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Studio teologico interdiocesano

Modena-Nonantola * Reggio Emilia-Guastalla * Carpi * Parma

Anno accademico 2019-2020

Corso

TEOLOGIA SACRAMENTARIA:

IL SACRAMENTO
DELL'EUCARISTIA

Appunti delle lezioni, ad uso degli studenti

Pro manuscripto

Insegnante: don Edoardo Ruina

Guastalla, 4 ottobre 2019


Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

1. L’ULTIMA CENA DI GESU’

Premessa
La Chiesa, fin dalle origini, ha celebrato quella che noi chiamiamo “eucaristia”
perché Gesù, durante l’ultima cena, ha fatto determinati gesti e detto determinate
parole. La tradizione non ha creato i gesti e le parole della cena, ma li ha narrati;
naturalmente la narrazione è stata influenzata dalla prassi liturgica, ma non è
stata creata da essa. Allo stesso modo, nella cristologia, non è la fede della Chiesa
che ha creato il Cristo, ma è il Cristo che ha creato la Chiesa e ne fonda la fede.
Ritengo quindi che non vadano prese in considerazione le teorie di chi ha cercato le
radici della celebrazione eucaristica nei banchetti ellenistici (per esempio i conviti
commemorativi dei morti) o nella celebrazione dei misteri pagani (come Odo
Casel)1. Invece, per comprendere l’eucaristia e la sua genesi, dobbiamo partire
dall’ultima cena così come ci è documentata dai testi del Vangelo ma, prima ancora,
dalla concezione che gli israeliti, soprattutto quelli contemporanei a Gesù, avevano
del pasto, del nutrirsi, della convivialità. L’ultima cena di Gesù, ebreo osservante,
si colloca pienamente nella tradizione religiosa del suo popolo, anche se egli la
correda di gesti inattesi.

1. 1. La macellazione degli animali nell’Antico Testamento2

Poiché l’eucaristia nasce nel contesto di una cena, cui partecipano degli israeliti
(Gesù e i suoi discepoli), è necessario iniziare la nostra ricerca domandandoci quale
significato davano gli israeliti all’atto del nutrirsi, al pasto, alla mensa.
Nelle epoche più antiche della storia del popolo di Israele, come avveniva presso
molti altri popoli dell’antichità, ogni abbattimento di un animale allo scopo di
nutrirsene rientrava nella tipologia dei sacrifici.

1 Vedi: MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2, p. 36 e 51.


2 MAZZA, La celebrazione eucaristica, p. 22-26.

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Il sacrificio di comunione (shelâmîm, da shâlôm = pace) rappresentava la forma più


usuale dell’abbattimento di animali: si trattava di un rito in cui un animale
(vittima) veniva ucciso e poi diviso in varie parti: alcune di queste erano bruciate
sull’altare, per donarle simbolicamente a Dio (si trattava soprattutto delle parti più
grasse); altre venivano donate ai sacerdoti; altre ancora (la porzione più
considerevole) rimaneva solitamente agli offerenti che se ne nutrivano.
Naturalmente la carne dell’animale era privata del sangue, poiché era proibito
nutrirsi del sangue (Dt 12,24).
Nel libro del Deuteronomio abbiamo la testimonianza di un cambiamento
fondamentale: comincia a esistere la possibilità di abbattere un animale anche al di
fuori del rito sacrificale. Il motivo è facilmente comprensibile: la legge promulgata
al tempo della riforma del re Giosia3, secondo cui ci doveva essere un unico tempio,
a Gerusalemme, e la conseguente distruzione di tutti gli altri templi, rese
estremamente difficile per gli israeliti che abitavano al di fuori di Gerusalemme il
fatto di recarsi al tempio tutte le volte che desideravano abbattere un capo di
bestiame. Ecco perché si stabilisce (Dt 12,13-15) che si possa macellare e mangiare
carne ovunque ci si trovi, anche senza compiere un rito sacrificale. Questo
provvedimento, reso necessario dalla centralizzazione del culto, opera la de-
sacralizzazione dell’uccisione degli animali per scopi alimentari. Va notato che il
testo (Dt 12,15) specifica che, per mangiare carne, non è necessario essere in stato
di purità rituale, cosa che invece era richiesta quando si compiva un sacrificio.

1. 2. Il pasto degli ebrei4

L’autorizzazione di macellare animali e di mangiare la loro carne anche al di fuori


del tempio e del rito sacrificale portò la religione di Israele a sottolineare il
carattere religioso di ogni pasto. Come afferma Mazza, “reso profano il rito
dell’abbattimento, viene reso religioso il pasto”. Si può addirittura affermare che,

3 Il re Giosia regna da 640 al 609 avanti Cristo. La riforma si colloca intorno all’anno 622.
4 MAZZA, La celebrazione eucaristica, p. 26-30.

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nel mondo ebraico, non ha senso, parlare di “pasto sacro”, poiché l’atto di nutrirsi,
per un ebreo, non è mai un atto profano, ma mette sempre il fedele in relazione con
Dio e con i suoi doni e in particolare con il dono della terra. Infatti, se la terra è
stata donata da Dio come pegno dell’alleanza, mangiando i frutti della terra
l’israelita accetta di entrare nell’alleanza. Si mangia benedicendo Dio, per accettare
i suoi doni e per rispondere alla sua offerta di alleanza.
Ecco perché, per gli Israeliti, è sempre necessario accompagnare il pasto con la
preghiera: non perché la preghiera renda “più sacro” il pasto, ma perché la lode e la
benedizione di Dio impediscono di dimenticare i suoi doni e conservano il credente
in un atteggiamento di gratitudine; “si benedice Dio, non il pasto”5. Ogni pasto non
ha dunque un carattere sacrificale in senso stretto, ma ha senz’altro un carattere
religioso, in quanto mette in relazione con Dio attraverso la fruizione dei suoi doni.
Dicevano i rabbini che, ogni volta che si mangiava qualcosa di più grande di
un’oliva, occorreva recitare la preghiera e benedire Dio e fondavano la loro
affermazione sul libro del Deuteronomio (Dt 8,10).
La preghiera che concludeva il pasto era la birkat ha-mazon. Non era un testo fisso,
da recitare a memoria; piuttosto vi era uno schema, un canovaccio, in base al quale
ogni orante elaborava la sua preghiera.
Il libro di Mazza6 presenta la ricostruzione di una birkat ha-mazon, avvertendo
però che si tratta di un canovaccio e che ogni israelita era libero di rielaborarla.
1. “Benedetto tu Signore, Dio nostro, re dell'universo, che nutre l'universo mondo
con bontà, benignità e misericordia. Benedetto tu, Signore, che nutri l'universo”.
2. “Ti rendiamo grazie, Signore, Dio nostro, che ci hai dato in eredità una terra
desiderabile affinché mangiamo dei tuoi frutti e ci nutriamo della sua bontà.
Benedetto tu Signore, Dio nostro, per la terra e per il cibo”.
3. “Abbi pietà, Signore Dio nostro, di Israele tuo popolo e di Gerusalemme tua città
e di Sion sede della tua gloria e del tuo altare e del tuo santuario. Benedetto tu
Signore che edifichi Gerusalemme”.

5 MAZZA, La celebrazione eucaristica, p. 27.


6 MAZZA, La celebrazione eucaristica, p. 29.

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1. 3. Il racconto dell’ultima cena di Gesù

Ci sono due modi di riferire l’ultima cena di Gesù; il primo (Paolo, Luca, Matteo e
Marco) sottolinea l'aspetto cultuale, cioè riferisce le parole dette da Gesù per dare
una norma alla celebrazione eucaristica della comunità cristiana; l'altro (Giovanni
ma, in parte, anche Luca) sottolinea l'aspetto testamentario, cioè riferisce una sorta
di testamento di Gesù, che è consapevole della sua morte imminente. Ecco perché
Giovanni racconta la lavanda dei piedi e i discorsi di addio e non le parole riguardo
al pane e al calice. Anche i sinottici però hanno segni di una tradizione
testamentaria (per esempio la rinuncia a bere il frutto della vite in Lc 22,15-18).

Mt 26,17-30 Mc 14,12-26 Lc 22,7 1Cor 11,23-25

Il primo giorno degli Il primo giorno degli Venne il giorno degli Il Signore Gesù, nella
Azzimi, i discepoli si Azzimi, quando si Azzimi, nel quale si notte in cui veniva
avvicinarono a Gesù e immolava la Pasqua, i doveva immolare la tradito, prese del pane,

gli dissero: «Dove vuoi suoi discepoli gli Pasqua. Gesù mandò e dopo aver reso
che prepariamo per te, dissero: «Dove vuoi che Pietro e Giovanni grazie, lo spezzò e
perché tu possa andiamo a preparare, dicendo: «Andate a disse: "Questo è il mio

mangiare la Pasqua?». perché tu possa preparare per noi, corpo che è per voi;
Ed egli rispose: mangiare la Pasqua?». perché possiamo fate questo in memoria
«Andate in città da un Allora mandò due dei mangiare la Pasqua». di me". Allo stesso

tale e ditegli: “Il suoi discepoli, dicendo Gli chiesero: «Dove modo, dopo aver
Maestro dice: Il mio loro: «Andate in città e vuoi che prepariamo?». cenato, prese anche il
tempo è vicino; farò la vi verrà incontro un Ed egli rispose loro: calice dicendo: "Questo
Pasqua da te con i miei uomo con una brocca «Appena entrati in calice è la nuova
discepoli”». I discepoli d’acqua; seguitelo. Là città, vi verrà incontro alleanza nel mio
fecero come aveva loro dove entrerà, dite al un uomo che porta una sangue; fate questo,
ordinato Gesù, e padrone di casa: “Il brocca d’acqua; ogni volta che ne
prepararono la Pasqua. Maestro dice: Dov’è la seguitelo nella casa in bevete, in memoria di
Venuta la sera, si mise mia stanza, in cui io cui entrerà. Direte al me".

a tavola con i Dodici. possa mangiare la padrone di casa: “Il

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Mentre mangiavano, Pasqua con i miei Maestro ti dice: Dov’è

disse: «In verità io vi discepoli?”. Egli vi la stanza in cui posso


dico: uno di voi mi mostrerà al piano mangiare la Pasqua
tradirà». Ed essi, superiore una grande con i miei discepoli?”.
profondamente sala, arredata e già Egli vi mostrerà al
rattristati, pronta; lì preparate la piano superiore una
cominciarono ciascuno cena per noi». I sala, grande e

a domandargli: «Sono discepoli andarono e, arredata; lì preparate».


forse io, Signore?». Ed entrati in città, Essi andarono e
egli rispose: «Colui che trovarono come aveva trovarono come aveva

ha messo con me la detto loro e detto loro e


mano nel piatto, è prepararono la Pasqua. prepararono la Pasqua.
quello che mi tradirà. Venuta la sera, egli Quando venne l’ora,

Il Figlio arrivò con i Dodici. prese posto a tavola e


dell’uomo se ne va, Ora, mentre erano a gli apostoli con lui, e
come sta scritto di lui; tavola e mangiavano, disse loro: «Ho tanto

ma guai a quell’uomo Gesù disse: «In verità desiderato mangiare


dal quale il Figlio io vi dico: uno di voi, questa Pasqua con voi,
dell’uomo viene colui che mangia con prima della mia

tradito! Meglio per me, mi tradirà». passione, perché io vi


quell’uomo se non fosse Cominciarono a dico: non la mangerò
mai nato!». Giuda, il rattristarsi e a dirgli, più, finché essa non si

traditore, disse: uno dopo l’altro: «Sono compia nel regno di


«Rabbì, sono forse io?». forse io?». Egli disse Dio». E, ricevuto un
Gli rispose: «Tu l’hai loro: «Uno dei Dodici, calice, rese grazie e
detto». Ora, mentre colui che mette con me disse: «Prendetelo e
mangiavano, Gesù la mano nel piatto. Il fatelo passare tra voi,
prese il pane, recitò la Figlio dell’uomo se ne perché io vi dico: da
benedizione, lo spezzò va, come sta scritto di questo momento non
e, mentre lo dava ai lui; ma guai a berrò più del frutto
discepoli, disse: quell’uomo, dal quale il della vite, finché non

«Prendete, mangiate: Figlio dell’uomo viene verrà il regno di Dio».

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questo è il mio corpo». tradito! Meglio per Poi prese il pane, rese

Poi prese il calice, rese quell’uomo se non fosse grazie, lo spezzò e lo


grazie e lo diede loro, mai nato!». E, mentre diede loro dicendo:
dicendo: «Bevetene mangiavano, prese il «Questo è il mio corpo,
tutti, perché questo è il pane e recitò la che è dato per voi; fate
mio sangue benedizione, lo spezzò questo in memoria di
dell’alleanza, che è e lo diede loro, dicendo: me». E, dopo aver

versato per molti per il «Prendete, questo è il cenato, fece lo stesso


perdono dei peccati. Io mio corpo». Poi prese con il calice dicendo:
vi dico che d’ora in poi un calice e rese grazie, «Questo calice è la

non berrò di questo lo diede loro e ne nuova alleanza nel mio


frutto della vite fino al bevvero tutti. E disse sangue, che è versato
giorno in cui lo berrò loro: «Questo è il mio per voi». «Ma ecco, la

nuovo con voi, nel sangue dell’alleanza, mano di colui che mi


regno del Padre mio». che è versato per molti. tradisce è con me, sulla
Dopo aver cantato In verità io vi dico che tavola. Il Figlio

l’inno, uscirono verso il non berrò mai più del dell’uomo se ne va,
monte degli Ulivi. frutto della vite fino al secondo quanto è
giorno in cui lo berrò stabilito, ma guai a

nuovo, nel regno di quell’uomo dal quale


Dio». Dopo aver egli viene tradito!».
cantato l’inno, uscirono Allora essi

verso il monte degli cominciarono a


Ulivi. domandarsi l’un l’altro
chi di loro avrebbe
fatto questo. E nacque
tra loro anche una
discussione: chi di loro
fosse da considerare
più grande […] io sto
in mezzo a voi come

colui che serve. Voi

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

siete quelli che avete

perseverato con me
nelle mie prove e io
preparo per voi un
regno, come il Padre
mio l’ha preparato per
me, perché mangiate e

beviate alla mia mensa


nel mio regno. E
siederete in trono a

giudicare le dodici
tribù d’Israele. […]Uscì
e andò, come al solito,

al monte degli Ulivi;


anche i discepoli lo
seguirono.

1. 4. La data dell’ultima cena di Gesù7

Il problema della cronologia della cena (e della passione) di Gesù nasce dalla
discrepanza che c’è tra i Vangeli sinottici da una parte e il Vangelo di Giovanni
dall’altra.
I quattro Vangeli sono concordi sul fatto che Gesù celebrò la cena con i discepoli
dopo il tramonto del giovedì, fu arrestato nella notte tra giovedì e venerdì, fu
crocifisso venerdì mattina e morì nel pomeriggio del venerdì8; rimase nel sepolcro

7 Una chiara e succinta panoramica della varie ipotesi sulla data della cena si trova in:
RATZINGER, Gesù di Nazaret, II, p. 122-143.
8 I quattro vangeli usano il termine “parasceve” per indicare il giorno della morte di Gesù. Nel
giudaismo ellenistico esso indica il giorno in cui si fanno i preparativi per il sabato e non la vigilia
della Pasqua. Vedi: MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2, p. 27.

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durante il sabato, mentre la risurrezione avvenne il mattino del “primo giorno dopo
il sabato”, cioè alla domenica.
Essi non concordano invece sulla data della Pasqua.
Per Matteo, Marco e Luca, la Pasqua quell’anno cadeva di venerdì, per cui Gesù
morì il 15 del mese di nisan, esattamente nel giorno di Pasqua. Quindi fece l'ultima
cena nella notte tra il 14 e il 15 e pertanto si trattava del banchetto pasquale,
essendo il banchetto pasquale da consumarsi la sera che precedeva il giorno di
Pasqua. In tal caso il giorno della morte di Gesù, in base al calendario ebraico,
potrebbe essere il venerdì 3 aprile dell’anno 33.
Per Giovanni, invece, la Pasqua quell’anno cadeva di sabato, per cui Gesù morì il 14
di nisan, vigilia di Pasqua, proprio mentre nel tempio si immolavano gli agnelli per
mangiarli alla cena pasquale che si sarebbe fatta dopo il tramonto (quando per gli
ebrei era già iniziato il giorno 15). Quindi la cena, fatta la sera precedente, non
poteva essere un banchetto pasquale. Infatti nel Vangelo di Giovanni è scritto che
la mattina di venerdì i giudei che portarono Gesù da Pilato per chiedere la sua
condanna a morte non entrarono nel pretorio “per non contaminarsi e poter
mangiare la Pasqua” (Gv 18,28). In tal caso la data della morte di Gesù potrebbe
essere il venerdì 7 aprile dell’anno 30.

Di fronte a questa discrepanza, la tradizione teologica ha seguito tre vie.


1. Alcuni hanno dato credito alla cronologia dei sinottici. E’ l’opinione che,
tradizionalmente, ha prevalso nella Chiesa latina che, per questo, usa pane azzimo
nella celebrazione dell'eucaristia.
2. Altri hanno dato hanno dato credito alla cronologia di Giovanni. E’ l’opinione
prevalente nella tradizione orientale, che infatti usa pane lievitato nell'eucaristia.
3. Altri ancora hanno cercato di dare credito ad ambedue le cronologie. E’
l'orientamento spesso seguito dalle Chiese della riforma, che hanno sempre fatto
dei tentativi di armonizzare le due cronologie.
Anche nella scienza biblica e nella teologia contemporanea troviamo le tre
posizioni.

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1. 4. 1. Argomenti a favore della cronologia sinottica9

L’obiezione principale contro la cronologia di Giovanni nasce dalla difficoltà a


negare il carattere pasquale della cena di Gesù, chiaramente affermato dai
sinottici. Per questo molti studiosi hanno ipotizzato che Giovanni abbia anticipato
di un giorno gli avvenimenti, per un motivo teologico: far risaltare la coincidenza
della morte di Gesù con l'immolazione degli agnelli, che avveniva il pomeriggio del
14, rafforzando così l’identificazione di Gesù con l’agnello immolato dell’esodo.

Uno degli studiosi più documentati che propende per questa ipotesi è Jeremias10;
egli presenta una serie di dati allo scopo di dimostrare che l’ultima cena di Gesù
doveva essere una cena pasquale; alcuni di essi hanno un buon fondamento, mentre
altri mi sembrano un po’ forzati.
1) L'ultima cena si è svolta a Gerusalemme (Mc 14,13 e //; Gv 18,1). Intorno alla
Pasqua a Gerusalemme che, secondo Jeremias, a quell’epoca contava circa 25.000
abitanti, giungevano solitamente circa 100.000 pellegrini. Essi non pernottavano
tutti a Gerusalemme, perché non c'era posto sufficiente. Infatti, anche Gesù andava
tutte le sere a Betania, ove passava la notte. L'agnello però andava mangiato a
Gerusalemme, per cui Gesù quella notte rimase in città, come tutti gli altri
pellegrini.
2) Le stanze per il convito erano messe gratuitamente a disposizione dei pellegrini,
dagli abitanti della città. Così avvenne anche per Gesù (Mc 14,13-15).
3) Gesù tiene la cena di notte, cioè dopo il tramonto del sole (1Cor 11,23; Gv 13,30).
Gli ebrei facevano la colazione tra le dieci e le undici e il pasto nel tardo pomeriggio.
Il convito pasquale si differenziava dai pasti comuni, perché era un convito
notturno, in quanto faceva riferimento alla notte in cui gli israeliti erano fuggiti
dall’Egitto.

9 A favore di questa ipotesi, oltre a JEREMIAS (vedi la nota successiva), anche GIRAUDO,
Eucaristia per la Chiesa, p. 162-186, che riporta molti dei motivi già presentati da Jeremias, anche
se non concorda con tutti. Più sfumata e possibilista, mi sembra la posizione di: GERKEN, Teologia
dell’eucaristia, p. 22 e p. 31, che afferma che “probabilmente si trattava della una cena pasquale,
comunque era in immediata vicinanza temporale e spirituale con la cena pasquale”.
10 JEREMIAS, Le parole dell'ultima cena, p. 43-99.

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4) Gesù cena con i dodici (Mc 14,7; Mt 26,20). Anche se non si può escludere che ci
fossero anche altri, si trattava comunque di una cerchia ristretta. Ciò è tipico della
cena pasquale che doveva comprendere circa dieci persone.
5) Gesù e i discepoli sono sdraiati a tavola (Gv 13,12.23.25.28). Di solito gli ebrei
mangiavano seduti. Nel banchetto pasquale, invece, lo stare sdraiati era
obbligatorio, come simbolo di libertà.
6) La cena viene consumata in stato di purità rituale, preceduta da un bagno di
immersione (Gv 13,10), cosa che non era richiesta ai laici per i pasti comuni, ma era
richiesto per il banchetto pasquale, trattandosi di mangiare un animale sacrificato.
7) In vari passi si presuppone che il convito fosse già iniziato, prima che Gesù
spezzasse il pane (Mc 14,18-22; Mt 26,21-26). Ciò era contrario all'uso comune: si
faceva solo la notte di Pasqua per poter spiegare ai bambini che era una cena
diversa dalle altre.
8) Gesù e i discepoli bevono vino (Mc 14,23.25 e //). Non era una cosa quotidiana per
gli ebrei meno abbienti: si beveva vino solo in certe occasioni particolari o per scopi
medici. I pasti di Gesù erano probabilmente molto modesti. Nella cena di Pasqua
però era prescritto di bere vino e non si poteva farne a meno.
9) Il vino è rosso, come risulta dal paragone con il sangue. Ciò corrispondeva a un
uso pasquale.
10) Quando Giuda se ne va, alcuni discepoli pensano che vada a fare acquisti (Gv
13,29). Se fosse stata la sera del 13 di nisan non avrebbe avuto senso, perché gli
acquisti potevano essere fatti il giorno dopo. Invece, se era la sera del 14, non si
sarebbero potuti fare per due giorni, perché il giorno dopo era Pasqua e l'altro era
sabato.
11) Altri pensano che Giuda vada a dare qualcosa ai poveri (Gv 13,29). Esisteva
l'abitudine di beneficiare i poveri la notte di Pasqua.
12) L'ultima cena si conclude con un inno di lode (Mc 13,26; Mt 26,30). Non era un
fatto abituale, se non a Pasqua.
13) Dopo la cena Gesù non ritorna a Betania, dove pernottava abitualmente, ma si
reca in un giardino al monte degli ulivi (Mc 14,26 ss e //). Infatti nella notte di
Pasqua bisognava pernottare a Gerusalemme o nei dintorni della città.
14) Durante la cena, Gesù annuncia la sua passione imminente, pronunciando
parole sul pane e sul vino. L'interpretazione degli elementi del convito costituiva

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uno degli elementi principali del rito pasquale. Inoltre le parole dette da Gesù
riguardo al pane sono simili alla formula interpretativa aramaica degli azzimi.
Quest’ultimo è senz’altro l’argomento più significativo.

Jeremias risponde pure a delle possibili obiezioni.


1) In Marco si parla di artos e non di azyma, per indicare il pane. Egli risponde che,
nel comune uso linguistico, il greco artos (ebraico lehem), indica anche il pane
azzimo.
2) Dopo la risurrezione, i discepoli ripeteranno la cena di Gesù ogni giorno e non
solo a Pasqua. Egli risponde che i conviti della Chiesa primitiva non sono
originariamente ripetizioni dell'ultima cena, ma della quotidiana comunanza di
tavola con lui11.
3) Nel racconto della cena non si fa menzione del rito pasquale, in particolare
dell'agnello e delle erbe amare. Egli risponde che i racconti della cena che
possediamo sono delle formule cultuali e non delle descrizioni dettagliate dei fatti.
4) Nel racconto sono stati individuati degli elementi incompatibili col rito della
Pasqua. Per esempio, qualcuno afferma che, nel convito di Pasqua, prima si
spezzava il pane e poi si benediceva la tavola; Jeremias risponde che non è vero.
Qualcuno pensa che a Pasqua si usassero tanti calici quanti erano i commensali;
egli risponde che invece è probabile che il calice della benedizione fosse uno solo e
passasse a tutti i commensali. Altri ritengono che si usassero piatti individuali; egli
risponde che è improbabile che a Gerusalemme ci fossero piatti per tutti.
5) Il Vangelo dice che i nemici cercavano di catturare Gesù “non durante la festa”
(Mc 14,2). Egli risponde che non è un'indicazione cronologica, ma significa: “non
durante un assembramento festivo”.
6) Prima della Pasqua c'era un'amnistia affinché certi prigionieri potessero
prendere parte al banchetto, mentre Pilato libera Barabba il giorno di Pasqua. Egli
risponde che l'amnistia che precede la Pasqua non è quella di cui si parla nel
Vangelo (Mc 15,6 e //), perché riguarda le autorità giudaiche e non romane, mentre
Barabba è liberato dai romani.

11 E’ un’affermazione discutibilissima, che non condivido e che non seguiremo in questo corso.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

7) La frase di Paolo: “Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1Cor 5,7) fa pensare
che Gesù sia stato crocifisso la vigilia di Pasqua, quando si immolavano gli agnelli,
come dice Giovanni. Egli risponde che il paragone può prendere lo spunto non dal
momento della crocifissione, ma dalle parole che Gesù ha detto durante la cena.
8) La frase di Paolo: Cristo è “primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20) fa
pensare a una identificazione tra il risorto e il covone delle primizie, che veniva
offerto il giorno 16 di nisan per cui, se Gesù è morto il 14, è risorto il 16. Egli
risponde che non è un elemento determinante.
9) La crocifissione non può essere avvenuta a Pasqua, perché era un giorno festivo.
Egli risponde che vari atti descritti nel racconto della passione erano possibili
anche in giorno festivo. L'unico problema riguarda il processo; esso però non era
possibile, né secondo la cronologia dei sinottici, né secondo quella di Giovanni. Ma
poiché Gesù era considerato un falso profeta, era urgente condannarlo
rapidamente, per dare un esempio al popolo, come diceva anche la legge. Questo
spiega come mai il processo di Gesù fu così frettoloso.

1. 4. 2. Argomenti a favore della cronologia giovannea12

E’ da notare che la cronologia di Giovanni è seguita anche dall’apocrifo Vangelo di


Pietro (2,5) e dal Talmud (bSanh 43a). All’affermazione che la cronologia di
Giovanni deriva dalla teologia e non dalla storia si può rispondere che anche i
sinottici sono spesso mossi da intenti teologici, non meno di Giovanni, per cui
anch’essi (o le loro fonti) potrebbero avere modificato la sequenza cronologica per
accentuare il carattere pasquale della cena di Gesù.
Una serie di obiezioni contro la tradizione sinottica e a favore di quella giovannea
derivano dal fatto che molti particolari della narrazione evangelica presuppongono
che il venerdì della morte di Gesù non fosse un giorno di festa.

12A favore di questa ipotesi: RATZINGER, Gesù di Nazaret, II, p. 128-132; LEON-DUFOUR,
Condividere il pane eucaristico, p. 160-162, che ritiene discutibile che si tratti di una cena pasquale;
MAZZA, La celebrazione eucaristica, p. 39.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

1) La crocifissione di Gesù in giorno di Pasqua poteva essere pericolosa per l’ordine


pubblico, cosa di cui i capi si rendevano conto quando affermavano di non volerlo
eliminare durante la festa per evitare tumulti (Mc 14,1).
2) Il sinedrio, con a capo il Sommo Sacerdote, non poteva celebrare il processo
proprio il giorno di Pasqua, perché avrebbe violato il precetto festivo.
3) Simone di Cirene tornava dalla campagna, ove probabilmente aveva lavorato, il
giorno della crocifissione (Mc 15,21); non poteva quindi essere il pomeriggio della
Pasqua.
4) Giuseppe d’Arimatea avrebbe avuto difficoltà ad acquistare il lenzuolo per la
sepoltura di Gesù, proprio nel giorno di Pasqua (Mc 15,46).
5) Il Vangelo di Marco dice che il giorno della morte di Gesù era “la Parasceve, cioè
la vigilia del Sabato” (Mc 15,42): è una definizione un po’ limitativa per il giorno di
Pasqua, anche se fosse caduto di venerdì.
6) Il rituale della cena pasquale è poco presente anche nei sinottici. Dopo avere
affermato che si tratta di una cena pasquale, essi non descrivono una cena con
caratteristiche pasquali.
7) La frase di Gesù che troviamo nel Vangelo di Luca: “Ho tanto desiderato
mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la
mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio” (Lc 22,15), se è vero che
può significare che Gesù sta facendo una cena pasquale, potrebbe anche significare
che Gesù desidera ardentemente farla, ma teme di non poterlo più fare; per questo
la cena che sta facendo vuole dare agli eventi che stanno per accadere e che
impediranno di farla un significato di auto-donazione, di fiducia in Dio e di
speranza.
8) Anche Paolo sembra accettare la teologia (e la cronologia) di Giovanni, quando
scrive: “Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1Cor 5,7) sottintendendo che la
morte di Gesù corrisponda con il tempo dell’immolazione degli agnelli (la vigilia di
Pasqua), tanto da indurre a pensare che Gesù è il vero agnello immolato.
9) Se l’ultima cena avesse avuto un carattere pasquale sarebbe stato più difficile
per la comunità cristiana delle origini celebrarla il primo giorno di ogni settimana,
dato che la Pasqua era una festa annuale.
10) All’obiezione che la cronologia di Giovanni nasce da esigenze teologiche, così da
far coincidere la morte di Gesù con l’immolazione degli agnelli e mostrare che il

14
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

vero agnello è Lui, si potrebbe rispondere che, al contrario, il dato cronologico


potrebbe invece essere all’origine dell’interpretazione teologica: poiché Gesù è
davvero morto la vigilia di Pasqua, questo fatto ha suggerito la sua identificazione
con l’agnello pasquale. Ciò potrebbe spiegare come mai i sinottici trasformano
l’ultima cena in un rito pasquale.

1. 4. 3. Tentativi di conciliare le due cronologie13

I tentativi di armonizzazione sono parecchi e diversi tra loro. Qualcuno ipotizza che
farisei e sadducei computassero diversamente l'inizio del mese di nisan; oppure che
l'agnello si immolasse in più giorni, perché c'era troppa gente a Gerusalemme 14.

Qualcuno è arrivato anche a ipotizzare che la mancata citazione dell’agnello nei


racconti della cena derivi dal fatto che Gesù avrebbe fatto una cena pasquale ove
l’agnello era sostituito dal pesce, come facevano talvolta gli ebrei al di fuori di
Gerusalemme, cosa che spiegherebbe come mai, nel Vangelo, i pesci sono spesso
citati assieme ai pani; ma ritengo che si tratti di un’ipotesi alquanto difficile da
accettare 15.

Più interessante l’ipotesi di Annie Jaubert, che ha scoperto, fin dagli anni ’50, un
antico calendario sacerdotale, diffuso principalmente (ma non solo) a Qumram,
trasmesso nel Libro dei giubilei, che presenta un anno solare di 364 giorni in cui la
Pasqua, come le altre feste, cade sempre nello stesso giorno della settimana, e
precisamente il mercoledì. Pertanto Gesù avrebbe fatto la cena pasquale il martedì
sera e sarebbe stato arrestato nella notte successiva, mentre i sacerdoti avrebbero
seguito il calendario tradizionale e avrebbero mangiato la Pasqua il venerdì sera,
cioè dopo la crocifissione. Questo farebbe sì che le due tradizioni (quella di Giovanni
e quella dei sinottici) possano concordare e inoltre offre uno spazio di tempo un po’
maggiore ai tumultuosi eventi che vanno tra l’arresto di Gesù e la sua crocifissione.

13 RATZINGER, Gesù di Nazaret, II, p. 125-128.


14 Vedi: JEREMIAS, Le parole dell'ultima cena, p. 17-23.
15 B. GARTNER, citato in: VON ALLMEN, Saggio sulla cena del Signore, p. 38.

15
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

Contro questa ipotesi, però, si può obiettare che la tradizione, dal II secolo, colloca
l’ultima cena al giovedì e l’arresto nelle ore successive. La studiosa però cita uno
scritto del III secolo, la Didascalia degli apostoli, che colloca la cena al martedì. Ma
alcuni studiosi non vedono come Gesù, sempre così osservante delle feste giudaiche,
possa avere seguito un calendario diverso da quello del tempio, proprio riguardo
alla celebrazione della Pasqua.

Recentemente don Enrico Mazza ha fatto degli interessanti studi sulla questione 16.

L’indagine di Mazza parte dalla valorizzazione dell’antico calendario sacerdotale,


scoperto da Annie Jaubert. Mazza afferma però che si tratta “di un’ipotesi che, per
quanto geniale e risolutiva, non è dimostrata”. Infatti “il fatto che esistessero due
calendari non spiega perché Gesù abbia voluto usare il calendario di Qumram per
celebrare la pasqua”17. Da qui la scarsa attenzione che questa ipotesi ha ricevuto,
quando è stata presentata. Ora però, secondo lo studioso, siamo in grado di
riprenderla e di rivalutarla. Infatti la cronologia degli ultimi giorni di Gesù secondo
i Vangeli sinottici e quella del Vangelo di Giovanni “sono incompatibili e non si
possono addurre motivazioni teologiche per trovare una soluzione. Solo la
spiegazione della Jaubert è in grado di risolvere il problema; ella infatti suppone
che questi autori pensino a due tipi diversi della Pasqua: per Giovanni si tratta
della Pasqua ufficiale dei giudei, mentre per i sinottici si tratta della pasqua antica,
basata sul calendario di 364 giorni”18.
Un segno che fa pensare al valore dell’ipotesi è dato “dalla tradizione della Chiesa
primitiva sul digiuno al mercoledì, che era stato fissato in memoria dell’arresto di
Gesù”, che “non poteva non risalire che a un ambiente cristiano di origine
giudaica”; ciò potrebbe trovare una spiegazione nel fatto che, nel calendario di 364
giorni, “il giorno del sacrificio degli agnelli , che è la preparazione, cade sempre di
martedì”19

16Per quanto è contenuto nel paragrafo, vedi: MAZZA, Il nuovo Testamento e la cena del Signore, p.
16-48. Si invitano gli studenti a leggere integralmente le pagine citate.
17 MAZZA, Il nuovo Testamento e la cena del Signore, p. 27.
18 MAZZA, Il nuovo Testamento e la cena del Signore, p. 34.
19 MAZZA, Il nuovo Testamento e la cena del Signore, p. 33.

16
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

Un altro elemento, addotto da Mazza, per confermare l’ipotesi della Jaubert è il


racconto della cena di Betania. Riguardo ad essa, “Giovanni dà un’indicazione
cronologica precisa, dicendo che […] avvenne sei giorni prima della pasqua”. “Marco
racconta la stessa cena – a casa di Simone il lebbroso – ma l’indicazione cronologica
con cui inizia la pericope riguarda la riunione dei sommi sacerdoti e degli scribi che
si chiedono come impossessarsi di Gesù” ed è collocata due giorni prima della
Pasqua. Poiché, secondo gli esegeti, i due racconti dipendono dalla stessa fonte, la
discrepanza risulta molto strana. Bisogna anche tenere conto del fatto che il
termine “Pasqua” designa inizialmente l’agnello che viene immolato e poi mangiato
(il 14 di Nisan).e , in un secondo tempo, anche la festa (15 di Nisan). I due brani che
abbiamo citato, dei Vangeli di Marco e Giovanni, parlano di “Pasqua” dando al
termine un’accezione diversa: per Marco, “mancavano due giorni alla Pasqua e agli
Azzimi (Mc 14,1) e “il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua”
(Mc 14,12), “Pasqua” è l’agnello, per cui si sta parlando del 14 di Nisan; invece per
Giovanni “Pasqua” è la festa, cioè il 15 di Nisan, poiché il giorno in cui gli agnelli si
immolano è chiamato “la preparazione”, cioè la vigilia di Pasqua (Gv 19,14). “Il 15
di Nisan di cui parla Giovanni era un sabato, come dice Gv 19,31: «Era un giorno
solenne quel sabato»; se andiamo a sei giorni prima della festa di Pasqua, dobbiamo
dire che la cena di Betania si tenne un sabato sera. Prendiamo come punto di
partenza questa indicazione giovannea e cerchiamo di calcolare la Pasqua indicata
da Mc 14,1 che la colloca due giorni dopo la cena di Betania, ma dobbiamo tenere
conto che qui il temine «Pasqua» indica il giorno del sacrificio degli agnelli, ossia la
preparazione. La cena di Betania è al sabato sera; saltando due giorni (meta duo
hemeras) ossia domenica e lunedì, siamo al martedì sera; questo sarebbe il giorno
in cui si immolano gli agnelli (ossia si sacrifica la Pasqua) e sarebbe il 14 del primo
mese, che è il giorno della preparazione. A questo punto ci accorgiamo che il
martedì sera – di cui parla il vangelo di Marco – non è un giorno qualsiasi, ma
corrisponde alla Pasqua calcolata secondo l’antico calendario sacerdotale di 364
giorni”20.

20 MAZZA, Il nuovo Testamento e la cena del Signore, p. 36-37.

17
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

Rimane da rispondere alla domanda se è plausibile che Gesù, che non era esseno,
abbia utilizzato il calendario esseno per calcolare la data della Pasqua. Un
elemento per rispondere al quesito lo troviamo nel racconto della preparazione
della cena. Partiamo da Mc 14,12-16: si dice che i discepoli devono andare in città
“da uno” di cui non si scrive il nome, che dovrà ospitare il Maestro e i suoi discepoli
per la cena. Si tratta sicuramente di una persona che conosce Gesù e che è in
buonissimi rapporti con lui, se Gesù prevede che sia disponibile ad offrire una sala,
all’ultimo momento, in un periodo dell’anno in cui tanti arrivano a Gerusalemme.
L’indicazione che Gesù dà ai discepoli, affinché possano riconoscere colui che li
ospiterà, è che si tratta di un uomo che verrà loro incontro, portando una brocca
d’acqua e, infatti, avviene proprio così (Mc 14,12-16 e //). Ma è stato notato che, nel
mondo orientale di quell’epoca, gli uomini portano dell’acqua con degli otri e non
con delle brocche; sono invece le donne che vanno a prendere l’acqua con le brocche;
per questo i discepoli potranno riconoscere la persona indicata da Gesù: si tratta di
un uomo che fa un’azione inusuale. Ma nel quartiere esseno esistevano delle case
per l’ospitalità che erano gestite da uomini (a volte celibi, altre volte sposati), per
cui era più facile che un uomo facesse un servizio che di solito era affidato alle
donne. Pertanto risulta probabile che Gesù abbia fatto l’ultima cena in una casa del
quartiere esseno di Gerusalemme e, quindi, abbia seguito un calendario che era in
uso presso gli esseni, non solo a Qumram, ma dovunque essi si trovavano.
Osserva Mazza che, a differenza dei giudei e degli esseni, “Gesù non ha mai
mostrato interesse per questioni di calendario.[…] gli osservava le feste così come
avvenivano nell’ambiente in cui si trovava, senza mai fare questioni di calendario,
ma reclamando invece la necessità di una giustizia più alta”. […] Gesù dunque si
appresta a celebrare la Pasqua in un quartiere esseno, in casa di un esseno con il
quale ha rapporti di familiarità: se Gesù non ha problemi di calendario, come
mostra la sua predicazione, non c’è alcun problema che celebri la Pasqua in modo
diverso dalle norme ufficiali del tempio, soprattutto dopo la sua polemica contro la
gestione sacerdotale. La scelta di fare la Pasqua in quel modo è l’apice della sua
polemica contro il giudaismo del tempio 21.

21 MAZZA, Il nuovo Testamento e la cena del Signore, p. 44.

18
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

Mazza ritiene quindi che l’Ultima cena sia stata una cena pasquale; tutta via la
cosa non fu così importante come potrebbe sembrare, perché Gesù “non celebra le
feste giudaiche se non per superarle” 22. Il senso dell’Ultima cena è quello di essere
una cena d’addio, con carattere testamentario: “E’ Gesù che ai suoi apostoli dà il
suo corpo per una nuova alleanza: è lui medesimo la nuova alleanza offerta ai suoi”
23

In conclusione citiamo i sei punti con i quali Mazza riassume il suo discorso 24.
1) L’Ultima cena fu una cena pasquale. I sinottici lo affermano , ma anche Giovanni
che lo nega, presenta vari elementi di tipo pasquale.
2) L’ipotesti della Jaubert è accettabile, ma va integrata. La sinossi dei racconti
della cena di Betania secondo i Vangeli di Marco e di Giovanni mostra che Gesù ha
mangiato la Pasqua la sera del martedì. La differenza tra la cronologia dei Sinottici
e di Giovanni si spiega tenendo presente che, per Giovanni, la Pasqua non era di
mercoledì, ma di sabato e, quindi, Gesù è morto alla vigilia di Pasqua.
3) Se l’Ultima cena è una cena pasquale e se è stata fatta al martedì sera, significa
che Gesù ha seguito il calendario esseno, un antico calendario solare (e non lunare
come quello che utilizzavano i sacerdoti), che divideva l’anno in 364 giorni.
4) La Jaubert ha abbondantemente dimostrato l’esistenza di questo calendario;
parecchi lo utilizzavano all’epoca di Gesù e anche oltre; soprattutto gli esseni e i
loro simpatizzanti.
5) Gesù, poco prima di essere ucciso, entra in dura polemica con coloro che
gestiscono la vita del tempio, e soprattutto con la classe sacerdotale. Il particolare
dell’uomo che porta la brocca d’acqua fa pensare che egli abbia fatto la Cena in una
casa del quartiere esseno di Gerusalemme, ove egli è stato accolto perché aveva
degli amici e degli estimatori anche tra gli esseni. Forse i Vangeli non riportano il
nome dell’uomo perché era ancora opportuno tutelare l’anonimato dei membri del
gruppo esseno.

22 MAZZA, Il nuovo Testamento e la cena del Signore, p. 46.


23 MAZZA, Il nuovo Testamento e la cena del Signore, p. 46.
24 MAZZA, Il nuovo Testamento e la cena del Signore, p. 47-48.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

6) L’Ultima cena fu quindi una cena pasquale, ma soprattutto una cena


testamentaria. A Gesù interessava il secondo aspetto ma il primo, essendo la
Pasqua la festa più importante, conferisce importanza alla cosa.

1. 4. 4. In conclusione ...

Da quanto detto finora, emerge la difficoltà ad assumere, allo stato attuale dei fatti,
un’opinione certa e definitiva. Sia coloro che sostengono che l’ultima cena era una
cena pasquale, sia coloro che sostengono il contrario, portano una serie di prove che
non sono facilmente accantonabili. D’altra parte, anche se si accetta la seconda
ipotesi, è innegabile che l’ultima cena è carica di allusioni pasquali, vista la
vicinanza della festa25. E’ chiaro che Gesù era pienamente consapevole
dell’imminenza della sua morte e ha deciso di fare, con i discepoli, una sorta di cena
di congedo che contenesse un gesto profetico in cui racchiudere il significato della
sua vita e, soprattutto, della sua morte futura. Se così sono andate le cose,
possiamo considerare meno rilevante il fatto che questa cena sia stata fatta alla
vigilia di pasqua (come dicono i Sinottici) o il giorno precedente (come vuole
Giovanni). Come afferma MAZZANTI26: “non si deve insistere troppo sulla
questione se Cristo abbia celebrato o no la cena pasquale ‘ufficiale’. All’epoca di
Cristo i pasti solenni, ma anche i pasti quotidiani dei giudei erano pieni di
caratteristiche e reminiscenze pasquali”.
Tuttavia, pur lasciando agli studenti la piena libertà di simpatizzare per l’una o
l’altra opzione, chi scrive ritiene che andrebbe approfondita la pista di una possibile
concordanza tra Giovanni e i Sinottici, anche se non mi sembra che le risposte
portate fino ad ora siano in grado di chiudere definitivamente la questione.

25 Vedi: VON ALLMEN, Saggio sulla cena del Signore, p. 38, che afferma che “il contesto pasquale –
indipendentemente dal fatto che esso sia stato la causa o soltanto l’occasione – è inseparabile
dall’istituzione della cena […] ma non può essere precisato molto di più”; MOSSO, Riscoprire
l’eucaristia, p. 16-17, che afferma: “sul piano propriamente storico, il problema rimane aperto”.
MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2, p. 29. A conclusioni simili giunge anche:
26

METZGER, Storia della liturgia eucaristica, p. 20.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

PER APPROFONDIRE…

Primo excursus: Benedetto XVI - Omilia della Messa «nella Cena del Signore» - 5.4.2007
Cari fratelli e sorelle, nella lettura dal Libro dell'Esodo (...) viene descritta la celebrazione
della Pasqua di Israele così come nella Legge mosaica aveva trovato la sua forma
vincolante. All'origine può esserci stata una festa di primavera dei nomadi. Per Israele,
tuttavia, ciò si era trasformato in una festa di commemorazione, di ringraziamento e, allo
stesso tempo, di speranza. Al centro della cena pasquale (...) stava l'agnello come simbolo
della liberazione dalla schiavitù in Egitto. (...) La parola della commemorazione era
circondata da parole di lode e di ringraziamento tratte dai Salmi. Il ringraziare e benedire
Dio raggiungeva il suo culmine nella berakha, che in greco è detta eulogia o eucaristia: il
benedire Dio diventa benedizione per coloro che benedicono. (...) Tutto ciò ergeva un ponte
dal passato al presente e verso il futuro: ancora non era compiuta la liberazione di Israele.
(...) Il ricordarsi con gratitudine dell'agire di Dio nel passato diventava così al contempo
supplica e speranza: Porta a compimento ciò che hai cominciato! Donaci la libertà
definitiva! Questa cena dai molteplici significati Gesù celebrò con i suoi la sera prima della
sua Passione. In base a questo contesto dobbiamo comprendere la nuova Pasqua, che Egli
ci ha donato nella Santa Eucaristia. Nei racconti degli evangelisti esiste un'apparente
contraddizione tra il Vangelo di Giovanni, da una parte, e ciò che, dall'altra, ci comunicano
Matteo, Marco e Luca. Secondo Giovanni, Gesù morì sulla croce precisamente nel momento
in cui, nel tempio, venivano immolati gli agnelli pasquali. La sua morte e il sacrificio degli
agnelli coincisero. Ciò significa, però, che Egli morì alla vigilia della Pasqua e quindi non
poté personalmente celebrare la cena pasquale - questo, almeno, è ciò che appare. Secondo i
tre Vangeli sinottici, invece, l'Ultima Cena di Gesù fu una cena pasquale, nella cui forma
tradizionale Egli inserì la novità del dono del suo corpo e del suo sangue. Questa
contraddizione fino a qualche anno fa sembrava insolubile. La maggioranza degli esegeti
era dell'avviso che Giovanni non aveva voluto comunicarci la vera data storica della morte
di Gesù, ma aveva scelto una data simbolica per rendere così evidente la verità più
profonda: Gesù è il nuovo e vero agnello che ha sparso il suo sangue per tutti noi.
La scoperta degli scritti di Qumran ci ha nel frattempo condotto ad una possibile soluzione
(...). Siamo ora in grado di dire che quanto Giovanni ha riferito è storicamente preciso.
Gesù ha realmente sparso il suo sangue alla vigilia della Pasqua nell'ora dell'immolazione
degli agnelli. Egli però ha celebrato la Pasqua con i suoi discepoli probabilmente secondo il
calendario di Qumran, quindi almeno un giorno prima - l'ha celebrata senza agnello, come
la comunità di Qumran, che non riconosceva il tempio di Erode ed era in attesa del nuovo
tempio. Gesù dunque ha celebrato la Pasqua senza agnello - no, non senza agnello: in luogo
dell'agnello ha donato se stesso, il suo corpo e il suo sangue. Così ha anticipato la sua morte
in modo coerente con la sua parola: «Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso»
(Gv 10,18). Nel momento in cui porgeva ai discepoli il suo corpo e il suo sangue, Egli dava
reale compimento a questa affermazione. Ha offerto Egli stesso la sua vita. Solo così
l'antica Pasqua otteneva il suo vero senso. (...) Gesù celebrò la Pasqua senza agnello e
senza tempio e, tuttavia, non senza agnello e senza tempio. Egli stesso era l'Agnello atteso,
quello vero, come aveva preannunciato Giovanni Battista all'inizio del ministero pubblico
di Gesù: «Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29). Ed è
Egli stesso il vero tempio, il tempio vivente, nel quale abita Dio e nel quale noi possiamo
incontrare Dio ed adorarlo. Il suo sangue, l'amore di Colui che è insieme Figlio di Dio e vero
uomo, uno di noi, quel sangue può salvare. Il suo amore, quell'amore in cui Egli si dona
liberamente per noi, è ciò che ci salva. Il gesto nostalgico, in qualche modo privo di

21
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

efficacia, che era l'immolazione dell'innocente ed immacolato agnello, ha trovato risposta in


Colui che per noi è diventato insieme Agnello e Tempio.
Così al centro della Pasqua nuova di Gesù stava la Croce. Da essa veniva il dono nuovo
portato da Lui. E così essa rimane sempre nella Santa Eucaristia, nella quale possiamo
celebrare con gli Apostoli lungo il corso dei tempi la nuova Pasqua. Dalla croce di Cristo
viene il dono. «Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso». Ora Egli la offre a noi.
L'haggadah pasquale, la commemorazione dell'agire salvifico di Dio, è diventata memoria
della croce e risurrezione di Cristo - una memoria che non ricorda semplicemente il
passato, ma ci attira entro la presenza dell'amore di Cristo. E così la berakha, la preghiera
di benedizione e ringraziamento di Israele, è diventata la nostra celebrazione eucaristica,
in cui il Signore benedice i nostri doni - pane e vino - per donare in essi se stesso.
Preghiamo il Signore di aiutarci a comprendere sempre più profondamente questo mistero
meraviglioso, ad amarlo sempre di più e in esso amare sempre di più Lui stesso.
Preghiamolo di attirarci con la santa comunione sempre di più in se stesso. Preghiamolo di
aiutarci a non trattenere la nostra vita per noi stessi, ma a donarla a Lui e così ad operare
insieme con Lui, affinché gli uomini trovino la vita - la vita vera che può venire solo da
Colui che è Egli stesso la Via, la Verità e la Vita. Amen.

Secondo excursus: JOSEPH RATZINGER - BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda


parte. p. 122-132.

1. La data dell’Ultima Cena

Il problema della datazione dell’ultima cena di Gesù si fonda sul contrasto in questa
materia tra i Vangeli sinottici, da una parte, e il Vangelo di Giovanni, dall’altra. Marco, che
Matteo e Luca essenzialmente seguono, offre al riguardo una datazione precisa. «Il primo
giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: “Dove vuoi
che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?”… Venuta la sera, egli
arrivò con i Dodici» (Mc 14,12.17). La sera del primo giorno degli Azzimi, in cui nel tempio
venivano immolati gli agnelli pasquali, è la vigilia della Pasqua. Secondo la cronologia dei
sinottici si tratta di un giovedì.
Dopo il tramonto iniziava la Pasqua, e allora veniva consumata la cena pasquale – da Gesù
con i suoi discepoli, come da tutti i pellegrini venuti a Gerusalemme. Nella notte tra
giovedì e venerdì – sempre secondo la cronologia sinottica – Gesù venne arrestato e portato
davanti al tribunale, al mattino del venerdì da Pilato venne condannato a morte e
successivamente «verso l’ora terza» (ca. le nove del mattino) crocifisso. La morte di Gesù è
datata all’ora nona (ca. le ore 15). «Venuta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la
vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatea … con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di
Gesù» (Mc 15,42s). La sepoltura doveva avvenire ancora prima del tramonto, perché poi
iniziava il sabato. Il sabato è il giorno del riposo sepolcrale di Gesù. La risurrezione ha
luogo il mattino del «primo giorno della settimana», la domenica.
Questa cronologia è compromessa dal problema che il processo e la crocifissione di Gesù
sarebbero avvenuti nella festa della Pasqua, che in quell’anno cadeva di venerdì. È vero
che molti studiosi hanno cercato di dimostrare che il processo e la crocifissione erano
compatibili con le prescrizioni della Pasqua. Nonostante tutta l’erudizione sembra però
problematico che in quella festa molto importante per i Giudei, il processo davanti a Pilato
e la crocifissione fossero ammissibili e possibili. Del resto, a questa ipotesi è di ostacolo
anche una notizia riportata da Marco. Egli ci dice che due giorni prima della festa degli

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

Azzimi, i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di impadronirsi di Gesù con
inganno per ucciderlo, ma al riguardo dichiaravano: «Non durante la festa, perché non vi
sia una rivolta del popolo» (14,1s). Secondo la cronologia sinottica, però, l’esecuzione
capitale di Gesù, di fatto, avrebbe avuto luogo proprio nel giorno stesso della festa.
Rivolgiamoci ora alla cronologia giovannea. Giovanni bada con premura a non presentare
l’ultima cena come cena pasquale. Al contrario: le autorità giudaiche che portano Gesù
davanti al tribunale di Pilato evitano di entrare nel pretorio «per non contaminarsi e poter
mangiare la Pasqua» (18,28). La Pasqua comincia quindi solo alla sera; durante il processo
si ha la cena pasquale ancora davanti; processo e crocifissione avvengono nel giorno prima
della Pasqua, nella «Parascève», non nella festa stessa. La Pasqua in quell’anno si estende
dunque dalla sera del venerdì fino alla sera del sabato e non dalla sera del giovedì fino alla
sera del venerdì.
Per il resto, lo svolgimento degli eventi rimane lo stesso. Con questa cronologia, Gesù
muore nel momento in cui nel tempio vengono immolati gli agnelli pasquali. Egli muore
come l’Agnello vero che negli agnelli era solo preannunciato.
Questa coincidenza teologicamente importante, che Gesù muoia contemporaneamente con
l’immolazione degli agnelli pasquali, ha indotto molti studiosi a liquidare la versione
giovannea come cronologia teologica. Giovanni avrebbe cambiato la cronologia per creare
questa connessione teologica che, tuttavia, nel Vangelo non viene manifestata
esplicitamente. Oggi, però, si vede sempre più chiaramente che la cronologia giovannea è
storicamente più probabile di quella sinottica. Poiché – come s’è detto – processo ed
esecuzione capitale nel giorno di festa sembrano poco immaginabili. D’altra parte, l’ultima
cena di Gesù appare così strettamente legata alla tradizione della Pasqua che la negazione
del suo carattere pasquale risulta problematica.
Per questo già da sempre sono stati fatti dei tentativi di conciliare le due cronologie tra
loro. Il tentativo più importante – e in molti particolari affascinante – di giungere ad una
compatibilità tra le due tradizioni proviene dalla studiosa francese Annie Jaubert, che fin
dal 1953 ha sviluppato la sua tesi in una serie di pubblicazioni. Non dobbiamo qui entrare
nei dettagli di tale proposta; limitiamoci all’essenziale.
La signora Jaubert si basa soprattutto su due testi antichi che sembrano guidare ad una
soluzione del problema. C’è innanzitutto l’indicazione di un antico calendario sacerdotale,
tramandato nel Libro dei Giubilei, che è stato redatto in lingua ebraica nella seconda metà
del II secolo avanti Cristo. Questo calendario non prende in considerazione la rivoluzione
della luna e prevede un anno di 364 giorni, diviso in quattro stagioni di tre mesi, dei quali
due hanno 30 giorni e uno ne ha 31. Con sempre 91 giorni, ogni trimestre comprende
esattamente 13 settimane e ogni anno quindi esattamente 52 settimane. Di conseguenza,
le feste liturgiche di ogni anno cadono sempre nello stesso giorno della settimana. Ciò
significa, per quanto concerne la Pasqua, che il 15 di Nisan è sempre un mercoledì e che la
cena pasquale viene consumata dopo il tramonto alla sera di martedì. Jaubert sostiene che
Gesù avrebbe celebrato la Pasqua secondo questo calendario, cioè martedì sera, e sarebbe
stato arrestato nella notte di mercoledì.
Con ciò la studiosa vede risolti due problemi: da una parte, Gesù avrebbe celebrato una
vera cena pasquale, come riferiscono i sinottici; dall’altra, Giovanni avrebbe ragione in
quanto le autorità giudaiche, che si attenevano al loro calendario, avrebbero celebrato la
Pasqua solo dopo il processo di Gesù e quindi Egli sarebbe stato giustiziato nella vigilia
della vera Pasqua e non nella festa stessa. In questo modo la tradizione sinottica e quella
giovannea appaiono ugualmente giuste sulla base della differenza tra due calendari
diversi.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

Il secondo vantaggio sottolineato da Annie Jaubert mostra allo stesso tempo il punto debole
di questo tentativo di trovare una soluzione. La studiosa francese fa notare che le
cronologie tramandate (nei sinottici e in Giovanni) devono mettere insieme una serie di
avvenimenti nello spazio stretto di poche ore: l’interrogatorio davanti al sinedrio, il
trasferimento davanti a Pilato, il sogno della moglie di Pilato, l’invio ad Erode, il ritorno da
Pilato, la flagellazione, la condanna a morte, la via crucis e la crocifissione. Collocare tutto
questo nell’ambito di poche ore sembra – secondo Jaubert – quasi impossibile. Rispetto a
ciò la sua soluzione offre uno spazio temporale che va dalla notte tra martedì e mercoledì
fino al mattino del venerdì.
In quel contesto la studiosa mostra che in Marco per i giorni «Domenica delle palme»,
lunedì e martedì c’è una precisa sequenza degli avvenimenti, ma che poi egli salta
direttamente alla cena pasquale. Secondo la datazione tramandata resterebbero quindi due
giorni su cui non viene riferito nulla. Infine Jaubert ricorda che in questo modo il progetto
delle autorità giudaiche, di uccidere Gesù puntualmente ancora prima della festa, avrebbe
potuto funzionare. Pilato, tuttavia, con la sua titubanza avrebbe poi rimandato la
crocifissione fino al venerdì.
Contro il cambio della data dell’ultima cena dal giovedì al martedì parla, però, l’antica
tradizione del giovedì, che comunque incontriamo chiaramente già nel II secolo.
Ma a ciò la signora Jaubert obietta citando il secondo testo su cui si basa la sua tesi: si
tratta della cosiddetta Didascalia degli Apostoli, uno scritto dell’inizio del III secolo, che
fissa la data della cena di Gesù al martedì. La studiosa cerca di dimostrare che quel libro
avrebbe accolto una vecchia tradizione, le cui tracce sarebbero ritrovabili anche in altri
testi.
A questo bisogna, però, rispondere che le tracce della tradizione, manifestate in questo
modo, sono troppo deboli per poter convincere. L’altra difficoltà consiste nel fatto che l’uso
da parte di Gesù di un calendario diffuso principalmente in Qumran è poco verosimile. Per
le grandi feste, Gesù si recava al tempio. Anche se ne ha predetto la fine e l’ha confermata
con un drammatico atto simbolico, Egli ha seguito il calendario giudaico delle festività,
come dimostra soprattutto il Vangelo di Giovanni. Certo, si potrà consentire con la studiosa
francese sul fatto che il Calendario dei Giubilei non era strettamente limitato a Qumran ed
agli Esseni. Ma ciò non basta per poterlo far valere per la Pasqua di Gesù. Così si spiega
perché la tesi di Annie Jaubert, a prima vista affascinante, dalla maggioranza degli esegeti
venga rifiutata.
Io l’ho illustrata in modo così particolareggiato ,perché essa lascia immaginare qualcosa
della molteplicità e complessità del mondo giudaico al tempo di Gesù – un mondo che noi,
nonostante tutto l’ampliamento delle nostre conoscenze delle fonti, possiamo ricostruire
solo in modo insufficiente. Non disconoscerei, quindi, a questa tesi ogni probabilità, benché
in considerazione dei suoi problemi non sia possibile semplicemente accoglierla.
Che cosa dobbiamo dunque dire? La valutazione più accurata di tutte le soluzioni finora
escogitate l’ho trovata nel libro su Gesù di John P. Meier, che alla fine del suo primo
volume ha esposto un ampio studio sulla cronologia della vita di Gesù. Egli giunge al
risultato che bisogna scegliere tra la cronologia sinottica e quella giovannea e dimostra, in
base all’insieme delle fonti, che la decisione deve essere in favore di Giovanni.
Giovanni ha ragione: al momento del processo di Gesù davanti a Pilato, le autorità
giudaiche non avevano ancora mangiato la Pasqua e per questo dovevano mantenersi
ancora cultualmente pure. Egli ha ragione: la crocifissione non è avvenuta nel giorno della
festa, ma nella sua vigilia. Ciò significa che Gesù è morto nell’ora in cui nel tempio
venivano immolati gli agnelli pasquali. Che i cristiani in ciò vedessero in seguito più di un
puro caso, che riconoscessero Gesù come il vero Agnello, che proprio così trovassero il rito

24
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

degli agnelli portato al suo vero significato – tutto ciò è poi solo normale. (...) Ma allora, che
cosa è stata veramente l’ultima cena di Gesù? E come si è giunti alla concezione
sicura-mente molto antica del suo carattere pasquale? La risposta di Meier è
sorprendentemente semplice e sotto molti aspetti convincente. Gesù era consapevole della
sua morte imminente. Egli sapeva che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua. In
questa chiara consapevolezza invitò i suoi ad un’ultima cena di carattere molto particolare,
una cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il suo congedo,
in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la
sua Pasqua.
In tutti i Vangeli sinottici fanno parte di questa cena la profezia di Gesù sulla sua mor-te e
quella sulla sua risurrezione. In Luca essa ha una forma particolarmente solenne e
misteriosa: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia
passione, poiché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio»
(22,15s). La parola rimane equivoca: può significare che Gesù, per un’ultima volta, mangia
l’abituale Pasqua con i suoi. Ma può anche significare che non la mangia più, ma
s’incammina verso la Pasqua nuova.
Una cosa è evidente nell’intera tradizione: l’essenziale di questa cena di congedo non è
stata l’antica Pasqua, ma la novità che Gesù ha realizzato in questo contesto. Anche se
questo convivio di Gesù con i Dodici non è stata una cena pasquale secondo le prescrizioni
rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la connessione interiore
dell’insieme con la morte e risurrezione di Gesù: era la Pasqua di Gesù. E in questo senso
Egli ha celebrato la Pasqua e non l’ha celebrata: i riti antichi non potevano essere praticati;
quando venne il loro momento, Gesù era già morto. Ma Egli aveva donato se stesso e così
aveva celebrato con essi veramente la Pasqua. In questo modo l’antico non era stato
negato, ma solo così portato al suo senso pieno. (...) In base a ciò si può capire come l’ultima
cena di Gesù, che non era solo un preannuncio, ma nei Doni eucaristici comprendeva anche
un’anticipazione di croce e risurrezione, ben presto venisse considerata come Pasqua –
come la sua Pasqua. E lo era veramente.

25
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

1. 5. Ricostruzione delle parole della cena

Abbiamo tre versioni delle parole di Gesù: quella di Paolo e di Luca (che sono
simili); quella di Marco e Matteo (che sono ugualmente simili) e infine quella di
Giovanni (Gv 6).

1. 5. 1. Le parole interpretative del pane

Mt 26,26 Mc 14,22 Lc 22,19 1Cor 11,23-24 Gv 6,51

… mentre … mentre Poi prese il Il Signore "Il pane che


mangiavano, mangiavano, pane, rese Gesù, nella io darò è la
Gesù prese il prese il pane e grazie notte in cui mia carne
pane, recitò la recitò la [eucaristésas], veniva tradito, [sàrx mou],
benedizione benedizione lo spezzò e lo prese del pane, per la vita
[euloghésas], lo [euloghésas], lo diede loro, e dopo aver del mondo"
spezzò e, spezzò e lo dicendo: reso grazie
mentre lo dava diede loro, "Questo è il [eucaristésas],
ai discepoli, dicendo: mio corpo lo spezzò e
disse: "Prendete, [sôma mou] disse: "Questo
"Prendete, questo è il che è dato è il mio corpo
mangiate: mio corpo" per voi; [ypér [sôma mou]
questo è il [sôma mou]. ymôn che è per voi
mio corpo" didòmenon] [ypér ymôn];
[sôma mou]. fate questo in fate questo in
memoria di memoria di
me". me".

26
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

1. 5. 2. Le parole interpretative del vino

Mt 26,27-28 Mc 14,24 Lc 22,20 1Cor 11,25

Poi prese il calice, Poi prese un calice E, dopo aver Allo stesso modo,
rese grazie e rese grazie cenato, fece lo dopo aver cenato,
[eucaristésas] e lo [eucaristésas], lo stesso con il calice prese anche il
diede loro, dicendo: diede loro e ne dicendo: "Questo calice dicendo:
"Bevetene tutti, bevvero tutti. E calice è la nuova "Questo calice è
perché questo è disse loro: "Questo alleanza [kainê la nuova
il mio sangue è il mio sangue diathêche] nel mio alleanza [kainê
[aîmà mou] [aîmà mou] sangue [en to diathêche] nel mio
dell'alleanza [tes dell'alleanza [tes aîmati mou] che è sangue [en to
diathêches] che è diathêches] che è versato per voi aîmati mou]; fate
versato per molti versato per molti [ypér ymôn] ". questo, ogni
[ypér pollon] per il [ypér pollon]". volta che ne
perdono dei bevete, in
peccati". memoria di me".

Secondo la ricostruzione di Jeremias27, il testo comune delle parole sul pane


sarebbe: “questo (pane) è il mio corpo (la mia carne)”; invece il testo comune
delle parole sul vino sarebbe: “questo (calice di vino) è il mio sangue (sparso per
la conclusione) dell'alleanza”. Egli ritiene che le parole originali di Gesù furono
probabilmente: zeh besarì - zeh damì (se parlò in ebraico) oppure den bisrì - den
idmì (se parlò in aramaico). Ipotizza infatti che Gesù abbia usato l'ebraico “basàr” o
l'aramaico “bisrà” la cui traduzione letterale in lingua greca è “sarx” (“carne”);
“sôma” (“corpo”) sarebbe invece una traduzione ad sensum. Infatti l'accostamento
carne-sangue è molto frequente nella Bibbia, soprattutto nel linguaggio sacrificale e
anche nella letteratura ebraica e aramaica. Si tratta naturalmente soltanto di
un’ipotesi; ne esistono molte altre28.

27 JEREMIAS, Le parole dell'ultima cena, p. 203 e 207


28 Per esempio gûf=sôma=corpo (Dalman); pagrâ=sôma=corpo (Giraudo) Una rassegna delle varie
ipotesi si trova in MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2, p. 75-76.

27
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

1. 6. Storia della tradizione delle parole della cena

E' inutile chiedersi quale sia la versione più antica: in ogni testo ci sono dei
semitismi nel vocabolario e nello stile. Dietro le tre versioni ci sta la tradizione in
lingua aramaica del primo decennio dopo la morte di Gesù.
Certamente, dal punto di vista della redazione, il testo più antico è quello di Paolo,
che risale probabilmente all’anno 54; inoltre egli fa riferimento al fatto che egli ha
trasmesso fedelmente ai cristiani di Corinto (probabilmente nell’anno 49) ciò che a
sua volta aveva ricevuto precedentemente, probabilmente appena dopo la sua
conversione, nella comunità di Antiochia. Questo spiegherebbe la somiglianza del
racconto di Paolo con quello di Luca, che è anch’esso di derivazione antiochena. Si
tratta quindi di una tradizione che risale agli anni immediatamente successivi alla
morte e risurrezione di Gesù29. Anche il testo di Marco risale a una tradizione molto
antica: dal punto di vista letterario è molto ricco di semitismi. Tuttavia, partendo
da considerazioni di carattere non soltanto linguistico, ma anche dalla struttura
della cena, Mazza ritiene che la tradizione di Luca possa considerarsi più antica30.
E’ comunque abbastanza evidente che, sia nel testo di Paolo che in quello degli
evangelisti, gli autori danno l’impressione di riportare un racconto di una
tradizione che li precede e che non rispecchia il loro stile letterario.

1. 7. Lo svolgimento della cena31

I racconti di Marco, di Matteo e di Paolo sono poveri di informazioni riguardo a ciò


che Gesù ha fatto, durante l’ultima cena: si limitano a riportare ciò che serve alla
comunità cristiana per celebrare la Cena del Signore: le sue parole e i suoi gesti
riguardanti il pane e il calice.

29Vedi: MAZZA, La celebrazione eucaristica, p. 35-36, che fa riferimento a: JEREMIAS, Le parole


dell'ultima cena, p. 212-226.
30 Vedi: MAZZA, La celebrazione eucaristica, p. 37.
31 Troviamo un’accurata ricostruzione in: MAZZA, La celebrazione eucaristica, p. 39-49.

28
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

Luca invece offre una descrizione più ampia di come sono andate le cose. Secondo il
suo Vangelo, nella cena vi sarebbero state tre parti: un rito di apertura, la cena
vera e propria e un rito di chiusura.
Il rito di apertura sarebbe stato composto da un rito del calice e da un rito del pane.
Riguardo al calice, Gesù ha reso grazie, l’ha offerto agli apostoli perché lo facessero
passare, e ha accompagnato il gesto con un discorso escatologico; anche riguardo al
pane, Gesù ha reso grazie, l’ha spezzato e distribuito (gesto che, tradizionalmente,
apriva il pasto) e ha accompagnato il gesto con le parole esplicative e col comando di
ripetere.
A questo rito di apertura sarebbe seguita la cena vera e propria.
Dopo la cena, invece, Gesù ha di nuovo reso grazie sul calice e ha pronunciato le
parole esplicative; era infatti comune, per gli Ebrei, l’uso di concludere i pasti
solenni con l’azione di grazie (la birkat-ha-mazon).
Tutto ciò che Luca narra sembra corrispondere alla struttura della cena festiva
giudaica, che era composta di tre momenti.
- All’inizio c’era il rito del qiddush (santificazione), che apriva la celebrazione della
festa; era diviso in tre parti: benedizione di Dio per dono del frutto della vite;
benedizione per il giorno di festa; benedizione per il dono del pane, che subito dopo
veniva spezzato e distribuito ai commensali dal padre di famiglia.
- Seguiva la cena vera e propria.
- Il tutto si concludeva con un rito di chiusura, che consisteva nella recita della
birkat-ha-mazon, cioè della preghiera di rendimento di grazie, che si recitava
tenendo in mano il calice, leggermente sollevato dal tavolo.
Secondo Mazza, tutto ciò spiegherebbe come mai Marco e Matteo affermino, da una
parte, che Gesù “prese il pane e recitò la benedizione [euloghésas]” e, dall’altra, che
egli “prese un calice e rese grazie [eucaristésas]”, conservando così il ricordo del
qiddush iniziale, riguardo al pane, e della birkat-ha-mazon conclusiva del pasto,
riguardo al calice.
E’ pertanto ipotizzabile che, conformemente a quanto narra Paolo (e lascia
intendere anche Luca), i gesti e le parole riguardanti il pane siano avvenuti

29
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

all’inizio della cena mentre quelli riguardanti il calice siano avvenuti a conclusione
della cena32.

1. 8. Il significato dei gesti e delle parole di Gesù

1. 8. 1. Mangiare e bere nella Sacra Scrittura 33

Si rimane stupiti dell’abbondanza di riferimenti al cibo, ai pasti, ai banchetti, che


troviamo sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Mangiare e bere sono necessità
vitali per l'essere umano; ma sono anche segno della sua dipendenza dal mondo e
dal Creatore. Il primo significato (dipendenza di ogni vivente dall’ambiente esterno)
emerge in modo chiaro per chi sia abituato a riflettere sul senso di ciò che fa; il
secondo (dipendenza dai doni del Creatore), invece, richiede un riconoscimento che
presuppone un atto di fede, e questo è libero.
Nella Scrittura, per esempio, il cammino del popolo di Israele nel deserto, con
l’aspetto di indigenza che lo accompagna e che rende necessario il dono della
manna, hanno lo scopo di educare il popolo di Israele a riconoscere questa
dipendenza (Dt 8,3: “non di solo pane...”). Anche la pratica del digiuno, con il suo
aspetto di privazione temporanea del cibo, ha come scopo l’educazione a non
considerare quest’ultimo come una cosa scontata e a risalire dal dono al donatore. Il
Vangelo di Giovanni, nel discorso dopo la moltiplicazione dei pani (Gv 6), afferma
che Gesù ha insistito sull’esigenza di non fermarsi al soddisfacimento del bisogno
immediato (la fame), per riconoscere la dipendenza dell'essere umano da Dio, fonte
della vita, grati per l'abbondanza con cui egli nutre chi ha fiducia in lui.
Nella Bibbia è sottolineato un altro significato simbolico del nutrimento, comune a
tutte le culture. Mangiare con gli altri significa attingere alla stessa sorgente di
vita; inoltre è occasione per scambiare pensieri, dialogare ed entrare in comunione.
Le alleanze, sia tra gli esseri umani (Gen 26,30; 31,54), sia tra gli uomini e Dio (Es

32 Vedi anche: MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2, p. 33,


33 Vedi: LEON-DUFOUR, Condividere il pane eucaristico, p. 39-52.

30
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

24,5-11), sono sempre sigillate da un banchetto. Mangiare insieme a qualcuno può


anche significare il suo perdono e la sua riabilitazione (2Re 25,27-30) e quindi la
ricostruzione di un legame infranto. Per questo motivo Gesù mangiava con i
peccatori che si convertivano e, proprio per questo, la cosa suscitava dubbi e
contestazioni (per esempio: Mt 9,10-12; 11,19; Lc 5,29-30; 15,1). Sempre per questo
motivo agli ebrei era proibito sedere a tavola con i pagani e ciò ha creato attriti e
discordie nella prima comunità cristiana (At 11,3). Infatti, per un ebreo, ogni pasto
condiviso creava una comunione religiosa per mezzo del rito della frazione del pane,
e lo stesso valeva per il calice: ciascuno dei commensali, mangiando e bevendo,
riceveva una parte della benedizione data agli alimenti.
Pertanto la speranza escatologica, annunciata dai profeti, era quella che Dio
riunisse attorno a sé tutti i suoi fedeli, in un grande banchetto, simboleggiante la
pienezza della vita e della comunione con lui (Is 25,6; Am 9,13). Anche Gesù (Mt
8,11; Lc 14,15-16) e gli autori del Nuovo Testamento (Ap 3,20) utilizzano
l’immagine del banchetto, più di ogni altra, per parlare del compimento finale delle
speranze dei credenti.

1. 8. 2. Gesù a cena con i discepoli34

I quattro testi del Nuovo Testamento che abbiamo citato, a parte la questione della
data, sono sostanzialmente concordi sui fatti narrati: a Gerusalemme, durante una
cena con i suoi discepoli, fatta di sera (Mc e Mt) ovvero di notte (1Cor), quando
ormai Giuda aveva deciso di tradirlo, poche ore prima del suo arresto e della sua
crocifissione, Gesù ha distribuito ai discepoli del pane da lui spezzato e un calice
contenente del vino, pronunciando parole interpretative, in un contesto di
preghiera. Si trattava di un pasto consumato nell’imminenza della festa di Pasqua
(anche prescindendo dalla questione se era o non era una cena pasquale). Gesù era
consapevole che la sua morte era imminente e ha voluto lasciare ai discepoli, da cui
doveva separarsi, qualcosa di molto importante attraverso quelle parole e quei gesti
aventi per oggetto il pane e il vino.

34 Vedi: LEON-DUFOUR, Condividere il pane eucaristico, p. 56-59.

31
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

E’ stato sottolineato che si tratta dell’unica volta in cui i vangeli menzionano un


pasto preso da Gesù soltanto con i suoi discepoli (anche se possiamo dare per
scontato che ciò avvenisse molto spesso) e che, negli altri racconti ove Gesù
partecipa a un banchetto, egli è spesso interrotto dall’intrusione di persone
estranee (per esempio: Lc 7,36-50; 14,1-6; Gv 12,1-11), mentre nei racconti della
cena questo non succede35. Sicuramente la figura di Gesù domina incontrastata la
scena.
Nel racconto che ci è stato tramandato vi sono due aspetti. Da una parte è evidente
che i discepoli hanno vissuto quella cena come qualcosa di diverso da tutti gli altri
pasti presi con Gesù, un evento straordinario, che li ha profondamente colpiti: era
una sorta di addio e, mediante le sue parole e i suoi genti, Gesù ha sintetizzato il
significato della sua vita. Dall’altra parte, i discepoli hanno compreso che il gesto di
Gesù doveva essere ripetuto: era il fondamento di qualcosa che anche loro
avrebbero dovuto compiere. E’ questo che molti autori vogliono dire, quando
affermano che nei racconti della cena abbiamo l’intrecciarsi di una tradizione
testamentaria e di una tradizione cultuale36.
Prescindendo dalla questione già affrontata sulla cronologia degli ultimi giorni di
Gesù, è comunque da tenere presente che la cena avviene nell’imminenza della
Pasqua e, quindi, in un clima pasquale. Inoltre si può osservare che la religiosità
del popolo di Israele, che Gesù condivide, collega ogni pasto con la Pasqua e lo
colloca in un contesto religioso. Ogni pasto infine, per gli israeliti, è anticipazione
del banchetto messianico, al quale ognuno sperava di prendere parte, per realizzare
la definitiva e perfetta comunione con Dio37.

35 Vedi: LEON-DUFOUR, Condividere il pane eucaristico, p. 58-59.


36 Per esempio: LEON-DUFOUR, Condividere il pane eucaristico, p. 86-97.
37 MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2, p. 37. BOUYER, L’eucaristia, p. 104-106.

32
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

1. 8. 3. Il significato dei gesti e delle parole di Gesù riguardo al pane38

Marco e Matteo riferiscono la formula più breve: “Questo è il mio corpo”. Luca e
Paolo aggiungono: “dato per voi”.

“Prese il (del) pane”.


Per i popoli del mediterraneo, nell’antichità e anche oggi, il pane è l’alimento
fondamentale, tanto che nel linguaggio ordinario spesso la parola “pane” equivale a
“cibo” o “nutrimento”. Ha inoltre la caratteristica di poter essere spezzato e
distribuito a più commensali, il che lo rende adatto al gesto che Gesù compie
nell’ultima cena. In particolare per gli israeliti il pane rappresenta la vita donata e
conservata dal Creatore; per questo la manna, che aveva nutrito il popolo di Israele
nel deserto, è definita “pane disceso dal cielo” (Gv 6); anche nell’esperienza di Elia
(1Re 19,6), il dono del pane è il segno evidente del fatto che Dio non abbandona chi
gli è fedele. Inoltre, nella Scrittura, il pane è spesso nominato come simbolo della
parola di Dio o della sua legge che, per il fedele, è nutrimento e vita (Dt 8,3; Am
8,11; Sap 16,26) ed è proprio questo che permette a Gesù di parlare di se stesso
come “pane della vita” (Gv 6), poiché lui è la Parola di Dio fatta carne. Infine il pane
evoca il banchetto escatologico, al quale Dio inviterà i suoi fedeli, perché si cibino
della sua parola e della vita che egli dona (Ez 2,8-3,3; Sir 24,21; Prv 9).
Ai tempi di Gesù si mangiava generalmente del pane di orzo (vedi: Gv 6); quello di
frumento era un lusso. Veniva cotto circa una volta alla settima e, come lievito, si
usava un po’ di pasta dell’infornata precedente. Simbolicamente il lievito poteva
avere un’accezione positiva, indicando la forza interiore (Mt 13,3), ma anche
un’accezione negativa, indicando la corruzione (Mt 16,6 e //; 1Cor 5,6; Gal 5,9), per
cui, per la festa di Pasqua, si eliminava il lievito vecchio (1Cor 5,6-8).
Prendere il pane, nel contesto della cena ebraica, è un gesto ordinario. Ma qui
denota la libertà e la determinazione di Gesù. Se il pane, come vedremo, è il suo
corpo, cioè Lui stesso e la sua persona, Gesù dimostra di essere pienamente
padrone di sé, di avere in mano se stesso e la sua persona, con la volontà di farne

38Vedi: MAZZA, Le odierne preghiere eucaristiche, p. 309-311; LEON-DUFOUR, Condividere il


pane eucaristico, p. 119-134; MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2, p. 68-82.

33
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

dono. Per questo egli afferma “Io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.
Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di
riprenderla di nuovo” (Gv 10,17-18). Gesù non muore perché la sua sorte gli è
sfuggita di mano, ma perché l’ha consapevolmente presa in mano, con la volontà di
donarla.

“…rese grazie [eucaristésas] / benedisse [euloghésas]”.


Ci siamo già chiesti se la preghiera di Gesù sul pane sia stata un’azione di grazie
(birkat-ha-mazon) o una benedizione (qiddush). Preme sottolineare che,
conformemente alle usanze del suo popolo, Gesù inizia il pasto con la preghiera. Ma
un atteggiamento di preghiera e di gratitudine verso il Padre ha contrassegnato
tutta la sua vita (Mt 11,25-26; Gv 11,41). Gesù ama il Padre e il prossimo perché
vive immerso nel rendimento di grazie. Anche nel momento della cena, dalla
consapevolezza riconoscente di essere amato dal Padre, egli attinge la forza di
continuare ad amare e a donarsi. Anzi egli stesso diviene un rendimento di grazie.
Giustamente la lettera agli Ebrei ha interpretato la preghiera di Gesù nel momento
in cui decide di offrirsi liberamente alla sua passione, alla luce del Salmo 39 [40],
ove l’offerta di sé nasce dalla riconoscenza per i benefici ricevuti da Dio (Eb 10,5-
10). Così, mentre ringrazia per i doni ricevuti dal Padre, Gesù ne fa dono, e
trasforma interamente se stesso in un dono.
Come spiega molto bene Pagazzi: “Il sacrificio di Gesù, prima di essere e per poter
essere il «dono di sé», è la «presa di sé» e delle cose – senza le quali non ci sarebbe il
«sé» – ringraziando. Prima di essere la rinuncia alla propria vita, il sacrificio di
Gesù è la rinuncia alla relazione sbagliata con la propria vita, quella cioè che –
sorda al magistero delle cose – interpreta l’esistenza nei termini di dovuta, assoluta
e scontata disponibilità. Il sacrificio di Gesù è accettare di essere il Figlio, vale a
dire impegnarsi in ogni momento a riconoscere cose, carne, vita, come doni ricevuti
da altre mani, quelle del Padre. Certo, il sacrificio di Gesù mostra incomprensibile
generosità nel dare, ma prima realizza l’inaudita gratitudine nel prendere. […] La
presa di Gesù attua – articolandoli come fossero una la condizione di possibilità
dell’altro – i due significati del misterioso verbo greco lambano, normalmente
ritenuti opposti e alternativi. Il Nuovo testamento ben conosce i due sensi di
lambano, che indica sia «prendere» sia «ricevere». Evidentemente «prendere» esalta

34
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

la tonalità attiva, libera e intraprendente del soggetto, mentre «ricevere» ne


evidenzia il risvolto passivo. Prendendo, Gesù riceve; e quindi, prendendo,
ringrazia” 39.

“…lo spezzò”.
Anche questo è un gesto usuale. Il capo-famiglia o il membro più importante di un
gruppo inizia il pasto spezzando il pane e distribuendolo tra i commensali. Si tratta
anzitutto di un segno di ospitalità. Inoltre il gesto crea ed esprime comunione: i
commensali, poiché mangiano dello stesso pane, attingono alla stessa sorgente di
vita. Non sembra però eccessivo né arbitrario vedere nel gesto compiuto da Gesù un
riferimento alla sua morte violenta, di cui egli ha consapevolezza profetica: come il
pane viene spezzato per diventare nutrimento e vita, così Egli sarà ucciso, ma la
sua morte diventerà fonte di vita eterna per i credenti.

“…lo diede”.
Di nuovo, un gesto usuale assume un significato che va ben al di là dell’ordinario.
Tutta la vita di Gesù era stata contrassegnata dal dono di sé. In questo gesto,
compiuto durante la cena, egli esprime la sua intenzione di raggiungere il massimo
dell’auto-dedizione laddove gli uomini raggiungeranno il massimo del rifiuto e
dell’ingratitudine. L’atteggiamento con cui egli affronterà la morte porterà alle
estreme conseguenze la dinamica di auto-donazione che ha segnato tutta la sua
vita. Potremmo dire che “Cristo stesso si fa gesto, si concentra e si immette
totalmente in quel gesto che egli compie. Egli si fa ed è l’atto del donarsi” 40.

“…prendete, mangiate”.
Gesù dona se stesso. Ma nessun dono giunge al suo scopo, che è la creazione di un
legame, se non è accolto e accettato. L’invito/comando (riportato solo nel Vangelo di
Matteo) esprime questa esigenza: i discepoli debbono accogliere il dono, affinché
non cada nel vuoto. L’accoglienza del dono di Gesù si esprime simbolicamente
proprio attraverso l’atto del mangiare. Potremmo osservare che l’invito a mangiare

39 PAGAZZI, Fatte a mano, p. 78.


40 MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2, p. 69.

35
Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

il pane, rivolto ai discepoli nel Vangelo di Matteo, corrisponde all’invito a lasciarsi


lavare i piedi, rivolto a Pietro nel Vangelo di Giovanni (Gv 13,8). Accettare e
accogliere il gesto di Gesù che dona se stesso significa entrare in una dinamica di
amore che porta chi l’accetta a fare anche della propria vita un dono; la regola è
quella di amare come Egli ci ha amati (Gv 13,34) e di fare agli altri ciò che egli ha
fatto a noi (Gv 13,15). Per questo Von Balthasar scrive: “La bocca che lo consuma è
parte costitutiva essenziale del sacrificio del Signore. Egli coinvolge i suoi nella sua
azione”41. Mazza, citando Welte, osserva che quando si dice: “Cristo diventa cibo” si
definisce la cena in modo incompleto. E’ meglio dire: “La morte di Cristo diventa
pasto”, poiché il cibo esiste solo per il pasto. Gesù non dice solo “questo è...”, ma
anche: “prendete, mangiate, bevete...” 42. Potremmo aggiungere che il verbo
“mangiare” (come anche “bere”) esprime sia la profondità del coinvolgimento del
donatore (Gesù si fa pane da mangiare e vino da bere), sia la profondità del
coinvolgimento che viene richiesto a chi accoglie il dono (il discepolo è invitato a
fare della vita donata del maestro e Signore il suo nutrimento e la sua bevanda) 43.

“…questo è il mio corpo” (soma).


Nella Bibbia, la parola “corpo” non indica soltanto l'organismo dell’essere umano
nella sua materialità, ma la persona tutta intera: l’uomo non ha un corpo, ma è un
corpo. Inoltre la parola “corpo” (come anche la parola “carne”) può avere due
sfumature. Anzitutto indica la persona in quanto può esprimersi, manifestarsi ed
entrare in relazione con gli altri e con il mondo esterno. A volte invece ha anche
una sfumatura di fragilità creaturale: indica la persona destinata a morire oppure
il cadavere, mentre “spirito” indica la persona che partecipa della potenza di Dio.
Quindi dire: “questo è il mio corpo” equivale a dire: “questo sono io”, ma anche:
“questa è la mia persona, in relazione con voi” e “questa è la mia persona, nella sua
fragilità, che è destinata alla morte”. E’ da notare che il pronome dimostrativo
“questo” dice che non tutto il pane del mondo è il corpo di Gesù, ma solo quel pane
che è stato caricato di un significato intenzionale, legato al suo gesto e alle sue

41 VON BALTHASAR, Sponsa Verbi, p. 199.


42 MAZZA, Le odierne preghiere eucaristiche, p. 303.
43 AA.VV., L’eucaristia celebrata, p. 26-27.

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parole.

“…dato”.
Se “corpo” significa “persona”, “dato” specifica quale persona è Gesù. Ogni persona
ha un’identità. L’identità di Gesù è espressa da questo verbo. Consapevole di essere
dono del Padre celeste, Gesù vive il dono di sé non come un’azione tra le altre, ma
come suo costante orientamento. Poiché ha fatto della sua esistenza un dono, egli
sarà coerente fino in fondo con questa scelta: anche la sua morte violenta sarà
vissuta come un dono. Gesù stabilisce una identificazione tra se stesso e quel pane,
tra il destino di quel pane e il suo destino imminente. Il pane che viene mangiato
nell’ultima cena avrà la sua verità sulla croce. Come il pane quando viene mangiato
dona vita, così la morte di Gesù, che è un’apparente sconfitta, sarà invece fonte di
vita, manifestando la vittoria dell’amore sul male.

“per voi”.
E' solo in Paolo e Luca. La vita di Gesù è donata. Un dono, per essere
effettivamente un dono, deve avere un destinatario e trovare accoglienza. Mangiare
il pane che Gesù dona vuol dire accogliere il dono di sé che Gesù compie come, nel
Vangelo di Giovanni, Pietro deve accettare che Gesù si faccia suo servo e gli lavi i
piedi, per avere parte con lui.
Qualcuno interpreta il greco hyper (= per) nel senso di sacrificio sostitutivo di
espiazione, come se significasse “al posto di”, ma è eccessivo 44. E’ meglio
interpretarlo come espressione di amore e di dedizione generosa (“a favore di”, “ a
vantaggio di”).

In conclusione.
Da queste parole emerge che Gesù non vuole tanto dare da mangiare il suo corpo
materiale, ma piuttosto invitare ad entrare in comunione con lui che dona se stesso.
Come il pane significa, allora come oggi, nutrimento e vita, Gesù afferma che la sua
persona, attraverso il dono di sé che egli fa sulla croce, diventa per i discepoli, il

44Infatti chi ha tradotto in lingua italiana il messale, ha aggiunto in modo arbitrario, alle parole di
Gesù nella preghiera eucaristica, l’espressione: "in sacrificio", mentre la traduzione esatta del
messale latino sarebbe "questo è il mio corpo, che è dato per voi".

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nutrimento e la vita. Attraverso quel pane, i discepoli sono invitati a nutrirsi della
persona di Gesù, e del rapporto con lui. Come il pane esiste per essere spezzato e
mangiato, così Gesù è venuto nel mondo per donare se stesso. Per questo egli farà
della sua morte in croce, causata dall'odio e dal tradimento, l'occasione per un
amore più grande. Accogliere questo atto d'amore significa ricevere vita.
In pratica Gesù dice: “prendete e mangiate: questo pane sono io, che dono
totalmente me stesso e divento vostro cibo, vostro nutrimento, perché voi
viviate in eterno”.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

1. 8. 4. Il significato dei gesti e delle parole di Gesù riguardo al calice45

Sulle parole di Gesù riguardo al calice, le due tradizioni presentano maggiori


differenze.
Marco e Matteo riportano la formula: “Questo è il mio sangue dell’alleanza”.
Luca e Paolo invece riportano al frase: “Questo calice (è) la nuova alleanza nel
mio sangue”.
Le due tradizioni sono complementari: una riguarda il compimento dell'alleanza;
l'altra la fedeltà assoluta di Gesù all'alleanza, fino all'effusione del sangue.
L'elemento comune e l’idea che bere al calice faccia entrare nell'alleanza.
Marco e Matteo dicono che il sangue è “versato per molti”; solo Matteo aggiunge
che esso è versato “in remissione dei peccati”; Luca invece afferma che il sangue
“è versato per voi”, riferendosi naturalmente ai commensali dell’ultima cena, ma
anche a tutti coloro che parteciperanno alle successive Cene del Signore.

“Prese il/un calice”.


Per quanto riguarda il verbo “prendere”, vale ciò che abbiamo detto
precedentemente, riguardo alle parole riguardanti il pane.
Nella Scrittura, la parola “calice” indica simbolicamente il destino di una persona,
ciò che lo aspetta, il suo futuro, in modo speciale quando la persona in questione
dovrà affrontare difficoltà e prove (vedi: Is 51,17; Ger 16,7; Mt 26,39). Pertanto
“bere allo stesso calice” può significare che si affronterà una sorte comune e che si
sarà solidali nella prova (vedi: Mt 20,22).
Sembra di poter aderire all’ipotesi che, nella cena di Gesù, il calice era unico ed era
condiviso dai commensali (anche se qualche studioso non è d’accordo). Questo crea
un forte simbolo di condivisione.
Anche se il testo non lo dice espressamente, sappiamo con certezza che il calice
conteneva del vino. In ogni cultura il vino è simbolo di gioia, di festa, di
abbondanza. In particolare, nella Scrittura, il vino è simbolo della gioia che Dio dà
agli uomini (Sal 103[104]) e caratterizza la terra promessa (Dt 6,11; 8,8) come dono

45Vedi: MAZZA, Le odierne preghiere eucaristiche, p. 311-316; LEON-DUFOUR, Condividere il


pane eucaristico, p. 137-153.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

che arreca pienezza di vita, felicità, comunione. Per questo l’abbondanza del vino fa
parte delle promesse che caratterizzano il futuro escatologico (Ger 31,12), per cui
Gesù inizia il suo ministero pubblico con un miracolo che trasforma dell’acqua in
ottimo vino (Gv 2,1-11), per significare che il tempo della gioia messianica è
arrivato e, a differenza di Giovanni il Battista (Lc 1,15; Mt 11,18 e //), non si priva
del vino (Mt 11,19 e //). D’altra parte, nella scrittura, la vigna (Is 3,14; 5,1ss; 27,2;
Ger 2,21; 6,9; Na 2,2; Sal 79) o la vite (Os 10,1) sono un’immagine del popolo di
Israele, per cui Gesù parlerà di se stesso come della vite (Gv 15) e riprenderà lo
stesso simbolismo quando paragonerà i capi di Israele a dei vignaioli disonesti e
omicidi (Mc 12,1s e //). Infine la vendemmia è simbolo del giudizio di Dio (Ger 25,15;
Ap 14,18-20).

“…rese grazie [eucaristésas] e lo diede loro”.


Si trova solo in Marco e Matteo. Per il significato del rendimento di grazie e del
dare il calice, vale ciò che abbiamo detto riguardo alle azioni corrispondenti, quando
parlavamo del pane.

“…bevetene tutti”.
Si trova solo in Matteo. Anche qui, come per il pane, l’invito/comando chiede ai
discepoli di accogliere il dono di Gesù. Si tratta del sangue, cioè della vita che Gesù
dona, che i discepoli sono chiamati a condividere.

“Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti (in


remissione dei peccati”.
E’ la versione di Marco e Matteo. Sono parole che richiamano ciò che Mosé aveva
detto, a proposito del sangue con cui il popolo di Israele era stato asperso dopo il
sacrificio sul monte Sinai, per significare una comunione indissolubile tra Dio e il
popolo (Es 24,8; vedi anche Zc 9,11). Come il sangue asperso da Mosè aveva unito in
alleanza Dio e il popolo di Israele, così il sangue (vita) di Gesù è l'alleanza
definitiva tra Dio e i discepoli di lui. Infatti Gesù è contemporaneamente dalla
parte di Dio e da quella degli uomini, per cui la sua morte in croce è, da una parte,
la manifestazione del fatto che Dio si spende per le sue creature e, dall'altra, l'atto
di un uomo che accetta di obbedire perfettamente a Dio.

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“Questo calice (è) la nuova alleanza nel mio sangue (che è versato per
voi)”.
E’ la versione di Luca e Paolo. Di una alleanza nuova, in cui la legge sarebbe stata
scritta nel cuore dei membri del popolo di Dio, aveva parlato il profeta Geremia
(Ger 31,31-34). Sembra però che qui vi sia pure un richiamo al servo di Yahvé, di
cui parla Isaia (Is 53). Il dono di sé, compiuto da Gesù, consistente nella fedeltà fino
all'effusione del sangue, fonda un'alleanza nuova ed eterna.

“…sangue”.
Nell'Antico Testamento il sangue è la fonte della la vita (Gen 9,4; Lv 17,11; Dt
12,23) e, in quanto tale, appartiene solo a Dio (Lv 17,11.14). Dare il sangue
significa trasmettere la vita. Ecco perché nessuno può versare il sangue di un altro:
la vita appartiene a Dio solo. Per questo, inoltre, il sangue è sacro, non può essere
toccato e nemmeno bevuto (Gen 9,4; Lv 3,17; 7,26; 17,12; 1926; Dt 12,23) e non si
può mangiare della carne senza averle tolto il sangue (anche in At 15,20; 21,25). Il
contatto con il sangue, come sappiamo, rende una persona ritualmente impura, per
cui richiede dei riti di purificazione. In senso traslato, “bere il sangue” significa
anche causare una brutale carneficina (Sir 12,16; Ger 46,10; Zc 9,12; Ap 17,6)46.
Le parole di Gesù fanno pensare che egli non voglia dare da bere agli apostoli un
calice di sangue, ma piuttosto un calice di vita: la sua vita totalmente donata e
capace di comunicare vita a loro.

“…versato”.
Versare il sangue significa dare o ricevere una morte violenta; infatti il sangue esce
dal corpo solo in seguito a una ferita, a un trauma. Gesù è consapevole di andare
incontro alla morte. Interpreta la sua morte imminente nella linea di quella dei
profeti. Egli trasforma la morte che dovrà subire in un dono di amore: offre la sua
vita come fonte di vita per i discepoli. Il calice che Gesù offre ai discepoli contiene la
sua vita, che è donata in loro favore.

46 Vedi: BROWN, Giovanni, p. 368.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

“alleanza”.
L’alleanza con Dio è il fondamento della religiosità della Scrittura e la ragione di
esistere del popolo di Israele. Stabilita tra Dio e Abramo (Gen 15,17), viene
solennemente ratificata da Mosè a nome di tutto il popolo di Israele (Es 24,8);
infranta dall’infedeltà del popolo, viene promessa da Dio come nuova ed eterna (Ger
31-32; Is 55,3) e destinata ad aprirsi a tutti i popoli (Is 60.62).
L’identificazione che fa la tradizione antiochena (Paolo e Luca) tra il calice e
l’alleanza (questo calice (è) la nuova alleanza), mostra che il dono che Gesù fa
della sua vita si identifica con la solidarietà di Dio e ne è la manifestazione. Ma è
anche la risposta perfetta dell’essere umano a Dio, risposta che non si era mai
realizzata così pienamente nella storia di Israele. Gesù, nella sua vita, ma in
perche
particolare nella passione, è l’alleanza in persona: è Dio che si dona completamente
all’uomo ed è l’uomo che si dona totalmente a Dio.

come per correggere l'infedelità dell'uomo.


“…nuova”.
La storia di Israele è segnata dalla fedeltà di Dio e dall'infedeltà dell'uomo.
Geremia prefigura un'alleanza nuova, grazie all'azione di Dio (Ger 31,31). Gesù è
colui che pattuisce l'alleanza e contemporaneamente, il modo di pattuizione. Anzi,
l'alleanza è la persona stessa di Gesù. “Nuova” non significa una svalutazione, ma
piuttosto il compimento delle precedenti alleanze: nulla di ciò che era avvenuto
precedentemente nella storia della salvezza raggiunge il livello di questo atto, ma
tutto lo prefigura.

“…per molti” (pollòi).


Si tratta del corrispondente greco di un termine semitico (in ebraico rabbim) che
significa “le moltitudini”, “la totalità”. Non ha quindi il significato della lingua
italiana, ove “molti” è contrapposto a “pochi”. Si tratta invece dei “molti”, delle
“moltitudini” di cui parla la profezia di Isaia (Is 53,12: “Perciò io gli darò in premio
le moltitudini […] egli portava il peccato di molti”). In queste moltitudini non vi
sono soltanto gli ebrei, ma anche i pagani.

“…in remissione dei peccati”.


E’ il Vangelo di Matteo che parla della remissione dei peccati. Poiché l’alleanza

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

stipulata sul Sinai è stata infranta più volte dall’infedeltà di Israele, non vi può
essere un’alleanza, se l’essere umano non si converte e se Dio non concede il suo
perdono. Ed è in vista di questo perdono che Gesù offre se stesso.

In conclusione.
Le parole sul calice ricapitolano il senso dell'esistenza di Gesù. Gesù fa una
rivelazione sulla sua morte, ma soprattutto sulla vita che ne scaturirà. Perciò
queste parole completano quelle sul pane. Sul pane era indicato il dono totale di
Gesù e la sua volontà di dare vita agli uomini; sul calice, il fatto che la morte
violenta che Gesù accetta, realizzerà la remissione dei peccati e la comunione di
vita tra Dio e gli uomini. Tentando di tradurre in termini attuali le parole di Gesù,
potremmo dire: "prendete e bevete: in questo calice c'è la mia vita, spesa
totalmente per voi. Ve lo dono, affinché i vostri peccati siano perdonati e
voi possiate essere in comunione con Dio".

1. 8. 5. Il comando di ripetere

“Fate questo in memoria di me”.


Il comando di ripetere è riportato da Luca e da Paolo (Luca solo per il pane, mentre
Paolo sia per il pane che per il calice). Per Matteo e Marco la ripetizione non è
ordinata, ma è implicita.
Gesù non si è limitato a compiere l’azione nella quale ha espresso e racchiuso il
significato della sua morte. Mentre ha invitato i discepoli a fare qualcosa in quella
cena (“mangiate… bevete”), egli ha dato loro un comando per il futuro. Il “fate
questo” riguarda l'intera azione compiuta da lui nella cena e, naturalmente, anche
l’accoglienza del suo dono.
Jeremias ha ipotizzato che, con queste parole, Gesù abbia chiesto di fare memoria
di Lui davanti a Dio, perché Dio si ricordasse di Gesù stesso. Sembra un’ipotesi del
tutto estranea al testo, ove invece la comunità dei discepoli è chiamata a fare
quell’atto per fare memoria di Gesù: non solo del gesto della cena o della sua
passione, ma di Gesù in sé, di ciò che egli è stato, è e sarà per la comunità stessa.
Inoltre è da notare che, nella Bibbia, quando si fa memoria, oggetto della memoria

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

sono le grandi opere compiute da Dio. Ma in questo caso Gesù si mette al posto di
Dio o meglio pone la sua Pasqua tra le opere di Dio, come la più grande, quella che
dà compimento a tutte le altre.
Da notare che, con ogni probabilità, il comando riguarda l’azione compiuta da Gesù,
non necessariamente il contesto di banchetto (cena), all’interno del quale l’azione di
Gesù è collocata. Questo ha permesso alla Chiesa del secondo secolo di separare le
due cose e di celebrare l’eucaristia al di fuori della cena senza ritenere, per questo,
di essere infedele al comando del Signore.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

1. 9. Altri elementi significativi della Scrittura

1. 9. 1. “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia
passione” (Lc 22,15) 47

L’espressione “mangiare la Pasqua” significa mangiare l'agnello pasquale 48.

Pertanto, secondo molti commentatori, questa frase sarebbe la prova che l’ultima
cena di Gesù era una cena pasquale. Ma non è così sicuro: altri ritengono che la
frase significhi che Gesù avrebbe voluto celebrare la Pasqua ma non ha fatto in
tempo.
Comunque l’ultima cena è voluta da Gesù; nel Vangelo di Luca è Gesù stesso che
prende l’iniziativa della cena, affidandone la preparazione a Pietro e a Giovanni (Lc
22,8); invece in quelli di Marco e Matteo sono i discepoli a prepararla, consapevoli
di dover realizzare la volontà del maestro (Mt 26,17; Mc 14,12).
Comunque Gesù è colui che decide con volontà libera. Negli ultimi giorni di vita egli
ha visto crescere continuamente i contrasti con i suoi avversari; tuttavia egli non si
è ritirato, anzi, è parso divenire sempre più provocatorio. Sembra quasi che volesse
far esplodere la situazione, portandola a un punto di non ritorno. Egli conosceva
l’intenzione che avevano i suoi avversari di ucciderlo e prevedeva una fine violenta,
in modo simile a quanto era accaduto ad altri profeti inviati da Dio. Da tale
consapevolezza nasce il desiderio di Gesù di mangiare quella cena, l’ultima, con i
suoi discepoli. Sia che Gesù abbia potuto mangiare la Pasqua, sia che la sua morte
glielo abbia impedito, la frase che egli dice (“ho tanto desiderato…”) non esprime
tanto un desiderio frustato (“avrei voluto, ma non posso”) ma l’attesa di un
momento decisivo che è finalmente arrivato.

47 MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2, p. 52-53.


48 Soprattutto: JEREMIAS, Le parole dell’ultima cena, p. 258 ss.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

1. 9. 2. “Nella notte i cui veniva tradito (e paredìdeto)” (1Cor 11,23) 49


breve notazione del testo paolina che pone un legame tra ultima cena e la passione

Questa breve notazione del testo paolino pone anzitutto un legame tra la cena e la
passione. Così la cena si caratterizza come una cena di addio. E’ una dimensione
particolarmente sviluppata dalla tradizione testamentaria di Luca e Giovanni.
Ma la vicinanza tra la cena e la passione non è solo cronologica, ma anche teologica.
Il verbo paradìdomai, che significa sia “tradire” che “consegnare” è il verbo della
passione. La forma passiva fa pensare al tradimento di Giuda (sottolineato pure dai
sinottici) come cornice dell’evento narrato. Ma l’assenza del soggetto lascia il verbo
aperto: la consegna e la passione sono frutto della malvagità di molti.
Ma la cornice e il quadro si sovrappongono. Da un lato l’essere tradito, consegnato,
catturato, per essere ucciso è esattamente ciò che il pane e il vino significano,
traducendolo in gesti simbolici. Dall’altro però questi gesti e queste parole
mostrano che i fatti che accadranno sono frutto della volontà di Gesù, di una sua
decisione e di una sua scelta. Essi mostrano che la passione non è solo frutto della
malvagità degli uomini e della decisione del Padre di abbandonarlo nelle loro mani,
anche
ma è frutto di un auto-consegna che Gesù fa. Egli trasforma ciò che gli accade in un
dono di sé.
il tempo del verbo
Il verbo è ovviamente al passato, perché Paolo sta narrando un fatto già accaduto,
rispetto a lui che scrive; tale fatto può essere celebrato nella liturgia, ma appartiene
il fatto appartiene alla storia ma non
alla storia. Ma non appartiene al passato, alla storia, il protagonista di questo fatto.
perchè
Egli è il risorto e quindi è ancora presente nella vita della sua comunità. Ma è
presente proprio nella celebrazione eucaristica, attraverso i segni del pane e del
vino; quindi continua a essere presente come colui che si è dato in dono. I segni del
pane e del vino dicono proprio questo: anche dopo la risurrezione, si incontra Gesù
come colui che è stato consegnato, o meglio che si è auto-consegnato, e solo in
questo modo. Non basta dire che colui che era stato crocifisso è risorto; la
celebrazione eucaristica dice che colui che è risorto è colui che era stato crocifisso,
cioè che la premessa della risurrezione è l’amore che ha portato Gesù a donare tutto
di sé.

49 AA.VV., L’eucaristia celebrata, p. 18-22.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

Ciò significa che il ritorno del Signore, atteso dalla comunità cristiana, non potrà
essere qualcosa di diverso dalla sua prima venuta: ne sarà la piena manifestazione,
ma non una cosa diversa. Il Signore trionfante avrà sempre il volto di colui che si è
donato, ha amato e ha sofferto per amore. Per questo il risorto, nei vangeli di Luca
e Giovanni, mostra le ferite della crocifissione (Lc 24,39-40; Gv 20,20.27) e
l’Apocalisse parla del Cristo trionfante come di un “agnello, in piedi, come
immolato” (Ap 5,6). Il ritorno del Signore manifesta il trionfo della logica della
croce, cioè della logica dell’amore che si dona, non la sua sostituzione con un’altra
logica. Tutto questo perché il dono di sé identifica la persona del Signore: non è una
delle tante cose che ha fatto o una della decisioni che ha preso. Più che dire che
“Gesù ha donato se stesso” dovremmo dire che “Gesù è dono di se stesso”, poiché il
dono di se stesso esprime la sua essenza più profonda.
per
E’ forse questo il motivo per cui, nella memoria della cena del Signore della
primitiva comunità cristiana, l’aspetto del pasto passa rapidamente in secondo
piano e l’interesse si concentra interamente sulle parole e sui gesti di Gesù
riguardo al pane e al vino. Sottolineando maggiormente l’aspetto del banchetto, la
comunità avrebbe messo in primo piano ciò che il banchetto rappresentava: la
gioiosa fraternità comunitaria, la presenza del Signore come commensale e l’attesa
e l’anticipazione del banchetto escatologico. Tutti questi aspetti non sono da
escludere, ma diventano secondari, rispetto a uno solo che invece diventa
preponderante. In primo piano c’è il ricordo della croce, del supremo atto di amore
che egli ha racchiuso nei gesti e nelle parole riguardanti il pane e il vino, del dono
di sé che Gesù ha fatto, al quale i fedeli possono partecipare attraverso l’atto del
mangiare e bere. Solo partendo dalla croce si può capire, nel giusto modo, il
significato della risurrezione.

1. 9. 3. “Il pane che io darò è la mia carne (sàrx), per la vita del mondo” (Gv 6,51) 50
discorso tipologico di Gesù

Nel discorso che troviamo al capitolo sesto del Vangelo di Giovanni, Gesù chiede ai

50BROWN, Giovanni, p. 363 e ss.. Vedi anche: MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2, p.
66-67.

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suoi discepoli un atteggiamento che si potrebbe riassumere il tre verbi: accogliere la


sua persona, ascoltare la sua parola, mangiare la sua carne.
Il tema di tutto il discorso, che segue la moltiplicazione dei pani, è il rapporto, che
potremmo definire tipologico, tra Gesù e la manna; questa era un cibo venuto dal
cielo che aveva consentito agli antenati di arrivare alla terra promessa; invece Gesù
stesso, vero pane disceso dal cielo, permette ai suoi discepoli di arrivare a Dio e di
diventare partecipi della vita divina.
Pare evidente che la parte del discorso in cui il tema dell’eucaristia viene posto in
primo piano sia quella che inizia col versetto 51 51. Da questo punto, non ci viene
più detto solamente che la vita eterna è il risultato della fede in Gesù, ma
addirittura che essa è causata dal mangiare la sua carne e bere il suo sangue.
Per indicare l’azione di mangiare, si usa trògon (Gv 6,56-58). Il verbo trògein nel
greco antico era usato soltanto per indicare il mangiare degli animali; poi fu usato
anche per gli esseri umani, ma conservò un’accezione un po’ rozza, come
“masticare”, “rosicchiare” “triturare”. Sembra probabile che l’evangelista voglia
accentuare, in modo molto realistico, la necessità di nutrirsi del cibo eucaristico. E’
come dire che il discorso non è solo una metafora sulla necessità della fede e
dell’accoglienza della rivelazione di Gesù; occorre anche un’assimilazione che si
realizza attraverso il mangiare. Dietro a queste parole ci sta, probabilmente una
polemica anti-docetista, come quella che troviamo nelle lettere di Giovanni (1Gv
4,2): l’evangelista si oppone al tentativo di spiritualizzare l’umanità di Gesù. Forse
anche l’insistenza sulla necessità di bere il calice sottintende una polemica contro
dei cristiani di origine giudaica che si opponevano alla comunione al calice a causa
di un radicato disgusto all’idea di bere del sangue. Tuttavia il brano non giunge mai
all’estremo di attribuire un potere magico al fatto di ricevere la carne e il sangue, il
che equiparerebbe l’eucaristia ai misteri pagani; infatti tutto il discorso di Gesù
insiste sulla necessità di un atteggiamento di fede 52.
Nel linguaggio dell’Antico Testamento, mangiare la carne di qualcuno è la metafora

51Non condivido l’opinione secondo cui il discorso del capitolo 6 del Vangelo di Giovanni non
conterrebbe dei riferimenti all’eucaristia, ma soltanto un discorso sulla fede, sostenuta da alcuni
autori, quali ad esempio BULTMANN e MAZZA (vedi: MAZZA, Il nuovo Testamento e la cena del
Signore, p. 109 e ss.
52 BROWN, Giovanni, p. 376-377.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

di un’azione ostile (Sal 27,2; Zac 11,9), tanto che il diavolo, il nemico per eccellenza,
era definito: “mangiatore di carne” 53. Ancora di più, il bere sangue era considerata
una cosa orrenda, perché contraria alla legge di Dio. Nella visione di Ezechiele
della strage apocalittica (39,17-20), gli uccelli che si cibano di rifiuti sono invitati a
mangiare “carne e bere sangue di cavalli e cavalieri, di eroi e di guerrieri”. Quindi
queste parole di Gesù possono avere un significato positivo soltanto se si riferiscono
all’eucaristia.
Inoltre è possibile e probabile che le parole: “…il pane che io darò è la mia carne per
la vita del mondo” rappresentino la forma giovannea delle parole dell’istituzione,
che il quarto Vangelo non riporta quando narra l’ultima cena. La differenza tra
Giovanni e i sinottici sta nell’uso della parola “sarx” (= “carne”), mentre i sinottici
usano “sôma” (= “corpo”), ma qualcuno nota che non esiste la parola ebraica o
aramaica corrispondente a “corpo” per cui, forse, Giovanni utilizza qui una parola
greca molto più vicina alle parole originali di Gesù. D’altronde anche Ignazio di
Antiochia e Giustino utilizzano questo termine, forse conservando una tradizione
più antica di quella sinottica e risalente direttamente alla cena di Gesù 54. L’utilizzo
di “carne” al posto di “corpo” non ha, probabilmente un significato particolare:
“carne”, nel linguaggio di Giovanni, significa semplicemente “corpo” (è un
semitismo), senza alcuna accezione speciale e in alcuni brani (Ap 17,16; 19,18.21) è
usato anche al plurale per indicare i corpi.
La frase: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”
(Gv 6,56) richiama ciò che Gesù dirà nel discorso in cui si paragonerà alla vera vite
di cui i discepoli sono i tralci (Gv 15,4.7). Gesù afferma di voler entrare in
comunione con coloro che credono in lui, donando loro una reale partecipazione alla
vita stessa di Dio. E’ la perfetta realizzazione dell’alleanza, come è espressa da
Geremia (24,7): “voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio”, e da Ezechiele
(36,27): “Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi”.

53 BROWN, Giovanni, p. 368.


54 BROWN, Giovanni, p. 368.

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1. 9. 4. “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27)55

1. Luca/Gli sinottici
2.Paolo Luca inserisce l’istituzione dell’eucaristia in una cena di addio. Intreccia quindi le
3. Giovanni
4. Luca due tradizioni: quella testamentaria e quella cultuale. Quindi, nel racconto della
5. Giovanni
6. gli sinotticicena, raccoglie una serie di dati che gli altri vangeli pongono altrove:
l’insegnamento di Gesù sul servizio, la raccomandazione della perseveranza con
Gesù nelle prove, la promessa del premio. Importante la frase “tutto ciò che mi
riguarda volge al suo compimento” (Lc 22,38) ove il vocabolo utilizzato (telos) fa
pensare non soltanto alla conclusione di una vicenda, ma al suo esito, allo scopo
verso cui essa tendeva fin dall’inizio.
Sembra di intendere, nel racconto di Luca, che l’eucaristia non è soltanto la
memoria di un evento della vita di Gesù o l’anticipo del banchetto escatologico, ma
lo specchio dell’esistenza del discepolo, nella sua logica di amore e di servizio, nei
suoi aspetti di prova e di lotta e anche di speranza.
La frase: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27) vuole indicare il
modo continuativo della presenza di Gesù in mezzo alla sua comunità. Ciò che Gesù
è stato nella sua vita terrena lo è nel presente e lo sarà nel futuro. L’eucaristia è la
memoria del Signore e l’incontro con Lui, non in una modalità generica, ma nella
forma del servizio. Compito dell’eucaristia è proprio rivelare questo elemento
fondamentale: Gesù è presente e continuerà a esserlo come colui che si dona
nell’amore, come colui che esiste per servire e per dare la vita. In ciò il Vangelo di
Luca mostra un evidente parallelismo con quello di Giovanni.

1. 9. 5. “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (eis télos)”
(Gv 13,1)56

In questa frase del Vangelo di Giovanni è racchiusa la sua interpretazione non solo
della passione di Gesù, ma anche della cena. “Fino alla fine” non significa soltanto

55 AA.VV., L’eucaristia celebrata: professare il Dio vivente, p. 33-34.


56MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2, p. 54-58; 64-65. AA.VV., L’eucaristia celebrata:
professare il Dio vivente, p. 34-35.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

“fino alla conclusione della sua vita terrena”, ma anche “fino all’estremo delle sue
possibilità”, “nel modo più grande e più pieno possibile”. Gesù ha voluto, tramite le
parole e i gesti della cena, ricapitolare tutta la sua vita che era stata segnata
dall’amore e dalla dedizione e racchiuderla in un simbolo, fatto di gesti e di parole.
Non a caso i vangeli insistono sul tradimento di Giuda come contesto della cena e
sulla consapevolezza profetica che Gesù ha di questo tradimento (Mt 26,21-25; Mc
14,17-21; Lc 22,21-23; Gv 13,2.18), ma anche del rinnegamento di Pietro (Mt 26,33-
35; Mc 14,29-31; Lc 22,33-34; Gv 13,38) e dell’abbandono da parte dei discepoli (Mt
26,31; Mc 14,27). Questa consapevolezza non impedisce a Gesù di continuare ad
amare e di non nutrire atteggiamenti di recriminazione o di vendetta, ma piuttosto
di perdono.
Gli studiosi hanno discusso a lungo sul motivo che ha spinto l’autore del quarto
Vangelo a narrare in modo così diffuso l’ultima cena ma a tralasciare il racconto
dell’istituzione dell’eucaristia. In ogni caso, il risultato è un’esaltazione del servizio
(Gv 13,14) e dell’amore vicendevole che deve unire coloro che partecipano alla cena
(13,34-35). E’ come se Giovanni abbia voluto lasciare in ombra i segni del pane e del
vino per mettere in primo piano il loro significato e il loro contenuto: l’amore di
Gesù sperimentato dai discepoli come fonte del loro reciproco amore (“come io ho
amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri”: Gv 13,34). Sembra che Giovanni
sia preoccupato dal rischio di una memoria celebrata ma non vissuta; dalla
possibilità che la comunità cristiana celebrasse l’eucaristia fermandosi al
significante (il pane e il vino, i gesti e le parole di Gesù) senza giungere al
significato (la sua vita donata, come origine ed esempio della carità comunitaria).
E’, d’altronde, la stessa preoccupazione che manifesta Paolo nella lettera ai Corinzi.
L’eucaristia staccata dalla vita può diventare un grave pericolo per la fede: a
manifestare Dio è stata tutta la vita di Gesù, racchiusa simbolicamente nel gesto
dell’ultima cena; ad annunciarlo nei secoli che verranno, dovrà essere ancora una
vita (quella della comunità cristiana) plasmata dalla celebrazione della cena del
Signore.
Per questo Giovanni, anziché riportare le parole e i gesti di Gesù riguardanti il
pane e il vino, racconta un gesto altrettanto insolito, di significato analogo, cioè la
lavanda dei piedi degli apostoli (Gv 13,1-11). Si tratta senza dubbio di un gesto
“eucaristico”, in quanto esprime simbolicamente una dedizione totale, un amore che

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

non si ferma nemmeno di fronte al tradimento di Giuda, al rinnegamento di Pietro,


alla fuga dei discepoli e all’odio dei sacerdoti e del sinedrio. Il male degli uomini
non arresta l’amore di Gesù, anzi gli dà l’occasione di manifestarsi in tutta la sua
forza.
Occorre aggiungere che il discorso e la preghiera testamentaria di Gesù, riportata
dal Vangelo di Giovanni, chiede che l’unione e la reciproca immanenza che
caratterizzano i rapporti di Gesù stesso con il Padre, nello Spirito, coinvolga anche i
discepoli che in tal modo parteciperanno della vita trinitaria (Gv 15,1-11; 17,21-23).
Queste parole hanno un chiaro significato eucaristico, anche se si tratta soltanto di
un’allusione. Anche le parole “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni
gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34)
potrebbero essere un’allusione non solo all’amore che Gesù ha mostrato, accettando
di morire, ma anche al gesto della cena, come simbolo che racchiude il senso di
tutta la sua vita e la sua morte. La nuova alleanza si fonderebbe dunque sulla
disponibilità dei discepoli a lasciarsi coinvolgere in quel gesto, che provocherà una
trasformazione della loro esistenza, tanto da farla diventare un’imitazione di quella
del maestro.
Se, da una parte, la causa dell’arresto di Gesù e della sua ingiusta condanna a
morte sta nel tradimento di Giuda (a proposito del quale i vangeli usano sempre il
verbo paradidomi, cioè consegnare), dall’altra parte è Gesù che, attraverso le parole
e i gesti della cena, si auto-consegna, ovvero dona se stesso. Giustamente un
esegeta ha scritto che “Gesù va incontro alla morte liberamente. Il cammino del
Figlio dell’uomo verso la morte appare quasi come un atto regale”57. Quindi si può
dire che Gesù anticipa il fatto storico della sua morte; nello stesso tempo però,
decide liberamente quale sarà il significato degli eventi che stanno per accadere.
Non si tratterà di una ingiusta esecuzione capitale: egli trasforma il suo morire in
un dono totale di sé, che porterà a compimento (télos) tutta la sua vita. I gesti e le
parole di Gesù sono come una morte rituale, come un sacrificio di cui egli è, nello
stesso tempo, il sacerdote e la vittima (auto-immolazione).
Potremmo allora dire che proprio grazie alle parole e ai gesti della cena (Gesù,
durante la passione ha parlato molto poco) noi sappiamo che la sua morte è un atto

57 GNILKA, Marco, p. 771.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

salvifico: di esecuzioni ingiuste e crudeli ce ne sono state tante, nella storia, eppure
una sola è diventata fonte di salvezza per tutti gli esseri umani. Pertanto è proprio
a partire da ciò che Gesù ha detto e ha fatto durante la cena che la lettera agli
Ebrei potrà interpretare la morte di Gesù come il vero sacrificio, che ha dato
compimento a tutti i sacrifici della prima alleanza (Eb 9-10).

1. 9. 6. “Mai più mangerò... berrò...” (Mt 26,29; Mc 14,25; Lc 22,15-18)

Non vogliamo addentrarci nella questione se Gesù abbia mangiato e bevuto,


durante l’ultima cena oppure abbia digiunato. In merito ci sono ipotesi diverse e
opposte58, ma su ciò che non sappiamo è meglio non pronunciarsi.
Resta da stabilire il significato delle parole con cui egli dichiara di non voler più
mangiare e bere finché non giunga il regno di Dio.
Anche su queste parole vi sono diverse ipotesi59. Secondo alcuni studiosi, Gesù
voleva far capire l'irrevocabilità della sua decisione di affrontare la passione,
eliminando il banchetto festivo; secondo altri, mostrare che la sua vita apparteneva
già al regno imminente, o ancora fare un voto per pregare per la pronta venuta del
regno di Dio e per intercedere a favore di Israele.
Al di là delle varie ipotesi si può dire che queste parole manifestano la certezza che
il regno di Dio verrà, nonostante l'apparente fallimento. Gesù annuncia che presto
berrà il “vino nuovo”, nel banchetto del regno. Esse sono quindi un’affermazione di
speranza e una profezia della risurrezione60.
Gesù è andato incontro alla morte con la certezza di un nuovo banchetto nel futuro
regno di Dio. I tre vangeli sinottici riportano questa frase, anche se in contesti
differenti (Matteo e Marco a conclusione del racconto; Luca all’inizio). Paolo non la
riporta letteralmente, ma il tema escatologico è presente nelle parole conclusive del
racconto: “Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice,
voi annunziate la morte del Signore finché egli venga”. (1Cor 11,27).

58Una rassegna delle varie ipotesi si trova in MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2, p. 75-
76.
59 JEREMIAS, Le parole dell’ultima cena, p. 258 ss.
60 MAZZA, Le odierne preghiere eucaristiche, p. 316.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

Resta da fare un’osservazione: non senza sorpresa tanti commentatori hanno


notato che nei testi dell’istituzione dell’eucaristia manca l’esplicita menzione della
risurrezione. E’ certo che la si dà per scontata (altrimenti non avrebbe senso né
raccontare la cena né tantomeno celebrarla) ma non è menzionata direttamente.
Sembra quasi che non la si voglia vedere come un evento a se stante, ma come una
conseguenza della croce. La vittoria di Gesù non è staccata dalla cena e dalla croce,
ma è già dentro di esse. Pertanto la passione non è solo l’evento che precede
cronologicamente la risurrezione, ma piuttosto ne è la chiave interpretativa. Gesù,
donando se stesso nel cenacolo, rivela il volto di Dio, che è amore e dono di sé. Nel
cenacolo non abbiamo solo un uomo che dona la vita per Dio (altro aspetto ovvio ma
piuttosto sottinteso nei racconti) ma il Figlio di Dio che dona la vita per gli uomini.
Per chi ha capito, come la comunità cristiana del Nuovo Testamento, che Gesù è il
Signore, il Figlio del Dio vivente, la meraviglia non consiste nel fatto che egli sia
risorto, ma nel fatto che abbia volontariamente consegnato se stesso alla morte.
Donando se stesso nella cena e sulla croce, Gesù ha rivelato il volto di Dio in modo
assolutamente nuovo e sorprendente 61.

61 AA.VV., L’eucaristia celebrata, p. 36-37.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

1. 10. La “cena del Signore” nella Prima lettera ai cristiani di Corinto

1. 10. 1. “Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo” (1Cor
10) 62
contesto storico.
Nel capitolo 10 della Prima lettera ai Corinti, Paolo affrontata il problema dei
banchetti in cui si mangiava carne immolata agli idoli. Esso poteva presentarsi in
due casi ben distinti. Anzitutto non era infrequente ricevere, da parte di amici o
parenti, un invito a partecipare a un banchetto sacro, che si svolgeva generalmente
nel recinto di un tempio, ma talvolta anche in case private, durante il quale si
consumavano le carni di vittime animali che vi erano state immolate a una divinità
pagana. Nel secondo caso si poteva essere invitati in una casa privata per un pasto
senza alcuna intenzione cultuale, in cui però venivano servite delle carni che erano
state immolate agli idoli. Nel primo caso la posizione di Paolo è di netto rifiuto: si
deve evitare qualsiasi partecipazione al culto idolatrico, anche se gli idoli non sono
nulla. Nel secondo caso, invece, la posizione è molto più articolata: la carne
immolata agli idoli si può mangiare, a patto che la cosa non provochi scandalo.
Riguardo al primo caso, Paolo ricorda che, anche nella concezione di Israele, “quelli
che mangiano le vittime sacrificali” entrano “in comunione con l'altare”, cioè con
Dio (1Cor 10,18). Quindi i sacrifici agli idoli hanno lo scopo di creare una reale
comunione tra chi vi partecipa, offrendo le vittime o mangiandone le carni, e gli
idoli. E’ vero, egli ammette, che gli idoli non esistono; ma il culto idolatrico è
ispirato e favorito da satana per cui, partecipandovi, si accede a una reale
comunione con i demoni. Paolo quindi esorta a non avere contatti con l’idolatria
poiché è consapevole che per i corinzi, appena usciti dal paganesimo, il pericolo di
lasciarsi irretire dall’idolatria è sempre in agguato.
E’ nell’ambito di questa argomentazione che Paolo parla incidentalmente
dell’eucaristia. Egli afferma che il calice e il pane operano una reale “comunione” al
corpo e al sangue di Cristo, in modo analogo a quanto avveniva nei sacrifici; quindi

62WEIDLAND, Le lettere ai corinzi, p. 154-164. CIPRIANI, Le lettere di Paolo, p. 180-184. MAZZA,


La celebrazione eucaristica, p. 104- 109.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

la partecipazione al calice e alla mensa del Signore e a quella dei demoni sono
incompatibili, poiché è impossibile trovarsi contemporaneamente in due rapporti
opposti di comunione. E poiché il pane è uno solo, anche coloro che vi comunicano,
diventano un solo corpo; quindi l’eucaristia mette in comunione con Cristo e, allo
stesso modo, mette in comunione con tutta la comunità dei credenti.
La formula usata per definire il cibo eucaristico, “il calice della benedizione che noi
benediciamo” e “il pane che noi spezziamo” (1Cor 10,16), offre alcune elementari
indicazioni su come avveniva la celebrazione. La benedizione indica la preghiera
che pronuncia colui che presiede la celebrazione. La frazione del pane, gesto con cui
si apriva il pasto ebraico e che Gesù ha compiuto durante la cena, era uno degli
elementi più significativi della celebrazione e diventava immagine della
partecipazione di “molti” all’unico corpo del Signore.
Si può dire che, nella teologia di Paolo, il tema del rendimento di grazie occupa un
posto centrale. Eppure nei testi paolini che riguardano la celebrazione eucaristica
questo tema non occupa uno spazio particolare. Piuttosto questi testi fanno pensare
che, nel pensiero di Paolo, l’eucaristia fosse sempre collegata col tema dell’unità
della comunità cristiana.
Si tratta di un tema ampiamente presente nell’Antico Testamento, riguardo al
popolo di Israele. Nel libro di Geremia, Dio agisce come salvatore del suo popolo
proprio radunandolo, mentre invece l’esilio è definito come dispersione (Ger 23,3;
29,14; 31,10; 32,37). Lo stesso tema è centrale nel libro di Ezechiele, ove Dio
promette che radunerà il suo popolo (Ez 11,17; 20,34; 34,12-13; 36,24; 37,21). Nel
libro di Isaia abbiamo lo stesso tema, arricchito di una forte connotazione
escatologica e universalistica: tutti i popoli si raduneranno, attorno a Israele, per
contemplare la gloria di Dio (Is 40,11; 43,5; 49,18; 60,4; 66,18). Infine nella
letteratura post-esilica il raduno di Israele diventa oggetto di costante preghiera e
ciò è testimoniato sia dalla Scrittura (Mac 1,27; Sir 36,10) sia da numerosi testi
rabbinici.
pur essendo molti siamo un corpo (CHIESA) perché un solo pane.
Paolo aveva quindi ben presente il tema. Per lui l’unità dei credenti è strettamente
legata all’efficacia dell’eucaristia. Infatti egli afferma che, “Poiché c'è un solo pane,
noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico
pane” (1Cor 10,17). L’immagine del corpo per parlare della Chiesa è frequente nelle
lettere paoline. Probabilmente all’inizio si tratta solo di un paragone, ma ben presto

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

come il pane è com... al corpo di Cristo, noi mangiamolo diventiamo per participazione il corpo di cristo.
l’immagine assume ben altra valenza. Infatti, secondo Paolo, i credenti vivono la
vita stessa di Cristo e questi è presente il loro. C’è un rapporto di reale
partecipazione tra la vita di Cristo e quella dei cristiani; quindi essi, riuniti,
formano un solo corpo, che è il corpo di Cristo. Non si tratta più soltanto di
un’immagine metaforica, ma di un dato che ha un valore ontologico. Pertanto nella
liturgia eucaristica si realizza l’unità della comunità cristiana, perché si partecipa
dell’unico pane, che “è comunione con il corpo di Cristo” (10,17). Secondo Mazza63,
con il termine “comunione”, Paolo indica il rapporto che noi chiameremmo di
“sacramentalità”, che lega il pane e il corpo di Cristo per cui, quando Paolo scrive
“comunione con il…” noi scriveremmo: “sacramento del…”. Secondo Paolo dunque
l’efficacia dell’eucaristia consiste nel fatto che il sacramento opera ciò che esso è: se
il pane è comunione al corpo di Cristo, coloro che lo mangiano diventano, per
partecipazione, il corpo di Cristo, che è evidentemente unico, e sono quindi riuniti
in un solo corpo. Questo spiega come mai, nel capitolo successivo (1Cor 11), Paolo,
informato che nella Chiesa di Corinto ci sono delle divisioni, nega che la
celebrazione dei corinzi sia la cena del Signore. Non si tratta di stabilire la validità
della celebrazione in termini giuridici, poiché questo è un concetto che
caratterizzerà la teologia del secondo millennio. Semplicemente, per Paolo, la
liturgia ha valore se corrisponde al modello (potremmo dire al “tipo”) posto da Gesù
che, nel caso dell’eucaristia, è l’ultima cena. Per questo, nel capitolo successivo, egli
dice: “Quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del
Signore” (1Cor 11,20); afferma cioè che non c’è più un rapporto di corrispondenza
tra l’eucaristia celebrata a Corinto e l’ultima cena del Signore Gesù, perché manca
l’unità nella Chiesa di Corinto e quindi la celebrazione dei corinzi ha perso il suo
valore partecipativo.
Secondo Mazza64 c’è una significativa analogia tra la Didaché e la prima lettera ai
Corinzi: ambedue sottolineano il legame che c’è tra l’unico pane dell’eucaristia e
l’unità della Chiesa, che si nutre dell’eucaristia. C’è però anche una significativa
differenza: per la Didaché l’unità della Chiesa è un fatto escatologico, mentre per
Paolo è un fatto storico: resta un dono divino, perché è frutto della comunione

63 MAZZA, La celebrazione eucaristica, p. 107, nota 35.


64 MAZZA, La celebrazione eucaristica, p. 109.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

all’unico pane dell’eucaristia, ma è anche un fatto sperimentabile, la cui


realizzazione richiede un impegno concreto da parte dei cristiani.
Molti studiosi si sono chiesti come mai, nel capitolo 10, il calice sia menzionato
prima del pane, mentre nel capitolo 11 è il pane ad essere menzionato per primo.
Secondo Mazza il capitolo 10 (calice-pane) rispecchia le struttura dell’eucaristia a
Corinto, mentre il cap. 11 (pane-calice) rispecchia la struttura dell’ultima cena di
Gesù65. Si tratta però di un’opinione che molti commentatori tendono a rifiutare.
Rimane ora da analizzare in che modo Paolo interpreta il rapporto che intercorre
tra Cristo e il pane e il vino. Egli afferma che “il calice […] è […] comunione con il
sangue di Cristo” e che “il pane che noi spezziamo, […] è […] comunione con il corpo
di Cristo” (1Cor 10,16). A questo riguardo, Mazza fa due acute osservazioni66.
Anzitutto Paolo non definisce il pane come “corpo di Cristo”, cioè non parla di “corpo
eucaristico” di Gesù, ma afferma che il pane “è comunione con il corpo” e il calice “è
comunione con il sangue”; si tratta di affermazioni che potremmo definire
“ontologiche” e che, quindi, portano ad affermare che il pane e il calice producono in
chi li riceve qualcosa che è coerente con ciò che essi sono: creano comunione con
Cristo e, in Cristo, tra i fedeli. In secondo luogo, mentre alcuni autori hanno
affermato che, con l’espressione “corpo di Cristo”, Paolo indica sempre e solo la
Chiesa, quando nel brano analizzato si dice che il pane è “comunione con il corpo di
Cristo”, per evidenti ragioni di parallelismo con il calice, si intende che esso è
comunione con il corpo pneumatico di Cristo risorto e non tanto con il corpo
ecclesiale.

1. 10. 2. “Mangiare la cena del Signore” (1Cor 11) 67

Nel capitolo 11 della Prima lettera ai Corinzi, Paolo affronta il problema di alcuni
abusi che si sono introdotti nella celebrazione eucaristica della comunità di Corinto.
Essi sono legati alla prassi di consumare, prima della celebrazione eucaristica (o,

65 MAZZA, L’anafora eucaristica, p. 80-84.


66 MAZZA, L’anafora eucaristica, p. 84-87.
67 CIPRIANI, Le lettere di Paolo, p. 190-191. MAZZA, La celebrazione eucaristica, p. 104- 109.

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

secondo alcuni, durante la stessa), quella che più tardi verrà chiamata “agape”, cioè
un banchetto fraterno che doveva ricordare la cena col Signore Gesù. Questa pressi
però era divenuta dannosa, poiché faceva emergere le divisioni della comunità di
Corinto e la sfacciata mancanza di carità, che offendeva i più poveri. Infatti,
probabilmente ognuno portava del cibo da casa ma, anziché metterlo in comune,
ciascuno mangiava il suo cibo, per cui la cena evidenziava e sottolineava le
differenze tra chi aveva cibi ottimi e abbondanti e chi aveva cibi scarsi come
quantità e qualità. Per risolvere il problema, Paolo non interviene con una serie di
esortazioni rivolte ai cristiani di Corinto, ma ritiene necessario partire dalla
narrazione dell’ultima cena di Gesù, così come egli l’ha appresa dalla tradizione
degli apostoli. Come mai? La narrazione della cena è sintetica, piuttosto stilizzata.
Gesù, consapevole di andare incontro a una morte violenta, ha trasformato la croce
in un dono totale di sé al Padre, a favore degli uomini; la sua vita è diventata
un’offerta ed egli ha invitato i discepoli ad entrare in comunione con lui che ha
donato se stesso, mangiando quel pane e bevendo quel vino.
Quando utilizza il termine “cena del Signore”, Paolo intende al tempo stesso la cena
che Gesù ha fatto con i suoi discepoli poco prima di morire e la cena che i corinzi
fanno, nel momento in cui egli scrive: infatti tra le due ci deve essere perfetta
equivalenza, tanto che partecipare a questa deve equivalere a partecipare a quella:
la stessa equivalenza che ci deve essere tra la nostra celebrazione eucaristica e
l’ultima cena di Gesù. Pertanto egli rimprovera i cristiani di Corinto proprio perché,
a suo giudizio, le due cene anziché essere equivalenti, divergono e questo crea un
problema enorme. Il fatto che i cristiani di Corinto non stiano insieme (11,33:
“aspettatevi gli uni gli altri”), che non ci sia condivisione fraterna (11,21: “ciascuno,
quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l'altro
è ubriaco”), ma anzi vi siano divisioni (11,18: “quando vi radunate in assemblea, vi
sono divisioni tra voi”), fa sì che, secondo l’apostolo, la cena celebrata dai corinzi
non sia più la cena del Signore (11,20: “il vostro non è più un mangiare la cena del
Signore”): l’equivalenza non c’è più. L’unità e la comunione tra i cristiani che
partecipano all’eucaristia è dunque la condizione necessaria affinché vi sia identità
tra le due cene; pertanto anche oggi l’unità e la comunione tra i cristiani garantisce

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Teologia dogmatica: IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA - Dispensa per gli studenti

che la messa a cui partecipiamo sia davvero equivalente all’ultima cena di Gesù 68.

Lo stesso tema era stato sviluppato in un brano precedente della stessa lettera.
In questo contesto è abbastanza singolare l’osservazione che Paolo fa, dopo avere
narrato la cena di Gesù. Egli scrive infatti: “Ogni volta infatti che mangiate di
questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore finché egli
venga” (1Cor 11,26). Pare che l’osservazione esuli dal tema che si sta trattando. Vi
è però la congiunzione “infatti” (gar), che collega la frase con il resto del discorso e
fa pensare che, per Paolo, l’annuncio della morte del Signore non sia qualcosa da
aggiungere alla cena o una conseguenza da trarne, ma il significato della cena
stessa (sia di quella fatta da Gesù nel cenacolo, sia di quella celebrata dai corinzi).
L’ultima frase va quindi collegata con quella che apre il racconto (11,23: “il Signore
Gesù, nella notte in cui veniva tradito…”). Sarebbe come dire che l’ultima cena
permette di comprendere, a partire dalla sua morte in croce, tutta la vicenda di
Gesù, sia quella storica dell’incarnazione, sia la venuta finale che attendiamo. Se
non si parte dalla croce, non si comprende il risorto. Il crocifisso e il Signore risorto
costituiscono una inscindibile unità, senza della quale Gesù non può essere
compreso. Infatti, dalla croce e dalla cena che ne rivela il significato, Gesù emerge
come colui che ama fino al dono completo di sé e così ci insegna che il senso
dell’esistenza di ogni essere umano consiste nel donarsi per amore. Egli è anche
colui che ci mostra il volto di Dio, che è amore assoluto che si dona. E’ questa la
risposta, che Paolo dà ai corinzi: una risposta che non insiste in modo moralistico
sul dovere che i cristiani hanno di voleri bene e di essere uniti, ma si fonda sul
senso della vita, così come ce lo ha rivelato Gesù sulla croce e come ci viene
annunciato, fino alla fine del mondo, ogni volta che celebriamo l’eucaristia. Chi
cerca di difendere la sua vita, la perde mentre invece chi la dona la ritroverà in
eterno (cfr.: Mt 16,25; Mc 8,35; Lc 9, 24; Lc 17,33; Gv 12,25-26). In questo senso
della vita sta anche il fondamento della carità fraterna e dell’unità della Chiesa.
In modo probabilmente non casuale l’apostolo, in tutto il brano, non menziona la
risurrezione; non perché non sia importante (anzi!) ma perché, senza la memoria
continua dell’amore crocifisso di Gesù, perfino la risurrezione potrebbe portare la
comunità cristiana a pericolosi equivoci su Gesù, sul senso della vita dell’uomo e

68 AA.VV., L’eucaristia celebrata: professare il Dio vivente, p. 29-33.

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perfino su Dio, come per esempio pensare che possiamo raggiungere la gioia di Dio
senza fare la fatica di donare la vita e di accogliere il fratello, anche quello che
facciamo fatica ad accettare 69.

69 AA.VV., L’eucaristia celebrata: professare il Dio vivente, p. 30-33.

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