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Muhammad è il profeta dell’islam, il Sigillo dei Profeti, scelto da Dio per portare il suo messaggio finale all’umanità.
a) Geografia
Com’era l’Arabia a quel tempo? I ricercatori operano una netta distinzione tra l’Arabia meridionale (specialmente l’angolo
sud-occidentale che corrisponde al moderno Yemen) e il resto della penisola. Questa distinzione si basa su alcuni fattori
geografici che comprendono vaste aree di deserto nel nord e il più fertile sud, chiamato Arabia Felix.
L’Arabia meridionale era molto popolata. I suoi abitanti vi si erano stabiliti dedicandosi in larga arte all’agricoltura e a
partire all’incirca dal VIII secolo a.C. Le sue città avevano delle istituzioni politiche, un’arte e un’architettura che
presentavano uno sviluppo abbastanza elevato. Ad esempio, il famoso sistema di irrigazione Ma’rib (nell’odierno Yemen)
era celebrato nell’Antichità come una meraviglia dell’ingegneria. Poco prima dell’avvento dell’islam, la diga Ma’rib era
definitivamente crollata. Secondo quanto tramandato dalla tradizione musulmana, questo evento giunse a simboleggiare
il declino dell’Arabia meridionale. La conseguenza fu un massiccio spostamento di popolazioni verso nord.
Il resto della penisola era molto diverso. Qui la vita dell’uomo era incessantemente dura. Gli abitanti erano
principalmente dediti alla pastorizia, conducevano un’esistenza di pura sussistenza, basata sull’addomesticamento di
cammelli e sulla coltivazione della palma da dattero. Gli arabi nomadi, conosciuti come beduini, erano forti e
intraprendenti: questi contadini coltivavano datteri e grano e lavoravano come cammellieri o come pastori delle greggi di
pecore o capre accanto ad aree agricole nei dintorni delle città oasi, come Yathrib (in seguito chiamata Medina) e
Khaybar. La bilancia del potere pendeva dalla parte dei cammellieri: essi vivevano in simbiosi con gli abitanti delle oasi,
commerciando i prodotti della vita nomade – latte, carne, pelli – con datteri, grano e armi.
I porti marittimi dell’Arabia erano collegati attraverso il commercio con il Mediterraneo, l’Africa e l’Oceano Indiano. Le
città oasi interne, come Mecca e Yathril, erano stazioni di posta lungo le rotte terrestri per i mercanti che trasportavano
merci come incenso, spezie, seta e cotone. Gli arabi beduini sapevano come guidare le carovane utilizzando le stelle e altri
segni della natura. Lo stesso Corano menziona il fatto che i Banu Quraysh, la tribù dominante di Mecca cui il profeta
Muhammad apparteneva, dovevano la propria ricchezza al commercio carovaniero che si svolgeva due volte l’anno.
b) Governo e società
Gli arabi dell’Arabia settentrionale, centrale ed orientale non avevano un governo centralizzato. La società beduina
rifiutava di essere incatenata ad un sistema politico accentratore, per questo rimaneva all’interno di un’organizzazione
tribale.
La società dei beduini era egalitaria, anche se ogni unità tribale avesse un capo la cui posizione derivava dal carisma
personale. I suoi doveri includevano la difesa della tribù, la protezione dei simboli sacri e la risoluzione delle controversie.
La giustizi fra i gruppi tribali era esercitata attraverso un processo di retribuzione equivalente ai danni ricevuti: in questo
modo si garantiva sicurezza e protezione per sé, per la famiglia e per i propri beni.
Gli uomini delle tribù vivevano in una società militarizzata ed erano soliti portare armi. I beduini avevano un proprio
codice d’onore che attribuiva particolare importanza al coraggio, alla resistenza e all’abilità militare.
c) Culto e religione
Le pratiche di culto beduine erano animiste, e includevano l’adorazione di idoli, pietre e alberi, e di luoghi sacri (haram,
hawta), dove vigeva la tregua. Infatti, quando le tribù arabe svolgevano il loro pellegrinaggio a Mecca ogni faida era
sospesa. Inoltre, i credenti erano soliti correre o camminare intorno (circumambulazione) a questi sacri un numero
prestabilito di volte.
Alcune divinità pagane erano associate a dei santuari: il dio Hubal era associato alla Ka’ba – una costruzione a forma di
cubo - e tre dee, Al-Lat, al-Uzza (entrambe solitamente identificate con Venere) e Manāt (la dea del destino) erano
particolarmente venerate nell’area intorno a Mecca: a queste tre dee fu dato il nome di “figlie di Allah”, il Dio Creatore.
Dal V secolo d.C. la tribù Quraysh che controllava Mecca curava l’accoglienza dei pellegrini che arrivavano ogni anno in un
mese sacro per acquisire il favore delle proprie divinità attraverso la circumambulazione, ripetuta sette volte, in uno stato
di purezza rituale, nello spazio sacro che circondava la Ka’ba, la quale si riteneva esser stata fondata da Abramo (Ibrāhīm)
e da suo figlio Ismaele (Ismā’īl). Per i beduini la vita doveva essere semplicemente affrontata con coraggio e resistenza
prima che la morte li colpisse: questi sentimenti riecheggiano della poesia orale dell’Arabia pre-islamistica.
I nomadi e gli abitanti delle città erano accumunati dall’indissolubile vincolo della lingua araba, che promuoveva
sentimenti di orgoglio e solidarietà. A volte, quando i combattimenti erano proibiti, erano soliti riunirsi per ascoltare la
recitazione di poesie da parte di alcuni membri della tribù.
Vi erano inoltre gli indovini (kāhin) che svolgevano una varietà di funzioni sciamaniche, come la predizione del futuro, la
guarigione e la rabdomanzia.
Intorno al 613 sentì un forte impulso a iniziare la predicazione in pubblico tra i suoi concittadini meccani. Gradualmente
raccolse intorno a sé un piccolo gruppo di discepoli entusiasti che “si sottomisero a Dio” - questo è il significato della
parola “musulmano”: Egli iniziò a vedere se stesso come il messaggero mandato agli Arabi per metterli in guardia delle
terribili conseguenze dei propri peccati.
L’abisso tra Muhammad e i meccani monoteisti aumentava e la dottrina dell’Unico Dio (monoteismo) minacciava il
benessere economico dei meccani che ricavavano grandi profitti dalle cerimonie pagane, dalle fiere e dalle attività
connesse al pellegrinaggio che si compiva intorno al santuario della Ka’ba. Così i meccani cominciarono a perseguitare i
musulmani, alcuni dei quali fuggirono intorno al 615 per cercare rifugio in Abissinia sotto la protezione del sovrano
cristiano. Muhammad tuttavia non andò via con loro,poiché godeva ancora del sostegno del suo clan e del suo capo, lo zio
Abū Tālib.
Il 619 risultò un anno di grande sofferenza personale per Muhammad: sia Khadīja sia Abū Tālib morirono (oltre ad un altro
zio). Muhammad doveva trovare qualche altro luogo in cui poter vivere e diffondere il messaggio dell’islam. Dapprima, nel
620, si recò a Ta’if, dove fu preso in giro e lasciò la città. Quando delle persone, giunte da Yathrib per compiere i riti
religiosi a Mecca ascoltarono il suo messaggio aderendo all’islam, lo invitarono di tornare con loro. Muhammad raggiunse
Yathrib il 24 settembre 622 (Yathrib fu subito rinominata Medina, la città del Profeta) e quando fu introdotto il calendario
musulmano, quel giorno segnò l’inizio della nuova era islamica, commemorando la hijra (= emigrazione) da Mecca a
Medina. Il risultato conseguito da Muhammad a Mecca consisteva nell’aver fondato una nuova religione, l’ISLAM. A
Medina avrebbe fondato la comunità musulmana, la umma.
Mentre Muhammad gettava le fondamenta della umma, le rivelazioni coraniche continuarono. Il messaggio coranico
rivela un crescente disincanto nei confronti degli ebrei e una sempre maggiore enfasi sull’unicità e originalità della nuova
fede, l’islam. Muhammad riteneva che la sua fosse la vera fede di Abramo, il quale attraverso suo figlio Ismā’īl, l’antenato
degli Arabi, aveva edificato la Ka’ba a Mecca. Egli cambiò la direzione della preghiera musulmana verso la Ka’ba. Egli
cambiò la direzione della preghiera musulmana (qibla) – originariamente rivolta verso Gerusalemme - orientandola verso
la Ka’ba a Mecca e, inoltre, stabilì anche il nono mese del calendario fosse interamente dedicato al digiuno.
Muhammad doveva respingere gli attacchi esterni da parte dei meccani. Un jihād è definito dai musulmani come “lotta
difensiva contro un’aggressione esterna”. La prima importante vittoria dei musulmani fu la battaglia di Badr (624), la
quale fu interpretata come una prova che la nuova fede godesse del favore divino. Un anno dopo i meccani, volendo
vendicare la sconfitta di Badr, inviarono a Medina un esercito. Finì nella sconfitta dei musulmani su una collina chiamata
Uhud. Molti musulmani fuggirono quando si diffuse la voce che lo stesso Profeta fosse caduto in battaglia. Fu però solo
ferito e riuscì a fuggire. Questa sconfitta si trasformò in una lezione: dal Corano «mettere alla prova quel che avete
dentro di voi, per purificare quel che avete nel cuore, il contenuto dei cuori Dio lo conosce».
Gli ebrei di Medina si rallegrano della fatidica sorte di Muhammad. Furono costretti ad emigrare verso Khaybar.
Nel 628-29 Muhammad conquistò l’oasi ebraica di Khaybar. Fu questa la sua prima conquista al di fuori di Medina. Non
decise di espellere gli ebrei o ucciderli; al contrario, consentì loro, in qualità di “Gente del Libro” – comunità cui erano
state rivelate delle scritture – di rimanere lì e praticare la propria fede dietro pagamento di un’imposta.
Nel frattempo, anche gli oppositori meccani di Muhammad si convertirono all’islam.
Nel gennaio 630 Muhammad entrò a Mecca e distrusse tutti gli idoli pagani disseminati intorno alla Ka’ba. Il messaggio
era inequivocabilmente chiaro: il politeismo era morto e il monoteismo regnava ora incontrastato.
Gli AHĀDĪTH: i detti canonici del Profeta Comprendono un vasto corpus di detti e fatti riportati del Profeta, che si ritiene
siano stati trasmessi dai Compagni, che danno un quadro dettagliato (anche se a volte controverso e contraddittorio) della
predicazione e delle attività di Muhammad. Tuttavia, è impossibile fare affidamento su di loro come fonte storica a causa
della loro natura spesso frammentaria. Ciò che è importante sottolineare a proposito degli ahādīth è la loro funzione
legislativa: con il tempo, essi giunsero a fornire le fondamenta per lo sviluppo della legge islamica. Il Corano e gli ahādīth in tal
modo si completano; la natura evocativa del primo è completata dall’esaustività dei secondi
La SĪRA: la sua biografia ufficiale, scritta da Ibn Ishāq La sīra è un lungo lavoro di affascinante complessità, basato in gran
parte sugli ahādīth. È pieno di dettagli personali riguardanti la vita e la personalità di Muhammad, cui si aggiungono elementi
miracolosi, mistici e leggendari. Gli ahādīth sono ordinati in base agli argomenti, mentre la sīra racconta una vera e propria
storia. È una narrativa epica.
Dal 622 egli fu lasciato senza alcuna protezione tribale. Dopo il suo trasferimento a Medina divenne chiaro che l’unico modo
per assicurare il trionfo della sua missione profetica e la creazione di una comunità fondata sull’islam era quello di combattere
contro i meccani. Muhammad intraprese solo tre importanti azioni militari: le battaglie di Badr, di Uhud e del Fossato.
L’unico modo per proteggere la comunità musulmana assediata e salvaguardare l’esistenza futura della nuova fede dell’islam
era quello di imbracciare le armi: le spedizioni militari di Muhammad sono state viste dai musulmani nel corso dei secoli, come
decretate da Dio, in nome della religione. Tuttavia, quando possibile, il combattimento fu evitato.
a) “I versi satanici” è il titolo del romanzo di Salman Rushdie pubblicato nel 1988, che suscitò accesi dibattiti e
infervorò gli animi di tutto il mondo: la sua pubblicazione portò ad una violenza diffusa e addirittura all’uccisione di
38 persone. Il titolo del romanzo è un’allusione ad un episodio poco conosciuto in cui Muhammad pronunciò una
rivelazione secondo cui le tre dee al-‘Uzzā, Al-Lāt e Manāt, conosciute come “figlie di Allāh”, potevano intercedere
presso Dio a favore dei credenti musulmani. Tale intercessione avrebbe distrutto il messaggio dell’islam: la fede
nell’Unico Dio. Secondo quanto riportato, in seguito Muhammad si rese conto che si trattava di una falsa rivelazione
proveniente da Satana.
Tuttavia, i commentatori sciiti rigettarono la veridicità di questo episodio, basando la propria posizione sul principio
secondo cui i profeti di Dio sono immuni agli errori.
Come mantenere un equilibrio tra il diritto democratico a parlare e pubblicare liberamente e la necessità di
rispettare le credenze che i musulmani di tutto il mondo ritengono sacre è un grave e perenne problema.
b) Le vignette danesi nel 2006 vennero pubblicate su un giornale danese delle vignette che ritraevano il Profeta in
modo pesantemente offensivo per i musulmani, i quali reagirono in modo violento, minacciando i vignettisti di
morte. In particolare, una di queste vignette non poteva essere archiviata come una semplice presa in giro: essa
ritraeva il Profeta come un attentatore suicida con indosso una bomba ad orologeria a forma di turbante, su cui era
scritta la prfessione di fede musulmana «Non vi è divinità all’infuri di Dio»
Perché un’offesa? A parte il fatto di associare Muhammad ad un attentatore suicida, era implicita nella vignetta una
trasgressione, data la riluttanza da parte dei musulmani di produrre delle rappresentazioni visive del profeta.
L’islam, come l’ebraismo, è una religione della parola, non dell’immagine.
Tuttavia, oggi immagini iconiche di Muhammad sono vendute liberamente per strada in Iran. In alcuni paesi
musulmani, invece, la produzione, la vendita o il possesso di tali sono proibiti. In generale, i musulmani oggi
ritengono che le rappresentazioni visive del Profeta siano proibite. Così le vignette danesi, indipendentemente dal
contenuto, già infrangevano un importante divieto musulmano, con il semplice fatto di disegnare immagini del
Profeta.
8. PREGIUDIZI E STEREOTIPI
I musulmani accettano l’idea che Muhammad è il Profeta di Dio, il Sigillo dei Profeti, il messaggero dell’ultima e perfetta
rivelazione monoteista. Le controversie tra cristianesimo e islam, la seconda e la terza delle rivelazioni abramitiche, furono
molto più accese di quelle che entrambe queste fedi ebbero con l’ebraismo.
Il problema fondamentale consiste nel fatto che, mentre i cristiani possono accettare la prima parte della professione di fede
dei musulmani, essi rifiutano completamente la seconda e negano la missione profetica di Muhammad. Ciò è in aperto
contrasto con la posizione dei musulmani che non hanno difficoltà ad accettare Gesù come profeta; infatti essi hanno per lui
una profonda venerazione e lo considerano come l’immediato predecessore di Muhammad nella linea profetica che risale
fino ad Abramo.
Il problema di fondo per i cristiani, nella comprensione della vita di Muhammad, è che la sua missione non assomiglia a quella
di Gesù, la cui funzione dichiarata di “Principe della pace” non corrisponde alla condotta di modello esemplare incarnato da
Muhammad. I cristiani trovano difficile accettare il concetto di “Profeta guerriero”. Si dovrebbe anche osservare che nella
tradizione cristiana Gesù è ritratto come celibe, mentre Muhammad ha avuto varie mogli. Il contesto storico deve essere
sempre preso in considerazione.
CAPITOLO 2: IL CORANO
Questo capitolo analizza il testo religioso centrale dell’islam con l’intento di scoprire perché più di un miliardo e mezzo di
musulmani nutrono un profondo amore e rispetto per il Corano e lo considerano la guida principale per la propria vita e per
avvicinarsi a Dio. Per i musulmani il Corano è un’entità perfetta rivelata da Dio all’umanità in una forma immutata e
immutabile. Nel Corano Dio dice agli esseri umani il motivo del loro esistere sulla terra, come aver cura del Suo creato e come
comportarsi gli uni con gli altri. Il Corano è stato la base fondativa di ogni aspetto dell’islam: fede, rituale, giurisprudenza,
teologia e misticismo.
Il primo capitolo del Corano, propriamente chiamato al-Fātiha (L’Aprente), va in qualche modo a racchiudere l’essenza del
Corano e il suo significato per i musulmani nella loro vita quotidiana. Qui i musulmani sono invitati a lodare Dio per la sua
misericordia e la sua grandezza. Essi sono ammoniti a evitare occasioni di peccato, a aderire strettamente al retto sentiero. La
Fatiha è il Corano in miniatura, l’essenza del credo islamico.
Diversamente dalla Bibbia, il Corano è breve e i musulmani pii credono che sia stato composto da un unico autore: Dio stesso.
I musulmani ritengono inoltre che il testo coranico sia stato rivelato in forma orale a Muhammad da Dio attraverso l’angelo
Gabriele. Il Corano sostiene che esso conferma e completa la Torah ebraica e il Vangelo cristiano. Inoltre, esso è la rivelazione
finale che riassume e sostituisce queste due precedenti rivelazioni monoteiste.
Il Corano è suddiviso in trenta parti, il che ne facilita la recitazione durante il ramadān, ovvero il mese di digiuno, quando
l’intero libro è recitato a voce alta. Esso presenta un’ulteriore suddivisione in 114 capitoli. Questi – tranne la Fātiha – sono
ordinati secondo un ordine grosso modo decrescente di lunghezza. Ciascun capitolo ha un nome che spesso si basano su un
importante riferimento che si trova nel testo: ad esempio “L’ape, La vacca, Il ragno, La resurrezione, La vittoria”.
I musulmani credono che l’attuale sistemazione del Corano corrisponda esattamente all’ordine voluto da Dio. L’ordine non è
precisamente cronologico, sebbene siano sistemati in due principali gruppi: quei capitoli che si ritiene siano stati rivelati a
Muhammad a Mecca (dal 610 circa), e quelli che discesero a Medina dopo la sua hijra là (nel 622). I capitoli medinesi sono
quelli più lunghi e si trovano all’inizio del libro; i capitoli meccani sono i più brevi e si trovano alla fine.
Gli studiosi moderni hanno identificato 4 periodi nella rivelazione di Muhammad: i primi 3 sono meccani. Nel primo periodo
meccano, i capitoli predicano il messaggio dell’Unico Dio e l’esigenza di far ritorno a lui prima del Giorno del Giudizio. Nel
secondo periodo meccano, le tematiche sono relative alla creazione, al Paradiso e all’Inferno e al tragico castigo di coloro che
non ascoltano i profeti di Dio. Il terzo periodo meccano contiene i capitoli e i versetti detti “di transizione”, che corrispondono
al periodo in cui il profeta iniziò a predicare pubblicamente, fino al momento della sua hijra verso Medina.
I capitoli rivelati a Medina si concentrano sulla condotta sociale e sulla legislazione e mettono in luce il graduale
deterioramento dei rapporti dei musulmani con i cristiani e soprattutto con gli ebrei.
IL DIO CREATORE Il Corano celebra in un linguaggio impareggiabile le meraviglie della creazione di Dio, che
comprendono i cieli, la terra, i pianeti, le stelle, gli oceani e le creature che camminano. La realizzazione più alta nella
creazione divina è rappresentata dall’umanità, poiché Dio soffiò nell’uomo dal Suo proprio spirito. Egli ordinò perfino agli
angeli di prostrarsi ad Adamo, messo da Lui sulla terra come custode. Satana rifiutò di prostrarsi davanti ad un “mortale”,
così fu cacciato dal cospetto di Dio e maledetto fino al Giorno del Giudizio: da allora vaga sulla terra come tentatore degli
esseri umani, bisbigliando loro di disubbidire a Dio.
Dio affida agli esseri umani la responsabilità di aver cura della terra poiché sono in grado di pensare. Gli esseri umani sono
buoni per natura e sono trasformati negativamente dal loro ambiente. Non esiste nel Corano alcun concetto di peccato
originale né di redenzione da esso. Ciascun essere umano, nel Giorno del Giudizio, è responsabile di fronte a Dio delle
proprie azioni. La salvezza risiede semplicemente e completamente nel sottomettersi a Dio (è proprio questo il significato
di muslim). Dio è onnisciente e onnipresente, Dio è implacabile nell’inviare la sua punizione su quelli che rifiutano di
credere, la sua collera è spietata.
IL GIORNO DEL GIUDIZIO Il Corano utilizza termini differenti per definirlo: “l’Ora, il Giorno della Resa dei conti,
l’Ultimo Giorno, il Giorno della Decisione, il Giorno della Resurrezione, il Giorno dell’Assemblea. Nel Giorno del Giudizio i
morti saranno rimossi dalle loro tombe.
Tutta l’umanità sarà radunata in quel giorno. Le azioni di ogni essere umano saranno pesate sulla bilancia: coloro che
hanno operato buone azioni saranno collocati alla destra di Dio e saranno ricompensati con l’ingresso in Paradiso; gli altri,
al contrario, alla Sua sinistra e saranno trascinati all’Inferno. Quando verrà questo giorno non lo sa nessuno, ma il suo
messaggio suscita timore e sgomento nel cuore umano e ammonisce sulla necessità di pentirsi e volgersi a Dio.
La salvezza verrà per coloro che cercano il perdono di Dio e obbediscono alle sue leggi, attenendosi a ciò che è lecito ed
evitando ciò che è proibito.
4. PROFETI E PROFEZIA
Il Corano è il terzo nella linea delle tradizioni monoteistiche, dopo il Vecchio e il Nuovo Testamento. Questa prospettiva
inevitabilmente mette a confronto l’islam e le due religioni monoteiste che l’hanno preceduto, soprattutto nella sfera delle
storie coraniche dei profeti nominati anche nella Bibbia.
Il Corano è una miniera ricca di materiale riguardante i profeti nominati nel Vecchio Testamento, ma le loro “storie” a volte vi
sono presentate in modo diverso rispetto alla narrazione della Bibbia. Tutti profeti portano lo stesso messaggio sulla necessità
di pentirsi e di volgersi all’Unico Dio. Ad ogni modo si può osservare quanto il corano sia l’erede di precedenti tradizioni
monoteiste, in special modo di quella ebraica.
Il Corano descrive i profeti come degli ammonitori le cui parole restarono inascoltate e ignorate.
Abramo è citato in molti passaggi coranici ed è specificatamente menzionato in quanto particolarmente importante: è il
fondatore del santuario della Ka’ba a Mecca, il luogo in cui era solito pregare con il figlio Ismaele. È la religione di Abramo che
Muhammad abbracciò: l’islam ripristina l’originario monoteismo abramitico. Difatti Abramo è il modello esemplare di una
figura nota nel Corano come hanif, qualcuno che ha raggiunto il vero monoteismo.
a) Giuseppe
L’intero capitolo 12 del Corano è dedicato alla storia di Giuseppe; è l’unico capitolo dedicato ad un solo argomento. Qui la
storia differisce da quella riportata nel Vecchio Testamento, ma per alcuni aspetti è molto simile. Giuseppe è gettato in un
pozzo dai suoi fratelli, invidiosi di lui, e portato via da una carovana di passaggio. È acquistato da un sovrano di cui non si
fa il nome il quale dice a sua moglie (Zuleika) di badarlo con probità. Lei lo concupisce e tenta di sedurlo. Giuseppe cerca
di sfuggire ai suoi approcci amorosi e mentre entrambi corrono verso la porta, Zuleika gli strappa la tunica da dietro. In
piedi sulla porta c’è il marito. Zuleika cerca di incolpare Giuseppe, ma poiché la sua tunica è strappata dietro, risulta
chiaro che sta mentendo. Ancora dopo, in prigione, Giuseppe interpreta i sogni, come nel racconto biblico. È descritto
come un uomo virtuoso che segue la religione dei suoi padri, Abramo, Isacco e Giacobbe. La sua storia fornisce una
lezione di fede e di pietà ricompensate. Viene dipinto come il perfetto esempio dell’uomo timorato di Dio.
b) Mosè
A Mosè nel Corano è dedicata più attenzione che a qualsiasi altra figura religiosa pre-islamica.
Nel Corano le tribolazioni patite da Mosè e il modo in cui egli è aiutato da Dio nella sua missione profetica, prefigurano gli
ostacoli della stessa missione di Muhammad. Da bambino Mosè è gettato in mare in una scatola. È trovato dalla moglie di
Faraone che poi lo alleverà. La sorella di Mosè vigila sul bambino e fa in modo che sia proprio sua madre a nutrirlo. In
seguita, Mosè si reca da Faraone con il suo messaggio profetico ma è accusato di “magia evidente”; quando Faraone gli
chiede di mostrargli “i segni”, Mosè trasforma il suo bastone in un serpente e fa diventare la sua mano bianca. Dio libera
Mosè e i Figli di Israele da Faraone e li conduce in salvo attraverso il Mar Rosso, facendo annegare Faraone e il suo
esercito. Mosè trascorre quaranta giorni in solitudine. Durante la sua assenza il popolo inizia ad adorare un vitello d’oro e
Dio li rimprovera per questa idolatria. Altri miracoli sono mostrati nel deserto da Dio a Mosè. Mosè è presentato come un
monoteista.
d) Gesù
Come a Adamo, nel Corano non è attribuito un padre terreno a Gesù; è chiamato Gesù figlio di Maria. È visto come
l’ultimo profeta prima di Muhammad e gli è dato il titolo onorifico di Messia (al-Masīh). Nel Corano Gesù conferma ciò
che è stato rivelato prima di lui, cioè la Torah (i cinque libri di Mosè), e porta il Vangelo. Gesù attende anche l’arrivo diun
altro inviato che verrà dopo di lui, e facendo qui riferimento a “Ahmad” (che ha la stessa radice araba di Muhammad) si
pensa che questa sia un riferimento al Profeta Muhammad.
Nel Corano la figura di Gesù è strettamente legata a quella di Maria. Insieme essi sono visti come un miracoloso segno
divino, un modello da seguire.
Secondo il Corano però Gesù non è il figlio di Dio, né è parte della Santa Trinità; anzi, va perfino oltre, descrivendo Gesù
che confuta la dottrina della Trinità. Si sostiene, inoltre, che Gesù non fu ucciso, né crocifisso. Egli era un profeta, qualcun
altro fu crocifisso al suo posto. Il Corano dice che Gesù invece fu portato in cielo da Dio. È chiaro che, nonostante le
somiglianze con i Vangeli, il Corano descrive sotto molti aspetti dottrinali cruciali un Gesù diverso.
e) Muhammad
Il Corano è strettamente collegato con la sequenza degli avvenimenti della vita di Muhammad, ma non è possibile
tracciare una sua biografia basata sulla testimonianza proveniente solo da quella fonte. Muhammad è visto come “il
Sigillo della Profezia”, l’ultimo. Il Corano conforta Muhammad e lo rassicura, nei momenti in cui è assalito dal dubbio e in
quelli in cui è perseguitato, che Dio è con lui e che egli è in verità un messaggero nobile. Muhammad è presentato come
un semplice mortale, sebbene siano associati a lui eventi miracolosi.
Sebbene il Corano sia un libro breve, non è facile da comprendere. Dovrebbe essere letto lentamente, preferibilmente in
arabo, e sezione per sezione o capitolo per capitolo. Il lettore dovrebbe studiare i suoi versetti gradualmente e con rispetto,
per concedere alle parole il tempo di essere assimilate e avere effetto.
C’è stata per lungo tempo una forte resistenza da parte dei musulmani nei confronti della traduzione del Corano. A loro
parere, i suoni del Corano arabo sono sacri, divini e inimitabili.
La prima traduzione stampata fu in turco ottomano. Ci volle un po’ di tempo prima che traduzioni apparissero in altre lingue
musulmane, come l’urdu, il malese e il cinese. I tanti musulmani che vivono oggi in Occidente e che non conoscono l’arabo
hanno creato una necessità pressante e senza precedenti di traduzioni del Corano in molte lingue moderne (es. l’inglese).
Quelle realizzate da musulmani tendono ad essere molto letterali e conservano alcune parole fondamentali nella forma
originale araba.
8. IL CORANO OGGI
Il Corano rappresenta per i musulmani in cerca di una guida su ogni aspetto della propria vita il primo punto di riferimento. È
una «fonte di ispirazione, guida e misericordia per gente che crede», da recitare spesso, in particolare nei momenti di
difficoltà. Il Corano insegna ai credenti musulmani a mostrare gentilezza nei confronti dei genitori, dei bambini e degli orfani.
Le sue numerose regole riguardo la vita di ogni giorno, cosa fare o non fare, hanno una dimensione coerentemente spirituale.
La fede in Dio e nel Giorno del Giudizio deve essere tradotta in devozione su base quotidiana. Così, bisogna obbedire alle
proibizioni coraniche circa l’assunzione di alcool e carne di maiale e alle sue regole riguardanti la vita sociale (matrimonio,
divorzio, eredità…).
Oggi la devozione verso il Corano nel mondo islamico è di gran lunga superiore alla devozione per la Bibbia in Occidente. Il
Corano è tuttora considerato un miracolo; nessuna modifica può essere apportata.
Lo status sacro del Corano è rispettato nella vita di ogni giorno: una copia del corano non deve essere poggiata a terra, di
solito è collocata avvolta in un pezzo di stoffa pulito, in un posto alto della stanza ad un’altezza sopra la testa. Dovrebbe
essere toccato soltanto quando un musulmano è in uno stato di purità rituale.
Essendo un libro di rivelazione spirituale, il Corano non è organizzato su una base tematica: esso è stato interpretato in
molteplici modi. Non contiene risposte decisive per ogni problema che i musulmani trovino ad affrontare. Così c’è ampio
spazio di discussione su quali dovrebbero essere le risposte, tratte dal Corano, su vari problemi del mondo contemporaneo –
come ad esempio la discussione su chi dovrebbe guidare la comunità islamica; sunniti e sciiti sono in disaccordo a questo
proposito.
Numerosi dotti commentari hanno esaminato il significato ti termini e frasi oscure e descrivono il contesto in cui specifici
versetti furono rivelati. Tuttavia, alcuni aspetti del corano rimangono misteriosi.
La lingua del Corano nel corso dei secoli è diventata la base dell’arabo classico, sia letterario sia parlato. Difatti il Corano può
essere considerato come una forza invisibile che accomuna musulmani di ogni paese e di ogni ceto sociale e li unisce in
un’unica comunità. Dal XX secolo, sia gli Arabi musulmani che quelli cristiani riconobbero il potere unificatore del Corano tra
tutti gli arabi.
Per la maggior parte dei musulmani, il Corano è compatibile con la scienza moderna poiché esso ha attinenza con una sfera
diversa di conoscenza e di esperienza umana.
Le citazioni dal Corano sono il tipo di decorazione più diffuso nell’architettura islamica. Nessun’altra cultura utilizza la scrittura
sacra così sontuosamente come l’islam. È come se la Parola fosse iconica e santificasse perfino gli oggetti quotidiani.
Questi 5 pilastri costituiscono un obbligo assoluto per i musulmani. L’adesione ad essi è una gioia e una benedizione per i
fedeli e conferisce un profondo significato spirituale alla loro vita.
1. IL PRIMO PILASTRO: LA PROFESSIONE DI FEDE (shahāda)
È il primo e più importante pilastro dell’islam: “Attesto che non vi è divinità all’infuori di Dio e attesto che Muhammad è
l’inviato di Dio”. Questa breve formula è pronunciata tre volte davanti a testimoni quando una persona desidera diventare
musulmana, sottomettersi a Dio. Tutti i musulmani iniziano ciascuna delle loro preghiere quotidiane pronunciando la
shahāda.
La shahāda è breve e semplice. È formata da due parti:
1) la prima affermazione, “attesto che non vi è divinità all’infuori di Dio”, è quella di un puro e assoluto monoteismo.
Questa, però, costituisce un orribile peccato chiamato shirk, poiché è sostenere che Dio abbia entità o persone che
possano condividere la sua unicità assoluta. Tale asserzione era fatta dagli arabi pagani con riferimento alle tre dee
meccane conosciute come “le figlie di Allah”.
2) La seconda parte della shahāda è l’affermazione e la conferma della missione profetica di Muhammad: egli è
veramente l’inviato di Dio. L’unicità di Dio (tawhīd) è d’importanza capitale nell’islam. Il Corano sostiene che sia grave
peccato attribuire lo status di divinità a Gesù. L’islam condivide con l’ebraismo questo dogma basilare della fede.
Il capitolo coranico chiave dell’unicità di Dio nell’islam è il capitolo 112.
La shahāda deve essere recitata da ogni musulmano almeno una volta nella vita, memorizzata perfettamente e recitata ad
alta voce, con intenzione sincera e una corretta comprensione del suo significato. Essa esprime e racchiude la cornice della
fede su cui si basa la vita di un musulmano.
È essenziale per i musulmani essere in uno stato di purità rituale (tahāra) prima di eseguire la preghiera, altrimenti
quest’ultima non è considerata valida. Fontane o lavabi sono presenti in ogni moschea, in modo che tutti i musulmani
possano prepararsi per la preghiera. I dettagli specifici della procedura dell’abluzione hanno la funzione di evidenziare
l’intrinseca dimensione spirituale della salāt. Essa permette ai musulmani di riflettere sulla purificazione del proprio animo e
di rimuovere i pensieri impuri, predisponendosi all’adorazione di Dio. Sono specificati due tipi di abluzione, quella minore e
quella maggiore:
1) L’abluzione minore consiste nel lavare con acqua corrente viso, mani, braccia fino ai gomiti e piedi e frizionare i
capelli con acqua.
2) L’abluzione maggiore richiede il lavaggio dell’intero corpo, compresa la bocca e l’interno del naso. Le donne sono
considerate in uno stato di impurità duranti il ciclo mestruale: al suo termine devono compiere l’abluzione
maggiore. Lo stesso vale per le donne che hanno partorito.
Per eseguire la salāt, oltre a rispettare la propria igiene personale, sia gli uomini che le donne dovrebbero rispettare quella dei
propri abiti: l’uomo deve essere coperto dall’ombelico alle ginocchia e la donna deve avere l’intero corpo coperto, tranne il
viso e le mani. Anche il pavimento su cui si prega deve essere pulito e i tappeti da preghiera sono individuali. Un musulmano
in viaggio, al posto dell’acqua può utilizzare la sabbia.
La salāt permette ai musulmani di riflettere sulla purificazione del proprio animo e di rimuovere i pensieri impuri.
La salāt deve essere eseguita rivolgendosi in direzione della Ka’ba a Mecca. Questa direzione, la qibla, è generalmente
indicata nelle moschee da una nicchia chiamata mihrāb. Ma se i musulmani dovessero sbagliare ad individuare la corretta
direzione, la preghiera sarà comunque gradita a Dio.
I cinque momenti del giorno specificati per la preghiera rituale sono alba, mezzogiorno, metà pomeriggio, tramonto e notte.
L’obbligo di eseguire la preghiera cinque volte al giorno è irrinunciabile. Se per caso i musulmni non recitano la preghiera
all’ora stabilita devono recuperarla dopo, anche unendo le preghiere di mezzogiorno e metà pomeriggio o quelle del
tramonto e della notte.
Durante la preghiera ciascun musulmano è in diretto contatto con Dio, non ci sono sacerdoti che fungono da intermediari. La
preghiera del venerdì in moschea, cui gli uomini sono tenuti a partecipare, è diretta da una guida bene in vista che dirige la
preghiera (imām).
Ciascuna serie di movimenti nella sequenza della preghiera è chiamata rak’a: essa consiste in diversi movimenti fondamentali
o posizioni che i musulmani eseguono alzandosi e distendendo le mani, stando in posizione eretta, inchinandosi, sedendosi
sui talloni, inginocchiandosi e ponendo la fronte per terra, e ritornando in posizione seduta prima di ripetere la prostrazione.
Questi movimenti rappresentano i diversi aspetti della fede:
- Posizione eretta in nome della posizione eretta che bisogna tenere dinanzi a Dio nell’Ultimo Giorno
- Inchino per cercare il perdono di Dio
- Prostrazione sul pavimento atto di adorazione dedicato solo a Dio
Il numero di rak’a differisce a seconda del momento della giornata in cui è eseguita la preghiera. Ciascuna rak’a inizia con la
formula Allāhu Akbar (= Dio è più grande), seguita dal primo capitolo del Corano, la Fātiha. Il suo obiettivo principale è
mostrare come la preghiera rituale sia un insieme complesso di movimenti e invocazioni, e di formule religiose in cui la
ripetizione è elemento essenziale.
Il Profeta Muhammad scelse il venerdì come specifico giorno di preghiera per i musulmani. Gli uomini musulmani sono tenuti
a partecipare il venerdì alla preghiera collettiva di mezzogiorno in moschea. Il calendario religioso prevede anche che siano
recitate delle preghiere in alcune specifiche occasioni, come le due grandi festività annuali: una si tiene alla fine del mese di
digiuno del ramadān, e l’altra il 10 del mese del pellegrinaggio.
Il Corano prescrive che i credenti siano generosi con la loro ricchezza. È raccomandato soprattutto di comportarsi
caritatevolmente in segreto piuttosto che in modo ostentato e superbo. C’è addirittura un avvertimento dei detti (gli ahādīth)
diretto a coloro che vengono meno al pagamento della zakāt: la loro punizione nel Giorno del Giudizio sarà terribile.
Il Corano fornisce alcune testimonianze sul modo in cui la zakāt è messa in pratica. Quanto alla questione su chi doveva
riceverla, i dotti musulmani si basavano sempre sul Corano, dichiarando che dovevano essere poveri, schiavi, debitori,
viandanti e tutti coloro che avevano bisogno.
I musulmani tenuti a pagare la zakāt a favore dei bisognosi dovrebbero essere adulti, in buona salute, e in possesso di una
certa ricchezza. Si può pagare la zakāt su certi beni dopo che se n’è avuto possesso per un intero anno lunare.
Molte delle disposizioni presenti nei libri di giurisprudenza islamica non sono più applicabili rigidamente o non sono più
attinenti alla vita moderna nelle città. La quota fissa ufficiale che deve essere pagata oggi da un musulmano sunnita è il 2,5
per cento della sua ricchezza per ogni anno lunare.
La zakāt è solitamente raccolta da speciali esattori che provvedono poi a distribuirla ai poveri e ai bisognosi. In alcuni paesi a
maggioranza islamica, oggi la zakāt è obbligatoria e raccolta da un sistema centralizzato dallo stato. In altri pesi invece
l’elemosina è volontaria, ma comunque regolata dallo stato.
4. IL QUARTO PILASTRO: IL DIGIUNO (sawm)
Durante il mese di ramadān, il nono del calendario lunare islamico, i musulmani in tutto il mondo osservano il digiuno
(sawm). È questo un obbligo prescritto a tutti i credenti, è un atto dal profondo significato religioso. Il ramadān è un mese
molto speciale per i musulmani, poiché credono che durante questo mese le benedizioni divine sono più vicine che in
qualsiasi altro periodo. Sono convinti che i loro corpi si purifichino.
Il digiuno nel mese di ramadān risale al tempo del Profeta. La tradizione riporta che dopo essere emigrato a Medina,
Muhammad aveva inizialmente stabilito come giorno di digiuno il Giorno ebraico dell’espiazione. In seguito, fu promulgato
all’intero mese lunare. Fu nel 610, durante una delle ultime dieci notti di ramadān, conosciuta come Notte del Destino, che il
Corano discese interamente nell’animo di Muhammad. Questa notte, celebrata il 26 o 27 del mese, è considerata la notte più
santa del calendario islamico.
Il mese del ramadān è inoltre uno dei mesi destinati alla tregua nel periodo pre-islamico, nel corso del quale si deponevano le
armi.
Vi sono delle regole severe e precise per il ramadān. Ogni persona adulta in buona salute, sia uomo sia donna, deve digiunare
durante le ore di luce per l’intero mese; alcune persone però sono esentate a buon motivo da quest’obbligo, come anziani,
infermi e bambini che non hanno raggiunto la pubertà, i viaggiatori, coloro impegnati in lavori faticosi e le donne durante la
gravidanza e l’allattamento. È proibito digiunare quando una persona è in pericolo di vita e quando una donna ha il ciclo
mestruale. Inoltre, gli adulti che non possono digiunare in alcuni mesi del ramadān, devono rimediare digiunando in un
secondo momento.
Il digiuno implica un’astinenza totale da tutti i piaceri dei sensi dall’alba fino al tramonto per un mese intero. Dovrebbero bere
e mangiare dei datteri prima di consumare un vero e proprio pasto e dovrebbero poi fare l’ultimo pasto della notte prima che
inizi il nuovo giorno di digiuno.
Il Corano dovrebbe essere letto per intero entro la fine del mese di ramadān; secondo la tradizione questo perché è stato
suddiviso in trenta parti uguali o in sette sezioni. Il mese lunare termina gioiosamente con la festa nota come ‘id al-fitr (la
festa dell’interruzione del digiuno). Poiché i mesi nel calendario islamico sono lunari, il mese di digiuno di ramadan cade con
un anticipo di undici giorni ogni anno.
È importante riconoscere il ruolo svolto da Abramo nella tradizione islamica. Muhammad si riteneva un autentico erede di
Abramo e molto di ciò che è alla base dei riti del pellegrinaggio è collegato con la storia della sua vita.
Due aspetti chiave della leggenda abramitica emergono nella tradizione islamica. In primo luogo, Abramo venerò Dio da puro
monoteista (hanīf). Fu Abramo che andò in Arabia per eseguire l’ordine divino di edificare la costruzione in pietra conosciuta
come Ka’ba. Fu Abramo che istituì il hajj.
La storia di Agar e Ismaele è ugualmente importante nella tradizione islamica: Dio disse ad Abramo di portare la sua schiava
Agar e il loro figlio Ismaele in Arabia per sfuggire alla gelosia di Sara, prima moglie di Abramo, e di lasciarli soli. Ismaele iniziò a
soffrire la sete e, nella disperata ricerca di acqua, Agar corse per 7 volte tra le alture di Saf ā e Marwa fuori Mecca. Infine,
come risposta alla preghiera di Agar, quando l’angelo Gabriele colpì il suolo con la sua ala, apparve una miracolosa sorgente
Nel periodo pre-islamico, gli Arabi compivano un pellegrinaggio al santuario della Ka’ba a Mecca; ne avevano fatto un luogo di
venerazione pagana, mettendo degli idoli intorno a essa. Tuttavia, quando Muhammad compì i suoi due pellegrinaggi a Mecca
– nell’anno 7 e 10 dell’egira (marzo 629 e poi 632)– egli modificò e santificò il pellegrinaggio.
I musulmani devono compiere il pellegrinaggio a Mecca una volta nella vita. Devono eseguire per diversi giorni i complessi
rituali prescritti. Specifiche categorie di musulmani sono esentate dal compiere il pellegrinaggio: i malati di mente, i minori e
le donne che non hanno familiari maschi che possano accompagnarle.
Durante il Medioevo il viaggio a Mecca era lungo e difficoltoso per la maggior parte dei musulmani. Data la complessità dei
diversi rituali del pellegrinaggio, molti musulmani dedicavano, e tuttora dedicano, molto tempo a studiare il modo in cui
questi rituali dovrebbero essere eseguiti, e a cercare di comprendere il loro significato intrinseco, prima di intraprendere il
viaggio più importante della loro vita.
Tutti i pellegrini devono essere nello stato di un particolare tipo di purità rituale (ihrām) per eseguire i riti del pellegrinaggio.
Il hajj inizia con la dichiarazione da parte del pellegrino della propria intenzione pia. Gli uomini indossano specifiche vesti; le
donne devono invece lasciare solo il volto scoperto, i capelli non devono essere visibili e il copro deve essere coperto dai polsi
alle caviglie.
Ogni musulmano che desidera entrare in uno stato di purità rituale recita una preghiera formata da due rak’a e delle speciali
parole: «Eccomi a Te, o Dio, eccomi a Te». Queste parole sono ripetute dai musulmani centinaia di volte nel corso del
pellegrinaggio.
Una speciale cerimonia ha luogo il giorno che precede il pellegrinaggio, il 7 del mese di dhū’l-hijja, nella sacra moschea di
Mecca. Le procedure giornaliere del hajj vero e proprio iniziano il giorno 8 del mese, un giorno dedicato alla riflessione
durante il quale i pellegrini compiono il primo rito, il tawāf, la circumambulazione della Ka’ba. Questo rito deve essere
ripetuto sette volte in direzione antioraria. Dopo ogni passaggio, i pellegrini baciano e toccano la Pietra Nera, l’antica pietra
incastonata nel muro orientale della Ka’ba: un atto che simboleggia la sottomissione a Dio. Subito dopo si recano nel “luogo
della corsa” dove percorrono per sette volte di corsa il tratto che si trova tra le due modeste alture di Saf ā e Marwa. Fu tra
queste due alture che Agar corse avanti e indietro sette volte in cerca di acqua per suo figlio Ismaele. Questa corsa può essere
vista dai pellegrini come il simbolo della corsa tra le cattive azioni e le buone. Dopo aver corso, i pellegrini bevono dell’acqua
di zamzam e si mettono in viaggio per Minā.
Il 9 del mese, il Giorno della sosta, i pellegrini visitano la località di Araf āt dove rimangono da mezzogiorno fino a dopo il
tramonto. Alla fine della giornata i pellegrini partono per Muzdalifa dove trascorrono la notte. Il 10 del mese, il Giorno del
sacrificio, è la principale festività per tutto il mondo musulmano. I pellegrini raccolgono dei sassolini e poi si dirigono verso
Mina per il cosiddetto rito della lapidazione; in ricordo del luogo in cui Abramo lanciò le pietre contro Satana. Si fermano per
la notte a Muzdalifa e l’ultimo giorno avviene il sacrificio di animali. I riti del pellegrinaggio occupano un periodo di cinque o
sei giorni. Lo stato di ihrām termina con la rasatura del capo per gli uomini e con il taglio di una piccola ciocca di capelli per le
donne. I pellegrini hanno ora terminato la parte ufficiale del hajj, e hanno guadagnato grande benevolenza agli occhi di Dio.
L’hajj non è l’unica forma di pellegrinaggio nell’islam. Esiste una sua versione abbreviata chiamata ‘umra, “il pellegrinaggio
minore”: può essere completata in un’ora e mezza e consiste in 7 circumambulazioni della Ka’ba e 7 transiti tra Safā e Marwa.
Non è un pilastro dell’islam e pertanto non può sostituire l’obbligo di compiere il hajj.
Il quinto pilastro dell’islam implica il più importante viaggio terreno nella vita di un musulmano. Sul piano umano, compiere i
riti condivisi del pellegrinaggio rappresenta un atto di consolidamento: è una dimostrazione visiva dell’unità di tutti i credenti
e della loro uguaglianza di fronte a Dio. Una volta tornati a casa i pellegrini sono ancora trattati con grande rispetto dai
correligionari musulmani, e ricevono il titolo di hajji. Per molti, l’esperienza di visitare Mecca è come un “ritorno a casa”, un
assaggio di ciò che aspetta l’anima nella vita dell’aldilà.
CAPITOLO 4: LA LEGGE
L’origine della parola sharī’a indica un luogo irrigato, un sentiero verso l’acqua, un dono di Dio, una strada donatrice di vita. I
musulmani seguono una via chiamata sharī’a: ciò non è visto come un obbligo imposto dall’esterno ma proviene dall’intimo
dell’individuo che abbraccia la via gioiosamente. La sharī’a riguarda tutti i doveri dei musulmani, sia quelli nella loro vita di
tutti i giorni, sia quelli religiosi.
I primi studiosi di scienze religiose islamiche desideravano seguire fedelmente la nuova religione dell’islam. La prima fonte fu
il Corano; quello però è un libro rivelato, non un trattato legale. Così i studiosi cercarono anche di sviluppare quelle che essi
reputavano le autentiche linee guida islamiche, facendo ricorso agli ahādīth, le narrazioni fedelmente memorizzate che
riportavano ciò che il Profeta aveva detto ai suoi Compagni. Nelle prime due generazioni immediatamente successive alla
morte di Muhammad, la memoria di ciò che egli aveva detto e fatto rimase viva. Con l’espansione della comunità musulmana,
tuttavia, questa banca dati aveva bisogno di una trascrizione più formale, per evitare che fosse dimenticata o non conosciuta
dalle generazioni future.
Dal 632 fino alla caduta della dinastia Omayyade (750) i califfi svilupparono, gradualmente e nonostante le difficoltà, le
fondamenta di quella che sarebbe diventata la sharī’a.
I differenti modi in cui era applicata la legge islamica erano profondamente influenzati dai precedenti sistemi giuridici in
vigore in una specifica regione prima dell’avvento dell’islam. Infatti, gran parte della legge islamica rispecchia l’origine ebraica,
il sostrato e in special modo il diritto romano. Così, anche la legge islamica, nel corso della sua evoluzione, attinse ad elementi
non-musulmani. Fino all’arrivo delle potenze coloniali europee, nei paesi a maggioranza musulmana del Medio Oriente la
legge islamica si sviluppò insieme a una mescolanza variegata di pratiche pre-islamiche, costumi locali e decreti amministrativi
dei sovrani.
Il significato della parola fiqh (= giurisprudenza classica sunnita) è quello di comprensione o discernimento; tuttavia, arrivò ad
assumere il significato specifico di giurisprudenza. È la giurisprudenza a stabilire per loro in cosa consista un’azione giusta.
Come fonte pratica della giurisprudenza, le prescrizioni coraniche erano le prime a essere prese in considerazione. Esse
riguardano temi come il matrimonio, il divorzio, le relazioni sessuali illecite, l’alcool, l’eredità, la proprietà, il furto e l’omicidio.
I giuristi, adusi all’antico concetto tribale arabo di sunna (un modo di agire secondo la consuetudine stabilita dalle precedenti
generazioni), gradualmente reinterpretarono la parola sunna per indicare la condotta esemplare del Profeta, le azioni e il
comportamento di Muhammad come un modello secondo cui condurre la vita di ognuno. Fu così che la sunna del Profeta
divenne una guida autorevole per chiarire o sviluppare una particolare norma giuridica trovata nel Corano.
La giurisprudenza è basata su quattro elementi fondamentali: il Corano, la sunna, il consenso ( ijmā) e il ragionamento
analogico (qiyāa). I primi due sono fonti giuridiche, mentre gli altri due sono fondamenti metodologici. Il principio di analogia
comportava l’applicazione di una legge consolidata a una nuova situazione. Le azioni umane, sia private sia pubbliche, sono
classificate dalla sharī’a in cinque categorie: obbligatorie, raccomandate, permesse, riprovevoli e proibite.
Nei primi secoli dell’islam gli studenti della giurisprudenza islamica spesso compivano lunghi viaggi allo scopo di apprendere le
scienze giuridiche. Alcune scuole giuridiche (madhhab) apparivano e poi sparivano, ma entro l’XI secolo si affermarono
saldamente le quattro maggiori scuole giuridiche sunnite tuttora esistenti. I discepoli di queste scuole giuridiche erano fedeli
non a un particolare giurisperito, ma a una metodologia costruita meticolosamente, basata su pareri giuridici precedenti che
erano stati registrati.
La giurisprudenza islamica era dinamica e flessibile. La conoscenza della giurisprudenza era segno di devozione e indice di
prestigio.
La scuola giuridica hanafita era particolarmente importante, tanto da diventare ufficiale.
Sarebbe corretto dire che ciò che i musulmani chiamavano “la casa dell’islam” applicò una qualche forma di giurisprudenza
islamica fino alla fine del XVIII secolo e alla comparsa del colonialismo europeo.
Nella tradizione sunnita il califfo fungeva da simbolo della supremazia della sharī’a. La responsabilità dell’applicazione e della
difesa della sharī’a era sua. I suoi correligionari musulmani erano tenuti ad obbedirgli; il califfo era un simbolo di universalità
della loro fede. La giurisprudenza sunnita era nelle mani dei giurisperiti (fuqahā’)e dei giudici. Corti di sharī’a furono istituite
stabilmente nei territori dell’Impero abbaside sotto la giurisdizione di tali giudici. Tre delle 4 principali scuole giuridiche
sunnite tendevano a proibire la nomina di donne alla carica di giudice, seguendo la propria interpretazione del versetto
coranico «Gli uomini sono preposti alle donne». Solo la scuola giuridica hanafita consentiva la nomina di giudici donne.
Le élite giuridiche non godevano di totale indipendenza nelle società musulmane medievali, e avevano bisogno del sostegno
della classe regnante. Inoltre, i dotti spesso fungevano da tramite tra il sovrano e la gente comune.
Dall’XI secolo, gli aspiranti giurisperiti studiarono nelle madrasa, istituzioni destinate principalmente all’insegnamento della
giurisprudenza di una particolare scuola giuridica. Il corso non si limitava alla sola giurisprudenza, ma comprendeva anche le
scienze religiose e la grammatica araba. Sotto il governo illuminato del califfo al-Mustansir (governo dal 1226 al 1242), fu
istituita a Baghdad nel 1232 la famosa madrasa Mustansiriyya per ospitare tutti i quattro madhhab sunniti. Questa fu la prima
madrasa fondata da un califfo, nonché la prima vera madrasa universale sunnita.
Nei primi secoli dell’era musulmana la giurisprudenza islamica era un’entità in continua evoluzione. Quando le generazioni
successive di dotti religiosi guardarono indietro ai temi giuridici con cui si erano confrontati i loro predecessori, il loro lavoro
consistette spesso in un semplice perfezionamento di ciò che doveva essere stato in origine un insieme di dibattiti religiosi
molto accesi e complessi.
La struttura dei trattati di giurisprudenza comprende invariabilmente due parti principali: la prima, sulle azioni associate con
l’adorazione di Dio (‘ibadāt), e la seconda, sulle azioni che riguardano le relazioni dei musulmani con gli altri esseri umani
(mu’amalāt). Questi trattati forniscono spesso informazioni molto dettagliate sul modo in cui il credente musulmano
dovrebbe adempiere ai doveri prescritti dalla sharī’a, doveri connessi ai 5 pilastri della fede. Le differenze tra le scuole
giuridiche riguardano argomenti specifici: se le preghiere devono essere recitate a voce alta o sottovoce, quanto in alto
debbano sollevare le mani…
Oltre che consultare e memorizzare i testi di giurisprudenza, i giurisperiti erano regolarmente tenuti a esprimere le proprie
opinioni su argomenti di interesse pubblico o privato. Un sovrano o un qualsiasi individuo era solito consultare un muftī,
ovvero una persona qualificata ad esprimere un’opinione giuridica. Dopo aver consultato il Corano e la sunna e aver seguito i
principî informatori dell’analogia e del consenso, il dotto usava il suo ragionamento indipendente per emettere una fatwā
(un’opinione giuridica di una persona qualificata) per la persona o le persone che avevano richiesto i suoi pareri. Se
necessario, la questione era discussa in una corte di sharī’a. Erano un requisito necessario per i tribunali. Le fatwā si resero
necessarie quando nuovi problemi sorsero nelle società musulmane. Inevitabilmente, con il passare del tempo, i giurisperiti
dovettero far fronte all’impegno di pronunciarsi su temi che non avevano creato criticità o che addirittura neanche esistevano
all’epoca del Profeta.
La sharī’a contiene un gruppo specifico di sanzioni stabilite, conosciute come gli hudūd (= limiti), che possono essere grosso
modo definite “limiti stabiliti da Dio alla libertà umana”. Com’è chiarito nel Corano, queste sanzioni sono destinate a essere
inflitte in pubblico come esempio per gli altri. La sharī’a richiede una testimonianza precisa per le sanzioni hudūd; in pratica
non furono applicate frequentemente. I musulmani adottarono la pratica della lapidazione, anche se il Corano non ci dice
niente – tranne per indicare il modo in cui le precedenti generazioni di miscredenti avevano messo a morte i profeti inviati da
Dio.
Un gruppo di circa dieci ahādīth, tuttavia, accenna alla lapidazione come punizione ordinata da Muhammad per uomini e
donne colti in rapporti sessuali illeciti. Zinā, rapporto sessuale fuori dell’istituzione del matrimonio. Questo atto però veniva
anche condannato con 100 frustate. La gravidanza è spesso utilizzata come base d’accusa per l’adulterio, sebbene la legge
islamica non la menzioni come prova di un rapporto adultero.
Non c’è dubbio che il campo della giurisprudenza sia stato, fino al periodo del colonialismo europeo, il ramo più prestigioso
delle scienze religiose islamiche. Il giurisperito musulmano considerava come proprio dovere trasmettere ai suoi successori la
tradizione fedelmente custodita del proprio madhhab, e di fare del proprio meglio per applicare le norme a sua disposizione
in un modo quanto più possibile creativo per risolvere i problemi giuridici che gli si presentavano.
I primi Paesi in cui ebbero luogo delle trasformazioni introdotte dall'estero furono l'India e l'impero Ottomano. In questi paesi
furono creati codici commerciali e penali basati su modelli europei. I dotti religiosi musulmani a volte furono disposti a
cooperare con il potere coloniale per riformare le proprie tradizioni.
Dalla fine del XIX secolo, in gran parte del mondo musulmano la giurisprudenza islamica fu relegata esclusivamente alla sfera
del diritto di famiglia. Maggiori sviluppi si ebbero all’inizio del XX secolo. Nel 1917 fu approvata una legge del diritto familiare
basata principalmente sulla giurisprudenza hanafita. Questa legge ebbe un impatto anche su altri paesi musulmani, dove i
giurisperiti utilizzarono il principio del giudizio personale per riformare le leggi. Nei paesi musulmani la religione e la legge
venivano sempre di più separati.
L’argomento prioritario riguardante l’islam che provoca maggior inquietudine e ostilità tra i non musulmani in tutto il mondo
è la sharī’a. Capi di Stato si sono espressi su questo tema: Tony Blair, ad esempio, citò i «matrimoni forzati, l’importazione
della legge della sharī’a e il divieto d’ingresso delle donne in alcune moschee» come «il lato sbagliato della strada». Non è la
sharī’a nel suo insieme a preoccupare i non musulmani ma la loro percezione di due soli aspetti di essa: il modo in cui sono
trattate le donne e le condanne severe, come la pena capitale e l’amputazione delle mani. Essi sanno poco riguardo al
rimanente contenuto della sharī’a.
In Gran Bretagna l’arcivescovo di Canterbury, Dr. Rowan Williams, sostenne, invece, che l’adozione di alcuni aspetti della
sharī’a nel sistema giudiziario inglese sembrava ineluttabile.
La maggior parte del Corano e della sunna può essere ampiamente interpretata e sviluppata in modi differenti. Quando i
gruppi estremisti musulmani in alcune parti del mondo si impadroniscono del potere e annunciano che l’instaurazione della
sharī’a e le sanzioni stabilite (hudūd) sono applicate con insolita frequenza e con gran clamore per suscitare sgomento e
terrore tra la popolazione.
5. FUTURO
La legge islamica è un’entità armonica e viva, non fissa. La storia ci mostra la sua evoluzione. L’ideologia dogmatica
contemporanea distrugge soltanto questa verità e oscura il fatto fondamentale che è un lavoro in corso d’opera.
Non possiamo dire con certezza cosa succederà e cosa sceglieranno di fare i giurisperiti musulmani ma un unico scenario
sembra tuttavia molto improbabile e l’idea di un califfato, tanto auspicato da alcuni gruppi jihādisti, è poco plausibile. Quel
che è certo è che il concetto di umma, a differenze delle tradizioni di molti stati territoriali moderni, ancora oggi produce
ampia risonanza tra molti credenti che sono consci del fatto che la shari’a è ciò che tiene unita la comunità.
Nel Medio Oriente gli eventi della Primavera araba stanno producendo e senza dubbio continueranno a produrre forme
mutevoli di governo e di sistemi giuridici.
CAPITOLO 5: LE DIVERSITÀ
Dato che i musulmani oggi risiedono in ogni parte del mondo, non sorprende ci siano molte differenze nelle dottrine e nei
rituali musulmani che si sono sviluppati nel corso dei secoli, fin dalla morte di Muhammad nel 632. Il capitolo esamina anche
nel dettaglio le credenze e le pratiche dello sciismo. È importante che le loro credenze siano conosciute dai non musulmani e
distinte da quelle dei sunniti.
I sunniti e gli sciiti condividono i principî dell’islam, quelli relativi al Corano, al Profeta e ai cinque pilastri dell’islam. In parole
semplici, il principio fondamentale che separa gli sciiti dai sunniti è la dottrina sciita dell’imamato, l’autorità carismatica
conferita soltanto ai membri della famiglia del Profeta in linea continua di discendenti di Muhammad, conosciuti come imām.
I sunniti vedevano il califfo come custode della legge islamica (shari’a); per gli sciiti soltanto l’imam ha un’autorità assoluta
sulla comunità; egli soltanto è la fonte autorevole della dottrina e della legge musulmana.
Molto importante fu il martirio di Husayn, nipote di Muhammad, avvenuto nel 680.
In un certo senso, non ci fu mai un movimento che promosse l’islam sunnita fin dall’inizio. I SUNNITI gradualmente si
affermarono come la componente principale della comunità musulmana. I primi gruppi sunniti fecero sì che nell’islam si
formasse la posizione maggioritaria sunnita. Anche l’influsso delle religioni praticate nei loro territori prima dell’avvento
dell’islam causarono differenze tra i musulmani.
L’islam sunnita si definì e si perfezionò a dispetto delle sfide del settarismo e in particolare del modello molto diverso di
governo islamico propagato dai gruppi che furono poi chiamati SCIITI. Le differenze tra sunniti e sciiti si concentravano
originariamente sulla questione riguardante il tipo di persona che doveva guidare la comunità musulmana.
La prima comunità fondata da Muhammad (nel 622) a Medina era tenuta unita dalla sua guida carismatica: Egli era il Profeta
di Dio e il comandante dei musulmani. Tuttavia, nel momento in cui Mohammad morì, emersero profonde divisioni tra i suoi
fedeli affranti: secondo la convinzione sunnita, Egli non aveva lasciato direttive per il futuro.
La versione sunnita degli eventi è che alcuni dei più fidati Compagni di Muhammad si riunirono. Lì fu deciso che Abu Bakr
doveva essere il “successore” (khalīfa, califfo) di Muhammad. Con la nomina di Abu Bakr nacque l’istituzione sunnita del
califfato. È importante evidenziare, però, che il califfo non doveva essere considerato alla pari di un profeta: Muhammad fu
l’ultimo profeta. Tuttavia, il califfo sunnita era il capo della comunità dei musulmani e le sue responsabilità consistevano del
preservare la fede, salvaguardare la legge basata sul Corano e sulla sunna (condotta esemplare di Muhammad, da cui deriva
la parola “sunnita”) e difendere ed espandere i confini del mondo musulmano.
Una volta instaurato il grande Impero mondiale musulmano la sede del califfato fu spostata dalla lontana Arabia, prima a
Kūfa, in Iraq, poi a Damasco e più tardi ancora nella nuova città di Baghdad, dove rimase per molti secoli. Proprio come il papa
era identificato con Roma, così il nome Baghdad evocava il califfo, il capo supremo della comunità musulmana sunnita. Già
entro il X secolo, però, il califfato sunnita di Baghdad aveva perso gran parte del suo potere politico e l’autorità religiosa di cui
un tempo si avvalevano i califfi si spostò lentamente nelle mani degli “ulamā”, la classe dei dotti religiosi musulmani sunniti. Il
califfo rimase fino al saccheggio di Baghdad da parte dei mongoli nel 1258, ma soltanto come capo religioso e giuridico
formale.
Ci furono vari tentativi successivi di risuscitare il califfato, prima al Cairo e poi ad Istanbul, ma non fu mai più la stessa
istituzione. Nel 1924, il fondatore della Repubblica di Turchia, Atatürk, abolì il califfato.
La versione sciita degli eventi ci dice che il Profeta morì nella casa della moglie ‘ Ā’isha senza lasciare figli maschi. La
rivendicazione di ‘Alī di essere la persona più adatta a succedere a Muhammad era di tutto rispetto. Dopo che Muhammad
era rimasto orfano, di lui si era preso cura Abū Tālib, il padre di ‘Alī e ‘Alī era stato uno dei primi sostenitori dell’islam. ‘Alī
sarebbe pure stato il primo ad accettare l’islam. Quando Muhammad compì la sua hijra da Mecca a Medina, ‘Alī mise a
repentaglio la propria vita dormendo nel letto di Muhammad a Mecca. Dopo che la comunità si fu stabilita a Medina, ‘Alī
sposò Fātima, la figlia di Muhammad.
‘Alī mostrò coraggio e un’abilità militare leggendaria, inoltre fu anche lo scriba di Muhammad: scrisse le condizioni
dell’accordo di Hudaybbiyya con i meccani. Muhammad gli chiese inoltre di recitare il capitolo 6 del Corano ai pellegrini e di
distruggere gli idoli a Mecca.
Gli sciiti parlano anche di un episodio che ebbe luogo il 16 marzo 632, quando il Profeta stava ritornando dal Pellegrinaggio
dell’Addio a Mecca. Il Profeta si fermò e lì, con delle selle, eresse un pulpito. Poi prese ‘Alī per un braccio, lo fece mettere al
proprio fianco, e annunciò che ‘Alī sarebbe stato suo successore al capo della comunità musulmana. Questa tradizione è il
fulcro della dottrina sciita dell’imamato.
Per gli sciiti, ‘Alī era la migliore alternativa a Muhammad; era puro, guidato da Dio e infallibile in materia di fede. Gli sciiti
credono che la vera conoscenza dell’islam provenga solo dalla devozione nei confronti di ‘Alī e dei suoi discendenti, gli imam
sciiti. È importante notare che quando l’appello alla preghiera è fatto da una moschea sciita, alla fine della versione sunnita è
aggiunta una frase supplementare: “e ‘Alī è l’amico di Dio”.
Per gli sciiti, Najaf è la terza città santa dell’islam perché ospita la tomaba di ‘Alī.
4. L’imamato di Hasan
La storia iniziale della comunità musulmana è punteggiata da gravi disordini sociali, e quasi sin dall’inizio lo sciismo fu
associato alla lotta, all’opposizione e alla persecuzione. Gli sciiti erano convinti di essere i veri credenti. Essi non riconobbero
il diritto a governare della dinastia Omayyade, una famiglia dell’élite pagana e mercantile di Mecca, i cui membri si
convertirono tardi all’islam e che governò sull’intero Impero musulmano, dal 661 al 750, dalla propria sede in Siria.
Dopo la morte di ‘Alī, il figlio maggiore Hasan gli successe come il secondo imām. Nel 661 Hasan, minacciato militarmente dal
governatore omayyade, rinunciò pubblicamente al suo diritto al califfato, si ritirò a Medina dove morì. Secondo gli sciiti, egli
rimase comunque il secondo imām.
5. L’imamato di Husayn
Nel 680 i sostenitori della famiglia di ‘Alī convinsero Husayn (il secondo figlio che ‘Alī ebbe da Fātima) a guidarli nella
ribellione contro il principe omayyade Yazīd. Husayn accettò con riluttanza di unirsi a loro e si mise in viaggio dall’Arabia con
la famiglia e 77 uomini. Sulla piana di Karbalā, Husayn fu brutalmente ucciso, insieme a tutti i suoi parenti maschi (77 uomini),
eccetto suo figlio ‘Alī Zayn al-‘Abidīn, che aveva undici o dodici anni.
L’esercito omayyade saccheggiò l’accampamento di Husayn; donne e bambini furono fatti prigionieri e rispedititi a Medina.
Per gli sciiti, Husayn divenne il “principe dei martiri”.
1) Il primo gruppo autonomo è quello degli ZAYDITI. Essi prendono il loro nome da Zayd ibn ‘Alī, pro-pronipote del Profeta,
ucciso nel 740. Dopo la sua morte, i sostenitori lo considerarono il vero imām. Difatti, secondo gli zayditi, il diritto di
rivendicare l’imamato dopo Hasan e Husayn, non spettava più a una particolare discendenza genealogica da Muhammad,
in quanto l’imamato apparteneva invece all’intera famiglia di ‘Alī.
È importante rilevare che gli zayditi non credono, come i duodecimani, in un imām nascosto, né che il loro imām sia puro
o infallibile.
Gli zayditi, in ambito teologico, si ritengono i più vicini ai sunniti. Erano più attivi in campo militare: era loro convinzione
che il vero imām fosse in realtà colui che riesce ad affermarsi con la spada.
Dai discendenti del secondo imām, Hasan, furono fondati due stati zayditi: uno in Iran e il secondo nell’attuale Yemen,
dove ad oggi ci sono ancora circa cinque milioni di sciiti zayditi.
2) Una seconda, ancora più grave divisione fra gli sciiti avvenne nel 765 con un altro gruppo secessionista, gli ISMAILITI, i
quali divennero un gruppo dinamico e politicamente attivo durante l’Alto Medioevo, anche se dal XIII secolo si
trasformarono in comunità musulmane sciite tranquille e pacifiche. Le circostanze della nascita del gruppo degli ismaeliti
rimangono ancora oscure, ma implicano un dissenso circa chi sarebbe dovuto succedere al sesto imām, Ja’far as-Sādiq.
Uno dei suoi figli, Ismā’īl, rivendicò la successione a settimo imām. Quelli che sostennero i suoi diritti divennero noti come
i settimani o ismailiti.
Gli ismaeliti acquisirono una reale importanza nell’899 quando il primo sovrano sciita, ‘ Ubayd Allah al-Mahdī, di una
nuova dinastia (i Fatimidi, dal nome della figlia di Muhammad) fondò un contro califfato ismailita nel Nord Africa
dichiarando di essere discendente di Muhammad, figlio di Ismā’īl, e che egli, ‘Ubayd Allah, era il vero imām.
Sotto il loro regno, gli ismailiti furono attivi e combattivi. Dominarono politicamente il Mediterraneo per quasi due secoli
fino a quando il grande eroe musulmano del periodo delle crociate, Saladino, pose fine al loro potere nel 1171, e
ripristinò la sudditanza dell’Egitto e degli altri territori governati dai Fatimidi al califfo sunnita di Baghdad.
Una scissione minore nella corrente ismailita era avvenuta durante il regno del sesto califfo fatimide, al-Hākim, famoso
per aver distrutto la chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Dopo la sua scomparsa, i suoi seguaci formarono un nuovo
gruppo estremista, i drusi, i quali si isolarono sulle montagne della Siria.
Gruppo ancora più famoso sono i nizariti che, nel 1094, si erano separati dalla corrente principale fatimide del Cairo.
Questa setta estremista sciita, comunemente nota con l’appellativo di “Assassini”, predicava una nuova forma di islam.
Nell’arco di appena 30 anni, i nizariti compirono una serie di circa 50 delitti eccellenti, spesso compiuti di venerdì nel
cortile di una moschea: le vittime erano sempre dei ministri o importanti figure militari o religiose.
Tuttavia, le invasioni mongole condussero i nizariti alla clandestinità.
Altri ismaeliti separatisi dai nizariti al Cairo, divennero noti come bohora. I bohora compongo comunità poco conosciute
all’esterno che tuttavia sovvenzionano molti progetti benefici, come ospedali e scuole.
Sin dall’inizio le credenze degli ismailiti furono tenute segrete. Operavano una distinzione tra le interpretazioni esteriori
del Corano, che erano accessibili a tutti, e una verità interiore conosciuta solo dagli imām.
Nella visione ismailita, la storia presenta un carattere ciclico, ogni ciclo di settemila anni inizia con un profeta. Sette è il
numero simbolico chiave; Ismā’īl era il settimo imām. Dio è oltre ogni conoscenza umana, e il mondo e ogni cosa in esso
fluiscono direttamente da Lui.
Gli ismailiti praticavano la taqīyya, la pia dissimulazione delle loro credenze: fingere di avere altre credenze era consentito
per preservare la propria fede in circostanze ostili ed evitare persecuzioni. La dottrina del nass (= designazione,
investitura) fu fondamentale per gli ismaeliti: secondo questa dottrina, la scelta del successore nell’imamato per loro
dipendeva solo dalla designazione da parte dell’imam vivente, poiché era l’unico a possedere la conoscenza
onnicomprensiva che proveniva da Dio.
Gli ismailiti pregano il venerdì, non in una moschea, ma in uno specifico edificio chiamato Casa dell’Assemblea., utilizzato
anche come luogo d’incontro della comunità. La loro è una fede viva. Lasciano l’interpretazione della dottrina al loro
imām.
L’attuale capo della comunica ismailita nizarita è Karīm Āghā Khān IV, il 49esimo imām. Oltre ad essere un capo
musulmano illuminato e tollerante, è anche favorevole alla piena partecipazione delle donne nella comunità.
Oggi i DUODECIMANI sono indubbiamente il maggior gruppo sciita. Diversamente dagli ismailiti, gli sciiti duodecimani
tennero un basso profilo nel lontano passato ma nel mondo contemporaneo sono molto in vista e impegnati attivamente,
specialmente in Iran e in Iraq.
Dopo che gli zayditi e gli ismailiti si furono divisi in rami diversi ed ebbero scelto differenti genealogie alidi, la linea degli
imām per gli sciiti restanti rimase ininterrotta fino all’874. Tuttavia, si diffuse la convinzione che al-Hasan avesse in realtà
lasciato un giovane figlio di nome Muhammad: secondo la tradizione sciita duodecimana, ad un certo momento
Muhammad sarebbe stato portato via di nascosto dal luogo di prigionia del padre e sarebbe stato dichiarato dodicesimo
imam. Gli sciiti duodecimani ancora oggi aspettano l’arrivo del 12esimo imām. Egli sarebbe stato allevato in un posto
segreto, entrando in contatto con i suoi discepoli solo attraverso 4 emissari. Questa nella dottrina duodecimana è
chiamata “fase dell’occultamento minore”. L’occultamento del dodicesimo imām rappresentò un problema per i suoi
seguaci, poiché non potevano più rivolgersi a lui per ricevere una guida su tutti gli aspetti della loro vita di musulmani.
Gradualmente iniziarono a ritenere che la classe colta degli studiosi, quelli più qualificati per interpretare i consigli
dell’imām nascosto, dovessero guidare la comunità in sua assenza. La politica dell’occultamento maggiore depoliticizzò lo
sciismo duodecimano per molti secoli e i duodecimani divennero quietisti, guidati nella quotidianità dai dotti religiosi.
Secondo i duodecimani, pertanto, Dio non lasciò la sua comunità senza guida. Gli imām erano capi spirituali e politici
della comunità: erano immuni all’errore.
L’idea che dovesse esistere uno stato politico in cui i dotti religiosi sciiti duodecimani governassero effettivamente dovette
attendere fino al 1979 per realizzarsi.
La morte di Husayn è da lungo tempo il principale movente emotivo dell’esperienza sciita. Il culto di ‘Āshūrā, che comporta la
narrazione della tragedia di Husayn e la recitazione di elegie in sua memoria, fu definito la prima volta nella casa degli imām a
Medina. La storia di Husayn è rievocata ancora oggi nelle strade dell’Iraq, dell’Iran e dell’India con rappresentazioni del
martirio. Le lamentazioni collettive in occasione del martirio di Husayn finirono per includere una rappresentazione della
passione in cui i cattivi vestono di rosso e si esprimono in prosa, gli eroi vestono di bianco e verde e si esprimono in versi. Ci
sono processioni in cui i partecipanti chiedono dell’acqua, simboleggiando così la sete sofferta da Husayn e dalla sua famiglia
durante la battaglia in cui fu ucciso.
Nei primi nove giorni del mese di muharram gruppi di uomini, con il corpo nudo fino alla cintola, tinto di nero o di rosso
girano per le strade strappandosi i capelli, brandendo spade o trascinando catene dietro di sé, preludio del giorno vero e
proprio di ‘Āshūrā. Il fulcro emotivo originario dello sciismo è costituito da un singolo evento: la morte di Husayn a Karbal ā. La
sua morte è vista come un sacrificio volontario a favore dell’intera comunità e la sua commemorazione conferisce una
ricompensa spirituale a tutti coloro che partecipano a queste cerimonie. Essa rappresenta un ricordo di come gli sciiti hanno
sofferto nel corso dei secoli.
Najaf, che ospita la tomba di ‘Alī, e Karbalā, il luogo di sepoltura di Husayn, sono le due città più importanti del pellegrinaggio
sciita.
La parola GHULĀT significa in arabo “estremisti”; era utilizzata nella fase iniziale della storia islamica in riferimento a gruppi
minoritari, ritenuti dalla minoranza molto eterodossi nelle loro credenze. Tali gruppi erano spesso influenzati da altre
tradizioni religiosi, inclusi lo gnosticismo e il cristianesimo, e alcuni di essi attribuivano caratteristiche divine a figure
musulmane ritenute sante, in particolare ‘Alī.
Due di questi gruppi ai margini dell’islam sciita sono gli alawiti e gli aleviti.
1) Gli ALAWITI appartengono ad un gruppo che si staccò dallo sciismo maggioritario nel IX secolo. Le loro credenze
sono complesse e i loro riti di iniziazione contengono elementi gnostici, ismailiti e cristiani. Tra le loro dottrine
ortodosse vi è la deificazione di ‘Alī. Essi si sono stabiliti nella Siria occidentale, nel Libano e nella Turchia sud-
orientale; ad ogni modo costituiscono una piccola minoranza della popolazione siriana.
2) nella Turchia contemporanea, gli ALEVITI costituiscono una minoranza molto importante. Circa il 20% sono curdi, i
rimanenti sono turchi. Molti aspetti delle loro credenze sono chiaramente basati sullo sciismo, ma riflettono anche
l’influenza del cristianesimo e dello sciamanesimo. I loro rituali hanno molto in comune con la pratica sufi. Gli aleviti
credono che coloro che amano ‘Alī siano loro amici, chi non lo fa è loro nemico: essi vedono ‘Alī come legittimo
successore di Muhammad. Essi digiunano 12 giorni nel mese di muharram per piangere la morte di Husayn. Non
vietano l’alcool e non pregano in moschea.
7. La giurisprudenza sciita
Quando i primi sciiti si separarono in diversi sottogruppi, le nuove “sette” – duodecimani, ismailiti e zayditi – avevano già
sistemi giuridici leggermente differenti come una raccolta di hadith che risaliva attraverso i loro primi imam fino a ‘Alī o allo
stesso Profeta.
Le scuole giuridiche sciite non si discostano in modo significativo da quelle dei sunniti sulle questioni fondamentali della legge
islamica.
Una questione giuridica controversa che ha contraddistinto i duodecimani è la pratica del matrimonio temporaneo: mut’a
(godimento). Questo prevedeva un contratto temporaneo tra un uomo e una donna per un periodo definito di tempo,
durante il quale l’uomo era autorizzato ad avere relazioni sessuali con la donna. Alla fine del termine stabilito la donna
riceveva il compenso dovuto e si separavano. Un’eventuale progenie rimaneva con la madre e con la sua famiglia.
Secondo il punto di vista sunnita, il matrimonio mut’a fu soppresso poiché non garantiva all’uomo una legittima discendenza.
Gli sciiti duodecimani, che invece continuarono ad approvarlo, fornirono ulteriori norme sul modo in cui doveva essere messo
in pratica.
9. Lo sciismo oggi
Le etichette dottrinali applicate alle diverse correnti musulmane dovrebbero essere usate con cautela. I duodecimani
costituiscono la corrente più numerosa del mondo sciita, e oggi quando si senti il termine “sciita” di solito ci si riferisce a loro.
Gli zayditi e gli ismailiti sono anch’essi sciiti però, ed esistano anche dei diversi gruppi più piccoli.
La principale divisione tra sunniti e sciiti fu inizialmente causata da interpretazioni divergenti su chi avrebbe dovuto guidare la
comunità musulmana. Tuttavia, gli sciiti hanno anche sviluppato proprie storie della salvezza, un calendario con ricorrenze
proprie, propri riti di ricordo, una propria formulazione della giurisprudenza islamica eccetera. Gli sciiti si vedono ormai per
tradizione come i sostenitori dei milioni di oppressi e diseredati nel mondo, poiché combattono contro i despoti e contro
coloro che sfruttano i poveri. La storia di Husayn si adatta bene a questo programma: è un simbolo per chi sperimenta la
sofferenza e desidera ribellarsi contro la tirannia.
Per molti secoli, dopo i primi anni di conflitto settario, i sunniti e gli sciiti vissero insieme nel Medio Oriente in relativa
concordia, ma gli sconvolgimenti seguiti alla Primavera araba hanno fatto riemergere antiche ostilità tra le due correnti
dell’islam, e la possibilità di pace e armonia religiosa appare spesso tragicamente remota.
Eppure, adottando una prospettiva più ampia, e guardando ai musulmani del mondo nel loro insieme, è evidente che quanto
unisce sunniti e sciiti è molto di più quanto li divide.
CAPITOLO 6: IL PENSIERO
Nessun libro che parli della società e della cultura islamica da una prospettiva storica può permettersi di ignorare i contributi
portati dai musulmani nei campi della teologia, della filosofia e del pensiero politico. Nel campo della filosofia islamica, il
contributo dei pensatori musulmani fu talmente notevole che alcune loro opere raggiunsero i circoli intellettuali della Scuola
di traduttori di Toledo e furono tradotte in Latino, per avere poi ampia circolazione nell’Europa cristiana medievale.
1. La teologia islamica
I musulmani considerano Muhammad il Profeta che ricevette la rivelazione di Dio; non era un pensatore sistematico che
lasciò una struttura teologica chiaramente definita. Il messaggio principale che trasmise ai propri fedeli è che l’eccelso Unico
Dio è onnipotente e che l’umanità deve obbedirGli. Tuttavia, man mano i musulmani avvertirono la necessità di avere delle
risposte alle domande dottrinali sull’islam, sia a quelle poste loro dai non musulmani sia ad altre domande che essi stessi
sentivano il bisogno di porre.
Il termine utilizzato per indicare la teologia nell’islam è kalām, che letteralmente significa “discorso”. Questa parola evidenzia
che le discussioni sulle questioni filosofiche nei primi anni dell’islam erano condotte oralmente. Si dibatteva su temi cruciali,
soprattutto su quello della fede. È importante osservare che molte delle questioni teologiche che tenevano occupate le menti
dei teologi islamici, costituivano la preoccupazione anche dei pensatori ebrei e cristiani.
La teologia islamica sembra emergere gradualmente nella seconda metà del VII secolo nella Siria omayyade (661-750) e si
sviluppò pienamente dopo l’anno 750, sotto il dominio abbaside. I dibattiti in cui i musulmani e i cristiani si confrontavano per
discettare di teologia erano tenuti nelle corti califfali di Damasco e Baghdad. I dotti religiosi individuarono le dottrine
fondamentali ed espressero i propri giudizi su ciò che vedevano come ortodossia o eresia islamica.
I successori di al-Ash’arī fornirono alla teologia islamica gli strumenti dell’argomentazione logica sviluppata da Aristotele.
Ciononostante, i suoi successori sono descritti più come giurisperiti che come teologi.
3. Il pensiero politico
Altri campi della filosofia interessavano gli studiosi musulmani. Nella sfera della filosofia politica, al-Fārābī – conosciuto come
“il secondo maestro” – scrisse un’opera interessante sulla città ideale, prendendo esempio dal lavoro di Platone riguardante
lo stesso tema. In questa città ideale c’è una gerarchia sociale, con ogni suo componente che occupa il suo posto giusto nella
società, in questo modo tutti i cittadini raggiungeranno la felicità. Al-Fārābī sosteneva che come Dio governa il mondo, così il
filosofo, esempio di uomo perfetto, dovrebbe governare lo stato.
4. Il califfato sunnita
La filosofia politica sfociava nella giurisprudenza sulla questione della cruciale e molto dibattuta istituzione del califfato
sunnita. Questa istituzione derivava dal concetto di successore (khalīfa), figura che risalì a quando il Profeta morì senza
lasciare eredi. Nel 632, Abū Bakr fu eletto primo califfo.
Il termine califfo fu infine associato all’onnicomprensiva unione della comunità di tutti i credenti. I compiti del califfo erano:
applicare la legge (sharī’a), salvaguardare la fede e difendere le frontiere dei territori musulmani. Il califfo sunnita era il
rappresentante della sharī’a e il responsabile della sua applicazione e difesa. Ad ogni modo, egli non era al di sopra della
sharī’a e perciò doveva rispettarla come tutti gli altri.
Dalla seconda metà del IX secolo, i califfi sunniti nella loro capitale, Baghdad, persero il potere politico quando finirono nelle
mani delle proprie guardie reali turche. Tuttavia, fino quando i mongoli non conquistarono Baghdad (1258), il califfo rimase la
massima autorità giuridico-religiosa.
Il califfo era la più elevata autorità legislatrice della comunità. Di fatto, la realtà politica mitigata dal principio dinastico,
determinava chi dovesse occupare tale carica.
Dopo la caduta di Baghdad nel 1258, il sultano mamalucco Baybars (governò l’Egitto) stabilì un nuovo centro per un califfato
ombra al Cairo, di fatto sotto il controllo mamelucco. Dopo la conquista ottomana dell’Egitto e della Siria (1517), i turchi si
assunsero questa responsabilità e il califfato fu nuovamente trasferito, questa volta a Istanbul. Tale califfato rimase in vigore
fino al 1924, quando il presidente della nuova Repubblica di Turchia, Atatürk abolì definitivamente la carica.
Una cosa era abolire il califfato per decreto, tutt’altra invece era cancellarlo dalle menti dei musulmani. Anche molti
musulmani moderati hanno una visione nostalgica del califfato come simbolo perduto della preziosa unità della comunità
musulmana.
a) I pensatori fondamentalisti
Il cosiddetto “fondamentalismo” è un fenomeno ricorrente nell’islam. Coloro che diffondono il fondamentalismo lo fanno
per esprimere la propria preoccupazione per quella che essi vedono come decadenza all’interno della società; essi
invocano un ritorno al puro islam “originale”, praticato dal Profeta e dai suoi più stretti Compagni, inclusi i primi quattro
califfi che governarono dal 632 al 661.
I fondamentalisti musulmani sostengono che le innovazioni nel modo in cui i musulmani praticano la loro fede, hanno
inquinato il vero islam.
La parola islāh indica la ricostruzione o il ripristino di ciò che è visto come il vero islam. Se necessario, il jihād minore, la
lotta armata, deve essere perseguito per raggiungere questo obiettivo. Coloro che sostengono che esiste un solo puro
islam sono chiamati salafiti. Oggi, il loro sforzo (jihād) nell’imporre questa visione del mondo è anche una protesta contro
ciò che è percepito come il secolarismo, il materialismo, l’oppressione e la corruzione dell’Occidente.
I Talebani in Afghanistan (fine XX secolo) sono una tipologia alquanto estrema di movimento di islāh.
Il wahhabismo, un movimento di purificazione della società musulmana che è iniziato in Arabia, polemizzò animosamente
contro il sufismo e lo sciismo esprimendosi a favore di un ritorno all’autorità esclusiva del Corano e dell’insegnamento del
Profeta.
La Fratellanza Musulmana fu fondata in Egitto nel 1928; il suo messaggio consisteva in un ritorno ai principî del Corano e
del califfo per la creazione di una vera società islamica. I Fratelli Musulmani hanno oggi ramificazioni in tutto il mondo.
Dopo due assassini da loro commessi ad importanti cariche, furono costretti a darsi alla clandestinità.
b) Pensatori modernisti
In contrasto con la posizione assunta dai fondamentalisti islamici, altri musulmani hanno cercato di confrontarsi e
abbracciare il cambiamento, e quindi di modificare e reinterpretare alcuni aspetti della fede nella cornice del mondo
moderno. Un tale approccio si è sviluppato nel XIX secolo con Sayyid Ahmad Khān che si onfrontò con il problema di come
far fronte al dominio britannico in India e quale dovesse essere la posizione dell’islam nella patria colonizzata; Jamāl al-
Dīn al-Afghānī, il padre del modernismo islamico che ha sviluppato il concetto di panislamismo come un modo per
unificare e dare nuovo vigore al mondo musulmano contro la crescente ingerenza delle potenze europee e Muhammad
‘Abduh, considerato il dotto più influente d’Egitto, il quale cercò di sviluppare i princìpi razionali su cui costruire una
società musulmana in epoca moderna.
Gli ultimi centocinquant’anni hanno visto un fermento intellettuale, dibattiti e controversie da parte di pensatori musulmani e
in tutti loro è presente lo stesso urgente desiderio di tracciare un nuovo sentiero per la fede in tempi politicamente difficili. È
probabile che questi dibattiti non solo continueranno ma che, grazie a un più facile accesso alla comunicazione elettronica,
potranno aumentare in rapidità e quantità.
CAPITOLO 7: IL SUFISMO
Il sufismo è la dimensione intima e mistica dell’islam. Chiunque tenti di trovare una definizione soddisfacente mi misticismo
incontra l’insuperabile problema presentato dalla natura dell’esperienza mistica stessa, che è personale, diretta e
indescrivibile. Il misticismo è stato di solito pensato in due modi principali: esteriormente, come il sentiero o la scala
dell’anima umana mentre s’innalza sempre più verso Dio; e interiormente, come la ricerca all’interno del proprio cuore per
trovarvi Dio. Queste due rappresentazioni simboliche sono strettamente correlate, ed esprimono solo in parte e non
adeguatamente le più profonde realtà spirituali, che non possono essere colte in un linguaggio umano.
La tradizione mistica islamica è chiamata tasawwuf, termine solitamente tradotto come “sufismo”, letteralmente significa
“diventare un sufi”. La parola stessa sembra derivare dalla parola araba sūf (lana) e si riferiva originariamente agli indumenti
di lana grezza indossati dai primi asceti musulmani (religiosi che si astenevano ai piaceri terreni). I sufi stessi usano il simbolo
della via (tarīqa) verso Dio. La tarīqa è vista come un sentiero stretto, che i credenti possono percorrere per sperimentare la
realtà suprema di Dio. In diverse occasioni è stato visto come al di fuori dell’evoluzione dottrinale principale dell’islam,
nonostante molti dei più celebri pensatori musulmani fossero in realtà sufi. I sufi rappresentarono la maggior fonte di
conforto religioso personale per la gente comune che non era in grado di comprendere le complessità giuridiche e teologiche
dei dibattiti religiosi. Oggi il sufismo è bandito in alcuni paesi musulmani, ma perdura intensamente in altri.
d) Rābi’a al-‘Adawiyya
Una delle figure più amate tra i primi sufi fu una donna di Basra, Rābi’a al-‘Adawiyya (= quarta; era la quarta figlia). Si dice
che fosse una schiava, liberata dal padrone che aveva riconosciuto in lei le caratteristiche di una santa. Rābi’a divenne
un’asceta, dedita al misticismo e alla castità. L’essere donna non rappresentò un ostacolo al suo prestigio e alla sua
reputazione di santa. La stessa Rābi’a è stata paragonata alla Vergine Maria.
Rābi’a indubbiamente non fu la prima tra i sufi a comprendere che il cammino verso Dio doveva essere ricercato
attraverso l’amore; tuttavia, generazioni successive di sufi furono particolarmente ispirate da lei. Rābi’a eliminò tutte
le preoccupazione terrene che potevano distoglierla dall’amore esclusivo per Dio. Il puro, disinteressato amore per Lui
fu raggiunto in varie tappe; implicava escludere l’amore per un altro essere umano e per gli oggetti, finanche la Ka’ba,
e l’amore per il Profeta. Ella rifiutava anche l’adorazione di Dio motivata da preoccupazione per il giorno del giudizio.
Le esperienze mistiche di entrambe le correnti possono essere state simili, ma i sufi “sobri” prestarono maggiore attenzione a
essere più prudenti nella propria condotta e nei propri scritti.
Gradualmente, l’interpretazione di concetti – come l’unione mistica con Dio e l’amore mistico con Dio – portò alcune
personalità all’interno del sufismo a muoversi al di fuori della tendenza dominante del credo islamico ortodosso focalizzata
sull’Unico Dio. Data il pericolo di compiere il terribile peccato di shirk (consentire a qualcuno o qualcosa di violare l’unicità di
Dio), i musulmani rifiutano l’idea che Dio possa dimorare in un corpo umano. I musulmani proibiscono anche la nozione che
Dio e l’uomo possano diventare un’unica entità. Così i sufi si sforzarono di adoperare un’attenta terminologia, come ad
esempio “arrivare” in prossimità di Dio.
a) BISTĀMĪ
Bistāmī si distingue per essere “ebbre” della conoscenza esperienziale estatica di Dio. Lui ha descritto la “perdita di se
stesso” nel Divino. Bistāmī affermava che chi aveva una conoscenza mistica di Dio era superiore ai giurisperiti musulmani,
schiavi delle catene della conoscenza che li vincolava ai dotti del passato.
Bistāmī è accusato di aver parlato nei momenti di estasi come se fosse Dio; egli si sentiva “riempito da Dio”, non esisteva
più, solo Dio esisteva. Egli sosteneva che Dio parlasse attraverso la sua bocca e questo oltre a sconvolgere molte persone,
provocò accuse di blasfemia. Ad ogni modo, Bistāmī non mirava a predicare alle masse musulmane.
b) AL-HALLĀJ
Il percorso di al-Hallāj, il più famoso martire del sufismo, può essere visto come una svolta decisiva nella storia del
sufismo. Si dice che abbia fatto una serie di affermazioni blasfeme che lo portarono a scontrarsi con molti gruppi
influenti di Baghdad. Tra le sue affermazioni, vi è quella secondo cui il pellegrinaggio poteva essere eseguito nel proprio
cuore senza recarsi a Mecca. La più famosa affermazione, «Io sono il Vero», è stata paragonata al detto di Gesù «Io sono
la via, la verità, la vita».
Alcuni hanno visto al-Hallāj come una figura simile a Gesù. Egli suscitò l’irritazione di persone con i più disparati punti di
vista. Le istituzioni politiche, il califfo sunnita e i giuristi religiosi, tutti temevano l’impatto della sua eloquenza sulla gente
comune, oltre a come cercò di rendere popolare il sufismo, minacciando così ai loro occhi la stabilità della comunità
musulmana nel suo insieme. Anche alcuni tra gli stessi sufi si opposero a lui. Fu imprigionato, torturato e crocifisso nel
922.
Il sufismo “ebbro” non morì con al-Hallāj, ma coloro che in seguito adottarono il sentiero sufi riuscirono a intravedere il
pericolo di avere un profilo troppo pubblico e di agire al di fuori dei precetti della sharī’a.
c) AL-MUHASIBĪ e AL-MAKKĪ
Al-Muhāsibī e al-Makkī ebbero un ruolo cruciale nel processo di graduale integrazione del sufismo all’interno della
società musulmana medievale tradizionale.
Al-Muhāsibī, basando per tutte le sue idee sul Corano e sugli ahādīth, fa rilevare la necessità per i credenti di essere
costantemente scrupolosi nell’osservanza della propria fede, e di esaminare con attenzione le motivazioni profonde delle
proprie azioni, e non già semplicemente di osservare l’apparenza dei rituali esteriori. Essi devono sempre fuggire a
questo mondo e temere il Giorno del Giudizio. Solo la contemplazione di Dio, permetterà al cuore del credente di aprirsi
per ricevere il favore di Dio.
Un secolo dopo, al-Makkī insegnò che la fede musulmana ha due dimensioni: una esteriore e una interiore. Entrambe
sono necessarie e interdipendenti e complementari. È il concetto di “cuore” a essere centrale per il suo pensiero: è il
cuore che dà all’uomo la conoscenza di Dio, che svela la verità di Dio. Questa fede si basa sulla certezza religiosa,
piuttosto che sul suo apprendimento.
d) AL-GHAZĀLĪ
Una importante pietra miliare nella storia del sufismo è rappresentata dal percorso di al-Ghazālī. La sua adesione al
sufismo è rimarchevole perché fu capace di presentarle in modo sistematico, articolato e chiaro. Per al-Ghazālī, il
sentiero sufi verso la vera conoscenza non doveva implicare un distacco dalla sharī’a, la strada maestra della legge
rivelata di Dio. Infatti, le pratiche religiose esteriori è una parte necessaria della devozione interiore. Il sufismo non è
un’alternativa all’islam formale ma un suo completamento.
Tutti i musulmani dovrebbero osservare i simboli esteriori della fede. Eppure, al-Ghazālī è consapevole che ciò non è
sufficiente senza la contemplazione di Dio, il fuoco interiore del sufismo. Egli riteneva che la fede avesse i suoi aspetti
esteriori e interiori (definiti “le attività del cuore”), entrambi necessari e interrelati per raggiungere un equilibrio. Ciò che
più desiderava era la conoscenza certa di Dio.
Al-Ghazālī fu il coronamento dell’opera dei suoi predecessori Al-Muhāsibī e al-Makkī, poiché contribuì a integrare una
forma moderata di sufismo nell’islam ortodosso.
a) Il sentiero sufi
I teorici sufi cercarono di tracciare il viaggio mistico dell’anima nel suo avvicinamento a Dio. Per quanto contraddittori, i
loro trattati concordano sul fatto che ci fosse una qualche sequenza distinta nel percorso del viandante lungo il sentiero
sufi, e tutti parlano di “stazioni” gerarchiche, come gradini su di una scala spirituale, e di “stati mistici”. In generale, si
riteneva che una stazione potesse essere raggiunta e mantenuta attraverso i propri sforzi personali, mentre uno stato
mistico proveniva esclusivamente da Dio come dono del Suo favore, e in ogni caso durante questa vita sarebbe rimasto
soltanto fugacemente all’interno del cuore umano. “Gli stati spirituali sono doni; le stazioni sono benefici”.
Quando i sufi raggiungono la tappa finale del sentiero, divengono completamente presenti in Dio e totalmente persi in se
stessi: ciò è chiamato fanā (estinzione del sé in Dio), uno stato mistico permanente solo da morti; tuttavia può essere
temporaneamente raggiunto sulla terra quando i sufi sono ancora in vita.
I sufi “sobri” definirono meticolosamente il fanā in modo tale che rispettasse la necessaria distinzione tra Dio e l’uomo,
mantenendo l’irremovibile unicità di Dio intatta. Consapevoli dei pericoli avvertiti nel misticismo, gli autori sufi si
sforzarono di definire le condizioni dell’unione mistica con Dio, mettendo in risalto gli aspetti interiori della vera
religione, senza minare la validità dei rituali esteriori. Essi sostenevano che la totale estinzione del sé in Dio sperimentata
dai sufi non significava che essi cessavano di osservare i rituali esteriore della fede richiesti dalla sharī’a.
Suhrawardī formulò la teoria dell’illuminazionismo: sostiene che Dio produce una luce costante. Ogni cosa in questo
mondo deriva dalla sua luca e la salvezza consiste nel trovare questa luce.
Per Suhrawardī, l’esistenza è luce. La luce assoluta raggiunge il mondo creato attraverso infinite schiere di angeli verticali
e orizzontali. Ogni anima ha il proprio angelo custode. È dovere dell’essere umano riconoscere e avvicinarsi alla luce
esistenziale. Più libera se stesso dall’oscurità dell’ego e più è inondato di luce, più si accosta al divino.
Il percorso di Ibn al-‘Arabī sintetizza quello di molti sufi medievali che attraversarono il mondo musulmano in cerca di
conoscenza e illuminazione. Scrive che quando aveva quarant’anni – un’età emblematica nella tradizione islamica – vide
in sogno la Ka’ba costruita con mattoni d’oro e d’argento alternati tra loro, ma che in un punto aveva un mattone d’oro e
uno d’argento mancanti. E continua: «Poi vidi me stesso inserito nel punto in cui mancavano i due mattoni. Io ero i due
mattoni; con essi il muro era completa e la Ka’ba senza difetti».
Ibn al-‘Arabī sosteneva di aver raggiunto il grado più elevato che un uomo potesse conquistare, quello di “sigillo della
santità muhammadiana”, che lo poneva appena sotto il Profeta nella gerarchia spirituale musulmana.
La sua opera ha profondamente influenzato le generazioni successive sufi.
Il più importante autore della letteratura sufi, Rūmī, scrisse in persiano. Nelle sue opere, brama l’unione con il suo
Amato in un linguaggio profondamente simbolico senza però perdere di vista l’importanza della legge.
La composizione della poesia sufi in molte lingue diverse si rivelò un fattore chiave nella diffusione in tutto il mondo
musulmano dei concetti religiosi fondamentali.
a) Organizzazione e iniziazione
Ogni confraternita era presieduta da un successore del fondatore. Ben presto apparvero degli edifici appositi, o logge,
utilizzate per il culto sufi e come residenze, anche se alcuni dotti religiosi disapprovavano questi edifici sufi. Tuttavia,
soltanto pochi sufi vivevano nelle logge; la maggior parte degli abitanti erano membri laici dell’ordine che svolgevano il
proprio lavoro abituale durante la settimana, ma che di tanto in tanto partecipavano ai rituali nella loggia. Essere
iniziato a una confraternita significa diventare parte della catena. Il significato di essere collegato alla catena consiste
simbolicamente nel fatto di permettere all’iniziato di progredire ulteriormente lungo il sentiero spirituale. Anche le
donne potevano essere sufi, ma ricevevamo il loro insegnamento da altre donne e organizzavano i propri rituali
separatamente.
All’interno delle logge si studiavano libri devozionali e si svolgevano preghiere, recitazioni del Corano e di poesia
mistica; studiavano inoltre i principali commentari sufi e la poesia didattica; imparavano la sequenza esatta della
genealogia dell’ordine che li portava indietro fino al Profeta.
Grande impatto visivo è dato dall’abbigliamento nei rituali sufi. Una volta che la cerimonia d’iniziazione era terminata, al
nuovo membro dell’ordine veniva consegnato un attestato.
b) Culto e pratica
Il culto collettivo per i membri della tarīqa prende la forma di un rito conosciuto come dhikr. Il dhikr è la “principale
tecnica spirituale del sufismo, attraverso cui l’uomo ritorna a Dio”. Il dhikr comporta il ricordo, la ripetizione costante
del nome Allah, accompagnata dal respiro ritmico, controllato, il dhikr può essere praticato in silenzio oppure ad alta
voce, da soli o in gruppo. Le sezioni collettive iniziano con la recitazione di versetti coranici e preghiere: in questo caso è
lo shaykh dell’ordine il responsabile spirituale che controlla lo svolgimento del rito. Se un sufi pratica il dikhr da solo,
può usare un rosario; tuttavia, in ogni caso egli conta il numero di ripetizioni del nome di Dio che probabilmente
raggiungeranno le migliaia.
Dopo la costituzione delle confraternite, nel XII secolo, le cerimonie di dhikr divennero formalizzate, e i sufi utilizzarono
vari tipi di sostegno per assistere i partecipanti nella loro venerazione. La consuetudine di bere caffè si diffuse dai gruppi
sufi dello Yemen: si riteneva fosse utile per mantenere le persone sveglie per le notti di preghiera. Si credeva che
incoraggiasse le esperienze mistiche.
La preghiera del venerdì in moschea consiste in preghiere, un sermone e recitazioni del Corano, in contrasto con le
cerimonie del dhikr. Per i sufi ascoltare la musica è qualcosa di spirituale. L’ascolto spirituale deve essere controllato per
evitare risultati fasulli.
c) Cinque turuq
Ci sono state numerose turuq in differenti parti del mondo musulmano; alcune sono sopravvissute fino a oggi mentre
altre sono da tempo scomparse. C’era una grande diversità tra di loro.
QĀDIRIYYA il primo dei grandi ordini sufi. Profondamente radicata nell’islam sunnita, si diffuse in tutto il mondo
musulmano.
NAQSHBANDIYYA ordine sobrio e misurato e molto diffuso che pratica un dhikr silenzioso, un dhikr del cuor, non
della lingua.
MEVLEVĪ fu fondato dopo la morta di Rūmī. Il suo nome deriva dal titolo arabo dato proprio a Rūmī, mawlāna =
nostro signore. Essi fanno risalire la loro genealogia ad ‘Alī.
Sono famosi per il loro roteare: una danza spirituale che simboleggia i movimenti dei pianeti intorno al sole. Ciascuno
dei danzatori nel suo roteare si avvicina e bacia a turno la mano dello shaykh.
BEKTĀSHIYYA i primi sultani ottomani erano molto legati ai becktāshi; condividevano le stesse credenze e la stessa
fede nella divinità di ‘Alī. Poi però i becktāshi si allontanarono dai confratelli. Quando l’ordine fu ufficialmente sciolto,
furono costretti a diventare società segrete e ad organizzare i propri rituali di notte. Anche le donne erano presenti ai
rituali, senza velo.
RIFĀ’IYYA “i dervisci urlanti”. Questo ordine sembra aver sviluppato rituali non ortodossi che non risalivano al
fondatore. La cerimonia inizia con un anziano che emette lunghi e vibranti urli a cui corrisponde il resto dell’ordine. Poi
tutti si siedono e fanno oscillare le proprie teste avanti e indietro. La cerimonia termina con un pianto.
d) Repressione e rinnovamento
Per molti musulmani alcune delle credenze e pratiche descritte sono totalmente inaccettabili, e nel mondo musulmano
alcune turuq sono state stigmatizzate. In alcuni paesi, e specialmente in Arabia Saudita, nessuna tarīqa è autorizzata e
non si parla di sufismo nei circoli accademici. Le turuq hanno a lungo rappresentato una sede alternativa per
l’osservanza religiosa, di tipo più popolare, che conforta e aiuta una comunità più ampia al di fuori delle stesse turuq.
Sono in molti ancora oggi che cercano la benedizione degli shaykh sufi viventi e si recano a pregare presso le tombe sufi.
L’islam arrivò nell’Asia meridionale all’inizio dell’VIII secolo. La prima tarīqa sufi presente nell’area fu la Chishtiyya. Il
messaggio sufi di amore e carità si rivelò molto attrattivo per i membri svantaggiati del sistema delle caste indù.
L’islam fu portato nel Sud-est asiatico attraverso i collegamenti commerciali, in special modo attraverso le rotte marittime. I
primi missionari musulmani a Giava furono dei sufi e gli studiosi in generale concordano nel ritenere che prima del XX secolo
l’islam indonesiano era prevalentemente sufi. Oggi la pratica devozionale sufi in Indonesia è ancora molto viva.
L’islam arrivò in Africa molto presto: in Etiopia ai tempi del Profeta e in Egitto e nel Nord Africa poco dopo la sua morte. Nei
secoli successivi si diffuse con le carovane che attraversavano il deserto e si dirigevano verso l’Africa occidentale alla ricerca di
oro. È probabile che dei sufi accompagnassero i mercanti o anche che fosse essi stessi mercanti. La leggendaria città di
Timbuktu risale all’incirca 1100 e da allora divenne un centro dell’erudizione islamica e di un sufismo dinamico. Nel 2012 degli
islamisti radicali hanno distrutto alcune di queste tombe sufi a Timbuktu. Le credenze e le pratiche sufi si sono dimostrate
molto attrattive in questo continente. Date le enormi dimensioni del continente africano, che ospita circa un terzo di tutti i
musulmani del mondo, è inevitabile che debba esservi una grande diversità riguardo alle pratiche sufi. Anche le pratiche sono
state influenzate e integrate con le pratiche religiose locali, incluso l’animismo.
Comunità sufi fioriscono sia in Europa sia in America, molte delle quali ancora saldamente radicate nella tradizione islamica.
Il sufismo non può esistere al di fuori dell’islam. Esiste un profondo divario tra le idee sufi intellettuali, abbracciate con
entusiasmo dai devoti di Ibn al-Arabi, da una parte, e quei musulmani in Medio Oriente, Indonesia e molte parti dell’Africa
che utilizzano la recitazione, la musica e la danza nei loro culti.
CAPITOLO 8: IL JIHĀD
Il jihād (“impegno”) è importante per tutti i musulmani. Tradizionalmente il concetto di jihād è stato interpretato in due
dimensioni: il jihād maggiore, spirituale, e il jihād minore, generalmente inteso come guerra.
Il jihād maggiore è considerato il più importante: è la lotta personale interiore dei musulmani per sconfiggere l’ego affinché
possano condurre una vita virtuosa. Il jihād minore, al contrario, denota un impegno per difendere la fede, e di conseguenza
una lotta armata. I musulmani credono che idealmente entrambe queste dimensioni dovrebbero coesistere nella vita di una
stessa persona.
Anche prima d’oggi c’era l’idea tra i non musulmani che l’islam fosse una religione della spada. Oggi però “combattere” è
diventato “il significato predominante di jihād”. È pertanto importante illustrare in maniera circostanziata come questo
concetto fosse definito nelle fonti canoniche islamiche e come si sia evoluto nella teoria e nella pratica.
b) Gli ahādīth
La seconda fonte canonica dell’islam, gli ahādīth (detti e fatti riportati del Profeta), ha molto da dire sul jihād. Molti
ahādīth lodano in modo eloquente i meriti del jihād: un esempio enfatizza che è più meritorio lottare che digiunare per
mille giorni.
Il Corano promette che il martire caduto sul sentiero del jihād sarà ricompensato in Paradiso con una bevanda di
nettare, dal profumo simile alla fragranza del muschio. Il jihād è meritorio qualunque sia l’esito. Negli ahādīth c’è una
meticolosa attenzione a molteplici aspetti del jihād, inclusi i preparativi, il divieto di uccidere anziani, donne e bambini,
la giusta divisione del bottino, il trattamento dei prigionieri. La sincerità della motivazione è essenziale. A chi cade sul
sentiero di Dio, è promessa la dolcezza del martirio. Nelle raccolte di ahādīth è spesso ricordato che i corpi di coloro che
cadono sul sentiero di Dio devono essere seppelliti con gli indumenti indossati al momento dell’uccisione.
Il fondatore della Repubblica islamica dell’Iran, l’āyatollāh Khomeynī, guadagnò un vasto consenso per la sua opposizione allo
shah dell’Iran e agli Stati Uniti. Diede anche pieno sostegno al jihād antisionista musulmano per liberare Gerusalemme.
Khomeynī trasformò l’ultimo venerdì del mese di ramadan nella Giornata di Gerusalemme, che oggi è celebrata in tutto il
mondo musulmano.
L’interpretazione di Khomeynī del jihād è onnicomprensiva: “... la guerra santa dell’islam è una lotta contro l’idolatria, la
deviazione sessuale, il saccheggio, la repressione e la crudeltà”. Il terribile conflitto tra Iran e Iraq ha messo due popolazioni
musulmane una contro l’altra, eppure Khomeynī ha definito questa guerra un jihād.
Fin dalla morte del Profeta, alcune campagne militari furono chiamate jihād dagli scrittori musulmani medievali. Il primo di
questi casi fu la creazione dell’IMPERO ARABO ISLAMICO nel VII secolo. Un’opinione comune è che i cristiani preferirono la
vita sotto il dominio musulmano alla persecuzione religiosa da parte di Costantinopoli. Altri ritengono che lo strumento jihād
sia stato utilizzato immediatamente dopo la morte di Muhammad per motivare le tribù beduine alle armi per far affermare
l’islam nelle nuove terre.
L’islam, così com’era praticato da coloro che avevano conosciuto bene Muhammad, fornì le fondamenta del nascente stato
arabo; fu il jihād di questa piccola élite che spronò alle prime conquiste e ispirò le sue truppe.
Dopo 30 anni dalla morte di Muhammad, emerse il concetto di jihād conosciuto come KHARIGITI. Essi credevano nella
massima teocratica secondo cui la sovranità appartenesse solo a Dio. Ritenevano che chiunque non condividesse le loro
credenze, non fosse musulmano e quindi doveva essere ucciso. Gli assassinii kharigiti hanno portato alcuni studiosi a definirli i
primi terroristi musulmani. I loro attacchi militari perdurarono per un secolo o due. I guerrieri kharigiti si auguravano di
morire di morte violenta, colpiti dalla punta di una lancia. Per loro la morte non portava alla disperazione assoluta: era solo
l’ingresso al Paradiso.
Le aree di frontiera dei territori musulmani attiravano i guerrieri del jihād ansiosi di difendere ed espandere la casa dell’islam.
Nel X secolo, lo stato musulmano posto più ad Oriente era governato da una dinastia di etnia persiana, i SAMANIDI. Essi
dovevano difendere la frontiera contro i nomadi turchi dell’Asia centrale e interna. C’erano migliaia di costruzioni conosciute
come ribāt: strutture che furono costruite per ospitare i guerrieri che conducevano il jihād contro gli infedeli.
Le campagne condotte dai GHAZNAVIDI forniscono un esempio opposto di jihād. Fondato da un condottiero turco ex schiavo,
questo potente stato musulmano sunnita, dominò l’Afghanistan, l’Iran e parte dell’India. I sultani ghaznavidi consideravano
politeisti gli indù dell’India settentrionale; di conseguenza, tra il 999 e il 1027, Mahmud di Ghazna si sentì legittimato ad
attaccare l’area diciassette volte. Venivano definiti come campagne di jihād, ma parte che il vero motivo di quelle fosse il
bottino d’immensa portata da sottrarre ai principi indù.
Gli ALMORAVIDI, una confederazione tribale berbera, conquistarono molti territori del Nord Africa e alcune regioni della
Spagna musulmana. La loro ideologia del jihād è evidenziata dal loro stesso nome in arabo: “coloro che vivono nei ribat”. Ibn
Yāsīn, il fondatore, predicò un energico messaggio di jihād espansionistico. Morì come martire nel 1058. Il suo successore
Yūsuf ibn Tāshfīn conquistò vaste aree e fondò una nuova capitale: Marrakesh. Gli Almoravidi definirono jihād le proprie
campagne militari.
Il più famoso esempio storico di jihād medievale fu la risposta musulmana alla minaccia dei crociati. Si trattava di una
minaccia rivolta al cuore del mondo musulmano, la terza città santa dell’islam, Gerusalemme. I crociati conquistarono
Gerusalemme relativamente facile.
Tuttavia, il comportamento dei nuovi arrivati, i crociati europei, spinse infine i musulmani a ricordare il jihād e a unirsi sotto la
sua bandiera per allontanare questa indesiderata presenza straniera.
La cacciata dei crociati dai territori musulmani nel 1291 portò il mondo musulmano a concentrarsi su altre dimensioni del
jihād. Nel XIII arrivarono i mongoli, che nel 1258 distrussero Baghdad, la sede del califfato sunnita abbaside. Ora il jihād fu
interpretato come una lotta per difendere il mondo musulmano da future interferenze militari esterne.
Nei suoi numerosi scritti, IBN TAYMIYYA sosteneva un cambiamento d’impostazione più radicale, invocando un jihād
maggiore per purificare la società dalla contaminazione spirituale causata dal contatto con altri popoli e fedi, in particolare
cristiani e mongoli. Condannò molte pratiche e credenze. Sosteneva inoltre che il jihād è un dovere dell’intera comunità ma
che, quando il nemico inizia l’aggressione, il jihād diventa obbligatorio per ogni musulmano. Nonostante la sua importanza, il
jihād dovrebbe tuttavia essere sempre preceduto da un invito agli infedeli ad abbracciare l’islam, onde evitare la necessità di
uno scontro armato.
A volte i suoi pareri soddisfacevano i capi militari, ma altre volte no: così fu messo in prigione.
Dopo l’ondata di conquiste in Anatolia (attuale Turchia), per i TURCHI OTTOMANI divenne fondamentale che Costantinopoli
non dovesse più essere sottoposta all’autorità di un sovrano cristiano. Dopo la conquista di Costantinopoli, gli Ottomani
governarono su vaste aree di territori tradizionalmente musulmani.
Tutti gli esempi storici menzionati, così come molti altri, dimostrano quanto il jihād minore fu utilizzato per motivare con forza
la creazione di nuove entità politiche e le conquiste militari: questi movimenti del jihād erano percepiti e spiegati come la
difesa di territori già musulmani o l’espansione dell’islam in nuove regioni.
Un fondamentale oppositore della penetrazione occidentale nel mondo musulmano fu uno scrittore dell’Asia meridionale,
Mawdūdī, la cui influenza è stata enorme tra i musulmani radicali. Immaginava un governo islamico costituzionale che
promuoveva i valori islamici. La quinta edizione del suo libro “Il jihād nell’islam” ha in copertina la potente immagine della
parola jihād scritta come il calligramma di una spada color rosso sangue. Il concetto di jihād svolgeva un ruolo essenziale nel
pensiero di Mawdūdī.
Il mullā ‘Umar (noto come Mullah Omar) nel 1994 fondò i Talebani per liberare l’Afghanistan dei signori della guerra locali e
per portare la necessaria tranquillità dopo quindici anni di guerra; dichiarò anche che avrebbe ristabilito l’autentica sharī’a.
Coloro che si unirono a lui erano per lo più il prodotto delle madrasa del Pakistan. Le idee di questo gruppo sono chiuse e
selettive, l’unico islam che riconoscono è il proprio.
Il concetto di jihād fu ampliato in modo da combattere contro tutti i musulmani che rifiutavano l’autorità dei Talebani.
Nel 1997 USĀMA BIN LĀDIN si unì al mullā ‘Umar. Sebbene si dipingesse come una figura in grado di emettere delle fatwā,
bin Lādin non possedeva alcuna delle credenziali religiose richieste a chi invocasse il jihād: non era un califfo, né il capo di uno
stato musulmano, come richiede la legge islamica. Bin Lādin non prestava alcuna attenzione alle regole legali del jihād
classico. Molto semplicemente, strumentalizzava il concetto di jihād, e lo distorceva per adattarlo ai propri fini politici. Gli
obiettivi di bin Lādin sembrano essere stati duplici: il suo cosiddetto jihād mirava in primo luogo a spodestare il regime
dell’Arabia Saudita e in secondo luogo a indebolire il potere americano nel mondo.
Ancora prima dell’11 settembre, bin Lādin parlava di combattere un jihād contro i “crociati”, facendo in tal modo ricorso a un
dibattito anticristiano sulle crociate medievali, collegandolo ad altri temi anti-occidentali, come l’imperialismo e il
colonialismo. Egli ha descritto gli americani come «armate crociate, infestanti come locuste, che mangiano la sua ricchezza e
cancellano le sue piantagioni». Il jihād aveva come obiettivo Gerusalemme e la liberazione della moschea di al-Aqsā.
Oltre al Corano e al califfo, declama poesie kharigite e decanta le celebri vittorie militari musulmane delle origini, come quelle
contro i potenti persiani. Se i primi musulmani riuscirono a sconfiggere i persiani, sostiene, questa battaglia contro la
superpotenza americana può anche essere vinta. Per bin Lādin il jihād doveva essere globale.
AL-QĀIDA (al-Qaeda) è un’entità difficile da definire. Il significato della parola è “regola, base, modello”. Non denota una
singola organizzazione, e il suo comando è lacerato da dispute incentrate sulla questione se i primi bersagli debbano essere i
governi islamici o gli Stati Uniti. La sua influenza è particolarmente forte nelle madrasa puritane del Pakistan e nelle aree
dell’Afghanistan sotto il dominio talebano. Da queste regioni, il progetto di Al-Qāida Qaida ha ispirato e generato cellule
sparse e in continuo cambiamento, e gruppi clandestini emulativi in altre parti del mondo.
I gruppi ispirati ad Al-Qāida condividono un’ideologia comune che implica il jihād contro l’America, contro le guerre in
Afghanistan e in Iraq, e contro ciò che essi vedono come la globalizzazione, la secolarizzazione e il materialismo
dell’Occidente. Le loro armi sono il terrore, la violenza e la creazione di un clima di paura. I loro attacchi terroristici hanno
luogo in spazi pubblici e sono pubblicizzati dai media.
C’è chi crede che la morte di bin Lādin nel 2011 abbia posto fine ad Al-Qāida; tuttavia, egli non è stato soltanto un leader
terrorista globale; per qualcuno è stato un modello da seguire. Anche senza la sua presenza, la struttura sfuggente di Al-
Qāida rimane una pericolosa minaccia per il mondo, e una forza che macchia l’immagine dell’islam come religione mondiale.
7. Il jihād contemporaneo
Che significato ha il jihād per i musulmani contemporanei? Negli ambienti religiosi devozionali islamici l’interpretazione di
jihād varia tra i diversi paesi e regimi, tra sunniti e sciiti, tra modernisti e fondamentalisti. Per il musulmano comune, il jihād è
spesso poco più di un termine retorico, un modo di dire in una situazione critica. Alcuni musulmani affermano che jihād è un
concetto immutabile, ed è certamente vero che il jihād maggiore, lo sforzo sul sentiero di Dio per migliorare se stessi sul
piano spirituale, è una battaglia che ha ispirato la devozione musulmana sin dal tempo del Profeta. Altri musulmani
sostengono che il jihād minore si è dimostrato applicabile a periodi e luoghi differenti. Le affermazioni coraniche sulla guerra
– sia difensiva sia offensiva – hanno fatto sì che, nel corso della storia islamica, si sviluppassero e perfino coesistessero diverse
interpretazioni del jihād.
Le regole del jihād, definite ed elaborate dai giurisperiti musulmani nel corso dei secoli, sono disciplinate da vincoli spiegati
chiaramente. In particolare, esse stabiliscono che dovrebbe essere garantita una protezione a donne, anziani, malati e
bambini.
La distinzione tra i metodi violenti messi in atto per perseguire la liberazione nazionale, da un lato, e il terrorismo, dall’altro,
non è sempre del tutto chiara. Popoli di molte nazionalità e fedi hanno fatto ricorso alla violenza per perseguire i propri ideali.
Numerosi gruppi, che si definiscono musulmani, hanno al centro dei propri convincimenti e delle proprie azioni violente un
concetto di jihād militante e materiale. I membri di tali gruppi condividono una propensione non solo a uccidere persone
innocenti ma anche a sacrificare se stessi come “martiti suicidi” in quello che essi ritengono il “jihād sul sentiero di Dio”. I
primi esempi di istishhad (la ricerca o l’atto del martirio) si sono verificati tra gli sciiti in Libano, Israele e Iraq. Tuttavia, la
pratica si è diffusa tra i gruppi estremisti sunniti in Afghanistan, Pakistan come in Europa, Stati Uniti e in altre parti del mondo.
I recenti attacchi fatti in nome del jihād non sembrano avere un programma nazionalista; sono proteste contro l’intervento
americano e britannico in Iraq e Afghanistan, contro il dramma dei palestinesi, e contro i valori occidentali.
Sebbene non pochi musulmani considerino le operazioni suicide come atti di eroismo e resistenza, molti dotti sunniti e sciiti li
hanno condannati. Esiste una vasta gamma di opinioni sull’argomento. Per molti musulmani gli attentati riflettono una
interpretazione distorta della dottrina islamica relativa al martirio. Gli attentatori suicidi islamici muoiono in conseguenza
delle loro stessi azioni. Nel Corano il martirio è raggiunto sul sentiero di Dio, combattendo il jihād sul campo di battaglia. È a
coloro che muoiono in tale combattimento, uccisi dai nemici, che è promesso il Paradiso. Il punto chiave è che il suicidio è
severamente proibito nell’islam.
Oggi jihād è una parola troppo abusata; tuttavia, può fungere da potente grido di battaglia contro forze ritenute di
aggressione e interferenza. Per alcuni, l’appello al jihād ha uno specifino obiettivo politico; altri gruppi assumono un forte
posizione etica contro il potere economico e il predominio politico globale dell’America.
Oggi a questa lista possiamo aggiungere il cyber jihād scatenato dalla pirateria informatica. Quello del jihād è quindi un tema
complesso e articolato e ha suscitato un ampio dibattito tra i musulmani: parlano di jihād della penna o del cuore, jihād civile,
non violento, umanitario, ambientale… sono tutti dibattiti validi ed importanti che si mantengono feeli al reale concetto di
jihād come impegno.
Le analisi del jihād che ignorano la storia, ancorate solo al presente e concepite solo in termini politici, sono semplicistiche e,
di conseguenza, errate. Oggi, in Occidente, troppi dibattiti sui media sono di questo genere. Tuttavia, le opinioni della vasta
maggioranza dei musulmani sono basata su una dottrina del jihād che è stata laboriosamente perfezionata da molte
generazioni di dotti, sia sunniti sia sciiti, sia modernisti sia tradizionalisti, in uno spirito di vera devozione. Quella dottrina, che
contiene più di un millennio di saggezza conquistata con fatica, non può essere messa da parte con leggerezza dagli ultimi
arrivati, tra signori della guerra, terroristi e demagoghi.
CAPITOLO 9: LE DONNE
La posizione delle donne nell’islam negli ultimi anni è stata oggetto di studio e dibattiti da numerose angolazioni. Non c’è
dubbio che oggi, per la maggior parte degli occidentali, la questione cruciale riguardante le donne musulmane, quella del
velo, se vista dall’interno della cultura islamica, semplicemente non merita l’estremo grado di attenzione che riceve in
Occidente. Il tema delle donne musulmane è molto più ampio e complesso di una mera discussione sul loro aspetto esteriore
in pubblico.
Più recentemente, una terza forza sta premendo all’interno delle società musulmane in un’altra direzione: i gruppi femministi
sostenuti anche da molti uomini musulmani, stanno cercando di stabilire una volta per tutte la parità di diritti per le donne
musulmane in tutto il mondo.
La netta diversità delle società musulmane vieta generalizzazioni superficiali e totali. Tuttavia, alcuni argomenti in particolare
hanno suscitato attenzione in Occidente: il velo, la poligamia, le condanne per la cattiva condotta sessuale al di fuori del
matrimonio. L’Occidente sembra premere in una sola direzione, la liberazione delle donne musulmane. Questo ha solo
rafforzato la posizione a riguardo dei gruppi islamisti.
Quando si parla a proposito delle donne nell’islam, è importante essere precisi nel citare quale paese musulmano è oggetto di
discussione, e non condannare tutti i musulmani, in ogni luogo, per costumi predominanti in alcune aree depresse del mondo
musulmano.
2. Il Corano e le donne
Il Corano è la fonte primaria di tutta la dottrina musulmana. Nel Corano ci sono due principali dimensioni nella visione delle
donne. La prima è inerente alla sfera spirituale, cioè alla relazione personale che gli esseri umani hanno con Dio. La seconda
presenta numerose prescrizioni riguardanti il comportamento quotidiano.
Il Corano pone uomini e donne sullo stesso piano. In termini di potenziale spirituale, sia gli uomini sia le donne possono
entrambi servire Dio e raggiungere il Paradiso.
Il Corano è soggetto a diverse letture e interpretazioni, e queste tendono a cambiare da epoca a epoca. Pertanto, è
importante contestualizzare il Corano storicamente. Il Corano giunse in una società che aveva già norme consolidate riguardo
al trattamento, lo status e il ruolo delle donne.
Matrimonio e divorzio
La società dell’Arabia prima dell’islam presentava una varietà di usanze matrimoniali, e ciò va ricordato quando si considera il
modo in cui il tema della poligamia è menzionata nel Corano. Il Corano evidenzia le qualità auspicabili in un matrimonio
ideale, come la pace, l’armonia e la cura reciproca; consente a un uomo di avere fino a quattro mogli, ma ciò è permesso
soltanto se egli è in grado ti trattarle tutte allo stesso modo. È importante ricordare le specifiche circostanze; sembra che il
momento della rivelazione sia stato quello seguito alla sconfitta dei musulmani dai meccani nella battaglia di Uhud, e il
permesso coranico agli uomini di avere fino a quattro mogli arrivò a Muhammad come indicazione su come dare alle donne,
rimaste vedove a Uhud, uno status di matrimonio onorevole e assicurare una protezione sociale a loro e ai loro figli. Un uomo
dovrebbe avere soltanto una moglie se non può trattarle tutte allo stesso modo; questo implica chiaramente che la
monogamia è preferibile.
Secondo il Corano, il divorzio è permesso ma solo in circostanze eccezionali. Deve essere fatto ogni sforzo per appianare i
contrasti. Inoltre, nel Corano sono menzionate le responsabilità spettanti all’uomo nei confronti della moglie divorziata e dei
figli.
L’abbigliamento
Il Corano intima a entrambi i sessi “che abbassino gli occhi e custodiscano la loro castità”. Nel caso delle donne è anche
richiesto “che non mostrina le loro bellezze eccetto quel che è visibile, che si coprano il petto con il velo”. L’indeterminatezza
di “eccetto quel che è visibile” consente che si possano produrre cambiamenti legati a contesti storici differenti. In seguito
nel Corano vi è un elenco di parenti stretti di sesso maschile nella cui compagnia è permesso alle donne di allentare queste
regole sull’abbigliamento e sul comportamento sociale: si tratta di parenti strettamente imparentati attraverso legami di
sangue o matrimoniali.
Ciò che si evince chiaramente da queste indicazioni è che la modestia nell’abbigliamento è prescritta sia agli uomini sia alle
donne, sebbene in quest’ultimo caso le istruzioni siano sicuramente più specifiche. Non c’è alcun accenno al viso.
a) Matrimonio e divorzio
Al-Ghazālī scrisse il Libro del matrimonio, in cui sostiene che la moglie ideale dovrebbe essere soprattutto devota e di
buon carattere. Non è consentito il matrimonio tra un uomo musulmano e una donna miscredente, mentre è permesso
prendere in moglie una cristiana o un’ebrea. I giurisperiti musulmani generalmente vietano alle donne musulmane di
sposare uomini non musulmani.
Sul tema del divorzio la legge islamica raccomanda che sia fatto ogni tentativo per risolvere le controversie coniugali.
Entrambe le parti possono chiedere il divorzio, ma le norme su divorzio e custodia dei figli favoriscono gli uomini. Un
uomo può divorziare dalla moglie attraverso una semplice dichiarazione unilaterale ripetuta 3 volte, pronunciando le
parole “divorzio da te”; non ha bisogno di uno specifico pretesto per farlo. Al contrario, una donna può divorziare solo
per un numero stabilito di motivi approvati da un giudice in tribunale.
Il Corano non è molto preciso riguardo ai motivi giustificati per il divorzio. Poiché il Corano non richiede una
giustificazione da parte del marito per divorziare dalla moglie, la legge islamica gli consente di divorziare ogni qualvolta
lo desideri. Le donne, al contrario non godono dello stesso privilegio. Inoltre, esse devono aspettare per verificare se
sono incinte prima di risposarsi dopo il divorzio, gli uomini possono farlo immediatamente. Nella legge islamica la donna
conserva il diritto alla custodia dei figli piccoli. Dopodiché il padre assume la custodia dei figli.
b) Eredità
La legge islamica accorda un maggior grado di equità, rispetto all’epoca pre-islamica, a un membro femminile della
famiglia, garantendole metà della quota di un uomo. La testimonianza di una donna in tribunale vale la metà di quella di
un uomo. La legge islamica assicura anche che una donna ha il diritto di possedere e amministrare beni propri, diritto a
quel tempo negato alla donna nell’Europa cristiana. L’islam vede gli uomini e le donne uguali sul piano spirituale. Mentre
rimane vero che il Corano pone l’uomo in una posizione di superiorità rispetto alle donne, questa disparità può essere
vista come un riflesso della società in cui avvenne la rivelazione islamica.
Fātima, la figlia del Profeta, occupa anch’essa un ruolo speciale nella devozione musulmana. Fātima, detta “la Luminosa” è
ritratta come figlia, moglie e madre onorevole. Come madre di Hasan e Husayn divenne nota come “la madre degli imām” e
occupa un posto di rilievo nella devozione sciita.
Pertanto, vediamo che Maria e Fatima, attraverso la loro vita e le loro azioni, hanno dimostrato alle donne musulmane di ogni
epoca che le donne possano dare un proprio apporto all’islam. La spiritualità non è esattamente di dominio esclusivo degli
uomini per gli uomini.
La sfera di attività non domestiche era ampia. Tra le élite, le donne agivano da reggenti, tenevano udienze, ricevevano
petizioni, firmavano decreti e guidavano eserciti. Tuttavia, raramente una donna governò su un territorio musulmano.
Nessuna donna divenne mai califfo. Le donne di corte del periodo abbaside erano argute, colte e versate nella musica e nella
poesia.
Ci sono delle storie che raccontano di donne memorabili, provenienti da una classe sociale bassa e differenti dall’immaginario
della donna costruita nel tempo dalla religione islamica. Erano donne in gamba, ma esistevano ovviamente delle restrizioni.
Una volta che la comunità musulmana diventò un vasto impero, i musulmani cominciarono a segregare le proprie donne.
Le case di città erano divise in appartamenti privati (l’harem), in cui risiedevano le donne, e le stanze pubbliche, dove si
negoziavano gli affari e si intrattenevano gli ospiti maschi. Le donne nomadi, invece, godevano di maggior indipendenza
rispetto alle donne delle città.
Un’evoluzione analoga si verificò pure nelle città di alcuni paesi mediorientali, dove le donne eliminarono il velo e iniziarono a
indossare una versione castigata degli abiti occidentali. Atatürk in Turchia e Pahlavi in Iran promulgarono delle leggi che
vietavano l’uso del velo, in modo da trasmettere il proprio impegno nella modernizzazione: cambiare l’abbigliamento dei
propri cittadini era un modo per cambiare la loro stessa mentalità, ma anche l’immagine della propria nazione agli occhi dei
paesi europei.
Il mondo musulmano vanta pure numerose celebrità femminili. La cantante egiziana Umm Kulthūm è conosciuta come la
Stella dell’Oriente; è considerata la più grande cantante araba di sempre.
Più recente, la fotografa e registra iraniana Shirin Neshat.
Sempre più donne hanno preso parte ai giochi olimpici: nel 2012 hanno avuto per la prima volta in assoluto l’autorizzazione a
partecipare alle Olimpiadi di Londra.
Amina Wadud è una figura molto influente in tutto il mondo e parla di un’interpretazione dell’islam “da una prospettiva di
genere”. Nel 2005 ha guidato a New York la preghiera del venerdì tenendo un sermone davanti ad un’assemblea mista di
uomini e donne musulmani-americani, perfettamente consapevole dello scalpore che avrebbe provocato. Il significato
simbolico di questo evento ha messo in discussione in tutto il mondo l’immagine stereotipata delle donne musulmane
intimidite e sottomesse, e ha indicato la strada per la possibilità di assumere ruoli di guida religiosa nell’islam. Wadud, inoltre,
sostiene che nel Corano non vi è nessuna affermazione religiosa che vieti alle donne di guidare la preghiera.
Un’altra svolta cruciale per le donne musulmane si è verificata sempre negli Stati Uniti, nel 2007, quando per la prima volta,
una donna musulmana-americana, Laleh Bakhtiar, ha tradotto il Corano in inglese.
Nawāl al-Sa’dawī è stata dottore e instancabili attivista e scrittrice. Ha combattuto anche contro l’orribile pratica della
mutilazione genitale femminile, intervento cui lei stessa fu sottoposta all’età di 7 anni.
È importante ricordare che le mutilazioni genitali femminili (MGF) non sono una pratica islamica. Le MGF sono un’usanza che
purtroppo è stata associata all’islam, ed è effettivamente praticata da diverse comunità musulmane del mondo. Ad ogni
modo, il World Congress of Muslim Women tenutosi nel 2002, ha condannato le MGF come pratica che contravviene all’islam.
Nel 2008 il governo egiziano approvò una legge che vieta le MGF, in seguito alla morte di una ragazzina sottoposta a tale
pratica. Nonostante l’approvazione della legge, al-Sa’dawī crede che circa il 90% delle donne in Egitto sia ancora sottoposta
alle mutilazioni.
Le prime azioni penali nel Regno Unito contro le MGF sono state annunciate nel marzo 2014.
b) L’abbigliamento
Il hijāb è un velo che copre la testa. Il burqa copre tutto il corpo, incluso il viso, con una retina per gli occhi, mentre il
niqab è un velo che, coprendo la bocca e il naso, lascia scoperti gli occhi. Il jilbāb, la ‘abāya e lo chador, sono abiti lunghi
dalla testa ai piedi.
Molte donne musulmane respingono l’opinione dei non musulmani secondo cui è loro proibito di vestirsi come
desiderano, poiché sostengono che sono esse stesse a scegliere se indossare o no il hijab. Il velo può essere indossato
anche per ragioni non religiosi: per richiesta della società; per evitare di essere fissate o molestate dagli uomini negli spazi
pubblici; per ragioni economiche ed evitare cioè di seguire l’ultima moda; altre per mostrare pubblicamente che hanno
scelto l’islam come propria fede di vita. Per molte donne il velo è un accessorio di moda.
La pratica sociale varia da un paese all’altro o addirittura nello stesso paese. L’uso del velo comunica una quantità di
messaggi, non solo di tipo religioso: può dire all’osservatore da quale regione una persona provenga e a quale strato
sociale appartenga. Lo stesso paese può quindi offrire una varietà d’esempi nell’uso del velo.
Donne musulmane che indossano l’abbigliamento islamico si possono incontrare oggi in tutta Europa poiché
l’immigrazione è aumentata vertiginosamente. La reazione da parte dei governi europei a queste “attestazioni evidenti
di diversità”: dal divieto di indossare il velo integrale in pubblico in Francia, a legislazioni più tolleranti su questo tema
altrove. Altri paesi come la Spagna, il Regno Unito e l’Italia stanno cercando di affrontare questo problema, spesso in
un’atmosfera di tensione causata dall’islamofobia e della paura per la sicurezza pubblica.
c) L’istruzione
Il livello di istruzione, o addirittura di alfabetizzazione, per le donne musulmane nel mondo varia sensibilmente.
In Pakistan e Yemen l’alfabetizzazione femminile si ferma scandalosamente al 28%. In India il 59% delle donne
musulmane non ha mai frequentato la scuola. In Arabia Saudita e in Iran la percentuale di alfabetizzazione è del 70%. In
Giordania e in Indonesia raggiunge l’85%.
In Medio Oriente le giovani donne possono ricevere un’ottima educazione universitaria e molte di esse l’acquisiscono. La
loro esperienza di studio dipende da dove vengono. Al Cairo, a Damasco e a Beirut le studentesse universitarie, sia che
indossano il hijāb o jeans firmati, si mescolano liberamente con i loro colleghi maschi.
Le materie accademiche offerte alle università arabe sono simili a quelle insegnate in Occidente e danno luogo a migliori
opportunità lavorative per le donne.
In netto contrasto è il sistema d’istruzione femminile in India: le giovani musulmane ricevono un’istruzioni in madrasa
separate: se un uomo arriva nei paraggi, grida per annunciare il proprio arrivo in modo che le donne presenti abbiano il
tempo di velarsi. È insegnata loro una limitata gamma di materie, tra cui, lo studio nel Corano, l’apprendimento delle
norme d’igiene personale e ovviamente come affrontare le proprie responsabilità domestiche.
d) Il femminismo
Esistono oggi molti gruppi femministi musulmani. Le femministe musulmane non discutono la validità del testo coranico
come guida valida in eterno per tutta l’umanità, ma hanno delle riserve sulle interpretazioni patriarcali, caratteristiche
delle società tradizionali. Le femministe musulmane definiscono il proprio sforzo uno stile di vita islamico “ gender jihād”,
altre “lipstick jihād”. Utilizzando le proprie interpretazioni del Corano e dell’esempio del Profeta, rifiutano le letture
maschiliste del Corano sulle donne. L’organizzazione mondiale Women Living under Muslim Laws si è concentrata sul
tentativo di riformare le leggi degli stati musulmani per conciliarle con lo spirito del Corano.
L’attivismo femminile nel mondo musulmano è ispirato principalmente dal desiderio di portare dei cambiamenti nel
diritto di famiglia, in special modo per temi riguardanti il matrimonio, il divorzio, l’eredità. Altra questione importante è il
problema globale della violenza domestica. C’è un versetto del Corano molto controverso che le musulmane femministe
mirano a reinterpretare: esso parla di come comportarsi con una moglie colpevole di disobbedienza nei confronti del
marito, ed è controverso se il versetto lo autorizzi a picchiarla violentemente, leggermente o affatto.
La presenza delle donne in moschea è stata tradizionalmente presentata come un caso eccezionale. Muhammad stesso
aveva permesso alle donne di pregare in moschea; il secondo califfo lo vietò, ma il terzo ripristinò questo diritto. In alcune
regioni le donne erano autorizzate a pregare in apposite sezioni della moschea; in altre era detto loro di rimanere a casa.
Oggi questo è diventato un problema scottante in America, suscitando le proteste delle musulmane femministe. In effetti,
in Canada e negli Stati Uniti alcune moschee vietano l’ingresso alle donne, dando luogo a manifestazioni di protesta.
Le donne musulmane, comunque, desiderano raggiungere i loro obiettivi di eguaglianza e libertà nel quadro della propria
fede.
Nonostante il sostanziale progresso verificatosi negli ultimi anni, c’è ancora molta strada da fare per quanto riguarda i
diritti e la posizione sociale delle donne in alcune parti del mondo musulmano.
e) Conversioni all’islam
Oggi avvengono conversioni in tutto il mondo occidentale.
Per esempio, nel Regno Unito c’è un flusso continuo di donne che si convertono all’islam. Un rapporto del 2013 sui
convertiti all’islam britannici mostra che ci sono più donne che uomini in questo ampio gruppo in continua crescita.
Alcune donne dicono di essere alla ricerca di un nuovo tipo di vita spirituale; altre provano una sensazione di crescente
autostima e autonomia indossando il hijāb, cioè l’esatto opposto del modo solito di intendere tale pratica.
2. Religione e politica
Gran parte di quello che è considerato tradizionalmente il mondo musulmano, cioè il Medio Oriente, sta attraversando un
periodo di rapidi e radicali cambiamenti, sia sul piano politico sia su quello sociale, destinati ad avere ripercussioni anche nella
sfera religiosa. La povertà e l’incremento demografico non controllato creano una combinazione pericolosa. Mentre in Europa
sia parla della Primavera araba, gli Arabi stessi parlano di rivoluzioni arabe. Il ruolo svolto dalla religione nei paesi coinvolti
nella Primavera araba non è molto chiaro.
3. Terrorismo e violenza
Gli attentatori che compirono delle azioni come 9/11 hanno provocato un danno considerevole al prestigio dell’islam in tutto
il mondo. L’11 settembre ha scatenato una violenta reazione di rabbia contro l’intero mondo musulmano. Questa rabbia è
aggravata dall’ignoranza e dall’incomprensione, e le sue conseguenze sono incalcolabili. Il 93 per cento dei musulmani del
mondo condanna la violenza di matrice religiosa. Va ricordato poi che le vittime della maggior parte dei terroristi musulmani
non sono occidentali; sono bensì altri musulmani. Così, pochi terroristi, che indossano la maschera della religione, hanno
battuto le centinaia di milioni di devoti credenti dal comportamento riservato. È responsabilità della comunità musulmana di
tutto il mondo garantire che la voce della maggioranza si faccia sentire alta, chiara e al più presto.
4. Cambiamenti sociali
Gli avvenimenti degli ultimi decenni hanno evidenziato il ruolo fondamentale svolto dai nuovi mezzi di comunicazione nel
cambiare i regimi. I social media sono stati di cruciale importanza nel mobilitare l’opinione pubblica e per le iniziative decisive
nei paesi che hanno finora sperimentato la Primavera araba. I social media però non conoscono ideologia; si prestano con la
stessa facilità alla diffusione dell’islam fondamentalista, del nazionalismo e della sinistra radicale. Mentre l’internet può
promuovere uno spirito comunitario, allo stesso tempo può anche esacerbare i dissidi.
Se gli eventi verificatisi negli anni della Primavera araba indicano per il momento qualcosa, è che molti musulmani che vivono
in Medio Oriente non guardano a un percorso islamico militante per realizzare le proprie ambizioni: essi vogliono lavoro,
vogliono un miglior stile di vita, vogliono una più equa distribuzione delle risorse, vogliono la fine della corruzione e anelano
alla stabilità e alla giustizia sociale. Il cambiamento arriverà, ma ci vorrà tempo. Quando arriverà, arriverà dal basso e non
imposto dall’alto: e verrà dall’interno e non dall’esterno del mondo musulmano. Il ritmo dei cambiamenti differisce da un
paese all’altro.
Quanto all’applicazione della legge, il complesso delle testimonianze di molte società musulmane dimostra in modo
inequivocabile che, mentre il sistema giuridico comprende una combinazione di elementi secolari e della sharī’a, il codice
giuridico secolare è predominante, e che questo predominio è ad aumentare.