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La
storia
del
Moog
Allievo:
Francesco
Rizzo
Professore:
Francesco
Abbrescia
Conservatorio
di
musica
T.
Schipa
–
Lecce
a.a.
2015-‐2016
Ben
lungi
dall’essere
uno
strumento
cardine
della
musica
elettroacustica
accademica,
tuttavia
storicamente
fondamentale,
il
sintetizzatore
Moog
è
stato
uno
dei
più
importanti
sintetizzatori
a
tastiera
della
storia
delle
tecnologie
musicali
elettroniche
nell’ambito
della
musica
di
largo
consumo,
tanto
che
il
suo
nome,
negli
anni
’70,
divenne
un
sinonimo
di
sintetizzatore.
Il
12
ottobre
del
1964,
l’ingegnere
statunitense
di
origine
tedesca
Robert
Arthur
Moog
ne
presentò
il
prototipo
a
New
York
di
fronte
agli
esperti
della
Audio
Engineering
Society
(AES).
Si
trattava
di
un
sintetizzatore
a
tastiera
divenuto
popolare
quattro
anni
dopo,
quando
il
prototipo
fu
revisionato,
soprattutto
grazie
all’apporto
di
Walter/Wendy
Carlos,
compositore
di
“Switched
on
Bach”,
il
disco
di
musica
classica
più
venduto
della
storia,
sigla
del
programma
televisivo
Quark,
e
della
colonna
sonora
del
film
“Arancia
Meccanica”
di
Stanley
Kubrik,
nei
quali
lavori
utilizzò
il
Moog
magistralmente,
consacrandolo
al
mercato.
Poco
tempo
dopo
autori
del
calibro
dei
Beatles
o
dei
Pink
Floyd
(per
citare
alcuni
dei
tanti)
ne
fecero
largo
uso,
definendo
una
sonorità
nuova
che
da
lì
a
poco
avrebbe
plasmato
la
fortuna
di
molti
altri
importanti
artisti.
In
principio
il
Moog
era
un
sintetizzatore
modulare
a
tastiera
con
12
oscillatori,
benché
più
economico
e
meno
ingombrante
degli
altri
synth
modulari
dell’epoca
era
comunque
pesante,
ingombrante,
difficile
da
usare
e
da
trasportare,
particolarmente
adatto
quindi
a
produzioni
in
studio
piuttosto
che
all’uso
dal
vivo;
tra
i
più
famosi
artisti
ad
averlo
adoperato
possiamo
annoverare
ad
esempio
Giorgio
Moroder
e
Keith
Emerson.
Nel
1970
R.
A.
Moog
pensò
di
svilupparne
una
versione
notevolmente
più
accessibile
e
facilmente
utilizzabile,
sebbene
molto
meno
versatile
di
quella
modulare:
il
Minimoog,
un
sintetizzatore
monofonico
portatile
più
adatto
ad
essere
suonato
live,
forse
il
synth
portatile
più
famoso
al
mondo
tenendo
conto
degli
artisti
di
fama
mondiale
che
lo
adoperarono,
parliamo
infatti
di
nomi
autorevoli
come
Pink
Floyd,
Yes,
Emerson
Lake
and
Palmer.
Nel
corso
degli
anni
furono
sviluppate
svariate
versioni
del
Minimoog:
il
Moog
Satellite
(1974
–
1979),
il
Memorymoog
(1982-‐1985),
il
Polymoog
(1975-‐1980),
il
Moogerfooger
(1998-‐oggi),
il
Moog
Rogue,
il
Moog
Source
e
dal
2001
la
versione
più
aggiornata
e
moderna:
il
Voyager.
Ma
cosa
s’intende
quando
si
parla
di
sintetizzatore
modulare
Moog?
La
peculiarità
di
un
sintetizzatore
modulare
consiste
nella
possibilità
di
utilizzare
cavi
per
gestire
le
modulazioni
e
i
segnali,
questi
servono
per
collegare
tra
loro
i
moduli
del
sintetizzatore
i
quali
sono
muniti
inoltre
delle
tradizionali
manopole
per
controllare
ad
esempio
la
frequenza
degli
oscillatori,
la
loro
ampiezza
o
il
rateo
delle
modulazioni,
così
come
ogni
altro
parametro
della
sintesi
sonora.
Ogni
modulo
contiene
un
differente
elemento
della
catena
di
sintesi,
come
ad
esempio
quello
cui
appartengono
gli
oscillatori
a
controllo
di
tensione
o
gli
amplificatori
a
controllo
di
tensione,
difatti
nel
sistema
Moog
sono
per
l’appunto
implementati
i
cosiddetti
“Voltage-‐
Controlled
Electronic
Music
Modules”
dettagliatamente
descritti
da
Bob
Moog
nel
1965
sul
Journal
Of
Audio
Engineering
Society.
Si
deve
a
Herbert
Deutsch
invece
l’implementazione
di
una
tastiera
tra
gli
elementi
del
Moog
Modular
per
consentire
un
approccio
musicale
più
immediato
attraverso
questa
classica
interfaccia.
Quando
nel
1964
il
Moog,
ancora
prototipo,
fu
commissionato
dall’Alwin
Nikolais
Dance
Theater
di
New
York,
lo
strumento
era
costituito
da
Una
serie
di
oscillatori
in
grado
di
generare
segnali
con
differenti
forme
d’onda
(sinusoidali,
a
dente
di
sega,
quadre)
e
dai
filtri
che
processavano
il
segnale
degli
oscillatori,
tutto
ciò
grazie
all’uso
dei
cavi
per
connettere
i
moduli
tra
loro.
All’epoca
questi
sintetizzatori
erano
ben
lontani
dalla
produzione
industriale
alla
quale
siamo
abituati
oggi,
in
effetti
si
trattava
di
veri
e
propri
capolavori
di
“liuteria
elettronica”,
un
prodotto
laboratoriale
realizzato
totalmente
in
bottega,
decisamente
lungo
da
costruire
e
incredibilmente
personalizzabile
a
seconda
delle
richieste
dell’acquirente,
ovvero
per
lo
più
rinomati
studi
di
registrazione
e
produzione,
tenendo
conto
del
proibitivo
prezzo
che
rendeva
il
Moog
Modular
tutt’altro
che
accessibile
per
la
maggior
parte
dei
musicisti.
Questa
macchina
era
però
non
priva
di
difetti,
primo
tra
tutti
la
difficoltà
nella
gestione
dei
settaggi,
era
davvero
ostico
rispetto
a
un
moderno
sintetizzatore,
soprattutto
per
l’epoca
e
per
un’utenza
non
avvezza
a
questa
innovativa
tecnologia,
oppure
ad
esempio
il
problema
dell’intonazione,
infatti,
il
Moog,
una
volta
surriscaldato,
non
rispettava
perfettamente
l’altezza
delle
note
come
definito
precedentemente
nei
settaggi
e
si
incappava
spesso
dunque
nella
fastidiosissima
necessità
di
tarare
nuovamente
gli
oscillatori.
Il
sistema
Moog
Modular
era
costoso,
valvolare,
ingombrante
e
pesante,
tendenzialmente
fragile
e
tendeva
al
surriscaldamento,
lo
stesso
però
non
si
poteva
dire
del
più
moderno
Minimoog
che
risultava
particolarmente
funzionale
grazie
ad
una
nuova
tecnologia
sviluppata
in
quegli
anni
ovvero
il
transistor,
questo
Moog
era
decisamente
più
compatto,
maneggevole,
semplice
nell’utilizzo
e
facilmente
trasportabile,
conteneva
solamente
tre
oscillatori,
contro
i
dodici
del
fratello
maggiore,
e
il
suo
prezzo
era
notevolmente
più
accessibile,
risultava
dunque
particolarmente
adatto
alla
grande
distribuzione
e
alla
produzione
a
scala
industriale.
In
cosa
consisteva
dunque
il
circuito
del
Minimoog
e
che
ne
è
oggi
di
questo
marchio
e,
si
può
dire,
di
questo
stile?
Dopo
che
l’utilizzo
del
Minimoog
iniziò
a
divenire
un
“must”
per
gli
stilemi
sonori
degli
anni
’70
e
consequenzialmente
alla
sua
diffusione,
l’azienda
Moog
Music
di
Bob
Moog
riscosse
un
enorme
successo
producendo
in
larga
scala
per
ogni
tipo
di
utenza,
persino
quella
domestica.
Il
Minimoog
tradizionale
era
monofonico,
come
d’altronde
anche
il
Moog
Modular,
e
utilizzava
un
metodo
di
priorità
della
nota
detto
“low
priority”,
ovvero
la
frequenza
degli
oscillatori
si
spostava
sempre
sulla
nota
più
bassa
premuta,
se
si
suonavano
più
note
contemporaneamente,
e
questa
fu
una
delle
caratteristiche
tecniche
decisive
per
definire
lo
stile
musicale
che
ne
sarebbe
derivato.
Al
suo
interno
erano
implementati
tre
VCO
(voltage
control
oscillator),
un
VCF
(voltage
control
filter)
e
un
VCA
(voltage
control
amplifier)
ovvero
tre
oscillatori,
un
filtro
e
un
amplificatore.
Gli
oscillatori
potevano
generare
sinusoidi,
onde
a
dente
di
sega,
onde
quadre,
rumore
bianco
e
rosa,
il
segnale
prodotto
da
questi
era
mixato
e
inviato
al
filtro
passa
bassi,
del
quale
si
poteva
modulare
la
frequenza
di
taglio
e
la
risonanza,
al
filtro
era
assegnato
anche
un
inviluppo
che
agiva
sulla
frequenza
di
taglio
di
tipo
ADS
(Attack,
Decay/Release,
Sustain)
che
si
attivava
al
tocco
della
tastiera,
un
inviluppo
tal
e
quale
era
assegnato
invece
all’amplificatore,
nel
quale
era
inviato
il
segnale
passante
per
il
filtro,
definendo
così,
grazie
al
VCA,
l’andamento
dinamico
del
suono
risultante.
Una
delle
innovazioni
tecniche
particolarmente
apprezzate
dai
musicisti
che
fece
la
fortuna
del
Minimoog,
fu
l’implementazione
degli
LFO
(low
frequency
oscillator)
che
erano
assegnabili
alla
frequenza
dei
due
oscillatori
(non
al
generatore
di
rumore)
ed
erano
modulabili
grazie
alle
due
ruote
a
sinistra
della
tastiera
(sistema
ancora
oggi
adoperato
nei
synth
digitali
e
nelle
tastiere
midi),
una
per
modulare
la
frequenza
e
una
per
definire
l’ampiezza
della
modulazione
dell’LFO,
generando
così
un
suggestivo
vibrato.
La
tastiera
del
Minimoog
ha
quarantaquattro
tasti
ed
è
inoltre
implementato
un
ingresso
per
un
segnale
audio
esterno
che
può
essere
processato
attraverso
i
moduli
dello
stesso,
potendo
così
ottenere
altri
interessanti
risultati
non
previsti
nel
progetto
originario.
Con
il
passare
dei
decenni,
dal
primo
modello
all’odierno
Voyager,
il
Moog
ha
subìto
le
pressioni
e
i
cambiamenti
dettati
del
mercato,
fino
allo
stesso
fallimento
della
Moog
Music
avvenuto
nel
1993,
consequenzialmente
al
successo
di
altre
aziende
quali
Korg,
Roland,
ARP,
le
quali
misero
in
commercio
sintetizzatori
più
economici
ma
altrettanto
validi.
Tempo
dopo
però
il
sound
del
Moog
fu
rivalutato,
con
l’immenso
successo
che
ebbe
la
musica
elettronica
nei
decenni
a
venire
e
grazie
al
fascino
vintage
di
un
sound
ben
consolidato
da
grandissimi
musicisti
in
tutto
il
mondo
nell’arco
della
storia,
fino
allo
sviluppo
del
Voyager
e
alla
riapertura
della
Moog
Music,
attiva
ancora
oggi,
pietra
miliare
nella
storia
delle
moderne
aziende
che
producono
sintetizzatori
oppure,
oggi
sempre
più
spesso,
sintetizzatori
software.
Molti
VST/AU,
strumenti
software,
degli
ultimi
anni,
ripresentano
una
gestione
del
segnale
nel
circuito
digitale-‐informatico
simile
a
quella
dello
storico
Minimoog,
seppur
nella
maggior
parte
dei
casi
molto
più
complessa
e
articolata
grazie
alle
infinite
possibilità
della
programmazione
informatica;
alcuni
software
sono
addirittura
delle
vere
e
proprie
emulazioni
del
Minimoog,
riproduzioni
sempre
più
fedeli
con
l’aumentare
dei
mezzi
dei
programmatori,
tra
le
quali
annoveriamo
il
Mini
V
dell’azienda
Arturia
o
il
Monark
dell’azienda
Native
Instruments,
simulazioni
sempre
più
apprezzate
dai
compositori
nostri
contemporanei
e
utilizzatissime
negli
home-‐studio,
dato
il
costo
bassissimo
di
un
software
rispetto
ad
un
sintetizzatore
analogico.
Il
mercato
odierno
dunque
si
sta
indirizzando
verso
prodotti
per
lo
più
informatici,
anche
se
spesso
strutturalmente
simili
ai
sintetizzatori
analogici
che
hanno
scritto
la
storia
di
queste
tecnologie
musicali,
senza
però
decretare
la
fine
del
mercato
degli
analogici
i
quali
sono
tuttora
apprezzatissimi
e
utilizzatissimi,
spesso
preferibili
agli
strumenti
software
per
molti
artisti;
c’è
addirittura
una
corrente
di
pensiero
che
predilige
l’analogico
vintage
ai
più
moderni
sistemi
informatici
d’altissima
qualità
e
prestazioni,
seppur
la
maggior
parte
dei
musicisti
che
compongono
musica
elettronica
oggi
si
affidi
quasi
completamente
a
strumentazione
digitale
e
informatica.
Il
sintetizzatore
digitale
moderno
però
non
è
solo
software
ma
anche
hardware,
ossia
sono
sempre
più
comuni
strumenti
cui
ci
si
interfaccia
con
tastiera
e
manopole,
come
per
i
sintetizzatori
analogici,
ma
che
presentano
al
loro
interno
una
scheda
audio,
dei
DSP
(digital
signal
processor)
e
dei
convertitori
DAC
(digital
to
analog
converter),
completando
perfettamente
la
catena
elettroacustica
che
avremmo
se
utilizzassimo
un
computer.
Oggi
uno
strumento
come
il
primo
Moog
sarebbe
tutt’altro
che
funzionale
per
le
necessità
dei
musicisti
nostri
contemporanei
che
decidono
di
adoperare
una
macchina
per
la
sintesi
sonora,
ma
il
segno
indelebile
che
questo
capolavoro
ingegneristico
ha
lasciato
nella
storia
della
musica
è
impossibile
da
ignorare
e
del
Moog
in
primis,
come
di
altri
importantissimi
strumenti
similari,
sentiremo
ancora
abbondantemente
parlare.