Sei sulla pagina 1di 741

INDICE

1. Privacy e oblio - The Right to be forgotten p. 3

2. L'amministrazione di sostegno p. 45

3. Convivenza more uxorio e rapporti patrimoniali p. 74

4. Successione legittima e quota riservata al coniuge p. 119

5. Comunione legale e principio dell'accessione p. 160

6. Il contratto quale regolamento condominiale p. 190

7. Convivenza more uxorio e tutela dallo spoglio p. 229

8. Differenze tra una minuta e un contratto preliminare p. 262

9. Contratto di affitto e preliminare di vendita collegati p. 293

10. Il vincolo di esclusiva nella somministrazione p. 320

11. Restituzione del bene locato e mora credendi p. 348

1
12. La responsabilità dell'appaltatore p. 374

13. Il rapporto di agenzia p. 406

14. Gli interessi usurari p. 440

15. La responsabilità della banca p. 475

16. Risarcimento da fatto illecito e prescrizione p. 509

17. La risarcibilità della perdita della vita p. 538

18. Il risarcimento ai congiunti della vittima p. 639

19. Separazione personale e diritto al risarcimento p. 670

20. Quota e beni della società p. 713

2
3
1. PRIVACY E OBLIO - THE RIGHT TO BE
FORGOTTEN

IL CASO

Negli anni Settanta, il Sig. Mario Bianchi viene ritenuto responsabile


per gravi fatti di terrorismo e condannato a diversi anni di
detenzione.
Cessata l'applicazione della misura detentiva, il Sig. Mario Bianchi
cambia vita e si trasferisce in un'altra località rispetto a quella in cui
viveva negli anni '70 a cui risalgono gli eventi.
Dopo oltre quarant'anni, il Sig. Mario Bianchi - che nel frattempo
non si era più identificato come terrorista - apprende che, all'interno
di un inserto di un giornale che sta trattando la tematica del
terrorismo degli anni '70 viene indicato il suo nome per intero.
Il giornale è diffuso proprio nella città in cui questi si è trasferito e
dove questi vive unitamente ai componenti della sua famiglia.
L'articolo, nel trattare il ritrovamento di un arsenale di armi e nel
ripercorrere gli anni di piombo del terrorismo, rappresenta le vicende
personali del Sig. Mario Bianchi.
Gravemente irritato per l'accaduto, il Sig. Mario Bianchi contatta il
direttore del giornale a cui manifesta chiaramente il fermo proposito
di non voler essere coinvolto nella vicenda che fa parte oramai del
suo passato e di voler essere dimenticato dai media.
Il giorno dopo, tuttavia, sul medesimo giornale veniva pubblicata -
sempre correlato ad un altro articolo relativo agli anni di piombo -
una foto del Sig. Mario Bianchi.
A questo punto il Sig. Mario Bianchi decide di promuovere un'azione
risarcitoria nei confronti dell'autore dell'articolo nonché nei confronti
del direttore del giornale per lesione del diritto all'oblio a cui scrive
una missiva.
Questi ribattono che il Sig. Mario Bianchi negli anni ottanta aveva
rilasciato una dichiarazione con cui rendeva noti gli eventi in
questione che avevano segnato la propria vita e che questa sorta di

4
confessione non poteva che intendersi quale manifestazione di un
suo consenso a che si trattasse della sua vicenda.
Quesito
La pretesa risarcitoria del Sig. Mario Bianchi per essere stato leso nel
suo diritto ad essere dimenticato è legittima ovvero la stessa deve
soccombere rispetto alla scelta compiuta dal giornale di ripercorrere
eventi noti a tutti, quale espressione del dovere di cronaca?

*****

ESAME DELLA FATTISPECIE

Il Sig. Mario Bianchi era stato un terrorista durante gli


anni di piombo; era stato condannato per quei fatti ed aveva
scontato una pena detentiva per diversi anni.
Finito di scontare la pena, il Sig. Mario Bianchi decide di
cambiare vita, cambia città in cui vivere e qui si forma una fa-
miglia e trova un lavoro, buttandosi alle spalle in via definitiva
il proprio passato.
Dopo oltre quarant'anni dal momento a cui si riferiscono i
fatti costituenti reato, scopre che in un giornale che si occupa di
terrorismo, a seguito di un accadimento relativo al ritrovamen-
to di armi, si rappresentano tutti gli eventi dell'epoca e tra i ter-

5
roristi degli anni Settanta viene indicato anche il suo nome.
Poiché il giornale che ha pubblicato la notizia è molto
diffuso proprio nella zona un cui il Sig. Mario Bianchi opera e
lavora, questi contatta telefonicamente il direttore del giornale
esprimendo tutto il suo disappunto per essere di nuovo tirato in
ballo e chiede con fermezza che il suo nome non venga più ac-
costato a quegli eventi.
Nonostante questo, il giorno seguente, il giornale nel ri-
prendere di nuovo la trattazione dell'accadimento concernente
il ritrovamento dell'arsenale di armi, oltre a riproporre il nome
di Mario Bianchi quale terrorista degli anni '70 ne pubblica an-
che una suo foto.
Il Sig. Mario Bianchi decide quindi di adire le vie legali
per tutelare i propri interessi ma, prima di ciò, invia una lettera
al direttore del giornale ed all'autore dell'articolo a cui comuni-
ca le proprie intenzioni di convenirli in giudizio pal fine di sen-
tirli condannare al risarcimento del danno per lesione del diritto
all'oblio.
Questi di contro affermano che, nel corso degli anni Ot-
tanta, era stato lo stesso Mario Bianchi a rivolgersi al giornale
per raccontare le vicende che avevano segnato la sua vita relati-

6
ve, per l'appunto, agli anni di terrorismo.
Tali dichiarazioni, a dire dei giornalisti - potevano ben in-
tendersi quale consenso a che il nome del Sig. Mario Bianchi
potesse apparire in connessione con gli accadimenti di cui si
trattava.
Al fine di esaminare la questione negli esatti termini,
giova muovere dal c.d. diritto all'oblio, cioè il diritto a essere
dimenticati, da ricondurre nell'ambito dei diritti fondamentali
della persona umana, come espansione del diritto alla riserva-
tezza.

*****

LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 12 ottobre 2012, n. 17408. Al giornalista è consentito divulgare


dati sensibili senza il consenso del titolare né l’autorizzazione del garan-
te per la tutela dei dati personali, a condizione che la divulgazione sia
«essenziale» ai sensi dell’art. 6 codice deontologico dei giornalisti (ap-
provato con provvedimento del garante per la tutela dei dati personali
del 29 luglio 1998, tuttora vigente), e cioè indispensabile in considera-
zione dell’originalità del fatto o dei modi in cui è avvenuto; la valutazio-
ne della sussistenza di tale requisito costituisce accertamento in fatto,
che il giudice di merito deve compiere caso per caso, indicando analiti-
camente le ragioni per le quali ritiene che sussista o meno il suddetto re-

7
quisito dell’essenzialità (in applicazione di tale principio, la suprema
corte ha cassato la sentenza di merito, la quale ritenuto «non essenziale»
e quindi illecita la divulgazione delle abitudini sessuali di persona impu-
tata di un omicidio a sfondo sessuale).

Cass. 24 aprile 2008, n. 10690. Il bilanciamento tra l’interesse del pub-


blico ad essere informati (alla cui realizzazione è strumentale l’esercizio
del diritto di cronaca e di critica da parte di chi informa) e l’interesse
della persona, fisica o giuridica, a non essere lesa nella propria identità
personale è realizzato dall’art. 8, 1º comma, l. 8 febbraio 1948 n. 47 con
il riconoscere il diritto alla pubblicazione di dichiarazioni o rettifiche ai
«soggetti di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati at-
tribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro di-
gnità o contrari a verità», sulla base del loro personale sentire, indipen-
dentemente dal fatto che lesione della dignità effettivamente vi sia stata;
ne consegue che al discrezionale ed insindacabile apprezzamento della
persona presunta offesa è rimesso tanto di stabilire il carattere lesivo
della propria dignità dello scritto o dell’immagine che la riguarda, quan-
to di fissare il contenuto ed i termini della rettifica; mentre il direttore
del giornale (o altro responsabile) è tenuto, nei tempi e con le modalità
fissate dalla legge, all’integrale pubblicazione dello scritto di rettifica,
purché contenuto nelle dimensioni di trenta righe, essendogli precluso
qualsiasi sindacato sostanziale, salvo quello diretto a verificare che la
rettifica non abbia contenuto tale da poter dare luogo ad azione penale.

Cass. 5 aprile 2012, n. 5525. Posta la necessaria rispondenza del tratta-


mento dei dati personali ai criteri di proporzionalità, necessità, pertinen-
za e non eccedenza allo scopo, spetta all’interessato al trattamento, a tu-
tela della proiezione dinamica dei suoi dati personali e della sua attuale
identità personale o morale, il diritto di conoscere in ogni momento chi
possiede i dati e le relative modalità di utilizzo con la possibilità di op-
porsi al trattamento degli stessi ovvero di chiederne la cancellazione, la
trasformazione, il blocco, la rettifica, l’aggiornamento o l’integrazione.

Cass. 5 aprile 2012, n. 5525. Anche in caso di «memorizzazione» nella


rete Internet di dati provenienti da un archivio c.d. storico, deve ricono-

8
scersi al titolare dei dati personali, oggetto di trattamento, il diritto al re-
lativo controllo a tutela della propria immagine sociale, il che può tra-
dursi, anche ove trattasi di notizia vera, perché di cronaca, nella pretesa
alla «contestualizzazione e aggiornamento» dei medesimi e se, del caso,
anche alla relativa cancellazione.

Cass. 9 giugno 1998, n. 5658 . Posto che l’area coperta dal diritto alla ri-
servatezza è di maggiore estensione rispetto a quella del diritto alla re-
putazione, l’efficacia esimente del diritto di cronaca rispetto ad un fatto
ritenuto lesivo della riservatezza, ma non della reputazione, va valutata
con un autonomo giudizio di bilanciamento.

Cass. 9 aprile 1998, n. 3679. Posto che per diritto all’oblio si intende il
legittimo interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente
esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore ed alla sua reputazione
la reiterata pubblicazione di una notizia, in passato legittimamente divul-
gata, non costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca la pubblica-
zione di fatti già resi noti sei anni prima, salvo che eventi sopravvenuti
rendano nuovamente attuali quei fatti, facendo sorgere un nuovo interes-
se pubblico alla divulgazione dell’informazione.

Cass. 24 aprile 2008, n. 10690. L’identità personale in quanto diritto


fondamentale della persona, come tale costituzionalmente protetto, giu-
stifica il risarcimento del danno anche non patrimoniale derivante dalla
sua lesione; l’esercizio del diritto di risposta e rettifica, peraltro, è su-
scettibile di non lasciare spazio ad un danno ulteriormente risarcibile,
ma, per converso, quello spazio può residuare o risultare ampliato se al-
l’istanza di rettifica non sia data esecuzione nella piena osservanza delle
disposizioni normative che la disciplinano, ovvero se la pubblicazione
della rettifica avvenga con modalità o commenti tali da accrescere la le-
sione dell’identità personale, o addirittura da provocarla essa stessa.

*****

9
LE NORME RICHIAMATE

Art. 2 Cost.
1. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviola-
bili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali
ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e socia-
le.

Art. 21 Cost.
1. Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il pro-
prio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di dif-
fusione.
2. La stampa non puo' essere soggetta ad autorizzazioni
o censure.
3. Si puo' procedere a sequestro soltanto per atto motiva-
to dell'autorita' giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la
legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di
violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indi-
cazione dei responsabili.
4. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia

10
possibile il tempestivo intervento dell'autorita' giudiziaria, il
sequestro della stampa periodica puo' essere eseguito da uffi-
ciali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non
mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'autorita' giudizia-
ria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successi-
ve, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto.
5. La legge puo' stabilire, con norme di carattere genera-
le, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa pe-
riodica.
6. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e
tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume.
7. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire
e a reprimere le violazioni.

Art. 1 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196


Diritto alla protezione dei dati personali
1. Chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali
che lo riguardano.

11
Art. 2 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196
Finalità
1. Il presente testo unico, di seguito denominato
"codice", garantisce che il trattamento dei dati personali si
svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, non-
ché della dignità dell'interessato, con particolare riferimento
alla riservatezza, all'identità personale e al diritto alla prote-
zione dei dati personali.
2. Il trattamento dei dati personali è disciplinato assicu-
rando un elevato livello di tutela dei diritti e delle libertà di cui
al comma 1 nel rispetto dei principi di semplificazione, armo-
nizzazione ed efficacia delle modalità previste per il loro eser-
cizio da parte degli interessati, nonché per l'adempimento de-
gli obblighi da parte dei titolari del trattamento.

Art. 3 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196


Principio di necessità nel trattamento dei dati
1. I sistemi informativi e i programmi informatici sono
configurati riducendo al minimo l'utilizzazione di dati persona-
li e di dati identificativi, in modo da escluderne il trattamento

12
quando le finalità perseguite nei singoli casi possono essere
realizzate mediante, rispettivamente, dati anonimi od opportu-
ne modalità che permettano di identificare l'interessato solo in
caso di necessità.

Art. 7 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196


Diritto di accesso ai dati personali ed altri diritti
1. L'interessato ha diritto di ottenere la conferma dell'e-
sistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se
non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelli-
gibile.
2. L'interessato ha diritto di ottenere l'indicazione:
a) dell'origine dei dati personali;
b) delle finalità e modalità del trattamento;
c) della logica applicata in caso di trattamento effettuato
con l'ausilio di strumenti elettronici;
d) degli estremi identificativi del titolare, dei responsabili
e del rappresentante designato ai sensi dell'articolo 5, comma
2;
e) dei soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati

13
personali possono essere comunicati o che possono venirne a
conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territo-
rio dello Stato, di responsabili o incaricati.
3. L'interessato ha diritto di ottenere:
a) l'aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi
ha interesse, l'integrazione dei dati;
b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima
o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi
quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione
agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamen-
te trattati;
c) l'attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e
b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda
il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati
o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela
impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente
sproporzionato rispetto al diritto tutelato.
4. L'interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte:
a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali
che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccol-
ta;

14
b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a
fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per
il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione com-
merciale.

Art. 11 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196


Modalità del trattamento e requisiti dei dati
1. I dati personali oggetto di trattamento sono:
a) trattati in modo lecito e secondo correttezza;
b) raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e
legittimi, ed utilizzati in altre operazioni del trattamento in ter-
mini compatibili con tali scopi;
c) esatti e, se necessario, aggiornati;
d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle fina-
lità per le quali sono raccolti o successivamente trattati;
e) conservati in una forma che consenta l'identificazione
dell'interessato per un periodo di tempo non superiore a quello
necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o suc-
cessivamente trattati.
2. I dati personali trattati in violazione della disciplina

15
rilevante in materia di trattamento dei dati personali non pos-
sono essere utilizzati.

Art. 15 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196


Danni cagionati per effetto del trattamento
1. Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del tratta-
mento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi del-
l'articolo 2050 del codice civile.
2. Il danno non patrimoniale è risarcibile anche in caso
di violazione dell'articolo 11.

Art. 16 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196


Cessazione del trattamento
1. In caso di cessazione, per qualsiasi causa, di un trat-
tamento i dati sono:
a) distrutti;
b) ceduti ad altro titolare, purché destinati ad un tratta-
mento in termini compatibili agli scopi per i quali i dati sono
raccolti;

16
c) conservati per fini esclusivamente personali e non de-
stinati ad una comunicazione sistematica o alla diffusione;
d) conservati o ceduti ad altro titolare, per scopi storici,
statistici o scientifici, in conformità alla legge, ai regolamenti,
alla normativa comunitaria e ai codici di deontologia e di buo-
na condotta sottoscritti ai sensi dell'articolo 12.
2. La cessione dei dati in violazione di quanto previsto
dal comma 1, lettera b), o di altre disposizioni rilevanti in ma-
teria di trattamento dei dati personali è priva di effetti.

Art. 99 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196


Compatibilità tra scopi e durata del trattamento
1. Il trattamento di dati personali effettuato per scopi
storici, statistici o scientifici è considerato compatibile con i
diversi scopi per i quali i dati sono stati in precedenza raccolti
o trattati.
2. Il trattamento di dati personali per scopi storici, stati-
stici o scientifici può essere effettuato anche oltre il periodo di
tempo necessario per conseguire i diversi scopi per i quali i
dati sono stati in precedenza raccolti o trattati.

17
3. Per scopi storici, statistici o scientifici possono co-
munque essere conservati o ceduti ad altro titolare i dati per-
sonali dei quali, per qualsiasi causa, è cessato il trattamento.

Art. 136 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196


Finalità giornalistiche e altre manifestazioni del pensiero
1. Le disposizioni del presente titolo si applicano al trat-
tamento:
a) effettuato nell'esercizio della professione di giornali-
sta e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità;
b) effettuato dai soggetti iscritti nell'elenco dei pubblici-
sti o nel registro dei praticanti di cui agli articoli 26 e 33 della
legge 3 febbraio 1963, n. 69;
c) temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblica-
zione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manife-
stazioni del pensiero anche nell'espressione artistica.

Art. 137 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196


Disposizioni applicabili

18
1. Ai trattamenti indicati nell'articolo 136 non si applica-
no le disposizioni del presente codice relative:
a) all'autorizzazione del Garante prevista dall'articolo
26;
b) alle garanzie previste dall'articolo 27 per i dati giudi-
ziari;
c) al trasferimento dei dati all'estero, contenute nel Tito-
lo VII della Parte I.
2. Il trattamento dei dati di cui al comma 1 è effettuato
anche senza il consenso dell'interessato previsto dagli articoli
23 e 26.
3. In caso di diffusione o di comunicazione dei dati per le
finalità di cui all'articolo 136 restano fermi i limiti del diritto
di cronaca a tutela dei diritti di cui all'articolo 2 e, in partico-
lare, quello dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti
di interesse pubblico. Possono essere trattati i dati personali
relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interes-
sati o attraverso loro comportamenti in pubblico.

*****

19
GLI ISTITUTI

Il diritto alla riservatezza ed il diritto a rappresentare gli


eventi della propria esistenza.
Il nostro ordinamento appresta tutela alla sfera privata di
ciascun individuo.
Infatti è espressamente riconosciuto ed affermato il dirit-
to alla riservatezza da intendersi quale diritto a che non venga-
no diffusi fatti ed eventi concernenti le vicende personali.
Tale diritto è emerso nel secondo dopoguerra ed è stato
elaborato dalla giurisprudenza.
Il diritto alla riservatezza è stato affrontato con riferimen-
to alle vicende giudiziarie in merito alle quali, tuttavia, la giuri-
sprudenza ha fatto registrare una posizione assolutamente ne-
gativa, in cui non si è tenuta in alcuna considerazione l'onorabi-
lità del soggetto imputato, bensì esclusivamente il buon anda-
mento delle indagini. In buona sostanza, la giurisprudenza ha
acconsentito alla diffusione delle notizie anche se relative a vi-
cende personali dei soggetti solo e nella misura in cui la predet-
ta diffusione non comprometteva il buon andamento delle inda-
gini del procedimento penale.

20
Un altro ambito in cui il tema della riservatezza riveste
un ruolo particolarmente importante è quello della riservatezza
del lavoratore sul luogo di lavoro. Secondo l'art. 4 dello Statuto
dei Lavoratori, “è vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre
apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività
dei lavoratori”.
Ed ancora si richiamano altre disposizioni che vietano al
datore di lavoro di compiere indagini sugli accertamenti
sanitari del lavoratore ovvero ispezioni sulla persona del dipen-
dente, in ossequio al generale diritto alla riservatezza di que-
st'ultimo.
Questo diritto alla riservatezza non va confuso con il di-
ritto alla segretezza, che si configura come diritto a che non ac-
cada un'abusiva comunicazione di fatti riservati.
Afferma, in merito a tale aspetto, una parte della dottrina
che il diritto alla riservatezza pone protezione della persona ri-
spetto alla curiosità pubblica; il diritto alla segretezza invece
pone una protezione da quella che è la curiosità individuale.
Il formale riconoscimento del diritto alla riservatezza si è
avuto soltanto con la legge 31 dicembre 1996 n. 675; prima di
quel momento non compariva tale diritto nel panorama della

21
legislazione italiana, sebbene un riconoscimento di tale diritto
vi fosse tanto in dottrina che in giurisprudenza.
Un riferimento, invero, alla tutela della vita privata tra il
novero dei diritti essenziali si ritrovava già nella Dichiarazione
universale dei diritto dell'uomo e nella Convenzione di Roma
ratificata in Italia nel 1955.
Questa impostazione confermava la collocazione di tale
diritto nell'ambito dei diritti inviolabili della persona umana,
tutelati dall'art. 2 del precetto costituzionale.
Secondo le prime interpretazioni offerte dalla dottrina e
dalla giurisprudenza, la tutela della riservatezza deve intendersi
come dipendente unicamente dalla volontà del soggetto, a cui è
consentito di scegliere se non rendere manifesti i propri eventi
personali ovvero, di contro, esporsi ad un'esistenza che com-
porti necessariamente una certa notorietà.
A tale ultimo proposito, vi è da distinguere la posizione
di taluni personaggi per i quali ben può operare una limitazione
della tutela della riservatezza. In tali casi sussiste un interesse
pubblico alla diffusione delle notizie riguardanti la vita privata
dei predetti personaggi che ricoprono ruoli per i quali sussiste il
diritto ad una diffusa informazione.

22
Nel caso in cui vengano superati i limiti imposti al legitti-
mo esercizio della comunicazione concernente eventi che at-
tengono alle vicende personali di un soggetto, quest’ultimo è
legittimato a chiedere il risarcimento del danno nonché il se-
questro del materiale reputato idoneo a produrgli un pregiudi-
zio.

La protezione apprestata ai dati personali.


L'esigenza di tutela della riservatezza dell'individuo si
pone in termini più incisivi di fronte alla diffusione degli stru-
menti di raccolta dati e di comunicazione che può avvenire an-
che in via informatica.
La direttiva 95/46/CE ha prescritto così una più pregnan-
te tutela dei dati personali, che in Italia ha ricevuto attuazione
mediante l'emanazione della legge 31 dicembre 1996, n. 675, le
cui disposizioni sono poi confluite nel cd. Codice in materia di
protezione dei dati personali (d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196).
Tale regolamentazione si estende a qualsiasi operazione
di raccolta, conservazione, elaborazione, utilizzazione, cancel-
lazione di dati personali. Le finalità indicate espressamente dal
legislatore sono: il rispetto dei diritti e delle libertà fondamen-

23
tali, nonché della dignità dell'interessato, con particolare ri-
guardo alla riservatezza, all'identità personale e al diritto alla
protezione dei dati personali.
Il trattamento dei dati personali si deve attuare garanten-
do un elevato livello di tutela dei diritti e delle libertà nel ri-
spetto dei principi di semplificazione, armonizzazione ed effi-
cacia delle modalità previste per il loro esercizio da parte dei
soggetti interessati, nonché per l'adempimento degli obblighi a
cui sono tenuti i titolari del trattamento.
Le norme prevedono che la configurazione dei sistemi in-
formativi e dei programmi informatici deve essere tale da ri-
durre al minimo l'utilizzazione di dati personali e di dati identi-
ficativi dei soggetti. Tale prescrizione risponde all'esigenza di
evitare di trattare i dati personali allorquando le finalità che si
intendono perseguire possono essere realizzate ugualmente av-
valendosi di dati anonimi; a coronamento di tale principio è
inoltre previsto che l'identificazione del soggetto interessato
avvenga solo in caso di necessità.
Il soggetto interessato i cui dati vengano trattati ha diritto
a che i predetti dati vengano protetti sicché questi può, in ogni
tempo, richiedere informazioni circa le modalità attraverso cui

24
i suoi dati sono trattati e custoditi, circa le finalità del tratta-
mento, le modalità in concreto applicate per il caso in cui il
trattamento sia effettuato con l'ausilio di strumenti elettronici,
l'identità dei soggetti responsabili del trattamento nonché infor-
mazioni concernenti i soggetti ai quali i dati personali possono
essere comunicati.
Inoltre, l'interessato può chiedere l'aggiornamento dei
dati, la rettificazione degli stessi ovvero, quando vi ha interes-
se, l'integrazione dei dati personali che afferiscono alla sua per-
sona.
E' facoltà del soggetto chiedere, altresì, la cancellazione,
la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati che sia-
no trattati in violazione di legge, nonché la cancellazione di
quei dati la cui conservazione non ha più ragion d'essere essen-
do venute meno le ragioni per le quali i dati erano stati raccolti
o successivamente trattati.

Il diritto alla riservatezza e il diritto ad informare e ad essere


informati.
La tutela della vita privata quale espressione del diritto
alla riservatezza è un diritto che trova riconoscimento formale

25
nel nostro ordinamento giuridico ma che incontra un limite nel
contrapposto diritto alla libertà di informazione.
Quest'ultimo diritto di rilevanza costituzionale (l'art. 21
Cost sancisce, per l'appunto, il diritto alla libertà di informazio-
ne) è posto a fondamento dell'interesse alla diffusione delle no-
tizie di rilevanza pubblica, quale interesse citato dalla Conven-
zione di Roma del 1950.
Si tratta, quindi di compiere un equo bilanciamento tra i
due menzionati diritti e cioè tra l'interesse all'informazione e
quello alla protezione dell'intimità individuale.
A ben vedere, entrambe le posizioni giuridiche soggettive
rivestono rilievo costituzionale posto che il diritto alla riserva-
tezza, (quale diritto alla sfera privata individuale) trova confor-
to nell'art. 2 del precetto costituzionale mentre il diritto di cro-
naca è garantito, come detto, dall’art. 21 Cost.
Devesi allora procedere ad un giudizio di prevalenza di
una situazione giuridica soggettiva rispetto all'altra per poter
delineare il limite tra la legittima diffusione giornalistica di una
vicenda personale e l'abusiva intromissione della vita privata
del soggetto a cui quella vicenda privata si riferisce, compiuta
da parte dei mezzi di comunicazione.

26
Il giudizio di prevalenza deve necessariamente accompa-
gnarsi ad una valutazione in termini proporzionalità tra l'even-
tuale causa di giustificazione (in presenza della quale l'eserci-
zio del diritto di informazione si configura come legittimo) e la
compromissione del diritto dell'interessato, che va compiuta te-
nendo presente le modalità concrete in cui si realizza la fatti-
specie nonché i contrapposti interessi delle parti che vengono
in rilievo.
Per il caso in cui il trattamento dei dati attenga a dati
sensibili o strettamente personali si deve ritenere che ad essi va
accordata una tutela prevalente rispetto al diritto a diffondere la
notizia.

Il diritto ad essere dimenticati


La facoltà riconosciuta dal legislatore al soggetto che è ti-
tolare dei dati oggetto del trattamento è piuttosto ampia tanto
che l'art. 7, 3° co., d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196 consente a
questi di pretendere la cancellazione dei propri dati.
Tanto premesso, esaminando il caso in questione, seppure
il rilievo del diritto di stampa è fuori discussione, è pacifico il
diritto di ogni soggetto a che non siano diffuse e che anzi ven-

27
gano cancellate dagli archivi giornalistici le informazioni e le
notizie afferenti alle proprie vicessitudini personali, una volta
che non sia più esistente l'interesse pubblico alla vicenda.
Non è legittima, pertanto, la diffusione di notizie aventi
ad oggetto particolari eventi riguardanti la vita di una persona
che si sono verificati diversi decenni prima (rispetto a quando
la notizia viene riproposta) poiché non si rinviene alcun inte-
resse pubblico a che venga ripercossa l'intera vicenda.
Nel caso di specie, infatti, non vi è una manifestazione
attuale del consenso del soggetto interessato.
Poiché la manifestazione del consenso deve essere attuale
rispetto al momento in cui la notizia è diffusa, ne deriva che il
consenso espresso anni ed anni prima mediante una dichiara-
zione dello stesso non può reputarsi condizione sufficiente a far
qualificare la medesima come consenso espresso, mancando il
requisito dell'attualità.
Nel caso in esame, poiché la notizia attuale aveva riguar-
do al rritrovamento di un arsenale di armi non vi era l'interesse
pubblico a che venisse riportata la notizia concernente le vicen-
de personali di un terrrorista che aveva subito una condanna
per gravi fatti di terrorismo molti anni prima.

28
Non essendovi, quindi, un interesse pubblico alla diffu-
sione della notizia concernente eventi drammatici del soggetto
interessato (che - come detto - si erano verificati in un periodo
assolutamente risalente) e non sussistendo un consenso espres-
so di quest'ultimo, il diritto alla riservatezza deve reputarsi, in
una valutazione di bilanciamento di contrapposti interessi, pre-
valente.
In forza dell'art. 137 del d.lgs. n. 196 del 2003, infatti, la
diffusione della notizia quale espressione del diritto di cronaca
può prescindere dalla espressa manifestazione del consenso del
soggetto interessato solo nel caso in cui la stessa risponde ad
un criterio di essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di
attuale interesse pubblico, condizione non presente nella fatti-
specie de qua.
Solo in presenza dell'attualità dell'interesse alla specifica
informazione, è consentito al giornalista la divulgazione dei
dati strettamente personali anche in assenza del consenso del
soggetto interessato. In tal caso, non è neppure necessario ac-
quisire la preventiva autorizzazione del Garante per la tutela
dei dati personali, purché - si intende - la divulgazione risulti
“essenziale”, secondo quanto previsto dall'art. 6 del codice

29
deontologico dei giornalisti, ovvero appaia come indispensabi-
le in ragione dell’originalità del fatto o delle modalità attraver-
so cui lo stesso si è manifestato.
Nella specie, la condotta del giornalista è consistita nel
riportare una foto del soggetto interessato di cui venivano indi-
cate le generalità per intero: essa integra una evidente violazio-
ne del diritto alla riservatezza in assenza del presupposto del-
l'interesse pubblico alla notizia (non vi è alcuna necessità detta-
ta da un interesse pubblico a diffondere la foto e le generalità di
un soggetto condannato per atti di terrorismo decenni prima
con riferimento al ritrovamento di un arsenale di armi).
Inoltre, il ripercorrere eventi dolorosi di una vicenda per-
sonale di un soggetto configura un illecito trattamento – sotto il
profilo giuridico - dei dati personali tale da rendere legittima la
richiesta del soggetto leso ad ottenere il risarcimento dei danni
subiti.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE – CASS. 26 GIUGNO


2013, N. 16111.

30
I contrapposti interessi che vengono in rilievo devono trovare
il giusto bilanciamento.

“In tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto del


soggetto a pretendere che proprie, passate vicende personali
siano pubblicamente dimenticate (nella specie, c.d. diritto al-
l’oblio in relazione ad un’antica militanza in bande terroristi-
che) trova limite nel diritto di cronaca solo quando sussista un
interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel senso che
quanto recentemente accaduto (nella specie, il ritrovamento di
un arsenale di armi nella zona di residenza dell’ex terrorista)
trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinno-
vi l’attualità. Diversamente, il pubblico ed improprio collega-
mento tra le due informazioni si risolve in un’illecita lesione
del diritto alla riservatezza, mancando la concreta proporzio-
nalità tra la causa di giustificazione (il diritto di cronaca) e la
lesione del diritto antagonista” (Cass. 26 giugno 2013, n.
16111).

Secondo i giudici di legittimità, l’esigenza del bilanciamento in


concreto degli opposti interessi deve essere soddisfatta facendo

31
applicazione del principio di correttezza sicché che deve con-
sentire l'esercizio del diritto in capo al soggetto interessato di
opporsi al trattamento dei propri dati, indipendentemente dalla
liceità dello stesso.
Da tanto discende che, secondo il ragionamento seguito
dal Supremo Collegio, il diritto dell’interessato ad essere di-
menticato deve soccombere nella misura in cui l'eserczio del
diritto di cronaca risponde ad un interesse effettivo ed attuale
alla diffusione della notizia.
Il mancato rispetto di di tale, essenziale, principio che di-
sciplina i rapporti tra privati implica una sorta di automatica
permanenza dell’interesse alla divulgazione, anche in un conte-
sto storico diverso in cui non sussiste una reale esigenza a que-
sto tipo di informazione.

TESTO INTEGRALE

C.F. conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Como, A.C.,


nella qualità di direttore del Corriere quotidiano della città e provincia di
Como, M.F., L.M. e la Editoriale s.r.l., quest`ultima editrice del citato
quotidiano, chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti alla pubbli-
cazione, in data 4 gennaio 1998, di un articolo nel quale erano state ri-

32
portati notizie e dati personali riservati ponendoli in collegamento con il
ritrovamento, nella città dì Como, di un arsenale di armi appartenente
alle Brigate rosse. Aggiungeva che il giorno dopo, 5 gennaio 1998, il
medesimo giornale aveva pubblicato, accanto alla sua immagine, un'in-
tervista da lui mai rilasciata. e corrispondente al contenuto di una telefo-
nata intercorsa con uno dei predetti convenuti.
Faceva presente, a sostegno della domanda, che era stato arrestato
nel 1979 in quanto appartenente al gruppo terroristico denominato Prima
linea, che era stato condannato e che aveva
scontato la relativa pena; di essere quindi riuscito, con enormi sforzi, a
costruirsi una nuova vita, sicché desiderava non essere più. accostato,
agli occhi della pubblica opinione, a tatti di terrorismo, trattandosi di
una parte della sua esistenza ormai chiusa, rispetto alla quale voleva sol-
tanto essere dimenticato. Riteneva, perciò, che le suddette pubblicazioni
costituissero violazione della legge 8 febbraio 1948, n. 47, e della legge
31 dicembre 1996, n. 675.
Costituitisi tutti i convenuti, il Tribunale di Como rigettava la do-
manda.
Avverso la sentenza di primo grado proponeva appello il F.
La Corte d'appello di Milano, con sentenza del l° dicembre 2006, in ri-
forma della pronuncia di primo grado, dichiarava che le due pubblica-
zioni di cui sopra costituivano violazione delle menzionate leggi e con-
dannava i convenuti, in solido fra loro, al pagamento della somma di
euro 30.000, oltre interessi legali dalla pronuncia al saldo, nonché alla
pubblicazione della sentenza a spese degli appellati; condannava altresì
questi ultimi al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.
Osservava la Corte territoriale che il punto centrale della vicenda
era costituito dall'esistenza o meno di un consenso del F. alla pubblica-
zione di quella che veniva definita "intervista", con relativa foto ripor-
tante il nome ed il cognome. Era accaduto, in effetti, che, dopo la pub-
blicazione del primo articolo, il F. aveva contattato per telefono la dire-
zione del quotidiano, invitandola ad astenersi dal procedere ad altre pub-
blicazioni che lo riguardavano, dalle deposizioni dei testimoni era emer-
so che l'appellante non intendeva rilasciare alcuna intervista, ma soltanto

33
chiedere che fosse rispettata la sua vita privata, tanto più che si trattava
di episodi risalenti al lontano 1979. Conseguentemente, mancava il con-
senso alla pubblicazione delle. foto e della c.d. intervista.
Richiamando la normativa in tema di tutela della riservatezza, la
Corte milanese evidenziava la mancaza, nella specie, dell'interesse pub-
blico alla diffusione della notizia; aggiungeva che per la sussistenza del
diritto di cronaca deve esserci un interesse attuale alla conoscenza della
notizia, elemento certamente mancante; che il F. aveva diritto all'oblio in
riferimento ad una parte tanto drammatica della sua vita personale; e
che, comunque, estrarre la foto del F. risalente al 1979 dall'archivio del.
giornale -- fotografia che, accompagnata dal nome e dal cognome, ben
consentiva l'individuazione dell'appellante -- costituiva una violazione
del diritto alla riservatezza, per di più in quanto accostata al ritrovamen-
to di un arsenale di armi nel comasco, appartenente alle disciolte Brigate
rosse. D'altra parte, secondo la sentenza, rievocare, a distanza di tanti
anni, una serie di eventi così personali e dolorosi appariva certamente
censurabile, «dal momento che essi fatti non avevano al momento della
pubblicazione alcuna attinenza con il pubblico interesse né tanto meno
presentavano aspetti di rilievo sociale».
In ordine alla determinazione del danno, la Corte d'appello dichiarava di
dover procedere alla liquidazione con criteri equitativi, tenendo conto
della «potenzialità lesiva delle notizie diffuse, della capacità diffusiva
del veicolo dell'informazione nonché della possibilità che il F. sia stato
riconosciuto ed individuato al di là della cerchia dei soggetti a lui più vi-
cini».
Avverso la sentenza della Corte d'appello di Milano propongono
ricorso per cassazione la Editoriale s.r.l., M.F., L.M., M.L.N. e R.C., le
ultime due nella qualità di eredi del defunto A.C., con unico atto conte-
nente quattro complessi motivi ed accompagnato da memoria.
Il F. non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell'art. 360, primo
comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione

34
degli. artt. 1, 12 e 25 della legge n. 675 del 1996, con errata
identificazione della nozione di dato personale tutelabile, oltre a vizio di
motivazione in ordine all'irrazionale esclusione della natura storica dei
fatti narrati ed all'erronea qualificazione degli stessi come fatti
meramente privati.
Rilevano i ricorrenti che gli articoli di giornale oggetto di causa si
inseriscono in un'ampia ricostruzione dei c.d. anni di piombo, in
relazione al ritrovamento di una notevole quantità di armi nel comasco.
Dopo aver richiamato il contenuto dei due articoli di giornale, i
ricorrenti osservano che il consenso del F. non era necessario, in
considerazione sia della natura dei dati sia dell'attività di chi li stava
divulgando. Ed infatti, le informazioni relative ad una vicenda che è
entrata a far parte della «memoria storica collettiva» possono essere
rievocate senza limiti temporali, anche da parte dei giornali; nella
specie, la partecipazione del F. alle note vicende del gruppo terroristico
Prima linea costituiva un dato pacifico, noto all'opinione pubblica e, per
ciò stesso, di interesse generale, rispetto al quale non è configurabile un
diritto all'oblio. E comunque, se anche si trattasse di dati personali, la
loro divulgazione sarebbe possibile in virtù della professione svolta
dagli odierni ricorrenti, godendo l'attività di giornalista di un particolare
status, riconosciuto dall'art. 25 della legge n. 675 del 1996.
Aggiungono poi i ricorrenti che lo stesso F., oggetto di vari
procedimenti penali, aveva diffuso a suo tempo, con una lettera inviata
ai giornali, una sintesi della propria vicenda umana; e gli articoli di
giornale oggi in contestazione non fanno che riprodurre - in termini del
tutto fedeli - quando già pubblicamente ammesso all'interessato.
Col secondo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell'art. 360, primo
comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell'art. 8,
secondo comma, lettera e), della direttiva CEE 24 ottobre 1995, n.
94/46/C.
Si osserva, al riguardo, che tale direttiva ha costituito la fonte
comunitaria che ha condotto all'approvazione della normativa nazionale
in tema di tutela dei dati personali. In base al citato art. 8, il divieto di
trattamento dei dati sensibili non sussiste quando gli stessi siano stati
resi pubblici dalla persona interessata. Tale principio sarebbe stato

35
violato dalla Corte d'appello, poiché la menzionata lettera inviata dal. F.
a tutti i giornali costituirebbe una ragione sufficiente a permettere la
divulgazione dei dati medesimi.
3. Col terzo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell'art. 360, primo
comma, n. 5), cod. proc. civ., erronea valutazione della necessità di una
intervista per poter divulgare i dati comunicati dal F. ai giornalisti,
nonché erroneo giudizio sulla necessità di un espresso consenso oltre ad
omessa considerazione dell'assenza di un danno nella divulgazione
oggetto di causa.
Le argomentazioni a sostegno di questo motivo ripetono, in sostanza,
quanto già detto in precedenza, aggiungendo che, in ogni modo, nessun
pregiudizio poteva essere derivato al F. dalla pubblicazione degli.
articoli contestati, perché essi non facevano che confermare la sua
completa riabilitazione sociale.
4. I primi tre motivi di ricorso -- che pongono all'esame della Corte il
delicato problema dei rapporti esistenti tra il diritto alla riservatezza ed il
diritto di cronaca, entrambi tutelati dalla Costituzione, in relazione al
c.d. diritto all'oblio - possono essere trattati congiuntamente e sono tutti
privi di fondamento.
4.1. Rileva questa Corte che la vicenda in esame si colloca nel periodo
di vigenza della legge n. 675 del 1996, oltre che in una data antecedente,
sia pure di pochi mesi, l'approvazione del codice di deontologia dei
giornalisti relativo al trattamento dei dati personali (avvenuta con
provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali in data
29 luglio 1998).
L'art. 25 della legge n. 675 del 1996 disponeva già - con una previsione
poi in sostanza recepita dall'art. 137 del decreto legislativo 30 giugno
2003, n. 196, oggi vigente - che il trattamento dei dati personali non
richiede il consenso dell'interessato ove avvenga nell'esercizio della
funzione di giornalista. Ciò in quanto il diritto alla riservatezza incontra
un limite nello speculare diritto di cronaca, col quale entra,
potenzialmente, in conflitto. Tuttavia, affinché il consenso
dell'interessato non sia necessario, occorre che la diffusione della notizia
risponda - come oggi afferma, con felice sintesi, l'art. 137 del d.lgs. n.

36
196 del 2003 - ad un criterio di «essenzialità dell'informazione riguardo
a fatti di interesse pubblico»; d'altra parte, anche il codice deontologico
sopra richiamato prevede, all'art. 5, comma 1, che il giornalista
«garantisce il diritto all'informazione su fatti di rilevante interesse
pubblico, nel rispetto dell'essenzialità dell'informazione».
Come questa Corte ha già affermato, nell'ipotesi di conflitto e
necessario bilanciamento tra diritti di rango costituzionale come il diritto
alla riservatezza garantito dall'art. 2 Cost. e il diritto di cronaca garantito
dall'art. 21 Cost., pur in presenza dell'interesse pubblico alla conoscenza
dei fatti divulgati, nonché di una forma civile di esposizione e
valutazione di essi, non è consentita la compressione senza alcun limite
del diritto alla riservatezza, atteso che non ogni lesione del diritto
“soccombente” può ritenersi giustifica, essendo giustificata la lesione
solo nei limiti in cui è strettamente funzionale al corretto esercizio del
diritto vittorioso, ed essendo altresì necessaria una valutazione di
proporzionalità tra la causa di giustificazione e la lesione del diritto
antagonista, che va effettuata in relazione al concreto atteggiarsi dei
diritti in contrapposizione (sentenza 9 giugno 1998, n. 5658).
Allo stesso modo è stato anche affermato che, in tema di
trattamento dei dati personali, la legge n. 675 del 1996 (applicabile
anche in quel caso ratione ternporis) stabilisce, con ríferimento alla
attività giornalistica, il principio della libertà del trattamento,
nell'osservanza del codice deontologico adottato con provvedimento del
Garante del 29 luglio 1998, in ossequio al diritto all'informazione su
fatti di interesse pubblico, ma anche al suo contemperamento con il
canone della essenzialità dell'informazione. Il rispetto delle previsioni
deontologiche è condizione essenziale per la liceità e la correttezza del
trattamento dei dati personali e, se tali presupposti non sussistono, il
consenso dell'interessato è imprescindibile e la diffusione del dato senza
quel consenso è suscettibile di essere apprezzata come fatto produttivo
di danno risarcibile (così la sentenza 24 aprile 2008, n. 10690). Più di
recente, ed in coerenza con i menzionati precedenti, questa Corte ha
stabilito che al giornalista è consentito divulgare dati sensibili senza il
consenso del titolare né l’autorizzazione del Garante per la tutela dei
dati personali, a condizione che la divulgazione sia “essenziale” ai sensi

37
dell’art. 6 del codice deontologico dei giornalisti, e cioè indispensabile
in considerazione dell’originalità del fatto o dei modi in cui e avvenuto;
valutazione che costituisce accertamento in fatto rimesso al giudice di
merito (sentenza 12 ottobre 2012, n. 17408).
Può dunque concludersi nel senso che i fattori decisivi dei quali il
giudice di merito deve tenere conto nel delicato bilanciamento tra il
diritto di cronaca e quello alla riservatezza sono costituiti
dall’essenzialità dell’informazione e dall’interesse pubblico delle notizie
divulgate.
Nel caso in esame, il ragionamento svolto dalla Corte milanese si snoda
attraverso una serie di passaggi così riassumibili: 1) non c’era il
consenso del F. alla pubblicazione della c.d. intervista, che poi tale non
era, in quanto egli si era limitato a dolersi per quanto era stato
pubblicato sul suo conto, invitando i giornalisti ad astenersi dal fornire
ulteriori notizie relative alla sua persona; 2) la fotografia del F., sebbene
assai risalente nel tempo, ne consentiva senza dubbio l’individuazione,
tanto più che era accompagnata dal nome e cognome; 3) non sussisteva
alcuna ragione o finalità di interesse pubblico alla divulgazione della
c.d. intervista, tanto più che alla scoperta dell’arsenale di armi nel
comasco non aveva fatto seguito alcuna imputazione a carico di
chicchessia; d’altra parte, la rievocazione, a distanza di tanto tempo, di
fatti privati riguardanti la vicenda personale del F., non poteva avere, al
momento della pubblicazione, alcuna attinenza con il pubblico interesse,
né presentava aspetti di rìlievo sociale; 4) non c’era alcun nesso tra il
ritrovamento delle armi e la vicenda passata del F., sicché nella specie il
diritto all’oblio era da ritenere prevalente rispetto all’esercizio del diritto
di cronaca.
La sentenza impugnata, quindi, ha posto in evidenza che la violazione
del diritto alla riservatezza si. poteva dedurre dalla mancanza del
consenso dell’interessato, dalla mancanza di un interesse pubblico alla
diffusione della notizia e dall’arbitrario collegamento venutosi a creare
tra il ritrovamento, nella zona di Como, di un arsenale di armi
appartenenti alle disciolte Brigate rosse e la vicenda personale di C.F.,
condannato molti anni prima in quanto appartenente al gruppo

38
terroristico denominato Prima linea. Tanto più che dalla telefonata
pubblicata col secondo articolo di giornale emergeva in modo
incontestabile che il F. desiderava proprio essere dimenticato, poiché la
sua appartenenza ad un gruppo terroristico apparteneva ad un remoto
passato che egli aveva cercato in tutti modi di rimuovere dalla sua vita.
4.3. Inquadrata nei termini suddetti, la sentenza impugnata pur
meritando una correzione della motivazione nella parte in cui sembra
attribuire al consenso dell’interessato una valenza decisiva che, alla luce
di quanto detto in precedenza, non sussiste - regge alle censure di cui ai
motivi di ricorso in esame.
Rileva questa Corte che le vicende relative ai c.d. anni di piombo
appartengono certamente alla memoria storica del nostro Paese, ma ciò
non si traduce nell’automatica sussistenza di un interesse pubblico alla
conoscenza di eventi che non hanno più, se non in via del tutto ipotetica
e non dimostrata, alcun oggettivo collegamento con quei fatti e con
quell’epoca, Nel caso in esame, attenendosi alla ricostruzione puntuale e
priva di vizi logici compiuta dalla Corte di merito, il diritto alla
riservatezza del F. - che assume, nella specie, i connotati del diritto ad
essere dimenticato - deve prevalere sul diritto di cronaca, perché il fatto
puro e semplice del ritrovamento di una cospicua quantità di armi nella
zona di residenza del F. non poteva consentire al giornalista di creare un
oggettivo (ed arbitrario) collegamento tra quell’evento, attuale, e la
storia passata del F., ex terrorista ma pure ormai reinserito nel contesto
sociale. La riemersione, per così dire, di un fatto molto lontano nel
tempo - che rivestiva, all’epoca, un sicuro interesse pubblico - non si
traduce, ipso facto, nella permanenza dell’interesse anche nel momento
attuale; ed é del tutto evidente, proprio per la ricostruzione operata dalla
Corte milanese, che il riferimento alla vicenda personale di C.F. non
aveva nessun collegamento con l’evento del ritrovamento delle armi, se
non al limitato fine di fare colore, ossia di presentare la notizia (odierna)
in modo tale da destare l’attenzione dei lettori.
Né d’altra parte può dirsi, in relazione al secondo motivo di ricorso, che
la vicenda sia scriminata per il fatto che il F. aveva a suo tempo - con
una lettera inviata «a tutti i giornali» - reso pubblica la sua vicenda
personale, dando conto del perché egli aveva compiuto la. scelta del

39
terrorismo. Anche tralasciando, infatti, il semplice rilievo per cui il
ricorso non indica con precisione dove e quando tale "resoconto"
sarebbe stato reso pubblico, resta il fatto che la diffusione di notizie
personali in una determinata epoca ed in un determinato contesto non
legittima, di per sé, che le medesime vengano utilizzate molti anni dopo,
in una situazione del tutto diversa e priva di ogni collegamento col
passato. In altre parole, il lungo tempo trascorso tra i due eventi fa sì che
non possa ritenersi il fatto oggi divulgato come un fatto «reso noto
direttamente dall’interessato» (per usare l’espressione dell’art. 137 del
d.lgs. n. 196 del 2003).
Questa Corte - in relazione ad una fattispecie diversa ma sotto
certi aspetti assimilabile a quella odierna - ha recentemente ribadito
(sentenza 5 aprile 2012, n. 5525) che è, in ultima analisi, il principio di
correttezza «a fondare in termini venerali l’esigenza del bilanciamento
in concreto degli interessi e, conseguentemente, il diritto dell’interessato
ad opporsi, al trattamento, quand’anche lecito, dei propri dati». Ne
consegue che proprio il rispetto di tale basilare regola dei rapporti tra
privati impone di riconoscere che il diritto dell’interessato ad essere
dimenticato intanto piò cedere il passo rispetto al diritto di cronaca in
quanto sussista un interesse effettivo ed attuale alla diffusione della
notizia; diversamente argomentando, altrimenti, si finirebbe col
riconoscere una sorta di automatica permanenza dell’interesse alla
divulgazione, anche in un contesto storico completamente mutato.
Nel caso specifico, poi, la foto del F. (sia pure risalente nel tempo) era
stata pubblicata insieme alle sue generalità, sicché la possibilità, di
identificazione può dirsi certa; e il lungo tempo trascorso dall’epoca dei
fatti di terrorismo per quali il F. era stato a suo tempo condannato fa sì
che non possa predicassi della sua persona il carattere della “notorietà”.
Da tanto consegue il rigetto dei primi tre motivi di ricorso, con
enunciazione del seguente principio di diritto:
"In tema di diffamazione a mezzo stampa, il. diritto del soggetto a
pretendere che proprie, passate vicende personali siano pubblicamente
dimenticate (nella specie, c.d. diritto all’oblio in relazione ad un’antica
militanza in bande terroristiche) trova limite nel diritto di cronaca solo

40
quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel
senso che quanto recentemente accaduto (nella specie, il ritrovamento di
un arsenale di armi nella zona di residenza dell’ex terrorista) trovi
diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi 1’ attualità.
Diversamente, il pubblico ed improprio collegamento tra le due
informazioni si risolve in un’illecita lesione del diritto alla riservatezza,
mancando 1a concreta proporzionalità tra la causa di i giustificazione (il
diritto di cronaca) e la lesione del diritto antagoniste".
5.1. Col quarto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo
comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione
degli artt. 1226 e 2056 cod. civ. in punto di liquidazione del danno,
nonché, in via subordinata, vizio di motivazione sull’esistenza la
determinazione del medesimo.
Osservano i ricorrenti che la liquidazione in euro 30.000 disposta dalla
Corte milanese sarebbe avvenuta senza distinzione tra danno
patrimoniale e danno non patrimoniale; la lesività della notizia rispetto
all’onore e al decoro della persona, infatti, dovrebbe avvenire nella sua
globalità, tenendo presente che gli articoli dì giornale danno conto del
mutamento di vita del F., il quale viene presentato come un soggetto
ormai totalmente reinserito nella vita civile, mentre la sentenza non
avrebbe compiuto un simile bilanciamento. D’altra parte la foto
pubblicata, risalendo al 1979, consentiva l’individuazione del soggetto
soltanto ad una cerchia molto imitata di persone, tanto più che il
Corriere quotidiano della città e provincia di Como è un quotidiano a
limitata diffusione territoriale.
5.2. Il motivo non è fondato.
La liquidazione del danno è stata compiuta dalla Corte d’appello
con criteri equitativi, trattandosi di un caso nel quale non sussistono
criteri certi e predeterminati di liquidazione. La valutazione equitativa
del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di
approssimazione, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il
profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la
giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si
discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria
(sentenze 26 gennaio 2010, n. 1529, e 19 maggio 2010, n. 12318).

41
La Corte territoriale ha dato conto della molteplicità degli
elementi considerati al fine di pervenire a tale risultato, né il ricorso
contiene argomentazioni, idonee a scalfire la solidità della motivazione;
quanto al profilo della diffusione territoriale della notizia, valgono rilievi
compiuti nell’esaminare i precedenti motivi di ricorso.
6.1. Col quinto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo
comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione
degli artt. 91 e 92, secondo comma, cod. proc, civ. e dei criteri di
liquidazione delle spese legali in base alle vigenti tariffe.
Rilevano ricorrenti che la Corte d’appello, pur avendo accolto in
misura minima la domanda di risarcimento danni, ha liquidato somme
troppo elevate a titolo di spese di giudizio; la liquidazione, infatti,
dovrebbe farsi in base al decisum e non in base al petitum, e il giudice di
merito ha comunque il dovere di distinguere tra diritti ed onorari; quanto
al rimborso forfetario nella misura del 12,5 per cento dei diritti ed
onorari, il giudice può disporlo, ma solo a specifica richiesta di parte
che, nella specie, non c’è stata. I ricorrenti, quindi, ripropongono la
richiesta di liquidazione delle spese di primo grado e di secondo grado,
come da note depositate davanti alla Corte d’appello di Milano.
6.2. Il motivo non è fondato.
Le contestazioni ivi contenute in ordine alla concreta liquidazione
delle spese non superano la soglia di una evidente genericità. La Corte
territoriale, infatti, ha distinto, in sede di liquidazione, i diritti dagli
onorari; il ricorso, d’altra parte, si limita a lamentare il superamento
delle tariffe, ma non indica con precisione le violazioni che il giudice di
merito avrebbe compiuto, come questa Corte ha sempre richiesto in
riferimento alle censure riguardanti il merito della liquidazione delle
spese.
Quanta al rimborso forfetario, lo stesso può essere riconosciuto
anche in assenza di specifica richiesta di parte, dovendosi l’istanza
ritenere implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari
giudiziali che incombe sulla parte soccombente (sentenze 3 aprile 2007,
n. 8238, e 22 febbraio 2010, n. 4209).

42
7.In conclusione, il ricorso è rigettato.
Non occorre provvedere sulle spese, atteso il mancato
svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato C.F.
Per questi motivi
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Nella fattispecie esaminata, si devono tenere presenti i


seguenti elementi: a) il Sig. Mario Bianchi non ha mai prestato
il consenso alla pubblicazione (non solo, il Sig. Mario Bianchi
ha espressamente rappresentato il suo fermo proposito a non
voler essere coinvolto con le proprie vicende personali nell'arti-
colo concernente la diversa notizia del ritrovamento dell'arse-
nale di armi, invitando il giornalista ed il direttore del giornale
ad astenersi dal compiere ulteriori riferimenti ai dolorosi eventi
della sua esistenza); b) la fotografia del Sig. Mario Bianchi ac-
compagnata dalla indicazione per esteso delle sue generalità ha
reso possibile la precisa individuazione del soggetto; c) l'asso-
luta inesistenza dell'interesse pubblico alla divulgazione della

43
notizia (il ripercorrere, a distanza di decenni, di eventi concer-
nenti la vita privata del Sig. Mario Bianchi non ha alcun nesso
rispetto al perseguimento di un pubblico interesse attuale); d)
non è rintracciabile alcun collegamento tra il ritrovamento del-
l'arsenale di armi e le vicende passate della vita del Sig. Mario
Bianchi; e) l'avvenuta ricezione da parte dei giornalisti di una
comunicazione da parte del Sig. Mario Bianchi di una comuni-
cazione contenente il racconto del proprio coinvolgimento ai
gravi fatti terroristici non consente di inferire un'esplicita mani-
festazione di consenso alla pubblicazione, delle notizie riporta-
te dalla stessa missiva.
In definitiva, il diritto del Sig. Mario Bianchi ad essere
dimenticato (il cd diritto all'oblio) è da reputarsi prevalente ri-
spetto al diritto di cronaca.
Il riconoscimento del diritto alla riservatezza in capo al
Sig. Mario Bianchi - quale diritto a essere dimenticato - impli-
ca il parallelo riconoscimento del diritto in capo a questi ad es-
sere risarcito per il danno subito scaturente dalla divulgazione
delle notizie non più rispondenti ad un'esigenza di attualità.

44
2. L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO

IL CASO

Mevio, in ragione di taluni disturbi accertati da uno psichiatra, deve


sottoporsi ad una terapia farmacologica. Questi alterna periodi di
relativa serenità ad altri periodi nei quali, non essendo in grado di
provvedere ai propri affari, ha bisogno di essere costantemente
supportato da altre persone per compiere una serie di atti.
Per tale motivo, la madre si rivolge all'autorità giudiziaria affinché
venga nominato un amministratore di sostegno nell'interesse del
figlio.
Tale iniziativa, tuttavia, viene fortemente contestata dalla sorella di
Mevio, Caia, con lui convivente, la quale ritiene che la nomina di un
soggetto terzo richiesto dalla madre non sia assolutamente utile e
rispondente all'interesse del fratello, il quale non deve essere privato
della propria capacità di agire. Caia ritiene che le strutture sanitarie
che hanno in cura da molto tempo il fratello siano perfettamente in
grado di intervenire nei casi di bisogno; inoltre, la stessa Caia si
reputa persona adatta a prendersi cura di Mevio, e di essere in grado
di prestare assistenza in modo adeguato per il compimento di quella
serie di atti cui questi non può provvedere autonomamente.

Quesito
Poiché non sussiste alcun obbligo di legge alla nomina di un
amministratore di sostegno, quali sono i rimedi che Caia può
attivare?

*****

45
ESAME DELLA FATTISPECIE

Nella fattispecie in esame, vi è un soggetto che mostra di


non possedere una totale e piena autonomia per poter compiere
taluni atti della propria esistenza, per l'esecuzione dei quali è
supportato dalla sorella con lui convivente. La madre reputa
che sia nell'interesse del figlio la nomina di un soggetto terzo,
quale amministratore di sostegno che lo possa seguire anche
nelle cure mediche cui Mevio deve sottoporsi.
Tale decisione, tuttavia non incontra il favore di un altro
familiare, la sorella Caia con cui Mevio convive. Quest'ultima
infatti ritiene superflua la presenza di un soggetto estraneo che
sia nominato dall'autorità giudiziaria. A parere di Caia, infatti,
poiché il quadro clinico di Mevio è noto alle strutture sanitarie
del luogo cui questi si è sempre rivolto, tali strutture sono in
grado di adottare le misure più congeniali e adeguate alla
situazione patologica in cui versa il paziente. Infine, secondo
Caia la nomina di un amministratore di sostegno potrebbe
risultare anche nociva per il fratello Mevio che si vedrebbe in
tal modo privato della propria capacità di agire.

46
LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 26 luglio 2013, n. 18171. Non è viziata la decisione del giudice


del merito che, nel prudente apprezzamento delle circostanze, abbia
dichiarato l’interdizione di un soggetto, in luogo che applicare la
disciplina dell’amministrazione di sostegno, avendo escluso la
possibilità di operare una distinzione tra le attività da limitare ed affidare
ad un terzo e quelle realizzabili dal soggetto, in ragione della peculiare
situazione anagrafica e fisio-psichica del medesimo (nella specie,
ultranovantacinquenne), valutata in correlazione con la complessità delle
decisioni anche quotidiane imposte dall’ampiezza, consistenza e natura
composita del suo patrimonio (caratterizzato anche da rilevanti
partecipazioni azionarie).

Cass., ord., 16 settembre 2011, n. 19017. Qualora non ricorra il requisito


della volontarietà dello spostamento della dimora abituale o del
domicilio del soggetto destinatario dell’amministrazione di sostegno, la
competenza a decidere della revoca e della nomina di un nuovo
amministratore di sostegno, ai sensi dell’art. 404 c.c., spetta al giudice
della circoscrizione nella quale l’amministrazione era stata aperta e la
prima nomina effettuata, non rilevando il luogo ove il beneficiario sia
stato di fatto trasferito (nella specie la suprema corte ha rilevato che
nessun mutamento di residenza o domicilio, effetto di volontaria scelta
del sostenuto, poteva ritenersi sussistente a seguito dell’acclarata
sottrazione dello stesso dall’istituto nel quale era ricoverato).

Cass. 25 ottobre 2012, n. 18320. La disciplina normativa


nell’amministrazione di sostegno è pienamente compatibile con la
convenzione di New York del 13 dicembre 2006, ratificata dall’Italia
con gli art. 1 e 2 l. 3 marzo 2009 n. 18, nella parte che concerne
l’obbligo degli stati aderenti di assicurare che le misure relative
all’esercizio della capacità giuridica siano proporzionate al grado in cui
esse incidono sui diritti e sugli interessi delle persone con disabilità, che
siano applicate per il più breve tempo possibile e siano soggette a

47
periodica revisione da parte di una autorità indipendente ed imparziale
(art. 1 e 2), anche in ordine al decreto del giudice tutelare, il quale
preveda l’assistenza negli atti di ordinaria amministrazione
specificamente individuati, nonché, previa autorizzazione del giudice, di
straordinaria amministrazione, ferma restando la facoltà del beneficiario
di compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della vita
quotidiana, con il dovere dell’amministratore di riferire periodicamente
in ordine alle attività svolte con riguardo alla gestione del patrimonio
dell’assistito, nonché in ordine ad ogni mutamento delle condizioni di
vita personale e sociale dello stesso.

Cass. 5 giugno 2013, n. 14190. Nella procedura per la istituzione di


un’amministrazione di sostegno, che consiste in un procedimento
unilaterale, non esistono parti necessarie al di fuori del beneficiario
dell’amministrazione; non è, pertanto, configurabile una ipotesi di
litisconsorzio necessario tra i soggetti partecipanti al giudizio innanzi al
tribunale, anche perché l’art. 713 c.p.c., cui rinvia l’art. 720 bis stesso
codice, espressamente limita la partecipazione necessaria al
procedimento al ricorrente, al beneficiario e alle altre persone, tra quelle
indicate in ricorso le cui informazioni il giudice ritenga utili ai fini dei
provvedimenti da adottare.

Cass., ord., 17 aprile 2013, n. 9389. In tema di amministrazione di


sostegno, la competenza territoriale si radica con riferimento alla dimora
abituale del beneficiario e non alla sua residenza, in considerazione della
necessità che egli interloquisca con il giudice tutelare, il quale deve
tener conto, nella maniera più efficace e diretta, dei suoi bisogni e
richieste, anche successivamente alla nomina dell’amministratore; né
opera, in tal caso, il principio della perpetuatio iurisdictionis, trattandosi
di giurisdizione volontaria non contenziosa, onde rileva la competenza
del giudice nel momento in cui debbono essere adottati determinati
provvedimenti sulla base di una serie di sopravvenienze.

Cass. 26 ottobre 2011, n. 22332. L’amministrazione di sostegno -


introdotta nell’ordinamento dall’art. 3 l. 9 gennaio 2004 n. 6 - ha la
finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o

48
temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di
assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di
agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a
tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non
soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la
novellazione degli art. 414 e 427 c.c.; rispetto ai predetti istituti,
l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va
individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di
infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto
carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale
strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla
sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura
applicativa; appartiene all’apprezzamento del giudice di merito la
valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze,
tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta
per conto del beneficiario e considerate anche la gravità e la durata della
malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le
altre circostanze caratterizzanti la fattispecie.

Cass. 22 aprile 2009, n. 9628. Nel giudizio di interdizione il giudice di


merito, nel valutare se ricorrono le condizioni a mente dell’art. 418 c.c.
per nominare l’amministratore di sostegno, rimettendo gli atti al giudice
tutelare, deve considerare che, rispetto all’interdizione e
all’inabilitazione, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di
sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso,
grado d’infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del
soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di
tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione
alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura
applicativa, ben potendo il giudice tutelare graduare i limiti alla sfera
negoziale del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, a mente
dell’art. 405, 5º comma, n. 3 e 4, c.c., in modo da evitare che questi
possa essere esposto al rischio di compiere un’attività negoziale per sé
pregiudizievole.

Cass. 12 giugno 2006, n. 13584. L’amministrazione di sostegno -

49
introdotta nell’ordinamento dall’art. 3 l. 9 gennaio 2004 n. 6 - ha la
finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o
temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di
assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di
agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a
tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non
soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la
novellazione degli art. 414 e 427 c.c.; rispetto ai predetti istituti,
l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va
individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di
infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto
carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale
strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla
sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura
applicativa; appartiene all’apprezzamento del giudice di merito la
valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze,
tenuto conto della complessiva condizione psico-fisica del soggetto da
assistere e di tutte le circostanze caratterizzanti la fattispecie.

Cass. 1 marzo 2010, n. 4866. In materia di misure di protezione delle


persone prive in tutto o in parte di autonomia, la l. 9 gennaio 2004 n. 6
ha configurato l’interdizione come istituto di carattere residuale,
perseguendo l’obiettivo della minor limitazione possibile della capacità
di agire, attraverso l’assunzione di provvedimenti di sostegno
temporaneo o permanente; ne discende la necessità, prima di
pronunziare l’interdizione, di valutare l’eventuale conformità
dell’amministrazione di sostegno alle esigenze del destinatario, alla
stregua della peculiare flessibilità del nuovo istituto, della maggiore
agilità della relativa procedura applicativa, nonché della complessiva
condizione psico-fisica del soggetto e di tutte le circostanze
caratterizzanti il caso di specie; mentre non costituisce condizione
necessaria all’applicazione di tale misura la circostanza che il
beneficiario abbia chiesto, o quantomeno accettato, il sostegno ovvero
abbia indicato la persona da nominare o i bisogni concreti da soddisfare.

50
LE NORME RICHIAMATE

Art. 404 c.c.


Amministrazione di sostegno.
1. La persona che, per effetto di una infermità ovvero di
una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità,
anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi,
può essere assistita da un amministratore di sostegno,
nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la
residenza o il domicilio.

Art. 405 c.c.


Decreto di nomina dell'amministratore di sostegno. Durata
dell'incarico e relativa pubblicità.
1. Il giudice tutelare provvede entro sessanta giorni dalla
data di presentazione della richiesta alla nomina
dell'amministratore di sostegno con decreto motivato
immediatamente esecutivo, su ricorso di uno dei soggetti
indicati nell'articolo 406.

2. Il decreto che riguarda un minore non emancipato può

51
essere emesso solo nell'ultimo anno della sua minore età e
diventa esecutivo a decorrere dal momento in cui la maggiore
età è raggiunta.

3. Se l'interessato è un interdetto o un inabilitato, il


decreto è esecutivo dalla pubblicazione della sentenza di
revoca dell'interdizione o dell'inabilitazione.

4. Qualora ne sussista la necessità, il giudice tutelare


adotta anche d'ufficio i provvedimenti urgenti per la cura della
persona interessata e per la conservazione e l'amministrazione
del suo patrimonio. Può procedere alla nomina di un
amministratore di sostegno provvisorio indicando gli atti che è
autorizzato a compiere.

5. Il decreto di nomina dell'amministratore di sostegno


deve contenere l'indicazione:

1) delle generalità della persona beneficiaria e


dell'amministratore di sostegno;

2) della durata dell'incarico, che può essere anche a


tempo indeterminato;

3) dell'oggetto dell'incarico e degli atti che

52
l'amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e
per conto del beneficiario;

4) degli atti che il beneficiario può compiere solo con


l'assistenza dell'amministratore di sostegno;

5) dei limiti, anche periodici, delle spese che


l'amministratore di sostegno può sostenere con utilizzo delle
somme di cui il beneficiario ha o può avere la disponibilità;

6) della periodicità con cui l'amministratore di sostegno


deve riferire al giudice circa l'attività svolta e le condizioni di
vita personale e sociale del beneficiario.

6. Se la durata dell'incarico è a tempo determinato, il


giudice tutelare può prorogarlo con decreto motivato
pronunciato anche d'ufficio prima della scadenza del termine.

7. Il decreto di apertura dell'amministrazione di


sostegno, il decreto di chiusura ed ogni altro provvedimento
assunto dal giudice tutelare nel corso dell'amministrazione di
sostegno devono essere immediatamente annotati a cura del
cancelliere nell'apposito registro. Il decreto di apertura
dell'amministrazione di sostegno e il decreto di chiusura
devono essere comunicati, entro dieci giorni, all'ufficiale dello

53
stato civile per le annotazioni in margine all'atto di nascita del
beneficiario. Se la durata dell'incarico è a tempo determinato,
le annotazioni devono essere cancellate alla scadenza del
termine indicato nel decreto di apertura o in quello eventuale
di proroga.

Art. 407 c.c.


Procedimento.
1. Il ricorso per l'istituzione dell'amministrazione di
sostegno deve indicare le generalità del beneficiario, la sua
dimora abituale, le ragioni per cui si richiede la nomina
dell'amministratore di sostegno, il nominativo ed il domicilio,
se conosciuti dal ricorrente, del coniuge, dei discendenti, degli
ascendenti, dei fratelli e dei conviventi del beneficiario.

2. Il giudice tutelare deve sentire personalmente la


persona cui il procedimento si riferisce recandosi, ove
occorra, nel luogo in cui questa si trova e deve tener conto,
compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione
della persona, dei bisogni e delle richieste di questa.

54
3. Il giudice tutelare provvede, assunte le necessarie
informazioni e sentiti i soggetti di cui all'articolo 406; in caso
di mancata comparizione provvede comunque sul ricorso.
Dispone altresì, anche d'ufficio, gli accertamenti di natura
medica e tutti gli altri mezzi istruttori utili ai fini della
decisione.

4. Il giudice tutelare può, in ogni tempo, modificare o


integrare, anche d'ufficio, le decisioni assunte con il decreto di
nomina dell'amministratore di sostegno.

5. In ogni caso, nel procedimento di nomina


dell'amministratore di sostegno interviene il pubblico
ministero.

Art. 408 c.c.

Scelta dell'amministratore di sostegno.

1. La scelta dell'amministratore di sostegno avviene con


esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del
beneficiario. L'amministratore di sostegno può essere

55
designato dallo stesso interessato, in previsione della propria
eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura
privata autenticata. In mancanza, ovvero in presenza di gravi
motivi, il giudice tutelare può designare con decreto motivato
un amministratore di sostegno diverso. Nella scelta, il giudice
tutelare preferisce, ove possibile, il coniuge che non sia
separato legalmente, la persona stabilmente convivente, il
padre, la madre, il figlio o il fratello o la sorella, il parente
entro il quarto grado ovvero il soggetto designato dal genitore
superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata
autenticata.

2. Le designazioni di cui al primo comma possono essere


revocate dall'autore con le stesse forme.

3. Non possono ricoprire le funzioni di amministratore di


sostegno gli operatori dei servizi pubblici o privati che hanno
in cura o in carico il beneficiario.

4. Il giudice tutelare, quando ne ravvisa l'opportunità, e


nel caso di designazione dell'interessato quando ricorrano
gravi motivi, può chiamare all'incarico di amministratore di
sostegno anche altra persona idonea, ovvero uno dei soggetti

56
di cui al titolo II al cui legale rappresentante ovvero alla
persona che questi ha facoltà di delegare con atto depositato
presso l'ufficio del giudice tutelare, competono tutti i doveri e
tutte le facoltà previste nel presente capo.

*****

GLI ISTITUTI

L'amministrazione di sostegno.
L'istituto che rileva nel caso in esame è quello
dell'amministrazione di sostegno previsto e disciplinato dalla
legge 9 gennaio 2004, n. 6, con cui si è data attuazione alla
riforma in materia di incapacità giudiziale della persona, che è
stata innovata in modo decisivo.
Secondo l'art. 404 c.c. rubricato Amministrazione di
sostegno, “la persona che, per effetto di una infermità ovvero
di una menomazione fisica o psichica, si trova nella
impossibilita', anche parziale o temporanea, di provvedere ai
propri interessi, può essere assistita da un amministratore di
sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa

57
ha la residenza o il domicilio”.
Con tale istituto il legislatore ha inteso circoscrivere
l'ambito degli interventi che possono compiersi nei confronti
della sfera personale del soggetto bisognoso di essere
supportato, intervenendo anche sugli istituti dell'interdizione e
l'inabilitazione.
Sulla scia della più attenta dottrina volta a porre in una
posizione di centralità la tutela della dignità del soggetto
incapace, il legislatore del 2004 ha recepito tale suggerimento
occupandosi di tutelare i diritti inviolabili della persona umana.
La direzione seguita dal legislatore - che si rinviene nella
delimitazione dei confini che la legge assegna a decreto con cui
il giudice nomina l'amministratore di sostegno - va infatti nel
senso di valorizzare tutto ciò che il soggetto incapace (il
beneficiario) è in grado di fare da solo, prevedendo un'attività
di intervento da parte di un terzo limitatamente a quegli atti per
i quali si necessita di un'assistenza che, se venissero compiuti
unicamente dal soggetto incapace potrebbero risultare per
questi pregiudizievoli.
La figura dell'amministrazione di sostegno si pone in una
posizione di rottura rispetto agli istituti dell'interdizione e

58
dell'inabilitazione essendo questi ultimi fondati su di una rigida
contrapposizione capacità/incapacità del soggetto che l'istituto
dell'amministrazione di sostegno mostra di saper superare.
La duttilità di tale misura la cui attivazione può provenire
anche da soggetti estranei alla cerchia familiare - si pensi ai
responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati
nella cura e nell'assistenza della persona bisognosa - è
confermata anche dalla possibilità per il giudice di porre fine a
tale misura qualora la ritenga non più idonea a garantire gli
interessi della persona: nel caso in cui il giudice reputi
necessario passare alle diverse misure dell'interdizione e
dell'inabilitazione trasmette gli atti al pubblico ministero.
Di contro, il giudice può revocare il provvedimento di
interdizione e di inabilitazione ed emettere un provvedimento
con cui dispone la nomina di un amministratore di sostegno se
ritiene che il soggetto conservi una limitata capacità che egli
consente di porre in essere taluni atti.

La durata dell'incarico e la proroga dello stesso.


La ratio è da ricercare quindi nel massimo rispetto della
dignità della persona nonché della libertà di agire per il

59
beneficiario nei limiti in cui ciò non risulti pregiudizievole per
la sua stessa sfera giuridica.
La limitazione della capacità di agire del beneficiario
strettamente funzionale al fine indicato spiega perché la
nomina di un amministratore di sostegno debba avere una
durata predeterminata dal giudice nell'atto di nomina
Il decreto con cui viene nominato l'amministratore di
sostegno deve, per l'appunto indicare la durata dell'incarico.
L'art. 405 c.c. prevede tuttavia che l'incarico possa essere
conferito anche a tempo indeterminato e che per il caso in cui
la durata dell'incarico sia a tempo determinato, “il giudice
tutelare può prorogarlo con decreto motivato pronunciato
anche d'ufficio prima della scadenza del termine”.
La proroga quindi può essere disposta d'ufficio dal
giudice ovvero sollecitata dai familiari o dallo stesso
beneficiario, ossia dalla cerchia di persone legittimate a
proporre ricorso.
Un limite massimo della durata è sancito nel termine di
dieci anni, termine oltre il quale l’amministratore di sostegno
non è tenuto a continuare a svolgere i suoi compiti. Tale
disposizione vale per il caso in cui l'amministratore nominato

60
sia un soggetto che non rientra nella cerchia dei familiari del
beneficiario. La norma, infatti recita ”salvo che l’incarico sia
attribuito al coniuge, al convivente stabile, agli ascendenti o ai
discendenti del beneficiario” (art. 410, 3° co., c.c.).

Il decreto di nomina.
Il codice civile all'art. 405 c.c., individua il preciso
contenuto che deve avere il decreto di nomina emesso dal
giudice, indicando le ipotesi tassative di limitazione della
capacità di agire del beneficiario.
Dispone la norma: “il decreto di nomina
dell'amministratore di sostegno deve contenere l'indicazione:
1) delle generalità della persona beneficiaria e
dell'amministratore di sostegno;
2) della durata dell'incarico, che può essere anche a tempo
indeterminato;
3) dell'oggetto dell'incarico e degli atti che l'amministratore di
sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del
beneficiario;
4) degli atti che il beneficiario può compiere solo con
l'assistenza dell'amministratore di sostegno;

61
5) dei limiti, anche periodici, delle spese che l'amministratore
di sostegno può sostenere con utilizzo delle somme di cui il
beneficiario ha o può avere la disponibilità;
6) della periodicità con cui l'amministratore di sostegno deve
riferire al giudice circa l'attività svolta e le condizioni di vita
personale e sociale del beneficiario”.
Il giudice è tenuto a delimitare l'oggetto
dell'amministrazione di sostegno, precisando se vi sono atti per
i quali il beneficiario deve essere rappresentato
dall'amministratore (che in tal caso si sostituisce all'incapace) e
se vi sono atti per i quali invece il beneficiario deve essere
affiancato dall'amministratore.
L'attività di valutazione che si richiede all'autorità
giudiziaria consiste nel discernere le attività che il beneficiario
può compiere da solo e quelle per le quali deve invece essere
supportato, valorizzando sempre le prime di esse (ovvero
quelle per le quali il soggetto mantiene una certa autonomia e,
relativamente alle quali, non può subire limitazione alcuna). In
particolare, gli atti che afferiscono alla vita quotidiana del
soggetto che possono essere da lui posti in essere
autonomamente, quali la riscossione di un canone di locazione,

62
ovvero della pensione, l'acquisto di un bene di primaria
necessità.
L'art. 409 c.c. prevede che: “il beneficiario
dell'amministrazione di sostegno può in ogni caso compiere gli
atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita
quotidiana”.
Un altro aspetto che il giudice deve considerare attiene al
contesto, principalmente affettivo, in cui vive il beneficiario
che deve esser mantenuto.
La specificità del provvedimento con cui si procede alla
nomina dell'amministratore di sostegno unitamente al
contenuto per certi versi necessariamente invasivo della sfera
del beneficiario impone al giudice di effettuare un'attività
istruttoria completa senza trascurare alcun aspetto. Per tale
motivo, l'autorità giudiziaria deve assumere ogni informazione
utile dai soggetti legittimati a presentare ricorso ovvero il
coniuge, la persona stabilmente convivente, i parenti entro il
quarto grado, gli affini entro il secondo grado. Al giudice la
norma richiede anche di disporre l'audizione del soggetto
interessato, che può essere ascoltato, ove occorra, anche nel
luogo in cui dimora.

63
L'art. 407 c.c. prevede, al fine di meglio inquadrare ed
esaminare la situazione generale in cui versa il soggetto, sia
sotto il profilo fisico che psichico, che il giudice disponga,
“anche d'ufficio, gli accertamenti di natura medica e tutti gli
altri mezzi istruttori utili ai fini della decisione”.

Il precipuo scopo che il legislatore intende perseguire con


l'introduzione di tale istituto è, come detto, quello di offrire una
protezione adeguata a soggetti bisognosi rispondente alle
esigenze concrete.
Tale principio deve essere tenuto presente allorquando si
procede alla scelta della persona da designare quale
amministratore di sostegno.
Recita sul punto, l'art. 408 c.c. che: “la scelta
dell'amministratore di sostegno avviene con esclusivo riguardo
alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario”.
Per tale motivo, il legislatore ha previsto la possibilità di
intervento del giudice nel caso in cui si accerti che
l'amministratore di sostegno agisca per fini egoistici (nella
maggior parte dei casi di natura patrimoniale) che risultino in
contrasto o, a dirittura, dannosi per il beneficiario. Infatti, in

64
caso di contrasto, di scelte o di atti dannosi posti in essere
dall'amministratore, “ovvero di negligenza nel perseguire
l'interesse o nel soddisfare i bisogni o le richieste del
beneficiario, questi, il pubblico ministero o gli altri soggetti di
cui all'articolo 406 possono ricorrere al giudice tutelare, che
adotta con decreto motivato gli opportuni provvedimenti” (art.
410 c.c.).
La giurisprudenza ha specificato che l'istanza di
amministrazione di sostegno, qualora presentata per il
soddisfacimento di interessi egoistici dei soggetti che nutrano
aspettative in ordine alla sfera del beneficiario deve essere
rigettata con conseguente condanna del ricorrente alle spese di
lite.

La centralità della volontà del beneficiario.


Il rilievo conferito alla volontà del soggetto beneficiario
di tale misura è rinvenibile in una serie di disposizioni.
A parte la facoltà conferita al soggetto di designare per il
futuro la persona che dovrà prendersi cura dei propri interessi
di cui si è già detto, vi è un'altra disposizione.
L'art. 410 c.c., rubricato Doveri dell'amministratore di

65
sostegno,dispone infatti che: “nello svolgimento dei suoi
compiti l'amministratore di sostegno deve tener conto dei
bisogni e delle aspirazioni del beneficiario. L'amministratore
di sostegno deve tempestivamente informare il beneficiario
circa gli atti da compiere nonché il giudice tutelare in caso di
dissenso con il beneficiario stesso. In caso di contrasto, di
scelte o di atti dannosi ovvero di negligenza nel perseguire
l'interesse o nel soddisfare i bisogni o le richieste del
beneficiario, questi, il pubblico ministero o gli altri soggetti di
cui all'articolo 406 possono ricorrere al giudice tutelare, che
adotta con decreto motivato gli opportuni provvedimenti”.
La norma impone espressamente all'amministratore di
sostegno di rendere edotto il beneficiario degli atti che intende
porre in essere nell'interesse di questi, attuando una piena
valorizzazione della volontà del beneficiario e un'adeguata
tutela della sua dignità.
Il compito del terzo, come si rileva, non si limita tuttavia
alla sola informazione, è previsto infatti che le scelte vengano
condivise con la persona nella cui sfera giuridica produrranno
effetti sicché, laddove non sussista, uniformità di vedute tra
l'amministratore di sostegno ed il beneficiario, il giudice deve

66
esserne informato per l'adozione dei provvedimenti del caso.
Al giudice è inoltre conferita la facoltà di annullare gli
atti posti in essere dall'amministratore di sostegno che risultino
pregiudizievoli ovvero non rispondenti all'interesse del
beneficiario nonché di annullare anche gli atti compiuti dal
beneficiario medesimo.

La scelta della persona dell'amministratore.


Secondo la disposizione di cui all'art. 408 c.c.
“l'amministratore di sostegno può essere designato dallo
stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura
incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata
autenticata. In mancanza, ovvero in presenza di gravi motivi, il
giudice tutelare può designare con decreto motivato un
amministratore di sostegno diverso. Nella scelta, il giudice
tutelare preferisce, ove possibile, il coniuge che non sia
separato legalmente, la persona stabilmente convivente, il
padre, la madre, il figlio o il fratello o la sorella, il parente
entro il quarto grado ovvero il soggetto designato dal genitore
superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata
autenticata”.

67
Il legislatore del 2004 ha dunque previsto che lo sia lo
stesso soggetto a poter designare, per il momento in cui
dovesse sopraggiungere una sua eventuale incapacità, una
persona deputata a prendersi cura dei suoi interessi.
La scelta compiuta dal soggetto interessato che, in un
periodo di piena capacità abbia designato un terzo, con una
sorta di testamento biologico, deve essere rispettata dal giudice
il quale può discostarsi, nominando una persona diversa, solo
in presenza di gravi motivi.
La designazione deve essere compiuta rispettando gli
oneri formali imposti, ovvero quello dell'atto pubblico o della
scrittura privata autenticata, richiesti ad substantiam.
L'imposizione di un onere formale è posto a garanzia e a tutela
della volontà di colui che effettua la designazione, facendo
venir meno il rischio di smarrimento ovvero di soppressione
del documento.
In caso di designazione da parte del soggetto interessato
il giudice deve attribuire ad essa valore prioritario, nell'ambito
delle valutazioni connesse alla nomina dell'amministratore di
sostegno. Laddove la scelta ricada su di un soggetto diverso
rispetto a quello indicato, si richiede una motivazione che dia

68
conto della scelta operata.
Esaminando le ripercussioni che si verificano sul piano
patrimoniale correlate alla scelta dell'amministratore di
sostegno è agevole inferire che il coniuge il quale sia stato
rimosso dall’amministrazione della comunione legale (ai sensi
dell'art. 183 c.c.) debba essere escluso dalla cerchia dei soggetti
da nominare quale amministratore di sostegno.
Tra il coniuge del soggetto bisognoso e la persona
convivente in maniera stabile non sussiste alcuna differenza -
sicché nella scelta non vi è un grado di preferenza dell'uno
rispetto all'altro - posto che il rapporto di convivenza
espressamente richiamato dal legislatore è quello more uxorio.
Tuttavia, sotto il profilo probatorio, il convivente non può
essere equiparato al coniuge nel senso che possono rilevarsi
taluni ostacoli nel verificare il requisito della stabilità della
convivenza, mentre è semplice accertare l'esistenza del
rapporto con il coniuge o con gli altri soggetti previsti dalla
disposizione codicistica, essendo la materia dello status
familiare sottratta alla disponibilità dei soggetti.
LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE - CASS. ORD., 18
GIUGNO 2014, N. 13929

69
La nomina dell'amministratore di sostegno risponde
all'insopprimibile esigenza di tutelare un soggetto che sia
limitatamente capace.

“La previsione dell'articolo 404 c.c. non esime il giudice


dalla nomina di un amministratore di sostegno, in presenza di
una condizione di incapacità. È da ritenere che la
discrezionalità rimessa al giudice attenga alla scelta della
misura più idonea (amministrazione di sostegno,
inabilitazione, interdizione). In caso contrario, il soggetto
incapace sarebbe privato anche di quella forma di protezione
dei suoi interessi, meno invasiva, costituita appunto
dall'amministrazione di sostegno” (Cass., ord., 18 giugno
2014, n. 13929).

La discrezionalità di cui è investito il giudice in merito


con riferimento alla scelta della misura da adottare nei
confronti del soggetto bisognoso (amministrazione di sostegno,
inabilitazione, interdizione) è piuttosto ampia proprio perché la
stessa deve risultare la più congeniale alle reali esigenze della

70
persona bisognosa. Poiché queste ultime possono mutare nel
corso del tempo, è altresì prevista la possibilità che il giudice
revochi la misura adottata per disporne una diversa che meglio
si attagli alla mutata condizione dell'incapace.
Tale sistema consente un'adeguata tutela nei confronti del
soggetto beneficiario che, altrimenti, non riceverebbe
un'appropriata protezione dei suoi interessi ai quali, mediante
l'istituto dell'amministrazione di sostegno, è per l'appunto
offerta una protezione meno invasiva.

TESTO INTEGRALE

La Corte d'appello di Genova, su parere difforme del P.G., con


decreto in data 8/11/2011, confermava il provvedimento del giudice
tutelare, con cui era stata rigettata la richiesta di nomina di
amministratore di sostegno a favore di C. M., affetto da patologia
psichiatrica.

Ricorre per cassazione il padre, CO. Ma.


Non hanno svolto attività difensiva le altre parti.
Con i due motivi di ricorso, il padre censura il decreto della Corte
territoriale per violazione dell'articolo 404 c.c. e difetto motivazionale,
che possono essere esaminati congiuntamente.
Il giudice a quo da atto che il figlio del ricorrente e' affetto da una
patologia psichiatrica, tale da rendere necessaria la somministrazione di
cure specifiche continuative e il supporto, per il compimento "degli atti

71
della propria esistenza", da parte di altre persone.
Ricorrevano dunque i presupposti per l'apertura
dell'amministrazione di sostegno, secondo il disposto dell'articolo 404
c.c., che introduce una misura di assistenza e protezione, nell'interesse di
chi si trova nell'impossibilita', anche parziale e temporanea, di
provvedere alle proprie esigenze di vita.
La Corte territoriale ha escluso la nomina di amministratore di
sostegno, nel presupposto che l'interessato potrebbe godere di "un'ampia
rete di protezione", operante a suo favore, ed osserva che l'articolo 404
c.c. non prevede alcun obbligo di nomina. Si ravvisa violazione di legge
e contraddittorietà della motivazione.
La previsione dell'articolo 404 c.c. non esime il giudice dalla
nomina di un amministratore di sostegno, in presenza di una condizione
di incapacità.
È da ritenere che la discrezionalità rimessa al giudice attenga alla
scelta della misura più idonea (amministrazione di sostegno,
inabilitazione, interdizione).
In caso contrario, il soggetto incapace sarebbe privato anche di
quella forma di protezione dei suoi interessi, meno invasiva, costituita
appunto dall'amministrazione di sostegno.
Va pertanto accolto il ricorso.
La sentenza va cassata, con rinvio alla Corte d'appello di Genova
in diversa composizione, anche per le spese.

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Nella fattispecie che occupa, in base a quanto detto, la


sorella di Mevio Caia, con lui convivente, non ha facoltà di

72
impedire la nomina di un amministratore di sostegno
nell'interesse del fratello. La disposizione codicistica di cui
all'art. 404 c.c., infatti, non prevede la possibilità di opporre un
veto alla richiesta di nomina, pur non prevedendo
espressamente la sussistenza di un obbligo a che si ricorra alla
richiesta di adozione di tale misura.
Una volta presentata la domanda da parte della madre del
soggetto - la madre di Mevio che è soggetto legittimato ad
agire nell'interesse del figlio - competerà all'organo giudicante
effettuare le dovute valutazioni, secondo quanto sopra si è
detto, con l'emissione di un provvedimento che si prenda cura
degli interessi di Mevio.
Gli elementi di fatto esposti, ovvero i periodi di parziale
incapacità in cui questi versa, la necessità di sottoporsi ad un
trattamento farmacologico, le continue cure psichiatriche di cui
il soggetto necessita, suggeriscono che si provveda a nominare
un amministratore di sostegno nell'interesse di Mevio, in
conformità della ratio sottesa a tale istituto.

73
3. CONVIVENZA MORE UXORIO E RAPPORTI
PATRIMONIALI

IL CASO

Il Sig. Mario Rossi conviene in giudizio la Sig.ra Bianchi,


premettendo a) di avere instaurato con la medesima una relazione
avente carattere sentimentale, b) di avere convissuto con la Sig.ra
Bianchi stabilmente, c) di avere avuto con la stessa una bambina, d)
di averle corrisposto una somma pari ad euro cinquantamila affinché
la stessa provvedesse al suo mantenimento e a quello della loro figlia
impiegando tale importo in modo redditizio.
Tanto premesso, il Sig. Mario Rossi, a seguito della conclusione
della convivenza more uxorio, chiede il rendiconto delle operazioni
compiute con la somma conferita (affidata secondo un rapporto di
mandato) e, in subordine, la restituzione della stessa, configurandosi,
a suo dire, una negotiorum gestio da parte della compagna ovvero un
arricchimento senza causa a suo favore.
La Sig.ra Bianchi ritiene, di contro, di non aver mai ricevuto alcun
mandato in merito alla gestione della somma. Questa, che per vivere
con il partner ha accettato d trasferirsi in altra città, ha accettato la
somma per il suo mantenimento nonché quale minimo ristoro per la
rinuncia compiuta dalla stessa al reddito che avrebbe conseguito se
avesse continuato ad esercitare la brillante attività professionale, con
inquadramento dirigenziale intrapresa nella città che ah dovuto
lasciare.
Aggiunge infine la Sig.ra Bianchi che la somma di euro
cinquantamila attribuita rappresentava un importo minimo rispetto ai
cospicui guadagni conseguiti dal Sig. Mario Bianchi con l'esercizio
della sua professione.

74
Quesito
Alla luce dei fatti esposti, è legittima la richiesta del Sig. Mario
Bianchi di ottenere la restituzione di quanto versato alla convivente
more uxorio?

*****

ESAME DELLA FATTISPECIE

L'oggetto della fattispecie che occupa, è rappresentato


dalla domanda di restituzione di quanto versato a favore di un
soggetto con cui si è intrattenuta una relazione di carattere
sentimentale e con cui si è dato vita ad una convivenza stabile
poi terminata, da cui è nata una figlia.
Il Sig. Mario Rossi ha versato, a più riprese, la
complessiva somma di euro cinquantamila a favore della
convivente per il mantenimento di questa e della loro bambina
e, secondo quanto adduce il Sig. Mario Rossi, al fine di gestire
tale importo in modo redditizio.
La Sig.ra Bianchi, pur di continuare la relazione
sentimentale con il partner ha rinunciato all'espletamento della
sua attività professionale, con profilo dirigenziale, accettando
di trasferirsi in altra città.

75
Cessata la relazione, il Sig. Mario Rossi avanza la
richiesta di ottenere la rendicontazione delle operazioni
compiute ovvero la restituzione di quanto versato sul conto
dell'ex compagna, in capo alla quale, a suo dire, potrebbe
ipotizzarsi una gestione di affari altrui oppure un arricchimento
senza causa.
Poiché alcun mandato formale è stato conferito, la Sig.ra
Bianchi ritiene di non essere tenuta alla restituzione di
alcunché, né di essere tenuta a fornire alcuna rendicontazione
della gestione di tale somma, la quale rappresenterebbe solo
una minima parte rispetto ai cospicui guadagni conseguiti
dall'ex compagno a seguito dell'esercizio della sua attività
professionale, nonché un minimo ristoro alla rinuncia al reddito
che la stessa avrebbe continuato a percepire se avesse
continuato a svolgere l'attività con inquadramento dirigenziale.

*****

LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 22 gennaio 2014, n. 1277. In tema di regolazione dei rapporti


patrimoniali in una convivenza more uxorio, la parte che risulta disporre

76
di un reddito elevato e che compie una dazione di denaro al convivente
che risulti privo di reddito proprio, adempie a un dovere morale e
sociale ai sensi dell'art. 2034 c.c. in quanto, in tema di convivenza fuori
dal vincolo di coniugio, la nozione di famiglia non deve limitarsi alle
sole nozioni basate sul matrimonio, ma può comprendere anche altri
legami familiari di fatto (quali, come nel caso di specie, una stabile
convivenza tra due persone) che devono essere compresi tra le
formazioni sociali nelle quali si deve ricondurre ogni forma di comunità,
semplice o complessa, idonea a consentire e favorire, ex art. 2 Cost., il
libero sviluppo della persona umana.

Cass. 26 febbraio 2014, n. 4539. La convivenza more uxorio del


coniuge, destinatario dell'assegno, tale da aver dato vita ad una vera e
propria famiglia di fatto, può rendere inoperante o comunque può
produrre una sospensione dell'assegno divorzile.

Cass. 22 gennaio 2014, n. 1277. Le unioni di fatto, quali formazioni


sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi
nell'ambito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi
dell'art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale
di ciascun convivente nei confronti dell'altro, che si esprimono anche nei
rapporti di natura patrimoniale. Ne consegue che le attribuzioni
patrimoniali a favore del convivente "more uxorio" effettuate nel corso
del rapporto (nella specie, versamenti di denaro sul conto corrente del
convivente) configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex
art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di
proporzionalità e di adeguatezza, senza che assumano rilievo le
eventuali rinunce operate dal convivente - quale quella di trasferirsi
all'estero recedendo dal rapporto di lavoro - ancorché suggerite o
richieste dall'altro convivente, che abbiano determinato una situazione di
precarietà sul piano economico, dal momento che tali dazioni non hanno
valenza indennitaria, ma sono espressione della solidarietà tra due
persone unite da un legame stabile e duraturo.

Cass. 2 gennaio 2014, n. 7. La convivenza more uxorio, compresa tra le


formazioni sociali costituzionalmente tutelate all’art. 2 cost. e che dà

77
vita ad un autentico consorzio famigliare, determina un potere di fatto
sulla casa di abitazione basato su un interesse proprio ben diverso da
quello derivante da ragioni di ospitalità, tale da assumere i connotati
tipici di una detenzione qualificata, cha ha titolo in un negozio giuridico
di tipo famigliare.

Cass. 15 maggio 2009, n. 11330. L'azione generale di arricchimento ha


come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro che
sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza
o l'ingiustizia della causa qualora l'arricchimento sia conseguenza di un
contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o
dell'adempimento di un'obbligazione naturale. È, pertanto, possibile
configurare l'ingiustizia dell'arricchimento da parte di un convivente
"more uxorio" nei confronti dell'altro in presenza di prestazioni a
vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni
nascenti dal rapporto di convivenza - il cui contenuto va parametrato
alle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di
fatto - e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza..

Cass. 2 gennaio 2014, n. 7. In considerazione del rilievo sociale che ha


ormai assunto per l'ordinamento la famiglia di fatto, la convivenza
"more uxorio", quale formazione sociale che da vita ad un autentico
consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si
attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un
interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da
ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una
detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo
familiare. L'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa,
compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non
proprietario, legittima quest'ultimo alla tutela possessoria,
consentendogli di esperire l'azione di spoglio; tale principio trova
applicazione anche qualora lo spoglio sia compiuto da un terzo nei
confronti del convivente del detentore qualificato del bene.

78
LE NORME RICHIAMATE

Art. 8 CEDU
Diritto al rispetto della vita private e familiare.
1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita
privata e familiare, del proprio domicilio e della propria
corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica
nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia
prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una
società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale,
alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla
difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione
della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle
libertà altrui.

Art. 2 Cost.
1. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni
sociali dove si svolge la sua personalità, e richiede

79
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale.

Art. 29 Cost.
1. La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come
società naturale fondata sul matrimonio.
2. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a
garanzia dell'unità familiare.

Art. 5 l. 19 febbraio 2004, n. 40.


Requisiti soggettivi.
Fermo restando quanto stabilito dall'articolo 4, comma
1, possono accedere alle tecniche di procreazione
medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso,
coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi
viventi.

80
Art. 6 l. 4 maggio 1983, n. 184.
1. L'adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio
da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non
deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione
personale neppure di fatto.
2. I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di
educare, istruire e mantenere i minori che intendano adottare.
3. L'età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e di
non più di quarantacinque anni l'età dell'adottando.
4. Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1
può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano
convissuto in modo stabile e continuativo prima del
matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il
tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità
della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso
concreto.
5. I limiti di cui al comma 3 possono essere derogati, qualora
il tribunale per i minorenni accerti che dalla mancata
adozione derivi un danno grave e non altrimenti evitabile per
il minore.
6. Non è preclusa l'adozione quando il limite massimo di età

81
degli adottanti sia superato da uno solo di essi in misura non
superiore a dieci anni, ovvero quando essi siano genitori di
figli naturali o adottivi dei quali almeno uno sia in età minore,
ovvero quando l'adozione riguardi un fratello o una sorella del
minore già dagli stessi adottato.
7. Ai medesimi coniugi sono consentite più adozioni anche con
atti successivi e costituisce criterio preferenziale ai fini
dell'adozione l'avere già adottato un fratello dell'adottando o il
fare richiesta di adottare più fratelli, ovvero la disponibilità
dichiarata all'adozione di minori che si trovino nelle
condizioni indicate dall'articolo 3, comma 1, della legge 5
febbraio 1992, n. 104, concernente l'assistenza, l'integrazione
sociale e i diritti delle persone portatrici di handicap. .
8. Nel caso di adozione dei minori di età superiore a dodici
anni o con handicap accertato ai sensi dell'articolo 4 della
legge 5 febbraio 1992, n. 104, lo Stato, le regioni e gli enti
locali possono intervenire, nell'àmbito delle proprie
competenze e nei limiti delle disponibilità finanziarie dei
rispettivi bilanci, con specifiche misure di carattere
economico, eventualmente anche mediante misure di sostegno
alla formazione e all'inserimento sociale, fino all'età di

82
diciotto anni degli adottati .

Art. 143 c.c.


Diritti e doveri reciproci dei coniugi.
1. Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli
stessi diritti e assumono i medesimi doveri.
2. Dal matrimonio deriva l'obbligo reciproco alla
fedeltà, all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione
nell'interesse della famiglia e alla coabitazione.
3. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione
alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro
professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della
famiglia.

Art. 144 c.c.


Indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia
1. I coniugi concordano tra loro l'indirizzo della vita
familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le
esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa.

83
2. A ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare
l'indirizzo concordato.

Art. 342-bis c.c.


Ordini di protezione contro gli abusi familiari.
1. Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è
causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale ovvero
alla libertà dell'altro coniuge o convivente, il giudice, su
istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei
provvedimenti di cui all'articolo 342-ter.

Art. 342-ter c.c.


Contenuto degli ordini di protezione.
1. Con il decreto di cui all'articolo 342-bis il giudice
ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta
pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone
l'allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del
convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole
prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai

84
luoghi abitualmente frequentati dall'istante, ed in particolare
al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d'origine, ovvero
al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in
prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo
che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per
esigenze di lavoro.
2. Il giudice può disporre, altresì, ove occorra
l'intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di
mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano
come fine statutario il sostegno e l'accoglienza di donne e
minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattamenti; il
pagamento periodico di un assegno a favore delle persone
conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo
comma, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità
e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la
somma sia versata direttamente all'avente diritto dal datore di
lavoro dell'obbligato, detraendola dalla retribuzione allo
stesso spettante.
3. Con il medesimo decreto il giudice, nei casi di cui ai
precedenti commi, stabilisce la durata dell'ordine di
protezione, che decorre dal giorno dell'avvenuta esecuzione

85
dello stesso. Questa non può essere superiore a un anno ( 1) a
può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano
gravi motivi per il tempo strettamente necessario.
4. Con il medesimo decreto il giudice determina le
modalità di attuazione. Ove sorgano difficoltà o contestazioni
in ordine all'esecuzione, lo stesso giudice provvede con decreto
ad emanare i provvedimenti più opportuni per l'attuazione, ivi
compreso l'ausilio della forza pubblica e dell'ufficiale
sanitario.

Art. 408 c.c.


Scelta dell'amministratore di sostegno.
1. La scelta dell'amministratore di sostegno avviene con
esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del
beneficiario. L'amministratore di sostegno può essere
designato dallo stesso interessato, in previsione della propria
eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura
privata autenticata. In mancanza, ovvero in presenza di gravi
motivi, il giudice tutelare può designare con decreto motivato
un amministratore di sostegno diverso. Nella scelta, il giudice

86
tutelare preferisce, ove possibile, il coniuge che non sia
separato legalmente, la persona stabilmente convivente, il
padre, la madre, il figlio o il fratello o la sorella, il parente
entro il quarto grado ovvero il soggetto designato dal genitore
superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata
autenticata.
2. Le designazioni di cui al primo comma possono essere
revocate dall'autore con le stesse forme.
3. Non possono ricoprire le funzioni di amministratore di
sostegno gli operatori dei servizi pubblici o privati che hanno
in cura o in carico il beneficiario.
4. Il giudice tutelare, quando ne ravvisa l'opportunità, e
nel caso di designazione dell'interessato quando ricorrano
gravi motivi, può chiamare all'incarico di amministratore di
sostegno anche altra persona idonea, ovvero uno dei soggetti
di cui al titolo II al cui legale rappresentante ovvero alla
persona che questi ha facoltà di delegare con atto depositato
presso l'ufficio del giudice tutelare, competono tutti i doveri e
tutte le facoltà previste nel presente capo.

87
Art. 417 c.c.
Istanza d'interdizione o di inabilitazione.
1. L'interdizione o l'inabilitazione possono essere
promosse dalle persone indicate negli articoli 414 e 415, dal
coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti
entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal
tutore o curatore ovvero dal pubblico ministero.
2. Se l'interdicendo o l'inabilitando si trova sotto la
responsabilità genitoriale o ha per curatore uno dei genitori,
l'interdizione o l'inabilitazione non può essere promossa che su
istanza del genitore medesimo o del pubblico ministero.

Art. 2034 c.c.


Obbligazioni naturali.
1. Non è ammessa la ripetizione di quanto è stato
spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o
sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un
incapace.
2. I doveri indicati dal comma precedente, e ogni altro
per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione

88
di ciò che è stato spontaneamente pagato, non producono altri
effetti.

*****

GLI ISTITUTI

La convivenza more uxorio.


Preliminarmente, giova muovere dall'esame
dell'evoluzione compiuta dalla legislazione e dalla
giurisprudenza in merito alla rilevanza sempre crescente
attribuita alla convivenza more uxorio.
Il precetto costituzionale di riferimento è rappresentato
dall'art. 29 Cost. che sancisce il riconoscimento dei diritti della
famiglia come società naturale fondata su matrimonio.
Il secondo comma della norma citata recita: “il
matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei
coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità
familiare".
Altra norma codicistica da richiamare è l'art. 143 c.c.,
rubricato Diritti e e doveri reciproci dei coniugi, secondo cui:

89
"con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi
diritti e assumono i medesimi doveri.
Dal matrimonio deriva l'obbligo reciproco alla fedeltà,
all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione
nell'interesse della famiglia e alla coabitazione.
Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle
proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro
professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della
famiglia".
La norma distingue l'assistenza morale e materiale cui i
coniugi sono reciprocamente tenuti. Il primo dovere
incombente sui due coniugi consiste nel farsi carico delle
difficoltà e delle problematiche che la famiglia si trova a
fronteggiare, mentre il dovere di assistenza materiale riguarda
un generale obbligo di contribuire al soddisfacimento di quelli
che sono i bisogni e le esigenze della famiglia. Tale ultimo
dovere non viene meno a seguito della scioglimento del
matrimonio e della cessazione degli effetti civili del medesimo.
E' poi previsto l'obbligo in capo ad entrambi i coniugi di
contribuire, ciascuno secondo le proprie capacità reddituali e le
proprie sostanze, ai bisogni familiari.

90
L’art. 144 c.c. impone ai coniugi di decidere,
concordemente, l'indirizzo della vita familiare e di stabilire la
residenza della famiglia,avendo riguardo alle esigenze di
entrambi e di quelle preminenti della famiglia. Strettamente
correlato a tale obbligo deve essere interpretato quello di
coabitazione, di cui al precedente articolo.
Questi diritti e doveri testé annoverati non rilevano nella
famiglia di fatto, che si crea mediante la convivenza stabile di
due soggetti, di diverso sesso, i quali, in mancanza di un
vincolo matrimoniale, danno vita ad una formazione sociale
nella quale sussiste una comunione di vita materiale e
spirituale.
Gli articoli prima richiamati non possono trovare
applicazione che a favore di coloro i quali, mediante il vincolo
matrimoniale, hanno accettato gli effetti conseguenti al
matrimonio.
L'impossibilità di una loro estensione in via analogica (si
pensi all'art. 143 c.c. che presenta anche una portata limitativa
della libertà personale sicché la stessa è ad ogni evidenza
suscettibile solo di interpretazione rigorosa) alle fattispecie di
convivenza more uxorio, via via sempre più numerose, ha

91
imposto una seria riflessione in ordine alle modalità attraverso
cui apprestare tutela ai componenti di tali formazioni sociali,
comportando una rilevante evoluzione normativa in amteria.
In tal senso si registra, a titolo esemplificativo,
nell'ambito della disciplina dell'adozione, l'art. 7 l. 28 marzo
2001, n. 149, che, modificando l'art. 6, 4° co., l. 4 maggio
1983, n. 184, ha precisato che il requisito della stabilità della
coppia degli adottanti risulta soddisfatto anche nel caso in cui
questi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima
del matrimonio per un periodo di tre anni.
Inoltre, con la Legge 4 aprile 2001, n. 154, la quale ha
introdotto nel codice civile gli artt. 342-bis e 342-ter, si è estesa
al convivente la disciplina concernente il sistema di protezione
contro gli abusi familiari.
Ed ancora, la Legge 9 gennaio 2004, n. 6 istitutiva
dell'istituto dell'amministrazione di sostegno, ha previsto
all’art. 5 che, in relazione all’art. 417 c.c., l’interdizione e
l’inabilitazione possono essere promosse anche dalla persona
stabilmente convivente e, in relazione ai criteri di cui all’art.
408 c.c. per la scelta della persona che deve ricoprire l'incarico
di amministratore di sostegno, ha disposto che la stessa possa

92
cadere sulla persona stabilmente convivente con il beneficiario.
La Legge 19 febbraio 2004, n. 40 ha poi segnato una
svolta decisiva in materia, consentendo alle coppie conviventi
di accedere alle tecniche previste per la fecondazione
medicalmente assistita.
Un ulteriore passo in avanti è stato compiuto con la
Legge 8 febbraio 2006, n. 54 la quale, introducendo il principio
generale dell’affidamento condiviso della prole, ha esteso la
relativa disciplina anche ai procedimenti relativi ai figli nati da
genitori non coniugati.
La recente riforma in tema di filiazione, attuata con la
Legge 10 dicembre 2012, n. 219, ha provveduto infine ad
abolire ogni residua forma di discriminazione tra figli nati da
genitori uniti in matrimonio tra loro e figli nati da genitori di
stato libero o, comunque, non uniti tra loro in matrimonio.
Anche con riferimento alla posizione espressa dalla
giurisprudenza si deve registrare il riconoscimento, ad opera
del Supremo Collegio, della responsabilità extracontrattuale
tanto nei rapporti interni tra soggetti conviventi, quanto
nell'ipotesi di lesioni arrecate da terzi al rapporto fondato sulla
famiglia di fatto.

93
La giurisprudenza di legittimità ha poi preso in
considerazione il rapporto di convivenza che venga intrapreso
da soggetto separato o divorziato ai fini della quantificazione
dell'assegno di mantenimento o di quello di divorzio da
corrispondere.
La Suprema Corte ha sancito altresì che l’estromissione
violenta o clandestina dall’unità abitativa, posta in essere dal
soggetto convivente proprietario in danno del partner
convivente non proprietario, consente a quest'ultimo di
accedere alla tutela possessoria, mediante l'esercizio dell'azione
di spoglio.
Il convivente non proprietario, infatti, riveste lo status di
detentore qualificato dell’unità abitativa, in forza del negozio
giuridico di tipo familiare con cui ha conseguito il godimento
del bene.
Del resto, l’evoluzione sociale non poteva essere ignorata
dalla giurisprudenza, la quale ha accordato rilevanza e tutela
sempre crescenti alle esigenze concrete che si sono
manifestate.
Proprio allo scopo di fornire protezione e tutela, i giudici
hanno sancito il principio secondo cui la convivenza more

94
uxorio è una formazione sociale di rilievo a cui son connessi
precisi doveri di natura morale in capo a ciascun soggetto nei
confronti dell’altro convivente e da cui possono scaturire, in
ordine a taluni profili, conseguenze di natura giuridica.
In ragione dell'enunciato principio, la famiglia di fatto è
una formazione sociale riconducibile al precetto di cui all’art. 2
Cost., in forza del quale, la Repubblica riconosce e garantisce i
diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si esplica la sua personalità, richiedendo
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale.
L'atteggiamento espresso dalla giurisprudenza, sia di
legittimità che costituzionale, è andato nella direzione di
promuovere e valorizzare il riconoscimento della famiglia di
fatto mediante il richiamo all’art. 2 Cost., norma alla quale
ricondurre ogni forma di comunità, semplice o complessa,
capace di consentire e incoraggiare il libero sviluppo della
persona nella vita relazionale, nel contesto della valorizzazione
di un modello pluralistico.
La valorizzazione della famiglia di fatto come
formazione nella quale si può esprimere la personalità di un

95
soggetto ha trovato pieno ingresso anche a livello
sovranazionale, a proposito dell'interpretazione fornita dalla
Corte di Strasburgo all’art. 8 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo, norma che riconosce a ogni persona il diritto
al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e
della sua corrispondenza.
La Corte di Strasburgo ha, infatti, riconosciuto che sulla
base di questa disposizione deve reputarsi che la nozione di
famiglia, lungi dall'essere limitata alle relazioni basate
esclusivamente sul matrimonio, comprende altri legami
familiari di fatto.

Doveri di natura morale e sociale dei soggetti conviventi.


Accertato quindi che il nostro sistema giuridico appresta
tutela ed attribuisce rilevanza giuridica alla convivenza more
uxorio, passiamo ad esaminare quali sono le tecniche attraverso
cui i soggetti conviventi ricevono effettiva tutela.
Muovendo dall'importanza degli obblighi scaturenti dai
rapporti di convivenza, giova segnalare che si tratta di un
obbligo giuridico nel caso in cui il dovere imposto a un dato
soggetto sia giuridicamente vincolante, atteso che la sua

96
inosservanza è sanzionata dall’ordinamento giuridico.
Nel differente caso in cui il dovere incombente su un
determinato soggetto non è giuridicamente vincolante, poiché il
sistema non commina alcuna sanzione per il caso di
inosservanza di quel dato obbligo, è possibile che si tratti di
una obbligazione naturale.
L’obbligazione naturale denota infatti un rapporto
fondato su doveri che rilevano non sotto un profilo strettamente
giuridico, ma esclusivamente dal punto di vista morale o
sociale.
Le peculiarità di tale istituto si individuano nell’assenza
di giuridicità ovvero per la totale irrilevanza giuridica e,
dunque, per l'impossibilità da parte del sistema di intervenire
con misure coercitive.
L'obbligazione naturale è regolamentata dall'art. 2034, 1°
co., c.c. il quale sancisce che non è ammessa la ripetizione di
quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri
morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da
un soggetto incapace.
La norma prevede la così detta soluti retentio, ossia
esclude la possibilità di conseguire mediante l'esercizio

97
dell'azione di ripetizione di indebito quanto versato, in tutti i
casi nei quali vi è stata esecuzione spontanea della prestazione,
in adempimento di doveri non rilevanti sul piano giuridico, ma
solo sul piano morale o sociale.
Il tratto caratteristico che si rinviene in tale tipologia di
obbligazione è, allora, l'assenza di coazione, ovvero la
spontaneità con cui il soggetto eroga la prestazione alla cui
esecuzione non è giuridicamente tenuto.
Altro elemento da considerare è rappresentato dal
requisito della proporzionalità dell’adempimento: la
prestazione erogata deve risultare proporzionata rispetto ai
mezzi di cui l’adempiente ha disponibilità e proporzionata
anche all’interesse da soddisfare.
Tale ultimo elemento che non si rinviene nella
disposizione normativa è precisato dalla dottrina, la quale
chiarisce la necessità della ricorrenza di questo requisito,
richiamandosi alla nozione medesima di obbligazione naturale.
Infatti, non è ragionevole ipotizzare l'adempimento di
un'obbligazione naturale - quindi non giuridicamente
vincolante - da parte di un soggetto che eroghi una prestazione
che risulti sproporzionata rispetto ai bisogni del beneficiario

98
ovvero rispetto alle sostanze di cui l'adempiente disponga.
Il carattere morale dell'obbligazione è configurabile in
tutti i casi in cui sussista un'esecuzione della prestazione
rilevante dal punto di vista etico, mentre, per quel che attiene al
dovere sociale, ci si richiama a quelle prestazioni la cui
inosservanza dà luogo solo ad un giudizio di condanna sociale.
In entrambi i casi si tratta di concetti che sono destinati a
mutare con l'evolversi della società poiché sono concetti
strettamente correlati al contesto sociale in cui agisce il
soggetto.
Si legge nella Relazione al codice civile, a proposito
dell'obbligazione naturale che: “l'obbligazione naturale non è
un vincolo giuridico neppure imperfetto: come tale non è
idoneo a produrre effetti giuridici. La soluti retentio è, infatti,
più che un effetto immediato dell'obbligazione naturale, una
conseguenza del volontario adempimento, il quale crea una
situazione che l'ordinamento giuridico prende in
considerazione e intende tutelare”. La soluti retentio, come si
evince chiaramente dal primo capoverso dell'art. 2034 c.c. è
l'unico effetto che consegue all'adempimento di tale
obbligazione, non avendo il legislatore previsto l'esperimento

99
di altra azione.
La considerazione che l'ordinamento giuridico appresta a
tale istituto si traduce quindi nel consentire al soggetto
beneficiario della prestazione - a favore del quale la stessa è
stata resa in esecuzione di un dovere morale o rispondente ad
un sentimento del comune sentire - di avvantaggiarsi mediante
l'irripetibilità della prestazione da parte di colui che l'ha resa, in
considerazione della meritevolezza che l'ordinamento giuridico
riconosce all'interesse da soddisfare mediante la prestazione
oggetto dell'obbligazione.
La convivenza more uxorio è - come noto - una
situazione nella quale i soggetti conviventi non sono tra loro
legati da un vincolo matrimoniale, ma convivono stabilmente
essendo uniti da una comunione spirituale e materiale di vita e
rappresentano quella che viene definita una famiglia di fatto.
La legge non disciplina tale istituto sicché per
individuare i doveri facenti capo ai soggetti conviventi e per
riconoscere gli strumenti a predisposti a loro tutela si deve
procedere ad un'attività interpretativa di quelle che sono le
disposizioni dettate per la famiglia fondata sul matrimonio.
In buona sostanza, posto il dovere di reciproco

100
mantenimento e il dovere di assistenza morale e materiale che
le norme impongono ai coniugi, ci si deve chiedere se il
supporto economico che il convivente presti a favore del
partner possa qualificarsi in termini di obbligazione naturale in
assenza di un obbligo giuridicamente rilevante.
E' indubbio che il contesto sociale nel quale vivono ed
operano i soggetti assume un'importanza primaria in tale
ambito ed è alla luce di questo parametro che si deve compiere
una valutazione in termini di meritevolezza dell'adempimento
di un dovere morale e di un dovere sociale.
Per quel che concerne il dovere sociale, possiamo
affermare che la violazione di ciò che è ritenuto socialmente un
dovere genera un sentimento di disistima e di condanna sociale.
Per quel che concerne il dovere morale, che caratterizza
questo tipo di obbligazione, siamo in presenza di un obbligo
che assume rilievo esclusivamente sotto il profilo etico.
Dovendo quindi individuare quali sono i comportamenti,
con riferimento alla famiglia di fatto, che secondo la coscienza
sociale e secondo l’etica appaiono doverosi, si può asserire che
è indubbia la rilevanza della famiglia di fatto e che
l’adempimento dei doveri di solidarietà sociale di un

101
convivente nei confronti dell’altro risponde a ciò che tanto
l'etica quanto la coscienza sociale reputa giusto e doveroso.
Ne consegue che, il mantenimento del partner e
l’erogazione a suo favore di una somma di denaro da parte
dell'altro convivente rappresenta l’oggetto di una obbligazione
naturale, la cui violazione genera condanna e riprovazione
sociale.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE – CASS. 22


GENNAIO 2014, N. 1277

Le attribuzioni patrimoniali, che risultino proporzionali ed


adeguate, effettuate tra soggetti conviventi non possono
essere oggetto d ripetizione.

“In tema di regolazione dei rapporti patrimoniali in


una convivenza more uxorio, la parte che risulta disporre di un
reddito elevato e che compie una dazione di denaro al
convivente che risulti privo di reddito proprio, adempie a un

102
dovere morale e sociale ai sensi dell'art. 2034 c.c. in quanto,
in tema di convivenza fuori dal vincolo di coniugio, la nozione
di famiglia non deve limitarsi alle sole nozioni basate sul
matrimonio, ma può comprendere anche altri legami familiari
di fatto (quali, come nel caso di specie, una stabile convivenza
tra due persone) che devono essere compresi tra le formazioni
sociali nelle quali si deve ricondurre ogni forma di comunità,
semplice o complessa, idonea a consentire e favorire, ex art. 2
Cost., il libero sviluppo della persona umana ” (Cass. 22
gennaio 2014, n. 1277).

La posizione espressa dalla giurisprudenza, a proposito degli


adempimenti compiuti da un convivente a favore dell'altro nel
corso della convivenza, è nel senso di ritenere che si tratta di
adempimento di doveri morali e sociali che trovano la loro
fonte nella formazione sociale costituita dalla convivenza more
uxorio.
Pertanto i giudici non riconoscono il diritto in capo al
convivente che ha agito di agire per conseguire la ripetizione
delle attribuzioni patrimoniali compiute.

103
La Corte di Coassazione ha già avuto modo di ribadire, a
tal proposito, che un’attribuzione patrimoniale del convivente
more uxorio dà luogo ad un adempimento di una obbligazione
naturale purché si riscontri il requisito dell’adeguatezza della
prestazione rispetto alle circostanze ed emerga altresì il
requisito della proporzionalità da rinvenire con riguardo
all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens.

IL TESTO INTEGRALE

1 - Con atto di citazione del 16 settembre 2002 il sig. V.B. conveniva in


giudizio davanti al Tribunale di Torino la sig.ra E.A. , assumendo di aver
intrattenuto una relazione con la stessa, la quale lo aveva seguito in
Cina, dove egli era stato distaccato per ragioni di lavoro e dove avevano
instaurato una convivenza more uxorio, durata cinque anni, nel corso
della quale era anche nato un figlio. Alla fine di tale periodo le parti, con
due distinte scritture del 19 gennaio 1998, avevano regolato i loro
rapporti di natura patrimoniale, con assunzione di obblighi da parte del
V. tanto nei confronti della ex convivente, quanto in relazione al
mantenimento del figlio, che rimaneva affidato alla madre. Tali accordi
nulla prevedevano in merito alla destinazione di somme che, in più
riprese, l'attore aveva versato su un conto corrente dell'E. , per un
ammontare complessivo di lire 120.950.000, allo scopo - secondo
quanto dallo stesso prospettato - di realizzarne una gestione
maggiormente redditizia.
Chiedeva pertanto il V. che la convenuta fosse condannata a
rendere il conto in relazione a tale mandato e a corrispondere la somma

104
risultante; in via subordinata la condanna alla restituzione veniva
avanzata a titolo di gestione di affari, ovvero di arricchimento senza
giusta causa.
1.1 – L’E. , costituitasi, contestava la fondatezza della domanda, in
quanto l'erogazione della somma pretesa in restituzione non sarebbe
stata effettuata in virtù di un mandato ad amministrare i risparmi del
convivente, bensì in adempimento di obbligazione naturale sorta
nell'ambito della convivenza more uxorio e relativa, in particolare, alla
creazione di una disponibilità finanziaria in proprio favore, anche per
compensare la perdita del reddito derivante dall'attività di dirigente di
un'importante società, pari, all'epoca, a circa undici milioni di lire
mensili, cui aveva rinunciato per seguire in Cina il V. .
1.2 - In via riconvenzionale la convenuta, lamentando il mancato
adempimento da parte dell'ex convivente delle obbligazioni assunte in
data 19 gennaio 1998, ne chiedeva la condanna al pagamento delle
somme dovute a tale titolo.
1.3 - Con sentenza depositata il 2 febbraio 2005 il Tribunale adito,
dichiarata inammissibile la domanda riconvenzionale dell'E. , accoglieva
la pretesa del V. ritenendola fondata - previa esclusione della ricorrenza
di un mandato ad amministrare, ovvero di una negotiorum gestio - sotto
il profilo dell'arricchimento senza causa.
Veniva in particolare rilevato che le erogazioni effettuate
dall'attore durante la convivenza non potevano trovare giustificazione
come adempimenti di obblighi morali e sociali, poiché gli stessi
(considerata la posizione dei conviventi, tenuto conto delle rispettive
condizioni economiche, su un piano di parità, reciprocità e
collaborazione), risultavano assolti dal V. per aver provveduto a vitto,
alloggio e mantenimento durante la convivenza, e, dopo di essa,
attraverso le obbligazioni assunte con la scrittura del gennaio 1998.
Il giudizio di inammissibilità della domanda riconvenzionale
veniva formulato, da un lato, in base al fatto che tale pretesa era stata già
azionata in separato giudizio e, dall'altro, in relazione alla sua genericità
ed alla carenza di valido titolo, essendo fondata sull'adempimento di

105
doveri morali e sociali.
1.4 - Avverso tale decisione proponeva appello l'E. , rappresentando che
l'obbligazione naturale sulla quale si fondava la propria eccezione era
rappresentata dalla deteriore condizione, sotto il profilo economico,
derivante dalla propria rinuncia alla carriera, in presenza di una
situazione debitoria nota al V. , il quale, per sopperirvi, aveva destinato
una minima parte delle proprie entrate, pari a circa il dieci per cento, a
procurare alla convivente, nell'ambito dei rapporti di solidarietà
instauratisi con la convivenza more uxorio, non solo vitto e alloggio, ma
anche una disponibilità finanziaria per far fronte alle proprie esigenze.
Si deduceva, quanto al rigetto della domanda riconvenzionale,
che il Tribunale aveva equivocato fra le due scritture sottoscritte nel
gennaio 1998, in quanto nel separato giudizio sarebbe stata fatta valere
soltanto quella inerente agli obblighi relativi al mantenimento della
prole. Inoltre, derivando tale obbligazione da un impegno di natura
negoziale, doveva escludersi che essa fosse riconduci-bile nell'ipotesi
prevista dall'art. 2034 c.c..
1.5 - La Corte di appello di Torino, con la sentenza indicata in epigrafe,
rigettava il gravame nella parte inerente all'adempimento di
obbligazione naturale, confermando, al riguardo, il giudizio espresso dal
Tribunale. Veniva rilevato, con riferimento alle somme di cui si chiedeva
la restituzione, che non si poteva trattare di una sorta di indennizzo per
la rinuncia alla carriera, non risultando che tale scelta fosse stata in
qualche maniera suggerita o richiesta dal V. e non fosse, al contrario, il
frutto di una libera valutazione dell'E. . Non si poteva ritenere, inoltre -
non essendo stati effettuati versamenti periodici, ma essendosi versate
delle somme di danaro in maniera sporadica - che potesse trattarsi di
un'integrazione di quanto versato per il mantenimento dell'appellante
durante la convivenza in Cina.
La censura inerente al rigetto della domanda riconvenzionale
veniva giudicata inammissibile, sotto il profilo della carenza di
specificità.
1.6 - Per la cassazione di tale decisione l’E. propone ricorso, affidato a

106
cinque motivi, cui il V. resiste con controricorso. Le parti hanno
depositato memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
2 - Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 2034 e 770
c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c, sostenendosi che
la corte territoriale, nell'ambito di una interpretazione riduttiva dei
doveri morali e sociali ravvisabili nelle relazioni "more uxorio", avrebbe
erroneamente escluso che i versamenti di somme da parte del V. , pari a
circa un decimo dei propri emolumenti, in favore della propria
convivente, la quale per seguirlo in Cina aveva rinunciato a un'attività
ben remunerata, potessero costituire adempimento di detti obblighi.
Viene formulato il seguente quesito di diritto: "Dica la Corte se, in caso
di convivenza more uxorio, la parte che risulti disporre di un reddito
elevato adempia a un dovere morale e sociale ai sensi dell'art. 2034 del
codice civile quando provvede alle esigenze del convivente che risulti
privo di reddito proprio (avendo rinunciato a un posto di lavoro in
funzione della convivenza), anche attraverso l’erogazione di somme di
denaro che risultino costituire una modesta porzione (nel caso di specie
circa il dieci per cento) dei propri guadagni e del reddito cui ha
rinunciato il convivente più debole sul piano patrimoniale".
2.1 - Con il secondo mezzo, deducendo, con puntuale formulazione del
prescritto momento di sintesi, vizio di omessa o insufficiente
motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi
dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c, la ricorrente si duole della
carenza di adeguate argomentazioni circa l'esclusione della dedotta
sussistenza di un dovere ricavabile dalla morale sociale nella situazione
illustrata nella precedente censura.
2.2 - Con il terzo motivo l'E. , indicando chiaramente il fatto
controverso, denuncia vizio di motivazione in relazione alla esclusione
dei requisiti di proporzionalità ed adeguatezza dell'obbligazione
naturale, rappresentando che la stessa non poteva ritenersi logicamente
adempiuta soltanto con l'assunzione, al momento della cessazione della
convivenza, di obblighi (dei quali contraddittoriamente la stessa Corte
avrebbe altrove escluso la natura vincolante) relativi al pagamento del

107
prezzo della casa e di debiti contratti dalla ricorrente (laddove la natura
non satisfattiva di obblighi morali dei precedenti versamenti, dai quali
sarebbero quindi sorti dei crediti, avrebbe condotto a una mera
compensazione). Né le consistenze patrimoniali della ricorrente - per
altro acquisite in epoca anteriore all'instaurazione della convivenza -
avrebbero dovuto essere valutate ai fini dell'insussistenza della dedotta
obbligazione naturale.
3- I suesposti motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in
relazione alla loro intima connessione, sono meritevoli di accoglimento.
3.1 - Vale bene preliminarmente rilevare l'infondatezza dell'eccezione
sollevata dal controricorrente relativamente alla formazione del
giudicato interno tanto in ordine alle insussistenza degli obblighi morali
scaturenti dalla convivenza, per non essere stata censurata
l'affermazione, contenuta nella decisione di primo grado, circa la
necessità di valutare gli obblighi morali nascenti da convivenza "more
uxorio" su un piano di parità e reciprocità, quanto in relazione al rilievo
della corte territoriale dell'assenza, al riguardo, di specifici motivi di
impugnazione.
Invero costituisce capo autonomo della sentenza -come tale
suscettibile di formare oggetto di giudicato interno - solo quello che
risolva una questione controversa tra le parti, caratterizzata da una
propria individualità e una propria autonomia, sì da integrare, in astratto,
gli estremi di un "decisum" affatto indipendente, ma non anche quello
relativo ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della
statuizione in concreto adottata (Cass., 30 ottobre 2007, n. 22863; Cass.,
6 agosto 2002, n. 11790). In altri termini, il giudicato non si forma su
una mera affermazione contenuta nella sentenza, che non sia stata
specificamente censurata, bensì su un punto della decisione che potrebbe
formare, in astratto, l'oggetto di separato giudizio, e che non sia
inscindibilmente collegato, come nella specie, alla pronuncia indicata
nel dispositivo, di tal che l'impugnazione della stessa è sufficiente a
escludere qualsiasi forma di acquiescenza (cfr. anche la recente Cass., 8
gennaio 2013, n. 247, nonché Cass., 20 agosto 2003, n. 12267).
Non sembra, pertanto, che possa seriamente negarsi che l'E.,

108
impugnando la pronuncia contenente il rigetto della propria eccezione
fondata sull'art. 2034 c.c., abbia così contestato anche l'affermazione,
del resto, dotata di mera valenza argomentativa, relativa alla necessità di
un rapporto paritario fra conviventi. Valenza argomentativa, per il vero,
dotata di scarsa efficacia, in quanto solo una lettura distorta del
fondamento dell'eccezione - basata sulla mutua assistenza fra
conviventi, indipendentemente dal genere conduce a ravvisarvi
l'evocazione del "dovere unilaterale dell'uomo verso la donna" (cfr., ad
esempio, Cass., 26 gennaio 1980, n. 651, in tema di adempimento di
obbligazione naturale ravvisata nella dazione di danaro da una donna a
un uomo in occasione della cessazione della loro relazione
sentimentale).
3.2 - Tanto premesso, non può omettersi di considerare come le unioni
di fatto, nelle quali alla presenza di significative analogie con la famiglia
formatasi nell'ambito di un legame matrimoniale si associa l'assenza di
una completa e specifica regolamentazione giuridica, cui solo
l'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale ovvero una legislazione
frammentaria talora sopperiscono, costituiscano il terreno fecondo sul
quale possono germogliare e svilupparsi quei doveri dettati dalla morale
sociale, dalla cui inosservanza discende un giudizio di riprovazione ed al
cui spontaneo adempimento consegue l'effetto della "soluti retentio",
così come previsto dall'art. 2034 c.c..
3.3 - Deve richiamarsi, in primo luogo, l'interpretazione resa dalla Corte
di Strasburgo (cfr., ex multis, sentenza 24 giugno 2010, Prima Sezione,
caso Schalk e Kopft contro Austria) in merito all'art. 8 della
Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, il quale tutela il diritto alla
vita familiare, in base alla quale deve ritenersi che la nozione di famiglia
cui fa riferimento tale disposizione non è limitata alle relazioni basate
sul matrimonio, e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le
parti convivono fuori dal vincolo di coniugio.
3.4 - A tale indirizzo corrisponde un orientamento inteso a valorizzare il
riconoscimento, ai sensi dell'art. 2 Cost., delle formazioni sociali e delle
conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (così già Corte
cost. n. 237 del 1986), nelle quali va ricondotta ogni forma di comunità,

109
semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo
della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione
del modello pluralistico" (Corte cost., n. 138 del 2010; cfr. anche Corte
cost. n. 404 del 1988, con cui il convivente more uxorio fu inserito tra i
successibili nella locazione, in caso di morte del conduttore). In tale
nozione si è ricondotta la stabile convivenza tra due persone, anche dello
stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una
condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti
stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e
doveri (cfr. la citata Corte cost., n. 138 del 2010, Cass., 15 marzo 2012,
n. 4184).
3.5 - Nella stessa legislazione nazionale, ancorché in maniera
disorganica, e ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e
patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati
dal matrimonio, sono emersi segnali sempre più significativi, in specifici
settori, della rilevanza della famiglia di fatto.
Sotto tale profilo, e senza pretesa di completezza, vale bene
richiamare la recente legge 10 dicembre 2012, n. 219, con cui è stata
abolita ogni residua discriminazione tra figli "legittimi" e "naturali"; la
legge 8 febbraio 2006, n. 54, che, introducendo il c.d. affidamento
condiviso, ha esteso la relativa disciplina ai procedimenti relativi ai figli
di genitori non coniugati; la 1. 19 febbraio 2004, n. 40, che all'art. 5
prevede l'accesso alle tecniche di fecondazione assistita da parte delle
coppie di fatto; la l. 9 gennaio 2004, n. 6, che, in relazione ai criteri, di
cui all'art. 408 c.c., per la scelta dell'amministratore di sostegno, prevede
anche che la stessa cada sulla persona stabilmente convivente con il
beneficiario, nonché, all'art. 5, prevedere, in relazione all'art. 417 c.c.,
che l'interdizione e l'inabilitazione siano promosse dalla persona
stabilmente convivente; la l. 4 aprile 2001, n. 154, che ha introdotto nel
codice civile gli artt. 342-bis e 342-ter, estendendo al convivente il
regime di protezione contro gli abusi familiari; la l. 28 marzo 2001, n.
149, art. 7, che, sostituendo l'art. 6, comma 4, della l. 4 maggio 1983, n.
184, ha previsto che il requisito della stabilità della coppia di adottanti
risulti soddisfatto anche quando costoro abbiano convissuto in modo
stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni.

110
3.6 - Anche nella giurisprudenza di questa Corte si rinvengono
significative pronunce in cui la convivenza more uxorio assume il
rilievo di formazione sociale dalla quale scaturiscono doveri di natura
sociale e morale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, da cui
discendono, sotto vari aspetti, conseguenze di natura giuridica.
Mette conto di richiamare, nel solco di un più ampio
riconoscimento delle posizioni soggettive sotto il profilo risarcitorio
(Cass., 22 luglio 1999, n. 500; Cass., 31 maggio 2003, n. 8827 e 8828;
Cass., 11 novembre 2008, n. 26972 e ss.), l'affermazione della
responsabilità aquiliana sia nei rapporti interni alla convivenza (Cass.,
15 maggio 2005, n. 9801), sia nelle lesioni arrecate da terzi al rapporto
nascente da un'unione stabile e duratura (Cass., 21 marzo 2013, n. 7128;
Cass., 16 settembre 2008, n. 23725). In altre pronunce si è attribuita
rilevanza alla convivenza intrapresa dal coniuge separato o divorziato ai
fini dell'assegno di mantenimento o di quello di divorzio (Sez. 1, 10
novembre 2006, n. 24056; Sez. 1, 10 agosto 2007, n. 17643; Sez. 1, 11
agosto 2011, n. 17195; Sez. 1, 12 marzo 2012, n. 3923); di recente,
ancora, muovendo dal rapporto di detenzione qualificata dell'unita
abitativa, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, si è
affermato che l'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa,
compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non
proprietario, legittima quest'ultimo alla tutela possessoria,
consentendogli di esperire l'azione di spoglio (Cass., 21 marzo 2013, n.
7214).
4 - I doveri morali e sociali che trovano la loro fonte nella formazione
sociale costituita dalla convivenza more uxorio refluiscono, secondo un
orientamento di questa Corte ormai consolidato, sui rapporti di natura
patrimoniale, nel senso di escludere il diritto del convivente di ripetere
le eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione
alla convivenza (Cass., 15 gennaio 1969, n. 60; Cass., 20 gennaio 1989,
n. 285; Cass., 13 marzo 2003, n. 3713; Cass., 15 maggio 2009, n.
11330).
A tale indirizzo, che il Collegio condivide ed al quale intende,
anzi, dare continuità, non si è conformata la Corte di appello, la quale ha

111
escluso la ricorrenza degli effetti previsti dall'art. 2034 c.c. sulla base di
una serie di rilievi incongrui, fornendo argomentazioni non adeguate e
talora contraddittorie.
4.1 - Nella sentenza impugnata si osserva in primo luogo che non risulta
che le dimissioni dell'E. siano state in qualche modo suggerite o
determinate dal V. , anziché costituire il frutto di un'autonoma scelta
della prima, che avrebbe inteso "anteporre l’amore alla carriera", di
talché eventuali pregiudizi di natura economica non sarebbero
imputabili, neppure sul piano etico, all'uomo. Si attribuisce in tal modo
alla nozione di obbligazione naturale fra conviventi una valenza
marcatamente indennitaria che, soprattutto quando le dazioni siano
avvenute, come nella specie, non alla fine del rapporto, ma nel corso di
esso, non le appartiene, in quanto l'assistenza materiale fra conviventi,
nel rispetto - come si dirà - dei principi di proporzionalità e adeguatezza
- può affermarsi indipendentemente dalle ragioni che abbiano indotto
l'uno o l'altro in una situazione di precarietà sul piano economico.
Eventuali contribuzioni di un convivente all'altro vanno intese, invero,
come adempimenti che la coscienza sociale ritiene doverosi nell'ambito
di un consolidato rapporto affettivo che non può non implicare, pur
senza la cogenza giuridica di cui all'art. 143, comma 2, c.c., forme di
collaborazione, e, per quanto qui maggiormente interessa, di assistenza
morale e materiale. La sentenza impugnata finisce per confondere la
spontaneità dell'esecuzione dei doveri morali e sociali prevista dall'art.
2034 c.c. con l'iniziativa inerente al determinarsi della situazione nella
quale detti doveri - dei quali pertanto costituisce soltanto una premessa -
trovano la loro scaturigine: allo stesso modo dovrebbe paradossalmente
escludersi la soluti retentio del pagamento del debito di gioco, previsto
dall'art. 1933, secondo comma, c.c. come ipotesi tipica di obbligazione
naturale, nel caso in cui la scelta di partecipare al gioco sia stata assunta
in piena autonomia dal perdente che abbia poi onorato il proprio debito.
4.2 - Per quanto attiene alla qualificazione delle dazioni che
costituiscono l'oggetto della controversia, deve in questa sede ribadirsi
che non può prescindersi, nell'esaminare la ricorrenza o meno di un
adempimento effettuato in virtù di doveri sociali e morali, dall'ambiente
socio economico cui appartengono le parti, nonché da un esame della

112
concreta situazione in cui i pretesi adempimenti risultano effettuati.
Sotto tale profilo, mentre il riferimento, al fine di escludere la
contribuzione ad esigenze personali della E. , alla percezione di "vitto e
alloggio" costituisce un argomento poco felice e mortificante che non
necessita di ulteriori commenti, deve rilevarsi, da un lato, che non
risultano adeguatamente considerate le condizioni sociali ed economiche
della parti e, dall'altro, che il rilievo attribuito agli accordi di natura
economica stipulati al momento della cessazione della convivenza
assume, come correttamente denunciato dalla ricorrente, aspetti
incongrui dal punto di vista logico, se non addirittura contraddittori.
4.3 - Quanto alla prima questione, non risulta contestato che l’E. , per
seguire in Cina il V. , aveva rinunciato alla propria carriera,
comportante, fra l'altro, la percezione di un reddito molto elevato: sotto
tale profilo non rileva che le somme in questione, che nella stessa
decisione impugnata vengono rapportate, in media, a versamenti mensili
di lire 1.650.000, non siano state corrisposte in Cina con tale cadenza,
ma accreditate in Italia su un conto corrente bancario della convivente.
La giustificazione causale delle dazioni, che la stessa corte territoriale
sembra individuare nella necessità di soddisfare "debiti personali
precedentemente contratti dalla sig.ra E. ", lungi dal richiedere - come
pure sostenuto nella sentenza impugnata - un negozio giuridico di
accollo, ben può essere ricondotta in quell'assistenza morale e materiale
fra conviventi sopra menzionata (laddove il dovere di prestare aiuto alla
persona convivente affinché adempia alle proprie obbligazioni dovrebbe
assumere, sempre nell'ambito dei doveri morali e sociali, un carattere
ben più cogente rispetto alla mera contribuzione economica per
l'acquisto di beni di consumo pur adeguati a un alto tenore di vita). Il
discrimine fra l'adempimento dei doveri sociali e morali, quale può
individuarsi in qualsiasi contributo fra conviventi, destinato al "menage"
quotidiano ovvero espressione, come nella specie, della solidarietà fra
persone unite da un legame intenso e duraturo, e l'atto di liberalità va
individuato, oltre che nella spontaneità, soprattutto nel rapporto di
proporzionalità fra i mezzi di cui l'adempiente dispone e l'interesse da
soddisfare. Tale requisito, unanimemente riconosciuto dalla dottrina in
relazione alle cc.dd. obbligazioni naturali in generale, è stato ribadito da

113
questa Corte proprio con riferimento all'adempimento di doveri morali e
sociali nella convivenza more uxorio (cfr. la citata Cass. n. 3713 del
2003). Tale indagine, ove si prescinda da un irrilevante riferimento alle
per altro non cospicue consistenze patrimoniali della donna, non è stata
effettuata da parte della corte territoriale - ed a tanto dovrà pertanto
provvedersi in sede di rinvio - pur a fronte della deduzione dell'E. circa
la relativa esiguità, in rapporto alle capacità patrimoniali e reddituali del
V. , delle contribuzioni in esame.
4.4 - Il riferimento, poi, alle obbligazioni derivanti dalla scrittura in data
19 gennaio 1998 assume aspetti del tutto contraddittori, sia perché il
negozio con cui si provvede a regolare gli aspetti inerenti ai rapporti
conseguenti alla cessazione della convivenza prescinde, di regola, dalle
precedenti dazioni intervenute nel corso della convivenza stessa (in caso
contrario, la ritenuta ricorrenza di un obbligo di restituzione avrebbe
comportato, anziché l'assunzione di obblighi futuri, il ricorso a
meccanismi di compensazione), sia perché un'obbligazione assunta in
funzione di adempimento di doveri morali e sociali è intrinsecamente
priva di coercibilità.
5 - Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione
dell'art. 112 c.p.c., in relazione alla statuizione di inammissibilità del
gravame relativo alla domanda riconvenzionale già proposta dalla stessa
E. , per litispendenza, per non aver la corte territoriale considerato che
nell'atto di appello erano ben specificate le diverse previsioni contenute
nelle due scritture sottoscritte in data 19 gennaio 1998, con la
precisazione che quella già azionata aveva ad oggetto un regolamento
negoziale ben diverso da quello posto a base della domanda svolta, in
via riconvenzionale, nel giudizio davanti al Tribunale di Torino.
5.1 - La questione di cui al motivo precedente viene riproposta, con
l'ultima censura, sotto il profilo dell'omessa ed insufficiente motivazione
circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell'art. 360,
primo comma, n. 5 c.p.c..
5.2 - I motivi sopra indicati, da esaminarsi congiuntamente in virtù della
loro connessione, sono inammissibili.

114
Essi, infatti, attribuendo alla corte territoriale l'omesso esame
della questione inerente alla sussistenza o meno della litispendenza
affermata dal primo giudice, non colgono in alcun modo la complessità
della ratio decidendi della decisione impugnata, che ha rilevato, per altro
con ampia ed esauriente motivazione, l'inammissibilità del motivo di
gravame relativo alla domanda riconvenzionale, per carenza di
specificità ai sensi dell'art. 342 c.p.c., per non aver espressamente
censurato il punto inerente alla proposizione o meno della domanda in
altro giudizio, affrontando - come, del resto, è avvenuto in questa sede -
la questione dell'esistenza o meno di due titoli giuridici, anziché quella,
"di ordine processuale, se la medesima domanda fosse stata o non già
proposta in altro giudizio".
Alla declaratoria di inammissibilità dei motivi in esame (il
secondo, poi, propone un vizio motivazionale in merito a una violazione
di natura processuale, la cui ricorrenza va accertata indipendentemente
dalle ragioni indicate dal giudice del merito) non è ostativo il principio,
di recente ribadito (Cass., Sez. un., 22 maggio 2012, n. 8077; Cass.,22
gennaio 2006, n. 24856), secondo cui in relazione alla denuncia di
errores in procedendo la corte di cassazione è giudice del fatto (inteso in
senso processuale) ed ha il potere - dovere di accertarlo procedendo
all'esame diretto degli atti, in quanto l'esercizio di tale potere - dovere
presuppone che la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità
alle regole fissate al riguardo dal codice di rito.
6 - In conclusione, previa declaratoria di inammissibilità dei restanti
motivi, vanno accolti i primi tre, con rinvio alla Corte di appello di
Torino, che, in diversa composizione, applicherà i principi sopra
richiamati, senza incorrere negli evidenziati vizi motivazionali,
provvedendo, altresì, in merito al regolamento delle spese processuali
relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo, il secondo ed il terzo motivo, dichiara
inammissibili il quarto e il quinto. Cassa la sentenza impugnata in
relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte di
appello di Torino, in diversa composizione.

115
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento
siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati in
sentenza.

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Da quanto detto il rapporto avente natura sentimentale,


con carattere di stabilità, intercorso tra il Sig. Mario Rossi e la
Sig.ra Bianchi, nel corso del quale rapporto è nata anche una
bambina, può ritenersi riconducibile alla nozione di famiglia di
fatto, offerta dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Nella specie, il Sig. Mario Rossi, nell'erogare la somma
di euro cinquantamila a favore della Sig.ra Bianchi ha di certo
adempiuto ad un dovere che la coscienza sociale ritiene
rilevante, sebbene non lo sia sotto un profilo strettamente
giuridico e non sia comminata alcuna sanzione per il caso di
inosservanza.
Perché la prestazione costituisca oggetto di
un'obbligazione naturale e sia quindi irripetibile, è necessario
accertare la ricorrenza del requisito della spontaneità da parte

116
di colui che ha adempiuto e quello della proporzionalità avuto
riguardo sia al patrimonio del solvens che ai bisogni del
destinatario.
Nel caso che occupa, il Sig. Mario Rossi ha adempiuto
spontaneamente nella piena consapevolezza di non essere
tenuto giuridicamente a versare tale somma sicché può dirsi
accertato il requisito della spontaneità dell'adempimento.
Per quel che concerne il requisito della proporzionalità,
questo può dirsi accertato in ragione del fatto che tale somma
rappresenta, rispetto ai cospicui guadagni conseguiti dal Sig.
Mario Rossi, solo una piccola somma: dunque è proporzionale
rispetto al patrimonio di colui che adempie (il solvens).
Inoltre, trattasi di somma adeguata anche relativamente ai
bisogni della Sig.ra Bianchi, la quale è rimasta priva di reddito,
durante l'intero periodo della convivenza.
Siamo, quindi, in presenza di un'obbligazione naturale
che rende irripetibile la somma corrisposta a favore della Sig.ra
Bianchi.
La domanda di restituzione avanzata dal Sig. Mario
Rossi, quindi, non può trovare accoglimento.
Del pari non è accoglibile la domanda di rendicontazione

117
delle operazioni compiute dalla Sig.ra Bianchi.
Altrettanto infondata appare, poi, la prospettazione
offerta dalla Sig.ra Bianchi, secondo cui si tratterebbe di una
sorta di indennizzo cui la stessa avrebbe avuto diritto in ragione
della rinuncia al reddito che sarebbe scaturito se la medesima
avesse continuato a ricoprire l'incarico dirigenziale (al quale
avrebbe rinunciato per accettare il trasferimento in altra città al
fine di proseguire la relazione con il Sig. Mario Rossi).

118
4. SUCCESSIONE LEGITTIMA E QUOTA RISERVATA
AL CONIUGE

IL CASO

Alla morte del Sig. Mario Rossi, gli eredi tra i quali deve dividersi il
patrimonio del de cuius sono due figli, Tizio e Caio e Sempronia,
madre degli stessi, nonché coniuge del de cuius.
Nel patrimonio del Sig. Mario Rossi non vi sono debiti né rilevano
donazioni a favore di alcuno di tali eredi; vi è la casa nella quale la
famiglia Rossi ha vissuto e che è stata dunque adibita a residenza
familiare, compresa di mobilio.
I figli, dopo qualche tempo, chiedono esplicitamente alla madre di
provvedere a dividere l'intero patrimonio in tre parti uguali tra loro,
ma secondo la madre Sempronia, la divisione in parti uguali deve
essere preceduta dalla detrazione del valore corrispondente al suo
diritto di abitazione sulla casa familiare e al diritto di uso del mobilio
ivi presente.

Quesito
Qual'è il metodo di calcolo che si deve seguire ai fini della
suddivisione del patrimonio del de cuius tra gli eredi, considerato che
il de cuius è deceduto senza lasciare testamento e che a favore del
coniuge superstite sussiste il diritto di abitazione della casa familiare
e il diritto di uso dei mobili ivi presenti?

*****

119
ESAME DELLA FATTISPECIE

Gli eredi del Sig. Mario Rossi (i due figli e al moglie) in-
tendono procedere alla suddivisione della massa ereditaria del
de cuius, ma tra loro sussistono delle divergenze in ordine alle
modalità di calcolo da seguire.
Poiché il Sig. Mario Rossi in vita non ha effettuato alcu-
na donazione a favore dei figli né a favore della moglie, atteso
che nel patrimonio di cui si tratta non si rinvengono passività,
si devono soltanto sommare tra loro gli importi corrispondenti
al valore dei singoli beni che erano di proprietà del Sig. Mario
Rossi al momento del suo decesso e si ottiene in tal modo la
riunione fittizia degli stessi.
La moglie – coniuge del de cuis – assume che la riunione
fittizia non debba includere anche il valore del diritto di abita-
zione della casa familiare ed il valore del diritto di uso concer-
nente i mobili che si trovano nella medesima casa familiare
che, a suo dire, andrebbero stralciati.
Ritengono invece che non si debba procedere ad alcuno
stralcio dalla massa ereditaria i due figli i quali propongono di
dividere l'intera massa in parti uguali e di attribuire a ciascuno

120
di essi la porzione di un terzo.

*****

LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 14 marzo 2012, n. 4088. Il diritto di abitazione, che la legge riser-


va al coniuge superstite (art. 540, 2º comma, c.c.), può avere ad oggetto
soltanto l’immobile concretamente utilizzato prima della morte del de
cuius come residenza familiare; il suddetto diritto, pertanto, non può mai
estendersi ad un ulteriore e diverso appartamento, autonomo rispetto alla
sede della vita domestica, ancorché ricompreso nello stesso fabbricato,
ma non utilizzato per le esigenze abitative della comunità familiare.

Cass. 15 maggio 2000, n. 6231. La titolarità del diritto di abitazione ri-


conosciuto dall’art. 540, 2º comma, c.c. al coniuge superstite sulla casa
adibita a residenza familiare - che, costituendo ex lege oggetto di un le-
gato, viene acquisito immediatamente da detto coniuge, secondo la rego-
la dei legati di specie, al momento dell’apertura della successione - ha
esclusivo riferimento al diritto dominicale spettante sull’abitazione del
de cuius, con la conseguenza che, nel caso di residenza familiare ubicata
in un immobile in proprietà esclusiva di quest’ultimo, il diritto del co-
niuge superstite non incontra, simmetricamente, alcun limite, anche se,
di fatto, parte dell’immobile sia temporaneamente occupato da terzi.

Cass. 23 maggio 2000, n. 6691. I diritti di abitazione sulla casa adibita a


residenza familiare e d’uso sui mobili che l’arredano, previsti in favore
del coniuge superstite dall’art. 540, 2º comma, c.c., presuppongono l’ap-
partenenza della casa e del relativo arredamento al de cuius o, in comu-
nione, a costui e all’altro coniuge, e quindi non sono configurabili nel
caso di comunione degli stessi beni tra il coniuge defunto e altri soggetti
(nella specie, la suprema corte, sulla base di tale principio, ha cassato la

121
decisione del giudice del merito che, in sede di scioglimento della comu-
nione ereditaria, rilevata l’indivisibilità dell’appartamento adibito a casa
familiare, ne aveva assegnato per intero la proprietà al coniuge supersti-
te, assumendo a criterio preferenziale per l’assegnazione il diritto di abi-
tazione al medesimo spettante ex art. 540 c.c., pur trattandosi di immo-
bile in comunione indivisa tra il de cuius ed i figli, a loro pervenuto per
precedente successione dalla rispettiva prima moglie e madre).
Cass. 22 luglio 1991, n. 8171. I diritti di abitazione sulla casa adibita a
residenza familiare e di uso sui mobili che la arredano, previsti in favore
del coniuge superstite, presuppongono per la loro concreta realizzazione
l’appartenenza della casa e del relativo arredamento al de cuius o in co-
munione a costui e all’altro coniuge, non potendo estendersi a carico di
quote di soggetti estranei all’eredità nel caso di comunione degli stessi
beni tra il coniuge defunto e tali altri soggetti.

Cass. 19 aprile 2013, n. 9651. In tema di successione necessaria, i diritti


di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili
che la corredano, riservati al coniuge ai sensi dell’art. 540, 2º comma,
c.c., si sommano alla quota spettante a questo in proprietà, e gravano in
primo luogo sulla porzione disponibile, determinata, a norma dell’art.
556 c.c., considerando il valore del «relictum» (e del «donatum», se vi
sia stato) comprensivo del valore capitale della casa familiare in piena
proprietà, mentre, in caso di incapienza della disponibile, comportano la
proporzionale riduzione della quota di riserva del medesimo coniuge,
nonché, ove pure questa risulti insufficiente, delle quote riservate ai figli
o agli altri legittimari. (Nella specie, alla luce dell’enunciato principio,
la suprema corte ha cassato la sentenza di merito la quale, allo scopo di
determinare la legittima riservata ai figli del «de cuius», aveva calcolato
la consistenza dell’asse ereditario dopo aver preliminarmente detratto il
valore dei diritti di abitazione e di uso spettanti al coniuge).

Cass. 10 marzo 1987, n. 2474. La titolarità del diritto di abitazione rico-


nosciuto dall’art. 540 cpv. c.c. al coniuge superstite sulla casa adibita a
residenza familiare, che, costituendo ex lege oggetto di un legato, viene
acquisita immediatamente da detto coniuge, secondo la regola dei legati

122
di specie (art. 649, 2º comma, c.c.) al momento dell’apertura della suc-
cessione, ha necessario riferimento al diritto dominicale spettante sull’a-
bitazione del de cuius; pertanto, nel caso in cui la residenza familiare del
de cuius sia sita in un immobile in comproprietà, il diritto di abitazione
del coniuge superstite trova limite ed attuazione in ragione della quota di
proprietà del coniuge defunto, con la conseguenza che ove, per l’indivi-
sibilità dell’immobile non possa attuarsi il materiale distacco della por-
zione dell’immobile spettante e l’immobile stesso venga assegnato per
intero ad altro condividente, deve farsi luogo all’attribuzione dell’equi-
valente monetario di quel diritto senza che - non ricorrendo l’ipotesi di
legato di prestazione obbligatoria - possa verificarsi l’effetto estintivo
per impossibilità della prestazione, previsto dal 2º comma art. 673 c.c.

Cass. 30 aprile 2012, n. 6625. Il diritto di abitazione, riservato dall’art.


540, 2º comma, c.c. al coniuge superstite sulla casa adibita a residenza
familiare, si configura come un legato ex lege, che viene acquisito im-
mediatamente da detto coniuge, secondo la regola di cui all’art. 649, 2º
comma, c.c., al momento dell’apertura della successione; ne consegue
che non può porsi un conflitto, da risolvere in base alle norme sugli ef-
fetti della trascrizione, tra il diritto di abitazione, che il coniuge legatario
acquista direttamente dall’ereditando, ed i diritti spettanti agli aventi
causa dall’erede (nella specie, in applicazione dell’enunciato principio,
la suprema corte ha confermato la sentenza di merito, la quale aveva
escluso la necessità della trascrizione del diritto di abitazione ex art. 540
c.c. ai fini della sua opponibilità al ricorrente, aggiudicatario in sede di
asta fallimentare di una quota di comproprietà dell’immobile apparte-
nente ad un coerede).

Cass. 6 aprile 2000, n. 4329. In tema di successione necessaria, la dispo-


sizione di cui all’art. 540, 2º comma, c.c. determina un incremento quan-
titativo della quota contemplata in favore del coniuge, in quanto i diritti
di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili
che la corredano (quindi, il loro valore capitale) si sommano alla quota
riservata al coniuge in proprietà (posto che la norma stabilisce che i di-
ritti di abitazione e di uso gravano, in primo luogo, la disponibile, ciò si-
gnifica che, come prima operazione si deve calcolare la disponibile sul

123
patrimonio relitto, ai sensi dell’art. 556 c.c. e, per conseguenza, determi-
nare la quota di riserva; calcolata poi la quota del coniuge nella succes-
sione necessaria, in base a quanto stabiliscono gli art. 540, 1º comma,
542 e 543, 1º comma, alla quota di riserva così ricavata si devono ag-
giungere i diritti di abitazione e di uso concreto, il cui valore viene a
gravare la disponibile; se la disponibile non è sufficiente, i diritti di abi-
tazione e di uso gravano, anzitutto, sulla quota di riserva del coniuge,
che viene ad essere diminuita della misura proporzionale a colmare l’in-
capienza della disponibile; se neppure la quota di riserva del coniuge ri-
sulta sufficiente, i diritti di abitazione e di uso gravano sulla riserva dei
figli e degli altri legittimari); l’attribuzione dei diritti di abitazione e di
uso costituisce un legato ex lege in favore del coniuge, per cui questi
può invocarne l’acquisto ipso iure, ai sensi dell’art. 649, 1º comma, c.c.,
senza dover ricorrere all’azione di riduzione; per contro, non essendo
ciò previsto da nessuna norma in tema di successione legittima, non v’è
ragione per ritenere che alla quota intestata contemplata dagli art. 581 e
582 c.c. si aggiungano i diritti di abitazione e di uso.

Cass. 5 maggio 2008, n. 11018. In tema di successione legittima, nella


quota intestata a favore del coniuge superstite ex art. 581 c.c. non sono
compresi i diritti di abitazione e di uso, per cui in caso di prosecuzione,
dopo il decesso del marito, della abitazione della casa coniugale e del-
l’utilizzo dei mobili di arredo ivi esistenti da parte della moglie si confi -
gura, ai sensi e per gli effetti dell’art. 485 c.c., il possesso dei beni eredi-
tari in capo al chiamato all’eredità, essendo sufficiente a questo scopo
l’instaurazione di una relazione materiale intesa come situazione di fat-
to, anche circoscritta ad uno solo dei beni ereditari, che consenta l’eser-
cizio di concreti poteri su di essi; ne consegue, in difetto di omessa reda-
zione dell’inventario entro tre mesi dall’apertura della successione, l’ac-
cettazione ex lege dell’eredità.
Cass. 13 marzo 1999, n. 2263. Ai diritti reali di abitazione della casa
adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che l’arredano, attribuiti
al coniuge superstite dall’art. 540, 2º comma, c.c. non si applicano gli
art. 1021 e 1022 c.c. nella parte in cui limitano il diritto in relazione al
fabbisogno del titolare.

124
Corte cost., ord., 5 maggio 1988, n. 527. È manifestamente infondata, in
quanto basata su un’errata interpretazione della disposizione impugnata,
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 581 c.c., nella parte in
cui prevede che a favore del coniuge superstite, anche quando concorra
con altri chiamati, siano riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita
a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà
del defunto o comuni, in relazione all’art. 584 c.c. il quale invece, attra-
verso l’espresso richiamo dell’art. 540, 2º comma, c.c., stabilisce tale ri-
serva a favore del coniuge putativo, in riferimento agli art. 3 e 29 cost.

Cass. 30 luglio 2004, n. 14594. Il principio della conversione del diritto


di abitazione spettante al coniuge superstite nel suo equivalente moneta-
rio nell’ipotesi in cui la residenza familiare del de cuius sia ubicata in un
immobile in comproprietà, e, per l’indivisibilità dell’immobile, non pos-
sa attuarsi il materiale distacco della porzione spettante al coniuge qua-
lora l’immobile stesso venga assegnato per intero ad altro condividente,
è applicabile anche all’ipotesi (quale quella di specie) in cui, a seguito
della vendita all’incanto dell’immobile ritenuto indivisibile, si verrebbe
inevitabilmente a creare la convergenza sullo stesso bene del diritto di
proprietà acquisito dal terzo aggiudicatario e del diritto di abitazione
spettante al coniuge superstite (risultando concretamente impossibile la
separazione della porzione dell’immobile spettante a quest’ultimo).

*****

LE NORME RICHIAMATE

Art. 536.
Legittimari

125
1. Le persone a favore delle quali la legge riserva una
quota di eredità o altri diritti nella successione sono: il coniu-
ge, i figli legittimi*, i figli naturali*, gli ascendenti legittimi.
2. Ai figli legittimi* sono equiparati i legittimati** e gli
adottivi.
3. A favore dei discendenti dei figli legittimi* o naturali*,
i quali vengono alla successione in luogo di questi, la legge ri-
serva gli stessi diritti che sono riservati ai figli legittimi* o na-
turali*.

* L'art. 1.11, l. 10 dicembre 2012, n. 219, così dispone:


«Nel codice civile, le parole: “figli legittimi” e “figli naturali”,
ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: “figli”».
** L'art. 1.10, l. 10 dicembre 2012, n. 219, ha abrogato la
sezione II del capo II del titolo VII del libro I del codice civile
Della legittimazione dei figli naturali (artt. 280-290).

Art. 540 c.c.


Riserva a favore del coniuge
1. A favore del coniuge è riservata la metà del patrimo-

126
nio dell'altro coniuge, salve le disposizioni dell'art. 542 per il
caso di concorso con i figli.
2. Al coniuge, anche quando concorra con altri chiamati,
sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a resi-
denza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di pro-
prietà del defunto o comuni. Tali diritti gravano sulla porzione
disponibile e, qualora questa non sia sufficiente, per il rima-
nente sulla quota di riserva del coniuge ed eventualmente sulla
quota riservata ai figli.

Art. 548.
Riserva a favore del coniuge separato.
1. Il coniuge cui non è stata addebitata la separazione
con sentenza passata in giudicato, ai sensi del secondo comma
dell'art. 151 , ha gli stessi diritti successori del coniuge non se-
parato.
2. Il coniuge cui è stata addebitata la separazione con
sentenza passata in giudicato ha diritto soltanto ad un assegno
vitalizio se al momento dell'apertura della successione godeva
degli alimenti a carico del coniuge deceduto. L'assegno è com-

127
misurato alle sostanze ereditarie e alla qualità e al numero de-
gli eredi legittimi, e non è comunque di entità superiore a quel-
la della prestazione alimentare goduta. La medesima disposi-
zione si applica nel caso in cui la separazione sia stata addebi-
tata ad entrambi i coniugi.

Art. 553 c.c.


Riduzione delle porzioni degli eredi legittimi in concorso
con legittimari
1. Quando sui beni lasciati dal defunto si apre in tutto o
in parte la successione legittima, nel concorso di legittimari
con altri successibili, le porzioni che spetterebbero a questi ul-
timi si riducono proporzionalmente nei limiti in cui è necessa-
rio per integrare la quota riservata ai legittimari, i quali però
devono imputare a questa, ai sensi dell'art. 564, quanto hanno
ricevuto dal defunto in virtù di donazioni o di legati
Art. 556 c.c.
Determinazione della porzione disponibile
1. Per determinare l'ammontare della quota di cui il de-
funto poteva disporre si forma una massa di tutti i beni che ap-

128
partenevano al defunto al tempo della morte, detraendone i de-
biti. Si riuniscono quindi fittiziamente i beni di cui sia stato di-
sposto a titolo di donazione, secondo il loro valore determinato
in base alle regole dettate negli artt. 747 a 750, e sull'asse così
formato si calcola la quota di cui il defunto poteva disporre

Art. 581 c.c.


Concorso del coniuge con i figli
1. Quando con il coniuge concorrono figli legittimi* o fi-
gli naturali, o figli legittimi e naturali e il coniuge ha diritto
alla metà dell'eredità, se alla successione concorre un solo fi-
glio, e ad un terzo negli altri casi.

• L'art. 1.11, l. 10 dicembre 2012, n. 219, così dispone:


«Nel codice civile, le parole: “figli legittimi” e “figli naturali”,
ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: “figli”».

Art. 584 c.c.


Successione del coniuge putativo

129
1. Quando il matrimonio è stato dichiarato nullo dopo la
morte di uno dei coniugi, al coniuge superstite di buona fede
spetta la quota attribuita al coniuge dalle disposizioni che pre-
cedono. Si applica altresì la disposizione del secondo comma
dell'art. 540.
2. Egli è però escluso dalla successione, quando la per-
sona della cui eredità si tratta è legata da valido matrimonio

GLI ISTITUTI

In primo luogo si deve esaminare la questione concernen-


te i diritti riservati al coniuge ex art. 540 c.c. e valutare se tale
disposizione debba trovare applicazione nei casi di successione
legittima, la quale opera allorquando il de cuius sia morto sen-
za lasciare testamento.
Il coniuge del de cuius si annovera nella categoria dei
soggetti a favore dei quali la legge riconosce una quota del pa-
trimonio di quest'ultimo, a titolo di riserva. La quota di riserva,
ovvero la legittima, è infatti riconosciuta espressamente a favo-
re di quelle persone definite, per l'appunto, “legittimarie”.

130
Secondo l'art.536 c.c., infatti, “le persone a favore delle
quali la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella
successione sono: il coniuge, i figli, gli ascendenti”.
Tanto il coniuge del de cuius quanto i figli dello stesso si
vedono riconosciuta la cd. “quota di legittima”, detta anche
“quota di riserva” (ovvero una quota ereditaria). La misura del-
la predetta quota non è fissa, ma variabile in forza del numero
dei legittimari e del rapporto di parentela che li lega al soggetto
della cui successione si tratta.
Gli ascendenti del de cuius sono legittimari e, quindi a
questi spetta la quota di riserva solo a condizione che non vi
sia prole del soggetto deceduto.
Tra i soggetti legittimari è incluso anche il coniuge che
prima della morte del de cuius si sia separato da questi. L'equi-
parazione di tale figura rispetto a quello del coniuge non sepa-
rato viene meno se, però, al coniuge superstite sia stata addebi-
tata la separazione e ciò sia accertato con sentenza divenuta ir-
revocabile. E' quanto afferma l'art. 548 c.c. secondo cui, “al
coniuge cui non è stata addebitata la separazione con sentenza
passata in giudicato, ai sensi del secondo comma dell'art. 151,
ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato .

131
Secondo l'art.540 c.c., nel caso di morte del de cuius sen-
za figli, la quota che spetta al coniuge superstite a titolo di le-
gittima corrisponde alla metà del patrimonio del soggetto dece-
duto.
Nel diverso caso in cui siano presenti i figli, al coniuge
superstite spetta una quota diversa di valore minore, che sarà
della misura di un terzo del patrimonio se vi è un solo figlio, di
un quarto se, invece, concorrono più figli.
Tale quota di legittima si accompagna ad un'ulteriore di-
sposizione dettata a favore del coniuge, prevista dal primo ca-
poverso dell'art. 540 c.c., come modificato dalla Legge 19
maggio 1975 n. 151, con cui si è data attuazione alla riforma in
materia di diritto di famiglia. Recita il citato articolo: “Al co-
niuge, anche quando concorra con altri chiamati, sono riser-
vati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza fami-
liare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del
defunto o comuni”.

La norma è ad ogni evidenza volta ad apprestare tutela e


garanzia al c.d. “coniuge debole” (che coincideva, almeno al
momento dell'intervento legislativo, con la figura della moglie,

132
figura questa preposta, nella gran parte dei casi, alla cura della
casa e all'accudimento dei figli) a favore del quale dispone la
riserva dei diritti di abitazione sulla casa destinata a residenza
familiare e del diritto di uso sul mobilio ivi presente, nel caso
in cui questi siano di proprietà del defunto ovvero di proprietà
comune ai coniugi, anche laddove il coniuge concorra con altri
chiamati. Tale riserva pone il coniuge al riparo da eventuali
pretese patrimoniali che soggetti terzi possano accampare sul-
l'asse ereditario del de cuius, per l'ipotesi in cui gli stessi siano
stati beneficiari di atti di liberalità da parte del soggetto dece-
duto, come disposizioni testamentarie a titolo di eredità o di le-
gato, donazioni, ovvero in base alle disposizioni prevista in
tema di successione legittima.
La tutela si attua attraverso la possibilità conferita al co-
niuge titolare del diritto di abitazione e di uso di cui si è detto
di conseguire la riduzione delle disposizioni testamentarie e an-
che delle donazioni che compromettono la quota di riserva a
.lui spettante. Il ripristino della riserva a favore del coniuge,
proprio per la tutela speciale accordata a tali diritti, si concre-
tizza, nella prassi, senza bisogno di attivare l'azione di riduzio-
ne.

133
In merito al caso in cui operi la successione legittima tro-
va applicazione la norma di cui all'art. 553 c.c., secondo cui:
“quando sui beni lasciati dal defunto si apre in tutto o in parte
la successione legittima, nel concorso di legittimari, con altri
successibili, le porzioni che spetterebbero a questi ultimi si ri-
ducono proporzionalmente nei limiti in cui è necessario per in-
tegrare la quota riservata ai legittimari, i quali però devono
imputare a questa, ai sensi dell'articolo 564 c.c. quanto hanno
ricevuto dal defunto in virtù di donazioni o di legati”.

La riserva dei diritti di abitazione della casa e di uso dei


mobili.
La riserva concernente il diritto di abitazione sulla casa
familiare ed il diritto di uso del mobilio che arreda la casa è
stata variamente interpretata dalla giurisprudenza dando origine
a diversi orientamenti che si sono venuti via via affermando.
Il primo requisito perché operi la norma di cui all'art.
540, 2° comma c.c. è che i beni a favore dei quali è disposta la
riserva appartengano al patrimonio del soggetto deceduto.
L'abitazione destinata a residenza familiare deve, quindi,
risultare di proprietà esclusiva del soggetto deceduto ovvero ri-

134
sultare in comproprietà di questo con il coniuge superstite.
Nel caso in cui il de cuius ne dividesse la proprietà con
soggetti terzi il diritto a favore del coniuge superstite non può,
secondo il prevalente orientamento, trovare applicazione. An-
che in ordine a tale profilo, tuttavia,si registrano posizioni tra
loro divergenti. Il Supremo Collegio ha affermato, di recente, il
principio di conversione del diritto di abitazione spettante al
coniuge superstite nel suo equivalente monetario per il caso in
cui la residenza familiare ed il relativo mobilio appartengano in
parte ad un soggetto terzo: altro filone dottrinario ha, invece,
affermato che la riserva opererebbe limitatamente alla quota di
immobile caduta in successione.
Si è già detto della ratio che ha ispirato il legislatore che
ha riformato il diritto di famiglia ovvero conferire una tutela
più pregnante a favore del coniuge che risulti il soggetto debole
del rapporto e si è già detto di come tale condizione coincideva,
almeno per i tempi passati, in prevalenza con la figura della
moglie.
L'attribuzione di tali diritti è volto a migliorare la qualità
di vita del coniuge sicché non trovano applicazione i limiti pre-
visti per i diritti di uso e di abitazione di cui agli artt. 1021 e

135
1022 c.c. che sanciscono il limite, nel godimento di tali diritti,
dei bisogni propri e della propria famiglia.
Ebbene, tale ratio che sottende all'intera materia è la me-
desima che ispira la riserva relativa al diritto di abitazione e al
diritto di uso dei mobili che arredano la casa, la cui disciplina
va, quindi, interpretata come uno strumento efficace che con-
sente al coniuge superstite - a favore del quale è disposta - di
prescindere dall'esercizio dell'azione di riduzione per godere
dei diritti citati. In passato al coniuge superstite spettava il c.d.
usufrutto uxorio, ovvero l'usufrutto di una quota dell'eredità.
La dottrina è solita inquadrare tali diritti nella categoria
di quei legati indicati direttamente dalla legge, ovvero diritti
che, in applicazione dell'art. 649 c.c. dettato in tema di legato,
si acquisiscono senza bisogno di accettazione e lasciando salva
la facoltà di rinuncia. Precisamente sono dei legati di specie,
ovvero legati che riconoscono la proprietà o altro diritto reale
di godimento su cose dettagliatamente individuate e facenti
parte dell'asse ereditario: il coniuge coniuge beneficiario, quin-
di, acquisisce al momento della delazione e a partire dall'aper-
tura della successione del de cius, il diritto di abitazione della
casa adibita a residenza familiare ed il diritto di fruire del mo-

136
bilio che corredano la casa stessa.
Come detto, sono diritti che si conseguono senza necessi-
tà di accettazione. La facoltà di rinuncia resta impregiudicata
ed il coniuge che rinuncia ad una quota di eredità non rinuncia
automaticamente al legato ex lege, qualora ciò non risulti speci-
ficato da una espressa volontà in tal senso. I due diritti, inoltre -
quello di abitazione e il diritto di uso - sono tra loro autonomi
ed indipendenti sicché al coniuge è consentito rinunciare anche
soltanto ad uno di essi.
La dottrina non mostra identità di vendute in merito alla
fattispecie in cui i predetti diritti siano disposti a favore di terzi:
una parte di essa, infatti, riconosce al coniuge superstite la fa-
coltà di agire con l'esercizio dell'azione di rivendicazione, altra
parte sostiene invece che le disposizioni testamentarie a favore
di terzi che contrastino con il disposto dell'art. 540, 2° comma
c.c. debbano ritenersi invalide. L'azione di riduzione è general-
mente esclusa dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente
per l'ipotesi in cui vi siano disposizioni testamentarie a favore
dei terzi. Tale rimedio non è ovviamente ammesso nel diverso
caso in cui il terzo beneficiario abbia ricevuto la residenza fa-
miliare ovvero i mobili che la corredano mediante un atto di li-

137
beralità inter vivos. La riserva di tali diritti, infatti, presuppone
che i relativi beni su cui gli stessi insistono appartengano in via
esclusiva al de cuius ovvero siano in comproprietà al de cuius
ed al coniuge superstite al momento dell'apertura della succes-
sione.

I diritti di abitazione della casa familiare e di uso dei mo-


bili ivi presenti si qualificano “legati di legittima” e si trasferi-
scono a favore del coniuge superstite in via immediata. Alcuni
in dottrina, poiché si tratta di di legati attribuiti a un erede (il
coniuge) a carico di tutta l'eredità, li configurano come “prele-
gati”, aventi effetto a favore dell'erede “prelegatario” per il loro
intero valore.

La successione legittima e la riserva a favore del coniuge


superstite.
I prelegati cui si è fatto cenno sono da intendersi quali
prelegati di legittima quando il coniuge, a cui favore sono di-
sposti, è chiamato a succedere. Essi garantiscono al coniuge
una posizione di favore che risulta tale anche rispetto ai figli
del soggetto deceduto. Va ricordato che nel patrimonio del co-

138
niuge superstite confluisce anche tutto ciò che deriva dallo
scioglimento della comunione legale che avviene, appunto, in
ragione della morte del de cuius.
Nulla il codice dispone in ordine al coordinamento tra la
disciplina dettata dalla riserva di cui si tratta a favore del coniu-
ge e la successione legittima.
Precisamente, la collocazione della norma che prevede la
riserva de qua, inserita nella sezione dedicata, per l'appunto, ai
diritti riservati ai legittimari impone di ascrivere il predetto isti-
tuto nell'ambito della successione necessaria, ma non si rinvie-
ne alcuna menzione dell'operatività della predetta riserva nel
contesto della successione legittima.
Ciò posto, perché si possa comprendere se, effettivamen-
te, l'assenza di ogni richiamo alla successione necessaria signi-
fichi che la riserva possa trovare spazio solo laddove il de
cuius abbia lasciato testamento (esprimendo la propria volontà
in merito al riparto del proprio patrimonio) ovvero se, diversa-
mente, essa possa godere di un'applicazione anche nel caso di
successione necessaria si deve esaminare la ratio sottesa all'i-
stituto della riserva.
E' stato già ribadito come la volontà perseguita dal legi-

139
slatore della riforma del diritto di famiglia sia stata quella di
garantire una pregnante tutela a favore del coniuge debole, di-
sponendo a favore di questo una situazione di vantaggio in ter-
mini che possono definirsi qualitativi. Ciò quindi impedisce
che possa offrirsi una interpretazione la quale diversifichi la di-
sciplina dettata a favore del coniuge superstite a seconda che il
de cuius abbia disposto delle proprie sostanze mediante testa-
mento o meno. Ne discende che - come espressamente precisa-
to dalla Corte costituzionale con la decisione resa in data 5
maggio 1988, n. 527 - i diritti di abitazione della casa familiare
e di uso dei mobili che la corredano spettano al coniuge super-
stite anche per il caso in cui il de cuius abbia omesso di redige-
re non ha fatto testamento.
La natura “qualitativa” della tutela apprestata nei riguardi
del coniuge superstite è stata anche alla base dell'interpretazio-
ne fornita dalla dottrina prevalente a proposito della conserva-
zione dei privilegi spettanti al coniuge superstite in ordine al
diritto di abitazione della casa familiare e del diritto di uso del
mobilio nel caso sin cui il tale persona contragga nuove nozze.
Quanto alle modalità di calcolo da seguire per provvede-
re alla suddivisione del patrimonio del de cuius ai fini del com-

140
puto della riserva di tali diritti, ci si è interrogati in ordine al-
l'inclusione del relativo valore all'interno dell'asse ereditario.
Con riguardo alla successione necessaria si ritiene da più
parti che il valore della riserva di cui all'art. 540 c.c. debba
sommarsi alla quota di riserva spettante al coniuge in forza di
diverse disposizioni (il riferimento è alle norme codicistiche
contenute nella Sezione I del Capo X del codice civile), atteso
che tali diritti, proprio perché intesi dal legislatore come “ulte-
riori”, non sono alternativi rispetto alle garanzie dettate dalle
disposizioni di carattere generale, ma devono ad esse aggiun-
gersi.
Se limitatamente alla successione necessaria la soluzione
adottata è risultata largamente condivisa, non è andata nei me-
desimi termini per quanto concerne la successione legittima.
La disposizione codicistica oggetto di approfondimento
per addivenire ad una una soluzione sulla questione è stata
quella di cui all'art. 553 c.c..
Tale norma prevede che: “Quando sui beni lasciati dal
defunto si apre in tutto o in parte la successione legittima, nel
concorso di legittimari con altri successibili, le porzioni che
spetterebbero a questi ultimi si riducono proporzionalmente

141
nei limiti in cui è necessario per integrare la quota riservata ai
legittimari, i quali però devono imputare a questa, ai sensi del-
l'articolo 564 cc. quanto hanno ricevuto dal defunto in virtù di
donazioni o di legati”.
Altra disposizione codicistica che merita di essere richia-
mata è quella di cui all'art. 584 c.c., che concerne il caso in cui
vi sia stato un matrimonio putativo e si occupa, quindi, della
successione del coniuge putativo a favore del quale la norma
prevede che “spetti la quota attribuita al coniuge dalle dispo-
sizioni che precedono. Si applica altresì la disposizione del se-
condo comma dell'articolo 540 c.c.”.
Se, quindi, l'estensione delle disposizioni dettate in tema
di successione legittima è disposta a favore del coniuge putati-
vo, qualora si escludesse il predetto ampliamento a favore della
categoria dei coniugi non putativi nell'ambito della successione
legittima si darebbe luogo ad un'evidente violazione del princi-
pio di uguaglianza, sancito dall'art. 3 Cost.
Il richiamo a tale ultimo principio impone dunque di rite-
nere che il trattamento riservato al coniuge non può risultare di-
versificato in ragione della tipologia di successione che si apre
al momento della morte del soggetto.

142
Pertanto, al coniuge (marito o donna) superstite deve es-
sere garantito tanto in caso di successione necessaria che in
caso di successione legittima la fruizione del diritto di abitazio-
ne sulla casa familiare e del diritto di uso del mobilio ivi pre-
sente. La difficoltà di reperire una diversa dimora, infatti, rap-
presenta un pregiudizio non irrilevante in entrambe le ipotesi
successorie.
Inoltre, tale interpretazione risulta altresì quella maggior-
mente in linea con lo spirito che ha innovato la materia del di-
ritto di famiglia ad opera della citata riforma del '75 e che fa
propendere per una piena equiparazione delle due situazioni.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE - CASS., SEZ. UN.,

27 FEBBRAIO 2013, N. 4847

La massa ereditaria da suddividere tra gli eredi impone d ef-


fettuare lo scomputo del diritto di abitazione sulla casa fami-
liare e del diritto di uso del mobilio ivi contenuto a favore del

143
coniuge superstite dal patrimonio del de cuius.

“In tema di successione legittima, spettano al coniuge


superstite, in aggiunta alla quota attribuita dagli art. 581 e
582 c.c., i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza fa-
miliare e di uso sui mobili che la corredano, di cui all’art. 540,
2º comma, c.c., dovendo il valore capitale di tali diritti essere
detratto dall’asse prima di procedere alla divisione dello stes-
so tra tutti i coeredi, secondo un meccanismo assimilabile al
prelegato, e senza che, perciò, operi il diverso procedimento di
imputazione previsto dall’art. 533 c.c., relativo al concorso tra
eredi legittimi e legittimari e strettamente inerente alla tutela
delle quote di riserva dei figli del de cuius” (Cass. civ., sez. un.,
27 febbraio 2013, n. 4847).

La Corte di Cassazione ha precisato, pronunciandosi con


riferimento a fattispecie coincidenti rispetto a quella esaminata,
che, ai fini del calcolo della massa ereditaria da suddividere tra
gli eredi occorre stralciare preventivamente dall'asse il valore
capitale dei diritti di abitazione della casa familiare e di uso dei
mobili che la arredano, riservati al coniuge superstite, secondo

144
modalità identiche a quelle che si applicano per il caso di prele-
gato.
Solo dopo aver compiuto la predetta operazione di detra-
zione è possibile suddividere la massa ereditaria tra tutti gli
eredi, seguendo le disposizioni previste per la successione le-
gittima.
Diversamente dal valore dei diritti di abitazione e di uso
che - come espsosto - deve essere detratto dal patrimonio, il va-
lore della nuda proprietà sulla casa e sui mobili deve essere in-
vece computato ai fini della suddivisione tra gli eredi (Cass.,
sez. un., 27 febbraio 2013, n. 4847).

TESTO INTEGRALE

Con atto di citazione notificato il 26-7-2002 Z.A. e B.C. espone-


vano che in data (OMISSIS) era deceduto "ab intestato" B.V. lasciando
quali eredi la moglie Z.A. ed i figli B.C. e B.D., che l'eredità era compo-
sta da diversi immobili per un valore complessivo di Euro 608.127,99, e
che a norma degli artt. 581 e 540 c.c., a ciascuno degli eredi spettava la
quota indivisa di un terzo del patrimonio ereditario, fermo restando che
al coniuge superstite doveva essere riconosciuto il diritto reale di abita-
zione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la
corredavano.
Le attrici quindi convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di

145
Venezia B.D. chiedendo lo scioglimento della comunione ereditaria con
assegnazione in natura della quota spettante a ciascun erede previa
imputazione nella quota del convenuto dell'avvenuto prelievo dall'asse
ereditario di Euro 136.823,00, e previa detrazione dal valore della casa
già familiare del valore attualizzato del diritto di abitazione spettante "ex
lege" al coniuge superstite.
Si costituiva in giudizio il convenuto non opponendosi allo
scioglimento della comunione e sostenendo che tutti i beni erano nella
disponibilità esclusiva delle attrici, le quali avrebbero dovuto rendere
conto degli introiti percepiti.
Il Tribunale adito con sentenza del 13-4-2005, rigettata ogni altra
domanda, dichiarava lo scioglimento della comunione ereditaria
limitatamente al 50% delle unità immobiliari indicate in citazione,
provvedendo alla assegnazione delle porzioni ed alla determinazione dei
conguagli, in particolare assegnando alla Z. il 50% dell'immobile di
viale (OMISSIS) già costituente la residenza coniugale; il Tribunale
osservava tra l'altro che, vertendosi in materia di successione legittima,
alla quota spettante al coniuge ai sensi degli artt. 581 e 582 c.c., non
potevano cumularsi i diritti di abitazione e di uso previsti in tema di
successione necessaria dall'art. 540 c.c., comma 2.
Proposto gravame da parte di B.D. cui resistevano la Z. e B.C.
che proponevano appello incidentale la Corte di Appello di Venezia con
sentenza del 6-10-2009, a parziale modifica della sentenza impugnata,
ha assegnato alla Z. il suddetto immobile di viale (OMISSIS) nella
misura del 100%, ed ha confermato nel resto l'impugnata sentenza,
ribadendo che, in presenza di una successione legittima, non spettano al
coniuge superstite, in aggiunta alla quota intestata prevista dagli artt.
581 e 582 c.c., i diritti di abitazione e di uso previsti dall'art. 540 c.c.,
comma 2.
Per la cassazione di tale sentenza la Z. e B.C. hanno proposto un
ricorso articolato in un unico motivo cui B. D. ha resistito con
controricorso introducendo altresì a sua volta un ricorso incidentale
affidato anch'esso ad un unico motivo e depositando successivamente
una memoria.

146
Con ordinanza del 4-5-2012 la Seconda Sezione Civile di questa
Corte, ritenuto che la decisione del ricorso principale - riguardante in
tema di successione legittima il riconoscimento o meno al coniuge
superstite dei diritti di abitazione ed uso previsti dall'art. 540 c.c.,
comma 2, nell'ambito della successione necessaria - comportava la
soluzione di questioni di particolare importanza, ha rimesso gli atti al
Primo Presidente per l'eventuale assegnazione della trattazione del
ricorso alla Sezioni Unite.
Le ricorrenti principali hanno successivamente depositato una
memoria.
Motivi della decisione
Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei ricorsi in
quanto proposti contro la medesima sentenza.
Venendo quindi all'esame del ricorso principale, si rileva che con
l'unico motivo formulato Z.A. e B.C. censurano la sentenza impugnata
nella parte in cui ha ritenuto che, vertendosi in materia di successione
legittima, al coniuge superstite non spettano, in aggiunta alla quota
intestata prevista dagli artt. 581 e 582 c.c., i diritti di abitazione ed uso
previsti dall'art. 540 c.c., comma 2.
Le ricorrenti principali assumono che, nonostante la mancanza di
un espresso richiamo normativo, la corretta interpretazione degli artt.
553 e 540 c.c., induce a ritenere che nella successione legittima la quota
del coniuge superstite debba avere un valore complessivo non inferiore a
quella al medesimo garantita dalle norme sulla successione necessaria,
costituita dalla somma del valore della quota di riserva e dei diritti di
uso e di abitazione.
La censura è fondata.
La Corte territoriale, menzionando a sostegno del proprio assunto
la pronuncia di questa stessa Corte 6-4-2000 n. 4329, ha rilevato
anzitutto che in tema di successione legittima non trovano applicazione
gli istituti della disponibile e della riserva, ha poi aggiunto che la riserva,
di cui fanno parte i diritti di abitazione e di uso, rappresenta il minimo

147
che il legislatore vuole assicurare ai più stretti congiunti del "de cuius",
anche contro la volontà di quest'ultimo, sottolineando che l'art. 553 c.c.,
al fine di evitare che attraverso la disciplina della successione legittima
vengano pregiudicati i diritti dei legittimari, stabilisce che le porzioni
fissate nelle successioni legittime, ove risultino lesive dei diritti dei
legittimari, si riducono proporzionalmente per integrare tali diritti; è
vero poi che dal sistema della successione necessaria emerge che il
legislatore interviene quando la quota spettante nella successione
intestata andrebbe al di sotto della quota di riserva;
peraltro non sussiste nessuna norma che modifichi il regime della
successione intestata per attribuire agli eredi legittimi, che siano anche
legittimari, più di quanto viene loro riservato con la successione
necessaria; quindi deve escludersi che alla quota intestata prevista dagli
artt. 581 e 582 c.c., si aggiungano i diritti di abitazione ed uso; pertanto
nella fattispecie il diritto di abitazione della Z., valutato in Euro
85.960,00 con riferimento alla sola casa coniugale, era compreso nella
quota di 1/3 della massa ereditaria ad essa spettante ed ammontante ad
Euro 164.333,00.
La decisione relativa all'enunciato motivo comporta l'esame
anzitutto della questione - evidenziata nella menzionata ordinanza di
rimessione - riguardante la spettanza o meno in favore del coniuge
superstite, nella successione legittima, dei diritti di abitazione e di uso
previsti dall'art. 540 c.c., comma 2, (comunemente qualificati dalla
dottrina prevalente e dalla giurisprudenza come legati "ex lege", vedi al
riguardo Cass. 10-3-1987 n. 2474; Cass. 6-4-2000 n. 4329; Cass. 15-5-
2000 n. 6231), e, nell'ipotesi di risposta affermativa in proposito,
dell'ulteriore questione se tali diritti debbano o meno aggiungersi alla
quota intestata prevista dagli artt. 581 e 582 c.c..
La prima questione nasce dal rilievo che, mentre l'art. 540 c.c.,
comma 2, che disciplina la riserva a favore del coniuge superstite,
prevede che a quest'ultimo "anche quando concorra con altri chiamati,
sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza
familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto
o comuni", gli artt. 581 e 582 c.c., i quali disciplinano nell'ambito della

148
successione legittima rispettivamente il concorso del coniuge con i figli
ovvero con ascendenti legittimi, fratelli e sorelle del "de cuius", non
fanno riferimento a tali diritti;
peraltro l'art. 584 c.c., che regola la successione del coniuge
putativo, prevede espressamente l'applicabilità in favore di quest'ultimo
della disposizione dell'art. 540 c.c., comma 2.
La Corte Costituzionale, affrontando la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 581 c.c., in relazione agli artt. 3 e 29 Cost., nella
parte in cui non attribuisce al coniuge, chiamato all'eredità con altri
eredi, i diritti previsti dall'art. 540 c.c., comma 2, viceversa riconosciuti
al coniuge putativo, con ordinanza del 5-5-1988 n. 527 l'ha ritenuta
manifestamente infondata, rilevando che detti diritti nella successione
"ab intestato" sono attribuiti al coniuge nella sua qualità di legittimario,
che l'omesso richiamo dell'art. 540 c.c., comma 2, da parte degli artt.
581 e 582 c.c., vale unicamente ad escludere che i diritti in oggetto
competano al coniuge autonomamente, ovvero che si cumulino con la
quota riconosciutagli dagli articoli medesimi, che per converso il rinvio
contenuto nell'art. 584 c.c., significa soltanto che la legittima aggiuntiva
costituita dai due diritti di godimento spetta anche al coniuge putativo,
ed ha quindi concluso "che, pertanto, le suddette disposizioni già vivono
nell'ordinamento con l'identico contenuto e portata che si vorrebbe
raggiungere per via di reductio ad legitimitatem...".
Rilevato che comunque tale decisione non ha superato i dubbi
interpretativi suscitati dal sopra richiamato quadro normativo di
riferimento, si segnala che questa Corte con sentenza del 13-3-1999 n.
22639, dopo aver premesso come indubitabile l'estensione dei diritti di
abitazione ed uso previsti dall'art. 540 secondo comma c.c. al coniuge
nella successione legittima in quanto l'eventualità che il coniuge
putativo potesse godere di un trattamento diverso e più favorevole
rispetto al coniuge legittimo sarebbe contraria al principio di
eguaglianza, ha prospettato due diverse soluzioni delle modalità
attraverso le quali tali diritti vengono riconosciuti al coniuge nella
successione legittima; secondo un primo indirizzo essi sono riservati al
coniuge come prelegati oltre la quota di riserva, mentre un'altra

149
ricostruzione, partendo dal presupposto che nella successione legittima
non trovano applicazione gli istituti della disponibile e della quota di
riserva, afferma che i diritti in questione non si aggiungono, ma vengono
a comprendersi nella quota spettante a titolo di successione legittima;
tuttavia la Corte non ha risolto tale questione, ritenendola irrilevante
nella fattispecie sottoposta al suo esame.
La successiva pronuncia di questa Corte del 6-4-2000 n. 4329
(cui, come esposto in precedenza, ha aderito la sentenza impugnata),
l'unica che ha affrontato più approfonditamente e risolto la questione in
ordine al riconoscimento al coniuge superstite dei diritti di abitazione ed
uso nella successione legittima, ha ritenuto che in tema di successione
necessaria l'art. 540 c.c., comma 2, determina un incremento
quantitativo della quota contemplata in favore del coniuge in quanto i
diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei
mobili che la corredano (quindi il loro valore capitale) si sommano alla
quota riservata al coniuge in proprietà; posto che la norma stabilisce che
tali diritti gravano, in primo luogo, sulla disponibile, si deve anzitutto
calcolare la disponibile sul patrimonio relitto ai sensi dell'art. 556 c.c., e,
per conseguenza, determinare la quota di riserva;
calcolata poi la quota del coniuge nella successione necessaria in
base all'art. 540 c.c., comma 1, artt. 542 e 543 c.c., alla quota di riserva
così ricavata si aggiungono i diritti di abitazione ed uso, il cui valore
viene a gravare sulla disponibile, sempre che questa sia capiente; se la
disponibile non è sufficiente, i diritti di abitazione ed uso gravano
anzitutto sulla quota di riserva del coniuge, che viene così ad essere
diminuita della misura proporzionale a colmare l'incapienza della
disponibile; se neppure la quota di riserva del coniuge risulta sufficiente,
i diritti di abitazione e di uso gravano sulla riserva dei figli o degli altri
legittimari.
La sentenza in esame ha quindi evidenziato che il primo ostacolo
che si oppone all'accoglimento della tesi favorevole all'applicabilità del
meccanismo di calcolo previsto dall'art. 540 c.c., comma 2, al coniuge
nella successione legittima è data dal rilievo che in tema di successione
legittima non trovano applicazione gli istituti della disponibile e della

150
riserva; ma sussisterebbe un'altra ragione più persuasiva per disattendere
tale applicabilità, considerato che la riserva rappresenta il minimo che il
legislatore vuole assicurare ai prossimi congiunti anche contro la
volontà del defunto, e che i diritti di abitazione ed uso fanno parte della
riserva e dunque sono compresi nel minimo; orbene, per evitare che
attraverso la disciplina delle successioni legittime vengano pregiudicati i
diritti dei legittimari, l'art. 553 c.c., che serve di raccordo tra la
successione legittima e quella necessaria, stabilisce che le porzioni
fissate nelle successioni legittime, ove risultino lesive dei diritti dei
legittimari, si riducono proporzionalmente per integrare tali diritti;
peraltro dal sistema della successione necessaria emerge che il
legislatore interviene nel meccanismo delle successioni legittime quando
la quota spettante nella successione necessaria andrebbe al di sotto della
quota di riserva, mentre da nessuna norma risulta che il legislatore abbia
modificato il regime della successione legittima per attribuire agli eredi
legittimi (che siano anche legittimari) più di quanto viene loro riservato
con la successione necessaria; poiché l'art. 553 c.c., vuole fare salva
l'intera riserva del coniuge (secondo il sistema della successione
necessaria), i diritti di abitazione e di uso si aggiungono alla quota di
riserva regolata dall'art. 540 c.c., comma 1, e art. 542 c.c.; per contro,
non essendo ciò previsto da nessuna norma in tema di successione
legittima, non vi è ragione per ritenere che alla quota intestata
contemplata dagli artt. 581 e 582 c.c., si aggiungano i diritti di
abitazione e di uso.
Tanto premesso, si ritiene di dover dare risposta affermativa
relativamente alla prima questione sottoposta all'esame di questo
Collegio, avente ad oggetto il riconoscimento o meno in favore del
coniuge anche nella successione legittima dei diritti di abitazione ed uso
riservati espressamente dall'art. 540 c.c., comma 2, al coniuge stesso,
conformemente all'opinione espressa ormai unanimemente dalla
dottrina.
In tal senso milita anzitutto la "ratio" di tali diritti, riconducile
alla volontà del legislatore di cui alla L. 19 maggio 1975, n. 151, di
realizzare anche nella materia successoria una nuova concezione della
famiglia tendente ad una completa parificazione dei coniugi non solo sul

151
piano patrimoniale (mediante l'introduzione del regime imperniato sulla
comunione legale), ma anche sotto quello etico e sentimentale, sul
presupposto che la ricerca di un nuovo alloggio per il coniuge superstite
potrebbe essere fonte di un grave danno psicologico e morale per la
stabilità delle abitudini di vita della persona; ebbene è evidente che tale
finalità dell'istituto è valida per il coniuge superstite sia nella
successione necessaria che in quella legittima, cosicché i diritti in
questione trovano necessariamente applicazione anche in quest'ultima.
D'altra parte tale convincimento riceve conferma anche sul piano
del diritto positivo, posto che l'art. 540 c.c., comma 2, prevede la riserva
dei diritti di abitazione ed uso al coniuge "anche quando concorra con
altri chiamati", e che un concorso con "altri chiamati" ricorre, oltre che
nella successione testamentaria, anche in quella legittima; da tale
disposizione pertanto si evince che il legislatore ha voluto attribuire al
coniuge superstite, in conformità della sopra enunciata "ratio legis", i
suddetti diritti sulla casa adibita a residenza familiare sia nella
successione testamentaria che in quella legittima, disciplinandone poi
l'effettiva realizzazione onde incidere soltanto entro ristretti limiti sulle
quote di riserva di altri legittimari (invero tali diritti debbono essere
soddisfatti nell'ambito della porzione disponibile ed eventualmente per il
rimanente sulla quota di riserva del coniuge, mentre le quote dei figli
vengono sacrificate soltanto se l'eccedenza del valore di essi superi
anche la riserva del coniuge); ciò comporta che l'attribuzione di tali
diritti previsti dall'art. 540 c.c., comma 2, ha una valenza anche al di
fuori dell'ambito nel quale sono stati disciplinati, relativo alla tutela dei
legittimari, e spiega il mancato richiamo ad essi da parte degli artt. 581 e
582 c.c..
Una volta ritenuto che i diritti in oggetto spettano al coniuge
anche nella successione "ab intestato", occorre esaminare la conseguente
questione relativa ai criteri di calcolo del valore della quota di detto
coniuge, osservando che al riguardo sono state prospettate
sostanzialmente due diverse soluzioni.
Un primo indirizzo sostiene l'applicazione dell'art. 553 c.c.,
norma di collegamento tra la successione legittima e successione

152
necessaria, che dispone, in caso di concorso di legittimari con altri
successibili, la riduzione proporzionale delle porzioni di questi ultimi
nei limiti in cui è necessario per integrare la quota riservata ai
legittimari; in altri termini, se l'operatività delle norme sulla successione
legittima comporti in concreto una lesione delle quote dei legittimari,
tale articolo sancisce che la successione legittima si realizzi con il
rispetto della quote destinate a questi ultimi, con la conseguenza che,
poiché i diritti di abitazione ed uso fanno parte della legittima, si deve
ritenere che essi trovino piena attuazione nell'ambito della successione
legittima secondo il disposto dell'art. 553 c.c.; pertanto tali diritti devono
essere attribuiti in aggiunta alla quota di riserva prevista dall'art. 540
c.c., comma 1, o alla quota di riserva risultante dal concorso con altri
legittimari ai sensi degli artt. 542 e 544 c.c., con la conseguenza che essi
in base all'art. 540 c.c., comma 2, non sono imputati per il loro valore
alla quota astratta di legittima spettante al coniuge, ma gravano sulla
disponibile; tuttavia la dispensa dall'imputazione per tali attribuzioni
opera solo nei limiti della disponibile, cosicché, qualora tali diritti
oltrepassino la disponibile, essi potranno incidere sulla legittima dei figli
solo dopo che la legittima del coniuge si sia rivelata insufficiente a
soddisfarli; nell'ipotesi invece che il valore della quota "ab intestato"
risulti superiore rispetto alla quota di riserva maggiorata del valore dei
diritti di abitazione ed uso, i diritti del coniuge troveranno realizzazione
automaticamente nella porzione a lui spettante in base alla successione
legittima, e si configureranno, secondo una autorevole dottrina, come
legati in conto alla quota intestata.
Secondo un altro orientamento i diritti di abitazione e di uso del
coniuge si configurerebbero nella successione legittima come prelegati
"ex lege", cumulandosi alla sua quota come prevista dagli artt. 581 e 582
c.c.; pertanto il valore capitale di tali diritti attribuiti al coniuge viene
detratto dalla massa ereditaria, che poi viene divisa tra tutti i coeredi
secondo le norme sulla successione legittima non tenendo conto, quindi,
di tale attribuzione.
Il Collegio ritiene che il primo indirizzo sopra enunciato non
possa essere condiviso per le seguenti considerazioni.

153
A prescindere dalle perplessità sul piano sistematico di
interpretare l'effettivo ambito di operatività dell'art. 540 c.c., introdotto
dal legislatore con la L. 19 maggio 1975, n. 151, atta luce di un
coordinamento con una norma come l'art. 553 c.c., risalente all'impianto
originario del codice civile del 1942, il richiamo a quest'ultima norma
non appare persuasivo per almeno due diverse ragioni.
Sotto un primo profilo, infatti, si osserva che l'art. 553 c.c.,
disciplina il concorso tra legittimaci ed eredi legittimi e prevede la
riduzione proporzionale delle porzioni spettanti a questi ultimi sull'asse
V ereditario nei limiti in cui è necessario per integrare le quote riservate
ai primi, mentre i diritti di abitazione ed uso vengono comunemente
assimilati a legati o prelegati "ex lege", e dunque non si configurano
quali quote; la suddetta riduzione delle porzioni degli eredi legittimi ex
art. 553 c.c., opera poi sul piano quantitativo, mentre il riconoscimento
al coniuge dei suddetti diritti si realizza in senso qualitativo con
l'attribuzione ad esso del godimento di un bene determinato, e quindi
con la correlativa preclusione per gli altri eredi del godimento della casa
già adibita a residenza familiare dei coniugi e dei mobili che la arredano;
sotto tale aspetto pertanto l'art. 553 c.c., non appare idoneo a dare
fondamento a questa modalità di realizzazione di tali diritti, che in effetti
resta estranea al suo ambito di operatività.
Inoltre occorre rilevare che il prospettato coordinamento tra l'art.
553 c.c., e l'art. 540 c.c., comma 2, trova un impedimento nella parziale
incompatibilità del disposto delle due norme;
infatti la prima di tali disposizioni prevede che, nel determinare la
quota riservata ai legittimari al fine della eventuale riduzione
proporzionale delle porzioni spettanti agli eredi legittimi, i legittimari
devono imputare alla quota riservata, ai sensi dell'art. 564 c.c., il valore
delle donazioni o dei legati ricevuti dal defunto; orbene, rilevato che,
come, già esposto in precedenza, i diritti di abitazione ed uso vengono
comunemente qualificati come dei legati "ex lege", si osserva che l'art.
540 c.c., comma 2, nel disporre che tali diritti gravano anzitutto sulla
disponibile, ha previsto in tal modo una dispensa da tale imputazione,
sia pure nei limiti della sola disponibile; pertanto l'orientamento che

154
prospetta l'attribuzione dei diritti in questione al coniuge nella
successione legittima ai sensi dell'art. 540 c.c., comma 2, legittimando
tale assunto sulla base della norma di raccordo di cui all'art. 553 c.c., tra
successione legittima e successione necessaria non sembra farsi carico
di tale difficoltà di coordinamento.
Il Collegio ritiene di poter invece aderire al secondo indirizzo
sopra richiamato, che afferma che i diritti in oggetto vengono attribuiti
al coniuge nella successione legittima in aggiunta alla quota a lui
spettante ai sensi degli artt. 581 e 582 c.c..
In proposito occorre evidenziare come dato significativo che una
autorevole dottrina è giunta a tale conclusione proprio argomentando "a
contrario" dalla previsione della riserva di tali diritti al coniuge ai sensi
dell'art. 540 c.c., comma 2; infatti è rilevante osservare che nella
successione legittima non si pone in radice un problema di incidenza dei
diritti degli altri legittimari per effetto dell'attribuzione dei diritti di
abitazione e di uso al coniuge, cosicché le disposizioni previste dalla
norma ora richiamata, finalizzate, come si è già esposto, a contenere in
limiti ristretti la compressione delle quote di riserva dei figli del "de
cuius" in conseguenza dell'attribuzione al coniuge dei diritti suddetti,
non possono evidentemente trovare applicazione in tema di successione
intestata; in proposito non sembra superfluo aggiungere che la soluzione
della questione in esame deve essere svincolata dal riferimento all'art.
540 c.c., comma 2, e quindi dalla comparazione con il parametro
normativo relativo alla riserva al coniuge dei diritti di abitazione ed uso
nel concorso con altri legittimari, anche perchè, secondo un
orientamento ormai consolidato in dottrina cui si aderisce pienamente, il
nostro ordinamento prevede due sole forme di successione, la legittima e
la testamentaria (art. 457 c.c.), mentre le norme sulla successione
necessaria non costituiscono un "tertium genus", ma sono finalizzate
soltanto a tutelare i diritti di determinate categorie di persone (i
legittimari) ponendo dei limiti sia alle disposizioni testamentarie lesive
di tali diritti sia alle norme disciplinanti la successione legittima,
riconoscendo in particolare ai legittimari l'azione di riduzione delle
disposizioni testamentarie lesive delle proprie quote di riserva.

155
Pertanto le modalità di attribuzione dei diritti di abitazione ed uso
nella successione legittima devono prescindere dal procedimento di
imputazione previsto dalla norma sopra menzionata - procedimento
invero strettamente inerente alla tutela delle quote di riserva dei figli del
"de cuius", nel cui solo ambito ha rilievo il riferimento alla disponibile
di cui all'art. 540 c.c., comma 2 - e quindi i diritti in questione, non
trovando tali limitazioni nella loro concreta realizzazione, devono essere
riconosciuti pienamente, avuto riguardo alla già evidenziata volontà del
legislatore che ha introdotto la L. 19 maggio 1975, n. 151, di attribuire
al coniuge superstite una specifica tutela del suo interesse alla
continuazione della sua permanenza nella casa adibita a residenza
familiare durante il matrimonio anche dopo la morte dell'altro coniuge,
con i conseguenti riflessi di carattere successorio in ordine alla effettiva
consistenza patrimoniale dell'asse ereditario;
conseguentemente ai fini del calcolo di tali diritti occorrerà
stralciare il valore capitale di essi secondo modalità assimilabili al
prelegato, e poi dare luogo alla divisione tra tutti gli eredi, secondo le
norme della successione legittima, della massa ereditaria dalla quale
viene detratto il suddetto valore, rimanendo invece compreso nell'asse il
valore della nuda proprietà della casa familiare e dei mobili.
Venendo quindi all'esame del ricorso incidentale si osserva che
con l'unico motivo articolato B.D., deducendo insufficiente e
contraddittoria motivazione, sostiene che erroneamente la Corte
territoriale ha confermato il rigetto della domanda proposta
dall'esponente avente ad oggetto la condanna delle controparti al
pagamento della somma di Euro 52.366,79 per canoni percepiti
dall'affitto dei beni ereditari e non corrisposti "pro quota"all'esponente;
al riguardo richiama le risposte rese da B. C. all'interrogatorio formale
deferitole, la mancata presentazione della Z. a rendere l'interrogatorio
formale deferitole e la deposizione della teste D.D., dottoressa
commercialista che fino al (OMISSIS) aveva tenuto la contabilità di
tutte le parti in causa, e che aveva dichiarato che i canoni di locazione
relative alle diverse unità immobiliari al netto delle spese venivano
introitate dalle controparti.

156
La censura è infondata.
La Corte territoriale ha ritenuto al riguardo che non solo non era
stata raggiunta la prova che Z.A. e B.C. avessero ricavato dalla
locazione degli immobili oggetto dell'asse ereditario, al netto delle
spese, la somma richiesta dall'appellante, ma che addirittura non
sussistevano elementi certi di prova in ordine all'effettiva misura dei
canoni percepiti relativamente a quegli immobili che, non essendo nella
disponibilità dei singoli eredi, erano locati; in particolare il giudice di
appello ha richiamato le dichiarazioni rese da B.C. in sede di risposta
all'interrogatorio formale deferitole secondo cui gli eredi avevano l'uso
personale di quattro immobili ereditari, due dei quali in uso al fratello
D., e che i canoni percepiti dagli unici due immobili dati in locazione
erano impiegati per le spese di manutenzione dei beni ereditari,
evidenziando che l'appellante non aveva contestato specificatamente tali
circostanze con i conseguenti effetti sul piano probatorio ex art. 2734
c.c.; ha poi aggiunto che le dichiarazioni della teste D. erano piuttosto
generiche e comunque tali da non consentire l'esatta determinazione dei
canoni di locazione percepiti, e che infine la mancata comparizione della
Z. a rendere l'interrogatorio formale deferitole non poteva giovare a
B.D., in quanto la formulazione del capitolato di prova non conteneva
alcuna indicazione dell'importo dei canoni che sarebbe stato incamerato
dalla stessa Z. e da B. C., cosicché non avrebbe potuto ritenersi
ammessa ai sensi dell'art. 232 c.p.c., la circostanza relativa all'entità
delle somme introitate ed oggetto della domanda.
Orbene, avendo il giudice di appello puntualmente indicato le
fonti del proprio convincimento, si è in presenza di un accertamento di
fatto sorretto da congrua e logica motivazione, come tale incensurabile
in questa sede laddove il ricorrente incidentale, prospettando
inammissibilmente una diversa ricostruzione della vicenda che ha dato
luogo a tale aspetto della controversia, senza peraltro censurare
specificatamente la evidenziata mancata contestazione delle
dichiarazioni rese da B.C. in sede di risposta all'interrogatorio formale
deferitole con gli effetti sul piano probatorio previsti dall'art. 2734 c.c.,
in materia di confessione cosiddetta complessa, trascura di considerare i
poteri al riguardo devoluti dall'ordinamento al giudice di merito nella

157
valutazione delle risultanze probatorie, purché accompagnati da un
corretto ed adeguato "l'iter" argomentativo, come nella fattispecie.
Il ricorso incidentale deve quindi essere rigettato.
In definitiva la sentenza impugnata deve essere cassata in
relazione al ricorso principale accolto, e la causa deve essere rinviata
anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio ad altra sezione
della Corte di Appello di Venezia che si uniformerà ai seguenti principi
di diritto: "Nella successione legittima spettano al coniuge del de cuius i
diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui
mobili che la corredano previsti dall'art. 540 c.c., comma 2; il valore
capitale tali diritti deve essere stralciato dall'asse ereditario per poi
procedere alla divisione di quest'ultimo tra tutti i coeredi secondo le
norme della successione legittima, non tenendo conto dell'attribuzione
dei suddetti diritti secondo un meccanismo assimilabile al prelegato".
P.Q.M.
LA CORTE
Riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, rigetta il ricorso
incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e
rinvia la causa anche per la pronuncia sulle spese del predente giudizio
ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia.

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Nel caso di specie, anche se siamo in presenza di un'ipo-


tesi di successione legittima, trova applicazione la norma di cui
all'art. 540 c.c. la quale dispone la riserva a favore del coniuge

158
superstite. Tale riserva deve intendersi come un un prelegato.
Ne deriva che, come richiesto dai due figli del Sig. Rossi,
sarà possibile procedere alla suddivisione della massa eredita-
ria del de cuius solo dopo aver provveduto allo scomputo da
tale patrimonio del valore corrispondente al diritto di abitazio-
ne della casa destinata a dimora familiare ed al diritto di uso
dei mobili in essa presenti. Tali diritti dovranno essere ricono-
sciuti alla moglie della persona deceduta.
Nel computo del patrimonio del de cuius da suddividere
si dovrà tenere conto, altresì, del valore della nuda proprietà
della residenza di famiglia e del relativo mobilio.

159
5. COMUNIONE LEGALE E PRINCIPIO DELL'ACCES-
SIONE

IL CASO

Dopo qualche anno di matrimonio, Mevio e Sempronia, i quali


hanno optato come regime patrimoniale per quello della comunione
legale, decidono di costruire una casa in campagna. Il terreno sul
quale tale casa viene fatta costruire è di proprietà esclusiva del
coniuge Mevio, al quale il medesimo era pervenuto in eredità dai
suoi genitori in un momento antecedente a quello delle sue nozze.
Successivamente, i coniugi, a seguito di una profonda crisi che rende
insostenibile la prosecuzione della loro unione, decidono di separarsi
e, conseguentemente, ciò comporta lo scioglimento della comunione
legale dei beni.
I coniugi tentano di trovare u accordo che possa definire gli aspetti
patrimoniali della vicenda ma, relativamente alla costruzione di
campagna, essi non si accordano.
Secondo la moglie Sempronia, la casa di campagna rientra nel
regime di comunione legale dei beni trattandosi di un acquisto
effettuato dopo il matrimonio.
Di contrario parere è il coniuge Mevio, il quale ritiene che essendo
lui il proprietario del terreno sul quale si erge la costruzione, la stessa
per il principio di acquisto della proprietà per accessione, ricadrebbe
nella sua proprietà esclusiva.
Inoltre Sempronia, assume che si debba presumere che entrambi i
coniugi abbiano contribuito in egual misura alla sopportazione di
quanto necessario per la costruzione della villetta. Pertanto, in
subordine, avanza domanda di rimborso delle somme sostenute per
l'esecuzione dei lavori.

160
Quesito
Può Sempronia pretendere che la costruzione ricada nel regime di
comunione legale dei beni ovvero deve prevalere rispetto a tale
disciplina quella dettata in tema di acquisto della proprietà per
accessione, secondo cui il proprietario del suolo diventa proprietario
anche di ciò che insiste sul terreno medesimo?

*****

ESAME DELLA FATTISPECIE

La risoluzione del quesito impone di esaminare la disci-


plina dettata in tema di acquisto della proprietà per il principio
di accessione e quella relativa al regime patrimoniale di comu-
nione legale dei beni nonché di verificare come le stesse possa-
no combinarsi tra loro.
La vicenda involge infatti l'inclusione o meno di una vil-
letta costruita durante il matrimonio su di un terreno apparte-
nente ad uno solo dei coniugi nel regime di comunione legale
dei beni.
Si deve quindi muovere dal disposto di cui all'art. 177
c.c. avente ad oggetto la disciplina normativa degli acquisti -
compiuti dai coniugi che abbiano optato per il regime patrimo-

161
niale della comunione legale - che automaticamente conflui-
scono in tale regime.
Tale disciplina si pone con carattere di specialità rispetto
a quella dettata dagli artt. 934 c.c. e ss. in tema di acquisto del-
la proprietà per il principio di accessione, avente portata gene-
rale.
Da ciò discende che l'esame deve incentrarsi sulla nozio-
ne di “acquisti” cui fa riferimento l'art. 177 c.c. Ed infatti, solo
fornendo un'interpretazione che faccia confluire gli acquisti av-
venuti in virtù del principio di accessione nella categoria di
quelli di cui all'art. 177 c.c. è possibile richiamare la prevalenza
del principio di specialità. Così ragionando, quindi, essendo la
disposizione prevista per il regime patrimoniale della comunio-
ne legale un principio speciale rispetto a quello dell'accessione
quale modo di acquisto della proprietà è possibile far confluire
tali acquisti nella comunione legale.
Occorre dunque esaminare le posizioni espresse dalla
dottrina e dalla giurisprudenza.

*****

162
LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 3 luglio 2013, n. 16670. “il principio generale dell’accessione po-


sto dall’artt. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista
ipso iure la proprietà della costruzione su di esso edificata e la cui opera-
tività può essere derogata soltanto da una specifica pattuizione tra le par-
ti da una altrettanto specifica disposizione di legge, non torva deroga
nella disciplina legale tra coniugi, in quanto l’acquisto della proprietà
per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di apposita
manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art.
177, comma 1, c.c. hanno carattere derivativo, essendone espressamente
prevista una genesi di origine negoziale, con la conseguenza che la co-
struzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunio-
ne legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale di uno
di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo in
virtù dei principi generali in materia di accessione, mentre al coniuge
non proprietario, che abbia contribuito all’onere della costruzione, spet-
ta, previo assolvimento dell’onere della prova di aver fornito il proprio
sostegno economico, il diritto di ripetere nei confronti dell’altro coniuge
le somme spese a tal fine” .
Cass. 14 aprile 2004, n. 7060. Il principio generale dell’accessione posto
dall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista ipso
iure al momento dell’incorporazione la proprietà della costruzione su di
esso edificata e la cui operatività può essere derogata soltanto da una
specifica pattuizione tra le parti o da una altrettanto specifica disposizio-
ne di legge, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra
coniugi, in quanto l’acquisto della proprietà per accessione avviene a ti-
tolo originario senza la necessità di un’apposita manifestazione di vo-
lontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177, 1º comma, c.c.
hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi
di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in
costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i
coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua
volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo in virtù dei princi-

163
pi generali in materia di accessione, mentre al coniuge non proprietario
che abbia contribuito all’onere della costruzione spetta, ai sensi dell’art.
2033 c.c., il diritto di ripetere nei confronti dell’altro coniuge le somme
spese.

Cass. 11 agosto 1999, n. 8585. Il principio generale dell’accessione po-


sto dall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista
ipso iure al momento dell’incorporazione la proprietà della costruzione
su di esso edificata e la cui operatività può essere derogata soltanto da
una specifica pattuizione tra le parti o da una altrettanto specifica dispo-
sizione di legge, non trova deroga nella disciplina della comunione lega-
le tra coniugi, in quanto l’acquisto della proprietà per accessione avvie-
ne a titolo originario senza la necessità di un’apposita manifestazione di
volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177, 1º comma,
c.c., hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una
genesi di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realiz-
zata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da en-
trambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di
essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo in vir -
tù dei principi generali in materia di accessione, mentre al coniuge non
proprietario che abbia contribuito all’onere della costruzione, spetta ai
sensi dell’art. 2033 c.c. il diritto di ripetere nei confronti dell’altro co-
niuge le somme spese.

Cass. 23 luglio 2008, n. 20296. Gli acquisti di beni immobili per usuca-
pione effettuati da uno solo dei coniugi, durante il matrimonio, in vigen-
za del regime patrimoniale della comunione legale, entrano a far parte
della comunione stessa, non distinguendo l’art. 177, 1º comma, lett. a),
c.c. tra gli acquisti a titolo originario e quelli a titolo derivativo; ne con-
segue che il momento determinante l’acquisto del diritto ad usucapio-
nem da parte dell’altro coniuge, attesa la natura meramente dichiarativa
della domanda giudiziale, s’identifica con la maturazione del termine le-
gale d’ininterrotto possesso richiesto dalla legge.

Cass. 1 ottobre 2009, n. 21078. In vigenza del regime patrimoniale della

164
comunione legale, gli acquisti di beni immobili per usucapione, effettua-
ti da uno solo dei coniugi durante il matrimonio, entrano a far parte della
comunione stessa, non distinguendo l’art. 177, 1º comma, lett. a) c.c. tra
gli acquisti a titolo originario e quelli a titolo derivativo.

Cass. 14 marzo 1992, n. 3141. La costruzione realizzata su suolo appar-


tenente ad uno dei coniugi diviene di proprietà esclusiva di questo in vir-
tù delle disposizioni generali in materia di accessione, a titolo originario
e, pertanto, non costituisce oggetto di comunione legale, che si applica
invece al caso di acquisto negoziale, e quindi a titolo derivato, da parte
di un coniuge (nella specie, si è altresì precisato che, quando la costru-
zione sia stata eseguita sul suolo di proprietà esclusiva di un coniuge con
impiego di denaro comune, il coniuge che si è giovato dell’accessione
sarà tenuto a restituire alla comunione le somme prelevate dal patrimo-
nio comune per eseguire l’edificazione, mentre, nel caso in cui nella co-
struzione sia stato impiegato denaro appartenente in via esclusiva all’al-
tro coniuge, a quest’ultimo spetterà il diritto di ripetere le relative som-
me).

Cass. 14 marzo 1992, n. 3141. Allorché, in regime di comunione legale


dei beni tra i coniugi, sul suolo di proprietà esclusiva di uno di essi sia
stata eseguita una costruzione (con conseguente acquisto della proprietà
della stessa da parte del proprietario del suolo a titolo originario) occorre
distinguere a seconda che sia stato utilizzato denaro comune o di pro-
prietà dell’altro coniuge; nel primo caso il proprietario dell’area (e della
costruzione) è tenuto - ai sensi dell’art. 192, 1º comma, c.c. - a restituire
alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per eseguire
l’edificio, nel secondo il proprietario, in via esclusiva, delle somme im-
piegate per l’edificio, ha titolo per ripetere le somme ai sensi dell’art.
2033 c.c.

Cass., Sez. Un., 27 gennaio 1996, n. 651. Nel regime di comunione le-
gale, la costruzione realizzata durante il matrimonio da entrambi i coniu-
gi, sul suolo di proprietà personale ed esclusiva di uno di essi, appartiene
esclusivamente a quest’ultimo in virtù delle disposizioni generali in ma-
teria di accessione e pertanto non costituisce oggetto della comunione

165
legale, ai sensi dell’art. 177, 1º comma, lett. b) c.c.; in siffatta ipotesi, la
tutela del coniuge non proprietario del suolo, opera non sul piano del di-
ritto reale (nel senso che in mancanza di un titolo o di una norma non
può vantare alcun diritto di comproprietà, anche superficiaria, sulla co-
struzione), ma sul piano obbligatorio, nel senso che a costui compete un
diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della mano-
dopera impiegati nella costruzione.

*****

LE NORME RICHIAMATE

Art. 177 c.c.


Oggetto della comunione.
1. Costituiscono oggetto della comunione:
a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o sepa-
ratamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relati-
vi ai beni personali;
b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, perce-
piti e non consumati allo scioglimento della comunione;
c) i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi
se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consu-
mati;
d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite

166
dopo il matrimonio.
2. Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei
coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi,
la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi.

Art. 179 c.c.


Beni personali.
1. Non costituiscono oggetto della comunione e sono
beni personali del coniuge:
a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era
proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di
godimento;
b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio per ef-
fetto di donazione o successione, quando nell'atto di liberalità
o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla
comunione;
c) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge
ed i loro accessori;
d) i beni che servono all'esercizio della professione del
coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda

167
facente parte della comunione;
e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno non-
ché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della
capacità lavorativa;
f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni
personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia
espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto.
2. L'acquisto di beni immobili, o di beni mobili elencati
nell'articolo 2683, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dal-
la comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente
comma, quando tale esclusione risulti dall'atto di acquisto se
di esso sia stato parte anche l'altro coniuge.

Art. 186 c.c.


Obblighi gravanti sui beni della comunione.
1. I beni della comunione rispondono:
a) di tutti i pesi ed oneri gravanti su di essi al momento
dell'acquisto;
b) di tutti i carichi dell'amministrazione;
c) delle spese per il mantenimento della famiglia e per

168
l'istruzione e l'educazione dei figli e di ogni obbligazione con-
tratta dai coniugi, anche separatamente, nell'interesse della fa-
miglia;
d) di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai co-
niugi.

Art. 191 c.c.


Scioglimento della comunione.
1. La comunione si scioglie per la dichiarazione di as-
senza o di morte presunta di uno dei coniugi, per l'annulla-
mento, per lo scioglimento o per la cessazione degli effetti civi-
li del matrimonio, per la separazione personale, per la separa-
zione giudiziale dei beni, per mutamento convenzionale del re-
gime patrimoniale, per il fallimento di uno dei coniugi.
2. Nel caso di azienda di cui alla lettera d) dell'articolo
177, lo scioglimento della comunione può essere deciso, per
accordo dei coniugi, osservata la forma prevista dall'articolo
162.

169
Art. 192 c.c.
Rimborsi e restituzioni.
1. Ciascuno dei coniugi è tenuto a rimborsare alla comu-
nione le somme prelevate dal patrimonio comune per fini di-
versi dall'adempimento delle obbligazioni previste dall'articolo
186.
2. È tenuto altresì a rimborsare il valore dei beni di cui
all'articolo 189, a meno che, trattandosi di atto di straordina-
ria amministrazione da lui compiuto, dimostri che l'atto stesso
sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una
necessità della famiglia.
3. Ciascuno dei coniugi può richiedere la restituzione
delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate
in spese ed investimenti del patrimonio comune.
4. I rimborsi e le restituzioni si effettuano al momento
dello scioglimento della comunione; tuttavia il giudice può au-
torizzarli in un momento anteriore se l'interesse della famiglia
lo esige o lo consente.
5. Il coniuge che risulta creditore può chiedere di prele-
vare beni comuni sino a concorrenza del proprio credito. In
caso di dissenso si applica il quarto comma. I prelievi si effet-

170
tuano sul denaro, quindi sui mobili e infine sugli immobili.

Art. 934 c.c.


Opere fatte sopra o sotto il suolo.
1. Qualunque piantagione, costruzione od opera esisten-
te sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo,
salvo quanto è disposto dagli articoli 935, 936, 937 e 938 e
salvo che risulti diversamente dal titolo o dalla legge.

Art. 935 c.c.


Opere fatte dal proprietario del suolo con materiali altrui.
1. Il proprietario del suolo che ha fatto costruzioni, pian-
tagioni od opere con materiali altrui deve pagarne il valore, se
la separazione non è chiesta dal proprietario dei materiali, ov-
vero non può farsi senza che si rechi grave danno all'opera co-
struita o senza che perisca la piantagione. Deve inoltre, anche
nel caso che si faccia la separazione, il risarcimento dei danni,
se è in colpa grave.
2. In ogni caso la rivendicazione dei materiali non è am-

171
messa trascorsi sei mesi dal giorno in cui il proprietario ha
avuto notizia dell'incorporazione.

Art. 936 c.c.


Opere fatte da un terzo con materiali propri.
1. Quando le piantagioni, costruzioni od opere sono state
fatte da un terzo con i suoi materiali, il proprietario del fondo
ha diritto di ritenerle o di obbligare colui che le ha fatte a le-
varle.
2. Se il proprietario preferisce di ritenerle, deve pagare a
sua scelta il valore dei materiali e il prezzo della mano d'opera
oppure l'aumento di valore recato al fondo.
3. Se il proprietario del fondo domanda che siano tolte,
esse devono togliersi a spese di colui che le ha fatte. Questi
può inoltre essere condannato al risarcimento dei danni.
4. Il proprietario non può obbligare il terzo a togliere le
piantagioni, costruzioni od opere, quando sono state fatte a
sua scienza e senza opposizione o quando sono state fatte dal
terzo in buona fede.
5. La rimozione non può essere domandata trascorsi sei

172
mesi dal giorno in cui il proprietario ha avuto notizia dell'in-
corporazione.

Art. 937 c.c.


Opere fatte da un terzo con materiali altrui.
1. Se le piantagioni, costruzioni o altre opere sono state
fatte da un terzo con materiali altrui, il proprietario di questi
può rivendicarli, previa separazione a spese del terzo, se la se-
parazione può ottenersi senza grave danno delle opere e del
fondo.
2. La rivendicazione non è ammessa trascorsi sei mesi
dal giorno in cui il proprietario ha avuto notizia dell'incorpo-
razione.
3. Nel caso che la separazione dei materiali non sia ri-
chiesta o che i materiali siano inseparabili, il terzo che ne ha
fatto uso e il proprietario del suolo che sia stato in mala fede
sono tenuti in solido al pagamento di una indennità pari al va-
lore dei materiali stessi. Il proprietario dei materiali può an-
che esigere tale indennità dal proprietario del suolo, ancorché
in buona fede, limitatamente al prezzo che da questo fosse an-

173
cora dovuto. Può altresì chiedere il risarcimento dei danni,
tanto nei confronti del terzo che ne abbia fatto uso senza il suo
consenso, quanto nei confronti del proprietario del suolo che
in mala fede abbia autorizzato l'uso.

Art. 952 c.c.


Costituzione del diritto di superficie.
1. Il proprietario può costituire il diritto di fare e mante-
nere al disopra del suolo una costruzione a favore di altri, che
ne acquista la proprietà.
2. Del pari può alienare la proprietà della costruzione
già esistente, separatamente dalla proprietà del suolo.

Art. 1153 c.c.


Effetti dell'acquisto del possesso.
1. Colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi
non ne è proprietario, ne acquista la proprietà mediante il pos-
sesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e
sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà.

174
2. La proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla
cosa, se questi non risultano dal titolo e vi è la buona fede del-
l'acquirente.
3. Nello stesso modo si acquistano i diritti di usufrutto, di
uso e di pegno.

*****

GLI ISTITUTI

Il principio di accessione rientra nella categoria dei modi


di acquisto della proprietà. L'operatività di tale principio preve-
de che vi sia un bene “principale” ed uno “accessorio”: il sog-
getto che ha la proprietà del primo bene acquista la proprietà
anche del bene accessorio che al primo si unisce.
La norma che regolamenta questa forma di acquisto della
proprietà a titolo originario è l'art. 934 c.c. a mente del quale:
“qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra
o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo,
salvo quanto è disposto dagli articoli 935, 936, 937 e 938 c.c.

175
salvo che risulti diversamente dal titolo o dalla legge”.
Il principio generale è dunque che il proprietario di un
fondo diventa proprietario, altresì, di quanto viene costruito sul
fondo, eccetto il caso in cui il titolo o la legge disponga in
modo diverso. Esemplificando, a proposito delle addizioni rea-
lizzate dal conduttore, dall'enfiteuta e dall'usufruttuario, la leg-
ge dispone che queste vengano eliminate al momento della ces-
sazione della locazione, dell'enfiteusi e dell'usufrutto. In queste
ipotesi la proprietà delle opere non viene acquisita dal soggetto
che ha la proprietà del fondo.
Nelle ipotesi in cui trova applicazione il principio di ac-
quisto della proprietà per accessione, l'acquisto avviene a titolo
originario sicché non assume alcun rilievo l'eventuale prece-
dente appartenenza del diritto in capo ad un terzo sul bene ac-
cessorio che si unisce a quello principale.
L'acquisto quindi non avviene tramite il passaggio da un
altro patrimonio a quello del proprietario del fondo, bensì diret-
tamente a favore del patrimonio di questi che quindi acquista la
proprietà delle cose incorporate.
Di contro, l'operatività del principio di accessione esclu-
de che possa ipotizzarsi, anche se solo temporaneamente, la

176
proprietà delle cose incorporate a favore di colui che le realiz-
za, se questi le costruisce (il riferimento è ad una costruzione,
ma il discorso ovviamente può riferirsi anche ad un albero) su
di un terreno che è di proprietà di un altro soggetto.
Diverso è il caso in cui il terreno sia stato concesso dal
proprietario mediante la costituzione di un diritto di superficie
sullo stesso: la costituzione di tale diritto fa sì che il superficia-
rio acquisti la proprietà di ciò che viene costruito sul terreno
oggetto del diritto di superficie, secondo il disposto dell'art.
952 c.c. (“Il proprietario può costituire il diritto di fare e man-
tenere al di sopra del suolo una costruzione a favore di altri,
che ne acquista la proprietà”).
Il legislatore ha disciplinato diverse ipotesi.
L'art. 935 c.c. prevede che: “il proprietario del suolo che
ha fatto costruzioni, piantagioni od opere con materiali altrui
deve pagarne il valore, se la separazione non è chiesta dal
proprietario dei materiali, ovvero non può farsi senza che si
rechi grave danno all'opera costruita o senza che perisca la
piantagione”.
La disposizione quindi si riferisce al caso in cui il sogget-
to che ha la proprietà del fondo realizzi con questo una costru-

177
zione avvalendosi di materiali che sono di un terzo: a questo
ultimo che non richieda la separazione delle cose incorporate
dal fondo spetta la corresponsione del valore delle opere realiz-
zate.
L'altra ipotesi è invece regolamentata dall'art. 936 c.c. in
cui si legge che “quando le piantagioni costruzioni od opere
sono state fatte da un terzo con suoi materiali, il proprietario
del fondo ha diritto di ritenerle o di obbligare colui che le ha
fatte a levarle. Se il proprietario preferisce di ritenerle, deve
pagare a sua scelta il valore dei materiali e il prezzo della
mano d'opera oppure l'aumento di valore recato al fondo se-
condo il quale il proprietario del fondo ha diritto di ritenere
l'opera ma deve pagare a sua scelta il valore dei materiali e il
prezzo della mano d'opera oppure l'aumento di valore recato al
fondo”.
Il proprietario del fondo acquista, quindi, automatica-
mente la proprietà di ciò che realizza sul proprio fondo, in for-
za del principio di accessione, mentre non acquista la proprietà
dei materiali necessari a realizzare la predetta opera se questi
appartengano ad un terzo che li ha forniti.
Se si tratta di materiali che possono essere separati, essi

178
possono essere rivendicati dal soggetto che li ha forniti. In caso
contrario, quest'ultimo riceve una tutela del proprio diritto che
si traduce nel diritto al pagamento del valore dei materiali ov-
vero il prezzo della mano d'opera ovvero, ancora, dell'incre-
mento del valore che si è arrecato al fondo.

Gli acquisti che confluiscono nella comunione legale.


I coniugi possono scegliere il regime patrimoniale di cui
intendono avvalersi; qualora la scelta non venga dai medesimi
compiuta troverà applicazione il regime di comunione legale
dei beni che è quindi il regime patrimoniale legale.
Operando tale forma di regime patrimoniale, i coniugi di-
spongono dei medesimi poteri di gestione dei beni facenti parte
di tale patrimonio e sono titolari dei medesimi diritti.
Gli acquisti che i coniugi compiono dopo il matrimonio -
nel caso, in cui, come detto, non abbiano optato per il diverso
regime della separazione - ricadono nella comunione legale che
appare come una forma di comunione sugli acquisti.
Secondo la norma dell'art. 177 primo comma, lett. a),
rientrano nella comunione legale gli acquisti compiuti dai due
coniugi insieme o separatamente nel corso del matrimonio, fat-

179
ta eccezione per quegli acquisti che afferiscono ai beni perso-
nali, di cui si occupa l'art. 179 c.c.
Quest'ultima disposizione individua una serie di beni che
seppure di proprietà dei coniugi esulano dal regime della co-
munione. Si tratta di beni di cui uno dei due coniugi era pro-
prietario ovvero titolare di un diritto di godimento sul medesi-
mo in un momento anteriore rispetto al matrimonio (art. 179, n.
a); beni che il coniuge ha acquistato dopo il matrimonio in ra-
gione di una donazione o successione, nel caso in cui non risul-
ta espressamente nell'atto di liberalità o nel testamento che i
beni sono attribuiti alla comunione (art. 179, b); beni di uso
strettamente personale di ciascun coniuge (art. 179, c); beni de-
stinati all'esercizio dell'attività professionale di uno dei due co-
niugi (art. 179, lett. d); beni ottenuti in considerazione della
corresponsione di una somma a titolo di risarcimento del danno
ovvero a seguito della corresponsione della pensione per la per-
dita totale o parziale della capacità lavorativa (art. 179, e);
beni che siano stati acquistati con il prezzo del trasferimento
dei beni personali se all'atto di acquisto ciò sia espressamente
indicato (art. 179, f).
Dunque, se il bene acquistato dal coniuge viene incluso

180
nel novero di quelli indicati dall'art. 177 c.c. tale acquisto sarà
soggetto alle norme della comunione.
Qualora, diversamente, il bene acquistato sia inserito nel-
l'ambito di quelli ricadenti nell'elenco di cui all'art. 179 c.c.,
l'acquisto resterà escluso dal regime patrimoniale della comu-
nione.
In dottrina ci si è posti il problema concernente l'inclusio-
ne nel regime patrimoniale della comunione legale di tutti gli
acquisti compiuti, a prescindere dal loro titolo.
Invero, il titolo in ragione del quale si acquista assume ri-
lievo.
Precisamente, se il titolo espressamente comporta che il
bene rimanga nel patrimonio personale di uno dei due coniugi,
l'acquisto non cadrà nel regime patrimoniale della comunione.
Se l'acquisto ha ad oggetto un bene mobile acquistato in
buona fede da chi non era proprietario del medesimo opererà la
norma di cui all'art. 1153 c.c. e l'acquisto cadrà in comunione.
Se un immobile viene usucapito, esso sarà soggetto al re-
gime patrimoniale della comunione, anche se ad usucapirlo per
possesso continuato sia stato uno solo dei coniugi.
Con specifico riguardo all'accessione di un bene che sia

181
incorporato su un suolo di proprietà di uno dei coniugi, non si
registra unanimità di vedute.
In dottrina infatti, vi è chi propende per la tesi secondo
cui la costruzione dovrebbe ricadere nel regime patrimoniale
della comunione atteso che l'opera realizzata si configura come
un qualcosa di diverso - dotata di un'autonomia funzionale oltre
che economica - rispetto al bene sul quale insiste.
In giurisprudenza, tuttavia, prevale il contrario orienta-
mento incline a ritenere l'opera eseguita quale mero amplia-
mento della proprietà del bene su cui sorge sicché la stessa ca-
drebbe nella proprietà personale del coniuge a cui appartiene il
terrreno sulla quale la medesima sorge.
La giurisprudenza, quindi, fa applicazione del generale
principio dettato in materia di accessione, non ritenendo giusti-
ficata alcuna deroga allo stesso.
Il principio da ultimo ha trovato applicazione nella recen-
te pronunzia resa in data 14 marzo 2014, n. 6020.
In tale decisione il Supremo Collegio si è pronunciato in
ordine all'edificazione della casa coniugale su terreno di pro-
prietà di uno dei coniugi, affermando, nel fare richiamo ad una
giurisprudenza consolidata, l'esclusione dell'acquisto alla co-

182
munione dei beni, in favore del principio dell'accessione.
Il richiamo alla disciplina dell'accessione impone di invo-
care e applicare tutti i principi dettati in tale disciplina.
Per l'effetto, il proprietario del suolo che ha realizzato la
costruzione ovvero opere avvalendosi di materiali altrui deve
pagarne il valore, se la separazione non è chiesta dal proprieta-
rio dei materiali, ovvero se la stessa non può farsi senza che si
rechi grave danno all'opera costruita, ai sensi dell'art. 935 c.c.:
laddove la costruzione realizzata sul suolo di uno dei coniugi
sia stata eseguita mediante l'utilizzo di materiali acquistati dal-
l'altro coniuge, quest'ultimo ha diritto ai pagamenti previsti dal-
l'art. 935 c.c. (che comprende anche il risarcimento del danno
in caso di colpa grave).
Se invece ricorre l'ipotesi contemplata dal successivo ar-
ticolo 936 c.c., ovvero il caso in cui le costruzioni siano realiz-
zate da un soggetto diverso rispetto al proprietario del fondo su
cui le medesime insistono, il proprietario del fondo ha diritto di
ritenerle o di obbligare colui che le ha fatte a levarle, effettuan-
do, in tale ultimo caso, i dovuti pagamenti.
Nel diverso caso nel quale la costruzione venga effettua-
ta da un coniuge mediante l'utilizzo del denaro prelevato dalla

183
comunione, troverà applicazione la norma ex art. 192 c.c., che
disciplina il regime delle restituzioni e dei rimborsi dovuti per
l'ipotesi di cessazione della comunione.

*****

L'ORDINANZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE - ORD. 3 LUGLIO

2013, N. 16670

La costruzione realizzata sul terrreno di uno dei due coniu-


gi durante il regime di comunione legale rientra nella pro-
prietà personale del coniuge proprietario del terreno su cui
la predetta costruzione sorge.

“Il principio generale dell'accessione posto dall'art. 934


c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista ipso iure
la proprietà della costruzione su di esso edificata e la cui ope-
ratività può essere derogata soltanto da una specifica pattui-
zione tra le parti da una altrettanto specifica disposizione di

184
legge, non trova deroga nella disciplina legale tra coniugi, in
quanto l'acquisto della proprietà per accessione avviene a tito-
lo originario senza la necessità di apposita manifestazione di
volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l'art. 177,
comma 1, c.c. hanno carattere derivativo, essendone espressa-
mente prevista una genesi di origine negoziale, con la conse-
guenza che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio
ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul ter-
reno di proprietà personale di uno di essi è a sua volta pro-
prietà personale ed esclusiva di quest'ultimo in virtù dei prin-
cipi generali in materia di accessione, mentre al coniuge non
proprietario, che abbia contribuito all'onere della costruzione,
spetta, previo assolvimento dell'onere della prova di aver for-
nito il proprio sostegno economico, il diritto di ripetere nei
confronti dell'altro coniuge le somme spese a tal fine (Cass., 30
settembre 2010, n. 20508).

La giurisprudenza di legittimità ha precisato che, in casi


come quello qui in esame, la costruzione realizzata, in costanza
di matrimonio e in regime di comunione legale, sul terreno di
proprietà personale esclusiva di uno dei coniugi è di proprietà

185
personale ed esclusiva di quest’ultimo in virtù dei principi ge-
nerali in materia di accessione; l’altro coniuge, che pretenda di
ripetere le somme spese, è onerato della prova d’aver conferito
il proprio apporto economico per la realizzazione della costru-
zione attingendo a risorse patrimoniali personali o comuni.
L'operatività del principio di accessione può essere dero-
gata soltanto da un preciso accordo tra le parti o da una disposi-
zione legislativa in tal senso ma non anche dalla disciplina le-
gale tra coniugi.

TESTO INTEGRALE

Il consigliere delegato ha depositato, ai sensi dell'art. 380 bis


c.p.c., la seguente relazione.

"La Corte di appello di M., con sentenza n. 107 depositata in data


18 gennaio 2011, confermava la decisione del Tribunale di C., emessa in
data 23 gennaio 2008 ed impugnata da F.G.F. nei confronti del marito
G.A., con la quale era stata rigettata la domanda dell'appellante, dal qua-
le era separata, al pagamento di una somma pari a metà del valore del-
l'immobile ultimato in costanza di matrimonio su suolo di proprietà
esclusiva proprietà del marito.

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la


F.G. , sulla base di unico e complesso motivo.

186
Si ritiene che in ordine all'impugnazione in esame possa emettersi
ordinanza ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c., stante l'evidente infondatezza
del ricorso.

La F.G. denuncia violazione degli artt. 143, 177, 179 e 192 c.c.,
nonché omessa motivazione sui un fatto decisivo, sostenendo che si sa-
rebbe dovuto presumere che i materiali impiegati per la costruzione, ac-
quistata dal coniuge in virtù del principio dell'accessione, erano entrati a
far parte della comunione legale, di talché la propria domanda di ottene-
re la condanna del G. al pagamento della somma corrispondente alla
metà del loro valore avrebbe dovuto essere accolta.

Tale tesi non può essere condivisa, essendosi la corte territoriale


conformata all'orientamento secondo cui il principio generale dell'acces-
sione posto dall'art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo ac-
quista ipso iure la proprietà della costruzione su di esso edificata e la cui
operatività può essere derogata soltanto da una specifica pattuizione tra
le parti da una altrettanto specifica disposizione di legge, non trova dero-
ga nella disciplina legale tra coniugi, in quanto l'acquisto della proprietà
per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di apposita
manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l'art.
177, comma 1, c.c. hanno carattere derivativo, essendone espressamente
prevista una genesi di origine negoziale, con la conseguenza che la co-
struzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunio-
ne legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale di uno
di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest'ultimo in
virtù dei principi generali in materia di accessione, mentre al coniuge
non proprietario, che abbia contribuito all'onere della costruzione, spet-
ta, previo assolvimento dell'onere della prova di aver fornito il proprio
sostegno economico, il diritto di ripetere nei confronti dell'altro coniuge
le somme spese a tal fine (Cass., 30 settembre 2010, n. 20508).

La ricorrente solo in maniera generica, attraverso l'affermazione,


priva di qualsiasi riferimento a specifiche risultante processuali, sostiene

187
di aver "documentato, dedotto ed almeno parzialmente comprovato, nel
giudizio di merito, ogni tipo di apporto da esso conferito alla comunione
legale", senza contrastare specificamente le risultanze di segno contrario
poste a fondamento della decisione impugnata".

Il Collegio condivide la relazione, ritualmente comunicata al P.G.


e notificata alle parti costituite.

Deve, pertanto, procedersi al rigetto del ricorso, non potendosi


per altro attribuire valenza all'affermazione contenuta nella nomina a so-
stituto processuale dell'avv. M., avulsa da qualsiasi riferimento a circo-
stanze concrete, circa una non meglio precisata cessazione della materia
del contendere.
Non si provvede in merito alle spese processuali, non avendo la parte in-
timate svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Nella fattispecie che occupa, alla luce di quanto esposto,


si deve concludere che la costruzione realizzata in costanza di
matrimonio dei coniugi Mevio e Sempronia durante il regime

188
patrimoniale della comunione da loro prescelto risulti di pro-
prietà esclusivamente di Mevio.
Trova applicazione, infatti, in tal caso, la norma che pre-
vede l'accessione a favore del proprietario del suolo. Quindi
Mevio, quale proprietario del suolo sul quale è incorporata la
costruzione acquista per accessione anche la costruzione che
insiste sul suo suolo.
Le norme dettate in materia di comunione non si applica-
no in tale fattispecie atteso che le stesse non possono costituire
una deroga al principio dell'accessione, mancando in tal senso
un'espressa previsione.
Sempronia non potrà validamente avanzare alcuna prete-
sa di restituzione,a titolo di rimborso, se non si farà carico di
dimostrare dettagliatamente quanto da lei pagato.
Non è infatti possibile ipotizzare che le somme impiegate
siano state prelevate dalla comunione legale, quale presupposto
per la richiesta di eventuali restituzioni.

189
6. IL CONTRATTO QUALE REGOLAMENTO
CONDOMINIALE

IL CASO
Il Sig. Mario Rossi è proprietario di un appartamento sito al piano
terreno di un complesso condominiale e decide sul giardino annesso
al proprio immobile di ergere una costruzione, costruita in aderenza
ad una delle facciate condominiali che giunge fino al lastrico solare.
Le tecniche utilizzate dal predetto condomino per l'esecuzione di tali
lavori sono assolutamente in linea con quelle adoperate per l'edificio
cui aderisce e ciò sia sotto il profilo della sicurezza che sotto quello
estetico. In merito a tale ultimo aspetto, si nota, infatti, che sono state
riprodotte le stesse immagini, utilizzati i medesimi materiali, usati gli
stessi finimenti e colorazioni dell'intero complesso.
Ciò nonostante, vi è un altro condomino, il Sig. Bianchi, che fruisce
spesso del terrazzo comune, ricavato da una parte del lastrico solare,
il quale vorrebbe che tale costruzione venisse abbattuta.
Assume il Sig. Bianchi che tutti i condomini - e, quindi, anche lo
stesso Sig. Mario Rossi - hanno siglato un regolamento contrattuale
in cui si vieta di apportare “qualsivoglia variazione dell'assetto
architettonico ed edilizio urbanistico dell'intero complesso cosi come
eseguito”.
Il regolamento - evidenzia il condomino Bianchi - stabilisce inoltre
che “l'assetto architettonico dell'intero complesso condominiale non
può in alcun modo essere compromesso da eventuali opere realizzate
dai singoli condòmini nelle singole unità abitative”.

Quesito
E' legittima la richiesta del condomino Bianchi avente ad oggetto la
demolizione dell'opera eseguita dal Sig. Mario Rossi, anche se questa

190
risulta perfettamente armonizzata con l'aspetto esteriore dell'intero
complesso condominiale?

*****

ESAME DELLA FATTISPECIE

Il Sig. Bianchi, nella sua qualità di condòmino è ferma-


mente intenzionato a ottenere la demolizione dell'opera esegui-
ta dal Sig. Mario Rossi.
Il Sig. Bianchi ritiene che la fondatezza dei propri assunti
si tragga dall'art. 2933 c.c., secondo cui: “Se non è adempiuto
un obbligo di non fare, l'avente diritto può ottenere che sia di-
strutto, a spese dell'obbligato, ciò che è stato fatto in violazione
dell'obbligo”. A suo dire, il Sig. Mario Rossi, avendo posto in
essere tali lavori, sarebbe venuto meno alle prescrizioni conte-
nute nel regolamento contrattuale, di cui anche lui avrebbe ac-
cettato gli effetti, avendone sottoscritto il relativo testo, Secon-
do le prescrizioni contenute nel predetto regolamento, infatti,
ogni variazione dell'assetto architettonico risulta preclusa a tutti
i condòmini, essendo posto a carico di ciascuno di essi un ob-
bligo di non fare.

191
Il Sig. Mario Rossi, d'altro canto, sostiene di essersi atte-
nuto rigorosamente all'aspetto architettonico dell'intero com-
plesso condominiale, avendo rispettato scrupolosamente ogni
parametro di conformità di tecnica e di estetica rispetto all'edi-
ficio originario.
Per comprendere gli esatti termini della vicenda, è oppor-
tuno esaminare i tratti dell'istituto del regolamento condominia-
le contrattuale, valutare il rapporto tra questo e le norme codi-
cistiche in materia di innovazioni, con particolare riferimento
all'art. 1120 c.c..

*****

LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass.11 maggio 2011, n. 10350. Costituisce innovazione lesiva del de-


coro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non
solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che co-
munque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a pre-
scindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio; la relativa valuta-
zione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità,
ove non presenti vizi di motivazione (nella specie, la suprema corte ha
confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto illegittima l’installa-

192
zione di una canna fumaria che percorreva tutta la facciata dell’edificio
condominiale, così da pregiudicare l’aspetto e l’armonia del fabbricato).

Cass. 22 agosto 2012, n. 14607. In tema di condominio, è illegittimo l’u-


so particolare o più intenso del bene comune, ai sensi dell’art. 1102 c.c.,
ove si arrechi pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio condomi-
niale (nella specie, in applicazione di tale principio, la suprema corte ha
confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto illegittima la realiz-
zazione di alcuni fori di porta o di finestra posti sulle facciate dell’edifi-
cio, i quali avevano alterato la simmetria dei fori preesistenti, producen-
do un risultato esteticamente sgradevole).

Cass. 14 agosto 2007, n. 17694. In materia di condominio negli edifici,


un regolamento c.d. contrattuale può contenere anche disposizioni di ca-
rattere solo «regolamentare» (dirette cioè a disciplinare l’uso dei beni
comuni), le quali, in quanto tali, a differenza di quelle di natura «con-
trattuale» (e cioè delle clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle
proprietà esclusive o comuni, ovvero di quelle che attribuiscano ad alcu-
ni condomini diritti maggiori rispetto agli altri, che sono modificabili
soltanto con il consenso unanime dei condomini), possono essere modi-
ficate dall’assemblea, con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, 2º
comma, c.c. (nella specie, la corte di merito, con motivazione ritenuta
dalla suprema corte congrua ed immune da vizi logico-giuridici, aveva
escluso che potesse essere attribuita natura contrattuale, anziché regola-
mentare, ad una clausola del regolamento condominiale che stabiliva le
modalità d’uso di un cortile interno condominiale).

Cass. 25 ottobre 2001, n. 13164. Il regolamento di condominio predi-


sposto dall’originario unico proprietario dell’intero edificio, ove sia ac-
cettato dagli iniziali acquirenti dei singoli appartamenti e regolarmente
trascritto nei registri immobiliari, assume carattere convenzionale e vin-
cola tutti i successivi acquirenti, non solo per le clausole che disciplina-
no l’uso o il godimento dei servizi o delle parti comuni, ma anche per
quelle che restringono i poteri e le facoltà dei singoli condomini sulle
loro proprietà esclusive, venendo a costituire su queste ultime una servi-
tù reciproca; ne consegue che tale regolamento convenzionale, anche se

193
non materialmente inserito nel testo del successivo contratto di compra-
vendita dei singoli appartamenti dell’edificio, fa corpo con esso quando
sia stato regolarmente trascritto nei registri immobiliari, rientrando le
sue clausole, per relationem, nel contenuto dei singoli contratti.

Cass. 29 aprile 2005, n. 8883. In materia di condominio di edifici, le


norme del regolamento di natura contrattuale possono prevedere limita-
zioni ai diritti dei condomini, nell’interesse comune, sia relativamente
alle parti comuni, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle
parti di esclusiva proprietà; ne consegue che, in presenza di una clausola
di detto regolamento vietante variazioni all’aspetto esterno dell’immobi-
le, è valida la delibera condominiale che vieti ad un condomino l’instal-
lazione sul balcone di sua proprietà esclusiva di una zanzariera che, per
le sue caratteristiche (nel caso, formata da telaio in alluminio installato
lungo il perimetro esterno del balcone dell’appartamento) risulti imme-
diatamente visibile dall’esterno, e lesiva del decoro architettonico dell’e-
dificio.

Cass. 26 febbraio 2009, n. 4679. In tema di condominio, non può avere


incidenza lesiva del decoro architettonico di un edificio un’opera modi-
ficativa compiuta da un condomino, quando sussista degrado di detto
decoro a causa di preesistenti interventi modificativi di cui non sia stato
preteso il ripristino.

Cass. 6 ottobre 1999, n. 11121. In materia di condominio di edifici, l’au-


tonomia privata consente alle parti di stipulare convenzioni che pongano
limitazioni, nell’interesse comune, ai diritti dei condomini, sia relativa-
mente alle parti comuni, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale
sulle parti di loro esclusiva proprietà, senza che rilevi che l’esercizio del
diritto individuale su di esse si rifletta o meno sulle strutture o sulle parti
comuni; ne discende che legittimamente le norme di un regolamento di
condominio - aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall’unico
originario proprietario dell’edificio ed accettate con i singoli atti di ac-
quisto dai condomini ovvero adottate in sede assembleare con il consen-
so unanime di tutti i condomini - possono derogare od integrare la disci -
plina legale ed in particolare possono dare del concetto di decoro archi-

194
tettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall’art. 1200
c.c., estendendo il divieto di immutazione sino ad imporre la conserva-
zione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica, all’aspetto ge-
nerale dell’edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od
in quello della manifestazione negoziale successiva.

Cass. 17 giugno 2010, n. 14626. Ai sensi degli art. 1130, 1º comma, n.


4), e 1131 c.c., l’amministratore del condominio è legittimato, senza ne-
cessità di una specifica deliberazione assembleare, ad instaurare un giu-
dizio per la rimozione di finestre aperte abusivamente, in contrasto con
il regolamento, sulla facciata dello stabile condominiale, da taluni con-
domini, in quanto tale atto, essendo diretto a conservare il decoro archi-
tettonico dell’edificio contro ogni alterazione dell’estetica dello stesso, è
finalizzato alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’e-
dificio.

Cass. 24 marzo 2004, n. 5899. In tema di innovazioni nel condominio


degli edifici, l’alterazione del decoro architettonico può derivare anche
dalla modifica dell’originario aspetto di singoli elementi o di singole
parti dell’edificio che abbiano una sostanziale e formale autonomia o
siano comunque suscettibili per sé di considerazione autonoma (enun-
ciando il principio di cui in massima, la suprema corte ha cassato la de-
cisione del giudice del merito, la quale aveva invece escluso la possibili-
tà di considerare l’atrio dell’edificio come un elemento dotato, in sé, di
autonomo valore estetico e qualificante del pregio architettonico dell’e-
dificio).

Cass. 4 aprile 2008, n. 8830. In tema di condominio, il decoro architetto-


nico, quando possa individuarsi nel fabbricato una linea armonica, sia
pure estremamente semplice, che ne caratterizzi la fisionomia, è un bene
comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., il cui mantenimento è tutelato a pre-
scindere dalla validità estetica assoluta delle modifiche che si intendono
apportare (nella specie, si è ritenuto lesivo il comportamento del condo-
mino proprietario delle unità abitative al piano terra e primo che, per
realizzare un vano di circa mq. venticinque da adibire a servizi igienici e
cucina, aveva inglobato uno degli archi laterali asimmetrici del piano

195
terra del fabbricato, interrompendo l’armonia del prospetto architettoni-
co costituito dall’arco centrale di ingresso all’androne e da ciascuno dei
due archi sugli altri lati).

Cass. 19 giugno 2009, n. 14455. Ai fini della tutela prevista dall’art.


1120, 2º comma, c.c. in materia di divieto di innovazioni sulle parti co-
muni dell’edificio condominiale, non occorre che il fabbricato, il cui de-
coro architettonico sia stato alterato dall’innovazione abbia un particola-
re pregio artistico, né rileva che tale decoro sia stato già gravemente ed
evidentemente compromesso da precedenti interventi sull’immobile, ma
è sufficiente che vengano alterate, in modo visibile e significativo, la
particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fab-
bricato una propria specifica identità (nella fattispecie, la suprema corte
ha confermato sul punto l’impugnata sentenza che aveva ritenuto dimo-
strata la violazione del decoro architettonico in un caso in cui la trasfor-
mazione in veranda dell’unico balcone esistente al piano ammezzato
aveva spezzato il ritmo proprio della facciata ottocentesca del fabbrica-
to, che nei vari piani possedeva un preciso disegno di ripetizione dei bal-
coni e di alternanza di pieni e vuoti, non potendosi trascurare, a tal fine,
anche la rilevanza delle caratteristiche costruttive della veranda e il suo
colore bianco brillante, contrastante con le superfici più opache dei cir-
costanti edifici).

Cass. 22 gennaio 2004, n. 1025. In materia di condominio di edifici, il


codice civile, nel riferirsi, quanto alle sopraelevazioni (art. 1127, 3º
comma, c.c.), all’aspetto architettonico dell’edificio, e, quanto alle inno-
vazioni (art. 1120, 2º comma, c.c.), al decoro architettonico dello stesso,
adotta nozioni di diversa portata, intendendo per aspetto la caratteristica
principale insita nello stile architettonico dell’edificio, sicché l’adozio-
ne, nella parte sopraelevata, di uno stile diverso da quello della parte
preesistente comporta normalmente un mutamento peggiorativo dell’a-
spetto architettonico complessivo, percepibile da qualunque osservatore;
la relativa indagine, condotta in stretta correlazione con la visibilità del-
l’opera e con l’esistenza di un danno economico valutabile, è demandata
al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legitti-
mità, se congruamente motivato, senza comportare l’obbligo di un’e-

196
spressa motivazione sulla sussistenza del pregiudizio economico, quan-
do questo è da ritenersi insito in quello estetico, in conseguenza della
gravità di quest’ultimo.

Cass. 10 maggio 2004, n. 8852. L’uso particolare o più intenso del bene
comune ai sensi dell’art. 1102 c.c. - dal quale esula ogni utilizzazione
che si risolva in un’imposizione di limitazioni o pesi sul bene comune -
presuppone, perché non si configuri come illegittimo, che non ne risulti-
no impedito l’altrui paritario uso né modificata la destinazione né arre-
cato pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico
dell’edificio; ne consegue che l’inserimento di una canna fumaria all’in-
terno del muro comune - costituente anche muro di delimitazione della
proprietà individuale - ad esclusivo servizio del proprio immobile non
può considerarsi utilizzazione in termini di mero «appoggio» della stes-
sa al muro comune, secondo quello che, a determinate condizioni, può
costituire uso consentito del bene comune ai sensi della norma in que-
stione, stante il suo peculiare carattere di invasività della proprietà altrui
(qual’è anche quella non esclusiva bensì comune), anche sotto i meri
profili delle immissioni di calore e della limitazione rispetto ad altre
possibili e diverse utilizzazioni della cosa che ne derivano.

Cass.7 febbraio 1998, n. 1297. In tema di edifici in condominio la tutela


della facciata è apprestata non in modo astratto ed in via generale, ma
nei soli casi in cui il condomino ne faccia un uso illegittimo, compro-
mettendone l’aspetto esteriore con innovazioni che alterino il decoro ar-
chitettonico del fabbricato; l’indagine rivolta a stabilire se in concreto ri-
corra il denunciato danno all’aspetto della facciata, rientra nei poteri del
giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità se adeguata-
mente motivata (nella specie, la sentenza impugnata confermata dalla
suprema corte aveva escluso il carattere lesivo di una veranda realizzata
da un condomino sulla terrazza a livello del proprio appartamento nella
parte retrostante del fabbricato).

197
LE NORME RICHIAMATE

Art. 1117-ter c.c.


Modificazioni delle destinazioni d'uso.
1. Per soddisfare esigenze di interesse condominiale,
l'assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro
quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del va-
lore dell'edificio, può modificare la destinazione d'uso delle
parti comuni.
2. La convocazione dell'assemblea deve essere affissa
per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior
uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve effettuarsi
mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici,
in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data di
convocazione.
3. La convocazione dell'assemblea, a pena di nullità,
deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la
nuova destinazione d'uso.
4. La deliberazione deve contenere la dichiarazione
espressa che sono stati effettuati gli adempimenti di cui ai pre-
cedenti commi.

198
5. Sono vietate le modificazioni delle destinazioni d'uso
che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza
del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico.

Art. 1120 c.c.


Innovazioni.
1. I condomini, con la maggioranza indicata dal quinto
comma dell'articolo 1136, possono disporre tutte le innovazio-
ni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior
rendimento delle cose comuni.
2. I condomini, con la maggioranza indicata dal secondo
comma dell'articolo 1136, possono disporre le innovazioni che,
nel rispetto della normativa di settore, hanno ad oggetto:
1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza
e la salubrità degli edifici e degli impianti;
2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le bar-
riere architettoniche, per il contenimento del consumo energe-
tico degli edifici e per realizzare parcheggi destinati a servizio
delle unità immobiliari o dell'edificio, nonché per la produzio-
ne di energia mediante l'utilizzo di impianti di cogenerazione,

199
fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del con-
dominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto
reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra
idonea superficie comune;
3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione
radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flus-
so informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collega-
menti fino alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione
degli impianti che non comportano modifiche in grado di altera-
re la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri
condomini di farne uso secondo il loro diritto.
3. L'amministratore è tenuto a convocare l'assemblea en-
tro trenta giorni dalla richiesta anche di un solo condomino in-
teressato all'adozione delle deliberazioni di cui al precedente
comma. La richiesta deve contenere l'indicazione del contenu-
to specifico e delle modalità di esecuzione degli interventi pro-
posti. In mancanza, l'amministratore deve invitare senza indu-
gio il condomino proponente a fornire le necessarie integrazio-
ni.
4. Sono vietate le innovazioni che possano recare pregiu-
dizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alte-

200
rino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni
dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo
condomino.
Art. 1127 c.c.
Costruzione sopra l'ultimo piano dell'edificio.
1. Il proprietario dell'ultimo piano dell'edificio può ele-
vare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti altrimenti
dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è proprietario esclusi-
vo del lastrico solare.
2. La sopraelevazione non è ammessa se le condizioni
statiche dell'edificio non la consentono.
3. I condomini possono altresì opporsi alla sopraeleva-
zione, se questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio
ovvero diminuisce notevolmente l'aria o la luce dei piani sotto-
stanti.
4. Chi fa la sopraelevazione deve corrispondere agli altri
condomini un'indennità pari al valore attuale dell'area da oc-
cuparsi con la nuova fabbrica, diviso per il numero dei piani,
ivi compreso quello da edificare, e detratto l'importo della
quota a lui spettante. Egli è inoltre tenuto a ricostruire il la-
strico solare di cui tutti o parte dei condomini avevano il dirit-

201
to di usare.

Art. 1138 c.c.


Regolamento di condominio.
1. Quando in un edificio il numero dei condomini è supe-
riore a dieci, deve essere formato un regolamento, il quale
contenga le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizio-
ne delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a cia-
scun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro del-
l'edificio e quelle relative all'amministrazione.
2. Ciascun condomino può prendere l'iniziativa per la
formazione del regolamento di condominio o per la revisione
di quello esistente.
3. Il regolamento deve essere approvato dall'assemblea
con la maggioranza stabilita dal secondo comma dell'articolo
1136 ed allegato al registro indicato dal numero 7) dell'artico-

lo 1130. (1) Esso può essere impugnato a norma dell'articolo


1107.
4. Le norme del regolamento non possono in alcun modo
menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli

202
atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono
derogare alle disposizioni degli articoli 1118, secondo comma
1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137.
5. Le norme del regolamento non possono vietare di pos-
sedere o detenere animali domestici.
Art. 1350 c.c.
Atti che devono farsi per iscritto
1. Devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata,
sotto pena di nullità:
1) i contratti che trasferiscono la proprietà di beni im-
mobili;
2) i contratti che costituiscono, modificano o trasferi-
scono il diritto di usufrutto su beni immobili, il diritto di su-
perficie, il diritto del concedente e dell'enfiteuta;
3) i contratti che costituiscono la comunione di diritti in-
dicati dai numeri precedenti;
4) i contratti che costituiscono o modificano le servitù
prediali, il diritto di uso su beni immobili e il diritto di abita-
zione;
5) gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri prece-
denti;

203
6) i contratti di affrancazione del fondo enfiteutico;
7) i contratti di anticresi;
8) i contratti di locazione di beni immobili per una dura-
ta superiore a nove anni;
9) i contratti di società o di associazione con i quali si
conferisce il godimento di beni immobili o di altri diritti reali
immobiliari per un tempo eccedente i nove anni o per un tempo
indeterminato;
10) gli atti che costituiscono rendite perpetue o vitalizie,
salve le disposizioni relative alle rendite dello Stato;
11) gli atti di divisione di beni immobili e di altri diritti
reali immobiliari;
12) le transazioni che hanno per oggetto controversie re-
lative ai rapporti giuridici menzionati nei numeri precedenti;
13) gli altri atti specialmente indicati dalla legge

Art. 2933 c.c.


Esecuzione forzata degli obblighi di non fare.
1. Se non è adempiuto un obbligo di non fare, l'avente di-
ritto può ottenere che sia distrutto, a spese dell'obbligato, ciò

204
che è stato fatto in violazione dell'obbligo .
2. Non può essere ordinata la distruzione della cosa e
l'avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei danni,
se la distruzione della cosa è di pregiudizio all'economia na-
zionale .

*****

GLI ISTITUTI

Il regolamento di condominio avente natura contrattuale.


Nella categoria dei regolamenti si è soliti avvalersi di ta-
lune classificazioni che consentono di comprendere quale pos-
sa risultare la disciplina di volta in volta applicabile.
Il primo distinguo è quello compiuto dallo stesso legisla-
tore tra regolamento obbligatorio e regolamento facoltativo.
In merito al regolamento obbligatorio, l’art. 1138 c.c. im-
pone, nel caso in cui in un edificio il numero dei condòmini sia
superiore a dieci, ai condòmini medesimi di formare un regola-
mento. Trattasi di un regolamento “tipico” in quanto previsto
dalla legge che deve contenere quanto richiesto dalla citata nor-

205
ma, ovvero disposizioni circa “l'uso delle cose comuni e la ri-
partizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a
ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro
dell'edificio e quelle relative all'amministrazione".
Esso si differenzia rispetto al regolamento contrattuale
che rappresenta uno strumento di cui i condòmini possono av-
valersi per superare i limiti che la legge impone e ciò si spiega
in ragione dell’accordo raggiunto dai condòmini che suggella
la vincolatività delle disposizioni volte a regolamentare i loto
rapporti.
La prassi di far sottoscrivere il regolamento contrattuale
garantisce che sin dal momento in cui diventano proprietari i
condòmini si attengono all'osservanza delle norme stabilite con
cui si disciplina la vita condominiale. L'operatività di tale prati-
ca fa sì che ci si allontana dai principi dettati dal legislatore,
primo fra tutti quello della maggioranza assembleare da cui
trae fondamento la vincolatività delle regole stabilite per la re-
golamentazione dei rapporti.
La regolamentazione contenuta nel regolamento contrat-
tuale è invece approvata da ogni singolo condomino e non si
fonda, dunque, sulla maggioranza dei medesimi.

206
Può capitare che un soggetto che sia proprietario di un in-
tero edificio, intendendo alienare alcune singole unità immobi-
liari, stabilisca le disposizioni con cui regolamentare la vita co-
mune del condominio e le inserisca nell'atto di vendita di ogni
singola unità abitativa in modo tale da assicurarne la loro osser-
vanza.
La specifica accettazione delle medesime da parte degli
acquirenti che viene esternata al momento dell’acquisto del-
l’immobile rende possibile inserire clausole che, nell'ambito di
un regolamento condominiale (e non contrattuale) non sarebbe-
ro ammissibili.
In tal modo è, allora, consentito superare i limiti cui fa ri-
ferimento l'art. 1138 c.a presidio dei diritti di proprietà dei sin-
goli condòmini. Si può inoltre verificare che la portata di talune
clausole che vengono inserite in tali regolamenti contrattuali al
momento dell'acquisto delle unità abitative sia tale da configu-
rare la costituzione di una servitù la quale - se trascritta nei re-
gistri immobiliari – diventa opponibile agli eventuali successi-
vi acquirenti del bene.
Una volta sottoscritto da tutti i condòmini, il regolamento
contrattuale non può essere modificato da una delibera assem-

207
bleare assunta a maggioranza, potendo le sue disposizioni esse-
re oggetto di modifica solo se adottata dal consenso unanime di
tutti i condòmini che le hanno sottoscritte. La capacità di resi-
stenza del predetto regolamento e la sua efficacia convenziona-
le sono, dunque, notevoli.
Tuttavia, l'efficacia convenzionale del regolamento con-
trattuale incontra dei limiti, che sono rappresentati dalle pre-
scrizioni legali che qualificano un dato potere della maggioran-
za come inderogabile: è il caso del potere di revoca dell'ammi-
nistratore.
Sempre in merito a tale aspetto, un altro limite contenuti-
stico del regolamento contrattuale si rinviene nell'esercizio del-
l'azione giudiziaria la quale non può, in ogni caso, essere pre-
clusa ad alcun condomino, trattandosi di un diritto indisponibi-
le: il regolamento contrattuale non può, quindi, impedire che il
singolo condomino si rivolga all'autorità giudiziaria per la tute-
la delle sue ragioni.
Il tratto peculiare del regolamento contrattuale si ravvisa
nella possibilità di incidere sui diritti di proprietà dei condòmi-
ni, con i limiti sopra indicati. In relazione alle clausole in esso
contenute, si è soliti distinguere quelle che rivestono natura

208
contrattuale da quelle che presentano una natura meramente re-
golamentare.
Sono da ritenere clausole facenti parte delle prima cate-
goria quelle che costituiscono oneri reali o servitù poiché esse,
limitando i diritti proprietari partecipanti al condominio, ne
modificano il godimento spettante a questi in ordine alle parti
comuni o, addirittura, alla parte di edificio di cui sono proprie-
tari.
Sono invece ascrivibili alla categoria delle clausole aven-
ti natura meramente regolamentare (cd. clausole “regolamenta-
ri”) quelle che non introducono alcuna limitazione ai diritti di
proprietà dei condòmini in quanto regolamentano l’uso e il go-
dimento dei beni e dei servizi comuni, il riparto delle spese
condominiali e gli interventi di manutenzione.
Le decisioni assunte unanimemente da tutti i condòmini
sono capaci di incidere notevolmente sulla regolamentazione
dei loro rapporti, soprattutto laddove le delibere vanno ad inci-
dere sui diritti individuali: naturalmente, questa tipologia di de-
cisione giammai potrebbe essere assunta sulla base di una deli-
berazione adottata a maggioranza, potendosi, in tale ultima ipo-
tesi, registrare sia dissenso da parte di alcuni sia mancata parte-

209
cipazione di altri.
La regolamentazione cui i condòmini addivengono, il cui
contenuto deve essere trasfuso nel verbale di assemblea, deve
risultare in possesso dei requisiti di sostanza e di forma richie-
sti dalla legge per la validità delle disposizioni previste dai con-
dòmini.
Esemplificando, se il regolamento contrattuale contiene
clausole che limitano i diritti di proprietà dei singoli condòmi-
ni, le predette clausole devono attenersi alle prescrizioni dettate
in tema di forma dall’art. 1350 c.c. L’atto scritto che sia accet-
tato da ogni partecipante consente inoltre di riconoscere a talu-
ni condòmini diritti maggiori o più estesi rispetto a quelli rico-
nosciuti agli altri.
Il requisito della forma scritta non è qui richiesto ai fini
probatori, bensì ad substantiam, sicché la mancanza di tale
onere formale inficia la validità dell'atto dispositivo.
Il medesimo principio trova applicazione anche con rife-
rimento alle ipotesi di modificazione del regolamento contrat-
tuale. Le clausole oggetto di modifica, infatti, poiché vanno a
sostituire quelle precedenti devono, rispetto a queste ultime, ri-
vestire la medesima forma e avere gli stessi requisiti sicché, ad

210
esempio, non potrebbe ritenersi validamente modificata una
clausola attraverso comportamenti concludenti perpetrati dai
condòmini.
Il regolamento contrattuale è l'unico regolamento che può
ammettersi nell'ambito del c.d. condominio minimo, ovvero del
condominio composto da due soli condòmini, in cui essendo
impossibile raggiungere una maggioranza, in caso di divergen-
ze d'opinione circa l'approvazione delle norme del regolamen-
to, l'unico criterio idonea all'adozione di un regolamento è rap-
presentato dall'unanimità di consenso tra i due soggetti parteci-
panti al condominio.

Il rapporto tra il regolamento condominiale e il concetto di


decoro architettonico dell'edificio.
L'art. 1120 c.c. regolamenta l'approvazione delle decisio-
ni che il condominio adotta in tema di innovazioni, ovvero in
ordine a quelle opere che innovano, per l'appunto, l'aspetto e la
struttura dell'edificio (che ne risulta dunque alterata) ovvero
che intervengono in merito all'uso cui è destinato un bene con-
dominiale, modificandone la destinazione.
Giova segnalare, sul punto, la riforma in materia condo-

211
miniale, attuatasi mediante la l. 11 dicembre 2012, n. 220, la
quale ha inserito per altro, nel codice civile, l'art. 1117-ter. Tale
ultima norma prevede una disciplina del tutto indipendente e,
per certi versi, più rigida rispetto a quella contenuta nell'art.
1120 c.c. per le modificazioni delle destinazioni d'uso.
L'art. 1120 c.c. secondo cui: “i condomini, con la mag-
gioranza indicata dal quinto comma dell'articolo 1136 c.c.,
possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento
o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose co-
muni” fa espresso divieto di introdurre quelle “innovazioni che
possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del
fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che ren-
dano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al
godimento anche di un solo condomino”.
Partiamo, allora, dalla nozione di decoro architettonico.
Con tale espressione ci si intende riferire all'estetica che è
il risultato dell’insieme delle linee e delle strutture ornamentali
costituenti ciò che contraddistingue l'aspetto dell'edificio e che
imprimono all’edificio nel suo insieme considerato, una sua
propria fisionomia, indipendentemente se tale aspetto sia di
pregio artistico o meno.

212
Da qui consegue che è precluso realizzare qualsivoglia
opera o eseguire qualsiasi lavoro che possa in qualche modo
pregiudicare anche uno solo degli elementi, quali la simmetria,
l’estetica e l’architettura generale, che identificano il decoro ar-
chitettonico dell’edificio.
Come si vede, la nozione è dunque più ampia rispetto a
quella di “aspetto architettonico”, presa in considerazione dal-
l’art. 1127, 3° co., c.c.. Le regole estetiche e d'arte che si devo-
no osservare al fine di rispettare il decoro architettonico vanno
al di là del semplice aspetto esteriore dell'edificio.
La nozione di aspetto architettonico cui fa ricerimento
l'art. 1127 c.c. è invece intesa quale stile architettonico nel sen-
so dell'aspetto esteriore.
È ben possibile che il rispetto dei canoni di sicurezza nel-
le costruzioni risulti connesso all'osservanza delle disposizioni
dettate in tema di decoro dell'edificio e, di certo, non si potreb-
be accordare una prevalente tutela al decoro architettonico che
si traduca in qualcosa che va a compromettere la sicurezza del-
l'edificio stesso.
Accade spesso che le opere che compromettono la sicu-
rezza dell'immobile violino anche le norme poste a tutela del

213
decoro architettonico. La nozione di decoro architettonico cui
si fa riferimento risulta, infatti, concepita in relazione all’archi-
tettura edile e prevede, inevitabilmente anche il rispetto delle
disposizioni atte a garantire la sicurezza dell'immobile.
La modifica apportata ad alcune parti dell’edificio viene
posta in relazione al decoro complessivo dell'intero edificio,
anche se le opere di intervento sono compiute su taluni elemen-
ti dell'immobile che possono essere autonomamente considera-
ti.
L'art. 1138 c.c. prevede che il regolamento di condominio
si debba occupare della tutela del decoro dell’edificio. La di-
sposizione va letta in combinato disposto con l'art. 1120 c.c.
che enuclea i criteri da considerare quando si predispongono le
clausole del regolamento deputate a regolamentare la tutela del
decoro architettonico.
La nozione di decoro dell'edificio è stato in dottrina va-
riamente inteso.
Secondo un primo filone, infatti, il decoro deve essere
valutato nella sua individualità, prescindendo dall'ambiente in
cui si colloca l'edificio.
Un altra tesi, da ritenere preferibile, assume invece che

214
devesi guardare alla tutela “paesaggistica” e, latu sensu, “am-
bientale”, avendo a riferimento il contesto ambientale in cui è
situato l'immobile con cui quest'ultimo deve risultare in armo-
nia.
Seguendo tale impostazione, quindi, ogni innovazione
che si intende introdurre deve rispondere all'esigenza di mante-
nere il decoro dell'edificio e rispetto ad esso l'innovazione
deve, altresì, risultare strettamente utile e funzionale, venendo
a soddisfare, in tal modo, un interesse di indubbia rilevanza
pubblica.
Al fine di valutare se un'innovazione debba o meno esse-
re disposta, ex art. 1120, 2° comma c.c., si devono, appunto,
contemperare le contrapposte esigenze tra la finalità estetica
che si persegue con l'innovazione e l'utilità della medesima che
non si può e non si deve tradurre in un'alterazione del decoro
architettonico.
Le clausole regolamentari concernenti le innovazioni de-
vono inoltre garantire che sia salvaguardata l'incolumità di co-
loro che si trovano nei pressi dell'immobile, avendo cura di tu-
telare l’ambiente dei fabbricati circostanti nonché l'integrità
dell’inquadramento architettonico dell’edificio in condominio.

215
Il contenuto di tali disposizioni quindi deve essere valuta-
to sia con riferimento ai limiti di carattere interno, relativi a
proteggere i partecipanti al condominio, sia di carattere esterno,
avendo riguardo all’intera collettività e dunque anche a coloro
che, pur non facendo parte del condominio possono trovarsi
(anche in via meramente potenziale) nelle vicinanze dello stes-
so, in rapporto visivo con la struttura dell’immobile.
Il regolamento condominiale di natura contrattuale, quin-
di, può operare in via unidirezionale: ai condomini è infatti pre-
clusa la possibilità di restringere - nelle decisioni da adottare
aventi ad oggetto le innovazioni di cui all'art. 1120 c.c. - la no-
zione di decoro architettonico dell'edificio; di contro, è consen-
tito un ampliamento del rigore a cui attenersi rispetto a quello
che la legge prevede a tutela del decoro.
Il regolamento tipico non può introdurre disposizioni più
rigorose rispetto a quelle codicistiche dal momento che questo
tipo di regolamento si fonda sul principio maggioritario sicché
in esso non deve rinvenirsi alcuna forma di limitazione all'auto-
nomia del singolo condomino.
Se, infatti, il regolamento tipico contenesse una limitazio-
ne all'autonomia del singolo condòmino, si tratterebbe di una

216
limitazione disposta dalla maggioranza dei condòmini e non
dall'unanimità dei medesimi; saremmo, quindi, di fronte ad una
vincolatività derivante dall'applicazione del principio maggiori-
tario che si imporrebbe sui condòmini dissenzienti ovvero su
quelli assenti.
Ebbene, limitazioni come quelle contemplate dal caso di
specie - che, relativamente alle richieste di modifica dell'edifi-
cio richiedono un maggiore rigore in nome del decoro dell'edi-
ficio - possono risultare legittime solo se le stesse risultano de-
cise dall'unanimità dei condòmini.
Il contenuto di tale limitazione, infatti, si configura come
una parziale rinuncia compiuta da ciascun condòmino alla pro-
pria facoltà di apportare modifiche all'edificio in ragione di un
più severo rispetto dei canoni estetici concernenti la struttura
dell’intero immobile. Per tale motivo la rinuncia non può che
trovare la propria fonte e giustificazione in un atto avente natu-
ra negoziale.
Di conseguenza, solo un regolamento contrattuale oppure
una disposizione convenzionale inserita in un regolamento con-
dominiale possono rendere possibile l'ampliamento della nozio-
ne di decoro architettonico.

217
*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE - CASS. 24


GENNAIO 2013, N. 1748

La nozione di decoro architettonico può essere ampliata me-


diante un'apposita norma contrattuale del regolamento con-
dominiale che la contempli.

“Le norme di un regolamento di condominio - aventi na-


tura contrattuale, in quanto predisposte dall’unico originario
proprietario dell’edificio ed accettate con i singoli atti di ac-
quisto dai condomini, ovvero adottate in sede assembleare con
il consenso unanime di tutti i condomini - possono derogare od
integrare la disciplina legale, consentendo l’autonomia privata
di stipulare convenzioni che pongano nell’interesse comune li-
mitazioni ai diritti dei condomini, sia relativamente alle parti
condominiali, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale

218
sulle porzioni di loro esclusiva proprietà; ne consegue che il
regolamento di condominio può legittimamente dare del limite
del decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella
accolta dall’art. 1120 c.c., estendendo il divieto di innovazioni
sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla
simmetria, all’estetica, all’aspetto generale dell’edificio, quali
esistenti nel momento della sua costruzione od in quello della
manifestazione negoziale successiva” (Cass. civ., sez. II, 24
gennaio 2013, n. 1748).

La Suprema Corte di cassazione ha precisato che, in si-


tuazioni come quella sussistente nel caso in esame, le disposi-
zioni di un regolamento contrattuale - incluse quelle accettate
specificamente dai singoli condòmini, efficaci quindi nei loro
confronti e, perciò, ad essi opponibili - possono giustificare una
differente nozione del decoro architettonico che sia più severa
rispetto a quella sancita dall’art. 1120 c.c., mediante l'estensio-
ne del divieto di mutazione sino ad imporre la conservazione
degli elementi, attinenti alla simmetria, all’estetica nonché al-
l’aspetto generale dell’edificio, esistenti al momento della sua

219
costruzione o in quello della manifestazione negoziale succes-
siva ad essa.

TESTO INTEGRALE

1.- Ma.An., M.P., M.G. A. e M.G., proprietari pro Indiviso dell'unità im-
mobiliare ubicata nell'edificio sito in (OMISSIS), facente parte del più
ampio complesso edilizio realizzato dalla Cooperativa ______assumen-
do che V.F., proprietario di limitrofa costruzione con annesso giardino al
n. 10 della stessa via (OMISSIS), aveva edificato parte di detto giardino
in aderenza all'immobile di loro proprietà sino all'altezza del lastrico so-
lare, con ciò alterando il decoro architettonico del complesso edilizio, in
violazione dell'art. 1120 c.c., della normativa di cui al R.D. n. 1165 del
1938, e del regolamento condominiale, nonchè costituendo una servitù
di veduta sul lastrico solare con lesione della loro servitù di veduta sul
giardino - convenivano lo stesso V. per condannare alla demolizione di
quanto realizzato.
Nel contraddittorio delle parti, espletata consulenza tecnica d'uffi-
cio, l'adito Tribunale di Bari accoglieva la domanda attorea, condannan-
do il convenuto alla demolizione dell'edificazione, oltre alle spese di
lite.
Sul gravame interposto da V.F., la Corte di appello di Bari, in ac-
coglimento dell'impugnazione per quanto di ragione, condannava l'ap-
pellante ad apporre sulla costruzione dal medesimo realizzata, al confine
con il lastrico solare degli appellati, una barriera in vetro non trasparente
o altro materiale alta metri 1,80 tale da non consentire l'inspicere ed il
prospicere in alienum, rigettando per il resto la domanda proposta dalla
Ma. e dai M..
Per quanto ancora interessa in questa sede, la Corte territoriale ri-

220
teneva applicabile nella fattispecie l'art. 1120 c.c., comma 2, sostenendo
che "una dannosa alterazione del decoro" architettonico "può derivare
non solo da un intervento su un bene comune, ma anche su unità immo-
biliari di esclusiva appartenenza ad un condomino".
Ciò, secondo il giudice del gravame, assorbiva, "rendendone
superfluo l'esame, il terzo motivo di appello con cui si denuncia che il
tribunale avrebbe errato nel ritenere l'applicabilità del R.D. n. 1165 del
1938, art. 208, aggiungendo altresì che sussisteva, in ogni caso, una
"norma regolamentare che vieta le alterazioni del decoro dell'intero
complesso di cui fanno parte le proprietà singole delle parti in causa",
opponibile al V. in quanto sottoscrittore della "delibera di approvazione
della disciplina regolamentare in questione". La Corte distrettuale
assumeva, quindi, che il decoro architettonico di un edificio non poteva
essere valutato astrattamente "in base alla mera realizzazione
progettuale del fabbricato senza alcuna considerazione della situazione
reale, concretamente esistente al momento dell'intervento posto in essere
dal singolo condomino". Sicché, era da reputarsi erronea la premessa
che fondava la sentenza impugnata - e prima ancora la c.t.u. espletata in
primo grado - circa la "irrilevanza dei manufatti in precedenza realizzati
da altri partecipanti alla cosa comune in ordine alla verificazione
dell'esistenza o meno della denunciata lesione del decoro architettonico
del complesso edilizio", così da pervenire ad una "indagine a tal fine del
tutto avulsa dalla realtà ed in netto contrasto con la medesima". Ne
conseguiva che, sulla scorta delle riproduzione fotografiche allegate alla
c.t.u., era agevole rilevare che "il manufatto realizzato dal V. su parte del
suo preesistente giardino, tenuto conto della condizione attuale del
complesso edilizio del cui decoro si lamenta la lesione, si inserisce
perfettamente nell'ambito del medesimo, non soltanto perchè riproduce
analoghe strutture ..., ma anche e soprattutto perchè presenta la stessa
tipologia di immagine, di materiali, di finiture e di colorazioni dell'intero
complesso, tanto da farne addirittura l'esatto pendant della proprietà Ma.
e degli altri appellati". Con ciò veniva esclusa la lesione del decoro
architettonico dell'edificio, "a meno di voler ritenere che costituisca
alterazione dannosa una qualsivoglia opera nuova anche se conforme
alla situazione preesistente".

221
Inoltre, la Corte distrettuale, nell'ordinare il posizionamento di
una barriera alta metri 1,80 al fine di non consentire la veduta del V. sul
lastrico solare degli appellati, escludeva - contrariamente a quanto
reputato dal primo giudice - che questi ultimi fossero titolari di una
servitù di affaccio sul giardino dell'appellante, non risultando la stessa
negli atti di assegnazione degli alloggi, nè potendo dirsi costituita per
usucapione, tenuto conto del breve intervallo di tempo trascorso
dall'immissione in possesso degli immobili.
3. - Per la cassazione di tale sentenza ricorrono Ma.An., M.P.,
M.G.A. e M. G., affidando le sorti dell'impugnazione a due motivi di
censura.
Resiste con controricorso V.F..
Motivi della decisione
1. - Con il primo mezzo è denunciata la violazione e falsa applicazione
delle norme in tema di edilizia popolare ed economica e, segnatamente,
del R.D. n. 1165 del 1938, art. 208, nonchè mancanza, insufficienza e
contraddittorietà della motivazione circa un punto decisivo della
controversia e, segnatamente, sulla richiesta di demolizione conseguente
alla violazione del citato art. 208.
I ricorrenti evidenziano che nell'atto introduttivo del giudizio
avevano chiesto la demolizione del corpo di fabbrica realizzato dal V.
per la violazione sia del regolamento del condominio, sia delle norme
codicistiche in tema di tutela del decoro architettonico e sia del R.D. n.
1165 del 1938, art. 208, il quale ultimo, in materia di diritti ed obblighi
dei singoli proprietari di alloggi assegnati dalle cooperative edilizie,
vietava ai condomini, in assenza di consenso della P.A., di mutare
dimensioni e struttura delle recinzioni delle aree a giardino in proprietà,
nonché di eseguire costruzioni dalle quali potesse derivare una
diminuzione di luce o visuale per i proprietari contigui. Tutte dette
ragioni erano riconosciute dalla sentenza di primo grado, che, in
motivazione, nel condividere le risultanze della c.t.u., affermava che le
modificazioni apportate dal convenuto V. rappresentavano "una
significativa variazione della tipologia architettonica dell'immobile e

222
della struttura urbanistica dell'intero insediamento residenziale, in
contrasto con il regolamento condominiale e con il R.D. n. 1165 del
1938". Inoltre, il Tribunale riconosceva la sussistenza di abusiva
costituzione di servitù di veduta, nonchè "la limitazione del diritto di
affaccio degli attori sul preesistente giardino e la conseguente violazione
della normativa di cui al citato R.D. n. 1165 del 1938".
Nel ricorso si soggiunge che l'appellante contestava l'applicabilità
del R.D. n. 1165 del 1938, art. 208, alle proprietà esclusive ed essi
appellati contrastavano specificamente sul punto l'impugnazione, della
quale chiedevano il rigetto. Ciò nonostante, la Corte territoriale ha
riformato la sentenza di primo grado escludendo che la costruzione
realizzata dal V. ledesse il decoro architettonico del complesso edilizio,
in considerazione della condizione attuale in cui essa si inseriva, ma in
tal modo pretermetteva del tutto che la demolizione era stata disposta
dal Tribunale anche in base al predetto art. 208, pur ritenuto applicabile
alla fattispecie.
Inoltre, la stessa Corte ha "liquidato l'accertata diminuzione di
visuale" adducendo l'inesistenza di una servitù di veduta degli appellati
sul giardino contiguo per non esser la stessa menzionata negli atti di
assegnazione, nè potendo risultare costituita per usucapione, stante
l'insufficiente lasso temporale a tal fine trascorso dall'immissione negli
immobili, ma senza tener conto che "il diritto alla luce ed alla visuale
invocato dagli odierni ricorrenti" non atteneva ad una servitù di affaccio,
ma trovava fonte nell'anzidetto R.D. n. 1165 del 1938, art. 208, quale
normativa complessivamente richiamata anche dagli stessi atti di
assegnazione in proprietà. Peraltro, la diminuzione di luce e visuale, in
violazione della citata disposizione, permarrebbe anche a fronte di
quanto disposto dalla Corte di appello in ordine al posizionamento di
una barriera alta metri 1,80.
1.1. - Il motivo non può trovare accoglimento.
Esso, infatti, non coglie la ratio decidendi, della sentenza
impugnata, per cui il giudice di secondo grado ha ritenuto applicabile
nella fattispecie l'art. 1120 c.c., comma 2, ritenendo così "superfluo"
l'esame in ordine alla applicabilità, o meno, del R.D. n. 1165 del 1938,

223
art. 208, (affermata invece dal giudice di prime cure), adducendo altresì
la sussistenza di una norma regolamentare, opponibile al V., di divieto
delle alterazioni del decoro dell'edificio.
Con ciò la Corte territoriale ha escluso l'applicabilità del
citatoR.D. n. 1165 del 1938, in quanto la ritenuta operatività della norma
codicistica assorbiva ogni questione sulla postulata incidenza nella
fattispecie di detto R.D., là dove, inoltre, il decoro architettonico
dell'edificio era regolato anche da norma convenzionale.
Sicché, la censura dei ricorrenti si sarebbe dovuta indirizzare
contro l'eventuale erroneità di tale statuizione e, al tempo stesso,
avrebbe dovuto addurre che, in luogo della applicazione dell'art. 1120
c.c., fatta in sentenza, sussistevano le condizioni per l'applicazione del
R.D. n. 1165 del 1938, art. 208.
Ciò è invece assente nella doglianza in esame, la quale, così come
confezionata, mostra di disconoscere il l'alternatività, e non già la
coesistenza, del regime giuridico recato dalla normativa speciale di cui
al citato r.d. con quello condominiale di cui alle norme del codice,
fondandosi soltanto il primo sulla persistenza dello status di assegnatario
(che viene meno con l'acquisto della proprietà, a seguito della stipula del
mutuo individuale: tra le altre, Cass., 26 luglio 2006, n. 17031); donde,
anche l'intrinseca ed irrisolta contraddittorietà del mezzo, che esprime
non solo l'intenzione di censurare una supposta negata applicazione del
R.D. n. 1165 del 1938, art. 203, senza prima aggredire funditus la
statuita rilevanza dell'art. 1120 c.c. e del regolamento condominiale, ma
inoltre esibisce deduzioni volte ad evidenziare in capo ai ricorrenti un
titolo proprietario (e non già di assegnatari) e ragioni fondate anche sulla
regolamentazione del condominio dettata dal codice civile.
2. - Con il secondo mezzo è denunciata la violazione e la falsa
applicazione dell'art. 1138 c.c. in relazione all'art. 1362 c.c. e ss., e, in
generale, delle norme di legge in tema di condominio e dei principi di
interpretazione dei contratti, nonché mancanza, insufficienza e
contraddittorietà della motivazione circa un punto decisivo della
controversia e, segnatamente, "sulla richiesta di demolizione
conseguente alla violazione delle norme contenute nel regolamento

224
condominiale di tipo contrattuale della Cooperativa Astrale s.r.l.".
I ricorrenti rammentano di aver dedotto, in primo grado, la
violazione delle norme del regolamento condominiale da parte del V.
nell'erigere il contestato corpo di fabbrica e, segnatamente, dell'art. 5 di
detto regolamento (che vietava le variazioni dell'"assetto architettonico
ed edilizio urbanistico dell'intero complesso cosi come realizzato"),
dell'art. 6 (che vietava la modifica dello "stato dei luoghi che possa
alterare il decoro architettonico della propria unità abitativa e dell'intero
complesso") e dell'art. 7 (il quale stabiliva che opere e lavori da
eseguirsi nelle singole unità abitative "non potranno in alcun modo
pregiudicare l'assetto generale, la struttura architettonica e decorativa del
comprensorio e di ciascun comparto"). Pure tali ragioni erano
riconosciute dal Tribunale, il quale assumeva che la variazione delle
parti visibili della proprietà esclusiva "non può che ripercuotersi ed
alterare il ridetto assetto architettonico unitario con conseguente degrado
del decoro dell'intero complesso...
in contrasto con il regolamento condominiale". Anche sul punto
impugnava il V. ed essi odierni ricorrenti contrastavano specificatamente
il gravame.
Ciò malgrado, la Corte territoriale si sarebbe arrestata a
considerare la lesione del decoro architettonico nella sua accezione
delineata dal codice civile (ed escludendola in ragione della condizione
attuale del complesso edilizio rispetto alla quale era intervenuta
l'innovazione), senza tener conto del regolamento condominiale della
cooperativa (pur ritenuto operante nei confronti del V.) "che garantiva
una tutela pattizia ben più intensa", introducendo, in luogo del divieto di
lesione del decoro architettonico, "quello ben più rigoroso di mutazione,
oltre del decoro architettonico, espressamente previsto dall'art. 6 del
regolamento, anche dell'assetto architettonico ed edilizio urbanistico
dell'intero complesso così come realizzato (art. 5)" e "dell'assetto
generale della struttura architettonica e decorativa del comprensorio e di
ciascun comparto (art. 7)", esprimendo..
concetti diversi da quelli del mero decoro dell'edificio, così come,
del resto, rilevato dallo stesso c.t.u. in primo grado.

225
2.1. - Il motivo è fondato.
La Corte territoriale ha incentrato la propria decisione unicamente
sulla portata applicativa della norma di cui all'art. 1120 c.c., richiamando
in via del tutto generica l'esistenza di una normativa regolamentare
(senza soffermarsi neppure sui relativi contenuti) di divieto di
alterazione del decoro dell'intero complesso, senza spendere alcun
argomento circa la rilevanza e l'operatività di essa.
Tale insufficienza motivazionale, a fronte del rilievo esclusivo
invece attribuito alla disciplina legale, urta, peraltro, con il principio
secondo cui "in materia di condominio di edifici, l'autonomia privata
consente alle parti di stipulare convenzioni che pongano limitazioni,
nell'interesse comune, ai diritti dei condomini, sia relativamente alle
parti comuni, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle parti
di loro esclusiva proprietà, senza che rilevi che l'esercizio del diritto
individuale su di esse si rifletta o meno sulle strutture o sulle parti
comuni. Ne discende che legittimamente le norme di un regolamento di
condominio - aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall'unico
originario proprietario dell'edificio ed accettate con i singoli atti di
acquisto dai condomini ovvero adottate in sede assembleare con il
consenso unanime di tutti i condomini - possono derogare od integrare
la disciplina legale ed in particolare possono dare del concetto di decoro
architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall'art.
1120 c.c., estendendo il divieto di immutazione sino ad imporre la
conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all'estetica,
all'aspetto generale dell'edificio, quali esistenti nel momento della sua
costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva"
(Cass., 6 ottobre 1999, n. 11121; ma anche Cass., 29 aprile 2005, n.
8883; Cass., 14 dicembre 2007, n. 26468).
Ciò, dunque, imponendo al giudice del merito di esercitare
appieno i suoi poteri di ermeneutica negoziale sulla regolamentazione
convenzionale, ritualmente allegata, che si presenti rilevante nella
fattispecie oggetto di cognizione.
- Va, dunque, respinto il primo motivo di ricorso ed accolto il
secondo, con cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo

226
accolto e rinvio della causa ad altra sezione della Corte di appello di
Bari, la quale si atterrà - nella delibazione della legittimità o meno della
immutazione dell'edificio operata dal V. - ai principi riportati sub 2.1.,
dovendo altresì provvedere al regolamento delle spese del presente
giudizio di legittimità.
P.Q.M.
LA CORTE accoglie il secondo motivo di ricorso e rigetta il
primo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e
rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Bari, che provvederà
anche al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione
Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 27 novembre
2012.
Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2013

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Nella fattispecie in esame, la disposizione del regolamen-


to di condominio in cui si sancisce il divieto di variare l'assetto
architettonico ed edilizio urbanistico dell'intero stabile cosi
come realizzato e quella che impone che eventuali opere e la-
vori da eseguirsi nelle singole unità abitative non devono in al-

227
cun modo pregiudicare l'assetto generale e la struttura architet-
tonica dell'edificio, presentano carattere contrattuale, risultan-
do da specifica approvazione dei condòmini. Tali disposizioni,
opponibili al Sig. Mario Rossi (il quale ha sottoscritto il regola-
mento che le contiene), contengono un ampliamento della no-
zione di decoro architettonico dell'edificio, stabilendo, nei con-
fronti di coloro che intendono compiere delle innovazioni, li-
miti ben più pregnanti rispetto a quelli di cui all'art. 1120 c.c.
In definitiva, il Sig. Bianchi ha facoltà di richiedere che
venga rasa al suolo, a spese del Sig. Mario Rossi, la costruzio-
ne da quest'ultimo eseguita in aderenza alla facciata del condo-
minio.

228
7. CONVIVENZA MORE UXORIO E TUTELA DALLO
SPOGLIO

IL CASO
Il Sig. Mario Rossi convive con la sua compagna Sig.ra Bianchi da
molto tempo in un'unità immobiliare che è stata concessa in
comodato al Sig. Mario Rossi dal di lui fratello.
Questo appartamento è oramai divenuto la sede del consorzio
familiare della coppia che lo occupa stabilmente.
Il Sig. Mario Rossi viene investito e ricoverato presso una struttura
ospedaliera presso la quale si trattiene per molto tempo.
Durante la degenza in ospedale del convivente, la Sig.ra Bianchi
continua ad occupare l'immobile nel quale vive ma, a distanza di
qualche tempo, la stessa riceve una comunicazione proveniente dal
fratello del Sig. Mario Rossi, proprietario dell'immobile,con cui
viene invitata a lasciare l'unità abitativa che, secondo il fratello del
convivente, verrebbe occupata sine titulo.
Dopo qualche giorno, la Sig.ra Bianchi, allontanatasi da casa per
qualche ora, non può entrare nell'abitazione poiché il proprietario ha
provveduto a sostituire la serratura della porta di ingresso.

Quesito
Può il proprietario dell'unità immobiliare impedire alla convivente
del soggetto a cui ha concesso l'unità abitativa in comodato di entrare
nell'unità abitativa?

*****

229
ESAME DELLA FATTISPECIE

Nel caso che occupa, il Sig. Mario Rossi e la Sig.ra


Bianchi convivono stabilmente in un appartamento, sede del
loro consorzio familiare.
La predetta unità abitativa è stata concessa in comodato
gratuito al Sig. Mario Rossi - ma non anche alla Sig.ra Bianchi
- dal di lui fratello che è proprietario di tale abitazione.
In ragione di un incidente stradale occorso, il Sig. Mario
Rossi è costretto a trascorrere molto tempo lontano da casa.
In tale lasso di tempo, nel quale l'immobile continua ad
essere occupato dalla Sig.ra Bianchi, il proprietario
dell'immobile invita quest'ultima a lasciare l'unità abitativa
(che, a suo dire, sarebbe occupata in assenza di un titolo
giustificativo) e, qualche giorno dopo, approfittando della
momentanea assenza di questa in casa, provvede direttamente
alla sostituzione della serratura della porta di ingresso,
impedendole l'accesso nell'appartamento.

*****

230
LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 21 marzo 2013, n. 7214. La convivenza more uxorio, quale


formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare,
determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma
di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del
convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità,
tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha
titolo in un negozio giuridico di tipo familiare; ne consegue che
l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal
convivente proprietario in danno del convivente non proprietario,
legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire
l’azione di spoglio.

Cass. 11 maggio 2010, n. 11374. Il comodato di un alloggio ad uso


abitativo costituisce detenzione, non quindi possesso ad usucapionem, in
favore tanto del comodatario, quanto dei familiari con lo stesso
conviventi, con la conseguenza che il comodatario che si opponga alla
richiesta di risoluzione del comodato sostenendo di avere usucapito il
bene, deve provare l’intervenuta interversione del possesso e non solo il
mero potere di fatto sull’immobile.

Cass. 14 giugno 2012, n. 9786. Il compossesso non consiste


nell’esercizio, solidaristico e comunitario, di un’unica signoria,
rappresentando, piuttosto, la situazione della confluenza su di una stessa
cosa di poteri plurimi, corrispondenti, nella loro estrinsecazione, ad
altrettanti distinti diritti, di identico o di differente tipo; ne consegue che
il convivente more uxorio del soggetto possessore dell’immobile in cui
risiede la famiglia di fatto, in ragione di tale sola convivenza, pur
qualificata dalla stabilità della relazione e protetta dall’ordinamento, non
è compossessore con quello, ma detentore autonomo dell’immobile
stesso, che, dunque, non può usucapire.

Cass. 5 novembre 2008, n. 26543. In materia di irpef, ai fini delle

231
detrazioni ex art. 1, 1º comma, l. 27 dicembre 1997 n. 449, il rapporto di
coniugio non determina una situazione di compossesso di tutti gli
immobili di proprietà di ciascun coniuge, ma solo di quello (o quelli)
concretamente utilizzato anche dal coniuge non proprietario, alla data di
inizio lavori, a nulla rilevando la circostanza che le spese di
ristrutturazione siano eventualmente sostenute dal coniuge non
proprietario; con la conseguenza che anche nel caso di convivenza more
uxorio può dirsi sussistente il possesso o la detenzione dell’immobile
solo nel caso in cui il contribuente vi abiti stabilmente con il convivente
proprietario, fermo l’onere di dimostrarne il possesso o la detenzione sin
da epoca anteriore all’inizio dei lavori.

Cass. 16 settembre 2008, n. 23725. Il diritto al risarcimento del danno


da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto - con
riguardo sia al danno morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone,
peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita,
dal defunto al danneggiato - anche al convivente more uxorio del
defunto stesso, quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da
tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale; a tal fine
non sono sufficienti né le dichiarazioni rese dagli interessati per la
formazione di un atto di notorietà, né le indicazioni dai medesimi fornite
alla p.a. per fini anagrafici (nella specie, la suprema corte ha confermato
sul punto la sentenza impugnata nella parte in cui aveva, appunto,
escluso che la ricorrente, che aveva contratto matrimonio canonico privo
di effetti civili con la vittima, potesse vantare diritti risarcitori per la
morte dell’uomo, essendo mancata la prova dell’esistenza di una
relazione tendenzialmente stabile e di una mutua assistenza morale e
materiale tra i due).

Cass. 14 giugno 2001, n. 8047. In tema di impugnazione di una


disposizione testamentaria che si assuma effetto di dolo, per potere
configurarne la sussistenza non è sufficiente qualsiasi influenza di
ordine psicologico esercitata sul testatore mediante blandizie, richieste,
suggerimenti, sollecitazioni e simili, ma occorre la presenza di altri
mezzi fraudolenti, i quali - avuto riguardo all’età, allo stato di salute,
alle condizioni di spirito dello stesso - siano idonei a trarlo in inganno,

232
suscitando in lui false rappresentazioni ed orientando la sua volontà in
un senso in cui non si sarebbe spontaneamente indirizzata; ai fini del
convincimento del giudice in ordine alla capacità del testatore, può
essere rilevante anche la forma con cui è stato redatto il testamento;
dette valutazioni costituiscono apprezzamenti di fatto non sindacabili in
sede di legittimità, se sorretti da congrua motivazione.

Cass. 1 agosto 2000, n. 10034. A norma dell’art. 6 l. n. 392 del 1978, in


caso di morte del conduttore succedono nel contratto di locazione il
coniuge, gli eredi, i parenti ed affini con lui abitualmente conviventi,
nonché, dopo la sentenza costituzionale n. 404 del 1988, il convivente
more uxorio; ai fini della disciplina sopra richiamata, l’abituale
convivenza con il conduttore defunto va accertata alla data del decesso
di costui, a nulla rilevando che gli aventi diritto alla successione nel
contratto siano o meno rimasti nell’alloggio locato dopo la morte del
dante causa, giacché la successione mortis causa nel contratto di
locazione è fatto giuridico istantaneo che si realizza (o non si realizza)
all’atto stesso della morte del conduttore, restando insensibile agli
accadimenti successivi.

******

LE NORME RICHIAMATE

Art. 2 Cost.
1. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede

233
l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale.

Art. 1140 c.c.


Possesso
1. Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in
un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di al-
tro diritto reale.
2. Si può possedere direttamente o per mezzo di altra
persona, che ha la detenzione della cosa.

Art. 1141 c.c.


Mutamento della detenzione in possesso.
1. Si presume il possesso in colui che esercita il potere di
fatto, quando non si prova che ha cominciato a esercitarlo
semplicemente come detenzione.
2. Se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione, non
può acquistare il possesso finché il titolo non venga a essere
mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di

234
opposizione da lui fatta contro il possessore. Ciò vale anche
per i successori a titolo universale.

Art. 1142 c.c.


Presunzione di possesso intermedio.
1. Il possessore attuale che ha posseduto in tempo più
remoto si presume che abbia posseduto anche nel tempo
intermedio.

Art. 1143 c.c.


Presunzione di possesso anteriore.
1. Il possesso attuale non fa presumere il possesso
anteriore, salvo che il possessore abbia un titolo a fondamento
del suo possesso; in questo caso si presume che egli abbia
posseduto dalla data del titolo.

Art. 1144 c.c.


Atti di tolleranza.

235
1. Gli atti compiuti con l'altrui tolleranza non possono
servire di fondamento all'acquisto del possesso.

Art. 1147 c.c.


Possesso di buona fede.
1. È possessore di buona fede chi possiede ignorando di
ledere l'altrui diritto.

2. La buona fede non giova se l'ignoranza dipende da


colpa grave.

3. La buona fede è presunta e basta che vi sia stata al


tempo dell'acquisto.

Art. 1168 c.c.


Azione di reintegrazione.
1. Chi è stato violentemente od occultamente spogliato
de possesso può, entro l'anno dal sofferto spoglio, chiedere
contro l'autore di esso la reintegrazione del possesso
medesimo.

236
2. L'azione è concessa altresì a chi ha la detenzione della
cosa, tranne il caso che l'abbia per ragioni di servizio o di
ospitalità.
3. Se lo spoglio è clandestino, il termine per chiedere la
reintegrazione decorre dal giorno della scoperta dello spoglio.
4. La reintegrazione deve ordinarsi dal giudice sulla
semplice notorietà del fatto, senza dilazione.

Art. 6 l. 27 luglio 1978, n. 392


Successione nel contratto
In caso di morte del conduttore, gli succedono nel contratto il
coniuge, gli eredi ed i parenti ed affini con lui abitualmente
conviventi. In caso di separazione giudiziale, di scioglimento
del matrimonio o di cessazione degli effetti civili dello stesso,
nel contratto di locazione succede al conduttore l’altro
coniuge, se il diritto di abitare nella casa familiare sia stato
attribuito dal giudice a quest’ultimo. In caso di separazione
consensuale o di nullità matrimoniale al conduttore succede
l’altro coniuge se tra i due si sia così convenuto.

237
[Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404, ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale del presente comma, nella parte in cui non
prevede tra i successibili nella titolarità del contratto di
locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more
uxorio; l’illegittimità cost. del terzo comma, nella parte in cui
non prevede che il coniuge separato di fatto succeda al
conduttore, se tra i due si sia così convenuto; l’illegittimità
dell’art. 6, nella parte in cui non prevede la successione nel
contratto di locazione al conduttore che abbia cessato la
convivenza, a favore del già convivente quando vi sia prole]

*****

GLI ISTITUTI

L'istituto che viene in rilievo è quello dello spoglio


clandestino, a tutela del quale l'ordinamento giuridico prevede
l'esercizio dell'azione di spoglio di cui all'art. 1168 c.c., che
consente a colui che ha subito lo spoglio di essere reintegrato
nel possesso.

238
Secondo l'art. 1168 c.c., come si vedrà, tale azione è
riconosciuta a favore dei soggetti che detengono il bene in
relazione al quale hanno subito lo spoglio, salvo il caso di
persone che detengono l'immobile per ragioni di servizio o di
ospitalità.
Appurato dunque che il Sig. Mario Rossi - a cui è stato
concesso in comodato l'immobile - è un detentore qualificato,
si deve allora esaminare la posizione rivestita dalla persona
convivente (Signora Bianchi). In particolare, occorre esaminare
il potere che il convivente more uxorio esercita sul bene
immobile concesso in comodato soltanto alla persona con cui
questa convive.
Precisamente, si deve valutare se la tipologia di rapporto
che il convivente instaura con tale bene possa ricondursi ad una
posizione equiparabile a quella del detentore qualificato oppure
se, diversamente, è equiparabile allo status di ospite.
Nella prima ipotesi, il convivente potrà avvalersi del
rimedio messo a disposizione dall'art. 1168 c.c., mentre, nel
caso in cui la posizione da questi rivestita sia equiparabile a
quella di un mero ospite il rimedio sarà precluso.

239
L'articolo 1168 c.c. disciplina l'azione di reintegrazione,
che è una delle c.d. azioni possessorie le quali offrono tutela
assoluta e piena contro qualsivoglia turbativa ai soggetti titolari
del diritto del possesso.
Questo rimedio è finalizzato ad apprestare tutela nei
confronti di coloro che sono possessori di un bene, di cui
abbiano subito in modo violento o clandestino lo spoglio.
Si tratta di un'azione avente funzione essenzialmente
recuperatoria dal momento che la stessa mira a ricostituire la
situazione antecedente lo spoglio, ripristinando la situazione di
possesso sul bene oggetto dello spoglio a favore del soggetto
titolare della predetta situazione giuridica.
La tutela garantita è piena ed incondizionata tanto che la
stessa può essere fatta valere anche nei confronti del
proprietario del bene quando lo scopo è quello, mediante un
intervento dell’autorità, di ripristinare uno stato di cose che è
stato alterato dall'altrui molesto comportamento.
Perché possa esercitarsi l'azione a difesa di questa
situazione da ripristinare è necessario che vi sia uno spoglio
violento o clandestino.
Lo spoglio è sufficiente che sia duraturo, non dovendo

240
necessariamente tradursi in un evento permanente e irreversibi-
le, purché - si intende - non si tratti di un ostacolo temporaneo
e di natura provvisoria.
La violenza quale modalità che deve accompagnare la
privazione del bene - in alternativa alla clandestinità - può
consistere in qualsiasi condotta, non necessariamente in un’atti-
vità materiale, che comporti la privazione totale o parziale del
possesso contro la volontà espressa o anche solo presunta del
possessore.
Il requisito della clandestinità, invece, richiede che lo
spoglio si realizzi all’insaputa del soggetto possessore del
bene , il quale apprende della privazione subita solo in un
momento successivo rispetto a quello in cui l'evento si verifica.
L'azione ex art. 1168 c.c. è riservata in capo al soggetto
che sia titolare del possesso in relazione al bene su cui subisce
lo spoglio, ma anche al soggetto che possa ritenersi un
detentore qualificato.
Tale dato si inferisce dal fatto che la disposizione
normativa preclude l'esperibilità del predetto rimedio medio nei
confronti di coloro che sono semplici detentori, e che lo siano
tanto per ragioni di servizio che di ospitalità.

241
La legittimazione attiva all’azione è riconosciuta a favore
del soggetto che possiede come se ne fosse proprietario, a
favore del soggetto che sia possessore a diverso titolo, a favore
del detentore qualificato che esercita il potere di fatto sulla cosa
nel proprio interesse, nella piena consapevolezza che la
titolarità giuridica altrui relativamente a quel dato bene è
prevalente rispetto alla sua condizione giuridica.
In primo luogo, quindi, per poter trovare applicazione
questa tutela possessoria, si deve accertare la sussistenza di una
situazione giuridica possessoria tutelabile, quindi in termini di
possesso ovvero di detenzione qualificata.
In secondo luogo, deve sussistere lo spoglio, da
intendersi quale evento qualificabile come privazione totale o
anche parziale del possesso o della detenzione qualificata
relativamente a quel bene.
In terzo luogo, deve accertarsi la consapevolezza in capo
a colui che pone in essere lo spoglio di sostituirsi nella
detenzione o nel godimento di un bene contro la volontà,
manifesta o presunta, del soggetto spogliato.
Soffermandoci sulla distinzione che una parte della
giurisprudenza offre a proposito della situazione giuridica del

242
possesso e della detenzione, si deve guardare all'elemento
psicologico: il possesso è una situazione di fatto, riconosciuta e
giuridicamente tutelata da parte dell'ordinamento giuridico,
che è accompagnata e supportata dall'animus possidendi, cioè
dall'intento di utilizzare il bene in modo equiparabile a quello
di un soggetto che del bene sia proprietario oppure alla stregua
di un un titolare di un diritto reale.
La detenzione indica un potere di fatto su una cosa che
appartiene ad un soggetto terzo che il detentore riconosce e
rispetta, il diritto reale altrui sul bene che è detenuto, per
l'appunto, con animus detinendi.
L'elemento psicologico tuttavia, secondo alcuni, deve
essere ridimensionato poiché, indipendentemente da quale
risulti l'intenzione volitiva del soggetto, ciò che devesi
considerare è il titolo in forza del quale si detiene la cosa.
Nell'ambito della categoria della detenzione, si
distinguono inoltre le situazioni giuridiche qualificabili come
detenzione qualificata e detenzione non qualificata.
Quest'ultima si ravvisa nel caso in cui il soggetto
detentore del bene detiene il bene per ragioni dettate dal lavoro
(si pensi al meccanico che trattiene la vettura per compiere

243
sulla stessa un intervento) o per ragioni di ospitalità (è il caso
di un amico che viene ospitato a casa di un altro): in tali casi il
titolare del bene è un detentore non qualificato che conserva
sulla cosa un controllo diretto.
Nel diverso caso della detenzione qualificata, il
detentore è colui che sul bene esercita un controllo che dipende
dal titolo, il quale legittima il soggetto a gestire il predetto bene
perseguendo un interesse proprio (e non del possessore): è
l'ipotesi del contratto di comodato di alloggio.
L'azione di reintegra prevista dall'art. 1168 c.c. è
riconosciuta a favore di coloro che sono possessori ovvero
detentori qualificati.
Nel giudizio possessorio ciò che conta è la situazione di
fatto esistente al momento in cui avviene lo spoglio o la
turbativa, per l’azione di reintegrazione è sufficiente una
situazione di possesso o di detenzione qualificata.
Da qui discende che il possesso può essere anche
illegittimo oppure abusivo e ciò non osta all'esperimento di
detta azione purché tali caratteri siano presenti insieme ai
caratteri esteriori della proprietà o di altro diritto reale sul bene
e purché il potere di fatto sul bene non venga esercitato per un

244
atto di mera tolleranza dell’avente diritto.
Ciò si spiega perché il rimedio disciplinato dall'art. 1168
c.c., non richiede che la situazione apparente coincida e sia
rispondente a quella reale.
Sotto tale profilo si appalesa la diversità rispetto alle
azioni petitorie le quali, per l'appunto, prendono in esame
l’accertamento della titolarità del diritto.

Il potere di fatto che il convivente esercita sul bene concesso


al convivente more uxorio.
É opportuno, a questo punto, soffermarsi sull'istituto
della convivenza more uxorio, con riferimento al rapporto che
il convivente pone in essere con il bene sul quale il convivente
vanta una situazione giuridicamente rilevante.
Secondo una decisione resa dalla giurisprudenza di
legittimità meno recente (Cass. 14 giugno 2001 n. 8047), la
convivenza, anche nel caso in cui sia accompagnata da rapporti
intimi, non consente di riconoscere al convivente che non sia
proprietario di un bene un rapporto di potere sul predetto bene
qualificabile in termini di possesso autonomo o in termini di
compossesso.

245
Tale situazione non è dunque, tutelabile attraverso
l'azione di spoglio, poiché il convivente deve essere
considerato alla stregua di un ospite ovvero di un mero
detentore per ragioni di servizio.
In tale ottica, non può ravvisarsi in capo al convivente
una legittimazione ad avvalersi dell'azione di cui all'art. 1168
c.c.
Di recente, si segnala un'altra pronunzia resa sempre
dalla giurisprudenza di legittimità la quale si è espressa in
modo opposto. Infatti, con la decisione del 14 giugno 2012, n.
9786, la Corte di Cassazione ha disposto che al convivente che
abbia il godimento insieme con il partner possessore iure
proprietatis del medesimo bene va riconosciuta, in relazione a
tale bene, una posizione "riconducibile alla detenzione
autonoma".
La giurisprudenza, per la prima volta, ha attribuito rilievo
all'istituto della convivenza more uxorio con una sentenza
risalente nel tempo, con la quale si è espressa in tema di
risarcimento da fatto illecito concretatosi in un evento mortale.
In tale decisione, si è riconosciuto che il diritto al
risarcimento va attribuito anche al convivente "more uxorio"

246
del defunto stesso, laddove emerga concretamente e risulti
provata l'esistenza di una relazione avente carattere di
tendenziale stabilità e caratterizzata “da mutua assistenza
morale e materiale” (Cass. 28 marzo 1994 n. 2988).
L'ultimo filone giurisprudenziale e numerosi interventi
del legislatore tendono ormai ad attribuire giuridica rilevanza e
relativa tutela allo status del convivente, in tutti quei casi in cui
si provi che la convivenza sia caratterizzata da stabilità,
esclusività e contribuzione, tratti propri della comunità
familiare.
In tutti questi casi il rapporto del soggetto con la casa
destinata dai conviventi more uxorio ad abitazione comune,
sebbene condotta in comodato da uno solo di essi, in via diretta
(ovvero soltanto dall'altro convivente) non può essere
ricondotto ad un rapporto fondato su ragioni di ospitalità.
Se, dunque, il convivente deve intendersi come un
detentore qualificato, nel momento in cui questi subisce uno
spoglio clandestino ovvero attuatosi con modalità violente in
relazione al bene sul quale ha, per l'appunto, instaurato un tale
potere, potrà esperire l'azione a difesa del possesso di cui
all'art. 1168 c.c.

247
L'ultima giurisprudenza di legittimità pronunciandosi in
merito alla convivenza more uxorio ha ribadito che sulla casa
di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in
comune, il potere di fatto che va riconosciuto al convivente trae
la sua giustificazione in un interesse proprio che è ben diverso
da quello derivante da ragioni di mera ospitalità.
Ne consegue che se il convivente - che pure sia privo di
un titolo formale sull'unità abitativa nella quale convive – viene
da questo estromesso violentemente o in maniera clandestina
può esercitare l'azione di spoglio.
Tale rimedio può essere fatto valere contro chiunque si
sia reso responsabile dello spoglio e quindi tanto nei confronti
del convivente dell'unità abitativa che nei confronti dello stesso
proprietario del bene.
Seguendo tale ragionamento, quindi, si è esclusa in capo
al convivente more uxorio la configurabilità di una posizione
giuridica qualificabile come possesso sul bene di cui il partner
risulta comodatario; ciò non è possibile in ragione
dell'inidoneità del contratto di comodato a costituire un titolo
che consenta la trasformazione della posizione di detentore in
quella di possessore.

248
Il precedente orientamento, più restrittivo ed ancorato ad
una visione che oggi può dirsi superata per la rilevanza sociale
che riveste la convivenza more uxorio, viene superato in
ragione della rilevanza giuridica e della dignità riconosciuto al
rapporto di convivenza di fatto il quale, laddove rivesta il
carattere della stabilità, fa sorgere un autentico consorzio
familiare.
Tale iter motivazionale seguito nella decisione citata
impedisce, quindi, di abbracciare quella interpretazione
secondo cui la relazione di fatto che il convivente instaura con
l'immobile in cui si sviluppa la vita familiare è simile a quella
"dell'ospite o del tollerato".
Il convivente è invece un detentore qualificato e in tal
modo si può avvalere della tutela possessoria che la legge
accorda al detentore qualificato.
Alcuni autori traggono tale argomentazione assumendo
che sarebbe la stessa famiglia di fatto a costituire di per sé un
titolo giuridico di detenzione della casa in cui si svolge e si
sviluppo il ménage familiare.
Ovviamente, non è ogni convivenza quella a cui
attribuire giuridica rilevanza, ma soltanto quei rapporti - come

249
detto - connotati dalla stabilità, quale garanzia di certezza della
stessa famiglia di fatto.
La convivenza occasionale, precaria, o ad intermittenza
risulta estranea al modello familiare socialmente tipico; essa
non legittima l'esercizio dell'actio spolii poiché non dà titolo
alla detenzione autonoma.
La rilevanza sempre crescente accordata all'istituto della
convivenza ha comportato un generale avvicinamento della
posizione del convivente more uxorio rispetto a quella del
coniuge, come si evince da diversi interventi legislativi cui
occorre accennare, seppure brevemente.
In materia di locazione, con la sentenza della Consulta n.
404 del 1988, si è apportata una modifica al testo dell'art. 6
della legge sulla locazione di immobili urbani, 27 luglio 1978,
n. 392. La Corte costituzionale ha collocato il convivente more
uxorio tra i successibili nella locazione, in caso di morte del
conduttore, e ha previsto che il convivente medesimo,
affidatario di prole, succede al conduttore che abbia cessato la
convivenza.
In tema di filiazione, la recente l. 10 dicembre 2012, n.
219, ha espunto ogni residua discriminazione ancora esistente

250
tra i figli: i figli nati da convivenza non supportata dal
matrimonio rivestono lo stesso status giuridico rispetto a quello
dei figli nati da genitori non uniti in matrimonio tra loro.
La l. 4 maggio 1983, n. 184, modificata dalla l. 28 marzo
2001, n. 149, ha, per altro, previsto, ai fini dell’adozione, la
validità del periodo di convivenza che precede l'unione
matrimoniale e ha concesso, in alcuni casi, l’adozione anche a
chi non risulta coniugato.
Con la l. 9 gennaio 2004, n. 6, che ha novellato il libro
primo del codice civile, è stato inserito il convivente tra il
novero dei soggetti sui quali può cadere la scelta per la nomina
di amministratore di sostegno: allo stesso soggetto convivente è
stata riconosciuta la facoltà di richiedere la nomina stessa di un
amministratore di sostegno (nonché l’interdizione o
l’inabilitazione) per il partner.
Inoltre, l’art. 129 d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209
contempla anche il convivente more uxorio tra i soggetti che
non possono essere considerati terzi estranei e che non hanno
diritto ai benefici derivanti dall’assicurazione obbligatoria della
responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a
motore e natanti, limitatamente ai danni alle cose.

251
Con riguardo alla tutela del diritto all’abitazione del
convivente di fatto, è inoltre possibile richiamare l’art. 17 l. 17
febbraio 1992, n. 179.
Tale disposizione permette al convivente more uxorio, in
tema di cooperative a proprietà indivisa, il diritto a sostituirsi al
socio assegnatario che sia defunto, purché la convivenza, che
risulti provata mediante apposita certificazione anagrafica,
risulti risalente ad almeno un biennio precedente rispetto alla
data del decesso.
Sul piano processuale, l’art. 249 c.p.c. e gli artt. 199 e
681 c.p.p. Attribuiscono al soggetto convivente del partner
coinvolto in un procedimento giudiziale la facoltà di astenersi
dal rendere testimonianza e la possibilità di inoltrare la
domanda di grazia al Presidente della Repubblica.
Il riconoscimento della famiglia di fatto, da parte della
Consulta, quale formazione sociale meritevole di ricevere
tutela, si è avuto con la decisione del 18 novembre 1986, n.
237, con la quale si è affermato che un consolidato rapporto,
ancorché di fatto, non appare - anche a sommaria indagine -
costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al
rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle

252
conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (si è fatto
riferimento all'art. 2 Cost.).
In seguito, anche la Corte di Cassazione si è espressa
negli stessi termini.
Si è confermato, nella giurisprudenza di legittimità, il
diritto del partner che conviva more uxorio ad ottenere il
risarcimento del danno, per il caso di morte del compagno
scaturente da fatto illecito, sia relativamente al danno morale
che al danno patrimoniale derivante dalla perdita del contributo
economico, qualora la relazione risulti caratterizzata da
stabilità e mutua assistenza morale e materiale (Cass. 16
settembre 2008, n. 23725).
Si è poi escluso che il convivente possa essere legittimato
a richiedere la restituzione di eventuali attribuzioni
patrimoniali effettuate a favore del partner nel corso della
convivenza (Cass. 15 maggio 2009, n. 11330).
La convivenza more uxorio che sia intrapresa da parte del
coniuge separato o divorziato assurge ad elemento rilevante ai
fini della determinazione dell'assegno di mantenimento che il
predetto soggetto deve corrispondere all'ex coniuge o a quello
da cui si si sia separato (Cass. 12 marzo 2012, n. 3923).

253
LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE – CASS. 2 GENNAIO
2014, N. 7.

Il convivente more uxorio, quale detentore qualificato


rispetto al bene di cui gode insieme al partner, può agire ex
art. 1168 c.c. in caso di spoglio violento o clandestino.

"La qualità di convivente more uxorio del comodatario


di un appartamento destinato ad abitazione legittima ad
esperire l’azione di spoglio (nella specie, contro un terzo), in
quanto la convivenza more uxorio determina sulla casa ove si
svolge e si attua il programma di vita in comune un potere di
fatto basato su un interesse proprio del convivente, ben diverso
da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da
assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata,
avente titolo in un negozio giuridico di tipo familiare" (Cass. 2
gennaio 2014, n. 7).

Il principio enunciato dal Supremo Collegio conferisce al


convivente more uxorio lo status di detentore qualificato
rispetto al bene immobile di cui questi goda insieme al partner

254
che, rispetto al medesimo bene, vanti un titolo giuridico, se tale
unità immobiliare rappresenti la sede di svolgimento della vita
familiare.
Tale riconoscimento della posizione di detentore
qualificato – e non quindi di mero detentore del bene che sia
tale per ragioni di servizio o di ospitalità - legittima di avvalersi
della tutela che la legge appresta a favore, per l'appunto, del
possessore del bene ovvero a favore del detentore qualificato,
prevista dall'art. 1168 c.c., contro lo spoglio violento o
clandestino.
Si tratta a ben vedere di un riconoscimento che trae il suo
fondamento dalla rilevanza attribuita alla convivenza more
uxorio che risulti stabile e che si qualifica, pertanto, come un
negozio giuridico di fatto.

TESTO INTEGRALE

Con sentenza n. 3156 del 2003 il tribunale di Torino accoglieva la


domanda con la quale Z.R. aveva chiesto nei confronti di Ca.Ro.Ma. ,
C.F. e C.M. la reintegrazione del possesso dell'appartamento in cui
abitava more uxorio con Ca.Ro.Ma., il quale lo deteneva in virtù di
comodato gratuito concessogli dal fratello M..

255
Il primo Giudice riteneva l'avvenuto spoglio, avendo accertato
che C.F. e C.M. avevano cambiato la serratura dell'appartamento nel
periodo in cui Ca.Ro.Ma. era stato degente in ospedale a causa di un
grave incidente stradale.

La decisione era riformata dalla Corte di appello di Torino che, con


sentenza dep. il 30 novembre 2006, rigettava la domanda.
In primo luogo, era disattesa la richiesta di rimessione in termini
formulata da Ca.Ro.Ma. , che era rimasto originariamente contumace,
sul rilievo che le condizioni in cui versava il predetto erano tali da
consentirgli di avere contezza del contenuto del giudizio e di fornire al
legale tutti gli elementi per apprestare una adeguata difesa tecnica,
atteso che la prima udienza era stata fissata circa quattordici mesi dopo
la cessazione della pur lunga degenza ospedaliera seguita al grave
incidente stradale occorsogli, essendo messa in evidenza la diversa
situazione concernente la deposizione che in sede penale il medesimo
avrebbe dovuto rendere e che, per le sue condizioni, era stata rinviata.
Quindi, dopo avere premesso che era provato il rapporto di
convivenza more uxorio intercorso fra la Z. e Ca.Ma. , i Giudici
escludevano che a favore dell'attrice potesse configurarsi una situazione
qualificabile come di possesso, posto che la relazione con la cosa
trovava fonte in un rapporto contrattuale - il comodato intercorso fra
Ca.Ma. e il proprietario C.M. - e che la Z. era consapevole di usufruire
dell'alloggio messo a disposizione del convivente da un terzo. Neppure
poteva ipotizzarsi a favore dell'attrice una detenzione qualificata,
legittimante l'azione di spoglio, tenuto conto che, in relazione al
rapporto di convivenza, l'alloggio doveva considerarsi messo a
disposizione per ragioni di precaria ospitalità.
Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la Z. sulla
base di due motivi.
Resistono con controricorso gli intimati proponendo ricorso
incidentale affidato a un unico motivo.
Motivi della decisione
Preliminarmente il ricorso principale e quello incidentale vanno
riuniti, ex art. 335 cod. proc. civ., perché sono stati proposti avverso la

256
stessa sentenza.

RICORSO PRINCIPALE:

1.1. - Il primo motivo, lamentando violazione e falsa applicazione


dell'art.1168 cod. civ.,, deduce che l'azione proposta si fondava non sulla
convivenza more uxorio ma sul possesso diretto esercitato dalla
medesima che aveva goduto con animus possidendi - anche dopo
l'incidente in cui fu coinvolta insieme al convivente - dell'appartamento
in cui aveva trasferito il proprio corredo e gli oggetti personali, senza
che fosse mai stata formulata alcuna contestazione da parte del
proprietario che era a conoscenza della convivenza e che la Z. aveva
continuato ad abitare nell'alloggio anche dopo l'incidente.

La esistenza del comodato non faceva venir meno l'animus possidendi


che in ogni caso prescinde dalla buona o mala fede e che si desume
anche dal comportamento del possessore.

In ogni caso il permanere nel godimento dell'immobile aveva


determinato la interversione del possesso.
Sussisteva la legittimazione ad agire dell'attrice in virtù dello spoglio
violento e clandestino, con il quale era stata privata del possesso o
comunque delle detenzione qualificata, che è configurabile, secondo i
principi elaborati dalla S.C., a favore dei componenti del nucleo
familiare conviventi nell'alloggio.
2. - Il secondo motivo, lamentando omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della controversia,
censura la sentenza laddove aveva affermato che l'appartamento era
stato messo a disposizione non della Z. ma di Ca.Ma. , quando il
proprietario era consapevole che in esso la predetta aveva abitato e
aveva continuato ad abitare anche dopo l'incidente occorso al
convivente, esercitando una situazione possessoria propria o comunque
una detenzione qualificata propria.

257
3.- I motivi - che, per la stretta connessione, possono essere esaminati
congiuntamente - sono fondati nei limiti di cui si dirà infra.

a) Correttamente è stata esclusa a favore dell'attrice una situazione


qualificabile come di possesso, posto che la relazione di fatto con la
cosa era iniziata a titolo di detenzione, essendo stato il bene consegnato
dal proprietario in virtù del comodato intercorso con Ca.Ma. : se è,
perciò, da escludere la presunzione di cui all'art. 1141 cod. civ., ai fini
del mutamento della detenzione in possesso, chi abbia iniziato il
godimento del bene a titolo di detenzione non può acquistarne il
possesso finché il titolo non venga mutato per causa proveniente da un
terzo o in forza di opposizione da lui fatta nei confronti del possessore;
quest'ultimo mutamento richiede, in particolare, il compimento di uno o
più atti estrinseci, dai quali sia possibile desumere la modificata
relazione di fatto con la cosa detenuta, attraverso la negazione dell'altrui
possesso e l'affermazione del proprio (Cass. 212252/2007; 5854/2006;
4404/2006).

Come si dirà meglio infra la Z. , in quanto convivente per un lasso di


tempo non trascurabile del comodatario, deve ritenersi codetentrice
dell'appartamento destinato ad abitazione in virtù del medesimo titolo: la
permanenza nell'alloggio, anche durante il periodo di degenza di Ma. ,
rientrava nell'esercizio delle facoltà inerenti al comodato e dunque alla
detenzione trasmessa al convivente con il comodato (Cass. 7293/1992;
11374/2010): pertanto, non potrebbe l'attrice invocare una situazione di
possesso.

b) Peraltro, come già accennato, la qualità di convivente del


comodatario legittimava l'attrice a esperire l'azione di spoglio, quale
detentrice qualificata. Ed invero, secondo il più recente orientamento
della giurisprudenza di legittimità condiviso dal Collegio, in
considerazione del rilievo sociale che ha ormai assunto per
l'ordinamento la famiglia di fatto, la convivenza "more uxorio", quale
formazione sociale che da vita ad un autentico consorzio familiare,
determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma
di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del

258
convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità,
tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha
titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Al riguardo, è stato
ritenuto che l'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa,
compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non
proprietario, legittima quest'ultimo alla tutela possessoria,
consentendogli di esperire l'azione di spoglio (Cass. 7214/2013). Tenuto
conto della posizione dei conviventi del comodatario, il principio deve
evidentemente trovare applicazione anche qualora lo spoglio sia
compiuto da un terzo nei confronti del convivente del detentore
qualificato del bene, come appunto è avvenuto nella specie in danno
della Z.

Pertanto, il ricorso va accolto per quanto in motivazione.

RICORSO INCIDENTALE:
1.1.- L'unico motivo denuncia che erroneamente non era stato applicato
l'art. 294 cod. proc. civ., sussistendo i presupposti della rimessione in
termine del convenuto Ca.Ma. che non si era costituito in giudizio atteso
che, in considerazione dei postumi del grave incidente in cui era stato
coinvolto, il predetto non era in condizione di sostenere lo stress
emotivo di un processo, tant'è vero che la sua audizione in sede penale
era stata rinviata.
1.2.- Il motivo è infondato.
La sentenza ha evidenziato come le condizioni di salute non
erano tali da non consentire il rilascio della procura al difensore, che nel
giudizio civile rappresenta la parte esercitando lo ius postulandi, essendo
stato correttamente messo in evidenza il diverso impatto sul piano
emotivo di una deposizione da rendere in un giudizio penale. Qui
occorre chiarire che la parte la quale non si sia costituita
tempestivamente in giudizio non può essere rimessa in termini, ai sensi
dell'art. 294 cod. proc. civ., per lo svolgimento di attività per le quali
siano maturate le preclusioni, quando deduca che la mancata
costituzione le sia stata impedita da uno stato di malattia, perché tale

259
stato non può essere considerato una causa di impedimento a essa non
imputabile, essendo, in ogni caso, possibile il rilascio di una procura ad
hoc per la costituzione (Cass. 5249/1999). Il ricorso incidentale va
rigettato.

Pertanto, la sentenza va cassata in relazione al ricorso principale, con


rinvio, anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte
di appello di Torino.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso principale per quanto in motivazione rigetta
l'incidentale cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso
principale e rinvia, anche per le spese della presente fase, ad altra
sezione della Corte di appello di Torino.

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Alla luce di quanto detto, il quesito può essere così


risolto.
Il considerevole lasso di tempo in cui la Sig.ra Bianchi ed
il Sig. Mario Rossi hanno convissuto more uxorio (con
carattere di stabilità, quindi) nell'unità immobiliare concessa in
comodato gratuito al solo Sig. Mario Rossi dal di lui fratello,
permette di rinvenire nella predetta abitazione il centro del loro
consorzio familiare.

260
Ciò comporta che la Sig.ra Bianchi, da considerarsi
rispetto all'immobile una detentrice qualificata, è legittimata ad
azionare il rimedio possessorio e, in tale caso, l'azione di
spoglio da esercitare nei confronti del proprietario
dell'immobile. La condotta di quest'ultimo, infatti, consistita
nella sostituzione della serratura della porta di ingresso integra
uno spoglio clandestino del bene.
La Sig.ra Bianchi può avvalersi dell'azione posta a difesa
del possesso e della detenzione qualificata, di cui all'art. 1168
c.c.

261
8. DIFFERENZE TRA UNA MINUTA E UN CONTRAT-
TO PRELIMINARE

IL CASO
Il Sig. Bianchi decide di alienare un'unità immobiliare di cui è
proprietario e per tale motivo avvia delle trattative con il Sig. Rossi e
la di lui moglie, i quali intendono acquistare una casa da adibire a
residenza per la loro famiglia. Le parti, ritenendo di non essere in
grado di stimare il valore di mercato dell'immobile, si accordano per
conferire l'incarico di far valutare l'immobile e di determinarne il
prezzo ad un perito. Esse, quindi, rendono manifesto, mediante una
scrittura privata, il loro impegno di “rogitare”, facendo espresso
riferimento alla compravendita di un determinato immobile che viene
indicato nello scritto. La stima viene eseguita ma viene contestata dal
Sig. Bianchi che, di conseguenza, si rifiuta di vendere l'immobile.
I coniugi Rossi intendono invece dar corso agli impegni assunti con
la scrittura privata.

Quesito
Possono i coniugi Rossi, a fronte del rifiuto opposto dal Sig. Bianchi,
ricorrere al giudice ed esperire il rimedio dell'esecuzione in forma
specifica dell'obbligo di concludere un contratto?

*****

262
ESAME DELLA FATTISPECIE

I coniugi Rossi vogliono adire l'autorità giudiziaria per


ottenere l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrar-
re, supportato - a loro dire - dalla scrittura privata sottoscritta
con cui le parti hanno assunto l'impegno a “rogitare”.
Il Sig. Bianchi, di contro, non ritiene di essere vincolato
dalla sottoscrizione della predetta scrittura che - afferma - deve
intendersi come una semplice lettera d'intenti, o una puntuazio-
ne dal momento che in essa non si rinvengono tutti gli elementi
del contratto definitivo da concludere.
Per esaminare il caso di specie e verificare se sia possibi-
le esperire il rimedio di cui all'art. 2932 c.c. è allora necessario
valutare quali siano gli elementi che devono essere presenti in
un contratto preliminare posto a fondamento di tale azione.
L'analisi deve quindi essere condotta partendo da quelli
che la giurisprudenza e la dottrina ritengono siano gli elementi
necessari da rinvenire in un contratto, per poi passare a soffer-
marsi su quelli che si devono riscontrare in un contratto preli-
minare di compravendita di un bene immobile.
Preliminarmente, ai fini della trattazione, è fondamentale

263
distinguere il ruolo che riveste un contratto preliminare che
vincola i soggetti a porre in essere un nuovo e successivo con-
tratto definitivo e una semplice lettera di intenti ovvero un atto
scritto che rappresenta soltanto una puntuazione, inidonea in
quanto tale a far nascere un vincolo giuridico per i soggetti
coinvolti.

*****

LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 2 febbraio 2009, n. 2561. Ai fini della configurabilità di un defini-


tivo vincolo contrattuale, è necessario che tra le parti sia raggiunta l’in-
tesa su tutti gli elementi dell’accordo venuti in discussione, non poten-
dosene ravvisare la sussistenza laddove le parti abbiano raggiunto un ac-
cordo solamente su quelli essenziali, eventualmente anche fissati per
iscritto in un apposito documento (minuta o puntuazione), rimettendo ad
un tempo successivo la determinazione di quelli accessori; peraltro, an-
che in presenza di una completa determinazione dell’assetto negoziale
(sia degli elementi essenziali che di quelli accessori), l’interprete non
potrà ritenere automaticamente concluso il contratto: egli, infatti, dovrà
accertare, sempre e comunque, l’effettiva volontà delle parti in ordine
all’esito dell’operazione divisata; tale accertamento, che dovrà essere ef-
fettuato nel rispetto dei canoni ermeneutici di cui agli art. 1362 seg. c.c.,
è rimesso alla valutazione del giudice di merito, la quale è incensurabile
in cassazione se sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi lo-
gici e giuridici.

264
Cass. 18 gennaio 2005, n. 910. Ai fini della configurabilità di un defini-
tivo vincolo contrattuale è necessario che tra le parti sia raggiunta l’inte-
sa su tutti gli elementi dell’accordo, non potendosene ravvisare pertanto
la sussistenza là dove, raggiunta l’intesa solamente su quelli essenziali
ed ancorché riportati in apposito documento (c.d. «minuta» o «puntua-
zione»), risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli
elementi accessori; peraltro, anche in presenza della completa regola-
mentazione di un determinato assetto negoziale può risultare integrato
un atto meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non
vincolante tra le parti, in difetto dell’attuale effettiva volontà delle me-
desime di considerare concluso il contratto, il cui accertamento, nel ri-
spetto dei canoni ermeneutici di cui agli art. 1362 seg. c.c., è rimesso
alla valutazione, del giudice di merito, incensurabile in cassazione ove
sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici
(nell’affermare il suindicato principio, la corte di cassazione ha cassato
l’impugnata sentenza rilevando che, nel ritenere perfezionato un accordo
transattivo tra le parti di giudizio per effetto di duplice missiva inviata
dal legale di una delle parti e considerata accettata dal difensore di con-
troparte, il giudice di merito avesse peraltro nel caso del tutto omesso di
valutare il comportamento complessivo delle parti, in particolare quello
mantenuto successivamente alla supposta conclusione dell’accordo tran-
sattivo, non considerando che dopo lo scambio delle suindicate lettere il
difensore di una delle parti aveva dichiarato in udienza avanti al giudice
istruttore essere ancora pendenti trattative tra le parti per la formalizza-
zione di un accordo, al cui esito si riservava di chiedere la revoca della
provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto; e che nel prosie-
guo del giudizio le parti avevano in entrambi i gradi di merito formulato
opposte conclusioni).

Cass. 7 aprile 2004, n. 6871. In tema di minuta o di puntuazione del


contratto, qualora l’intesa raggiunta dalle parti abbia ad oggetto un vero
e proprio regolamento definitivo del rapporto - l’accertamento del quale
è riservato all’apprezzamento del giudice di merito e non è sindacabile
in sede di legittimità se non per vizio di motivazione - non è configura-
bile un impegno con funzione meramente preparatoria di un futuro ne-
gozio, dovendo ritenersi formata la volontà attuale di un accordo con-

265
trattuale (la corte, nel formulare il principio su richiamato, ha conferma-
to la sentenza impugnata che, in considerazione della reciprocità delle
concessioni, pattuite dalle parti in modo manifesto e definitivo, aveva ri-
tenuto perfezionatasi una vera e propria transazione e non semplicemen-
te un impegno ancora in itinere).

Cass. 30 maggio 2003, n. 8810. In tema di contratto di compravendita


immobiliare, nel caso in cui il venditore dichiari in sede di stipulazione
del negozio che il prezzo è stato pagato non si configura nullità per man-
canza del requisito essenziale del prezzo, giacché l’esigenza della deter-
minatezza o determinabilità di quest’ultimo è soddisfatta da tale dichia-
razione, essendo in essa necessariamente implicito che l’oggetto dell’ob-
bligazione assunta dal compratore è stato determinato, per accordi inter-
corsi tra le parti, non potendosi concepire il pagamento di un prezzo che
non sia stato in concreto esattamente definito; in tale ipotesi, nemmeno
qualora - per accordi inter partes - la dichiarazione d’avvenuto pagamen-
to non sia rispondente al vero, può escludersi che sia stato comunque
pattuito un prezzo, il cui effettivo pagamento attiene al diverso piano
dell’esecuzione del contratto.

Cass. 2 aprile 2009, n. 8038. È necessario che tra le parti sia raggiunta
l’intesa su tutti gli elementi dell’accordo, non potendosene ravvisare
pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l’intesa solamente su quelli es-
senziali ed ancorché riportati in apposito documento (c.d. minuta o pun-
tuazione), risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione de-
gli elementi accessori; peraltro, anche in presenza del completo ordina-
mento di un determinato assetto negoziale può risultare integrato un atto
meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante
tra le parti, in difetto dell’attuale effettiva volontà delle medesime di
considerare concluso il contratto, il cui accertamento, nel rispetto dei ca-
noni ermeneutici di cui agli art. 1362 seg. c.c., è rimesso alla valutazione
del giudice di merito, incensurabile in cassazione ove sorretta da moti-
vazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.

Cass. 13 maggio 1998, n. 4815. L’accordo delle parti, ai fini della con-
clusione del contratto, può considerarsi non raggiunto solo quando sia

266
impossibile la giuridica identificazione degli elementi costitutivi della
fattispecie contrattuale cui la legge attribuisce gli effetti ex art. 1372 c.c.
(nella specie, i giudici di merito avevano accertato che la scrittura priva-
ta, lungi dal dar conto solo di trattative negoziali o dall’essere una mera
puntuazione della volontà contrattuale, costituiva invece il tessuto con-
nettivo dell’accordo pattizio).

Cass. 16 luglio 2002, n. 10276. Rientrano nella nozione di «minuta o


puntuazione» del contratto, per la quale è indispensabile l’esistenza di
un documento sottoscritto da entrambe le parti, sia i documenti che con-
tengano intese parziali in ordine al futuro regolamento di interessi (c.d.
puntuazione di clausole), sia i documenti che predispongano con com-
pletezza un accordo negoziale in funzione preparatoria del medesimo
(c.d. puntuazione completa di clausole); in relazione a tale secondo caso,
la parte che intenda dimostrare che non si tratti di un contratto concluso,
ma di una semplice minuta con puntuazione completa di clausole, deve
superare la presunzione semplice di avvenuto perfezionamento del con-
tratto, e ciò gli è reso possibile in virtù del principio secondo cui anche
un documento dimostrante con completezza un assetto negoziale può es-
sere soltanto preparatorio di un futuro accordo, una volta dimostrata
l’insussistenza di una volontà attuale di accordo negoziale.
Cass. 22 agosto 1997, n. 7857. Nella nozione di minuta o puntuazione
del contratto rientrano sia i documenti che contengono intese parziali in
ordine al futuro regolamento d’interessi (c.d. puntuazione di clausole),
sia i documenti che predispongano con completezza un accordo nego-
ziale in funzione preparatoria del medesimo (c.d. puntuazione completa
di clausole); le due categorie presentano una diversità di regime probato-
rio, in quanto, nel secondo caso, la parte (la quale intenda dimostrare
che non si tratti di un contratto concluso ma di una semplice minuta con
puntuazione completa di clausole) deve superare la presunzione sempli-
ce di avvenuto perfezionamento contrattuale, in virtù del principio se-
condo cui anche un documento dimostrante con completezza un assetto
negoziale può essere soltanto preparatorio di un futuro accordo, una vol-
ta dimostrata l’insussistenza di una volontà attuale di accordo negoziale;
il relativo accertamento, che si traduce nella ricostruzione effettiva delle
parti interpretata secondo i criteri di cui agli art. 1362 seg. c.c., implica

267
un apprezzamento demandato al giudice di merito insindacabile in sede
di legittimità se sorretto da adeguata motivazione immune da vizi logici.

Cass. 18 gennaio 2012, n. 667. Il mediatore non ha diritto ad alcuna


provvigione se le parti, in conseguenza del suo intervento, siano perve-
nute unicamente alla predisposizione di una bozza di accordo (c.d. pun-
tuazione), senza stipulare alcun negozio dal quale siano sorte pretese
giudiziariamente tutelabili; lo stabilire quale sia la natura dell’accordo
stipulato, secondo la volontà delle parti, è apprezzamento di merito in-
sindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato.

Cass. 4 febbraio 2009, n. 2720. In tema di minuta o di puntuazione del


contratto, qualora l’intesa raggiunta dalle parti abbia ad oggetto un vero
e proprio regolamento definitivo del rapporto - l’accertamento del quale
è riservato all’apprezzamento del giudice di merito e non è sindacabile
in sede di legittimità, se non per vizio di motivazione - non è configura-
bile un impegno con funzione meramente preparatoria di un futuro ne-
gozio, dovendo ritenersi formata la volontà attuale di un accordo con-
trattuale; per tale valutazione, ben può il giudice far ricorso ai criteri in-
terpretativi dettati dagli art. 1362 seg. c.c., i quali mirano a consentire la
ricostruzione della volontà delle parti, operazione che non assume carat-
tere diverso quando sia questione, invece che di stabilirne il contenuto,
di verificare anzitutto se le parti abbiano inteso esprimere un assetto
d’interessi giuridicamente vincolante, dovendo il giudice accertare, al di
là del nomen iuris e della lettera dell’atto, la volontà negoziale con rife-
rimento sia al comportamento, anche successivo, comune delle parti, sia
alla disciplina complessiva dettata dalle stesse, interpretando le clausole
le une per mezzo delle altre (la corte, nel formulare il principio suindica-
to, ha confermato la sentenza impugnata che, nonostante l’apposizione
all’atto del titolo «lettera d’intenti», aveva reputato concluso un contrat-
to definitivo, alla luce dell’assetto di interessi complessivo emergente
dal tenore della scrittura, ed, in particolare, della presenza di una clauso-
la compromissoria, dell’inizio dell’esecuzione e dell’assenza di una
clausola che escludesse espressamente il carattere vincolante della scrit-
tura).

268
Cass. 14 luglio 2006, n. 16118. In tema di minuta o di puntuazione del
contratto, l’indagine del giudice deve accertare se le parti abbiano inteso
porre realmente in essere il rapporto contrattuale sin dal momento del-
l’accordo, oppure se la loro intenzione sia stata quella di differire la con-
clusione del contratto ad una manifestazione successiva di volontà; a tal
fine, la valutazione del giudice deve prevalentemente incentrarsi sul do-
cumento in ordine al quale si è formato l’accordo delle parti, fermo re-
stando che la parte ha la più ampia facoltà di provare con elementi extra-
testuali il mancato perfezionamento del contratto e che le risultanze
istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa della
quale sono formate, concorrono tutte ed indistintamente alla formazione
del convincimento del giudice.

Cass. 14 luglio 2004, n. 13067. In tema di mediazione, il diritto del me-


diatore alla provvigione sorge tutte le volte in cui, tra le parti avvalsesi
della sua opera, si sia validamente costituito un vincolo giuridico che
consenta a ciascuna di esse di agire per l’esecuzione del contratto, con la
conseguenza che mentre un contratto preliminare di compravendita deve
considerarsi atto conclusivo dell’affare, idoneo, per l’effetto, a far sorge-
re in capo al mediatore il diritto alla provvigione, non così avviene per la
puntuazione; l’accertamento relativo alla natura dell’accordo stipulato,
che si traduce nella interpretazione della volontà negoziale delle parti se-
condo i criteri di cui agli art. 1362 seg. c.c., implica un apprezzamento
demandato al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se
sorretto da adeguata motivazione immune da vizi logici (nella specie la
suprema corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato
l’avvenuta conclusione dell’affare in una proposta d’acquisto, accettata
dalla controparte, contenente l’indicazione del prezzo, delle modalità di
pagamento, della data di stipula del definitivo e della consegna dell’im-
mobile all’acquirente, ancorché l’accordo stabilisse la data della stipula
del «contratto preliminare» davanti al notaio, previsione ritenuta mirante
soltanto a riprodurre in forma più sicura un preliminare già concluso).

Cass. 2 dicembre 2008, n. 28618. In tema di perfezionamento dell’ac-


cordo negoziale, il documento contenente la puntuazione ancorché com-
pleta e bilaterale dell’assetto degli interessi che le parti intendono adot-

269
tare, è inidoneo a fornire la prova del perfezionamento del contratto, co-
stituendo mera presunzione semplice, superabile mediante la prova con-
traria, fornita con ogni mezzo, non esclusa la prova testimoniale, ammis-
sibile anche quando l’accertamento dell’attuale vincolatività dell’accor-
do riguardi un contratto preliminare di compravendita immobiliare.

*****

LE NORME RICHIAMATE

Art. 1325 c.c.


Indicazione dei requisiti
1. I requisiti del contratto sono:
1) l'accordo delle parti;
2) la causa;
3) l'oggetto;
4) la forma, quando risulta che è prescritta dalla legge
sotto pena di nullità.

Art. 1346 c.c.


Requisiti

270
1. L'oggetto del contratto deve essere possibile, lecito,
determinato o determinabile

Art. 1349 c.c.


Determinazione dell'oggetto
1. Se la determinazione della prestazione dedotta in con-
tratto è deferita a un terzo e non risulta che le parti vollero ri-
mettersi al suo mero arbitrio, il terzo deve procedere con equo
apprezzamento. Se manca la determinazione del terzo o se que-
sta è manifestamente iniqua o erronea, la determinazione è fat-
ta dal giudice.
2. La determinazione rimessa al mero arbitrio del terzo
non si può impugnare se non provando la sua mala fede. Se
manca la determinazione del terzo e le parti non si accordano
per sostituirlo, il contratto è nullo.
3. Nel determinare la prestazione il terzo deve tener con-
to anche delle condizioni generali della produzione a cui il
contratto eventualmente abbia riferimento.

271
Art. 1418 c.c.
Cause di nullità del contratto.
1. Il contratto è nullo quando è contrario a norme impe-
rative, salvo che la legge disponga diversamente.
2. Producono nullità del contratto la mancanza di uno
dei requisiti indicati dall'articolo 1325, l'illiceità della causa,
la illiceità dei motivi nel caso indicato dall'articolo 1345 e la
mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'articolo 1346.
3. Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla
legge.

Art. 1350 c.c.


Atti che devono farsi per iscritto
1. Devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata,
sotto pena di nullità:
1) i contratti che trasferiscono la proprietà di beni im-
mobili;
2) i contratti che costituiscono, modificano o trasferi-
scono il diritto di usufrutto su beni immobili, il diritto di su-
perficie, il diritto del concedente e dell'enfiteuta;

272
3) i contratti che costituiscono la comunione di diritti in-
dicati dai numeri precedenti;
4) i contratti che costituiscono o modificano le servitù
prediali, il diritto di uso su beni immobili e il diritto di abita-
zione;
5) gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri prece-
denti;
6) i contratti di affrancazione del fondo enfiteutico;
7) i contratti di anticresi;
8) i contratti di locazione di beni immobili per una dura-
ta superiore a nove anni;
9) i contratti di società o di associazione con i quali si
conferisce il godimento di beni immobili o di altri diritti reali
immobiliari per un tempo eccedente i nove anni o per un tempo
indeterminato;
10) gli atti che costituiscono rendite perpetue o vitalizie,
salve le disposizioni relative alle rendite dello Stato;
11) gli atti di divisione di beni immobili e di altri diritti
reali immobiliari;
12) le transazioni che hanno per oggetto controversie re-
lative ai rapporti giuridici menzionati nei numeri precedenti;

273
13) gli altri atti specialmente indicati dalla legge

Art. 1351 c.c.


Contratto preliminare.
1. Il contratto preliminare è nullo, se non è fatto nella
stessa forma che la legge prescrive per il contratto definitivo.

Art. 2932 c.c.


Esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contrat-
to.
1. Se colui che è obbligato a concludere un contratto non
adempie l'obbligazione, l'altra parte, qualora sia possibile e
non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che pro-
duca gli effetti del contratto non concluso.
2. Se si tratta di contratti che hanno per oggetto il trasfe-
rimento della proprietà di una cosa determinata o la costitu-
zione o il trasferimento di un altro diritto, la domanda non può
essere accolta, se la parte che l'ha proposta non esegue la sua
prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a meno che

274
la prestazione non sia ancora esigibile.

Art. 1322 c.c.


Autonomia contrattuale
1. Le parti possono liberamente determinare il contenuto
del contratto nei limiti imposti dalla legge.
2. Le parti possono anche concludere contratti che non
appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché
siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo
l'ordinamento giuridico.

*****

GLI ISTITUTI

Nel corso delle trattative che precedono la stipula del


contratto, le parti - intenzionati ad addivenire alla conclusione
del contratto - possono ritenere opportuno formalizzare, attra-
verso una scrittura privata, l'avvenuto conseguimento di un ac-

275
cordo relativamente ad alcuni elementi del negozio da sotto-
scrivere. Tale scrittura che attesti il verificarsi delle trattative
di una o più fasi del procedimento antecedente alla fase con-
trattuale, può rivestire una certa finalità sotto il profilo probato-
rio nel caso in cui vengano in rilievo profili connessi ad un'e-
ventuale responsabilità precontrattuale, di cui agli artt. 1337 e
1338 c.c.
Tale scrittura privata viene tecnicamente indicata come
“puntuazione”, o denominata anche “lettera d'intenti”, e può
contenere anche la formalizzazione di taluni impegni di cui le
parti abbiano deciso di farsi carico.
Ciò posto, devesi considerare che nel nostro ordinamento
il legislatore ha espressamente disciplinato la figura del con-
tratto preliminare, come negozio in grado di far sorgere in
capo ai contraenti l'obbligo di sottoscrivere il contratto definiti-
vo sicché distinguere questo istituto da quello della puntuazio-
ne (che semplicemente indica gli impegni delle parti) può risul-
tare in molti casi difficoltoso.
Occorre, allora, comprendere quale debba essere il conte-
nuto proprio della puntuazione e quale sia il limite oltre il quale
essa cessa di essere tale e sconfina nella diversa figura del con-

276
tratto preliminare.
Per quanto concerne i riferimenti normativi, vengono in
esame quelli che attengono ai requisiti dell'oggetto del contrat-
to (art. 1346 ss. c.c.) e all'elemento della causa (art. 1325 c.c.).
Perché il contratto sia valido è necessario che abbia un
oggetto determinato o, quanto meno, determinabile, e che si
possa evincere una causa la quale preveda di realizzare interes-
si che l'ordinamento reputi meritevoli di essere garantiti e tute-
lati, secondo l'art. 1322 c.c.
Partiamo, allora, dal requisito dell'oggetto del contratto.
É ovvio che se un documento sottoscritto dalle parti
omette di delimitare l'oggetto dell'accordo secondo i parametri
individuati dal legislatore , esso non è idoneo a far sorgere tra
le parti un vincolo cioè non può rivestire quella forza di legge
tra le parti, di cui all'art. 1372 c.c.
Nel corso delle trattative, i soggetti possono predisporre
delle “minute”: se esse non sono autosufficienti e richiedono
quindi integrazione, le stesse non devono ritenersi generalmen-
te vincolanti, rappresentando solo una modalità con cui regi-
strare l'evolversi del contratto a formazione progressiva.
Tuttavia è evidente che la formalizzazione di alcuni im-

277
pegni, che sia successiva ad una prima fase di trattative, potreb-
be configurare un contratto completo di tutti gli elementi e
quindi sufficiente secondo il codice civile.
Infatti, indipendentemente da quelli che sono gli intenti
soggettivi delle parti, che potrebbero voler sottoscrivere una
scrittura alla quale attribuire solo una funzione meramente pre-
paratoria, vi è da considerare che se la scrittura privata sotto-
scritta sigla un accordo perfetto e pienamente vincolante per i
contraenti espone questi ultimi all'eventualità che il predetto
accordo costituisca per la legge una fattispecie contrattuale con
tutte le conseguenze connesse.
In particolare, l’accordo sui punti essenziali dell’affare da
concludere è sufficiente perché il rapporto contrattuale possa
considerarsi sorto.

La lettera di intenti.
Passando in rassegna le diverse osservazioni avanzate dai
differenti filoni dottrinali e giurisprudenziali in tema di rappor-
to tra puntuazione e contratto preliminare, emerge con chiarez-
za che l'analisi di tutta la problematica deve incentrarsi sulla
qualificazione da riconoscere all'operazione documentata dai

278
contraenti coinvolti nella vicenda.
La predetta qualificazione del negozio, infatti, assume
preponderante rilievo allorché si valuti la completezza degli
elementi presenti nella contrattazione tenendo presente l'iter di
formazione progressiva dell'affare tra le parti.
L'esame non può prescindere dal quadro di insieme del-
l'operazione economica che i soggetti intendono realizzare, da-
gli effetti giuridici che intendono riconnettere a quella data
operazione che le parti, mediante la sottoscrizione del docu-
mento - il quale rappresenta l'involucro esteriore - mirano, per
l'appunto, a conseguire.
I canoni di interpretazione che devono guidare l'interprete
sono quelli offerti dal codice civile poiché è alla luce di questi
che deve cogliersi il senso dell'impegno (ed i limiti del medesi-
mo) che le parti hanno inteso assumere.
La disposizione codicistica di centrale importanza è quin-
di l'art. 1362 c.c. secondo cui “nell'interpretare il contratto si
deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti
e non limitarsi al senso letterale delle parole.
Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valu-
tare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla

279
conclusione del contratto".
La norma richiede quindi di ricercare la comune intenzio-
ne delle parti, andando oltre il senso letterale delle parole con-
tenute nel documento ed esaminando il comportamento tenuto
dalle parti, anche se successivo alla sottoscrizione del contratto.
Ciò non toglie, ovviamente, che le parti possano agire in
una condizione che non sia di piena e totale contezza in meri-
to a come qualificare l'operazione da loro realizzata.
Tale profilo deve necessariamente restare separato ri-
spetto all'interpretazione da seguire per cogliere la comune in-
tenzione come emerge dalla scrittura privata.
In altri termini, il profilo interpretativo della scrittura
privata sottoscritta non deve infatti essere confuso con quello
della qualificazione giuridica da attribuire al contratto.
L'interpretazione deve compiersi partendo dal senso let-
terale dei termini adoperati per trarre la comune intenzione
delle parti, esaminando, quindi ciò che risulta inserito nel con -
tratto.
Diversamente, la qualificazione investe il distino profilo
del rilievo giuridico da attribuire all’atto, come risultante dal-
l’attività di esegesi.

280
Taluni autori in dottrina assumono che, di conseguenza,
l'attività di qualificazione del contratto sia incentrata attorno
alla causa che in concreto viene attribuita allo stesso.
La posizione espressa dalla giurisprudenza di legittimità
va, invece, nella direzione di affermare che l'individuazione
della volontà delle parti è compito riservato al giudice di me -
rito (potendo l'intervento della corte di cassazione ammettersi
nel solo caso di vizio di motivazione, quando non sono state
correttamente applicate le regole normative previste dagli artt.
1362 ss. c.c.).
La qualificazione giuridica, riguarda invece l'applicazio-
ne delle norme giuridiche ed è in quanto tale rimessa al sinda-
cato della giurisprudenza di legittimità.
Nel caso che occupa, si rinvengono tutti gli elementi in-
dicati dall'art. 1325 c.c., e dalle norme che disciplinano l'ogget-
to del contratto, alla luce delle richiamate regole interpretative.
Ed infatti, le parti hanno raggiunto un accordo, la causa del
contratto è stata esteriorizzata nella scrittura che le stesse parti
hanno siglato e si evince chiaramente quale sia l'interesse in
capo a ciascuna delle parti: l'interesse di una parte a vendere
l'immobile dietro il versamento del corrispettivo e quello del-

281
l'altra ad acquistare l'unità immobiliare come individuata a quel
prezzo.
A proposito dell'unità immobiliare citata, e quindi del-
l'oggetto del contratto, essa risulta specificata in modo confor-
me alla legge. Il requisito della determinazione del prezzo è in-
fatti assicurato dalla previsione dell'art. 1349 c.c. richiamato
dall'accordo e risulta quindi deferito ad un terzo la quantifica-
zione del corrispettivo.
Anche il requisito formale richiesto dalla legge risulta ri-
spettato: l'art. 1351 c.c. prevede, infatti, che l'impegno di sotto-
scrivere il successivo contratto definitivo (avente ad oggetto il
trasferimento della proprietà immobiliare che, ai sensi dell'art.
1350 c.c. deve avvenire con atto pubblico o scrittura privata)
sia assunto dalle parti per iscritto.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE - CASS. 1


FEBBRAIO 2013, N. 2473

282
La sussistenza degli elementi essenziali del contratto preilim-
nare può essere desunta anche attraverso l'identificazione de-
gli stessi compiuta per relationem.

“Ai fini della validità del contratto preliminare, non è in-


dispensabile la completa e dettagliata indicazione di tutti gli
elementi del futuro contratto, risultando sufficiente l’accordo
delle parti su quelli essenziali; in particolare, nel preliminare
di compravendita immobiliare, per il quale è richiesto ex lege
l’atto scritto come per il definitivo, è sufficiente che dal docu-
mento risulti, anche attraverso il riferimento ad elementi ester-
ni, ma idonei a consentirne l’identificazione in modo inequivo-
co, che le parti abbiano inteso fare riferimento ad un bene de-
terminato o, comunque, determinabile, la cui indicazione per-
tanto, attraverso gli ordinari elementi identificativi richiesti
per il definitivo, può anche essere incompleta o mancare del
tutto, purché, l’intervenuta convergenza delle volontà sia an-
che aliunde o per relationem, logicamente ricostruibile” (Cass.
1 febbraio 2013, n. 2473).

283
Il principio espresso nella menzionata decisione è quello
secondo cui, il requisito della determinazione o quello della de-
terminabilità dell'oggetto del contratto (in mancanza del quale
il combinato disposto degli artt.1418 c.c. 1346 ss. e 1325 n. 3
c.c. sancisce la sanzione della nullità), si rinviene anche quan-
do, in forza degli accordi intercorsi tra i contraenti, l'esatta
quantificazione del corrispettivo della compravendita relativa
all'immobile ben individuato, sia rimessa ad un soggetto terzo
imparziale che risulti estraneo all'accordo.
Fancendo applicazione del menzionato principio, nella
fattispecie esaminata, la Corte di Cassazione ha cassato la deci-
sione resa dal giudice di secondo grado che aveva negato che
l'impegno di rogitare, sottoscritto dalle parti dinanzi al giudice
di pace, rappresentasse un preliminare di vendita, nonostante al
suo interno fosse ravvisabile la precisa individuazione dell’uni-
tà immobiliare da trasferire e il rifermento, per quel che attiene
al corrispettivo, alla stima compiuta da un esperto.

284
TESTO INTEGRALE

1) Secondo il tribunale di Alessandria, tra l'acquirente M. D. e gli


odierni resistenti O. - B. nel 1998 era intervenuta la promessa di
compravendita di un immobile sito in (OMISSIS), da portare a
compimento con sentenza resa ai sensi dell'art. 2932 c.c.
Secondo la Corte di appello di Torino, che il 19 settembre 2005
ha riformato la sentenza di primo grado, l'accordo invocato dall'attore
non costituiva atto di vendita e non aveva nemmeno i requisiti della c.d.
puntuazione.
Si trattava infatti di un'intesa di arbitraggio sottoscritta nell'aprile
1998 davanti al giudice di pace di V., al quale il M. si era rivolto con
domanda di conciliazione. In quella sede le parti avevano stabilito di
chiedere a un consulente la stima del bene, genericamente dichiarando
di impegnarsi a "rogitare l'immobile", senza tuttavia assumere, ad avviso
della Corte d'appello, gli obblighi contrattuali formali necessari per
stipulare una vendita immobiliare.
La Corte reputava quindi ineccepibile il rifiuto di vendere
l'immobile verbalizzato alla successiva udienza davanti al giudice di
pace, svoltasi nel dicembre 1998, a causa della mancata accettazione
della stima.
M. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 2 novembre
2006, resistito da controricorso degli intimati.
Parte ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
2) Il ricorso consta di due motivi, che possono essere congiuntamente
esaminati.
Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli
artt. 1362-1366-1367-1369-1370 e 1371 c.c., nonchè vizi di
motivazione.

285
Con il primo profilo, il ricorso rileva fondatamente che la
sentenza impugnata ha male applicato le norme in tema di
interpretazione dei contratto, perché ha omesso di considerare la volontà
delle parti (18375/06), pur avendo attribuito natura di scrittura privata
riconosciuta all'accordo di cui al verbale redatto davanti al giudice di
pace.
La difesa del M. evidenzia che l'analisi della comune intenzione
delle parti avrebbe dovuto muovere dal senso letterale delle parole
"impegnarsi a rogitare", che i contraenti avevano utilizzato,
estendendosi all'uso degli altri canoni ermeneutici. Tra questi avrebbe
dovuto essere valorizzato il comportamento complessivo delle parti
stesse, tenendo conto della testimonianza resa dal giudice di pace, il
quale aveva confermato che le parti avevano aderito,in udienza e su sua
proposta, all'accordo sulla vendita dell'immobile degli O. al prezzo che
sarebbe stato stabilito dal consulente.
Valore confermativo della pienezza dell'obbligo contrattuale
avrebbe dovuto essere dato, m un esame complessivo della vicenda: 1)
al successivo comportamento assunto all'udienza del 14-2-1998, nel
quale gli O. rifiutarono l'offerta, pur ammettendo i "precisi impegni
assunti"; 2) alla ctu affidata al geom. Om., contenente le indicazioni utili
in ordine all'oggetto del contratto.
2.1) Il secondo motivo censura la sentenza impugnata per avere
affermato che il contratto non si sarebbe perfezionato a causa della
incompleta indicazione di tutti gli elementi del negozio. Invoca la
giurisprudenza che ritiene sufficiente, per la validità del preliminare,
l'accordo sugli elementi essenziali del contratto, che emergevano dalla
consulenza acquisita.
Con riferimento alla parte in cui la Corte torinese ha qualificato
come mera "intesa di arbitraggio" il verbale sottoscritto dalle parti, il
ricorso, che lamenta violazione degli artt. 1349-1350-1351- 1346-1183-
1473 e 1374, sostiene la compatibilità di detta intesa con il contratto
preliminare. Vi si sottolinea che l'intesa di arbitraggio presuppone un
contratto già concluso, così emergendo la contraddittorietà della tesi
della Corte d'appello, che dopo aver parlato di detta intesa ha negato

286
perfino dignità di puntuazione all'accordo raggiunto.
3) Le censure colgono nel segno nei limiti in cui si dirà.
La Corte d'appello è partita dalla considerazione che non ci si
trovi di fronte ad un verbale di conciliazione ex art. 322 c.p.c., perché al
momento dell'istanza di conciliazione non vi era contenzioso tra le parti,
ma solo una difficile trattativa per l'acquisto dell'immobile. Ha ritenuto
che i contendenti siano pervenuti alla sottoscrizione di una scrittura che
potrebbe avere avuto "funzione puramente documentativa".
Ha tratto argomento a questo fine dalla tesi, errata, che per aversi
un definitivo vincolo contrattuale, le parti debbano raggiungere intesa
"su tutti gli elementi del negozio".
Ha affermato che il contenuto dell'accordo in questione non
avrebbe valore negoziale, perchè non contiene una descrizione del bene,
di accessori, destinazione, termini di adempimento, dello stato materiale
e ipotecario dell'immobile. Ha negato la possibilità di una etero
integrazione giudiziale della pregressa intesa.
3.1) Le tesi esposte in sentenza sono viziate in primo luogo, sotto il
profilo della violazione di legge, dalla errata convinzione che non ci si
trovi di fronte a contratto preliminare relativo a compravendita
immobiliare, perché tale contratto solenne deve recare ogni suo
elemento all'interno della "scrittura firmata dalle parti".
E' contraddetto in tal modo l'insegnamento di questa Corte,
laddove afferma che: "Ai fini della validità del contratto preliminare non
è indispensabile la completa e dettagliata indicazione di tutti gli elementi
del futuro contratto, risultando per converso sufficiente l'accordo delle
parti sugli elementi essenziali. In particolare, nel preliminare di
compravendita immobiliare, per il quale è richiesto ex lege è atto scritto
come per il definitivo, è sufficiente che dal documento risulti, anche
attraverso il riferimento ad elementi esterni ma idonei a consentirne
l'identificazione in modo inequivoco, avere le parti inteso fare
riferimento ad un bene determinato o, comunque, determinabile, la cui
indicazione pertanto, attraverso gli ordinari elementi identificativi
richiesti per il definitivo, può anche essere incompleta o mancare del

287
tutto, purchè, appunto, l'intervenuta convergenza delle volontà sia
comunque, anche aliunde o per relationem, logicamente ricostruibile"
(Cass. 8810/03; 7935/97).
Nella specie si apprende dal ricorso (pag. 2, recante fedele
descrizione verificabile nella documentazione in atti) che il verbale
sottoscritto si riferiva univocamente a una transazione immobiliare
(transazione è vocabolo con cui nel linguaggio corrente si intende non
solo l'istituto di cui all'art. 1965 c.c., ma anche più semplicemente un
"affare" o un'"intesa" o un "accordo" o anche una vendita, se di questo si
tratta) relativa ad un immobile sito in (OMISSIS). Si apprende inoltre
che le parti intendevano affidare la valutazione commerciale di esso ad
un ctu nominato dal giudice di pace adito.
3.2) Ora, alla luce dell'insegnamento giurisprudenziale ricordato e di
questo contenuto della scrittura, preciso nell'individuazione del bene e
del criterio di individuazione del prezzo, non risulta corretta
giuridicamente, nè congrua e logica, la motivazione della sentenza,
allorquando nega non solo la dignità di contratto preliminare con
riferimento ad un elemento (il prezzo) determinabile, ma persino che si
trattasse di puntuazione contrattuale.
In presenza di uno scritto avente astrattamente contenuto
negoziale, proveniente consensualmente dalle parti e acquisito in sede
conciliativa davanti al giudice di pace, al di là della natura di
conciliazione giudiziale di cui all'art. 322 c.p.c., che non è stata sancita a
causa del rifiuto di una delle parti dopo l'acquisizione della consulenza,
l'art. 1362 c.c., evocato nel primo motivo, imponeva comunque di
interrogarsi sul contenuto dell'accordo, al lume dei criteri ermeneutici
fissati nel codice civile.
Il diniego della natura negoziale dell'intesa (così la definisce
contraddittoriamente la sentenza, assimilandola ad intesa di arbitraggio)
vien fatto risalire (v. pag. 10 sentenza) alla asserita irrilevanza
dell'espressione "impegno a rogitare l'immobile al prezzo che verrà
determinato dal ctu", contenuta nel testo della scrittura.
La Corte d'appello ha ritenuto che tale affermazione non avrebbe

288
il valore negoziale che parte ricorrente le attribuisce perché
mancherebbero la descrizione dell'immobile e di altre condizioni
accessorie e perché mancherebbe la documentazione circa un'intesa
sugli elementi della vendita.
Tale affermazione, riguardata al lume della giurisprudenza citata,
è del tutto apodittica: il tenore letterale prefigura infatti un obbligo di
"rogitare", espressione che allude chiaramente alla formazione di atto
pubblico a ministero di notaio, al fine di trasferire la proprietà di un
bene; il bene viene indicato puntualmente e un soggetto terzo
(consulente scelto dal giudice di pace) viene incaricato di stimarne il
prezzo, da pagare in corrispettivo dell'acquisto, con la conseguente
implicita individuazione de, corrispettivo stesso e di tutto quanto rileva a
questi fini (estensione dell'immobile, pertinenze, condizione materiale,
giuridica, etc.) La norma di cui all'art. 1362 c.c. dispone che
"Nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune
intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per
determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro
comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del
contratto".
A fronte di un testo letterale apparentemente chiaro, la sentenza
non poteva limitarsi, come ha fatto, a esprimere le ragioni di dissenso
rispetto a quanto opinato dal primo giudice circa la sussistenza di una
conciliazione rituale ex art. 322 c.p.c., ma doveva più
approfonditamente interrogarsi sulla portata del testo sottoscritto, sul
senso delle paroe e, ove le avesse ritenute non univoche, contrariamente
a quanto appare a questa Corte, avrebbe dovuto ricercare la comune
intenzione delle parti.
3.3) Non vale qui invocare, come fa il controricorso, quella
giurisprudenza secondo cui "nei contratti per i quali è prevista la forma
scritta "ad substantiam", la ricerca della comune intenzione delle parti
deve essere compiuta, con riferimento agli elementi essenziali del
contratto, soltanto attingendo alle manifestazioni di volontà contenute
nel testo scritto" (v. Cass. 14444/06).
Presupposto di questa regola è che il senso letterale delle parole

289
presenti un margine di equivocità, ma ciò non si avvera nel caso in
esame, giacchè l'equivocità viene ricollegata dalla Corte piemontese
all'erroneo presupposto che per assumere valore negoziale una promessa
di compravendita debba contenere tutti gli elementi da essa elencati
nella seconda parte di pag. 10 e non la semplice individuazione
(determinata o determinabile) del bene compravenduto e della
controprestazione.
4) Da questi rilievi emerge la necessità di un completo riesame del
materiale acquisito, poichè la Corte di appello ha omesso di considerare
sia le risultanze testimoniali, riportate in ricorso, che avrebbero
decisivamente contribuito a illuminare l'intenzione delle parti, sia la
portata del verbale dell'udienza di rinvio, nella quale si diede atto del
rifiuto ad addivenire alla vendita per il prezzo stimato dal consulente,
nonostante "preciso impegno assunto", frase meritevole di adeguata
considerazione circa la portata della scrittura che la Corte di appello ha
ritenuto insignificante con approssimativa e illogica valutazione.
Discende da quanto esposto l'accoglimento del ricorso.
La sentenza impugnata va cassata e la cognizione rimessa ad altra
sezione della Corte di appello di Torino che si atterrà al principio di
diritto recato da Cass. 8810/03 e procederà a nuova interpretazione della
scrittura de qua alla luce dei canoni ermeneutici di cui all'art. 1362 e ss
c.c., rinnovando la motivazione. Procederà inoltre alla liquidazione delle
spese di questo giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia
ad altra sezione della Corte di appello di Torino, che provvederà anche
sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

*****

290
LA SOLUZIONE DEL CASO

Nella fattispecie che occupa, i contraenti hanno siglato


l’accordo. Infatti si rinviene un'esternazione della volontà da
parte dei contraenti (promittente venditore e promissario acqui-
rente), finalizzata all'impegno alla sottoscrizione del contratto
definitivo di compravendita relativa ad un'unità immobiliare.
Il documento firmato dai soggetti risulta completo nel
contenuto poiché in esso si individua l'indicazione degli ele-
menti essenziali richiesti dal contratto di compravendita (il
bene e il prezzo) perché l'oggetto del medesimo contratto possa
definirsi determinato; l'unità immobiliare in relazione al quale i
soggetti si impegnano ad effettuare il trasferimento della pro-
prietà risulta sufficientemente individuato mentre la determina-
zione del corrispettivo viene riservata ad un soggetto incaricato
di procedere alla stima dell'immobile.
In definitiva, il contratto deve reputarsi concluso nel caso
in cui - come quello che occupa - sussiste una determinazione
minima degli elementi del contratto da cui emergano la causa e
la tipologia delle prestazioni previste nell’oggetto negoziale
(che deve risultare conforme alle norme dettate dal codice civi-

291
le) e nel caso qui esaminato tali elementi essenziali risultano
sussistenti.

292
9. CONTRATTO DI AFFITTO E PRELIMINARE DI
VENDITA COLLEGATI

IL CASO
Il Signor Bianchi, decide di acquistare un terreno contando su
determinate agevolazioni contemplate da apposita legislazione
finalizzata a valorizzare il settore agricolo.
Questi, dopo l'acquisto del predetto terreno, viene a sapere che può
fruire delle predette agevolazioni solo a condizione che il terreno per
il quale le stesse vengono erogate non dovrà essere alienato prima di
un certo termine, potendo il medesimo terreno costituire soltanto
oggetto di concessione in affitto.
Dopo qualche tempo, mentre ancora vige il divieto di alienazione del
fondo, il Signor Bianchi decide di trasferire a terzi il fondo,
continuando a fruire delle agevolazioni.
Pertanto, il Signor Bianchi stipula con il Signor Rossi - in realtà
interessato all'acquisto del fondo - un contratto di affitto del terreno
con termine finale coincidente rispetto a quello previsto per la fine
del vincolo di inalienabilità; al tempo stesso, le parti sottoscrivono un
contratto preliminare avente ad oggetto l'acquisto del medesimo
fondo, con l'impegno di siglare il successivo contratto definitivo nel
giorno in cui viene meno il divieto anzidetto.
Il corrispettivo del contratto di affitto pattuito dai contraenti potrebbe
ben rappresentare il prezzo della vendita del bene.
Non solo, le parti prevedono, altresì, che il Signor Rossi corrisponda
in un'unica soluzione anticipata il versamento dei canoni previsti per
il contratto di affitto.
Concluso il periodo di vigenza del vincolo, nessuna delle parti
sollecita la sottoscrizione del contratto definitivo; nel frattempo, il
Signor Rossi continua a possedere il terreno.
Dopo il decesso del Signor Bianchi, la moglie ed il figlio agiscono in

293
giudizio per chiedere nei confronti del Signor Rossi, la risoluzione
del contratto di affitto che, a loro dire, si è tacitamente rinnovato nel
tempo, ma il Signor Rossi non ha corrisposto il versamento dei
canoni.
Essi, appresa la notizia della sottoscrizione del contratto preliminare,
ritengono che questo non costituisca un un titolo idoneo a possedere.
Gli eredi non erano stati edotti dei reali accordi intercorsi tra il loro
congiunto ed il Signor Rossi.

Quesito
E' legittima la richiesta degli eredi del Signor Bianchi concernente la
risoluzione del contratto di affitto per inadempimento contrattuale?

*****

ESAME DELLA FATTISPECIE

Gli eredi del Signor Bianchi convengono in giudizio il


Signor Rossi per sentire accertare la risoluzione del contratto di
affitto per inadempimento contrattuale relativo ad un terreno
che questi ha continuato a possedere senza versare il corrispet-
tivo pattuito.
Invero, gli eredi del Signor Bianchi solo successivamente

294
apprendono che il loro congiunto si era accordato con il Signor
Rossi nel senso di sottoscrivere sia un contratto di affitto per
quel dato terreno (che non poteva essere alienato fino ad un
dato termine) con termine finale coincidente con la fine del
vincolo sia un contratto preliminare avente ad oggetto la vendi-
ta del medesimo terreno con l'espressa previsione di siglare il
successivo contratto definitivo in coincidenza della fine del di-
vieto di alienazione.
Inoltre, il Signor Rossi ha corrisposto il versamento anti-
cipato di tutti i canoni previsti per il contratto di affitto in una
unica, anticipata, soluzione, circostanza questa ignota agli eredi
del Signor Bianchi.
L'esame della fattispecie involge di richiamare il concetto
di collegamento negoziale al fin di verificare se sussiste un col-
legamento tra i due contratti stipulati, avendo riguardo ovvia-
mente alla causa sottesa all'intera operazione e quindi allo sco-
po che le parti intendevano perseguire.

*****

295
LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 12 settembre 2011, n. 18650. La fideiussione alla fideiussione (o


fideiussione al fideiussore, o fideiussione di regresso) va distinta dalla
fideiussione del fideiussore (cosiddetta approvazione), di cui all’art.
1940 c.c., che costituisce una particolare modalità della fideiussione tipi-
ca, nella quale il «secondo» fideiussore garantisce l’adempimento del-
l’obbligazione del «primo» fideiussore, e non l’adempimento dell’obbli-
gato principale, laddove nella fideiussione alla fideiussione il fideiussore
si obbliga verso colui il quale è già fideiussore, per garantirgli, una volta
che egli abbia pagato, la fruttuosità dell’azione di regresso nei confronti
del debitore principale, sicché il fideiussore è un terzo rispetto alla prima
fideiussione, ed il creditore garantito è, in effetti, il soggetto che nella
prima fideiussione era il fideiussore; ne consegue che, dando vita la fi-
deiussione alla fideiussione a due contratti di fideiussione, concettual-
mente ed ontologicamente autonomi, per quanto, in genere, funzional-
mente collegati, nel giudizio promosso dal primo fideiussore nei con-
fronti del secondo fideiussore non sussiste litisconsorzio necessario con
il creditore garantito della prima fideiussione, e che la prescrizione del
diritto al rimborso in favore del creditore garantito dalla seconda fideius-
sione inizia a decorrere solo dalla data dell’avvenuto pagamento da parte
dello stesso quale primo fideiussore.

Cass. 12 novembre 2009, n. 23941. Causa del contratto è lo scopo prati-


co del negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concreta-
mente diretto a realizzare (c.d. causa concreta), quale funzione indivi-
duale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto
utilizzato (nella specie, la suprema corte ha cassato la sentenza di merito
che - in relazione ad un contratto di assicurazione sulla vita stipulato da
un privato per il rischio connesso allo svolgimento dell’attività di volo
sportivo o da diporto - aveva interpretato la clausola contrattuale che
escludeva dall’assicurazione l’ipotesi di volo a bordo di aeromobile non
autorizzato senza tener presente in modo adeguato la finalità concreta
che l’assicurato intendeva perseguire con la stipula del contratto, tanto

296
più che l’incidente si era verificato mentre questi viaggiava a bordo del
proprio veicolo da diporto, peraltro privo delle caratteristiche di un «ae-
romobile»).

Cass. 24 ottobre 2008, n. 25748. La fattispecie giuridica della confide-


iussione, di cui all’art. 1946 c.c., ricorre quando più soggetti prestano
una fideiussione, anche se non contestualmente, nella reciproca consape-
volezza dell’esistenza dell’altrui garanzia e con l’intento di garantire
congiuntamente il medesimo debito e il medesimo debitore, e si caratte-
rizza come un insieme di vincoli di garanzia, relativi alla medesima ob-
bligazione e tra loro collegati da un interesse comune che determina
l’obbligazione confideiussoria per l’intero e, in definitiva, la divisione
del debito tra i coobbligati in virtù del diritto di regresso previsto dal-
l’art. 1954 c.c., non applicabile invece nella differente figura della c.d.
fideiussione plurima, ovverosia nell’ipotesi di distinte fideiussioni pre-
state da diversi soggetti in tempi successivi e con atti separati, senza al-
cuna manifestazione di reciproca consapevolezza tra fideiussori o al
contrario con espressa convenzione con il creditore di mantenere diffe-
renziata la propria obbligazione da quella degli altri, e, in ogni caso, in
assenza di un collegamento correlato ad un interesse comune dei coga-
ranti.

Cass. 10 gennaio 2012, n. 65. La causa concreta del negozio fideiussorio


stipulato in relazione alla garanzia prestata in favore dell’amministrazio-
ne finanziaria in materia di rimborsi d’imposta è quella di assicurare la
maggiore celerità dei rimborsi medesimi, consentendo agli uffici di po-
sporre l’attività di controllo sull’effettiva debenza dell’eccedenza a cre-
dito vantata dal contribuente e al tempo stesso costituendo un negozio di
garanzia autonomo (e non accessorio) per ripristinare la situazione eco-
nomica delle parti del rapporto giuridico tributario anteriore al momento
del rimborso; a tale fine, sussistendo un autonomo rapporto fra ammini-
strazione finanziaria e soggetto assicurativo, compete a quest’ultimo il
rischio nonché il controllo preventivo sulla debenza del rimborso non
potendo egli eccepire fatti impeditivi legati al rapporto tributario.

Cass. 26 aprile 2011, n. 9368. In tema di prelazione urbana (ai sensi de-

297
gli art. 38 e 39 l. n. 392 del 1978) perché si abbia vendita in blocco, con
esclusione, di conseguenza del diritto di prelazione, del conduttore, la
vendita non deve necessariamente riguardare un intero edificio (da cielo
a terra) nel quale è compreso quello locato, ma è sufficiente che i vari
beni ceduti, tra loro confinanti, costituiscano un unicum e siano venduti
(o promessi in vendita) non come una pluralità di immobili, casualmente
appartenenti a un unico proprietario e ceduti (o cedendi) allo stesso ac-
quirente, ma come un complesso unitario e costituente un quid diverso
dalla mera somma delle singole unità immobiliari; a tale riguardo l’inda-
gine del giudice del merito non deve essere condotta solo sulla base del-
la situazione oggettiva, di fatto, esistente al momento della vendita (o
della denuntiatio), non potendo il giudice del merito prescindere da
quello che è il tenore del contratto di vendita (o del preliminare), nonché
- in considerazione delle circostanze del caso concreto - di altri eventuali
contratti che, seppure intervenuti tra soggetti parzialmente diversi possa-
no dirsi collegati al primo e sulla base di questi apprezzare se le parti
hanno, o meno, considerato la vendita dei vari cespiti come la vendita di
un complesso unitario non frazionabile; al detto fine, deve essere ade-
guatamente apprezzata, altresì, l’intenzione dell’acquirente (o del pro-
mittente acquirente) di utilizzare tutti i beni acquistati per una utilizza-
zione che ne imponga l’accorpamento; è salva, comunque, la facoltà per
il conduttore di dedurre e dimostrare, con ogni mezzo, la natura fittizia
dell’operazione.

Cass. sez. un., 18 febbraio 2010, n. 3947. Il contratto autonomo di ga-


ranzia (c.d. Garantievertrag), espressione dell’autonomia negoziale ex
art. 1322 c.c., ha la funzione di tenere indenne il creditore dalle conse-
guenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debito-
re principale, che può riguardare anche un fare infungibile (qual è l’ob-
bligazione dell’appaltatore), contrariamente al contratto del fideiussore,
il quale garantisce l’adempimento della medesima obbligazione princi-
pale altrui (attesa l’identità tra prestazione del debitore principale e pre-
stazione dovuta dal garante); inoltre, la causa concreta del contratto au-
tonomo è quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio econo-
mico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale,
sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no, mentre con la fi-

298
deiussione, nella quale solamente ricorre l’elemento dell’accessorietà, è
tutelato l’interesse all’esatto adempimento della medesima prestazione
principale; ne deriva che, mentre il fideiussore è un «vicario» del debito-
re, l’obbligazione del garante autonomo si pone in via del tutto autono-
ma rispetto all’obbligo primario di prestazione, essendo qualitativamen-
te diversa da quella garantita, perché non necessariamente sovrapponibi-
le ad essa e non rivolta all’adempimento del debito principale, bensì ad
indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamen-
to di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o
inesatta prestazione del debitore (fattispecie in tema di polizza fideiusso-
ria a garanzia del committente di un appalto di opera pubblica).

Cass. 12 luglio 2005, n. 14611. Le parti, nell’esplicazione della loro au-


tonomia negoziale, possono, con manifestazioni di volontà espresse in
uno stesso contesto, dar vita a più negozi distinti ed indipendenti, ovvero
a più negozi tra loro collegati; le varie fattispecie in cui può configurarsi
un negozio giuridico composto possono così distinguersi in contratti col-
legati, contratti misti (quando la fusione delle cause fa sì che gli elemen-
ti distintivi di ciascun negozio vengono assunti quali elementi di un ne-
gozio unico, soggetto alla regola della causa prevalente) e contratti com-
plessi (contrassegnati dall’esistenza di una causa unica, che si riflette sul
nesso intercorrente tra le varie prestazioni con un’intensità tale da pre-
cludere che ciascuna delle predette prestazioni possa essere rapportata
ad una distinta causa tipica e faccia sì che le predette prestazioni si pre-
sentino tra loro organicamente interdipendenti e tendenti al raggiungi-
mento di un intento negoziale oggettivamente unico); il collegamento
negoziale non dà luogo ad un nuovo ed autonomo contratto, ma è un
meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economi-
co unitario e complesso, che viene realizzato non per mezzo di un singo-
lo contratto ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali
conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad
un unico regolamento dei reciproci interessi; pertanto, in ipotesi siffatte,
il collegamento, pur potendo determinare un vincolo di reciproca dipen-
denza tra i contratti, non esclude che ciascuno di essi si caratterizzi in
funzione di una propria causa e conservi una distinta individualità giuri-
dica; accertare la natura, l’entità, le modalità e le conseguenze del colle-

299
gamento negoziale realizzato dalle parti rientra nei compiti esclusivi del
giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di le-
gittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e
giuridici (nella specie, la suprema corte ha confermato la sentenza di
merito che aveva ravvisato un collegamento funzionale, finalizzato alla
coeva cessazione dei due contratti, tra un contratto di agenzia e un con-
tratto di sublocazione, ferma la restante disciplina dei due negozi, con la
conseguenza che era nulla ex art. 79 l. n. 392 del 1978 la clausola con la
quale il subconduttore aveva rinunziato al diritto all’indennità per la per-
dita dell’avviamento commerciale).

Cass. 16 dicembre 2010, n. 25448. In tema di locazione di immobili ur-


bani e di diritto di prelazione del conduttore di immobili non adibiti ad
uso abitazione, perché si abbia vendita in blocco, con esclusione, di con-
seguenza, del diritto di prelazione del conduttore, la vendita non deve
necessariamente riguardare un intero edificio (da cielo a terra) nel quale
è compreso quello locato, ma è sufficiente che i vari beni ceduti, tra loro
confinanti, costituiscano un unicum e siano venduti (o promessi in ven-
dita) non come una pluralità di immobili casualmente appartenenti ad un
unico proprietario e ceduti (o cedendi) allo stesso acquirente, ma come
un complesso unitario e costituente un quid diverso dalla mera somma
delle singole unità immobiliari; al riguardo, l’indagine del giudice del
merito non deve essere condotta solo sulla base della situazione oggetti-
va, di fatto, esistente al momento della vendita (o della denuntiatio), non
potendo il giudice del merito prescindere da quello che è il tenore del
contratto di vendita (o del preliminare), nonché - in considerazione delle
circostanze del caso concreto - di altri eventuali contratti che, pur se in-
tervenuti tra soggetti parzialmente diversi, possano dirsi collegati al pri-
mo, e sulla base di questi apprezzare se le parti hanno o meno considera-
to la vendita dei vari cespiti come vendita di un complesso unitario non
frazionabile; a tal fine deve essere adeguatamente apprezzata, altresì,
l’intenzione dell’acquirente (o del promittente acquirente) di utilizzare
tutti i beni acquistati per una utilizzazione che ne imponga l’accorpa-
mento; è salva, comunque, la facoltà per il conduttore di dedurre e dimo-
strare, con ogni mezzo, la natura fittizia dell’operazione.

300
Cass. 17 settembre 2008, n. 23747. In tema di locazione di immobili ur-
bani ad uso diverso da quello abitativo, in caso di vendita, con un unico
atto o con più atti collegati, ad uno stesso soggetto di una pluralità di
unità immobiliari, tra cui quella oggetto del contratto di locazione, pre-
supposto fondamentale perché sorga il diritto di prelazione e il correlato
diritto di riscatto di cui agli art. 38 e 39 l. n. 392 del 1978, è la perfetta
identità tra il bene venduto e quello condotto in locazione; poiché tale
identità viene meno quando detta vendita riguarda una pluralità di im-
mobili, in una tale eventualità occorre distinguere a seconda che si sia in
presenza di una vendita in blocco (che esclude il sorgere in capo al con-
duttore dei detti diritti) o, invece, di una vendita cumulativa (che è irrile-
vante al fine dell’esercizio del diritto di prelazione, limitatamente al
bene oggetto del contratto di locazione); in particolare, perché ricorra la
vendita in blocco non è indispensabile che la vendita riguardi l’intero
edificio in cui è compreso quello locato ma è sufficiente che i vari beni
alienati, tra loro confinanti, costituiscano un unicum e siano venduti (o
promessi in vendita) non come una pluralità di immobili casualmente
appartenenti ad un unico proprietario e ceduti (o cedendi) ad un soggetto
diverso da colui che conduce in locazione per uso diverso uno di essi,
ma come complesso unitario, costituente un quid diverso dalla mera
somma delle singole unità immobiliari; a tale riguardo l’indagine del
giudice del merito non deve essere condotta solo sulla base della situa-
zione oggettiva, di fatto, esistente al momento della vendita (o della de-
nuntiatio) ma deve, altresì, tener conto del tenore del contratto di vendita
(o del preliminare) e di eventuali altri contratti che, pur se intervenuti tra
soggetti parzialmente diversi, possano dirsi collegati al primo, e sulla
base di questo il giudice deve apprezzare se le parti hanno o meno consi-
derato la vendita dei vari cespiti (anche, eventualmente, per motivi sog-
gettivi) di un complesso unitario non frazionabile.

Cass. 27 marzo 2007, n. 7524. Nel caso di negozi collegati, il collega-


mento deve ritenersi meramente occasionale quando le singole dichiara-
zioni, strutturalmente e funzionalmente autonome, siano solo casual-
mente riunite, mantenendo l’individualità propria di ciascun tipo nego-
ziale in cui esse si inquadrano, sicché la loro unione non influenza la di-
sciplina dei singoli negozi in cui si sostanziano; il collegamento è, inve-

301
ce, funzionale quando i diversi e distinti negozi, cui le parti diano vita
nell’esercizio della loro autonomia negoziale, pur conservando l’indivi-
dualità propria di ciascun tipo, vengono tuttavia concepiti e voluti come
avvinti teleologicamente da un nesso di reciproca interdipendenza, per
cui le vicende dell’uno debbano ripercuotersi sull’altro, condizionando-
ne la validità e l’efficacia; ai fini della qualificazione giuridica della si-
tuazione negoziale, per accertare l’esistenza, l’entità, la natura le moda-
lità e le conseguenze di un collegamento funzionale tra negozi realizzato
dalle parti occorre un accertamento del giudice di merito che passi attra-
verso l’interpretazione della volontà contrattuale e che, se condotto nel
rispetto dei criteri di logica ermeneutica e di corretto apprezzamento del-
le risultanze di fatto, si sottrae al sindacato di legittimità..

Cass. 7 febbraio 2006, n. 2529. Ricorre l’ipotesi del contratto di traspor-


to con rispedizione allorché il vettore si obbliga verso il committente, ol-
tre che ad eseguire il trasporto per una parte del complessivo percorso,
anche a concludere, in nome proprio ma per conto di quello, uno o più
contratti di trasporto per l’effettuazione della restante parte del percorso,
con la conseguenza che vengono posti in essere due contratti collegati,
rispettivamente di trasporto e di spedizione.

Cass. 19 ottobre 2007, n. 21973. L’esercizio dell’eccezione d’inadempi-


mento ex art. 1460 c.c., che trova applicazione anche in riferimento ai
contratti ad esecuzione continuata o periodica, nonché in presenza di
contratti collegati, prescinde dalla responsabilità della controparte, in
quanto è meritevole di tutela l’interesse della parte a non eseguire la pro-
pria prestazione in assenza della controprestazione e ciò per evitare di
trovarsi in una situazione di diseguaglianza rispetto alla controparte me-
desima; sicché, detta eccezione può essere fatta valere anche nel caso in
cui il mancato adempimento dipende dalla sopravvenuta relativa impos-
sibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore.

*****

302
LE NORME RICHIAMATE

Art. 1322 c.c.


Autonomia contrattuale
1. Le parti possono liberamente determinare il contenuto
del contratto nei limiti imposti dalla legge.
2. Le parti possono anche concludere contratti che non
appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché
siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo
l'ordinamento giuridico.

Art. 1325 c.c.


Indicazione dei requisiti
1. I requisiti del contratto sono:
1) l'accordo delle parti;
2) la causa;
3) l'oggetto;
4) la forma, quando risulta che è prescritta dalla legge
sotto pena di nullità.

303
Art. 1343 c.c.
Causa illecita.
1. La causa è illecita quando è contraria a norme impe-
rative, all'ordine pubblico o al buon costume.

Art. 1344 c.c.


Contratto in frode alla legge.
1. Si reputa altresì illecita la causa quando il contratto
costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma
imperativa.

Art. 1418 c.c.


Cause di nullità del contratto.
1. Il contratto è nullo quando è contrario a norme impe-
rative, salvo che la legge disponga diversamente.
2. Producono nullità del contratto la mancanza di uno
dei requisiti indicati dall'articolo 1325, l'illiceità della causa,
la illiceità dei motivi nel caso indicato dall'articolo 1345 e la
mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'articolo 1346.

304
3. Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla
legge.

*****

GLI ISTITUTI

Esaminiamo, in primo luogo, la causa del contratto, uno


degli elementi essenziali del contratto, di cui il legislatore non
offre alcuna definizione.
Si tratta di un elemento contemplato da una serie di di-
sposizioni codicistiche: l'art. 1325 c.c. recita: "i requisiti del
contratto sono: l'accordo delle parti, la causa, l'oggetto, la for-
ma, quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di
nullità"; il primo capoverso l'art. 1418 c.c. prevede che "produ-
cono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indi-
cati dall'articolo 1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei moti-
vi nel caso indicato dall'articolo 1345 e la mancanza nell'ogget-
to dei requisiti stabiliti dall'articolo 1346".
Volendo fornire una definizione della causa del contratto

305
- che, come detto, non si rinviene nel codice - essa può indivi-
duarsi nell'interesse che le parti intendono soddisfare mediante
l'utilizzo di un dato schema contrattuale,il quale può essere
rappresentato da uno di quelli tipizzati dal legislatore ovvero
può trattarsi di contratto atipico: l'autonomia delle parti, sancita
dall'art. 1322 c.c. consente infatti ai contraenti di avvalersi an-
che di un contratto atipico, con il limite della meritevolezza de-
gli interessi sottesi.
In dottrina si sono evidenziate diverse teorie in merito
alla nozione di causa alle quali conviene fare riferimento.
Secondo un prima tesi oggettivistica, la causa deve rinve-
nirsi nel rapporto che intercorre tra la prestazione e l'interesse
delle parti. Seguendo tale interpretazione, quindi, nei contratti
sinallagmatici la causa si ravvisa nello scambio, mentre nelle
donazioni essa si rinviene nella liberalità.
Una differente tesi di stampo soggettivistico indivudua la
causa nello scopo che le parti si prefiggono.
La posizione intermedia è portata avanti da coloro che
vedono nella causa la funzione economico-sociale del contrat-
to.
Invero, esaminando anch l'evoluzione di tale concetto si è

306
inferito che l'ordinamento giuridico ha inteso monitorare il tipo
di utilità sociale che ogni negoziazione persegue. Ciò spieghe-
rebbe il motivo per il quale il legislatore abbia individuato una
causa tipica per ogni forma di contratto che ha disciplinato,
Abbandonando tuttavia il concetto di causa in astratto e si
è successivamente voluto invece ricercare la nozione di causa
in concreto, ovvero come ragione concreta del negozio giuridi-
co.
Intesa quale elemento concreto, la causa deve allora coin-
cidere con la destinazione che le parti intendono imprimere in
concreto a quella operazione economica che le stesse pongono
in essere per realizzare un dato assetto di interessi di cui sono
titolari.
E' allora l'interesse in concreto che le parti vogliono rea-
lizzare che deve costituire oggetto di esame.

Il collegamento tra i contratti


L'interesse che le parti intendono realizzare può essere
raggiunto mediante l'utilizzo di un sono contratto ovvero -
come nella specie - facendo ricorso a più schemi contrattuali.
Conseguentemente, devesi verificare se tra gli schemi

307
contrattuali utilizzati dai contraenti si possa ravvisare un colle-
gamento che giustifichi il loro contemporaneo utilizzo ovvero
se la causa sottesa a ciascuna tipologia contattuale possa rite-
nersi indipendente dall'altra.
L'elemento causale - inteso come interessi in concreto cui
le parti mirano - risulta quindi centrale in tale analisi, pe rco-
gliere la giustificazione posta a fondamento della complessa
operazione economica realizzata, attaverso il predetto collega-
mento negoziale.
Tale collegamento può risultare espressamente previsto
dai contraenti oppure implicito.
Nel primo caso, sono gli stessi contraenti a sottoscrivere
una pattuizione contrattuale che richiama un diverso contratto,
le cui sorti i contraenti intendono collegare a quello contenente
la predetta clausola.
Diversamente, se il collegamento funzionale tra i due
contratti sottoscritti dalle parti si coglie perché i due accordi
perseguono un fine unico, ma non sussiste in nessuno di essi al-
cun rinvio all'altro, il collegamento è implicito.
La particolarità di questi contratti è che ognuno di essi
formalmente persegue un proprio fine (si pensi al contratto di

308
affitto e a quello preliminare di cui al caso in esame); tuttavia
ciascun contratto persegue, altresì, un fine ulteriore che è il me-
desimo. Tale fine ulteriore deve essere verificato e riscontrato
poiché questo rappresenta la causa concreta cui mira l'intera
operazione realizzata e quindi è alla luce di esso che deve
emettersi un giudizio di meritevolezza dell'interesse effettiva-
mente perseguito dai contraenti.
Quindi il fine che ciascun contratto persegue singolar-
mente considerato è solo parziale e deve essere necessariamen-
te interpretato unitamente al fine ulteriore.
Il collegamento negoziale deve esser riscontrato in ragio-
ne di tale elemento oggettivo che è, per l'appunto, l'interdipen-
denza funzionale tra i due contratti e ciò, indipendetemente se i
contraenti abbiano avuto contezza di realizzare tale tipologia di
operazione (alla quale, quindi gli stessi potrebbero dar luogo,
senza rendersi conto di ciò).
La connessione funzionale tra i contratti può essere bidi-
rezionale o pluridirezionale nonché unidirezionale.
Nel primo caso, si ha una connessione reciproca tra i due
contratti tale per cui le sorti dell'uno sono connesse alle sorti
dell'altro: quindi, se un contratto si risolve ciò implica la risolu-

309
zione anche del contratto a questo collegato; se il contratto vie-
ne dichiarato invalido, l'invalidità travolge anche il diverso
contratto a quello collegato, ecc.
Lo stesso principio vale nel caso in cui nelle operazioni
particolarmente complesse i contratti fra loro collegati siano
più di due; in tali casi la pluridirezionalità dei medesimi fa sì
che le sorti di ogni contratto si ripercuotano su tutti gli altri che
sono espressione della medesima operazione economica e che,
alla luce di quanto detto, sono quindi sorretti dal medesimo
fine ulteriore.
Diversamente, nel caso in cui vi sia un collegamento uni-
direzionale vi è solo un contratto che seppure collegato all'al-
tro segue le sorti di quest'ultimo; ma non vale il contrario.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE – CASS. 3 APRILE

2013, N. 8100

L'accertamento del collegamento negoziale deve essere com-

310
piuto con riferimento allo scopo cui l'intera operazione eco-
nomica mira che è ulteriore rispetto a quello proprio delle
singole tipologie contrattuali di cui le parti si siano avvalse.

“La causa del contratto costituisce la sintesi dei con-


trapposti interessi reali che le parti intendono realizzare con la
specifica negoziazione, indipendentemente dall’astratto model-
lo utilizzato; ne deriva che, in ipotesi di scrittura contenente un
contratto di affitto agrario di durata decennale, con contestua-
le pagamento anticipato dell’intero canone dovuto, nonché un
preliminare di compravendita del medesimo fondo, con imme-
diata immissione dell’affittuario promissario acquirente nel
possesso del predio, stante il collegamento teleologico tra il
rapporto di affittanza e la promessa di vendita, in quanto il
primo configuri il mezzo escogitato dalle parti per superare il
limite legale di provvisoria inalienabilità delle terre di riforma
agraria, vendute con riservato dominio dagli enti di sviluppo,
la valorizzazione della funzione del singolo accordo intercorso
tra i contraenti impone di ritenere che, scaduto il termine di
dieci anni pattiziamente previsto, il contratto di affitto non
operi più come strumento di composizione dei reciproci inte-

311
ressi, per aver esaurito ogni sua pratica utilità, senza che nes-
suna previsione legislativa possa automaticamente prorogarlo,
con la conseguenza che il protrarsi della detenzione del bene
ad opera del promissario debba intendersi come esecuzione
del preliminare e non possa perciò integrare alcun inadempi-
mento” (Cass. 3 aprile 2013, n. 8100).

La Corte di Cassazione, con riguardo alle fattispecie nelle


quali vi sono due o più contratti appaiono finalizzati a perse-
guire un unico scopo, ha affermato che si deve indagare su
quale sia l'effettivo tenore del contratto che rileva, nonché - in
ragione di quanto emerge dal caso concreto - di altri eventuali
schemi contrattuali che, seppure intercorsi tra parti diverse pos-
sano ad ogni modo reputarsi connessi al primo, nel caso però
in cui i contraenti abbiano inteso realizzare un unica complessa
operazione economica.

312
TESTO INTEGRALE
Con contratto del 28 dicembre 1966 l'Ente di Sviluppo di Puglia,
Lucania e Molise vendette, con patto di riservato dominio, a F.G. un
podere, con annessi fabbricati rurali, in agro di (OMISSIS).
Cessata nel 1980 la riserva di proprietà, all'esito del pagamento di
tutte le annualità di prezzo, il F., la moglie V. M.L. e M.C.Z., con
un'unica scrittura privata del 26 novembre 1980 stipularono due negozi
giuridici: a) un contratto di affitto per 10 anni del predio, con pagamento
contestuale e anticipato dell'intero canone decennale pattuito, fissato
nella misura di L. dieci milioni; b) un preliminare di vendita del fondo al
prezzo di L. sessanta milioni, anch'esso interamente versato, con
immediata immissione nel godimento del cespite dell'affittuaria
promissaria acquirente.
Scaduti i dieci anni di durata dell'affitto e i trenta di inalienabilità
dell'immobile, nessuna delle parti chiese che si procedesse alla stipula
dell'atto pubblico di compravendita.
Morto F.G., la moglie V.M.L. e la figlia F.M.R. convennero la M.,
rimasta nel possesso del terreno, innanzi al Tribunale di Bari, sez. spec.
agraria, chiedendo che venisse dichiarata la risoluzione del contratto di
affitto per gravi inadempienze dell'affittuaria, con condanna della stessa
alla restituzione del bene.
Dedussero, a sostegno della domanda, che la convenuta aveva
arbitrariamente mutato l'originaria destinazione del fondo; distrutto gran
parte dei muretti a secco; lasciato deperire i locali pertinenziali; omesso
di pagare il canone a decorrere dal 1990.
Costituitasi tardivamente in giudizio, la convenuta contestò le
avverse pretese.
Con sentenza del 29 maggio /11 luglio 2009 il giudice adito
accolse la domanda.
Proposto dalla soccombente gravame, la Corte territoriale, in data
8 luglio 2010, in accoglimento dell'appello, l'ha invece rigettata.
Ha ritenuto il decidente che, essendo sopravvenuta nelle more la
L. n. 203 del 1982, la quale per gli affitti a coltivatore diretto ne aveva
fissato in quindici anni la durata legale, il contratto stipulato tra le parti,

313
in mancanza della disdetta consentita dall'art. 5 della stessa fonte, si era
automaticamente prorogato fino al 1997.
Ha tuttavia affermato che correttamente la M. era rimasta nel
possesso del fondo, essendo a tanto legittimata dal contratto preliminare
di vendita.
Ha infine escluso la sussistenza di un inadempimento
dell'affittuaria, né per i pretesi dissodamenti del terreno, trattandosi
semmai di miglioramento espressamente autorizzato; né per l'asserita
distruzione dei muretti a secco e dei fabbricati, in quanto non provata;
nè, infine, per il mancato pagamento del canone, perché la M.,
consapevole di avere pagato l'intero prezzo, riteneva di nulla più dovere.
Per la cassazione di detta pronuncia ricorrono a questa Corte V.
M.L. e F.M.R., formulando tre motivi.
Resiste con controricorso M.C.Z., che propone altresì ricorso
incidentale affidato a un solo mezzo.
Motivi della decisione
1. Le impugnazioni hinc et inde proposte avverso la stessa sentenza sono
state riunite ex art. 335 cod. proc. civ..
Partendo dal ricorso principale, con il primo motivo le ricorrenti
denunciano violazione dell'art. 345 cod. proc. civ., comma 2, ex art. 360
cod. proc. civ., n. 3, per avere il decidente affermato che l'eccezione di
inesistenza del contratto di affitto sollevata dalla M.C. in grado di
appello costituiva una mera difesa.
Sostengono, per contro, che essa integrava una eccezione in senso
stresso, la cui deduzione era, conseguentemente, preclusa in sede di
gravame.
2. Le critiche sono infondate.
Il giudice di merito non si è limitato a qualificare in termini di
pura argomentazione difensiva la deduzione della convenuta, ma ha
altresì opportunamente evidenziato che, contrariamente all'assunto delle
appellate, la M.C. già al momento della sua costituzione in giudizio, sia
pure tardiva, aveva contestato l'attualità dell'esistenza di un contratto di
affitto del terreno, significativamente evidenziando, in proposito, che
scaduto il termine di trent'anni dalla prima assegnazione del fondo, le
parti erano rimaste legate esclusivamente dal preliminare di vendita.

314
Ora, tali rilievi, idonei a integrare una autonoma ratio decidendi,
non sono stati affatto censurati, neppure sotto il profilo che la tardiva
costituzione era avvenuta quando il thema decidendum - e il connesso
thema probandum - si erano già definitivamente consolidati, di talché
ogni allegazione volta a contestare la piattaforma fattuale di riferimento,
era da ritenersi preclusa.
A ciò aggiungasi che, a ben vedere, la perdurante vigenza di un
contratto di affitto relativo al fondo detenuto dalla M. C. costituiva uno
degli elementi costitutivi della pretesa azionata, di guisa che, in
mancanza di un atteggiamento difensivo della convenuta idoneo a
espungerlo dall'ambito degli accertamenti richiesti, non solo la
contestazione della sua sussistenza non soggiaceva alle preclusioni delle
eccezioni in senso stretto, ma la rispondenza al vero dell'allegazione
andava verificata d'ufficio dal giudice.
3.1 Con il secondo mezzo le impugnanti lamentano violazione dell'art.
112 cod. proc. civ., nonché vizi motivazionali, ex art. 360 cod. proc. civ.,
nn. 3 e 5, per avere il decidente affermato che l'intimata, ancorché
ancora legata alla controparte dal contratto di affitto stipulato in data 26
novembre 1980, non poteva essere condannata al rilascio, in quanto
legittimata alla detenzione del cespite dal preliminare di vendita, e cioè
da un contratto che non era oggetto del giudizio.
Secondo le esponenti tali affermazioni sarebbero profondamente
contraddittorie, considerato che l'affitto e il preliminare di vendita,
ancorché contestualmente stipulati, erano contratti tra loro
assolutamente autonomi.
3.2 Con il terzo motivo deducono violazione della L. n. 203 del 1982,
art. 5 e art. 112 cod. proc. civ., nonché vizi motivazionali, ex art. 360
cod. proc. civ., nn. 3 e 5, per avere la Corte d'appello escluso
l'enucleabilità di un comportamento colpevole con riferimento sia al
mancato pagamento dei canoni maturati successivamente all'annata
agraria 1990, sia alle altre inadempienze contestate.
4 Le censure, che si prestano a essere esaminate congiuntamente, per la
loro intrinseca connessione, ruotano intorno al contenuto del contratto in
data 26 novembre 1980 che, per quanto risulta dalla sentenza impugnata
e dalle allegazioni difensive hinc et inde formulate, consacrava
l'avvenuta conclusione tra le parti e di un rapporto di affittanza agraria e

315
di un preliminare di vendita, contratti relativi entrambi al medesimo
predio.
Ciò posto, le formulate critiche non colgono nel segno, anche se
la motivazione della sentenza impugnata deve essere corretta, ai sensi
dell'art. 384 cod. proc. civ., u.c..
5 Va invero osservato, a integrazione e rettifica dei rilievi formulati dal
giudice di merito in ordine alla importanza e alla colpevolezza degli
inadempimenti contestati alla convenuta, che il rapporto contrattuale di
affittanza era teleologicamente collegato, quanto alla genesi e alla
finalità, con il contratto preliminare di compravendita, considerato che
esso costituì il mezzo escogitato dalle parti per superare il limite della
provvisoria inalienabilità del predio. Non a caso i paciscenti
accortamente previdero che, anche in caso di stipula dell'atto pubblico
prima della scadenza dell'affitto, l'alienante avrebbe avuto diritto a
ritenere l'intero canone già anticipatamente versato. Il che, disvelando la
loro volontà di blindare il costo complessivo dell'operazione, impone di
ritenere che, specularmente e implicitamente, le stesse parti intesero
altresì escludere la spettanza di qualsivoglia corrispettivo per l'ipotesi in
cui la sottoscrizione dell'atto definitivo di vendita fosse stata per
avventura posticipata.
6 In realtà presupposto non dichiarato degli accordi negoziali era,
all'evidenza, che la scadenza dei dieci anni necessari a che il predio
diventasse alienabile avrebbe tolto all'affitto ogni utilità pratica e che da
quel momento l'eventuale protrarsi della detenzione della promissaria -
immessa dal promittente alienante nel possesso definitivo del bene
(confr. pag. 6 della sentenza impugnata) - sarebbe avvenuta a titolo di
esecuzione anticipata del contratto preliminare (confr. Cass. civ. 22
marzo 2011, n. 6489; Cass. civ. 1 marzo 2010, n. 4863).
E una volta adottata siffatta prospettiva, non ha evidentemente
troppo senso parlare di applicazione automatica, al contratto di affitto,
della durata prevista dalla L. n. 203 del 1982.
Soccorrono qui gli approdi di quella elaborazione dogmatica, che
dalle insufficienze della nozione astratta di causa accolta dal nostro
codice - nozione utile per la sua portata divulgativa e semplificativa ma
sotto molti profili, inappagante, in quanto inidonea, a tacer d'altro, a
spiegare la possibilità che un contratto tipico possa avere causa illecita -

316
ha tratto argomento e linfa per una nuova ermeneutica del concetto di
causa.
Tali approcci, partendo dall'invincibile rilievo che l'asciutto
riferimento alla funzione economico-sociale degli accordi raggiunti
dalle parti, considerata avulsa dal contesto in cui il programma
negoziale è maturato ed è immerso, si risolve in una formula stereotipa
che non aiuta l'interprete a confrontarsi con le problematiche poste dalla
patologia negoziale, hanno spostato l'attenzione dallo sterile e astratto
schema contrattuale, di volta in volta adottato, al concreto e dinamico
assetto dato dalle parti ai loro contrapposti interessi.
Di talché, abbandonata la tradizionale nozione dell'elemento in
discorso in ragione dell'obsolescenza e della insufficienza della matrice
ideologica sottesa agli orientamenti che lo configurano come strumento
di controllo della utilità sociale delle modalità di attuazione
dell'autonomia privata, la causa è stata ricostruita in termini di sintesi
degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare, al di là del
modello utilizzato (confr. Cass. civ. 12 novembre 2009, n. 23941; Cass.
civ. 20 dicembre 2007, n. 26958; Cass. civ. 8 maggio 2006, n. 10490).
7 Ora, proprio la valorizzazione della funzione della singola,
specifica negoziazione in concreto intercorsa tra le parti - in un contesto
normativo che specificamente prevede che la prestazione deve
corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale del creditore (art.
1174 cod. civ.) e che configura come causa di estinzione
dell'obbligazione il venir meno, per un evento sopravvenuto,
dell'interesse del creditore alla sua esecuzione (art. 1256 cod. civ.,
comma 2, ultima parte) - impone di ritenere che, scaduto il termine
pattiziamente previsto, il contratto di affitto cessò di operare come
strumento di composizione dei contrapposti interessi, avendo esaurito
ogni sua pratica utilità, con l'ulteriore e decisivo corollario che nessuna
previsione legislativa poteva più prorogarlo.
Ne deriva che la condotta della M., non che incolpevole, non
integrò alcun inadempimento.
Il ricorso principale deve, in definitiva, essere integralmente
rigettato.
9 Va invece dichiarato inammissibile il ricorso incidentale, in quanto
proposto dalla parte totalmente vittoriosa. E tanto in continuità con la

317
giurisprudenza di questa Corte che nega alla parte vittoriosa in appello
la legittimazione a proporre ricorso per cassazione diretto soltanto alla
modifica della motivazione della sentenza impugnata, potendo tale
correzione essere ottenuta mediante la semplice riproposizione delle
difese nel controricorso o attraverso l'esercizio del potere correttivo
attribuito al giudice di legittimità dall'art. 384 cod. proc. Civ. (confr.
Cass. civ. 24 marzo 2010, n. 7057; Cass. civ. 19 ottobre 2007, n. 22010).
Le spese vanno a carico delle ricorrenti principali in base al
criterio della soccombenza.
P.Q.M.
La Corte, pronunciando sui ricorsi riuniti, rigetta il ricorso
principale; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; condanna le
ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi
Euro 5.200,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre I.V.A. e C.P.A.,
come per legge.
Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2013

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Pe risolvere il quesito posto, deve aversi riguardo agli ac-


cordi in concreto intercorsi tra il deceduto Signor Bianchi ed il
Signor Rossi.
L'accertata connessione tra i contratti di affitto del fondo
ed il preliminare di vendita concernente il medesimo fondo

318
conduce a ritenere che sussista un collegamento funzionale tra i
due contratti.
Ciò implica che, scaduto il termine del contratto di affitto
del fondo, questo ha esaurito la sua funzione sicché non può
dirsi prorogato. Il successivo possesso nel fondo, infatti, perpe-
trato da parte del Signor Rossi non integra un inadempimento
contrattuale per il fatto che il canone del contratto di affitto non
viene corrisposto (essendo lo stesso, come detto, versato uin
un'unica soluzione anticipata) ma è supportato dalla vigenza
del contratto preliminare di vendita.
Infatti, come detto, il contratto di affitto prevedeva un
termine di scadenza che coincideva con il venir meno della
clausola di inalienabilità del fondo medesimo, sicché scaduto il
termine indicato, il contratto è alineabile e, essendovi un con-
tratto preliminare sottoscritto dalle parti, l'occupazione del pre-
detto fondo da parte del promissario acquirente (Signor Rossi)
può legittimamente intendersi quale esecuzione anticipata del
contratto preliminare.
L'azione degli eredi del Signor Bianchi non potrà quindi
trovare accoglimento.

319
10. IL VINCOLO DI ESCLUSIVA NELLA
SOMMINISTRAZIONE

IL CASO
La società X ha sottoscritto con la società Y un contratto di
somministrazione in forza del quale la prima si impegna a rifornire la
seconda di prodotti vinicoli (nella specie, vini e liquori) con vincolo
di esclusiva.
I contraenti hanno previsto, altresì, la possibilità di modificare, di
comune accordo, l'entità del corrispettivo da erogare per la fornitura
di vini e liquori, all'inizio di ogni anno relativamente ad un contratto
per il quale è stata prevista durata quadriennale.
Nella vigenza del predetto contratto, manifestandosi una consistente
crisi nel settore di tali prodotti, i contraenti addivengono alla
conclusione di sospendere per due anni la fornitura della merce.
Passato il periodo di sospensione pattuito, la società Y modifica il
prezzo del corrispettivo e, a fronte di tale modifica, la società X
ritiene di non essere vincolata alla prosecuzione del contratto rispetto
al quale - a suo dire - la società Y si sarebbe resa inadempiente.
Per tale motivo, la società X provvede a commercializzare i
medesimi prodotti ad un prezzo più basso rispetto a quello indicato
dalla società somministrata.

Quesito
Può la società X in ragione del contratto di somministrazione
sottoscritto legittimamente pretendere che la fornitura dei prodotti
vinicoli venga distribuita ad un prezzo inferiore rispetto a quello
originariamente pattuito?

320
ESAME DELLA FATTISPECIE

La fattispecie che occupa concerne un contratto di


somministrazione nel quale le parti hanno posto a carico del
somministrante l'obbligo di rifornire in via esclusiva l'altro
contraente (c.d. patto di esclusiva).
L'oggetto del contratto di somministrazione è
rappresentato dalla distribuzione di prodotti vinicoli e la durata
del predetto contratto è fissata in quattro anni.
Secondo gli accordi assunti, il corrispettivo è stabilito da
entrambe le parti di anno in anno. Tuttavia, in ragione di un
prolungato periodo di crisi, i contraenti sono addivenuti alla
decisione di sospendere per un determinato periodo la
distribuzione dei prodotti.
Superato il predetto periodo, la società Y non si è ritenuta
vincolata ad onorare gli impegni contrattuali assunti in
precedenza poiché dopo la sospensione la società X ha
stabilito, in via unilaterale, un corrispettivo diverso; per tale
motivo, la società Y ha commercializzato i medesimi prodotti
per conto di società terze, quale reazione all'inadempimento
compiuto dalla società X.

321
LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 28 gennaio 2014, n. 1766. Il risarcimento del danno non


patrimoniale ha luogo in conseguenza della lesione di interessi della
persona di rango costituzionale, oppure nei casi espressamente previsti
dalla legge, ai sensi dell’art. 2059 c.c.; ne consegue che va escluso che
l’interruzione della somministrazione di energia elettrica, anche se fonte
di disagio, appartenga al novero dei pregiudizi meritevoli di
considerazione a tale titolo, rientrando tra le contrarietà e gli
inconvenienti della vita quotidiana in relazione ai quali l’ordinamento
richiede un certo margine di tolleranza.

Cass. 28 febbraio 2013, n. 5096. Non è risarcibile il danno non


patrimoniale subito dall’utente in conseguenza dell’interruzione della
somministrazione di energia elettrica addebitabile al gestore della rete di
distribuzione, ove la parte non indichi, né provi, quale sia lo specifico
diritto inviolabile costituzionalmente garantito, leso in modo serio sul
fatto illecito.

Cass. 23 settembre 2013, n. 21729. La clausola di esclusiva inserita in


un contratto di somministrazione, in virtù del principio generale di
libertà delle forme negoziali, deve avere la medesima forma prevista per
il contratto cui accede e non soggiace all’operatività dell’art. 2596 c.c.
che impone tale forma, ad probationem, per il patto che limita la
concorrenza.

Cass. 23 settembre 2013, n. 21729. La clausola di esclusiva inserita in


un contratto di somministrazione, non è soggetta al limite di durata
quinquennale previsto dall’art. 2596 c.c. per gli accordi limitativi della
concorrenza, a meno che non possa qualificarsi come un autonomo
patto, nel qual caso però il limite temporale di validità del patto di non
concorrenza non si estende alla durata del contratto di somministrazione.

322
Cass. 20 dicembre 2007, n. 26977. In favore dell’imprenditore che
somministri beni o presti servizi in regime di monopolio legale, trova
applicazione, in assenza di espressa deroga, non solo l’art. 1460 c.c.,
sull’eccezione di inadempimento, ma anche l’art. 1461 c.c., sulla facoltà
di sospendere l’esecuzione della prestazione dovuta quando sussista un
evidente pericolo di non ricevere il corrispettivo in ragione delle
condizioni patrimoniali dell’altro contraente, trattandosi di previsioni
compatibili con l’obbligo, posto dall’art. 2597 c.c., di contrattare e di
osservare parità di trattamento; da ciò deriva che, a maggior ragione,
sono applicabili anche le altre disposizioni in tema di inadempimento
contrattuale, tra cui l’art. 1453 c.c. relativo alla disciplina della
risoluzione.

Cass. 11 luglio 2011, n. 15189. L’accertamento compiuto dal giudice di


merito circa l’esistenza di un contratto avente ad oggetto una pluralità di
prestazioni ad un cliente da parte di un fornitore non può essere
condizione sufficiente per configurare il contratto di somministrazione,
ove non sia individuata la connessione tra le prestazioni stesse,
trattandosi di un contratto ad esecuzione continuata che si caratterizza
come negozio unitario pur nel ripetersi degli atti di esecuzione.

Cass. 18 marzo 1999, n. 2474. La sospensione dell’esecuzione del


contratto, ai sensi dell’art. 1460 c.c., non necessita di preventiva diffida
ad adempiere e non contrasta con i principi di buona fede e correttezza
anche se è formulata per la prima volta in giudizio per contrastare la
domanda di adempimento della controparte, e ancorché
l’inadempimento di questa concerna un’obbligazione accessoria a quella
principale, ma essenziale per l’equilibrio sinallagmatico del rapporto, e
di tale gravità da menomare la fiducia sul corretto adempimento del
contratto (nella specie, l’acquirente di apparecchi telefonici forniti dalla
Sip, da installare su autovetture, su cui doveva avvenire il collaudo e la
connessione di rete, e perciò senza rimuoverli, aveva immesso nel
mercato una valigetta per riporli, così rendendoli utilizzabili come
portatili, e la fornitrice aveva sospeso l’esecuzione del contratto).

323
Cass. 2 ottobre 1997, n. 9624. Il contratto di utenza telefonica è
inquadrabile nello schema del contratto di somministrazione e pertanto
la clausola contrattuale che prevede la facoltà del somministrante di
sospendere la fornitura nel caso di ritardato pagamento anche di una sola
bolletta rappresenta una specificazione contrattuale dell’art. 1565 c.c.
(del quale amplia l’ambito a favore del somministrante) e costituisce
quindi una reazione all’inadempimento dell’utente cui viene opposta
l’exceptio inadimplenti contractus; ne consegue che la sospensione della
fornitura è legittima solo finché permane l’inadempimento dell’utente e
che detta sospensione, se attuata quando ormai l’utente ha pagato il suo
debito, costituisce inadempimento contrattuale e obbliga perciò il
somministrante al risarcimento del danno ai sensi degli art. 1176 e 1218
c.c., a meno che non sia fornita la prova che tale inadempimento è stato
determinato da causa non imputabile al somministrante, ovvero, nella
specie, dalla ignoranza incolpevole dell’avvenuto pagamento; la
mancata conoscenza del pagamento da parte dello specifico ufficio
addetto alla sospensione e riattivazione del servizio, essendo un fatto
interno alla società e non dipendente dall’utente, non esclude
l’obbligazione risarcitoria se non sia fornita la prova che essa dipende da
causa estranea alla società e alla sua organizzazione.

*****

LE NORME RICHIAMATE

Art. 1559 c.c.


Nozione

324
1. La somministrazione è il contratto con il quale una
parte si obbliga, verso corrispettivo di un prezzo, a eseguire, a
favore dell'altra, prestazioni periodiche o continuative di cose.

Art. 1560 c.c.


Entità della somministrazione
1. Qualora non sia determinata l'entità della
somministrazione, si intende pattuita quella corrispondente al
normale fabbisogno della parte che vi ha diritto, avuto
riguardo al tempo della conclusione del contratto.
2. Se le parti hanno stabilito soltanto il limite massimo e
quello minimo per l'intera somministrazione o per le singole
prestazioni, spetta all'avente diritto alla somministrazione di
stabilire, entro i limiti suddetti, il quantitativo dovuto.
3. Se l'entità della somministrazione deve determinarsi in
relazione al fabbisogno ed è stabilito un quantitativo minimo,
l'avente diritto alla somministrazione è tenuto per la quantità
corrispondente al fabbisogno se questo supera il minimo
stesso.

325
Art. 1561 c.c.
Determinazione del prezzo
1. Nella somministrazione a carattere periodico, se il
prezzo deve essere determinato secondo le norme dell'articolo
1474, si ha riguardo al tempo della scadenza delle singole
prestazioni e al luogo in cui queste devono essere eseguite.

Art. 1565 c.c.


Sospensione della somministrazione.
1. Se la parte che ha diritto alla somministrazione è
inadempiente e l'inadempimento è di lieve entità, il
somministrante non può sospendere l'esecuzione del contratto
senza dare congruo preavviso.

Art. 1567 c.c.


Esclusiva a favore del somministrante.
1. Se nel contratto è pattuita la clausola di esclusiva a
favore del somministrante, l'altra parte non può ricevere da
terzi prestazioni della stessa natura, né, salvo patto contrario,

326
può provvedere con mezzi propri alla produzione delle cose
che formano oggetto del contratto.

Art. 1568 c.c.


Esclusiva a favore dell'avente diritto alla somministrazione.
1. Se la clausola di esclusiva è pattuita a favore
dell'avente diritto alla somministrazione, il somministrante non
può compiere nella zona per cui la esclusiva è concessa e per
la durata del contratto, né direttamente né indirettamente,
prestazioni della stessa natura di quelle che formano oggetto
del contratto.
2. L'avente diritto alla somministrazione, che assume
l'obbligo di promuovere, nella zona assegnatagli, la vendita
delle cose di cui ha l'esclusiva, risponde dei danni in caso di
inadempimento a tale obbligo, anche se ha eseguito il
contratto rispetto al quantitativo minimo che sia stato fissato.

Art. 1460 c.c.


Eccezione d'inadempimento.

327
1. Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno
dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione,
se l'altro non adempie o offre di adempiere
contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per
l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla
natura del contratto.
2. Tuttavia non può rifiutarsi l'esecuzione se, avuto
riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede.

*****

GLI ISTITUTI

La definizione del contratto di somministrazione è fornita


dall'art. 1559 c.c., secondo cui: “la somministrazione è il
contratto con il quale una parte si obbliga, verso corrispettivo
di un prezzo, a eseguire, a favore dell'altra, prestazioni
periodiche o continuative di cose".
L'oggetto del contratto di somministrazione è quindi
l'erogazione di cose, con carattere di periodicità e continuità;

328
se, invece, l'oggetto è rappresentato dal compimento di un
servizio o di un'opera troveranno applicazione le disposizioni
dettate in tema di contratto di appalto.
Le differenze tra i due istituti, tuttavia, si attenuano nel
caso in cui l'oggetto del contratto sia rappresentato da
prestazioni periodiche o continuative di servizi (si parla in tale
ultimo caso di somministrazione di servizi): in tale ipotesi,
infatti, a mente dell'art. 1677 c.c.: “Se l'appalto ha per oggetto
prestazioni continuative o periodiche di servizi, si osservano, in
quanto compatibili, le norme di questo capo e quelle relative al
contratto di somministrazione”.
Volendo individuare altre figure affini alla
somministrazione, si deve considerare l'elemento della
periodicità della consegna - tratto peculiare del contratto di
somministrazione - e porlo a confronto con la periodicità che si
riscontra nel contratto di vendita a consegne ripartite.
In tale ultimo caso, la prestazione è unica ma la consegna
periodica (che afferisce solo al momento esecutivo del
contratto) risulta più congeniale all'interesse sotteso sicché la
ricezione delle cose avviene in momenti differiti nel tempo; di
contro, nel contratto di somministrazione l'interesse da

329
soddisfare è un fabbisogno periodico per cui le prestazioni
sono plurime e hanno carattere, per l'appunto, periodico.
Rispetto al contratto di vendita, avente ad oggetto
un'unica prestazione, il contratto di somministrazione si
presenta, quindi, con uno schema maggiormente duttile.
Per quel che attiene alla quantità di cose da fornire, la
stessa può essere indeterminata ovvero rapportata al bisogno
della parte. Recita l'art. 1560 c.c.: “qualora non sia
determinata l'entità della somministrazione, s'intende pattuita
quella corrispondente al normale fabbisogno della parte che vi
ha diritto, avuto riguardo al tempo della conclusione del
contratto”.
Le parti possono inoltre espressamente prevedere la cd.
somministrazione a piacere, in cui la quantità delle cose da
erogare è rimessa alla discrezionalità del somministrato.
In tali casi, il prezzo potrà essere stabilito in un secondo
momento in ragione della quantità di cose effettivamente
somministrate.
L'unicità del contratto di somministrazione non viene
meno in presenza di molteplici prestazioni, le quali possono
essere intese anche in modo autonomo tra loro, senza che ciò

330
conduca a ritenere che vi siano più negozi giuridici: anche in
tal caso il negozio di somministrazione resta sempre unitario.
Il Supremo Collegio, in ordine a tale proposito, ha
precisato che al fine di poter ravvisare un contratto di
somministrazione non basta riscontrare una pluralità di
prestazioni a favore di un cliente da parte di un
somministrante, dovendo le prestazioni risultare tra loro
connesse. Si tratta, infatti, di un contratto ad esecuzione
continuata, la cui peculiarità è quella di essere un negozio
unitario che si esegue mediante diverse prestazioni che
vengono erogate nel tempo.
Si distingue infine la somministrazione d'uso e la
somministrazione di consumo: in questa seconda ipotesi il
somministrante consegna o trasferisce al somministrato
determinati beni; nella somministrazione d'uso, invece, il
somministrante mette a disposizione del somministrato, su base
periodica o continuativa, taluni beni (si riporta l'esempio del
fornitore che mette a disposizione del somministrato bottiglie
vuote affinché vengano utilizzate e poi restituite) .

Clausola di esclusiva a favore del somministrato.

331
Il patto può essere stipulato a favore di una delle due
parti ovvero a favore di entrambe.
L'art. 1568 c.c. statuisce che “se la clausola di esclusiva
è pattuita a favore dell'avente diritto alla somministrazione, il
somministrante non può compiere nella zona per cui l'esclusiva
è concessa e per la durata del contratto, né direttamente né
indirettamente, prestazioni della stessa natura di quelle che
formano oggetto del contratto”.
E' frequente che il patto di esclusiva preveda in capo al
somministrato l'obbligo di distribuire i prodotti oggetto del
contratto di somministrazione in una determinata zona
territoriale, preventivamente concordata, nonché l'obbligo di
garantire la vendita di un quantitativo minimo dei prodotti, e di
impegnarsi nella distribuzione dei medesimi oltre il
superamento della soglia minima.
La previsione di una patto di esclusiva impone quindi al
somministrato di non commercializzare i medesimi prodotti
oggetto del contratto di somministrazione a favore di società
terze rispetto al somministrante.
La delimitazione dell'oggetto del contratto si accompagna
ad una delimitazione temporale che può coincidere con la

332
durata dell'intero contratto di somministrazione cui la
pattuizione afferisce, sicché in caso di proroga del contratto di
somministrazione anche la relativa clausola si intenderà
prorogata ope legis.
In ordine a tale ultimo aspetto, si segnala che alcuni
ritengono che si tratti, più propriamente, di una patto di non
concorrenza, soggetto al termine di durata quinquennale
nonché ai limiti di forma richiesti dall'art. 2596 c.c. (forma ad
substantiam).
L'applicazione di tali clausole potrebbe dar luogo a
politiche anticoncorrenziali sicché il profilo della liceità delle
medesime dovrà essere valutato anche alla luce della normativa
di cui alla legge della subforniutra, precisamente l'art. 9 Legge
192/1998, in tema di abuso di dipendenza economica.
Certamente le parti devono prevedere che tale patto operi
in un'area territorialmente delimitata: in assenza di una
specificazione in tal senso, l'operatività della pattuizione resterà
circoscritta al territorio in cui agisce il soggetto a favore del
quale essa è prevista.
La determinazione territoriale (o, in assenza, la sua
determinabilità) rileva ai fini della liceità della clausola la

333
quale, al contrario, in mancanza di un parametro di riferimento
del genere sarebbe affetta da nullità per mancanza di causa,
atteso che si avrebbe una pattuizione che esulerebbe dalla
tutela di un interesse, in capo al soggetto somministrato,
meritevole di tutela da parte dell'ordinamento giuridico.
Il patto di esclusiva deve essere osservato direttamente e
anche in via indiretta da parte del somministrante, a cui è fatto
divieto di aggirare la disposizione avvalendosi dell'operato di
terze persone: secondo il disposto dell'art. 1568 c.c., infatti:
“se la clausola di esclusiva è pattuita a favore dell'avente
diritto alla somministrazione, il somministrante non può
compiere nella zona per cui l'esclusiva è concessa e per la
durata del contratto, né direttamente né indirettamente,
prestazioni della stessa natura di quelle che formano oggetto
del contratto".
Di conseguenza, coloro i quali agiscono per conto del
somministrante, preventivamente informati, sono tenuti ad
onorare gli impegni assunti da quest'ultimo in termini di divieto
di concorrenza relativamente ai prodotti commercializzati e
specificati nella clausola di esclusiva, con riferimento al
territorio in cui opera il somministrato e per la durata

334
concordata.
Lo scopo che il legislatore ha inteso perseguire è dunque
da rinvenire nella tutela da apprestare al somministrato in
termini effettivi, scongiurando il rischio di possibili elusioni
rappresentate dalla costituzione di società partecipate, società
controllate, ovvero interposizioni di persona.
È ben possibile che il contratto di somministrazione
preveda un patto di esclusiva a favore di entrambe le parti.
Se è stipulata a favore del somministrante, il
somministrato non potrà rivolgersi ad altri per l'erogazione
periodica o continuativa di quelle cose alla quali non potrà
provvedere neppure da sé.
In tale ultimo caso in cui sussiste in capo al
somministrato un vincolo a ricevere la fornitura solo da parte
del somministrante, la tipologia di accordo ha - secondo il
prevalente orientamento espresso dalla giurisprudenza - un
fondamento differente (rispetto a quello che si rinviene nella
clausola posta a favore del somministrato), da intendersi come
uno strumento per contrastare la concorrenza piuttosto che -
come nel diverso caso - come forma volta a produrre un
incremento patrimoniale.

335
Può accadere che il senso della disposizione contenente il
patto di esclusiva si presenti poco chiaro nella formulazione
letterale, inducendo, in tale caso, l'organo giudicante ad
interpretarla come una clausola posta a favore di entrambe le
parti, richiamandosi a quella tendenza ad assicurare una
posizione di equilibrio le prestazioni e le controprestazioni
negli scambi commerciali.
La clausola di esclusiva non potrà essere utilmente
invocata in tutte quelle situazioni in cui vi sia un soggetto che
operi in regime di monopolio legale, poiché l'esercizio di
un'impresa in condizione di monopolio legale è consentito a
condizione che si rispetti l'obbligo di contrattare con chiunque
richieda le prestazioni che formano oggetto dell'impresa,
osservando la parità di trattamento (art. 2597 c.c.).
Trattandosi di una disposizione avnete carattere
convenzionale, il rimedio che potrà essere azionato è di norma
di natura risarcitoria.

Sospensione della prestazione oggetto del contratto di


somministrazione
La sospensione nel contratto di somministrazione è

336
dettagliatamente disciplinata dall'art. 1565 c.c., il quale
ammette tale rimedio, distinguendo tuttavia l'entità
dell'inadempimento del somministrato.
“Se la parte che ha diritto alla somministrazione è
inadempiente - si legge - e l'inadempimento è di lieve entità, il
somministrante non può sospendere l'esecuzione del contratto
senza dare congruo preavviso”.
La modalità attraverso cui si rende manifesta la volontà
di sospendere l'erogazione della prestazione che costituisce
oggetto del contratto, a fronte di un inadempimento, deve
essere preceduta da un preavviso, congruo, nel caso in cui il
somministrato si sia reso inadempiente, ma tale inadempimento
non si possa stimare come grave. Il giudizio di congruità
costituisce oggetto di valutazione da parte della giurisprudenza,
la quale ha escluso la ricorrenza del presupposto della
congruità in una fattispecie in cui il preavviso era stato dato
telefonicamente da un soggetto, non identificato, che aveva
fissato un termine di soli tre/quattro giorni per l'adempimento.
La soluzione offerta dal legislatore si spiega in funzione
del particolare interesse che la norma tutela, rappresentato dal
fabbisogno del somministrato relativo all'erogazione di

337
prestazioni continuative o periodiche di cose che spesso
afferiscono ad esigenze primarie ed insopprimibili della
persona, quali la fornitura del gas, dell'energia elettrica.
Pertanto, sebbene la citata norma costituisca
un'applicazione specifica dell'eccezione di inadempimento di
cui all'art. 1460 c.c., nel caso di inadempimento di lieve entità
non trova applicazione il rimedio di cui all'art. 1460 c.c.
Secondo alcuni autori in dottrina, è possibile che il
somministrante si avvalga del rimedio della sospensione
immediata, piuttosto che della risoluzione del contratto ex art.
1564 c.c. per il caso in cui l'inadempimento sia di non lieve
entità ma non così rilevante da menomare la fiducia
nell'adempimento successivo. Tale tesi, tuttavia, non è
unanimemente condivisa da altri studiosi, secondo i quali non
sarebbe ipotizzabile un inadempimento grave che non
comprometta il rapporto fiduciario che deve sottendere al
contratto di somministrazione.
Dunque, l'art. 1565 c.c. individua quali sono i
presupposti per l'esercizio dell'eccezione di inadempimento: se
il somministrato si rende inadempiente non erogando il
corrispettivo, potrà subire la sospensione della fornitura da

338
parte del somministrante, il quale sarà tenuto a dare un congruo
preavviso nel solo caso in cui l'inadempimento sia lieve;
diversamente, di fronte un grave inadempimento, il
somministrato sarà sollevato dal dare il preavviso.
In ogni caso, quindi, il somministrato, seppure si sia reso
inadempiente, non potrà subire l'interruzione del servizio.
In tal modo, al somministrato, attraverso il preavviso
comunicato in un congruo termine, è consentito sia di ovviare
all'inadempimento, provvedendo al pagamento del dovuto
(compresi eventuali importi che siano dovuti a titolo di penale
per il ritardo avvero a titolo di risarcimento dei danni
conseguenti al ritardo) sia di trovare una soluzione alternativa
(magari, procurandosi l'oggetto delle singole prestazioni della
somministrazione altrove).
Il legislatore ha quindi distinto l'inadempimento grave da
quello di lieve entità, prevedendo il rimedio della risoluzione
del contratto, non di fronte ad un inadempimento che sia di
“non scarsa” importanza, ma solo per il caso in cui si presenti
di una gravità tale da compromettere il rapporto fiduciario e
menomare la fiducia nell'esattezza dei successivi adempimenti.

339
Contratto oneroso, con prestazioni periodiche.
Nel contratto di somministrazione a fronte delle
prestazioni periodiche e continuative di cose erogate dal
somministrante vi è la prestazione gravante sul somministrato
che è tenuto a versare il prezzo. La correlazione tra le due
prestazioni rappresenta la causa di tale contratto che è quindi
un contratto di scambio.
Poiché l'avente diritto alla somministrazione è - come
detto - tenuto ad erogare il corrispettivo per la prestazione
ricevuta, la somministrazione si configura anche come un
contratto a titolo oneroso.
Si tratta inoltre di un contratto di durata, atteso che il
somministrante eroga con carattere di continuità e periodicità le
cose oggetto del contratto. La peculiarità della durata conduce
a ritenere che si tratti di un contratto d'impresa, in cui la parte
che eroga la fornitura si avvale solitamente di una struttura
imprenditoriale.
Discende che per tali contratti, nel caso in cui si vogliano
praticare condizioni contrattuali vessatorie, si applica la
disciplina prevista dall'art. 1341, 2° co., c.c. secondo cui: “in
ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente

340
approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore
di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità,
facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l'esecuzione,
ovvero sanciscono a carico dell'altro contraente decadenze,
limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla
libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga,
rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe
alla competenza dell'autorità giudiziaria".
Si applica la disciplina prevista dal codice del consumo
ove il contratto di somministrazione contenga clausole
vessatorie e sia stipulato tra un professionista e un
consumatore.
Poiché l'esecuzione delle prestazioni è prolungata nel
tempo, in caso di risoluzione del contratto, l'effetto dello
scioglimento non trova applicazione con riferimento alle
prestazioni già eseguite.
Abbiamo già visto, tracciando le differenze rispetto
all'istituto della vendita, che la periodicità o continuità del
fabbisogno da soddisfare - in tale tipologia contrattuale -
esclude che la somministrazione si possa qualificare come una
mera somma di vendite.

341
Il contratto di somministrazione non è soggetto a vincoli
di forma e si può concludere anche per facta concludentia.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE - CASS. 26


FEBBRAIO 2014, N. 4557

Nell'ipotesi in cui il somministrato si sia reso inadempiente


e si tratti di un inadempimento di non lieve entità trova
applicazione la norma ex art. 1460 c.c..

La posizione espressa dalla giurisprudenza di legittimità


è costante nel ritenere che debba trovare applicazione la
normativa dettata dall'art. 1460 c.c. nel caso in cui la
sospensione della fornitura prevista nell'ambito di un contratto
di somministrazione sia la conseguenza di un inadempimento
non lieve posta in essere dal somministrato.

342
TESTO INTEGRALE
1. La società N. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Varese il
legale rappresentante pro tempore della L, chiedendo:
a) che venisse accertato l'inadempimento da parte della convenuta
del contratto di somministrazione di siero di latte stipulato in data
8.11.2001 e che quest'ultima venisse condannata "a riprendere le
forniture in esecuzione del contratto";
b) che la L fosse condannata al risarcimento dei danni.
L'attrice esponeva:
a) di aver stipulato in data 8.11.2001 un contratto di
somministrazione con vincolo di esclusiva avente ad oggetto l'intera
produzione di siero di latte della suddetta Latteria, dall'1 gennaio 2002
al 31 novembre 2005;
b) che sospesa consensualmente la fornitura dal marzo 2004, la L
non l'aveva ripresa nonostante i ripetuti solleciti, procedendo invece alla
vendita del siero a terzi, in violazione dell'esclusiva e procurando ad
essa attrice gravi danni.
2. A.R., rappresentante pro tempore della L, si costituì in proprio,
assumendo di essere stato citato in giudizio personalmente ed eccepì la
propria carenza di legittimazione passiva nonchè l'incompetenza per
territorio del Tribunale di Varese, in favore di quello di Sondrio.
Nel merito chiese il rigetto della domanda.
3. La L rimase contumace.
4. La N. aderì all'eccezione preliminare di incompetenza e riassunse
quindi la causa dinanzi al Tribunale di Sondrio, riproponendo le
domande di merito in precedenza formulate e chiedendo, in via
preliminare, che venisse dichiarato il difetto di legittimazione passiva di
A.R. con conseguente estromissione dello stesso dal giudizio.
5. A.R. chiese che venisse accertato il proprio difetto di legittimazione
passiva e, nel merito, il rigetto delle domande attrici.

343
6. La L chiese:
a) che fosse accertata e dichiarata la risoluzione di ogni rapporto
contrattuale tra essa e l'attrice, ovvero l'insussistenza di un vincolo
contrattuale in ordine alla fornitura dedotta;
b) che fosse accertata e dichiarata l'insussistenza di un obbligo in
capo ad essa di cedere alla N. "l'intera produzione di siero di latte";
c) che in ogni caso fossero respinte le domande attrici.7. Il
Tribunale dichiarò la carenza di legittimazione passiva dell'A. e respinse
la domanda della N..
Avverso tale sentenza propose appello quest'ultima chiedendo:
a) che venisse accertato e dichiarato l'inadempimento contrattuale
della latteria, consistito nella interruzione delle forniture di siero, a
partire dal 25 marzo 2004 e fino alla scadenza contrattuale del 31
dicembre 2005;
b) che la latteria fosse condannata al risarcimento dei danni subiti
da essa appellante, da liquidarsi in via equitativa in misura pari al
mancato guadagno sofferto dal 25 marzo 2004 al 31 dicembre 2005,
quantificato in Euro 25.000,00 mensili, oltre accessori.
8. La Corte d'appello di Milano, con sentenza n. 1281/2009, ha
dichiarato inammissibile l'intervento in causa di A. R.; ha rigettato
l'appello principale e l'appello incidentale; ha condannato l'appellante a
rimborsare all'appellata le spese del giudizio di secondo grado; ha
condannato A.R. a rimborsare alla N. le spese del gravame.
9. Propone ricorso per cassazione la N con due motivi.
Resiste con controricorso la L, che presenta memoria.
Non svolge attività difensiva A.R..
Con il primo motivo parte ricorrente denuncia "insufficiente e
contraddittoria motivazione ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, circa
un punto decisivo della controversia ovvero sulla sospensione della
fornitura da parte della L quale inadempimento contrattuale". Rileva la

344
N che la Corte d'appello di Milano ha respinto la sua impugnazione sulla
base di due considerazioni tra loro confliggenti: a) da un lato, il
riconoscimento dell'esistenza e della validità di un contratto inter partes,
avente ad oggetto la fornitura di siero di latte, prodotto dalla L a favore
di essa N, a partire dall'1 gennaio 2001 sino al 31 dicembre 2005, ad
un prezzo variabile, con possibilità di rivedere tale prezzo di anno in
anno; b) dall'altro l'affermazione che la sospensione della fornitura di
latte da parte della stessa Lnon integri un inadempimento. In altri
termini, secondo la N, è palese che il giudice di secondo grado è
caduto in contraddizione ove ha affermato che l'interruzione della
fornitura non configura un inadempimento in capo alla L, mentre poco
prima ha sostenuto l'esistenza di un valido vincolo obbligatorio fra le
parti. Ne', sempre ad avviso della N si può valutare il suo
comportamento come inadempimento di precedenti accordi, tale da
giustificare l'applicazione dell'articolo 1460 c.c.. Essa infatti afferma
che, ricevuta la comunicazione della controparte nella quale si
manifestava l'impossibilità della prosecuzione della fornitura ad un
determinato prezzo, ha semplicemente accolto tale decisione per
consentire una rideterminazione del prezzo di acquisto del siero del
latte, ma non ha manifestato alcuna intenzione di non saldare le
successive forniture, oppure di non acquistare più il prodotto della L; ne'
ha imposto l'esecuzione del contratto di somministrazione "alle
condizioni da essa unilateralmente stabilite e deteriori per la stessa L".
Con il secondo motivo si denuncia "falsa applicazione dell'art.
1460 c.c., in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3". Sostiene
parte ricorrente che il legislatore, affinché un contraente non utilizzi
impropriamente l'eccezione di inadempimento di cui all'articolo 1460
c.c., per sottrarsi ai propri obblighi contrattuali, ha posto un limite di
proporzionalità fra le condotte delle due parti. In concreto pertanto il
giudice deve operare una valutazione dei due comportamenti, tenendo
conto non solo di un criterio di ordine temporale, ma anche di un
criterio di ordine logico, inteso a stabilire se vi sia una relazione causale
ed una adeguatezza tra inadempimento dell'uno e precedente
inadempimento dell'altro. Nel caso di specie, secondo parte ricorrente,
non si comprende come il venir meno di un accordo sul prezzo della

345
fornitura possa essere stato valutato dal Giudice come comportamento
inadempiente da parte della Ndi gravità tale da giustificare il
successivo inadempimento della L, in applicazione dell'articolo 1460
c.c.. Secondo la N nel caso in esame, la Corte d'appello ha dunque
applicato in modo del tutto erroneo l'articolo 1460 c.c., giungendo a
giudicare, senza alcuna motivazione, che la condotta tenuta dalla L ,
non costituisce inadempimento.
I due motivi, per la loro stretta connessione, devono essere
congiuntamente esaminati rilevando preliminarmente che il secondo
motivo è inammissibile in quanto privo del quesito di diritto ai sensi
dell'articolo 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis al ricorso in
esame (la sentenza è stata pubblicata il 18 maggio 2009). I due motivi
sono comunque infondati. Il contratto inter partes infatti, secondo
quanto emerge dall'impugnata sentenza, prevedeva che, ferme tutte le
altre pattuizioni, il prezzo del siero avrebbe potuto essere rivisto di
comune accordo ogni anno, prima del 31 dicembre ed a valere per l'anno
successivo. In difetto di tale accordo doveva trovare applicazione il
prezzo del siero inizialmente convenuto, senza che alcuna delle parti
potesse imporre unilateralmente diverse condizioni economiche, come
invece preteso dalla Ne.. I prezzi offerti da quest'ultima con la missiva
del 20 marzo 2004, inferiori a quelli pattuiti nel contratto dell'8
novembre 2011, non sono stati accettati dalla L. Ne' risulta che la stessa
ne abbia invitato quest'ultima ad eseguire la fornitura alle condizioni
economiche originariamente pattuite od a quelle diverse, in ipotesi
successivamente concordate fra le parti. Al contrario, la documentazione
in atti, secondo l'impugnata sentenza, dimostra che l'attuale ricorrente
pretendeva l'esecuzione del contratto di somministrazione alle
condizioni da essa unilateralmente stabilite e deteriori per la L
lamentandosi a torto, di fronte al rifiuto giustificato di quest'ultima, del
di lei inadempimento. Deve dunque ritenersi che, esattamente, la
sospensione della prestazione di somministrazione da parte della L è
stata inquadrata dalla Corte d'appello nell'ambito dell'articolo 1460 c.c.,
a fronte di una richiesta unilaterale della società N di praticare un prezzo
più basso di quello iniziale. In altri termini, il ricorrente non poteva
imporre unilateralmente tale prezzo per proseguire il rapporto,

346
occorrendo invece un accordo delle parti su un diverso prezzo, e
trovando applicazione, in assenza di tale accordo, l'applicazione del
prezzo iniziale.
Per le ragioni che precedono il ricorso deve essere dunque
rigettato con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di
cassazione che si liquidano come in dispositivo.

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Alla luce di quanto detto emerge chiaramente che la


fissazione unilaterale di un prezzo diverso - rispetto a quello
precedentemente fissato di comune accordo - da parte della
società Y integra un inadempimento contrattuale .
Il predetto inadempimento non può che essere
considerato di non lieve entità sicché opererà la norma
contenuta nell'art. 1460 c.c.
Dopo la sospensione, infatti, il contratto, in assenza di
una differente pattuizione, avrebbe dovuto proseguire alle
condizioni originariamente pattuite non essendo prevista la
facoltà di modificare unilateralmente il prezzo.

347
11. RESTITUZIONE DEL BENE LOCATO E MORA CRE-
DENDI

IL CASO

Il Signor Bianchi, proprietario di un'unità immobiliare, concede la


stessa in locazione al Signor Rossi che la utilizza quale sede di un
circolo ricreativo.
Dopo qualche anno, il Signor Rossi si avvale del diritto di recesso
che esercita validamente in ragione di gravi motivi e, alla scadenza
indicata, recede dal contratto.
Il Signor Bianchi, prima della consegna dell'unità immobiliare,
visiona la medesima e riscontra una serie di danni di una certa
gravità per cui intima al conduttore di provvedere alla loro
eliminazione prima di restituire l'immobile in oggetto.
Il Signor Rossi, assumendo che gli ingenti danni sono stati cagionati
da coloro che hanno frequentato il circolo ricreativo, provvede alla
loro eliminazione solo dopo diversi anni (visto che il Signor Bianchi
ha rifiutato la riconsegna dell'immobile in quelle condizioni).
Durante questo considerevole lasso di tempo, il Signor Rossi non
fruisce dell'unità immobiliare.
Ultimati i lavori il Signor Bianchi accetta la consegna dell'unità
immobiliare ma pretende al tempo stesso che il Signor Rossi gli
corrisponda il pagamento dei canoni di locazione relativi a tutto il
periodo.
Il Signor Rossi oppone un netto rifiuto in ragione del fatto che egli
non ha inutilizzato l'immobile.

348
Quesito
Può il Signor Bianchi pretendere la corresponsione dei canoni di
locazione per tutto il periodo in cui il Signor Rossi ha occupato
l'immobile e fino alla riconsegna del medesimo, anch ese non ha
fruito della predetta unità immobiliare?

*****

ESAME DELLA FATTISPECIE

E' intenzione del Signor Bianchi quella di pretendere il


pagamento dei canoni di locazione per tutto il periodo in cui il
bene è stato nella disponibilità del Signor Rossi e quindi fino
alla consegna dell'unità immobiliare.
Quest'ultimo che ha esercitato validamente il diritto di re-
cesso provvede alla eliminazione dei gravi danni presenti nel-
l'unità immobiliare - dopo che il locatore ha rifiutato di ricevere
l'immobile – solo dopo diversi anni.
Una volta conclusi i lavori, il locatore riconsegna l'immo-
bile ma il Signor Bianchi pretende, altresì, che per tutto il pe-
riodo in cui l'immobile è stato occupato, vengano corrisposte le
mensilità concernenti il canone di locazione.

349
A tale richiesta si oppone il conduttore il quale nel pre-
detto periodo non ha utilizzato l'unità immobiliare, il cui con-
tratto era stato, per l'appunto, risolto.
La risoluzione del caso richiede di esaminare le norme
dettate in tema di riconsegna del bene concesso in locazione in
relazione alla disciplina prevista per il pagamento dei canoni di
locazione laddove il bene non venga riconsegnato.

*****

LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 14 giugno 2011, n. 12962. In tema di locazione di immobili urbani


l’obbligo di manutenzione ordinaria o straordinaria - quando non si trat-
ta di opere di piccola manutenzione - grava sul locatore.

Cass. 17 gennaio 2012, n. 550. L’obbligazione di restituzione della cosa


avuta in godimento gravante sul conduttore deve ritenersi adempiuta
mediante la restituzione delle chiavi dell’immobile o con la incondizio-
nata messa a disposizione del medesimo, senza che sia al riguardo ne-
cessaria la redazione di un relativo verbale.

Cass. 12 aprile 2006, n. 8616. L’obbligazione di restituzione dell’immo-


bile locato, posta a carico del conduttore dall’art 1590 c.c., non di esau-
risce in una qualsiasi generica messa a disposizione delle chiavi, ma ri-
chiede per il suo esatto adempimento, un’attività consistente in una in-
condizionata restituzione del bene vale a dire in una effettiva immissio-

350
ne dell’immobile nella sfera di concreta disponibilità del locatore, qualo-
ra venga a mancare la cooperazione di quest’ultimo, si rende necessaria,
altresì, ai fini della liberazione dagli obblighi connessi alla mancata re-
stituzione, un’offerta fatta a norma dell’art. 1216 c.c., e grava sul con-
duttore, quale debitore della prestazione, la prova positiva di tale attivi-
tà, e non sul locatore la prova contraria.

Cass. 7 luglio 2005, n. 14305. La disposizione del 2º comma dell’art.


1590 c.c., secondo cui in mancanza di descrizione delle condizioni del-
l’immobile alla data della consegna si presume che il conduttore abbia
ricevuto la cosa in buono stato locativo, non si riferisce solo alle loca-
zioni di breve durata ma si applica a tutte le locazioni, quali che ne sia la
durata; per vincere tale presunzione occorre fornire la prova rigorosa
della protratta incuria del locatore tenuto alla ordinaria e straordinaria
manutenzione dell’immobile locato.

Cass. 31 maggio 2010, n. 13222. Qualora, in violazione dell’art. 1590


c.c., al momento della riconsegna l’immobile locato presenti danni ecce-
denti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, incombe al condutto-
re l’obbligo di risarcire tali danni, consistenti non solo nel costo delle
opere necessarie per la rimessione in pristino, ma anche nel canone altri-
menti dovuto per tutto il periodo necessario per l’esecuzione e il com-
pletamento di tali lavori, senza che, a quest’ultimo riguardo, il locatore
sia tenuto a provare anche di aver ricevuto - da parte di terzi - richieste
per la locazione, non soddisfatte a causa dei lavori.

Cass. 27 novembre 2012, n. 21004. In tema di locazione, il conduttore


non può essere considerato in mora nell’adempimento dell’obbligo di
restituzione della cosa alla scadenza del contratto, con conseguente ces-
sazione altresì dell’obbligo di corrispondere l’indennità di occupazione,
se abbia fatto, ai sensi dell’art. 1220 c.c., un’offerta seria ed affidabile,
ancorché non formale, della prestazione dovuta, liberando l’immobile
locato, e il locatore abbia opposto a tale offerta un rifiuto ingiustificato
sulla base del dovere di buona fede ex art. 1375 c.c., non comportandone
l’accettazione alcun sacrificio di suoi diritti o legittimi interessi (nella
specie, avendo le parti concordato che i necessari lavori di ripristino del

351
bene sarebbero stati eseguiti dal medesimo locatore, dietro rimborso del-
le spese).

Cass. 11 maggio 2010, n. 11345. L’obbligo del conduttore di osservare


nell’uso della cosa locata la diligenza del buon padre di famiglia, a nor-
ma dell’art. 1587 n. 1 c.c., con il conseguente divieto di effettuare inno-
vazioni che ne mutino la destinazione e la natura, è sempre operante nel
corso della locazione, indipendentemente dall’altro obbligo, sancito dal-
l’art. 1590 c.c., di restituire, al termine del rapporto, la cosa locata nello
stesso stato in cui è stata consegnata, sicché il locatore ha diritto di esi-
gere in ogni tempo l’osservanza dell’obbligazione di cui al citato art.
1587 n. 1 e di agire nei confronti del conduttore inadempiente.

Cass.2 aprile 2009, n. 7992. È legittimo il rifiuto del locatore, ai sensi


degli art. 1176 e 1218 c.c., di accettare la restituzione della cosa locata
sino a quando il conduttore non l’abbia rimessa in pristino stato, renden-
dosi altrimenti inadempiente all’obbligazione di cui all’art. 1590, 1º
comma, c.c.

Cass. 22 ottobre 2008, n. 25584. Nel caso di contratto di locazione o di


contratto di albergo a favore di un terzo, colui che ha stipulato il contrat-
to è il soggetto obbligato nei confronti del locatore alla restituzione della
cosa locata e alla corresponsione della somma dovuta come corrispettivo
fino alla data della consegna, salvo il maggior danno, in caso di ritardo,
a norma dell’art. 1591 c.c. (nella specie, relativa a contratto di albergo a
favore di terzi stipulato dall’amministrazione comunale con la società
che gestiva un albergo, in favore di famiglie senza tetto, la suprema cor-
te ha ritenuto che il comune fosse tenuto al pagamento del corrispettivo
maturato non soltanto sino alla disdetta, ma anche sino alla consegna ef-
fettiva del bene da parte dei terzi, salvo il maggior danno).

Cass. 26 novembre 2002, n. 16685. In tema di locazione, nell’ipotesi in


cui l’immobile offerto in restituzione dal conduttore si trovi in stato non
corrispondente a quello descritto dalle parti all’inizio della locazione,
ovvero, in mancanza di descrizione, si trovi, comunque, in cattivo stato
locativo, per accertare se il rifiuto del locatore di riceverlo sia o meno

352
giustificato, occorre distinguere a seconda che la cosa locata risulti dete-
riorata per non avere il conduttore adempiuto all’obbligo di eseguire le
opere di piccola manutenzione durante il corso della locazione, ovvero
per avere il conduttore stesso effettuato trasformazioni e/o innovazioni,
così che, nel primo caso (trattandosi di rimuovere deficienze che non al-
terano la consistenza e la struttura della cosa, e non implicano l’esplica-
zione di un’attività straordinaria e gravosa) l’esecuzione delle opere oc-
correnti per il ripristino dello status quo ante rientra nel dovere di ordi-
naria diligenza cui il locatore è tenuto per non aggravare il danno, ed il
suo rifiuto di ricevere la cosa è conseguentemente illegittimo, salvo di-
ritto al risarcimento dei danni, mentre, nel secondo caso (poiché l’esecu-
zione delle opere di ripristino implica il compimento di un’attività
straordinaria e gravosa), il locatore può legittimamente rifiutare la resti-
tuzione della cosa locata nello stato in cui essa viene offerta.

Cass. 13 luglio 1998, n. 6856. Il principio desumibile dall’art. 1590 c.c.


che legittima il locatore a rifiutare la riconsegna dell’immobile ed a pre-
tendere il pagamento del canone fino alla sua rimessione in pristino, va
coordinato con il principio di cui all’art. 1227, 2º comma, c.c. secondo il
quale in base alle regole dell’ordinaria diligenza il creditore ha il dovere
di non aggravare con il fatto proprio il pregiudizio subito, pur senza es-
sere tenuto all’esplicazione di un’attività straordinaria e gravosa e, cioè,
ad un facere non corrispondente all’id quod plerumque accidit; ne deriva
che il locatore non può rifiutare la riconsegna ma può soltanto pretende-
re il risarcimento del danno cagionato all’immobile, costituito dalle spe-
se necessarie per la rimessione in pristino e dalla mancata percezione del
reddito nel periodo di tempo occorrente, nel caso in cui il deterioramen-
to dipenda da inadempimento dell’obbligo di provvedere alle riparazioni
di piccola manutenzione ex art. 1576 c.c.; il locatore può invece rifiutare
la riconsegna dell’immobile locato nel caso in cui il conduttore non ab-
bia adempiuto all’obbligo, impostogli dal contratto, di provvedere alle
riparazioni eccedenti l’ordinaria manutenzione o per avere egli di pro-
pria iniziativa apportato trasformazioni o innovazioni, poiché in tale
caso la rimessione in pristino richiederebbe l’esplicazione di un’attività
straordinaria e gravosa e, cioè, un facere al quale il locatore non è tenuto
secondo l’id quod plerumque accidit.

353
Cass. 14 marzo 2006, n. 5459. In tema di locazione di immobili urbani,
nella categoria delle riparazioni di piccola manutenzione, a carico del
conduttore ex art. 1609 c.c., non rientrano quelle relative agli impianti
interni alla struttura dell’immobile (elettrico, idrico, termico) per l’ero-
gazione dei servizi indispensabili al suo godimento (nella specie, la su-
prema corte ha confermato la sentenza di merito, che aveva definito di
straordinaria manutenzione - e quindi a carico del locatore - gli interven-
ti necessari per ricondurre l’immobile locato in buono stato locativo, da
eseguirsi sugli impianti elettrico ed idrico, nonché la levigatura del pavi-
mento e gli interventi sugli infissi esterni, tutti risalenti al normale dete-
rioramento del bene per uso e vetustà).

Cass. 15 maggio 2007, n. 11189. L’obbligazione di restituire la cosa lo-


cata secondo le condizioni stabilite dall’art. 1590, 1º comma, c.c. pur
avendo natura contrattuale, non ha carattere sinallagmatico, ma conse-
gue alla natura propria della locazione (che si configura come contratto
a termine), e nasce alla scadenza della locazione; corrispondentemente,
anche la responsabilità del conduttore per la ritardata consegna della
cosa o per la trasformazione o il deterioramento di essa non dovuto al-
l’uso conforme agli accordi convenzionali assume natura contrattuale ed
essa si estende ai danni che sono casualmente collegati alla condotta del
medesimo conduttore con esclusione di quelli riconducibili unicamente
alla condotta del locatore; da ciò si desume che è responsabile del danno
consistente nella perdita di vantaggiose occasioni di vendita della cosa
locata o nella risoluzione del contratto di vendita di essa il conduttore
che, ritardando la riconsegna del bene o riconsegnandolo trasformato o
deteriorato (oltre l’usura ordinaria), ponga in essere le condizioni della
perdita di siffatte occasioni o per la determinazione dell’evento compor-
tante lo scioglimento del contratto (anche solo preliminare) di vendita
concluso dal locatore con terzi (nella specie, la suprema corte, ha cassa-
to con rinvio la sentenza impugnata che non aveva ravvisato la sussi-
stenza del nesso causale fra l’inadempimento dell’ente conduttore e
quello dei locatori concernente il contratto preliminare di vendita inter-
venuto con terzi per il fatto che i locatori stessi si erano assunti l’obbligo
di consegnare l’immobile alla promissaria acquirente sgombro prima an-
cora di ottenere la rimozione dei prefabbricati insistenti sul terreno og-

354
getto del preliminare senza valutare se tale fatto fosse da solo idoneo a
produrre l’evento dannoso, addossando, altresì, ai ricorrenti locatori
un’attività straordinaria, consistente in un facere, alla quale, secondo lo
sviluppo fisiologico delle reciproche obbligazioni del contratto locatizio,
essi non erano tenuti, ritenendo erroneamente, peraltro, l’irrisarcibilità
del danno nella fattispecie, siccome imprevedibile).
Cass. 16 settembre 2008, n. 23721. Qualora, in violazione dell’art. 1590
c.c., al momento della riconsegna la cosa locata presenti danni eccedenti
il degrado dovuto al normale uso della stessa, incombe al conduttore
l’obbligo di risarcire tali danni; pertanto, il locatore può addebitare al
conduttore la somma necessaria al ripristino del bene nelle stesse condi-
zioni in cui era all’inizio della locazione, dedotto il deterioramento deri-
vante dall’uso conforme al contratto, mentre non può addebitargli le
spese inerenti alle ristrutturazioni e ai miglioramenti che vadano oltre
questi limiti (nella specie, la suprema corte ha cassato con rinvio la sen-
tenza della corte di merito che, pur dando atto che i lavori di ripristino
eseguiti dal locatore includevano opere diverse e maggiori rispetto a
quelle rese indispensabili dall’eliminazione dei danni arrecati dal con-
duttore, aveva liquidato a titolo di danni l’intera somma spesa per la ri-
strutturazione dell’immobile).

*****

LE NORME RICHIAMATE

Art. 1220 c.c.


Offerta non formale.
1. Il debitore non può essere considerato in mora, se
tempestivamente ha fatto offerta della prestazione dovuta, an-

355
che senza osservare le forme indicate nella sezione III del pre-
cedente capo, a meno che il creditore l'abbia rifiutata per un
motivo legittimo.

Art. 1571 c.c.


Nozione.
1. La locazione è il contratto col quale una parte si ob-
bliga a far godere all'altra una cosa mobile o immobile per un
dato tempo, verso un determinato corrispettivo.

Art. 1575 c.c.


Obbligazioni principali del locatore.
1. Il locatore deve:
1) consegnare al conduttore la cosa locata in buono sta-
to di manutenzione;
2) mantenerla in istato da servire all'uso convenuto;
3) garantirne il pacifico godimento durante la locazione.

356
Art. 1576 c.c.
Mantenimento della cosa in buono stato locativo.
1. Il locatore deve eseguire, durante la locazione tutte le
riparazioni necessarie , eccettuate quelle di piccola manuten-
zione che sono a carico del conduttore.
2. Se si tratta di cose mobili, le spese di conservazione e
di ordinaria manutenzione sono, salvo patto contrario, a cari-
co del conduttore.

Art. 1590 c.c.


Restituzione della cosa locata.
1. Il conduttore deve restituire la cosa al locatore nello
stato medesimo in cui l'ha ricevuta, in conformità della descri-
zione che ne sia stata fatta dalle parti, salvo il deterioramento
o il consumo risultante dall'uso della cosa in conformità del
contratto.
2. In mancanza di descrizione, si presume che il condut-
tore abbia ricevuto la cosa in buono stato di manutenzione.
3. Il conduttore non risponde del perimento o del dete-
rioramento dovuti a vetustà.

357
4. Le cose mobili si devono restituire nel luogo dove sono
state consegnate.

Art. 1591 c.c.


Danni per ritardata restituzione.
1. Il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a
dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconse-
gna, salvo l'obbligo di risarcire il maggior danno.

*****

GLI ISTITUTI

Il contratto di locazione è definito dall'art. 1571 c.c. come


quel contratto con cui una parte (il locatore) si obbliga a far go-
dere all'altra parte (il conduttore), una cosa mobile o un bene
immobile per un periodo determinato, dietro il pagamento di un
corrispettivo pattuito.
Questa tipologia di contratto rientra tra quelli cd. Restitu-

358
tori poiché alla scadenza pattuita il conduttore è tenuto alla re-
stituzione della cosa locata.
Tale adempimento incombente sul conduttore, unitamen-
te alla prestazione del pagamento del corrispettivo - quale con-
tropartita per il godimento del bene - sono essenziali nell'eco-
nomia di tale contratto.
La prestazione della restituzione ha carattere relativo nel
senso che il conduttore è tenuto al rilascio della cosa solo nei
confronti del locatore (anche se non è il proprietario del bene)
il quale, a sua volta, potrà pretendere solo nei confronti del
conduttore la restituzione del bene concesso in godimento.
Da ciò consegue la natura prettamente personale dell'ob-
bligo di restituzione o di rilascio della cosa, alla cessazione del
contratto, atteso che in questo momento viene a mancare il tito-
lo che giustifica il rapporto materiale con il bene passato dal lo-
catore al conduttore.
Tale azione non è dunque volta al riconoscimento del di-
ritto di proprietà in capo al locatore - che, come detto, potrebbe
anche non essere proprietario del bene concesso in locazione -
ma è volta esclusivamente alla riconsegna della cosa.
In caso di contestazioni, quindi, il locatore è tenuto solo a

359
provare di aver trasferito la disponibilità del bene al conduttore
in forza del contratto di locazione ovvero che è venuto meno il
titolo in ragione del quale il conduttore detiene il bene.
Non è dunque necessario esperire le azioni poste a dispo-
sizione del proprietario, quale l'azione di rivendicazione, che è
un 'azione avente natura reale la quale richiede di dar prova
della proprietà del bene e che può essere fatta valere nei con-
fronti di tutti.
Tornando all'azione di restituzione, si ritiene che la re-
sponsabilità in caso di omessa o ritardata consegna abbia carat-
tere contrattuale: in questi termini, si è espressa dapprima la
dottrina e, successivamente, la giurisprudenza che, in un primo
momento, riconduceva tale azione alla responsabilità da fatto
illecito.
L'obbligo di restituzione richiede che il bene debba esse-
re restituito nelle medesime condizioni in cui si trovava al mo-
mento in cui è stato ricevuto – conformemente alla descrizione
che del bene abbiano fatto i contraenti - salvi i vizi connessi al
normale utilizzo del bene (ovvero conforme all'uso convenuto
dalle parti o al normale deterioramento) e alla vetustà.
Se le parti nulla hanno indicato nella descrizione, si pre-

360
sume che il bene si trovasse in buone condizioni e nelle mede-
sime dovrà essere restituito: è una presunzione iuris tantum, su-
perabile quindi mediante la prova contraria (ovvero dimostran-
do che il bene non è stato consegnato in buone condizioni).
L'obbligo di restituzione deve avvenire nel luogo in cui la
cosa è stata consegnata al conduttore e, in deroga a quanto sta-
bilito dall'art. 1182 c.c. non deve essere quindi riconsegnata nel
luogo in cui deve avvenire l'adempimento.

Il danno da restituzione effettuata in ritardo della cosa loca-


ta.
L'art. 1591 c.c. contempla il caso di ritardata restituzione
della cosa locata - di cui il conduttore continua a mantenere la
disponibilità - prevedendo che: “il conduttore in mora a resti-
tuire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo conve-
nuto fino alla riconsegna, salvo l'obbligo di risarcire il mag-
gior danno”.
Se, quindi, il conduttore trattiene oltre il termine previsto
la disponibilità del bene locato, questi nei confronti del locato-
re è tenuto al risarcimento del danno la cui quantificazione cor-
risponde all'entità del canone di locazione, salvo il caso in cui

361
si dimostri che il pregiudizio subito dal locatore per la privazio-
ne del bene sia stato maggiore (risarcimento dell'eventuale
maggior danno).
La dottrina ritiene che la disposizione in esame operi
quale clausola penale disposta ex lege.
Il legislatore ha infatti previsto una quantificazione for-
fettaria del danno, non consentendo al conduttore di provare un
eventuale danno minore, ma riconoscendo al locatore di dar
prova di aver subito un pregiudizio di entità maggiore.

Rifiuto del locatore di ricevere la restituzione del bene dan-


neggiato.
Nel caso in cui alla cessazione del contratto di locazione
il bene risulta danneggiato e, quindi in condizioni peggiori ri-
spetto a quelle richieste dalla legge, gli interventi atti ad elimi-
nare i vizi devono essere realizzati a cura e spese del condutto-
re.
Nel momento in cui il bene deve essere riconsegnato, il
locatore ha diritto di esaminare le condizioni in cui versa il
bene e ha la facoltà di far costare eventuali danni e la conse-
guente necessità che si intervenga per migliorare le condizioni.

362
Nel caso in cui il locatore si renda conto che il conduttore
non ha provveduto ad eseguire i lavori di piccola manutenzione
che la legge pone a suo carico, l'art. 1576 c.c. impone al locato-
re di accettare la restituzione del bene, potendo pretendere però
il risarcimento del danno.
Recita infatti la citata norma che: “il locatore deve ese-
guire, durante la locazione, tutte le riparazioni necessarie, ec-
cettuate quelle di piccola manutenzione che sono a carico del
conduttore”.
Tale ambito è quindi diverso rispetto a quello di applica-
zione dell'art. 1591 c.c. che in tal caso non opera (quindi, il
conduttore sarà tenuto a risarcire l'eventuale danno, ma non a
corrispondere i canoni di locazione).
Laddove, invece, le manchevolezze del conduttore si sia-
no tradotte nel non aver provveduto ad effettuare le riparazioni
aventi natura straordinaria (ad esempio, quelli necessari per il
ripristino del bene gravemente danneggiato dallo stesso con-
duttore), al locatore è consentito di rifiutare la riconsegna del
bene.
Il rifiuto è, infatti, legittimo poiché il locatore non può
essere obbligato a farsi carico di compiere interventi rilevanti e

363
gravosi: tale valutazione deve essere compiuta anche con riferi-
mento alla situazione economica del locatore.
In tal caso, troverà applicazione l'art. 1591 c.c.in forza
del quale il conduttore deve corrispondere al locatore il corri-
spettivo convenuto per il contratto di locazione fino al momen-
to in cui il bene sarà riconsegnato in buono stato di manuten-
zione.
Il predetto principio non trova applicazione in maniera
incondizionata e automatica. Proprio alla luce di quanto detto e
cioè che si deve avere riguardo anche alle condizioni del con-
duttore, ne discende che se quest'ultimo versa in una condizio-
ne di oggettiva difficoltà economica, non si potrà ragionevol-
mente pretendere che questi si faccia carico di ingenti spese
solo perché il locatore si sia rifiutato di ricevere la restituzione
del bene.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE – CASS. 24 MAGGIO


2013, N. 12977

364
Il rifiuto di ricevere la riconsegna del bene è legittimo per il
locatore a cui il bene venga restituito fortemente danneg-
giato.

“In tema di locazione, allorché il conduttore abbia arre-


cato gravi danni all’immobile locato, o compiuto sullo stesso
innovazioni non consentite, tali da rendere necessario per l’e-
secuzione delle opere di ripristino l’esborso di somme di note-
vole entità, in base all’economia del contratto e tenuto comun-
que conto delle condizioni delle parti, il locatore può legittima-
mente rifiutare di ricevere la restituzione del bene finché tali
somme non siano state corrisposte dal conduttore, il quale,
versando in mora, agli effetti dell’art. 1220 c.c., rimane tenuto
altresì al pagamento del canone ex art. 1591 c.c., quand’anche
abbia smesso di servirsi dell’immobile per l’uso convenuto”
(Cass. 24 maggio 2013, n. 12977).

I giudici di legittimità hanno affermato, con riguardo a si-


tuazioni come quella che occupa, che allorquando il bene im-
mobile da restituire al locatore versi in condizioni diverse ri-
spetto a quelle indicate dai contraenti alla sottoscrizione del

365
contratto, ovvero, nel caso in cui tale descrizione non vi sia sta-
ta, si trovi comunque in cattivo stato locativo, al fine di accer-
tare se il rifiuto del locatore a riceverlo sia o meno fondato, si
devono tenere distinte le diverse situazioni.
Precisamente, si deve valutare se la cosa locata risulta de-
teriorata perché l'incuria in cui è incorso il conduttore si è tra-
dotta nel tralasciare di effettuare le riparazioni di piccola manu-
tenzione nel corso della locazione, oppure se il peggioramento
sia da ricollegarsi a trasformazioni e/o innovazioni realizzate
dal conduttore.
Nella prima ipotesi, trattandosi di rimuovere deficienze
minime che non compromettono la consistenza né la struttura
della cosa e non comportano il disimpegno di un'attività straor-
dinaria, l'esecuzione delle opere necessarie a ripristinare lo sta-
tus quo ante incombe in capo al locatore, in ragione del genera-
le dovere di ordinaria diligenza; pertanto, il suo eventuale rifiu-
to di ricevere la cosa è conseguentemente infondato e si appale-
sa illegittimo. E' sempre fatta salva la possibilità di richiedere il
risarcimento del danno, ai sensi dell'art. 1590 c.c.
Nel secondo caso, invece, dal momento che l'esecuzione
delle opere di ripristino comportano il compimento di un'attivi-

366
tà straordinaria, il locatore è legittimato a rifiutare la riconse-
gna del bene locato.

TESTO INTEGRALE

1.- I locatori S. agirono in sede monitoria per il pagamento dei canoni


locativi dovuti dal settembre del 1998 dalla conduttrice
Amministrazione provinciale di Napoli per la locazione (iniziata nel
1990 in base a tre contratti) di un complesso immobiliare sito in
(OMISSIS) ed adibito a sede di un istituto scolastico.
Nell'aprile del 1999 il Pretore di Afragola emise decreto
ingiuntivo di pagamento di L. 301.734.717, oltre accessori, al quale
propose opposizione l'Amministrazione, sostenendo di essere receduta
dal contratto nel luglio del 1996, L. n. 392 del 1978, ex art. 27, per
l'inidoneità dell'immobile all'uso cui era destinato in relazione alle
sopravvenute norme in materia di sicurezza, alle quali i locatori non
avevano adeguato il bene locato. Aggiunse che nell'agosto del 1998
aveva intimato inutilmente ai locatori di ricevere la consegna.
Con sentenza n. 194 del 2004 il Tribunale di Napoli accolse
l'opposizione e revocò il decreto ingiuntivo, rigettata ogni diversa
domanda.
2.- La decisione è stata riformata dalla Corte d'appello di Napoli che,
con sentenza n. 232/2007, ha rigettato l'opposizione
dell'Amministrazione e, in accoglimento della sua domanda
riconvenzionale, ha dichiarato cessata la locazione alla data del
31.7.1996 in ragione dell'intervenuto recesso dell'Amministrazione
conduttrice ai sensi dell'art. 27 della legge citata.
3.- Avverso detta sentenza ricorre per cassazione l'Amministrazione
provinciale di Napoli affidandosi a due motivi, cui resistono con

367
controricorso i S..
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1.- La sostanza della decisione della Corte d'appello è nel senso che
legittimamente l'Amministrazione recedette dal contratto, L. n. 392 del
1978, ex art. 27, con effetto dal luglio del 1996, per la sopravvenuta
inidoneità dell'immobile locato all'uso scolastico cui era adibito
(correlativamente escludendo che il locatore fosse tenuto a provvedere
egli all'adeguamento reso necessario dalle nuove norme in materia di
sicurezza), ma che altrettanto legittimamente il locatore ne rifiutò la
restituzione nell'agosto del 1998, essendo stato l'immobile gravemente
danneggiato dal conduttore.
Ne ha tratto il corollario che, essendo rimasto l'immobile nella
disponibilità del locatore, egli fosse tenuto al pagamento dei canoni dal
settembre del 1998 a mente dell'art. 1591 c.c..
2.- Tanto è ritenuto erroneo dalla ricorrente Amministrazione che, col
primo motivo, deduce violazione degli artt. 1590 e 1591 c.c.,
affermando che l'opinione della Corte d'appello indurrebbe allora a
concludere che il conduttore sia tenuto al pagamento dei canoni a titolo
di indennità di occupazione fino a quando il locatore non accetti, ad
libitum, di accettare la restituzione dell'immobile.
Nega, in particolare, che nel caso di legittimo rifiuto del
conduttore a ricevere l'immobile offertogli in restituzione ex art. 1590
c.c. (per i danni apportativi dal conduttore) sia applicabile l'art. 1591
c.c., in quanto tale disposizione è correlata all'utilizzazione del bene da
parte del conduttore oltre la scadenza del termine finale del rapporto
locativo, mentre nella specie l'Amministrazione conduttrice non
utilizzava il bene sin dal 1996. Al rifiuto del locatore di ricevere il bene
per i danni arrecativi dal conduttore conseguirebbe invece l'obbligazione
del locatore di risarcire i danni apportati all'immobile e di pagare
l'indennità di occupazione per il periodo necessario all'esecuzione ed al
completamento dei lavori (da parte del conduttore).

368
Nella specie - aggiunge - il conduttore aveva agito per il
risarcimento di "tutti i danni arrecati al complesso immobiliare" (lo si
evince dall'illustrazione del secondo motivo, a pag. 12 del ricorso) in
separato giudizio, conclusosi con sentenza n. 5039/01 del Tribunale di
Napoli passata in giudicato.
3.- Col secondo motivo è denunciata insufficiente e contraddittoria
motivazione sul fatto decisivo costituito dalla mora del conduttore,
ravvisata dalla Corte d'appello ad onta del fatto che l'Amministrazione
avesse offerto informalmente la restituzione il 7.7.1998 e, ex art. 1216
c.c., in data 30.8.1998. Il che, se non a costituire in mora il locatore,
comunque valeva ad escludere la mora del conduttore.
Sostiene anche che la Corte di merito aveva violato il principio
del ne bis in idem in relazione al giudicato di cui s'è appena detto.
4.- L'infondatezza del secondo motivo direttamente discende dal rilievo
che, con analitica motivazione, la Corte d'appello aveva ritenuto che il
locatore avesse rifiutato la restituzione per il legittimo motivo costituito
dai gravi danni arrecati all'immobile ed accertati in sede di c.t.u., per il
risarcimento dei quali soltanto, e non anche per quelli conseguiti alla
mancata restituzione, il locatore aveva agito nel giudizio definito con
sentenza n. 5039/01 ed instaurato prima del 30.8.1998 (pag. 12 della
sentenza), come inequivocamente risulta dalle relative richieste,
riportate a pagina 12 del ricorso.
La stessa Cass. n. 2419 del 1999 richiamata dal ricorrente (e
molte altre sentenze successive, fra le quali Cass. nn. 16685/2002,
18496/2007 e 1337/2011) chiarisce d'altronde che serie modalità
restitutorie informali valgono ad evitare la mora del conduttore
"sempreché non sussista un legittimo motivo di rifiuto da parte del
locatore"; legittimo motivo che, nel caso in esame, la Corte d'appello ha
invece motivatamente ritenuto sussistente.
5.- Va dunque scrutinato il primo motivo, anch'esso infondato.
Risalente giurisprudenza (Cass. nn. 3786/1968, 9581/1970 e
3210/1971), poi costantemente seguita (ex coeteris, da Cass. nn.
6798/1993 e 6856/1998) e più recentemente Cass. n. 16685/2002 (cui

369
adde Cass. n. 5459/2006), ha affermato il principio secondo il quale,
nell'ipotesi in cui l'immobile offerto in restituzione dal conduttore si
trovi in stato non corrispondente a quello descritto dalle parti all'inizio
della locazione, ovvero, in mancanza di descrizione, si trovi comunque
in cattivo stato locativo, per accertare se il rifiuto del locatore di
riceverlo sia o meno giustificato, occorre distinguere a seconda che la
cosa locata risulti deteriorata per non avere il conduttore adempiuto
all'obbligo di eseguire le opere di piccola manutenzione durante il corso
della locazione, oppure per avere il conduttore stesso effettuato
trasformazioni e/o innovazioni:
nel primo caso, trattandosi di rimuovere deficienze che non
alterano la consistenza e la struttura della cosa e non implicano
l'esplicazione di un'attività straordinaria e gravosa, l'esecuzione delle
opere occorrenti per il ripristino dello status quo ante rientra nel dovere
di ordinaria diligenza cui il locatore è tenuto per non aggravare il danno,
ed il suo rifiuto di ricevere la cosa è conseguentemente illegittimo, salvo
diritto al risarcimento dei danni per violazione del disposto di cui all'art.
1590 c.c.; nel secondo caso, invece, poiché l'esecuzione delle opere di
ripristino implica il compimento di un'attività straordinaria e gravosa, il
locatore può legittimamente rifiutare la restituzione della cosa locata
nello stato in cui essa viene offerta.
La citata Cass. n. 958/1970 ha in particolare chiarito che,
nell'ipotesi in cui il locatore ottenga contro il conduttore sentenza di
condanna, oltre che al rilascio della cosa locata, anche al risarcimento
del danno consistente nella spesa da erogare per l'esecuzione delle opere
necessarie a ripristinare la conformità dello stato della cosa locata a
quello esistente all'inizio della locazione - conformità alterata dal
conduttore con trasformazioni od innovazioni o con la mancata
esecuzione, contrattualmente assunta, delle riparazioni eccedenti la
piccola manutenzione - il rifiuto del locatore di accettare l'offerta di
restituzione della cosa locata è ingiustificato e quindi illegittimo dalla
data in cui viene definitivamente attribuito al locatore medesimo il
risarcimento del danno suddetto, mentre resta giustificato, e quindi
legittimo, il rifiuto opposto in precedenza.

370
La conclusione è allora nel senso che, se il conduttore abbia
arrecato all'immobile gravi danni o effettuato non consentite innovazioni
di tale rilievo che, nell'economia del contratto, sia necessario l'esborso di
notevoli somme per eseguire le opere di ripristino, il rifiuto del locatore
di ricevere la restituzione è in via di principio legittimo fino a quando
quelle somme non siano state corrisposte dal conduttore; la legittimità
del rifiuto del locatore comporta, in applicazione dell'art. 1220 c.c., che
fino ad allora persisterà la mora del conduttore, dunque tenuto anche al
pagamento del canone ex art. 1591 c.c., quand'anche abbia smesso di
usare l'immobile secondo la destinazione convenuta (su tale ultimo
punto cfr., ex multis, Cass. n. 1941/2003).
Va soggiunto che l'applicazione del suddetto principio non può
ritenersi incondizionata ed automatica. Non potrà ad esempio
comportare la paradossale conseguenza che, in caso di oggettiva
difficoltà economica del conduttore a provvedere alle necessarie opere,
egli possa essere tenuto a pagare il canone indefinitamente, sol che il
locatore continui a rifiutare la restituzione. Potrà altresì tenersi conto
della situazione economica del locatore, in ipotesi in grado di affrontare
senza particolari difficoltà le spese di ripristino, e per tale via escludersi
che il rifiuto di ricevere la restituzione sia legittimo, con conseguente
esclusione della mora debendi del conduttore.
5.1.- Nella specie, avendo la Corte d'appello ritenuto che gli interni degli
edifici fossero stati gravemente danneggiati sia per l'incuria della
conduttrice che per atti vandalici (pagina 13 della sentenza), in
applicazione dei suddetti principi il rifiuto dei locatori di ricevere
l'offerta informale, non essendosi pacificamente perfezionata quella
formale, fu legittimo, con la conseguente persistenza della mora debendi
(ex art. 1220 c.c., ultimo inciso) del conduttore debitore della
restituzione, pertanto tenuto al pagamento dei canoni fino al momento in
cui gli fu erogato quanto dovutogli a titolo di risarcimento; il che
avvenne a seguito di sentenza del Tribunale di Napoli n. 5039/2001,
emessa in altro giudizio (secondo quanto è affermato dalla sentenza
impugnata a pagina 8, primo capoverso).
Fino a tale data, e dunque anche fino a quella anteriore alla quale

371
fu richiesto il decreto ingiuntivo con ricorso del 31.3.1999, il canone fu
pertanto dovuto.
5.2.- E' il caso di chiarire che non v'è contrasto tra la decisione assunta e
quanto deciso con sentenza n. 13222/2010 in causa che vedeva come
parte, in fattispecie analoga concernente la locazione di un immobile
adibito anch'esso ad uso scolastico, la stessa Amministrazione
Provinciale di Napoli.
In quell'occasione, invero, per un verso era stata esclusa la mora
debendi dell'Amministrazione conduttrice in ordine all'obbligazione
restitutoria e, per altro verso, s'era rilevato che per il risarcimento
pendeva altro giudizio, senza escludere - come s'è fatto nel presente caso
(v. sopra, sub 4) che esso potesse concernere anche i danni da mancata
restituzione (cfr. la motivazione della citata sentenza, sub 6.4).
6.- Il ricorso va conclusivamente respinto.
La complessità della questione e le caratteristiche della vicenda
giustificano la compensazione delle spese.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 9 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2013

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Nel caso che occupa, ritenuto che l'unità immobiliare è

372
stata danneggiata in ragione dell'attività di coloro che hanno
frequentato il circolo ricreativo a cui era stata adibita la predet-
ta unità immobiliare, alla luce di quanto detto, il rifiuto del Si-
gnor Bianchi - quale locatore - di ricevere la riconsegna del
bene locato è da ritenersi legittimo. Anche se la riconsegna av-
viene dopo diversi anni, infatti, non si può che ritenere la persi-
stenza della mora debendi del conduttore - Signor Rossi - che
è debitore della restituzione.
L'applicazione dell'invocato articolo 1591 c. c comporta
che il Signor Bianchi potrà fruttuosamente pretendere il paga-
mento dei canoni a far data dall'esercizio del recesso e fino al
dì dell'effettiva restituzione dell'immobile locato.

373
12. LA RESPONSABILITA' DELL'APPALTATORE

IL CASO
Nel complesso condominiale ALFA i condòmini decidono di fare
eseguire taluni lavori di ristrutturazione all'edificio per ragioni di
sicurezza.
Essi decidono di affidare i lavori all'impresa appaltatrice ZETA.
Una volta ultimati i lavori, i condòmini si accorgono, a distanza di
qualche giorno, che proprio nel punto in cui i lavori sono stati
realizzati sono comparse, a seguito di quanche pioggia, delle
macchie di acqua che penetrano verso i muri interni relativi a talune
unità immobiliari.
Dopo quattro mesi, i condòmini proprietari delle unità immobliari
interessate dalle infiltrazioni d'acqua contestano, a mezzo
dell'amminsitratore di condominio, tali difetti alla società ZETA, la
quale tuttavia eccepisce che il termine di denuncia dei vizi è di
sessanta giorni.

Quesito
Possono i condòmini far valere le loro rimostranze nei confronti
dell'impresa ZETA anche oltre il termine di sessanta giorni?

*****

374
ESAME DELLA FATTISPECIE

Nel caso che occupa, i lavori eseguiti dall'impresa appal-


tatrice ZETA sul complesso condominiale ALFA presentano a
distanza di qualche giorno dalla loro ultimazione evidenti difet-
ti: gli interventi infatti hanno interessato una parte dell'edificio
condominiale e, proprio in corrispondenza della medesima, a
seguito di qualche pioggia e ragionevolmente a causa di una
cattiva coibentazione, sono comparse delle macchie di acqua
che si sono propagate fino ai muri interni che conducono a ta-
luni unità immobiliari.
I condòmini interessati denunciano i predetti vizi, attra-
verso l'amministratore di condominio, all'appaltatore, dopo il
trascorrere di circa quattro mesi.
La società appaltatrice ZETA, assumendo che il termine
entro cui manifestare eventuali vizi previsto dalla legge sia di
soli sessanta giorni, ritiene che nulla dalla medesima sia dovu-
to, essendo la denuncia del condominio tardiva.
La questione si incentra sulla responsabilità dell'appalta-
tore, in merito alla quale si devono esaminare gli strumenti che
il legislatore consente di azionare al committente in presenza di

375
un'opera che sia affetta da vizi .
Precisamente, il codicie civile prevede due diverse norme
a tal proposito, l'art. 1667 c.c. e l'art. 1669 c.c.
La prima norma si riferisce ai difetti meno gravi, mentre
la seconda, essendo relativa a difetti di primaria importanza,
prevede una disciplina che tutela in modo più pregnante il com-
mittente.
Occorre dunque esaminare tali due ambiti per individuare
la disposizione che dovrà applicarsi nel caso di specie.

*****

LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 21 maggio 2012, n. 8016. L’appaltatore, dovendo assolvere al pro-


prio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al partico-
lare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue co-
gnizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal commit-
tente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da re-
sponsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso
e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le insi-
stenze del committente ed a rischio di quest’ultimo; pertanto, in man-
canza di tale prova, l’appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità con-
trattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia
per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso
di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di

376
eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori.

Cass. 25 giugno 2012, n. 10579. In tema di appalto, allorché l’appaltato-


re eccepisca la decadenza del committente dalla garanzia di cui all’art.
1667 c.c. per i vizi dell’opera, incombe su questi l’onere di dimostrare di
averli tempestivamente denunziati, costituendo tale denuncia una condi-
zione dell’azione (nella specie, in applicazione dell’enunciato principio,
la suprema corte ha confermato la sentenza di merito, la quale aveva ri-
tenuto non assolto l’onere del committente di provare la tempestività
della denunzia di vizi riconoscibili, dovendosi tener conto dell’epoca di
esecuzione delle opere, nonché della presenza di un direttore dei lavori).

Cass. 10 giugno 2011, n. 12879. In tema di appalto è applicabile la disci-


plina di cui all’art. 1667 c.c. - e non quella di cui all’art. 1669 c.c. - ogni
qual volta i vizi non incidano negativamente sugli elementi strutturali
essenziali dell’opera e, quindi, sulla sua solidità, efficienza e durata, ma
solamente sul suo aspetto decorativo ed estetico, cosicché il manufatto,
pur in presenza dei riscontrati difetti (nella specie, inerenti a scollature
di guaina di impermeabilizzazione del tetto), rimanga integro quanto a
funzionalità e uso a cui è destinato.

Cass. 15 febbraio 2011, n. 3702. In tema di appalto, non sussiste incom-


patibilità tra le norme di cui agli art. 1667 e 1669 c.c., nel senso che il
committente di un immobile che presenti «gravi difetti» ben può invoca-
re, oltre al rimedio risarcitorio del danno (contemplato soltanto dall’art.
1669), anche quelli previsti dall’art. 1668 c.c. (eliminazione dei vizi, ri-
duzione del prezzo, risoluzione del contratto) con riguardo ai vizi di cui
all’art. 1667, purché non sia incorso nella decadenza stabilita dal 2º
comma, stesso art. 1667; infatti, quanto a struttura - diversamente da ciò
che riguarda la diversa natura giuridica della responsabilità rispettiva-
mente disciplinata dalle anzidette norme (l’art. 1669, quella extracon-
trattuale; l’art. 1667, quella contrattuale) - le relative fattispecie si confi-
gurano l’una (l’art. 1669) come sottospecie dell’altra (art. 1667), perché
i «gravi difetti» dell’opera si traducono inevitabilmente in «vizi» della
medesima, sicché la presenza di elementi costitutivi della prima implica
necessariamente la presenza di quelli della seconda, con la conseguenza

377
- non smentita dal alcun dato testuale, logico e sistematico - che la nor-
ma generale continua ad applicarsi anche in presenza dei presupposti di
operatività della norma speciale, così da determinare una concorrenza
delle due garanzie, quale risultato conforme alla ratio di rafforzamento
della tutela del committente sottesa allo stesso art. 1669 c.c.; ne conse-
gue, altresì, che non è dato ravvisare un contrasto dell’art. 1669 c.c. con
l’art. 3 cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento
rispetto alla disciplina posta dall’art. 1667 c.c. in tema di prescrizione,
non patendo il committente alcun deficit di protezione per il fatto che i
difetti dell’opera presentino il carattere di particolare gravità indicato
dall’art. 1669 citato.

Cass. 20 marzo 2012, n. 4446. In tema di inadempimento del contratto


di appalto, le disposizioni speciali di cui agli art. 1667, 1668 e 1669 c.c.
integrano - senza escluderne l’applicazione - i principi generali in mate-
ria di inadempimento delle obbligazioni, con la conseguenza che, nel
caso in cui l’opera sia stata realizzata in violazione delle prescrizioni
pattuite o delle regole tecniche, il committente, convenuto per il paga-
mento del prezzo, può - al fine di paralizzare la pretesa avversaria - op -
porre le difformità e i vizi dell’opera, in virtù del principio inadimplenti
non est adimplendum, richiamato dal secondo periodo dell’ultimo com-
ma dell’art. 1667 c.c., anche quando non abbia proposto, in via ricon-
venzionale, la domanda di garanzia o la stessa sia prescritta.

Cass. 14 gennaio 2010, n. 470. L’appaltatore risponde dei difetti dell’o-


pera quando accetti senza riserve i materiali fornitigli dal committente,
sebbene questi presentino vizi o difformità riconoscibili da un tecnico
dell’arte o non siano adatti all’opera da eseguire ed i difetti denunziati
dal committente derivino da quei vizi o da quella inidoneità.

Cass. 24 giugno 2011, n. 13983. Nel caso in cui l’appaltatore sia ina-
dempiente all’obbligo di completare l’esecuzione dell’opera, la respon-
sabilità è disciplinata dalle norme generali in materia di inadempimento
e risoluzione del contratto, mentre la speciale garanzia prevista in mate-
ria di appalto dagli art. 1667 e 1668 c.c. trova applicazione nella diversa
ipotesi in cui l’opera sia stata portata a termine, ma presenti vizi, diffor-

378
mità o difetti.

Cass. 18 maggio 2011, n. 10927. In tema di contratto di appalto, la re-


sponsabilità dell’appaltatore per i vizi dell’opera sussiste ancorché essi
siano riconducibili ad una condizione posta in essere da un terzo (nella
specie la diversa impresa esecutrice dei lavori di sottofondo del pavi-
mento poi completato dall’appaltatore), essendo invero questi tenuto
verso il committente, per aver assunto un’obbligazione di risultato e non
di mezzi, a realizzare l’opera a regola d’arte e rispondendo anche per le
condizioni imputabili allo stesso committente o a terzi se, conoscendole
o potendole conoscere con l’ordinaria diligenza, non le abbia segnalate
all’altra parte, né abbia adottato gli accorgimenti opportuni per far con-
seguire il risultato utile, salvo che, in relazione a tale situazione, ottenga
un espresso esonero di responsabilità.

Cass. 3 gennaio 2013, n. 84. In tema di appalto, i gravi difetti di costru-


zione che danno luogo alla garanzia prevista dall’art. 1669 c.c. non si
identificano necessariamente con vizi influenti sulla staticità dell’edifi-
cio, ma possono consistere in qualsiasi alterazione che, pur riguardando
soltanto una parte condominiale, incida sulla struttura e funzionalità glo-
bale dell’edificio, menomandone il godimento in misura apprezzabile,
come nell’ipotesi di infiltrazione d’acqua e umidità nelle murature del
vano scala, causata dalla non corretta tecnica di montaggio dei pannelli
di copertura.

Cass. 10 giugno 2011, n. 12879. In tema di appalto il riconoscimento dei


vizi e delle difformità dell’opera e l’assunzione da parte dell’appaltatore
dell’impegno di eliminarli implica non soltanto l’accettazione delle con-
testazioni e la rinuncia a far valere l’esonero dalla garanzia previsto dal-
l’art. 1667 c.c., ma determinano altresì l’assunzione di una nuova obbli-
gazione, sempre di garanzia, diversa ed autonoma rispetto a quella origi-
naria, che non necessita di accettazione formale della controparte, cui at-
tribuisce il diritto di agire per i vizi ormai ex adverso riconosciuti, sog-
getto al termine prescrizionale ordinario.

Cass. 25 maggio 2011, n. 11520. In tema di appalto, ai fini di cui all’art.

379
1667 c.c., non è necessaria una denuncia specifica ed analitica delle dif-
formità e dei vizi dell’opera, tale da consentire l’individuazione di ogni
anomalia di quest’ultima, essendo, per converso, sufficiente ad impedire
la decadenza del committente dalla garanzia cui è tenuto l’appaltatore
una pur sintetica indicazione delle difformità suscettibili di conservare
l’azione di garanzia anche con riferimento a quei difetti accertabili, nella
loro reale sussistenza, solo in un momento successivo; il richiamo a «ca-
renze nel fabbricato» non risponde a questa esigenza, posto che il conte-
nuto di tale denuncia resta su di un piano di estrema genericità, come
tale non suscettibile di consentire di avere cognizione, sia pure in manie-
ra concisa, dei pretesi vizi riscontrati, ai quali in effetti non vi è alcun ri -
ferimento.

Cass. 15 settembre 2009, n. 19868. La responsabilità dell’appaltatore


per gravi difetti dell’opera, ai sensi dell’art. 1669 c.c., non può ritenersi
esclusa per il solo fatto che detti difetti siano derivati da cause sopravve-
nute al completamento dei lavori, là dove le anzidette cause sopravvenu-
te non fossero del tutto imprevedibili al momento dell’esecuzione dei la-
vori (applicando tale principio, la suprema corte ha cassato per difetto di
motivazione la sentenza con la quale il giudice di merito aveva escluso
la responsabilità dell’appaltatore per infiltrazioni d’acqua, dovute all’in-
nalzamento di una falda acquifera sottostante l’edificio da lui realizzato,
senza darsi carico di verificare se esse si sarebbero potute prevedere e,
quindi, prevenire con adeguate opere di impermeabilizzazione).

Cass. 16 febbraio 2012, n. 2238. L’azione di responsabilità per rovina e


difetti di cose immobili, prevista dall’art. 1669 c.c., può essere esercitata
non solo dal committente contro l’appaltatore, ma anche dall’acquirente
contro il venditore che abbia costruito l’immobile sotto la propria re-
sponsabilità, allorché lo stesso venditore abbia assunto, nei confronti dei
terzi e degli stessi acquirenti, una posizione di diretta responsabilità nel-
la costruzione dell’opera, e sempre che si tratti di gravi difetti, i quali, al
di fuori dell’ipotesi di rovina o di evidente pericolo di rovina, pur senza
influire sulla stabilità dell’edificio, pregiudichino o menomino in modo
rilevante il normale godimento, la funzionalità o l’abitabilità del medesi-
mo (nella specie, in applicazione dell’enunciato principio, la suprema

380
corte ha cassato la sentenza di merito, la quale aveva omesso di inqua-
drare tra i gravi difetti, di cui all’art. 1669 c.c., le deficienze costruttive,
imputabili al venditore-appaltatore, consistenti nel cedimento della pavi-
mentazione interna ed esterna, della rampa di scala e del muro di recin-
zione).

Cass. 15 febbraio 2011, n. 3702. In tema di prescrizione dei diritti del


committente nel contratto di appalto, la regola eccezionalmente sancita
dall’ultimo comma dell’art. 1667 c.c., secondo cui il committente con-
venuto per il pagamento può sempre far valere, in via d’eccezione, la ga-
ranzia, purché le difformità o i vizi siano stati denunciati entro i termini
prescritti, non è applicabile in via analogica alla responsabilità per gravi
difetti prevista dall’art. 1669 c.c., trattandosi di una deroga alla norma
generale di cui all’art. 2934 c.c., secondo la quale la prescrizione estin-
gue il diritto sia se fatta valere in via di azione, che in via di eccezione.

Cass. 11 novembre 2009, n. 23903. La natura di contratto derivato o


subcontratto del subappalto - con il quale l’appaltatore conferisce ad un
terzo l’incarico di eseguire in tutto o in parte i lavori che si è impegnato
ad eseguire sulla base del contratto principale - comporta che la sorte del
subappalto è condizionata a quella del contratto di appalto, e che trovano
applicazione, ai sensi degli art. 1667 e 1668 c.c., le norme sulla respon-
sabilità per difformità e vizi dell’opera, con le seguenti differenze: a)
con riguardo all’opera eseguita dal subappaltatore, l’accettazione senza
riserve dell’appaltatore è condizionata dal fatto che il committente ac-
cetti l’opera senza riserve; b) l’appaltatore non può agire in responsabili-
tà contro il subappaltatore prima ancora che il committente gli abbia de-
nunciato l’esistenza di vizi o difformità, essendo prima di tale momento
privo di interesse ad agire, per non essergli ancora derivato alcun pregiu-
dizio, poiché il committente potrebbe accettare l’opera nonostante i vizi
palesi o non denunciare mai quelli occulti o farne denuncia tardiva; c)
l’appaltatore può agire in giudizio contro il subappaltatore non appena il
committente gli abbia tempestivamente denunciato l’esistenza dei pre-
detti vizi o difformità.

Cass. 1 agosto 2003, n. 11740. In tema di responsabilità extracontrattua-

381
le dell’appaltatore, il difetto di costruzione che, ai sensi dell’art. 1669
c.c., legittima il committente alla relativa azione, può consistere in una
qualsiasi alterazione, conseguente ad un’insoddisfacente realizzazione
dell’opera, che, pur non riguardando parti essenziali della stessa (e per-
ciò non determinandone la «rovina» od il «pericolo di rovina»), bensì,
quegli elementi accessori o secondari che ne consentono l’impiego dura-
turo cui è destinata (quali, ad esempio, le condutture di adduzione idrica,
i rivestimenti, l’impianto di riscaldamento, la canna fumaria), incida ne-
gativamente ed in modo considerevole sul godimento dell’immobile me-
desimo (nella specie, relativa a difettosa impermeabilizzazione del man-
to di copertura dell’edificio con relativi problemi di infiltrazione, la su-
prema corte ha ritenuto che incombeva all’appaltatore - ricorrente in
cassazione avverso la sentenza di merito che aveva riconosciuto la sua
responsabilità - segnalare e riportare in ricorso gli elementi probatori
non valutati dal giudice di merito, dai quale emergeva l’assunta insussi-
stenza dell’ampiezza del fenomeno e della conseguente gravità delle in-
filtrazioni.

Cass. 19 febbraio 2007, n. 3752. Il grave difetto di costruzione che legit-


tima l’applicabilità dell’art. 1669 c.c. può consistere in qualsiasi altera-
zione, conseguente all’imperfetta esecuzione dell’opera, che ne pregiu-
dichi in modo considerevole il normale godimento (principio che ha tro-
vato applicazione in ipotesi, assimilabili al difetto di costruzione del-
l’impianto idrico, come all’inefficienza della canna fumaria di un im-
pianto centralizzato di riscaldamento).

Cass. 27 febbraio 2006, n. 4366. In tema di responsabilità conseguente a


vizi o difformità dell’opera appaltata, l’attività del direttore dei lavori
per conto del committente si concreta nell’alta sorveglianza delle opere,
che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere
né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta il con-
trollo della realizzazione dell’opera nelle sua varie fasi e pertanto l’ob-
bligo del professionista di verificare, attraverso periodiche visite e con-
tatti diretti con gli organi tecnici dell’impresa, da attuarsi in relazione a
ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell’arte e la corri-
spondenza dei materiali impiegati (nella specie, relativa a infiltrazioni

382
d’acqua risalenti per capillarità dal sottosuolo, la suprema corte ha con-
fermato la sentenza di merito, che aveva riconosciuto la responsabilità
del professionista, essendo risultato che il fenomeno derivava da cattiva
qualità dei materiali e omessa posa in opera di prodotti impermeabiliz-
zanti, nonostante le previsioni contrattuali).

Cass. 8 gennaio 2000, n. 117. Costituiscono gravi difetti i vizi costruttivi


che incidono negativamente ed in maniera profonda sugli elementi strut-
turali essenziali e quindi sulla solidità, efficienza e durata dell’opera
(nella fattispecie: infiltrazioni di acqua determinate da carenze della im-
permeabilizzazione).

Cass. 4 novembre 2005, n. 21351. In tema di appalto, i gravi difetti di


costruzione che danno luogo alla garanzia prevista dall’art. 1669 c.c.
non si identificano con i fenomeni che influiscono sulla staticità, durata
e conservazione dell’edificio ma possono consistere in qualsiasi altera-
zione che, pur riguardando direttamente una parte dell’opera, incidano
sulla struttura e funzionalità globale, menomando in modo apprezzabile
il godimento dell’opera medesima, come ad esempio si verifica nel caso
di infiltrazioni di acqua e di umidità per difetto di copertura dell’edifi-
cio.

Cass. 10 aprile 1996, n. 3301. Nei gravi difetti dell’edificio idonei a


configurare una responsabilità del costruttore nei confronti del commit-
tente e dei suoi aventi causa, a norma dell’art. 1669 c.c., vanno inqua-
drate, oltre alle ipotesi di rovina o di evidente pericolo di rovina, anche
le deficienze costruttive incidenti sulla funzionalità ed abitabilità dell’o-
pera e comportanti una menomazione del godimento dei condomini con
pericolo per la durata e la conservazione della costruzione (nella specie
la decisione di merito, confermata dalla suprema corte, aveva ritenuto
che integrassero vizi riconducibili alla previsione dell’art. 1669 c.c. an-
ziché a quella del precedente art. 1667, il passaggio di acqua piovana at-
traverso la porta dei garages con deflusso all’interno dei locali, la pen-
denza dei balconi verso l’interno del fabbricato con conseguenti infiltra-
zioni e ristagni di acqua nei muri di tamponamento, la mancanza di bat-
tiscopa sui terrazzi di copertura, provocante infiltrazioni di umidità, il

383
distacco di parte della stilatura dei giunti di recinzione del giardino con-
dominiale, la caduta dell’intonaco per infiltrazioni di umidità).
Cass. 12 maggio 1999, n. 4692. I gravi difetti di costruzione che a nor-
ma dell’art. 1669 c.c. possono dare luogo all’azione di responsabilità del
committente nei confronti dell’appaltatore non si identificano soltanto
con i fenomeni che incidono sulla stabilità dell’edificio, ma possono
consistere in alterazioni che pur riguardando direttamente una parte del-
l’opera, incidono in modo globale sulla sua struttura e funzionalità e ne
menomano apprezzabilmente il godimento; rientrano, pertanto, tra i gra-
vi difetti di costruzione sotto il profilo considerato quelli che interessano
i tetti ed i lastrici solari, determinando infiltrazioni di acque piovane ne-
gli appartamenti sottostanti.

Cass. 2 marzo 1998, n. 2260. Tra i gravi difetti di costruzione per i quali
è operante a carico dell’appaltatore la garanzia prevista dall’art. 1669
c.c. (che ha come unico contenuto l’azione risarcitoria in favore del
committente e dei suoi aventi causa) possono rientrare anche le infiltra-
zioni di acqua determinate da carenze nella impermeabilizzazione.

Cass. 28 marzo 1997, n. 2775. I difetti costruttivi dei lastrici solari e del-
le coperture a tetto che determinino infiltrazioni d’acqua, e le inadegua-
tezze della rete fognaria rappresentano gravi difetti costruttivi, e quindi
consentono, anche agli aventi causa del committente - e al condominio
per le parti comuni dell’edificio - la proposizione dell’azione di cui al-
l’art. 1669 c.c. nei confronti dell’appaltatore esecutore della costruzione
(nella specie, per la parte coperta a tetto si era verificato anche lo scivo-
lamento continuo delle tegole - insufficienti di numero e inadeguata-
mente fissate - con pericolo di caduta delle stesse, mentre l’inadeguatez-
za delle fognature aveva causato continui fenomeni di intasamento degli
scarichi e infiltrazioni nei muri interrati delle cantine).

*****

384
LE NORME RICHIAMATE

Art. 1218 c.c.


Responsabilità del debitore.
1. Il debitore che non esegue esattamente la prestazione
dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'i-
nadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità
della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Art. 1655 c.c.


Nozione.
1. L'appalto è il contratto col quale una parte assume,
con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a pro-
prio rischio, il compimento di una opera o di un servizio verso
un corrispettivo in danaro.

Art. 1662 c.c.


Verifica nel corso di esecuzione dell'opera.
1. Il committente ha diritto di controllare lo svolgimento

385
dei lavori e di verificarne a proprie spese lo stato.
2. Quando, nel corso dell'opera, si accerta che la sua
esecuzione non procede secondo le condizioni stabilite dal
contratto e a regola d'arte, il committente può fissare un con-
gruo termine entro il quale l'appaltatore si deve conformare a
tali condizioni; trascorso inutilmente il termine stabilito, il
contratto è risoluto, salvo il diritto del committente al risarci-
mento del danno.

Art. 1665 c.c.


Verifica e pagamento dell'opera.
1. Il committente, prima di ricevere la consegna, ha dirit-
to di verificare l'opera compiuta.
2. La verifica deve essere fatta dal committente appena
l'appaltatore lo mette in condizione di poterla eseguire.
3. Se, nonostante l'invito fattogli dall'appaltatore, il com-
mittente tralascia di procedere alla verifica senza giusti motivi,
ovvero non ne comunica il risultato entro un breve termine, l'o-
pera si considera accettata.
4. Se il committente riceve senza riserve la consegna del-

386
l'opera, questa si considera accettata ancorché non si sia pro-
ceduto alla verifica.
5. Salvo diversa pattuizione o uso contrario, l'appaltato-
re ha diritto al pagamento del corrispettivo quando l'opera è
accettata dal committente.

Art. 1666 c.c.


Verifica e pagamento di singole partite.
1. Se si tratta di opera da eseguire per partite, ciascuno
dei contraenti può chiedere che la verifica avvenga per le sin-
gole partite. In tal caso l'appaltatore può domandare il paga-
mento in proporzione dell'opera eseguita.
2. Il pagamento fa presumere l'accettazione della parte
di opera pagata; non produce questo effetto il versamento di
semplici acconti.

Art. 1667 c.c.


Difformità e vizi dell'opera.
1. L'appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e

387
i vizi dell'opera. La garanzia non è dovuta se il committente ha
accettato l'opera e le difformità o i vizi erano da lui conosciuti
o erano riconoscibili, purché, in questo caso, non siano stati in
mala fede taciuti dall'appaltatore.
2. Il committente deve, a pena di decadenza , denunziare
all'appaltatore le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla
scoperta. La denunzia non è necessaria se l'appaltatore ha ri-
conosciuto le difformità o i vizi o se li ha occultati.
3. L'azione contro l'appaltatore si prescrive in due anni
dal giorno della consegna dell'opera. Il committente convenuto
per il pagamento può sempre far valere la garanzia , purché le
difformità o i vizi siano stati denunziati entro sessanta giorni
dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla con-
segna.

Art. 1668 c.c.


Contenuto della garanzia per difetti dell'opera.
1. Il committente può chiedere che le difformità o i vizi
siano eliminati a spese dell'appaltatore, oppure che il prezzo
sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del dan-

388
no nel caso di colpa dell'appaltatore.
2. Se però le difformità o i vizi dell'opera sono tali da
renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committen-
te può chiedere la risoluzione del contratto.

Art. 1669 c.c.


Rovina e difetti di cose immobili.
1. Quando si tratta di edifici o di altre cose immobili de-
stinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci
anni dal compimento, l'opera, per vizio del suolo o per difetto
della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta
evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l'appaltatore è re-
sponsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi cau-
sa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta.
2. Il diritto del committente si prescrive in un anno dalla
denunzia.

Art. 2058 c.c.


Risarcimento in forma specifica.

389
1. Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma
specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile.
2. Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento av-
venga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma spe-
cifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore.

*****

GLI ISTITUTI

Con il contratto di appalto, l'appaltatore si impegna ad


eseguire o a portare a compimento un'opera o un servizio verso
un corrispettivo in denaro nei confronti del commitente, assu-
mendo su di sé il rischio dell'organizzazione dei mezzi necessa-
ri a tale scopo.
L'elemento centrale di tale contratto sinallagmatico si rin-
viene nell'assunzione del rischio da parte dell'appaltatore cui
viene commissionata l'esecuzione dell'opera.
Si tratta, a ben vedere, di un elemento che non è presente

390
solo al momento della conclusione del contratto, ma permane
per tutta la durata dello stesso e anche successivamente, dal
momento che l'appaltatore deve offrire la garanzia per eventua-
li difformità e vizi dell'opera realizzata, anche dopo la conse-
gna della stessa.
Infatti, la norma di cui all'art. 1668 c.c. prevede che “il
committente può chiedere che le difformità o i vizi siano elimi-
nati a spese dell'appaltatore, oppure che il prezzo sia propor-
zionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel
caso di colpa dell'appaltatore.
Se però le difformità o i vizi dell'opera sono tali da ren-
derla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente
può chiedere la risoluzione del contratto”.
Il caso contemplato dal primo comma della norma preve-
de che siano presenti dei vizi nell'opera ovvero che questa con-
tenga delle difformità: è allora possibile chiedere all'appaltatore
che provveda ad eliminarli oppure che ne tenga conto per una
riquantificazione al ribasso del prezzo.
Se, diversamente, il vizi o le difformità da cui l'opera ese-
guita sia affetta la rendono completamente inidonea all'uso cui
la stessa è destinata, allora al committente è consentito richie-

391
dere la risoluzione del contratto.
I predetti rimedi rispondono all'esigenza di conservazione
del negozio giuridico che resta in piedi ma il contenuto delle
prestazioni corrispettive risulta in parte modificato, se i vizi o
le difformità sano imputabili alla ditta appaltatrice.
Al committente è sempre consentito il rimedio del risar-
cimento del danno per il caso in cui il vizio o la difformità sia-
no conseguenza di una condotta colposa dell'appaltatore.
La possibilità di rimodulare le prestazioni è stata conce-
pita in considerazione del fatto che, anche a seguito dell'inter-
vento dell'appaltatore volto a porre rimedio alle difformità e o
ai vizi dell'opera realizzata, è ben possibile che il committente
possa subire un qualche danno dall'inesatta esecuzione dell'o-
pera.
In materia di appalto, quindi, trovano applicazione i prin-
cipi generali dettati in tema di responsabilità contrattuale e,
precisamente, quanto prevede l'art. 1218 c.c. secondo cui: “il
debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è te-
nuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempi-
mento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della pre-
stazione derivante da causa a lui non imputabile.

392
In forza di tale principio, quindi, spetterà all'appaltatore
dar prova del fatto che l'inadempimento - nella fattispecie si
tratta, più che altro, delle imperfezioni presenti nell'opera rea-
lizzata - non è dipeso dal suo comportamento; in difetto di tale
dimostrazione, questi sarà tenuto a risarcire il committente.
Il contemperamento dei contrapposti interessi delle parti
è sempre tenuto presente dal legislatore che, se per un verso,
consente in forza del principio di conservazione al committente
di richiedere una rimodulazione del corrispettivo a fronte di
vizi non gravi della prestazione,
Se però i vizi si presentano di una tale gravità da rendere
l'opera eseguita inidonea all'uso cui la stessa è destinata, deve
prevalere l'interesse economico in capo al committente a cui
quindi l'ordinamento consente di richiedere la risoluzione del
contratto.
Anche al committente viene però richiesto di tenere un
comportamento vigile e collaborativo.
L'art. 1665 c.c. prevede che il committente ha il diritto di
verificare l'opera compiuta non appena l'appaltatore lo ponga
nelle condizioni di procedere a tale verifica.
Qualora, nonostante il committente riceva l'invito ad ef-

393
fettuare la verifica, non proceda a ciò e non comunichi entro un
breve termine il risultato della verifica, l'opera si intende accet-
tata.
Recita, l'ultimo comma della citata disposizione: “salva
diversa pattuizione o uso contrario, l'appaltatore ha diritto al
pagamento del corrispettivo quando l'opera è accettata dal
committente”.
Opera quindi una presunzione legale di accettazione, in
forza della quale l'opera si presume sia conforme a quella com-
missionata.
L'appaltatore è esonerato dal prestare la garanzia relativa-
mente a quei vizi che, seppure ignoti al committente, erano og-
gettivamente da questi riconoscibili al momento dell'accettazio-
ne dell'opera.
Laddove, però, si tratti di vizi che in mala fede l'appalta-
tore aveva celato, l'esonero della garanzia non vale e quindi il
committente riceve tutela di fronte a vizi di tal genere. In tale
ipotesi, infatti, l'accettazione del committente non vale qundi
ad escludere la responsabilità dell'appaltatore.

I diversi termini di decadenza previsti in relazione alle diverse

394
tipologie di vizi dell'opera appaltata.
Abbiamo detto che il legislatore pone a favore del com-
mittente due differenti disposizioni le quali prevedono, - come
subito si vedrà - termini di decadenza e prescrizione differenti.
Si è già detto che l'ambito applicativo dell'art. 1667 c.c. è
quello afferente ai vizi e alle difformità dell'opera che sono più
lievi: in tal caso il committente deve denunciare all'appaltatore
le difformità o i vizi entro e non oltre il termine di sessanta
giorni.
Quanto al termine entro cui deve essere azionata la prete-
sa innanzi all'autorità giudiziaria, la norma di cui all'art. 1667
c.c. prevede un termine prescrizionale di due anniche decorre
dalla consegna dell'opera, in deroga alla disciplina concernente
la prescrizione ordinaria, di cui all'art. 2946 c.c., che è invece
decennale.
La legge specifica inoltre che il termine di due anni dal
momento in cui è stata effettuata la consegna è operativo anche
con riferimento al caso in cui il committente abbia intenzione
di agire in vi ad eccezione in un giudizio già instaurato avente
ad oggetto il pagamento del prezzo.:
Il termine di due anni è specificamente disposto per i vizi

395
e le difformità che non siano gravi sicché, pe altri profili atti-
nenti al contratto di appalto, quali la mancata esecuzione della
prestazione, il ritardo nella consegna dell'opera, il mancato
completamento dell'opera, il rifiuto di consegnarla al commit-
tente, si applica l'ordinario termine decennale di prescrizione
per l'esercizio dei diritti, previsto in caso di responsabilità con-
trattuale.
L'ambito applicativo dell'art. 1669 c.c. è diverso poiché -
come accennato - lo stesso si riferisce a quei vizi strutturali che
invalidano la funzionalità dell'intera opera realizzata.
L'art. 1669 c.c. si riferisce a edifici oppure ad “altre cose
immobili destinate per loro natura a lunga durata” e prevede
che: “se, nel corso di dieci anni dal compimento, l'opera, per
vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o
in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi
difetti, l'appaltatore è responsabile nei confronti del commit-
tente e dei suoi aventi causa, purché sia fata la denuncia entro
un anno dalla scoperta”.
Il termine della denunzia rappresenta, inoltre, il termine a
partire dal quale nei successivi sessanta giorni l'appaltatore, nel
caso in cui siano presenti eventuali subappaltatori, deve effet-

396
tuare la comunicazione a questi ultimi in merito a quanto acca-
duto per potere agire verso costoro in regresso.
Al committente, nelle ipotesi di cui all'art. 1669 c.c., è
consentito richiedere il risarcimento in forma specifica nei con-
fronti dell'appaltatore, nel caso in cui sia in tutto o in parte pos-
sibile, secondo il disposto dell'art. 2058 c.c. che tuttavia, impo-
ne di liquidare il risarcimento del danno per equivalente se la
reintegrazione in forma specifica risulti particolarmente onero-
sa per il debitore.
Tornando al caso in esame, devesi allora considerare la
portata dell'art. 1669 c.c., valutando in particolare se la norma
oltre a contemplare le ipotesi di rovina, o di pericolo di rovina,
dell'immobile realizzato, suggerisca un'interpretazione ampia
dei gravi difetti che nell'opera possono riscontrarsi.
Ebbene, i gravi difetti di costruzione non si identificano
semplicemente con i fenomeni che influiscono sulla staticità,
durata e conservazione dell'edificio, espressamente previsti dal-
la citata norma, si è affermato in giurisprudenza.
Essi possono consistere in tutte quelle alterazioni che, pur
riguardando direttamente una parte dell'opera (e dunque non
necessariamente la sua interezza), incidano sulla struttura e sul-

397
la funzionalità globale, menomando apprezzabilmente il godi-
mento dell'opera medesima da parte di chi ha diritto di usarne.
Pertanto, il vizio rileva anche se relativo ad elementi non strut-
turali della costruzione, come rivestimenti o pavimentazione.
Tali elementi, infatti, seppure afferenti a vizi non struttu-
rali dell'opera e sebbene gli stessi non riguardino né la rovina
né il pericolo di rovina dell'edificio ben possono compromette-
re la fruizione del bene per un considerevole lasso di tempo
sicché sono da reputarsi vizi gravissimi per i quali deve trovare
applicazione l'art. 1669 c.c.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE – CASS. 11 GIUGNO


2013, N. 14650

Integrano un grave difetto di costruzione di cui all'art. 1669


c.c. le infiltrazioni d'acqua, dovute a cattiva coibentazione.

“I gravi difetti di costruzione che danno luogo alla ga-

398
ranzia prevista dall’art. 1669 c.c. non si identificano necessa-
riamente con vizi influenti sulla staticità dell’edificio, ma pos-
sono consistere in qualsiasi alterazione incidente sulla struttu-
ra e sulla funzionalità dell’edificio, menomandone il godimen-
to in misura apprezzabile” (Cass. 11 giugno 2013, n. 14650).
La Corte di cassazione, nella stessa occasione, ha precisato che
“l’incidenza negativa dei difetti costruttivi inclusi nell’art.
1669 c.c., può consistere, in particolare, in una qualsiasi alte-
razione, conseguente ad un’insoddisfacente realizzazione del-
l’opera, che, pur non riguardando parti essenziali della stessa
(e perciò non determinandone la “rovina” od il “pericolo di
rovina”), bensì quegli elementi accessori o secondari che ne
consentono l’impiego duraturo cui e’ destinata (quali, ad
esempio, le condutture di adduzione idrica, i rivestimenti, l’im-
pianto di riscaldamento, la canna fumaria), incida negativa-
mente ed in modo considerevole sul godimento dell’immobile
medesimo” (Cass. 11 giugno 2013, n. 14650).

La Suprema Corte di Cassazione si è espressa in merito a


fattispecie simili a quelle che occupa affermando che nella no-
zione di gravi difetti, di cui all'art. 1669 c.c., rientrano anche le

399
infiltrazioni d’acqua determinate da carenze d’impermeabiliz-
zazione oppure dipendente da inidonea realizzazione degli in-
fissi.
Tali opere non richiedono interventi di manutenzione
straordinaria: i difetti possono infatti essere eliminati mediante
gli interventi di manutenzione ordinaria ovvero mediante opere
di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli
edifici o, ancora, mediante opere necessarie per integrare o
mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti.

TESTO INTEGRALE
Il condominio (OMISSIS), posto in (OMISSIS), conveniva in
giudizio innanzi al Tribunale di S., sezione distaccata di C., il Consorzio
________, costruttore dell'edificio condominiale, per sentirlo condanna-
re all'eliminazione di difetti dell'opera, consistenti in effetti di condensa
e in infiltrazioni di umidità, ovvero al pagamento della somma necessa-
ria allo scopo, oltre al risarcimento dei danni.
Il Consorzio __________ nel resistere in giudizio eccepiva la de-
cadenza del condominio dall'azione, essendo decorso il termine entro
cui denunciare i vizi dell'opera ai sensi dell'art. 1667 c.c..
Il Tribunale accoglieva la domanda, riqualificandola ai sensi del-
l'art. 1669 c.c., e condannava il Consorzio al pagamento della somma di
Euro 71.287,90.
Tale decisione era ribaltata dalla Corte d'appello di N., con
sentenza n. 225 del 26.1.2006. Riteneva la Corte territoriale che l'azione
proposta ai sensi dell'art. 1667 c.c., poteva essere riqualificata sub art.
1669 c.c., solo ove fondata su difetti costruttivi così gravi da incidere
sulle componenti essenziali dell'opera, tali, cioè, da influire su tutti

400
quegli elementi che devono essere presenti affinché l'opera stessa possa
fornire la normale sua utilità in rapporto alla sua funzione pratico-
economica.
Nello specifico, osservava la Corte partenopea, erano emerse
infiltrazioni in corrispondenza degli infissi, a causa di una non perfetta
loro sigillatura, con distacco dell'intonaco circostante, nonché, ma solo
in taluni appartamenti, fenomeni di condensazione dovuti a ponti termici
e generati dalla composizione non omogenea della parete esterna, che
lasciava passare più o meno calore a seconda che vi fosse del cemento o
del semplice laterizio, con la conseguente formazione di vistose macchie
di umidità lungo le pareti degli appartamenti e in corrispondenza degli
elementi strutturali verticali (pilastri) e orizzontali (travi) in cemento
armato.
Riteneva, quindi, che tali fenomeni di condensa non fossero,
però, riconducibili solo ed esclusivamente ad un inadeguato isolamento
termico, dovendosi ricollegare anche all'uso improprio degli alloggi,
visto che il problema in questione non si era verificato con pari intensità
in tutte le unità abitative aventi la medesima esposizione e verticalità.
Tale circostanza escludeva la configurabilità di un grave difetto
dell'edificio ai sensi dell'art. 1669 c.c., configurabile solo nel caso di
difetti decisivi, o almeno molto rilevanti, nel determinare l'inidoneità del
bene all'uso suo proprio, in modo da escludere con assoluta certezza
l'ipotesi che tale inidoneità non si sarebbe verificata in mancanza di
cause concorrenti, quali l'uso non corretto del bene.
La Corte territoriale manifestava analoghe perplessità in merito
alle infiltrazioni in corrispondenza degli infissi, poiché una banalissima
applicazione di silicone sui controtelai ben avrebbe potuto impedire il
distacco dell'intonaco circostante.
Esclusa, dunque, la riconducibilità della fattispecie alla
previsione dell'art. 1669 c.c., rilevava la tardiva denuncia dei vizi, oltre
il termine di 60 gg. previsto dall'art. 1667 c.c., comma 2, e con essa la
fondatezza dell'eccezione di decadenza dall'azione, sollevata dal
Consorzio.

401
Per la cassazione di tale sentenza ricorre il condominio
(OMISSIS), formulando tre mezzi d'annullamento.
Il Consorzio ________ è rimasto intimato.
Motivi della decisione
1. - Con i tre motivi d'impugnazione (corredati da quesiti di diritto
sovrabbondanti, non applicandosi ratione temporis l'art. 366 bis c.p.c.) è
dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 1669 c.c., in relazione
all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Sostiene parte ricorrente che il difetto di costruzione che a norma
dell'art. 1669 c.c., legittima l'esercizio dell'azione extracontrattuale nei
confronti dell'appaltatore, può consistere in qualsiasi alterazione
conseguente ad un'insufficiente realizzazione dell'opera che, pur non
riguardando parti essenziali di essa, ma elementi accessori o secondari,
incida negativamente e in modo considerevole sul godimento
dell'immobile. Fra tali alterazioni devono ritenersi incluse quelle che
riguardano le infiltrazioni di acqua e di umidità, i fenomeni di condensa
e il difetto di coibentazione termica delle strutture perimetrali
dell'edificio e la non sigillatura degli infissi.
2. - I tre motivi, da esaminare congiuntamente, appaiono fondati.
2.1. - Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte che i
gravi difetti di costruzione che danno luogo alla garanzia prevista
dall'art. 1669 c.c. non si identificano necessariamente con vizi influenti
sulla staticità dell'edificio, ma possono consistere in qualsiasi alterazione
incidente sulla struttura e sulla funzionalità dell'edificio, menomandone
il godimento in misura apprezzabile (cfr. tra le più recenti, Cass. nn.
84/13, 2238/12 e 3752/07).
L'incidenza negativa dei difetti costruttivi inclusi nell'art. 1669
c.c., può consistere, in particolare, in una qualsiasi alterazione,
conseguente ad un'insoddisfacente realizzazione dell'opera, che, pur non
riguardando parti essenziali della stessa (e perciò non determinandone la
"rovina" od il "pericolo di rovina"), bensì quegli elementi accessori o
secondari che ne consentono l'impiego duraturo cui è destinata (quali, ad

402
esempio, le condutture di adduzione idrica, i rivestimenti, l'impianto di
riscaldamento, la canna fumaria), incida negativamente ed in modo
considerevole sul godimento dell'immobile medesimo (così, Cass. n.
11740/03, pronunciata in un caso di difettosa impermeabilizzazione del
manto di copertura dell'edificio con relativi problemi di infiltrazione).
Infine, l'interpretazione di detta norma si è spinta fino a
considerare rientranti nella nozione di gravi difetti anche le infiltrazioni
d'acqua determinate da carenze d'impermeabilizzazione (Cass. nn.
11740/03, 117/00 e 2260/98) e da inidonea realizzazione degli infissi
(Cass. nn. 8140/04 e 1164/95), difetti che, senza richiedere opere di
manutenzione straordinaria, possono essere eliminati solo con gli
interventi di manutenzione ordinaria indicati dalla L. 5 agosto 1978, n.
457, art. 31, lett. a, e cioè con "opere di riparazione, rinnovamento e
sostituzione delle finiture degli edifici" o con "opere necessarie per
integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti"
(così, Cass. n. 1164/95).
2.2. - Nell'escludere la rilevanza ex art. 1669 c.c., dei difetti in
questione, la sentenza impugnata non ha correttamente applicato la
norma. E ciò per almeno tre ragioni.
La Corte territoriale, infatti, a) ha ritenuto che la fattispecie
ipotetica dell'art. 1669 c.c., fosse integrata solo in presenza di difetti
decisivi, o almeno molto rilevanti, tali da rendere l'immobile inidoneo
all'uso suo proprio, mentre, in base all'elaborazione giurisprudenziale
sopra premessa è sufficiente un apprezzabile pregiudizio al normale
godimento del bene; b) accertati dei fenomeni di condensazione dovuti a
ponti termici e generati dalla composizione non omogenea della parete
esterna, non ha tratto da ciò la dovuta conseguenza, ossia che le
alterazioni del giusto tasso di umidità interna incidono in maniera
immediata e diretta sulla salubrità degli ambienti, la quale, a sua volta,
costituisce un parametro primario per valutare l'idoneità del bene alla
destinazione abitativa; e c) ha banalizzato le infiltrazioni d'acqua dovute
alla carente realizzazione degli infissi, imponendo all'utilizzatore del
bene l'onere di porvi rimedio sigillando le fessure con del silicone, senza
considerare che la riscontrata carenza e l'ipotizzata soluzione posticcia

403
confermano, e non già escludono, il vizio costruttivo.
2.2.1. - Nè ha rilievo il fatto che i giudici d'appello abbiano depotenziato
l'incidenza dei fenomeni di condensazione ascrivendoli ad un
concorrente difetto di aerazione dei locali. In disparte il fatto che dalla
sentenza impugnata non risulta quale dato istruttorio autorizzi siffatta
conclusione, che pertanto appare frutto di una congettura arbitraria, deve
rimarcarsi che nel vigente sistema di equivalenza causale ciascuna
condizione adeguata alla produzione di un evento ne è causa. Di riflesso
l'ipotizzata causa concorrente non esclude il nesso eziologico fra il grave
difetto e l'attività del costruttore, il quale è chiamato a risponderne.
3. - In conclusione, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata deve
essere cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli,
che nel decidere il merito si atterrà ai principi di diritto sopra esposti e
provvederà, ai sensi dell'art. 385 c.p.c., comma 3, anche sulle spese del
giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con
rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli, che provvederà
anche sulle spese di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione
Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2013

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Il difetto in ragione del quale le infiltrazioni d'acqua che


dalla parte esterna dell'edificio sul quale sono stati compiuti gli

404
interventi hanno raggiunto talune abitazioni dei condòmini è da
rinvenire in un'attività di pessima coibentazione e, quindi, di
cattiva impermealizzazione.
Alla luce di quanto esposto, deve ritenersi che tale difetto
debba ricondursi alla nozione di grave difetto di costruzione di
cui all'art. 1669 c.c., nozione in cui confluisce anche la mancata
regolare coibentazione della facciata condominiale.
Le infiltrazioni di acqua che attraversano le pareti del-
l'immobile non rappresentano, allora, semplici vizi di lieve en-
tità per i quali è invocabile la regolamentazione dettata dall'art.
1667 c.c., bensì sono espressione di un vizio strutturale.
Ne consegue che la norma di richiamare è quella di cui
all'art. 1669 c.c. sicché i condòmini che si avvalgono dell'am-
ministratore di condomino possono fruire dei termini ben più
lunghi accordati dalla citata norma.
Per la denunzia dei vizi, il termine è dunque di un anno (e
non di sessanta giorni come eccepito dalla impresa ZETA): la
denuncia effettuata dopo quattro mesi dalla scoperta dei vizi si
deve ritenere tempestiva.
Ai condòmini, dunque, è ancora consentito azionare i ri-
medi previsti dall'ordinamento.

405
13. IL RAPPORTO DI AGENZIA

IL CASO
Il Sig. Mario Rossi è un agente che commercializza per conto della
società ZETA prodotti vinicoli in una zona territoriale delimitata.
Questi viene a sapere che, nella medesima zona, operano altri agenti
per conto della stessa società, i quali vendono lo stesso genere di
prodotti.
Per tale motivo, l'agente che in forza del contratto in essere con la
casa mandante continua ad operare nello stesso territorio chiede
spiegazioni alla società ZETA, anche e soprattutto in merito al
pagamento delle provvigioni a lui spettanti per tutti gli affari conclusi
nella zona individuata nel contratto di agenzia.
La società ZETA mostra all'agente una missiva, trasmessa due anni
prima al Sig. Mario Rossi, con cui la casa mandante rendeva
manifesta la sua volontà di revocare l'esclusiva accordata fino a quel
momento all'agente relativamente ai prodotti vinicoli. Inoltre, la
società ZETA rendeva noto, con la stessa comunicazione, il proposito
di avvalersi di altri agenti a cui affidare nella stessa zona la
commercializzazione dei medesimi prodotti vinicoli.
Tale missiva pervenuta all'agente a mezzo di raccomandata era
rimasta priva di riscontro.
Il Sig. Mario Rossi pretende dalla società ZETA il pagamento delle
provvigioni maturate con riferimento a tutti gli affari conclusi nella
zona a lui assegnata fino a quel momento.
Secondo la sua prospettazione, infatti, la casa mandante avrebbe del
tutto illegittimamente impiegato ulteriori agenti per la vendita dei
medesimi prodotti vinicoli nella zona a lui riservata.

406
Quesito
E' legittima la revoca della clausola di esclusiva accordata all'agente
e disposta unilateralmente dalla società ZETA?

*****

ESAME DELLA FATTISPECIE

Nella fattispecie che occupa, la questione centrale è


rappresentata dalla modifica di una condizione inserita al
momento della conclusione del contratto di agenzia operata in
via unilaterale dalla casa madnante.
Il Sig. Mario Rossi opera in forza di un contatto di
agenzia in essere con la società ZETA in ragione del quale egli
provvede alla commercializzazione di prodotti vinicoli nella
zona territoriale affidatagli.
Nella vigenza del rapporto, l'agente riceve una
comunicazione - fattagli pervenire a mezzo raccomandata - con
cui la società ZETA lo mette al corrente della intenzione di
questa di voler inserire altri agenti proprio nel territorio affidato
all'agente Rossi.

407
Con la missiva, si ha, quindi, una revoca, seppure non
espressa, della clausola di esclusiva che in ragione degli
accordi assunti in precedenza era stata accordata all'agente.
Quest'ultimo tuttavia non replica a tale comunicazione,
ma continua la commercializzazione dei medesimi prodotti
nella stessa zona.
Importanza centrale riveste, dunque, l'esame del patto di
esclusiva che sia contrattualmente previsto, avuto riguardo in
particolare alle modalità attraverso le quali questo può essere
modificato.

*****

LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 23 aprile 2002, n. 5920. Il diritto di esclusiva costituisce un


elemento naturale, non già essenziale, del contratto di agenzia, sicché
esso può essere validamente oggetto di deroga ad opera della volontà
delle parti, deroga che può desumersi anche in via indiretta, purché in
modo chiaro ed univoco, dal regolamento pattizio del rapporto, ove in
concreto incompatibile con il detto diritto.

Cass. 30 luglio 2004, n. 14667 . Il diritto di esclusiva previsto dall’art.


1743 c.c. è elemento non essenziale ma naturale del contratto di agenzia
ed è, quindi, derogabile per concorde volontà delle parti; tuttavia, ove

408
esso non venga esplicitamente o tacitamente, per facta concludentia,
derogato dalle parti, vincola contrattualmente il preponente a non
concludere direttamente gli affari oggetto dell’attività di impresa e a non
avvalersi dell’opera di altri collaboratori per la promozione di tali affari
nell’ambito della zona pattiziamente stabilita e costituente un territorio
geograficamente determinato e delimitato, salvo che tale deroga non
avvenga sporadicamente e in modo tale da non ridurre notevolmente il
diritto di esclusiva dell’agente; per converso, l’agente non può accettare
nell’ambito della zona di esclusiva incarichi per promuovere affari di
imprese concorrenti con quella del preponente; l’accertamento della
violazione di tali obblighi costituisce un giudizio di fatto demandato al
giudice del merito, e in quanto tale non sindacabile in sede di legittimità
se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici.

Cass. 5 agosto 2011, n. 17063. Il diritto di esclusiva previsto dall’art.


1743 c.c. è elemento non già essenziale, ma naturale del contratto di
agenzia e, quindi, ben può essere derogato dalle parti in forza di clausola
espressa, quale pattuizione che assume rilievo soprattutto nei casi in cui
la previsione di specifiche zone di esplicazione del mandato agenziale
evidenzi chiaramente la volontà di riservarle all’agente (nella specie, la
suprema corte, applicando l’art. 384 c.p.c., ha corretto la motivazione
della sentenza di merito là dove era stata esclusa l’esistenza di una
clausola di esclusiva in ragione del fatto che, nel contratto di agenzia,
non fosse contemplata una espressa pattuizione ad escludendum alios
nei confronti dello stesso proponente).

Cass. 9 ottobre 2007, n. 21073. Il diritto di esclusiva previsto dall'art.


1743 c.c. è elemento non essenziale ma naturale del contratto di agenzia
e, quindi, può essere derogato dalle parti in forza di clausola espressa
ovvero di una tacita manifestazione di volontà, desumibile dal
comportamento tenuto dalle stesse parti sia al momento della
conclusione del contratto, sia durante la sua esecuzione. (Nella specie, la
S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato esservi una
volontà contrattuale nel senso derogatorio al diritto di esclusiva
dell'agente sia in ragione della sussistenza, in fase di stipulazione del
contratto di agenzia, di una riserva clienti in favore del proponente, sia

409
della comprovata contemporanea presenza di più mandatari nella
medesima zona in cui, durante il rapporto, aveva operato l'agente).

Cass. 14 maggio 1998, n. 4887. In materia di contratto di agenzia, in


caso di conclusione da parte del mandante, a seguito di iniziative
dell’agente e con l’assistenza del medesimo nel momento della
stipulazione, di un contratto di concessione di vendita in esclusiva nella
zona di pertinenza dell’agente, va annullata per vizio di motivazione e
violazione della disposizione dell’art. 1748, 2º comma, c.c. sul diritto
alle c.d. provvigioni indirette, la sentenza con cui il giudice di merito
ritenga risolto il rapporto di agenzia per implicita volontà delle stesse
parti ed insussistente il diritto dell’agente a provvigioni per gli affari
conclusi con tale concessionario, sulla sola base della stipulazione di
tale contratto di esclusiva e del non dimostrato assioma che il medesimo
avesse di fatto comportato la totale estromissione dell’agente nei
rapporti tra preponente ed esclusivista (nella specie il contratto di
agenzia, stipulato a termine con clausola di tacito rinnovo, non era stato
mai disdettato; la suprema corte ha rilevato anche contraddittorietà di
motivazione per il riconoscimento di provvigioni per un periodo
successivo alla ritenuta risoluzione del contratto; inoltre, annullando con
rinvio la sentenza impugnata, ha rilevato che il giudice di rinvio avrebbe
anche dovuto, se del caso, verificare l’applicabilità - anche sotto il
profilo temporale - del 3º comma dell’art. 1748, c.c., introdotto dall’art.
2 d.leg. n. 303 del 1991, che prevede il diritto dell’agente alla
provvigione sugli affari conclusi dopo lo scioglimento del contratto se la
loro conclusione «è effetto soprattutto dell’attività da lui svolta»).

Cass. 24 luglio 1999, n. 8053. Il diritto di esclusiva delineato dall’art.


1743 c.c. (che per l’agente comporta il divieto di trattare per lo stesso
ramo di affari nell’interesse di più imprese in concorrenza fra loro),
investendo la stessa funzione contrattuale, costituisce un elemento
naturale del contratto di agenzia che, in quanto tale, deve ritenersi
presente in assenza di contraria pattuizione; ne consegue che, per il
principio dell’art. 2697 c.c., l’eventuale limitazione del suddetto diritto
esige adeguata prova; poiché fondamento del diritto è la concorrenza,
ove l’impresa concorrente gestisca una pluralità di affari dei quali solo

410
alcuni in concorrenza con il preponente è necessario provare non
soltanto l’esistenza dell’autorizzazione a trattare gli affari in
concorrenza ma anche la sua estensione.

Cass. 8 febbraio 1999, n. 1078. La clausola generale di buona fede e


correttezza è operante tanto sul piano dei comportamenti del debitore e
del creditore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175
c.c.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti
all’esecuzione di un contratto (art. 1375 c.c.), specificandosi nel dovere
di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse della
controparte e ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o passiva,
negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il
contenuto e gli effetti del contratto (nella specie, la ditta mandante,
ricevuto un ordine di rilevante importo acquisito da un agente sulla base
di una lunga attività promozionale, aveva accelerato la pur prevista
conclusione di un contratto di esclusiva con un altro soggetto - a cui era
collegata la possibile cessazione del rapporto di agenzia - e, nel quadro
di un comportamento elusivo nei confronti dell’agente, aveva invitato
l’acquirente a reiterare l’ordine tramite il nuovo concessionario; il
giudice di merito, con la sentenza confermata dalla suprema corte, aveva
riconosciuto il diritto dell’agente alla provvigione sulla base del
riportato principio e di quello secondo cui l’agente ha diritto alla
provvigione anche per gli affari che non hanno avuto esecuzione per
causa imputabile al preponente).

*****

LE NORME RICHIAMATE

Art. 1742 c.c.


Nozione

411
1. Col contratto di agenzia una parte assume stabilmente
l'incarico di promuovere, per conto dell'altra, verso
retribuzione, la conclusione di contratti in una zona
determinata.
2. Il contratto deve essere provato per iscritto. Ciascuna
parte ha diritto di ottenere dall'altra un documento della stessa
sottoscritto che riproduca il contenuto del contratto e delle
clausole aggiuntive. Tale diritto è irrinunciabile.

Art. 1743
Diritto di esclusiva.
1. Il preponente non può valersi contemporaneamente di
più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né
l'agente può assumere l'incarico di trattare nella stessa zona e
per lo stesso ramo gli affari di più imprese in concorrenza tra
loro.

Art. 1748 c.c.


Diritti dell'agente

412
1. Per tutti gli affari conclusi durante il contratto
l'agente ha diritto alla provvigione quando l'operazione è stata
conclusa per effetto del suo intervento.
La provvigione è dovuta anche per gli affari conclusi dal
preponente con terzi che l'agente aveva in precedenza
acquisito come clienti per affari dello stesso tipo o
appartenenti alla zona o alla categoria o gruppo di clienti
riservati all'agente, salvo che sia diversamente pattuito.

2. L'agente ha diritto alla provvigione sugli affari


conclusi dopo la data di scioglimento del contratto se la
proposta è pervenuta al preponente o all'agente in data
antecedente o gli affari sono conclusi entro un termine
ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la
conclusione è da ricondurre prevalentemente all'attività da lui
svolta; in tali casi la provvigione è dovuta solo all'agente
precedente, salvo che da specifiche circostanze risulti equo
ripartire la provvigione tra gli agenti intervenuti.

3. Salvo che sia diversamente pattuito, la provvigione


spetta all'agente dal momento e nella misura in cui il
preponente ha eseguito o avrebbe dovuto eseguire la
prestazione in base al contratto concluso con il terzo. La

413
provvigione spetta all'agente, al più tardi, inderogabilmente
dal momento e nella misura in cui il terzo ha eseguito o
avrebbe dovuto eseguire la prestazione qualora il preponente
avesse eseguito la prestazione a suo carico.

4. Se il preponente e il terzo si accordano per non dare,


in tutto o in parte, esecuzione al contratto, l'agente ha diritto,
per la parte ineseguita, ad una provvigione ridotta nella
misura determinata dagli usi o, in mancanza, dal giudice
secondo equità.

5. L'agente è tenuto a restituire le provvigioni riscosse


solo nella ipotesi e nella misura in cui sia certo che il contratto
tra il terzo e il preponente non avrà esecuzione per cause non
imputabili al preponente. È nullo ogni patto più sfavorevole
all'agente.

6. L'agente non ha diritto al rimborso delle spese di


agenzia.

Articolo 1751-bis.
Patto di non concorrenza.

414
1. Il patto che limita la concorrenza da parte dell'agente
dopo lo scioglimento del contratto deve farsi per iscritto. Esso
deve riguardare la medesima zona, clientela e genere di beni o
servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia e
la sua durata non può eccedere i due anni successivi
all'estinzione del contratto.
2. L'accettazione del patto di non concorrenza comporta,
in occasione della cessazione del rapporto, la corresponsione
all'agente commerciale di una indennità di natura non
provvigionale. L'indennità va commisurata alla durata, non
superiore a due anni dopo l'estinzione del contratto, alla
natura del contratto di agenzia e all'indennità di fine rapporto.
La determinazione della indennità in base ai parametri di cui
al precedente periodo è affidata alla contrattazione tra le parti
tenuto conto degli accordi economici nazionali di categoria. In
difetto di accordo l'indennità è determinata dal giudice in via
equitativa anche con riferimento:

1) alla media dei corrispettivi riscossi dall'agente in


pendenza di contratto ed alla loro incidenza sul volume
d'affari complessivo nello stesso periodo;

2) alle cause di cessazione del contratto di agenzia;

415
3) all'ampiezza della zona assegnata all'agente;

4) all'esistenza o meno del vincolo di esclusiva per un


solo preponente.

*****

GLI ISTITUTI

L'art. 1742 c.c. fornisce la definizione del contratto di


agenzia, come quel contratto attraverso cui un soggetto,
l'agente, si impegna con carattere di stabilità nei confronti di
un'altra parte a promuovere la conclusione di contratti in un
determinato territorio, dietro pagamento della retribuzione.
Il soggetto che si assume l'incarico di promuovere i
prodotti è l'agente, il soggetto per conto del quale avviene la
commercializzazione è il preponente, che è tenuto ad erogare la
provvigione all'agente sugli affari da questi conclusi.
La clientela può essere in parte fornita all'agente dallo
stesso preponente.
L'agente, nella definizione offerta dal codice, assume
l'incarico di promuover degli affari “stabilmente”, termine

416
questo che farebbe pensare ad un'attività esercitata con
carattere di continuità e con professionalità e non
occasionalmente. Questi nell'esercizio della predetta attività
può avvalersi, al pari del preponente, anche di una struttura
imprenditoriale.
Il primo capoverso dell'art. 1742 c.c. prevede che la
forma scritta del contratto ad probationem, accordando a
ciascun soggetto la facoltà di richiedere all'altra parte la copia
del contratto sottoscritto.
Tale possibilità contempla il caso in cui le condizioni
contrattuali siano state predisposte da una sola delle parti e
risponde all'esigenza di garantire alla parte a cui viene
sottoposto il testo contrattuale, una completezza informativa.
Nel contratto di agenzia deve essere delimitata con
precisione la zona territoriale nella quale dovrà operare
l'agente, a cui l'incarico verrà conferito per iscritto, per la
commercializzazione di prodotti precisamente indicati.
E' frequente che i contraenti prevedano a favore
dell'agente il patto di esclusiva, che si traduce per il preponente
nel divieto di avvalersi contemporaneamente nella stessa zona
di altri agenti che distribuiscano i medesimi prodotti oggetto

417
del contratto di agenzia vigente con l'agente beneficiario
dell'esclusiva.
Nella generalità dei casi il vincolo è reciproco nel senso
che anche all'agente è preclusa la facoltà di distribuire gli stessi
beni per conto e nell'interesse di società terze, le quali operino
in una situazione di concorrenza rispetto a quello in cui opera il
preponente.
Il patto di esclusiva previsto e regolato dall'art. 1743 c.c.
ha natura derogabile.
L'obbligo incombente sull'agente è più propriamente un
obbligo di non concorrenza, che vige per tutta la durata del
contratto di agenzia.
Diversamente, l'art. 1751 bis c.c. rubricato Patto di non
concorrenza trova applicazione dopo la cessazione del
contratto di agenzia; le parti possono inserirlo nel contratto (la
clausola sarà produttiva di effetti dopo la cessazione del
contratto), ma la durata di tale pattuizione non può eccedere i
due anni.
L'agente matura il diritto al pagamento delle provvigioni
che siano maturate relativamente agli affari conclusi
direttamente dall'agente, nel senso che siano stati portati a

418
compimento mediante il suo intervento: in questo caso si parla
di provvigioni dirette.
Nel caso in cui il diritto a vedersi corrispondere le
provvigioni sorge in ordine agli affari conclusi direttamente dal
preponente con clienti dello stesso agente ovvero con clienti
che appartengano alla zona territoriale attribuita all'agente -
salvo differente accordo ex art. 1748 c.c. - siamo in presenza di
provvigioni indirette.

Il contratto di agenzia e figure giuridiche affini


L'istituto del contratto di agenzia suggerisce di
inquadrare altre figure che possono presentare rispetto ad esso
qualche tratto comune.
L'assunzione dell'incarico da parte dell'agente di
promozione di affari in un dato territorio impone il richiamo al
contratto di mandato; anche il mandatario, infatti, assume
l'incarico di compiere un o più atti.
La differenza, tuttavia, tra il contratto di mandato e
quello di agenzia si rinviene nella tipologia di attività richiesta:
mentre il mandatario è tenuto al compimento di uno o più atti
giuridici, all'agente è invece richiesto di compiere un'attività

419
avente carattere materiale. Ed ancora, il contratto di mandato
può essere conferito con o senza rappresentanza; l'agente
invece non può, di regola, spendere il nome del rappresentante
e concludere i contratti.
L'art. 1752 c.c. contempla un'ipotesi che risulta molto
diffusa nella prassi: ”le disposizioni del presente capo si
applicano anche nell'ipotesi in cui all'agente è conferita dal
preponente la rappresentanza per la conclusione dei contratti".
In questo caso, i contratti conclusi dall'agente che abbia agito
quale rappresentante del proponente sono immediatamente
efficaci anche nei confronti del preponente, eccetto il caso in
cui il contratto preveda un'espressa approvazione (clausola
«salvo approvazione»), rendendo necessario l'espresso
gradimento del preponente.
Le disposizioni dettate in materia di mandato (art. 1704
c.c.) non possono trovare applicazione per il caso in cui
l'agente agisca con rappresentanza.
Esaminando le differenze rispetto al contratto di
commissione, avente ad oggetto la compera o la vendita di
beni, esso si considera una sottospecie del contratto di
mandato.

420
Infatti, in caso di contratto di agenzia, compito
dell'agente è quello di aumentare la clientela e di promuovere
l'immagine del preponente nell'ambito del territorio
individuato; è frequente, ma eventuale, che il preponente
assegni all'agente un pacchetto di clienti preponente è solo
eventuale mentre nel contratto di commissione l'assegnazione
della clientela rappresenta la norma.
Altre differenze si ravvisano rispetto alla mediazione: il
mediatore, come precisato dall'art. 1754 c.c., non deve avere
rapporti con alcuna delle parti in termini di collaborazione e/o
rappresentanza. Il compito del mediatore consiste infatti nel
mettere in contatto i contraenti in vista della conclusione
dell'affare.
L'agente, invece, nel contratto di agenzia, è legato al
preponente e l'incarico da questi assunto è volto proprio al
soddisfacimento degli interessi che fanno capo al preponente.

Il patto di esclusiva trova regolamentazione nella norma


di cui all'art. 1743 c.c. rubricato “diritto di esclusiva”, a mente
del quale "il preponente non può valersi contemporaneamente
di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività,

421
né l'agente può assumere l'incarico di trattare nella stessa
zona e per lo stesso ramo gli affari di più imprese in
concorrenza tra loro".
La disposizione testé richiamata deve leggersi unitamente
a quanto enunciato dall'art. 1748, 2° comma, c.c.
Il richiamato capoverso dell'art. 1748 c.c. riconosce in
capo all'agente il diritto a vedersi corrispondere le provvigioni
maturate in ordine agli affari conclusi direttamente dal
preponente nel territorio come delimitato nel contratto di
agenzia, in mancanza di diversi accordi.
Il patto di esclusiva sancito dall'art. 1743 c.c. che è a
favore del preponente si traduce, precisamente, in termini di
obbligo per l'agente di non avere rapporti con soggetti che
operino in concorrenza con il preponente.
All'agente è invece assicurato il pagamento delle
provvigioni, anche se queste si riferiscono ad affari che, in
quella data zona, sono stati conclusi direttamente dal
preponente ovvero mediante l'impiego di altri agenti presenti
nella stessa zona.
Stante tale clausola posta a favore dell'agente, si può
configurare - ci si è chiesti - un corrispondente divieto in capo

422
al proponente di utilizzare per lo stesso territorio altri agenti.
Esaminando il contenuto del capoverso dell'art. 1748 c.c.
il quale conferisce all'agente il diritto a richiedere il pagamento
delle provvigioni anche se per contratti conclusi non
direttamente da lui ma dal preponente (anche tramite terzi
agenti) tale ricostruzione interpretativa appare plausibile.
La dottrina e la giurisprudenza non hanno fatto registrare
posizioni univoche: c'è chi assume che il diritto di esclusiva
non rappresenterebbe un divieto assoluto per il preponente di
nominare altri collaboratori, purché, però, l'attività di costoro
venga esercitata occasionalmente e non dunque con carattere di
sistematicità, al fine di non ostacolare l'attività dell'agente cui
sia già stato attribuito quel dato territorio.
Altri riconoscono al preponente la possibilità di
concludere contratti direttamente con i terzi nella zona
attribuita all'agente, purché a quest'ultimo vengano corrisposte
le provvigioni su tali affari.
Così agendo, il preponente non verrebbe a porre in essere
alcuna violazione del patto di esclusiva.
Diversamente, se il preponente si avvale dell'attività di
terzi, con il precipuo fine di non versare le provvigioni indirette

423
all'agente a cui si accordata l'esclusiva, tiene un
comportamento scorretto che viola la pattuizione
convenzionale.
Se si segue tale impostazione, si prescinde quindi dal
carattere occasionale ovvero stabile della violazione del patto
consumata dal preponente; la differenza tra inadempimenti
sistematici e sporadici rappresenta, invece, un dato rilevante
per coloro che prediligono altri ragionamenti.
L'esclusiva rientra tra quelli che si definiscono elementi
naturali del negozio. Se si accerta la violazione di tale elemento
si verificano importanti conseguenze sul piano economico per
la parte che con il suo comportamento dà luogo a questa.
La giurisprudenza, infatti, intende tale violazione come
un vero e proprio inadempimento contrattuale, a fronte del
quale è quindi possibile richiedere la risoluzione del contratto
ed azionare la richiesta di risarcimento del danno.
Per la tesi sopra enunciata che accorda rilievo al carattere
sistematico piuttosto che sporadico della violazione,
quest'ultima può ritenersi integrata nel caso in cui si accerti che
l'inadempimento sia sistematico. Ne deriva che, se la
violazione compiuta è stata commessa mediante un singolo e

424
sporadico atto di di concorrenza da parte del preponente ai
danni dell'agente, non sarebbe violato il patto di esclusiva.
Abbracciando tale ragionamento - si osserva - il patto di
esclusiva viene, di fatto, a coincidere con l'obbligo di fedeltà
sancito dall'art. 2105 c.c. a carico del lavoratore subordinato.
Coloro che non attribuiscono rilievo al carattere
sistematico della violazione dell'esclusiva sostengono che
sarebbe più corretto esaminare l'attività dell'agente alla luce
della disciplina prevista in tema di concorrenza, ex art. 2598
c.c., dove anche un singolo atto è idoneo ad integrare la
violazione della norma citata, avendo riguardo alla concreta
lesione degli interessi facenti capo al preponente in
conseguenza dell'illecito concorrenziale verificatosi.
La concorrenza è una tema che si impone anche con
riferimento alle società operanti nel medesimo settore e che
sono tra loro collegate, ovvero che fanno capo allo stesso
gruppo: anche per tale ipotesi, l'agente che lavori con una di
esse ha di regola l'obbligo di rispettare il diritto di esclusiva nei
confronti di ognuna di esse.
Trattandosi di un elemento naturale del contratto, esso è
può essere derogato dalle parti.

425
La deroga opera in termini differenti se è disposta a
favore dell'agente ovvero del preponente.
Infatti, se il patto di esclusiva è previsto a favore
dell'agente, la deroga a tale pattuizione implica che il
preponente si può servire di altri collaboratori da inserire nella
stessa zona riservata fino a quel momento all'agente. A tali altri
agenti il preponente potrà corrispondere il pagamento delle
provvigioni, senza essere tenuto ad erogare alcunché nei
confronti del precedente agente, il quale può continuare a
commercializzare i prodotti in quella zona.
In tale ultimo caso, infatti, se vi è stata deroga alla
clausola che sancisce l'esclusiva, non si applica il disposto di
cui all'art. 1748 c.c. secondo cui il preponente deve
corrispondere all'agente la provvigione (i.e. la provvigione
indiretta) relativa ad affari andati a buon fine per intervento
diretto del preponente, nella zona attribuita all'agente.
Nel diverso - e più raro - caso in cui ad essere derogata è
l'esclusiva a favore del preponente, l'agente ha la facoltà di
commercializzare i prodotti sia in proprio che per conto di altre
società che operino in regime di concorrenza rispetto a quella
del preponente.

426
Se la deroga investe entrambe le posizioni, le citate
limitazioni valgono per tutti e due le parti.
La derogabilità della clausola che sancisce l'esclusiva a
favore di una o di entrambe le parti non deve essere esternata
attraverso l'utilizzo di una forma solenne, posto che non
sussiste alcun onere formale, ma vige il generale principio di
libertà di forma.
Gli stessi principi si ritrovano nella contrattazione
collettiva. Si cita a tal proposito l'art. 2 AEC Settore Industria il
quale prevede che: "Ferma restando la possibilità di diverse
intese tra le parti, di norma la ditta non può valersi
contemporaneamente nella stessa zona e per lo stesso ramo di
commercio di più agenti o rappresentanti, né l'agente o
rappresentante può assumere l'incarico di trattarvi gli affari di
più ditte che siano in concorrenza fra di loro".
La giurisprudenza afferma, secondo un orientamento
costante, che la deroga al patto di esclusiva può essere sia
espressa che tacita e si può desumere per facta concludentia.
Se, dunque, il preponente in una determinata zona
permette che la commercializzazione dei medesimi prodotti
venga posta in essere da parte di più collaboratori, siamo di

427
fronte ad una situazione di fatto che - se nota a tutti gli agenti
interessati - esclude l'operatività del diritto di esclusiva.
Rispetto a tale conclusione, la decisione n. 13322 emessa
dalla Suprema Corte di Cassazione del 21 giugno 2005 risulta
in parte divergente.
Il caso esaminato dal Supremo Collegio concerneva un
contratto di agenzia in forza del quale i contraenti avevano
previsto per il preponente la facoltà di concludere affari
direttamente nella zona assegnata agli agenti a condizione di
corrispondere le provvigioni maturate sui predetti contratti agli
agenti.
Nella fattispecie sottoposta al vaglio della Corte, il
preponente aveva omesso di corrispondere il pagamento delle
provvigioni agli agenti relativamente a taluni affari conclusi
direttamente dal preponente con la clientela e gli agenti non
avevano eccepito nulla.
Il comportamento inerte di questi ultimi era stato inteso
dai giudici di merito come un'accettazione tacita di una
modifica contrattuale apportata unilateralmente dal preponente.
La Corte di legittimità, con detta pronuncia, ha invece
stabilito che non può ragionevolmente desumersi dal semplice

428
ritardo nell'esercizio del diritto, per quanto imputabile al
titolare dello stesso, un'esplicita ed inequivoca rinuncia
all'esercizio del diritto medesimo in ragione della quale negare
la tutela giudiziaria dello stesso.
Solo allorquando il ritardo rappresenti la conseguenza
fattuale di una espressa rinunzia (comunque non equivoca) a
modificare la regolamentazione del contratto.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE - Cass. 23 aprile


2014, n. 9226

Il diritto di esclusiva può essere derogato anche in via


indiretta, purché in modo chiaro e univoco.

“La deroga all'esclusiva può desumersi anche dal


comportamento delle parti successivo alla stipulazione del
contratto. … Su tale scorta è indubitabile che il riscontro della
tacita - per facta concludentia - accettazione della revoca

429
dell'esclusiva si risolve in una quaestio facti, per sua natura
riservata al giudice del merito ed esposta a censura di
legittimità sol in ipotesi di inadeguatezza, di incongruenza
della motivazione. In ogni caso si rimarca che non si tratta,
propriamente, di attribuire tout court valenza di accettazione
tacita, di assenso al supposto silenzio dell'accomandita agente.
Si tratta, piuttosto, di attender alla "lettura" del contegno delle
parti all'insegna del paradigma della buona fede, non solo e
non tanto, nel solco della previsione dell'art. 1375 c.c., in sede
di esecuzione del contratto, quanto, precipuamente, in sede di
interpretazione delle intese a valenza modificativa di pregressi
accordi, nel solco, evidentemente, della previsione dell'art.
1366 c.c. In tal guisa si evidenzia, da un canto, che nell'ambito
del processo interpretativo l'espressione "deve", di cui all'art.
1366 c.c., attribuisce al principio di buona fede particolare
importanza, in quanto vale a connotarlo alla stregua di un
passaggio imprescindibile e necessario; dall'altro, che il
criterio della buona fede nella interpretazione dei contratti è di
certo funzionale ad escludere il ricorso a significati unilaterali
o contrastanti con un criterio di affidamento dell'uomo medio”
(Cass. 23 aprile 2014, n. 9226).

430
Il diritto di esclusiva si configura come elemento naturale
del contratto di agenzia, e non essenziale, per cui le parti
possono intervenire su tale diritto, decidendo di derogare allo
stesso.
La manifestazione della volontà di derogare all'esclusiva
si può desumere anche in via indiretta dal comportamento delle
parti che però deve risultare in modo chiaro e univoco ed
essere, quindi, incompatibile con l'esercizio di detto diritto.
La pattuizione inserita dalle parti con cui è previsto che il
proponente possa affidare a collaboratori terzi, per la stessa
zona attribuita all'agente, la commercializzazione degli stessi
prodotti che vendeva l'agente consente di inferire che il
pagamento della provvigione non è dovuto a favore dell'agente
per le vendite concluse dallo stesso proponente. Ciò
naturalmente vale anche nel caso in cui sia stato deciso un
regime di esclusiva limitatamente agli affari andati a buon fine
che i collaboratori/agenti abbiano concluso con taluni clienti,
nominativamente indicati.

431
TESTO INTEGRALE

Con atto notificato in data 1.2.1990 l’"A. del dr. ing. R.L. " s.a.s.
citava a comparire innanzi al tribunale di Milano la "D." s.p.a.. La s.a.s.
attrice, agente da oltre trent'anni della s.p.a. convenuta per il territorio
dell'Emilia Romagna, esponeva che negli ultimi giorni del mese di aprile
dell'anno 1987 aveva avuto modo di riscontrare che nelle province di
Parma, Reggio e Modena operava a sua insaputa altro agente della "D."
s.p.a.; che, recatasi presso la sede della società preponente, aveva
dall'amministratore delegato ricevuto conferma di quanto informalmente
appreso ed, al contempo, assicurazione che sarebbero state pagate le
provvigioni anche per gli affari conclusi dal nuovo agente; che
successivamente, sollecitato il pagamento anche di tal ultime
provvigioni, la "D." s.p.a. l'aveva resa edotta, sulla scorta di una lettera
risalente a tre anni prima e rimasta senza seguito, della revoca
dell'esclusiva per le province di Parma, Reggio e Modena; che,
nondimeno, la dichiarazione unilaterale di revoca non poteva sortire
alcun effetto. Chiedeva, pertanto, che la "D." fosse condannata a
corrisponderle le provvigioni su tutti gli affari conclusi nel territorio
delle province di Parma, Reggio e Modena, a corrisponderle la
provvigione in misura non inferiore al 5% relativamente a due
operazioni concluse con la ditta "B.", a corrisponderle le indennità di
fine rapporto, a risarcirle i danni tutti sofferti. Si costituiva la società
convenuta che instava per il rigetto delle avverse domande; chiedeva
altresì, in via riconvenzionale, che la società attrice fosse condannata a
pagarle la somma di L. 500.000, con rivalutazione ed interessi, a saldo
di una fattura rimasta parzialmente insoluta nonché la somma di L.
7.576.900 a titolo di risarcimento del danno per il ritardo nel pagamento
degli importi di cui a talune ulteriori fatture. Ammesse ed assunte le
prove orali all'uopo invocate, disposta ed espletata consulenza tecnica
d'ufficio, con sentenza n. 8445/2003 il tribunale di Milano condannava
la "S." s.p.a. (già "D." s.p.a.) a pagare alla s.a.s. attrice la somma di Euro
57.989,20, oltre interessi dal dovuto al saldo, a titolo di provvigioni non
corrisposte, di provvigione per un affare concluso con la ditta "B.", di

432
indennità di fine rapporto e di risarcimento del danno; disponeva che
dall'importo anzidetto fosse detratta la somma di lire 7.415.603, dovuta
dalla "A." s.a.s. alla convenuta; poneva a solidale carico delle parti le
spese e competenze di c.t.u.; condannava la "S." s.p.a. a rimborsare alla
controparte le spese di lite. Interponeva appello la "M. (Italia)" s.p.a.
(già "S." s.p.a., già "D." s.p.a.), instando, per la riforma della gravata
sentenza. Si costituiva l’"A. del dr. ing. R.L. " s.a.s., che invocava il
rigetto dell'avverso gravame ed, in via incidentale, la riforma a vario
titolo della statuizione di prime cure. Con sentenza n. 2595 dei
19.9/3.10.2007 la corte d'appello di Milano così statuiva: "in parziale
riforma della sentenza impugnata dichiara tenuta e condanna la M. Italia
s.p.a.... a corrispondere alla A. s.a.s. la somma complessiva di Euro
2.406,88 con gli interessi legali dalla data del dovuto al saldo oltre
accessori come già determinati nella sentenza impugnata; dichiara tenuta
e condanna la A. s.a.s. al pagamento in favore della M. Italia s.p.a....
della somma di Euro 3.830,36 con gli interessi legali dalla data della
domanda al saldo; dichiara tenuta e condanna la A. s.a.s. alla
restituzione a favore della M. Italia s.p.a.... della somma di Euro
113.579,35 in esecuzione provvisoria della sentenza impugnata, con gli
interessi legali dalla data delle precisazioni delle conclusioni; dichiara
integralmente compensate tra le parti le spese di C.T.U.; dichiara tenuta
e condanna la A. s.a.s. al pagamento in favore della M. Italia s.p.a....
delle spese di entrambi i giudizi.
In particolare, in ordine all'appello principale della "M.",
premetteva che "il diritto di esclusiva... è elemento non essenziale ma
naturale del contratto... derogabile per concorde volontà delle parti...
esplicitamente o tacitamente, per facta concludenza" (così sentenza
d'appello, pag. 7); indi evidenziava che "nel caso specifico... la D., fino
dal 30 luglio 1984, aveva revocato, come è pacifico, l'esclusiva concessa
alla A. " (così sentenza d'appello, pag. 8); che "a tale inequivoca
comunicazione, la A. non risulta avere in alcun modo replicato, almeno
fino al 1987" (così sentenza d'appello, pag. 8); che le risultanze
probatorie, sia documentali che testimoniali, non valevano a smentire "il
comportamento del tutto passivo, rispetto alla revoca 30 luglio 1984,
tenuto dalla A. fino al 1987, malgrado la chiarezza e gravità del
contenuto della lettera citata" (così sentenza d'appello, pag. 8); che, in

433
pari tempo, non rivestiva valenza la circostanza che un nuovo
esclusivista fosse stato nominato solo nell'anno 1987, "considerando che
anche in assenza di un altro esclusivista, la revoca comportava la perdita
delle provvigioni per gli affari conclusi direttamente dalla preponente"
(così sentenza d'appello, pag. 9). Avverso tale sentenza ha proposto
ricorso l’"A. del dr. ing. R.L. " s.a.s., chiedendone, sulla scorta di un
unico articolato motivo, la cassazione, con il favore delle spese del
giudizio di legittimità. La "M. (Italia)" s.p.a. ha depositato controricorso
‐ ricorso incidentale; ha concluso per la conferma dell'impugnata
sentenza; con il favore delle spese del giudizio di legittimità. Motivi
della decisione.
Con l'unico motivo che fonda la sua impugnazione la ricorrente
principale deduce ai sensi dell'art. 360, 1 co., n. 3), c.p.c. la violazione e
falsa applicazione degli artt. 1743, 1362, 1748, 2 co., c.c., 116 c.p.c. in
relazione all'art. 2697 c.c; ai sensi dell'art. 360, 1 co., n. 5), c.p.c. il vizio
di insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della
controversia.
All'uopo adduce che, "ammesso e non concesso che la proposta di
modifica del contratto di agenzia possa ritenersi accettata dalla X, la
Corte ha, comunque, errato nel dichiarare non dovute le provvigioni
indirette"; che, alla stregua dell'art. 1748, 2 co., c.c., nella formulazione
applicabile ratione temporis al caso di specie, "il presupposto del diritto
alle provvigioni... è solo ed esclusivamente la circostanza che gli affari
debbano avere esecuzione nella zona.
Non il diritto di esclusiva" (così ricorso, pag. 5); che "negare... le
provvigioni indirette... solo ed esclusivamente perché è stato annullato il
diritto... di esclusiva è la conseguenza di... una inammissibile
interpretazione ed erronea applicazione della norma di cui al secondo
comma dell'art. 1748 c.c." (così ricorso, pag. 5); che propriamente
l'inciso "salvo che sia diversamente pattuito", figurante nell'abrogato
testo del 2 co. dell'art. 1748 c.c., "non sta per salvo che non venga
derogata l’esclusiva, come inammissibilmente ritenuto dalla sentenza
impugnata: significa semplicemente che le parti possono stabilire
liberamente come calcolare, sulla base di criteri diversi dal luogo di
esecuzione dell'affare, le provvigioni" (così ricorso, pagg. 6 - 7); che,
per altro verso, facta condudentia, cui il secondo giudice ha inteso

434
ancorare la deroga convenzionale all'esclusiva, non potevano esser scorti
in un puro e semplice comportamento passivo; che invero, alla stregua
della giurisprudenza di questa Corte di legittimità, "il comportamento
passivo può... assumere il valore negoziale di consenso, ma occorre o
che il comune modo di agire o la buona fede, nei rapporti instauratisi tra
le parti, impongano l'onere o il dovere di parlare" (così ricorso, pag. 8);
che nei tre anni successivi alla lettera del 30.7.1984, essa ricorrente ha
ricevuto il pagamento delle provvigioni, sicché in difetto di apparenti
modifiche non aveva alcuna ragione per protestare; che "il
comportamento passivo dell'A. nei tre anni, dal 1984 al 1987, non ha di
per sé significato alcuno e andava, comunque, interpretato in uno con
quello della Metso, che soltanto nel 1987 ha nominato nelle tre province
un altro agente" (così ricorso, pag. 8).
Va disposta la riunione dei ricorsi.
[…] Il ricorso (principale) è destituito di fondamento.
Limitatamente, in primo luogo, alla presunta violazione dell'art.
1748 c.c., nella formulazione antecedentemente vigente, è sufficiente
ribadire, per un verso, che il diritto di esclusiva costituisce un elemento
naturale, non già essenziale, del contratto di agenzia, sicché esso può
essere validamente oggetto di deroga ad opera della volontà delle parti,
deroga che può desumersi anche in via indiretta, purché in modo chiaro
ed univoco dal regolamento pattizio del rapporto, ove in concreto
incompatibile con il detto diritto (cfr. Cass. sez. lav. 30.5.1991 n. 6093;
Cass. sez. lav. 11.6.1990, n. 5652); per altro verso, che dalla pattuizione
con cui le parti abbiano stabilito che il preponente ha diritto di nominare
più agenti nella stessa zona è consentito desumere anche l'esclusione
della provvigione per l'agente per le vendite concluse dallo stesso
proponente, pure nell'ipotesi in cui sia stato convenuto un regime di
esclusiva limitato agli affari trattati dagli agenti con determinati clienti,
nominativamente indicati (cfr. Cass. sez. lav. 30.5.1991 n. 6093; Cass.
sez. lav. 11.6.1990, n. 5652).
Più esattamente, in relazione a tal ultimo profilo, si reputa,
siccome correttamente ha ritenuto il secondo giudice, che, a tenor
dell'abrogato art. 1748, 2 co., c.c., la pattuizione dell'esclusiva costituiva
l'imprescindibile presupposto del diritto alla percezione delle
provvigioni cosiddette "indirette"; che l'inciso finale del 2 co. - "salvo

435
che sia diversamente pattuito" - esprimeva la possibilità che, nonostante
la pattuizione dell'esclusiva, le parti si accordassero nel senso che non
fossero dovute le provvigioni "indirette" per gli affari direttamente
conclusi dal preponente e destinati ad aver esecuzione nella zona
riservata.

Limitatamente, in secondo luogo, alla pretesa inconfigurabilità dei facta


concludentia affermati dal secondo giudice a riscontro della tacita
accettazione della revoca, va opportunamente specificato che la deroga
all'esclusiva può desumersi anche dal comportamento delle parti
successivo alla stipulazione del contratto (cfr. Cass. 7.12.1960, n. 3198).

Su tale scorta è indubitabile che il riscontro della tacita - per facta


concludentia - accettazione della revoca dell'esclusiva si risolve in una
quaestio facti, per sua natura riservata al giudice del merito ed esposta a
censura di legittimità sol in ipotesi di inadeguatezza, di incongruenza
della motivazione.

In ogni caso si rimarca che non si tratta, propriamente, di


attribuire tout court valenza di accettazione tacita, di assenso al supposto
silenzio dell'accomandita agente.
Si tratta, piuttosto, di attender alla "lettura" del contegno delle
parti all'insegna del paradigma della buona fede, non solo e non tanto,
nel solco della previsione dell'art. 1375 c.c., in sede di esecuzione del
contratto, quanto, precipuamente, in sede di interpretazione delle intese
a valenza modificativa di pregressi accordi, nel solco, evidentemente,
della previsione dell'art. 1366 c.c.

In tal guisa si evidenzia, da un canto, che nell'ambito del processo


interpretativo l'espressione "deve", di cui all'art. 1366 c.c., attribuisce al
principio di buona fede particolare importanza, in quanto vale a
connotarlo alla stregua di un passaggio imprescindibile e necessario (cfr.
Cass. sez. lav. 6.10.2008, n. 24652); dall'altro, che il criterio della buona
fede nella interpretazione dei contratti è di certo funzionale ad escludere
il ricorso a significati unilaterali o contrastanti con un criterio di
affidamento dell'uomo medio (cfr. Cass. 15.3.2004, n. 5239).

436
In questi termini è difficile immaginare che nel cospicuo lasso
temporale compreso tra il mese di luglio del 1984 ed il mese di aprile
del 1987 la società in accomandita ricorrente, imprenditore per sua
stessa natura e, dunque, sollecitata ad operare alla stregua di un
parametro di diligenza senza dubbio superiore a quello medio,
nell'ambito di un rapporto che la correlava ad altro imprenditore, al
cospetto di un'evenienza sopravvenuta - la lettera in data 30.7.1984 -
inequivoca e di peculiare gravità (siccome la corte distrettuale ha posto
in risalto: cfr. sentenza d'appello, pag. 8), abbia ignorato la revoca
dell'esclusiva disposta dalla s.p.a. preponente.

L'assunto di parte ricorrente secondo cui, nei tre anni successivi


alla lettera del 30.7.1984, la "BETA non ha dato segno alcuno dal quale
poter desumere che si era avvalsa della revoca dell'esclusiva" (così
ricorso, pag. 8), non può esser condiviso e, correttamente, non è stato -
dalla corte distrettuale - condiviso.
Il rigetto del ricorso principale giustifica la condanna della s.a.s.
ricorrente a rimborsare alla s.p.a. controricorrente le spese del giudizio
di legittimità. La liquidazione segue come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale, dichiara
inammissibile il ricorso incidentale; condanna la s.a.s. ricorrente a
rimborsare alla s.p.a. controricorrente, le spese del presente giudizio che
liquida in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

*****

437
LA SOLUZIONE DEL CASO

Le richieste del Sig. Mario Rossi aventi ad oggetto la


corresponsione delle provvigioni maturate in relazione ad affari
posti in essere da altri agenti per conto del medesimo
preponente non possono essere accolte.
Infatti, sebbene gli agenti abbiano venduto proprio nella
zona assegnata all'agente Mario Rossi gli stessi beni che questo
era incaricato di commercializzare, si tratta, a ben vedere, di
una circostanza che il preponente aveva rappresentato
all'agente Mario Rossi.
Quest'ultimo, aveva infatti ricevuto, a mezzo
raccomandata, la comunicazione da parte del preponente,
secondo la quale altri agenti sarebbero stati inseriti nello stesso
territorio affidato a questi, per la vendita degli stessi beni da
questi venduti.
Il comportamento inerte del Sig. Mario Rossi che nulla
aveva risposto per diverso tempo - durante il quale gli altri
collaboratori del preponente avevano venduto i medesimi beni
a lui prima affidati e nella stessa zona - non può, infatti, che
essere interpretato ragionevolmente quale accettazione tacita

438
della modifica contrattuale apportata in via unilaterale dal
preponente, ovvero come comportamento acquiescente.

439
14. GLI INTERESSI USURARI

IL CASO
Nell'anno 1993, il Signor Mario Rossi, avendo la necessità di
effettuare un investimento si rivolge ad un istituto di credito per
accendere un mutuo.
Il contratto di finanziamento sottoscritto dalle parti prevede la
corresponsione di un tasso di interesse pari all'undici per cento.
Nel corso degli anni, il Signor Mario Rossi adempie puntualmente il
pagamento del dovuto, ma, dopo dieci anni dalla sottoscrizione del
contratto, si rende conto che la prassi attuata dagli altri istituti di
credito per la concessione di mutui della stessa tipologia di quello a
lui concesso è completamente differente. Le banche, infatti, a seguito
di importanti interventi legislativi attuano un tasso di interesse
decisamente più basso, alla luce delle intervenute prescrizioni
legislative.
Alla luce di ciò, il Signor Mario Rossi chiede al proprio istituto di
credito di rinegoziare il mutuo, ma questo oppone un netto rifiuto
assumendo che vigono le condizioni stabilite nel contratto di
finanziamento.
Il Signor Mario Rossi decide, a questo punto, di non pagare nulla a
titolo di interessi.

Quesito
Può la banca pretendere il pagamento degli interessi secondo il tasso
concordato al momento della sottoscrizione del contratto di
finanziamento?

440
ESAME DELLA FATTISPECIE

Nella fattispecie in esame, il Signor Mario Rossi si accor-


ge, nel 2003, dopo dieci anni nei quali sta corrispondendo gli
interessi sul mutuo acceso presso un istituto di credito, che il
tasso degli interessi praticato dal predetto istituto è esagerata-
mente alto rispetto a quello praticato nella prassi, in ragione dei
sopravvenuti interventi legislativi.
Per tale motivo chiede la rinegoziazione del mutuo alla
banca che però rifiuta tale richiesta, ritenendo di dover dar cor-
so alle condizioni sottoscritte nel contratto di finanziamento.
Il Signor Mario Rossi decide quindi di non pagare più gli
interessi al tasso legale concordato.
In tale contesto, appare doveroso richiamare l'intervento
che il legislatore ha compiuto mediante l'introduzione della
normativa “anti-usura”.
Per comprendere se il Signor Mario Rossi può legittima-
mente non corrispondere gli interessi (e, quindi, se un'eventuale
azione esecutiva nei suoi confronti che venisse intrapresa dalla
banca fosse destinata a fallire) devesi esaminare in pirmo luogo
la legge 7 marzo 1996, n. 108, di cui è stata fornita un'interpre-

441
tazione autentica con la successiva legge 28 febbraio 2001 n.
24, nella quale è confluito il d. l. 29 dicembre 2000, n. 394.
Precisamente, la questione nodale concerne la possibilità
o meno di invalidare i mutui contratti a condizioni particolar-
mente onerose in relazione anche alle generali condizioni del
mercato.
Solo nel caso in cui i predetti contratti possano dirsi col-
piti da invalidità sarà da qualificare legittimo il comportamento
del Signor Mario Rossi che, in caso contrario, sarà invece tenu-
to ad onorare gli impegni assunti al momento della sottoscri-
zione del contratto di finanziamento.

*****

LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 9 gennaio 2013, n. 350. In tema di usura, gli interessi in misura ul-
tralegale derivanti da un mutuo non possono qualificarsi come usurari
per il solo fatto che il contratto sia stato stipulato per l’acquisto di un’a-
bitazione, dovendosi escludere che detta finalità sia sufficiente ad inte-
grare le condizioni di difficoltà economica o finanziaria richieste dalla
nuova formulazione dell’art. 644, 3º comma, c.p.
Cass. 13 dicembre 2010, n. 25182. In tema di usura, e con riferimento a

442
fattispecie anteriore all’entrata in vigore della l. 7 marzo 1996 n. 108, la
pattuizione di interessi ultra legali non è di per sé viziata da nullità, es-
sendo consentito alle parti di determinare un tasso d’interesse diverso e
superiore a quello legale, purché ciò avvenga in forma scritta e sussi-
stendo l’illiceità del negozio soltanto nel caso in cui si ravvisino gli
estremi del reato di usura; conseguentemente, può ritenersi l’illiceità del
contratto solo se ricorrano un vantaggio usurario, lo stato di bisogno del
mutuatario e l’approfittamento di tale stato da parte del mutuante.

Cass. 3 aprile 2009, n. 8138. In tema di usura, e con riferimento a fatti-


specie anteriore all’entrata in vigore della l. 7 marzo 1996 n. 108, la pat-
tuizione di interessi elevati non costituisce di per sé motivo di illiceità
del negozio di mutuo, questa sussistendo nel caso in cui si ravvisino gli
estremi del reato di usura, a norma dell’art. 644 c.p. (nella previgente
formulazione); conseguentemente, può ritenersi l’illiceità del contratto
solo se ricorrano l’esorbitanza degli interessi convenuti, lo stato di biso-
gno del mutuatario e l’approfittamento di tale stato da parte del mutuan-
te.
Cass. 17 luglio 2008, n. 19698. In tema di usura, lo stato di bisogno pre-
so in considerazione dal precetto penale può essere indifferentemente
determinato da cause incolpevoli oppure da vizi, prodigalità o altre cau-
se inescusabili, poiché la norma persegue la finalità di colpire l’usuraio
quale persona socialmente nociva, che non cessa di essere tale, quale
che sia la natura o la causa del bisogno del debitore, e sussiste quand’an-
che l’offeso abbia inteso insistere negli affari al di fuori di ogni raziona-
le criterio imprenditoriale; deve dunque ritenersi che lo stato di bisogno
del reato di usura, nella vecchia formulazione, ricorra tutte le volte che
la persona non sia in grado di ottenere altrove e a condizioni migliori la
prestazione di denaro o altra cosa che le occorra, anche ai fini della sua
attività d’impresa (senza escludere tra questi una eventuale espansione
della medesima) e debba invece sottostare alle esose condizioni che le
vengono imposte per il prestito; potendo lo stato di bisogno essere di
qualunque natura, specie o grado, deve perciò escludersi che quella pri-
vazione o grave limitazione della libertà di scelta del mutuatario che
qualifica l’usura sia incompatibile con il carattere commercialistico del-
l’attività lucrativa in cui l’usura venga ad inserirsi, essendo chiaro che

443
l’elemento del rischio sussiste ugualmente, sia pure in misura diversa,
tanto per il commerciante quanto per chi non lo sia.

Cass. 17 luglio 2008, n. 19698. Nel regime anteriore alla l. n. 108 del
1996 il negozio di mutuo era da considerarsi illecito per pattuizione di
interessi a tasso elevato solo nel caso di sussistenza degli estremi del de-
litto di usura ai sensi dell’art. 644 c.p. (nella previgente formulazione);
in particolare, lo stato di bisogno preso in considerazione dal detto pre-
cetto penale poteva essere indifferentemente determinato da cause incol-
pevoli oppure da vizi, prodigalità o altre cause inescusabili, poiché la
norma perseguiva la finalità di colpire l’usurario quale persona social-
mente nociva, che non cessava di essere tale, quale che fosse la natura o
la causa del bisogno del debitore, e sussisteva quand’anche l’offeso
avesse inteso insistere negli affari al di fuori di ogni razionale criterio
imprenditoriale; ne consegue che lo stato di bisogno nel reato di usura
ricorreva tutte le volte in cui la persona offesa non era in grado di otte-
nere altrove e a condizioni migliori la prestazione di denaro o altra cosa
occorrente anche ai fini della sua attività d’impresa e doveva, invece,
sottostare alle esose condizioni imposte per il prestito; deve, pertanto,
escludersi che quella privazione o grave limitazione della libertà di scel-
ta del mutuatario, che qualifica l’usura, fosse incompatibile con il carat-
tere commerciale dell’attività lucrativa in cui l’usura venga ad inserirsi
(in applicazione del riportato principio la suprema corte ha cassato la
sentenza dei giudici di merito secondo cui - offrendone un’interpretazio-
ne riduttiva - lo stato di bisogno doveva essere escluso nel caso in cui il
mutuatario si fosse ripromesso dal prestito uno scopo di lucro, sotto il
profilo dell’investimento del denaro ricevuto, soltanto o anche per intra-
prendere o incrementare affari commerciali).

Cass. 20 agosto 2012, n. 14570. Le norme che prevedono la nullità dei


patti contrattuali che determinano degli interessi con rinvio agli usi, o
che fissano la misura in tassi così elevati da raggiungere la soglia dell’u-
sura (introdotte, rispettivamente, con l’art. 4 l. 17 febbraio 1992 n. 154,
poi trasfuso nell’art. 117 d.leg. 1º settembre 1983 n. 385, e con l’art. 4 l.
7 marzo 1996 n. 108), non sono retroattive, e pertanto, in relazione ai
contratti conclusi prima della loro entrata in vigore, non influiscono sul-

444
la validità delle clausole dei contratti stessi, ma possono soltanto impli-
carne l’inefficacia ex nunc, rilevabile solo su eccezione di parte, non
operando, perciò, quando il rapporto giuridico si sia esaurito prima an-
cora dell’entrata in vigore di tali norme ed il credito della banca si sia
anch’esso cristallizzato precedentemente.

Cass. 13 maggio 2010, n. 11632. L’art. 1 d.l. 29 dicembre 2000 n. 394,


convertito, con modificazioni, nella l. 28 febbraio 2001 n. 24, di inter-
pretazione autentica della l. 7 marzo 1996 n. 108, secondo cui la natura
usuraria dei tassi di interesse va determinata in riferimento al momento
della convenzione e non a quello della dazione, non trova applicazione
ai rapporti già esauriti prima della successiva entrata in vigore della sud-
detta l. n. 108 del 1996, senza che rilevi, in senso contrario, la pendenza
successiva di una controversia sulle ragioni di credito di una delle parti
(fattispecie relativa ad interessi moratori convenzionalmente stabiliti in
un accordo transattivo del gennaio 1995, oggetto di integrazione nell’a-
prile del 1995, che aveva comportato l’espressa risoluzione del contratto
di appalto intercorso tra le stesse parti).

Cass. 22 aprile 2010, n. 9532. A seguito della norma di interpretazione


autentica recata dall’art. 1 d.l. 29 dicembre 2000 n. 394, convertito, con
modificazioni, nella l. 28 febbraio 2001 n. 24, i criteri fissati dalla disci-
plina, oggetto dell’interpretazione anzidetta, introdotta dalla l. 7 marzo
1996 n. 108, in ordine alla determinazione del carattere usurario degli
interessi non possono essere applicati a rapporti completamente esauriti
prima della sua entrata in vigore, senza che rilevi, in senso contrario, la
pendenza di una controversia sulle obbligazioni derivanti dal contratto e
rimaste inadempiute, le quali non implicano che il rapporto contrattuale
sia ancora in atto, ma solo che la sua conclusione ha lasciato in capo alle
parti, o ad una di esse, delle ragioni di credito (fattispecie relativa ad in-
teressi moratori convenzionalmente stabiliti in un contratto di leasing
stipulato nell’anno 1989 e risolto nell’anno 1993).

Cass. 19 marzo 2007, n. 6514. Come emerge dalla norma di interpreta-


zione autentica di cui all’art. 1, 1º comma, d.l. 29 dicembre 2000 n. 394
(conv., con modif., nella l. 28 febbraio 2001 n. 24), i criteri fissati dalla

445
l. 7 marzo 1996 n. 108 per la determinazione del carattere usurario degli
interessi non trovano applicazione con riferimento ai contratti stipulati
anteriormente all’entrata in vigore della stessa legge.

Cass.12 luglio 2007, n. 15621. La l. 28 febbraio 2001 n. 24, di conver-


sione del d.l. 29 dicembre 2000 n. 394, di interpretazione autentica della
l. 7 marzo 1996 n. 108, che ha fissato la valutazione della natura usuraia
dei tassi d’interesse al momento della convenzione e non a quello della
dazione, non si applica solo ai rapporti di mutuo ma a tutte le fattispecie
negoziali che possano contenere la pattuizione d’interessi usurari, salvo
che il rapporto contrattuale non si sia esaurito anteriormente alla data di
entrata in vigore della l. 7 marzo 1996 n. 108, senza che rilevi la pen-
denza successiva di una controversia riguardante le ragioni di credito di
una delle parti, dovendo trovare applicazione, in tale fattispecie, l’ordi-
naria disciplina della successione delle leggi nel tempo.

Cass. 31 gennaio 2006, n. 2140. Le norme che prevedono la nullità dei


patti contrattuali che determinano degli interessi con rinvio agli usi, o
che fissano la misura in tassi così elevati da raggiungere la soglia dell’u-
sura (introdotte, rispettivamente, con l’art. 4 l. 17 febbraio 1992 n. 154,
poi trasfuso nell’art. 117 d.leg. 1º settembre 1993 n. 385, e con l’art. 4 l.
7 marzo 1996 n. 108), non sono retroattive, e pertanto, in relazione ai
contratti conclusi prima della loro entrata in vigore, non influiscono sul-
la validità delle clausole dei contratti stessi, ma possono soltanto impli-
carne l’inefficacia ex nunc, rilevabile solo su eccezione di parte.

Cass. 21 dicembre 2005, n. 28302. Le norme che prevedono la nullità


dei patti contrattuali che determinano gli interessi con rinvio agli usi, in-
trodotte con l’art. 4 l. 17 febbraio 1992 n. 154, poi trasfuso nell’art. 117
d.leg. 1 settembre 1993 n. 385, non sono retroattive, alla pari della disci-
plina in materia di usura; l’irretroattività opera anche per la previsione
della sostituzione della clausola nulla con la diversa disciplina legale al-
l’uopo dettata dal legislatore.

Cass. 25 febbraio 2005, n. 4093. Le norme che prevedono la nullità dei


patti contrattuali che determinano gli interessi con rinvio agli usi, o che

446
fissano la misura degli interessi in tassi così elevati da raggiungere la so-
glia dell’usura (introdotte rispettivamente con l’art. 4 l. 17 febbraio 1992
n. 154, poi trasfuso nell’art. 117 d.leg. 1º settembre 1993 n. 385, e con
l’art. 4 l. 7 marzo 1996 n. 108), non sono retroattive, e pertanto, in rela-
zione ai contratti conclusi prima della loro entrata in vigore, non influi-
scono sulla validità delle clausole dei contratti stessi, ma possono soltan-
to implicarne l’inefficacia ex nunc, rilevabile solo su eccezione di parte.
Cass. 17 novembre 2000, n. 14899. Nel mutuo, ove il rapporto negoziale
non sia ancora esaurito in quanto perduri l’obbligazione di corrisponde-
re, oltre ai ratei di somma capitale, anche gli interessi, la rilevabilità
d’ufficio della nullità della clausola relativa agli interessi, che si assuma-
no essere usurari in applicazione dei criteri dettati dalla l. 108/96, non
può ritenersi preclusa per il solo fatto che il contratto sia stato stipulato
anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina.

Cass. 22 luglio 2005, n. 15497. La disciplina relativa ai tassi di interesse


sui mutui introdotta dalla l. 7 marzo 1996 n. 108, recante disposizioni in
materia di usura - e quindi anche quella dettata dall’art. 1 d.l. 29 dicem-
bre 2000 n. 394, convertito in l. 28 febbraio 2001 n. 24, di interpretazio-
ne autentica della precedente - non può essere applicata a rapporti com-
pletamente esauriti prima della sua entrata in vigore, senza che rilevi, in
senso contrario, la pendenza di una controversia sulle obbligazioni deri-
vanti dal contratto e rimaste inadempiute, le quali non implicano che il
rapporto contrattuale sia ancora in atto, ma solo che la sua conclusione
ha lasciato in capo alle parti, o ad una di esse, delle ragioni di credito.

Cass. 22 aprile 2000, n. 5286. Ove il rapporto negoziale non sia ancora
esaurito, non si può continuare a dare effetto alla clausola, contenuta in
un contratto di conto corrente bancario stipulato in epoca anteriore al-
l’entrata in vigore della nuova disciplina sull’usura, con la quale sono
stati pattuiti interessi ad un tasso divenuto superiore a quello di soglia.

Cass. 2 febbraio 2000, n. 1126. La l. n. 108/96 che ha modificato l’art.


644 c.p., in difetto di previsione di retroattività, non può operare rispetto
ai precedenti contratti di mutuo, pur essendo di immediata applicazione
nei relativi rapporti limitatamente alla regolamentazione di effetti ancora

447
in corso.

Cass. 17 novembre 2000, n. 14899. Momento significativo per indivi-


duare se il tasso degli interessi nel mutuo stipulato anteriormente all’en-
trata in vigore della l. 7 marzo 1996 n. 58 superi la soglia stabilita nei
decreti ministeriali trimestrali previsti dall’art. 2 detta legge è quello del-
la dazione di detti interessi, e non quello della stipula del contratto, es-
sendo tenuto il giudice a rilevarne anche d’ufficio l’illegittimità qualora
si controverta dell’esecuzione del contratto.

*****

LE NORME RICHIAMATE

Art. 1 l. 7 marzo 2996, n. 108


l. L'articolo 644 del codice penale è sostituito dal se-
guente:
ART. 644 - (Usura) - Chiunque, fuori dei casi previsti
dall'articolo 643, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi for-
ma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di de-
naro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, è puni-
to con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da lire sei
milioni a lire trenta milioni.
Alla stessa pena soggiace chi, fuori del caso di concorso

448
nel delitto previsto dal primo comma, procura a taluno una
somma di denaro od altra utilità facendo dare o promettere, a
sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario.
La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi
sono sempre usurari.
Sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale
limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle
concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per ope-
razioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto
alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all'opera di
mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condi-
zioni di difficoltà economica o finanziaria.
Per la determinazione del tasso di interesse usurario si
tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo
e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla
erogazione del credito.
Le pene per i fatti di cui al primo e secondo comma sono
aumentate da un terzo alla metà:
- se il colpevole ha agito nell'esercizio di una attività
professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria mobi-
liare;

449
- se il colpevole ha richiesto in garanzia partecipazioni o
quote societarie o aziendali o proprietà immobiliari;
- se il reato è commesso in danno di chi si trova in stato
di bisogno;
- se il reato è commesso in danno di chi svolge attività
imprenditoriale, professionale o artigianale;
- se il reato è commesso da persona sottoposta con prov-
vedimento definitivo alla misura di prevenzione della. sorve-
glianza speciale durante il periodo previsto di applicazione e
fino a tre anni dal momento in cui è cessata l'esecuzione.
Nel caso di condanna, o di applicazione di pena ai sensi
dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei
delitti di cui al presente articolo, è sempre ordinata la confisca
dei beni che costituiscono prezzo o profitto del reato ovvero di
somme di denaro, beni ed utilità di cui il reo ha la disponibilità
anche per interposta persona per un importo pari al valore de-
gli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari, salvi i
diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risar-
cimento dei danni".
2. L'articolo 644-bis del codice penale è abrogato.

450
Art. 2 l. 7 marzo 2996, n. 108
1. Il Ministro del tesoro, sentiti la Banca d'Italia e l'Uffi-
cio italiano dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo
globale medio, comprensivo di commissioni, di remunerazioni
a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, ri-
ferito ad anno, degli interessi praticati dalle banche e dagli in-
termediari finanziari iscritti negli elenchi tenuti dall'Ufficio
italiano dei cambi e dalla Banca d'Italia ai sensi degli articoli
106 e 107 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, nel
corso del trimestre precedente per operazioni della stessa na-
tura. I valori medi derivanti da tale rilevazione, corretti in ra-
gione delle eventuali variazioni del tasso ufficiale di sconto
successive al trimestre di riferimento, sono pubblicati senza ri-
tardo nella Gazzetta Ufficiale.
2. La classificazione delle operazioni per categorie omo-
genee, tenuto conto della natura, dell'oggetto, dell'importo,
della durata, dei rischi e delle garanzie è effettuata annual-
mente con decreto dei Ministro del tesoro, sentiti la Banca d'I-
talia e l'Ufficio italiano dei cambi e pubblicata senza ritardo
nella Gazzetta Ufficiale.
3. Le banche e gli intermediari finanziari di cui al com-

451
ma 1 ed ogni altro ente autorizzato alla erogazione del credito
sono tenuti ad affiggere nella rispettiva sede, e in ciascuna del-
le proprie dipendenze aperte al pubblico, in modo facilmente
visibile, apposito avviso contenente la classificazione delle
operazioni e la rilevazione dei tassi previsti nei commi 1 e 2.
4. Il limite previsto dal terzo comma dell'articolo 644 del
codice penale, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari,
è stabilito nel tasso medio risultante dall'ultima rilevazione
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relati-
vamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compre-
so, aumentato della metà.

Art. 1339 c.c.


Inserzione automatica di clausole.
1. Le clausole, i prezzi di beni o di servizi, imposti dalla
legge, sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzio-
ne delle clausole difformi apposte dalle parti.

Art. 1419 c.c.

452
Nullità parziale.
1. La nullità parziale di un contratto o la nullità di sin-
gole clausole importa la nullità dell'intero contratto, se risulta
che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte
del suo contenuto che è colpita dalla nullità.
2. La nullità di singole clausole non importa la nullità
del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto
da norme imperative.

Art. 1813 c.c.


Nozione.
1. Il mutuo è il contratto col quale una parte consegna
all'altra una determinata quantità di danaro o di altre cose
fungibili, e l'altra si obbliga a restituire altrettante cose della
stessa specie e qualità.

Art. 1815 c.c.


Interessi.
1. Salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve

453
corrispondere gli interessi al mutuante. Per la determinazione
degli interessi si osservano le disposizioni dell'articolo 1284.
2. Se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla
e non sono dovuti interessi.

*****

GLI ISTITUTI

Il fenomeno usurario non è affatto recente: già nel diritto


romano si rinvengono esempi di accordi aventi ad oggetto pre-
stazioni, nei quali il contenuto di una prestazione di cose fungi-
bili è assolutamente sproporzionato rispetto alla quantità di
cose fungibili che rappresenta l'oggetto della controprestazione.
Inizialmente il divieto per tali tipologie di negoziazioni
esisteva limitatamente a quei casi nei quali la sporporzione tra i
contenuti delle due prestazioni raggiungeva livelli altissimi ed
una delle due parti arrivava a conseguire ingenti vantaggi eco-
nomici.
Nel corso dei secoli, il limite della sproporzione consenti-

454
ta si abbassò progressivamente.
Tuttavia, la sproporzione continuava a mantenersi alta
poiché nel codice civile del 1865 il legislatore non aveva af-
frontato tale questione (non vi era infatti alcun divieto in tal
senso) sicché si riteneva che, in nome di un generale principio
di libertà contrattuale, fossero consentite anche negoziazioni in
cui la predetta sproporzione tra le prestazioni era evidente.
Nel codice penale del 1930, invece, vi era stata la previ-
sione di un delitto (art. 644 c.p.) posto in essere da colui che,
approfittando dello stato di bisogno di una persona, si facesse
dare o promettere da questa, in corrispettivo di denaro o di altra
cosa mobile, interessi o vantaggi usurari, con la previsione di
una conseguente sanzione da comminare.
Il nostro codice civile ha contemplato all'art. 1448 c.c.
l’istituto della rescissione per lesione, secondo cui “se vi è
sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell'altra,
e la sproporzione è dipesa dallo stato di bisogno di una parte,
del quale l'altra ha approfittato per trarne vantaggio, la parte
danneggiata può domandare la rescissione del contratto".
Inoltre, al fine di apprestare tutela alle vittima dell'usura
il codice del '42 aveva previsto, nella disciplina del contratto di

455
mutuo, all'art. 1815, 2° comma c.c., gli interessi convenuti nel-
la misura usuraria non erano dovuti perché nulli sicché i mede-
simi si trasformavano automaticamente in interessi legali.
Tale disposizione è stata modificata con l'introduzione
della legge 108 del 7 marzo 1996 la quale ha previsto per il
caso in cui siano convenuti interessi usurari che gli stessi non
sono dovuti. Il mutuo, in tal caso, si trasforma in contratto gra-
tuito ("se sono convenuti interessi usurari , la clausola è nulla e
non sono dovuti interessi").
L'intervento legislativo del 1996, volto a contrastare il
diffondersi di fenomeni usurari, ha modificato sia la normativa
civilistica che quella di diritto penale, sanzionando in modo più
rigido quegli spostamenti patrimoniali caratterizzati da uan
sproporzione tra il valore delle prestazioni oggetto dell'accordo.
In ambito penalistico, la modifica ha riguardato l'art. 644
c.p.
La novellata disposizione contempla la fattispecie realiz-
zata da chiunque si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma,
per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o
di altra utilità interessi o altri vantaggi usurari.
Prevede inoltre la norma che la legge stabilisce il limite

456
oltre il quale gli interessi sono sempre usurari.
Sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale
limite, e gli altri vantaggi o compensi che avuto riguardo alle
concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per opera-
zioni similari risultano comunque sproporzionati rispetto alla
prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all'opera di me-
diazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni
di difficoltà economica o finanziaria.
Tale articolo permette di individuare tre differenti tipolo-
gie di usura.
La prima forma di usura è quella denominata anche
“usura pecuniaria in astratto” che si rinviene nel caso in cui si
supera il tasso limite: qui si prescinde da ogni valutazione degli
elementi in concreto ricorrenti nella fattispecie.
La seconda ipotesi di usura è quella denominata “usura
pecuniaria in concreto”, che si configura nel caso in cui il li-
mite anzidetto non viene oltrepassato ma, avendo riguardo alle
modalità del fatto e al tasso medio praticato per la particolare
tipologia di operazione che viene in rilievo nel caso concreto,
gli interessi dati o promessi da colui che si trovi in condizioni
di difficoltà economica o finanziaria risultano sproporzionati ri-

457
spetto alla prestazione della controparte.
La terza forma di usura è quella reale, che è sempre
“usura in concreto”, la quale si realizza quando un soggetto che
si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria dà o
promette dei vantaggi (o compensi) che, in considerazione del-
le concrete modalità del fatto e del corrispettivo medio pratica-
to per le contrattazioni simili a quella che viene in questione
nella specie, risultano sproporzionati rispetto alla contropresta-
zione consistente in una utilità economica.

L'usura pecuniaria in astratto


L'ipotesi di usura pecuniaria in astratto introdotta dalla
normativa 108/1996 costituisce una rilevante novità nel nostro
ordinamento.
L’introduzione di tale fattispecie risponde - come detto -
alla finalità di adottare rigide misure per combattere le forme di
criminalità che sono connesse al preoccupante fenomeno usu-
rario.
In tale ipotesi si prescinde dalla prova dell'approfittamen-
to delle condizioni di difficoltà economiche o finanziarie di una
delle parti, il mutuatario, circostanza, questa, che potrebbe an-

458
che mancare.
È sufficiente infatti che venga oltrepassato il tasso limite
perché venga disposta la condanna penale: in presenza di tale
circostanza scatta, altresì, la sanzione civile della nullità che
colpisce, ai sensi del primo capoverso dell'art. 1815 c.c. come
novellato, il contratto di mutuo nel quale siano convenuti inte-
ressi usurari. La clausola che abbia tale contenuto è infatti nulla
e non sono dovuti gli interessi sicché il contratto di mutuo, me-
diante la sostituzione di tale pattuizione con quella legale (se-
condo cui, per l'appunto non devono essere corrisposti gli inte-
ressi), diventa a titolo gratuito.
Lo scopo cui la pattuizione di tal genere mira è da rinve-
nire nell'interesse a che le operazioni di finanziamento avven-
gano con regolarità e che le stesse non subiscano ingerenze da
parte di organizzazioni criminali.
Quindi, in merito a tale fattispecie delittuosa, il legislato-
re ha oggettivizzato i presupposti in presenza dei quali scatta
l'irrogazione delle sanzioni: per tale ragione la fattispecie è de-
nominata, altresì, “usura presunta” o “usura in astratto”.
La stessa legge n. 108 del 1996 prevede che il limite oltre
il quale gli interessi sono sempre da considerarsi usurari risulta

459
dal tasso medio relativo alle operazioni di finanziamento che
rientrano nello stesso genere di quella che viene in questione
nel caso concreto, aumentato della metà. Il calcolo deve essere
compiuto sulla base dell’ultima rilevazione del Ministro del Te-
soro (ogni tre mesi si procede a una nuova rilevazione) - sentiti
la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi - pubblicata nel-
la G.U., dei tassi effettivi globali medi, comprensivi di com-
missioni, remunerazioni e spese (escluse quelle per imposte e
tasse), praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari per
operazioni aventi una medesima natura.
Il superamento della massima percentuale di interessi
consentita ha come conseguenza la sanzione prevista dal nuovo
art. 1815, 2º co., c.c., ovvero la nullità della clausola che con-
templa gli interessi usurari per cui essi non devono essere corri-
sposti relativamente a quel contratto di finanziamento.
La nullità che colpisce la clausola non intacca l'intero
contratto il quale rimane efficace per il resto; dunque, si tratta
di una nullità necessariamente parziale (che attiene alla sola
corresponsione degli interessi).
Tale previsione costituisce una deroga rispetto al princi-
pio enunciato dall'art. 1419, 1° comma c.c. in forza del quale,

460
“la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole cluso-
le importa la nullità dell'intero contratto, se risulta che i con-
traenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo
contenuto che è colpita dalla nullità".
La nullità di una clausola contrattuale che risulti essen-
ziale nell'economia del contratto - come è quella che afferisce
agli interessi all'interno di un contratto di finanziamento - con-
durrebbe alla nullità dell'intero negozio, se operasse il disposto
dell'art. 1419 c.c.
La deroga invece consente alla vittima di usura di conti-
nuare a fruire del denaro oggetto del finanziamento, sollevan-
dola dall'obbligo di corrispondere interessi usurari, quale corri-
spettivo.
In dottrina sono stati sollevati dubbi in merito alla legitti-
mità di una clausola di tal genere la quale, costituendo una sor-
ta di pena privata, contrasta con il 2° comma dell'art. 25 del
dettato costituzionale.
La pena che viene inflitta al mutuante il quale applica in-
teressi vietati perché usurari consiste nel pretendere da questi la
disponibilità del denaro senza che a questi venga offerta la re-
stituzione, neppure nella misura legale (come invece prevedeva

461
la vecchia formulazione dell'art. 1815, 2° comma c.c. la quale
riduceva gli interessi dovuti alla misura legale).
Il mutuante in tal modo rinuncia al corrispettivo della
prestazione da lui resa.
Tale prescrizione legislativa costituisce indubbiamente un
chiaro esempio in cui si travalica la funzione risarcitoria pro-
pria delle sanzioni concepite in ambito privatistico.

L'usurarietà sopravvenuta
L’introduzione di un tasso soglia superato il quale gli in-
teressi sono sempre da considerare usurari - variabile in base
alle rilevazioni periodiche del Ministero del Tesoro - unita-
mente alla previsione della sussistenza del reato anche in caso
di semplice “dazione” di interessi usurari, ha dato luogo ad una
serie di problematiche rilevanti sotto il profilo applicativo.
Precisamente, il problema ha avuto ad oggetto il caso in
cui interessi inizialmente conformi al tasso legale sono divenuti
usurari a seguito di una successiva quantificazione compiuta ad
opera del decreto ministeriale.
L'usura sopravvenuta dunque si verifica allorquando un
tasso non usurario al momento della conclusione del contratto

462
risulti usurario perché, nella vigenza del contratto, il decreto
ministeriale dispone un abbassamento del tasso soglia.
In tale caso non si può utilmente invocare il disposto del-
l'art. 1815 c.c.: la norma infatti colpisce con la sanzione della
nullità quegli interessi che risutlassero usurari al momento del-
la loro pattuizione (“convenuti”); nel caso di specie, invece,
siamo di fronte ad una usurarietà sopravvenuta.
La sanzione rigorosa della nullità non può, inoltre, essere
oggetto di interpretazione analogica (osta a ciò la disposizione
preliminare al codice civile di cui all'art. 14), ma deve trovare
applicazione solo nei casi tassativamente previsti e quindi non
può operare laddove vi sia stata una “dazione” piuittosto che
una “pattuizione”.
Non vi sono dubbi in merito al fatto che il tasso di inte-
ressi è da ritenersi illecito se nel momento in cui gli interessi
vengono riscossi il tasso applicato viola la prescrizione della
normativa (e ciò anche nel caso in cui si tratti di una pattuizio-
ne precedente rispetto all'entrata in vigore della legge)
Ne discende che, poiché la disposizione che definisce
usurari gli interessi presenta carattere imperativo, il superamen-
to del tetto massimo previsto vizia il rapporto contrattuale per

463
sopravvenuta usurarietà degli interessi.
Ciò implica che, al momento della riscossione degli inte-
ressi, permane l’obbligo del pagamento dei medesimi al tasso
massimo consentito dalla legge.
Tale interpretazione è stata sostenuta mediante il richia-
mo dell'art. 1339 c.c. e dell'art. 1419, 2° comma c.c.
La prima delle due disposizioni fa riferimento alle c.d.
fonti eteronome, cioè quelle che non dipendono dalla volontà
delle parti bensì dalla legge e prevede che: “le clausole, i prez-
zi di beni o di servizi, imposti dalla legge sono di diritto inseri-
ti nel contratto, anche in sostituzione delle clausole difformi
apposte dalle parti".
Il dibattito sul tema ha ricevuto un'importante svolta a se-
guito della pronunzia n. 14899, resa dalla Suprema Corte di
Cassazione in data 17 novembre 2000, con la quale la si è sot-
tolineata l’importanza della usurarietà degli interessi che risulti
al momento della dazione, non escludendo in via radicale la
possibilità che il giudice rilevi ex officio tale usurarietà, con
conseguente dichiarazione di nullità della clausola relativa agli
interessi.
A seguito di forti pressioni, si è poi intervenuti legislati-

464
vamente mediante l'emanazione del d.l. 29 dicembre 2000, n.
394, convertito in legge 28 febbraio 2001, n. 24.
Tenendo fede all’intitolazione, il provvedimento normati-
vo appena menzionato ha offerto un’interpretazione autentica
della legge 108/1996.
Tuttavia l'interpretazione fornita ha circoscritto l'applica-
bilità del delitto di usura di cui all'art. 644 c.p.. ai soli casi in
cui l'usurarietà degli interessi sia tale sin dal momento della
sottoscrizione del contratto, escludendo per l'effetto la rilevabi-
lità dell'usurariretà sopravvenuta degli interessi, ovvero di quel-
la che sia tale al successivo momento della dazione degli inte-
ressi stessi.
Tale disciplina è stata introdotta, come detto, attraverso
un decreto legge poi convertito in legge.
Anche per tale profilo era stata censurata la predetta nor-
mativa innanzi alla Consulta. Ma la Corte Costituzionale, pro-
nunciatasi in merito a tale questione nell'anno 2002, ha respinto
le censure di assenza dei requisiti di necessità ed urgenza che
devono sottendere ad ogni provvedimento che presenti la forma
del decreto legge, respingendo, altresì, le ulteriori censure mos-
se alla normativa sotto i diversi profili della contraddittorietà

465
ed irragionevolezza.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE – CASS. 11


GENNAIO 2013, N. 602

“La disciplina di cui alla l. 7 marzo 1996 n. 108 si appli-


ca ai contratti (nella specie, conto corrente con tasso d’inte-
resse superiore a quello legale) contenenti tassi usurari, anche
se stipulati prima della sua entrata in vigore, ove i rapporti
non siano esauriti; ne consegue che, in applicazione dell’art. 1
della l. n. 108 del 1996 e degli art. 1339 e 1419, 2º comma,
c.c., opera la sostituzione automatica dei tassi convenzionali
con i tassi soglia applicabili in relazione ai diversi periodi”.

In tema di usura sopravvenuta, la giurisprudenza ha affer-


mato che le disposizioni che sanciscono la nullità degli accordi
contrattuali nei quali la determinazione degli interessi è rimessa
agli usi, ovvero che stabiliscono la misura in tassi così elevati

466
da oltrepassare la soglia dell’usura (introdotte, rispettivamente,
con l’art. 4 l. 17 febbraio 1992 n. 154, poi trasfuso nell’art. 117
d. lgs. 1º settembre 1983 n. 385, e con l’art. 4 l. 7 marzo 1996
n. 108), non hanno efficacia retroattiva.
Pertanto, con riguardo ai contratti conclusi prima della
loro entrata in vigore, tali norme non spiegano effetti sulla vali-
dità delle pattuizioni contrattuali, potendone esclusivamente
implicarne l’inefficacia per l'avvenire.
Si tratta di un'eccezione non rilevabile ex officio ma solo
su istanza di parte sicché la stessa non opera se il contratto ha
già spiegato i suoi effetti prima dell'entrata in vigore di tali di-
sposizioni.

TESTO INTEGRALE

Con decreto ingiuntivo, emesso in data 11 ottobre 1991, il Presi-


dente del Tribunale di Milano intimava alla società semplice X e agli
stessi soci in via tra loro solidale, di pagare all'istituto __________ la
somma di L. 89.383.223,oltre interessi, quale saldo debitorio di conto
corrente, nonché all' O. e alla P. di pagare l'importo di L. 63.502.725, ol-
tre interessi, relativo ad altro conto corrente.
Proponevano ritualmente opposizione al provvedimento
monitorio la P. e l' O. (quest'ultimo anche quale amministratore della

467
società) assumendo l'erroneità dei conteggi presentati e la mancata
pattuizione di interessi ultralegali.
Costituitosi, l'istuto ______ chiedeva rigettarsi l'opposizione.
Il Tribunale di Milano, con sentenza depositata in data 15
dicembre 1994, rigettava le domande. Avverso la predetta sentenza
proponevano appello O. e P., nonché la società semplice X.
Si costituiva l'istituto _________ che chiedeva il rigetto
dell'appello.
La Corte d'Appello di Milano, con sentenza 15/12/2004 -
04/02/2005, rigettava l'appello.
Proponevano ricorso per cassazione gli appellanti.
Resisteva con controricorso l'istituto _____
Questa Corte, con sentenza in data 11/11/1999 n. 12507
accoglieva parzialmente il ricorso, con rinvio alla Corte di Appello di
Milano, in diversa composizione.
Con atti di citazione rispettivamente notificati in data 12/12/2000
e 15/12/2000, entrambe le parti provvedevano ad instaurare giudizio di
riassunzione.
I relativi giudizi venivano riuniti. Veniva disposta ed espletata
CTU contabile.
Con sentenza in data 15/12/2004 - 4/2/2005, la Corte di Appello
di Milano revocava il decreto ingiuntivo, condannava X a pagare Euro
75.618,46, nonché O. e P. a pagare Euro 34.499,84, tutti con interessi
legali dalla notificazione del decreto ingiuntivo al soddisfo.
Ricorre per cassazione l'istituto.
Resistono, con controricorso e propongono ricorso incidentale l'
O., la P. e X...
Resiste con controricorso al ricorso incidentale l'istituto.
Motivi della decisione

468
Con il primo motivo, la ricorrente principale chiede dichiararsi la
nullità della sentenza per violazione degli artt. 383 e 384 c.p.c., in
quanto il giudice del rinvio avrebbe pronunciato al di là dei limiti fissati
da questa Corte. Con il secondo, lamenta violazione dell'art. 324 c.p.c.,
sussistendo giudicato parziale.
Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta violazione degli artt.
1283 e 1284 c.c., nonché vizio di motivazione, in punto capitalizzazione
degli interessi. Con il quarto, violazione dell'art. 1283 c.c., in punto
capitalizzazione degli interessi per il periodo successivo alla domanda
giudiziale.
Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta violazione del
principio di retroattività della legge, in relazione all'applicazione della
disciplina "anti-usura", introdotta dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, a
fattispecie antecedente.
Con il sesto, vizio di motivazione in punto applicazione del tasso
legale degli interessi in luogo di quello convenzionale.
Con un unico motivo, i ricorrenti incidentali lamentano vizio di
motivazione della sentenza impugnata, che avrebbe riconosciuto gli
interessi legali dalla notifica del decreto ingiuntivo su somme capitali,
già maggiorate di interessi.
Vanno innanzi tutto considerati contenuto e limiti del rinvio
disposto da questa Corte.
Nella predetta sentenza, si precisa che non sono nulle le clausole
di determinazione del saggio di interesse superiore a quello legale:
l'obbligo della forma scritta è rispettato, (art. 1284 c.c., comma 3)
e l'indicazione numerica del tasso da praticare rende quest'ultimo
predeterminato. Nulle invece le clausole che prevedono la
capitalizzazione trimestrale degli interessi, dando luogo a anatocismo,
vietato dall'art. 1283 c.c., che ammette la produzione di interessi su
interessi (scaduti) soltanto dal giorno della domanda giudiziale o per
effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza (sempre che si tratti
di interessi dovuti almeno per sei mesi) salvo usi contrari (ma dovrà

469
trattarsi di usi normativi, e non negoziali o interpretativi). Aggiunge
questa Corte che il giudice del rinvio pure esaminerà l'incidenza nella
fattispecie concreta della sopravvenuta L. n. 108, già indicata. La
ricorrente sostiene che il divieto della capitalizzazione trimestrale degli
interessi non escluderebbe altre capitalizzazioni, e segnatamente quella
annuale. Al contrario, come è evidente, nella predetta sentenza, questa
Corte tratta di capitalizzazione trimestrale perché questa era oggetto di
dibattito, ma dal contesto motivazionale, emerge con chiarezza
l'affermazione del divieto di ogni capitalizzazione di interessi su
interessi, ai sensi dell'art. 1283 c.c. (salvo, come si diceva, in caso di
domanda giudiziale o convenzione posteriore alla scadenza di essi).
Bene ha fatto dunque il giudice del rinvio ad escludere qualsiasi
capitalizzazione (annuale, semestrale, trimestrale ecc), conformemente
alle indicazioni del giudice remittente, e secondo orientamento
giurisprudenziale che si è andato consolidando negli anni (tra le altre,
Cass. S.U. n. 24418/2010; Cass. n. 9695/2011).
Quanto alla richiesta della Banca di capitalizzazione degli
interessi, anche con riferimento al periodo successivo all'emissione del
decreto ingiuntivo (ciò che, ai sensi del predetto art. 1283 c.c. sarebbe
consentito), il relativo motivo è da ritenersi inammissibile, in quanto del
tutto generico e non autosufficiente:
non è dato infatti comprendere se ed in che misura tale
capitalizzazione sia stata ammessa, dopo il decreto ingiuntivo, ovvero
totalmente esclusa (è assai significativo al riguardo, come si vedrà, che
il ricorso incidentale censuri, all'opposto, la capitalizzazione degli
interessi asseritamente effettuata dopo il decreto ingiuntivo).
La ricorrente principale lamenta altresì che il giudice del rinvio,
in applicazione della L. n. 108 del 1996, abbia dichiarato nulle le
clausole dei contratti di conto corrente che determinavano un tasso di
interesse superiore a quello legale, e sostituito, appunto, il tasso
praticato con quello legale.
La censura è fondata.
Come si è detto, questa Corte, nella sentenza di rinvio aveva

470
escluso la nullità delle clausole contrattuali determinanti un interesse
superiore a quello legale. Tale profilo dunque non poteva costituire
oggetto di delibazione da parte del giudice del rinvio, e doveva ritenersi
coperto da giudicato parziale.
E' vero peraltro, come si è detto, che questa Corte sollecitava il
giudice del rinvio a verificare l'incidenza nella fattispecie concreta della
L. n. 108 del 1996. Va peraltro precisato che, pur seguendo tale
differente percorso logico, si perviene, come si vedrà, al medesimo
risultato di validità delle clausole contrattuali in questione.
Giurisprudenza ormai consolidata (da ultimo, Cass. N. 25182 del
2010) precisa che, con riferimento a fattispecie anteriore (come -
pacificamente - nel caso che ci occupa) alla L. n. 108 del 1996, in
mancanza di una previsione di retroattività, la pattuizione di interessi
ultralegali non è viziata da nullità, essendo consentito alle parti di
determinare un tasso di interesse superiore a quello legale, purché ciò
avvenga in forma scritta; l'illiceità si ravvisa soltanto ove sussistano gli
estremi del reato di usura ex art. 644 c.p.: vantaggio usurario, stato di
bisogno del soggetto passivo, approfittamento di tale stato da parte
dell'autore del reato. Valide dunque le predette clausole contrattuali, è
esclusa l'automatica sostituzione del tasso originariamente determinato
con quello legale, come invece disposto dal giudice del rinvio. Al
contrario, come sembra suggerire lo stesso ricorrente principale,
trattandosi di rapporti non esauriti al momento dell'entrata in vigore
della L. n. 108 (con la previsione di interessi moratori fino al soddisfo),
va richiamato la L. n. 108 del 1996, art. 1 che ha previsto la fissazione di
tassi soglia (successivamente determinati da decreti ministeriali); al di
sopra dei quali, gli interessi corrispettivi e moratori ulteriormente
maturati vanno considerati usurari (al riguardo, Cass. n. 5324 del 2003)
e dunque automaticamente sostituiti, anche ai sensi dell'art. 1419 c.c.,
comma 2 e art. 1319 c.c., circa l'inserzione automatica di clausole, in
relazione ai diversi periodi, dai tassi soglia.
Va pertanto accolto nei termini suindicati il ricorso principale.
Quanto al ricorso incidentale, si afferma che il giudice del rinvio
ha bensì escluso ogni forma di anatocismo, ma poi, sulla base delle

471
risultanze della CTU, ha determinato gli interessi dalla notifica del
decreto ingiuntivo su somme capitali già maggiorate di interessi.
Non si avvedono peraltro i ricorrenti incidentali che la
capitalizzazione, successiva alla domanda giudiziale, è l'unica ipotesi
unitamente alla convenzione posteriore alla scadenza degli interessi
stessi, esclusa dal generale divieto di anatocismo.
Va pertanto rigettato il ricorso incidentale. Accolto dunque, entro
i limiti suindicati il ricorso principale, va cassata la sentenza impugnata,
con rinvio alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, che
si atterrà a quanto sopra indicato e pure si pronuncerà sulle spese del
presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale nei termini di cui in
motivazione; rigetta quello incidentale; cassa la sentenza impugnata e
rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Milano in diversa
composizione.
Così deciso in Roma, il 13 novembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2013

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Tornando alla fattispecie che occupa, alla luce di quanto


esposto, il Signor Mario Rossi non può legittimamente inter-
rompere la corresponsione degli interessi convenuti con l'istitu-

472
to di credito a fronte del contratto di finanziamento e succesi-
vamente divenuti usurari.
La banca infatti potrebbe validamente azionare nei suoi
confronti la procedura esecutiva, atteso che al momento della
pattuizione gli interessi non erano usurari (lo sono divenuti, in-
fatti, solo successivamente).
Tanto vale per i contratti di finanziamento stipulati in
data anteriore all'entrata in vigore della legge n. 108 del 1996,
ma che spiegano i loro effetti anche dopo l'applicazione di tale
normativa nonché per i contratti le cui clausole prevedono inte-
ressi originariamente contenuti nei limiti previsti dalla legge
ma che risultano usurari nel corso del rapporto, per il cambia-
mento del tasso soglia stabilito in base alle rilevazioni ministe-
riali trimestrali.
Nella fattispecie, il Signor Mario Rossi ha sottoscritto
nell'anno 1993 il contratto di mutuo con l'istituto di credito e
dunque prima dell'entrata in vigore della legge 108/1996.
Considerato che il rapporto di mutuo prosegue anche
dopo l'entrata in vigore della citata normativa e ritenuto che,
una volta che gli interessi sono qualificati usurari gli stessi non
possono essere pretesi in quella misura, ne discende che il Si-

473
gnor Mario Rossi li debba corrispondere nella misura massima
consentita dalla legge.
Dunque, il contratto viene integrato secondo il combinato
disposto degli artt. 1339 c.c. e 1419 c.c.

474
15. LA RESPONSABILITA' DELLA BANCA

IL CASO
Il Signor Rossi si rivolge all'istituto bancario X per accendere un
conto corrente sul quale versa una rilevante somma di denaro.
Per tale procedura di apertura di conto, il Signor Rossi viene affidato
al Signor Bianchi, dipendente della banca X, il quale prospetta al
nuovo cliente la possibilità di effettuare delle operazioni di
investimento che in quel momento risultano molto vantaggiose.
Il Signor Rossi, tuttavia, a distanza di qualche giorno, rende noto di
non essere interessato al compimento delle predette operazioni (per
le quali nulla ha sottoscritto) che, a suo dire, sono comunque
altamente rischiose.
Il Signor Bianchi, nonostante sia a conoscenza dell'intendimento del
cliente, compie comunque gli investimenti predetti che, in un primo
momento, fanno conseguire cospicui guadagni al Signor Rossi.
Dopo qualche tempo, tuttavia, l'andamento dei citati investimenti si
appalesa svantaggioso e il Signor Rossi si rende conto che le perdite
da lui subite sono ingenti e quindi chiede ragioni di ciò alla banca.
Quest'ultima, tuttavia, assume che l'investimento effettuato dal
Signor Bianchi è stato frutto di una personale iniziativa di
quest'ultimo e quindi il comportamento predetto non sarebbe
ascrivibile all'istituto di credito.

Quesito
Può il Signor Rossi agire nei confronti della banca X per il danno
cagionato dal comportamento tenuto dal dipendente del predetto
istituto, Signor Bianchi, considerato che il Signor Rossi non aveva

475
conferito alcun apposito mandato per il compimento degli
investimenti?

*****

ESAME DELLA FATTISPECIE

Il Signor Rossi vuole chiedere il risarcimento del danno


nei confronti della banca X - presso cui ha acceso un conto cor-
rente, in ragione delle ingenti perdite subite conseguenti agli
investimenti, arbitrariamente realizzati dal dipendente della
banca X, Signor Bianchi.
Precisamente, il Signor Rossi ha subito un pregiudizio
che origina dal comportamento del dipendente della banca X, il
quale ha posto in essere operazioni finanziarie per le quali il Si-
gnor Rossi non aveva prestato il consenso.
Il Signor Bianchi ha agito illegittimamente nello svolgi-
mento dell'incarico affidatogli dalla banca X, di cui il Signor
Rossi era cliente.
Quest'ultimo, tuttavia, vuole esercitare l'azione di risarci-
mento del danno nei confronti della banca X, anche se il com-

476
portamento illegittimo è stato realizzato dal Signor Bianchi.
Quest'ultima, però, respinge ogni pretesa risarcitoria sul
presupposto che il comportamento del Signor Bianchi è frutto
di una sua personale iniziativa estranea all'incarico affidatogli,
in ragione del quale questi giammai avrrebbe potuto utilizzare i
fondi del Signor Rossi in assenza di apposita autorizzazione del
cliente.
Per ricercare la soluzione la quesito posto, si deve pren-
dere in esame la responsabilità che si configura in capo all'isti-
tuto di credito X.
Si tratta di una forma di responsabilità riconducibile a
quella di cui all'art. 2049 c.c.a ovvero alla categoria della re-
sponsabilità oggettiva del datore di lavoro per i fatti compiuti
dai propri dipendenti.
L'istituto bancario è - accertati determinati requisiti ri-
chiesti espressamente dalla norma citata - considerato respon-
sabile non per un comportamento proprio, bensì per una con-
dotta tenuta da altrui (ovvero del proprio dipendente).
L'analisi deve dunque muovere da tale disposizione non
sempre interpretata in modo univoco dai giudici che comunque
fanno ricorso molto spesso all'applicaizone dell’art. 2049 c.c.

477
in casi di questo genere, in un'ottica volta a rendere oggettivo il
criterio di imputazione della responsabilità quando è coinvolta
un'impresa.

*****

LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 31 agosto 2009, n. 18926. Il contenuto precettivo dell’art. 2049


viene sintetizzato nella locuzione per cui la responsabilità indiretta del
committente per il fatto dannoso del dipendente ai sensi dell’art. 2049
c.c. postula l’esistenza di un nesso di occasionalità necessaria tra l’illeci-
to e il rapporto che lega i due soggetti, nel senso che le mansioni affidate
al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comporta-
mento produttivo del danno (nella specie, la corte ha affermato la re-
sponsabilità del datore di lavoro dell’addetto alla sorveglianza di un par-
cheggio pubblico di una località turistica lacustre anche per i danni ca-
gionati dal dipendente a terzi all’esito di una colluttazione avvenuta non
nel parcheggio sorvegliato ma nella adiacente spiaggia pubblica, la cui
sorveglianza, tuttavia, non era tra le competenze dell’autore della con-
dotta illecita).

Cass. 29 settembre 2005, n. 19167. La responsabilità indiretta del datore


di lavoro (nel caso di specie un istituto bancario) per il fatto dannoso
commesso dal suo dipendente postula l’esistenza del rapporto di lavoro
ed un collegamento tra il fatto dannoso del dipendente e le mansioni da
questi espletate, senza che sia richiesta la prova di un vero e proprio nes-
so di causalità, risultando sufficiente l’esistenza di un rapporto di «occa-

478
sionalità necessaria», nel senso che l’incombenza svolta deve aver deter-
minato una situazione tale da agevolare e rendere possibile il fatto illeci-
to e l’evento dannoso, e ciò anche se il dipendente abbia operato oltre i
limiti delle sue incombenze, o persino trasgredendo agli ordini ricevuti,
purché sempre nell’ambito delle proprie mansioni (nella specie, la su-
prema corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto sus-
sistente la responsabilità della banca in un caso in cui il direttore della
filiale, all’interno dell’istituto bancario, aveva assunto l’iniziativa perso-
nale di far versare una somma ai risparmiatori assicurando alla scadenza
dell’operazione la restituzione della stessa con un interesse netto del die-
ci per cento, mentre la banca ne aveva rifiutato la corresponsione).

Cass. 12 marzo 2008, n. 6632. La responsabilità indiretta del commit-


tente di cui all’art. 2049 c.c. per il fatto dannoso commesso da un dipen-
dente postula l’esistenza di un nesso di «occasionalità necessaria» tra
l’illecito e il rapporto di lavoro che vincola i due soggetti, nel senso che
le mansioni affidate al dipendente abbiano reso possibile o comunque
agevolato il comportamento produttivo del danno al terzo (nella specie,
la suprema corte, cassando con rinvio la sentenza impugnata, ha ravvisa-
to la responsabilità indiretta della banca per la condotta illecita del suo
funzionario, consistita nel prelevare indebitamente somme di denaro da
conti correnti di terzi estranei e accreditandole sul conto corrente di
clienti per i quali lo stesso funzionario aveva gestito una fruttuosa opera-
zione finanziaria rientrante nelle attività proprie di quell’istituto di credi-
to e nell’ambito delle mansioni affidategli).

Cass. 14 giugno 1999, n. 5880. Poiché presupposto per l’applicazione


della norma dell’art. 2049 c.c. è l’esistenza di un rapporto di preposizio-
ne fra il soggetto responsabile e quello che commette l’illecito, la cessa-
zione di tale rapporto - come ad esempio del rapporto di lavoro dipen-
dente - ne esclude l’applicabilità ai fatti illeciti commessi dal preposto
successivamente ad essa e, pertanto, in relazione ad essi non si può ipo-
tizzare una responsabilità del padrone o committente ai sensi della sud-
detta norma.

Cass. 31 agosto 2009, n. 18926. La responsabilità del datore di lavoro

479
ex art. 2049 c.c. opera ogni qualvolta il fatto lesivo sia stato prodotto da
un comportamento riconducibile allo svolgimento dell’attività lavorati-
va, anche se il dipendente abbia operato oltrepassando i limiti delle pro-
prie mansioni, abbia agito all’insaputa del suo datore di lavoro, o persi-
no trasgredendo agli ordini ricevuti, purché sia comunque rimasto nel-
l’ambito dell’incarico affidatogli.

Cass. 24 luglio 2009, n. 17393. Sussiste la responsabilità indiretta della


banca, ex art. 2049 c.c., nei confronti dei terzi in relazione all’attività il-
lecita posta in essere da un promotore finanziario, allorché, indipenden-
temente dall’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e dal caratte-
re di continuità dell’incarico affidato all’agente, detta attività sia stata
agevolata o resa possibile dal suo inserimento nell’attività d’impresa,
(nella specie emersa dalla sua presenza nei locali della banca, dall’utiliz-
zo della modulistica di pertinenza e dalla spendita del nome), e sia stata
realizzata nell’ambito e coerentemente alle finalità in vista delle quali
l’incarico è stato conferito, in maniera tale da far apparire al terzo in
buona fede che l’attività posta in essere per la consumazione dell’illecito
rientrasse nell’incarico affidato dalla banca mandante.

Cass. 6 marzo 2008, n. 6033. La responsabilità della banca per il fatto il-
lecito di un proprio dipendente richiede l’accertamento del nesso di «oc-
casionalità necessaria» tra l’esercizio dell’attività lavorativa e il danno,
ed è riscontrabile ogni qual volta il fatto lesivo sia stato prodotto, o
quanto meno agevolato, da un comportamento riconducibile allo svolgi-
mento dell’attività lavorativa, anche se il dipendente abbia operato oltre-
passando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all’insaputa del
datore di lavoro; tale accertamento, con riferimento ad un istituto banca-
rio, va svolto con particolare rigore, in considerazione della peculiare
natura dell’attività di raccolta del risparmio e di esercizio del credito, dei
controlli e dei vincoli pubblicistici oltre che della conseguente particola-
re intensità dell’affidamento del cliente in ordine alla correttezza e lealtà
dei comportamenti dei preposti alle singole funzioni (in applicazione
dell’enunciato principio, la suprema corte, in accoglimento del proposto
ricorso, non ha escluso la responsabilità della banca, per l’illecito com-
messo da un funzionario addetto all’ufficio titoli, consistente nell’aver

480
trattenuto somme di denaro che gli erano state affidate da un terzo per-
ché fossero impiegate in investimenti finanziari).

Cass. 16 aprile 2009, n. 9027. Il danno patito dal risparmiatore in conse-


guenza dell’infedeltà di un dipendente dell’intermediario finanziario, il
quale abbia trattenuto per sé le somme versategli dal primo per l’acqui-
sto di strumenti finanziari, è dato dalla somma del capitale perduto e del
mancato guadagno, rappresentato dal rendimento che avrebbero garanti-
to i titoli dei quali aveva domandato l’acquisto (in applicazione di tale
principio, la suprema corte ha cassato la sentenza di merito che, pur rite-
nendo la banca obbligata ex art. 2049 c.c. al risarcimento del danno cau-
sato dal proprio dipendente, che aveva stornato somme rimessegli dal ri-
sparmiatore per l’acquisto di certificati di credito del tesoro, l’aveva
condannata alla sola restituzione del capitale, e non anche al pagamento
degli interessi che avrebbero prodotto i suddetti titoli).

Cass. 20 marzo 1999, n. 2574. La responsabilità indiretta di cui all’art.


2049 c.c. per il fatto dannoso commesso da un dipendente postula l’esi-
stenza di un rapporto di lavoro ed un collegamento tra il fatto dannoso
del dipendente e le mansioni da questi espletate, senza che sia, all’uopo,
richiesta la prova di un vero e proprio nesso di causalità, risultando suf-
ficiente, viceversa, l’esistenza di un rapporto di «occasionalità necessa-
ria», da intendersi nel senso che l’incombenza svolta abbia determinato
una situazione tale da agevolare e rendere possibile il fatto illecito e l’e-
vento dannoso, e ciò anche se il dipendente abbia operato oltre i limiti
delle sue incombenze, o persino trasgredendo gli ordini ricevuti, purché
sempre entro l’ambito delle proprie mansioni (nella specie, l’attore ave-
va chiesto la condanna di una banca alla restituzione di una somma di
danaro da lui versata presso una delle filiali dell’istituto - onde consen-
tirne il corrispondente accredito in suo favore all’estero - ma mai accre-
ditatagli dalla banca stessa, mentre l’istituto si era difeso sostenendo la
propria estraneità al rapporto per infedeltà del direttore della filiale - de-
nunciato per truffa ed espropriazione indebita - che aveva materialmente
ricevuto la somma; il giudice di merito, ritenuto che, per un verso, le
operazioni di versamento degli assegni circolari per l’importo della som-
ma poi richiesta in restituzione dall’attore, eseguite nei locali della filia-

481
le della banca, rientrassero nella normale attività di quest’ultima, e che
detti assegni erano stati materialmente consegnati al direttore preposto
alla filiale stessa, il quale non aveva, dal suo canto, agito a titolo perso -
nale, ha ritenuto responsabile l’istituto di credito convenuto, con deci-
sione confermata dalla suprema corte che ha sancito, nella specie, il
principio di diritto di cui in massima).

*****

LE NORME RICHIAMATE

Art. 1228 c.c.


1. Salva diversa volontà delle parti, il debitore che nel-
l'adempimento dell'obbligazione si vale dell'opera di terzi ri-
sponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro.

Art. 2043 c.c.


1. Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri
un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a ri-
sarcire il danno.

482
Art. 2049 c.c.
1. I padroni e i committenti sono responsabili per i danni
arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'e-
sercizio delle incombenze a cui sono adibiti

*****

GLI ISTITUTI

La responsabilità cui può considerarsi chiamato l'istituto


di credito nei confronti di coloro che hanno subito dei danni in
ragione della condotta posta in essere dai soggetti preposti al
concreto espletamento delle mansioni di natura bancaria, è di
natura oggettiva.
Trattasi, infatti, di una responsabilità per fatto altrui,
detta anche “responsabilità da status”, che prescinde dalla ve-
rifica della sussistenza dell'elemento della colpa (previsto dal-
la generale fattispecie dell'art. 2043 c.c.), obbligando la banca
a rifondere i clienti per i pregiudizi subiti a causa degli illeciti
posti in essere dai propri dipendenti che, nell'esercizio delle

483
mansioni a cui sono adibiti, si relazionano con le pratiche del -
l'utenza.
Da tale forma di responsabilità per fatto altrui discende
che l'istituto bancario non ha di fatto la possibilità di discolpar-
si dimostrando di aver adottato la massima diligenza nella scel-
ta dei dipendenti o di averne costantemente monitorato il loro
operato.
Di contro, solo laddove si dimostri che il funzionario ab-
bia agito in proprio e non per conto ed in rappresentanza della
banca viene meno quel rapporto di preposizione (da cui trae le-
gittimazione la responsabilità oggettiva) e, per l'effetto, nessu-
na responsabilità è possibile addossare all'istituto di credito.
L'unica prova che la banca può fornire per discolparsi,
quindi, consiste nella dimostrazione che il funzionario ha agito
a titolo personale e che la condotta causativa dell'illecito non è
stata agevolata dalle mansioni affidate al dipendente, le quali
non hanno assolutamente rappresentato neanche l'occasione per
la commissione dell'illecito.
La responsabilità individuata dall'art. 2049 c.c. concerne
la responsabilità dei padroni e committenti per gli illeciti com-
piuti dai propri domestici e commessi nell'esercizio delle in-

484
combenze loro affidate.
Quello utilizzato dal nostro legislatore - come si nota - è
un lessico antiquato e superato che risale al codice francese.

Volendo rendere operativa tale disposizione nel nostro


ordinamento, dobbiamo riferirci al rapporto che intercorre tra i
preposti ed i soggetti preponenti, abbandonando, ovviamente il
richiamo ai "padroni".

La norma di cui all'art. 2049 c.c. recita: "i padroni e i


committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto
illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle
incombenze a cui sono adibiti".

Si tratta di una forma di responsabilità indiretta in forza


della quale il datore di lavoro risponde dell'operato posto in
essere dal soggetto che lavora alle sue dipendenze quando
quest'ultimo abbia tenuto la condotta illecita nell'espletamento
dei compiti assegnatigli.

Invero, la prevalente dottrina riconduce tale forma di


responsabilità alla categoria della responsabilità indiretta,
volendo con tale espressione far riferimento a tutte quelle
ipotesi in cui vi è una distinzione tra il soggetto che pone in

485
essere il comportamento illecito e quello che è resposabile del
medesimo (insieme all'autore dell'illecito).

Secondo tale impostazione, quindi, la responsabilità è


diretta se il soggetto risponde del fatto proprio ossia del proprio
comportamento consistito nella omessa vigilanza sull'operato
di colui che ha cagionato il danno; la norma in tale caso
consente la prova liberatoria.

Diversmente, la responsabilità è indiretta quando si


risponde del fatto altrui, senza prova liberatoria.

Nell'art. 2049 c.c. infatti accanto all'agente che provoca il


danno vi è un altro soggetto che è responsabile (il datore di
lavoro).

Altri autori distinguono ulteriormente tra la tipologia di


responsabilità indiretta che starebbe ad indicare quella
responsabilità che si imputa a colui che è tenuto ad impedire il
fatto altrui, e la responsabilità diretta che si avrebbe nell'ipotesi
contemplata dall'art. 2049 c.c., atteso che il datore di lavoro
risponde dell'operato del proprio lavoratore a prescindere da un
giudizio di illiceità.

La responsabilità del datore di lavoro per i fatti illeciti

486
compiuti dal dipendente nell'espletamento delle mansioni
affidategli integra, dunque, un'ipotesi di responsabilità per fatto
altrui nel senso che il soggetto che è ritenuto responsabile
(datore di lavoro) è diverso da colui che ha materialmente
tenuto il comportamento illecito (prestatore di lavoro) ed
oggettiva in quanto si prescinde da qualsiasi giudizio di
illiceità.

Il fondamento di tale principio trova giustificazione nella


considerazione secondo cui, il soggetto che si appropria
dell'attività altrui (cioè il datore di lavoro che si avvale e si
appropria dell'attività lavorativa del dipendente) assume su di
sè il rischio dei danni scaturenti da quella attività ovvero
sopporta l'imputazione giuridica del danno che deriva da un
comportamento illecito del lavoratore nei confronti dei terzi.

É dunque la tesi del cd rischio di impresa che il datore


assume su di sè ad essere addotta dalla dottrina più moderna,
laddove l'orientamento più risalente riconduceva alla culpa in
eligendo del datore il fondamento di tale forma di
responsabilità.

Così come strutturata, la norma in esame rappresenta

487
indubbiamente una garanzia per i terzi che, se destinatari di un
pregiudizio loro arrecato da un preposto, possono contare
anche sul patrimonio del preponente.

Perché si possa accertare tale forma di responsabilità


devono tuttavia ricorrere taluni presupposti e cioè a) deve
sussistere un rapporto di lavoro tra il preponente ed il soggetto
a lui preposto; b) il soggetto preposto deve aver tenuto un
comportamento illecito; c) la condotta illecita deve essere stata
posta in essere nella vigenza del rapporto di lavoro e deve
risultare inerente alle incombenze disimpegnate.

Il rapporto di preposizione.

Il primo presupposto è dunque un rapporto di


subordinazione tra il preponente ed il preposto: questo sussiste
in un rapporto di lavoro subordinato o, comunque, in ogni
forma di collaborazione nella quale si possa ravvisare in capo
al soggetto preponente un potere direttivo e di controllo nei
confronti dell'operato del soggetto preposto.

Va precisato che la portata della disposizione in parola è


ben più ampia della nozione di subordinazione ,poiché il

488
rapporto di preposizione abbraccia ogni rapporto in cui venga
erogata un'attività sotto la vigilanza ed il controllo altrui sicché
tale nozione è ben possibile rinvenirla anche in rapporti di
lavoro autonomo.

Tale preposizione, a titolo esemplificativo, non si


rinviene nel contratto di appalto in cui l'appaltatore fruisce di
una propria autonomia gestionale ed organizzativa rispetto al
committente, salvo che la direzione dell'operato dell'appaltatore
sia riservata in via esclusiva al committente e l'appaltatore sia
relegato a mero esecutore.

La giurisprudenza di legittimità, con riguardo alla


responsabilità prevista dall’art. 2049 c.c., ha affermato che la
presunzione di responsabilità stabilità dall'art. 2049 c.c. postula
l'esistenza di un incarico di esecuzione di opere che importi un
vincolo di dipendenza vigilanza e sorveglianza, anche solo
temporaneo, ed un collegamento, anche solo di occasionalità
necessaria, fra tale incarico e colui che nell'interesse del
committente lo esegue, anche se l'esecutore è persona
normalmente alle dipendenze di altri.

I giudici quindi reputano sufficiente che intercorra un

489
vincolo, «anche di carattere occasionale o temporaneo, di
dipendenza, vigilanza o sorveglianza tra committente e
commesso in relazione alle mansioni a questo affidate».
Della subordinazione, peraltro, nel rapporto preponente-
preposto restano altri elementi caratteristici, riferibili all’agire
«sotto la direzione» - art. 2094 c.c. e all’«osservare le
disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro
impartite».
Se, quindi, il rapporto di preposizione appare sin da
subito ben più ampio rispetto a quello che si rinviene in un
rapporto di lavoro subordinato, è al parametro della
subordinazione che ci si riferisce, in via interpretativa, secondo
indici di effettività, al fine di verificare se il soggetto preposto
sia effettivamente sotto la direzione e agisca sotto il controllo,
anche se non pregnante, del preponente.
Esemplificando - si è detto in dottrrina - se vi sono più
soggetti committenti va considerato preponente, per gli effetti
di cui all’art. 2049 c.c., quel soggetto che commissiona,
ordina, fa eseguire, dirige e controlla, anche se non in maniera
penetrante, l’attività fonte di illecito, dimostrando la propria
qualità di portatore dell’interesse economico allo svolgimento

490
della stessa.

La giurisprudenza non ha mostrato una posizione univica


poiché, per un verso, si rinvengono talune decisioni nelle quali
si pretende l'imputabilità del fatto al preposto almeno a titolo di
colpa, in altre pronunzie, di contro, il datore di lavoro o
comunque il preponente è ritenuto responsabile dell'illecito
compiuto dai preposti anche nel caso dei ccdd danni anonimi,
nella cui categoria rientrano quei pregiudizi di cui non sia stato
identificato con certezza l'autore. Secondo tale ragionamento,
infatti, il danneggiato sarebbe sollevato dall'onere di
individuare l'autore della condotta illecita perché è sufficiente
la certezza circa l'appartenenza a una cerchia di persone legate
da un rapporto organico o di dipendenza con il soggetto che di
quell'attività deve rispondere.

Altro requisito deve essere, appunto, quello del


comportamento illecito realizzato dal lavoratore.

In merito alla concreta commissione dell'illecito da


parte del soggetto preposto, si richiede che la condotta
rivelatasi dannosa abbia cagionato la produzione di un fatto
illecito, secondo lo schema di cui all'art. 2043 c.c.

491
Deve quindi riscontrarsi il dolo o la colpa del
dipendente, la produzione di un danno ingiusto (ovvero che
non riceve tutela da parte dell'ordinamento giuridico), il nesso
di causalità tra il fatto posto in essere dal dipendente e il
danno stesso.

Se, quindi, si è in presenza di una condizione che esclude


l'illiceità del comportamento, nessuna responsabilità potrà
configurarsi in capo al soggetto preponente. Si pensi al caso in
cui il soggetto preposto nell'espletamento delle funzioni
colpisca un terzo, ma tenga questo comportamento per
difendersi: in tale caso, la legittima difesa è una condizione di
esclusione dell'illiceità della condotta.

Altro presupposto è che sussista una riconducibilità (un


rapporto di inerenza) tra il comportamento tenuto dal
lavoratore causativo del danno a terzi e l'espletamento delle
funzioni.

Ciò implica che la responsabilità del preponente è


ravvisabile anche nel caso in cui il dipendente abbia operato
oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito
all’insaputa del suo datore di lavoro, o persino trasgredendo

492
agli ordini ricevuti, purché la sua condotta sia sempre
riconducibile all'incarico affidatogli.

L'estensione della responsabilità del committente deve


quindi intendersi riferita non solo ai fatti illeciti verificatisi
nel corso dello svolgimento, da parte del dipendente, delle
incombenze strettamente delimitate in base al rapporto di
lavoro, bensì anche a quelli realizzati dal subalterno nel
compimento di operazioni funzionali e collegate al
disimpegno dei compiti lavorativi. Rientrano altresì i
comportamenti tenuti dal lavoratore posti in essere per
eccesso di zelo che si siano di fatto concretizzati in un danno
ingusto per il terzo.

E' da escludere invece la responsabilità ex art. 2049 c.c.


in capo al datore di lavoro il cui dipendente abbia perseguito
nel compimento dell'illecito - realizzato durante il rapporto di
lavoro - un interesse meramente personale e dunque estraneo
alle incombenze affidategli.

La valutazione degli indicati elementi - giova


sottolinearlo - viene effettuata con particolare rigore dalla
giurisprudenza quando coinvolge l'attività bancaria, in

493
considerazione della peculiare natura dell’attività di raccolta
del risparmio e di esercizio del credito svolta dagli istituti
bancari, oltre che della conseguente particolare intensità
dell’affidamento che il cliente ripone in merito alla
correttezza e alla lealtà dei comportamenti dei dipendenti
delle banche.

E' infatti evidente che se il comportamento illecito del


lavoratore esula completamente dallo svolgimento delle
mansioni a lui affidate non può ragionevolmente ritenersi
responsabile il datore dell'illecito commesso.

La giurisprudenza, tuttavia, interpreta questo parametro


con una certa elasticità reputando sufficiente che sussista un
rapporto di "occasionalità necessaria", non richiedendo quindi
che il fatto dannoso derivi dall'esercizio delle incombenze.

In questo senso, la responsabilità del preponente assolve


una funzione di garanzia del danneggiato, che si trova in tal
modo a poter contare sulle sostanze del padrone o del
committente nel risarcimento del danno ad esso arrecato.

L'interpretazione elastica dell'art. 2049 c.c. prevalsa


nell'applicazione giurisprudenziale trae fondamento dalla

494
considerazione secondo cui la norma citata richiede che i
domestici e commessi abbiano perseguito, col comportamento
dannoso, finalità coerenti con le mansioni affidate e non
estranee all'interesse del padrone o committente; il nesso di
occasionalità necessaria fra mansioni e danno comporta che
l'esercizio delle prime, anche al di là della competenza, abbia
almeno agevolato la produzione del secondo.

Naturalmente, il preponente o committente non può


essere chiamato a rispondere, ai sensi dell'art. 2049 c.c., del
fatto illecito commesso dal preposto o commesso dopo la
cessazione del rapporto di preposizione. Relativamente al
requisito riguardante il rapporto di causalità, sulla scorta di
quanto già esposto, la giurisprudenza adotta più propriamente
il concetto di “occasionalità necessaria”: in altri termini, non è
necessaria la prova di un vero e proprio nesso di causa e
effetto tra il fatto compiuto e le mansioni svolte dal
dipendente, quanto piuttosto l'accertamento di una situazione
tale per cui il fatto lesivo risulti prodotto, o quanto meno
agevolato, da un comportamento riconducibile allo
svolgimento dell’attività lavorativa del
lavoratore.Naturalmente il lavoratore deve operare sotto il

495
controllo e la direzione del preponente.

Secondo il prevalente orientamento, infatti, la


responsabilità ex art. 2049 c.c. si fonda sulla mera circostanza
dell’inserimento del preposto nella struttura dell’impresa, a
nulla rilevando il carattere stabile e continuativo dell’incarico
attribuito né la sussistenza di un rapporto di lavoro
subordinato. Così ragionando, è stato possibile estendere la
responsabilità del datore di lavoro anche all'operato dei
collaboratori assunti temporaneamente ed occasionalmente,
purché sottoposti al suo potere di controllo. In merito a tale
aspetto, il Supremo Collegio ha affermato la responsabilità di
un'associazione di c.d. «scout» per il danno subito da un
minore, che era stato violentemente colpito da una palla da
baseball lanciata da uno degli istruttori.

In altra fattispecie, la Corte di Cassazione ha ammesso


la responsabilità, ex art. 2049 c.c., del committente per i danni
cagionati dal fatto illecito del commesso in occasione
dell'espletamento di una incombenza connotata da una
relazione “marginale” con il rapporto di lavoro, ma tale da
consentire il riferimento della condotta illecita del commesso
all’ambito dell'attività del committente e, quindi, alla sfera

496
giuridica di quest'ultimo. Questo orientamento, tuttavia non è
univoco. In senso opposto, infatti, con altra decisione i giudici
di legittimità hanno escluso la responsabilità ex art. 2049 c.c.
in capo alle cooperative di produzione e lavoro in un caso di
infortunio di un socio lavoratore, sul presupposto dell'assenza
di un rapporto di lavoro subordinato tra i soci lavoratori e la
cooperativa.

L'accertamento dei predetti elementi rende irrilevante, ai


fini dell'esclusione della responsabilità del datore di lavoro,
l'indagine i merito all'eventuale incapacità di intendere e di
volere che colpisca il dipendente durante l'espletamento
dell'incarico (sia nel caso in cui tale incapacità sia già
presente nel periodo antecedente rispetto dell'illecito, sia che
la stessa risulti sopravvenuta al tempo dell'illecito).

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE – CASS. 4 APRILE


2013 N. 8210

497
Sussiste la responsabilità del datore di lavoro se l'illecito ca-
gionato dal dipendente è stato agevolato dall'espletamento
delle mansioni cui questi era adibito.

“La responsabilità della banca scatta ogni qualvolta il


fatto lesivo sia stato prodotto, o quanto meno agevolato, da un
comportamento riconducibile allo svolgimento dell'attività la-
vorativa, anche se il dipendente abbia operato oltrepassando i
limiti delle proprie mansioni o abbia agito all'insaputa del suo
datore di lavoro, sempre che sia comunque rimasto nell'ambito
dell'incarico affidatogli” (Cass. 4 aprile 2013 n. 8210).

La giurisprudenza di legittimità, in fattispecie coincidenti


rispetto a quella in esame, ha riconosciuto che la responsabilità
indiretta del datore di lavoro (in particolare, di un istituto ban-
cario) per il fatto dannoso commesso dal suo dipendente pre-
suppone l’esistenza del rapporto di lavoro insieme al collega-
mento tra il fatto dannoso del dipendente e le mansioni da que-
sti espletate, senza che sia necessario dimostrare un vero e pro-
prio nesso di causalità, risultando sufficiente l’esistenza di un

498
rapporto di «occasionalità necessaria».
Tale concetto sussiste se l’incombenza svolta abbia de-
terminato una situazione idonea ad agevolare e rendere possibi-
le la realizzazione dell'illecito ed il conseguente danno ingiu-
sto, anche nelle ipotesi nelle quali il lavoratore abbia agito al
di là delle sue incombenze, o persino violando le direttive im-
partite, purché sempre nell’ambito delle proprie mansioni.

TESTO INTEGRALE

L.D. convenne, davanti al tribunale di Milano, la Banca _______.


chiedendone la condanna in solido alla restituzione della somma di Euro
40.000,00 sottratti all'attore dal conto corrente allo stesso intestato, non-
ché alla restituzione della somma di Euro 212.712,68 ritenuta di illecita
utilizzazione.
La Banca convenuta, costituitasi, riconobbe che il prelievo dal
conto dell'attore era stato effettuato da un dipendente infedele, Pi.
F..
Ritenendo, poi, che di tali Euro 40.000,00, Euro 11.000,00 erano
stati versati sul c/c P. e C., chiamò in causa gli intestatari P.P. e C.R.G.,
domandando di essere garantita in caso di soccombenza, nonché la
_______ , per essere garantita in forza delle polizze assicurative
esistenti.
Si costituirono entrambi i chiamati.
P. e C. sostennero che si trattasse, non di pagamento indebito, ma

499
di una piccola parte del danno, pari ad Euro 65.000, che era stato loro
risarcito.
Ciò era tanto vero che l'importo di Euro 11.000,00, dapprima
oggetto di sequestro, era stato successivamente dissequestrato.
La ________ contestò il fondamento della domanda di garanzia,
associandosi, in ogni caso, alla Banca quanto all'infondatezza della
domanda attorea, e chiedendo, a sua volta, di essere manlevata da P. e
C., sul cui conto era stata accreditata parte della somma di Euro
11.000,00.
Il Pi. restò contumace.
Con sentenza non definitiva del 26.10.2006, il tribunale dispose
la separazione delle cause L. - Banca _______ - la _______ e la
___________
Quindi, definitivamente pronunciando, rigettò la domanda
proposta dalla Banca ___________ e dalla ___________nei confronti di
P.P. e C.R. G.; nonché quella di garanzia proposta dalla Banca
__________ nei confronti della ______.
Diversamente, la Corte d'Appello che, con sentenza in data
8.3.2011, accolse l'appello dell'istituto di credito nei confronti di P. e C.,
mentre rigettò quello nei confronti della _______. Hanno proposto
distinti ricorsi per cassazione, avverso la stessa sentenza, P.P. e C.R.G.
affidato a cinque motivi; e Banca _______affidato a quattro motivi
illustrati da memoria.
Hanno resistito: al ricorso proposto da P. e C., con controricorso
illustrato da memoria, Banca __________ ed al ricorso proposto da
quest'ultima nella qualità indicata, la _______ quale conferitaria del
complesso aziendale di ___________ che ha anche presentato memoria.
Disposta l'integrazione del contraddittorio con ordinanza del 22.2
- 21.5.2012, regolarmente effettuata nei termini, la causa è stata
chiamata all'udienza di discussione del 14.2.2013.
Motivi della decisione

500
I ricorsi sono riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c..
Ricorso R.G. 14201-011.
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa
applicazione degli artt. 2041 e 2033 c.c..
Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa
applicazione dell'art. 2042 c.c..
Con il terzo motivo si denuncia la erronea e insufficiente
motivazione sulla valutazione della sentenza del Tribunale di Milano n.
2187/08 emessa nella causa L. contro Banca P. e Pi..
Con il quarto motivo si denuncia la omessa motivazione in ordine
agli accertamenti penali precedenti.
Con il quinto motivo si denuncia la contraddittoria motivazione
sulla natura del movimenti del denaro e sulle conclusioni assunte.
I motivi, intimamente connessi, sono esaminati congiuntamente.
Essi sono fondati per le ragioni e nei termini che seguono.
La Corte di merito, nel condividere le conclusioni cui era
pervenuto il primo giudice che aveva attribuito "con certezza il prelievo
degli Euro 40.000,00 al Pi.", ha affermato che "le circostanze che il Pi.
fosse in difetto verso i P./ C. per gli investimenti in perdita fatti con il
loro denaro e la contestualità del versamento di Euro 11.000,00 rispetto
al prelievo di qualche minuto precedente della somma di Euro
40.000,00, in uno con lo stesso disconoscimento della sua firma da parte
del P. sulla distinta del versamento medesimo, suggeriscono che il
versamento sia stato fatto dal Pi. con danaro appena sottratto al L."; con
ciò aderendo ai motivi dell'appello proposto dalla Banca.
Ha, a tal fine, rilevato che " Posto...che il danaro è bene fungibile
per definizione e che la consegna di esso......ne fa perdere a chi lo
consegna o lo versa la proprietà con il correlativo acquisto di un diritto
di credito, è chiaro che, nel momento in cui la Banca è tenuta alla
restituzione al L. della somma indebitamente prelevata dalle sue
disponibilità presso la Banca medesima, e nel momento, in cui si è

501
accertato che con detta somma è stato dal Pi. eseguito un versamento per
il minore importo di Euro 11.000,00, senza che detto versamento avesse,
per il L. stesso, alcuna causa, il trattenimento di detta minor somma
sarebbe in favore di P./ C. un arricchimento senza causa in danno della
Banca, nei confronti della quale, fra l'altro, essi affermano di non avere
proposto alcuna domanda giudiziale in relazione alla cattiva gestione dei
loro risparmi da parte del Pi.".
Aggiungendo "Certamente, infatti, non è il L. a dover risarcire il
danno derivante dalla mala gestio del Pi. nè la Banca".
E la stessa Corte di merito ha concluso: "In sostanza, la
restituzione all'appellante degli Euro 11.000,00 tende a ristabilire un
equilibrio patrimoniale che senza di essa sarebbe alterato in danno di
essa ed in favore dei P./ C.".
Una tale conclusione e le argomentazioni che la supportano non
possono essere condivise.
Ed invero, il giudice di appello - al di là della correttezza o meno
della qualificazione di arricchimento senza causa o di indebito
oggettivo, che non riveste il carattere della decisività per ciò che ora si
dirà - si è limitato a considerare atomisticamente la fattispecie, senza
cogliere - elemento questo sì rilevante - che la vicenda s'inseriva in un
più vasto quadro risarcitorio, in ordine al quale la banca era responsabile
per le condotte poste in essere dal suo dipendente infedele a danno dei
clienti dello stesso istituto di credito (v. Cass. 16.4.2009 n. 9027; Cass.
6.3.2008 n. 6033; Cass. 29.9.2005 n. 19167; Cass. 6.4.2002 n. 4951;
Cass. 17.5.2001 n. 6756).
Proprio il profilo risarcitorio - che prescinde dall'allegata causa
solvendi - avrebbe dovuto tracciare la via alla luce della quale esaminare
il caso concreto, tenendo presente che la tesi della imputazione del
versamento di Euro 11.000,00 a parziale ristoro del danno, era stato da
P. e C. evidenziato già nel giudizio di primo grado, riproposto in quello
di appello (pag. 4 della comparsa di costituzione in appello), e ribadito
con il ricorso per cassazione (pagg. 6-7); così allegando la causa del
versamento.

502
In sostanza, P. e C. sono tra i soggetti pregiudicati dalle condotte
illecite del Pi., delle quali la Banca risponde ai sensi dell'art. 2049 c.c..
Sotto questo profilo è utile ricordare che - ricorrendone i
presupposti - la responsabilità della banca scatta ogni qualvolta il fatto
lesivo sia stato prodotto, o quanto meno agevolato, da un
comportamento riconducibile allo svolgimento dell'attività lavorativa,
anche se il dipendente abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie
mansioni o abbia agito all'insaputa del suo datore di lavoro, sempre che
sia comunque rimasto nell'ambito dell'incarico affidatogli (Cass.
16.4.2009 n. 9027; Cass. 6.3.2008 n. 6033).
Il fondamento di tale disciplina è, da un lato, la scelta, di carattere
squisitamente politico, di porre a carico dell'impresa, come componente
dei costi e dei rischi dell'attività economica, i danni cagionati da coloro
della cui prestazione essa si avvale per il perseguimento della sua
finalità di profitto.
Dall'altro, soccorre l'esigenza di tutela dell'affidamento
incolpevole dei terzi, in presenza di elementi obiettivi, atti a
giustificarne il convincimento della corrispondenza tra la situazione
apparente e quella reale.
Nè è senza rilievo che il delineato regime di responsabilità venga
valutato, con particolare rigore, nell'ipotesi in cui il datore di lavoro sia
un istituto di credito, in ragione della particolare rilevanza dell'attività
bancaria, non a caso sottoposta a uno speciale regime di autorizzazione,
vigilanza e controllo (Cass. 6.3.2008 n. 6033; Cass. 1.6.2005 n. 11674).
Ora, il fatto che P. e C. - come afferma la sentenza impugnata - non
abbiano agito nei confronti della Banca non acquista alcun significato ai
fini che qui interessano, neppure ai fini di un improbabile
riconoscimento di debito -, posto che, in questa sede, il punto nodale
della questione ruota attorno al carattere di parziale ristoro della somma
di Euro 11.000,00, versata sul conto P. - C. dal Pi., a fronte del danno
molto più consistente subito.
Perde quindi di significato, l'affermazione della Corte di merito
che "la restituzione all'appellante degli Euro 11.000,00 tende a ristabilire

503
un equilibrio patrimoniale che senza di essa sarebbe alterato in danno di
essa ed in favore dei P./ C.", posto che "l'equilibrio patrimoniale" è fuori
della prospettiva decisionale.
E', quindi, nell'ottica indicata che il giudice del rinvio dovrà
esaminare la vicenda, tenendo presente che ciò che acquista rilevanza è
il profilo risarcitorio.
Ricorso R.G. 15208-011.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia omessa, insufficiente
e contraddittoria motivazione nella parte in cui la Corte ha escluso
l'operatività della garanzia ________ per la mancata predisposizione di
dovuti controlli interni da parte della Banca (art. 360, n. 5, c.p.c.).
Con il secondo motivo si denuncia omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione nella parte in cui la Corte d'Appello ha
ritenuto provata la responsabilità della Banca per le condotte illecite del
Pi. in relazione al decreto 18.05.2004 del Ministero dell'Economia e
delle Finanze (art. 360 c.p.c., n. 5).
Con il terzo motivo si denuncia omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione nella parte in cui la Corte ha ritenuto
sussistente la responsabilità della Banca ai sensi dell'art. 2049 c.c. in
relazione agli omessi controlli e alle notizie di stampa (art. 360 c.p.c., n.
5).
Con il quarto motivo si denuncia violazione dell'art. 132 c.p.c., n.
4 e art. 118 disp. att. c.p.c. (approvate conR.D. 18 dicembre 1941, n.
1368, modificate con D.P. 17.10.1950 n. 857) in relazione all'art. 360
c.p.c., n. 5.
I motivi, per l'intima connessione delle censure con gli stessi
avanzate - relative sotto diversi profili alla denunciata inoperatività della
garanzia R.A.S - sono esaminati congiuntamente.
Essi sono fondati per le ragioni che seguono.
Banca ________ fonda le proprie censure sull'assunto per il quale
non sarebbero stati indicati dalla Corte di merito, in modo

504
sufficientemente specifico, i controlli interni che la banca avrebbe
omesso di effettuare e che le avrebbero consentito di accorgersi dei
comportamenti illeciti posti in essere dal Pi..
La Corte di merito ha escluso l'operatività della garanzia sul
presupposto che "la Banca è stata negligente nel predisporre ed attuare i
controlli, che avrebbero consentito di individuare la prolungata condotta
illecita del Pi.", individuandone il fondamento nelle condizioni generali
della polizza.
Ne ha, a tal fine, riportato il testo, nella parte che qui interessa,
per il quale "la garanzia per i danni da infedeltà dei dipendenti" è
prestata alle condizioni che:
a)....;
b) oltre alle normali revisioni e controlli prescritti dalla legge
siano effettuate le ispezioni di revisione, verifica e controllo negli uffici
e stabilimenti secondo le modalità indicate nel questionario o altra
documentazione scritta e sia tenuta una registrazione di tali ispezioni e
sia conservata la relativa documentazione".
Quindi, condividendo le conclusioni cui era pervenuta la sentenza
di primo grado, che aveva ritenuto la responsabilità della Banca
"quantomeno ex art. 2049 c.c. (cui andrebbe addebitata anche la
mancata sorveglianza sull'operato del dipendente, e la predisposizione di
efficaci sistemi di controllo interno", la Corte di merito ha concluso che
"data la sistematicità delle condotte illecite del Pi. - una maggiore
sorveglianza avrebbe consentito all'istituto di individuarle".
Ed, a conforto di questa affermazione, la stessa Corte ha
richiamato il Decreto in data 18.5.2004 del Ministero dell'Economia e
Finanze in materia di sanzioni per carenza nell'organizzazione dei
controlli interni"; ritenendo "provato che il quadro dei controlli interni
alla Banca non fosse adeguato".
E di ciò vi sarebbe stata conferma "anche dall'articolo, pubblicato
sul (OMISSIS) del (OMISSIS)...., che riferisce della non rigorosa
gestione dell'attività creditizia da parte dell'appellante rilevata dalla

505
Banca d'Italia, con riferimento anche alla inchiesta penale per truffa ed
appropriazione indebita nei confronti del Pi.".
Ora, una tale motivazione presta il fianco ad una serie di rilievi,
puntualmente mossi dall'odierna ricorrente.
In primo luogo, nella sentenza non sono indicati quali sarebbero i
controlli la cui omissione nei confronti del Pi. avrebbe determinato
l'inoperatività della polizza assicurativa, essendo, all'evidenza,
insufficiente il richiamo alle condizioni di polizza, effettuato dalla Corte
di merito. In tal modo, difetta anche la potenziale valutazione
dell'efficacia causale di tali omissioni in relazione alla condotta del
dipendente, e fonte di responsabilità per l'Istituto di credito.
Inoltre, il giudice del merito non ha, in alcun modo, chiarito il
rapporto fra la indicata "sistematicità delle condotte illecite del Pi." e la
"maggiore sorveglianza" che "avrebbe consentito all'istituto di
individuarle", trattandosi di mera affermazione, sfornita di supporto
motivazionale. Neppure il richiamo al Decreto in data 18.5.2004 del
Ministero dell'Economia e Finanze in materia di sanzioni per carenza
nell'organizzazione dei controlli interni" è sufficiente a colmare una tale
deficienza motivazionale.
E', infatti, ben possibile che la carenza nell'organizzazione dei
controlli interni possa dar luogo all'irrogazione di una sanzione, pur non
avendo efficacia causale ai fini dell'affermazione di responsabilità della
Banca, incidente, questa, sulla copertura assicurativa.
Ne deriva che la conclusione cui perviene il giudice del merito
che ritiene "provato che il quadro dei controlli interni alla Banca non
fosse adeguato" è priva del riscontro probatorio e motivazionale
necessario a sorreggere la statuizione di inoperatività della garanzia
assicurativa.
Da ultimo, vai la pena di sottolineare che nessun apporto neppure
quale conferma di conclusioni di per se stesse non correttamente
motivate - può essere attribuito all'"articolo, pubblicato sul (OMISSIS)
del (OMISSIS)...., che riferisce della non rigorosa gestione dell'attività
creditizia da parte dell'appellante rilevata dalla Banca d'Italia, con

506
riferimento anche alla inchiesta penale per truffa ed appropriazione
indebita nei confronti del Pi.".
Il richiamo a scritti giornalistici può, al massimo, essere usato
quale argomento ad colorandum, non certo quale fonte processuale di
convincimento, tale da supplire ad un deficitario impianto
motivazionale.
In definitiva, al giudice del rinvio è rimessa - sotto questo profilo
- la valutazione delle circostanze per le quali può giungersi o meno
all'affermazione di inoperatività della garanzia assicurativa, suffragate,
questa volta, da adeguata motivazione.
Conclusivamente, entrambi i ricorsi sono accolti. La sentenza è
cassata e la causa rinviata alla Corte d'Appello di Milano in diversa
composizione.
Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte, pronunciando sui ricorsi riuniti, accoglie il ricorso
principale e quello incidentale. Cassa e rinvia, anche per le spese, alla
Corte d'Appello di Milano in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza
Sezione Civile della Corte di Cassazione, il 14 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2013

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

In considerazione di quanto esposto, è appurato che il Si-

507
gnor Bianchi, dipendente dell'istituto bancario con la propria
condotta illecita ha comportato un danno ingiusto al Signor
Mario Rossi; che le mansioni disimpegnate dal Signor Bianchi
nell'ambito dell'istituto bancario hanno rappresentato l'occasio-
ne necessaria per la realizzazione dell'illecito; che il Signor
Bianchi era alle dipendenze dell'istituto bancario.
L'accertamento di tali elementi ci consente di ritenere
che, nella specie, si applica la norma di cui all'art. 2049 c.c. per
cui il datore di lavoro - l'istituto di credito - è responsabile nei
confronti del Signor Mario Rossi che dovrà essere risarcito.

508
16. RISARCIMENTO DA FATTO ILLECITO E PRE-
SCRIZIONE

IL CASO
In forza di un contratto di fornitura stipulato tra la società X e la
società Y, quest'ultima riceve la fornitura di servizi oggetto del
contratto, nel mese di gennaio 2008.
Un volta ricevuta la prestazione, la società Y, nel mese di marzo
2008, d'accordo con la società X, decide di emettere un assegno
circolare a favore della società X trasmesso alla banca Z.
Quest'ultima, però, omette di inserire la clausola di non trasferibilità
al predetto assegno che risulta poi rubato e incassato da terzi presso
altro istituto bancario, società M, la quale, a sua volta, non rileva
l'invalidità di una delle girate, nel mese di maggio 2008. Tale
accertamento avviene mediante indagini interne agli istituti bancari.
Dopo oltre cinque anni, nel mese di giugno 2013, dall'effettuato
pagamento ancora non ricevuto, la società X riesce ad ottenere una
sentenza con cui la società Y viene condannata ad effettuare il
pagamento quale corrispettivo del contratto di fornitura.
La società Y ottiene il rimborso da parte dell'istituto Z alla
restituzione di quanto versato, essendo stata accertata la
responsabilità in capo all'istituto bancario per non aver apposto la
clausola di non trasferibilità sull'assegno circolare, nel mese di luglio
2013.
L'accertamento della responsabilità dell'istituto di credito, in ragione
delle lungaggini processuali, giunge ben oltre il termine di cinque
anni.
Viene inoltre accertato che l'effettivo pagamento è stato posto in
essere dalla società M che non ha controllato la regolarità delle
girate.
Per tale motivo, la banca Z agisce nei confronti dell'ente M che ha

509
provveduto ad effettuare il pagamento al terzo senza accertarsi
dell'irregolarità nelle girate per la mancata apposizione della
predetta clausola, nel mese di febbraio 2014.
L'istituto M eccepisce, tuttavia, l'intervenuta prescrizione
quinquennale del diritto.

Quesito
E' fondata l'eccezione della prescrizione quinquennale sollevata
dall'ente M nei confronti dell'istituto di credito Z?

*****

ESAME DELLA FATTISPECIE

Nella fattispecie in esame, la società Y effettua il paga-


mento del prezzo a seguito dell'erogazione delle forniture che
riceve dalla società X.
Tale modalità di pagamento, concordata con la società X,
consiste nel richiedere alla propria banca l'emissione di un as-
segno circolare.
L'istituto Z provvede all'emissione del predetto assegno,
ma non inserisce la clausola di non trasferibilità.

510
Successivamente, l'assegno viene sottratto e presentato al
pagamento presso altro istituto bancario Z, il quale provvede a
corrispondere l'importo indicato, senza accorgersi che le girate
sono irregolari in quanto manca la clausola di non trasferibilità.
La società X, non ricevendo l'importo concordato convie-
ne in giudizio la società Y; ottiene la condanna di quest'ultima
a versare il dovuto con sentenza depositata nel mese di giugno
2013, quest'ultima a sua volta rileva l'illegittimità della condot-
ta tenuta dalla banca Z, per l'omissione dell'apposizione della
clausola di non trasferibilità.
Viene quindi accertata la responsabilità della società Z
che a sua volta, con ulteriore azione, agisce in regresso, nel
mese di febbraio 2014, verso l'ente M che ha materialmente
provveduto al pagamento a favore del terzo - nelle cui mani è
giunto l'assegno, a seguito del furto - senza rilevare l'irregolari-
tà delle girate. La società M ritene, tuttavia, di non essere tenu-
ta a versare alcunché, essendo la richiesta giunta dopo lo scade-
re del termine di cinque anni, entro cui avrebbe dovuto essere
azionata la pretesa.
La questione nodale concerne quindi il momento a partire
dal quale decorre il termine quinquennale previsto dall'ordina-

511
mento.
Se il dies a quo ai fini della decorrenza della prescrizione
si individua nel momento in cui l'istituto di credito ha tenuto il
comportamento omissivo - consistito nel mancato inserimento
della clausola di trasferibilità - allora il termine è spirato.
Diversamente, se il termine è spostato in avanti,la pretesa
della banca Z potrà trovare accoglimento, non essendo ancora
decorso il termine prescrizionale quinquennale.

*****

LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 6 dicembre 2011, n. 26188. Il termine di prescrizione del diritto al


risarcimento del danno da fatto illecito inizia a decorrere non dal mo-
mento in cui l’agente compie l’illecito o da quello in cui il fatto del terzo
determina ontologicamente il danno all’altrui diritto, ma dal momento in
cui la condotta ed il conseguente danno si manifestano all’esterno, dive-
nendo oggettivamente percepibili e riconoscibili (nella specie, la supre-
ma corte, in ipotesi di provvedimenti sanzionatori adottati da parte del-
l’Agcm nei confronti di alcune compagnie assicuratrici che avevano vio-
lato norme a tutela della concorrenza, ha statuito che la decorrenza del
termine di prescrizione della domanda di restituzione delle somme paga-
te in eccesso a titolo di premi assicurativi dovesse decorrere dal momen-
to del deposito di detti provvedimenti).

512
Cass. 28 luglio 2000, n. 9927. La rinuncia tacita alla prescrizione pre-
suppone un comportamento processuale in cui sia necessariamente insita
la univoca volontà di non sollevare la relativa eccezione; l’essersi difeso
nel giudizio di primo grado sul merito della causa senza eccepire preli-
minarmente la prescrizione, non integra di per se stesso un fatto univo-
co, incompatibile con la volontà di sollevare tale eccezione, la quale,
pertanto, nella vigenza del testo originario dell’art. 345 c.p.c., può essere
dedotta per la prima volta in appello.

Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581. La prescrizione del diritto al ri-
sarcimento del danno subìto da chi abbia contratto per contagio una ma-
lattia decorre dal giorno in cui essa viene percepita quale danno ingiusto
conseguente all’altrui condotta dolosa o colposa, ovvero può essere per-
cepita come tale, in relazione all’ordinaria diligenza del soggetto leso e
tenuto conto delle comuni conoscenze scientifiche dell’epoca (nella spe-
cie, si è escluso che la prescrizione dell’azione risarcitoria proposta da
soggetti contagiati da infezioni da Hbv, Hcv e Hiv, a seguito di trasfusio-
ni o assunzioni di emoderivati, inizi a decorrere soltanto con la comuni-
cazione del responso delle commissioni medico-ospedaliere, competenti
in materia di indennizzo).

Cass. sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576. La responsabilità del ministero


della salute per i danni conseguenti ad infezioni da virus Hbv, Hiv e Hcv
contratte da soggetti emotrasfusi è di natura extracontrattuale, né sono
ipotizzabili, al riguardo, figure di reato tali da innalzare i termini di pre-
scrizione (epidemia colposa o lesioni colpose plurime); ne consegue che
il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contrat-
to tali patologie per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto al ter-
mine di prescrizione quinquennale che decorre, a norma degli art. 2935
e 2947, 1º comma, c.c., non dal giorno in cui il terzo determina la modi-
ficazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si mani-
festa all’esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita o
può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comporta-
mento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della dif-
fusione delle conoscenze scientifiche (a tal fine coincidente non con la
comunicazione del responso della commissione medica ospedaliera di

513
cui all’art. 4 l. n. 210 del 1992, bensì con la proposizione della relativa
domanda amministrativa).

Cass. 7 marzo 2012, n. 3584. L’impossibilità di far valere il diritto, alla


quale l’art. 2935 c.c. attribuisce rilevanza di fatto impeditivo della de-
correnza della prescrizione, è solo quella che deriva da cause giuridiche
che ostacolino l’esercizio del diritto e non comprende anche gli impedi-
menti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto, per i quali il successivo art.
2941 prevede solo specifiche e tassative ipotesi di sospensione, tra le
quali, salva l’ipotesi di dolo prevista dal n. 8 citato articolo, non rientra
l’ignoranza, da parte del titolare, del fatto generatore del suo diritto, né il
dubbio soggettivo sulla esistenza di tale diritto ed il ritardo indotto dalla
necessità del suo accertamento (nella specie, la suprema corte, in appli-
cazione del principio, ha respinto il ricorso avverso la decisione di meri-
to che, nel dichiarare parzialmente prescritto il diritto alla pensione so-
ciale sostitutiva, non aveva attribuito rilievo ai tempi di accertamento
giudiziale del diritto alla pensione di invalidità civile, oggetto di sostitu-
zione).

Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305. L’azione di risarcimento del danno subì-


to dal consumatore per effetto di intesa anticoncorrenziale si prescrive in
cinque anni dal giorno in cui deve ritenersi che il danneggiato, usando
l’ordinaria diligenza, abbia avuto conoscenza del danno e della sua in-
giustizia; il relativo accertamento compete al giudice di merito ed è in-
censurabile in cassazione se sufficientemente e coerentemente motivato.

Cass. 28 luglio 2000, n. 9927. Il termine di prescrizione del diritto al ri-


sarcimento del danno da fatto illecito inizia a decorrere non dal momen-
to in cui il fatto del terzo determina la modificazione che produce danno
all’altrui diritto, ma dal momento in cui la produzione del danno si ma-
nifesta all’esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibi-
le.

Cass. 21 febbraio 2003, n. 2645. Il termine di prescrizione del diritto al


risarcimento del danno del soggetto che assuma di aver contratto per
contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a de-

514
correre, a norma dell’art. 2947, 1º comma, c.c., non dal momento in cui
il terzo determina la modificazione che produce danno all’altrui diritto o
dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma da quello in
cui essa viene percepita - o può essere percepita - quale danno ingiusto
conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando
l’ordinaria diligenza, tenuto conto, altresì, della diffusione delle cono-
scenze scientifiche.

Cass. 9 maggio 2000, n. 5913. L’art. 2947 c.c., 1º comma statuisce che
«il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito, si prescri-
ve in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato»; detta norma
va letta nel sistema in cui si pone e cioè va coordinata con le norme car-
dini della responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.) e della decorrenza del-
la prescrizione in generale (art. 2935 c.c.); in altri termini il diritto al ri-
sarcimento del danno sorge non per effetto della sola esistenza del fatto
illecito, e quindi della condotta (commissiva od omissiva) dell’agente,
ma per effetto del danno che questa condotta ha causato; conseguente-
mente il termine di prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui la
produzione del danno si manifesta all’esterno divenendo oggettivamente
percepibile e riconoscibile; va tuttavia precisato che non sarà la semplice
ignoranza del danneggiato sull’esistenza di un danno da lui subito a pre -
cludere il decorso della prescrizione in quanto gli stati di ignoranza sog-
gettiva in cui versi il titolare del diritto costituiscono un mero impedi-
mento di fatto; ciò che impedisce che inizi a decorrere la prescrizione è
l’oggettiva impercepibilità e riconoscibilità all’esterno del danno e cioè
l’oggettiva sua esteriorizzazione.

*****

LE NORME RICHIAMATE

Art. 2043 c.c.

515
Risarcimento per fatto illecito.
1. Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri
un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a ri-
sarcire il danno.

Art. 2934 c.c.


Estinzione dei diritti.
1. Ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il ti-
tolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge.
2. Non sono soggetti alla prescrizione i diritti indisponi-
bili e gli altri diritti indicati dalla legge.
Art. 2935 c.c.
Decorrenza della prescrizione.
1. La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui
il diritto può essere fatto valere

Art. 2937 c.c.


Rinunzia alla prescrizione.
1. Non può rinunziare alla prescrizione chi non può di-

516
sporre validamente del diritto.
2. Si può rinunziare alla prescrizione solo quando questa
è compiuta.
3. La rinunzia può risultare da un fatto incompatibile
con la volontà di valersi della prescrizione

Art. 2938 c.c.


Non rilevabilità d'ufficio.
1. Il giudice non può rilevare d'ufficio la prescrizione
non opposta.

Art. 2941 c.c.


Sospensione per rapporti tra le parti.
1. La prescrizione rimane sospesa:
1) tra i coniugi;
2) tra chi esercita la potestà di cui all'articolo 316 o i
poteri a essa inerenti e le persone che vi sono sottoposte;
3) tra il tutore e il minore o l'interdetto soggetti alla tute-
la, finché non sia stato reso e approvato il conto finale, salvo

517
quanto è disposto dall'articolo 387 per le azioni relative alla
tutela;
4) tra il curatore e il minore emancipato o l'inabilitato;
5) tra l'erede e l'eredità accettata con beneficio d'inven-
tario;
6) tra le persone i cui beni sono sottoposti per legge o
per provvedimento del giudice all'amministrazione altrui e
quelle da cui l'amministrazione è esercitata, finché non sia sta-
to reso e approvato definitivamente il conto;
7) tra le persone giuridiche e i loro amministratori finché
sono in carica, per le azioni di responsabilità contro di essi;
8) tra il debitore che ha dolosamente occultato l'esisten-
za del debito e il creditore, finché il dolo non sia stato scoper-
to.

Art. 2942 c.c.


Sospensione per la condizione del titolare.
1. La prescrizione rimane sospesa:
1) contro i minori non emancipati e gli interdetti per in-
fermità di mente, per il tempo in cui non hanno rappresentante

518
legale e per sei mesi successivi alla nomina del medesimo o
alla cessazione dell'incapacità;
2) in tempo di guerra contro i militari in servizio e gli
appartenenti alle forze armate dello Stato e contro coloro che
si trovano per ragioni di servizio al seguito delle forze stesse,
per il tempo indicato dalle disposizioni delle leggi di guerra.

Art. 2946 c.c.


Prescrizione ordinaria.
1. Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente i di-
ritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni.

Art. 2947 c.c.


Prescrizione del diritto al risarcimento del danno.
1. Il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto
illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è
verificato.
2. Per il risarcimento del danno prodotto dalla circola-
zione dei veicoli di ogni specie il diritto si prescrive in due

519
anni.
3. In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come
reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, que-
sta si applica anche all'azione civile. Tuttavia, se il reato è
estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta
sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarci-
mento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due
commi, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dal-
la data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile.

Art. 2721 c.c.


Ammissibilità: limiti di valore.
1. La prova per testimoni dei contratti non è ammessa
quando il valore dell'oggetto eccede gli € 2,58.
2. Tuttavia l'autorità giudiziaria può consentire la prova
oltre il limite anzidetto, tenuto conto della qualità delle parti,
della natura del contratto e di ogni altra circostanza.

Art. 2727 c.c.

520
Nozione.
1. Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il
giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato.

Art. 2729 c.c.


Presunzioni semplici.
1. Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate
alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che
presunzioni gravi, precise e concordanti.
2. Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in
cui la legge esclude la prova per testimoni.

*****

GLI ISTITUTI

L'istituto della prescrizione risponde ad un'esigenza di


conferire certezza ai rapporti giuridici, garantita mediante la
temporaneità dei medesimi.

521
In altri termini, il legislatore ha inteso apprestare tutela
alla libertà individuale dei soggetti, evitando che la stessa possa
risultare limitata dal permanere di rapporti a cui il medesimo
soggetto non risulti più concretamente interessato.
Per tale motivo la condotta inerte che si protragga per un
certo numero di anni denota disinteresse del soggetto all'eserci-
zio di quella situazione giuridica soggettiva che, quindi, si
estingue.
Ciò che viene tutelato è quindi l'interesse al permanere
della titolarità di un diritto correlato ad un interesse meritevole
di ricevere tutela.
La natura del diritto il cui mancato esercizio rende opera-
tivo il meccanismo della prescrizione deve essere nella disponi-
bilità del soggetto che ne è titolare: devesi quindi trattare di un
diritto disponibile.
Se il soggetto in merito a tale situazione giuridica mantie-
ne un comportamento inerte si presume che venga meno l'inte-
resse di questi al mantenimento di quella data situazione.
Il termine di prescrizione ordinaria ha una durata decen-
nale, secondo quanto prevede l'art. 2946 c.c. e si applica alle
ipotesi in cui tra le parti sussiste un contratto.

522
Nei casi di responsabilità extracontrattuale, invece, opera
il più breve termine quinquennale, decorrente dal giorno in cui
il fatto illecito si è verificato (secondo l'art. 2947 c.c., rubricato
Prescrizione del diritto al risarcimento del danno, "il diritto al
risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive
in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato").
La diversificazione della disciplina trova un suo fonda-
mento nella considerazione - pienamente condivisibile - secon-
do cui se tra le parti intercorre un rapporto di natura contrattua-
le, il titolo che lega i contraenti costituisce la prova del diritto
(di regola, sussiste l'esigenza che i contratti vengano provati
per iscritto) e ciò può essere fatto valere anche dopo un consi-
derevole lasso di tempo: ecco perché in tale caso il termine di
prescrizione è decennale.
Di contro, se le parti intendono far valere una responsabi-
lità per fatto illecito, è evidente che tra le parti non è stato si-
glato alcun accordo sicché la prova non potrà basarsi su un tito-
lo, bensì dovrà formarsi nel corso di un giudizio a mezzo dei
testimoni e di presunzioni.
Tale modalità di acquisizione della prova impone che
l'acquisizione stessa avvenga in tempo stretti o comunque sug-

523
gerisce di evitare che possa di fatto trascorrere un lungo perio-
do temporale.
Si pensi all'accertamento di un fatto che si fondi esclusi-
vamente sulla prova per testimoni e si ipotizzi che al testimone
escusso nel giudizio venga richiesto di riferire in merito ad ac-
cadimenti realizzatisi nove anni prima; in tal caso la ricostru-
zione a cui si addiviene può di fatto risultare compromessa dal
lasso di tempo immane trascorso e ciò potrebbe renderla non
verosimile.
In ragione di questo, si è opportunamente individuato il
termine di cinque anni quale termine entro cui far prescrivere il
diritto al risarcimento del danno conseguente ad un illecito.
Con riferimento alla categoria dei crediti, al debitore è ri-
messa la scelta di eccepire la prescrizione qualora ve ne siano i
presupposti, ovvero rinunciare alla medesima e provvedere co-
munque ad onorare il debito in forza del titolo, seppure pre-
scritto.
Ai sensi dell'art. 2938 c.c , infatti, “il giudice non può ri-
levare d'ufficio la prescrizione non opposta".
Tanto premesso, devesi allora individuare quale sia il ter-
mine a partire dal quale inizia a decorrere la prescrizione.

524
L'art. 2935 c.c. sul punto prevede che: “la prescrizione
inizia a decorrere dal momento in cui il diritto può essere fatto
valere”.
L'art. 2947 c.c. abbiamo detto che prevede il termine di
cinque anni per far valere il diritto al risarcimento del danno da
fatto illecito.
Il combinato disposto di tali due disposizioni consente al-
lora di affermare che il soggetto danneggiato che voglia aziona-
re la sua pretesa creditoria nei confronti del danneggiante deve
essere nelle condizioni di conoscere il comportamento illecito
di questi, di provare l'ingiustizia del pregiudizio subito, di pro-
vare che condotta sia stata realizzata con dolo o colpa del dan-
neggiante.
Se questi non è in grado di conoscere tali elementi su cui
deve fondarsi la responsabilità extracontrattuale, non è possibi-
le parlare di atteggiamento inerte in capo al titolare di tale po-
sizione soggettiva che, in assenza, per l'appunto, di uno di tali
requisiti, si astenga dall'agire.
In altri termini, non è corretto imputare a tale soggetto
una condotta inerte che rilevi ai fini della decorrenza del termi-
ne prescrizionale.

525
E' infatti noto che nel nostro ordinamento proprio perché
la responsabilità da fatto illecito non sorge dall'inadempimento
di un contratto, colui che intenda agire per far valere tale forma
di responsabilità deve assolvere al più gravoso onere probatorio
(rispetto a quello di cui ci si deve far carico nell'ambito della
responsabilità contrattuale) volto a provare l'illecito, che il legi-
slatore ha concepito quale illecito di danno e non come illecito
di condotta.
Ne consegue che il termine ai fini della prescrizione ini-
zia a decorrere allorquando l'illecito si manifesta all'esterno
come conoscibile in tutti questi elementi strutturali descritti
(condotta illecita, elemento soggettivo, realizzarsi del fatto lesi-
vo) e non semplicemente nel momento in cui si tiene il com-
portamento illecito.
Da ciò discende che a determinare la decorrenza della
prescrizione è, allora, la giuridica possibilità di esercitare il di-
ritto, mentre non rileva la semplice impossibilità di fatto del
predetto esercizio.
Esemplificando, l'ignoranza incolpevole del proprio cre-
dito non integra una condizione ostativa alla decorrenza della
prescrizione perché non rappresenta un ostacolo giuridico.

526
Con riguardo agli ostacoli di mero fatto, l'art. 2941 c.c.
annovera diverse ipotesi da considerarsi tassative che danno
luogo alla sospensione della prescrizione e tra di esse non vi è
l'ignoranza incolpevole del credito: precisamente, l'art. 2941, n.
8 c.c. contempla il caso in cui il debitore abbia dolosamente oc-
cultato l'esistenza del debito al creditore, ma tale ipotesi di
ignoranza dolosa è evidentemente diversa.
Riassumendo, il momento iniziale della decorrenza della
prescrizione relativa al diritto al risarcimento del danno è quel-
lo in cui il soggetto titolare è in grado di conoscere la sussisten-
za del fatto illecito.
L'accertamento di un fatto illecito può ricollegarsi a mo-
menti diversi a seconda della tesi di causalità a cui si intende
far riferimento.
Prendendo in esame il concetto di causalità come connes-
sione materiale tra la condotta e la modificazione che si realiz-
za nella realtà a seguito di tale condotta, questa è quella presa
in considerazione nella fattispecie illecita (l’art. 2043 c.c. ri-
chiama un fatto doloso o colposo).
Per altro verso, il riferimento può essere compiuto alla
causalità, come fondamento della responsabilità, da intendersi

527
quale collegamento tra la condotta e il pregiudizio da cui scatu-
risce la responsabilità.
Ancora, la causalità può essere interpretata come collega-
mento tra l'illecito ed il danno scaturito da tale illecito.
Per le prime due forma di causalità ,si parla di “causalità
materiale”, mentre il terzo tipo è solitamente designato con la
locuzione “causalità giuridica”.
Secondo l'art. 2043 c.c. ciò che deve realizzarsi è il danno
inteso quale fonte di responsabilità ai fini della decorrenza del-
la prescrizione.
L'oggettiva conoscibilità (e non l'effettiva conoscenza)
dello stesso da parte del danneggiato consente la decorrenza
del termine prescrizionale per l'esercizio del diritto al risarci-
mento.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE - CASS. 10 MAGGIO


2013, N. 11119

“Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del

528
danno da fatto illecito inizia a decorrere non dal momento in
cui il fatto del terzo determina la modificazione che produce
danno all’altrui diritto, ma dal momento in cui la produzione
del danno si manifesta all’esterno, divenendo oggettivamente
percepibile e riconoscibile” (Cass. civ., sez. III, 10 maggio
2013, n. 11119). Nel caso di specie, effettuato il pagamento di
un’obbligazione contrattuale mediante assegno circolare, emes-
so da un istituto di credito senza apporre la clausola di non tra-
sferibilità e risultato, successivamente, trafugato ed oggetto di
versamento presso altro istituto di credito, il quale, all’atto del-
la negoziazione, aveva omesso di rilevare l’invalidità di una
delle girate, si è ritenuto che, ai fini della decorrenza del diritto
al risarcimento del danno fatto valere dal primo istituto di cre-
dito nei confronti del secondo, non assumesse rilievo la data
della - ritenuta illecita - negoziazione del titolo, atteso che in
quel momento sussisteva semplicemente una potenzialità di
danno nei riguardi del primo istituto, potenzialità concretizzata-
si soltanto quando il richiedente l’assegno circolare ebbe a
chiedere all’emittente il pagamento della somma portata dal-
l’assegno (Cass. 10 maggio 2013, n. 11119).

529
La giurisprudenza di legittimità che si è espressa in meri-
to ad una fattispecie coincidente con quella in esame, ha previ-
sto che è necessario procedere ad una lettura coordinata degli
artt. 2947 c.c., e 2935 c.c.
Pertanto, la prescrizione comincia a decorrere da quando
il diritto può essere fatto valere.
Al fine di poter far valere il diritto al risarcimento del
danno, il titolare deve avere piena contezza dell'esistenza del
danno e del suo carattere ingiusto, non potendo altrimenti defi-
nirsi inerte la sua condotta.
Il Supremo Collegio ha stabilito che il “fatto” nel conte-
sto della responsabilità civile va riferito al verificarsi dell'even-
to dannoso non essendo sufficiente il riferimento alla mera con-
dotta, con azione o mediante omissione, tenuta dall'agente.

TESTO INTEGRALE

La X spa conveniva davanti al Tribunale di Roma la Y in data


17.4.1992, chiedendone la condanna al pagamento della somma di L.
24.274.095.

530
La convenuta si costituiva ed assumeva di aver effettuato il
pagamento con assegno circolare trasmesso all'attrice dalla _________
chiamava in causa il proprio tesoriere, cioè la _____________e la
____________.
Si costituivano sia la _____e la ________
Il tribunale accertava che la aveva emesso l'assegno circolare
senza apporre la clausola di non trasferibilità; che tale assegno, trafugato
era stato versato presso la ________che nell'atto della negoziazione
aveva omesso di rilevare l'invalidità di una delle girate.
Pertanto il tribunale condannava la Y a pagare a X spa la somma
richiesta, oltre accessori e spese; la _______ a rivalere la gestione della
somma pagata e la _________, mentre rigettava le domande proposte
contro l a_______ Proponeva appello la .
La Corte di appello di Roma, con sentenza depositata il
29.5.2006, accoglieva l'appello e rigettava la domanda proposta dalla
--------- contro la ---------------- , per intervenuta prescrizione dell'azione
risarcitoria, in quanto la condotta illecita della_______ si era verificata il
3.8.1987, quando la _________ negoziò il titolo, mentre la notifica della
chiamata in causa era avvenuta il 5.8.1992. La corte di merito
condannava quindi la _______ a restituire alla _________, la somma di
38.897,89, da quest'ultima pagata direttamente alla X s.p.a..
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la
__________, che ha presentato memoria quale _________
Resiste con controricorso la ___________.
1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione
dell'art. 2947 c.c., in relazione all'art. 2935 c.c., ai sensi dell'art. 360
c.p.c., n. 3.
Assume la ricorrente che, premessa la natura extracontrattuale
della responsabilità della ---------, la prescrizione quinquennale
decorreva non dalla data della negoziazione del titolo, ma dal momento
in cui si era manifestato il danno lamentato da essa danneggiata.

531
2.1. Il motivo è fondato e va accolto.
Va ribadito che la corte di appello ha osservato che già il primo
giudice aveva ritenuto che la ----------------- fosse obbligata non nei
confronti della gestione liquidatoria (OMISSIS) della ------------, ma nei
confronti della ____________ e che quest'ultima avesse agito non ex art.
2055 c.c., con azione di regresso nei confronti della prima, ma
autonomamente a norma dell'art. 2043 c.c., proponendo, quindi
un'autonoma domanda nei confronti della __________ per
responsabilità extracontrattuale.
A parte l'opinabilità di tale ricostruzione, poiché nè la sentenza di
primo grado nè quella di appello è stata sul punto censurata, sul punto
ormai si è formato il giudicato interno (cfr. Cass. n. 13001/2005; n.
3506/1996).
2.2. Ne consegue che nella fattispecie il problema che si pone è quello
relativo all'exordium praesciptionis del termine prescrizionale
quinquennale di cui all'art. 2947 c.c. Come è noto, in base all'art. 2935
c.c., norma assolutamente aperta a molteplici e contrapposte
interpretazioni, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a
decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. L'art. 2947
c.c., comma 1, aggiunge che il diritto al risarcimento del danno da fatto
illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il "fatto si è
verificato".
2.3.Questa Corte ha più volte ribadito che il testo dell'art. 2947 c.c.
deve essere letto ed interpretato congiuntamente al disposto dell'art.
2935 c.c., per cui la prescrizione comincia a decorrere da quando il
diritto può essere fatto valere. Per poter esercitare il diritto al
risarcimento del danno è cioè indispensabile che il titolare sia
adeguatamente informato non solo dell'esistenza del danno, ma anche
della sua ingiustizia, non potendo altrimenti riscontrarsi nel suo
comportamento l'inerzia che è alla base della prescrizione.
L'art. 2947 c.c. deve essere quindi interpretato nel senso che la
prescrizione inizia a decorrere non dal momento in cui l'agente compie
l'illecito o da quello in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il

532
danno all'altrui diritto, bensì dal momento in cui l'illecito ed il
conseguente danno si manifestano all'esterno, divenendo oggettivamente
percepibili e riconoscibili (Cass. 9 maggio 2000, n. 5913; Cass. 28
luglio 2000, n. 9927; Cass. 21 febbraio 2003, n. 2645; Cass. 2 febbraio
2007 n. 2305; Cass. S.U. n. 576/2008; Cass. S.U. n. 581/2008).
E' - invece - irrilevante la soggettiva ignoranza del danno, in cui
può versare il danneggiato. Infatti l'impossibilità di far valere il diritto,
alla quale l'art. 2935 c.c., attribuisce rilevanza di fatto impeditivo della
decorrenza della prescrizione, è solo quella che deriva da cause
giuridiche che ostacolino l'esercizio del diritto e non comprende anche
gli impedimenti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto, per i quali il
successivo art. 2941, prevede solo specifiche e tassative ipotesi di
sospensione, tra le quali, salva l'ipotesi di dolo prevista dal n. 8 del
citato articolo, non rientra l'ignoranza, da parte del titolare, del fatto
generatore del suo diritto, nè il dubbio soggettivo sulla esistenza di tale
diritto ed il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento (Cass. n.
3584/2012).
2.4. Sennonché, ciò che occorre porre in rilievo, per quanto interessa in
questa sede, è che nell'ambito della responsabilità civile nel concetto di
"fatto", ai fini del risarcimento del danno va ricompreso anche l'evento
dannoso e non semplicemente la condotta omissiva o commissiva
dell'agente.
In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il
fatto - reato (il cui elemento materiale è appunto costituito da condotta,
nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico), ai fini della
responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto
tale.
E tuttavia un "fatto" è pur sempre necessario perché la
responsabilità sorga, giacché l'imputazione del danno presuppone
l'esistenza di una delle fattispecie normative di cui all'art. 2043 c.c.e
segg., le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi
storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra
natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto
chiamato a rispondere.

533
Il "danno" rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo
e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità
materiale ed il secondo da quella giuridica.
Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi
esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un
elemento l'evento lesivo).
Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno
conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria.
Proprio per ciò si è consolidata nella cultura giuridica
contemporanea l'idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale,
che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione
del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica
causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie
con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento
lesivo) e la determinazione dell'intero danno cagionato, che costituisce
l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria.
A questo secondo momento va riferita la regola dell'art. 1223 c.c.
(richiamato dall'art. 2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve
comprendere le perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del
fatto lesivo (c.d. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato
che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla
determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le
conseguenze dannose risarcibili.
3.1. Ne consegue che, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale
del diritto risarcitorio della _______ nei confronti della _______ , è
necessario che si sia verificato il danno risarcibile della cassa. Finché
tale danno non si è verificato, ma vi è la sola condotta colpevole del
danneggiante, non vi è un diritto al risarcimento del danno. Nella
fattispecie, contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, il
dies a quo della prescrizione quinquennale del diritto risarcitorio della
_______ nei confronti della _______ non poteva coincidere con la sola
condotta considerata illecita della negoziazione del titolo in data 3
agosto del 1987, poiché in quella data nessun risarcimento a sua volta le

534
era stato richiesto dalla _______ non chiedeva il pagamento alla
_______ per questa vi era solo una "potenzialità di danno" ma non un
danno risarcibile.
Se, infatti, la _______ avesse agito per il risarcimento nei
confronti della _______ prima che la _______ (richiedente l'assegno
circolare)le chiedesse il pagamento della somma portata dall'assegno, la
domanda era destinata a non essere accolta, poiché fino a quel momento
l'unico soggetto che aveva subito un danno era appunto la__________
3.2. Ne consegue che l'azione risarcitoria, a norma dell'art. 2935 c.c.,
poteva essere fatta valere dalla _______ nei confronti della _______
solo nel momento in cui si era completato il fatto lesivo (e cioè si erano
verificati non solo la condotta illecita ma anche l'evento dannoso) e
questo aveva dato luogo al danno conseguente, costituito dal pagamento
(id est: la condanna al pagamento), effettuato dalla _______ in favore
della _______ , in conseguenza del furto dell'assegno. Solo da detta data
(del pagamento o condanna al pagamento) decorre la prescrizione
quinquennale del diritto risarcitorio ai sensi degli artt. 2935 - 2947 c.c..
Ne consegue che nella fattispecie, contrariamente a quanto
ritenuto dalla sentenza impugnata, non è decorso il termine
prescrizionale di anni 5, essendo intervenuta la sentenza del tribunale di
Roma, che condannava la _______ pagamento, solo il 15.4.2002, nè
risultando che tale pagamento fosse stato effettuato antecedentemente.
3.3.E' appena il caso di rilevare che la_______ , convenuta per il
risarcimento del danno dalla _______ ben poteva (così come ha fatto)
nello stesso giudizio proporre la sua domanda risarcitoria nei confronti
della _______ , in caso di condanna al pagamento e quindi di venuta ad
esistenza del suo danno per opera della condotta della _______ e ciò in
via anticipata, per l'eventualità che l'azione risarcitoria sfociasse in una
condanna, rispondendo all'economia dei giudizi che lo stesso giudice
adito dal primo danneggiato potesse giudicare anche della domanda
risarcitoria del secondo danneggiato, valutandone la misura in funzione
delle rispettive colpe e dell'entità delle conseguenze che ne sono
derivate, fermo restando che il pagamento del secondo risarcimento
sarebbe stato possibile solo dopo il pagamento dell'intero debito al

535
primo creditore (adattando i principi già espressi in tema di azione di
regresso n. 13087 del 28/05/2010).
4. L'accoglimento del primo motivo di ricorso, comporta l'assorbimento
dei restanti motivi.
Pertanto, va accolto il primo motivo di ricorso, assorbiti i restanti.
Va cassata l'impugnata sentenza, con rinvio anche per le spese alla corte
di appello di Roma, in diversa composizione, che si uniformerà al
principio di diritto esposto al punto 3.2.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti i restanti. Cassa
l'impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di
cassazione alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 6 marzo 2013.
Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2013

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Con riguardo al caso in esame, per valutare se la pretesa


risarcitoria dell'istituto bancario Z potrà essere fatta fruttuosa-
mente valere nei confronti della banca M, ai fini della prescri-
zione quinquennale, si deve verificare se si è concretizzato il
danno risarcibile.
Fino a tale momento, l'accertamento della sola condotta

536
negligente della banca M, consistita nell'avere omesso i dovuti
controlli e non non aver rilevato che mancava la clausola di
non trasferibilità, non comporta di per sé alcun diritto al risarci-
mento del danno: ne consegue che il termine per l'esercizio del
diritto non può iniziare a decorrere da tale momento che segna
solo la potenzialità del danno, ma non integra il danno risarci-
bile.
Il termine a partire dal quale il soggetto può agire in re-
gresso (ovvero la società bancaria Z verso l'istituto di credito
M) è rappresentato dalla sentenza con cui la società Z è con-
dannata a versare alla società Y il dovuto, principio questo sta-
tuito con la pronunzia intervenuta nel mese di giugno 2013.
E' infatti questo il momento nel quale può dirsi realizzato
l'evento lesivo.
cioè con la condanna della stessa a rimborsare la società
Y: ciò è avvenuto, in via giudiziale, nel luglio del 2013.
Ne consegue che al momento in cui la società Z agisce
verso M – febbraio 2014 – non è ancora decorso il termine pre-
scrizionale di cinque anni per esercitare il diritto al risarcimen-
to.

537
17. LA RISARCIBILITA' DELLA PERDITA DELLA
VITA

IL CASO

Il Sig. Rossi, nonostante abbia bevuto qualche bicchiere di troppo,


decide comunque di mettersi alla guida della propria auto per fare
ritorno a casa ma, dopo pochi chilometri, perde il controllo della
vettura ed investe il Sig. Bianchi che muore sul colpo.
La moglie ed il fratello del Sig. Bianchi chiedono di conseguire il
risarcimento del danni, patrimoniali e non dovuti in ragione della
perdita del loro caro e il Tribunale riconosce loro tali diritto in
qualità di congiunti, ovvero jure proprio. Tale decisione, tuttavia,
non soddisfa pienamente i congiunti i quali intendono ottenere,
altresì, il diritto al risarcimento per il danno biologico subito,
rispettivamente dalla moglie e dal fratello, per la morte immediata.

Quesito
E' possibile, alla luce del più recente orientamento espresso dalla
giurisprudenza che sia riconosciuto ai congiunti il diritto al
risarcimento del danno biologico per morte immediata (del
congiunto) quale diritto jure hereditatis?

*****

538
ESAME DELLA FATTISPECIE

Nel caso in esame, il Sig. Rossi ha cagionato la morte del


Sig Bianchi dopo aver perso il controllo della propria vettura.
La perdita del congiunto a seguito della morte immediata,
quale lesione lamentata dal fratello e della moglie della vittima
trova accoglimento da parte dell'autorità giudiziaria la quale
riconosce il diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non
ai predetti congiunti jure proprio insieme al diritto al
risarcimento dei danni non patrimoniali a seguito dell'avvenuta
perdita del rapporto parentale a causa dell'illecito.
Ciò posto, per rispondere al quesito, ovvero se sia
suscettibile di essere riconosciuto anche il diritto al
risarcimento del danno biologico per la morte immediata quale
diritto che sarebbe entrato a far parte del patrimonio della
vittima e che ai congiunti di questa spetterebbe jure hereditatis,
ci si deve soffermare sui presupposti che la giurisprudenza
reputa imprescindibili al fine di dare ingresso a tale pretesa
risarcitoria.

*****

539
LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 24 marzo 2011, n. 6754. In caso di morte della vittima a poche ore
di distanza dal verificarsi di un sinistro stradale (nella specie, sei o sette
ore), il risarcimento del c.d. danno «catastrofale» - ossia del danno
conseguente alla sofferenza patita dalla persona che lucidamente assiste
allo spegnersi della propria vita - può essere riconosciuto agli eredi, a
titolo di danno morale, solo a condizione che sia entrato a far parte del
patrimonio della vittima al momento della morte; pertanto, in assenza di
prova della sussistenza di uno stato di coscienza della persona nel breve
intervallo tra il sinistro e la morte, la lesione del diritto alla vita non è
suscettibile di risarcimento, neppure sotto il profilo del danno biologico,
a favore del soggetto che è morto, essendo inconcepibile l’acquisizione
in capo a lui di un diritto che deriva dal fatto stesso della morte; e,
d’altra parte, in considerazione della natura non sanzionatoria, ma solo
riparatoria o consolatoria del risarcimento del danno civile, ai congiunti
spetta in questo caso il solo risarcimento conseguente alla lesione della
possibilità di godere del rapporto parentale con la persona defunta.

Cass. 21 marzo 2013, n. 7126. In caso di illecito civile che abbia


determinato la morte della vittima, il danno cosiddetto «catastrofale»,
conseguente alla sofferenza dalla stessa patita - a causa delle lesioni
riportate - nell’assistere, nel lasso di tempo compreso tra l’evento che le
ha provocate e la morte, alla perdita della propria vita (danno diverso sia
da quello cosiddetto «tanatologico», ovvero connesso alla perdita della
vita come massima espressione del bene salute, sia da quello
rivendicabile iure hereditatis dagli eredi della vittima dell’illecito, poi
rivelatosi mortale, per avere il medesimo sofferto, per un considerevole
lasso di tempo, una lesione della propria integrità psico-fisica costituente
un autonomo danno «biologico», accertabile con valutazione medico
legale) deve comunque includersi, al pari di essi, nella categoria del
danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., ed è autonomamente risarcibile
in favore degli eredi del defunto.

540
Cass. 20 settembre 2011, n. 19133. In tema di risarcimento del danno
non patrimoniale, quando all’estrema gravità delle lesioni, segua, dopo
un intervallo temporale brevissimo (nella specie due giorni), la morte,
non può essere risarcito il danno biologico «terminale» connesso alla
perdita della vita come massima espressione del bene salute, ma
esclusivamente il danno morale, dal primo ontologicamente distinto,
fondato sull’intensa sofferenza d’animo conseguente alla
consapevolezza delle condizioni cliniche seguite al sinistro.

Cass. 18 gennaio 2011, n. 1072. In caso di lesione dell’integrità fisica -


nella specie conseguente ad un infortunio sul lavoro - che abbia portato
a breve distanza di tempo ad esito letale, è configurabile un danno
biologico di natura psichica subìto dalla vittima che abbia percepito
lucidamente l’approssimarsi della morte, reclamabile dai suoi eredi, la
cui entità dipende non già dalla durata dell’intervallo tra la lesione e la
morte bensì dall’intensità della sofferenza provata; il diritto al
risarcimento di tale danno è trasmissibile agli eredi (nella specie, la
suprema corte ha confermato il riconoscimento nella misura del 100 per
cento del danno biologico terminale, iure successionis, avendo - in base
agli esiti della effettuata ctu medica - il lavoratore subìto un danno
psichico totale per la presenza di una sofferenza e di una disperazione
esistenziale di intensità tale da determinare, nella percezione
dell’infortunato, un danno catastrofico, in una situazione di attesa lucida
e disperata dell’estinzione della vita).
Cass. 13 gennaio 2009, n. 458. Il danno c.d. «tanatologico» o da morte
immediata va ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella
sua più ampia accezione, come sofferenza della vittima che lucidamente
assiste allo spegnersi della propria vita (nella specie, la suprema corte ha
confermato la sentenza impugnata che aveva qualificato la predetta
sofferenza della vittima come danno morale e non come danno biologico
terminale, attesane l’inidoneità - essendo stato l’intervallo di tempo tra il
sinistro e la morte di tre giorni - ad integrare gli estremi di quella
fattispecie di danno non patrimoniale).

Cass. 28 agosto 2007, n. 18163. Nel caso in cui intercorra un


apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata

541
dalle stesse, è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi
in relazione alla menomazione della integrità psicofisica patita dal
danneggiato per quel periodo di tempo, ed il diritto del danneggiato a
conseguire il risarcimento del danno è trasmissibile agli eredi iure
hereditatis; in questo caso, l’ammontare del danno biologico terminale
sarà commisurato soltanto all’inabilità temporanea, e tuttavia il giudice
di merito, ai fini della liquidazione, dovrà tenere conto, nell’adeguare
l’ammontare del danno alle circostanze del caso concreto, del fatto che,
se pure temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità,
tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di
recupero ed esitare nella morte (nella specie, la suprema corte ha cassato
la sentenza di merito che aveva escluso il risarcimento del danno
biologico iure hereditatis, senza adeguatamente motivare l’affermazione
secondo cui il decesso era «intervenuto immediatamente o a breve
distanza di tempo dall’evento lesivo»).

Cass. 30 gennaio 2006, n. 1877. Il danno biologico e morale che la


vittima di un sinistro subisce nell’apprezzabile lasso di tempo tra la
lesione e la conseguente morte (c.d. danno terminale) è un danno nel
quale, stante la tendenza ad un aggravamento progressivo, i fattori della
personalizzazione debbono valere in grado assai elevato; esso, pertanto,
non può essere liquidato attraverso la meccanica applicazione di criteri
contenuti in tabelle che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi
sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle
invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono
all’evento dannoso.

Cass. 19 ottobre 2007, n. 21976. Il danno terminale, biologico e morale,


sussiste in tutti i casi in cui tra il fatto illecito ed il decesso della vittima
sia intercorso un apprezzabile lasso di tempo, tale potendosi
astrattamente considerare anche la sopravvivenza della vittima per
ventiquattro ore dal fatto causativo; inoltre, sia il danno biologico sia il
danno morale terminali comprendono anche le sofferenze fisiche e
morali sopportate dalla vittima in stato di incoscienza.

Cass. 28 aprile 2006, n. 9959. Nel caso in cui intercorra un apprezzabile

542
lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse è
configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione
alla menomazione della integrità psicofisica patita dal danneggiato per
quel periodo di tempo, ed il diritto del danneggiato a conseguire il
risarcimento del danno è trasmissibile agli eredi iure hereditatis; in
questo caso, l’ammontare del danno biologico terminale sarà
commisurato soltanto all’inabilità temporanea, e tuttavia la sua
liquidazione dovrà tenere conto, nell’adeguare l’ammontare del danno
alle circostanze del caso concreto, del fatto che, se pure temporaneo, tale
danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla
salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare
nella morte (nella specie la suprema corte ha confermato la sentenza di
merito che aveva liquidato a questo titolo trenta milioni di lire in
relazione al danno patito dalla vittima, deceduta trentatré giorni dopo il
fatto dannoso).

Cass. 23 febbraio 2004, n. 3549. Nel caso in cui intercorra un


apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata
dalle stesse è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi
in relazione alla menomazione della integrità psicofisica patita dal
danneggiato per il periodo di tempo indicato, e il diritto del danneggiato
a conseguire il risarcimento del danno è trasmissibile agli eredi iure
hereditatis; in questo caso, l’ammontare del danno biologico terminale
sarà commisurato soltanto all’inabilità temporanea, e tuttavia la sua
liquidazione dovrà tenere conto, nell’adeguare l’ammontare del danno
alle circostanze del caso concreto, del fatto che, se pure temporaneo, tale
danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla
salute è cosi elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare
nella morte.

Cass. 16 maggio 2003, n. 7632. Il danno biologico terminale, ovvero il


danno subìto dal de cuius nell’intervallo di tempo tra la lesione del bene
salute e il sopraggiungere della morte conseguente a tale lesione rientra
nel danno da inabilità temporanea, la cui quantificazione equitativa va
operata però tenendo conto delle caratteristiche peculiari di questo
pregiudizio, consistenti nel fatto che si tratta di un danno alla salute che,

543
sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, sia che si
applichi il criterio di liquidazione equitativa «puro» sia che si applichi il
criterio di liquidazione tabellare, in quanto entrambi questi criteri di
liquidazione sono legittimamente utilizzabili, purché vengano dal
giudice adeguatamente «personalizzati», ovvero adeguati al caso
concreto.

Cass. 14 luglio 2003, n. 11003. Il danno biologico e morale che la


vittima di un sinistro subisce nell’apprezzabile lasso di tempo tra la
lesione e la conseguente morte (c.d. danno terminale) è un danno nel
quale, stante la tendenza ad un aggravamento progressivo, i fattori della
personalizzazione debbono valere in grado assai elevato; esso, pertanto,
non può essere liquidato attraverso la meccanica applicazione di criteri
contenuti in tabelle che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi
sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle
invalidità temporanee o permanenti di soggetti che sopravvivono
all’evento dannoso.

*****

LE NORME RICHIAMATE

Art. 2 Cost.
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

544
Art. 1219 c.c.
Costituzione in mora.
1. Il debitore è costituito in mora mediante intimazione o
richiesta fatta per iscritto.

2. Non è necessaria la costituzione in mora:

1) quando il debito deriva da fatto illecito;

2) quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non


volere eseguire l'obbligazione;

3) quando è scaduto il termine, se la prestazione deve


essere eseguita al domicilio del creditore. Se il termine scade
dopo la morte del debitore, gli eredi non sono costituiti in
mora che mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto, e
decorsi otto giorni dall'intimazione o dalla richiesta.

Art. 2043 c.c.

Risarcimento per fatto illecito.

545
1. Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri
un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a
risarcire il danno.

Art. 2056 c.c.

Valutazione dei danni.

1. Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve


determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e
1227.

2. Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo


apprezzamento delle circostanze del caso.

Art. 2059 c.c.

Danni non patrimoniali.

Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei


casi determinati dalla legge.

546
*****

GLI ISTITUTI

Il risarcimento del danno non patrimoniale


La materia del risarcimento del danno non patrimoniale
è un tema sula quale i giudici sono chiamati di continuo a
pronunciarsi.
La posizione espressa dalla giurisprudenza, specie
quella di legittimità, ha fatto registrare un mutamento e, in
particolare, un ampliamento nel riconoscimento di tale diritto
con il quale si è intesa superare quella serie di ostacoli che,
imponendo un'interpretazione rigida, lasciava prive di tutela
pretese risarcitorie a favore dei congiunti del soggetto
danneggiato.
Il predetto ampliamento è, senza dubbio, da porre in
relazione con le più evolute interpretazioni offerte nell'ambito
del risarcimento del danno non patrimoniale e, in primo
luogo, con la diversa lettura data al dettato di cui all'art. 2059

547
c.c.
Il legislatore del '42 non aveva concepito una nozione di
risarcimento del danno non patrimoniale così estesa quanto
quella avutasi a seguito dell'interpretazione fornita
dall'orientamento giurisprudenziale cui si è fatto cenno.
La disposizione codicistica da richiamare è quella di cui
all'art. 2059 c.c. a mente del quale: “Il danno non
patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati
dalla legge”.
Tale norma, che nel corso degli anni non ha mai subito
modifiche, seppure riconosce espressamente la figura del
danno non patrimoniale, ne limita tuttavia la risarcibilità ai soli
casi previsti dalla legge.
L'estensione della predetta categoria è stata resa
possibile grazie all'ancoraggio operato dalla giurisprudenza
della norma codicistica ex art. 2059 c.c. alla norma di rango
costituzionale art. 2 Cost. Secondo tale ultima disposizione,
«la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

548
Tale collegamento, tuttavia, non ha incontrato il favore
unanime della dottrina: se, infatti, alcuni autori hanno messo
in guardia dal pericolo di una risarcibilità generalizzata di
ogni lesione che possa ricollegarsi, seppure in via indiretta, ai
valori della persona, altri, di contro, hanno ritenuto che a
fronte di una tutela atipica e generalizzata delle lesioni aventi
carattere patrimoniale si avrebbe, nell'ambito della categoria
del danno non patrimoniale, una risarcibilità limitata ai soli
diritti di rilevanza costituzionale.
Ad ogni modo, è stata la crescente importanza accordata
ai valori della persona a favorire il generale riconoscimento
da parte della giurisprudenza delle lesioni di interessi primari
della persona, consentendone un'adeguata tutela ai fini
risarcitori.
Il collegamento dell'art. 2059 c.c. al precetto
costituzionale ha consentito quella che i giudici hanno
definito un'interpretazione “costituzionalmente orientata”
dell'art. 2059 c.c.
Il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno
per le ipotesi in cui venga intaccata la sfera degli interessi
inviolabili della persona quale sanzione minima è quanto si

549
rinviene nella interpretazione offerta dalla giurisprudenza di
legittimità con le decisioni “gemelle” (Cass. 31 maggio 2003
nn. 8827 e 8828).
Tale operazione, consistita nell'attribuire contenuto
precettivo ad una disposizione costituzionale, appunto l'art. 2,
che va così ad integrare la fattispecie dell'art. 2059 c.c. è stata
compiuta con il preciso intento di evitare che si giunga ad una
una sovrapposizione -. rinvenibile in talune decisioni di merito
- delle norme costituzionali rispetto alle disposizioni del codice
civile in materia di risarcimento, posta in essere per ammettere
il risarcimento nelle ipotesi dei c.d. “danni esistenziali”.
La giurisprudenza prevalente ammette il risarcimento
del danno alla persona se si configura una lesione di un
interesse afferente alla persona che la Carta fondamentale
tutela.

Diritto alla vita, salute e risarcimento.


Il più importante diritto da annoverare nella categoria
dei diritti fondamentali è certamente il diritto alla vita che
rappresenta il perno attorno a cui ruotano tutti gli altri diritti
afferenti alla persona.

550
Per tale motivo l'ordinamento giuridico appresta tutela
alla salute della persona sicché la lesione all'integrità fisica e
psichica del soggetto quale conseguenza del danno alla salute
o danno biologico è oggetto di risarcimento.
L'intima connessione tra la salute e la vita fa sì che la
massima compromissione della salute corrisponde al venir
meno della vita stessa.
Si pensi, a titolo esemplificativo, che il legislatore
penale commina una sanzione più severa per il reato di lesioni
cui sia seguita la morte del soggetto - è il caso dell'omicidio
preterintenzionale di cui all'art. 584 c.p. - rispetto alla
fattispecie in cui la condotta del reo si sia esaurita in percosse
e lesioni personali (artt. 581 e 582 c.p.) che non hanno
cagionato la morte della vittima.
Il principio di proporzionalità nella commisurazione
della reazione rispetto al pregiudizio arrecato al diritto alla
salute - e, dunque, al bene vita - deve trovare riscontro anche
nel settore civilistico. Ne consegue che una massima
responsabilità e dunque un consistente risarcimento andrà
riconosciuto tutte le volte in cui si riscontri la privazione della
vita, mentre il risarcimento sarà necessariamente contenuto a

551
fronte di una lesione che non arrechi pregiudizio in modo
apprezzabile al mantenimento della vita.
La rilevanza del danno alla salute si rinviene nell'ambito
del settore civile e precisamente nel settore degli infortuni sul
lavoro (il richiamo è all'art. 13 del d. lgs. 38/2000) nonché nel
settore dei sinistri stradali, la cui recente normativa (c.d.
Codice delle Assicurazioni) ha distinto il danno per lesione di
non lieve entità da quello per lesione di lieve entità.
Diretta conseguenza del rispetto del criterio di
proporzionalità testé enunciato è che si deve evitare di
accordare tutela a tutte le molteplici voci di danno che,
trovando ingresso nel nostro sistema, possono dar luogo ad
un'ingiustificata locupletazione. Tale principio è stato
espressamente enunciato anche dalla giurisprudenza.
Il Supremo Collegio ha puntualizzato che, ai fini della
quantificazione del danno non patrimoniale, l'ammissione del
risarcimento del danno biologico per la perdita del rapporto
parentale e, al tempo stesso, quella del risarcimento del danno
esistenziale in ragione della sofferenza che si protrarrà per
l'intera vita del parente darebbe luogo ad un'inutile
duplicazione di voci di danno in presenza di un unico

552
pregiudizio.
Da qui si deve partire per consentire l'attuazione della
c.d. “personalizzazione” del risarcimento in relazione al
soggetto danneggiato.
Se infatti è ben possibile che in presenza di un
pregiudizio si possano individuare (e richiedere in giudizio)
diverse voci di danno tra loro corrispondenti è altrettanto
innegabile che non si può ignorare la particolare situazione in
cui versa il soggetto che agisce per conseguire un ristoro
adeguato e proporzionale rispetto all'evento letale.
L'incertezza che si registra sul piano teorico riflette
quelle oscillazioni che si rinvengono nelle decisioni
giurisprudenziali: sovente accade di constatare l'accoglimento
di una domanda di risarcimento del danno morale per la
perdita del congiunto - a favore del parente della vittima -
nonché del danno biologico dovuto alla patologia scaturente
dall'evento dannoso, ma il rigetto del danno morale connesso
alla predetta malattia.
L'esigenza di arginare tale incertezza ha suggerito di
elaborare una classificazione delle fattispecie di illecito nelle
quali vi sia stata la morte del danneggiato e di distinguere,

553
anche nella cerchia dei parenti, le cd. vittime primarie da
quelle secondarie.
Muovendo da questo ultimo aspetto, la giurisprudenza
ha chiarito che, al di là dell'indiscusso rapporto genitori-figli,
il risarcimento va accordato alla vittima in ragione del
particolare legame che aveva con il soggetto danneggiato: si
pensi al risarcimento accordato al convivente more uxorio,
ammesso con la decisione della Cassazione 28 marzo 1994 n.
2988.
In altre decisioni, la giurisprudenza ha ritenuto non
sufficiente la mera esistenza di un rapporto di convivenza tra
il parente e la vittima ai fini del riconoscimento del
risarcimento del danno: si pensi al caso della perdita dei
nonni, affrontato nella sentenza Cass. 15 luglio 2005 n.
10519. Si legge in tale pronunzia: “la morte di un congiunto,
conseguente a fatto illecito, configura per i superstiti del
nucleo familiare un danno non patrimoniale diretto ed
ingiusto, costituito dalla lesione di valori costituzionalmente
protetti e di diritti umani inviolabili, perché la perdita
dell'unità familiare è perdita di affetti e di solidarietà inerenti
alla famiglia come società naturale. Risulta quindi evidente,

554
da siffatta impostazione, che il danno in questione, incidendo
esclusivamente sulla psicologia, sugli affetti e sul legame
parentale esistente tra la vittima dell'atto illecito e i
superstiti, non è riconoscibile se non attraverso elementi
indiziari e presuntivi, che, opportunamente valutati, con il
ricorso ad un criterio di normalità, possano determinare il
convincimento del giudice”.
Con riferimento alle figure di danno elaborate dalle
giurisprudenza sono state fornite per ognuna di tali categorie
specifiche risposte in termini di risarcimento del danno.
Nel nostro ordinamento non ha trovato accoglimento la
figura del danno edonistico riconosciuto ai congiunti, istituto
incentrato sul diritto alla serenità familiare e di tradizione
nordamericana.
Certamente la più grave delle lesioni è stata ritenuta la
più consistente compromissione all'integrità psico-fisica per la
quale è stata definita la figura del danno biologico terminale:
il danno biologico da morte riconosciuto ai superstiti in
presenza del semplice evento morte che sorge in capo alla
vittima immediatamente in ragione del verificarsi dell'evento
letale.

555
Accanto a tale istituto vi è poi quello del danno morale
da perdita della vita, ovvero quel profondo dolore correlato
alla consapevolezza, in capo alla vittima, delle condizioni
cliniche scaturenti dall'evento dannoso. Tale ultima
interpretazione del danno morale risarcibile, accordando
rilievo allo stato di coscienza della vittima, si pone in aperto
contrasto rispetto alla posizione seguita dalla dottrina e
giurisprudenza formatasi in tema di risarcimento del danno
non patrimoniale la quale era incline a riconoscere il diritto al
risarcimento del danno non patrimoniale limitatamente alle
fattispecie costituenti reato, secondo il disposto dell'art. art.
185 c.p.
Merita inoltre di essere citata la categoria, sempre di
elaborazione giurisprudenziale, del danno c.d. “tanatologico”.
Da alcuni il danno tanatologico è inteso come una particolare
tipologia di danno morale, subito da colui che si rende conto
perfettamente dell'imminenza della morte. In altre decisioni, a
proposito della persona che assiste consapevolmente alla fine
della propria esistenza, si parla di danno catastrofico, o
“catastrofale”.

556
Il trascorrere di un apprezzabile periodo tra l'evento
dannoso e d il sopraggiungere del decesso quale requisito
necessario.
L'orientamento espresso dalla giurisprudenza in tema di
danno va nella direzione di ammettere il riconoscimento del
risarcimento limitatamente alle ipotesi in cui l'evento morte
sopraggiunga dopo un apprezzabile lasso di tempo, non
rilevando, di contro, la sofferenza psichica di breve durata in
termini di danno biologico terminale.
Tale ultimo figura, invece, ricorre - secondo i giudici del
Supremo Collegio - nel caso in cui il soggetto resti in vita per
un lasso di tempo apprezzabile. Solo in tale caso, si configura
una concreta ripercussione dei pregiudizi sul livello
qualitativo dell'esistenza dei congiunti.
L'individuazione del criterio che consente di definire
“apprezzabile” il lasso di tempo trascorso tra l'evento lesivo e
la morte è stato inteso in termini assai differenti nelle diverse
sentenze. In alcune pronunzie il trascorrere di poche ore nelle
quali la vittima si è perfettamente resa conto
dell'appropinquarsi della fine della vita è stato ritenuto
sufficiente perché si ammettesse il risarcimento. In altri casi,

557
la sussistenza del danno psichico da sofferenza esistenziale è
stato negato pur essendo stato il soggetto cosciente per tre
giorni tra l'evento lesivo e quello letale.
Per tentare di fornire una soluzione più adatta ad
ancorare il riconoscimento del risarcimento ad un criterio
meno labile, la giurisprudenza ha ritenuto di sostituire il
parametro dell'apprezzabilità del tempo trascorso tra l'evento
lesivo e la perdita della vita con quello dell'apprezzabilità del
danno alla salute; se la morte sopraggiunge pressoché subito
non si può rinvenire un danno apprezzabile (Cass. 23 febbraio
2004 n. 3549).
Il criterio, nell'applicazione concreta, non appare
tuttavia soddisfacente né in grado di superare il rischio di
violare il principio di uguaglianza.

I criteri individuati dall'ordinamento giuridico.


L'indicazione dei criteri da applicare in merito alla
risarcibilità del danno da fatto illecito da cui sia derivata la
morte del soggetto presuppone la preventiva individuazione
del momento a cui far riferimento per quantificare le diverse
voci di danno da risarcire.

558
Il legislatore sul punto si esprime chiaramente,
stabilendo che non è necessario in presenza di un fatto illecito
che sia fonte del debito intimare il pagamento al soggetto
responsabile mediante un atto di costituzione in mora. L'art.
1219 c.c., prevede che: “il debitore è costituito in mora
mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto. Non è
necessaria la costituzione in mora quando 1) il debito deriva
da fatto illecito”.
Tale regola trova conferma anche nel fatto che l'art.
2056 c.c., rubricato Valutazione dei danni, nell'indicare i
parametri da considerare ai fini del risarcimento non richiama
l'art. 1224 c.c. La perdita dle bene vita segna il momento in
cui sorge l'illecito e, al tempo stesso, dà vita all'insorgenza
dell'obbligazione oggetto del risarcimento.
Il diritto a godere di un dato bene - nella specie, il
riferimento è al bene vita - è sostituito dal diritto ad ottenere il
risarcimento del danno, nel momento in cui si accerti che la
condotta dolosa e/o colposa di un dato soggetto ha cagionato,
secondo il nesso di causalità, la distruzione del predetto bene,
dando luogo ad un pregiudizio ingiusto.
Al verificarsi del danno ingiusto - una volta appurati

559
tutti i presupposti dell'illecito (la condotta dolosa e/o colposa,
l'evento dannoso ed il nesso di causalità tra la condotta e
l'evento nocivo) – sorge la pretesa risarcitoria al cui
soddisfacimento si potrebbe provvedere in modo pressocché
immediato se il nostro sistema giurisdizionale funzionasse
celermente e fosse in grado di garantire in tempi rapidi un
giudizio definitivo.
Se, quindi, il risarcimento del danno si ammette in
presenza di un evento dannoso che abbia cagionato un
pregiudizio accertato non ha senso lasciare trascorrere del
tempo al fine di ricercare le giuste voci attraverso cui
richiedere il risarcimento. Quest'ultimo spetta ogni qualvolta
si verifica un fatto illecito e ciò vale anche per i danni che non
siano prevedibili a priori: questo è quanto si evince dal fatto
che l'art. 1225 c.c. rubricato, per l'appunto, Prevedibilità del
danno, non è richiamato dall'art. 2056 c.c.
Poiché il diritto al risarcimento sorge, come detto,
pressoché immediatamente rispetto al verificarsi dell'evento
dannoso, il successivo momento in cui si avanza la richiesta
risarcitoria non assume rilievo.
La pretesa creditoria, infatti potrà essere fatta valere

560
quasi subito rispetto al momento del verificarsi dell'illecito,
ovvero successivamente. Nel primo caso, nella
quantificazione assumerà rilievo la valutazione prognostica
del danno futuro; nel secondo caso, potranno essere
agevolmente dimostrati tutti i danni già realizzati.
Si tratta, a ben vedere, di una differenza che assume
rilievo solo sotto un profilo meramente istruttorio.

Gli ostacoli superabili: soggettività e capacità giuridica.


La giurisprudenza non ha mancato di rilevare che la
vittima dell'evento lesivo, ovvero il soggetto che ha subito la
perdita del bene vita, proprio per il fatto di non esserci più è
un soggetto privo della capacità giuridica; anzi, più
esattamente, non è neppure più un soggetto. Tale difficoltà
concettuale non è stata superata dai giudici.
Per tale motivo, sulla scia di quanto affermato dalla
pronunzia della Corte Costituzionale, con la sentenza del 27
ottobre 1994 n. 372, nonché dalle successive decisioni dei
giudici di legittimità, si ritiene che il decesso immediato non
consenta di far pervenire nel patrimonio del de cuius alcun
diritto di credito risarcitorio, sicché alcuna posta risarcitoria

561
potrà essere trasmessa agli eredi.
Da qui, la non risarcibilità agli eredi del danno da
perdita della vita nel caso in cui il decesso della vittima sia
stato istantaneo.
Di contro, nel caso in cu il decesso sopraggiunga dopo
un apprezzabile lasso di tempo, agli eredi della vittima va
riconosciuto un diritto al risarcimento jure hereditatis.
Nel riconoscimento del diritto al risarcimento del danno
jure proprio ai congiunti della vittima la giurisprudenza ha
mostrato un atteggiamento meno rigoroso che non ha,
tuttavia, superato una serie di incertezze interpretative.
Come sopra accennato, a proposito della cerchia delle
persone da annoverare tra quelle cui accordare il risarcimento,
la giurisprudenza ha evidenziato delle oscillazioni. In alcune
pronunzie si è riconosciuta la risarcibilità a favore del
convivente more uxorio della vittima (è quanto si legge in
Cass. 28 marzo 1994 n. 2988); in altre, a dirittura, il
risarcimento è stato attribuito al coniuge della vittima da cui
questi era separato. In un altra decisione (Cass. 15 luglio 2005
n. 10519), i giudici di legittimità, pronunciandosi in una
fattispecie avente ad oggetto la perdita dei nonni, hanno

562
reputato non sufficiente la mera esistenza di un rapporto di
convivenza tra il parente e la vittima ai fini del
riconoscimento del risarcimento del danno.
In altre ancora, il Supremo Collegio ha affermato che
l’accertamento di un consolidato rapporto di convivenza non
rappresenti una valida giustificazione per il riconoscimento del
diritto al risarcimento del danno morale a favore di uno dei
conviventi a carico del responsabile di un reato la cui vittima
era un figlio minorenne dell’altro convivente.
Se la convivenza non è stata considerata dai giudici quale
condizione sufficiente a supportare l'accoglimento della pretesa
risarcitoria avanzata dai congiunti della vittima, la mancanza di
tale elemento non è stato, per altro verso, ritenuto ostativo - in
un'ottica di generale espansione di tale diritto - al
riconoscimento del predetto credito risarcitorio allorquando il
rapporto involgeva un genitore e un figlio. Precisamente, i
giudici hanno riconosciuto il danno morale in re ipsa a favore
di un genitore, seppure non convivente, di un minore affetto sin
dalla nascita da una seria menomazione, in considerazione di
quel naturale vincolo affettivo che avvince il genitore al figlio.
La giurisprudenza ha riconosciuto il diritto al

563
risarcimento del danno anche a favore di un soggetto, già
concepito e non ancora nato al momento del verificarsi
dell'illecito – ad opera di un terzo – che ha cagionato la morte
del genitore del concepito. In tal modo si è dato prova di non
voler collegare l'insorgenza del diritto di credito alla nascita del
soggetto titolare del predetto diritto.
Seguendo il medesimo ragionamento si potrebbe allora
approdare alla soluzione che scinde il momento della perdita
della capacità del soggetto dal momento della perdita della vita
del medesimo.
La soggettività e la capacità giuridica rappresentano
concetti finalizzati a facilitare la tutela da accordare alla
persona fisica sicché tali nozioni devono essere sempre in
grado di assicurare tale scopo, non potendo l'interpretazione
degli stessi costituire degli impedimenti per la salvaguardia
dei diritti fondamentali della persona.
L'insorgenza del diritto di credito risarcitorio coincide,
come detto, con quello nel quale si verifica l'illecito. Se,
dunque, è a tale momento che deve farsi riferimento - ovvero
quello nel quale si registra la prima compromissione del bene
della vita - ne discende che titolare di tale pretesa è il soggetto

564
che risulta capace allorquando si verifica l'illecito. Il
momento di acquisto del credito risarcitorio a favore di una
persona la cui vita – tutelata dall'ordinamento giuridico –
subisce un danno in ragione dell'evento dannoso sorge,
pertanto, quando questi, in quanto capace al momento della
lesione, subisce il pregiudizio.
Anche la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha previsto
a favore degli eredi della vittima di un illecito letale il
riconoscimento del risarcimento del danno collegato alla morte
di un congiunto, il cui decesso è stato immediato rispetto
all'evento dannoso.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE - CASS. 23 GENNAIO


2014, N. 1361

Il danno da perdita della vita deve essere risarcito anche nel


caso di morte immediata.

565
“Il danno non patrimoniale da perdita della vita consiste
nella perdita del bene vita, bene supremo dell’individuo oggetto
di un diritto assoluto e inviolabile dall’ordinamento garantito in
via primaria, anche sul piano della tutela civile. Trattasi di
danno altro e diverso, in ragione del diverso bene tutelato, dal
danno alla salute, e si differenzia pertanto dal danno biologico
terminale e dal danno morale terminale (o catastrofale o
catastrofico) della vittima, rilevando ex se, nella sua
oggettività di perdita del bene vita, oggetto di un diritto
assoluto e inviolabile.
La perdita della vita va ristorata a prescindere dalla
consapevolezza che il danneggiato ne abbia, anche in caso di
morte c.d. immediata o istantanea, senza che assumano
pertanto rilievo né il presupposto della persistenza in vita per
un apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento né
il criterio dell’intensità della sofferenza subita dalla vittima
per la cosciente e lucida percezione dell’ineluttabile
sopraggiungere della propria fine. Il diritto al ristoro del
danno da perdita della vita si acquisisce dalla vittima
istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi
anteriormente all’exitus, costituendo ontologica,

566
imprescindibile eccezione al principio dell’irrisarcibilità del
danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza,
giacché la morte ha per conseguenza la perdita non già solo di
qualcosa bensì di tutto; non solamente di uno dei molteplici beni,
ma del bene supremo della vita; non già di qualche effetto o
conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze, di tutto ciò di
cui consta(va) la vita della (di quella determinata) vittima e
che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i molteplici effetti
suoi propri se l’illecito non ne avesse causato la soppressione.
Il ristoro del danno da perdita della vita ha funzione
compensativa, e il relativo diritto (o ragione di credito) è
trasmissibile iure hereditatis (cfr. Cass., 3/10/2013, n. 22601),
non patrimoniale essendo il bene protetto (la vita), e non già il
diritto al ristoro della relativa lesione” (Cass. 23 gennaio 2014, n.
1361).

Il Supremo Collegio, con una decisione resa nel mese di


gennaio 2014, ha mutato l'orientamento espresso fino a quel
momento. Si è detto, infatti, che in numerose pronunzie il
risarcimento del danno a favore dei congiunti della vittima è
stato negato nel caso in cui la morte della vittima sia stata

567
istantanea, in forza della considerazione secondo cui il diritto
non sarebbe entrato nel patrimonio della vittima, la quale,
dunque, non si sarebbe resa conto della fine della propria vita
e, per l'effetto, nessuna pretesa sarebbe stata trasmessa agli
eredi.
Diversamente, con la sentenza del 21 gennaio 2014 n.
1361, la Corte di Cassazione ha affermato che il danno non
patrimoniale da perdita della vita (da considerarsi quale bene
primario ed assoluto che deve godere di una tutela illimitata) è
degno di essere risarcito in ogni caso, dovendosi prescindere
dall'accertamento della consapevolezza in capo alla vittima
dell'imminenza della propria morte.
A supporto di tale ragionamento si è affermato che
mentre il diritto al risarcimento del danno (che assolve ad una
funzione di compensazione) e che si trasmette iure hereditatis
riveste carattere patrimoniale, il bene vita è, invece, non
patrimoniale.

568
TESTO INTEGRALE

Con sentenza del 10/7/2007, rigettato l'appello in via incidentale


spiegato dai sigg. F.E. e P.V., la Corte d'Appello di Milano ha
parzialmente accolto il gravame interposto dalla sig. S.C. (in via
principale) e dal sig. S. M. (in via incidentale) in relazione alla
pronunzia Trib.
Milano 29/4/2004 di parziale accoglimento della domanda, dai
predetti proposta nei confronti del sig. V.R. e della sua compagnia
assicuratrice per la r.c.a. società R.A.S. s.p.a., di risarcimento: a) dei
danni sofferti iure proprio e iure successionis in conseguenza del sinistro
stradale avvenuto il (OMISSIS) sulla SS (OMISSIS), all'esito del quale
decedeva la sig. P.G. (rispettivamente madre di S.C. e M., figlia della F.
e sorella del P.V.) e riportava gravi lesioni il sig. S. M. (marito della
P.G., padre di S. C. e M. e affine della F. e del P. V.); nonché b) dei danni
iure proprio e iure successionis sofferti per la morte del S.M., che in
conseguenza della "depressione indotta dalla perdita della moglie,
vittima diretta del sinistro" stradale de quo, circa due anni dopo si
suicidava.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito i sigg.
S.M. e C., unitamente ai sigg. F.E. e P.V., propongono ora ricorso
per cassazione, affidato a 6 complessi motivi, illustrati da memoria.
Resistono con separati controricorsi il V. e la società Allianz s.p.a.
(già R.A.S. s.p.a.), che spiegano entrambi ricorso incidentale
condizionato sulla base di unico motivo, illustrato da memoria.
Motivi della decisione
Con il 1 motivo i ricorrenti in via principale denunziano
violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 4, nonché violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., artt. 2, 3,
13, 22, 27 e 32 Cost., in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

569
Si dolgono che, nel limitarsi a richiamare la motivazione del
giudice di prime cure secondo cui "tale diritto non può essersi
consolidato - trasmettendosi agli eredi - essendo trascorso un tempo di
circa tre ore e mezza dal fatto al decesso", erroneamente la corte di
merito abbia negato il risarcimento del danno da "lesioni mortali" subito
dalla P.G. e consistente nel "danno morale, biologico (anche sotto
l'aspetto psichico) ed esistenziale" che "non può non sorgere, nè mutare,
per il solo fatto che la morte sopravvenga dopo un tempo più o meno
apprezzabile, secondo un giudizio postumo espresso da terzi circa detto
lasso di tempo", e che si tratta invero di "individuare la misura degli
indennizzi dei tre tipi di danno: morale, biologico, esistenziale. Se da un
lato è corretto che i danni da lesioni siano correlati alla durata della
sopravvivenza, occorre considerare che ciò vale solo per il risarcimento
della invalidità temporanea mentre, in caso di lesioni mortali, il danno
morale, biologico ed esistenziale, per chi sente finire la propria vita, è
assoluto ed incommensurabile. Il danno morale - secondo la
giurisprudenza - è di natura istantanea, e non è commisurabile alla
durata successiva della vita; quello esistenziale - per chi si sente morire -
non può essere da meno".
Lamentano che la corte di merito non ha pronunziato in ordine al
pure richiesto risarcimento del danno da "morte propria" subito dalla
P.G., atteso che la suindicata motivazione "è riferibile chiaramente ai
soli danni di natura morale, biologica ed esistenziale, collegati alle
lesioni ed alla loro assoluta gravità che, secondo consolidati principi
giurisprudenziali, debbono essere rapportati al tempo di sopravvivenza,
ma non è in alcun modo riferibile ai danni da morte propria, che sono
del tutto svincolati dalla durata della sopravvivenza", sicché invero
omessa risulta la considerazione del ristoro anche del "danno da morte
propria" della vittima.
Lamentano che erroneamente la corte di merito ha fatto nel caso
riferimento alla necessità della sussistenza di un certo lasso di tempo tra
il fatto evento dannoso e la morte, giacché "le vittime di incidenti
mortali maturano iure proprio il diritto ad essere risarciti del danno non
patrimoniale quando la morte non sia istantanea", e nella specie "la
morte della P. è sopravvenuta dopo oltre tre ore e dopo che aveva

570
chiesto, al personale del Pronto soccorso, dei propri familiari".
Si dolgono non avere la corte di merito considerato che il danno
da morte della vittima è altro e diverso dal danno biologico dalla
medesima sofferto, e che "anche il diritto alla vita è un bene
costituzionalmente tutelato, sebbene non sia così espressamente
menzionato nella Carta Costituzionale. Ciò discende dalla combinata
lettura dell'art. 27 che vieta la pena di morte, dell'art. 2 che garantisce i
diritti inviolabili dell'uomo (fra cui il principale è certo il diritto alla
vita), e degli artt. 13, 22, 32 che tutelano la persona sotto vari aspetti,
ponendola sul gradino più alto dei diritti riconosciuti".
Lamentano essersi dalla corte di merito erroneamente considerato
non risarcibile alla vittima il danno subito in ragione della propria morte,
argomentando dal rilievo che il "danno da morte ... è danno alla vita, il
quale non sarebbe configurabile perché la vittima, morendo, perde la
capacità giuridica e quindi non ha più diritto d'essere risarcita per la
propria morte", laddove "il codice di procedura penale trasmette ai
parenti prossimi i diritti della persona offesa deceduta in conseguenza
del reato, e, quindi, riconosce anche il diritto al risarcimento del danno
trasmesso agli eredi", sicché, "se nello stesso istante coincidono la
morte, il danno da morte, la perdita dei diritti da parte della vittima e la
successione nei diritti da parte degli eredi, allora non si possono favorire
gli omicidi, consentendo di non pagare, direttamente alla vittima (e, per
essa, agli eredi) il risarcimento del danno provocato uccidendola".
Lamentano ulteriormente che la "coesistenza, nello stesso istante,
di tali eventi, non può e non deve essere interpretata nel senso
favorevole al reo, risparmiandogli la sanzione civile del risarcimento del
danno alla vittima, ma nel senso contrario, imponendogli di risarcire alla
vittima, e per lei ai suoi eredi, il danno derivato dalla perdita della vita,
che è il danno più assoluto che una persona possa subire. Si tratta -
quindi - di un danno non patrimoniale (biologico, morale ed esistenziale,
o come diversamente lo si voglia chiamare), trasmissibile agli eredi".
Deducono ancora che "Siffatta interpretazione delle conseguenze
della coincidenza, nello stesso istante, della morte e del correlato diritto
al risarcimento, che favorisca la vittima invece dell'omicida, ha la stessa

571
identica dignità - logica e giuridica - della corrente interpretazione
contraria che, dalla contestualità della morte, fa discendere la perdita del
diritto al risarcimento da morte propria. Se tutto è contestuale, non è
logico, nè costituzionale, ritenere l'interpretazione che nega alla vittima
il diritto al risarcimento del danno, biologico e morale, da morte propria,
solo perché la sua vita finisce: nella contestualità il diritto sorge e, nella
stessa contestualità, si trasferisce agli eredi".
"Si tratta", precisano i ricorrenti, "del danno al bene assoluto alla
vita, diverso dal danno alla salute, costituzionalmente tutelato (sia in
sede nazionale sia in sede Europea) ... infatti ... anche la Costituzione
Europea, norma sopranazionale, all'art. 61 scrive "La dignità umana è
inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata" e all'art. 62 aggiunge
"Ogni persona ha diritto alla vita".
E ... il mancato riconoscimento del diritto dedotto dai ricorrenti
comporta pure la violazione della Costituzione Europea".
Osservano che "il riconoscimento del diritto all'indennizzo dei
danni da morte propria ha già diversi sostenitori (non solo in dottrina,
ma anche) in giurisprudenza", e che "la sentenza n. 15760 del 12.7.2006
(3A Sez. Pres. Dott. Duva, Rel. Dott. Petti) ... in motivazione entra
espressamente nel tema riconoscendo il diritto in trattazione"; ancora,
che la giurisprudenza ha in più occasioni riconosciuto alla vittima il
danno biologico da morte e il danno morale da morte, considerandolo
trasmissibile agli eredi.
Lamentano non essersi dalla corte di merito considerato che "è
loro dovuto, iure hereditatis, il risarcimento del danno biologico, morale
ed esistenziale subito dalla vittima (per la morte provocata dalle lesioni
mortali) da liquidare in via equitativa".
Con il 2 motivo denunziano violazione dell'art. 112 c.p.c.,
"violazione errata interpretazione o mancata applicazione degli artt.
2043 e 2059 c.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;
nonché "insufficiente, contraddittoria, omessa" motivazione su
punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma
1, n. 5.

572
Lamentano che erroneamente la corte di merito non ha liquidato
il "risarcimento dei danni non patrimoniali (danno morale, biologico ed
esistenziale)" subito per la "morte del padre, suicidatosi in seguito alla
depressione indotta dalla perdita della moglie, vittima diretta del
sinistro".
Si dolgono che dopo avere la corte di merito riconosciuto che
"l'accertato collegamento tra la morte del S. e quella della moglie a
seguito dell'incidente incide sulla quantificazione del danno",
nell'impugnata sentenza la questione non risulti essere stata più a tal fine
dalla stessa presa in considerazione e valorizzata.
Lamentano che non solo il danno morale ed esistenziale sofferto
dal proprio padre per la morte della di lui moglie e loro madre deve
essere ristorato e considerato loro trasmissibile iure hereditatis, ma
anche il "danno non patrimoniale da essi subito per la morte del padre,
suicidatosi", essendosi "visti privare del genitore, sia pure in seguito a
suicidio, trattandosi di suicidio derivato dal sinistro", giacché "se una
delle ragioni del suicidio è la morte della moglie cagionata dal sinistro,
allora anche la morte di S.M. è una delle conseguenze di quel fatto, ed è
fonte di danno indennizzabile agli eredi".
Con il 3 motivo denunziano "violazione errata interpretazione o
mancata applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., in riferimento all'art.
360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonché "insufficiente, contraddittoria,
omessa" motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione
all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto nel
caso "congrua" la liquidazione operata dal giudice di prime cure in
favore della F. e del P.V., ravvisandola corrispondente "ai normali
parametri liquidatori" e argomentando dal rilievo che "gli appellanti, "al
di là di una generica censura" non avevano fornito "alcun elemento utile
per discostarsene", laddove essi "avevano dedotto, in appello,
l'inadeguatezza delle liquidazioni ricevute, siccome non corrispondenti
ai criteri in uso presso il Foro di Milano (le ben note tabelle, adottate
praticamente in tutta Italia). Chiedendone, di conseguenza, adeguato
aumento".

573
Lamentano che la corte di merito è invero pervenuta a liquidare
importi inferiori addirittura al minimo previsto dalla Tabelle di Milano,
da considerarsi per la notorietà e diffusione raggiunta "alla stregua degli
usi o consuetudini".
Con il 4 motivo denunziano violazione degli artt. 112, 163 e 342
c.p.c., "violazione errata interpretazione o mancata applicazione" degli
artt. 2043, 2059 e 2909 c.c., L. n. 57 del 2001, art. 5, artl.
138 cod. ass., in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;
nonché "omessa e/o carente, contraddittoria, non congrua"
motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all'art.
360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si dolgono che il danno morale sofferto dal S.M. sia stato
liquidato all'attualità, ma con importo non comprendente gli interessi, in
quanto "è ben noto che le tabelle attualizzano la pura sorte e non anche
gli interessi".
Lamentano che il "danno biologico psichico del S." da
depressione è stato apoditticamente stimato nella percentuale del 30%,
invero incongrua atteso che "se nei primi momenti la salute del S.
poteva avere subito un danno limitato (sia esso al 30% od in diversa
misura), è certa una evoluzione, sicuramente negativa, in peius, tale che
l'invalidità mentale del S. ha certamente raggiunto il 100%, al momento
del suicidio".
Si dolgono che il danno biologico psichico del S. sia stato
liquidato considerandosi solamente l'età ai fini della relativa
personalizzazione.
Lamentano che il danno biologico fisico del S., superiore ai 9
punti, è stato liquidato con "una somma inferiore a quella stabilita dalla
L. n. 57 del 2001 e dall'art. 138 Codice Assicurazioni".
Si dolgono che anziché aumentare, come richiesto, quanto
liquidato dal giudice di prime cure a titolo di indennizzo per il danno
esistenziale, "ivi compreso quanto di spettanza del defunto padre M.", la
corte di merito abbia negato il ristoro di tale voce di danno in quanto

574
non domandato nè provato, laddove "nella specie S.C. e M. non si sono
limitati a dedurre "tutti i danni" ma hanno pure specificato "sotto
qualsiasi aspetto risarcibile", formula che certamente include anche il
danno esistenziale".
Con il 5 motivo denunziano violazione degli artt. 112, 132, 324,
342, 343 e 345 c.p.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4,
violazione degli artt. 2043, 2059, 2697 e 2909 c.c., in riferimento all'art.
360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si dolgono che la corte di merito abbia liquidato il danno iure
proprio subito dal S.M. e dalla C. per "la morte della madre ... e non
anche per quella del padre".
Lamentano che il danno è stato liquidato con importi non
corrispondenti a quelli previsti dalle Tabelle di Milano, e senza relativa
adeguata personalizzazione in riferimento a ciascuno dei essi, ma con
meccanica divisione per due degli importi presi in considerazione.
Con il 6 motivo denunziano violazione degli artt. 112, 324, 342,
343 e 345 c.p.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4,
violazione dell'art. 2909 c.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 3; nonché "carenza o difetto di congruità" della motivazione su punto
decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n.
5.
Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente riformato il
capo della condanna di controparte al pagamento delle spese di lite del
giudizio di primo grado, giacché in assenza di impugnazione incidentale
della medesima, su di esso si è conseguentemente formato il giudicato.
Con unico motivo la ricorrente incidentale società Allianz s.p.a.
(già R.A.S. s.p.a.) denunzia violazione dell'art. 345 c.p.c., in
relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Si duole che la corte di merito erroneamente non abbia dichiarato
inammissibile la domanda di risarcimento del danno da morte, non
proposta nel giudizio di primo grado, e dal S.M. e C. introdotta per la
prima volta solo in appello.

575
Con unico motivo il ricorrente incidentale V. denunzia violazione
dell'art. 345 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Si duole che la corte di merito erroneamente non abbia dichiarato
inammissibile la domanda di risarcimento del danno da morte, non
proposta nel giudizio di primo grado, e dal S.M. e C. introdotta per la
prima volta solo in appello.
I motivi dei ricorsi, principale e incidentali, possono
congiuntamente esaminarsi, in quanto connessi.
Infondati e da rigettarsi quelli dei ricorsi incidentali, i motivi del
ricorso principale sono fondati e vanno accolti nei termini e limiti di
seguito indicati.
Va anzitutto osservato che la ristorabilità del danno non
patrimoniale costituisce ormai regola di diritto effettivo.
La tradizionale interpretazione che negava la generale risarcibilità
del danno non patrimoniale in ragione della insuscettibilità di
valutazione economica degli interessi personali lesi, limitandola ad
ipotesi eccezionali, risulta da tempo superata.
Essa si basava sulla concezione paneconomica del diritto privato,
sulla quale ha peraltro decisivamente inciso l'entrata in vigore della
Costituzione repubblicana, che anche nei rapporti della vita comune di
relazione ha determinato l'assunzione di preminente rilievo del principio
della centralità della persona e della tutela dei suoi valori.
La coscienza sociale ha avvertito l'insopprimibile esigenza di non
lasciare priva di ristoro la lesione di valori costituzionalmente garantiti,
dei diritti inviolabili e dei diritti fondamentali della persona, in
particolare i diritti all'integrità psico-fisica e alla salute, all'onore e alla
reputazione, all'integrità familiare (v. Cass., 31/5/2003, n. 8827 e Cass.,
31/5/2003, n. 8828; Corte Cost., 14/7/1986, n. 184. V. altresì Cass.,
7/11/2003, n. 16716; Cass., 14/6/2007, n. 13953), allo svolgimento della
personalità e alla dignità umana.
Il ristoro della lesione dei diritti inviolabili e dei diritti
fondamentali mediante l'attribuzione di una somma di denaro non

576
assolve ad una funzione punitiva, propria invero di altri settori
dell'ordinamento (cfr. Cass., 8/2/2012, n. 1781; Cass., 12/6/2008, n.
15814; Cass., 19/1/2007, n. 1183), e nemmeno deterrente, nè costituisce
la reintegrazione di una diminuzione patrimoniale, ma vale a
compensare un pregiudizio non economico (v. Cass., 8/8/2007, n.
17395; Cass., 31/5/2003, n. 8827).
L'indennizzo non ha e non può avere funzione reintegrativa
nemmeno delle sofferenze morali e dei "torti giuridici" subiti, essendo
invero volto a tutelare l'esigenza di assicurare al danneggiato
un'adeguata riparazione come utilità sostitutiva (cfr. Cass., 14/2/2000, n.
1633; Cass., 25/2/2000, n. 2134; Cass., 2/4/2001, n. 4783; Cass.,
30/7/2002, n. 11255; Cass., 23/2/2005, n. 3766; Cass., 25/5/2007, n.
12253).
La non patrimonialità - per non avere il bene persona un prezzo -
del diritto leso, che va tenuta distinta dalla natura patrimoniale o non
patrimoniale del danno, comporta che, diversamente da quello
patrimoniale, del danno non patrimoniale il ristoro pecuniario non può
mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene
pertanto la valutazione equitativa (V. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n.
26972, cit.; Cass., 31/5/2003, n. 8828. E già Cass., 5/4/1963, n. 872. Cfr.
altresì Cass., 10/6/1987, n. 5063; Cass., l/4/1980, n. 2112; Cass.,
11/7/1977, n. 3106).
La valutazione equitativa è diretta a determinare "la
compensazione economica socialmente adeguata" del pregiudizio,
quella che "l'ambiente sociale accetta come compensazione equa" (in
ordine al significato che nel caso assume l'equità v. Cass., 7/6/2011, n.
12408).
Subordinata all'esistenza del danno risarcibile e alla circostanza
dell'impossibilità o estrema difficoltà di prova nel suo preciso
ammontare, attenendo pertanto alla quantificazione e non già
all'individuazione del danno (non potendo valere a surrogare il mancato
assolvimento dell'onere probatorio imposto all'art. 2697 c.c.: v., da
ultimo, Cass., 11/5/2010, n. 11368; Cass., 6/5/2010, n. 10957; Cass.,
10/12/2009, n. 25820), la valutazione equitativa deve essere condotta

577
con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del
caso concreto, considerandosi in particolare la rilevanza economica del
danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla
gravità della lesione.
Come avvertito anche in dottrina, l'esigenza di una tendenziale
uniformità della valutazione di base della lesione non può d'altro canto
tradursi in una preventiva tariffazione della persona, rilevando aspetti
personalistici che rendono necessariamente individuale e specifica la
relativa quantificazione nel singolo caso concreto (cfr. Cass., 31/5/2003,
n. 8828).
Il danno non patrimoniale non può essere liquidato in termini
puramente simbolici o irrisori o comunque non correlati all'effettiva
natura o entità del danno (v. Cass., 12/5/2006, n. 11039; Cass.,
11/1/2007, n. 392; Cass., 11/1/2007, n. 394), ma deve essere congruo.
Per essere congruo il ristoro deve tendere, in considerazione della
particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, alla
maggiore approssimazione possibile all'integrale risarcimento (v. Cass.,
30/6/2011, n. 14402; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass.,
29/3/2007, n. 7740. Nel senso che il risarcimento deve essere senz'altro
"integrale" v. peraltro Cass., 17/4/2013, n. 9231).
Si profila altrimenti l'operare dell'istituto del danno differenziale,
proprio dei sistemi indennitari e di dubbia compatibilita viceversa con
quello della r.c.a., prospettandosi a tale stregua il rischio che vengano a
risultare (quantomeno parzialmente) vanificate le ragioni che di
quest'ultimo hanno a suo tempo determinato l'introduzione
nell'ordinamento.
Nell'operare la ricostruzione del sistema dei danni con
indicazione delle "regole generali della tutela risarcitoria non
patrimoniale" alla stregua di una lettura costituzionalmente orientata
dell'art. 2059 c.c. (cfr. Corte Cost., 11/7/2003, n. 233), costituente
principio informatore della materia, fondamentale rilievo le Sezioni
Unite del 2008 hanno assegnato al principio della integrante del
risarcimento, sottolineando la necessità che si pervenga a "ristorare

578
interamente il pregiudizio, ma non oltre" (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008,
n. 26972).
Emerge a tale stregua, da un canto, l'illegittimità dell'apposizione
di una limitazione massima non superabile alla quantificazione del
ristoro dovuto (v. infra); e, per altro verso, la indefettibile necessità che
nessuno degli aspetti di cui si compendia la categoria generale del danno
non patrimoniale, la cui sussistenza risulti nel caso concreto accertata,
rimanga priva di ristoro, dovendo essere essi presi tutti in
considerazione a fini della determinazione dell'ammontare complessivo
del risarcimento conseguentemente dovuto al danneggiato/creditore (v.
Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 7/6/2011, n. 12273; Cass., 9/5/2011,
n. 10108; Cass., 6/4/2011, n. 7844; Cass., 13/5/2011, n. 10527).
Come questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo (v.
Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844), all'esito delle
pronunzie delle Sezioni Unite del 2008 la categoria del danno non
patrimoniale risulta delineata in termini di categoria concernente ipotesi
di lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza
economica, di natura composita, articolantesi in una pluralità di aspetti
(o voci), con funzione meramente descrittiva, quali il danno morale, il
danno biologico e il danno da perdita del rapporto parentale o cd. danno
esistenziale (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972, cit. v. altresì
Cass., Sez. Un., 19/8/2009, n. 18356, e, da ultimo, Cass., 19/2/2013, n.
4043).
Le Sezioni Unite del 2008 hanno inteso il danno morale quale
patema d'animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, di
natura meramente emotiva e interiore (danno morale soggettivo), a tale
stregua recependo la relativa tradizionale concezione affermatasi in
dottrina e consolidatasi in giurisprudenza (in precedenza volta a limitare
la risarcibilità del danno non patrimoniale alla sola ipotesi di ricorrenza
di una fattispecie integrante reato).
Con riferimento all'art. 2059 c.c., ribadendo l'impossibilità di
prescindersi dal dato normativo (in tali termini v. già Cass., 12/6/2006,
n. 13546) e dalla relativa interpretazione andata maturando nel tempo
(cfr. Cass., 11/6/2009, n. 13547), si è dalle Sezioni Unite escluso che la

579
formula danno morale individui "una autonoma sottocategoria di
danno".
Sottolineandosi che nè l'art. 2059 c.c. nè l'art. 185 c.p. ne fanno
menzione, e "tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio", il
danno morale si è ravvisato indicare solamente uno dei molteplici,
possibili pregiudizi di tipo non patrimoniale, costituito dalla sofferenza
soggettiva cagionata dal reato in sè considerata, la cui intensità e durata
nel tempo rilevano non già ai fini della esistenza del danno, bensì della
mera quantificazione del relativo ristoro.
Facendo richiamo a pronunzie (in particolare a Cass., 9/11/2005,
n. 21683 e a Cass., 25/2/2004, n. 3806) che del danno morale (così come
di quello biologico) avevano accordato il risarcimento in correlazione
con il tempo di vita effettiva, a tale stregua "postulandone la
permanenza" in vita, le Sezioni Unite del 2008, innovando al precedente
orientamento maturato nella giurisprudenza di legittimità, sono
pervenute a negare che la sofferenza morale sia necessariamente
transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo
tempo, superando pertanto la tesi che restringeva o limitava la categoria
del danno non patrimoniale alla mera figura del cd. danno morale
soggettivo transeunte.
In epoca successiva alle sentenze delle Sezioni Unite del 2008, il
danno morale è stato dal legislatore definito quale "sofferenza e
turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della
persona" D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37, art. 5, comma 1, lett. c), (recante
"Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di
riconoscimento di particolari infermità da cause di servìzio per il
personale impiegato nelle missioni militari all'estero, nei conflitti e nelle
basi militari nazionali, a norma della L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 2,
commi 78 e 79"), poi abrogato dal D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66, art.
2269, comma 1, n. 385, (Codice dell'Ordinamento militare), con la
decorrenza prevista dal medesimo D.Lgs. n. 66 del 2010, art. 2272,
comma 1, nonché quale "pregiudizio non patrimoniale costituito dalla
sofferenza soggettiva cagionata dal fatto lesivo in sè considerato" D.P.R.
30 ottobre 2009, n. 181 ("Regolamento recante i criteri medico-legali

580
per l'accertamento e la determinazione dell'individualità e del danno
biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di
tale matrice, a norma della L. 3 agosto 2004, n. 206, art. 6").
La qualificazione del danno morale in termini di dignità o
integrità morale, quale massima espressione della dignità umana,
desumibile dall'art. 2 Cost. in relazione all'art. 1 della Carta di Nizza,
contenuta nel Trattato di Lisbona (ratificato dall'Italia con L. 2 agosto
2008, n. 190), risulta peraltro già da tempo recepita (anche) dalla
giurisprudenza di legittimità (v. Cass., 12/12/2008, n. 29191; Cass.,
11/6/2009, n. 13530; Cass., 10/3/2010, n. 5770), che nel segnalarne
l'ontologica autonomia, in ragione della diversità del bene protetto,
attinente alla sfera della dignità morale della persona, ha sottolineato la
conseguente necessità di tenersene autonomamente conto, rispetto agli
altri aspetti in cui si sostanzia la categoria del danno non patrimoniale,
sul piano liquidatorio.
Laddove i patemi d'animo e la mera sofferenza psichica interiore
sono normalmente assorbiti in caso di liquidazione del danno biologico,
avente tendenzialmente portata onnicomprensiva (v. Cass., Sez. Un.,
11/11/2008, n. 26972, e, successivamente, Cass., 13/5/2011, n. 10527),
sotto quest'ultimo profilo si è escluso che il valore della integrità morale
possa stimarsi in una mera quota minore del danno alla salute, e di
potersi fare ricorso a meccanismi semplificativi di tipo automatico (v.
Cass., 26/6/2013, n. 16041; Cass., 13/12/2012, n. 22909; Cass.,
12/9/2011, n. 18641; Cass., 19/1/2010, n. 702), in quanto inidonei a
consentire di cogliere il punto di riferimento dai giudici di merito in
concreto preso in considerazione nel caso di specie ai fini della debita
personalizzazione della liquidazione del danno morale; nonché di far
intendere in quali termini si sia al riguardo tenuto conto della gravità del
fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell'entità della relativa
sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, al fine di potersi essa
considerare congrua e adeguata risposta satisfattiva alla lesione della
dignità umana (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228).
La definizione del danno morale è pertanto venuta ormai a
connotarsi di significati ulteriori rispetto al mero patema d'animo, alla

581
sofferenza interiore o perturbamento psichico, secondo la relativa
accezione come detto accolta dalle Sezioni Unite del 2008. E il danno
morale, inteso quale lesione della dignità o integrità morale, massima
espressione della dignità umana, assume specifico e autonomo rilievo
nell'ambito della composita categoria del danno non patrimoniale, anche
laddove la sofferenza interiore non degeneri in danno biologico o in
danno esistenziale (v. Cass., 26/6/2013, n. 16041; Cass., 16/2/2012, n.
2228. V. altresì Cass., 20/11/2012, n. 20292, e, da ultimo, Cass.,
3/10/2013, n. 22585).
L'autonomo rilievo del danno morale, ai fini della liquidazione
del danno non patrimoniale, rispetto al danno biologico e al danno
esistenziale, trova significativa espressione pure sotto il profilo del
danno morale terminale (v. infra).
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, la natura non
patrimoniale del danno morale non osta alla cedibilità dell'acquisito
diritto di credito al relativo risarcimento e alla sua trasmissibilità iure
hereditatis (v. Cass., 3/10/2013, n. 22601).
Il danno biologico costituisce aspetto, ulteriore e diverso dal
danno morale, che della categoria generale prevista dall'art. 2059 c.c.
concorre ad integrare il contenuto.
Dalle Sezioni Unite del 2008 si è preso atto che il danno
biologico è normativamente definito in termini di lesione psicofisica
(temporanea o permanente) accertabile in sede medico-legale (L. n. 57
del 2001, art. 5, comma 3, in tema di responsabilità civile auto;
D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13, in tema di assicurazione
obbligatoria degli infortuni sul lavoro e degli infortuni professionali;
D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, artt. 138 e 139, cd. Codice delle
assicurazioni private).
Osservando che nel Codice delle assicurazioni private (D.Lgs. n.
209 del 2005) viene fatto espressamente riferimento (anche) alla
negativa incidenza di tale lesione sulle attività quotidiane e sugli aspetti
dinamico-relazionali della vita del danneggiato, le Sezioni Unite hanno
al riguardo sottolineato la generale valenza e il carattere vincolante di

582
tale figura, sintesi dei "risultati ormai definitivamente acquisiti di una
lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale" (così Cass., Sez. Un.,
11/11/2008, n. 26972).
Originariamente dalla Corte Costituzionale considerato risarcibile
ex art. 2059 c.c. (v. Corte Cost., 26/7/1979, n. 88), il danno biologico è
stato dalla stessa Corte Costituzionale, al fine di sottrarlo ai limiti
risarcitori posti da tale norma, successivamente ritenuto risarcibile ai
sensi dell'art. 2043 c.c., ravvisato applicabile a tutti i pregiudizi di
carattere non patrimoniale subiti in dipendenza dell'illecito, ivi
ricompresi quelli corrispondenti alla menomazione dell'integrità fisica in
sè e per sè considerata (v. Corte Cost., 14/7/1986, n. 184).
Nel superare la relativa configurazione in termini di danno-evento
(elaborata da Corte Cost. n. 184 del 1986 e accolta quindi nella
giurisprudenza di legittimità: v. Cass., 23/6/1990, n. 6366), e affermare
la risarcibilità dei soli danni-conseguenza, il danno biologico è stato
quindi sempre dalla Corte Costituzionale nuovamente ricondotto
nell'ambito dell'art. 2059 c.c. (v. Corte Cost., 27/10/1994, n. 372).
Orientamento quest'ultimo dapprima confermato dalle sentenze
gemelle Cass. n. 8827 del 2003 e Cass. n. 8828 del 2003, e quindi posto
dalle Sezioni Unite del 2008 a base, come assioma, dell'operata
ricostruzione sistematica del danno non patrimoniale.
Nel danno biologico si considerano ormai da tempo ricomprese
numerose figure, quali il cd. "danno estetico" (v., da ultimo, Cass.,
16/5/2013, n. 11950) e il cd. "danno alla vita di relazione", anch'esso
ritenuto (dopo essere stato originariamente considerato un aspetto del
danno patrimoniale, quale impossibilità o anche mera difficoltà, per
colui che ha subito menomazioni fisiche, di reinserirsi nei rapporti
sociali e di mantenere questi ad un livello normale, sì da diminuire o
annullare, secondo i casi, le possibilità di collocamento e di
sistemazione del danneggiato: v. Cass., 10/3/1992, n. 2840; Cass.,
9/11/1977, n. 4821; Cass., 3/6/1976, n. 2002; Cass., 5/12/1975, n. 4032;
Cass., 11/5/1971, n. 1346; Cass., 24/4/1971, n. 1195) rientrante nel
concetto di danno alla salute, e pertanto solo a tale titolo liquidabile (v.
Cass., 21/3/1995, n. 3239; e, da ultimo, Cass., 16/8/2010, n. 18713;

583
Cass., 13/7/2011, n. 15414). Ancora, il danno da impotenza sessuale, da
malattie nervose, insonnia, alterazioni mentali: figure tutte elaborate
dalla giurisprudenza al fine di ovviare ai limiti risarcitori imposti dalla
tradizionale rigorosa interpretazione dell'art. 2059 c.c.
Con riferimento al danno biologico, la natura non patrimoniale si
è escluso essere ostativa alla cedibilità dell'acquisito diritto di credito al
relativo risarcimento e alla sua trasmissibilità iure hereditatis (v. Cass.,
3/10/2013, n. 22601).
Terzo aspetto o voce di danno non patrimoniale è rappresentato
dal danno da perdita del rapporto parentale o cd. danno esistenziale.
Come questa Corte ha già avuto modo di osservare, le Sezioni
Unite del 2008 hanno in proposito significativamente precisato che:
a) in presenza di reato (è sufficiente che il fatto illecito si
configuri anche solo astrattamente come reato: v. Cass., Sez. Un.,
11/11/2008, n. 26972. E già Cass., Sez. Un., 6/12/1982, n. 6651. Da
ultimo v. Cass., 6/4/2011, n. 7844), superato il tradizionale orientamento
che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato
con il patema d'animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno
non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio
non patrimoniale consistente nel non poter fare rectius, nella sofferenza
morale determinata dal non poter fare) è risarcibile, ove costituisca
conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente
protetto, desunto dall'ordinamento positivo, ivi comprese le Convenzioni
internazionali (come la Convenzione Europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo), e cioè purché sussista il requisito dell'ingiustizia
generica secondo l'art. 2043 c.c., la tutela penale costituendo sicuro
indice di rilevanza dell'interesse leso;
b) in assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla
legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti
alla lesione di un diritto inviolabile della persona.
Fattispecie quest'ultima considerata integrata ad esempio in caso
di sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di un
congiunto (cd. danno da perdita del rapporto parentale), in quanto il

584
"pregiudizio di tipo esistenziale" consegue alla lesione dei "diritti
inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.)".
In tali ipotesi, hanno precisato le Sezioni Unite, vengono in
considerazione pregiudizi che, attenendo all'esistenza della persona, per
comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali,
senza che ciò possa tuttavia riverberare in termini di configurazione di
una "autonoma categoria di danno" (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n.
26972. Conformemente, nel senso che il "danno cd. esistenziale non
costituisce voce autonomamente risarcibile, ma è solo un aspetto dei
danni non patrimoniali di cui il giudice deve tenere conto nell'adeguare
la liquidazione alle peculiarità del caso concreto, evitando peraltro
duplicazioni risarcitorie, v., da ultimo, Cass., 30/11/2011, n. 25575;
Cass., 9/3/2012, n. 3718, Cass., 12/2/2013, n. 3290).
Altri pregiudizi di tipo esistenziale, si è dalle Sezioni Unite
sottolineato, attinenti alla sfera relazionale della persona ma non
conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell'ambito del
danno biologico, sono risarcibili ove siano conseguenti alla lesione di un
diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità
psicofisica.
Al contrario di quanto da alcuni dei primi commentatori
sostenuto, e anche in giurisprudenza di legittimità a volte affermato (v.
Cass., 13/5/2009, n. 11048, e, da ultimo, Cass., 12/2/2013, n. 3290),
deve escludersi che le Sezioni Unite del 2008 abbiano negato la
configurabilità e la rilevanza a fini risarcitori (anche) del cd. danno
esistenziale.
Al di là della qualificazione in termini di categoria, nelle
pronunzie del 2008 risulta infatti confermato che, quale sintesi verbale
(in tali termini v. già Cass., 12/6/2006, n. 13546), gli aspetti o voci di
danno non patrimoniale non rientranti nell'ambito del danno biologico,
in quanto non conseguenti a lesione psico- fisica, ben possono essere
definiti come esistenziali, attenendo alla sfera relazionale della persona,
autonomamente e specificamente configurabile allorquando la
sofferenza e il dolore non rimangano più allo stato intimo ma evolvano,
seppure non in "degenerazioni patologiche" integranti il danno

585
biologico, in pregiudizi concernenti aspetti relazionali della vita v. Cass.,
Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. Nel senso che il danno biologico può
sostanziarsi nel "danno alla salute" che risulti "il momento terminale di
un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell'equilibrio
psichico che sostanzia il danno morale soggettivo, e che in persone
predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità
nervosa, ecc.), anziché esaurirsi in un patema d'animo o in uno stato di
angoscia transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico
permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità
personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va
allora commisurato il i risarcimento", v. già Corte Cost., 27/10/1994, n.
372).
Il danno esistenziale si è dunque ravvisato costituire un peculiare
aspetto del danno non patrimoniale, distinto sia dal danno morale che
dal danno biologico, con i quali concorre a compendiare il contenuto
della generale ed unitaria categoria del danno non patrimoniale.
Essendo il cd. danno esistenziale privo di fonte normativa (a
meno di non voler in proposito valorizzare il richiamato riferimento agli
aspetti relazionali contenuti definizione normativa del danno biologico,
con la conseguenza peraltro di ancorarne la considerazione al mero
ricorrere di quest'ultimo, laddove il danno esistenziale può invero
ricorrere anche in assenza di danno biologico e di danno morale: v.
oltre), le Sezioni Unite del 2008 hanno ripreso la nozione da esse stesse
posta nel 2006.
Del tutto correttamente, non apparendo revocabile in dubbio che
è il principio di effettività il quale designa la regola che vive nella realtà
dell'ordinamento, come essa è applicata nella risoluzione dei casi
concreti della vita di relazione, il significato che ne emerge alla stregua
della evoluzione conseguente al relativo affinamento in ragione del
costante adeguamento al sentire sociale (regola effettiva): cfr. Cass.,
Sez. Un., 11 luglio 2011, n. 15144, del quale la giurisprudenza
costituisce naturale e principale indice (v. Cass., 11/5/2009, n. 10741), a
dover in tal caso orientare l'interprete (v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n.
6572).

586
Orbene, il danno esistenziale si è dalle Sezioni Unite ravvisato
consistere nel pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore,
ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del
soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli
erano propri, inducendolo a scelte di vita diversa quanto alla espressione
e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. In altri termini,
nel "danno conseguenza della lesione", sostanziantesi nei "riflessi
pregiudizievoli prodotti nella vita dell'istante attraverso una negativa
alterazione dello stile di vita" (così Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572).
Per aversi danno esistenziale è quindi indefettibilmente
necessario che la lesione riverberi sul soggetto danneggiato/creditore in
termini tali da alterarne la personalità, inducendolo a cambiare (stile di)
vita, a scelte di vita diversa (in tali termini v. Cass., 5/10/2009, n.
21223), in senso ovviamente peggiorativo (per il riferimento al mero
peggioramento della qualità della vita conseguente allo stress ed al
turbamento per il rischio del verificarsi di gravi malattie v. invero Cass.,
Sez. Un., 15/1/2009, n. 794), rispetto a quelle che avrebbe adottato se
non si fosse verificato l'evento dannoso.
Siffatto aspetto risulta nelle sentenze delle Sezioni Unite del 2008
tenuto invero pienamente in considerazione, potendo allora ben dirsi che
alla stregua della regola vigente in base al principio di effettività è
l'alterazione/cambiamento della personalità del soggetto, lo
sconvolgimento (il riferimento allo "sconvolgimento delle abitudini di
vita" si rinviene già in Cass., 31/5/2003, n. 8827) foriero di "scelte di
vita diverse", in altre parole lo sconvolgimento dell'esistenza, a
peculiarmente connotare il cd. danno esistenziale, caratterizzandolo in
termini di autonomia rispetto sia alla nozione di danno morale elaborata
dall'interpretazione dottrinaria e giurisprudenziale (e successivamente
recepita dal legislatore) sia a quella normativamente fissata di danno
biologico (a tale stregua cogliendosi una sicura diversità con quanto al
riguardo indicato dalla norma del Codice delle assicurazioni).
In alcuni passaggi dello snodo motivazionale le Sezioni Unite del
2008 sembrano voler restringere invero la considerazione del
pregiudizio di tipo esistenziale alla mera ipotesi della lesione del

587
"rapporto parentale", formula rievocante quella adoperata da Cass. n.
8827 del 2003.
Non sembra peraltro revocabile in dubbio che lo
"sconvolgimento" connotante il danno esistenziale ben può conseguire
anche laddove un rapporto di parentela invero difetti, come ad esempio
in caso di convivenza more uxorio per l'affermazione che il diritto al
risarcimento del danno da fatto illecito concretatosi in un evento mortale
va riconosciuto - con riguardo sia al danno morale, sia a quello
patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo
economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato - anche al
convivente more uxorio del defunto stesso, quando risulti dimostrata
tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua
assistenza morale e materiale, v. Cass., 7/6/2011, n. 12278; Cass.,
16/9/2008, n. 23725. E già Cass., 28/3/1994, n. 2988. V. altresì, in
giurisprudenza di merito, Trib. Milano, 13/11/2009, in Resp. civ., 2010,
409 ss. Nel senso che il danno non patrimoniale va ristorato pure in caso
di mero "rapporto affettivo", avente carattere di "serietà e stabilità",
anche a prescindere dalla coabitazione v. Cass., 21/3/2013, n. 7128. Con
riferimento al danno da perdita del rapporto parentale subita da soggetti
estranei a tale ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero,
o la nuora), per la ritenuta necessità di una situazione di convivenza, in
quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l'intimità delle
relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci
legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico, solo in
tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato
primario e secondario, nonché la famiglia intesa come luogo in cui si
esplica la personalità di ciascuno, ai sensi dell'art. 2 Cost., v. Cass.,
16/3/2012, n. 4253. Anteriormente alla recentissima riforma della
filiazione di cui alla L. n. 219 del 2012 e al relativo decreto delegato, di
attuazione (D.Lgs. n. 154 del 2013), per l'interpretazione secondo cui i
fratelli naturali non sono parenti v. Corte Cost., 15/11/2000, n. 532.
Il pregiudizio esistenziale o da rottura del rapporto parentale non
consiste allora nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della
quotidianità della vita, ma si sostanzia nello sconvolgimento
dell'esistenza rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile

588
di vita, in scelte di vita diversa (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass.,
13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844. Diversamente v. Cass.,
8/10/2007, n. 20987, peraltro anteriore alle sentenze delle Sezioni Unite
del 2008).
Nella norma di cui all'art. 612 bis c.p., ove al di là della
sofferenza interiore risulta presa specificamente in considerazione
l'alterazione delle abitudini di vita, questa Corte (v. Cass., 20/11/2012, n.
20292, e, da ultimo, Cass., 3/10/2013, n. 22585) ha di siffatta
interpretazione ravvisato indiretto e sintomatico riscontro.
Ribadendosi che il danno non patrimoniale iure proprio del
congiunto è ristorabile in caso non solo di perdita ma anche di mera
lesione del rapporto parentale (con riferimento al danno morale in favore
dei prossimi congiunti della vittima di lesioni colpose v. Cass., 3/4/2008,
n. 8546; Cass., 14/6/2006, n. 13754; Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass.,
Sez. Un., l/7/2002, n. 9556; Cass., 1/12/1999, n. 13358. E già Cass.,
2/4/1998, n. 4186), il danno esistenziale o da sconvolgimento
dell'esistenza è stato nella giurisprudenza di legittimità in particolare
ravvisato integrato dall'abbandono del lavoro per potersi dedicare
esclusivamente alla cura del figlio, bisognevole di assistenza in ragione
della gravità delle riportate lesioni psicofisiche (v. Cass., 16/2/2012, n.
2228; Cass., 6/4/2011, n. 7844); dall'"assolutezza del sacrificio di sè"
nell'assistenza verso il piccolo figlio macroleso (v. Cass., 12/9/2011, n.
18641; Cass., 13/1/2009, n. 469); dall'impossibilità per una ragazza
ventenne di fare la modella all'esito di intervento di chirurgia plastica
con effetti deturpanti sul seno (v. Cass., 28/8/2009, n. 18805);
dall'impossibilità di realizzare la propria "opzione di vita" consistente
nell'ottenere il collocamento a riposo in ragione del mancato accredito di
contributi da parte del datore di lavoro (v. Cass., 10/2/2010, n. 3023);
dall'impossibilità di espletare l'attività di imprenditore per illegittima
revoca di autorizzazione di polizia (v. Cons. Stato, sez. 6, 8/9/2009, n.
5266).
Si è invece escluso che il cd. danno esistenziale rimanga integrato
da meri disagi, fastidi, disappunti, ansie e "ogni altro tipo di
insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana

589
che ciascuno conduce nel contesto sociale" (v. Cass., Sez. Un.,
11/11/2008, n. 26974; Cass., 13/11/2009, n. 24030), in stress o
violazioni del diritto alla tranquillità (v. Cass., 9/4/2009, n. 8703.
Contra, per la risarcibilità del danno da stress a causa della ricerca del
proprio veicolo oggetto di rimozione forzata, v. peraltro Cass.,
23/3/2011, n. 6712) ovvero ad altri diritti "immaginari" (per la
qualificazione in tali termini del diritto al "tempo libero" v. Cass.,
4/12/2012, n. 21725).
Va al riguardo ulteriormente osservato che il danno esistenziale
da perdita del rapporto parentale si è da questa Corte invero ritenuto
configurabile e rilevante non solo quale degenerazione del danno morale
ma anche in termini meramente oggettivi, in quanto di per sè indice di
sconvolgimento della vita meritevole di ristoro autonomamente e a
prescindere dalla ricorrenza del danno morale, dalla sofferenza inferiore
cioè per la perdita del rapporto parentale.
Tale ipotesi si è in particolare ravvisata ricorrere in caso di
determinatasi necessità di iniziare a lavorare per far fronte ad una
situazione di indigenza insorta in conseguenza della morte del congiunto
che in precedenza aveva assicurato una condizione di agiatezza (per il
riferimento al "danno esistenziale" derivato "dall'improvviso e radicale
mutamento delle loro condizioni di vita e dall'essersi trovati in una grave
situazione d'indigenza" a causa dell'"improvvisa perdita di qualsiasi
fonte di reddito" v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974, ove si fa
peraltro riferimento ai "patimenti e alle angosce" derivate ai danneggiati
dalla sopravvenuta situazione d'indigenza, cui la compagnia
assicuratrice non aveva posto rimedio, colposamente tardando per oltre
5 anni la corresponsione dell'indennizzo); ovvero di aver dovuto
abbandonare il lavoro svolto da anni per adattarsi a svolgerne un altro
del tutto diverso (v. Cass., 9/3/2012, n. 3718).
Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, il
danno esistenziale da perdita del rapporto parentale non può in ogni caso
considerarsi in re ipsa, in quanto ne risulterebbe snaturata la funzione
del risarcimento, che verrebbe ad essere concesso non in conseguenza
dell'effettivo accertamento di un danno (per il rilievo che ben può

590
accadere, sia pur non frequentemente, che la perdita di un congiunto non
cagioni danno relazionale o danno morale o alcuno di essi v. Cass.,
7/6/2011, n. 12273; Cass., 20/11/2012, n. 20292, e, da ultimo, Cass.,
3/10/2013, n. 22585) bensì quale pena privata per un comportamento
lesivo (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., Sez. Un.,
11/11/2008, n. 26973; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974; Cass., Sez.
Un., 11/11/2008, n. 26975).
Esso va dal danneggiato allegato e provato, secondo la regola
generale ex art. 2697 c.c. (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass.,
13/5/2011, n. 10527).
L'allegazione a tal fine necessaria, si è da questa Corte precisato,
deve in realtà concernere fatti precisi e specifici del caso concreto,
essere cioè circostanziata e non già purchessia formulata, non potendo
invero risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e
astratto, eventuale ed ipotetico (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 25
settembre 2012, n. 16255).
Anche per il danno esistenziale da perdita del rapporto parentale
va osservato che la natura non patrimoniale non osta alla cedibilità
dell'acquisito diritto di credito al relativo risarcimento e alla sua
trasmissibilità iure hereditatis (cfr. Cass., 3/10/2013, n. 22601).
Come già più sopra ribadito, la diversità ontologica dei suindicati
aspetti (o voci) di cui si compendia la categoria generale del danno non
patrimoniale impone che, in ossequio al principio (dalle Sezioni Unite
del 2008 assunto ad assioma) della integralità del risarcimento dei danni
nello specifico caso concreto subiti dal danneggiato (o dal creditore) in
conseguenza del fatto illecito extracontrattuale (ovvero
dell'inadempimento delle obbligazioni), essi, in quanto sussistenti e
provati, vengano tutti risarciti, e nessuno sia lasciato privo di ristoro (v.,
da ultimo, Cass., 23/4/2013, n. 9770; Cass., 17/4/2013, n. 9231; Cass.,
7/6/2011, n. 12273; Cass., 9/5/2011, n. 10108).
Lo stesso fenomeno si verifica d'altro canto relativamente al
danno patrimoniale.
E' noto che quest'ultimo si scandisce in danno emergente e lucro

591
cessante, e ciascuna di queste "categorie" o "sottocategorie" è a sua
volta compendiata da una pluralità di voci o aspetti o sintagmi, quali ad
esempio il mancato conseguimento del bene dovuto o la perdita di beni
integranti il proprio patrimonio, il cd. fermo tecnico, le spese (di querela
per l'avvocato difensore, per il C.T., funerarie, ecc.) (danno emergente);
o la perdita della clientela, la irrealizzazione di rapporti contrattuali con
terzi, il discredito professionale, la perdita di prestazioni alimentari o
lavorative, la perdita della capacità lavorativa specifica (lucro cessante).
Aspetti o voci che ovviamente non ricorrono tutti sempre e
comunque in ogni ipotesi di illecito o di inadempimento, e il cui ristoro
dipende dalla verifica della loro sussistenza, con conseguente differente
entità del quantum da liquidarsi al danneggiato/creditore nel singolo
caso concreto.
Senza che la relativa considerazione ai fini della determinazione
del complessivo aumentare dovuto dal danneggiante/debitore si
consideri per ciò stesso una duplicazione risarcitoria.
Perplessità evoca, a tale stregua, la riduttiva interpretazione
secondo cui "la più recente giurisprudenza di questa Corte ha precisato
che i danni non patrimoniali di cui all'art. 2059 c.c. comprendono tutti i
pregiudizi non connotati dalla patrimonialità, e che la categoria non può
essere suddivisa in diverse sottovoci suscettibili di autonomo
risarcimento (danno esistenziale, danno alla vita di relazione, estetico,
morale, biologico, ecc), come si è spesso verificato in passato nella
prassi giurisprudenziale" (in tali termini v. Cass., 28/8/2009, n. 18805).
Una siffatta lettura delle sentenze del 2008 è in realtà smentita,
oltre che da altra sentenza della stessa 3 Sezione v. Cass., 30/10/2009, n.
23056, ove si afferma che "le sezioni unite di questa Corte, nella
sentenza 11/11/2008, n. 26973, hanno chiarito in termini definitivi ed
appaganti che il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c. è
categoria generale, non suscettibile di divisione in sottocategorie
variamente etichettate, di modo che il riferimento a determinati tipi di
pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico,
danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze
descrittive, ma non implica il risarcimento di distinte categorie di

592
danno". Analogamente v., da ultimo, Cass., 9/3/2012, n. 3718), da
decisioni di altre sezioni semplici (v. la citata Cass., 5/10/2009, n.
21223) e delle stesse Sezioni Unite.
Va al riguardo per converso sottolineato che, al di là di
affermazioni di principio secondo cui il carattere unitario della
liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. precluderebbe
la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche
fattispecie di sofferenza patite dalla persona (v.
Cass., 12/2/2013, n. 3290; Cass., 14/5/2013, n. 11514), viene poi
generalmente (in anche in tali decisioni) a darsi comunque rilievo alla
circostanza che nel liquidare l'ammontare dovuto a titolo di danno non
patrimoniale il giudice abbia invero tenuto conto di tutte le peculiari
modalità di atteggiarsi dello stesso nel singolo caso concreto, facendo
luogo, in sede di personalizzazione della liquidazione, al correlativo
incremento del dato tabellare di partenza (cfr., da ultimo, Cass.,
23/9/2013, n. 21716).
Emerge evidente come rimanga a tale stregua invero
sostanzialmente osservato il principio dell'integralità del ristoro, sotto il
suindicato profilo della necessaria considerazione di tutti gli aspetti o
voci in cui la categoria del danno non patrimoniale si scandisce nel
singolo caso concreto, non essendovi in realtà differenza tra la
determinazione dell'ammontare a tale titolo complessivamente dovuto
mediante la somma dei vari "addendi", e l'imputazione di somme
parziali o percentuali del complessivo determinato ammontare a
ciascuno di tali aspetti o voci.
Nella giurisprudenza di legittimità si è per altro verso sottolineato
che il principio della integralità del ristoro subito da quest'ultimo non si
pone invero in termini antitetici ma trova per converso correlazione con
il principio in base al quale il danneggiante/debitore è tenuto al ristoro
solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l'inadempimento a lui
causalmente ascrivibile, l'esigenza della cui tutela impone invero di
evitarsi anche duplicazioni risarcitorie (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402;
Cass., 14/9/2010, n. 19517).

593
Duplicazioni risarcitorie si configurano solo allorquando lo stesso
aspetto (o voce) viene computato due o più volte, sulla base di diverse,
meramente formali, denominazioni, laddove non sussistono in presenza
della liquidazione dei molteplici e diversi aspetti negativi causalmente
derivanti dal fatto illecito o dall'inadempimento e incidenti sulla persona
del danneggiato/creditore.
In tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di
stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato
erroneamente sottostimato, rileva non già il "nome" assegnato dal
giudicante al pregiudizio lamentato dall'attore ("biologico", "morale",
"esistenziale"), ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame
dal giudice.
Si ha, pertanto, duplicazione di risarcimento solo quando il
medesimo pregiudizio sia liquidato due volte, sebbene con l'uso di nomi
diversi (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 6/4/2011, n. 7844. In tal
senso deve intendersi invero anche quanto affermato anche da Cass.,
Sez. Un., 16/2/2009, n. 3677: "Il cd. danno esistenziale … costituisce
solo un ordinario danno non patrimoniale, che non può essere liquidato
separatamente sol perché diversamente denominato").
E' invero compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del
pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando
quali ripercussioni negative sul valore persona si siano verificate, e
provvedendo alla relativa integrale riparazione (v. Cass., 13/5/2011, n.
10527; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
Le Sezioni Unite del 2008 avvertono che i patemi d'animo e la
mera sofferenza psichica interiore sono normalmente assorbiti in caso di
liquidazione del danno biologico, cui viene riconosciuta "portata
tendenzialmente onnicomprensiva".
In tal senso è da intendersi la statuizione secondo cui la
sofferenza morale non può risarcirsi più volte, allorquando essa non
rimanga allo stadio interiore o intimo ma si obiettivizzi, degenerando in
danno biologico o in danno esistenziale.
Non condivisibile è invece l'assunto secondo cui, allorquando

594
vengano presi in considerazione gli aspetti relazionali, il danno
biologico assorbe sempre e comunque il cd. danno esistenziale (in tal
senso v. invece Cass., 10/2/2010, n. 3906; Cass., 30/11/2009, n. 25236).
E' infatti necessario verificare quali aspetti relazionali siano stati
valutati dal giudice, e se sia stato in particolare assegnato rilievo anche
al (radicale) cambiamento di vita, all'alterazione/cambiamento della
personalità del soggetto, in cui di detto aspetto (o voce) del danno non
patrimoniale si coglie il significato pregnante per un'ipotesi di ritenuta
esaustività della liquidazione operata dal giudice di merito del danno
non patrimoniale (subito da gestante non posta in condizione, per errore
diagnostico, di decidere se interrompere la gravidanza) utilizzando,
come parametro di riferimento, quello di calcolo del danno biologico,
espressamente al riguardo indicando in motivazione che "la fattispecie
costituiva un caso paradigmatico di lesione di un diritto della persona, di
rilievo costituzionale, che indipendentemente da un danno morale o
biologico, peraltro sempre possibile, impone comunque al danneggiato
di condurre giorno per giorno, nelle occasioni più minute come in quelle
più importanti, una vita diversa e peggiore, di quella che avrebbe
altrimenti condotto", v. Cass., 4 gennaio 2010, n. 13.
In presenza di una liquidazione del danno biologico che
contempli in effetti anche siffatta negativa incidenza sugli aspetti
dinamico- relazionali del danneggiato, è correttamente da escludersi la
possibilità che, in aggiunta a quanto a tale titolo già determinato, venga
attribuito un ulteriore ammontare a titolo (anche) di danno esistenziale.
Analogamente deve dirsi allorquando la liquidazione del danno
morale sia stata espressamente estesa anche ai profili relazionali nei
termini propri del danno esistenziale (cfr. Cass., 15/4/2010, n. 9040, ove
si è ravvisato essere indubbio che il giudice del merito, nel liquidare il
"danno morale" dei genitori per la morte del figlio all'esito di sinistro
stradale, avesse nel caso tenuto in considerazione anche la "perdita del
rapporto parentale", sottolineando non assumere al riguardo "rilievo il
nomen iuris adottato dal giudice e dalle parti" bensì "i tipi di pregiudizio
che vengono complessivamente risarciti nella liquidazione del danno
non patrimoniale da fatto configurabile come reato"; Cass., 16/9/2008,

595
n. 23275).
Laddove siffatti aspetti relazionali non siano stati invece presi in
considerazione (del tutto ovvero secondo i profili peculiarmente
connotanti il cd. danno esistenziale), dal relativo ristoro non può invero
prescindersi corretta appare l'affermazione, nel caso peraltro riferita al
"comportamento illecito che oggettivamente presenti gli estremi del
reato", secondo cui i danni ex art. 2059 c.c. debbono essere liquidati "in
unica somma, da determinarsi tenendo conto di tutti gli aspetti che il
danno non patrimoniale assume nel caso concreto (sofferenze fisiche e
psichiche; danno alla salute, alla vita di relazione, ai rapporti affettivi e
familiari, ecc.)", che si rinviene in Cass., 17 settembre 2010, n. 19816.
Come già più sopra osservato, il ristoro del danno non
patrimoniale è imprescindibilmente rimesso alla relativa valutazione
equitativa.
Con particolare riferimento alla liquidazione del danno alla
salute, si è in giurisprudenza costantemente affermata la necessità per il
giudice di fare luogo ad una valutazione che, movendo da una
"uniformità pecuniaria di base", la quale assicuri che lo stesso tipo di
lesione non sia valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a
soggetto, risponda altresì a criteri di elasticità e flessibilità, per adeguare
la liquidazione all'effettiva incidenza della menomazione subita dal
danneggiato a tutte le circostanze del caso concreto (cfr. in particolare
Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. E già
Corte Cost., 14/7/1986, n. 184).
Si è a tale stregua esclusa la possibilità applicarsi in modo "puro"
parametri rigidamente fissati in astratto, giacché non essendo in tal caso
consentito discostarsene, risulta garantita la prevedibilità delle decisioni
ma assicurata invero una uguaglianza meramente formale, e non già
sostanziale.
Del pari inidonea si è ravvisata una valutazione rimessa alla mera
intuizione soggettiva del giudice, e quindi, in assenza di qualsiasi
criterio generale valido per tutti i danneggiati a parità di lesioni,
sostanzialmente al suo mero arbitrio.

596
Se una siffatta valutazione vale a teoricamente assicurare
un'adeguata personalizzazione del risarcimento, non altrettanto può
infatti dirsi circa la parità di trattamento e la prevedibilità della decisione
(v. Cass., 7/6/2011, n. 12408, ove si sottolinea come la circostanza che
lesioni della stessa entità, patite da persone della stessa età e con
conseguenze identiche, siano liquidate in modo fortemente difforme non
possa ritenersi una mera circostanza di fatto ma integra una vera e
propria "violazione della regola di equità").
I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è
rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, devono essere idonei a
consentire altresì la cd. personalizzazione del danno (v. Cass., Sez. Un.,
11/11/2008, n. 26972; Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass., 12/6/2006, n.
13546), al fine di addivenirsi ad una liquidazione congrua, sia sul piano
dell'effettività del ristoro del pregiudizio che di quello della relativa
perequazione - nel rispetto delle diversità proprie dei singoli casi
concreti - sul territorio nazionale (v. Cass., 12/7/2006, n. 15760).
In tema di liquidazione del danno, e di quello non patrimoniale in
particolare, l'equità si è in giurisprudenza intesa nel significato di
"adeguatezza" e di "proporzione", assolvendo alla fondamentale
funzione di "garantire l'intima coerenza dell'ordinamento, assicurando
che casi uguali non siano trattati in modo diseguale", con eliminazione
delle "disparità di trattamento" e delle "ingiustizie" così Cass., 7/6/2011,
n. 12408: "equità non vuoi dire arbitrio, perché quest'ultimo, non
scaturendo da un processo logico-deduttivo, non potrebbe mai essere
sorretto da adeguata motivazione. Alla nozione di equità è
consustanziale l'idea di adeguatezza e di proporzione. Ma anche di parità
di trattamento. Se infatti in casi uguali non è realizzata la parità di
trattamento, neppure può dirsi correttamente attuata l'equità, essendo la
disuguaglianza chiaro sintomo della inappropriatezza della regola
applicata. Ciò è tanto più vero quando, come nel caso del danno non
patrimoniale, ontologicamente difetti, per la diversità tra l'interesse leso
(ad esempio, la salute o l'integrità morale) e lo strumento compensativo
(il denaro), la possibilità di una sicura commisurazione della
liquidazione al pregiudizio areddituale subito dal danneggiato; e tuttavia
i diritti lesi si presentino uguali per tutti, sicché solo un'uniformità

597
pecuniaria di base può valere ad assicurare una tendenziale uguaglianza
di trattamento, ad un tempo sintomo e garanzia dell'adeguatezza della
regola equitativa applicata nel singolo caso, salva la flessibilità imposta
dalla considerazione del "particolare"".
I criteri da adottarsi al riguardo debbono consentire pertanto una
valutazione che sia equa, e cioè adeguata e proporzionata (v. Cass.,
7/6/2011, n. 12408), in considerazione di tutte le circostanze concrete
del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito
dal danneggiato, a tale stregua pertanto del pari aliena da duplicazioni
risarcitorie (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844), in
ossequio al principio per il quale il danneggiante e il debitore sono tenuti
al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o
l'inadempimento ad essi causalmente ascrivibile (v. Cass., 13/5/2011, n.
10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844).
Ne consegue che la quantificazione di un ammontare che si
prospetti non congruo rispetto al caso concreto, in quanto irragionevole
e sproporzionato per difetto o per eccesso (v. Cass., 31/8/2011, n.
17879), e pertanto sotto tale profilo non integrale, il sistema di
quantificazione verrebbe per ciò stesso a palesarsi inidoneo a consentire
al giudice di pervenire ad una valutazione informata ad equità,
legittimando i dubbi in ordine alla sua legittimità.
Valida soluzione si è ravvisata essere invero quella costituita dal
sistema delle tabelle (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., Sez. Un.,
11/11/2008, n. 26972. V. altresì Cass., 13/5/2011, n. 10527).
Pur se oggetto di forti critiche in dottrina, essendosi il sistema
tabellare ritenuto lesivo della dignità umana, da epoca risalente il
giudice, anche laddove non imposto dalla legge, fa ricorso all'ausilio di
tabelle (v. Cass., 9/1/1998, n. 134).
Tale sistema d'altro canto costituisce solo una modalità di calcolo
tra le molteplici utilizzabili (per l'adozione, quanto al danno morale da
reato, del criterio della odiosità della condotta lesiva, e quanto al cd.
danno esistenziale, del criterio al clima di intimidazione creato
nell'ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e al

598
peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare in conseguenza
di esso, v. Cass., 19/5/2010, n. 12318).
Le tabelle, siano esse giudiziali o normative, sono uno strumento
idoneo a consentire al giudice di dare attuazione alla clausola generale
posta all'art. 1226 c.c. (v. Cass., 19/5/1999, n. 4852), non già di
derogarvi; e di addivenire ad una quantificazione del danno rispondente
ad equità, nell'effettiva esplicazione di poteri discrezionali, e non già
rispondenti ad arbitrio (quand'anche "equo").
Lo stesso legislatore, oltre alla giurisprudenza, ha fatto ad esse
espressamente riferimento.
In tema di responsabilità civile da circolazione stradale, il D.Lgs.
n. 209 del 2005 ha introdotto la tabella unica nazionale per la
liquidazione delle invalidità cd. micropermanenti (i cui importi sono
stati da ultimo aggiornati con D.M. 6 giugno 2013, in G.U. 14 giugno
2013, n. 138).
Già anteriormente era stato previsto (con D.M. 3 luglio 2003, e a
far data dall'11 settembre 2003) un regime speciale per il danno
biologico lieve o da micropermanente (fino a 9 punti).
In assenza di tabelle normativamente determinate, come ad
esempio per le cd. macropermanenti e per le ipotesi diverse da quelle
oggetto del suindicato decreto legislativo, il giudice fa normalmente
ricorso a tabelle elaborate in base alle prassi seguite nei diversi tribunali
(per l'affermazione che tali tabelle costituiscono il cd. "notorio locale" v.
in particolare Cass., 1 giugno 2010, n. 13431), la cui utilizzazione è stata
dalle Sezioni Unite avallata nei limiti in cui, nell'avvalersene, il giudice
proceda ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno non
patrimoniale, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze
fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, al fine "di pervenire al ristoro
del danno nella sua interezza" (v. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n.
26972).
Preso atto che le Tabelle di Milano sono andate nel tempo
assumendo e palesando una "vocazione nazionale", in quanto recanti i
parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto

599
dell'equità valutativa, e ad evitare (o quantomeno ridurre) - al di là delle
diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti
territoriali - ingiustificate disparità di trattamento che finiscano per
profilarsi in termini di violazione dell'art. 3 Cost., comma 2, questa
Corte è pervenuta a ritenerle valido criterio di valutazione equitativa ex
art. 1226 c.c. delle lesioni di non lieve entità (dal 10% al 100%)
conseguenti alla circolazione (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass.,
30/6/2011, n. 14402).
Essendo l'equità il contrario dell'arbitrio, la liquidazione
equitativa operata dal giudice di merito è sindacabile in sede di
legittimità (solamente) laddove risulti non congruamente motivata,
dovendo di essa "darsi una giustificazione razionale a posteriori" (v.
Cass., 7/6/2011, n. 12408).
Si è al riguardo per lungo tempo esclusa la necessità per il giudice
di motivare in ordine all'applicazione delle tabelle in uso presso il
proprio ufficio giudiziario, essendo esse fondate sulla media dei
precedenti del medesimo, e avendo la relativa adozione la finalità di
uniformare, quantomeno nell'ambito territoriale, i criteri di liquidazione
del danno (v. Cass., 2/3/2004, n. 418), dovendo per converso
adeguatamente motivarsi la scelta di avvalersi di tabelle in uso presso
altri uffici (v. Cass., 21/10/2009, n. 22287; Cass., 1/6/2006, n. 13130;
Cass., 20/10/2005, n. 20323; Cass., 3/8/2005, n. 16237).
Essendo la liquidazione del quantum dovuto per il ristoro del
danno non patrimoniale inevitabilmente caratterizzata da un certo grado
di approssimazione, si escludeva altresì che l'attività di quantificazione
del danno fosse di per sè soggetta a controllo in sede di legittimità, se
non sotto l'esclusivo profilo del vizio di motivazione, in presenza di
totale mancanza di giustificazione sorreggente la statuizione o di
macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale
contraddittorietà delle argomentazioni (cfr., da ultimo, Cass., 19/5/2010,
n. 12918; Cass., 26/1/2010, n. 1529). In particolare laddove la
liquidazione del danno si palesasse manifestamente fittizia o irrisoria o
simbolica o per nulla correlata con le premesse in fatto in ordine alla
natura e all'entità del danno dal medesimo giudice accertate (v. Cass.,

600
16/9/2008, n. 23725; Cass., 2/3/2004, n. 4186; Cass., 2/3/1998, n. 2272;
Cass., 21/5/1996, n. 4671).
La Corte Suprema di Cassazione è peraltro recentemente
pervenuta a radicalmente mutare tale orientamento.
La mancata adozione da parte del giudice di merito delle Tabelle
di Milano in favore di altre, ivi ricomprese quelle in precedenza adottate
presso la diversa autorità giudiziaria cui appartiene, si è ravvisato
integrare violazione di norma di diritto censurabile con ricorso per
cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (v. Cass.,
7/6/2011, n. 12408, ove si è altresì precisato che al fine di evitarsi la
declaratoria di inammissibilità del ricorso per la novità della questione
non è sufficiente che in appello sia stata prospettata l'inadeguatezza della
liquidazione operata dal primo giudice, ma occorre che il ricorrente si
sia specificamente doluto, sotto il profilo della violazione di legge, della
mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle elaborate a
Milano; e che, inoltre, nei giudizi svoltisi in luoghi diversi da quelli nei
quali le tabelle milanesi sono comunemente adottate, quelle tabelle
abbia anche versato in atti. In tanto, dunque, la violazione della regola
iuris può essere fatta valere in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3, in quanto la questione sia già stata specificamente posta
nel giudizio di merito. Conformemente v. Cass., 22/12/2011, n. 28290).
Si è quindi al riguardo ulteriormente precisato che i parametri
delle Tabelle di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del
giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale,
ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella di inferiore
ammontare cui sia diversamente pervenuto, sottolineandosi che
incongrua è la motivazione che non dia conto delle ragioni della
preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle
circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui
l'adozione dei parametri esibiti dalle dette Tabelle di Milano consente di
pervenire v. Cass., 30/6/2011, n. 14402. Per l'adozione di Tabelle diverse
da quelle di Milano v. Trib. Roma, 9/1/2012; Trib. Roma, 5/11/2012
(inedita).
Va peraltro osservato che l'applicazione delle Tabelle di Milano

601
non è invero aliena dal porre alcune problematiche interpretative e
applicative.
Una prima questione concerne la nozione di danno morale presa
in considerazione.
Diversamente da quanto pure da alcuni in dottrina osservato, non
sembra che esse contemplino il danno morale inteso quale dolore fisico,
semmai proprio del danno biologico, dovendo ritenersi viceversa accolta
la tradizionale nozione in termini di patema d'animo o sofferenza
interiore o turbamento psichico.
I parametri tabellari non risultano per altro verso riferirsi (anche)
al pregiudizio alla integrità morale, massima espressione della dignità
umana, la cui valutazione nella quantificazione del danno morale è,
come più sopra osservato, del pari imprescindibile.
Ulteriore questione emerge laddove, quantificato sulla base delle
Tabelle di Milano l'ammontare del risarcimento del danno non
patrimoniale per le sofferenze fisiche o psichiche patite dal soggetto
leso, ai fini dell'attività di cd. personalizzazione del danno è consentita
la possibilità di superarsi i limiti tabellari, avvalendosi degli elementi già
considerati ai fini dell'elaborazione della tabella (es., età della vittima e
dei danneggiati superstiti, stato di convivenza, presenza di altri familiari
conviventi, abitudini di vita), e in particolare i limiti massimi (in
presenza di situazioni di fatto che si discostino in modo apprezzabile da
quelle ordinarie, sia per elementi non considerati ai fini
dell'elaborazione delle tabelle sia per il peculiare atteggiarsi nel caso
concreto di quelli viceversa valutati: v. Cass., 17/4/2013, n. 9231; Cass.,
14/6/2011, n. 12953), con la previsione tuttavia di un tetto massimo, in
particolare per i pregiudizi esistenziali conseguenti alla menomazione
psicofisica che non siano standard, da applicarsi nelle ipotesi di
massimo sconvolgimento della vita familiare.
Orbene, laddove il limite massimo dei parametri tabellari di base
o il limite di oscillazione (in difetto e a fortiori) in aumento dei
medesimi si configuri come non superabile, la determinazione
dell'ammontare di risarcimento può invero risultare non congrua in

602
riferimento al caso concreto, in quanto irragionevole e sproporzionata
per difetto (v. Cass., 31/8/2011, n. 17879), e pertanto sotto tale profilo
non integrale.
Il sistema di quantificazione si prospetta allora in tal caso
inidoneo a consentire al giudice di pervenire ad una valutazione
informata ad equità, sollevando dubbi in ordine alla sua legittimità, in
quanto in contrasto con il principio in base al quale il ristoro del
pregiudizio alla persona non tollera astratte limitazioni massime.
Questione che si pone anche con riferimento alla Tabella unica
nazionale ai fini della liquidazione delle invalidità cd. micropermanenti,
introdotta con D.Lgs. n. 209 del 2005 nel settore della responsabilità
civile da circolazione stradale, in attuazione di quanto previsto all'art.
139 Cod. ass.
Nello stabilire che "per danno biologico si intende la lesione
temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona
suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza
negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico- relazionali
della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni
sulla sua capacità di produrre reddito", l'art. 139, comma 2, Cod. ass. ha
in realtà riguardo ad una superata concezione del danno biologico,
diversa dalla nozione recepita dalle Sezioni Unite del 2008, e fissa,
quanto alla personalizzazione del risarcimento del danno non
patrimoniale, il limite di aumento massimo (con equo e motivato
apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato)
dell'ammontare quantificato alla stregua del dato tabellare nella misura
del quinto, e cioè del 20% (art. 139, comma 3, Cod. ass.) (cfr. Cass.,
7/6/2011, n. 12408).
Relativamente a siffatto limite massimo di oscillazione è stata
sollevata questione di legittimità costituzionale, in particolare sotto il
profilo dell'irragionevolezza di tale soglia e della sua idoneità a
rappresentare un vulnus in ordine all'integrale riparazione del danno G.
di P. Torino, 21/10/2011 (in Danno e resp., 2012, 439 ss. e in Resp. civ.,
2012, 70 ss.). La questione era stata già sollevata da G. di P. Torino,
30/11/2009 (in Resp. civ., 2010, 920 ss.), in riferimento agli artt. 2, 3, 24

603
e 76 Cost., del D.Lgs. n. 209 del 2005, (Cod. ass.), art. 139 nella parte in
cui tale norma, prevedendo un risarcimento del danno biologico basato
su rigidi parametri fissati da tabelle ministeriali, non consentirebbe di
giungere ad un'adeguata personalizzazione del danno, e dichiarata
manifestamente inammissibile, per ravvisate carenze di prospettazione,
da Corte Cost. (ord.), 28/4/2011, n. 157. V. altresì già G. di P. Roma,
14/1/2001 (in Danno e resp., 2002, 309 ss.), nonché a violare il principio
di uguaglianza laddove allo stesso tipo di lesioni possa essere attribuito
un diverso risarcimento v. Trib. Tivoli, 21/3/2012 e Trib. Brindisi,
3/4/2012 (in Danno e resp., 2012, 1002 ss. e in Resp., 2012, 1294 ss. e
in Vita not., 2012, 1607 ss.).
Si è in dottrina obiettato che la riparazione integrale del danno
non costituisce principio costituzionalmente garantito.
La stessa Corte Costituzionale ha in effetti in più di un'occasione
escluso che la regola generale di integralità della riparazione ed
equivalenza al pregiudizio cagionato al danneggiato abbia copertura
costituzionale da ultimo v. Corte Cost. (ord.), 28/4/2011, n. 157,
ponendo in rilievo che in casi eccezionali il legislatore ben può ritenere
equa e conveniente una limitazione del risarcimento del danno, sia nel
campo della responsabilità contrattuale (v. ad es., artt. 1784 e 1786 c.c. e
artt. 275, 412 e 423 c.n.), che in materia di responsabilità
extracontrattuale, in considerazione delle particolari condizioni
dell'autore del danno (v. Corte Cost., 6/5/1985, n. 132).
Va al riguardo peraltro sottolineato come la Corte Costituzionale
abbia recentemente affermato l'illegittimità dell'apposizione di una
limitazione massima non superabile alla quantificazione del ristoro per
danni alla persona v. Corte Cost., 30/3/2012, n. 75, che ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 111 del 1995, art. 15, comma
1, nella parte in cui ha fissato un limite all'obbligo risarcitorio per danni
alla persona. Pur se emessa con riferimento alla responsabilità da
inadempimento di contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" (cd.
"pacchetto turistico" o "package"), e fondata sulla ravvisata violazione
dei criteri posti dalla legge delega, tale principio la pronunzia sembra
invero sostanzialmente sottendere.

604
Orbene, la corte di merito ha nella specie disatteso invero i
suindicati principi.
In particolare là dove si è limitata a confermare "le statuizioni del
primo giudice", dopo avere:
a) accolto la domanda di ristoro pecuniario del danno non
patrimoniale proposta dal S.M. e dalla C., figli dei defunti P.G. e S.M.,
riconoscendo ad essi rispettivamente dovuta la somma di Euro
111.495,5 risultante "dalla sommatoria delle seguenti voci: Euro
31.000,00 per danno morale iure hereditatis; Euro 10.000,00 per danno
biologico psichico iure hereditatis; Euro 8.495,5 per danno biologico
fisico iure hereditatis; Euro 62.000,00 per danno morale personale";
b) accolto la doglianza dei predetti S.M. e C. circa la
"liquidazione meramente equitativa" effettuata dal giudice di prime cure
"senza dare conto dei criteri adottati" nonché in forma ""cumulativa"",
con conseguente lamentata impossibilità di "comprendere quali siano le
voci di danno riconosciute e le loro entità";
c) riconosciuto ai medesimi spettare altresì i "danni non
patrimoniali derivanti dalla morte del padre S.M. per suicidio, in riforma
della sentenza di 1^ grado sul punto ritenendo essere stata "indubbia
concausa il trauma psichico conseguente al decesso della moglie nel
sinistro de quo", al riguardo precisando che "l'accertato collegamento;
tra la morte del S. e quella della moglie a seguito dell'incidente incide
sulla quantificazione del danno";
d) provveduto alla "liquidazione delle singole voci di danno
secondo le tabelle in uso del Tribunale di Milano, la cui applicazione
viene invocata dagli appellanti";
e) osservato che "agli appellanti" è stato peraltro dal giudice di
prime cure riconosciuto "un importo superiore (Euro 250.000,00 a S.M.
ed Euro 170.000,00 a S.C.)".
La corte di merito ha disatteso i suindicati principi in particolare
là dove ha confermato il rigetto operato dal giudice di prime cure "della
domanda di risarcimento danni iure hereditatis formulata dagli

605
appellanti" sigg. S.M. e C. "per il ristoro dei danni personali (da ....
lesioni mortali) subiti dalla loro madre P.G., in quanto deceduta dopo
circa tre ore e mezzo dal sinistro, dopo cioè un lasso di tempo
insufficiente a far sorgere in capo alla vittima il diritto ad indennizzi di
sorta".
Nel far proprie le argomentazioni del primo giudice senza
esprimere invero le ragioni della conferma della pronunzia in relazione
ai motivi di impugnazione proposti in modo che il percorso
argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze
risulti appagante e corretto, la laconicità sul punto della motivazione
dell'impugnata sentenza appalesandosi pertanto inidonea a rivelare la
ratio deciderteli e a consentire di ritenere che all'affermazione di
condivisione del giudizio di primo grado essa sia pervenuta attraverso
l'esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di impugnazione,
sicché la motivazione si rivela sul punto come meramente apparente (v.
Cass., 20/7/2012, n. 12664; Cass., 23/2/2011, n. 4377; Cass., 23/2/2011,
n. 4375; Cass., 8/1/2009, n. 161; Cass., 11/6/2008, n. 15483), la corte di
merito ha a tale stregua immotivatamente rigettato, oltre a quella di
ristoro del danno cd.
tanatologico, la domanda di risarcimento del danno non
patrimoniale, nei molteplici aspetti dei quali tale categoria generale si
compone, cui il riferimento al "lasso di tempo insufficiente a far sorgere
in capo alla vittima il diritto ad indennizzi di sorta" si appalesa
impropriamente operato.
Orbene, a parte il rilievo che come questa Corte ha già avuto
modo di precisare ai fini dell'accoglimento della domanda è irrilevante
l'erronea denominazione del tipo di pregiudizio non patrimoniale di cui
si chiede il risarcimento se ad esso sia stato fatto riferimento in un
contesto nel quale era stato richiesto il risarcimento del danno non
patrimoniale, evidentemente senza limitazioni connesse solo ad alcune e
non ad altre conseguenze pregiudizievoli derivatene (v. Cass., 9/3/2012,
n. 3718; Cass., 17/7/2012, n. 12236, e da ultimo, Cass., 6/8/2013, n.
18659), in presenza di una domanda sin dall'origine dagli odierni
ricorrenti ed originari attori estesa a tutti i danni (patrimoniali e non

606
patrimoniali) subiti in conseguenza del sinistro de quo ("voglia il
Tribunale ... condannare i convenuti a risarcire agli attori tutti i danni da
costoro subiti in seguito ai fatti di causa, iure proprio e iure successionis,
così come azionati e sotto tutti gli aspetti risarcibili, patrimoniali e non
patrimoniali, nella misura che sarà ritenuta di giustizia in esito agli
accertamenti istruttori": v. atto di citazione in primo grado dei sigg. S.M.
e C., P.V. ed F.E., in atti, riprodotto anche dai controricorrenti e
ricorrenti incidentali nel rispettivo controricorso e ricorso incidentale),
in particolare, la corte di merito, dopo averne correttamente riconosciuto
la ricorrenza nella specie, ha immotivatamente e contraddittoriamente
non quantificato l'incidenza del danno esistenziale sofferto dal S.M.
nella determinazione del complessivo ammontare del danno non
patrimoniale al medesimo spettante e trasmissibile iure hereditatis ai
figli, la relativa valutazione d'altro canto non emergendo operata nei
suoi propri termini di sconvolgimento dell'esistenza dal medesimo
sofferto (e invero nemmeno altrimenti considerata sotto il profilo degli
aspetti relazionali connessi al danno biologico), al riguardo essendosi
essa limitata a valutare l'"aggravamento" dello "stato di depressione,
documentata dalle cartelle cliniche in atti".
I suindicati profili risultano disattesi altresì là dove la corte di
merito ha del pari confermato la liquidazione effettuata dal giudice di 1^
grado in favore della F. e del P. V., invero genericamente e
immotivatamente ritenendola "congrua in relazione ai normali parametri
liquidatori", nonché apoditticamente osservando che, "al di là di una
generica censura", i medesimi non hanno fornito "alcun elemento utile
per discostarsene".
Va ulteriormente osservato che, se da un canto ha effettuato la
liquidazione del danno non patrimoniale prendendo correttamente a
riferimento (trattandosi di debito di valore) le Tabelle in vigore al
momento della liquidazione (v. Cass., 17/4/2013, n. 9231; Cass.,
11/5/2012, n. 7272) e "in valori monetari attuali, già comprensivi quindi
di rivalutazione e interessi", sicché infondate al riguardo risultano le
doglianze mosse dai ricorrenti con il 4 motivo, come dai medesimi
lamentato nell'impugnata sentenza non risulta essere stato dalla corte di
merito dato viceversa pienamente conto della personalizzazione del dato

607
tabellare assunto a base di calcolo, e in particolare della considerazione
di indici altri e diversi dall'età della vittima, quali ad esempio il sesso, il
grado di sensibilità dei danneggiati superstiti, la situazione di
convivenza, la gravità del fatto e dell'entità della sofferenza della vittima
(cfr. Cass., 2/7/1997, n. 5944; Cass., l/3/1993, n. 2491).
Sofferenza nella specie particolarmente grave e degenerata in
sconvolgimento dell'esistenza, essendo rimasto nel corso del giudizio di
merito accertato (come emerge in particolare dal tenore delle cartelle
cliniche, in ossequio al principio di autosufficienza riportate a pag. 85
ss. del ricorso) che nei circa due anni di sopravvivenza dopo la morte
della moglie il S.M. ha sempre palesato "chiusura verso l'esterno"
("dove non può più incontrare la moglie che, invece, può convivere nel
suo animo"); non è più riuscito "a superare la perdita della moglie"
venuta a mancare quando aveva appena superato un "precedente periodo
depressivo", ripetutamente manifestando "idee di inutilità e di incapacità
ad affrontare il futuro" senza di lei e in un'occasione (a fine luglio 1988)
essendosi addirittura "chiuso in un armadio tra gli abiti della moglie
morta"; ha smesso di "frequentare amici, parenti e vicini"; si è infine
indotto al suicidio.
Di tale danno la corte di merito non risulta avere tenuto invero
conto nella determinazione del danno non patrimoniale ritenuto
spettante agli odierni ricorrenti S.M. e C.
Del pari immotivato risulta l'abbattimento dalla corte di merito
operato, in misura indicata dapprima come "considerevole" e quindi
come "massima" del dato tabellare assunto a base di calcolo, "in
considerazione del fatto che S.M. è sopravvissuto solo due anni".
Quanto al danno morale, nell'impugnata sentenza non risulta dalla
corte di merito dato conto della gravità del fatto, delle condizioni
soggettive della persona, dell'entità della relativa sofferenza e del
turbamento dello stato d'animo, al fine di potersi essa considerare
congrua ed adeguata risposta satisfattiva alla lesione (anche) della
dignità umana (cfr. Cass., 16/2/2012, n. 2228).
Non risulta infine essere stato dalla corte di merito in alcun modo

608
valutato il danno non patrimoniale (nei diversi aspetti in cui esso si
scandisce) dagli odierni ricorrenti S.M. e C. iure proprio rispettivamente
sofferto in conseguenza della morte del padre M..
In ordine al pure domandato ristoro pecuniario del danno iure
proprio e iure hereditatis da perdita della vita della P. e del S. va
osservato quanto segue.
La risarcibilità del danno da perdita della vita è stata dalla Corte
Costituzionale negata sulla base del rilievo che oggetto di risarcimento
può essere solo la "perdita cagionata dalla lesione di una situazione
giuridica soggettiva", laddove la morte immediata non è invero una
"perdita" a carico "della persona offesa", in quanto la stessa è "non più
in vita" così Corte Cost., 27/10/1994, n. 372, che nel dichiarare la non
fondatezza, in riferimento agli artt. 2 e 32 Cost., della questione di
costituzionalità dell'art. 2043 c.c., nella parte in cui non consente il
risarcimento iure hereditatis del "danno biologico da morte", ha
affermato il principio in base al quale, diversamente dalla lesione del
diritto alla salute, la lesione immediata del diritto alla vita (senza una
fase intermedia di malattia) non può configurare una perdita (e cioè una
diminuzione o privazione di un valore personale) a carico della vittima
ormai non più in vita, onde è da escludere che un diritto al risarcimento
del cd. "danno biologico da morte" entri nel patrimonio dell'offeso
deceduto e sia, quindi, trasmissibile ai congiunti in qualità di eredi, in
ragione non già del carattere non patrimoniale del danno suddetto bensì
del limite strutturale della responsabilità civile, nella quale sia l'oggetto
del risarcimento che la liquidazione del danno devono riferirsi non alla
lesione per se stessa, ma alle conseguenti perdite a carico della persona
offesa.
A tale stregua la Corte di legittimità costituzionale delle leggi ha
fatto ricorso all'"argomento, risalente a una non recente sentenza delle
Sezioni unite della Corte di cassazione (n. 3475 del 1925), secondo cui
un diritto di risarcimento può sorgere in capo alla persona deceduta
limitatamente ai danni verificatisi dal momento della lesione a quello
della morte, e quindi non sorge in caso di morte immediata, la quale
impedisce che la lesione si rifletta in una perdita a carico della persona

609
offesa, ormai non più in vita" (v. Corte Cost., 27/10/1994, n. 372).
All'esito della detta affermazione è andata nella giurisprudenza di
legittimità consolidandosi la massima secondo cui la lesione
dell'integrità fisica con esito letale intervenuta immediatamente o a
breve distanza dall'evento lesivo non è configurabile quale danno
biologico, giacché la morte non costituisce la massima lesione possibile
del diritto alla salute ma incide sul diverso bene giuridico della vita, la
cui perdita, per il definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi
nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente
diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi, non rilevando in contrario
la mancanza di tutela privatistica del diritto alla vita (invero protetto con
il diverso strumento della sanzione penale), attesa la funzione non
sanzionatoria ma di reintegrazione e riparazione di effettivi pregiudizi
svolta dal risarcimento del danno, e la conseguente impossibilità che,
con riguardo alla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla
persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura, esso operi
quando tale persona abbia cessato di esistere (v. Cass., 25/2/1997, n.
1704, e, conformemente, Cass., 30/6/1998, n. 6404; Cass., 25/2/2000, n.
2134; Cass., 2/4/2001, n. 4783; Cass., 30/7/2002, n. 11255; Cass.,
23/2/2005, n. 3766; Cass., 2/7/2010, n. 15706).
Siffatta negazione, unitamente alla considerazione che "per il
bene della vita è inconcepibile una forma di risarcimento anche solo per
equivalente" (così Cass., 14/2/2000, n. 1633; Cass., 20/1/1999, n. 491),
ha indotto la giurisprudenza ad ammettere la ristorabilità di altri e
diversi "beni".
Movendo dalla configurazione della morte quale più grave stadio
di lesione o lesione massima - in quanto integrale - del bene salute;
dalla distinzione tra danno biologico da invalidità permanente e
danno biologico da invalidità temporanea; dalla ritenuta relativa
inconfigurabilità per definizione in ipotesi di morte cagionata dalla
lesione, giacché in tal caso la malattia non si risolve con esiti permanenti
ma determina la morte dell'individuo, si è nella giurisprudenza di
legittimità pervenuti ad affermare che "quando la morte è causata dalle
lesioni", e tra le lesioni colpose e la morte intercorra un "apprezzabile

610
lasso di tempo", è invero risarcibile il danno biologico terminale (v.
Cass., 28/8/2007, n. 18163, nel senso che l'ammontare del danno
biologico terminale va commisurato soltanto all'inabilità temporanea,
ma ai fini della liquidazione il giudice deve tenere conto, nell'adeguare
l'ammontare del danno alle circostanze del caso concreto, del fatto che
pur se temporaneo tale danno è massimo nella sua entità ed intensità,
tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di
recupero ed esitare nella morte), e "per il tempo di permanenza in vita"
(v. Cass., 16/5/2003, n. 7632), e a considerare il diritto di credito al
relativo risarcimento trasmissibile iute hereditatis (v. Cass., l/2/2003, n.
18305; Cass., 16/6/2003, in 9620; Cass., 14/3/2003, n. 3728; Cass.,
2/4/2001, n. 4783; Cass., 10/2/1999, n. 1131; Cass., 29/9/1995, n.
10271).
Il danno biologico terminale, quale pregiudizio della salute che
pur se temporaneo è massimo nella sua entità ed intensità (v. Cass.,
23/2/2004, n. 3549) in quanto conduce a morte un soggetto in un sia
pure limitato ma apprezzabile lasso di tempo (v. Cass., 23/2/2005, n.
3766), si è ravvisato come "sempre esistente", per effetto della
"percezione", "anche non cosciente", della gravissima lesione
dell'integrità personale della vittima nella fase terminale della sua vita
(v. Cass., 28/8/2007, n. 18163).
La brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni ha peraltro
indotto ad escludersi la sussistenza del danno biologico laddove risulti
non apprezzabile, ai fini risarcitori, il deterioramento della qualità della
vita a cagione del pregiudizio alla salute.
Si è cioè ritenuto che in ragione del limitato intervallo di tempo
tra lesioni e morte la sofferenza non sia suscettibile di degenerare in
danno biologico.
Si è peraltro affermato che, se non il danno biologico, in tal caso
può ritenersi senz'altro integrato il danno morale terminale, dalla vittima
subito per la sofferenza provata nel consapevolmente avvertire
l'ineluttabile approssimarsi della propria fine.
Danno morale terminale per la cui configurabilità, in luogo

611
dell'apprezzabile intervallo di tempo tra lesioni e decesso della vittima,
assume rilievo il diverso criterio dell'intensità della sofferenza provata
(v. Cass., 8/4/2010, n. 8360; Cass., 23/2/2005, n. 3766; Cass., l/12/2003,
n. 18305; Cass., 19/10/2007, n. 21976; Cass., 24/5/2001, n. 7075; Cass.,
6/10/1994, n. 8177; Cass., 14/6/1965, n. 1203. In tema di cd. danno
catastrofico v. già Cass., 2/4/2001, n. 4783).
Anche in tal caso la risarcibilità è ammessa solamente al ricorrere
del presupposto della permanenza in vita (v. Cass., 25/2/1997, n. 1704;
Cass., 6/10/1994, n. 8177), in ragione della sofferenza, rilevante sotto il
profilo del danno morale, provocata dalla cosciente percezione da parte
della vittima delle "conseguenze catastrofiche delle lesioni" (v. Cass.,
31/5/2005, n. 11601; Cass., 6/8/2007, n. 17177). E al riguardo si è
parlato anche di danno "biologico di natura psichica" (v. Cass.,
14/2/2007, n. 3260).
Le Sezioni Unite del 2008 hanno quindi ammesso la risarcibilità
della "sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata
contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo",
quale "danno morale inteso nella sua nuova più ampia accezione",
altrimenti indicato come danno da lucida agonia o catastrofale o
catastrofico (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26772; Cass., Sez. Un.,
11/11/2008, n. 26773).
Pur continuando a qualificarsi a volte la lucida percezione
dell'approssimarsi della propria fine in termini di danno biologico di
natura psichica (v. Cass., 18/1/2011, n. 1072. V. altresì Cass., 13/1/2009,
n. 458, di conferma della sentenza impugnata, che aveva qualificato la
sofferenza della vittima come danno morale, e non già come danno
biologico terminale, in ragione della ravvisata inidoneità dell'intervallo
di tempo di tre giorni tra il sinistro e la morte ad integrare gli estremi di
quest'ultimo), tale ricostruzione è stata prevalentemente confermata
dalle Sezioni semplici della Corte Suprema di Cassazione, che considera
catastrofale il "danno non patrimoniale conseguente alla sofferenza
patita dalla persona sopravvissuta per un lasso di tempo apprezzabile in
condizioni di lucidità tali da consentirle di percepire la gravità della
propria condizione e di soffrirne" (v. Cass., 21/3/2013, n. 7126).

612
In dottrina si è al riguardo criticamente osservato che il
riferimento ai "danni terminali (biologico, morale o da "lucida agonia")"
costituisce il "frutto" di "acrobazie logiche e concettuali", e di
"intenzioni sostanzialmente compensative della totale assenza di
risarcimento per la perdita della vita".
A tale stregua, piuttosto che al decorso di un apprezzabile
intervallo di tempo tra l'evento lesivo e la morte decisivo rilievo risulta
assegnato alla sofferenza psichica e alla disperazione, di "massima
intensità", che provoca la percezione, pur se di breve durata,
dell'approssimarsi della propria morte, la "sofferenza patita dalla vittima
che sia rimasta lucida durante l'agonia, in consapevole attesa della fine"
(v. Cass., 13/1/2009, n. 458. V. altresì Cass., 8/4/2010, n. 8360. E già
Cass., 2/4/2001, n. 4783).
Danno da tenersi invero distinto dal "danno biologico", il quale si
ha allorquando la vittima sia sopravvissuta "per un considerevole lasso
di tempo ad un evento poi rivelatosi mortale" ed abbia in tale periodo
"sofferto una lesione della propria integrità psico-fisica autonomamente
considerabile come danno biologico ..., quindi accertabile con
valutazione medicolegale e liquidabile alla stregua dei criteri adottati per
la liquidazione del danno biologico vero e proprio" (v. Cass., 21/3/2013,
n. 7126).
Pregiudizio che va del pari tenuto distinto dal cd. danno
tanatologico inteso quale "danno connesso alla perdita della vita" (v., da
ultimo, Cass., 21/3/2013, n. 7126).
Si è in dottrina da alcuni sostenuto che le Sezioni Unite del 2008
hanno negato la risarcibilità del danno tanatologico o da perdita della
vita in favore del soggetto deceduto.
In realtà nelle richiamate pronunzie le Sezioni Unite non si sono
espresse al riguardo, limitandosi a fare il punto in ordine
all'orientamento interpretativo maturato (in particolare nella
giurisprudenza di legittimità) in argomento, pervenendo ad ammettere la
risarcibilità del danno subito dalla persona danneggiata, rimasta lucida
durante l'agonia in consapevole attesa della fine, allorquando la morte

613
segua "dopo breve tempo" dall'evento dannoso, atteso che la vittima
soffre una "sofferenza psichica ... di massima intensità", pur se di
"durata contenuta", in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni
e morte (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973, che ha nella specie
riconosciuto la configurabilità del danno morale da danno cd.
catastrofale in un caso di agonia protrattasi per undici ore).
A tale stregua Le Sezioni Unite hanno fatto in realtà riferimento
al cd. danno catastrofale, quale particolare espressione del danno
morale.
Pur segnando tale affermazione un progresso sul piano
interpretativo, non sfugge che rimane a tale stregua priva di tutela
l'ipotesi dell'agonia inconsapevole, peraltro in passato dalla
giurisprudenza ritenuta ristorabile (con riferimento al danno biologico e
al danno morale v., da ultimo, Cass., 19/10/2007, n. 21976. Per la
risarcibilità del danno non patrimoniale sofferto anche se in stato di
incoscienza v. altresì Cass., 19/2/2007, n. 3760; Cass., 24/5/2001, n.
7075; Cass., 6/10/1994, n. 8177; Cass., 14/6/1965, n. 1203).
Successivamente alla pronunzia delle Sezioni Unite del 2008,
mentre la risarcibilità iure hereditatis della perdita del congiunto ha
trovato riconoscimento nella giurisprudenza di merito per la risarcibilità
del danno da morte, non già quale lesione della salute, bensì quale danno
da perdita del bene vita v., in giurisprudenza di merito, Trib. Venezia
15/6/2009 (in Danno e resp., 2010, 1013 ss.). Anteriormente al 2008, v.
in particolare Trib.
Terni, 20/4/2005 (in Giur. it., 2005, 2281 ss.); Trib. S. Maria C.V.,
14/5/2003 (in Giur. it., 2004, 495 ss.); Trib. Foggia, 28/6/2002 (in Foro
it., 2002, 1, 3494 ss.); Trib. Civitavecchia, 26/2/1996 (in Ass., 1997, 2,
2, 85 ss.); App. Roma, 4/6/1992 (in Resp. civ., 1992, 597 ss.); Trib.
Roma, 24/5/1988 (in Dir. pratica ass., 1988, 379 ss.), nella
giurisprudenza di legittimità si è ribadito che il cd. danno tanatologico, o
da morte avvenuta a breve distanza di tempo da lesioni personali, deve
essere ricondotto al danno morale, concorrendo alla relativa
liquidazione, non potendo ritenersi riconducibile alla nozione di danno
biologico cd. terminale (v. Cass., 13/1/2009, n. 458; Cass., 27/5/2009, n.

614
12326; Cass., 8/4/2010, n. 8360; e, da ultimo, Cass., 7/6/2011, n. 12273;
Cass., 29/5/2012, n. 8575. La risarcibilità del danno non patrimoniale
morale cd. catastrofale è stato negata, in mancanza di prova in ordine
alla lucidità della vittima durante l'agonia, da Cass., 28/11/2008, n.
28433).
Si è al riguardo altresì precisato che il risarcimento del cd. danno
catastrofale può essere fatto valere iure hereditario a condizione che sia
entrato a far parte del patrimonio della vittima al momento della morte
(v. Cass., 24/3/2011, n. 6754. Conformemente v. Cass., 9/5/2011, n.
10107).
Pur riconoscendosi che in una virtuale scala gerarchica il diritto
alla vita è sicuramente il primo tra tutti i diritti inviolabili dell'essere
umano, nel sottolinearsi come esso risulti "in ogni contesto e con le più
variegate modalità" tutelato, se ne esclude invero la ristorabilità in
favore dello stesso soggetto che la vita abbia perso, appunto morendo
all'esito di lesioni inferte da terzi (v. Cass., 24/3/2011, n. 6754).
Del tutto improduttive, si afferma (v. Cass., 24/3/2011, n. 6754),
si palesano le disquisizioni sul se la morte faccia parte della vita o se,
contrassegnando la sua fine, sia alla stessa estranea (per tale tesi v.
Cass., 16/5/2003, n. 7632).
Mero artifizio retorico viene qualificata (v. Cass., 24/3/2011, n.
6754) l'obiezione secondo cui, essendo il risarcimento del danno da
lesioni gravissime assai oneroso per l'autore dell'illecito, ed escludendosi
per converso la risarcibilità del danno da soppressione della vita a favore
dello stesso soggetto di cui sia provocata la morte, viene
paradossalmente a risultare "economicamente più "conveniente"
uccidere che ferire".
"Improprio" si considera il rilievo secondo cui, essendo quella
risarcitoria la tutela minima di ogni diritto, la negazione della
risarcibilità del danno da lesione del diritto alla vita a favore del
soggetto stesso la cui vita è stata spenta da terzi viene a porsi in intima
contraddizione con il riconoscimento della tutela propria del primo tra
tutti i diritti dell'uomo.

615
Il vero problema, si osserva, è che il risarcimento costituisce solo
una forma di tutela conseguente alla lesione di un "diritto di credito,
diverso dal diritto inciso, ad essere tenuto per quanto è possibile indenne
dalle conseguenze negative che dalla lesione del diritto derivano,
mediante il ripristino del bene perduto, la riparazione, la eliminazione
della perdita o la consolazione- soddisfazione-compensazione se la
riparazione non sia possibile" (v. Cass., 24/3/2011, n. 6754).
Non è allora "giuridicamente concepibile", si conclude, che dal
soggetto che muore venga acquisito un diritto derivante dal fatto stesso
della sua morte ("chi non è più non può acquistare un diritto che gli
deriverebbe dal non essere più"), essendo "logicamente inconfigurabile"
la stessa funzione del risarcimento che, nel diritto civile, non ha nel
nostro ordinamento natura sanzionatoria bensì riparatoria o consolatoria,
che in caso di morte che si è ravvisata "per forza di cose" non attuabile
"a favore del defunto" (v. Cass., 24/3/2011, n. 6754).
Si è ulteriormente asserito che il "Pretendere che tutela sia data
(oltre che ai congiunti) "anche" al defunto" risponda in realtà al mero
"contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti",
giacché non si sostiene "da alcuno che sia in linea col comune sentire o
col principio di solidarietà l'erogazione del risarcimento da perdita della
vita agli eredi "anziché" ai congiunti (se, in ipotesi, diversi), o, in
mancanza di successibili, addirittura allo Stato" (v. Cass., 24/3/2011, n.
6754).
Il risarcimento, si osserva, assumerebbe in tal caso una "funzione
meramente punitiva, viceversa assolta dalla sanzione penale. E si
risolverebbe in breve, come l'esperienza insegna, in una diminuzione di
quanto riconosciuto iure proprio ai congiunti, cui viene ora riconosciuto
un ristoro corrispondente ad un'onnicomprensiva valutazione equitativa,
con la conseguenza che verrebbe a risultare frustrata anche la finalità di
innalzamento dell'ammontare del risarcimento" (v. Cass., 24/3/2011, n.
6754).
I suindicati argomenti sono stati dalla giurisprudenza di
legittimità anche recentemente ribaditi (v., da ultimo, Cass., 17/7/2012,
n. 12236).

616
In una non risalente occasione, nel fare richiamo alla pronunzia
Corte Cost., 6/5/1985, n. 132 e ricordando come parte della dottrina
(italiana ed Europea) suggerisca il riconoscimento della lesione come
momento costitutivo di un diritto di credito che entra istantaneamente, al
momento della lesione mortale, nel patrimonio della vittima quale
corrispettivo del danno ingiusto, senza che rilevi la distinzione tra
evento di morte mediata o immediata, questa Corte ha peraltro
sottolineato come la ristorabilità anche del danno da morte, inteso come
lesione del diritto inviolabile alla vita, in favore di chi la perde, si
appalesi in realtà imprescindibile, in quanto tutelato dall'art. 2 Cost., e
ora anche dalla Costituzione Europea (v. Cass., 12/7/2006, n. 15760).
Tale affermazione costituisce invero un obiter dictum, che nella
stessa pronunzia viene definito "sistematico" e necessitato dall'essere la
Corte Suprema di Cassazione "vincolata dal motivo del ricorso".
In dottrina si è per altro verso suggerito di configurare la perdita
della vita in termini di perdita della chance di sopravvivenza.
Movendo dalla qualificazione giurisprudenziale della chance
quale "entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente
valutabile", che fa parte del soggetto la cui "perdita produce un danno
attuale e risarcibile"; nonché argomentando dalla ammissione della
risarcibilità del danno (conseguente ad errata diagnosi medica)
consistente nelle chances di vivere di più e meglio v. Cass., 16/10/2007,
n. 21619. In giurisprudenza di merito v. Trib. Monza, 30/1/1998 (in
Resp. civ., 1998, 696 ss.), si sostiene che, intendendo il dictum della
Suprema Corte in una accezione più ampia, come se dicesse "alla
vittima che, per effetto di un comportamento (illecito/negligente,
omissivo o attivo) di un dato soggetto, abbia perduto la chance di vivere
più a lungo, spetta il risarcimento del danno", debba riconoscersi che
allorquando viene colpito un bene già parte del patrimonio della vittima
rappresentato dalla "aspettativa di vita media", non può negarsene il
ristoro.
Alla stessa stregua di quanto invero avviene, a prescindere dalla
sua sopravvivenza per un apprezzabile arco temporale, per le cose
materiali appartenenti alla vittima medesima, come ad esempio il diritto

617
di proprietà sul veicolo distrutto in conseguenza del comportamento
illecito altrui.
La suddetta ricostruzione è in effetti (anch'essa) sintomatica
dell'avvertita esigenza di superare in qualche modo il recepito assunto
della irrisarcibilità del danno da perdita della vita.
Proprio l'individuazione della chance quale entità patrimoniale
giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita determina
un danno attuale e risarcibile, depone peraltro per la relativa autonoma
considerazione rispetto al bene vita, che, come da tempo in dottrina del
resto sottolineato, è bene altro e diverso, in sè anche la prima in realtà
racchiudendo.
Se ne trae comunque la conferma che la perdita della vita, bene
massimo della persona, non può lasciarsi invero priva di tutela (anche)
civilistica.
Orbene, il risultato ermeneutico raggiunto dal prevalente
orientamento giurisprudenziale appare non del tutto rispondente
all'effettivo sentire sociale nell'attuale momento storico.
Il ricorso a soluzioni indirette, la cui strumentante traspare
evidente, testimonia la necessità di ammettersi senz'altro la diretta
ristorabilità del bene vita in favore di chi l'ha perduta in conseguenza del
fatto illecito altrui.
Movendo dalla considerazione della morte quale massima lesione
del bene salute si è nella giurisprudenza di merito e in dottrina segnalata
l'incongruenza di un'interpretazione che riconosce ristorabile la
compromissione anche lieve della integrità psico- fisica e la nega
viceversa quando essa raggiunge appunto la massima espressione, a
fortiori in ragione della circostanza che per quanto breve possa essere il
lasso di tempo in cui sopraggiunge, la morte costituisce pur sempre
conseguenza della lesione (in giurisprudenza di merito v. Trib. Venezia,
15/6/2009, cit.: "in ogni caso quel che si trasmette non è il diritto
assoluto della persona, ma quello patrimoniale al risarcimento del
danno. Si è ancora osservato che i diritti non sono azioni umane o beni
che vivono in tempo, ma sono in uno spazio logico: "tra fatto e diritto

618
esiste una relazione logica (istituita dall'ordinamento), ma non una
relazione temporale". In altri termini, se la morte determina una lesione
della salute, nel senso che elimina alla radice, l'evento morte determina
sul piano logico giuridico, la nascita di una pretesa risarcitoria spettante
agli eredi in virtù dell'apertura della successione al momento della morte
come stabilito dall'art. 456 c.c.". Negli stessi termini v. Trib. Venezia,
15/3/2004, in Arch. circolaz., 2004, 1013 ss. e in Danno e resp., 2005,
1137 ss.. Nel senso che la morte è da intendersi quale massima lesione
del bene salute v. altresì, in giurisprudenza di legittimità, Cass.,
7/6/2010, n. 13672; Cass., 12/2/2010, n. 3357; Cass., 8/4/2010, n. 8360;
Cass., 2/4/2012, n. 6273, e, da ultimo, Cass., 21/3/2013, n. 7126; e, in
giurisprudenza di merito, Trib. S. Maria C.V., 14/5/2003, cit.; Trib.
Brindisi, 5/8/2002; Trib. Messina 17/7/2002; Trib. Foggia 28/6/2002;
Trib. Vibo Valentia, 28/5/2001 (in Danno e resp., 2001, 1095 ss.); Trib.
Cassino, 8/4/1999 (in Giur. it., 2000, 1200 ss.); Trib. Massa Carrara,
19/12/1996 (in Danno e resp., 1997, 354 ss.); Trib. Civitavecchia,
26/2/1996 (in Riv. circ. e trasp., 1996, 958); Trib. Vasto, 17/7/1996; Pret.
Montella, 12/4/1996 (in Nuovo dir., 1998, 855 ss.); Trib. Napoli,
6/2/1991 (in Arch. circolaz., 1991, 586 ss.).
Orbene, che il diritto alla vita sia altro e diverso dal diritto alla
salute costituisce dato invero inconfutabile, quest'ultima rappresentando
un minus rispetto alla prima, che ne costituisce altresì il presupposto.
Siffatta distinzione non comporta tuttavia necessariamente la
conclusione che della perdita della vita debba negarsi la ristorabilità.
In dottrina si è di recente autorevolmente suggerito di mutare
l'impostazione del problema.
Nel sottolinearsi che le categorie giuridiche non costituiscono un
dato oggettivo esistente in rerum natura, come il fatto che nelle stesse
l'interprete si sforza di sussumere ai fini dell'applicazione del diritto, ma
è uno strumento che lo stesso interprete a tale scopo crea, si è osservato,
evocando in particolare la recente Cass., 17/7/2012, n. 12236, che non
essendo entità oggettiva nè costituendo a priori concettuale ben possono
le categorie essere dall'interprete poste "in qualunque momento in
discussione", e ciò "al di là della forza attrattiva di sedimentazioni

619
storiche che ci conducono ad utilizzare certi paradigmi".
Si è criticamente osservato che "Pretendere di giustificare le
soluzioni in funzione di categorie classificatorie preconfezionate (e il
limite risulta tanto più paradossale in quanto nella specie si tratta di
categorie di derivazione giurisprudenziale), se può risultare indifferente
nella maggior parte dei casi, quando si tratta di risolvere problemi in
qualche modo consueti, e rispetto ai quali il profilo qualificativo può
ritenersi scontato ed è comunque pacificamente accolto in base a criteri
di valore condivisi, appare invece ingiustificato ed ambiguo quando si
tratta di dare soluzione a problemi nuovi, dietro i quali pulsano contrasti
in chiave assiologica e rispetto ai quali il pacifico riferimento ad una
categoria classificatoria del passato risulterebbe inevitabilmente
riduttivo e condizionante. E' necessario allora mettere in discussione i
nostri schemi tradizionali modificandone la struttura o forgiandone di
nuovi. Perché le categoria non sono trovate dall'operatore giuridico, ma
sono da lui (consapevolmente o inconsapevolmente) costruite in vista
del caso pratico che si tratta di risolvere".
Si è per altro verso posto in rilievo come sia invero "aprioristico
sostenere che, essendo, nell'ordinamento civile, la funzione del
risarcimento di segno riparatorio o consolatorio, ne sarebbe impensabile
un'attuazione a favore del defunto".
Si è proposto di considerare allora la vita come "riconducibile alla
sfera dei diritti e alla loro relativa tutela finché appartiene al suo
titolare", e di intenderla viceversa "nell'ottica dei beni nel momento in
cui viene distrutta", rimarcando che all'esito della relativa estinzione, la
vita "non è più riconducibile ad un titolare, ma non per questo, nella sua
oggettività, immeritevole di tutela nell'interesse della collettività".
L'ordito argomentativo risulta muovere anzitutto dal rilievo che
"la qualificazione (e conseguentemente la tutela) in termini oggettivi
non è alternativa ad una tutela in termini ... soggettivi (essendo per
esempio consentito al titolare del nome di reagire contro una sua
infondata contestazione o contro una sua pregiudizievole usurpazione)".
Si è sottolineato, ancora, come in un ordinamento in cui il diritto

620
alla salute è definito dalla giurisprudenza quale "situazione resistente a
tutta oltranza" (formulazione utilizzata da Cass., Sez. Un., 6/10/1979, n.
5172), sia "impensabile che invece il diritto alla vita possa degradare ad
una tutela meno penetrante e diretta, finendo in qualche modo per
dipendere dalla garanzia del primo" (e si evidenzia che tale è
sostanzialmente l'assunto di Cass., 24/3/2011, n. 6754).
Privo di fondamento si è altresì ravvisata la tesi secondo cui la
vita non sarebbe protetta (almeno nell'ottica della tutela risarcitoria) in
quanto tale, ma solo in quanto la sua "perdita derivi da una lesione del
diritto alla salute", obiettandosi essere "invero difficile pensare che un'
impostazione di questo tipo non dipenda dal modo con cui vengono
aprioristicamente assunte, ai fini della soluzione, le categorie
qualificanti".
Si è stigmatizzato che la giurisprudenza, pur avendo "concorso a
modificare, in tema di responsabilità civile, gli angusti schemi di
derivazione codicistica", degli stessi abbia poi finito per rimanere
"(almeno entro certi limiti) schiava".
Si è osservato che il problema risulta "non direttamente affrontato
nei suoi profili qualificanti" ma "aggirato" là dove, "anziché
circoscrivere il danno tanatologico alla sola lesione del bene vita, lo si
sposta sul terreno di un danno ulteriore (ed eventuale) qual è la
sofferenza che la vittima ha subito nel percepire la fine della propria
esistenza", a tale stregua addivenendosi ad "artificiose enfatizzazioni",
quali l'individuazione del cd. danno catastrofico o del cd. danno
biologico terminale, nonché a figure frutto della "fantasia della
giurisprudenza" quali il "danno al rapporto parentale" e il "danno
edonistico" (figura quest'ultima di diritto americano, concernente il "più
ampio valore della vita", comprendente "il profilo economico, quello
morale, quello fisiologico; insomma (a) tutto il valore che si può
attribuire alla vita": v. Corte distr. Illinois, 15/11/1995 (Sherrod v. Berry,
Breen and City of Joiliet), in Foro it., 1987, 4, 71 ss.).
Si è invitato a "rompere" allora "postulati categoriali", e in
particolare quello della "scontata coincidenza tra il punto di incidenza
del danno e il titolare dell'azione risarcitoria", mutando la prospettiva in

621
modo da avere riguardo non più alla posizione del titolare bensì a quello
dell'intera collettività, alla stregua di quanto avviene relativamente in
tema di interessi diffusi e di tutela di consumatore.
Si è proposto di considerare quindi la perdita del bene vita quale
danno non già del singolo individuo che la subisce bensì dell'intera
collettività, in quanto "la morte rappresenta certo un danno (il più grave
fra quelli possibili) per la persona, ma anche un costo per la società al
quale deve corrispondere un risarcimento capace (sul terreno civilistico
e non solo quindi sul versante delle sanzioni penali) di trasmettere ai
consociati il disvalore dell'uccisione e la deterrenza della reazione
dell'ordinamento", sottolineandosi che "ridurre tutto al profilo della
soggettività e delle sue tutele è certamente riduttivo e per tanti versi
distorcente".
Diversamente, in dottrina si è del pari autorevolmente da altri
sottolineata la possibilità e la necessità di non abbandonare i tradizionali
schemi argomentativi e di trarre piuttosto da essi nuovi e differenti
corollari.
Si è posto in rilievo come l'assunto della assenza di capacità
giuridica della vittima si profili carente laddove non considera che al
momento della lesione mortale la medesima è ancora in vita, ed è in tale
momento che acquista il diritto al risarcimento (principio rispondente,
secondo alcuni, al brocardo momentum mortis vitae tribuitur).
Si è ulteriormente osservato che tra fatto e diritto esiste una
relazione "logica" e non già "temporale", sicché nel determinare la
scomparsa della persona la morte determina contestualmente anche
l'insorgenza della pretesa risarcitoria e del relativo trapasso agli eredi.
Si è negato, sotto altro profilo, validità all'assunto che solo il
danno conseguenza, e non anche il danno evento, debba ritenersi
risarcibile, non trovando esso riscontro nel dato normativo e risultando
smentito dalla stessa giurisprudenza.
Si è avvertito, con riguardo ad ulteriore aspetto, come la tesi
dell'incedibilità e intrasmissibilità del diritto al risarcimento del danno
non patrimoniale in ragione del relativo carattere strettamente personale

622
sia stata superata dalla giurisprudenza (v. Cass., 3/10/2013, n. 22601), e
si profili ormai generalmente recessiva sia nei sistemi di common law,
ivi compreso quelli di diritto americano, che nei sistemi di diritto
continentale, nello stesso ordinamento tedesco riconoscendosi agli eredi
la pretesa al risarcimento del danno non patrimoniale (Schmerzengeld)
acquistata in vita dal de cuius.
Al rilievo che il risarcimento non può giovare alla vittima ormai
defunta si obietta che la circostanza per la quale la prestazione è
percepita da altri non tocca il titolo dell'obbligazione nè estingue la sua
funzione risarcitoria, giacché anche attraverso la trasmissione per via
ereditaria la vittima trae vantaggio dall'acquisizione del relativo credito,
contribuendo esso ad accrescere l'eredità lasciata ai propri congiunti.
Si evidenzia, ancora, la fallacia dell'argomento secondo cui la
morte non provoca sofferenza morale, atteso che la vittima comunque
subisce il danno della perdita di un bene essenziale, senza altresì
considerarsi che esso invero contrasta con il compiuto riconoscimento
della risarcibilità del danno non patrimoniale in favore del neonato e del
nascituro, e a fortiori dell'ente giuridico per violazione del diritto al
nome, all'onore, all'immagine, alla reputazione, all'identità.
Orbene, la tesi del danno collettivo è indubbiamente suggestiva.
Va senz'altro condivisa l'osservazione che le categorie
dogmatiche create e poste dagli interpreti a base dell'argomentare non
possono divenire delle "gabbie argomentative" di cui risulti impossibile
liberarsi anche quando conducano ad un risultato interpretativo non
rispondente o addirittura in contrasto con il prevalente sentire sociale, in
un determinato momento storico.
Degli schemi tradizionali si profila peraltro prodromicamente
necessario verificare se sia possibile confermarne la validità e utilità nel
quadro della ricostruzione sistematica compiuta dalle Sezioni Unite nel
2008, prima di darsi ingresso a soluzioni radicali come quella del danno
collettivo, che prospetta aspetti di indubbia problematicità, al di là del
risultare connotata da profili di deterrenza e carattere sanzionatorio.
Va anzitutto posto in rilievo che un fondamentale principio dalle

623
Sezioni Unite del 2008 posto a base, quale assioma o postulato,
dell'argomentare è che solamente il danno conseguenza è risarcibile, non
anche il danno evento.
Si è al riguardo in dottrina criticamente sottolineato che tale
principio costituisce in realtà esso stesso il risultato di un oscillante
orientamento interpretativo, essendo stato in un primo tempo
abbandonato e quindi riproposto all'esito dell'accoglimento da parte
della giurisprudenza di legittimità della figura del danno biologico (v.
Cass., 10/3/1992, n. 2840).
Costituendo quello secondo cui risarcibili sono solo i danni-
conseguenza, e non anche il danno-evento, un principio basilare
dell'architettura argomentativa su cui si sorregge la rilettura del sistema
dei danni operata dalle Sezioni Unite del 2008 alla stregua
dell'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. (cfr.
Corte Cost., 27/10/1994, n. 372), non appare invero consentito
quantomeno allo stato, a fortiori a distanza di sì breve arco temporale,
avuto riguardo alle esigenze di certezza del diritto, "conoscibilità" della
regola di diritto e ragionevole prevedibilità della sua applicazione (cfr,
Cass., Sez. Un., 11/7/2011, n. 15144) su cui si fonda (anche) il valore
del giusto processo ex art. Ili Cost. (cfr. Cass., 7/6/2011, n. 12408) farsi
luogo in ordine al medesimo a un revirement interpretativo che la
suindicata ricostruzione sistematica minerebbe alle fondamenta.
E' invece ben possibile argomentare alla stregua della "logica
interna" di tale principio.
Orbene, esso non appare di per sè idoneo ad escludere la
ristorabilità del danno da perdita della propria vita.
Tale perdita non ha invero, per antonomasia, conseguenze inter
vivos per l'individuo che appunto cessa di esistere, ma ciò non può e non
deve tuttavia condurre a negarne in favore del medesimo il ristoro,
giacché la perdita della vita, bene supremo dell'uomo e oggetto di
primaria tutela da parte dell'ordinamento, non può rimanere priva di
conseguenze anche sul piano civilistico.
Vale al riguardo osservare che giusta incontrastato dato di

624
esperienza ogni principio ha invero le sue eccezioni.
Orbene, non è chi non veda che il ristoro del danno da perdita
della vita costituisce in realtà ontologica ed imprescindibile eccezione al
principio della risarcibilità dei soli danni-conseguenza.
La morte ha infatti per conseguenza ... la perdita non già solo di
qualcosa bensì di tutto. Non solo di uno dei molteplici beni, ma del bene
supremo, la vita, che tutto il resto racchiude. Non già di qualche effetto
o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze.
Non si tratta quindi di verificare quali conseguenze conseguano al
danno evento, al fine di stabilire quali siano risarcibili e quali no.
Nel più sta il meno.
La morte determina la perdita di tutto ciò di cui consta(va) la vita
della (di quella determinata) vittima, che avrebbe continuato a
dispiegarsi in tutti i molteplici effetti suoi propri se l'illecito dell'autore
non ne avesse determinato la soppressione.
Come correttamente osservato in dottrina, la perdita della vita va
in realtà propriamente valutata ex ante e non già ex post rispetto
all'evento che la determina.
E' allora proprio l'eccezione che vale a confermare la regola,
evitando che la stessa risulti fallace in quanto insuscettibile di generare
applicazione, sì da legittimarne la revoca in dubbio.
Altra e diversa questione costituisce d'altro canto la definizione
dell'ambito dell'eccezione, se cioè anche la perdita di altri diritti
inviolabili e beni essenziali dell'uomo, oltre a quello alla vita, legittimi
di per sè l'attribuzione di un ristoro, a prescindere dalle conseguenze
personali ed economiche che possano derivarne.
Vale al riguardo osservare come nella stessa giurisprudenza di
legittimità si afferma, a volte, che la mera violazione di diritti inviolabili
o di diritti fondamentali integra danno in re ipsa (in particolare, per
l'affermazione che l'accertamento del superamento della soglia di
normale tollerabilità di cui all'art. 844 c.c. comporta, nella liquidazione

625
del danno da immissioni, sussistente in re ipsa, l'esclusione di qualsiasi
criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità
dell'uso, in quanto venendo in considerazione, in tale ipotesi,
unicamente l'illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si
rientra nello schema dell'azione generale di risarcimento danni di cui
all'art. 2043 c.c., e specificamente, per quanto concerne il danno alla
salute, nello schema del danno non patrimoniale risarcibile ai sensi
dell'art. 2059 c.c., v. Cass., 9/5/2012, n. 7048).
Deve in proposito peraltro ribadirsi che il danno, anche in caso di
lesione di valori della persona, non può considerarsi in re ipsa,
risultando altrimenti snaturata la funzione del risarcimento, che verrebbe
ad essere concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un
danno bensì quale pena privata per un comportamento lesivo (v. Cass.,
Sez. Un., 11/11/2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975), ma va provato
dal danneggiato secondo la regola generale ex art. 2697 c.c..
A tale stregua, (pure) il danno non patrimoniale deve essere allora
sempre allegato e provato, in quanto l'onere della prova non dipende
dalla relativa qualificazione in termini di "danno-conseguenza", ma tutti
i danni extracontrattuali sono da provarsi da chi ne pretende il
risarcimento, e pertanto anche il danno non patrimoniale, nei suoi vari
aspetti, la prova potendo essere d'altro canto data con ogni mezzo, anche
per presunzioni (v. Cass., 3/10/2013, n. 22585; Cass., 20/11/2012, n.
20292; Cass., 16/2/2012, n. 2228. V. altresì, successivamente alle
pronunzie delle Sezioni Unite del 2008, Cass., 6/4/2011, n. 7844; Cass.,
5/10/2009, n. 21223; Cass., 22/7/2009, n. 17101; Cass., l/7/2009, n.
1540).
Negare alla vittima il ristoro per la perdita della propria vita
significa determinare una situazione effettuale che in realtà rimorde alla
coscienza sociale, costituendo ipotesi che del principio in argomento
viene invero a minare la bontà, dando adito ad aneliti di relativo
abbandono o superamento in quanto divenuto una "gabbia
interpretativa" inidonea a consentire di pervenire a legittimi risultati
ermeneutici, rispondenti al comune sentire sociale dell'attuale momento
storico.

626
Deve pertanto revocarsi in dubbio l'assunto secondo cui, pur
essendo superata da norme internazionali ed Europee, la discrasia tra
"morte immediata" e "lesioni mortali" non costituisce invero lacuna o
discriminazione costituzionalmente rilevante per il nostro ordinamento
interno, posto che comunque il legislatore appresta mezzi di tutela,
giurisdizionalmente azionabili (in sede penale e civile), sicché solo "de
iure condendo" appare auspicabile "una riforma che possa allineare il
sistema italiano a quello internazionale o di diritto comune" (così Cass.,
2/4/2001, n. 4783).
Perde invero pregnanza il rilievo che il risarcimento del danno da
perdita della vita assumerebbe una funzione meramente punitiva,
propria invero della sanzione penale (in tal senso v. in particolare Cass.,
24/3/2011, n. 6754), giacché la funzione compensativa risulta per
converso pienamente assolta dall'obiettiva circostanza che il credito alla
vittima spettante per la perdita della propria vita a causa dell'altrui
illecito accresce senz'altro il suo patrimonio ereditario.
Vano risulta fare ricorso al presupposto del "lasso di tempo non
trascurabile" o al criterio dell'intensità della sofferenza, meri
escamotages interpretativi per superare le iniquità scaturenti dalla
negazione del risarcimento del danno da perdita della vita, e superare le
disparità di trattamento derivanti dalla necessità di stabilire quale esso
sia.
Inutile si appalesa il sopperire alla mancanza di ristoro della
perdita della vita mediante l'"attribuzione ai familiari - iure proprio - del
diritto di risarcimento di tutti i danni non patrimoniali, comprensivi non
delle sole sofferenze fisiche (eventuali danni biologici) o psichiche
(danni morali o soggettivi), ma anche dei cd. danni esistenziali,
consistenti nell'irredimibile, oggettiva e peggiorativa alterazione degli
assetti affettivi e relazionali all'interno della famiglia (e che di un tanto
si tratti emerge evidente dalla relativa ristorabilità riconosciuta anche in
caso - come più sopra evidenziato - di sopravvivenza protrattasi
solamente per mezz'ora o per pochi attimi dopo il sinistro), derivante
dalla morte".
Soluzione che pone il rischio di confusioni concettuali ovvero di

627
avallare l'idea dell'uso strumentale di determinati istituti per sopperire al
mancato riconoscimento di altri.
Vengono meno anche le ragioni delle (peraltro condivisibili)
perplessità emergenti in ordine alla persistente affermazione
dell'irrisarcibilità dell'agonia inconsapevole (v. Trib. Venezia, 6/7/2009,
cit; Trib. Venezia, 15/3/2004, cit.), le cui incongruenze argomentative
emergono evidenti in ragione del segnalato riconoscimento della
risarcibilità del danno non patrimoniale in favore del neonato e del
nascituro v. Cass., 3/5/2011, n. 9700: "la mancanza del rapporto
intersoggettivo che connota la relazione tra padre e figlio è divenuta
attuale quando la figlia è venuta alla luce. In quel momento s'è verificata
la propagazione intersoggettiva dell'effetto dell'illecito per la lesione del
diritto della figlia (non del feto) al rapporto col padre; e nello stesso
momento è sorto il suo diritto di credito al risarcimento, del quale è
dunque diventato titolare un soggetto fornito della capacità giuridica per
essere nato"; Cass., 11/5/2009, n. 10741, e a fortiori della persona
giuridica e dell'ente per l'affermazione della risarcibilità del danno non
patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione
giuridica della persona giuridica o dell'ente che sia "equivalente" ai
diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione,
come il diritto all'immagine, alla reputazione, all'identità della persona
giuridica o dell'ente, v. Cass., 4/6/2007, n. 12929; Cass., 9/5/2001, n.
10125. Nel senso che spetta alla persona giuridica e all'ente non
patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, sofferto per la
durata irragionevole del processo v. Cass., 4/6/2013, n. 13986; Cass.,
1V12/2011, n. 25730; Cass., 29/3/2006, n. 7145; Cass., 18/2/2005, n.
3396; Cass., 16/7/2004, n. 13163. In ordine alla risarcibilità del danno
all'immagine della P.A. v. Cass., 22/3/2012, n. 4542 e Cass., 4/6/2007, n.
12929, nonché Corte Cost., 15/12/2010, n. 355. Per l'affermazione che
anche nei confronti delle persone giuridiche, e in genere degli enti
collettivi, è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale,
che non coincide con la pecunia doloris (danno morale), bensì
ricomprende qualsiasi conseguenza pregiudizievole ad un illecito che,
non prestandosi ad una valutazione monetaria basata su criteri di
mercato, non possa essere oggetto di risarcimento ma di riparazione, v.

628
Cass., 12/12/2008, n. 29185.
La perdita del bene vita, oggetto di un diritto assoluto e
inviolabile, è allora ex se risarcibile, nella sua oggettività, a prescindere
pertanto dalla consapevolezza che il danneggiato/vittima ne abbia.
La giurisprudenza di legittimità ha d'altro canto già avuto modo
di affermare che la percezione della gravità della lesione dell'integrità
personale della vittima nella fase terminale della sua vita può essere
anche "non cosciente", il danno essendo anche in tal caso pur "sempre
esistente" (v. Cass., 28/8/2007, n. 18163. V. altresì Cass., 19/10/2007, n.
21976; e, da ultimo, con riferimento al danno morale, Cass., 7/2/2012, n.
1716: sarebbe iniquo riconoscere il diritto soggettivo al risarcimento di
un danno non patrimoniale diverso dal pregiudizio alla salute e
consistente in sofferenze morali, e negarlo quando queste sofferenze non
siano neppure possibili a causa dello stato di non lucidità del
danneggiato. V. altresì Cass., 11/6/2009, n. 13530; Cass., 15/3/2007, n.
5987).
Va conclusivamente affermato che il danno non patrimoniale da
perdita della vita consiste nella perdita del bene vita, bene supremo
dell'individuo oggetto di un diritto assoluto e inviolabile
dall'ordinamento garantito in via primaria, anche sul piano della tutela
civile.
Trattasi di danno altro e diverso, in ragione del diverso bene
tutelato, dal danno alla salute, e si differenzia pertanto dal danno
biologico terminale e dal danno morale terminale (o catastrofale o
catastrofico) della vittima, rilevando ex se, nella sua oggettività di
perdita del bene vita, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile.
La perdita della vita va ristorata a prescindere dalla
consapevolezza che il danneggiato ne abbia, anche in caso di morte cd.
immediata o istantanea, senza che assumano pertanto rilievo nè il
presupposto della persistenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo
successivo al danno evento nè il criterio dell'intensità della sofferenza
subita dalla vittima per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabile
sopraggiungere della propria fine.

629
Il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce
dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi
anteriormente all'exitus, costituendo ontologica, imprescindibile
eccezione al principio dell'irrisarcibilità del danno-evento e della
risarcibilità dei soli danni-conseguenza, giacché la morte ha per
conseguenza la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto; non
solamente di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo della vita;
non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e
conseguenze, di tutto ciò di cui consta (va) la vita della (di quella
determinata) vittima e che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i
molteplici effetti suoi propri se l'illecito non ne avesse causato la
soppressione.
Il ristoro del danno da perdita della vita ha funzione
compensativa, e il relativo diritto (o ragione di credito) è trasmissibile
iure hereditatis (cfr. Cass., 3/10/2013, n. 22601), non patrimoniale
essendo il bene protetto (la vita), e non già il diritto al ristoro della
relativa lesione.
Orbene, nel respingere "la domanda di risarcimento iure
hereditario formulata dagli appellanti per il ristoro dei danni personali
(da morte e da lesioni mortali) subiti dalla loro madre P. G., in quanto
deceduta dopo circa tre ore e mezzo dal sinistro, dopo cioè un lasso di
tempo insufficiente a far sorgere in capo alla vittima il diritto ad
indennizzi di sorta", la corte di merito ha disatteso i principi da questa
Corte - anche a Sezioni Unite - posti già in tema di danno morale
terminale (o catastrofale o catastrofico), ravvisato ristorabile anche in
caso di sopravvivenza della vittima per poche ore (v. Cass., 21/3/2013,
n. 7126), anche solo due (v. Cass., 22/3/2007, n. 6946; Cass., 31/5/2005,
n. 11601), e financo per una mera mezz'ora (v. Cass., 8/4/2010, n. 8360)
o addirittura pochi attimi (v. Cass., 7/6/2010, n. 13672) dopo il sinistro.
Alla stregua di quanto sopra osservato in ordine alle
incongruenze e agli aspetti ingiustificatamente discriminatori che (così
come quella del danno biologico terminale) la figura del danno morale
terminale (o catastrofale o catastrofico) prospetta (si pensi, ad esempio,
con riferimento all'ipotesi di aereo dirottato da terroristi e lanciato verso

630
un preannunziato attacco terroristico, al differente trattamento della
vittima inconsapevole, in quanto affetta da malattia o perché neonata,
cui essa conduce rispetto alla vittima rimasta viceversa lucidamente in
attesa dell'evento mortale), e a fortiori della segnalata diversità
dell'oggetto del bene vita, la perdita della vita deve ritenersi dunque di
per sè ristorabile in favore della vittima che la subisce, irrilevanti al
riguardo invero essendo sia il presupposto della permanenza in vita per
un apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento che il criterio
dell'intensità della sofferenza della vittima per la cosciente e lucida
percezione dell'ineluttabile sopraggiungere della propria fine.
Deve a tale stregua nel caso senz'altro riconoscersi (anche) il
danno da perdita della vita sia della P.G. che del S.M. dagli odierni
ricorrenti S.M. e C. sia iure proprio che iure hereditatis subito.
E' al riguardo appena il caso di rilevare che non si prospetta nella
specie l'applicazione del principio della cd. prospective overruling,
secondo cui, facendo eccezione al principio in base al quale la pronunzia
con cui il giudice della nomofilachia muta la propria precedente
interpretazione si applica retroattivamente (sicché anche il caso portato
alla sua attenzione viene deciso in base alla nuova regola), in ragione del
carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo tale
da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso, il relativo
abbandono si connoti del carattere della (assoluta) imprevedibilità, nel
qual caso la norma non si applica secondo il nuovo significato
attribuitale nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente
(e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell'arresto
nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata
precedente interpretazione della regola stessa (v. Cass., Sez. Un., 11
luglio 2011, n. 15144).
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il suindicato
principio dell'overruling opera infatti in caso di mutamento di
consolidata interpretazione di norma processuale, comportante un effetto
preclusivo del diritto di azione o di difesa in danno di una parte del
giudizio v. Cass., 27/12/2011, n. 28967. Conformemente v. Cass.,
11/3/2013, n. 5962. Cfr. altresì Cass., 17/5/2012, n. 7755; Cass.,

631
4/5/2012, n. 6801; Cass., 28/2/2012, n. 3042; Cass., 30/12/2011, n.
30111; Cass., 7/2/2011, n. 3030, e non anche in ipotesi di (radicale)
mutamento di orientamento interpretativo in ordine a norma come nella
specie di diritto sostanziale cfr. Corte Europea dei diritti dell'uomo, 18
dicembre 2008, n. 20153/04, Unedic c. Francia; Cass., 17/5/2012, n.
7755; Cass., 4/5/2012, n. 6801; Cass., 3/11/2011, n. 22799.
In ordine alla quantificazione del danno da perdita del bene vita
in favore della persona che appunto la perde va osservato che esso
(come del resto il danno biologico terminale e il danno morale terminale
della vittima), non è contemplato dalle Tabelle di Milano.
Il danno biologico terminale o il danno morale terminale (o
catastrofale o catastrofico), sono stati quantificati con applicazione del
criterio equitativo cd. puro (v. Cass., 21/3/2013, n. 7126) ovvero, e più
frequentemente, movendo dal dato tabellare dettato per il danno
biologico, e procedendo alla relativa personalizzazione (v., in
particolare, Cass., 8/4/2010, n. 8360).
Anche allorquando si è in giurisprudenza di merito fatto
riferimento alla lesione del bene vita in sè considerato, ai fini liquidatori
si è del pari solitamente utilizzato il criterio tabellare, riferito a soggetto
con invalidità al 100% (v. in particolare la citata Trib. Venezia,
15/6/2009).
Idoneo parametro di liquidazione è stato altresì ritenuto
l'indennizzo previsto dalla L. n. 497 del 1999 per i parenti delle vittime
del disastro del Cermis (v. Trib. Roma, 27/11/2008, in Danno e resp.,
2010, 533 ss.).
Come correttamente osservato in dottrina, l'autonomia del bene
vita rispetto al bene salute/integrità psico-fisica impone peraltro di
individuarsi un sistema di quantificazione particolare e specifico,
diverso da quello dettato per il danno biologico.
Si è al riguardo evocato il criterio del rischio equivalente,
elaborato dalla dottrina nordamericana.
Nel sottolinearsi le perplessità che esso peraltro suscita laddove,

632
nella versione "soggettivistica" (che ai fini della determinazione della
somma dovuta rimette all'indicazione della stessa vittima di quanto
sarebbe disposta a pagare o ad accettare al fine di evitare o di sostenere
il rischio dell'illecito) prospetta un rischio di "sovrastima" che ciascuno
può assegnare al valore della propria vita, e in quella statistico-oggettiva
di cd. salutazione sociale che rimette a quanto una data collettività
(categoria di lavoratori, abitanti di una certa area geografica, ecc.)
sarebbe disposta a pagare per ridurre le probabilità di morte di un
soggetto, di identità non nota, alla stessa appartenente prospetta un
rischio di "indifferenza" nei confronti della vittima e delle circostanze
del caso concreto, si è invero adombrata la possibilità di farsi
riferimento a quest'ultimo criterio "correggendolo con riferimenti legati
al caso di specie, quali l'età della vittima e, quando sussistano elementi
idonei, il valore indicativo attribuito dal danneggiato alla propria vita
(ad es., gli oneri assicurativi sopportati in proporzione alla sua capacità
patrimoniale)".
Come già con riferimento alla liquidazione del danno non
patrimoniale e al sistema delle tabelle, va ribadito che la valutazione
equitativa spetta al giudice di merito ed è rimessa alla sua prudente
discrezionalità l'individuazione dei criteri di relativa valutazione.
La stessa indicazione delle Tabelle di Milano è stata da questa
Corte operata non già contrapponendo "una propria scelta a quella già
effettuata dai giudici di merito" ma limitandosi a prendere atto della
relativa pregressa diffusione e della conseguentemente palesata
"vocazione nazionale" (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
Essendo la vita in sè e per sè insuscettibile di valutazione
economica in un determinato preciso ammontare, appare imprescindibile
che il diritto privato consenta di riconoscersi alla vittima per la perdita
del suo bene supremo un ristoro che sia equo, nel significato delineato
dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
Deve ritenersi allora ammissibile qualsiasi modalità che consenta
di addivenire ad una valutazione equa.
Non appare a tal fine invero idonea una soluzione di carattere

633
meramente soggettivo, nè la determinazione di un ammontare uguale per
tutti, a prescindere cioè dalla relativa personalizzazione (in
considerazione ad esempio dell'età delle condizioni di salute e delle
speranze di vita futura, dell'attività svolta, delle condizioni personali e
familiari della vittima).
Vale al riguardo altresì segnalare che dal riconoscimento della
ristorabilità della perdita del bene vita in sè e per sè considerato, anche
in caso di immediatezza o istantaneità della morte, deriva, quale
corollario, la necessità di procedere alla relativa quantificazione senza
dare in ogni caso ingresso a duplicazioni risarcitorie.
Rigettati i ricorsi proposti in via incidentale, l'accoglimento nei
suindicati termini del ricorso proposto dai sigg. S.M. e C. nonché dai
sigg. F.E. e P.V. comporta, assorbita ogni altra e diversa questione, la
cassazione in relazione dell'impugnata sentenza e il rinvio alla Corte
d'Appello di Milano, che in diversa composizione procederà a nuovo
esame, facendo applicazione dei seguenti principi:
- la categoria generale del danno non patrimoniale, che attiene
alla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da valore di
scambio, è di natura composita e (così come il danno patrimoniale si
scandisce in danno emergente e lucro cessante) si articola in una
pluralità di aspetti (o voci), con funzione meramente descrittiva, quali il
danno morale, il danno biologico e il danno da perdita del rapporto
parentale o cd. esistenziale;
- il danno morale va inteso a) come patema d'animo o sofferenza
interiore o perturbamento psichico nonché b) come lesione alla dignità o
integrità morale, quale massima espressione della dignità umana;
- del danno non patrimoniale il ristoro pecuniario non può mai
corrispondere alla relativa esatta commisurazione, sicché se ne impone
la valutazione equitativa;
- la valutazione equitativa, che attiene alla quantificazione e non
già all'individuazione del danno, deve essere condotta con prudente e
ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto,
considerandosi in particolare la rilevanza economica del danno alla

634
stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della
lesione;
- i criteri di valutazione equitativa, la cui scelta e adozione è
rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, devono essere idonei a
consentire altresì la cd. personalizzazione del danno, al fine di
addivenirsi ad una liquidazione equa, e cioè congrua, adeguata e
proporzionata;
- la liquidazione deve rispondere ai principi dell'integralità del
ristoro, e pertanto:
a) non deve essere puramente simbolica o irrisoria o comunque
non correlata all'effettiva natura o entità del danno ma tendere, in
considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità
del danno, alla maggiore approssimazione possibile all'integrale
risarcimento;
b) deve concernere tutti gli aspetti (o voci) di cui la generale ma
composita categoria del danno non patrimoniale si compendia;
- il principio della integralità del ristoro subito dal danneggiato
non si pone in termini antitetici ma trova per converso correlazione con
il principio in base al quale il danneggiante è tenuto al ristoro solamente
dei danni arrecati con il fatto illecito a lui causalmente ascrivibile,
l'esigenza della cui tutela impone di evitarsi altresì duplicazioni
risarcitorie, le quali si configurano (solo) allorquando lo stesso aspetto
(o voce) viene computato due o più volte, sulla base di diverse,
meramente formali, denominazioni, laddove non sussistono in presenza
della liquidazione dei molteplici e diversi aspetti negativi causalmente
derivanti dal fatto illecito ed incidenti sulla persona del danneggiato;
- nel liquidare il danno morale il giudice deve dare motivatamente
conto del relativo significato al riguardo considerato, e in particolare se
lo abbia valutato non solo quale patema d'animo o sofferenza interiore o
perturbamento psichico, di natura meramente emotiva e interiore (danno
morale soggettivo), ma anche in termini di dignità o integrità morale,
quale massima espressione della dignità umana;

635
- il danno da perdita del rapporto parentale o cd. esistenziale (che
consiste nello sconvolgimento dell'esistenza sostanziatesi nello
sconvolgimento delle abitudini di vita, con alterazione del modo di
rapportarsi con gli altri nell'ambito della comune vita di relazione - sia
all'interno che all'esterno del nucleo familiare -; in fondamentali e
radicali scelte di vita diversa) risulta integrato in caso come nella specie
di sconvolgimento della vita subito dal coniuge (nel caso, il marito) a
causa della morte dell'altro coniuge (nel caso, la moglie);
- costituisce danno non patrimoniale altresì il danno da perdita
della vita, quale bene supremo dell'individuo, oggetto di un diritto
assoluto e inviolabile garantito in via primaria da parte dell'ordinamento,
anche sul piano della tutela civilistica;
- il danno da perdita della vita è altro e diverso, in ragione del
diverso bene tutelato, dal danno alla salute, e si differenzia dal danno
biologico terminale e dal danno morale terminale (o catastrofale o
catastrofico) della vittima, rilevando ex se nella sua oggettività di
perdita del principale bene dell'uomo costituito dalla vita, a prescindere
dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, e dovendo essere
ristorato anche in caso di morte cd.
immediata o istantanea, senza che assumano pertanto al riguardo
rilievo la persistenza in vita all'esito del danno evento da cui la morte
derivi nè l'intensità della sofferenza interiore patita dalla vittima in
ragione della cosciente e lucida percezione dell'ineluttabile
sopraggiungere della propria fine;
- il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce
dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi
anteriormente all'exitus, costituendo ontologica, imprescindibile
eccezione al principio dell'irrisarcibilità del danno-evento e della
risarcibilità dei soli danni-conseguenza, giacché la morte ha per
conseguenza la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto; non
solamente di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo della vita;
non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e
conseguenze, di tutto ciò di cui consta (va) la vita della (di quella
determinata) vittima e che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i

636
molteplici effetti suoi propri se l'illecito non ne avesse causato la
soppressione;
- il ristoro del danno da perdita della vita ha funzione
compensativa, e il relativo diritto (o ragione di credito) è trasmissibile
iure hereditatis;
- il danno da perdita della vita è imprescindibilmente rimesso alla
valutazione equitativa del giudice;
- non essendo il danno da perdita della vita della vittima
contemplato dalle Tabelle di Milano, è rimessa alla prudente
discrezionalità del giudice di merito l'individuazione dei criteri di
relativa valutazione che consentano di pervenire alla liquidazione di un
ristoro equo, nel significato delineato dalla giurisprudenza di legittimità,
non apparendo pertanto idonea una soluzione di carattere meramente
soggettivo, nè la determinazione di un ammontare uguale per tutti, a
prescindere cioè dalla relativa personalizzazione, in considerazione in
particolare dell'età delle condizioni di salute e delle speranze di vita
futura, dell'attività svolta, delle condizioni personali e familiari della
vittima.
Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del
giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi. Accoglie p.q.r. il ricorso principale,
rigettati i ricorsi incidentali condizionati. Cassa l'impugnata sentenza e
rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte
d'Appello di Milano, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 19 novembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2014.

*****

637
LA SOLUZIONE DEL CASO

Alla luce dell'ultimo orientamento espresso dal Supremo


Collegio, è, dunque, possibile affermare che il diritto al
risarcimento del danno deve essere riconosciuto ai congiunti
non soltanto nell'ipotesi in cui vi sia stata sofferenza da parte
del soggetto poi deceduto - ossia nel caso in cui sia intercorso
un considerevole lasso di tempo tra l'evento dannoso e la morte
- bensì anche nell'ipotesi in cui il decesso della vittima sia
giunto immediatamente.

638
18. IL RISARCIMENTO AI CONGIUNTI DELLA VITTI-
MA

IL CASO
Il Sig. Bianchi, noto libero professionista si reca all'estero per
concludere taluni affari, ma l'aereo sul quale viaggia, a causa di
un'avaria al motore, esplode durante il volo.
Tutti i passeggeri muoiono sul colpo.
Accertato che la causa del disastro sia da ricondurre ad un'avaria del
motore, i congiunti del Signor Bianchi avanzano le loro pretese
risarcitorie nei confronti della compagnia aerea con la quale
viaggiava la vittima.
Precisamente, intendono far valere le loro pretese per conseguire il
risaricmento del danno non patrimoniale sia la moglie, sia la figlia
nonché una cugina a cui il Signor Bianchi era particolarmente legato
e con cui ha vissuto per taluni anni in giovane età.

Quesito
Possono trovare accoglimento da parte della moglie, della figlia e
della cugina della vittima le richieste di risarcimento del danno non
patrimoniale per lesione del rapporto parentale e possono, inoltre, la
moglie e la figlia chiedere il risarcimento del danno che sarebbe stato
liquidato al loro congiunto se questi fosse sopravvissuto?

*****

639
ESAME DELLA FATTISPECIE

Nel caso di specie la moglie, la figlia e la cugina del Si-


gnor Bianchi ritengono di aver subito la perdita del loro rap-
porto parentale in ragione dell'accadimento lesivo occorso al
loro congiunto che ne ha determinato la morte.
Precisamente, la moglie e la figlia, oltre a richiedere il ri-
sarcimento di tale voce di danno non patrimoniale – richiesta a
cui intende associarsi anche la cugina del Signor Bianchi – vo-
gliono agire in qualità di eredi per conseguire il risarcimento
che sarebbe spettato al loro congiunto in forza dell'evento lesi-
vo.
Le pretese risarcitorie dei congiunti afferiscono al danno
morale, biologico ed esistenziale.
In merito a tali voci di danno la giurisprudenza ha fatto
registrare un'evoluzione nel riconoscimento delle predette voci
che va nella direzione di ammettere la risarcibilità di quelle le-
sioni afferenti alle posizioni soggettive dei diritti inviolabili
della persona costituzionalmente garantiti.
Tale collegamento agli interessi della persona che ricevo-
no tutela costituzionale ha consentito di compiere una certa se-

640
lezione tra le varie richieste risarcitorie nonché di porre un ne-
cessario argine al fine di evitare che potessero trovare ingresso
pretese aventi ad oggetto anche lesioni meno rilevanti.
Gli argini posti dunque dalla giurisprudenza riguardano,
sul piano soggettivo, la cerchia di soggetti legittimata ad agire
e, su quello oggettivo, la tipologia del danno da risarcire.
Si tratta di problematiche sempre crescenti che si pongo-
no all'attenzione dei giudici, anche alla luce della nuova lettura,
costituzionalmente orientata, offerta dai medesimi della dispo-
sizione di cui all'art. 2059 c.c.

*****

LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 24 marzo 2011, n. 6754. In caso di morte della vittima a poche ore
di distanza dal verificarsi di un sinistro stradale (nella specie, sei o sette
ore), il risarcimento del c.d. danno «catastrofale» - ossia del danno con-
seguente alla sofferenza patita dalla persona che lucidamente assiste allo
spegnersi della propria vita - può essere riconosciuto agli eredi, a titolo
di danno morale, solo a condizione che sia entrato a far parte del patri-
monio della vittima al momento della morte; pertanto, in assenza di pro-
va della sussistenza di uno stato di coscienza della persona nel breve in-

641
tervallo tra il sinistro e la morte, la lesione del diritto alla vita non è su-
scettibile di risarcimento, neppure sotto il profilo del danno biologico, a
favore del soggetto che è morto, essendo inconcepibile l’acquisizione in
capo a lui di un diritto che deriva dal fatto stesso della morte; e, d’altra
parte, in considerazione della natura non sanzionatoria, ma solo riparato-
ria o consolatoria del risarcimento del danno civile, ai congiunti spetta in
questo caso il solo risarcimento conseguente alla lesione della possibilità
di godere del rapporto parentale con la persona defunta.

Cass. 30 giugno 1998, n. 6404. Il pregiudizio della salute nell’intervallo


di tempo intercorso tra le lesioni e la morte in tanto può dar luogo a ri-
sarcimento del danno trasmissibile agli eredi, in quanto il soggetto sia ri-
masto in vita per un tempo apprezzabile che consenta di configurare
un’effettiva ripercussione delle lesioni sulla sua complessiva qualità del-
la vita.

Cass. 24 maggio 2001, n. 7075. Il danno non patrimoniale, che per il


combinato disposto degli art. 2059 c.c. e 185 c.p., è risarcibile nel caso
in cui derivi da un fatto illecito costituente reato e consistente in un tur-
bamento ingiusto dello stato d’animo o in uno squilibrio o riduzione del-
le capacità intellettive della vittima, comprende anche le sofferenze fisi-
che o morali da questa sopportate in stato di incoscienza.

Cass. 14 marzo 2002, n. 3728. Nel caso in cui intercorra un apprezzabile


lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse è
configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione
alla menomazione della integrità psicofisica patita dal danneggiato per il
periodo di tempo indicato, e il diritto del danneggiato a conseguire il ri-
sarcimento del danno è trasmissibile agli eredi iure hereditatis (enun-
ciando il principio di cui in massima, la suprema corte ha cassato la sen-
tenza di merito che non aveva riconosciuto la risarcibilità del danno bio-
logico in un caso in cui il bambino, vittima dell’incidente stradale, era
sopravvissuto cinque giorni, senza motivare sulla sussistenza della per-
dita della salute psicofisica in tale spazio di vita, né, in particolare, sulla
intensità della sofferenza in proporzione alla brevità della sopravviven-
za.

642
Cass. 13 gennaio 2009, n. 458. Il danno c.d. «tanatologico» o da morte
immediata va ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella
sua più ampia accezione, come sofferenza della vittima che lucidamente
assiste allo spegnersi della propria vita (nella specie la suprema corte ha
confermato la sentenza impugnata che aveva qualificato la predetta sof-
ferenza della vittima come danno morale e non come danno biologico
terminale, attesane l’inidoneità - essendo stato l’intervallo di tempo tra il
sinistro e la morte di tre giorni - ad integrare gli estremi di quella fatti-
specie di danno non patrimoniale).

Cass. 28 novembre 2008, n. 28423. In caso di morte che segua le lesioni


dopo breve tempo, la sofferenza patita dalla vittima durante l’agonia è
autonomamente risarcibile non come danno biologico, ma come danno
morale iure haereditatis, a condizione però che la vittima sia stata in
condizione di percepire il proprio stato, mentre va esclusa anche la risar-
cibilità del danno morale quando all’evento lesivo sia conseguito imme-
diatamente lo stato di coma e la vittima non sia rimasta lucida nella fase
che precede il decesso (nella fattispecie a causa di un grave incidente
stradale la vittima aveva perso la vita quaranta ore dopo il sinistro e non
era stata fornita la prova del suo stato di lucidità nella breve frazione
temporale di sopravvivenza).

Cass. 6 ottobre 1994, n. 8177. Nell’ipotesi in cui da un reato di lesioni


personali sia derivata dapprima una lesione e dopo apprezzabile lasso di
tempo la morte del soggetto leso, il diritto al risarcimento del danno non
patrimoniale, ipotizzabile anche nel caso di sofferenze fisiche e morali
sopportate in stato di incoscienza, è trasmissibile agli eredi che possono,
pertanto, farlo valere giudizialmente in tale qualità, non rilevando sul
piano civilistico la non punibilità del reato di lesioni rimasto assorbito
nel reato progressivo di omicidio.

Cass. 18 gennaio 2011, n. 1072. In caso di lesione dell’integrità fisica -


nella specie, conseguente ad un infortunio sul lavoro - che abbia portato
a breve distanza di tempo ad esito letale, è configurabile un danno biolo-
gico di natura psichica subìto dalla vittima che abbia percepito lucida-

643
mente l’approssimarsi della morte, reclamabile dai suoi eredi, la cui en-
tità dipende non già dalla durata dell’intervallo tra la lesione e la morte
bensì dall’intensità della sofferenza provata; il diritto al risarcimento di
tale danno è trasmissibile agli eredi (nella specie, il supremo collegio ha
confermato il riconoscimento della misura del cento per cento del danno
biologico terminale, iure successionis, avendo - in base agli esiti della
effettuata ctu medica - il lavoratore subìto un danno psichico totale per
la presenza di una sofferenza e di una disperazione esistenziale di inten-
sità tale da determinare, nella percezione dell’infortunato, un danno ca-
tastrofico, in una situazione di attesa lucida e disperata dell’estinzione
della vita).

Cass. 3 gennaio 2002, n. 24.Nel caso di morte della persona a seguito di


fatto illecito, il diritto al risarcimento del danno biologico, trasmissibile
agli eredi, sorge solo se tra l’evento lesivo e il decesso sia intercorso un
apprezzabile lasso di tempo.

Cass. 20 settembre 2011, n. 19133. In tema di risarcimento del danno


non patrimoniale, quando all’estrema gravità delle lesioni, segua, dopo
un intervallo temporale brevissimo (nella specie due giorni), la morte,
non può essere risarcito il danno biologico «terminale» connesso alla
perdita della vita come massima espressione del bene salute, ma esclusi-
vamente il danno morale, dal primo ontologicamente distinto, fondato
sull’intensa sofferenza d’animo conseguente alla consapevolezza delle
condizioni cliniche seguite al sinistro.

Cass. 10 agosto 2004, n. 15408. In tema di risarcibilità del danno biolo-


gico, nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le le-
sioni subìte dalla vittima del danno e la morte causata dalle stesse, è
configurabile un danno biologico risarcibile subìto dal danneggiato, ed il
diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento è trasmissibile agli
eredi, che potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante iure
hereditatis.

Cass. 31 maggio 2005, n. 11601. In caso di morte della vittima a seguito


di sinistro stradale, la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni

644
(nel caso, due ore), se esclude l’apprezzabilità ai fini risarcitori del dete-
rioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio della salute,
ostando alla configurabilità di un danno biologico risarcibile, non esclu-
de viceversa che la medesima abbia potuto percepire le conseguenze ca-
tastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza, il diritto al cui risarci-
mento, sotto il profilo del danno morale, risulta pertanto già entrato a far
parte del suo patrimonio al momento della morte, e può essere conse-
guentemente fatto valere iure hereditatis.

Cass. 13 gennaio 2006, n. 517. La lesione dell’integrità fisica con esito


letale, intervenuta immediatamente o a breve distanza dall’evento lesivo,
non è configurabile come danno biologico, giacché la morte non costi-
tuisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma incide sul
diverso bene giuridico della vita, a meno che non intercorra un apprez-
zabile lasso di tempo tra le lesioni subite dalla vittima del danno e la
morte causata dalle stesse, nel qual caso è configurabile un danno biolo-
gico risarcibile in capo al danneggiato, che si trasferisce agli eredi, i
quali potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante iure here-
ditatis.

Cass. 31 maggio 2003, n. 8828. Il danno non patrimoniale da perdita del


rapporto parentale, in quanto ontologicamente diverso dal danno morale
soggettivo contingente, può essere riconosciuto a favore dei congiunti
unitamente a quest’ultimo, senza che ciò implichi di per sè, una duplica-
zione di risarcimento; tuttavia essendo funzione e limite del risarcimento
del danno alla persona, unitariamente considerata, la riparazione del pre-
giudizio effettivamente subìto, il giudice di merito, nel caso di attribu-
zione congiunta del danno morale soggettivo e del danno da perdita del
rapporto parentale, deve considerare, nel liquidare il primo, la più limi-
tata funzione di ristoro della sofferenza contingente che gli va ricono-
sciuta, poiché, diversamente, sarebbe concreto il rischio di duplicazioni
del risarcimento, e deve assicurare che sia raggiunto un giusto equilibrio
tra le varie voci che concorrono a determinare il complessivo risarci-
mento.

Cass. 27 maggio 2009, n. 12326. In materia di assicurazione contro gli

645
infortuni sul lavoro e le malattie professionali, il danno c.d. «tanatologi-
co», nel caso che la morte (nella specie, in esito ad un infortunio in itine-
re) segua le lesioni dopo breve tempo, riguardando il bene giuridico del-
la vita, diverso da quello della salute (in quanto la perdita della vita non
costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute), non rien-
tra nella nozione di danno biologico recepita dall’art. 13 d.leg. 23 feb-
braio 2000 n. 38, che fa riferimento alla «lesione dell’integrità psicofisi-
ca», suscettibile di valutazione medico-legale e causativa di una meno-
mazione valutabile secondo le tabelle di cui al d.m. 12 luglio 2000 del
ministero del lavoro e della previdenza sociale, operando entro detti li-
miti l’assicurazione sociale del danno biologico; ne consegue che non è
risarcibile la domanda proposta iure hereditatis dagli eredi del de cuius
nei confronti dell’Inail per il risarcimento del danno da «perdita del di-
ritto alla vita».

Cass. 27 maggio 2009, n. 12326. In materia di assicurazione contro gli


infortuni sul lavoro e le malattie professionali, il danno c.d. «tanatologi-
co», nel caso che la morte (nella specie, in esito ad un infortunio in itine-
re) segua le lesioni dopo breve tempo, riguardando il bene giuridico del-
la vita, diverso da quello della salute (in quanto la perdita della vita non
costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute), non rien-
tra nella nozione di danno biologico recepita dall’art. 13 d.leg. 23 feb-
braio 2000 n. 38, che fa riferimento alla «lesione dell’integrità psicofisi-
ca», suscettibile di valutazione medico-legale e causativa di una meno-
mazione valutabile secondo le tabelle di cui al d.m. 12 luglio 2000 del
ministero del lavoro e della previdenza sociale, operando entro detti li-
miti l’assicurazione sociale del danno biologico; ne consegue che non è
risarcibile la domanda proposta iure hereditatis dagli eredi del de cuius
nei confronti dell’Inail per il risarcimento del danno da «perdita del di-
ritto alla vita».

Cass. 30 giugno 1998, n. 6404. La lesione dell’integrità fisica con esito


letale intervenuta immediatamente o a breve distanza dall’evento lesivo
non è configurabile quale danno biologico dal momento che la morte
non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma in-
cide sul diverso bene giuridico della vita.

646
Cass. 22 marzo 2007, n. 6946. La lesione dell’integrità fisica con esito
letale, intervenuta immediatamente o a breve distanza dall’evento lesivo,
non è configurabile come danno biologico, poiché la morte non costitui-
sce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma incide sul di-
verso bene giuridico della vita, a meno che non intercorra un apprezza-
bile lasso di tempo tra le lesioni subìte dalla vittima del danno e la morte
causata dalle stesse, nel qual caso è configurabile un danno biologico ri-
sarcibile in capo al danneggiato, che si trasferisce agli eredi, i quali po-
tranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante iure hereditatis
(nella specie la suprema corte ha escluso la risarcibilità del danno biolo-
gico conseguente alla morte per il breve lasso di tempo che era intercor-
so fra l’evento lesivo e la morte, due ore in cui il danneggiato era rima-
sto in vita lucido di mente).

Cass. 24 marzo 2011, n. 6749. Una volta ravvisata la responsabilità di


un soggetto per i danni derivati dalla lesione di un diritto inviolabile del-
la persona, qual è la salute, la risarcibilità di un tipo di pregiudizio non
patrimoniale (art. 2059 c.c.), che sia conseguenza della lesione di quel
diritto (art. 1223 c.c.), va valutata sul piano degli effetti e non delle mo-
dalità della lesione dell’interesse protetto, nel rispetto dei principi sanciti
dalle sez. un. della sup. corte, sent. n. 26972/2008 (e coeve ulteriori pro-
nunce), dove è stato chiarito che le voci di danno non patrimoniale han-
no una funzione meramente descrittiva e che occorre bensì garantire il
risarcimento di ogni tipo di pregiudizio, ma anche evitare duplicazioni
risarcitorie.

Cass. sez. lav., 18 gennaio 2011, n. 1072. In tema di liquidazione del


danno non patrimoniale, determina duplicazione di risarcimento la con-
giunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazio-
ne, e del danno esistenziale da perdita del rapporto parentale, poiché la
sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che
accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subìta altro non sono che
componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitaria-
mente ristorato.

647
Cass. sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972. Non è ammissibile nel no-
stro ordinamento l’autonoma categoria di «danno esistenziale», inteso
quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso
che: ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di
interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-
reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in
modo conforme a costituzione, con la conseguenza che la liquidazione
di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarci-
toria; ove nel «danno esistenziale» si intendesse includere pregiudizi
non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del
tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del
divieto di cui all’art. 2059 c.c.

*****

LE NORME RICHIAMATE

Art. 2043 c.c.


Risarcimento per fatto illecito
1. Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad al-
tri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a
risarcire il danno.

648
Art. 2059 c.c.
Danni non patrimoniali
1. Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo
nei casi determinati dalla legge.

Art. 138 d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209


Danno biologico per lesioni di non lieve entità
1. Con decreto del Presidente della Repubblica, previa
deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Mini-
stro della salute, di concerto con il Ministro delle attività pro-
duttive, con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con
il Ministro della giustizia, si provvede alla predisposizione di
una specifica tabella unica su tutto il territorio della Repubbli-
ca:
a) delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese
tra dieci e cento punti;
b) del valore pecuniario da attribuire ad ogni singolo
punto di invalidità comprensiva dei coefficienti di variazione
corrispondenti all'età del soggetto leso.
2. La tabella unica nazionale è redatta secondo i seguen-

649
ti principi e criteri:
a) agli effetti della tabella per danno biologico si intende
la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica
della persona suscettibile di accertamento medico-legale che
esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli
aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indi-
pendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di
produrre reddito;
b) la tabella dei valori economici si fonda sul sistema a
punto variabile in funzione dell’età e del grado di invalidità;
c) il valore economico del punto è funzione crescente della per-
centuale di invalidità e l’incidenza della menomazione sugli
aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato cresce
in modo più che proporzionale rispetto all’aumento percentua-
le assegnato ai postumi;
d) il valore economico del punto è funzione decrescente
dell’età del soggetto, sulla base delle tavole di mortalità elabo-
rate dall’ISTAT, al tasso di rivalutazione pari all’interesse le-
gale;
e) il danno biologico temporaneo inferiore al cento per
cento è determinato in misura corrispondente alla percentuale

650
di inabilità riconosciuta per ciascun giorno.
3. Qualora la menomazione accertata incida in maniera
rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali,
l’ammontare del danno determinato ai sensi della tabella uni-
ca nazionale può essere aumentato dal giudice sino al trenta
per cento, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni
soggettive del danneggiato.
4. Gli importi stabiliti nella tabella unica nazionale sono
aggiornati annualmente, con decreto del Ministro delle attività
produttive, in misura corrispondente alla variazione dell'indice
nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed
impiegati accertata dall'ISTAT.

Art. 139 d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209


Danno biologico per lesioni di lieve entità
1. Il risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve
entità, derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei
veicoli a motore e dei natanti, è effettuato secondo i criteri e le
misure seguenti:
a) a titolo di danno biologico permanente, è liquidato

651
per i postumi da lesioni pari o inferiori al nove per cento un
importo crescente in misura più che proporzionale in relazione
ad ogni punto percentuale di invalidità; tale importo è calcola-
to in base all'applicazione a ciascun punto percentuale di inva-
lidità del relativo coefficiente secondo la correlazione esposta
nel comma 6. L'importo così determinato si riduce con il cre-
scere dell'età del soggetto in ragione dello zero virgola cinque
per cento per ogni anno di età a partire dall'undicesimo anno
di età. Il valore del primo punto è pari ad euro settecentocin-
quantanove euro e quattro centesimi;
b) a titolo di danno biologico temporaneo, è liquidato un
importo di euro quarantaquattro euro e ventotto centesimi per
ogni giorno di inabilità assoluta; in caso di inabilità tempora-
nea inferiore al cento per cento, la liquidazione avviene in mi-
sura corrispondente alla percentuale di inabilità riconosciuta
per ciascun giorno.
2. Agli effetti di cui al comma 1 per danno biologico si
intende la lesione temporanea o permanente all’integrità psi-
co-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-le-
gale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane
e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato,

652
indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capaci-
tà di produrre reddito. In ogni caso, le lesioni di lieve entità,
che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale
obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno
biologico permanente.
3. L'ammontare del danno biologico liquidato ai sensi
del comma 1 può essere aumentato dal giudice in misura non
superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento
delle condizioni soggettive del danneggiato.
4. Con decreto del Presidente della Repubblica, previa
deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Mini-
stro della salute, di concerto con il Ministro del lavoro e delle
politiche sociali, con il Ministro della giustizia e con il Mini-
stro delle attività produttive, si provvede alla predisposizione
di una specifica tabella delle menomazioni alla integrità psico-
fisica comprese tra uno e nove punti di invalidità.
5. Gli importi indicati nel comma 1 sono aggiornati an-
nualmente con decreto del Ministro delle attività produttive, in
misura corrispondente alla variazione dell'indice nazionale dei
prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati accer-
tata dall'ISTAT.

653
6. Ai fini del calcolo dell’importo di cui al comma 1, let-
tera a), per un punto percentuale di invalidità pari a 1 si appli-
ca un coefficiente moltiplicatore pari a 1,0, per un punto per-
centuale di invalidità pari a 2 si applica un coefficiente molti-
plicatore pari a 1,1, per un punto percentuale di invalidità pari
a 3 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,2, per un
punto percentuale di invalidità pari a 4 si applica un coeffi-
ciente moltiplicatore pari a 1,3, per un punto percentuale di in-
validità pari a 5 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a
1,5, per un punto percentuale di invalidità pari a 6 si applica
un coefficiente moltiplicatore pari a 1,7, per un punto percen-
tuale di invalidità pari a 7 si applica un coefficiente moltipli-
catore pari a 1,9, per un punto percentuale di invalidità pari a
8 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 2,1, per un
punto percentuale di invalidità pari a 9 si applica un coeffi-
ciente moltiplicatore pari a 2,3.

*****

654
GLI ISTITUTI

L'esame della fattispecie impone di partire dal concetto


del bene supremo che è presupposto per il riconoscimento di
tutte le altre posizioni giuridiche soggettive: quello della vita.
La Carta Costituzionale non menziona direttamente il
dirtto alla vita ma accorda tutela, all'art. 32 Cost., al bene sa -
lute come diritto fondamentale della persona.
La Corte costituzionale, con la sentenza del 14 luglio
1986, n. 184, ha riconosciuto il risarcimento del danno all'inte-
grità psico-fisica, ovvero il danno biologico, ancorando l'art.
2043 c.c. proprio all'art. 32 del precetto costituzionale.
E' evidente che se la giurisprudenza ha riconosciuto il di-
ritto al risarcimento del danno per la compromissione del bene-
salute, devesi, altresì, accordare il risarcimento del danno che
abbia cagionato la morte, ovvero la perdita del bene-vita, a cui
il bene salute è strettamente connesso.
Preso atto che la sola norma di cui all'art. 2059 c.c. pre-
sentava limiti angusti che lasciava fuori dal risarcimento una
serie di pregiudizi, i giudici hanno optato per il collegamento
delle fattispecie da risarcire alle disposizioni di rilevanza costi-

655
tuzionale, dando luogo ad un proliferare di richieste risarcito-
rie.
Per porre fine a tale situazione, il Supremo Collegio, con
le cd sentenze gemelle emesse in data 31 maggio 2003 nn.
8827 e 8828, ha definito i limiti alle pretese risarcitorie, fornen-
do un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art.
2059 c.c.. Secondo tale diversa chiave di lettura della norma,
il risarcimento del danno non patrimoniale (biologico, morale
soggettivo, esistenziale) può trovare tutela solo nel caso in cui
si accerti la lesione di interessi della persona umana costitu -
zionalmente garantiti.
Pronunciandosi, inoltre, in tema di danno esistenziale, la
Corte di Cassazione, con la decisione resa in data 11 novem-
bre 2008, n. 26972, a sezioni Unite, ha negato autonoma con-
figurazione alla voce del danno esistenziale.
Nelle fattispecie aventi ad oggetto il risarcimento del
danno per perdita della vita si registrano le maggiori richieste
risarcitorie avanzate, molto spesso, da una categoria piuttosto
ampia di soggetti.
Le preoccupazioni, del tutto fondate, da parte della giu-
risprudenza di fronte al proliferare di sempre nuove doglianze

656
risarcitorie, alcune delle quali consistenti in inutili quanto
inammissibili duplicazioni, hanno suggerito un atteggiamento
piuttosto rigoroso nella selezione delle situazioni giuridiche a
cui apprestare tutela, con particolare riguardo ai danni risarci-
bili da parte dei congiunti della vittima, jure proprio e quelli
jure hereditario.
Per quanto concerne tale ultima voce di danno, questa
intanto può essere riconosciuta ai congiunti nella loro qualità
di eredi, in quanto il pregiudizio ed il conseguente ristoro cui
si ha diritto siano entrati a far parte del patrimonio della vitti -
ma.
Per quanto concerne le pretese risarcitorie avanzate jure
proprio, la risarcibilità è limitata ai casi nei quali si dimostri
che la perdita ha comportato la privazione del rapporto paren-
tale con il congiunto.
Ebbene, secondo i giudici nel momento in cui si accorda
il riconoscimento del diritto ad essere risarciti per la perdita
del rapporto parentale, si riconosce, implicitamente, un pre-
giudizio all'esistenza dei parenti, i quali nella loro vita verran-
no privati della presenza e dell'affetto della vittima, sicché in
tale contesto riconoscere anche il risarcimento del danno esi -

657
stenziale rappresenterebbe una duplicazione delle pretese ri-
sarcitorie.
E' possibile risarcire il congiunto della vittima con il ri-
sarcimento del danno morale in ragione della perdita e ricono -
scere, al tempo stesso, un danno biologico nel caso in cui la
perdita si traduca in una lesione all'integrità psico fisica del
congiunto.
Risarcimento da perdita della vita e categorie giurispru-
denziali.
In merito alle pretese avanzate dai congiunti jure here-
ditario, la giurisprudenza ha elaborato una classificazione tra
le diverse fattispecie di illecito che tiene conto delle differenti
conseguenze scaturenti dall'evento dannoso, volta - come det-
to - a scongiurare duplicazioni risarcitorie.
Le elaborazioni giurisprudenziali si sono tradotte nell'e-
nucleazione di particolari categorie di voci di danno per ognu-
na delle quali è stata prevista una diversa soluzione.
Vi è la categoria del “danno biologico terminale”, da in-
tendersi quale più grave pregiudizio all'integrità psico-fisica
che la vittima può subire.
In tale caso, la vittima non può dirsi creditrice del diritto

658
al risarcimento del danno da morte, poiché tale posta attiva
non entra a far parte del suo patrimonio: perché, infatti, possa
essere acquisita al patrimonio, è necessario che il soggetto
possa acquisirla ma, trattandosi di un evento che cagiona im-
mediatamente la morte del soggetto, quando l'evento-morte si
verifica, la persona perde la capacità giuridica e quindi nessu-
na acquisizione si verifica nel suo patrimonio.
Diverso è invece la categoria del “danno tanatologico”,
che si verifica allorquando, a seguito dell'illecito, il soggetto
che successivamente perde la vita, assiste cosciente al tramon-
to della propria esistenza; per tale voce di danno - che taluni
accomunano al danno morale - sussiste quindi la sofferenza
della vittima che si rende perfettamente conto dello spegnersi
della propria vita.
Vi sono alcune decisioni nelle quali la sofferenza della
vittima che è consapevole dell'imminenza del proprio decesso
viene qualificata con l'espressione “danno catastrofico”, o
“danno catastrofale”.
Tale criterio rappresenta un punto di arrivo rispetto alla
posizione espressa dalla giurisprudenza in passato, in cui i
giudici accordando rilievo esclusivamente alle fattispecie pe-

659
nalmente rilevanti, non prevedevano alcun ristoro per la soffe-
renza subita da chi era consapevole delle proprie condizioni
cliniche.
Un parametro adottato dalla giurisprudenza finalizzato a
diversificare le varie situazioni è rappresentato da quello che
prende in esame il lasso di tempo che intercorre tra il verifi -
carsi dell'evento lesivo e il momento del decesso, ovvero il
collegamento tra la sofferenza psichica e il danno biologico.
Si ritiene, secondo quanto statuito da una decisione del-
la Corte di Cassazione, che la sofferenza psichica, se è di bre-
ve durata, non è idonea a generare un danno biologico, ma
solo un danno morale.
Devesi, allora guardare allo scorrere del tempo per indi-
viduare la tipologia di pregiudizio da risarcire.
Infatti, il danno biologico terminale, secondo gli indicati
orientamenti, si verifica nel momento in cui il soggetto leso
continua a vivere per un periodo sufficientemente lungo pri-
mo di morire; in tale caso, questi subisce una concreta conse -
guenza sulla qualità della propria esistenza.
Di contro, se il lasso di tempo tra l'accadimento dell'e-
vento lesivo ed il decesso non è tale da assumere carattere ap -

660
prezzabile, il danno biologico da morte non si rinviene.
L'elaborazione delle suindicate categorie, seppure ha in-
dubbiamente orientato la posizione seguita dalla giurispruden -
za, non ha tuttavia consentito la formazione di un orientamen -
to univoco.
Si registrano infatti decisioni nelle quali il termine di tre
giorni (nel quale la vittima è stata pienamente cosciente delle
proprie condizioni cliniche prima di morire) non è stato repu-
tato un periodo di tempo sufficiente a fondare l'accoglimento
della richiesta risarcitoria del danno biologico da morte; in al-
tri casi, invece, seppure in fattispecie differenti, i giudici han-
no ritenuto che il trascorrere di appena ventiquattrore di tem-
po rappresenta un periodo di tempo in grado di far configurare
fondato il diritto al risarcimento dell'estremo danno biologico.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE – CASS. 28


GENNAIO 2013, N. 1871

661
Il danno morale da morte non spetta ai congiunti della vitti-
ma che sia spirata subito.

“In assenza di prova della sussistenza di uno stato di co-


scienza della vittima nel breve intervallo tra il sinistro e la
morte, non spetta ai congiunti il risarcimento del danno non
patrimoniale iure hereditatis” (Cass.. civ., sez. III, 28 gennaio
2013, n. 1871).

La giurisprudenza di legittimità ha precisato che, nell'ipo-


tesi di decesso della della vittima a poche ore di distanza dal
manifestarsi dell'evento lesivo, il risarcimento del danno dovu-
to in ragione dei patimenti del soggetto che lucidamente si ren-
de conto dell'approssimarsi della fine della sua esistenza, può
essere accordato agli eredi solo a condizione che tale diritto di
credito sia stato acquisito dal patrimonio del congiunto. Argo-
menta la giurisprudenza di legittimità che, in mancanza di pro-
va della sussistenza di uno stato di coscienza in capo alla vitti-
ma nel breve lasso di tempo che intercorre tra il sinistro e il de-
cesso, la compromissione del diritto alla vita non può costituire
oggetto di risarcimento sicché il credito risarcitorio non entra a

662
far parte del patrimonio della vittima e non può quindi essere
trasmesso ai suoi eredi.
La giurisprudenza della Suprema Corte precisa che il ri-
sarcimento non può essere riconosciuto neppure sotto il profilo
del danno biologico, nei confronti del soggetto che è deceduto,
non essendo concepibile che questi acquisisca un diritto che
scaturisce dall'evento della morte.
In considerazione della natura non sanzionatoria, ma solo
riparatoria o consolatoria del risarcimento del danno civile, ai
congiunti spetta quindi, secondo tale orientamento, solo il risar-
cimento conseguente alla lesione della possibilità di godere del
rapporto parentale con la persona defunta.

TESTO INTEGRALE

Il Ministero della Difesa e quello delle Infrastrutture e dei Tra-


sporti propongono ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, avverso
la sentenza della Corte di Appello di Palermo che ha rigettato il loro gra-
vame contro la sentenza di primo grado del Tribunale di Palermo che
aveva accolto la domanda risarcitoria svolta nei loro confronti dai paren-
ti di talune delle vittime dell'incidente aereo verificatosi il (OMISSIS)
nei cieli di Ustica.
Resiste con controricorso D.L.A., in proprio e quale erede di

663
De.Li.Er. e M.A.M..
Resistono pure con controricorso, proponendo due motivi di
ricorso incidentale, G.A., V.C. e F. V., in proprio e quali eredi di V.E..
S.L.R.A., S.L.R.M., L. R.M.T., L.R.D. e C.M. non si sono
costituiti.
G.A., V.C. e V.F. hanno depositato una memoria.
1.- Il ricorso incidentale proposto nell'ambito del ricorso
principale iscritto al R.G. n. 24836/10 va deciso unitamente a
quest'ultimo.
2.- Con il primo motivo, sotto il profilo della violazione di legge,
le Amministrazioni ricorrenti si dolgono del rigetto dell'eccezione di
prescrizione quinquennale delle domande risarcitorie in quanto la Corte
di Appello avrebbe ravvisato, nel fatto, la sussistenza del reato di
disastro aviatorio colposo.
2.1.- Il mezzo è infondato. Il termine prescrizionale di quindici
anni si applica infatti alla fattispecie non perché la Corte di Appello ha
ravvisato nella vicenda gli estremi del delitto di disastro aviatorio
colposo (il che sarebbe questione di merito) ma perché gli attori hanno
dedotto che tale fattispecie sarebbe in tesi ravvisabile nel caso in esame.
Dunque se il giudice di merito non avesse ritenuto fondata la domanda
la avrebbe respinta, ma non avrebbe potuto dichiararla prescritta.
3.- Con il secondo motivo, sotto il profilo del vizio di
motivazione, le Amministrazioni ricorrenti si dolgono della ritenuta
sussistenza, da parte loro, dell'omissione di condotte doverose, pur in
difetto di prova circa l'effettivo svolgimento dell'evento.
3.1.- Il secondo motivo è infondato. Questa Corte ha infatti
affermato, proprio in relazione alla domanda risarcitoria proposta da
Itavia contro i Ministeri della Difesa, dell'Interno e delle Infrastrutture in
relazione al medesimo evento, che in tema di responsabilità civile,
poiché l'omissione di una condotta rileva, quale condizione
determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando
si tratti di omissione di un comportamento di cautela imposto da una

664
norma giuridica specifica, ovvero da una posizione del soggetto che
implichi l'esistenza di particolari obblighi di prevenzione dell'evento,
una volta dimostrata in giudizio la sussistenza dell'obbligo di osservare
la regola cautelare omessa ed una volta appurato che l'evento appartiene
al novero di quelli che la norma mirava ad evitare attraverso il
comportamento richiesto, non rileva, ai fini dell'esonero dalla
responsabilità, che il soggetto tenuto a detta osservanza abbia provato la
non conoscenza in concreto dell'esistenza del pericolo. Non sussiste,
pertanto, il lamentato vizio di motivazione, non essendo dubbio che le
Amministrazioni avessero l'obbligo di garantire la sicurezza dei voli e
che l'evento stesso dimostra la violazione della norma cautelare.
4.- Con il terzo motivo, sotto il profilo della violazione di legge,
le Amministrazioni ricorrenti si dolgono della loro condanna risarcitoria
in difetto della prova di una condotta omissiva quanto meno colposa,
avendo ritenuto sufficiente a giustificare l'imputazione di responsabilità
il fatto che il disastro di Ustica rientrasse nel novero degli eventi che la
norma cautelare, asseritamente violata, mirava ad evitare.
4.1.- Il terzo motivo va rigettato per le medesime ragioni esposte
sub 3.1.
5.- Con il quarto motivo, sotto il profilo del vizio di motivazione,
la sentenza impugnata è censurata in quanto, essendosi appiattita sulle
conclusioni della sentenza del GOA di Roma nel giudizio risarcitorio
promosso dall'Itavia S.p.A., non avrebbe dato conto degli elementi che
militano in favore della tesi dell'esplosione interna, privilegiando la tesi
del missile.
5.1.- Il quarto motivo è infondato, in quanto da un lato è
abbondantemente e congruamente motivata la tesi del missile, accolta
dalla Corte di Appello, mentre d'altro canto il giudice di merito non è
tenuto a dar conto di ogni argomento contrario alla tesi da lui accolta.
6.- Con il quinto motivo, sotto il profilo del vizio di motivazione,
le Amministrazioni ricorrenti si dolgono dell'assenza del c.d.
giudizio controfattuale.

665
6.1.- Il quinto motivo è infondato per le medesime ragioni esposte
sub 3.1., essendo pacifico l'obbligo delle Amministrazioni ricorrenti di
assicurare la sicurezza dei voli.
7.- Con il sesto motivo, sotto il profilo della violazione di legge,
le Amministrazioni ricorrenti si dolgono dell'applicazione, nella specie,
dell'art. 2050 cod. civ..
7.1.- Il sesto motivo è infondato. L'affermazione della Corte di
Appello, secondo cui l'attività volta a garantire la sicurezza della
navigazione aerea civile è pericolosa, quando detta navigazione risulti
esercitata in condizioni di anormalità o di pericolo, è conforme
all'insegnamento di questa Corte (Cass. 19 luglio 2002 n. 10551). Se poi
le Amministrazioni ricorrenti intendono prospettare la differenza tra
pericolosità della condotta e pericolosità dell'attività in quanto tale, nel
senso che la prima riguarda un'attività normalmente innocua, che
assume i caratteri della pericolosità a causa della condotta imprudente o
negligente dell'operatore, ed è elemento costitutivo della responsabilità
ai sensi dell'art. 2043 cod. civ.; la seconda concerne un'attività che,
invece, è potenzialmente dannosa di per sè per l'alta percentuale di danni
che può) provocare in ragione della sua natura o della tipologia dei
mezzi adoperati e rappresenta una componente della responsabilità
disciplinata dall'art. 2050 cod. civ. il mezzo è allora inammissibile, in
quanto la distinzione tra pericolosità della condotta e pericolosità
dell'attività comporta un accertamento di fatto, incensurabile in
cassazione se, come nella specie, congruamente motivato (Cass. 21
ottobre 2005 n. 20357).
8.- Con il primo motivo di ricorso incidentale, condizionato
all'accoglimento del ricorso principale, G. e V. si dolgono della
declaratoria di inammissibilità, in quanto nuova, della domanda di
condanna delle Amministrazioni ricorrenti per responsabilità
contrattuale, assumendone tra l'altro la mancanza di motivazione.
8.1.- il primo motivo di ricorso incidentale, espressamente
qualificato come condizionato, è assorbito.
9.- Con il secondo, complesso motivo i ricorrenti incidentali,

666
sotto il profilo del vizio di motivazione, lamentano innanzitutto
l'incongruenza della liquidazione del danno subito iure proprio, in
particolare quanto al mancato riconoscimento di rivalutazione ed
interessi.
9.1.- Sotto tale profilo il mezzo - intestato a vizio di motivazione
ma in realtà deducente una omessa pronuncia - è parzialmente fondato
quanto alla rivalutazione ed agli interessi, nel senso che la Corte di
Appello non si è pronunciata affatto sulle domande dei ricorrenti
incidentali, salvo dire che il danno viene liquidato in moneta attuale. La
sentenza va pertanto cassata in relazione.
10.- Sotto i profili del vizio di motivazione e della violazione di
legge, i ricorrenti incidentali si dolgono poi della mancata liquidazione
iure hereditatis del danno da morte.
10.1.- Il mezzo, sotto tale profilo, è infondato. Va infatti ribadito
quanto di recente affermato da questa stessa Sezione in merito al c.d.
danno catastrofale, e cioè che in caso di morte della vittima a poche ore
di distanza dal verificarsi di un sinistro, il risarcimento del danno
catastrofale - ossia del danno conseguente alla sofferenza patita dalla
persona che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita - può
essere riconosciuto agli eredi, a titolo di danno morale, solo a
condizione che sia entrato a far parte del patrimonio della vittima al
momento della morte. Pertanto, in assenza di prova della sussistenza di
uno stato di coscienza della persona nel breve intervallo tra il sinistro e
la morte, la lesione del diritto alla vita non è suscettibile di risarcimento,
neppure sotto il profilo del danno biologico, a favore del soggetto che è
morto, essendo inconcepibile l'acquisizione in capo a lui di un diritto
che deriva dal fatto stesso della morte; e, d'altra parte, in considerazione
della natura non sanzionatoria, ma solo riparatoria o consolatoria de
risarcimento del danno civile, ai congiunti spetta in questo caso il solo
risarcimento conseguente alla lesione della possibilità di godere del
rapporto parentale con la persona defunta (Cass. 24 marzo 2011 n.
6754).
11.- Il ricorso principale deve essere quindi rigettato ed il secondo
motivo dell'incidentale accolto per quanto di ragione, con conseguente

667
cassazione della sentenza impugnata in relazione e rinvio, anche per le
spese relative a G., alla Corte di Appello di Palermo in diversa
composizione.
Le ricorrenti vanno condannate in solido, a ragione della
soccombenza, al pagamento delle spese nei confronti del
controricorrente D.L., liquidate in Euro 6.200,00, di cui Euro 6.000,00
per compensi, oltre accessori.
la Corte, decidendo sui ricorsi riuniti, rigetta il principale ed
accoglie il secondo motivo dell'incidentale per quanto di ragione;
cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia, anche per le
spese relative a G. + 2, alla Corte di Appello di Palermo in diversa
composizione; condanna le Amministrazioni ricorrenti a pagamento
delle spese in favore di D.L., liquidate in Euro 6.200,00, di cui Euro
6.000,00 per compensi, oltre accessori.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza
Sezione civile, il 13 novembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2013

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Nella fattispecie che occupa, i congiunti del Signor Bian-


chi possono agire per far valere jure proprio il diritto al risar-
cimento del danno conseguente alla privazione del rapporto pa-

668
rentale con la vittima dell'evento dannoso.
La compagnia aerea è quindi responsabile atteso che la
causa del disastro è stata ricollegata ad un problema legato al-
l'avaria del motore dell'aereo.
A livello ereditario, le pretese dei congiunti non possono
invece trovare accoglimento.
Il diritto al risarcimento del danno catastrofale non può
essere accordato ai congiunti in quanto tale pretesa risarcitoria
non è entrata a far parte del patrimonio del Signor Bianchi:
l'immediato decesso infatti ha impedito che questi fosse co-
sciente dell'approssimarsi della morte e quindi l'evento lesivo
che presuppone la capacità giuridica si è verificato nel mo-
mento in cui il Signor Bianchi non era in grado di acquisire al-
cunché in quanto questi non poteva essere titolare di un diritto
di credito perché deceduto.
Se, quindi, nessuna pretesa creditoria è stata acquisita dal
patrimonio del Signor Bianchi nulla può essere trasmesso agli
eredi.

669
19. SEPARAZIONE PERSONALE E DIRITTO AL RI-
SARCIMENTO

IL CASO
Il Signor Mario Bianchi, mentre è fermo a bordo della propria
vettura, in attesa che il semaforo diventi verde, viene violentemente
tamponato da un auto condotta dalla Signora Rossi che viaggia a
folle velocità e che non riesce ad arrestarsi.
A seguito del violento impatto, il Signor Bianchi muore.
Questi era legalmente sposato, ma separato da circa sei mesi dalla
moglie dalla quale aveva avuto tre figli; egli aveva anche entrambi i
genitori.
Costoro – sia i genitori, sia la moglie che i tre figli - intendono
chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale subito
conseguente alla perdita del congiunto nei confronti della Signora
Rossi, e della di lei compagnia di assicurazioni, nonché il
risarcimento del danno che sarebbe spettato direttamente al
congiunto per l'evento dannoso.

Quesito
Il diritto al risarcimento del danno spetta anche alla moglie del
Signor Mario Bianchi da cui la stessa era separata già sei mesi prima
del verificarsi dell'evento lesivo?

*****

670
ESAME DELLA FATTISPECIE

I congiunti del Sig. Mario Bianchi, deceduto a seguito di


un sinistro stradale, hanno intenzione di promuovere un'azione
giudiziaria nei confronti della Signora Rossi, conducente del
veicolo che ha investito e travolto il loro congiunto nonché nei
confronti della di lei compagnia assicuratrice.
In particolare, i soggetti interessati al risarcimento del
danno da rapporto parentale sono i genitori, i tre figli e la mo-
glie del congiunto scomparso. I figli e la coniuge, inoltre, in-
tendono agire anche per conseguire quelle somme, a titolo erdi-
tario, che il Signor Mario Bianchi avrebbe conseguito in segui-
to all'incidente occorso
La tematica involge la questione della risarcibilità degli
interessi afferenti alla persona, di rilievo costituzionale, tema
questo in relazione al quale si registra un'evoluzione della giu-
risprudenza negli ultimi tempi pronunciatasi in materia di risar-
cibilità dei danni non patrimoniali.
Il primo problema che i giudici si sono trovati ad affron-
tare è stato quello di porre degli argini alla risarcibilità delle
posizioni afferenti alla persona, al fine di evitare che si potesse

671
incorrere in un ampliamento ingiustificato di qualsivoglia si-
tuazione giuridica.
Il primo limite posto concerne un profilo soggettivo in
quanto attiene alla categoria di soggetti legittimata a conseguire
il risarcimento del danno non patrimoniale; in ordine a tale pro-
filo, si segnala il superamento dei rigidi limiti imposti dall'art.
2059 c.c.
E' necessario soffermarsi in ordine al diritto a conseguire
il risarcimento del danno in caso di morte del congiunto, a tito-
lo ereditario ovvero iure proprio.
La delimitazione dei soggetti è conseguenza della diver-
sa domanda avanzata dai congiunti, la quale per il risarcimen-
to del danno conseguente al decesso può essere avanzata sia
iure proprio che iure hereditario.
Se i congiunti agiscono per i danni richiesti iure pro-
prio, essi intendono essere risarciti per la perdita dai medesi-
mi subiti quali parenti della vittima.
In tale caso, quindi, la giurisprudenza riconosce la lesio-
ne del rapporto parentale.
Generalmente in tal caso ad essere risarcito è il danno
morale conseguente alla perdita del congiunto, ma non anche

672
il danno esistenziale (ovvero il danno che incide sulla qualità
della loro esistenza) subito dai parenti che, si ritene essere una
duplicazione inutile della medesima voce di danno poiché, in
buona sostanza, si tratterebbe dello stesso pregiudizio.
È poi possibile che accanto al danno morale per la com-
promissione del rapporto parentale sia riconosciuto anche il
diritto al risarcimento per il danno biologico; in tale ultimo
caso devesi dimostrare tuttavia l'insorgenza di uno stato pato-
logico conseguente alla predetta perdita in capo al congiunto.
Il discorso invece muta se poniamo riferimento alle ri-
chieste risarcitorie che presentano carattere iure hereditario.
In tale ipotesi, infatti, i parenti richiedono il risarcimen-
to del danno per la lesione subita dal congiunto nei termini in
cui tale voce di danno sarebbe stata accordata alla vittima me-
desima, qualora fosse sopravvissuta.
Ciò quindi implica che, intanto, è possibile in questi ter-
mini attribuire un risarcimento del danno ai parenti in quanto
tale diritto sia preventivamente entrato a far parte del patrimo-
nio del de cuius.

673
LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 13 giugno 2014 n. 13537. La paura di dover morire, provata da chi


abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali, è
un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se la vittima sia stata in
grado di comprendere che la propria fine era imminente; in difetto di
tale consapevolezza non è nemmeno concepibile l'esistenza del danno in
questione, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata
dalle lesioni.

Cass. 7 giugno 2011, n. 12273. Ai fini del risarcimento del danno non
patrimoniale da perdita del rapporto parentale, occorre tener conto del-
l’aspetto relazionale del pregiudizio, consistente nella modificazione e
nello sconvolgimento delle abitudini di vita dei congiunti della vittima,
che può coniugarsi con il riconoscimento di un’ulteriore componente del
pregiudizio, quale il danno morale, e deve essere specificamente prova-
to.

Cass. 17 luglio 2002, n. 10393. Il danno morale, tradizionalmente defi-


nito come pretium doloris viene generalmente ravvisato nell’ingiusto
turbamento dello stato d’animo del danneggiato o anche nel patema d’a-
nimo o stato d’angoscia transeunte generato dall’illecito; detto risarci-
mento può essere accordato anche al coniuge separato per la morte del-
l’altro coniuge, in quanto lo stato di separazione personale non è incom-
patibile, di per sé, con tale ristoro, dovendo aversi riguardo, oltre che
alla sua tendenziale temporaneità ed alla possibilità di una riconciliazio-
ne che ristabilisca la comunione materiale e spirituale tra i coniugi e l’u-
nità della famiglia, anche alle ragioni che l’hanno determinato e a ogni
altra utile circostanza idonea a manifestare se e in quale misura l’evento
luttuoso, dovuto all’altrui fatto illecito, abbia procurato al coniuge su-
perstite quelle sofferenze morali che di solito si accompagnano alla mor-
te di una persona più o meno cara.

Cass. 3 febbraio 2011, n. 2557. Il soggetto che chiede iure proprio il ri-

674
sarcimento del danno subìto in conseguenza della uccisione di un con-
giunto per la definitiva perdita del rapporto parentale lamenta l’incisione
di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, del quale è titolare
(la cui tutela ex art. 32 cost., ove risulti intaccata l’integrità psicofisica,
si esprime mediante il risarcimento del danno biologico), sia dall’inte-
resse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all’art. 2 cost., ove
sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante
il risarcimento del danno morale soggettivo), e ciò in quanto l’interesse
fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reci-
proca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla inviolabilità della libe-
ra e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana
nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla fami-
glia, la cui tutela è ricollegabile agli art. 2, 29 e 30 cost.; trattasi di inte-
resse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la
cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c.,
nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad una riparazione ai
sensi dell’art. 2059 c.c., senza il limite ivi previsto in correlazione al-
l’art. 185 c.p. in ragione della natura del valore inciso, vertendosi in ma-
teria di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di merca-
to.

Cass. 28 marzo 1994, n. 2988. Nell’ipotesi della c.d. «famiglia di fatto»


(ossia di una relazione interpersonale, con carattere di tendenziale stabi-
lità, di natura affettiva e parafamiliare, che si esplichi in una comunanza
di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale), la
morte del convivente provocata da fatto ingiusto fa nascere il diritto del-
l’altro al risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059
c.c. (per il patema analogo a quello che si ingenera nell’ambito della fa-
miglia) e del danno patrimoniale ai sensi dell’art. 2043 c.c. (per la perdi-
ta del contributo patrimoniale e personale apportato in vita, con carattere
di stabilità, dal convivente defunto, irrilevante essendo invece la soprav-
venuta mancanza di elargizioni meramente episodiche o di una mera ed
eventuale aspettativa).

Cass. 22 luglio 2004, n. 13634. Ai fini del risarcimento del danno mora-
le subìto dai prossimi congiunti di un minore colpito da una grave me-

675
nomazione alla nascita la circostanza che uno dei genitori (nel caso di
specie, il padre) non sia convivente con il figlio non fa venir meno di per
sé quel naturale vincolo affettivo che lega il genitore al proprio figlio, e
pertanto anche per lui, non diversamente che per il genitore convivente,
il danno morale può ritenersi in re ipsa.

Cass. 3 maggio 2011, n. 9700. Anche il soggetto nato dopo la morte del
padre naturale, verificatasi per fatto illecito di un terzo durante la gesta-
zione, ha diritto nei confronti del responsabile al risarcimento del danno
per la perdita del relativo rapporto e per i pregiudizi di natura non patri-
moniale e patrimoniale che gli siano derivati.

Cass. 13 maggio 2011, n. 10527. La morte di una persona cara costituisce di


per sé un fatto noto dal quale il giudice può desumere, ex art. 2727 c.c., che
i congiunti dello scomparso abbiano patito una sofferenza interiore tale da
determinare un’alterazione della loro vita di relazione e da indurli a scelte di
vita diverse da quelle che avrebbero altrimenti compiuto, sicché nel giudizio
di risarcimento del relativo danno non patrimoniale incombe al danneggian-
te dimostrare l’inesistenza di tali pregiudizi.

Cass. 30 giugno 1998, n. 6404. Il pregiudizio della salute nell’intervallo


di tempo intercorso tra le lesioni e la morte in tanto può dar luogo a ri-
sarcimento del danno trasmissibile agli eredi, in quanto il soggetto sia ri-
masto in vita per un tempo apprezzabile che consenta di configurare
un’effettiva ripercussione delle lesioni sulla sua complessiva qualità del-
la vita.

Cass. 13 gennaio 2009, n. 458. Il danno c.d. «tanatologico» o da morte


immediata va ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella
sua più ampia accezione, come sofferenza della vittima che lucidamente
assiste allo spegnersi della propria vita (nella specie la suprema corte ha
confermato la sentenza impugnata che aveva qualificato la predetta sof-
ferenza della vittima come danno morale e non come danno biologico
terminale, attesane l’inidoneità - essendo stato l’intervallo di tempo tra il
sinistro e la morte di tre giorni - ad integrare gli estremi di quella fatti-
specie di danno non patrimoniale).

676
Cass. 3 gennaio 2002, n. 24. Nel caso di morte della persona a seguito di
fatto illecito, il diritto al risarcimento del danno biologico, trasmissibile
agli eredi, sorge solo se tra l’evento lesivo e il decesso sia intercorso un
apprezzabile lasso di tempo.

Cass. 10 agosto 2004, n. 15408. In tema di risarcibilità del danno biolo-


gico, nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le le-
sioni subìte dalla vittima del danno e la morte causata dalle stesse, è
configurabile un danno biologico risarcibile subìto dal danneggiato, ed il
diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento è trasmissibile agli
eredi, che potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante iure
hereditatis.

Cass. 28 novembre 2008, n. 28423.In caso di morte che segua le lesioni


dopo breve tempo, la sofferenza patita dalla vittima durante l’agonia è
autonomamente risarcibile non come danno biologico, ma come danno
morale iure haereditatis, a condizione però che la vittima sia stata in
condizione di percepire il proprio stato, mentre va esclusa anche la risar-
cibilità del danno morale quando all’evento lesivo sia conseguito imme-
diatamente lo stato di coma e la vittima non sia rimasta lucida nella fase
che precede il decesso (nella fattispecie a causa di un grave incidente
stradale la vittima aveva perso la vita quaranta ore dopo il sinistro e non
era stata fornita la prova del suo stato di lucidità nella breve frazione
temporale di sopravvivenza).

Cass. 14 marzo 2002, n. 3728. Nel caso in cui intercorra un apprezzabile


lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse è
configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione
alla menomazione della integrità psicofisica patita dal danneggiato per il
periodo di tempo indicato, e il diritto del danneggiato a conseguire il ri-
sarcimento del danno è trasmissibile agli eredi iure hereditatis (enun-
ciando il principio di cui in massima, la suprema corte ha cassato la sen-
tenza di merito che non aveva riconosciuto la risarcibilità del danno bio-
logico in un caso in cui il bambino, vittima dell’incidente stradale, era
sopravvissuto cinque giorni, senza motivare sulla sussistenza della per-

677
dita della salute psicofisica in tale spazio di vita, né, in particolare, sulla
intensità della sofferenza in proporzione alla brevità della sopravviven-
za.

Cass. 27 maggio 2009, n. 12326. In materia di assicurazione contro gli


infortuni sul lavoro e le malattie professionali, il danno c.d. «tanatologi-
co», nel caso che la morte (nella specie, in esito ad un infortunio in itine-
re) segua le lesioni dopo breve tempo, riguardando il bene giuridico del-
la vita, diverso da quello della salute (in quanto la perdita della vita non
costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute), non rien-
tra nella nozione di danno biologico recepita dall’art. 13 d.leg. 23 feb-
braio 2000 n. 38, che fa riferimento alla «lesione dell’integrità psicofisi-
ca», suscettibile di valutazione medico-legale e causativa di una meno-
mazione valutabile secondo le tabelle di cui al d.m. 12 luglio 2000 del
ministero del lavoro e della previdenza sociale, operando entro detti li-
miti l’assicurazione sociale del danno biologico; ne consegue che non è
risarcibile la domanda proposta iure hereditatis dagli eredi del de cuius
nei confronti dell’Inail per il risarcimento del danno da «perdita del di-
ritto alla vita».

Cass. pen., 23 febbraio 2007. L’esistenza di uno stabile rapporto di con-


vivenza non può, di per sé, giustificare la richiesta di risarcimento del
danno morale che, da parte di uno dei conviventi, sia rivolta nei confron-
ti del responsabile di un reato di cui sia stato vittima un figlio minorenne
dell’altro convivente.

Cass. 31 maggio 2005, n. 11601.In caso di morte della vittima a seguito


di sinistro stradale, la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni
(nel caso, due ore), se esclude l’apprezzabilità ai fini risarcitori del dete-
rioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio della salute,
ostando alla configurabilità di un danno biologico risarcibile, non esclu-
de viceversa che la medesima abbia potuto percepire le conseguenze ca-
tastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza, il diritto al cui risarci-
mento, sotto il profilo del danno morale, risulta pertanto già entrato a far
parte del suo patrimonio al momento della morte, e può essere conse-
guentemente fatto valere iure hereditatis.

678
Cass. 20 settembre 2011, n. 19133. In tema di risarcimento del danno
non patrimoniale, quando all’estrema gravità delle lesioni, segua, dopo
un intervallo temporale brevissimo (nella specie due giorni), la morte,
non può essere risarcito il danno biologico «terminale» connesso alla
perdita della vita come massima espressione del bene salute, ma esclusi-
vamente il danno morale, dal primo ontologicamente distinto, fondato
sull’intensa sofferenza d’animo conseguente alla consapevolezza delle
condizioni cliniche seguite al sinistro.

Cass. 18 gennaio 2011, n. 1072. In tema di liquidazione del danno non


patrimoniale, determina duplicazione di risarcimento la congiunta attri-
buzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del dan-
no esistenziale da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza
patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna
l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti
del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente risto-
rato.

Cass. 18 gennaio 2011, n. 1072. In caso di lesione dell’integrità fisica -


nella specie, conseguente ad un infortunio sul lavoro - che abbia portato
a breve distanza di tempo ad esito letale, è configurabile un danno biolo-
gico di natura psichica subìto dalla vittima che abbia percepito lucida-
mente l’approssimarsi della morte, reclamabile dai suoi eredi, la cui en-
tità dipende non già dalla durata dell’intervallo tra la lesione e la morte
bensì dall’intensità della sofferenza provata; il diritto al risarcimento di
tale danno è trasmissibile agli eredi (nella specie, il supremo collegio ha
confermato il riconoscimento della misura del cento per cento del danno
biologico terminale, iure successionis, avendo - in base agli esiti della
effettuata ctu medica - il lavoratore subìto un danno psichico totale per
la presenza di una sofferenza e di una disperazione esistenziale di inten-
sità tale da determinare, nella percezione dell’infortunato, un danno ca-
tastrofico, in una situazione di attesa lucida e disperata dell’estinzione
della vita).

Cass. 9 dicembre 2010, n. 24864. Poiché il danno biologico ha natura


non patrimoniale, e dal momento che il danno non patrimoniale ha natu-

679
ra unitaria, è corretto l’operato del giudice di merito che liquidi il risar-
cimento del danno biologico in una somma omnicomprensiva, posto che
le varie voci di danno non patrimoniale elaborate dalla dottrina e dalla
giurisprudenza (danno estetico, danno esistenziale, danno alla vita di re-
lazione ecc.) non costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili, ma
possono venire in considerazione solo in sede di adeguamento del risar-
cimento al caso specifico, e sempre che il danneggiato abbia allegato e
dimostrato che il danno biologico o morale presenti aspetti molteplici e
riflessi ulteriori rispetto a quelli tipici.

Cass. 28 novembre 2008, n. 28423. In tema di liquidazione del danno


non patrimoniale (nella specie, da morte del prossimo congiunto), la ne-
cessità per il giudice di merito di tener conto di tutte le circostanze del
caso concreto (c.d. personalizzazione del risarcimento) non significa af-
fatto che il giudice debba sempre e comunque aumentare i valori risul-
tanti dalle eventuali tabelle adottate dall’ufficio giudiziario cui appartie-
ne, ma significa che tale variazione equitativa è necessaria solo in pre-
senza di situazioni di fatto che si discostino in modo apprezzabile da
quelle ordinarie.

*****

LE NORME RICHIAMATE

Art. 2 Cost.
1. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviola-
bili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali
ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e socia-

680
le.

Art. 29 Cost.
1. La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come
società naturale fondata sul matrimonio.
2. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garan-
zia dell'unità familiare.

Art. 2043 c.c.


Risarcimento per fatto illecito
1. Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad al-
tri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a
risarcire il danno.

Art. 2059 c.c.


Danni non patrimoniali
1. Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo

681
nei casi determinati dalla legge.

Art. 138 d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209


Danno biologico per lesioni di non lieve entità
1. Con decreto del Presidente della Repubblica, previa
deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Mini-
stro della salute, di concerto con il Ministro delle attività pro-
duttive, con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con
il Ministro della giustizia, si provvede alla predisposizione di
una specifica tabella unica su tutto il territorio della Repubbli-
ca:
a) delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese
tra dieci e cento punti;
b) del valore pecuniario da attribuire ad ogni singolo
punto di invalidità comprensiva dei coefficienti di variazione
corrispondenti all'età del soggetto leso.
2. La tabella unica nazionale è redatta secondo i seguen-
ti principi e criteri:
a) agli effetti della tabella per danno biologico si intende
la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica

682
della persona suscettibile di accertamento medico-legale che
esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli
aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indi-
pendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di
produrre reddito;
b) la tabella dei valori economici si fonda sul sistema a
punto variabile in funzione dell’età e del grado di invalidità;
c) il valore economico del punto è funzione crescente della per-
centuale di invalidità e l’incidenza della menomazione sugli
aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato cresce
in modo più che proporzionale rispetto all’aumento percentua-
le assegnato ai postumi;
d) il valore economico del punto è funzione decrescente
dell’età del soggetto, sulla base delle tavole di mortalità elabo-
rate dall’ISTAT, al tasso di rivalutazione pari all’interesse le-
gale;
e) il danno biologico temporaneo inferiore al cento per
cento è determinato in misura corrispondente alla percentuale
di inabilità riconosciuta per ciascun giorno.
3. Qualora la menomazione accertata incida in maniera
rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali,

683
l’ammontare del danno determinato ai sensi della tabella uni-
ca nazionale può essere aumentato dal giudice sino al trenta
per cento, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni
soggettive del danneggiato.
4. Gli importi stabiliti nella tabella unica nazionale sono
aggiornati annualmente, con decreto del Ministro delle attività
produttive, in misura corrispondente alla variazione dell'indice
nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed
impiegati accertata dall'ISTAT.

Art. 139 d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209


Danno biologico per lesioni di lieve entità
1. Il risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve
entità, derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei
veicoli a motore e dei natanti, è effettuato secondo i criteri e le
misure seguenti:
a) a titolo di danno biologico permanente, è liquidato
per i postumi da lesioni pari o inferiori al nove per cento un
importo crescente in misura più che proporzionale in relazione
ad ogni punto percentuale di invalidità; tale importo è calcola-

684
to in base all'applicazione a ciascun punto percentuale di inva-
lidità del relativo coefficiente secondo la correlazione esposta
nel comma 6. L'importo così determinato si riduce con il cre-
scere dell'età del soggetto in ragione dello zero virgola cinque
per cento per ogni anno di età a partire dall'undicesimo anno
di età. Il valore del primo punto è pari ad euro settecentocin-
quantanove euro e quattro centesimi;
b) a titolo di danno biologico temporaneo, è liquidato un
importo di euro quarantaquattro euro e ventotto centesimi per
ogni giorno di inabilità assoluta; in caso di inabilità tempora-
nea inferiore al cento per cento, la liquidazione avviene in mi-
sura corrispondente alla percentuale di inabilità riconosciuta
per ciascun giorno.
2. Agli effetti di cui al comma 1 per danno biologico si
intende la lesione temporanea o permanente all’integrità psi-
co-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-le-
gale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane
e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato,
indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capaci-
tà di produrre reddito. In ogni caso, le lesioni di lieve entità,
che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale

685
obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno
biologico permanente.
3. L'ammontare del danno biologico liquidato ai sensi
del comma 1 può essere aumentato dal giudice in misura non
superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento
delle condizioni soggettive del danneggiato.
4. Con decreto del Presidente della Repubblica, previa
deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Mini-
stro della salute, di concerto con il Ministro del lavoro e delle
politiche sociali, con il Ministro della giustizia e con il Mini-
stro delle attività produttive, si provvede alla predisposizione
di una specifica tabella delle menomazioni alla integrità psico-
fisica comprese tra uno e nove punti di invalidità.
5. Gli importi indicati nel comma 1 sono aggiornati an-
nualmente con decreto del Ministro delle attività produttive, in
misura corrispondente alla variazione dell'indice nazionale dei
prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati accer-
tata dall'ISTAT.
6. Ai fini del calcolo dell’importo di cui al comma 1, let-
tera a), per un punto percentuale di invalidità pari a 1 si appli-
ca un coefficiente moltiplicatore pari a 1,0, per un punto per-

686
centuale di invalidità pari a 2 si applica un coefficiente molti-
plicatore pari a 1,1, per un punto percentuale di invalidità pari
a 3 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,2, per un
punto percentuale di invalidità pari a 4 si applica un coeffi-
ciente moltiplicatore pari a 1,3, per un punto percentuale di in-
validità pari a 5 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a
1,5, per un punto percentuale di invalidità pari a 6 si applica
un coefficiente moltiplicatore pari a 1,7, per un punto percen-
tuale di invalidità pari a 7 si applica un coefficiente moltipli-
catore pari a 1,9, per un punto percentuale di invalidità pari a
8 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 2,1, per un
punto percentuale di invalidità pari a 9 si applica un coeffi-
ciente moltiplicatore pari a 2,3.

Art. 585 c.c.


Successione del coniuge separato.
1. Il coniuge cui non è stata addebitata la separazione
con sentenza passata in giudicato ha gli stessi diritti successori
del coniuge non separato.
2. Nel caso in cui al coniuge sia stata addebitata la sepa-

687
razione con sentenza passata in giudicato, si applicano le di-
sposizioni del secondo comma dell'articolo 548.

Art. 548 c.c.


Riserva a favore del coniuge separato.
1. Il coniuge cui non è stata addebitata la separazione
con sentenza passata in giudicato, ai sensi del secondo comma
dell'articolo 151, ha gli stessi diritti successori del coniuge
non separato.
Il coniuge cui è stata addebitata la separazione con sen-
tenza passata in giudicato ha diritto soltanto ad un assegno vi-
talizio se al momento dell'apertura della successione godeva
degli alimenti a carico del coniuge deceduto. L'assegno è com-
misurato alle sostanze ereditarie e alla qualità e al numero de-
gli eredi legittimi, e non è comunque di entità superiore a quel-
la della prestazione alimentare goduta. La medesima disposi-
zione si applica nel caso in cui la separazione sia stata addebi-
tata ad entrambi i coniugi.

688
GLI ISTITUTI

Con riguardo alle fattispecie nelle quali il diritto al risar-


cimento del danno viene richiesto iure proprio dai congiunti
della vittima, è facile rilevare che il rischio della duplicazione
delle voci risarcitorie si pone in termini più concreti.
La giurisprudenza ha individuato diverse categorie, a
tal proposito, in primo luogo, quella del “danno biologico ter-
minale”, che rappresenta il più incisivo pregiudizio all'integri-
tà psico-fisica, partendo dal presupposto che la vita è l'espres -
sione suprema del bene “salute”.
Nelle pronunzie che esaminano tale categoria, si muove
dal presupposto che il decesso comporta la perdita della capa-
cità giuridica del soggetto. Se, quindi tale danno è collegato
all'evento morte, si esclude che il soggetto deceduto possa
vantare tale diritto. Il diritto in esame sorgerebbe, infatti, solo
nel momento del verificarsi dell'evento lesivo della morte del
congiunto, ma – si badi – in tale momento il soggetto diventa
privo della capacità giuridica. A seguito di tale privazione,
non è possibile che questi acquisti nel proprio patrimonio il
diritto al risarcimento del danno biologico da morte.

689
Un'altra categoria frutto di elaborazione giurispruden-
ziale è poi quella del “danno tanatologico”.
Ad essa si fa riferimento per il caso in cui il congiunto a
seguito dell'evento lesivo rimane cosciente e si rende conto
delle gravi condizioni di salute nelle quali versa, ma a seguito
di un peggioramento delle stesse egli muore.
In tale ipotesi diventa rilevante il lasso di tempo più o
meno considerevole in cui il soggetto rimane cosciente.
Tale danno viene spesso definito “danno catastrofico”, o
“danno catastrofale” volendo far riferimento alla consapevo-
lezza che il soggetto ha dell'avvicinarsi del momento del de-
cesso.
Il riconoscimento di tale voce di danno impone che si
identifichi un collegamento tra la sofferenza psichica subita
ed il conseguente danno biologico. Si assume che il danno
biologico si verrebbe a configurare solo nel caso in cui la con -
sapevolezza del soggetto si protragga per un certo periodo,
mentre se si trattasse soltanto di qualche momento d lucidità
essa sarebbe inidonea a far sorgere il diritto di credito risarci -
torio a titolo di danno biologico.
Nell'ipotesi di un breve lasso di tempo intercorrente tra

690
il sinistro occorso e il decesso si avrebbe danno morale ma
non danno biologico terminale.
Tornando al caso che occupa, atteso che il decesso è sta-
to immediato (e dunque la vittima non si è resa conto di quan -
to accaduto) rispetto al sinistro, non viene in rilievo il danno
biologico terminale (la vittima non percepito quanto stava ac-
cadendo sicché la stessa non ha subito alcuna ripercussione in
termini di qualità della sua esistenza, al quale è venuta meno
in concomitanza all'evento dannoso).
Tanto premesso, vediamo in particolare come la giuri-
sprudenza ha differenziato la tipologia di soggetti legittimati a
richiedere il risarcimento.
L'ampliamento dell'area dei danni risarcibili è stata resa
possibile grazie all'emersione di nuove figure di posizioni giu-
ridiche soggettive a cui apprestare tutela.
Tra queste vi è il diritto all'intangibilità della sfera degli
affetti, nonché l'inviolabilità del diritto alla piena esplicazione
delle attività realizzatrici della persona, entrambe posizioni che
rilevano nel contesto familiare nel quale vige, altresì, il dovere
di solidarietà reciproca tra i vari componenti.
La compromissione delle menzionate posizioni giuridi-

691
che soggettive dà diritto al risarcimento del danno, ai sensi
dell'art. 29 Costituzione (“la Repubblica riconosce i diritti della
famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”) non-
ché ai sensi dell'art. 2 della Costituzione, in cui si afferma che:
"la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili del-
l'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
Tale impostazione è quella seguita dalla Suprema Corte
di Cassazione la quale, nelle due sentenze gemelle del 31 mag-
gio 2003, nn. 8827 e 8828, ha mostrato di privilegiare una let-
tura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c.
La giurisprudenza se per un verso ha condiviso la tenden-
za ad espandere l'area di risarcibilità del danno non patrimonia-
le dall'altro si è trovata di fronte ad un'espansione che poteva
risultare non facilmente controllabile, essendo connessa a qual-
sivoglia lesione di interessi della persona umana costituzional-
mente rilevanti.
Per tale motivo, i giudici hanno, quindi, cercato di trova-
re delle limitazioni al diritto al risarcimento del danno non pa-
trimoniale, ma ciò non è sempre praticabile, in assenza di una

692
normativa sul punto.
Questo profilo ha avuto ripercussioni in ordine alla cate-
goria dei soggetti ammessi al risarcimento.
Se tutte le decisioni hanno unanimemente riconosciuto
che tale pretesa risarcitoria vada riconosciuta al convivente
more uxorio, diversa è stata la posizione registratasi in tema di
convivenze basate sui rapporti d fatto, seppure stabili. Si è, a tal
proposito, negato il risarcimento del danno a favore del sogget-
to per il danno subito dalla figlia della convivente con cui il
primo vivesse seppure da molto tempo.
In altre pronunzie, invece, l'elemento della convivenza è
stato ignorato a favore del rapporto parentale che è stato privi-
legiato: la giurisprudenza ha infatti accordato il diritto al risa-
ricmento del danno a favore del genitore non convivente con il
figlio affetto da una grave menomazione sin dalla nascita in ra-
gione della considerazione secondo cui la mancata convivenza
tra il genitore e il figlio non compromette quel vincolo affettivo
che lega tra loro tali componenti della famiglia. Tale situazione
è stata quindi equiparata a quella in cui il genitore sia convi-
vente con il figlio.
Il medesimo principio ha trovato applicazione nella fatti-

693
specie in cui, a causa di un fatto illecito posto in essere da un
terzo che ha cagionato la morte di un soggetto, il figlio di que-
sti nato dopo il decesso del genitore è stato risarcito per tale
perdita.
In tale contesto si collocano le decisioni che hanno rico-
nosciuto il diritto al risarcimento a favore del coniuge separato.
In alcune decisioni tale scelta è stata giustificata con l'ar-
gomenazione secondo cui sarebbe sempre possibile l'intervento
di una conciliazione tra i coniugi separati. In altre invece si è
valorizzata la presenza di un figlio che, se nato nel corso di un
rapporto sentimentale, è tale da non far venire meno il vincolo
affettivo sussistente tra i genitori del medesimo.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE – Cass. 17 genna-


io 2013 n. 1025

Il coniuge separato ha diritto al risarcimento del danno non


patrimoniale per la perdita dell'altro coniuge se, nonostante
la separazione, si dimostri la permanenza di un vincolo af-

694
fettivo più o meno intenso.

“Il risarcimento del danno non patrimoniale sotto il pro-


filo del pregiudizio morale può essere accordato ad un coniuge
per la morte dell'altro anche se vi sia tra la parti uno stato di
separazione personale, purché si accerti che l'altrui fatto ille-
cito (nella specie il sinistro stradale causa del decesso) abbia
provocato nel coniuge superstite quel dolore e quelle sofferen-
ze morali che solitamente si accompagnano alla morte di una
persona più o meno cara. La separazione, infatti, in sé e per sé
non è di ostacolo al riconoscimento del risarcimento del danno
non patrimoniale. È, tuttavia, necessario dimostrare che, no-
nostante la separazione, sussista ancora un vincolo affettivo
particolarmente intenso, con la conseguenza che l'evento mor-
te ha determinato un pregiudizio in capo al superstite. Anche
se non vi era più un progetto di vita in comune, il precedente
rapporto coniugale, nonché la permanenza di un vincolo affet-
tivo - nella specie, congruamente individuato dalla Corte terri-
toriale nella presenza di un figlio in comune e nel breve lasso
di tempo intercorso dalla frattura della vita coniugale - legitti-
mano la richiesta di risarcimento”.

695
TESTO INTEGRALE

Il (OMISSIS) perdeva la vita in un incidente stradale R.O., per


l'impatto tra la vettura condotta da S. M. (assicurato con la R), sulla qua-
le era trasportata, e la vettura condotta da M.E., assicurata con la I. Nel
(OMISSIS) i congiunti della defunta - F. R., coniuge separato, anche per
il figlioletto M., il padre della vittima R.A., la madre C.I. ed il fratello
R.L. - proponevano dinanzi il Tribunale di Milano azione risarcitoria nei
confronti dei conducenti - proprietari e delle loro assicurazioni, integran-
do poi il contraddittorio anche verso le AS quale impresa designata per
la R Dopo alcuni mesi quest'azione civile veniva trasferita in sede pena-
le e, nel corso di questo giudizio, la M. "patteggiava" la pena, provve -
dendo la sua assicuratrice I a versare - il 7-11-96 - L. 550.000.000 com-
plessivi ai cinque danneggiati. Il processo penale proseguiva con la con-
danna definitiva anche di S., con la precisazione (in appello) delle quote
di responsabilità personale (60% a carico di S., 40% per la M.), con la
condanna generica di S. al risarcimento dei danni, ma senza alcuna li-
quidazione di essi. La causa civile veniva riassunta nel 1999 nei con-
fronti di S., della R e delle AS, le quali, nella contumacia di S., si costi-
tuivano resistendo alle pretese avversarie. Il Tribunale civile di Milano,
respinta l'eccezione d'improcedibilità della domanda D.L. n. 576 del
1978, ex art. 8 ha quantificato il danno morale cagionato al figlio decen-
ne nei due terzi dell'intero biologico in astratto spettante alla quaranta-
duenne defunta (circa 168.000,00 Euro), al marito ed al padre in un ter-
zo di quel parametro (circa 84.000,00 Euro ciascuno), alla madre in un
quarto (circa 63.000,00 Euro), al fratello in un ventesimo, e cioè
12.606,16 Euro. Ha escluso qualsiasi danno biologico iure hereditatis,
atteso il brevissimo intervallo tra l'incidente e la morte della R.; ha ag-
giunto, in favore del figlio, il danno patrimoniale quantificato in Euro
36.196,98. Ha condannato dunque S. e le AS a pagare il 60% di detti im-
porti, ritenendo sotto ogni profilo irrilevante la transazione a suo tempo
intervenuta con la I per la quota di responsabilità della M.. Sulle somme
liquidate sono stati aggiunti interessi al tasso medio compensativo annuo
del 5,69% dalla data dell'incidente fino alla pubblicazione della senten-

696
za. Ha così proposto un primo appello principale la soccombente R, ri-
proponendo la questione dell'improcedibilità dell'azione ex art. 8 cit. ed
evocando l'efficacia dell'intervenuto giudicato penale anche sulla do-
manda civile; nel merito contestando poi l'eccessività delle liquidazioni
operale in favore del coniuge separato e del padre della vittima e l'appli-
cazione indebita o comunque duplicatoria di rivalutazione ed interessi;
chiedendo in ogni caso di tener conto di quanto in precedenza versato
dal coobbligato solidale I; infine, richiamando eventualmente il massi-
male di legge previsto, al tempo, per le imprese poste in liquidazione
coatta. Altro appello principale è stato proposto dalle AS, che aveva po-
sto sostanzialmente i medesimi argomenti, insistendo soprattutto sulla
necessità di defalcare dal complessivo risarcimento quanto già percepito
da parte dei coobbligati (e detta somma, opportunamente rivalutata, si
sarebbe rivelata esaustiva). Anche quest'appellante contestava come ec-
cessive le liquidazioni in favore dei marito e dei padre della R. e deduce-
va il limite del massimale di legge.
Nella perdurante contumacia di S., si sono costituiti anche
appello, ed in entrambe le cause, tutti i danneggiati, replicando
partitamente ai motivi d'impugnazione avversari e proponendo appello
incidentale (condizionato ad un qualsiasi accoglimento degli appelli
principali) quanto all'esiguità del risarcimento in favore della madre, ma
anche in favore di ogni altro danneggiato, e quanto alla liquidazione
delle prime spese di lite.
2. Riunite le cause. La Corte di Appello di Milano, con la sentenza
oggetto delle presenti impugnazioni, depositata il 4 febbraio 2006,
riformava parzialmente la sentenza di primo grado;
2.1. riduceva il risarcimento spettante in favore del coniuge separato
della vittima in Euro 25.212,00, affermando che largamente eccessiva
era quello liquidato in favore del coniuge separato della vittima; se certo
non poteva sostenersi, con le appellanti, che la morte di un coniuge
separato non recasse alcun dolore all'altro, (tanto più quando vi era un
figlio in comune), pur tuttavia la quantificazione del primo Giudice
doveva essere ridotta, tenendo conto del dato obiettivo della separazione
e, cioè concretamente, del fatto della già cessata convivenza, e della
conseguente valutazione secondo cui la perdita del coniuge risulta

697
indubbiamente meno sconvolgente rispetto al conseguito assetto di vita;
2.2. osservava che la domanda risarcitoria era sempre stata proposta
come cumulativa, tanto evincendosi anche dal tenore delle conclusioni
che stabilivano una solidarietà attiva tra i creditori;
2.3. riteneva di dover detrarre dal risarcimento cumulativamente
conseguibile da tutti i danneggiati - come richiesto dalle appellanti, ma
in buona sostanza anche riconosciuto dagli appellati nella domanda
introduttiva nella presente causa - quanto dai danneggiati già ricevuto a
titolo di ristoro da altra fonte: non venivano in rilievo i principi della
solidarietà e delle quote di responsabilità, ma il divieto generale di
duplicazione risarcitoria, non essendo concepibile che i danneggiati
avessero percepito più del risarcimento loro complessivamente
spettante, neppure quando abbiano "a disposizione" più debitori solidali
(la solidarietà passiva non incrementa di certo l'ammontare del danno).
Dalla somma da ultimo indicata - che era univocamente calcolata alla
data dell'incidente (come si comprende sia dal calcolo degli accessori
operato dal primo Giudice, sia dal riferimento "tabellare" da lui evocato)
- andavano dunque detratti Euro 240.580,42 cioè l'equivalente,
devalutato alla data del fatto della somma di L. 550.000.000 (Euro
281.210,53) ricevuta dai danneggiati il 7.11.96. L'ammontare della
condanna risarcitoria complessiva andava dunque determinato, in
somma capitale alla data del fatto, in Euro 148.589,10. Su tale somma
decorrevano rivalutazione monetaria ed interessi di legge: il criterio
indicato dal Tribunale di uno specifico tasso medio compensativo si
sottraeva alle generiche censure delle appellanti, poiché per un verso
l'ammontare risarcitorio era stato (già dal primo giudice) calcolato alla
data del fatto (e non della sentenza), per altro verso il tasso
concretamente applicato non generava nessuna impropria duplicazione e
teneva conto dei limiti imposti dalle S.U. di questa Corte alla
sovrapposizione tra rivalutazione e interessi.
3. I prossimi congiunti della vittima propongono ricorso per cassazione
sulla base di sette motivi; la R resiste con controricorso, illustrato con
memoria, e propone contestualmente ricorso incidentale basato su unico
motivo. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva. I ricorsi

698
vanno riuniti, essendo stati proposti avverso la medesima sentenza (art.
335 c.p.c.).
4. Nel ricorso principale vengono formulati i seguenti motivi:
4.1. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2909. 1321, 1322 c.c. e
artt. 101, 102 c.p.c., sulla normativa afferente l'efficacia del giudicato tra
le parti ed i limiti del giudizio derivanti dal principio del contraddittorio
e dal principio di autonomia contrattuale, perché la Corte territoriale,
detraendo dal risarcimento accordato ai danneggiati quanto ad essi
corrisposto dalla I in ordine al danno causato dalla corresponsabile M.,
avrebbe esteso il giudicato penale d'appello, che stabiliva solo la quota
di responsabilità di S. (60%), e quello civile di primo grado, nella parte
in cui determinava esclusivamente tra le parti in causa un ammontare
globale del danno derivante dalla morte di R.O., alla frazione di
responsabilità relativa alla già stralciata posizione M.. Per effetto di tale
meccanismo, veniva determinata ben dieci anni dopo l'uscita di scena
della M. - con sacrificio della transazione 7.11.96 e degli artt. 1321-
1322 c.c. - la liquidazione del risarcimento per la responsabilità della
stessa. La sottrazione operata dal Giudice d'Appello riduceva a sfavore
dei danneggiati t'importo dell'accordo a stralcio della posizione M. e I
per la loro quota di responsabilità, attribuendo un'ingente somma del
pagamento ricevuto in ragione della transazione, (documentata
separatamente ed empiricamente) alla quota di obbligazione del S.. Il
Tribunale adito per la sola liquidazione della responsabilità nella
causazione del sinistro del convenuto S., già determinata e passata in
giudicato per la quota del 60%, aveva stabilito in ragione e solo a valere
su tale liquidazione un ipotetico "risarcimento globale" che per effetto
degli artt. 101 e 102 c.p.c. non poteva essere esteso oltre le parti e
l'oggetto del suddetto processo. La transazione intervenuta con I il
7.11.996 aveva convenzionalmente stabilito l'entità di un'obbligazione
parziale senza ammettere responsabilità in capo alla M. e senza
intervenire ne lasciare spazio ad una determinazione globale sul danno.
La valutazione globale del danno, svolta dal Tribunale di Milano in
primo grado, poteva in ogni caso determinare solo il quantum sul
risarcimento del convenuto S. e non avrebbe potuto essere estesa
all'obbligazione originaria per la responsabilità della M. nella

699
causazione della morte della R..
4.2. Violazione e falsa applicazione del combinato disposto dagli artt.
1965 e 1300 c.c. in ordine all'art. 2055 c.c. Disconoscendo il disposto
dell'art. 1300 c.c., comma 2 la sentenza impugnata, avrebbe utilizzato
l'esito della novazione, e dunque l'obbligazione derivata del primo per
decurtare la parte di obbligazione dei secondi:
AS. e R. In diritto, i convenuti potevano essere liberati
dall'obbligazione in solido relativa alla quota di responsabilità della M.,
ovvero per il disposto degli artt. 1965 c.c. e 1300 c.c., poiché la
transazione riguardava specificamente l'obbligazione originaria della
M., la somma pattuita nell'obbligazione derivata non poteva in ogni caso
assorbire la quota di obbligazione non transatta.
4.3. Omessa e insufficiente motivazione circa il valore della transazione
del 1996 tra la I e i danneggiati, che costituisce un cardine logico
giuridico della decisione, con conseguente erronea e falsa applicazione
degliartt. 101, 102 c.p.c., art. 1294 c.c. e segg. e conseguentemente art.
2055 c.c.. La sentenza impugnata sul punto (riportata al precedente
punto 2) non recherebbe traccia del titolo effettivo, tra la M. - Itas e gli
odierni ricorrenti, denunciato e sottolineato già in citazione di primo
grado, per quanto ricevuto ad estinzione di parte dell'obbligazione
risarcitoria: la transazione 7.11.96 nella sentenza di appello sarebbe
inesistente.
4.4. Violazione e falsa applicazione della normativa ex artt. 2054, 2055,
2059 e 1905 e 1910 c.c. quanto all'applicazione del principio
indennitario all'evento morte di una persona. In ordine alla motivazione
addotta per la riduzione del risarcimento a tutti i danneggiati, la sentenza
impugnata richiama il divieto di duplicazione risarcitoria, principio
sancito espressamente dagli artt. 1905 - 1910 c.c. in tema di
assicurazione contro i danni e viene normalmente esteso dalla
giurisprudenza ai danni prodotti dalla circolazione dei veicoli ex artt.
2054 2055 c.c.. Secondo l'estensione generalmente applicata,
l'indennizzo corrisposto dall'assicuratore deve svolgere la funzione di
riparare il danno subito dal danneggiato e non può rappresentare per
quest'ultimo una fonte di guadagno. Tale principio sarebbe stato

700
erroneamente esteso dal giudice di appello ai danni risarcibili per effetto
della morte della R.. I ricorrenti richiamano Cass. S. U. n. 5119 del
10.04.2002 che esclude l'applicazione del principio indennitario (proprio
dell'assicurazione contro i danni) all'assicurazione infortuni quando il
ristoro sia dovuto per l'evento morte, motivando inter alia che in tal caso
il risarcimento viene a coprire il rischio tipico dell'assicurazione sulla
vita e pertanto "deve ritenersi inapplicabile all'ipotesi di infortuni
mortali la disciplina dettata dall'art. 1910". Se deve ritenersi
inapplicabile all'assicurazione contro gli infortuni il principio
indennitario - desunto dall'assicurazione sui danni - quando l'evento
ristorato è la morte, tale principio non potrebbe essere assunto a
"principio generale assoluto" ed estendersi in via generale al ristoro dei
"sinistri mortali" nella circolazione dei veicoli, che sostanzialmente sono
"infortuni mortali" ovvero una loro sottospecie.
4.4.1. Le prime quattro censure possono essere trattate congiuntamente,
avendo tutte ad oggetto, sia pure sotto diversi profili, la medesima
questione dei rapporto tra transazione intercorsa con la M. ed entità
dell'obbligo degli altri corresponsabili. Le censure si rivelano infondate,
La decisione impugnata è in linea con la giurisprudenza di questa Corte.
Secondo tale insegnamento, dal quale non vi è ragione di discostarsi,
l'art. 1304 c.c., comma 1, che disciplina gli effetti della transazione del
debito solidale ad opera di uno solo dei condebitori si riferisce alla
transazione (non novativa) avente ad oggetto l'intera obbligazione
solidale, mentre quando è limitata alla sola quota interna del condebitore
che la stipula, la transazione non interferisce sulla quota interna degli
altri condebitori e, riducendo l'intero debito dell'importo corrispondente
alla quota transatta, produce automaticamente lo scioglimento del
vincolo solidale fra il condebitore stipulante e gli altri condebitori, i
quali rimangono obbligati nei limiti della loro quota senza potersi
avvalere del potere di cui all'art. 1304 c.c. (Cass. 24 gennaio 2012 n.
947; S.U. 30 dicembre 2011 n. 30174; 30 novembre 2011 n. 25553; 17
gennaio 2008 n. 868, 27 marzo 1999, n. 2931; 19 dicembre 1991 n.
13701). Il criterio per distinguere il tipo di transazione che consente ai
condebitori, estranei di profittarne da quello che non concede tale
facoltà viene ravvisato dalla giurisprudenza nell'oggetto della

701
transazione (l'intera obbligazione solidale ovvero la quota interna del
condebitore stipulante). In dottrina si è osservato che il criterio distintivo
è più propriamente costituito dal fatto che il creditore rinunci o non ad
ogni maggiore pretesa nei confronti degli altri condebitori. La
ricognizione degli intenti e delle finalità perseguiti dalle parti
nell'addivenire ad un accordo transattivo che ponga termine ad una lite
in corso, si risolve in una quaestio voluntatis riservata al Giudice di
merito.
4.4.2. La transazione, non novativa, che i danneggiati hanno concluso, a
suo tempo, con ITAS ha avuto l'effetto di liberare detto condebitore e la
sua assicurata dal vincolo di solidarietà.
Diversamente da quanto sostiene la società ricorrente, la Corte
territoriale non ha proceduto alla liquidazione del danno gravante sulla
Sig.ra M. - a suo tempo "liberata" dai danneggiati - ma ha affermato che
occorre tener conto, nella determinazione del risarcimento, anche di tale
pagamento per evitare un ingiusto arricchimento dei danneggiati. Del
resto, la transazione intercorsa con l'ITAS non rappresenta un contratto
aleatorio, non avendo I stessa rinunciato all'azione di rivalsa ed
essendosi, da parte loro, i danneggiati espressamente riservati il diritto di
agire nei confronti del S.. Non è, inoltre, pertinente il richiamo all'art.
1300 c.c., comma 2, stante il carattere non novativo dell'intercorsa
transazione: la norma invocata regola i rapporti tra uno dei creditori in
solido ed il debitore, mentre la presente fattispecie vede la presenza di
più creditori e più debitori e non vi è mai stato alcun accordo di
novazione tra uno dei creditori ed un debitore. L'inquadramento
giuridico di cui al ricorso principale è, dunque, errato: nel caso in esame,
vi è stata transazione tra i creditori ed un condebitore solidale che ha
avuto l'effetto di sciogliere la M. dal vincolo di solidarietà, ex art. 1311
c.c..
4.4.3. Senza contare che i danneggiati hanno sempre dato atto (p. 8
comparsa di risposta in appello) che la transazione in questione
rappresentava una definizione parziale verso uno dei coobbligati solidali
ai sensi degli artt. 1294 e 1311 c.c.; conseguentemente, ricevendo la
liquidazione dall'I per conto della Sig.ra M., i creditori avevano

702
mantenuto l'azione contro l'altro corresponsabile solidale. Essi hanno
sempre affermato, inoltre, nei propri atti difensivi di avere percepito
dall'I l'importo di L. 550.000.000 a titolo di transazione e liberazione dal
vincolo di solidarietà. Si rivela, pertanto, infondato anche il terzo motivo
del ricorso principale, visto che la Corte territoriale si è limitata a
prendere atto delle affermazioni e delle produzioni (l'atto di quietanza in
ordine a detta transazione) dei danneggiati, nella determinazione
dell'effettivo ammontare del risarcimento.
4.4.5. Circa il quarto motivo, inoltre, non si rivela pertinente il
riferimento al principio indennitario, in quanto esso riguarda la ben
diversa ipotesi di avvenuta stipula di più contratti di assicurazione da
parte del medesimo beneficiario e nulla ha a che vedere con l'ipotesi di
danno imputabile a più persone, che sono perciò condebitori solidali del
risarcimento del danno. Non è dubitabile che, nel caso di sinistro
stradale, viene unicamente in rilievo l'ammontare dei danni che, ex art.
2043 c.c., non può mai essere superiore al pregiudizio effettivamente
subito.
L'assicurazione sulla vita, invece, è un contratto intrinsecamente
aleatorio ed i principi applicabili allo stesso non possono trovare
applicazione analogica nel caso di assicurazione contro i danni.
Inoltre, come si è visto, gli stessi odierni ricorrenti hanno sempre
riconosciuto che l'importo versalo dall'I avrebbe dovuto essere
comunque sottratto dalla liquidazione del danno.
4.5. Omessa insufficiente e contraddittoria motivazione sulla
diminuzione liquidatoria del coniuge neo separato, con violazione
dell'art. 2059 c.c. e dell'art. 589 c.p.. Non sarebbe motivata la
contrazione del danno operata dalla Corte territoriale; il Primo Giudice
aveva apprezzato le componenti di danno al coniuge valorizzando la
contrazione del danno nella "riduzione dell'affectio coniugalis...; che tale
riduzione possa di per sè significare l'assenza di una sofferenza per la
perdita della moglie è da escludere, specie in un caso, quale quello in
esame, in cui la separazione si era concretizzata da meno di un mese. E'
pur anca vero però che, in assenza di contrari elementi di valutazione, la
qualità di coniuge separato è tale da giustificare la liquidazione di più

703
ridotto importo". La "diminuzione risarcitoria" in appello era
fondamentalmente un salto logico tecnico, non motivato poiché la
motivazione è la stessa di quella di primo grado.
4.5.1 Non ricorre il denunciato vizio. Infatti, la motivazione della
sentenza impugnata è ispirata a corretti canoni logici e giuridici.
Il risarcimento del danno non patrimoniale sotto il profilo del
pregiudizio morale può essere accordato ad un coniuge per la morte
dell'altro anche se vi sia tra la parti uno stato di separazione personale,
purché si accerti che l'altrui fatto illecito (nella specie il sinistro stradale
causa del decesso) abbia provocato nel coniuge superstite quel dolore e
quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte di
una persona più o meno cara. La separazione, infatti, in sè e per sè non è
di ostacolo al riconoscimento del risarcimento del danno non
patrimoniale. E', tuttavia, necessario dimostrare che, nonostante la
separazione, sussista ancora un vincolo affettivo particolarmente
intenso, con la conseguenza che l'evento morte ha determinato un
pregiudizio in capo al superstite. Anche se non vi era più un progetto di
vita in comune, il precedente rapporto coniugale, nonché la permanenza
di un vincolo affettivo - nella specie, congruamente individuato dalla
Corte territoriale nella presenza di un figlio in comune e nel breve lasso
di tempo intercorso dalla frattura della vita coniugale - legittimano la
richiesta di risarcimento. Relativamente al quantum del risarcimento,
trattasi di un'indagine di merito, non suscettibile di esame in questa sede
di legittimità (Cass. 17/07/2002 n. 10393; 20/12/01 n. 16073, in
motivazione). Pertanto, non è sindacabile in questa sede la discrezionale
valutazione della Corte territoriale, la quale ha riliquidato il danno a
favore del marito separato della vittima, pur prendendo in
considerazione - con il motivato apprezzamento sopra richiamato - gli
stessi elementi valutati dal Giudice di primo grado. Senza contare che i
ricorrenti non hanno specificamente indicalo le ragioni per te quali il
dedotto vizio della motivazione renderebbe questa inidonea a sorreggere
la decisione.
4.6. Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 e falsa applicazione dell'art. 1294
c.c. norme connesse e coordinate, e dell'art. 2055 c.c., in relazione alle

704
componenti separate di responsabilità, per erroneità e illegittimità del
criterio conclusivo esposto dalla Corte d'appello circa la solidarietà
passiva dei danneggiati, parti lese, in ordine a un assunto obbligo di
restituzione. L'imputabilità del fatto dannoso a più persone, che abbiano
autonomamente concorso a causarlo con attività soggettivamente
distinte, darebbe origine ai sensi dell'art. 2055 c.c. ad obbligazioni
solidali, cioè a distinti rapporti sostanziali e processuali tra loro
scindibili, che una volta divisi danno luogo ad un autonomo
accertamento dei fatti. La sentenza impugnata afferma in conclusione
della motivazione "dall'operata riforma circa l'ammontare del
risarcimento dovuto dalle appellanti e da S. conseguirà piuttosto la
restituzione da parte degli appellati in solido di quanto ricevuto in
eccesso in esecuzione della prima sentenza, con gli interessi di legge da
quella ricezione al saldo; tutte le eventuali questioni in tema di
suddivisione della somma tra i con-creditori e di regresso tra i
condebitori solidali, secondo le rispettive quote di responsabilità,
esulano invece dalla presente controversia. Tutte le liquidazioni operate
sia in penale che in sede tutelare di primo grado sarebbero sempre state
definite per attribuzioni di credito di danno singolarmente per ciascun
danneggiato, la sentenza di primo grado non lascerebbe dubbi sul punto.
L'affermazione della Corte territoriale, che individua un criterio
solidaristico tra i creditori ex delicto, rappresenterebbe un assurdo
tecnico-giuridico, tra l'altro non presente nemmeno nelle conclusioni di
primo e secondo grado, perché ciascuna parte aveva richiesto la
liquidazione del danno proprio, e per tutti richiamavano la comparsa
costitutiva di F.M., divenuto maggiorenne in corso di causa. Il motivo
viene espressamente subordinato alle censure esposte in via principale.
4.6.1. Anche questo motivo non coglie nel segno. La Corte di Appello
ha condannato i ricorrenti in solido alla restituzione di quanto percepito
in eccedenza, in esecuzione della sentenza di primo grado, sul
presupposto che "la domanda risarcitoria era stata sempre proposta come
cumulativa, tanto evincendosi anche dal tenore delle conclusioni che
stabilivano una solidarietà attiva tra i creditori".
Il motivo prescinde totalmente da tale espressa ratio decidendi.

705
Invero, per poter escludere la solidarietà passiva, ritenuta dalla
Corte territoriale, i ricorrenti avrebbero dovuto specificamente censurare
la ricostruzione della domanda operata nel detto senso.
Peraltro, l'orientamento di questa Corte e costante nel ritenere che
la solidarietà attiva nelle obbligazioni, non si presume, nemmeno in caso
di identità della res debita o della causa obligandi, ma deve risultare
espressamente dalla legge o dal titolo (Cass. n. 20761/2007; 5316/1998;
5316/1983), nella specie rappresentato dalla domanda e dalle
conclusioni come ricostruite dal giudice di merito e non specificamente
censurate, sotto il profilo del vizio motivazionale, dagli odierni
ricorrenti (v. Cass. n. 10725/2000, in motivazione, specificamente in
relazione ad interpretazione di domanda risarcitoria, sia pure ricostruita
in senso diverso da quella in esame).
4.7. Violazione e falsa applicazione Artt. 1218, 1224, 1882, 1905 c.c.;
della L. n. 990 del 1969, artt. 21 e 25;D.L. 23 dicembre 1976, n. 857 sul
problema dell'applicazione del massimale nell'ipotesi di vigenza del
Fondo di Garanzia. La Corte di Appello elide il problema, risolto
puntualmente dal Primo Giudice del limite del massimale dedotto dalla
compagnia da AS come designata in L. 700 milioni, riferiti al gennaio
93. Secondo le tesi degli assicuratori, detto massimale resterebbe
inalterato fino alla data di pagamento dalla parte delle AS di quanto
disposto dalla sentenza del Tribunale di Milano 7547/2003. Le
conclusioni del primo grado, reiterate in appello in via confermativa
instavano per la liquidazione dei danni, oltre interessi legali e
rivalutazione monetaria dalla data del sinistro al saldo effettivo. Come
sarebbe stato dedotto in appello, dovrebbe rilevarsi, in via di legittimità
incidentale, che l'ingiustificato ritardo dell'obbligo risarcitorio gravante
sul fondo di garanzia e sul Commissario liquidatore R avrebbero dato
luogo al superamento del massimale.
4.7.1. Anche questa censura è priva di pregio, essendo formulata in
violazione del canone di autosufficienza del ricorso per cassazione (art.
366 c.p.c., n. 4), perché, rispetto alla questione del superamento del
massimale che non ha formato oggetto della motivazione della sentenza
impugnata, non ha specificato se, come, dove e quando essa sia stata

706
sottoposta dagli odierni ricorrenti alla Corte territoriale: non è, all'uopo,
sufficiente il generico riferimento a quanto avrebbe formato oggetto
della sentenza di primo grado, nè la circostanza che le compagnie
assicuratoci avversarie abbiano proposto detta questione in appello (con
conseguente insussistenza d'interesse ad impugnare sul punto da parte
degli odierni ricorrenti). La censura è, pertanto, inammissibile, per
novità della questione, non essendo essa stata prospettata al giudice di
appello, come si evince dalla stessa ricostruzione dell'iter processuale
ora operata. Si deve ribadire, infatti, che i motivi del ricorso per
Cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni già
comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, non potendo
prospettarsi per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o
nuove contestazioni non trattate nella precedente fase di merito e non
rilevabili d'ufficio (Cass. 23 magio 2002 n. 7543, in motivazione; Cass.
4 giugno 2001 n. 7321; Cass. 31 marzo 2000 n. 3028; Cass. 12 giugno
1999 n. 5809 19 maggio 1999 n. 4852).
5. Nel ricorso incidentale, la Rhone deduce violazione dell'art. 2909 c.c.
e/o dell'art. 1362 c.c. e segg. con riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
La Corte di Appello, confermando sul punto la decisione di primo grado,
ha escluso che la sentenza del 10.3.98 resa dal Giudice di Appello
penale, passata in giudicato, potesse avere valenza nel giudizio civile di
liquidazione del danno, in quanto le affermazioni effettuate dal Giudice
penale in motivazione costituirebbero mero obiter, poiché sarebbe stata
rimessa al Giudice civile l'integrale liquidazione del danno. Il Giudice
della sentenza impugnata sarebbe incorso in errore, dato che
l'individuazione della portata del giudicato, sia esso giudicato esterno od
interno, andava effettuata con riferimento non soltanto al dispositivo
della sentenza, ma anche alla motivazione, dalla quale emergeva quanto
segue: "prima dell'odierna udienza la parte civile ha depositato una
memoria, alla quale ha allegato una consulenza intesa a dimostrare il
danno biologico subito iure proprio dalla madre e dal padre della sig. R..
A giudizio di questa Corte tale atto non è idoneo a fornire la prova della
sussistenza delle predette voci di danno ed a quantificarle, sia perché è
una vai ut azione tecnica di parte, sia perché fornisce indicazioni assai
generiche in ordine alla quantificazione del danno psichico; solo una C.

707
T. U. in sede civile può fornire una sicura prova della domanda"; "le
parti civili hanno giù ottenuto dal coobbligato solidale il pagamento
della somma complessiva di L. 550.000.000 il 7.11.96, come risulta
dalla relativa quietanza agli atti. A giudizio di questa Corte, pur
valutando la rilevanza dei danni subiti dalle parti civili (soprattutto dal
figlio minore della Sig.ra R.), la somma non è inferiore ai danni fino ad
ora provati che, pertanto, risultano già risarciti, anche se dal
coobbligato" (...). Pertanto la Corte territoriale sarebbe incorsa in
violazione delle norme in materia di efficacia ed interpretazione del
giudicato esterno, costituito dalla citata sentenza, ritenendo che il
Giudice Penale avesse rimesso a quello civile l'integrale liquidazione del
danno; mentre lo stesso aveva dichiarato già integralmente risarciti, con
il pagamento dell'I, tutti i danni provati, con la sola eccezione di quelli,
non adeguatamente dimostrati, relativi alla presunta sussistenza di danno
biologico subito iure proprio dalla R.; la Corte sarebbe comunque
incorsa in evidente e grave vizio logico di motivazione per non avere
considerato che il Giudice Penale aveva inequivocabilmente affermato
di non poter procedere alla liquidazione di solo una parte del danno,
avendo invece implicitamente liquidato, dichiarandole integralmente
soddisfatte, tutte le altre e proprio le altre voci di danno per le quali le
controparti avevano invece inammissibilmente agito davanti al Giudice
Civile nel presente giudizio. Il ciò a maggior ragione considerato che,
avendo gli eredi R. a suo tempo trasferito l'azione civile in sede penale,
tutte le statuizioni effettuate dal Giudice Penale riferite a tale azione
avrebbero dovuto avere efficacia vincolante, essendo esse passate
definitivamente in giudicato ed in virtù del fondamentale principio del
ne bis in idem.
5.1. La censura è priva di pregio. Essa è ammissibile sotto il limitato
profilo della violazione dell'art. 2909 c.c..Infatti, in materia
d'interpretazione del giudicato, le Sezioni Unite e poi le Sezioni semplici
di questa Corte hanno enunciato i seguenti principi:
a) il giudice di legittimità deve accertare l'esistenza e la portata
del giudicato con cognizione piena, che si estende anche al diretto
riesame degli atti del processo ed alla diretta loro valutazione ed
interpretazione mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto,

708
indipendentemente dalla interpretazione data al riguardo dal giudice del
merito: ciò in ragione della riconosciuta natura pubblicistica
dell'interesse al rispetto del giudicato; della ritenuta indisponibilità per le
parti dell'autorità di quest'ultimo; della ravvisata identità dell'operare dei
due tipi di giudicato, interno ed esterno; e della inclusione delle
correlative questioni nella sfera delle questioni di diritto piuttosto che in
quella delle questioni di fatto; b) il giudicato non deve, infatti, essere
incluso nel fatto e, pur non identificandosi nemmeno con gli elementi
normativi astratti, è da assimilarsi, per la sua intrinseca natura e per gli
effetti che produce, a tali elementi normativi; con la conseguenza che
l'interpretazione del giudicato deve essere trattata piuttosto alla stregua
dell'interpretazione delle norme che non alla stregua dell'interpretazione
dei negozi e degli atti giuridici; c) costituendo, a sua volta,
l'interpretazione del giudicato operata dal Giudice del merito non un
apprezzamento di fatto ma, una quaestio iuris - la stessa è sindacabile, in
sede di legittimità, non per il mero profilo del vizio di motivazione, ma
nella più ampia ottica della violazione di legge; e gli eventuali errori di
interpretazione del giudicato rilevano quali errori di diritto (Cass. n.
10537/2010, in motivazione; 21200/2009; Cass. sez. un. 24664/2007;
13916/2006; 226/2001). Ne deriva che non sono neanche prospettabili le
censure relative alla violazione degli artt. 1362 ss., non essendo
l'interpretazione del giudicato (più) riconducibile ai canoni ermeneutici
contrattuali alla luce degli indicati principi, così come non è più
prospettabile in relazione ad essa il vizio motivazionale.
Quanto all'indicata violazione dell'art. 2909 c.c., il motivo di
ricorso incidentale ora in esame concerne, quindi, l'interpretazione di un
giudicato esterno penale, interpretazione che può essere effettuata anche
direttamente dalla Corte di Cassazione con cognizione piena, sempre
però nei limiti in cui il giudicato sia riprodotto nel ricorso per
cassazione, in forza del principio di specificità dei motivi (art. 366
c.p.c., n. 4): infatti, se è vero che la sentenza passata in giudicato
costituisce la c.d. legge del caso concreto è anche vero che. al contrario
degli atti normativi resi pubblici con la pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale, atti che il giudice è tenuto a ricercare di ufficio (in
applicazione del noto brocardo iura novit curia), il giudicato esterno

709
deve essere prodotto dalla parte che intenda avvalersene e, qualora
l'interpretazione che ne ha dato il giudice di merito sia ritenuta scorretta,
il ricorso per cassazione deve riportare il testo del giudicato che assume
male interpretato, motivazione e dispositivo, atteso che il solo
dispositivo può non essere sufficiente alla comprensione del comando
giudiziale (Cass. n. 10537/2010, in motivazione; 26627/2006). Il
ricorrente incidentale - che ha riportato nel ricorso solo alcuni stralci
della motivazione della sentenza penale di appello costituente l'asserito
giudicato a sostegno dell'impugnativa - ha, peraltro, depositato copia
autentica della cennata sentenza all'atto della iscrizione a ruolo del
ricorso per cassazione, per cui questa Corte può esaminare la sentenza
de qua nell'ambito degli atti processuali alla stregua dei principi sopra
richiamati.
Nel procedere, pertanto, alla valutazione del giudicato esterno
come dianzi richiamato dalla società controricorrente, dal diretto
riesame degli atti relativi al predetto, si evince che la Corte territoriale
ha affermato che all'intervenuto giudicato penale non era attribuibile
anche una pronuncia definitiva di infondatezza della domanda "civile
risarcitoria", perché dalla lettura di quella sentenza emergeva che la
Corte, in relazione all'impugnazione delle parti civili (contro l'omessa
liquidazione in primo grado), riteneva di non poter provvedere anche
sulla liquidazione dei danni, in quanto la determinazione quantitativa
sarebbe stata possibile solo per alcune delle voci di danno, ma non, in
particolare, sul danno biologico in tesi subito oltre proprio dai genitori
della vittima, per il quale sarebbe stata necessaria una c.t.u.. Proprio in
virtù di tale situazione probatoria, il giudice penale rimetteva le parti
dinanzi a quello civile, per la liquidazione del danno ex art. 539 c.p.p.,
nè appariva possibile alla Corte penale liquidare solo le rimanenti voci
di danno, in considerazione dell'unitarietà della costituzione di parte
civile.
Dallo stesso tenore della sentenza penale emerge chiaramente che
la domanda risarcitoria non è stata respinta, ma solo rinviata per la sua
liquidazione alla sede civile. Proseguendo nell'iter argomentativo della
sentenza penale, la Corte territoriale ha osservato che il rigetto della
domanda risarcitoria delle parti civili, sul presupposto che la somma

710
percepita dal coobbligato solidale non era inferiore ai danni fino ad
allora provati, integrava un mero obiter dictum, inserito nello stretto
contesto della statuizione relativa alla concessione o meno della
provvisionale, senza alcuna possibilità di acquisire efficacia di giudicato
sulla già valutata domanda risarcitoria rimessa in questa sede. Di
conseguenza dalla diretta valutazione degli atti processuali
l'interpretazione del giudicato costituito dalla sentenza penale di appello
comporta che trova conferma l'interpretazione datane dalla Corte di
appello di Milano, che nella sentenza impugnata, ha correttamente
statuito che dai detto giudicato non era derivata alcuna decisione sulla
liquidazione della domanda risarcitoria coltivata nel presente giudizio e
che anche il silenzio del dispositivo penale di appello su tale domanda
confermava questa ricostruzione.
Ne deriva il rigetto dei ricorsi riuniti, con compensazione delle
spese del presente giudizio tra le parti costituite; nulla per le spese nei
confronti degli altri intimati, che non hanno svolto attività difensiva.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi riuniti. Compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2012.Depositato in Cancelleria il 17
gennaio 2013

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Nel caso di specie i parenti del Signor Bianchi sono legit-


timata ad agire per conseguire il risarcimento del danno scatu-

711
rente dall'evento dannoso jure proprio, essendo stati privati
della facoltà di fruire del rapporto parentale con il congiunto
deceduto.
La moglie, separata da sei mesi, ha diritto a conseguire il
risarcimento per lesione del rapporto parentale, considerato an-
cora sussistente tra i coniugi un affectio - supportato, tra l'altro,
dalla presenza di ben tre figli - che fa ritenere ragionevole la
sofferenza subita dal coniuge separato.
Considerato invece che il Signor Bianchi è deceduto qua-
si immediatamente dopo il sinistro, si deve ritenere che questi
non abbia fatto in tempo a rendersi conto di quanto stava per
accadere. Nessun credito, quindi, è entrato a far parte del suo
patrimonio.
Da ciò l'irrisarcibilità delle pretese vantate dai coniugi
iure hereditatis.

712
20. QUOTA E BENI DELLA SOCIETA'

IL CASO

Il Signor Rossi è stato riconosciuto titolare di talune quote relative


alla società di persone X in forza di una sentenza che questi ha fatto
trascrivere nei registri immobiliari poiché nel patrimonio della
predetta società sono presenti taluni immobili, di cui il Signor Rossi
ritiene di essere proprietario.
Il Signor Bianchi, contitolare di altra quota, assume che tale
trascrizione sia a lui pregiudizievole e che la titolarità in capo al
Signor Rossi delle quote societarie non comporta automaticamente la
comproprietà in capo a questi dei beni rientranti nel patrimonio della
società.
Pertanto egli vuole ottenere la cancellazione della predetta
trascrizione a lui pregiudizievole.
Il Signor Rossi assume che, in ogni caso, la cancellazione della
trascrizione da parte del Signor Bianchi dopo undici anni dal
compimento della trascrizione medesima non possa essere fatta
valere in quanto caduta in prescrizione.

Quesito
Può il Signor Bianchi chiedere la cancellazione della trascrizione nei
registri immobiliari del titolo attestante la proprietà di talune quote in
capo al Signor Rossi, dopo undici anni?

*****

713
ESAME DELLA FATTISPECIE

Nel caso in esame, il Signor Rossi, unao volta conseguito


il titolo - rappresentato da una sentenza - in forza del quale vie-
ne riconosciuto titolare di talune quote societarie, provvede alla
trascrizione del titolo medesimo nei registri immobiliari poiché
la società, delle cui quote egli è titolare, è proprietaria di taluni
immobili.
In ragione della titolarità delle quote della società, infatti,
il Signor Rossi assume di avere automaticamente la compro-
prietà dei beni facenti parte del patrimonio societario.
Tale circostanza è recisamente contestata dal Signor
Bianchi, altro contitolare di quote, il quale ritiene che la predet-
ta trascrizione risulti a lui pregiudizievole e ne chiede, a distan-
za di undici anni, la cancellazione.
Il signor Rossi, a sua volta, eccepisce, l'avvenuta prescri-
zione del diritto a conseguire la cancellazione.
La risoluzione del caso richiede di esaminare due distinti
aspetti.
In primo luogo è opportuno distinguere la titolarità delle
quote del socio dalla proprietà dei beni in capo alla società di

714
persone (di cui il socio detiene le quote).
In secondo luogo si deve analizzare il distinto profilo in-
volgente la prescrizione del diritto alla cancellazione della tra-
scrizione che il Signor Bianchi intende esercitare a distanza di
undici anni.

*****

LA POSIZIONE ESPRESSA DALLA GIURISPRUDENZA

Cass. 7 agosto 2008, n. 21307. L’assegnazione di un immobile sociale al


socio superstite in sede di liquidazione conseguita allo scioglimento di
società di persone per mancata ricostituzione della pluralità di soci nel
termine prescritto, è atto che rientra nel paradigma del trasferimento es-
sendo tale tipo di società caratterizzato da autonomia patrimoniale, che
la rende centro d’imputazione di rapporti distinto da quello riferibile ai
soci, con la conseguenza, in tema di imposta di registro, che, nel caso in
cui il socio si sia obbligato a trasferire a sua volta l’immobile entro tre
anni, al fine di beneficiare dell’aliquota agevolata di cui all’art. 1, 1º
comma, quinto periodo, della tariffa, parte prima, allegata al d.p.r. 26
aprile 1986 n. 131, il mancato avveramento di tale condizione legittima
l’applicazione dell’aliquota dell’otto per cento, ai sensi dell’art. 4, lett.
d) n. 2 della tariffa.

Cass. 18 settembre 2008, n. 23856. Qualora un locatore conferisca in


proprietà ad una società l’immobile urbano locato non sussistono i diritti
di prelazione e di riscatto previsti dagli art. 38 e 39 l. 27 luglio 1978 n.
392 in favore del conduttore dell’immobile medesimo, atteso che in tal
caso non è configurabile un «trasferimento a titolo oneroso» ai sensi del

715
1º comma dell’art. 38 legge citata, né è possibile che il titolare del diritto
di prelazione possa offrire al locatore-venditore la medesima contropre-
stazione e le medesime condizioni, in quanto il conferimento in società è
correlato alla qualità di socio.

Cass. 1 aprile 2004, n. 6361. In tema di differenze tra società e comunio-


ne a scopo di godimento, mentre quest’ultima (espressamente disciplina-
ta dall’art. 2248 c.c.) postula una situazione giuridica di contitolarità
(presupponendo, pertanto, la comproprietà del bene in capo a tutti coloro
che vi partecipino) e si caratterizza per il fatto che oggetto del godimen-
to (fine esclusivo della comunione) è il bene comune, nella società (che
va istituita per contratto) rileva l’esercizio in comune di un’attività svol-
ta a fine di lucro da parte di più soggetti, per l’esercizio della quale non
è necessaria alcuna comunione di beni, che sono soltanto lo strumento
attraverso il quale essa viene a realizzarsi e operare.

Cass. 27 novembre 1999, n. 13291. Nel caso di comunione incidentale


di azienda, ove il godimento di questa si realizzi mediante il diretto
sfruttamento della medesima da parte di uno o più partecipanti alla co-
munione, è configurabile l’esercizio di un’impresa individuale o colletti-
va (nella forma della società regolare oppure della società irregolare di
fatto), non ostandovi l’art. 2248 c.c., che assoggetta alle norme degli art.
1100 seg. stesso codice la comunione costituita o mantenuta al solo sco-
po di godimento; pertanto, nel caso in cui più eredi esercitino, congiun-
tamente ed in via di fatto, lo sfruttamento diretto dell’azienda già appar-
tenuta al de cuius, deve escludersi la configurabilità di una mera ammi-
nistrazione di beni ereditari in regime di comunione incidentale di godi-
mento e si è, invece, in presenza dell’esercizio di attività imprenditoriale
da parte di una società di fatto, con l’ulteriore conseguenza che, in ordi-
ne alla responsabilità per i debiti contratti nell’esercizio di tale attività,
restano prive di rilievo la qualità successoria delle persone anzidette e le
eventuali limitazioni di responsabilità ad essa correlate.

Cass. 6 febbraio 2009, n. 3028. Nel caso di comunione d’azienda, ove il


godimento di questa si realizzi mediante il diretto sfruttamento della me-
desima da parte dei partecipanti alla comunione, è configurabile l’eserci-

716
zio di un’impresa collettiva (nella forma della società regolare oppure
della società irregolare o di fatto), non ostandovi l’art. 2248 c.c., che as-
soggetta alle norme degli art. 1100 seg. dello stesso codice la comunione
costituita o mantenuta al solo scopo di godimento; l’elemento discrimi-
nante tra comunione a scopo di godimento e società è infatti costituito
dallo scopo lucrativo perseguito tramite un’attività imprenditoriale che
si sostituisce al mero godimento ed in funzione della quale vengono uti-
lizzati beni comuni.

Cass. 6 dicembre 2011, n. 26245. La sentenza pronunciata nei confronti


di una società in nome collettivo - la quale, ancorché priva di personalità
giuridica, costituisce, in ragione della propria autonomia patrimoniale,
un centro di imputazione di rapporti distinto da quello riferibile a cia-
scun socio e fonte di una propria capacità processuale - non fa stato nei
confronti dei soci che non siano stati parte del relativo giudizio e che,
pertanto, non sono legittimati ad impugnare la sentenza stessa.

Cass. 18 luglio 2002, n. 10427. Le società di persone (nella specie, so-


cietà in accomandita semplice) costituiscono, pur non avendo personali-
tà giuridica, ma soltanto autonomia patrimoniale, un autonomo soggetto
di diritto, che può essere centro di interessi e d’imputazione di situazioni
sostanziali e processuali distinte da quelle riferibili ai singoli soci che,
pertanto, non sono legittimati ad agire in proprio per gli interessi della
società stessa (fattispecie relativa a socio accomandatario unico che agi-
va per la riscossione di compensi dovuti alla società).

Cass. 3 aprile 1993, n. 4053. L’acquisto da parte di un terzo di una quota


ideale dell’azienda, già gestita, a scopo di profitto, dall’originario im-
prenditore individuale, determina tra le parti, in difetto di espressa pat-
tuizione contraria, l’insorgere non già della comunione di godimento di
cui l’art. 2248 c.c. - la quale non è configurabile nel caso in cui l’oggetto
di comune utilizzazione sia costituito non dai vari beni che costituiscono
l’azienda, ma da questa stessa, secondo la sua strumentale destinazione
all’esercizio dell’impresa - bensì di una società di fatto, col corollario
che la successiva alienazione della quota è suscettibile di dimostrazione
anche attraverso la prova testimoniale, in applicazione delle norme che

717
disciplinano la società irregolare e con esclusione dell’applicabilità del-
l’art. 2556 c.c. che impone la prova scritta per il trasferimento della pro-
prietà o del godimento dell’azienda.

Cass. 27 novembre 1999, n. 13291. L’iscrizione di un’impresa presso la


camera di commercio come società di fatto non rappresenta un dato me-
ramente formale, inidoneo a comprovare l’esistenza effettiva della so-
cietà, in un giudizio avente ad oggetto una pretesa da altri fatta valere
contro i soggetti indicati come soci, integrando, invece, tutti gli estremi
per fondare una presunzione semplice - superabile soltanto con la prova
contraria - di corrispondenza del dato formale alla realtà; tenuto conto,
inoltre, che, inerendo l’iscrizione ad un pubblico registro conoscibile
dalla generalità delle persone, essa determina per i terzi, a carico dei
soggetti indicati come soci, un importante elemento di riscontro circa
l’assunzione, da parte loro, della responsabilità patrimoniale illimitata
per le attività e le obbligazioni riferibili alla compagine sociale (sulla
base di tale principio la suprema corte ha ritenuto che correttamente il
giudice di merito avesse desunto la prova presuntiva dell’esistenza di
una società di fatto, fra gli eredi del soggetto titolare di un’impresa indi-
viduale, dalla denuncia presso la camera di commercio della trasforma-
zione della impresa individuale del de cuius in società, dopo la sua mor-
te, ed ha rilevato che di fronte a quella prova incombeva ai presunti soci
l’onere della prova contraria).

Cass. 4 marzo 2000, n. 2487. La costruzione di un edificio da parte dei


soci di una società in nome collettivo su di un terreno di proprietà di
quest’ultima comporta, ai sensi dell’art. 934 c.c., l’acquisizione della
proprietà dell’intero edificio da parte dell’ente (sia stato l’immobile co-
struito con denaro della società, ovvero dei soci, ipotesi, quest’ultima,
legittimamente inquadrabile nell’istituto del conferimento sociale), che
lo acquisisce al suo patrimonio, destinandolo al perseguimento degli
scopi sociali ed alla garanzia dei propri debiti; tale destinazione esclude,
pertanto, che i singoli soci possano utilizzare il bene per fini personali,
se non previo consenso di tutti i soci, ex art. 2256, 2293 c.c., nel qual
caso il socio, utilizzando il bene, non ne consegue il possesso, bensì la
semplice detenzione, così che la (eventuale) trasformazione del titolo

718
d’uso - da detenzione in possesso - potrà avvenire, in favore del socio,
solo per effetto di un atto di interversione, senza che si possa, peraltro,
legittimamente configurare in tali termini il semplice godimento del
bene che si protragga per effetto del già prestato consenso degli altri
soci.

Cass. 21 luglio 2000, n. 9592. Qualora un locatore conferisca in proprie-


tà ad una società l’immobile urbano locato non sussistono i diritti di pre-
lazione e di riscatto previsti dagli art. 38 e 39 l. 27 luglio 1978 n. 392 in
favore del conduttore dell’immobile medesimo, non essendo in tal caso
configurabile un «trasferimento a titolo oneroso» ai sensi del 1º comma
dell’art. 38 l. cit.; è manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale delle disposizioni sopra indicate nella parte in cui non
comprendono tra i trasferimenti a titolo oneroso il conferimento in pro-
prietà ad una società dell’immobile, costituendo la vendita e il conferi-
mento situazioni diverse, tali che la differente disciplina non viola l’art.
3 cost.

Cass. 29 settembre 2005, n. 19160. Qualora un locatore conferisca in


proprietà ad una società l’immobile urbano locato non sussistono i diritti
di prelazione e di riscatto previsti dagli art. 38 e 39, l. 27 luglio 1978, n.
392, in favore del conduttore dell’immobile medesimo, atteso che in tal
caso non è configurabile un «trasferimento a titolo oneroso», ai sensi del
1 comma, art. 38 l. cit., né è possibile che il titolare del diritto di prela-
zione possa offrire al locatore-venditore la medesima controprestazione
e le medesime condizioni, in quanto il conferimento in società è correla-
to alla qualità di socio.

Cass. 3 novembre 1989, n. 4603. Nella società commerciale di persone,


regolare o irregolare o di fatto, l’esclusivo godimento dei beni sociali, da
parte del singolo socio, non per scopi personali, ma sempre nell’ambito
della gestione dell’impresa comune, non può implicare usucapione, né
della quota altrui, in considerazione della natura personale e della conse-
guente inusucapibilità del relativo diritto, né dei suddetti beni, dato che
quel godimento, non toccando la destinazione dei conferimenti, configu-
ra esercizio del potere di amministrazione, e, comunque, si esaurisce in

719
una detenzione in nome e per conto della società.

*****

LE NORME RICHIAMATE

Art. 948.
Azione di rivendicazione.
1. Il proprietario può rivendicare la cosa, da chiunque la
possiede o detiene e può proseguire l'esercizio dell'azione an-
che se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio,
di possedere o detenere la cosa. In tal caso il convenuto è ob-
bligato a recuperarla per l'attore a proprie spese, o, in man-
canza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il dan-
no.
2. Il proprietario, se consegue direttamente dal nuovo
possessore o detentore la restituzione della cosa, è tenuto a re-
stituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta
in luogo di essa.
3. L'azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli

720
effetti dell'acquisto della proprietà da parte di altri per usuca-
pione.

Art. 1100.
Norme regolatrici.
1. Quando la proprietà o altro diritto reale spetta in co-
mune a più persone se il titolo o la legge non dispone diversa-
mente si applicano le norme seguenti.

Art. 1102 c.c.


Uso della cosa comune.
1. Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune,
purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri
partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal
fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie
per il miglior godimento della cosa.
2. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla
cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie
atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.

721
Art. 1111 c.c.
Scioglimento della comunione.
1. Ciascuno dei partecipanti può sempre domandare lo
scioglimento della comunione; l'autorità giudiziaria può stabi-
lire una congrua dilazione, in ogni caso non superiore a cin-
que anni, se l'immediato scioglimento può pregiudicare gli in-
teressi degli altri.
2. Il patto di rimanere in comunione per un tempo non
maggiore di dieci anni è valido e ha effetto anche per gli aventi
causa dai partecipanti. Se è stato stipulato per un termine
maggiore, questo si riduce a dieci anni.
3. Se gravi circostanze lo richiedono, l'autorità giudizia-
ria può ordinare lo scioglimento della comunione prima del
tempo convenuto.

Art. 2247 c.c.


Contratto di società.
Con il contratto di società due o più persone conferisco-
no beni o servizi per l'esercizio in comune di una attività eco-
nomica allo scopo di dividerne gli utili.

722
Art. 2248 c.c.
1. Comunione a scopo di godimento.
1. La comunione costituita o mantenuta al solo scopo del
godimento di una o più cose è regolata dalle norme del titolo
VII del libro III.

Art. 2256 c.c.


Uso illegittimo delle cose sociali.
1. Il socio non può servirsi, senza il consenso degli altri
soci, delle cose appartenenti al patrimonio sociale per fini
estranei a quelli della società.

Art. 2267 c.c.


Responsabilità per le obbligazioni sociali.
1. I creditori della società possono far valere i loro diritti
sul patrimonio sociale. Per le obbligazioni sociali rispondono
inoltre personalmente e solidalmente i soci che hanno agito in
nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli altri
soci.

723
2. Il patto deve essere portato a conoscenza dei terzi con
mezzi idonei; in mancanza, la limitazione della responsabilità
o l'esclusione della solidarietà non è opponibile a coloro che
non ne hanno avuto conoscenza.

Art. 2272 c.c.


Cause di scioglimento.
1. La società si scioglie:
1) per il decorso del termine;
2) per il conseguimento dell'oggetto sociale o per la so-
pravvenuta impossibilità di conseguirlo;
3) per la volontà di tutti i soci;
4) quando viene a mancare la pluralità dei soci, se nel
termine di sei mesi questa non è ricostituita;
5) per le altre cause previste dal contratto sociale.

Art. 2289 c.c.


Liquidazione della quota del socio uscente.
1. Nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitata-
mente a un socio , questi o i suoi eredi hanno diritto soltanto

724
ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota.
2. La liquidazione della quota è fatta in base alla situa-
zione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo
scioglimento.
3. Se vi sono operazioni in corso, il socio o i suoi eredi
partecipano agli utili e alle perdite inerenti alle operazioni me-
desime.
4. Salvo quanto è disposto nell'articolo 2270, il paga-
mento della quota spettante al socio deve essere fatto entro sei
mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto.

*****

GLI ISTITUTI

Il rapporto che il soggetto instaura con il bene dipende


evidentemente dal titolo in ragione del quale sorge tale legame.
Se, infatti, siamo in un regime di comunione di beni di
cui sono titolari più soggetti, questi possono goderne diretta-
mente e troveranno applicazione le norme dettate, quindi, in

725
tema di comunione. Quindi, esemplificando, ogni comunista -
ovvero partecipante alla comunione - può, ai sensi dell'art.
1102 c.c., servirsi della cosa comune, senza alterarne la desti-
nazione senza impedire agli altri partecipanti di farne parimenti
uso.
Diversamente, se i beni appartengono alla società (le cui
quote sono intestate ai soci), sebbene si tratti di società di per-
sone e non di capitali, essi rientrano nel patrimonio della socie-
tà e, in tal caso, le disposizioni codicistiche da richiamare sono
quelle di cui agli artt. 2247 ss. c.c.
I beni che costituiscono patrimonio della società sono
funzionali non al diretto godimento degli stessi, bensì all'eser-
cizio di un'attività che sia sorretta da finalità lucrative volte alla
ripartizione degli utili.
Nel caso in cui i predetti beni vengano utilizzati solo per
un godimento fine a se stesso il legislatore ritiene applicabile in
tali fattispecie le norme sulla comunione ordinaria, secondo
quanto prevede l'art. 2248 c.c.
Quando, invece, la contitolarità si configura come eserci-
zio di un'impresa, a scopo di lucro siamo in presenza di una so-
cietà.

726
In tale caso, i soci non hanno un potere di dominio diretto
sui beni rientranti nel patrimonio sociale.
Essi, ad esempio, non possono domandare lo scioglimen-
to della comunione dei beni - facoltà questa riservata ai parteci-
panti alla comunione dall'art. 1111 c.c. - l'art. 2272 c.c. prevede
infatti che lo scioglimento della società debba avvenire con atto
negoziale a cui devono prestare assenso unanime i soci.
Anche per quel che concerne i rapporti con i creditori,
sussitono delle differenze sostanziali.
Nella comunione di beni non rileva alcuna differenza tra i
creditori personali dei singoli partecipanti alla comunione e la
categoria dei creditori della comunione medesima.
Invece, sebbene - come noto - la società di persona non
goda di una propria personalità giuridica quale soggetto a sé
stante rispetto alle persone fisiche titolari delle relative quote,
vige il principio dell'autonomia patrimoniale (anche se questa
non è sempre un'autonomia perfetta). Sul punto, l'art. 2267, in-
fatti, dispone che: “i creditori della società possono far valere
i loro diritti sul patrimonio sociale".
E' noto che la società di persone costituisce un ente auto-
nomo rispetto ai soci che attraverso di essa operano.

727
Tale autonomia non è solo da intendersi quale soggettivi-
tà giuridica ma anche quale autonomia patrimoniale nonché
quale autonomia di responsabilità.
Per quanto concerne l'autonomia patrimoniale, tuttavia,
vi è da precisare che non si tratta di autonomia patrimoniale
perfetta nel senso che, in via sussidiaria, i soci rispondono per
le obbligazioni sociali personalmente.
Ciò posto, il rapporto di inerenza tra le quote di cui sono
titolari i singoli soci e i beni di cui è proprietaria la società, sep-
pure fanno ipotizzare che idealmente ai soci spetti una quota
dei beni della società, non è tale da far sorgere un rapporto di-
retto tra i soci titolari delle quote sociali e i beni della società.
Tali aspetti dunque devono permanere distinti, anche se
ad esempio, il trasferimento della proprietà degli immobili di
una società può ritenersi funzionalmente connesso al trasferi-
mento delle quote sociali.
L'autonomia della posizione del socio rispetto a quella
della società vale anche per le società di persone anche se -
come detto - non vi è quella separazione perfetta tra i patrimoni
dei singoli soci e quello della società per quel che attiene ai de-
biti della società.

728
Di conseguenza, per quel che rileva nel caso in esame,
l'autonomia della società è anche autonomia dei beni di cui
questa dispone.
L'esclusione di tale diretto rapporto è supportata dalla
considerazione secondo cui se un singolo socio intende scio-
gliere il suo vincolo dalla compagine sociale ha diritto a conse-
guire una somma di denaro corrispondente al valore della quota
di cui questi è titolare, e non già ad una parte del patrimonio
della società, ai sensi dell'art. 2289 c.c..
Ed ancora, se la società intende alienare una quota della
stessa, non si ha una cessione di una quota del bene di cui la
stessa è proprietaria sicché non sarà possibile nel caso di ces-
sione della quota sociale esercitare il diritto di prelazione sul-
l'immobile della società (perché, per l'appunto, il trasferimento
non afferisce ad una quota del bene facente parte del patrimo-
nio sociale, bensì alla quota della società).

La cancellazione di una trascrizione che reca pregiudizio e la


prescrizione per l'esercizio del relativo diritto.
Atteso il rapporto di autonomia che intercorre tra la posi-
zione del singolo socio e i beni patrimoniali della società di cui

729
questi è socio, ne consegue che il socio non può comportarsi in
merito ai beni della società uti dominus.
Se, dunque, il socio non è proprietario di questi beni, a
lui è preclusa la facoltà di far trascrivere un titolo esecutivo nei
registri immobiliari, poiché tale facoltà l'ordinamento giuridico
la pone a disposizione del solo proprietario.
Se, quindi, la trascrizione è illegittima, perché eseguita da
un soggetto non legittimato a richiederla, colui che da tale tra-
scrizione viene pregiudicato può domandare al giudice che
venga ordinata la cancellazione della trascrizione stessa.
Tale richiesta si qualifica come un atto di esercizio del di-
ritto che il richiedente assume essere pregiudicato dalla trascri-
zione predetta.
Poiché l'esercizio del diritto di richiedere la cancellazione
della trascrizione attiene al diritto di proprietà si applica tale ul-
tima disciplina anche con riferimento al profilo della cancella-
zione.
Se, quindi, la richiesta è effettuata dal proprietario o dal
comproprietario del bene, che reputa di essere stato pregiudica-
to, la domanda può essere fatta valere sempre, essendo il diritto
di proprietà imprescrittibile.

730
L'azione di rivendicazione riservata al proprietario è
esercitabile senza limiti di tempo, secondo il disposto dell'art.
948 c.c.
D'altra parte, la condotta illecita consistita nel far trascri-
vere nei registri immobiliari un titolo esecutivo rappresentato
dalla sentenza assume carattere permanente nel senso che fin-
ché dura tale trascrizione, la medesima è idonea a recare nocu-
mento.
Ne consegue che finché permane la stessa situazione, il
soggetto che ha subito il pregiudizio ha facoltà di azionare tale
richiesta di cancellazione della trascrizione stessa.

La società di persone è un autonomo centro d'imputazione di


situazioni sostanziali e processuali che va tenuto distinto ri-
spetto alla posizione dei soci.
Il Supremo Collegio, pronunciandosi in fattispecie coin-
cidenti rispetto a quella che occupa, ha stabilito che le società
di persone costituiscono, anche se prive di personalità giuridi-
ca, un autonomo soggetto di diritto, che può essere centro di in-
teressi e d’imputazione di situazioni sostanziali e processuali;
tal centro autonomo va tenuto distinto rispetto alle posizioni ri-

731
feribili ai singoli soci.

*****

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE - CASS. 24 GIUGNO


2013, N. 15795

Le società di persone sono soggetti distinti rispetto alle per-


sone dei soci e quindi dotate anche di un autonomo patri-
monio.

“Le società di persone, pur non avendo personalità giu-


ridica, il che porta nei loro confronti ad escludere, dal lato
passivo, quella separazione tra la responsabilità della società
e quella personale dei singoli soci che invece è il tratto salien-
te delle società di capitali, sono tuttavia configurate dalla leg-
ge come autonomo soggetto di diritto, distinto dai singoli soci,
avente propria autonomia patrimoniale e quindi autonoma ti-
tolarità dei beni facenti parte del loro patrimonio, i quali, per-
tanto, appartengono alla società e non ai singoli soci” (Cass.

732
civ., sez. II, 24 giugno 2013, n. 15795).

Nella stessa occasione, per altro, la Corte di cassazione


ha precisato che “l'illegittima trascrizione di un atto nei regi-
stri immobiliari costituisce un illecito di carattere permanente,
con l'effetto che il diritto di reazione giuridica del soggetto che
si assume pregiudicato non è suscettibile di prescrizione finché
la trascrizione è in atto” (Cass. civ., sez. II, 24 giugno 2013, n.
15795).

TESTO INTEGRALE
T.D.G., C.D.A. e D.G., in proprio e quali eredi di D.C.,
convennero dinanzi al Tribunale di Torino C.P.M. chiedendo che fosse
dichiarata illegittima e quindi ordinata la cancellazione della trascrizione
eseguita a cura del convenuto della sentenza della Corte di appello di
Torino del 3 settembre 1986 sui beni specificatamente descritti nell'atto
di citazione, assumendo che la predetta sentenza non era titolo valido
per la trascrizione avendo solamente accertato in capo all'odierno
convenuto la titolarità delle quota di partecipazione alla società Villa
_________, senza accertare il suo diritto di comproprietà sui beni
immobili di quest'ultima, che nemmeno individuava in modo specifico.
Costituendosi in giudizio, il C. chiese il rigetto della domanda,
eccependone l'infondatezza nonché la prescrizione, e, in via
riconvenzionale, che fosse cancellata la trascrizione della presente
domanda, nonché che fosse rettificata la nota di trascrizione relativa al
rogito _________del 12 gennaio 1987 di accettazione di eredità di D.C.

733
per la parte in cui indicava la quota sociale devoluta agli attori, in quanto
comprensiva anche di parte della quota a lui spettante.
All'esito dell'istruttoria, solo documentale, il Tribunale accolse la
domanda degli attori e rigettò quelle riconvenzionali del convenuto.
Interposto gravame, con sentenza n. 942 del 31 maggio 2006 la
Corte di appello di Torino confermò integralmente la pronuncia di primo
grado. Il giudice di appello pervenne a questa conclusione affermando
che, come ritenuto dal Tribunale, la sentenza della Corte di appello del
1986, in forza della quale era stata eseguita la trascrizione sugli
immobili della società di persone Villa ________, non era titolo idoneo
a tal fine, atteso che essa si era limitata a riconoscere una residua quota
di partecipazione alla società in capo al C., ma non aveva anche statuito
sui diritti degli immobili intestati alla società. In particolare, la Corte
distrettuale precisò che la sentenza di cui si discute, emessa dalla Corte
di appello di Torino quale giudice di rinvio a seguito della cassazione
della pronuncia di appello, aveva definito il contenzioso insorto tra le
parti in ordine alla determinazione della esatta quota di partecipazione
nella suddetta società, qualificata come società in nome collettivo, di
C.E., dante causa di C.P. M., il quale aveva chiesto l'accertamento in suo
favore del "diritto di comproprietà immobiliare, mobiliare, aziendale e
di partecipazione sociale", domanda a cui la controparte aveva opposto
l'usucapione della quota rivendicata. La sentenza aveva disatteso questa
eccezione e riconosciuto in capo al C. una residua quota di
partecipazione, senza però pronunciarsi nè individuare i beni della
società. Il semplice ed evidente fatto che tale quota fosse comprensiva
anche della comproprietà sugli immobili conferiti alla società, non
equivaleva però ad un accertamento sulla titolarità degli stessi in capo al
socio. Ne conseguiva, ad avviso della Corte, l'inidoneità della relativa
sentenza a fondare la pretesa dell'appellante alla trascrizione del suo
diritto di comproprietà sui beni immobili sociali.
La Corte torinese respinse altresì gli altri motivo di appello
rilevando che l'eccezione di prescrizione sollevata dal C. risultava
collegata agli altri motivi dichiarati infondati e che comunque il diritto
di chiedere la cancellazione della trascrizione su beni immobili

734
costituisce una facoltà del diritto di proprietà ed è, come tale,
imprescrittibile e che la richiesta diretta ad ottenere la declaratoria di
nullità o inefficacia della trascrizione dell'atto di citazione doveva
ritenersi abbandonata in primo grado, non essendo stata riprodotta al
momento della precisazione delle conclusioni, nè riproposta con l'atto di
appello.
Per la cassazione di questa decisione propone ricorso C.P. Maria
con atto notificato il 16 luglio 2007, affidato a cinque motivi. C.D.A. e
D.G., quali eredi di D.C. e T.D.G., resistono con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa
applicazione dell'art. 2909 c.c., censurando l'affermazione della sentenza
impugnata che ha negato alla sentenza del 1986 le caratteristiche di
titolo trascrivibile in ragione del fatto che essa non conteneva alcun
accertamento su diritti reali sui beni immobili della società Villa
_____________ Il ricorrente contesta tale conclusione, che ascrive ad
una errata interpretazione del giudicato formatosi sulla sentenza della
Corte di appello del 1986.
Quest'ultima, infatti, aveva espressamente affermato che i beni
conferiti alla società di persone vengono a trovarsi in contitolarità dei
soci, sia pure con un onere di destinazione all'attività della società.
Le stesse indicazioni sono inoltre rinvenibili nelle sentenze n.
4603 del 1989 e n. 6480 del 1984 della Corte di Cassazione. Nella
prima, che aveva disposto il rinvio alla Corte di appello di Torino che
aveva pronunciato la decisione del 1986 di cui si discute, essendo stato
precisata la stretta inerenza tra quote sociali e quote di comproprietà dei
beni conferiti alla società; nella seconda, avendo la Corte di legittimità
statuito che la cessione di quote di immobili alla società doveva essere
fatta ad substantiam con atto scritto, e che "nei trasferimenti di proprietà
di immobili di cui al citato art. 1314 erano necessariamente compresi
quelli di quote della loro comproprietà".
Sotto altro profilo, il ricorso assume che l'accertamento del diritto

735
di comproprietà dei soci sui beni immobili della società costituiva un
antecedente logico necessario della statuizione contenuta nel dispositivo
della sentenza della Corte di appello di Torino del 1986, laddove detto
giudice, nel respingere l'eccezione di usucapione degli altri soci, aveva
precisato che i beni sociali erano da ritenersi di proprietà dei soci.
L'accertamento della quota sociale in capo al C. ed il riconoscimento
della sua spettanza agli utili sociali maturati muoveva in sostanza dal
riconoscimento del suo diritto di comproprietà, in proporzione alla
quota, dei beni sociali, che, quale presupposto di fatto, era coperto dal
giudicato.
Il motivo è infondato.
La decisione impugnata fonda la propria statuizione di rigetto
dell'appello sulla affermazione che nè la sentenza della Corte di appello
del 1986 nè tanto meno quella della Corte di Cassazione del 1989 hanno
mai accertato alcun diritto di comproprietà immobiliare in capo al C. sui
beni della società nè hanno mai identificato i beni immobili oggetto di
tale presunto diritto.
L'accertamento così compiuto è esatto, trovando diretto riscontro
e conferma nel dispositivo della menzionata sentenza del 1986, che si
era limitato a dichiarare la titolarità in capo al C. di una quota pari a
8,5402/120 della società Villa ____ e la sua spettanza ad ottenere gli
utili, in proporzione a detta quota, non prescritti, senza statuire alcunché
in ordine anche alla sua contitolarità sui beni della società.
Statuizione che, merita aggiungere, appare del tutto coerente con
il principio che le società di persone - quale pacificamente era la società
Villa ---------- - pur non avendo personalità giuridica, il che porta nei
loro confronti ad escludere, dal lato passivo, quella separazione tra la
responsabilità della società e quella personale dei singoli soci che invece
è il tratto saliente delle società di capitali, sono tuttavia configurate dalla
legge come autonomo soggetto di diritto, distinto dai singoli soci, avente
propria autonomia patrimoniale e quindi autonoma titolarità dei beni
facenti parte del loro patrimonio (Cass. n. 26245 del 2011; Cass. n.
21307 del 2008; Cass. n. 10427 del 2002; Cass. n. 2487 del 2000;

736
Cass. n. 4603 del 1989), i quali, pertanto, appartengono alla
società e non ai singoli soci.
Nè hanno pregio le argomentazioni del ricorrente secondo cui un
tale accertamento sulla contitolarità dei beni della società in capo al C.
sarebbe stato compiuto dalla Corte di appello di Torino nel corpo della
motivazione, dando luogo ad una statuizione autonoma anche se
collegata, in quanto presupposta, con la pronuncia finale.
La deduzione non merita accoglimento, dal momento che dalla
lettura del predetto provvedimento non emerge sul punto alcun
accertamento avente il carattere proprio di capo autonomo della
decisione, come tale suscettibile di integrare e concorrere a formare il
comando del giudice. Sul punto questa Corte ha del resto chiarito che
integra un capo autonomo della decisione, come tale suscettibile di
formare il giudicato, non già una qualsiasi accertamento di fatto della
sentenza, ma solo quella affermazione che risolve una questione
controversa, avente una propria individualità ed autonomia, sì da
integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente, caratteri
che invece vanno esclusi non solo in presenza di mere argomentazioni,
ma anche quando si verte in tema di valutazioni di presupposti di fatto
che, unitamente ad altri, concorrono a formare un capo unico della
decisione (Cass. n. 4732 del 2012; Cass. n. 726 del 2006).
Il secondo motivo denunzia violazione e falsa applicazione
dell'art. 2657 c.c., in relazione agli artt. 2659 e 2660, censurando
l'affermazione della Corte di appello secondo cui la sentenza del 1986
non era titolo suscettibile di trascrizione anche perché non individuava i
beni mobili e immobili facenti parte del patrimonio sociale. Sostiene il
ricorso che tale asserzione è errata, atteso che l'obbligo di indicare i dati
di identificazione dell'immobile riguarda la nota di trascrizione e non
l'atto da trascrivere, che, a tal fine, è sufficiente contenga le
caratteristiche di cui all'art. 2657 c.c..
Il motivo, che investe una argomentazione ulteriore della
sentenza impugnata, va dichiarato assorbito in ragione della reiezione
del precedente motivo, apparendo la motivazione della sentenza ivi
censurata in grado, di per sè sola, di sorreggere la statuizione di rigetto

737
dell'appello.
Il terzo motivo di ricorso investe, sotto il profilo del vizio di
motivazione, la stessa affermazione censurata nel mezzo precedente,
affermando che l'esatta individuazione dei beni su cui era caduta la
trascrizione era comunque possibile sulla base delle indicazioni
contenute negli atti richiamati dalla stessa decisione, in particolare dalle
risultanze dell'atto del 30 giugno 1913, della scrittura del 15 maggio
1940 di costituzione della società, e dei rogiti successivi del 1951,1965 e
1968.
Sotto altro profilo il ricorrente attacca la sentenza per
contraddittorietà di motivazione, laddove, da un lato, ha rilevato che "la
quota sociale facente capo al C. come comprensiva della comproprietà
degli immobili conferiti in proprietà alla casa di cura", e, dall'altro, ha
escluso che vi fosse alcun accertamento sui diritti immobili spettanti al
C..
La prima censura, che si collega al motivo precedente, va
dichiarata assorbita, per le medesime ragioni sopra esposte.
La seconda doglianza appare invece infondata, non essendovi
alcuna contraddittorietà logica o giuridica tra l'affermazione secondo cui
la quota, quale frazione del patrimonio sociale, comprende
necessariamente i beni che di esso fanno parte, ed il rilievo che il
riconoscimento della titolarità di detta quota non comporta il
riconoscimento in capo al suo titolare anche della comproprietà dei beni
sociali.
Il quarto motivo di ricorso censura la statuizione della sentenza
impugnata che ha rigettato l'eccezione di prescrizione sollevata dal
convenuto, ritenendola assorbita dal rigetto degli altri motivo e
comunque infondata, per essere la richiesta diretta alla cancellazione
della trascrizione su beni immobili una facoltà inerente al diritto di
proprietà, come tale imprescrittibile. Il ricorso assume in proposito che
entrambe le affermazioni non risultano in alcun modo motivate, non
avendo la Corte distrettuale spiegato le ragioni a sostegno.
Il motivo è infondato, apparendo assorbente rispetto alle critiche

738
sollevate ed anche alle ragioni esposte dalla sentenza impugnata - la cui
motivazione va pertanto corretta a mente dell'art. 384 c.p.c., comma 4,
nel senso di seguito precisato - la considerazione che l'illegittima
trascrizione di un atto nei registri immobiliari costituisce un illecito di
carattere permanente, con l'effetto che il diritto di reazione giuridica del
soggetto che si assume pregiudicato non è suscettibile di prescrizione
finché la trascrizione è in atto.
Il quinto motivo di ricorso, denunziando la violazione degli artt.
99, 163 e 189 c.p.c., in relazione all'art. 121, censura il capo della
decisione che ha ritenuto abbandonata e comunque non riprodotta
nell'atto di appello la domanda diretta ad ordinare la cancellazione
dell'annotazione effettuata dalla controparte in data 5 febbraio 2001
sulla nota di trascrizione. Sotto un primo profilo, si deduce che
l'abbandono o la rinuncia alla domanda non può desumersi solamente
dalla sua mancata riproduzione all'udienza di conclusioni e che se il
giudice avesse esaminato la memoria depositata ex art. 183 c.p.c., e la
comparsa conclusionale, ove si insisteva su tale richiesta, avrebbe
dovuto convincersi sul fatto che essa era sta mantenuta dal richiedente.
Sotto altro profilo, si deduce che, contrariamente a quanto affermato dal
giudice distrettuale, tale domanda è stata ritualmente riproposta nell'atto
di appello.
Il motivo va dichiarato assorbito in ragione del rigetto dei
precedenti motivi, da cui consegue la conferma della statuizione che ha
disposto la cancellazione della trascrizione.
In conclusione, il ricorso è respinto.
Le spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la
soccombenza del ricorrente.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
di giudizio, che liquida in Euro 3.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre
accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 16 maggio 2013.

739
Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2013

*****

LA SOLUZIONE DEL CASO

Tornando alla fattispecie in oggetto, sebbene la sentenza


abbia accertato la titolarità delle quote facenti capo al Signor
Rossi ciò non significa che il predetto titolo abbia riconosciuto
in capo a questi la proprietà dei beni facenti parte del patrimo-
nio sociale.
Questi ultimi beni appartengono solo alla società ed il Si-
gnor Rossi non ha su di essi alcun dirirtto di proprietà.
Ciò implica che questi non avrebbe dovuto far trascrivere
nei registri immobiliari la sentenza; tale trascrizione è quindi il-
legittima e pregiudica le ragioni del Signor Bianchi.
Quest'ultimo, allora, è legittimato a chiedere la cancella-
zione della trascrizione senza che vi sia un termine prescrizio-
nale, atteso che il pregiudizio permane fin quando sussiste la
trascrizione che illegittimamente il Signor Rossi ha richiesto.

740
Finito di stampare nel marzo 2015

741

Potrebbero piacerti anche