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Cristo Si È Fermato Ad Eboli
Cristo Si È Fermato Ad Eboli
a Eboli
di Carlo Levi
Carissimo Giulio,
CARLO LEVI
Roma, giugno 1963
le, per aver maggior folla alle adunate che gli piaceva di
indire per sostenere, come egli diceva, il morale della
popolazione, o per fare ascoltare, alla radio, i discorsi
dei nostri governanti che preparavano la guerra d’Afri-
ca. Quando don Luigino aveva deciso di fare un’aduna-
ta, mandava, la sera, per le vie del paese, il vecchio ban-
ditore e becchino con il tamburo e la tromba; e si
sentiva quella voce antica gridare cento volte, davanti a
tutte le case, su una sola nota alta e astratta: – Domattina
alle dieci, tutti nella piazza, davanti al municipio, per
sentire la radio. Nessuno deve mancare. – Domattina
dovremo alzarci due ore prima dell’alba, – dicevano i
contadini, che non volevano perdere una giornata di la-
voro, e che sapevano che don Luigino avrebbe messo,
alle prime luci del giorno, i suoi avanguardisti e i carabi-
nieri sulle strade, agli sbocchi del paese, con l’ordine di
non lasciar uscire nessuno. La maggior parte riusciva a
partire pei campi, nel buio, prima che arrivassero i sor-
veglianti; ma i ritardatari dovevano rassegnarsi ad anda-
re, con le donne e i ragazzi della scuola, sulla piazza, sot-
to il balcone da cui scendeva l’eloquenza entusiastica ed
uterina di Magalone. Stavano là, col cappello in capo,
neri e diffidenti, e i discorsi passavano su di loro senza
lasciar traccia.
I signori erano tutti iscritti al Partito, anche quei po-
chi, come il dottor Milillo, che la pensavano diversa-
mente, soltanto perché il Partito era il Governo, era lo
Stato, era il Potere, ed essi si sentivano naturalmente
partecipi di questo potere. Nessuno dei contadini, per la
ragione opposta, era iscritto, come del resto non sareb-
bero stati iscritti a nessun altro partito politico che po-
tesse, per avventura, esistere. Non erano fascisti, come
non sarebbero stati liberali o socialisti o che so io, per-
ché queste faccende non li riguardavano, appartenevano
a un altro mondo, e non avevano senso. Che cosa aveva-
no essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo
dri, che trepidano per i loro mali, che li allattano per an-
ni e anni, non li lasciano un minuto, li portano con sé,
sulla schiena e sulle braccia, avvolti negli scialli neri,
mentre, ritte con l’anfora in testa, vengono dalla fonta-
na. Molti ne muoiono, gli altri crescono precoci, poi
prendono la malaria, si fanno gialli e melanconici, e di-
ventano uomini, e vanno alla guerra, o in America, o re-
stano in paese a curvare la schiena, come bestie, sotto il
sole, ogni giorno dell’anno.
Se i figli illegittimi non sono una reale vergogna per le
donne, tanto meno lo sono, naturalmente, per gli uomi-
ni. I preti hanno quasi tutti dei figli, e nessuno trova che
la cosa porti disdoro al loro sacerdozio. Se Dio non li ri-
prende, da piccoli, li fanno allevare nei collegi di Poten-
za o di Melfi. Il portalettere di Grassano, un vecchietto
arzillo, un po’ zoppicante, con un bel paio di baffi tirati
in su, era celebre e onorato in paese, perché si diceva
che avesse, come Priamo, cinquanta figli. Di questi, ven-
tidue o ventitre erano i figli delle sue due o tre mogli; gli
altri, sparsi per il paese e per le terre vicine, e forse in
parte leggendari, gli erano attribuiti, ma egli non se ne
curava, e di molti non conosceva l’esistenza. Lo chiama-
vano ’u Re, non so se per la regalità del suo potere virile,
o per i baffi monarchici: e i suoi figli erano detti, in pae-
se, i Principini. Il prevalente rapporto matriarcale, il
modo naturale e animalesco dell’amore, lo squilibrio do-
vuto all’emigrazione devono tuttavia fare i conti con il
residuo senso familiare, col sentimento fortissimo della
consanguineità, e con gli antichi costumi, che tendono a
impedire il contatto degli uomini e delle donne. Avreb-
bero potuto entrare a casa mia, per farmi i servizi, sol-
tanto quelle donne che fossero, in qualche modo, esen-
tate dal seguire la regola comune; quelle che avessero
avuto molti figli di padre incerto, che senza poter essere
chiamate prostitute (ché tale mestiere non esiste in pae-
se), facessero tuttavia mostra di una certa libertà di co-
paesi piú grandi consumano, nel giorni dei loro santi, ci-
fre anche molto piú grosse. Tremila lire, per Gagliano,
sono una somma enorme, il risparmio totale di mezza
annata, ma per i fuochi si buttano volentieri, e nessuno
le rimpiange. Si erano consultati, a gara, gli artificieri
piú noti della provincia: se si avesse avuto piú denaro si
sarebbero scelti quelli di Montemurro o quelli di Fer-
randina, ma ci si era dovuti accontentare dei santarcan-
gelesi, che, del resto, erano buonissimi. Ed ecco, fra gli
applausi, le grida di spavento e di ammirazione delle
donne e dei bambini, la prima candela romana saliva di-
ritta verso il cielo pieno di stelle e poi un’altra, e un’altra
ancora, e poi le girandole, i bengala, le bombe, le grandi
piogge d’oro: uno spettacolo meraviglioso.
Erano le dieci, e dovevo rientrare. Dalla mia terrazza,
con Barone che guardava eccitato in aria e abbaiava agli
spari, rimasi ancora a lungo a contemplare le luci che sa-
livano e ricadevano sfriggendo sull’argilla del Timbone,
e ad ascoltare il rimbombo degli scoppi. Poi ci fu il lan-
cio accelerato di venti fuochi, e il gran colpo finale; e
udii a poco a poco la gente disperdersi, i passi sulle pie-
tre, lo sbattere degli usci. Il giorno della festa contadina
era finito, con la sua agitazione frenetica e infocata; gli
animali dormivano, e sul paese buio era tornato il silen-
zio e l’oscurità vuota del cielo.
che avesse con sé: gli altri erano morti o lontani; e le so-
migliava.
Un altro dei miei fedeli era Michelino, un ragazzo di
una diecina d’anni, avido, astuto e melanconico, con de-
gli occhi neri e opachi, eredità di antichissimi pianti, che
parevano l’immagine vera di quel paese desolato. Ma
piú di tutti mi cercavano i figli del sarto, specialmente il
piú piccolo, Tonino, un ragazzino minuto, svelto, arguto
e timido, con una piccola testa bruna rasata e degli oc-
chietti vivi come capocchie di spilli. Il padre, che li ama-
va molto, cercava di tenerli un po’ meglio degli altri, per
il suo orgoglio di buon artigiano, di sarto di New York.
Ma come fare, se egli era tornato in patria, e tutto gli era
andato male, e non aveva denaro, piú di quello che aves-
sero i contadini? I suoi ragazzi venivano su come gli al-
tri, ed egli pensava con amarezza, tirando la sua guglia-
ta, che non c’era ormai piú nessuna speranza di poterne
fare dei galantuomini, e neppure i mezzi per curare a
dovere le loro tonsille sempre gonfie e le loro vegetazio-
ni adenoidi. E anche Tonino, che pure era vispo come
un monachicchio, aveva già in sé un riflesso della delu-
sione paterna.
Tutti questi bambini avevano qualcosa di singolare;
avevano qualcosa dell’animale e qualcosa dell’uomo
adulto, come se, con la nascita, avessero raccolto già
pronto un fardello di pazienza e di oscura consapevolez-
za del dolore. I loro giochi non erano i soliti dei bambini
del popolo delle città, simili in tutti i paesi: i fruschi soli
erano i loro compagni. Erano chiusi, sapevano tacere, e,
sotto l’ingenuità infantile, c’era l’impenetrabilità del
contadino, sdegnosa di impossibili conforti, il pudore
contadino, che difende almeno l’anima in un mondo de-
solato. Erano, in generale, molto piú intelligenti e preco-
ci dei ragazzi cittadini della loro età: rapidi nell’intuire,
pieni di desiderio di apprendere e di ammirazione per le
cose ignote del mondo di fuori. Un giorno che mi videro
ABRACADA
ABRACADAB
ABRACADABR
ABRACADABRA
I contadini, dapprincipio, cercavano di nascondere
questo amuleto, e quasi si scusavano con me di portarlo:
perché sapevano che i medici hanno l’abitudine di di-
sprezzare queste superstizioni, e di tuonare contro di es-
se, in nome della ragione e della scienza. E fanno benis-
simo, là dove la ragione e la scienza possono assumere lo
stesso carattere magico della volgare magía: ma qui, esse
non sono ancora, e forse non saranno mai, divinità
ascoltate e adorate.
Perciò io rispettavo gli abracadabra, ne onoravo l’an-
tichità e l’oscura, misteriosa semplicità, preferivo essere
loro alleato che loro nemico, e i contadini me ne erano
grati, e forse ne traevano davvero vantaggio. Del resto,
le pratiche magiche di quaggiú sono tutte innocue: e i
contadini non ci vedono nessuna contraddizione con la
medicina ufficiale. L’abitudine di dare a ogni malato,
per ogni malattia, anche quando non è necessario, una
ricetta, è una abitudine magica: tanto piú se la ricetta era
scritta, come un tempo, in latino, o almeno con calligra-
fia incomprensibile. La maggior parte delle ricette ba-
sterebbe a guarite i malati, se, senza essere spedite, fos-
sero appese al collo con una cordicella, come un
abracadabra.
Di oggetti a virtú generica, oltre agli abracadabra, ce
n’erano moltissimi e svariatissimi: segni cabalistici,
astrologici, immagini di santi, Madonne di Viggiano,
monete, denti di lupo, ossi di rospo, e cosí via: tutto un
armamentario tradizionale. Piú originali sono le cure
delle singole malattie. I vermi dei bambini si incantano,
per sola virtú di parole. Si dice:
Lunedí santo
Martedí santo
Mercoledí santo
Giovedí santo
Venerdí santo
Sabato santo
Domenica è Pasqua
Ogni verme in terra casca!
E poi, tornando indietro:
Sabato santo
Venerdí santo
Giovedí santo
Mercoledí santo
Martedí santo
Lunedí santo
Domenica è Pasqua
Ogni verme in terra casca!
Questa doppia formula, ascendente e discendente, va
pronunziata tre volte di seguito davanti al malato. E i
vermi, incantati, muoiono, e il bambino guarisce. È cer-
tamente una formula antichissima, contaminazione di
uno scongiuro romano arcaico, che ci resta fra i primi
documenti della lingua latina, con un elemento cristiano.
L’itterizia si chiama, qui, il «male dell’arco»: la malat-
tia dell’arcobaleno, perché per essa l’uomo cambia di
colore, e in lui, come nello spettro del sole, prevale il co-
lor giallo. Come si prende il male dell’arco? L’arcobale-
no cammina per il cielo, e appoggia sulla terra i suoi due
piedi, muovendoli qua e là per la campagna. Se avviene
che i piedi dell’arco calpestino dei panni posti ad asciu-
gare, chi indosserà quei panni prenderà, attraverso la
virtú che vi è stata infusa, i colori dell’arco, e si amma-
lerà. Si dice anche (ma la prima ipotesi patogenetica è la
piú diffusa e credibile) che bisogna guardarsi dall’orina-
re contro l’arcobaleno: il getto arcuato del liquido somi-
gliando e riflettendo l’iride arcuata del cielo, l’uomo in-
tero diventerà una specie d’iride gialla. Per combattere
l’itterizia, il malato deve essere portato, alla prima alba,
su un colle fuori del paese. Un coltello dal manico nero