Sei sulla pagina 1di 38

Capitolo I: I QUADRI GENERALI: NEL BASSO IMPERO ROMANO

1. La civiltà della memoria e della scrittura


Nell’eredità accolta in modi e tempi diversi dal Medioevo c’è l’idea che governare significa fare rispettare le
regole e che queste vanno fatte conoscere attraverso la loro redazione scritta e il loro insegnamento. Il
diritto è il presupposto fondante della nostra civiltà, e il diritto romano, ne è stato nei secoli esempio
ineguagliabile. Tutto ciò fu possibile solo grazie alla sua scrittura.
La civiltà occidentale -greco-romana, ebraico-cristiana, islamica- è stata una civiltà del libro, e come tale
si è confermata finora. La legge umana, in qualche modo ritenuta imitazione di quella divina, si inseriva
in questa tradizione come legge scritta. Deriva da questa antica trasmissione scritta delle memorie, che il
Medioevo non ha fatto che confermare, il fatto che la nostra civiltà consideri fondamentale il documento
scritto e la sua conservazione.
Ancor prima che Giustiniano si accingesse in Oriente a un’operazione legislativa di straordinaria
importanza in prospettiva, a Roma i prestigiosissimi vescovi che si reputavano successori di Pietro
avevano organizzato i propri uffici, spesso ricoperti da personale dotto, ripresi dal modello imperiale e bi-
zantino e da tempo usavano la scrittura in modo formale per affermare il loro primato e la loro influenza
sulle altre chiese dell’Occidente confrontandosi con il patriarcato di Costantinopoli. Scritture che
venivano scrupolosamente conservate come quelle con i decreti dei primi fondamentali concili delle chiese
cristiane.
In altre culture extra-europee, sviluppatesi solo oralmente, il passato resta assai difficile da ricostruire
oggi. Grazie al precipuo carattere della nostra civiltà, invece, possediamo i fondamenti di una religione
e di un diritto antico, abbiamo dà secoli la possibilità di attingere a dettagliate e raffinate ricostruzioni
storiche del nostro passato, fondamentali per la ricerca e per la riflessione sulla nostra identità di
‘occidentali’.
La nostra storia non potrà che cominciare prima del Medioevo quale che sia il suo inizio.

2. Il Tardo Impero romano: il suo sistema giuridico


Il III secolo fu segnato da due eventi significativi:
- l’estensione della cittadinanza a tutto l’impero romano
- la diffusione e il primo assetto organizzativo del cristianesimo.
Quando Caracalla imperatore con l’editto del 212 proclamò tutti gli abitanti dell’impero cives romani,
estendendo a tutti i sudditi il diritto romano, questo era da secoli stratificato, frutto di fonti diverse,
molto complesso. In origine era una normativa semplice, per una cittadina essenzialmente agro-pastorale,
ma si era sviluppato, via via che Roma assunse i caratteri della capitale di un grande Impero. Nel 212
divenne il diritto delle genti affacciate sul Mediterraneo e del resto dell’Europa ugualmente inglobata
nella pax Romana.
La struttura giuridica romana era contraddistinta allora dalla dicotomia esistente fra le leges -
provvedimenti formali scritti detti anche genericamente constitutiones, le nostre ‘leggi’ -e gli iura- ossia i
‘diritti’. Questi esprimevano il diritto romano dei secoli precedenti, le regole tradizionali, i mores o usus
che erano stati recepiti, discussi ed elaborati dai giuristi soprattutto tra il II secolo a.C. e il II secolo d.C.:
ossia dai giuristi ‘classici’, attivi nell’epoca rimasta famosa come la più prolifica e geniale della
giurisprudenza romana, cioè la scientia iuris.
La legge delle citazioni emessa da Valentiniano III imperatore d’occidente nel 426 presupponeva
l’indefettibilità degli iura nel sistema giuridico. L’imperatore sancì l’efficacia vincolante delle opinioni di
alcuni fra i maggiori giuristi dell’età classica, chiamati a colmare le lacune della normativa ufficiale
imperiale. Le opinioni così recepite furono quelle di Papiniano, Paolo, Ulpiano, Gaio e Modestino, divenuti
così veri oracoli del diritto. In caso di una loro divergenza di pareri si disponeva la prevalenza
dell’interpretazione della maggioranza; in caso di parità, l’avviso di Papiniano avrebbe concluso,
imponendosi, la fittizia disputa dottrinale.
Le leges, al contrario, da secoli rappresentavano lo ius novum rispetto agli iura, la nuova normativa che
provvedeva ai necessari adeguamenti degli antichi iura richiesti da una realtà in costante evoluzione.
Con la decadenza delle assemblee repubblicane e delle leggi senatorie (Senatusconsulta) in età imperiale,
le ‘leggi’, generali o particolari che fossero, finirono per essere solo di emanazione sovrana. Tipica lex fu
ad esempio la constitutio di Caracalla.
Nelle terre dell’impero del 212 risiedevano popolazioni diverse per cultura e costumi, stanziate in lande
tra loro distanti, inserite nella compagine imperiale in tempi diversi. Dall’Egitto alla Scozia, dal nord
Africa alla Germania, dalla Grecia e dal Medio Oriente alla costa atlantica, le differenze culturali e socio-
economiche erano rilevanti.
Si trattava di etnie che avevano a volte conservato larghe autonomie sul piano giuridico-istituzionale e
che avevano rafforzato o almeno tutelato le proprie individualità culturali e giuridiche. La conquista
romana si era soltanto sostituita ai precedenti governi, aveva imposto un rigido controllo politico-militare
ed esportato i tratti caratteristici della civiltà romana. Roma non aveva imposto, sino a quel momento, il
proprio diritto. Non solo. Vigeva un diritto pubblico che assicurava localmente l’ordine sociale e gli
interessi di Roma costituito da norme di diritto amministrativo, penale e processuale, e un diritto
tradizionale delle varie popolazioni per i loro rapporti privatistici.
Persino certi reati, pene e alcuni aspetti del processo erano disciplinati da norme locali, che formavano
quello che i testi giuridici romani definivano ius proprium, il diritto ‘proprio’ di ogni comunità. Di solito
c’era stata una larga tolleranza da parte dei Romani conquistatori (culturale e religiosa, ma non politica),
un rispetto spontaneo per i vari diritti ‘popolari’. Raramente sopravveniva l’abolizione del complesso
giuridico tradizionale come pena collettiva.
Il popolo riconosciuto con una propria identità, era ovvio che dovesse godere, nei rapporti interni,
essenzialmente privati, del proprio diritto come delle proprie credenze religiose -e diritto e religione si
sovrapponevano spesso. C’era una sorta di indifferenza dei Romani di fronte alle prassi giuridiche dei
sudditi, reputate meno avanzate rispetto allo spessore della cultura giuridico-amministrativa di Roma.
La stessa vicenda del processo a Gesù è emblematica: agli Ebrei era riconosciuta un’autonomia non solo
religiosa, ma anche giudiziaria in merito alle questioni relative alla vita interna della comunità. C’era
compresenza di diritti diversi nello stesso ordinamento: una compresenza di norme territoriali (per tutti) e
personali (in base all’etnia). Questo spiega perché il diritto romano dopo il 212 non poté essere sempre
facilmente applicato nelle varie terre dell’impero. Il processo di volgarizzazione e semplificazione cui fu
sottoposto il diritto ufficiale fu quindi inevitabile, e fu tanto più ampio quanto più localmente esistevano
culture ‘forti’, con una tradizione giuridica radicata. La volgarizzazione, tuttavia, non poteva essere così
forte da escludere la circolazione della cultura giuridica, anche se non più del livello di quella ‘classica’.
Paradossalmente, così, al tempo della crisi dell’impero ci fu più circolazione della cultura romana, in
particolare di quella giuridica. Anche le terre di civiltà più antica di quella romana, come Egitto e Grecia,
dovettero fare i conti con la tradizione giuridica romana. Così, categorie giuridiche ancora presenti nella
nostra cultura entrarono nelle partes Imperii. Con i rappresentanti di Roma insediati nelle nuove capitali
erette dall’imperatore Diocleziano alla fine del III secolo, si imposero concetti e istituzioni
(tendenzialmente) uniformi.
Perciò il luogo d’origine di alcune opere e operette giuridiche di questo tempo risulta problematico; esse
attestano comunque con certezza l’ampia diffusione del diritto romano a partire da quel III secolo.
Eccezionale il caso delle Istituzioni di Gaio, l’opera tramandataci con il nome dell’autore grazie alla sua
notorietà e la cui datazione anche non presenta incertezze (metà del II secolo), come la sua provenienza:
il Medio Oriente.

Capitolo II: IL CRISTIANESIMO DALLE PERSECUZIONI A RELIGIONE DI STATO

1. Le persecuzioni
L’estensione della cittadinanza a tutte le popolazioni dell’impero fu l’estremo tentativo di riassestare un
mondo in crisi, di recuperare una coesione culturale grazie all’unità giuridica. Ma era in una crisi
irreversibile la religione ufficiale tradizionale cui erano stati dedicati ovunque templi, statue e
monumenti, essendo cresciuta per secoli con le istituzioni civili romane; e inutilmente, durante il III
secolo, tanti duri interventi imperiali repressivi cercarono di arginare il diffondersi del cristianesimo. Il
culto cristiano non era maturato entro e con le istituzioni romane, ma, al contrario, vi si era
contrapposto essendo uno sviluppo interno all’ebraismo. Fin dall’elaborazione Apocalisse, scritta
durante le persecuzioni di Domiziano negli anni 81-96, il cristianesimo aveva assunto una decisa
connotazione anti-romana e l’afflato universalistico impressogli dall’apostolo Paolo contrassegnò come
pericolosa la trasmissione del nuovo messaggio. Per circoscriverne il crescente consenso e per
consolidare la figura del monarca e riaffermare l’universalità dell’impero, nel corso del III secolo si
promossero i riti della venerazione del sacro volto del Princeps. Si arrivò a promuovere la concezione
orientale della trascendenza della carica imperiale. Dalla semplice maior dignitas si passò ad imporre la
natura ‘ultraterrena’ dell’imperatore, che riassumeva in sé lo Stato, e che deteneva la prerogativa
dell’absolutio legibus, del privilegio di disattendere l’ordinamento e di operare all’occorrenza addirittura
contra legem. Una massima attribuita ad Ulpiano, uno dei giuristi classici, sembrava chiara in tal senso
perché asseriva che “tutto ciò che piace al principe ha vigore di legge”. La natura divina dell’imperatore
era ripudiata però dagli affiliati al cristianesimo, la cui fede ammetteva solo la trascendenza di Dio.
Perciò, si ebbero quattro editti (= constitutiones di valore generale) tra il 303 e il 304 emanati da
Diocleziano (284-305), l’ultimo vero persecutore dei cristiani, estremi tentativi di arginare la diffusione
del cristianesimo presentato come religione sovversiva dell’ordine pubblico.

2. I sacri testi sul potere politico


L’interpretazione dei sacri testi cristiani, poteva anche armonizzarsi con taluni filoni della cultura
romana e con i suoi valori etici. Il cristianesimo aveva ereditato dalla cultura e dalla fede ebraica una
serie di riflessioni sul potere conciliabili con l’ideologia imperiale. Il Vangelo di Giovanni testimoniava che
il regno di Cristo, l’unico vero regno, non era di questo mondo, ma Matteo esprimeva l’altrettanto famoso
ammonimento “rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio”, rispettando
quindi l’autorità civile, ed il formale riconoscimento del governo terreno procedeva dalla Prima lettera di
Pietro, che ordinava di amare i fratelli, di temere Dio e, contestualmente, di “onorare” il sovrano. Paolo
giungeva ad argomentare la legittimità dei governi come espressione della volontà divina: i sovrani erano
riconosciuti come ufficiali di Dio.

3. La svolta di Costantino
Con Costantino prende anche avvio l’aureo periodo dell’impero d’Oriente. Bisanzio, la nuova Roma,
rinominata dal nuovo imperatore Costantinopoli, per oltre un millennio (fino al 1453, anno della decisiva
conquista turca) diverrà la depositaria e custode dei valori della romanità e della cristianità a un tempo
grazie a una svolta decisiva. Costantino affidò al cristianesimo il compito di restituire una salda
coscienza unitaria all’impero, di contrastare le resistenze centrifughe e configurare il nuovo modello di
regalità cristiana.
L’Editto di Milano del 313 (altra constitutio in senso tecnico) ratificò il nuovo corso della politica
imperiale concedendo ufficialmente la libertà di culto ai cristiani. Le molte ‘chiese’ locali diventavano
con ciò associazioni lecite. Nello stesso anno l’imperatore restituì ai cristiani i beni loro sottratti in Africa
e Calabria, ed esonerò dai munera del decurionato (cioè dagli obblighi delle cariche amministrative che
contrassegnavano i decuriones, i notabili locali) i chierici della Chiesa cattolica considerata oramai
universale, unica ed esclusiva, in antitesi alle sette non ubbidienti, già ora definite ereticali. L’imperatore
era visto ora come ‘vescovo dei vescovi’, tramite tra Dio e gli uomini, vicario e maestro della conoscenza
divina.
Negli anni successivi Costantino consolidò le prerogative ecclesiastiche con il privilegio dell’episcopalis
audientia, ossia con il conferimento ai vescovi di una giurisdizione legittimata a sostituire quella del
‘giudice naturale’ laico.
Nel 321 una nuova ‘costituzione’ costantiniana accordò alle chiese anche diritti di successione, donde le
vastissime proprietà che conferirono presto alle comunità cristiane più potenti uno specifico rilievo
politico grazie alle sempre più frequenti donationes pro anima dei privati.

4. I primi concili ecumenici e la religione di Stato


La proiezione nel territorio della nuova politica ecclesiastica dell’impero si realizzò in pochi anni grazie ai
concili riconosciuti come ‘ecumenici’, cioè universali, per la partecipazione dei vescovi di tutte le chiese
cristiane. Il concilio di Nicea del 325, definì una serie di dogmi per eliminare varie eresie, che minaccia-
vano l’unità dell’unum corpus imperiale. L’imperatore divenne portatore dei valori cattolici e come vicarius
Dei assunse su di sé i fini delle istituzioni ecclesiastiche agevolandone la realizzazione. Si delineava un
governo religiosamente orientato, volto a realizzare la volontà di Dio in terra: teocrazia (potere di Dio).
Il passo successivo si compì relativamente presto. Costantino lasciò indefinito il rapporto fra i due poteri,
spirituale e temporale, perché considerava la Chiesa un’istituzione statale. Ma era soluzione tutt’altro che
condivisa.
La compenetrazione fra Chiesa ed Impero era ormai avanzata e si venne ufficialmente definendo ancor
prima della fine del secolo IV. L’imperatore Graziano fu il primo a non proclamarsi più pontifex maximus,
la carica religiosa tradizionalmente spettante all’imperatore. Nel 379 venne ripudiato il culto pagano in
Occidente. In Oriente, nel 380, l’imperatore Teodosio I il Grande, emanò l’editto di Tessalonica che
sancì il riconoscimento del cristianesimo come religione di Stato. La fede cattolica divenne parte
dell’ordinamento giuridico.
Le prime norme giuridiche fondamentali per il cristianesimo furono emanate nei grandi concili orientali,
intrecciate con disquisizioni puramente teologiche. La connessione fra teologia e diritto divenne così
naturale, caratteristica del diritto canonico. Ma si formarono anche raccolte disordinate di norme nei vari
centri religiosi che, naturalmente, conservavano solo le disposizioni che interessavano loro, come nei
Canoni degli Apostoli, che contemplano tra l’altro precetti relativi all’ordinazione sacerdotale, allo status
dei chierici e dei vescovi. Tra i centri religiosi però spuntò presto Roma col suo vescovo, il papa. Anche
qui si raccolsero le norme imperiali in materia e le decisioni conciliari, oltre ad altri testi che divennero
presto più numerosi: le lettere del papa che saranno denominate ‘decretali’ (Decretales). Esse furono
destinate a più enti o a singoli individui per precisare punti della fede o per risolvere questioni a lui
sottoposte e furono accuratamente conservate per la loro autorevolezza, dato il prestigio di cui godevano i
papi in Occidente.

Capitolo III: LE FONTI DEL DIRITTO ROMANO NEL BASSO IMPERO

1. I primi codici legislativi


Le prime raccolte di leggi compilate da privati e definite ‘codici’ compaiono in epoca dioclezianea, al tempo
delle molte riforme di ordine sociale e politico-istituzionali deliberate dall’imperatore. In ordine:
Il Codice Gregoriano (292-293): consistente in una raccolta di rescritti imperiali, un tipo di costituzioni
consistenti in risposte ufficiali a istanze rivolte all’imperatore; nella raccolta iniziavano dall’epoca di
Adriano imperatore (117-138). Il Codice Ermogeniano, anch’esso privato, comprendente solo rescritti
del primo periodo dioclezianeo.
Il Codice Teodosiano: è il primo a carattere ufficiale, voluto dallo stesso imperatore oltre un secolo dopo,
quando l’incertezza legislativa aveva raggiunto il proprio vertice per la disordinata sovrapposizione di
norme in continuo aumento. Nel 429 Teodosio II, sovrano d’Oriente, intraprese un disegno ambizioso,
che prevedeva un corpus con le prescrizioni non più vigenti, al fine di assolvere ad un compito di natura
didattica, e un secondo, concepito per l’uso forense e per la prassi, con la sola normativa vigente,
includendo anche le opere dei giuristi classici come i tractatus e i responsa prudentium. L’impegnativa
compilazione non fu però condotta a termine. Nel 435 si pervenne, tuttavia, all’idea di elaborare un
imponente codice comprendente tutte le costituzioni imperiali, sia a carattere generale che locale, a partire
da Costantino ma solo scelte tra quelle ancora in vigore. Quando fu promulgato, nel 439, il Codice
constava di sedici libri contenenti leges generali e rescritti. Esso consolidò l’idea del ‘codice’ come
collezione di norme espressione della volontà del legislatore, del potere politico: è il significato rimasto tradi-
zionale, ancor oggi corrente. Il termine constitutio comprendeva infatti sia gli editti imperiali, sia i decreti, i
rescritti o i mandati; insomma, i vari atti che promanavano dall’imperatore.
L’inserimento all’interno del Codex della legge delle citazioni di Valentiniano III risolse la spinosa
questione delle lacune con l’aiuto degli iura, perché in tal modo si richiamavano le soluzioni dottrinali
ispirate all’equità e alla saggezza dei giuristi classici come integrative del codice.

2. Le fonti dottrinali
Fra i testi degli iura tradizionali allora circolanti, e utilizzabili in base alla legge delle citazioni, molta
circolazione ebbero le Sententiae di Paolo, cioè attribuite a un giurista previsto dalla legge. L’opera derivò
da una selezione di opere classiche ma incluse anche leges. Il compendio ebbe larga diffusione e fu
adottato sia nelle scuole, sia nelle aule dei tribunali. Fu utilizzata sia nel Breviarium Alaricianum, che nel
Digesto.
Un altro testo significativo grosso modo coevo, di nuovo misto di iura e leges, è la Collatio legum
Mosaicarum et Romanarum (definita dalla tradizione Lex Dei), una sorta di comparazione fra la legge biblica
e quella romana, fatta per evidenziare le concordanze fra i due ordinamenti. Più precisamente all’età
costantiniana risalgono i Fragmenta Vaticana, importanti per i richiami ai giuristi classici.
I Tituli ex corpore Ulpiani, probabilmente elaborati durante lo stesso IV secolo, costituiscono un notevole
esempio di semplificazione del diritto classico per aderire alle mutate necessità del tempo. L’Epitome Gai,
invece, è più tarda (secolo V) e pare più un’interpretazione delle Istituzioni gaiane, che non una sintesi
dell’opera del giurista.

3. Le origini del diritto canonico


Il diritto canonico si venne gradualmente componendo grazie al favore dell’impero e sulla base di raccolte
scritte mano a mano che le chiese locali si diedero un’organizzazione. Le regole rispettate si svilupparono
presto in raccolte organiche e sistematiche di canoni (‘regole’ in greco) grazie all’autonomia ecclesiastica
trionfante in Occidente con l’elaborazione del principio gelasiano. Durante il suo pontificato, infatti, papa
Gelasio I (492-496) rivendicò il potere esclusivo della gerarchia cattolica in ambito religioso proprio nel
momento in cui l’imperatore Zenone tendeva a ribadire, al contrario, le tradizionali posizioni cesaro-
papiste. Infatti, mediante una normativa imperiale, l’Enotico emanato nel 482, si era tentato di comporre i
conflitti religiosi (in quel caso fra monofisiti e diofisiti) in un modo giudicato una temibile ingerenza laica
in materia religiosa. Gelasio scrisse allora un’epistola divenuta famosa all’imperatore Atanasio per
scongiurare la disgregazione dell’unità cattolica e per esortare lo stesso imperatore ad un ravvedimento.
Dopo un preambolo assai prudente in cui motivava il proprio intervento come sollecitato solo dalla
propria missione al servizio divino, Gelasio riaffermò con forza l’autonomia della Chiesa in merito alle
questioni spirituali. Il mondo veniva presentato come governato da due supreme autorità: la vocazione
dell’Ecclesia, retta dal Cristo, era quella di guidare le anime; quella dell’impero di provvedere ai bisogni ed
agli interessi secolari dei cittadini. Si parla di dualismo gelasiano perché in temporalibus il ministro di Dio
accettava e seguiva le leggi del sovrano, e solo in spiritualihus l’imperatore avrebbe dovuto sottomettersi al
sacerdote. Evidente la distanza dalla teocrazia cesaro-papista che si andava delineando a Costantinopoli.
Nell’enunciazione gelasiana non si riscontra comunque la rivendicazione di un potere di superiorità
politica della Chiesa rispetto all’impero, posizione che rimarrà sempre presente nel Medioevo, diffusa
tramite le collezioni canonistiche ed inclusa nel Decretum di Graziano -anche se contrastata. L’età
gelasiana conobbe perciò una notevole fioritura di compilazioni canonistiche di carattere generale e
sistematico. Si ricorda, fra le prime, la Collectio Quesnelliana redatta forse a Roma o in Francia tra il V ed il
VI secolo. Sicuro è invece che fu redatta a Roma la Collectio Dionysiana, che prende il nome dal monaco
sciita Dionisio. Egli analizzando una traduzione latina dei canoni orientali rimase sconcertato dalla sua
approssimazione per cui ne volle elaborare una versione più attendibile. Ma egli inserì nella propria colle-
zione anche 38 decretali pontificie relative a circa un secolo, da papa Silicio a papa Anastasio II. Nella
Collectio Dionysiana ci sono quindi sia canoni emanati dai concili che le decretali dell’autorità pontificia. I
due poteri entro la Chiesa sono espressi bene dall’origine dei canoni.
La ricchezza di questa raccolta spiega la sua fortuna nei secoli successivi. Essa infatti -dopo aver subito
modifiche e integrazioni- fu consegnata nel 774 da papa Adriano a Carlo Magno per dargli un chiaro
segno dell’autonomia ecclesiastica che voleva preservarsi mentre diveniva suo alleato: è la redazione
chiamata Collectio Dionysio-Hadriana.
Ma la fortuna di questa raccolta non deve trarre in inganno. Le chiese in questo periodo sono molto
autonome l’una dall’altra, oltreché dal potere laico, per cui fiorirono molte collezioni locali, con
circolazione ‘regionale’. La più importante fu la Collectio Hispana, basata sulla Dionysiana, ma arricchita da
deliberazioni di concili gallici ed iberici, che, oltre a questioni teologiche, affrontava problemi
organizzativi specifici.

Capitolo IV: I REGNI ROMANO-GERMANICI: IL DIRITTO ROMANO EI DIRITTI IMPORTATI

1. Coesistenza di diritti ‘nazionali’


Le invasioni ‘barbariche’ non furono solo scorrerie devastanti per l’impero d’Occidente provenienti
dall’esterno. La forza che disgregò l’impero fu anche il portato degli insediamenti di popolazioni
germaniche interne. Durante il servizio, i loro comandanti assimilavano la cultura politico-
amministrativa imperiale e s’inserivano nelle intricate lotte di corte dalle quali dipendevano le cariche
decisive, civili e militari. Si formò così un’élite che si sentì indispensabile all’impero. In decenni densi di
eventi, di confuse elezioni e deposizioni imperiali, di eccidi di imperatori e di comandanti militari, in un
intreccio convulso di iniziative, maturarono le opportunità politiche di questi dirigenti, che poterono
imporsi e sovrapporsi ai ceti senatori e ai funzionari imperiali nel governo di intere aree dell’impero. I
Visigoti, in Gallia prima e Spagna poi, gli Ostrogoti in Italia, con Teodorico in particolare, i Burgundi in
Borgogna, i Franchi in Gallia e così via, fondarono lungo il V e VI secolo dei regni più o meno
ufficialmente entro l’impero, privo di titolare dal 476.
I re germanici, ora arbitri della situazione politico-militare, di regola rispettarono il diritto della
popolazione vinta, lasciando ai ‘Romani’ l’uso del proprio diritto, come già aveva fatto Roma a suo tempo.
Ne imitarono anche l’attitudine all’emissione di leggi. Si ebbero così nel corso di quei secoli delle raccolte
di diritto romano semplificato, ridotto all’essenziale, per favorire l'applicazione del diritto dei vinti, soprat-
tutto con la Lex Romana Wisigothorum, ma si utilizzò anche lo strumento della legislazione per venire
incontro alle necessità pubbliche del momento.
Le popolazioni germaniche avevano un diritto tradizionale, molto semplice, di cui erano molto gelose: si
distingueva il diritto visigoto dall’ostrogoto, dal burgundo, dal salico, dall’alamanno, dallo svevo e così
via. Questi diritti ‘seguirono’ le popolazioni nelle loro peregrinazioni, tramandandosi per tanto tempo solo
oralmente, come le saghe che narravano le antiche imprese degli eroi ‘nazionali’; erano rispettati per
tradizione piuttosto che per imposizione di un’autorità. Erano quindi norme ‘proprie’ di ogni populus,
designati come natiònes, radicati in quell’uso continuato che i Romani chiamavano usus o consuetudines,
frutto di comportamenti del corpo sociale tante volte ripetuti da considerarsi obbligatori.
Anche se i vincoli culturali che le popolazioni germaniche avevano maturato nel corso della loro
migrazione persistettero anche dopo l’insediamento definitivo in Occidente, essi non poterono non
rapportarsi al patrimonio culturale e giuridico-istituzionale delle popolazioni vinte. Ma ogni popolo ebbe
quanto meno sfumature diverse in questa scelta difficile.

2. Una convivenza relativamente facile: i Visigoti


Essi passarono dal regno di Tolosa a quello di Toledo, ma ogni loro re adottò sempre il titolo romano di
Flavius, che non richiamava un ufficio ben preciso, ma che li avvicinava subito agli antichi imperatori.
Infatti il regno visigoto si sviluppò entro il culto della romanità, anche grazie allo spazio riconosciuto ai
vescovi cattolici, che tennero concili rimasti famosi peri loro deliberati a Toledo. Tanto è vero che si
giunse alla redazione, nel 508, della importante Lex Romana Wisigothorum, ricordata anche come
Breviarium Alaricianum dal nome del suo autore, re Alarico II.
Il Breviarium è una sorta di antologia delle fonti normative romane, riprodotte mantenendo il testo
originale, distinguendo le leges dagli tura circolanti allora: costituzioni del Codice teodosiano e alcune
‘novelle’ ad esso successive, e iura ripresi ad esempio dalle Pauli Sententiae e dal Liber Gai. Rivolto ai
Romani, quindi, in omaggio al principio della personalità del diritto.
La precedente legislazione, la Lex Visigothorum, nota più tardi anche come Liber iudiciorum o Forum iudiciale,
fu invece redatta, basandosi su un precedente Codice emanato da re Eurico (466-485), essenzialmente
per i Visigoti, pur se dovette necessariamente utilizzare anche testi romani, dato che si volle occupare di
ecclesiastici e dei loro beni, di commercianti e addirittura di ebrei e di eretici, ovviamente appartenenti
ad entrambe le etnie.
Quindi, i re visigoti ebbero dapprima la necessità di dettare regole per i loro uomini, privi di leggi scritte,
e lo fecero con un testo semplice, con una fisionomia di tipo ‘territoriale’ nel senso che poteva servire
anche ai Romani, che per i casi più difficili dovevano però ricorrere all’altra compilazione. Le due leggi
convissero con il principio della personalità, finché a metà del 600 re Chindasvindo vietò l’uso del Breviario.
I sudditi del Regno vissero con una legge territoriale da allora, segno che l’integrazione tra i due popoli
ormai era pienamente realizzata.

3.Il Regno dei Burgundi


Anche i Burgundi coltivarono come i Visigoti un dualismo normativo perché nello stesso torno d’anni re
Gundobado (467-516), che si distinse per la devotio verso l’eredità romana e l’imperatore d’Oriente,
emanò sia una Lex Romana Burgundionum per i sudditi di origine romana, sia una Lex Burgundionum, che
naturalmente dovrebbe essere quella ‘nazionale’, con messa per iscritto delle tradizionali consuetudini
burgunde. Questa risente tuttavia del diritto romano, anche se molti suoi istituti sono tipicamente
germanici, come la composizione pecuniaria dei reati, diffusa nei sistemi penalistici germanici. Però ci sono
anche norme dedicate ad entrambe le etnie, come ad esempio quelle per la suddivisione dei terreni fra
consortes, perché evidentemente erano problemi di interesse comune (2/3 delle terre riconosciute ai
Burgundi e 1/3 soltanto alle popolazioni assoggettate). Quindi, la prima legge era specifica per i Romani,
mentre questa legislazione provvedeva anche a regolare i rapporti fra i due gruppi sociali.
La Lex Romana Burgundionum d’incerta datazione si compone di 180 capitoli derivanti sia dai Codici
Teodosiano, Ermogeniano e Gregoriano, sia dalle solite fonti, come le Sententiae di Paolo e il Liber Gai. Si
potrebbe reputare questa compilazione una sorta di prontuario elementare ed orientativo compilato ad
uso della prassi, tanto che dovette essere integrato dal più complesso e articolato Breviario alariciano.

4. I Franchi: una situazione ancora diversa


I Franchi composti com’erano da etnie diverse cementate dalle comuni imprese belliche, accettarono
senza problemi distinte e plurime leggi nazionali, per cui è probabile che i popoli germanici confluiti sotto il
loro governo conservassero le loro tradizioni giuridiche allo stato di consuetudini orali. Stanziatisi nelle
terre allora più ricche dell’impero, si convertirono direttamente dal paganesimo all’ortodossia cattolica,
‘saltando’ la fase ariana. Ciò consentì loro di conseguire subito una precoce integrazione con le genti
conquistate ed un rapporto più stretto con l’ampia nobiltà senatoria gallo-romana. Perciò poterono avere
una relazione non conflittuale con i vescovi ed una connessione priva di titubanze con i Bizantini. Da
questi, anzi, i Franchi furono incoraggiati a spingere i Visigoti verso la Spagna, da Tolosa a Toledo, e più
tardi a porre un freno sulle Alpi ai dilaganti Longobardi. Tanto oltre era andata l’integrazione che già
dalla metà del secolo VI i gallo-romani (gli sconfitti) assunsero le cariche di governatori delle province e di
comandanti militari.
Clodoveo (481-511), il primo re cattolico, battezzato a Reims dal vescovo Remigio la notte di Natale del
496 con tremila suoi uomini, pare sia stato un ufficiale dell’esercito romano. Dopo l’impresa contro i
Visigoti, ebbe il titolo di console dall’impero, che lo legittimava anche come rex della popolazione romana.
Stabilita la capitale a Parigi, Clodoveo emanò la legge Salica (detto anche pactus) derivante dal nome di
uno dei popoli confluiti sotto l’egida dei Franchi. Il Pactuste vis Salicae è in gran parte una serie di capitoli
che prescrivono le pene pecuniarie da comminare per una lunga serie di reati per evitare la terribile,
frequentissima, faida tra le famiglie coinvolte da un crimine.
I Franchi mantennero, in misura maggiore rispetto alle altre popolazioni germaniche, diversi istituti
consuetudinari come la concezione patrimoniale del potere regio e la pratica genuinamente germanica della
trustis, che consisteva in un rapporto fiduciario che coinvolgeva un’équipe di militari fedeli al re, detti
antrustioni; la carica consentiva loro di godere di un guidrigildo (valore della persona) altissimo. La trustis
solo nel corso del secolo VIII fu sopravanzata dalla diffusione della pratica del vassallaggio (vassaticum).
Di contro a istituti così germanici, il re s’ispirò ai modelli romani invece nell’organizzare
l’amministrazione del regno avvalendosi di duchi e di conti (titoli romani), inviati a governare le città;
inoltre, convocando in qualità di pius princeps concili vescovili generali del Regno per i quali fissava
l’ordine del giorno.
Se pure con Clodoveo si avviò un percorso di affrancazione dalla romanità, esso, tuttavia, non rappresentò
un vero e proprio commiato, che comportasse il superamento del diritto romano (come tra i Visigoti),
rimasto soprattutto nella disciplina di alcuni rapporti di diritto privato.

5.Le complicazioni italiane: da Odoacre a Teodorico re e legislatore


La deposizione di Romolo Augustolo del 476 segna simbolicamente la crisi del mondo romano. Ma
l’impero formalmente non venne meno. Essendo concepito come unitario, in caso di vacanza del seggio in
una delle sue due partes il titolare dell’altra pars assumeva automaticamente la carica per quella vacante.
Le insegne imperiali furono restituite a Bisanzio da Odoacre, semplice comandante militare che ottenne il
titolo di patricius, che gli conferiva una qualche legittimazione a governare i Romani. Odoacre era stato
acclamato come rex dalle composite milizie che lo avevano sostenuto, ma talune fonti lo rammentano
come rex Italiae, vale a dire come un governatore territoriale, e non solo come un mero comandante.
Comunque, governò con l’ausilio dei propri milites in accordo con la tradizionale burocrazia ravennate di
origine latina ed il Senato di Roma, essendo egli rispettoso del predominio aristocratico sulle cariche
ecclesiastiche romane. Accordò ai suoi Goti l’hospitalitas (1/3 delle terre) come foederati, senza avere il
tempo di rafforzare il proprio profilo di re latino-germanico. Il Senato continuò a riunirsi nel Colosseo.
Che l’impero avesse soltanto rinviato la resa dei conti finale, si vide pochi anni dopo, quando incaricò gli
Ostrogoti di Teodorico, popolo già federato e guidato da un re ormai compiutamente romanizzato, di
liberare l’Italia dalle truppe di Odoacre -il che si realizzò rapidamente. I nuovi dominatori avevano una
coesione ben diversa rispetto alle multiformi truppe che sostenevano Odoacre, e Teodorico dimostrò in
pochi anni le proprie capacità e competenze. Iniziarono allora decenni densi e per taluni aspetti
splendidi, con una rinascita neoromana attestata con evidenza anche dalle creazioni architettoniche
ravennati.
Teodorico, già re dei suoi Goti, in seguito alla vittoria su Odoacre, fu nel 493 confermato re per iniziativa
delle sue truppe senza attendere disposizioni da Bisanzio. L’Impero riconobbe il suo status regale in Italia
nel 497 imponendo nondimeno alcune condizioni. Il titolo di rex riferito a Teodorico implica una forte
carica di ambiguità che tendeva a sciogliersi nel suo significato territoriale di re d’Italia. Nella propria
intitulatio Teodorico non recò specificazioni gentilizie, ma adottò il titolo di Flavius tipico della qualifica
imperiale; comunque, pur detenendo l’imperium Italiae venne generalmente appellato rector Italiae. La
missione reale di Teodorico era diretta alla restaurazione delle tradizionali istituzioni, e i panegirici che
ricevette celebravano questa vocazione: “Roma, signora del mondo, esigeva Teodorico per restaurare il
proprio status”.
L’Impero dall’Oriente razionalizzava una situazione di fatto in modo da mantenere la situazione de iure
rinviando di nuovo a futuri interventi, che giunsero, al ripristino dello status quo. La continuità non fu
assicurata solo da Bisanzio. Cassiodoro, funzionario della corte gota e dotto letterato, velava il radicale
dualismo dei due popoli, presentandoli come provvidenzialmente complementari. Lo stesso Teodorico
dimostrò di operare entro questo orizzonte culturale. Fu, quello di Teodorico, un governo latino-
germanico nel senso più proprio, quasi estremo, perché basato su un rigido dualismo etnico e
religioso, politico e militare: i Goti erano ancora ariani e volevano restare tali. Il dualismo implicava
anche un pieno rispetto dei tradizionali assetti sociali. L’amministrazione civile e religiosa continuò,
rispettata e protetta da Teodorico, con tutte le sue cariche tradizionali. Teodorico era anche a capo, però,
dell’amministrazione militare, interamente affidata ai suoi Goti. Essi divennero sedentari grazie alla
consueta assegnazione di terre (hospitalitas) e si radicarono in Italia, sopravvivendo anche dopo la guerra
gotica, come attesta la toponomastica. L’integrazione, però, fu bloccata dalla riaffermazione del divieto
matrimoniale con i Romani e dalla conservazione delle proprie tradizioni giuridiche. I Goti non
divennero cittadini dell’impero, e un’autorità ad hoc ebbe il compito di giudicare le cause miste, vale a
dire quelle che si verificavano tra Goti e Romani. La soluzione di compromesso fu tipica dell’ordinamento
teodoriciano: la competenza giudiziaria fu attribuita al conte dei Goti, il comes Gothorum, il quale doveva
essere assistito da un prudens romano, l’unico che potesse interpretare l’intricata normativa romana
vigente. Quel dualismo culturale, etnico e giuridico chiarisce la tutela della religione ariana da parte di
Teodorico, ma anche il veto ai suoi collaboratori di essere considerati e poter divenire dei senatori, come
in passato; per i Goti che ricoprivano i gradi più alti dell’amministrazione: i viri illustres. Il regno di
Teodorico esordisce, quindi, nel totale rispetto della legislazione e delle istituzioni degli imperatori,
conservando e rispettando i riti religiosi cristiano-cattolici, non infrangendo il diritto di asilo delle chiese
e assegnando ai Romani le funzioni istituzionali. Lo stesso Teodorico in un’epistola indirizzata
all’imperatore Anastasio riconosce il proprio impegno a onorare le leggi e la civilitas romana e a emulare
la sua sovranità (imitatio vestra). Sulla base di questi presupposti sono sorti dilemmi circa la paternità
dell'Edictum Theoderici regis attribuito dal Pithou (umanista francese) a Teodorico l’Amalo, re degli
Ostrogoti d’Italia. L’origine italiana dell’Editto, al di là delle perplessità tuttora vivaci, pare non opinabile,
data la presenza di norme che chiaramente fanno riferimento all’Urbe, come ad esempio quella relativa al
proibizione di seppellire i morti all’interno della città di Roma. Nondimeno, aldilà delle questioni
filologiche che concernono il testo, con l’Edictum si perfeziona il profilo che caratterizza le leggi romano-
germaniche: il sistema dualista nell’ordinamento giuridico. Esso disciplina, infatti, solo i rapporti fra Goti
e Romani, mentre permaneva vigente la lex mundialis per antonomasia, il diritto romano. L’Editto
lascerebbe supporre che si sia adottata la scelta di un futuro graduale inserimento dei milites foederati
nella civilitas tramite la sperimentazione e la pratica di un diritto scritto. Il testo desume molte delle sue
prescrizioni dal diritto romano. L’Editto andava verso gli esiti auspicati da Teodorico: una delle rare
testimonianze pervenutaci denota l’ormai compiuta confidenza presa dai Goti con gli istituti del diritto
romano. I suoi contenuti sono compositi. Nell’Edictum confluiscono una series edictorum emanati tra il
508 ed il 511, riguardanti specificatamente la materia penale. Quanto al diritto privato l’Editto contempla
la necessità dell’insinuatio (inserzione negli atti ufficiali) per le donazioni di immobili e per i testamenti;
l’onere della traditio corporalis (consegna materiale) nelle alienazioni di immobili; la nullità delle garanzie
prestate dalle donne; l’essenziale consenso paterno al matrimonio delle figlie; ecc.

Capitolo V: L’IMPERO D’ORIENTE: IL CRISTIANESIMO E GIUSTINIANO

1. Giustiniano: una prima caratterizzazione


L’Alto Medioevo s’inaugura con Giustiniano, l’imperatore romano d’Oriente (527-565). Il governo
tendenzialmente teocratico e autoritario, centralistico, statalistico e 'cesaro-papistico’ che si compendia
nella figura di Giustiniano continuò a mantenersi inalterato in Oriente, almeno fino alla caduta
dell’impero ad opera delle armate turche nel 1453. Giustiniano giunse a Costantinopoli convocato dallo
zio imperatore Giustino, fratello della madre, che lo adottò e lo ammise come co-reggente al trono nel
527. Alla morte di Giustino, avvenuta nello stesso anno, il trionfante Giustiniano, ormai imperatore
(527-565), perseguì l’ambizioso disegno della renovatio dell’impero. I tratti essenziali del suo programma
politico si individuano:
- nella necessità di una codificazione che provvedesse ad ovviare all’incertezza del diritto;
- nel ripristino dell’unità imperiale anche attraverso l’uso delle armi per recuperare terre perdute;
- nel rinsaldare culturalmente il proprio popolo.
Giustiniano fu e volle essere per i suoi sudditi un imperatore cristiano e cristiani furono anche i suoi
collaboratori ed i suoi fini di governo. Si avvalse della collaborazione degli ecclesiastici e li privilegiò nel
confermare un’opzione fondamentale del tardo Impero: l'esclusivismo intollerante del credente. La
legislazione giustinianea è riconosciuta dagli studiosi come ‘romano-cristiana’; le sue norme sono definite
sacrae, e talora anche sacratissimae. Giustiniano recepì come leggi statali i canoni dei più antichi concili
ecumenici con le Novelle (sue leggi) e confermò la giustizia tributata dai vescovi (episcopalis audientia),
promuovendo una profonda simbiosi tra i due ordinamenti.
Non era concepibile una contrapposizione tra le due realtà proprio perché non esistevano due entità
distinte, ma un unum corpus che non poteva che essere programmaticamente armonico. Tutta la società
bizantina era una basileia, un regno, anche se al suo interno si distinguevano gli ‘humana’ e i ‘divina’
(cose umane e divine),
l’imperium e il sacerdotium, entrambi derivanti da Dio secondo l’insegnamento di S. Paolo.
Le chiese erano un’articolazione dell’impero, facevano parte dell’amministrazione pubblica, ed i loro beni
erano beni pubblici.

2. Giustiniano legislatore: il Codice


Il diritto divenne uno dei fattori essenziali per dare unità e compattezza a un Impero i cui abitanti
avevano tutti ricevuto da tempo la cittadinanza romana, pur restando ancora radicati alle culture, anche
giuridiche, di carattere ‘regionale’. La redazione di un corpus legislativo unitario si profilò per Giustiniano
come un’esigenza primaria di fronte ai pericoli che premevano ai confini e agli elementi di disgregazione
che premevano dall’interno del vasto Impero. Nel corso del suo mandato imperiale si elaborarono e
pubblicarono più testi normativi, perciò, grazie al lavoro di una apposita commissione formata da alti
funzionari imperiali, fra cui Triboniano, inizialmente suo magister officiorum e un professore di diritto:
Teofilo.
Il primo testo elaborato fu il Codex, i cui lavori presero avvio pochi mesi dopo la proclamazione di
Giustiniano ad imperatore, ma esso non ci è pervenuto, anche se possiamo in larga misura ricostruirlo
grazie al materiale che doveva rielaborare: i Codici Gregoriano ed Ermogeniano ed il più importante e
recente: il Codice Teodosiano. La struttura organizzativa di questa prima opera si può desumere da un
frammento di indice che cita la legge di Valentiniano III. La successiva redazione del Codex, emanato
pochi anni dopo, nel 529 dallo stesso Giustiniano, costituì il frutto di una completa revisione, che
metteva ordine nella sterminata produzione di costituzioni imperiali degli ultimi secoli; selezionava
opportunamente quelle da ritenersi ancora vigenti e le abbreviava lasciando la sola parte dispositiva, e
omettendo quindi la consueta narrazione delle premesse che avevano condotto all’adozione del testo e
all’esposizione degli scopi che avevano determinato la normativa. Esso comprendeva quindi la più
recente legislazione imperiale, ma raccoglieva e armonizzava anche le leges precedenti, cioè le
costituzioni imperiali del Basso Impero -età in cui l’imperatore divenne l’unica fonte di diritto.
Il Codex pur avendo anche molte norme relative ai privati, rifletteva puntualmente l’apparato
straordinariamente complesso dell’impero nei suoi ultimi secoli, avvicinabile per taluni aspetti al
pervasivo Stato contemporaneo, e disciplinava minutamente lo status dei ceti sociali. Si ricordano ad
esempio, il ferreo controllo statale previsto sui collegia, quelle corporazioni che, soggette ad
autorizzazione e sorveglianza pubblica a partire dall’età di Augusto, nel periodo del Basso Impero ebbero
una configurazione fortemente pubblicistica, che vincolò gli eredi dei partecipanti sia al luogo che al
mestiere dei predecessori. Le norme processuali costituiscono un numero cospicuo nel Codice.
Le successioni ereditarie e le norme relative al diritto di famiglia in esso incluse procedevano
dall’influenza del cristianesimo, e determinarono il carattere di questa legislazione come diritto romano-
cristiano -anche se siamo ben lontani dall’egemonia ecclesiastica che si profilerà più tardi nel Medioevo
e nel ‘500 con il Concilio di Trento.
La normativa imperiale, ormai, proseguendo un trend già dei tempi di Diocleziano -e quindi non ancora
per effetto della cultura cristiana- tendeva a disciplinare materie in passato impensabili. La legge era
intervenuta ad esempio a condannare la ‘matematica’, l’astrologia, e più in generale la brama di sapere,
che qualche decennio dopo divenne addirittura motivo di condanna a morte -ritenendosi alto tradimento
il solo fatto della “individuazione delle leggi di natura”. La prima disposizione fu accolta nel Codex
giustinianeo, le altre due erano già nel Codice di Teodosio. La legge era tuttavia intervenuta anche a
vietare pratiche che turbavano la sensibilità umanistica permeata di cultura greco-romana, come quella
della vendita dei figli -diffusa nel Basso Impero.

3. Il Digesto
Vigente già il Codice, un’altra commissione guidata da Triboniano, assurto nel frattempo al rango di
questore del Sacro Palazzo, portava presto a compimento un’opera, l’impresa già vagheggiata invano da
Teodosio II.
Nel 533 videro infatti la luce i Digesta, se si utilizza la terminologia latina, dette anche Pandectae dal
greco (raccogliere tutto). L’opera accoglieva un’accurata selezione del materiale residuo entro il
moltissimo prodotto secoli prima dai giuristi romani detti dagli studiosi moderni ‘classici’ per essere
vissuti concentrati in tre secoli: i più fecondi per la formazione del diritto romano e per la civiltà romana
(grosso modo il II a.C. e i due successivi).
Questi giuristi, dotati di un’eccellente cultura, di una forte personalità e di un grandissimo prestigio
sociale, pur essendo soltanto dei privati, elaborarono una serie di opere differenziate in rapporto alle
finalità prefissate: ad es., le Institutiones che avevano un carattere introduttivo al diritto nel suo
complesso, i commenti che interpretavano gli Editti, e i Responsa con cui davano pareri che risolvevano
quesiti specifici nati dalla pratica giudiziaria.
Le loro elaborazioni dottrinali avevano la caratteristica peculiare di mettere per scritto le regole ed i
problemi del diritto romano che, nel corso dei secoli, andava maturando e complicandosi partendo dagli
antichi usus e mores non disciplinati dalle leggi. Si trattava quindi di opere a un tempo ricognitive e
costitutive, che documentavano il diritto romano nel momento stesso in cui lo aiutavano a svilupparsi
adeguandolo ai nuovi problemi del tempo.
I Digesta, o come oggi si dice il Digesto, nei suoi 50 libri raccoglie circa 40mila frammenti di una
quarantina di giuristi le cui opere residuavano dalla ‘dottrina’ romana antica, e il termine è rimasto
tradizionale a designare un condensato (meglio se di sapienza) come nei Digests del mondo anglo-
americano. Il Digesto è quindi una raccolta di giurisprudenza, naturalmente ‘classica’, derivante dalla
iuris prudentia, dalla scienza del diritto, dalla riflessione specialistica sulle questioni giuridiche portata
avanti nel corso di più secoli dai giuristi romani. Da questo termine deriva il nome delle attuali facoltà
universitarie; nondimeno va tenuto ben presente che ‘giurisprudenza’ oggi ha normalmente un
significato più specifico, perché indica anche il complesso delle decisioni dei giudici.
I Digesta furono commissionati quindi come una raccolta di iura, ben stinta da quella precedente delle
leges, i cui contenuti non erano dottrinali, ma legislativi, promanando direttamente dalla fonte imperiale.
Anche gli iura così raccolti però furono sanzionati solennemente dall’imperatore, per cui il titolo della loro
validità fu immediatamente diverso e più forte: non più dottrinale ma indirettamente legislativo in
quanto derivante dalla volontà del sovrano.
Gli antichi testi, coordinati e modificati per essere armonizzati tra loro dalla commissione presieduta da
Triboniano, vennero su espresso ordine di Giustiniano attualizzati, modernizzati e piegati all’attualità del
secolo VI: queste loro note saranno poi dette dagli umanisti del Quattro-Cinquecento emblemata
Triboniani, e dagli studiosi tedeschi dell’Ottocento ‘interpolazioni’.
Il recupero dopo secoli degli iura fu possibile e validissimo in virtù della perdurante validità delle
interpretazioni dedicate al diritto più stabile, meno suscettibile di variazioni, ossia quello privato,
riguardante i rapporti interpersonali, quelli per i quali una volta trovata una soluzione razionale non
c’era bisogno di elaborarne altre.
Due libri, nominati terribiles, disciplinano nel Digesto il diritto penale (i libri 47 e 48), laddove ci si
curava dell’interesse pubblico alla pacifica convivenza dei consociati, ma ovviamente anch’essi avevano
come destinatari i privati e tramite la previsione di pene orribili costituivano un forte deterrente sociale.
L’opera è anche materialmente vasta. Perciò bisogna essere al corrente dei modi di citazione dei suoi
infiniti passi particolari, per i quali si ricorre all’edizione critica curata nel secondo Ottocento dal grande
filologo e storico di Roma il tedesco Mommsen. Questo testo è indicato come Dig. e viene seguito da
alcuni numeri, che nell’ordine stanno ad indicate il libro, il ‘titolo’ e il singolo ‘frammento’, che precisa
l’autore del pezzo e l’opera dalla quale è stato tratto. Prendiamo ad esempio una famosa definizione che
dice molto della coscienza dell’altissimo compito intellettuale e morale che i giuristi romani ritenevano di
svolgere: “la giurisprudenza viene presentata come scienza delle cose umane e divine, del giusto e
dell’ingiusto.” Ebbene, queste parole si leggono ad apertura del Digesto, in modo programmatico quasi,
nel libro I sotto un titolo che è anch’esso tutto un programma di governo: De iustitia et iure.
Il passo ci introduce a un’altra considerazione. Cioè al fatto che in questi testi sono frequenti gli spunti
teorici, che stimolano la discussione, le interpretazioni e perciò anche la riflessione e l’uso didattico.
Interi titoli sono dedicati ad esempio alla significano dei termini o alle regulae. Alcune massime rivelano e
chiariscono l’acutezza, lo spessore e la profondità raggiunta dalla riflessione giuridica. Prima di chiudersi
infatti con il De diversis regulis iuris antiqui, il Digesto presenta anche un titolo De verborum
significatione formato da ben 246 passi che richiamavano alla precisione concettuale della terminologia
privatistica ed accoglievano ammaestramenti di rilievo gius-pubblicistico:
Frequenti sono anche i richiami al diritto naturale ed al diritto delle genti, che avevano trovato
approfondimenti notevolissimi pure nella Patristica. I grandi temi del diritto, quindi, i valori
fondamentali della giustizia e dell’equità, già da secoli oggetto di dibattiti intensi, erano recepiti nella
dotta cornice retorico-moralistica e religiosa dell’impero romano-cristiano. C’erano tutte le condizioni
perché dichiarazioni assurte alimentassero approfondimenti di notevole rilievo nei secoli a venire, e non
solo nel Medioevo. Anche solo i contenuti dei primi titoli del Digesto confermano subito quel profilo
fortemente teorico della raccolta.
Il primo titolo del Digesto, dedicato a De iustitia et iure, accoglie ben dodici passi di giuristi classici su
questioni fondamentali del diritto, che saranno naturalmente occasione di riflessioni approfondite da
parte dei giuristi medievali. Il secondo titolo, dedicato a De origine iuris et omnium magistratuum et
successione prudentium, reca un lunghissimo frammento, diviso in 53 paragrafi, di Pomponio, che offre
una sommaria storia di Roma. Il terzo titolo tratta De legibus Senatusque consultis et longa consuetudine,
cioè si occupa delle fonti del diritto, con un insieme di definizioni destinate ad essere ripetute e studiate
infinite volte. Segue il titolo De constitutionibus principimi, introdotto da una citazione tratta dalle
Istituzioni di Ulpiano, che può considerarsi un compendio dell’assolutismo imperiale, destinata a
suscitare infinite discussioni. Esso chiude la trattazione sulle fonti del diritto, poste a fondamento del
sistema giuridico. Si prosegue con De statu hominis, sul diritto delle persone, poi esaminato più
dettagliatamente nel De his qui sui vel alieni iuris sunt. Dopo le fonti, si dovevano subito esaminare le
norme fondamentali della persona, al centro del diritto.

4. Le Istituzioni
Giustiniano volle che fosse predisposta anche una sintesi del diritto romano, che considerasse
unitariamente leges e iura e che fosse adatta agli studenti universitari di primo anno. Si tratta delle
Institutiones, che presero a modello il manuale del giurista Gaio. Le Istituzioni sintetizzano quindi gli
istituti giuridici nei loro aspetti fondamentali, poi specificati in Codice e Digesto. I quattro suoi libri sono
dedicati rispettivamente alle persone, ai diritti ‘reali’ e alle successioni, alla parentela e affinità, ai
contratti obbligatori, ed alla responsabilità civile e al processo.
In questa temperie di assolutismo politico-giuridico, Giustiniano volle promulgare nel 533 anche le
Istituzioni come testo di legge, con la costituzione Imperatoriam maiestatem, indirizzata qualche giorno
dopo con una famosa costituzione detta Omnem ai professori di Costantinopoli e di Berito, cui ingiungeva
un preciso ordinamento didattico, con un programma quinquennale di studio del diritto. Questo
provvedimento imperiale, con cui si formalizzava e si comunicava ufficialmente il cursus studiorum,
rimase un modello per i secoli a venire.
Nel primo anno, i giovani, presentati come ‘naturalmente’ appassionati di diritto si sarebbero appunto
giovati del testo complessivo delle Istituzioni; nei tre anni successivi si sarebbero dedicati all’impegnativo
Digesto, anima e sintesi della scienza giuridica, l’elaborazione più complessa degli istituti
(prevalentemente) del diritto privato, per passare al Codex, coronamento dello studio, perché la parte più
attinente agli interventi correttivi dell’imperatore e alle disposizioni concernenti l’organizzazione della
complessa compagine imperiale. La pianificazione dell’ordinamento di studi palesava il proposito di
consentire una graduale capacità di apprendimento, mettendo anche in rilievo le possibili stratificazioni
tra i testi del Digesto e del Codice.
Secondo le istruzioni ricevute da Giustiniano i commissari nel corso dell’elaborazione dei testi giuridici,
avrebbero dovuto manipolare (interpolare) le scritture originali inserite nelle raccolte in modo da
eliminare le contraddizioni rilevate. L’imperatore precluse ogni manipolazione successiva dei testi da
lui approvati e ritenuti perfetti, consentendo agli studiosi solo richiami di passi paralleli. Eventuali
dubbi interpretativi avrebbero dovuto essere esaminati ed eliminati esclusivamente dal legislatore.
L’opera di elaborazione e la mole dei testi selezionati portati a termine in un tempo assai breve non
poterono, però, realisticamente consentire l’eliminazione sistematica e completa dei conflitti, di fatto
rimasti numerosi. Del resto, le raccolte reiterate di leges dimostrarono l’impossibilità di mettere a punto
raccolte perfette.

5. Il secondo Codice e le Novelle


Il nuovo Codex in dodici libri, detto per la sua caratteristica repetitae praelectionis, fu pubblicato nel
534, e anch’esso non chiuse la feconda opera legislativa di Giustiniano. Egli, infatti, al momento
dell’emanazione di questo nuovo codice meditava di pubblicare le Novellae Constitutiones. Il libro I del
Codex, si apre con il titolo De summa Trinitate et de fide catholica et ut nemo de ea publice contendere
audeat, che chiarisce subito sotto quale alta tutela si sia posto l’impero, vietando al tempo stesso ogni
contesa al proposito. I titoli successivi indicano la centralità giuridica acquisita dal cristianesimo. Si
parla di De sacrosanctis ecclesiis et de rebus et privilegiis earum, De episcopis et clericis, De episcopali
audientia, De hereticis et manichaeis et samaritis, per poi proseguire sul battesimo, sugli apostati, sul
segno di Cristo, sugli Ebrei, i pagani e così di seguito. Altre significative norme erano collocate altrove.
Sempre il Codice, ad esempio, in sede laica, sanzionava come sacrilegio l’offesa alla santità della “divina
lex”. Le Novelle accentuarono questi orientamenti.
La complessa compilazione di Giustiniano, rimasta un modello ineguagliato di legislazione fino ai codici
contemporanei, fu in primo luogo una sintesi ‘storica’ di tutta l’esperienza giuridica romana sin dai tempi
della Repubblica: aveva filtrato il residuo vivo e vigente di un diritto elaborato anche oltre mezzo
millennio prima. In secondo luogo fu qualcosa d’altro, che guardava al futuro: un’impresa che proiettava
in avanti la nuova immagine della Res publica romana con il suo fulcro, l’imperatore onnipotente,
basileus d’impronta orientale.
Era la valorizzazione di un’eredità grandiosa, a cui si faceva riferimento per richiamare l’importanza della
renovatio Imperii di Giustiniano, e che al tempo stesso si vivificava recependo, soprattutto con le ‘Novelle’,
la più genuina legislazione giustinianea, con i suoi principi cristiani. Si reprime l’eresia, sia l’ebraismo
che la simonia, ossia l’acquisto di una carica ecclesiastica con la corruzione. Si privilegiano fiscalmente e
sul piano giudiziario le chiese, tutelate nelle loro proprietà, fatti salvi gli eventuali interessi statali sul
patrimonio ecclesiastico.
Delle Novellae constitutiones, redatte per lo più in lingua greca, emanate fra il 535 ed il 540, con alcune
aggiunte che giungono fino al 556, si compilarono delle raccolte. Una delle quali indicata come l'Epitome
Juliani, dal nome del raccoglitore, forse un professore di diritto di Costantinopoli, contiene 124 novelle.
L’altra raccolta, forse proveniente dallo scrinium dell’esarca di Ravenna, rappresentante dell’impero in
Italia, detta Authenticum, contiene un maggior numero di novelle (134), stese in lingua latina, riprodotte
integralmente.
Per quanto riguarda il Codice, in relazione ai frammenti giurisprudenziali, le unità di base del testo sono
costituite da costituzioni imperiali scelte e disposte in ordine cronologico; recano anch’esse un’inscriptio
che non fa riferimento a un giurista, ma all’imperatore legislatore dell’atto in questione. A differenza dei
testi del Codice, quelli delle Novelle sono molto estesi, e non sistemati per argomento. Ogni novella ha un
titolo a sé, e si contrassegna nella citazione solo col numero d’ordine, seguito da un secondo numero che
indica il capitolo (caput) o la praefatio.

6. La lunga tradizione del Corpus Iuris civilis


I testi sono stati redatti in Oriente, ma Giustiniano, su richiesta di papa Vigilio, estese anche all’Italia
riconquistata dai Goti, sconfitti dopo una guerra tragica, nel 554 con una solenne pragmatica sanctio il
corpus normativo redatto negli anni precedenti. La successiva conquista longobarda di larga parte della
penisola, pochi anni dopo, impedì che essa potesse circolare largamente, e il successivo e connesso crollo
dell’istruzione laica decretò l’emarginazione di questi testi come testi di consultazione quotidiana. In
particolare scomparve per secoli il Digesto. Così, mentre Spagna e Francia rimanevano territori retti dal
diritto teodosiano, perché Giustiniano non riuscì a riconquistare quelle terre, solo le regioni italiane sotto
il dominio bizantino acquisirono la normativa giustinianea e le modifiche che vennero apportate nei
secoli successivi -in particolare con i libri dei Basilici.
Sui tempi lunghi il corpus giustinianeo assunse un’importanza fondamentale durante il Medioevo
cristiano tramandando l’idea della pluralità dei sistemi o dei livelli giuridici, nonostante l’assolutismo
imperiale. Erano nel proprio ambito tutti validi, ma con diverse sfere d’efficacia, e per di più in tensione
continua. Il diritto naturale andava via via riconosciuto, quasi ‘scoperto’, e soprattutto difeso, ora anche
grazie alle fonti della religione cristiana, rivelando l’imperfezione del diritto corrente, in qualche modo
codificato e vigente, ‘positivo’.
Il diritto era così ‘dato’ ma al tempo stesso anche inadeguato, richiedeva una riflessione critica
continua, grazie alla quale veniva ricreato. Difficile dire quanto questa situazione oggettiva, strutturale,
abbia stimolato in modo permanente il pensiero occidentale, e non solo giuridico. Dopo il Vangelo, solo
per questi testi si può dire probabilmente che abbiano ricevuto una costante attenzione nel mondo
cristiano dal 1100 fino ad oggi.
Anzi, se prima l’attenzione era limitata al mondo cristiano, e dal ’500 al mondo cattolico e riformato,
nell’età contemporanea l’interesse si è esteso, dal mondo della cultura bizantina a quello medio-orientale
e poi orientale, e in particolare giapponese. L’occidentalizzazione del globo ha portato ovunque la
conoscenza del diritto romano, e sono fiorite le traduzioni del Corpus o di alcune sue parti in varie lingue
straniere, a partire da quella inglese e francese. In italiano, dopo vecchie traduzioni ottocentesche
condotte sul testo anteriore alla versione oggi filologicamente accreditata, è ora al lavoro un'équipe per
una traduzione corrente moderna.

Capitolo VI: IL MONACHESIMO

1. La regola benedettina
L’opzione cristiana poteva essere anche vissuta individualmente, ed era il caso degli eremiti, oppure a
piccoli gruppi di eletti che, abbandonando la vita di tutti i giorni, si mettevano al servizio di una vita
rigorosamente vissuta, al servizio dell’ideale cristiano. Gli eremiti, in quanto tali, non avevano bisogno di
regole: si appartavano proprio per vivere nell’intimo l’esperienza religiosa, non per obbedire a regole
esteriori.
Tra le regole monastiche che ebbero una precoce diffusione, la più nota risale all’insegnamento di san
Benedetto da Norcia (480-547), operante al tempo della guerra gotica e fondatore della celebre abbazia
di Montecassino. Essa, in parte derivante da una precedente di pochi anni (Regula Magistri, di un
monaco mai identificato), deve la sua affermazione più che all’esaltazione che ne fece papa Gregorio
Magno intorno al 600, alla sua straordinaria funzionalità. Testo ‘costituzionale’ come pochi altri nella
storia occidentale, frutto dell’elevata saggezza ‘romanistica’, fu scelta da Carlo Magno per disciplinare
con una regola certa il monachesimo e rimase, ed è rimasta, attraverso i secoli, con una incredibile
capacità di adattamento, un modello insuperabile per la convivenza giuridicamente regolata di una
comunità monastica. La Regula si compone di una convergenza dell’impegno ascetico con quello
materiale del monaco, compendiato nella massima “ora et labora”. Al cap. 1 la regola indica la vita
eremitica come l’esempio superiore d’eccellenza spirituale, ma essa non è da tutti; richiede un impegno e
una maturità che si possono raggiungere solo dopo essersi temprati nella disciplina del cenobio. I
precetti contenuti nella Regola tendono ad istituire una comunità coesa e motivata, idonea ad evitare la
dispersione grazie ad una forte concentrazione di potere nella figura dell’abate.
La solenne promessa di dedizione del cenobita al monastero riguarda essenzialmente il dono di se stesso,
del proprio corpo, e di obbedienza senza riserve all’abate, al punto da configurarsi come una totale
rinuncia ad una volontà propria. Il cap. 59 sanciva il divieto per l’oblato (= offerto al monastero)
benestante di ricevere alcun dono da parte dei genitori o di offrire le liberalità al monastero, in modo che
il neofita non potesse essere in alcun modo turbato dai beni materiali e distolto dal suo impegno
monastico.
La comunità monastica è definita nel prologo come una “scuola per il servizio del Signore” affidata
esclusivamente all’abate visto come un maestro munito di un potere monocratico di fronte al quale
restano solo il silenzio, l’umiltà e l’obbedienza pronta e incondizionata dei monaci. All’abate si possono
offrire solo pareri non vincolanti, perché egli porta da solo la responsabilità di far crescere la comunità di
soldati devoti alla santa obbedienza, di ‘fedeli’. Il cenobio è configurato come un consorzio autosufficiente,
da cui deriva la necessità del lavoro manuale, chiuso nei confronti dei pericoli esterni e pronto a
reprimere il male che possa manifestarsi nella collettività.
Il complesso di norme deontologiche dirette all’abate sono un concentrato di saggezza antica destinata a
sottolineare l’alta funzione del Magister: nel monastero egli è in luogo di Cristo, per cui le sue
responsabilità sono maggiori e gravose. Dovrà dimostrare con i fatti cosa è il buono e il santo, senza
discriminazioni. Uguaglianza tra i monaci-sudditi, dunque, ma attenuata per motivi d’opportunità. La
temperanza consiglia al superiore di dare di più a chi più ha bisogno, ma in modo oggettivamente
motivato, perché devono evitarsi i mormorii.
Sotto la guida di abati capaci si formavano dei centri monastici estremamente efficienti, dediti
all’istituzione senza riserve, e perciò capaci di acquisire un ampio prestigio, di vasta risonanza. Le
fondazioni divenivano così un punto di riferimento visibile, pronto ad accogliere le pie donazioni di chi si
offriva al monastero o dei ricchi fedeli. Di conseguenza i conventi di modeste dimensioni nella prima età,
divennero intorno all’VIII sec. fondazioni capaci di accogliere un gran numero di monaci, di conversi e di
collaboratori che coltivavano le terre del monastero sia in gestione diretta -la pars dominica della
proprietà, di regola vicino all’abbazia, sotto il controllo diretto dei monaci-, sia quelle più lontane
denominate pars massaricia; queste erano affidate a singole famiglie contadine, ora di servi, ora anche di
ex-proprietari che avevano donato le proprie terre per godere della sicurezza che solo l’ingresso in una
grande azienda poteva conferire. Oltre a canoni in denaro o in natura, essi dovevano eseguire, in certi
periodi dell’anno, alcune prestazioni sulla pars domenica. Divennero aziende modello che partecipavano
del sistema curtense fondato sul primato assoluto dell’agricoltura e degli scambi commerciali a breve
distanza.
In età carolingia, si diffonderà la pratica di rendere immuni queste istituzioni, ossia di esonerarle
eccezionalmente dalla normale giurisdizione dei poteri statali, e gli abati si avvarranno della
collaborazione dei laici per gestire determinate funzioni: l’amministrazione della giustizia, la protezione
militare. Il rapporto con le potenze esterne diverrà sempre più pressante per ottenere soprattutto il
controllo dell’elezione dell’abate, per il quale si dettava la regola della scelta da parte di tutta la
comunità, ma si lasciava aperta la strada alla rivendicazione dell’elezione da parte dei migliori.
L’elezione sbagliata, di un monaco indegno, apriva la crisi e lasciava aperta la strada all’intervento del
vescovo, ma anche di abati vicini e di “fedeli”.
La regola benedettina è un documento straordinario, unico per longevità della sua vigenza ed è un
concentrato di saggezza giuridico-istituzionale che conferma la vocazione occidentale per la scrittura della
legge. Una costituzione-quadro, essenziale, che lasciava il campo alle interpretazioni e ad interventi
successivi o a regole locali, capace per il suo interno equilibrio d’autorità e di consenso di superare le
infinite insidie del tempo.

2. Sviluppi del monachesimo


Le comunità di religiosi erette su beni demaniali, quelle regie in particolare, diedero luogo a centri
privilegiati di studio e di preghiera, a presidi di controllo e di coltivazione del territorio circostante, e
costituirono un domicilio per la sosta e il riparo del re e degli alti dignitari di corte. Erano destinati a
divenire unità culturali, produttive, rilevanti in un contesto di declinante civiltà urbana e di crisi
dell’organizzazione produttiva privata. Ma a prescindere da queste, c’erano consistenti istituzioni
monastiche erette da parte di privati entro i propri possedimenti. Esse rendevano palpabile la
commistione delle varie realtà religiose con il potere politico ed economico del tempo, essenzialmente
fondiario, perché l’intervento privato non implicava una partecipazione laica una tantum, un atto isolato
per cui una volta edificato il monastero esso poteva poi vivere autonomamente.
Il privato dettava anche le regole del cenobio, indicando ad es. le modalità di nomina dell’abate o della
badessa, spesso appartenente alla famiglia del fondatore o da questi designato. Inoltre, egli si riservava
l’amministrazione dei beni, o ne condizionava i proventi. Sia in questo caso, che nelle chiese dipendenti
dal vescovo, l’individualità giuridica dell’istituzione sembra indubbia. Le donazioni non erano destinate
alla Chiesa come istituzione generica e universale, ma ad una chiesa specifica che avrebbe potuto
rivendicare i propri beni se e quando defraudati.
La dotazione di un ente religioso era un atto di liberalità, ma non del tutto disinteressato. L’ente diveniva
il simbolo della famiglia del fondatore che caratterizzava immediatamente la famiglia promotrice come
eminente per potere e ricchezza. Il monastero legava la famiglia ad un’area specifica del territorio; essa
attraverso atti successivi di donazione poteva rinnovare il suo legame con l’ente e rivendicare il proprio
diritto eminente. La famiglia trovava così un elemento di coesione, di raccordo, evitando la dispersione
cui poteva andare incontro. Le potenti famiglie legate al potere politico potevano meglio proteggere gli
enti fondati e riccamente dotati, i quali a loro volta all’occasione potevano ricambiare ed alimentare
quella rete d’amicizie funzionali all’esercizio del potere: il governo episcopale delle chiese, le prestigiose
cariche abbaziali.
Già nel corso del secolo VII la dipendenza dalle influenze laiche generò un graduale logoramento delle
istituzioni ecclesiastiche. Esse apparivano ormai ben lontane dallo slancio pastorale iniziale, quanto mai
necessario invece di fronte al diffuso paganesimo tradizionale debolmente contrastato da un clero
scarsamente preparato. Questa situazione di stallo, e talora di vero declino, poté essere invertita grazie
ad un fortunato, quasi provvidenziale, concorso di circostanze, alla cui origine si rintraccia la vigorosa
azione che si deve al monachesimo irlandese ed anglo-sassone ed in particolare ad alcuni monaci che
svolsero un’attività di straordinario rilievo.

3. L’Irlanda e i Penitenziali
In Irlanda la colonizzazione romana non era giunta, per cui quando il cristianesimo si diffuse tra le
popolazioni celtiche grazie all’opera determinante di san Patrizio, ebbe un’organizzazione originale, quasi
obbligata a causa dell’assenza di centri urbani e delle invasioni germaniche, che segnarono scarsità di
rapporti con il Continente.
In mancanza di un rilevante sviluppo urbano, le chiese si basarono sul primato degli abati. Questo fece
sì che l’organizzazione ecclesiastica fosse più coesa, disciplinata, e, soprattutto dotta, come dimostra
l’importanza di questi scrittoi monastici per la tradizione della cultura classica e per l’elaborazione dei
Libri Penitenziali. Essi sono una sorta di prontuari che dettano per i vari peccati le penitenze cui il
peccatore doveva sottomettersi per espiarli in una scala gerarchica che parte dai meno gravi ai più
efferati. I Penitenziali sono una preziosa fonte documentaria per ricostruire la cultura del tempo, in virtù
del diverso rilievo che si attribuiva alle trasgressioni. Si diramarono nel Continente, grazie alla
caratteristica peculiare del monachesimo celtico, la peregrinano religiosa, o pro Christo, ossia all’abban-
dono della propria terra di origine per affrontare un viaggio missionario compiendo il volere di Dio.
I Penitenziali tentarono in modo disarticolato e con difficoltà di diffondere i valori cristiani e di sradicare
costumanze e credenze molto risalenti, i sortilegi e gli interventi magici, che i dotti ecclesiastici
reputavano semplici superstizioni e perciò oggetto di miti condanne. Questi testi si trovano sparsi in
manoscritti di varia origine e per i vari secoli dell’Alto Medioevo. I più vicini al Mille sono più complessi e
tengono conto della psicologia dei peccatori, cercando di radicare quello che sarebbe divenuto il topos
molto diffuso secondo il quale la penitenza era da considerarsi come una medicina. Non a caso il
penitenziale inserito nel Decreto di Burcardo vescovo di Worms intorno all’anno 1000 era denominato
Corrector o Medicus. Vi si chiarisce come si perveniva all’assegnazione della penitenza dopo un
interrogatorio che, portando alla confessione e all’ammissione piena degli errori commessi, aveva la
funzione di alleviare il senso angoscioso di colpa. Un processo espiativo, dunque.
Dall’applicazione pratica delle penitenze sappiamo ben poco, essendo stati utilizzati nel corso di quel
‘processo di foro interno’ (della coscienza) implicato dalla confessione; ugualmente vi sono notevoli
difficoltà per determinare la loro diffusione nello spazio e nel tempo. Ma sono testi di rilievo da un punto
di vista giuridico, perché denotano un’elaborazione più puntuale rispetto alle leggi alto-medievali delle
‘nazioni’ germaniche, che consideravano il fatto commesso indipendentemente dalla volontà dell’agente.
Qui, invece, si comincia a valutare anche la disposizione soggettiva del reo, come quando si sottolinea ad
esempio l’omicidio senza cattiveria.
Le analisi e le distinzioni si fanno più raffinate nella valutazione dei peccati sessuali, che occupano di
regola un buon terzo di questi testi: dal coitus interruptus all’onanismo, dagli accoppiamenti bestiali
all’aborto. L’adulterio imponeva di accertare la parte responsabile, perché il coniuge colpevole non
avrebbe potuto risposarsi. Il marito abbandonato definitivamente, poteva, col consenso del vescovo,
unirsi in matrimonio dopo una decorrenza quinquennale. Il divorzio non deve meravigliare, come
l’unione coniugale del clero, che era considerata lecita. In quei secoli si ragionava molto diversamente.
Ad esempio, ci si opponeva fermamente alla mala consuetudo trionfante che conduceva a condannare i
laici che dileggiassero l’ecclesiastico sposato! Il lassismo imperante aveva condotto, in un Penitenziale
probabilmente dell’Italia del Nord, ad ammettere il divorzio per mutuo consenso- una concessione che
apparve rivoluzionaria in Francia a fine Settecento e in Italia ancora pochi anni or sono!
Il fatto è che allora il matrimonio per la Chiesa aveva sempre una qualche valenza negativa, ed era
ammesso, ma come un male minore. Pur ritenendolo la sede unica e legittima della procreazione, l’atto
sessuale era consentito solo in una cinquantina di giorni all’anno; già solo la preparazione alla messa ri-
chiedeva tre giorni di astinenza sessuale e richiedeva ex post abluzioni per conseguire di nuovo la
purezza necessaria per avvicinarsi ai sacramenti.

Capitolo VII: I LONGOBARDI IN (GRAN PARTE DELL’) ITALIA


1. I Longobardi e la cultura romana
Il periodo della dominazione dei Longobardi si protrasse per oltre due secoli e segnò una lenta ma
profonda trasformazione del tipo di egemonia da loro esercitata, che inizialmente aveva solo i tratti della
pura conquista militare di una gens -per di più quantitativamente limitata.
Nel corso dei secoli, tuttavia, la loro dominazione si basò su una stabile e coerente struttura pubblica.
Superata la prima fase tumultuosa, dell’aggressione e del saccheggio, i Longobardi non si sovrapposero
soltanto alle istituzioni romane occupandone le posizioni-chiave, ma cercarono con il tempo di
sostituirle, istituendone delle nuove.
Essi non avevano varcato le Alpi friulane nel 568/9, raggiungendo presto anche Milano, su mandato
imperiale, non erano vincolati a simulare la prosecuzione in Italia della ‘romanità’. Non c’era stato
nessun foedus, ma solo la pressione degli infidi Mongoli che dal Bacino del Danubio spinse verso sud
questo agglomerato di popolazioni a maggioranza longobarda, che si riversò in Italia in modo disordinato
sotto la guida di re Alboino, incrociandosi con alcune contingenti già presenti localmente. Il dato è
rilevante, perché spiega come taluni gruppi potessero infiltrarsi profondamente a sud fino in Calabria
(l’attuale Puglia) e nel Bruzio (l’attuale Calabria) prima che venisse completata la conquista del nord e
delle principali zone a forte insediamento romano-bizantino.
I Longobardi conquistarono però Pavia, la capitale teodoriciana, il cui significato simbolico era evidente.
Occupando quella piazzaforte Alboino dava mostra di essere il successore del governante goto. Per il
resto i guerrieri dilagarono dove incontrarono minore resistenza, creando le premesse per i forti distretti
di Spoleto e di Benevento, destinati ad avere collegamenti difficili con il nord, dacché i Bizantini
cercarono sempre di tener aperto il corridoio che, con centro a Perugia, collegava Ravenna ed Ancona
con Roma.
Si crearono in tal modo le premesse per la fondazione di un regno, con capitale a Pavia, che
comprendeva estese zone del nord-Italia, della Toscana e dell’Umbria, scardinando gli antichi distretti
amministrativi, ma anche di due ducati , vale a dire quello di Spoleto e di Benevento, sostanzialmente
autonomi e costituenti la cosiddetta Langobardia minore. I duchi di Spoleto e Benevento furono titolari di
poteri di un’ampiezza ben diversa da quelli dei loro colleghi che si installarono nelle varie civitates del
regno, corrispondenti in certo qual modo del re di Pavia.

2. Il processo di unificazione del regno


re longobardi si inserirono nel solco dell’unica importante e legittima tradizione politico-istituzionale del
tempo, cioè quella bizantina, che riconosceva nella figura regale il supremo regolatore della convivenza
civile. Autari, marito della cattolica Teodolinda, divenuto re nel 584 dopo l’anarchia decennale seguita
all’uccisione di Alboino, s’intitolò Flavius come Teodorico, e cercò di legittimarsi di fronte ai Romani liberi
in modo da imporre i tributi. Agilulfo, suo successore nel trono, si proclamò “re di tutta Italia” e,
imitando i suoi ben più potenti colleghi bizantini, legittimò il proprio figlio come successore addirittura
nel circo romano di Milano.
Con Autari, prende avvio il processo di unificazione del regno. I primi, graduali lineamenti dell’ancora
incerta sovranità si individuano nella rivendica da parte del regnante di una sfera di amministrazione
propria nei vari ducati tanto da accostare alla curtis ducalis (corte, cioè patrimonio del duca) una curtis
regia, la ‘corte’ regia governata da un incaricato del sovrano: il gastaldo che divenne uno strumento di
controllo dell’esercizio del potere periferico del duca, capo degli exercitales (liberi in armi) longobardi
locali. Nel contempo Autari frenò gli orientamenti filo-bizantini che si insinuavano in gran parte dei
ducati ed epurò i latifondisti romani riottosi all’obbedienza espropriando loro le terre al fine di creare un
ceto di maggiorenti longobardi fedeli al trono.
Non ci fu tuttavia da parte del gruppo dirigente longobardo il ripudio del modello civile romano, perché
l’ideale statuale bizantino era ben presente al sovrano. Nella scarsezza disperante delle fonti per il primo
secolo del dominio longobardo, si presume che le condizioni dei dominati fossero localmente molto
diverse nelle varie situazioni, e che tuttavia nei rapporti di famiglia e patrimoniali essi continuassero ad
avvalersi di un diritto romano semplificato, ridotto a consuetudine, a uso osservato di per sé, per
tradizione inveterata.
Intervenuta l’integrazione religiosa e culturale entro il secolo VII, si suppone che nell’VIII secolo si
raggiungesse una sostanziale unità giuridica favorita da una sostanziale fusione sociale delle etnie: i
maggiorenti di origine romano-italica con i potenti e ricchi tra i Longobardi, gli umili con gli umili. Si
costituì allora, da un punto di vista privatistico -dacché il diritto pubblico fu sempre quello voluto dai
Longobardi- un complesso unitario di regole che accoglieva molti elementi della ben più ‘civile’ tradizione
di origine romana.

3. L’Editto del re Rotari (643)


La prima e più importante compilazione normativa longobarda risale al 643, quando fu emanata da
Rotari, a distanza di vari decenni dall’arrivo in Italia e a dimostrazione della loro difficoltà a stabilirsi in
modo definitivo. È un testo di grande interesse e durata nella storia del nostro Paese, perché inglobata
nella Lombarda avrà circolazione anche nel Basso Medioevo e alcune sue pratiche entreranno
profondamente nelle consuetudini locali.
La genesi di questo corpus legislativo si rintraccia nel proposito di porre rimedio alle vessazioni e violenze
cui erano sottoposti gli arimanni (i liberi longobardi) poveri.
Questa prima normativa longobarda non innova ufficialmente la disciplina vigente, fino ad allora non
scritta, ma si limiterebbe a redigere per scritto le Consuetudini popolari (cawarfide). E ciò avvenne in
388 capitoli in latino, con solo qualche parola in longobardo perché intraducibile o indicata accanto
all’equivalente latino, perché i Longobardi non avevano pratica con la scrittura della loro lingua. Perciò
appare verosimile che il re per il suo Editto si sia avvalso della competenza di un personale di cui si
fidava, cioè gli iudices, cui sarebbe stata delegata l’applicazione della normativa, così come di
ecclesiastici, gli unici allora ad avere dimestichezza con la scrittura e a poter consigliare ad esempio in
tema di rapporti di famiglia e di giuramento. I Longobardi in quel tempo erano già convertiti al
cristianesimo, anche se ancora ariani -seguaci dell’eresia che la Chiesa cattolica attribuiva ad Ario.
Quanto ai contenuti, molte norme sono destinate a prevedere una serie di compositiones per i reati più
vari analiticamente descritti, vale a dire la fissazione di pene pecuniarie atte a sancire il danno inferto
in modo da preservare la pace tra le famiglie interessate. Ad esempio, sferrare un pugno, poteva costare
tre soldi, uno schiaffo sei, cavare un occhio implicava il versamento della metà del wergild o widrigild
(guidrigildo), vale a dire il prezzo dell’uomo, il valore che si doveva risarcire in caso di omicidio o di altre
lesioni alla persona, un valore dipendente dallo status dell’offeso, dal suo rilievo politico-economico. La
somma da versare era passibile di notevoli variazioni. Il prontuario degli importi prevedeva infatti stime
diversificate per i liberi, i semiliberi o aldii, i servi rustici, seguendo un ordine decrescente che arrivava
fino al pastore. La compositio quindi era stabilita in base ad una rigorosa scala gerarchica. Dalla
meticolosità prevista è presumibile ipotizzare che le exactiones consistessero nell’esosità dei prezzi
imposti dai giudici. Rotari inasprì le compositiones, soprattutto quelle relative all’omicidio, al fine di
dissuadere le frequenti faide tra famiglie.
Le sanzioni afflittive e la pena capitale erano previste raramente, ma ciò non diminuisce il profilo
essenzialmente arcaico di questa normativa, che non lascia dubbi su quella società di cui è lo specchio
più o meno deformato dalla mediazione scritta e giuridica. Il carattere agro-pastorale e militare di quella
società e la sua violenza endemica emergono chiaramente da queste norme. Tra le tante ipotesi vi è il
capitolo sulla “violenza contro una donna libera”.
Le norme processuali, ugualmente, tradiscono una società fondamentalmente rozza, non abituata alle
sofisticate procedure romanistiche. Si parla naturalmente del duello giudiziario, sconosciuto al diritto
romano; come si parla molto del giuramento. Queste possono essere le norme più tradizionali della
raccolta, mentre alcune disposizioni non lasciano dubbi sulla volontà legislativa innovativa del sovrano,
rilevabile ad esempio dalle prescrizioni introdotte da formule del tipo: “così stabiliamo, prevediamo”, che
non a caso riguardano problemi nuovi come, sulla restituzione dello schiavo fuggitivo che abbia trovato
rifugio in una chiesa. Ma nel complesso, il re ama presentarsi come colui che ha ‘trovato’ le antiche
“leggi” (propriamente si tratta di consuetudini), tanto è vero che in chiusura, si riserva di “aggiungere a
questo editto quanto ancora saremo in grado di ricordare”.

4. Fino ad Astolfo: altri caratteri del diritto longobardo


Alla compilazione di Rotari seguirono integrazioni brevi di Grimoaldo del 668, una nutrita serie di
innovazioni durante il longevo governo di Liutprando (712-744), re ormai cattolico, e infine altre brevi
normative di Rachi emanate nel 746 e di Astolfo promulgate fra il 750 ed 755. Questi provvedimenti
riformarono e integrarono la legislazione precedente di Rotari, adeguandone la normativa alle mutate
esigenze presentatesi nel corso degli oltre due secoli della dominazione longobarda; lo richiese in primo
luogo il maturare della conversione al cattolicesimo, a fine 600, e in secondo luogo la progressiva
integrazione culturale e sociale delle due popolazioni. Con queste aggiunte venne configurandosi l’Editto
longobardo nel suo complesso, coltivato con attenzione nel principato di Benevento, ove continuò la
dominazione longobarda, per esser riuscito ad evitare la conquista franca.
Nel complesso numerosi sono i capitoli sul diritto di famiglia e lo status della donna, la quale pur avendo
piena capacità giuridica non pare avere capacità di agire. Lo si desume in primo luogo da alcuni capitoli
di Rotari che rammentano la soggezione del sesso femminile all’istituto del mundio, una sorta di
potestas di tutela affidata ai familiari maschi più stretti. A questa sorta di tutore, denominato
mundualdo, spettava l’autorizzazione alla stipula di tutti i negozi giuridici della donna: come
l’adempimento della desponsatio e l’affidamento al marito al perfezionarsi dell’atto matrimoniale,
l’assenso all’ingresso in monastero e la correzione della sua condotta servendosi di moderati mezzi
punitivi. Il mundio era contraddistinto da un carattere patrimoniale, in quanto il suo valore era
inizialmente proporzionato al capitale posseduto dalla donna: era incluso nell’asse ereditario e alla morte
della madre spettava ai figli minorenni. Il mundualdo poteva ereditare i beni dell’amministrata ed
incorporava gli importi delle compositiones.
Al contrario di ciò che potrebbe far supporre la ritualità degli sponsali di origine longobarda, perché il
contratto nuziale si perfezionava solo con la traditio (trasferimento) della sposa al marito, il consenso
della donna restava fondamentale per contrarre matrimonio (ma solo di regola) nella cerimonia della
subarrhatio anulo (scambio degli anelli), rito che risentiva dell’influenza esercitata dalla Chiesa dopo la
conversione dei Longobardi al cristianesimo. Alla sposa spettava la titolarità dei doni nuziali che il marito
elargiva dopo lo sposalizio: il cosiddetto morgincap o morgengabe o dono del mattino (dopo, cioè dopo la
verifica della verginità, si può supporre). Al momento degli sponsali il futuro marito versava la meta o il
meffio, il cui ammontare era frutto di un accordo stipulato con i maschi della famiglia o con il
mundualdo. Il negozio veniva solennemente confermato attraverso un patto detto fabula e talvolta veniva
addirittura trascritto in un documento. Se il contratto nuziale non si concludeva con la desponsatio, la
meta restava in possesso della mancata sposa. Alla consorte erano affidati anche beni mobili o una quota
in denaro detti faderfio, che in linea di massima più che all’istituto dotale possono essere equiparati al
‘corredo’, ma resta fermo che ella non poteva reclamare altre aspettative ereditarie.
Nelle successioni mortis causa erano privilegiati i figli maschi legittimi ed anche i fratelli naturali.
Tuttavia, secondo Liutprando, in assenza di maschi legittimi alla divisione dell’asse ereditario
partecipavano le figlie femmine.

5. Altri istituti giuridici


Circa il regime dei negozi, gli atti per il loro perfezionamento richiedevano alcune solemnitates che
assicuravano al negozio la firmitas. La donazione esigeva il thinx o il launegild, previsti per assicurare
l’irrevocabilità dell’atto: la firmitas appunto. Tipicamente longobarda era anche la datio wadiae, specie di
garanzia, un pegno per confermare un accordo assicurato. L’obbligato consegnava al ricevente un
oggetto, la wadia. La wadia era anche prevista per l’adempimento degli atti processuali come conferma
della presenza del convenuto in giudizio.

6. Aspetti del processo


Seguendo l’antica tradizione di mantenere la pace e di scongiurare la faida, il procedimento giudiziario
era una surroga del conflitto armato tramite duello dei campioni delle parti avverse, che potevano
utilizzare armi o randelli al fine di evitare spargimenti di sangue, o il giuramento di una serie di testimoni
per garantire la veridicità di quanto preteso. Il giudice non valutava né nel fatto né nel diritto le pretese:
assisteva allo svolgimento delle prove.
All’interno di questo sistema, si inserirono dei dispositivi per stabilire con maggior certezza la veritas rei
sia per le questioni penali sia per quelle private. Ci si fondava sempre sul giuramento e sul duello e la
sentenza si limitava ad attestare l’esito della prova, ma il giuramento divenne il mezzo prediletto per la
risoluzione dei conflitti: svolto in modo solenne, ponendo le mani sul Vangelo o sulle reliquie dei Santi, e
chiamando al rito, oltre al convenuto, una serie di sacramentales o aidos o coniuratores, non vincolati
alle parti in causa, sperando di evitare spergiuri.
La predilezione accordata al giuramento e alle prove testimoniali si deve alla diffidenza che i Longobardi
provavano per il iudicium Dei (giudizio di Dio) del duello. Rotari preferiva affidarsi al giuramento per
questioni delicate come l’accertamento della legittimità dei figli, l’uxoricidio o il possesso del mundio, e
alla prova scritta per la compravendita di immobili e l’affrancazione dei servi. Liutprando, in particolare,
ammise che in molte occasioni la prova di Dio del duello fosse in contraddizione con la verità, dei fatti,
“ma per la consuetudine della nostra stirpe dei Longobardi non possiamo vietare questa legge”.
Legislatore accorto, Liutprando si dimostrava sensibile al consenso dei suoi sudditi. Comunque, già sul
finire del VII secolo, nelle notitiae iudicati (resoconti dei processi) si rintracciano vari cenni alle cartae
utilizzate, e nell’VIII secolo si considererà la validità delle chartae notarili per i diritti in esse attestati.

7. Un giudizio complesso: quale personalità?


Problema da affrontare è quello del criterio di applicazione del diritto. Chi sono i destinatari dell’Editto?
Con la personalità del diritto ogni gente ('natio’) era autorizzata a servirsi del proprio diritto d'origine
nel rispetto delle norme d’ordine pubblico imposte della gente dominante.
Il sistema della personalità non va considerato in modo astratto. Non si possono contrapporre
rigidamente norme ‘territoriali’ valide per tutti e norme ‘personali’ che seguono ovunque la persona.
Nei vari periodi storici bisogna saper distinguere. Quanto all’epoca e alle terre longobarde ormai, si tratta
di distinguere intanto tra un primo periodo, di scontro duro tra due popoli anche di diversa sensibilità e
obbedienza religiosa, quello che ha fatto parlare romanticamente di un “volgo disperso che nome non
ha”, quasi le popolazioni romane fossero state ridotte in schiavitù (cosa non verificatasi), e un periodo
successivo, connotato dall’integrazione religiosa e sociale. Nel primo, corrispondente ancora
all’emanazione della raccolta di Rotari, è più facile pensare a un’applicazione personale del diritto:
l’Editto per i suoi longobardi con norme d’ordine pubblico per tutti, e il diritto romano privato
‘volgarizzato’ per le popolazioni di origine romana. Ma col tempo la situazione cambiò e si può pensare
che il legislatore (Liutprando) si rivolgesse normalmente a tutti i suoi sudditi, ed è ben possibile che
quando parla di ‘Romani’ si riferisse a quelli delle terre bizantine.
A differenza di quanto si verificherà durante il dominio carolingio, quindi, le distinte normative delle
diverse etnie non si configurarono probabilmente col tempo come leggi speciali, ‘nazionali’, e quindi
contrapposte. Il diritto romano era considerato sempre come ‘diritto proprio’ delle genti autoctone. Ma
nello stesso tempo si configurava come un sostrato giuridico ‘comune’, vincolato al territorio, una base
comune che all’occorrenza poteva essere d’incontro nella negoziazione giuridica; di contro, il diritto
longobardo in senso stretto conservava l’antica natura di corpo normativo ‘speciale’ per un particolare
gruppo politico-militare, e conseguentemente si delineava come un diritto particolare ‘gentilizio’ che si
poteva innestare sul sostrato della lex mundialis per eccellenza, quella romana.
Al momento di redigere un atto giuridico le parti dichiaravano, con le professiones iuris (dichiarazioni di
diritto), il regime giuridico di appartenenza. Il terreno d’elezione di questa prassi fu il Regno italico
durante il periodo carolingio a causa della coesistenza di più popoli nello stesso territorio, ma fu in uso
anche prima.
Il principio della personalità del diritto con questa limitata applicazione rimase in vigore nel nord Italia
fino a tutto il sec. XII, mentre istituti tipici del diritto longobardo al sud, specie nella Puglia interna e nel
Beneventano e nel Salernitano divennero consuetudini locali per cui rimasero in vigore persino dopo la
fine della dominazione bizantina nell’XI secolo. In tutta la Langobardia minor (sud interno) non erano
rare le comunità di Ebrei, Bulgari, Slavi e Armeni che facevano riferimento alle proprie consuetudini
giuridiche. Gli Ebrei riuscirono a conservare propri tribunali per le questioni di famiglia e di successione,
operanti in ossequio al diritto tradizionale, studiato ed elaborato nel Talmud, mentre altre minoranze
culturalmente più fragili finirono assorbite dalla tradizione latino-longobarda. Era ‘naturale’ per i vertici
rispettare la pluralità di diritti, che non era avvertita come lesiva della sovranità politica, riguardando
solo l’identità delle componenti culturali coesistenti all’interno dello Stato.

Capitolo VIII: I CAROLINGI

1. Verso il crollo del Regno longobardo


Proprio mentre la residua presenza bizantina dopo Giustiniano declinava in Italia sotto i colpi dei
Longobardi e si poneva in contrasto a fine del secolo VII con il Papato sulla questione del culto delle
immagini, il Regno dei Franchi con una serie di vittorie straordinarie divenne in Europa il principale cen-
tro cattolico di attrazione politica. Nell’incredibile impresa fu certamente facilitata anche dal perdurante
utilizzo degli schemi istituzionali romani che consentirono un netto predominio laico nella scelta dei
vescovi, ma anche dal dualismo del potere che si era consolidato a corte. Dove ai re della dinastia me-
rovingia forti di un potere ereditario, ma ormai in crisi per la divisione secondo criteri patrimoniali del
Regno, si contrapponevano i dinamici e potenti ‘maestri di palazzo’, detti maggiordomi, supervisori della
vita politica, dominata dai problemi di organizzazione militare.
Fu il maggiordomo Pipino II, intorno al 700, che cominciò a conseguire un prestigio e un’autorità
indiscussa in Austrasia (parte orientale del Regno) attraverso una capillare politica di concessione delle
terre, anche di proprietà delle chiese, dandole in godimento precario (beneficio) ai propri vassi, cioè ai
fedeli della stirpe con funzioni militari. Fu la premessa della vittoria di Poitiers (732), quando Carlo
Martello, il più famoso ‘maggiordomo’ della storia, riuscì a bloccare l’avanzata araba dal sud e a
consolidare definitivamente il potere dei Pipimeli e gettare scredito sui re merovingi -ormai detti rois
fainéants, cioè ‘fannulloni’.
In quella occasione bellica, che ha assunto un significato simbolico forse oltre l’importanza reale del
confronto militare, si cominciò a parlare di Europeenses e i Franchi apparvero definitivamente eredi della
centralità europea che era stata dell’impero: capaci di dominare su genti disparate e di attuare progetti di
grandissimo respiro -a differenza dei Longobardi. Perciò, con il sostegno e l’abilità diplomatica di
Bonifacio, vescovo di Magonza, il Papato, in rotta con i Bizantini per la questione delle immagini e
intimidito dai successi longobardi contro Ravenna che facevano presagire l’attacco loro a Roma, pensò ai
Pipinidi come alla stirpe giusta per por fine al dominio bizantino e longobardo in Italia. Le cose
precipitarono in poco tempo.
Nel 751 Pipino il Breve acclamato re dai grandi del regno pose fine alla dinastia merovingia, dando veste
formale ad una situazione di fatto ormai consolidata, e la formalizzazione della sua monarchia fu
pesante, perché avvenne ricevendo la sacra unzione (già biblica) da parte di Bonifacio, che come
delegato pontificio legittimo e benedì quello che era stato un vero e proprio ‘colpo di Stato’. Nel 754 poi fu
lo stesso papa Stefano II a render visita al nuovo re e a rinnovare l’unzione, estendendola anche ai figli.
Emblematicamente l’evento avvenne in contemporanea al concilio orientale che approvava ancora la
linea dura dell’imperatore contro il culto delle immagini (iconoclastia). Non fu certo a caso che, neppure
un anno dopo, da un concilio convocato dal re dei Franchi venne attribuito un diverso valore alla
scomunica, fino ad allora ritenuta una tipica sanzione soltanto religiosa.
Non poteva esserci un contrasto più netto con Bisanzio. La vittoria contro l’Esarcato ravennate e la
minaccia contro Roma dei Longobardi, pur benemeriti cattolici fondatori e benefattori di chiese e
monasteri ormai, offrì l’occasione per consolidare l’alleanza già stretta tra il Papato e i Fianchi. Roma
affidò ai Franchi il compito di rinnovare completamente il quadro politico-istituzionale in Italia. E la loro
vittoria non si fece attendere grazie al figlio di Pipino, Carlo detto poi Magno, che provocò il crollo del
regno longobardo nel 774. Da allora, l’esperienza di governo longobarda proseguì solo nel vasto ducato di
Benevento che diviene principato e integrò la legislazione longobarda.

2. I Pipinidi, il Papato e lo Stato Pontificio


Lo Stato pontificio fu di fatto riconosciuto, ma fu assai diverso dalle previsioni iniziali, ambiziosissime. Il
Papato aveva sperato di ripristinare una Respublica Romanorum libera almeno sostanzialmente se non
nella forma dall’ipoteca dell’alto dominio bizantino e franco. I Franchi invece preservarono e assunsero la
direzione del Regnum Langobardorum sconfitto, cui fu assicurata la conservazione di una propria
individualità distinta dal regno dei Franchi, con proprie leggi, amministrazione, capitale e funzionari.
Inoltre assunsero la sovrintendenza delle terre papali e di quelle ex-bizantine occupate, esercitando una
specie di protettorato sul Papato, che dovette consentire loro di essere un’istanza suprema di giustizia per
chi volesse appellarsi contro le decisioni pontificie.
La crescente potenza temporale suscitava contrasti sempre più vivi intorno alla carica papale. Si arrivò al
punto che un papa fu addirittura assassinato e il Concilio lateranense del 769 esaminò e discusse la
grave questione del sistema elettorale, che necessitava di un rigoroso intervento riformatore. Venne
allora circoscritto l’intervento dei laici alla sola acclamazione del candidato scelto dagli ecclesiastici, ed
egli doveva rispondere a questi requisiti:
a) non poteva essere un laico;
b) doveva essere scelto dal clero e
c) esclusivamente tra i sacerdoti e i diaconi cardinali della città di Roma, ossia a quelli che officiavano
le chiese parrocchiali e che si occupavano delle grandi basiliche di san Giovanni in Laterano, san
Pietro, san Paolo fuori le Mura e santa Maria Maggiore.
Il governo papale riuscì, anche grazie al potere temporale già acquisito, ad evitare di essere degradato a
mero ufficio direttivo di una chiesa ormai franca, e rimaneva un alleato con una propria individualità
politica ed istituzionale. Ma la mancanza di un apparato militare non consentì alla Chiesa di Roma di
pretendere dal vincitore il rispetto degli accordi di cessione territoriale più volte conclusi. L’omaggio
offerto da papa Adriano I a Carlo della nuova redazione della Collectio canonum Dionysiana, detta perciò
Dionysio-Hadriana, recava tuttavia il segno della rivendicazione del ruolo autonomo del Papato e
dell’organizzazione ecclesiastica rispetto ai poteri laici.

3. Il progetto statale di Carlo Magno


Il sistema di potere carolingio, oltreché una grande dominazione militare ed ecclesiastica, si configurò
come un progetto politico-istituzionale e culturale di vasta portata, logica conseguenza della riflessione
ecclesiastica, monastica e papale sull’eredità del mondo antico da recuperare dopo gli sconvolgimenti dei
secoli V e VI, a fronte del concorrenziale e perdurante modello imperiale bizantino.
L’Impero era ancora simbolo di legittimità e di ordine. Inoltre, Carlo aveva fornito sufficienti prove di
fedeltà al complessivo progetto papale. Mancava, tuttavia, un elemento decisivo, un rilievo istituzionale
maggiore di quello indotto dal titolo di re, proprio perché i Franchi avevano una tradizione patrimoniale
di più regni separati. L’aggiunto titolo di rex longobardo aveva costretto i Franchi ad instaurare un
rapporto speciale con Roma. Si imponeva una soluzione obbligata: la sanzione della supremazia di Carlo.
Il dotto precettore del re franco, Alcuino di York, anticipò in una lettera nel 799 i lineamenti del progetto
statale carolingio. Alcuino sosteneva che i più alti poteri nel mondo erano quelli del papa e
dell’imperatore, entrambi in crisi. Carlo era destinato a divenire il salvatore del popolo cristiano, ad
eccellere su ogni altra carica, “vindice dei crimini, guida degli erranti, consolatore dei sofferenti,
esaltazione dei buoni”. L’altro dotto di corte, Eginardo, biografo di Carlo, narra le perplessità e i dubbi
del suo biografato di fronte alla famosa incoronazione ad imperatore, avvenuta nella notte di Natale
dell’anno 800 da parte del papa, Leone III. Non sembrano permanere incertezze circa la piena coscienza
di Carlo degli esiti che avrebbe comportato la carica in termini di peso istituzionale, anche se si può
ammettere che l’ispirazione culturale di fondo fosse ecclesiastica.
Il neo-imperatore, ebbe modo di valutare la portata dell’evento. Bisanzio lo considerò subito un
usurpatore, anche se egli era stato proclamato dal popolo astante in san Pietro solo come imperator
senza la specificazione romana (Romanorum), e il Papato poteva opporre una derivazione del potere
imperiale da quello papale.
Il pericoloso precedente non ebbe seguito. Nell’813 fu Carlo stesso a incoronare il figlio Ludovico, senza
intervento papale. L’imperatore Ludovico il Pio nell’817 in un atto relativo alle varie donazioni e alle
promesse territoriali precedenti, dispose che per le elezioni papali dovessero essere competenti solo “tutti
i Romani”, operando unanimemente “per ispirazione divina e intercessione del beato Pietro”, e senza
imporre alcuna promessa all’eligendo. L'unanimità richiesta poteva però porre problemi di contestazione,
che solo la superiore conferma imperiale avrebbe potuto sanare.
Il rispetto per i canoni non tutelava adeguatamente i Franchi, che intervennero di nuovo nella questione
nell’824 con la cosiddetta Constitutio Romana di Lotario, figlio di Ludovico e co-imperatore. Il punto è
trattato nell’ambito di un provvedimento che confermava il protettorato franco sul Papato, tanto ampio
da configurare l’imperatore come garante dell’obbedienza dovuta dai sudditi al papa e a quanto disposto
dai giudici, che dovevano rispondere della loro attività e della regolarità canonica dell’elezione. L’eletto
prima della consacrazione doveva, alla presenza di un messo imperiale e del popolo, giurare fedeltà al
potere laico -Ludovico e Lotario.
I dotti di corte esaminarono analiticamente nei Libri carolini la questione dell’iconoclastia ed elaborarono
un’argomentata presa di posizione per intervenire nelle infinite questioni che una struttura ecclesiastica
ancora priva di un ordinamento centralizzato faceva emergere. Il Concilio di Francoforte del 794 aveva
ribadito i dogmi della fede cattolica in merito al culto delle immagini. Lo stesso Carlo incaricò Alcuino di
riesaminare la Bibbia, e Paolo Diacono di redigere un nuovo omeliario da estendere a tutti i regni
dell’impero.

4. La normativa carolingia: capitula e capitularia


Le costituzioni emanate dai Pipinidi, divenuti Carolingi per la personalità del grande Carlo, presero il
nome di capitula o più spesso di capituiaria. L’uso di questa terminologia assume un valore di notevole
rilievo. Durante il regno dei Merovingi, infatti, si era mantenuto il lessico di derivazione romana adot-
tando ancora le consolidate espressioni di edictum, decretum, praeceptio o praeceptum. La diversità delle
formule carolinge non implica una divergenza sostanziale dalle precedenti disposizioni; se mai la
dissonanza mette in evidenza una componente ‘politica’ ben precisa. Era, infatti, prerogativa della Chiesa
riferirsi ai capitula (o anche canones) per definire le disposizioni emanante dai concili: l’adozione del
termine in ambito laico esprime la volontà di assimilarsi ai concili, che promulgavano norme che
vincolavano tutti i fedeli del territorio interessato. La produzione legislativa carolingia si assimila a quella
categoria forse per aspirare alla stessa vincolatività e legittimità.
Capituiare indica una serie di singoli capitula pubblicati in un unico testo. E i capituiaria si distinguono
secondo i contenuti, per cui si parla: di capituiaria specialia, cioè quelli disponenti in relazione a
specifiche contingenze locali e, quindi, di ‘diritto singolare’, di contro ai generalia, rivolti a tutto l’impero;
di capituiaria ecclesiastica, per quelli che accoglievano normative sulle chiese, sui monasteri e sul clero, e
di capituiaria mundana per quelli riferibili solo a questioni temporali, riguardanti i laici; di capituiaria
missorum, per quelli con direttive specifiche per i missi dominici, i funzionari di governo che venivano
inviati in rappresentanza del sovrano con compiti di giurisdizione e controllo; di capituiaria le gibus
addita o addenda per designare quelli che modificavano e aggiornavano le antiche leges popolari. Non
stupirà allora che Carlo, dopo tanto tempo legislatore d’eccezione rispetto ai sovrani precedenti, sia stato
qualificato ‘novello Giustiniano’. La sua produzione normativa non poteva tardare ad essere raccolta. Ci
pensò Ansegiso, abate presso il monastero di Fontanelle, che collezionò tra l’826 e l’827 i capitolari di
Carlo Magno e di Ludovico il Pio. Dei quattro libri che derivarono dalla raccolta, due riguardavano la
materia temporale e due erano di contenuto ecclesiastico.
Per l’Italia, importantissima è la raccolta che va sotto il nome di Capitulare Italicum, perché raccoglie tutti
i capitolari che ebbero vigore in Italia, generali o particolari. Esso compare nei manoscritti come
appendice all'Editto longobardo, perché appare come la prosecuzione di quella normativa per il Regno
longobardo. La raccolta fu realizzata da privati, e ad essa si aggiunsero poi testi imperiali non carolingi
emessi fino a metà del secolo XI in quanto ritenuti pur sempre facenti parte della normativa generale per
il Regno.

5. Tipologia dei capitolari


I capitularia ecclesiastica sono molto significativi dell’alta protezione che Carlo e i suoi successori
pretendevano sulla Chiesa: sono diritto dello Stato sulle faccende ecclesiastiche, quindi corrispondono
esattamente alla nozione attuale di Diritto ecclesiastico (opposto al Diritto canonico, come diritto prodotto
autonomamente dalla Chiesa). Ma essi non erano decisi, unilateralmente: i capituiaria per lo più
venivano emanati all’interno di diete (assemblee di notabili, laici ed ecclesiastici) richieste dallo stesso
clero, anch’esso coinvolto nell’ambiziosa ‘riforma’ carolingia. Questi capitolari tentarono di imporre una
disciplina unitaria ai fedeli, allora ancora governati da un’infinità di disposizioni conciliari locali o da con-
suetudini di dubbia conformità all’insegnamento cristiano. Contro la frammentazione localistica che si
era manifestata con la fioritura di abbazie sottoposte a regole diversissime, in base all’arbitrio dei
fondatori laici, essi prescrissero l’adozione generalizzata della Regula benedettina; riformarono
unitariamente la liturgia; favorirono il coordinamento dei metropoliti (vescovi a capo delle chiese
regionali); l’istruzione e la vita comune del clero; il pagamento delle decime; il latino dei chierici, il
calendario.
Per quanto attiene ai capitularia mundana, sono tutti quelli non attinenti a materie ecclesiastiche.
Diversissimi, quindi, nei contenuti. Da quelli che tentarono di ricostituire sedi per l’insegnamento
qualificato di varie discipline, a quelli de villis, con disposizioni di grandissimo interesse per la storia
economica e dell’amministrazione attinenti all’amministrazione delle grandi proprietà pubbliche. L’altra
categoria importante è quella dei capitularía legibus addenda, che intervenivano a modernizzare le
antiche leggi ‘popolari’. Questa riforma richiedeva il consenso di qualificati esponenti dei ‘popoli’ cui i
capitoli erano destinati. Non sorprende dunque la presenza degli scabini al momento dell’approvazione di
questo tipo di capituiaria. Tecnici professionalmente qualificati, gli scabini furono l’asse portante della
riforma processuale introdotta da Carlo Magno sul finire dell’VIII secolo. Investiti dell’ufficio dal sovrano,
componevano un organo stabile di giudici locali che coadiuvavano il conte o il missus nella conduzione
del processo, consigliandolo quanto ai contenuti della sentenza.
La Personalità del diritto divenne in epoca carolingia un aspetto essenziale della variegata compagine
dell’impero. E non senza preoccupazione. Lo testimonia una lettera dell’arcivescovo di Lione,
Agobardo, inviata a Ludovico il Pio. Le molte leggi coesistenti imposero un problema di coordinamento in
caso di negozi realizzati da persone viventi a diritti diversi. La prassi ricorse sistematicamente
all’espediente di segnalare nei documenti notarili la legge che, in caso di giudizio, avrebbe dovuto essere
applicata. Si tratta delle cosiddette professiones iuris, che in epoca carolingia giunsero all’apice della loro
diffusione anche in virtù dei diffusi spostamenti ed emigrazioni di gruppi etnici diversi, favoriti dall’unità
politica ora realizzata.

6. Modalità della legislazione: il declino della dinastia carolingia


La legislazione fu un aspetto rilevante della cosiddetta ‘rinascita carolingia’.
Al tempo di Carlo Magno i capitolari furono espressione della sua volontà principesca -salvo per quelli
‘popolari’, tributari del parere di esponenti della ‘natio’ interessata. Ma per il resto la volontà
dell’imperatore non poteva essere condizionata. Il fatto che egli presentasse le nuove leggi di regola ogni
anno alle ‘diete’ di primavera, quelle assemblee di grandi dell’impero che preparavano di solito le
campagne belliche, non significa che esse ricevessero una ‘approvazione’ parlamentare, come avverrà nel
Basso Medioevo nei parlamenti cetuali. Non significava che fossero normative Pattizie. Il re presentava
le norme per farle conoscere piuttosto, perché poi non si adducesse la loro ignoranza. Ma con il decorrere
dei decenni le cose cambiarono, come cambiarono i modi di lavorare delle diete, in cui cominciarono a
imporsi come ceto gli ecclesiastici più potenti di fronte ai re sempre più deboli, fatto che dette anche
maggior spazio politico ai maggiorenti laici dell’impero, titolari di honores, com’erano dette le cariche
maggiori, da marchese a conte.
Esemplare quanto successe nelle normative sui benefici e rapporti vassallatici. Nel 779 un capitolare
aveva vietato ai potenti di costituirsi ad imitazione del re delle trustes, dei gruppi di fedeli armati
specializzati che avrebbero configurato un piccolo esercito privato al loro servizio. Ma i Carolingi opera-
rono in contraddizione con i loro fini, perché già nello stesso anno essi stessi autorizzarono vescovi e
abati a concedere terre a titolo precario (benefici) ai loro vassi. Nell’847 s’incoraggiarono addirittura tutti
i liberi a farsi vassi, con ciò incentivando i rapporti personali di fedeltà in luogo dell’astratto rapporto di
fedeltà all’imperatore o alla res publica che dir si voglia. Non era finita: nell’858 si assisté ad un
giuramento di fedeltà incrociato del re e dei ‘grandi’ dell’impero. La fedeltà era garantita, ma
condizionata dal rispetto per i poteri e le autonomie reciproche. Perciò le diete si trasformarono in sedi
di approvazione delle norme, e non più di sola pubblicazione, acquisendo un evidente profilo
‘parlamentare’.
Il capitolare di Quierzy del 877 è emblematico di questo contesto gius-politico. I suoi primi nove
articoli, infatti, vennero promulgati con una procedura che prevedeva la richiesta dell’imperatore agli
astanti e l’assenso degli stessi. Esso non sancì l’ereditarietà dei feudi, ma garantiva di fatto qualcosa di
analogo. Alla morte di un conte il cui figlio fosse impegnato in una spedizione militare, si sarebbe dovuta
formare una commissione per amministrare la sede-vacanza della sua carica (honor, non beneficium
feudale) fino al ritorno del re. In tal modo, si sarebbe venuti incontro alle aspettative di successione nella
carica del defunto entro la sua famiglia, solo sotto-intendendosi che sarebbero stati fermi anche i suoi
‘benefici’. Il re si riservava di valutare l’idoneità alla successione dell’erede.
Questa riforma fu uno strumento di coesione politico-istituzionale finché il potere centrale fu capace di
controllarne l’utilizzo. Tanto è vero che se la disgregazione del potere centrale in cui sfociò la crisi
carolingia, con la deposizione di Carlo il Grosso decretata da un’assemblea dei grandi del regno
nell’887, poté più tardi ricomporsi in Francia, ricostituendo effettivamente la monarchia, ciò fu dovuto
proprio ai legami vassallatici a favore dei re.

Capitolo IX: LE CHIESE ED IL PAPATO FRA AUTONOMIE E CONDIZIONAMENTI LAICI

1. Fra i Bizantini, Longobardi e Franchi


La crisi dell’impero e la cesura longobarda del 568/569 non alterarono la tradizionale ingerenza laica
nei confronti delle chiese e in particolare di quella principale, il Papato. Interventi gravi si erano già
verificati nel periodo goto. Uno dei successori di Teodorico, re Atalarico, ariano e conseguentemente
reputato dalla Chiesa come eretico, cercò di prevenire la corruzione elettorale disponendo una somma
massima che il proprio rappresentante a Roma avrebbe potuto richiedere in sede di arbitrato nelle
elezioni papali contestate. Più tardi, re Teodato del resto impose l’elezione di Silverio, deposto poi dai
Bizantini, che preferirono favorire Vigilio, l’uomo di fiducia della corte imperiale che noi già conosciamo.
Il fatto è che le procedure elettorali per l’elevazione al soglio pontificio, come per ogni altro vescovato,
restavano ambigue, prevedendo tradizionalmente la partecipazione del ‘populus’ e non essendo
formalizzate le carriere ecclesiastiche. Perciò la simonia, ossia la corruzione funzionale all’acquisto di
una carica che conferisse poteri e prestigio, era da tempo censurata dalle chiese e dall’impero stesso che,
con la Novella 8 di Giustiniano, condannava anche l’acquisto della carica di iudex. Ma dovette intervenire
più volte sul punto, dichiarando addirittura eretico il simoniaco, segno che le condanne a parole, formali,
servivano a poco.
Un controllo sulla correttezza delle procedure (e sul gradimento dell’eletto) l’impero bizantino lo
esercitava con la autorizzazione alla consacrazione dell’eletto, che si esercitò fino al 731. Infatti il verbale
dell’elezione, che si faceva ritualmente apparire unanime in modo da avere maggiore peso, veniva inviato
alla capitale, perché l’imperatore controllasse l’ortodossia dell’eletto e concedesse il placet.
Nel mondo longobardo, l’ingerenza laica si svolgeva con procedure non formalizzate per lo più con
interventi impliciti. La situazione muta quando Liutprando dette l’assenso all’elezione del patriarca di
Aquileia. Ma del tutto eccezionale appare l’imposizione autoritaria a Ravenna da parte di re Desiderio,
nel 769, di un laico a lui fedele.
Nel complesso nell’Italia longobarda pesò la divisione del clero cattolico provocata dallo scisma ‘tri-
capitolino’, che ripudiava l’egemonia papale e che ufficialmente si ricompose solo nel 698. Il clero in
genere nutriva una profonda diffidenza nei confronti degli ariani Longobardi che si convertirono al
cattolicesimo solo alla fine del secolo VII. La complessità del contesto generale era determinata dalla
diversa pertinenza dei vescovati: i vescovi longobardi dei ducati di Spoleto e di Benevento e di parte della
Toscana dipendevano, dal punto di vista ecclesiastico, da Roma, mentre quelli dell’Emilia longobarda da
Ravenna.
Il Papato, di conseguenza, poté esercitare con ampiezza dei propri poteri patriarcali, che gli consentirono
ad esempio di inserirsi attivamente, in qualità di arbitro, nelle elezioni contestate. A differenza di quanto
avveniva in Gallia, il clero superiore nell’VIII secolo, pur ormai profondamente longobardizzato, fu nel
complesso assai poco politicizzato, rimanendo raccolto nelle proprie competenze religiose e quindi
interessando anche meno all’autorità politica. Significativo che non si abbia notizia dello svolgimento nel
regno longobardo di quei concili ‘nazionali’ che furono invece per qualche tempo comunissimi in Gallia.
Infatti qui la laicizzazione delle nomine si evidenziò sempre più inoltrandosi nel secolo VII per la stretta
integrazione ai massimi livelli della nobiltà romana e franca e per la compenetrazione dei poteri laici ed
ecclesiastici. I vescovi, un tempo espressione della migliore società d’origine romana, divennero sempre
più espressione della composita classe dirigente non più omogenea, e soprattutto coinvolta nelle lotte
dinastiche che interessavano la monarchia merovingia.
L’episcopato in Gallia subì quindi un processo di deterioramento. Nell’incertezza di tanti conflitti, la
Chiesa franca finì per ammettere che i chierici potessero, come i laici, accomandarsi, ossia porsi sotto la
protezione di un potente. Si tratta di un caso di recupero dell’istituto tardo imperiale della commendatici
a cui si sottoponevano i deboli divenendo ‘clienti’ di un potente. La commendatio finì per designare ogni
relazione che comportasse un aiuto.

2. Situazione italiana e papale in particolare


Nelle chiese italiane del tempo questo non avveniva. Meno che mai per il Papato, da un lato sfavorito
perché sotto la costante ingerenza delle famiglie nobili del ducato romano (oltre al controllo bizantino fino
alla data indicata), ma da un altro lato esso si trovò in una posizione più favorevole e più forte di tanti
altri vescovati per sua ricchissima tradizione liturgica e di governo. Il nuovo eletto veniva a trovarsi in
una struttura culturale fortemente connotata, circondato da collaboratori di vaglia e da una rete di
collegamenti che tendevano ad indirizzarlo secondo le scelte autonomistiche generalmente adottate dai
grandi papi del passato. Non va trascurato, altresì, il valore culturale e la tradizione di tutore della
memoria ecclesiastica del Papato, scrupoloso custode di archivi, espressione della tradizionale
supremazia del suo clero.
Del resto, i conflitti con Bisanzio incentrati sulle questioni teologiche rafforzarono definitivamente
l’identità del Papato come fulcro della cristianità occidentale. Figure nobilissime di papi, come quella di
Martino I, a méta 600, seppero contrastare validamente la prepotenza e arroganza della “tirannide
imperiale”. Nel corso del primo periodo dell’iconoclastia, mentre nobili e popolani (di Roma) si univano in
una santa congiura, il papa invio all’imperatore un’epistola dai toni durissimi; il papa aspirava alla
conversione dei popoli del più lontano Occidente, promosse l’impegno missionario di Bonifacio, nominato
nel 722 “vescovo delle chiese dell’estremo Occidente” in Irlanda, investendolo del potere di consacrare
vescovi e preti. Di fronte al dissidio con la potente Bisanzio, la Chiesa apparve perseguitata, confermata
come Chiesa dei martiri.
L’alleanza con i Franchi aveva quindi salde motivazioni. Degli aspri contrasti comunque si serbò la
memoria e oltre un secolo dopo, quando l’imperatore d’Oriente Leone VI il Filosofo depose un patriarca a
suo arbitrio, si produsse lo scisma di Fozio, che tracciò un’altra frattura tra Roma e Bisanzio. Fu
provvisoriamente attenuata dal concilio di Costantinopoli (869-870), l’ultimo concilio orientale
riconosciuto come ecumenico da Roma. Venne deliberata la deposizione di Fozio e riconosciuta la validità
delle obiezioni mosse qualche anno prima dal Papato alla sua elezione. C’erano tutte le premesse per la
divisione definitiva, del 1053. Il Papato ora avrebbe dovuto per tanto tempo occuparsi dei propri
problemi interni soprattutto.

Capitolo X: LA CRISI CAROLINGIA: DAL FEUDO ALL’IMPERO OTTONI ANO (FINE SECOLO IX-
SECOLO X)

1. La consuetudini: le premesse ecclesiastiche fino all’XI secolo


La legislazione carolingia attesta il culto per la norma scritta, ma fu un fatto eccezionale. In quest’epoca
di transizione ebbe un ruolo fondamentale la consuetudine. Il diritto nel suo complesso godeva di una
specie di presunzione di giustizia: Isidoro vescovo di Siviglia aveva ricordato che “il diritto è detto così
perché giusto”.
Esso trovava la sua fonte oltreché nella legge nella consuetudine, in quel comportamento radicato nei
costumi di un popolo. Era da intendersi essa stessa legge, quando interveniva a supplire ad una sua
mancanza. Il rapporto legge-consuetudine fu (ed è) un assillo perenne per la cultura giuridica che volesse
(e vuole) rispettare la legge e al tempo stesso considerare le mutevoli necessità di governo del presente,
collettivo e individuale. La Chiesa stessa indica proprio nella tradizione consuetudinaria una delle fonti
integrative della Scrittura; essa è appunto costituita dal patrimonio di dottrine, scritte e non,
sviluppatesi nel tempo, entro la cornice delle grandi verità eterne, inattaccabili del diritto divino, in
conformità a credenze create e confermate, ma anche verificate dalla durata nel tempo; il che è la
premessa della consuetudine giuridica. La dialettica di consuetudine e legge è tipica di questa cultura
che ha un nucleo superiore di norme da rispettare ma che deve contemplare le esigenze che si
prospettano via via nel corso del tempo. I concili ecclesiastici generali e provinciali nelle loro rispettive
competenze, avevano lo scopo di fornire un’interpretazione autentica, ‘autoritativa’ ed indiscutibile delle
norme e consuetudini del patrimonio tradizionale. Dopo Isidoro, il rapporto consuetudo-lex, con il
progressivo indebolimento delle strutture pubbliche e il rarefarsi della legislazione, si era squilibrato a
favore del primo elemento. Nella crisi apertasi con l’888, divenne ‘naturale’ riferirsi alla lex e alla
consuetudo in termini scambievoli, endiadici.

2. Alle origini del problema feudale: il vassallaggio


Un altro aspetto peculiare della consuetudine può essere la struttura che gli storici hanno chiamato
‘feudale’. Il vassallaggio di questo periodo non va confuso col feudo di cui solitamente si parla, la cui
nozione corrente si è formata essenzialmente sulla base del feudo come tramandato dal sistema politico-
sociale d’età moderna o d’ancien régime, dei secoli XVI-XVIII ma con robuste radici nel Due-Trecento.
L’istituto feudale allora implicava la rinuncia da parte dello Stato al governo d’intere aree territoriali,
amministrate in via ereditaria da famiglie che le avevano ricevute in feudo per successione, o a titolo
oneroso, cioè acquistando dal principe o dal precedente possessore la titolarità del signoria, o a titolo
gratuito, come ricompensa per servizi resi o per promettere fedeltà.
Il vassallaggio carolingio non è assimilabile al feudalesimo come ‘formazione economico-sociale’, ossia
come lunga età pre-capitalistica della storia disegnata da Karl Marx sulla base della storiografia del
primo Ottocento.
C’è un forte legame personale che rimarrà, molto attenuato a volte, alla base del feudo. Non si constata
la delega dei poteri pubblici per il governo di un determinato territorio. I conti del regno longobardo-
franco erano funzionari amovibili che amministravano per conto del re le contee. I Carolingi
cercheranno sempre più di far coincidere le contee con il territorio della diocesi ecclesiastica, di più
antica costituzione; essi miravano al governo locale congiunto e armonico di conti e di vescovi.
All’interno della contea sopravvissero grandi e piccoli liberi allodieri, pieni proprietari tenuti soltanto alle
prestazioni pubbliche per sé e per i propri servi: pagamento delle decime ecclesiastiche (dal tempo di re
Pipino obbligatorie anche per legge statale), servizio militare, riparazioni di ponti, strade, edifici pubblici,
chiese comprese in virtù della equazione res sacrae = res publicae, partecipazione alle operazioni di
polizia e all’amministrazione della giustizia. Ai servizi erano tenuti in quanto uomini liberi perché di solito
esenti da vincoli di tipo vassallatico nei confronti di conti e vescovi. Questi si, invece, furono sempre più
spesso vassalli del re, cioè suoi fedeli in forza di un apposito giuramento, detto vassallatico, che investì
le massime cariche dello Stato e delle chiese e le loro rispettive clientele.
Non fu una monarchia feudale quella carolingia, ma uno Stato connotato dalla complessità dell’apparato
pubblico. Oltre ai conti e marchesi titolari di autonomi poteri militari e civili in territori ben delimitati,
altri vassalli esercitavano alte funzioni a corte o nei regni, come i duchi messi a capo di grandi
circoscrizioni comprensive di più comitati. Sono i ‘grandi’ convocati periodicamente alle diete del regno.
Il mondo franco si affermò anche grazie alle solidarietà militari dei capi, che accentuarono il rilievo dei
rapporti personali, delle fedeltà interpersonali, clientelari. Il giuramento suggellava i rapporti e suggeriva
la loro ideale intangibilità. Il governo medievale e ‘feudale’ privilegiava determinati sudditi per il loro
ravvicinato e fiduciario rapporto con la corona o con i ‘potenti’. La provata fedeltà al senior consentiva di
acquisire un honor al governo civile o ecclesiastico di un territorio. Solo la destrezza militare o le capacità
di governo, le raccomandazioni dei potenti o le dimostrazioni di saper operare nei vari ambiti,
professando obbedienza, permettevano il conseguimento della carica. Le attività di governo, pur non
perdendosi del tutto i termini e le forme della tradizione, erano svolte non per un astratto dovere d’ufficio
nei confronti di uno Stato impersonale, esistente anche indipendentemente dalla persona del sovrano,
quanto per la fedeltà giurata al proprio superior. Non c’era alcuna par condicio nella competizione
politico-sociale, né lo Stato pensava di doverla favorire. Anzi, si riproduceva il privilegio attraverso le
iniziazioni cavalleresche.
In questo contesto va distinta una prima società ‘feudale’, connotata dalla concorrenza dei vassi fedeli,
esposti anche alla destituzione da parte del senior feudale (il concedente) mediante la revoca del
beneficium (bene o diritto concesso al vassallo), e la ben diversa situazione successiva, sempre più
giuridicamente disciplinata, che conferma l’ereditarietà degli honores e dei feudi.
L’atto che segna l’avvio del ‘feudalesimo’ in senso tecnico è l’Edictum de beneficiis, o Constitutio de feudis,
emanata da Corrado II nel 1037. In forza di questo testo, i feudatari ottennero la successione nei
benefici e l’irrevocabilità della concessione salvo nei casi in cui il concessionario si macchiasse di
evidente e grave colpa nei confronti del concedente; essa peraltro doveva essere valutata da un tribunale
di ‘pari’ o dalla corte imperiale o dei suoi missi.
La carenza di un apparato di funzionari retribuiti e revocabili rendeva indispensabile creare una rete di
rapporti personali, che erano sempre più infidi data l’illicenziabilità ottenuta dai vassalli sul piano
giuridico.
Era una società di ‘ordini’, che divenne sempre più complessa e definita nel corso del Medioevo, in cui
ognuno aveva un posizione ben definita: i militari (bellatores), i chierici, e i laboratores per lo più
contadini, liberi o servi dei mansi (fattorie) a cui si aggiungeranno però, sempre più numerosi, a rompere
gli schemi, i mercatores e una variegata serie di artigiani, che segneranno la decisiva ripresa delle città
dal Mille in poi.

3. Le falsificazioni ecclesiastiche
Quando, nel corso del IX secolo, si palesò il declino della dinastia carolingia, si rese evidente anche una
crisi dell’istituzione ecclesiastica, che perdé l’originario slancio e la fiducia nell’impegno riformatore del
sovrano. Fu emblematico l’episodio della dieta di Epernay dell’846, in cui i maggiorenti laici opposero
un aspro diniego alle istanze del clero. Era finito il tempo in cui i provvedimenti regi recepivano, con i
capitolari ecclesiastici, le esigenze delle chiese. Perciò fiorirono in quest’epoca tutta una serie di falsifi-
cazioni di testi normativi che intendevano sopperire alla precedente attività legislativa regia in materia
ecclesiastica.
La Donazione di Costantino in cui compare l’imperatore Costantino che, guarito dalla lebbra grazie a
papa Silvestro, dona Roma e l’intero Occidente al papa, è soltanto il più noto di questi testi creati ex
novo; esso fu anche anticipatore perché risale -a quanto pare- a pochi anni prima dell’800 e a uno
scrittoio francese; inoltre, ebbe larga circolazione perché confluì nelle Decretali Pseudo-isidoriane e
successivamente nel Decreto di Graziano -testo universitario per antonomasia del secolo XII.
Gli ambienti ecclesiastici dunque si posero all’opera per contraffare quei capituiaria che non ottenevano
più dal potere sovrano. Alla metà del secolo IX risale la raccolta mista di originali e di falsi opera di un
certo Benedetto Levita, che derivò parte dei suoi materiali dalla precedente raccolta di Ansegiso, abate
di Fontanelle.
Le raccolte di capitolari non devono però confondersi con le raccolte specifiche di canoni circolanti. La
più famosa in età carolingia fu la Collectio Dionysio-Hadriana, espressione della volontà romana di
unificare le normative canonistiche. Ma il primato di Roma era ancora lontano, per cui nello stesso
periodo ebbe larga diffusione anche la Collectio Isydoriana o Hispana. Questa raccolta assume un rilievo
singolare perché sulla sua base si sviluppò la più consistente raccolta di falsificazioni del tempo, andata
sotto il nome di Decretali Pseudo-Isidoriane. Un insieme molto significativo di testi consapevolmente
raccolti per auspicare una riforma della Chiesa attraverso il recupero dei valori e istituti della società
cristiana delle origini. In questa prospettiva, parve naturale recuperare ed elaborare lettere papali e
norme conciliari dell’età dell’oro, come l’epoca di Papa Anacleto (79-90) o di Clemente I (90- 101). I testi
non sono il frutto di un’elaborazione completamente fasulla, perché piuttosto si accostarono in modo più
o meno arbitrario a vari testi sia ecclesiastici (da Bibbia, Padri della Chiesa, Penitenziali) sia laici
(frammenti teodosiani, capitolati e via dicendo). L’aspirazione delle Decretali è quella di ripristinare
l’autonomia e la dignità dei vescovi, confermando il privilegio del foro, le regole canoniche per le elezioni,
la consacrazione e il trasferimento dei vescovi. Così si rafforzava il primato del pontefice romano, visto
come garante dell’autonomia ecclesiastica.

4. Il recupero del diritto romano


La rinascita carolingia comportò anche un parziale recupero del diritto romano, specie giustinianeo,
verificabile soprattutto in ambito ecclesiastico. Lo si vede bene da un’opera realizzata nel corso del IX
secolo, selezionando brani dalle Novelle giustinianee, dal Codice e dalle Istituzioni. Da officine culturali
ecclesiastiche, tradizionalmente custodi della normativa giustinianea, originò così la Lex Romana
canonice compta. La Lex ebbe una larghissima diffusione, tanto da perdurare per secoli come exemplum
per i notai. L’ignoto estensore dell’opera denota una certa competenza tecnico-giuridica nel predisporre il
materiale utilizzato secondo un ordine sistematico. Il materiale della Lex confluirà in parte in una più
tarda raccolta di diritto canonico, la Collectio Anseimo dedicata, opera che prende il nome dal suo
dedicatario, Anseimo arcivescovo di Milano (883-896). Il contenuto della Collectio è essenzialmente di
diritto canonico, è distribuito in dodici libri e comprende canoni e decretali e 238 capitoli della Lex
Romana. Si può supporre che si tratti della Lex Romana canonice compta, ma alcune divergenze hanno
indotto a presumere che entrambe le compilazioni derivino da un testo comune: forse potrebbe essere
stata redatta un’antologia di diritto romano dal titolo, per l’appunto, di Lex Romana.

5. La prassi notarile
Fondamentale è recuperare il mondo della pratica notarile e giudiziaria che, con le sue di testimonianze
scritte non solo attesta ancora una volta la civiltà della scrittura, ma tramanda una documentazione
preziosa per comprendere il ‘diritto vivente’, che attesta il processo evolutivo cui furono sottoposti istituti
giuridici e formule processuali.
La tendenza a documentare un negozio giuridico per scritto aveva già fatto capolino nel diritto
longobardo (Rotavi), laddove raccomandava la scrittura “propter futuri temporis memoriam”,
naturalmente riservata agli atti più importanti e quindi, oltre a quelli legislativi e giudiziari, ai negozi
giuridici dei privati i cui effetti si protraessero nel tempo: sentenze immobiliari, doti, contratti agrari di
lunga durata. Erano previste a livello normativo delle norme che a titolo cautelare istituivano archivi per
la conservazione ufficiale delle memorie scritte.
La scrittura, talora designata per i contratti convenientia (o stantia, cioè accorcio), era un munimen, un
baluardo a difesa del negozio, che doveva assicurare la firmitas dell’atto pubblico o privato, la sua durata
ed inattaccabilità. La prova dell’avvenuto negozio, per i contratti relativi a beni immobili, si poteva
ottenere anche per mezzo di testimoni. La diffusione del fenomeno delle falsificazioni rendeva il
documento oggetto di diffidenza: era necessario che fosse corroborato da testimoni. In questi secoli sono
frequenti poi atti (conservati quasi esclusivamente dagli archivi ecclesiastici) con cui le più alte autorità
‘confermavano’ le proprietà o i diritti già posseduti per sanare eventuali nullità dei documenti anteriori.
Avere una ratifica dal nuovo imperatore o papa rafforzava quel che si poteva prima pretendere solo in
virtù di vecchi titoli. Lo stesso senso assumono le frequenti attestazioni di proprietà, registrate dai notai
con la formula “et canonico ordine et legibus” (“in base alle leggi e ai canoni”).
Le scritture notarili del tempo erano redatte secondo dei “formulari” ossia delle raccolte di modelli
stereotipi risalenti anche all’epoca romana o predisposti più recentemente, specifici per il diritto
longobardo. Il diritto tendenzialmente unificato romano-canonico applicato con una certa larghezza nelle
aree intermedie, sembra aver avuto una fortuna assai diversificata, da porsi in relazione alle varie realtà
giuridiche territoriali.
Intorno ai formulari tardo-antichi sopravvissuti in età longobarda e carolingia si concentrarono gli sforzi
di unificazione del secolo X. Ma l’unico formulario ‘recente’ (forse del 1000) pervenutoci ebbe una
formazione complessa e rispecchiò la pluralità dei diritti vigenti e compresenti all’epoca più che un
tentativo di unificazione: la ‘formula’ della vendita ad es. illustra la traditio nella forma romana,
longobarda, salica alamanna e bavara.
I documenti presentano forme negoziali che attestano chiaramente la ‘volgarizzazione’ cui il diritto
ufficiale stava andando incontro, realizzando anche forme singolari di confluenza di diritti in origine così
diversi.

6. Contratti agrari
Sotto questo aspetto i contratti relativi ai beni immobili, dominanti in una società ormai pressoché
esclusivamente agraria, forniscono dati importanti per comprendere la commistione cui gli istituti furono
sottoposti. Il diffusissimo livello, l’enfiteusi o la precària, negli atti presentano caratteristiche a volte
similari, segno evidente che gli stessi notai non erano più in grado di distinguere i contenuti dei diversi
contratti. Già presente nel Codice teodosiano, il livello viene successivamente disciplinato nel diritto
longobardo, che stabilì una sorta di responsabilità del proprietario per le azioni delittuose commesse dal
livellario, facendo supporre che i livellari fossero posti in una forma di dipendenza personale nei
confronti del concedente. Non a caso il livello era talora ‘concesso’ dopo una petitio, ossia una richiesta
rispettosa del contadino disposto ad assoggettarsi alle regole del tempo: il livellario corrispondeva al
concedente una cifra esigua, ma poteva essere obbligato a risiedere nel fondo -come avveniva per i servi.
Questa situazione comportava una sottomissione del livellano al tribunale del signore ufficiale, anche
solo in forza del contratto. In generale la tendenza era a fondere i linguaggi agrari entro la nuova cornice
feudale.
Il termine lex rendeva, per il peso della tradizione, l’idea dell’obbligazione vera e propria quale era quella
assunta dal concessionario coltivatore. Ragion per cui anche le obbligazioni vere e proprie di derivazione
contrattuale, assunte verbalmente per evitare la redazione scritta che comportava prevedibili spese o uno
scriptor difficile da trovare, col tempo si avvertivano come dettate più da una consuetudine locale che
non dal contratto verbale stipulato: dal rapporto stesso con la ‘cosa’.
La relazione padrone-coltivatore aveva contenuti localmente determinati, tanto forti da imporsi alla
volontà delle parti e da sembrare scaturenti dai fatti e dalle azioni, come ogni rapporto che finisce per
apparire conforme alla ‘natura’, immutabile, tradizionale. Ma la rappresentazione di un fenomeno non
ne può nascondere la vera essenza. Nella detenzione dei beni nominata giuridicamente possessio dal
diritto romano e investitura da quello alto-medievale, può non sussistere distinzione dal punto di vista
della qualificazione formale, giuridica, tra il piccolo contadino all’interno del grande dominio curtense e il
grande enfiteuta o ‘livellario’ che gode di una concessione di favore (beneficium) su terre di una chiesa:
entrambi hanno un possesso tutelato del bene, quello che si chiamerà dominium utile del fondo. Peró che
la posizione socio-economica dei due detentori è ben diversa. Anche gli illustri e potenti signori
ottenevano terre in concessione, e in larghe estensioni soprattutto quando erano ecclesiastiche o fiscali,
e nessuna ambigua categoria giuridica -come il livello, l’enfiteusi e la locatio ad longum tempus- può
obliterare la sostanza dei fatti. In questi secoli “chi dà la terra vuole l’uomo, e l’uomo si dà per avere la
terra”.
Il nesso di relazione intercorrente fra l’investitura ed il mondo fondiario finì per designare in Lombardia
un contratto agrario in senso stretto, realizzato tipicamente con la consegna simbolica al concessionario
di un lignum da parte del concedente. Fu adottato dalla Chiesa per connotare il conferimento di dignità,
di poteri, di diritti. La Chiesa recepì infatti dal diritto bizantino l’istituto del possesso di diritti
(possessio iuris), dal quale deriva l’uso dell’investitura anche all’interno dell’apparato pubblico, perché il
beneficium era connesso ad un honor. In questo caso l’investitura richiedeva una ritualità espressa da un
gesto simbolico che indicava il passaggio del potere: la consegna di un ramoscello, di una zolla di terra,
di una pergamena, o addirittura di un guanto.
Rilievo centrale assumono le disposizioni a favore delle chiese, sia per mezzo di testamento, atto
dispositivo post mortem tipico del mondo romano, sia mediante le donationes pro anima, con efficacia
immediata, o col ‘legato’ testamentario, cioè il lascito specifico disposto nel testamento con efficacia post
mortem. I donanti frequentemente si riservavano l’usufrutto dei beni donati, ma si riscontra la tendenza
a fare donazioni a sé, irrevocabili e prive dei corrispettivi usuali, come il launegild richiesto dal diritto
longobardo. La riserva d’usufrutto consentiva di rimanere in possesso del bene e di goderne i frutti e al
tempo stesso fruire della protezione legale e materiale accordata dall’ente destinatario della donazione.
Ricorre anche la simulazione di determinati atti per non incorrere nelle crescenti proibizioni della Chiesa.
In particolare questo vale per l’‘usura’, che era intesa come ogni interesse pattuito per un mutuo. Per
aggirare il divieto si ricorreva già allora a negozi simulati che nascondevano la realtà del prestito: alle
confessioni di debito superiori all’importo riscosso, oppure alle vendite con patto di riscatto.

7. I nuovi fermenti durante la crisi del sacro romano impero


Dopo la deposizione di Carlo il Grosso, per l’Europa si apre un periodo di intensa ristrutturazione.
‘Spontanea’, non programmata dall’alto secondo un disegno razionale. La crisi della monarchia,
screditata come potere incapace di proteggere il territorio carolingio dalle incursioni vichinghe e ungare,
conduce in molte ampie aree europee alla costituzione di ‘principati feudali’. Questa è la loro
designazione del tutto generica, perché questi organismi ebbero in realtà una ricca articolazione interna,
con territori governati da vassi del princeps. Gli stessi re, cui i principi sarebbero stati legati
vassallaticamente governavano effettivamente solo le terre da essi direttamente dipendenti:
amministravano il territorio in quanto principi di vassalli propri, diretti, non in quanto re. Re e principi
proseguono quindi, nel secolo X, l’esperienza carolingia in tono minore in un ambito ben più limitato,
senza le grandi aspirazioni di Carlo Magno e dei suoi successori. In questo modo i principati, che già
ricalcavano regioni con una propria generica individualità, si confermarono, in Francia come in
Germania, nella loro ‘autonomia’.
I Normanni, ad esempio, che si insediarono nella regione del Nord che da essi prende il nome, e il cui
capo, Rollone, si dichiarò vassallo del re di Francia per acquisire il titolo di duca (911), ossia per
ottenere un honor, una carica legittima per il governo dell’area da far valere nei rapporti con il re e con gli
altri principi. Lo stesso avvenne in Germania, dove si andò consolidando un Regno ‘teutonico’
definitivamente separato dalla Francia occidentalis, quando il duca Enrico di Sassonia emerse tra i
vari principi grazie alle sue vittorie militari. Il titolo di re che seppe meritarsi sul campo di battaglia, si
trasmetterà, nel 936, al figlio Ottone, che darà vita alla dinastia sassone, con relativa traslazione della
corona imperiale dai Franchi ai Sassoni con il consenso del ‘grandi’.
La crisi a volte enfatizzata dalla storiografia, che parla di età di ‘anarchia post-carolingia’, è certo crisi del
quadro unitario, ma non una crisi generale delle strutture pubbliche. Vi fu un ridimensionamento, una
ristrutturazione in un ambito generale di “vasto policentrismo di autonomie”. Tanto è vero che solo in
questo periodo si raggiunge una conquista durevole: l’indivisibilità del Regno. L’elemento
dell’indissolubilità era stato rispettato dai Longobardi in Italia grazie al loro inserimento in un’area di
fortissima cultura giuridico-istituzionale romana e alla rinuncia prolungata a voler ritenere dipendenti da
Pavia territori in realtà non controllabili.
Ci fu una continuità culturale e non solo con i regni post-carolingi, come ci fu con le terre bizantine, ad
esclusione delle zone invase dai musulmani. La minaccia musulmana (trionfò in Sicilia) diminuì le
probabilità di un intervento militare in Italia da parte dell’impero d’Oriente, e fece sì che anche per
queste aree si realizzasse una sorta di sfaldamento del quadro di riferimento imperiale, e di conseguenza
si avviasse un’espansione dei poteri locali.
In Italia, si verificò meno che mai una cesura netta, perché il Paese rimase pur sempre una terra ricca.
Non vi è uno spartiacque che separi in modo rigoroso le istituzioni di epoca successive come funzionanti
le prime e in crisi profonda le altre, dell’epoca a volte definita dell'anarchia feudale.
Altro elemento nuovo, poi, fu il rafforzamento nelle città del potere pubblico dei vescovi, anche per la
crescente assenza di conti e marchesi, che si andavano sempre più rinforzando nei loro castelli nelle
campagne. Con la conseguenza, dato che il potere vescovile non poteva dinastizzarsi, di promuovere
l’ascesa di poteri laici nuovi, espressione dell’aristocrazia locale tradizionalmente titolare di honores, ed
intenta ad un consolidamento signorile nelle campagne. L’emersione graduale di questi poteri locali
segna la fase cosiddetta pre-comunatè nelle città.
Il regno diveniva e rimaneva ‘centro di coordinamento irregolare’. Restava al sovrano la carica di capo
temporale dello Stato, che conferiva un maggior potere in termini di supremazia sacrale sulle chiese.
Il monarca interferiva duramente nelle elezioni vescovili e nei confronti del singolo vescovo aveva
fondate pretese all’obbedienza, sia perché questo era sentito come un Funzionario pubblico e/o un suo
vassallo, sia perché era specificamente un suo vescovo.
È errato ritenere che i vescovi acquisissero poteri pubblici solo quando anche il Regno d’Italia nel 951
passò per diritto di conquista ad Ottone I già re di Germania e ora anche d’Italia sposando Adelaide, la
vedova di Lotario re d’Italia. Ma non fu questione di successione o di elezione. Ottone operò a favore dei
vescovi solo in Germania, dove aveva da fronteggiare una poderosa nobiltà laica. In Italia ebbe problemi
opposti, come dimostra ad esempio l’ampiezza del potere politico accumulato da Guido, potentissimo
vescovo di Modena ed abate di Nonantola.
Il Papato, reso incapace di esercitare un ruolo europeo, subì un ridimensionamento regionale, e finì in
questo periodo dominato dall’aristocrazia locale. Erano i decenni del Regno italico cosiddetto
indipendente, che non consentiva interventi degli imperatori, cui pure era stato confermato un ruolo
nell’elezione papale in una sinodo romana dell’898. Allora si era stabilito che l’elezione papale, in base
alla proposta dei vescovi suburbicari e del clero romano, spettasse al Senato e al popolo, ai laici
quindi, con la presenza, laica e influente, di legati imperiali.
La concreta presenza imperiale in Italia si tradusse in realtà nel 962, quando Ottone, re di Germania e
d’Italia, fu incoronato a Roma dallo stesso figlio di Alberico: il Sacro Romano Impero spostava il suo
cuore dalla Francia alla Germania. La cristianità continuava ad avere i suoi punti di riferimento teorici
ormai usuali, Papato e Impero.
In questo frangente, ad esempio, l’imperatore confermò con il privilegio o patto detto appunto ottoniano
le donazioni alla chiesa romana Pipino e di Carlo e la costituzione di Lotario dell’824 che sanciva
l’obbligo del neo-eletto di giurare, prima della consacrazione, fedeltà all’imperatore che si riservava la
conferma; inoltre conservava una sorta di supervisione sul governo pontificio mediante gli annuali
rendiconti sull’operato dei duchi e dei giudici, il potere laico operava per risollevare le sorti del Papato,
mai sceso tanto in basso.
L’imperatore ebbe modo di far valere assai presto i suoi poteri, perché un papa fu deposto e sostituito a
seguito di una sinodo in san Pietro; in quella occasione si violò il principio della non giudicabilità del
papa.
Le trasformazioni post-carolinge si rifletterono pesantemente nel mondo del diritto.
Un nutrito complesso di norme, emanate in una dieta veronese del 967 rimise in vigore l’uso del duello
e lo estese a tutti i soggetti, compresi quelli appartenenti alla natio romana. Alla prova giudiziaria
erano rimessi tutti i casi relativi alle controversie sui beni immobili. La norma fu confermata anche per i
beni delle chiese, che dovevano affidarsi ad un advocatus per sostenere le proprie ragioni, e per le
contese relative alle somme date in deposito, o le prove per accertare l’autore di un furto. Lo stesso
Ottone pochi anni dopo, tuttavia, creò i presupposti per una rinascita della tradizione romana quando
sancì le nozze del proprio figlio, -Ottone II, con una principessa bizantina. La formazione culturale poi di
Ottone III, suo figlio, fu di impronta orientale e fortemente sensibilizzata dall’ideale dell’antica Roma,
tanto da variare il suo titolo di Augusto per adottare quello di Caesar Augustus, Romanorum Imperator.
Mutamento di titolo, ma di non poco valore, considerando le mistiche inclinazioni del sovrano per il
restauro della dignità dell’antica Roma, per la primigenia potenza dell’impero e per la solennità del diritto
romano.
La renovatio Imperii esigeva in primo luogo il recupero dell’auctoritas imperiale. Si vennero determinando
quindi i primi provvedimenti ottomani volti alla restaurazione della supremazia imperiale, come la
rivendica delle regalie.
Il sovrano reclamò i propri diritti su tutti i beni della corona sui feudi maggiori, sull’investitura, sul
controllo degli ufficiali e magistrati, sul conio della moneta e sulla riscossione delle imposte.
Ma la politica accentratrice di Ottone III era fatalmente votata ad entrare in conflitto con le nuove
aspirazioni autonomistiche e assolutiste della Chiesa. E fu il tempo della libertas Ecclesiae.

Capitolo XI: CONTRO IL CESARO PAPISMO: LA RIFORMA GREGORIANA

1. Da Cluny la riscossa
La tendenza cesaro-papista rinnovata dagli Ottoni non poteva scontrarsi più nettamente con l’ideale di
una società ordinata per l’affermazione dei valori cristiani. Il monachesimo ancora una volta svolse un
ruolo decisivo nel precisare la fondamentale contrapposizione. Paradossalmente, la controffensiva prese
avvio da un grande monastero, Cluny, fondato, all’inizio del secolo X, da Guglielmo duca di Aquitania e
conte di Macon, di cui ci è pervenuta la carta di fondazione. Nel documento i beni furono concessi non al
monastero, ma “agli apostoli Pietro e Paolo”, vale a dire alla chiesa di Roma, che diveniva la tutrice del
patrimonio essendone la diretta proprietaria.
Da Cluny trasse origine il messaggio riformatore che si concentrò sulla rivendicazione dell’autonomia
delle istituzioni ecclesiastiche. In primo luogo, il monastero doveva essere esente dall’autorità vescovile
locale e sottoposto esclusivamente al Papato. Già nell’atto di fondazione si dichiarava che i monaci “non
saranno soggetti al giogo di nessun potere terreno, neppure al nostro, né a quello dei nostri congiunti, né
a quello della regia maestà”, e si dichiarava esplicitamente che neppure il papa avrebbe potuto
impadronirsi dei suoi beni.
Il monastero si configurò come la sede centrale d’un movimento più ampio, che tese a superare la
tradizionale propensione atomistica dei monasteri benedettini. A Cluny, infatti, giurarono via via
obbedienza altri cenobi riformati, che ponevano al centro del loro impegno l’applicazione della regula pura
di san Benedetto, che comportava l’elezione interna dell’abate da parte dei soli monaci, escludendo, così
le ingerenze laiche.
Il primo abate, Bernone, dette prova di voler operare senza influssi laici, riformando monasteri e
divenendo abate di più istituti. Cluny approdò con una propria sua sede a Roma a metà del secolo e a
Pavia fonda la prima comunità nel 967. La riforma fu favorita dagli arcivescovi di Magonza, Colonia e
Salisburgo, ma anche dall’imperatore Ottone.
Fu sempre Cluny a teorizzare la figura del santo cavaliere, che impugna e usa la spada per fini santi, e
ad esaltare quindi la figura del miles, membro d’una militia che operava per gli stessi valori del monaco.
Il monastero ebbe anche un ruolo importante nel promuovere le ‘paci di Dio’, un movimento originato
dapprima nella Francia del sud ad opera di vescovi e di principi territoriali per contenere le violenze dei
cavalieri, quei milites che una volta cristianizzati sarebbero stati utilmente impegnati nelle buone opere
quotidiane.
Un esempio è offerto dal testo del giuramento predisposto dal vescovo di Beauvais intorno al 1025, in cui
tra i mille divieti erano compresi quelli di non distruggere i mulini e di non rubare il grano, a meno che
non si trattasse di una cavalcata o di una spedizione militare pubblica; di non uccidere il bestiame del
contadino se non per nutrimento personale, scorta compresa; di non attaccare le donne nobili e il loro
corteo in assenza del marito.
Il movimento cluniacense costituì la replica alla temporalizzazione della Chiesa, ma fu una
contromisura così forte da aprire una frattura insanabile fra gli apparati di potere del tempo, anche
quelli ecclesiastici, tenuto conto di quanto si è anticipato sulla coesistenza tanto nella struttura
dell’impero che dentro quella delle chiese di elementi rispettivamente ecclesiastici e temporali. Le coin-
cidenze giocarono un ruolo importante e inatteso. Si ebbe un esito imprevedibile per la concomitanza di
due fatti lontani ma omogenei nel significato.
Da un lato si reclamava un apparato monastico immune dagli interventi laici anche oltre il proprio
ambito; dall’altro, agli inizi del sec. XI, assursero al seggio papale pontefici di alto profilo, non romani,
spesso già monaci e stranieri, consci della superiore funzione loro conferita da Dio. Paradossalmente,
tenuto conto di quanto avverrà poi, questi papi ‘buoni’ furono persino scelti dagli stessi imperatori,
preoccupati del prestigio della ‘propria’ chiesa.
La commistione fra lo spirituale e il temporale, cui si era abituati, aveva permeato la cultura del tempo al
punto che non era neppure concepibile una soluzione dualistica di tipo gelasiano, che dipanasse
l’intreccio creatosi, assegnando il potere temporale all’impero e riservando quello spirituale al Papato e
alle chiese. Si esasperarono invece gli intenti già emersi nella cultura ecclesiastica; ad esempio nelle
diffuse Decretali Pseudo-isidoriane, anche per aver accolta la Donazione di Costantino, in cui veniva
sottolineata l’autonomia dei vescovi dai propri metropoliti e dai sinodi provinciali, per garantire loro
una sfera indenne dai potenti laici, e si rivendicava il ruolo di supremo garante al papa, signore del
mondo, caput totius orbis.
Al pontefice venne riservato il diritto di convocare e confermare i deliberati dei sinodi; a lui vennero
riservate la cause più importanti cosiddette maiores; le sue pronunce (decreti) erano superiori allo stesso
diritto statale quando questo fosse in contrasto con quelle. L’opera cominciò a circolare maggiormente
proprio nel secolo X, e seppe venire incontro ad un bisogno profondo della riforma cluniacense. Solo nel
XV secolo si comincerà a mettere in discussione la veridicità di alcuni testi in essa contenuti, a
cominciare dalla Donazione di Costantino.

2. Gregorio VII e la morte della consuetudine (cattiva)


Così saldamente fondata, l’avventura autonomistica di Cluny indusse ad un mutamento radicale, ben
sintetizzato dal manifesto di papa Gregorio VII (1073-85), noto come Dictatus papae (un foglio la cui
natura è incerta). Gregorio fu l’eminenza grigia del Papato già da metà secolo, grazie alla carica di
arcidiacono; infatti il diploma papale di privilegio concesso a Cluny nel 1049, rese esplicito il nuovo stile
riformatore della curia Romana:
Gregorio è il papa che ha dato il nome al movimento, ma la riforma era ben presente già in papa
precedenti, come Leone IX (1049-54), operante avendo Gregorio tra i suoi consulenti.
Il Diectatus si compone di 27 proposizioni che affermano principi assolutamente in contrasto con la
costituzione sia della Chiesa sia dell’impero. Sinteticamente, vi si trovano rivoluzionarie affermazioni di
questo tipo:
a) solo il papa può deporre, trasferire e ‘riconciliare’ i vescovi, anche senza apposito sinodo, e può
deporre anche gli assenti;
b) a lui solo è permesso di emanare nuove leggi, formare nuove comunità, trasformare una canonica in
abbazia e così via;
c) chi sarà stato da lui ordinato potrà presiedere ad una chiesa, ma non essere vassallo, né gli sarà
permesso di accettare una carica più elevata da un altro vescovo;
d) solo il papa potrà servirsi delle insegne imperiali e potrà deporre gli imperatori, mentre tutti i principi
baceranno il suo piede;
e) nessun sinodo potrà essere detto ‘generale’ senza il suo assenso;
f) le sue sentenze non potevano essere respinte ed egli solo poteva respingere le decisioni di tutti senza
poter essere giudicato;
g) non potrà essere considerato ‘cattolico’ chi non fosse in accordo con la Chiesa romana; questa non
aveva mai sbagliato e, secondo le Scritture, non avrebbe sbagliato mai in futuro. Il suo vescovo era stato
reso santo per i meriti di Pietro.
Contro la tradizione secondo la quale non si conferiva la santità ai vivi -quanto meno dal 993, se non
dopo un’apposita procedura, il processo di canonizzazione-, qui si affermava la santità come conseguenza
dell’ufficio ricoperto, che viene così separato dalla persona fisica, che per parte sua poteva essere, come
spesso fu, di qualità morali modeste o anche pessime. Ciò però non inficiava l’ufficio papale. Con il
Dictatus si configurò la teoria, ripresa nel Decreto di Graziano (1140), dell’infallibilità del pontefice
indipendentemente dai suoi pregi personali.
Si trattava di affermazioni gravi, tali da suscitare scalpore persino tra i prelati, anche perché seguite nei
fatti quotidiani dal contegno autoritario del papa. Gregorio finì per essere ripudiato dai suoi stessi
cardinali e morì nel 1085 infuna sorta di prigionia da parte dei Normanni a Salerno. Dal suo isolamento
e dalla sua reclusione avrebbe pronunciato le famose parole: “Ho prediletto la giustizia e odiato l’iniquità:
perciò muoio in esilio”.
Un sovvertimento dell’ordine previgente era avvenuto, anche se più sul piano mentale, culturale, che
nella realtà effettiva. Con quelle richieste si pretese di invertire completamente l’ambizione dei laici di
ergersi a tutori del Papato e delle chiese. Gregorio poneva il Papato al centro della cristianità, come
autorità suprema, anche nei confronti dei poteri vescovili. Contrariamente alla tradizione, nel disegno
gregoriano i vescovi potevano assurgere al soglio di S. Pietro, e sotto questo profilo divenne definitivo il
conflitto apertosi nel 1054 con il patriarca d’Oriente, con lo scisma (detto ‘grande’) di Michele
Cerulario.
Da potere subalterno il Papato diveniva potere egemone in una duplice direzione: nei confronti dei laici,
che non avrebbero più dovuto interferire nella vita di chiese ed abbazie, e nei confronti dei vescovi, cioè
dello stesso apparato tradizionale della Chiesa, la cui struttura episcopale e sinodale veniva fortemente
ridimensionata nella sua autonomia. E la pretesa disciplina gregoriana si estendeva oltre i confini
dell’Impero in Francia, in Spagna e in Inghilterra, dato che il Papato operava universalmente.
In Francia, grazie a papa Urbano II (francese), dal 1098 re Filippo e gli altri grandi rinunciarono
all’investitura con l’anello e il pastorale, ritenuti simboli spirituali, ma conservarono il diritto di
permettere ed approvare le elezioni, e di investire l’eletto dopo la prestazione del giuramento di
fedeltà. Lo stesso papa dovette ospitare l’arcivescovo di Canterbury fuggito per le persecuzioni del
successore di Guglielmo il Conquistatore. Nel 1105 in Inghilterra re Enrico I rinunciò anch’egli ad anello
e pastorale, pur pretendendo un giuramento di fedeltà dall’arcivescovo. Il papa tollerò.
Nell’Impero i vescovi da funzionari imperiali sarebbero divenuti funzionari di un Papato che acquisiva un
più ampio raggio d’azione. Si completava l’assimilazione del papa alla figura di un sovrano temporale
atipico.
Già nel sec. IX la sede apostolica era denominata palatium e il papa indossava un mantello rosso
cavalcando per Roma su un cavallo bianco. Con Gregorio VII viene istituito un cancelliere che si occupa
degli affari della Chiesa, ed i messi cominciarono a chiamarsi legati come quelli imperiali, e venivano
inviati con poteri ampli in tutta Europa.
Quale che fosse la sua natura e il suo intento concreto, il Dictatus ha formule chiaramente eversive
rispetto a un ordine giuridico preesistente fondato sulla ‘consuetudine’ del primato laico, ma non rispetto
alla ‘tradizione’ genuina che è quella che i gregoriani vogliono riaffermare. Contro le chiese locali sotto
l’egemonia laica, contro le cattive consuetudini del clero chiamato simoniaco e concubinario, i riformatori
rimarcavano la funzione della legislazione alla luce d’un altro principio fondamentale di cui anche i laici
si avvarranno: la libertas. Questo principio avrebbe comportato anche, e entro poco tempo, libertà:
a) dei Comuni dal giogo imperiale (la loro lotta in Italia fu chiusa con la pace di Costanza del 1183);
b) dei ceti e delle comunità dal re, stimolando alla istituzionalizzazione dei ‘parlamenti’ (assemblee
rappresentative) dei ceti: nobiltà, clero, città;
c) in genere dai signori, con le chartae libertatum, strappate ovunque in Europa tra XI e XIII secolo, in
molte circostanze, da città, castelli e comunità ai loro poteri superiori.
In una lettera inviata da Gregorio VII al vescovo d’Aversa, il papa riferendosi ai testi antichi dal Vangelo
di Giovanni in poi, sostenne che nessuna consuetudine poteva contrastare con la veritas; in tal caso
doveva essere eliminata.

3. Il diritto canonico pre-grazianeo


La riforma della Chiesa passò quindi, inizialmente e paradossalmente, per una solida Chiesa di Stato. Lo
dimostra il fortunatissimo Decretum (1008- 1021) di Burcardo vescovo di Worms, una raccolta
canonistica di alto livello ordinata in ordine non più cronologico ma sistematico, e che richiese un
delicato riordino per materia dei testi utilizzati. Essa recepiva gran parte delle Decretali pseudo-isidoriane
ed era tutta incentrata sui poteri dei vescovi; quindi era tendenzialmente contraria a ogni potere
centralistico -papale compreso.
La raccolta è ancora conservata in ben 80 manoscritti che danno un’idea immediata dell’accoglienza
favorevole che essa incontrò in Europa: colmava una lacuna dando a ogni ecclesiastico una guida sicura
per operare in stretta simbiosi col potere politico come nella tradizione.
Allora, presso i monasteri e le cattedrali c’erano scuole di arti liberali (le nostre ‘lettere’, grosso modo) in
cui la lotta per le investiture sollecitò una cultura giuridica più sottile, capace di distinguere e metter in
ordine gerarchico le auctoritates, ossia le fonti autoritative, indiscutibili del sapere. In questo modo ci fu
stimolo a una esegesi profonda dei vari testi da concordare, così come si fece nelle scuole di teologia a
partire da Bernoldo di Costanza, Ivo di Chartes ed Algero di Liegi fino ad Abelardo.
Queste scuole costituirono il milieu entro cui si svolse il lavoro dei primi maestri che si dedicarono al
diritto canonico e che favorirono certamente il disseppellimento delle varie parti del Corpus iuris civilis.
Infatti, ripresosi dalla crisi del X secolo, il Papato reagì, anche proprio grazie all’impero, contro lo
schieramento politico-culturale che si stava delineando e di cui l’orientamento autonomistico finiva per
essere un elemento.
Il Concilio lateranense del 1059 escluse la partecipazione imperiale alle elezioni papali, condannò il
conferimento laico dei benefici ecclesiastici, sciolse il problema delle ordinazioni simoniache, e avviò il
Papato verso posizioni centralistiche ed ierocratiche; ad esempio da qui si potrà rivendicare la ‘libertà’
di appellarsi al papa, come supremo dispensatore di giustizia da parte di chiunque si sentisse ‘oppresso’.
Il gruppo degli ecclesiastici sedicenti riformatori che si compendiavano nel nome di Gregorio VII
integrarono abilmente la collezione canonistica più diffusa, quella di Burcardo, con testi contrari alle
investiture laiche e al clero simoniaco e concubinario, o scelsero di preparare proprie raccolte, frutto di
intense ricerche negli archivi papali, per fondare: 1) il privilegio del foro ecclesiastico e 2) l’esenzione dai
vescovi di taluni monasteri.
Si formò il primo libro giuridico della riforma, cioè la seconda collezione ufficiale della S. Sede dopo la
Dionysiana, ossia la Collezione in 74 titoli (di ignoto autore, forse Pier Damiani o Umberto da
Silvacandida) fatta per essere utilizzata in funzione riformatrice, in linea con Roma.
Altra collezione notevole dell’ambiente riformatore romano è la Collectio Britannica, detta così solo perché
conservata a Londra, ma redatta a Roma nell’ultimo decennio del 1000, e che conserva ben 93
frammenti del Digesto, peraltro indicando con precisione libro e titolo da cui sono tratti.
Nello schieramento riformatore fu più temperata la posizione di un altro grande uomo di chiesa, operante
nel diverso ambiente francese ma negli stessi anni della Britannica presente a Roma, dove poté, forse,
conoscere il Digesto. Si allude ad Ivo vescovo di Chartres, più conciliante col potere laico e molto
influente sugli sviluppi successivi per aver recepito le teorie di teologi come Bernoldo e Algeri nel De
consonantia canonum che apre il suo Decretum. Qui si contrappone l’immutabile diritto divino a quello
umano mutevole, e si distingue il precetto dal consiglio, la legge dalla dispensa, la regola fissa da quelle
dipendenti da circostanze di tempo, luogo, persona. Nell’opera c’è un insieme di criteri che servivano a
conciliare testi diversi attraverso i vari ‘distinguo’. Qualche anno dopo fu la volta del Policarpo (1104-13),
una nuova opera canonistica che fa ampio uso del diritto romano nelle forme nuove dell’Authenticum e
del Digesto, ora riemersi anche al di fuori del territorio papale.
Questa cultura più sofisticata cominciò a essere insofferente dei Penitenziali tradizionali, la cui autorità
poté ora essere contestata: “certi ne sono gli errori, incerti gli autori”, si diceva da parte dei riformatori.

4. I libelli de lite: la contrapposizione tra Chiesa ed Impero


La contrapposizione fra i due massimi poteri esortò anche i polemisti imperiali all’elaborazione di una
serie nutrita di testi in difesa del potere temporale. Da qui prendono origine i Libelli de lite, una serie di
scritti prodotti a sostegno delle tesi dell’una e dell’altra parte del grande conflitto, che testimonia l’alto
livello dello scontro culturale, il primo scontro culturale che coinvolgesse tutta l’Europa.
Fu uno scontro anche giuridico, in cui si fece necessariamente uso del diritto romano, l’unico che
presentasse argomenti da utilizzare in un dibattito del genere. Tra questi libelli, notevole la Defensio
Henrici IV regis (circa 1084) attribuita a un misterioso Pietro Crasso, studioso che rafforzò la dignità
dell’Impero ricordando la Lex Romana voluta dagli antichi imperatori, di cui gli attuali sarebbero stati
eredi.
Il diritto romano in questa situazione molto contraddittoria, come tutte quelle di transizione, fu
strumento da riutilizzare a fondo, a disposizione dell’Impero e della Chiesa.

Capitolo XII: SVILUPPI NEL MONDO LAICO

1. Alle origini del diritto feudale


Per tanto tempo, e spesso ancora oggi, si sono evocati con toni foschi i secoli X e XI come quelli della
‘anarchia feudale’, della fine dello Stato o dell’impossibilità stessa dell’esistenza dello Stato nel tempo in
cui non sarebbe stata neppur concepibile una fedeltà astratta verso un ente impersonale, ma solo verso
persone fisiche, dal sovrano al signore feudale locale. Secondo le rappresentazioni tradizionali, a partire
dal secolo X, saremmo in piena ‘età feudale’ contro cui alcuni audaci -o imperatori o re o papi, e poi
Comuni- avrebbero lottato per il trionfo del diritto, a volte antico e a volte nuovo, e quindi per recuperare
o istituire ex novo strutture pubbliche contro le forze ‘dissolventi’ prevalenti per l’egemonia dei rapporti
personali.
Decadute le città e in attesa della loro ripresa o decollo del 1000-1200 a seconda delle varie aree
europee, la vita sociale viene presentata come interamente assorbita entro il quadro della signoria
fondiaria, laica o ecclesiastica, più o meno formalmente feudale. Ma questa visione è ora contestata.
Osservandosi innanzitutto che, oltre alle zone esenti dal feudo, ci sono state ben diverse forme di feudo
nelle varie parti d’Europa in cui esso attecchì; che anche in una stessa area esso ebbe un’evoluzione che
portò spesso a denominare nello stesso modo realtà assai differenti; che il feudo almeno da noi non portò
mai alla scomparsa della proprietà privata (‘allodio’), di cui potevano essere anche titolari gli stessi
feudatari; che certe aree più conservative lo recepirono con notevole lentezza e sporadicità; che il feudo
non solo non pose fine alla cultura del ‘pubblico’, dello Stato, ma soprattutto non travolse le città, ché
anzi si giovarono se mai dei ceti feudali per darsi più salde istituzioni autonomistiche.
C’è persino una storiografia che sostiene esser stati sopravvalutati quei rapporti alto-medievali molto
differenziati in qualche modo ritenuti poi ‘feudali’, e che in realtà essi non siano riconducibili a
quell’unità di beneficio-vassallaggio-fedeltà tipica dell’istituto feudale quando esso, a partire dal secolo
XII, comincerà a trovare una fisionomia precisa. Durante questo periodo si è perciò soltanto alle origini
dello ius feudorum o ius feudale come complesso di norme particolari dirette a regolare il rapporto di
concessione feudale. Vero che il feudo può considerarsi un istituto già carolingio, e perciò è stato per
tanto tempo utilizzato per connotare un’intera epoca, ‘l’età feudale’. Ma allora si era sviluppata più una
normativa relativa ai vassalli che non al feudo. Allora ci si era impegnati a precisare gli obblighi del
vassallo e i limiti del suo obbligo di fedeltà al senior, che si erano intrecciati con le rivendicazioni di
stabilità degli honores (cariche pubbliche) ricevuti dal re. Insomma si era tenuto conto del rapporto di
vassallagio (vassaticum), più che del feudo, che era allora di solito un’assegnazione di redditi da terre, ma
non investiva le terre stesse; inoltre, esso poteva in alcuni casi anche mancare.
Ma l’evoluzione era andata verso sempre più generose concessioni di terre in beneficium sia che si
trattasse di terre pubbliche concesse dalle massime autorità laiche ed ecclesiastiche, sia che si trattasse
di terre private. Nel mondo longobardo-franco l’obbligo di fedeltà del vassallo, il fidelis che si faceva homo
di un altro pronto ad esempio a seguirlo in battaglia, in cambio di protezione e di una concessione
fondiaria da parte del senior che inglobava nella propria clientela il vassus, si era diffuso tra le alte sfere
istituzionali e sociali. Mano a mano che la crisi del Regno si faceva più evidente, e con essa la nuova
configurazione degli eserciti acquisiva un’importanza centrale, era essenziale avere schiere di vassalli per
poter spendere utilmente la propria immagine nell’agone politico -dai potenti capitanei, feudatari ‘in
capo’, cioè direttamente dipendenti dalle massime autorità pubbliche, ai loro dipendenti, inferiori nella
scala feudale, i valvassori.
I dati di fatto sono che da noi la parola feudo (feo, feodo) compare distinta dal ‘beneficio’ pare dapprima a
Lucca soltanto intorno al 900 per indicare i beni donati a una chiesa e poi ripresi indietro con l’obbligo di
pagare un censo annuo, in modo da entrare nella clientela di un ente ecclesiastico potente. Concessioni
diverse, ma simili nel risultato socio-economico, si realizzavano con le enfiteusi con cui le chiese davano
terre ai potenti per legarli a sé, usando cioè un tipico contratto del diritto romano. Nell’un caso e
nell’altro ci sono dei potenti che hanno scarsità di moneta per compensare dei servizi o per pretenderne
in futuro, e hanno invece molti beni demaniali o diritti pubblici (su ponti, strade, attracchi fluviali, ecc.)
da concedere, beni che non possono alienare definitivamente -com’era la regola per le terre della Chiesa,
inalienabili, e come avrebbe dovuto essere per quelle dello Stato.
Si ricorre perciò alla concessione a ‘beneficio’, ossia a una concessione in modo temporaneo e senza la
documentazione solenne normale per i contratti aventi ad oggetto immobili: senza lo scritto (cartula). A
goderne furono in specie i milites, i cavalieri per i quali si riprese non a caso un termine latino da lungo
tempo in disuso.
Di qui il crescente peso dei cosiddetti valvassori in rivolta contro l’arcivescovo di Milano Ariberto e i suoi
‘capitanei’ nel 1035. Essi in una situazione di estremo bisogno del potere reale, impegnato nell’assedio
milanese com’era il re, in obsidione Mediolani, poterono strappare la concessione del già citato Edictum
de beneficiis (o Constitutio de feudis) a Corrado II il Salico, nel 1037. Esso dava stabilità al rapporto
beneficiale e una garanzia di tutela giudiziaria ai vassi pubblici (cioè titolari di feudi su beni ‘statali’),
perché sanciva che:
1. il beneficio si potesse perdere solo quando ci fosse stata una colpa del vassallo e non potesse essere
permutato dal senior;
2. tale colpa dovesse essere accertata da una corte di ‘pari’, ossia di vassalli, sensibili quindi al problema
portato in giudizio;
3. per i valvassori maggiori fosse possibile un giudizio di appello presso la corte imperiale;
4. il figlio avesse diritto di ereditare il feudo alla morte del padre, o il di lui figlio, o, in mancanza dei
primi due, il fratello.
Questa legge fu la pietra angolare del feudo ‘lombardo’ (cioè del Regno italico), sia perché destinata a
regolare per il futuro i rapporti feudali indicati, sia perché una volta dato l’esempio, sarebbe presto
divenuto impossibile a chi avesse vassalli anche su terre proprie private, non pubbliche, resistere alla
rivendicazione di avere il riconoscimento di privilegi analoghi. Nei decenni successivi, per via
consuetudinaria, questa normativa avrebbe coperto anche i vassalli ‘privati’: si riproduce così il gioco di
legge e consuetudine, ossia la tensione tra una volontà politica innovativa e la realtà dei rapporti di forza,
che finisce per dilatare il campo d’applicazione della normativa.
Il diritto feudale era nato come consuetudinario, perché non c’erano precedenti di legge che lo
disciplinavano, ma appena si poté, si volle intervenire su di esso con la forza della legge per orientarne
lo sviluppo.

2. La complessa tipologia della “consuetudine”


Se livello politico-culturale si era ripreso a parlare di consuetudini in senso tecnico, tipicamente con
Gregorio VII, il termine aveva tuttavia continuato a usarsi anche in senso più generico. Quando, ad
esempio, il rispetto delle consuetudini venne garantito dai re d’Italia ai cittadini di Genova nel 958 il
termine sembra indicare i privilegi locali, i diritti acquisiti dalla comunità nei confronti
dell’amministrazione regia e marchionale.
Quando l’imperatore nel 1081 confermò ai Pisani le loro consuetudini marittime, si sarà pensato più
che alle norme regolanti i contratti marittimi, ai privilegi vari (libertà di navigazione, scali, diritti di
approdo, ecc.). Anche in Borgogna a proposito del potere signorile e comitale nel territorio da questo
secolo si parla di consuetudo, termine prima non impiegato, ma per indicare il potere accettato o subito.
Perciò si doveva sempre fare attenzione che una prestazione non venisse interpretata come dovuta,
perché fondava una ‘pretesa’ come consuetudine.
La consuetudine quindi non è solo norma oggettiva; può indicare anche la pretesa soggettiva, il diritto
soggettivo il cui esercizio è fondato appunto dal suo riconoscimento continuato nel tempo
(consuetudine soggettiva). Come può esserlo quello di una prestazione fiscale, di un dazio
d’importazione, doganale. Non a caso ancora oggi la dogana nei Paesi di lingua inglese è indicata col
termine customs, nient’altro che il plurale di custom-consuetudine per indicare i diritti pretesi dallo Stato
sul passaggio di merci.
A parte il conflitto gregoriano, va comunque ribadito che come era normale nella cultura medievale
ripetere gli atti giuridici di sempre, lo era anche rispettare le nuove leggi eventualmente emesse dalle
autorità legittime. Normalmente, salvo che per quell’immane conflitto tra Impero e Papato, e per Papato e
chiese locali legate alla tradizione, non c’era la coscienza di un contrasto tra norme usuali, tradizionali, e
norme di diritto nuove, del legislatore, così come non esisteva alcun conflitto tra il principio monarchico
e quello dell’autogoverno locale: già consentito legittimamente nel mondo romano e poi caricato di nuovi
compiti e di responsabilità impreviste per la latitanza dei governi centrali di fronte alle nuove minacce
dall’esterno, ungare e saracene, in epoca post-carolingia.
Tanto è vero che legge e consuetudine di solito convivevano pacificamente. Un’opera altomedievale
difficilmente databile, che si auto-intitola Ordo mellifluus in expositione legum Romanarum, presenta
un’incredibile mistura di diritto goto e di diritto giustinianeo, e quindi dovrebbe essere a prima vista di
probabile origine spagnola o provenzale. Essa è stata invece riferita all’Italia proprio perché intitolata a
Giustiniano imperatore. Solo in Italia egli poteva essere un mito circondato da un alone simbolico.
La contraddittorietà profonda di questa situazione di transizione sembra evidente. Ci sono fonti
normative scritte che tentano di essere anche effettivamente applicate, ma in una situazione fluida, resa
anche più flessibile dalla concorrenza di territorialità e personalità del diritto, che creava una fortissima
tensione tra legge e consuetudine a favore di quest’ultima. I testi normativi di questo tempo finiscono
così per offrire delle soluzioni più che imporle agli operatori del diritto, e gli scribi suggeriscono tra le
varie offerte in base a quello che l’esperienza locale e i formulari traditi consigliano loro, provocando a
loro volta modifiche nei testi normativi per armonizzarli con la prassi. Rimane comunque,
contemporaneamente, l’idea che la tradizione patristica cristiana ereditò dalla cultura ebraica, che:
- il diritto sia contenuto nel Libro, e che il Libro sia esente da contraddizioni che spetterà al dotto
dimostrare essere perciò solo apparenti,
- il giudice, almeno in Italia, deve limitarsi ad applicare la legge scritta, che potrà essere diritto romano,
longobardo, canonico ecc. Nel cori del secolo XI, infatti, nelle sentenze è frequente il richiamo puntuale
della legge scritta.

3. La lingua nell’età di transizione


Una situazione così complessa favorì gli sviluppi più diversi, come avvenne anche, contemporaneamente,
per la lingua. Lo mostrano bene già testimonianze di carattere giuridico preziose. Pensiamo, ad esempio,
ai cosiddetti placiti campani, testi ricordanti processi con famose testimonianze circa la proprietà di
terre interessanti l’abbazia di Montecassino pronunciate negli anni 960-963; oppure anche alla
cosiddetta confessione umbra del 1000, o alla famosa postilla dell’Amiata del 1087.
Le parlate italiche allora cominciavano a divergere ormai, autonomizzandosi l’una dall’altra, anche se con
radici romane comuni, così come le organizzazioni politiche locali al governo delle popolazioni stanziali,
‘romaniche’, ormai ben integrate e cui si erano sovrapposte con la varietà delle dominazioni politico-
militari gruppi più o meno corposi immigrati dall’esterno e presto confusi con quelli locali negli strati più
umili.
Come lo era linguisticamente e politicamente, così anche per il diritto il nostro Paese era divenuto allora
un caleidoscopio, con uno sfondo relativamente unitario sul quale si stagliavano anche meglio le
differenze. Si potrebbe parlare di varietà ormai omogenee, radicate su un ceppo comune e sviluppatesi in
base a situazioni culturali e materiali diversificatesi nelle varie aree del Paese, rispettivamente urbane o
rurali.

4. Le autonomie
Una cosa è parlare dell’Italia profondamente romanizzata, con una cultura urbana e pubblica nonostante
tutte le difficoltà alto-medievali conservatasi in qualche modo, e Paesi che non avevano ancora una
diffusa urbanizzazione e avevano subito più larghe immigrazioni germaniche, con un più evidente col-
lasso delle strutture pubbliche tradizionali. Del resto, anche all’interno del nostro Paese esistevano aree
non urbanizzate, assolutamente o quasi rurali e boschive destinate ad un’economia di pura sussistenza
silvo-pastorale, e aree anche urbane ma in zone di confine, o comunque esposte all’urto di popolazioni
guerriere in movimento, e che videro quindi avvicendarsi le più diverse dominazioni politico-militari,
subendo un più evidente degrado dei normali quadri della convivenza civile.
Dove manca la città, o essa è venuta meno, si affermano ‘dominati locali’ di signori laici ed ecclesiastici
spesso facenti fulcro su una struttura fortificata, il castello dal quale esercitano ora un potere di
districtio (bannum) di carattere pubblico sui residenti: prestazioni obbligatorie, chiamate nelle fonti
angherie, perangherie, ecc. Anche perciò -oltreché per la gestione delle terre comuni della comunità- si
svilupparono forme di solidarietà collettiva per negoziare il rapporto con il dominus: per poter disporre
dei propri beni, per quantificare le prestazioni di carattere pubblico dovute, per intervenire sull’uso dei
beni comuni (boschi, acque ecc.) e così via, regole territoriali del luogo.
Esse divengono consuetudinarie, ma dal sec. X assumono talora anche la forma scritta, in funzione
“garantistica”, per evitare discussioni sulla loro vigenza. Già presenti nel secolo X, le prestazioni vengono
ora denominate ‘carte di libertà’ (carthae libertatis o libertatum) e in apparenza vengono concesse
liberamente (perché altrimenti si sarebbero potute impugnare perché strappate con la forza, vis), ma di
fatto imposte dalle collettività locali o necessarie per trovare un equilibrio tra gli opposti interessi, dei
signori titolari del dominatus loci e degli abitanti del luogo.
Collettività entro le quali sia per la loro perifericità rispetto alle aree di sviluppo economico, sia per la
scarsa mobilità umana, tendono a svilupparsi regole tradizionali sia di diritto privato che di diritto penale
e processuale che entrano a permeare la cultura locale fondendo gli eventuali diritti di stirpe
compresenti. Siamo alle premesse da cui si svilupperanno poi gli statuti rurali.
Quanto alle città, vecchie e nuove, da Amalfi a Veneziani, il rafforzamento dei ceti locali fu dato
dall’indebolimento delle capacità di governo delle capitali dei due Imperi, lontane e, nel caso di Bisanzio,
indebolite nella loro presenza attiva anche dalle questioni religiose. Ci si riferisce alla iconoclastia del
secolo VII, e poi allo scisma finale con il Papato romano del 1054.
I gruppi locali si abituarono ad organizzarsi autonomamente, spinti in primo luogo dalle necessità della
difesa militare. C’è una tendenza all’autogoverno già viva nei secoli precedenti, e anche nell'Italia
bizantina, a Ravenna in particolare, la capitale dell’impero d’Oriente in Italia. Quest’autogoverno fu visto
in passato sotto una luce ‘naturalmente’ negativa, come frantumazione, intesa come negazione
dell’apparato pubblico centrale, dello ‘Stato’ nazionale accentrato della tradizione ottocentesca che era
tanto difficile far trionfare anche nell’Italia finalmente unita. Oggi invece quell’autonomismo viene
valutato positivamente, perché vi si devono vedere per il centro-nord le premesse indispensabili degli
sviluppi comunali successivi, e per le realtà urbane inglobate poi nel Regno di Sicilia (dal 1130) una sorta
di età dell’oro presto bloccata dall’autoritarismo regio dei Normanni e di Federico II.
Mondo profondamente frammentato, quindi, e aperto a sviluppi molto diversi anche perché i centri
abitati non erano quelle isole autosufficienti come si è ritenuto in passato, dato che un certo commercio
si era sempre conservato, specie di lusso e in Italia -la terra delle città per antonomasia rispetto al
resto dell’Europa, ormai profondamente ruralizzata. Città italiane che furono comunque il fulcro dello
sviluppo sia al nord che al sud.

5. Da Venezia a Geneva e Pisa


Venezia presenta un’ambiguità precoce, ma che diviene poi caratteristica diffusa delle città del centro-
nord. Da un lato in questi tempi ogni doge (dal nome dei condottieri romani: dux) si faceva confermare
dal nuovo titolare dell’impero d’Occidente privilegi e patti antichi risalenti addirittura all’età carolingia
(secolo IX); dall’altro, carico di honores bizantini, egli stesso riceveva anche uno stipendio come ogni
magistrato bizantino e pagava un tributo a Bisanzio. Con la sua posizione invidiabile tra due mondi
-grazie ai trattati con il regno d’Italia sin dal IX secolo (e poi per i privilegi di Ottone II) e alle crisobulle
bizantine-, Venezia già nel 1000 apparve agli scrittori arabi come signora dell’Adriatico. Fu proprio
quando il doge assunse il titolo di dux Veneticorum atque Dalmaticorum, per rendere evidente la
proiezione territoriale del suo potere. Ma quasi tutte le città del Regno d’Italia furono investite da sviluppi
fortemente autonomistici. Questi furono favoriti dai diplomi regi che a partire dal secolo X donarono le
mura cittadine o diritti fiscali o riconobbero consuetudini varie. L’autogoverno cittadino si rafforzò
sempre più, di solito all’ombra formale del vescovo locale ed eventualmente contro marchesi e conti forti
dei rapporti vassallatici con i signori delle campagne, a volte però collegati invece ai vescovi cittadini. Di
questo forte sviluppo già intorno al 1000 Milano fu l’emblema massimo, privilegiato dalla ricerca storica.
Le città marinare in genere però furono le più precoci sul piano economico e quindi anche istituzionale.
Genova e Pisa alleate, diversamente da quanto accadrà in seguito, erano già in grado nel 1015-16 di
intervenire in Sardegna dietro sollecitazione pontificia contro i Saraceni; poi nel 1034 Pisa attaccò Bona,
in Africa e nel 1064 Palermo; di nuovo assieme le due città operarono contro Mahdia, in Africa, e nel
1092 a Tortosa, in Spagna. Tra 1113-15 le due città operavano contro le Baleari (ma Maiorca poi per
ancora un secolo sarà musulmana). Pisa ebbe intensi rapporti con i porti della Provenza grazie a un
accordo con Raimondo Berenguer III, conte di Barcellona e signore anche in Provenza, mentre già nel
1081 otteneva l’importante diploma dall’imperatore Enrico IV.
Le crociate furono importantissime, non perché determinanti per lo sviluppo delle città, perché esse
ormai erano già decollate allora, ma per i privilegi acquisiti singolarmente dalle diverse città in
competizione tra loro: Pisa arrivò a distruggere Amalfi e la sua flotta nel 1135; ad Antiochia nel 1098 gli
“uomini di Genova” ottennero una donazione in città, mentre nel 1127 i beni saranno riconosciuti a
“tutti i genovesi”; a metà del 1000 entrambe le città erano già ritenute ‘antiche’, magnifiche: la situazione
ideale perché i ceti cittadini avvertissero come necessario darsi delle regole da un lato per rafforzare la
propria organizzazione locale ed aspirare al godimento certo dei diritti acquisiti nei confronti delle
autorità esterne, dall’altro per favorire l’unificazione delle loro tradizioni giuridiche.

6. Vivacità urbana da Roma al sud e una conclusione


Per Roma la crisi dell’iconoclastia con Bisanzio, a fine 600, significò piena assunzione delle funzioni di
governo da parte del vescovo (papa) e della aristocrazia militare che lo attorniava, come a Ravenna
attorniava l’arcivescovo. Fu quindi tempo di inizi per lo Stato pontificio (allora denominato Patrimonio di
San Pietro), reso più cosciente di se stesso dalle sue esigenze di difesa militare dalle aggressioni che dal
nord venivano dai Longobardi (pur cattolici ormai) ancora nella prima metà del 700 -e che provocarono la
richiesta di aiuto ai Franchi.
Roma papale, più che bizantina, fu quindi avviata a un grande futuro, anche se allora spesso sconvolta
dalle lotte tra le grandi famiglie che finirono per controllare, prima di Ottone I, le nomine papali -e fu
tempo allora di decadenza grave, tanto che si parla addirittura di pornocrazia al tempo di
Marozia...donna spregiudicata e potentissima che controllò più papati prima del tempo ottomano.
Al sud, poi, anche Napoli, Amalfi e Gaeta, in posizione analoga a Venezia al nord, operavano
autonomamente, anche se con rapporti privilegiati con Bisanzio. Stringevano dei patti con i principi
longobardi di Salerno e di Benevento che sono parte della storia del diritto non solo come fonte in senso
formale, ma anche perché fissavano regole di tipo interstatuale dirette ad influenzare molto i commerci e
al tempo stesso a rafforzare l’identità pubblica di chi stipulava. Centri di potere autonomo, ormai, le città
ad esempio mandavano ambascerie ovunque.
Policentrismo dunque, nozione migliore forse del più usato ‘particolarismo’ che ha un che di
inevitabilmente negativo, che non esclude l’esistenza e il riconoscimento di apparati pubblici centrali, e
che si accompagna a un’accentuata frammentazione e stratificazione sociale. Nelle fonti di quest’epoca,
per l’Italia più feudalizzata, al nord, si distingue anche a fini giuridici tra capitami (vassalli di vescovi,
marchesi, ecc.), valvassori (loro dipendenti) e popolari o cives, che ad esempio nel primo Comune si
divideranno le cariche di consoli -ufficio comparso prima dell’astratto ‘Comune’. Ma bisogna pensare che
è tripartizione che si aggiunge ad altri profili giuridico-sociali: ecclesiastici, mercanti-negotiatores, servi.
In questa polverizzazione, l’elemento unificante diviene la appartenenza alla città. Da allora nella storia
d’Italia cominciò ad essere prioritariamente importante godere della protezione e dei privilegi di una città:
ci saranno quindi volta a volta Amalfitani o Pisani, Veneziani o Genovesi, ecc. Con una conseguenza
notevole e significativa: l’irrilevanza della cittadinanza dell’impero, perché questo cercherà
inutilmente di contrastare la tendenza delle città a divenire Stati e ad essere, di conseguenza, relegato a
debole e intermittente centro di coordinamento degli stessi: una Specie di ente interstatuale come quelli
del nostro secolo, dalla Società delle Nazioni all’Onu: sempre o spesso impotenti a causa delle perduranti
sovranità statali ‘regionali’.

Capitolo XIII: PERMANENZA DI STRUTTURE PUBBLICHE: IN PARTICOLARE, IL PROCESSO

1. La vocazione monarchica
Ci fu sopravvivenza delle strutture pubbliche sovra-cittadine anche nel cuore del Medioevo: uno Stato (o
la sua idea almeno) sia pure elementare, esistente nonostante il dilagare dei rapporti feudali. Per quante
disfunzioni esso presentasse era sopravvissuto non solo per tradizione, ma perché sorretto dalla cultura
ecclesiastica.
Lo Stato, superato un primo periodo di ripulsa, era stato accettato e accolto dalla cultura cristiana, che
lo aveva messo al servizio della sua nuova missione salvifica. Più in particolare, questa cultura, divenuta
esclusiva ed intollerante, si era saldata con quella antica più risalente nel tempo a radicare la
predilezione per il governo monarchico, che si associava a un diffuso scetticismo sulle capacità di
autogoverno popolare -a livello dirigente. Siamo in una società che i ceti dirigenti vorrebbero ‘monistica’,
integralista, esclusiva di ogni pluralismo culturale, anche se può tollerare la presenza di infedeli,
come gli Ebrei.
Per la predilezione monarchica lavorava anche la suggestione biblica dei re d’Israele (Melchisedech,
Salomone ecc.), ma poi essa era stata rinforzata in concreto da tutta l’esperienza alto-medievale con la
sua robusta fase carolingia, ripresa saldamente dai Sassoni, e con l’alone di grandezza che continuò a
circondare l’imperatore di Bisanzio. Egli rimase il basileus, un ineguagliato modello di potente principe
cristiano di popoli diversi, presente per secoli direttamente con i suoi funzionari ed armati nelle coste
italiane, fino al secolo XI, fino ai trionfi normanni.
Il re-imperatore era presentato in solenni contesti ideali, connotati dal persistere di antiche formule
romane arricchite di sensibilità religiosa. I re erano ormai ‘unti’ dai sacerdoti, e quindi in qualche modo
divini, e venerati come tutori della pace pubblica e della giustizia. La giustizia era (com’è ancora oggi) un
valore centrale del Medioevo, perché la giustizia portava al favore divino, e a volte era intesa essa stessa
come Dio. Perciò anche erano centrali la funzione del diritto, temperato dall’equità, e il pericolo della
degenerazione tirannica del potere.
In particolare il re era il difensore dei deboli, personificati tipicamente nelle vedove e negli orfani, e
naturalmente doveva essere trionfante sul nemico -ma non sembra aver fatto in tempo a diffondersi in
Italia l’idea dei suoi poteri taumaturgici, cioè della sua capacità dì cura dei malati per grazia divina
ampiamente radicata in Francia.
Nell’Italia bizantina, mentre si recepivano le innovazioni normative che aggiornavano il patrimonio
romanistico, i suoi ufficiali comparivano ancora sulla scena anche se in modo saltuario, e spesso
funzionava ancora l’esigente struttura fiscale che faceva avvertire concretamente esistente lo Stato. Nello
stesso governo delle città ormai di fatto autonome come Napoli, Bari e tante altre si faceva ampio sfoggio
dei titoli altisonanti concessi dalla corte di Bisanzio per la loro funzione legittimante.
Nel Regno italico, anche se spesso assenti dai centri urbani e interessati, impegnati com’erano a
consolidare le proprie signorie più o meno legittime nelle campagne, più ai propri castelli, marchesi e
conti conservavano accuratamente l’honor conseguito, cioè il titolo, ed erano sempre pronti ad estorcere
privilegi dall'imperatore, addirittura nella torma di “immunità” da interventi dei pubblici poteri stessi.
Tuttavia svolgevano una funzione importante, perché in questo modo confermavano l’Impero come fonte
‘naturale’ della legittimità.
Del resto, se il grande scontro detto delle ‘investiture’ fu possibile, lo fu anche perché si erano
conservate delle strutture pubbliche sia pure elementari e discontinue di governo, e in Italia senz’altro
più complesse che altrove. Con esse si tramandava il ricordo di tempi migliori e dei princìpi allora
affermati: la divisione delle competenze, un governo provvido con i deboli, la giustizia come funzione
pubblica, il fisco come complesso di beni pubblici e di imposte, la collaborazione del ‘popolo’ e degli
ecclesiastici e così via.
Nell’Italia del centro-nord si sviluppa l’ostensio chartae (offerta del documento) in giudizio, volta ad avere
una sentenza dichiarativa: che accertasse il diritto erga omnes anche per il futuro. Un modo per
garantirsi un diritto che fu tanto diffuso dal secolo IX in poi e che entrò persino nei formulari notarili.
Nelle zone bizantine c’erano poi qua e là dei giudici ‘ai contratti’, addetti cioè a dare auctoritas al
documento notarile.

2. Il processo: aspetti generali


La sopravvivenza delle istituzioni pubbliche nell’XI secolo si avverte ancor meglio dai documenti
processuali pervenutici, ossia dai placiti. Così detti da ‘placuit’, per indicare come fossero riunioni dirette
a deliberare, il nome finì per designare sia i documenti in cui si verbalizzava l’accaduto, sia il diritto di
convocare la riunione stessa (placitum), sia il luogo di svolgimento della procedura.
I verbali che ne attestano lo svolgimento -sottoscritti dai giudici ed altri autorevoli personaggi presenti-
sono documenti del più grande interesse non solo per la storia della scrittura o di quanto
specificatamente vi veniva deciso, ma perché ci mostrano anche la procedura seguita e il tipo di vertenze
portate in giudizio. Per questo si può supporre che ci fosse un’aspettativa di soluzione pubblica, senza
dover ricorrere a vendette (faida) o ad altri mezzi privati di risoluzione. Anche se si sa poco della
giustizia signorile (quella esercitata dentro i domini fondiari, specie se immunitari, delle abbazie in
primo luogo), di questo tempo, salvo quella esercitata entro gli enti ecclesiastici, è possibile avere un’idea
della giustizia pubblica proprio attraverso i placiti conservati.
Essi dimostrano il trionfo consuetudinario di istituti nuovi.
Nel Regno d’Italia (centro-nord) c’erano come giudici locali i centenarii, eletti dalle comunità con
competenze limitate, perché non potevano occuparsi di pene restrittive della libertà e tanto meno di
quella capitale, ma neppure giudicare di questioni di proprietà o di possesso di terre e servi. La giustizia
superiore era di competenza dell’autorità a un tempo militare e civile, il comes, conte, o il missus, ossia
l’inviato rappresentante del re, responsabile in ultima istanza in quanto massima autorità politica della
denegata giustizia, degli abusi e degli appelli. Ma la sua corte, proprio in ossequio alla partecipazione
‘popolare’ al governo, si presentava al pubblico integrata dalle autorità laiche ed ecclesiastiche locali e
attorniata da iudices e boni homines, esperti di diritto anche locale, nonché da altri personaggi
-probabilmente notabili del luogo.
Le autorità operavano pubblicamente come giudici due o tre volte all’anno di fronte al populus in quelli
che potevano anche divenire dei grandi happening preparati per tempo, e che potevano perciò offrire
l’occasione per far conoscere o prendere altre decisioni, di carattere non giudiziario: ad esempio, notificare
dei bandi.
Nei principati longobardi come Benevento e Salerno il carattere pubblico non mancava, ma si è notato
che fosse assai meno marcato il fatto assembleare. I giudici potevano operare anche autonomamente,
senza la presenza dell’autorità politica: forse, per influsso della tradizione giuridica romano-bizantina
-del processo giustinianeo condotto dal giudice burocratico: la c.d. cognitio extra ordinem.
La corte ascoltava le parti contendenti, che potevano essere (e spesso erano) anche collettività (o enti),
monasteri o villaggi spesso in lite per l’uso dei beni situati lungo i confini. Della loro legittimazione ad
agire in giudizio come soggetti a sé non si discuteva neppure, tanto la si riteneva scontata, perché il
quesito se le comunità, i canonici, i monasteri e così via, fossero o meno persone giuridiche con diritto
d’azione è solo il parto di un tipico anacronismo storiografico, un problema creato dagli storici. I giudici,
spesso nobili essi stessi come i ‘politici’ presidenti del placito, riflettevano sulle prove che venivano
presentate.
Le prove documentali e testimoniali furono sempre importanti. La testimonianza, già oggetto di tante
preoccupazioni al tempo dei Longobardi, fu circondata da molte prescrizioni sull’affidabilità dei testimoni
e sul loro numero. Pacifica la regola “unus testis, nullus testis” (“un teste solo non rileva”).
In mancanza di testi o di documenti, o in caso di dubbi nella loro valutazione, si ricorreva al
giuramento, specie ‘purgatorio’, con cui la parte richiesta sulla verità di un fatto giurava sulla propria
coscienza; oppure, si ricorreva a quello di altre persone dette sacramentali -da sacramentum, il
giuramento.
Proprio intorno al Mille però la prova per giuramento poteva essere richiesta subito, per chiudere la
vertenza, oppure si ricorreva ad essa perché veniva denunciata la falsità del documento prodotto in
giudizio. Ma l’idea che la sentenza fosse automatica registrazione dell’esito di un’ordalia, cioè di un
giudizio di Dio per cui il favore di Dio avrebbe voluto una determinata risoluzione della controversia, non
è -almeno per l’Italia- verificabile nelle fonti, che parlano piuttosto di dibattiti degli avvocati, a volte
lamentandone addirittura la prolissità.
Che poi il ricordo processuale tramandatoci dal placito sia completo è discutibile, per cui è anche un
luogo comune sostenere che in questo processo diritto e fatto si confondono. Anzi, la maggioranza dei
processi pervenuti vertono su questioni immobiliari, e il diritto invocato dal ricorrente è ben
riconoscibile, e distinto dal fatto.

3. In particolare le ordalie
Il ricorso alle ordalie, a cominciare dalla più famosa tra di esse, il duello giudiziario, era stato prima del
1000 assai limitato, e aveva luogo solo quando riguardasse degli accusati di legge germanica, e
probabilmente proprio per tradizione. Già da secoli infatti si era ben consapevoli che l’ordalia potesse
essere fonte di errori, e ancora a metà del 900 si erano espresse perplessità al riguardo da Attone
vescovo di Vercelli. Tuttavia, la costituzione di Ottone I del 967, che ebbe grande influenza nella
pratica a provare che, seppure rara, la legislazione allora poteva anche raggiungere i suoi scopi, ordinò
l’uso del duello per tutti, ossia anche alla popolazione vivente a diritto romano. Questo dimostra che
non c’era affatto una lotta meccanica tra il diritto germanico e il diritto romano, ma un esame attento
delle conseguenze delle normative in atto. Tanto è vero per il duello, che esso fu imposto solo come modo
per evitare i giuramenti decisori delle cause, in quanto essi apparvero per quello che realisticamente
erano: ottime, e pericolose, occasioni di spergiuro e quindi di peccato mortale.
Ad evitare il giuramento, quindi, il duello poteva essere chiesto subito e per tutte le liti riguardanti
proprietà e possesso di immobili anche delle chiese (allora difese dal loro advocatus); per somme date in
deposito di cui si voleva la restituzione; o per il sospetto di furto. Non fu tanto una vittoria del bellicoso
spirito germanico sulla raffinata cultura romanica, quindi, quanto piuttosto la recezione della
preoccupazione religiosa per lo spergiuro.
Del resto il giuramento era preceduto da un insieme di pratiche -digiuno, messa, esorcismo, ecc.- con
cui la Chiesa, che voleva svolto solennemente anche il giuramento giudiziario, aveva pensato di
nobilitarlo.
Va però notato che nel Meridione, nella Langobardia minor permeata o comunque influenzata dalla più
‘avanzata’ civiltà bizantina delle coste, il duello rimase solo una possibilità teorica. Per allinearsi a questa
situazione più civile, le città del nord dovettero richiedere all’imperatore lo speciale privilegio di essere
esentati dalla pugna (cioè dal duello): Pisa e Lucca l’ottennero a fine XI secolo. Il duello infatti era
divenuto anche più frequente dopo che era stato esteso da Ottone III alle cause di status libertatis, ossia
per accertare la libertà o servitù d’una persona, allora sempre più spesso in discussione ma talora difesa
dagli stessi ecclesiastici -che non volevano veder diminuire il patrimonio. Allo stesso imperatore si deve
anche il divieto di celebrare i processi di domenica: esso fu subito rispettato. Altre ordalie, come quella del
fuoco e dell’acqua, ebbero da noi spazio in casi eccezionali, tra ecclesiastici, ma proprio perciò in
funzione eminentemente simbolica. Per la prima basterà pensare alla vicenda di Pietro Igneo del 1068,
un episodio famoso della Riforma gregoriana a Firenze, mentre la seconda fu utilizzata proprio da Grego-
rio VII in un giudizio relativo ai rapporti con l’impero.
Sono irrazionali, si dice delle ordalie, ma se la loro funzione era di comporre un dissenso in mancanza di
altri mezzi di prova, non si può negare che il loro fine lo conseguissero. Del resto anche nel processo
odierno talune controversie si risolvono col giuramento, detto perciò decisorio, che rimane uno strumento
di prova non propriamente ‘razionale’.

4. Caratteri fondamentali del processo del placito


Il processo era quindi ispirato, in questo tempo, da questi principi:
1. dalla ‘concentrazione’ in dibattimento, di durata molto limitata;
2. dall’oralità, perché privo di scambio di memorie scritte tra le parti;
3. dalla pubblicità, in quanto svolto dinanzi al ‘popolo’;
4. dal carattere partecipativo della sentenza, rafforzato dalla formula spesso impiegata “habito
consilio”, per far riferimento alla intervenuta consultazione dei giudici e dei savi presenti, non ricordati
per nome, i quali potevano anche essere di ‘nazionalità’ diverse per tener conto della diversa
‘personalità’ dei litiganti;
5. dall’unico grado di giudizio: la giustizia era di regola in unico grado, venendo anche meno il ricorso al
palazzo reale pavese -distrutto nel 1024.
Questo è il processo ‘teorico’. Di fatto, dato che spesso non era facile far eseguire i deliberati delle corti in
mancanza di apparati di governo stanziali efficienti e capaci di coazione, si cercava di realizzare un
accordo tra le parti. Infatti si parla nelle fonti di pace o di concordia, che dovrebbero essere
tecnicamente delle transazioni, con cui ogni parte rinunciava a qualcuna delle sue pretese.
Oppure il processo si utilizzava come deterrente, nel senso che per il suo tramite si stimolava una
definizione extragiudiziale detta lite. Le parti, cioè, ben sapendo che non sarebbe stato facile avere
giustizia (o una decisione, o poi l’esecuzione della sentenza), si accordavano, e con un patto detto
tecnicamente compromesso decidevano di risolvere in via arbitrale (e quindi ‘stragiudiziale’) il loro caso,
con un ‘lodo’ giurato. Questo rimedio si fece sempre più usuale mano a mano che, il placito tradizionale
si riunì sempre meno per la crisi dei poteri tradizionali.
La mancanza di appello fu un altro motivo di successo per la giustizia vescovile. Essa poteva essere
un’istanza da invocare allegando la ‘denegata giustizia’ nel tribunale laico; oppure, si poteva sempre
ricorrere (teoricamente) al tribunale centrale del re (a Pavia per il Regno italico). Il re era il depositario
ultimo della giustizia secondo la teoria e la cultura diffusa, e per di più era tenuto a un controllo generale
su tutti i giudici. Solo in casi eccezionali era il presidente stesso del placito a rinnovare il giudizio. In
questo modo, con una procedura relativamente uniforme che fonde in modo originale elementi
romanistici con aspetti germanici, si risolvevano le cause di ogni genere, in sede civile e penale, e fossero
esse relative a laici o ecclesiastici. In quest’ultimo caso però non doveva aver luogo il duello, per evitare il
possibile spargimento di sangue.
Dati questi caratteri del processo, si nota la tendenziale uguaglianza delle parti dinanzi alla corte, che
assiste alla sfida giudiziaria, più che esserne parte. Questo processo viene detto perciò isonomico dagli
studiosi. Naturalmente questa uguaglianza non va mitizzata, potendo essere talora solo formale.
La violenza era frequente, come dimostra tra gli altri il caso del vescovo di Teramo che nel 1057 citò in
giudizio l’abate di San Salvatore di Rieti. Questi per tre giorni rifiutò di rispondere alle domande e di
nominare il suo avvocato costringendo il conte presidente del placito ad anticipare che si sarebbe giunti
a una investitura salva querela a favore del vescovo. Tanto bastò per provocare la rissa.
Per esprimerci in termini moderni, il potere politico confermava così di essere titolare della funzione
giudiziaria ma:
1. la decisione sostanzialmente era presa di fatto da giudici che si confondevano spesso con i ‘notabili’
del luogo, che fossero o meno esperti conoscitori del diritto, e
2. come quello civile, il processo penale è essenzialmente accusatorio, nel senso che si fonda
sull’iniziativa della parte lesa o dei suoi eredi, anziché di un organo pubblico responsabile di una sua
azione diretta contro il reo. I reati gravissimi contro l’autorità pubblica avevano un trattamento a sé,
in quanto coinvolgevano il governo stesso. Perciò potevano anche non pervenire alla fase processuale,
risolvendosi di fatto o per via politica.
Dati questi caratteri, si capisce anche come la composizione delle corti e la loro competenza per materia
fosse molto fluida. C’era la complessità dei diritti co-vigenti che accentuava i problemi di risoluzione; si
tenga presente che si assisté a una vitalità nuova delle professioni di legge nel 1000. C’erano varie
possibilità diverse di azione aperte per chi volesse proporre certe cause, e anche i rimedi da usare per la
risoluzione erano relativamente fluidi, così come le normative da cui attingere ispirazione.
Solo le soluzioni finali erano relativamente uniformi. O si condannava a restituire il bene illecitamente
occupato o la somma a suo tempo ottenuta, oppure ad una pena pecuniaria con cui si esauriva
l’esecuzione della sentenza. Ma non conoscendosi normalmente il carcere di durata, espiativo, e solo
quello temporaneo, per lo svolgimento del processo, veniva utilizzato nei casi più gravi. Più frequente era
il carcere inflitto dai vescovi agli ecclesiastici, sempre perché la giustizia ecclesiastica non poteva
ammettere alcun versamento di sangue.
Le pene erano quindi o corporali (forca, per omicidi e ladri, o mutilazioni varie) oppure pecuniarie, cioè
composizioni in denaro da doversi pagare in parte al danneggiato dal reato -(il suo Wergeld, il valore della
persona secondo la legge) e in parte al fisco (la Camera imperiale era il ‘tesoro’, presto imitato da
Papato, Regni e Comuni) per aver turbato la ‘pace’ -oppure la confisca totale dei beni del condannato a
favore del fisco- come nel caso del crimine di lesa maestà, come si chiamava l’attentato all’autorità
pubblica, che conduceva alla pena della decapitazione.

5. Il placito di Màrturi
Un rendiconto del processo medievale forse più famoso oggi tra gli studiosi (anche se di ordinaria
amministrazione nel suo tempo) è il placito di Marturi del 1076.
Di esso, ben noto per la prima menzione del Digesto dopo 400 anni, possediamo non già una notitia
iudicati, ossia un verbale di quanto si svolse durante il processo, bensì soltanto un breve recordationis,
cioè un testo scritto solo a fini di memoria e di prova, privo di sottoscrizioni di notaio e testimoni, redatto
per l’abbazia vincitrice, sita appunto a Marturi nei pressi dell’odierna Poggibonsi in Toscana (abbazia).
Il documento è conservato unitamente alla refutatio della parte perdente, cioè alla dichiarazione con cui
questa riconosceva all’abbazia la proprietà dei beni contestati e s’impegnava a non turbarla anche con
promessa di una penale, segno che il processo precedente si riteneva conclusivo.
Dopo la consueta invocazione (“In Christi nomine”), si ricorda che il processo ha avuto luogo “in
presenza” di Nòrdilo, missus rappresentante del potere ufficiale, cioè della duchessa e marchesa di
Toscana Beatrice, la madre allora vedova della più nota Matilde di Canossa, la ‘gran contessa’ con cui
stava governando la Toscana, e di Giovanni visconte, il laico preposto all’amministrazione dei luoghi in
cui si svolgeva il processo. Furono con loro “residenti in giudizio” un “giudice” Guglielmo e un Pepone
ricordato come “legis doctor”, e non come giudice, il che rinvia probabilmente all’essere un insegnante di
retorica che dava particolare spazio al diritto. Oltre a loro sono ricordati come presenti sei personaggi con
tanto di nome e patronimico ma senza qualificazioni e “molti altri”.
Le parti vengono identificate da un lato nell’advocatus del monastero e il suo preposto; dall’altro in un
fiorentino che compare per certi beni (e una chiesa) che erano stati di un tale che l’aveva “concessi” al
marchese di Toscana Ugo. Questa aveva la pretesa (“intentio”) di recuperare i beni, al che il fiorentino
(‘convenuto’) eccepì (“exceptio”, la difesa) che aveva ormai “prescritto” quei beni, cioè ne aveva acquisito,
in base alla praescriptio longissimi temporis del diritto giustinianeo, la proprietà avendoli posseduti per
più di quarant’anni lui stesso e suo padre a suo tempo.
Nella “replicatio”, l’abbazia si incentrò nel far riconoscere che c’era stata interruzione nel decorso dei 40
anni, perché l’abbazia già tempo addietro aveva rivendicato i beni per ben due volte presentando
apposita istanza ai marchesi. Tre dei presenti come testimoni affermarono di essere pronti a giurare in
questo senso, ma uno solo dovette giurare, toccati i Vangeli, perché entrambe le parti lo dichiararono
sufficiente. Ciò fatto, Nordilo, “inserta considerata” la “legge” dei “libri dei Digesti” per cui se non era
stato possibile in passato reperire un giudice l’attore veniva reintegrato nelle sue possibilità giudiziarie,
accordò appunto tale rimedio al monastero che veniva così ripristinato nei suoi diritti. Fu quindi una in
integrum restitutio in senso tecnico, come previsto dal diritto romano, nonostante le due istanze
precedenti rimaste senza esito.
Non fu necessario nessun duello, e la chiave di volta della soluzione fu quel rimedio tratto dal Digesto.

6. Altri segnali di rinnovamento


Marturi è un masso erratico, perché unico a documentare in questo periodo l’esistenza del Digesto in un
documento giudiziario. Ma il Digesto ritorna in quel torno d’anni nella collezione canonistica redatta a
Roma, detta oggi Britannica perché il suo manoscritto è alla British Library di Londra. Inoltre, segni di
novità inequivocabili ci vengono anche dal mondo del diritto che si ispirava al diritto longobardo-franco,
ancora molto usato sia al nord, in Lombardia in particolare, sia al sud, nelle zone più intensamente
longobardizzate.
Si pensi che a questa seconda metà dell’XI secolo si ascrive il Liber Papiensis, cioè il ‘libro pavese’
contenente i vari ‘pezzi’ del diritto longobardo-franco (Editto longobardo più Capitulare Italicum e
costituzioni imperiali successive ai carolingi) in ordine cronologico, e inoltre quei dibattiti tra esperti di
tale diritto (forse giudici a Pavia, capitale del Regno d’Italia) sulla sua applicazione concreta, che vengono
ricordati nell’opera conservata in un solo manoscritto oggi conservato alla Biblioteca Nazionale di
Napoli: si tratta dell'Expositio ad librum Papiensem, ossia del commento alla raccolta legislativa prima
ricordata.
Importante è sottolineare quel che attesta l’Expositio con le diatribe tra esperti longobardisti. Non solo un
discreto livello di dialettica giuridica per il tempo, ma soprattutto l’alta stima che essi avevano del diritto
romano. Si pensi che un filone dottrinale nell'Expositio sostiene che in caso di lacuna si dovesse
ricorrere al diritto romano.
Quel che risulta ancora più interessante è la motivazione di quel ricorso al diritto romano che vi viene
esplicitata. Il giurista longobardista sostiene infatti che la legge romana è ‘generalis’, cioè per tutti. Un
chiaro sintomo che c’era l’esigenza ormai ‘generale’ di trovare punti di riferimento più complessi che non
il frammentario ed elementare diritto longobardo-franco. Ed esso non poteva essere che il diritto romano,
l’unico storicamente resistente, passando per la riscoperta del suo testo più importante: il Digesto.
Interessante anche che questa testimonianza (come quella di Marturi) derivi da un solo testimone.

Potrebbero piacerti anche