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DAL MAṆḌALA ALLO YANTRA: LA VIA VERSO IL VUOTO

GIAN GIUSEPPE FILIPPI

Con questo breve saggio s’intende dimostrare la centralità del concetto di vuoto nell’estetica tradiziona
indiana.1 Ci si potrà interrogare sul motivo per il quale la nostra definizione utilizzi il termine assai
generale di “indiana.” La ragione risiede nel fatto che, sebbene in India siano fiorite diverse culture
autoctone espresse da “religioni”2 differenti, la produzione artistica è sempre stata affidata a corporazioni
di mestiere hindū. Il Buddhismo e il Jainismo sorsero come ordini monastici in un contesto sociale hindū,
ragion per cui ogni attività extramonastica per molti secoli fu demandata all’opera fornita
dall’organizzazione castale del dharma maggioritario che garantiva il permanere di una struttura sociale.
Solamente tre secoli dopo la morte del Buddha cominciò a costituirsi una società laica buddhista,
autonoma e distinta da quella dell’Induismo. Tuttavia l’uso di maestranze hindū da parte dei monasteri
buddhisti continuò fino a quando, verso il XIII secolo d. C., il Buddhismo scomparve dall’India.3 E ancor
oggi, sebbene ogni monastero tibetano sia dotato di un certo numero di artisti monaci, quando si ha
necessità di un’icona particolarmente bella ed evocativa, l’abate si rivolge a maestranze hindū nepalesi,
considerate insuperabili per abilità tecnica e ispirazione spirituale.4 Nel caso del Jainismo la contiguità tra
monaci jaina e società civile hindū è stata ancor più stretta, sopravvivendo fino al giorno d’oggi. Può
stupire che opere d’arte di una “religione,” possano essere prodotte da artigiani d’altra fede. Tuttavia alla
base di questo possibile scambio sta la considerazione che i tre dharma, quello hindū, quello buddhista e
quello jaina, ai quali più tardi s’aggiunse quello sikh, ebbero e hanno in comune una medesima corrente
tantrica. Si tratta di una corrente spirituale che percorre trasversalmente tutti i dharma dell’India.5 L’arte
stessa in India è nata dal Tantrismo e trova nei Tantra i testi le sue codificazioni e canoni; in quest’ottica, le

1
Con estetica tradizionale intendiamo quel pensiero autoctono che, pur di origini antichissime, trovò solamente
all’alba dell’era volgare la sua codificazione canonica con il Nāṭya Śāstra di Bharata Muni. Considerato come il testo
fondamentale dell’arte della danza, il Nāṭya Śāstra in realtà tratta della filosofia estetica applicabile a qualsiasi arte, sia
essa basata sull’udito, come la musica, la poesia e il canto, sia quella basata sulla vista, arti plastiche e figurative. La
danza è considerata un cardine tra queste due categorie, dato che sintetizza in un’unica arte tutte le proprietà visibili
e udibili delle altre. La teoria estetica fu in seguito ampliata e perfezionata da molti grandi sapienti, tra cui meritano
menzione Ānandavardhana e Abhinavagupta, e altri ancora, pur senza mai tradire l’impostazione bharatiana. G. G.
Filippi, “I Principi delle arti tradizionali dell’India e le loro applicazioni,” Quaderni di Indoasiatica, a cura di Giovanni
Torcinovich, San Marino, Il Cerchio, 2013. L’arte tradizionale, ancor vivente, è oggi affiancata dall’arte
contemporanea di origine occidentale. Non è perciò quest’ultima arte quella a cui faremo riferimento, i cui principi
sono già ben noti al lettore occidentale.
2
Il termine “religione” è usato in modo impreciso nel caso dell’India e il suo significato, ricalcato sui monoteismi
semitici, è solito condurre a gravi fraintendimenti. Il termine dharma infatti, è estensibile a tutti gli esseri, persino
agli oggetti inanimati, e non è a esclusivo beneficio degli umani. Inoltre le dottrine esplicitamente atee dei dharma
buddhista e jaina pongono un serio dubbio sull’opportunità di definirle religioni.
3
Questa attribuzione è possibile dall’esame dei marchi delle corporazioni di artisti, śreni, che si trovano incisi sulle
pietre dei monumenti sparsi in tutto il Subcontinente. Questa consuetudine dei monaci buddhisti di incaricare artisti
di altre tradizioni è continuata anche dopo il successo della loro predicazione in Estremo Oriente, dove essi si
affidarono prevalentemente ad ateliers confuciani. JeannineAuboyer, Introduction à l’étude de l’art de l’Inde, Roma,
IsMEO, 1965, pp. 19-22.
4
Anche al giorno d’oggi nella sede del Dalai Lama nell’esilio di Dharamsala, la scuola d’arte ha come maestri
esclusivamente artisti nepalesi.
5
Per alcuni versi anche l’Islam indiano ha assunto alcune tinte tantriche. Tuttavia l’aniconismo dogmatico della
religione musulmana ha impedito questo ulteriore sconfinamento nel campo dell’arte.
1
corporazioni degli artisti devono essere considerate a pieno diritto delle vere e proprie scuole di yoga
tantrico.6
In accordo con Ananda Kentish Coomaraswamy7 e sulla base del sempre sorprendente libro del
Jagadguru Svami Bharati Krshna Tirtha, Ṥaṅkarācārya di Puri,8 partiremo dal postulato per il quale le arti
visive indiane debbano essere considerate come la coagulazione9 delle figure della geometria spaziale
discontinua nello spazio fisico continuo. A sua volta la geometria è l’applicazione allo spazio discontinuo
dell’annotazione numerica discontinua basata sulla serie dei numeri interi. Tuttavia in questa prospettiva,
anche la matematica pura dei numeri interi, che in occidente definiamo euclidea, a sua volta altro non è se
non l’espressione, sotto la forma del simbolismo numerico, del pensiero metafisico puro. Vi è un evidente
parallelismo tra questa prospettiva tipicamente indiana e il pitagorismo10, per cui coloro che hanno
studiato con attenzione i frammenti del filosofo di Samo si trovano avvantaggiati a comprendere le
relazioni tra matematiche e arte.11
Nelle dottrine hindū la concezione metafisica predilige un linguaggio apofatico per illustrare la
concezione di un principio assoluto e, di fatto, inesprimibile. Un linguaggio che s’esprime per viam
negationis si dimostra necessario per trattare di argomenti non solamente ineffabili, ma persino
inconcepibili dalla mente umana. Per questa ragione i massimi pensatori indiani, da Gaudapāda in poi,
hanno usato metodicamente il “neti, neti”12 quale strumento di indagine gnoseologica. Il linguaggio usato
apofaticamente, tuttavia, si basa necessariamente, pur contraddicendolo, sul dominio del relativo, sulla
nostra esperienza ordinaria, sia nel percepire il mondo che ci circonda, sia nell’indagine psicologica
interiorizzata. Ossia quando si afferma “l’Assoluto non è questa (neti) mia mano, l’Assoluto non è questo
(neti) mio pensiero,” l’idea d’Assoluto che se ne trae è stata resa possibile proprio da due supporti di
riflessione relativi, quali sono la mano e un qualsiasi pensiero. Da ciò deriva che l’Assoluto può essere
apofaticamente colto ogniqualvolta si neghi l’assolutezza di un singolo oggetto relativo. Per esempio, se si
considera il variopinto dominio cromatico di cui noi abbiamo esperienza quotidiana, l’Assoluto potrà
essere descritto tramite la negazione del colore. In questo caso, dunque, esso sarà la tenebra, ossia assenza
di colore.13 L’argomentazione varrà parimenti nel caso della serie numerica. Quest’ultima si produce per

6
G. G. Filippi, Tantrismo e Arte, Milano, Archè, 1978. Non possiamo soffermarci ulteriormente su questo argomento, di
cui peraltro abbiamo già trattato abbondantemente in altre sedi, poiché ci condurrebbe assai lontano dal tema che ci
siamo prefissati. Tuttavia sarà utile al lettore continuare a ricordare che proprio per la sua affiliazione tantrica
l’artista tradizionale indiano deve essere considerato alla stregua di un asceta; ciò consentirà una migliore
comprensione del prosieguo di questo scritto.
7
A. K. Coomaraswamy, “The Beauty of Mathematics,” Art Bulletin XXIII, New York, 1941.
8
Svami Bharati Krshna Tirtha, Vedic Mathematics, Delhi, Motilal Banarsidass, 1965.
9
L’immagine in sanscrito è definita murti, che significa precisamente ‘coagulazione.’
10
Lo avevano notato a suo tempo alcuni colti matematici del passato: C. C. Bertschneider, Die Geometrie und die
Geometer vor Euklides, Leipsig, 1870; A. Reghini, Per la restituzione della geometria pitagorica, Roma, Ignis, 1935. Altri si
spinsero fino a sostenere l’origine indiana della metafisica e delle matematiche di Pitagora: H. Hankel, Zur geschichte
der Mathematik in Alterthum und mittel-Alter, Leipsig, 1874; G. J. Allman, Greek Geometry from Thales to Euclid, Dublin, 1889.
11
Joost-Gaugier Christiane L., Pitagora e il suo influsso sul pensiero e sull'arte, Roma, Arkeios, 2008. Naturalmente la
complessità del pensiero pitagorico è rimasta sempre fuori della portata dei divulgatori delle matematiche, che ne
sogliono dare una recensione riduttiva e superficiale.
12
Letteralmente “né questo, né questo,” applicato a qualsiasi e ciascun essere od oggetto, al fine di affermare la loro
distinzione dalla natura dell’Assoluto. “La Liberazione illumina immediatamente come una folgore chi conosce il neti
neti”(Bṛhadarāṇyaka Upaniṣad, II. 3. 6)
13
Evidentemente il processo di negazione può essere utilizzato analiticamente; tuttavia agendo così non si
riuscirebbe mai a raggiungere la conclusione della dimostrazione, e ci si perderà nei meandri della molteplicità. Per
esempio si può affermare che il blu (colore relativo primario) non è il nero (assenza di colore); che il verde (colore
relativo risultante) nemmeno è il nero; che il rosa (colore risultante derivato di tonalità tenue) nemmeno è il nero, e
così via indefinitamente. Ma se si procede sinteticamente, riconoscendo che la luce bianca contiene in principio tutta
2
una indefinita ripetizione dell’unità iniziale: 1 + 1 + 1, e così illimitatamente. Il numero 1 quindi è la sintesi
dell’intera serie dei numeri interi; in questo caso l’Assoluto sarà rappresentato dallo zero considerato
come assenza di numero. Analogamente il punto geometrico a-spaziale14 apparirà quale simbolo
dell’Assoluto in comparazione con lo spazio geometrico esteso a una, due o tre dimensioni; e così l’attimo
atemporale, abhīkṣana o nimeṣa, rappresenta l’Eternità,15 akāla (lett. il non-tempo), se rapportato allo
sviluppo del tempo.16 Ugualmente dicasi per l’esperienza comune della varietà dei suoni da noi conosciuti,
per cui l’Assoluto se ne distinguerà come silenzio (questo però riguarda il dominio delle arti auditive e non
visive di cui ci stiamo occupando al presente). In altre parole tutta la manifestazione caratterizzata da
limitazioni e da finitezza, offrirà la definizione per l’Assoluto di Il-limitato e In-finito. Lo stesso termine
Assoluto, da noi fin qui usato per definire quel Principio, appare evidentemente appartenere al medesimo
linguaggio negativo dato che significa letteralmente sciolto o libero da qualsivoglia condizione. Comunque
lo si voglia esprimere, tutti questi termini alludono al Principio supremo Brahman, e furono
indifferentemente usati tra loro come sinonimi, già nei primi testi sanscriti.17
Dopo questa necessaria digressione dobbiamo riprendere il filo dell’argomentazione principale. Le
concezioni metafisiche dell’India, dunque, trovano nella matematica il loro linguaggio d’espressione più
preciso e, allo stesso tempo, di immediata comprensione per un intelletto capace d’astrazione. Poiché
l’artista (śilpin o kalākar) indiano è affiliato a una corporazione che è nel contempo una scuola iniziatica di
yoga tantrico, egli deve essere inteso come un vero e proprio yogin che opererà nell’ambito della sua
specialità artistica avendo in vista due scopi: il più immediato è quello del raggiungimento della
conoscenza che conduce alla Liberazione, mokṣa; il secondo riguarda la produzione dell’opera d’arte come
immagine della sua raggiunta conoscenza, che possa instradare il fruitore verso la verità. 18 Il kalākar si
dedica alla meditazione sulla bozza di progetto dell’opera che gli è affidata, utilizzato come uno yantra,
mentre ripete il mantra corrispondente al disegno, mantra che gli è impartito dal guru. Le tecniche della
sua arte, che prevedono una fattiva serie di operazioni, sostituiscono le pratiche di pacificazione del
composto individuale come quelle dello haṭa yoga, per raggiungere comunque il medesimo fine, la
contemplazione. La contemplazione suprema, quella da cui deriverà il concepimento, la progettazione
conclusiva e l’esecuzione dell’opera d’arte, consiste propriamente nella visualizzazione interiore del
Principio assoluto, il Brahman. Come si è detto in apertura, quindi tutto procede da una visione metafisica
della realtà. In uno stato di profonda concentrazione, l’artista annulla ogni esperienza contingente del
mondo nella sua molteplicità, rimanendo in contemplazione dell’Assoluto, che gli apparirà come una
tenebra, che è al medesimo tempo il vuoto e lo zero. A questo proposito la sapienza vedica ideò ben

l’illimitata gamma cromatica, allora sarà possibile affermare una volta per tutte : “Il bianco (il colore) non è il nero
(assenza di colore).” Quest’uso sintetico del metodo del “neti, neti,” tipico delle tecniche di realizzazione vedāntico, è
applicabile, come si può constatare nelle righe che seguono, a ogni dominio della realtà. Sri Swami Satchid-
ānandendra, The Method if the Vedanta, Delhi, Motilal Banarsidass, 1997, pp. 327-329.
14
Come si potrà comprendere nelle argomentazioni che seguono, la geometria indiana considera il punto
assolutamente privo di estensione e quindi estraneo alla quantità spaziale. Lo spazio, dunque, non sarà prodotto dal
proliferare dei punti, come è postulato in Occidente, ma dallo sviluppo indefinito dell’estensione spaziale minima,
considerata come l’affermazione catafatica del punto. Vedasi a questo proposito il concetto di bindu.
15
Non si deve confondere a questo punto l’eternità, akāla, che si pone al di fuori del tempo, con la perennità o
perpetuità, sanātana, che invece rappresenta l’indefinità dello sviluppo del continuum temporale.
16
Cfr. A. K. Coomaraswamy, “Time and Eternity,” Artibus Asiæ n. 8, Ascona, 1947, cap. I.
17
Se si esclude il computo di Max Müller in quanto fortemente arbitrario, l’analisi dei dati idrogeologici e astronomici
presenti nel testo concordano a stabilire per il Ṛgveda una datazione non più recente del XX secolo a. C. Naturalmente
il conservatorismo di molti ambienti accademici permetterà la trasmissione a tempo indeterminato dell’altra
datazione che colloca l’elaborazione dello stesso testo tra il XV e il XII secolo, ipotesi basata su un semplice ipse dixit.
18
G. G. Filippi, op. cit., 2013, pp. 11-39.
3
diciotto termini per definire il vuoto o lo zero, tra cui kha (cavo), śūnya (vuoto), ākāśa (etere) sono i più
frequenti.19 Questo stadio dunque va considerato come la contemplazione dell’Assoluto.20
Durante questa contemplazione, la concentrazione della mente, che altro non è se non l’unificazione
dell’attenzione al centro, ut unum cum centro sit (lat. mediev.), su ciò che è contemplato, identifica una
prima determinazione nell’Assoluto. La tenebra, concentrata dalla visualizzazione in un punto a piacere,
che da questo momento dovrà esserne considerato come il centro, appare allora come un punto
infinitesimale (indu o bindu) di una brillantissima luce bianca (FIG. 1). Da ciò deriva che il bianco, sintesi di
tutti i colori, altro non è se non l’espressione catafatica della tenebra, ovvero la sua prima determinazione.
Per analogia si potrà dire che lo zero si determina nell’unità, che contiene sinteticamente l’intera serie
numerica, e che il vuoto s’afferma come la pienezza si tutte le sue parti.21 Si potrà notare dall’immagine
che la luminosità crescente del biancore primordiale dissipa progressivamente le tenebre, facendo
apparire l’azzurro del cielo. Il cielo, dunque, sostituisce le tenebre vuote, come spazio esteso. Secondo un
linguaggio che in Occidente si definirebbe teologico, l’abbandono della visione metafisica comporta
l’identificazione di un principio di manifestazione o, se si vuole, di creazione, che corrisponde al concetto
dell’unico Dio o dell’Essere.22 Al medesimo tempo, abbandonato il dominio metafisico, l’artista si trova
proiettato in quello della matematica, prima, e della geometria, poi.23
Dopo questa intuizione intellettuale estrema, egli assiste al rinnovato processo della creazione, che
inizia con la polarizzazione dell’unità iniziale in due principi tra loro opposti per natura, ma
complementari nelle loro funzioni (FIG. 2), entrambi definiti indifferentemente indu, goccia o bindu,
punto.24 Il primo principio assume la funzione di polo essenziale o, se si preferisce, di causa efficiente della
creazione universale, mentre il secondo ne rappresenterà la sub-stantia o causa materiale. Proprio per

19
A. K. Coomaraswamy, “Kha and Other Words Denoting "Zero", in Connection with the Indian Metaphysics of
Space,” Bulletin of the School of Oriental Studies, London, VII, 1934.
20
“[In un racconto delle vite anteriori del Buddha] un discepolo chiese al bodhisattva sul suo letto di morte quale bene
avesse ottenuto, a cui il bodhisattva rispose: «Lo zero.» Naturalmente il discepolo intese che nessun bene era stato
raggiunto in una vita così santa. Questo errore fu rimosso più tardi da un altro discepolo, che spiegò al suo perplesso
condiscepolo che in realtà il Maestro aveva raggiunto la vetta dell’azzeramento dell’io. Questo grado di conoscenza è la
realizzazione più elevata. Il punto di partenza dell’azzeramento dell’io è l’anonimato cercato dal viandante dal capo
rasato [il monaco], al di là della casta, credo, famiglia e di qualsiasi cosa che appartenga all’io, mattva, parola più che
appropriata per questo caso. La propria umiliazione è il segno della propria trasformazione. Questo vale anche per
quello che riguarda l’arte in una società tradizionale, dove l’artista raramente appone il suo nome sulla sua opera o
firma i suoi dipinti. Non solo egli cancella la sua individualità come artista, ma anche la condizione individuale del suo
ambiente. L’idealizzazione non è una fuga da ciò che è percepito, è piuttosto una percezione più chiara della realtà
percepita, una percezione non di un ethos individuale, ma sociale. Per vivere si deve morire come individuo e si deve
morire in vita, il che non deve essere inteso come una annichilazione fisica. Il sacrificio del sé dell’ ātmayajña non è che
l’altra faccia della medaglia. Mentre l’azzeramento dell’io è conoscenza, il sacrificio del sé è una attivazione (kriyā).”
Paṇḍit Vidyā Nivās Miśra, “Alcune parole chiave nella percezione dell’arte di Coomaraswamy,” India: Arte oltre le
forme, Quaderni di Indoasiatica, San Marino, Il Cerchio, 2013.
21
“ Così ancora una volta l’Uno diventa molteplice per un atto di generazione. Nuovamente, per una operazione inversa
con cui il sé concettualmente separato è riunito al Sé sempre indiviso, o all’Essenza spirituale, è una deificazione […]” A.
K. Coomaraswamy, “The Tantric Doctrine of Divine Biunity”, Études Traditionnelles XIX, Paris, 1938.
22
Poiché la prima determinazione è definita Essere, sat, allora a posteriori la tenebra iniziale è definita nei Veda Non-
essere, asat. “Allora non c’era né il Non-essere né l’Essere, né esisteva l’atmosfera, né sopra di lei il firmamento.
Cosa potentemente si moveva, e dove, e sotto quale controllo? Era forse l’Abisso, insondabilmente profondo? Allora
non c’era morte né immortalità, né separazione tra giorno e notte…” ṚV, X. 129. 1-2.
23
Il Ṥukranītīsāra IV. 70-71, definisce così l’inizio della pratica per l’artista indiano che produce immagini: egli deve
essere un esperto della visione contemplativa (yoga-dhyāna), per il quale le prescrizioni canoniche servono da
fondamento, e solo in questo modo, e non per osservazione diretta, ambisce a ottenere risultati. L’intero processo
può essere riassunto in queste parole: quando ha realizzato la visione, allora deve mettersi all’opera” (dhyātvā
kuryāt, ibid. VII. 74). A. K. Coomaraswamy, “The Intellectual Operation in Indian Art,” Journal of the Indian Society of
Oriental Art III, Calcutta, 1935.
24
Indu deriva dalla radice ud che significa acqua; cfr. ὒδωρ. Bindu è etimologicamente identico al neolatino punto.
4
questo motivo il primo bindu, che svolge una funzione paterna nei confronti del creato, sarà rappresentato
da un punto bianco, allusione al colore del seme maschile. Il secondo bindu quindi sarà rosso, come il seme
femminile o sangue materno da cui si sviluppa l’embrione. Questa polarizzazione non soltanto si pone
all’origine della serie numerica, ma genera anche lo spazio geometrico, sebbene ancora solamente a due
dimensioni, ossia la linea. Queste due potenze seminali interagiscono tra loro dando origine all’indefinità
universale dei loro effetti.
Il primo risultato dell’interazione tra i due principi25 è rappresentato dalla comparsa un ulteriore
elemento matematico, ossia il numero tre, il che, diventando un terzo punto nella geometria, permette
l’ideazione dello spazio a due dimensioni. Infatti i tre punti rappresentano i vertici di un triangolo
(trikona), ovvero la figura poligonale primordiale, che nel massimo perimetro contiene il minimo di area. Il
triangolo è dunque il principio seminale dello spazio a due dimensioni; ma se ai due principi
complementari e al loro risultato comune, il terzo punto, si volesse aggiungere il primo punto, anteriore
alla polarizzazione dei due principi, e perciò considerato androginico o di genere neutro, ne otterremmo la
figura seguente (FIG. 3). In essa potremo notare che il punto primordiale si situa la centro della figura
triangolare, a rappresentare il vuoto dal quale si sprigiona l’intera estensione spaziale. Questo diagramma
è davvero fondamentale per la visione indiana dello spazio, che si basa principalmente sul triangolo a
differenza delle concezioni ortogonali vitruviane prima e poi cartesiane dell’Occidente. Il grafico tipico
della cosmografia indiana è infatti composto da triangoli (FIG. 4), come pure l’immagine astratta
dell’essere umano (FIG. 5). Allo stesso tempo questo triangolo compone un insieme a quattro punti di cui
tratteremo in seguito.
Ma non precorriamo i tempi. Il passaggio successivo nella visione indiana artistica sempre più analitica,
sarà quello di considerare una ulteriore differenziazione nelle funzioni cosmogoniche del principio
maschile e di quello femminile. Da questo punto di vista allora si considera una polarizzazione di entrambi
i principi di cui si è trattato, con la conseguente formazione di due triangoli tra loro rovesciati, ma pur
sempre correlati nella formazione della molteplicità cosmica (FIG. 6). Ciò sta a significare che il cosmo non
solamente ha una radice extracosmica nei due principi complementari, ma che è equilibratamente
formato da una parte essenziale rappresentata dal triangolo con il vertice in alto che deriva dal bindu
bianco, e da una parte sostanziale rappresentata dal triangolo inverso proveniente dal bindu rosso.26
Poiché una volta si sia dato inizio a una serie indefinita non è più possibile arrestarsi, il triangolo con il
vertice in alto e quello con il vertice in basso interagiscono tra loro ripetutamente dando origine a una
molteplicità indefinita di yantra, ossia di diagrammi geometrici composti da linee rette che servono da
strumento –questo è il significato sanscrito della parola- per la meditazione conoscitiva del cosmo e delle
sue radici. La figura più complessa e perfetta è lo Śri Yantra, che rappresenta l’integralità della
manifestazione universale (FIG. 7). In questo yantra tutta la realtà manifestata è rappresentata in
simultaneità nelle sue componenti sostanziali ed essenziali per mezzo di linee, triangoli, angoli e punti.
Ognuno di questi elementi costitutivi corrisponde a principi attivi (tattva), a vibrazioni sonore (mantra), a
divinità (devatā), a mondi (loka), ovvero a tutta l’illimitata moltitudine di esseri e oggetti manifestati. Al
centro dello yantra è sempre posto il bindu primordiale che ha dato origine al cosmo per autosuddivisione.

25
Il punto centrale (bindu) è così una unione del principio ultimo maschile (purusha) e del principio ultimo femminile
(prakṛti). S. K. Ramachandra Rao, Sri-Chakra, Delhi, Indian Books Centre, 2008, p. 12.
26
Questa figura geometrica, detta śaḍāṅgi, corrispondente in modo sorprendente al sigillo di Salomone, è diviso in
dieci settori, kalā, dimora delle dieci Grandi Scienze, daśamahāvidyā. Kalā non solamente significa settore, ma anche,
per un gioco etimologico molto in uso nella tradizione hindū, arte. Il L’artista, dunque, meditando su questo yantra
s’impadronisce delle scienze che reggono rispettive le arti: ars sine scientia nihil. Agehananda Bharati, The Tantric
Tradition, London, Rider & C., 1965, pp. 254-255; ibid. n. 58.
5
Lo Śri Yantra è spesso circondato da tre circoli (maṇḍala) (FIG. 8), di cui due portano rispettivamente otto e
sedici petali di loto. Il terzo, il più esterno, è invece rappresentato da una semplice circonferenza. Si potrà
notare che per la prima volta qui si aggiungono alle consuete linee rette delle linee curve.27 Ora, nella
geometria simbolica dell’India, le rette rappresentano una situazione statica, mentre le curve
rappresentano un impulso dinamico. Di fatto i tre circoli che circondano lo Śri Yantra pongono in divenire
il diagramma; i tre circoli rappresentano il triplice tempo (traikāla), e precisamente i primi due sono il
passato e il presente, il terzo essendo il futuro. Queste circonferenze, maṇḍala, sono dei fiori di loto: il più
interno a otto petali (aṣṭadala padma) rappresenta il passato. Il numero otto rappresenta infatti un tempo
che si è ripartito nei quattro punti cardinali e nei quattro punti intermedi di quella che in Occidente è la
Rosa dei Venti. E il vento (vāyu) in India è l’elemento dinamico per eccellenza. Così il secondo fiore di loto a
sedici petali (ṣoḍaśadala padma) rappresenta il presente e lo stato di veglia con cui l’individuo presta
attenzione a ciò che sperimenta. Sedici sono infatti le facoltà di sensazione ed azione (jñāna-karmendriya),
le funzioni vitali (pañcaprāṇa) e la coscienza individuale (antaḥkaraṇa). Il fiore di loto esterno appare
semplicemente come una circonferenza perché il futuro non ha ancora dischiuso i suoi petali e i casi del
futuro rimangono ancora sconosciuti.
Infine all’estremità esteriore dello Śri Yantra (FIG. 9) si trova una squadrata cinta di mura con al centro
di ogni lato quattro porte sbarrate a proteggere l’Universo mondo dall’esterno.28 Infatti all’esterno del
diagramma si ritrova il vuoto (le tenebre esteriori, il caos) che ingoierà il mondo intero alla fine del suo
ciclo d’esistenza. In questo modo l’intero Śri Yantra è compreso tra il vuoto che, considerato positivamente,
ha dato origine al cosmo e che è situato al suo centro, e lo stesso vuoto, inteso negativamente come caos,
che lo distruggerà.
Si è seguito fino a questo punto il passaggio che dalla staticità del cosmo, considerato in simultaneità
per mezzo dello yantra, conduce al maṇḍala, in una prospettiva dinamica e diveniristica. Tuttavia per
procedere oltre, si dovrà paradossalmente fare un passo indietro e ritornare al processo di manifestazione
dello spazio geometrico. Infatti avevamo già descritto il procedere della formazione dello spazio a due
dimensioni con la Fig. 3. Da questa immagine si trae che l’uno, sdoppiandosi, ha dato origine alla coppia
maschile-femminile. Quest’ultima, intereagendo ha dato origine al primo prodotto che consente la
manifestazione dello spazio a due dimensioni. In questo modo si può dare un senso all’assioma “l’uno ha
prodotto il due, il due ha prodotto il tre, il tre ha prodotto il quattro, tutti assieme hanno dato origine al
dieci”. Il dieci, infatti, è in India il numero che rende la circolarità del tempo, per cui si dice, appunto, che
un ciclo è composto da quattro yuga, che stanno tra di loro come 1, 2, 3, 4. Il quattro, pur consentendo alla
nascita del moto temporale, a sua volta raggiunge il massimo di stabilità geometrica formando il quadrato.
Se ai quattro punti che formano i vertici del quadrato si aggiunge il punto iniziale che produce l’intera
manifestazione, si otterrà una figura geometrica a tre dimensioni, la piramide (FIG. 10). Lo spazio
geometrico a tre dimensioni, così ottenuto, per la prima volta permette il passaggio allo spazio fisico e
quindi a una estensione continua. È sulla base di questo ultimo passaggio che l’artista è in grado di mettere
in atto nel mondo fenomenico tutte le sue meditazioni, scendendo dalla metafisica, attraverso la

27
“La notazione numerica hindū fu portata in Arabia verso il 770 d. C. da uno scienziato hindū chiamato Kaṅka, che fu
invitato da Ujjain alla celebre corte di Baghdad dal Califfo abbaside al-Mansur. Kaṅka insegnò astronomia e
matematiche indiane agli studiosi arabi che, con il suo aiuto, tradussero in arabo il Brahma-Sphuṭa Siddhanta di
Brahma Gupta.” Ginsburg, “New Lights on our numerals,” Bulletin of the American Mathematical SocietyI, II Series, vol.
25, pp. 366-367. In questo modo, assieme ad altre conoscenze, arrivò in Occidente la nozione dello zero. Ora è poco
noto che in India ci sono due modi per scrivere lo zero. Il primo è un semplice punto, ed è stato adottato in questa
forma dagli arabi. La seconda forma è circolare ed è quella che si usa a tutt’oggi in Europa e America. Cfr. R. Guénon,
Remarques sur la notation mathématique” La Gnose, Paris, avril-mai 1910. Ora, lo zero a forma di punto rappresenta il
vuoto al centro del maṇḍala, mentre quello circolare rappresenta il limite stesso del maṇḍala.
28
Madhu Khanna, Yantra, London, Thames and Hudson, 1994, p. 33.
6
matematica prima, e lo spazio geometrico poi, e in questo modo rendendole visibili agli altri suoi simili. Lo
Śri Yantra, pur mantenendo integralmente tutti i suoi significati superiori, prendendo la forma del monte
Meru potrà diventare prima un oggetto di meditazione (FIG. 11), in cui il principio manifestante sarà
rappresentato dalla sua sommità, ma anche un’opera d’arte (FIG. 12).
Fino a questo momento ci si è attenuti a una prospettiva principalmente statica, ossia a una visione
dell’universo in simultaneità. Solamente alla fine della descrizione dello yantra e con l’introduzione della
circolarità del maṇḍala si è introdotto in quella costruzione il vettore del movimento e dello sviluppo
temporale. Tuttavia vi è un altro simbolismo, carissimo alle dottrine dell’India, che sottolinea l’importanza
della dinamica per il raggiungimento del fine dell’arte (FIG. 13). Maṇḍala è infatti un altro nome per la
ruota (cakra). Questo oggetto ha la capacità sintetica di rendere tutto quanto si è detto finora. Essa è
composta da vari componenti, i cui significati compendiano la dottrina cosmologica. Anzitutto al centro
della ruota è situato lo spazio vuoto del mozzo, elemento invisibile, non manifestato, che però fa di essa
una ruota e non un disco qualsiasi. E questo spazio è definito in sanscrito come śūnya, il vuoto, appunto.
Esso è circondato dal mozzo (nābhi), che rappresenta il cielo, il primo mobile, sede degli dèi. Ogni raggio
(ara) che si diparte dal mozzo rappresenta un singolo essere, che prende un corpo incontrando la corona
(nemi). Se si considera un singolo raggio come rappresentante un individuo, per esempio, esso può essere
considerato in due diverse prospettive: ovvero a partire dal mozzo in direzione della corona, che illustra il
processo di discesa di un essere sulla terra. La seconda prospettiva, al contrario, rappresenterebbe la via di
liberazione per raggiungere il vuoto principiale.29
Una ulteriore considerazione vuole che la ruota possa girare intorno al vuoto del mozzo purché ci sia
un asse (akṣa) e, in maniera particolare, quel tratto (āṇi) dell’asse che penetra nel vuoto del mozzo (FIG.
14). In questo modo l’ āṇi costituirebbe quel principio che con linguaggio scolastico si definisce motor
immobilis, intorno a cui ruota l’intero universo. Questo principio, naturalmente, si identifica con l’Essere o,
se si preferisce il linguaggio teologico, con Dio. Il simbolismo della ruota è davvero sorprendentemente
preciso, poiché non confonde il vuoto del mozzo (śūnya) con la parte dell’asse che vi penetra: quest’ultimo
infatti corrisponde esattamente all’indu o bindu che dà origine all’universo senza esserne coinvolto.Al
tempo stesso l’immagine proposta mantiene la superiorità del Principio supremo, del vuoto o zero, nei
confronti dell’Essere o unità.
Un ulteriore sviluppo di questo ultimo simbolismo, grazie all’aggiunta dell’asse nel sistema ruotante,
consente in una visione più analitica del cosmo. In questo caso si consideri che l’asse penetra con le sue
due estremità non una, ma due ruote (FIG. 15). In questo caso l’asse deve essere considerato l’ axis mundi
verticale, quello che miticamente è noto come il monte Meru, mentre le due ruote rappresentano il cielo
(svar) e la terra (bhū). Ciò significa che il processo di ritorno al principio si presenta diviso in due tappe. La
prima tappa consiste, per chi vive corporalmente, nel ritorno al centro della terra. In quel luogo infatti si
situa il vuoto che si definisce ākāśa, l’etere, il più sottile dei cinque elementi. Esso è l’immagine e la
proiezione in terra del vuoto (śūnya) che invece è situato all’interno del mozzo della ruota celeste.
L’immagine che abbiamo appena commentato comporta però un’altra importante conseguenza. Infatti
in precedenza abbiamo già fatto un accenno al monte Meru, che allora appariva come uno sviluppo a tre
dimensioni dello Śri Yantra, sotto la forma di un cono prodotto dalla rotazione della piramide intorno al
proprio asse. In realtà i miti di tutte le tradizioni indiane sostengono unanimi che la forma del Meru è
quella di due coni opposti al vertice, il cono superiore rovesciato essendo invisibile (FIG. 16). Ora è
evidente la stretta relazione che intercorre tra la forma del monte Meru e il simbolo dell’asse che

29
“ ‘Centro’ (bindu) è di fatto l’origine del maṇḍala. Le forze circostanti, e perciò deboli, sono raccolte da ogni parte
intorno, rese potenti per il fatto di essere riunite. Esse sono fatte convergere al centro del maṇḍala, che è identico al
centro del vero essere del praticante […] L’altro movimento che si effettua nel maṇḍala è la potenziale espansione
delle parti essenziali a partire dal centro verso la circonferenza.” S. K. Ramachandra Rao, Sri-Chakra, cit., p. 8.
7
s’impernia nelle due ruote, cielo e terra. È interessante anche notare che nella raffigurazione
microcosmica dell’universo (FIG. 17), lo yogi che lo rappresenta abbia un cakra su cui siede che è la terra,
mentre la sua conclusione verticale corrisponde al cakra del loto dei mille petali che è il cielo.30 La colonna
vertebrale che innerva tutta la figura è chiamato in sanscrito merudaṇḍa, l’asse del Meru, e che essa sia
aperto al centro dei due cakra summenzionati. Nella ruota superiore si trova la dimora del bindu bianco,
mentre nel muladhāra cakra si colloca il bindu rosso. L’immagine che segue (FIG. 18) felicemente riporta
l’immagine del doppio cono del Meru: si potrà notare che al centro della base del cono rovescio, o, se si
vuole, della ruota celeste, il vuoto è rappresentato dall’Adi Buddha, mentre alla base del cono inferiore,
assiso in una caverna, medita un Buddha umano. I Buddha, d’altronde, sono coloro che hanno raggiunto
l’estinzione (nirvāna) nella vacuità (śūnyatā). Ci si potrà anche chiedere come mai nell’immaginario indiano
la montagna cosmica sia rappresentata da due coni opposti al vertice. In realtà il Meru è la raffigurazione
mitica del percorso che l’asse terrestre compie durante la precessione degli equinozi (FIG. 19), fenomeno
astronomico noto in India da migliaia d’anni, e che è stato usato come il grande cronometro per il calcolo
della durata dei cicli cosmici. Nel centro del cerchio delle stelle polari che si sono succedute nel corso dei
millenni, si trova uno spazio completamente privo di corpi celesti (FIG. 20). Quel vuoto, noto in India con il
nome di piede di Viṣṇu (viṣṇupāda), è il punto di comunicazione tra il cosmo e il metacosmo, tra il dominio
del creato e il regno della metafisica.
Una volta che l’artista, partendo dalla periferia del maṇḍala e attraversato tutto lo yantra, abbia
raggiunto questo vuoto, diventando lui stesso quel vuoto, potrà compiere la sua opera ispirata. Per questo
di lui è detto : “Quando avrà realizzato la fondamentale immaterialità di tutti i principi, egli comprenderà
(vibhāvayet) la vacuità di tutti i principi (sarva-dharma-śūnyatām). Dunque egli comprenda il vuoto come
segue: “Qualunque cosa sia in moto o sia ferma non è essenzialmente nient’altro che l’ordine manifestato
di ciò che è privo di dualità quando la mente è esente da distrazioni mentali, quali le nozioni di soggetto e
oggetto.” Egli raggiungerà questa autentica vacuità per mezzo dell’incantamento: “Oṃ io sono
essenzialmente, nella mia natura di adamantino intelletto, il Vuoto!”31

30
“È in questo punto non dimensionale (bindu) che la Coscienza infinita, libera, non condizionata, entra nel dominio
della manifestazione e della limitazione, essendo questa entrata descritta nel corpo umano, come una «discesa» dalla
sommità del capo alla base del corpo.” Tara Michaël, Corps subtil et corps causal, Paris, Le Courrier du Livre, 1979, p. 24.
31
Kiṃcit- Vistara.Tārā Sādhana, testo d’istruzione per artisti in sanscrito nella traduzione di A. K. Coomaraswamy in
“The Intellectual Operation in Indian Art,” Journal of the Indian Society of Oriental Art III, Calcutta, 1935.
8
FIG. 1 – Indu o bindu.

FIG. 2- Bindu maschile (puruṣa) e bindu femminile (prakṛti).

9
FIG. 3- Triangolo (trikona) e il suo centro

FIG. 4- Universo jaina.

FIG. 5- L’uomo cosmico.

10
FIG. 6- Doppio triangolo.

FIG. 7- Ṥri Yantra.

11
FIG. 8- Ṥri Yantra con tre cakra.

FIG. 9- Ṥri Yantra maṇḍala.

12
FIG. 10- Piramide, mūci.

FIG. 11- Ṥri Yantra maṇḍala a tre dimensioni.

13
FIG. 12- Tempio monolitico a Mahabalipuram.

FIG. 13- Il cakra.

14
FIG. 14- Assiale.

FIG. 15- Le due ruote.

15
FIG. 16- Monte Meru.

FIG.17- I due cakra nel corpo umano.

16
FIG. 18- Il Meru e i due vuoti.

17
FIG. 19- I due coni della precessione degli equinozi – Monte Meru

18
FIG. 20- Viṣṇpāda e il circolo delle polari

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