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Due “convertiti” di segno opposto

Manzoni e Leopardi. Diversissimi, senz'altro. Il primo, nato a Milano, città degli


illuministi e crocevia dell’Europa, trascorre la sua infanzia in diversi collegi religiosi,
che lo renderanno giacobino e anticlericale come nessuna famiglia giacobina e
anticlericale avrebbe potuto mai. Tuttavia, insieme alla moglie Enrichetta Blondel,
maturerà la personale conversione al cattolicesimo.
Leopardi cresce a Recanati, piccola città dello Stato pontificio, in una famiglia
fortemente reazionaria. L’ambiente oppressivo determina in Leopardi un
allontanamento sempre più deciso dai dogmi della Chiesa cattolica, dalla tradizione,
nel rifiuto di qualsiasi vincolo costringente, contro qualsiasi mito della modernità.
Così ha inizio la letteratura italiana dell’epoca contemporanea, con questi due scrittori
“convertiti” di segno opposto, ha scritto Rolando Damiani, posseduti dall’ombra di
un’identità rimossa. L’inevitabile, persistente confronto con questa “identità”
determinerà intransigenza morale, finezza di pensiero, desiderio inesauribile di
libertà.
Se si dovesse scegliere quale aspetto li differenzia maggiormente, dovremmo
individuarlo in una maggiore o minore disposizione personale a una sintesi
concettuale conclusiva, in grado di raccogliere le diverse antitesi di cui si compone la
loro riflessione teorica e la loro pratica letteraria. Cosa si intende dire? Partiamo da
alcune considerazioni svolte in modo indipendente da due studiosi: Pier Vincenzo
Mengaldo e Pierantonio Frare. Se il primo ha asserito che il pensiero, filosofico e
poetico, di Leopardi ama svolgersi per opposizioni binarie senza sintesi
o Aufhebungen (antichi contro moderni, natura contro ragione, individuo contro
società ecc.), il secondo, invece, ha dichiarato che «il pensare e lo scrivere manzoniano
partono spesso da una formulazione dualistica calata in uno stampo antitetico», ma
tale «opposizione linguistica e concettuale di partenza si trasforma», nelle opere di
Manzoni, «in un rapporto dialettico nel quale le due operazioni si arricchiscono
reciprocamente, collaborando […] al conseguimento di un livello più alto di unità e di
verità». Ci permettiamo di ipotizzare che tale diversa disposizione dei due autori sia
legata innanzitutto a una diversa concezione del vero: per Leopardi il vero non è mai
qualcosa di “positivo” per l’uomo, non è bello, non è il bene per l’uomo. La “negatività”
del vero è un tratto costante della sua riflessione, fino alla Ginestra, in cui il vero viene
di certo capito, perseguito, accolto, pur rimanendo però qualcosa di profondamente
ostile (l’assoluta marginalità dell’uomo nell’universo e l’avversione della natura nei
suoi riguardi). In Manzoni invece il vero, il «santo Vero», è bello, il vero è bene. Ciò
non vuol dire che non sia possibile individuare elementi contraddittori nella scrittura
manzoniana, ma riconoscere che, comunque sia, essa tende ad altro, ossia alla
faticosa composizione delle antitesi, scrive Frare, in un «livello più alto di unità e di
verità».
L'incontro a Firenze

Manzoni e Leopardi si conobbero a Firenze lunedì 3 settembre 1827, presso il Palazzo


Buondelmonti, sede allora del gabinetto di Giovanni Battista Vieusseux: fu lui a
organizzare una serata di accoglienza dedicata a Manzoni, invitando alcuni tra i
maggiori letterati dell’epoca, come Giovanni Battista Niccolini, lo stesso Leopardi e il
suo amico-mentore Pietro Giordani. Leopardi rimase favorevolmente colpito,
definendo Manzoni, in una lettera dell’8 settembre 1827, un «uomo pieno di amabilità
e degno della sua fama» e, in una lettera del 25 febbraio 1828, «un uomo veramente
amabile e rispettabile».
Questo celebre incontro venne in seguito mitizzato, al punto che Terenzio Mamiani lo
descrive come una sorta di Teano tra classicismo e romanticismo: «Fu come il bacio di
pace e di fratellanza che si diedero, in faccia all’avvenire, la scuola classica e la
romantica». In realtà, nel 1827 Manzoni era già un letterato di fama europea, mentre
Leopardi no, non godeva affatto di una simile estimazione. Se è vero poi che Leopardi
e Manzoni presero posizione nella querelle classicisti-romantici su fronti opposti, è pur
vero che non avrebbe senso oggi contrapporre un Leopardi classicista a un
Manzoni romantico: la loro statura intellettuale rende qualsiasi etichetta inadeguata.

Legami intertestuali

Da questo incontro non nacque alcuna relazione amicale, eppure sappiamo che i due
si lessero a vicenda. Per quanto riguarda Leopardi, abbiamo dati precisi: da un suo
elenco di letture desumiamo che nel novembre 1827 lesse  I promessi sposi, dei quali
parla in una lettera ad Antonio Papadopoli: il romanzo gli piace assai – afferma –,
nonostante «molti difetti», e lo reputa «opera di un grande ingegno». Nell’aprile del
’28, invece, Leopardi annota di aver letto il Cinque maggio e gli Inni sacri. Bisogna fare
attenzione alla data, poiché nello stesso mese viene composto uno dei testi più belli
della letteratura italiana, ossia A Silvia, che rappresenta il ritorno di Leopardi alla
poesia, da anni impegnato nella stesura delle Operette morali, pubblicate nel ’27,
proprio lo stesso anno dei Promessi sposi (due libri diversissimi, per forma e per
contenuti). Nell’aprile del ’28, prima di scrivere A Silvia, Leopardi compone un testo
singolare, un unicum all’interno dei Canti, ossia Il Risorgimento, ricco di allusioni-
citazioni manzoniane (soprattutto verso il Cinque maggio e il secondo coro
dell’Adelchi).
Il Manzoni autore dei Promessi sposi è avvertibile, invece, in alcuni dei cosiddetti canti
pisano-recanatesi, come  A Silvia,  La quiete dopo la tempesta, Il Sabato del villaggio.
Questo legame riguarda sia i contenuti (la vita dimessa di un borgo e le figure umili
dei popolani) sia la forma (lessico impiegato, strutture sintattiche), che avvicina questi
componimenti alla prosa (con le necessarie differenze, s’intende, giacché, nella
concezione classicistica di Leopardi, la poesia deve essere distinta dalla prosa). Questi
componimenti rappresentano un rinnovamento decisivo nella storia della poesia
italiana, facilmente avvertibile allorché si confronti lo stile di Leopardi con quello di
Parini o di Foscolo. Ovviamente, non si può sostenere, come faceva De Sanctis, che
questo cambiamento interno all’opera di Leopardi sia stato determinato dalla lettura
di Manzoni, ma non si può neppure escludere del tutto una qualche possibile
influenza.

Un esempio

Tra i numerosi esempi di tale rapporto intertestuale proponiamo, in estrema sintesi,


la lettura in sinossi di tre testi: il Canto notturno e La ginestra di Leopardi e l’inno sacro
incompiuto Ognissanti di Manzoni, risalente al 1847 (anno significativo, poiché nel ’45
viene pubblicata per la prima volta La ginestra).
Ai vv. 25-28 del testo religioso manzoniano il poeta si rivolge a coloro che hanno
raggiunto la santità dopo un lungo cammino di conversione:

E voi che un gran tempo per ciechi


sentier di lusinghe funeste
correndo all’abisso, cadeste
in grembo a un’immensa pietà.

In questo passo vi sono allusioni al  Canto notturno, ma si rovescia l’esito della corsa
tragica del «vecchierel bianco, infermo», destinata, in Leopardi, alla caduta
nell’«abisso orrido, immenso, / ov’ei precipitando il tutto obblia» (35-36).
Si vedano anche i versi 17-24 dell’incompiuto inno sacro manzoniano:

A Quello [a Dio] domanda, o sdegnoso,


perché sull’inospite piagge,
al tremito d’aure selvagge,
fa sorgere il tacito fior,

che spiega davanti a Lui solo


la pompa del pinto suo velo,
che spande ai deserti del cielo
gli olezzi del calice, e muor.

Vi sono alcune spie testuali che sembrano rimandare alla Ginestra: «tuoi cespi solitari
intorno spargi, / odorata ginestra, / contenta dei deserti» (vv. 5-7) e «di dolcissimo
odor mandi un profumo / che il deserto consola» (vv. 36-37). Il fiore
di Ognissanti appare dunque come una risposta alla Ginestra, o meglio un tentativo di
risposta, senza alcuna contrapposizione polemica: l’io poetico di Ognissanti, infatti,
invita il suo interlocutore, lo «sdegnoso» del verso 17, a rivolgere a Dio la sua
domanda relativa al senso di un fiore, che ha l’unico merito di spandere «ai deserti del
cielo» il suo dolce profumo, prima di morire.
Un dialogo a distanza

Ma i legami e i riferimenti testuali non finiscono qui: nel  Canto notturno e


nella Ginestra una lettura attenta può ravvisare allusioni a testi manzoniani
precedenti. Per esempio, il passo del Canto notturno citato prima, quello in cui si
parla dell’«abisso orrido immenso, / ov’ei precipitando il  tutto obblia», riecheggia un
passo dell’Adelchi di Manzoni: «All’orlo estremo della vita, al punto / in cui  tutto
s’obblia» (IV,1, v. 52). Mentre nel canto dedicato al fiore del Vesuvio leggiamo «E tu,
lenta ginestra […], piegherai […] il tuo capo innocente» (vv. 297-306), dove sembra
essere alluso un passo del Conte di Carmagnola, in cui si parla di Matilde, figlia del
condottiero: «E tu, tenero fior […] tu chini il capo» (V, 5, vv. 299-301).
Prende forma, dunque, una sorta di dialogo a distanza, attraverso la poesia. L’opera
letteraria abbandona la sua dimensione monologica per attivare una polifonia
testuale in cui diverse voci poetiche si sommano in armonie e dissonanze. D’altronde,
in un passo luminoso della lettera a Monsieur Chauvet, Manzoni aveva scritto che «nel
mondo morale, come nel mondo fisico, ogni esistenza confina con altre, si complica
con altre esistenze».

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