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D.I.S.A.A.T.

Appunti dalle Lezioni di


“Produzione Animale e
Qualità delle materie
prime”

Prof. Giuseppe Marsico

Corso di Laurea in Trasformazione dei
Prodotti Agroalimentari 
 
 

 
 
 
 
 

a.a. 2014 ‐2015 
Ultimo aggiornamento Marzo 2015

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Cap.1 Le produzioni alimentari primarie di origine Animale

Prima di una qualunque trattazione sul tema delle Produzioni Animali è necessario distinguere i

prodotti primari da quelli trasformati. I primi sono quelli che derivano direttamente dai cicli di

produzione e/o di allevamento animale, quali: latte, carne, uova (ivi comprese quelle/i di

provenienza ittica); i secondi sono quelli derivanti dai loro processi di trasformazione industriali,

artigianali o famigliari (formaggi, insaccati, prosciutti ecc). Nel corso delle lezioni, saranno trattate

solo le produzioni primarie, ed i fattori capaci di influenzare i diversi aspetti quantitativi e

qualitativi (parametri fisici, chimici e sensoriali capaci di caratterizzarli).

Le produzioni animali alimentari primarie si identificano sostanzialmente, con la carne, il latte, le

uova e derivano non solo dagli animali di interesse zootecnico (domestici), ma anche da quelli di

interesse ittico (carni, bottarga, caviale ecc.) e carni di provenienza faunistico-venatorio, queste

ultime in quantità limitata.

I prodotti ittici (pesci teleostei, molluschi lamellibranchi ecc.) derivano sia dagli allevamenti che

dalla pesca.

Gli animali di interesse zootecnico, in generale, in base al tipo di sistema digerente si distinguono in

poligastrici e in monogastrici.

I poligastrici raggruppano quelle specie animali provviste di più “stomaci” (omaso, abomaso,

reticolo, rumine) come i bovini, gli ovini, i caprini, i daini, i caprioli , i cervi, le antilopi, i camelidi

ecc., mentre i monogastrici si identificano con quei genotipi provvisti di un solo stomaco, come i

suini (domestici e/o selvatici) i lagomorfi (conigli e lepri), gli equidi domestici come i cavalli, gli

asini, muli (selvatici, come zebre ecc.) a cui si aggiungono i canidi, i felini, i rapaci ecc. e gli avicoli

(polli, tacchini, oche, fagiani ecc.).

Le distinzioni anatomiche dell’apparato digerente dei due raggruppamenti animali, portano ad una

differenzazione fisiologica. Infatti i poligastrici di fatto sono degli erbivori, mentre i monogastrici

eccetto gli equidi e i lagomorfi (erbivori) sono onnivori e/o carnivori.

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La presenza del rumine nei poligastrici ed all’interno di questo di una ricca flora batterica composta

da batteri del gruppo amilolitici, lattobacilli e cellulosolitici, questi ultimi capaci di ricavare energia

dalla fermentazione della cellulosa presente nelle pareti delle cellule degli alimenti vegetali, e

trasformarla in energia batterica, liberano anche il succo citoplasmatico delle cellule composto da

acqua, da proteine grassi e zuccheri rendendolo attaccabile dagli enzimi proteolitici gastrici

(pepsina) ed enterici (polipeptidasi, ecc.) , amilolitici, lipolitici del succo intestinale. Nel rumine,

oltre alla flora batterica è presente anche una ricca fauna proteozoaria (protozoi). I batteri

generalmente appartengono e/o sono molto vicini al mondo vegetale, mentre i protozoi fanno parte

del mondo animale. I batteri oltre che di C, O, e H (zuccheri e polisaccaridi derivati dalle cellulose

ed emicellulose) per vivere e moltiplicarsi (aumentare la loro concentrazione per unità di misura, cc

o ml) necessitano anche di N che generalmente ricavano dalle proteine citoplasmatiche delle cellule

degli alimenti vegetali o da fonti di N indifferenziato (urea ecc.), trasformandoli in proteina

batterica.

I protozoi ivi compresi i ciliati invece, si nutrono sia dei residui delle cellule vegetali e delle

sostanze citoplasmatiche, rese libere dall’attacco batterico, sia dei batteri, aumentando di numero

per unità di volume. L’intero processo che si verifica a carico delle proteine vegetali trasformate dai

batteri prima in proteina batterica e dai protozoi poi in proteina protozoaria (animale simile) che

risulta possedere rispetto a quella vegetale e batterica una maggiore concentrazione di aminoacidi

essenziali, assume il nome di processo di Nobilizzazione proteica. Nei monogastrici erbivori, come

gli equidi (cavalli asini ecc.) e lagomorfi (conigli, lepri ecc.) la funzione del rumine viene assolta in

un certo qual modo dalla flora e dalla fauna dell’intestino cieco.

La carne: L’utilizzo della carne e degli altri prodotti animali da parte dell’uomo è un fatto “ab

antico”, poiché esso prima dell’avvento della pastorizia e dell’agricoltura poi, cacciava gli animali

per mangiarne le carni al fine di arricchire la propria dieta con proteine nobili, utilizzare le pelli per

coprirsi e le ossa per costruire attrezzi e/o monili.

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Oggi la carne di usuale consumo, deriva dalla macellazione delle specie animali sottoposte ad

allevamento. Subito dopo la macellazione, i muscoli che insieme allo scheletro dell’animale fanno

parte dell’apparato locomotore dell’animale diventano carne, ma, prima dell’insorgere del “rigor

mortis” essi sono molli e teneri se cotti, poiché le principali proteine miofibrillari actina e miosina

sono dissociate e la seconda è estraibile con soluzioni ad alta forza ionica. Con l’insorgere del

“rigor mortis” i muscoli diventano inestensibili e duri se cotti, per cui necessitano di un adeguato

periodo di riposo detto “frollatura” che assicurerà una tenerezza più o meno accentuata a seconda

del tempo e della temperatura utilizzata nel processo. In generale “la frollatura” si fa avvenire

mantenendo le mezzene o i quarti delle carcasse in cella frigo ad una temperatura tra 0 e 4° C, ad

una UR intorno al 30% e per un periodo di 3-14 giorni (a secondo della specie e dell’età animale).

La conversione del muscolo in carne è governata da cambiamenti strutturali dovuti a complesse

interazioni e/o processi biochimici che avvengono durante la conservazione della carcassa, che

possono essere spiegati come il risultato dell’azione sinergica di tre sistemi proteolitici come quello:

delle calpaine, quelle delle catepsine lisosomiali e quello multi-catalitico (MPC), la cui azione

combinata durante la frollatura generano polipeptidi, peptidi, dipeptidi e aminoacidi liberi. Tali

processi portano ad una carne più tenera, succosa ma meno colorita. Inoltre a seconda del tempo e

delle condizioni di frollatura possono svilupparsi modeste concentrazioni di molecole e/o sostanze

aromatiche e/o odorose (chetoni aldeidi ecc.) capaci di conferirgli anche una maggiore

serbevolezza.

La frollatura deve essere fatta nei giusti modi e la carne deve essere consumata al suo “giusto tempo

di riposo”, ovvero, quando ha acquistato la pienezza delle sue qualità gastronomiche ed

organolettiche che per quelle bovine, indicativamente coincide con un periodo di 8-14 giorni.

Tempi di frollatura superiori e/o inferiori a quelli indicati possono essere applicati a carcasse di

ottima qualità protette da ottimi strati di grasso di copertura adoperando scrupolose cure ed

attenzioni per il mantenimento nella cella frigo delle giuste e costanti condizioni di temperatura, di

umidità ed aerazione.

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1.1 Qualità, Genuinità e Salubrità:

a) La genuinità è espressa dal concetto del minor intervento umano possibile e/o artifizio nel ciclo

e/o filiera di produzione di un certo alimento. Per cui quando si tratta di prodotti alimentari primari

come quelli di origine animale (carne, latte, uova, ecc), la genuinità è ascrivibile e/o correlabile a

quei sistemi produttivi ecocompatibili e/o ecosostenibili, identificabili con i semi-estensivi e/o semi-

bradi e/o rurali in cui gli animali oggetto di allevamento oltre ai benefici di vivere per la maggior

parte della giornata all’aria aperta, godono anche dei vantaggi di utilizzare alimenti naturali e/o

spontanei che derivano dai pascoli del territorio.

b) La salubrità di un prodotto animale primario o trasformato è rappresentato dal fatto che la sua

utilizzazione non deve arrecare danno alcuno alla salute del consumatore. In particolare non deve

essere fonte di patologie ascrivibili ad agenti patogeni (batteri o virus) che potrebbero essere

trasmessi dall’alimento all’uomo e nel contempo non deve originare disfunzioni metaboliche dovute

a carenze e/o ad eccessi di principi nutrizionali. Il primo caso fa riferimento alla presenza di alcuni

patogeni presenti nelle carni crude di suini ed equini come la trichinella, ed altri batteri e/o virus

presenti nelle carni e/o nel latte di animali infetti, che se consumate crude ma anche cotte (caso del

carbonchio o antrace) e/o non opportunamente risanate, possono infettare il consumatore. Per

questo, in Italia, però esiste un eccellente sistema di controllo sanitario affidato al servizio

veterinario della ASL che vigila non solo sui macelli ma anche sugli allevamenti, ove insieme ai

carabinieri del N.A.S. controllano che vengano rispettate tutte le normative nazionali, europee, sulla

sicurezza alimentare, sulla salute e sul benessere animale, nonché sui tempi di sospensione di

eventuali somministrazioni di farmaci. Si ricorda che in Italia è vietato l’uso degli stimolanti di

crescita (ormoni e/o sostanze ad azione ormonale). Della salubrità si occupa la Commissione

Europea di Microbiologia degli alimenti (ICMSF 1988). Le Autorità Sanitarie nazionali supportate

dalla legislazione e dalle esigenze del consumatore focalizzano l'interesse principalmente sulla

salubrità dei prodotti, per cui diversi programmi integrati per il controllo di qualità sono basati sul

sistema di controllo casuale nei punti critici (HACCP: Hazard, Analysis, Critical, Control Point)

che hanno come finalità la sicurezza dell'alimento. Il sistema HACCP è un sistema di approccio

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organizzato e sistematico capace di attuare e/o di migliorare il grado di garanzia di salubrità

microbiologica, fisica e chimica delle derrate alimentari, ed in genere è attuato ed elaborato per

specifici prodotti lungo l'intera filiera di produzione.

c) Qualità: E’ utile ricordare che l’attuale consumatore, a causa delle mutate esigenze socio

economiche, presta maggiore attenzione alla relazione tra nutrizione e salute e si orienta con

maggiore frequenza verso alimenti, ivi compresi quelli di origine animale (carni, latte ed uova)

salubri, genuini e di qualità, poveri in grassi, ma ricchi in acidi grassi poliinsaturi (della serie ω3)

per i noti effetti sulla prevenzione delle disfunzioni cardio vascolari e non solo.

Il concetto di qualità è definito dall’International Oraganization for Standardization (ISO) come

“l’insieme delle proprietà e delle caratteristiche che conferiscono al prodotto la capacità di

soddisfare le esigenze espresse e implicite (non espresse e/o esprimibili) del consumatore” per cui,

secondo questa definizione, l’intero sistema produttivo deve basarsi esclusivamente sul

consumatore, sulle sue esigenze, aspettative ed opinioni, a cui va attribuito un ruolo di primaria

importanza. Questa definizione presenta però un difetto di indeterminatezza che la rende non

facilmente applicabile a prodotti biologici, come gli alimenti di origine animale, ove alle proprietà

oggettive del prodotto, facilmente misurabili, si sovrappongono caratteristiche soggettive, spesso

difficilmente quantificabili.

Si ricorda che alcuni organismi esercitano un ruolo di primaria importanza per la valutazione e

certificazione della qualità delle carni e di altri prodotti di origine animale come:

 ISO (International Organization for Standardization) che ha lo scopo di promuovere la

formazione nel mondo;

 CEN (Comitato Europeo di Normazione) che ha invece lo scopo di promuovere l'impiego

delle norme internazionali ISO e di armonizzare le norme su scala europea;

 UNI (Ente Nazionale Italiano di Unificazione) che rappresenta l'ente normatore nazionale

per l'Italia a livello comunitario ed è responsabile della concessione del marchio UNI ai

prodotti conformi alle norme dell'ente.

Tramite questi organismi è possibile ottenere una certificazione di qualità.

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Il sistema di qualità è formato da un comitato nazionale che detiene il marchio depositato e che

sovrintende alla certificazione di conformità del prodotto e alla certificazione dell'impresa.

In realtà il marchio rappresenta una dichiarazione di conformità al primo livello di qualità

(standard) e ne esistono due tipi: nazionale e regionale. Solo in Inghilterra ed in Spagna esistono

marchi nazionali, rispettivamente il “Food from Britain” e l”Alimentas de Espana”.

L'omologazione del marchio registrato viene fornita dal Ministero dell'Agricoltura o dalle Agenzie

che operano sotto il controllo dell'Ente Nazionale del marchio e della certificazione.

La certificazione di conformità è una dichiarazione in cui si attesta che il prodotto è conforme alle

prescrizioni riportate nel registro.

Invece, la certificazione d'impresa, viene rilasciata da un organismo accreditato, assicura al sistema

di qualità la conformità agli standard ISO 9001 ISO 9002 ISO 9003, che di fatto certifica la capacità

dell'impresa a produrre in condizioni qualitative standardizzate. Per la carne la normativa è

abbastanza varia, in quanto coinvolge diversi settori che vanno dalla produzione alla

commercializzazione degli animali, alla macellazione, alla lavorazione e stoccaggio delle carcasse

fino a coinvolgere la vendita della carne, la preparazione domestica e che in materia di sicurezza si

basano sul DL 155/97 e sul regolamento CEE 78/02 nei quali vengono riportati i principi ed i

requisiti generali di legislazione alimentare, di istituzione dell'Autorità Europea per la sicurezza

Alimentare e facilitano la rintracciabilità del prodotto anche attraverso la sua certificazione, ed

etichettatura che, con il rispetto di tutta la normativa vigente nel settore, garantiscono non solo una

maggiore sicurezza ma consentono al produttore un valore aggiunto.

E’ comunque noto che la quantità e la qualità delle produzioni animali (carni, carcasse, latte, uova

ecc.) dipende da un insieme di parametri che possono essere influenzati da:

• Fattori endogeni dell’animale come: il genotipo (specie e razza), il sesso e l’età dell’animale.

• Fattori esogeni quali: il sistema e/o tecniche di allevamento, l’alimentazione (ivi compresi i

promotori di crescita), le tecniche di trasporto del bestiame destinato al macello (carne), le modalità

di macellazione (carne), tecniche di mungitura (latte), sistema e/o tecniche di conservazione del

prodotto (, cella frigo o meno, congelamenti ecc. per carcasse) (velocità di refrigerazione a 4° C

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vale dopo la mungitura, per il latte al fine di evitare un eventuale sviluppo di colonie batteriche),

modalità e/o tecniche di preparazione gastronomiche e/o trasformazione.

Per quanto riguarda poi i fattori endogeni all’animale, basti ricordare che esistono genotipi animali

(specie) le cui femmine sono deputate principalmente alla produzione di latte (bovini di razze da

latte come la Frisona, la Bruna Alpina ecc.) destinato in parte, sia al consumo (fresco o conservato

anche con l’ausilio di additivi come BHT o pastorizzato) sia alla trasformazione come quello delle

bufale, delle pecore e/o capre che viene generalmente avviato quasi tutto alla caseificazione per la

produzione di latticini freschi (mozzarelle, fior di latte ecc) e/o stagionati (formaggi da grattugia,

provoloni, caciocavalli ecc.). Sempre tra i fattori endogeni si ricorda l’incidenza del sesso. Infatti i

maschi di qualunque specie di mammifero non producono latte, e che nelle femmine si scatena la

lattazione a seguito del parto, che avviene alla fine del periodo di gestazione che è diverso da specie

a specie; gestazione che avviene dopo la fecondazione (monta). In tutti gli animali la prima

fecondazione (monta) può avvenire, ma non sempre si pratica negli allevamenti, con la comparsa

del primo estro o calore.che segna l’inizio della pubertà della femmina in cui si verifica anche la

prima ovulazione e la femmina acquista la capacità di generare figli, ovvero, diventa feconda.

In genere negli allevamenti controllati, le femmine nonostante il raggiungimento della pubertà non

si fanno fecondare al primo estro o calore, bensì si fanno “accoppiare” allorché hanno raggiunto un

peso vivo intorno ai ¾ di quello delle femmine adulte della stessa razza.

Ovviamente l’età della pubertà varia con la specie e all’interno di questa con la razza. Infatti

esistono razze precoci, mediamente precoci e tardive. Alle prime appartengono quelle razze

altamente produttive ed opportunamente selezionate, alle ultime in genere quelle autoctone e/o

selvatiche.

Si deve ricordare che la quantità e la qualità delle produzioni animali (carne, latte e uova) devono

essere perseguiti contemporaneamente in quanto coinvolgono gli stessi soggetti (consumatori,

trasformatori e lo stesso mercato) perché solo garantendo una solida produzione di ottima qualità, si

favorisce non solo il mercato e l’economia delle imprese agro-zootecniche ma anche l’industria di

trasformazione, poiché con materie prime di alta qualità e di sicuro approvvigionamento territoriale

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(riduzione delle spese di trasporto) si possono produrre prodotti trasformati di altrettanta qualità

legandoli indissolubilmente al territorio di origine, al genotipo animale e al sistema di produzione.

In ogni caso ricordiamoci che ogni genotipo animale (specie o razza) è caratterizzata, ovvero porta

scritto nel suo DNA le sue capacità produttive come: i pesi vivi alle età tipiche, la sua

conformazione somatica, la capacità di conversione alimentare, le rese di macellazione, la

composizione in tagli delle carcasse, il rapporto magro, grasso e osso, la capacità quantitativa e

qualitativa di produzione del latte, ed una miriade di parametri di qualità come quelli fisici (pH,

colore, ecc.) chimici generali e speciali (% acqua, Proteine, grassi, ceneri, minerali, acidi grassi

ecc.) organolettici e sensoriali (parametri apprezzabili con tatto, vista, gusto ecc.)

1.2. Parametri quantitativi: Tra i parametri quantitativi per quanto riguarda la produzione della carne,

figura l’Indice di Conversione Alimentare (I.C.A) che rappresenta la capacità intrinseca

dell’animale a convertire l’alimento (dieta e/o razione) in massa corporea (peso vivo) ed è dato dal

rapporto tra il consumo medio giornaliero di alimento (C.M.G.A.) (espresso in Kg di sostanza

secca, di unità foraggere ecc.) e l’incremento medio giornaliero del peso vivo (I.M.G.) ovvero

I.C.A.= C.M.G.A./ I.M.G. ovviamente quanto più basso è l’ I.C.A., tanto più è elevata la capacità

dell’animale di produrre carne (massa corporea) per unità di alimento. Tale concetto, ovviamente

può essere traslato alla produzione del latte e delle uova.

Si ricorda altresì che l’I.M.G rappresenta la capacità dell’animale ad incrementare più o meno

velocemente il proprio peso vivo. Viene calcolato come rapporto tra la differenza di peso vivo tra

due pesate fatte in due periodi di vita successiva ed il periodo in giorni considerato, generalmente

di 30 giorni (es. P1 = peso inizio mese, P2 = peso fine mese) per cui I.M.G = P2-P1/ 30 (30 = giorni

del mese). Nel caso in cui l’ I.M.G per necessità dovesse essere espresso per l’intero periodo di

osservazione (es periodo di ingrasso, periodo nascita-macellazione ecc.) è sufficiente rilevare i pesi

vivi iniziali e finali, calcolare il n° dei giorni, ed applicare la precedente formula

I.M.G = Pvivo finale – Pvivo iniziale/n° giorni

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Generalmente il peso vivo viene espresso in Kg e la sua determinazione si ottiene come media

aritmetica di tre pesate effettuate al mattino e a digiuno per tre giorni consecutivi. Tale parametro

(peso vivo) alle età tipiche (nascita, svezzamento, pubertà, primo parto, prima monta, adulto,

macellazione) si identifica con la mole e rappresenta l’espressione numerica matematica della

massa dell’animale, ed è una sua caratteristica genetica, che non sempre è correlata positivamente

alla velocità di accrescimento. Infatti esistono animali di grande mole, ma che presentano una

limitata velocità di accrescimento e per questo basti pensare agli elefanti, ed animali di piccole

dimensioni ma dotati di alta velocità di accrescimento (come i brailers) cioè capaci di ottenere/

raggiungere il peso di adulti del genotipo (specie o razza) di appartenenza, in un tempo più o meno

breve. La velocità con la quale gli animali raggiungono il peso desiderato viene definita anche

precocità somatica ed è tanto più accentuata quanto più giovane è l’età di “maturazione”

dell’animale. L’incremento medio giornaliero, oltre che dal genotipo è influenzato dal sistema di

allevamento, dall’alimentazione e dal sesso.

1.3. Caratteristiche igienico sanitarie

oltre alle caratteristiche nutrizionali della carne, intese come contenuto in principi nutritivi

(proteine, energia, vitamine, grassi, oligoelementi ecc.) ed al livello in colesterolo che, sono

strettamente dipendenti dal genotipo (specie, razza), a quelle tecnologiche come il pH che può

normalmente oscillare tra 5,4 e 5,8 a cui è strettamente legata la capacità di ritenzione idrica, ed a

quelle organolettiche intese come l'insieme delle proprietà della carne percepibili dal consumatore,

è necessario fare riferimento anche a quelle igieniche-sanitarie, poiché non esiste qualità senza

"sanità" del prodotto. Dette caratteristiche sono determinate da un insieme di microrganismi capaci

di alterare le carni allorquando trovano un ambiente favorevole con un pH tendente alla neutralità

e/o una temperatura di conservazione non idonea (alta). Questi microrganismi sono per la

stragrande maggioranza batteri che per semplicità li suddividiamo in 3 gruppi:

a) Termofili quelli che si sviluppo una temperatura tra i 40 e 60 °C

b) Mesofili quelli che trovano il migliore sviluppo tra 20 e 40 °C

c) Psicrofili quelli che prosperano tra -2 e -7 °C

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In generale con alcuni accorgimenti si possono contenere e/o prevenire variazioni negative della

salubrità delle carni, tra questi è utile ricordare:

a) un rapido abbassamento della temperatura nelle fasi immediatamente dopo la macellazione

(rapido passaggio nelle celle frigo).

b) un buon ingrassamento dell'animale da macellare poiché il grasso della carcassa, riducendo

l'acqua della carne, è in grado di contrastare lo sviluppo batterico.

c) un corretto finissaggio (buon ingrassamento del soggetto) favorisce un'abbondante accumulo di

glicogeno muscolare da cui dipende l'abbassamento del pH intorno a valori di 5,4-5,7 nelle prime 6

ore dalla macellazione.

d) A queste indicazioni di macellazione, per prevenire contaminazioni dovute a residui alimentari

e/o fecali capaci poi di controllare lo sviluppo di colonie batteriche, è necessario che gli animali

restino a digiuno per 12-24-48 ore (stallatura) prima di essere macellati.

e) evitare stress premacellazione che oltre ad essere causa di carni D. F. D. Aumenta la permeabilità

dell'intestino indi la possibilità dei batteri di entrare in circolazione e quindi nei muscoli.

f) Dissanguare (per quanto possibile) completamente e gradualmente l'animale, poiché anche

minime presenze di sangue nei muscoli rallenta l'abbassamento della loro temperatura e nel

contempo rappresenta un'eccellente substrato per la crescita batterica.

g) Conservare correttamente la carcassa ricordando che una buona refrigerazione richiede una

temperatura da 0 a 4 °C ed un’umidità intorno al 10-15% (Paganini e Serafini 2006).

Si deve ricordare che nella carne sono sempre presenti dei microrganismi come clostridi, penicilli e

lieviti che possono sopravvivere a basse temperature, e che alte umidità possono favorire la crescita

di miceti e batteri, capaci di alterarne le caratteristiche. Infatti il Pseudomonas putrescens

attaccando la mioglobina, sviluppa "sulfoemoglobina" che porta al cattivo odore e dal colore

verdastro della carne.

Le principali alterazioni che si verificano a carico della carne dovute ad errori operativi sono quelle

che si hanno a carico delle proteine che adopera degli enzimi (proteasi) del tessuto muscolare sono

scisse in peptidi, i quali, sotto l'azione delle peptidasi sono scisse in aminoacidi. Questi ultimi in

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opportune condizioni possono subire l'attacco batterico (soprattutto dai clostridi e dai

Pseudomonas) sia per decarbossilazione, sia per deaminazione. La decarbossilazione, liberando il

gruppo COOH porta alla produzione di CO2 ma lascia legato alla catena alifatica il gruppo

amminico con formazione della corrispondente ammina (R-NH2) responsabile del cattivo odore. I

clostridi ed il Pseudomonas trasformano l’ornitina in putrescina e l'istidina in istamina a cui segue

la produzione di indolo, scatolo, H2S [(NH4)2 S] responsabili dell'odore nauseabondo delle carni

putride.

A seguito poi della deaminazione che libera il gruppo-NH2 (NH3), il restante radicale (dell’ex

aminoacido alifatico e/o aromatico) dà origine ad acidi alifatici (come l'acido lattico) responsabile

dell'acidificazione della carne. Molto spesso però, le muffe portano ad una carne di colore scuro, i

lieviti conferiscono una tonalità giallo-arancione ed i lattobacilli quali responsabili di processi

ossidativi portano verso un colore verde mentre di una certa fluorescenza del prodotto sono

responsabili i fotobatteri. Tutte queste alterazioni dovute sicuramente a procedimenti operativi di

macellazione, stoccaggio e trattamento delle carcasse e delle carni, rendono questo prodotto

inservibile per scopi alimentari poiché dannosi alla salute umana. In realtà, oggigiorno a parte gli

accorgimenti operativi a cui si ricorre durante le fasi di filiera, esistono altri che prevedono

trattamenti delle carni con conservanti quali nitriti, BHT, BHA, agenti chelanti, TBHQ ecc., oppure

la somministrazione in vita durante la fase di finissaggio e/o nel periodo immediatamente prima

della macellazione di sostanze antiossidanti come la vitamina E (1500 UI/d nei bovini) o di glicole

(500 ml/capo/d). La prima, utilizzata nel finissaggio, e capace non solo di prevenire fenomeni

ossidativi delle carni, ma anche di migliorare la stabilità degli acidi grassi insaturi (mono e poli

insaturi) ed i parametri correlati alla ritenzione idrica. Il secondo (glicole) somministrato il giorno

(sera) prima della macellazione, portando ad un aumento ematico di glucosio, e a un limitato calo di

glicogeno dei muscoli porta di fatto ad una ottimale riduzione del pH, di cui è nota l'influenza su

alcuni parametri di qualità delle carni. Il glicole riesce a migliorare anche gli indici a* del rosso, b*

del giallo ed L* della luminosità dal 5º al 6º giorno di conservazione. Il tutto senza alcuna

variazione sulle altre caratteristiche nutrizionali ed organolettiche della carne. Per cui, l'utilizzo di

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composti gluconeogenetici nella fase/i antecedente la macellazione sarebbe una strategia alimentare

da considerare allorché si allevano genotipi animali di “temperamento” ovvero soggetti ad una

rapida diminuzione del glicogeno muscolare come quelli autoctoni e/o semi selvatici.

1.3.a.TBARS (sostanze reattive dell'acido tiobarbiturico) e COPS (prodotti di ossidazione del

colesterolo)

In genere, le carni ad alto contenuto in acidi grassi insaturi e di poliinsaturi in particolare sono

certamente più sensibili alle alterazioni, poiché in condizioni ambientali di conservazione e/o di

stoccaggio errate dagli agenti atmosferici con processi autocatalitici mediati dai radicali liberi

vengono trasformati in ossiacidi, idracidi con formazione di aldeidi, chetoni e alcoli, che incidono

negativamente sul colore, sulla consistenza e sul valore nutritivo nonché sulla sicurezza igienico

sanitario del prodotto. Per cui, i fosfolipidi delle carni, a causa della loro alta insaturazione sono

particolarmente sensibili ai processi ossidativi da cui derivano diversi composti che reagiscono con

l'acido tiobarbiturico come la malondialdeide dando origine ad una reazione cromatica la cui

intensità di colore viene usata per valutare il grado di ossidazione dei lipidi. La lettura finale fatta a

mezzo di spettrofotometro si esprime in TBARS (sostanze reattive dell'acido tiobarbiturico) ed

indica il grado di ossidazione del grasso della carne.

In realtà i processi ossidativi delle carni sono favoriti da quelli di lavorazione (disossamento,

macinazione, cottura, esposizione all'aria in condizioni non ottimali), che manomettono di fatto

l'organizzazione cellulare in alcune parti dei muscoli favorendo così l'azione di agenti pro-ossidanti

con gli acidi grassi insaturi. Infatti il Fe liberato dalla mioglobina durante la cottura e/o da altri

trattamenti e gli enzimi citocromici mitocondriali rilasciati durante la macinazione catalizzano

l'ossidazione dei grassi, fenomeni questi che continuano velocemente con produzione di composti

riscontrabili in tutti tipi i di carne sia riscaldata sia macinata. Questo fenomeno viene detto WOF

(Warner Over Flavour) e viene favorito anche sia dalla giunta di NaCl (cloruro di sodio o sale da

cucina), sia dalla conservazione in atmosfera modificata (80% di O2 e 20% di CO2) (Lanari et al.,

1995a citato da Paganini e Serafini 2006).

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Oltre alla TBARS, oggigiorno particolare attenzione si presta alla presenza di molecole derivanti

dall'ossidazione del colesterolo (COPS o prodotti di ossidazione del colesterolo) poiché questa

molecola i cui riflessi sulla salute umana sono alquanto noti è un normale componente del doppio

strato lipidico (lipoproteine) delle membrane cellulari dalla cui ossidazione derivano il 17-

chetocolesterolo e quelli più tossici come il 25-idrossicolesterolo e il colestanetriolo (Pariangvai et

al; 1995 citati da Paganini e Serafini 2006) accusati di promuovere quegli eventi che sviluppano le

lesioni aterosclerotiche. La formazione dei COPS dipende dal tipo di cottura. Infatti la bollitura, un

prolungato tempo di frittura o la cottura in forno a microonde, portano alla formazione di 20-

idrossicolesterolo, di colestanetriolo e di colesterolo α-epossido. (Stainberg et al; 1989 citati da

Paganini e Serafini 2006).

Inoltre dal grado di ossidazione della mioglobina dipende il colore delle carni ed in particolare del

colore rosso-porpora che la carne assume dopo la macellazione. Quando poi la mioglobina si ossida

in modo reversibile in ossi-mioglobina ove il Fe2+ è in forma ridotta, il colore diventa rosso

brillante, mentre quando il ferro del gruppo eme a seguito dell'esaurimento degli altri substrati

ossidabili si ossida a Fe3+ il colore diventa rosso scuro-marrone dovuto alla presenza di

metamioglobina che può reagire con l’H2O2 endogena con formazione del relativo complesso H2O2-

metamioglobina attiva capace di catalizzare l'ossidazione dei lipidi.

Come detto in precedenza l'ossidazione delle carni viene inibita da nitriti, dalle molecole di metalli

chelanti e dagli antiossidanti sintetici (BHT, BHA ecc.,) il cui impiego è sempre più limitato,

mentre, trova sempre maggiore diffusione l'uso di molecole naturali quali la vitamina E,

(tocoferolo), C (acido ascorbico), A (β-caroteni), glutatione, carnosina, omocarnosina e anserina. È

necessario ricordare però che gli animali vivi sono dotati di un sistema difensivo contro i perossidi.

Di questo sistema fanno parte la superossido dismutasi, la glutatione perossidasi, presenti nel citosol

e nella matrice mitocondriale e la ceruplasmina e la transferrina del plasma cellulare. Tale sistema

anti ossidazione diventa inefficace e/o insufficiente sia quando la dieta dell'animale contiene alti

livelli di perossidi, sia dopo la morte dell'animale, sia in soggetti stress-sensibili a causa dell'azione

di radicali liberi e del passaggio della creatina chinasi e piruvato chinasi dai tessuti al plasma dovuto

14
al danneggiamento delle membrane cellulari (Buckley et al., 1995; Duthie et al., 1989 tutti citati da

Paganini e Serafini 2006).

1.3.b. Puzza d'ossa

La "puzza d’osso" rappresenta una profonda alterazione delle masse muscolari più sviluppate come

quelle delle cosce dei bovini e forse dei suini (prosciutti), caratterizzati da un insolito e sgradevole

odore e da una colorazione grigio-bruno-verdastro dei muscoli vicino all'articolazione coxo-

femorale, ed in particolare il semimembranoso, definita "bone stink” o "sour round". La "puzza

d’osso" non è dovuta all'azione proteolitica dei clostridi o dei pseudomonas e si distingue da questi

per un pH moderato e per l'odore caratteristico. Trattasi di una anomalia quasi sempre stagionale,

manifestandosi frequentemente nelle stagioni calde (estate, primavera) e quasi ma in quelle fredde

(tardo autunno-inverno) e che rende le carni poco o non commerciabili anche se non pericolose dal

lato sanitario. Diversi autori concordano nel fatto che detta anomalia si verifica quando:

a) alla macellazione l'animale e in stato di stress eccitativo-emotivo

b) il livello di acido propionico ematico supera quelli di norma

c) si ha un ritardo di refrigerazione post-mortem della carcassa e dei muscoli profondi

d) quando i muscoli interessati all'anomalia contengono alte percentuali di acidi grassi ed un

limitato livello di substrati glucidi

e) forte abbassamento dei livelli glucidi ascrivibili allo stato di stress

Vitamina E e suoi effetti sulla qualità della carne

L'interesse verso la vitamina E, quale antiossidante, deriva dal fatto che è una vitamina liposolubile

che si deposita nelle membrane biologiche ove svolge la sua azione di contrasto ai radicali liberi,

proteggendo così fosfolipidi di membrana dall'ossidazione e mantenendo inalterate le funzioni

biologiche. Si precisa che detta vitamina non è sintetizzabile dall'organismo animale per cui esso

deve assumerla attraverso l'alimentazione a cui si aggiunge sotto forma di α toferil-acetato (oleoso e

giallo) o di α-tocoferil-succinato (granuloso e bianco) e/o con prodotti più resistenti ai fenomeni

ossidativi. L’estere della vitamina E (α-tocoferil-acetato e α-tocoferil-succinato), una volta giunto

nel tenue e/o nel digiuno a seguito dell'azione delle esterasi si libera l’α-tocoferolo che passa nel

15
sistema linfatico dove si lega ai chilocromi, trasferito nel circuito ematico e trasportato dalle

lipoproteine ai tessuti, infatti quando le lipoproteine ematiche di trasporto si ossidano, i prodotti

derivanti si depositano sulle pareti dei vasi sanguinei ove formano le placche sclerotiche.

Ovviamente per ottenere significativi risultati circa l'accumulo nei tessuti di questa vitamina (α-

tocoferolo) è necessaria somministrarla per un certo periodo di tempo più o meno lungo che è in

funzione del genotipo (specie e/o razza) nonché della concentrazione nella razione. Una carenza di

questa vitamina post-mortem nei muscoli può essere causato da grassi ossidati presenti nella razione

che di fatto rendono la carne più sensibile ai processi ossidativi. La carenza può essere ascritta alla

presenza di alimenti e grassi non freschi della razione, che possono portare ad un minore

assorbimento di α-tocoferolo dovuto forse ad un incompleta idrolisi dell’α-tocoferil-acetato, oppure

ad una probabile degradazione nell'intestino dell’α-tocoferolo dovuta ai processi di ossidazione dei

grassi. Per questo, normalmente risulta necessario una significativa integrazione alimentare di

questa vitamina. La vitamina E, agisce sui lipidi neutralizzando i radicali liberi (superossidi,

idroperossidi, e idrossilici) che si formano a seguito dell'attività dei batteri neutrofili per il

metabolismo dell’O2, per l'attività di respirazione dei fagociti, per il metabolismo dell'acido

arachidonico che insieme ad agenti esterni raggi U. V., nitriti e nitrati fungono da catalizzatori per

l'innesco e la propagazione delle ossidazioni.

L'azione antiperossidativa della vitamina E dei grassi è potenziata dalla vitamina C, che libera la E

legata ai radicali (radicalica inattiva) rendendola di nuovo attiva e sostituendosi ad essa.

Vit E-radicale + Vit C→ L Vit E (libera) + Vit C-radicale

La Vit C-radicale a sua volta torna attiva (ridotta) ad opera di un sistema ossido-riduttivo NADH+

dipendente.

L'ossidazione dei grassi oltre che dai radicali liberi, dall'alta concentrazione di insaturi e dal Fe non

proteico è favorita dall'incremento della temperatura.

I primi ad ossidarsi sono gli fosfolipidi dei microsomi e dei mitocondri, che conferiscono alla carne

cotta o cruda il caratteristico odore di rancido.

16
La vitamina E legandosi con la parte polare dei fosfolipidi della membrana cellulare, impedisce ai

radicali liberi (OH-) di rompere i doppi legami degli acidi grassi insaturi e poliinsaturi che si

compongono, evitando così la distruzione della cellula.

L'azione antiossidante della vitamina E è svolta anche a livello delle lipoproteine ematiche

principale via di trasporto del colesterolo, le quali ossidandosi danno origine alle lipoproteine a

bassa densità (LDL) che depositandosi sulla parete dei vasi formano le placche eritomatose con

conseguenti disturbi cardiovascolari. Successivamente i radicali liberi derivanti dall'ossidazione

delle lipoproteine ossidano il colesterolo.

Comunque, l'azione della vitamina E quale antiossidante si estende a tutti i lipidi di membrana

aumentando la loro stabilità soprattutto quando essi sono sottoposti all'azione della H2O2-

metamioglobina (Paganini e Serafini 2006)

Per una migliore e significativa azione antiossidante a carico della carne, è utile somministrare per

via alimentare la vitamina E all'animale. L'azione protettiva di questa vitamina inerente il colore

delle carni, varia con il livello di integrazione e con il tipo di muscolo, la cui composizione acidica

varia con il tipo di dieta. Una buona integrazione della dieta con α-tocoferil acetato riduce i COPS il

TBARS e le “drip-losses”. La riduzione delle “drip-losses” possono probabilmente essere ascritte

alla protezione data alla membrana delle cellule sia verso il congelamento che migliora la sua

permeabilità sia verso l'azione delle fosfolipasi, ove le perdite dei fosfolipidi di membrana, dovuta

all'azione degli enzimi anzi citati, portano ad una sostanziale riduzione della permeabilità e fluidità,

con conseguente aumento di questo parametro. La vitamina E, inoltre concorre a mantenere stabile

il colore della carne, a contenere i perossidi nei microsomi e nei mitocondri ed il TBARS, alla cui

riduzione e forse legato la “drip-losses” poiché le TBARS legandosi al gruppo -NH2 libero delle

proteine riduce la capacità di trattenere l'acqua (Paganini e Serafini 2006).

1.3.c. L'acido linoleico coniugato (CLA) e sue azioni

Come già riferito in precedenza, la qualità dei prodotti alimentari ed in particolare per quelli di

origine animale è un'informazione essenziale da fornire al consumatore, al fine di evitare presunte

ed ingiustificate convinzioni su possibili azioni negative sulla salute. Per quanto concerne poi le

17
produzioni bovine (carne latte), queste risultano particolarmente ricche di acido bovinico

componente essenziale dell'acido linoleico coniugato (CLA) la cui concentrazione aumenta con

l'alimentazione verde e di cui si stanno studiando le azioni sulla salute umana, sull’aumento della

proteina corporea, sulla riduzione dei depositi adiposi, sulle funzioni immunitarie, su quelle

antiossidanti, anticancro e sulla contrazione del livello di colesterolo.

I CLA comprendono gli isomeri (posizionali e geometrici) dell'acido linoleico coniugato (C18:2

acido octadecadienico), che comprende per circa il 90% il cis-9 trans-11 del grasso dei ruminanti.

Tale isomero nei grassi vegetali non supera il 50% dei CLA totali. La principale caratteristica del

CLA rispetto al linoleico è quello di avere una struttura che pur avendo legami insaturi, non subisce

significativi e negativi cali delle attività biochimico-fisiologiche durante i processi di cottura e/o di

trasformazioni con ovvi vantaggi sulle sue proprietà biologiche.

In realtà, gli effetti del CLA presenti nei prodotti animali (carne e/o latte) sulla salute possono

essere raggruppati come:

a) anti mutageno naturale

b) inibitore dello sviluppo tumorale di alcuni organi come quelli della cute e della mammella

c) preventivo sullo sviluppo del diabete mellito

d) prevenzione sull’aterosclerosi

f) stimolatore del sistema immunitario

g) contenimento e/o diminuzione del grasso nei tessuti adiposi

I CLA sono presenti in percentuali significativamente alte nei prodotti di origine animale (latte e

carne) ed in particolare dei ruminanti, i quali sono sintetizzati nel rumine a partire dai loro

precursori. La loro sintesi è massima quando gli animali si alimentano di verde e/o nei pascoli ricchi

di essenze vegetali ad alto contenuto di PUFA (C 18: 2; C 18: 3) esterificati sotto forma di glicolipidi,

fosfolipidi e flavonoidi. Ovviamente la composizione acidica varia con la famiglia, con la specie

botanica e con lo stato fenologico della pianta che comunque sono sempre ricche di C 18: 2; C 18: 3,

mentre i semi oleosi di interesse zootecnico (lino, girasole, arachidi, soja, ecc.), contengono

18
trigliceridi ricchi di C 18: 3 ed di C 18:1 cis-9 che, nel rumine subiscono l'idrolisi da parte delle lipasi

microbiche e la degradazione degli acidi grassi insaturi liberi.

I processi di bio degradazione degli acidi grassi insaturi sono operati da 2 gruppi di batteri ruminali,

il primo (A) di cui fanno parte i Butirrovibrio fibrisolvens che trasformano il C 18: 2 e l’α linolenico

in acido vaccenico (C 18:1 trans-11), il secondo che comprende anche i Fusocillus T 344 che

dall'acido vaccinico portano allo stearico.

Questi processi si basano su 2 passaggi, il primo grazie all'azione della “linoleato isomerasi”

presente sulla membrana cellulare, isomerizza il C 18: 2 (acido linoleico) in CLA; il secondo è una

riduzione del CLA in acido vaccenico. Con la biodegradazione, l'acido grasso insaturo perde parte

dei doppi legami (somma di H2) porta alla sua di saturazione. Qualunque sia la partenza C 18: 2 o

C18: 3 il prodotto intermedio è comunque l'acido vaccenico a condizione però che il pH ruminale non

scenda al di sotto di certi valori.

Il fatto poi che i prodotti alimentari derivati da animali (erbivori ruminanti) alimentati al pascolo

presentino alti valori di CLA rispetto a quelli allevati a stalla ed alimentati con razioni

prevalentemente secche, è ascrivibile di sicuro al procedimento di fienaggione delle piante erbacee,

durante il quale si verificano sia perdite di alte quantità di liquidi cellulari (acqua ecc.), sia

perossidazioni dei PUFA per effetto della luce e dell'aria (perdite indirette). Negli insilati poi sono i

processi di fermentazione e respirazione a ridurre il livello delle sostanze solubili diminuendo il

substrato di attacco alla microflora ruminale per la produzione del CLA e dei loro precursori.

A titolo meramente esemplificativo si riportano il contenuto in CLA di alcuni alimenti di origine

animale.

19
Tabella A. Livelli di CLA in alimenti di origine animale (da Paganini M., Serafini C. 2006-).

Alimenti CLA (cis-9-trans-11) (mg/g di grasso)

Carni di:

manzo 2,30

vitello 2,27
agnello
5,15

suino 0,49

pollo 0,76

Latte e derivati:

latte bovino 4,49

burro 0,30

mozzarella bovina 1,16

mozzarella di bufala 1,28

taleggio 1,44

gorgonzola 1,71

parmigiano reggiano 1,83

grana padano 1,45

latte ovino inverno 14,33

latte ovino primavera 13,48

formaggio vernotico 14,20

formaggio primaverile 12,87

olio vegetale 0,30

20
Cap 2. LA CARCASSA E LA CARNE

Raggiunto il tempo e/o l’età di macellazione ovvero quando l’animale viene giudicato maturo per

peso vivo e/o perché a fine carriera, esso, viene portato al macello, abbattuto, prima mediante una

scossa elettrica, e/o con un colpo di pistola a capsula cava alla fronte (stordimento) immediatamente

sospeso per gli arti posteriori testa in giù, a cui segue il taglio delle giugulari per la fuoriuscita del

sangue (dissanguamento), il quale viene convogliato in appositi raccoglitori ed avviato allo

smaltimento. Il sangue raccolto può essere destinato alla produzione di farine e/o di fertilizzanti per

l’agricoltura. Una volta e non molti anni addietro, fino agli anni 50 – 60, in alcune comunità , quello

di alcune specie, ed in particolare quello dei capretti, degli agnelli e dei suini veniva destinato

all’alimentazione umana. Il sangue dei giovani ruminanti durante il dissanguamento veniva fatto

coagulare prima e bollito poi. Successivamente il coagulo veniva tagliato in pezzi e soffritto con

aglio – olio peperoncino e sale q.b.: piatto alquanto povero dal lato nutrizionale. Quello dei suini e

in particolar modo presso le famiglie rurali contadine del Sud-Italia veniva utilizzato per la

preparazione di dolci particolari (sanguinaccio). Per questo durante il dissanguamento dell’animale

il sangue veniva defibrinato (si agitava con mano e/o cucchiai in legno), e successivamente cotto

molto lentamente (3-6 ore) in teglie di terra cotta con l’aggiunta di spezie (cannella, pepe, chiodi di

garofano), cioccolato abbondante e zucchero (1:1), la cottura procedeva fino ad ottenere una crema,

che serviva per preparare le sfogliatelle di sanguinaccio dolce tipico del carnevale e delle festività

pasquali.

In generale, dall’animale, una volta morto e dissanguato vengono tolte la pelle (scuoiatura nei

ruminanti), o (le setole, spellatura nei suini) o (le penne, spennatura negli avicoli), i visceri

addominali (di cui fanno parte l’intestino, lo/gli stomaco/i e la vescica) il fegato, quelli toracici,

come il cuore, i polmoni e la trachea che, nell’insieme al fegato assumono il nome di coratella e/o

corata. Ciò che resta rappresenta la carcassa. In realtà esistono diversi tipi di carcassa ed è in

relazione non solo al genotipo animale, ma in alcuni casi dipende dagli usi e consuetudini locali.

Tra le più note, ed adottate non solo dall’associazione Scientifica di Produzione Animale (ASPA)

ma riconosciuta sia a livello Nazionale, sia Europeo e mondiale, si ricorda:

21
a) la carcassa di tipo bovino: Per ottenere questo tipo di carcassa, dall’animale morto, dissanguato,

scuoiato ed eviscerato, vengono asportate la testa a livello dell’articolazione delle vertebre cervicali

atlante-epistrofeo, gli zoccoli e gli stinchi (ginocchio zootecnico per gli anteriori e calcagno per i

posteriori). Resta a far parte della carcassa parte della coda (destinata a diventare, poi, ossi buchi

per preparare un piatto alquanto povero e saporito “ la coda alla vaccinara”)

b) La carcassa di tipo suino: si ottiene allontanando, dall’animale morto e dissanguato i peli e/o

setole, mediante immersione in acqua bollente per 2-3 minuti prima, e spazzolatura poi (con

spazzole rotanti e/o raschietti a mano), i visceri toracici e addominali come nei bovini, e gli

unghietti dei piedi (scarpe). La carcassa del suino differisce da quella bovina poiché è

omnicomprensiva della pelle (cotica), della testa, e degli zampetti (utili per le preparazioni dei

famosi zamponi)

c) la carcassa di tipo ovicaprino, questo tipo particolare di carcassa così come specifica la stessa

dicitura si riferisce agli ovini e caprini ed in particolare agli agnelli e ai capretti (max di 50 – 70 gg

di età) , ed è formata dal corpo dell’animale, dissanguato, scuoiato ed eviscerato. In alcuni casi e in

particolare nei soggetti da “latte”, della carcassa fa parte la coratella (fegato, cuore, polmone e

trachea) a cui in molti casi si aggiunge il grande omento (rezza) e tutto l’intestino tenue

opportunamente svuotato (munto e/o lavato)

La coratella e l’intestino opportunamente pulito in molte zone viene usata per la preparazione degli

involtini (fascetiddi, gnummariddi ecc, espressioni dialettali che indicano lo stesso preparato

“involtino” che si ottiene avvolgendo in una parte del grande omento una lista/ listello/pezzo più o

meno grande di fegato, di cuore, di polmone, condito con giuste dosi di prezzemolo, aglio, alloro

e/o di altri aromi a secondo usi e consuetudini locali. Il tutto fermato con stuzzicadenti o legato con

l’intestino dell’animale o con filo alimentare e, successivamente cotti/arrostiti alla brace. Il sale q.b.

per questo preparato si aggiunge alla fine della cottura ovvero al momento di servirlo a tavola. La

coratella può essere preparata anche in umido e le ricette in tal senso variano a seconda degli usi e

delle consuetudini del luogo.

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d) La carcassa avicola: questa invece è priva, di sangue, delle penne, del gozzo, delle viscere,

(intestino, cuore, fegato, ventriglio), mentre contiene, le zampe, la testa il collo. Quasi sempre il

fegato il cuore e il ventriglio (quest’ultimo ben pulito) vengono recuperati e destinati alla vendita

per il consumo diretto. In alcuni casi vengono usati per preparare il soffritto, in altri casi vengono

impiegati per la preparazione di ripieni da usare per la in cucina di avicoli domestici e/o selvatici. (Il

ripieno base è così preparato: 1 parte di viscere, fegato, cuore, polmone – 1 parte di pancetta di

maiale o di guanciale o di lardo aromatico, aglio prezzemolo e/o basilico, pangrattato e formaggio,

sale q.b. a cui a seconda dei gusti possono essere aggiunti altri aromi che vanno dalla cannella allo

zenzero fino all’uva passa, il tutto ben mescolato e omogeneizzato fino ad ottenere un impasto quasi

solido, che servirà a riempire la cavità toracica ed addominale dell’avicolo da sottoporre poi a

cottura).

2.1 La resa di macellazione

Una volta ottenuta la carcassa dell’animale, entro 45’; 60’ dalla macellazione, ancora calda, va

pesata a caldo ed il relativo peso registrato su opportune schede in cui è riportata la metrica

dell’animale, il peso vivo alle età tipiche (macellazione compresa) l’azienda e/o zona di

allevamento e tutte le notizie di rintracciabilità e tracciabilità del prodotto. Una volta rilevato il peso

della carcassa a caldo (bovina o suina) essa viene divisa in due parti uguali. La divisione delle

carcasse avviene generalmente nel macello pubblico con l’ausilio di una sega elettrica. Il taglio è

effettuato in senso longitudinale, lungo la colonna vertebrale e divide la carcassa in due parti uguali

dette “mezzane”, (la somma dei pesi delle mezzene della stessa carcassa in genere corrisponde al

peso della stessa). Fatta questa operazione le mezzene vengono poste a riposare in cella frigo per 24

ore a 4° C. Il rapporto % tra il peso della carcassa a caldo e il peso vivo stallato dell’animale (tenuto

a digiuno per 24 ore) alla macellazione viene detta Resa di Macellazione (“R.M. a caldo” o

semplicemente “Resa a caldo”) e viene espressa secondo la formula:

Dopo 24 ore di refrigerazione a 4° C, le mezzene dello stesso soggetto vengono pesate e registrate.

La differenza di peso tra carcassa a caldo e quella a freddo, rappresenta il calo di refrigerazione che
23
nelle carcasse di buona qualità non deve superare il 4-5 %. Il calo di refrigerazione è l’espressione

% del rapporto tra le perdite o calo di refrigerazione ed il peso della carcassa calda, ovvero:

Questo parametro di solito è più alto nelle carcasse provenienti da giovani soggetti (lattanti) e da

quelle di animali magri e malnutriti ovvero quei soggetti non ancora maturi per la macellazione.

La resa a freddo è l’espressione del rapporto tra il peso della carcassa fredda dopo 24 ore di

refrigerazione in cella a 4° C ed il peso vivo dell’animale e generalmente a meno di errori di pesata

è sempre più bassa rispetto a quella a caldo.

In formula:

In generale le rese variano dal 45-50 % al 65-85 % (a secondo della specie, dell’età, del sesso, dello

stato nutrizionale del soggetto).

Quasi sempre, le mezzene delle carcasse dei bovini, visto le loro dimensioni o pesi alla

macellazione (che variano dai 2,5 ql nei vitelli da latte a carne bianca fino a 7-8 ql nei vitelloni da

carne o 10-15 ql nei tori o 4 – 8 ql nelle vacche) vengono divise in due parti o quarti (anteriore e

posteriore) mediante un taglio trasversale effettuato seguendo l’ultima costola a livello

dell’articolazione di questa con la relativa vertebra. Con questa operazione la mezzena viene divisa

in un quarto anteriore che comprende l’arto anteriore comprensivo della spalla (dx o sx) della metà

del collo, della colonna vertebrale, dello sterno, delle costole e dei muscoli annessi. ed un quarto

posteriore di cui fanno parte la metà della colonna vertebrale (zona lombare), il coscio e i loro

muscoli annessi e quelli relativi alla zona addominale competente. Tale operazione si effettua non

solo per comodità di maneggiare pesi più leggeri, ma anche perché nel posteriore sono concentrati i

tagli migliori.

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Nelle altre specie questa divisione non si effettua se non al banco di macelleria (come nel caso degli

ovicaprini e degli avicoli), raramente, e solo nel caso di grossi capi può essere fatta nei suini e in

particolare nei verri e nelle scrofe di fine carriera (dal peso vivo di 3 - 4 quintali).

Sempre tra i parametri quantitativi e qualitativi a livello delle carcasse è utile menzionare la loro

conformazione e la composizione % in tagli (di prima di seconda scelta e di quelli successivi). In

generale le misure più convenienti usate per la valutazione della conformazione delle carcasse sono

quelle della:

a) lunghezza del tronco rilevata dal punto mediano della faccia anteriore della vertebra atlante,

all’ultima vertebra sacrale con la prima caudale.

b) larghezza misurata a livello dei trocanteri

c) larghezza toracica massima a livello delle costole

d) lunghezza della mezzena rilevata dal punto mediano del margine craniale della 1° costale a

quella della sinfisi pubica

e) profondità toracica determinata dal margine dorsale della 5° vertebra toracica nel punto di

articolazione con la 6°, al punto mediano del margine vertebrale della penultima sternale

f) lunghezza della coscia misurata dal malleolo mediale al margine craniale della sinfisi

pubica.

Queste misurazioni possono differire di poco e essere più o meno affinate a seconda della specie

animale, e comunque sono fatte sulle carcasse intere a freddo nei bovini suini e ovicaprini (dopo

refrigerazione in cella frigo a 0 – 4° C ) e su quella delle mezzene.

Queste determinazioni metriche per la valutazione della conformazione della carcassa che è solo un

parametro di qualità, a cui segue lo stato di ingrassamento generale della stessa, la sua

composizione in tagli, e quella in magro, grasso e osso degli stessi. Sono quasi sempre preceduti

dalle misure somatiche sugli animali in vita, che in un certo qual modo danno una sicura

indicazione sul tipo morfologico di appartenenza (brachimorfi, mesomorfi, dolicomorfi, brevilinei,

longilinei, ossidativi ecc. termini usati a secondo del genotipo e/o del tipo di valutazione) e su una

25
certa presunta qualità della carcassa. Le misure somatiche comunemente eseguite e riportate nella

figura 1 per bovini e ovicaprini sono:

a) l’altezza al garrese;

b) l’altezza alla croce;

c) lunghezza della groppa, misurata come linea obliqua dalla punta dell’ala dell’ilo, al punto

caudale della tuberosità dell’ischio;

d) larghezza della groppa, misurata ai trocanteri;

e) altezza toracica, valutata dietro le spalle allo stesso livello del torace;

f) larghezza del torace, dietro alle scapole;

g) circonferenza toracica, rilevata dietro le spalle allo stesso livello della larghezza e dell’altezza

toracica;

h) lunghezza del tronco, determinata come linea obliqua della distanza tra l’articolazione scapolo

omerale e la tuberosità ischiatica.

Dette misure sono effettuate tutte con il bastone misuratore di Lydtin, eccetto la circonferenza che

viene rilevata con nastro metrico misuratore centimetrato. Le figure di seguito riportate (ASPA;

1991) rendono in modo chiaro ed eloquente i punti di rilevamento di tutte le misurazioni anzi

riportate, per i bovini, suini e ovicaprini ant-mortem e sulle carcasse.

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CARCASSE BOVINE

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CARCASSE SUINE

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CARCASSE OVI-CAPRINE

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CARCASSE EQUINE

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Composizione in tagli della mezzena

Dopo la valutazione metrica di conformazione della carcassa e della mezzena refrigerata, questa

viene ripulita e/o tolettata, ed eventualmente asportati e pesati il:

1. rene/i

2. grasso perirenale ( capsula adiposa)

3. grasso pelvico tra sacro e sinfisi pubica

4. grasso sternale (se presente, di solito sulla superficie dorsale)

5. grasso della mammella

6. diaframma (utile per particolari preparazioni alimentari).

La mezzena, una volta ripulita e tolettata dalla “base”, viene divisa in quarti (anteriore e posteriore)

effettuando un taglio tra l’ultima vertebra dorsale e la prima lombare, seguendo poi il margine

caudale della costola fluttuante fino al margine vertebrale per separare le parti o “quarti”.(Fig.3)

I quarti a secondo della specie vengono suddivisi in tagli. Tale suddivisione varia però con la specie

animale, così come esplicitato dalle figure riportate, e comunque adottate a livello nazionale e

riportate dall’ASPA (1991).

Molto brevemente si ricorda che le mezzene degli animali vengono scomposte in tagli che non

sempre sono uguali per tutte le specie, infatti la mezzena bovina o quella equina (fig. 3) viene prima

divisa in due “quarti” l’anteriore e il posteriore, tramite un taglio trasversale a livello della

tredicesima vertebra. Operazione, questa che può essere fatta anche per i suini e gli ovicaprini.

Quella bovina una volta divisa in quarti, viene scomposta in tagli.

Al quarto anteriore fanno parte, i tagli di: spalla, avambraccio, collo, bistecche 1-6; punta di petto;

bistecche 7-13; quest’ultimi due detti anche costate. (Fig. 4 e 5)

Il quarto posteriore comprende i tagli di: lombata, addominale (o pancettone), coscio, e gamba

distale (gambone).

I tagli una volta separati e pesati, vengono sezionati in magro, osso, grasso (distinto questo in

sottocutaneo e peri-intramuscolare) ed altri tessuti (tendini, legamenti, vasi sanguigni ecc.) tutto

secondo le indicazioni C.E.E. (Williams e Bergstrom 1980). A termine di questa operazione le

42
diverse frazioni vengono pesate ed espresse in termini % per la valutazione della carcassa, ed avere

così precise indicazioni sia sulla carnosità della stessa, sia sulla sua adiposità. A livello scientifico i

muscoli vengono indicati con il nome latino (es. longissimus dorsi, lumborum; ecc), mentre a

livello commerciale è in uso una terminologia che può variare da regione a regione di cui si riporta

la più comune.

TAGLI O PEZZI DEL COSCIO e/o DEL QUARTO POSTERIORE

TAGLIO -PEZZO USO

1 Giretto posteriore Ossobuco e bollito

2 Campanello Arrosto, fettine, scaloppe

3 Noce Fettine, arrosto, brasato, scaloppe

4 Sottofesa Fettine, cotolette, stracotti, roast-beef

5 Girello Fettine, arrosto, carpaccio, roast-beef

6 Scamone Scaloppe, arrosti

7 Fesa Fettine, scaloppine

8 Lombata Fettine, fiorentine

9 Filetto Fettine alla griglia

10 Pancia o panettone Bollito, arrotolato, macinato

TAGLI O PEZZI DEL QUARTO ANTERIORE

TAGLIO -PEZZO USO

11 Petto Bollito, spezzatino

12 Girello di spalla o cappello di prete Bollito, brasato, arrosto

13 Copertina di spalla Arrosto, bollito, fettine

14 Brione o muscolo di spalla Spezzatino, brasato, bollito

15 Geretto anteriore Spezzatino, bollito, osso buco

16 Fesone di spalla Stufato, fettine, arrosto, scaloppe, pizzaiola

43
17 Sottospalla collo Bollito, fettine, arrosto, pizzaiola

Una volta che la mezzena è stata scomposta in “tagli”, questi vengono prima pesati e poi suddivisi

in magro grasso ed osso e la loro composizione espressa come % di detti tessuti.

2.2 VALUTAZIONE DELLE CARCASSE

A) Bovine

Una volta effettuate tutte le misurazioni, si passa poi alla valutazione della carcassa, fatta in

relazione alla conformazione, allo stato di ingrassamento ed alla categoria di appartenenza. La

valutazione di conformazione in generale, avviene esprimendo un giudizio sui profili muscolari,

osservando la mezzena da 8 diverse posizioni (rappresentate sugli standard fotografici dei 15

punteggi possibili), così come riportato dall’ASPA (ISMEA – Roma 1991) a cui si rimanda.

La valutazione dello stato di ingrassamento della carcassa assume un’importanza notevole

soprattutto ai fini della sua commerciabilità, poiché lo stato di ingrassamento ha un intervallo o

“range” di variazione molto ampio perché dipende da un insieme di fattori endogeni ed esogeni

all’animale. Comunque si può stimare che la % di grasso nelle carcasse bovine possa variare dal 30

al 40 %. Lo stato di ingrassamento viene espresso in 5 classi; ciascuna comprende 3 sottoclassi, per

un totale di 15 espressioni di punteggio possibili.

In questa operazione, il valutatore valuta/esamina: 1) il grasso di copertura in quattro zone ovvero:

all’arto posteriore, al dorso, alle pareti toracico addominali, all’arto anteriore e regione cervicale

(collo); 2) il grasso interno come quello del bacino, perirenale, delle fasce addominali, toracico e

diaframmatici, costale, intercostale, pettorale (iniziale) e toracico; 3) i depositi cavitari. Alla fine

della valutazione si assegna il punteggio relativo così come riportato dall’ASPA (ISMEA - 1991) a

cui si rimanda, e le carcasse vengono catalogate in 5 possibili classi:

Classe 1 Questa raggruppa le carcasse molto magre, emaciate, i cui muscoli della coscia, del lombo

sono completamente scoperti di grasso e sono separati tra loro da sottili strati di tessuto connettivo.

Alla visita veterinaria vengono destinate solo all’industria e non al consumo diretto, in quanto le

44
carni risulterebbero “tigliose, stoppose” e/o dure, poco succose e scarsamente saporite (una volta

definite di bassa macelleria).

Classe 2, A questa classe appartengono tutte quelle carcasse sui cui muscoli si nota un sottile strato

di grasso (intorno a 1 – 2 mm) a livello della coscia e della regione perirenale. In generale i muscoli

sono delimitati da connettivo ampiamente infiltrato di grasso. Il taglio di spalla presenta parziale

copertura adiposa (3-6 mm alla spina scapolare) mentre il collo è ancora scoperto. Anche le

carcasse di questa classe vengono destinate all’industria (carne in scatola) (bassa macelleria oggi

non più esistente).

Classe 3 I muscoli delle carcasse di questa classe risultano quasi completamente coperti di grasso.

Nel quarto posteriore (coscio), si distinguono appena i glutei. La copertura adiposa è completa e si

estende senza interruzione, dai lombi al “trapezio” che si intravede appena. La spalla è ben ricoperta

di grasso, con infiltrazioni adipose. Lo spessore dell’adipe a livello scapolo-spinale oscilla tra i 10 e

i 15 mm. Discreti sono i depositi adiposi viscerali. I bordi delle costole presentano bande adipose.

Questa tipologia di carcasse è destinata alla macelleria per il consumo diretto ed adatta per la cucina

in umido. E’ la classe di carne più richiesta dal consumatore medio italiano.

Classe 4 A questa classe appartengono le carcasse molto grasse, di solito di provenienza estera. In

queste, i cosci e i lombi sono completamente ricoperti di grasso così come lo sterno e i fianchi,

mentre, collo ed avambraccio sono in gran parte scoperti, al contrario della spalla che risulta coperta

da uno strato di grasso che varia dai 18 ai 25 mm. Il grasso copre gli spazi intercostali superando la

faccia interna delle costole. La carne di queste carcasse, destinate generalmente al consumo diretto,

risulta quasi sempre tenera, succulenta e gustosa anche se grassa. Per questo adatta agli arrosti e per

tutte le preparazioni ove è possibile durante la cottura un certo grado di percolamento.

Classe 5 In questa classe sono raggruppate quelle carcasse eccessivamente grasse, in cui lo strato

adiposo si estende senza soluzione di contiguità per tutta la superficie, ovvero dal tendine di achille

al collo con uno spessore compreso tra i 30 e i 50 mm.

45
Inoltre, nel caso di carcasse magre o molto magre (classe 1 e 2) la valutazione di conformazione

può avvenire senza tener conto delle loro adiposità. Mentre nel caso di carcasse grasse e molto

grasse (4 e 5) lo strato adiposo di copertura partecipa in modo significativo alla definizione della

conformazione, poiché esso si somma alla carne per la definizione del “tipo o modello” di carcassa

e inciderà anche sulla carnosità delle diverse classi.

Per ulteriori approfondimenti per questi argomenti si rinvia a quanto riportato dall’ASPA (ISME.

1991)

B) Suine: Per tutte le attivtà industriali in cui viene coinvolta la carne suina e in particolar modo il

settore della trasformazione e della distribuzione nonché l’intera filiera del consumo del fresco, la

valutazione delle carcasse assume un ruolo fondamentale.

Dopo la macellazione, la divisione in mezzene delle carcasse suine e dopo i rilievi di conformazione

a caldo ed a freddo (a 4° per 24 ore in cella frigo), le mezzene vengono scomposte in tagli così

come indicato nelle figure 1 e 2. Sarebbe opportuno operare sull’intera carcassa ma per ragioni

economiche quasi sempre si opera su un certo numero di mezzene scegliendo quasi sempre quella

destra. Operazione valida purchè la divisione (fatta lungo la linea mediana della colonna vertebrale)

in mezzene della carcassa sia corretta e che le due siano di pari peso.

In generale i tagli ottenibili dalle mezzane/carcasse, (vedi foto) possono essere raggruppati in:

1) Tagli magri o carnosi di 1° scelta

2) Tagli grassi o adiposi di 2° scelta

3) Tagli a prevalente base ossea o di 3° scelta

Ai tagli di 1° scelta o carnosi appartengono quello di coscio (prosciutto), di lombata, di coppa e di

spalla.

I tagli di 2° scelta o adiposi la pancetta, il lardo, il guanciale, il petto (zona sternale)

Ai tagli di 3° scelta a prevalente base ossea appartengono la testa comprendente anche il cervello e

gli zampetti anteriore e posteriore.

In generale come base metodologica della dissezione si seguono le seguenti indicazioni:

46
1) Taglio della testa si ottiene con un taglio circolare netto e preciso lungo il collo a livello

dell’articolazione occipito-atlantoidea

2) Taglio di coscio (detto impropriamente prosciutto poiché diventa tale dopo salagione,

toelettatura e stagionatura), si ottiene distaccando la coscia dalla mezzena con taglio

parallelo alle vertebre sacrali e a metà distanza tra questa e la sinfisi ischio pubica (vedi

figura). Successivamente da questa si distacca lo zampetto a livello dell’articolazione

intertarsica. La sua base scheletrica è composta dall’ala dell’ileo, dall’ischio, dal pube, dal

femore dalla tibia, dalla rotula, dal perone e dalle prime ossa tarsiche. La parte edibile è

costituita dalle masse muscolari annesse come i muscoli pelvi-trocanteriani, quelli della

coscia, della natica e della gamba. Il coscio dopo la refrigerazione (24 ore a 4° C) si rifila o

toiletta allontanando insieme all’articolazione coxo-femorale (fatta dalla porzione anteriore

dell’ischio) parte dei muscoli adiacenti e sfilacciati, il grasso in eccesso, parte della cotica e

del grasso di copertura.

3) Taglio di lombata o carrè, ha come base scheletrica la parte lombare della colonna vertebrale

(dalla 7° alla 1° caudale) e l’osso sacro, e comprende tutti i muscoli dorso lombari superiori,

inferiori e gli intercostali.

4) Taglio di coppa, comprende tutte le vertebre cervicali, quelle dorsali con le rispettive coste

costole e la parte dello sterno corrispondente a tutti i muscoli del collo, tutti gli intercostali e

la parte terminale dei muscoli lungo dorsali (longissimus dorsi). La cotica e il relativo grasso

di copertura vengono sempre considerati separatamente.

5) Il taglio di spalla è formato dall’arto anteriore al completo. esso comprende i muscoli delle

regioni della spalla, dell’avambraccio, del braccio, le relative ossa, la cotica e il grasso

sottocutaneo.

6) Il taglio di pancetta è intermedio tra i tagli carnosi e quelli adiposi e comprende la zona

addominale vertebrale della carcassa, quella retrosternale ed inguinale. si ottiene

separandola con un taglio parallelo tra la linea dorso lombare e l’arto. E’ fatto dalla cotica,

dal relativo adipe sottocutaneo e dai tagli dei muscoli addominali. Prima di metterla in

47
trasformazione si rifila, si squadra, e si toiletta, si allontanano le costole (residui) e la cotica.

Successivamente viene sottoposta per un determinato periodo di tempo a salagione (24 - 76

ore a seconda dello spessore) e successiva stagionatura. Prima della vendita, viene

confezionata in contenitori sottovuoto con l’aggiunta o meno di conservanti (antiossidanti

della serie E250)

7) Il taglio di guanciale è formato dalla cotica, dal grasso di copertura ed eventuali infiltrazioni

muscolari, dell’area della guancia e della gola, per cui generalmente sono comprese anche le

ghiandole di questa regione, che una volta rifilato, salato e stagionato, conferiscono al

prodotto un sapore particolare rendendolo particolarmente adatto non solo al consumo tal

quale, associato a verdure ma anche per particolari “piatti” (ripieni per cacciagione e/o per la

famosa “carbonara e/o matriciana” ed altre preparazioni locali)

8) La sugna, comprendente tutto il grasso addominale e quello proveniente dalla tolettatura dei

tagli grassi ed è generalmente sottoposta a fusione per ottenere lo “strutto” tanto caro ad

alcuni pasticcieri. Questo preparato fino agli anni 60 in molte famiglie contadine di molte

regioni veniva usato in cucina in sostituzione dell’olio.

9) Il taglio di testa e quello degli zampetti, separati dal resto della carcassa fanno parte dei

cosiddetti tagli ossei, ed in un certo qual modo possono essere utilizzati direttamente in

cucina (per la preparazione della “pignata” e/o degli “zamponi”) e per la preparazione di

“gelatine” comunque per ulteriori approfondimenti in materia, si rimanda sia ai testi

specializzati in materia che a quanto riportato dall’ASPA (ISMEA 1991)

b1) Valutazione della carcassa suina, questa si basa sui parametri quantitativi, che le raggruppa in

funzione della loro composizione ed in particolare della percentuale di carne magra ottenibile. In

Italia la valutazione, per essere in linea con quella CEE la stima della quantità di carne magra va

effettuata con metodi strumentali e deve tener conto dell’esistenza nel nostro territorio di due classi

di suini. la prima è quella del suino leggero o da macelleria che viene macellato a un peso vivo

oscillante tra i 70-90 Kg e i 120 kg max. La seconda quella del suino pesante o da industria

(salumificio) che generalmente viene macellato ad un peso vivi superiore ai 150 – 160 Kg.

48
In Italia, per questa valutazione si usano i tre metodi riconosciuti dalla Commissione Comunità

Europea (C.C.E.). Due prevedono l’uso di strumenti automatici come il Fat-O-Meater (F.O.M.) ed il

Destran PG-100 (DEST), il terzo si basa sull’uso di una sonda ottica Introscope o Optical Probe

(OP) associato ad un calibro. A ciascuno di questi metodi sono associati due equazioni, una per le

carcasse a freddo del suino leggero e/o intermedio (50 – 120 Kg) l’altra sempre a freddo per quella

del suino pesante.

Va comunque precisato che tra i metodi proposti non vi sono rilevanti differenze sui risultati di

stima per il contenuto in carne magra della carcassa, e le differenze rilevate vanno comunque

accettate poiché una valutazione precisa si ottiene solo con la dissezione completa della stessa che

non è pensabile allorché si devono valutare un elevato numero di mezzene. D’altronde la

disponibilità di più metodi di valutazione è da ritenersi alquanto utile poiché consente ai macellai ed

agli operatori del settore di scegliere il metodo a loro più consono in relazione alle loro capacità

operative (n° suini macellati) scegliendo anche in relazione al costo la strumentazione più idonea.

Nei grandi macelli ovviamente si opterà per strumenti rapidi, automatici, dotati di alta affidabilità e

ripetibilità, mentre per le piccole e medie strutture (macelli) potrà essere più conveniente l’uso di

strumenti a sonda ottica Optical Probe (OP) dal costo sicuramente inferiore ai primi.

Gli apparecchi Fat-O-Meater (F.O.M.) ed il Destran PG-100 (DEST), sono strumenti a registrazione

automatica dei dati, consentendo la misurazione dello spessore del lardo e del tessuto muscolare

sfruttando la loro diversa capacità di riflessione della luce; mentre l’Introscope o Optical Probe è

una sonda ottica normale che permette all’operatore di misurare direttamente lo spessore del lardo.

Per la stima della % di carne magra (CEE) mediante l’impiego del FOM e/o del DEST le

misurazioni vanno fatte in punti ben precisi della carcassa e/o mezzena. In particolare quello del

lardo dorsale va fatto in due punti; il primo, tra la terzultima e la quartultima vertebra lombare (3-4

u.l.) a 8 cm dalla linea di divisione delle mezzene, mentre la misura dello spessore del “longissimus

dorsi” viene rilevata tra la terzultima e la quartultima costola (3-4 MLD) sempre a 8cm dalla linea

di separazione delle mezzene.

Quando si impiega la sonda ottica (O.P.), lo spessore del lardo dorsale si rileva in 2 punti:

49
a) Tra la terzultima e la quartultima costola (3/4 uc) a 8cm dalla linea di separazione delle

mezzene;

b) Spessore del lardo ivi compresa la cotenna misurato con calibro a livello di separazione

delle mezzene in corrispondenza della porzione centrale del “gluteus medius”.

Le misurazioni espresse in mm vanno fatte su mezzene dopo 24 ore di refrigerazione in cella frigo.

Le equazioni per il calcolo della % di magro indicate dall’ASPA (ISMEA 1991) sono di seguito

riportate.

50
C) Ovicaprine: La valutazione delle carcasse ovi-caprine è di rilevante interesse non tanto per

l’industria di trasformazione, ma per rendere confrontabili i rilievi in tempi e luoghi diversi

all’interno della comunità Europea. Infatti, la quasi totalità della carne ovi-caprina prodotta in

Europa viene avviata al consumo diretto ad eccezione di insignificanti quantità che in alcune regioni

viene essiccata (miscisca) oppure utilizzata per produrre i “violini” (una specie di prosciutto ovino o

caprino) o impiegata nella preparazione “di carne in gelatina”. Questa si ottiene sottoponendo a

51
bollitura con giuste quantità di aromi, sale ecc. la carne di animali maturi, anziani e/o di fine

carriera, previa sgrassatura e dissossamento della carcassa. La carne semi cotta, viene ripresa in

modiche quantità di aceto e/o di altri preparati ad azione antibatterica/antiossidante/conservativa, e

fatta cuocere fino al punto giusto (le masse muscolari devono sfilacciarsi se sottoposte alla

pressione tra il pollice e l’indice), successivamente il tutto si pone in recipienti di terracotta, lasciato

raffreddare e conservato. Questo preparato generalmente va consumato freddo come antipasto

anche se fino all’immediato dopoguerra era un piatto abbastanza ricercato proteico ed energetico.

La carne derivante dagli ovicaprini (ovini e caprini) si ottiene dalla macellazione di diverse

categorie di soggetti. Tra questi vanno annoverati:

1) gli agnelli e i capretti da latte macellati tra i 45 e i 65 giorni di età, ed alimentati con solo

latte

2) gli agnelloni e i caprettoni leggeri abbattuti tra i 90 e i 120 giorni, (alimentazione solida)

3) gli agnelloni e i caprettoni sacrificati tra i 150 e i 180 giorni.

4) i castratelli e i castrati (adulti): Trattasi di soggetti maschi castrati e macellati a età diverse. I

primi sono rappresentati da agnelli e capretti castrati in tenera età (nascita o entro i 30

giorni) e macellati a sei mesi di vita, i secondi sono soggetti maschi di fine carriera, che

prima della macellazione e al fine di eliminare il classico odore ircino di riproduttori

vengono castrati (generalmente in settembre) prima, ingrassati e poi macellati dopo 4 – 5

mesi dalla castrazione.

Inoltre le preferenze alimentari dei consumatori variano da nazione a nazione e tra queste tra

regione e regione. Infatti quelli del Nord-Europa, orientano i consumi verso carni di soggetti maturi

(agnelloni e caprettoni in particolare) e di adulti (montoni, pecore ecc.), mentre in Italia ove il

consumo di queste carni è concentrato per la maggior parte nel Centro Sud prevale il consumo di

carni di animali giovani e/o da latte come l’abbacchio romano, l’inforchiato pugliese, lucano,

calabrese (agnelli ad esclusiva alimentazione lattea macellati tra i 30 ed i 40 giorni di età).

L’inforchiato oltre che essere agnellino in qualche regione come la “Lucania” era rappresentato solo

da capretti. Questa particolare categoria di animali veniva alimentata esclusivamente con latte

52
materno e per evitare che potessero alimentarsi con gli alimenti residuati dagli adulti, una volta

allattati venivano da questi separati e segregati in appositi box e tenuti in penombra.

Non vi è dubbio alcuno che le carni di questi soggetti siano particolarmente tenere, bianche e

succulente, ma presentano il grande svantaggio di essere sicuramente più ricche di acqua. Inoltre il

limitato peso vivo alla macellazione intorno ai 10-12 Kg, anche con una resa intorno al 60%

presentano carcasse leggere (max 6 Kg) con alta percentuale di osso, limitata percentuale di muscoli

ed alcune volte anche grasse. Tenuto conto che l’autoapprovvigionamento nazionale di carni ovi-

caprine ad oggi non supera il 60 % è facile rendersi conto che tali usanze incrementano

l’importazione di carni ovine dai paesi dell’Est Europa, dalla Nuova Zelanda, dall’Australia, dal

Sud America con esborso notevole di valuta pregiata. Ad aggravare la situazione, da questi Paesi si

importano animali maturi come gli agnelloni leggeri di 18-20 Kg di peso vivo (espressini) e/o

pesanti di 24 – 30 Kg (espressi) ed animali adulti. I primi due vengono venduti nelle macellerie

come agnelli i secondi come ovini. Per cui il nostro consumatore per avere buone probabilità di

consumare agnelli e/o capretti da latte deve orientare questi acquisti in coincidenza delle festività

Natalizie e Pasquali poiché queste specie (ovini e caprini) sono quasi sempre a riproduzione

bistagionale (autunno e primavera).

La carcassa La carcassa degli ovicaprini si ottiene dalla macellazione delle diverse categorie

animali di queste specie tenuti a digiuno per 24 ore e fatti pervenire alla sala di macellazione con il

minor stress possibile. Vengono abbattuti secondo le norme di polizia veterinaria ed

immediatamente dissanguati per taglio delle giugulari, scuoiati ed eviscerati.

Della carcassa agnellina e caprettina fanno parte la testa, la coda, e la corata (cuore, fegato, polmoni

ed intestino vuoto), quella degli agnelloni, caprettoni e/o degli animali adulti è priva di corata e di

testa che viene distaccata a livello dell’articolazione occipito-atlantoidea e, come tutte, va pesata a

caldo e sottoposta a refrigerazione per 24 ore in cella frigo a 4° C max e ripesata per il calcolo del

calo di refrigerazione. Come per tutti gli animali, le misurazioni sulla carcassa per la valutazione

della conformazione, vanno generalmente precedute da quelle sull’animale in vita per la definizione

53
del tipo morfologico (figg. 1 – 2 – 3 , ASPA – ISMEA 1991) Le misurazioni ant-mortem

sull’animale riguardano (fig. 1) come per tutti gli altri la:

1) altezza al garrese; 2) altezza alla croce; 3) lunghezza della groppa; 4) larghezza della groppa; 5)

altezza del torace; 6) larghezza del torace; 7) circonferenza del torace; 8) lunghezza del tronco; 9)

spessore della pelle, quest’ultimo espresso in cm e rilevato alla spalla a livello del garrese (spina

acraniana). Sulle carcasse appese e refrigerate vengono rilevate negli stessi punti di tutte le carcasse

animali le seguenti misure (fig. 2): 1) lunghezza del tronco 2) larghezza della groppa 3) larghezza

toracica 4) lunghezza della mezzena 5) profondità toracica 6) lunghezza e larghezza della coscia.

Per la valutazione di conformazione e del relativo stato di ingrassamento si assegna per ogni

regione della carcassa un punteggio che varia da 1 a 5, secondo le metodiche riportate per i bovini

(E.A.A.P.- C.E.E.). Oggi però per le carcasse degli ovi-caprini si può far riferimento ad altri

standard così come riportato in ambito E.A.A.P. Working Group in Carcass Evaluation (De Boer

1987).

Dissezione in tagli della carcassa ovi-caprina. Una volta preparata la carcassa, pesata sia a caldo che

refrigerata, si procede al calcolo delle rese % di macellazione e del calo di refrigerazione. Questi

parametri variano in ragione del genotipo (specie e/o razza) e nell’ambito della stesso con l’età, il

sesso, lo stato fisiologico (intero o castrato), lo stato di ingrassamento e/o di maturazione

dell’animale che ovviamente dipende dal sistema e/o tecniche di allevamento, la quantità e qualità

dell’alimentazione a cui l’animale è stato sottoposto.

Si precisa che la modalità di calcolo delle rese e del calo di refrigerazione è lo stesso di quello

riportato per i bovini e per i suini.

Dalla mezzena refrigerata e pesata, per ottenere quella base da scomporre in tagli, si allontana da

essa il grasso pelvico, quello perirenale il rene ed eventualmente i testicoli. Una volta ricavata la

mezzena base, si procede alla sua scomposizione in tagli così come schematicamente indicati in

fig.3.

I tagli commerciali delle mezzene ovicaprine sono:

1) la spalla che comprende la regione della spalla, del braccio e dell’avambraccio;

54
2) il collo parte dall’articolazione occipito-atlantoidea e termina tra la settima vertebra cervicale e la

prima dorsale seguendo il margine craniale della prima costola.

3) la coscia che ha come base ossea il sacro, il bacino (ileo, ischio, pube), il femore, la rotula, la

tibia-fibula ed il tarso, e tutti i muscoli annessi. E’ separata dalla lombata con un taglio netto a

livello dell’articolazione vertebrale lombo-sacrale.

4) la lombata comprende tutte le vertebre lombari ed i muscoli annessi (longissimus lumborum,

iliopsoas ecc.) e si ottiene come un taglio tra l’ultima vertebra dorsale e la 1° lombare e tra l’ultima

lombare e la prima sacrale.

5) la pancetta di cui fanno parte tutti i muscoli addominali.

6) le costolette che hanno come base ossea tutte le vertebre dorsali e 1/3 delle costole con tutti i

relativi muscoli annessi;

7) il petto è delimitato dalle costolette con un taglio che va dallo sterno all’estremità della costola

fluttuante. Fa parte di questo taglio lo sterno e tutti i muscoli annessi.

Oltre a questi tagli in alcuni casi si comprende quello di sella situato tra coscia e lombata.

I tagli, una volta pesati vengono scomposti in magro, grasso e osso, i cui pesi una volta registrati,

vengono usati per la valutazione della carcassa. Infatti, sommando i tessuti o meglio la carne il

grasso separato, e l’osso di tutti i tagli si ottiene quello dell’intera mezzena che darà l’esatta

valutazione dello stato di ingrassamento e della carnosità della carcassa.

Magro totale (MT) = Magro di spalla (MS) + Magro di collo (MC) + Magro di coscia (MC) +

Magro di lombata (ML) + Magro di costolette (Mcs) + Magro di petto (Mpt)

Grasso totale (GT) = Grasso di spalla (GS) + Grasso di collo (GC) + Grasso di coscia (GC) +

Grasso di lombata (GL) + Grasso di costolette (Gcs) + Grasso di petto (Gpt)

% Magro o carnosità = Magro totale (MT) / peso mezzena x 100

55
Grasso totale % o adiposità = Grasso totale (GT) / peso mezzena x 100

D) Equine

Come per tutte le altre specie, anche per gli equidi (cavalli, asini, muli ecc.) alla macellazione si

rileva il peso vivo a digiuno da 24 ore per singolo soggetto e, come procedura di macellazione si

adopera quella prevista dalle norme di polizia veterinaria, ovvero mediante l’uso di pistola a

capsula cava e successivo dissanguamento per taglio delle giugulari; indi si procede allo

scuoiamento ed alla eviscerazione dell’animale, al taglio della testa a livello dell’articolazione

ocipito-atlantoidea, a quello degli zoccoli, degli stinchi e della coda. La carcassa così ottenuta, viene

pesata (a caldo) e suddivisa in due mezzene le quali vengono poste in cella frigo a 4° C per 24 ore e

ripesate, per il calcolo del calo di refrigerazione.

Le categorie (classi) di animali che vengono avviate al macello sono:

a) Lattoni (puledri di 8 – 10 mesi di età allattanti ma contemporaneamente ingeriscono alimenti

solidi pascolo, razioni alimentari materne ecc.) avviati al macello tra settembre – novembre.

b) Puledroni (soggetti di 12 – 18 mesi di età svezzati a 8 – 10 mesi e ristallati o allevati su

pascoli primaverili) e macellati tra marzo, giugno, luglio.

c) Equini adulti e/o di fine carriera questa categoria comprende tutti i soggetti adulti (cavalli,

asini, muli ecc.) che per motivi aziendali vengono avviati al macello.

Ovviamente anche sugli equidi in vita, prima della macellazione e per gli stessi motivi riportati per

le altre specie e/o categorie animali si procede alla rilevazione delle misure somatiche, così come

riportato in precedenza e riguardano:

1) l’altezza al garrese, e alla groppa;

2) la lunghezza e la larghezza della groppa;

3) l’altezza, la larghezza del torace e la sua circonferenza

4) la lunghezza del tronco

5) circonferenza dello stinco.

Come sempre si usa il bastone misuratore di Lydtin ed un nastro metrico.

56
Data la sensibilità di questi animali particolarmente stressabili è consigliabile bendarli all’entrata

della sala di macellazione.

Rilievi sulla carcassa

Come riportato in precedenza entro 1 ora dalla macellazione la carcassa (ancora calda) viene divisa

in 2 mezzene con un taglio longitudinale lungo la colonna vertebrale, che vanno immediatamente

pesate (la loro somma rappresenta quella della carcassa) per il calcolo della resa % a caldo. A

seconda delle categorie, le mezzene così ottenute passano nel locale di prerefrigerazione ove

sostano per 2 ore (puledri) e per 4 – 6 ore (adulti). Prima di scomporre in tagli le mezzene è utile un

tempo minimo di frollatura di 3 – 8 giorni.

Ai fini della valutazione della carcassa i rilievi metrici proseguiranno sulla mezzena (in genere la

dx) con le stesse modalità riportate per le altre specie e riguardano: 1) la lunghezza della carcassa 2)

la lunghezza e la larghezza della coscia. La valutazione dello stato di ingrassamento e di

conformazione è utile effettuarla sulla mezzena fredda (refrigerata) per la maggiore opacità del

grasso, utilizzando le procedure suggerite da Roy e Dumont e collocandole nella classe della griglia

che è simile a quella CEE adottata per i Bovini.

Per quanto concerne la scomposizione in tagli della mezzena, il procedimento è quasi simile a

quello descritto per i bovini. Infatti dopo aver rilevato il peso della mezzena refrigerata, da questa si

allontana il rene, il grasso perirenale, quello pelvico, quello sternale ed il diaframma, i quali vanno

pesati e registrati. La mezzena così “tolettata” viene divisa in due quarti; anteriore e posteriore,

operando un taglio trasversale a livello del margine caudale della 6° vertebra toracica seguendo poi

quello caudale della rispettiva costola.

a) Il quarto anteriore si scompone nel taglio di: 1) Spalla 2) Avambraccio 3) Collo 4) Bistecche

1-6 (sottospalla) 5) punta di petto; tutti i tagli descritti e quelli che descriveremo hanno le stesse basi

ossee e anatomiche descritte per la scomposizione delle carcasse degli altri animali.

b) Il quarto posteriore viene ripartito nei tagli di: 1) Pancia e puntine che comprende la zona

latero ventrale dell’addome ed i 2/3 distali che va dalla 7° alla 18° costola (ultime 12 costole e

muscoli compresi); 2) lombata (7°-18° vertebra ed 1/3 delle costole relative); 3) filetto

57
comprendente i muscoli iliopsoas e psoas minor; 4) coscia (ossa e muscoli annessi); 5) Gamba

(fibia, fibula, tarso e i muscoli della gamba).

Comunque per meglio comprendere i “tagli” commerciali ed individuarli è estremamente utile fare

riferimento allo schema di seguito riportato

I tagli di carne degli equini e loro utilizzo

Punta:
Bollito - Arrosto
Ripiena.
Spalla:
Brasato - Scaloppine
Bollito.
Reale:
Arrosto - Spezzatino Goulasch - Bollito.
Controfiletto:
Bistecche - Carpaccio
Costate con osso All'inglese.
Filetto:
Ai ferri
Crudo olio e limone
Bourguignonne.
Diaframma o Pantina:
Fettine - Carè - Costate.
Scamone:
Ai ferri - Fettine
All'inglese.
Fesa:
Fettine - Scaloppine
Arrosto.
Noce:
Fettine - Scaloppine
Arrosto.
Sottofesa:
Cotolette - Brasato
1) Collo 11) Pancia o Costine Bollito.
2) Scannatura 12) Diaframma o Pantina Magatello:
3) Punta 13) Scamone Tonnato - Cotolette
4) Fusello di spalla 14) Fesa francese Costine:
Al forno - Alla griglia
5) Spalla o Spallotto 15) Noce
Bollito - Spezzatino
6) Brione 16) Sottofesa o Fesa di mezzo Al ragù.
7) Geretto di anteriore 17) Magatello Pesce:
8) Reale 18) Geretto posteriore Arrosto - Bollito
Brasato.
9) Controfiletto 19) Pesce
10) Filetto

Valutazione della conformazione della carcassa

In generale, per la valutazione delle conformazioni della carcassa di tutte le specie normalmente

viene adoperata una “griglia” composta da 5 classi, che vanno dalla peggiore (classe P) alla

migliore possibile (E) ovvero quella con il massimo sviluppo delle masse muscolari ottenibili. La

scala delle classi viene di seguito riportata.

Classe E: conformazione “eccellente”, in questa classe vengono raggruppate quelle carcasse in cui

la gamba è molto arrotondata per l’ottima massa dei muscoli flessori ed estensori., le stesse
58
presentano una coscia massiccia, spessa e dalla forma tondeggiante. Il profilo posteriore di queste

carcasse presenta la massima convessità. La loro groppa presenta muscoli ipertrofici, mentre sul

lombo e sul dorso emergono muscoli larghi, spessi e arrotondati. Le carcasse di questa classe inoltre

presentano spalle voluminose. Sono carcasse fornite da soggetti specializzati nella produzione della

carne come i vitelloni di razza piemontese e/o puledroni (18 - 24 mesi) di razza da tiro pesante ed

appartenenti al tipo morfologico “brachimorfo” o “meso-brachimorfo”.

Classe U: conformazione molto buona a questa classe appartengono quelle carcasse con una

carnosità ben evidente, meno accentuati di quelli della precedente classe tipo quella della “doppia

groppa” e del “doppio dorso”. In queste carcasse le coscie presentano un profilo posteriore

convesso, con muscoli della zona latero mediano sviluppati, pieni e spessi. I glutei della groppa

sono sviluppati e sporgenti (doppia groppa) così come quelli dorso lombari (doppio dorso). La

spalla di queste carcasse è ben arrotondata, carnosa con estensori e flessori del braccio alquanto

prominenti, è il caso di carcasse provenienti da soggetti (equini) “meso” e “meso-brachimorfi” ben

preparati e maturi, e di vitelloni da carne ben ingrassati.

Classe R : conformazione buona in questa classe vengono collocate quelle carcasse e/o mezzene

con una carnosità apprezzabile ma non eccessiva e/o notevole. Queste carcasse presentano una

gamba con estensori arrotondati che formano una chiara curvatura. Inoltre sulle facce latero –

mediane della coscia emergono muscoli ben formati che descrivono una leggera curvatura. Il profilo

posteriore della coscia è rettilineo ed i glutei seguono di poco la spina dorsale. I muscoli lombo

sacrali sono sviluppati al punto tale da mascherare i processi spinali della relativa colonna

vertebrale. Infine la spalla di questa classe di carcasse è carnosa con marcati arrotondamenti. Come

nel caso di soggetti dolico-mesomorfi, mesomorfi e/o di vitelloni di razze lattifere e/o F1 ben

preparati e ingrassati (vitelloni bruni, F1 (tori da carne x Bruna Alpina, tori da carne x Frisona,

vitelloni podolici, ecc.,).

Classe O: conformazione mediocre. Le carcasse e/o mezzene di questa classe, oltre a presentare una

gamba con estensori che disegnano una leggera curvatura, osservabile anche ai lati della coscia,

mostrano muscoli poco spessi che sembrano poco attaccati alle ossa. Inoltre il profilo della coscia è

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quasi rettilineo e subconcavo, e la zona interna mostra muscoli poco prominenti e/o piatti. Queste

carcasse presentano poi sia glutei poco sviluppati e pari al processo spinale dell’area del sacrale, sia

masse muscolari lombari poco sviluppate, ed arrotondati che riempiono appena la doccia dei

processi spino – costali della regione lombare, senza fornire alcun rilievo alla forma dell’area

lombare anche se appare alquanto armoniosa e rotonda. Il taglio di spalla di queste mezzene a causa

della poca carnosità sembrano un po’distaccate dalle costole, e la “spina” scapolare non si vede ma

si sente al tatto. In altre parole queste carcasse sono solo “accettabili” o “standard”.

Classe P: conformazione scadente. Di questa classe fanno parte quelle carcasse, abbastanza rare in

verità, sgambate, (gamba lunga), con muscoli senza spessore ed aderenti alla base ossea. Presentano

cosce scarne e piatte ad entrambi i lati e con profilo posteriore concavo. Le stesse presentano una

groppa con muscoli appiattiti e la spina sacrale alla punta è evidente. Inoltre presentano spalle

appiattite con masse muscolari separate dalla spina scapolare. In realtà queste carcasse sono fornite

da soggetti mal allevati, appartenenti a genotipi non specializzati alla produzione della carne e/o ad

animali di fine carriera.

Valutazione dello stato di ingrassamento

La valutazione dello stato di ingrassamento della carcassa si effettua valutando la quantità

(sviluppo) dell’adipe di copertura (sottocutaneo) e di quello depositato sulla parte dorsale dello

sterno (grasso sternale). In base all’entità dello sviluppo di questi due depositi adiposi, le carcasse

vengono raggruppate e/o classificate in 5 classi/categoria, indicati con i numeri 1, 2, 3, 4 e 5.

Nella classe 1 sono raggruppate tutte le carcasse molto magre, in cui i muscoli superficiali sono

molto evidenti, inoltre i loro confini (o delimitazioni) non presentano alcuno strato adiposo, ovvero

sono privi di grasso di infiltrazione perimuscolare. Per questo le carcasse sono di colore rosso

intenso tendente allo scuro.

Inoltre, la base della coda, del lombo, della regione ascellare dello sterno e della grassella sono

prive di grasso. Queste carcasse provengono generalmente dalla macellazione di animali di fine

carriera e/o mal nutriti. Quando poi lo stato di dimagramento degli animali è molto evidente e le

loro carcasse sono evidentemente ossute, e cachessiche, queste, vengono addirittura sequestrate e

60
avviate all’inceneritore. Le carcasse della classe 1 (molto magre) e di conformazione (scadente) una

volta (inizio novecento, fino agli anni 50-60? erano timbrate come “Animali di Bassa Macelleria”

ed erano destinate alla vendita ad un prezzo pari a circa 1/3 delle altre e generalmente destinate

all’alimentazione della povera gente. Oggi però la “bassa macelleria” è scomparsa anche se esiste la

macellazione di urgenza, le carcasse ottenute sono destinate quasi sempre all’industria per preparati

particolari.

La classe 2 a cui appartengono le carcasse magre per altro alquanto frequente, fanno parte quelle in

cui la superficie esterna è ricoperta solo parzialmente di grasso il quale non si presenta spesso in

nessuna regione. In questa tipologia, il grasso ricopre leggermente la parte superiore delle coscie e

della groppa, con un leggero ispessimento alla base della coda. Il velo di grasso si estende lungo il

lombo ed il dorso, senza mai estendersi sui fianchi e sul costato, scarso risulta nella zona ascellare e

della grassella ma, ben evidente a livello sternale. Poco sviluppato risulta il grasso perirenale.

Alla classe 3 o delle carcasse sufficientemente e/o abbastanza grasse, appartengono quelle carcasse

ricoperte tutte di grasso ad eccezione delle estremità degli arti (gamba); ben evidenti invece

risultano i depositi adiposi della groppa, del dorso, che diventano più sottili lungo la zona dei

fianchi e delle coste, ma che risultano spessi a livello del garrese, delle ascelle e dello sterno ove

presenta uno spessore di 3 – 5 cm. Queste carcasse presentano un grasso perirenale alquanto

corposo in cui le pareti del bacino sono completamente ricoperte di adipe di deposito. Sono quelle

carcasse di discreta e/o buona commerciabilità richieste dal mercato nord-ovest Europa.

Alla classe 4 o delle carcasse grasse fanno parte quelle carcasse che hanno uno strato adiposo molto

evidente tale da definirlo invadente, poiché forma depositi alquanto spessi sulla groppa, dietro le

coscie ed in alto della gamba; mentre le regioni dorsale e lombare sono ricoperte da uno strato

adiposo abbastanza spesso che si estende sui fianchi e sul costato. La zona retroscapolare è molto

grassa e l’adipe arriva fino al ginocchio zootecnico (gomito anatomico). In queste carcasse oltre a

notare ammassi di grasso molto spessi e ravvicinati nel bacino con reni ben ricoperti di adipe, si

nota anche un deposito sternale di grasso molto spesso (5-10 cm).

61
Alla classe 5 o delle carcasse troppo grasse appartengono quelle carcasse (equine e/o bovine e/o

ovine) ricoperte completamente da un pannicolo adiposo particolarmente sviluppato, quasi a

formare una specie di corazza nella zona della groppa, del lombo, sui fianchi e sul costato. Lo strato

di grasso con spessore di diversi cm a seconda della zona lo si trova su tutta la carcassa, in

particolare quello sternale è particolarmente sviluppato e varia dai 10 ai 15 cm. Inoltre il bacino è

particolarmente invaso di grasso che si propaga a livello renale e perirenale (sebo). Queste carcasse,

normalmente derivano dalla macellazione di animali che hanno superato abbondantemente la giusta

età di macellazione e/o che sono stati alimentati/razionati non correttamente.

E) Avicole

Come per tutti gli animali da macello, prima dell’abbattimento va rilevato il peso vivo alla

macellazione che deve essere quello stallato e/o a digiuno da almeno 12 ore o al massimo 24 ore.

Anche per gli avicoli per l’abbattimento si seguono le norme di Polizia Veterinaria. Dopo la

macellazione e successivo dissanguamento gli animali vengono sottoposti a spennatura che avviene

a caldo mediante immersione per 1-3 minuti in acqua bollente o attraverso il passaggio in corrente

di vapor acqueo a 100 – 110 °C per 1-3 minuti e successivo passaggio in spazzole rotanti per

l’allontanamento delle piume. A questa operazione segue il lavaggio e la successiva eviscerazione.

Le viscere e in particolare il fegato e il ventriglio (previo allontanamento della pellicola interna)

vengono avviate al confezionamento per la distribuzione al dettaglio. Quello che resta da questa

operazione rappresenta la carcassa avicola (polli, dei tacchini, anatre, oche, faraone ecc), la quale va

pesata a caldo e successivamente sottoposta a refrigerazione a 4 °C in cella frigo. Dopo 24 ore di

refrigerazione la carcassa viene ripesata (peso a freddo), per il calcolo delle rese di macellazione (a

caldo e a freddo) e delle perdite di refrigerazione che si eseguono allo stesso modo visto per gli altri

animali.

La carcassa avicola, al contrario delle altre subisce una scomposizione in tagli relativamente più

semplice. Infatti della carcassa viene staccata:

a) la testa e il collo a livello dell’ultima vertebra cervicale e la prima dorsale, e le zampe.

62
b) la zona posteriore composta dal groppone, cosce e sovracosce;

c) le ali, comprendente la zona dorsale e latero costale le cui costole vengono separate a livello dello

sterno e/o carena

d) il petto comprendente i muscoli pettorali, la cute e la carena (sterno)


CARCASSA AVICOLA (da www.carnealfuoco.it/arte-del-
bbq.php?VM=4&PagID=10)

1) Cosce o fusi di pollo: detti anche fuselli o perine, hanno di solito


una pezzatura omogenea ed un peso pari a 120/130 gr; questo taglio
corrisponde alla regione anatomica della tibia e il perone.

2) Sovracoscia: rappresentata dal femore unitamente alla muscolatura


che lo ricopre, denominata commercialmente anchetta, si ottiene
sezionando una carcassa di pollo a busto in corrispondenza
dell'articolazione coxo - femorale e femoro - tibiale.

3) Ali: corrisponde alle articolazioni superiori, si consumano spesso


cotte alla griglia, le chicken wings sono una delle specialità
dell’American BBQ.

4-5) Dorso: la parte posteriore dell’animale, corrisponde alla zona che


circonda la colonna vertebrale.

6) Petto con osso: corrisponde ai muscoli pettorali che hanno per base
il coracoide, la clavicola, lo sterno e l'appendice sternale, ha un peso
medio singolo complessivo non inferiore a gr. 300 e non superiore a gr.
500.

La valutazione di conformazione e/o di qualità (adiposità) di questa carcassa si esegue valutando sia

l’incidenza % di muscoli pettorali, dei cosci (fuselli) e sopracosci che quella del grasso addominale.

Per una più precisa valutazione, si considera anche la % di pelle e delle ossa dei singoli tagli.

Nelle specie avicole, le categorie di animali da macello sono:

a) broiler

b) rosters

c) capponi

d) galline e galli di fine carriera

e) pollastri, galletti, ecc di razze ovaiole

63
2.3.Valutazione delle qualità chimico – fisico e nutrizionali delle carni

In precedenza avevamo riportato la definizione del concetto di qualità di un prodotto come

“l’insieme delle proprietà capaci di soddisfare le esigenze espresse e non esplicitate dal

consumatore” ovviamente questa definizione di tipo generale si adatta con una certa difficoltà ai

prodotti biologici come la carne, il latte ecc. ove a parametri oggettivi facilmente quantificabili

(misurabili) si aggiungono quelli soggettivi e/o sensoriali di difficile quantificazione. Come

precedentemente riportato, si ricorda che la qualità dipende da un insieme di parametri che sono

influenzati da fattori endogeni come il genotipo (specie e/o razza), il sesso, l’età degli animali ivi

compreso lo stato fisiologico (interi, castrati, gravide ecc.) ed esogeni all’animale come

l’alimentazione (quantità e qualità) ivi compreso i promotori di crescita, il sistema e/o le tecniche di

allevamento, le tecniche di trasporto, modalità di macellazione, di sezionamento e stoccaggio e/o

conservazione delle carcasse e non ultimo la tipologia di sezionamento e di preparazione

gastronomica. Tra i parametri fisici vanno annoverati la durezza, la coesione, lo sforzo al taglio, il

colore, il pH ecc., determinabili con idonee strumentazioni e le perdite di cottura, quest’ultime

rilevabili per via ponderale a seguito cottura a tempi definiti ed a temperatura prefissata e costante,

senza dimenticare ovviamente la già ricordata perdita di refrigerazione e la capacità di ritenzione

idrica (Water Holding Capacity o WHC).

a) Il pH (= - log [H+]) della carne e le sue variazioni post mortem assumono un particolare

significato nel determinismo della qualità. Questo parametro è dovuto alla presenza

dell’acido lattico derivante dal catabolismo intermedio del glucosio sia circolante (glicemia),

sia proveniente dall’idrolisi del glicogeno correlato allo “stress ant-mortem” dell’animale

ascrivibile anche al genotipo animale. Questo parametro riveste particolare importanza

soprattutto nelle carni suine destinate alla trasformazione. Infatti un veloce ed eccessivo

abbassamento del pH “post-mortem” (tendente verso l’acidità < 5,5), indica una glicolisi

muscolare veloce, che porta ad un alta concentrazione di acido lattico, che incide sulla

denaturazione delle proteine del muscolo che appare decolorato (pallido) ed acquoso

(molle). Tale anomalia è ascrivibile alle elevate quantità di ormoni dello stress (adrenalina e

64
noradrenalina) liberate dal surrene nel torrente sanguigno, in seguito a stimoli di fattori

stressanti. In altre parole si tratta di carni PSE (Porcine Stress Syndrom) aventi basi

genetiche certe e individuate in un locus (hal, alotano), gene responsabile (h) autosomico

recessivo a penetranza incompleta. Queste carni denominate (P.S.E.) oltre che pallide (pale)

e molli (soft) presentano uno scarso potere di ritenzione idrica (per questo dette anche carni

essudative), sono poco gradite al consumatore (poichè alla cottura perdono gran parte del

peso iniziale) e del tutto inadatte alla trasformazione poiché presentano un alto e rapido calo

di stagionatura, caratteristica questa estremamente negativa per la preparazione di insaccati e

di altri prodotti stagionati, in quanto, il prodotto, a causa della veloce e rapida perdita di

acqua presenta una superficie grinzosa e scura ed internamente quasi sempre si formano

cavità che facilmente danno origine a processi di irrancidimento della sostanza grassa.

Questa anomalia è presente con una certa frequenza in alcune razze suine (Petrain, Landrace

Belga ed alcuni genotipi autoctoni) le cui carni (carcasse) vengono scartate dalla filiera dei

prodotti tipici (D.O.P., D.O.C. ecc) come il prosciutto di Parma, il S. Daniele ecc. Altra

anomalia da ricordare per le carni suine e non solo riconducibili all’azione del pH quando

questo tende a stabilizzarsi intorno a 7 è la “D.F.D”. Le carni che presentano questo difetto

hanno un colore scuro (Dark), sono molto sode (Firm) e molto asciutte (Dry). Questo

fenomeno è ascrivibile a una bassa glicolisi post-mortem e quindi ad una limitata o quasi

nulla liberazione di acido lattico. La scarsità o l’assenza di produzione di questo acido può

essere dovuta all’esaurimento del glicogeno indi di glucosio circolante a livello dei muscoli

diverso tempo prima della macellazione, ascrivibili con ogni probabilità ad un eccessiva

durata della stallatura (digiuno ant-mortem), o ad altri fattori di stress e/o di affaticamento

(O. Connor et al; 1993). In parole più semplici, le cause di questa anomalia è da ricercarsi

nella gestione degli animali nel periodo precedente la macellazione. Per quanto concerne le

carni suine, in alcuni casi, pur non rientrando in quelli testè riportati, si osserva un pH basso

(carni a basso pH). Queste, subito dopo la macellazione (carcassa calda) presentano valori di

pH normali (pH a caldo) ma dopo la refrigerazione (12 o 24 ore a secondo dei casi)

65
registrano una diminuzione superire alla norma attestandosi su valori tendenti all’acidità

(pH<5,5). Queste carni, però, rispetto a quelle P.S.E. sono meno essudative ma altrettanto

pallide e comunque sono poco indicate per la trasformazione. Tale anomalia scoperta per la

prima volta in suini di razza “Hampshire”, da cui il nome sembra ascrivibile all’alto “potere

glicolitico” del muscolo al momento della macellazione che con ogni possibilità può esser

dovuto ad un eccessivo rilascio di ormoni da parte della corteccia surrenale.

b) Il colore, è senz’altro il primo parametro fisico- sensoriale, facilmente apprezzabile dal

consumatore ed in un certo qual modo quantizzabile con appositi colorimetri. In genere

tende ad essere correlato anche con la freschezza della carne. Il rosso, con diverse tonalità, è

il colore della carne, dovuto alla presenza di fibre rosse e/o di emoglobina. Infatti quella

cruda quasi sempre di colore rosso più o meno tendente al chiaro anche brillante, è più

marcato in quella bovina che in quella suina. Inoltre, in generale la carne bovina cotta è

quasi sempre più scura di quella suina, così come quella proveniente dai soggetti più anziani

rispetto a quella dei giovani, ed è sempre più scura di quella ottenuta dai soggetti iperattivi

(dolicomorfi) rispetto a quella di animali flemmatici (brachimorfi). Nella formulazione del

giudizio complessivo del colore, molto importante risulta quello del grasso che ovviamente

varia con il genotipo (specie e/o razza), con l’età e con l’alimentazione con variazioni di

intensità che vanno dal bianco al giallo. Il colore giallo nelle carni fresche in particolare, è

da ascrivere all’alto contenuto di acidi grassi polinsaturi e/o alla presenza di caroteni e/o di

pigmenti simili. Tale colore più intenso nelle carni di quei soggetti alimentati con diete

contenenti tali molecole e/o di quelle allevate al pascolo (bovini podolici, ovini ecc.) rispetto

a quelle allevati a regime stallino ed alimentati con razioni sostanzialmente ad alto

contenuto di Sostanza secca (SC).

Il colore blu con le sue diverse sfumature è indice di carni vecchie e/o stantie in cui ad opera

dei batteri sono iniziati i processi di decomposizione con sviluppo di cadaverine, putrescine

ed altri prodotti.

66
Normalmente il colore delle carni crude viene valutato oggettivamente con il sistema Hunter

e definito da tre indici colorimetrici. Il primo “L” indice di lucentezza, il secondo “a” indice

del rosso e il terzo “b” detto del giallo.

Il colore, parametro facilmente quantizzabile può essere rilevato sia durante la macellazione

sia dopo frollatura usando colorimetri (Hunterlab ecc,) o sonde a fibre ottiche. La

rilevazione di questo parametro riveste particolare importanza poiché consente all’operatore

di avere una prima indicazione sul tipo di carne e di indicarle come PSE o DFD. Lo stesso

consente di riconoscere quelle carcasse dotate di alte/maggiori perdite da sgocciolamento.

Nel sistema Hunter tridimensionale, l’indice “L” (asse delle luminosità) varia da zero

(colore nero) e 100 (colore bianco), l’indice “a” (asse del rosso) misura l’intensità del colore

rosso quando è positivo (+”a”) e quello del verde quando è negativo (-“a”); mentre l’indice

“b” (asse del giallo), misura l’intensità di questo colore quando è positivo (+b) e quella del

verde quando è negativo (-“b”). (vedi graf. sottostante)

(www.Hunterlab.com)

Quando gli indici “a” e “b” presentano entrambi un valore zero, indicano che il colore della

carne è grigio.

67
Inoltre, quando più elevati sono i valori di “L” e “b” (positivi), tanto più la carne è chiara

ma di colore giallastro, ovvero carni “PSE tendenti”; mentre, quanto più bassi (in senso

negativo) sono i valori di “L”, e più alti quelli dell’”a” tanto più la carne è rosso scura

ovvero con tendenza “D.F.D”.

In realtà con quanto testè detto, il problema del giudizio sul colore della carne è stato

semplificato al massimo, poiché per essere completo è necessario utilizzare tutti i

parametri a nostra disposizione, in quanto potremmo incorrere in errori di valutazione,

poiché questi parametri come già riportato dipendono da un insieme di fattori tra cui l’età

dell’animale. Infatti un indice “L” molto alto è normale nelle carni di animali giovani

normalmente più acquose e luminose, mentre quelle dei soggetti adulti meno acquose, più

grasse, o di fine carriera sono normali alti indici del rosso “a” e, a secondo del loro stato di

ingrassamento indici del giallo “b” alquanto variabili che portano ad un colore dal rosso

brillante (“a” e “L”), e verdastro (- “a”, “L”=> 0 “b”=>0) quest’ultimi due esempi indicano

carni stantie e/o avariate macellate da parecchio tempo e conservate in condizioni climatico

– ambientali (T e UR) ed igienico sanitarie inadeguate. In realtà, utilizzando bene gli indici

colorimetrici, ci è possibile valutare la tinta, e la croma o saturazione della carne. Infatti,

facendo il semplice rapporto

“a”/”b”

esprimiamo in forma semplice e matematica la misura in cui il rosso e il giallo partecipano

alla formazione del colore della carne, mentre la

rappresenta la sua croma o saturazione o intensità del colore

così come la tinta è

tinta = arctg “b”/”a”

Quest’ultimo dato matematicamente si esprime in radianti in quanto misura un angolo che

in sostanza non è diverso dal rapporto “a”/”b” anche se varia in modo inverso ad esso

(Monetti 1997)
68
c) Capacità di ritenzione idrica (WHC o WBC Water Holding o Binding Capacity) questo

parametro indica la quantità di acqua legata alle strutture proteiche della carne e per questo

non disponibile ed è comunque parte integrante dell’acqua totale della carne, questa in realtà

comprende sia la frazione dell’acqua legata che quella libera ovvero quella porzione di

acqua scarsamente legata alle strutture proteiche cellulari.

La capacità di ritenzione idrica detta anche e impropriamente “acqua legata” è valutabile sia

sottoponendo a schiacciamento un campione di carne di 300 mg tra due fogli di “carta

bibula” previamente essiccati e pesati. La differenza di peso dei filtri prima e dopo lo

schiacciamento rappresenta la quantità di acqua liberata dalla carne ed assorbita dalla carta,

ovvero

Peso carta imbevuta (g) – Peso carta secca (g) = Acqua liberata (g)

0,300 : mg (Acqua libera ) = 100 : x

x = mg Acqua libera / 0,300 x 100 = % di Acqua libera

100 - % Acqua libera = % Acqua legata o Potere di ritenzione idrica della carne

Oppure dopo schiacciamento si procede alla pesata del campione di carne schiacciato e

liberato dai due dischi di carta bibula (filtro).

0,300 – peso campione schiacciato = peso acqua liberata e nel calcolo si procede come

prima

Oppure come più semplicemente si fa nei laboratori prima si procede alla determinazione %

dell’acqua totale e poi da questa si sottrae quella libera ottenendo così quella legata.

Acqua % totale - Acqua % libera (da schiacciamento) = % di Acqua legata

Oppure dopo lo schiacciamento i fogli di carta bibula vengono liberati dal campione, su essi

si noterà un alone la cui superficie è proporzionale alla quantità di acqua rilasciata dalla

carne.

Successivamente i fogli vengono essiccati in stufa e calcolata l’area dell’alone.

69
Comunque una carne con un basso potere di ritenzione idrica indica una tendenza alla

P.S.E., il contrario indica una carne tendente alla D.F.D.

Altro metodo per rilevare questo parametro è quello dello sgocciolamento (drip loss) che

valuta la perdita di liquido di un determinato pezzo di carne in un lasso di tempo prestabilito.

Per questa procedura si usa un pezzo di “ Longissimus dorsi” lungo 25 mm ottenuto con un

carotometro prima pressato e poi sospeso per 24 ore a 4 °C in un contenitore che impedisce

perdita per evaporazione, successivamente, una volta pesato il contenitore vuoto, si rivela il

peso sgocciolato, la differenza tra i due pesi rappresentano le perdite per sgocciolamento,

che sono correlate positivamente all’acqua libera.

d) Perdite di cottura Questo parametro valuta il calo % di peso di un campione di carne a

seguito cottura, la quale può essere fatta a secco (forno microonde ventilato) o in umido (in

sacco di plastica immerso per 50 minuti in acqua a 75 °C ) e la sua determinazione è

importante poiché oltre a valutare le perdite in peso conferisce al prodotto un aspetto

acquoso poco gradito. In realtà tutte le perdite di scongelamento, di refrigerazione, di

sgocciolamento e di cottura misurano le perdite di liquidi della carne in varie situazioni e

sono strettamente correlate alla capacità di ritenzione idrica ed espresse in % rispetto al

campione di carne. Le perdite qualunque esse siano vanno sempre considerate come fattore

peggiorativo della qualità della carne, poiché comportano perdite non solo di succosità, di

acqua ma anche di molecole nutritive idrosolubili.

Fra altri parametri di una certa importanza è opportuno ricordare l’opacità, che dipende dal

livello di denaturazione delle proteine fibrillari e può essere valutato sia a caldo che a freddo

(dopo 24 ore di refrigerazione)

Le proprietà elettriche come la conduttività e le perdite dielettiche (fattori questi di

secondaria importanza).

70
Inoltre oltre ai parametri chimico-fisico testè menzionati e rilevabili per via strumentale si ricordano

altri che conferiscono al prodotto caratteristiche rilevabili dai sensi del consumatore e direttamente

da lui percepite come: la tenerezza, la succosità, il sapore, odore e colore.

1) La tenerezza della carne cotta o cruda è correlata alla quantità di tessuto connettivo, delle

proteine miofibrillari ed in parte dal suo contenuto in grasso. La tenerezza è direttamente

influenzata dall’età dell’animale e dalla quantità di collagene solubile presente nel

connettivo. Infatti le carni di animali giovani (vitelloni) allevati a regime stallino

contengono più collagene totale rispetto a quelle degli animali tenuti all’aperto a ciclo

aperto, i legami covalenti formanti da queste molecole sono più labili nei giovani tenuti

all’aperto e creano quindi una “minore resistenza o attrito” rispetto a quelli presenti nelle

carni degli animali allevati a regime stallino che come ricordato necessitano di una migliore

ed ottimale “frollatura”. Per quanto riguarda poi l’incidenza del tasso delle proteine

miofibrillari contrattili sulla tenerezza della carne, si ricorda che esso dipende poco dall’età

dell’animale poiché questo aspetto dipende dal quadro enzimatico del muscolo e dello stato

di contrazione e rilassamento alla macellazione dell’animale. Infatti i muscoli rilassati

normalmente sono più teneri di quelli contratti (Giorgetti e Poli, 1991). Essa è apprezzata

dal consumatore sulla base degli atti masticatori e della resistenza o sforzo che la carne

(cotta) oppone all’atto masticatorio.

2) La succosità ed in particolare della carne cotta è ascrivibile a due sensazioni: la prima

rappresentata dalla succulenza ascrivibile all’impressione dei primi atti masticatori (quattro),

dovuto al più o meno rapido rilascio dei fluidi della carne; e la seconda dovuta alla

stimolazione, alla salivazione causata dalla più o meno rapida liberazione dei liquidi interni

e intracellulari.

In realtà tenerezza e succosità sono parametri strettamente correlati tra loro, poiché, più la carne è

tenera tanto più i succhi vengono facilmente liberati durante la masticazione. Per questo è doveroso

ricordare che la succosità della carne viene influenzata significativamente dalle modalità e dai tempi

di cottura e varia in modo inverso con le perdite di cottura. Infatti, quasi sempre, le carni poco cotte

71
sono quelle più succose (gli arrosti al sangue sono più gustosi e succosi di quelli ben cotti) e se

quelle di partenza sono poco grasse, quelle cotte risultano dure, (tigliose) e stoppose.

e) L’odore e il sapore (flavour) o aroma della carne deriva quasi sempre dalla sua frazione

adiposa e, soprattutto in quella cotta ove non solo è difficile una descrizione, ma anche

separarle dalle altre caratteristiche, poiché altre proprietà del sapore, sono la risultanza di

sensazioni odorose che diventano sempre più marcate con l’avanzare dell’età e/o lo stato

d’ingrassamento dell’animale che porta a carni con significative infiltrazioni adipose, e

molte volte, l’odore e il sapore dipendono dalla composizione chimica della razione

alimentare dell’animale e/o dai componenti alimentari che ne fanno parte. Per questo basti

pensare allo sgradevole sapore e/o odore di derivazione ittica allorché gli animali vengono

alimentati con diete contenenti farina di pesce. Inoltre, i sapori fatta eccezione dei gusti base

come il dolce, l’amaro, il salato e l’acido, si distinguono con difficoltà.

Il vero sapore della carne si sviluppa con la cottura ove per effetto della temperatura

vengono liberate diverse molecole aromatiche e, come l’odore esso resta determinato

dall’età dell’animale, dal tipo di alimentazione (più marcato nei monogastrici) dal genotipo

(specie), dal sesso (nel maschio è più accentuato), dallo stato fisiologico (intero-castrato, in

attività sessuale ecc.), nonché dal tempo e dalle condizioni di stoccaggio (igienicità delle

celle, la temperatura operativa e l’U.R.). In realtà “flavour” è un termine poco traducibile

con una sola parola, ma in italiano viene detto “aroma” che per la carne viene definito come

l’insieme di odori e sapori (Gran 1978) di cui possono far parte anche la tessitura e il pH.

L’aroma (flavour) è ascrivibile in modo prevalente al grasso della carne (e in minima misura

al muscolo) poiché l’adipe più del tessuto muscolare riesce ad “intrappolare” e/o legare gli

aromi originali da altri composti chimici di derivazione metabolica per poi liberarli durante

la cottura e, perché le sostanze volatili che si formano durante la cottura derivano

dall’ossidazione dei lipidi e dagli effetti della reazione che avviene tra aminoacidi e

composti carbonilici (Elmore et al, 2000). Inoltre l’aroma generale e la sua intensità, è

dovuta alla presenza e/o assenza di singoli aromi che possono essere gradevoli come: carni

72
ovine, fegato, pollame, lesso, brodo, carneo, fruttato, erbaceo, grasso, olio, burro; oppure

sgradevoli come: animale (odore di bestiame in stalla), rancido, pungente, ammuffito, pesce,

stantio; ma può anche comprendere anche sapori definiti come, metallico, acido,

cacciagione, bovino, maiale (bacon), amaro, urina (rognone), dolce, crudo, menta,

appiccicoso, strano, strofinaccio, barbecue; ed odori come di cavolo, mosto, granaio, gomma

scaldata, plastica, ammoniaca. (Rousset-Akrim et al 1997; Saňudo et al 1999; Carlucci et al

1999). Tra gli aromi vanno annoverati quelli che caratterizzano le carni dei diversi genotipi

(specie) tra cui quello “Sheepmeat” degli ovini “beefmeat” o “cawmeat” dei bovini,

“Goatmeat” dei caprini e “wildmeat” dei selvatici. questi particolari aromi e/o sapori sono

quelli che incidono significativamente sui consumi che in realtà fanno parte integrante degli

usi e consuetudini alimentari delle popolazioni umane su cui incidono anche i credi religiosi

(l’islam vieta il consumo di carni suine). Il particolare l’aroma delle carni ovine ha origine

da acidi grassi a catena ramificata (B C F H) tra i quali una significativa importanza è

rivestita sia dagli acidi 4-metil-ottanoico ed il 4-metilnonanoico, sia da composti fenolici

provenienti dalla fermentazione ruminale della clorofilla e della lignina (Young et al 1997;

Panella et al 1995). Esso sembra incrementare con l’età dell’animale ed è più marcato nei

maschi puberi ed in attività sessuale (becchi-odore ricino; stalloni-odore ippurico, verri-

odore acre-acido-urinario ecc;) che nelle femmine. Inoltre anche gli acidi grassi a catena

carboniosa lineare ed in particolare lo stearico, l’oleico e, linolenico sembrano coinvolti

positivamente nel determinare l’intensità dell’odore-sapore mentre l’acido linoleico sembra

avere un’azione negativa nel determinismo dell’intensità di detto parametro.

f) Parametri chimici generali, speciali e/o particolareggiati

Tra i parametri di qualità, quelli chimici generali, speciali e/o particolari rivestono

particolare importanza nella definizione della qualità perché lo completano anche

nell’aspetto delle esigenze non espresse e/o esprimibili quindi metaboliche del consumatore.

73
Tra i parametri generali, la composizione chimica % della carne è importante perché

fornisce una idea generale sul suo contenuto (H2O), Proteico % (N x 6,2 ), lipidico %,

minerale % ed indeterminati %.

1) Acqua (H2O) Il contenuto in H2O totale della carne, com’è noto varia in base a tutti quei

fattori precedentemente citati ed oscilla dal 70-80 % (carni di animali giovani) al 60 – 65 %

in quelli dei soggetti vecchi e/o di fine carriera). Inoltre varia con lo stato di ingrassamento

degli animali indi con lo stato di infiltrazione lipidica a livello muscolare ovvero con il

contenuto in grassi peri-intramuscolare. Infatti è correlato negativamente al contenuto

lipidico della carne (muscolo), e positivamente al livello proteico. L’acqua totale, come già

accennato, si ripartisce in una frazione libera o non legata ed una quota intimamente legata

alla frazione proteica che costituisce la % di acqua legata. Quest’ultima aliquota è correlata

positivamente alle perdite per sgocciolamento e/o a quelle di refrigerazione, ovvero tanto

più essa è elevata tanto più alte sono le perdite. Inoltre dal contenuto acquoso dipende quello

della sostanza secca (l’acqua totale si ricava per essiccamento in stufa ventilata a 75 °C di

un campione di carne fino a peso costante) in formula:

2) Sostanza secca La sostanza secca di un prodotto ed anche della carne è rappresentata dalla

sommatoria dei livelli di proteina, di grassi, di minerali e di indeterminati e si calcola

detraendo da un campione di 100 g la quantità di acqua totale, oppure, fatto 100 la

composizione chimica (sommatoria di tutti i componenti) da questa si sottrae la percentuale

di acqua ovvero % SS = 100 - % acqua

E’ un parametro generale correlato al contenuto energetico (espresso in Kcal) e dipende sia dal

contenuto proteico sia da quello lipidico, nonché da quello minerale ed acquoso.

Infatti, mentre il contenuto energetico (E.G., E.M. e/o E.N.), dipende direttamente dal contenuto

lipidico, da quello glucidico, da quello proteico del prodotto ed in modo inverso dal contenuto in

minerali ed in acqua.

74
3) Proteine totali (N x 6,25) Il contenuto in proteine totali è sicuramente tra i parametri più

importanti per la valutazione generale della qualità di un prodotto alimentare e della carne in

particolare. per questo basti pensare alle funzioni biochimiche e fisiologiche delle proteine

alimentari ed in particolar modo dei suoi costituenti base come gli aminoacidi (primari e/o

essenziali e secondari) per intuire la loro importanza come “elementi plastici” ovvero

costruttori delle proteine muscolari (miofibrille) fisiologiche, circolanti, immunitarie ecc., in

altre parole si può affermare che con le proteine e/o aminoacidi che la compongono funziona

la parte anabolica o costruttiva del metabolismo di un essere vivente. Non meno importante

è il ruolo esercitato dal catabolismo proteico dall’utilizzo per fini catabolici degli aminoacidi

derivanti dalla scissione delle proteine strutturali e/o di quelle della quota proteica

alimentare in eccesso la quale porta alla formazione di cataboliti come l’urea, l’acido urico

(primati), ippurico (equidi), urocanico (canidi) ecc, anidride carbonica (CO2), acqua ed

energia (Kcal). Quando le proteine vengono utilizzate (bruciate) dall’organismo per scopi

energetici (catabolismo) esse forniscono circa 4,1 cal per grammo. Per maggiori

approfondimenti su questi argomenti si rimanda ai testi specializzati come quelli di

nutrizione e/o di biochimica. Normalmente il contenuto proteico si determina con il metodo

Kjeldhal che prevede prima la digestione di un grammo di sostanza in acido solforico (98%)

in presenza di catalizzatore (al nickel e al selenio), che blocca l’N proteico come (NH4)2 SO4

poi lo spostamento dell’NH3 e successivo blocco in una quantità nota di H2 SO4 N/10 o 1N

seguiti poi dalla titolazione con NaOH N/10 o 1N della quota eccedente di H2 SO4 N/10 o

1N. Il n° di cc di H2 SO4 N/10 o 1 N iniziali, detratti quelli di NaOH N/10 o 1 N impiegati

per titolare l’ H2 SO4 N/10 o 1N in eccesso, moltiplicato per il coefficiente di

trasformazione 0,875, fornisce la % di proteina grezza del campione che nelle carni fresche

varia dal 16-19 % al 22-24%.

4) Grasso totale o frazione lipidica grezza Il contenuto lipidico della carne e/o di un alimento

qualunque, riveste particolare interesse sia per le sue funzioni termoregolatrici, energetiche

75
alimentari, sia per la sua influenza sulla conservabilità del prodotto dovuto alla sua frazione

insatura, poco stabile all’azione degli agenti atmosferici (H2O H2 O2 ecc) che si ossida

(formazione di ossiacidi) e si irrancidisce (formazione di idracidi). Esso si determina

mediante estrattori soxlet e/o Twisselman che prevedono l’estrazione continua del grasso

con Etere etilico su un campione di 10 g, per circa 2-3 ore, utilizzando un bagnomaria a

temperatura di 40-50 °C. Ovviamente l’estratto va raccolto in un pallone tarato, ed una volta

recuperato l’etere, essiccato il pallone con l’estratto, si raffredda in essiccatore e si ripesa.

La differenza tra il pallone vuoto con quello contenete il residuo, fornisce la quantità di

grasso grezzo presente nei 10 grammi di campione che, rapportato a 100 da la percentuale di

lipidi che nelle carni fresche varia dall’1 % al 5-15% ovviamente in relazione al taglio, allo

stato di ingrassamento della carcassa dell’animale ed al genotipo.

Inoltre, si deve far presente che il grasso, fra tutti i fattori chimici generali è quello che più

degli altri viene percepito prontamente dal consumatore.

In realtà, a causa dei cambiamenti socio economici verificatosi negli ultimi 50-60 anni, i

consumatori italiani non gradiscono carni molto grasse, anche se una modesta quantità di

grasso di marezzatura e sottocutaneo conferisce alla carne alcune caratteristiche positive

come una maggiore tenerezza, succosità, aroma e palatabilità (Jeremiah 1998 Saňudo et al

2000 a ; Saňudo et al 2000). Inoltre, un’accettabile o buono spessore di grasso sottocutaneo

e/o di copertura, limita la disidratazione della carne quando essa viene sottoposta a

congelamento e non solo. Dato il non gradimento del consumatore di alimenti e/o di carni ad

alto contenuto calorico esso, nonostante le carni/ carcasse prodotte in Italia siano con bassi

contenuti in grasso, nell’osservare la carcassa e/o la carne ha l’errata percezione di un

contenuto lipidico più alto di quello reale.

5) Ceneri o minerali totali Per le carni è un dato abbastanza stabile e poco influenzato dai

fattori di variabilità anzi ricordati se non in casi estremi di malnutrizione e/o nelle carni di

animali “cachettici” che per altro vengono avviate al compostaggio o all’incenerimento. In

76
generale questo dato sulla carne cruda si aggira tra l’1,0 % e il 2,0 %. Esso si determina per

incenerimento in forno a muffola a 550 °C di un campione stabilito di carne secca (H2O% =

10 -12 %). In realtà questo dato rappresenta l’insieme di tutti gli elementi minerali della

carne presenti come carbonati (Me CO3), fosfati ((Me)2 (PO4)3), solfati (Me SO4), cloruri

(Me Cl), ecc; ove, Me rappresenta il simbolo generico degli elementi minerali (K, Na, Zn,

Cu, Fe, Mg, P ecc.). Da queste ceneri si parte poi per la determinazione dei singoli elementi

impiegando metodi sia di tipo ponderale (Ca, Mg) sia in assorbimento atomico (Zn++, Fe++,

Cu++ ecc.), sia in emissione di fiamma (Na+ e K+) che procedure spettrofotometriche (P).

L’ultimo parametro dell’analisi generale è rappresentato dagli “indeterminati” che rappresentano i

glucidi le vitamine ecc. e, si ottengono per differenza a 100 della sommatoria degli altri dati.

Ovvero % indeterminati =100 – (% acqua + % proteina grezza + grasso grezzo + % ceneri).

Infine, si ricorda che per il trasformatore, la qualità del prodotto primario di partenza riveste

particolare importanza, poiché condiziona la genuinità e la qualità del trasformato che poi

condiziona il mercato e l’economia dell’impresa.

Sui concetti di qualità e genuinità abbiamo già dissertato, per cui è utile fare qualche riferimento

alla tracciabilità e rintracciabilità.

2.4 La tracciabilità dei prodotti e i marchi di qualità

La politica agricola comunitaria (P.A.C.) da alcuni anni sviluppa azioni di sostegno dei prodotti

tipici, riconoscendo in essi degli elementi per la valorizzazione delle produzioni agricole

comunitarie. Parallelamente, il mercato sta mostrando un interesse sempre maggiore per questi

prodotti. Sarebbe, quindi, molto interessante puntare alla valorizzazione di produzione di razze e

genotipi di animali autoctoni attraverso l’attribuzione di un marchio, ottenendo, nel contempo,

anche la valorizzazione delle zone di origine, spesso a volte marginali,. Bisogna tener presente,

però, che il successo risiede anche nella razionale conduzione del processo, in modo da scongiurare

la comparsa di imitazioni che cercano di trarre vantaggio dal nome del prodotto originale, con la

77
perdita di specifiche caratteristiche e vanificando, di conseguenza, la tipicità. Lo sviluppo e la

valorizzazione dei prodotti tipici tradizionali passa, quindi, attraverso la valutazione ed il recupero

delle loro caratteristiche, (nutrizionali e gastronomiche) con l’identificazione di quelle che possono

avere una particolare valenza per il sistema agricolo e per i consumatori. In particolare, si deve tener

conto sia della relazione tra il prodotto e il genotipo animale e le sue tradizioni; sia tra il legame del

prodotto con il territorio e le sue tradizioni.

La possibilità di individuare degli elementi che permettano di risalire dal prodotto ad un

determinato agro-ecosistema è alla base del concetto di tracciabilità. Secondo la definizione UNI

EN ISO 9000, per tracciabilità si intende “la capacità di risalire alla storia, all’utilizzazione o

all’ubicazione di ciò che si sta considerando”. E’ il processo che segue il prodotto nel percorso della

filiera e fa in modo che, ad ogni stadio attraverso cui esso passa, vengano lasciate opportune

informazioni (tracce). Per rintracciabilità, invece, si intende il processo inverso, che deve essere in

grado di raccogliere le informazioni precedentemente rilasciate. L’obiettivo, in questo caso, è quello

di individuare lo strumento tecnico più idoneo a identificare le “tracce”. I due processi, comunque,

sono strettamente interconnessi e basati su un sistema che in genere viene definito come

tracciabilità. Quest’ultima, a sua volta, comprende sia la tracciabilità interna sia quella di filiera. La

prima è riferita al processo interno a ciascuna azienda e si concretizza in una serie di procedure atte

a risalire alla provenienza dei materiali, al loro utilizzo ed alla destinazione dei prodotti. L’altra

deriva dall’insieme dei sistemi di tracciabilità interna uniti da efficienti flussi di comunicazione. E’

un processo che necessita, quindi, del coinvolgimento di tutte le figure che hanno contribuito alla

formazione del prodotto.

L’elevato valore commerciale dei prodotti tipici è in funzione del loro stretto legame con un sistema

complesso di relazioni agro-zootecniche, per cui la loro tutela dipende dall’individuazione di

elementi che garantiscano la tracciabilità genetica, quella alimentare e quella di management. La

tracciabilità genetica, ossia la possibilità di esaminare un campione di carne e/o prodotto zootecnico

e stabilire con certezza specie e la razza di appartenenza attraverso l’analisi del DNA. Nonostante

78
siano notevoli i progressi in tal senso, non ha ancora una sicura attendibilità e, comunque, risulta

molto costosa. La tracciabilità alimentare, invece, può trovare concrete possibilità applicative. E’ da

ricordare che il valore commerciale ad oggi raggiunto di alcuni prodotti suini tipici è dovuto al loro

forte legame con il territorio e ad un processo produttivo alternativo a quello utilizzato nella

suinicoltura intensiva. La sicurezza di ciò è data, da una parte, dalla concreta possibilità di stabilire

il regime alimentare cui sono stati sottoposti gli animali in funzione della presenza e della quantità

di alcune molecole organiche (ad esempio alcuni acidi grassi) nelle loro carni, dall’altra,

dall’istituzione di organismi di controllo a garanzia della tipicità dei prodotti.

Il concetto di qualità, a differenza del passato, assume maggiore importanza per il fatto che non

viene considerata solo la qualità del “prodotto”, ma anche quella di “processo”. Pervenire ad una

visione del genere presuppone una politica basata essenzialmente su tre azioni fondamentali:

1. Certificazione delle aziende. E’ un’azione mediante la quale un organismo, pubblico o

privato ma riconosciuto dall’ente pubblico, verifica e attesta se un’azienda possiede le

strutture ed è in grado di seguire le procedure che possono portare a prodotti di alta qualità.

2. Messa a punto di un disciplinare. Si tratta di predisporre delle indicazioni molto dettagliate

che regolino tutte le fasi della produzione, della trasformazione industriale e della

commercializzazione del prodotto. Per la gestione del disciplinare è indispensabile

predisporre un sistema di controllo sull’operato delle aziende. I disciplinari si possono

basare su due tipi di norme:

 norme obbligatorie: definite dagli enti pubblici tramite leggi o decreti e prevedono un

controllo da parte degli stessi enti pubblici;

 norme volontarie: sempre più diffuse, applicate dai produttori che, insieme, le stabiliscono e

le sottoscrivono. In questo caso, vengono stabiliti degli autocontrolli da parte degli stessi,

generalmente riuniti in un consorzio.

79
3. Creazione del marchio di qualità. Una volta creato, il marchio deve essere riconosciuto da

un Ente Pubblico e sostenuto da un’adeguata campagna pubblicitaria.

Dopo aver discusso della qualità, della tracciabilità e dei parametri chimici generali, è opportuno

fare qualche riferimento a quelli particolareggiati ed in particolare a quelli che rivestono particolare

importanza dal lato salutistico-nutrizionale.

Infatti, le moderne acquisizioni dell’attuale dietologia, per la salute umana attribuiscono una grande

importanza alla composizione in acidi grassi saturi ed insaturi del grasso della dieta e al loro

rapporto, alla valutazione dell’indice aterogenico e trombogenico. Infatti sia in generale che in

particolare la conoscenza della composizione acidica degli alimenti della dieta ci consente sia di

valutare la pericolosità dell’alimento in base alla presenza di acidi grassi saturi”pericolosi” come il

laurico (C12:0), il miristico (C14:0) e forse il palmitico (C16:0) accusati di favorire la formazione di

lipoproteine a bassa densità (LDL) e l’accumulo nei vasi sanguigni di pericolose placche

eritromatose che sono la causa principale di molte disfunzioni cardiovascolari; sia la presenza di

acidi grassi “protettivi” come i poliinsaturi della serie ω3 ed ω6 (n3 o n6 secondo la denominazione

anglosassone) ed in particolare degli acidi α-linolenico (C18:3 ω3), eicosapentenoico (EPA o

C20:5ω3), decosapentenoico (DPA, o C22:5ω3) e il decosaenoico (C22: 6 ω3) che favoriscono non solo

la formazione di lipoproteine ad alta densità (HDL) che prevengono la formazione delle placche

eritomatose e le relative disfunzioni cardiocircolatorie con diminuzione dei rischi di trombogenesi

ematica (Euser et al, 1996) ma anche di molecole ad attività antinfiammatorie. Questi ultimi acidi

grassi (poliinsaturi) sono particolarmente presenti nel grasso delle carni ittiche ed in particolare in

quelle del pesce azzurro, ma sono abbastanza limitati nell’adipe degli animali a sangue caldo

(bovini, ovicaprini e suini), ove sono presenti in quantità significative gli acidi grassi saturi. Però

per effetto delle tendenze alimentari del moderno consumatore, negli ultimi decenni sono aumentati

studi e ricerche finalizzate a conoscere e modificare con le tecnologie di allevamento e/o con

l’alimentazione, entro i limiti consentiti dal genotipo animale, la composizione acidica del grasso

delle carni, il cui risultato è stato l’ottenimento di carni con un grasso avente un maggiore e

favorevole rapporto tra la frazione satura ed insatura e/o poliinsatura. Al fine di una valutazione

80
oggettiva, sono stati adottati degli indici di qualità quali: l’indice di aterogenicità (IA), di

trombogenicità (IT) (Ulbrich e Southgate, 1991), ed il PCL (Plasma Cholesterol Lowering); il PCE

(Plasme Cholesterol Elevating) il PCL/PCE (Reiser e Schorland 1990) nonché il valore nutritivo

dell’adipe (Bonamone e Grundy 1988) che vengono di seguito riportati in formula:

81
IA= (aSI+bSII+cSIII)/(dP+eM+fM’), dove:

SI, SII, SIII = C 12:0, C14:0, C16:0; P = (ω-3 + ω-6); M=C18:1cis9; M’=MUFA;

a,c,d,e,f,=1; b=4

IT= (mSIV)/(nM+oM’+p ω-6 + q ω-3 + (ω-3 / ω-6), dove:

SIV = C14:0, C16:0, C18:0; M=C18:1cis9; M’=MUFA; m, n, o,p, = 0,5; q = 3

PCL/PCE = (PUFA + ½ MUFA) / (C12:0 + C14.0 + C16:0).

Valore nutritivo = acido stearico (C18) + acido oleico (C18:1cis9) / acido palmitico (C16:0)

Secondo Ulbricht T.L.V. e Southgate D.A.T. 1991. Coronary heart disease: Seven dietary
factors-Lancet 338:985-992

Aterogenic Index = AI
: : :
AI =

Thronbogenic Index = TI

: : :
TI =
. : . .

da Piccolo et al., 2008- Ital. J. Anim. Sci. 7; 363-371

La composizione in acidi grassi, normalmente viene determinata per via gas-cromatografica

utilizzando colonne capillari in vetro silicato di 60mt con fase stazionaria in ciano propile. Per

ulteriori approfondimenti, si rinvia ai testi del settore di chimica analitica strumentale.

In realtà bisogna anche far presente che la composizione acidica del grasso delle carni, dipende in

primis dal genotipo animale il quale fissa i limiti entro il quale esso possa variare per effetto del/ei

sistema/i di allevamento, dell’età, del sesso e della alimentazione ed in particolare alla quantità e

qualità della frazione grassa, anche se questa è più marcata nei monogastrici e nei preruminanti e

meno nei ruminanti adulti, ove la flora ruminale provvede a saturare gran parte degli acidi grassi

82
insaturi provenienti dalla dieta, anche se una parte significativa di questi passa inalterata la barriera

ruminale e raggiunge il lume intestinale ove viene assorbita e veicolata poi dal sangue al tessuto

adiposo (Birckestaff et al. 1975; Avery e Baily, 1995; Saňudo et al; 2000). Ma per giustificare la

quantità di acidi grassi insaturi e poliinsaturi depositati nei diversi tessuti adiposi, bisogna ricordare

anche le azioni degli enzimi delta-9-deidrogenasi e di altri simili presenti nei villi intestinali che

deidrogenano gli acidi grassi saturi rendendoli insaturi e/o polininsaturi, che al pari di quelli

provenienti dalla dieta vengono convogliati nel torrente sanguigno e destinati al metabolismo

dell’organismo, per essere usati per scopi energetici (catabolismo) o essere depositati (sintesi) nelle

diverse frazioni adipose (anabolismo).

Altre determinazioni a carico del grasso possono riguardare la frazione fosfolipidica, quella

triglicerica ecc.

A carico della frazione proteica, interessanti sono le determinazioni della quota miofibrillare e

sarcoplasmatica e della loro composizione aminoacidica delle diverse quote proteiche dei muscoli e

dei liquidi circolanti (fisiologica) che portano a conoscenza dei livelli di aminoacidi essenziali e

non, che poi di fatto determiniamo il Valore Biologico della proteina della dieta espressa dalla

seguente formula:

ove N assorbito = N alimentare – N fecale

N trattenuto = N assorbito – (N fecale– N metabolico fecale); -(N urinario – N end) N fecale

metabolismo è rappresentato da quello dei muchi degli enzimi delle cellule di sfaldamento ecc. ed è

quello che l'animale emette a digiuno proteico.

N esogeno urinario = N derivante dal catabolismo proteico alimentare (urea)

N endogeno = N derivante dal catabolismo proteine strutturali dell’organismo (turnover proteico)

ed è quello che l'animale emette con le urine anche quando è a digiuno proteico.

83
Cap. 3 CONSISTENZA BESTIAME, CONSUMI E PRODUZIONI
Dopo aver dissertato sui parametri di qualità, di genuinità è utile riportare in modo sintetico, la

consistenza nazionale del bestiame, i consumi dei prodotti primari (carne, latte, uova) e trasformati

(insaccati, latticini ecc.) questo per avere un’idea sulle quantità nazionali di prodotto da avviare al

consumo diretto e alla trasformazione.

Quando si parla poi di sistemi produttivi, di tracciabilità, rintracciabilità, di genuinità e qualità dei

prodotti, è sempre utile avere un quadro completo tra la produzione e i consumi per meglio

inquadrare il problema. Nelle nazioni tecnologicamente avanzate il sistema agricolo a seguito dello

sviluppo tecnologico e della meccanizzazione agricola e delle procedure operative negli altri settori

(industriale, tecnologico, terziario ecc.) dal dopoguerra in poi ha ridotto sia il n° degli addetti, sia la

sua incidenza % sul PIL totale. A conferma di ciò basti pensare all’Italia in cui il PIL del comparto

agricolo (come materie prime), rispetto a quello nazionale si aggira intorno al 2,2 %, ma sale al 10%

circa quando si considera l’intera filiera (MIPAF 2009). Per meglio comprendere l’andamento

economico di questo comparto è utile ricordare che l’Italia è autosufficiente solo per circa il 73 %,

mentre il resto dei consumi viene importato dai paesi CEI e da quelli Extra Europei. Il basso tasso

di auto approvvigionamento nazionale, ovviamente è ascrivibile alla limitata consistenza nazionale

del bestiame che negli ultimi decenni ha subito una profonda crisi, dovuta sia alle note vicende

sanitarie (BSE, afta epizoica, blu tongue, influenza aviaria ecc.) che hanno inciso negativamente sui

consumi e sull’economia delle imprese zootecniche, sia alla minore disponibilità della popolazione

imprenditoriale poco disposta a sacrifici sociali ed economici, in quanto l’attività zootecnica non

solo non sempre garantisce sicuri guadagni ma impone sicuramente dei sacrifici perché

l’allevamento del bestiame, al contrario di altre attività (agricola), impegna senza soluzione di

discontinuità tutti i giorni dell’anno, per cui i giovani sono sempre meno disponibili per questo

settore.

84
TABELLA CONSISTENZA NAZIONALE BESTIAME

Bovini Suini Ovini Caprini Cavalli Asini

Italia 8.961.000 9.321.000 8.106.000 978.000 300.000 29.000

Nord 366.000 158.000 116.000 7.500

Centro 1.729.000 67.000 69.000 5.600

Sud e Isole 6.013.000 752.000 93.000 16.000

Al fine di una migliore comprensione degli andamenti economici si riportano si riportano i consumi

medi procapite di carne nazionali.

TABELLA CONSUMI DI CARNE

Tipo di carne Bovina Suina Ovi- Equina Conigli e Avicole Totale

caprina selvaggina

Consumo pro-capite 25.4 39.4 1.5 1.6 5 18.9 93.3

anno Kg

Grado di 57 % 66 % 42 % 40 % c.a. 99 % +106 % 73.6 %

autoapprovvigionamento

Ovviamente, considerato il basso tasso di autoapprovvigionamento totale e parziale, da cui si

discosta quello del settore avicolo e cunicolo al fine di limitare l’esborso di valuta pregiata per

l’importazione di carne da paesi Europei ed Extra-Europei, sarebbe quantomeno utile ed

indispensabile incrementare le produzioni nazionali, aumentando il numero degli allevamenti e/o

quello dei loro effettivi (n° di capi) e/o razionalizzando gli stessi applicando loro sistemi e/o

tecniche intensive e/o ecocompatibili, tenendo però sempre al massimo grado possibile la salubrità,

la genuinità e la qualità del prodotto rendendolo sempre tracciabile e rintracciabile.

85
3.1. FATTORI DI VARIABILITA’DEGLI ASPETTI QUANTI-QUALITATIVI DELLA

PRODUZIONE DELLA CARNE

Come già accennato i diversi aspetti quanti qualitativi della produzione della carne sono determinati

da diversi fattori sia endogeni che esogeni all’animale.

tra i primi ricordiamo il genotipo animale come la specie di appartenenza (es. Bovini, ovini, caprini,

suini, conigli, pesci, avicoli ecc.) ed all’interno di questo la razza di appartenenza (es bovini frisoni,

bruni; ovini leccesi, gentile di Puglia, Suffolk, ecc; caprini Maltesi, Jonici, Cachemire, Mohair;

suini Landrace, Large White, neri del centro sud-Italia;ecc; equini T.P.R., Murgesi, Percheronne

ecc.) ed al loro interno il sesso, lo stato fisiologico e l’età dell’animale.

Fra i secondi si riportano, il sistema di allevamento (brado, semibrado, semi-intensivo, intensivo e/o

stallino), l’alimentazione intesa sia come quantità atta a soddisfare le necessità nutrizionali-

produttive e sia come qualità dei singoli alimenti e principi nutritivi facenti parte della razione

alimentare; le modalità e/o tecniche di macellazione, le condizioni ambientali di conservazione, di

sezionamento delle carcasse e delle carni, ed in ultimo quelle di trasformazione (insaccati,

prosciutti, scatolette ecc.;) e di preparazioni gastronomiche (sistemi, tecniche di cucina, ricettario,

presentazione del piatto e abbinamento con altre portate), anche in relazione agli usi, consuetudini

locali delle popolazioni e della stagione (periodo temporale come la primavera – estate – inverno –

autunno).

1) Il genotipo animale è un fattore di particolare importanza sia per gli aspetti quantitativi della

produzione sia per quelli qualitativi. Infatti dal lato quantitativo le produzioni fornite dalle

diverse razze della stessa specie sono diverse, così come quelle ottenibili dalle diverse specie.

E’ arcinoto che specie animali diverse all’interno della stessa categoria presentano pesi vivi

differenti, infatti un vitellone è più pesante di un agnellone, un puledrone (cavallino) è di poco

più leggero di un vitellone da carne ma sicuramente pesa di più di un suino (leggero di 6-9

mesi) ecc. Inoltre anche all’interno dello stesso genotipo (specie), esistono razze che alla stessa

età di macellazione presentano pesi vivi diversi (razze da carne e/o da latte) in relazione alla

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loro precocità somatica. Per questo basti pensare ai vitelloni da carne come i Chianini,

Piemontesi, marchigiani, Charolaise, Limousine, Blue Belga ecc.che alla stessa età di

macellazione presentano pesi superiori a quelli frisoni, guersey, bruni ecc. I primi rispetto ai

secondi forniscono soprattutto carcasse meglio conformate e con superiore incidenza % di tagli

carnosi e/o di 1° qualità.

Quanto detto pone in evidenza che l’indirizzo produttivo (carne, latte, lavoro, lana, uova ecc.)

meglio definito come specializzazioni produttive delle razze animali, riveste un ruolo

fondamentale nel determinare la quantità e la qualità delle produzioni. Per questo sono state

create razze in cui prevale una sola produzione come quelle a prevalente attitudine alla

produzione del latte, della carne [bovini, ovi-caprini da lana (ovini), delle uova (avicoli)],

quelle a duplice attitudine (carne e latte, carne e lana, carne, lavoro ecc.) in cui due attitudini

produttive sono più o meno equivalenti, e quelle a triplice attitudine (carne, latte, lavoro; o

carne, latte e lana) ove le tre capacità produttive sono più o meno pari, generalmente presentate

da quelle razze o meglio raggruppamenti etnici o razze popolazioni autoctone e/o locali.

Le differenze tra i diversi genotipi, e/o tra i diversi raggruppamenti di razze (e/o popolazioni)

viene rimarcata dai diversi pesi vivi da loro ottenibili alla stessa età di macellazione e/o

categoria, dalla loro diversa velocità di accrescimento (incremento ponderale giornaliero o

IMG), dalla differente capacità di trasformare l’alimento in produzione o indice di conversione

alimentare (ICA) dalla loro diversa conformazione, composizione in tagli delle carcasse,

sull’incidenza del grasso del magro e dell’osso dei tagli che la compongono e dalla qualità

chimico nutrizionale delle carni e, come detto in precedenza dal diverso flavour delle carni.

2) Il sesso. Anche questo fattore partecipa significativamente nel determinare più gli aspetti

quantitativi che quelli qualitativi della produzione, poiché è noto che i maschi non producono

latte ma solo carne, lana (ed attività sessuale) o lavoro (buoi, cavalli da tiro, muli ecc. tutti

generalmente castrati, domati e addestrati). All’interno del sesso particolare importanza assume

lo stato fisiologico dell’animale. Infatti le femmine prepubere non producono latte, poiché la

lattazione si scatena a seguito di una gestazione che si conclude con il parto, e la quantità di

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latte prodotto varia (oltre che con il genotipo) anche con l’ordine di parto, la durata della

lattazione e l’alimentazione.

Infatti la quantità di latte prodotto aumenta dalla 1° alla 3° lattazione e diminuisce con il

progredire della stessa (curva di lattazione) che presenta il picco di massima produzione nei

primi due – tre mesi, per stabilizzarsi al quarto per poi decrescere fino ad azzerarsi uno-due o

tre mesi prima del parto successivo. Inoltre, si ricorda che i maschi presentano rispetto alle

femmine una maggiore velocità di accrescimento e che queste in genere maturano prima dei

maschi. Inoltre i maschi interi, rispetto ai castrati oltre a presentare i migliori incrementi

giornalieri, presentano anche i migliori indici di conversione alimentare e carcasse meno

grasse, ma con carni dotate di sapori particolari come quello ircino (becchi ) e/o urino sessuale

(stalloni, verri ecc.). Mentre, i castrati, pur evidenziando minori accrescimenti, peggiori indici

di conversione, forniscono carcasse più grasse con carni più succulente, più succose, ma

soprattutto privi di odori ircini e/o sessuali di specie che le rendono più accette al consumatore.

3) L’età. Anche l’età dell’animale alla macellazione influenza i diversi aspetti quantitativi e

qualitativi. Infatti è noto che all’interno della stessa specie e/o razza, il peso vivo varia con l’età

di macellazione dell’animale, dal quale dipende poi il peso della carcassa, le rese di

macellazione, quelle dei tagli e dei muscoli (e/o di carne) ottenibili dalla loro dissezione in

magro, osso e grasso. Non solo, ma con l’avanzare dell’età decrescono gli incrementi

giornalieri, peggiorano gli indici di conversione e le carcasse si arricchiscono sempre più di

grasso perché con l’avvicinarsi del peso dei giovani a quello medio che caratterizza gli adulti

l’alimento viene convertito in depositi adiposi (lipogenesi) che presenta un rendimento limitato

tendente allo zero allorquando l’animale non è più in grado di accrescersi e/o di ingrassarsi.

L’età dell’animale incide anche su alcuni parametri fisici e/o chimici come la durezza, la

resistenza, le perdite di cottura. Infatti le carni degli animali giovani (lattanti) rispetto a quelle

degli adulti in generale oltre ad essere più tenere, meno resistenti, presentano anche maggiori

perdite di sgocciolamento, di refrigerazione e di cottura, in quanto sono generalmente più

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acquose più proteiche e meno grasse, e comunque il tutto dipendente dallo stato di

ingrassamento .

L’età dell'animale, a parità di alimentazione ha effetti immediati sul peso vivo, e sul contenuto

idrico è lipidico. Questi due aspetti sono strettamente correlati con la succulenza della carne e con il

potere di ritenzione idrica. Con l’aumento dell’età, dopo il raggiungimento della maturità somatica,

si ha un lieve aumento delle rese alla macellazione, dovuto principalmente sia all’aumento delle

masse muscolari sia del tessuto adiposo. Anche il tessuto adiposo presenta un andamento crescente

con l’avanzare dell’età dell’animale. In particolare nel suino, si è notato che alla nascita presenta

depositi adiposi che non superano il 2% della sua massa corporea (Le Dividich et al., 1991). Con

l’accrescimento dell’animale lo sviluppo del tessuto adiposo, a livello sottocutaneo, mesenterico,

perirenale, inter e intramuscolare, è dovuto all’iperplasia degli adipoticiti. Tra il primo e il secondo

mese di vita, detto aumento è determinato principalmente da iperplasia; tra il secondo e il quinto

mese gli adipociti, oltre a incrementare nel numero, vanno incontro a ipertrofia; oltre il quinto mese

di vita gli accumuli adiposi sono dovuti quasi esclusivamente a ipertrofia. Diversi autori (Hood e

Allen, 1977, Nurnberg e Wegner 1990 e Nurnberg et al., 1998) hanno osservato che l’aumentata

adiposità del grasso di copertura è causata dall’incremento del diametro degli adipociti in tutti e due

gli strati; tale incremento è massimo tra 100 e 180 giorni di età, per poi diminuire tra 180 e 220

giorni. Ma nulla toglie che il tessuto adiposo può essere influenzato anche dal tipo genetico, dal

management e dal livello alimentare (Hauser et al., 1997; Hood, 1982). In allevamento estensivo, la

maturità dei depositi adiposi risulta fortemente influenzata dalle condizioni climatiche e dalla

capacità di adattamento del genotipo animale alle variazioni ambientali (Nurnberg et al., 1998.

Freschi et al., 2003)

L’età dell’animale influisce anche sulla qualità dei grassi, e sul contenuto in colesterolo totale che

presenta una maggiore concentrazione nei soggetti giovani ed in quelli molto anziani. Anche il

tessuto muscolare subisce l’influenza dell’età; infatti, le fibre variano di diametro, a seconda dei

muscoli. Persino il collagene viene influenzato dall’età, che si riduce nei soggetti anziani ma che

diventa però più insolubile per la formazione dei legami crociati tra le catene peptidiche. Questo si

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traduce in una riduzione della tenerezza della carne con l’auvanzaree dell’età. Infine anche la

conformazione del corpo dell’animale si modifica, osservando uno sviluppo maggiore del quarto

anteriore, con relativa perdita in tagli pregiati, come lombata e coscio

Tra i fattori estrinseci all’animale capaci di incidere significativamente sulla quantità e qualità delle

produzioni, particolare importanza assumono il sistema di allevamento e l’alimentazione.

4) Il sistema di allevamento, inteso come un insieme di tecniche applicate atte a favorire gli aspetti

quantitativi e qualitativi delle produzioni animali, riveste un’importanza fondamentale nell’intero

ciclo produttivo. Tra i sistemi in uso si citano quelli comunemente più usati anche con sfumature

più o meno marcate come:

a) Intensivo e/o stallino, è un sistema con cui si allevano un numero di animali di gran lunga

superiore alla capacità portante del territorio ovvero un carico bestiame (n° di capi per ettaro

di territorio) maggiore a quello consentito, maggiore sarà il carico bestiame per ettaro di

territorio, tanto più intensivo sarà il sistema e tanto maggiore sarà la quota di

approvvigionamento delle scorte alimentari (fieno, paglia, mangimi ecc.) esterne

all’azienda. In realtà il sistema intensivo prevede quasi sempre l’allevamento al chiuso

(stalle, ovili, porcilai, pollai ecc.) in cui la stabulazione può essere fissa o libera (posta fissa

o libera). Nella stabulazione a posta fissa l’animale, (generalmente bovini), viene tenuto

sempre nello stesso posto (luogo) della stalla detta “posta” a mezzo di strumenti di

contenimento, come catene, o trappole di contenimento, con la testa rivolta verso la

mangiatoia e la “tazza” di abbeveramento. Nell’allevamento a regime stallino, quasi tutte le

operazioni come: l’abbeveramento (distribuzione di acqua alimentare), la mungitura del

latte, il suo trasporto ai contenitori di refrigerazione e stoccaggio aziendale,

l’allontanamento delle deiezioni, la distribuzione di mangimi concentrati è generalmente

completamente automatizzato. Il grado di automazione in molte realtà aziendali è molto

elevato e tale da prevedere l’uso di microcips impiantati nel sottocute del singolo animale, e

l’impiego di compiuter dotati di programmi di gestione, capaci di calcolare ed erogare

giornalmente in base al peso vivo del soggetto, alla quantità di latte prodotto o di

90
accrescimento medio giornaliero, la quantità di concentrato, perché la quota base di foraggi

viene distribuita alla mangiatoia e/o corsia di alimentazione con appositi carri. In altri casi

(intensivo) si pratica l’unifeed (piatto unico), che non è altro che un miscuglio

opportunamente dosato di fieni, foraggi, insilati (di mais o di sorgo o di orzo) e di mangimi

composti integrati. Questo sistema poiché si svolge al chiuso ci consente il massimo

controllo sia sanitario dell’animale sia quali-quantitativo delle produzioni, sia riproduttivo

Infatti per la riproduzione, vengono generalmente impiegate le tecniche di sincronizzazione

degli estri (SE), quelle di inseminazione strumentale (I.S. o F.A.) indi la programmazione

dei parti. Inoltre l’applicazione di queste tecniche ci consente di conoscere con esattezza la

genealogia dei nascituri che di fatto poi incidono sul processo selettivo, che è tanto più

spinto quanto minore è il numero di riproduttori usati, ma per questa disamina si rimanda

all’apposito paragrafo. La sincronizzazione degli estri e quindi dei parti ci consente di fatti

di programmare le produzioni (carne e/o latte) per poterli avere disponibili nei periodi di

mercato più favorevoli (come per esempio disporre di un maggior numero di “agnelli da

latte” durante le “festività natalizie e/o pasquali e/o nel periodo di maggior flusso turistico

ecc.). Inoltre l’allevamento intensivo o a regime stallino, può essere praticato anche a “posta

libera” ovvero l’animale all’interno del ricovero, in genere capannoni (stalle, ovili, porcilaie,

ecc.) non è più contenuto ma è libero di muoversi e può in alcuni casi disporre di recinti

(paddox) esterni. Con l’allevamento intensivo a regime stallino, l’animale viene protetto

dalle avversità climatiche (pioggia, freddo, neve ecc.), viene sganciato completamente

dall’alternanza della produttività dei pascoli strettamente dipendenti dall’andamento

climatico ambientali, consentendoci così una costante e lineare produttività aziendale. Con il

controllo riproduttivo e la conseguente programmazione delle nascite, negli allevamenti a

indirizzo latte, è possibile applicare anche l’allattamento artificiale dei nati.

Questa tecnica, ovviamente anche se richiede investimenti iniziali di capitali e manodopera

altamente qualificata, anche se di numero limitato comporta però un lavoro che si esplica quasi del

tutto al coperto (capannoni, stalle, magazzini, uffici ecc.). Nell’allevamento intensivo sono previsti

91
a seconda dell’indirizzo produttivo e della specie animale allevata oltre alla zona di stabulazione,

una sala parto (porcilaie), concimaie, o digestori per la produzione di biogas ecc. L’allevamento

intensivo è indicato per quelle razze altamente specializzate per la produzione del latte (bovine da

latte) e della carne (conigli, polli, suini ecc.).

b) Semibrado o semi-intensivo è un sistema in cui gli animali generalmente sono in parte tenuti

all’aperto quando utilizzano i pascoli di giorno ed in parte al chiuso quando la sera rientrano

nei ricoveri aziendali (stalle, ovili, porcilaie ecc.) in cui possono ricevere un’integrazione

alimentare. Su questo sistema possono essere applicate le tecniche per il controllo della

riproduzione. (S.E., I. S., A.A. ecc.,) nonché la mungitura meccanica. Il grado di

intensivazione è strettamente dipendente dal numero di animali allevati per unità di

superficie e dalla produttività foraggera del territorio. Ovviamente quanto più si supera il

carico bestiame per ettaro, tanto maggiore dovrà essere la quota di integrazione alimentare

giornaliera che l’animale riceverà generalmente la sera al rientro o al mattino prima di uscire

dai ricoveri o al momento della mungitura se questa è di tipo meccanica. Al contrario del

regime stallino questo prevede minori investimenti di capitali e un grado di meccanizzazione

e/o automazione di poco inferiore.

Infatti, possono essere sufficienti vecchi locali di allevamento come stalle, ovili, porcilaie ecc., più

o meno ristrutturati, ove possono essere installati in appositi vani anche mungitrici meccaniche, sale

parto, o ricavare al loro interno aree alimentari di integrazione in corsia doppia o singola.

Comunque il grado di automazione dipende dalla capacità imprenditoriale e dalle disponibilità

economiche del titolare dell’azienda. Tale sistema particolarmente adatto per quelle realtà aziendali

che dispongono di vaste aree destinate al pascolo ove altre attività colturali troverebbero difficile

applicazione per la natura del terreno. Con l’allevamento semibrado gli animali godono sia di tutti i

benefici fisici e fisiologici che comporta l’utilizzo dei pascoli (ginnastica funzionale dovuta al

movimento, ingestione di erbe verdi ricche di flavonoidi, di nutrienti ecc.) sia dell’integrazione

alimentare (quando richiesta), sia dei ricoveri dalle intemperie climatiche. Tale sistema, per il

semplice fatto che gli animali rientrano sempre nei ricoveri, consente sempre e comunque un buon

92
grado di controllo sia sanitario e sia nutrizionale-produttivo, e può essere adattato anche per quei

genotipi animali altamente specializzati.

c) L’allevamento brado. Con questo sistema gli animali vengono tenuti quasi sempre liberi sia

nei pascoli che nei boschi ed è adatto per quei genotipi animali autoctoni dotati di alta

rusticità, frugalità, resistenza alle patologie del luogo (basti pensare alla piroplasmosi degli

ovini trasmessa dalle zecche ecc.) ed alle intemperie climatico-ambientali della zona. Tra i

genotipi animali adatti a questo sistema si menzionano i bovini podolici, gli ovini

Altamurani (in via di estinzione) i Leccesi, i Gentile di Puglia, i “Suini neri” del centro sud-

Italia come la cinta senese, il nero di Nebrodi, di Sicilia, di Calabria, di Lucania ecc.

Nell’allevamento brado la riproduzione è naturale, ovvero le femmine si accoppiano con i

maschi nei periodi naturali di riproduzione che ovviamente dipendono dalla specie. L’unico

controllo che generalmente viene effettuato è quello del n° di maschi da riproduzione per

100 femmine pubere (in grado di riprodursi) e del periodo nel quale questi vengono immessi

nelle greggi o nelle mandrie. In genere il n° di maschi per 100 fattrici dipende dal genotipo

(es 4-5 montoni ogni 100 pecore, 3-4 becchi per 100 capre; 3 tori per 100 vacche ecc.).

Le strutture richieste sono sempre di scarso valore poiché sono sufficienti opportune recinzioni con

filo spinato o recinti mobili fatti con cavo elettrico in cui passa una corrente a basso voltaggio

(bovini) o da rete metallica di 1,5 - 2 m di altezza a maglia sciolta medio-larga (5x5 cm o 5x10 cm)

per ovicaprini, oppure al limite vecchi locali in cui richiuderli la sera. Come si può osservare si

tratta di un sistema anche a limitato investimento di capitali iniziali, in cui l’azione dell’uomo si

risolve nella sorveglianza del bestiame, nel prelievo della quota eccedente il carico bestiame per

ettaro (che poi sarebbe la produzione) ove, anche l’eventuale integrazione alimentare si effettua solo

in casi di estrema necessità, poiché il n° di fattrici e dei riproduttori viene scrupolosamente

calcolato in relazione alla produttività dei pascoli soprattutto nel sistema stanziale. In genere

l’allevamento brado viene praticato nelle aree interne montane e/o sub montane quasi

esclusivamente per la produzione della carne (linea madre – figlio e/o vacca vitello, giumenta-

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puledro, pecora-agnello ecc.) e poco per la produzione del latte bovino, ma viene praticato ancora in

modo significativo per la produzione di quello ovi-caprino.

per meglio evidenziare l’incidenza del sistema di allevamento sulla qualità-quantità di carne, basti

ricordare che a parità di genotipo come i vitelloni podolici allevati a completo regime stallino,

rispetto a quelli tenuti in recinti a cielo aperto ed a quelli allevati allo stato brado di pari età, sono

più pesanti, con migliori rese di macellazione e presentano carcasse con una superiore incidenza di

tagli di 1° qualità che risultano più grasse e con una minore % di ossa (Marsico et al., 2008). Inoltre

la loro carne risulta meno rossa più tenera, con maggiori perdite di cottura, con superiori livelli di

acqua e lipidi ma con minore % di proteine, di acidi grassi poliinsaturi della serie ω3 e ω6. Il sistema

di allevamento agisce anche sugli aspetti quanti-qualitativi della produzione di carne dei

monogastrici e per questo basti pensare che la carne dei suini allevati in porcilaia risulta più rossa e

con un pH leggermente più acido rispetto a quella dei soggetti allevati in recinti a cielo aperto. (Di

Matteo et al., 2006).

Bisogna considerare che qualunque sia il genotipo animale considerato l’allevamento all’aperto e/o

allo stato brado, per effetto della libertà di movimento di cui l’animale gode, esso consuma per

scopi energetici (brucia calorie) parte dell’energia alimentare che poi difatti si traduce in una

peggiore conversione alimentare, minori incrementi giornalieri e pesi vivi finali. Inoltre le carcasse

ottenute dalla macellazione degli animali “bradi” sono generalmente meno grasse e più carnose.

Anche sulla produzione quanti-qualitativa del latte, incide in modo significativo il sistema di

allevamento . Infatti il latte prodotto da bovine podoliche allevate con il sistema estensivo e/o

brado, rispetto a quelle in allevamento confinato nei periodi di abbondanza alimentare ovvero

quando utilizzano i pascoli primaverili – estivi, risulta più abbondante e più grasso (Marsico et al.,

1993. Ditrana et al., 1993) e non solo, ma lo stesso è anche più ricco di licopeni derivanti ad una

dieta vegetale composta da una variegata flora erbacea spontanea del momento.

In generale questo sistema di allevamento può essere sia di stanziale sia transumante.

Lo stanziale, si pratica in una sola zona, mentre quello transumante si pratica in più aree.

L’allevamento transumante, come poc’anzi detto, si è praticato molto in passato. Prevede lo

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spostamento da una zona a un’altra, distanti tra loro, delle mandrie, dei greggi, delle morre. Tale

pratica assume il nome di transumanza. In generale essa può essere di tipo:

1. verticale quando le mandrie e/o le greggi si spostano dalla pianura alla montagna (in genere

non superano i 2000 m di quota)

2. orizzontale , quando lo spostamento non prevede grandi dislivelli altimetrici (es. dalla

murgia sud orientale a quella nord occidentale o arrivano alla fascia vegetazionale).

In generale nella transumanza di tipo verticale (pianura-montagna) famosa era la transumanza che

si effettuava dalle pianure pugliesi ai monti abruzzesi, che nel regno delle due Sicilie (Borbonico)

aveva portato alla creazione della “mena delle pecore o “dogana” di Foggia. In questi spostamenti le

greggi e/o le mandrie si muovevano su percorsi prestabiliti e costanti, i cosiddetti “tratturi”.

Oggigiorno quei pochi allevatori che praticano la transumanza, spostano gli animali con autocarri,

autotreni ecc., mentre nei tempi passati lo spostamento avveniva a piedi e durava a secondo della

distanza anche 1 mese. In questo particolare tipo di allevamento, gli animali vengono trasferiti in

montagna o alta collina in piena primavera (dal 15 maggio al 15 giugno) per poi tornare in pianura

alla fine dell’estate inizio autunno (a seconda delle zone e dell’andamento climatico). Se non fosse

per i disagi di tipo socio-economico degli addetti al settore che questo sistema provoca, la

transumanza dal punto di vista tecnico è alquanto utile in quanto il territorio e/o i pascoli per un

certo periodo di tempo “riposano” ed hanno il tempo necessario sia per il ricaccio delle nuove

essenze vegetali, sia per metabolizzare le deiezioni animali (feci – urine), sia per diminuire la carica

microbica e parassitaria in termini di endoparassiti, come la strongilosi gastro-polmonare, ed

ectoparassiti come gli acari delle rogne, gli artropodi come le zecche portatori della piroplasmosi

(piscia sangue). Inoltre, oltre a trovarsi su pascoli rigogliosi e abbondanti, gli animali, trovandosi

per un certo periodo a quote superiori dal livello del mare e quindi immersi in un atmosfera più

rarefatta, per compensare la minore quantità di ossigeno trasportato dal sangue dovuto alla sua

minore concentrazione nell’aria, aumentano il n° dei globuli rossi nel sangue. Tutto ciò, consente

all’animale, quando torna in pianura, un migliore metabolismo che nelle femmine partorite si

estrinseca sia con una maggiore produzione di latte sia con nascite di redi più forti, e più robusti.

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Mentre su quelle di monta autunnale migliora significativamente i parametri riproduttivi (fertilità e

fecondità). Nella transumanza orizzontale gli animali pur godendo dei positivi effetti dei nuovi e

riposati pascoli, godono meno dei cosiddetti effetti altimetrici. Oggigiorno la transumanza a piedi o

tradizionale viene fatta ancora da pochi allevatori lucani, calabresi e pugliesi, ed in molti “comuni”

si festeggia con “sagre” queste tradizioni. L’allevamento nomade o senza terra è quasi del tutto

scomparso. Era praticato da piccoli e medi allevatori che non disponevano di proprietà terriera, per

cui erano costretti a continui spostamenti per far pascolare il proprio bestiame.

L’alimentazione. In merito a questo fattore è utile ricordare un antico detto zootecnico che così

recita: “la razza entra dalla bocca” in cui risalta la grande importanza che l’alimentazione dal lato

quantitativo e qualitativo, riveste nel determinare tutti gli aspetti produttivi. Questo però non deve

indurci a pensare che tutto possa dipendere da questo fattore poiché bisogna sempre tenere presente

i limiti che il genotipo animale impone non solo sugli aspetti quantitativi della produzione, ma

anche su quelli qualitativi della stessa. In altre parole l’alimentazione può definirsi come il

carburante che permette alla macchina animale (genotipo, specie e/o razza) di estrinsecare al

massimo le proprie funzioni produttive che porta scritto nel proprio DNA (in metafora macchina da

corsa), ma ciò, sarebbe impossibile senza un adeguato sistema di allevamento (ambienti e/o strada)

e di un esperto e qualificato allevatore (pilota). Sempre esprimendoci in metafora, non potremmo

pretendere di correre un gran premio (produzione di latte e/o carne ecc.) con una ferrari (genotipo:

frisona, charolait, Bruna alpina ecc.) ponendo nel suo serbatoio del gasolio (alimentazione

grossolana), ed al posto del circuito di Monza (capannoni e stalle razionali) pretendere di correre su

una mulattiera e/o tratturo, ed al volante (gestione) al posto del pilota di F1 (allevatore qualificato)

un trattorista (allevatore poco preparato o un generico addetto di stalla). Ciò vuol dire che per ogni

genotipo animale (specie e/o razza) e per ciascun indirizzo produttivo (latte, carne, uova ecc.) è

necessaria una giusta ed equilibrata alimentazione capace di soddisfare tutte le esigenze nutrizionali

dell’animale, un idoneo sistema di allevamento, corredato dalle giuste condizioni climatiche

ambientali ed un ottimo e qualificato allevatore che conosce a fondo le esigenze nutrizionali ed

ambientali del proprio bestiame. In realtà gli effetti dell’alimentazione, sulla qualità della

96
produzione sono diversi e in funzione della specie e nell’ambito della stessa dipende dai gruppi

etnici (razze). Inoltre l’alimentazione incide primariamente sull’aspetto quantitativo della

produzione. Infatti una carenza più o meno significativa di qualunque principio nutritivo della dieta

in termini di SS, di aminoacidi, di proteine ecc. produce prima una diminuzione o calo e poi arresto

delle produzioni (accrescimenti, produzione del latte, contrazione dell’ovodeposizione ecc.). Inoltre,

è necessario far presente che, anche se esistono risposte comuni o generali da parte degli animali

agli stimoli provenienti dalle diverse tipologie alimentari; esse sono diverse tra monogastrici (suini,

avicoli ecc.) e ruminanti (bovini, ovicaprini ecc.). Infatti nei monogastrici al contrario dei

poligastrici, la qualità dei componenti della dieta hanno effetti più diretti sulle caratteristiche

composizionali e/o sensoriali del prodotto finale, poiché nei ruminanti l’azione dei componenti

della razione viene in parte “filtrata” e/o “attenuata” dall’attività della “flora” e della “fauna”

ruminale. Come anzi accennato resta da stigmatizzare però che l’alimentazione entro certi “limiti”

ha un’azione più diretta sulla quantità della produzione e in misura più contenuta anche se molto

significativa sulla qualità. Infatti essa ha una azione più diretta e significativa sulla adiposità della

carcassa, sulla % di grasso del latte e/o sulla consistenza del guscio delle uova (per effetto del

livello di Ca alimentare) e meno sui parametri sensoriali del prodotto se non in casi particolari e/o

estremi come l’odore di pesce stantio nelle carni di monogastrici alimentate con diete contenenti

quantità più o meno elevate di prodotti e/o di sottoprodotti ittici, o il sapore amarognolo del latte

indi dei formaggi quando le fattrici (vacche, pecore e/o capre) si alimentano di “fieno greco” o di

odore acre caratteristico di un razionamento di sottoprodotti (scarti) orticoli ed in particolare di

crucifere come i cavoli.

Comunque la letteratura sugli effetti alimentari sulla quantità e qualità delle produzioni è

abbastanza completa a cui per gli ulteriori approfondimenti si rimanda.

In particolare, nei suini, l’alimentazione è uno dei fattori esogeni che più di tutti influenza la qualità

della carcassa e della carne. Gli studi effettuati sulla fisiologia e sulla biochimica dell’organismo

animale, insieme a quelli inerenti la nutrizione, hanno portato a tecniche alimentari con un giusto

equilibrio tra energia netta ingerita di mantenimento ed i nutrienti necessari ad un equilibrato

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sviluppo fatto con alimenti più idonei alla dieta di un animale, come i cereali, oppure come

l’utilizzo di vitamine e di antibiotici capaci di incidere positivamente sulle rese o sullo stato

sanitario generale ecc.. Nel programmare l’alimentazione dei suini all’ingrasso, bisogna stabilire,

fin dall’inizio, il tipo di suino che si vuole produrre e regolarsi di conseguenza. Nell’ambito del

nostri mercati la grande maggioranza viene assorbita dai salumifici che li trasforma in prodotti

stagionati di notevole pregio commerciale: prosciutti crudi, coppe stagionate, salumi di qualità.

Per produrre un suino che possegga le caratteristiche richieste per le citate produzioni tipiche,

occorre che esso raggiunga il peso minimo di 140-160 kg. Infatti, a pesi più bassi le carni risultano

troppo acquose, non sufficientemente mature, mentre i cosci non riescono a raggiungere il peso

richiesto per essere trasformati in prosciutti. Ma l’industria non vuole solo carni mature, vuole

anche carni magre; infatti sia il lardo che la sugna trovano un limitato impiego e quindi sono mal

remunerati.

Per produrre quindi molta carne e poco grasso si può intervenire anche attraverso l’utilizzo di razze

o incroci adatti a tale scopo, oltre ovviamente ad una corretta alimentazione che è di fondamentale

importanza. Per stimolare la produzione dei muscoli, bisogna intervenire soprattutto nella prima

fase di sviluppo del suino con una dieta ad alto livello energetico e ricca di sostanze proteiche in cui

siano presenti tutti gli aminoacidi indispensabili nelle percentuali richieste; d’altra parte però nel

finissaggio per evitare un eccessivo accumulo di grasso, occorre limitare il livello energetico della

dieta. L’adozione di questi criteri permette di ottenere sia carcasse di qualità sia maggiori

incrementi nel periodo in cui l’indice di conversione è più favorevole con ovvi vantaggi economici.

Per valutare l'incidenza del tipo di allevamento dell'alimentazione sulle performance produttive dei

suini autoctoni sono stati effettuati diversi studi. Tra questi troviamo le ricerche sviluppate da Liotta

et al., (2004) sul suino Nero siciliano, che hanno seguito in due gruppi di animali omogenei per

numero, sesso, età (3-4 mesi) e peso vivo (39±2kg). Il primo gruppo è stato allevato all’aperto e

alimentato con prodotti del sottobosco, (come radici, tuberi, ghiande, frutti spontanei ecc.) ed a una

parziale integrazione alimentare; mentre l’altro (PA) sempre allevato all’aperto ma alimentato con

mangime commerciale. Gli animali sono stati macellati a 80 kg, sui quali sono stati registrati tutti i

98
rilievi post mortem, e quelli di composizione in tagli delle carcasse e il loro contenuto in tagli grassi

e tagli ossei. I dati ottenuti hanno rilevato che gli animali del primo gruppo hanno raggiunto il peso

alla macellazione dopo 250 giorni l’altro dopo 160 giorni dall’inizio del ciclo. Gli autori hanno

osservato notevoli differenze sulla resa di macellazione, sullo spessore del lardo dorsale a favore dei

soggetti del primo gruppo. Non hanno rilevato invece differenze significative per quanto riguarda

l’incidenza sui tagli magro e delle carcass.

Chiofalo et al., (2005) per conoscere l’effetto della somministrazione di vitamina E sulle

caratteristiche qualitative della carne del suino Nero siciliano hanno usato due gruppi di suini

omogenei per peso vivo ed età, chiamati rispettivamente “CTR” e “Vit. E”. Gli animali sono stati

nutriti con frutti spontanei, del sottobosco con integrazione di concentrato (3% del peso vivo). Ogni

15 giorni, i maiali del gruppo Vit.E sono stati trattati con una somministrazione per via

intramuscolare di l-α acetato di tocoferile (200U.l/head). Dopo la macellazione fatta all’età di 250

giorni, sono state determinate le caratteristiche fisiche, chimiche e acide del muscolo Lungissimus

dorsi. I risultati hanno evidenziato un colore ed una stabilità ossidativa migliori nel gruppo Vit.E,

mentre i valori di forzo al taglio tra i due gruppi erano quasi simili. Nessuna valida differenza è

stata osservata sia a carico della composizione chimica delle carni, sia sulle concentrazioni delle

diverse classi di acidi grassi, saturi e di polinsaturi, invece a carico dei monoinsaturi si osservano

inferiori % nel gruppo trattato con vitamina E. Inoltre il rapporto UFA/SFA è risultato più basso nel

gruppo vit. E rispetto al gruppo non trattato. Infine l’indice trombogenico e l’indice aterogenico,

che servono a valutare la qualità dietetica della carne sono risultati quasi simili nei due gruppi.

99
5) Livello proteico della dieta.

Il livello proteico della dieta non solo incide significativamente sugli aspetti quanti-qualitativi delle

produzioni, ma in particolar modo sugli incrementi giornalieri, sulle rese di macellazione nonchè

sulla composizione delle carcasse. Infatti, razioni a bassa % di proteine oltre a portare a minori

incrementi, portano ad avere carcasse con minore % di tagli carnosi e con maggiori quantità di tagli

adiposi, evidenziando un minore rapporto carne/grasso. È noto però che non è sufficiente parlare di

livello proteico, poiché non tutti gli alimenti contengono lo stesso livello di aminoacidi

indispensabili per cui è necessario utilizzare le materie prime in opportuna combinazione fra loro

per equilibrare i livelli di aminoacidi essenziali ( mais, orzo, avena, farina di carne, di pesce, ecc.).

Infatti tra i 20 aminoacidi che compongono le proteine, 10 sono essenziali per l’uomo ed il suino.

Tra questi particolarmente importanti sono il triptofano, la lisina e la metionina. Ricerche (Becker et

al., 1954) hanno dimostrato che la lisina, la metionina e il triptofano sono aminoacidi che non

sempre sono oggetto d’integrazione nella preparazione delle comuni miscele alimentari del suino.

Quando però, si usano razioni alimentari in carenza, anche di poco, di uno di questi aminoacidi, si

nota una diminuzione della crescita. Le esigenze di proteine e lisina nei suini appena svezzati

sembra aggirarsi rispettivamente intorno al 20-24% e all’1% (Rutledge et al., 1961; Lloyd e

Crampton, 1961) mentre quando si impiegano diete in cui i livelli di questi amminoacidi superano i

fabbisogni nei cinghiali portano a carcasse più grasse senza alcun miglioramento sugli aspetti

produttivi. (Marsico et al., 2002). Dopo che le proteine sono state digerite ed i singoli aminoacidi

assimilati, il loro metabolismo viene considerato in stato di equilibrio dinamico fra le plasma

proteine del sangue e quelle del protoplasma cellulare dei vari tessuti, organi e dell’emoglobina.

Così, nei vari tessuti le proteine sono continuamente sintetizzate ed accumulate. Inoltre da parte

dell’organismo vi è una continua perdita di esse. La sintesi delle proteine dell’organismo coinvolge

molti fattori, come energia, sali minerali e vitamine. Risulta quindi importante che gli aminoacidi

richiesti per costruire una particolare proteina, devono essere presenti non solo in giusta misura ma

anche nella giusta sequenza chimica (Eggert et al., 1953). Così in teoria, si afferma che la carenza o

100
assenza di un solo aminoacido limita la sintesi delle proteine. La carenza induce disturbi di varia

natura, come anoressia parziale o totale, riduzione nell’assunzione di cibo, perdita di proteine nei

secreti ed emorragie, eccessivo calo del livello di proteine nei tessuti e infine incapacità

dell’organismo a sintetizzare proteine.

In condizioni sperimentali, usando razioni prive di particolari aminoacidi, si sono determinati ed

identificati molti aminoacidi fra quelli necessari al suino tra cui spicca la Lisina che è anche definito

limitante primario. In condizioni naturali normali e di alimentazione invece non sono stati osservati

sintomi sufficientemente validi ad eccezione di un rallentamento nella crescita.

6) Tecniche di allevamento animale.

a) Origini,

Com’è noto il genere umano fin dalla preistoria ha utilizzato i prodotti di origine animale,

infatti, l’uomo primitivo (Homo Neanderthalensis prima e Homo Sapiens poi) prima

dell’avvento della pastorizia e dell’agricoltura poi, cacciava gli animali non solo per sfamarsi

con le loro carni ricche di proteine di alto valore biologico (ovvero ricche di aminoacidi

essenziali e/o di limitanti primari come la lisina), ma anche per utilizzare le loro pelli per

coprirsi e/o ripararsi dalle intemperie e le loro ossa per costruirsi attrezzi utili alla vita

giornaliera e/o monili per adornarsi. Con l’avvento dell’”Homo sapiens” e con l’esplosione

demografica della sua popolazione, dovuta anche alla sua superiore intelligenza di

autoapprovvigionamento alimentare, scaturì la necessità di sganciarsi dal ruolo di cacciatore

raccoglitore poiché le disponibilità alimentari erano collegate alle alternanze stagionali. Infatti,

in alcuni e particolari periodi dell’anno (inverno, estati torride e/o siccitose) le risorse

alimentari tendevano ad azzerarsi, non solo come animali da cacciare perché questi migravano,

ma anche come frutta verdura ed altro a produzione stagionale. Per questo e soprattutto per

l’aleatorietà della produzione vegetale e dell’attività di predazione, in quanto, anche in presenza

di prede non sempre la caccia dava esito positivo che, tra 6.000 e 10.000 anni a.c. e forse più

avanti che ebbero inizio le prime forme di domesticazione ed anche se primitive forme di

allevamento. Esse ebbero inizio con la domesticazione degli ovini selvatici, progenitori degli

101
attuali da cui ebbe inizio la pastorizia., che garantiva una sicura disponibilità durante tutto

l’arco dell’anno non solo di alimenti di alto valore biologico come carne e latte ma anche di

pelli ed ossa. Successivamente furono addomesticate altre specie ed ebbero inizio alcune forme

di coltivazione di alcune essenze vegetali come quelle di alcune leguminose e cereali da

granella di facile conservazione e capaci altresì di garantire una riserva energetica alimentare

nei periodi avversi. Con il passare dei secoli e con la domesticazione degli attuali animali

domestici (ovini, bovini, caprini, equini, avicoli ecc.) si è sempre più perfezionato il sistema di

allevamento adattandolo sempre più all’evoluzione del genotipo animale fino a raggiungere

l’attuale grado tecnologico imprenditoriale modellando nel tempo le produzioni in base alle

esigenze della popolazione umana. Oggigiorno, l’allevamento animale con i suoi sistemi e/o

tecnologie produttive si è profondamente modificato e in molti casi assume le sembianze di un

impresa completamente meccanizzata e specializzata in una o più linee produttive. Per questo

basti pensare agli allevamenti per bovine da latte ove la produzione della carne (vitelli) è una

produzione accessoria ed in alcuni casi è considerato un noioso e ingombrante sottoprodotto,

necessario solo perché inizia la lattazione dopo il parto che di solito dura convenzionalmente

305 giorni, oppure negli allevamenti avicoli per la produzione delle uova, o alle aziende

suinicole specializzate nella produzione del suino leggero (80-90 Kg p.v.) o di quello pesante

(> 150 – 160 Kg), o quelle per la produzione di broilers. Non tutti gli allevamenti però sono di

questo tipo, ma vi sono altri che curano due linee di produzione (latte e carne, uova e carne,

ecc.) ed altri ancora con tre indirizzi (lana, latte, carne, ecc.) in cui il grado tecnologico e di

automazione è più contenuto.

Ovviamente il livello di specializzazione produttiva, di meccanizzazione e tecnologia

dell’impresa zootecnica varia in relazione al genotipo animale (specie e/o razza) ed

all’indirizzo produttivo. Infatti, tanto più è spinta la specializzazione produttiva del genotipo

animale allevato, tanto più alta è la meccanizzazione, più sofisticate ed elevate sono le tecniche

impiegate, affinché il genotipo animale venga posto nelle condizioni ideali per estrinsecare le

sue capacità produttive.

102
In altre parole, l’ambiente, le tecnologie di allevamento, l’alimentazione la meccanizzazione

rappresentano il mezzo che consente al “motore” animale (genotipo) di mettere a nudo le sue

potenzialità.

b) Tecniche

Da parte degli allevatori sta sempre più crescendo l’interesse sul tema del benessere animale

(animal welfare) che coinvolge problematiche riguardanti sia l’ambiente in cui vengono ospitati

gli animali, sia l’alimentazione a cui vengono sottoposti, nonché le strutture di ricovero, il

commercio degli stessi e il loro trasporto. Tutto questo ha enorme riflesso sulle performance e

sulla qualità delle carni, ciò porta a dover scegliere oculatamente le modalità di allevamento tra

estensivo ed intensivo, pesando attentamente tutti i pregi e i difetti di ciascun sistema e i

risultati a cui questi potrebbero portare. La normativa posta a protezione dei suini in

allevamento, che vede disciplinata la gestione di tutte le categorie di animali nelle loro diverse

fasi, costituisce sicuramente un capitolo molto importante della giurisprudenza nazionale e

comunitaria in materia di tutela del benessere degli animali da reddito. In particolare, la

normativa sui suini è riportata dal DLgs 534 del 1992 (promulgato in recepimento della

Direttiva 91/630) cui si è successivamente aggiunto il DLgs 53/2004 (recepimento delle

Direttive 88 e 93 del 2001). Gli aspetti toccati nel dettaglio dalla normativa sono

principalmente costituiti dagli spazi, dalla tipologia delle pavimentazioni, dagli elementi

necessari per garantire una buona socialità degli animali e a favorire il comportamento

esplorativo (presenza di elementi di arricchimento), dalla limitazione delle mutilazioni e delle

sofferenze, dalla possibilità di soddisfare il comportamento materno-filiale e i fabbisogni idrici

alimentari. La legge stabilisce requisiti minimi in ordine all’ottenimento di una sufficiente

illuminazione dei locali (almeno 40 lux per un minimo di 8 ore/al giorno) e alla riduzione dei

rumori (intensità< 85 dB). A tali norme si è affiancata, dal 2005, una serie di reports scientifici

commissionati all’Authority Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) che si sono tradotti in

ben cinque “Opinions” riguardanti le tematiche del benessere in relazione alla castrazione dei

lattonzoli, del benessere in funzione della disponibilità di spazio e del tipo di pavimentazione,

103
del benessere dei suini all’ingrasso in funzione della stabulazione e del management, del

benessere dei riproduttori e dei suinetti in allattamento e dei rischi associati alla morsicatura

della coda. Questo apparato normativo e consultivo testimonia l’enorme interesse che

l’argomento “benessere” riscuote in ambito comunitario. Il “bisogno” esplorativo del suino può

essere ritenuto come la sintesi di tre elementi fondamentali: ricerca del cibo, soddisfacimento

della curiosità generata da elementi sconosciuti e infine sottrazione dell’individuo ad uno stato

di noia (Studnitz et al., 2007). Per soddisfare tale bisogno, la legge prescrive che vengano

forniti elementi di arricchimento ambientale, infatti ad un suo mancato appagamento l’animale

diviene più aggressivo. Un requisito di questo arricchimento è che sia fruibile

contemporaneamente da tutti i suini. Il materiale non deve ovviamente essere pericoloso

(tossico, o tale da provocare lesioni). Oltre alla presenza di elementi di arricchimento

ambientale, risulta idoneo aggiungere fonti alimentari frammiste al materiale di arricchimento,

come paglia, foraggi, torba, compost, sabbia e rami. Infatti il suino ama grufolare, per cui

l’ideale sarebbe utilizzare substrati “grufola bili”, manipolabili e masticabili. La disponibilità di

spazi è un altro elemento capace di influenzare il benessere animale. Infatti in sua mancanza, è

facile notare un aumento di aggressività o di apatia dell’animale. Se c’è spazio, il suino può

giacere in decubito laterale, che rappresenta una delle sue posizioni preferite per il sonno e

ottenere, durante le stagioni calde, un’efficace termo_dispersione; i suini possono anche

effettuare una chiara ripartizione della superficie disponibile in aree funzionali deputate alla

defecazione, urinazione, alimentazione e al riposo. Altro aspetto da non sottovalutare è la

disponibilità idrica dell’animale, la quale deve essere pienamente soddisfatta. A tal proposito il

DLgs 53/2004 impone che a partire dalla seconda settimana di età, ogni suino deve poter

disporre in permanenza di acqua fresca “ad libitum”. La carenza o l’insufficienza di acqua può

provocare cattivo sapore/odore della stessa con conseguente abbassamento del livello di

benessere dell’animale. Anche l’origine dell’acqua di bevanda è in grado di influenzare la

salute dei suini; si pensi agli abbeveratoi con acqua stoccata in serbatoi dove si possono avere

fenomeni di proliferazione batterica, che possono aumentare i casi di ulcere gastriche nei suini,

104
rispetto a quelli che ricevono acqua corrente derivante da fiumi e pozzi (Robertson et al., 2002).

Infine anche l’alimentazione liquida, molto diffusa nel nostro Paese, viene seguita da norme, le

quali prevedono il rispetto della massima igiene relativa sia alla pulizia degli impianti, sia alla

salubrità della frazione liquida per evitare un aumento di diarree e patogeni. Il concetto di

benessere non si limita alle sole fasi allevamento ma sono estese a tutte le operazioni

riguardanti il trasporto e la macellazione.

c) Le tecniche di trasporto e macellazione

Il trasporto e la macellazione sono operazioni alle quali tutti i suini d’allevamento sono

inevitabilmente sottoposti. Durante lo svolgimento di queste operazioni gli animali vengono a

contatto con ambienti nuovi, caratterizzati da condizioni ambientali e sociali diverse da quelle

d’allevamento, nei quali non possono alimentarsi, abbeverarsi e muoversi con i tempi e le

modalità conosciute in precedenza. Ovviamente, sia nel trasporto che nella macellazione

devono essere evitate inutili sofferenze e crudeltà. Attualmente le condizioni di questi

importanti due momenti, sono oggetto di attenzioni particolari, da parte dell’opinione pubblica.

Negli ultimi 25 anni la protezione dei suini durante il trasporto e la macellazione è stata oggetto

di numerosi interventi legislativi della Ue che sono stati recepiti dal nostro ordinamento. Tra

queste norme troviamo il Decreto Legislativo n° 532/92, che recepisce la direttiva 91/628/CEE

e i Regolamenti 1255/97 e 411/98, nel quale è previsto per il loro trasporto l’utilizzo di mezzi

dotati di chiusura ermetica e capaci di mantenere temperature prestabilite. Ma, per migliorare il

benessere dell’animale, non è sufficiente rispettare le norme di legge, ma è necessario anche

educare il personale, utilizzare delle strutture idonee ed usare buone pratiche condivise da

allevatori, trasportatori e macellatori. Se queste regole vengono disattese, si può andare

incontro a stress dell’animale, che a sua volta può portare ad un eccessivo affaticamento e

quindi al fenomeno delle “carni strapazzate” (DFD) e/o alla sindrome delle carni pallide, soffici

ed essudative. Il trasporto è un’operazione complessa che comprende numerose fasi quali: il

carico, il viaggio sul mezzo di trasporto, lo scarico in azienda o nell’impianto di macellazione e

in quest’ultimo caso, la sistemazione nelle aree di sosta. La macellazione include la sosta negli

105
appositi box, la movimentazione degli animali all’interno dell’impianto fino alla trappola di

stordimento, nonché l’applicazione delle tecniche che rendono incosciente l’animale prima

della morte. Se tali operazioni non vengono effettuate correttamente in modo da assicurare le

migliori condizioni possibili, le conseguenze sono estremamente gravi come: mortalità, perdita

di peso, minore resistenza agli agenti patogeni, deprezzamento della carcassa e dei tagli a causa

della presenza di lesioni e di ematomi con relativo peggioramento della qualità della carne. Il

calo di peso, connesso al trasporto, si traduce in una rilevante perdita economica. Nei suini la

perdita di peso durante viaggi, anche di breve durata, si attesta tra il 4 e il 6% del peso vivo.

Anche la presenza di lesioni e contusioni sulle carcasse, causate da bruschi contatti con le

strutture di contenimento o dai mezzi coercitivi usati per movimentare gli animali,

rappresentano una perdita economica, oltre a testimoniare una scorretta pratica delle operazioni

di pre-macellazione. Questo porta al deprezzamento delle carcasse e dei tagli di “prosciutto”

destinato alla stagionatura, nonché della qualità della stessa carne che può risultare fortemente

compromessa. Il trasporto e le operazioni di movimentazione producono un innalzamento della

temperatura corporea e se la temperatura permane elevata fino al momento della macellazione,

i processi di acidificazione nel muscolo subiscono una accelerazione e il conseguente rapido

abbassamento del pH, provocando una maggiore denaturazione delle proteine muscolari che

porta ad un peggioramento della qualità della carne, come la diminuzione della capacità di

ritenzione idrica e la colorazione pallida. Inoltre è convinzione diffusa che quanto più il viaggio

è di breve durata tanto minore è lo stress che subiscono gli animali. Questo è vero se le

condizioni di trasporto sono ottimali in termini di densità di carico, di caratteristiche del mezzo

e di capacità dell’autista. Il prolungarsi del viaggio anche in tali condizioni porta ad un

aumento dello stress degli animali. Gli studi effettuati sui trasporti di suini di durata inferiore

alle 8 ore evidenziano che gli animali recuperano in un paio d’ore lo stress dovuto al carico,

infatti, essi si coricano rapidamente. Ciò può avvenire solo se lo spazio a disposizione per

ciascun capo è adeguato a quanto previsto per legge, ossia non meno di 0,425 m2 per 100 kg di

peso vivo. Un altro momento delicato è quello che si verifica durante lo scarico in macello.

106
Questo comprende due fasi: la sosta del veicolo prima dello scarico e l’effettiva uscita dai piani

di carico. La prima fase dovrebbe essere molto breve per la difficoltà di mantenere condizioni

ambientali adeguate nel mezzo fermo. La seconda, che coincide con l’uscita dai piani di scarico

è un’operazione che risulta fisicamente stressante al pari di quella del carico e riguarda soggetti

che potrebbero essere già provati da cattive condizioni di viaggio. Di solito è buona pratica

aiutarsi con delle rampe con inclinazione ridotta per facilitare lo scarico. Successivamente è

prevista una fase di sosta pre-macellazione per allentare lo stress. All’interno dell’area di sosta

deve essere presente un sistema di docciatura e nebulizzazione dell’acqua per diminuire la

temperatura corporea dei soggetti in attesa della macellazione. Questi trattamenti

tranquillizzano l’animale e riducono i comportamenti aggressivi. Il periodo di sosta non deve

essere inferiore a due ore. Solo i soggetti che presentano evidenti segni di sofferenza è prevista

la macellazione immediata. Un altro punto critico è dato dalla movimentazione dei suini dal

box di sosta al punto di applicazione dello stordimento. In questa fase bisogna evitare lo

spostamento contemporaneo di un alto numero di capi perché creano difficoltà di entrata nel

“restrainer”. La pratica più usata per lo stordimento è l’elettronarcosi perché risulta rapida e di

facile esecuzione. Il posizionamento della pinza sulla testa dell’animale deve essere preciso in

quanto un suo posizionamento errato provocherebbe un scorretto passaggio di corrente,

insufficiente per uccidere l’animale. La logica conseguenza è la sofferenza del soggetto. Un

altro metodo è l’utilizzo di CO2 all’interno di gabbie singole o multiple, nel quale il gas supera

la concentrazione dell’80%; che può essere ad alimentazione continua, ma, presenta lo

svantaggio di apportare una concentrazione insufficiente di alcune gabbie e di provocare

irritazione alle mucose, sensazione d’asfissia e sofferenza respiratoria. Ciò causa una forte

irritazione dell’animale che incomincia battere contro le pareti della gabbia che porta ad

echimosi lacero-contuse e lesioni muscolari e ossee. Il sistema di CO2 discontinuo non presenta

questo tipo di problema perché nell’arco di un secondo i suini riceveranno la giusta

concentrazione in grado di provocare lo stordimento immediato. Infine deve essere previsto la

deiugulazione e il dissanguamento dell’animale in sospensione con la testa rivolta verso il

107
basso. Subito dopo segue la spelatura e la preparazione della carcassa, taglio della testa e dei

piedi, allontanamento dei visceri delle frattaglie. La carcassa a questo punto viene divisa

longitudinalmente, in due mezzene. Negli animali di grande mole (bovini, equini ecc.) ogni

mezzena è divisa in due quarti, anteriore e posteriore. I quarti a loro volta, in macelleria,

vengono divisi in pezzi anatomici di varia forma e costituzione, detti “tagli”. I tagli possono

essere distinti in tre categorie a seconda della loro qualità: “tagli di prima, di seconda e di terza

scelta”. I tagli di “prima” sono quelli delle parti posteriori dell’animale, coscio e lombata.

Quelli di seconda sono quelli della gamba e della spalla. Infine i tagli di terza scelta sono quelli

del collo, dell’addome e la parte distali degli arti, anteriori e posteriori. Rispettando tutte le

norme previste, la probabilità di gustare carne di qualità risulta essere decisamente alta.

108
Cap.4

1) I parametri qualitativi delle carni “POST MORTEM”

I parametri che incidono sulla qualità della carne dopo la macellazione, e che influenzano

soprattutto la scelta del consumatore, sono correlate principalmente alle caratteristiche fisiche e

psico-sensoriali come:

 il colore;

 la tenerezza;

 la ritenzione dell’acqua;

 composizione chimica e valore nutritivo;

 la succosità;

 il sapore e l’aroma.

Partendo dall’acquisto della carne, è noto che il primo fattore considerato dal consumatore è lo

spessore del muscolo, infatti al fine di migliorare l’aspetto, la velocità di cottura, la tenerezza e il

gusto della carne, il muscolo deve essere tagliato in senso trasversale alla direzione delle fibre. Per

cui le dimensioni e la superficie della fetta di carne sono funzione dello spessore del muscolo e non

tanto della sua lunghezza.

La tenerezza è solo un fattore potenziale quando si acquista la carne dal macellaio. Un buon

processo di cottura è specifico per ogni tipo di carne e deve essere adattato al tipo di muscolo ricco

o povero in collagene ma anche al livello di reticolazione (età del collagene). Con un contenuto

basso di collagene insolubile, caratteristico delle carni di animali giovani, un breve periodo di

cottura in umido è sufficiente per ottenere una carne tenera; quando l’età dell’animale e la quantità

di questo collagene aumentano, per ottenere una buona tenerezza è necessario aumentare i tempi

frollatura e di cottura.

a) Il colore della carne risulta essere uno degli aspetti visivi che più condizionano la scelta

del consumatore. Ad esso spesso viene associato il concetto di freschezza e di tenerezza.

In realtà il colore è dovuto principalmente al contenuto di mioglobina (correlato al suo

contenuto di ferro e al suo stato fisico-ossidativo). La sua funzione è di legare

109
reversibilmente l’ossigeno trasportato dal sangue attraverso l’emoglobina dei globuli

rossi. Il colore della mioglobina è un rosso vivo, visibile quando la carne è appena

tagliata. Ma con il passare delle ore, si può notare un cambiamento del colore che tende

ad oscurire a causa del processo di ossidazione del Fe. Il colore è un carattere facilmente

rilevabile, seppure in modo impreciso, con un esame visivo. Esso deve essere misurato

solo dopo il raggiungimento del pH finale, cioè a 48 ore dalla macellazione o, in

condizioni eccezionali e solo sulla carcassa a 24 ore.

b) La tenerezza può essere definita come l’attitudine della carne a lasciarsi tagliare. Nella

determinazione della tenerezza concorrono diversi fattori, sia genetici che ambientali, ma

soprattutto è fortemente influenzata dalla frollatura, trattamento (post-mortem) che si

svolge nello stabilimento di macellazione. I processi biochimici che intervengono in

questa fase sono legati all’abbassamento dei valori del pH della carne e alla presenza di

enzimi proteolitici che interagiscono con le proteine miofibrillari. Il consumatore valuta

la tenerezza considerando il colore e la grana della carne. Ma questo giudizio, in realtà è

piuttosto sommario, anche se le carni più scure in genere sono fornite da animali più

vecchi e risultano meno tenere, mentre la grana grossa è sinonimo di tessitura grossolana.

L’importanza dell’apprezzamento della grana, che normalmente si compie esplorando la

superficie della carne, dipende dal fatto che le carni a grana fine sono più succulente e più

tenere. Si può affermare che i fattori che determinano la tenerezza sono tantissimi e tra i

più importanti troviamo: la struttura dei muscoli ed in particolare la lunghezza dei

sarcomeri, le dimensioni (diametri, aree, perimetri) delle fibre dei muscoli, la consistenza

delle aponeurosi, la quantità di grasso, la succosità, la quantità e qualità del connettivo e

l’ammontare del collagene al loro interno e soprattutto la struttura di quest’ultimo

(solubile e/o insolubile).

Durante uno studio effettuato da Nanni Costa L. (2009) sulla valutazione dell’effetto

dell’età alla macellazione sulle caratteristiche qualitative del muscolo Longissimus toraci

di 20 suini di 7 e 10 mesi di età, è risultato che la carne proveniente da soggetti di

110
maggiore età è meno chiara e più rossa (>contenuto di grasso intramuscolare) e presenta

minori perdite di cottura dopo un giorno dalla macellazione. Invece la carne dei soggetti

macellati a 7 mesi presenta minor sforzo al taglio, per cui risulta dotata di una maggiore

tenerezza, ma solo a 1 e a 3 giorni post mortem. Dopo sei giorni questa differenza

scompare. Ciò pone in evidenza che gli effetti negativi sulla tenerezza delle carni, dovuta

all’aumento dell’età, possono essere ridotti o annullati con una buona frollatura.

c) La capacità di trattenere l’acqua o di ritenzione idrica è un attributo di notevole

importanza, in quanto influisce sull’aspetto della carne cruda, sul suo comportamento

durante la cottura e sulla succosità durante la masticazione. È fortemente correlata al

rigonfiamento, termine con il quale si indica la spontanea assunzione di acqua da parte

della carne dal liquido circostante con conseguente aumento di peso. Sia il rigonfiamento

che la disidratazione, dovuti all’interazione tra carne e acqua, definiscono entrambi la

capacità di ritenzione. Su questa influiscono il pH, lo “stato” delle proteine, ed i metalli

bivalenti. La capacità di ritenzione si riduce drasticamente e raggiunge valori minimi in

corrispondenza di pH pari a 5,4-5,5. Le variazioni della capacità di ritenzione dipendono

dalla specie, dal sesso, dall’età, dallo stato di salute, d’ingrassamento e dalle modalità di

trasporto degli animali da cui provengono le carni. Infine, si può affermare che i muscoli

che presentano un alto contenuto di grasso intramuscolare tendono ad avere una elevata

capacità di trattenere l’acqua.

Da quanto anzi riportato, si può affermare che il colore, il potere di ritenzione dell’acqua, la

tenerezza sono caratteristiche legate al pH. Infatti le carni al momento della macellazione

presentano un pH neutro che si modifica poi nelle prime ore di refrigerazione mediante glicolisi

anaerobica. La trasformazione del glicogeno in acido lattico e l’accumulo di questo all’interno dei

muscoli continua sino al raggiungimento di un pH intorno a 5,4-5,5. A questo punto anche se

rimane del glicogeno, il processo di formazione dell’acido lattico si arresta poiché a tali valori di pH

la glicolisi viene bloccata automaticamente. Il pH terminale, raggiunto per carenza di glicogeno e

per inattivazione degli enzimi glicolitici e per inaccessibilità del glicogeno agli attacchi enzimatici,

111
viene chiamato pH finale. A temperatura ambiente la demolizione enzimatica avviene quasi

totalmente nelle prime 24 ore. Un ritardo nell’abbassamento del pH provoca un aumento

dell’intensità del colore e ovviamente anche un aumento delle capacità di ritenzione dell’acqua nel

muscolo fresco.

Quando si passa all’utilizzazione della carne, vengono considerati altri aspetti importanti, a seconda

che si tratti di un consumatore, di un’azienda di trasformazione o di un macellaio.

Considerando in primis il consumatore, si può affermare che i parametri ai quali fa riferimento per

effettuare la sua scelta, oltre a quelli visti in precedenza, sono: il valore nutritivo, la succosità e il

sapore. Il consumatore comunque è sempre alla ricerca di un giusto compromesso tra prezzo e

qualità, ma è tramite l’aspetto della carne cruda, il suo comportamento durante la cottura e la sua

succosità durante la masticazione ed il sapore, che effettua la scelta finale.

Per quanto concerne l’aspetto nutritivo il consumatore tiene di solito presente soltanto il tenore in

grasso, attualmente quasi sempre valutato come fattore negativo. In realtà tramite l’ingestione di

carne, si assimilano principi nutritivi, quali gli amminoacidi, le vitamine, i minerali, gli acidi grassi

ecc. La carne è un alimento plastico e presenta un alto valore nutritivo, perché consente la

reintegrazione rapida delle materie azotate che l’organismo consuma nei processi vitali e durante il

metabolismo. Il tessuto muscolare contiene in media il 75% di acqua, il 20,6% di proteine

(contenenti tutti gli aminoacidi essenziali), piccole quantità di nucleoprotidi (nucleotidi) e

ossiemoglobina. Il residuo 5% circa comprende grassi (che possono giungere anche al 30% nei

tessuti adiposi), sostanze minerali (1-3%). Completano la composizione, le lecitine, i fosfolipidi, le

vitamine, del complesso A e B nonché le basi puriniche (creatina, creatinina, xantina, ipoxantina),

l’acido lattico, l’acido urico, il glucosio, il glicogeno (che durante la maturazione e la frollatura,

dopo la macellazione viene prevalentemente trasformato in acido lattico).

Le proteine di origine animale presentano una maggiore digeribilità rispetto a quelle di origine

vegetale. Questo è legato sia alla presenza nella cellulosa delle cellule vegetali, sia al fatto che le

proteine animali presentano un’elevata concentrazione di aminoacidi essenziali, sostanze che

112
l’organismo umano non è in grado di produrre, per cui possono essere solo assimilati tramite

l’ingestione di carne o di prodotti animali (latte, uova, ecc.).

Le vitamine che vengono fornite tramite il consumo di carne sono invece quelle appartenenti al

gruppo A e al gruppo B, quali la B1 (tiamina), la B2 (riboflavina), la B6 (piridossina), la B12

(cobolamina). La vitamina B12 è assimilabile solo attraverso la carne, in quanto non è presente nelle

cellule vegetali. Attraverso la carne è possibile apportare, anche se in modeste quantità, le vitamine

PP (niacina), H (biotina), E (tocoferolo), acido folico e pantotenico (Dell’Orto et Rossi, 2000).

L’importanza che le vitamine rivestono sono da imputare all’azione che esse svolgono nei processi

energetici, nel mantenimento dei tessuti dell’organismo, nella crescita, nel metabolismo delle

proteine ecc..

La carne apporta diversi minerali, tra questi figurano, il calcio, il fosforo, il ferro, il potassio, lo

zinco, il selenio ecc., che sono indispensabili per i processi metabolici nonchè, per la sintesi del

collagene, per il mantenimento del tessuto osseo, per la crescita, per le funzioni immunitarie.

Infine, la presenza dei grassi risulta necessaria perché oltre a fornire energia al nostro organismo,

provvedono alla costruzione delle membrane cellulari, entrano nella biosintesi di alcuni ormoni, e

veicolano le vitamine liposolubili come la vitamina A, D ed E. Il loro contenuto nelle carni (S.T.Q.)

suine si aggira intorno al 5%, mentre nel muscolo non supera l’1,5%.

Da questo si evince che la carne è una componente importante nell’alimentazione umana. Ed è una

fonte di proteine, di energia e di ferro assimilabile di vitamina B12.

d) La succosità invece è tanto maggiore quanto minore è la perdita di liquidi durante la

cottura ed è influenzata dalla glicolisi post mortem e dalla marezzatura della carne (grasso

d’infiltrazione). Una bassa infiltrazione di grasso determina a livello sensoriale

un’iniziale secrezione salivare che induce una sensazione di succosità che presto è seguita

da una sgradevole sensazione di secchezza (Dell’Orto et Rossi, 2000).

Ed infine un altro fattore che influisce sulla scelta del consumatore è il sapore e l’aroma della carne.

Il sapore della carne dipende dalla combinazione di decine di fattori legati alla composizione della

carne stessa. La cottura consente a queste sostanze di mescolarsi ed interagire in maniera

113
estremamente variabile così da determinarne il gusto. Durante la cottura le proteine si compattano

ed eliminano l'acqua, è per questo che una cottura prolungata rende la carne dura. Cuocere la carne

al punto giusto è una operazione che appare semplice, invece è complessa perché le fibre muscolari,

l'acqua dei tessuti e il collagene richiedono temperature diverse per dare un prodotto che sia cotto

alla perfezione, ovvero tenero, saporito e profumato. Durante la cottura la mioglobina si scompone

cosicché la carne da colore rosso passa al grigiastro. È possibile anche pretrattare la carne per averla

più tenera; infatti si può tritarla per ottenere polpette e hamburger o batterla con un pestello. Questi

procedimenti scompongono la struttura delle fibre muscolari rendendole più morbide e più facili da

masticare.

Dopo qualche giorno la carne cotta può risultare sgradevole a causa della diversa composizione

degli acidi grassi che compongono il grasso. Infatti, la carne di pollo e di maiale riscaldata sono

meno gradevoli di quelle di vitellone e di agnello, questo perché la composizione del grasso

intramuscolare è strettamente correlato con il genotipo animale. Infine anche l’età dell’animale

riveste un ruolo importante sul sapore della carne. Infatti con l’avanzare dell’età dell’animale, si va

incontro ad una intensificazione del sapore, che può risultare sgradevole se il soggetto è molto

vecchio. Inoltre, chi si occupa di vendita o di trasformazione della materia prima considera altri

parametri quali: il calo di peso, l’attitudine a subire una frollatura ottimale, un idoneo abbassamento

del pH, un aumento della tenerezza, ecc. Per il macellaio riveste importanza anche la conservabilità

del prodotto e la possibilità di ricavare tagli della forma e delle dimensioni richieste dal

consumatore. Il grado di accettabilità comunque è assai variabile perché influenzato da numerosi

fattori legati prevalentemente a tradizioni alimentari, a fattori fisiologici, sociologici e culturali. Si

deve ricordare che il grado di accettabilità dipende anche dal rapporto qualità/prezzo. Per cui la

qualità di una derrata alimentare in tutta la filiera risulta necessaria ed essenziale per progettare,

produrre, far progredire l’impresa. La valutazione della qualità del prodotto e/o della carne può

essere fatta in punti e momenti diversi della filiera, ed interessa i diversi soggetti che ne fanno

parte, (dall’allevatore sino al consumatore).

114
4.1

2) Anomalie della carne

Il muscolo è il risultato dell’assemblaggio di una serie di cellule che sono in grado di contrarsi e

sviluppare uno sforzo. Il muscolo è avvolto dal tessuto connettivo (perimisio) che si lega

direttamente o attraverso i tendini e le aponeurosi alle ossa per il movimento. La trasformazione del

muscolo in carne avviene dopo la morte dell’animale, realizzata secondo vari procedimenti

(immobilizzazione, anestesia, dissanguamento). La muscolatura a questo punto attraversa tre fasi.

Nella prima il sistema nervoso rimane eccitabile per circa un’ora e mezza e perde la sua flessibilità.

Nella seconda fase invece si manifesta il rigor mortis, dove il muscolo perde elasticità fino a

diventare rigido. Infine la terza fase è rappresentata dal pieno rigor mortis, quindi il muscolo

diviene rigido e ogni movimento diventa impossibile. I cambiamenti meccanici sono associati alle

modificazioni biochimiche nella composizione del muscolo. Con la progressiva perdita nelle riserve

energetiche (ATP, glicogeno) e nelle condizioni di anaerobiosi (la circolazione del sangue è cessata)

gli ioni (H+) accumulati nelle fibre muscolari inducono una diminuzione del pH da 7 nel muscolo a

5-5,5 al raggiungimento del rigor mortis. È molto importante la qualità della carne che questo

processo si realizzi lentamente nelle 12-24 ore successive alla macellazione. In condizioni normali

dopo l’inizio del “rigor mortis”, segue un periodo chiamato invecchiamento della carne. Durante

questa fase i processi enzimatici sono attivi, e modificano la struttura del muscolo in quanto si ha

una idrolisi delle proteine del sarcomero, (unità motoria della fibra muscolare) che porta ad un

progressivo miglioramento della tenerezza. La manifestazione delle anomalie non genetiche della

carne, sono causate o favorite dallo stress a cui l’animale è sottoposto prima della macellazione. Le

cause che provocano stress sono molteplici e che agiscono a livello fisico: (dolore e ferite);

psicologico (paura e ansietà); di condizioni pedoclimatiche; eventi eccezionali (manipolazione

straordinaria degli animali e cambiamenti climatici); di malattie cliniche e/o subcliniche (stress da

malattie).

115
Carne PSE Carne normale Carne DFD
Fonte: www.aaporcinos.com.ar/

a) Carni PSE

L’acronimo PSE sta per carni “pallide, soffici ed essudative”. Il suino è un animale che è

particolarmente sensibile a questa miopatia. Nei suini la “PSE” è associata alla Sindrome di Stress

Suina (PSS), condizione analoga all’ipertermia maligna dell’uomo. Entrambi le sindromi sono di

tipo ereditario e vengono causate da un difetto nel canale di rilascio del calcio a livello del reticolo

sarcoplasmatico del muscolo. Uno dei geni ritenuti responsabile delle sindromi PSE e PSS è stato

identificato come il “gene dell’alotano”, il quale deve il proprio nome al fatto che la sua presenza

come gene recessivo conferisce all’animale un’elevata sensibilità all’inalazione di questo gas

anestetico “alotano”. Gli animali che manifestano sensibilità all’inalazione di questo gas (individui

PSS), presentano rigidità muscolare, un aumento della temperatura corporea, fino a giungere nei

casi estremi alla morte dell’animale. I suini sensibili al gas alotano, mostrano una scarsa capacità di

reazione nei confronti degli eventi stressori, una mortalità relativamente elevata durante le fasi di

pre-macellazione (soprattutto durante il trasporto al macello) ed una notevole incidenza di carni con

caratteristiche PSE.

In particolare, nella PSE, lo stress premacellazione è responsabile del rilascio di catecolammine (in

particolare adrenalina e noradrenalina) nel circolo ematico con conseguente aumento della

temperatura corporea dell’animale e l’instaurarsi di una diffusa contrazione muscolare responsabile

del depauperamento delle riserve di glicogeno muscolare. Più in particolare, le condizione di stress

116
acuto di breve durata in prossimità della macellazione, predisporrebbero alla manifestazione della

sindrome PSE, attraverso la realizzazione di un repentino abbassamento del pH muscolare quando

la temperatura del muscolo è ancora elevata. Un basso valore di pH associato ad un elevata

temperatura muscolare conducono ad una parziale denaturazione delle proteine muscolari, che

comporta una diminuzione delle loro capacità di legame con le molecole di acqua. A seguito di tale

evento il naturale processo di contrazione muscolare dovuto a quello del tessuto connettivo nel

periodo post mortem determina l’espulsione del fluido non trattenuto dalla matrice proteica negli

spazi extracellulari. In questa fase durante la lavorazione della carne, il liquido contenuto negli

spazi extracellulari si riversa verso la superficie con formazione di essudati (drip). Il colore pallido

tipico delle carni PSE sarebbe invece attribuibile ad una maggiore predisposizione della superficie

della carne a diffondere (scattering) la luce incidente. Questo comportamento è stato attribuito alla

differenza tra gli indici di rifrazione del sarcoplasma e delle miofibrille (il colore diviene tanto più

pallido quanto maggiore è la differenza tra i due indici di rifrazione). Quando lo “scattering” è

elevato, la quantità di luce assorbita dalla carne dovuta all’importanza degli emopigmenti

nell’assorbimento selettivo di luce verde (responsabile della tipica colorazione rossa) diminuisce, la

carne assume una tonalità meno rosso e più gialla. Oltre a questo i bassi valori di pH (5.5)

favoriscono l’ossidazione degli emopigmenti durante la conservazione con formazione di

metamioglobulina (MetMb) che caratterizza la colorazione scura.

Generalmente i tipi genetici più predisposti a generare carni PSE, presentano un maggior sviluppo

delle massi muscolari ed un ridotto quantitativo di grasso di deposito intramuscolare.

c) Carni DFD

Nella produzione di carni DFD (Dark Firm Dry o Asciutte Sode e Scure) intervengono una serie di

eventi capaci di generare stress più o meno acuti e protratti nel tempo, che sono responsabili

dell’esaurimento e/o deplezione delle riserve di glicogeno muscolare che impedisce la realizzazione

di un normale processo di acidificazione post mortem. Quando il consumo di glicogeno è di entità

tale che il pH finale, misurato a 24-48 ore post mortem rimane invariato rispetto al pH iniziale ( a

117
15-45 min. post mortem), le condizioni di rigor mortis vengono profondamente modificate e si

realizza una scarsa denaturalizzazione della matrice proteica che mantiene un’elevata capacità di

ritenzione idrica. Queste carni si presenteranno dure, scure e asciutte. Sono conosciute anche sotto il

nome di “carni strapazzate”, perché dovuta all’eccessivo affaticamento dell’animale nelle fasi

precedenti alla macellazione.

d) Carni a basso valore di pH finale

Questa anomalia è stata scoperta nei suini di razza Hampshire e per questo motivo le carni che la

manifestano vengono denominate “tipo di Hampshire”. È simile alla PSE, ma si differenzia da essa

perché è meno essudativa. La causa è da imputarsi, probabilmente, ad un alto contenuto glicolitico

del tessuto muscolare al momento della macellazione. La carne si presenta acida, infatti a 24 ore il

pH è molto basso (al di sotto di 5.5), il colore è leggermente più chiaro, non manifesta segni

percettibili e la rende non adatta alla trasformazione industriale.

118
Cap. 5 Gli Animali di interesse zootecnico e le loro produzioni

Nello scenario mondiale odierno, gli animali domestici e/o di interesse zootecnico, ivi compresi

quelli ittici e di interesse faunistico venatorio per le loro capacità di produrre alimenti primari,

pellami ecc., rivestono un ruolo di primaria importanza per l’economia di regioni, nazioni o di

continenti. Tra le produzioni di primario interesse citiamo la carne, il latte, le uova, invece tra le

secondarie e per questo non meno importanti ricordiamo le fibre tessili animali (lana e peli come

quelli d’angora ecc.) le pelli, i vari sottoprodotti della macellazione (sangue ecc.) e della

trasformazione (farine animali, sieri, ecc.). Ovviamente ci interesseremo delle produzioni alimentari

primarie e degli animali da cui originano, delle loro capacità produttive, della loro biologia e del

loro grado di specializzazione produttiva dovuta al grado di selezione genetica operata dall’uomo.

Come già accennato in precedenza, gli animali sulla base del loro apparato digerente li avevamo

suddivisi in poligastrici o ruminanti (sprovvisti degli incisivi superiori) a cui appartengono quei

genotipi (specie) che presentano un apparato gastrico suddiviso in 4 cavità, di cui 3 prestomaci

(rumine, reticolo e omaso) ed uno stomaco ghiandolare (vero), tutti completamente funzionanti

dopo lo svezzamento, (bovini, ovicaprini, camelidi, giraffe ecc.) e monogastrici con arcate dentarie

complete a cui appartengono tutte le specie provviste di un solo stomaco. Ovviamente le varie

specie, in base alle abitudini alimentari, indi al tipo di apparato digerente vengono raggruppate e/o

classificate come:

a) Erbivori cui fanno parte tutte quelle specie la cui dieta è esclusivamente costituita da

vegetali, salvo eccezioni di casi patologici e/o di denutrizione grave che porta alla

depravazione dell’appetito che induce l’animale a ingerire qualunque sostanza organica

(feci, carogne, scarpe ecc.). A questa categoria appartengono tutti i ruminanti come i

bovini, i bufalini, gli ovicaprini, i camelidi le giraffe ecc. ed alcuni monogastrici come

gli equidi (cavalli, asini, zebre, muli ecc) e i lagomorfi (conigli, lepri) la cui funzione

ruminale viene in un certo qual modo sostituita in parte dall’attività dell’intestino cieco.

119
b) Omnivori di cui fanno parte alcuni monogastrici la cui dieta è in parte costituita da

alimenti di origine vegetale come le erbe, le cariossidi di leguminose e/o di cereali, di

frutta, farine di estrazione ecc., ed in parte da quelli di origine animale (insetti,

lombrichi, larve, uova, nidiacei di uccelli, topi, arvicole carogne ecc.) utilizzate quasi

sempre allo stato brado o semibrado e/o di farine di carne ecc. come i suidi (suini e

cinghiali) avicoli (polli, tacchini, fagiani, faraone ecc.), animali tutti che sottoposti ad

allevamento intensivo vengono alimentati con mangimi composti integrati all’uopo

formulati, le cui materie prime sono scelte e controllate sia dal lato qualitativo sia da

quello della sicurezza alimentare.

c) Carnivori a cui appartengono tutte le specie che si nutrono esclusivamente di alimenti di

origine animale e di cui fanno parte tutti i predatori diurni e notturni come i felini (tigri,

leoni, gatti ecc.) i rapaci diurni (aquile, falchi ecc.) e stringidi notturni (gufi civette ecc.).

Dal lato produttivo questo gruppo di animali riveste una scarsa importanza, per cui non

saranno trattati, ma sono particolarmente importanti dal lato faunistico ambientale per il

contributo che essi forniscono al mantenimento dell’equilibrio biocenotico all’interno

degli ecosistemi naturali.

1) Parametri biologici degli animali

La conoscenza dei parametri biologici del proprio bestiame da parte dell’operatore e/o imprenditore

zootecnico (allevatore) riveste particolare importanza, poichè da essi dipende la produttività

aziendale. Tra questi è indispensabile conoscere:

a) il peso/i alla nascita del/i piccolo/i che dipende/no dalla specie, razza e dal n° dei nati per

parto. Esso è correlato agli incrementi medi giornalieri ed al peso vivo alle età tipiche

(svezzamento, pubertà, macellazione) ma non al peso medio di adulto, poiché si rientra

quasi sempre nell’intervallo dei pesi del genotipo (specie e/o razza) di appartenenza.

120
b) peso/i allo svezzamento: è comunque dipendente dal peso vivo alla nascita e dei fattori

che lo influenzano e varia con il genotipo animale e con le capacità materne ovvero dalla

quantità e/o qualità del latte prodotto dalla madre e dalle cure che essa è in grado di dare

ai propri figli.

c) svezzamento: rappresenta il passaggio del giovane animale dall’alimentazione lattea a

quella solida di adulto. In realtà al momento si distinguono due tipi di svezzamento. il

primo detto naturale e consiste nel graduale allontanamento da parte della madre del

figlio, la cui età varia con il genotipo (specie) animale (8-10 mesi bovini, equini, 3-4

mesi ovi-caprini, suini ecc.) ed è caratteristico degli allevamenti bradi e/o estensivi.

Il secondo detto precoce praticato negli allevamenti di tipo intensivo e/o semi-intensivo

con un grado tecnologico medio alto ed alto; infatti, viene applicato sia negli

allevamenti suinicoli ove i lattonzoli vengono allontanati dalle scrofe entro trenta giorni

di età e sottoposti ad alimentazione solida, sia negli allevamenti ovi-caprini da latte in

cui gli agnelli e/o i capretti vengono slattati intorno a 30 giorni di età i primi e 40-50

giorni di età i secondi. Mentre negli allevamenti di bovini da latte, i vitelli vengono

allontanati dalle vacche subito dopo la fase colostrale (12-24 ore dalla nascita) per poi

passare all’allattamento artificiale e svezzarli a 6-8 mesi di età, o addirittura il colostro

gli viene somministrato al secchio munito di apposita “tettarella”.

d) Pubertà: rappresenta l’età in cui le femmine di ogni specie e/o razza presentano il primo

estro (calore) che coincide con la prima ovulazione in cui esse acquistano la capacità di

riprodursi. Nei maschi coincide con l’età in cui producono nemaspermi maturi (mobili e

vitali). La pubertà dei maschi non va confusa con l’istinto genesico che coincide con i

primi tentativi di accoppiamento operate dal giovane soggetto nei confronti delle

coetanee e/o in presenza di femmine in calore. In generale l’istinto genesico si manifesta

prima dell’età pubera.

121
e) Fertilità: rappresenta la capacità di concepimento della femmina e/o del maschio poiché

l’animale può essere pubere ma non fertile. Infatti anche se in estro e si accoppia, non

sempre all’accoppiamento segue la gravidanza e le cause possono essere diverse come:

e1) l’accoppiamento avviene in un tempo distante dall’ovulazione

e2) per fatti patologici e/o nutrizionali a carico della femmina

e3) per sterilità e/o scarsa concentrazione di nemaspermi vivi e vitali nell’eiaculato.

ma le cause di infertilità femminile e/o maschile sono molteplici e non trattabili in questa di samina

per cui si rimanda alla letteratura del settore.

In sintesi la fertilità rappresenta il rapporto tra il n° delle femmine risultate gravide rispetto a quelle

pubere messe in accoppiamento (monta)

f) Fecondità rappresenta la capacità della femmina pubere a essere fecondata (accoppiata).

Infatti non sempre tutte le femmine pubere messe in accoppiamento (o monta), vengono

fecondate, per cui un certo numero alquanto limitato però non vengono coperte o

montate. Anche qui le cause sono diverse e vanno dai calori silenti (estri con limitate

manifestazioni esterne e/o ormonali) della femmina che non viene individuata dal

maschio/i, ad un basso numero di maschi da riproduzione presenti nel branco, nella

mandria, nel gregge e/o sul territorio (allevamento brado e/o popolazioni selvatiche). In

sintesi la fecondità si può esprimere come:

g) Prolificità non rappresenta altro che il n° dei nati per femmina partorita e qualora

dovessimo dare un’espressione matematica questa sarebbe:

122
Si ricorda che il n° di femmine partorite, generalmente è quasi sempre inferiore a quello delle

gravide, in quanto alcune di queste varie per cause o concause, non portano a termine la gestazione.

Infatti alcune possono abortire per traumi, per malnutrizione, altre possono presentare un

riassorbimento fetale all’inizio della gestazione ecc.

h) Estro e ciclo estrale. L’estro o calore si identifica generalmente con il periodo in cui la

femmina risulta fertile perché avviene l’ovulazione che, a secondo della specie può

avvenire nel colmo dell’estro o verso la sua fine (giumenta) o essere addirittura indotta

dall’accoppiamento (coniglia e felini ecc.,) La durata dell’estro varia con il genotipo

animale, se la femmina non viene fecondata l’estro compare ciclicamente, (ciclo estrale).

In tutte le specie il ciclo estrale è composto da 4 fasi dette: proestro, estro, metaestro e

diestro. Anche la durata del ciclo generalmente pari ad un ciclo lunare (28 giorni), varia

con il genotipo animale.

i) Gestazione o gravidanza: rappresenta il periodo necessario al prodotto

dell’accoppiamento (zigote) prima e feto poi per completare il suo sviluppo all’interno

dell’utero. Essa inizia con il concepimento (inizia con lo sviluppo cellulare dello zigote

che si ottiene dall’incontro tra l’ovocellula e lo spermatozoo) e termina con l’espulsione

del feto (parto) La durata della gestazione è strettamente dipendente dal genotipo

(specie) animale e all’interno di questo, poco dall’età della fattrice, dal n° di feti,

dall’ordine di parto e dallo strato nutrizionale della femmina. Comunque a titolo

esemplificativo. nella tabella si riportano i dati riproduttivi relativi ad alcune specie.

123
Specie Comparsa Ciclo Durata Durata della Ricompars Inizio Numero
animale 1° estro estrale in dell’estro gravidanza a dei calori sfruttamento dei nati
femmine per parto
fecondate
Cavalla 12-18 mesi Primavera e 3-10 d. 11 mesi 336 3 -8 giorni 36 mesi stallone Uno
36-48 mesi femmine
autunno giorni dopo il
ogni 21-28 parto
d.
Bovina 10-15 mesi ogni 20-22 1-3 d. Nove mesi Tre-otto 18-20 mesi tori Uno
18-24 mesi femmine
d. 270 giorni settimane
dal parto
Scrofa 4-6 mesi ogni 3- 4 2-5 d. Quattro mesi 35 giorni 10-14 verri e 8-12
(suini) sett. dopo lo scrofette
slattamento
dei
lattonzoli
Ovini 6-8 mesi ogni 17 -21 3 d. 143-145 Autunno Alla maturità Uno-due
d. giorni ogni 17 20 sessuale primo
giorni anno
Caprini 7-10 mesi ogni 17 -21 1-3 d. 140-145 Inizio Al primo estro Uno-tre
autunno giorni autunno utile dal nono
inverno fine estate mese in poi
settembre-
marzo
Coniglia 6-7 mesi ogni 17-21 1-3 d. 1 mese Uno-cinque Dal sesto mese in 4-12
d. giorni dal poi
parto
Cane 7-9 mesi 2 volte anno 2-3 sett 63 giorni Quattro Maschio al 2-12 a
primavera e mesi secondo anno seconda
autunno femmina al terzo della razza
anno
Gatto 10 mesi 2 – 3 volte 3-15 d. 60 giorni Ogni tre Primo anno 4-6*
anno mesi

* Nascono ciechi

124
j) Pesi vivi alle età tipiche: Per quanto concerne questo parametro, è necessario fare

riferimento all’età:

L1 : alla nascita

L2 : allo svezzamento

L3 : all’inizio sfruttamento riproduttivo come prima monta o primo parto

L4 : alla macellazione

L5 : a fine carriera o adulta

L6 : e quella relativa all’aspettativa media di vita

Ovviamente a ciascuna età com’è noto, nelle normali condizioni di allevamento e di sviluppo

corrisponde un peso vivo che è funzione del genotipo (specie e/o razza) del sesso così come

riportato in precedenza. Per questo basti pensare alla diversità di peso esistenti fra le diverse razze

bovine che vanno dai 12 – 15 ql dei tori Chianini ai 3-2-4 ql delle bovine Jersey; ai 60-300 Kg dei

suini, ai 35 – 100 C.a Kg degli ovi-caprini, ai 2-7 Kg delle razze cunicole, ove a fianco delle razze

cosiddette giganti si affiancano quelle nane.

2) La riproduzione e tecniche riproduttive

Con il termine “riproduzione” si intende l’insieme degli atti e delle tecniche operati dagli uomini e

dagli animali aventi come finalità sia l’incremento demografico di una certa popolazione animale

sia la trasmissione del patrimonio genetico alle popolazioni successive. In realtà esistono due tipi di

sistemi riproduttivi, il primo riguarda le popolazioni animali allo stato selvatico ed il secondo quello

degli animali sottoposti ad allevamento. Tutte le specie animali poi, in base al tipo di riproduzione

si raggruppano in poligame e monogame. La poligamia riguarda quelle popolazioni animali in cui

un maschio feconda due o più femmine e non ha alcun ruolo nella cura della prole di cui si

occupano esclusivamente le femmine. La poligamia riguarda la maggior parte delle specie animali

di interesse zootecnico: i ruminanti come i bovidi (bovini e bufalini), gli ovini, i caprini, i non

ruminanti come i suidi (suini e cinghiali), i lagomorfi (conigli e lepri), gli avicoli (tacchini, polli

125
ecc.) gli equidi (cavalli e asini) e gli erbivori poligastrici selvatici (daini, cervi, gazzelle, gnù), quelli

monogastrici (zebre, asini selvatici ecc.) e tra questi i carnivori predatori (leoni, leopardi, ghepardi

ecc.).

La monogamia che può essere permanente e durare tutta la vita o stagionale (temporanea) in genere

è presente nella maggioranza dei casi nelle specie avicole selvatiche come i rapaci diurni e notturni

(falchi, poiane, aquile, barbagianni civette, gufi ecc.), o come nei granivori tipo i passeracei

(passero domestico, fringuelli, cardellini ecc.) e/o gli insettivori (pettirossi, merli ecc.) e nelle specie

avicole di affezione (pappagallini ecc.). La monogamia stagionale e/o temporanea prevede la

formazione della coppia eterosessuale (un maschio e una femmina) all’inizio della stagione

riproduttiva che prevede da parte del maschio la conquista e la difesa di un proprio territorio, il

corteggiamento della femmina, la costruzione del nido e/o della tana e l’accoppiamento. In genere

la coppia conduce vita comune ove entrambi i genitori provvedono alle cure parentali e alla difesa

sia della prole che del territorio di riproduzione. Con lo svezzamento dei giovani la famiglia si

separa e ciascun individuo conduce vita a parte. Le coppie si riformano alla stagione riproduttiva

successiva, e in genere tra soggetti appartenenti a famiglie diverse, ma possono essere formate da

individui della stessa famiglia quando la densità di popolazione della specie è molto bassa.

La monogamia permanente invece riguarda quelle specie in cui una volta formatesi la coppia

riproduttiva, i due soggetti restano insieme per tutta la vita, e se per disgrazia uno dei due dovesse

morire l’altro resta solo fino alla morte è il caso di alcune specie di pappagallini (inseparabili), e dei

colombi domestici (ma questi si rifanno una vita in caso di separazione). In questa sede non

ritenendo opportuno approfondire le motivazioni etologiche dell’argomento per cui si rimanda alla

bibliografia del settore.

Negli allevamenti degli animali di interesse zootecnico nella stragrande maggioranza dei casi la

riproduzione è basata sulla poligamia fatta eccezione di pochi casi come la riproduzione forzata di

coppia delle lepri, delle starne e/o pernici. E’ opportuno precisare che allo stato selvatico le starne e

le pernici sono monogame stagionali e che il maschio delle lepri è poligamo.

126
Come anzi accennato, la poligamia è il tipo di riproduzione praticata negli allevamenti, e questo è

un fatto molto importante dal lato economico per le imprese del settore, poiché esclusa la

produzione della carne i maschi (quelli non destinati alla macellazione) rappresenterebbero un

aggravio economico poiché essi non producono né latte, né uova, ma al limite come negli ovini

merinizzati un vello che per peso e qualità è superiore a quello delle femmine; ma, considerato

l’attuale valore economico delle lane italiane, il mantenimento in allevamento di un numero di arieti

superiore a quello strettamente necessario a fini riproduttivi non è da prendere in minima

considerazione, poiché anche in presenza di condizioni favorevoli del prezzo della lana, un maschio

rappresenta sempre e comunque un aggravio economico. Una deroga a questo principio può essere

fatta solo in presenza di “grandi” riproduttori da sfruttare come “donatori di seme” allorché si

pratica l’inseminazione strumentale (I,S. e I.A.) di cui parleremo in seguito. Comunque il n° di

maschi utili ai fini di una corretta riproduzione da mantenere in un’azienda zootecnica è in funzione

del genotipo animale (specie e/o razza) e dalle tecniche di riproduzione che sono parte integrante

del sistema di allevamento. Per questo, la riproduzione può essere di tipo naturale con monta

(accoppiamento) libera, ovvero lasciata al caso in cui un n° proporzionato di maschi viene lasciato

libero nelle mandrie (bovine), nelle greggi (ovini e caprini), branchi (equidi) o morre (suini), di

accoppiarsi con le femmine quando queste entrano in estro (calore); o controllata ovvero, il

personale addetto, una volta individuata la/e femmina/e in calore, questa/e viene/vengono portata/e

dal/i maschio/i per l’accoppiamento (monta). Nella “monta” libera che, per altro viene praticata nei

sistemi bradi e/o al massimo nei semibradi, se da una parte essa ci consente una riduzione di

manodopera dall’altra non ci permette sia di conoscere la genealogia del nascituro limitando così il

progresso di selezione, poiché ci è dato sapere con esattezza solo la madre e le sue ascendenti; sia

una programmazione dei parti. Nel caso, in cui si pratica la monta a mano, pur in presenza di un

maggior impiego di manodopera con ovvi risvolti (aggravi) economici, questa ci consente non solo

di conoscere l’esatta genealogia del neonato, ma ci permette di sfruttare meglio il maschio,

attraverso una equilibrata programmazione del numero di femmine da far montare evitando monte

ripetute della stessa fattrice, poiché allo stato libero, il maschio una volta individuata una femmina

127
in calore, non l’abbandona finché essa è in estro tralasciando le altre con vistosa “fallanza”, per cui

la femmina non coperta per essere fecondata deve ritornare in calore (dopo 20 -28 d.) con ovvia

dilazione temporale della frequenza dei parti.

Ovviamente, in entrambi i casi il n° di maschi per 100 fattrici varia con il genotipo (specie e/o

razza), con il vigore sessuale dei maschi e con il tipo di riproduzione impiegato, anche se nella

“monta libera”, il numero di riproduttori è superiore di 2 - 3 unità rispetto alla “monta controllata”.

In generale nella monta naturale libera il n° di maschi per 100 femmine anche con le dovute

variazioni, sono di seguito indicate

bovini : 3 -5 tori per 100 vacche

ovini: 3 -4 arieti per 100 pecore

caprini: 3 -4 becchi per 100 capre

suini: 5-6 verri per 100 scrofe

polli: 4 – 6 galli per 100 galline

tacchini: 5 – 10 maschi per 100 tacchine

conigli: 1 maschio ogni 5 – 10 coniglie

mentre nella monta a mano, il numero dei maschi si riduce significativamente e il n° di femmine da

assegnare ad un maschio pur con le dovute variazioni sono riportate nello schema seguente:

genotipo di riproduttore n° di femmine assegnate per Frequenza delle monte

stagione di monta

Toro Vacche Alle 6.00

da latte 30-50 alle 12.00

da carne 40-60 alle18.00

autoctono 30-40 alla mezzanotte

Ariete da carne 40-50 pecore Alle 6.00

da latte 50-60 pecore alle 12.00

alle18.00

128
alla mezzanotte

Becco adulto 25-45 capre Ogni quattro ore-sei ore

giovane 25-30 capre

Stallone: Un salto ogni 4 - 6 ore

dolicomorfo 25-35 giumente

mesomorfo 35-50 giumente

Brachimorfo 50-60 giumente

Verro 35-45 scrofe Un salto ogni sei ore

Tacchino 35-40 tacchine Accoppiamento ogni quattro

ore

Le frequenze indicate valgono per riproduttori maturi, poiché per i giovani è indicata una frequenza

minore.

Nella monta controllata per individuare le femmine in calore, molte volte, anzi, quasi sempre è

necessario utilizzare un maschio esploratore (o Ruffiano) di solito un soggetto con “deviazio penis”

o provvisto di un grembiule “anti penetrazione” posto nella zona ventrale anti peneale, e di un

tampone colorato applicato nella regione sternale che al momento della simulazione della monta

colora la femmina facilitando così l’opera degli addetti, che una volta catturata e/o isolata la portano

dal maschio a lei assegnato.

E’ necessario ricordarsi che è sempre la femmina che deve essere condotta nell’area di riproduzione

del maschio e non viceversa questo per problemi etologici comportamentali che rendono più sicuro

il riproduttore allorché opera nel suo territorio.

Quale logica evoluzione della monta naturale controllata è la inseminazione / riproduzione

strumentale, detta impropriamente fecondazione artificiale (I.S. o I.A.) Tale tecnica è praticata negli

allevamenti tecnologicamente più evoluti e specializzati dal punto di vista produttivo, come nel caso

delle aziende bovine da latte, e/o da carne (allevamenti intensivi), nel settore dell’allevamento

ippico di tipo sportivo, negli allevamenti suinicoli, ecc.

129
L’inseminazione strumentale è una tecnica di riproduzione avanzata, che ci permette sia di

conoscere con esattezza la genealogia (madre, padre ecc.) del neonato, sia di ridurre enormemente il

n° di riproduttori, a tal punto che il seme di pochi e selezionati maschi è sufficiente per servire più

aziende, ottenendo due benefici.

Il primo di ordine economico dovuto alla riduzione e/o assenza di maschi in allevamento, il secondo

di tipo genetico poiché con la riduzione del n° di riproduttori si accelera il progresso selettivo della

produzione. Tale tecnica però richiede personale altamente qualificato, un laboratorio attrezzato e si

basa su diverse fasi:

a) Raccolta dell’eiaculato, che viene eseguito con l’ausilio di una vagina artificiale, alla cui

estremità è posto un beckerino e/o provetta di raccolta, ed in presenza di una femmina in

estro e/o nel caso di riproduttori particolarmente addestrati di un manichino rassomigliante

la femmina della stessa specie del maschio. Per la raccolta, si porta il maschio dalla

femmina e/o dal manichino, provvisto di vagina artificiale e quando il maschio salta sulla

femmina, l’operatore devia il pene nella vagina artificiale ove si deposita l’eiaculato, il cui

volume varia con il genotipo animale (specie e/o razza).

b) Valutazione dell’eiaculato; una volta raccolto l’eiaculato esso viene trasferito in laboratorio

ove si misura il volume, la concentrazione nemaspermatica espressa in milioni o bilioni per

ml, la motilità % nemaspermatica, la concentrazione % di nemaspermi morfologicamente

anomali, il pH e la relativa composizione chimica % del plasma seminale riguardante la

concentrazione in proteine, quella del fruttosio, del sorbitolo dell’acido citrico,

dell’inositolo, della glicerofosfato (GPL), quella del K+, Na+, Ca2+, Mg2+ e Cl- così come da

tabella riportata da B. Hafer e E. S. E. Hafer (2000) ed adottate da Lake nel testo di Bell,

Freeman, Fhisiologycal and Biochemistry of domestic Fowl (1971).

130
Caratteristiche e componenti chimici del seme dei maschi di interesse zootecnico
Toro Ariete Verro Stallone Gallo
Volume dell’eiaculato
5-8 0,8-1,2 150-200 60-100 0,2-0,5
(ml)
Concentrazione
nemaspermatica 800-2000 2000-3000 200-300 150-300 3000-7000
(milioni/ml)
Sperma /eiaculato
5-15 1,6-3,6 30-60 5-15 0,06-3,5
(bilioni)
Motilità
40-75 60-80 50-80 40-75 60-80
nemaspermatica
% di nemaspermi
morfologicamente 65-95 80-95 70-90 60-90 85-90
normali
Proteine (g/100 ml) 6,8 5.0 3,7 1,0 1,8-2,8
pH 6,4-7,8 5,9-7,3 7,3-7,8 7,2-7,8 7,2-7,6
Fruttosio 460-600 250 9 2 4
Sorbitolo 10-140 26-170 6-18 20-60 0-10
Acido citrico 620-806 110-260 173 8-53 assente
Inositolo 25-46 7 -14 0 380-630 20-47 16-20
Colina
100-500 1100-2100 110-240 40-100 0-40
glicerofosforilata (GPC)
Ergotionina 0 0 17 40-110 0 -2
Na 225 +/- 13 178 +/- 11 587 257 352
K 115 +/- 6 89 +/- 4 197 103 61
Ca 40 +/- 2 6 +/- 2 6 26 10
Mg 8 +/- 0,3 6 +/- 0,8 5-14 9 14
Cl 174-320 86 260-430 448 147
Bell, Freeman, eds, Physiology and Biochemistry of the Domestic Fowl. New York: Accademic
Press, 1971; and from Foote, Gilbert, Mean values of chemical components (mg/100 ml +/_ S.E.)
unless otherwise indicated.

131
Ovviamente la forma normale degli spermatozoi varia con la specie animale.

c) Fase di preparazione delle dosi da inseminazione: Questa è una fase molto delicata e bisogna

operare in condizioni igienico sanitarie molto elevate, poiché la minima contaminazione

batterica può compromettere l’intera operazione. Detta fase prevede anzitutto la

preparazione del “mestruo diluitore” che è una soluzione acquosa contenente tutti i principi

chimici riportati per il liquido spermatico ed avente concentrazioni simili a quelle indicate

nell’eiaculato, con aggiunta però di alcune sostanze (antibiotici) con funzione batteriostatica

(battericida). Il controllo delle concentrazioni dei principi chimici del mestruo riveste

particolare importanza sia per il controllo della pressione osmotica del mezzo sia per la

nutrizione dello spermatozoo che determina poi la sopravvivenza dello stesso, atteso che le

cellule germinali maschili hanno limitate riserve energetiche al loro interno e quindi un

aspettativa media di vita molto limitata, ma, comunque sufficiente per compiere la risalita

delle vie genitali femminili fino all’incontro con l’ovocellula, alla lisi della sua parete ed

all’ingresso nel citoplasma, ovulare, per dare poi inizio alla divisione cellulare che porterà

prima alla formazione dello zigote e poi a quella del feto. Una volta preparato il “mestruo

diluitore”, si preparano le dosi o “paiette” da inseminazione, in cui il numero di nemaspermi

è di gran lunga inferiore a quella dell’eiaculato, e comunque varia in funzione della specie.

A tal punto, le “paiette” sono pronte per essere impiegate al momento o congelate in azoto

liquido per essere riprese quando necessario.

Ovviamente l’impiego della I.S. o I.A., trova il migliore e razionale impiego allorquando si pratica

la sincronizzazione degli estri (S.E.) poiché come in precedenza accennato ci consente anche la

programmazione dei parti in un lasso di tempo relativamente breve (2-5 giorni). Essa consiste

nell’applicazione in vagina di una spugnetta (pessario o tampone) imbevuta di acetato di

florogestone (30 – 40 – 60 mg) o di un impianto sottocutaneo (sottocute dell’orecchio) la cui

concentrazione di progesterone dipende dal genotipo animale (bovine, pecore, capre ecc.). impianto

che viene rimosso dopo 12 -14 giorni a cui può far seguito una iniezione di gonadotropina serica

(300 – 500 – 1000 U. I.). Il progestageno (progesterone o suoi derivati) ha il compito di arrestare il

132
ciclo sessuale delle femmine trattate nella fase di proestro mentre la gonadotropina scatena l’estro e

l’ovulazione. Al trascorrere del 14° giorno con la rimozione del “pessario vaginale” o

“sottocutaneo” la femmina riprende il ciclo normale. Infatti quasi tutte quelle trattate (ca. 80 %) nel

volgere di 24 – 48 max presentano l’estro (vanno in calore) e quindi pronte per essere fecondate,

fecondazione che può essere fatta con monta naturale (o meglio controllata), oppure può avvenire

con la pratica dell’inseminazione strumentale fatta da in seminatori laici o da veterinari, la cui

descrizione operativa si rimanda ai testi specializzati. La monta naturale può essere fatta liberando

semplicemente 1 o più riproduttori nel gruppo delle sincronizzate, ma con questa pratica si

rischiano dei ritorni di calore (femmine non fecondate) per le cause accennate in precedenza,

oppure organizzando dei box di monta (box eros) con all’interno un solo riproduttore, al quale

vanno condotte una per volta le femmine in estro, le quali una volta fecondate vengono subito

allontanate dal maschio e portate in un recinto all’uopo allestito. la frequenza dei salti (o monte) a

cui un maschio può essere sottoposto giornalmente varia sia con la specie, sia con la razza, che con

il vigore sessuale del soggetto e con la sua età. Con l’accoppiamento, la gestazione che termina con

il parto e con la nascita dei piccoli, inizia la fase di allevamento, che, come avevamo già riportato

può concretizzarsi in tre sistemi. Per completare questo argomento è opportuno definire, altri

parametri biologici come:

L’intervallo parto-monta che è rappresentato dal n° di giorni che intercorre dal parto della fattrice

alla comparsa del 1° estro, varia con la specie e con lo stato nutrizionale delle fattrici. Infatti, basti

ricordare che nella giumenta il primo calore compare dopo 3 – 10 giorni dal parto e dura da 3 a 10

giorni. In questa specie si deve ricordare che l’ovulazione avviene 1 – 2 giorni prima della fine

dell’estro, per cui l’accoppiamento o monta deve avvenire secondo un preciso calendario ovvero a 3

a 5 e 8 giorni dalla comparsa del calore. Mentre nella scrofa (suini) specie ad anaestro da lattazione

il calore compare 3 – 8 giorni dopo lo slattamento (svezzamento) dei lattonzoli il cui allattamento in

allevamento controllato dura circa 30 giorni. Invece nella bovina anche se in lattazione (e/o in

allattamento) l’estro compare dopo 30-50 giorni circa dal parto, anche se per quelle da latte

l’accoppiamento o fecondazione si pratica al 2° o al massimo 3° estro dopo il parto (2° - 3° mese) in

133
modo da dare il tempo necessario all’utero di ritornare alle normali dimensioni per assumere a

pieno le proprie funzioni.

L’interparto non è altro che il tempo (mesi, giorni o anni) che intercorre tra un parto e quello

successivo. Anche questo parametro è dipendente dal genotipo animale (specie e/o razza) indi dalla

durata della gestazione, della lattazione e dallo stato clinico nutrizionale della fattrice. Infatti,

l’interparto della giumenta si aggira intorno ai 12 – 13 mesi, quella della bovina da latte risulta di 14

– 16 mesi, quello della scrofa dura circa 150 – 160 giorni.

Questi parametri biologici, al pari degli altri precedentemente riportati, a cui sono direttamente

correlati, determinano la produttività dell’impresa zootecnica. Infatti da questi dipendono la durata

della lattazione (inizio e fine), la quantità di latte prodotto nonché il n° di nati per anno indi il n° di

soggetti da avviare al macello (per la produzione della carne), la quota di rimonta o di riproduzione

che rappresenta il n° di soggetti destinati all’allevamento ed è quasi costante per quasi tutte le

specie allevate escluse le avicole e, mediamente si aggira intorno al 20% della consistenza bestiame

aziendale. Questa quota ovviamente rimpiazza quella di fine carriera ovvero il n° di capi che

annualmente vengono tolti dalla produzione per raggiunti limiti di età in quanto poco produttivi, ed

antieconomici, e per questo vengono avviati alla macellazione.

Altro parametro di rilevante interesse economico aziendale risulta la durata della lattazione, che per

quasi tutti gli ungulati (ruminanti e monogastrici) di interesse zootecnico, varia sia con il sistema di

allevamento sia con la specie. Infatti allo stato brado nei suini dura intorno ai 4 mesi che coincide

poi con la durata dell’allattamento, nei bovini dura circa 8 – 10 mesi, e negli ovicaprini 4 – 5 mesi.

Mentre nei suini in allevamento controllato, intensivo e/o semi-intensivo, l’allattamento dura max

30 d, negli ovicaprini max 50 – 60 d (produzione di soggetti da latte), nelle bovine da latte giusto la

fase colostrale (1 – 5 d) poiché subito dopo i vitelli vanno in allattamento artificiale. Dopo la fase

di colostrale o di allattamento, le bovine, le pecore o le capre passano alla produzione del latte. La

lattazione che rappresenta tutto il periodo di produzione del latte a partire dopo la fase colostrale,

negli allevamenti ovi-caprini e bovini ha una diversa durata. Infatti nelle bovine da latte la

lattazione convenzionale dura 305 giorni, a partire dal 5° giorno dal parto, mentre nelle pecore e

134
nelle capre, sempre dal 5° giorno la lattazione varia da 150 - 220 giorni. La lattazione presenta un

andamento curvilineo, infatti la quantità di latte prodotto aumenta a partire dal 2° giorno dal parto

per raggiungere il massimo della produzione intorno al 2°-3° mese per poi decrescere gradualmente

fino all’asciutta (arresto di produzione di latte) che si verifica 2-3 mesi prima del parto successivo.

Curva di lattazione

135
Cap. 6 Le principali razze animali da carne

Come già accennato, la produzione della carne deriva dalla macellazione di diverse specie animali

sottoposte ad allevamento e sacrificate a precise età dopo un periodo più o meno lungo di ingrasso.

Ovviamente la capacità di produrre carne dipende come più volte detto dal genotipo animale (specie

e/o razza) per cui, nell’ambito delle diverse specie è utile riportare delle notizie su quelle razze

animali a prevalente attitudine alla produzione della carne allevate in Italia e/o utilizzate come razza

incrociante per la produzione degli ibridi di prima generazione o F1.

I Bovini La popolazione di questa specie comprende una moltitudine di gruppi etnici

illimitatamente fecondi tra loro e caratterizzati al loro interno da un insieme di caratteri morfo

funzionali più o meno omogenei, che in zootecnia assumono il nome di razza.

Per semplicità di esposizione , anche se oggigiorno a causa sia di un mercato sempre più

globalizzato sia di una tecnologia di allevamento sempre più perfezionata che rendono difficoltosa

una qualunque classificazione, le razze in base alla capacità di espandersi e/o conquistare nuovi

territori, possono essere suddivise in topolite e/o autoctone e in cosmopolite e/o alloctone; oppure in

base alla culla o area geografica continentale, in Europee, Americane, Asiatiche, medio-orentali,

Africane, ecc., oppure più semplicemente in Italiane e/o nazionali ed Estere.

Tra le principali razze italiane da carne e/o prevalente attitudine alla produzione della carne si

citano la Piemontese, la Chianina, la Marchigiana, la Maremmana e la Podolica, e sempre tra le

italiane anche se prevale di gran lunga la produzione del latte si ricorda la Bruna Alpina, per la

buona capacità produttiva dei suoi vitelloni. Le prime cinque razze sono promosse e difese dal

consorzio 5R, esse derivano tutte dalla Podolica dalla quale sono state ottenute con un sapiente e

profondo lavoro di selezione, a queste nostre pregiate razze, si aggiungono quelle di provenienza

estera come la Limousine, la Charolaise francese, l’Ereford anglo americana, la Blu Belga, bovini

dalla gobba o zebù del centro e sud America (Brasile e Argentina in particolare) ed altre di cui

riporteremo in sintetiche tabelle i loro principali aspetti produttivi.

136
CHIANINA, Il Bovino Chianino per la sua mole è considerato la gigante della specie

Area di Allevamento Toscana, Umbria, Lazio

Consistenza della popolazione 46900

Accrescimenti medi giornalieri 1500 gr/d i maschi e 1000gr/d le femmine

Pesi vivi medi alle età tipiche (Kg)

 Nascita 45 i maschi, 40 le femmine

 Svezzamento 260 i maschi, 225 le femmine

 Macellazione 500-700 Kg i maschi, 350 – 450 le femmine

 Adulto Fino a 1500-1700 i maschi, 600-900 le femmine

Età di macellazione 18-24 mesi, meglio 30 mesi

Resa di macellazione Intorno al 55-65 %

Indirizzo produttivo attuale Carne di qualità

Stallino per i vitelloni,


Tipologia di allevamento
Semi stallino per le fattrici

Scomparso l’impiego degli animali da lavoro, il

Utilizzazione e/o impieghi seme dei tori Chianini è utilizzato nell’I.S. per

la produzione degli ibridi F1

Dalla regione dorso lombare delle carcasse si


Produzione tipica
ottengono le rinomate “bistecche fiorentine”

Toro di razza Chianina da www.anabic.it

137
MARCHIGIANA

Marche, Abbruzzo, Molise, Lazio, Campania,


Area di Allevamento
(Avellino, Benevento) Sicilia

Consistenza della popolazione 53600

Accrescimenti medi giornalieri 1200 gr/d i maschi e 750gr/d le femmine

Pesi vivi medi alle età tipiche (Kg)

 Nascita 50 i maschi, 55 le femmine

 Svezzamento 285-414 i maschi, 230-310 le femmine

 Macellazione 530-550 Kg i maschi, 380 – 450 le femmine

 Adulto Fino a 1200-1300 i maschi, fino a 900 le femmine

Età di macellazione (mesi) Dai 15-18 ai 22-24

Resa di macellazione Intorno al 60-65 %

Indirizzo produttivo attuale Carne di qualità

Stallino per i soggetti da carne,


Tipologia di allevamento
Brado e/o semibrado per le fattrici

Scomparso l’utilizzo come animale da lavoro, i

Utilizzazione e/o impieghi maschi vengono utilizzati per la produzione degli

ibridi (F1)

Produzione tipica Carne di alta qualità

Toro di razza Marchigiana da www.cattlenetwork.net


138
PIEMONTESE o DELLA DOPPIA COSCIA

Area di Allevamento Piemonte e Lombardia

Consistenza della popolazione 255000 circa

Accrescimenti medi giornalieri 1400 gr/d i maschi e 1000gr/d le femmine

Pesi vivi medi alle età tipiche (Kg)

 Nascita 45 i maschi, 40 le femmine

 Svezzamento 260 i maschi, 220 le femmine

 Macellazione 500-650 Kg i maschi, 400 – 450 le femmine

 Adulto Intorno ai 1200-1300 i maschi, 550-750 le femmine

Resa di macellazione Intorno al 65%

Indirizzo produttivo attuale Carne di qualità

Tipologia di allevamento Stallino intensivo

i tori vengono impiegati per la produzione di ibridi


Utilizzazione e/o impieghi
F1

Carcasse con alta % di tagli di prima scelta. (carni di


Produzione tipica
alta qualità)

Toro di razza piemontese da http://agricolturaonweb.imagelinenetwork.com

139
ROMAGNOLA

Emilia Romagna e province di Firenze e di


Area di Allevamento
Pesaro

Consistenza della popolazione 16300

Accrescimenti medi giornalieri 800-900 gr/d i maschi e 700-750gr/d le femmine

Pesi vivi medi alle età tipiche (Kg)

 Nascita 45 i maschi, 40 le femmine

 Svezzamento 270-460 i maschi, 225-345 le femmine

 Macellazione 640-800 Kg i maschi, 400 – 550 le femmine

 Adulto Fino a 1000-1200 i maschi, 650-700 le femmine

Età di macellazione 15-18 mesi; 20-24 mesi

Tra il 56 – 65 % nei vitelloni, intorno al 60 %


Resa di macellazione
nelle femmine e nei castrati

Indirizzo produttivo attuale Carne di qualità

Stallino per i soggetti da macello,


Tipologia di allevamento
Semibrado le fattrici

Escluso il lavoro, e qualche coppia di buoi per

Utilizzazione e/o impieghi le parate in festività locali, i tori vengono

utilizzati per la produzione degli ibridi F1

Produzione tipica Carcasse e carni di qualità

Toro di razza Romagnola da www.agraria.org


140
MAREMMANA

Area di Allevamento Bassa Toscana e alto Lazio

Consistenza della popolazione Intorno ai 10'000 capi

Intorno a 1300-1400 gr/d i maschi e 900-


Accrescimenti medi giornalieri
1000gr/d le femmine

Pesi vivi medi alle età tipiche (Kg)

 Nascita 50-55 i maschi, 40-45 le femmine

 Svezzamento 220-330 i maschi, 185-240 le femmine

 Macellazione 430 Kg i maschi, 350 le femmine

 Adulto Fino a 900-1100 i tori e 400-450 le vacche

Età di macellazione 15 - 18 mesi

Resa di macellazione Intorno al 58 % i maschi e 50-55% le femmine

Indirizzo produttivo attuale Carne

Tipologia di allevamento Brado

Escluso il lavoro è utilizzato principalmente per


Utilizzazione e/o impieghi
la produzione della carne

Produzione tipica Carne di qualità e tipica della maremma

Tori di razza Maremmana da www.agraria.org

141
PODOLICA

Aree interne della Lucania, della Calabria, dell’Abruzzo, del


Area di Allevamento
Molise e della Puglia

Consistenza della popolazione 25000capi iscritti al L. G. e circa 15000 derivati

Tra 900 e 1200 nei maschi e fra 700 e 900 gr/d nelle
Accrescimenti medi giornalieri
femmine

Pesi vivi medi alle età tipiche (Kg)

 Nascita Intorno ai 40-45 i maschi e tra i 35-40 le femmine

 Svezzamento (naturale) Tra i 280-400 i maschi e fra i 220 e i 300 le femmine

 Macellazione Tra i 450 - 550 i maschie fra i 350 – 400 le femmine

 Adulto Intorno a 900 - 1000 i tori e fra 400 - 500 le vacche

Età di macellazione 14-18-24 mesi

Resa di macellazione Intorno al 56-60 % nei maschi e fra i 50-55 % nelle femmine

Indirizzo produttivo attuale Carne (un tempo lavoro e latte)

Brado per le fattrici e stallino e/o in recinti a ciclo aperto per


Tipologia di allevamento
i soggetti da macello

Escluso il lavoro coppie di buoi vengono ancora impiegate

nelle feste padronali, la razza è utilizzata prevalentemente


Utilizzazione e/o impieghi
per la produzione della carne ma anche per il latte da

trasformare in caciocavalli tipici.

Carne di qualità. Molti allevamenti data l’accettabile

produzione di latte (tra i 20 e i 35 ql per lattazione) le

vacche vengono munte una volta al giorno (mezzo latte al


Produzione tipica
vitello) ed il latte trasformato direttamente in azienda in

prodotti tipici come: caciocavallo, manteche, trecce e

scamorze.

142
Foto da www.uniba.it/ricerca/dipartimenti/produzioneanimale/ricerca-
scientifica/foto_scanzano_045.jpg/view

ALTRE NOTIZIE UTILI: La Podolica è dotata di ottima fecondità e fertilità; è inoltre

particolarmente frugale, rustica e adattabile ai diversi ambienti pedoclimatici. Non presenta alcuna

difficoltà al parto è dotata di eccellenti capacità materne, ed è un’ottima utilizzatrice di pascoli

anche di quelli delle aree marginali. Il suo principale sistema di allevamento è quello brado e/o

semibrado, stanziale e/o transumante.

143
LIMOUSINE

Area di maggior allevamento Francia (provincia di Limoges) dal clima continentale rigido

(estati calde e inverni freddi e piovosi) – Qualche mandria in

purezza è allevata in Basilicata

Accrescimenti giornalieri (gr.) 1160 nello svezzamento - 1500 nell’ingrasso

Pesi vivi alle età tipiche (Kg)

a) nascita 35-45

b) svezzamento 250-350

c) macellazione 450-550

d) adulto 1000-1200 i tori - 600-800 le vacche

Età di macellazione (mesi) 14-16 20-24

Resa di macellazione (%) 60-65 %

Indirizzo produttivo carne

Tipologia di allevamento Brado, semibrado e stallino (per i vitelli da ingrasso), si adatta

alla transumanza (allevamenti lucani)

Utilizzazione o impiego I tori sono impiegati per la produzione di ibridi F1

Produzioni tipiche Carcasse e carni di qualità

144
Toro di razza Limousine da www.ruggenenti.it/L%20arazza%20limousine.htm

ALTRE NOTIZIE UTILI: Rustica, adattabile a qualunque sistema e/o ambiente di allevamento.

Facilità nel parto e alta fertilità. Fecondità intorno al 98 %.

E’ allevata con ottimi risultati anche in Italia in diverse regioni. ottimi nuclei si trovano in Basilicata

(PZ) i quali sono allevati allo stato semibrado e/o brado stanziale e/o transumante. La transumanza è

di tipo verticale.

Bibliografia

www.agraria.org/razzebovinecarne/limousine.htm

www.bovinilimousine.com

145
BLEU BELGA

Area di maggior allevamento Belgio

Accrescimenti giornalieri (gr.) 1300 nello svezzamento - 1500 nell’ingrasso

Pesi vivi alle età tipiche (Kg)

e) nascita 40-45

f) svezzamento 250-350

g) macellazione 450-600

h) adulto 1100 i tori - 600 le vacche

Età di macellazione (mesi) 14-18

Resa di macellazione (%) 65 - 70 %

Indirizzo produttivo carne

Tipologia di allevamento stallino - semistallino

Utilizzazione o impiego I tori sono impiegati per la produzione di ibridi F1 su razze da

latte e non

Produzioni tipiche Carcasse e carni di qualità

146
Toro di razza Bleu Belga da

www.agraria.org/razzebovinecarne/blancbleubelga.htm

ALTRE NOTIZIE UTILI: Presenta problemi al parto (50% tagli cesarei). In Italia i tori sono

impiegati nella produzione degli ibridi F1. Nelle regioni caldo-aride la razza e anche gli ibridi, mal

si adattano all’allevamento brado e/o semibrado. per questo quasi tutti i prodotti di incrocio sono

allevati a regime stallino. Il toro Bleu Belga e il suo seme si consiglia di utilizzarlo per fecondare

vacche matricine e/o di fine carriera

Bibliografia

www.agraria.org/razzebovinecarne

147
ABERDEEN ANGUS

Area di maggior allevamento Contea di Aberdeen (Scozia)

Accrescimenti giornalieri (gr.) 1200 - 1500

Pesi vivi alle età tipiche (Kg)

i) nascita 35-42

j) svezzamento 250-350

k) macellazione 450-550

l) adulto 1000 - 1100 i tori - 700-750 le vacche

Età di macellazione (mesi)

Resa di macellazione (%) 65 - 70 %

Indirizzo produttivo carne

Tipologia di allevamento Semibrado - brado le fattrici e stallino semi-stallino per i

soggetti da macello

Utilizzazione o impiego I tori sono impiegati per la produzione di ibridi F1 su tutte le

razze da carne e da latte

Produzioni tipiche Carcasse e carni di qualità. Tenera e saporita ma troppo grassa

per il consumatore italiano. Adatta soprattutto per gli arrosti

148
Toro di razza Aberdeen Angus da www.agraria.org/razzebovinecarne

ALTRE NOTIZIE UTILI: E’ diffusa in tutto il mondo, ottima adattabilità al pascolo, resistente alle

verminosi, presenta un’alta facilità al parto. La vacca è dotata di buona fertilità e longevità. Poco

allevata in Italia. Il seme dei tori Angus è utilizzato per la fecondazione di vacche matricine e/o di

fine carriera di razze con modeste capacità adipogeniche.

Bibliografia

www.agraria.org/razzebovinecarne

http://it.wikipedia.org/wiki/Aberdeen_Angus

149
CHAROLAISE

Area di maggior allevamento Francia. Zona di Charolles

Accrescimenti giornalieri (gr.) 1100 - 1400

Pesi vivi alle età tipiche (Kg)

m) nascita 45-50

n) svezzamento 200-300

o) macellazione 400-650

p) adulto 1200 - 1300 i tori - 700-900 le vacche

Età di macellazione (mesi) 16-18 mesi

Resa di macellazione (%) 60 - 68 %

Indirizzo produttivo carne

Tipologia di allevamento Brado-Semibrado per le vacche da riproduzione e stallino semi-

stallino per i soggetti da macello

Utilizzazione o impiego I tori sono impiegati per la produzione di ibridi F1

Produzioni tipiche Carcasse e carni di qualità.

150
Toro di razza Charolaise da www.agraria.org/razzebovinecarne

ALTRE NOTIZIE UTILI: Per la sua rusticità, per l’ottima produzione di carne anche di qualità, per

la sua facile capacità di ambientamento è diffusa in molti paesi europei ed extra europei (razze

alloctone). E’ diffusa anche in Italia: razza fertile e feconda. Nella produzione degli F1, a causa

della grandezza del cranio dei vitelli può creare difficoltà al parto e per questo si consiglia di

utilizzare il seme di tori Charolaise solo su vacche matricine e/o di fine carriera di non elevato

valore genetico e/o economico. In Basilicata (Pz) esistono dei nuclei allevati in purezza.

Bibliografia

www.agraria.org/razzebovinecarne

http://it.wikipedia.org

151
HEREFORD

Area di maggior allevamento Inghilterra. Contea dell'Herefordshire e dall’800 negli Stati

Uniti

Accrescimenti giornalieri (gr.)

Pesi vivi alle età tipiche (Kg)

q) nascita 35-40

r) svezzamento 250-350

s) macellazione 400-550

t) adulto 1200 - 1300 i tori - 800 le vacche

Età di macellazione (mesi) 12-18 mesi

Resa di macellazione (%) 60 - 65 %

Indirizzo produttivo carne

Tipologia di allevamento Brado-Semibrado in America ed Argentina

Utilizzazione o impiego Produzione di carcasse e carni di qualità.

Produzioni tipiche Produzione di carcasse e carni di qualità.

152
Toro di razza Hereford da www.agraria.org/razzebovinecarne

ALTRE NOTIZIE UTILI: La razza presenta pochissimi problemi al parto, dotata di buona fecondità

e fertilità è particolarmente adatta ai sistemi estensivi o semiestensivi. Per la facilità al parto, per

l’ottima attitudine al pascolamento e all’allevamento brado e/o semibrado può essere utilizzata con

successo nella produzione degli F1 con le razze autoctone, così come avvenne nelle americhe

allorché fu incrociata con i bovini dalla lunghe corna (Long-corn)

Bibliografia

www.agraria.org/razzebovinecarne/hereford.htm

153
BOVINI ZEBUIDI

Area di maggior allevamento Brasile, Argentina, paesi africani e del sud-est asiatico

Accrescimenti giornalieri (gr.) Da 650 a 900 a seconda della razza

Pesi vivi alle età tipiche (Kg)

a) nascita 15-35-40 a seconda della razza

b) svezzamento dagli 80-100 ai 250-300 a seconda della razza

c) macellazione dipende dalle finalità 150-350 in relazione alla razza

d) adulto 250 - 900 a seconda della razza

Età di macellazione (mesi) 12-15 come animale sacrificale e 18-20 come soggetti da carne

Resa di macellazione (%) 50-58 %

Indirizzo produttivo Carne e lavoro nei paesi in via di sviluppo

Tipologia di allevamento Brado, semibrado-estensivo

Utilizzazione o impiego Carne - nei paesi in via di sviluppo anche lavoro e latte

Produzioni tipiche Carcasse e carni di buona qualità, discrete e accettabili le

quantità di latte.

Foto di Zebù da http://it.wikipedia.org/wiki/Bos_taurus_indicus

ALTRE NOTIZIE UTILI: E’ un bovide che nella stragrande maggioranza dei casi è caratterizzato

da un grande accumulo di grasso al livello del garrese, da una giogaia abbastanza pronunciata, da

una pagliolaia alquanto sviluppata, da orecchie grandi e pendenti e da corna di varie forme e quasi

154
sempre diverse dai bovini europei. Il suo mantello poco spesso e rado lo rende poco adatto ai climi

freddi; infatti la sua area di diffusione è rappresentata dalle nazioni centro-sud americane (Brasile

ed Argentina) e da quelle tropicali e sud tropicali dell’Africa e dell’Asia. Dall’incrocio con i bovini

europei si ottiene una prole interfeconda, ed i loro ibridi (F1 in particolare) presentano un eccellente

lussoreggiamento dei caratteri produttivi e di resistenza alle avversità climatiche e ad alcune

malattie. In questi bovidi sono presenti numerose razze con aspetti produttivi quanto-qualitativi

diversi. In India (Indù) sono animali sacri. Per altre popolazioni (asiatiche e africane) sono animali

di sopravvivenza poiché capaci non solo di produrre accettabili quantità di latte e di carne, ma di

essere utilizzati ancora con successo nei lavori agricoli e nel tiro medio-leggero lento. A causa delle

diversità razzologiche, i parametri produttivi e biologici sono molto variabili per cui, anche per la

non incisiva importanza per l’economia delle Nazioni Occidentali Europee e Mediterranee si

rimanda tutto alla letteratura del settore.

Bibliografia

www.agraria.org

http://it.wikipedia.org

www.mille-animali.com/animali/mammiferi/zebu.php

155
Cap. 7 L’ALLEVAMENTO

7.1 I BOVINI.

Come già accennato in precedenza, la produzione della carne deriva dalla macellazione dalle

diverse categorie e specie animali; quella bovina si ottiene dalla macellazione: dei vitelli lattanti di

5-6 mesi di vita (vitelli a carne bianca) di 250-350 Kg p.v., dei vitelloni leggeri dal peso di 400-500

kg, dei vitelloni pesanti di 600-800 kg; dei castrati o manzi dal peso di 450-800 Kg; dalle giovenche

da ingrasso dal peso di 350-450 Kg; dalle scottone vitelle sessualmente mature ma mai coperte,

dalle vacche e tori di fine carriera.

In generale, prima di avviare alla macellazione un qualunque animale esso deve essere “preparato”

“maturo” ovvero deve raggiungere il giusto rapporto magro/grasso affinché presenti carcasse di

buona qualità e carni sapide, succulenti, tenere, dal buon valore biologico e capaci di soddisfare le

esigenze del consumatore. Per questo essi vanno sottoposti ad ingrassamento per il tempo

necessario, con la giusta alimentazione ed in adeguate strutture.

In realtà l’allevamento del vitello destinato alla produzione della carne, si effettua in due fasi, quella

di allattamento a cui segue lo svezzamento e quella di ingrasso. I vitelli provenienti dagli

allevamenti di razze lattifere, la cui produzione principale è rappresentata dal latte, il vitello viene

allontanato dalla madre subito dopo il parto ed al quale viene somministrato il colostro (materno o

di stalla al secchio o con bottiglia provvista di tettarelle di lattice per 5-8 giorni (tanto dura la fase

colostrale della bovina) per poi essere sostituito da un succedaneo del latte materno sciogliendo in

acqua a 37-38°C 150-200 g di farina lattea in modo da ottenere un’emulsione di grasso, proteine,

zuccheri e minerali dalla concentrazione simile a quella del latte bovino. Tale tecnica viene detta

allattamento artificiale (A.A.) e dura generalmente dai 6 agli 8 mesi a seconda se i vitelli devono

essere macellati come soggetti a carne bianca o se devono essere prima svezzati e poi ingrassati. Il

passaggio dalla alimentazione lattea a quella solida è detta svezzamento. Esso può essere graduale,

o brusco; naturale o precoce. Comunque deve essere fatto quando il rumine, il reticolo, lo stomaco

ghiandolare ecc. sono sviluppati e completamente funzionanti. Il graduale o naturale, generalmente

156
è quello praticato dalle vacche fattrici in allevamento brado o semibrado; in cui il vitello seguendo

la vacca abitua gradualmente il suo apparato digerente ad utilizzare gli alimenti solidi (fieni,

foraggi, erbe ecc.) sia con il progredire dello sviluppo del rumine e dei suoi simbionti (batteri e

protozoi), sia con le modificazioni del sistema enzimatico digestivo dello stomaco ghiandolare e

dell’apparato enterico. Lo stomaco, ghiandolare l’unico presente nei lattanti secerne la chimosina,

che trasforma la caseina del latte alimentare in paracaseinato di calcio, che precipita e si rende

attaccabile dalla pepsina gastrica prodotta dalle ghiandole del fondo gastrico sotto forma di

pepsinogeno (inattivo) ed attivato in pepsina dall’HCl in esso presente. La pepsina con la sua

azione idrolitica, trasforma le proteine alimentari in polipeptidi che, attraversano il “cardias”

insieme agli altri principi nutritivi passano nell’intestino dove subiscono l’azione dei secreti biliari

(azione batotona sui grassi), degli enzimi pancreatici (polipeptidasi, lipasi, amilasi) e di quelli

enterici (dipeptidasi, carbossipolipeptidasi, amilopolipeptidasi, disaccaridasi ecc.) che liberano gli

aminoacidi, i monosi, i pentosi, gli acidi grassi ecc. rendendoli assorbibili dai villi intestinali per

finire nel torrente sanguigno prima, ai tessuti ed alle cellule poi, per alimentare quel complesso di

attività metaboliche (anabolismo e catabolismo) dell’essere vivente. Con il progredire dell’età del

neonato, si ha il graduale sviluppo dei prestomaci e del rumine, (che nei vitelli risulta completo tra 8

e 10 mesi di vita) e della sua infestazione batterica e protozoaria, capace di fermentare la cellulosa

delle pareti delle cellule vegetali rendendo disponibili i contenuti endocellulari per tutti i processi

biologici (mobilizzazione delle proteine) e digestivi. Stesso fenomeno si verifica per i soggetti in

A.A. purché vengano messi a loro disposizione dal 2° - 3° mese alimenti solidi (fieno, concentrati,

acqua ecc.). All’età di 8 - 10 mesi del vitello, la vacca, per altro quasi sempre gravida, e per

l’avvicinarsi dell’asciutta e del nuovo parto, riduce drasticamente il numero delle poppate

giornaliere fino ad azzerarle del tutto.

Lo svezzamento rapido o brusco (naturale), in altre parole “slattamento” consiste nell’allontanare

bruscamente il vitello dalla madre all’età prestabilita (8-9 mesi) senza consentirgli nessuna poppata.

Mentre quello precoce consiste nell’allontanamento del vitello dalla madre ad una età più giovane

in genere 5 - 6 mesi. Ma quando si attua tale pratica è necessario fornire al vitello per circa 60 - 90 d

157
una giusta dieta di transizione o di svezzamento, per poi passare al razionamento da ingrasso,

mentre nello svezzamento naturale questo periodo di adattamento si riduce a circa 30 - 40 d.

L’ingrasso dei vitelli, viene generalmente praticato a regime stallino a posta libera o in recinti a

cielo aperto di adeguate dimensioni provviste di tettoie per mangiatoie di alimentazione e di

abbeveratoi. In entrambi i casi i vitelli sono liberi di muoversi e comunque di praticare una adeguata

e benefica ginnastica funzionale, in più in quella a cielo aperto si associa il favorevole effetto sul

benessere animale e sulla qualità della carne dell’utilizzo dei pascoli, che incide favorevolmente

anche sul costo finale del prodotto. Per quanto concerne le dimensioni delle stalle e/o dei recinti di

ingrasso, si rimanda agli specifici testi.

Foto regime stallino da


www.regione.vda.it/gestione/riviweb/templates/aspx/informatore.aspx?pkArt=145

Foto recinti a cielo aperto da:


www.foto-sicilia.it/foto.cfm?idfoto=120891

158
7.2 I SUINI

Anche per i suini per la suddivisione razzologica vale quanto detto per i bovini. La produzione di

carne suina deriva per la stragrande maggioranza da allevamenti a completo regime stallino ove

sono allevati suini di razze di provenienza estera come la Larghe White, la Landrace, la Petrain, la

Duroc ecc. e solo in minima parte da allevamenti rurali semiestensivi e/o ecocompatibili delle aree

interne e/o marginali che utilizzano genotipi autoctoni come la Cinta senese, la Mora, il Nero di

Puglia, di Lucania, di Calabria, dei Nebrodi e/o di Sicilia. Trattasi di genotipi autoctoni

particolarmente rustici, frugali, dotati di discreta prolificità, buona fertilità e fecondità, capaci di

accettabili prestazioni produttive ma di alta qualità. Per non appesantire la trattazione con notizie

zoognostiche, biometriche e sui parametri biologici dei diversi genotipi suini presenti sul mercato,

si riportano i dati solo per quei gruppi etnici di maggior interesse economico - produttivo. I dati

riportati nelle schede che seguono, servono per comprendere meglio l’importanza e l’origine della

produzione, anche perché, l’aspetto inerente la valutazione della qualità delle carcasse e delle carni

che interessa il trasformatore è stato già trattato in precedenza. In realtà, la dipendenza dell’aspetto

qualitativo del prodotto dai fattori di variabilità (allevamento, alimentazione ecc.) come già

accennato è meno marcato, rispetto a quello quantitativo, ove essi hanno un’azione più incisiva ed

evidente. Per questo basti pensare all’influenza dell’alimentazione (come quantità e qualità) sulla

velocità di accrescimento, sull’adiposità delle carcasse, sulla produzione quantitativa del latte, delle

uova, sull’indice di conversione alimentare ecc. Per questo, per i suini, si ritiene utile riportare

almeno per sommi capi notizie utili sia sui sistemi di allevamento sia sulla loro alimentazione.

Come già accennato i sistemi di allevamento dei suini sono di tipo intensivo-stallino e semi-

intensivo o semibrado. Il primo intensivo-stallino è quello a tutt’oggi più praticato, da cui deriva la

stragrande produzione di carne, e che negli ultimi tempi si è evoluto ad impresa di tipo industriale,

al pari degli allevamenti avicoli e cunicoli, tutti facenti parte degli allevamenti animali “senza terra”

ed inquadrati in attività industriali. In realtà i sistemi di produzione suinicola sono sia a ciclo aperto

sia a ciclo chiuso o integrato.

159
Nel ciclo aperto si attuano solo una o due fasi di allevamento come la riproduzione, l’ingrasso. Nel

caso di un allevamento in cui si pratica la sola fase di riproduzione, la struttura produce soggetti

lattonzoli e/o suinetti svezzati o magroncelli per poi cederli ai cosiddetti centri di ingrasso. In questo

tipo di allevamento troviamo solo scrofe e/o scrofette (quota di rimonta) da riproduzione e verri e/o

verretti riproduttori. L’allevamento da riproduzione, di solito avviene in strutture (capannoni)

razionali, in cui le condizioni ambientali (climatiche T, UR, ricambi aria, ecc.) sono severamente

controllate (T 18-20 °C; UR 65-70 % c.a., 5-6 m3/ora come ricambio di aria ecc.). Questa tipologia

di allevamento può praticarsi anche in un solo locale, purchè di giuste dimensioni. In genere esso è

suddiviso nei seguenti reparti:

1) Attesa calore - fecondazione o centro “eros” il quale è suddiviso in box, alcuni riservati ai

verri, gli altri alle scrofe, provenienti sia dal settore maternità, dopo lo svezzamento dei

lattonzoli sia dal settore quota di rimonta (scrofette al primo accoppiamento). Si ricorda però

che i verri devono essere alloggiati in box singoli, e sono le femmine in estro che devono

essere introdotte nell’area del maschio e mai il contrario.

2) Una volta fecondate le femmine vengono alloggiate nei box del reparto di gestazione, ove

trascorrono l’intero periodo di gravidanza (che dura 114 - 116 giorni) e 7 - 8 giorni prima

del parto vengono spostate nelle gabbie parto del reparto di maternità.

3) Dopo 4 settimane circa di allattamento, all’età di 25-30 giorni i lattonzoli vengono

allontanati bruscamente dalle scrofe (slattati e/o svezzati) e trasferiti nei box del reparto

svezzamento, ove sosteranno per circa 60 giorni per poi essere venduti e/o trasferiti ai centri

di ingrasso.

4) Una parte degli svezzati, viene allevata come quota di rimonta (pari al 20% delle femmine

e/o dei verri accasate/i) sarà trasferita nel settore rimonta ove resteranno per tutto il periodo

di allevamento fino a un peso di 90 - 120 Kg e/o all’età di 10 - 12 mesi ( a seconda della

razza) quando saranno spostate nel reparto “eros”, insieme alle scrofe provenienti dalla

maternità o in apposito box per giovani verri.

160
Per il calcolo dei posti scrofe e/o dei soggetti in allattamento è utile far riferimento alle formule

riportate da Monetti (1997).

Infatti il n° di dei posti-scrofe del settore “eros” (PF) è calcolabile dalla formula:

In cui

S = n° di scrofe presenti

Pa = n° parti / anno / scrofa (generalmente 2; 2,3)

Po = Tempo di sosta delle scrofe nel settore (svezzamento, fecondazione, più il periodo che le

scrofe trascorrono per la diagnosi di gravidanza;

1,1 è il cosiddetto fattore correttivo di sicurezza e/o di elasticità pari a circa il 10%

Questo settore accoglie le scrofe provenienti dalla maternità e dalla rimonta.

Quello del settore gestazione, che di fatto è a base di box collettivi e/o gabbie individuali, a seconda

della scelta dell’imprenditore, per il calcolo del n° di posti PG, si utilizza la precedente formula in

cui Po (periodo di occupazione) coincide con la durata della gestazione (114 - 116 giorni), detratti

da quelli trascorsi in maternità e in quelli del centro di fecondazione.

∙ ∙
PG = Posti Gestazione P0 = 114-116 d ∙ 1,1

Mentre per il calcolo dei posti del settore maternità, in cui le fattrici sostano per pochi giorni “ant

partum” e per tutta la durata dell’allattamento ( 4 settimane o 28 - 30 d) e più l’eventuale vuoto

sanitario. Questi posti-strutture generalmente sono le cosiddette “gabbie parto” che consentono la

convivenza di soggetti di mole (scrofe di 300-400 Kg) diversa (suinetti e/o lattonzoli di 1 - 20 Kg),

provvisti di dispositivi antischiacciamento (protezione dei suinetti), lampada a raggi infrarossi

(necessaria ed essenziale ai lattaroli per le prime due settimane di vita) distributori differenziali di

mangime (pre-starter per i lattonzoli a partire dal 15° giorno di vita; e miscele per allattamento delle

scrofe). Per il cui calcolo si può usare la formula:

161
ove

S = n° delle scrofe accasate,

Pa = n° parti / anno / scrofa

Po = periodo di occupazione in giorni (data dal tempo di allattamento, sommato di quello”ant-

partum” e di quello del vuoto sanitario)

Il settore svezzamento, destinato ad ospitare i lattonzoli immediatamente dopo il loro slattamento,

ove vi rimarranno fino al momento della vendita o al loro trasferimento nel reparto ingrasso o al

loro eventuale trasferimento in quello dei riproduttori. Esso può disporre di box a terra, e/o di

gabbie sopraelevate e/o di gabbie flat - tecto, e, per calcolare il n° dei posti si può usare la formula:

ove

S = n° delle scrofe accasate,

Pa = n° parti / anno / scrofa

Po = tempo di permanenza dei soggetti

Sv = n° lattonzoli svezzati / parto

Il settore rimonta, ospita le femmine della quota di rimonta (pari al 20% della consistenza delle

scrofe accasate) proveniente dallo svezzamento e vi sostano fino al trasferimento nel settore di

attesa fecondazione (eros) per essere fecondate per la prima volta. Per il calcolo dei posti scrofa di

questo settore si può utilizzare la formula:

il cui risultato va maggiorato del 15 - 20 % di posti, in relazione alle scrofette che possono essere

scartate prima della monta, le quali vengono avviate al macello previo un breve periodo di ingrasso

in appositi box.

162
Tenendo conto che il n° delle scrofe che momentaneamente vengono scartate o riformate dopo il 5°

parto, si aggira intorno al 20% delle consistenza delle femmine accasate, un pari numero di scrofette

dovrà entrare in produzione.

Se un allevamento fosse così organizzato, sarebbe a ciclo aperto e destinato alla produzione di

soggetti da macello e/o da riproduzione a seconda del genotipo animale presente e utilizzato in

allevamento.

Un altro allevamento a ciclo aperto, sarebbe quello in cui si pratica solo la fase di ingrasso dei suini,

i quali a fine ciclo vengono venduti ai macellatori. Questa tipologia è sicuramente la più semplice e

la meno impegnativa, in quanto può essere praticata in un solo capannone suddiviso in box multipli,

disposti ai lati di un corridoio centrale (corsia di transito, di servizio, di alimentazione ecc.) e

provvisti di autoalimentatori, di autoabbeveratoi o di “trogoli” di alimentazione disposti ai lati della

corsia di servizio per la distribuzione degli alimenti. Per il calcolo dei posti si può utilizzare la

formula:

ove M rappresenta il n° di suini prodotti annualmente e Po indica il tempo di occupazione che

mediamente varia dai 200 ai 240 giorni.

Ovviamente per quanto concerne i dati tecnici di costruzione, i relativi modelli e/o soluzioni tecnico

operative si rimanda il tutto ai testi di costruzioni rurali ed alla letteratura del settore.

A prescindere dalla tipologia del ciclo e del sistema di allevamento, va sempre previsto e/o

considerato sia un reparto a “se stante” con funzione di quarantena ed infermeria, sia un deposito

attrezzi; nonché un magazzino scorte alimentari, uno spogliatoio per il personale di servizio, i

servizi igienici, uffici, cella frigorifera (per depositare eventuali carcasse ecc.).

L’altra tipologia di allevamento detta a “ciclo chiuso” che oltre a praticare lo svolgimento di tutte le

fasi anzi citate può prevedere sia la macellazione dei soggetti, sia la trasformazione delle carcasse in

prodotti (prosciutti, insaccati ecc.) sia la vendita al pubblico delle carni fresche e/o trasformate.

Questo sistema, anche se sicuramente più impegnativo dal lato tecnico economico operativo in

quanto prevede non solo sostanziosi investimenti strutturali (capannoni, mattatoi, celle frigo, sale di
163
trasformazione ecc.) ed impiego di una manodopera altamente qualificata e differenziata (allevatori,

alimentaristi, veterinari, trasformatori), anche di una organizzazione di marketing e di vendita, ma è

certamente più conveniente, poiché dalla filiera vengono eliminati non pochi passaggi (come gli

intermediari di vendita, i grossisti, i macellatori, i trasformatori e i distributori), i quali ovviamente

devono sempre e comunque ottenere un guadagno per il proprio lavoro, che ad ogni passaggio il

costo del prodotto incrementa, il tutto a scapito dell’allevatore prima e del consumatore poi. Con

l’applicazione del ciclo chiuso o integrato che dir si voglia, si accorcia la filiera, si realizza in un

certo qual modo il km zero, si standardizzano i costi, ed il prodotto finito diventa sicuramente più

tracciabile e rintracciabile poiché tutte le fasi produttive e di trasformazione sono raggruppate nello

stesso spazio e in un arco temporale sicuro e definito con ovvi vantaggi del consumatore che potrà

godere di un prodotto più sicuro e di qualità certificata, a costi standard. Inoltre come già accennato

in precedenza, una minima quota di produzione suinicola, deriva da una tipologia di allevamento

che sino agli anni 50 era abbastanza diffuso che è stato sostituito di fatto da quello intensivo -

imprenditoriale di tipo industriale. Trattasi ovviamente dell’allevamento semibrado, e/o semi-

intensivo e/o di tipo ecocompatibile, che negli ultimi tempi, a causa sia delle mutate esigenze socio-

economiche dei consumatori, sia per la maggiore attenzione che essi pongono alla relazione tra

nutrizione e salute che di fatto li portano ad orientarsi verso alimenti genuini, salubri e di qualità, a

cui si aggiungono le attenzioni verso il benessere animale e le esigenze di gestione e protezione del

territorio agro-silvo-zootecnico, stanno promuovendo e incentivando sempre più questo tipo di

allevamento, che impiegavano e impiegano tuttora quei genotipi animali autoctoni rustici, frugali,

mediamente precoci, dotati di una discreta prolificità, capaci di accettabili produzioni ma di alta

qualità. Questo tipo di allevamento una volta generalizzato sul territorio Italiano ed Europeo oggi si

pratica nelle aree interne a produttività marginale della media-alta collina e/o della bassa-media

montagna della catena appenninica e coinvolge anche le aree interne montane e sub-montane delle

isole. In genere, l’allevamento si basava e si basa tuttora su un gruppo da riproduzione la cui

numerosità variava e varia tuttora in relazione all’estensione aziendale e, all’interno di queste, alle

164
superfici boschive e/o pascolative e alla disponibilità di sorgenti o punti acqua. La cui consistenza

variava e/o varia da pochi capi ( 1 - 2 scrofe a 100 e più fattrici) ed era così organizzato:

La “morra” o gruppo di scrofe fattrici (primarecce, matricine e scrofette da rimonta) che di giorno

erano e/o sono tenute al pascolo (bosco, prati, coltivi pst-raccolta) con rientro serale nei ricoveri.

Questi una volta erano costituite da grotte sotterranee scavate in zone “tufacee” e/o di rocce

“arenaria” facilmente modellabile e puntellabile (con le stesse tecniche usate per le gallerie), oggi,

però fatti da locali vecchi ma riadattati o all’uopo progettati e/o costruiti, ove gli animali possono

ricevere un integrazione alimentare serale e non solo nei periodi avversi, ma anche per facilitarne il

raduno serale di tutti i soggetti (riflessi condizionati). A questo gruppo di femmine si sommavano

un certo numero di verri (1 ogni 20 - 25 femmine) che venivano “imbrancati” nel periodo delle

monte. Ovviamente le “grotte ricovero” e/o i locali (porcilaie) così come quelli di tipo intensivi

precedentemente descritto erano suddivisi in reparti e/o box singoli (per le scrofe partorienti) ed in

stalletti e/o box collettivi per gli svezzati, per i magroncelli e/o i magroni e per l’ingrasso.

All’approssimarsi del parto, (8- 10 giorni prima dell’evento) le scrofe venivano e/o vengono

alloggiate nei relativi box che insieme alla prole vi restavano e/o restano fino alla 4°- 6° settimane

post-partum. Dall’ottavo giorno dal parto la/e scrofa/e di giorno seguivano/seguono la morra al

pascolo e al rientro serale (facilitata dalla voglia di riunirsi alla prole rimasta in box)

ricevevano/ricevono un adeguata integrazione alimentare generalmente a base di una miscela

formata da orzo in granella, mais, favino e quando disponibile da siero del caseificio aziendale

(questo la mattina all’uscita dal ricovero). Con tale pratica, anche i lattonzoli (suinetti) subiscono

uno “svezzamento” graduale, in quanto già dalla 2° settimana iniziano per imitazione della madre a

consumare l’alimento solido. In questo tipo di allevamento lo slattamento e/o svezzamento dei

suinetti avviene tra la 7a - 6a settimana, quando vengono completamente separati dalla/e madre/i,

la/e quale/i entro otto dieci giorni va/vanno in “calore” (presenta/no l’estro) allorché viene/vengono

fecondata/e (monta) dal/i verro/i. Nella migliore organizzazione si ottengono circa 2

parti/anno/scrofa. Tutti i suinetti, svezzati, i cui maschietti (per evitare gravidanze indesiderate)

venivano e tuttora vengono castrati o quando sono sotto scrofa (prima settimana di vita) oppure tra

165
il 60° - 90° giorno. Questi poi, costituiscono un gruppo o “morra” (o di magroncelli e magroni) a

parte, che fino a 7 - 8 mesi di vita una volta superata la fase di magroncello e di magrone, per un

periodo di 2 - 3 mesi venivano/vengono sottoposti “all’ingrasso” in recinti a cielo aperto e/o in

appositi locali con diete a base di miscugli e/o miscele e/o di mangimi composti integrati

appositamente formulati. Terminata la fase di svezzamento di magroncello o magroni o quella

d’ingrasso, gli animali venivano/vengono venduti alle famiglie rurali contadine, e ai macellai, per la

vendita diretta delle carni e ai macellatori trasformatori per la produzione di prosciutti, insaccati ed

altri prodotti (guanciali, capicolli, lardo ecc.).

A fianco a quest’ultimo tipo di allevamento resiste ancora quello di tipo rural-contadino e/o di tipo

famigliare che consiste nell’ingrassare uno o più soggetti (max 3-4) magroni e/o magroncelli

(acquistati dai riproduttori) per la produzione di quella miriade di prodotti di altissima qualità

gastronomica non realizzabili con procedimenti di tipo industriale.

Senza voler entrare nei dettagli della Etnografia Zootecnica in modo molto sintetico ed in apposite

schede, si riportano le caratteristiche produttive delle principali razze Suine.

166
LARGE WHITE
Area di maggior allevamento In tutto il mondo
Inghilterra. Contee di York, Lincon e Norfolk.
Origini Deriva da Suini locali incrociati con riproduttori
cinesi e siamesi
Accrescimenti giornalieri gr/d 600 - 800
n° nati per parto 10 - 12
n° di lattonzoli svezzati/anno 20
n° parti per anno 2 – 2,2
Pesi vivi alla nascita (Kg) 0,800 - 1,200
Pesi vivi allo svezzamento(Kg) 25 - 30
Pesi vivi alla macellazione Kg) 70 - 90, 150 -180
Pesi vivi adulti (Kg) 400 (scrofe) 500 (verri)
Età di macellazione (mesi) 6 - 8, 10 - 12
Età di svezzamento (giorni) 30 giorni max (allev. Industriale)
Età 1° accoppiamento e relativo peso 8 - 9 mesi 90 - 100 Kg
Resa di macellazione 80 - 85 %
Tipologia di allevamento Stallino
Allevata in purezza ed utilizzata come razza
Utilizzazione incrociante per il miglioramento delle razze
locali
Pubertà (età, mesi) 6 - 8 mesi
carne (sia in purezza che incrociata) Si presta
Indirizzo produttivo molto bene per la produzione del suino pesante
(>150 Kg) italiano da destinare al salumificio
Carcasse di suino leggero (80-90 kg) da
macelleria per il consumo diretto
Produzione tipica Carcasse di suino pesante (>150 Kg) per
l’industria di trasformazione
Prosciutti (Parma, S. Daniele ecc.) Insaccati
Aspettativa utile media di vita in allevamento 3 - 4 anni max (poi avviato al macello)

Verro Large White da www.fwi.co.uk/blogs/livestock-and-sales-blog/2010/05/balmoral-show-pig-

results.html

Scrofa con lattonzoli da www.cfgphoto.com/img22250.htm

ALTRE NOTIZIE UTILI: E’ una razza, che ha dato origine a diverse altre razze con caratteristiche

proprie del territorio di allevamento, come quello italiano, tedesco ecc.

167
LANDRACE
Danimarca e in quasi tutto il mondo.
Area di maggior allevamento
Cosmopolita come la Large White
1870 - 1915 come prodotto di incrocio tra verri
Origini Large White e scrofe Danesi, meticciamento e
selezione
Accrescimenti giornalieri gr/d 800 - 1100
n° nati per parto 10 - 14
n° di lattonzoli svezzati/anno 20-22
n° parti per anno 2 – 2,5
Pesi vivi alla nascita (Kg) 800 - 1200
Pesi vivi allo svezzamento(Kg) 25 - 35
Pesi vivi alla macellazione Kg) 80 - 90 e 150 - 180
Pesi vivi adulti (Kg) 300 - 400 (scrofe), 400 - 500 (verri)
Età di macellazione (mesi) 7 - 9 e 12 - 14
Età di svezzamento (giorni) 30
Età 1° accoppiamento e relativo peso 8 - 9 mesi e 90 - 100 Kg
Resa di macellazione 80 - 85 %
Tipologia di allevamento Stallino, ciclo chiuso e/o ciclo aperto
Come razza incrociante per migliorare la
Utilizzazione produttività di ceppi autoctoni e per la creazione
di marche industriali
Pubertà (età, mesi) 6-8
Indirizzo produttivo carne
Carcasse di suini leggeri per la macelleria
Produzione tipica Carcasse di suini pesanti per il salumificio
Prosciutti, insaccati e altro
Aspettativa di vita utile media di allevamento 3 - max 4 anni (poi riformato)

Adulto di razza Landrace da shaffergoldrush.com/sg_sales/FS_CustomerAppreciation_2010.html

Soggetti svezzati di Landrace da news.charlesayoub.com/index.php/article/9558/Belgian%20Landrace

ALTRE NOTIZIE UTILI: Classico suino a siluro. Suino cosmopolita, presenta caratteristiche

morfologiche diverse a seconda della nazione di allevamento. La scrofa presenta non meno di 12

capezzoli. La selezione da tempo mira ad eradicare la sindrome P.S.E., anche se non è possibile

affermare con sicurezza che sia stata completamente eliminata

168
SUINI NERI DELL’APPENNINO CENTRO MERIDIONALE
Nero di Puglia, Nero di Lucania, Nero di
Gruppi etnici e/o razze popolazioni
Calabria e di Sicilia
Area di maggior allevamento Sud-Italia, Puglia, Lucania, Calabria e Sicilia
Variabili con il genotipo, il sistema di
Accrescimenti giornalieri gr/d
allevamento 300-600
n° nati per parto 6-8
n° svezzati per parto 6,5-7,5
n° parti per anno 2- 2,2
Dipendono dal genotipo e/o raggruppamento
Pesi vivi alla nascita (g) accrescimenti medi etnico razzologico e dal sistema di allevamento
giornalieri 700-900
Pesi vivi allo svezzamento(Kg) 15 -20
Pesi vivi alla macellazione Kg) 90-160
Pesi vivi adulti (Kg) 100-180
Età di macellazione (mesi) 9-15
Età di svezzamento (giorni) 30
Età 1° accoppiamento e relativo peso 10-12 3/4 di quello di un adulto
Resa di macellazione Intorno 78-85%
Stallino, semi brado ma i genotipi sono
particolarmente adatti all'allevamento estensivo,
Tipologia di allevamento
per la loro alta capacità di pascolamento e
esempio per la resistenza agli eritemi solari.
Allevata con sistema semi brado, per l'utilizzo
Utilizzazione
dei pascoli, del sottobosco e dei relativi frutti
Pubertà (età, mesi) 7-9
Indirizzo produttivo Carne
Carcasse di qualità, per la produzione di
Produzione tipica insaccati, di prosciutti e di trasformati tipici dei
luoghi di allevamento

Scrofa di suino nero di calabria da http://animali-vendita.vivastreet.it/animali-domestici+belvedere-marittimo/suino-nero-di-


calabria-certificato/29806895
Capocollo di Suino nero di Calabria da www.gentedelfud.it/prodotto/dettaglio/capocollo-di-suino-nero-di-calabria/

169
PIETRAIN
Area di maggior allevamento Francia ed Europa
Dall'incrocio tra la Baycaux, con suini
Origini Berkeshire e Tamwort inglesi e successivo
meticciamento e selezione
Accrescimenti giornalieri gr/d 400-600
n° nati per parto 10-12
n° di lattonzoli svezzati/parto 8,5
n° parti per anno 2 – 2,5
Pesi vivi alla nascita (g) 700-1000
Pesi vivi allo svezzamento(Kg) 20-25
Pesi vivi alla macellazione Kg) 80-90
Pesi vivi adulti (Kg) media maschi 180-250
Età di macellazione (mesi) 6-8 max 10
Età di svezzamento (giorni) 30
Età 1° accoppiamento e relativo peso Otto-nove mesi 80-90 kg
Resa di macellazione 80-87%
Tipologia di allevamento Stallino, intensivo
Utilizzata nella formazione di molti ibridi
Utilizzazione europei per la produzione di carcasse suine da
macelleria
Pubertà (età, mesi) Sei-otto mesi
Indirizzo produttivo Carne
Carcasse carnose di qualità, da macelleria per il
Produzione tipica
consumo diretto
Aspettativa utile media di allevamento Tre max quattro anni poi riformati
N.B. Per la descrizione morfologica della razza è sufficiente osservare le foto.

Suino PIETRAIN da www.infoescola.com/animais/suino-pietran/

ALTRE NOTIZIE UTILI si distinguono ceppi Francesi, Belgi tutti ottimi per la produzione del
suino leggero. Alla presunta moderata velocità di accrescimento presenta come particolarità la
ipermuscolarità del treno posteriore che si concretizza nel carattere della “doppia groppa” o
“coulard”. Nei suini Piètrain è tutt'oggi frequente la P.S.E., che ha determinato in Italia l'esclusione
della razza pura nella produzione del suino pesante da destinare all'industria di trasformazione.
Rispetto alla Landrace ed alla Large White presenta una superiore carnosità del 6-8%. Rispetto alla
mole presenta un cuore non proporzionato che sembra sia causa di decessi per collasso
cardiocircolatorio quando l'animale viene sottoposto a stress.

170
HAMPSHIRE
Area di maggior allevamento Stati Uniti
Da razze europee giunte nel continente
Origini
americano a seguito dei coloni
Accrescimenti giornalieri gr/d
n° nati per parto 10-12
n° di lattonzoli svezzati/anno 20
n° parti per anno 2
Pesi vivi alla nascita (g) 600-800
Pesi vivi allo svezzamento(Kg) 18-25
Pesi vivi alla macellazione Kg) 80-90
Pesi vivi adulti (Kg) 200-300
Età di macellazione (mesi) Sei-otto
Età di svezzamento (giorni) 30
Età 1° accoppiamento e relativo peso 9-10; 80-90
Resa di macellazione 80-85
Tipologia di allevamento Semibrado - Stallino
Generalmente allevata in purezza o incrociata
Utilizzazione per la produzione del suino leggero. Si presta
bene all'allevamento estensivo
Pubertà (età, mesi) Sei-otto
Indirizzo produttivo Carne
Produzione tipica Carne di qualità e magra per il consumo diretto
Aspettativa utile media di vita allevamento Tre-quattro poi riformato
N.B. Per la descrizione morfologica della razza è sufficiente osservare la foto

Suino HAMPSHIRE da www.universoporcino.com/razas_porcinas/hampshire/index.html

ALTRE NOTIZIE UTILI: le carni sono caratterizzate dall'effetto “Hampshire” dovuto ad un


andamento anomalo dell'acidificazione. Infatti a fronte di un pH a 45 minuti dalla macellazione del
tutto normale, quello post mortem a 24 ore risulta di gran lunga più acido rispetto al normale
osservabile nelle carni delle altre razze suine. Questo esclude la razza allevata in purezza dalla
produzione del suino pesante italiano da destinare all'industria salumiera.

171
CASERTANA o PELATELLA
Sud Italia ed in particolare nelle province di
Area di maggior allevamento Napoli Caserta Avellino Benevento Salerno e
Frosinone
Origini Antica già nota ai tempi di Roma Imperiale
Accrescimenti giornalieri gr/d 400-500 g/d
n° nati per parto 6-8
n° di lattonzoli svezzati/parto 5-7
n° parti per anno 2
Pesi vivi alla nascita (g) 700-800
Pesi vivi allo svezzamento(Kg) 15-25
Pesi vivi alla macellazione Kg) 80-120
Pesi vivi adulti (Kg) 150-200
Età di macellazione (mesi) 10-12
Età di svezzamento (giorni) 30
Età 1° accoppiamento e relativo peso 10-11 mesi; 70-80 kg
Resa di macellazione 80 - 82%
Stallino, ma una volta estensivo, familiare e/o
Tipologia di allevamento
semi intensivo
Allevata per la produzione della carne e per
Utilizzazione essere incrociata con soggetti di razze più
produttive
Pubertà (età, mesi) 9-10
Carne per l'utilizzazione diretta ma anche per la
Indirizzo produttivo
produzione di insaccati
Produzione tipica Insaccati
Aspettativa utile media di allevamento 6-7 anni

Scrofa con lattonzoli di razza PELATELLA da


www.rivistadiagraria.org/riviste/vedi.php?news_id=184&cat_id=63

ALTRE NOTIZIE UTILI: Razza autoctona, rustica, resistente dotata di buona fertilità, di discreta
prolificità, e di media mole. La cute grigio ardesia, quasi priva di setole a livello della gola presenta
due protuberanze epidermiche detti “bargiglioni”. Una volta era allevata dai mandriani di Podoliche
che oltre ad alimentarsi del pascolo e dei frutti di bosco (ghiande ecc. ) utilizzavano anche il siero
delle cagliate. La percentuale di carne magra delle carcasse di questa razza non supera il 59-60%.

172
MEISHAN
Area di maggior allevamento Cina
Cina e sud-est asiatico si è evoluta da suini
Origini
locali
Accrescimenti giornalieri gr/d
n° nati per parto 13-16
n° di lattonzoli svezzati/parto 12-14
n° parti per anno 1-2
Pesi vivi alla nascita (g) 600
Pesi vivi allo svezzamento(Kg) 15-20
Pesi vivi alla macellazione Kg) 60-100
Pesi vivi adulti (Kg) 250 le scrofe 200 i verri
Età di macellazione (mesi) Dipendente dalle zone 4-9-12
Dipendente dal sistema di allevamento e dalla
Età di svezzamento (giorni)
zona (da 30 a 120 giorni)
Età 1° accoppiamento e relativo peso Quattro-cinque mesi 40 - 60 kg
Resa di macellazione 78-80%
Tipologia di allevamento Rurale e semi brado
Utilizzata nei programmi di produzione per il
Utilizzazione miglioramento della prolificità e della precocità
di molti ibridi commerciali
Età alla pubertà (età, mesi) Tre mesi le femmine quattro-cinque i maschi
Carne e grasso. Carne magra non oltre il 35%
Indirizzo produttivo
della carcassa di magroncelli
Produzione tipica Carcasse per il consumo diretto
Aspettativa utile media di allevamento n.p.

Verro di razza MEISHAN da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Meishan_1000476.JPG

Scrofa con piccoli di razza MEISHAN da razasporcinas.com/meishan/

173
Cap. 8 PRODUZIONI AVI-CUNICOLE O DI ANIMALI DI BASSA CORTE

Fino all’immediato dopo guerra, gli avicoli (polli, tacchini, anatre, oche, faraone ecc.) insieme ai

conigli erano denominati animali di bassa corte, il cui allevamento era complementare alle attività

agro - aziendali e nel caso di produzioni rurali e/o famigliari rappresentavano una scorta di proteine

nobili a costi limitati (uova e carni). Successivamente come per gli altri allevamenti animali si sono

trasformate in vere e proprie attività imprenditoriali di tipo industriale dando luogo agli allevamenti

“senza terra” che hanno dato un forte impulso alla produzione di carni il cui grado di auto-

approvvigionamento negli avicoli supera il 106% e toccato il 99 - 100 % quello dei conigli e della

selvaggina anche se per quest’ultima (selvaggina) il fabbisogno nazionale viene soddisfatto per

circa il 60% dalle importazioni.

SISTEMI DI ALLEVAMENTO AVICOLI: I sistemi di produzione e/o allevamento per queste

specie (polli, tacchini, faraone ecc.) sono di tipo:

A) Rural-famigliare il quale è a tutt’oggi praticato quasi esclusivamente sia a livello famigliare

sia in ambito rurale-contadino, basato non solo sull’allevamento di galline per la produzione

di uova, ma anche sulla produzione di avicoli (polli, tacchini, faraone ecc.) per sopperire al

fabbisogno famigliare. In questi allevamenti il genotipo animale è alquanto variabile e

disomogeneo potendo variare da soggetti allevati in purezza e specializzati per la produzione

della carne e/o delle uova ad ibridi commerciali, (tipo quelli allevati a livello industriale), a

soggetti appartenenti a razze-popolazioni autoctone e rustiche a quelle di tipo ornamentale

amatoriale. In questo variegato insieme razzologico è abbastanza frequente riscontrare delle

femmine (galline, tacchini, faraone, anatre ecc.) che presentano l’istinto alla cova (chiocce).

Esso è un carattere omozigote dominante autosomico dovuto al gene I , e l’istinto alla cova

si manifesta sia quando è presente sotto forma di omozigote dominante (I I) sia quando è

presente come eterozigote (I i); mentre l’istinto alla cova non si manifesta quando è sotto

forma di omozigote recessivo (i i) così come nel caso delle ovaiole ove la frequenza del

carattere (istinto alla cova I I e I i) per motivi economici, per selezione è stata ridotta quasi a

174
zero in quanto, in queste popolazioni il carattere è sotto forma di omozigote recessivo (i i).

Questi allevamenti, condotti con poca razionalità, praticati sia in recinti a cielo aperto, che in

pollai e/o locali all’uopo riadattati e molte volte condotti insieme ad altre specie come

tacchini, faraone, conigli, oche, colombi ecc.

Foto di allevamento a carattere famigliare di avicoli da http://www.sorve.it/pagina_p.htm

forniscono alla famiglia una certa e sicura quantità di uova e carne bianca, considerata

genuina e di qualità, ma l’unico parametro certo è la “freschezza” del prodotto, e la sua

tracciabilità. Come si osserva dalle foto in questi allevamenti si possono aggiungere conigli

autoctoni, sicuramente rustici, frugali, ma poco prolifici e particolarmente adatti

all’allevamento in colonia.

Come quasi tutti i genotipi autoctoni quelli avicoli le cui femmine sono portatori di geni

responsabili dell’istinto alla cova (I I e I i), presentano una ovodeposizione più contenuta

poiché ai 21 giorni di cova (uova gallina) si deve sommare il 6-100 giorni, periodo questo in

cui la chioccia arresta la deposizione delle uova.

B) Senza volerci addentrare negli aspetti tecnologici-produttivi dell’avicoltura imprenditoriale

ai cui testi si rimanda per gli eventuali approfondimenti l’allevamento delle specie avicole

per la produzione della carne e delle uova è prettamente di tipo industriale. Esso si basa su:

1) allevamento di galline per la produzione di uova da consumo

2) allevamento di galline per la produzione di uova da incubazione

3) incubazione di uova destinate alla produzione di galline ovaiole

175
4) incubazione di uova destinate alla produzione di polli da carne (broilers e rosters)

L’allevmento di ovaiole per la produzione delle uova da consumo a parte la tipologia rural-

famigliare contadina appena accennata, generalmente viene praticata con il sistema intensivo sia in

gabbie singole e/o multiple, disposte in piani su sostegni a piramide per evitare alle galline dei piani

superiori di defecare su quelle allocate nelle gabbie dei livelli inferiori, sia a terra con lettiera

permanente. In entrambi i casi il mangime e l’acqua di abbeverata sono distribuiti automaticamente

attraverso gli autoalimentatori e gli abbeveratoi automatici. L’allevamento in gabbie può essere a

posta singola (una gallina per gabbia) o multipla 3-6 capi per gabbia), in cui la superficie di gabbia

per soggetto si aggira intorno ai 35-40 cmq. La base della gabbia (tutta in rete metallica zincata la

più igienica) è inclinata di 5° per favorire la discesa dell’uovo nel ripiano di raccolta, il quale nei

grandi allevamenti (dai 5000 capi in sù) può essere provvisto di nastro trasportatore che

automaticamente a ore prestabilite della giornata (mattino e sera) convoglia automaticamente le

uova nella sala di lavorazione e stoccaggio dove gli addetti provvedono alla selezione, scarto di

uova non adatte alla vendita, pezzatura delle uova, al loro confezionamento e alla loro distribuzione.

In generale, l’alimentazione è costituita da mangimi composti integrati (sfarinati e/o sbriciolati) al

17% di proteina grezza, al 2-3 max 5 % di grasso grezzo, al 2-3 % di fibra grezza, al 6-7 % di ceneri

di cui il 5-6% di Ca (da CaCO3 e da Ca2(PO4)3) e con un contenuto di 2700-2850 cal/ Kg (a secondo

della stagione) di E.M. Questo tipo di allevamento poiché presenta un alto grado di igienicità

dovuto al tipo di gabbia e/o della loro disposizione, è particolarmente adatto per la produzione delle

uova da consumo. L’allontanamento delle deiezioni che si raccolgono a terra o in appositi

raccoglitori/convogliatori di tipo automatico, periodico o giornaliero, le quali sono avviate poi al

compostaggio ed utilizzate come fertilizzante (la pollina) in agricoltura. Normalmente l’aspettativa

di vita produttiva utile di una ovaiola non supera quasi mai i due anni. Questo è ascrivibile al fatto

che le galline come tutti gli avicoli tra la fine dell’estate dell’anno successivo a quello della nascita,

vanno in muta ovvero cambiano le vecchie penne per sostituirle con quelle nuove per affrontare

meglio i rigori invernali. In questo periodo la gallina arresta la ovodeposizione, divenendo di fatto

antieconomico il suo mantenimento in allevamento. Inoltre non tutte le galline accasate presentano

176
la “muta” contemporaneamente, bensì lo fanno in modo scalare, aumentando così lo stillicidio

economico, poiché il/i soggetto/i indipendentemente dalla deposizione delle uova mediamente

consuma dai 120 ai 150 gr di mangime al giorno. Però conteggiando i costi di una nuova pollastra,

il suo periodo di non produttività, il suo consumo alimentare e i costi generali di una operazione di

ricambio dalla cui somma vanno detratti i ricavi di una eventuale gallina di fine carriera

(generalmente non superiori ai 1,5 € / capo), molti allevatori propendono per il mantenimento in

allevamento di un altro anno di quelle galline con alle spalle un anno di ovodeposizione. Ma per

evitare lo stillicidio della cosiddetta “muta” dilazionata delle galline, le migliori vengono sottoposti

a programmi di “muta forzata”, che possono basarsi sulla restrizione di mangimi e/o di acqua per un

periodo prestabilito (2-6 giorni). Con questo sistematutti gli animali arrestano la ovodeposizione e

danno inizio alla caduta delle vecchie penne. La sospensione dell’acqua non deve mai superare i 2

giorni, mentre quella della miscela può essere protratta fino al 6° giorno. Dopo il tale periodo viene

ripristinata al distribuzione alimentare. Dopo 8-10 settimane allorché le galline hanno sostituito la

vecchia livrea, inizia una nuova ovodeposizione. La produttività media (uova deposte per 100

galline accasate) delle galline sottoposte a programmi di muta forzata, anche se depongono uova di

pezzatura superiore è inferiore a quella di 1° ovodeposizione (che non supera mai 70 - 75 uova

depositate per 100 galline accasate).

La pezzatura normale di commercializzazione delle uova da consumo varia tra 50 - 55 gr e 55 - 60

gr, pezzatura a cui tutti gli allevatori tendono sia per la commerciabilità, sia per comodità di

imballaggio. Pezzature inferiori a 50-55, 45-50 e/o superiori ai 60-65 sono commerciabili a prezzi

diversi ma scomodi da imballare/confezionare.

L’allevamento intensivo a terra su lettiera permanente è particolarmente indicato sia nella

produzione di polli da carne (broilers, rosters ecc.) sia in quello delle ovaiole per la produzione di

uova da incubazione.

Nell’allevamento del pollo da carne, l’uso della “batteria” o “gabbie” di qualunque materiale (reti

metalliche, plastica ecc.), comunque disposte (sospese su piani paralleli, su più piani sfalsati) sono

comunque sconsigliati, poiché gli animali sono comunque sottoposti a “stress” con poche possibilità

177
di movimento e spesso per riposarsi, complice il loro peso vivo, con il petto, sono costretti ad

adagiarsi con il petto sul fondo rigido della gabbia; ciò, porta quasi sempre alla formazione di

“vesciconi” a livello della carena (sterno) con deprezzamento della carcassa ed in particolare del

taglio di petto (il più pregiato).

L’allevamento a terra, praticato in capannoni provvisti di abbeveratoi, di distributori automatici, di

prese per il ricircolo dell’aria, generalmente avviene su lettiera “permanente” a base di paglia o di

segatura o truciolati di legno, che viene rimossa alla fine di ogni ciclo di produzione, allorché il

locale viene pulito, disinfettato e disinfestato.

l’allevamento dei broilers, inizia con l’ingresso dei “pulcini” di una settimana di età nel capannone

ad una densità max di 6 - 7 soggetti per mq e vi restano fino all’età di macellazione.

Esso è articolato in due fasi, la prima di 4 settimane, in cui vengono alimentati con un mangime

composto integrato (o completo) al 21 % di proteine grezze, contenente 3000-3100 cal / Kg. la

seconda, anch’essa di circa 4 settimane e comunque dura fino alla macellazione. Nella seconda fase

il contenuto proteico della miscela si riduce di un paio di punti % mentre resta più o meno invariato

quello in E.M. In questi allevamenti, generalmente l’indice di conversione alimentare è molto

favorevole (1,5 - 2,5 Kg di miscela per kg d’incremento di peso vivo).

Con questo sistema, nonostante l’alta densità di allevamento, (6-7 capi mq) gli animali (non essendo

in gabbia) hanno la possibilità di muoversi sull’intera superficie del capannone, con ovvi benefici

sul benessere animale collegati alla possibile “ginnastica funzionale”. Inoltre, i polli, poggiandosi

sulla lettiera (più o meno morbida) o su appositi posatoi e non su una rete rigida, non presentano a

livello sternale quei vescicosi che deprezzano la carcassa.

L’allevamento delle galline per la produzione delle uova da incubazione destinate alla

produzione dei broilers e/o per quella delle pollastre “ovaiole per l’uovo da consumo”, inizia con

l’immissione (accasamento) delle pollastre e/o dei galletti di 16 mesi di vita, ad una densità di 5 - 6

capi/mq.

Nell’allevamento di galline per la produzione delle uova da incubazione il rapporto maschi-

femmine, varia con il genotipo animale (da uova o da carne) e comunque oscilla da 1 a 15 a 1 a 20

178
(1 gallo ogni 15 - 20 galline). Ovviamente, i capannoni adibiti alla produzione di uova da

incubazione oltre alle normali prese per il ricircolo dell’aria (ventilatori, aspiratori ecc. a 3 - 6

m3/sec), ai distributori automatici di mangimi e di acqua (beverini), sono dotati di posatoi e di

“rastrelliere nido” a fondo piano o inclinato ove la/e gallina/e vanno a deporre le uova. Questo tipo

di allevamento oltre ai vantaggi già menzionati allorché si è parlato dei “broilers” è indispensabile

per i noti fatti riproduttivi, anche se non consente di conoscere la genealogia del/i pulcino/i.

Il nido a fondo inclinato, è utile quando la “rastrelliera nido” è provvista di “nastro convogliatore”

che porta le uova nelle sala di lavorazione e/o stoccaggio. L’alternativa a questo sistema sarebbe

quello delle gabbie multiple pensili, ove troverebbero “accasamento” 6 - 7 galline e 1 gallo, che a

parte una maggiore igienicità delle uova e un migliore I.C.A. (n° di uova prodotte /Kg di mangime)

presenterebbero gli stessi inconvenienti di quello dei broilers.

Le uova fecondate comunque prodotte, per dare il proprio frutto devono essere incubate.

Senza voler approfondire l’argomento per il quale si rimanda ai testi specifici, l’incubazione può

essere naturale (fatta da galline covanti) o artificiale, fatta con macchine capaci di mantenere la

giusta umidità e temperatura che consentono il normale sviluppo embrionale.

Ovviamente quando si parla di uova, indipendentemente dalla loro destinazione (consumo o

incubazione) non si può non parlare di qualità, definita da parametri quantitativi, fisici e chimico

nutrizionali.

Parametri quantitativi: oltre al n° totale di uova/gallina/anno particolare importanza riveste il peso:

1) dell’uovo

2) del guscio

3) del tuorlo

4) dell’albume

a cui si aggiungono i rapporti tra i pesi:

a) guscio/uovo totale

b) albume /uovo totale

c) tuorlo uovo

179
e le misure di:

1) larghezza

2) lunghezza

3) rapporto lunghezza / larghezza viene denominato Indice di Forma (I.F.)

4) altezza del tuorlo e dell’albume (cm) (misurato con regolo di cime - “HAUG”)


5) Indice di Hangh (misurato con regolo di cime - “Haugh”) = rapporto tra

6) Colore del guscio (bianco o tendente al rosso)

A questi parametri quantitativi, si devono considerare quelli qualitativi sia del tuorlo, sia

dell’albume, come:

1) Umidità

2) Proteine

3) Grassi

4) Ceneri

Il peso delle uova, come anzi accennato varia con il genotipo animale (specie) potendo oscillare da

15 - 16 gr della quaglia a 600 - 800 gr dello struzzo, con la razza (30-35 gr galline bamtam a 65 - 70

g delle ovaiole con 55-60 g come peso standard) con l’età della gallina, l’ordine di ovodeposizione

(1°, 2°, ecc.) con il suo periodo (inizio e/o colmo), con la alimentazione, con il sistema di

allevamento e con le condizioni climatico-ambientali. Comunque il peso dell’uovo, in galline nel

colmo dell’ovodeposizione mediamente oscilla tra 55-60 g in cui il guscio si aggira intorno ai 6,5

gr, quello del tuorlo varia dai 14 ai 17 gr e quello dell’albume si attesta intorno ai 35 -37 gr.

Per quanto riguarda i diversi rapporti si ricorda che quello del guscio/uovo mediamente ottiene un

valore intorno a 11, quello albume/uovo non supera 60 e quello tuorlo/uovo generalmente si attesta

tra 27 e 29 (Gallo 1972). Inoltre la lunghezza dell’uovo della pezzatura indicata è in media di c.a.

58 mm e la larghezza mediamente non supera i 43 mm, misure queste che incidono e/o determinano

l’indice di forma che deriva dal loro rapporto.

Gli altri parametri oggettivi e/o quantitativi di qualità delle uova fresche (deposte da 12 - 24 ore),

anch’essi dipendono dai fattori citati, nonché dal tempo e dalle condizioni climatico ambientali di

180
conservazione. Tra i parametri di qualità facilmente quantizzabili, risulta l’altezza dell’albume,

correlato al grado di adesione e/o coesione al tuorlo e che varia con la stagione di deposizione ed

oscilla da c.a. 9.00 (inverno - primavera) a c.a 8.00 (estate) che in sostanza indica il grado di

freschezza dell’uovo, inteso questo come il tempo intercorso dalla deposizione al momento di

consumo. Infatti tanto minore è l’altezza dell’albume tanto più “stantio” o “vecchio” è l’uovo. A tal

proposito, non sempre le uova deposte da “poco” possono considerarsi “fresche” se le condizioni

climatico - ambientali di stoccaggio sono pessime (alta temperatura > ai 25 -30 °C ed umidità

relativa U.R. troppo bassa < al 55 - 60 % o troppo alta > a 70 - 75 %) Per quanto riguarda la

composizione chimica dell’uovo, del tuorlo e dell’albume sono di seguito indicate:

Composizione chimica % delle uova di gallina

Tuorlo Albume

Acqua 47,8 - 48,7 87,3 - 88,9

Proteine grezze 15,7 - 16,5 9,1 - 11,2

Grasso grezzo 32,0 - 35,2 - -

Ceneri 1,6 - 1,8 0,55 - 0,68

Parametri questi, che determinano il contenuto calorico dell’uovo, a cui devono sommarsi il

contenuto in colesterolo totale e le sue frazioni in H.D.L. (lipoproteine ad alta densità) e quelle in

L.D.L. (lipoproteine a bassa densità). Se da un lato l’uovo come il latte a causa dell’alto contenuto

in principi nutritivi sono da considerarsi come alimenti ideali per l’alimentazione dei neonati,

dall’altro, a causa della presenza di particolari componenti nutrizionali come il C12:0; il C14 ed il

C16:0, accusati di far incrementare la frazione ematica dell’ L.D.L., ne sconsigliano l’uso massiccio

nell’alimentazione degli adulti o delle persone con problemi epatici e con disfunzioni cardio

vascolari e circolatorie.

Per quanto concerne poi la produzione delle carni avicole ottenute dall’allevamento dei polli

(broilers e/o rosters), dei tacchini, delle faraone, dei palmipedi (oche, anatre ecc.) e degli animali di

interesse faunistico venatorio (fagiani, starne, pernici ecc.), le tecniche di allevamento sono quelle

della classica avicoltura imprenditoriale e/o industriale, basate sulla produzione delle uova, sulla

181
loro incubazione artificiale in incubatrici (foto che possono essere di piccole, medie, e grandi

dimensioni, la cui capacità di incubazione oscilla tra le 100 uova di gallina fino a 100-500 mila ed

oltre a secondo del modello di macchina), sull’allevamento dei pulcini e su quello dei gruppi di

riproduzione (uova da incubazione).

Incubatrice semi-professionale da www.incubatricipadovan.it/01-Incubatrici.html

Senza volerci addentrare nelle tecniche di allevamento ben codificate da anni di lavoro e riportate in

appositi trattati a cui si rimanda per i dovuti approfondimenti, per le nostre finalità basti ricordare

che gli aspetti quanti-qualitativi della produzione di queste carni, al pari delle altre ottenute

dall’allevamento di altre specie, sono influenzate dagli stessi fattori di cui abbiamo riferito in

precedenza.

A differenza delle carcasse delle altre specie animali ed in particolare per quanto riguarda la loro

composizione in tagli, quella del pollo e/o degli avicoli, risulta in un certo qual modo più semplice.

Infatti quella degli avicoli così come si evince dalle foto è composta da pochi tagli di cui si

menzionano quelli di:

a) coscio (tibia, muscoli e cute annessi)

b) sopraccoscio (femore, muscoli e cute annessi) ischio e metà delle colonna sacro-caudale con

cute e muscoli annessi

c) petto e busto. Da questo taglio si separano i muscoli pettorali per la preparazione delle

fettine (e “cotolette”)

182
d) ali

e) testa, collo e zampetti.

Foto dei tagli più comuni del pollo da www.alimentipedia.it/carne-di-pollo.html

Detti tagli a seconda delle zone, assumono denominazioni diverse.

La carcassa degli avicoli si ottiene dalla macellazione dell’animale, dal suo dissanguamento, dalla

spennatura (generalmente a caldo in corrente di vapore, seguito da spazzolamento),

dall’allontanamento dei visceri (gozzo, intestino, ventriglio e fegato), di questi, solo il ventriglio ed

il fegato vengono recuperati, lavati, imballati (inscatolati) in appositi contenitori coperti con una

pellicola in PVC per alimenti ed avviati alla vendita. Le carcasse così ottenute, vengono lavate,

asciugate, imballate in contenitori di polistirolo, prima stoccate in celle frigo e poi avviate alla

distribuzione.

Negli avicoli, detti anche animali a carni bianche, nella stragrande maggioranza dei casi, il grasso si

deposita sia a livello addominale, sia a livello sottocutaneo e cutaneo facilmente separabile prima e

dopo cottura; per queste sono considerate magre e particolarmente indicate nell’alimentazione dei

bambini, degli anziani, dei degenti e di tutti coloro che presentano problemi dietetico nutrizionali;

poiché oltre al buon rapporto tra le diverse frazioni dei componenti nutrizionali (proteine, vitamine,

aminoacidi, acidi grassi essenziali ecc.), sono anche di facile preparazione gastronomica e si

prestano bene anche per ricette più elaborate e complesse.

Per questo basti pensare che tagli di scarto (testa, collo, piedi, ali, groppone ecc.) a prevalente base

ossea, si prestano bene nella preparazione dei brodi da cucina per pasta, risotti, minestroni ecc, sia
183
da soli che associati ai tagli ossei delle altre specie. Inoltre si ricorda che i tagli di coscio (fuselli) e

di sopracoscio si prestano bene per preparati in padella, arrosti, oppure in umido, e per questo la

letteratura gastronomica è particolarmente ricca. Menzione a parte merita il petto e le fettine da

esso ottenibili per la preparazione delle cotolette che per la semplicità di preparazione (basta

sottoporle a cottura a secco in padella per poi condirli con sale (q.b.) ed un filo di olio extra vergine

di oliva) permette di ottenere un piatto semplice, gustoso di qualità ma soprattutto rapido da

preparare.

Per quanto concerne le qualità chimico nutrizionali delle carni, ivi comprese quelle avicole si fa

riferimento alla relativa tabella di seguito riportata.

Composizione chimica % delle carni di diversi genotipi animali

Proteine Grassi
Acqua Ceneri indeterminati
grezze grezzi

Suino 70,84 21,20 6,35 1,11 0,50

Cinghiale 68,38 21,74 7,85 1,13 0,90

Agnello 71,17 20,69 5,78 1,02 1,34

Capretto 70,48 23,19 4,45 1,18 0,70

Daino 75,76 20,67 1,35 1,24 0,97

Coniglio 68,35 23,69 6,39 1,39 0,18

Lepre 70,77 24,75 2,37 1,35 0,76

Pollo (broilers) 68,22 21,93 7,71 1,71 0,92

Tacchino 70,97 23,16 3,64 1,25 0,98

Fagiano 72,20 24,00 24,00 1,60 1,50

Anatra 70,52 24,56 2,11 1,77 1,03

Bovino L.D. 72,55 23,78 1,57 1,39 0,71

Infine per avere un idea generale dell’andamento delle produzioni di latte e carne in Italia, basta

fare riferimento alla tabella che segue.

184
PRODUZIONI ANIMALI 2008 (ISTAT 2009)

TIPO DI PRODOTTO QUANTITÀ IN QUINTALI

Carne totale animali importati 39.099 (x 1000) ql.

Bovina (ivi compresi quelli importati ed allevati in Italia) 8635 (x 1000) ql.

Ovicaprina (ivi compresi quelli importati ed allevati in Italia) 411 (x 1000) ql.

Suina (ivi compresi quelli importati ed allevati in Italia) 15.740 (x 1000) ql.

Equina (ivi compresi quelli importati ed allevati in Italia) 117 (x 1000) ql.

Pollame 12.371 (x 1000) ql.

Conigli e selvaggina 1825 (x 1000) ql.

Latte (escluso quello dei redi) 121.157 (x 1000) ql.

Burro 1082 (x 1000) ql.

Uova 12.112 (x 1000) ql.

Lana 7319 (x 1000) ql.

920 (x 1000) ql.

LA PRODUZIONE DEL LATTE

LATTE BOVINO E BUFALINO 115.026.847 ql. (2008)

LATTE OVINO CAPRINO 6.130.648 ql. (2008)

185
Cap. 9 LA PRODUZIONE DI CARNI OVINE E CAPRINE

9.1 Gli OVINI

Questa particolare produzione, come in precedenza accennato deriva principalmente (70% c.a.)

dalla macellazione degli agnelli e dei capretti lattanti di 40-60 giorni di età dal peso vivo di 12-15

kg, da quella degli agnelloni e caprettoni leggeri di 100-120 giorni di età, di castratelli e castrati

(20%) di 20-28 kg, di entrambe le specie e di animali di fine carriera. Poiché la produzione

nazionale nonostante i limitati consumi pro capite/anno della popolazione italiana che si aggira

intorno a 1,5 kg, non supera il 60% del fabbisogno, si ricorre a massicce importazioni sia dei paesi

dell'Est Europa sia Extra Europei. In generale, tale operazione riguarda principalmente giovani

animali vivi, di diverso peso vivo come soggetti di 18-20 kg di peso vivo (espressini) o quelli di 24-

28 kg (espressi) ed in misura minore animali adulti (pecore, capre, montoni ecc.) ivi compresi quelli

di fine carriera, che vengono importati, macellati e commercializzati in Italia.

In Italia, al contrario delle altre nazioni europee non esistono genotipi (razze) autoctone

specializzate per la produzione della carne ad eccezione della Bergamasca e di qualche altro ceppo

minore meritevoli certamente di maggiori attenzioni dagli addetti al settore.

Detta produzione è fornita da razze a duplice attitudine come la Comisana (latte e carne) e da quelle

a triplice attitudine come la Gentile di Puglia (lana, carne e latte ) e le merinizzate in genere

(Sopravvisana ecc.) e da quelle specializzate per la produzione del latte (Sarda). Ovviamente, la

qualità della carcassa ottenuta dipende strettamente dai fattori riportati in precedenza.

186
Foto Marsico, Mastrosimone: Carcassa ovina (agnellone) eccessivamente grassa. Foto Marsico

Mastrosimone: ovini.

Foto Marsico Mastrosimone: ovino merinizzato derivato Gentile di Lucania

187
Comunque, avendo già dissertato sia sul/i sistema/i e tecniche di allevamento, di seguito si riportano

le schede riassuntive sulle principali razze ovine e caprine con prevalente attitudine alla produzione

della carne e del latte.

188
Bergamasca

Area di origine e di allevamento altopiano del Musone e delle valli Bergamasche allevato
nella provincia di Bergamo
Sistema di allevamento semi estensivo, estensivo, brado-transumante fine
primavera-inizio autunno: Tra le province lombarde,
emiliane e piemontesi. Tra i pascoli prealpini alpini e in
pianura
Area di diffusione dalla zona di origine alle Marche, Umbria, Abruzzo,
Veneto ecc.
Frequenza dei parti Due parti max 3 in due anni
Produzione di latte sufficiente per la prole
Produzione di lana vello di mediocre qualità, di tipo moscio-merinizzato,
bianco 3-2,5 kg vello sudicio dell'ariete 2,0-2,5 kg vello
sudicio della pecora
Fertilità 95%
Prolificità 148%
Fecondità 90%
Età media al primo parto 13 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschio 4,5 kg femmina 4,0 kg
45-50 giorni: maschio 17-20 kg femmina 15-18 kg
90-110 giorni: maschio 30-32 kg femmina 28-31 kg
sei mesi: maschio 48/50 kg femmina 40 45 kg
primo anno: maschio 74-76 kg femmina 65-68 kg
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschio 3-3,5 kg femmina 3,0 kg
45-50 giorni: maschio 15-17 kg femmina 14-15 kg
90-110 giorni: maschio 28-30 kg femmina 26-29 kg
sei mesi: maschio 43-45 kg femmina 40-43 kg
primo anno: maschio 70-75 kg femmina 62-68 kg
Peso adulti maschio 100-110 kg femmina 80-84 kg
Altezza al garrese: montone 82-86 cm pecora 81-84 cm
Altezza alla groppa: montone 86-87 cm pecora 80-82 cm
Circonferenza toracica montone 102-109 cm pecora 100-110 cm
Resa media alla macellazione Agnelli 58-65% adulti 55-60%
Produzione tipica Agnello pesante (latte e pascolo di 180-200 giorni)

Foto di pecora di razza bergamasca da www.agraria.org/ovini/bergamasca.htm

189
Gentile di Puglia o Merino italiana

Consistenza popolazione al 31-12-1980 => 1.050.000 capi


oggi iscritti al L.G. 365.000
Area di origine e di allevamento Italia centro-meridionale. Deriva dalla pecora Carfagnana
incrociata con arieti Merinos spagnoli, importati dalla
Spagna da Alfonso d'Aragona, dai regnanti delle due
Sicilia e da Pontefici e grandi proprietari terrieri
Sistema di allevamento Semi estensivo, brado e fino agli anni 60-70 transumante
Area di diffusione Italia centro-meridionale. Popolazioni in regressione per
la caduta del mercato della lana
Frequenza dei parti Si tende ad i due parti anno, ma tre ogni due anni possono
essere normali in genere 1 all’anno
Produzione di latte Più che sufficiente per l'allevamento dell'agnello ed altri
35 40 kg al secchio per lattazione. Percentuale di grasso
del 7-8% fino al 12-14%. Con resa in formaggio del 20-
22% ed in ricotta del 7-10% (per un totale intorno al
30%)
Produzione di lana Di ottima qualità, idonea alla produzione di filati,
filamento privo di midollatura, resistente alla torsione e
trazione. Vello bianco con bioccoli chiusi e serrati.
Vello sudicio: ariete 4,0-6,0 kg pecora 3,5-4,5 kg
Fertilità 90%
Prolificità 120%
Fecondità 95%
Gemellarità 10-15%
Età media al primo parto 15-18 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: 3-4 kg, 45-50 giorni: 12-15 kg, 90-100 giorni:
24-28 kg, sei mesi: 30-35 kg, 1 anno: maschi 40-45 kg
femmina e 35-40 kg
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: 2,5-3,5 kg, 45-50 giorni: 10-13 kg, 90-100
giorni: 22-25 kg, sei mesi: 28-30 kg
Peso adulti Ariete: 60-67 kg pecora 40-45 kg
Altezza al garrese: Ariete 68-70 cm pecora 60-62 cm
Altezza alla groppa: Ariete 69-70 cm pecora 62-64 cm
Circonferenza toracica Ariete 92-94 cm pecora 80-85 cm
Resa media alla macellazione Agnelli da latte: 60-65% i maschi 55-60% le femmine
adulti: 50-52% i maschi 45-50% le femmine
Produzione tipica Agnello da latte. Canestrato da grattugia.
lana tessile, I.M.G. 200-250
I.C.A. 5 kg di latte / kg accresciuto
Indirizzo produttivo attuale Carne, latte, lana
Agnelli Gentile di Puglia. Foto Marsico

190
Sopravvisana

Area di origine e di allevamento Lazio. È stata ottenuta per incrocio tra la pecora Vissana
ed arieti Merinos spagnoli e Rombonillet a cui sono
seguiti i Gentile di Puglia. Dal Lazio si è diffusa in tutta
l'Italia centrale (Umbria, Marche, Toscana e Abruzzo)
Sistema di allevamento È allevata principalmente con sistema semi-estensivo
transumante, e stanziale. Ben si adatta sia agli allevamenti
rural-famigliari che in medi e grandi greggi
Frequenza dei parti Due-tre parti ogni due anni
Produzione di latte 50-60 kg al secchio, resa in formaggio 20-23% a cui si
aggiunge l’8-10% in ricotta. Il contenuto in grasso varia
dal 6% al 12% in relazione alla stagione, all'ordine di
parto e all'alimentazione.
Produzione di lana Ottima per la tessitura, compete in qualità e quantità con
quella della Gentile di Puglia. Tosa unica.
6,5 kg vello sudicio ariete 4,5 kg vello sudicio pecora
Fertilità 90% 92%
Prolificità 135%
Gemellarità 25%
Fecondità 95-98%
Età media al primo parto 15-18 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschi 4,0 kg femmine 3,0 kg, 45 giorni: maschi
15 kg femmine 13 kg, 90-100 giorni: maschi 24 kg
femmina 22 kg, sei mesi: maschi 35 kg femmina 28 kg,
un anno: maschio 48 kg femmina 37 kg
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschi 3,0 kg femmine 2,7 kg, 45 giorni: maschi
14,0 kg femmine 12 kg, 90-100 giorni: maschi 22,5 kg
femmina e 19,0 kg, sei mesi: maschi 35 kg femmina 28
kg, 1 anno: maschi 47,5 kg femmina 37,0 kg
Peso adulti Ariete 55-66 kg pecora 40-50 kg
Altezza al garrese: Maschi 63-71 cm femmine 63 cm
Altezza alla groppa: maschi 68-71 cm femmine 64 cm
Circonferenza toracica maschi 87-93 cm femmine 78-87 cm
Resa media alla macellazione Abbacchio: 60-64%; agnelloni leggeri: 60-64%; adulti di
fine carriera: 44-50%
Indirizzo produttivo attuale lana, latte, carne
Produzione tipica Agnello da latte (abbacchio romano) I.M.G. 240-280
I.C.A. 5,0-5,5 canestrati ricotte.

Pecora Sopravvissana da www.cronachemaceratesi.it/2012/12/30/la-zootecnia-maceratese-nel-


2012-la-crisi-combattuta-con-la-qualita/274826/

191
Appenninica

Consistenza 190.000 capi nel 1990 oggi ridotti a circa 140.000


Area di origine e di allevamento Genotipo autoctono della Toscana (Arezzo, Firenze,
Siena, Perugia ecc.). È allevata nelle zone dell'Appennino
centro-meridionale.
Sistema di allevamento Sistema semi-estensivo. È un animale di taglia medio-
grande. È allevato in pianura collina e bassa montagna
con sistema semi-estensivo stanziale e transumante
Frequenza dei parti Tre parti ogni due anni
Produzione di latte Sufficiente per l'allattamento degli Agnelli a cui si somma
una produzione al secchio di 35-50 kg per lattazione
Produzione di lana Mediocre per quantità e qualità. È una lana grossolana,
utile per la produzione dei materassi.Tosa primaverile
vello sudicio ariete 2,5 kg vello sudicio pecora 2,0 kg
Fertilità 90-95%
Prolificità 129%
Gemellarità intorno al 30%
Fecondità 90-96%
Età media al primo parto 15-16 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschio 4,3 kg femmina 4,0 kg, 45-50 giorni:
maschio 17 kg femmina 14,5 kg, 90-100 giorni: maschio
25 kg femmina 22,5 kg, sei mesi: maschio 42 kg femmina
35 kg, un anno maschio 53 kg femmina 40 kg
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschio 3,2 kg femmina 3,0 kg, 45-50 giorni:
maschio 15 kg femmina 13,5 kg, 90-100 giorni: maschio
23 kg femmina 21 kg, sei mesi: maschio 39 kg femmina
32 kg, un anno: maschio 49 kg femmina 38 kg
Peso adulti Ariete 70-90 kg pecora 50-60 kg
Altezza al garrese: Maschio 77 cm femmina 69 cm
Altezza alla groppa: maschio 77 cm femmina 70 cm
Circonferenza toracica maschio 95 cm femmina 87 cm
Resa media alla macellazione Agnelli 60% circa
Indirizzo produttivo attuale Carne e secondariamente latte
Produzione tipica Agnelli da latte, agnellone leggero, formaggi (canestrati
da grattugia)

Razza Appenninica da www.agraria.org/ovini/appenninica.htm

192
Altamurana

Consistenza Intorno ai 500 capi, a rischio di dispersione genetica.


Area di origine e di allevamento Detta anche pecora moscia a causa dei filamenti lanosi
poco increspati e cadenti. Sembra che derivi da ovini
Sirio-asiatici del ceppo Zackel. La zona di allevamento
comprendeva tutto il territorio pugliese da Santa
Margherita di Savoia alle Murge baresi, fino alle province
Lucane confinanti. Oggi è ridotta a 500 di capi
Sistema di allevamento Sistema semibrado a volte di con piccola (breve)
transumanza tra le zone dell'alta Murgia alle zone pede-
murgiane
Frequenza dei parti Tre parti in due anni
Produzione di latte Oltre a quello consumato dagli Agnelli nei 180 giorni di
lattazione varia dai 40 l al 60-65 l con un grasso intorno
all'8% e con una resa in formaggio fresco intorno al 20%,
ed in ricotta di circa il 10%.
Produzione di lana Di discreta qualità adatta all'imbastitura e per la
produzione di cardati per tessuti grossolani.
Vello sudicio di 2,5-3,0 kg negli arieti e di 1,5-2,00 kg
nelle pecore
Fertilità 90%
Prolificità 112%
Fecondità 95-96%
Età media al primo parto 15 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschio 3,0 kg, femmina 2,0 kg, 45-50 giorni:
maschio 13 kg femmina 12 kg, -90/100 giorni: maschio
20 kg femmina 18 kg - 6 mesi: maschio 31 kg; femmina
30 kg, - un anno: maschio 38 kg femmina 36 kg
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschio 2,0 kg femmina 1,8 kg, 45-50 giorni:
maschio 12 kg femmina 11 kg, 90-100 giorni: maschio 19
kg femmina 17 kg, 6 mesi: maschio 30 kg femmina 28
kg, un anno maschio 36 kg femmina 35 kg
Peso adulti Maschi 50 kg femmina 35-40 kg
Altezza al garrese: Arieti intorno ai 70 cm, pecore di 65 cm circa
Altezza alla groppa: Arieti intorno ai 71 cm, pecore di 65 cm circa
Circonferenza toracica Arieti intorno ai 90 cm, pecore di 80 cm circa
Resa media alla macellazione Agnello da latte 55-60% agnelloni 50-55% adulti 45-50%
Indirizzo produttivo attuale Latte, carne
Produzione tipica Canestrati da grattugia, ricotte e Agnelli da latte

Pecora di razza Altamurana da www.agraria.org/ovini/altamurana.htm

193
Leccese

Area di origine e di allevamento Origine siriana-asiatica del ceppo Zackel. Come


l’Altamurana, anche la Leccese fa parte dei genotipi
mosci per i suoi filamenti lanosi non crespati che formano
bioccoli cadenti. È allevata nelle province di Bari, Lecce,
Taranto ed in particolare nell'area Murgiana della Puglia e
dell'arco ionico. È maggiormente allevata nel Salento i
cui pascoli sono ricchi di Hypericum crispum (fumolo),
che provoca forme dermatoidali negli ovini che non
hanno faccia e arti scuri.
Sistema di allevamento E allevata con sistema semi-intensivo, estensivo-brado in
greggi da 50 a 150-200 capi. Si seleziona per il latte e per
la carne
Frequenza dei parti Tre parti in due anni (possibili)
Produzione di latte Oltre a quello consumato dall'agnello la produzione
oscilla dai 50-60 ai 80-90 (al secchio) per lattazione.
Contenuto percentuale in grasso intorno a 7-8%. Resa in
formaggio fresco 18-20% e 8-10% in ricotta
Produzione di lana Tosa annuale, lana mediocre per quantità e qualità, adatta
all'imbottitura ed alla produzione di cardati per tessuti ”
ordinari”
vello sudicio 2-3 kg nell'ariete 1,5-2,2 nella pecora.
I velli come il colore possono essere bianchi, pigmentati
di nero o completamente neri. Il vello è formato da
bioccoli conici con filamenti di media lunghezza, ruvidi e
grossolani, provvisti di midollatura.
Fertilità 90%
Prolificità 125%
Fecondità 90-96%
Gemellarità 23%
Età media al primo parto 15-16 mesi. Cicli estrali continui con riduzione nei mesi
freddi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschio 4,0 kg femmina 3,5 kg, - 45-50 giorni:
maschio 12-13 kg femmina 10-11 kg, - 90-100 giorni:
maschio 22-23 kg femmina 18-20 kg, - sei mesi: maschio
37-38 kg femmina 30-32 kg, 1 anno: maschio 60 kg
femmina 42 kg
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschio 3,1 kg femmina 2,7 kg, 45-50 giorni
maschio 10-11 kg femmina 9-10 kg, 90-100 giorni:
maschio 17-19 kg femmina 16-18 kg, 6 mesi: maschio
32-33 kg femmina 25-27 kg, 1 anno: maschio 50 kg
femmina 40 kg
Peso adulti Maschio 50-60 kg femmina 40-50 kg
Altezza al garrese: 70-75 cm nell’ariete, 65-66 cm nella pecora
Altezza alla groppa: 72-74 cm nell’ariete, 65-68 cm nella pecora
Circonferenza toracica 85-94 cm nell’ariete, 80-86 cm nella pecora
Resa media alla macellazione Agnello da latte: 60-62%, agnellone leggero: 55-60%,
adulti 43-50%
Indirizzo produttivo attuale Allevata principalmente per la produzione del latte e per
la produzione dell'agnello da latte
Produzione tipica Canestrati, ricotte e agnelli da latte

194
Ariete di razza Leccese da www.agraria.org/ovini/leccese.htm

Pecora di razza Leccese da

old.politicheagricole.it/SettoriAgroalimentari/Zootecnico/Ovini/Latte/c_leccesealtamura.htm

195
Comisana

Attuale consistenza 300.000 – 400.00 capi


Area di origine e di allevamento Sicilia più precisamente la zona di Comiso provincia di
Ragusa. Origine da razze ovine del Mediterraneo (ivi
comprese le nord africane). È diffusa nell'Italia
meridionale ed in molti paesi mediterranei.
Sistema di allevamento Allevata sia con sistemi intensivi sia in modo estensivo.
Ben si adatta anche alla mungitura meccanica
Frequenza dei parti Un parto massimo tre in due anni
Produzione di latte Oltre a quello consumato dall'agnello dalla pecora si
mungono dai 160 l ai 250 l con punte fino a 500 l in 180-
220 giorni di lattazione. Il contenuto lipidico del latte
variano dal 6,5 al 7,5%. Resa in formaggio fresco intorno
al 20% ed in ricotta 7-8%
Produzione di lana Mediocre per quantità e scarsa per qualità. Tosa
primaverile. Il vello sudicio dell'ariete non supera i 2,5 kg
mentre per quello della pecora non si va oltre 1,5 kg.
Fertilità 95%
Prolificità 180%
Fecondità 180-190%
Gemellarità Per le primipare 5-10% pluripare 75-90%
Età media al primo parto 14-16 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschio 4,0 kg femmina 3,5 kg, 45-50 giorni:
maschio 16 kg femmina 15 kg, 90-100 giorni: maschio 25
kg femmina 20 kg, se emessi: maschio 30 kg femmina 28
kg
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschio 3,5 kg femmina 3,0 kg, 45-50 giorni:
maschio 14 kg femmina 13 kg, 90-100 giorni: maschio 20
kg femmina 18 kg, sei mesi: maschio 28 kg femmina 25
kg
Peso adulti ariete 55-65kg, pecora 45-55kg
Altezza al garrese: Maschio 75 cm femmina 61 cm
Altezza alla groppa: maschio 76 cm femmina 59 cm
Circonferenza toracica maschio 102 cm femmina 91 cm
Resa media alla macellazione Giovani: maschi 62-65%, femmine 60-63%.
Adulti: maschi 45-52%, femmine 44-48%
Indirizzo produttivo attuale principalmente latte e secondariamente carne
Produzione tipica Latte per formaggi tipici. Agnello da latte

Pecora Comisana da www.4bweb.it/public/agricultore/articles.asp?id=42&page=2

196
Ile de France

Area di origine e di allevamento Razza di origine francese ottenuto per incrocio,


meticciamento selettivo tra ovini Merinos-Rambonillet
con ovini inglesi Dishley. Il nome deriva dalla località di
allevamento, da cui si è diffusa in tutta la Francia e nei
paesi europei Italia compresa ove, gli arieti sono usati per
la produzione degli F1
Sistema di allevamento Semi estensivo-intensivo
Frequenza dei parti Due-tre parti in due anni
Produzione di latte Come tutte le razze merinizzate
Produzione di lana Vello sudicio: 4 kg nelle pecore 5-6 kg negli arieti, di
buona qualità. Bello con bioccoli chiusi, increspati,
bianchi adatti per la tessitura per la produzione di
maglieria. Meno pregiata della Gentile.
Fertilità 85-90%
Prolificità 125-140%
Fecondità 90%
Età media al primo parto 15-18 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschi 4-4,5 kg femmina 3-4 kg, 45-50 giorni:
maschi 15 kg femmine 8 kg, 90-100 giorni: 30-35 kg
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) -
Peso adulti Intorno a 60 kg la pecora e tra 60-80 kg l’ariete
Altezza al garrese: ariete 85-100 cm, pecora 70-80 cm
Altezza alla groppa: ariete 85-95 cm, pecora 70-75 cm
Circonferenza toracica ariete 100-110 cm, pecora 95-100 cm
Resa media alla macellazione Giovani 60-65% adulti 55-60%
Indirizzo produttivo attuale In Italia sono impiegati per la produzione degli F1 da
carne e/o per la produzione dei trimeticci
Produzione tipica Agnello pesante bianco

Razza Ile de France da www.infocarne.com/ovino/raza_ile_france.htm

197
Berrichonne du Cher

Area di origine e di allevamento Ottima razza da carne francese, ottenuta incrociando ovini
locali con Merinos e con razze inglesi del Kent, del
Disley ed in ultimo con la Southtown. Allevata nel Bassin
Parisien francese. Meno adattabile della Ile de France in
Italia viene importata dal secondo dopoguerra.
Sistema di allevamento Semi-intensivo estensivo. In Italia si adatta poco
all'ambiente meridionale. Sensibile al piroplasma e agli
ecto-parassiti (zecche, rogne eccetera) e agli endo-
parassiti (Strongili gastro-intestinali)
Frequenza dei parti Tre parti in due anni
Produzione di latte Sufficiente per l'agnello
Produzione di lana Lana di tipo Merinos, buona per qualità e quantità. Vello
sudicio dei maschi 5,0 kg, quello delle pecore intorno a
4,0 kg di poco inferiore alla Ile de France; meno pregiata
della Gentile.
Fertilità Come le razze da carne merinizzate 85-90%
Prolificità 125-140%
Fecondità Come le razze da carne merinizzate
Età media al primo parto Intorno ai 15 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschi 4,2 kg femmine 3,7 kg, 45-50 giorni:
maschi 18 kg femmine 16 kg, 90 100 giorni: maschi 30
kg femmina 28 kg
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschi 3,5-3,7 kg femmine 3,0-2,5 kg, 45-50
giorni: maschi 15 kg femmine 14 kg, 90-100 giorni:
maschi 28 kg femmine 25 kg
Peso adulti arieti 80-90 kg, pecore 55-60-70 kg
Altezza al garrese: Più o meno come l’Ile de France
Altezza alla groppa:
Circonferenza toracica
Resa media alla macellazione Giovani 60-62% adulti 55-60%
Indirizzo produttivo attuale Produzione della carne. Utilizzata in Italia quale razza
incrociante per la produzione degli F1 da macello
Produzione tipica Carne di qaulità

Pecora Berrichonne du Cher (soggetto presentato in una mostra) da


www.fwi.co.uk/blogs/livestock-and-sales-blog/2009/07/more-royal-welsh-sheep-results-1.html

198
Suffolk

Area di origine e di allevamento Inglese. Deriva da pecore Norfolk incrociati con arieti
Sout-thown. Allevata in Scozia, Irlanda, Galles. Molto
apprezzate in America. Ottima pascolatrice, richiede
pascoli ricchi ed abbondanti. Di grande mole
Sistema di allevamento Estensivo, brado. In Italia importata nel secondo
dopoguerra come razza incrociante. Presenta difficoltà di
ambientamento come tutte le razze nord-europee
Frequenza dei parti -
Produzione di latte Sufficiente per i redi
Produzione di lana Mediocre per quantità e qualità anche se di tipo
merinizzato
Fertilità -
Prolificità -
Fecondità -
Età media al primo parto -
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschio 4,0 kg femmina 3,5 kg

Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschio 3,5 kg femmina 3,0 kg
Peso adulti arieti 100-110 kg, pecore 75-80 kg
Altezza al garrese: -
Altezza alla groppa: -
Circonferenza toracica -
Resa media alla macellazione Giovani 60-65% adulti 55-62%
Indirizzo produttivo attuale In Italia è utilizzata per la produzione degli F1 da carne
con pecore autoctone locali. Migliora significativamente
la produzione di carne sia in peso, sia come
conformazione e qualità della carcassa.
Produzione tipica Carne, agnello pesante bianco

Arieti di razza Suffolk da www.pecoresuffolk.it

199
Sarda

Area di origine e di allevamento Autoctona della Sardegna dalla quale si è diffusa


nell'Italia centro-meridionale. Sembra che discenda
direttamente dal muflone che vive allo stato selvatico sul
Gernagentu- rappresenta il 30-40% del patrimonio ovino
nazionale
Sistema di allevamento Estensivo, brado transumante, semi-estensivo, intensivo.
Si adatta bene a diversi sistemi e dalle tecniche moderne
di produzione compresa la mungitura meccanica. Prevale
il sistema estensivo-brado con greggi di 120-150 capi.
Poco frequenti greggi di 800-1000 capi così come quelli
al di sotto dei 100 soggetti.
Frequenza dei parti Un parto l'anno
Produzione di latte Alta capacità lattifera è dipendente dal sistema di
allevamento, che dall'ordine di parto e può oscillare da
60-100 kg a 200-300 kg con punte di 500 kg in 180 giorni
di lattazione. Il latte presenta una percentuale in grasso
del 6-7% ed un titolo proteico del 5,3% con una resa in
formaggio stagionato del 17-18% ed in ricotta del 6-7%
Produzione di lana Discreta produzione di lana moscia grossolana. Tosa
primaverile. Vello sudicio dei maschi 1,4-3 kg vello
sudicio delle pecore 0,7-2,3 kg
Fertilità 97%
Gemellarità 8-10% (casi di greggi isolati del 35%)
Prolificità 120%
Fecondità 125-130%
Età media al primo parto Medio precoce, 15 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschio 3,0 kg femmine 2,7 kg, 45-50 giorni:
maschi 12-13 kg femmine 11-12 kg, 90-100 giorni:
maschi 18 kg femmine 16-17 kg, sei mesi: maschi 35,5 kg
femmina 30 4 kg, un anno: maschi 44 kg femmine 43 kg
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschi 2,5 kg femmine 2,2 kg,
45-50 giorni: maschi 11-12 kg femmine 10-11 kg,
90-100 giorni: maschi 14-15 kg femmine 14,5 kg,
6 mesi: maschi 34 kg femmine 27 kg,
1 anno: maschi 32 kg femmina 32 kg
Peso adulti ariete 60-70 kg pecora e 35-45 kg
Altezza al garrese: Ariete 69-71 cm pecora 61-63 cm
Altezza alla groppa: - -
Circonferenza toracica ariete 82-83 cm pecora 74-78 cm
Resa media alla macellazione Giovani 55-57% adulti 45-50%
Indirizzo produttivo attuale Principalmente latte e secondariamente agnello da latte
Produzione tipica Latte per il pecorino sardo

Pecora di razza Sarda da www.ara.sardegna.it/it/specie-allevate-

in-sardegna-ovini/index.aspx?m=53&did=413

200
Massese

Area di origine e di allevamento Pecora a vello nero, quasi sempre provvista di corna.
Autoctona originaria di Massa, allevata in Toscana,
Emilia, Liguria, in piccoli e medi allevamenti di pianura
collina.
Sistema di allevamento Stanziale, semi-semi brado, semi-semi intensivo anche
transumante
Frequenza dei parti Si tende a tre parti in due anni
Produzione di latte Al secchio da 70 a 200 l per lattazione, con un titolo in
grasso del 6,0-6,5% e una percentuale di proteine intorno
al 5-5,5% con una resa in formaggi freschi del 18-20% da
grattugia 14-15%
Produzione di lana Scarsa per quantità e qualità, bitosa. Peso del vello
sudicio: 1,5-2,2 kg nell'ariete e 0,8-0,9 kg nelle pecore
Fertilità 95%
Prolificità 135%
Fecondità 95% (frequenza parti 1 anno; tre parti in due anni)
Età media al primo parto 16 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschi 4,5 kg femmine 4,0 kg,
45-50 giorni: maschi 13,5 kg femmine 12,5 kg,
un anno: maschi 65 kg femmine 45 kg.
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschi 3,5 kg femmine 3,0 kg, 45-50 giorni:
maschi 12,5 kg femmine 11,0 kg, un anno: maschi 55 kg
femmine 40 kg
Peso adulti arieti 80-85 kg pecore 60-65 kg
Altezza al garrese: Ariete 85-86 cm pecora 76-77 cm
Altezza alla groppa: - -
Circonferenza toracica ariete 95-98 cm pecora 90-95 cm
Resa media alla macellazione Giovani intorno al 60%, adulti tra i 45% e il 50%
Indirizzo produttivo attuale Principalmente per la produzione di latte secondariamente
per la carne derivante dalla macellazione degli agnelli da
latte
Produzione tipica Formaggi freschi e da grattugia, agnello da latte

Razza Massese da

http://portale.provincia.ms.it/wai/stampabile.asp?IDCategoria=2102&IDSezione=9786&IDOggetto

=7068&Tipo=NEWS

201
9.2 I Caprini

La capra domestica per la sua ottima capacità di produzione di latte e carne è detta anche la vacca

dei poveri. La capra (capra hircus) è un piccolo ruminante appartenente all'ordine degli ungulati. È

un artiodattilo, cavicorno, quasi sempre provvisto di barba e corna più o meno sviluppate, di

appendici cutanee del sottogola (tettole o bargigli). Sembra derivare dalle capre selvatiche come la:

“capra aegagrus o egagro” dell'Asia minore con lunghe corna, “capra prisea” dell'Europa

meridionale, “ capra falconieri o Markor” del Kashmir con corna a spirale e mantello con pelo

lungo.

Sembra che sia il primo ruminante addomesticato (circa 10.000 anni a.C.). È un animale frugale,

rustico, dotato di alta prolificità, fertilità e fecondità. È da considerarsi tra i ruminanti più redditivi

per la produzione di latte poiché è capace di fornire per unità di peso vivo fino a 40 volte il proprio

peso in relazione alla quantità e qualità della razione ingerita.

Data la sua voracità, frugalità e resistenza si adatta molto bene a tutti i sistemi e tecniche di

allevamento ivi compresi quelli di tipo intensivo stallino ed alla mungitura meccanica. La

consistenza del patrimonio caprino italiano si aggira intorno ai 900.000 capi ed è concentrato nelle

regioni meridionali, nelle Alpi piemontesi e lombardo-Veneto.

Le razze caprine si distinguono in:

 Alpine o europee di cui fanno parte la Saanen e quelle razze popolazioni che popolano le

nostre Alpi.

 Asiatiche di cui fanno parte quelle razze come la capra d’Angora a pelo lungo, seboso,

serico spesso utilizzato per stoffe e tappeti e quella del Kashmir.

 Africane o mediterranee a cui appartengono la Maltese, la Jonica, Egiziana, la Nubiana di

media mole, con corne e mammella sviluppata.

Come tutte le razze in base alla statura si raggruppano in grandi, medie e nane. L’attitudine

produttiva prevalente è il latte cui segue la carne per alcune le fibre tessili. La produzione della

carne deriva principalmente dalla macellazione dei capretti lattanti di 40-60 giorni di vita, dai

202
castrati, dai soggetti di fine carriera e comune a tutti gli indirizzi produttivi, a cui in alcune razze di

origine asiatica può essere aggiunta la produzione di fibre animale tessile (kachemire e mohair).

La maggior parte della popolazione di questa specie, in molte nazioni, a causa delle condizioni

socio-economiche ambientali, dal punto di vista razzologico è indifferenziato. Per questo le

popolazioni caprine assumono il nome dell'area di allevamento. Della capra, in realtà hanno parlato

e ne parlano diversi autori, poiché oltre al latte e alla carne utilizzati per scopi alimentari (formaggi

freschi, stagionati, carne ecc.) fornisce pellami che con il nome di “ capretto” non solo trovano uso

generalizzato (pelletteria e rilegature), ma anche specifico a livello locale (ghirba degli arabi), e

pelo che, tosato raccolto è pettinato trova il giusto utilizzo nella produzione di stoffe, tappeti e

quello più scadente (ordinario e lungo) può essere utilizzato per farne cordami.

In Italia, a parte poche e distinte razze come l'Alpina, la Saanen, la Maltese, la Jonica, la

Girgentana, e la Garganica, in genere il patrimonio caprino territoriale è rappresentato da

popolazioni meticce derivanti da incroci locali che hanno assunto ed assumono tuttora il nome della

regione / area di allevamento. In generale la capra per le sue peculiari caratteristiche di rusticità,

frugalità e resistenza ai diversi ambienti è allevata con il sistema estensivo-brado, semi-intensivo e

semi-estensivo anche se non mancano esempi di allevamento intensivo a regime stallino ove

vengono allevate razze selezionate e produttive sulle quali vengono applicate le più moderne

tecnologie produttive come la mungitura meccanica, l'allattamento artificiale dei capretti

“scolostrati”, e la sincronizzazione degli estri e dei parti. Tra le razze caprine allevate in Italia ed

iscritti ai libri genealogici si ricordano la Camosciata delle Alpi, la Garganica, la Girgentana, la

Jonica, la Maltese, la Saanen è la Sarda di cui si riportano le caratteristiche produttive nelle schede

che seguono.

203
Camosciata delle Alpi

Area di origine e di allevamento Mantello simile a quello del camoscio. Generalmente


provvista di corna in entrambi i sessi. Originaria della
Svizzera, in Italia è allevata in Piemonte nel Trentino Alto
Adige ed in molte aree alpine. Il suo allevamento si è
esteso anche a diverse altre nazioni.
Sistema di allevamento Semi-stallino, semi-brado e stallino. Le greggi
generalmente sono di medie e grandi dimensioni.
Frequenza dei parti 1 all’anno
Produzione di latte Varia con l'età, l'ordine di lattazione e l'alimentazione e
oscilla tra i 250-260 l e i 500 l per lattazione
Produzione di pelo Non si tosa, muta normale
Fertilità 95%
Prolificità 160%
Fecondità 95 – 98%
Età media al primo parto 12 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschi 3,8 kg femmine 3,2 kg, 50-60 giorni:
maschi 12-12,5 kg femmine 11-11,5 kg,
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschi 3,6 kg femmine 2,9 kg, 50-60 giorni
maschi 11,0-11,5 kg femmine 10,0-10,5 kg
Peso adulti becchi 100 kg capra 70 kg
Altezza al garrese: Maschi 85-87 cm femmine 70-74 cm
Altezza alla groppa: maschi 80-85 cm femmine 73-78 cm
Circonferenza toracica maschi 96-100 cm femmina 85-90 cm
Resa media alla macellazione Capretti 55-60%
Indirizzo produttivo attuale Produzione di latte con un tasso medio di grasso al 3,5%
di proteine al 3,10%
Produzione tipica Latte per formaggi caprini freschi e stagionati

Capra Camosciata delle Alpi da

www.consorzioallevamentorazzecaprinesvizzere.ch/capra-camosciata-delle-alpi

204
Garganica

Area di origine e di allevamento Mantello pelo lungo e nero. Provvista di corna in


entrambi i sessi. È originaria del promontorio del
Gargano ove è concentrata la stragrande maggioranza
della popolazione allevata
Sistema di allevamento Data la sua estrema frugalità e rusticità è allevata quasi
esclusivamente lo stato brado con rientro serale all'ovile
Frequenza dei parti 1 all'anno
Produzione di latte Varia con l'ordine di lattazione, con la alimentazione ed
oscilla tra i 160-180 l ai 200-250 l
Produzione di pelo -
Fertilità 95%
Prolificità 150%
Fecondità 95 – 98%
Età media al primo parto Medio-tardiva, 18 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschio 3,5-3,6 kg femmina 3,0-3,4 kg,
50-60 giorni maschio 11-12 kg femmina 10-10,5 kg,
90-100 giorni: maschio 12,0-13 kg femmine 11-12 kg,
sei mesi: maschio 23-24 kg femmina 18-20 kg,
1 anno maschi 27-28 kg femmine 24-25 kg.
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschi 2,4-2,6 kg femmine 2,2-2,4 kg, 50-60
giorni maschi 10-11 kg femmine 10,0-10,5 kg, 90-100
giorni: maschi 11-12 kg femmina 9-10 kg, 6 mesi maschi
20-22 kg femmine 16-18 kg
Peso adulti becchi 65 kg capra 40 kg
Altezza al garrese: Maschi 75-85 cm femmine 60-75 cm
Altezza alla groppa: maschi 70-80 cm femmine 60-70 cm
Circonferenza toracica maschi 80-95 cm femmine 70-80 cm
Resa media alla macellazione 58-62% dei capretti 45-48% negli adulti
Indirizzo produttivo attuale Principalmente latte con un contenuto medio del 4-4,5%
di grasso e con una percentuale di proteine tra 3,6-4,0%
Produzione tipica Formaggi freschi stagionati e carni di capretto da latte

Capra Garganica con piccolo da www.saporetipico.it/tradizione435/puglia/capragarganica.html

205
Girgentana

Area di origine e di allevamento Media mole con corna sviluppate a cava turaccioli.
Originaria del Medioriente ed allevata in Sicilia nella
provincia di Agrigento (Girgenti antica) si è diffusa anche
in Calabria
Sistema di allevamento In allevamenti di media consistenza (20-100 capi) con
sistema stallino e/o semi-stallino
Frequenza dei parti 1 all'anno massimo 3 in 2 anni
Produzione di latte Varia con l'ordine di lattazione e con la alimentazione ed
oscilla tra i 300 e 400 l
Produzione di pelo -
Fertilità 95% - 98%
Prolificità 190%-180%
Fecondità 95% - 98%
Età media al primo parto 15 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschi 3,5 4,0 kg femmine 3,5-3,8 kg,
50-60 giorni maschio 10-11 kg femmine nove-10 kg,
90-100 giorni maschi 13-14 kg femmina 12-13 kg,
sei mesi: maschio 19-20 kg femmine 18-20 kg,
1 anno: maschi 26-28 kg femmine 24-26 kg
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschi 2,0-3,2 kg femmine 2,8-3,0 kg, 50-60
giorni maschi 9,0-11 kg femmine 8-9 kg, 90-100 giorni:
maschio 12-13 kg femmine 10-12 kg, 6 mesi maschio 17-
19 kg femmina 16-18 kg, un anno: maschi 26-28 kg
femmine 23-25 kg
Peso adulti becchi 60-65 kg capra 40-50 kg
Altezza al garrese: Maschi 80-85 cm femmine 75-80 cm
Altezza alla groppa: maschi 75-80 cm femmina 72-80 cm
Circonferenza toracica maschi 95-99 cm femmina 85-95 cm
Resa media alla macellazione 55-60% nei capretti 45-55 % negli adulti
Indirizzo produttivo attuale Produzione di latte al 4-5% in grasso e dalla 4-4,4% in
proteina
Produzione tipica Latte per la produzione di formaggi stagionati e freschi e
carni di capretti da latte
Razza Girgentana: Femmina e piccolo da www.lafattoriadeglianimali.com/animali.html
Maschio da www.tier-fotos.eu/name/tier-bild/6902/kategorie/Haus-
+und+Nutztiere~Ziegen~Girgentana-Ziege.html

206
Jonica

Area di origine e di allevamento Mantello formato da peli lunghi bianchi, generalmente


acorne. Deriva dall'incrocio delle popolazioni caprine
dell'arco jonico tarantino con la capra maltese. Allevata
principalmente nel tarantino nell'arco jonico.
Sistema di allevamento È allevata sia in piccoli-medi allevamenti sia in grandi
greggi con sistema brado e/o semi-brado
Frequenza dei parti Uno massimo due in tre anni
Produzione di latte Varia con l'ordine di lattazione, con l’alimentazione e con
l’andamento climatico stagionale ed oscilla tra i 200 l ed i
350-400 l
Produzione di pelo -
Fertilità 95-97 %
Prolificità 200-220 % e di norma il parto gemellare, non sono radi
quelli trigemini
Fecondità 95% - 98%
Età media al primo parto 15 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschi 4-4,5 kg femmine 3,5-4,5 kg,
50-60 giorni: maschi 12,0-13,5 kg femmine 12-13 kg,
90-100 giorni: maschi 18-20 kg femmine 16-17 kg,
6 mesi: maschio 28-30 kg femmina 22-26 kg,
1 anno: maschi 45-50 kg femmine 40-45 kg.
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschio 2,5-3,5 kg femmine 2-3 kg,
50-60 giorni: maschi 10-12 kg femmina 10-11 kg,
90-100 giorni: maschi 15-16 kg femmina 15-16 kg,
6 mesi: maschi 26-27 kg femmina 25-26 kg,
un anno: maschi 40-45 kg femmine 35-38 kg
Peso adulti Maschi 70 kg, Femmine 50-55 kg
Altezza al garrese: Maschi 65-80 cm femmine 60-70 cm
Altezza alla groppa: maschi 60-85 cm femmine 60-70 cm
Circonferenza toracica maschi 90-100 cm femmine 85-95 cm
Resa media alla macellazione 58-62% nei capretti 44-55% negli adulti
Indirizzo produttivo attuale Latte al 4,0% in grasso ed al 3,5-3,8 in proteina
Produzione tipica Formaggi freschi stagionati e carni di capretto da latte

Capra di razza Jonica da www.agraria.org/caprini/jonica.htm

207
Maltese

Area di origine e di allevamento Vello bianco con peli lunghi, testa nera e orecchie nere e
pendule. Origine dal versante medio-orientale del
Mediterraneo. Si è diffusa in Sicilia e in tutte le regioni
meridionali.
Sistema di allevamento Si adatta facilmente ai diversi sistemi di allevamento per
cui è allevata a regime stallino, semi-stallino e/o semi-
brado
Frequenza dei parti Uno all'anno massimo 3 in 2 anni
Produzione di latte Varia con l'ordine di lattazione, con l’alimentazione ed
oscilla tra i 400 kg ed i 500-550 kg.
Produzione di pelo -
Fertilità 95%
Prolificità 180%
i parti gemellari sono di norma con circa il 25% dei
trigemini
Fecondità 95% - 98%
Età media al primo parto 15 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschi 3,5-4,0 Kg femmine 3,0-4,0 kg,
50-60 giorni: maschi 10-12 kg femmine 9-11 kg,
90-100 giorni: maschi 13-14 kg femmine 12-13 kg,
6 mesi: maschi 20-24 kg, femmine 18-20 kg,
1 anno: maschi 29-30 kg femmine 27-28 kg
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschi 3,0 -3,5 kg femmine 2,5-3,0 kg, 50-60
giorni: maschi 9-11 kg femmine 8-9 kg, 90-100 giorni:
maschi 12-13 kg femmine 10-11 kg, sei mesi: maschi 20-
22 kg femmine 18-20 kg; un anno: maschi 26-28 kg
femmine 25-26 kg
Peso adulti becchi 70 kg capre 45 kg
Altezza al garrese: becchi 80-88 cm capre 65-75 cm
Altezza alla groppa: becchi 80-85 cm capre 65-75 cm
Circonferenza toracica becchi 90-105 cm capre 85-95 cm
Resa media alla macellazione 58-60% capretti, 45-55% adulti
Indirizzo produttivo attuale Produzione di latte al 5-5,2% in grasso e dalla 4-4,5% in
proteine
Produzione tipica Formaggi caprini freschi e/o stagionati e carne di capretti
da latte

Capra di razza Maltese da www.parcofattoria.it/04capra.html

208
Sarda

Aspetto somatico, Mantello pelo corto, generalmente bianco con teste


d'orecchie nere piccole e portate trasversalmente alla
Area di origine e di allevamento testa.
Autoctona della Sardegna, ottenuta dall'incrocio tra le
capre locali con becchi di razze diverse.
Sistema di allevamento Particolarmente adatta al sistema brado-estensivo e/o
semi-estensivo in greggi di medie grandi dimensioni
Frequenza dei parti Uno all'anno massimo due in tre anni
Produzione di latte Varia da 120 a 210 l per lattazione
Produzione di pelo -
Fertilità 90-92%
Prolificità 125-130%
Fecondità 95 - 98%
Età media al primo parto Tardiva-20 mesi
Pesi vivi alle età tipiche (nascita singolo) Nascita: maschi 3,0-3,4 kg femmine 2,7-3,0 kg,
50-60 giorni: maschi 10-12 kg femmine 9-10 kg,
90-100 giorni: maschi 14-16 kg femmine 11-13 kg,
6 mesi: maschi 24 kg femmina 20 kg,
1 anno: maschi 28-30 kg femmine 23-25 kg
Pesi vivi alle età tipiche (nascita gemellare) Nascita: maschi 2,8-3,0 kg femmine 2,3-2,9 kg,
50-60 giorni: maschi 8-10 kg femmine 7-9 kg,
90-100 giorni: maschi 12-13 kg femmine 10-12 kg,
6 mesi: maschi 21 kg femmine 19 kg,
1 anno: maschi 24-25 kg femmine 20-22 kg
Peso adulti becchi 60 kg capre 40-45 kg
Altezza al garrese: becchi 70-80 cm capre 65-70 cm
Altezza alla groppa: becchi 70-80 cm capre 65-71 cm
Circonferenza toracica becchi 85-98 cm capre 77-90 cm
Resa media alla macellazione 55-60% i giovani 44-55% gli adulti
Indirizzo produttivo attuale Produzione di latte al 5% in grasso e al 4% circa in
proteine
Produzione tipica Formaggi caprini freschi e/o stagionati e carni di capretti
da latte

Capre di razza Sarda da www.agraria.org/caprini/sarda.htm

Per le altre razze allevate all'estero e/o presenti in Italia in piccoli nuclei come la: Toggemburg,

Appenzele, Poitivini, Nubiana, Angora, Murciana, Kashmir e Alpina si rimanda agli specifici testi di

zootecnica speciale.

209
Cap. 10 Il latte

Premessa

Il latte è il secreto della ghiandola mammaria di tutti i mammiferi e viene prodotto a seguito del

parto. Rappresenta l'alimento ideale per tutti i neonati. Esso viene consumato/poppato dai redi dalla

nascita fino allo svezzamento che rappresenta la fase del passaggio definitivo dall'alimentazione

lattea a quella solida di adulto.

Il latte é una emulsione acquosa di grasso e proteine, e, senza alcun aggettivo che segue detta

parola, essa si riferisce per norma a quello bovino. Le specie animali di interesse zootecnico

allevate per la produzione del latte sono la bovina, l’equina, la bufalina, l’ovina e la caprina, il cui

prodotto può essere avviato al consumo diretto o all'industria di trasformazione (generalmente

caseificio per produrre vari tipi di formaggi o alla cosmetica come quello equino). Attualmente, il

latte maggiormente consumato fresco o trattato (pastorizzato, sterilizzato ecc.) è quello bovino;

invece quello ovino, caprino e bufalino insieme a buona parte di quello bovino viene avviato alla

caseificazione per la preparazione di formaggi freschi (mozzarelle, fior di latte, provole, ecc.,) o

stagionati (canestrati, parmigiano, ecc.,). Quello equino (di giumenta ed asina), per la particolare

composizione chimico-nutrizionale molto vicino a quello umano (donna) un tempo non molto

lontano veniva impiegato anche nell'alimentazione neonatale dei bambini, e per le sue particolari

proprietà disintossicanti nell'alimentazione dei minatori, dei degenti e nella prevenzione dei tumori

intestinali. Il latte equino (asina o cavalla), nei tempi antichi (Cleopatra, Messalina, Lucrezia

Borgia, ecc.) lo utilizzavano per bagni rigeneratori della cute e della bellezza femminile.

Oggigiorno, trova largo impiego anche nella cosmesi. A mero scopo esemplificativo viene di

seguito riportata la composizione chimica media del latte di donna e delle specie di maggior

interesse zootecnico.

210
Composizione chimica del latte

Specie animale Bovina Ovina* Caprina° Asina Cavalla Donna

pH 6,6-6,8 6,5 -6,8 - 7,0-7,2 7,0-7,2 7,0-7,5

12,50-
Residuo secco 18,27 11 - 17 8,80-11,70 9,30-11,5 11,7-12,90
13,00

Proteina 3,10-3,80 5,75 4,00 - 4,20 1,50-1,80 1,45-2,85 0,90-1,80

Caseina 2,50-2,80 4,42 2,5 0,65-1,00 0,95-1,20 0,30-0,45

Grasso 3,25-4,50 7,09 3,6 - 4,3 0,35-1,90 0,50-2,00 3,5-4,0

Lattosio 4,30-5,00 4,61 4,3 - 4,7 5,7-7,50 5,60-7,10 6,25-7,10

Ceneri 0,10-0,90 0,93 - 0,35-0,55 0,30-0,50 0,20-0,30

NPN 0,10-0,20 0,265 - 0,18-0,42 0,18-0,36 0,24-0,34 1

Sieroproteine 0,50-0,80 - - 0,50-0,80 0,70-0,90 0,65-0,85

* Composizione chimica latte ovino da http://www.agraria.it/regione/cap1.htm


° Composizione chimica latte caprino da www.scienzeagrarie.com/20090722154/latte/il-latte-di-
capra.html

È doveroso segnalare che recentemente si è verificata una certa evoluzione a carico della

produzione e della caratterizzazione qualitativa di questo prodotto soprattutto in funzione della sua

destinazione; ovvero ( consumo diretto, produzioni casearie e lavorazioni industriali). Infatti, con la

liberalizzazione dei mercati, gli allevatori italiani si trovano a competere con quelli delle nazioni

C.E.E. i quali, con le imposizioni delle quote di produzione, immettono, sul mercato italiano,

quantità significative di latte a prezzi più competitivi. Bisogna però altresì ricordare che diversi

aspetti quanti-qualitativi della produzione del latte sono controllate dal patrimonio genetico

dell'animale, e che diversi fattori ad essi estrinseci (alimentazione, sistema e/o tecniche di

allevamento ecc.,) sono quelli che pongono il genotipo animale nelle condizioni ideali (e/o avversi)

di estrinsecare o meno le proprie capacità produttive scritte nel suo D.N.A. I giusti fattori estrinseci,

correttamente applicati, qualora fossero associati ai giusti programmi di miglioramento genetico e/o

tecniche avanzate di riproduzione (I. S., Embryo tranfest, sessaggio intrauterino degli embrioni

ecc.,), nell'arco di poche generazioni permetterebbero di ottenere sicuri miglioramenti produttivi.

211
Infatti, é necessario tenere presente che la varianza del carattere "produzione" quale fattore

quantitativo poligenico è ascrivibile al genotipo per il 36% c.a. e che, quella del tasso lipidico varia

dal 36%-38% mentre quello a carico delle proteine risulta più variabile (25%-36%). In modo

allegorico il tutto sta a significare che una ferrari, per poter correre a 200-300 km/ora (vacca da 150-

200 ql. di latte/lattazione) necessita non solo della giusta quantità e qualità di carburante, alimenti

ma ha bisogno di un adeguato circuito (ambiente di allevamento), nonché di un ottimo pilota

(allevatore specializzato) e di bravi meccanici (veterinari, gestori ecc.,)

Fattori di variabilità

Come per la produzione della carne, diversi fattori endogeni o intrinseci ed estrinseci all'animale

incidono sugli aspetti quantitativi e qualitativi della produzione del latte.

Tra i fattori endogeni vanno menzionati:

 il genotipo (specie e razza)

 il sesso

 l'età del soggetto

 lo stato fisiologico;

mentre tra esogeni o esterni si ricordano:

1. il sistema di allevamento

2. l’alimentazione

3. le tecniche e/o modalità di mungitura

4. il sistema e/o le modalità di stoccaggio, di conservazione e confezionamento

5. tecnologie di trattamento e di trasformazione del prodotto.

Fattori intrinseci o endogeni

Genotipo

Infatti, è noto che tutti i mammiferi producono più o meno quantità di latte necessario e sufficiente

per l'alimentazione dei propri figli. Alcune specie, ceppi e razze, però, dall'uomo sono stati

plasmati e sfruttate per produrre latte sia per alimentazione sia per scopi economici. Tra queste,

figurano la specie bovina, la bufalina, l’ovina è la caprina ed in questi ultimi tempi si comincia a

212
pensare anche con un certo successo anche a quella equina (asine e giumente). All'interno di queste

specie, nel corso dei secoli (dalla domesticazione avvenuta tra i 4000 ed i 6000 a.C.) l'uomo

sfruttando la variabilità genetica esistente all'interno di ciascuna specie, con sapiente opera di

selezione ha creato razze più o meno specializzati alla produzione di latte, in cui le femmine

producono quantità di latte sicuramente superiore alle esigenze dei redi. Per questo basti pensare ad

alcune razze bovine come la Frisona, la Bruna Alpina, la Gersey, la Guernsey, e la Ayrshire, a

quelle ovine come la Sarda, la Comisana, ecc., o a quelle caprine come la Saener, la Camosciata

delle Alpi, l’Alpina, la Maltese, la Jonica ecc., tutte a prevalente produzione di latte. Le

caratteristiche produttive delle razze maggiormente allevate nel nostro territorio è nelle nazioni

occidentali sono riportate in modo sintetico nelle tabelle precedentemente illustrate.

Sesso

Questo parametro, al pari del genotipo (razza) riveste particolare importanza poiché è a tutti noto

che i maschi, pur incidendo significativamente nei processi di selezione, non producono latte che è

una prerogativa delle femmine. E a tutti chiaro, che la lattazione (produzione di latte) inizia con il

parto e prosegue per un tempo più o meno lungo e comunque per tutto il tempo necessario al redo di

acquisire la capacità digestiva per utilizzare alimenti solidi, che in termine tecnico si chiama "fase

di svezzamento". Questo periodo più o meno prolungato varia con la specie e con il sistema e/o le

tecniche di allevamento usate dall'impresa. Esso può essere naturale (tardivo) o precoce, di cui si è

già discusso in apposito paragrafo.

In allevamento, al contrario di quanto avviene nelle popolazioni selvatiche poligame e/o monogame

che esse siano, in cui rapporto tra i sessi e di 1 a 1, esso, nelle specie poligame, domestiche e di

allevamento (bovini, ovini, caprini, suini, equini, polli ecc.,), il numero dei maschi da riproduzione

a prescindere dal tipo di produzione, proprio per la limitata capacità produttiva e per i costi di

mantenimento tende a portarsi al limite minimo, ma sufficiente a ingravidare l'intera popolazione di

femmine allevata (mandria, gregge, branco ecc.,). Nel caso poi si pratica l'inseminazione

strumentale (I.S.) o artificiale che dir si voglia (I. A.) essi tendono a scomparire dalla stalla poiché il

seme proviene da opportuni centri ove sono tenuti i maschi di alto pregio genetico e di provata (per

213
via ascendente e per via collaterale) capacità migliorative per la produzione in oggetto (latte, carne,

ecc.).

L'età dell'animale.

Nella produzione del latte, questo fattore ha una certa incidenza poiché le femmine giovani e non

prepubere non producono latte, poiché come anzi accennato la lattazione si scatena a seguito del

parto. L'età al primo parto ovviamente dipende dalla specie, dalla razza e dalla sua precocità.

All'interno della stessa lattazione la produzione quantitativa del latte, (escluso i primi 5 giorni o fase

colostrale) aumenta con l'avanzare del tempo fino ad un massimo (picco di lattazione) per poi

diminuire più o meno gradualmente fino all'asciutta o momento in cui cessa la secrezione di latte.

Curva di lattazione (da www.agrariocesena.it/ipertestoteca/frisona/curva.htm)

La quantità di latte prodotto, generalmente cresce con l'ordine delle prime lattazioni (prima,

seconda, terza) per poi diminuire (con l'inizio della quarta) con l'avanzare dell'età. Per questo, le

femmine restano in allevamento finché il loro mantenimento risulta economico dopo di che a fine

carriera vengono sostituite dalle giovani che rappresentano la cosiddetta quota di rimonta.

Stato fisiologico

Questo è un fattore collegabile all’età dell'animale, in quanto le femmine prepubere, e/o comunque

non ancora in lattazione perché per una causa qualunque non gravide (sterpe), o si trovano alla fine

dell'ultima fase di lattazione (asciutta), non producono latte, a cui si aggiungono le femmine di fine

214
carriera. Allo stato fisiologico e collegabile anche quello nutrizionale e sanitario dell'organismo

animale, poiché i soggetti malnutriti che presentano carenze alimentari o sono debilitati da eventi

sanitari, riducono o arrestano del tutto la produzione del latte.

Fattori estrinseci

Sistema di allevamento

Questo fattore, a parità di tutti quelli strettamente collegati all'animale, è senz'altro tra quelli

ambientali che incide maggiormente, poiché in alcuni casi come nel sistema estensivo-brado o semi

estensivo i fattori climatico-ambientali condizionano le risorse foraggere territoriali e quindi di

riflesso l'alimentazione dell'animale sia dal lato quantitativo che da quello qualitativo che di fatto

determinano i diversi aspetti della produzione.

Alla disponibilità alimentare ed alla sua qualità, si associano i diversi fattori climatici ambientali

come la temperatura, la ventosità, la piovosità e la natura del territorio intesa come fertilità e

struttura del terreno.

La temperatura

La temperatura influenza in un certo qual modo il metabolismo dell’animale. Infatti basse

temperature prossime o al di sotto dello zero, incremento la quota catabolica ovvero la distruzione

dei principi nutritivi per fini energetici (termoregolazione). In questo processo l'organismo per

compensare l’elevata richiesta di calore utile per equilibrare e mantenere costante la temperatura

corporea dovuta alle basse temperature, "brucia" prima le molecole glucidiche alimentari poi quelle

lipidiche (grassi alimentari prima e di deposito corporeo poi) ed infine utilizza anche quelle

proteiche (aminoacidi alimentari e quelli provenienti dal catabolismo endogeno). Alle alte

temperature, l'organismo animale si difende disperdendo il calore corporeo aumentando sia la

ventilazione polmonare (atti respiratori per minuto) con la quale disperde anche vapor acqueo

(H2O), sia facendo ricorso alla sudorazione (solo in quegli animali provvisti di ghiandole

sudoripare). Questo fenomeno, infatti, è spiegabile con il fatto che il sudore (molecole di H2O),

emesso dalle ghiandole sudoripare, si trasforma in vapor acqueo assorbendo energia o calore dal

215
corpo, il quale subito dopo l'evaporazione accusa una sensazione di refrigerio (la fronte dell'uomo

dopo una sudata risulta fredda). Questo fattore, a causa dei fenomeni anzi descritti, limita di fatto la

disponibilità di energia alimentare aumentando la dispersione di calore che può definirsi come

processo di termoregolazione corporeo in cui intervengono anche tutti i complessi ormonali ed

enzimatici che controllano il catabolismo animale.

La temperatura, con il suo andamento stagionale è parte integrante dell'andamento climatico

stagionale a cui si associa non solo il vento (ventosità) del territorio, la cui velocità e/o direzione

accentua e/o limita gli effetti della temperatura, ma anche l'umidità, che insieme ai precedenti

determina la piovosità del territorio e la barometria della zona (pressione generalmente misurata in

ecto Pascal o millimetri di mercurio mHg). Così ad esempio nei nostri territori, perturbazioni

caratterizzate da basse pressioni associati a venti provenienti da sud-ovest e/o sud-est provocano

eventi piovosi più o meno significativi, così come quelle perturbazioni dovute a basse pressioni

provenienti dal Nord-est che si scontrano con quelli di sud-ovest a basse temperature, portano a

nevicate più o meno copiose. Eventi questi che agiscono sia direttamente sia indirettamente

(disponibilità di cibo) sull'animale e sulle sue capacità produttive.

Un'alta velocità dei venti, associata alle alte temperature e basse umidità determinano un clima

caldo arido caratteristico dei territori desertici che hanno selezionato genotipi vegetali ed animali

(cammelli, dromedari ecc.) particolarmente resistenti a questi ambienti, al pari di quelli di tipo

freddo o della tundra siberiana egualmente aridi e freddi ove vivono bene il bue muschiato, le renne,

i caribù ecc.) ovviamente, nei sistemi più o meno razionalizzati e/o tecnologicamente più avanzati

come quello intensivo di tipo stallino, e semi-intensivo o semi-stallino, l'azione diretta e/o indiretta

di questi fattori risulta più o meno attenuata e comunque sotto il diretto controllo dell'uomo e/o dei

suoi artifizi e/o tecnologie operative, in cui l'animale viene in parte (nel caso del semi-intensivo) o

del tutto sganciato (sistema stallino) dai fattori ambientali e posto nelle migliori condizioni affinché

esso possa estrinsecare tutte le sue capacità produttive (riportate nel suo DNA).

Nel caso della produzione di latte, con fattori climatico ambientali avversi come alte e/o basse

temperature, eccessiva ventosità ecc., si verifica prima un arresto dell'incremento produttivo qualora

216
esistesse, una stasi poi, ed un decremento più o meno rapido della stessa produzione che, si porta

prima ai limiti minimi, per arrestarsi del tutto nei casi più estremi.

Nel sistema estensivo e/o semi-estensivo, a parità degli altri fattori e nelle stesse condizioni

alimentari, il fatto che l'animale sia libero di muoversi a proprio piacimento in spazi sicuramente

maggiori, consuma superiori quantità di energia alimentare che sottrae alla quota di produzione. In

altri termini aumenta le normali esigenze di mantenimento.

L’alimentazione

Per quanto riguarda la produzione quantitativa e qualitativa del latte, oggigiorno, per alcune specie,

bovina in particolare, disponiamo di una vasta gamma di informazioni utilizzabile per controllare la

quantità e qualità di latte prodotto. Ma notevoli sono le difficoltà applicative nella pratica aziendale

poiché le conoscenze nutritive dei foraggi e dei concentrati nonché quelle concernenti il giro

metabolico coinvolto nella produzione del latte non sempre sono adeguati e sufficienti. Comunque è

noto che l'alimentazione deve sopperire alle esigenze di mantenimento della bovina, a quelle

relative alla produzione di latte, ed eventualmente a quelle dovute alla gestazione (gravidanza

periodo in cui si sviluppa il feto) le cui esigenze diventano significative a partire dal 7º mese in poi

di gravidanza.

Le esigenze alimentari, subiscono variazioni più o meno significative, con il variare del sistema di

allevamento, con le condizioni ambientali, con l'ordine di lattazione, con la quantità di latte

prodotto, con l'età, con il genotipo ecc.

Destinazione ed uso del latte

Com'è noto, il latte prodotto, oltre a quello utilizzato dai redi, generalmente viene destinato sia alla

trasformazione in formaggi freschi e/o stagionati, sia all'alimentazione umana come prodotto fresco

(refrigerato e/o sterilizzato) o come alimento a lunga conservazione. Il latte, una volta munto e

filtrato, previa refrigerazione a 4° C, viene inviato agli stabilimenti o al caseificio aziendale.

La qualità del latte dipende come anzi riportato da fattori endogeni ed esogeni all'animale, e tra

questi una menzione particolare spetta alla modalità di mungitura che può essere manuale o

meccanica.

217
Generalmente la mungitura manuale è ancora usata negli allevamenti ovi-caprini ed in quelli di

bovini autoctoni allevati in modo brado estensivo e semi-brado o semi-intensivo, in cui è previsto

un massiccio uso del pascolo. Nella mungitura a "mano", le pecore e/o le capre in lattazione,

vengono spinte in un passaggio obbligatorio a forma di imbuto (mungitoio), alla fine del collo è

seduto il pastore mungitore con il secchio di latte "con collo a mezza luna", davanti al quale si

"ferma" (anche con mezzi di contenimento adeguati) l'animale, e dal suo retro l'operatore stringe

ritmicamente la mammella (previo lavaggio) facendo versare il latte nel secchio.

Con questa tecnica, nonostante tutti gli accorgimenti possibili l'igienicità del prodotto è sempre a

rischio, poiché possono verificarsi cadute di peli, di polvere e/o pulviscolo di stalla, caccole, schizzi

di urine ecc. Inoltre, un addetto non riesce a mungere più di 50-60 capi ora, con aggravio di costi

ascrivibili alla manodopera. A questi svantaggi, si contrappone il vantaggio del controllo giornaliero

di tutti i soggetti in produzione. Per quanto concerne le bovine invece, queste vengono prima

"fermate" con lazzi e/o corde dal vaccaro, e da questi poi appastoiate negli arti posteriori.

Successivamente il mungitore provvisto di secchio e/o "secchia a mezza luna" ponendosi

lateralmente all'animale inizia la mungitura spremendo con una certa delicatezza ma ritmicamente i

capezzoli provocando la fuoriuscita del latte dalla mammella e la sua caduta nel secchio.

La mungitura delle bovine autoctone, come la Podolica, non sempre risulta facile, poiché non

rilasciano il latte se non al proprio vitello, per questo i mungitori operano sempre in sua presenza.

Anche in questi allevamenti però la mungitura meccanica comincia ad avere un certo successo

soprattutto per l'igienicità del latte e per la rapidità delle operazioni, poiché a secondo del numero

dei posti animali (da 6-12-24) si possono mungere da 100 a 200 capi ora, con uno o due addetti.

Non vi è dubbio che anche con questo tipo di mungitura non solo assicura una superiore igiene del

latte ma vi è un controllo individuale dei singoli soggetti, rispetto a quella manuale richiede

superiori investimenti.

La mungitura meccanica generalmente è praticata sia negli allevamenti di bovine da latte a regime

stallino o semi-stallino sia in quelli gli ovi-caprini con un buon grado tecnologico, che comunque

devono possedere dei locali idonei, ove piazzare la mungitrice, energia elettrica per il

218
funzionamento delle pompe, acqua potabile per il lavaggio dell'impianto prima e dopo la mungitura,

ed idonei refrigeratori.

Il latte, dalla stalla passa agli opifici che lo preparano per il consumo diretto oppure lo trasformano

in burro e formaggi vari. Dalla lavorazione del latte si ricavano anche una serie di sottoprodotti,

quali il latticello e il siero, utilizzati per l’alimentazione animale. I prodotti lattiero-caseari sono

difatti eccedentari all’interno dell'Unione Europea, soprattutto per quanto riguarda il latte e il burro,

e per questo la C.E.E. ha adottato misure restrittive come le quote di produzione massima garantita

e il premio l’abbattimento delle vacche da latte. In Italia la produzione di latte è deficitaria ed

elevate sono le importazioni sia per il consumo alimentare sia per la trasformazione. Nel nostro

Paese il consumo di latte è notevolmente inferiore a quello di tutti gli altri Stati Europei e quello di

burro risente della concorrenza dell’olio di oliva e di altri grassi vegetali. La produzione italiana di

formaggi non è sufficiente a coprire il fabbisogno interno per cui, se si escludono alcuni formaggi

tipici, quali il Grana, il Pecorino e il Provolone, che vengono anche esportati, bisogna ricorrere

annualmente all’importazione di forti quantitativi di questo prodotto dalla Francia e dall’Inghilterra.

219
Classificazione del latte

Il latte alimentare, a seguito di trattamento può essere classificato:

o intero: contenente almeno il 3,2% di grasso;

o parzialmente scremato: contenente tra l’1 e l’1,8% di grasso;

o scremato: contenente meno dello 0,5% di grasso;

o concentrato: ottenuto per evaporazione dell'acqua, quindi arricchito di tutti i costituenti;

o in polvere: è il prodotto ottenuto dalla disidratazione quasi completa del latte;

o industriale: è quello utilizzato per la fabbricazione di burro e formaggio.

o delattosato: è un latte speciale che contiene il 75% di lattosio già scomposto in glucosio e

galattosio. Il latte delattosato permette agli individui che non digeriscono il lattosio di

consumare ugualmente tale alimento.

I primi trattamenti sul latte al fine di garantire la sua salubrità iniziano nell’azienda zootecnica, ove

viene sottoposto a filtrazione e refrigerazione. La filtrazione ha lo scopo di allontanare il

materiale estraneo in esso presente (peli, pezzi di escrementi, residui di mangime ecc.). Essa viene

eseguita facendo passare il latte attraverso un filtro (ad esempio della semplice ovatta). Alla

filtrazione segue la refrigerazione a 4° C (generalmente per il tempo occorrente tra la mungitura

serale e la successiva). Il latte dalla temperatura di 38° C viene portato velocemente a 4° C allo

scopo di impedire lo sviluppo di batteri acidificanti mesofili (sebbene nella mammella di una vacca

sana il latte sia praticamente sterile, dopo la mungitura esso può contenere 100.000 microrganismi

totali per millilitro). Sebbene il raffreddamento del latte dopo la mungitura riduca lo sviluppo dei

batteri mesofili acidificanti, la refrigerazione ha lo svantaggio di favorire lo sviluppo dei batteri

psicrotrofi (Pseudomonas, Flavobacterium, Enterobacter e Achromobacter). La microflora

psicrotrofa produce lipasi e proteasi esocellulari (le lipasi resistono alla pastorizzazione a 100° C

per molti minuti mentre le proteasi resistono ai trattamenti UHT). Gli effetti negativi provocati dalle

lipasi e dalle proteasi sono: la gelificazione del latte, la comparsa del gusto di rancido (lipolisi) e del

220
gusto amaro (lipolisi e proteolisi). Filtrazione e refrigerazione fanno sì che allo stabilimento

(caseificio o centrale del latte) giunga un prodotto (latte) batteriologicamente idoneo e senza un

eccessivo aumento di acidità. Giunto allo stabilimento lattiero caseario il latte prima di essere

sottoposto a processi di risanamento viene depurato. La depurazione mediante filtrazione oppure

centrifugazione ha lo scopo di eliminare dal latte tutte le sostanze estranee.

Nella filtrazione il latte viene riscaldato intorno a 50° C al fine di abbassare la viscosità ed

eliminare eventuali odori. Successivamente viene fatto passare attraverso una serie di filtri fatti da

tessuto fitto o da cellulosa. In realtà la filtrazione è poco diffusa e al suo posto si preferisce usare la

centrifugazione in quanto ha il vantaggio di essere più veloce. Si utilizza una centrifuga a piatti

dello stesso tipo di quella utilizzata per la scrematura del latte munita di 40-80 piatti che girano ad

una velocità di circa 1000-2000 giri/minuto.

Alla depurazione, segue un processo di risanamento ed ha lo scopo di rendere il latte idoneo

all'alimentazione umana o alla trasformazione.

I processi di risanamento possono essere di tipo fisico (riscaldamento, battofugazione, impiego di

ultrasuoni, di radiazioni ultraviolette o di raggi gamma) o di tipo chimico (acqua ossigenata, ecc.).

In Italia è vietato il risanamento mediante mezzi chimici, per il latte alimentare viene usato soltanto

il risanamento termico. Con le alte temperature si eliminano i batteri patogeni e non patogeni al

fine di rendere il latte più conservabile. L'abbassamento della carica batterica ad una data

temperatura è funzione sia della durata del trattamento, sia della carica batterica iniziale, casi come

riportato nella fig. 1 ove nella ascisse è riportato il tempo e nelle ordinate il logaritmo del numero di

cellule batteriche.

221
Fig.1 - Andamento della distruzione dei microrganismi a temperatura costante (il numero dei

microrganismi è rappresentato in scala logaritmica). Da Bossini Alessandra - Di Guardo, Antonio -

Manini Mauro - Industrie agrarie: latte, derivati e vino - Clesav, c1989

In definitiva per ottenere un latte con una carica batterica finale bassa, esso deve essere trattato

termicamente per un tempo tanto più lungo quanto più alto è il numero iniziale di batteri per cc.

L'abbassamento della densità batterica può essere ottenuto anche intervenendo sia sul tempo sia

sulla temperatura, ossia, si può ricorrere a temperature basse per tempi lunghi o a temperature alte

per tempi ridotti.

E’ necessario osservare che nel grafico il tempo è in scala logaritmica per cui, a un piccolo

cambiamento di temperatura (ad esempio da 80° a 50°) corrisponderà un'elevata variazione di

tempo (rispettivamente da pochi secondi a più di un'ora).

Nel grafico la linea meno marcata (a) rappresenta invece i punti tempo-temperatura che causano nel

latte la stessa alterazione. Dalla stessa si evince che per ottenere un risanamento senza alterazioni è

necessario usare valori di tempo e di temperatura che stanno a destra del punto di incontro delle 2

rette.

Negli stabilimenti lattiero-caseari però si preferisce utilizzare alte temperature per periodi di tempo

limitati a pochissimi secondi (i cosiddetti trattamenti flash).

Il risanamento mediante trattamento termico può essere di 3 tipi: pastorizzazione, U.H.T. o

sterilizzazione a media conservazione e sterilizzazione a lunga conservazione.

222
La pastorizzazione mira a eliminare soprattutto i batteri patogeni ma lascia una certa percentuale di

batteri non patogeni, per cui il latte si può conservare soltanto per qualche giorno.

Con il risanamento UHT si eliminano sia i batteri patogeni sia quelli non patogeni ma non si

disattivano i loro enzimi, per cui la conservabilità è limitata a 3 mesi in quanto, dopo tale periodo,

gli enzimi non inattivati possono causare alterazioni.

Con la sterilizzazione a lunga conservazione si eliminano batteri patogeni e non patogeni e si

inattivano anche gli enzimi. In tal modo il latte si può conservare per circa un anno (infatti dopo un

anno si possono verificare alterazioni di tipo chimico).

Pastorizzazione

La pastorizzazione è un metodo che serve per eliminare i batteri patogeni e ridurre quelli non

patogeni e fa si che il latte possa essere conservato a 4° C per circa 4 giorni. Questo trattamento

fatto a temperature inferiori a quella di ebollizione altera poco il latte, il quale deve essere

raffreddato il più rapidamente possibile poiché il calore causa alterazioni alle proteine e al lattosio.

Per la verifica di una buona pastorizzazione si procede alla ricerca e al dosaggio dell’ Escherichia

coli. Tale batterio, pur non essendo patogeno è tra quelli più termoresistenti per cui la sua assenza

garantisce anche l'assenza dei patogeni.

Questo trattamento non distrugge però le spore e i batteri termodurici (mesofili, termofili e

psicrofili). Per quanto testè detto si deduce che non si può pastorizzare un latte con un alto tasso

batterico poiché la distruzione della carica batterica dei batteri lattici, si creano le condizioni per lo

sviluppo delle spore e dei batteri termodurici.

Subito dopo la pastorizzazione bisogna raffreddare il latte a 4° C in pochi secondi, poiché un lento

raffreddamento sviluppa batteri termodurici e la carica batterica s’innalzerebbe più alta di quella

iniziale, a cui si associa anche la coagulazione del latte (causata dallo sviluppo della popolazione

batterica sopravvissuta di tipo proteolitica).

Esistono 2 tipi di pastorizzazione: la pastorizzazione bassa e la pastorizzazione alta.

223
La pastorizzazione bassa o classica in cui il latte viene riscaldato a 63° C per mezz'ora, non viene

più usata per i seguenti inconvenienti:

1. Bassa produttività poiché il latte viene riscaldato in cisterne le quali devono essere riempite

e svuotate a ogni ciclo.

2. Riscaldamento non uniforme (sebbene nella cisterna il latte venga sottoposto a continua

agitazione).

3. Moltiplicazione dei batteri termofili.

4. Perdita di CO2 in seguito alla continua agitazione, che di fatto porta a innalzamento del pH

con negative conseguenze sulla conservazione e caseificazione.

Nella pastorizzazione alta il latte viene riscaldato per circa 10-30 secondi a una temperatura tra

72° C e 90° C. La scelta dei 2 parametri tempo-temperatura viene fatta in base alla carica batterica:

1) termoresistente (Escherichia coli);

2) totale (infatti si verificano fenomeni protettivi tra i singoli batteri).

Un tempo questo tipo di pastorizzazione veniva realizzata nei cosiddetti scambiatori tubulari ossia

in una serie di serpentine con pareti riscaldanti che presentavano i seguenti inconvenienti:

1) pulizia difficile delle serpentine;

2) grande volume dell'impianto.

Oggi si usano perciò gli scambiatori a piastre. Essi sono formati da numerose pareti (dette

piastre). Su una faccia della piastra scorre latte ed in quella opposta circola acqua calda o vapore (in

senso opposto a quello del latte). Il latte all'uscita degli scambiatori entra nella camera di sosta

(chambrage) o di termostatizzazione in cui esso viene mantenuto per un certo tempo per ridurre la

microflora banale presente nei latti di mediocre qualità.

Per controllare l'efficienza della pastorizzazione vi sono sostanzialmente 3 metodi:

1) determinazione della carica batterica standard;

2) determinazione della carica di coliformi;

3) ricerca della fosfatasi e delle perossidasi.

La carica batterica standard per legge non deve superare il limite di 30.000 unità per millilitro.

224
I coliformi devono risultare inferiori a 0,3 in 4 unità campionarie e inferiori a 12 in una unità

campionaria.

La prova della fosfatasi consiste nella controllare la presenza della fosfatasi alcalina. Tale enzima è

presente naturalmente nel latte crudo e si inattiva a una temperatura leggermente superiore a quella

necessaria per distruggere l'Escherichia coli. Di conseguenza se l'enzima risulta inattivo significa

che si sono raggiunte temperature sufficienti a distruggere l'Escherichia coli (e quindi i patogeni).

Per cui nei latti correttamente trattati la prova della fosfatasi deve sempre essere negativa.

L'enzima lattoperossidasi (anch'esso naturalmente presente nel latte) si inattiva a temperature

superiori a quelle che si usano abitualmente per distruggere i patogeni. Una determinazione di

perossidasi negativa deve quindi far sospettare che il latte era fortemente inquinato tanto che per

risanarlo sono state necessarie temperature e tempi elevati. Da quanto detto ne consegue che la

prova della perossidasi deve dare sempre esito positivo.

Sterilizzazione

La sterilizzazione ha lo scopo di distruggere tutti i microrganismi e le spore contenute nel latte,

affinché esso possa essere conservato a temperatura ambiente fino a 6-8 mesi.

Esso non può essere conservato per un periodo maggiore perché si riattivano alcuni enzimi ed

intervengono fenomeni diversi quali: gelificazione della caseina, sedimentazione, imbrunimento.

In base al periodo massimo di conservazione il latte può essere distinto in:

1. latte a media conservazione o UHT (conservabile fino a 3 mesi)

2. latte a lunga conservazione (conservabile per 6 mesi in bottiglia di plastica e 12 mesi in

bottiglia di vetro).

La sterilizzazione viene preceduta da:

1. titolazione del contenuto in grasso

2. omogeneizzazione

225
Classificazione del latte in base al contenuto in grasso

Una volta valutato il contenuto % in grasso ed operato una sua eventuale scrematura si ottengono

tre tipi di latte commerciali:

o latte intero (3,2% di grasso)

o latte parzialmente scremato (percentuale di grasso compresa tra 1,5 - 1,8%)

o latte scremato (meno dello 0,3% di grasso)

La scrematura avviene mediante l'utilizzo di centrifughe costituite da una serie di piatti sovrapposti

e dotati di fori per consentire il passaggio della crema.

Il latte potrebbe essere scremato anche mediante la tecnica dell'affioramento dei grassi ma ciò

presenta inconvenienti (durata di tempo maggiore, parziale inquinamento e acidificazione, minor

contenuto in grassi rispetto alle creme ottenute per centrifugazione). Negli allevamenti estensivi-

bradi in tempi non molto lontani, questa operazione avveniva lasciando riposare per una notte il

latte in recipienti abbastanza larghi dove in superfice affiorava la crema che una volta separata essa

era destinata alla produzione del burro.

La centrifugazione del latte ad altissimo numero di giri (8000-10.000 giri/min) detta battofugazione,

permette di allontanare il 99,99% dei microrganismi, poiché essi hanno un peso specifico diverso da

quello dei componenti del latte. La tecnica presenta vantaggi e svantaggi. Il vantaggio è

rappresentato dall’allontanamento delle cellule e con esse degli endoenzimi e tossine. Lo svantaggio

è che i patogeni con basso peso specifico possono rimanere nel latte per cui, non essendo garantita

la loro totale assenza, la battofugazione non viene utilizzata. L'ideale sarebbe sottoporre il latte

prima a pastorizzazione (per eliminare i patogeni) e poi a battofugazione per eliminare cellule e con

esse endoenzimi e tossine.

Omogeneizzazione

L'omogeneizzazione è un processo fisico a cui si sottopone il latte allo scopo di ridurre i globuli di

grasso a particelle con diametro minore di 0,5 μm (contro i 3-6 μm dei globuli originari). Grazie

all'omogeneizzazione si ottiene un latte stabile, in cui con il passare del tempo non si verifica

226
l'affioramento della crema. Il latte si considera omogeneizzato se, lasciato a riposo per 48 ore, non

si verifica nessun affioramento.

L'omogeneizzazione viene effettuata inviando il latte sotto pressione (100-200 bar) verso un ugello,

e facendolo finire in una camera a pressione atmosferica. La forte depressione in aggiunta all'azione

meccanica di una punta metallica su cui il latte va a urtare, provoca la rottura dei globuli di grasso.

Allo scopo di rendere il latte più fluido e il flusso più rapido, il processo viene effettuato a una

temperatura di circa 50° centigradi ottenendo così una deodorazione per allontanamento delle

sostanze volatili.

L'affioramento della crema, (linea crema) non può aver luogo sia per la riduzione di diametro dei

globuli, sia per l’aggregazione che si verifica a seguito del riscaldamento tra globuli di grasso e le

micelle caseiniche. In tal modo aumenta la densità e l'idratazione del grasso che impediscono

l'affioramento della crema.

L'omogeneizzazione presenta vantaggi e svantaggi. I vantaggi sono:

1. una sterilizzazione uniforme

2. il latte è più digeribile (grazie alla riduzione di dimensioni dei globuli di grasso).

Gli svantaggi sono:

1. il latte omogeneizzato e più soggetto all'irrancidimento lipolitico (i globuli di grasso infatti

sono protetti dalle lipasi da una membrana e con l'omogeneizzazione tale membrana si

rompe). Rischio questo che comunque si riduce poiché il latte viene anche sterilizzato,

processo questo che distrugge le lipasi.

2. L'omogeneizzazione denatura le agglutinine del latte capaci di immobilizzare o inibire i

batteri, per cui diventa meno conservabile in caso di una ricontaminazione.

227
Sistemi di sterilizzazione

Esistono diversi metodi di sterilizzazione e a secondo del sistema utilizzato varia la conservabilità

del latte.

Il latte a media conservazione (UHT) pur essendo sterile si conserva solo per 3 mesi perché

contiene gli endoenzimi delle cellule batteriche morte. Tali endoenzimi inducono proteolisi e

coagulazione (il latte confezionato nei cartoni, dopo la scadenza, si presenta coagulato).

Il latte a lunga conservazione (in bottiglia di vetro) si conserva per circa 12 mesi grazie al

trattamento termico più energico che disattiva gli endoenzimi batterici. Trascorsi 12 mesi si verifica

la cosiddetta reazione di Maillard, ossia alterazioni chimiche a carico di proteine e lattosio (il latte

rimane liquido ma assume un colore giallino).

I metodi di sterilizzazione sono:

1. metodo discontinuo o sterilizzazione in bottiglia

2. metodi continui o UHT (Ultra High Temperature)

indiretto: con scambiatori a piastre;

diretto (o uperizzazione): con contatto diretto fra vapore latte

Nella sterilizzazione in bottiglia si utilizza uno sterilizzatore idrostatico semi-continuo (sistema

Webster o Storck). Tale sistema prevede la circolazione continua delle bottiglie in diversi stadi. Il

primo stadio contiene acqua calda (preriscaldamento), il secondo vapore a 120-130° C in cui 2º

stadio le bottiglie transitano per 15-30 minuti. Segue un 3º stadio o di raffreddamento. Il

raffreddamento serve per bloccare le alterazioni chimiche a carico di proteine e lattosio innestate

dall'alta temperatura. Per i 3 stadi del processo occorrono 40-60 minuti. Il costo economico del

processo Webster è superiore a quello dell’UHT.

Nella sterilizzazione UHT di tipo indiretto si usano gli stessi impianti descritti per la

pastorizzazione (scambiatori a piastre); il mezzo riscaldante e il vapore che circola a una

temperatura di 140-150° C per 2-5 secondi. Dopo la sterilizzazione UHT indiretta il latte viene

prima raffreddato e poi confezionato in modo sterile.

La sterilizzazione UHT di tipo diretto può essere condotta con 2 metodi:

228
a) metodo Languilharre: in cui il latte viene nebulizzato in un ambiente con vapore ad alta

pressione e temperatura;

b) nebulizzazione del vapore nel latte.

Nel primo metodo Languilharre il latte viene prima preriscaldato a 60-70° C in uno scambiatore

a piastre e poi viene nebulizzato nella cosiddetta camera d’iniezione con vapore a 180° C a 6-7

atm. In questa, istantaneamente, il latte si riscalda e il vapore si raffredda. Una parte del vapore,

però, condensa e provoca un annacquamento del latte. La miscela latte, acqua, vapore passa poi

nella camera di espansione in cui la pressione e tale da consentire l'evaporazione della stessa

quantità di acqua condensata precedentemente. Nella camera di espansione il latte rapidamente

raffreddato a 60-70° C si deodora (infatti si ha una specie di distillazione in corrente di vapore

delle sostanze volatili responsabili di odori sgradevoli). Dopo tale trattamento il latte, come al

solito, verrà prima omogeneizzato e poi raffreddato.

Anche nel 2º metodo (nebulizzazione del vapore nel latte) inizia con un preriscaldamento a 60-

70° C. del latte il quale viene poi convogliato verso una piccola camera di compressione in cui

viene miscelato con vapore a 6-7 atm a 180° C. Esso si riscalderà da 70 a 150° C mentre il

vapore si raffredderà da 180 a 150° C. Una parte di questo condenserà e quindi anche in tal caso

si avrà un parziale annacquamento. Alla camera di compressione segue quella di espansione

(riduzione della pressione atmosferica), in cui si verificherà un raffreddamento istantaneo del

latte. Il raffreddamento per condensazione rimuoverà sia l'acqua acquisita nella precedente

camera sia le sostanze volatili responsabili di cattivo odore. Ancora una volta, per bloccare la

reazione tra zuccheri (lattosio) e proteine, si ricorrerà ai trattamenti descritti, a cui seguirà il

raffreddamento.

Nel caso della sterilizzazione UHT di tipo diretto (a differenza degli altri tipi di sterilizzazione

descritti) l'omogeneizzazione viene fatta alla fine del trattamento in quanto, se venisse fatta

prima, nella camera di compressione i globuli di grasso si aggregherebbero nuovamente. (Basini

et al.,1989).

229
LA PRODUZIONE DEL LATTE.

Per quanto riguarda i sistemi e le tecnologie per la produzione del latte, essi si inquadrano in

quello generale di tutte le produzioni animali primarie con tutti i parametri di qualità e i fattori

di variabilità dei diversi aspetti quanti-qualitativi, già riportati in precedenza. Facendo

riferimento alla produzione di latte bovino ed in particolar modo alle razze specializzate a

questa produzione ed al fine di evitare una prolissa trattazione si ritiene utile riportare le schede

informative relative ad alcune di loro.

Nome della razza: BRUNA

Area di Allevamento Italia,Svizzera,Arco alpino


Sud Italia (Puglia e Lucania,in particolare)

Consistenza della popolazione 1.900.000 (1950) 800.000-1.000.000

Accrescimenti medi giornalieri (Kg) 0,900-1,000

Pesi vivi medi alle età tipiche (Kg)

 Nascita 35-40

 Svezzamento 200-280

 Macellazione 445±5 e 480±3

 Adulto 9-10 ql M 5,00-5,5 ql F

Pubertà 15-16 mesi M 16-18 mesi F

Interparto 15 mesi

Età di macellazione 14-18 mesi

230
Resa di macellazione 59-60% 58-59%

Indirizzo produttivo attuale Latte da consumo fresco e di caseificio


(3,35%- 3,5% in grasso)

Attitudine alla mungitura meccanica ottima

Tipologia di allevamento -stallino a posta libera


-semistallino (stalla e pascolo)

Produzione media per lattazione 50-60 ql Con punte di 90-110 ql al 3,4% in


(305 giorni) grasso

Produzione di latte e carne, utilizzata anche


Utilizzazione e/o impieghi
come base incrociante con tori da carne

Età al primo parto 28-30 mesi

Produzione tipica Latte di qualità

Altre informazioni utili La Bruna è stata introdotta nel Sud Italia


(Puglia) alla fine dell’800 inizio ’900 ove per
incrocio di sostituzione con bovine Podoliche
ha dato origine alla Bruna di Puglia che
successivamente è stata migliorata con tori
Bruni miglioratori dando origine all’attuale
razza.

231
Vacca di razza bruna da http://old.politicheagricole.it/SettoriAgroalimentari/Zootecnico/Bovini/b_Bruna.htm

Toro di razza Bruna da www.agraria.org/razzebovinelatte/brunaitaliana.htm

232
Nome della razza: FRISONA ITALIANA

Area di Allevamento Olanda francese della Frisia (origine) allevata in


tutta Europa e nelle Americhe

Consistenza della popolazione 60% della popolazione dei bovini da latte (Italia)
3-4.000.000 di capi

Accrescimenti medi giornalieri (Kg) 900 g/d F max 1.100 M

Pesi vivi medi alle età tipiche (Kg)

 Nascita 35-45

 Svezzamento 260-300

 Macellazione 400-500

 Adulto 500-600 ql F 1000-1200 ql M

Pubertà 15-16 mesi F 16-18 mesi M

Interparto 15 mesi

Età di macellazione 8 mesi vitello da latte

14 mesi vitellone leggero

18-20 mesi vitellone

Resa di macellazione 50-55 %

Indirizzo produttivo attuale Latte da consumo fresco e da trasformazione

233
Attitudine alla mungitura meccanica ottima

-stallino a posta libera


Tipologia di allevamento
-stallino a posta fissa

Produzione media per lattazione 60-70 ql con punte di 120-130 ql (media di stalla)
(305 giorni)

-Produzione di latte al 3,35-3,50% di grasso


Utilizzazione e/o impieghi
-Utilizzata come base incrociante con tori da
carne

Età al primo parto 30-32 mesi

Produzione tipica Parmigiano (formaggio tipico), formaggi a pasta


filata (fior di latte,ecc.)

234
Vacca di razza Frisona italiana da www.cialombardia.org/fattoriascuola/L-razze.htm

Toro di razza Frisona italiana da www.agraria.org/razzebovinelatte/frisonaitaliana.htm

Vitello di razza Frisona italiana da www.bambiniinfattoria.it/ingrandimento_Immagini-di-Mucche-


tori-e--vitellini_218_0_1.html

235
Nome della razza: JERSEY

Area di Allevamento Origine dall’omonima isola della Manica ivi


allevata in purezza.
Allevata in Europa,Italia ed USA.

Consistenza della popolazione n.p.

Accrescimenti medi giornalieri (Kg) 800-900

Pesi vivi medi alle età tipiche (Kg)

 Nascita 30-35

 Svezzamento 200 c.a.

 Macellazione 250-350

 Adulto 400 F 800-1000 M

Pubertà 15-18 mesi

Interparto 14-16 mesi

Età di macellazione 14-18 mesi

Resa di macellazione 50-55%

Attitudine alla mungitura meccanica buona

Tipologia di allevamento -stallino a posta libera e/o fissa


-semistallino

236
Produzione media per lattazione 40-45 ql

-Produzione di latte
Utilizzazione e/o impieghi
-Utilizzata per migliorare la produzione di latte
(titolo di grasso) nelle altre razze da latte

Età al primo parto 27-36 mesi

Produzione tipica Latte al 6% c.a. di grasso e al 4% di proteine


ottimo per la produzione di burro

Razza JERSEY da www.agraria.org/razzebovinelatte/jersey.htm

237
Nome della razza: GUERNSEY

Area di Allevamento Originaria dell’omonima isola della Manica


formata intorno al 1000 deriva da bovini della
Bretagna e Normanni. Diffusa ed allevata in
Normandia e poi in tutta Europa, USA, Canada
ed Inghilterra.

Consistenza della popolazione N.P.

Accrescimenti medi giornalieri (Kg) 800-900 g/d

Pesi vivi medi alle età tipiche (Kg)

 Nascita 30-35

 Svezzamento 150-200

 Macellazione 250-350

 Adulto 450 F 700 M

Pubertà 14-18 mesi

Interparto 15-16 mesi

Età di macellazione 14-18 mesi

Resa di macellazione 55-58 %

Indirizzo produttivo attuale Produzione di latte con grasso > al 3,7%

238
Attitudine alla mungitura meccanica buona

-stallino a posta libera e fissa


Tipologia di allevamento
-semistallino

Produzione media per lattazione 50-60 ql


(305 giorni)

-Produzione di latte
Utilizzazione e/o impieghi
-Utilizzata come base incrociante con tori da
carne

Età al primo parto 27-36 mesi

Produzione tipica Latte di qualità con grasso > al 3,5%

Razza GUERNSEY da www.agraria.org/razzebovinelatte/guernsey.htm

239
Composizione chimica del Latte

Come già detto il latte e la sua composizione chimica generale e particolare riveste grande

importanza sia per l’alimentazione dei neonati che nell’industria casearia e di riflesso

sull’alimentazione umana. Tra i componenti organici del latte figurano certamente i grassi e le

proteine.

I grassi del latte

La biosintesi del grasso del latte interessa sia gli acidi grassi che derivano dalla dieta, sia quelli

sintetizzati ex novo dalle cellule della ghiandola mammaria a partire Acetil CoA.

Nei ruminanti il sito di accumulo dei lipidi è il tessuto adiposo, mentre per gli animali in lattazione

il sito maggiormente attivo per le biosintesi degli acidi grassi è la ghiandola mammaria (Vernon et

al., 1988).

La sintesi degli acidi grassi ha due origini; la prima è dovuta alla sintesi citoplasmatica, ed è tipica

dei tessuti ad elevata attività metabolica, la seconda, non meno importante, è quella mitocondriale,

che è meno intensa, ma serve a perfezionare quella citoplasmatica.

In particolare, la sintesi degli acidi grassi a catena corta e media, ovvero fino a 16 atomi di carbonio

avviene nel citoplasma, e coinvolge 2 enzimi: il primo l’Acetil CoA carbossilasi (AC C), che a

partire dall'acido acetico porta alla formazione del malonin-CoA; il 2º l'acido grasso sintetasi (FAS)

catalizza la condensazione ciclica del malonin-CoA con molecole di acetato e/o β-idrossibutirrato

(Chilliard et al., 2000). Da qui, nella ghiandola mammaria, a differenza di quanto avviene in altri

tessuti, per successive condensazioni si ha l'allungamento della catena carboniosa che può

continuare fino alla formazione di acidi grassi a 14 o 16 atomi di carbonio. Si ricorda però che

l'acido palmitico (C 16:0) non può essere convertito ad acido stearico (C 18:0). Bisogna ricordare

però, che negli altri tessuti, subentra la sintesi mitocondriale che può Cocarbossilare (convertire)

l’acido palmitico ed allungarlo fino a 22 atomi di carbonio. Nei microsomi gli acidi grassi con

almeno 18 atomi di carbonio possono essere sia allungati che desaturati.

240
Gli acidi grassi liberi, ovvero quelli non esterificati (NEFA) a media e lunga catena (con 14 e/o 16

atomi di carbonio o più) provenienti dai lipidi della dieta o dalla mobilizzazione delle riserve

corporee presenti nel torrente ematico, possono essere utilizzate nei tessuti, così come quelli

presenti nei chilocromi e nelle VLDL, previa azione dell'enzima LipasiLipoProteica (LPL)

(Pellegrin N., 2008).

Inoltre, gli acidi grassi insaturi a 18 atomi di carbonio (acidi linoleico e α-linolenico), che

generalmente sono assorbiti dall'intestino praticamente inalterati possono essere desaturati ed

elongati, per dare origine (come precursori) agli acidi grassi polinsaturi a lunga catena della serie

ω3 ω6. In particolare l'acido α-linolenico è il precursore della serie ω 3, mentre l'acido linoleico

della serie ω 6, i cui metaboliti rientrano nella biosintesi di molecole biologicamente importanti.

L'acido linoleico è presente soprattutto negli oli vegetali e costituisce rispettivamente il 77% e il

56% degli acidi grassi presenti nell'olio di cartamo e dei semi di soia ma, con concentrazioni più

limitate ma ugualmente importanti è presente anche nei prodotti primari di origine animale (latte,

carne, uova). L'acido linoleico è importante sia come componente strutturale della membrana

cellulare (lipoproteine di membrana) sia come precursore di acidi grassi con catena carboniosa oltre

i 16-18 atomi di carbonio, da cui hanno origine le prostaglandine, trombossani e le prostacicline di

tipo 1 e 2.

Sostanzialmente gli acidi grassi sono costituiti da una catena carboniosa (generalmente alifatica,

tendenzialmente lineare e solo in alcuni casi ramificata) al cui estremo è presente un solo gruppo

carbossilico (-COOH).

La lunghezza della catena alifatica determina poi le caratteristiche chimico-fisiche dell'acido grasso.

Per cui in base alla lunghezza della catena carboniosa gli acidi grassi si suddividono in:

a) Acidi grassi a catena corta con un numero di atomi di carbonio minore di 14;

b) Acidi grassi a catena media (C14-C16);

c) Acidi grassi a catena lunga (>C18:0)

La presenza o meno di doppi legami all'interno della catena carboniosa, incide sulla temperatura di

fusione degli acidi grassi stessi che possono essere suddivisi in:

241
1) Acidi grassi saturi quando nella catena carboniosa non sono presenti doppi legami.

(Esempio: acido caprilico C 8:0, acido palmitico C 16:0, acido stearico C 18:0);

2) Acidi grassi insaturi quando in essa sono presenti uno o più doppi legami: monoinsaturi

come il palmitioleico C16, Oleico C18:1 ecc, (MUFA) se nella catena è presente un solo

doppio legame e polinsaturi (PUFA) se in essa sono presenti più doppi legami (linoleico C

18:2, linolenico C 18: 3, arachidonico C 20:4).

Alcuni insaturi, sono detti anche essenziali, poiché non sintetizzabili dall'organismo e devono

essere necessariamente assunti con la dieta, Essi svolgono e/o sono essenziali per importanti

funzioni metaboliche, i quali possono essere classificati anche in funzione della posizione del

doppio legame sulla catena:

 ω 3 l'ultimo doppio legame presente sul 3º carbonio dal -COOH (esempio: acido

linolenico C 18: 3);

 ω 6 l'ultimo doppio legame è presente sul 6º carbonio dal-COOH (esempio: acido

linoleico C 18: 2);

 ω 9 l'ultimo doppio legame si trova sul nono carbonio dal -COOH (esempio acido

oleico C 18:1).

Acidi grassi saturi

Com'è noto il latte, rispetto ad altri prodotti contiene un superiore livello di acidi grassi saturi.

Questi presentano un potere aterogeno (alzano la colesterolemia) variabile. Tra i più pericolosi

perché capaci di elevare LDL ematico, secondo la letteratura figurano il miristico (C 14:0) ed il

laurico (C 12:0) a cui si aggiunge forse il C 16:0. Lo stearico (C 18:0), invece non provoca

disfunzioni cardiovascolari pur essendo saturo, è poco o nulla aterogeno poiché viene rapidamente

utilizzato dall'organismo.

Anche gli acidi grassi a corta e media catena facilmente catabolizzabile per fini energetici sono

privi di potere aterogeno. Infatti una volta convogliati nel sangue confluiscono nel fegato e qui

metabolizzati per cui non incidono sia sulla concentrazione di lipoproteine ematiche, sia sulla

deposizione nel tessuto adiposo (Pellegrin N., 2008).

242
L'apporto giornaliero consigliato di acidi grassi saturi deve essere compreso tra il 7 e il 10% delle

calorie totali. Nella tabella seguente sono riportati i principali acidi grassi saturi, le loro

caratteristiche chimiche, il loro nome IUPAC, e gli alimenti in cui sono maggiormente presenti.

Gli acidi grassi insaturi e il loro stereo-isomeri rispetto al doppio legame

Negli alimenti gli acidi grassi insaturi possono essere presenti in forma cis oppure trans (figura 3)

ma generalmente prevalgono i cis. Tuttavia nella carne e nel latte dei ruminanti come (bovini, ovini

e caprini) esiste una bassa percentuale di acidi grassi insaturi in forma trans che si sono formati nel

243
rumine grazie all'azione di determinati batteri, gli acidi grassi trans sono presenti anche nei prodotti

alimentari contenenti oli modificati industrialmente sottoposti a processi di idrogenazione parziale.

Figura 3

L'attenzione rivolta agli acidi grassi trans (Trans Fatty Acid) è dovuta alle negative implicazioni che

il loro uso comporta sulla salute del consumatore. Essi infatti favoriscono l’incremento del

colesterolo legato alle lipoproteine a bassa densità (LDL) a cui associano una diminuzione della

concentrazione delle lipoproteine ad alta densità (HDL). Per cui un continuo ed elevato consumo di

acidi grassi trans aumenta il rischio delle disfunzioni cardiovascolari (aterosclerosi, trombosi, ictus,

ecc.) e non solo.

Acidi grassi Monoinsaturi (MUFA)

L'apporto giornaliero consigliato di questa frazione acidica si aggira intorno al 20% del fabbisogno

calorico totale. In natura i monoinsaturi più diffusi sono l’oleico ed il palmitoleico. In particolare il

primo è molto diffuso nell'olio d'oliva con effetto ipocolesterolemizzante poiché aumenta i livelli di

HDL mentre, il secondo viene metabolizzato a seconda le esigenze dell’organismo. I principali

MUFA sono di seguito riportati.

244
Acidi Grassi Polinsaturi (PUFA)

L'apporto calorico giornaliero consigliato ascrivibile ai PUFA si aggira intorno al 7% delle calorie

totali. Tra i più importanti PUFA dal lato biochimico nutrizionale figurano certamente gli acidi

grassi essenziali della serie ω3 e ω6. Questi differiscono tra loro per la posizione del primo doppio

legame ove gli ω-6 presentano il primo doppio legame in corrispondenza del 6º atomo di carbonio,

della catena carboniosa e derivano principalmente dall'acido linoleico (C 18: 2).

Gli ω-3 presentano il primo doppio legame in corrispondenza del 3º atomo di carbonio della catena

carboniosa e derivano principalmente dall'acido α-linolenico (C 18: 3).

Questi, nel grasso del latte sono presenti in bassa concentrazione; infatti il loro rapporto in questa

materia prima e più basso di quello trovato in altri alimenti come le margarine (Gurr, 1998).

Di seguito nello schema sono riportati le forme dell'α-linolenico (18: 3 ω-3) dell'acido linoleico (18:

2 ω-6).

245
Tali acidi vengono definiti essenziali perché il nostro organismo non è in grado di

sintetizzarli del tutto e/o in quantità sufficiente al nostro metabolismo per cui devono essere

assunti con la dieta. Il rapporto consigliato ω-6/ ω-3 è di circa 1: 5 e l'apporto minimo

indicato è dello 0,1% delle calorie totali per gli ω-6 e dello 0,5% delle calorie totali per gli

ω-3 (Holman R. T., 1960).

Nello schema che segue è riportato l’utilizzo e la destinazione ed i relativi prodotti da essi

derivanti.

246
Rapporto ottimale Ω6 / Ω3 = 1:5 tollerato 1:10

L'organismo animale è in grado di trasformare l'acido alfa-linolenico in l’EPA (acido

eicosapentanoico) ed in misura minore in DHA (acido docosaesaenoico). L’EPA è il

principale precursore delle prostaglandine della serie 3 (che hanno attività antiaggregante

piastrinica) e svolge assieme al DHA un'azione protettiva nei confronti dell'aterosclerosi

proteggendo l'organismo da malattie cardiovascolari poiché evita la formazione delle

placche eritomatose nei vasi circolanti.

Il DHA da solo svolge invece una funzione di rilievo nella retina (costituendo l'80% dei

PUFA che la compongono) i quali garantiscono la rapida trasmissione della luce. Inoltre

DHA e ARA (acido arachidonico) sono importanti componenti strutturali dei lipidi di

membrana, molto diffusi nel sistema nervoso centrale. Infatti il 50% del peso secco del

cervello è rappresentato da lipidi soprattutto fosfolipidi contenenti acido arachidonico

(ARA).

Dal metabolismo degli acidi grassi ω-6 ed ω-3 derivano prostaglandine, trombossani,

leucotrieni (attraverso reazioni catalizzate dagli enzimi ciclossigenasi e lipossigenasi),

molecole segnale come eicosanoidi ed endocannabinoidi.

247
Queste sostanze sono importanti per la formazione delle membrane cellulari, partecipano

alla coagulazione del sangue e favoriscono la guarigione delle ecchimosi lacero-contuse e/o

ferite.

Una alta carenze in acidi grassi ω-6 porta a: lesioni cutanee, anemia, aumento

dell'aggregazione piastrinica, trombocitopenia, danni epatici, ritardata cicatrizzazione delle

ferite, aumentata suscettibilità alle infezioni, diarrea, ritardo di crescita nell'età evolutiva,

calo della fertilità (Simopoulos A. P. 1991).

Una carenza di acidi grassi ω-3 invece è caratterizzata da: sintomi neurologici, ridotta

funzionalità visiva, lesioni cutanee, ritardi di crescita, alterazioni delle capacità cognitive,

alterazioni del metabolismo dei neurotrasmettitori monoaminergici (Simopoulos 1991).

Principali acidi grassi polinsaturi

248
Acidi grassi trans-insaturi

Generalmente originano da processi di idrogenazione che si verificano durante le fasi di

lavorazione a caldo per rendere solidi gli oli vegetali, che a temperatura ambiente sono

liquidi.

Questo perché i doppi legami trans rendono la catena carboniosa più stabile degli isomeri

cis, quindi le loro proprietà fisiche si avvicinano a quelle degli acidi grassi saturi. Questi

(trans) derivano anche dall'azione dei batteri del rumine, sugli acidi grassi insaturi, che poi

passano inalterati nell'intestino ove vengono assorbiti per poi essere convogliati alla

biosintesi del grasso, della carne e del latte.

L'azione nell'organismo umano è riconducibile ad un aumento del rischio di malattie

cardiovascolari.

I CLA (isomeri dell'acido linoleico coniugato):

I CLA (conjugated linoleic acid), sono isomeri geometrici dello stesso acido grasso ovvero il

linoleico con doppi legami, le cui possibili varianti sono riportate nello schema che segue:

249
I coniugati dell'acido linoleico (CLA) più importanti sono quelli che presentano i doppi legami in

posizione 9-11, o 10-12 ed assumono sia la forma cis che trans. Gli isomeri dell'acido linoleico

coniugato a cui si attribuiscono le maggiori attività biologiche sono il cis-9, trans-11 e il trans-10,

cis-12 CLA.

Secondo alcuni autori (Romeo 2001; Look e Garnsworthy; 2003) gli effetti dei CLA sulla salute

umana sono riconducibili alle seguenti funzioni:

1) limitano l'insorgenza e la progressione di neoplasie;

2) esercitano un'azione antimitotica

3) prevengono l'arteriosclerosi;

4) riducono la colesterolemia (aumento del colesterolo HDL);

5) hanno attività di regolazione della risposta immunitaria ed in particolare di quella allergica;

6) favoriscono la mineralizzazione delle ossa;

7) controllano alcuni caratteri del diabete di tipo 2;

8) riducono l'obesità attraverso la modificazione della deposizione del tessuto adiposo.

9) Limitano l'insorgenza di malattie tumorali.

LA FRAZIONE ACIDICA DEL LATTE

Il grasso del latte così come nelle carni è il principale responsabile dell’aroma (sapore ed odore)

tipico del latte delle diverse specie. Inoltre nei grassi sono intrappolati anche la maggior parte degli

aromi che derivano dagli alimenti assunti dagli animali quali ad esempio gli aromi delle essenze

pascolative montane (Mele et al., 2005). Si ricorda che il grasso durante la caseificazione, viene

quasi interamente inglobato nella cagliata, che di fatto poi l'influenza la resa in formaggio, il

processo di caseificazione e gli aspetti nutrizionali, sia mediante il potere energetico sia per la

natura degli acidi grassi che la compongono. Il lipidi sono quelli che subiscono le maggiori

variazioni durante la lattazione. Infatti subito dopo il parto (fase colostrale) la loro percentuale è

abbastanza alta per poi scendere e normalizzarsi dopo 5-10 giorni per poi assestarsi definitivamente

entro 50-60 giorni in rapporto inversamente proporzionale alla produzione. Con il procedere della

250
lattazione, la % di grasso, anche in relazione al tipo di alimentazione tende ad aumentare. Lo scarto

tra i valori (minimo e massimo) può arrivare al 30%. Inoltre il latte della mungitura serale e più

grasso rispetto a quello del mattino. Queste variazioni hanno ovviamente una notevole influenza sul

comportamento alla caseificazione del latte ed in particolare sulla stagionatura, sul contenuto di

grasso dei formaggi e sulle rese.

Questo parametro è fortemente condizionato da diversi fattori sia genetici che ambientali. Infatti è

nota la differenza tra le specie e le razze, ma anche all'interno della stessa razza, vi sono soggetti

con caratteristiche migliori di altri. Questo fatto per mezzo della selezione consente di migliorare gli

aspetti produttivi di questo parametro. Il più importante fattore esogeno è sicuramente

l'alimentazione che incide sulla presenza dei precursori di sintesi mammaria del latte, sulla quale

l'allevatore può intervenire al fine di ottimizzare la produzione entro i limiti che il genotipo animale

consente.

Tra i principali fattori endogeni di variazione produttiva (quantità e qualità di latte prodotto)

figurano la specie e la razza; a cui fa seguito l'ordine di parto, stadio di lattazione, infatti, il colostro

rispetto al latte presenta un maggior contenuto in acido palmitico-C16:0 e linoleico C18:2 e un

minor contenuto in acidi grassi a media e corta catena. Inoltre negli allevamenti pascolanti, si

sommano altri fattori, come la stagione di parto. Infatti il latte di soggetti di parto primaverile, che

dispongono di pascoli migliori, il rapporto tra saturi e insaturi e il contenuto in acidi grassi a corta e

media catena sono più elevati rispetto ad animali di parto autunnale.

Con l’alimentazione (fattore estrinseco) è possibile modificare entro limiti che il genotipo consente

sia la quantità che la qualità dei grassi presenti nel latte. Infatti agendo sulla composizione della

razione di base (variando il rapporto foraggio/concentrato, qualità dei foraggi, presenza di foraggi

verdi nella razione), integrando la razione con fonti lipidiche di diversa natura, si possono

migliorare le caratteristiche tecnologiche, nutrizionali e dietetiche del latte indi dei prodotti caseari.

Nella capra in lattazione rispetto a quanto osservato nella bovina da latte, è stato evidenziato con

numerose prove che con un'idonea integrazione lipidica della dieta si può aumentare la quantità di

251
grasso presente nel latte senza compromettere sia la concentrazione proteica, sia la capacità di

coagulazione del latte.

COAGULAZIONE DEL LATTE

La coagulazione del latte, riveste un ruolo particolarmente importante sia per glia aspetti fisiologici

della digestione, sia per quelli che riguardano la caseificazione. La coagulazione, finalizzata alla

produzione dei formaggi normalmente avviene intorno ai 38 °C, previa aggiunta di “caglio”, il

quale non è altro che una soluzione di “pepsina gastrica” ricavata dallo stomaco degli agnelli o dei

capretti o dei vitelli lattanti. Dopo circa 20-30 minuti dall’aggiunta del caglio, il latte coagula. Il

coagulo di colore bianco, non è altro paracaseinato di calcio in cui è inglobato quasi tutto il grasso,

ma sono escluse le albumine e globuline. Dopo la coagulazione, si rompe il coagulo, si raccoglie, si

pone nelle “fuscelle” (una volta fatte di giunco ora di plastica per alimenti per una migliore

igenicità) e si pigia per allontanare sia il siero che per dare forma destinata. Nel siero restano le

albumine, le globuline, gli amminoacidi liberi, il lattosio, parte dei minerali ecc. Il coagulo può

essere utilizzato per la produzione dei formaggi stagionati da grattugia, o previa acidificazione per

la preparazione dei prodotti a pasta molla (fiordilatte, mozzarelle, ecc.) da consumare freschi o

stagionati (caciocavalli ecc.). Dal siero ottenuto con questo procedimento, se sottoposto a

riscaldamento a 80-90 °C, affiorano le albumine che compongono la “ricotta”. Qualora però il latte,

venisse prima bollito, poi raffreddato a 38-40 °C ed infine aggiunto “caglio”, il coagulo che si

forma, oltre a contenere paracaseinato di Calcio e grassi, contiene anche le albumine. Questo

coagulo, una volta raccolto infustellato e allontanato il siero, da origine al cosiddetto “Cacioricotta”,

ottimo quello stagionato di capra da usare grattugiato come condimento nei piatti. Il siero ricavato

con questo procedimento, generalmente viene smaltito o riciclato nell’alimentazione dei suini

(beveroni).

Le qualità tecnologiche e casearie del latte assumono significati diversi in base al tipo di

trasformazione, alle condizioni di formazione della cagliata, al grado di acidificazione della massa

caseosa e ai tempi di maturazione (stagionatura) del formaggio. Esse rivestono un ruolo

fondamentale nella produzione dei formaggi a pasta dura, a lunga stagionatura (o periodo di

252
maturazione). Infatti secondo Mariani et al., (2002) nella coagulazione mista a carattere

prevalentemente presamico, il complesso micellare del latte tende a mantenere inalterate le sue

proprietà, da cui dipendono poi buona parte delle caratteristiche reologiche della cagliata.

Per cui il latte deve possedere:

a) un buon contenuto di caseina (caseine di tipo genetico potenzialmente favorevole)

b) un discreto contenuto di fosfato di calcio colloidale

c) un giusto grado di acidità titolabile

d) un moderato contenuto di cellule somatiche

e) una ottimale attitudine alla coagulazione, intesa questa, sia come una buona reattività al

caglio, sia come alta capacità di rassodamento della cagliata, e conseguente buona capacità

di contrazione ed eliminazione del siero, ciò in modo da ottenere una massa caseosa

omogenea, ed uniformemente disidratata in tutte le sue parti, condizione questa

fondamentale per il normale avvio dei processi fermentativi che si verificano durante la

stagionatura del prodotto.

Gli aspetti quanti-qualitativi della caseina e le loro variazioni incidono sia sulla resa sia su

alcune caratteristiche reologiche della cagliata.

Le diverse frazioni che costituiscono la caseina (αs1, αs2, β e k) delle diverse specie, pur

entrando nella formazione delle micelle in un rapporto piuttosto costante possono subire

variazioni tali da incidere sul grado di dispersione del sistema micellare e, di conseguenza, sulle

proprietà dell'intero complesso caseinico, sia sull'andamento della fase enzimatica sia di quella

fisico-chimica della coagulazione presamica del latte. Il sistema è particolarmente sensibile alle

variazioni di contenuto della k-caseina, che è particolare sulla struttura miscelare del latte (più

k-caseina = micelle più piccole). La distribuzione delle caseine variano significativamente con il

genotipo (specie e/o razza) e riguarda i rapporti k-caseina e di αs2-caseina αs1-caseina.

La frazione colloidale del latte è formato, essenzialmente dalle caseine e da una piccola quantità

di fosfato di calcio colloidale ed è parte integrante della massa caseosa.

253
Quest’ultimo, associato alle caseine, è indispensabile per la costruzione e l’integrità del colloide

ed interviene direttamente o indirettamente, in tutte le fasi della coagulazione.

La composizione, le proprietà e la struttura del sistema micellare del latte, derivano dalle

interazioni tra le diverse componenti (concentrazione, ripartizione e tipo genetico delle caseine;

fosfato di calcio colloidale; calcio caseinato; eccetera) che sono in stretto rapporto con la fase

solubile e peraltro sensibili a piccole variazioni, capaci di influenzare sensibilmente lo stato di

aggregazione delle micelle.

I latti con superiori contenuti di micelle di piccole dimensioni tendono a coagulare in minor

tempo e a fornire coaguli dotati di maggior forza, in grado di rassodare più velocemente.

L'acidità influenza in misura determinante la coagulazione del latte, sia nella prima sia nella

seconda fase. Il ruolo primario spetta al pH i cui valori sono negativamente correlati con quella

dell’acidità titolabile, la quale condiziona l'attività primaria del caglio e la velocità di

formazione del coagulo, nonché, entro certi limiti, anche la sua capacità di eliminazione del

siero. Al progressivo abbassamento dell'acidità (latti ipoacidi, carenti di fosforo e/o di caseina)

corrisponde un aumento della scarsa reattività presamica del latte.

La qualità tecnologico-casearia del latte, (difficile da mantenere entro certi limiti di idoneità,

dovrebbe essere salvaguardata con ogni mezzo) rappresenta uno dei cardini della produzione dei

formaggi a pasta dura. In realtà nel lungo periodo per un insieme di cause e concause il latte,

purtroppo, tende ad impoverirsi di caseina, a cui si associa anche una diminuzione della

concentrazione di fosforo e di calcio. Queste negative variazioni (caseina e fosforo)

determinano un calo dell'acidità del latte, a cui fa seguito un adeguato incremento delle

anomalie di coagulazione. Le alterazioni acidimetriche molto probabilmente sono la causa

primaria della ridotta reattività presamica del latte. Fra gli altri fattori si segnalano la minore

concentrazione delle varianti caseiniche, l'aumento dei cloruri e soprattutto l'incremento della

proteasi alcalina.

Alcune alterazioni, probabilmente sono ascrivibili all'alto livello produttivo dell’animale al

quale si richiede un notevole sforzo metabolico, che se pur dotato di adeguato potenziale

254
genetico, e quasi sempre in difficoltà per mantenere le condizioni di equilibrio funzionale dei

meccanismi fisiologici che interessano la secrezione e la composizione del latte, in modo

particolare per quanto riguarda il contenuto minerale. Infatti, l'aumento dei cloruri va posto in

relazione all’incremento dei disordini secretori della mammella e, probabilmente, anche in

rapporto all'intervento di alcune turbe metaboliche e conseguenti variazioni dell'equilibrio

acido-base del sangue (Mariani et al., 2002).

L'incremento degli enzimi proteolitici sono ascrivibili ai disordini secretori e, soprattutto, alle

mastiti, sia attraverso l'aumento delle cellule polimorfonucleate in grado di liberare enzimi, sia

mediante un maggior passaggio diretto dal sangue al latte del sistema proteolitico

(plasminogeno-plasmina), le cui componenti attive sono strettamente associate alla caseina. Alla

formazione di questo complesso enzimatico concorrono anche enzimi di origine batterica

sempre più presenti nel latte in rapporto alle condizioni igieniche della mungitura, etc. Tra

questi, il sistema “proteasi alcalina” tende a minare l'integrità della micella e la rende meno

reattiva nei confronti del caglio. Tutto ciò concorre a peggiorare gli aspetti tecnologici della

caseificazione, con negativi riflessi sia della resa industriale sia di quella commerciale, dovuto a

produzioni non sufficientemente e non uniformemente disidratate e di formaggi avente

caratteristiche che tendono a favorire l'insorgenza di processi fermentativi anomali, con

manifestazioni (sempre più frequenti) di difetti di struttura e di tessitura della pasta.

Il rapporto che esiste tra contenuto di caseina e resa in formaggio insieme a quello che intercorre

tra le proprietà della caseina (allo stato nativo), comportamento tecnologico e qualità dei

formaggi a pasta dura, impongono di salvaguardare e migliorare le caratteristiche tecnologico-

casearie del latte, attraverso l'allevamento la diffusione dei genotipi animali autoctoni e/o da

tempo ben inseriti sul territorio, capaci di dare migliori produzioni dal lato quantitativo e

qualitativo.

255
I LIPIDI DEL LATTE DI CAPRA

La frazione lipidica contenuta nel latte di capra come quella delle altre specie, con la dovuta

differenza percentuale, è organizzata in globuli di grasso costituiti da gliceridi (97-99%),

presenti in grande maggioranza nel "core" del globulo e da fosfolipidi, glicolipidi e steroli (1-

3%) che sono parte integrante della membrana del globulo. Questa ripartizione che rimane

pressocché inalterata nel corso della lattazione è del tutto simile a quella riportata per il latte di

vacca (Cerbulis et al., 1982). Il core del globulo di grasso e costituito da molecole apolari

(96,8%), digliceridi (2,2%) e di monogliceridi (0,9%) - mentre le membrane contengono sia

lipidi polari come i glicolipidi (8,5%) e i fosfolipidi (44,7%), sia i lipidi apolari i come i

trigliceridi (26,54%), i digliceridi, i monogliceridi (4,68%) e il colesterolo (15,58%) -.

I lipidi polari determinano le principali frazioni di fosfolipidi che sono contenute nel grasso del

latte di capra così come da tabella che segue.

Contenuto in fosfolipidi del latte di capra (g/100g di fosfolipidi). (Mele,et al., 2005).

Cerbulis et al., 1982 Patton et al., 1977


Fosfatidil etanolamina 35.4 25.5
Fosfatidil colina 3.2 9.6
Fosfatidil serina 4.00 1.4
Fosfatidil inositolo 28.2 27.6
Sfingomielina 29.2 35.9

Un esempio di composizione acidica completa del latte di capre francesi alimentate al pascolo è

riportata da (Renna et al., 2011) a cui si rimanda.

256
Il livello e la composizione acidica del latte di capra dipende anche dal contenuto e dalla qualità
della frazione lipidica della razione alimentare. L'integrazione alimentare di fonti lipidiche per capre
da latte viene utilizzata anche per porre rimedio al fenomeno di inversione delle percentuali tra
grasso e proteina che si verifica nei casi in cui la % di grasso scende al di sotto della % di proteina
che porta ad una diminuzione delle rese di caseificazione (Morand-Fehr et al., 1984a;1984b).

Grafico: Relazione tra quantità di grasso aggiunta nella dieta e incremento di grasso nel latte (dati
riferiti all'intera lattazione) (Cannas A., Pulina G. 2008)

LA COMPONENTE AZOTATA
Com’è noto le principali proteine del latte sono sintetizzate dalla ghiandola mammaria a partire sia
dagli aminoacidi liberi del torrente sanguigno sia da quelli sintetizzati dalla ghiandola mammaria
che sintetizza quelli non essenziali a partire dal glucosio, acetato, ecc.
Secondo Greppi, et al., (2005) la quantità di proteine del latte è correlata al logaritmo del peso
corporeo del soggetto in lattazione.
Nel latte di capra si riscontrano sei proteine principali, quattro caseine e due sieroproteine. La
frazione proteica del latte caprino, analogamente a quella di latte di altre specie di interesse
zootecnico è prevalentemente costituito da caseine che rappresentano l'80% delle proteine totali, di
questa frazione fanno parte anche i biopeptidi (BP). I livelli proteici dipendono da fattori endogeni
ed esogeni all'animale. La frazione proteica in generale può essere suddivisa in: proteine con punto
isoelettrico ad un pH di 4,6 (e quindi precipitano) e proteine che non precipitano a questo pH. Le
prime sono le caseine e, quantitativamente, rappresentano circa l'80% del totale delle proteine, le
seconde sono le sieroproteine, e costituiscono il restante 20%. In minore percentuale sono presenti
sia le immunoglobuline (pari a 1-2% della Sostanza Azotata Totale o S.A.T.) con attività
immunologica, le quali passano dal sangue al latte, sia le sostanze azotate non proteiche (5-7% della
S.A.T.), sono piccole molecole appartenenti a molte famiglie chimiche, la più abbondante è l'urea,

257
ma si trovano anche aminoacidi liberi, basi azotate e alcune vitamine del gruppo B). Così come
esemplificanto di seguito:
Composizione del latte umano, vaccino e caprino (Greppi G.F., Roncada P. 2005)

Contenuto in g/l Latte umano Latte vaccino Latte caprino

Acqua % 87.6 87.3 87.5

Residuo secco 11.7 12.5 13.6

Ceneri 2.0 8.0 8.9

Proteine totali 10 34 33

Glucidi 70 48 51

Lipidi totali 38 37 29

Azoto non
3.2 2.5 3.2
proteico

Ca (mg) 33 125 124

P (mg) 15 96 105

258
Composizione delle frazioni proteiche della latte umano, vaccino e caprino

Sieroproteine
Esse rappresentano il 17% delle SAT, sono costituite da lattoalbumine, lattoglobuline,
sieroalbumine e immunoglobuline (le prime 2 originano dalla ghiandola mammaria, mentre le altre
provengono direttamente dal sangue). Tra le sieroproteine si ritrova la β-Lattoglobulina (51% delle
proteine del siero), α-Lattoalbumina (25% delle proteine del siero); entrambe dotate di
polimorfismo (β-Lattoglobulina, α-Lattoalbumina).
L’α-Lattoalbumina è una sieroproteina, importante per i processi di sintesi del lattosio ed è
indispensabile per l'enzima lattosio-sintetasi (Liberatori, 1972). Di questa frazione esistono 2
varianti: la A e la B, di cui la prima è più frequente (Moioli B. et al., 1998).

259
β-Lattoglobulina (β-Lg)
La struttura della β-Lattoglobulina (β-Lg) è costituita da 8 foglietti beta che vanno a costituire il
cosiddetto calice ma non è ancora chiaro il suo ruolo biologico anche se diverse ipotesi la mettono
in relazione al trasporto di molecole lipofile.
Esse partono dalla considerazione che la β-Lg mostra un'elevata omologia con la RBP (Retinol
Binding Protein) che trasporta il retinolo nel sangue, e che ipotizzano un coinvolgimento della β-Lg
nel trasporto del retinolo nell'intestino dei neonati.
Riguardo gli acidi grassi è stato rilevato in vitro una differente affinità con la β-Lg; in particolare si
legano più facilmente al calice l'acido palmitico, stearico, oleico e laurico.
Il legame degli acidi grassi con la β-Lg incrementa la resistenza della stessa alla degradazione
proteolitica, indicando che queste molecole sono importanti fattori di stabilizzazione della struttura
(Perez e Calvo, 1995).
Caseine
Rappresentano circa 1'80% delle SAT, hanno due importanti caratteristiche, vengono tutte elaborate
dalla ghiandola mammaria, e precipitato al loro punto isoelettrico a pH 4.6. Per le caseine si
riscontrano quattro frazioni: α (30%), β (47%), k (7,4%), γ (15,6%), che come le sieroproteine
esistono varianti dipendenti dal genotipo animale (varianti genetiche).
L' analisi delle varianti e la scoperta della correlazione tra queste e le caratteristiche chimico-fisiche
ha assunto una grande importanza ai fini selettivi.

260
Le α-Caseine
Queste si suddividono in 2 fazioni: α S1 (costituita da 199 aminoacidi) e α S2 (costituita da 208
aminoacidi).
Particolare attenzione va rivolta al locus dell’ α S1-caseina che viene identificato come "geni ad
effetto maggiore" con notevoli ripercussioni sulle caratteristiche quanti-qualitative del latte di capre
dipendente dal corredo genetico dell'animale. (Martin et al., 2002).
I latti con genotipo forte alla α S1 caseina si contraddistinguono per migliori attitudine alla
trasformazione, sintetizzabili in:
1. un maggiore contenuto in Ca e quindi una maggiore attitudine alla coagulazione enzimatica;
2. diametro micelle caseiniche inferiore e quindi una consistenza del coagulo più elevata;
3. minor tempo impiegato nell'inizio della formazione del coagulo.
Per l’α S2 -Caseina anch'essa di dipendenza genetica, i pochi studi hanno evidenziato l’esistenza di 7
alleli al locus dell’ α S2 -Caseina (A, B, C, D, F, 0) associati con almeno 3 livelli quantitativi della
proteina corrispondente: nullo (α S2 -Caseina 0), intermedio (α S2 -Caseina D) e normale (gli altri 5
alleli).
β-Caseina
Questa caseina a causa dei suoi diversi gradi di fosforilazione, determina differenze di risposta alle
tecniche di trasformazione del latte. Tali differenze sono ascrivibili all'assenza di chinasi che
impedisce la fosforilazione della caseina sintetizzata dalla mammella, (Mercier, 1981).
Nella β-Caseina si distinguono 2 gruppi elettroforetici la β1 e la β2 che differiscono fra loro poiché
presentano 6 e 5 gruppi fosforilati rispettivamente (Galliano et al., 2004).
Da studi condotti sulle proprietà di coagulazione è emerso che il latte prodotto da individui
omozigoti β-Caseina 0/0 oltre a presentare i tempi di coagulazione 3 volte superiori rispetto al
valore normale mostrano sia una consistenza del coagulo più ridotta, sia una resa in formaggio
(caciotta) inferiore (Chianese et al., 1993, Pena et al., 1998).
k-Caseina
Questa variante è dovuta ad un polimorfismo genetico legato al locus del k-Caseina (Prinzenberg et
al, 2005). Le varianti alleliche più frequenti riscontrate in capre italiane, francesi e spagnole sono le
A e B che differiscono probabilmente per la sostituzione di un residuo aminoacidico. Le capre con
variante B presentano una maggiore produzione di caseina (Caravaca et al., 2008).
La distribuzione percentuale delle singole frazioni caseiniche, non solo è strettamente dipendente
dal genotipo ma come per tutte le sostanze sintetizzate da un organismo dipende anche da fattori
ambientali capaci di fornire le migliori condizioni affinché il potenziale genetico venga estrinsecato
nel latte, (l'ereditabilità delle proteine è più elevata rispetto a quella dei grass)i.
Si ricorda che i fattori capaci di incidere sulle caratteristiche tecnologiche del latte sono legati alla
quantità di caseine e alla distribuzione percentuale delle singole frazioni ma, nell'ambito delle stesse

261
alla loro qualità. Infatti un elevato rapporto β/αs Caseine riduce il tempo di coagulazione (Storry et
al., 1983).
I minerali e le vitamine
I minerali e le vitamine presenti nel latte provengono solo dal sangue.
La concentrazione dei primi, è differente fra sangue e latte poiché alcuni di questi non
diffondonoattraverso l’epitelio mammario, ma sono trasferiti nel lume alveolare con dei meccanismi
di trasporto attivi (pompe).
Le concentrazioni di Na, K e Cl del latte riflettono i livelli intracellulari mentre quelli del Ca, del
Mg e del P sono diversi da quelli del sangue e comunque dipende dalla specie.
Infatti il latte caprino rispetto a quello umano e bovino presenta superiori concentrazioni di K
(Rodriguez et al., 1999) e minori contenuti di Na, per cui appare più adatto per l'alimentazione di
soggetti con problemi di ipertensione (Zoppi et al., 1993).
La composizione minerale del latte di capra, dipende dal contenuto in minerali presenti degli
alimenti, dalle riserve corporee dell'animale e al grado di efficienza di assorbimento dei diversi
elementi (Musalia et al., 1989).
La concentrazione delle diversi minerali nel latte di capra è abbastanza stabile nel corso della
lattazione ad eccezione del K che manifesta notevoli fluttuazioni (Park e Chukwu, 1988).

Il contenuto (mg/1) totale e solubile dei principali elementi minerali presenti nel latte di capra e
pecora sono riportati(De la Fuente et al., 1997 in alimentazione della capra da latte. Ed Avenue
Media 2005) a cui si rimanda.
Per quanto concerne il contenuto vitaminico del latte di capra, rispetto a quello umano si osserva un
inferiore livello in vitamine A, acido ascorbico e vitamina B12.

262
10.1 FATTORI DI VARIABILITA’ DELLA QUALITA' DEL LATTE DI CAPRA
Come per tutte le altre specie, anche nelle capre, la quantità e la qualità del latte secreto sono
condizionate dalle attività di sintesi degli alveoli mammari ed in modo particolare da fattori
endogeni ed esogeni.
In questo paragrafo, per meglio estrinsecare i concetti riportati in precedenza, faremo riferimento al
latte di capra, per i possibili e positivi effetti che questa specie può avere nelle economie delle aree
interne.
Tra i fattori endogeni, quelli genetici come per le produzioni di tutte le specie d’interesse zootecnico
sono fattori ereditari depositati nel D.N.A. del soggetto che controlla sia 1'attitudine a produrre
quantità più o meno elevate di latte, sia quella qualitativa con più o meno alti contenuti e rese annue
di questo o di quel componente.
Altro aspetto importante è la frequenza con cui si manifestano specifici alleli all'interno dei loci
relativi alle varie frazioni caseiniche che poi vanno a svolgere un ruolo preponderante sia in termini
di qualità nutrizionale che in maggior misura sui parametri tecnologici, (resa, consistenza ecc..)
condizionando il reddito economico dell'imprenditore. Questa proprietà spiega 1'esistenza di più
forme o varianti diverse di una stessa proteina che sono di tipo ereditario. Le varianti si distinguono
per una diversa composizione molecolare che può essere dovuta alla sostituzione di uno o più
aminoacidi all' interno delle catene peptidiche oppure alla delezione di una catena polipeptidica.
Queste variazioni possono assumere particolare significato se la sostituzione di un aminoacido
essenziale avviene nei confronti di uno non essenziale.
Le differenze quantitative tra le varianti genetiche delle singole proteine, anche se quasi sempre
molto piccole, possono influire in maniera diretta o indiretta sulle proprietà tecnologiche e nutritive
del latte.
Fisiologici
Nelle capre, come in tutti gli animali da latte la composizione del prodotto risente anche dello stato
nutrizionale e di salute dell' animale.
Varie forme patologiche e comunque fenomeni infiammatori sono spesso causa di riduzioni della k-
Caseina, del fosforo e dell' acidità, con peggioramento della caseificabilita del latte (Bertoni G.,
2000).
Da un punto di vista quantitativo il parto gemellare garantisce una maggiore produzione di latte,
anche se sembra abbastanza ininfluente per quello che riguarda le caratteristiche dello stesso.
L'ordine di parto, (indi l’età riferita al numero di gravidanza e di parti), e 1'andamento della
lattazione possono influire sulle caratteristiche qualitative del latte sia in termini di componenti
principali che in termini di attitudine alla caseificazione (Zumbo A. et al., 2006).

263
Infatti in capre Camosciate allevate in regime semiestensivo con alimentazione prevalentemente a
pascolo naturale sono state osservate variazioni a carico dei principali componenti del latte nel
corso delle diverse settimane di lattazione come evidenziato in Tabella (Del Pra A., et al 2010).

Il contenuto di calcio e fosforo è elevato all'inizio della lattazione, diminuisce nel corso di questa
per poi aumentare poco prima dell' asciutta.
A parità di stadio di lattazione, l'ordine di parto, cui e associata 1'età dell'animale, sembra
influenzare significativamente il tenore in grasso e proteine e, parallelamente ad un incremento di
quest'ultimi, si assiste ad una flessione del tenore in lattosio.
Con il progredire del numero di lattazioni si ha un aumento del contenuto in cellule somatiche;
dovuto alla crescente alterazione del tessuto epiteliale della mammella che comporta una
modificazione della funzionalità secretorie.

264
Fattori esogeni, tra questi la razione alimentare dal lato quanti-qualitativo nella capra e nelle altre
specie d’interesse zootecnico, risulta molto importante, poiché è capace di modificare la
composizione del latte. Infatti, agendo sul contenuto di energia, sul livello nutritivo, su quello in
proteine e fibre o sul tipo di alimenti che compongono la dieta, è possibile orientare la
composizione chimica e nutritiva del latte entro i limiti che il genotipo animale ci consente.
Sull'alimentazione viene posta la massima attenzione non solo dagli allevatori, desiderosi di fare
estrinsecare al meglio le potenzialità produttive dei loro animali, ma anche dai consumatori, attenti
ad evitare che la dieta possa modificare le caratteristiche nutrizionali ed organolettiche del latte e
dei suoi derivati.
Dall’alimento derivano i principi nutritivi che sono i precursori, diretti o indiretti, dei principali
costituenti del latte. La relazione che esiste tra principi alimentari e composizione chimica del latte
e comunque molto complessa a causa delle trasformazioni che avvengono nel rumine, dell'influenza
di alcuni ormoni e dei processi di sintesi che avvengono negli alveoli della ghiandola mammaria. Di
seguito è riportato uno schema del processo di trasformazione dell'alimento in latte con indicazione
degli stadi in cui e possibile agire per ottenere una variazione nella composizione del latte (Morand-
Fehr P. et al., 2007). Dal quale è possibile notare che solo attraverso 1'alimentazione (quantità,
composizione e frequenza dei pasti) e possibile variare la percentuale dei componenti del latte.
Infatti, una volta che l'alimento viene ingerito la possibilità di controllo da parte di un fattore
esterno è molto limitata. A questo stadio, infatti, e solamente possibile intervenire sulle
fermentazioni ruminali e, in misura minore, sull'assorbimento intestinale mediante l'uso di additivi.
Gli ormoni giocano un ruolo importante nel controllo di molti aspetti della sintesi del latte ma non
sembrano avere un ruolo significativo nel mediare gli effetti della nutrizione sulla sua
composizione.
Agendo sul livello di fibra o carboidrati strutturali, sul rapporto foraggio/concentrato, sul tenore
proteico, lipidico della dieta e sul livello di ingestione si può modificare la composizione del latte e
la quantità prodotta.

265
Conversione dell'alimento in latte e possibile controllo esterno della sua composizione in vari stadi
(Sutton, 1989).

La fibra. L'influenza della quantità e qualità della fibra o dei carboidrati strutturali presente nella
razione sulla percentuale di grasso del latte è stata ampiamente accertata.
Un sufficiente apporto di carboidrati strutturali è condizione essenziale per promuovere la motilità
del rumine, per favorire un' abbondante salivazione capace di mantenere il pH dell'ambiente
ruminale a valori adeguati per un'ottimale proliferazione microbica, per produrre una sufficiente
quota di Acidi Grassi Volatili (AGV) che rappresentano la principale fonte di energia e di composti
carboniosi utili alla sintesi del latte (Morand-Fehr P. 2005).
Variazioni del contenuto di carboidrati strutturali causa differenze nel consumo di alimento e nella
produzione del latte. Infatti esiste una negativa correlazione fra produzione di latte e percentuale di
fibra grezza del foraggio ed una correlazione positiva tra produzione di latte ed energia netta del
foraggio (Morand-Fehr P. 2005).
La concentrazione in fibra della razione influenza la percentuale di grasso del latte. Una razione in
cui i foraggi rappresentino la quota prevalente della sostanza secca totale sarà la migliore garanzia
per la sintesi di una sufficiente quantità di acetato, indispensabile e fondamentale precursore della
sintesi del grasso nel latte, e di un favorevole equilibrio tra acetato, butirrato e propionato a livello
ruminale. Infatti, qualora la produzione di AGV dovesse spostarsi a favore di una maggiore sintesi

266
di propionato, come avviene in razioni con basso tenore in fibra ed elevato livello in amidi, si crea
una situazione favorevole alla produzione di grasso corporeo con conseguente calo della
percentuale lipidica del latte (Antongiovanni M. 2004).
La lunghezza del foraggio rappresenta uno dei primi fattori responsabili della variazione di grasso
nel latte; infatti, per mantenere un adeguato tenore in grasso, una parte della fibra deve essere lunga
e strutturata (la lunghezza di trinciatura del foraggio deve essere superiore a 0,6-0,8 cm). La
dimensione minima delle particelle alimentari capaci di stimolare la ruminazione ha un ruolo molto
importante nell' alimentazione dei ruminanti: razioni eccessivamente ricche di fibra lunga limitano
1'ingestione, a causa della bassa velocità di degradazione ruminale e dell'elevato effetto di
ingombro della fibra stessa (Morand-Fehr P. 2005).

Rapporto foraggio/concentrato
In alcuni sistemi di allevamento 1'allevatore tenta di migliorare la produzione di latte modificando il
rapporto foraggio/concentrato della dieta, molto spesso aumentando l'integrazione con concentrato
per coprire le richieste energetiche di animali molto produttivi. Quando le capre ricevono foraggio
prodotto in azienda, i concentrati vengono usati per correggere il contenuto energetico, proteico e
minerale della razione. In generale, con foraggi di elevata qualità è possibile mantenere un più alto
rapporto F/C; viceversa, se il foraggio è scadente, per sostenere la produzione di latte si deve
ricorrere ad una quota maggiore di concentrato (Martin P. et al., 1988).
L'integrazione con concentrato, anche quando riduce il consumo di foraggio, generalmente aumenta
l'ingestione di sostanza secca e di energia. Diversi risultati sperimentali hanno evidenziato che al
diminuire del rapporto foraggio/concentrato diminuisce la produzione di latte ed aumenta il peso
corporeo, evidenziando una ripartizione dell'energia alimentare sempre più spinta verso
l'ingrassamento con il crescere della quantità di carboidrati non strutturati (Non Structural
Carbohydrates o NSC) della razione. Infatti, l'uso di razioni con elevate concentrazioni di NSC
incrementa la produzione di propionato nel rumine, il quale determina sia una notevole attività
gluconeogenetica, sia una stimolazione della produzione di insulina e quindi una stimolazione della
lipogenesi ed una diminuzione della lipolisi, con effetti positivi sulla deposizione di grasso corporeo
e negativi sulla produzione di latte. Questi eventi metabolici sono responsabili delle variazioni nella
composizione in acidi grassi del latte (Martin P. et al., 1988).
La dieta fornita all'animale è in grado di modulare la composizione di acidi grassi del latte, è
accertato che il rapporto foraggi/concentrati, influenza la microflora ruminale e di conseguenza la
proporzione di Acidi Grassi che si ritrovano nel latte (Sanz Sampelayo et al., 2007).
L’interazione tra genotipo (αS1-Caseina) e l'apporto quanti-qualitativo alimentare, sulle
caratteristiche del latte e sulla produzione, sono state studiate da Schmidely et al., (2002); De La
Torre et al.,(2009); Avondo et al., (2009).

267
Inoltre quando l'ingestione di energia aumenta senza modificare il rapporto foraggio/concentrato,
aumenta la percentuale degli acidi grassi a catena corta e quella dell'acido palmitico, mentre
diminuisce quella del C18:0 e C18:1. Risultati opposti si ottengono quando nella razione aumenta il
livello dei concentrati e diminuisce quella dei foraggi. Infatti, l'aumento di concentrati nella dieta
determina una riduzione della percentuale di acido acetico nel rumine con conseguenti importanti
effetti sul profilo acidico del latte. Invece, in caso di ipoalimentazione energetica si ha un'intensa
mobilizzazione dei lipidi di riserva, ricchi in acidi grassi C18 e di conseguenza aumentano le
percentuali di acido stearico nel latte.
La riduzione del rapporto foraggio/concentrato nella dieta provoca un abbassamento del livello
lipidico del latte, la cui entità varia in funzione della fermentescibilita dei carboidrati che
costituiscono gli alimenti.
Secondo Chiofalo et al., (1991) l'apporto in carboidrati non strutturali (amidi e zuccheri) non
influenza le caratteristiche di coagulazione del latte. Tuttavia, nel latte di pecore verso la fine della
lattazione un aumento della concentrazione energetica delle razioni migliora significativamente la
caseificabilità del latte (Serra et al., 1995). Secondo altri autori (Pirisi et al., (1995) e Martini et al.,
1999) 1'aggiunta di un mangime, a basso tenore in NDF, alla dieta a base di pascolo, migliora le
attitudini casearie del latte di pecore. Inoltre l’uso di granelle fioccate rispetto a quelle frantumata
nell’alimentazione della pecora da latte, migliora la coagulabilità del latte, la produzione, il
contenuto in grassi ed in sostanze azotate totali. Infatti l'impiego di cereali fioccati rispetto a quelli
macinati o spezzettati produce un miglioramento sia del tempo di coagulazione (r) sia di quello di
formazione del coagulo (k20) (Bianchi et al., 1994).
Recentemente è stato messo in evidenza un positivo effetto della dieta con supplemento in selenio e
Vitamina E sull'attitudine alla coagulazione del latte di capre di razza Jonica (Tufarelli e Laudadio,
2011).

Il tenore lipidico della dieta


L'inclusione di lipidi nella dieta, effettuata per incrementare il livello energetico della razione in
animali in lattazione, ha importanti conseguenze sulla concentrazione di grasso nel latte e sulla sua
composizione acidica. I principali fattori responsabili di questa variazione sono: quantità,
composizione in acidi grassi e forma fisica del supplemento.
Una razione con un basso tenore lipidico (inferiore all' l % della sostanza secca) riduce la
produzione di latte e la percentuale di grasso, ma non il contenuto proteico. L’alta percentuale di
grassi dei concentrati, non incrementa la produzione di latte ed il suo contenuto lipidico, anzi li
riduce quando questa supera il 7-10%, soprattutto in presenza di grassi insaturi (Morand-Fehr et al.,
1978), poiché l’eccesso di grasso incide negativamente sull'attività dei batteri cellulosolitici
ruminali con riduzione della produzione di acido acetico, (precursore degli acidi grassi sintetizzati

268
nella mammella).
La presenza di acidi grassi saturi determina un modesto incremento del livello di grasso nel latte,
mentre gli insaturi favoriscono la riduzione (MacLeod et al., 1972).
L'aggiunta di grassi nella razione, a causa dei processi di idrogenazione degli acidi grassi che
avvengono nel rumine influenza poco il profilo acidico dei lipidi del latte. Piante oleose, ricche in
acidi linoleico e linolenico, aumentano la percentuale di acidi stearico ed oleico ma riducono quella
degli acidi a catena medio-corta, (miristico e palmitico). Il pascolo generalmente ricco di acidi
grassi polinsaturi (PUFA), influenza il profilo acidico del latte favorendo il loro accumulo (PUFA)
che, in questa situazione alimentare forse sfuggono alla bioidrogenazione ruminale (Mele et
al.,2005).
Per minimizzare la biodegradazione degli insaturi a livello ruminale, sono state introdotte tecniche
che permettono ai grassi della dieta di by-passare il rumine senza interferire sulle fermentazioni
ruminali.

Il tenore proteico della dieta


Diversi studi evidenziano i vantaggi dell'utilizzo di supplementi proteici quando le razioni di base
sono ipoproteiche.
Nelle capre a metà lattazione l’interazione proteica, in razionamenti contenenti concentrati,
influenza solo leggermente la produzione di latte e la sua composizione. All'inizio della lattazione,
le capre ad alta produzione sono più sensibili alla variazione del contenuto proteico della dieta.
Poiché in questa fase di lattazione, l'ingestione dei foraggi è ridotta e l'apporto di proteine attraverso
1'uso di concentrati è molto importante. Le capre, come tutti i ruminanti sono capaci di utilizzare
azoto non proteico, come l'urea, ed in particolare quando la dieta contiene una sufficiente quantità
di energia fermentescibile, (amido) capaci di favorire la sintesi delle proteine microbiche- ruminali.
Nelle prime fasi di lattazione, per soddisfare le richieste proteiche in animali molto produttivi, è
utile far ricorso a fonti proteiche poco degradabili a livello ruminale (soia tostata).
In alcune sperimentazioni, la concentrazione proteica della razione ha una positiva influenza sul
contenuto lipidico del latte mentre, in altre non ha evidenziato alcun effetto. Il tenore proteico
normale (12-14%) della dieta sembra non influenzare la concentrazione di grasso nel latte, ma un
incremento al 18% circa, può ridurre il tenore lipidico fino a 0,5% unità (Thomas et al., 1988).
Questi livelli di proteine possono attenuare la riduzione di grasso, causata da un basso tenore in
fibra della razione.
L'elevata percentuale di proteine nelle razioni, qualunque sia la loro degradabilità, non incide sulla
concentrazione delle proteine del latte, ma aumenta il contenuto di azoto non proteico e di urea
(Bianchi et al., 1990, 1991), tuttavia non influisce sulle proprietà di coagulazione del latte, (Campus
et al., 1990), ma che migliorano con una composizione equilibrata in aminoacidi della dieta.

269
(Bertoni, 1993).
In definitiva, razioni con un rapporto energia/proteine bilanciato sia in termini di quantità che di
cinetiche di degradazione ruminali, ottimizzano le fermentazioni batteriche e massimizzano la
crescita microbica per unità di sostanza organica fermentata, ed evitano perdite urinarie di energia e
di azoto sotto forma di urea e, consentono così di utilizzare in modo ottimale l'azoto alimentare per
la sintesi delle caseine.

Livello di ingestione
In genere, la dieta di base delle capre è rappresentata da uno o più foraggi verdi (pascolo) o
conservati (fieno, insilati, pellettati) offerti ad libitum o in modo controllato a cui a seconda dei casi
si sommano concentrati. L'influenza della natura del foraggio (specie, varietà, numero di taglio,
stadio vegetativo o tecnica di conservazione ecc..) sulla produzione di latte caprino, dipende dal
consumo di foraggio e dal suo contenuto energetico. Le leguminose (erba medica, trifoglio rosso) e
il loglio italico sono i foraggi che presentano una maggiore ingestione volontaria e favoriscono una
maggiore produzione di latte.
Anche la tecnica di conservazione dei foraggi incide sulla produzione di latte che migliora quando
vengono consumati foraggi verdi e fieno sotto forma di pellet. Inoltre, quando l'alimentazione è
basata sul solo utilizzo di insilati di mais, la produzione si riduce al 5 al 14% mentre, i fieni di
leguminosa di media qualità determina una riduzione che varia dal 15 al 25%.
Il livello proteico del latte, al contrario della percentuale del grasso sembra essere poco influenzato
dalla modalità di conservazione del foraggio. L’uso di insilati di mais e foraggi verdi rispetto al
fieno incrementano la percentuale di grasso del latte.
Nei diversi sistemi di allevamento, il livello di ingestione di sostanza secca o di energia ingerita è il
principale fattore che influenza la produzione del latte e la sua composizione. Un alto livello di
ingestione, specialmente ad inizio lattazione, determina un incremento della produzione del latte.
Negli animali in lattazione un alto livello di ingestione, dovuto ad un miglior valore nutritivo degli
alimenti o ad un maggior apporto di concentrato, permette di ottenere un latte più ricco di proteine,
e specialmente in caseine, e più povero di grasso.
Mentre, in caso di ipoalimentazione energetica, si riduce la percentuale di proteine per
massimizzare quelle di grasso e delle proteine del latte, poiché da un lato si devono favorire le
fermentazioni acetiche a livello ruminale con diete ricche di foraggi, dall'altro, utilizzare
integrazioni lipidiche by-passanti (by pass), al fine di fornire acidi grassi insaturi a lunga catena
senza influire negativamente sulle fermentazioni ruminali, poiché nel latte la percentuale di grasso e
la sua qualità sono influenzate dall'alimentazione. Infatti, animali ipoalimentati nel tempo, non solo
dimagriscono, ma riducono subito la quantità e la qualità del latte, anche se i contenuti in lattosio, in
calcio, in sodio, in potassio, cloro e dei micro elementi sembrano non risentire in modo

270
significativo.

Fattori ambientali
Tra i fattori esogeni, il clima, ( ovvero la temperatura, l’umidità, il fotoperiodo, la ventosità e
altitudine), è senza dubbio uno di quelli che influisce sia direttamente che indirettamente sulle
caratteristiche quanti-qualitative del latte, poiché condiziona la disponibilità del pascolo ed il
comportamento alimentare degli animali.
Infatti la disponibilità idrica rappresenta un fattore limitante delle risorse foraggere che di fatto si
riflette sulle produzioni zootecniche, così come le alte temperature che limitano l’attività di
pascolamento, che per favorirla, si fanno pascolare gli animali di notte, i quali mostrano buone
performances sia per quantità di latte prodotto che per la qualità dello stesso. La temperatura
ambientale è tra i fattori che influiscono sull'acidità del latte, infatti durante i periodi più caldi dell'
anno essa aumenta.
Inoltre l'altimetria, la localizzazione dell' allevamento e la stagione del parto, influenzano le
caratteristiche quanti-qualitative del latte. Infatti, il diametro dei globuli di grasso, la percentuale
dello stesso e la concentrazioni dei CLA rispetto agli acidi grassi saturi sono superiori nel latte
primaverile degli allevamenti di altura rispetto a quello di pianura il quale contiene maggiori livelli
di sostanza secca, proteine, grasso, fosforo e acido α-linolenico. Il latte di pianura, rispetto a quello
di collina si distingue per un maggior contenuto di cellule somatiche, per una più alta carica
batterica, per una superiore resa di ricotta e per cali in formaggio. Le produzioni di latte invernali e
quelle di collina, per le migliori caratteristiche fisico-chimiche e nutrizionali, risultano più idonee
per la trasformazione.

Sistemi e/o tecniche di allevamento.


Com’è noto l’allevamento può essere suddiviso in due grandi tipologie:
a) stanziale (intensivo, semintensivo) e b) estensivo e/o transumante. In generale quello bovino al
contrario di quello ovi-caprino è indirizzato alla produzione del latte, ed è esclusivamente stanziale
di tipo intensivo e a completo regime stallino, generalmente a posta libera con o senza recinti
esterni.
Il tipo di allevamento influisce sulla quantità e sulla qualità del latte, infatti, nel caso della
stabulazione libera con recinti esterni, l'animale gode di una maggiore quantità di luce che attiva i
precursori della vitamina D con conseguente aumento del tenore di calcio nel latte.
Ogni tecnica di allevamento dovrebbe soddisfare le esigenze sanitarie fisiologiche e
comportamentali degli animali che dovrebbero comportarsi secondo le caratteristiche proprie della
specie.
Il latte ed i relativi prodotti ottenuti da animali al pascolo hanno un aroma e un gusto alquanto

271
peculiare; un livello di colesterolo più basso rispetto a quello di animali allevati in stalla, mentre più
alto è il contenuto in vitamina A ed E.
La tecnica di mungitura (manuale o meccanica) influenza la qualità del latte, infatti se non effettuata
a fondo si ha una diminuzione della quantità di grasso, in quanto il latte di sgocciolamento ha un
tenore lipidico fino a 2 volte superiore a quello inizio mungitura.
Una 3ª mungitura giornaliera (verso metà giornata) non incide significativamente sulla
composizione chimica del latte e sulla quantità prodotta. Inoltre la distanza fra due mungiture non
ha alcun effetto sulla qualità del latte (max 12 ore fra la mungitura della mattina è quella della sera).

10.2 EFFETTO DEL GENOTIPO E DELL'ALIMENTAZIONE SULLA QUALITA' DEL


LATTE E SUI PARAMETRI LATTODINAMOGRAFICI

In particolare ad incidere significativamente sugli aspetti quanti qualitativi della produzione del latte
è sicuramente il genotipo animale (specie e/o razze). Per questo basti ricordare le quantità di latte
prodotte dalle diverse specie e la relativa composizione chimica generale e speciale e, non solo ma
all'interno della stessa specie i livelli produttivi e qualitativi dovuti alle razze ed all'interno di questa
le variabilità individuali. Gli effetti del polimorfismo al locus della α s1-Caseina sulla produzione
del latte, sulla sua composizione, sulle proprietà di coagulazione e della resa in formaggio sono stati
studiate su capre di Alpine (Remeuf, 1993; Grosclaude, 1994; Mahe, 1993; Vassal, 1994, Barbieri,
1995; Ricordeau, 1996; Martin, 1999; Ricordeau, 2000), su razze caprine italiane (Pizzillo et al.,
1996; Meggiolaro et al., 2000), razze norvegesi (Vegarud et al., 1999), spagnole (Diaz, 1993; Diaz
et al., 1994; Angulo et al., 1996; Sanchez et al., 1998; Analla et al., 2000) e su varie razze in USA
(Clark e Sherbon, 2000 b).
I cui risultati possono essere riassunti come segue:
(a) non esiste alcuna differenza tra i genotipi rispetto alla produzione di latte;
(b) esistono differenze significative per quanto riguarda l’ α s1-Caseina, il contenuto totale di
caseina e proteina;
(c) è stato trovato, in alcuni lavori, un effetto significativo del polimorfismo sulle percentuali di
grassi, non facile da spiegare;
(d) il latte prodotto da genotipi definiti "forti" produce un latte con proprietà di coagulazione
migliori (coagulazione più veloce e migliore consistenza della cagliata) rispetto ai genotipi
"intermedi", che presentano migliori proprietà dei genotipi "deboli";
(e) le rese in formaggio di differenti genotipi sono ordinati nello stesso modo come per le proprietà
della cagliata. Un possibile inconveniente dei genotipi "forti" e "intermedi" è stato rilevato sul
sapore del formaggio. Formaggi fatti con il latte di questi genotipi manifestano un più ridotto
sapore di specie rispetto ai genotipi "deboli", dovuto alla relazione esistente con i diversi profili

272
degli acidi grassi. Tuttavia non si è certi se questo effetto sia dovuto al polimorfismo del gene alla α
s1-Caseina o alla lipolisi degli acidi grassi durante la stagionatura.

273
Cap 11. CENNI DI ALIMENTAZIONE E NUTRIZIONE ANIMALE

Premessa

E’ necessario anzitutto ricordare che tutti gli esseri viventi appartenenti al regno animale sono

eterotrofi, ovvero non sono capaci di sintetizzare sostanza organica (materia vivente) a partire da

elementi semplici come l'acqua, gli elementi minerali (N, C, O, eccetera) e da radiazioni solari

(luce), capacità questa riservata al mondo vegetale che sintetizza sostanza organica (proteine, grassi,

polisaccaridi eccetera) attraverso il processo di fotosintesi clorofilliana, per questo dette autotrofi.

Pertanto gli animali per compiere il proprio ciclo vitale (nascita, accrescimento, riproduzione

eccetera) devono ingerire e/o assumere dall'esterno sostanze e/o principi alimentari (acqua, proteine,

grassi, zuccheri, minerali eccetera) attraverso il/i processo/i di alimentazione e nutrizione. Come

premessa necessaria all'alimentazione e nutrizione risulta opportuno ricordare tre aspetti

fondamentali del comportamento degli eterotrofi superiori (animali, uomo compreso), ovvero, la

ricerca del cibo, l'istinto di sopravvivenza che si manifesta con svariati modi di difesa, e gli atti di

riproduzione ed attrazione sessuale. Di questi comportamenti quello prioritario è quello della ricerca

del cibo, in quanto condiziona la conservazione, lo sviluppo (accrescimento) e la riproduzione

medesima. In realtà, l'organismo animale, così come noi lo vediamo nel suo complesso rappresenta

il "fenotipo" il quale è l'espressione di fattori intrinseci di sviluppo dell'animale dovuti al suo

patrimonio "genetico" (genotipo) ed "estrinseci" dovuti all’azione dei fattori dell'ambiente in cui

esso nasce, cresce e compie il suo ciclo vitale. Tra questi, la disponibilità e la qualità dell'alimento è

certamente più importante, poiché incide profondamente ed in modo essenziale sia

sull'accrescimento, sia sui diversi aspetti quanti-qualitativi delle produzioni degli animali, i quali

con il diminuire delle disponibilità alimentari, prima diminuiscono le loro produzioni (latte, carne,

uova ecc.), poi sia quelli riproduttivi, sia quelli di difesa immunitaria, che porta il soggetto/i dalla

depravazione dell'appetito prima, alla cachessia poi, ed in ultimo alla morte del soggetto. In realtà si

può affermare che l'alimentazione rappresenta il "carburante" capace di far muovere la "macchina

animale" e che le prestazioni di quest'ultima sono scritte nel suo "motore e meccanica intrinseca"

ovvero nel suo "corredo genetico DNA". Dette prestazioni vengono estrinsecate solo con la giusta

274
alimentazione, con idonei sistemi e tecnologie di allevamento sviluppati in ambienti idonei ed

applicati da personale altamente qualificato. Detto questo, si può senza ombra alcuna affermare che

l'importanza dell'alimentazione è pari a quella del genotipo e dei fattori ambientali considerati nel

loro insieme.

L'alimentazione animale rappresenta quella branca della zootecnica che si occupa dello studio degli

alimenti è delle esigenze alimentari degli animali in relazione alle età, alla produzione e detta le

regole per l'uso di fieni, foraggi, mangimi, attraverso la somministrazione di diete e/o razioni

equilibrate dal lato quanti-qualitativo.

La nutrizione degli animali domestici e/o selvatici, riguarda l'insieme dei fenomeni fisiologici

(masticazione, digestione, assorbimento) e metabolici (anabolismo e catabolismo) a cui vanno

incontro i diversi principi nutritivi (acqua, proteine, grassi, glucidi, minerali eccetera) contenuti

nella razione alimentare. Quando prevalgono i fenomeni anabolici e/o di sintesi l’animale si

accresce, ingrassa, produce (latte, carne, uova ecc.), mentre quando sono quelli catabolici a

prevalere, il soggetto invecchia e/o dimagrisce.

Pertanto l'alimentazione (somministrazione e/o ingestione della razione) e il primo atto della

nutrizione e si inquadra nei processi digestivi di assorbimento e metabolici dei principi nutritivi

assorbiti, che hanno luogo nelle cellule degli organi a cui sono destinati.

L'importanza dell'alimentazione va considerata come:

1. Fattore capace di esaltare le capacità produttive degli individui, poiché è elemento fondamentale

ed essenziale per l'accrescimento dell'organismo per il suo incremento di peso e di mole

ascrivibili a molteplici processi di moltiplicazione e di differenzazione delle cellule. In realtà la

secrezione del latte, l'accumulo di grasso e le stesse prestazioni lavorative (produzione e/o

consumo di energia) sono tutti processi basati sull’assimilazione e sul metabolismo dei diversi

principi alimentari che vengono metabolizzati e trasformati in energia ed altre sostanze

(biosintesi). Per cui, si può certamente dire che attraverso la giusta alimentazione corrispondente

alle esigenze dell'organismo animale risulta possibile evidenziare tutte le prestazioni produttive

che gli animali portano codificate nel loro DNA.

275
2. Fattore sanitario e di prevenzione di diverse patologie.

Infatti quando gli animali sono sottoposti, per cause diverse, a restrizioni e/o carenze alimentari

dal lato quantitativo e/o qualitativo (deficitari di alcuni principi nutritivi, di aminoacidi, di

vitamine, di minerali ecc.), essi manifestano turbe funzionali, alterazioni dello stato di salute,

abbassamento dei poteri immunitari, che portano all'arresto produttivo, riproduttivo e dalla

facilità di contrarre infezioni dovuto questo ad un forte abbassamento del livello di γ-globuline

circolanti.

3. Fattore economico produttivo. Da quanto precedentemente accennato, risalta l'importanza

economica dell'alimentazione poiché un animale malnutrito produce poco e male, gli alimenti

ad esso somministrati risultano non produttivi ed economicamente sconvenienti.

In realtà, anche nelle migliori condizioni nutrizionali con somministrazione di razioni adeguate

dal lato quanti-qualitativo alle esigenze nutrizionali degli animali, l'incidenza del costo

alimentare su quello del prodotto finito si aggira intorno al 50% ed incrementa con il

peggioramento della dieta.

11.1 Gli alimenti

Sono definiti alimenti quell'insieme di sostanze vegetali (piante, semi verdi o secchi) ed animali

(parti e/o scarti e/o residui) e/o prodotti derivanti dalla loro lavorazione e/o trasformazione, che gli

animali ingeriscono per soddisfare le proprie esigenze fisiologiche-produttive. Dette sostanze

vengono utilizzate sia per la sintesi e la produzione di organi e tessuti (accrescimento, riequilibrio

cellulare, accumuli di riserve energetiche come grassi di deposito, ecc.) sia per la produzione di

energia (chilocalorie) o termogenesi ottenuta dal catabolismo dei principi nutritivi necessari per

tutte le attività fisiologico e produttive (movimento lavoro, mantenimento, accrescimento,

produzione di latte, ecc.).

Ogni alimento o sostanza alimentare è composto da un insieme più o meno equilibrato di principi

nutritivi. Tra questi vanno ricordati:

1) L'acqua: componente essenziale di ogni organismo vivente ed il cui contenuto varia con la

specie animale e/o cultivar vegetale; con l'età animale e/o lo stadio vegetativo della pianta,

276
con il tessuto (muscolo, osso, grasso eccetera) e/o parte della pianta (foglie, semi, stelo,

tronco ecc.). Esso svolge funzione essenziale di veicolazione di tutte le sostanze in essa

disciolte o solubilizzate.

2) Proteine. Sostanze fondamentali per la vita dell'intera biosfera sono polimeri di principi più

piccoli basati sul carbonio quaternario

detti aminoacidi. Il loro numero è di circa 21 come le lettere dell'alfabeto, con i quali l'organismo

attraverso il metabolismo (dal greco μεταβολή = trasformazione e/o cambiamento) scrive i testi

della vita.

3) Lipidi o grassi: sostanze con funzioni prevalentemente energetiche e/o di termoregolazione.

4) Glucidi o zuccheri. Nel mondo vegetale (cariossidi) sono la quota prevalente molto meno

nell'organismo animale. Sono presenti come polimeri (cellulosa, amido, glicogeno eccetera)

di glucidi semplici esosi o pentosi o come monosaccaridi (glucosio ematico, galattosio, ecc.)

o come disaccaridi (saccarosio, lattosio, ecc.). In generale hanno funzione energetica. Alcuni

polisaccaridi come la cellulosa che incrostata di lignina (fibra grezza) hanno anche funzione

di sostegno pari a quello dello scheletro osseo degli animali, ma che durante i fenomeni

digestivi limitano la digeribilità della razione.

5) Minerali (ceneri). In genere hanno funzione biogena (Ca, P, K, Na, ecc.). Nell'organismo

animale per la stragrande maggioranza sono depositati nello scheletro osseo, che insieme

nell’osseina partecipano alla formazione degli osteoni. Gli altri come (N, O, C, H, S) sono

quelli primari o plastici e li troviamo come componente degli amminoacidi delle proteine

dei tessuti organici (muscolare, ecc.) o dei lipidi o del glicogeno.

277
Essi possono essere suddivisi in:

a) macroelementi a cui appartengono (Ca, P, N, eccetera) quantificabili con i metodi della

chimica quantitativa.

b) microelementi di cui fanno parte quelli dosabili con tecniche di microanalisi. (Ni, Co, Zn,

Cu, ecc.)

6) Vitamine. Sostanze a funzione biogena non sintetizzabili dall'organismo ad eccezione della

D che origina dai tessuti adiposi sotto l'azione delle radiazioni solari. In genere, a seconda

del mezzo (sostanze) in cui sono solubili si distinguono in:

a) Idrosolubili a cui appartengono quelle che si sciolgono in acqua in genere quelle del

gruppo B.

b) Liposolubili a cui appartengono quelle solubili nei grassi (oli) come la vitamina A e D.

Circa le funzioni fisiologiche biochimiche dei principi nutritivi citati, si rimanda ai normali testi di

nutrizione ed alimentazione.

Valutazione chimico-fisiologica nutrizionale degli alimenti

Prima di iniziare questa trattazione è utile una rapida classificazione degli alimenti, poiché in base

alla loro origine, possiamo raggrupparli in:

a) Vegetali: come le cariossidi, le erbe, i fieni, gli insilati eccetera.

b) Animali: come la farina di carne, di pesce ed altri.

mentre a secondo del contenuto energetico si distinguono in:

c) Concentrati

d) Non concentrati

oppure se derivano da cicli di lavorazione e/o di trasformazione di altre sostanze alimentari in

e) Sottoprodotti i quali a loro volta si suddividono in:

e1) industriali (fettucce di bietola, trebbie di birra, pastazzi di agrumi, residui della lavorazione delle

Cariossidi, ecc.)

e2) agricoli (paglia, pastazzi ecc.)

oppure in base al contenuto di alcuni principi nutritivi in:

278
f) fibrosi a cui appartengono le paglia, i fieni, le stoppie e i residui di potatura,

g) proteici di cui fanno parte le farine di carne, di pesce, e le farine di estrazione di semi oleosi

(girasole, lino, soia ecc.).

Quando si procede alla valutazione di un alimento, i parametri da considerare sono:

a) la composizione chimica

b) la digeribilità

c) la relazione nutritiva

d) il valore biologico delle proteine

e) il contenuto vitaminico

f) l'appetibilità

g) la conservabilità

h) l'azione dietetica sulla digestione, la salute e le produzioni

Valutazione chimica degli alimenti

I dati analitici necessari per la valutazione chimica degli alimenti sono quelli prescritti dall'art. 11 L

15-2-1963 n° 281 e successive integrazioni e modificazioni, riguardante la preparazione e la

commercializzazione di mangimi/alimenti per uso zootecnico e sono:

1) l'umidità o contenuto percentuale di acqua

2) proteina grezza (N x 6,25) *

3) grasso grezzo o estratto etereo

4) fibra grezza

5) ceneri

6) estrattivi inazotati

* In realtà i coefficienti stechiometrici di conversione dell’N in proteina grezza sono diversi a

secondo della matrice alimentare e sono:

a) 6,40 per latte e derivati

b) 6,00 per mais, soia orzo

c) 5,90 per le farine di carne

279
d) 5,7 per grano, avena, segale, piselli, fave, veccia arachidi

e) 5,5 per pannelli di lino, di cotone

oltre ai parametri anzi citati, anche se con minore frequenza ma certamente estremamente

importanti riguardano le indagini sulla composizione aminoacidica della proteina, su quella acidica

del grasso e/o il/i contenuto/i in grassi saponificabili, in lignina, in pentosani e/o il livello dei singoli

minerali (Ca, P, Zn, Cu, Co ecc.) presenti nelle ceneri, nonché il contenuto di talune vitamine.

Campionamento

La prima operazione da compiere correttamente, riguarda il prelievo del campione da sottoporre ad

analisi, il quale deve essere rappresentativo dell'intera massa da valutare che, spesse volte supera le

centinaia o migliaia di tonnellate. Infatti un campione poco o non rappresentativo di massa,

sottoposta ad analisi chimica darà una risposta e/o giudizio d'analisi non rispondente al vero, da cui

le logiche conseguenze (negative) del giudizio finale e dei pessimi risultati derivanti dall'uso di

quella massa alimentare. Per quanto anzidetto il prelievo del campione è un'operazione di estrema

importanza che merita sicuramente un cenno sulla modalità di prelievo, e le procedure, difatti

variano a seconda del tipo di alimento.

Quando si tratta di foraggi verdi è necessario procedere a prelievo mediante sfalcio di una superficie

di 1 m2 in diversi punti numericamente e qualitativamente rappresentativi dell'intera area da

saggiare.

Per ogni sfalcio si procede alla pesata della massa verde ricavata, poi, tutta la massa verde ricavata

da diversi sfalci si mescola accuratamente. Da questa massa così ottenuta in diversi punti si

prelevano 3 - 4 campioni di peso non inferiore ad 1 - 2 kilogrammi, detti prelievi si mescolano tra

loro e si preleva il campione di 1 - 2 kilogrammi. Il campione così ottenuto si pone in un sacchetto

di plastica sottovuoto in cui sarà posto il cartellino recante la data di prelievo, la località, tipo di

alimento ad esempio:

campione di: prato pascolo

data di prelievo 3 marzo 2012

località: "Lama Balice" comune di Bari

280
finalità: "indagine conoscitiva"

peso verde: 2,800 kg

La conservazione sottovuoto del campione è utile per evitare sia le perdite di acqua per evapo-

traspirazione fogliare sia per evitare i processi ossidativi.

Il campione così preparato va inviato immediatamente al laboratorio di analisi o conservato per non

più di 3 - 4 giorni in frigoriferi ad una temperatura tra 0 e 4° centigradi.

Quando si tratta di foraggi secchi come fieni e/o paglie si procede anzitutto a prelievi di campioni in

diversi punti della massa in modo da ottenere un campione dal peso di circa 1% dell'intera massa da

cui, dopo opportuna miscelazione prelevare un campione di 1-2 kg da imbustare, eticchettare e da

inviare al laboratorio. Per i foraggi secchi (fieni, paglie, ecc.) e per le cariossidi (semi) al di sotto del

15% di umidità non è necessario il sottovuoto purché l’analisi venga espletata entro 5-6 giorni dal

prelievo. Stessa procedura si usa per gli insilati, e per le granaglie ma per i primi è opportuno l'uso

del sottovuoto. Quando si deve campionare un prodotto alimentare fresco, come il latte o le carni, le

procedure sono leggermente diverse. Quando si tratta del latte, la campionatura può essere fatta sia

alla mungitura per singolo soggetto, sia sul latte di massa o di stalla. La campionatura di latte per

singolo soggetto (vacca, capra, pecora ecc.) risulta utile e indispensabile nei processi di selezione

e/o ne i controlli sanitari (esempio ricerca di latti mastitici, ricerca di residui farmacologici,

fitosanitari ecc.) quella di massa indicata principalmente all'inizio dei processi di trasformazione. I

controlli di ingresso servono sia per accertamenti di salubrità del prodotto (n° cellule somatiche,

punto crioscopico, N-proteico, NN proteico eccetera) sia per il pagamento del latte in base alla

qualità, sia per l'eventuale esclusione dal processo di trasformazione.

Nel campionamento individuale è necessario prelevare un campione pari a 100-200 cc del latte della

mungitura del mattino previa sua accurata miscelazione, ed un campione del latte serale di pari

volume da mettere in opportuni contenitori che possono essere di vetro o di plastica. L'etichetta

incollata o legata al porta-campione dovrà riportare tutte le indicazioni così come:

data del prelievo: 3 marzo 2012

mungitura: mattina o sera

281
numero di matricola: 7502 S

nome del proprietario: ZXY

specie: bovina, caprina eccetera

razza: Bruna, Garganica eccetera

età dell'animale: 5

ordine di parto: 3ª lattazione

tipo di alimentazione: unifeed, pascolo, ecc.

tipo di allevamento: stallino, brado eccetera

Per il campionamento di massa, è opportuno, a seguito agitazione, prelevare della massa 4-5

campioni di 1-2 lt o quantomeno un numero pari al numero dei contenitori per poi mescolarli, da cui

ricavare poi il campione di 1 lt circa da inviare al laboratorio con l'etichetta sulla quale saranno

specificate:

data: 3 marzo 2012

contenitore numero: 4

nome del proprietario: XAMZ

tipo di latte: bovino o ovino o caprino

sistema di allevamento dichiarato: brado, stallino eccetera

zona-area di provenienza: Murgia sud occidentale

tipo di alimentazione: unifeed, pascolo, ecc.

Per quanto riguarda le tecniche analitiche dei diversi parametri di qualità si procede ad un semplice

accenno rinviando il tutto ai testi di chimica analitica specifici del settore. Si ricorda comunque che

la determinazione % del contenuto in:

1. acqua (acqua % o umidità) si ottiene per essicamento in stufa del campione a 105° C fino a peso

costante del campione allo ovvero:


% 100 100

2. proteine grezze % metodo Kjeldhal (N x 6,25)


282
3. grasso grezzo o estratto etereo, con estrazione a 45°-50° centigradi in bagno Maria con estrattori

Soxlet o Twisselman di un campione noto (5-10 g) di alimento

4. grasso del latte, metodo Gerber

5. ceneri, per incenerimento in muffola a 550° centigradi fino a peso costante di un campione di

alimento noto (1-3 g)

6. fibra grezza (cellulosa-lignina) metodo Whende e per le frazioni fibrose (ADF; NDF; cellulosa,

lignina eccetera) metodo Wan Soest, oppure il metodo Metha per la sola lignina.

7. Estrattivi inazotati (amidi ecc.) per differenza; vero a 100 ovvero 100 - % H2O - % proteine

grezze - % ceneri - % grasso - % fibra grezza = % estrattivi in azotati).

Valutazione energetica dell'alimento

A queste determinazioni, una volta nota la composizione chimica percentuale e tenendo conto dei

coefficienti calorici si può calcolare il contenuto energetico della sostanza.

Tale parametro, può essere espresso come energia lorda (Cal/Kg o Kcal) e può essere valutato

direttamente bruciando in "bomba calorimetrica" 1 g di campione, o calcolando indirettamente

utilizzando i coefficienti calorici di seguito riportati ricordando che:

1 g di proteine equivale a 5,1 cal

1 g di grasso equivale a 9,5 cal

1 g di estrattivi inazotati equivale a 4,1 cal

1 g di fibra grezza equivale a 4,1 cal, per cui un alimento che presenta una composizione come

quella riportata:

proteina grezza 10%

grasso grezzo 2%

fibra grezza 25%

estrattivi inazotati 60%

ceneri 3%

il suo contenuto calorico lordo o energia lorda per 100 g sarà:

(10 x 5,1) + (2 x 9,5) + (25 x 1) + (60 x 1) = 51 + 19 + 100 + 240 = 410 cal/100 g

283
ovvero 4100 kcal / Kg

Ovviamente la razione giornaliera che ingerisce giornalmente un animale superiore di interesse

zootecnico contiene una certa quantità di E.L., essa non viene tutta utilizzata poiché vi sono delle

perdite di trasformazione che variano con la specie animale, con la razza e con l'indirizzo produttivo

(latte e/o carne) e che può essere sintetizzata come nello schema riportato:
E. persa per
meno
E.L. m
meno
Energia fecale E: D.
meno
E. persa con l’urina Energia digestione e
Kcal Energia muchi Energia E. persa per catabolismo esogeno metabolizzabile fermentazione
della enzimi batteri digeribile E. persa per i gas di fermentazione (CH4) (E.M.) Azione dinamico
razione ecc E. persa per il catabolismo endogeno specifica degli
alimenti (A.D.S.)
Energia produttiva
a) Accrescimento- ingrasso
b) Latte, feti, uova, lana
c)Lavoro e calore conseguente
Energia
netta Energia mantenimento
E. N. a) Metabolismo basale
b) Attività fisiologiche
c) Termoregolazione

Esempio esemplificativo di un animale adulto che ingerisce la razione di circa 8 kg di s.s./d:

a) EL ingerita: calorie 60000 – (100%) -

EL contenuta nelle feci: calorie 20.000 pari al – (pari al 30% dell’ E.L. ingerita) =

Ed digeribile: 40.000 calorie (pari 66,67%) dell’ E.L. ingerita

b) Energia contenuta nei gas di fermentazione e/o digestivi: calorie 3500 + Energia urinaria: calorie

2000 = 5.500 cal (EU e Gas di fermentazione)

40.000 – 5500 = 34.500 cal. Di Energia metabolizzabile (EM) pari al 57,50%

d) Energia spesa per lavoro di digestione, assimilazione, azione dinamico specifica (ovvero costo

energetico di utilizzazione dell'alimento) calorie 10.000

EM (34500) – 10000 = Quota di mantenimento (attività metaboliche a


completo riposo, in ambiente di neutralità
Energia Netta (E.N. calorie 24.500 pari al 40,83%) termica 15-18° C è in condizioni post
assorbitive) = metabolismo basale + quota per
normali atti vita

Quota di produzione: lavoro, carne, latte eccetera

Questa quota di energia della razione è quella che l'animale utilizza per il suo mantenimento e le sue

attività produttive e rappresenta il valore nutritivo della razione che può essere espresso come Kcal

284
di energia netta (o nella sua espressione unitaria come UF Leroy, latte, carne, ecc.) metabolizzabile

o lorda.

L'espressione di U.F. Prende come riferimento il contenuto di energia netta di 1 kg di orzo in

granella al 10% di umidità o di 2,5 kg di fieno di prato stabile ricco di Fleum pratens e di altre

graminacee equivalenti a 3 kg di latte bovino al 3,4% in grasso e poiché 1 kg di latte vaccino

corrisponde a circa 720 kcal, 3 kg equivalgono a circa 2160 kcal. Tale valore non è mai costante

poiché varia leggermente con l'indirizzo produttivo (latte, carne, mantenimento) con il livello

nutritivo e con il genotipo. Infatti il miglior rendimento energetico si ottiene quando l’E alimentare

viene utilizzata per il mantenimento in lieve stato di iponutrizione dell’animale (2200 kcal) il

peggiore (1960 kcal) nell’ingrasso e/o accrescimento (produzione di carne). In realtà il metabolismo

basale o dispendio minimo energetico o produzione minima di calore di un animale nelle 24 ore

necessarie alle sue attività vitali di base, si stabilisce in via sperimentale in camera climatica

respiratoria, ponendo l'animale in ambiente di neutralità termica 15-18° C in condizioni post-

assorbitive, a riposo (decubito) ed è funzione del rapporto volume/superficie corporea. Infatti il M.

B. È più alto nei piccoli animali ove questo rapporto è più alto, poiché la superficie del corpo

favorisce la dispersione del calore prodotto. La superficie disperdente si può calcolare secondo la

formula di Mech:

Sm2 = KP 2/3

ove K e una costante di specie che mediamente assume i valori di:

a) 0,10 per i bovini

b) 0,12 per gli ovini

c) 0,09 per i suini

d) 0,10 per i polli

e P rappresenta il peso vivo degli animali mentre l'esponente 2/3 sta a significare che mentre la

superficie corporea varia in modo quadratico delle diminuzioni lineari, il P varia in ragione cubica.

In realtà secondo Benedict la precedente formula o quella della legge delle superfici disperdente di

Mech rappresenta una semplice approssimazione all'interno di una specie e non risponde affatto

285
quando si considera il MB per metro quadro di superficie di animali diversi così come risulta a dai

dati di seguito riportati

Metabolismo basale di alcune specie (Benedict 1938)


Specie M. B. cal
x Kg x m2
Ratto 171 526
Piccione 102 667
Cavia 86 707
Pollo 55 701
Coniglio 45 619
Gatto 51 731
Cane (30 kg) 35 745
Pecora 26 917
Uomo (65 kg) 25 917
Maiale 20 974
Vacca (500 kg) 12 1094
Cavallo (700 kg) 17 1504

Dopo una serie di calcoli ed espressioni matematiche Brody da dati sperimentali dimostrò che

l'espressione più esatta del M. B. dei mammiferi applicabili dal topolino all'elefante era data

dall'espressione:

in realtà il M. B. Non può essere assimilato al fabbisogno di mantenimento in quanto è un dato

ottenibile in condizioni ideali e non reali. Poiché normalmente l'animale è immerso in un ambiente

reale con escursioni termiche anche significative (-10 + 35-40° C), si muove normalmente,

mangia, digerisce, si riproduce ecc. e anche se non lavora (sottoposto sforzi) il dispendio energetico

e di gran lunga superiore a quello di base ed equivale a circa il doppio ovvero:

286
Valutazione chimica-fisiologica degli alimenti

Come anzi accennato una delle determinazioni più importanti per la valutazione chimica è quella

della proteina grezza. Questa determinazione tuttora usata universalmente non è proprio esatta dal

lato chimico poiché determina l’N totale e non quello proveniente dalle sostanze proteiche vere e

proprie. Infatti nell’N totale e compresso non solo quello proteico ma anche quello non proteico

(NNP) come quello degli aminoacidi liberi, quello ammidico, quello delle basi azotate, quello dei

composti ammoniacali ecc. Il metodo usato è il Kjelthal di cui abbiamo già accennato

precedentemente. Ma la determinazione di gran lunga più importante anche se di tipo particolare

riguarda la valutazione della composizione aminoacidica della proteina alimentare e non solo,

poiché com'è noto vi fanno parte 21 aminoacidi di cui 10 sono definiti essenziali per l'uomo e per

quasi tutti i monogastrici (suini e polli, per questi ultimi sono 11; infatti nei polli nella massima fase

di sviluppo corporeo e/o nel massimo delle produzioni, si aggiunge l'arginina). Si ricorda che gli

aminoacidi essenziali sono: arginina, fenilalanina, isoleucina, istidina, leucina, lisina, metionina,,

treonina, triptofano, valina e tirosina, i cui fabbisogni per le singole specie animali e i contenuti nei

diversi alimenti sono riportati nei testi specifici a cui si rimanda.

Un aminoacido (a.a.) è definito essenziale per un determinato organismo vivente quando dallo

stesso non è sintetizzato e/o le quantità di sintesi sono inferiori alle esigenze dello stesso. Gli a.a.

essenziali si distinguono in limitanti primari e secondari. I primi sono quelli (come la lisina) che

qualora fossero inferiori alle esigenze metaboliche dell'organismo, inibiscono l'utilizzo di tutti gli

altri poiché le loro basse (insufficenti) quantità bloccano le principali reazioni metaboliche. La

conoscenza delle concentrazioni aminoacidiche di una proteina e in particolar modo di quelli

essenziali incidono di fatto sul valore biologico della stessa, di cui abbiamo accennato in

precedenza e che qui riproponiamo:

oppure si può valutare il V. B. con il metodo del punteggio chimico di una proteina (x) con il

metodo di Block e Mitchel

V. B.= 26,9 + 0,7996 x


287
o mediante l'indice degli aminoacidi essenziali come proposto da Oser:

V. B. = 13,74 + 1,0747 x

ove x = % aminoacido limitante primario (lisina)

oltre che con il V. B. la proteina contenuta negli alimenti facenti parte delle razioni e/o diete

animali, può essere stimata e/o valutata con metodi biologici e chimici.

Nei metodi biologici si assume come criterio base il valore di accrescimento registrato dagli animali

(ratto o pulcino) o il bilancio netto dell’N; in quelli chimici si tiene conto del contenuto in

aminoacidi essenziali della proteina da valutare rispetto al livello di aminoacidi essenziali di una

proteina campione (caseine e/o proteina dell'uovo di pollo).

In realtà, il V. B. così come espresso nelle precedenti formule, rappresenta il rendimento o grado di

utilizzazione della proteina in esame. Infatti quando si dice che il valore della proteina x è pari

all'80% per l'accrescimento, significa che nell'80% dell’N delle proteine digeribili viene utilizzato

dall'organismo per scopi anabolici (accrescimento). Oltre che dalla natura della proteina (animale o

vegetale), il V. B. è influenzato da vari fattori come la specie (ruminante o monogastrico), la

conservazione e i trattamenti a cui la proteina viene sottoposta, come la cottura degli alimenti che

denatura la proteina (indi abbassa il V. B.) o la tostatura che inibisce alcuni fattori anti-nutrizionali

e/o anti-tripsinici (come nel caso della soia). Comunque i metodi più rapidi e semplici si basano su

gli incrementi di peso vivo registrati su gruppi omogenei (età, peso, sesso, razza) di ratti e/o pulcini

come:

a) Valore grezzo proteico (grass proteic value = G.P.V.)

che si basa sul confronto degli incrementi di pulcini ripartiti in 3 gruppi:

1) a dieta basale con l'8% di protidi grezzi

2) stessa dieta basale (di 1) aumentata del 3% di proteina da valutare

3) stessa dieta basale (di 1) aumentata del 3% di caseina

indicando con Bc l'incremento dei pulcini del gruppo 2) e Ba quello dei pulcini del gruppo 3)

(caseina), il valore di G. P. V. risulta:

G. P. V. = Bc /Ba x 100

288
ove Bc = incremento medio del peso dei soggetti del gruppo 1 (dieta basale) -

incremento medio del peso dei soggetti del gruppo 2 (3% proteina da valutare)

e Ba = incremento medio dei soggetti al 3% di caseina -

incremento medio del peso dei soggetti di controllo (8% di proteina)

b) Coefficiente di efficienza proteica (protein efficiency ratio P. E. R.), generalmente usato sui ratti

e si può definire come l'incremento di peso degli animali ∆P per unità di peso delle proteine

consumate con la dieta

e può essere riferito sia alla proteina grezza sia a quella digeribile.

Per quanto riguarda poi le altre frazioni azotate che vengono inglobate dal metodo Kjeldhal che

differiscono dalla natura dell’alimento che per opportunità distinguiamo in 4-5 grandi classi:

a) fieni, foraggi e/o simili alimenti fibrosi

b) mangimi concentrati ivi compresi le cariossidi di leguminose e cereali

c) mangimi composti integrati

d) latte, formaggi freschi e stagionati

e) carni, derivati e trasformati

Per gli alimenti riportati alla lettera a) il metodo Kjeldhal e quanto mai appropriato, in quanto essi

non contengono significative quantità di N non proteico, mentre in quelli indicati alla lettera b) in

particolar modo quando sono sfarinati e possibile una frode basata sulla aggiunta di urea

o di altre sostanze azotate non proteiche come (nitrati, solfati di ammonio, urea, contaminanti

azotati ecc.) che di fatto alterano il dato analitico. Queste forme di N (dette indifferenziato), in dosi

limitate non sono significativamente dannose, anzi nei poligastrici (ruminanti) ed in particolar modo

nella preparazione dei mangimi composti integrati (punto c) l'uso dell’urea in dose dell'1-3% delle

289
miscele è stato frequentemente usato. Comunque il livello di N indifferenziato rispetto a quello

Totale non deve essere mai superiore al 33%. Nei casi anzi riportati per una corretta determinazione

delle proteine è opportuno disperdere in un becker da 250 cc 1-2 gr di campione in 100-150 cc di

acqua (scioglie l'urea, i nitrati eccetera) e precipitare le proteine con CuSO4, filtrare, lavare e sul

filtrato procedere con il Kjeldhal. Anche per quanto riguarda le carni ed i prodotti trasformati

freschi o stagionati industriali ove normalmente si aggiungono conservanti (nitriti, nitrati eccetera) è

necessario prima solubilizzare queste fonti di N e poi procedere alla normale determinazione.

Per quanto riguarda poi le altre determinazioni, si rimanda ai testi specifici.

Altro parametro di valutazione di un alimento è rappresentato dalla Relazione Nutritiva e/o rapporto

calorie / proteine.

Si definisce Relazione Nutritiva o rapporto calorie / proteine di un alimento di una razione e/o dieta,

il rapporto tra la sommatoria della percentuale degli Estrattivi inazotati, della Fibra grezza e dei

grassi digeribili le percentuali delle proteine digeribili presenti nello/a stesso/a ovvero:

% % % ,
%

essa esprime, nell'ambito dell'utilizzazione energetica dei principi nutritivi da parte dell'organismo

animale, il numero di calorie fornite dai carboidrati (estrattivi inazotati e fibra) e dai grassi digeribili

rispetto a quelle date dalle proteine digeribili.

Detto valore (R. N.) può essere definita stretta, media e larga. Media quando assume valore intorno

a 6-7, stretta quando è inferiore a tale valore e larga quando è superiore. In altre parole il valore è

stretto nel caso di alimenti ad alto contenuto proteico (soia, carne, ecc.), larga quando le proteine

digeribili sono molto basse e l’alimento è molto fibroso o eccessivamente il ricco di amidi (paglia, i

fieni, farine di cereali ecc).

290
Digeribilità

Con tale termine in generale si intende il grado di utilizzazione digestiva dei principi nutritivi di un

alimento e/o di una dieta o razione alimentare.

Esso consiste in una ordinata successione di reazioni idrolitiche dovuti al corredo enzimatico

digestivo dell'animale come la saliva e i succhi gastrici, succo pancreatico ed enterico al termine

delle quali i polimeri proteici, l'amido e gli altri poliosi vengono scissi in aminoacidi, in glucosio ed

altri zuccheri semplici. Mentre i grassi vengono prima emulsionati e poi scissi in acidi grassi ed altri

componenti semplici (glicerina ecc.), comunque, senza entrare nello specifico, in modo

estremamente sintetico si riportano le sequenze idrolitiche essenziali a cui i principi nutritivi

complessi vengono sottoposti nei diversi organi dell'apparato digestivo.

a) Bocca: gli alimenti vengono più o meno triturati a secondo del tipo di apparato boccale.

Ad esempio nei ruminanti avviene una prima triturazione alquanto grossolana all'atto

dell'ingestione dell'alimento ed una seconda più marcata e profonda quando il bolo

ritorna in bocca a seguito di rigurgito dopo una fermentazione ruminale (in cui viene

eruttata anidride carbonica, metano ed altri gas di fermentazione.). In genere i principi

alimentari come le proteine e i grassi non subiscono alcuna scissione poiché le ghiandole

dell'apparato boccale non secernono enzimi proteolitici e lipolitici, ma solo delle amilasi

in concentrazioni non molto significative che attaccano debolmente l’amido poiché il

tempo di contatto tra enzima e polimero glucidico è molto breve, (pari al tempo di

masticazione e/o a quello di passaggio nel rumine). Ad essere attaccato (nei

monogastrici) è l’amido cotto ma con la deglutizione e l'ingresso del bolo alimentare

nello stomaco ghiandolare detta amilasi viene inattivata dalla pH gastrico (che oscilla da

1a 3,5 a seconda della specie)

b) stomaco ghiandolare: questo organo oltre all’HCl che determina il pH, secerne sotto

forma di proenzima il chemiotripsinogeno (lattanti) che in presenza di HCl viene attivato

a chimosina che attacca la caseina trasformandola in para-caseina che in presenza di

Ca++ presente nel latte, la precipita come paracaseinato di Ca, che a sua volta viene

291
idrolizzata dalla pepsina gastrica secreta anch'essa come pro-enzima (pepsinogeno che

viene attivato in pepsina dall'HCl gastrico). La caseina viene scissa in polipeptidi

semplici e/o più lineari di medio peso molecolare. Nello stomaco degli adulti, è presente

per la stragrande maggioranza pepsina (secreta come pepsinogeno e attivata per mezzo

del pH acido) che scinde le proteine alimentari in polipeptidi. Le ghiandole di questo

organo (stomaco) non producono lipasi e i grassi passano nell'intestino quasi del tutto

inalterati.

c) Intestino: questo organo com'è noto si ripartisce in duodeno (primo tratto

immediatamente dopo lo stomaco da esso separato dal "cardias") in tenue, in grasso

(colon ascendente, trasverso discendente), cieco e retto. Nel tratto duodenale, attraverso

le papille major e minor si immette il dotto epatico (coledoco) che porta la bile (secreta

dal fegato) e quello pancreatico (che immette il secreto del pancreas). Nel tenue si

versano anche i secreti delle ghiandole intestinali. Nell'intestino, i carboidrati alimentari

(amido, destrine, glicogeno) e ad opera delle glucosidasi (amilasi) pancreatiche vengono

scissi in disaccaridi (saccarosio, lattosio, galattatosio), che poi vengono scisse in monosi

(glucosio, fruttosio eccetera) ad opera delle disaccaridasi (saccarasi, lattasi ecc.) secreti

dalle ghiandole intestinali. Sempre in questo tratto, ad opera delle esterasi (lipasi)

pancreatiche, vengono scissi i grassi in acidi grassi e glicerina (glicerolo), tale processo è

preceduto dall'azione batotona della bile epatica, che abbassa la tensione superficiale dei

grassi riducendoli in micelle più piccole, aumentando così la superficie di attacco,

facilitando i processi di idrolisi delle lipasi. Le proteine e i polipeptidi provenienti dalla

stomaco e derivanti dalla lisi della pepsina e chimosina, nell'intestino vengono attaccati

dalla tripsina, chimotripsina e carbossipeptidasi pancreatica dalle aminopeptidasi e

dippeptidasi enteriche e trasformati in aminoacidi liberi. Inoltre le ghiandole enteriche

producono le nucleoproteasi (nucleotidasi e nucleosidasi) che attaccano i polimeri

nucleotidici (DNA, r RNA) riducendoli in basi puriniche, pirimidiniche e acido

fosforico.

292
Ovviamente, non tutte le sostanze alimentari ingerite, vengono idrolizzate ed assorbite

dall'intestino, ma una quota parte non viene attaccata e/o assorbita e pertanto la ritroviamo nelle

feci. La quota digerita data dalla differenza tra la quota ingerita e quella escreta (presente nelle feci),

rappresenta l’assorbito:

Ingerito - Escreto = Assorbito (ovvero il digerito)

Il rapporto percentuale tra assorbito/ingerito x 100 rappresenta il coefficiente di digeribilità (D %)

apparente dell'alimento che è leggermente diverso (generalmente inferiore) da quello reale (Dr %),

poiché nel primo (apparente), nelle feci sono conteggiate anche i batteri, i muchi, gli enzimi e le

cellule rivenienti dallo sfaldamento epiteliale dell'intestino, comunque e sempre presenti anche con

l'animale a digiuno proteico. Poiché queste frazioni di sostanze, per la quasi totalità sono sostanze

proteiche esse rappresentano la cosiddetta quota metabolica fecale (o N metabolico) ed in caso di

alimentazione fortemente ipoproteica può essere uguale o superiore a quella ingerita.

La digeribilità dipende dal tipo di apparato digerente dell'animale (ruminante o monogastrico) dal

genotipo animale (razza), dal tipo di alimento, dalla sua composizione chimica ed in particolare dal

contenuto di fibra grezza e dal livello di lignina in essa contenuta che, ovviamente dipende dallo

stadio vegetativo e dal tipo e essenza vegetale. Si ricorda, che nessun animale superiore nel proprio

apparato digerente possiede un corredo enzimatico cellulosolitico capace di scindere la cellulosa,

(componente essenziale della parete delle cellule vegetali) in monosi. La stessa però come in

precedenza accennato viene fermentata ad opera dei batteri cellulosolitici presenti nel rumine dei

ruminanti e nel cieco dei monogastrici erbivori (conigli, equidi ecc.) i quali liberano anidride

carbonica, metano ed utilizzando l'energia prodotta per il loro metabolismo. Dalla fermentazione

della cellulosa e degli altri polisaccaridi ad opera della microflora batterica oltre ai gas anzi citati, si

liberano anche acidi grassi volatili (A. G. V.) come l’acetico, il propionico e il butirrico.

La digeribilità (digestione) degli alimenti dipende così come già accennato non solo dal tipo di

apparato digerente dipendente dalla sua anatomia (e/o ripartizione in organi) e quindi dalla presenza

e/o sviluppo prestomaci (reticolo-rumine-omaso) presenti nei ruminanti e/o dallo sviluppo

dell'intestino cieco dei monogastrici erbivori, ma anche dal tipo ed intensità dei fenomeni di

293
degradazione (fermentazione) e metabolizzazione dei carboidrati e delle proteine alimentari operata

sia dalla ricca flora batterica presente nel rumine e nel cieco che si moltiplica attivamente, sia

dall'altrettanto importante presenza di fauna protozoaria. Per quanto riguarda l'importanza di questi

fenomeni basti ricordare che in 1 cc di liquido ruminale sono presenti da 2 a 10 miliardi di batteri e

300-500.000 protozoi ciliati, che essendo di dimensioni superiori hanno una massa pressoché

uguale. Infatti secondo Bryant (1970) citato da Borgioli (1995) la biomassa ruminale sarebbe

formata dal 48,5% di batteri, dal 51% di protozoi ciliati e dallo 0,5% di altri organismi. Per quanto

concerne la composizione della flora batterica ed in particolare all'azione e/o al tipo di substrato

fermentato possono essere raggruppati in:

a) batteri cellulosolitici, che attaccano e/o fermentano la cellulosa scindendo il legame β-

glucosidico e metabolizzano il cellobiosio con produzione di acido acetico, formico, e

succinico. L’acetico lo ritroviamo nel liquido ruminale, mentre il succinico viene in gran

parte decarbossilato ad acido propionico ed il formico in metano e/o in anidride

carbonica e H2. Questo gruppo di batteri che fermentano la fibra grezza, sono la

stragrande maggioranza della flora batterica presente nel rumine degli adulti avente una

alimentazione a base di foraggi grossolani. Essi sono Gram-negativi a cui appartengono i

Ruminococcus (flavefaciens e albus), i Bacteroides (succinogeus), presente anche nel

cieco del coniglio, i Ruminobacter parvum, e Clostridium (longisparum e butyricum)

sintetizzatori di vitamine del gruppo "B" e la Selenomonas ruminantium.

b) Amilolitici, generalmente streptococchi del genere Streptococcus bovis che attaccano

prevalentemente l'amido e con la loro alta capacità proteolitica anche le proteine,

fermentano anche i disaccaridi (maltosio, saccarosio e glucosio) con prevalente

produzione di acido lattico. Di questo gruppo fanno parte anche i Bacteroides

amylophilus, i Butyvibrio fibrosolvens, i Succinovibrio dextrinosolvens che producono

acido butirrico, succinico, formico e acetico. Gli Amilolitici si sviluppano enormemente

quando la dieta è a base di cereali (mais, sorgo ecc.) dando origine ad alte concentrazioni

di acido lattico e propionico.

294
c) Lattobacilli. (bastoncelli Gram-positivi) di cui fanno parte i lactobacillus plantarum

brevis, acidophilus ed altri, fermentano il lattosio del latte nei lattanti in fase di

svezzamento (vitelli, agnelli ecc.) ed altri zuccheri semplici (disaccaridi e monosi)

presenti in altri alimenti (foraggi eccetera). In questa fase, momento di passaggio

nell’alimentazione lattea a quella solida, anche quando gli animali vengono alimentati

con fieni, insilati e cereali, sono presenti altri microrganismi che originano acido lattico,

il quale viene poi fermentato da altri batteri tipo Propionibacterium ed altri che

sviluppano acido propionico, acetico e butirrico e metano, quest'ultimo dovuto all'azione

dei Methanobacterium ruminantium (pari a circa l'8-10% dell E.D. della razione).

Oltre alla flora batterica testé riportata, nel contenuto ruminale è presente una ricca fauna

protozoaria cigliata composta da:

a) protozoi olotrichi (Isotricha e Dasytrica spp.) di piccole dimensioni e ciliati

b) protozoi oligotrichi (Diplodinium, Entodinium, Metatinium spp), di grosse

dimensioni e con ciglia distribuite in vario modo.

Sono tutti dei simbionti commensali, e si nutrono degli zuccheri presenti negli alimenti,

inglobano anche granuli di amido e gli stessi batteri. Batteri e protozoi con il foraggio

(alimento) finemente triturato e fermentato (ruminazione e/o masticazione mericica),

insieme al contenuto citoplasmatico delle cellule vegetali (aperte a seguito della

fermentazione della cellulosa) passano nell’abomaso ove vengono uccisi dall'acidità del

succo gastrico (pH =2,10 - 3,5) e digeriti dalle proteasi gastriche, prima e pancreatiche

ed enteriche poi; dando origine così al processo di mobilizzazione proteica.

La stima della digeribilità, può essere fatta direttamente in vivo sull'animale oppure in vitro, oppure

può essere valutata in modo indiretto con l'equazione di Axelsson o di Hallsworth citati dal Borgioli

(1995), che stimano la digeribilità di un alimento per specie basato sulla percentuale di fibra grezza

contenuto nella S. S. Per ulteriori approfondimenti dell'argomento si rimanda ai testi del settore.

In realtà, la digeribilità indi la sua espressione percentuale (coefficiente di digeribilità) di un

alimento o razione diminuisce al crescere della percentuale di fibra grezza in essa contenuta. La

295
digeribilità (indi il coefficiente) può essere riferita alla sostanza secca (S. S.= Sostanza Tal quale -

acqua), alla sostanza organica (S. O. = SS - Ceneri), alla proteina grezza (P. G.) (o a quella pura), al

grasso grezzo (E. E.), Alla fibra grezza (F. G.), agli estrattivi inazotati (E.I.) e comunque a tutti i

principi nutritivi generali e particolari di natura organica.

La sommatoria dei principi nutritivi digeribili di un alimento e/o razione rappresentano le sostanze

nutritivi digeribili (S. N. D.) che possono essere espressi in termini percentuali (S. N. D.%) oppure

in valore assoluto g/Kg di razione e/o alimento.

Appetibilità

Anzitutto va precisato che esso dipende da un insieme di meccanismi fisiologici che intervengono

sia a livello nervoso, come i centri ipotalamici dell'appetito della sazietà, sia a livello chemiostatico

mediante le variazioni di livello della glicemia o della concentrazione di acetati e/o di corpi

chetonici, sia dalle condizioni fisiologiche in cui si svolge la digestione indi alla velocità di

passaggio gastro-enterica e ruminale dell'alimento. Detto parametro riveste grande importanza

pratica poiché la quantità totale di alimento ingerito, dipende in gran parte dal più o meno spiccato

grado di appetibilità. Essa può essere valutato dal consumo "ad libitum” di un alimento nell'unità di

tempo che per altro dipende anche dalle caratteristiche organolettiche (sapore ed odore) che

incidono sull'appetito attraverso la stimolazione salivare e della produzione dei succhi gastrici,

fenomeno questo, poco sviluppato nei ruminanti e negli erbivori in genere, in cui il manifestarsi

dell'appetito dipende dalla peristalsi e dal tono gastrico. Anche l'abitudine al consumo di un

determinato alimento influisce sull'appetibilità e costituisce uno dei fattori capaci di influenzarla

poiché favorisce nell'animale lo sviluppo di un riflesso condizionato favorito dalla natura fisica ed

organolettica (sapore e odore) dell'alimento. Per questo, quando in una razione alimentare per varie

cause deve essere sostituito un alimento, la sostituzione deve avvenire gradualmente.

Conservabilità

Rappresenta il fattore che indica la capacità e/o propensione di un alimento ad essere conservato.

Infatti la stragrande maggioranza degli alimenti non viene utilizzata immediatamente (perché

eccedente) e deve essere conservato per un periodo di tempo più o meno lungo. È il caso degli

296
alimenti verdi destinati all'alimentazione animale dei prodotti freschi che essi producono (latte e/o

carne). I primi (foraggi verdi) vengono conservati previo essiccamento (fieni) e/o trattamenti

(trinciatura, pressaggio ecc.) come gli insilati; i seguenti (prodotti animali freschi), a causa delle

quantità prodotte non è possibile consumarli immediatamente e per conservarli per un periodo di

tempo più o meno lungo e in necessario sottoporli a trattamenti (latte pastorizzato ecc.) oppure

trasformarli in altri prodotti (formaggi, insaccati, scatolette ecc.) che per i dovuti approfondimenti

tecnologici si rimanda ai testi specifici.

Azione dietetica

Con questo termine si intende un insieme di manifestazioni fisiologiche produttive collegati ai

processi digestivi e di utilizzazione e/o trasformazione che si manifestano a seguito della

somministrazione di un alimento per un periodo più o meno lungo e comunque di durata nota. In

altri termini, l'azione dietetica rappresenta la risultanza delle proprietà chimiche-fisiche e

fisiologiche di un determinato alimento e rappresenta un buon fattore di valutazione chimico-

nutrizionale, ascrivibili comunque alle caratteristiche dietetiche dell'alimento i cui approfondimenti

sono rimandati alla letteratura del settore anche se per il momento è opportuno fare un breve cenno

su:

1) azione su funzione digerente. Questa funzione si esplicita a livello della peristalsi intestinale

e della compattezza delle feci. Infatti il foraggi secchi ricchi di fibra, (verdure e altri alimenti

nei monogastrici come maiali e primati) al contrario dei mangimi concentrati incrementano

la peristalsi indi la velocità di passaggio dell'alimento, tendono a compattare le feci

(generalmente solide) e limitano la digeribilità della dieta. Alcuni concentrati però come

cruscami, panelli di lino e farina d'orzo sono addirittura ritenuti "rinfrescanti" in quanto

limitano stati irritativi/infiammatori del tratto gastro-enterico.

2) Azione sulla produzione del latte. Trattasi di un insieme di azioni alquanto complesse di

alimenti freschi (come le erbe verdi di pascolo) ed i foraggi verdi di alta qualità che incidono

favorevolmente sugli aspetti quanti-qualitativi della produzione del latte e su alcuni suoi

parametri chimici come la percentuale di grasso e la qualità nutrizionali del burro.

297
Agiscono favorevolmente su questi aspetti i panelli di cocco, di lino e gli ottimi pascoli

mentre incidono negativamente altri alimenti come le polpe di bietole, il fieno greco, le

borlande ecc., che trasmettono odori e sapori sgradevoli.

3) Azione sulla qualità del grasso. Di questo abbiamo già parlato in precedenza ed in

particolare per quanto concerne l'incidenza del grasso alimentare sulla quantità e qualità dei

depositi adiposi ed in particolar modo per quanto concerne la composizione acidica, la

consistenza ed il colore. Per questo, basti ricordare l'importanza che la consistenza ed il

colore bianco del grasso di deposito suino (lardo, pancetta ecc.) assume per il consumatore

italiano, il quale non gradisce il colore tendente al giallognolo ed untuoso (anche se è indice

di ricchezza di acidi grassi insaturi) che lo rendono facilmente sensibili all'azione degli

agenti atmosferici (umidità temperatura) che se fuori controllo portano alla formazione di

idracidi, di ossiacidi, ecc.

4) Azioni tossiche e/o nocive. Queste possono evidenziarsi quando si usano alimenti scaduti,

ammuffiti, avariati e/o inquinati (da semi e/o piante velenose) o diversamente contaminati

con sostanze tossiche.

Valore nutritivo

Il valore nutritivo di un alimento a parte tutte le considerazioni comparative formulate tra

alimento ed alimento circa la loro efficienza produttiva tra le diverse specie e/o razze e/o

categorie di animali a cui lo stesso viene somministrato, può senz'altro definirsi sia, come la

quota di Energia Netta (E. N.) da esso fornito ed utilizzato dai soggetti riceventi per il

mantenimento e le produzioni (latte, carne, uova ecc.) di cui abbiamo già riferito in precedenza,

sia come valore di trasformazione o produttivo dell'alimento per una specifica produzione.

Quest'ultima definizione, anche se più vicino alla mentalità dei tecnici e degli allevatori è

senz'altro meno appropriata della precedente.

Per la determinazione di questo parametro (V. N. o valore nutritivo) possono essere utilizzate

due metodi:

298
1) Empirico: ovvero basato sul confronto di alimentazione condotte su gruppi di animali

omogenei per sesso, età, numero, razza ed indirizzo produttivo, che tendono a valutare in

modo rapido e sintetico i valori produttivi o di trasformazione degli alimenti in latte o

quello di sostituzione di un alimento con un altro, da cui di fatto è stato elaborato è

perfezionato il metodo delle U. F.

Infatti l’U. F. è il valore nutritivo di 1 kg di orzo in granella o di 2,5 kg di fieno di

prato stabile ricco di “phleum pratense” e di altre graminacee equivalenti a 3 kg di

latte bovino al 3,5% in grasso.

2) Scientifiche. Basate su studi analitici del ricambio materiale e metabolico energetico

(bilancio nutritivo), durante i quali si determina o la quantità di grasso che si deposita

nell'animale (metodo Kellner o delle U. A.) ascrivibile all'assunzione di una certa

quantità di alimento, oppure l'energia netta (E. N.) mediante il bilancio materiale ed

energetico dell'animale.

Potere energetico degli alimenti

senz'altro è il primo metodo di carattere scientifico e si basa sul potere calorico degli alimenti in

base all'energia (calorie) rilasciate dai principi nutritivi digeribili nell'organismo animale che di

seguito si riporta:

1 g di proteine digeribili = 4,1 cal

1 g di zuccheri digeribili = 4,1 cal

1 g di grassi digeribili = 9,3 cal

da questi dati, come unità di misura si è scelto quello degli zuccheri (idrati di carbonio o l'amido)

che rilasciano 4100 kcal/Kg, valore equivalente a quello delle proteine digeribili. Per i grassi,

invece per riportarli alla stessa unità di misura è necessario moltiplicarlo per il coefficiente di 2,25 =

9,3/4,1.

In realtà il valore energetico medio di 1 g di proteina e di circa 5,65 kcal/g però, quando i suoi

componenti (aminoacidi) vengono bruciati (catalizzati) il 25% c.a. della loro energia viene dirottata

299
per la sintesi dell'urea (catabolita principale delle proteine), da cui la quota energetica disponibile

risulta quasi pari a quella degli zuccheri.

Es. di un alimento avente la seguente composizione percentuale in principi in digeribili:

% proteine digeribili = 10,00 x 1 = 10,00

% grasso digeribile = 4,00 x 2,25 = 9,00

% fibra grezza digeribile = 20,00 x 1 = 20,00

% estrattivi inazotati digeribili = 50,00 x 1 = 50,00

V.N. = 89,00

Questo metodo, pur avendo basi scientifiche, alla verifica sperimentale non risultò esatto perché

non teneva conto di un insieme di fattori quali la specie, l'indirizzo produttivo ed il livello di fibra

grezza e/o dell'effetto che genera nell'animale la composizione chimica e la natura dell'alimento.

Sostanze nutritivi digeribili (S.N.D.) ed energia metabolizzabile (E. M.)

Il metodo precedente (Wolff e Lehman) citato da Borgioli, semplice e basato su fatti scientifici ma

limitato ai fenomeni digestivi trovò accettabili consensi tra gli addetti al settore, finché Kelner non

dimostrò l'inadeguatezza. Infatti, nel primo (potere energetico), non si teneva conto che l'organismo

consuma una quota significativa di sostanze nutritive digeribili per ottemperare alle esigenze

energetiche dovuto al lavoro fisiologico digestivo (L. F. D.), all'azione di stimolo sull'utilizzazione

metabolica dell'energia (metabolismo energetico) dei principi nutritivi assorbiti, da cui la deduzione

che il V. N. di un alimento non può essere identificato in funzione delle SND anche se viene

comunemente usato in America i cui manuali riportano oltre alla composizione chimica grezza le

S.N.D. o T.D.N. (Total Digestible Nutrients) calcolato secondo la seguente formula:

S.N.D. (o T.D.N.)= % proteina dig +% Estr. inaz. dig. + % Fibra grezza dig. + % grassi dig x 2,25

Metodo scandinavo o delle U. F.

La definizione di U. F. è stata precedentemente riportata, per la cui determinazione si rimanda ai

testi specifici, poiché trattasi di metodologia sperimentale fatta su gruppi di vacche da latte di cui

uno alimentato con diete a base di fieno normale, e l'altro in cui quest’ultimo era sostituito con fieno

di trifoglio (ovvero trattasi di un metodo di confronto suddiviso in 2 periodi con programmi di

300
alimentazione e sostituzione ben precisi di quantità note di 2 fieni (5 kg). In entrambi periodi e per i

2 gruppi si valutano le produzioni medie di latte, e le differenze ascrivibili al cambio alimentare.

Metodo delle U. A. (Kellner)

Il metodo Kellner (citato da Borgioli) delle Unità Amido si basa sul bilancio materiale dell’N e del

C effettuato in camera climatica respiratoria.

Infatti, il Kellner scelse dei bovini adulti di 600-650 kg, li mise in camera climatica respiratoria e

somministrò loro una razione a base di foraggi che poteva empiricamente considerarsi di

mantenimento in quanto gli stessi animali non subivano significative variazioni di peso. Quando poi

rilevò tutti i dati necessari per il bilancio dell’N e del C, notò che gli animali avevano accumulato

una certa quantità di grasso nel proprio organismo. Per meglio comprendere il fenomeno,

successivamente alla dieta base in modo sequenziale si aggiunse una quantità nota di amido, di

proteine, di grassi allo stato puro. In tal modo attraverso il bilancio materiale di N e C poté stabilire

la quantità di grasso che si depositava nell'organismo quale conseguenza della somministrazione dei

principi nutritivi aggiunti in purezza e si rilevò che:

1) 1 kg di amido depositava 248 g di grasso

2) 1 kg di proteine depositava 235 g di grasso

3) 1 kg di grassi (semi oleosi) depositava 598 g di grasso

che poi di fatto rappresentano il potere adipogenetico di detti principi nutritivi. Per la sequenza di

determinazione, di calcoli ed dei coefficienti specifici di bilancio si rimanda ai testi di nutrizione.

Assumendo come unità di misura la quantità di grasso (248 g) depositato da 1 kg di amido, si

stabilirono i rispettivi coefficienti adipogenetici (c.a.) dei principi nutritivi che risultarono:

301
c.a.

Amido, cellulosa e polisaccaridi digeribili 248


1
248

Saccarosio ed altri disaccaridi 0,78

Proteine digeribili 235


0,94
248

Grassi digeribili (semi oleosi e panelli) = 2,41

Grassi digeribili (cereali e mangimi) 598


2,12
248

Grassi digeribili (foraggi) 474


1,91
248

Pertanto, teoricamente conoscendo il contenuto in principi nutritivi digeribili ed i rispettivi

coefficienti adipogenetici risulterebbe facile calcolare il contenuto in U. A. dell'alimento come

nell'esempio di seguito riportato:

Foraggio

Percentuale di proteine digeribili = 8,00% x 0,94 = 7,52

Percentuale del grasso digeribile = 1,50% x 0,95 = 1,42

Percentuale estratti inazotati = 17,0% x 1 = 17,00

Percentuale di fibra digeribile = 12,00% x 1 = 12,00

U. A. T. = 37,94

Quando poi si somministra l'alimento all'animale in camera climatico respiratoria e si procede al

relativo bilancio materiale si osserva e Kellner lo notò immediatamente, che le U. A. così calcolate

non corrispondevano a quelle realmente determinate con il bilancio, le quali risultano sicuramente

inferiori, e notò che le differenze tra teorico e reale dipendevano dalla natura dell'alimento e dal suo

302
contenuto in fibra grezza, ed erano ascrivibili all'energia richiesta per il lavoro di digestione e di

assimilazione proprio per ciascun alimento.

I rapporti tra UAR / UAT rappresentano i coefficienti di valore (C.V.) o di produttività (C. P.).

A seguito poi di una serie di bilanci fatti su una trentina di alimenti di diversa natura, furono

estrapolati dei fattori di correzione delle U. A. da detrarre alle U. A. T. per ottenere le U. A. R. in

relazione al contenuto di fibra grezza dell'alimento.

Alimento con contenuto in fibra grezza > del 16% detrarre 0,58 U. A./ Kg di fibra

Alimento con contenuto in fibra grezza > del 16 - 14 % detrarre 0,53 U. A./ Kg di fibra

Alimento con contenuto in fibra grezza > del 12 - 14 % detrarre 0,48 U. A./ Kg di fibra

Alimento con contenuto in fibra grezza > del 10 - 12 % detrarre 0,43 U. A./ Kg di fibra

Alimento con contenuto in fibra grezza > del 8 - 10 % detrarre 0,38 U. A./ Kg di fibra

Alimento con contenuto in fibra grezza > del 6 - 8 % detrarre 0,34 U. A./ Kg di fibra

Alimento con contenuto in fibra grezza > del 3 - 5 % detrarre 0,29 U. A./ Kg di fibra

In realtà il metodo delle U. A. non è scevro di critiche poiché di fatto sottostima il V. N. dei foraggi

freschi, ma rappresenta sicuramente un valore di trasformazione dell'alimento in grasso e pertanto

in Valore di Energia Netta accumulata sotto forma di grasso dall'animale. In realtà l’U. A.

rappresenta l’E. N. di 248 g di grasso pari a 2360 kcal. Tale valore varia con il genotipo animale

(specie, razza) ed in relazione alla capacità di accumulo adiposo come di seguito riportato:

Suini: 1 kg di amido si trasforma in 367 g di grasso che equivalgono a 3550 kcal

Ovini: 1 kg di amido si trasforma in 310 g di grasso che equivalgono a 2950 kcal

Conigli: 1 kg di amido si trasforma in 273 g di grasso che equivalgono a 2590 kcal

Polli: 1 kg di amido si trasforma in 252 g di grasso che equivalgono a 2390 kcal

Bovini: 1 kg di amido si trasforma in 248 g di grasso che equivalgono a 2360 kcal

303
Da tali osservazioni, furono proposte una serie di unità come l'Unità Kellner corrispondente a 2500

Kcal nette di grasso (WKg) o le Unità Latte (equivalenti all'energia alimentare richiesta per

produrre 1000 cal di latte), ma tutte di difficile adozione.

Metodo dell'Energia Netta

E’ un metodo sperimentale basato sul calcolo del metabolismo energetico fatto su animali posti in

camera calorimetrica respiratoria, in cui l’E.N. viene misurata in modo differenziale. Infatti gli

animali tenuti in camera calimatico-respiratoria a cui viene somministrata una certa razione e

misurato il corrispondente metabolismo energetico (E), successivamente alla razione viene aggiunto

una quantità nota dell'alimento da studiare e calcolato il nuovo metabolismo energetico (E’).

Per cui, la quantità di energia apportata dalla quantità del nuovo alimento sarà data da Mt - (E’- E)

in cui Mt rappresenta l’E. M. Del nuovo alimento e la differenza E’- E rappresenta l'incremento

metabolico o extracalore. Da ciò emerge che l’E. N. di un alimento corrisponde alla sua E. M.

detratta dell’energia spesa per la digestione, l’assorbimento e l'azione dinamico specifica (a.d.s.)

relativa all'aggiunta dell'alimento ed alla sua utilizzazione metabolica. Per i dati specifici relativi

all'incremento metabolico si rimanda alla letteratura del settore.

In definitiva possiamo affermare che i metodi usati per la determinazione del V. N. degli alimenti

animali sono quello delle U. F. (scandinavo), basato sulla capacità di trasformazione in latte, e

quello delle U. A. (kellner) che si basa sulla conversione dell'alimento in grasso, e quello dell’E. N.

che stabilisce il contenuto di questa nell'alimento. Comunque tutti trovano una comune espressione

nell'energia contenuto nel kilogrammo dell'orzo e nel kilogrammo dell'amido allorché vengono

trasformati in latte o grasso (carne) che comunque assumono valori diversi a secondo della sua

destinazione così come riportato in tabella.

Mantenimento latte accrescimento


ingrasso
Unità amido 3100 kcal 2950 kcal 2360 kcal

Unità foraggera 2170 kcal 2065 kcal 1650 kcal

Dai dati della tabella è possibile ricavare i coefficienti di conversione dall'una all'altra unità.

304
1 U. A. = 1,43 U.F.; 1 U. F. = 0,70 U. A.

(2170/3100; 2065/2950; 1650/2360)

Per quanto concerne ulteriori approfondimenti circa la variabilità dell’E. N. ricavabile

dall’alimento, in questa sede è necessario sottolineare solo che il valore nutritivo massimo di un

alimento si evidenzia solo se esso entra a far parte di una razione bilanciata idonea per il genotipo

(razza e/o specie) animale e per la specifica produzione (latte e/o carne) ovvero quando è in grado

di fornire i principi nutritivi nelle quantità richieste per la specifica produzione in modo da garantire

l'ottimale funzionamento del metabolismo materiale ed energetico ovvero il mantenimento del suo

equilibrio [ingresso = uscita → (latte, uova, carne ecc.)].

Ma, senza alcun approfondimento, si ricorda che le diete e/o le reazioni per gli animali sono

generalmente fatte da due o più alimenti, caratterizzati da composizioni chimiche anche molto

diverse e la loro associazione (presenza contemporanea) può migliorare l'utilizzazione di alcuni e

peggiorare quella di altri, fenomeni questi che prendono il nome di Effetti Associativi.

Esigenze nutritive degli animali e razionamento

Per esigenze nutritive, si intende l’insieme dei principi nutritivi che l'animale deve ingerire per

sopperire o per eguagliare le spese di mantenimento e di produzione, (ovvero le quantità di Energia

Netta, di proteine digeribili, di grassi digeribili, di vitamine, di minerali eccetera; che esso consuma

per tutte le attività fisiologiche-metaboliche necessaria al suo mantenimento in vita normale, e nelle

sue produzioni come il latte, la carne, il lavoro ecc.)

Quando si parla di fabbisogni energetici, in precedenza abbiamo accennato all'Energia Lorda (E.

L.), intesa come quantità di calore espresso in Kcal o cal o MKcal sprigionato da una quantità

standard (1 g), 1 kg di alimento quando esso viene bruciato in bomba calorimetrica (calorimetro)

mentre quella digeribile (E. D.) è rappresentata dalla differenza tra E. L. e quella fecale (E. F.)

ovvero:

E. D.= E. L.-E. F., mentre per quanto riguarda la quota metabolizzabile (E.M.) e quella netta (E. N.)

si rimanda a quanto riportato in precedenza. Stesso discorso vale per tutti i principi nutritivi oggetti

305
della presente trattazione come le proteine grezze, e di grassi grezzi che possono essere ricondotti al

seguente schema:

ALIMENTO INGERITO FECI e/o ESCRETI DIGERITO


- E.F., Proteine grezze fecali,
E.L. Proteine grezze, Grasso = E.D., Proteine digeribili, Grasso
Grasso grezzo fecale, Fibra
grezzo, Fibra grezza, ecc. digeribile, ecc
grezza fecale
Quota fecale comunque
eliminata anche in condizioni QUOTA URINARIA
di digiuno = QUOTA METABOLICA - ESOGENA (Urea) – (Acidi urici
(come muchi, enzimi intestinali, (E.M. Proteine Assorbite, ecc.)
endogeni, ecc.)
batteri, (proteine) e loro rispettiva
quota energetica)
L’A.S.D. ed altre quote spese per
- QUOTA NETTA
l’utilizzo nutrizionale =
dell’ingerito E.N. Proteine ecc.

La QUOTA NETTA è quella che l’animale usa nel suo turnover metabolico di mantenimento e per

quello relativo alla produzione (latte, carne e/o accrescimento, lavoro ecc.).

Per cui, le esigenze nutritive dei fattori di razionamento degli animali sono individuate e soddisfatte

da:

1) Valore nutritivo globale della razione (U. A., U. F., E. M., o E. N.).

2) Contenuto in proteine digeribili individuato nel valore minimo proteico che deve essere

integrato e/o sostituito nei soggetti in accrescimento o nelle femmine in lattazione.

3) Contenuto in minerali e vitamine e/o molecole biofunzionali

In definitiva le esigenze nutritive di un animale possono suddividersi simbolicamente in:

a) MANTENIMENTO

b) PRODUZIONE

Mantenimento

La conoscenza, indi la determinazione della quota del fabbisogno dei singoli principi nutritivi e

della quota energetica di mantenimento di un animale è di fondamentale importanza sia dal lato

teorico sia nella corrente pratica di razionamento. Infatti, gli animali, in ogni caso vengono

alimentati sia per produrre carne e grasso (accrescimento), sia per produrre latte o altre produzioni

(lavoro), sia per sopperire alle esigenze di quei processi fisiologici vitali, sempre presenti anche

306
quando gli animali sono al riposo produttivo (senza accrescimento e/o zero produzione di latte) ed

in condizioni di riposo post-assorbitive immersi in ambiente di neutralità termica a cui destinano

quota parte della razione. Queste esigenze in pratica si definiscono quota di mantenimento della

razione, che nelle normali condizioni corrispondono a:

1) Energia dovuta per le funzioni fisiologiche di base come la respirazione, circolazione linfatico-

sanguigna, secrezioni enzimatiche-ormonali e/o di sudorazioni, toni muscolari, produzione di calore

per la termoregolazione corporea, che sostanzialmente il tutto corrisponde al metabolismo basale

e/o esigenze energetiche del metabolismo basale (M. B.) che come in precedenza riportato

corrisponde a:

2) Energia spesa a seguito dell'ingestione della dieta, come il lavoro (indi il dispendio) di

digestione, di utilizzo metabolico dei principi nutritivi (azione dinamico specifica) e dell'attività

minime spontanee dell'animale, come i movimenti spontanei, consumo di energia (lavoro)

necessaria alla stazione, al pascolamento e/o movimenti in stalla eccetera.

Da quando anzi esposto, appare evidente che il fabbisogno nutritivo in condizioni ordinarie di

mantenimento è sicuramente superiore a quello delle condizioni metaboliche basali (M. B.), poiché

in quanto gli animali sono a digiuno, in completo riposo (decubito) ed immessi nell'intervallo di

neutralità termica. (15 – 18° C)

In altri termini, anche se con tutte le difficoltà tecniche operative nel determinare il consumo

energetico basale, esso si può definire come fabbisogno nutritivo di mantenimento (F.M.) la quota

di E. M. che assicura l'equilibrio del bilancio materiale ed energetico dell'animale, quando in esso

non esiste alcuna funzione di interesse economico zootecnico. Il fabbisogno totale di mantenimento

è stato valutato in vivo su animali adulti sia in condizioni di digiuno sia alimentati.

307
Dalle elaborazioni di dati personali e di altri autori Brody (1945), cit dal Borgioli (1995), trovò che

grosso modo, il F. M., segue più o meno la stessa legge esponenziale di quello Basale, e che

l'esigenza in sostanze nutritive digeribili della dieta può essere ottenuta applicando la formula:

140 ∙
da cui si evince che l’E.D. di una dieta di mantenimento (E. D.m) equivale a circa il doppio del

metabolismo basale

. . 2 2 ∙ 70
Per cui, noto tale valore si può ottenere la quantità di S. N. D. (Sostanze nutritive digeribili) pari a

4,4 kcal/g o, l’E. M. Della dieta tenendo presente che 1 kg di S. N. D. corrispondono a 4000 kcal

per i monogastrici e 3600 kcal per i ruminanti.

I valori ottenuti in camera climatica respiratoria (condizioni ambientali più o meno standards) per i

bovini indicano un'esigenza di E. M. per Kg di P 0,75 (peso metabolico) diverso in funzione dell'età,

così come di seguito riportato:

categoria / età Fabbisogno di E. M. per Kg di P 0,75

Vitelli da latte 100 kcal

Vitelli con peso > a 150 kg 110-120 kcal

Vacche lattifere 117 +/-10 kcal

Da quanto testé riportato si può concludere che il V. N. della dieta e/o razione di mantenimento non

è proporzionale al peso vivo dell'animale.

Infatti, le esigenze nutritive di mantenimento (e/o metaboliche) espresse in Kcal/Kg di Pv è

superiore negli animali di piccola taglia (topo, criceti, agnelli ecc.) rispetto a quelle di grande mole

(bovini, elefanti ecc.), ove il rapporto tra S/V (S= superficie corporea, V= volume) e a favore della

superficie per cui l'animale disperdere più facilmente il calore corporeo (che deve essere integrato

per la propria termoregolazione). Con elaborazione più o meno simili di dati sperimentali riferiti

308
però a vacche da latte Axelsson cit. Dal Borgioli (1995),giunse alla seguente equazione di stima per

l'energia metabolizzabile della reazione di mantenimento:

Ma l'equazione generale di Brody per il M. B. a digiuno non fornisce dati validi per tutte le specie,

ed all'interno di queste essi variano con la categoria e con l'età ad esempio:

bovini adulti ; ovini ; vitelli di 2 mesi eccetera

Per i fabbisogni energetici di mantenimento espressi in U. F. (secondo Hansson) o in U. A.

(secondo Kellner) e di sostanza secca delle diverse specie si rinviano alle tabelle riportate dal

Borgioli (1995). Comunque, per stimare il fabbisogno nutritivo in U. F. delle bovine da latte è utile

fare riferimento alla formula di Frederiksen

ove Pv = peso vivo dell'animale

o considerare un fabbisogno medio di 0,7 UF/q.le di Pv per bovine di 600 kg, di 0,75 UF/q.le di Pv

per soggetti superiori ai 600 kg e di 0,75 UF/q.le di Pv per animali inferiori a 600 kg (500-550 kg)

di peso vivo.

In Francia, per ricavare l’E. N. Una volta calcolata l’E.M. sulla scorta di 117 kcal P0,75 si moltiplica

per il coefficiente di rendimento Km = 0,287q + 0,554 ove q = EM/EL

Comunque, a prescindere dal tipo di equazione, per i valori inerenti i fabbisogni di U. F. delle

diverse categorie di bovini, ovini, suini ed equini si rimanda ai testi di nutrizione.

Fabbisogno proteico

E’ noto che le proteine, a causa del loro "giro metabolico" si trovano in uno stato dinamico in

continua evoluzione e/o trasformazione, poiché sottoposti a continua degradazione (catabolismo)

sintesi (anabolismo) che interessano anche gli acidi ribonucleici (R. N. A.). Da questo continuo

turnover (ricambio) delle sostanze e/o componenti delle cellule hanno origine i cataboliti (prodotti

309
di scarto) azotati che vengono eliminati dall'organismo con l'urina, (composti purinici in

prevalenza), i quali formano la quota di azoto (N) endogeno urinario (acido urico, ippurico,

urocanico ecc.) detta quota costante urinaria e che grosso modo rappresenta il valore e/o tasso di

usura delle proteine e degli acidi nucleici di un dato organismo, che incrementa con l'avanzare

dell'età (invecchiamento). Alla quota costante urinaria si somma quella variabile dovuto al

catabolismo degli aminoacidi alimentari che non sono stati utilizzati per scopi anabolici

(costruzione e/o sintesi di tessuti, latte, uova ecc.) poiché in eccesso alla capacità del genotipo

animale considerato, bensì per fini catabolici (produzione di energia conseguente alla deaminazione

prima e catabolismo energetico poi, del relativo acido e/o radicale alifatico R-COOH). A

prescindere da tutte le considerazioni possibili circa le vie anaboliche degli aminoacidi, e

cataboliche della catena alifatica o aromatica indi dell'acido carbossilico che ne deriva (R-COOH),

la quota di N endogeno che mediamente viene espulsa per kilogrammo di peso metabolico (Pv 0,75)

è pari a:

0,20 g/Kg P0,75 nei vitelli lattanti

0,175 g/Kg P0,75 nei vitelli svezzati (fino a 150 kg di peso vivo)

0,150 g /Kg P0,75nei vitelli tra 150 e 250 kg di peso vivo

0,120 g /Kg P0,75nelle vacche da latte

0,10 g/Kg P0,75 nei bovini adulti

alla quota endogena urinaria, si somma quella metabolica fecale dovuta agli enzimi ed ai muchi

intestinali a cui si somma quella quota di N batterico che l'animale espelle anche in condizioni di

digiuno proteico. Questa quota, nei ruminanti è stata determinata per via sperimentale ed oscilla tra

4,6 e 4,8 g di N per kilogrammo di sostanza secca ingerita pari a circa il 3% se espressa in proteina

grezza.

Da ciò si può desumere che sommando l’N endogeno urinario è quello metabolico fecale

moltiplicato per 6,25 e dividendo il risultato per 0,7 (quota di utilizzazione proteica dei ruminanti)

si ottiene il fabbisogno proteico di mantenimento dell'animale.

310
Ma al fine pratico e applicativo e per un corretto razionamento si rimanda a quanto riportato nei

testi di nutrizione sui fabbisogni in proteine digeribili per le diverse categorie di animali, da cui

risulta però che i fabbisogni proteici per kilogrammo di peso vivo, decrescono al crescere del peso

dell'animale.

Comunque a scopo esemplificativo di seguito riportiamo le esigenze di mantenimento proteico

(valori di Hansson e Kellner) ottenuti su alcune specie animali:

quantità in grammi di proteina digeribile per


specie animale
quintale di peso vivo
Bovini adulti 60
Equini adulti 70
Suini adulti 70-120
Ovini adulti 85-117

Mentre recenti dati francesi indicano 3,25 g/Kg P0,75 per i bovini e 2,64 g/Kg P0,75 di proteina

digeribile per gli altri animali.

Fabbisogno in minerali e vitamine

Per i fabbisogni dei principali elementi minerali come il Ca, il P, il Mg, il K, ed Na anche se

abbastanza indicativi poiché riferiti a bovini di circa 500 kg di peso vivo o riguardanti le perdite

endogena (INRA-1978) sono di seguito riportati

Na K Mg Ca P
Bovini 10 50 3,0 18 25
Ovini 8 20 3,5 20 30

ed identificabili con le quote di mantenimento ed espresse in mg/Kg di peso vivo.

In realtà, il fabbisogno reale di Ca e di P degli animali adulti è circa il doppio di quello indicato. In

manze in accrescimento il fabbisogno di calcio supera di circa il 40% quello indicato, mentre, per

quanto concerne i fabbisogni vitaminici (sia di quelle liposolubili che di quelle idrosolubili) si

rimanda ai testi del settore.

Ovviamente ai fabbisogni di mantenimento, come per tutti gli altri principi nutritivi vanno sommati

quelli inerenti la produzione (carne inteso come accrescimento giornaliero) e il latte (inteso per

kilogrammi di latte prodotto giornalmente).

311
Produzione di carne (accrescimento medio giornaliero)

Com'è noto, la produzione della carne è basata sui fenomeni fisiologici e biochimici che regolano i

processi dell'accrescimento (muscolare e scheletrico) e della lipogenesi (ingrassamento); pertanto, i

loro fabbisogni alimentari vengono espressi contemporaneamente, poiché determinati

contemporaneamente. Ma, bisogna ricordare che il mantenimento degli animali giovani, come i

vitelli (entro i 4 mesi) e dei lattonzoli (suini) rispetto agli adulti sono superiori di 4 e 5-6 volte

(vitello-bovino e lattonzolo suino rispettivamente).

L'accrescimento in generale è basato su:

a) La moltiplicazione cellulare che si manifesta principalmente nella fase embrionale e fetale

(iperplasia).

b) Nell'aumento/incremento di massa (grandezza) dei componenti istologici come le fibre

muscolari, (ipertrofia) le cellule nervose, adipose, ecc., con carattere permanente.

Sono processi che non avvengono in modo disgiunto, bensì contemporaneamente e la loro intensità

si verifica in tappe diverse. Per cui dell'accrescimento si possono considerare 2 aspetti come:

1) quello ponderale e dimensionale detto crescita, ed identificabile con il peso, la statura

eccetera, controllati dal somatotropo è ipofisario.

2) Quello morfogenetico o sviluppo, dovuto alla differenziazione della morfologia e della

struttura degli organi che compongono il corpo e che si esprime in via definitiva tra la

maturità sessuale e il completo sviluppo somatico (adulto). Il tutto regolato da una

costellazione ormonale che comprendono il tireotropo, gli ipofisari (A-B) ecc. quelli cortico-

surrenali, gli estrogeni ecc. Questo processo evolutivo, si evidenzia sia con l'esame

morfometrico delle diverse regioni (e/o parti e/o organi) alla macellazione dell'animale, sia

con quello allometrico, ovvero differenziato per organo e parametro.

L'equazione allometrica per il calcolo dell'accrescimento e data da:

y = b xa
ove y =peso dell'organismo e/o regione

x =peso totale, a = coefficiente di accrescimento


312
b = costante

in realtà, l'accrescimento può distinguersi in 2 fasi come:

a) intrauterino o embrionale (dalla fecondazione al parto)

b) extra uterino o post-natale (quello considerato ai fini dell'impresa zootecnica dalla nascita

alla macellazione e/o al tempo T).

Per cui, l'accrescimento in base a tutte le considerazioni biochimiche anaboliche può

ritenersi un processo anabolico e può essere espresso con la formula di Robertson:

dp/dt = KP (A-P)
ove dp = incremento di peso nell'intervallo di tempo t (t1-t2)

t1 = tempo iniziale, t2 = tempo finale

A= peso dell'età adulta

P= peso realizzato al tempo t2

A-P= differenza di peso tra quello dell'età adulta è quello al tempo t

detta formula ideata da Robertson è in realtà un modello matematico che non rappresenta

nell'insieme i fenomeni biochimici fisiologici dello sviluppo corporeo, anche se la curva che

ne deriva in un diagramma peso, età, in generale esprime l'andamento dell'accrescimento,

che varia con il genotipo animale (specie e/o razza)

in realtà, per quanto concerne lo sviluppo/accrescimento bisogna distinguere almeno 2 fasi;

la prima che comprende il periodo nascita-pubertà, in cui l'accrescimento indi la forza che lo

313
determina in condizioni normali sembra non essere condizionata da fattori ambientali, per

cui secondo Brody (1945) riportate da Borgioli (1995) l'accrescimento è quasi proporzionale

al peso dell'animale da cui l'equazione:

P = A e Kt
ove P= peso alle età t considerata

A= peso alle età adulta

K= costante del coefficiente di accrescimento o rapporto incrementale o di accrescimento

all'istante considerato. Il valore di K è alto in quelle specie con ciclo vitale breve che

ottengono il peso vivo di adulto in poco tempo (polli, conigli ecc.).

La seconda comprende il periodo pubertà-età adulta in cui lo sviluppo-accrescimento e quasi

"autodecellerato" poiché entrano in gioco i fattori condizionanti che sono sia ambientali sia

endogeni, e l'accrescimento o incremento medio temporaneo diventa proporzionale al

parametro A-P (differenza di peso tra quello dell'età adulta e quello ottenuto al tempo

considerato) ed è esprimibile con la formula:

P= A-B e -Kt
ove B= costante di integrazione data da (A-P) e Kt

A= peso di adulto

per cui si può ritenere in generale che la velocità e/o capacità di crescita è una funzione

genetica che varia con la specie, con la razza nonché con l'individuo.

Pertanto, si potrebbe valutare la rapidità dell'incremento di peso (precocità) calcolando il K

delle formule precedenti con:

K= logP2-LogP1

dei pesi rilevati entro l'intervallo di tempo (1 settimana,1 mese,1 anno eccetera)

oppure con

314
ovvero con il rapporto tra l’I.M. ed il peso medio del periodo, ottenendo così l'accrescimento

relativo

esempio: P1= 280 kg P2= 300 kg

incremento P1-P2 = 20 kg del mese

peso medio = 290 kg

K= 20/290 ; 20/290 x 100 = incremento relativo

I Fabbisogni alimentari sono ascrivibili a quelli di mantenimento e produzione e si

riferiscono ai diversi principi nutritivi ed in particolar modo a quello proteico.

In generale, il fabbisogno proteico delle fasi di accrescimento si esprime in g di proteine

digeribili. Si ricorda non solo che, la massima intensità della sintesi proteica coincide con la

giovane età e decresce con l'avanzare di quest'ultima e può essere valutato in base al

contenuto proteico di 1 kg di accrescimento dell'animale che nei bovini oscilla tra 190 e 160

g (animali grassi o magri), per cui, ricordando che il V. B. medio delle proteine nei

ruminanti si aggira intorno al 70%, il relativo fabbisogno medio per 1 kg di incremento

ponderale varia fra 270 e 230 g, a cui devono sommarsi 3 g/d di proteina per kg di Pv0,75.

Per quanto riguarda poi le esigenze relative agli altri principi nutritivi, ivi compresi quello minerale

e vitaminico delle diverse specie e/o categorie animali, pur rimandando ai testi specializzati si

ricorda che le esigenze alimentari degli animali in accrescimento sono caratterizzate da:

a) Alto valore nutritivo della razione, nei confronti del p.v. e comunque compreso tra 2 e 4 volte il

fabbisogno di mantenimento degli adulti.

b) Alti fabbisogni proteici, soprattutto nella prima fase (allattamento-svezzamento) di sviluppo da

soddisfare con proteine di alto V. B. e/o ricche di aminoacidi indispensabili.

c) Alti fabbisogni di minerali e di Ca e P in particolare.

d) Alte esigenze di vitamine sia liposolubili che idrosolubili.

315
Ingrasso

Si ricorda che il termine ingrassamento o ingrasso si riferisce ad animali allevati ed alimentati in

modo intensivo capace di favorire un deposito di adipe sicuramente superiore a quello che si ottiene

nella fase di accrescimento normale, e comunque superiore a quello delle carcasse di animali magri

o con una alimentazione normale (mantenimento e/o leggera iponutrizione).

L'ingrasso può essere fatto a tutte le età dell'animale, per cui è necessario distinguere un

ingrassamento di animali giovani da uno di animali adulti (e/o anche di fine carriera) che con un

razionamento intensivo, di gran lunga superiore al fabbisogno di mantenimento e di accrescimento

si riesce ad ottenere una più o meno alta deposizione di grasso corporeo.

Negli animali giovani, i fabbisogni alimentari, si identificano con quelle riportati in precedenza

allorché si è parlato dei requisiti generali di una razione alimentare.

Detta razione però, sarà sicuramente superiore a quella di un normale accrescimento, e che avrà la

capacità di favorire una deposizione di grasso in relazione all’E. M. somministrata in eccesso a

quella di una normale crescita.

In pratica la produzione della carne e del grasso nelle specie bovina e/o suina, normalmente si

svolge in 2 fasi successive l'una all'altra. La prima tende ad ottenere un buon accrescimento degli

animali a carne magra, fatta con razioni il cui contenuto energetico (E. M.) non supera di molto i

fabbisogni degli animali. La seconda mira a superiori depositi adiposi (ingrassamento vero e

proprio) ed è fatta con razioni il cui contenuto di E. M. o il livello nutritivo (L. N.) supera di gran

lunga le esigenze alimentari degli animali. Detto livello nutritivo (L. V.) È dato dal rapporto tra l’E.

N. della razione ed il metabolismo di base. In formula:

che normalmente dovrebbe essere pari a 2-2,5. Il tutto espresso secondo l'equazione di Lofgreen e

Garret (1968) riportate dal Borgioli (1995) riferita ai bovini in accrescimento ed ingrasso.

,
A) Mantenimento (E.N. Kcal) = 77 ∙ 77 √

B) Accrescimento ingrasso

316
1) Maschi castrati (EN Kcal) = (55 g +6,84 g2) P0,75

2) Femmine (EN Kcal) = (56,03 g +12,65 g2) P0,75

P = peso vivo (Kg)

g = accrescimento medio giornaliero (Kg)

comunque nei testi di nutrizione animale sono riportate le tabelle dei fabbisogni di

accrescimento e d'ingrasso delle diverse categorie e/o specie di animali di interesse zootecnico

anche in relazione degli I. M. G. (Incrementi medi giornalieri).

Negli animali adulti, di cui fanno parte i soggetti appartenenti a diverse specie e razze (vacche,

tori, pecore, montoni, capre, becchi, scrofe e verri anche di fine carriera), la somministrazione di

razioni di alto L.N. (2-3 volte superiore alle esigenze di mantenimento) portano ad un modesto

accrescimento del tessuto muscolare per ipertrofia delle fibre muscolari (abbastanza

significativo però in soggetti magri, denutriti e cachetici.), e ad un significativo e rapido

deposito di grasso sottocutaneo, peri-intramuscolare, mesenteriale e perirenale. La sintesi di

grasso, come abbiamo riportato in precedenza si realizza principalmente attraverso il

metabolismo degli idrati di carbonio (zuccheri), dei lipidi (grassi alimentari), e delle proteine

così come estrinsecato anche dai coefficienti adipogenetici di Kellner che qui ricordiamo:

a) 1 kg di amido e/o di altri polisaccaridi digeribili = 248 g di grasso – 248/248 =1

b) 1 kg di proteine digeribili = 235 g di grasso 235/248 = 0.97

c) 1 kg di grasso digeribile: c1) di semi oleosi = 2,41 g di grasso

c2) di cereali in panelli ed altri mangimi = 2,12 g di grasso

c3) di foraggi = 1,91 g di grasso

In realtà, negli animali adulti (ruminanti), la dieta e/o razioni è quasi sempre totalmente basata su

alimenti vegetali (fieni, foraggi, cariossidi di cereali e/o leguminose) il cui contenuto % dei lipidi è

alquanto modesto per cui l'apporto energetico e la relativa lipogenesi deriva per la stragrande

maggioranza dagli idrati di carbonio (amido, cellulosa e/o fibra). A tal proposito si ricorda che il

rendimento in E. M. in grasso varia dal 59% al 45% in razioni al 10 ed al 30% di fibra.

317
Pertanto, i fabbisogni nutritivi dei soggetti adulti all'ingrasso, sono basati sulla quota di

mantenimento a cui si aggiunge quella di produzione che è funzione della velocità di ingrasso e

dell’incremento medio giornaliero (I.M. G.)

Esempio nei bovini:

adulti = mantenimento 0,75 U. F. /ql Pv

= produzione da 0,5 a 1,25 U. F./ ql Pv

a cui bisogna considerare il fabbisogno proteico di 100-150 g di proteine digeribile per quintale di

peso vivo.

318
Esempio di razionamento:

un vitellone di 3 q U. F.= 0,75 × 3 = 2,25 mantenimento

1,25 × 3 = 3,75 produzione

_______________________________

6,00 UF totali

Proteine digeribili 150 × 3 = 450 g proteine digeribili. Ma nel razionamento

di stalla, per non sbagliare si usano, 100 g proteine digeribili x (ogni U. F.)•

6,00 = 600 g proteine digeribili

Ma per meglio orientarsi e per dati più precisi è opportuno far riferimento ai testi del settore ed alle

relative tabelle.

319
11.2 Produzione del latte

Le specie domestiche in cui la produzione di latte ha assunto un valore economico di impresa sono

la bovina, la bufalina, la ovina e la caprina anche se oggi un certo discorso comincia a farsi intorno

al latte prodotto dalle femmine degli equidi (giumente ed asine). Va ricordato comunque che la

condizione basilare per la buona crescita dei piccoli di ogni specie mammifera è un'ottima

produzione di latte materno. Per cui senza considerare gli aspetti fisiologici che portano alla

secrezione lattea, ma riferendoci solo e soprattutto ai fabbisogni nutritivi delle femmine in

lattazione, si osserva che le loro esigenze totali sono composte da:

a1) mantenimento (bovina) = 0,75 UF/ql di Pv

a2) produzione di latte = 1 UF/ ogni 3Kg di latte al 3,4% in grasso

a3) gravidanza (ultimi 3 mesi) = 7º mese si considera una produzione fittizia dei 3 kg latte/giorno

8º mese produzione fittizia di 6 kg latte/giorno

9º mese produzione fittizia di 9 kg latte/giorno

Si considerano solo i fabbisogni degli ultimi 3 mesi, poiché le esigenze nutrizionali asservibili al

feto dei mesi precedenti sono quasi del tutto insignificanti.

Esempio = 1 bovina di p.v. di 500 kg e con produzione giornaliera di 15 kg di latte al 3,4% in

grasso. I fabbisogni sono:

a) Mantenimento: 5 × 0,75 = 3,75 UF

b) Produzione di latte 15 × 0,33 = 4,95 UF

Totale 8,70 UF

proteine digeribili 8,7 x 100 = 870 g proteine digeribili

ovvero per 1 UF = 100 g di proteine digeribili

320
Qualora però il latte non fosse al 3,4% di grasso (1 UF = 3 kg latte al 3,4% in grasso = 1 kg di orzo

in granella o di 2,5 kg di fieno di prato stabile ricco di Phleum pratense e di altre graminacee) ma

con un titolo diverso da quello di definizione, il suo valore energetico e valutabile secondo la

formula di Gaines ovvero:

E = 304,8 + 114,1 g ove E = valore energetico in chilocalorie

g = % di grasso

Esempio di un latte al 4,5% in grasso (latte di Jersy)

E (di 100 g di latte) Kcal = 304,8+ (114,1 × 4,5) = 304,8 + 513,05 = 817,85

da cui si possono facilmente ricavare le UF corrispondenti.

I fabbisogni idrici delle diverse specie dipendono sia dalle condizioni climatiche sia dal tipo di

alimentazione (secca o umida). Le funzioni fisiologiche biochimiche dell'acqua sono note a tutti e,

comunque si rimanda ai testi di fisiologia e nutrizione.

Bisogna ricordare però che l'acqua è l'elemento maggiormente presente nell'organismo vivente

(circa 65% del peso vivo degli animali adulti è circa il 75% del protoplasma cellulare).

Essa è il solvente in cui si disperdono tutte le molecole, (ioni liberi delle cellule, del sangue, dei

secreti cellulari ghiandolari, e delle urine). Le sue caratteristiche chimico-fisiche come l'alto potere

dielettrico capace di ionizzare le molecole polari, e l'alto "calore specifico" che gli permette di

accumulare "energia termica" o calore derivante dalle reazioni cataboliche (catabolismo) gli

consente di regolare la temperatura corporea (animali eterotermi).

Inoltre, l'acqua è il veicolo di tutte le molecole dei principi nutritivi assorbiti e dei cataboliti

(prodotti residuali non utili all'organismo) che l'organismo elimina con l'urina.

Infine, essa partecipa ad una miriade di reazioni intra ed extra cellulari (idrolasi, ossido riduzioni,

idratazioni ecc.), ed è anche un prodotto terminale della catena respiratoria, (ove si sviluppa energia

321
ed acqua). Come fatto finale ma certamente non meno importante fa parte dei liquidi sinoviali delle

diverse articolazioni ossee ove svolge azione lubrificante.

Pertanto i fabbisogni di acqua di "abbeverata" negli animali, vanno determinati in base a:

1) quantità giornaliera mediamente espulsa dall'animale (urina, sudore ecc.)

2) contenuto di acqua degli alimenti (foraggi verdi, secchi, granaglie ecc.)

3) dalla quantità prodotta dall'organismo (acqua endogena) in seguito al metabolismo

(catabolismo) dei principi nutritivi.

Per cui, di seguito si riportano alcuni dati di fabbisogno idrico per i bovini, gli equini ed i suini.

Fabbisogni idrici giornalieri (medi)

Bovini

Vitelli prime 6 settimane in allattamento 6,5 litri per kilogrammo di sostanza secca di
artificiale polvere di latte o di altro sostituto

Da 3,5 a 5,5 litri per kilogrammo di sostanza


Vitelli con peso vivo superiore a 100 kg
secca della razione

0,87-1 litri di acqua per kilogrammo di latte


prodotto maggiorato del 50% negli ultimi 4
Bovine in lattazione mesi di gestazione ovvero 70-100 l di acqua per
vacca con produzione di 25-30 kg di latte/giorno
mentre in asciutta 40-50 litri/giorno

5 litri per kilogrammo di sostanza secca della


Bovini ingrasso
razione

Equini

35 l al riposo, 45 l a lavoro medio leggero, 80


Cavallo agricolo di 550 kg di peso vivo
90 l a lavoro pesante

Ovini e caprini

3-4 litri/giorno nelle stagioni fredde


Pecore capra
6-8 litri/giorno nelle stagioni calde ed aride

2,5-3,5 litri/giorno/Kg sostanza secca della


Ovini e caprini all'ingrasso
razione

322
3,5-4 litri/giorno/Kg sostanza secca della
Pecore e capre in lattazione
razione

Suini

A prescindere dallo stato fisiologico e/o dal tipo 2,5-5 litri/giorno/Kg sostanza secca della
di razionamento razione

Per tutte le specie e/o categorie animali è sempre utile che l'acqua di abbeverata sia disponibile e

fresca in ogni momento e che l'assunzione stessa non subisca alcuna limitazione in altri termini "ad

libitum".

323
Cap. 12 RICHIAMI DI GENETICA ANIMALE

La genetica secondo Bateson (1906), "rappresenta lo studio dell'eredità e delle variazioni". Essa

indaga sui fenomeni che regolano l'eredità dei caratteri di un individuo da una generazione all'altra,

non solo, ma anche delle loro variazioni individuali e della comparsa di nuovi caratteri nella

discendenza che erano latenti e non manifesti negli ascendenti.

Secondo il Borgioli, riportato dalla Balasini (2003) la moderna genetica è caratterizzata da:

a) dal tipo di trasmissione dei caratteri individuali da una generazione animale ad un'altra;

b) dalla natura dei fattori responsabili della stessa trasmissione (ereditaria);

c) dal loro meccanismo di azione, dall'inizio della vita del soggetto al manifestarsi del

carattere.

La stessa autrice, riporta la definizione di Magliano dell'individuo che "rappresenta" una unità a sé

stante con caratteri propri, che potranno essere simili e/o diversi da quello di un altro ma mai uguali.

Per cui, secondo tale concetto, ogni soggetto è dotato di una propria individualità più o meno

differente da quella degli altri individui della stessa specie e/o popolazione e/o razza; da cui la

definizione di individualità che di fatto rappresenta la manifestazione dei diversi caratteri

morfologici, fisiologici, funzionali biochimici e psicologici (carattere del soggetto), da cui discende

la possibilità di una trasmissione alle generazioni seguenti.

Prima di procedere nella trattazione dei diversi argomenti di genetica è utile ricordare che gli

animali domestici e/o selvatici (superiori) appartengono tutti a:

1) Regno animale

2) Sottoregno dei metazoi

3) Tipo dei Cordati

4) Sottotipo dei vertebrati, a cui segue:

a) la classe

b) la sottoclasse

c) l'ordine

d) la famiglia

324
e) il genere

f) la specie

Così come riportato sull’esempio che segue:

cavallo asino bovino

Regno Animale Animale Animale

Sottoregno Metazoi Metazoi Metazoi

Tipo Cordati Cordati Cordati

Sottotipo vertebrato vertebrato vertebrato

Classe mammifero mammifero mammifero

Sottoclasse Placentato Placentato Placentato

Ordine Ungulato Ungulato Ungulato

Famiglia Equidi Equidi Cavicorni

Genere Equus Equus Bos

Specie Equus caballus L Equus asinus L Bos taurus L

L = Linneo (studioso che classificò la specie)

La genetica zootecnica si occupa con particolare attenzione del genere, della specie, di cui fanno

parte le razze, il ceppo e gli individui.

È utile altresì ricordare che per genere si intende un gruppo sistematico di specie affini come nel

caso dei cavalli e degli asini, o come quello dei bovini e degli zebù e/o come nel caso del cammello

e del dromedario.

Mentre per famiglia si intende l'insieme di due o più generi dotati tra loro di una certa affinità, come

ad esempio, cavallo, asino, zebre (equidi), o come il bufalo, il bovino, gli zebù, gli ovini e caprini

(cavicorni). Si rammenti anche che per specie deve intendersi quell'insieme di individui e/o soggetti

dotati di una certa somiglianza morfologica e fisiologica capaci di riprodursi all'infinito e dando

sempre progenie feconda.

Infatti tutti bovini riproducendosi anche casualmente tra loro danno discendenti fecondi, così come

gli ovini, i caprini, i cavalli, gli asini ecc. Al contrario, non danno figli la riproduzione tra bovini e

325
bufali, come pure montone e capra e tra becco e pecora, ma danno prole feconda bovino (bos

taurus) per zebù (taurus indicus), mentre l'accoppiamento tra stalloni asinini con la giumenta

(femmina di cavallo) e viceversa stallone cavallino con l’asina, danno sì origine ad una prole (mulo

nel primo caso e bardotto nel secondo) ma entrambi sterili. All'interno della/e "specie", però

esistono un insieme e/o gruppo di animali che si distinguono dagli altri per alcune particolari

caratteristiche morfo-funzionali trasmissibili alla discendenza che vengono denominate razza/e.

Però all'interno della razza, le caratteristiche morfo-funzionali che la distinguono dall'insieme dei

soggetti della specie, non sono invariabili ma possono variare sia con l'azione selettiva operata

dall'uomo, sia con l'azione dei fattori ambientali. In realtà, sia con la selezione, naturale o

programmata fatta dall'uomo, sia con la comparsa delle mutazioni anche di tipo casuale, nonché

sotto l'azione delle interazioni dei fattori ambientali, ha origine la "differenziazione genetica" che

porta poi ad una progressiva variazione dell'espressione somatica originaria della popolazione e/o

del raggruppamento etnico di appartenenza.

Per cui, a fenotipi più o meno uguali possono corrispondere genotipi diversi. A tal punto però si

rende necessario chiarire il significato di alcuni termini che nella trattazione ricorreranno con una

certa frequenza ovvero:

a) Fenotipo: rappresenta l'aspetto esteriore (o somatico) dell'individuo che noi vediamo, ovvero

l'insieme dei caratteri morfologici, fisiologici e funzionali, quale logica espressione dei

caratteri trasmessi da genitori alla discendenza, modellata anche dall'ambiente in cui

l'animale cresce e viene allevato.

b) Genotipo: è l'insieme dei caratteri di cui l'animale è dotato allo stato potenziale depositati

nei geni che si trovano nei suoi cromosomi e la cui estrinsecazione (risposta) somatica e/o

fenotipica dipende sia dalla trasmissione dei caratteri, sia dall'interazione che essi incontrano

nell'ambiente in cui i discendenti sono immersi e dove dovranno vivere e produrre.

Infatti, se il genotipo rappresenta il motore della macchina animale (potenzialità della

stessa), l'ambiente con tutti i suoi fattori (disponibilità quanti-qualitativa di carburanti=

326
alimento, di strade idonee= di stalle ecc.) rappresenta il corollario capace di far estrinsecare

al meglio tutte le potenzialità scritte nel corredo genetico.

c) Ambiente: insieme di condizioni climatico-ambientali di cui una zona o territorio con

confini più o meno limitati e di fattori di allevamento (metodi e condizioni di allevamento,

ecc. in cui gli animali vengono tenuti) che condizionano e/o influenzano in modo più o

meno significativo le risposte produttive, lo sviluppo e l’estrinsecazione dei caratteri

trasmessi dai genitori, dai nonni e/o dagli ascendenti in genere.

d) Ecotipo: prodotto e/o animale/i derivato per selezione naturale da un territorio e/o ambiente,

delimitato o meno da confini naturali ma caratterizzato anche da precisi sistemi di

produzione (tecniche di allevamento, di alimentazione, di un genotipo animale derivato dalla

selezione ambientale).

e) Ideotipo: genotipo di animale ideale per un determinato e definito territorio, appositamente

ideato dall'uomo e da esso ottenuto per precisi e definiti scopi produttivi (qualità e quantità),

attraverso incrocio, meticciamento e selezione.

f) Mutazioni: Variazioni rare ed improvvise del genotipo di un individuo appartenente ad una

popolazione con un ben definito e caratteristico patrimonio genetico, capace di provocare

modificazione nell'espressione dei geni originali, che quando danno origine a caratteri

favorevoli essi vengono fissati e selezionati mediante appositi programmi di riproduzione

basato anche sulla consanguineità.

g) Ceppo/i: gruppo di individui più o meno numerosi appartenenti alla stessa specie, ad una

stessa razza della stessa specie, ma che da essa si distinguono per l'intensità espressiva di

uno o più caratteri comuni e secondari, trasmissibili alla discendenza, influenzati

dall'ambiente ed esaltati da precisi indirizzi selettivi. (esempio: il ceppo canadese e quello

americano della frisona ecc.).

h) Autoctona: razza formatasi per selezione naturale e/o programmatica all'interno di un

preciso territorio.

327
i) Alloctona: razza formatosi per selezione in un altro territorio ma allevata in un altro diverso

da quello di origine.

j) Culla o area di origine: territorio e/o area ove è avvenuta la creazione e/o evoluzione della

razza.

k) Area di espansione: territorio diverso da quello di origine in cui la razza successivamente

alla sua formazione viene allevata.

l) Razze cosmopolite: razze e/o genotipi capaci di essere allevati e/o colonizzare territori

diversi da quelli di origine con buoni risultati produttivi.

m) Razze topopolite: razze e/o genotipi incapaci di essere allevati in territori diversi da quelli di

origine.

n) Individuo: organismo e/o unità a se stante dotato di propri caratteri che possono essere

alquanto simili ad un altro ma mai completamente uguali tra loro. Esso è il risultato

espressivo dell'interazione tra il patrimonio genetico (o genotipo) e i diversi fattori

ambientali che incidono su esso e portano ad un insieme di variazioni che formano poi il

"paratipo".

o) Cellula, nucleo, cromosomi, geni.

Cellula: unità fondamentale dell'organismo animale, di dimensioni microscopiche. Essa è

formata da una membrana citoplasmatica all'interno della quale si trovano il citoplasma, il

nucleo ed altri organuli citoplasmatici. La membrana è dotata di permeabilità selettiva

(semipermeabile) ovvero lascia "passare" determinate molecole e/o ioni.

Il nucleo, organo intracellulare di forma rotondeggiante delimitato da una membrana

(nucleare), all'interno del quale si trovano sia i filamenti o granuli di "cromatina" che si

dispone a reticolo con maglie più o meno larghe (reticolocromatico) fatto dal nucleoprotidi

(istoni e proteine non istoniche) e da acidi nucleici (deossiribonucleico o D.N.A.), sia una

formazione di forma rotondeggiante (nucleoli) ricchi di acido ribonucleico (R. N.A.).

p) D.N.A. molecola polimerica formata da acido fosforico, da uno zucchero pentoso

(deossiribosio) e da un gruppo di 4 basi azotate come la timina, l’adenina, la guanina e la

328
citosina. La molecola finale di D.N.A. e di forma spirale ad elica ed è costituita da un

doppio filamento. È sede di tutto il patrimonio genetico dell'individuo.

q) R. N. A. acido ribonucleico, molecola polimerica di minori dimensioni della precedente in

cui al posto del deossiribosio è presente il ribosio, ed è formato da un solo filamento. È

presente in 3 forme "messaggero", “transfer" e “ribosomiale” denominazioni che

rispecchiano le rispettive funzioni le cui spiegazioni per opportunità di trattazione si

rimandano ai testi di biochimica e di genetica.

r) Gene/i frammento/i più o meno grande di D.N.A.. avente una specifica e particolare

sequenza di nucleotidi.

s) Cromosomi: organuli intranucleari, che si manifestano in particolari momenti della cellula

(mitosi e/o meiosi). Sono formati da due filamenti disposti a spirale. Essi sono disposti a

coppie uguali (omologhi) per forma, dimensione contenuto di geni (alleli) fanno eccezione i

cromosomi sessuali differenti a secondo del sesso del soggetto.

t) Cariotipo: numero dei cromosomi e/o delle coppie di alleli , nelle quali, la forma e/o aspetto,

sono uguali in ciascuna di esse ed è caratteristico della specie del quale costituisce il

cariotipo dell'individuo.

Si ricorda che tutte le cellule somatiche possiedono lo stesso numero di cromosomi uguali in tutti i

tessuti, disposte in coppia omologhe e forma il suo corredo cromosomico "diploide" (2n), che

deriva per metà dal padre (n) e per metà dalla madre (n).

Vi sono due gruppi di cromosomi, il primo, quello degli autosomi che controllano le funzioni

biochimiche delle cellule e/o dell’organismo, il secondo, quello degli eterosomi o cromosomi

sessuali che controlla il determinismo del sesso e sono diversi dagli autosomi.

I cromosomi dei due gruppi sono uguali per forma, numero e struttura; mentre le cellule germinali o

gameti (spermatozoi e ovuli) hanno un corredo cromosomico "aploide" (n) poiché il loro nucleo ha

un solo allele per coppia cromosomica ma, con la formazione dello zigote (a seguito della

fecondazione) si ricostruisce il corredo diploide (2n) che consiste nell'appaiamento di cromosomi

omologhi (quello autosomico ovvero quello destinato al controllo somatico) mentre gli

329
eterocromosomi X e Y che determinano il sesso, qualora nello zigote si forma la coppia XX esso

risulta di sesso femminile, al contrario risulta maschio nella combinazione XY.

In realtà la manifestazione dei caratteri somatici altro non sono che l'espressione dei "geni" che

vengono trasmessi da padre e madre ai figli e/o alle loro discendenze attraverso la riproduzione e

sono allocate nei cromosomi che in linea di massima si dividono in autosomi (quelli depositari dei

geni che controllano l'espressione somatica) e quelli sessuali (eterocromosomi) responsabili della

determinazione del sesso. Alcuni caratteri quantitativi di un animale, come la mole, il peso,

l'altezza, la produzione di latte, la precocità eccetera, non sono l'espressione di un solo gene bensì la

risultanza dell'azione di un insieme di geni da cui il carattere poligenico; Altri ancora come quelli di

tipo qualitativo come il colore degli occhi, dei capelli, del pelo, forma della cresta dei polli ecc.

derivano dall'azione di un solo gene da cui monogenico.

Senza voler entrare nello specifico, si ricorda che le cellule somatiche si moltiplicano per divisione

diretta o amitosi che consiste in una rapida divisione della cellula madre in 2 cellule figlie uguali

per grandezza e patrimonio genetico e per via indiretta o mitosi o cariocinesi, che generalmente si

articola in profase, metafase, anafase e telofase che porta la cellula originaria a dividersi in 2 cellule

distinte ma uguali che a loro volta si divideranno sempre con lo stesso processo.

Le cellule seminali o germinali (avente corredo cromosomico n aploide) quali i nemaspermi o

spermatozoi e/o gli ovuli che a seguito della fecondazione e della loro successiva unione portano

alla formazione dello zigote con corredo diploide (2n = n materno + n paterno) proprio della specie

di appartenenza hanno origine prima per moltiplicazione mitotica e poi, per divisione "meiotica"

che, per i nemaspermi avviene nei tubuli seminiferi dei testicoli (epididimo) detta "spermatogenesi"

e per gli ovuli nelle ovaie femminili detta "ovogenesi". Entrambi i processi sono caratterizzati da

una fase moltiplicativa per mitosi che in un caso porta alla formazione di spermatogoni (2n)

nell'altro caso di ovogoni (2n). A questo segue la divisione "meiotica" che da ogni spermatocida di

1° ordine attraverso la formazione di quelli di 2º ordine porta alla formazione di 4 nemaspermi,

mentre, da un ovocita di 1° ordine si ottiene una sola ovocellula o uovo maturato.

330
Parentela: due individui si dicono parenti quando hanno in comune parte del corredo genetico,

ovvero quando questa condivisione è superiore a quella media della popolazione e/o della specie di

appartenenza.

Si ricorda, che all’interno della stessa specie, di una popolazione panmittica gli individui

condividono sempre gran parte del corredo genetico, quindi esiste una certa somiglianza genetica

(ovini, caprini, bovini, ecc.) per cui la parentela porta ad un aumento della somiglianza e/o alla sua

espressione fenotipica.

Per cui nella popolazioni panmittiche a riproduzione casuale esiste sempre un grado di parentela,

che è molto basso in quelle con numero di individui tendenti all’infinito, ma che aumenta con il

diminuire della loro consistenza numerica ove la riproduzione tra consanguinei (cugini, fratelli e

sorelle, padre e figlia, figlio e madre) è sempre più probabile.

Detto questo, si può dire che la parentela genetica esistente tra due individui che hanno in comune

uno o più ascendenti si può esprimere come probabilità che essi abbiano in comune un numero di

geni superiore alla media della popolazione che in formula diventa: R = (½)n+n1

R = coefficiente di parentela o di correlazione genetica tra due soggetti.

n = numero di generazioni che separano l’individuo dall’ascendente in comune.

n1 = numero di generazioni che separano l’altro individuo dallo stesso ascendente.

Es. nel caso di fratelli pieni stesso padre, stessa madre

♂A x ♀ BxC♂

n° di figli AB + AB BC

1° 2° figlio

Poiché i figli AB sono portatori di ½ del corredo del padre e ½ della madre R = (1/2) n+n1

per entrambi il numero di generazioni è pari ad 1, per cui R = (1/2)1 ovvero (1/2) = 0,5.

Questo coefficiente esprime di fatto la probabilità che i due soggetti condividono lo stesso

patrimonio genetico, mentre la restante parte del genotipo, ha una probabilità di somiglianza non

superiore a quella di due soggetti presa casualmente dalla stessa popolazione.

331
L’esempio testé riportato rappresenta il caso di parentela diretta o fratelli pieni.

Nel caso in cui la madre B abbia avuti figli con il maschio A e con quello C, il grado di parentela tra

fratellastri o sorellastre diventa:

R = (1/2) n+n1 (1/2) 1+1 = (1/2)2 = ¼ = 0,25

Per ulteriori approfondimenti in materia si rinvia alla letteratura del settore.

Eredità

Il fenomeno da cui derivano individui da genitori “somiglianti”ovvero trasmissione dei caratteri

tipici di specie o di razza che di fatto rappresenta la forza di conservazione naturale della

biodiversità, si definisce eredità.

L’espressione fenotipica di un soggetto è dovuta all’interazione tra EREDITÁ-AMBIENTE-

ALIMENTAZIONE secondo l’espressione del triangolo della vita.

Nel triangolo, gli unici due parametri che possono variare sono l’ambiente e l’alimentazione, per cui

un loro spostamento, in senso negativo o positivo portano ad una differenziazione fenotipica del

soggetto: C

Alimentazione Ambiente

A B

Eredità

La variabilità

Rappresenta il grado di differenziazione esistente anche tra individui, figli degli stessi genitori.

Ogni soggetto (stessa specie, stessa razza, stessa linea) è diverso, anche se di poco, da un altro ad

eccezione dei gemelli monovulari (stesso ovulo fecondato e diviso in due). Si definisce variabilità

di un carattere la differenza esistente tra individui all’interno della stessa popolazione. Infatti per un

dato carattere (es. peso, statura, produzione di latte, velocità di accrescimento, ecc.) all’interno di

uno stesso genotipo (specie e/o razza), stessa famiglia, ecc. non esistono per lo stesso carattere

poligenico due individui uguali eccezion fatta per i gemelli monovulari. La frequenza del carattere,

rispetto alla media dello stesso si distribuisce in modo Gaussiano e intervallo di distribuzione del

carattere si definisce “Campo di Variabilità”.

332
Ereditabilità

Quantità di un determinato carattere che può e/o che viene trasmesso da una generazione (genitori)

a quella successiva (prole).

Nella popolazione (stessa specie, razza, linea con riproduzione libera) si distinguono:

 Caratteri principali o tipici della specie che si trasmettono senza sostanziali variazioni tra

generazione e generazione;

 Caratteri individuali che non differiscono in modo significativo da quella di specie ma sono

di intensità diversa da soggetto a soggetto e la prole può essere diversa dai genitori.

La genetica si basa sullo studio del/la:

1. Modo di trasmissione dei caratteri individuali da una generazione ad un’altra.

2. Natura dei fattori responsabili della trasmissione.

3. Meccanismo di azione di tali fattori dall’inizio del soggetto (zigote) fini all’età adulta con la

completa manifestazione dei caratteri.

Determinazione del sesso.

La determinazione del sesso è attribuita non agli autosomi bensì agli eterocromosomi o cromosomi

sessuali. Nei mammiferi l'assetto cromosomico generale è 2A + XX o 2A + XY.

In realtà la trasmissione del sesso o eredità del sesso è di tipo:

Protenor (=insetto in cui è stata studiata) in cui il corredo cromosomico diploide della femmina é

2A + XX mentre quella del maschio é 2A + X.

Drosophila (=insetto dell'aceto D. melanogaster in cui è stata studiata) osservato anche negli

animali e nell'uomo in cui il sesso eterogametico é quello del maschio dovuto alla presenza del

cromosoma X e Y mentre quello della femmina risulta omogametico ascrivibile alla presenza del

doppio cromosoma X ovvero 2A + XX (femmina) 2A + XY (maschio)

Tipo Abraxas (A. grassuloriata una farfalla) in cui l'eterogametia è del sesso femminile ovvero:

(femmina) 2A + ZW (maschio) 2A + Z 0 (0 = assenza del cromosoma W)

Tale tipo è stato osservato negli uccelli nei rettili.

333
LEGGI MENDELIANE

 Prima legge della DOMINANZA soggetti ottenuti dalla riproduzione di due razze o varietà

diverse per una o più caratteri, presentano evidente un solo carattere presente sulla coppia

allelomorfa, mentre l’altro allele non si manifesta. Il primo è dominante l’altro è recessivo.

I caratteri e/o la loro espressione sul genotipo dei discendenti possono manifestare un solo

carattere (espressione) nel caso che questo (legge della dominanza) sia controllato da un

solo gene (monogenetico) e generalmente sono quelli qualitativi (colore, piumaggio,

mantello, ecc.).

La DOMINANZA può essere:

1. Mendeliana o Totale (un carattere maschera l’altro; es.: bianco x nero=bianco.

2. Parziale (solo parte del carattere) es.: macchiatura del vello Karakul x vello

grossolano non increspato=intermedio.

3. Intermedia (gli F1 sono a metà tra padre e madre) es.: L. Black (nero) x Endel

Schwein (bianco) =F1 bianco con macchie nere.

4. Condizionata dal sesso. Caso in cui l’esresione di un carattere si manifesta solo in

uno dei due sessi

La DOMINANZA TOTALE o COMPLETA si ha quando ogni gene è presente su entrambi

i cromosomi ALLELI.

F1 A x a (nero = A; bianco =a) = Aa (A dominante, a recessivo).

AA (omozigote dominante, si manifesta il carattere A).

aa (omozigote recessivo, si manifesta il carattere a).

Aa (eterozigote, si manifesta il carattere A).

I soggetti con A nella F2 produrranno gameti femminili e maschili.

Esempio: AA – Omozigote dominante – si manifesta il carattere “A”

aa – Omozigote recessivo – si manifesta il carattere “a”

Aa – Eterozigote.- si manifesta il carattere “A”

334
A dominante a recessivo

Rapporto 2:1 ( 2 manifesta il carattere “A” e 1 il carattere “a”).

1 omozigote dominante

1 omozigote recessivo

1 eterozigote dominante

DOMINANZA CONDIZIONATA DAL SESSO

Maschio Suffolk acorna x femmina Dorsett = F1 maschi con corna; F1 femmine acorna

F2 = 3 maschi con corna + 1 maschio acorna

F3 = 3 femmine acorna + 1 maschio con corna

DOMINANZA INTERMEDIA

F1 = B x b (B = bianco; b = nero)

F1 = Bb (grigio)

F2 =1 bianco + 1 nero = 2 grigi B b

B BB Bb

b Bb bb
DOMINANZA PARZIALE

Si ha quando l’espressione del carattere è solo parziale. Es. colore del mantello dei suini

(macchiato) suini bianchi x suini neri.

F1 B bianco dominante N nero recessivo

F1 B x N = BN (bianco macchiato di nero)

1 bianco (BB): omozigote;

2 bianchi macchiati neri (BN): eterozigote;

1 nero (NN): omozigote.

F2

MASCHI B N

FEMMINE B BB BN

N NB NN

335
 Seconda legge della DISGIUNZIONE o SEPARAZIONE dei caratteri parentali della F2

(2ˆ generazione o ibridi). La riproduzione fra soggetti ibridi F1 o eterozigoti, nella

discendenza F2 da luogo alla ricomparsa del carattere recessivo di ciascuna coppia

allelomorfa nel rapporto 1:3 un recessivo e tre dominanti.

 Terza legge della INDIPENDENZA DEI CARATTERI si ha quando si opera una

riproduzione tra individui F1 differenti per due o più coppie di caratteri, ogni coppia, nella

trasmissione alla discendenza si comporta in modo indipendente dalle altre, in modo che

nella F2 sono presenti tutti i caratteri secondo tutte le combinazioni possibili e con una

distribuzione statistica di (3+1)n ove n= numero dei caratteri (valida per caratteri

monogenici).

DOMINANZA INFLUENZATA DAL SESSO

Ovini Acorni ♂ e ♀ (Ice de France)

Ovini con corna ♂, Senza corna ♀ (Gentile di Puglia)

Ovini con Corna ♂ e ♀

Ovini Acorna ♂ con Corna ♀ (Dorsett Down).

A = corna a = senza corna F1 Aa

♂ cornuti perché presenti ORMONI ANDROGENI.

♀ senza corna perché presenti ORMONI ESTROGENI.

336
L’INCROCIO è un metodo di riproduzione che si ottiene facendo riprodurre due soggetti di una

stessa specie e/o razza, avente un grado di somiglianza genetica e/o di parentela inferiore a quello

medio della popolazione di appartenenza. In realtà esistono diversi tipi di incrocio e sono:

A) Incrocio industriale o di prima generazione. Esso è praticato e/o finalizzato solo alla

produzione degli F1e sfrutta il fenomeno dell’eterosi o lussurogiamento degli ibridi. Questi

generalmente non vengono fatti riprodurre tra di loro e non hanno altro destino riproduttivo.

In genere si pratica per migliorare la produzione della carne (qualità e quantità) e del latte.

Nel campo delle produzioni animali si hanno diversi esempi come la riproduzione tra:

- Toro di razza frisona per bovina Bruna Alpina da cui si ottengono soggetti femminili

dotate di alta capacità lattifera superiore alle razze di origine (fenomeni che scompaiono

nella generazione successiva). I maschi F1 vengono tutti avviati al macello. L’inverso, il

toro Bruno per vacca Frisona fa lo stesso risultato. Nel primo caso gli F1 sono detti Preti

nel secondo Frati, termini legati al colore del mantello.

B) Interspecifico. Si ottiene facendo riprodurre soggetti di specie diverse che generalmente

sono sterili. Come il caso dei muli e dei bardotti

- i muli si ottengono facendo riprodurre lo stallone asinino con la giumenta (femmina di

cavallo).

- I bardotti facendo riprodurre lo stallone cavallino con l’asina.

Entrami sono sterili, ma venivano prodotti per ottenere soggetti da utilizzare per lavori

agricoli e per scopi militari.

C) Di sostituzione, è il metodo che si impiega per sostituire una razza (autoctona) con un’altra

(alloctona). Un esempio di questo tipo è rappresentato dalla sostituzione della Podolica con

la Bruna Alpina che poi ha dato origine alla Bruna di Puglia e all’attuale Bruna.

337
TEORIE SULL’EREDITÁ

Le teorie sono:

 PREFORMISTICHE individuo preformato nei gameti.

 EPIGENETICA basato sullo sviluppo embrionale da materiale biologico preesistente ma

non differenziato. In altre parole, l’individuo non è preformato né nello spermatozoo, né

nell’uovo, ma a seguito della fecondazione (incontro tra maschio e femmina) si sviluppa, si

differenzia e si evolve progressivamente (EPIGENESI).

 PANGESI ogni cellula dell’organismo conterebbe “INFIME”(piccolissime) “GEMMULE”,

particelle rappresentative della medesima, capaci di passare con la circolazione sanguigna

nelle gonadi e nelle cellule seminali (ovuli e spermatozoi) che alla fecondazione (zigote), si

distribuirebbero nei blastomeri prima e alle cellule poi provocando la differenziazione

morfo-funzionale.

 IDIOPLASMA organismo formato da due sostanze presenti in ogni protoplasma:

 tropoplasma o plasma nutritivo fluido e sede dei processi e degli scambi materiali

(citoplasma);

 idioplasma avente struttura micellare ed un’architettura specifica capace di determinare lo

sviluppo dei caratteri e delle funzioni dell’individuo (reticolo citoplasmatico e nucleare). Le

micelle passerebbero da cellula a cellula e porterebbero con essi i fattori determinanti in

caratteri (geni).

EREDITÁ ANCESTRALE

È chiaro che il patrimonio ereditario dell’individuo non deriva completamente (in toto) dai

genitori ma dall’intera serie dei suoi antenati, ovvero per ½ dai genitori, per ¼ dai nonni, per 1/8 dai

bisnonni, per 1/16 dai trisavori, ecc.

338
Genitori Nonni Bisnonni Trisavori

1/2 1/4 1/8 1/16

CONTINUITÁ del PLASMA GERMINALE

Secondo questa teoria nell’organismo sarebbero presenti:

1. SOMA o MORFOPLASMA (organi e tessuti) destinati ad esaurirsi con la fine del ciclo

vitale del soggetto.

2. GERMEN o PLASMAGERMINATIVO (cellule sessuali) portatrici dell’idioplasma

specifico.

Questa teoria poggia su tre ipotesi:

 Netta separazione ed indipendenza tra GERMEN e SOMA o MORFOPLASMA.

 Continuità materiale del Plasma germinativo con la generazioni nella linea germinale e

nelle cellule ad esse derivanti.

 La struttura complessa e particellare dell’IDIOPLASMA che con WEISSMAN diventa

“sostanza ereditaria” (ipotesi geni).

339
ATTUALE TEORIA DELL’EREDITÁ BASATA SUI GENI E CROMOSOMI

CORREDO CROMOSOMICO = n° di cromosomi presenti nel nucleo delle cellule degli

organismi viventi.

Le CELLULE SOMATICHE di ogni specie vivente sono caratterizzate da un n° diploide di

cromosomi (2n).

La teoria è fondata su tre principi:

1. Corredo cromosomico degli individui è 2n, ovvero formato da gruppi di cromosomi (coppie)

equivalenti per forma, per struttura e numero i quali sono per metà di ordine materna e per

metà di ordine paterna(n+n=2n) secondo lo schema che porta alle cellule germinali.

2. I cromosomi mantengono la propria individualità anche oltre le fasi cariocinetiche per cui

sono strutture permanenti di tutto il ciclo biologico.

3. Nella maturazione dei gameti, il corredo cromosomico di 2n si riduce ad n (da Diploide ad


Aploide), ogni gamete riceve un solo cromosoma per coppia di Alleli.

Il cromosoma, quale struttura endo-nucleare, è visibile solo nelle fasi (meiosi e mitosi) è formato da

una doppia ELICA di DNA o ACIDO DEOSSIRIBONUCLEICO costituito, a sua volta, da

una sequenza di Nucleotidi.

Il NUCLEOTIDE è formato da zucchero (DEOSSIRIBOSIO) da un radicale orto fosforico e da una

BASE AZOTATA purinica(adenina e guanina) o pirimidinica (citosina, tiamina).

Il DNA è un polimero la cui successione dei nucleotidi porta alle molteplici combinazioni e/o

ordinamenti delle basi azotate. Queste molecole polimeriche sono disposte a spirale in

doppia elica, avvolta dall’esterno da molecole proteiche. Il complesso formato da 3 basi

(tripletta) purinica e/o purimidinica con proteine, viene considerato depositaria delle

340
proprietà GENETICHE(=GENE). Il processo che porta alla formazione delle cellule

(spermatociti ed ovociti) prende il nome di SPERMATOGENESI e/o di OVOGENESI,

mentre il processo che porta al dimezzamento del corredo cromosomico da2n ad n assume il

nome di MEIOSI che è caratterizzata dalla profase:

 LEPTOTENE con filamenti sottili e poco spiralizzati

 PACHITENE con filamenti corti e spessi

 DIPLOTENE con filamenti doppi e spessi con cromosomi visibili e appaiati (i filamenti si

auto replicano). Ogni coppia di cromosomi omologhi è formato da 4 filamenti o cromatidi.

Segue la DIACINESI e la 1^ anafase in cui i cromosomi omologhi cominciano a separarsi, a cui fa

seguito l’interfase con divisione della cellula con 2n in n. A questa segue la 2^ anafase divisione

cellulare del 2n in n da cui 2 gameti, come da schema:

A seguito della meiosi si possono avere fenomeni di associazione di geni sui filamenti di D.N.A.

del crossing-over

Aa

Bb Geni associati stesso filamento di uno stesso cromosoma

Cc

aA

Bb Scambio verificatosi in crossing-over (MEIOSI)

Cc

aA

BB Scambio verificatosi in crossing-over (MEIOSI)

CC

341
SPERMATOGENESI OVOGENESI

Spermatociti di 1°
Ovociti di 1° ordine
ordine

Prima divisione
Spermatociti di meiotica
2° ordine

1° corpuscolo Membrana
polare pellucida

Ovocita
secondario

Corona radiata
Seconda divisione
meiotica

spermatidi 2°
corpuscolo ovuli
polare

Quando lo
spermatozoo entra nel
l’ovulo si ha la
fecondazione
Spermatozoi Spermatozoi maturi Unione di un
maturi fecondazione pronucleo
maschile Y
con quello
femminile X
Spermatozoi maturi
Zigote di sesso maschile

342
SI RICORDA CHE:

a) La separazione dei cromosomi in due gruppi in n, ciascuno può avvenire a caso in tutti i

modi possibili, il che porta al fatto che nei gameti si troveranno cromosomi di origine

materna e paterna secondo tutte le combinazioni casuali possibili.

b) I cromosomi dei gameti non sono necessariamente identici a quelli del soggetto che li ha

generati, poiché durante la meiosi possono verificarsi scambi fra parti da cromosomi

originari (crossing-over).

c) La manifestazione dei caratteri ereditari è dovuta è dovuta, in gran parte, all’azione dei geni

ed in parte a fattori ambientali (alimentazione, ecc.).

d) I geni sono ordinati (disposti) in modo lineare nel filamento di cromatide di ogni

cromosoma. Ciascun gene occupa un definito posto detto LOCUS in un altrettanto definito

e preciso cromosoma.

e) I membri di ciascuna coppia di geni posti su cromosomi alleli si separano alla meiosi

quando si formano i gameti, per cui ogni gamete possiede solo una serie di gene.

f) Il gene può essere dominante quando, anche se presente solo su un allele, manifesta il

carattere sul fenotipo (GG, Gg) o recessivo quando per manifestarsi deve essere presente in

forma 2n (gg) (basti ricordare MENDEL).

g) La spermatogenesi avviene nelle gonadi maschili (didimo) ove si formano gli spermatozoi

(n) e che maturano e si accumulano nell’epididimo.

h) L’ovogenesi avviene nelle ovaie (follicolo o oforo) il cui ovulo una volta maturo, l’azione

degli estrogeni provoca lo scoppio del follicolo o oforo e la caduta dell’ovulo maturo nelle

tube del falloppio, indi nell’utero.

343
LA VARIABILITÁ

Si definisce variabilità di un carattere, la differenza esistente tra individui all’interno di una certa

popolazione (specie o razza).

Infatti, per un dato carattere (es. peso, statura, produzione di latte, velocità di accrescimento, ecc.)

all’interno di uno stesso fenotipo (specie, razza o stessa famiglia), non esistono per lo stesso

carattere poligenico due individui uguali, eccezion fatta per i gemelli monovulari e/o per i cloni. La

loro frequenza, rispetto alla media dello stesso carattere, si distribuiscono in modo Gaussiano.

L’intervallo di distribuzione del carattere si definisce campo di variabilità.

campo di variabilità

344
Esempio di Produzione di latte di una popolazione di 15 vacche podoliche

produzione Vacca n° Scarto della X

10,5 q.li 1 23,69-10,5 = +13,19

10,9 q.li 2 23,69-10,9 = +12,79

11,0 q.li 3 23,69-11,0 = +12,69

18,0 q.li 4 23,69-18,0 = +5,69

25,0 q.li 5 23,69-25,0 = -1,31

30,0 q.li 6 23,69-30,0 = -6,31

32,0 q.li 7 23,69-32,0 = -8,31

31,0 q.li 8 23,69-31,0 = -7,31

32,0 q.li 9 23,69 – 32,0 = -8,31

28,0 q.li 10 23,69 – 28,0 = -4,31

29,0 q.li 11 23,69 – 29,0 = -5,31

26,0 q.li 12 23,69 – 26,0 = -2,31

27,o q.li 13 23,69 – 27,0 = -3,31

25,0 q.li 14 23,69 – 25,0 = -1,31

20,0 q.li 15 23,69 -20,0 = +3,69

Tot. 454,4 Tot. 0

Media 23,69

La sommatoria (Ʃ) degli scarti della media è sempre = a zero

Il numero di osservazioni rappresenta il n° dei rivelamenti che nel nostro caso corrisponde alle

produzioni medie di latte rilevati su 15 vacche.

Lo scarto quadratico medio -N (osservazione) è il quadrato della differenza tra la media (23,69) e

l’osservazione:

esempio n° 1: 10,5 = 13,192 = ( – N1)2;

esempio n° 2: 23,69-10,9=(12,79)2…
345
esempio n° 10: 23,69-28,0= (-4,31)2…

esempio n° 15: 23,69-20,0= (3,69)2

La sommatoria (Ʃ) degli scarti quadratici della

∑ - N 1-15 )2 diviso in (n° delle osservazioni -1);

detto grado di variabilità rappresenta la Varianza del carattere, ovvero,

Varianza = 2
o VX = ∑ - N 1-15 )2/n-1

Nel nostro caso le osservazioni sono 15, poiché la somma degli scarti della media è sempre

zero, con 14 misure reali, la 15^ resta automaticamente determinata.

La radice quadrata della Varianza (σ2) del carattere rappresenta la deviazione standard s = σ =

√ ∑ - N 1-15 )2/n-1, mentre il rapporto tra questa e la del carattere, ci dà il coefficiente di

variabilità = C.V. = σ/

Il grado di ereditabilità del carattere h2 = σ24(genetico) / σ2g + σ2A (ambientale), rappresenta la quota parte

dello stesso trasmissibile da una generazione all’altra.

Il differenziale selettivo (Δs), rappresenta la differenza del carattere tra la sua media all’interno

della popolazione e quella del gruppo di selezione. Ad esempio, la media della produzione di latte

di una popolazione (razza) bovina è 50 q.li per lattazione, quella del nucleo di selezione è pari a 65

q.li per lattazione, il Δs = 65-50 = 15 q.li.

Progresso selettivo Δp = Δs x h2 rappresenta l’incremento ottenibile da ogni generazione.

Poiché h2 è caratteristico per ogni tipologia di produzione il Δp da generazione in generazione sarà

tanto più elevato quanto maggiore sarà il Δs.

Il Δs diventa sempre più alto quanto minore è il numero dei soggetti del gruppo di selezione.

Infatti se si vuole incrementare la produzione di latte, si devono allevare i/le figli/e di quei soggetti

che producono in assoluto le maggiori quantità di latte, nel nostro caso quelle vacche con

produzione 30-32 q.li di latte/lattazione (4 vacche), che rappresentano il massimo scarto della media

(6,31 ~ 8,31) la cui media 31,25, mentre quella della popolazione p = 23,69.

346
Δs = 31,25 – 23,69 = 7,56 per cui, tenuto conto che l’h2 per il latte si aggira intorno al 36% il Δp =

7,56 x 0,36 = 2,75 ovviamente rappresenta l’incremento teorico di produzione realizzabile ad ogni

generazione selettiva.

347
INDICE

Cap  1  Le produzioni alimentari primarie di origine Animale  2 
  1.1  Qualità, Genuinità e salubrità  5 
  1.2  Parametri Quantitativi  9 
  1.3  Caratteristiche igienico sanitarie  10 
  1.3a  TBARS  13 
  1.3b  Puzza d’ossa  15 
  1.3c  L'acido linoleico coniugato (CLA) e sue azioni  17 
Cap  2  La carcassa e la carne  21 
  2.1  La resa di macellazione  23 
  2.2  Valutazione delle carcasse  44 
Valutazione delle qualità chimico‐fisico e nutrizionali 
  2.3  64 
delle carni 
  2.4  La tracciabilità dei prodotti e i marchi di qualità  77 
Cap  3  Consistenza bestiame, consumi e produzioni  84 
Fattori di variabilità degli aspetti quanti‐qualitativi della 
  3.1  86 
produzione di carne 
Cap   4  I parametri qualitativi delle carni “POST MORTEM”  109
  4.1  Anomalie della carne  115
Cap  5  Gli Animali di interesse zootecnico e le loro produzioni  119
  5.1  Parametri biologici degli animali  120
  5.2  La riproduzione e tecniche riproduttive  125
Cap   6  Le principali razze animali da carne  136
Cap   7  L’allevamento  156
  7.1  I Bovini  156
  7.2  I Suini  159
Cap   8  Produzioni avi‐cunicole o di animali di bassa corte  174
348
Cap  9  La produzione di carni ovine e caprine  186
  9.1  Gli Ovini  186
  9.2   I Caprini  201
Cap   10  Il Latte  210
  10.1  Fattori di variazione della qualità del latte di capra  263
Effetto del genotipo e dell’alimentazione sulla qualità 
  10.2  272
del latte e sui parametri lattodinamografici 
Cap   11  Cenni di alimentazione e nutrizione animale  274
  11.1  Gli alimenti  276
  11.2  Produzione del latte  320
Cap   12  Richiami di genetica animale  324
    Indice  348

349

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