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LA COMUNITÀ POLITICA

NON È UNA SOCIETÀ DI AFFARI

+ Mario Toso

Premessa

Non raramente la comunità politica è oggi scambiata con una società di affari; anzi, spesso e con
linguaggio sbrigativo e superficiale la sua vita è paragonata al gioco calcistico e l’autorità all’arbitro. Si
tratta ovviamente di visioni riduttive e di comodo, che travisano i compiti della comunità e del potere
politici. In alcuni ambienti culturali anche cattolici sembra avere particolare risonanza la teoria di Robert
Nozick secondo il quale lo Stato è realtà consustanziale alla società del mercato. La comunità politica
sorgerebbe, in definitiva, per garantire un’esistenza ordinata al libero mercato. Lo Stato dev’essere
minimo, perché qualora oltrepassasse la funzione di protezione contro la forza, il furto, la frode, di
osservanza dei contratti, sarebbe ingiustificato.1 Lo Stato minimo di Nozick non include funzioni di
solidarietà in vista della realizzazione di scuola, sanità, sicurezza sociale per tutti e non prevede che il
libero mercato possa essere orientato dai vari soggetti sociali al servizio della società, in vista del
progresso sociale. La libertà è un valore assoluto che non può essere compromesso in alcun modo dal
principio della giustizia distributiva. «La tassazione dei guadagni del lavoro è sullo stesso piano del
lavoro forzato».2 L’unica vera giustizia è quella commutativa, quella che è alla base degli scambi e dei
contratti, mentre quella distributiva è solo ingiustizia.3
Ora, l’idea di uno Stato concepito in termini prevalentemente mercantili, esula dalla tradizione
cattolica dei principali pensatori politici del secolo XX, in ragione dell’antropologia a cui si ispirano e
dell’attenta riflessione sui compiti dello Stato sociale e democratico per il quale i diritti sociali non sono
marginali. Essa è anche estranea alla DSC, quale è stata elaborata lungo il tempo dalla Rerum novarum ad
oggi.4 Prima, però, di procedere all’esposizione della sintesi sociale della DSC relativamente alla
comunità politica è opportuno esporre alcuni fondamenti biblici su di essa.

Per gli aspetti biblici sulla politica si ripropongono qui i numeri 377-383 del Compendio della Dottrina
sociale della Chiesa.5

a) La signoria di Dio

Il popolo di Israele, nella fase iniziale della sua storia, non ha re, come gli altri popoli, perché riconosce soltanto la signoria
di Jahve. È Dio che interviene nella storia attraverso uomini carismatici, come testimonia il Libro dei Giudici.
All'ultimo di questi uomini, Samuele, profeta e giudice, il popolo chiederà un re (cf 1 Sam 8,5; 10,18-19).
Samuele mette in guardia gli Israeliti circa le conseguenze di un esercizio dispotico della regalità (cf 1
Sam 8,11-18) ); il potere regale, tuttavia, può essere anche sperimentato come dono di Jahve che viene
in soccorso del Suo popolo (cf 1 Sam 9,16). Alla fine, Saul riceverà l'unzione regale (cf 1 Sam 10,1- 2).
La vicenda evidenzia le tensioni che portarono Israele ad una concezione della regalità diversa da quella
dei popoli vicini: il re, scelto da Jahve (cf Dt 17,15; 1 Sam 9,16) e da Lui consacrato (cf 1 Sam 16,12-13),
sarà visto come Suo figlio (cf Sal 2,7) e dovrà renderne visibile la signoria e il disegno di salvezza (cf Sal

1 Cf R. NOZICK, Anarchy, State and Utopia, Basic Books, New York 19874, tr. it.: Anarchia, Stato e utopia. I fondamenti
filosofici dello «Stato minimo», Le Monnier, Firenze 1981, p. XIII.
2 Cf ib., p. 179.
3 Cf M. MATTEUCCI, Filosofi politici contemporanei, Il Mulino, Bologna 2001, p. 135.
4 Per uno sguardo sull’idea dello Stato nella DSC mi permetto di rinviare a M. TOSO, Welfare Society. La riforma del Welfare:
l'apporto dei Pontefici, LAS, Roma 20032.
5 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa,
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004.
72). Dovrà dunque farsi difensore dei deboli e assicurare al popolo la giustizia: le denunce dei profeti si
appunteranno proprio sulle inadempienze dei re (cf 1 Re 21; Is 10,1-4; Am 2,6-8; 8,4-8; Mi 3,1-4).

Il prototipo del re scelto da Jahve è Davide, di cui il racconto biblico sottolinea con compiacimento l'umile condizione (cfr.
1 Sam 16,1-13). Davide è il depositario della promessa (cf 2 Sam 7,13-16; Sal 89,2-38; 132,11-18), che lo
rende iniziatore di una speciale tradizione regale, la tradizione «messianica». Essa, nonostante tutti i
peccati e le infedeltà dello stesso Davide e dei suoi successori, culmina in Gesù Cristo, l'«unto di Jahve»
(cioè «consacrato del Signore»: cf 1 Sam 2,35; 24,7.11; 26,9.16; cf anche Es 30,22-32) per eccellenza,
figlio di Davide (cf le due genealogie in Mt 1,1-17 e Lc 3,23-38; cf anche Rm 1,3).

Il fallimento sul piano storico della regalità non porterà alla scomparsa dell'ideale di un re che, nella fedeltà a Jahve,
governi con saggezza e operi la giustizia. Questa speranza riappare più volte nei Salmi (cf Sal 2; 18; 20; 21; 72).
Negli oracoli messianici è attesa, per il tempo escatologico, la figura di un re abitato dallo Spirito del
Signore, pieno di sapienza e in grado di rendere giustizia ai poveri (cf Is 11,2-5; Ger 23,5-6). Vero
pastore del popolo d'Israele (cf Ez 34,23-24; 37,24), egli porterà la pace alle genti (cf Zc 9,9-10). Nella
letteratura sapienziale, il re è presentato come colui che pronuncia giusti giudizi e aborrisce l'iniquità (cf
Pr 16,12), giudica i poveri con equità (cf Pr 29,14) ed è amico dell'uomo dal cuore puro (cf Pr 22,11).
Diventa via via più esplicito l'annuncio di quanto i Vangeli e gli altri testi del Nuovo Testamento
vedono realizzato in Gesù di Nazaret, incarnazione definitiva della figura del re descritta nell'Antico
Testamento.

b) Gesù e l'autorità politica

Gesù rifiuta il potere oppressivo e dispotico dei capi sulle Nazioni (cf Mc 10,42) e la loro pretesa di farsi chiamare
benefattori (cf Lc 22,25), ma non contesta mai direttamente le autorità del Suo tempo. Nella diatriba sul tributo da
dare a Cesare (cf Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,20-26), Egli afferma che occorre dare a Dio quello
che è di Dio, condannando implicitamente ogni tentativo di divinizzazione e di assolutizzazione del
potere temporale: solo Dio può esigere tutto dall'uomo. Nello stesso tempo, il potere temporale ha
diritto a ciò che gli è dovuto: Gesù non considera ingiusto il tributo a Cesare.

Gesù, il Messia promesso, ha combattuto e sconfitto la tentazione di un messianismo politico, caratterizzato dal dominio
sulle Nazioni (cf Mt 4,8- 11; Lc 4,5-8). Egli è il Figlio dell'uomo venuto « per servire e dare la propria vita
» (Mc 10,45; cf Mt 20,24-28; Lc 22,24-27). Ai Suoi discepoli che discutono su chi sia il più grande, il
Signore insegna a farsi ultimi e a servire tutti (cf Mc 9,33-35), indicando ai figli di Zebedèo, Giacomo e
Giovanni, che ambiscono a sedersi alla Sua destra, il cammino della croce (cf Mc 10,35-40; Mt 20,20-
23).

c) Le prime comunità cristiane

La sottomissione, non passiva, ma per ragioni di coscienza (cf Rm 13,5), al potere costituito risponde all'ordine stabilito
da Dio. San Paolo definisce i rapporti e i doveri dei cristiani verso le autorità (cf Rm 13,1- 7). Insiste sul
dovere civico di pagare i tributi: «Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi
le tasse, le tasse; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto» (Rm 13,7). L'Apostolo non intende
certo legittimare ogni potere, quanto piuttosto aiutare i cristiani a «compiere il bene davanti a tutti gli uomini»
(Rm 12,17), anche nei rapporti con l'autorità, in quanto essa è al servizio di Dio per il bene della persona
(cf Rm 13,4; 1 Tm 2,1-2; Tt 3,1) e «per la giusta condanna di chi opera il male» (Rm 13,4).

San Pietro esorta i cristiani a stare «sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore» (1 Pt
2,13). Il re e i suoi governatori hanno il compito di «punire i malfattori e premiare i buoni» (1 Pt 2,14).
La loro autorità deve essere «onorata» (cf 1 Pt 2,17), cioè riconosciuta, perché Dio esige un
comportamento retto, che chiuda «la bocca all'ignoranza degli stolti» (1 Pt 2,15). La libertà non può
essere usata per coprire la propria malizia, ma per servire Dio (cf ib.). Si tratta allora di un'obbedienza
libera e responsabile ad un'autorità che fa rispettare la giustizia, assicurando il bene comune.

La preghiera per i governanti, raccomandata da san Paolo durante le persecuzioni, indica esplicitamente ciò che l'autorità
politica deve garantire: una vita calma e tranquilla, da trascorrere con tutta pietà e dignità (cf 1 Tm 2,1-2). I cristiani
devono «essere pronti per ogni opera buona» (Tt 3,1), «mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini»
(Tt 3,2), consapevoli di essere stati salvati non per le loro opere, ma per la misericordia di Dio. Senza
«un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso [da Dio] su di noi
abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro» (Tt 3,5-6), tutti gli uomini sono
«insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, [vivono] nella malvagità e
nell'invidia, degni di odio e [odiandosi] a vicenda» (Tt 3,3). Non si deve dimenticare la miseria della
condizione umana, segnata dal peccato e riscattata dall'amore di Dio.

Quando il potere umano esce dai limiti dell'ordine voluto da Dio, si autodivinizza e chiede l'assoluta sottomissione;
diventa allora la Bestia dell'Apocalisse, immagine del potere imperiale persecutore, ebbro «del sangue dei santi e del
sangue dei martiri di Gesù» (Ap 17,6). La Bestia ha al suo servizio il «falso profeta» (Ap 19,20), che
spinge gli uomini ad adorarla con portenti che seducono. Questa visione addita profeticamente tutte le
insidie usate da Satana per governare gli uomini, insinuandosi nel loro spirito con la menzogna. Ma
Cristo è l'Agnello Vincitore di ogni potere che si assolutizza, nel corso della storia umana. Di fronte a
tale potere, san Giovanni raccomanda la resistenza dei martiri: in questo modo i credenti testimoniano
che il potere corrotto e satanico è vinto, perché non ha più nessun ascendente su di loro.

La Chiesa annuncia che Cristo, vincitore della morte, regna sull'universo che Egli stesso ha riscattato. Il Suo regno si
estende anche nel tempo presente e finirà soltanto quando tutto sarà consegnato al Padre e la storia umana si compirà con
il giudizio finale (cf 1 Cor 15,20-28). Cristo svela all'autorità umana, sempre tentata dal dominio, il suo
significato autentico e compiuto di servizio. Dio è Padre unico e Cristo unico maestro per tutti gli
uomini, che sono fratelli. La sovranità appartiene a Dio. Il Signore, tuttavia, «non ha voluto riservare
solo a sé l'esercizio di tutti i poteri. Egli assegna ad ogni creatura le funzioni che essa è in grado di
esercitare, secondo le capacità proprie della sua natura. Questo modo di governare deve essere imitato
nella vita sociale. Il comportamento di Dio nel governo del mondo, che testimonia un profondissimo
rispetto per la libertà umana, dovrebbe ispirare la saggezza di coloro che governano le comunità umane.
Costoro devono comportarsi come ministri della provvidenza divina».6

Il messaggio biblico ispira incessantemente il pensiero cristiano sul potere politico, ricordando che esso
scaturisce da Dio ed è parte integrante dell'ordine da Lui creato. Tale ordine è percepito dalle coscienze
e si realizza, nella vita sociale, mediante la verità, la giustizia, la libertà e la solidarietà che procurano la
pace.7

1. Origine, valore, rapporto con la società civile, limiti della comunità politica
1.1. Derivazione della comunità politica

La comunità politica è un’organizzazione ulteriore rispetto alla comunità civile: «Gli uomini, le
famiglie e i diversi gruppi che formano la comunità civile, sono consapevoli di non essere in grado, da
soli, di costruire una vita capace di rispondere pienamente alle esigenze della natura umana e avvertono
la necessità di una comunità più ampia, nella quale tutti rechino quotidianamente il contributo delle
proprie capacità, allo scopo di raggiungere sempre meglio il bene comune. Per questo essi
costituiscono, secondo vari tipi istituzionali, una comunità politica».8

6 Catechismo della Chiesa cattolica, 1884.


7 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa,
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, nn. 377-383.
8 Gaudium et Spes (=GS) 74.
Secondo la concezione dei pontefici, la comunità politica non nasce, dunque, da individui antisociali,
che cercano la comunità non per motivi di solidarietà o per mutua benevolenza, ma semplicemente per
un’autoconservazione razionale e calcolata. Non deriva nemmeno da un processo di deterioramento
dello stato iniziale dell’umanità; né deve considerarsi come un male necessario o minore, a cui bisogna
inevitabilmente sottostare. La comunità politica non trae origine unicamente da un atto di volontà
comune o da un consenso sociale o da un dialogo pubblico, che avrebbero il compito di fondarla e farla
esistere prescindendo dall’essere delle persone, dalla loro concezione di bene, dalla loro identità
culturale come è per la filosofia moderna ed anche, sia pure in termini diversi, per quella post-
moderna.9 Essa scaturisce dalla natura delle persone, esseri liberi e responsabili,10 ossia da volontà e da
consenso, e da un previo ordine ontologico ed etico oggettivo, impresso nell’uomo da Dio creatore,
confermato e perfezionato dal Redentore. Tale ordine, che non è pattuibile e che va gradualmente
scoperto e sviluppato, anima interiormente l’intelligenza e la volontà, sorregge e consente il dialogo
sociale nonché l’azione costruttrice e solidale della comunità politica.
Più precisamente, la comunità politica è fondata dalle persone per raggiungere il proprio
compimento umano, a partire dalla tensione naturale verso il vero e il bene, dalla comune ricerca di essi.
Per questo, la comunità politica è realtà positiva, connaturale agli uomini, che la originano sulla base
della fraternità e della mutua amicizia, grazie anche ad un ordinamento giuridico certo, per ottenere, col-
laborando insieme e stabilmente, un fine comune altrimenti irraggiungibile: la crescita in pienezza di
ognuno. La libertà, tramite cui le persone creano la comunità politica, è libertà di soggetti la cui intel-
ligenza e volontà sono costitutivamente vincolate dall’inclinazione verso il vero e il bene e, quindi, non
sono condannate allo scetticismo e al relativismo etico. Grazie a simile libertà ogni consenso sociale,
ogni dialogo pubblico, ogni impegno di collaborazione sono radicati in un fondamento comune, senza
il quale sarebbero impossibili e non avrebbero senso. E proprio in forza del fatto che ogni uomo è
capace di verità e di bene, nelle società pluraliste e multiculturali è possibile mettere a confronto visioni
del mondo e concezioni del bene che tra loro possono essere diverse e talora concorrenti, ma non
incommensurabili, in quanto sono tutte derivanti dalla ragione umana universale.11
In definitiva, la comunità politica nasce dalla comunità civile ed è costituita per essere a servizio della
crescita in essere di quest’ultima. La distinzione tra comunità politica e comunità civile è conquista di
questi ultimi secoli. La Chiesa vi ha contribuito soprattutto con la sua antropologia globale, secondo cui
l’uomo è essere autonomo, relazionale, aperto alla Trascendenza. Si è battuta con sempre crescente
impegno sia nei confronti degli Stati liberal-borghesi improntati ad un individualismo atomista,12 sia nei
confronti degli Stati totalitari e totalizzanti che tendevano ad annientare tale visione dell’uomo o ad
assorbirla nella sfera politica.13 È intervenuta con il suo magistero al fine di salvaguardare il pluralismo
sociale e di promuovere una più adeguata realizzazione del bene comune e della stessa democrazia,
secondo i principi della solidarietà, della sussidiarietà e della giustizia. Ancora oggi, a fronte del
neoliberismo, che tende ad identificare il mercato con la società civile, e a fronte dello Stato
assistenziale, che emargina quest’ultima e non la responsabilizza, ne rivendica la specificità e il ruolo
imprescindibile, insostituibile, nel concorrere al soddisfacimento dei molteplici bisogni umani, materiali
e spirituali, e alla realizzazione di una cittadinanza più estesa, non rinchiusa entro i confini statali.14

1.2. Cos’è la comunità civile


L’area sociale della comunità civile è un insieme di relazioni e di risorse, culturali ed associative,
relativamente autonome dall’ambito sia politico che economico,15 caratterizzata da una propria capacità
di progetto, orientata a favorire una convivenza sociale più libera e più giusta. In tale sfera, si associano
9 Cf su questi aspetti Appendice 3.
10 Cf Pacem in Terris (=PT) 2-3.
11 Qui, a nostro avviso, sta la differenza tra le teorie meramente dialogiche o contrattualiste e la DSC. La comunità
politica non esiste solo perché gli uomini dialogano ed argomentano, ma perché la loro discussione o il loro contratto
avvengono entro l’alveo di una comune ricerca del vero e del bene, la quale dipende – non in maniera deterministica o
meccanicistica – dalla natura umana creata e redenta, che si attua in termini di libertà e responsabilità. Nel dialogo e nel
contratto non dev’essere assente la propria realtà, la propria natura umana. Il dialogo pubblico e il consenso possono essere
segnali della verità ma non possono esserne in alcun modo causa e fondamento.
12 Cf ad esempio Rerum Novarum (=RN) 40-42.
13 Cf ad esempio Quadragesimo Anno (=QA)91-95.
14 Cf Centesimus Annus (=CA) 48-49.
15 Cf P. DONATI, Alla ricerca di una società civile. Che cosa dobbiamo fare per aumentare le capacità di civilizzazione del paese?, in
AA.VV., La società civile, Mondadori, Milano 1997, pp. 64-65.
liberamente vari gruppi di cittadini, che si mobilitano per elaborare ed esprimere i propri orientamenti,
per far fronte ai loro bisogni fondamentali, per perseguire determinati interessi. Ciò avviene, da un lato,
con pratiche di mutuo sostegno e di cooperazione all’interno dei singoli gruppi e, dall’altro, con la
codificazione di regole democratiche che rendono possibile nuove forme di convivenza – come quella
dell’economia civile –, nel contesto della società più ampia.16
Ciò che differenzia la società civile da un mero aggregato di gruppi, che regolano i loro rapporti in
termini di scambio corporativo, è l’esistenza di un ethos collettivo condiviso, di un comune senso di
appartenenza. Grazie ad essi, la società civile è il luogo ove si promuovono, mediante dialogo serrato e
collaborazione, entro un quadro di responsabilità personali e collettive, obiettivi sempre più consistenti
di promozione umana per tutte le famiglie culturali, convergendo sulle persone concrete, considerate
nella loro relazionalità, nel loro radicamento in contesti sociali locali e nazionali, sovranazionali e
mondiali.

1.3. Distinzione, interdipendenza, reciprocità tra comunità civile e comunità politica

La comunità politica, che è espressione della comunità civile, se ne distingue e nello stesso tempo ne
dipende, come è anche vero che la comunità civile non può essere se stessa senza la comunità politica.
La sintesi sociale della comunità politica e la mediazione degli interessi particolari in vista del bene
comune si effettuano in parte già nella comunità civile, che in molti Paesi va aumentando
legittimamente la propria soggettività politica. L’ethos della comunità politica non è disgiunto da quello
della comunità civile e viceversa. D’altra parte, le tensioni della comunità civile, come i suoi aspetti
meno positivi, si riverberano inevitabilmente sulla comunità politica. A loro volta, le inefficienze della
comunità politica danneggiano la comunità civile nel suo moto di autopromozione.
Per quanto si è detto, è destituita di fondamento la rigida contrapposizione tra comunità civile e
comunità politica, con la tendenza a considerare la seconda come l’origine di tutti i mali e a vedere nella
prima il soggetto da cui partire per restituire alla vita associata valori fondanti e atteggiamenti virtuosi.
In realtà, esiste una profonda continuità tra le due comunità, nel senso che, al di là delle responsabilità
specifiche dell’una e dell’altra, le dinamiche che le qualificano sono spesso intrecciate e interagenti. Ad
esempio, la conduzione clientelare della politica, la sua trasformazione in politica dello scambio o della
mediazione tra interessi corporativi e la perdita di tensione progettuale sono conseguenza di prassi e di
debolezze etiche ed ideali che sono proprie della comunità civile.17
Secondo i pontefici, la reciprocità e l’interdipendenza che legano la comunità politica con la
comunità civile non sono uguali nella loro direzionalità. Esiste, infatti, il primato della comunità civile
sulla comunità politica. Ciò significa che la comunità politica ha la sua ultima ragione d’essere non in se
stessa. Il motivo per cui esiste è essenzialmente quello di essere ministeriale nei confronti della
comunità civile e, in definitiva, nei confronti delle persone e dei gruppi che le sono più vicini. Le
persone e le società in cui si nasce e si ricevono quegli aiuti che non possono essere forniti dalla
comunità politica hanno preminenza su di essa, perché ne consentono e ne condizionano radicalmente
l’esistenza, anche dal punto di vista democratico. Per questo, le persone e la comunità civile non
possono essere considerate un’appendice o un momento transeunte della comunità politica. Questa
deve regolare i propri rapporti nei confronti della comunità civile secondo il principio di sussidiarietà,
per il quale una comunità non può essere strumentalizzata dall’altra perché ognuna di esse riceve il
diritto d’esistenza e di iniziativa dalle persone che le fondano.
I confini tra le due comunità non sono definibili una volta per tutte. È la coscienza storica e civile
dei popoli che li determina e li ridisegna, a seconda della propria maturità morale e delle esigenze
storiche. I rapporti tra comunità politica, comunità civile e mercato – non va dimenticata, infatti, anche
questa sfera della socialità umana – vanno ripensati e strutturati senza rinunciare a nessuno dei tre poli,
qualificando meglio le loro funzioni, senza sovradimensionamento dell’uno o dell’altro. Nei Paesi
occidentali, ove ha prevalso il modello dello Stato assistenziale, ossia uno Stato che ha accentrato molte
funzioni sociali ed economiche, occorre restituire maggior spazio di iniziativa alla comunità civile e al
mercato. In altri Paesi, ove la comunità civile è stata distrutta o esiste appena, bisogna procedere a
ricostruirla o a organizzarla massicciamente.

16 Cf COMITATO SCIENTIFICO-ORGANIZZATORE, «Quale società civile per l’Italia di domani?», Documento preparatorio della
XLIII Settimana sociale dei cattolici italiani (Napoli, 16-20 novembre 1999), EDB, Bologna 1999, n. 1, p. 9.
17 Cf ib., n. 27, p. 22.
1.4. La comunità politica è connaturalmente aperta alle esigenze del bene comune universale

La comunità politica del proprio Paese non è, però, l’ultimo livello di socialità politica richiesta per la
realizzazione delle condizioni necessarie al compimento umano delle persone e dei vari gruppi sociali.
Ci troviamo di fronte ad una serie di questioni: le esigenze del bene comune universale dell’intera
famiglia umana; la crescente interdipendenza, specie a livello economico, fra le comunità politiche;18 la
conseguente e sempre più palese insufficienza di queste ultime a risolvere da sole problemi che sono
sempre più complessi e mondializzati;19 l’inadeguatezza della normativa e della regolazione politica e
giuridica dei rapporti internazionali che avvengono sulla base di un concetto inadeguato di sovranità.
Alla luce di tali questioni appaiono sempre più evidenti i limiti strutturali di ogni comunità politica. E in
tale contesto, il tipo di comunità politica che si invera nella figura dello Stato moderno è in progressivo
declino.
Oggi, più che mai, la comunità politica è chiamata a concepire e a perseguire il proprio bene comune
come una componente del bene comune dell’intera famiglia umana, lasciando da parte pretese di
nazionalismi autarchici e di sovranità illimitate. La natura e le esigenze del bene comune universale
richiedono, in particolare, «non solo che le singole comunità politiche perseguano i propri interessi
senza danneggiarsi le une e le altre, ma che mettano pure in comune l’opera loro quando ciò sia
indispensabile per il raggiungimento di obiettivi altrimenti non raggiungibili; nel qual caso però occorre
usare ogni riguardo perché ciò che torna di utilità ad un gruppo di comunità politiche, non sia di danno
ad altre, ma abbia anche su esse riflessi positivi».20

2. Elementi costitutivi dell’essere della comunità politica

2.1. La soggettività del popolo

Le comunità politiche contemporanee, mentre vanno sempre più adottando forme di governo di
tipo democratico, appaiono colpite al cuore da una crisi profonda. Se per una concomitanza di fattori
sono sospinte a trovare il loro inveramento nella costituzione di un ordine politico mondiale,
unificandosi in uno sforzo comune di dialogo, di cooperazione per avvicinarsi sempre più a tale ideale,
altri fattori le conducono verso la disgregazione interna. Fenomeni di nazionalismi risorgenti e di
localismi esasperati, rivendicazioni minacciose di minoranze etniche, processi migratori che mescolano
le culture creando inevitabili problemi di convivenza, mass media sovrastanti e tendenzialmente creatori
di un pensiero unico e debole colpiscono la sua essenza di comunione morale, di unità nella diversità.
La vera sostanza, vivente e libera, della comunità politica è il popolo: moltitudine di persone, unite sotto
giuste leggi, da mutua fraternità, in un determinato territorio, per il bene comune della loro esistenza umana. Il
concetto di popolo significa che i membri della comunità politica sono uniti in modo organico e cooperativo
tra loro e nello stesso tempo conservano l’insopprimibile autonomia d’esistenza e di fine, la loro diversità.
Ciò che lo caratterizza intimamente e primariamente, e della molteplicità delle etnie e delle culture fa
un’unità, è la comunione e la condivisione a livello spirituale e morale tra i vari cittadini e tra i vari gruppi
d’appartenenza, «come comunicazione di conoscenze nella luce del vero; esercizio di diritti e
adempimento di doveri; impulso e richiamo al bene morale; e come nobile comune godimento del bello
in tutte le sue legittime espressioni; permanente disposizione ad effondere gli uni negli altri il meglio di
se stessi; anelito ad una mutua e sempre più ricca assimilazione di valori spirituali: valori nei quali
trovano la loro perenne vivificazione e il loro orientamento di fondo le espressioni culturali, il mondo
economico, le istituzioni sociali, i movimenti e i regimi politici, gli ordinamenti giuridici e tutti gli altri
elementi in cui si articola e si esprime la convivenza nel suo evolversi incessante».21
In un tempo in cui la monopolizzazione degli strumenti creativi dell’opinione pubblica e l’idolatria
della Nazione, della razza e della classe avevano condotto all’esaltazione del collettivo e all’alterazione
delle funzioni della comunità politica, Pio XII, affrontando il tema della democrazia, definisce il popolo
come corpo morale, insieme di persone responsabili, le quali sono soggetto attivo e responsabile, comunitario,
perché animato dal senso del bene comune. Il popolo non è agglomerato amorfo di persone, soggetto
passivo, manipolabile e strumentalizzabile, bensì insieme di persone che ha la possibilità di formarsi una
propria opinione sulla cosa pubblica, la libertà di esprimere il proprio sentire politico e di farlo valere in

18 Cf Mater et Magistra (=MM) 66; PT 43; SRS 26.


19 Cf Populorum Progressio (=PP) 3; Sollicitudo rei socialis (=SRS) 9; CA 58.
20 PT 36.
21 PT 16.
maniera confacente al bene comune. «Popolo e moltitudine amorfa, o come suol dirsi “massa” – spiega
Pio XII – sono due concetti diversi. Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte,
e non può essere mossa che dal di fuori. Il popolo vive della pienezza di vita degli uomini che lo
compongono, ciascuno dei quali – al proprio posto e nel proprio modo – è una persona consapevole
delle proprie responsabilità e delle proprie convinzioni. La massa, invece, aspetta l’impulso dal di fuori,
facile trastullo nelle mani di chiunque ne sfrutti gli istinti e le passioni, pronta a seguire, a volta a volta,
oggi questa, domani quell’altra bandiera. Dalla esuberanza di vita di un vero popolo la vita si effonde,
abbondante, ricca, nello Stato e in tutti i suoi organi, infondendo in essi, con vigore incessantemente
rinnovato, la consapevolezza della propria responsabilità, il vero senso del bene comune».22

2.2. Persona, multietnicità e multiculturalità

Giovanni XXIII, quasi dieci anni dopo, anche al fine di ridurre le conflittualità sociali e culturali,
afferma che la persona umana è fondamento della comunità politica, con la sua dignità di essere libero e
responsabile, con i suoi diritti e doveri.23 La comunità politica che si identifica con un gruppo religioso,
con una razza o con una Nazione – lo mostra l’esperienza – tende ad essere entità che ha preminenza
ontologica ed etica nei confronti di quelle persone o cittadini che non appartengono alla religione o alla
razza o alla Nazione scelte come luogo di incarnazione e di espressione massima della stessa comunità
politica.
Nelle comunità politiche multietniche e multiculturali occorre tener presente che la dignità della persona
è fondata non sull’etnia o sulla cultura, ma su ciò che fa di ogni singolo un essere umano e un membro
della famiglia umana. I rapporti che intercorrono fra singole persone, in quanto esseri umani e in quanto
membra della stessa famiglia umana, sono rapporti più profondi e qualificanti di quelli che li legano sia
alle comunità nazionali sia alle etnie, e alle culture. Riconoscendo, pertanto, che soggetto, fondamento e
fine della comunità politica sono le persone, e non la religione, la razza o la Nazione, ne risultano
rafforzati, per un certo verso, gli stessi diritti umani. Questi, infatti, sia che concernano i valori spirituali
sia che concernano i valori materiali, sono espressione della dignità dell’essere umano, ossia hanno
riferimento immediato non tanto all’appartenenza etnica o religiosa o culturale ma alla humanitas: tutti
gli esseri umani possono legittimamente rivendicarli nel consorzio civile non già perché appartenenti a
questa o quella Nazione, a questo o a quel gruppo religioso, ma perché esseri umani, perché persone e
perché membra della stessa famiglia umana.
In non poche comunità politiche occorre affrontare i problemi posti dalla multiculturalità, onde
evitare il ritorno dello spettro del razzismo, delle guerre di religione. In primo luogo va riaffermata la
responsabilità dei luoghi e delle forze educativi, che devono proporre e aiutare la comprensione delle
differenze, passando dalla cultura dell’indifferenza alla cultura della differenza, e da questa alla convivialità delle
differenze, senza per questo sfociare in forme di eclettismo nei riguardi della verità o di indifferenza di
fronte ai valori della vita. Quest’opera di promozione educativa dev’essere sostenuta da tutti e
dev’essere accompagnata non solo dai singoli o dai gruppi, ma anche dall’organizzazione giuridica della
società e dai suoi comportamenti. Pertanto, anche sul piano legislativo bisogna che si passi da un
approccio che tiene presenti soltanto le esigenze monoculturali, ad un altro, aperto a logiche più ampie
di tipo interculturale.
In questa logica di apertura si inserisce quella cultura della Nazione di cui parla l’enciclica Centesimus
annus e che consiste nell’impegno di essere fedeli alla propria identità, ossia a quel patrimonio di valori
tramandati e acquisiti, che costituiscono il tessuto culturale di un popolo. Ma essa consiste anche nella
ricerca continua e a tutto campo della verità, e quindi nel «rendere quei valori più vivi, attuali e
personali, discernendo ciò che nella tradizione è valido da falsità ed errori o da forme invecchiate, che
possono essere sostituite da altre più adeguate ai tempi. In questo contesto, conviene ricordare che
anche l’evangelizzazione si inserisce nella cultura delle Nazioni, sostenendola nel suo cammino verso la
verità e aiutandola nel lavoro di purificazione e di arricchimento».24

2.3. Comunità politica e Nazione

22 Radiomessaggio (Natale 1944) 8.


23 Cf PT 3.
24 CA 50.
La comunità politica si distingue dalla Nazione. Entrambi sono realtà etico-sociali, veramente umane,
non mere realtà biologiche. La Nazione, oltre che essere un dato culturale, è anche legata all’ordine
biologico. Invece, la comunità politica è più una costruzione delle volontà ed è strettamente legata alle
facoltà intellettuali e spirituali dell’uomo. Nasce allorché una o più Nazioni decidono di organizzarsi
secondo un’esistenza politica.
Non solo la comunità nazionale, come tutte le comunità subordinate, è in tal modo compresa nel-
l’unità superiore della comunità politica; ma la comunità politica stessa contiene nella sua unità
superiore i gruppi familiari, religiosi, etnici, i cui diritti essenziali e le cui libertà le sono anteriori, e una
molteplicità di altre società particolari che procedono dalla libera iniziativa dei cittadini e che devono
essere il più possibile autonome.
Secondo la Chiesa, le minoranze etniche che, per varie ragioni, non possono assurgere al rango di
comunità politiche, vanno riconosciute e rispettate. I poteri pubblici debbono, anzi, promuovere il loro
sviluppo con misure efficaci a favore della loro lingua, della loro cultura, del loro costume, delle loro
risorse ed iniziative economiche. Dal canto loro, le stesse minoranze etniche non devono costituirsi –
proprio quando le condizioni storiche accrescono l’interdipendenza, e andando contro alla vocazione
intrinseca di ogni essere umano di integrarsi con gli altri e di perfezionarsi condividendo i valori
spirituali – in entità isolate all’interno delle comunità politiche in cui vengono riconosciute,
autoescludendosi così dalla comunicazione con gli altri gruppi etnici. Le minoranze non possono
anteporre le loro specificità ai valori umani universali, come se il bene della famiglia umana dovesse
essere subordinato agli interessi della loro etnia.25
Il Concilio Vaticano II esorta a superare l’egoismo nazionale ed etnico, per nutrire un profondo
rispetto verso l’umanità, avviata verso una maggiore unità.26 L’attaccamento alla propria Nazione è un
valore d’ordine naturale. Allorché non degenera in disprezzo degli altri o in un sentimento di
superiorità, non è contrario alla giustizia. I diritti delle minoranze vanno inquadrati nelle esigenze del
bene comune della comunità politica e del genere umano. Ciò non esclude che le minoranze
dispongano, all’interno delle comunità politiche cui appartengono, di un’autonomia amministrativa,
necessaria per quanto concerne la salvaguardia dei costumi, della lingua e della religione.27 Le minoranze
non devono essere gruppi assistiti ai quali la maggioranza impone la propria volontà, ma soggetti
responsabili del proprio sviluppo.28

2.4. Comunità politica e Stato

Un’ultima importante distinzione che emerge dalla DSC è quella relativa alla comunità politica e allo
Stato. Lo Stato è quella parte della comunità politica che riguarda in special modo l’osservanza delle
leggi, l’incoraggiamento del benessere comune e dell’ordine pubblico, l’amministrazione della cosa
pubblica. Lo Stato è una parte specializzata negli interessi del tutto. Non è propriamente un insieme di
persone, anche se talora si usa tale espressione per indicare la stessa comunità politica. È un complesso
di istituzioni che hanno il compito di regolare le varie società per quegli aspetti che sono relativi alla
realizzazione del bene comune. Per essere ha bisogno delle persone, delle loro intelligenze ed energie
morali, per cui il suo funzionamento e il suo orientamento dipendono ultimamente da queste. Lo Stato,
pertanto, è soltanto un organo qualificato ad usare il potere e la coercizione, costituito da esperti e
specialisti dell’ordine e del benessere pubblico. È uno strumento a servizio delle persone e dei gruppi.
La persona umana, in quanto cittadino, è fatta per la comunità politica e la comunità politica è fatta
per la persona umana in quanto tale. Ma l’uomo non è fatto per lo Stato. È lo Stato che è fatto per l’uomo.29

3. L’autorità
3.1. Autorità e ordine morale

25 Cf PT 35.
26 Cf GS 82.
27 Cf GIOVANNI PAOLO II, Alle popolazioni autoctone del Canada (18 settembre 1984), in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VII,
2 (1984), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1985, pp. 591-597.
28 Cf GIOVANNI PAOLO II, Alla missione santa Teresa del Paraguay (17 maggio 1988), in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XI, 2
(1988), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1989, pp. 1515-1524.
29 Cf PIO XI, Lettera enciclica Divini Redemptoris (19.03.1937) n. 29, in Spiazzi I, pp. 322-375.
La comunità politica è fondata sulla condivisione di comuni intenti e sulla cooperazione per attuarli.
L’autorità è quel principio coordinativo e direttivo mediante cui la molteplicità di persone e di
società che danno vita alla comunità politica la realizzano come ordine morale che pone ed orienta
relazioni, istituzioni, ordinamenti, procedure al servizio della crescita umana di tutti, singoli e gruppi.
Tale principio coordinativo sarebbe richiesto anche in un’ipotetica società di persone giuste, non ferite
dall’egoismo e dal peccato. Infatti, nel perseguimento del bene comune non vi sono vie predeterminate.
Data, pertanto, la disparità di vedute che si verrebbe a determinare nella moltitudine di persone che
legittimamente possono indirizzarsi verso decisioni diverse e data anche la fragilità umana, è
indispensabile un centro coordinativo capace di dirigere le energie di tutti i cittadini verso il bene
comune.30 Ma l’autorità è pure necessaria perché è non solo giusto ma anche indispensabile che i singoli
e i gruppi si occupino del bene particolare e curino l’ambito che è loro più proprio.31
Durante la sua lunga storia, la Chiesa si è confrontata con diverse concezioni dell’autorità. Specie
negli ultimi secoli, quando si è passati dagli Stati assoluti a quelli democratici, ossia a quelle forme di
comunità politica in cui il grande apparato statale – dapprima costruito per unificare sotto una stessa
legge tante realtà frammentate ed autonome, successivamente identificato con il monarca o con una
classe – è stato posto sotto la sovranità del popolo, la Chiesa si è premurata di difendere e di proporre
un concetto di autorità non slegato dalla natura delle persone e da Dio. L’autorità non è potere il-
limitato, irresistibile, insindacabile nelle mani di re, popoli, razze, maggioranze ritenuti decisori assoluti
della verità e del bene, dello stesso diritto. Sebbene abbia una potestà a carattere universale, l’autorità
possiede limiti precisi al suo esercizio. Alcuni limiti le sono interni, in quanto le vengono posti dalla sua
stessa origine plurima e dal suo scopo, il bene comune.
L’esercizio dell’autorità è sottratto all’arbitrarietà, alle ideologie del dominio o delle procedure, agli
umori di una coscienza storica manipolata dai mass media, quando si riconosce che non c’è separazione
fra autorità e morale, quando non si fa derivare il diritto solo da un’opzione volontarista della
maggioranza. Ebbene, la fonte immediata e remota dell’autorità, nonché il fine per cui è costituita, la
collegano connaturalmente con l’ordine morale. L’autorità ha le stesse sorgenti della comunità politica:
l’uomo, essere intrinsecamente sociale, e Dio, creatore dell’uomo: «Iddio, infatti, ha creato gli esseri
umani sociali per natura; e poiché non vi può essere società che “si tenga in piedi se non c’è l’autorità,
agendo ognuno con mezzi efficaci ed unitari verso un fine comune, ne segue che questa autorità è
indispensabile alla convivenza civile; ed essa, non diversamente dalla società, deriva dalla natura e
quindi deriva da Dio”».32
Più precisamente, l’autorità trova la sua origine sia nella socialità delle persone, indipendentemente
da ogni atto di volontà; sia in una scelta o in un consenso dato, giacché l’uomo è essere libero e
responsabile. La scelta di costituire l’autorità non è arbitraria; non è un comportamento che è
indifferente assumere o rifiutare. Infatti, le persone sono moralmente obbligate ad istituire l’autorità –
in caso contrario danneggerebbero la loro stessa umanità – da quell’insieme di fini che è inscritto in
ogni essere umano e nella sua socialità e che lo protende verso il suo compimento. La necessità morale
non esclude la libertà psicologica; non esclude cioè che il dovere, implicante la costruzione di un ordine
morale politico, sia compiuto liberamente, mediante l’autodeterminazione. Questo è imposto dalla
ragion pratica, sia muovendo dalla considerazione dei beni che si presentano al pensiero e al desiderio
come loro metro di misurazione, ossia come valori oggettivi, sia da un’immagine globale di uomo e da
una attenta analisi delle circostanze storiche.
Mediante il consenso, il popolo, che nella sua totalità è il soggetto dell’autorità politica, accetta di
trasmetterne l’esercizio a dei rappresentanti senza, però, mai perderne il possesso originario. Il popolo
conserva il diritto di governare, cosa che si concretizza nella potestà di eleggere, controllare e criticare i
governanti, ed eventualmente anche di rimuoverli, qualora non adempiano i loro compiti in modo
adeguato, ossia quando attentano gravemente e in maniera pervicace all’ordine morale entro cui sono
tenuti a perseguire il bene comune.
L’autorità, dunque, deve lasciarsi guidare dalla legge morale. Tutta la sua dignità deriva dallo
svolgersi nell’ambito di tale legge,33 che la rende partecipe della stessa autorità di Dio.34

30 Cf GS 74.
31 Cf TOMMASO D’AQUINO, De regimine principum, libro I, c. 1; LEONE XIII, Lettera enciclica Diuturnum illud (29.06.1881)
n. 8, in ASS 14 (1881-1882) 3-14.
32 PT 19; LEONE XIII, Lettera enciclica Immortale Dei in Acta Leonis XIII, V, 1885, p. 120.
33 Cf GS 74.
34 Cf PT 20; Radiomessaggio (Natale 1944) 15.
3.2. Autorità è facoltà di comandare secondo ragione

In ragione della sua duplice origine dalla socialità e dal consenso, del necessario riferimento al-
l’ordine morale, della natura del suo scopo e dei destinatari, l’autorità non può essere intesa come forza
bruta, né come forza che trova la sua norma in valori di carattere puramente sociologico o storico.
L’autorità deve strutturarsi in maniera omogenea alle sue cause e ai suoi fini, come potestà di comando
non secondo arbitrio o volontà di potenza, che disattendono l’ordine morale o pretendono di crearlo
dal nulla. È chiamata a porsi come forza morale, come principio unitivo e coordinativo che comanda ed
obbliga primariamente in virtù di tale ordine, cui cerca di adeguarsi sempre più, per poterlo tradurre nel-
le azioni concrete indispensabili a raggiungere il bene comune.
«L’autorità non è una forza incontrollata; è invece la facoltà di comandare secondo ragione. Trae
quindi la virtù di obbligare dall’ordine morale».35 L’autorità, quando comanda secondo ragione, obbliga
ad obbedire più che al suo atto di comando, considerato nella sua formalità – atto posto mediante
persone che per dignità sono uguali agli altri cittadini –,36 al contenuto delle leggi che essa ha reso il più
possibile conformi all’ordine morale. Le leggi sono giuste non solo perché sono espresse dalla
maggioranza in conformità ai principi sostanziali e alle regole formali previste dalla Costituzione, ma
soprattutto perché rispettano e promuovono la dignità della persona umana. L’autorità che comanda
secondo ragione pone il cittadino in rapporto non tanto di sudditanza a un altro uomo, quanto piutto-
sto di obbedienza all’ordine morale e, quindi, a Dio stesso che ne è la fonte ultima.37 Chi rifiuta
obbedienza all’autorità che agisce secondo l’ordine morale si contrappone anche a Dio (cf Rm 13,1-2; Tt
3,1; 1Pt 2,13-14).38

35 PT 20.
36 Cf ib., 21.
37 Cf ib.
38 Cf CCC 1899-1900.
3.3. Resistenza all’autorità
La razionalità e la conformità all’ordine morale sono, pertanto, elementi indispensabili all’autorità,
più della coercizione a cui deve ricorrere, entro i limiti previsti dalla legge, per ottenere il rispetto delle
decisioni prese. Senza le prime l’autorità non obbligherebbe gli esseri umani a livello di coscienza –
esseri per l’appunto razionali e morali – all’attuazione del bene comune; perderebbe la sua cogenza
etica, minando alla base la sua stessa potestà di comando e di coercizione. Quando le sue leggi e i suoi
comandi sono apertamente in contrasto con la ragione e l’ordine morale, essa commette soprusi e
violenze nei confronti nei cittadini,39 ai quali, pertanto, va riconosciuto, a seconda delle circostanze, la
possibilità della resistenza (attiva e passiva),40 della disobbedienza civile o dell’obiezione di coscienza.
L’obiezione di coscienza non si radica nell’autonomia assoluta del cittadino rispetto alla norma e tanto
meno nel disprezzo della legge dello Stato, ma nella coerente fedeltà alla stessa fondazione morale della
legge civile. L’obiezione di coscienza, infatti, attesta il valore prioritario della persona e della sua libertà
di fronte ad una legge ingiusta o illegittima o invalida (incostituzionale) della comunità politica, afferma
la necessità che ogni norma civile sia coerente con i valori morali e richiama a tutti, e in primo luogo ad
ogni cristiano, che bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini (cf At 4,19-20; 5,29).
Raccomandandone il riconoscimento e la regolamentazione giuridici, la DSC ha mostrato particolare
attenzione nei confronti dell’obiezione di coscienza al servizio militare41 e all’intervento d’aborto.42
Secondo la Chiesa, l’obiezione di coscienza, rettamente intesa e sollevata, è un diritto che va
riconosciuto, sancito e protetto, per tutelare i cittadini nei confronti di uno Stato che si fa fonte
originaria ed arbitro insindacabile dei diritti e dei doveri delle persone. Un’obiezione di coscienza,
concepita come rivendicazione e rispetto dei fondamentali valori morali della persona e della sua vita,
non diminuisce ma rafforza il senso genuino della legalità.43

39 Cf TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 93, a. 3, ad 2um.


40 Cf PP 31; Libertatis conscientia 79. La gravità dei pericoli che il ricorso alla violenza oggi comporta fanno ritenere
comunque preferibile, quando sia possibile, la strada della resistenza passiva, più conforme ai principi morali e non meno
promettente di successo.
41 Cf GS 79.
42 Cf Evangelium Vitae (=EV) 73-74.
43 Cf su questo CEI-COMMISSIONE ECCLESIALE GIUSTIZIA E PACE, Educare alla legalità, EDB, Bologna 1991, n. 14, pp.
18-20.
4. Il bene comune e i diritti umani
4.1. Il bene comune: frutto dell’impegno convergente dell’azione dei cittadini e dell’autorità

Inevitabilmente connesso con il tema dell’autorità è il tema del bene comune, che ne rappresenta il fine.
L’impegno per il suo conseguimento, secondo la DSC, non compete solo all’autorità, ma coinvolge la
collaborazione di tutti, singoli e gruppi. La comunità politica sorge proprio come cooperazione di tutti a
tale fine. Responsabilità propria dell’autorità nei confronti del bene comune è quella di assicurarne
l’attuazione, facendo sì che tutti i cittadini e tutti i corpi intermedi apportino il loro specifico contributo
in duplice modo: 1) armonizzando il perseguimento dei propri interessi particolari con il bene comune;
2) offrendo, in beni e in servizi, ciò che la legittima autorità stabilisce, secondo criteri di giustizia, nella
debita forma e nell’ambito della propria competenza: cioè con atti formalmente perfetti, i cui contenuti
siano moralmente buoni o, almeno, ordinabili al bene.44 Il bene comune, dunque, trae vigore e pienezza
essenzialmente dal libero e responsabile impegno dei cittadini che, in vista del loro compimento umano,
istituiscono l’autorità e si subordinano ad essa non in atteggiamento di passività, ma di ricca e
molteplice operosità. Detto altrimenti, il bene comune, che è il bene della comunità politica, è effetto
congiunto sia dell’azione dei cittadini, che si lasciano guidare dal principio superiore dell’autorità, sia
dell’azione di un’autorità che ascolta, orienta e comanda, prendendo decisioni rispondenti alle esigenze
dei cittadini, che proprio a tal fine l’hanno preposta.
In quelle filosofie politiche, che sono figlie della separazione moderna tra ordine morale e politica, il
rapporto tra autorità e bene comune viene risolto sia attribuendo alla prima un potere demiurgico nei
confronti del secondo, per cui è l’autorità che lo fonda eticamente e lo crea chiamandolo dal nulla,
senza esserne in alcun modo «misurata»; sia dissolvendo e polverizzando il bene comune nei beni dei
singoli individui; sia identificandolo in un bene «generale», che è bene per la maggioranza, ma non bene
per tutti i cittadini; sia confondendolo con un bene collettivo e sistemico, sostanzializzato e totalizzante,
che strumentalizza le singole persone e il loro bene individuale.
Il dramma delle filosofie politiche contemporanee è dato dal fatto che esse sono prese entro la
morsa di un dilemma. Da un lato, tentano di definire il bene comune indipendentemente dalla
concezione di bene dei cittadini e in termini così universali ed astratti tali da non essere cogenti per
nessuno; dall’altro lato, lo presentano invece come un bene comunitario, sì condiviso da tutti in un
determinato momento storico, ma nello stesso tempo non suscettibile di fondazione critica sulla base di
principi razionali universali, e quindi esposto alla volubilità della maggioranza. Nelle filosofie politiche
moderne e post-moderne si perde il concetto di bene comune come bene di tutti e per tutti, non
meramente sociologico, realizzabile mediante la cooperazione di tutti. E questo, perché alla loro base vi
è una sorta di scetticismo circa la possibilità di ogni uomo di conoscere il bene umano, inteso come
insieme di beni ordinati secondo un’antropologia globale. Tale scetticismo mina le ragioni della
benevolenza reciproca, della collaborazione, del rispetto della dignità altrui e riduce il bene comune al-
l’interno degli schemi utilitaristici, della legalità per la legalità e di astratti sociologismi.

4.2. Il bene comune è bene più che strumentale


Secondo la DSC, il bene comune della comunità politica va distinto dalla concezione di bene comune
integrale della persona, della stessa società civile, nonché dell’intera famiglia umana, a cui deve essere
funzionale.45 Il bene comune della comunità politica non è un’entità a sé stante, avente propria
consistenza sostanziale, identificabile o con la Razza, o con la Nazione o con altre realtà assolutizzate,
trascendenti i beni dei singoli fino ad annullarli o strumentalizzarli. Nemmeno è un insieme di vantaggi
o di utilità per tutti. Così pure, come si è già visto nel secondo capitolo, non è la somma dei beni dei
singoli individui o dei loro interessi particolari,46 e non è l’insieme dei valori condivisi da tutti i cittadini.
Non è neppure l’insieme dei bona communia del popolo. Il bene comune della comunità politica è, invece,
la realizzazione «di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle
famiglie e nelle associazioni il conseguimento più pieno e più rapido della loro perfezione».47
Secondo tale definizione, che si mantiene in una prospettiva prevalentemente formale, il bene
comune è da considerarsi un bene esterno, ossia concernente le relazioni sociali, la loro organizzazione

44 Cf PT 22.
45 Cf PT 36.
46 Cf CA 47.
47 GS 74.
ed ordinazione in vista della crescita umana di tutti, della vita buona. Il bene comune che la comunità
politica deve perseguire non consiste nel rendere virtuosi i cittadini. Ciò esula dalla competenza della
comunità politica, la quale non ha il compito di regolare il rapporto dei singoli con la verità, il bene, il
bello, e con Dio. Compito della comunità politica è quello di realizzare le condizioni necessarie e
sufficienti perché i cittadini e i vari gruppi possano condurre una vita retta.
Poiché, secondo quanto la stessa DSC suggerisce, la realizzazione delle condizioni sociali favorevoli
alla crescita di tutti implica che le relazioni siano regolate dalla virtù della giustizia e della solidarietà, il
bene comune dev’essere considerato bene più che strumentale, ossia bene umano. E lo è, innanzitutto,
perché va determinato, organizzato e realizzato avendo riguardo alla natura della persona umana, cui è
essenzialmente relativo.48
Il bene comune riguarda l’uomo nella sua interezza: nella sua dimensione storica e sovrastorica, nei
bisogni del suo corpo e nelle esigenze del suo spirito. È, dunque, bene umano integrale. Ciò esige che
nel bene comune si distinguano elementi essenziali, che sono per certi aspetti immutabili e a carattere
universale e permanente, perché si riferiscono all’uomo in quanto tale, alla sua dignità specifica di essere
intelligente e libero; ed elementi contingenti, perché mutano con il mutare degli individui e delle situazioni
storiche. Ciò, inoltre, esige che venga attuato in modo non solo da non porre ostacoli, ma da servire al
raggiungimento del loro fine ultraterreno ed eterno.49
Il bene comune è superiore a quello dei singoli cittadini e dei vari gruppi etnici e religiosi. È bene che
li presuppone e che si ridistribuisce su ognuno di essi accrescendoli. Ossia è bene comune al tutto e alle
parti, è bene partecipabile. È bene da tutti, di tutti, per tutti. «Quello comune, è un bene a cui hanno diritto
di partecipare tutti i membri di una Comunità politica, anche se in grado diverso a seconda dei loro
compiti, meriti e condizioni. I Poteri pubblici quindi sono tenuti a promuoverlo a vantaggio di tutti
senza preferenza per alcuni cittadini o per alcuni gruppi di essi. [...] Però ragioni di giustizia e di equità
possono talvolta esigere che i Poteri pubblici abbiano speciali riguardi per le membra più deboli del
corpo sociale, trovandosi esse in condizioni di inferiorità nel far valere i loro diritti e nel perseguire i
loro legittimi interessi».50
«Nell’epoca moderna, l’attuazione del bene comune trova la sua indicazione di fondo nei diritti e nei
doveri della persona».51 Pertanto, i compiti dei poteri pubblici che hanno la responsabilità del-
l’attuazione del bene comune sono descrivibili in termini giuridici come un «riconoscere, rispettare,
comporre, tutelare e promuovere» i diritti e un «contribuire, di conseguenza, a rendere più facile
l’adempimento dei rispettivi doveri».52 Nei diritti e doveri della persona sono condensate, quasi come in
una specie di grammatica elementare, le principali esigenze morali che devono presiedere alla costru-
zione della comunità politica. Per la Chiesa, l’ancoramento dell’esercizio dell’autorità ai diritti e ai
doveri della persona è garanzia della sua moralità, è principio di limitazione e di compimento secondo
giustizia.

4.3. Il bene comune al di là del neocomunitarismo e del neoliberalismo

Enrico Berti ha sottolineato che l’idea classica di bene comune, presente anche nella DSC, è una
concezione ricca, comprensiva dei valori e delle istanze che sono stati avanzati sia dal comunitarismo che
dal neoliberalismo in termini non del tutto soddisfacenti.53 Essa risale alla tradizione dell’aristotelismo
politico e del cristianesimo, implicante un’apertura interna alla trascendenza, che costituisce un varco
per andare oltre la politica, varco che ciascuno è libero di colmare nel modo che preferisce.
Il comunitarismo critica il neoliberalismo, come quello ad esempio di John Rawls, perché propone
indirettamente una nozione di bene comune vuota di contenuto etico, puramente astratta. Essa, infatti,
appare slegata dalla concezione di bene delle persone e, in ultima analisi, dalla concezione di bene
proprio della comunità cui si appartiene e che comanda la nozione di bene dei singoli. Nella sua opera
fondamentale Una teoria della giustizia, Rawls si pone su posizioni non lontane da quelle di Hans Kelsen,
secondo cui la vera democrazia è incompatibile con qualsiasi concezione sostanziale del bene comune.
Il bene comune, cioè, deve prescindere da qualsiasi concezione di bene umano, perché in caso contrario

48 Cf PT 23.
49 Cf ib.
50 Ib.
51 Ib., 24.
52 Ib.
53 Per questo si veda E. BERTI, L’idea di bene comune tra «destra» e «sinistra», in E. BERTI - S. VECA, La politica e l’amicizia,
Ed. Lavoro, Roma 1998, pp. 35-62.
la democrazia si tramuterebbe in un regime totalitario. La verità e il bene sarebbero nocivi per il futuro
della democrazia. Questa può vivere solo in simbiosi con lo scetticismo gnoseologico e il relativismo
etico. La sua essenza è data da un complesso di regole puramente procedurali e del tutto neutrali dal
punto di vista etico. Ecco il vero bene comune, se di bene si può parlare.
In breve, secondo il ragionamento di Rawls, relativo al consenso sociale che deve sorreggere le
società contemporanee, il bene (comune) è un complemento e una derivazione della giustizia. I cittadini
non possono convenire su alcuna concezione di bene, perché ognuno possiede una visione particolare
di esso e non c’è commensurabilità tra quella propria e quella altrui. Ciò su cui si può convenire
universalmente è il principio di libertà (intesa in senso generalissimo, kantiano) e il principio della
giustizia come equità, ossia: un insieme di condizioni minime favorevoli che garantiscono la libertà e
una fondamentale uguaglianza di diritti, di possibilità e di opportunità per poter sviluppare il proprio
piano di vita. Ogni persona dev’essere libera di pianificare la propria vita, secondo la concezione di
bene che ognuno possiede.
Data la pluralità e la disparità delle concezioni di bene dei singoli, non si può e non si deve proporre
una descrizione del bene comune che imponga unanimità sugli standard etici delle scelte razionali. Ciò
sarebbe in contraddizione con la libertà di scelta che la giustizia come equità deve garantire ad ognuno e
ai gruppi in quanto insieme di istituzioni giuste.54 In definitiva, nella società rawlsiana le opportunità
sono possibilità indeterminate contenutisticamente; il bene comune, che ha il primato e che è
conseguenza di una giustizia così concepita, non può che essere un bene formale. Il bene comune della
tradizione classica, inteso come un vivere bene, è svuotato di qualsiasi contenuto antropologico ed etico
e si riduce a «bene» meramente strumentale.
Michael J. Sandel, comunitarista, osserva che nel ragionamento di Rawls c’è una contraddizione di
fondo. Se, come dice Rawls, la giustizia, da lui anteposta al bene dei cittadini, dev’essere scelta dalla
società come realtà condivisa da tutti, essa diventa un fine comune, il quale è appunto un bene.
Pertanto, non è vero che la giustizia precede il bene. È vero piuttosto il contrario, cioè che la giustizia è
un aspetto del bene e dunque lo presuppone: il bene insomma, secondo Sandel, non è un complemento
della giustizia, ma il suo prerequisito.55
Pur ammettendo che tale critica appaia giusta, non si può tuttavia accettare la concezione di bene
comune quale emerge dal pensiero di Sandel e di altri comunitaristi. Per costoro i contenuti etici del
bene comune derivano da un’origine che trascende gli individui, e cioè dalla comunità. Il bene dei
singoli e la dimensione etica del bene comune derivano pertanto solo da ciò che è ritenuto moralmente
buono dalla comunità. Non sono oggetto di una scelta, non sono cioè un fine da realizzare, sono dati
semplicemente da accettare e da condividere.
«Più in generale – scrive Berti – si ha l’impressione che i filosofi comunitaristi (tra i quali si possono
annoverare, sia pure con posizioni più moderate, anche Charles Taylor e Michael Walzer) introducono
nella difesa dell’idea di bene comune un elemento estraneo alla tradizione dell’aristotelismo politico e al-
la stessa concezione cristiano-cattolica di essa, cioè il primato della comunità sulla società, dell’origine
sul fine, del sentimento sull’intelligenza e della volontà. Anch’essi, come Rawls, hanno una concezione
forse troppo utilitaristica della volontà e della scelta, cioè la considerano come espressione soltanto di
preferenze arbitrarie. Invece è proprio sulla volontà, cioè su una scelta razionale, o intelligente, che si
fonda il concetto classico di bene comune come fine».56
Il bene comune non è costituito solo dalle virtù che sostengono la tradizione morale della comunità.
Neppure è costituito solo dalle virtù etiche intese come eccellenze nelle «pratiche» della vita di ognuno
che sostengono la ricerca del bene per la vita completa dell’individuo e che si esplicano in attività
riconosciute e consentite da una comunità, dotata di regole divenute tradizionali, alimentata da un ethos,
cioè da un costume, da un sentire comune, come sembra intendere Alasdair MacIntyre, anch’egli critico
di Rawls, nell’opera Dopo la virtù. Saggio di teoria morale (1981).57 Il bene comune, per Aristotele e la
tradizione cattolica che ad esso si ispira, è anche e soprattutto il vivere bene tra cittadini (le virtù che sono
un possesso personale lo consentono), ossia il vivere secondo giustizia e l’amicizia civile, che consente la
giustizia.58 Tale direttrice dev’essere individuata per mezzo della ragione pratica, cioè di un’indagine

54 Cf J. RAWLS, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 367-371.
55 Cf M.J. SANDEL, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.) 1982, tr. it.: Il
liberalismo e i limiti della giustizia, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 148-190.
56 E. BERTI, L’idea di bene comune, pp. 50-51. Sul dibattito tra liberali e comunitari circa il bene comune, si veda anche W.
KYMLICKA, Introduzione alla filosofia politica contemporanea, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 231-261.
57 A. MACINTYRE, After virtue. A study in moral theory, University of Notre Dame Press, Notre Dame (IN) 1981, tr. it.:
Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli, Milano 1988.
58 Il vivere bene nella giustizia è frutto di più virtù (germinali) che lo Stato non può garantire con i suoi mezzi. Lo Stato
razionale di tipo induttivo,59 e non deduttivo – cioè per mezzo di una ragione che attuandosi in forma
astratta ed universale offre indicazioni morali oggettive –, e deve essere perseguita per mezzo di una
virtù dianoetica, la saggezza pratica (phrònesis). Insomma, il bene comune è essenzialmente un fine,
qualcosa che deve essere realizzato, è un ordine che non è già dato, ma è da attuare in continuazione, a
seconda delle esigenze delle persone e le circostanze storiche.
«Colui che ha visto più chiaramente questo aspetto del bene comune è Maritain, il quale nel suo
capolavoro politico, cioè L’uomo e lo Stato (1951), riprendendo la distinzione tra società e comunità fatta
da Ferdinand Tönnies, aveva osservato che la società politica, non solo moderna, ma anche antica, non
è una comunità, bensì una società, ed aveva espresso senz’altro la sua preferenza per quest’ultima forma
di organizzazione sociale. Sia la comunità che la società, osserva Maritain, hanno in comune un bene,
cioè hanno un “bene comune”, ma mentre nella comunità questo bene è già dato, cioè è una comune
origine, o una lingua, o una tradizione, o una storia, nella società il bene è qualcosa che deve essere
realizzato, cioè è un fine, oggetto dell’intelligenza e della volontà, vale a dire di una libera scelta. Non si
appartiene infatti ad una comunità, per esempio ad una Nazione, o ad un clan, o ad un gruppo
linguistico, per scelta, ma solo per nascita; invece si entra a far parte di una società per scelta, cioè per
decisione libera, e liberamente si decide di cooperare con tutti gli altri membri di essa alla sua
realizzazione di un bene comune».60
Rawls si avvicina alla concezione classica e cristiana di bene comune nell’opera Liberalismo politico
(1993).61 Qui sembra accettare l’idea che il bene comune possa essere il fine della società politica, a
condizione che esso venga inteso come quell’insieme di valori che sono comuni a individui o a gruppi
che sono caratterizzati da concezioni di vita diverse ed anche incompatibili tra loro. Detto
diversamente, simile bene comune è frutto di un «consenso per intersezione (overlapping consensus)», per
cui si verifica un convergere abbastanza casuale dei cittadini non sull’insieme di valori fondamentali che
ci caratterizzano e ci identificano dal punto di vista dottrinale e religioso, cioè dal punto di vista di
visioni comprensive, ma su un sottoinsieme di valori, che sono quelli politici.62 Questi valori sono in
genere sanciti dalla Costituzione di un Paese e trovano la loro concretizzazione nei diritti civili, sociali e
politici. Resta, tuttavia, da chiedersi, trattandosi di una convergenza casuale di tipo prevalentemente
sociologico dei cittadini su valori comuni, se questi possano essere condivisi prescindendo del tutto dai
valori fondamentali su cui non c’è convergenza o siano posseduti in maniera autonoma rispetto al
contesto sociale e abbiano, per conseguenza, sufficiente forza cogente per la coscienza sociale e politica
di un Paese.

5. Esercizio limitato, partecipato e decentrato dell’autorità

5.1. Autorità e ordinamento giuridico

L’autorità in una comunità politica democratica si caratterizza, o dovrebbe caratterizzarsi, per il fatto
di essere, ad un tempo, limitata, partecipata, decentrata.
Il fine dell’autorità politica ne segna pure i limiti, che sono rappresentati, come già visto, dall’ordine
morale, dai diritti e doveri delle persone e, più specificamente, da quell’ordinamento giuridico che ogni
popolo trova codificato soprattutto nella propria Costituzione. In essa si fissano i diritti e i doveri
fondamentali dei cittadini sia nei loro vicendevoli rapporti, sia nei loro rapporti con i poteri statali, e si
determina tanto la configurazione o struttura degli organi dello Stato che il funzionamento dei
medesimi.63

ha a sua disposizione soprattutto il mezzo della legge con le sue sanzioni per ottenere la giustizia. Esso non ha a sua
disposizione mezzi sufficienti per favorire l’acquisizione delle virtù; deve, allora, riconoscere e favorire l’esistenza di altre
società formative del carattere virtuoso, e cioè la famiglia, le società intermedie e le società religiose con la loro tradizione
morale.
59 L’Aristotele dell’Etica Nicomachea giunge a individuare il bene umano politico (ma non solo) vagliando le opinioni
morali e politiche dei più, dei sapienti e dei filosofi. Setacciando criticamente opinioni e pratiche di vita, per via induttiva,
recupera i principi morali che ne stanno alla base; successivamente, mediante la dialettica, come viene chiaramente illustrato
dal Berti già citato, illustra e difende tali principi.
60 E. BERTI, L’idea di bene comune, pp. 51-52.
61 J. RAWLS, Political liberalism, Columbia University Press, New York 1993, tr. it.: Liberalismo politico, Comunità, Milano
1994.
62 Cf S. VECA, Il dilemma della condivisione politica, in Giustizia e liberalismo politico, S. Veca ed., Feltrinelli, Milano 1996, pp.
176-191, in particolare p. 185.
63 Cf PT 31.
Secondo la Chiesa, la qualità morale dell’esercizio dell’autorità dipende da una visione corretta del-
l’ordinamento giuridico, che da taluni è sopravvalutato e reso autonomo al punto da essere ritenuto
capace di dare forma e consistenza alla stessa comunità politica, mentre da altri è pensato come
semplice emanazione ed irradiazione di questa. Nel primo caso, la comunità politica sta per una formula
priva di reale entità, per un insieme di rapporti mutevoli e senza forma che verrebbe fornita dal-
l’ordinamento giuridico. La comunità politica, in ultima analisi, esisterebbe solo quando i rapporti sono
informati dalla legge, quasi che questa sia sufficiente a fornire l’essenza del comportamento politico.
Nel secondo caso, la comunità politica appare come la fonte ultima dell’ordinamento giuridico, fonte
che lo crea radicalmente e totalmente nella sua normatività e cogenza.
Per la Chiesa, l’ordinamento giuridico offre sicurezza giuridica alle persone ed è funzionale alla
crescita della società civile quando è concepito in senso personalista, ossia quando è considerato come
proveniente dalle persone e dalla stessa società civile e viene costantemente configurato sulla base delle
esigenze di queste. La società civile e la comunità politica, per raggiungere i loro obiettivi, hanno infatti
bisogno di strumenti omogenei alla loro natura e alla loro intenzionalità. «Affinché la vita sociale, quale
è voluta da Dio, ottenga il suo scopo – scrive Pio XII –, è essenziale un ordinamento giuridico, che le
serva di esterno appoggio, di riparo e protezione; ordinamento la cui funzione non è dominare, ma
servire, tendere a sviluppare e accrescere la vitalità della società nella ricca molteplicità dei suoi scopi,
conducendo verso il loro perfezionamento tutte le singole energie in pacifico concorso e difendendole,
con mezzi appropriati ed onesti, contro tutto ciò che è svantaggioso al loro pieno svolgimento».64
Occorre superare quel positivismo giuridico che «attribuisce un’ingannevole maestà alla emanazione
di leggi puramente umane, e spiana la via ad un pericoloso distacco della legge dalla morale».65 Il
positivismo giuridico imprigiona la giustizia nella legge. La morale, ossia la norma di ciò che è giusto e
buono, precede e fonda la legge umana. La legge positiva non può essere assolutizzata; essa deve essere
sempre riferita a una norma oggettiva più alta che la ragione interpreta. Il diritto positivo non deve
contraddire la legge morale, ma deve cercare di avvicinarsi il più possibile ad essa.
L’ordinamento giuridico trova la propria fondazione a più livelli: nello Stato, che lo formula e lo
promulga; ma, principalmente, nella persona umana, considerata in modo globale – la quale ne è al-
l’origine in doppio modo, in quanto tale e in quanto causa dell’esistenza della società politica –; e
ultimamente in Dio, creatore dell’uomo e, in certa maniera, anche dello Stato. L’ordinamento giuridico
deve riflettere e servire la ricchezza dei diritti e dei doveri delle persone e della società. Ciò esige che sia
effettuato definitivamente il trapasso da uno Stato, che con le sue leggi si impone dall’alto alla società, a
uno Stato che è piuttosto emanazione di questa; da una concezione del diritto come pura norma in atto
a una concezione del diritto che implica in sé un immanente dover essere, in quanto radicantesi nelle
persone e nella società civile di cui deve esprimere le istanze di crescita umana.
Qualsiasi ordinamento giuridico, per quanto venga elaborato con competenza consumata e
lungimirante avvedutezza, è sempre insufficiente e inadeguato a regolamentare e a disciplinare sia la vita
sociale, che è varia, complessa, dinamica, sia certe zone molto delicate e nevralgiche dei rapporti sociali
e politici, difficilmente conformabili con quadri giuridici ben definiti. Per questo, la DSC raccomanda:
«Le persone investite di autorità per essere, nello stesso tempo, fedeli agli ordinamenti giuridici esistenti,
considerati nei loro elementi e nella loro ispirazione di fondo, e aperti alle istanze che salgono dalla vita
sociale; come pure per adeguare gli ordinamenti giuridici all’evolversi delle situazioni e risolvere, nel
modo migliore, i sempre nuovi problemi, devono avere idee chiare sulla natura e sull’ampiezza dei loro
compiti; e devono essere persone di grande equilibrio e di spiccata dirittura morale, fornite di intuito
pratico, per interpretare con rapidità e obiettivamente i casi concreti, e di volontà decisa e vigorosa per
agire con tempestività ed efficacia».66

5.2. Autorità partecipata: rappresentanza, referendum, partiti, informazione

Nelle comunità politiche contemporanee, uno sbocco realistico alla sovranità popolare e un
contenuto effettivo ai diritti politici riconosciuti ai cittadini vengono dati concependo l’autorità politica
come realtà essenzialmente partecipata mediante l’istituto della rappresentanza, dei referendum e dei partiti.

64 Radiomessaggio (Natale 1942) 10.


65 Ib., 12.
66 PT 29.
La rappresentanza moderna, così come si incarna nelle istituzioni parlamentari dei regimi
democratici, costituisce il tentativo di mantenere operante il principio della soggettività del popolo, in
presenza di condizioni che non ne consentono una diretta partecipazione all’attività legislativa, data la
sua impossibilità di sedere in parlamento e data la complessità degli Stati moderni rispetto alla polis.
Elemento costitutivo della rappresentanza democratica è non solo e non tanto una forma di agire sulla
base di un’autorità ricevuta, ma l’obbligo di rendere conto dell’operato di fronte al popolo, soprattutto nel
momento elettorale.
La rappresentanza elettiva, che obbliga a rendere conto, non implica però che gli eletti siano semplici
agenti passivi degli elettori. I rappresentanti devono poter godere di autonomia per svolgere
adeguatamente il loro compito, senza essere soltanto latori di esigenze e domande corporative. Se
fossero meri portavoce di interessi particolari, settoriali o di gruppo, verrebbe meno la funzione di
sintesi e di mediazione propria dell’autorità in vista del bene comune.67
L’istituto della rappresentanza, tuttavia, pone non pochi problemi di fondo. Tra questi il problema,
morale e tecnico insieme, che i deputati siano in grado di perseguire e perseguano coscienziosamente il
bene comune senza spezzare il rapporto con i gruppi che li hanno eletti. A questo proposito, la Chiesa
ricorda che la questione della elevatezza morale, della idoneità pratica, della capacità intellettuale dei
deputati al parlamento, è per ogni popolo in regime democratico una questione di vita o di morte, di
prosperità o di decadenza, di risanamento o di perpetuo malessere.68
I rappresentanti del popolo devono, pertanto, essere persone spiritualmente eminenti e di fermo
carattere; debbono considerarsi «come i rappresentanti dell’intero popolo e non già come i mandatari di
una folla, ai cui particolari interessi spesso purtroppo sono sacrificati i veri bisogni e le vere esigenze del
bene comune». Così, non devono fare dell’attività politica l’«arena della loro ambizione», «una corsa ai
guadagni per se stessi, per la loro casta o per la loro classe».69 In sostanza, la rappresentanza
democratica è rappresentanza non tanto di parti sezionali della società, di interessi particolari di questo
o quel mandatario. È, innanzitutto, rappresentanza dell’intera società politica, legata esclusivamente al
perseguimento del bene comune. È rappresentanza basata non su un mandato imperativo, bensì su un
mandato libero, autonomo, fiduciario. Ciò, però, non significa che debba dimenticare gli interessi particolari,
individuali, di gruppo. Essa cercherà di trovare il massimo di rispondenza – che non è puro
rispecchiamento –, fra questi e l’interesse generale, conducendoli a sintesi, interpretandoli alla luce di
quest’ultimo.
L’istituto della rappresentanza non esclude che i cittadini non possano essere interpellati, per
questioni importanti, quando i parlamenti non siano riusciti a trovare opportune soluzioni, mediante i
referendum, che realizzano una forma di partecipazione diretta all’attività legislativa o amministrativa. I
limiti della procedura referendaria ne consigliano un uso prudente, specie a fronte del pericolo reale del-
la tirannia di maggioranze manipolate dai mezzi moderni di comunicazione. Tale procedura può essere
applicata solo come strumento straordinario per non soppiantare il parlamento, e ad un numero
ristretto di questioni sulle quali i cittadini devono essere effettivamente in grado di esprimersi; si tratta,
poi, di una procedura che dirime le questioni in maniera tranciante, senza possibilità di mediazioni.
In ordine alla partecipazione al governo della cosa pubblica, i partiti – che oggi risultano essere
equiparati ad agenzie per il voto e vengono personalizzati –,70 sono da considerare elemento essenziale
della democrazia rappresentativa. Il loro compito precipuo è di essere canali collettori della domanda
che sale dalla società civile, di leggerla ed interpretarla alla luce del bene comune,71 e di consentire al
popolo di influire e controllare la formazione delle decisioni politiche. La fedeltà a queste funzioni
comporta che i partiti siano soggetti ancorati nella società civile, espressione di essa, democratici al loro
interno, capaci di sintesi politica e di progettualità, scevri sia dalla tentazione del particolarismo
corporativistico, dell’autoreferenzialità, sia dalla tentazione che li spinge a sovrapporsi alle varie
istituzioni non solo rappresentative ma anche governative, rendendoli funzionali al mantenimento di
Stati centralistici.
Non va dimenticato che, specie oggi, tra gli strumenti più importanti della partecipazione
democratica è da collocare l’informazione. Quando è plurale e libera essa consente ai cittadini di avere
un’opinione sui problemi della comunità politica. Uno degli ostacoli che impediscono la realizzazione
del diritto all’obiettività nell’informazione di cui parla la PT (n. 5) è, senza dubbio, quello delle

67 Su questo si veda in particolare R. GATTI, Abitare la città, Dehoniane, Roma 1992, pp. 142-149.
68 Cf Radiomessaggio (Natale 1944) 11.
69 Cf ib.
70 Sulle trasformazioni in atto dei partiti e sulla loro crisi può tornare utile la lettura di M. CALISE, Il partito personale,
Laterza, Roma-Bari 2000.
71 Cf GS 75.
concentrazioni editoriali e televisive. Un simile fenomeno è pericoloso per ogni sistema democratico,
specie quando si instaurano legami stretti tra attività governativa, poteri finanziari ed informazione. A
questo riguardo diventa, allora, indispensabile un’adeguata legislazione, che salvaguardi sia il pluralismo
dell’informazione sia la destinazione universale dei media.

5.3. Autorità plurale o decentrata


Il carattere universale proprio dell’autorità politica non significa che essa debba sostituirsi ai vari
soggetti sociali nell’esplicazione delle loro attività, per il perseguimento dei loro interessi e per il
raggiungimento dei loro fini specifici. È esigenza intrinseca ai soggetti sociali, al bene comune, ad una
più felice realizzazione della democrazia che l’autorità sia organizzata secondo il principio di
sussidiarietà, che sia cioè distribuita su diversi livelli, senza che questo comporti la perdita di un centro
unificatore e decisionale ultimo, garante della realizzazione del bene comune e della solidarietà.
Attraverso il riconoscimento del pluralismo sociale, delle giuste e sane autonomie dei corpi intermedi e
dei centri di autorità, le decisioni politiche sul bene comune sono maggiormente partecipate e control-
late dai cittadini, sono rese più attente ai bisogni della gente.
La partecipazione dei cittadini, dunque, non si realizza solo mediante il voto e l’elezione dei
rappresentanti, ma anche mediante la moltiplicazione di organizzazioni sociali, nelle quali ci si impegna
a collaborare nella gestione e nella produzione di beni e di servizi atti a rispondere ai bisogni, con la
chiara coscienza politica di concorrere così – su basi di autonomia e di autopromozione, offrendo il
proprio apporto e interloquendo con le istituzioni pubbliche – alla realizzazione del bene comune, sul
piano nazionale e mondiale.

6. La democrazia
6.1. Democrazia e valori
«La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle
scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia
di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno».72 Più che disquisire sulle formule della
democrazia, sui suoi aspetti tecnici e giuridici ed istituzionali,73 la Chiesa si è sempre interessata della sua
naturale connessione con l’essere libero ed intelligente delle persone, nonché della sua dimensione etica
e del suo senso compiuto. Una tale preoccupazione caratterizza ancora il suo insegnamento, in linea
con la sua competenza morale.
In concomitanza alla confortante diffusione dei regimi democratici si è verificato, nell’ultimo scorcio
del secolo XX, una sostanziale omologazione verso un modello unico caratterizzato dall’individualismo,
dall’indifferentismo etico, dalla prevalenza delle logiche economiche. Ciò ha prodotto «il rischio dell’al-
leanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di
riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità».74
Il relativismo etico rappresenta la risposta sbagliata e fuorviante al problema che nasce dal crescente
pluralismo dei codici morali, tipico del mondo contemporaneo. Di fronte a tale pluralismo la reazione
più superficiale, ma anche quella che è divenuta egemone, consiste nell’affermare che non esiste alcuna
verità in campo etico, giuridico, politico e che, se si riconoscesse una verità, essa diventerebbe fonte di
intolleranza.
La conseguenza che ne viene tratta per quanto concerne la democrazia è che essa deve costituirsi
come mera procedura, che fissa le regole del gioco del libero confronto tra tutti i valori. Lo strumento
maggioritario viene eretto ad unico criterio di discernimento.
Secondo la Chiesa, il pericolo insito nell’accettazione di questa concezione della democrazia è
estremamente grave: se non esistono valori in grado di offrire un fondamento razionale e di porre un
limite, anche giuridico, alle decisioni della maggioranza, ogni scelta che riesce ad avere il consenso dei
più è, per ciò stesso, vincolante. Si toglie così ogni confine morale all’autorità. S’instaura – rafforzato da
mezzi sempre più sofisticati che manipolano l’opinione pubblica – il prepotere della maggioranza con
conseguenze negative per i diritti dell’uomo.
Contrariamente a quanto sostengono i fautori del relativismo, si deve affermare che, se la verità non

72 CA 46; GS 76.
73 Cf CA 47.
74 VS 101.
esistesse, la stessa prassi democratica e il dialogo pubblico sarebbero destituiti di senso, come anche il
pluralismo culturale. È la comune ricerca e capacità di conoscere il vero e il bene che consentono di individuare
valori condivisi, e di trovare un terreno di incontro anche con i non credenti e con quanti appartengono
a fedi diverse da quella cristiana.
In un regime democratico pluralista, ove le leggi e le decisioni si formano sulla base del consenso di
molti e ove le appartenenze possono divenire gabbie che comprimono la propria identità, può
attenuarsi nella coscienza dei singoli che sono investiti di autorità il senso della responsabilità personale.
È chiaro che a questa nessuno può mai abdicare, soprattutto quando ha un mandato legislativo o
decisionale, che lo chiama a rispondere a Dio, alla propria coscienza e all’intera società di scelte
eventualmente contrarie al vero bene comune. Se le leggi non sono l’unico strumento per difendere il
bene umano, esse però svolgono un ruolo importante e talvolta determinante nel promuovere una
mentalità e un costume.
Pertanto, bisogna puntare decisamente ad eliminare le leggi inique che, misconoscendo la dignità
della persona, minano alla radice la stessa convivenza civile, non dimenticando di varare politiche che
rimuovano le cause degli attentati all’uomo e al suo bene. Quando non sia possibile scongiurare o
abrogare completamente, ed entro un tempo ragionevole, una legge intrinsecamente ingiusta, come è
quella che ammette l’aborto o l’eutanasia, un parlamentare – riconosce un pronunciamento abbastanza
recente del magistero -, la cui personale assoluta opposizione all’aborto e all’eutanasia fosse chiara e a
tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di leggi
che li legalizzano e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così
facendo, infatti, non attua una collaborazione illecita a leggi ingiuste; piuttosto compie un legittimo e
doveroso tentativo di limitarne gli aspetti deleteri.75

6.2. Democrazia sostanziale e completa

È ferma convinzione della Chiesa che i regimi democratici, pur presentando una maggior
rispondenza con la dignità delle persone, non possono però sorgere e svilupparsi che in un determinato
ambiente storico e morale.
I regimi democratici sono espressione di una convivenza democratica che li precede e che è
caratterizzata da aspetti propri a contenuto economico, culturale ed etico.
Un corpo sociale non può configurarsi a democrazia se i suoi membri, o la maggior parte di essi,
non conducono un tenore di vita dignitoso. Essi devono godere un sufficiente benessere e svolgere le
attività economiche in attitudine di responsabilità. È indispensabile che l’istruzione sia largamente
diffusa e che i cittadini si impegnino in iniziative culturali. La democrazia trova la sua più profonda
radice e il suo alimento nell’animo delle persone: la democrazia è soprattutto un atteggiamento dello
spirito. Ciò significa che i cittadini devono possedere determinate qualità psicologiche e morali. In
breve: che abbiano l’animo informato a tolleranza e comprensione, a spirito di collaborazione; che
siano intraprendenti, sensibili alle esigenze del bene comune e si sentano responsabili della sua
attuazione; che sappiano attendere senza venire meno all’azione, fiduciosi che i motivi razionali
finiranno per avere il sopravvento sugli impulsi negativi e sugli interessi di parte.
In definitiva, la democrazia è realtà integrale. Non può essere solo politica, senza essere
contemporaneamente economica e sociale. La democrazia è reale se viene dato un contenuto pieno ai
diritti politici col realizzare anche i diritti sociali, religiosi e culturali. Libertà economica e libertà politica
non possono essere separate. La libertà economica, peraltro, si realizza quando è attuata la giustizia
sociale.
La democrazia è solidale con uno Stato di diritto e con una concezione globale dell’uomo.76 Proprio
per questo, secondo i pontefici, una vera democrazia non può rinunciare ad orientare lo sviluppo
economico – sviluppo sostenibile, qualitativo – al progresso sociale, mediante soprattutto
l’armonizzazione delle politiche economiche con quelle sociali. L’armonizzazione dev’essere retta dal
principio del reciproco aiuto tra di esse.
Sia per quei Paesi ove i diritti sociali non sono stati perseguiti mediante l’istituzione di un sistema di
sicurezza sociale sia per quei Paesi i quali godono, invece, di simili sistemi, la Chiesa raccomanda un
corretto bilanciamento tra Stato, società e mercato, di modo che tra di essi non vi siano sovrapposizioni
e si risponda in modo pertinente a tutti i bisogni delle persone e dei gruppi, valorizzando la soggettività

75 Cf EV 73.
76 Cf CA 46-47.
della società civile e delle società che sono più vicine alle persone.77
D’altra parte, per la Chiesa sarebbe limitativo e anche fuorviante considerare il problema dello
sviluppo e della giustizia sociali entro l’ambito delle politiche nazionali ed entro i confini dei singoli
Stati. Il progresso sociale si collega con problemi di dimensione mondiale, primo fra tutti quello di
un’equa distribuzione delle risorse. È allora indispensabile un’azione concertata a livello mondiale tra i
vari Paesi, perché sia la politica, tramite idonee strutture e regole di cooperazione, ad orientare le
decisioni in modo rispondente all’equità e alla solidarietà, cioè ad obiettivi etici e non puramente
materiali.78
Torna qui il problema della costituzione di un’autorità mondiale affinché possa essere attuata
efficacemente la giustizia sociale tra i popoli. Infatti, come ha opportunamente sottolineato A. Sen, il
problema odierno più urgente non è solo quello di globalizzare l’etica ma anche quello di trovare
istituzioni globali riformando quelle esistenti sul piano internazionale. In un tempo in cui la politica
sembra essere subordinata all’economia e il potere reale di autogoverno è sempre meno nelle mani dei
popoli occorre globalizzare la democrazia sostanziale e partecipativa.79

6.3. Democrazia e cristianesimo

Da ultimo, non va dimenticato che, per la Chiesa, la democrazia può essere rafforzata nel suo ethos
dal cristianesimo, da quanto esso può seminare nei solchi della storia, nel cuore delle culture,
compenetrando l’esistenza dei singoli e dei gruppi con il lievito evangelico, sottomettendo le forze
irrazionali e gli istinti distruttivi all’intelligenza che dirige l’azione verso il bene umano. La fede nella
dignità di ogni persona che la religione cristiana ispira, il conseguente impegno eroico di edificare la
civiltà dell’amore – anticipo sulla terra del Regno di Dio –, concorrono a modellare quello stato
d’animo di cui si avvantaggia ogni democrazia. Ogni regime è, infatti, sottoposto alla pressione delle
tentazioni di quei cittadini che cercano di distoglierlo dal bene comune per privilegiare passioni e
interessi privati, risentimenti o violenze. La democrazia deve, invece, poter attingere sempre dalla vita
virtuosa del popolo. Ha bisogno di redenzione ed umanizzazione, per non cadere tra le braccia delle
tirannie o dell’anarchia.
Ora, il cristianesimo autentico è religione che guarisce dagli egoismi, dalle invidie e dagli odi, in una
parola dal peccato, con il dono della grazia, quella che Cristo salvatore offre ad ogni uomo.80

6.4. La crisi della democrazia

L’attuale crisi della politica, dei partiti e della democrazia, ormai ampiamente svuotata dei suoi
ideali, è sotto gli occhi di tutti.81 Non a caso la crisi della democrazia – intesa, per un primo verso,
come deficit di rendimento dei sistemi democratici e, per un secondo verso, come sfiducia dei cittadini
nei confronti delle istituzioni e delle élite politiche democratiche – è un fenomeno ampiamente
studiato e discusso anche in ambito politologico. Si può constatare che, a proposito della democrazia,
si parla, fra l'altro, di malessere, di autoritarismo, di «pazzo-democrazia», di democrazia senza

77 Cf ad esempio GS 69 e CA 48-49.
78 Cf SRS 15 ss.
79 Cf A. SEN, Globalizzazione e libertà, pp. 18-28.
80 Cf CA 59.
81 Occorre rilevare che l'espressione «crisi della democrazia» è equivoca (cf M. CROSTI, Alle redici culturali della crisi, in M.
CROSTI-M. MANTOVANI (ed.), Per una finanza responsabile e solidale. Problemi e prospettive, LAS, Roma 2013, pp. 60-62). In
primo luogo, la si può intendere in senso neutro, quindi non in un'accezione negativa e, ancora meno, catastrofista, bensì come
tempo di trasformazione. Ad esempio, è il caso di Bernard Manin, quando delinea il passaggio dalla democrazia dei partiti alla
democrazia del pubblico, all'interno di un'analisi nella quale si individuano i connotati sia della prima che della seconda
(cf B. MANIN, Principi del governo rappresentativo, Il Mulino, Bologna 2010). In secondo luogo, «crisi della democrazia» può
significare anche che una determinata cultura politica considera la democrazia esistente come fittizia, in ogni caso
gravemente lacunosa e perciò da superare, in vista di un altro modello di democrazia. Pensiamo, fra l'altro, al dibattito sulla
cosiddetta democrazia formale, la democrazia esistente nei Paesi occidentali, contestata dall’area socialista, in nome di una
democrazia effettiva ancora da edificare. In terzo luogo, si possono nutrire perplessità sull'uso dell'espressione «crisi della
democrazia», poiché, il più delle volte, non soltanto viene adoperata senza specificarne il significato, ma anche in modo assai
discutibile. In questo breve saggio, la si intende in un senso prevalentemente neutro, come spiegato appena sopra, ovvero
nel senso di un’opportunità, che può essere colta per propiziare cambiamenti positivi, tralasciando quelli negativi.
democratici, di democrazia insoddisfatta,82 recitativa.83 Alla fine del ventesimo secolo, scrive Emilio
Gentile, «la peggiore forma di governo, eccetto tutte le altre» sembrava destinata a trionfare nel
mondo. Nel 1991 Norberto Bobbio riteneva che non fosse «troppo temerario chiamare il nostro
tempo l’era delle democrazie». Ma nel primo decennio del ventunesimo secolo, la democrazia
rappresentativa appare ovunque in crisi.
La crisi investe, dunque, non solo l’Italia e l’Europa, ma anche gli altri Continenti. In varie
Nazioni, dell’Europa, del Sudamerica e di altre Regioni, emerge il problema delle rappresentanze politiche,
compresa quella dei cattolici. Se analizziamo tali rappresentanze, dobbiamo registrare una loro
progressiva desertificazione. La crisi della democrazia, infatti, soggetta a forme di populismo e di
leaderismo oligarchico, ha contribuito al loro indebolimento. Oggi, non soltanto manca spesso
l'autorevolezza e l'efficacia dei detentori del potere politico, ma anche quella delle élite economiche e
sociali. Diventa, pertanto, sempre più chiaro che, se le società civili intendono conservare uno stile di
vita di tipo democratico e partecipativo, occorre adoperarsi per la nascita di nuovi movimenti sociali, per la
riforma dei partiti e delle molteplici istituzioni, che popolano il tessuto civile, non esclusi i sindacati.84
In mancanza di ciò, sarà impossibile sperare nel rilancio di adeguate rappresentanze politiche. E poi,
l’attuale scenario caratterizzato dal predominio di un neoliberismo individualista e utilitarista, con la
progressiva debilitazione della famiglia, delle attività del volontariato, dell’associazionismo,
dell’impresa sociale, della cooperazione, del credito etico, non potrà che cedere il passo alla dittatura
di un pensiero unico e alla mercantilizzazione di ogni realtà. Ci si troverebbe davanti alla fine di tutto
quel mondo che non segue la logica del mercato e che, per fortuna, sia pure con gravissime difficoltà,
continua ostinatamente ad esistere e ad insegnare che non tutto nella vita è misurabile con il criterio
del PIL o con la logica delle Borse, aspetti imprescindibili, sì, ma non unici e prioritari.

6.5. La crisi della democrazia viene da lontano

La crisi dell’attuale democrazia, peraltro, non è dovuta solamente a problemi riconducibili alla
temperie culturale neoindividualista e mercatista contemporanea.
Si tratta, infatti, di una crisi che viene da lontano, vale a dire dalle premesse antropologiche
individualiste ereditate dalla cultura moderna, grembo in cui ha preso forma. In particolare, discende
dall’aporia principale della filosofia moderna, secondo la quale il soggetto è un essere radicalmente libero ed
utilitario.85 Ritenendosi alieno da ogni morale, non può, per sé, convivere con altri soggetti. Eppure,
per un altro verso, non può sopravvivere senza associarsi e, quindi, senza osservare una morale, una
legge. Ecco, allora, la legge morale positiva, da osservare come un obbligo, come qualcosa di
sostanzialmente estraneo, un espediente per sopravvivere ma, comunque sia, con riserva. Nella
collaborazione sociale, rispetto all’osservanza dei diritti, l’uomo si ritrova praticamente sprovvisto di
ragioni superiori, indipendenti dai suoi interessi. Tra le conseguenze, che giungono sino a noi, vi è il
fatto che l’atmosfera simbolica, caratterizzante le attuali culture, appare gravitare verso una

82 Si tratta di una letteratura molto vasta. Qui, ci limitiamo a rimandare ai seguenti volumi: S. J. PHARR- R. D. PUTNAM
(a cura di), Disaffected Democracies. What’s Troubling the Trilateral Countries, Princeton University Press, Princeton 2000; G.
ZAGREBELSKY, La democrazia e la felicità, a cura di E. Mauro, Laterza, Roma-Bari 2011; C. GALLI, Il disagio della democrazia,
Einaudi, Torino 2011.
83 Cf E. GENTILE, Il capo e la folla, Laterza, Roma-Bari 2016. Secondo Emilio Gentile la democrazia recitativa non nega
la libera scelta dei governanti da parte dei governati: la rende semplicemente irrilevante per la politica del capo dopo la sua
elezione al governo. Simile alla democrazia criticata dagli antichi greci, la democrazia recitativa è una raffinata forma di
demagogia, che vorrebbe far apparire la democrazia del capo e della folla la migliore fra le migliori forme di governo.
Purtroppo, in realtà può essere la peggiore fra le peggiori, perché opera per mantenere i governati in una condizione
permanente di sudditanza apatica, beata o beota, simile alle gioiose famiglie degli spot pubblicitari, ma comunque servile,
incapace persino di accorgersi di vivere in una democrazia recitativa, dove la libertà, come la scelta e la revoca dei
governanti, è solo una delle parti assegnate come da copione.
84 Sulla crisi dei sindacati si veda almeno: F. OCCHETTA, La notte del sindacato, in «La Civiltà Cattolica» (9 aprile 2016), II,
pp. 48-58; A. BERRINI, Quale futuro? Oltre la crisi greca e la bolla cinese. Il sindacato nell’era della deflazione, Edizioni Lavoro, Roma
2015.
85 Su questo, ci permettiamo di rinviare a M. TOSO, Democrazia e libertà. Laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, LAS,
Roma 2006, pp. 205-208.
comunicazione pervasiva e rigidamente controllata da modelli consumistici, pragmatici e tecnocratici. E
così, in quest’epoca della post-modernità, segnata dal demone della paura e da una cultura «fluida»,86
che inizia mille processi di cambiamento ma non ne porta a termine nessuno, ricominciando sempre da
capo con altri mutamenti, prevale un individualismo libertario ed utilitarista, tale da mettere a repentaglio il
cuore etico della democrazia e la libertà stessa.

6.6. Papa Francesco: una democrazia a bassa intensità

La democrazia a «bassa intensità» è connotata, anzitutto, da alti tassi di povertà e diseguaglianze sempre
crescenti. La globalizzazione, in cui prevale la finanziarizzazione dell’economia, se da una parte ha ridotto
la povertà di alcuni, dall’altra ha accentuato o prodotto la povertà di altri; ha accresciuto le diseguaglianze, anche
all’interno degli stessi Paesi ricchi; ha fortemente assottigliato quella classe media, che la democrazia del
secolo scorso aveva contribuito a far crescere; ha favorito economia e mercati dell’esclusione e
dell’inequità, spesso pervasi dalla «cultura dell’indifferenza e dello scarto» e guidati dall’obiettivo della
maggior redditività ad ogni costo, per i quali i più deboli divengono automaticamente «rifiuti», «avanzi»
inutili, come osserva Papa Francesco al n. 53 della Evangelii Gaudium (=EG).87 Al centro è stato
insediato il denaro, estromettendo le persone. Si è affermato così un tipo di finanza speculativa e
sregolata, che non ha prodotto per tutti il benessere conclamato; anzi, ha portato molti al fallimento e
alla disperazione, spingendo alcuni al suicidio, non per propria colpa, ma per errori ed avidità altrui.
Proprio per questa ragione, papa Francesco fa riferimento ad un’economia che esclude, uccide (cf EG
n. 53),88 la quale dev’essere urgentemente sostituita da un’economia amica delle persone e dei popoli.
Per sconfiggere un’economia dell’esclusione e dell’inequità, ed instaurare in sua vece un’economia
«amica», inclusiva di tutti, occorre ribaltare il suo primato sull’essere umano. Ciò esige di ricondurla
entro il proprio alveo, alla sua finalità di servizio e non di sfruttamento dell’uomo, che riduce a «cosa» di
cui disporre a piacimento. Come ricorda il pontefice argentino, l’assillo della crisi finanziaria che
attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica e che, pertanto,
è soprattutto su questo piano che bisogna ristabilire un giusto ordine gerarchico, pena l’alternativa
rappresentata da «un’economia senza volto e senza uno scopo veramente umano» (EG n. 55).
L’esigenza di ripristinare il senso antropologico ed etico dell’economia comporta, anzitutto, l’urgenza di
problematizzare l’attuale dominio pressoché incontrastato della finanza. A fronte della riduzione
dell’economia a meri processi tecnici, ci si dovrà, poi, domandare se non vi sia una questione di
responsabilità etica e sociale nella loro «finalizzazione» o in quei meccanismi automatici, che pure sono
avviati da decisioni umane e che, quindi, non possono e non devono essere ultimamente sottratti al
controllo da parte dei singoli e della società, oltre che degli Stati.

6.6.1. Il deficit di politica

La democrazia a bassa intensità è, in secondo luogo, caratterizzata da un deficit di politica, che chiama
in causa più direttamente le attuali classi dirigenti, i rappresentanti del popolo, i quali, pur essendo stati
eletti per servire, non si impegnano fattivamente per la promozione del bene comune, specie per quanto
riguarda i meno abbienti, gli emarginati, i giovani, le donne. La politica si è spesso trasformata in uno
strumento di lotta per un potere asservito a interessi individuali e settoriali; in un tramite di conquista di posti e
spazi, più che di gestione efficace e giusta della cosa pubblica. Essa non ha saputo, non ha voluto o non ha
potuto sottolinea l’allora cardinale Bergoglio , mettere limiti, contrappesi, equilibri al capitale, per
sradicare la povertà e le diseguaglianze, che sono i flagelli più gravi in questo momento storico.89
Occorre riabilitare la politica,90 che è una delle forme più alte della carità, non permettendo innanzitutto
86 Cf Z. BAUMAN, Il demone della paura, Laterza-L’Espresso, Roma-Bari 2014.
87 FRANCESCO, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013 (= EG).
88 Su questo, si veda: A. TORNIELLI-G. GALEAZZI, Papa Francesco. Questa economia uccide. Con un’intervista esclusiva su
capitalismo e giustizia sociale, Piemme, Milano 2015.
89 Cf J. M. BERGOGLIO, Noi come cittadini. Noi come popolo, p. 31.
90 Cf D. FARES, Papa Francesco e la politica, in «La Civiltà Cattolica», I (27 febbraio 2016), pp. 373-386.
che essa sia schiava dell’economia e della finanza, ma nemmeno della tecnocrazia.91 Riabilitare una
realtà vuol dire riconoscere che essa è valida, ma che, per qualche motivo, ha perduto il suo valore
intrinseco. A livello globale, possiamo riscontrare un paradosso: il discredito della politica e degli
uomini politici, proprio nel momento in cui sarebbero più necessari. Diverse indagini hanno messo in
evidenza come, nel nostro Paese, la fiducia nei confronti dei rappresentanti delle istituzioni è in forte
calo. Ciò ha i suoi effetti visibili nelle urne, pressoché deserte a causa degli alti tassi di assenteismo.
Assieme all’astensionismo elettorale si constata la crescente diminuzione degli iscritti nei partiti e di
presenze alle «primarie», in un Paese che sino a poco tempo fa si distingueva per una larga
partecipazione dei cittadini al voto. La situazione appare delicata, perché, quando l’astensionismo di
massa supera il cinquanta per cento, come ha rilevato Gustavo Zagrebelsky, la democrazia non è più
tale e si trasforma nell’autocrazia di una parte della società sull’altra. Paraltro, ci si deve rendere conto,
in particolare, della necessità di riabilitare anche il potere dei popoli – il potere democratico – come l’unico
ambito capace di porre un limite umano al potere, in sé illimitato, della tecnica, verso il quale si è rivolto
il dio denaro, trovando in esso spazi compiacenti. Ma, come dare al popolo la possibilità di esprimere il
proprio punto di vista? L’attuale mondo politico, infatti, è caratterizzato da crisi dei partiti come
strumenti di rappresentanza e di partecipazione: da crisi di trasformazioni involutive, che li riducono
sempre di più a veri e propri comitati d’affari. I partiti, da canali di comunicazione del sentire dei cittadini,
si sono trasformati in strumenti personalizzati, quasi identificati con i loro leader, perdendo la funzione di
sintesi delle varie istanze sociali. Non a caso, oggi si parla significativamente di «partiti senza società e,
dunque, di leader senza partiti».92 Non bisogna dimenticare, però, che la rivalutazione della politica è un
fatto collettivo. Passa attraverso la ricomposizione dell’anima della società civile, aiutandola a ricostruire
una coscienza comune, in un contesto di molteplici culture e religioni. Il discorso politico si sviluppa,
infatti, in maniera dialogica, creando consenso ed impegno comune. Il magistero sociale, offerto da
papa Francesco ai politici e ai movimenti popolari, ha proprio il fine di facilitare il compattamento di
una coscienza globale dei popoli sul piano regionale e mondiale. Da questo punto di vista, è
fondamentale l’educazione delle coscienze, rendendo stabile il loro retto agire e sentire ed anche il
collegamento con la legge morale naturale. Peraltro, su questo si ritornerà più avanti, nella pars construens
di questo saggio.

6.6.2. La crescente separazione tra élite e società civile, tra istituzioni pubbliche e cittadini.

Un terzo tratto caratterizzante la democrazia a bassa intensità è una preoccupante divaricazione tra
élite e popolo, che, secondo il card. Bergoglio, è dovuta a più fattori. Un fattore culturale, nel senso che le
classi dirigenti si formano spesso in ambienti, che coltivano visioni lontane dalle esigenze della
moltitudine, per cui, alla sperequazione del tenore di vita e dei mezzi, si accompagna la distanza di idee
e di mentalità. In secondo luogo, un fattore economico, dato che, quando la politica è piegata a interessi
particolari, non ha più come priorità la soluzione di problemi spesso devastanti, quali le crescenti
disuguaglianze socio-economiche e le situazioni di profondo disagio in cui vive parte della
popolazione.93 In terzo luogo, la sua spettacolarizzazione o mediatizzazione, che non raramente fa prevalere
leadership inconsistenti, prodotte da campagne pubblicitarie martellanti e dispendiose. In quarto luogo, si
hanno il congiunturalismo e la visione a breve termine, che, fissando il presente come unica dimensione del tempo, non
consentono uno sguardo prospettico e strategico di lunga gittata e pongono l’occupazione di spazi come fine ultimo
dell’attività politica, sociale ed economica.94 Peraltro, va rilevato che tutti questi fenomeni degenerativi
non si manifesterebbero o, comunque sia, non avrebbero l’attuale virulenza, se non fosse presente ed
operante uno scadimento fondamentale, vale a dire la perdita del primato della politica a favore
dell'economia, situazione creatasi con la colpevole complicità dei vari Governi. Per usare le efficaci e
realistiche parole di Luigi Ferrajoli, «la principale ragione di questa crisi della politica risiede […] nel

91 Cf FRANCESCO, Laudato si’, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, n. 109 (=LS).
92 Cf I. DIAMANTI, Democrazia ibrida, Laterza-Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma-Bari 2014, p. 17.
93 Cf ibidem, p. 31.
94 Cf ibidem, pp. 53-54.
ribaltamento intervenuto nel rapporto tra politica ed economia, cioè tra poteri economici e poteri
politici di governo: non più i primi subordinati ai secondi e da questi regolati, ma viceversa. Non sono
più i governi e i parlamenti democraticamente eletti che regolano la vita economica in funzione degli
interessi generali, ma sono i mercati che impongono agli Stati politiche antidemocratiche e antisociali, a
vantaggio degli interessi privati alla massimizzazione dei profitti, alle speculazioni finanziarie e alla
rapina dei beni comuni e vitali»;95

6.6.3. Altri fenomeni rilevanti del malessere attuale della democrazia a bassa intensità

Tra i fenomeni più rilevanti della democrazia a bassa intensità, per cui occorre abbandonarla quanto
prima, si possono elencare:

- la mancanza di una visione complessiva di Paese, di definizione di un progetto strategico di sviluppo


integrale, inclusivo, e di partecipazione internazionale, a motivo dell’incapacità di sintesi, della
prevalenza di una cultura fluida, senza che si riesca a intravedere qualcosa di compiuto e di
stabile.96 I detentori del potere decisionale non lavorano a lunga scadenza. Pensano ad ottenere
risultati immediati che producono una rendita politica facile. Ciò avviene perché hanno perso di
vista la pienezza dell’esistenza umana, il telos dell’azione;

- una politica che gioca al «tutto o niente» in qualsiasi campo, e per la quale, questioni opinabili,
discutibili sono trattate come prioritarie, mentre altre, più importanti, inspiegabilmente
attendono o vedono interventi non risolutivi. Ogni giorno si assiste all’annuncio di riforme
epocali, e nel frattempo, stando ai dati ISTAT, il numero dei poveri in Italia è raddoppiato e
oggi sono circa 10 milioni; i disoccupati si avvicinano ai tre milioni e mezzo; e il 40% circa dei
giovani è senza lavoro. Problemi che riguardano soltanto alcune minoranze sono ritenuti più
importanti e urgenti anche da quei partiti che, un tempo, si occupavano delle fasce meno
abbienti della popolazione.

6.6.4. Quali passi per uscire dalla crisi della democrazia?

Su questo si veda il saggio: MARIO TOSO, Per una nuova democrazia, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 2016, pp. 55-98.

7. Chiesa e Stato

7.1. Chiesa e comunità politica a servizio delle persone

Nella dottrina sociale i rapporti tra Chiesa e comunità politica vengono colti all’interno del disegno
di Dio. Secondo il piano divino di salvezza, la Chiesa e le comunità politiche sono chiamate ad operare
in solidale corresponsabilità, in vista dell’edificazione di un mondo migliore che anticipa su questa terra
il Regno di Dio.
La Chiesa, in particolare, è segno del grande progetto di Dio sull’umanità. È «sacramento dell’intima
unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano».97 In quanto segno del Regno non lo esaurisce, ne
costituisce in terra il germe e l’inizio.98
Così, la Chiesa è composta da uomini che, mentre sono membra della città terrena, formano già la
famiglia dei figli di Dio, che deve crescere costantemente sino all’avvento del Signore. Unita in vista dei

95 L. FERRAJOLI, Dei diritti e delle garanzie. Conversazione con Mauro Barberis, Il Mulino, Bologna 2013, p. 130.
96 Cf Z. BAUMAN, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002; ID., Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006.
97 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium n. 1, in AAS 57 (1965) 5-
67 (= LG).
98 Cf LG 5.
beni celesti e da essi arricchita, la Chiesa è stata costituita da Gesù Cristo. Ordinata in questo mondo
come società, dispone di mezzi convenienti di unione visibile e sociale. È, pertanto, comunità spirituale
con finalità salvifica ed escatologica e, insieme, società umana. Cammina con tutta l’umanità e spe-
rimenta col mondo la medesima sorte terrena, è come il fermento e quasi l’anima dei popoli, destinati a
rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio.99
La Chiesa non si identifica con il mondo, con l’umanità. È nel mondo, nell’umanità. Non è tutto il
mondo, non è tutta l’umanità. È in essi per servirli, per renderli sempre più partecipi della piena
comunione con Dio, tramite il Figlio che, per la sua incarnazione, morte e risurrezione, già realizza in sé
la comunione del mondo e dell’umanità con Dio in maniera vertice ed emblematica.
Il mondo, l’umanità e le comunità politiche, secondo il Concilio Vaticano II, non vanno concepiti
come estranei o in antitesi al progetto di Dio. Essi, in virtù della creazione prima e dell’incarnazione e
redenzione dopo, sono inseriti nel piano della salvezza. Le comunità politiche, in particolare, sono
volute dal Creatore come società che devono contribuire, con leggi e mezzi propri, alla crescita umana
dei popoli. Tuttavia, a causa della corruzione del peccato che intacca la rettitudine dell’agire umano,
hanno bisogno della grazia redentrice e sanatrice.100
La Chiesa, perseguendo il proprio fine, deve servire gli uomini offrendo salvezza, liberazione,
umanizzazione, rispettando e potenziando la sana autonomia delle comunità politiche. Mentre
comunica ad ogni uomo la vita divina elevandone la dignità; mentre ravviva ed amplia il rapporto del-
l’uomo con Dio e immette nelle attività umane un significato più profondo, la Chiesa concorre a
migliorare e a rafforzare il tessuto comunitario delle comunità politiche,101 a rinsaldare le virtù umane
indispensabili al raggiungimento del bene comune. Con il Vangelo che Cristo le ha consegnato,
«annunzia e proclama la libertà dei figli di Dio, respinge ogni schiavitù che deriva in ultima analisi dal
peccato, onora come sacra la dignità della coscienza e la sua libera decisione, non si stanca di ammonire
a raddoppiare tutti i talenti umani a servizio di Dio e a bene degli uomini, tutti quanti, infine,
raccomanda alla carità di tutti». «In forza del Vangelo affidatole, proclama i diritti umani, e riconosce e
apprezza molto il dinamismo con cui ai giorni nostri tali diritti vengono promossi ovunque».102
Peraltro, la Chiesa riceve aiuto dalle comunità politiche. Queste, infatti, cercano di realizzare le
condizioni che consentono all’uomo di essere virtuoso e indirettamente di raggiungere il proprio fine
ultraterreno. «La Chiesa, avendo una struttura sociale visibile, che è appunto segno della sua unità in
Cristo, può far tesoro, e lo fa, dello sviluppo della vita sociale, non quasi le manchi qualcosa nella
costituzione datale da Cristo, ma per conoscere questa più profondamente, per meglio esprimerla e per
adattarla con più successo ai nostri tempi. Essa sente con gratitudine di ricevere, nella sua comunità non
meno che nei suoi figli singoli, vari aiuti dagli uomini di qualsiasi grado e condizione. Chiunque
promuove la comunità umana nell’ordine della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale,
come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche non poco aiuto, secondo il
disegno di Dio, alla comunità della Chiesa, nella misura in cui questa dipende da fattori esterni. Anzi, la
Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall’apposizione di quanti la
avversano o la perseguitano».103
I rapporti fra Chiesa e comunità politica non debbono, pertanto, essere concepiti né in maniera
dualistica, né in termini di concorrenza o di opposizione. «La comunità politica e la Chiesa, sono
indipendenti ed autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Tutte e due, anche se a titolo diverso, so-
no a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane. Esse svolgeranno questo
loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace quanto meglio coltiveranno una sana
collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo».104
Nel corso dei secoli la Chiesa ha lottato perché le venisse riconosciuta la propria autonomia
istituzionale e l’indipendenza nei confronti del potere politico. Rispetto alle comunità politiche che
sono gli Stati, la Chiesa è una società religiosa, egualmente sovrana nel suo ordine. Essa deve la sua
libertà al suo Fondatore e non deriva la sua esistenza dalla comunità politica.
Ne consegue che la comunità politica deve riconoscere l’istituzione ecclesiale come un dato che essa
non ha creato, e la Chiesa deve riconoscere la comunità politica come voluta dal Creatore.

99 Cf GS 40.
100 Cf ib., 25.
101 Cf ib., 32; 40-43.
102 Ib., 41.
103 Ib., 44.
104 Ib., 76.
7.2. Quale laicità dello Stato?

La ragione fondamentale della collaborazione delle comunità politiche con la Chiesa e le altre
comunità religiose sta nel fatto che «l’uomo non è limitato al solo orizzonte temporale, ma vivendo nel-
la storia umana conserva integralmente la sua vocazione eterna».105 Per questo, dev’essere riconosciuto
alle comunità religiose la libertà di svolgere la propria missione tra gli uomini.106 Per questo, lo Stato
deve configurarsi come Stato aconfessionale e laico, che non coincide con l’essere indifferente e, tanto
meno, ostile nei confronti dei valori religiosi. Stato aconfessionale e laico significa riconoscimento del
diritto alla libertà religiosa dei cittadini e delle comunità religiose.107
La considerazione della dimensione religiosa della vita dei cittadini è parte integrante del bene
comune che le comunità politiche devono perseguire. Escludendo la garanzia giuridica dei diritti e delle
condizioni favorevoli all’esercizio della libertà religiosa, sia dei singoli che dei gruppi, le comunità
politiche costringerebbero ed impedirebbero, praticamente, la libertà religiosa. Giungerebbero a
professare nel loro ordinamento giuridico areligiosità ed ateismo. Immanentizzerebbero il fine ultimo
dell’uomo e lo rinchiuderebbero entro i confini di un bene temporale, vanificando e neutralizzando il
principio trascendente della civiltà.
Aconfessionalità e laicità dello Stato non vuol dire relegare la religione nel privato. Al contrario, con
ciò si riconosce che essa esula dalla competenza delle comunità politiche in quanto le trascende, e
simultaneamente si riconosce la sua funzione sociale rilevante di alimentare e orientare la vita politica,
fornendole energie morali e ridimensionandone le pretese messianiche, in vista del compimento umano
in Dio.

8. Fede ed impegno politico

Per addentrarci nel tema, occorre chiarire il senso delle espressioni «fede» ed «impegno politico» o
meglio, «educazione all’impegno sociale e politico».
Parlando di questa educazione molto particolare, è conveniente partire da una riflessione sulla natura
della fede, evitando possibili fraintendimenti.
Ecco, allora, il nostro cammino: tratteremo dell’educazione alla fede, movendo dapprima dalla
spiegazione di ciò che si intende per «fede» e, in seguito, approfondiremo che cosa si deve intendere per
«educazione alla fede», in particolare con riferimento all’impegno sociale e politico.

8.1. Che cos’è la fede in Gesù Cristo

Per spiegare che cos’è la fede, cercando di raggiungere il suo nocciolo, sarà bene, incominciare da
alcune definizioni correnti. Questo ci consentirà di giungere ad una definizione sempre più adeguata.
Abitualmente, quando si definisce la fede, si punta sulla sua dimensione intellettuale, affermando che
l’atto di fede è ritenere vero, sull’autorità di Dio, un certo patrimonio di concetti, un insieme di dogmi.
Questo è senza dubbio esatto, ed è anche l’insegnamento solenne del Concilio Vaticano I: per la fede,
noi crediamo, sotto l’ispirazione e con l’aiuto della grazia di Dio, che sono vere le cose da Lui rivelate, e
lo crediamo non solo per l’intrinseca verità delle cose, conosciuta con la luce naturale della ragione, ma
per l’autorità di Dio stesso, che rivela e che non può né ingannarsi né ingannare (Costit. Dei Filius, c.
III).
Questo approccio, tuttavia, non manifesta in pienezza l’atto di fede. Si ferma sull’aspetto delle idee, dei
concetti, delle verità, senza coinvolgere l’esistenza intera della persona, la sfera dell’affettività. A questa
allude meglio il documento del Concilio Vaticano II Dei Verbum, che indica che la fede va ben oltre
l’assenso intellettuale a verità. Vi si legge, infatti: «A Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede,
con la quale l’uomo si abbandona a Dio tutt’intero liberamente, prestandogli pieno ossequio
dell’intelletto e della volontà e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da lui» (Dei Verbum,
n. 5).
Il Concilio Vaticano II, dunque, ci mostra la via nella quale dobbiamo camminare, per scorgere, in
maniera meno inadeguata, che cos’è l’atto di fede o, ancora meglio, in che cosa consiste la fede
cristiana.
Ci sollecita, inoltre, a recuperare lo spessore intero dell’atto di fede, dell’esperienza della fede. Prima di
105 Ib.
106 Cf ib.
107 Su questo si vedano almeno Editoriale: Stato laico e laicità dello Stato, in «La Civiltà Cattolica», II (2001) 3-15, specie 11-
15; M. TOSO, Per una laicità aperta. Laicità dello Stato e legge naturale, Edizioni Lussografica, Caltanissetta 2002.
ogni altra cosa, la fede consiste nel rapporto interpersonale tra l’uomo e Cristo. È aprire a Cristo le porte
dell’esistenza, ciò che comporta una comunione integrale con Lui. Si tratta dell’assimilazione a Lui
nell’essere, nella vita, nelle facoltà, e quindi anche nell’intelligenza. San Paolo parla della mentalità (noùs)
di Cristo, che diventa nostra.
Scavando ancor di più, che cos’è, dunque, la fede?
La fede, come ci ha insegnato in particolare Benedetto XVI, spronandoci a superare astrattezze ed
intellettualismi, non è un’idea. Non è credere ad una dottrina, ad una scienza. E non è, tantomeno, un
mero prodotto della nostra mente.
È incontro, come in parte già detto, a tu per tu con la persona del Signore Gesù.
È accoglierlo. È innamorarsi di Lui.
È vivere Lui, in una doppia compenetrazione: noi in Lui e Lui in noi, come i tralci vivono uniti alla
vite. San Paolo è giunto a scrivere che, per lui, «vivere è Cristo».
È dimorare con Cristo, in Cristo. È fare esperienza della sua vita, per intero: unendosi anche alla sua
opera di ricapitolazione di tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra (cf Ef 1, 10). La fede è più
viva e più forte quando deriva da uno stupore, da un innamoramento, dall’esperienza dalla bellezza di
stare con Lui, di essere suoi. Aiuta ad acquisire la bellezza del vivere, perché Gesù Cristo è con noi e dà
splendore e bellezza all’esistenza. Lo stare con Gesù fa risplendere la vita, dà la gioia del dono, il gusto
del bene.
Riassumendo, la fede chiama in causa l’uomo integrale e consente, per quanto possibile, di vivere
Cristo nella sua totalità, come Uomo-Dio, come Colui che, incarnandosi, morendo e risorgendo,
trasfigura e divinizza la nostra umanità, ne accresce la capacità di Dio, la rende partecipe della Sua vita
gloriosa, la associa alla creazione di un mondo nuovo. Come scrive san Paolo, tutto il creato geme nelle
doglie del parto di un mondo e di una umanità nuova (cf Rm 8,18-22). Nell’Apocalisse leggiamo: «Ecco,
io faccio nuove tutte le cose. […] Io sono l’Alfa e l’Omèga, il Principio e la Fine» (Ap 21,5).
La fede consente di vivere in Cristo, che salva ogni uomo e tutto l’uomo, ogni popolo e tutti i popoli,
senza distinzione di razza, tribù, lingua o nazione. Con ciò, tutta l’esistenza umana, nelle sue molteplici
articolazioni, che comprendono anche la dimensione sociale, è liberata dal peccato, che è separazione da
Dio, ed è chiamata a trasfigurarsi vivendo il suo Amore. «Dio, in Cristo, recita il Compendio della
Dottrina sociale della Chiesa non redime solamente la singola persona, ma anche le relazioni sociali tra
gli uomini» (Compendio, n. 52).
La redenzione di Cristo è redenzione dell’uomo, considerato nel «volume totale» delle sue dimensioni
costitutive: corporeità, soggettività (capacità nativa di vero, di bene e di Dio, libertà e responsabilità),
socialità, apertura alla Trascendenza.
La fede vede in Cristo, Uomo-Dio, la realizzazione della persona umana al massimo grado della
perfezione, vede l’umanità in piena comunione con Dio, totalmente dedita al dono di sé, alla lotta
contro il male non con le armi, ma con la forza del bene. È un’umanità che non si rinchiude nei suoi
limiti angusti, perché incessantemente protesa all’autotrascendimento. Un’umanità che è pienamente se
stessa, perché ordinata all’altro e, soprattutto, al totalmente Altro, cioè a Dio, Amore in tre Persone.
Gesù Cristo è l’uomo, che diviene perfetta apertura verso Dio, uscendo totalmente da sé. Colui che
chiama se stesso «Figlio dell’uomo» è il vero uomo, pervenuto a se stesso.
Noi tutti, indistintamente, siamo chiamati a raggiungere la misura della pienezza umana di Cristo (cf Ef
4,11-14).
L’uomo che vive per sé solo, l’uomo che non riesce a pensare ad altro che a se stesso, è un uomo
vecchio, un uomo del passato da lasciarci alle spalle per andare oltre, trascendendoci, superando i limiti
meschini dell’isolamento e delle divisioni. Il processo del nostro «divenire-uomini» si compie
personalizzandoci e socializzandoci con l’apertura all’altro, alla comunione con i fratelli e con Dio, che è
Padre di tutti e ci vuole uniti in una stessa famiglia. Il Signore Gesù, proprio perché segna l’inizio di una
nuova e definitiva riconciliazione e comunione dell’uomo con Dio e degli uomini tra loro, semina nella
storia e nei cuori la consapevolezza della fraternità. Egli è lo «spazio» personale di un’esistenza
riconciliata. In Lui, l’altro viene accolto e amato come figlio e figlia di Dio, come fratello e sorella, mai
come un estraneo, un antagonista o addirittura un nemico.108

108 FRANCESCO, Messaggio per la giornata mondiale della pace (1° gennaio 2014), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
2013, n. 3.
Il «futuro» dell’uomo risiede nel proessere o essere-per: per la comunione e la fraternità, e per Dio, ossia
nel percepirsi come una sola umanità, un solo uomo in Cristo (cf Gal 3,28), respirando il Suo respiro,
vivendo i Suoi stessi sentimenti e il Suo stesso Amore pieno di Verità, partecipi della Sua grande opera di
redenzione e trasfigurazione del mondo.

In breve, in Cristo, redentore universale, è realizzata la misura perfetta dell’umanità non solo libera e
responsabile, ma anche fraterna, relazionale, sociale, solidale.
Il credente, quale tralcio unito alla vite, è chiamato a compiersi in Cristo, come umanità creata per il
dono e per Dio. Questa nuova umanità si perfeziona protendendosi all’oltre da sé, istituendo dei «noi-di-
persone-in-comunione», coese e appassionate nella ricerca del bene comune, del compimento in Dio,
con il lavorio di un’esistenza che si autotrascende nel mutuo potenziamento d’essere, soprattutto
prendendosi cura dell’altro. Il nostro «io» diventa sempre più pienamente se stesso nella relazione con il
«tu» e con il «noi».
La fede del credente è, a un tempo, esperienza personale e comunitaria della salvezza integrale di Cristo:
salvezza ricevuta, celebrata, testimoniata. Questa fede cresce mentre si vive in unità con il Signore Gesù
l’Uomo Nuovo , con i propri fratelli, in seno alla Chiesa.
La Chiesa è un «noi di comunione con Cristo». Nei sacramenti, ma in modo principe nell’Eucaristia,
rende presente la Sua salvezza, una salvezza che non scaturisce dall’iniziativa dei credenti, ma è dono
gratuito di Dio: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato» (Gv 6,44).
Nell’interezza della compagine delle sue componenti, la Chiesa è costituita soggetto comunitario di
annuncio e di testimonianza di questa salvezza globale.

8.2. Educazione alla fede

Riassumendo, la fede è la propria adesione alla persona di Gesù Cristo, al Cristo pasquale, che crea
un mondo nuovo. È un atto personale e cristocentrico. Come già detto, la comunione con Cristo fa
maturare in noi una nuova umanità, chiamata a raggiungere la statura spirituale e morale del Figlio di
Dio. Siamo destinati ad essere cristoconformi, figli nel Figlio, inviato dal Padre come missionario. Qui si
inserisce la necessità dell’educazione.
Qual è il compito dell’educazione alla fede, dando per presupposto che si sappia in che cosa consista
l’educare? Quali sono i contesti socio-culturali in cui si colloca l’educazione alla fede?
A proposito di quest’ultimo aspetto, occorre registrare subito che oggi l’educazione appare
fortemente in crisi, sia perché si dubita sulla possibilità di riuscire ad incidere, data la fragilità umana
degli educandi; sia perché i soggetti tradizionali dell’educazione si sentono espropriati da agenzie che
hanno una potente efficacia diseducativa – si pensi all’influenza della comunicazione mediale e digitale -
; sia perché si vive in un mondo caratterizzato dalla molteplicità delle culture, delle religioni, dalla
pluralità dei «riferimenti valoriali» e dei messaggi; sia perché oggi si ha la sensazione che tra bene e male
non esista più una demarcazione netta. Ci si trova, in definitiva, in quella che viene definita «emergenza
educativa».
La comunità cristiana, nonostante il contesto di sfiducia e di scoraggiamento nei confronti dell’opera
di educazione, non può scoraggiarsi, perché dalla fede in Gesù Cristo, dalla consapevolezza che i giovani
e tutti noi siamo viventi in Cristo e partecipiamo della sua capacità divina di bene, di amore, di
autotrascendimento, nutre la speranza di potervi adempiere. Si tratta, in definitiva, di portare le persone
a Cristo, il grande Educatore e Maestro.
La sorgente della speranza di poter educare è Cristo, che si incarna in ogni persona, redimendola e
aprendola ad un destino ultraterreno di comunione definitiva con Dio, Verità, Bontà, Bellezza.
Dalla fede in Gesù Cristo nasce una grande speranza per l’uomo, per la sua vita, per la sua capacità
di amare e di impegnarsi per il bene, bene di tutti, bene comune.
È dall’essere «di» Cristo, dall’appartenere a Lui, che deriva il profilo e l’obiettivo dell’educazione.
Mentre, dunque, si avvertono le difficoltà del processo educativo, chi è nella Chiesa conserva la
speranza, consapevole di essere chiamato a sostenere un compito arduo, sì, ma entusiasmante.

8.3. Alcuni tratti dell’educazione

L’educazione dev’essere integrale, perché ha il compito di promuovere lo sviluppo della persona


nella sua totalità.
È legata ai rapporti intergenerazionali.
Deve tener conto dell’attuale dicotomia tra mondo della conoscenza e mondo delle emozioni.
Deve puntare a formare sull’incontro tra i popoli, sul dialogo tra le culture, senza per questo perdere
la propria identità, evitando il sincretismo.
È un cammino: l’incontro con Gesù genera un cammino. «Cristiani si diventa, non si nasce», diceva
Tertulliano. Si tratta di un itinerario condiviso, in cui educatori ed educandi intrecciano un’esperienza
umana e spirituale profonda, che coinvolge entrambi. Educare richiede impegno nel tempo e infinita
pazienza.
Implica soprattutto un generare. La relazione educativa si innesta nell’atto generativo e nell’esperienza
di essere figli. L’uomo non dà la vita a se stesso: la riceve. Allo stesso modo, il bambino impara a vivere
guardando ai genitori e agli adulti, i quali sono efficaci educatori non solo con la parola, ma
essenzialmente con la testimonianza credibile della propria vita. Sono i primi ad insegnare l’amicizia con
Gesù, ricordando che i testimoni si ascoltano più volentieri dei maestri.
Il processo educativo si svolge, quindi, all’interno di esperienze di vita e di condivisione, nella
famiglia, nei gruppi e nella vita parrocchiale, nelle associazioni e nei movimenti, nel volontariato, nel
servizio in ambito sociale e nei territori di missione, nella scuola di ogni ordine e grado. Si compie,
assumendo un practicum di vita, sperimentando il bene, vivendo con senso critico: si impara facendo.

8.4. Soggetti dell’educazione

Essi sono:
- Gesù, il Maestro
- La Chiesa discepola, madre e maestra
- La famiglia
- La scuola
- Le associazioni, i movimenti, ecc.

Su questo non ci fermiamo, ma si rimanda al documento della Conferenza episcopale italiana


Educare alla vita buona del Vangelo, ove vengono elencati i vari soggetti dell’educazione con opportune
indicazioni sul loro compito.109

8.5. Alcuni punti nodali dell’educazione globale, comprensiva dell’impegno sociale e politico

«Buoni cristiani ed onesti cittadini» (don Bosco). Diventare costruttori attivi e responsabili della
comunità cristiana e della società civile e politica.
Imparare Cristo, sotto la guida dello Spirito santo, che conduce i credenti alla verità intera di
Cristo.
In quanto siamo di Cristo, apparteniamo a Lui radicalmente, totalmente. E una simile appartenenza
ha il primato su qualsiasi altra appartenenza. I primi martiri professavano con la vita il primato della
loro appartenenza a Cristo rispetto ad altre appartenenze. Oggi, il cristiano deve sapere distinguere
le sue varie appartenenze religiose, politiche, sociali, e stabilire una gerarchia, relativamente ai grandi
beni valori della vita, della famiglia, della libertà di coscienza, della libertà religiosa, della morte.
Appartenendo totalmente a Cristo, la sua vita di Amore deve giungere a pervadere, a permeare
tutta la nostra vita intellettiva, affettiva, lavorativa, sociale, culturale. Non può sussistere una
separazione tra fede e vita, poiché la fede non annienta l’uomo, ma lo perfeziona e lo completa. La
verità, offerta a noi da Cristo, non annulla la verità umana, conquistata mediante la ragione. Bensì la
conferma e la rafforza. Peraltro la ragione, nel suo uso retto, aiuta la fede e la Parola di Dio a
rinsaldarsi nello spirito umano. Come e perché può avvenire questo? Perché l’atto di fede è anche
pensare. Credere è null’altro che pensare assentendo. Sant’Agostino affermava che «Chiunque crede
pensa, e credendo pensa e pensando crede». «La fede se non è pensata è nulla».110 Ed ancora: «Se
si toglie l’assenso, si toglie la fede, perché senza assenso non si crede affatto».111

109 Sui vari soggetti educanti cf CEI, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il
decennio 2010-2020, EDB, Bologna 2010, capitolo IV.
110 AGOSTINO, De paedestinatione sanctorum, 2, 5 [PL 44, 963].
111 ID., De fide, spe et caritate, 7 [CCL 64, 61]. La fede, non adeguatamente conosciuta nella sua intrinseca dimensione
razionale, rischia di svilirsi, di impoverirsi, di cadere preda di fanatismi o della superstizione. Privata della ragione,
La fede non propone nulla che vada contro la ragione, non sollecita ad aderire a concetti
irrazionali, semmai a realtà sovrarazionali. L’Amore di Cristo non inficia, bensì accresce la nostra
capacità di amore, di bene, di Dio. Molte affermazioni di ragione come la definizione della famiglia,
che si trova nella Costituzione italiana, e cioè che essa è una società naturale fondata sul matrimonio
(cf art. 29) tra un uomo e una donna, non sono contraddette dalla fede. Anzi, esse trovano
corrispondenza in quanto ha insegnato Gesù sul rapporto uomo e donna e sul loro legame
coniugale.
La fede rafforza la concezione di uno Stato a servizio della persona – è la persona che ha il
primato sullo Stato, e non il contrario -, e, quindi, ritiene inconcepibile uno Stato che vada contro il
diritto alla vita, dal momento del concepimento sino alla conclusione naturale dell’esistenza.112
Non ammette la morte di Stato, ossia un diritto all’aborto,113 all’eutanasia, al suicidio assistito,114
come anche la pena di morte, legittimati giuridicamente. Riconosce, invece, l’obiezione di coscienza
all’aborto, un diritto sancito dalla stessa bioetica e dalla deontologia del medico. Le leggi che
autorizzano e favoriscono l’aborto e l’eutanasia si pongono radicalmente contro il bene del singolo
e il bene comune. Uno Stato che riconoscesse il cosiddetto diritto all’aborto e all’eutanasia va
contro il proprio compito, cioè tutelare e promuovere la vita, fin quando sia umanamente possibile,
col rispetto della dignità. L’aborto e l’eutanasia devono essere ritenuti crimini che nessuna legge può
pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la coscienza,
ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di
coscienza. Fin dalle origini, la predicazione apostolica ha inculcato ai cristiani il dovere di obbedire
alle autorità pubbliche legittimamente costituite (cf. Rm 13, 1-7; 1 Pt 2, 13-14), ma nello stesso
tempo ha ammonito fermamente che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29).
Già nell'Antico Testamento, proprio in riferimento alle minacce contro la vita, troviamo un
esempio significativo di resistenza al comando ingiusto dell'autorità. Al faraone, che aveva ordinato
di far morire ogni neonato maschio, le levatrici degli Ebrei si opposero. Esse «non fecero come
aveva loro ordinato il re di Egitto e lasciarono vivere i bambini» (Es 1, 17). Ma occorre notare il
motivo profondo di questo loro comportamento: «Le levatrici temettero Dio» (ivi). È proprio
dall'obbedienza a Dio — al quale solo si deve quel timore che è riconoscimento della sua assoluta
sovranità — che nascono la forza e il coraggio di resistere alle leggi ingiuste degli uomini. È la forza
e il coraggio di chi è disposto anche ad andare in prigione o ad essere ucciso di spada, nella certezza
che «in questo sta la costanza e la fede dei santi» (Ap 13, 10). Nel caso quindi di una legge
intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l'aborto o l'eutanasia, non è mai lecito
conformarsi ad essa, «né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né
dare ad essa il suffragio del proprio voto».115

diminuiscono le sue possibilità di essere «proposta universale». È illusorio pensare – scrive in modo lapidario la Fides et ratio
di Giovanni Paolo II – che la fede, dinanzi ad una ragione debole abbia maggior incisività» (n. 48).
112 Nell’Angelus del 5 febbraio ha ben espresso il convincimento dei credenti e dell’impegno a favore della vita con
queste parole:«[…] oggi, in Italia, si celebra la Giornata per la Vita, sul tema “Donne e uomini per la vita nel solco di Santa
Teresa di Calcutta”. Mi unisco ai Vescovi italiani nell’auspicare una coraggiosa azione educativa in favore della vita umana.
Ogni vita è sacra! Portiamo avanti la cultura della vita come risposta alla logica dello scarto e al calo demografico; stiamo
vicini e insieme preghiamo per i bambini che sono in pericolo d’interruzione della gravidanza, come pure per le persone che
stanno alla fine della vita – ogni vita è sacra! – perché nessuno sia lasciato solo e l’amore difenda il senso della vita.
Ricordiamo le parole di Madre Teresa: «La vita è bellezza, ammirala; la vita è vita, difendila!», sia col bambino che sta per
nascere, sia con la persona che è vicina a morire: ogni vita è sacra!» (FRANCESCO, Angelus, 5 febbraio 2017).
113 Si tenga presente che la legge italiana 194/78 non sancisce il diritto all’aborto, come ritengono in molti.
114 Contrariamente a quanto ha fatto credere gran parte della stampa italiana, nel caso del giovane Dj Fabo, in Svizzera
non è approvata l’eutanasia, non esiste negli ospedali nemmeno il suicidio assistito alla maniera di un protocollo sanitario
regolato e gestito negli ospedali secondo le regole del servizio pubblico nazionale o cantonale. In Svizzera l’eutanasia è un
delitto, punito dall’art. 114 del Codice penale. È un delitto anche l’istigazione e l’aiuto al suicidio (art. 115). I giornali hanno
confuso il sistema giuridico elvetico con l’attività di alcune associazioni private. Hanno scambiato il diritto svizzero con i
margini permissivi che permettono a questa associazioni di passare immuni da sanzioni penali.

115 GIOVANNI PAOLO II, Evangelium vitae, n. 73. Un particolare problema di coscienza potrebbe porsi in quei casi in
cui un voto parlamentare risultasse determinante per favorire una legge più restrittiva, volta cioè a restringere il numero degli
aborti autorizzati, in alternativa ad una legge più permissiva già in vigore o messa al voto. Simili casi non sono rari. Si registra
infatti il dato che mentre in alcune parti del mondo continuano le campagne per l'introduzione di leggi a favore dell'aborto,
sostenute non poche volte da potenti organismi internazionali, in altre Nazioni invece — in particolare in quelle che hanno
già fatto l'amara esperienza di simili legislazioni permissive — si vanno manifestando segni di ripensamento. Nel caso
ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui
personale assoluta opposizione all'aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a
8.6. Alcuni mezzi dell’educazione all’impegno sociale e politico

«Mezzi di educazione/autoeducazione»: la preghiera (creare nella nostra vita momenti o luoghi, quasi
un «parlatorio», come soleva ripetere san Pier Damiani ai suoi eremiti, in cui Dio conversa con noi e noi
lo ascoltiamo);116 il sacramento della Riconciliazione (tutti i sacramenti, ovviamente); l’accompagnamento
spirituale: avere cioè un sacerdote come padre e fratello che ci segue e riceve le confidenze relative alla
nostra vita cristiana, al nostro orientamento vocazionale; la frequenza dell’Eucaristia, per apprendere e
vivere il dono di sé al Padre, per «eucaristizzare» l’impegno quotidiano; ricezione e sperimentazione
della Dottrina o magistero sociale della Chiesa.117

8.7. Cattolici e partiti

8.7.1. Alcune cause dell’irrilevanza dei cattolici nel campo della politica

Agli inizi degli anni Novanta, la diaspora dei cattolici nel campo della politica, perché questo è uno dei
punti da cui dobbiamo muovere, poteva apparire non solo come una necessità motivata, ma anche
come una preziosa opportunità, persino come una «benedizione», secondo alcuni. Rendeva evidente
che il seme cristiano non poteva essere “sequestrato” da qualche compagine, in questo caso partitica,
rinchiudendola dentro involucri, che alla fine lo contraddicevano e lo rendevano sterile. Il lievito dei
cristiani doveva far fermentare tutta la pasta. Oggi, tuttavia, abbiamo la possibilità di una valutazione
chiara di questa forma di pensiero. La diaspora, teorizzata come un bene, al lato pratico si è trasformata
in irrilevanza dei cattolici nella vita pubblica. E, fatto ancora più grave, ha lasciato dei segni di
contrapposizione, provocando forti divisioni tra i cattolici stessi.

proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità
pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e
doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui. L'introduzione di legislazioni ingiuste pone spesso gli uomini moralmente
retti di fronte a difficili problemi di coscienza in materia di collaborazione in ragione della doverosa affermazione del
proprio diritto a non essere costretti a partecipare ad azioni moralmente cattive. Talvolta le scelte che si impongono sono
dolorose e possono richiedere il sacrificio di affermate posizioni professionali o la rinuncia a legittime prospettive di
avanzamento nella carriera. In altri casi, può risultare che il compiere alcune azioni in se stesse indifferenti, o addirittura
positive, previste nell'articolato di legislazioni globalmente ingiuste, consenta la salvaguardia di vite umane minacciate.
D'altro canto, però, si può giustamente temere che la disponibilità a compiere tali azioni non solo comporti uno scandalo e
favorisca l'indebolirsi della necessaria opposizione agli attentati contro la vita, ma induca insensibilmente ad arrendersi
sempre più ad una logica permissiva. Per illuminare questa difficile questione morale occorre richiamare i principi generali
sulla cooperazione ad azioni cattive. I cristiani, come tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati, per un grave dovere di
coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in
contrasto con la Legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale
cooperazione si verifica quando l'azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene
assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita umana innocente o
come condivisione dell'intenzione immorale dell'agente principale. Questa cooperazione non può mai essere giustificata né
invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede: per gli atti che
ciascuno personalmente compie esiste, infatti, una responsabilità morale a cui nessuno può mai sottrarsi e sulla quale
ciascuno sarà giudicato da Dio stesso (cf Rm 2, 6; 14, 12). Rifiutarsi di partecipare a commettere un'ingiustizia è non solo un
dovere morale, ma è anche un diritto umano basilare. Se così non fosse, la persona umana sarebbe costretta a compiere
un'azione intrinsecamente incompatibile con la sua dignità e in tal modo la sua stessa libertà, il cui senso e fine autentici
risiedono nell'orientamento al vero e al bene, ne sarebbe radicalmente compromessa. Si tratta, dunque, di un diritto
essenziale che, proprio perché tale, dovrebbe essere previsto e protetto dalla stessa legge civile. In tal senso, la possibilità di
rifiutarsi di partecipare alla fase consultiva, preparatoria ed esecutiva di simili atti contro la vita dovrebbe essere assicurata ai
medici, agli operatori sanitari e ai responsabili delle istituzioni ospedaliere, delle cliniche e delle case di cura. Chi ricorre
all'obiezione di coscienza deve essere salvaguardato non solo da sanzioni penali, ma anche da qualsiasi danno sul piano
legale, disciplinare, economico e professionale.

116 «È necessario imparare a trovare il cammino verso il nostro cuore, recuperare il valore dell’intimità e del silenzio, perché
è lì che Dio ci incontra e ci parla. Soltanto a partire da lì possiamo a nostra volta incontrare gli altri e parlare con loro»
(FRANCESCO, Udienza generale, 1° giugno 2016).
117 Su questo è bene rileggere il capitolo IV dell’Evangelii gaudium.
Accenno qui ad almeno a due cause dell’attuale irrilevanza o insignificanza dei cattolici:

a) La prima causa. Sono state sottovalutate le regole procedurali della vita democratica, in particolare
quella del principio di maggioranza. In una democrazia, i beni-valori, compresi quelli dei cattolici,
possono e devono venire inseriti nelle istituzioni e nelle leggi, mediante un metodo
democratico, con l'appoggio di una maggioranza; il che suppone che vi sia una qualche «massa
critica» che li sostenga. Per quanto concerne la regola procedurale della maggioranza, è facile
capire che quanti hanno sostenuto la «teoria» della diaspora, in sostanza hanno contribuito a far
regredire le posizioni del mondo cattolico dal punto di vista politico e democratico. Al pari di
ogni altro cittadino, il cattolico sa che, in una democrazia pluralista, può promuovere tutto
quello in cui crede, sia come persona umana sia come uomo di fede ‒ la sua fede non fa altro
che confermare ciò che pensa come essere umano e razionale ‒ ma solo se vive all’interno di
una aggregazione e non disperso qua e là, in diaspora. Ossia se, assieme ad altri, giunge a
costituire una maggioranza. È una legge della vita democratica. Affinché i propri beni-valori
possano essere incarnati dall’azione politica, occorre essere il più possibile uniti, compatti.
Rispetto a questo punto, la parte del mondo cattolico, che ha sostenuto e ancora sostiene la
teoria della diaspora, ma anche quei teologi e quei vescovi che l’hanno condivisa, a mio modo di
vedere, ha contribuito a far regredire la «maturità» politica in una specie di analfabetismo
sociale.
b) La seconda causa. Il venir meno del radicamento della vita dei cattolici nel contesto spirituale e
culturale di una fede viva. A lungo andare, ciò ha provocato lo scollamento dei movimenti sociali
di ispirazione cristiana rispetto ai valori evangelici e all’esperienza di una fede vissuta
profondamente, generando il disfacimento di una formazione e di una mentalità cristiane. Tra
l’altro, parrocchie, diocesi, movimenti hanno delegato a terzi la formazione politica del credente,
impegnato a gestire la cosa pubblica e a vivere nella comunità civile. Non raramente, la Dottrina
sociale della Chiesa è rimasta negli Statuti delle organizzazioni cattoliche o di ispirazione
cristiana come affermazione di principio, senza essere tradotta in pratica! Da molte associazioni,
aggregazioni, movimenti cattolici o di ispirazione cristiana, la Dottrina sociale della Chiesa è
ormai pressoché ignorata. Per non parlare, poi, della vita parrocchiale: ci sono indagini che
mostrano che la catechesi è fatta da persone che per l’ottanta per cento ignorano che cosa sia la
Dottrina o Insegnamento sociale della Chiesa e, quindi, non sono in grado di veicolarla nella
loro opera di educazione alla fede.

8.7.2. La crisi della democrazia mette in risalto la falsità del dogma della diaspora

Il fallimento del dogma politico della diaspora dei cattolici è divenuto più evidente in questo tempo
di profonda crisi della vita politica, dei partiti e della democrazia, che si manifesta come crisi di
rappresentanza, di rappresentatività, di partecipazione. Viviamo in un frangente storico di deficit di
rendimento dei sistemi democratici e di sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e delle élite
politiche e democratiche. Anzi, in un clima di crollo della democrazia proprio nei suoi pilastri
fondamentali, rappresentati dalla libertà, dallo Stato di diritto e dallo Stato sociale.
La democrazia è nata come una «promessa» di libertà,118 da realizzare gradualmente, mediante
l’emancipazione della soggettività e la liberazione dalle catene dell’eteronomia. Purtroppo, il
fondamento della libertà, appropriato da un soggetto radicalmente utilitario ed individualista, ha reso un
simile obiettivo alquanto difficile. Oggi, la democrazia sembra accentuare la fragilità del progetto
iniziale, a motivo di un impianto culturale individualista, divenuto più esteso e virulento, perché
associato all’assolutizzazione della tecnocrazia e del capitalismo finanziario. L’odierna democrazia
appare, così, in forte decadenza, incapace di salvaguardare anche la libertà più alta, ossia la libertà

118 Su questo mi permetto di rinviare a: M. TOSO, Per una nuova democrazia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
2016.
religiosa nelle sue varie articolazioni. Non poche amministrazioni comunali negano la libertà
dell’educazione cattolica, come anche la libertà di coscienza in materia di aborto. In Francia, ove da
tempo è stato codificato il diritto all'aborto, ultimamente si è deciso che coloro che via web provano a
dissuadere da tale pratica sono passibili di una multa di 30.000 Euro, con l’aggiunta di poter essere
condannati a due anni di carcere. Insomma, ci dovrebbe essere libertà solo per chi vuole abortire, ma
non per chi difende il diritto alla vita. E non si osserva affatto la presenza di un mondo cattolico
sufficientemente organizzato e preparato, in grado di contrastare questi orientamenti. In Italia, poi, in
non poche città, ICI ed IMU sono fatte gravare non solo sulle scuole cattoliche – scuole paritarie con
funzione pubblica ‒ ma si tende anche a farle pesare sugli episcopi, sugli uffici curiali e sui locali della
Caritas, considerati alla stregua di enti commerciali.
Si è appena detto che viviamo in una fase di crollo anche dell'altro pilastro della democrazia, e cioè
dello Stato di diritto. Ciò avviene prevalentemente a motivo di un neoindividualismo radicale predominante.
Sulla base di un individualismo quasi anarchico, ognuno si considera autonomo nel vero senso del
termine, e cioè legge a se stesso. Ha valore solo ciò che decide il singolo, con il suo libero arbitrio.
L'assolutizzazione dell’individuo, considerato unico metro di misura della verità e del bene, conduce a
porre il soggettivismo a fondamento dei diritti e dei corrispettivi doveri. L’asserzione di un tale
individualismo libertario pone un fondamento fragile ed incerto allo Stato di diritto contemporaneo,
che appare sempre più instabile.
Il crollo dello Stato di diritto, con la complicità di un capitalismo finanziario ad impronta utilitarista e
performativa, poi, provoca a sua volta la caduta del terzo pilastro della democrazia, ossia lo
smantellamento dello Stato sociale. Il capitalismo finanziario, che assolutizza il profitto a breve e
brevissimo termine, vanifica i diritti sociali, quali il diritto al lavoro, alla formazione professionale, alla
sicurezza sociale, che sostanziano il Welfare State. Venendo così aggredito lo Stato sociale, viene meno la
democrazia sostanziale, la quale può sussistere solo se, accanto ai diritti civili e politici, possono essere
realizzati anche i diritti sociali.
In un contesto di decadimento dei vari pilastri della democrazia, i credenti, in quanto cittadini a
pieno diritto, sullo stesso piano di tutti gli altri, sono sollecitati a dare il loro apporto, in vista della
rifondazione della politica, con la riappropriazione della democrazia, oggi divenuta populista, oligarchica.
Bisogna rifondare la politica, che ha finito per perdere, con la sua dignità, il suo significato umano!
Proprio nel momento in cui abbiamo più bisogno di una retta azione politica, questa è venuta a
mancare. Dopo il fallimento del neoliberismo nelle sue forme più estreme, dobbiamo recuperare la
prospettiva dell'intervento statale nel campo dell’economia, ovviamente secondo il principio di
sussidiarietà, quale peraltro era stato prospettato anche dalla Populorum Progressio, di cui quest'anno
ricorre il 50º di promulgazione. E tuttavia, nel momento in cui, anche a livello di teorie economiche, un
certo intervento statale è consigliato in sinergia con l’iniziativa del mercato e dell’iniziativa sociale, per
ironia della sorte, avviene che non disponiamo più di uno Stato in grado di ordinare e orientare
l'economia. Il primato, infatti, è detenuto dalla finanza speculativa e non appartiene a una sana azione
politica.
Ciò costituisce un grave handicap per la democrazia, per la realizzazione del bene comune, per
l’attuazione di uno Stato sociale e di un'economia democratica a misura di cittadino. Basti pensare al
fallimento di parecchie banche italiane. Che cosa può fare ora il legislatore? Ben poco. In un contesto in
cui lo Stato non batte più moneta, la sua autorità è fortemente ridimensionata e il suo contributo alla
soluzione della crisi è circoscritto. Diventa, quindi, indispensabile l’intervento di Istituzioni
internazionali, quali, ad esempio, la Comunità Europea o la BCE. Ma non si può ignorare la loro
incompiutezza, l’urgenza di venire integrate sul piano mondiale. Insomma, ci troviamo in una
situazione difficile e complessa, che richiede un rinnovato impegno ideale e sociale da parte di tutti i
cittadini, compresi i cattolici. Se non si è vigilanti riguardo al dilagare del capitalismo finanziario
internazionale, se non si pongono limiti al suo strapotere, si corre il rischio che gli Stati ne diventino
schiavi, alla mercé di speculazioni che non sono più in grado di contrastare.
I credenti nella loro qualità di cittadini al pari di tutti gli altri, sono chiamati a dare il loro apporto in
vista di tale rifondazione della politica, della ricostituzione del suo primato sull’economia, nonché di
una democrazia inclusiva, partecipativa. In un quadro di caduta libera della democrazia, di una tale
destrutturazione dell'economia reale, della famiglia, del lavoro, dello Stato sociale; in un mondo
divenuto più complesso, più interconnesso, più interdipendente, non possono mancare, anzitutto, una
nuova evangelizzazione del sociale, e neppure un nuovo «protagonismo» dei credenti, oltre che delle
comunità cristiane, in rete con tutti gli uomini di buona volontà. E ciò, al fine di affrontare le molteplici
questioni cruciali del tempo presente. Si tratta di gravissimi problemi sociali, che spaziano dai grandi
esodi di migranti; dai traffici di persone umane; da una terza guerra mondiale «a pezzi»; dal predominio
di teorie economiche, indirizzate al profitto di breve periodo; da un'Europa politica anchilosata e
sequestrata dai nazionalismi, fino all’aumento delle disparità sociali; alle politiche fiscali che
privilegiano i più ricchi; alle politiche monetarie, finanziarie ed economiche, che richiedono urgenti
riforme, per poter sostenere la crescita e la piena occupazione.
A questo proposito, si stanno applicando solo dei palliativi, compresa la proposta del reddito di
cittadinanza. Gli stessi economisti affermano che sarebbe meglio adottare una politica attiva del lavoro,
perché solo così si possono far crescere le persone in libertà e responsabilità, procurando allo stesso
tempo anche quel reddito nazionale che è indispensabile per ottenere risorse e finanziamenti. E,
comunque sia, la «filosofia» del reddito di cittadinanza, che andrebbe realizzato non in maniera
indiscriminata, richiederebbe in ogni caso di essere integrata da politiche ben più creative e positive di
quelle attuali.
Al lato pratico, si deve pensare al potenziamento degli investimenti pubblici insieme a quelli privati;
all'elevazione dei salari minimi; alla ridistribuzione più equa della ricchezza nazionale; alla riforma dei
mercati del lavoro, per facilitarne l'accesso; alla riforma sull'immigrazione, creando percorsi che diano
adito alla cittadinanza per quelli che ne hanno titolo; al potenziamento dell'economia civile; alla
promozione della libertà religiosa; alla lotta contro la falsa teoria del gender; al rafforzamento della
famiglia; a opportune politiche demografiche.
L'onorevole Luisa Santolini, qui presente, già Presidente delle Associazioni familiari, potrebbe dirci
che le politiche di detassazione dei redditi familiari implicano ovviamente il fatto che le famiglie
dispongano di un reddito. Ma se ne sono prive? Che senso avrebbe stabilire di detassare famiglie senza
introiti? Ci vorranno, pertanto, ben altri provvedimenti a sostegno della famiglia, ivi comprese le
politiche demografiche. Se nel nostro Paese non vi sarà una crescita consistente della natalità, si andrà
incontro ad un sicuro fallimento dal punto di vista non solo demografico, ma anche economico.
Ecco alcuni ambiti rispetto ai quali i cattolici non possono più rimanere indifferenti e procedere
divisi, in una diaspora che scolorisce e indebolisce sempre di più il loro apporto specifico. Essi sono
chiamati a mobilitarsi, a ricompattarsi, assieme a tutti gli uomini di buona volontà, che hanno a cuore il
bene comune.

8.7.3. Quali prospettive di azione?

In particolare, c’è bisogno di conversione – uso questo termine che riprendo dai testi pontifici, anche se
corro il rischio di non essere compreso ‒, pastorale, pedagogica, politica, economica, come ha sottolineato
l’enciclica Evangelii Gaudium. Recentemente Papa Francesco, incontrando nel novembre 2016 i
movimenti popolari, li ha incoraggiati a rafforzarsi, vincendo il rischio sia di farsi incasellare dall'attuale
sistema socio-economico, sia di lasciarsi corrompere.
Simili suggerimenti possono tornare utili anche al Movimento, a cui molti dei presenti intendono dar
vita. Si vuole, così, essere particolarmente incisivi nella rivitalizzazione e nella rifondazione della
democrazia, afflitta, come già detto, da una crisi profonda, che finisce per lasciare ai margini i più
poveri. L’attuale crisi causa, infatti l’erosione dei ceti medi, accrescendo il divario tra ricchi e poveri,
dando luogo ad uno sviluppo economico insoddisfacente e all’emergere di una «democrazia di un
terzo».
I movimenti, secondo il pontefice, devono superare la tentazione di sostenere acriticamente coloro
che sono al potere, finendo per essere soltanto amministratori delle esigue risorse esistenti, anziché
favorire la crescita per tutti.
A questo proposito, desidero richiamare il vissuto odierno, per sottolineare come esso non sembra
organizzato in modo tale da poter promuovere dei cambiamenti. Non raramente, i cattolici –
dall’Azione Cattolica a Comunione e Liberazione, dalla Confcooperative alla Coldiretti ‒ sono per lo
più «inseriti» nel Partito Democratico. Non si intende qui negare la legittimità di collocarsi
politicamente da una parte o dall'altra, di scegliere un partito piuttosto che un altro, evidentemente a
certe condizioni. Si desidera solo sottolineare la necessità che la scelta partitica sia sempre vissuta con
intelligenza, con senso critico, in modo da non assegnare il primato al colore dell’appartenenza rispetto
ai beni-valori in cui si crede. Concedere il primato alle direttive dei partiti conduce talora ad esiti
infausti. Quando si parli di libertà di educazione e, ad esempio, di tassazione della scuola cattolica
paritaria mediante aliquote ICI o IMU penalizzanti; quando si parli di altri temi sensibili, come
l’obiezione di coscienza da parte dei medici nei confronti dell’aborto, o come l’eutanasia, molti cattolici,
che fanno riferimento al Partito Democratico attualmente al governo, sembrano rimanere inerti,
mettendo a tacere ogni obiezione. Non si pronunciano contro gli ordini di scuderia del partito, rispetto
a decisioni che finiscono per smantellare lo stesso modello di famiglia e il concetto di lavoro, quali sono
codificati nella Costituzione Italiana. Credo che sia legittimo domandarsi per quale ragione si
comportino in tal modo. Non possiedono, forse, una loro identità, che non dovrebbe permettere di
rassegnarsi a che i beni-valori fondamentali siano platealmente disprezzati o negati? Non sono dotati di
una cultura e di un patrimonio valoriale che li renderebbe rivoluzionari, rispetto agli orientamenti
esistenti? Per rispondere a simili interrogativi, sarebbe sufficiente pensare ad un breve elenco delle
prospettive di cui sono portatori: la vita come dono di Dio; la fraternità; la libertà responsabile; la
solidarietà; la famiglia, come culla della vita e dell’educazione della persona; il lavoro, come bene
fondamentale, antidoto alla povertà e titolo di partecipazione, che sollecita a politiche del lavoro per
tutti; un’economia sociale, implicante una imprenditorialità plurivalente e una finanza a servizio
dell’economia reale; l’ecologia integrale; il bene comune; la giustizia sociale; la pace. Possibile che, in
forza della loro identità, della dimensione sociale della loro fede, delle alte motivazioni evangeliche che li
animano, della ricchezza della loro tradizione sociale più nobile, in un contesto di smantellamento del
valore della vita e della famiglia, come società naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una
donna, nonché dello Stato sociale, della crisi ecologica, della tratta di esseri umani, di una terza guerra
mondiale «a pezzi», della crescita delle povertà e delle diseguaglianze, di migrazioni umane dalle
proporzioni bibliche, i cattolici non riescano a trovare un sussulto di dignità, il desiderio di un servizio
indomito e responsabile al bene comune, un minimo di unità innanzitutto tra loro e, poi, con gli uomini
e le donne di buona volontà, per reagire ai mali che stanno portando l’umanità alla rovina? Perché non
incontrarsi, parlare, dialogare e costituire insieme nuovi movimenti sociali e culturali, una nuova «massa
critica», tale da poter incidere sulle attuali dinamiche di distruzione e di disumanizzazione delle nostre
città, delle nuove generazioni? In diverse occasioni ho avuto modo di sollecitare le varie organizzazioni,
associazioni ed aggregazioni cattoliche o di ispirazione cristiana ‒ considerato che non esiste più il
vecchio movimento sociale cattolico ‒, a compattarsi, a formare nuovi movimenti, quali luoghi di
elaborazione di una nuova cultura, di una nuova progettualità, di una nuova rappresentanza e di una
nuova partecipazione. Non raramente mi sono sentito obiettare: «Ma lei desidera formare un nuovo
partito!». Ho risposto che un vescovo non può fondare un partito, perché questo è compito precipuo
dei laici, qualora, poste alcune condizioni, lo credano opportuno. Per inciso ‒ a differenza di coloro che
considerano superata l’idea che i cattolici, assieme ad altri uomini di buona volontà, possano far nascere
nuove entità partitiche ispirate cristianamente! ‒ personalmente ritengo che non lo si debba considerare
un’astrusità o persino una bestemmia. Non sarebbe un male se, in base alle necessità e condizioni
preesistenti, si volesse agire in tal senso! I credenti non sono cittadini di serie B. Al pari di tutti gli altri
cittadini, hanno il diritto di associarsi e, quindi, di formare partiti, qualora lo ritengano necessario e
opportuno. È un compito che spetta a loro, e non certamente alla chiesa gerarchica.
Ad ogni buon conto, considerata la situazione, prima ancora di avviare precipitosamente la nascita di
nuovi partiti – che qualcuno vorrebbe «cattolici», cosa che già don Luigi Sturzo ha mostrato essere
incongruente -, occorre impegnarsi nell’unire le forze, lavorando alla compattazione di una nuova
piattaforma valoriale e culturale, sulla cui base elaborare una nuova progettualità. Al riguardo, può
servire come modello l’azione di quei cattolici che nel secolo scorso hanno provveduto alla stesura del
noto Codice di Camaldoli. Si potrà allora giungere, attraverso ulteriori passaggi, ad un progetto politico.
Fate bene, in questa fase storica, ad unirvi in un Movimento, al fine di individuare un nuovo pensiero, una
nuova visione della società e, conseguentemente, un nuovo progetto sociale! Un problema non
secondario, oggi, è quello appunto di costruire l'unità necessaria innanzitutto tra i credenti e, poi, con gli
uomini di buona volontà, anche di estrazione liberale, che non siano alieni dalla solidarietà. Detto
brevemente, la questione cruciale non è tanto la forma della discesa in campo, ma è come costruire
l’unità tra i cattolici, che attualmente sono in preda al dogma della diaspora e vivono in un pluralismo
divaricato!
Ho avuto modo di incontrare varie realtà di cattolici in diverse città italiane ed ho potuto notare che
esiste un popolo della pace, già di antica data. Esiste, inoltre, un popolo per la vita ed un popolo per la famiglia.
Ma ho anche dovuto registrare che tra questi vari «popoli», fondamentalmente di ispirazione cristiana,
non si riesce a trovare il modo di unirsi, che il dialogo è difficile. Si preferisce procedere in ordine
sparso, anche in occasione delle elezioni, senza considerare adeguatamente che questa frammentarietà
rappresenta una grande debolezza dal punto di vista dell’incisività politica.
È questa la vera tragedia del mondo cattolico contemporaneo! Si sceglie la diaspora, la
frammentazione invece della sinergia, della collaborazione. Sulla base di questa prassi consolidata, è
velleitario pensare di riuscire a costituire un nuovo partito. Occorre prima imparare, con umiltà, ad
incontrarsi, a dialogare, a costruire insieme un nuovo «progetto Paese». Peraltro, sembra davvero irreale
ed utopistico il desiderio, suscitato da un eventuale rilancio del sistema elettorale proporzionale, di
poter costituire un nuovo partito, essendo così pochi. Un nuovo partito non è destinato al successo
senza un minimo di unità valoriale e culturale, senza un numero consistente di adesioni, senza una
qualche massa critica, senza un minimo di radicazione nel territorio nazionale. Un nuovo partito non
potrà mai decollare con un numero esiguo di aderenti. Come affermato all’inizio, non si può ignorare
quella legge fondamentale della democrazia che è il principio di maggioranza. Per procedere con una
speranza fondata, occorre che le diverse aggregazioni, associazioni, e movimenti si pongano in sinergia.
In questo momento storico bisogna lavorare, per fare rete con altre realtà. È facile rappresentare la
situazione attuale. È costituita da tanti «cespugli», da tante piccole entità indipendenti. Ognuna desidera
evolvere in un partito, senza relazionarsi con altri, ma ciò non pare realisticamente fattibile!
Bisogna avere il coraggio di superare particolarismi ed isolazionismi. Penso, talvolta, che oltre ad una
Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, ci vorrebbe una Settimana di preghiera per l’unità dei
cattolici! Ricordando il beato Giuseppe Toniolo, quando era in corso il processo di beatificazione e si
vagliavano i vari miracoli, solevo ripetere agli appartenenti all’Azione Cattolica: «Non disperate!
Toniolo sicuramente ha già compiuto un miracolo, che dev’essergli riconosciuto! Assieme ad Antonio
Zucchini (grande cattolico di Faenza ove sono vescovo), e ad altri credenti visionari, è riuscito a unire e
compattare i cattolici!».

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