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Buddhismo e Vedanta Advaita:

due dottrine, una mèta


di Alberto Mengoni (Pubblicato su ‘PARAMITA’ n. 39 –luglio 1991)

Secondo vari studiosi (Scherbasky, Poussin, Winternitz, ed


altri), la posizione del Buddhismo non è stata, e non è, così
distante da quella di altri sistemi filosofici dell'antica India
che cercavano di dimostrare l'illusorietà del mondo
esteriore e del nostro imperfetto sistema mentale di perce-
zione. Infatti i sistemi esistenti all'epoca del Buddha,
ancorché ramificati in più dottrine, si erano sviluppati sulla
base del primitivo e sostanziale studio dei Veda, il pode-
roso compendio di Saggezza Arcaica e Tradizionale; ma, a
causa del gran numero di interpretazioni di queste
Scritture, non poteva esserci una linea di condotta unica,
sicché molti dubbi si presentavano ai Ricercatori della Verità, i quali peraltro
ritenevano più importante interpretare dette Scritture in modo simbolico
tralasciando le credenze popolari che invece, ligie alla lettera, avevano creato
tutto un mondo divino, popolato da varie divinità adorate e rappresentate in
tutte le forme possibili di manifestazione. Fu proprio a tali Ricercatori che si
rivolse Shakjamuni quando sentì il bisogno di conoscere i misteri dell'esistenza,
pungolato da un profondo senso di compassione per le condizioni di sofferenza
di tutti gli esseri. Ma Egli, dopo varie esperienze, fu portato a concludere come
nessun tipo di saggezza proveniente dall'esterno avrebbe potuto risolvere i
problemi della condizione umana e, quindi, decise di verificare da solo l'unica
via determinatasi come possibile: il viaggio all'interno della propria mente.
Tuttavia il Buddhismo già agli inizi ebbe bisogno di un humus tradizionale per
nascere e svilupparsi, e ciò starebbe a dimostrare le attinenze e accostamenti
con il successivo sviluppo dell'Advaita-Vedanta, fiorito in India dopo la
rarefazione del Buddhismo stesso. Sono comunque innegabili alcune differenze
tra le due Dottrine, ma non dovrebbero passare inosservate le altrettanto
numerose uguaglianze. Già alcuni critici e storici del pensiero (vedi il testo 'La
Concezione Centrale del Buddhismo' di T. Scherbasky, (Ed. Ubaldini, Roma) - in
cui si fa riferimento ad altri Autori in accordo con questa posizione) hanno
presentato un Buddhismo delle origini espresso quasi come una continuazione
ed un rinnovamento del messaggio delle Upanishad, e lo stesso T. R. V. Murti,
nel suo libro 'La Filosofia Centrale del Buddhismo' (Ed. Ubaldini, Roma), lascia
trasparire come un indissolubile filo leghi il Buddhismo Madhyamika di
Nagarjuna all'Advaita Vedanta di Shamkara, anche se controversie tra
successivi seguaci dei due sistemi farebbero pensare a sensibili divergenze, in
ogni caso puramente dialettiche. Dal momento che gli scontri verbali e le
critiche reciproche avvennero proprio nella stessa chiave dialettica (cioè,
malgrado tutto, essi si capivano!), ciò fa pensare che il diagnosticare
settariamente una 'diversità tra le Dottrine' in modo separativo ha solo un
sapore di presa di posizione e non aiuta a risolvere il problema di fondo in un
modo "unitario", che poi è il raggiungimento della "Liberazione". Anzi, la
differenziazione potrebbe tendere al rallentamento dell'ascesi, anziché
condurre il vero ricercatore verso la pacifica constatazione che la Verità è una
sola e i modi per rivelarla sono tutti ugualmente validi.
D'altra parte lo stesso concetto di "SUNYA" o vuoto, che è il cardine fondamen-
tale del Buddhismo, ed il "punto di attenzione" del Vedanta, indica la direzione
essenziale verso cui indirizzare il nostro cammino, come nell'esempio classico
del dito e della luna, e cioè verso l'unico vero obiettivo, che è la luna e non il
dito che la indica. Non si può, quindi, non accettare la essenziale convergenza
che è peculiarità di entrambi i sistemi: cioè la intensa e continua ricerca
dell'uomo fino allo svelamento della sua reale natura, proprio per uscire dai
conflitti e porsi, privi di illusoria separazione o dualità, in uno stato in cui né
‘ATMAN’ né ‘ANATMAN’ abbiano un qualche significato, raggiungendo
realmente quel ‘Silenzio Mentale’ auspicato costantemente sia dal Buddha che
dagli altri Saggi Illuminati. Seguire quindi le raccomandazioni del "Beato" è
conditio-sine-qua-non, ed il Buddha, vero faro illuminante della Via, col suo
esempio ed i suoi insegnamenti ha ribadito (e Shamkara, più tardi,
riconfermato) come solo attraverso la NON-DUALITA è possibile raggiungere la
vera Illuminazione, la quale, essa sola, contiene le qualità necessarie alla
Liberazione non solo nostra, ma di tutti gli esseri senzienti.
Infatti l'Illuminazione individuale, anche se è già un pregevolissimo
ottenimento, presenta una valutazione di incompletezza; per cui la mente, in
fase di emancipazione, è portata ad alzare il tiro, ripromettendosi con una
decisa volontà catartica di fare del tutto per offrire anche agli altri la identica
possibilità. Anche nell'Advaita Vedanta, l'aspirazione sincera a liberare la
propria mente produce di conseguenza la liberazione di tutti i prodotti-oggetto
di cui, nelle rinascite identificate, ci si era tanto preoccupati; vale a dire che,
non vedendo più gli altri come una parte separata, sorge una propensione
all'amore ed al desiderio di riportare verso la liberazione tutti gli esseri
indistintamente. D'altra parte, Shamkara si interessò in maniera preminente
dei suoi simili. Nei suoi 33 anni di vita non fece altro che viaggiare per
insegnare l'esatta interpretazione delle Upanishad, curando amorevolmente le
menti dei suoi discepoli e incon-trando innumerevoli masse di umanità al fine
di indirizzarle, anche con le opere scritte, verso la giusta comprensione e l'ar-
dente sete di Liberazione.
Sia il Buddhismo che l'Advaita-Vedanta possono considerarsi ‘scuole di vita’,
che educano i praticanti a maneggiare con cura le loro energie, mantenendo
costante l'attenzione sulla loro interiorità, indicando come scopo del sentiero
l'annullamento di ogni fattore mentale egoico, e indirizzandoli verso la via del
Dharma. La metafisica del Vedanta-Advaita e, in parte, del Buddhismo stesso,
tende a far nascere nell'Essere l'intuizione profonda (Prajna) della realtà delle
cose così come sono, al di là delle sovrastrutture mentali le quali,
coinvolgendo l’uomo e invischiandolo nella dualità più inestricabile, gli
impediscono una visione chiara e lucida dei fenomeni facendolo sottostare ad
una inconscia primordiale Ignoranza. Attraverso i testi del Madhyamika di
Nagarjuna e seguaci, da una parte, e dell'Asparsa-Vada (Sentiero senza
Sostegno) di Shamkara e Gaudapada dall'altra, si stimola il discepolo a dubitare
dell'apparente realtà delle manifestazioni fenomeniche, quasi così come, al
mattino, siamo portati a non credere agli avvenimenti del mondo onirico,
dimenticando in breve tempo i turbamenti provocati dai sogni, per quanto reali
possano essere sembrati. In effetti questa stessa vita dovrebbe essere
paragonata ad un lungo, chimerico sogno in stato di veglia, che non deve mi-
nimamente disturbare il soggetto osservatore, cioè l'Atman Vedantico, il quale,
indefinito e imperturbabile, privo di personalità e individualità, non è altro che
la Realtà Suprema calata in noi e nascosta, come il sole dalle nuvole, dal sé
egoico e materialista. Questo Sé (Atman) è del tutto simile alla "Natura-di-
Buddha", poiché non è personale, né separato, né duale; ci compenetra tutti
ma, anche, ci trascende, nel senso che non può essere conosciuto né identifi-
cato" su questo piano di esistenza fenomenica, né può essere compreso
concettualmente.
D'altra parte si può ipotizzare che, in fondo, l'atman in qualche modo negato
dal Buddha, anche se mai in maniera veramente decisa, sia lo
stesso atman negato da Shamkara; quello cioè ritenuto come possesso
individuale, o quanto meno quello concettualizzato dalla mente ordinaria, che
non è capace di riconoscere l'Atman Vedantico, o Realtà Assoluta, come
realmente è, inconoscibile fino a che non si arrivi alla sua completa
Realizzazione attraverso l’intuizione profonda e superconscia (Prajna) nel
completo silenzio interiore. Alla luce di tutto ciò, Buddhismo e Vedanta-Advaita
si propongono come sentieri indispensabili per l'abbandono di questo stato di
sofferenza, facendo spalancare la mente alla comprensione intuitiva con mezzi
eccellenti che vanno dalla purificazione dei fattori mentali individuali
disturbanti fino alla apertura mentale verso la Verità Assoluta, attraverso il
superamento delle errate percezioni sensoriali.
Naturalmente la pratica di questi Sentieri non dà garanzia al praticante di
ottenere immediatamente l'effetto proposto. Infatti l'ottenimento degli effetti
(cioè la liberazione immediata daisamskara, o tendenze innate) è commisurato
alle capacità intuitive dello stato mentale del praticante; per cui non è infre-
quente il caso che, per alcuni discepoli dell'uno o dell'altro sentiero, la non
perfetta comprensione degli insegnamenti porti ad uno stato di stallo
psicologico o, peggio, di un totale travisamento, con emersione di turbe
psichiche che, in alcuni casi, sarebbe opportuno correggere e raddrizzare con
trattamenti psico-analitici, in quanto la capacità intuitiva superconscia (Prajna)
non è ancora una precipua caratteristica della mente di questi discepoli.
Quindi, al di là dei punti in contrasto e di alcune apparenti dicotomie, c'è da
sottolineare, per entrambe le dottrine, l'importanza data allo sviluppo della
consapevolezza e dell'autocoscienza, improrogabili passaggi di tutto il
movimento ascendente che permettono all'uomo, attraverso l'incessante
lavoro all'interno di se stesso, di raggiungere la mèta indicatagli dai due grandi
saggi Shakyamuni Buddha e Shamkaraçarya, fondatori e guide delle due
filosofie, i quali per le loro caratteristiche spirituali possono essere accomunati
nella vera espressione della Realtà Assoluta del Nirvana e del
Brahman.------------------------------------------
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LA SOLITUDINE DELLA COSCIENZA di Alberto
Mengoni
(Pubblicato sulla Rivista Buddista PARAMITA n. 49 del Gennaio
1994-)

Anche se parlare di solitudine, per la coscienza, non ha un vero e proprio


significato, il concetto che essa richiama apre tuttavia lo spazio figurativo della
mente proprio alla stessa situazione, poiché noi veniamo al mondo circondati di
solitudine. E da questa solitudine sviluppiamo poi i primi approcci col
multiforme. Nei nove mesi che abbiamo passato nel grembo materno,
prigionieri del liquido placentare, la nostra coscienza ha obbligatoriamente
conosciuto solo se stessa; nel silenzio più totale e senza alcun riferimento
esterno siamo stati coscienti solo di noi stessi, senza rendercene neppure
conto, perché non potevamo avere altra conoscenza che quel “nulla” in cui
eravamo immersi. Quando siamo venuti alla luce essa è stata il primo impatto
col "fuori di noi", la prima conoscenza duale. Da quel momento in poi la nostra
coscienza si è divisa, frantumata in innumere-voli conoscenze, ma quell' unico
punto embrionale è rimasto in noi come base, come espressione potenziale,
come l'ignota unica realtà.
E quella coscienza-origine risulta essere la prima manifestazione del Puro-
Essere che, sorgendo dal Nulla Cosmico, per la forza potenziale della sua
stessa Natura oltreché condizionato dalla spinta karmica, viene proiettato nello
stato di esistenza e interrelato con tutti gli altri fenomeni, anche se purtroppo
provvisto di una Ignoranza Primordiale, causa della falsa e illusoria concezione
di un senso di separazione e individualità. Dato che, a livello mentale, non vi è
ancora differenza di coscienza con lo stato di non-essere precedente alla
nascita, essendo le porte dei sensi non ancora funzionanti al meglio, la mente
soggiace in un ovattato torpore che non ha il potere di scuoterla, di agitarla, di
farle prendere atto della sua esistenza, e quindi si mantiene in uno stato di
calma piatta, appena appena increspata dal movimento vitale della formazione
degli organi e del corpo. Quando poi, con la meditazione costante, ci riportiamo
nello stato conosciuto come Samadhi, noi ritorniamo in quello Stato di
Coscienza nonnata, torniamo nell'utero del vuoto, nel silenzio della solitudine.
Ma con una differenza: questa volta noi sappiamo, sappiamo di essere in quella
condizione, sappiamo di essere ‘Quello Stato’. Noi, in realtà, percepiamo di
essere realmente soltanto quella Coscienza.
Il grande illuminato dell’Advaita, Nisargadatta, ammoniva i discepoli che gli
chiedevano il mezzo per la Liberazione e il modo per superare le illusioni sam-
sariche, dicendo loro che essi dovevano ritrovare in sé stessi quello stato
originario, lo stato in cui erano prima del concepimento. E, nello Zen, si legge
che uno dei principali Kung-an (Koan) è quello di chiedersi come era il nostro
volto prima della nascita dei nostri genitori. Questo per far capire che proprio
quel senso di Essere (che si prova vivendo) è diretta discendenza dello stato di
Non-Essere e che lo stato di Pura Coscienza non conosce, come elementi
conoscibili, né l’Essere né il Non-Essere, in quanto non ancora generati come
concettualità. Purtuttavia la Consapevolezza-non-manifesta dello Stato Vuoto,
priva di cognizioni dualistiche, ci riporta direttamente, ma senza operazioni
mentali di pensiero, nello stato di solitudine coscienziale di quando eravamo
nel ventre di nostra madre. Ciò avviene ogni volta che, semplicemente non
afferrando ogni singolo pensiero, né bloccando lo scorrere naturale della
mente, la mente stessa si adagia lentamente e spontaneamente come acqua
immobile. Allora si riconosce (senza sforzo né alcuna volontà) la Coscienza Sola
e Silenziosa e, quanto più questo spontaneo stato di coscienza dura, più si
conosce e si intuisce la profondità della Non-Mente di cui si parla nel Chan
(Zen) di Hui-Neng e Huang-Po, e quindi in modo naturale avviene la
trasformazione: ci poniamo nello stato mentale silenzioso anche vivendo nel
frenetico mondo di oggi, anche nei rapporti interpersonali della nostra vita
quotidiana.
Potrebbe altresì crearsi l’apparente situazione di una doppia capacità di
coscienza (si fa per dire) in cui si è contemporaneamente coscienti del "relati-
vo" mondo fenomenico e dell' "assoluto" noumenico, anche se in realtà non c'è
divisione né separazione tra le supposte "due coscienze", così come in alcuni
particolari stati di sogno in cui, pur avendo diretta sensazione degli avveni-
menti immaginati dalla mente, e quindi in qualche modo vivendoli, nondimeno
di base c'è una profonda sensazione di distacco, di non partecipazione,
testimoniata dal fatto che, spesso al mattino, quasi non rammentiamo quegli
eventuali sogni. Così il vero Saggio vive la sua vita umana, con un occhio
interno che non partecipa, con una mente che non si attacca, non aderisce a
ciò che avviene. Egli è presente sulla scena ma è come se non ci fosse, tutto
scorre davanti a lui come in un film, ed egli vi si muove dentro, ma totalmente
distaccato, costantemente immerso nella profonda solitudine della coscienza,
in cui è perfettamente riconoscibile la Realtà delle cose così come sono nella
loro verità, non mediate dalla mente individuale, sensibile e condizionata da
esperienze e pregiudizi personali.
Questo stato silenzioso della coscienza si può definire come lo Stato Assoluto
che si rivela in noi in modo non afferrabile e non tangibile. Infatti, se ci si
accorge di esso e si tenta di renderlo logico e razionale questo stato scompare
e ne perdiamo le tracce ricadendo, nostro malgrado, nella ordinaria coscienza
mentale del sé illusorio, separato e dualistico. Questo stato è conosciuto nelle
diverse tradizioni sapienziali ed indicato con vari nomi: Ma-
hatattva o Atmabrahman, nell' Advaita- Vedanta; Mahamudra o Maha-Ati, nel
Buddhismo tantrico; Wu-hsin oMu-shin, nel Buddhismo zen. Infatti, al di là di
qualche marginale sfumatura interpretativa, questi nomi stanno sempre a si-
gnificare lo Stato Puro immutabile e non-nato della Realtà Suprema e della
Natura di Buddha, che è non turbato, che tutti possediamo, e che, quando è
integrato e insediato spontaneamente senza interruzioni, rivela lo Stato
dell'illuminazione in cui dimorano gli Esseri Realizzati.
È pur vero che qualunque appellativo non si addice ad identificare quello stato
di coscienza che, anzi, nelle predette tradizioni è più spesso semplicemente
chiamato "Quello" "Sé-Reale" oppure il "Senza-Nome", proprio per ribadire
l'impossibilità di poterlo conoscere con la mente razionale e concettuale. Ma
poiché chi lo conosce sà veramente di cosa si tratta, è opportuno non dare
importanza ad eventuali descrizioni (d'altra parte puramente approssimative e
simboliche), quanto al significato, proprio per poter in qualche modo onorarne
la gloria e riconoscerne la grandiosità; così come è insegnato che non si deve
dare importanza al dito che indica la Luna, bensì l'attenzione deve essere
focalizzata verso lo splendore stesso dell' argenteo astro nell' oscuro cielo
notturno. ---------- ###
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L’ILLUMINAZIONE IMPROVVISA
nell’INSEGNAMENTO di HUI-NENG –
di Alberto Mengoni (Pubblicato su PARAMITA n. 52 di ottobre 1994)
La filosofia dello Zen, così come è giunta a noi, rispecchia fedelmente
l'esperienza di una dottrina di vita e di pensiero praticata nei paesi dell'Estremo
Oriente e tramandata dalla precedente scuola cinese di nome Ch' an. Come è
già chiaramente espresso dal nome, questa scuola Buddhista del Mahayana
(Veicolo maggiore), fa della meditazione o contemplazione (Dhyanain
sanscrito, Ch' an in cinese, Zen in giapponese, Soen in coreano e Thien in
vietnamita) il principale scopo dei suoi studi e dei suoi insegnamenti, come
diretta conseguenza dell' adesione fervida e convinta all'insegnamento del
Buddha e dei suoi ambasciatori della fede. Il più famoso tra questi, il
benemerito Bodhidharma, partito dall'India Meridionale (o, secondo alcuni, da
Ceylon) portò con sé i Sutra originali del Buddhismo, con le regole e gli
insegnamenti della scuola mahayana ed approdò sulle coste della Cina
Meridionale, circa 1000 anni (6° secolo d.c.) dopo il parinirvana del Buddha,
essendo già carico di anni e di saggezza e avendo da tempo realizzato la
Buddhità. Egli era un diretto discepolo del maestro Prajnatara, l'ultimo, in or-
dine di tempo, dei grandi Patriarchi Indiani di quell'epoca. Giunto in Cina,
Bodhidharma prese ad insegnare ai saggi, che da tempo professavano la fede
nel Tao, le più segrete e profonde nozioni che il Buddhismo aveva sviluppato in
quegli anni: quelle sulla natura della mente. Il suo compito non era agevole ma,
dato che le sottili cause karmiche erano ormai mature nelle menti dei suoi
ascoltatori, il suo insegnamento prese piede, fu compreso e si propagò abba-
stanza velocemente in tutta la Cina.
Circa due secoli dopo, il Quinto Patriarca Hung- Yen, presentendo che alla sua
morte avrebbe dovuto trasferire il testimone della disciplina, che erano il manto
e la ciotola di Bodhidharma stesso, cercò un erede per afdargli il delicato
compito di tramandare la dottrina dell'Essenza della Mente (punto fonda-
mentale della Scuola Ch'an). Fu costretto a scegliere non il suo discepolo
principale ShenHsiu, che aveva dimostrato di non aver afferrato il vero
significato del Dharma, ma proprio l'umile cuoco analfabeta Hui-Neng (638-
713) che, malgrado la sua presunta mancanza di cultura ed erudizione, aveva
dimostrato apertamente ed efcacemente, con la sua famosa strofa sulla
polvere e lo specchio fatta scrivere da un monaco amico, di avere veramente
compreso il senso dell'illuminazione e il significato della natura della mente (1).
Attraverso la lettura del "TAN-CHING", il sutra che porta il suo nome (2), si può
facilmente ammettere che lo stesso Hui-Neng fu veramente un rivoluzionario
ed innovativo maestro. Infatti, fino ad allora e salvo rare eccezioni, il
Buddhismo in Cina era una filosofia d'élite, in quanto la sua conoscenza era
limitata più o meno alle classi colte, tanto è vero che i maestri formulavano i
loro insegnamenti secondo rigidi schemi ortodossi, assai difcili da
comprendere da persone di ceto umile e popolare. Con Hui-Neng, esponente di
primo piano della cosiddetta "Scuola Improvvisa"(3), le cose incominciarono a
cambiare; il suo linguaggio efcace e diretto non solo poteva essere "digerito e
familiarizzato" anche dai ceti sociali meno dediti all' erudizione ed ai lunghi
studi ma, anzi, fu assimilato ed interiorizzato in maniera così positiva da
riuscire a generare subito un folto stuolo di seguaci e discepoli che, dopo il
ripetuto ascolto dei suoi insegnamenti e dei suoi moniti, di solito raggiungeva
velocemente lo stato della illuminazione.
Fu per questo motivo che la scuola venne chiamata "Improvvisa", poiché i
precisi insegnamenti sulla Essenza della Mente, sullo sviluppo
della Prajna (Saggezza), sul pentimento per le azioni non-
morali (Shila), sull'abbandono degli stati illusori della mente, sulla disidentifi-
cazione da tutto ciò che non è Reale ed infine sul riconoscimento della nostra
propria natura di Buddha, avevano prodotto effetti tangibilmente positivi e
liberatori e, secondo il mio pensiero, potrebbero produrre ancora lo stesso
effetto anche nella nostra epoca e nella civiltà in cui viviamo. Si deve notare,
tra l'altro, che questo aspetto della dottrina Ch'an fa da filo conduttore a tutta
la linea di trasmissione del Buddhismo Zen, sia Rinzai che Soto, e si può
ritrovare, quasi identico, in altre filosofie esoteriche non-dualiste sia buddhiste
(come lo Dzog-Chen e la Scuola Mahamudra nel Tibet) che non-buddhiste. Per
esempio, la dottrina dell'Advaita-Vedanta di Shamkara, pur rifacendosi alla
matrice upanishadica induista, non è molto lontana dalla
particolare Sadhana (metodo di pratica per il Risveglio) di Hui-Neng, né dai
risultati a cui essa perviene, tanto è vero che lo stesso Shamkara dagli Induisti
delle scuole dualiste era chiamato "Il Buddhista travestito" (Pracchanna
Bauddha). Infatti, così come per la scuola Dhyana, anche per la visione
filosofica Advaita (Non-dualista) la natura dell'illuminazione è già presente
nell'Essere e va soltanto riconosciuta e svegliata, naturalmente con un
fortissimo convincimento ed un altrettanto forte distacco dai condizionamenti
delle dodici ayatana (le porte dei sensi, soggettive ed oggettive).
Certo, il training per purificare i klesha (difetti mentali) non è né breve né
facile; però, se lo si conduce nel giusto modo e se le cause karmiche positive
della nostra mente sono al punto esatto di maturazione, ecco che "svegliarci" a
noi stessi diventa veramente un fatto improvviso! Così come, al mattino,
passiamo "improvvisamente" dallo stato di sogno allo stato di veglia ed
immediatamente c'è una presa di coscienza di noi stessi, tanto che non occorre
che qualche istante per trovare la nostra identità, anche se durante il sonno
non avevamo più coscienza di questo aspetto della nostra esistenza! D'altra
parte, lo stesso Hui-Neng dice, testualmente, nel suo Sutra: «Alcuni uomini ot-
terranno l'Illuminazione molto più velocemente di altri. Per esempio, questo
sistema per realizzare l'Essenza della mente è al di là della comprensione delle
persone ignoranti. Possiamo spiegarlo in diecimila modi, ma tutte queste
spiegazioni potrebbero essere fatte risalire ad un solo principio. Per illuminare
la nostra mente oscurata, macchiata dalla contaminazione, dobbiamo tenere
costantemente accesa la luce della Saggezza» (4).
Infatti, se, avendo delle notevoli capacità intuitive, si riesce a comprendere
tutte le istruzioni per accendere la luce nella mente ma non si è abili nel
mantenere una costante e assidua concentrazione su questa luce, oppure si
ritiene di poterlo fare solamente in certi momenti, in certi ambienti o con certe
posizioni, allora la lotta è estremamente dura e ci sono ben poche possibilità
per una riuscita! La buia oscurità dell'illusione, pur se momentaneamente e
leggermente rischiarata, ritornerà prepotentemente a ricoprire lo spazio
mentale a fatica appena depurato e la lotta potrebbe ancora durare
innumerevoli eoni cosmici mentre noi, intanto, continueremo a far i conti con
questo samsara alimentato di continuo dalla rigenerazione di quel buio.
Nell'insegnamento della "illuminazione improvvisa" si puntualizza, anche, che
gli insegnamenti del Buddha sono una provvida mano che ci aiuta a tirarci fuori
dalle sabbie mobili dell'esistenza ciclica e che, quella mano, dovrà essere
afferrata assai strettamente e non mollata mai più, altrimenti la morsa fatale
del vischioso fango, rappresentato dalla nostra mente contaminata, persisterà
nell'inghiottirci momento dopo momento, sogno dopo sogno, vita dopo vita ed
eone dopo eone. La Grande Compassione di Hui-Neng (e di tutti i Vittoriosi che,
come Lui, ci porgono la loro mano) si manifesta come un appello diretto alla
mente, un faro luminoso che ci permette di accostare senza pericolo ed in
maniera rapida alla sponda della Liberazione, anche se però spetta a noi
cogliere ed assimilare questo messaggio, integrandolo e praticandolo con
serietà ed assiduità.
Se noi non abbandoniamo definitivamente la cocciuta adesione alle chimere
dell' esistenza (attaccamento), non potremo poi essere esentati dai temuti
affanni collaterali (sofferenza). Altre parole di Hui-Neng ci dicono: «Quando la
vostra mente è contorta e presa dagli affari del mondo, voi siete degli esseri
comuni con la natura di Buddha latente ed inconoscibile. Al contrario, quando
dirigete la vostra mente verso la purezza e la semplicità allora sì: siete
veramente dei Buddha!» (5). C'è un grandioso elogio alla capacità di
conoscenza dell'uomo, nel Sutra, che ritiene che l'Essenza della Mente è
grande come lo spazio, poiché può contenere e conoscere tutte le cose
(onniscienza), ma gli stolti la riempiono di desideri futili e concetti illusori;
pertanto essi si allontanano dalla Prajna e, poiché sprecano la conoscenza, non
potranno ottenere l'Illuminazione. Si desume, ancora, dalle parole del Patriarca,
che la Conoscenza è la base della Liberazione. Premesso che senza conoscenza
non c'è salvezza, è opportuno precisare che la stessa Conoscenza deve,
comunque, venire riconosciuta, accettata ed assimilata. Le persone ordinarie
che non entrano in contatto con la Conoscenza, anche se vivessero una vita
morigerata e priva di condizioni sfavorevoli, dopo la loro morte rinascerebbero
comunque in ulteriori forme di esistenza, perché fondamentalmente ignoranti
della Saggezza Trascendente. Mentre tutti gli individui che, per loro fortuna,
vengono a conoscenza delle profonde verità del Dharma, purché non le rifiutino
o ne siano scettici e dubbiosi, possono aspirare, con la messa in pratica di
questa Conoscenza, all' abbandono dello stato di schiavitùe quindi alla
Liberazione.
Lo stesso Bodhidharma, con riferimento alla conoscenza, aveva così risposto al
suo maestro Prajnatara: "Tra tutti i gioielli; il gioiello della Verità è il supremo...
tra tutti gli splendori; lo splendore della Saggezza è il supremo... tra tutte le
chiarità, la chiarità della Mente è la suprema. Lo sfavillìo di questo gioiello non
può sfolgorare di per sé stesso, ha bisogno che la luce della conoscenza ne
discerna lo sfavillìo... Il gioiello non è un gioiello in sé stesso perché abbiamo
bisogno del gioiello della conoscenza per riconoscerlo come un gioiello in senso
mondano!" (6). La concezione del lasciare la mente nella sua condizione
naturale, libera di "andare e venire" è, per la Scuola Improvvisa, una regola di
somma saggezza e praticità. Proprio la meccanicistica tendenza di "fermarsi"
sulle idee, i pensieri, le congetture e i giudizi porta la stessa mente ad
appesantirsi e "fuorviarsi", restringendo così la capacità della Prajna di poter
osservare silenziosamente e lucidamente gli eventi mentali in modo distaccato
e non-coinvolgente. La mente "coinvolta" nei fenomeni non riesce più ad
esimersi dall'invischiarsi nelle interpretazioni egoiche e dualistiche e, quindi,
costringe inevitabilmente l'individuo a commettere azioni personalistiche e
gravide di negative contaminazioni karmiche.
In conclusione, si può ben dire che il poderoso e fronzuto albero dello Zen
debba tutto il suo rigoglio alle profonde radici del sommo pensiero di Hui-Neng
e della Scuola Dhyana, avendo aperto nuovi e proficui sbocchi per lo sviluppo,
la propagazione e la continuità del Dharma Buddhista in ulteriori estesi aspetti.
Il Dharma ha potuto così indirizzarsi ai vari tipi di forme mentali, rivelando,
altresì, una sorprendente validità ed attualità anche per gli individui del nostro
tempo che, a prezzo però di una dedizione non comune, possono annullare di
colpo i terribili effetti dell'ignoranza e unirsi spiritualmente, nel silenzio dei loro
cuori ed in perfetto incognito, alla purissima e ininterrotta linea di Trasmissione
del saggio Hui-Neng e della sua Scuola Improvvisa.
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Note:(1) "Non vi è albero della Bodhi / Né sostegno di uno specchio
lucido. / Poiché tutto è vuoto, / Dove mai può poggiarsi la polvere?".
(2) Il Sutra di Hui-Neng, Ubaldini Editore, Roma 1985.
(3) Un vero e proprio trattato sulla "Illuminazione improvvisa" era stato
composto da Tao-sheng, vissuto fra il 360 e il 430, uno dei fondatori del
Buddhismo Cinese (vedi LEONARDO ARENA, Storia del Buddhismo Ch'an, Oscar
Mondadori, Milano 1992, p. 65, n.d.r.).
(4) Il Sutra di Hui-Neng, op. cit., p. 37.
(5) Op. cit., p. 117. .
(6) KEIZAN, Lo Zen nell'Arte dell'Illuminazione, Ubaldini Editore, Roma 1993, p.
114.
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LA PREPARAZIONE (GRADUALE)
alla ILLUMINAZIONE IMPROVVISA
Di Alberto Mengoni (Pubblicato sul Periodico Buddista "PARAMITA"
n.54 di Aprile 1995)

Il concetto di ottenimento della cosiddetta Illuminazione Improvvisa contiene,


normalmente, l'idea implicita di una folgorante rivelazione, di una istantanea
intuizione della vera Realtà delle cose e di un riconoscimento immediato e
lampante della Natura della mente. In effetti, dalle numerose esperienze
tramandateci dai tanti Illuminati attraverso la ricchissima bibliografia spirituale
di cui si può venire a conoscenza (in special modo di matrice orientale), è
possibile certamente riconoscere che la precisa descrizione dell'evento di
una Illuminazione istantanea corrisponde pressoché esattamente all'idea che ci
si era prefigurata, e cioè ‘all’improvviso’, risultando inoltre assai probabile, anzi
possibile, quando si sia presa naturale dimora in una condizione di vita e di
pensiero particolarmente idonea e favorevole all'insediamento di una duratura
calma mentale e di una penetrante visione profonda. Naturalmente l'evento
non è da ritenersi molto frequente; anzi, poiché la maggior parte dei ricercatori
spirituali e, sopratutto, degli intellettuali eruditi, trova grande difcoltà o
addirittura impossibilità di percepire entro di sé quello Stato puro, silenzioso e
immobile della Coscienza, ecco che molte volte viene messa in dubbio, o
peggio criticata e rinnegata, una probabile eventualità di questo tipo che può
arrivare in modo del tutto naturale e spontaneo in altri individui meno
complicati, anche se ovviamente assai rari. Dovranno esservi però delle precise
condizioni, quasi dei passaggi obbligati, afnché l'evento possa accadere ma,
in fondo, dato che esso viene indicato come il vero "Stato dell’Essere" ed anche
come la ‘Reale Natura’ dell'uomo, non è affatto da ritenere impossibile che in
un momento di assoluto silenzio mentale la Verità di "Ciò che realmente siamo"
possa emergere in noi, improvvisamente e chiaramente, con la velocità di un
lampo, nella luce di quella Coscienza che noi tutti incarniamo!
Il saggio Charles Luk (Lu K'uan Yù), contemporaneo scrittore e ricercatore
Cinese, suggerisce che: "Ciascun uomo è dotato della potenzialità interiore per
poter conoscere ed assorbire la verità, ma questa non può essere attivata fino
a quando la mente non viene liberata dai suoi legami con il fenomenico. Nè la
più grande dottrina né la più vasta conoscenza dei Sutra possono raggiungere
questa potenzialità, il cui destarsi è possibile soltanto quando un individuo
riesce a porre fine alla concatenazione dei propri pensieri. E quando tale
potenzialità è destata, qualunque causa concorrente è sufficiente a
determinare il Risveglio." (da "Ch'an e Zen"- Ed. Mediterranee-Roma- pag.
151). Quindi, si comprende benissimo che la potenzialità, purché
autenticamente curata, è come un prezioso seme che, in concomitanza di
concause favorevoli (come, per esempio, la vera fede, il vero sforzo
entusiastico, la vera calma mentale e, in definitiva, la vera saggezza) dove
sbocciare, necessariamente, nella più pura e genuina Illuminazione Improvvisa.
Questa, poi, altro non è che il riconoscimento della precedente falsa
identificazione con qualcosa di non-reale, qualcosa di immaginario che faceva
credere ad una assurda esistenza illusoria personale, carica di preconcetti,
quali felicità e sofferenza, bene e male, libertà e schiavitù, con conseguenti
tentativi di far permanere le condizioni positive a scapito di quelle negative.
Tentativi e sforzi direzionati, vita dopo vita, verso la continua ed estenuante
ricerca di una presunta 'Liberazione', anch'essa purtroppo altrettanto illusoria
quanto chimerica.
Se qualcuno, comprendendo bene gli insegnamenli relativi, riuscisse almeno
una volta ad abbandonare tutti i concetti e a dimorare in pace nel proprio
inconscio, non avrebbe più bisogno di inseguire nulla. Costui sarebbe subito,
automaticamente, quello che gli altri individui chiamarebbero ‘Illuminato’,
mentre per lui non esisterebbero più significati di questa o qualsiasi altra
condizione! Non a caso, lo stesso Professor D.T. Suzuki, scrivendo in merito ai
"Detti di Shen-Hui", che parlano dell'inconscio della Coscienza, testualmente
riporta: "Non essere legato alla forma significa Essenza. Che cosa s'intende per
Essenza? Si intende l'Inconscio. Che cos'è l'Inconscio? E' il non pensare
all'essere e al non-essere; è non pensare al bene e al male; è non pensare di
aver limiti o di non aver limiti; è non pensare alle misure (o alle non misure); è
non pensare alla illuminazione, nè pensare di essere illuminati; è non pensare
al Nirvana, né pensare di raggiungere il Nirvana: questo è l'Inconscio.
L'Inconscio non è altro che il Prajnaparamita stesso!" (da "La Dottrina Zen del
Vuoto Mentale" -Ed. Ubaldini - Roma - pag.52).
Anche nella tradizione Advaita-Vedanta vi sono innumerevoli riferimenti al fatto
che, una volta eliminati gli ostacoli che velano la verità alla mente, si è
immediatamente in grado di percepirla in tutta chiarezza. Nisargadatta
Maharaj, sublime rappresentante Indiano di questa tradizione, ha più volte
stigmatizzato la relativa difcoltà ed insieme facilità, per un ricercatore
autentico, di cogliere nel segno nei riguardi di una improvvisa illuminazione,
purché si tolga la spina alla corrente mentale e ci si ponga in silenzioso ascolto
della 'Coscienza che parla della Coscienza alla Coscienza' gettando via ogni
idea di sé e delle proprie false concettualizzazioni. Egli afferma: "Una volta che
si vede il falso come falso non è necessaria alcuna ulteriore ricerca della
Verità..."(da 'Nessuno nasce, Nessuno muore!'- Ed.Il Punto d'Incontro - Vicenza-
pag.150), e continua ancora: "E' questo illusorio considerarsi un'entità e non
semplicemente l'identificazione con il corpo, che è alla radice della schiavitù".
(ibidem, pag.151). E inoltre egli prosegue, confermando: "Questa
comprensione non è questione di tempo… e, quando avviene, avviene
improvvisamente, come un lampo di comprensione al di là del tempo… Una
volta che questo seme di comprensione ha messo radici, il processo del
riscatto relativo all'immaginaria schiavitù può prendere avvìo ma la
comprensione stessa è sempre istantanea" (ibidem, pag.161). Ed infine
conclude: "Il percepire è il totale funzionamento dell'Assoluto; il percepire è ciò
che voi siete! L'universo che appare alla coscienza è un'immagine nello
specchio in cui ogni essere senziente si riflette, vale a dire che la coscienza è
la sorgente stessa dell'universo apparente. La coscienza non è diversa dal suo
contenuto manifestato… La profonda comprensione intuitiva di questo fatto è il
solo ed unico 'Risveglio', o 'IlIuminazione', la sola illusoria 'Liberazione' da una
illusoria schiavitù, il risveglio dal sogno-vivente!" (ibidem, pag.195-196).
Si deduce in modo evidente, quindi, che l'Illuminazione Improvvisa
obbligatoriamente non deve essere un qualcosa di ideale razionale o una
qualche 'promozione' personale definitiva come forse erroneamente si
potrebbe essere indotti a pensare, poiché se è vero che il lampo di intuizione
elimina di colpo il buio dell'ignoranza metafisica, gli effetti della stessa
ignoranza, anche se ridimensionati, potrebbero purtroppo continuare ad agire
per la forza del 'Prarabdha-karma' ed in questo caso la mente purificata
potrebbe ottenere il frutto finale solo al momento della morte fisica!.
Ciononostante, il riconosciuto risveglio (proprio come il risveglio da un sogno
notturno) mette drasticamente e totalmente fine alle illusioni ed alle erronee
identificazioni, determinando sopratutto la cessazione dei bisogni di
appoggiarsi od attaccarsi ancora a qualcosa, fosse pure l'intima speranza in
una qualche malcompresa liberazione! E così, come si dice che sia l'ultima
goccia a far traboccare un vaso colmo, allo stesso modo è l'ultima goccia di
comprensione che fa cadere il fondo del barile pieno di lacca nera (allocuzione
Zen che si riferisce alla mente cogitante).
Da ciò si desume, perciò, l'esistenza di una sorta di cammino preparatorio e
graduale verso l'istantaneità dell'Illuminazione Improvvisa, riconducibile alla
individuazione di qualsiasi nostro sia pur piccolo movimento spirituale, ogni
nostra esperienza mistica, ogni nostra pratica purificatoria che, in definitiva,
non sono altro che piccoli passetti che ci conducono verso quel "momento-
senza-tempo" in cui capiamo l'inutilità di ulteriori altri movimenti, avendo ormai
finalmente riconosciuto la falsa identificazione di 'colui' che veniva ritenuto
essere l'agente. Una sottile descrizione di questa fase di preparazione, nel
senso di passaggio graduale dall'azione volitiva all'azione spontanea, si coglie
nelle parole di Han Shan, Maestro Cinese del 17° secolo, di cui Charles Luk
catalogando le tre fasi della Meditazione da lui chiamate 'Dhyana mondano,
Dhyana ultramondano e Dhyana Supremo' così ci riferisce: "Quando in un
lampo Ia mente folle si arresta, gli organi interni e tutti gli oggetti esterni
vengono percepiti completamente, mentre il corpo, caprioleggiando, colpisce e
frantuma lo spazio, così che I'ascesa e Ia caduta di tutte le cose vengono viste
senza preoccupazione" (da 'Buddhismo Pratico' - Ed. Mediterranee- Roma,
pag.78). Questa allegorica descrizione della fase intermedia fa capire che,
praticando assiduamente e nel giusto modo una continua contemplazione del
proprio stato mentale, di sicuro qualcosa è destinata ad accadere, per cui non è
pensabile che attraverso una comprensione soltanto intellettiva e razionale
chicchessìa possa aspirare alla vera Conoscenza. Pertanto il compito della
meditazione, che non ha limiti di durata ed i cui effetti nel tempo sono stabiliti
dal livello karmico e sottile di ciascun ricercatore, è quello di fungere da
'processo graduale' che, insieme alle cause concorrenti presenti sotto forma di
potenzialità intuitive, determina il germoglio del seme della Comprensione, che
in seguito andrà curato ed irrorato amorevolmente per stabilirne una
irrevocabile permanenza e una inequivocabile condizione costante in cui risulti
impossibile il ritorno abituale dell'illusione e dell'ignoranza mentale.
Nel "Gatha di Manjusri" del Surangama Sutra, viene ben spiegata tutta la
sequenza dell'autosviluppo coscienziale attraverso le varie fasi della
meditazione, partendo dall'osservazione dei fenomeni materiali esterni e degli
aggregati grossolani interni fino a giungere alla percezione delle loro
sottigliezze essenziali (o essenze sottili). Ancora, Charles Luk descrive questa
sequenza quasi interamente, con precisi commenti che diventano veri
insegnamenti per una preparazione 'graduale' verso il puro Stato della Mente
Ch'an (o Mente Risvegliata), nel suo Iibro "I Segreti della Meditazione Cinese"
(Ed.Ubaldini -Roma - pagg. 34/44) e ne conclude, in un altro libro, l'effetto
finale, con parole che furono pronunciate dallo stesso Buddha:
"Nell'assoluta purezza, la luce fulgida pervade tutte le cose,
"Con la sua splendente immobilità avvolge il grande vuoto.
"Le cose del mondo, quando le si osserva attentamente,
"Non sono altro che mere illusioni vedute in un sogno!..."
(da 'Buddhismo Pratico' -Ed. Mediterranee -
Roma, pag.114)
In conclusione, si può ben sostenere che la condizione (o Stato) in cui ci si
riconosce dopo la cosiddetta Illuminazione Improvvisa è senza dubbio alcuno lo
Stato Reale, fuori dal sogno, mentre tutto il processo graduale deve, appunto,
essere riconosciuto come il sogno, o almeno come una sua sfumatura, per cui
tutti noi esseri senzienti che stiamo sottoponendoci 'gradualmente' allo sforzo
per l'ottenimento della Liberazione dal samsara stiamo semplicemente ancora
'sognando' ed è da ritenersi del tutto normale che fintanto che si resta nel
'sogno' è impossibile concepire (e quindi accettare e comprendere) lo stato
risvegliato 'fuori dal sogno'. Ma questo dato di fatto non ci concede il diritto o la
presunzione di negare o rifiutare (o anche soltanto mettere in dubbio) la
veridicità dell'elemento di potenzialità, il seme di Buddità presente in tutti noi,
sostenuto da Coloro che non "sognano" più. Tanto più che, così come ogni
mattina ci si sveglia naturalmente dall'ordinario stato di sogno notturno,
altrettanto dovrà avvenire alla nostra mente se ci mettiamo a lavorare
nell'auto-contemplazione; in questo caso sarà perciò impossibile, prima o poi,
non risvegliarsi dalla condizione samsarica prodotta dall'ignoranza, in quanto
già solo sapendo di essere metafisicamente 'addormentati' si potrà essere
molto più attenti e consapevoli durante la nostra vita quotidiana. Afdandoci ad
un esperto insegnante, attuando con costanza un'accurata meditazione, un
ascolto intuitivo degli insegnamenti di Dharma e applicando la consapevolezza
precisa che si genera da questa nuova saggezza coscienziale, sapremo cogliere
al volo quel "momento-senza-tempo" che alla fine ci risveglierà
"all'improvviso", e in maniera finalmente definitiva! . 
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Il "Ragionamento" di Chandrakirti
come pratica meditativa- di + Cristina Martire + -
(Pubblicato –dopo il suo decesso - su PARAMITA n. 56 – Ottobre
1995)
Presentazione di Alberto Mengoni:- La traduzione del testo di
Joe Wilson sul "Settuplice Ragionamento di Chandrakirti" che il
brano qui riportato ci presenta (e che viene pubblicato dalla
Edizioni Chiara Luce di Pomaia), si è rivelata purtroppo un
drammatico presagio nonché una sorta di preparazione
all'esperienza terminale di abbandono del corpo da parte della
stessa traduttrice Cristina Martire; infatti la sua estrema sensibilità
ha raggiunto l'apice della pratica spirituale proprio nella
compassionevole forma di discrezione ed umiltà ed ha coinciso con
la volontà di tradurre questo significativo testo e di desiderarne la
pubblicazione per il bene degli esseri senzienti.
Subito dopo, affrettandosi nella composizione al computer del
dischetto, quasi presentisse la scarsità di tempo a disposizione,
venne colpita dal crudele male che in pochissimo tempo e vanificati
i pochi interventi possibili, la rubò al nostro affetto e a questa vita
terrena. Con la stessa serenità, pacatezza e riservatezza con cui
visse la sua breve esperienza di vita, se ne è andata in punta di
piedi; quasi temesse, come era suo costume, di dare
preoccupazioni a tutti noi.
Chi l'aveva conosciuta, me per primo che sono stato suo compagno
di vita e di Dharma per dieci anni, ha potuto apprezzare la
delicatezza della sua persona, la dolcezza del suo carattere e
l'estrema generosità della sua pratica spirituale. Era, anche, una
notevole anima artistica: molte sue opere pittoriche, in stile
mandalico, sono conosciute solamente dai suoi amici più intimi, in
quanto la sua estrema riservatezza le rendeva difficile proporsi e
farsi conoscere sotto questi aspetti. Il dolore che ha colpito tutti per
la sua scomparsa, viene in qualche modo lenito dalla
consapevolezza della serenità e forza d'animo dimostrata da lei
durante tutto il periodo tra la manifestazione del male e la sua
dipartita (poco più di un mese in tutto), in cui è rimasta
costantemente e quietamente consapevole e mite. lo stesso ne
sono rimasto enormemente impressionato. Ho ricevuto un
pregevole insegnamento ed un grandissimo esempio sul modo di
affrontare la morte, quale non avrei potuto ottenere malgrado tutti i
libri da me letti sull'argomento. Sono convinto che le istruzioni
contenute nei vari testi Tibetani inerenti al bardo della morte sono
state rammentate e interpretate in modo magistrale da questa
piccola, grande praticante e che la sua mente purificata ci aiuterà e
ci proteggerà, dalla sua dimora celestiale, stimolandoci a
continuare la pratica corretta del Dharma e a proseguire verso il
raggiungimento dell'illuminazione, per il bene di tutti gli esseri
senzienti, come ha fatto lei nel segreto del cuore, malgrado la sua
breve esistenza.
La Fondazione Maitreya, di cui Cristina era dirigente attiva e la
rivista Paramita, la ricorderanno sempre con amore e con l'attesa
che possa tornare, per continuare la sua opera di Bodhisattva, con
il conforto di una preziosa e fortunata rinascita.
OM! GATE GATE PARAGATE PARASAMGATE BODHI SVAHA!
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Ad un primo, superficiale approccio, il procedimento del Settuplice
Ragionamento scritto da Chandrakirti a commento di Nagarjuna può
apparire forzato oartificioso. Tuttavia, al di là del fatto che le analisi
proposte si avvalgano di ragionamenti logici e richiedano operazioni
concettuali, esse hanno il valore e la potenza di una vera e propria
meditazione introspettiva. Gli stessi filosofi seguaci del Madhyamika
(Prasangika), da Buddhapalita a Tsong Khapa, fino a Jang Kya,
hanno avuto la premura di puntualizzare che lo scopo primario e
specifico dei Ragionamenti è quello di guidare la mente verso la
liberazione dal samsara, dall' errore, dalla sofferenza; secondo le
parole dello stesso Chandrakirti, infatti, "sono insegnamenti che
riguardano la realtà" (Supplemento VI, 118ab). La loro funzione non
è quella di intrappolare la mente in un gioco di rafnati sofismi fini a
se stessi, né quella di enunciare semplici verità in complicate
formule logiche. Ma, attraverso lo studio attento e la ripetuta
meditazione introspettiva, chiarire progressivamente ed eliminare
uno ad uno i dubbi e le tendenze ad aderire a visioni distorte della
realtà.
L'oggetto della meditazione, l'oggetto di osservazione, l'oggetto
della negazione vanno ricercati dirigendo l'attenzione verso
l'interno, verso un modo di concepire (che è dapprima quello della
mente condizionata dall'errore), più che verso la concezione stessa.
Alla base della corretta percezione vi è la facoltà che discrimina tra
vero e falso, tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Sulla strada della
verità, che è anche quella della virtù, si procede eliminando
dapprima gli errori più grossolani e gradualmente quelli più sottili,
ed il primo, grossolano errore che affronta colui che aspira a
realizzare la verità è quello della "permanenza", cioè la visione
eternalista, insieme al suo opposto, il nichilismo.
L'eternalismo, quando si riferisce alla persona, è una convinzione
creata in modo artificiale, elaborata dall'intelletto, che scavalca la
stessa esperienza empirica, prendendo a sostegno dottrine o
sistemi filosofici che propongono l'esistenza eterna ed assoluta
della persona nella propria individualità e separatezza. Poiché, se-
condo l'esperienza condivisa da tutti, le persone muoiono e non
sono affatto eterne, per sostenere una tale idea è necessario
affermare un' essenza individuale diversa da ciò che nella persona
costituisce l'aspetto deperibile, un principio distinto dal composto
psicofisico, a cui viene dato il nome di 'Sé'. La convinzione nell'
esistenza di questo sé a cui si attribuisce un carattere di eternità,
immutabilità (o permanenza) e diversità (o indipendenza) dal
composto psicofisico è la prima ad essere 'smontata' dal
ragionamento discriminativo. Anche la concezione di tipo innato,
ovvero l'adesione al modo in cui i fenomeni appaiono alla nostra
mente ignorante, costituisce una tendenza all' eternalismo, perché
alla nostra percezione innata i fenomeni non appaiono nel loro
continuo mutamento, ma stabili, concreti e dotati di proprie
caratteristiche immutabili.
Il nichilismo è la tendenza contraria, ed è lontano dal concepire
l'autenticità dei fenomeni quanto l'altro estremo dell'eternalismo. È
anch'esso un'idea intellettuale, che eccede col negare anche la pura
e semplice apparenza di esistenza dei fenomeni. Sorge come
reazione all'eternalismo, ma non si può considerare un antidoto di
quello, in quanto le conclusioni a cui conduce al livello del
comportamento come l'abbandono dell'etica e la non applicazione
nelle azioni virtuose - sono ostacoli sulla via della liberazione,
mentre l'immediata adesione all'apparenza di concretezza e
stabilità dei fenomeni non ne viene indebolita.
Tuttavia è inevitabile che fino a quando la corretta 'visione di
mezzo' (Madhyamika), ovvero la comprensione del modo in cui i
fenomeni propriamente esistono, non venga pienamente realizzata,
la tendenza a cadere nell'uno o nell'altro dei due estremi è sempre
virtualmente presente nelle sue forme grossolane o sottili, artificiali
o innate. Occorre identificare esattamente l'errore insito nel nostro
modo di concepire l'esistenza, sia in relazione a quello che
consideriamo l"oggetto' dell' esperienza percettiva, ovvero i feno-
meni esterni e interni al continuum individuale, sia in relazione al
'soggetto', ovvero l"io', la persona stessa.
L'errore innato implicito nella concezione di una realtà concreta
dell'esistenza è il medesimo riguardo al soggetto e all' oggetto;
tuttavia nel processo meditativo la ricerca inizia con l'analisi volta a
verificare la fondatezza di tale concezione specificatamente
riguardo all'io o alla persona. Tale specifica concezione prende il
nome di 'concezione del composto transitorio'. Per 'composto
transitorio' si intendono i fattori fisici e mentali, riferiti al
singolo continuum di ciascun essere senziente, a cui si attribuisce il
nome di 'io', 'persona', 'individuo' o 'essere senziente'. 'Transitorio',
oltre che mutevole, sta ad indicare instabilità e non-durevolezza. È
come dire che è un composto 'scomponibile', o, più precisamente,
che va scomponendosi ad ogni istante. Relativamente a questa
concezione, l'organismo psicofisico costituisce il polo oggettivo; il
'sé' o 'io' corrisponde al polo soggettivo.
Tutte le idee e i concetti che formuliamo riguardo al nostro proprio
‘sé’ derivano da un'innata, istintiva convinzione che
questo sé esista in un modo concreto, pressocché tangibile. Questa
convinzione non viene mai profondamente analizzata o messa in
discussione, ma convenzionalmente accettata e data per scontata;
ma se ci si chiede se questo sé, o io, corrisponda esattamente all'
organismo psicofisico, oppure se sia diverso da questo, magari
superiore ad esso, quale padrone, possessore o colui che ne
dispone, qualsiasi risposta si rivela alquanto contraddittoria.
Nel Settuplice Ragionamento vengono successivamente affrontate e
confutate (attraverso il procedimento proprio della scuola
Prasangika, la cosiddettareductio ad absurdum) tutte le varie possi-
bilità di una presunta esistenza 'inerente' del ‘sé’, che sono tutte
varianti dei due aspetti primari: l'assoluta identificazione del sé con
le componenti psicofisiche o la sua assoluta estraneità. Il primo di
questi due aspetti consiste nell'innata, istintiva identificazione con
una o più parti del complesso fisico-mentale, ed è facilmente
riconoscibile ed individuabile quando, ad esempio, si afferma 'io sto
male' se una parte del corpo è malata, o 'sono contento' se sorge
una sensazione di benessere.
Il secondo aspetto, pur essendo una convinzione fondamentalmente
artificiale che corrisponde, come si è visto, al concetto eternalista di
un sé permanente, distinto dalle componenti psicofisiche, ha una
sua forma innata nel senso di un io semi-autonomo, che partecipa
della stessa natura delle componenti, ma non ne condivide tutte le
caratteristiche. (Così esso avrebbe, per esempio, una produzione,
durata e disintegrazione diverse da quelle delle componenti, come
a dire che non nasce e non muore insieme con le componenti).
L'ambiguità della definizione è il risultato della falsità del presup-
posto secondo cui qualcosa che è considerato equivalente alle sue
parti è anche, in qualche modo, diverso da esse. Tale presupposto
innato, non ragionato, si esprime, per esempio, nel pensiero 'il mio
corpo', che implica l'idea di un ‘io’ che possiede un corpo e dispone
di esso, come se fosse qualcosa di distinto che lo precede, e che
può essere riconosciuto e individuato a prescindere dal corpo;
mentre, al contrario, di fatto è l'idea dell'io che sorge sulla base
dell'idea del corpo (e/o delle altre componenti).
Continuando ad investigare la natura dell'io, vengono in luce
ulteriori modalità o possibilità di errore nella concezione
dell'individuo o del sè. Poiché, comunque, tutte rientrano nei due
aspetti di identità o diversità dalle componenti, la loro negazione
risulta dalle stesse confutazioni di quegli aspetti. A questo punto si
perviene alla constatazione di come l'idea di un sé personale sorga
in relazione alle componenti, e sia inoltre sostenuta ed alimentata
dalla convinzione della concretezza di realtà delle componenti
stesse.
Poiché anche per queste, comunque, come per qualsiasi fenomeno,
sono applicabili i ragionamenti che ne negano la sostanzialità,
proseguendo nella meditazione si perviene alle stesse conclusioni
anche per quanto riguarda qualsiasi fenomeno sia esterno che
interno al continuum individuale, come il corpo, le sue singole parti,
la mente e i suoi vari fattori e modalità, e ancora oltre: fino ad
analizzare le infinitamente minuscole particelle di materia, e gli
infinitamente brevi momenti di coscienza, realizzando che niente di
tutto ciò possiede di per sé una realtà concreta e definitiva, ma ogni
fenomeno esiste in relazione e in dipendenza da un qualcosa, che a
sua volta non può essere definito né la stessa cosa né qualcosa
d'altro.
Così, attraverso l'analisi e il ragionamento discriminativo, il sistema
percettivo e concettuale che tiene in vita il sé illusorio comincia a
venire smantellato. L'investigazione analitica penetra
nell'automatismo di apparenza/reazione inserendovi fasi di
autosservazione e introspezione, che gradualmente decondizionano
il sistema. Istinti, preconcetti, immagini ideali e falsi presupposti,
sulla cui base si stabilisce la nostra concezione dell' esistenza,
perdono progressivamente valore e credito, e, nella misura in cui si
rafforza la convinzione al livello concettuale o deduttivo, il pensiero
analitico diventa sempre meno necessario, lasciando il posto alla
pura e diretta percezione del ‘non-io’. A quel punto scompare la
distinzione dualistica tra soggetto e oggetto ed emerge il modo in
cui i fenomeni esistono, la loro vacuità… ---###
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L'esperienza terminale nel Dharma di
Alberto Mengoni
(Pubblicato su PARAMITA n.58 di Gennaio 1996)
È questo, con qualche variante, l'intervento tenuto dall’autore al
Convegno di Bioetica sulla Morte, tenuto a Roma il 18 e 19 del
novembre 1995.
Sento il dovere anzitutto di ringraziare tutti i maestri che sono stati
tanto gentili da dare a me e a Cristina, mia compagna di Dharma,
con la parola e con gli scritti dei loro preziosissimi insegnamenti, la
possibilità di trarre da un'
esperienza normalmente triste e angosciosa come la morte fisica un
messaggio pieno di valore e significato, che a lei è servito come un
rasserenante viatico spirituale ed a me come espressione di forza
d'animo per affrontare questa crudele prova, ricavandone, inoltre,
una indicazione precisa e utile per quando verrà il mio momento.
Il poeta sufi Jalaludin Rumi definisce la morte: "un matrimonio con
l'Eternità", e allora si può ben dire che Cristina, che aveva da poco
superato i quarant'anni, ha voluto decisamente sposarsi con quell'
eternità di cui, per tutta la vita, ha rincorso le impronte. Il saggio
tantrico Padmasambhava, in alcuni versi del Libro Tibetano dei
Morti ha scritto, in previsione della sua morte: "Quando il Bardo del
morire sorgerà su di me, abbandonerò ogni desiderio, brama e
attaccamento; entrerò senza distrazione nella chiara luce della
consapevolezza. Lasciando questo composto corporeo di carne e
sangue, saprò così che anche questa è un'illusione transitoria". E
Milarepa, leggendario santo e poeta Tibetano, dichiara nei
suoi Canti: "La paura della nera morte mi ha condotto sulle bianche
montagne; ho meditato sull'incertezza della sua ora, ho raggiunto
la rocca immortale della vera Essenza e il timore si è così dile-
guato".
Noi non possediamo la certezza di questi sublimi esseri, a noi è dato
avere una speranza mentre, nel peggiore dei casi, la nostra mente
si aspetta l'angoscia del nulla! Ma al momento della morte due sole
cose contano: ciò che abbiamo fatto in vita e lo stato mentale in cui
ci troveremo allora. Dice il Dalai Lama: "In punto di morte gli
atteggiamenti con cui si ha lunga consuetudine prendono il
sopravvento e dirigono la successiva rinascita". Quindi lo stato
mentale al momento della morte è decisivo. Ottima cosa sarebbe
aver dato via tutto, sia internamente che esternamente, così che
nell'attimo cruciale si abbia solo il minimo di contenuti mentali
negativi da cui essere afferrati. Prima di morire dovremmo esserci
liberati dall'attaccamento alle proprietà e alle persone care. Non
potendo portare nulla con noi, si dovrebbe dar via in anticipo tutto
ciò che è in nostro possesso, donandolo o destinandolo alle opere di
carità. Come buddhisti, dovremmo considerare la morte un normale
processo, una realtà che fa parte dell' esistenza terrena. Sappiamo
di non poterla evitare e quindi non dovremmo avere motivo di
preoccuparci più di tanto. Tuttavia, volendo fare una buona morte,
dobbiamo prima imparare a vivere bene. Dobbiamo coltivare la
pace nella nostra mente e nel modo di vivere, per poter ottenere,
infine, una morte serena e produttiva.
Ritengo doveroso ricordare la persona di Cristina, che, proprio
facendo suoi i consigli sopra descritti, trascorse i suoi ultimi anni
dando il meglio delle sue capacità e offrendo, con amore
disinteressato, il risultato della sua vita modesta, ma generosa, e
della sua morte compiuta in uno stato di pacifica accettazione. Lo
spontaneo e consapevole abbandono con cui ha affrontato l'ultimo
atto testimonia la sua ferma intenzione di mantenere un' attenta e
fiduciosa serenità, nonché un coscienzioso auto controllo sulle
proprie condizioni mentali, sì da ottenere in cambio un sereno e
composto trapasso.
Poiché il Buddhismo afferma la continuità dell' essere, al di là delle
sue fluttuazioni temporali, la morte non può essere ritenuta una fine
assoluta e ultima, così come non esiste veramente un inizio
chiamato nascita; la morte è un semplice passaggio, che può
sfociare in successivi stati di esistenza. A seconda delle condizioni
in cui la mente si trova all'atto di questo passaggio, diverse pos-
sibilità ci attendono. O gli stati puri e luminosi dei paradisi divini
come entità senza forma; o le rinascite in mondi umani, animali o
infernali, sottoposti ancora al dolore e alla sofferenza; oppure la
eccelsa condizione dello stato di Buddha, come "natura ultima
dell'Essere". Ognuno di questi punti di arrivo è il risultato del
comportamento dell'intera vita, il pagamento karmico dello
svolgersi dei nostri atti e dei nostri pensieri, per cui l'Ars
moriendi non è che il risultato dell'Ars vivendi e del grado evolutivo
coscienziale di colui che affronta questo stato transitorio.
Gli ultimi giorni di Cristina furono segnati da un atteggiamento
paziente ed estremamente altruistico. Prima di entrare nel reparto
di terapia intensiva, non era affatto preoccupata per sé stessa e le
proprie sofferenze, che pure dovevano essere atroci, ma indirizzava
le infermiere verso la sua vicina di letto, che si lamentava. La sua
unica preoccupazione era che le persone care, me compreso, non
avessero a soffrire, quasi chiedendoci scusa dei problemi che ci
arrecava con la malattia. Questo carattere ammirevole, già
spontaneamente dotato per sua natura, è stato rafforzato da anni e
anni di preparazione spirituale, vissuti in umile e riservato silenzio,
con sincera e profonda concentrazione, meditando continuamente
sul significato delle penetranti e segrete istruzioni impartitele dai
suoi maestri e in particolare dai caritatevoli Lama.
Pur essendo una notevole anima artistica, rifiutò con decisione ogni
compromesso gratificatorio, distaccandosi progressivamente dai bi-
sogni affermativi e arrivistici del mondo materialista. La sua
sensibilità creativa fu manifestata solamente agli amici intimi e alla
sua famiglia, a cui lascia le sue opere: rafnate riproduzioni
mandaliche e stupendi paesaggi di incantevoli luoghi da lei visitati.
Il suo altruismo, sempre offerto in modo riservato, fu indirizzato
anche e soprattutto alla propagazione del Dharma buddhista. È
stata membro attivo della Fondazione Maitreya e collaboratrice del-
la rivista Paramita, e molte persone ricordano la sua dedizione e la
sua dolcezza nello svolgimento dei compiti che le venivano richiesti.
Morendo, Cristina ha sicuramente inteso trasmettermi la sua
esperienza di apertura verso questa ignota realtà. Una realtà che ha
come vero scopo l'attenuazione della nostra reazione alla
sofferenza. Nel più profondo spirito buddhista, lei ha voluto indicare
l’esattezza delle Quattro Nobili Verità. Quelle verità che ci spingono
alla ricerca della causa del nostro esistere in questo mondo di gioie
e dolori e della difcoltà di riconoscere il senso di questa realtà.
Dopo tale esempio, la mia stessa conoscenza spirituale acquisita in
decenni di studio, rischiava di risultare soltanto un mero supporto.
O, forse, soltanto adesso potrà cominciare a dare veri frutti.
Cercando di utilizzare il dono del suo messaggio mi sono ripromesso
di condividerlo con chiunque abbia gli stessi intendimenti,
continuando la sua opera, fintanto che avrò il tempo per mettere in
atto l'insegnamento ricevuto.
Infatti, iniziando da vivi a meditare sulla propria morte, così come
lei aveva sempre fatto, si pratica nel modo migliore l'istruzione
spirituale, l'unica veramente in grado di farci affrontare la morte
con serenità. Ma per poter eseguire correttamente questa pratica, si
dovranno abbandonare le illusioni della vita mondana. Non che si
debba lasciare la propria casa o la propria posizione sociale. Ciò che
deve essere abbandonato è la brama verso la ricchezza, la ricerca
egoistica di fama e onori, il bisogno di lodi e fortuna; smettendo di
rifiutare la povertà, l'anonimato, le calunnie e i dispiaceri, quando
questi si presentano. Mantenendo, in vita, la consapevolezza della
morte, si è portati a propendere naturalmente verso la virtù e la
corretta pratica del Dharma. La morte non farà più paura, non
sorprenderà e non sarà causa di rimorsi e rimpianti.
Gli insegnamenti buddhisti tradizionali sostengono che, come le vite
precedenti furono fonte di produzione karmica, altrettanto succede
nella vita attuale. Tutta questa produzione, conosciuta come 'Legge
di Causa ed Effetto'; determina il nostro modo di vivere, di morire e
il tipo di rinascita successiva. Si deve, quindi, prestare molta
attenzione al tipo di qualità karmica che sorge nella nostra mente in
questa stessa esistenza poiché, non potendo modificare il risultato
delle precedenti vite, diventa obbligatorio trasformare e mitigare gli
effetti attuali, specialmente al momento del passaggio da questa
vita ad un'altra. Quando la morte arriva, non c'è nulla che abbia
valore se non le proprie realizzazioni spirituali.
Shantideva, grande pandit Indiano, scrisse nel
suo Bodhicharyavatara: "Quando siamo afferrati dal messaggero
della morte, che valore hanno gli amici e i parenti, le ricchezze e le
proprietà? Solo il merito e la conoscenza acquisiti sono la vera
protezione, ma di ciò gli stolti non ritengono di doversi preoccupare
e quando la morte arriva, sarà troppo tardi per rimediare!". A me
pare che in questo mondo accada proprio così. La maggioranza
degli esseri umani non sa assolutamente nulla di ciò che li aspetta
durante e dopo la morte! Per tutta la loro vita si sono soltanto
interessati a quello che può essere utile per un periodo più o meno
lungo di anni. Pochissimi, invece, si sentono attratti dal mistero del
dopo-la-vita e
sono quindi motivati a cercare la conoscenza di questi territori
ignoti.
Cristina fu sicuramente tra questi. Fin dall'inizio della sua avventura
spirituale aveva studiato, letto e appreso, in gran segreto, il metodo
giusto per riuscire a dominare il terrore e l'angoscia che ci
aspettano al momento del terribile evento. Si impegnò
costantemente nella meditazione e nell' ascolto degli insegnamenti
superiori, avendo ottenuto precise indicazioni sulla realtà dell'
esistenza oltre la morte fisica, nonché assaggi esperienziali di
questa realtà, durante i sogni e il sonno profondo. Poiché era solita
parlare con me del suo lavoro interiore, ho potuto riconoscere lo
stadio avanzato della sua pratica e, quando mi confidò dei presagi
della morte, percepiti tramite precisi segnali vaticinati nei suoi stati
di silenzio mentale, con l'apporto di appropriate indicazioni tratte da
libri segreti, non ho esitato a crederle. Durante la sua malattia e il
suo calvario, ho cercato di starle vicino il più possibile, per aiutarla a
ottenere una buona morte e chiamando al suo capezzale, perché
fosse piamente benedetta, un monaco e un Lama buddhisti, che mi
dettero conferma del suo pacifico stato di serenità e pacatezza.
Secondo il Buddhismo, ogni essere che nella propria mente produce
la forte motivazione di reincarnarsi per aiutare gli esseri verso il
Risveglio viene riconosciuto come bodhisattva. Essi, per lo più, si
incarnano sotto forma di grandi maestri spirituali, assai evoluti.
Talvolta, però, possono anche prendere forma di persone poco
appariscenti, timide e riservate: un bambino, una pia donna, un
mendicante, un comune mortale anonimo che, comunque, opera a
tutti i livelli per il beneficio degli altri, soprattutto manifestando la
verità del Dharma. Noi non sappiamo dove possono nascondersi,
per questo dobbiamo porre molta attenzione nel rispettare tutte le
persone che incontriamo. Il bodhisattva si può riconoscere per la
sua mancanza di aggressività e di volontà offensiva nei confronti dei
suoi simili. Ogni suo comportamento è sempre teso verso
l'Illuminazione e mai verso il proprio personale tornaconto mon-
dano.
Tra i molti benefici che questi Esseri nobili arrecano alle persone
ordinarie, ancora ignoranti della loro natura divina, vi sono quelli
immediati, rappresentati da beni materiali, protezione sociale e
manifestazioni affettive, e quelli, ben più significativi, dello
straordinario insegnamento inteso a rivelarci la nostra vera natura,
il potere immortale della pura Coscienza. Nella raccolta Il sostegno
della Saggezza, il dotto divulgatore del Mahayana Nagarjuna
dice: «La scienza che insegna arti e mestieri è solo una scienza per
guadagnarsi da vivere; ma la scienza che insegna la Liberazione
dalla illusoria esistenza terrena, non è forse quella, la vera
Scienza? ».
Il miglior beneficio che possiamo ricevere da qualcuno è quello che
insegna il perfetto modo di affrontare la morte, attraverso il totale
abbandono della nostra falsa identità con il rilascio del gravame
corporeo, che provoca tanta sofferenza e ancor più ne può
provocare allorché la nostra ignoranza genererà, per la forza del
karma, ulteriori rinascite condizionate. Avremo sempre un
affettuoso ricordo di Cristina e, per non vanificare il suo esempio, a
mia volta io stesso cercherò di prepararmi diligentemente afnché
la tenebrosa morte, sperimentata con paziente e spirituale
partecipazione, possa essere anche per tutti noi quello che il poeta
sufi ha definito "un matrimonio con l'Eternità". ###
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