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ACCADEMIA TOSCANA DI SCIENZE E LETTERE


«LA COLOMBARIA»
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«S T U D I »
CCL

CARLOTTA CAPUCCINO

ΑΡΧΗ ΛΟΓΟΥ
SUI PROEMI PLATONICI
E
IL LORO SIGNIFICATO FILOSOFICO

FIRENZE
LEO S. OLSCHKI EDITORE
MMXIV
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ACCADEMIA TOSCANA DI SCIENZE E LETTERE


«LA COLOMBARIA»
—————————————————————————————
—————————————————————————————
«S T U D I »
CCL

CARLOTTA CAPUCCINO

ΑΡΧΗ ΛΟΓΟΥ
SUI PROEMI PLATONICI
E
IL LORO SIGNIFICATO FILOSOFICO

FIRENZE
LEO S. OLSCHKI EDITORE
MMXIV

— I —
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La pubblicazione è stata realizzata con il contributo del Ministero dei Beni Culturali
e del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Alma Mater Studiorum - Uni-
versità di Bologna

ISBN

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Il principio è maggiore (per ciò che con-


tiene) in potenza di quanto non sia in gran-
dezza, per cui ciò che al principio è piccolo,
alla fine diventa quanto vi può essere di più
grande (τὸ ἐν ἀρχῇ μικρὸν ἐν τῇ τελευτῇ
γίνεται παμμέγεθες).
Arist. Cael. I 5, 271b12-13

* * * * *

Le questioni più gravi vanno trattate con


leggerezza. […] Quelle meno gravi vanno
trattate con serietà.
Hagakure, I 46

* * * * *

Ce qui me fait si lent à bâtir, si tempori-


sateur est l’étrange manie de vouloir tou-
jours commencer par le commencement.
La forme coûte cher.
Paul Valery

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PRESENTAZIONE

Hegel manifestava, come è noto, una certa irritazione per la forma dia-
logica della filosofia platonica. Pur riconoscendovi i tratti di una nobile Ur-
banität attica, e ammettendo che anche attraverso i dialoghi siamo in grado
di ricostruire il System di Platone, egli lamentava il fatto che «questa forma
ci rende difficile farci subito un’idea della sua filosofia e darne un’esposi-
zione precisa» (Lezioni su Platone, II 1, p. 179); e aggiungeva: «uno sguardo
d’insieme risulta poco agevole, non c’è nessun criterio per stabilire se l’og-
getto in questione sia stato esaminato esaurientemente oppure no. In tutto
ciò c’è un unico spirito (Ein Geist), un determinato punto di vista filosofico,
ma questo spirito non emerge in quella forma determinata che noi esigiamo»
(ivi, II 2, p. 186).
Nel Novecento, con l’indebolimento dello «spirito di sistema» caro a He-
gel, si è fatta progressivamente strada la convinzione che la forma della scrit-
tura filosofica di Platone sia inseparabile dai suoi contenuti, e che fra que-
sti due poli esista un vincolo bicondizionale ermeneuticamente imprescindibile.
Possiamo indicare simbolicamente i punti di partenza e di arrivo di questo
percorso in due saggi quasi omonimi: la dissertazione del 1916 di Julius Sten-
zel (Literarische Form und philosophischer Gehalt des Platonischen Dialogs),1
e il saggio del 1992 di Michael Frede, Plato’s Argument and the Dialogue
Form.2
Nella storia delle letture platoniche del Novecento è tuttavia accaduta
una vicenda in qualche modo paradossale: molti degli autori che hanno of-
ferto i contributi più raffinati all’interpretazione della scrittura dialogica
hanno poi separato questa scrittura dal corpo più vero della filosofia di Pla-
tone, leggendola come un velamen alla maniera dell’esegesi medievale o come
un semplice esercizio protrettico. Il primo atteggiamento è stato quello di
Leo Strauss e dei suoi seguaci: la loro straordinaria (a volte persino ecces-
siva) sensibilità per la forma letteraria dei dialoghi è stata messa al servizio
di un’interpretazione dei dialoghi stessi come espressioni reticenti, dissimu-
latorie, persino destinate alla contraffazione ironica (nella quale il significato
di superficie è l’opposto di quello ‘profondo’ del testo) del messaggio filoso-

1
Il saggio stenzeliano, nella seconda versione del 1931, è stato tradotto in inglese da
D. J. Allan in Julius Stenzel, Plato’s Method of Dialectic, New York: Russell & Russell,
1940, pp. 1-22.
2
In «Oxford Studies in Ancient Philosophy», Suppl. X (1992), pp. 201-219.

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fico di Platone, il quale andrebbe dunque individuato non in quello che i


dialoghi dicono, ma in quello che non dicono alludendovi obliquamente o
paradossalmente.
Il secondo atteggiamento può venire riferito agli studiosi della cosiddetta
scuola di Tübingen, e soprattutto a Konrad Gaiser e a Thomas Szlezák. Ri-
tenendo, sulla base del Fedro, che la filosofia ‘seria’ non possa venire espo-
sta tramite la scrittura, essi hanno riconosciuto nei dialoghi la funzione di
un’esortazione alla pratica autentica della filosofia che non può non attuarsi
nell’oralità della relazione fra maestro e discepoli. I dialoghi sono quindi stati
letti come un ricco repertorio di allusioni, rinvii, schizzi preparatori rispetto
al nucleo dottrinario profondo che Platone avrebbe affidato alle sole sue le-
zioni orali.
La grande maggioranza degli studiosi ha finito, quasi inevitabilmente, per
assumere un atteggiamento opposto. Pur consapevoli del nesso intrinseco tra
forma dialogica e contenuto teorico nella filosofia di Platone, la loro atten-
zione si è spesso concentrata nella ricerca del secondo, tornando a fare della
prima una cornice magari significativa ma inessenziale rispetto ai nuclei dot-
trinari che ci si sforzava di individuare. C’è però qui il rischio di un riflusso
metodologico in direzione hegeliana, e va ascritto al merito di giovani stu-
diosi come Carlotta Capuccino il ripresentare con forza e consapevolezza
metodica la necessità di non dimenticare o marginalizzare quel nesso nell’e-
segesi platonica del nostro tempo.3
Gli assunti di metodo ai quali l’autrice si attiene con l’opportuno rigore
possono così venire riassunti. (1) Prendere sul serio l’anonimato autoriale di
Platone, considerandolo un problema filosofico da interpretare. (2) Prendere
sul serio l’autonomia di senso dei personaggi dialogici. (3) Valorizzare sul
piano ermeneutico l’appartenenza dei dialoghi platonici al genere letterario
dei logoi sokratikoí. (4) Considerare ogni dialogo come unità in sé compiuta
non immediatamente riferibile ad altri dialoghi né sistematicamente integra-
bile con essi, senza tuttavia dimenticare l’apertura di ogni dialogo verso gli
altri né la comune appartenenza a un singolo disegno autoriale.4 Un esem-
pio significativo dell’applicazione di quest’ultimo criterio – secondo il prin-
cipio degli esegeti antichi di Plátona ek Plátonos saphenizein – consiste nello
statuto metadialogico che la Capuccino assegna all’analisi delle forme della
mímesis letteraria nei libri III e X della Repubblica e alla critica della scrit-
tura nel Fedro, considerate entrambe come riferibili all’insieme della scrit-
tura filosofica di Platone anche al di fuori del loro contesto specifico. (5)

3
L’autrice ha già dato un’eccellente prova di rigore metodologico nell’analisi di un
singolo dialogo nel volume Filosofi e Rapsodi: Testo, traduzione e commento dello Ione
platonico, Bologna: CLUEB, 2005.
4
Sulla discussione intorno a questi assunti metodici mi permetto di rinviare ai miei
scritti «Solo Platone non c’era», «Paradigmi» XXI (2003), pp. 261-77, e La letteratura so-
cratica e la competizione fra generi letterari, in Fabio Roscalla (a cura di), L’autore e l’o-
pera: Attribuzioni, appropriazioni, apocrifi nella Grecia antica, Pisa: ETS, 2006, pp. 119-
131.

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Infine, l’assunto metodico peculiare di questa ricerca è che i proemi dei dia-
loghi, specie nel caso dei «proemi doppi o paradossali» com’è precipuamente
quello del Teeteto, possono venire considerati come una via d’accesso pre-
ferenziale alla comprensione del rapporto tra forma e contenuto della filo-
sofia platonica.
Ci avviciniamo così al tema centrale dell’indagine. Non c’è dubbio, se-
condo Capuccino, che la critica alla scrittura filosofica formulata nel Fedro
vada riferita agli stessi dialoghi platonici. Altrettanto sicuro è che essi – con
la prevalenza della mímesis diretta che riguarda anche i dialoghi «misti» o
diegetico-mimetici – siano da includere nelle forme espressive bandite dalla
politeia giusta secondo la critica alla Repubblica. È a questa altezza dei pro-
blemi che i prologhi, e soprattutto il proemio del Teeteto – l’unico caso in
cui Platone ha messo in scena la scrittura di un dialogo ad opera di un au-
tore di logoi sokratikoí, cioè Euclide nella finzione dialogica – rivelano tutta
la loro importanza ermeneutica.
Nel riconoscere la pertinenza delle critiche alla scrittura filosofica, e alla
mímesis dialogica, Platone difenderebbe tuttavia in quel testo straordinario
– secondo l’originalissima interpretazione di Capuccino – la legittimità dei
propri logoi sokratikoí come forma di mimesi buona, e di mimesi responsa-
bile – insomma come trasgressione necessaria ai propri stessi divieti. Il filo-
sofo socratico è un buon imitatore perché – a differenza del rapsodo dello
Ione e del pittore o del poeta di Repubblica X – conosce ciò che imita (con
il paradosso che i dialoghi ‘socratici’ rappresentati sulla scena della scrittura
non sono verosimilmente mai avvenuti, e sono quindi il prodotto dell’im-
maginazione filosofica dell’imitatore). Ma, soprattutto, il filosofo-imitatore,
grazie alla scrittura, conserva e riproduce fedelmente, nell’unico modo pos-
sibile, l’oralità originaria dei logoi sokratikoí, e si assume l’impegno, che è
anche morale e sociale, di salvarli dalla dispersione altrimenti inevitabile per
l’oralità, conservandoli e rappresentandoli come esempi e modelli del pen-
sare filosofico. Per poter sopravvivere, il dialogo filosofico deve dunque ve-
nire ucciso dalla scrittura che lo riproduce, come nel Teeteto fa Euclide ri-
spetto all’immaginaria conversazione ateniese fra Socrate, Teodoro e Teeteto.
A partire da questa persuasiva e penetrante analisi del prologo del Tee-
teto, in seguito verificata su quella di altri dialoghi come il Simposio, il Par-
menide e il Fedone, Capuccino sviluppa le sue tesi interpretative più origi-
nali e certo meritevoli di riflessione. Qui basterà accennarne alcuni capisaldi.
Il Teeteto sarebbe l’unico testo in cui Platone mette in scena se stesso, con
la maschera del ‘redattore’ Euclide, all’opera come autore di logoi sokrati-
koí. In questo modo, Platone assegnerebbe a Socrate la posizione di «autore
vero» del dialogo, riservando a se stesso quella di «autore reale», in quanto
responsabile solo della sua forma, ma non del suo contenuto. Il dialogo ri-
sulterebbe dunque affidato all’autorevolezza di Socrate come modello ar-
chetipo del vivere e del pensare filosofico, ma insieme privato dell’autorità
autoriale: l’anonimia d’autore comporterebbe la rinuncia, da parte di Pla-
tone, a presentarsi come «padre» del logos, perché ogni lettore possa di-
ventarlo a sua volta, permettendo così a Socrate di continuare a svolgere at-

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traverso le generazioni dei lettori l’arte maieutica esercitata un giorno con


Teeteto (va osservato a questo proposito che una tradizione millenaria, ini-
ziata probabilmente subito dopo la sua morte se non anche prima, si sarebbe
incaricata di vanificare questa intenzione di Platone, riconoscendogli un’im-
mensa autorità filosofica, tale da indurre lo stesso Plotino a considerarsi nien-
t’altro che un interprete dell’auctor per eccellenza).
Tutto questo appare impeccabilmente argomentato. Ci si può chiedere se
l’aver centrato l’analisi sulla autorialità ‘vera’ di Socrate (un filosofo senza
dottrine), e su un dialogo aporetico come il Teeteto, non produca l’esito forse
unilaterale di vedere nell’insieme dei dialoghi soprattutto l’esortazione a de-
dicarsi al bios filosofico, a scapito dei nuclei dottrinali ‘pesanti’ che pure essi
in varie occasioni sembra trasmettano al lettore; una decisa prevalenza in-
somma dell’autore «vero» su quello «reale». Ma in fondo anche questa di-
stinzione – come nota giustamente Capuccino – è opera dello stesso Platone,
che se ne assume quasi esplicitamente la responsabilità nei prologhi analiz-
zati.
Perciò la discussione sul rapporto tra forma dialogica e contenuto teo-
rico nella scrittura filosofica di Platone non torna certo in questo modo al
punto di partenza. Il ruolo metafilosofico dei proemi consente di riflettere
sul significato del fare filosofia proprio mentre ci si prepara a produrre teo-
ria: senza quest’ultima la riflessione non avrebbe oggetto, e viceversa la con-
sapevolezza del senso della pratica filosofica è decisiva per l’impegno teo-
rico cui è chiamato il bios del filosofo.
Non è qui il caso di entrare ulteriormente nella complessa problematica
della ricerca di Capuccino. Credo comunque che ogni lettura di Platone che
intenda prendere sul serio la forma dialogica della sua filosofia si gioverà del
ricco contributo di analisi offerte da questo libro, ben sorrette da una vasta
e aggiornatissima bibliografia, e delle preziose soluzioni che esso propone
alle questioni del rapporto fra la critica alla mímesis nella Repubblica, la cri-
tica alla scrittura nel Fedro, e la testualità dei dialoghi in quanto imitazioni
(presunte) di logoi sokratikoí.

Mario Vegetti

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PREFAZIONE

L’idea di questo lavoro è nata molto prima che me ne interessassi, dalla


curiosità insieme letteraria e filosofica di Simonetta Nannini, che è stata la
mia insegnante di greco. Fin dal momento in cui ne ho sentito parlare sono
rimasta colpita dal pensiero che una mente così lontana da noi nel tempo e
nello spazio, come quella di Platone, abbia voluto dedicare la vita – perlo-
meno la sua vita di scrittore – alla ricerca della forma migliore in cui scri-
vere, non nel senso banale dell’eleganza stilistica, bensì in quello profondo
della consonanza con il contenuto filosofico delle sue opere. Platone, come
è noto, ha scritto quasi unicamente dialoghi filosofici nei quali rinuncia per
scelta a prendere la parola, ma dove al tempo stesso sembra compensare il
vuoto autoriale con la cura estrema dei dettagli formali. Questa cura rag-
giunge la sua massima espressione nella varietà, nella vivacità e nell’archi-
tettura, ora semplice ora complessa, delle scene introduttive o proemi. Ho
dunque accolto con piacere la proposta di dedicare allo studio di queste
scene gli anni del dottorato in filosofia a Bologna, nella convinzione che il
loro valore vada ricercato al di là delle indubbie abilità letterarie di Platone,
nella coerenza e nella profonda dedizione con la quale ha saputo mantenere
saldo il principio dell’anonimato, senza mai tradire le ragioni filosofiche che
ne costituiscono l’origine. Rispetto a queste ragioni, le doti letterarie non
sono che un mezzo. Il fine è il modo platonico di intendere la filosofia, leg-
gero e grave a un tempo, e insieme la volontà di lasciarne una traccia affin-
ché qualcuno di noi possa condividerlo. Ma l’esito del lavoro non sarebbe
stato lo stesso se il Teeteto, il cui demone si è preso lo spazio più ampio,
non avesse attraversato come un filo rosso i miei anni filosofici – dal primo
incontro nelle lezioni di Roberto Dionigi nel lontano 1995 alla prima eser-
citazione scritta di filosofia antica nel 1997, al seminario di lettura del 2006 –
per diventare finalmente il cuore e l’anima di questa ricerca.
Ringrazio l’ottima Biblioteca e il personale tutto del Dipartimento di Fi-
losofia di Bologna – in particolare Francesco e Antonietta – per l’assistenza
e la disponibilità sempre dimostrate. Senza di loro scrivere la tesi che ha
dato origine a questo libro sarebbe stato senz’altro più difficile. Ringrazio le
persone, amici e studiosi, che hanno letto con attenzione e commentato il
mio lavoro contribuendo a migliorarlo: in particolare Giuseppe Cambiano,
Walter Cavini, Valentina Di Lascio, Simonetta Nannini, Mario Vegetti. Rin-
grazio infine Maria Serena Funghi, l’Accademia La Colombaria e l’editore
Olschki di Firenze per l’occasione offertami di pubblicarlo.

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PREFAZIONE

Agli amici di un tempo, Edoardo Zamuner e Valentina Di Lascio, lon-


tani ma sempre presenti, e a quelli ritrovati, Guglielmo Altavilla e Massimi-
liano Carbone.
Agli amici vicini: Andrea Piatesi, compagno di viaggio e di imprese; Ric-
cardo Fedriga, Antonio Ferro, Paola Gamberini, Raffaella Grasso, Giulia
Mingucci, Paolo Togni e chi per un tratto ha fatto parte del «piccolo mondo
antico» di Bologna: ognuno di voi ha contribuito al colore di questi anni.
Alla prof.ssa Nannini, che mi ha offerto l’occasione, e a Simonetta, per
la disponibilità e la cura che ha dedicato a questo lavoro fino alla sua con-
clusione. Al prof. Cavini, che ha saputo creare la synousia unica che ci ha
raccolti intorno a lui e lo stimolo filosofico che ha permesso a ciascuno la
propria personale ricerca; a Walter, per la sua presenza costante e per la fi-
ducia che non è mai venuta meno.
Ai miei genitori Francesco e Maria Grazia, a mio fratello Federico, a Ila-
ria e a Margherita che è appena arrivata; alla mia famiglia, che si è mostrata
sempre unita di fronte alle difficoltà e non mi ha mai fatto mancare il suo
sostegno.
A tutti voi dedico questo lavoro. Grazie.
Casalecchio di Reno, Maggio 2013

NOTE DI CONSULTAZIONE

ABBREVIAZIONI: le abbreviazioni delle fonti greche sono perlopiù tratte


da LSJ [907], a cui si deve aggiungere il siglario di Konrat Ziegler per i Mo-
ralia di Plutarco (ZIEGLER [922]), quelle delle fonti latine da GLARE [906];
le abbreviazioni ordinarie, redazionali, di consultazione e di riferimento bi-
bliografico di parole italiane e latine seguono nei loro criteri di formazione
e d’uso le indicazioni di BELTRAMO/NESCI [911].

BIBLIOGRAFIA: si tratta di un saggio bibliografico che presenta tutti gli


studi a mia conoscenza dedicati, parzialmente o per intero, ai proemi dei
dialoghi platonici. Per il resto il saggio offre una panoramica sui temi mag-
giori che lo studio dei proemi inevitabilmente interseca. I titoli preceduti
dall’asterisco, i §§ 1, 2, 3 delle Fonti e la sezione Varia formano la mia bi-
bliografia di lavoro. Si segnalano anche alcuni lavori inediti che si sono ri-
velati particolarmente utili ai fini di questa ricerca.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: la bibliografia segue una numerazione pro-


gressiva dei titoli (in ordine alfabetico per autore all’interno di ogni para-
grafo); per i rimandi bibliografici nel testo e in nota ho adottato il sistema
di riferimento Autore/Numero.

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PREFAZIONE

TRADUZIONI: (1) Opere antiche – le traduzioni dei passi citati, quando


non diversamente indicato, sono mie. Per i principali dialoghi platonici presi
in esame ho seguito, nell’ordine, le traduzioni di: S. Nannini per il Teeteto
(CAVINI/NANNINI [54]), R. Velardi per il Fedro (VELARDI [47]), F. Ferrari
per il Parmenide (FERRARI [19]), A. Giavatto per il Simposio (GIAVATTO/NAN-
NINI [23]), P. Fabrini per il Fedone (F ABRINI /L AMI [18]), modificandole dove
ho ritenuto necessario. (2) Opere moderne – i passi citati, qualora non siano
nella loro lingua originale, seguono le traduzioni indicate in bibliografia.

TRASLITTERAZIONE DEL GRECO: Per la traslitterazione delle parole greche


e l’accentazione dei nomi greci trasposti in italiano ho seguito le seguenti re-
gole. In caso di ambiguità, le vocali lunghe η e ω sono traslitterate rispetti-
vamente e– e o– (per es. ethos/e–thos); i dittonghi impropri ᾳ, ῃ, ῳ sono resi
con a(i), e(i), o(i). La dieresi ( ¨ ) e lo spirito dolce ( ᾿ ) sono omessi, lo spi-
rito aspro ( ῾ ) è reso con h. Gli accenti vengono omessi nelle parole piane
(per es. physis, eleutheria), ma indicati nelle parole sdrucciole (per es. án-
thropos, éumorphos, oúreios) e tronche (per es. phygé).

VIRGOLETTE: Le virgolette francesi (« … ») segnalano, oltre alla citazione,


la traduzione italiana dei termini greci e latini; gli apici ( ‘…’ ), usati per la
menzione, indicano talvolta l’uso improprio di un termine.

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INTRODUZIONE

Nel suo articolo del 1992, Plato’s Arguments and the Dialogue Form,
Michael Frede sostiene la tesi che nei dialoghi platonici filosofia e
forma letteraria siano unite indissolubilmente in un modo particolare:
l’idea è che Platone abbia una visione del valore e dello status delle
tesi e degli argomenti filosofici tale per cui l’unica forma scritta in cui
ritiene responsabile1 tradurli è quella particolare forma di dialogo fit-
tizio che scrive. Frede decide quindi di occuparsi delle argomenta-
zioni, perché costituiscono «la spina dorsale» dei dialoghi e ne for-
niscono la struttura, pur attribuendo agli altri elementi dialogici
«un’importanza cruciale» per comprenderne appieno il significato (p.
202). Obiettivo del mio lavoro di ricerca è verificare la validità della
tesi di Frede in relazione a questi «altri elementi»: lo stile dell’inizio,
le primissime parole, le coordinate spazio-temporali e la caratterizza-
zione dei personaggi che delineano la scena dialogica; e a quello che
sembra esserne il luogo privilegiato: il proemio. L’attenzione del tutto
eccezionale che Platone dedica a questi elementi di per sé non filo-
sofici – un unicum nella storia della filosofia – mi sembra la spia di
un interesse predominante per il modo giusto di scrivere e di tra-
smettere la filosofia, prima che per particolari dottrine filosofiche.
Credo quindi che il legame tra questi elementi iniziali e le argomen-
tazioni filosofiche che introducono meriti di essere indagato, anche
alla luce del fatto che una tale indagine, estesa all’intero corpus pla-
tonico, manca attualmente nel panorama degli studi sull’opera di Pla-
tone, malgrado l’interesse per la questione sia tutt’altro che assente.
Il progetto iniziale della ricerca prevedeva un esame, se non di
tutti i dialoghi, quanto meno di una selezione rappresentativa che po-
tesse consentire di raggiungere un risultato di validità generale. Que-
sto presupponeva, ovviamente, la scelta dei dialoghi su cui concen-
trare l’indagine in un modo che non risultasse arbitrario, individuando
un criterio conveniente allo scopo. I criteri noti si dividono in criteri
di pubblicazione e criteri di classificazione dei dialoghi, e sono rac-

1
«[…] the only responsible way» (FREDE [403], p. 202, c.vo mio). Sul tema cruciale
della responsabilità, cfr. infra, p. 213.

— 1—
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INTRODUZIONE

colti da Diogene Laerzio nel terzo libro delle sue Vite dei Filosofi, de-
dicato alla vita di Platone. I primi, che consistono nella divisione in
tetralogie o in trilogie, malgrado i tentativi, anche recenti,2 della cri-
tica, continuano a presentare un difetto di unità. I singoli raggrup-
pamenti di tre o quattro dialoghi non sembrano, cioè, fondarsi su una
ragione filosofica né tematica coerente; laddove si è creduto di po-
terne rintracciare una, come per esempio nel caso della prima o della
seconda tetralogia, questo era dovuto in realtà a criteri interni ai dia-
loghi stessi, non condivisi dalle altre tetralogie. La prima è infatti bio-
grafica, cioè presenta gli eventi che portano dal processo alla morte
di Socrate;3 la seconda invece è legata – fatta eccezione per il Cratilo
– dal legame cronologico4 che i proemi del Teeteto, del Sofista e del
Politico stabiliscono fra i tre dialoghi. Il Cratilo e il Teeteto, che aprono
la seconda tetralogia, intersecano inoltre la serie biografica, in quanto
entrambi richiamano eventi che precedono la morte di Socrate; ma il
Cratilo non è da ritenersi immediatamente successivo all’Eutifrone,
mentre il Teeteto senz’altro lo precede.5 D’altra parte, Diogene è al-
quanto diretto nel dire che il criterio tetralogico è «secondo le tetra-
logie dei poeti tragici» (κατὰ τὴν τραγικὴν τετραλογίαν, III 56), cioè
riproduce un raggruppamento dettato dalle ragioni contingenti di un
agone poetico e non da un disegno filosofico. La ragion d’essere più
probabile delle tetralogie credo rimanga lo scopo di salvaguardare la
conservazione dei dialoghi, legandoli per evitarne la dispersione.6

2
Cfr. ARONADIO [7], pp. 16-32. Malgrado la presentazione di Diogene Laerzio possa
far supporre il contrario, F. Aronadio ritiene più probabile che l’ordinamento in trilogie
– attribuito ad Aristofane di Bisanzio – precedesse quello tetralogico sulla base di un cri-
terio quantitativo: «A favore della posterità delle tetralogie parla l’estensione di tale si-
stema organizzativo, un dato sul cui valore probatorio ha giustamente richiamato l’atten-
zione Müller: egli sottolinea come sia fortemente inverosimile che Aristofane abbia voluto
sostituire un ordinamento capace di organizzare 36 scritti con un altro che abbraccia solo
quindici dialoghi»; MÜLLER [356] e SEDLEY [847].
3
«La prima tetralogia svolge un argomento comune: vuole infatti mostrare quale debba
essere la vita del filosofo» (D.L. III 57). Con questa affermazione, Diogene dimostra come
già al suo tempo si avvertisse la necessità di chiarire il criterio del raggruppamento te-
tralogico. Il fatto che si dia una spiegazione solo della prima tetralogia non credo sia a ti-
tolo esemplificativo, ma piuttosto perché si presentava come il caso più evidente, se non
l’unico.
4
Nel senso che il Sofista e il Politico proseguono la ricerca iniziata dal Teeteto, con
parziale coincidenza dei protagonisti, ma ognuno di fatto la volge a un tema diverso.
5
Cfr. Cra. 396d e SEDLEY [42], p. 3 n. 5, CAVINI/NANNINI [54] ad Tht. 142a1 e 143a3,
e NONVEL PIERI [466], p. 118 n. 2.
6
Cfr. ARONADIO [7], pp. 21-22: «Decisiva, infatti, è stata la solidità della struttura te-
tralogica, che, assai meglio delle trilogie, meno coese e complete, fornì una griglia all’in-
terno della quale trovavano collocazione gli scritti di (e attribuiti a) Platone, dei quali pro-
babilmente circolavano copie risalenti all’edizione alessandrina o alla raccolta in possesso

—2—
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INTRODUZIONE

I criteri di classificazione sono più interessanti per i nostri obiet-


tivi, perché suggeriscono un ordine di lettura dei dialoghi. Il criterio
antico prevalente è sempre segnalato da Diogene Laerzio e consiste
in una diaíresis in base al genere (III 49). A mio avviso, esso pre-
suppone già un’interpretazione dei dialoghi e di conseguenza risulta
artificiale e non naturale. Fondare una ricerca su questo criterio com-
porterebbe quindi il rischio di non partire da zero, bensì da una in-
terpretazione, cioè di perdere quella sicurezza metodologica offerta
solo da un terreno neutro. L’alternativa moderna è il criterio crono-
logico, ma sappiamo bene quali insormontabili difficoltà comporti sta-
bilire una cronologia anche relativa dei dialoghi platonici. Non è dun-
que probabile che essa possa rappresentare un punto di partenza
stabile, ma fornirà piuttosto delle coordinate di massima da valutare
in corso d’opera. Diogene presenta in realtà un secondo criterio di
classificazione, pur sottovalutandone la portata filosofica.7 Anch’esso
deriva dall’imitazione di un carattere proprio del teatro, ma a diffe-
renza del criterio tetralogico non è estraneo alle opere che classifica.
Si tratta del criterio «scenico» (τραγικῶς), che distingue i dialoghi
platonici in drammatici, narrativi e misti, sulla base della loro forma
espressiva. Le buone ragioni per adottare questo criterio come il più
conveniente sono la sua naturalezza, e insieme la corrispondenza con
la classificazione platonica delle forme espressive nel terzo libro della
Repubblica.
Il primo capitolo di questo lavoro sarà dunque dedicato all’analisi
del passo su tale classificazione e di altri luoghi – il decimo libro della
Repubblica e alcuni passi del Fedro – che prendono in esame que-
stioni legate alla forma del logos e alla sua scrittura, al fine di deter-
minare se Platone può in qualche misura contribuire a un’interpreta-
zione del suo modo di «scrivere la filosofia».8 Il secondo capitolo
prenderà invece in esame il criterio scenico, applicandolo ai dialoghi
platonici, per stabilire quella classificazione ‘neutra’ necessaria alla ri-
cerca. Il terzo e il quarto capitolo offrono, infine, una proposta di
analisi dei proemi. Una proposta selettiva, che riguarda il gruppo dei
dialoghi misti e più in particolare dei dialoghi misti con narratore di-
verso da Socrate. La scelta di questi quattro dialoghi, nell’ordine di
analisi: Teeteto, Parmenide, Simposio e Fedone, dipende da una dop-

dell’Accademia: fu tale griglia, con ogni probabilità, a impedire che alcuni di quegli scritti,
i meno rilevanti e citati, col tempo si disperdessero» (cfr. p. 25). Si veda ora anche la di-
samina di CHARALABOPOULOS [384], pp. 178-192.
7
D.L. III 50.
8
VEGETTI [338], Lezione 4.

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INTRODUZIONE

pia ragione. In primo luogo, segue l’intuizione – condivisa dalla cri-


tica – per cui la complessa architettura dei loro proemi e la cura che
sottende nascondono probabilmente una ricchezza filosofica che me-
rita di essere esplorata. In secondo luogo, e di conseguenza, l’esame
di questi quattro proemi e dei loro dialoghi si è rivelato così fertile
da assorbire per intero i tempi e gli spazi della ricerca, rendendola
inevitabilmente parziale. Mi auguro, in ogni caso, che i risultati rag-
giunti possano avere una qualche validità generale, suggerendo la via
per completare la ricerca. Prima di iniziare, vorrei brevemente ren-
dere conto dell’interesse platonico per la forma scritta della filosofia
e per la sua arché, restituendolo al suo contesto storico; e insieme pre-
sentare lo status quaestionis sullo studio dei proemi, come parte di un
interesse più generale per la prosa dialogica di Platone.

Breve storia dell’esordio


Harold Cherniss ha condotto un’indagine sulle antiche forme del
discorso filosofico9 che mostra come, fin dalle origini del pensiero fi-
losofico occidentale, la scelta dello stile con cui scrivere e quindi tra-
smettere la propria filosofia sia stata avvertita come una scelta fon-
damentale. Dunque l’interesse per la scrittura della filosofia, per la
forma in cui veicolare i contenuti filosofici, non è esclusivo di Pla-
tone, bensì originario del pensiero filosofico. Cherniss avverte una
mancata percezione del problema da parte dei filosofi contemporanei
che, avendo fatto del trattato (o del saggio) l’unica forma di scrittura
filosofica, potrebbero giudicare questo interesse come un «interesse
antiquato» per dettagli superficiali e accidentali rispetto ai contenuti
filosofici (p. 14). La sua risposta consiste nel mostrare perché e in che
senso l’interesse per la forma del discorso filosofico sia originario.
Questo interesse non è originario semplicemente perché la nascita di
un nuovo genere letterario (in questo caso il logos filosofico) com-
porta una indagine iniziale che ne fissi i caratteri in rapporto ai ge-
neri preesistenti (il logos poetico); ma è originario, in un senso più
profondo, perché nasce dal cuore stesso del pensiero filosofico: i fi-
losofi, scrive Cherniss, desiderano conoscere. E se questo desiderio è
comune agli esseri umani, che per natura tendono al sapere, come
vuole Aristotele, allora è verosimile che i filosofi desiderino trasmet-
tere la conoscenza acquisita.
Anche assumendo il pessimismo epistemico di Platone, come viene

9
CHERNISS [164].

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INTRODUZIONE

rappresentato nell’allegoria della caverna (gli uomini sono convertiti


al sapere contro la propria volontà e i propri desideri), acquisizione
e trasmissione del sapere rimangono un’esigenza e un problema fon-
damentale del pensiero filosofico. Il pessimismo estremo è espresso
dalla celebre tesi di Gorgia: «niente è, e se anche fosse non sarebbe
conoscibile, e se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile».10
Al contrario di Gorgia, i primi filosofi assumono che sia possibile co-
noscere la reale natura del mondo e che insieme sia possibile tra-
smettere questa conoscenza ad altri che non la possiedono, e tra-
smetterla in forma scritta. La scelta di quale debba essere esattamente
questa forma dipende dal porsi in continuità o in contrasto con la tra-
dizione precedente in relazione ai contenuti che si vogliono comuni-
care, contenuti che riguardano tanto la dottrina quanto quelli che, di
volta in volta, sono ritenuti i caratteri peculiari del pensiero filoso-
fico, rispetto per esempio al pensiero poetico: si viene a creare in que-
sto modo una unità di forma e contenuto, che si rispecchiano l’una
nell’altro. La testimonianza di Diogene di Apollonia mostra inoltre
come, nel caso di un orientamento naturalista come quello dei primi
filosofi, il rispecchiamento di forma e contenuto del logos filosofico
riguardi in primo luogo proprio l’arché, che è insieme il principio
primo della realtà che si vuole conoscere e l’inizio del discorso su di
essa.11 Non solo la riflessione generale sulla forma del discorso filo-
sofico, dunque, ma anche quella particolare sul suo esordio si pre-
senta all’origine inscindibile dal fine conoscitivo del pensiero filoso-
fico, inteso sia come acquisizione, sia come trasmissione di conoscenza.
L’interesse per l’arché non nasce, tuttavia, con il logos filosofico,
ma è già proprio della scrittura, o meglio della fissazione del testo,
fin dalle sue origini. In seno a questa lunga tradizione si colloca dun-
que il caso platonico, come una sorta di coronamento. Il celebre passo
del Fedro che paragona ogni logos (πάντα λόγον) a un organismo vi-
vente mostra come Platone fosse ben consapevole del ruolo struttu-
rale, organico, del proemio, anche applicato al caso dei suoi stessi dia-
loghi: «Ogni logos deve essere composto come un essere vivente, dotato

10
Gorg. 82B3 DK (= S.E. M. VII 65-87).
11
Diog.Apoll. 64B1 DK (ap. D.L. IX 57, 12-14): «Chi inizia […] un qualunque dis-
corso, mi pare necessario che offra un inizio […] indiscutibile e poi un’esposizione sem-
plice e solenne» (Ἀρχὴ δὲ αὐτῷ τοῦ συγγράμματος ἥδε λόγου παντὸς ἀρχόμενον δοκεῖ
μοι χρεὼν εἶναι τὴν ἀρχὴν ἀναμφισβήτητον παρέχεσθαι, τὴν δ᾽ ἑρμηνείαν ἁπλῆν καὶ
σεμνήν). Secondo Diogene Laerzio, il libro di Diogene di Apollonia inizierebbe, dunque,
con una riflessione insieme metodologica e filosofica sull’inizio. Cfr. Hp. Loc.Hom. VI, p.
278, 14 Littré: «La costituzione del corpo», per un autore ippocratico, è «il principio [in
entrambi i sensi] del discorso medico».

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di un suo corpo, così da non risultare privo né di testa [ἀκέφαλον]


né di piedi, ma anzi da avere le parti intermedie e quelle estreme
scritte in modo conveniente [πρέποντα]12 l’una all’altra e all’insieme»
(264c).13 Sono numerosi i passi del corpus platonicum, dalla Repub-
blica alle Leggi, che testimoniano l’interesse di Platone per la funzione
retorica del proemio e per la sua utilità anche in un logos dialettico.
Ne ricaviamo le seguenti informazioni: (1) Nelle Leggi, dove viene
tratteggiata una sorta di teoria del proemio di una legge, ci si inter-
roga su come costruire un proemio che sia adeguato, conveniente, in-
tonato (ἱκανῶς προοιμιασάμεθα, IV 724a2-3; προοίμιον οἰκεῖον, VI
772e4; ἐμμελῆ […] προοιμιασάμενοι, XI 926e7-8), o composto in
modo corretto (προοιμιαζόμενος ὀρθῶς, VI 774a3; προοίμιον […]
ὀρθῶς, XI 930e5-6), e se ne sottolineano la generale funzione per-
suasiva (πειστικόν) e gli scopi specifici: suscitare nel lettore benevo-
lenza (χάριν, IV 723a) e conseguente ricettività, in perfetta sintonia
con i dettami della retorica classica e il triplice compito dell’esordio
di informare e rendere attento e benevolo l’ascoltatore.14 Da notare
che se la trattazione dei proemi delle leggi ha innegabilmente una sua
specificità, al tempo stesso la terminologia impiegata la accomuna alla
trattazione del proemio in termini più generali che possiamo rico-
struire da una lettura trasversale dei dialoghi: il rapporto resta quello
tra προοίμιον e νόμος, che si tratti del preludio e del canto (in mu-
sica o poesia), del proemio e della legge, o in generale del proemio e
del logos che introduce.15
(2) Da un altro passo del Fedro (266d7 ss.) ricaviamo, oltre a una
definizione minimale del proemio nei termini di «come bisogna espri-
mersi all’inizio del discorso» (ὡς δεῖ τοῦ λόγου λέγεσθαι ἐν ἀρχῇ,
266d7-8), un’importante testimonianza di come Platone ritenesse ne-
cessaria l’interazione di elementi retorici e dialettici nella buona for-
mazione di un logos. Nel passo in questione Socrate assegna almeno

12
Il prepon di qualcosa o qualcuno è per Platone una sua condizione naturale. Cfr.
Hp.Ma. 288e, 291a-b (in contrapposizione a 290c); R. IV 444b; Lg. IV 716e1 e VI 757c1-
6.
13
Cfr. i loci similes di Grg. 505c-d, Ti. 69a-b, Phlb. 66c-d, Lg. VI 752a, Plt. 277b-c,
e Arist. Rh. III 14, 1415b8-9: ὥσπερ σῶμα κεφαλήν.
14
Cfr. CALBOLI MONTEFUSCO [118], pp. 1-32.
15
Cfr. Arist. Rh. III 14, 1414b19 e CALBOLI MONTEFUSCO [118], pp. 1-2: «[…] l’e-
sordio fu paragonato da Aristotele al prologo nella poesia o al preludio nella musica au-
lodica […]. In particolare Aristotele paragonò gli esordi dei discorsi del genere giudizia-
rio ai prologhi del dramma e dell’epos, mentre al prologo del ditirambo assimilò quello
dei discorsi epidittici (rhet. 1415 a 8 segg.). Quanto ai discorsi di tipo deliberativo, in-
fine, egli riteneva che in essi l’esordio avesse una funzione molto limitata, in quanto ri-
volti ad ascoltatori già al corrente dell’argomento […]».

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INTRODUZIONE

ad alcune raffinatezze della tecnica retorica (τὰ κομψὰ τῆς τέχνης),


tra cui il proemio, uno statuto di bontà che le rende degne di affian-
care e completare strutturalmente i procedimenti dialettici della diaí-
resis e della synagogé.16 Il dialogo platonico si presenta evidentemente
come una combinazione di elementi retorici e dialettici, con buona
pace di chi sostiene che il πάντα λόγον di Phdr. 264c si riferisca ai
soli logoi retorici. La differenza, come si evince ancora una volta dalla
discussione del Fedro, non riguarda il rapporto di buona formazione
che intercorre tra i medi e gli estremi del logos, bensì il contenuto delle
parti intermedie, vale a dire i procedimenti di diaíresis e synagogé pro-
pri del discorso dialettico e quel saper dare e ricevere ragione in virtù
del quale il logos diviene persuasivo di una persuasione razionale.
(3) In sei casi Platone si riferisce esplicitamente a passi dei suoi
dialoghi chiamandoli proemi: in R. IV 432e7, Ti. 29d5 e Lg. IV 722d2
e V 726a1-734e3,17 si dice ‘proemio’ una lunga sezione, introduttiva
a una fase della discussione, che da un punto di vista strutturale fa
in realtà parte della trattazione – le ragioni sono verosimilmente te-
matiche.18 Più interessanti i due casi di La. 179a1, dove Lisimaco
spiega perché sta prolungando il suo proemio (o preludio) dall’interno
del proemio strutturale del Lachete; e soprattutto R. II 357a2, dove
ci si riferisce all’intero I libro come a un proemio – e in questo caso
le ragioni tematiche e quelle strutturali si sovrappongono. L’evidente
complessità e varietà delle scene introduttive dei dialoghi, infine, col-
loca i proemi platonici nella direzione di un’evoluzione dall’esordio
al proemio, che nella storia degli esordi a partire dai poemi omerici
ha inizio con il proemio della Teogonia di Esiodo. L’esordio del lo-
gos in origine poteva essere di due tipi: un’invocazione (per es. nei
poemi omerici) oppure un vero e proprio proemio (è il caso della Teo-
gonia di Esiodo, il primo proemio poetico, e del proemio al poema
di Parmenide, il primo filosofico). L’invocazione a sua volta poteva
essere incipitaria (come negli esordi di Iliade e Odissea) o catalo-
gica/interna (per es. nel II libro dell’Iliade); e l’invocazione incipita-

16
Cfr. R. VII 531d-532d: passo parallelo da un punto di vista tematico (si tratta an-
che qui del rapporto tra il proemio e il νόμος della dialettica, descritto in termini di «dare
e ricevere ragione» anziché come combinazione dei procedimenti dialettici di diaíresis e
synagogé), con una differenza: non riguarda il rapporto strutturale tra il proemio retorico
e il logos dialettico, bensì quello dottrinale tra l’apprendimento di saperi preparatori e
l’apprendimento del sapere dialettico, affermando in modo esplicito la necessità di un
προοίμιον epistemico per poter accedere al «canto» della dialettica.
17
Cfr. supra, IV 723e-724a.
18
Nel caso di Lg. IV 722d2 si dice, per es., che quanto precede è un lungo proemio
alla legge.

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ria, innodica (come negli Inni Omerici) o tematica (per es. quella del-
l’Iliade sull’argomento dell’ira).19
Le caratteristiche peculiari di un proemio erano le seguenti: 1. la
credibilità e l’autorità dell’autore nei confronti di un uditorio; 2. il ri-
corso a forme tradizionali di invocazione; 3. la presenza di elementi
personali, perlopiù legati alla vita dell’autore; 4. l’aspetto tematico.20
Fatta eccezione per il repertorio tradizionale di invocazioni e riferi-
menti a divinità, che pertiene all’ambito poetico (ne tiene ancora conto,
in parte, Parmenide, che scrive in versi), i proemi platonici rispon-
dono, benché in modo peculiare, a tutte le restanti caratteristiche, così
come alle tre funzioni retoriche. Gli elementi personali, per esempio,
riguardano direttamente i personaggi rappresentati nei dialoghi, i quali
ricevono perlopiù nel proemio una forte caratterizzazione, che esalta
i tratti di alcune figure note o enfatizza i caratteri delle figure fittizie
così da renderle rappresentative di un gruppo o di una categoria; ma
riguardano anche indirettamente Platone autore dei dialoghi, nella mi-
sura in cui mostrano in negativo la sua scelta di anonimato. Per quanto
concerne i tre scopi retorici, anche in questo caso i proemi platonici
sembrano adempierli, benché in misura diversa: forniscono informa-
zioni relative alla collocazione spazio-temporale della vicenda, narrata
o rappresentata, oltre ai nomi e ai caratteri dei personaggi, rendendo
in tal modo il lettore docile. Quanto all’attenzione e alla conseguente
benevolenza, è indubbio che scene viventi così varie e complesse cat-
turino con facilità l’interesse del lettore o dell’ascoltatore.21

19
Per i dettagli sulla storia letteraria del proemio ringrazio Simonetta Nannini; per
gli esordi poetici, epici, tragici e storici, rimando in particolare a PEDRICK [126], PELLIC-
CIA [127], R ACE [129] e S EGAL [132] (contenuti in D UNN /C OLE [121]), D UBOIS /R OUSSEL
[120], PORCIANI [128] e ROMEO [130]; per una ricostruzione dell’etimologia di prooimion,
rinvio invece al recente saggio di B. Maslov (MASLOV [125]).
20
Devo queste informazioni a un seminario di S. Nannini sul proemio del poema Sulla
Natura di Parmenide.
21
L’interesse filosofico per i proemi è testimoniato anche dalla notizia secondo cui
Teofrasto avrebbe composto un’opera sui proemi (Περὶ προοιμίων) in un solo libro (D.L.
V 48). Proclo, tuttavia, giudicava questo interesse insufficiente, accusando Teofrasto di
non saper comporre un logos organico nel senso indicato dal Fedro di Platone, offendendo
il suo orecchio critico. Cfr. in Prm. 659.20-23: […] τὸ δὲ παντελῶς ἀλλότρια τὰ προοίμια
τῶν ἑπομένων εἶναι, καθάπερ τὰ τῶν Ἡρακλείδου τοῦ Ποντικοῦ καὶ Θεοφράστου διαλόγων,
πᾶσαν ἀνιᾷ κρίσεως μετέχουσαν ἀκοήν. L’interesse per il proemio, inoltre, coinvolge la
critica al di là del caso platonico: S. Fazzo, per esempio, ha dedicato due studi agli esordi
dei trattati aristotelici (FAZZO [676] e [677]). Autori di raccolte di Proemi furono infine:
Trasimaco di Calcèdone (85B4 DK [ap. Ath. X 416A]), il retore Antifonte di Ramnunte
(frr. 68-70 Blass [= T 13-14 Radermacher]), il quale scrisse una raccolta di proemi e forse
anche di epiloghi giudiziari, e Crizia, che ne scrisse una di proemi assembleari (88B43
DK). Cfr. AVEZZÙ [218], p. 413.
Per quanto riguarda il concetto di inizio, lo studio teorico più vasto rimane quello

—8—
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INTRODUZIONE

La nascita del dialogo filosofico


Il caso di Platone, pur rientrando in questo quadro generale, si di-
stingue per la sua complessità: in primo luogo, dobbiamo a Platone
la massima espressione scritta di quella nuova forma di discorso filo-
sofico che nasce con Socrate: il dialogo erotetico, fatto di domande e
risposte brevi e pertinenti, che una volta scritto diventa un nuovo ge-
nere di prosa filosofica: il <diá>logos sokratikós.22 Platone non è l’u-
nico filosofo a scrivere dialoghi (ne scrivono, per es., Aristotele, Ci-
cerone, Agostino), né è l’unico a scrivere dialoghi socratici, cioè dialoghi
alla maniera di Socrate, e che perlopiù23 hanno Socrate come prota-
gonista (ne scrivono anche, per es., Eschine, Antistene e Senofonte).
Tuttavia i dialoghi platonici sono per noi l’esempio più eloquente di
logoi sokratikoí. I logoi sokratikoí, come sottolinea Cherniss, sono l’e-
spressione scritta di quel «discorso vivente» in cui consisteva il dia-
logo socratico (di cui non abbiamo una registrazione esatta), che era
tutt’uno con la personalità di Socrate, espressione scritta che è la con-
seguenza degli effetti che quel discorso ha prodotto su menti diverse.
La mente più vicina a quella di Socrate ha prodotto il risultato più
fedele al suo pensiero, vale a dire quelli che noi chiamiamo «dialoghi
platonici» e che Aristotele invece chiamava «socratici», dialoghi fit-
tizi che non sempre e non necessariamente hanno Socrate come pro-
tagonista, ma di cui Socrate rimane l’eroe indiscusso perché quel dis-
corso vivente che è tutt’uno con la sua figura non viene mai meno:
ciò che lo contraddistingue è essenzialmente il suo essere centrato sul-
l’interlocutore, sue sono le credenze in gioco, le tesi accolte o confu-
tate, suo il beneficio maggiore che segue la confutazione.24 Il ruolo di

dell’americano E. Said: «As a problem for study, “beginnings” are attractive, first of all, be-
cause while one can isolate a beginning analytically, the notion of beginning itself is practi-
cally tied up in a whole complex of relations. Thus between the word beginning and the
word origin lies a constantly changing system of meanings, most of them of course making
first one then the other word convey greater priority, importance, explanatory power. As
consistently as possible I use beginning as having the more active meaning, and origin the
more passive one: thus “X is the origin of Y”, while “The beginning A leads to B”. In due
course I hope to show, however, how ideas about origins, because of their passivity, are put
to uses I believe ought to be avoided. But even this distinction seems relatively crude when
one considers how many words and ideas in current thought and writing hover about the
concept of “beginnings”: innovation, novelty, originality, revolution, change, convention, tra-
dition, period, authority, influence, to name but a few» (SAID [234], pp. 5-6).
22
Sul genere dei logoi sokratikoí si vedano in particolare i lavori di ROSSETTI [210]-
[213], e ora [216], e VEGETTI [217]. La fonte è ovviamente GIANNANTONI [89].
23
Aristotele, nella Politica, parla di logos sokratikós in riferimento alle Leggi, dove So-
crate non compare (II 6, 1265a11).
24
Vedi infra, pp. 176-177 n. 258.

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INTRODUZIONE

Socrate o di chi per lui conduce il dialogo è quello di porre domande,


non trasmettere un sapere, mostrare qual è il modo giusto di pensare
razionalmente, non fornire contenuti al pensiero.25
È evidente che il rapporto tra acquisizione e trasmissione di un sa-
pere e la scelta di una determinata forma per esprimere la propria fi-
losofia non è semplice per un autore come Platone, che fa di Socrate,
e cioè di qualcuno che proclamava di non possedere alcun sapere, l’e-
roe della sua filosofia, che sceglie come forma del proprio discorso
filosofico il dialogo socratico, cioè un logos che non ha come obiet-
tivo la trasmissione di conoscenze, che si cela dietro l’anonimato26 e
rivolge alla scrittura critiche esplicite. Infine, traducendo in forma
scritta il logos socratico, Platone di fatto crea, insieme a una nuova
forma di discorso filosofico, un vero e proprio genere letterario, che
nasce e muore con lui,27 e che presenta tra i suoi caratteri peculiari
una cura speciale per i dettagli formali e strutturali, soprattutto quelli
delle scene introduttive o proemi. Questa cura del proemio sembra
suggerire una via d’accesso preferenziale alla comprensione del rap-
porto tra la forma e il contenuto della filosofia platonica, e così sem-
bravano pensarla già gli antichi, che declinavano il problema generale
della forma letteraria adottata da Platone proprio a partire dai proemi.

Interpretazioni dei proemi platonici


Le interpretazioni che sono state date, da antichi e moderni, della
funzione dei proemi dei dialoghi platonici, possono essere suddivise
in tre grandi categorie: la prima comprende le cosiddette interpreta-
zioni paradigmatiche, i cui esponenti principali sono Proclo per gli
antichi e Leo Strauss per i moderni. Si tratta del tentativo di indivi-
duare un paradigma interpretativo che valga per i proemi di tutti i
dialoghi, cioè che individui un’unica funzione filosofica del proemio
platonico. La seconda categoria è rappresentata dall’approccio inter-

25
Per questo ritengo, con Cherniss, che il dialogo socratico sia un modello per eser-
citarsi a pensare, perché se Platone definisce il pensiero come un dialogo silenzioso del-
l’anima con se stessa (Tht. 189e-190a, Sph. 264a), allora è l’esterno a fornire un modello
per l’interno. Cfr. RYLE [885], cap. 2: Thought and Soliloquy, p. 33: «Doubtless when
Plato said, in the Sophist, that in thinking the soul is conversing with herself, or – I sur-
mise rather – that she is debating with herself, he was considering what he himself did
and had to do, when tackling philosophical problems in particular». Vedi infra, pp. 133
e n. 120, 135-138 e la n. 130 di p. 137.
26
L’«anonimia autoriale» è in realtà una caratteristica comune al genere dei logoi so-
kratikoí; cfr. VEGETTI [217], pp. 123-124.
27
Cfr. VEGETTI [217], p. 130.

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INTRODUZIONE

pretativo del Third Way,28 metodologicamente ineccepibile: si tratta


di fissare alcuni elementi caratteristici delle scene introduttive come
le concepisce Platone e di analizzarli in ogni proemio singolarmente
preso. La terza categoria, infine, è costituita dalle cosiddette inter-
pretazioni metafilosofiche, che considerano alcuni particolari proemi,
i proemi complessi o a più livelli narrativi29 (per esempio quello del
Simposio), ragionando sull’uso che l’autore, Platone, può averne fatto
per attirare l’attenzione del lettore sui meccanismi propri della sua
scrittura filosofica. Le interpretazioni antiche rientrano tutte nella
prima categoria.
Proclo (V sec. d.C.) è la fonte più importante per noi dell’inte-
resse nell’antichità per i proemi platonici30 ed è testimone delle tre
interpretazioni antiche di cui abbiamo notizia, oltre che della querelle
tra i loro sostenitori:31 (1) la prima, attribuita a Severo e ai Medio-
platonici in generale, è un’interpretazione negativa, nel senso che nega
qualsiasi interesse filosofico ai proemi, considerandoli alla stregua di
«preliminari» per chi sia genuinamente interessato alle dottrine.32 Mal-
grado sembri di scarso interesse per chi, da buon platonista del XXI
secolo, riconosce alla forma un ruolo importante nella filosofia dei
dialoghi, questa interpretazione ha goduto di una fama considerevole.
Vi rientrano, per esempio, il giudizio di Diogene Laerzio sul criterio
scenico di classificazione, segnalato come «non filosofico»,33 e anche

28
«The “third way” […] is not a new school or a new interpretation: it is instead a
way of exploring relatively new territory beyond the boundaries of the skeptical and “doc-
trinal” conceptions of philosophy that have so far ruled Platonic studies» (GONZALEZ
[282], p. X). La «terza via» tra scetticismo e dogmatismo, non solo nell’interpretazione
di Platone, era stata in realtà già indicata da Hegel: «[…] oltre allo scetticismo e al dog-
matismo esist[e] ancora un terzo termine, cioè la filosofia» (HEGEL [868], p. 81; cfr. [869],
p. 505); e in forma ancor più radicale da Wittgenstein: «Il filosofo non è cittadino di una
comunità di pensiero. È questo ciò che ne fa un filosofo» (Zettel, § 455). Cfr. infra, p.
186 n. 289.
29
Sul concetto di livello narrativo si veda in particolare GENETTE [228], pp. 275 ss.:
«Definiremo la differenza di livello dicendo che ogni avvenimento raccontato da un rac-
conto si trova a un livello diegetico immediatamente superiore a quello dove si situa l’atto
narrativo produttore di tale racconto» (p. 275).
30
Nella Retorica (III 14, 1414b19 ss.), Aristotele pone la differenza tra gli inizi (ar-
chai): il prologo (per la poesia), il proemio (per il logos) e il preludio (nel suonare il flauto),
ma non si occupa dei proemi platonici.
Proclo prende una posizione netta in seno al dibattito sul valore dei proemi. Cfr. in
R. I 5.12 ss. e in Alc. 18.13 ss.
31
Vedi Procl. in Prm. 658-659. Cfr. in Ti. I 204.16-29; in R. I 5.6-25; in Alc. 18.13
ss., 131.15-16.
32
[…] περὶ τῶν Πλατωνικῶν προοιμίων διαφόρους δόξας ἐχόντων, καὶ τῶν μὲν εἰς
τὴν τούτων ἐξέτασιν οὐδ᾽ ὅλως καθιέντων (ἥκειν γὰρ χρῆναι ταῦτα προακηκοότας τοὺς
τῶν δογμάτων ἐραστὰς γνησίους).
33
Cfr. D.L. III 50 e infra, p. 69.

— 11 —
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INTRODUZIONE

un certo orientamento analitico e dogmatico della critica moderna,


che a lungo ha dominato la scena degli studi platonici.34 Vorrei fare
del loro punto di vista una sorta di sponda a uso cautelativo, che ci
impedisca di oltrepassare il limite della sensatezza nell’attribuire agli
elementi proemiali un significato.35 Questo è infatti il rischio che cor-
rono le interpretazioni positive, di cadere nell’eccesso opposto. In al-
tre parole, Severo, Diogene e i Medioplatonici saranno lì a impedirci
di scambiare le indubbie abilità letterarie di Platone con le sue doti,
altrettanto indubbie, di filosofo.
(2) La seconda interpretazione è attribuita a Porfirio ed è nota
come l’interpretazione stoica o morale: scopo dei proemi sarebbe
quello di presentare, attraverso la prima caratterizzazione dei perso-
naggi, esempi viventi di kathékonta, cioè di comportamenti moral-
mente corretti o appropriati. Sembra condividere questa interpreta-
zione morale l’Anonimo commentatore del Teeteto, che attribuisce ai
Socratici una certa familiarità con queste nozioni: «Il proemio con-
tiene un abbozzo di comportamenti corretti, che gli Stoici chiamano
‘azioni appropriate’ [καθήκοντα]. Ma le cose di questo genere nei So-
cratici sono chiarissime e non richiedono esegesi» (Anon. IV 17-28).
Né Proclo né l’Anonimo ci sono d’aiuto a chiarire il concetto stoico
di kathekon, che forse a loro era noto e «chiarissimo», ma che per
noi rappresenta un problema esegetico. Sui dettagli della questione
rimando dunque allo studio specialistico di David Sedley,36 limitan-
domi qui a una considerazione di carattere più generale.
Mi sembra quanto meno azzardato attribuire il titolo di paradigma
al comportamento di molti degli interlocutori di Socrate nelle scene
dialogiche: di certo, nelle intenzioni platoniche, non erano da imitare
la vanità di Ione o la presunzione di Ippia, ma nemmeno il cieco en-

34
«Tali pensieri puri, nella considerazione dei quali in sé e per sé insiste risolutamente
l’indagine platonica, sono, oltre l’essere e il non essere, l’uno e i molti, anche p. e. l’illi-
mitato e il limite. Senza dubbio la maniera puramente logica e affatto astrusa con cui Pla-
tone considera simili oggetti contrasta fortemente con l’opinione corrente intorno alla bel-
lezza, alla venustà, all’attraenza del contenuto di Platone. […] Uno dei motivi per cui
taluni s’allontanano malcontenti dallo studio delle opere platoniche si è che, quando si
prende a leggere un dialogo, si trovano, nella spigliata maniera dell’esposizione platonica,
belle scene naturali, magnifici esordi, che sembrano promettere d’avviarci alla filosofia –
e proprio alla più elevata filosofia, alla filosofia platonica – per un sentiero di fiori. Ci si
imbatte in cose sublimi, che piacciono specialmente ai giovani: ma tutto finisce presto.
Non ci si è ancora lasciati attrarre da quelle liete scene che occorre rinunziarvi, ed en-
trare nel campo propriamente dialettico e speculativo, dove si è punti dalle spine e dai
cardi della metafisica» (H EGEL [869], p. 210).
35
Oggi il monito di Friedländer: «Plato, like nature, does nothing in vain» rischie-
rebbe di essere frainteso. Traggo la citazione da ARNE [633], p. 1.
36
SEDLEY [643].

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INTRODUZIONE

tusiasmo retorico di Fedro, l’emotività incontrollata di Apollodoro o


la testardaggine afilosofica di Critone. D’altra parte, dire che il loro
comportamento finisce per essere corretto nella misura in cui accet-
tano di sottoporsi all’esame socratico non significa ugualmente farne
dei modelli, ma semmai promuovere il logos sokratikós come pratica
filosofica di risanamento dell’anima. Infine, se invece Porfirio inten-
deva semplicemente dire che i proemi rappresentano caratteri morali
che influiranno in modo decisivo sulle argomentazioni seguenti, que-
sto è senz’altro vero, ma descrive solo in parte la funzione caratte-
rizzante che essi indubbiamente svolgono. All’e–thos dei personaggi
vanno aggiunte almeno le indicazioni relative allo spazio e al tempo
in cui è calata la vicenda.
(3) La terza interpretazione, che Proclo stesso condivide con Giam-
blico, è quella allegorica, e costituisce probabilmente il primo vero
paradigma esegetico di cui disponiamo. Questa interpretazione, che
per Proclo incorpora anche l’interpretazione morale, considera i proemi
– o parti di essi – alla stregua di immagini allegoriche dei dialoghi
che introducono. Come osserva Burnyeat,37 la novità di questa inter-
pretazione rispetto a quella stoica risiede nella relazione tra il proe-
mio e il contenuto filosofico del dialogo che essa stabilisce: è neces-
sario leggere integralmente il dialogo per vederlo «rappresentato o
riflesso» (…) «nei dettagli della scena iniziale», cogliendo in tal modo
à rebours il pieno significato di quei dettagli. Questo circolo erme-
neutico di ‘andata e ritorno’, che riunisce l’inizio e la fine del dialogo
a formare un ordine cosmico, presuppone infatti l’adattamento del
principio di formazione organica del logos formulato nel Fedro alla
dottrina neoplatonica. L’idea è che ogni dialogo platonico rappresenti
una sorta di microcosmo che rispecchia l’unità e l’ordine dell’Uni-
verso; il principio che governa l’unità e l’ordine del logos è lo skopós
del dialogo.38
Nel commento alla Repubblica, Proclo dichiara di voler applicare
la sua interpretazione al proemio catabatico dell’opera, affinché gli al-
lievi possano seguirne la traccia paradigmatica interpretando allo stesso
modo gli altri dialoghi. Con questa dichiarazione e con l’invito che
ne consegue, Proclo si impegna a ritenere la sua lettura esemplare e
valida per tutti i dialoghi. Di fatto, le sue interpretazioni di cui siamo
parzialmente a conoscenza sono quattro: oltre al proemio della Re-

37
Cfr. BURNYEAT [635], p. 3.
38
Cfr. Procl. in Prm. 659, con il relativo commento di J. M. Dillon (MORROW/DIL-
LON [68], pp. 3-4, 11), e Anon., Prolegomena Philosophiae Platonicae, 15.1 ss.

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INTRODUZIONE

pubblica, quelli del Parmenide, del Timeo e dell’Alcibiade I, dialoghi


rappresentativi delle tre tipologie fissate dal criterio scenico: la Re-
pubblica è un dialogo narrato, il Parmenide misto, il Timeo e l’Alci-
biade I drammatici, uno dell’ultimo periodo, l’altro del primo.39 Ciò
non significa tuttavia che l’interpretazione sia funzionale all’analisi di
tutti i proemi, in numero considerevolmente maggiore; e Proclo non
ha nemmeno dimostrato che essa valga per una categoria specifica.
D’altra parte è vero che i proemi sembrano per lo più alludere, ognuno
a suo modo, al contenuto del dialogo, offrendone come un’immagine
condensata – a volte contenuta in una sola parola incipitaria. Non mi
persuade, però, l’ipotesi che questa allusione nasconda un significato
metafisico.40 Il rispetto del principio organico del Fedro richiede sem-
plicemente – come vedremo – che le parti di cui si compone il logos,
dunque anche il proemio, siano «convenienti» le une alle altre. Que-
sta convenienza riguarda per prima cosa il discorso, non il mondo, e
credo che la lettura semplice, di superficie, meriti di essere indagata
almeno quanto quella allegorica, oltre a presentare su di essa un’ov-
via precedenza.
Ma l’obiezione fondamentale che mi sembra di poter rivolgere al-
l’interpretazione allegorica è la seguente: se davvero il proemio fosse
un microcosmo del dialogo, a sua volta riflesso dell’ordine cosmico, in
che cosa esattamente consisterebbe la sua funzione filosofica? Perché
è di questo che si tratta, o almeno questo è l’interesse che muove la
mia ricerca: non solo capire i meccanismi di costruzione dei proemi,
ma chiedersi se in essi sia racchiuso un messaggio filosofico che an-
drebbe perso qualora i dialoghi venissero privati delle loro mises en
scène. A questa domanda la lettura circolare, da sola, non dà risposta.
Come risulterà nel seguito del lavoro, la sensibilità di Proclo per le ri-
sonanze degli elementi proemiali è comunque in sintonia con il mio
modo di procedere, e gli va riconosciuto l’indubbio merito di avere
inaugurato la fertile via interpretativa che ancora oggi ci piace seguire.
Le interpretazioni moderne paradigmatiche sono riconducibili a
due grandi tipologie e ad alcuni casi singoli:41 (1) la prima fa capo a
Leo Strauss e ai suoi allievi, Stanley Rosen e Allan D. Bloom in par-

39
Per una lettura evolutiva della classificazione formale dei dialoghi, vedi infra, p. 23.
40
Eccessive le direttive di in Alc. 10.4 ss., dove Proclo afferma che ogni dialogo deve
presentare strette analogie con il Tutto in base a Bene, Intelletto, Anima, Forma e Ma-
teria.
41
Si tratta in realtà di interpretazioni contemporanee: tra Proclo e Leo Strauss sem-
bra che i proemi platonici siano stati giudicati, se non filosoficamente irrilevanti, quanto
meno non degni di un interesse specifico.

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INTRODUZIONE

ticolare,42 secondo i quali il dialogo non sarebbe anticipato dal proe-


mio in forma allegorica, ma piuttosto in virtù di certe allusioni ai punti
nevralgici della discussione filosofica seguente. Il movimento è lineare:
dal proemio al dialogo, cioè questa volta è il proemio a contenere la
chiave di lettura che ci consente di cogliere il significato del dialogo.43
L’interpretazione lineare di Strauss e quella circolare di Giamblico e
Proclo sono dunque essenzialmente incompatibili. Ma vediamo più da
vicino in cosa consiste la lettura straussiana. La sua formulazione più
chiara e convincente è contenuta nella Preface del commento alla Re-
pubblica di Bloom.44 Questa interpretazione, che abbiamo definito li-
neare dal raffronto con quella procliana, sembra infatti giocare con
gli stessi elementi, cambiandoli di segno. Anche per Bloom il dialogo
platonico è un microcosmo: «The Platonic dialogues are a represen-
tation of the world; they are a cosmos in themselves»; non, tuttavia,
nel senso che rispecchia il macrocosmo dell’Universo. Il mondo dia-
logico è tale perché riproduce le regole del mondo umano e la sua di-
stinzione tra parole e azioni, entrambe necessarie per capire l’essere
umano, per capire ogni singolo uomo. La differenza sta nell’elemento
di artificialità che questi universi dialogici inevitabilmente – ma anche
e soprattutto volutamente – contengono, perché in essi «Plato repro-
duced the essential world as he saw it». La differenza, in altre parole,
è che nei dialoghi «there are no meaningless accidents», perché sono
costruiti in modo tale che ogni parte sia integralmente connessa con
ogni altra.
Ma laddove le due interpretazioni divergono maggiormente è nel
rapporto che stabiliscono tra proemio e dialogo: se per Proclo il proe-
mio è una prefigurazione icastica e in scala ridotta del dialogo, per
Bloom ne contiene invece la chiave di lettura:
Every argument must be interpreted dramatically, for every argument is in-
complete in itself and only the context can supply the missing links. And every
dramatic detail must be interpreted philosophically, because these details con-
tain the images of the problems which complete the arguments.45

E ancora: «By way of the drama one comes to the profoundest is-
sues»; e «[t]he intention of a dialogue is the cause of its form, and
that intention comes to light only to those who reflect on its form».

42
Cfr. STRAUSS [325], ROSEN [39], BLOOM [5].
43
Un esempio di questa interpretazione lineare del proemio è offerto dal commento
al Carmide di HAZEBROUCQ [24].
44
BLOOM [8], pp. xv-xix.
45
BLOOM [8], p. xvi, c.vo mio.

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INTRODUZIONE

Se la osserviamo attentamente, tuttavia, anche questa interpretazione


finisce col presupporre un movimento di ‘andata e ritorno’ simile a
quello proposto da Proclo – il principio organico del Fedro è di nuovo
latente, così come il riconoscimento del potere allusivo delle scene
iniziali. Si tratta infatti di «completare» il messaggio del dialogo at-
traverso un’immagine. La differenza consiste allora nel ruolo da as-
segnare a questa immagine: essa non alluderebbe allegoricamente al-
l’intero, bensì all’ingrediente mancante o alla prospettiva necessaria
affinché le parti acquisiscano senso. Se di Proclo merita di essere con-
servato l’invito a curarsi del dettaglio scenico, prendendolo sul serio,
l’interpretazione di Strauss e dei suoi allievi presenta il vantaggio di
riconoscere al proemio una funzione realmente filosofica, vale a dire
un messaggio filosofico da trasmettere, qualunque esso sia.
Prese nel loro insieme, ritengo che entrambe le interpretazioni siano
falsificabili in un modo piuttosto semplice: vi sono proemi che le esem-
plificano entrambe. Questa, che all’apparenza sembra una contraddi-
zione, è in realtà la prova della loro insufficienza. Prendiamo per esem-
pio un proemio breve ma denso di dettagli come quello dello Ione.46
Esso contiene la formulazione della tesi condizionale (se Ione è un
buon rapsodo, allora è un conoscitore di Omero) che sarà oggetto
d’esame nel dialogo (530b-c). Questa tesi non verrà più formulata al-
l’interno del corpo dialogico, dunque la perdita del proemio sarebbe
indubbiamente significativa, privando il dialogo di quel tassello che
ne aziona il meccanismo filosofico, come vuole Strauss. Così come è
un segnale utile alla lettura dello scambio dialogico l’incipit che pre-
senta Ione di Efeso come celebre e vanitoso attraverso l’uso di una
formula di saluto solenne (Τὸν Ἴωνα χαίρειν). Tuttavia, accanto a
questi elementi significativi già in partenza, vi sono dettagli apparen-
temente banali che acquistano senso alla luce di una lettura integrale
dell’opera, dunque à rebours. È il caso della formula di buon auspi-
cio Ἀλλ᾽ ἔσται ταῦτα, ἐὰν θεὸς ἐθέλῃ (530b4). Il suo significato ba-
nale si carica di risonanze se letto nella prospettiva della teoria so-
cratica dell’ispirazione divina che costituisce il cuore del dialogo. Lo
stesso può dirsi per i dialoghi maggiori, indipendentemente dalla forma
espressiva che adottano. La stessa Repubblica, commentata da Bloom,
presenta un incipit innegabilmente allusivo nella sua primissima pa-
rola, Κατέβην, che non può non evocare per il ‘lettore di ritorno’ la
discesa del filosofo nella caverna, che rappresenta il fine dell’educa-
zione filosofica e insieme il centro filosofico del dialogo.

46
Per un esame più dettagliato di questo proemio, rimando a un mio precedente la-
voro (CAPUCCINO [10], pp. 103 ss.; cfr. anche CAPUCCINO [535]).

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INTRODUZIONE

(2) La seconda interpretazione moderna è formulata da Myles Burn-


yeat nel suo First Words: A Valedictory Lecture, una lezione di con-
gedo che è insieme un aggiornamento della lettura di Proclo con par-
ticolare attenzione alle primissime parole dei proemi e alla ricchezza
di significato che esse rivelano solo a una lettura à rebours; e una di-
chiarazione di metodo che auspica la diffusione di un nuovo atteg-
giamento, negli studi platonici, che non prescinda mai dagli aspetti
letterari dei dialoghi. «When the philosophical content is properly un-
derstood, it will be seen to be imaged or reflected (ἐνεικονίζεται, the
verb from εἰκών, ‘image’) in the details of the opening scene».47 Il
merito maggiore di Burnyeat è di avere dimostrato come le allusioni
delle primissime parole («first words») agiscano effettivamente nei dia-
loghi alla stregua dell’ouverture di un’opera.48 Credo si debba tenere
debito conto di questa conferma, che riguarda sia i dialoghi dram-
matici (Leggi, Gorgia, Cratilo, Menone, Timeo, Filebo) sia quelli nar-
rati (Repubblica) e misti (Teeteto, Fedone e Simposio).49
47
BURNYEAT [635], p. 3.
48
BURNYEAT [635], p. 4.
49
Sono questi i dialoghi presi in esame da Burnyeat. ‘Circolare’ anche l’interpreta-
zione di D. Clay: «[…] the beginnings – and the ends – of Platonic dialogues are intelli-
gible only once the whole of which they are a part has been understood» (CLAY [636],
p. 115). E in effetti non solo le prime ma anche le ultime parole sembrano non essere ca-
suali nell’opera platonica e assumere – almeno in alcuni casi – un particolare valore. Que-
sto vale, ad esempio, per le parole conclusive dell’Apologia (τῷ θεῷ) e dello Ione (ἐπαινέτης,
vedi infra, p. 173 n. 246). Lo stesso Burnyeat ne sottolinea l’importanza: «Closing words
are another rich topic: each of the three parts of Dante’s Divine Comedy ends with the
word ‘stelle’» (BURNYEAT [635], p. 17 n. 25); e segnala come caso emblematico, per il rap-
porto che intrattiene con il proemio, l’epilogo del Filebo (pp. 17-19). Cfr. Schopenhauer,
Parerga und Paralipomena, II, 296a: «[…] e si riesce a comprendere il principio veramente
bene soltanto dopo aver conosciuto la fine […]».
Dopo aver enunciato il principio metodologico della lettura circolare, Clay avanza
un’ipotesi interpretativa – apparentemente non filosofica – del gruppo di proemi che ab-
biamo definito misti (Fedone, Simposio, Parmenide e Teeteto), ma si limita, di fatto, ad
analizzare il caso del Fedone e a paragonarlo con quello di un dialogo narrato come la
Repubblica: «In the case of the Phaedo it can be argued that the frame dialogue in Phlius
it is not enough to stop with admiration of how the extremities of this dialogue connect
in elegant and precise junctures with the inner dialogue they introduce. If frame dialo-
gues like that of the Phaedo can be shown to respond to the literary demand of logogra-
phic necessity, they have another function that has nothing to do with logographic ne-
cessity. In the case of Phaedo, Symposium, Theaetetus, and Parmenides, the frame dialogues
serve to connect the age of Socrates and his conversations with the age of his memoria-
lists – Phaedo of Elis, Apollodorus of Athens, Eucleides of Megara, Cephalus of Clazo-
menae, and, we are not allowed to forget, Plato of Athens. Not all of these memorialists
are reliable narrators, but that is another story» (pp. 124-125). Vedremo come questa
«funzione connettiva» – che rovesciata diventa denuncia della distanza – abbia a che ve-
dere, in un senso più profondo, con la riflessione platonica sui possibili modi di trasmis-
sione dei logoi sokratikoí e sulla loro adeguatezza nel trasmetterli (in particolare, infra,
pp. 126 ss.).

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Ancora in linea con l’interpretazione circolare inaugurata da Pro-


clo, la lettura «organica» di una studiosa francese, Sylvie Solère-Que-
val, autrice dell’unica monografia sui proemi platonici, una tesi di dot-
torato inedita.50 Tuttavia, la sua interpretazione è esemplificata in un
articolo dedicato al proemio megarico del Teeteto (142a1-143c8), dove
Solère-Queval applica la tesi generale per cui «en ces sites privilégiés
que sont les “bouts et milieu” d’un texte, Platon livre la clef qui per-
met de dépasser la lettre du texte pour en saisir la vie propre».51 Il
proemio, «armonique au dialogue qu’il ouvre, […] indique secrète-
ment le point de vue d’où il faut le lire, il en donne le ton au sens
musical du terme».52 Ma per cogliere la chiave è necessario lo sguardo
d’insieme che segue la lettura del dialogo, che si conferma dunque cir-
colare. È inoltre evidente da un secondo articolo53 che la tesi organica
di Solère-Queval presenta un côté psicologico: la sua diaíresis del cor-
pus platonico dà come esito originale un gruppo di sei dialoghi diretti
tra due soli interlocutori («entretiens en tête-à-tête»),54 ai quali applica
la versione psicologica della sua lettura, versione che nella tesi di dot-
torato estendeva all’intero corpus.
Alla base di entrambi gli aspetti – organico e psicologico – del-
l’interpretazione troviamo il concetto di mímesis: la scrittura plato-
nica si caratterizzerebbe come imitativa di un modello – nel senso
della mimesi icastica del Sofista – identificato con l’anima, e sarebbe
la sua forma a indicare di quale modello specifico si tratti, cioè di
quale parte dell’anima, essendo copia e modello isomorfi. Nel caso
dei sei tête-à-tête, la scrittura imiterebbe l’epithymetikón, assumen-
done i caratteri: come l’anima dominata dai piaceri vive nel presente
– in balìa della sorte, senza ordine né costrizioni – la sua vita varia,
effimera e imprevedibile, così i dialoghi diretti a due si inscrivono
nella singolarità di una particolare situazione, singolarità a sua volta
affidata al caso e irripetibile. Manca il riscontro delle due categorie
restanti di dialoghi.
Vorrei citare ancora due contributi al gruppo delle interpretazioni
paradigmatiche. Il primo è di un’altra studiosa francese, Marie-Lau-
rence Desclos,55 e possiamo considerarlo una variante dell’interpreta-
zione morale di Porfirio: i proemi costituirebbero una sorta di bio-

50
Non mi è stato possibile, malgrado i ripetuti tentativi, visionare la tesi di S. Solère
Queval (SOLÈRE-QUEVAL [644]).
51
SOLÈRE-QUEVAL [669], p. 12.
52
SOLÈRE-QUEVAL [669], p. 20.
53
SOLÈRE-QUEVAL [645].
54
Eutifrone, Critone, Ione, Ippia maggiore, Menesseno, Fedro.
55
DESCLOS [637].

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grafia socratica con lo scopo di tramandare gli insegnamenti di So-


crate. Sebbene sia vero che alcuni proemi si comportano alla stregua
di un romanzo storico, custodendo le vicende biografiche del pro-
cesso e della morte di Socrate, ciò non consente di estendere questa
funzione – in sé e per sé secondaria – all’intero corpus platonicum. I
dialoghi sono opere di finzione, che attingono alla realtà, ma per tra-
sformarla immediatamente in qualcosa di rappresentativo e paradig-
matico. I personaggi che compaiono sulla scena non sono individui
ma caratteri o tipi morali, e Socrate non fa eccezione. Questo va ri-
conosciuto, nonostante continuiamo a essere catturati dal fascino della
ricerca di un Socrate storico nelle pieghe delle rappresentazioni che
ne hanno dato i suoi testimoni. È difficile – e forse sarebbe anche un
errore – rinunciare a scorgere Socrate, quello vero, dietro la descri-
zione appassionata di Alcibiade nel Simposio o all’origine della cari-
catura appesa alle nuvole di Aristofane.
Il secondo contributo, e a mia conoscenza anche il più recente, è
la tesi di Lidia Palumbo56 per cui la funzione dei proemi platonici sa-
rebbe la stessa dei prologhi tragici, cioè, in generale, informativa e,
in particolare, un rovesciamento delle aspettative dell’interlocutore di
Socrate e, per mimesi, del lettore. Il difetto maggiore di questa in-
terpretazione, a mio avviso, è che presuppone un lettore qualsiasi. Il
lettore di genere nel senso in cui lo definisce Mario Vegetti, vale a
dire l’aspirante filosofo che conosce i dialoghi platonici, sa già che le
false aspettative del proemio saranno disattese. Sa per esempio che
Critone non persuaderà Socrate alla fuga – e questo lo sa perché fa
parte della storia; ma sa anche che Ione di Efeso e Protagora non
sono davvero dei sapienti. L’interesse di Socrate per la loro presunta
sapienza, tuttavia, è genuino, e si traduce nella ricerca di qualcuno
che si dimostri più sapiente di lui, comandata dall’oracolo delfico. So-
crate è profondamente e sinceramente interessato a imparare qualcosa
di importante da chiunque si riveli in grado di insegnarglielo. Inol-
tre, non per tutti i dialoghi, di nuovo, è così evidente il rovesciamento
delle aspettative. Per esempio, non vedo in che modo possa riguar-
dare il Fedone, se non per la meraviglia di Echècrate di fronte alla
stranezza del tempo intercorso tra il processo e la morte – ma que-
sto per un Ateniese è un fatto ovvio; o per il singolare atteggiamento
di Socrate di fronte alla morte – ma Fedone non ne è sorpreso. Si
tratta di un’atopia, è vero, ma ormai perfettamente nota a ogni so-
cratico. E non possiamo presupporre un lettore tanto lontano da non

56
PALUMBO [571], pp. 213 ss.

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INTRODUZIONE

riconoscerla; nemmeno il lettore moderno in fondo, se è un lettore di


genere, può ignorarne i risvolti. Né lo si può dire dell’Eutifrone, il
cui proemio mantico predice il triste futuro di Socrate (3b). Più che
di un rovesciamento delle aspettative, parlerei della necessità di una
«conversione» dello sguardo (dell’interlocutore come del lettore) nel
senso di Repubblica VII: come i prigionieri della caverna, interlocu-
tori e lettori devono essere «costretti» a prendere coscienza della loro
condizione per poter accedere alla verità.
La seconda linea interpretativa è quella del Third Way, esemplifi-
cata dall’analisi di Francisco Gonzalez del proemio del Liside.57 Que-
sta linea interpretativa eredita dalla lettura di Strauss l’idea che il
proemio svolga una funzione filosofica di completamento del senso
del dialogo:
The general account I will be defending here is that the Platonic prolo-
gue provides the foundation for the subsequent investigation by drawing our
attention to specific problems without a reference to which this investigation
can be neither fully understood nor made fruitful.58

Gonzalez solleva anche il problema del legame tematico tra proe-


mio e dialogo, riconoscendo come il proemio presenti dei motivi te-
matici propri, indipendenti dal dialogo – oltre a un’eventuale antici-
pazione del tema dominante – e come sia attraverso questi temi che
viene formulato il problema da risolvere attraverso la ricerca dialo-
gica. Essi veicolano idee tradizionali rendendole problematiche allo
sguardo dell’interlocutore (e del lettore) affinché il dialogo possa pro-
cedere a ridefinirle in maniera filosofica. Questo avviene, per esem-
pio, per i tre temi della competizione, dell’eros e della mediazione nel
proemio del Liside, in rapporto al tema della philia sviluppato nel dia-
logo.59 Di conseguenza, il modo corretto di procedere nella lettura
degli argomenti filosofici del dialogo consiste, anche per il Third Way,
nel prendere sul serio il «contesto concreto» creato dal proemio, at-
traverso un esame puntuale dei suoi elementi chiave e dei suoi tratti
peculiari, perché «[d]eprived of this context, the arguments become
empty logical exercises».60 Accanto ai motivi tematici propri, vanno

57
GONZALEZ [656].
58
GONZALEZ [656], p. 16. Gonzalez cita un lavoro di A. Westermayer, dedicato al
proemio, dove si sostiene un’interpretazione simile, ma anziché ritenere che il proemio at-
tiri l’attenzione su un problema, l’autore asserisce che il suo scopo sia rivelare l’errore che
rende necessaria l’indagine del dialogo (cfr. WESTERMAYER [674]).
59
Cfr. GONZALEZ [656], pp. 36 e 43.
60
GONZALEZ [656], p. 44.

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INTRODUZIONE

indagati – nello stesso spirito – gli elementi chiave del proemio: lo


stile dell’inizio, le prime parole, il carattere dei personaggi e lo spa-
zio-tempo. Dal punto di vista metodologico, questo approccio mi sem-
bra vincente, anche se ritengo si debba dare maggiore spazio ad al-
cuni elementi caratteristici del proemio come le primissime parole e
soprattutto lo stile dell’inizio: non sono uguali i proemi dei dialoghi
misti come il Teeteto o il Simposio e i proemi dei dialoghi dramma-
tici come il Critone o il Fedro, malgrado condividano la stessa forma
diretta. Questo sarà uno degli aspetti che indagheremo. Tenere nella
dovuta considerazione tali differenze porta a ridefinire il contributo
del proemio nei termini delle prospettive, più che dei problemi, che
è necessario tenere nella dovuta considerazione per dare senso all’u-
nità dialogica. Quanto ne risulta, cioè, è una sorta di confronto tra il
modo filosofico di dire o fare qualcosa e il modo proprio del senso
comune e degli altri saperi, nuovi o tradizionali.
Infine, tra i contemporanei si sta diffondendo una lettura metafi-
losofica dei proemi, sostenuta tra gli altri da Roberto Velardi,61 che
ne attribuisce la paternità a Patrice Loraux,62 secondo la quale allon-
tanare il vero dialogo filosofico di uno o più livelli narrativi tramite
il proemio servirebbe a salvaguardarlo dai rischi a cui è sottoposto
uno scritto quando lo si separa dal suo autore – in linea con le ri-
flessioni del Fedro sul tema della scrittura – e insieme a persuadere il
lettore fornendogli una sorta di garanzia di verità del dialogo, con
uno dei primi esempi di quel procedimento ‘a matrioska’ proprio di
molta narrativa moderna, che avrebbe il suo iniziatore in Odìsseo.
Oppure l’intento sarebbe semplicemente quello di sottolineare i ri-
schi e di sollevare il problema della verità, senza offrire alcuna ga-
ranzia. In linea con questa interpretazione i seguenti studi: ALRIVIE
1971, ARNE 1986,63 BURGER 1997, JOHNSON 1998; e ora anche HO 2011.
Il limite di questa linea interpretativa sta nella scarsa profondità di ana-
lisi, spesso dovuta all’impostazione breve dell’articolo, che non con-
sente di ampliare la ricerca allontanandosi dal suo oggetto specifico. In
altre parole, non è sufficiente rintracciare i comuni meccanismi di fun-
zionamento di alcuni proemi, ma è necessario attribuirli con precisione
a una tipologia e approfondirne il significato alla luce del contenuto fi-
losofico dei rispettivi dialoghi. Solo così sarà possibile dare spessore
alla funzione che tali meccanismi, in effetti, sembrano svolgere.

61
VELARDI [646], p. 119 n. 27.
62
LORAUX [641], p. 241.
63
Ringrazio Hayden W. Ausland per avermi gentilmente reso disponibile questo la-
voro inedito, citato in un suo articolo (AUSLAND [371], p. 387 n. 54).

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INTRODUZIONE

Il lavoro di analisi di queste interpretazioni ha avuto come esito la


constatazione di come nessuna di esse sia infine convincente, da un
lato perché nessuna è in grado di rendere conto di ogni proemio, dun-
que di fornire un paradigma interpretativo che funzioni per l’intera
opera platonica – ammesso che tale paradigma vi sia64 – in secondo
luogo perché c’è un senso in cui, invece, sono tutte convincenti, vale
a dire che ognuna di esse coglie almeno un aspetto del proemio pla-
tonico, e la sua validità può essere facilmente verificata dall’analisi di
alcuni particolari proemi. In ogni caso, credo che la lettura circolare,
o meglio organica, sia vincente almeno da un punto di vista metodo-
logico: ogni e qualunque interpretazione dei proemi non può prescin-
dere da una lettura integrale dell’opera, e non può che esserne il ri-
sultato.
Dunque si tratta in primo luogo di analizzare ogni proemio in re-
lazione al proprio dialogo ed epilogo; e queste analisi particolari ri-
chiedono un ordine che sia il meno arbitrario possibile, vale a dire il
criterio scenico di cui si è detto. A conferma della sua «convenienza»,
un’ovvietà: il luogo in cui si decide lo stile del dialogo, diretto o in-
diretto, è il proemio; vale a dire che, indipendentemente dal rapporto
quantitativo tra le parti propriamente dialogiche e le parti narrative,
è il proemio a fare di noi il tipo di spettatori che resteremo fino alla
fine, spettatori diretti o indiretti della discussione che costituirà il
cuore filosofico del dialogo. In questo senso, il Timeo è un dialogo
drammatico perché drammatica è la sua cornice, anche se di fatto è
quasi interamente un lungo monologo di Timeo. Come è ovvio che
sia il proemio a decidere lo stile narrativo, è altrettanto ovvio che sem-
pre al proemio dobbiamo la presentazione e una prima caratterizza-
zione dei personaggi che saranno gli interlocutori del dialogo; è dun-
que verosimile che essa costituisca un buon criterio per un secondo
livello di partizione: i dialoghi diretti si dividono così tra dialoghi che

64
Fa eccezione, probabilmente, l’interpretazione allusiva di Burnyeat, ereditata da Pro-
clo, ma abbiamo visto come la funzione allusiva dei proemi e delle loro prime parole non
sia filosofica nel senso che stiamo cercando, cioè non sia capace di trasmettere un mes-
saggio che contenga la chiave di lettura del dialogo. Sulla possibilità di fornire un para-
digma interpretativo unitario – e di conseguenza sulla legittimità di un’indagine come
quella presente – si dichiara (provocatoriamente?) scettico Clay: «[…] if this is the scope
of Platonic criticism, an essay on Plato’s first words could never been written. To write
competently about the beginning of Plato’s Phaedo or Republic or of any other Platonic
dialogue is to understand the other extremity of the dialogue, its middle, and the unity
of the dialogue as a whole. It is also to commit oneself to the belief that the end of Pla-
tonic criticism is to discover the unity of a dialogue in confusion, diversity, and funda-
mentally elliptical character of its themes» (C LAY [636], p. 115); e tuttavia si dichiara scet-
tico dall’interno di un saggio intitolato Plato’s First Words… Vedi supra, n. 49.

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INTRODUZIONE

hanno o non hanno Socrate come protagonista, quelli indiretti in base


all’identità del narratore (Socrate o un altro personaggio diverso da
Socrate) e dell’uditorio (dichiarato o anonimo). Inoltre, i lavori di So-
lère-Queval hanno dimostrato come il numero stesso degli interlocu-
tori presenti non sia irrilevante ai fini di una classificazione: i sei dia-
loghi a due voci che individua65 costituiscono senz’altro una buona
suddivisione dei dialoghi diretti che hanno Socrate come protagoni-
sta.66
Infine, incrociando il criterio scenico con quello cronologico stan-
dard, possiamo farci un’idea almeno approssimativa di una eventuale
evoluzione stilistica nella scrittura dei dialoghi. Se adottiamo una cro-
nologia meno rigida di quella evoluzionista, seguendo il suggerimento
di Charles Kahn, ne risulta in effetti che i primi dialoghi presentano
prevalentemente uno stile diretto,67 che tornerà a essere dominante
negli ultimi,68 mentre nella fase intermedia di produzione, che non
coincide in maniera rigida con i dialoghi della maturità ma ne com-
prende anche alcuni giovanili o di transizione, Platone sembra predi-
ligere lo stile indiretto.69 In modo analogo, la figura di Socrate sem-
bra perdere progressivamente la sua centralità, sia come protagonista
sia come narratore, e i dialoghi drammatici che caratterizzano i due
estremi della produzione platonica si distinguono in primo luogo pro-
prio per il ruolo di Socrate: protagonista nei primi, secondario o as-
sente negli ultimi.70 Ne terremo conto durante la nostra indagine, an-
che se non potremo approfondire ognuna delle categorie dialogiche
così dettagliatamente determinate.

65
Critone, Eutifrone, Ippia maggiore, Ione, Menesseno, Fedro.
66
Cfr. Figg. III e IV.
67
Come Critone, Ione, Ippia Minore, Gorgia, Menesseno, Lachete, Eutifrone, Menone,
Cratilo, secondo la cronologia ‘mobile’ di Ch. Kahn (KAHN [440]).
68
Sofista, Politico, Timeo, Crizia, Filebo e Leggi.
69
È il caso di Fedone e Simposio, che secondo Kahn chiudono il primo periodo in-
sieme al Cratilo e sono dunque dialoghi di transizione, e insieme Repubblica, Parmenide
e Teeteto.
70
Sul rapporto tra la forma dei dialoghi platonici e il ruolo che Socrate vi assume si
è espresso Kierkegaard, vagliando un’ipotesi che sembra almeno in parte contraria a quella
presente: «[…] già nell’antichità si è avvertito questo problema del rapporto tra il Socrate
reale e quello poetico di Platone, e che la suddivisione dei dialoghi in δραματικοί e
διηγηματικοί, presente già in Diogene Laerzio, contiene una specie di risposta. I dialo-
ghi dieghematici sarebbero dunque quelli più attinenti al Socrate storico. Ora, a essi ap-
partengono il Simposio e il Fedone, e persino la loro forma esterna segnala la loro im-
portanza al riguardo, secondo la giusta osservazione del Baur, op. cit., p. 122, nota: “Pro-
prio perciò i dialoghi della seconda specie, i dieghematici, ove il dialogo vero e proprio
viene dato solo in racconto – così nel Simposio Platone mette tutto in bocca di Apollo-
doro, nel Fedone fa raccontare a Fedone […] quanto Socrate visse e disse agli amici nei

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INTRODUZIONE

Procediamo, dunque, ad attraversare questo «sentiero di fiori»71


tracciato dai proemi, in una ricerca che vuole essere sensibile alla no-
vità della scrittura platonica, ma al tempo stesso segnalarne il debito
nei confronti della ricca tradizione che l’ha accolta e nutrita. Le scelte
di Platone sono sempre profondamente calate nel contesto culturale
e in seno alla tradizione cui appartiene, e per questo ha preso piede
la controtendenza ad attenuare gli elementi di novità e originalità che
per abitudine gli venivano, forse troppo frettolosamente, attribuiti.
Questo fenomeno ha interessato prima la dottrina per rivolgersi ora
anche alle scelte formali. La scrittura platonica aderisce a un genere
ben preciso, il genere anonimo dei logoi sokratikoí, di cui rappresenta
il culmine nei due sensi dell’apice e della fine.72 Questo il contesto in
cui è ormai d’obbligo calare l’indagine sui proemi. Nel presente la-
voro vorrei dunque seguire tale linea attenuativa, con l’intento, tut-
tavia, di mostrare come la ripresa da parte di Platone di concetti o
strategie tradizionali non sia inconsapevole (ma questo nessuno lo
crede), né sia dovuta soltanto a una mente brillante che, forzandone
i limiti, conduca questi concetti e strategie alle loro estreme possibi-
lità. Vorrei mostrare come le eredità accolte da Platone siano da lui
trasformate, alla luce di una profonda consapevolezza, per servire la
sua idea di filosofia e fondersi con essa diventandone elementi costi-
tutivi. Credo sia questo, in ultima analisi, il meccanismo che ha dato
origine a quella particolare fusione di forma e contenuto che costi-
tuisce la filosofia platonica come noi la conosciamo, cioè la sua filo-
sofia scritta, meccanismo che parte dai poemi omerici per spingersi
fino al genere dei logoi sokratikoí, e culminare in quello del dialogo
platonico.

suoi ultimi giorni – per la loro forma danno a intendere il loro carattere maggiormente
storico”» (KIERKEGAARD [619], p. 41); cfr. BAUR [601]. Vedi infra, pp. 133-141 (in part.
la n. 122 di pp. 133-134) e Conclusioni, pp. 291-295.
71
Vedi supra, p. 12 n. 34.
72
Cfr. VEGETTI [217], p. 130 (infra, pp. 146-147 e n. 156).

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