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Italia, Nord e Sud

L'Italia era il nuovo comparso in Europa nel 1861 chiamato il «giardino d'Europa» ma di nuovo non
ereditava nulla anzi le problematiche erano le stesse e non accennavano al diminuire: Si parla di povertà
diffusa, malattie soprattutto per quanto riguarda la mortalità infantile ed infine l’ignoranza con
l’analfabetismo.

Il territorio italiano, era solo in parte costituito da territori coltivabili e in quegli stessi luoghi viveva la
maggioranza degli italiani (80%) d’altronde la manodopera agricola era maggiore rispetto a tutti gli altri stati
europei, caratterizzata ovviamente, nel sud dalla presenza del latifondo. Al contrario il reddito nettamente
inferiore al confronto così come si presentava la rete ferroviaria, la siderurgica e nella stessa misura si
presentava arretrata nell’industria cantieristica e nella produzione energetica.

Le differenze più vistose tra Nord e Sud riguardavano principalmente:

•le diverse percentuali di analfabetismo;

•l’estensione della rete stradale e ferroviaria;

•la struttura della proprietà agricola (latifondo al Sud, diffusione di aziende agricole moderne al Nord.)

In sintesi, il Regno delle Due Sicilie non era quel paese ricco di risorse naturali e bloccato nel suo sviluppo
solo da cause storiche come molti risorgimentali immaginavano, ma neanche un paradiso terrestre, era un
paese in equilibrio economico che tuttavia guardava al passato e non al futuro.

La sua politica economica si ispirava infatti ancora ai principi del mercantilismo secondo cui la ricchezza
nazionale era identificata con il possesso di metalli preziosi, per cui si favorirono molto le esportazioni
sfiduciando le importazioni, tale approccio generò disinteresse per gli investimenti nell'istruzione e nelle
infrastrutture, come la costruzione di strade e ferrovie, premessa indispensabile al decollo industriale del
paese.

La Destra storica

I quindici anni della storia d'Italia che vanno dal 1861 al 1876 furono dominati dalla cosiddetta «Destra
storica», ovvero i moderati discendenti di Cavour, tuttavia la Destra storica occupava una posizione di
centro nel dibattito politico italiano, in quanto la vera destra era rappresentata dai clericali e dai reazionari
nostalgici; la Sinistra storica, invece, era formata prevalentemente da democratici mazziniani e garibaldini.
Gli uomini della Destra storica provenivano dall’aristocrazia terriera. La Sinistra invece era costituita
prevalentemente dalla borghesia cittadina.

Ambedue erano accomunate dal sentimento liberale, proprio della piccola parte del paese, la quale era, per
esempio, contro la legge elettorale del Regno di Sardegna, estesa al Regno d'Italia, prevedeva che avessero
diritto di voto solo i cittadini italiani in possesso dei seguenti requisiti:

•essere di sesso maschile:

•avere 25 anni di età;

•saper leggere e scrivere;

•pagare almeno 40 lire di imposte l'anno.

La base elettorale era ridottissima, il 2% della popolazione e il 7% dei maschi adulti. Di questi ultimi, poi, si
recavano alle urne solo il 50%. Abissale era dunque la distanza, tra il paese reale e quello rappresentato in
Parlamento, il paese legale. I partiti, come li intendiamo noi oggi, non esistevano, erano presenti solo degli
schieramenti. Consequenzialmente ogni collegio elettorale eleggeva un solo candidato, il quale doveva
sfruttare la notorietà determinata dal suo ruolo sociale per ottenere la posizione ambita.

Accentramento o decentramento?

Morto Cavour, gli succedette il barone Bettino Ricarsoli. A lui toccò in via preliminare il compito di risolvere
il problema istituzionale relativo alla natura del nuovo Stato italiano. Davanti a se aveva due esempi:

 Modello di stato accentrato era la Francia napoleonica, con la sua struttura gerarchica che prevedeva
un forte controllo del governo centrale sugli enti locali attraverso i prefetti.
 Modello di Stato decentrato era invece la Gran Bretagna, che lasciava ampie libertà amministrative e
giudiziarie alle varie contee

Tale decisione era molto complicata da prendere per via delle tradizioni storiche del rapporto potere-
cittadini che si erano realizzate nelle diverse zone del paese. Ad esempio L’Italia del Sud era stata governata
con decisione prese dall’alto mentre gran parte dell’Italia del centro-nord aveva vissuto un'esperienza di
potere quantomeno di confronto, se non di collaborazione.

I democratici come Cattaneo si battevano per l'autonomia e il federalismo, e i moderati al potere imposero
un sistema amministrativo decisamente accentrato. L'Italia fu così divisa in province e il governo nominò
per ogni provincia un suo rappresentante, il prefetto. Anche i sindaci dei comuni erano nominati dal
governo e a esso rispondevano.

La scelta del modello centralista era implicita nel modo stesso con cui si era giunti all'unità d'Italia:
l'intervento del Regno di Sardegna era stato decisivo. Lo Statuto Albertino divenne quindi la costituzione
italiana, così come a tutta l'Italia vennero estese la legislazione e la moneta piemontese, la lira.

Libero scambio e pareggio del bilancio

Nel marzo del 1861 il bilancio dello Stato venne unificato assorbendo la contabilità di tutti gli Stati
preunitari. Complessivamente il debito italiano corrispondeva a circa il 40% del prodotto interno lordo,
circa 2 miliardi di lire.

Il governo italiano si propose di sviluppare l'economia. Erano convinti che si sarebbe potuta sviluppare solo
favorendo il libero scambio, sia all’interno che all’esterno del paese.

Vennero requisiti e venduti beni ecclesiastici e pubblici. Poteva essere questa un'occasione per migliorare le
condizioni del paese, purtroppo vennero venduti all'asta e, di conseguenza invece di andare a migliorare le
condizioni dei braccianti e dei piccoli proprietari, alimentarono ancora di più il latifondo.

A parte comunque questo provvedimento straordinario, la ricerca del pareggio del bilancio venne
perseguita attraverso il ricorso al prelievo fiscale. Questo avvenne soprattutto attraverso le imposte dirette
(sui redditi delle persone), ma anche attraverso il peso delle imposte indirette (sui prodotti).

La più detestata? l’imposta sul macinato introdotta nel 1868: di fatto si trattava di un'imposta sul pane,
l'alimento quotidiano degli Italiani. Le manifestazioni di piazza contro questo provvedimento furono
represse con violenza tra morti, feriti e arrestati.

Il grande brigantaggio

A seguito delle insurrezioni garibaldine con le loro fantomatiche promesse, nacque, nel mezzogiorno, prima
la speranza di una realtà migliore ma in seguito, quando sperimentarono la pressione fiscale con imposte
finora sconosciute, servizio militare obbligatorio che strappava alle famiglie le energie lavorative,
l’abbattimento delle barriere doganali, che pose delle piccole realtà economiche al confronto con dei
colossi industriali e via dicendo, insomma ci fu il malcontento generale.
Quest’ultimo esplose in una violenta protesta che prese il nome di grande brigantaggio. A sostenere la
rivolta c'era anche Francesco II di Borbone e la Chiesa cattolica.

Il nuovo Stato italiano venne individuato come «nemico», e contro di esso i briganti agivano compiendo
razzie, saccheggi e atti vandalici vari. Essi erano ritenuti sostenitori di una giusta causa, che combattevano i
ricchi e gli usurpatori e distribuivano ai poveri il bottino delle loro imprese.

Decisiva fu l'applicazione della legge Pica (agosto 1863), che affidava la repressione ai tribunali militari e
condannava a pene pesanti anche i semplici sospetti di complicità coi briganti.

Nella sostanza, i governi della Destra storica affrontarono la questione del brigantaggio solo in un'ottica
repressiva, senza cercare di rimuoverne le cause sociali profonde. La generale incomprensione dei problemi
del Sud da parte del nuovo Stato italiano alimentò il diffondersi di quei fenomeni, come la camorra e la
mafia.

Firenze capitale d'Italia

Il desiderio di completare l'unità nazionale era largamente sentito da tutto il paese AJ di fuori dei confini del
Regno d'Italia vi erano ancora il Veneto, il Trentino, il Friuli Venezia Giulia, il Lazio e soprattutto Roma.

Democratici e moderati concordavano sulla necessità che Roma divenisse la capitale del l'Italia unita.

Sul come completare l'unità d'Italia il paese era diviso. La Destra storica era contraria a ima conquista
armata di Roma, difesa da Napoleone III. I garibaldini erano favorevoli e quindi partirono alla volta di Roma
però vennero fermati proprio dall'esercito italiano inviato da Rattazzi sotto minaccia di Napoleone III. Ci fu
lo scontro dell’Aspromonte, ove vennero sconfitti i Garibaldini, lo stesso Leader venne ferito.

Questo episodio convinse il governo italiano che la sola strada da percorrere era raccordo con la Francia.

Così venne stipulata la Convenzione di settembre, con cui l'Italia si impegnava a difendere i confini dello
Stato Pontificio in cambio del graduale ritiro delle truppe francesi da Roma

Per provare ciò L’Italia traferì la sua capitale da Torino a Firenze, trasporto con se il peso di proteste
torinesi, le quali vennero represse nel sangue.

La terza guerra d'indipendenza

Nel 1866, Bismarck propose all'Italia un'alleanza in vista della guerra con l'Austria. Ebbe inizio così la terza
guerra d'indipendenza. Ma se da un lato i Prussiani sbaragliarono gli Austriaci a Sadowa, l'Italia venne
ripetutamente sconfitta sia a Custoza che a Lissa

Solo Garibaldi con i Cacciatori delle Alni ottenne alcuni successi, come a Bezzecca ma venne fermato da un
telegramma, il quale annunciava l’armistizio: la pace di Vienna (3 ottobre 1866) con la quale l'Italia ottenne
il Veneto, ceduto dall'Austria per disprezzo a Napoleone III, il quale a sua volta la girò all’Italia.

In questo contesto nel 1867 riprese vigore l'iniziativa mazziniana e garibaldina volta a liberare Roma

Ma l'insurrezione fallì, per la scarsa partecipazione popolare e per la pronta reazione della polizia pontificia

Nonostante ciò Garibaldi alla testa di 3000 volontari penetrò nello Stato Pontificio. Il 3 novembre 1867 i
garibaldini si scontrarono a Mentana con le truppe francesi prontamente inviate nello Stato Pontificio da
Napoleone III e armate di nuovi fucili a retrocarica.

Sconfitto dopo un aspro combattimento, Garibaldi venne arrestato e condotto nell'isola di Caprera.

Roma capitale d'Italia


La possibilità di annettere Roma al Regno d'Italia si verificò pochi anni dopo con la guerra tra Francia e
Prussia che implicò il ritiro delle truppe francesi presenti in città. Il 20 settembre del 1870 un corpo di
bersaglieri, comandati dal generale Raffaele Cadorna entrò in Roma attraverso la storica breccia di Porta
Pia. Scarsa fu la resistenza delle truppe pontificie. Il papa si dichiarò prigioniero dello Stato italiano e
indisponibile a ogni trattativa.

Il 2 ottobre si svolse il plebiscito di annessione. Il trasferimento della capitale da Firenze a Roma avvenne
nel luglio 1871. Prima però, lo Stato italiano volle regolare i rapporti con la Santa Sede.

Nel maggio di quell'anno, infatti, venne approvata unilateralmente una legge detta delle «guarentigie»:
ovvero delle «garanzie» date dallo Stato italiano al papa affinché potesse svolgere liberamente il suo
magistero. La legge dichiarava il papa «persona sacra e inviolabile», dunque non soggetta alle leggi dello
Stato italiano; al papa, inoltre, veniva riconosciuta la sovranità sulla Città del Vaticano insieme ai palazzi del
Laterano e della villa di Castelgandolfo.

Pio IX respinse queste norme: non solo, nel 1874 vietò esplicitamente ai cattolici di partecipare alla vita
politica italiana. Il divieto venne riassunto dalla curia romana nella formula non expedit («non conviene»,
«non è opportuno» che i cattolici partecipino alle elezioni politiche).

La «caduta» della Destra storica

Il 16 marzo del 1876 il presidente del Consiglio Marco Minghetti annunciò ufficialmente il raggiungimento
del pareggio del bilancio: la Destra storica aveva vinto la sua battaglia ma questa battaglia aveva logorato e
diviso la Destra storica.

Tale politica aveva creato la credibilità e il prestigio italiano sullo sfondo internazionale, ma d’altro canto
aveva messo in crisi l’economia meridionale e aveva esposto negativamente l’Italia al confronto straniero.

Il 18 marzo 1876, durante un dibattito alla Camera per il passaggio della gestione delle ferrovie dai privati
allo Stato, la Destra perse l'appoggio della maggioranza dei deputati e «cadde».

Finiva così un'epoca. In pochi anni morirono tutti i protagonisti del Risorgimento: nel 1872 Mazzini, nel
1878 Vittorio Emanuele II e Pio IX, nel 1882 Garibaldi. Lo stato d'animo che si diffuse in quel periodo è stato
ben descritto dal filosofo Benedetto Croce: «Molti sentivano che il meglio della loro vita era stato vissuto,
tutti dicevano che il periodo eroico della nuova Italia era terminato».

La Sinistra storica al potere

Il 25 marzo 1876 il re affidò l'incarico di formare il nuovo governo al leader dell'opposizione: Agostino
Depretis. Pochi mesi dopo si tennero nuove elezioni vinse la Sinistra storica, che sostituì la Destra e governò
il paese per vent'anni. La Sinistra che salì al potere aveva decisamente attenuato la sua originaria visione
democratica: ora comprendeva al suo interno anche componenti moderate se non conservatrici.

Le riforme di Depretis

Nel 1877 venne emanata la legge Coppino, dal nome del ministro che la propose. La legge Coppino
riprendeva la legge Casati ma elevava l'obbligo scolastico fino a nove anni di età. Furono inoltre creati asili
d'infanzia e aperte numerose scuole serali per permettere anche agli adulti di imparare a leggere e a
scrivere. Nonostante tutto le scuole si trovavano lontane dalle campagne e molti genitori non consentivano
ai propri figli di frequentare, poiché rappresentavano le energie primarie nella famiglia del tempo.

Venne prima diminuita ed infine abolita la tassa sul macinato, contemporaneamente ricomparve il deficit
del bilancio.

Con la riforma elettorale del 1882 il diritto di voto venne allargato. Per votare era necessario:
• avere 21 anni;

• saper leggere e scrivere;

• pagare almeno 20 lire di imposte l'anno (invece delle 40 lire precedenti).

La politica parlamentare – Il trasformismo

Depretis, preoccupato dai risultati elettorali ottenuti nel 1882, si rivolse ad una maggioranza più larga, alla
destra dicendo: «Se qualcuno vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?».
Depretis intendeva così giustificare l'accordo stipulato con il leader dell'opposizione di destra, Minghetti.

Così facendo si inneggiava al passaggio da uno schieramento all’altro, dando finalmente un viso e un nome
a questo fenomeno: il trasformismo, il quale segnò la fine di ogni distinzione ideologica e programmatica
tra Destra e Sinistra. Era esattamente l'obiettivo perseguito da Depretis che intendeva così allargare la sua
base parlamentare costituendo un'ampia formazione di centro. Di conseguenza, venivano emarginati da un
lato i conservatori e i reazionari di destra, dall'altro la nuova sinistra, comunemente definita l'Estrema,
quella socialista e radicale. In mancanza di una maggioranza precostituita, la pratica del trasformismo
comportò il dilagare della corruzione. Da allora il termine trasformismo è sinonimo di degenerazione
politica.

La politica economica

Negli anni Settanta sorsero le prime grandi industrie italiane, nonostante ciò, l'agricoltura rimaneva il
settore di gran lunga prevalente.

Negli anni Ottanta ebbe inizio la crisi, la quale nacque prima in agricoltura, ove a causa delle importazioni
cerealicole americane i prezzi dei cereali calarono drasticamente. Di conseguenza, gli agrari, specie del
Mezzogiorno, presero a premere sul governo affinché elevasse le tariffe doganali a «protezione» della
produzione cerealicola nazionale. La crisi dilagò poi nel settore industriale. Anche in questo caso gli
industriali del Nord si schierarono apertamente a favore dell'elevazione delle tariffe doganali.

Il governo, che fino ad allora aveva proseguito la politica liberoscambista della Destra storica, decise di
introdurre alte tariffe doganali sul grano e su molti prodotti industriali Inevitabilmente, per il principio di
reciprocità che regola i rapporti internazionali, gli altri paesi alzarono a loro volta le tariffe doganali nei
confronti dell'Italia.

La svolta protezionistica ebbe sicuri effetti positivi sulla produzione industriale, ma l'aumento del prezzo del
grano (e quindi del pane) determinò un notevole peggioramento delle condizioni di vita delle masse
popolari. Aumentarono i conflitti sociali nelle campagne e l'emigrazione, iniziata negli anni Settanta, risultò
per molti l'unica soluzione.

La politica estera

L’Italia da tempo immemore cercava di occupare la Tunisia, la quale venne presa dalla Francia nel 1881.
L’Italia rammaricata, in segno di protesta decise di stipulare una triplice alleanza con Germania e Austria, la
cui natura era puramente difensiva. Da un primo piano, tale accordo, fu oggetto di accese critiche per via
dei territori come il Trentino e il Friuli Venezia Giulia, i quali erano ancora sotto il controllo austriaco. D’altro
canto, sotto il profilo economico, presero ad affluire capitali tedeschi che permise sviluppi in tutti i settori.

Mentre il governo stipulava la Triplice Alleanza, prendeva il via l'avventura coloniale italiana; nel 1882
venne occupato uno stretto territorio nei pressi della Baia di Assab, sul Mar Rosso, Da lì le truppe italiane
mossero nel 1885 alla conquista di Massaua. Ma quando gli Italiani cercarono di occupare anche l'interno
del paese, provocarono la reazione del negus, l'imperatore d'Etiopia.
Nel gennaio 1887 a Dogali un reparto italiano di 500 uomini venne sorpreso e massacrato da 7000 Etiopi.
L'avventura coloniale italiana iniziava con una grave sconfitta.

Francesco Crispi

A Depretis succedette Francesco Crispi, egli aveva preso parte come democratico e mazziniano, alla rivolta
siciliana e alla spedizione dei Mille fino a sbarcare a Marsala. Dopo l’unificazione sostenne la monarchia.

La sua politica fu oltremodo accentratrice ed autoritaria:

Con il consenso del nuovo sovrano Umberto I, assunse su di sé contemporaneamente le cariche di


presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e degli Interni. Mai nessuno, da quando l'Italia era stata unita,
aveva avuto tanto potere.

Crispi fece approvare una nuova legge elettorale comunale e provinciale che da un lato estendeva il diritto
di voto, dall'altro aumentava il potere dei prefetti.

In politica estera Crispi ebbe un orientamento decisamente ostile alla Francia e filotedesca, tant’è che ci
ebbe una guerra doganale tra Italia e Francia e poiché la Francia era il nostro più importante partner
commerciale e il principale acquirente del mezzogiorno, a venir danneggiata fu soprattutto l’economia del
sud oltre alla contrazione delle esportazioni totali di circa il 40%

Durante il governo Crispi venne promulgato un nuovo codice penale, noto come codice Zanardelli. Con esso
veniva abolita la pena di morte e si riconosceva una limitata libertà di sciopero. A questi provvedimenti,
però, fece da contrappeso una legge di pubblica sicurezza, che restringeva i diritti sindacali e accresceva i
poteri della polizia.

Per quanto concerne la politica coloniale venne firmato con il Trattato di Uccialli con l’Etiopia: il trattato
riconosceva i possedimenti italiani in Eritrea e il protettorato italiano sull'Etiopia e la Somalia. Ma mentre
nel testo italiano si parlava esplicitamente di protettorato italiano sull'Etiopia, in quello redatto nella lingua
autoctona vi era solo un vago accenno, il quale venne interpretato come un semplice patto di amicizia.

L'intenzione di Crispi di riprendere la politica coloniale suscitò molte perplessità per via dei costi non
affrancabili, per cui Crispi rassegnò le dimissioni.

Il primo governo Giolitti

La presidenza del Consiglio passò prima al conservatore Di Rudini, poi a Giovanni Giolitti, che dovette subito
affrontare un grave problema ovvero il moto di protesta popolare dei Fasci siciliani. Il movimento dei Fasci
Siciliani comprendeva operai, artigiani, lavoratori delle miniere di zolfo (zolfatari) e contadini che
intendevano protestare contro le pesanti tasse del governo e contro i latifondisti, rivendicando il diritto a
una più equa distribuzione delle terre. Era piuttosto un movimento popolare privo di una precisa identità,
un’esplosione di rabbia per le vessazioni a cui era sottoposto il popolo siciliano.

Giolitti affrontando la questione con prudenza apparì agli occhi dei conservatori come debole e incapace di
intervenire con decisione in una situazione di pericolo. Nel frattempo scoppiò lo scandalo della Banca
Romana: per coprire ammanchi e sovvenzionare campagne elettorali la Banca Romana aveva stampato lire
in eccedenza, tutto ciò quando Giolitti era ministro del Tesoro e anche Giolitti fu costretto, dunque a
rassegnare le dimissioni.

Il ritorno di Crispi

Al governo tornò Crispi, che immediatamente proclamò lo stato d'assedio in Sicilia. Poi fece intervenire
l'esercito con 50000 uomini. Numerosi furono i morti e circa 2000 le persone arrestate.
Dopo questo fantomatico successo, Crispi rivolse nuovamente la propria attenzione alla politica coloniale,
rivendicando il rispetto da parte dell’Etiopia dell'interpretazione italiana del Trattato di Uccialli. Al rifiuto di
questo, diede ordine alle truppe italiane di penetrare in territorio etiopico.

Lo scontro si risolse ancora una volta in un disastro. Gli Italiani vennero sconfitti in diverse occasioni in
diversi luoghi, ci furono 7000 morti e 3000 prigionieri. Crispi, prima si dimise e poi morì qualche anno dopo.

La crisi di fine secolo

Il fallimento dell'impresa coloniale aprì una crisi politica e istituzionale che si prolungò fino al nuovo secolo.

Al governo venne la volta di Di Rudinì, il quale firmò il Trattato di Addis Abeba, con cui l'Italia rinunciava a
qualsiasi pretesa sull'Etiopia e limitava il suo dominio coloniale all'Eritrea e alla Somalia.

Intanto nel paese dilagava la crisi e la disperazione, il popolo soffriva la fame fra gli aumenti dei prezzi
consequenzialmente ci furono diverse rivolte finché a Milano il generale Beccaris ordinò di sparare sulla
folla provocando morti, feriti e arresti. Ma se da un lato Bava Beccaris ricevette plauso e una medaglia per il
valore militare, dall’altro Di Rudinì diede le dimissioni. Il re affidò la formazione di un nuovo governo a
Pelloux. A provvedimenti che limitavano ogni tipo di libertà, la sinistra fece ostruzionismo costringendo
Pelloux a sciogliere le camere e indire nuove elezioni.

Il 29 luglio 1900 l’anarchico Gaetano Bresci, per vendicare ì morti di Milano, uccise il re Umberto I a Monza.

Le conseguenze del regicidio

Le controversie sul regicidio sono svariate, l’opinione pubblica per lungo tempo ha presentato la vicenda
come un gesto solitario, fortunatamente oggigiorno conosciamo i fatti venuti alla luce negli Stati Uniti al
tempo dell’investigazione: l'esecutore del regicidio era stato estratto a sorte durante una riunione segreta
della società di cui Bresci era membro. Sembra che il primo prescelto fosse un certo Luigi Bianchi, poi
arrestato e sostituito con Bresci.

Bresci venne processato con un rito sommario ad appena un mese dal regicidio. Egli sostenne sempre di
aver agito in solitaria anche se la polizia era già al corrente dell’organizzazione alle sue spalle. Bresci si
suicidò, in circostanza poco chiare, nel carcere di Santo Stefano, dove stava scontando l’ergastolo.

Con l'assassinio del re, paradossalmente, la monarchia riconquistò consenso. Il re venne decantato come un
martire.. La dottrina anarchica fu condannata all'unanimità. Anche dai socialisti. E così Umberto I divenne,
più da morto che da vivo, il simbolo dell'unità d'Italia.

In questo contesto, il nuovo re Vittorio Emanuele III decise di affidare il governo all'autore del nuovo codice
penale, Zanardelli. Affiancava Zanardelli come ministro degli Interni Giovanni Giolitti. Iniziava così l'età
giolittiana.

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