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Dietro il fumo della sussidiarietà

di Francesco Varanini

Uno striscione
Martedì 30 novembre 2010. Esco dalla Stazione Centrale e lo sguardo mi cade sul Pirellone. Quel
simbolo dell'Italia orgogliosa del boom, che l’anarchico protagonista della Vita agra di Luciano
Bianciardi voleva far saltare in aria.
Il grattacielo Pirelli, come ognun sa, è oggi la sede della Regione Lombardia, anzi, lo era,
declassato ora dalla grandeur formigoniana che ha voluto, nei pressi, un altro grattacielo, più
pomposo e meno elegante.
Ma ora guardo il Pirellone e mi sorprendo, c'è qualcosa che non va. Sulla facciata, per l'altezza di
cinque piani, campeggia sulla superficie vetrata uno striscione. “Salviamo la vita dei cristiani in Iraq
e nel mondo”.
Come si può essere arrivati a questo? Non si tratta forse di una pubblica istituzione? Non sono forse
uguali tutti i cittadini di fronte alla legge? Lo Stato italiano non è forse uno Stato laico? O viviamo
magari oggi in uno Stato etico, che ci guida e definisce per noi verità e bontà e giustizia? I martiri
cristiani sono forse diversi dagli altri?
Tutto risale, come cercherò di spiegare, ad una parola: sussidiarietà. Parola ipocrita dietro alla quale
si nasconde, a ben vedere, un mostro istituzionale ed ideologico.

Un gioco asimmetrico
Quando la Chiesa perse il potere temporale, si mantenne per qualche anno di sdegnoso isolamento,
anni in realtà dedicati non a portare alla luce un proprio modo di manifestarsi libero da dominio,
lontano dalla politica, ma dedicato al contrario a formulare una nuova strategia politica orientata al
dominio.
Gli ultimi anni del 1800 vedono già all'opera la nuova strategia. Tra diplomatici e normatori e
Segretari di Stato e Papi, un ruolo centrale è svolto da Eugenio Pacelli, che sarà papa Pio XII.
Una strategia di difesa aggressiva.
Innanzitutto, si deve incardinare il clero ad una dipendenza senza fessure. Il clero, anche all'interno
della Chiesa Cattolica, ha sempre mantenuto legami fondamentali con la comunità locale. Le
comunità locali hanno sempre goduto di una loro libertà di azione, di presenza adeguata alle
specificità della storia e del territorio. La chiesta appartiene alla cultura, non si impone come cultura
altra. Il vescovo è, nel rispetto dell'autonomia, nominato d'accordo con il potere politico locale.
Tutto questo non può più essere accettato.
Persa la potenza di Stato che dialoga con altri Stati, la Chiesa ritiene necessario spostare la lotta
politica su un altro piano, un piano 'ultraterreno', dove può dettare le regole. Il gioco si fa subdolo.
Ogni sacerdote dovrà avere una duplice appartenenza, dove però, non la giustificazione della
trascendenza, dell'operare nel quadro di un disegno divino, una appartenenza prevale sull'altra. Ogni
membro del clero ha una doppia cittadinanza. Dove però una cittadinanza prevale sull'altra, perché
la Città di Dio si oppone alla Città dell'Uomo. Così, attraverso un lavoro che dura lunghi anni, si
costruisce un corpus giuridico raffinatissimo, il Codice di Diritto Canonico. Fondato sull'infallibilità
del Papa, ogni membro del clero è assoggettato per questa via a norme e regolamenti e sanzioni
direttamente emanate e comminate dal Vaticano, scavalcando ogni diritto di cittadinanza, ogni
uguaglianza tra cittadini, ogni libertà nazionale, ogni costituzione ed ogni norma di ogni paese
dell'orbe terracqueo. Norme e regolamenti e sanzioni culturalmente ed eticamente pesanti ogni
oltre limite, perché -per ogni membro del clero- sono in gioco i più esecrabili peccati da un lato, e la
salvezza eterna dall'altro.

1
La Chiesa, umiliata dalla perdita del potere temporale, vittima di sindrome d'assedio, si ritiene in
diritto di prendersi ogni rivincita. E quindi sostituisce il potere temporale con l'intromissione in ogni
paese, in ogni nazione, in ogni Stato. Impone un gioco asimmetrico. Ci sono in ogni Stato cittadini
diversi dagli altri, perché, con una legittimazione che si pretende superiore allo stesso potere
legislativo di ogni Stato, un una legittimazione che si pretende superiore all'autodeterminazione dei
popoli, il Vaticano impone la propria intromissione ed il proprio controllo all'interno delle faccende
locali.
Ogni Stato è un potenziale nemico, ogni sacerdote, obbligato a slegarsi dalla propria comunità, è
obbligato ad essere innanzitutto soldato di Cristo, e quindi esecutore dei comandi dell'erede di
Cristo, l'infallibile Papa.
Così asservito il clero, è rotto il cordone ombelicale tra Chiesa e comunità locale. Tramite il clero,
anche ai fedeli è imposta una 'doppia cittadinanza'.

I Concordati
All'asservimento del clero tramite il Diritto Canonico, si accompagna il secondo ben studiato passo
dell'ingegneria istituzionale vaticana: il Concordato. Ed anche qui Eugenio Pacelli è il principe
degli strateghi. La Chiesa, stato virtuale ed extraterritoriale fondato sull'imposizione ai credente
della propria legge terrena, il Diritto Canonico, forte quindi di una propria presenza autonoma
all'interno di ogni Stato, pretende di trattare da pari a pari con ogni Stato.
Ovvero: dal preteso fondamento divino del Diritto Canonico discende la pretesa autonomia del
Diritto Canonico rispetto ad ogni ordinamento costituzionale di ogni Stato sovrano. Su questa base,
la Chiesa vaticana pretende di trattare da pari a pari -se non addirittura da una posizione di
superiorità- con ogni Stato sovrano.
Siamo nel primo quarto del Ventesimo Secolo. Si sfalda l'impero Ottomano, mostrano crepe
l'Impero Austro-Ungarico e l'Impero Russo, l'Impero tedesco è fragile, incerti sono i confini e gli
equilibri di potere.
Senza preoccuparsi delle conseguenze, in anni in cui gli antichi contrappesi sui quali si reggeva
l'Europa crollano, il Vaticano lancia la sfida diplomatica e politica dei Concordati.
Agli Stati, indeboliti all'interno dall'autonomia della Chiesa locale, unilateralmente dichiarata ed
imposta, si chiede di concordare condizioni di favore ad una Chiesa locale ridotta a periferia del
potere vaticano. Si pretendono riconoscimento della rendita immobiliare, condizioni di favore per le
scuole cattoliche, riconoscimento del matrimonio religioso.
Austria, Jugoslavia, Polonia, Baviera, Prussia, Italia. Ma i capolavori del genere -Baviera, Prussia,
fino al Concordato con Hitler nel 1933- sono frutto del lavoro del futuro Pio XII, Eugenio Pacelli.

Il ‘personalismo’ e le sue comode letture


Alla battaglia politica e diplomatica, si accompagna la battaglia ideologica. Un sottile lavoro teso ad
indebolire, a minare i fondamenti storici, culturali, ideologici, normativi dell'autonomia statuale.
Per criticare pro domo sua l'autorità degli Stati, è facile prendere le mosse da valori incontestabili,
antico retaggio della Dottrina Sociale della Chiesa e al contempo fondamento della cultura
illuminista e della moderna Rivoluzione Francese.
Si fa leva sui diritti inviolabili dell'uomo, sulla dignità irriducibile della persona, di tutta la persona
in ogni persona umana, quale che sia la sua storia, la sua cultura, la sua appartenenza sociale,
politica o religiosa. Ogni persona, si afferma, deve essere in grado di sviluppare pienamente la
propria personalità sul piano economico, sociale e culturale.
Si ha buon gioco a sostenere che si tratta di 'diritti naturali', non creati cioè giuridicamente dallo
Stato, ma ad esso preesistenti.
Ma sopratutto fa comodo alla Chiesa usare una meritevole scuola filosofica.

2
Il personalismo afferma il 'principio di singolarità'. “Esse in”, l'essere in sé della persona. Sulla
consistenza ontologica di questa singolarità si fonda il valore assolutamente unico e irripetibile di
ogni persona: la “sussistenza” dell’essere personale è la ragione profonda della resistenza ad ogni
massificazione, è il motivo irrinunciabile del rifiuto di ogni oggettivazione. Dunque incomunicabile
soggettività. Autopossesso: ogni persona si appartiene e si gestisce come sorgente delle proprie
scelte e dei propri atti. Diritti inalienabili, si afferma, che nessuno Stato può ledere.
Non si tratta solo di Dottrina sociale della Chiesa, chiusa su se stessa. Il fondamento filosofico ed i
legami con il presente sono solidi. Il “personalismo comunitario” è la risposta del giovane filosofo
francese Emmanuel Mounier al disagio sociale, al 'disordine stabilito' che caratterizza l'inizio del
Ventesimo Secolo. Una risposta che si oppone costruttivamente al totalitarismo fascista e
comunista. “La persona non è un oggetto: essa anzi è proprio ciò che in ogni uomo
non può essere trattato come un oggetto”. Dall'affermazione dell'essere in sé discende una
concezione della 'cosa pubblica' alternativa all'idea di Stato normatore e controllore, una 'cosa
pubblica' intesa invece come costruzione dal basso, basata sul riconoscimento ed il rispetto dell'altro
e sulla partecipazione sincera ad una costruzione comune: “l’essere personale è generosità; per
questo esso fonda un ordine che è opposto a quello dell’adattamento e della sicurezza”1.
Non a caso, ventisettenne, Mounier fonda nel 1932 Esprit. Rivista non cattolica, confessionale, ma
luogo di incontro di punti di vista diversi. Luogo dove cristiani, musulmani, ebrei, agnostici, non
credenti possano ritrovarsi, per condividere riflessioni sul mondo che, in quanto persone degne e
responsabili, ci compete costruire.
Mounier critica già nel 1939 i silenzi di Papa Pacelli. Il Papa, scrive Mounier, non parla a voce alta,
non denuncia con forza l'ingiustizia nei riguardi delle persone insita nei giochi di potere di chi guida
gli Stati sovrani. Il silenzio del Papa è, per il filoso, l'inevitabile tributo al lavoro diplomatico teso
all'affermazione, sullo stesso terreno degli Stati sovrani, della potenza vaticana.
Il silenzio, potremmo aggiungere, manifesta la connivenza della Chiesa organizzata con le
organizzazioni statali che si comportano in modo contrario a ciò che il principio di sussidiarietà
vorrebbe. Principio che, in prima battuta, si può riassumere in questo monito: “non faccia lo stato
ciò che i cittadini possono fare da soli”. E' evidente che, con lo sguardo di Mounier, potremmo
coerentemente aggiungere: “non faccia la Chiesa-istituzione ciò che i fedeli, aggregandosi
spontaneamente in comunità locali, possono fare da soli”.
Il personalismo comunitario, dunque, appare certo come un buon argomento per criticare
l'incombenza degli apparati statali. Perciò buon argomento per la Chiesa vaticana che vuole imporre
se stessa come Stato virtuale. Eppure non possiamo fare a meno di notare che il personalismo
nasceva proprio come critica della volontà di potenza vaticana. Volontà di potenza che di per sé,
come ben comprendeva Mounier, si fonda su un obiettivo opposto all'istanza comunitaria, alla libera
espressione dell'intenzione personale, nascente dal basso, rispettosa della libertà ed attenta
all'interesse di ognuno.

Quarant’anni di Dottrina Sociale della Chiesa


E' in questo contesto che, per via del latino subsidiarii officii principio, il concetto di ‘sussidiarietà’
si afferma come moderna categoria sia in ambito politico che ecclesiale.
L'espressione appare il 15 maggio 1931 nell'enciclica di Pio XI Quadragesimo Anno. Si celebrano
appunto i quarant'anni dalla promulgazione della Rerum Novarum, l'enciclica di Leone XIII che
prendeva di petto la “questione operaia”. Allora, nel 1891, il Pontefice dichiarava il socialismo

1
Emmanuel Mounier, Le personnalisme, Paris, 1949; trad. it. Roma 1964, p. 11, p. 97. Paris 1903. Di Emmanuel
Mounier si possono vedere anche: Révolution personnaliste et communautaire, Paris 1935 (tr. it. Milano 1949);
Manifeste au service du personnalisme, Paris 1936; Traité du caractére, Paris 1946 (tr. it., Alba 1949); Qu’est-ce
que le personnalisme?, Paris 1947 (tr. it. Torino 1948). ll termine è usato per la prima volta dal filosofo Charles-
Bernard Renouvier, Le personnalisme, Paris, 1903.

3
'falso rimedio' e sosteneva, contro il socialismo, la proprietà privata. Ma al contempo Leone XIII ci
proponeva affermazioni impegnative, ancora oggi attualissime, in tema di dignità del lavoro. Gli
echi dell'enciclica sono ben riflessi nelle parole del parroco di Torcy, nel Journal d'un curé de
campagne di Bernanos, cattolico francese coevo di Mounier. “Ero allora, parroco di Norenfontes, in
pieno paesi di miniere. Questa idea così semplice che il lavoro non è una merce, soggetta alla legge
della domanda e dell'offerta, che non si può speculare sui salari, sulla vita degli uomini, come sul
grano, sullo zucchero e il caffè, tutto ciò sconvolgeva le coscienze, credimi!”2
Ma ora Pio XI, parlando nel, e del tempo a lui presente -gli stessi anni in cui scrivono Mounier e
Bernanos- ritorna sulla 'questione sociale', ma in modo diverso e con un intento differente. Leone
XIII già nell'intestazione della lettera esplicita il tema: De conditione opificum. Parla ai lavoratori e
agli imprenditori. Per Pio XI il tema invece è: De ordine sociali instaurando. Scopo della lettera è
“scoprire la radice del presente disagio sociale, e insieme additare la sola via di una salutare
restaurazione”. La salutare restaurazione consiste nella “christianam morum reformationem”,
“cristiana riforma dei costumi”. Per questo il Pontefice si rivolge agli “oeconomicae moderatoribus”
(“dirigenti della economia”, “rulers of economic life”, nelle traduzioni ufficiali in italiano e
inglese), e, con ancor più chiarezza, ai “nationum rectores” (“governanti delle nazioni principali”,
“statesmen”), chiedendo loro una “riforma delle istituzioni”.
Al “Quid egerit potestas civilis”, l'opera dello Stato il Papa contrappone il “Quid egerint ii quorum
intererat”, “l'opera delle parti interessate”, diremmo oggi: i portatori di interessi, il libero agire degli
stakeholder.
Scrive il Papa: “deve restare saldo il principio importantissimo nella filosofa sociale: che siccome è
illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l'industria propria per
affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle
minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento
del retto ordine della società; perché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è
quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e
assorbirle”. “Aiutare in maniera suppletiva”: l'originale latino recita: “subsidium afferre”. Mentre la
versione inglese reca un generico: “furnish help”.
All'indicazione del rischio implicito in una presenza invasiva dello Stato, segue l'esortazione: “Si
persuadano dunque fermamente gli uomini di governo, che quanto più perfettamente sarà
mantenuto l'ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione
suppletiva dell'attività sociale, tanto più forte riuscirà l'autorità e la potenza sociale, e perciò anche
più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso”.
E’ qui che appare qui, nel testo latino la novissima espressione. Che si tratti di un concetto che si
vuole sottolineare, è testimoniato da inattese virgolette: “«subsidiarii» officii principio”.
L’espressione è tradotta alla lettera nella versione inglese e portoghese: “principle of «subsidiary»
function”, “princípio da função «supletiva»”. Più generica resta la formulazione in francese ed in
italiano: “principe de la fonction supplétive”, “principio della funzione suppletiva”.

Prinzips der Subsidiarität


Solo il tedesco ci parla da subito con precisione: “Prinzips der Subsidiarität”. Non a caso. Alla
preparazione dell’enciclica, ed alla sua traduzione in tedesco, collabora Oswald von Nell-Breuning.
Origini aristocratiche, teologo, gesuita, von Nell-Breuning rilegge consapevolmente in chiave
cattolica l’atteggiamento comunitario calvinista. In contrasto con la dottrina cattolica, fondata su
una Chiesa centralizzata, le decisioni dovranno essere prese al livello più basso possibile. Il Sinodo
di Emden, nel 1571, stabiliva che tutte le decisioni autonomamente prese a livello di comunità
locale, non potessero in nessun caso essere rimesse in discussione nei Sinodi Provinciali e Generali.
2
Georges Bernanos, Journal d'un curé de campagne, “La Revue hebdomadaire”, 1935-1936; Paris, Plon, 1936, trad.
it. Firenze, 1945, p. 92.

4
Da questa idea, affermata in sede di comunità ecclesiale, Johannes Althusius, giurista, filosofo,
teologo calvinista, trae all’inizio del 1600 le basi del pensiero federale applicato allo Stato.3
Althusius vede la società come rete di gruppi interconnessi in grado di soddisfare ogni loro compito
e e di raggiungere ogni obiettivo. Lì dove la comunità locale non è in grado di fare da sé interviene,
l’Unterstützung (in latino, appunto, “subsidium”). Dunque un ‘puntello’, ‘sostegno’, ‘appoggio’
soccorre nel caso non si possa fare da sé.
Nell-Breuning rilegge così: il Subsidiartätsprinzips si fonda innanizutto sull’Selbsthilfe, ‘auto-
aiuto’, poi sul Nachbarschaftshilfe, ‘aiuto reciproco’, ‘mutuo soccorso’. e, infine, Fernhilfe,
‘assistenza remota’. Solo chi ha esaurito le risorse dell’auto-organizzazione può ricorrere ad un
sostegno esterno.
L’edificio del Subsidiartätsprinzips ha dunque solide basi. Nella sua formulazione originaria ci si
presenta come origine storica del moderno personalismo, principio etico del tutto attuale, a cui
ognuno dovrebbe attenersi.
Ma, nella versione cattolica, l’edificio del Subsidiartätsprinzips perde senso e nega le sue stesse
basi etiche. Perché il principio tiene se c’è specularità tra struttura dello Stato e struttura della
Chiesa -ed anzi: di ogni Chiesa. Tutto si fonda sull’autonomia locale, in ogni ambito.
Ed invece, con tipica, farisaica ipocrisia, la Chiesa vaticana di Pio XI e Pio XII opera ben altrimenti.
All’inizio degli Anni Trenta -nei giorni della grande crisi economica, negli anni della crisi della
Repubblica di Weimar e dell’avvento del Nazismo- completa la ridefinizione del proprio disegno
istituzionale susseguente alla perdita del potere temporale richiamando ogni Stato al rispetto della
libertà della persona e dell’autonomia locale, mentre invece impone al clero ed ai fedeli la propria
potestà, ed afferma per sé il diritto ad una struttura gerarchica e centralizzata.

Il Codice di Camaldoli
Trascorrono dodici intensi anni. Il 10 luglio 1943 la Settima e l'Ottava Armata americana sbarcano
in Sicilia. Pochi giorni dopo, dal 18 al 23 luglio, una cinquantina di giovani dell’Azione Cattolica
Italiana e della Federazione Universitaria Cattolica (FUCI), riuniti presso il Monastero di
Camaldoli, si interrogano sullo sviluppo futuro dell’Italia.
Guidano e indirizzano la riflessione tre valtellinesi: i cognati Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno, e
Sergio Paronetto. Vanoni, professore di Diritto Finanziario malvisto dal regime fascista, alle spalle
una borsa di studio dalla Fondazione Rockefeller, due anni di studio in Germania. Pasquale
Saraceno, reduce dalla fruttuosa esperienza maturata all’IRI di Beneduce). Con loro, Sergio
Paronetto, di quasi dieci anni più giovane, laureato in Scienze Politiche a Roma, e poi, su
segnalazione di Saraceno, anch’egli all’IRI.
Alla stesura del testo collettivo che rimarrà noto come Codice di Camaldoli, partecipano, con
Vanoni, Saraceno e Paronetto, futuri esponenti di spicco della Democrazia Cristiana, fondata in
clandestinità dieci mesi prima. Giorgio La Pira, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Giuseppe Medici,
Mario Ferrari Aggradi, Paolo Emilio Taviani, Guido Gonella.. Ma partecipano anche intellettuali
cattolici che si manterranno più lontani dal diretto impegno politico: Giuseppe Capograssi, filosofo
personalista, attento a Rosmini, ma anche a Maritain e Mounier; Ferruccio Pergolesi, giuslavorista;
Vittore Branca, filologo e critico letterario.
Nei 99 punti del testo emerge l’idea della centralità della persona umana nella futura organizzazione
dello Stato della sua politica economica. C’è una esplicito richiamo al personalismo e al
Subsidiartätsprinzips. “Lo Stato deve riconoscere e rispettare i diritti inalienabili della persona
umana, della famiglia, dei gruppi minori, degli altri Stati, della Chiesa”. “Lo stato e l'ordinamento
giuridico hanno per fine di instaurare l'ordine nella molteplicità della società, vale a dire di mettere
ciascuna iniziativa, istituzione, esperienza di vita associata al suo posto, ordinandole secondo il
proprio valore rispetto al fine ultimo e organizzando fra di loro l'umana convivenza”.
3
Johannes Althusius, Politica Methodice Digesta, Atque Exemplis Sacris et Profanis Illustrata, 1603.

5
A ben guardare, scorgiamo nel Codice una lettura del Subsidiartätsprinzips che va ben oltre i suoi
aspetti più facili e retorici: la libertà della persona dell’impresa, il rispetto dell’autonomia locale.
C’è la capacità di andare al fondo delle cose, assumendosene la responsabilità etica e politica. Ciò è
evidente sopratutto al riguardo di due punti.
Primo punto: l’affermazione del principio della limitazione dello spazio d’azione dello Stato è
evidentemente, dal punto di vista vaticano, un modo di garantire spazio alle istituzioni emanazione
della Chiesa. La questione può essere risolta, come propone il Codice di Camaldoli, non tramite
Concordati, accordi di vertice e politiche di potenza, ma tramite il rispetto dei rispettivi ambiti. Ci si
avvicina qui notevolmente a ciò che, in particolare nel mondo anglosassone, si chiama ‘autonomia
delle sfere’. “Lo stato pur esercitando la sua piena autorità nelle cose meramente temporali deve
riconoscere la missione divina della Chiesa, consentirle piena libertà nel suo campo e regolare di
comune accordo e lealmente le materie miste”.
Secondo, connesso punto: se ‘sussidiarietà’ significa fare, per il bene delle persone, ciò che le
persone da sole non sono in grado di fare da sole, se la ‘sussidiarietà’ implica non solo Selbsthilfe e
Nachbarschaftshilfe, ma anche Fernhilfe, si deve avere il coraggio di andare fino in fondo. Questo è
il punto che interessa più di ogni altro a Vanoni, Saraceno e Paronetto. Se lo scopo dello Stato è
“subsidium afferre”, “aiutare in maniera suppletiva”, “furnish help” alla persona, in particolare alla
persona bisognosa, allora è giusto e doveroso che lo Stato si impegni nello sviluppo economico in
tutti quei contesti che vedono le persone incapaci di fare da sé; in tutti quegli ambiti e quei territori
dove le le famiglie, le libere imprese e le libere associazioni si vedono impossibilitate a costruire il
proprio sviluppo.
Proprio in virtù del ‘principio della sussidiarietà’, dunque, inteso come corresponsabilità e
solidarietà nazionale, nasceranno le Partecipazioni Statali e la Cassa per il Mezzogiorno.
Steso il documento, i convenuti ritornano rapidamente alla urgente azione politica. Due giorni dopo
la radio annuncia le dimissioni di Mussolini dopo la mozione di sfiducia del Gran Consiglio del
fascismo. Sergio Paronetto, il principale fautore del testo e del progetto, si fa carico della
pubblicazione del Codice -che resta una delle principali fonti ispiratrici della nostra Costituzione-
presso la casa editrice Studium. Ma quando nell’aprile del 1945 il Codice sarà pubblicato, Paronetto
non potrà assistere alla presentazione del libro. Era morto pochi giorni prima, a 34 anni.

Sussidiarietà come parola nuova


Se il concetto di ‘sussidiarietà’ ha una storia precisa ed un chiaro significato, il termine resta a lungo
confinato nel linguaggio tecnico. In inglese subsidiarity, entra in uso alla metà degli anni Trenta.
Così vuole l’Oxford Dictionary, che indica come origine Quadragesimo anno e il tedesco
subsidiartät.
In italiano, come indica il Battaglia4, per vedere entrare in uso il termine si devono attendere gli
anni Novanta. Siamo in un tempo di cambiamento. Gli alti ideali del Codice di Camaldoli, ripresi
nella Costituzione, sono un ricordo lontano. L’inchiesta Mani Pulite, nel 1992, segna la fine della
Prima Repubblica, che ha visto agire, nei suoi anni terminali, una classe politica lontana da ogni
etica e del tutto disinteressata ai diritti inalienabili della persona umana, della famiglia, dei gruppi
minori.
In questo clima il termine sussidiarietà diviene di uso comune. Il Battaglia, significativamente, cita
tre fonti.
Il Rapporto CENSIS 19925. Dove si legge: “Il nodo di fondo è la definizione del principio di
sussidiarietà, che comporta la chiara identificazione delle responsabilità e delle misure che spettano
a ciascun livello”. Un articolo apparso l’8 maggio 1994 sul quotidiano La voce6 a firma di Luciano
4
Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Utet, volume XX, 2000.
5
Rapporto CENSIS 1992, p. 131.
6
La voce, 8 maggio 1994.

6
Moia, giornalista cattolico attento all’etica, che scrive: “La sussidiarietà, tante volte ribadita dalla
dottrina sociale della Chiesa”. E un articolo del costituzionalista Andrea Manzella, apparso sulla
Repubblica il 20 giugno dello stesso anno. Scrive Manzella: la concezione di un ordinamento dei
poteri “che si intrecciano, si rafforzano e si legittimano reciprocamente e che si differenziano tra di
loro solo in funzione dell’interesse pubblico della cittadinanza si scontra con i vecchi istinti
gerarchici”. “Naturalmente, la modernità istituzionale si ribella contro queste anacronistiche
concezioni: ed ecco la reazione della sussidiarietà”. Una reazione, nota Manzella, che “se non ha,
per ora, consolidato procedure e criteri operativi, è però chiarissima nel suo principio di fondo”.
Principio che consiste “nella necessità che la organizzazione del governo della cosa pubblica parta
dal basso, dal cittadino e dalla sua collettività locale”.

Don Giussani e dei suoi seguaci


Dunque la sussidiarietà, può essere ben intesa come caratteristica distintiva di uno Stato teso a
“subsidium afferre”, ad “aiutare in maniera suppletiva”, rispettando l’autonomia della persona, delle
libere aggregazioni di persone e di ogni altra istituzione. Uno Stato orientato all’autolimitazione, al
servizio, lontano dall’arroganza del potere. Così vuole l’enciclica di Pio XI. Così intendeva le
pubbliche istituzioni l’etica calvinista di Johannes Althusius: qui, e non certo nel pensiero di
Tommaso d’Aquino, nasce l’idea di un’organizzazione sociale che cresce dal basso.
Ma ecco che, in Italia, in anni di transizione -tramontata la Democrazia Cristiana, al capolinea la
Prima Repubblica- nani del pensiero si appropriano della ‘sussidiarietà’ e ne fanno la propria
bandiera. Una bandiera per legittimare un potere politico ed economico emergente.
A Milano era nato, negli anni Cinquanta, Comunione e Liberazione, movimento ecclesiale fondato
da don Luigi Giussani sul “ritorno agli aspetti elementari del cristianesimo”7, nella convinzione che
lì risieda il fondamento dell’autentica liberazione dell’uomo. In questo quadro, ancora per
intuizione di don Giussani, nasce negli anni Ottanta la Compagnia delle Opere, associazione di
imprese.
Il passaggio dalla comunione all’impresa, dalla liberazione alla produzione, non è scontato. Serve
una copertura ideologica. All’uopo è comodo il concetto di sussidiarietà. Certo la sussidiarietà
rimanda alla centralità della persona, e porta con sé, implicitamente, una legittimazione papale. Del
concetto, fa anche gioco anche la duplice lettura, il rimando all’ambito laico, privato, ed allo stesso
tempo al mondo ecclesiale. E fa gioco, ancora, la scarsa notorietà dell’espressione - cosicché il
termine, che appunto solo in quegli anni si afferma, finisce per apparire intrinsecamente legato a
Comunione e Liberazione e alla Compagnia delle Opere, quasi un marchio di fabbrica.
Ecco così sgorgare da questa fonte un profluvio di stereotipi: “Il pensiero cattolico vuol dire
innanzitutto un’idea di uomo”. “Il criterio dello sviluppo è la persona”. “Le persone hanno dei
bisogni ma anche delle capacità e queste capacità possono essere messe a disposizione della
comunità, per il raggiungimento di un bene comune”. “Tutti i modelli di sviluppo che hanno saltato
l’uomo hanno buttato via un sacco di soldi senza realizzare nulla”. Ecco sbandierato l’intento
nobilissimo: “promuovere e tutelare la presenza dignitosa delle persone nel contesto sociale e il
lavoro di tutti”; “favorire una concezione del mercato e delle sue regole in grado di comprendere e
rispettare la persona in ogni suo aspetto, dimensione e momento della vita”. Sempre beninteso
aggiungendo: “questo lo dice il Papa”.
Niente si aggiunge a ben guardare a Mounier ed al Codice di Camaldoli. Epperò il personalismo è
asservito ora a un disegno preciso. Mentre si afferma che “la cultura cristiana, che ha informato
tutta la civiltà occidentale e il suo sviluppo, si fonda sull’idea che ogni singolo uomo valga più di
tutto l’universo, e non sia riducibile ad alcuna organizzazione sociale e politica”,8 si usa l’alto
7
Don Luigi Giussani, Lettera a Giovanni Paolo II, in occasione del cinquantesimo anniversario della nascita di
Comunione e Liberazione, 26 gennaio 2004.
8
Giorgio Vittadini, Avvenire, 10 dicembre 2010.

7
principio per costruire la posizione di vantaggio di una precisa organizzazione sociale e politica, il
sistema politico-economico di Comunione e Liberazione e della Compagnia delle Opere.

La sussidiarietà alla lombarda


Ripartiamo dalla versione più pura del Subsidiartätsprinzips: alla base sta la libera scelta di persone
che, auto-organizzandosi, decidono di fare da sé. Così l’istruzione, così la prevenzione e la cura
sanitaria.
Possiamo ben accettare che cittadini, ritenendosi innanzitutto persone, e volendo ‘fare da sé’,
chiedano di non sottostare a vincoli imposti dalla Pubblica Istruzione offerta dallo Stato. E
possiamo accettare che, in un ambito parallelo, cittadini-persone scelgano di curarsi da sé. E in
genere di scambiarsi servizi.
Possiamo anche accettare che, in considerazione del ‘fare da sé’, si chiedano sgravi fiscali: non
godo dei pubblici servizi, quindi chiedo di non pagarne il costo. Possiamo accettarlo anche se, così
agendo, si contraddice un aspetto chiave della sussidiarietà - la Fernhilfe, pubblica assistenza. Se lo
Stato è chiamato ad intervenire, a mio favore, o a favore di altre membra del corpo sociale, quando
l’auto-aiuto e l’auto-organizzazione si rivelino insufficienti, è mia responsabilità morale contribuire
al costo di questi interventi.
C’è, in questo snellimento e prosciugamento dello Stato, un evidente effetto perverso. Le migliori
competenze confluiranno per forza lì dove ci sono le maggiori risorse. A lungo andare la qualità del
servizio offerto dallo Stato, nella scuola di ogni ordine e grado, nella sanità, non potrà che
peggiorare. Ognuno, anche coloro che preferirebbero usufruire dei servizi offerti dallo Stato,
saranno costretti a ricorrere ai servizi offerti dai privati.
Ma appunto, accettiamo che chi intende ‘fare da sé’ arrivi a chiedere sgravi fiscali e si disinteressi di
ciò che fa lo Stato. Comunione e Liberazione e la Compagnia delle Opere, e il personale politico ivi
cresciuto, ovvero i sostenitori della sussidiarietà in salsa lombarda, però, vanno ben oltre.
Si pretende che lo Stato si faccia da parte, si pretende che lo Stato si ritiri e si snellisca, limitandosi
ad offrire funzioni sussidiarie alla libera azione dei privati, finanzi i servizi offerti da questi privati.
Si dice allo Stato che deve farsi da parte, limitarsi ad agire solo dove la persona e i corpi sociali
nascenti dal basso non possono fare da solo. Ma al contempo si pretende che lo Stato paghi il costo
di ciò che le persone e libere organizzazioni vogliono fare da sole.
Il meccanismo del voucher -che pare essere la massima espressione della sussidiarietà alla
lombarda-, ovvero l’attribuzione ad ogni cittadino di un credito, da spendere come vuole presso la
scuola pubblica o privata, presso la sanità pubblica privata, mostra qui la corda.
La gran forza della versione originaria del Subsidiartätsprinzips è togliere alibi ad ognuno, ad ogni
persona ed a ogni aggregazione sociale, e stimolare tutti a dare il meglio di sé. Ogni persona, saprà
che non gode di nessun diritto al servizio ed al pubblico sostegno se non dopo aver fatto quanto può
per cavarsela da solo. E così ogni impresa ed ogni aggregazione sociale. Ma i fautori della
sussidiarietà alla lombarda si guarda bene dal farsi carico di questo onere, di questa responsabilità
sociale. Il loro gioco è creare uno spazio di azione per sé a spese dello Stato. Le persone ed i gruppi
sociali, lungi dall’essere stimolati a fare da sé, lungi dall’essere messi nelle condizioni di mettere in
campo il proprio ingegno e il proprio spirito imprenditoriale, sono costretti in ogni caso nel ruolo di
destinatari di servizi offerto da professionisti, privati o pubblici che siano.
E poi, se crediamo davvero alla sussidiarietà, al farsi indietro dello Stato di fronte all’autonoma
azione delle persone e delle comunità locali, perché mai adottare questo giro perverso, prelevare ai
cittadini denaro per poi ridarlo nelle loro mani perché lo spendano in libertà. Tanto varrebbe
appunto detassare chi fa da sé. In realtà si vuole controllare i cittadino e indirizzarlo dove fa
comodo. Avendo abbandonato per strada quel valore che porta con sé il servizio pubblico:
l’uguaglianza di trattamento.
Perché poi, appunto, i luoghi dove può essere speso il voucher sono sempre i soliti, o i luoghi del

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servizio pubblico, o i luoghi del servizio offerto da chi conosce bene i modi di accedere al
finanziamento pubblico.

Allo Stato il lavoro sporco


C’è dell’assurdo, in questo. Assurdo che si pretende di velare abusando del nobile
Subsidiartätsprinzips. La sussidiarietà in salsa lombarda finisce per trasformare lo Stato in questo:
nel finanziatore, nel fornitore di risorse economiche. Così soggetti privati sono sgravati del compito
più ingrato: finanziare la propria attività.
L’operazione è resa ancor più vergognosa, dal punto di vista dell’etica pubblica, dalla
contemporanea critica dello Stato in quanto ente responsabile del prelievo fiscale. Si espone lo Stato
al pubblico ludibrio perché “mette le mani nelle tasche degli italiani”, nel mentre si usa per propri
fini questo stesso mettere le mani nelle nostre tasche. La funzione sociale dello Stato così è
doppiamente svilita: da un lato è messa in discussione la necessaria fonte di finanziamento della
pubblica attività. Dall’altra si impedisce allo Stato di mostrare, attraverso la bontà dei servizi offerti,
la fondatezza del prelievo: perché la bontà dei servizi offerti va a tutto merito dei privati operaanti
con i fondi pubblici.
Nella cultura anglosassone tutto questo sarebbe impensabile. Il principio dell’autonomia delle sfere
vuole che che chi sceglie di fare da sé si finanzi da sé. Crei pure chi vuole fare da sé fondazioni,
raccolga pure soldi in chiesa, chieda pure denaro a chi ne ha di superfluo, e a chi è mosso da spirito
di carità.
Si doti vuol fare da sé di abili comunicatori, di fund raiser, o più semplicemente ricorra al buon
cuore altrui, o al proprio autofinanziamento. Così come del resto si autofinanzia qualsiasi impresa
privata.
Ma i profeti della sussidiarietà alla lombarda sono più furbi. Lo Stato è chiamato a fare il lavoro
sporco, tassando i cittadini, per poi consegnare le risorse in mano dei santi che, mossi da puro
spirito evangelico, orgogliosamente rivendicano lo spazio per essere buoni e giusti a modo loro.
Ora, a uno Stato sano si può chiedere di stringere più precisamente il cerchio tra raccolta di risorse
tramite la leva fiscale e erogazione di servizi. Si può chiedere di alleggerire la burocrazia. Con tutto
questo, lo stato Stato resta in ogni caso resta responsabile di garantire ogni cittadino servizi
adeguati, a prescindere dalla fede e dal modo di intendere la libertà e alla centralità della persona.
Lo Stato però, in Lombardia, e forse si vorrebbe in tutta Italia, è costretto a distogliere attenzione
dall’erogazione del servizio. Lo Stato è allontanato dai cittadini e costretto nel ruolo di definitore di
regole e di occhiuto controllore di servizi erogati da terzi. Lungi dall’essere stimolato a migliorare il
proprio servizio, è costretto a diventare un garante di regole , misure, parametri, destinati a
confrontare lo Stato stesso, in quanto erogatore di servizi, con i privati.
E questo mentre è chiesto allo Stato, al contempo, di fornire Fernhilfe, e cioè in parole povere di
offrire i servizi che sono necessari, ma che al privato non conviene offrire. Vale a dire che sul gobbo
dello Stato, con buon gioco dei privati che offrono i servizi più comodi, resta il peso dell’erogazione
dei servizi più costosi e rischiosi.
Si sono sbeffeggiate le Partecipazioni Statali, basandosi su loro evidenti disfunzioni. Ma i privati
che che con risorse pubbliche offrono servizi ai cittadini svolgono esattamente lo stesso ruolo che i
riformatori del dopoguerra, Vanoni e Saraceno, immaginavano per l’industria di Stato.
Gli stessi difetti delle Partecipazioni Statali -il distogliere l’attenzione dallo scopo sociale, il cattivo
uso del pubblico finanziamento- possono ben riguardare anche i pubblici servizi gestiti dai privati.
Solo che, rispetto alle pubbliche istituzioni, giustamente sottoposte all’attento sguardo dei cittadini e
dei media, vincolate da leggi, per il privato è ben più facile nascondere il proprio agire inaccurato,
quando non truffaldino. Specie se, con il sostegno del Subsidiartätsprinzips, si afferma che il
religioso diritto a ‘fare da sé’ motiva cornici normative e modalità di controllo leggere e non
invasive.

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Un sistema di potere
Possiamo tornare all’immagine proposta da Pio XI, e risalendo nei tempi, all’etica calvinista di
Johannes Althusius: un corpo sociale composto di membra diverse, ognuna delle quali è in diritto di
agire in autonomia, a partire dalle comunità locali; lo Stato inteso come ente che interviene in
funzione suppletiva, per “subsidium afferre”, solo quando e dove le comunità locali non possono
fare da sé.
Si può osservare come il federalismo della Lega appaia ben più vicino al Subsidiartätsprinzips di
quanto non lo sia l’ideologia di Comunione e Liberazione e della Compagnia delle Opere. La Lega
chiede che si il prelievo fiscale locale sia tradotto in servizi locali, chiede che si pongano limiti alla
Fernhilfe e all’intervento dello Stato centrale, ma non chiede che lo Stato finanzi la scuola e la
sanità private.
Si può anche osservare, ancora guardando all’immagine di Pio XI, come il sistema di potere di
Comunione e Liberazione e della Compagnia delle Opere non faccia integralmente parte delle
“membra del corpo sociale”, ma imponga, invece, alle altre “membra del corpo sociale” la propria
autonoma esistenza di “corpo separato”.
Tutto funziona perché, approfittando della disattenzione di altri soggetti, e del vuoto politico della
fine degli anni Ottanta, Comunione e Liberazione e la Compagnia delle Opere hanno prodotto una
propria classe politica che dal 1995 governa la Regione Lombardia, e partecipa al governo
nazionale.
La Regione Lombardia, così, esiste per creare regole pensate per far apparire migliore il servizio
offerto dai privati che fanno da sé. Inevitabilmente, la profezia si autoavvera. Stando a quelle
regole, il privato che fa da sé eroga un servizio migliore. E quindi riceve i finanziamenti sottratti al
servizio pubblico, che non può che peggiorare progressivamente.
Svelata la miseria del meccanismo, si può osservare come la persona che per fede fa da sé -la
persona che i seguaci di don Giussani pretendono di evocare- non esiste. I finanziamenti estorti allo
Stato non vanno a parrocchie e o alla Caritas, vanno a cooperative ed associazione ed impreso
costituite ad hoc per stare dentro le regole previste per l’erogazione dei fondi pubblici.
Il gioco, che è tutto politico, si basa in fondo su una triplice occupazione. Un unico gruppo di
potere, approfittando della generale incuria, ha occupato politicamente lo spazio dei corpi sociali di
base, lo spazio
Così accade che la stessa classe dirigente stabilisce le regole in base alle quali sono erogati i
finanziamenti e poi riceve i finanziamenti – sottratti al servizio pubblico.

Ipocrisia e integralismo
Il sistema di potere, dietro il velo dei nobili principi, impone allo Stato l’obbligo di finanziare
attraverso il prelievo fiscale attività private, e allo stesso tempo toglie ai cittadini abitanti il territorio
la libertà di fare da sé, e cioè di mettere in pratica gli stessi principi del personalismo e della
sussidiarietà.
E ancora, il sistema di potere fondato sull’intendere la sussidiarietà come accaparramento di fondi
pubblici, finisce per imporre alla Chiesa locale, così come a associazioni e cooperative, una
deleteria distorsione. C’è qui un evidente paradosso: in un quadro di snellimento delle funzioni
statali, e di critica dell’invadenza dello Stato, si fa passare attraverso lo Stato il finanziamento di
privati da parte di privati. Siamo veramente sicuri che l’‘otto per mille’ e il ‘cinque per mille’ siano
una buona cosa? Non sarebbero più coerenti con il principio di sussidiarietà le confessioni religiose
e le Onlus se rinunciassero al sostegno pubblico? Non c’è forse contraddizione tra il chiedere allo
Stato di fare un passo indietro e l’attribuirgli un ruolo, a proprio esclusivo e privato vantaggio?
Si negano così ai cittadini -anche qui in violazione dei buoni principi del personalismo e della

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sussidiarietà- gli stimoli che spingano ad assumersi le proprie responsabilità, a costruire il mondo a
partire da se stessi. Si rafforza il ruolo di Stato mediatore e redistribuzione lì dove persone e gruppi
sociali elementari potrebbero sviluppare relazioni dirette.
Infine, così, viene meno l’attenzione all’altro. Viene meno il principio di solidarietà. L’attenzione
all’ultimo, al bisognoso. Al diverso. La ‘sussidiarietà realizzata’, alla lombarda, sottrae all’ultimo e
il diverso il servizio ‘neutrale’ che potrebbe offrire lo Stato laico, e costringe l’ultimo e il diverso ad
un servizio condizionato dalla matrice religiosa.
Si torna dunque allo striscione sulla facciata del Pirellone. Ad ogni cittadino è imposta una lettura,
del resto opinabile, della dottrina sociale della Chiesa. C’è dell’intolleranza nel far parlare di una
sola religione -della propria, naturalmente- la facciata del primo edificio pubblico dello Stato
Regionale. Non lede forse il principio della centralità della persona, di ogni persona, il parlare di
una persecuzione? Non dovrebbe forse lo Stato di tutti indignarsi per ogni persecuzione, per ogni
negazione di libertà?
La sussidiarietà alla lombarda, eretta a principio fondante di un’azione politica di parte, ci appare
lontanissima dall’Esprit di Mounier. Eppure, seguendo Mounier, possiamo intendere la regione
nella quale viviamo, regione senza maiuscole, come luogo dove cristiani, musulmani, ebrei,
agnostici, non credenti possono ritrovarsi, per condividere riflessioni su un mondo che, in quanto
persone degne e responsabili, ci compete costruire insieme.

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