IL LINGUAGGIO
Gianfranco Contini, un famoso critico, distingue tre livelli linguistici:
livello pregrammaticale, grammaticale e post-grammaticale.
Quello grammaticale è la lingua che tutti adoperano, quello post-grammaticale è quello
dove ci sono termini tecnici, invece quello pregrammaticale è quello delle onomatopee che
nella poesia pascoliana sono molto presenti (linguaggio prevalentemente fonico). Riguardo
il lessico c’è quindi il plurilinguismo, lui mescola codici linguistici diversi. La cosa più
importante della poesia pascoliana è il fonosimbolismo: Pascoli come molti altri poeti
decadenti sceglie le parole più che per il significato connotativo che denotativo, cioè più
per il suono e l’emozione che suscitano; infatti nella poesia pascoliana niente è lasciato al
caso. Come figure retoriche sono frequenti; l’analogia (particolare forma di metafora in cui
gli elementi sono più lontani tra di loro e quindi più complesso il significato) e la sinestesia
(figura retorica chiave della poesia decadente). Pascoli non può scrivere periodi pieni di
subordinate articolate, perché lui ha una visione frammentata della realtà, lui rappresenta
il poeta che ha perso le certezze e non ha una visione articolata e complessa della realtà,
quindi la sua è poesia del frammento e ci sono frasi brevi spesso collegate con l’asindeto,
dove c’è l’ellissi (manca il verbo, quindi stile nominale). Questo tipo di stile traduce la sua
visione della realtà alogica irrazionale. Nella metrica potrebbe sembrare che lui rispetti la
metrica tradizionale, invece lui la frantuma dall’interno: utilizza i mezzi della tradizione, ma
con frequenti pause, enjambement e poi ama creare delle strofe in cui sono contenuti
versi di lunghezze diverse e tende a variare le posizioni degli accenti.
LE OPERE
Pascoli ha scritto moltissime cose, le raccolte moderne più importanti per i moderni sono
“Myricae” e “Canti di Castelvecchio”. Pascoli conosceva benissimo la grammatica e
letteratura greca e latina, gli rimane impressa nella mente un verso famoso della IV
Bucolica di Virgilio (quella che parla della nascita del Puer”), cioè “Nòn omnìs arbùsta
iuvànt humilèsque Myricae” - “Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici”. Decide
di intitolare la prima raccolta della sua poesia con questa parola latina Myricae (tamerici,
cioè piante umili), solo che nel verso originario di Virgilio c’era la negazione “non”, lui
invece decide di fare suo questo verso e di farne l’epigrafe della sua raccolta poetica, ma
toglie il “non” (diventa “a tutti”), questo perché vuole evidenziare la scelta dei temi che
saranno contenuti all’interno di questa raccolta. Lui descrive scene di vita reale: vita di
campagna e sceglierà un discorso che lui definisce “sermo humilis”, più semplice; quando
passerà ad un’altra raccolta poetica (“I poemetti”) utilizzerà sempre un verso tratto dal
componimento di Virgilio e utilizzerà “Paulo maiora”, cioè “cantiamo cose” con argomenti
un po’ più elevati, perché vuole mettere in evidenza che nei poemetti i temi affrontati
saranno più importanti e anche lo stile sarà diverso; I Poemetti sono stati definiti da
Barberi Squarotti un romanzo georgico, perché si parla dei vari momenti della vita di una
famiglia di contadini di Barga utilizzando le terzine dantesche. Nei “Canti di Castelvecchio”
c’è la stessa epigrafe di Myricae perché sono due raccolte affini, Gianfranco Contini ha
detto che i canti di Castelvecchio non sono altro che Myricae trapiantati in Garfagnana
(cambia luogo della descrizione, è la regione in provincia di Lucca dove lui va a vivere con la
sorella). Poi scrive i Poemi conviviali, pubblicati sulla rivista “Il convito” di De Bosis (rivista
su cui aveva pubblicato i suoi componimenti anche Gabriele D’Annunzio); qui emerge uno
stile ancora più elevato, c’è sempre la stessa frase, ma questa volta senza modifiche (lascia
il non), questo vuol dire che i temi sono elevati e che non tutti si accontentano di scene
campestri di vita quotidiana, ma qui si fa riferimento al mondo classico. Il classicismo di
Pascoli è particolare: anche i personaggi della cultura classica vengono descritti con un
gusto decadente, cioè vivono la loro esistenza non con quella serenità del classicismo, ma
la vivono con tormento. Un’altra raccolta ancora è “Odi ed Inni” dove lui sceglie come
epigrafe sempre un verso latino, “Canamus” (congiuntivo esortativo del verbo cano-
cantare) per sottolineare l’ispirazione civile (poeta vate). Di solito quando i poeti scrivono
raccolte poetiche hanno vari momenti (una raccolta alla volta), invece Pascoli rivedeva
continuamente le sue raccolte nel corso del tempo; quindi più che distinguere una raccolta
dall’altra, perché la composizione è stratificata nel tempo, è preferibile parlare di 3
percorsi poetici: le poesie che tendono alla brevità (frammenti) che di solito affrontano o
descrizione della natura o scene di vita quotidiana (la realtà delle piccole cose), ma mai in
maniera oggettiva e realistica ma sempre con un taglio simbolico e impressionistico
(Myricae e Canti di Castelvecchio) e questa si può definire la poetica del frammento; poi
c’è il secondo percorso dove il poeta scrive dei componimenti più elaborati sul piano
ideologico e più complessi (Poemetti, Odi ed Inni, Canzoni di Re Enzio) dove utilizza sia
personaggi del mondo classico, sia personaggi della storia, i Poemi italici, del risorgimento:
lui che originariamente voleva una poesia pura e breve, poi anche in competizione con
D’Annunzio (che si gode i piaceri della vita e ha successo) vuole scrivere anche lui dei
componimenti civili e patriottici e diventare una sorta di poeta vate; infine il terzo percorso
riguarda la letteratura classica, lui scrive anche delle poesie in latino (ha vinto 12 concorsi),
e scrive anche i poemi conviviali ispirati alla cultura classica.
MYRICAE E CANTI DI CASTELVECCHIO
Sono raccolte che si somigliano, entrambe sono stratificate nel tempo. Myricae viene
elaborata nel corso di 20 anni, la prima edizione risale al 1891, l’ultima al 1911 ed è una
composizione che si arricchisce di sempre nuove liriche: nella prima ci sono solo 22
componimenti, nell’ultima 156. I canti di Castelvecchio vengono pubblicati per la prima
volta nel 1903 e come ultima edizione nel 1914, contiene 69 componimenti. Queste due
raccolte hanno lingua, stile e argomenti in comune, hanno la stessa epigrafe. Pascoli è
deluso dal progresso e vuole tornare nella campagna, nello spazio quotidiano fatto di
piccole cose, perché lui ritiene che solo analizzando con gli occhi del fanciullino le piccole
cose della natura sia possibile comprendere il messaggio segreto che l’universo ci vuole
trasmettere. Hanno la stessa epigrafe tratta da Virgilio con l'eliminazione della negazione
non, mentre il poeta latino profetizza una nuova età dell'oro, Pascoli sente l'esigenza di
rinchiudersi in uno spazio privato fatto di piccole cose che, con la loro dimensione
evocativa, diventano simboli fondamentali per comprendere il messaggio insondabile
dell’universo. Molto simili sono le dediche: Myricae è dedicata alla memoria del padre, i
Canti di Castelvecchio a quella della madre.
Per quanto riguarda Myricae sono testi brevi o brevissimi, suddivisi in 15 sezioni. Dai primi
componimenti, improntati a serenità e freschezza, si passa a quelli in cui il senso di morte
si fa più presente. Accanto alla tristezza e al dolore c'è la sensazione di una felicità perduta.
Ogni cosa viene osservata con gli occhi stupefatti del fanciullino al quale non sfugge alcun
dettaglio. La natura appare fonte di pace e consolazione, in contrapposizione alla realtà
dolorosa della storia segnata dalla morte del padre, ma, a volte, è essa stessa a generare
angoscia.
I Canti di Castelvecchio Riprendono i temi di Myricae ampliando i riferimenti al nido
perduto e alla nostalgia per l'infanzia. Il centro tematico è costituito dalla morte e dal
dolore, cui torna ad affiancarsi la natura descritta nel succedersi delle stagioni.
Gli schemi metrici sono vari, alcuni tradizionali altri innovativi, i numerosi enjambements
creano un effetto di frantumazione. L’importanza di Pascoli nella storia della poesia italiana
è fondamentale per lo scardinamento e la disintegrazione della forma poetica tradizionale
da lui operati.
Lo stile è caratterizzato da espressioni nominali (assenza del verbo), sul piano sintattico
domina la paratassi. Una delle innovazioni pascoliane più significative è l'attenzione rivolta
al significante, alla realtà fonica delle parole (fonosimbolismo). Oltre alle allitterazioni
troviamo analogie e sinestesie. C'è poi un allargamento del ventaglio lessicale, una
numerosa varietà di termini (dall’utilizzazione del termine gergale all’uso scaltrito
dell’onomatopea) la poesia pascoliana da una parte richiama espressioni tradizionali,
dall’altra rinvia alle sperimentazioni più radicali della poesia simbolista europea.
ARANO
La poesia “Arano” fa parte della prima raccolta di liriche di Giovanni Pascoli: Myricae.
Composta nel 1885 per le nozze del suo amico, è una tra le più antiche della raccolta e
compare già nella prima edizione. “Arano” apre la sezione intitolata “L’ultima passeggiata”,
che comprende una serie di poesie in cui il poeta immagina di passeggiare per i campi per
l’ultima volta a fine estate prima di tornare in città e compone riportando ciò che osserva
durante questa passeggiata. Si tratta di un madrigale, ovvero un breve componimento
letterario di origine popolare e spesso di ispirazione pastorale. È composto da due terzine e
una quartina di endecasillabi. Lo schema metrico comprende rime incatenate nelle terzine
e alternate nella quartina (ABA CBC DEDE). Essendo una poesia di ispirazione pastorale, i
temi rappresentati sono gli elementi di novità che pascoli apporta nella Myricae, sono
infatti componimenti ispirati alla vita campestre colta nelle varie stagioni, pullulano di
particolari e al contempo descrivono aspetti di vita quotidiana come: i lavori nei campi, le
ragazze che sfogliano il granturco o il canto del cuculo. Pascoli con la sua poesia voleva,
infatti, sottolineare questa modestia e quotidianità di temi con frequente ricorso di termini
precisi, tecnici e gergali. Questa poesia in particolare descrive una scena propriamente
bucolica, di umile vita campestre in una stagione e in un paesaggio autunnale. Mentre
alcuni contadini sono impegnati nell’arare i campi, il passero e il pettirosso ne spiano le
gesta pregustando il momento in cui finalmente potranno beccare i semi sparsi e rimasti
sulla superficie del terreno (“il passero saputo in cor già gode…e il pettirosso”). Nella
cornice campestre della poesia si sviluppano tre strofe, ognuna ad indicare un diverso
aspetto: nella prima strofa si descrive infatti il paesaggio nei suoi elementi fondamentali,
attraverso una serie di notazioni visive a livello cromatico: un campo, il grigiore della
nebbia, il rosso delle foglie di vite(roggio), che rimanda alla stagione, ovvero all’autunno.
Già nella prima strofa ci sono 2 enjambement (1-2, 2-3). Nella seconda strofa, attraverso il
verbo “arano”, l’attenzione si sposta sulle attività dei contadini impegnati nel lavoro dei
campi. I loro gesti lenti e misurati trasmettono una sensazione di ritualità solenne e
operosa, qui dice che la campagna può essere vista dall’ottica della voce narrante che si fa
semplicemente una passeggiata e osserva il paesaggio, e poi c’è il punto di vista dei
contadini perché la campagna è anche lavoro e fatica (Contadino di fine 800), e si vedono
le varie operazioni agricole. Al verso 3 (paziente) c’è una figura retorica, l’ipallage: quando
un aggettivo si riferisce ad un termine, ma si dovrebbe riferire ad un altro (il contadino
deve essere paziente e non la zappa). Con questa scena Pascoli vuole dire che la campagna
è un luogo ideale dove vengono conservati i sani valori e principi, ma è anche un luogo di
lavoro e fatica e lo mette in evidenza con le azioni dei contadini. L’ultima strofa è una
quartina e la scena viene osservata dal punto di vista di un passero e di un pettirosso che,
in disparte, spiano il lavoro dei contadini pregustando allegramente il cibo che ricaveranno
dai semi sparsi sul terreno: sul loro canto, indicato con un’onomatopea “il suo sottil
tintinnio come d’oro” si chiude la lirica. Il passero leopardiano vive in solitudine e si
allontana dagli altri uccelli come lo stesso poeta, qui il passero è intelligente: gli uccelli
migrano in cerca di luoghi caldi e mentre gli altri passeri se ne sono andati lui ha deciso di
rimanere (legato alla tematica della migrazione, del lasciare la propria patria in cerca di
fortuna e il passero simboleggia chi non parte). È un passero intelligente perché sta
aspettando che i contadini seminano così da poter mangiare quei semi; aspetta e pregusta
il cibo compiaciuto di sé stesso pensando ai compagni che sono partiti. Si capisce che è
autunno da vari elementi: dalla foglia rossa della vita, dai rami irti (spoglio) del moro (il
moro è la pianta di gelso, stessa pianta comparsa nella sera fiesolana di D’annunzio). Gli
uccelli sono molto presenti nella poesia pascoliana: in quest’opera nomina anche il
pettirosso.
Il testo è in apparenza una descrizione oggettiva e ricca di particolari. Tuttavia, già nelle
prime liriche di Myricae, la scena viene filtrata attraverso una visione soggettiva, che vuole
trasmettere sensazioni ed emozioni che suscita nell’animo del poeta. La realtà agreste
descritta nel testo appare serena, dominata dall’uomo che svolge egregiamente il suo
lavoro. Sul piano stilistico, sono già evidenti nel testo alcune caratteristiche tipiche del
linguaggio pascoliano. Attento alle “piccole cose” della campagna, il poeta si sofferma sui
particolari più minimi dando maggior rilievo alle note cromatiche (rosso dei Pampani nella
nebbia che richiamano il pettirosso) e utilizzando termini specifici per indicare gli elementi
rurali. La lirica è costituita da un unico lungo periodo le cui parti non corrispondono alla
scansione metrica. Troviamo, infatti, un lungo enjambement che colloca all’inizio della
seconda strofa il verbo “arano” privo di soggetto. Un’altra onomatopea e similitudine è
l’espressione “suo sottil tintinnio come d’oro” che va a riprodurre il canto dell’usignolo e
paragona, inoltre il cinguettio del pettirosso al suono che producono le monete d’oro
battendo sul metallo. Non è una semplice descrizione di campagna, ma queste
caratteristiche sono tipiche dell’impressionismo pascoliano, lui vuole rappresentare questa
natura vista con gli occhi del fanciullino. Una natura che è fuori dal tempo “Arano” è un
presente acronico (fuori dal tempo), perché vuole rappresentare proprio un mondo
agricolo che è un nido protettivo contro le frenesie della civiltà industriale, un rifugio dove
potersi sottrarre agli effetti negativi del progresso.
LAVANDARE
Questa poesia è complementare ad Arano, danno questo modo di vedere la realtà. Qui c’è
sempre una descrizione della campagna, c’è sempre un’impressione visiva e molto forte
quella uditiva (ad un certo punto si sente il canto delle lavandare, una cantilena). Si vede
come apparentemente il poeta ha voluto descrivere la natura, ma qui si vede come la
modernità ha fatto irruzione nella campagna, perché l’innamorato è partito, i lavori dei
campi sono stati lasciati a metà, sono abbandonati, la donna aspetta il ritorno dell’amato,
quindi c’è questa sorta di abbandono della campagna per cercare l’avventura, un senso di
incompiutezza. Per Pascoli la campagna rappresenta il sacro e i valori, mentre la modernità
rappresenta il profano. Al verso 1 c’è la ripetizione di “mezzo”: in Arano le zolle erano un
po’ tutte grigie perché ancora non erano spezzate (non erano arate) (la campagna quando
è incolta è di colore grigiastro, quando il terreno è pronto per la semina ha quel colore
scuro/nero). Arano inizia con “Al campo”, Lavandare con “Nel campo”. Al verso 6 dice
“lunghe cantilene”: tutta la poesia ha questa tessitura musicale di un effetto cantilena, il
poeta ha fuso 2 stornelli marchigiani (cantilene diverse delle lavandare), lui stesso ha dato
un ritmo cantilenante a tutta la poesia perché spezza il ritmo con gli enjambement, utilizza
delle parole lunghe (polisillabiche- con più sillabe) e cerca di utilizzare con attenzione gli
accenti: a parte il primo verso, il primo accento cade sempre sulla quarta sillaba e il fatto
che ci sia questa ripetizione dà il ritmo di una cantilena. Questo è un modo per
sottolineare che c’è stato il progresso economico, la campagna non dà più ricchezza e
quindi l’innamorato è partito per cercare fortuna in città, la modernità che minaccia il
mondo della campagna. In questo caso c’è proprio solitudine e abbandono che caratterizza
la natura, ma poi si vede che quel campo mezzo grigio e mezzo nero e l’aratro indicano
solitudine ed abbandono.
IL GELSOMINO NOTTURNO
È una poesia d’occasione, scritta per le nozze di un amico di Pascoli, Gabriele Briganti;
questa cosa si scopre successivamente e non si capisce apparentemente, ci sono dei
riferimenti in cui si capisce: fa riferimento alla prima notte di nozze del marito in cui è stato
concepito il figlio (Dante Gabriele Giovanni). L’epitalamio è un genere letterario
(componimento scritto per le nozze) che nel mondo classico era molto diffuso (Nella parte
dei Carmina Docta del Liber Catulliano c’erano degli epitalami e lì era un momento gioioso,
nel mondo romani quando c’erano le nozze si accompagnava con un corteo la sposa a casa
dello sposo e di solito si facevano delle battute che dovevano allontanare le influenze
negative e propiziare la fertilità, quindi il clima dell’epitalamio è tendenzialmente allegro e
gioioso). Qui c’è una sorta di contrapposizione: da una parte viene presentato questo fiore,
il gelsomino di Spagna (chiamato anche Bella di Notte) che si apre di notte e poi richiude i
fiori al mattino, e qui richiama il momento del rito della prima notte di matrimonio. C’è
un’opposizione tra l’offerta d’amore del fiore, contro l’evocazione della presenza dei morti,
qui si vede la tematica della sessualità: lui rinuncia volontariamente al matrimonio e al
sesso, ma dentro di sé sente una repressione e il modo in cui descrive la sessualità è spesso
morboso. Sono 6 quartine di novenari (verso che Pascoli adotta frequentemente). Il poeta
guarda questo rito del matrimonio con una sorta di turbamento e senso di esclusione.
Quindi si intrecciano due tematiche: da una parte c’è la vicenda dell’amore tra i due sposi
che viene rievocata per mezzo di immagini simbolico-allegoriche, e dall’altra parte c’è il
turbamento di Pascoli. Spesso le poesie pascoliane si aprono con la congiunzione “E”
perché essa collega il testo poetico che viene letto all’avantesto, cioè ciò che è sottinteso e
fa parte della riflessione del poeta. L’ape che nomina al verso 13 è il poeta stesso, colui che
è stato tagliato fuori, è arrivato troppo tardi e trova le “celle tutte occupate”, questo allude
alla sua condizione di esclusione (non può godersi le gioie del matrimonio e della vita). Al
verso 15 con Chioccetta fa riferimento alla costellazione delle Pleiadi, le stelle che sono
una cosa lontanissima qui sembrano vicine e piccole, perché è l’occhio del fanciullino che
osserva con questo atteggiamento alogico-irrazionale (ingrandisce per poter ammirare), le
stelle diventano ancora una volta l’emblema del nido, perché la Chioccetta è la mamma
chioccia che protegge i suoi pulcini (le stelle della costellazione). All’ultima quartina si vede
il turbamento che il poeta prova nel guardare.
LA MIA SERA
La sera è un momento particolarmente caro ai poeti (Foscolo, D’Annunzio, Pascoli). Già il
titolo fa capire come il poeta vive la sera (aggettivo possessivo). Si fa riferimento a un
temporale che ha caratterizzato la giornata e alla serenità della sera, si vede il solito
temporale (dell’anima) che allude al momento tragico della vita (uccisione del padre).
Questo componimento può rappresentare la sua vita: il temporale rappresenta gli anni
della sua fanciullezza/giovinezza, la parte della vita afflitta da dolori e sofferenze, invece la
sera è il momento della maturità in cui il poeta cerca di consolarsi e l’unico modo per
trovare consolazione è di regredire al mondo dell’infanzia e infatti qui c’è il canto di culla
che evoca la figura materna. Alcuni pensano che questo componimento sia la possibilità
per il poeta di vivere sereno (nemmeno felice), altri pensano che stia pensando a una pace
intesa come morte, l’unica possibilità per lui di ricongiungersi davvero a coloro che non ci
sono più. Le stelle vengono presentate come tacite per sottolineare la contrapposizione tra
la tempesta del giorno e la pace della sera. Al verso 4 “gre gre” è un’onomatopea
pascoliana, il linguaggio pregrammaticale, è il verso delle rane ed è un messaggio sonoro
positivo, il paesaggio si sta rasserenando e così anche l’anima del poeta. C’è l’immagine di
una brezza che offre una sensazione di serenità che sfiora le foglie tremolanti dei pioppi, se
prima c’era stato il temporale e vento, ora è rimasta solo una leggera brezza (dalla
tempesta alla pace). Quando dice “si devono aprire le stelle” è un’analogia per dire che
devono comparire le stelle in cielo, i poeti parlano della sera sempre come momento del
crepuscolo (quando ancora la luna non è comparsa e le stelle non sono visibili nel cielo).