1. Le persecuzioni
L’estensione della cittadinanza a tutte le popolazioni dell’impero fu l’estremo tentativo di riassestare un
mondo in crisi, di recuperare una coesione culturale grazie all’unità giuridica. Ma era in una crisi
irreversibile la religione ufficiale tradizionale cui erano stati dedicati ovunque templi, statue e
monumenti, essendo cresciuta per secoli con le istituzioni civili romane; e inutilmente, durante il III
secolo, tanti duri interventi imperiali repressivi cercarono di arginare il diffondersi del cristianesimo. Il
culto cristiano non era maturato entro e con le istituzioni romane, ma, al contrario, vi si era
contrapposto essendo uno sviluppo interno all’ebraismo. Fin dall’elaborazione Apocalisse, scritta
durante le persecuzioni di Domiziano negli anni 81-96, il cristianesimo aveva assunto una decisa
connotazione anti-romana e l’afflato universalistico impressogli dall’apostolo Paolo contrassegnò come
pericolosa la trasmissione del nuovo messaggio. Per circoscriverne il crescente consenso e per
consolidare la figura del monarca e riaffermare l’universalità dell’impero, nel corso del III secolo si
promossero i riti della venerazione del sacro volto del Princeps. Si arrivò a promuovere la concezione
orientale della trascendenza della carica imperiale. Dalla semplice maior dignitas si passò ad imporre la
natura ‘ultraterrena’ dell’imperatore, che riassumeva in sé lo Stato, e che deteneva la prerogativa
dell’absolutio legibus, del privilegio di disattendere l’ordinamento e di operare all’occorrenza addirittura
contra legem. Una massima attribuita ad Ulpiano, uno dei giuristi classici, sembrava chiara in tal senso
perché asseriva che “tutto ciò che piace al principe ha vigore di legge”. La natura divina dell’imperatore
era ripudiata però dagli affiliati al cristianesimo, la cui fede ammetteva solo la trascendenza di Dio.
Perciò, si ebbero quattro editti (= constitutiones di valore generale) tra il 303 e il 304 emanati da
Diocleziano (284-305), l’ultimo vero persecutore dei cristiani, estremi tentativi di arginare la diffusione
del cristianesimo presentato come religione sovversiva dell’ordine pubblico.
3. La svolta di Costantino
Con Costantino prende anche avvio l’aureo periodo dell’impero d’Oriente. Bisanzio, la nuova Roma,
rinominata dal nuovo imperatore Costantinopoli, per oltre un millennio (fino al 1453, anno della decisiva
conquista turca) diverrà la depositaria e custode dei valori della romanità e della cristianità a un tempo
grazie a una svolta decisiva. Costantino affidò al cristianesimo il compito di restituire una salda
coscienza unitaria all’impero, di contrastare le resistenze centrifughe e configurare il nuovo modello di
regalità cristiana.
L’Editto di Milano del 313 (altra constitutio in senso tecnico) ratificò il nuovo corso della politica
imperiale concedendo ufficialmente la libertà di culto ai cristiani. Le molte ‘chiese’ locali diventavano
con ciò associazioni lecite. Nello stesso anno l’imperatore restituì ai cristiani i beni loro sottratti in Africa
e Calabria, ed esonerò dai munera del decurionato (cioè dagli obblighi delle cariche amministrative che
contrassegnavano i decuriones, i notabili locali) i chierici della Chiesa cattolica considerata oramai
universale, unica ed esclusiva, in antitesi alle sette non ubbidienti, già ora definite ereticali. L’imperatore
era visto ora come ‘vescovo dei vescovi’, tramite tra Dio e gli uomini, vicario e maestro della conoscenza
divina.
Negli anni successivi Costantino consolidò le prerogative ecclesiastiche con il privilegio dell’episcopalis
audientia, ossia con il conferimento ai vescovi di una giurisdizione legittimata a sostituire quella del
‘giudice naturale’ laico.
Nel 321 una nuova ‘costituzione’ costantiniana accordò alle chiese anche diritti di successione, donde le
vastissime proprietà che conferirono presto alle comunità cristiane più potenti uno specifico rilievo
politico grazie alle sempre più frequenti donationes pro anima dei privati.
2. Le fonti dottrinali
Fra i testi degli iura tradizionali allora circolanti, e utilizzabili in base alla legge delle citazioni, molta
circolazione ebbero le Sententiae di Paolo, cioè attribuite a un giurista previsto dalla legge. L’opera derivò
da una selezione di opere classiche ma incluse anche leges. Il compendio ebbe larga diffusione e fu
adottato sia nelle scuole, sia nelle aule dei tribunali. Fu utilizzata sia nel Breviarium Alaricianum, che nel
Digesto.
Un altro testo significativo grosso modo coevo, di nuovo misto di iura e leges, è la Collatio legum
Mosaicarum et Romanarum (definita dalla tradizione Lex Dei), una sorta di comparazione fra la legge biblica
e quella romana, fatta per evidenziare le concordanze fra i due ordinamenti. Più precisamente all’età
costantiniana risalgono i Fragmenta Vaticana, importanti per i richiami ai giuristi classici.
I Tituli ex corpore Ulpiani, probabilmente elaborati durante lo stesso IV secolo, costituiscono un notevole
esempio di semplificazione del diritto classico per aderire alle mutate necessità del tempo. L’Epitome Gai,
invece, è più tarda (secolo V) e pare più un’interpretazione delle Istituzioni gaiane, che non una sintesi
dell’opera del giurista.
3. Il Digesto
Vigente già il Codice, un’altra commissione guidata da Triboniano, assurto nel frattempo al rango di
questore del Sacro Palazzo, portava presto a compimento un’opera, l’impresa già vagheggiata invano da
Teodosio II.
Nel 533 videro infatti la luce i Digesta, se si utilizza la terminologia latina, dette anche Pandectae dal
greco (raccogliere tutto). L’opera accoglieva un’accurata selezione del materiale residuo entro il
moltissimo prodotto secoli prima dai giuristi romani detti dagli studiosi moderni ‘classici’ per essere
vissuti concentrati in tre secoli: i più fecondi per la formazione del diritto romano e per la civiltà romana
(grosso modo il II a.C. e i due successivi).
Questi giuristi, dotati di un’eccellente cultura, di una forte personalità e di un grandissimo prestigio
sociale, pur essendo soltanto dei privati, elaborarono una serie di opere differenziate in rapporto alle
finalità prefissate: ad es., le Institutiones che avevano un carattere introduttivo al diritto nel suo
complesso, i commenti che interpretavano gli Editti, e i Responsa con cui davano pareri che risolvevano
quesiti specifici nati dalla pratica giudiziaria.
Le loro elaborazioni dottrinali avevano la caratteristica peculiare di mettere per scritto le regole ed i
problemi del diritto romano che, nel corso dei secoli, andava maturando e complicandosi partendo dagli
antichi usus e mores non disciplinati dalle leggi. Si trattava quindi di opere a un tempo ricognitive e
costitutive, che documentavano il diritto romano nel momento stesso in cui lo aiutavano a svilupparsi
adeguandolo ai nuovi problemi del tempo.
I Digesta, o come oggi si dice il Digesto, nei suoi 50 libri raccoglie circa 40mila frammenti di una
quarantina di giuristi le cui opere residuavano dalla ‘dottrina’ romana antica, e il termine è rimasto
tradizionale a designare un condensato (meglio se di sapienza) come nei Digests del mondo anglo-
americano. Il Digesto è quindi una raccolta di giurisprudenza, naturalmente ‘classica’, derivante dalla
iuris prudentia, dalla scienza del diritto, dalla riflessione specialistica sulle questioni giuridiche portata
avanti nel corso di più secoli dai giuristi romani. Da questo termine deriva il nome delle attuali facoltà
universitarie; nondimeno va tenuto ben presente che ‘giurisprudenza’ oggi ha normalmente un
significato più specifico, perché indica anche il complesso delle decisioni dei giudici.
I Digesta furono commissionati quindi come una raccolta di iura, ben stinta da quella precedente delle
leges, i cui contenuti non erano dottrinali, ma legislativi, promanando direttamente dalla fonte imperiale.
Anche gli iura così raccolti però furono sanzionati solennemente dall’imperatore, per cui il titolo della loro
validità fu immediatamente diverso e più forte: non più dottrinale ma indirettamente legislativo in
quanto derivante dalla volontà del sovrano.
Gli antichi testi, coordinati e modificati per essere armonizzati tra loro dalla commissione presieduta da
Triboniano, vennero su espresso ordine di Giustiniano attualizzati, modernizzati e piegati all’attualità del
secolo VI: queste loro note saranno poi dette dagli umanisti del Quattro-Cinquecento emblemata
Triboniani, e dagli studiosi tedeschi dell’Ottocento ‘interpolazioni’.
Il recupero dopo secoli degli iura fu possibile e validissimo in virtù della perdurante validità delle
interpretazioni dedicate al diritto più stabile, meno suscettibile di variazioni, ossia quello privato,
riguardante i rapporti interpersonali, quelli per i quali una volta trovata una soluzione razionale non
c’era bisogno di elaborarne altre.
Due libri, nominati terribiles, disciplinano nel Digesto il diritto penale (i libri 47 e 48), laddove ci si
curava dell’interesse pubblico alla pacifica convivenza dei consociati, ma ovviamente anch’essi avevano
come destinatari i privati e tramite la previsione di pene orribili costituivano un forte deterrente sociale.
L’opera è anche materialmente vasta. Perciò bisogna essere al corrente dei modi di citazione dei suoi
infiniti passi particolari, per i quali si ricorre all’edizione critica curata nel secondo Ottocento dal grande
filologo e storico di Roma il tedesco Mommsen. Questo testo è indicato come Dig. e viene seguito da
alcuni numeri, che nell’ordine stanno ad indicate il libro, il ‘titolo’ e il singolo ‘frammento’, che precisa
l’autore del pezzo e l’opera dalla quale è stato tratto. Prendiamo ad esempio una famosa definizione che
dice molto della coscienza dell’altissimo compito intellettuale e morale che i giuristi romani ritenevano di
svolgere: “la giurisprudenza viene presentata come scienza delle cose umane e divine, del giusto e
dell’ingiusto.” Ebbene, queste parole si leggono ad apertura del Digesto, in modo programmatico quasi,
nel libro I sotto un titolo che è anch’esso tutto un programma di governo: De iustitia et iure.
Il passo ci introduce a un’altra considerazione. Cioè al fatto che in questi testi sono frequenti gli spunti
teorici, che stimolano la discussione, le interpretazioni e perciò anche la riflessione e l’uso didattico.
Interi titoli sono dedicati ad esempio alla significano dei termini o alle regulae. Alcune massime rivelano e
chiariscono l’acutezza, lo spessore e la profondità raggiunta dalla riflessione giuridica. Prima di chiudersi
infatti con il De diversis regulis iuris antiqui, il Digesto presenta anche un titolo De verborum
significatione formato da ben 246 passi che richiamavano alla precisione concettuale della terminologia
privatistica ed accoglievano ammaestramenti di rilievo gius-pubblicistico:
Frequenti sono anche i richiami al diritto naturale ed al diritto delle genti, che avevano trovato
approfondimenti notevolissimi pure nella Patristica. I grandi temi del diritto, quindi, i valori
fondamentali della giustizia e dell’equità, già da secoli oggetto di dibattiti intensi, erano recepiti nella
dotta cornice retorico-moralistica e religiosa dell’impero romano-cristiano. C’erano tutte le condizioni
perché dichiarazioni assurte alimentassero approfondimenti di notevole rilievo nei secoli a venire, e non
solo nel Medioevo. Anche solo i contenuti dei primi titoli del Digesto confermano subito quel profilo
fortemente teorico della raccolta.
Il primo titolo del Digesto, dedicato a De iustitia et iure, accoglie ben dodici passi di giuristi classici su
questioni fondamentali del diritto, che saranno naturalmente occasione di riflessioni approfondite da
parte dei giuristi medievali. Il secondo titolo, dedicato a De origine iuris et omnium magistratuum et
successione prudentium, reca un lunghissimo frammento, diviso in 53 paragrafi, di Pomponio, che offre
una sommaria storia di Roma. Il terzo titolo tratta De legibus Senatusque consultis et longa consuetudine,
cioè si occupa delle fonti del diritto, con un insieme di definizioni destinate ad essere ripetute e studiate
infinite volte. Segue il titolo De constitutionibus principimi, introdotto da una citazione tratta dalle
Istituzioni di Ulpiano, che può considerarsi un compendio dell’assolutismo imperiale, destinata a
suscitare infinite discussioni. Esso chiude la trattazione sulle fonti del diritto, poste a fondamento del
sistema giuridico. Si prosegue con De statu hominis, sul diritto delle persone, poi esaminato più
dettagliatamente nel De his qui sui vel alieni iuris sunt. Dopo le fonti, si dovevano subito esaminare le
norme fondamentali della persona, al centro del diritto.
4. Le Istituzioni
Giustiniano volle che fosse predisposta anche una sintesi del diritto romano, che considerasse
unitariamente leges e iura e che fosse adatta agli studenti universitari di primo anno. Si tratta delle
Institutiones, che presero a modello il manuale del giurista Gaio. Le Istituzioni sintetizzano quindi gli
istituti giuridici nei loro aspetti fondamentali, poi specificati in Codice e Digesto. I quattro suoi libri sono
dedicati rispettivamente alle persone, ai diritti ‘reali’ e alle successioni, alla parentela e affinità, ai
contratti obbligatori, ed alla responsabilità civile e al processo.
In questa temperie di assolutismo politico-giuridico, Giustiniano volle promulgare nel 533 anche le
Istituzioni come testo di legge, con la costituzione Imperatoriam maiestatem, indirizzata qualche giorno
dopo con una famosa costituzione detta Omnem ai professori di Costantinopoli e di Berito, cui ingiungeva
un preciso ordinamento didattico, con un programma quinquennale di studio del diritto. Questo
provvedimento imperiale, con cui si formalizzava e si comunicava ufficialmente il cursus studiorum,
rimase un modello per i secoli a venire.
Nel primo anno, i giovani, presentati come ‘naturalmente’ appassionati di diritto si sarebbero appunto
giovati del testo complessivo delle Istituzioni; nei tre anni successivi si sarebbero dedicati all’impegnativo
Digesto, anima e sintesi della scienza giuridica, l’elaborazione più complessa degli istituti
(prevalentemente) del diritto privato, per passare al Codex, coronamento dello studio, perché la parte più
attinente agli interventi correttivi dell’imperatore e alle disposizioni concernenti l’organizzazione della
complessa compagine imperiale. La pianificazione dell’ordinamento di studi palesava il proposito di
consentire una graduale capacità di apprendimento, mettendo anche in rilievo le possibili stratificazioni
tra i testi del Digesto e del Codice.
Secondo le istruzioni ricevute da Giustiniano i commissari nel corso dell’elaborazione dei testi giuridici,
avrebbero dovuto manipolare (interpolare) le scritture originali inserite nelle raccolte in modo da
eliminare le contraddizioni rilevate. L’imperatore precluse ogni manipolazione successiva dei testi da
lui approvati e ritenuti perfetti, consentendo agli studiosi solo richiami di passi paralleli. Eventuali
dubbi interpretativi avrebbero dovuto essere esaminati ed eliminati esclusivamente dal legislatore.
L’opera di elaborazione e la mole dei testi selezionati portati a termine in un tempo assai breve non
poterono, però, realisticamente consentire l’eliminazione sistematica e completa dei conflitti, di fatto
rimasti numerosi. Del resto, le raccolte reiterate di leges dimostrarono l’impossibilità di mettere a punto
raccolte perfette.
1. La regola benedettina
L’opzione cristiana poteva essere anche vissuta individualmente, ed era il caso degli eremiti, oppure a
piccoli gruppi di eletti che, abbandonando la vita di tutti i giorni, si mettevano al servizio di una vita
rigorosamente vissuta, al servizio dell’ideale cristiano. Gli eremiti, in quanto tali, non avevano bisogno di
regole: si appartavano proprio per vivere nell’intimo l’esperienza religiosa, non per obbedire a regole
esteriori.
Tra le regole monastiche che ebbero una precoce diffusione, la più nota risale all’insegnamento di san
Benedetto da Norcia (480-547), operante al tempo della guerra gotica e fondatore della celebre abbazia
di Montecassino. Essa, in parte derivante da una precedente di pochi anni (Regula Magistri, di un
monaco mai identificato), deve la sua affermazione più che all’esaltazione che ne fece papa Gregorio
Magno intorno al 600, alla sua straordinaria funzionalità. Testo ‘costituzionale’ come pochi altri nella
storia occidentale, frutto dell’elevata saggezza ‘romanistica’, fu scelta da Carlo Magno per disciplinare
con una regola certa il monachesimo e rimase, ed è rimasta, attraverso i secoli, con una incredibile
capacità di adattamento, un modello insuperabile per la convivenza giuridicamente regolata di una
comunità monastica. La Regula si compone di una convergenza dell’impegno ascetico con quello
materiale del monaco, compendiato nella massima “ora et labora”. Al cap. 1 la regola indica la vita
eremitica come l’esempio superiore d’eccellenza spirituale, ma essa non è da tutti; richiede un impegno e
una maturità che si possono raggiungere solo dopo essersi temprati nella disciplina del cenobio. I
precetti contenuti nella Regola tendono ad istituire una comunità coesa e motivata, idonea ad evitare la
dispersione grazie ad una forte concentrazione di potere nella figura dell’abate.
La solenne promessa di dedizione del cenobita al monastero riguarda essenzialmente il dono di se stesso,
del proprio corpo, e di obbedienza senza riserve all’abate, al punto da configurarsi come una totale
rinuncia ad una volontà propria. Il cap. 59 sanciva il divieto per l’oblato (= offerto al monastero)
benestante di ricevere alcun dono da parte dei genitori o di offrire le liberalità al monastero, in modo che
il neofita non potesse essere in alcun modo turbato dai beni materiali e distolto dal suo impegno
monastico.
La comunità monastica è definita nel prologo come una “scuola per il servizio del Signore” affidata
esclusivamente all’abate visto come un maestro munito di un potere monocratico di fronte al quale
restano solo il silenzio, l’umiltà e l’obbedienza pronta e incondizionata dei monaci. All’abate si possono
offrire solo pareri non vincolanti, perché egli porta da solo la responsabilità di far crescere la comunità di
soldati devoti alla santa obbedienza, di ‘fedeli’. Il cenobio è configurato come un consorzio autosufficiente,
da cui deriva la necessità del lavoro manuale, chiuso nei confronti dei pericoli esterni e pronto a
reprimere il male che possa manifestarsi nella collettività.
Il complesso di norme deontologiche dirette all’abate sono un concentrato di saggezza antica destinata a
sottolineare l’alta funzione del Magister: nel monastero egli è in luogo di Cristo, per cui le sue
responsabilità sono maggiori e gravose. Dovrà dimostrare con i fatti cosa è il buono e il santo, senza
discriminazioni. Uguaglianza tra i monaci-sudditi, dunque, ma attenuata per motivi d’opportunità. La
temperanza consiglia al superiore di dare di più a chi più ha bisogno, ma in modo oggettivamente
motivato, perché devono evitarsi i mormorii.
Sotto la guida di abati capaci si formavano dei centri monastici estremamente efficienti, dediti
all’istituzione senza riserve, e perciò capaci di acquisire un ampio prestigio, di vasta risonanza. Le
fondazioni divenivano così un punto di riferimento visibile, pronto ad accogliere le pie donazioni di chi si
offriva al monastero o dei ricchi fedeli. Di conseguenza i conventi di modeste dimensioni nella prima età,
divennero intorno all’VIII sec. fondazioni capaci di accogliere un gran numero di monaci, di conversi e di
collaboratori che coltivavano le terre del monastero sia in gestione diretta -la pars dominica della
proprietà, di regola vicino all’abbazia, sotto il controllo diretto dei monaci-, sia quelle più lontane
denominate pars massaricia; queste erano affidate a singole famiglie contadine, ora di servi, ora anche di
ex-proprietari che avevano donato le proprie terre per godere della sicurezza che solo l’ingresso in una
grande azienda poteva conferire. Oltre a canoni in denaro o in natura, essi dovevano eseguire, in certi
periodi dell’anno, alcune prestazioni sulla pars domenica. Divennero aziende modello che partecipavano
del sistema curtense fondato sul primato assoluto dell’agricoltura e degli scambi commerciali a breve
distanza.
In età carolingia, si diffonderà la pratica di rendere immuni queste istituzioni, ossia di esonerarle
eccezionalmente dalla normale giurisdizione dei poteri statali, e gli abati si avvarranno della
collaborazione dei laici per gestire determinate funzioni: l’amministrazione della giustizia, la protezione
militare. Il rapporto con le potenze esterne diverrà sempre più pressante per ottenere soprattutto il
controllo dell’elezione dell’abate, per il quale si dettava la regola della scelta da parte di tutta la
comunità, ma si lasciava aperta la strada alla rivendicazione dell’elezione da parte dei migliori.
L’elezione sbagliata, di un monaco indegno, apriva la crisi e lasciava aperta la strada all’intervento del
vescovo, ma anche di abati vicini e di “fedeli”.
La regola benedettina è un documento straordinario, unico per longevità della sua vigenza ed è un
concentrato di saggezza giuridico-istituzionale che conferma la vocazione occidentale per la scrittura della
legge. Una costituzione-quadro, essenziale, che lasciava il campo alle interpretazioni e ad interventi
successivi o a regole locali, capace per il suo interno equilibrio d’autorità e di consenso di superare le
infinite insidie del tempo.
3. L’Irlanda e i Penitenziali
In Irlanda la colonizzazione romana non era giunta, per cui quando il cristianesimo si diffuse tra le
popolazioni celtiche grazie all’opera determinante di san Patrizio, ebbe un’organizzazione originale, quasi
obbligata a causa dell’assenza di centri urbani e delle invasioni germaniche, che segnarono scarsità di
rapporti con il Continente.
In mancanza di un rilevante sviluppo urbano, le chiese si basarono sul primato degli abati. Questo fece
sì che l’organizzazione ecclesiastica fosse più coesa, disciplinata, e, soprattutto dotta, come dimostra
l’importanza di questi scrittoi monastici per la tradizione della cultura classica e per l’elaborazione dei
Libri Penitenziali. Essi sono una sorta di prontuari che dettano per i vari peccati le penitenze cui il
peccatore doveva sottomettersi per espiarli in una scala gerarchica che parte dai meno gravi ai più
efferati. I Penitenziali sono una preziosa fonte documentaria per ricostruire la cultura del tempo, in virtù
del diverso rilievo che si attribuiva alle trasgressioni. Si diramarono nel Continente, grazie alla
caratteristica peculiare del monachesimo celtico, la peregrinano religiosa, o pro Christo, ossia all’abban-
dono della propria terra di origine per affrontare un viaggio missionario compiendo il volere di Dio.
I Penitenziali tentarono in modo disarticolato e con difficoltà di diffondere i valori cristiani e di sradicare
costumanze e credenze molto risalenti, i sortilegi e gli interventi magici, che i dotti ecclesiastici
reputavano semplici superstizioni e perciò oggetto di miti condanne. Questi testi si trovano sparsi in
manoscritti di varia origine e per i vari secoli dell’Alto Medioevo. I più vicini al Mille sono più complessi e
tengono conto della psicologia dei peccatori, cercando di radicare quello che sarebbe divenuto il topos
molto diffuso secondo il quale la penitenza era da considerarsi come una medicina. Non a caso il
penitenziale inserito nel Decreto di Burcardo vescovo di Worms intorno all’anno 1000 era denominato
Corrector o Medicus. Vi si chiarisce come si perveniva all’assegnazione della penitenza dopo un
interrogatorio che, portando alla confessione e all’ammissione piena degli errori commessi, aveva la
funzione di alleviare il senso angoscioso di colpa. Un processo espiativo, dunque.
Dall’applicazione pratica delle penitenze sappiamo ben poco, essendo stati utilizzati nel corso di quel
‘processo di foro interno’ (della coscienza) implicato dalla confessione; ugualmente vi sono notevoli
difficoltà per determinare la loro diffusione nello spazio e nel tempo. Ma sono testi di rilievo da un punto
di vista giuridico, perché denotano un’elaborazione più puntuale rispetto alle leggi alto-medievali delle
‘nazioni’ germaniche, che consideravano il fatto commesso indipendentemente dalla volontà dell’agente.
Qui, invece, si comincia a valutare anche la disposizione soggettiva del reo, come quando si sottolinea ad
esempio l’omicidio senza cattiveria.
Le analisi e le distinzioni si fanno più raffinate nella valutazione dei peccati sessuali, che occupano di
regola un buon terzo di questi testi: dal coitus interruptus all’onanismo, dagli accoppiamenti bestiali
all’aborto. L’adulterio imponeva di accertare la parte responsabile, perché il coniuge colpevole non
avrebbe potuto risposarsi. Il marito abbandonato definitivamente, poteva, col consenso del vescovo,
unirsi in matrimonio dopo una decorrenza quinquennale. Il divorzio non deve meravigliare, come
l’unione coniugale del clero, che era considerata lecita. In quei secoli si ragionava molto diversamente.
Ad esempio, ci si opponeva fermamente alla mala consuetudo trionfante che conduceva a condannare i
laici che dileggiassero l’ecclesiastico sposato! Il lassismo imperante aveva condotto, in un Penitenziale
probabilmente dell’Italia del Nord, ad ammettere il divorzio per mutuo consenso- una concessione che
apparve rivoluzionaria in Francia a fine Settecento e in Italia ancora pochi anni or sono!
Il fatto è che allora il matrimonio per la Chiesa aveva sempre una qualche valenza negativa, ed era
ammesso, ma come un male minore. Pur ritenendolo la sede unica e legittima della procreazione, l’atto
sessuale era consentito solo in una cinquantina di giorni all’anno; già solo la preparazione alla messa ri-
chiedeva tre giorni di astinenza sessuale e richiedeva ex post abluzioni per conseguire di nuovo la
purezza necessaria per avvicinarsi ai sacramenti.
Capitolo X: LA CRISI CAROLINGIA: DAL FEUDO ALL’IMPERO OTTONI ANO (FINE SECOLO IX-
SECOLO X)
3. Le falsificazioni ecclesiastiche
Quando, nel corso del IX secolo, si palesò il declino della dinastia carolingia, si rese evidente anche una
crisi dell’istituzione ecclesiastica, che perdé l’originario slancio e la fiducia nell’impegno riformatore del
sovrano. Fu emblematico l’episodio della dieta di Epernay dell’846, in cui i maggiorenti laici opposero
un aspro diniego alle istanze del clero. Era finito il tempo in cui i provvedimenti regi recepivano, con i
capitolari ecclesiastici, le esigenze delle chiese. Perciò fiorirono in quest’epoca tutta una serie di falsifi-
cazioni di testi normativi che intendevano sopperire alla precedente attività legislativa regia in materia
ecclesiastica.
La Donazione di Costantino in cui compare l’imperatore Costantino che, guarito dalla lebbra grazie a
papa Silvestro, dona Roma e l’intero Occidente al papa, è soltanto il più noto di questi testi creati ex
novo; esso fu anche anticipatore perché risale -a quanto pare- a pochi anni prima dell’800 e a uno
scrittoio francese; inoltre, ebbe larga circolazione perché confluì nelle Decretali Pseudo-isidoriane e
successivamente nel Decreto di Graziano -testo universitario per antonomasia del secolo XII.
Gli ambienti ecclesiastici dunque si posero all’opera per contraffare quei capituiaria che non ottenevano
più dal potere sovrano. Alla metà del secolo IX risale la raccolta mista di originali e di falsi opera di un
certo Benedetto Levita, che derivò parte dei suoi materiali dalla precedente raccolta di Ansegiso, abate
di Fontanelle.
Le raccolte di capitolari non devono però confondersi con le raccolte specifiche di canoni circolanti. La
più famosa in età carolingia fu la Collectio Dionysio-Hadriana, espressione della volontà romana di
unificare le normative canonistiche. Ma il primato di Roma era ancora lontano, per cui nello stesso
periodo ebbe larga diffusione anche la Collectio Isydoriana o Hispana. Questa raccolta assume un rilievo
singolare perché sulla sua base si sviluppò la più consistente raccolta di falsificazioni del tempo, andata
sotto il nome di Decretali Pseudo-Isidoriane. Un insieme molto significativo di testi consapevolmente
raccolti per auspicare una riforma della Chiesa attraverso il recupero dei valori e istituti della società
cristiana delle origini. In questa prospettiva, parve naturale recuperare ed elaborare lettere papali e
norme conciliari dell’età dell’oro, come l’epoca di Papa Anacleto (79-90) o di Clemente I (90- 101). I testi
non sono il frutto di un’elaborazione completamente fasulla, perché piuttosto si accostarono in modo più
o meno arbitrario a vari testi sia ecclesiastici (da Bibbia, Padri della Chiesa, Penitenziali) sia laici
(frammenti teodosiani, capitolati e via dicendo). L’aspirazione delle Decretali è quella di ripristinare
l’autonomia e la dignità dei vescovi, confermando il privilegio del foro, le regole canoniche per le elezioni,
la consacrazione e il trasferimento dei vescovi. Così si rafforzava il primato del pontefice romano, visto
come garante dell’autonomia ecclesiastica.
5. La prassi notarile
Fondamentale è recuperare il mondo della pratica notarile e giudiziaria che, con le sue di testimonianze
scritte non solo attesta ancora una volta la civiltà della scrittura, ma tramanda una documentazione
preziosa per comprendere il ‘diritto vivente’, che attesta il processo evolutivo cui furono sottoposti istituti
giuridici e formule processuali.
La tendenza a documentare un negozio giuridico per scritto aveva già fatto capolino nel diritto
longobardo (Rotavi), laddove raccomandava la scrittura “propter futuri temporis memoriam”,
naturalmente riservata agli atti più importanti e quindi, oltre a quelli legislativi e giudiziari, ai negozi
giuridici dei privati i cui effetti si protraessero nel tempo: sentenze immobiliari, doti, contratti agrari di
lunga durata. Erano previste a livello normativo delle norme che a titolo cautelare istituivano archivi per
la conservazione ufficiale delle memorie scritte.
La scrittura, talora designata per i contratti convenientia (o stantia, cioè accorcio), era un munimen, un
baluardo a difesa del negozio, che doveva assicurare la firmitas dell’atto pubblico o privato, la sua durata
ed inattaccabilità. La prova dell’avvenuto negozio, per i contratti relativi a beni immobili, si poteva
ottenere anche per mezzo di testimoni. La diffusione del fenomeno delle falsificazioni rendeva il
documento oggetto di diffidenza: era necessario che fosse corroborato da testimoni. In questi secoli sono
frequenti poi atti (conservati quasi esclusivamente dagli archivi ecclesiastici) con cui le più alte autorità
‘confermavano’ le proprietà o i diritti già posseduti per sanare eventuali nullità dei documenti anteriori.
Avere una ratifica dal nuovo imperatore o papa rafforzava quel che si poteva prima pretendere solo in
virtù di vecchi titoli. Lo stesso senso assumono le frequenti attestazioni di proprietà, registrate dai notai
con la formula “et canonico ordine et legibus” (“in base alle leggi e ai canoni”).
Le scritture notarili del tempo erano redatte secondo dei “formulari” ossia delle raccolte di modelli
stereotipi risalenti anche all’epoca romana o predisposti più recentemente, specifici per il diritto
longobardo. Il diritto tendenzialmente unificato romano-canonico applicato con una certa larghezza nelle
aree intermedie, sembra aver avuto una fortuna assai diversificata, da porsi in relazione alle varie realtà
giuridiche territoriali.
Intorno ai formulari tardo-antichi sopravvissuti in età longobarda e carolingia si concentrarono gli sforzi
di unificazione del secolo X. Ma l’unico formulario ‘recente’ (forse del 1000) pervenutoci ebbe una
formazione complessa e rispecchiò la pluralità dei diritti vigenti e compresenti all’epoca più che un
tentativo di unificazione: la ‘formula’ della vendita ad es. illustra la traditio nella forma romana,
longobarda, salica alamanna e bavara.
I documenti presentano forme negoziali che attestano chiaramente la ‘volgarizzazione’ cui il diritto
ufficiale stava andando incontro, realizzando anche forme singolari di confluenza di diritti in origine così
diversi.
6. Contratti agrari
Sotto questo aspetto i contratti relativi ai beni immobili, dominanti in una società ormai pressoché
esclusivamente agraria, forniscono dati importanti per comprendere la commistione cui gli istituti furono
sottoposti. Il diffusissimo livello, l’enfiteusi o la precària, negli atti presentano caratteristiche a volte
similari, segno evidente che gli stessi notai non erano più in grado di distinguere i contenuti dei diversi
contratti. Già presente nel Codice teodosiano, il livello viene successivamente disciplinato nel diritto
longobardo, che stabilì una sorta di responsabilità del proprietario per le azioni delittuose commesse dal
livellario, facendo supporre che i livellari fossero posti in una forma di dipendenza personale nei
confronti del concedente. Non a caso il livello era talora ‘concesso’ dopo una petitio, ossia una richiesta
rispettosa del contadino disposto ad assoggettarsi alle regole del tempo: il livellario corrispondeva al
concedente una cifra esigua, ma poteva essere obbligato a risiedere nel fondo -come avveniva per i servi.
Questa situazione comportava una sottomissione del livellano al tribunale del signore ufficiale, anche
solo in forza del contratto. In generale la tendenza era a fondere i linguaggi agrari entro la nuova cornice
feudale.
Il termine lex rendeva, per il peso della tradizione, l’idea dell’obbligazione vera e propria quale era quella
assunta dal concessionario coltivatore. Ragion per cui anche le obbligazioni vere e proprie di derivazione
contrattuale, assunte verbalmente per evitare la redazione scritta che comportava prevedibili spese o uno
scriptor difficile da trovare, col tempo si avvertivano come dettate più da una consuetudine locale che
non dal contratto verbale stipulato: dal rapporto stesso con la ‘cosa’.
La relazione padrone-coltivatore aveva contenuti localmente determinati, tanto forti da imporsi alla
volontà delle parti e da sembrare scaturenti dai fatti e dalle azioni, come ogni rapporto che finisce per
apparire conforme alla ‘natura’, immutabile, tradizionale. Ma la rappresentazione di un fenomeno non
ne può nascondere la vera essenza. Nella detenzione dei beni nominata giuridicamente possessio dal
diritto romano e investitura da quello alto-medievale, può non sussistere distinzione dal punto di vista
della qualificazione formale, giuridica, tra il piccolo contadino all’interno del grande dominio curtense e il
grande enfiteuta o ‘livellario’ che gode di una concessione di favore (beneficium) su terre di una chiesa:
entrambi hanno un possesso tutelato del bene, quello che si chiamerà dominium utile del fondo. Peró che
la posizione socio-economica dei due detentori è ben diversa. Anche gli illustri e potenti signori
ottenevano terre in concessione, e in larghe estensioni soprattutto quando erano ecclesiastiche o fiscali,
e nessuna ambigua categoria giuridica -come il livello, l’enfiteusi e la locatio ad longum tempus- può
obliterare la sostanza dei fatti. In questi secoli “chi dà la terra vuole l’uomo, e l’uomo si dà per avere la
terra”.
Il nesso di relazione intercorrente fra l’investitura ed il mondo fondiario finì per designare in Lombardia
un contratto agrario in senso stretto, realizzato tipicamente con la consegna simbolica al concessionario
di un lignum da parte del concedente. Fu adottato dalla Chiesa per connotare il conferimento di dignità,
di poteri, di diritti. La Chiesa recepì infatti dal diritto bizantino l’istituto del possesso di diritti
(possessio iuris), dal quale deriva l’uso dell’investitura anche all’interno dell’apparato pubblico, perché il
beneficium era connesso ad un honor. In questo caso l’investitura richiedeva una ritualità espressa da un
gesto simbolico che indicava il passaggio del potere: la consegna di un ramoscello, di una zolla di terra,
di una pergamena, o addirittura di un guanto.
Rilievo centrale assumono le disposizioni a favore delle chiese, sia per mezzo di testamento, atto
dispositivo post mortem tipico del mondo romano, sia mediante le donationes pro anima, con efficacia
immediata, o col ‘legato’ testamentario, cioè il lascito specifico disposto nel testamento con efficacia post
mortem. I donanti frequentemente si riservavano l’usufrutto dei beni donati, ma si riscontra la tendenza
a fare donazioni a sé, irrevocabili e prive dei corrispettivi usuali, come il launegild richiesto dal diritto
longobardo. La riserva d’usufrutto consentiva di rimanere in possesso del bene e di goderne i frutti e al
tempo stesso fruire della protezione legale e materiale accordata dall’ente destinatario della donazione.
Ricorre anche la simulazione di determinati atti per non incorrere nelle crescenti proibizioni della Chiesa.
In particolare questo vale per l’‘usura’, che era intesa come ogni interesse pattuito per un mutuo. Per
aggirare il divieto si ricorreva già allora a negozi simulati che nascondevano la realtà del prestito: alle
confessioni di debito superiori all’importo riscosso, oppure alle vendite con patto di riscatto.
1. Da Cluny la riscossa
La tendenza cesaro-papista rinnovata dagli Ottoni non poteva scontrarsi più nettamente con l’ideale di
una società ordinata per l’affermazione dei valori cristiani. Il monachesimo ancora una volta svolse un
ruolo decisivo nel precisare la fondamentale contrapposizione. Paradossalmente, la controffensiva prese
avvio da un grande monastero, Cluny, fondato, all’inizio del secolo X, da Guglielmo duca di Aquitania e
conte di Macon, di cui ci è pervenuta la carta di fondazione. Nel documento i beni furono concessi non al
monastero, ma “agli apostoli Pietro e Paolo”, vale a dire alla chiesa di Roma, che diveniva la tutrice del
patrimonio essendone la diretta proprietaria.
Da Cluny trasse origine il messaggio riformatore che si concentrò sulla rivendicazione dell’autonomia
delle istituzioni ecclesiastiche. In primo luogo, il monastero doveva essere esente dall’autorità vescovile
locale e sottoposto esclusivamente al Papato. Già nell’atto di fondazione si dichiarava che i monaci “non
saranno soggetti al giogo di nessun potere terreno, neppure al nostro, né a quello dei nostri congiunti, né
a quello della regia maestà”, e si dichiarava esplicitamente che neppure il papa avrebbe potuto
impadronirsi dei suoi beni.
Il monastero si configurò come la sede centrale d’un movimento più ampio, che tese a superare la
tradizionale propensione atomistica dei monasteri benedettini. A Cluny, infatti, giurarono via via
obbedienza altri cenobi riformati, che ponevano al centro del loro impegno l’applicazione della regula pura
di san Benedetto, che comportava l’elezione interna dell’abate da parte dei soli monaci, escludendo, così
le ingerenze laiche.
Il primo abate, Bernone, dette prova di voler operare senza influssi laici, riformando monasteri e
divenendo abate di più istituti. Cluny approdò con una propria sua sede a Roma a metà del secolo e a
Pavia fonda la prima comunità nel 967. La riforma fu favorita dagli arcivescovi di Magonza, Colonia e
Salisburgo, ma anche dall’imperatore Ottone.
Fu sempre Cluny a teorizzare la figura del santo cavaliere, che impugna e usa la spada per fini santi, e
ad esaltare quindi la figura del miles, membro d’una militia che operava per gli stessi valori del monaco.
Il monastero ebbe anche un ruolo importante nel promuovere le ‘paci di Dio’, un movimento originato
dapprima nella Francia del sud ad opera di vescovi e di principi territoriali per contenere le violenze dei
cavalieri, quei milites che una volta cristianizzati sarebbero stati utilmente impegnati nelle buone opere
quotidiane.
Un esempio è offerto dal testo del giuramento predisposto dal vescovo di Beauvais intorno al 1025, in cui
tra i mille divieti erano compresi quelli di non distruggere i mulini e di non rubare il grano, a meno che
non si trattasse di una cavalcata o di una spedizione militare pubblica; di non uccidere il bestiame del
contadino se non per nutrimento personale, scorta compresa; di non attaccare le donne nobili e il loro
corteo in assenza del marito.
Il movimento cluniacense costituì la replica alla temporalizzazione della Chiesa, ma fu una
contromisura così forte da aprire una frattura insanabile fra gli apparati di potere del tempo, anche
quelli ecclesiastici, tenuto conto di quanto si è anticipato sulla coesistenza tanto nella struttura
dell’impero che dentro quella delle chiese di elementi rispettivamente ecclesiastici e temporali. Le coin-
cidenze giocarono un ruolo importante e inatteso. Si ebbe un esito imprevedibile per la concomitanza di
due fatti lontani ma omogenei nel significato.
Da un lato si reclamava un apparato monastico immune dagli interventi laici anche oltre il proprio
ambito; dall’altro, agli inizi del sec. XI, assursero al seggio papale pontefici di alto profilo, non romani,
spesso già monaci e stranieri, consci della superiore funzione loro conferita da Dio. Paradossalmente,
tenuto conto di quanto avverrà poi, questi papi ‘buoni’ furono persino scelti dagli stessi imperatori,
preoccupati del prestigio della ‘propria’ chiesa.
La commistione fra lo spirituale e il temporale, cui si era abituati, aveva permeato la cultura del tempo al
punto che non era neppure concepibile una soluzione dualistica di tipo gelasiano, che dipanasse
l’intreccio creatosi, assegnando il potere temporale all’impero e riservando quello spirituale al Papato e
alle chiese. Si esasperarono invece gli intenti già emersi nella cultura ecclesiastica; ad esempio nelle
diffuse Decretali Pseudo-isidoriane, anche per aver accolta la Donazione di Costantino, in cui veniva
sottolineata l’autonomia dei vescovi dai propri metropoliti e dai sinodi provinciali, per garantire loro
una sfera indenne dai potenti laici, e si rivendicava il ruolo di supremo garante al papa, signore del
mondo, caput totius orbis.
Al pontefice venne riservato il diritto di convocare e confermare i deliberati dei sinodi; a lui vennero
riservate la cause più importanti cosiddette maiores; le sue pronunce (decreti) erano superiori allo stesso
diritto statale quando questo fosse in contrasto con quelle. L’opera cominciò a circolare maggiormente
proprio nel secolo X, e seppe venire incontro ad un bisogno profondo della riforma cluniacense. Solo nel
XV secolo si comincerà a mettere in discussione la veridicità di alcuni testi in essa contenuti, a
cominciare dalla Donazione di Costantino.
4. Le autonomie
Una cosa è parlare dell’Italia profondamente romanizzata, con una cultura urbana e pubblica nonostante
tutte le difficoltà alto-medievali conservatasi in qualche modo, e Paesi che non avevano ancora una
diffusa urbanizzazione e avevano subito più larghe immigrazioni germaniche, con un più evidente col-
lasso delle strutture pubbliche tradizionali. Del resto, anche all’interno del nostro Paese esistevano aree
non urbanizzate, assolutamente o quasi rurali e boschive destinate ad un’economia di pura sussistenza
silvo-pastorale, e aree anche urbane ma in zone di confine, o comunque esposte all’urto di popolazioni
guerriere in movimento, e che videro quindi avvicendarsi le più diverse dominazioni politico-militari,
subendo un più evidente degrado dei normali quadri della convivenza civile.
Dove manca la città, o essa è venuta meno, si affermano ‘dominati locali’ di signori laici ed ecclesiastici
spesso facenti fulcro su una struttura fortificata, il castello dal quale esercitano ora un potere di
districtio (bannum) di carattere pubblico sui residenti: prestazioni obbligatorie, chiamate nelle fonti
angherie, perangherie, ecc. Anche perciò -oltreché per la gestione delle terre comuni della comunità- si
svilupparono forme di solidarietà collettiva per negoziare il rapporto con il dominus: per poter disporre
dei propri beni, per quantificare le prestazioni di carattere pubblico dovute, per intervenire sull’uso dei
beni comuni (boschi, acque ecc.) e così via, regole territoriali del luogo.
Esse divengono consuetudinarie, ma dal sec. X assumono talora anche la forma scritta, in funzione
“garantistica”, per evitare discussioni sulla loro vigenza. Già presenti nel secolo X, le prestazioni vengono
ora denominate ‘carte di libertà’ (carthae libertatis o libertatum) e in apparenza vengono concesse
liberamente (perché altrimenti si sarebbero potute impugnare perché strappate con la forza, vis), ma di
fatto imposte dalle collettività locali o necessarie per trovare un equilibrio tra gli opposti interessi, dei
signori titolari del dominatus loci e degli abitanti del luogo.
Collettività entro le quali sia per la loro perifericità rispetto alle aree di sviluppo economico, sia per la
scarsa mobilità umana, tendono a svilupparsi regole tradizionali sia di diritto privato che di diritto penale
e processuale che entrano a permeare la cultura locale fondendo gli eventuali diritti di stirpe
compresenti. Siamo alle premesse da cui si svilupperanno poi gli statuti rurali.
Quanto alle città, vecchie e nuove, da Amalfi a Veneziani, il rafforzamento dei ceti locali fu dato
dall’indebolimento delle capacità di governo delle capitali dei due Imperi, lontane e, nel caso di Bisanzio,
indebolite nella loro presenza attiva anche dalle questioni religiose. Ci si riferisce alla iconoclastia del
secolo VII, e poi allo scisma finale con il Papato romano del 1054.
I gruppi locali si abituarono ad organizzarsi autonomamente, spinti in primo luogo dalle necessità della
difesa militare. C’è una tendenza all’autogoverno già viva nei secoli precedenti, e anche nell'Italia
bizantina, a Ravenna in particolare, la capitale dell’impero d’Oriente in Italia. Quest’autogoverno fu visto
in passato sotto una luce ‘naturalmente’ negativa, come frantumazione, intesa come negazione
dell’apparato pubblico centrale, dello ‘Stato’ nazionale accentrato della tradizione ottocentesca che era
tanto difficile far trionfare anche nell’Italia finalmente unita. Oggi invece quell’autonomismo viene
valutato positivamente, perché vi si devono vedere per il centro-nord le premesse indispensabili degli
sviluppi comunali successivi, e per le realtà urbane inglobate poi nel Regno di Sicilia (dal 1130) una sorta
di età dell’oro presto bloccata dall’autoritarismo regio dei Normanni e di Federico II.
Mondo profondamente frammentato, quindi, e aperto a sviluppi molto diversi anche perché i centri
abitati non erano quelle isole autosufficienti come si è ritenuto in passato, dato che un certo commercio
si era sempre conservato, specie di lusso e in Italia -la terra delle città per antonomasia rispetto al
resto dell’Europa, ormai profondamente ruralizzata. Città italiane che furono comunque il fulcro dello
sviluppo sia al nord che al sud.
1. La vocazione monarchica
Ci fu sopravvivenza delle strutture pubbliche sovra-cittadine anche nel cuore del Medioevo: uno Stato (o
la sua idea almeno) sia pure elementare, esistente nonostante il dilagare dei rapporti feudali. Per quante
disfunzioni esso presentasse era sopravvissuto non solo per tradizione, ma perché sorretto dalla cultura
ecclesiastica.
Lo Stato, superato un primo periodo di ripulsa, era stato accettato e accolto dalla cultura cristiana, che
lo aveva messo al servizio della sua nuova missione salvifica. Più in particolare, questa cultura, divenuta
esclusiva ed intollerante, si era saldata con quella antica più risalente nel tempo a radicare la
predilezione per il governo monarchico, che si associava a un diffuso scetticismo sulle capacità di
autogoverno popolare -a livello dirigente. Siamo in una società che i ceti dirigenti vorrebbero ‘monistica’,
integralista, esclusiva di ogni pluralismo culturale, anche se può tollerare la presenza di infedeli,
come gli Ebrei.
Per la predilezione monarchica lavorava anche la suggestione biblica dei re d’Israele (Melchisedech,
Salomone ecc.), ma poi essa era stata rinforzata in concreto da tutta l’esperienza alto-medievale con la
sua robusta fase carolingia, ripresa saldamente dai Sassoni, e con l’alone di grandezza che continuò a
circondare l’imperatore di Bisanzio. Egli rimase il basileus, un ineguagliato modello di potente principe
cristiano di popoli diversi, presente per secoli direttamente con i suoi funzionari ed armati nelle coste
italiane, fino al secolo XI, fino ai trionfi normanni.
Il re-imperatore era presentato in solenni contesti ideali, connotati dal persistere di antiche formule
romane arricchite di sensibilità religiosa. I re erano ormai ‘unti’ dai sacerdoti, e quindi in qualche modo
divini, e venerati come tutori della pace pubblica e della giustizia. La giustizia era (com’è ancora oggi) un
valore centrale del Medioevo, perché la giustizia portava al favore divino, e a volte era intesa essa stessa
come Dio. Perciò anche erano centrali la funzione del diritto, temperato dall’equità, e il pericolo della
degenerazione tirannica del potere.
In particolare il re era il difensore dei deboli, personificati tipicamente nelle vedove e negli orfani, e
naturalmente doveva essere trionfante sul nemico -ma non sembra aver fatto in tempo a diffondersi in
Italia l’idea dei suoi poteri taumaturgici, cioè della sua capacità dì cura dei malati per grazia divina
ampiamente radicata in Francia.
Nell’Italia bizantina, mentre si recepivano le innovazioni normative che aggiornavano il patrimonio
romanistico, i suoi ufficiali comparivano ancora sulla scena anche se in modo saltuario, e spesso
funzionava ancora l’esigente struttura fiscale che faceva avvertire concretamente esistente lo Stato. Nello
stesso governo delle città ormai di fatto autonome come Napoli, Bari e tante altre si faceva ampio sfoggio
dei titoli altisonanti concessi dalla corte di Bisanzio per la loro funzione legittimante.
Nel Regno italico, anche se spesso assenti dai centri urbani e interessati, impegnati com’erano a
consolidare le proprie signorie più o meno legittime nelle campagne, più ai propri castelli, marchesi e
conti conservavano accuratamente l’honor conseguito, cioè il titolo, ed erano sempre pronti ad estorcere
privilegi dall'imperatore, addirittura nella torma di “immunità” da interventi dei pubblici poteri stessi.
Tuttavia svolgevano una funzione importante, perché in questo modo confermavano l’Impero come fonte
‘naturale’ della legittimità.
Del resto, se il grande scontro detto delle ‘investiture’ fu possibile, lo fu anche perché si erano
conservate delle strutture pubbliche sia pure elementari e discontinue di governo, e in Italia senz’altro
più complesse che altrove. Con esse si tramandava il ricordo di tempi migliori e dei princìpi allora
affermati: la divisione delle competenze, un governo provvido con i deboli, la giustizia come funzione
pubblica, il fisco come complesso di beni pubblici e di imposte, la collaborazione del ‘popolo’ e degli
ecclesiastici e così via.
Nell’Italia del centro-nord si sviluppa l’ostensio chartae (offerta del documento) in giudizio, volta ad avere
una sentenza dichiarativa: che accertasse il diritto erga omnes anche per il futuro. Un modo per
garantirsi un diritto che fu tanto diffuso dal secolo IX in poi e che entrò persino nei formulari notarili.
Nelle zone bizantine c’erano poi qua e là dei giudici ‘ai contratti’, addetti cioè a dare auctoritas al
documento notarile.
3. In particolare le ordalie
Il ricorso alle ordalie, a cominciare dalla più famosa tra di esse, il duello giudiziario, era stato prima del
1000 assai limitato, e aveva luogo solo quando riguardasse degli accusati di legge germanica, e
probabilmente proprio per tradizione. Già da secoli infatti si era ben consapevoli che l’ordalia potesse
essere fonte di errori, e ancora a metà del 900 si erano espresse perplessità al riguardo da Attone
vescovo di Vercelli. Tuttavia, la costituzione di Ottone I del 967, che ebbe grande influenza nella
pratica a provare che, seppure rara, la legislazione allora poteva anche raggiungere i suoi scopi, ordinò
l’uso del duello per tutti, ossia anche alla popolazione vivente a diritto romano. Questo dimostra che
non c’era affatto una lotta meccanica tra il diritto germanico e il diritto romano, ma un esame attento
delle conseguenze delle normative in atto. Tanto è vero per il duello, che esso fu imposto solo come modo
per evitare i giuramenti decisori delle cause, in quanto essi apparvero per quello che realisticamente
erano: ottime, e pericolose, occasioni di spergiuro e quindi di peccato mortale.
Ad evitare il giuramento, quindi, il duello poteva essere chiesto subito e per tutte le liti riguardanti
proprietà e possesso di immobili anche delle chiese (allora difese dal loro advocatus); per somme date in
deposito di cui si voleva la restituzione; o per il sospetto di furto. Non fu tanto una vittoria del bellicoso
spirito germanico sulla raffinata cultura romanica, quindi, quanto piuttosto la recezione della
preoccupazione religiosa per lo spergiuro.
Del resto il giuramento era preceduto da un insieme di pratiche -digiuno, messa, esorcismo, ecc.- con
cui la Chiesa, che voleva svolto solennemente anche il giuramento giudiziario, aveva pensato di
nobilitarlo.
Va però notato che nel Meridione, nella Langobardia minor permeata o comunque influenzata dalla più
‘avanzata’ civiltà bizantina delle coste, il duello rimase solo una possibilità teorica. Per allinearsi a questa
situazione più civile, le città del nord dovettero richiedere all’imperatore lo speciale privilegio di essere
esentati dalla pugna (cioè dal duello): Pisa e Lucca l’ottennero a fine XI secolo. Il duello infatti era
divenuto anche più frequente dopo che era stato esteso da Ottone III alle cause di status libertatis, ossia
per accertare la libertà o servitù d’una persona, allora sempre più spesso in discussione ma talora difesa
dagli stessi ecclesiastici -che non volevano veder diminuire il patrimonio. Allo stesso imperatore si deve
anche il divieto di celebrare i processi di domenica: esso fu subito rispettato. Altre ordalie, come quella del
fuoco e dell’acqua, ebbero da noi spazio in casi eccezionali, tra ecclesiastici, ma proprio perciò in
funzione eminentemente simbolica. Per la prima basterà pensare alla vicenda di Pietro Igneo del 1068,
un episodio famoso della Riforma gregoriana a Firenze, mentre la seconda fu utilizzata proprio da Grego-
rio VII in un giudizio relativo ai rapporti con l’impero.
Sono irrazionali, si dice delle ordalie, ma se la loro funzione era di comporre un dissenso in mancanza di
altri mezzi di prova, non si può negare che il loro fine lo conseguissero. Del resto anche nel processo
odierno talune controversie si risolvono col giuramento, detto perciò decisorio, che rimane uno strumento
di prova non propriamente ‘razionale’.
5. Il placito di Màrturi
Un rendiconto del processo medievale forse più famoso oggi tra gli studiosi (anche se di ordinaria
amministrazione nel suo tempo) è il placito di Marturi del 1076.
Di esso, ben noto per la prima menzione del Digesto dopo 400 anni, possediamo non già una notitia
iudicati, ossia un verbale di quanto si svolse durante il processo, bensì soltanto un breve recordationis,
cioè un testo scritto solo a fini di memoria e di prova, privo di sottoscrizioni di notaio e testimoni, redatto
per l’abbazia vincitrice, sita appunto a Marturi nei pressi dell’odierna Poggibonsi in Toscana (abbazia).
Il documento è conservato unitamente alla refutatio della parte perdente, cioè alla dichiarazione con cui
questa riconosceva all’abbazia la proprietà dei beni contestati e s’impegnava a non turbarla anche con
promessa di una penale, segno che il processo precedente si riteneva conclusivo.
Dopo la consueta invocazione (“In Christi nomine”), si ricorda che il processo ha avuto luogo “in
presenza” di Nòrdilo, missus rappresentante del potere ufficiale, cioè della duchessa e marchesa di
Toscana Beatrice, la madre allora vedova della più nota Matilde di Canossa, la ‘gran contessa’ con cui
stava governando la Toscana, e di Giovanni visconte, il laico preposto all’amministrazione dei luoghi in
cui si svolgeva il processo. Furono con loro “residenti in giudizio” un “giudice” Guglielmo e un Pepone
ricordato come “legis doctor”, e non come giudice, il che rinvia probabilmente all’essere un insegnante di
retorica che dava particolare spazio al diritto. Oltre a loro sono ricordati come presenti sei personaggi con
tanto di nome e patronimico ma senza qualificazioni e “molti altri”.
Le parti vengono identificate da un lato nell’advocatus del monastero e il suo preposto; dall’altro in un
fiorentino che compare per certi beni (e una chiesa) che erano stati di un tale che l’aveva “concessi” al
marchese di Toscana Ugo. Questa aveva la pretesa (“intentio”) di recuperare i beni, al che il fiorentino
(‘convenuto’) eccepì (“exceptio”, la difesa) che aveva ormai “prescritto” quei beni, cioè ne aveva acquisito,
in base alla praescriptio longissimi temporis del diritto giustinianeo, la proprietà avendoli posseduti per
più di quarant’anni lui stesso e suo padre a suo tempo.
Nella “replicatio”, l’abbazia si incentrò nel far riconoscere che c’era stata interruzione nel decorso dei 40
anni, perché l’abbazia già tempo addietro aveva rivendicato i beni per ben due volte presentando
apposita istanza ai marchesi. Tre dei presenti come testimoni affermarono di essere pronti a giurare in
questo senso, ma uno solo dovette giurare, toccati i Vangeli, perché entrambe le parti lo dichiararono
sufficiente. Ciò fatto, Nordilo, “inserta considerata” la “legge” dei “libri dei Digesti” per cui se non era
stato possibile in passato reperire un giudice l’attore veniva reintegrato nelle sue possibilità giudiziarie,
accordò appunto tale rimedio al monastero che veniva così ripristinato nei suoi diritti. Fu quindi una in
integrum restitutio in senso tecnico, come previsto dal diritto romano, nonostante le due istanze
precedenti rimaste senza esito.
Non fu necessario nessun duello, e la chiave di volta della soluzione fu quel rimedio tratto dal Digesto.