zhthvmata e di luvseiı, di cui si componevano appunto le Quaestiones ad Stephanum.
Se i precedenti trattati affrontavano difficoltà poste dagli inizi del racconto evangelico, in
particolare di Matteo e di Luca, ora, tralasciato il mezzo, si passa alle parti finali. Oggetto
d’indagine sono la resurrezione e le apparizioni,56 esaminate in quattro quaestiones, con una
ricerca condotta tra tutti gli evangelisti.57 Come per i racconti della nascita e dell’infanzia,
si studiano prima di tutto la coerenza temporale e il rispetto dei luoghi; è grazie a questi
elementi che il dettato evangelico può risultare valido e incontestabile. Ancora una volta
Eusebio è attento a provare la symphonia58 tra i quattro evangelisti. Le apparizioni del Risorto
risultano da sempre un punto spinoso: le difficoltà sono di natura diversa e la necessità di
far combaciare tutte le tessere per offrire un quadro nel complesso coerente si scontra con le
differenti tradizioni che divergono su non pochi particolari. Sono riscontrabili discordanze
significative tra apparizioni private e apparizioni collettive ed inoltre non paiono individuati
sempre gli stessi luoghi. Matteo e Marco parlano della Galilea, mentre la Giudea è il teatro
degli eventi in Luca e Giovanni, il quale peraltro aggiunge anche un’apparizione in Galilea.
La brusca conclusione di Marco pone infine questioni di natura filologica ed ecdotica di non
poco conto. Si tratta di problemi ben noti già all’esegesi patristica, che mettevano a dura
prova la coerenza e la tenuta verosimile della complessiva testimonianza evangelica. Anche
in questo caso il modo di procedere di Eusebio è emblematico ed è un vero esempio di
perizia con la quale egli guida per mano Marino, scandendo i vari passaggi ed invitando il
suo interlocutore a non lasciarsi scoraggiare da eventuali difficoltà, suggerendo i modi per
affrontare la ricerca, prova ulteriore, se ce ne fosse ancora bisogno, di come le quaestiones
richiedessero un lavoro comune, in cui chi guidava l’indagine sollecitava l’attenzione e
la fattiva collaborazione di chi vi partecipava, ma anche vedeva nelle domande rivolte il
manifestarsi della volontà divina che vuole incitare e spronare.59
56
Dovevano essere incluse anche aporie sulla passione.
57
Di Eusebio restano anche altre quaestiones conservate in supplementa.
58
Sul ruolo in ambito esegetico della symphonia si veda Morlet (2011). La categoria è già operante
nel medio platonismo, al cui interno la ricerca verteva anche sull’accordo tra il pensiero di Platone e
quello di Aristotele, tra la filosofia greca e la saggezza barbara. In ambito filologico la concordanza e la
discordanza dei testi erano studiate usualmente dopo i lavori degli editori alessandrini su Omero e i tragici.
In epoca imperiale, quando la riflessione filosofica non è disgiunta da un’attività esegetica, l’accordo e la
discordanza dei testi assumono un ruolo sempre più rilevante e in tal modo passano anche nel pensiero
cristiano, interessato a rimarcare la coerenza interna alla Scrittura e la consonanza tra la Rivelazione e la
saggezza pagana. Questa tendenza al confronto è accentuata in Origene, che applica con costanza ai testi
sacri i metodi e i principi della scuola filologica: le formule che egli adotta sono quelle della tradizione
alessandrina. Precedenti in ambito ebraico-cristiano si possono reperire in Filone di Alessandria, in Ireneo
e in Clemente di Alessandria. Essi non costituiscono le fonti di Origene, ma attestano la diffusione della
questione dell’accordo ad Alessandria e poi in età imperiale. Tutti gli esegeti successivi riprendono a loro
volta la tecnica e le formule utilizzate da Origene. Eusebio ne è l’erede più importante.
59
Così per esempio è detto nel prologo rivolto a Marino (937, 10 ss., PG22, 937A).
102 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
60
Come le ricerche possono essere varie – e una formula ingressiva della zetesis che si legge nei Supplementa
ad Marinum lo lascia ben intendere («si potrebbe anche indagare [989, 55, PG22, 989D]») – così le lyseis non
sono dogmaticamente presentate come assolute ed esclusive. Il termine ajpovdosiı è impiegato in Eusebio
per indicare una soluzione alternativa ad un’altra (cfr. Zamagni 20042, p. 85). Per esempio, per la divergenza
riguardante le figure coinvolte nell’apparizione alle donne (uno o due angeli, dentro o fuori il sepolcro, due
uomini o un giovane), Eusebio sempre nei Supplementa così si esprime: «quanto si trova in Giovanni e in
Matteo potrebbe avere una soluzione di questo tipo (ta; me;n para;; tw/' ∆Iwavnnh/ kai; Matqaivw/ luvsewı a]n
tuvcoi toiauvthı, 992, 8-9, PG22, 992A)». Dalla formulazione si deduce la natura ipotetica della proposta
esegetica. Nulla è sicuro e nulla esclude altre possibilità interpretative: «oppure probabilmente (h] tavca, 992,
15)» è un’altra espressione usata nello stesso contesto da Eusebio in merito alla determinazione degli angeli
in Giovanni e in Matteo. Per una tale formula di derivazione scolastica cfr. Rinaldi (1989, p. 103).
61
Sulla diversità delle donne presenti sulla scena delle apparizioni si vedano anche i Supplementa ad
Marinum (996, 29 ss., PG22, 996B ss.): sono diverse le prime due donne (quelle di Matteo) rispetto alla
seconda testimone (Giovanni) e anche le donne che hanno avuto la terza apparizione sono diverse dalle
quarte (Marco). La diversità delle protagoniste coinvolte spiega le loro diverse reazioni: in Marco le donne,
colte da paura, non annunciano; in Luca invece si recano subito dai discepoli; allo stesso modo si comporta
la donna in Giovanni. Se ne trae da qui anche una conclusione esegetica di più vasta portata: le donne
presentate da Marco, arrivate per ultime, chiaramente in ritardo (ajlhqw'ı ojyisqei'sai, 996, 45, PG22, 996C)
dopo il sorgere del sole, non sono ritenute degne di vedere il Salvatore, né l’angelo in vesti sfolgoranti, né
i due angeli dentro il sepolcro, né i due uomini di cui parla Luca, ma semplicemente un giovane ricoperto
da una candida veste. Esse hanno una visione commisurata al limite della loro capacità di comprensione
(th/' th'ı dianoivaı aujtw'n smikrovthti, 996, 50-51, PG22, 996D). Per quanto concerne l’intricata questione
della Maddalena, resa più complessa dalla pluralità delle soluzioni prospettate, i Supplementa mantengono
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 103
sempre l’eikos come criterio discriminante a sorvegliare la congruenza esegetica: «la Maddalena invece,
con costanza frequentando il posto e perseverante (scolavzousan kai; proskarterou'san), è verosimile
(eijkovı) che abbia visto non solo le prime visioni tra quelle osservate da lei sola, ma anche il giovane visto
dalle restanti donne presso Marco. Lo stesso tu potresti dire anche per il racconto di Luca, il quale, dopo
l’arrivo di molte donne e dopo la visione dei due uomini osservati da loro, spiega: “tornate dal sepolcro,
annunziarono tutto questo agli undici” e poi aggiunge “erano Maria Maddalena…” e quanto segue. Non
era infatti inverosimile (oujk ajpeiko;ı me;n ga;r h\n) che anche ora di nuovo la Maddalena, che era già giunta
prima, restata pervicacemente, sia trovata presso il sepolcro quando molte donne provenienti dalla Galilea
giunsero al sepolcro portando gli aromi, in modo che anch’ella vide con le altre i due uomini e ascoltò le
loro parole (996, 55 ss., PG22, 996D s.)». Tuttavia quella prospettata non è l’unica soluzione; è possibile
anche un’altra spiegazione, la Parola mantiene la sua forza anche in altro modo (duvnatai de; kai; a[llwı oJ
lovgoı, 997, 14, PG22, 997A). Il discorso conserverebbe una sua coerenza se si assegnasse la priorità degli
eventi riferiti (ta; me;n prw'ta, 997, 14, PG22, 997A) alle donne provenienti dalla Galilea (presenti in Luca),
in modo differente rispetto alle Quaestiones, dove si parte dall’ipotesi che i primi eventi si trovassero in
Giovanni («non sbaglieresti di certo se dici che i primi eventi [ta; prw'ta] della resurrezione del nostro
Salvatore sono indicati presso Giovanni», 944, 19-20, PG22, 944B), supposizione poi corretta nella parte
finale (cfr. 945, 6 ss., PG22, 945A) con la priorità data a Matteo. Secondo i Supplementa (997, 18 ss.,
PG22, 997B) l’annuncio ai discepoli non è stato trasmesso solo dalle donne nominate, ma insieme da tutte,
ciascuna riferendo ciò che ha visto; tra queste va annoverata anche la Maddalena, che annunciò anche
quanto visto da lei sola (ta; ijdivwı movnh/ aujth/' eJwramevna, 997, 23-24, PG22, 997B). Le quaestiones per loro
natura non arrivano dunque sempre, come già si è notato, ad avanzare un’unica soluzione. Esse affrontano i
testi da diverse prospettive e cercano spiegazioni differenti da presentare a chi aveva sollevato il problema.
Devono però sempre salvaguardare la pertinenza sulla base dell’eikos, che può comunque ammetterne un
altro, in una catena potenzialmente infinita, proprio come accade nel dibattimento processuale.
104 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
giunge così ancora una volta a buon fine: attraverso varie approssimazioni è ottenuto
l’obiettivo di salvare il testo, preservandolo incontaminato da qualsiasi errore, anche da
quello paleografico, e da ogni sorta di contraddizione, inammissibile per la Sacra Scrittura.
Insieme alla symphonia,62 è la sequenza della narrazione, la akolouthia,63 come si
intuisce, il problema attorno al quale ruota l’esegesi, nel tentativo di salvare la coerenza
di tutti e quattro gli evangelisti nel loro complesso64 sul tema cruciale delle apparizioni.
Tale aspetto è di nuovo affrontato nella specifica quaestio dei Supplementa ad Marinum
che riguarda le figure apparse alle donne (due angeli o uno solo, due uomini o un giovane)
e i luoghi (dentro o fuori il sepolcro). Dal momento che gli evangelisti non concordano su
questi particolari, come sulle donne spettatrici dell’apparizione, è evidente che s’impone
la necessità di pensare che i vari racconti non ritraggano esattamente l’identico istante
e il medesimo luogo: «se infatti, dal momento che Matteo ha detto “passato il sabato
all’alba” e ha riferito di uno seduto davanti all’ingresso del sepolcro sulla pietra, Giovanni,
mantenendo lo stesso momento e lo stesso luogo, avesse detto che “passato il sabato
all’alba” due furono visti seduti davanti alla porta del sepolcro sulla pietra, sarebbe stato
possibile accusare realmente la dissonanza (diafwnivan aijtia'sqai, 992, 21-27, PG22,
992B)». Ciò varrebbe anche per Matteo se, come Giovanni, rispettando la collocazione
temporale ‘di buon mattino’, dicesse anch’egli ‘dentro il sepolcro’, ma poi parlasse della
visione di un solo angelo, non di due: «verosimilmente sembrerebbe registrare cose
opposte (tajnantiva e[doxen a]n eijkovtwı suggravfein, 992, 30-31, PG22, 992B-C)». Ma se
gli evangelisti separarono (eij d a j wvrisan, 992, 31, PG22, 992C) sia i tempi che i modi,
j f
i personaggi degli spettatori (ta; provswpa tw'n qewmevnwn) e le parole pronunciate dagli
angeli, «non si potrebbe ragionevolmente accusare la Scrittura di dissonanza (oujk a[n tiı
eujlovgwı mevmyaito diafwnivan th'ı Grafh'ı), visto che ciascuna narrazione dice la verità
in rapporto al racconto della propria storia, presentando l’esposizione di eventi diversi
(992, 33-36, PG22, 992C)». Con l’ennesimo ricorso all’eikos, sostenuto dall’eulogon,
62
Ricordo che le Quaestiones di Eusebio erano note anche con il titolo Peri; diafwnivaı eujaggelivwn.
Sfruttando il significato proprio, quello musicale, della parola, Origene confronta la Scrittura con la
kythara: ogni corda emette un suono che può sembrare senza rapporto con quello prodotto dalle altre,
ma tutte insieme entrano in risonanza per chi sa ascoltarle; si veda, anche per altre similitudini con gli
opportuni rinvii, Morlet (2011, p. 130).
63
Akolouthia, spesso in combinazione con theoria, è termine di grande importanza nell’ambito dell’esegesi.
La theoria indica principalmente l’intelligenza del testo e finisce per coincidere con l’ermeneutica, il cui
compito è di scoprire l’ordine sistematico celato sotto la lettera, la progressione e lo sviluppo del pensiero. I
testi sacri hanno una loro akolouthia che, espressa attraverso i fatti narrati, l’esegeta deve svelare.
64
La medesima preoccupazione è alla base del De consensu Evangelistarum di Agostino, che nega allo
stesso modo la contraddizione dei Vangeli, e la discordanza tra di loro e con se stessi (sibi adversari/inter
se ipsos dissentire, I 7, 10; sibi atque inter se congruere, II 1, 1). Essi non contengono – come invece
credono coloro che li leggono mossi da semplice curiosità, ma senza attenzione – affermazioni contrastanti
e inconciliabili (inconvenientia quaedam et repugnantia, II 1, 1). Agostino nei quatto libri dell’opera
affronta passi già analizzati dalla tradizione greca, come per esempio quelli riguardanti la genealogia (II 1,
2 ss.), diventati luoghi classici. Egli arriva anche a ricostruire una narratio unica, integrando le omissioni
di un evangelista con i racconti dell’altro, cucendo così tutte le informazioni riportate, come se si trattasse
di un quinto Vangelo, dipanando i dubbi e risolvendo le difficoltà (cfr. II 5, 17; III 1, 1).
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 105
Sull’ordine temporale e in particolare in merito al kairos i dati riscontrabili non sono tutti coerenti,
65
soprattutto per l’uso non sempre univoco del termine. Nelle Quaestiones ad Marinum non si distinguono
106 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
a ragione (eujlovgwı, 993, 50, PG22, 993D) esigere i due uomini presenti in lui e gli stessi
discorsi. Ma se Luca, come in effetti avviene, scelse il momento prima del sorgere del
sole (to;n pro; hJlivou ajnatolh'ı kairovn, 993, 53, PG22, 993D), in modo coerente (eijkovtwı)
racconta che quelli apparsi furono due uomini e non un giovane. A suggellare la chiusura
del ragionamento della spiegazione esegetica ricompare puntualmente, quasi in modo
meccanico, l’eikos; questo è il punto di arrivo a cui sempre deve tendere qualsiasi sforzo
interpretativo per risultare convincente. Il criterio di coerenza, fatto valere poco prima per
Matteo e Giovanni, viene ora trasferito a Luca e Marco.
Segue le stesse linee interpretative la spiegazione delle apparizioni dopo la risurrezione,
con lo scopo di dar conto del numero e della sequenza. La difficoltà maggiore per questo
specifico punto è rappresentata dall’incongruenza riscontrabile tra Matteo e Giovanni:
quest’ultimo riferisce, dopo due apparizioni in Gerusalemme, di una terza avvenuta
non sul monte della Galilea, come in Matteo, ma sulle sponde del mare di Tiberiade
in Galilea. È da rilevare che solo Giovanni specifica che si sarebbe trattato di una terza
rivelazione66 ed Eusebio si schiera a sostegno affermando con forza (suvmfhmi kai; aujtovı,
1005, 8, PG22, 1005A) che questa è stata veramente (ajlhqw'ı) la terza apparizione: la
prima avvenne nello stesso giorno della resurrezione, quando Maria di Magdala di mattina
(prwi>vaı, 1005, 11, PG22, 1005A) vide il Salvatore;67 la seconda otto giorni dopo, quando
Gesù «cura l’incredulità di Tommaso (to;n Qwma'n th'ı ajpistivaı qerapeuvei, 1005, 14-
kairoi. Eusebio afferma che lo stesso momento (oJ me;n kairo;ı oJ aujtovı) è quello presentato da Giovanni e
da Matteo; essi conservano solo differenti intervalli dello stesso momento (tou' d a j ujtou' kairou' diavfora
diasthvmata par ej kJ avstw/ tethrhmevna, 944, 48-52, PG22, 944D), e la priorità va a Matteo. Poco prima
si legge che si deve intendere «più o meno lo stesso momento, o molto prossimo (to;n aujto;n scedo;n…
kairo;n, h] to;n sfovdra ejgguvı, 941, 15-16, PG22, 941A-B)», «conservato con parole diverse (diafovroiı
ojnovmasi tethrhmevnon, 941, 17, PG22, 941B)», cosicché non c’è nessuna differenza (mhdevn te diafevrein,
941, 17-18, PG22, 941B) tra Matteo e Giovanni, affermazione nella sostanza ribadita pochi righi oltre, pur
con un cambio di espressione, comunque ininfluente, dove a kairovı si sostituisce un più generico crovnoı
e a o[noma rJhm' a (e{na kai; to;n aujto;n dhlou'si crovnon diafovroiı rJhm
v asi, 941, 23-24, PG22, 941B). In parte
differente è il quadro presentato dai Supplementa ad Marinum, in cui si parla di quattro kairoi; considerato
che sono quattro gli evangelisti, quattro sono anche le visioni e quattro i kairoi (tettavrwn de; o[ntwn tw'n
eujaggelistw'n, ijsavriqmoi touvtwn kai; aiJ pro;ı aujtw'n ajnagrafei'sai faivnontai ojptasivai: oi{ te kairoi;
tevssareı, 993, 55-57, PG22, 993D). Il primo momento è quello di Matteo, il quarto e finale quello di
Marco, collocato al sorgere del sole. Nel mezzo stanno i kairoi di Giovanni e Luca. Anche nel caso dei
Supplementa tale distinzione è sempre volta a difendere i quattro evangelisti da possibili attacchi: se, parlando
di un unico kairos e descrivendo lo stesso luogo, essi non riferissero le stesse apparizioni, chiaramente
qualcuno potrebbe muovere un rimprovero (ka]n eujlovgwı a[n tiı ejmevmyato, 996, 17-18, PG22, 996B). Ma
se essi distinsero i tempi (ajfwvrisan tou;ı crovnouı, 996, 18, PG22, 996B) e assegnarono per ciascun tempo
un luogo proprio (e[neimavn te kaq j e{kaston crovnon kai; trovpon ijdiavzonta, 996, 19-20, PG22, 996B), ne
consegue che descrissero anche visioni differenti. Questo vale anche per gli attori coinvolti nell’apparizione,
che variano: in Matteo un angelo, in Giovanni due, in Luca due uomini, in Marco un giovane. Un potenziale
rimprovero varrebbe anche per i luoghi e per i momenti. Il discorso rimane invece preciso e incontestabile
(oJ lovgoı ajkribh;ı mevnei kai; ajdiavblhtoı, 996, 26-27, PG22, 996B) perché introduce per momenti e luoghi
differenti visioni che cambiano, come diverse sono le donne che vi assistono.
66
Cfr. Gv. 21, 14: tou'to h[dh trivton ejfanerwvqh ∆Ihsou'ı toi'ı maqhtai'ı.
67
I Supplementa aggiungono che questa prima apparizione è riferita pure da Luca (1005, 11-12, PG22,
1005A).
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 107
Pertanto dopo che fu visto per la terza volta dai sette nominati, non sbaglieresti (oujk a]n aJmavrtoiı)
nel dire che la quarta apparizione è quella di Matteo, che egli descrisse avvenuta agli undici sul
monte (1005, 34-36, PG22, 1005C).
In modo analogo non si cadrebbe in errore (oujk a]n sfaleivhı, 1005, 38, PG22, 1005C)
affermando che dopo l’apparizione a costoro ve ne siano state altre, ipotizzate da Eusebio
grazie alla testimonianza di Paolo, a sua volta informato da altri (par jeJtevrwn maqwvn,
1005, 42, PG22, 1005C).68 La catena dell’informazione, come in un processo indiziario,
permette di ricostruire a fatica un quadro verosimile. Su queste basi tutte le tessere del
mosaico vanno in ordine, trovano la loro collocazione, formando un’immagine ordinata.
La difficoltà iniziale ha ancora una volta una soluzione: «vedi quante volte e da quante
persone fu visto dopo la resurrezione? (1005, 45-46, PG22, 1005D)». In questa sequenza
trova posto anche l’apparizione «a quelli che se ne stavano nascosti in Gerusalemme (toi'ı
ejn ∆Ierousalh;m kruptomevnoiı)» e prima ancora ai discepoli sulla strada per Emmaus.
Nella gerarchia degli onori e delle precedenze fu dunque Pietro il primo uomo ad aver
avuto il privilegio della visione, mentre tra le donne è la Maddalena che si può fregiare di
un tale vanto.
Quanto l’eikos abbia capillarmente influenzato l’esegesi è ancora immediatamente
percepibile se si rivolge lo sguardo alla pratica più ampia del commento, simile del
resto per impostazione e organizzazione espositiva alle quaestiones. All’eikos si appella
sempre Eusebio più volte nei Commentarii in Psalmos. Il commento dei versetti 10 ss.
Così Eusebio, a sostegno della sua ricostruzione, ripercorre, sintetizzandolo, un noto passo della
68
Lettera ai Corinzi I (15, 5-6): «fu visto da Cefa e poi dai dodici e in seguito da cinquecento e poi da
Giacomo e poi da tutti gli apostoli e ultimo tra tutti anche da me» (1005, 42-45, PG22, 1005C-D).
108 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
del salmo 68 (740 s., PG23, 740B ss.) offre lo spunto per un’estesa esegesi dell’incontro
al tempio di Gerusalemme tra Gesù e i mercanti, riferito da Giovanni (11, 13-16), ma
è anche l’occasione per ricollegare al passo altri luoghi evangelici. Le accuse rivolte
nell’occasione da Gesù a scribi e a farisei sarebbero state le cause scatenanti dell’odio che
da lì a poco esplose nei confronti del Messia. Le parole del salmo suonano dunque come
profetiche e vanno riferite al Salvatore. È in atto l’appropriazione cristiana dell’Antico
Testamento: «lo zelo per la tua casa mi ha divorato e gli oltraggi di quanti ti insultano sono
caduti sopra di me. Mi sono estenuato nel digiuno ed è stata per me un’infamia (741, 1-4,
PG23, 741A)». Eusebio nel commento passa alla prima persona, le parole del salmo danno
voce ai sentimenti di Gesù di fronte ad un tale spettacolo degradante: «quando – dice –
vidi la tua casa piena di ogni iniquità e ridotta ad una casa di mercato e ad una spelonca di
ladri, acceso da zelo divino, scacciai coloro che dentro contravvenivano alla legge (741,
4-7, PG23, 741A)». Nulla serviva a far rinsavire tali uomini, neppure le esortazioni per
la correzione. Eusebio continua facendo sempre parlare Gesù: «Quando vidi che erano
insensibili e che le mie confutazioni non li volgevano in altra direzione, deplorando la
loro rovina digiunavo e mi affliggevo per loro». Ma essi lo biasimavano e si prendevano
gioco del suo digiuno. Volendo allora offrire un esempio tangibile di conversione, non
solo si affliggeva con digiuni, ma indossò anche il saio, punendo e castigando la sua carne,
volendo mostrare a loro il modo della confessione e della purgazione delle precedenti
colpe. Ma essi seppero solo rispondere con scherni e parole ingiuriose. E non bastò la
derisione; riuniti in banchetti, ubriachi, cantavano canti contro Gesù, mentre la risposta
del Messia fu un’intensificazione del digiuno e dell’uso del saio. A questo si adattano i
versetti del salmo, citati da Eusebio secondo le versioni di Aquila e di Simmaco, riportate
entrambe: «gemetti nella mia anima nel digiuno ed è stata per me un’infamia; indossai
come vestito un sacco e divenni il loro scherno. Si intrattenevano su di me stando seduti
alla porta e sono diventato la canzone degli ubriachi (741, 35 ss., PG23, 741C)».69 Ma
69
Così invece Simmaco con alcune varianti: «spezzando con il digiuno la mia anima (klavonti meta;
nhsteivaı th;n yuchvn mou), mi accadde che divenni vergogna. Imponendomi come abito un sacco, divenni
il loro scherno. Stando seduti alla porta, parlavano di me e su di me cantavano gli ubriachi». Ricordo che
Aquila, Teodozione e Simmaco, ebrei eruditi versati nello studio delle Scritture e profondi conoscitori
dell’ebraico, fecero una revisione della traduzione dei Settanta. La versione di Aquila cercava di rendere
parola per parola con una fedeltà assoluta all’originale, basandosi sul codice di Iamnia (90 d.C.); Simmaco
era più attento a restituire il senso; Teodozione non si dovette scostare molto dai Settanta. Queste versioni
nascevano da intenti polemici anticristiani ed erano il prodotto di uomini che volevano tornare all’ebraismo.
In particolare Aquila (vissuto tra I e II sec. d.C.), matematico ed architetto, convertitosi al Cristianesimo da
giovane, ritornò in età matura all’antica fede e verso il 130 d.C. portò a termine la sua traduzione, apprezzata
dagli ambienti ebraici e citata nel Talmud. Simmaco, operante alla fine del II secolo, fu probabilmente un
membro degli ebioniti, una setta giudeo-cristiana che riconosceva solo il Vangelo di Matteo come ispirato e
rifiutava tra l’altro le lettere di Paolo. I suoi membri non credevano neppure alla nascita verginale da Maria,
considerando Gesù non figlio di Dio, ma di Giuseppe. Nel caso particolare del nostro passo, è interessante
notare l’uso da parte di Simmaco del verbo klavw, impiegato in generale per lo spezzare e per l’offerta
eucaristica del proprio corpo da parte di Gesù; così Luca (24, 30) nell’incontro con i discepoli di Emmaus:
labw;n to;n a[rton eujlovghsen kai; klavsaı ejpedivdou aujtoi'ı. Già prima nel racconto dell’ultima cena si legge
(22, 19): kai; labw;n a[rton eujcaristhvsaı e[klasen; varianti minime presentano Matteo (26, 26: labw;n oJ
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 109
per intendere appieno il salmo è necessario secondo Eusebio far interagire nell’indagine
(sunexetavsai ajnagkai'on) questi versetti con altri episodi dei Vangeli. In Matteo (11, 18-
19) Gesù ricorda che alla sua generazione non piacque neppure Giovanni dedito al digiuno,
creduto in preda al demonio. Allo stesso modo hanno avuto da ridire sul Figlio dell’uomo,
che mangia e beve, apostrofandolo come un mangione e un beone, amico dei pubblicani
e dei peccatori. Si apre così un commento nel commento, con lo scopo evidente di sanare
l’apparente contraddizione tra un Gesù propugnatore del digiuno, prefigurato nel salmo,
e un Gesù che non rifiuta i piaceri della convivialità. Il tutto è chiarito da un precedente
passo di Matteo (9, 14-15), in cui il Messia risponde proprio a un dubbio dei discepoli di
Giovanni: «“perché, mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano?”. E
Gesù disse a loro: “possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con
loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno”». Gesù
dunque ben conosceva i tempi opportuni per il digiuno e soprattutto era ben consapevole
della sua passione. Se si parte da queste premesse e si fa interagire in un esame comparato
(sunexetavseiaı) il momento della passione con i contenuti del salmo, «tu potresti trovare
come questi ricevevano il loro compimento (tau'ta ejplhrou'to) quando, sottratto di lì
a poco lo sposo, anche i suoi discepoli digiunavano (744, 1 ss., PG23, 741D-744A)».
Tutto ha pertanto un suo coerente telos, illustrato in conclusione dell’articolato viaggio
esegetico ancora una volta con l’eikos, anzi con l’apeikos, probabile segno della volontà di
rispondere ad attacchi che mettevano in risalto la non plausibilità di certi comportamenti
del Messia:
Perciò non era inverosimile (oujk ajpeiko;ı h\n) che egli – prevedendo che di lì a poco sarebbe
stato allontanato da loro, che tutto il popolo della circoncisione avrebbe richiesto il suo sangue,
che Pietro lo avrebbe rinnegato e che tutto si sarebbe osato contro di lui tanto che le tenebre
ricoprirono l’universo, il sole si oscurò, il velo del tempio si squarciò e tutte le vecchie sacre
istituzioni d’Israele furono distrutte, dico il loro regno, il sacerdozio e il recesso più interno del
tempio; tutto ciò fu abbattuto e distrutto completamente – per questi motivi non era inverosimile
(oujk ajpeiko;ı h\n) che egli affliggesse la sua anima nel digiuno e si vestisse con il sacco… (744,
2 ss., PG23, 744A).
Penso che chiaramente emerga dagli esempi riportati come fossero operanti comuni
schemi interpretativi applicati secondo procedure fisse. Simile è ancora la struttura
argomentativa in appoggio ad una dettagliata spiegazione di come alla base dei doveri dei
Cristiani vi siano le abitudini ebraiche, altro tema di interesse delle prime comunità. Lo
spunto è offerto questa volta dal commento dei versetti del salmo 91, in cui l’esegesi si
concentra sul significato da assegnare al sabato, visto come immagine del sabato completo
(to;…tevleion Savbbaton) e del perfetto beatissimo riposo (hJ teleiva kai; hJ trismakariva
∆Ihsou'ı a[rton kai; eujloghvsaı e[klasen) e Marco (14, 22: labw;n a[rton eujloghvsaı e[klasen). Non credo
sia quindi nel giusto la Patrologia che traduce «et ploranti post jejunia animam meam», vedendo in klavw
la forma attica di klaivw e seguendo la Nuova Vulgata (et flevi in ieiunio animam meam), differente dalla
Vulgata (et operui in ieiunio animam meam). Propongo inoltre di intendere metav con il genitivo, non con
l’accusativo, interpretando nhsteivaı come singolare.
110 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
katavpausiı), che si realizza nel regno di Dio ed è oltre la creazione, fuori dalle cose
sensibili, dove non esiste né lutto né lamento né affanno (1168, 35 ss., PG23, 1168C-
D). Proprio come eikon di quel giorno gli uomini hanno istituito e trasferito sulla terra
il riposo e il sollievo dalle pratiche che allontanano da Dio, in modo da dedicarsi tutti
alla contemplazione di Dio e delle cose divine, perseverando nella meditazione. Pertanto
anche la legge di Mosè, opportunamente (eijkovtwı, 1168, 57, PG23, 1168D) offrendo
«un’ombra e un simbolo di quanto detto, assegnò al popolo un giorno, affinché in questo
si distogliesse dalle consuete occupazioni e potesse avere tempo per meditare la legge di
Dio (1169, 1ss, PG23, 1169A)».
Il salmo insegna quindi che bisogna rispettare il riposo del sabato, evitando gli inutili
svaghi per riunirsi a praticare quanto il testo svela: prima di tutto confessare a Dio; in secondo
luogo cantare al suo nome con strumenti musicali; poi annunciare nelle ore del mattino la
sua misericordia; infine nelle ore notturne spiegare la sua verità. Tutto va accompagnato
dagli strumenti musicali. Si tratta di un vero canone di comportamento molto dettagliato che
Eusebio, ricavandolo dal salmo, offre ai Cristiani. Egli rilegge il testo per trarre insegnamenti
e regole di vita, proiettando il sabato nel giorno della resurrezione.70 L’esegesi non è fine a se
stessa, si traduce in indicazioni catechetiche che investono il popolo dei credenti in Cristo:
il sabato non è stato prescritto ai sacerdoti, ma a coloro che non potevano dedicare il loro
tempo alle opere care a Dio; non bisogna prestare il sabato ai piaceri e agli atti indecorosi,
come Dio attraverso i profeti ha richiamato al popolo eletto. Considerato però il rifiuto
degli Ebrei, il Verbo attraverso il Nuovo Testamento «ha consegnato a noi un’immagine
del vero riposo (1169, 34-35, PG23, 1169C)». I Cristiani quindi hanno il compito di
praticare secondo una legge spirituale quanto era stato prescritto, rendendo la domenica più
importante del sabato ebraico: questo è il giorno in cui ha avuto inizio la creazione e in cui
è sorto il Sole di giustizia. Da qui scaturiscono gli impegni dei Cristiani già ricordati ed ora
ribaditi con la forza degli ulteriori approfondimenti esegetici presentati: prima di tutto la
confessione (to; ejxomologei'sqai, 1172, 21, PG23, 1172B), in quanto la liberazione dai mali
commessi attraverso una sincera conversione è l’inizio del bene e conduce ad un fine buono,
cioè a Dio stesso (ejpi; tevloı ajgaqo;n aujto;n; to;n Qeovn, 1172, 23-24, PG23, 1172B). Come
secondo atto, diretta conseguenza della confessione e della remissione delle colpe, i fedeli
devono giustamente (eijkovtwı, 1172, 31, PG23, 1172C) nel giorno di domenica rendere
grazie al Signore, riuniti nelle sue chiese in tutte le parti della terra, salmodiando per una
migliore predisposizione dell’anima. Infine è prescritto a loro l’annuncio e l’insegnamento
al prossimo della misericordia di Dio. Da qui derivano i miglioramenti. Tali azioni devono
essere compiute nelle prime ore, offrendole come primizia della giornata alla dottrina della
misericordia di Dio, dopo aver preservato puri nella notte corpo e anima. A suggellare la
estesa spiegazione anche in questo caso Eusebio a conclusione dell’esegesi dei versi iniziali
del salmo fa appello all’apeikos: se non era sconveniente (oujk ajpeiko;ı h\n, 1172, 45, PG23,
1172D) che gli Ebrei innalzassero inni a Dio con salmi e al suono di strumenti a corda e che
lo facessero di sabato, contravvenendo al riposo e alla legge della giornata, ora i Cristiani,
70
Cfr. 1169, 15-16, PG23, 1169B: oJra/ı' ou\n o{sa pravttein oJ parw;n lovgoı parainei' kata; th;n th'ı
ajnastavsewı hJmevran…
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 111
conservando il giudeo nascosto (to;n ejn kruptw/' ∆Ioudai'on ajposwvzonteı, 1172, 50, PG23,
1172D), intonano l’inno con strumenti e con canti spirituali, rivivificando nello spirito una
semplice norma esteriore. Al giudeo manifesto e alla circoncisione visibile nella carne essi
contrappongono il giudeo nascosto in loro e la circoncisione spirituale, come insegna Paolo,71
restituendo così a Dio una lode vivente. La sinfonia del popolo di Cristo è più gradita a Dio
di ogni strumento musicale.72 Sono la concordia e l’unità di intenti del popolo cristiano i
punti di arrivo a cui tende Eusebio.73
L’analisi dell’esegesi di Eusebio ha permesso di osservare come le quaestiones, al
pari dei commentaria, rispondano ad uno schema ben delineato, applicato con rigore e
con minime varianti ai diversi contesti. La symphonia tra i vari documenti della nuova
fede e dei singoli testi è provata in ultima analisi solo se è osservato l’eikos, in grado di
mettere la Scrittura, come anche i testi della tradizione classica, al riparo da attacchi e
da obiezioni che talvolta lo stesso esegeta avanza sotto forma di ipotesi, indizio evidente
di come le quaestiones siano state sollecitate anche dall’intento di prevenire reali accuse
di inverosimiglianza. Siamo di fronte a uno schema di lunga durata. Da Eusebio a Fozio
l’interprete tende a costruire così, attraverso le varie fonti, un racconto unico, coerente e
consequenziale, operando come un tardo mitografo che compone una tradizione prelevando
segmenti narrativi dai diversi testimoni. L’intreccio che ne deriva non è mai apparso come
tale, eppure finisce per imporsi come il mito per antonomasia di quel particolare dio o eroe.
È esattamente ciò che è avvenuto per molti aspetti della vita di Gesù. Nell’opinione comune,
i Magi giungono a Betlemme subito dopo la nascita del Messia e lo trovano ancora infante.
Così è anche per le apparizioni, di cui non sono colte le discordanze insite negli evangelisti.
Su questo processo di riduzione al semplice e all’unitario ha certo influito la liturgia, che ha
esercitato un peso determinante nella creazione del senso comune, anche dei non credenti
o praticanti. Lo scopo è di eliminare quanto possa essere d’intralcio all’adesione alla fede,
mostrando in tutto la linearità e l’assoluta coerenza dei racconti.
Esigenze esegetiche ad uso della scuola e della predicazione e spinte apologetiche
si fondono così in un tutt’uno, sebbene queste ultime sembrino avere avuto un peso
maggiore.74 La prefazione alle Quaestiones selectae di Teodoreto, uno degli scrittori più
71
Eusebio richiama Rom. 2, 28.
72
Per trovare un’altra conferma di come la categoria dell’eikos/apeikos sia entrata nel frasario del
commento, basta anche solo sfogliare la copiosa produzione di Didimo il Cieco, uno dei capi della scuola
catechetica di Alessandria d’Egitto del IV secolo.
73
Ciò è enfaticamente sottolineato dalla presenza in tal contesto di numerosi composti in oJmo-. Una
oJmognwvmwn yuchv, una miva diavqesiı, la oJmofrosuvnh, la oJmodoxiva pivstewı kai; eujsebeivaı sono
interpretate da Eusebio come salmodie e cetre spirituali, oppure, con una diversa lettura (ei[h d∆ a]n a[llwı,
1173, 8, PG23, 1173A), la kiqavra ebraica è il corpo di cui si serve l’anima con movimenti e azioni per
dare lode a Dio, mentre il yalthvrion dekavcordon indica il culto perfetto da riservare allo Spirito Santo,
che si realizza attraverso i cinque organi del corpo e le cinque facoltà dell’anima, come se il nou'ı avesse
movimenti suoi propri che influiscono sul corpo e il sw'ma altri suoi specifici con i quali agisce sull’anima.
74
Zamagni (2004, pp. 14 ss.) ben argomenta sul duplice intento, la difesa da attacchi anticristiani (in particolare
da Porfirio, il principale autore delle aporie affrontate da Eusebio) e l’esigenza didattica di fornire risposte a
domande sorte all’interno degli stessi ambienti cristiani. Basti considerare che le Quaestiones si rivolgono a
Stefano e a Marino, chiamati ‘figli’ (iJerwvtate ajndrw'n kai; filoponwvtate uiJe; Stevfane, 936, 37-38, PG22,
112 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
fecondi della Chiesa greca, a non molti anni di distanza da Eusebio ci presenta un quadro
variegato di una tale produzione. Vi si legge (Quaest. in Octateuchum, Quaest. in Gen. 3,
9 ss., PG80, 76A-B) che non tutti sono animati dallo stesso intento nella ricerca e non
tutti hanno lo stesso fine (suvmfwnon…th'ı ejrwthvsewı to;n skopovn). Vi sono coloro che
pongono questioni con uno scopo empio (dussebw'ı ejrwtw'si), prefiggendosi a priori la
confutazione della Scrittura (dielevgcein oijovmenoi th;n qeivan Grafhvn), facendo risaltare
come essa insegnerebbe in alcuni casi contenuti non corretti (oujk ojrqa; paideuvousan), in
altri contraddittori (wJı ejnantiva didavskousan): si tratta quasi di una produzione militante,
con l’obiettivo dichiarato di demolire i fondamenti della nuova fede. Altri invece ricercano
per un reale desiderio di trovare la risoluzione di ciò che è oggetto d’indagine (filomaqw'ı
zhtou'si, kai; poqou'si euJrei'n to; zhtouvmenon). Ai primi bisogna «chiudere le bocche
blasfeme», dimostrando della Scrittura la consonanza e la migliore dottrina (th'ı qeivaı
ejpideiknuvnteı Grafh'ı kai; th;n sumfwnivan75 kai; th;n ajrivsthn didaskalivan); agli altri
va presentata una lysis delle difficoltà sollevate e in questo compito l’esegeta cristiano
chiede di ricevere il raggio dell’intelletto (th'ı noera'ı ajkti'noı), come poco prima dice
sempre Teodoreto, per poter penetrare i recessi dello Spirito.76 È il Cristo il vero interprete,
a lui bisogna affidarsi, è suo compito mostrare il senso nascosto nella Scrittura, visto che
anche nei Vangeli egli forniva la dottrina in parabole (parabolikw'ı th;n didaskalivan
prosevfere) e interpretava quanto era stato detto in modo oscuro (tw'n aijnigmatwdw'ı
eijrhmevnwn ejpoiei'to th;n eJrmhneivan).
A fronte di questa molteplicità di approcci al testo sacro, gli autori cristiani tendono
a rivendicare a sé l’esclusiva verità della ricerca, sono essi gli unici depositari della
corretta esegesi, in quanto non appare accettabile uno studio del testo sacro al di fuori
dell’esperienza di fede. È ciò che emerge pure da un’interessante pagina delle Divinae
institutiones di Lattanzio (V 2), in cui si individua nella mancanza di doctores esperti e
capaci, in grado di difendere anche con cura formale (ornate copioseque, V 2, 1) le verità
della dottrina, le condizioni favorevoli per lo sviluppo di una produzione di attacco al
936C; Mari'ne uiJe; timiwvtatev moi kai; filoponwvtate, 937, 13-14, PG22, 937A), evidentemente compagni
di esperienza di fede. A Zamagni rimando per un approfondimento e per la bibliografia di riferimento. In
relazione all’eikos è di particolare interesse la proposta di chi inserisce le Quaestiones di Eusebio, ma forse
non solo le sue, nel canone della retorica. Zamagni sembra comunque propendere per l’intento didattico,
sebbene non necessariamente legato a una reale pratica di scuola, quando mette in risalto che Eusebio talvolta
fornisce due o più soluzioni senza preoccuparsi di presentare un quadro omogeneo, costume certo poco
consono ad un contesto apologetico, in quanto ciò esporrebbe a facili attacchi la sua esegesi, che conterrebbe
così già in sé potenziali obiezioni. Alcune soluzioni inoltre possono essere contraddittorie con altre, per es. la
I e la II quaestio a Marino (p. 20). La pluralità o la non unicità delle soluzioni prospettate non sono comuni
a tutti gli autori. L’Ambrosiaster, per esempio, tende a presentarne una sola, in contrasto con l’uso dei suoi
contemporanei, cioè Gerolamo, Agostino ed Eucherio; si veda Volgers (2004).
75
Zamagni (20042, p. 87), a proposito del contrario diafwniva e del verbo diafwnevw, afferma che i
termini fanno parte di un campo semantico, quello musicale, molto ricorrente nelle quaestiones e assai
importante nella letteratura cristiana antica per esprimere l’armonia della Scritture.
76
Che intenti diversi muovessero l’esegesi ai testi sacri è testimoniato ancora da Fozio, che oppone la
malsana volontà di contesa (filoneikei'n) al reale desiderio di apprendere (maqei'n, Ad Amph. quest. 48,
229-230, PG101, 368D).
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 113
77
Non si pensi sempre a una realtà in continuo contrasto. Molte domande dovevano nascere anche da
proficui incontri in ambienti in cui vi era un fecondo scambio di idee.
78
Su Porfirio e Celso ispiratori dell’opera di Eusebio cfr. Zamagni (2004, p. 14, in particolare n. 18) e
Zamagni (2008, p. 184, n. 1; pp. 195-197, n. 4; p. 200, n. 1).
79
Sulla conoscenza della Contro Celso da parte di Eusebio cfr. Zamagni (2004, p. 14). Sui contenuti
dell’attacco di Celso al cristianesimo si veda Cook (2000, in particolare pp. 17-102), testo fondamentale
anche per altri temi qui trattati. Sul ricorso al verosimile si aggiunga anche l’esempio del De occursu domini
attribuito a Gregorio di Nissa, scritto in occasione della Festa delle luci (2 febbraio), solennità nata in Oriente
e nota con il nome di Ipapante, cioè ‘Incontro’, in riferimento alla presentazione di Gesù al tempio quaranta
giorni dopo la sua nascita e alle offerte di purificazione. In tale occasione il vecchio Simeone incontra
appunto il neonato. Con un tale rito la sacra famiglia adempie la legge mosaica. La celebrazione, più nota
in Occidente come Festa delle candele (Candelora), chiude il periodo natalizio e apre quello pasquale, in
quanto l’offerta di Gesù al tempio prelude al sacrificio della croce. Gregorio, tra gli altri argomenti trattati,
passa in rassegna la tradizione ebraica del rito di offerta in occasione di una primogenitura, indicando
come i sacrifici delle vittime con lo spargimento di sangue siano prefigurazione dell’oblazione di Cristo.
Introducendo un’obiezione di un giudeo non credente, utilizza la categoria dell’eikos (Cfr. 1161, 18 e 20,
114 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
questo motivo egli affronta vari aspetti della dottrina. La sua argomentazione, a quanto
si può ricostruire dagli ampi estratti di Origene, era spesso sostenuta proprio dall’eikos,
a partire dall’analisi dell’incarnazione. Nella parte in cui viene introdotto il personaggio
di un Ebreo che, rivolgendosi a Gesù, ne critica la vita e le opere, si sostiene che non era
verosimile (oujd∆ eijko;ı h\n, Discorso vero, I 39) che Dio si fosse innamorato della madre
di Gesù, visto che era di umili condizioni ed era sconosciuta perfino ai vicini. Tutto ciò,
si afferma perentoriamente, non può avere nulla a che fare con il regno di Dio. Parimenti,
sempre nella stessa sezione, l’Ebreo nega la divinità di Gesù. Desta meraviglia, se fosse
veramente Dio, la fuga in Egitto: «non era infatti verosimile (oujk eijko;ı h\n) che tu, in quanto
Dio, temessi riguardo alla morte. Ma un messaggero giunse dal cielo, comandando a te e
ai tuoi familiari di fuggire perché voi non vi attardaste e non moriste. Colui che già aveva
inviato per te due messaggeri, il grande Dio, non era in grado di custodire te, il suo figlio
là dov’eri? (I 66)».80
Le storie che si raccontano su Gesù sono insomma incredibili, non c’è nulla agli
occhi di Celso che le distingua dai miti antichi dei pagani (palaioi; mu'qoi, I 67), anzi
questi ultimi hanno un elemento a loro favore: parlano sì anch’essi di origini divine
per grandi personaggi come Perseo, Amfione, Eaco e Minosse – in ciò non risultando
credibili (oujd∆ aujtoi'ı ejpisteuvsamen) – ma almeno espongono fatti grandi, straordinari,
superiori alle forze umane, proprio per non sembrare incredibili (i{na mh; ajpivqanoi dokw'si) e
per acquistare così forza persuasiva. «Tu invece – chiede l’Ebreo – che cosa hai fatto di bello
e di meraviglioso in opere o in parole? (tiv kalo;n h] qaumavsion e[rgw/ h] lovgw/ pepoivhkaı…)».
Anche le strane vicende del mito ottengono in tal modo una loro verosimiglianza, vengono
recuperate alla sfera del plausibile se confrontate con la vita di Gesù. Lo thaumaston non è in
tal caso il polo opposto, ma il supporto dell’eikos, la condizione che sarebbe richiesta perché
sia accettabile la natura divina del Messia.
Ma non è solo la vita di Gesù che contrasta l’eikos. In un contesto non solo anticristiano,
ma anche antistoico, per combattere la pretesa superiorità degli uomini sugli esseri animati
non dotati di ragione, difesa dai Cristiani che concepiscono il creato al servizio del genere
umano, Celso delinea un verosimile quadro delle origini in cui erano gli animali a cacciare
nella maggior parte dei casi gli uomini, ancora indifesi e quindi facile loro preda:
PG46, 1161B). Anche il De occursu ha in alcuni punti i tratti di una quaestio, come quando sollecita la
soluzione di problemi esegetici da parte degli oppositori, lingue balbuzienti che non sanno pronunciare la
verità (1164, 33-34, PG46, 1164C). Le loro obiezioni fanno la fine dei carri egizi distrutti nel Mar Rosso.
Ma nel mare vasto della Scrittura bisogna immettere non il bastone di Mosè, bensì la potenza e l’aiuto del
vero legislatore e di Cristo, re della gloria, per guidare il popolo sulla retta strada del senso anagogico e
dell’osservazione (ajnagwgh'ı te kai; qewrivaı, 1164, 47, PG46, 1164D), per giungere alla dimora della
conoscenza e della verità. Così l’invincibile gloria divina ricoprirà gli avversari. Tutto si è compiuto con
la nascita di Cristo, che ha distrutto la legge e le pratiche ebraiche. I Giudei sono abbandonati morti lungo
le acque della interpretazione letterale della legge (1169, 1, PG46, 1169A). L’esortazione è di rivolgere
l’epinicio a Dio benigno (tw/' filanqrwvpw/ qew/' to;n ejpinivkion u{mnon a[s
/ wmen, 1169, 1-2, PG46, 1169A), a
nutrirsi del cibo celeste, ad abbeverarsi alla sorgente della vera pietra e a recarsi all’Oreb, il monte di Dio.
80
Si doveva trattare di un’obiezione usuale, a cui già aveva tentato di dare una risposta Giustino (Truph.
102, 3).
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 115
A quello che voi dite, e cioè che Dio ci ha dato il potere di catturare le fiere e di servircene, noi
opporremo che, come è verosimile (ejrou'men, o{ti wJı eijkovı), prima che ci fossero le città, le arti,
le relazioni attuali tra gli uomini, le armi e le reti, gli uomini erano cacciati e venivano mangiati
dalle fiere, mentre le fiere erano catturate pochissimo dagli uomini. Dio quindi sottopose in tal
modo piuttosto gli uomini alle fiere (IV 79a).
Ne segue un coerente quadro zoo-antropologico, dedotto per vie d’inferenze, in base al quale
si arriva a concludere che neppure per la nozione di Dio l’uomo è superiore ai restanti esseri
animati (IV 88): gli zoa che servono da rivelatori di segni divini potrebbero a pieno diritto
(mavl∆ eijkovtwı) vantare pretese su tale aspetto, perché è verosimile (e[oiken) che essi, proprio
per le loro prerogative, siano più vicini alla divinità, più saggi per natura e più cari agli dei.
Non solo lo stato socio-biologico è regolato dal verosimile; anche le istituzioni e il
passato dei popoli rispondono alle medesime norme. È in questo quadro che viene riletta
la storia degli Ebrei e del loro culto, da non ritenersi superiore a quello di qualsiasi altro
popolo: le varie parti della terra, come è verosimile (wJı eijkovı, V 25), fin dall’inizio sono
state assegnate all’una o all’altra potenza tutelare e sono state spartite secondo determinati
domini per essere amministrate. Rompere questo equilibrio e contrastare le istituzioni
dei vari luoghi costituisce un atto empio. A tutti dunque deve essere concesso di seguire
le proprie tradizioni religiose e i propri costumi, secondo un principio di tolleranza
sorprendentemente moderno, in base al quale Celso, sulla scorta di esempi tratti da
Erodoto, conclude, citando lo storico di Alicarnasso per risultare credibile (pivstewı
ei[neka), che ognuno è spinto a considerare migliori le proprie consuetudini e che pertanto
non è verosimile (ou[kwn eijkovı ejstin) che un individuo, se non è un pazzo, rida di tali
convenzioni (V 34).81 Tutto ciò è prova che chi abbandona la propria tradizione per
abbracciarne una nuova, come è accaduto per i convertiti alla fede ebraica, va contro
l’ordine divino. In nome di questa proclamata eguaglianza non è verosimile (ouj mh;n…
eijkovı) che gli Ebrei per certe pratiche, comuni anche ad altre nazioni, presumano di
godere di un favore e di essere più amati da Dio, o che a loro soltanto siano stati inviati dal
cielo messaggeri, come se avessero avuto in sorte una terra di beati (V 41).
Emerge chiaramente dai vari spezzoni di testo conservato che tutta la teologia e
l’antropologia giudaico-cristiana viene riletta, alla luce della storia, sulla base della categoria
del verosimile, secondo la migliore tradizione della storiografia classica. Di fronte a Celso,
che si presenta come giudice di una gara musicale,82 il coro degli Ebrei e quello dei Cristiani
vengono allo stesso modo respinti, condannati dall’inverosimiglianza delle loro credenze.
È con la categoria dell’eikos che Celso sollecita a più riprese Cristiani e Giudei, a volte
separati e contrapposti, a volte accostati, a rendere ragione del loro credo e a rispondere alle
domande, quasi invitandoli a utilizzare lo stesso strumento concettuale al quale egli ricorre
con insistenza. Lo fa in una delle sezioni più impegnative del suo discorso, in cui viene
affrontato il tema dei demoni come mediatori tra Dio e il mondo sensibile:
81
Cfr. Hdt. III 38, 2.
82
Cfr. 5, 41 e 5, 33.
116 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
Dio, o Giudei e Cristiani, e nessun figlio di Dio né discesero sulla terra né potrebbero discendere,
ma se poi voi parlate di alcuni messaggeri, chi dite che questi siano? Dei o qualche altro genere?
Come è naturale (wJı eijkovı), qualche cosa di diverso, i demoni (5, 2).
Così è anche per l’incomprensibile fede nella resurrezione della carne e nella ricomposizione
di un corpo corrotto, «la fede che è semplicemente propria dei vermi (ajtecnw'ı skwlhvkwn hJ
ejlpivı)», del resto non accolta neppure da tutti gli Ebrei83 e i Cristiani, ripugnante oltre che
indimostrabile (ajpovptuston a{ma kai; ajduvnaton ajpofaivnein, 5, 14). Per Celso la controparte,
posta alle strette, impossibilitata a fornire una risposta (oujde;n e[conteı ajpokrivnasqai), si rifugia
nella più strana ritirata (katafeuvgousin eijı ajtopwtavthn ajnacwvrhsin), cioè nell’affermazione
che tutto è possibile a Dio. Ma Dio non può desiderare nulla di turpe, nulla che sia disordinato
o contro natura e quindi neppure rendere eterna la carne: sarebbe un atto compiuto in modo
irragionevole (paralovgwı), che Dio non vorrà né potrà attuare, ed è quindi irragionevole – si
può facilmente dedurre – credere in queste verità: «Dio è la ragione di tutte le cose che sono e
quindi non è in grado di operare qualche cosa contro ragione (paravlogon) o contro se stesso»,
come dire contro ciò che è verosimile. A Dio non è dunque concesso il miracoloso, ciò che esce
dalla sfera del logico. Alla facile scorciatoia che Dio è in grado di operare tutto, Celso oppone
una stringente argomentazione e ne richiede una altrettanto rigorosa.84
83
Tra gli Ebrei non credevano nella resurrezione i Sadducei.
84
Proprio appellandosi al verosimile cerca invece di spiegare la resurrezione della carne Gregorio di
Nissa nel discorso In sanctum pascha, noto anche come In Christi resurrectionem, in un passaggio esposto
secondo le modalità tipiche della quaestio (ka]n ejrwthvsh/ı me…ajntakouvsh/ tacevwı, 258, 8-9, PG46,
668A). Gregorio, dopo aver richiamato il caso di Lazzaro e affermato che una persona ragionevole (oJ
swfronw'n, 258, 11, PG46, 668A) deve concedere che quanto realizzato per uno solo avverrà per tutti,
esorta ad ammettere che, se si pone Dio come creatore, non vi è nulla di impossibile (mhde;n ei[ph/ı
ajduvnaton, 258, 12, PG46, 668A), anche se la sapienza di Dio, che è l’inafferrabile, non può essere
afferrata dall’intelligenza dell’uomo. Nulla infatti è per Dio infinito, ma ciò che riguarda l’infinito è per
noi ininvestigabile. Gregorio passa poi a operare un confronto tra la resurrezione e la generazione che
avviene in natura, un processo altrettanto intricato e inaccessibile alla ragione umana (a[poroı…kai;
logismw/' ajnqrwpivnw/ ajprovsitoı, 258, 20-21, PG46, 668B-C). Come lo sperma, al principio informe,
man mano aumenta in consistenza e forma, così non è inverosimile, anzi è perfettamente coerente e
conseguente (ou{twı oujde;n ajpeikovı, ajlla; kai; pavnu ajkovlouqon, 259, 1, PG46, 668C) che nei sepolcri la
materia, che una volta aveva un aspetto, venga rinnovata nella vecchia figura e di nuovo vi sia l’uomo
fatto di terra, come anche all’inizio dalla terra l’uomo ebbe origine. Si deve concedere a Dio di avere le
stesse prerogative del vasaio, in grado di creare dal nulla, dal fango amorfo, un prodotto che al calore del
sole riceve consistenza. Se poi però è inavvertitamente urtato, il manufatto si rompe e ritorna terra priva
di forma, a cui l’artigiano, se vuole, può, ponendo rimedio, dare di nuovo forma rilavorando il fango. Se
il vasaio, che è una semplice creatura della potenza divina, ha questa capacità tecnica, è segno di grande
stoltezza (pollh'ı…th'ı ajnoivaı, 259, 16, PG46, 669A) non credere a Dio, che promette di rinnovare il
defunto. Con modalità logico-argomentative simili, il tema della resurrezione è affrontato da Gregorio
anche nel dialogo De anima et resurrectione, che riferisce l’incontro avvenuto tra l’autore, ancora affranto
per la recente scomparsa del fratello Basilio, e la sorella Macrina, in punto di morte. Gregorio riconosce in
Macrina una maestra della fede e a lei espone i dubbi sulla sopravvivenza dell’anima e sulla resurrezione
alla fine dei tempi. I dubbi di Gregorio sono le obiezioni di molti pagani, formulati secondo i metodi
della retorica classica e delle scuole filosofiche. Cultura pagana e cultura cristiana si scontrano così in
questo scritto. Tra le questioni presentate prima dell’intervento finale di Macrina vi è anche quella che
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 117
riguarda i modi della resurrezione: se il corpo risorgerà con tutte le sue singole parti, bisogna ammettere
che chi produce la risurrezione ci fornirà parti inutili e prive di senso per la vita futura (mavtaia hJmi'n
kai; ajnovnhta pro;ı th;n zwh;n ejkeivnhn, 145 9-10, PG46, 145A), dove cesseranno le normali funzioni e le
quotidiane abitudini della vita terrena. Si tratta di un punto delicato; il rischio è di minare i fondamenti
della fede, dovendo concludere che la resurrezione è inutile (mataivan, 145, 12, PG46, 145A) e che in
definitiva non esiste. Le ultime parole di Gregorio, prima della risposta finale di Macrina, sollecitano
un’argomentazione coerente e convincente, che rispetti la verosimiglianza: «bisogna dunque rivolgere
l’attenzione al ragionamento, affinché da noi possa essere conservato nella dottrina il verosimile (oujkou'n
prosektevon tw/' lovgw/, o{pwı a]n hJmi'n dia; pavntwn ejn tw//' dovgmati to; eijko;ı diaswvzoito, 145, 12-14 ss.,
PG46, 145A)». La fede non può dunque essere contraria alla ragione, non si può accettare una dottrina che
contrasti con la logica. Macrina, recependo le obiezioni, afferma che Gregorio le ha esposte secondo gli
schemi dell’arte retorica (kata; th;n legomevnhn rJhtorikhvn, 145, 21, PG46, 145B), correndo intorno alla
verità in modo convincente (piqanw'ı…ejn kuvklw/ peridramw;n th;n ajlhvqeian, 145, 22-24, PG46, 145B),
con i discorsi tipici della confutazione, cosicché coloro che non sono troppo attenti al mistero della verità
potrebbero lasciarsi catturare dalla verosimiglianza del ragionamento (paqei'n a[n pwı to; kata; to; eijko;ı
pro;ı to;n lovgon, 145, 25-26, PG46 145B). La verità però è un’altra, anche se Macrina riconosce che
si è incapaci di ribattere al ragionamento con gli stessi mezzi (ka]n ajdunavtwı e[cwmen ejk tw'n oJmoivwn
ajntirhtoreuvein tw/' lovgw/, 145, 28-29, PG46 145B). Il piano dell’argomentazione viene così in parte
spostato ed è individuata un’altra via: il discorso vero è conservato come in uno scrigno nei tesori della
sapienza, cioè nella Scrittura, e la realtà piena sarà svelata al momento stesso della risurrezione, quando
non avremo più bisogno di parole (oujkevti dehvsei rJhmavtwn, 145, 33, PG46, 145B) per la rivelazione di ciò
in cui si spera. Come i discorsi di chi brancola nella notte, tenuti nelle veglie, sullo splendore del sole si
rivelano vani al primo apparire del raggio di luce, così ogni ragionamento condotto in modo congetturale
(pavnta logismo;n stocastikw'ı, 145, 38, PG46, 145C) sembrerà privo di valore quando si realizzerà ciò
che si attende. Sembra un rifiuto totale dei mezzi espressivi e dei fondamenti della retorica tradizionale,
per aderire ad una esperienza mistica. Macrina tuttavia non si sottrae all’esame delle obiezioni, che non
devono essere trascurate completamente, e sviluppa le sue controdeduzioni, con ampio ricorso a metafore
e a similitudini, partendo dalla sintetica definizione di resurrezione, che consiste nella ricollocazione della
natura umana nello stato originale (hJJ eijı to; ajrcai'on th'ı fuvsewı hJmw'n ajpokatavstasiı, 148, 1-2, PG46,
148A). Proprio da questo assunto Macrina muove per affermare che in una tale vita, creata da Dio, non
esistevano né vecchiaia, ne giovinezza, né sofferenze legate alle malattie, né le altre debolezze proprie della
condizione umana, affermazione sostenuta proprio dal verosimile (wJı eijkovı, 148, 4, PG46, 148A), perché
«non era verosimile che Dio creasse realtà di questo tipo (ou[te ga;r eijko;ı h\n ta; toiau'ta dhmiourgei'n
to;n Qeovn, 148, 6-7, PG46, 148A)». La risurrezione è dunque un ritorno a questo stato originale, non
assimilabile per funzioni e abitudini alla vita terrena, corrotta dalla presenza del male.
118 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
ricorrendo in modo originale proprio all’eikos in un punto della diciannovesima omelia (583,
10 ss., PG60 583 ss.)85 sulla Lettera ai Romani, la cui raccolta complessiva fu così apprezzata
nell’antichità che Isidoro di Pelusio (Ep. 5, 32) scrisse: «se il divino Paolo avesse voluto
interpretare se stesso, non lo avrebbe fatto diversamente da come lo fece questo celebre
maestro dello stile attico». Riferendosi al comportamento da tenere nei confronti degli usi
e dei costumi della tradizione ebraica, in merito alla loro accettazione o al loro rifiuto da
parte degli altri popoli convertiti, Giovanni Crisostomo affronta problematiche molto simili
a quelle di Celso ed è pertanto ancora più significativo che egli argomenti con le stesse
categorie logiche ed esegetiche, quasi con una volontà di rispondere alla nota opera.
Il passo in questione riguarda la condizione dei Giudei nei confronti dell’annuncio
cristiano e quella dei pagani convertiti, nuovo Israele. I Giudei non convertiti hanno
rifiutato quanto era a loro connaturato, ciò che rappresentava la loro tradizione; i pagani
invece, seguendo il Cristo, aderiscono a ciò che era estraneo alla loro natura. Paolo
chiarisce questo aspetto con l’efficace immagine botanica dell’innesto: i pagani, separati
dall’olivastro, sono stati inseriti sull’albero buono dell’ulivo con un’operazione para;;
fuvsin, ‘contro natura’. Analogamente gli Ebrei non convertiti si sono separati in modo
innaturale dal ceppo buono dell’ulivo, cioè dalla tradizione che ha prodotto la salvezza. È
infatti ‘secondo natura’ (kata; fuvsin) che un ebreo aderisca a Cristo, più di quanto lo sia
la condizione di un pagano convertito. ‘Secondo natura’ e ‘contro natura’ diventano così
le espressioni portanti del sottile ragionamento paolino, più volte ripetute nel corso del
capitolo 11, all’interno della sezione più ampia dedicata ai Giudei che hanno misconosciuto
la giustizia di Dio, una condizione non permanente, se essi vorranno abbracciare la fede,
come non è permanente lo stato dei convertiti, i quali dovranno camminare costantemente
sulla via del bene. A ciò che è ‘secondo natura’ si associa quanto è potenzialmente positivo,
a ciò che è ‘contro natura’, si accosta il male. I Giudei infatti «se non rimarranno saldi
nella loro incredulità, saranno innestati» perché «Dio ha la potenza di innestarli di nuovo
(Rom. 11, 23)», con un’operazione di restauro per ricostituire quanto è ‘secondo natura’.
I pagani convertiti dal canto loro non hanno nulla di cui vantarsi; la loro conversione,
essendo dovuta ad un atto ‘contro natura’, è iniziativa di Dio; essi non possono vantare
alcun merito. Questo è il grande mistero, il piano salvifico di Dio, attento a non rendere
altezzosi i convertiti nei confronti degli Ebrei, fondandosi su una presunta superiorità, né
ad escludere gli Ebrei da possibili rielezioni nel caso di un cambio di condotta.86
Fin qui nulla di particolarmente significativo: Giovanni Crisostomo ripercorre
puntigliosamente questo processo, invitando a ricercare l’ordine dei fatti (pragmavtwn tavxin)
e le conseguenze dei ragionamenti (logismw'n ajkolouqivan, 590, 65-591, 1, PG60, 590-
591). Ma come intendere l’opposizione ‘contro natura’/’secondo natura’, cosa essa vuole
in concreto indicare? Dopo aver ripreso il martellante utilizzo paolino dell’espressione
para; fuvsin/kata; fuvsin, così si rivolge all’interlocutore:
85
L’omelia prende le mosse dal commento di Rm. 11, 7: «quello che Israele cerca non l’ha ottenuto.
L’hanno ottenuto invece gli eletti. Gli altri sono stati induriti».
86
Giovanni Crisostomo mette in evidenza come Paolo in tal modo abbia voluto lasciare speranze anche
agli Ebrei (591, 36-37, PG60, 591).
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 119
Quando lo senti dire continuamente ‘contro natura’ e ‘secondo natura’, non pensare che egli si
riferisca a questa natura immobile, ma che indichi con queste parole il verosimile e il conseguente
e di contro l’inverosimile (ajlla; kai; to; eijko;ı kai; to; ajkovlouqon, kai; to; ajpeiko;ı pavlin touvtoiı
dhlou'n toi'ı ojnovmasin). Non sono infatti cose naturali il bene e ciò che non è tale, ma il frutto
della sola volontà e del solo libero arbitrio (591, 26 ss., PG60, 591).
87
Il disegno paolino si può cogliere ancora più a fondo se si considera che nell’immagine dell’ulivo viene
ribaltata la pratica consueta della coltivazione. Già ai tempi dell’Antico Testamento si era soliti innestare
un ramo di ulivo sull’olivastro, che di per sé non produce frutto.
88
Anche altrove si ritrova nelle omelie alla Lettera ai Romani il ricorso al verosimile; per esempio nella
seconda, a commento di Rom. 1, 8: non c’è nulla di strano (oujde;n ajpeikovı, 401, 36, PG60, 401) che
la notorietà della fede della comunità romana si sia sparsa su tutta la terra, in quanto Roma è una città
conosciuta ovunque. Nell’ottava omelia, che prende le mosse da Rom. 4, 1, il fatto che chi è privo di
opere possa essere giustificato in base alla fede non è per nulla strano (oujde;n ajpeikovı, 454, 60, PG60,
454), ma l’aspetto meraviglioso e che soprattutto rivela la forza della fede (to; qaumasto;n kai; mavlista
th'ı pivstewı th;n ijscu;n ejmfai'non, 454, 62 s., PG60, 454) è che uno, vantandosi per le azioni, non per
questo diventa giusto, ma appunto per la fede. Allo stesso modo, nella decima omelia, è illustrato anche
il passo di Rom 5, 18-19: che per il peccato di Adamo e per l’essere egli diventato mortale anche i suoi
discendenti siano tali, non è una affermazione strana (oujde;n ajpeikovı, 477, 47, PG60, 477). Ma il dire che
dalla disobbedienza di quello un altro sia peccatore, quale conseguenza avrebbe? Si troverebbe che costui
neppure sarebbe condannato se non fosse peccatore per natura (ei[ ge mh; oi[koqen gevgonen aJmartwlovı). Si
apre così la ricerca del significato di hamartolos. Poco prima nella parte iniziale l’omelia è impegnata a
indicare come riguardo al tema della morte e del peccato entrati nel mondo Paolo abbia dimostrato che tutto
è appropriato e congruente (o{ti me;n ou\n eijko;ı kai; eu[logon, ejk touvtwn e[d[ eixe, 476, 6, PG60, 476). Si tratta
di un passaggio fondamentale dell’argomentazione, perché, ciò ammesso, il resto sarà accolto in modo più
facile (eujparavdekton). Per un’ulteriore presenza dell’espressione oujde;n ajpeikovı si veda anche la quarta
omelia della Lettera ai Colossesi, una delle lettere preferite da Giovanni Crisostomo, che le considera tutte
120 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
È anche una competizione tra culture quella che si profila tra il mondo classico e
la nascente tradizione cristiana, alla ricerca delle proprie radici, ma tesa nel contempo
a rivendicare un’autonomia quando non una sua superiorità. In questo contesto spicca
l’affermazione contenuta nella prefazione dell’undicesimo libro della Preparatio
evangelica di Eusebio. Il volume precedente è giunto a una conclusione fondata sull’eikos
(to; mh; ajpeiko;ı ei\nai, XI, 1): i Greci, che non hanno apportato nessuna conoscenza
originale, se si esclude l’ambito della retorica, hanno saccheggiato tutto dai barbari (ta;
pavnta de; para; barbavrwn ejskeuwrhmevnouı), non hanno ignorato gli oracoli degli Ebrei
e a questi si sono attaccati, non mantenendo le mani incontaminate da un vero e proprio
furto (mhde;…kaqara;ı ejfulavxanto kloph'ı ta;ı cei'raı). A provare la natura di ladri
(klevptaı) dei Greci non sono le parole di Eusebio, ma le loro stesse affermazioni.
Non si tratta certo di una lettura originale. La si ritrova all’interno di una tradizione
che da Filone giunge a Clemente di Alessandria. Anche Origene in più punti della Contro
Celso considera che tutto il pensiero deriva dai barbari e che i Greci si sono distinti solo
nell’ambito dell’espressione. Ma è interessante che Eusebio àncori queste convinzioni di
nuovo alla categoria del verosimile, come se le dovesse difendere da chi voleva metterne
in luce la scarsa plausibilità, adducendo, come in un processo, delle prove: a testimoniare
il valore dell’affermazione, non sono appunto le parole di Eusebio (oujk ejmai'ı fwnai'ı),
ma le testimonianze esterne (tai'ı d∆ e[xwqen…marturivaiı), cioè, come poi meglio si
specifica, le opere stesse dei Greci, alla cui analisi l’autore cristiano si è a lungo dedicato,
con lo stesso scrupolo con cui si è applicato all’esegesi del testo sacro. Se per quest’ultimo
lo scopo della ricerca è il reperimento della symphonia dei passi considerati singolarmente
e nel loro insieme, ora la symphonia da porre in evidenza è quella tra le verità greche e
le rivelazioni ebraiche: questo è l’obiettivo dell’undicesimo volume, dove il riferimento
principale è ai dialoghi di Platone, visto come il vertice; di altri autori Eusebio si servirà
solo come sostegno là dove sarà necessario (1, 3-4). Tra Ebrei e Greci non si riscontra
alcuna contraddizione perché i secondi hanno tratto dai primi i contenuti del loro sapere.
L’eikos dunque non è limitato all’ambito della prima esegesi, è uno strumento duttile
nelle mani degli autori anche per supportare la definizione di aspetti dottrinali o per sostenere
esortazioni catechetiche. L’amico di Basilio, il frequentatore della scuola di Atene, colui
che i dotti bizantini chiamarono il ‘Demostene cristiano’, Gregorio di Nazianzio, vi ricorre
per esempio nell’orazione funebre composta in occasione della prematura scomparsa del
fratello minore Cesario, promettente nell’arte medica e nella matematica.89 Scampato
miracolosamente a un violento terremoto in Bitinia, dove stava ricoprendo un’importante
carica statale, abbandonata la carriera pubblica, anche per esortazione di parenti e amici, di
lì a non molto tempo dopo trovò la morte. Ma alla luce della fede la morte non è una rovina.
Il discorso conduce Gregorio a ringraziare la sofferenza provocata dalla separazione del
fratello, che gli ha permesso di riflettere su come egli sia diventato amante del trapasso
sante, anche se quelle che Paolo scrisse dal carcere egli afferma che abbiano qualche cosa di più (e[cousi dev
ti plevon, 299, 12-13, PG62, 299). Anche qui il sintagma ha lo scopo di convalidare il ragionamento paolino
e di mostrarne la pertinenza e la coerenza (327, 38, PG62, 327).
89
L’orazione è databile tra la fine del 368 e l’inizio del 369 a.C.
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 121
alla vita celeste (ejrasth;ı ejgenovmhn th'ı ejnqevnde ajpanastavsewı, 23, 3, PG35, 785B).
Dio nel suo amore per l’uomo chiede poco a coloro che lo amano di sincero affetto e li
ripaga molto. Non solo le gioie, ma anche i dolori sono armi di salvezza (swthrivaı o{pla,
24, 1, PG35, 788A). Bisogna dunque affidare a Dio le anime nostre e quelle di coloro
che hanno raggiunto prima di noi la meta, come di coloro che su una strada comune sono
stati più pronti. Nel congedo dell’orazione, che è una vera e propria esortazione alla fede,
Gregorio invita ad abbandonare il pianto, affrettandosi al sepolcro che ora Cesario avrà
come unico e triste dono, preparato opportunamente (kata; kairovn, 24, 2, PG35, 788A)
per i genitori e per la vecchiaia, ma per un figlio e per la giovinezza dono inatteso, contro
ogni verosimiglianza, prematuro (para; to; eijkovı) e comunque non cosa assurda per chi ci
amministra (kai; oujk ajpeiko;ı tw'/ dievponti ta; hJmevtera). La fede rende così ragionevole
quanto può apparire inconcepibile. Esiste un eikos divino che l’uomo talvolta non sa
cogliere, proprio come al verosimile rispondono sempre le Sacre Scritture anche quando
l’interprete non lo sa afferrare. Il limite sta nell’esegeta, non nel piano divino. L’inattesa e
prematura scomparsa di un giovane non è così segno di incoerenza o di irragionevolezza
di Dio, richiesto di accogliere Cesario come primizia della dipartita della restante famiglia
(ajparch;n th'ı hJmetevraı ajpodhmivaı, 24, 3, PG35, 788B): «se l’ultimo nato è il primo, ci
uniformiamo ai tuoi ragionamenti, da cui tutto è retto (sugcwrou'men toi'ı soi'ı lovgoiı,
oi|ı to; pa'n fevretai, 24, 4, PG35, 788B)», nell’attesa di essere accolti al tempo opportuno
(ejn kairw'/ eujqevtw/, 24, 4, PG35, 788B), trovati pronti senza timore, senza retrocedere
perché ancorati ai beni materiali, invece di essere rivolti alla vita eterna.
Temi edificanti e consolatori sfruttati da tanta letteratura omiletica: così è, per fornire
un altro esempio, nell’encomio per il protomartire Stefano, composto da Gregorio di Nissa.
Non si tratta della più nota lode che fu poi costume pronunciare nella Chiesa greca nel giorno
del santo, ma di un componimento minore.90 Cristo, venuto nel mondo per la salvezza, lasciò
dietro di sé preziosi frutti. I discepoli seguirono il maestro; dopo il Cristo è la volta dei
portatori di Cristo (oiJ Cristofovroi): dopo il sole di giustizia gli astri del mondo (meta; to;n
h{lion th'ı dikaiosuvnhı oiJ fwsth'reı th'ı oijkoumevnhı, 721, 17-18, PG46, 721A). Prima
sbocciò per noi Stefano, non dalle spine giudaiche, ma primizia della Chiesa offerta a Dio.
Gregorio passa in rassegna le opere della sua vita, dalla cura delle vedove alla predicazione
della Parola, definendolo «uomo buono e pieno di Spirito Santo (724, 15-16, PG46, 724A-
B)». Combatteva con tutti e tutti vinceva con la predicazione della verità. Tanto era il suo
ardore retorico che nessuno poteva contrastarlo. Messaggero della verità, fu condotto
davanti al consiglio dell’incredulità, come agnello in mezzo ai lupi, il portatore di Cristo
tra gli uccisori di Cristo (eijı to; sunevdrion tw'n Cristofovnwn oJ Cristofovroı, 724, 50-51,
PG46, 724D), pronto a rintuzzare con argomentazioni sottili i loro insulti e le loro accuse.
Era visibile sulla terra, ma guardava come in uno specchio alle cose del cielo, rivestito di
natura umana aveva mutato il volto e l’aspetto in angelo: e ben a ragione (kai; touvtwn oujde;n
ajpeikovı, 725, 18, PG46, 725B). Era infatti conveniente (e[prepe) che nel Protomartire si
90
Cfr. 724, 25ss, PG46, 724B ss., dove Gregorio fa riferimento all’impossibilità di celebrare il giorno
precedente (cqevı) il santo per un problema di salute. Intende assolvere il compito il giorno successivo,
ricordando il protomartire prima di passare alla memoria degli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni.
122 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
mostrasse veramente la dignità dei martiri e che tutti gli altri conoscessero in lui le opere
della nuova grazia. Ciò che si manifestò in Stefano fu dunque per Gregorio ancora una
volta il frutto della ragionevolezza di Dio, tutto è coerente e conveniente, all’eikos si unisce
di nuovo il prepon. Anche l’operato e il destino finale di Stefano sono funzionali al piano
divino, ricollegato sempre all’eikos pure nel De occursu Domini attribuito a Gregorio, a
spiegazione della consolazione attesa dal vecchio Simeone ed esaudita dalla visione del
Signore al momento della sua presentazione al tempio. La consolazione si attua attraverso
la manifestazione della verità e la liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù della
legge. Ma chi proponesse (eij de;…probavlletai, 1169, 42, PG46, 1169C) che si tratti
della liberazione dal dominio romano e dal regno di Erode, straniero ai Giudei, è invitato
a riflettere (ginwskevtw oJ toiou'toı, 1169, 44-45, PG46, 1169C-D) che sotto i Romani il
popolo ebraico non ha subìto nulla di così dannoso da spingere Simeone ad attendere una
consolazione. Israele era abituato a sottostare alla dominazione straniera, un modo con
cui il Signore cercava di correggere il suo popolo, comportandosi come un padre con un
figlio ribelle, affidandolo alle cure di un pedagogo perché lo possa guidare sulla via della
saggezza. Tutto dunque risponde ad un piano coerente. Non solo non era inverosimile (oujk
h\n ajpeikovı, 1172, 2-3, PG46, 1172A) che uomini degni di una condotta di vita più severa
fossero sottoposti ad un dominio straniero, ma la longanimità di Dio ha mostrato anche
alcuni giusti, di cui il mondo non era neppure degno, non capi, ma sottoposti a uomini
barbari ed atei, perché potesse risplendere meglio il valore della loro pietà.
Se alcuni sottraggono dall’Unigenito, come cosa non bella, inadatta e non verosimile per Lui
(ajpeoiko;ı aujtw/)' la sofferenza nella carne, sottraggano allo stesso modo a Lui anche la nascita
nella carne dalla santa Vergine. Se infatti è possibile che sia detta tra le cose inverosimili per Lui
(tw'n ajpeoikovtwn aujtw/)' la sofferenza nella carne, come non lo deve essere ciò che sta per primo,
davanti a questa, cioè la generazione nella carne o, per dirla semplicemente una volta per tutte,
il modo dell’incarnazione? Se ne va dunque il mistero dei Cristiani e per il resto è resa vana la
speranza della salvezza (ACO, 1, 1, 3, 94-95).
Tale era la tesi sostenuta dai Nestoriani, per i quali Maria era solamente christotokos, ma non theotokos.
91
È in gioco la natura stessa del Cristo: alla visione unitaria, sostenuta dai seguaci di Cirillo, si oppone quella
‘divisa’ di Nestorio, che enfatizzava la natura umana di Gesù. La Vergine aveva quindi dato vita ad un
uomo di nome Gesù, non a Dio.
124 Dalla tribuna al pulpito. La retorica del verosimile
Grazie al verosimile si cerca dunque di spingere fino alle estreme conseguenze le posizioni
di coloro che rifiutano i contenuti riconosciuti della fede e di corroborare al contempo i
fondamenti della dottrina, costruendo il dogma su basi più solide, assolutamente plausibili,
più convincenti di quelle degli avversari.
Lo stato di figlio, il rapporto con Dio padre, il significato della kenosis sono gli
argomenti cruciali del Concilio di Efeso e necessitano di un rigoroso impianto teorico,
sostenuto dal richiamo alla Scrittura e dalla capacità di rispondere agli avversari con
le stesse armi dialettiche. La definizione del dogma si combatte anche con le armi del
verosimile, come quando si mostra di nuovo a quali conseguenze può portare il credere
non verosimile per l’Unigenito l’esperienza della sofferenza (ajpeoiko;ı aujtw/' to; paqei'n,
ACO, 1, 1, 4, 61) se pensata fuori dall’assunzione della carne. Se non lo si considera nella
sua unione di uomo e Dio, non si può riconoscere in Lui neppure l’Unto, il Cristo, mentre
«Gesù Cristo potrebbe essere chiamato a ragione (eijkovtwı) il Verbo apparso in forma
umana (ACO, 1, 1, 4, 60)». Non lo si chiami Cristo (mh; ojnomazevsqw Cristovı, ACO, 1,
1, 4, 61), in quanto anche l’unzione sarebbe una cosa inadatta e a Lui estranea (hJ crivsiı
ajnavrmostovn ti crh'ma kai; ajllovtrion aujtou', ACO, 1, 1, 4, 61), con la consapevolezza
però che questi riconoscimenti di inverosimiglianza portano alla fine a negare la stessa
incarnazione, separando l’Unigenito dall’amore per il mondo. In questo modo anche
quanto può apparire poco credibile o incomprensibile, fondamento delle obiezioni degli
oppositori, acquista senso. Converrebbe al Cristo (prevpoi a[n, ACO, 1, 1, 5, 40) essere
servito da tutto il creato piuttosto che servire, visto che è Dio e padrone ed ha sotto i
suoi piedi tutto quanto è stato generato; ciò risponderebbe ad assoluta verosimiglianza
(kai; mavla eijkovtwı). Ma dal momento della sua venuta nel mondo, all’Unigenito, che
si è concesso alle cose umane, non è sconveniente (oujk ajpeoikovı) la condizione umana
del servire. Del resto proprio in quello che può sembrare poco credibile si manifesta la
potenza di Dio, che da ricco si è fatto povero, che non si è vergognato dell’umanità e di
tutto quanto è legato all’uomo. Sarebbe inaccettabile e del tutto irragionevole (ajpeoikovı)
per Dio, tra gli altri aspetti, piangere, temere la morte, richiedere di bere. «Sì – ammette
l’estensore degli Acta – direi anch’io che si tratta di cose piccole per la natura e per la
gloria divine e somme. Ma in queste abbiamo contemplato la povertà che Egli per noi
volontariamente si sobbarcò (ACO, 1, 1, 6, 139)». Gli apeoikota degli avversari devono
essere dunque contrastati con ragionamenti plausibili per contrapporre verità verosimili.
In questo consiste la missione conciliare. Da chi difende tesi opposte gli Acta invitano a
tenersi lontano, come da nemici della verità, seguendo i Padri e la tradizione apostolica.
Interpretare con gli strumenti dell’eikos il piano provvidenziale di Dio, accostando
strumenti e realtà non conciliabili, può apparire un processo ossimorico. Esso rappresenta
l’ultima evoluzione del verosimile, con il quale la fede accoglie anche quello che secondo
categorie umane può solo essere considerato assurdo.
Dall’esegesi al dogma: tra questi estremi è dunque racchiusa la storia dell’eikos
all’interno della prima letteratura cristiana e nella storia della Chiesa nascente. La
predicazione teologica, essendo Dio inesprimibile, non può che muoversi nel campo del
verosimile, secondo le indicazioni di molti Padri della Chiesa e di molti teologi: verosimile
è ciò che è vicino alla ragione e non contrario alla Rivelazione. L’esegesi biblica e la
Capitolo 2. Oltre il tribunale e l’assemblea 125
definizione dogmatica sono state per tale motivo tra le principali machines à penser della
civiltà occidentale europea. Hanno provocato una vera e propria ginnastica intellettuale e
hanno stimolato il pensiero a un continuo rinnovamento. In particolare l’interpretazione
biblica è per ciascuna epoca un indicatore dell’evoluzione della mentalità. Il suo studio
è ricco pertanto di insegnamenti. È per questo che interessa ancora oggi, in quanto ci
permette di comprendere meglio anche le categorie logiche ed argomentative dominanti
nei diversi periodi e nei differenti ambienti. Al termine di questo lungo percorso sorge così
un erotema, forse il vero erotema: quale spazio è riservato oggi al verosimile e a tutte le
sue articolazioni, in una società che sembra aver smarrito il valore dell’argomentazione,
privilegiando il consenso raggiunto non con il rigore dialettico, nel rispetto anche delle
ragioni della controparte, ma con gli slogan e le urla del più prepotente?
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Christian Question-and-Answer Literature in Context, Proceedings of the Utrecht Colloquium, apparentemente grande. In età cristiana i commentatori dei testi classici, soprattutto di Omero, sono
13-14 October 2003, Leuven-Paris-Dudley (Ma.), Peeters, pp. 7-24. spesso gli stessi uomini di cultura che, educati alle scuole di retorica, per la loro preparazione sono
Zamagni C. (2004)2, Existe-t-il una terminologie technique dans les Questions d’Eusèbe de portati ad applicare le categorie dell’esegesi anche alla Sacra Scrittura, di cui allo stesso modo
Césarée?, in A. Volgers, C. Zamagni (ed. by), Erotapokriseis. Early Christian Question-and- devono mostrare la coerenza narrativa e l’assoluta consequenzialità delle affermazioni, condizione
Answer Literature in Context, Proceedings of the Utrecht Colloquium, 13-14 October 2003, di partenza per difendere più in generale la dottrina e i contenuti teologici della nuova fede, attaccati
Leuven-Paris-Dudley (Ma.), Peeters, pp. 81-98. da chi ne sosteneva la scarsa plausibilità. Essi si avvalgono per il testo biblico di un analogo corredo
di tecniche interpretative. Tra questi estremi è racchiusa la lunga storia dell’eikos, potente strumento
di persuasione e di costruzione del consenso.
Fabio Roscalla (1962), dottore di ricerca in Filologia classica, è professore di ruolo di Latino e
Greco nei licei, professore a contratto presso l’Università di Pavia per i corsi di Lettorato di Greco
e Laboratorio di lingua e letteratura greca. Già docente SILSIS per il greco, è risultato idoneo
come professore di II fascia (associato) di Lingua e Letteratura Greca nel Concorso di abilitazione
scientifica nazionale (2013). Oltre che di vari articoli su riviste scientifiche di argomento filologico-
letterario, in particolare sulla prosa di V-IV secolo, è autore di un’edizione dell’Economico di
Senofonte (Milano 1991) e del volume Presenze simboliche dell’ape nella Grecia antica (Firenze
1998). Per i tipi di ETS ha pubblicato Biaios didaskalos. Rappresentazioni della crisi di Atene della
fine V secolo (2005), Arche megiste. Per una didattica del greco antico (2009), Greco, che farne?
(2016) e ha curato L’autore e l’opera. Attribuzioni, appropriazioni, apocrifi nella Grecia antica, Atti
del Convegno internazionale (Pavia, 27-28 maggio 2005) (2006).
E-mail: fabio.roscalla@unipv.it
From the Tribune to the Pulpit. The Rhetoric of Likelihood
Fabio Roscalla
Abstract in English
From the court of the democratic Athens to the God’s Word the gap is only seemingly wide. In the
Christian Age the commentators of the classical texts, especially Homer’s, were often the same
men of culture who, educated and well trained at the schools of rhetoric, were inclined to apply
the categories of exegesis to the Scriptures too, of which, in the same way, they had to show the
narrative coherence and the absolute self-consistency of the statements. All this represented the
starting point to defend, more in general, the doctrine and the theological contents of new Faith,
which were attacked by the ones who claimed their weak plausibility; they applied to the Holy
Bible a similar set of interpretative techniques. Between these two ends the long story of the eikos is
enclosed, a powerful means available to anyone wants to prove convincing.
Fabio Roscalla (1962), PhD in Classical Philology, is teacher of Latin and Greek Language in
high schools and an adjunct professor at the University of Pavia. He obtained a qualification as
an associate professor of Greek Language and Literature in the National academic qualification
competition (2013). He is author of numerous articles in scientific journals of literary philological
subject, in particular on the prose of V-IV century. He is also author of an edition of the Oeconomicus
by Xenophon (Milano 1991) and of the book Presenze simboliche dell’ape nella Grecia antica
(Firenze 1998). He published also, by Edizioni ETS – Pisa, Biaios didaskalos. Rappresentazioni
della crisi di Atene della fine V secolo (2005), Arche megiste. Per una didattica del greco antico
(2009), Greco, che farne? (2016) and edited L’autore e l’opera. Attribuzioni, appropriazioni, apocrifi
nella Grecia antica, Atti del Convegno internazionale (Pavia, 27-28 maggio 2005) (2006).
E-mail: fabio.roscalla@unipv.it