Sei sulla pagina 1di 10

LEZIONE DEL 3 MARZO 2020

Per riprendere il filo del discorso…


Dopo aver esaminato, nella precedente lezione, alcune delle fondamentali variabili
linguistiche in rapporto con il latino (riassumendo: variabile diacronica = legata al
tempo; variabile diatopica = legata allo spazio; variabile diafasica = legata al livello
stilistico e registro di un prodotto verbale), ne restano ancora due da prendere in
considerazione. Esse sono la variabile diastratica e la variabile diamesica.
La variabile diastratica è quella legata alla condizione sociale e al livello culturale
di chi adopera la lingua. In ogni comunità linguistica, non tutti i parlanti si esprimono
allo stesso modo. Il latino non fa eccezione a questa regola: nella Roma antica e nei
territori dell’Impero, il latino dei dotti era diverso da quello degli umili: il primo era
una lingua colta dal vocabolario ricco e dalla sintassi articolata; il secondo era una
lingua popolare, poco controllata grammaticalmente, ricca di fenomeni di
semplificazione, attraversata da influssi del sostrato (per cui si rimanda alla lezione
precedente) e caratterizzata da espressioni ‘basse’ e da riferimenti alla vita materiale.
La variabile diamesica è la variabile legata alla modalità di trasmissione di una
lingua, che può essere parlata o scritta. Come si può verificare nella nostra esperienza
quotidiana, noi non parliamo nello stesso modo in cui scriviamo (anche se, per far
riferimento all’italiano odierno, negli ultimi tempi l’influsso del parlato sullo scritto
si è fatto sempre più forte determinando quella che alcuni studiosi hanno chiamato
‘oralizzazione della scrittura’). Di solito la lingua scritta è, o dovrebbe essere, più
sorvegliata e precisa di quella parlata, che presenta invece pause, approssimazioni,
‘riempitivi’, auto-correzioni, sottintesi comprensibili solo da specifici interlocutori.
Anche in questo caso, il latino non è sfuggito a questo principio di variabilità. Anzi,
le differenze tra latino parlato e latino scritto non riguardarono soltanto il rapporto tra
la grafia e la pronuncia delle parole, ma anche aspetti della grammatica, della sintassi
e del lessico.
1. Le fonti del latino parlato
Proprio facendo riferimento in particolare alle ultime due variabili appena ricordate, è
possibile individuare alcuni tratti del latino parlato. Questo è permesso da diverse
fonti. Forme tipiche del latino parlato s’incontrano:
a) nelle iscrizioni murarie graffite o dipinte. È quel genere di prodotti linguistici che
va sotto il nome di scritture esposte. Va detto che, differentemente da quanto
potrebbe apparire, si tratta di testimonianze molto importanti degli usi della lingua.
Se per un attimo ci rivolgiamo all’italiano, esse si sono rivelate decisive sia per la
ricostruzione dei primi stadi del volgare sia per accertare competenze e temi dei ceti
popolari attraverso i secoli. Catalogate e studiate in particolare dal paleografo
Armando Petrucci, recentemente scomparso, hanno consentito di verificare una
minima ma importante conoscenza dell’italiano da parte di gruppi popolari a cui, per
convenzione e resistenza di modelli letterari nell’interpretazione, non era solitamente
attribuita. Si tratta di graffiti sui muri, cartelli (spesso infamanti), iscrizioni in luoghi
di culto, testi d’accompagnamento ad immagini (come i quadretti degli ex voto). In
queste produzioni alcuni storici, come l’inglese Peter Burke, hanno visto la
manifestazione più ‘genuina’ e diretta delle classi popolari. D’altronde per rendersi
conto della loro importanza – in questo caso per individuare le differenze tra latino
arcaico e latino classico – basta ricordare la scritta, appunto esposta perché tutti la
leggessero, incisa sulla scodella del V secolo a.C., la cosiddetta nuova epigrafe del
Garigliano, di cui abbiamo parlato nelle precedenti lezioni;
b) nei glossari, ovvero vocabolari elementari che spiegano con espressioni del latino
parlato parole e costruzioni del latino classico divenute rare o considerate difficili;
c) nelle testimonianze (lettere private o documenti) di scriventi popolari, come
potevano essere i soldati romani stanziati nei vari territori dell’Impero: solo in Egitto
ne sono state trovate circa 300;
d) nelle opere di autori che tentano di riprodurre nella lingua scritta i tratti tipici della
lingua parlata. Facciamo solo due esempi.
Il primo è costituito dalle commedie di Plauto (III secolo a.C.) Se, come sapranno
bene gli studenti del curriculum classico, si sfoglia un’opera fondamentale della
disciplina come La lingua latina di Leonard R. Palmer, s’incontrano, nel capitolo sul
latino parlato, numerose pagine dedicate a Plauto. Rilevante il fatto che la tendenza
alla spontaneità del discorso, tipica del genere comico-teatrale, determini
«dislocazioni sintattiche e illogicità che i grammatici classificano come anacoluti».
Quanto domina è «il desiderio di chi parla di concentrare fin dall’inizio l’attenzione
sul particolare punto che al momento interessa» (citazioni dalla p. 97 dell’edizione
Einaudi). Leggiamo un brano soltanto dal Miles gloriosus: «nam unum conclave,
concubinae quod dedit miles… in eo conclavi ego perfodi parietem»,
approssimativamente traducibile così: “infatti un’unica stanza che il soldato diede
alla concubina… in quella stanza io traforai la parete». Cosa succede? Si menziona
l’argomento di maggiore interesse subito, nella prima parte della frase. Ne consegue
che la costruzione grammaticalmente corretta sia modificata dando luogo ad un
costrutto ‘sghembo’ che rende necessaria, per stare semanticamente in piedi, la
ripresa del tema posto in principio. Un anacoluto del tipo chiamato nominativus
pendens. E anche un meccanismo caratteristico di tutte le lingue neo-latine che fa
parte del vasto repertorio morfo-sintattico della tematizzazione (a cui s’è già
accennato) che continuiamo ad usare ancora oggi. Il fatto però che sia già attestato
nel latino parlato del III secolo a.C. è un dato di grande importanza.
Il secondo esempio letterario è il Satyricon di Petronio (I secolo d.C.) con l’episodio
della Cena di Trimalchione che costituisce una fonte preziosa di latino volgare,
denominazione che indica sia il latino del volgo che la lingua colloquiale, parlata e
qualche volta scritta senza volerlo dalle persone non molto istruite. In generale, va
detto che il Satyricon è «una fonte per la conoscenza di quell’anello essenziale alla
ricostruzione del passaggio dal latino alle lingue romanze, che è il latino volgare» (F.
Bruni, L’italiano. Elementi di storia della lingua e della cultura, Utet, p. 177).
Significativo che qui convivano sia pulcher del latino classico, che bellus (cfr. it.
bello, fr. beau) e formosus (cfr. sp. hermoso, rom. frumos). Con coesistenza di tipi
destinati in processo di tempo a restare senza eredi romanzi (pulcher) o ad imporsi in
aree distinte della Romània, centrali e innovative (bello, beau) o periferiche e
conservatrici (hermoso, frumos).
e) nella letteratura d’ispirazione cristiana. I traduttori delle Sacre Scritture e molti
autori cristiani pensavano più a trasmettere le verità della loro fede che a porsi
problemi di stile. Famosa un’affermazione di sant’Agostino (IV secolo d.C.): «Melius
est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi»: “Meglio che ci
rimproverino i grammatici piuttosto che non ci capisca la gente». A partire proprio da
sant’Agostino (non dalle Confessioni che restano un’opera di alta qualità retorica, ma
da una predica del 5 maggio 418 destinata direttamente al pubblico) e da un altro
testo d’ispirazione cristiana, la Passio Perpetuae, Eric Auerbach (famoso soprattutto
per l’ancora oggi fondamentale Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale) ha
definito il cosiddetto sermo humilis, una modalità di lingua e di stile immediata e
comunicativa in contatto con le forme del latino parlato (in E. Auerbach, Lingua
letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Feltrinelli 1960, pp.
31-67; l’edizione originale è del 1958).
Va inoltre ricordato, tra le fonti del latino parlato, un testo noto come Itinerarium
Egeriae. Siamo nel 400 circa d.C. Egeria, una religiosa spagnola di condizione
socioculturale piuttosto elevata, lascia l’Europa e intraprende un lungo pellegrinaggio
in Terrasanta. Durante il viaggio scrive un diario in cui racconta in modo minuzioso
quanto le capita di vedere lungo il percorso. Egeria è tutt’altro che ignorante ma la
sua attenzione ai luoghi e agli ambienti e ai loro dettagli e la sua prospettiva culturale
lontana dai classici e intrisa, invece, da una profonda conoscenza della Bibbia,
determinano le seguenti conseguenze:
1) larga presenza di volgarismi lessicali. Ad esempio, de ha spesso valore partitivo; il
verbo desiderare è preferito a danno di optare o cupere (e il primo sarà ben più vitale
degli altri due nelle lingue romanze);
2) larga presenza di indicatori spaziali che legano il testo al luogo descritto e che una
scrittura ‘classica’ tende ad evitare. Egeria usa spesso dimostrativi ridondanti;
3) preferenza per una sintassi non gerarchica: le frasi sono allineate quasi sullo stesso
piano con un marcato distacco dalle ampie articolazioni del latino classico;
4) tendenza alla ripetizione delle stesse parole. Egeria a volte ripete, a inizio di
periodo, la parola con cui aveva chiuso il periodo precedente, proprio – tanto per
intenderci - per ‘mandare avanti’ il discorso. Un esempio è necessario. Eccolo:
«cepimus ascendere montes singulos. Qui montes cum infinito labore ascenduntur»,
traducibile più meno così: “cominciammo a scalare i monti uno per uno. I quali monti
con grande fatica si scalano”. Si ricordi che nel testo fondamentale dello stile della
latinità, la Rhetorica ad Herennium, la ripetizione è invece severamente condannata
(e questa condanna resisterà nella tradizione letteraria italiana). Ma ad Egeria di
questa condanna non importa nulla;
f) nei trattati tecnici di architettura o culinaria, farmacologia o medicina. Anche qui
l’obiettivo era, più che uniformarsi ai canoni di uno stile alto, trasmettere i contenuti
essenziali della disciplina trattata in maniera comprensibile ai più e quindi indulgendo
anche a mosse del parlato. Famose le scuse che Vitruvio (autore di un trattato di
architettura; siamo tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C.) si sente in dovere di rivolgere ai
lettori per la sua lingua non impeccabile: «Non architectus potest esse gramaticus»:
“L’architetto non può essere un grammatico”;
g) nelle opere di grammatici e insegnanti di latino. In esse vengono segnalati gli
errori più frequenti affinché gli allievi evitassero di commetterli. Ma molti degli
errori in questione sono proprio interferenze del latino parlato sul latino scritto.
Quindi, per tale via, abbiamo un’ulteriore documentazione del latino parlato. La
testimonianza più famosa è l’Appendix Probi, così chiamata (Appendice di Probo)
perché trovata in fondo a un manoscritto che conserva gli scritti di un autore che si
suole indicare come lo pseudo-Probo. La compilazione si attribuisce comunemente al
III-IV sec. d.C. Si tratta di una lista organizzata secondo lo schema “A non B”: alla
forma latina respinta perché erronea (B) si contrappone la forma giusta (A). Nella
nostra prospettiva sono più interessanti le forme catalogate in B di quelle catalogate
in A, perché manifestano tendenze che molte volte diventeranno norma, alcuni secoli
dopo, in tutta la Romània o in parte di essa. In altri termini, frammenti della futura
norma romanza esistevano già nel III-IV sec. d.C., ma come errore e non ancora
come nuovo sistema linguistico, autonomo e diverso dal latino. Qualche esempio (a
sinistra la forma latina corretta, a destra l’’errore’ destinato ad affermarsi):
speculum NON speclum
columna NON colomna
calida NON calda
turma NON torma
auris NON oricla.
Lungo il percorso che condurrà all’italiano, contano le parole della colonna di destra.
Le parole italiane corrispondenti (specchio, colonna, calda, torma, orecchia) sono
più vicine agli ‘errori’ posti a destra che alle forme ‘corrette’ poste a sinistra. Il che
conferma che la nostra lingua continua il latino parlato, non quello scritto. Ma la
faccenda si presta a rilievi non solo lessicale ma anche fonetici. Così nel passaggio
calida > calda si ravvisa la sincope vocalica (cade la i) che colpisce la penultima
sillaba breve dei polisillabi accentati sulla terzultima, un fenomeno
caratteristicamente romanzo; nel passaggio columna > colonna e in quello turma >
torma si registra il passaggio da Ŭ > o (tutti aspetti che meglio verranno considerati,
a Dio piacendo, nelle prossime lezioni).

Un’ultima cosa a proposito del latino parlato o latino d’uso è una segnalazione
bibliografica: J.B. Hofmann, La lingua d’uso latina del 1926 che s’inserisce in un
filone di studi sulla lingua parlata, di cui, per l’italiano, è testo essenziale l’opera di
Leo Spitzer, Lingua italiana del dialogo, scritta nel 1914.
2. Il metodo ricostruttivo e comparativo
Lo strumento più importante per la ricostruzione del latino parlato è il confronto tra le
varie lingue romanze.
Cos’è il metodo ricostruttivo e comparativo?
Consiste nel ricostruire una forma non documentata (cioè non scritta perché propria
del latino parlato) sulla base dei risultati che se ne hanno nelle varie lingue romanze.
Un esempio: il termine italiano carogna. Nel latino scritto non si trova una parola che
possa esserne considerata la base; quella che gli si avvicina di più è caro, cioè ‘carne’
(per il significato di ‘carogna’ di usava cadaver). Ma da caro a carogna la distanza è
grande, sia sul piano del significato che della forma fonica.
Confrontiamo ora l’italiano carogna con i suoi corrispondenti in alcune lingue
romanze. Ad esempio, in francese c’è charogne, in provenzale caronha, in spagnolo
carroña. Non è possibile che queste parole siano nate indipendentemente l’una
dall’altra: esse presuppongono un antecedente comune – CARŌNIA, derivato di
CARO – di cui rappresentano la regolare evoluzione nelle diverse aree romanze.
Questo antecedente comune non è documentato nel latino scritto, ma è sicuramente
esistito nel latino parlato: altrimenti carogna, charogne, caronha e carroña non si
sarebbero prodotte.
Quando una forma non è documentata nel latino scritto ma è ricostruita nel latino
parlato, la si fa precedere da un asterisco*.
Nell’esempio appena fatto, la base dell’italiano carogna andrà allora indicata così:
*CARŌNIA.

3. Latino classico e latino volgare


A questo punto una cosa si può dire con una certa sicurezza: il latino non fu una
realtà monolitica. Come ogni lingua, ha avuto realizzazioni diverse per ragioni
geografiche, temporali e sociali (e qui bisognerebbe tornare alle cinque variabili già
descritte). Tra le tante varietà di latino, ne spiccano due convenzionalmente chiamate
latino classico e latino volgare.
Il latino classico non ha qui bisogno di tante parole: il latino scritto usato nelle opere
letterarie della cosiddetta «età aurea» di Roma (50 a.C. – 50 d.C. circa) che è rimasto
sostanzialmente invariato nel corso della storia. Era la lingua colta, espressione dei
ceti sociali e culturali più elevati. Come dimostra la sua etimologia. La quale ha una
matrice che non può non definirsi ‘classista’: latino classico voleva infatti dire ‘latino
di prima classe’. L’aggettivo classicus fu applicato per la prima volta al latino
letterario da Aulo Gellio, un erudito del II sec. d.C., che estese alla letteratura la
divisione della popolazione romana in classi: come i cittadini più ricchi e potenti
erano esponenti della prima classe sociale, così gli scrittori più eleganti furono
chiamati classici, cioè di ‘prima classe’.
Il latino volgare invece è una realtà linguistica variegata e complessa. Si è soliti
descriverlo (ma la definizione appare, anche a prima vista, più che altro come uno
strumento utile didascalicamente che come una ‘fotografia’ dell’effettiva realtà degli
usi) come:
il latino parlato in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni circostanza e da ogni gruppo
sociale della latinità.
In questi termini si intende con esso sia la lingua parlata ai principii di Roma che nel
tardo Impero, sia nella capitale che nelle provincie, sia dai ricchi e che dai poveri.
Comunque sia, è da questa realtà multiforme che sono sorte le varie lingue d’Europa
indicate come romanze o neolatine, tra cui l’italiano.

4. Dal latino volgare all’italiano


Perché il latino volgare si è affermato sul latino classico? Come e perché si è poi
trasformato sino a diventare un’altra e ben diversa lingua?
Alla base di questi due processi si possono porre tre fattori (tenendo però conto che il
terzo fu quello veramente determinante):
a) la perdita di potere della classe aristocratica. Con l’instaurazione dell’Impero la
classe aristocratica andò incontro a una progressiva perdita di potere. Insieme ad essa
decadde il ceto intellettuale che ne era l’espressione culturale, e la lingua colta, che
pure continuò ad essere usata per tutta l’età imperiale, vide diminuire, almeno in
parte, il suo prestigio;
b) la diffusione del Cristianesimo. Il Cristianesimo, intanto, modificò il vocabolario
del latino. La lingua delle prime comunità cristiane era stata il greco;
conseguentemente il latino dei cristiani era pieno di grecismi come battesimo, chiesa,
parabola, eccetera. Ma fu sul piano ideologico che il Cristianesimo inflisse un colpo
mortale al latino classico favorendo la diffusione di quello volgare. La buona novella
doveva essere portata a tutti senza differenze di ‘classe’ e senza tanti scrupoli di stile
‘classico’. Il latino in cui erano stati tradotti i Vangeli era lontano dalla lingua
raffinata degli scrittori e vicina a quella degli umili (e qui potete tornare al punto f del
paragrafo 1). Il prestigio della lingua e della cultura classiche fu minato alle
fondamenta;
c) le invasioni barbariche. A partire dal IV sec. d.C. le invasioni barbariche
contribuirono all’affermazione del latino volgare a scapito di quello classico in tutti i
territori dell’Impero ormai alla fine. Anche se la Chiesa (che pure aveva contribuito
alla sua decadenza) impedì, con i monasteri, il totale dissolvimento del latino
classico, quest’ultimo venne sostituito da quello volgare. Nell’Europa occidentale e
meridionale (penisola iberica, Francia, Italia) e in parte di quella orientale (Romanìa),
si continuò a parlare quella che veniva chiamata lingua romana, un latino variegato,
parlato qui in un modo e lì in un altro e sempre più diverso – per pronuncia, lessico,
sintassi – da quello classico. Si mise in moto un poderoso processo di dissoluzione e,
ad un tempo, di ristrutturazione linguistica che portò dal latino ai vari volgari
romanzi. Un processo che si concluse nell’VIII sec. d.C. con la nascita di lingue
molto diverse da quella originaria. E che determinò, nel nostro volgare, l’innesto –
accanto ai contributi di altre lingue – in particolare dei germanismi (di cui si è già
parlato) sia nel vocabolario comune che nei nomi propri di luoghi e di persone.
5. La sopravvivenza delle parole dotte
Come avevamo detto nella prima lezione la nostra lingua ha un forte spessore
diacronico che riguarda anche la permanenza nel vocabolario di parole di tradizione
dotta di matrice latino-classica. Bisognerebbe evitare due errori:
a) uno di prospettiva: pensare che parole comunissime nell’italiano d’oggi, come
disco o vizio siano tali perché appartenenti in antico al latino parlato (mentre, al
contrario, vezzo, che ha un sapore letterario o antico, ha una storia fonetica popolare).
In realtà sono dei latinismi di matrice colta entrati però nell’uso comune;
b) uno che riguarda la storia delle mutazioni fonetiche e delle parole: è sbagliato
ritenere che le trasformazioni in cui sono state coinvolti i termini di origine latina ma
di tradizione popolare abbiano necessariamente toccato anche quelli che vanno sotto
il nome di cultismi. Così se AURŬ(M) del latino parlato ha dato, in seguito a varie
trasformazione fonetiche, vita al comune oro; AUREUS del latino dotto si è
mantenuto pressoché inalterato nell’italiano aureo. E se da NĬVE(M) abbiamo avuto
neve, NIVEUS invece si ritrova in niveo. Aureo e niveo vengono da una trafila scritta
o libresca e sono state accolti nell’italiano con qualche semplice aggiustamento nelle
desinenze e nulla più.
C’è poi il caso in cui la medesima base latina ha avuto due continuatori, uno popolare
e uno dotto. È il caso di ANGUSTIA(M) da cui provengono sia il termine dotto
angustia che quello popolare, o meglio comune, angoscia. Quando due forme
derivano dalla stessa base latina, esse si chiamano allòtropi.

Potrebbero piacerti anche