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Gregory Bateson tra

Filosofia della Mente


ed Estetica
Università degli Studi Roma Tre

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di Laurea in
Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo

TESI DI LAUREA TRIENNALE


IN
Teoria dell’arte e dell’esperienza estetica

Gregory Bateson tra Filosofia della Mente ed Estetica

Relatore: Candidato:
Prof. Paolo Marolda Luca Raucci

Anno accademico 2011-2012


INDICE

Introduzione…………………………………………………..…….……..3
Bio-bibliografia minima .…..…………………………………...……….……...7
Altri cenni biografici…………………….……………………….……....10

Capitolo 1 Gregory Bateson nella Filosofia della Mente

1.1 Un approccio inter-disciplinare al problema mente-corpo…...……..13


1.2 Da Ludwig Wittgenstein al primo esternalismo…………..….…......18
1.3 Le prospettive dell’esternalismo………………………………….... 20
1.4 Premesse e risultati delle neuroscienze………………………….......23
1.5 Le neuroscienze tra archeologia e antropologia……………….….....27

Capitolo 2 Gregory Bateson nell’ Estetica

2.1 Ri-dimensionamenti dell’Estetica Contemporanea


2.1.1. Estetica naturalizzata………………………………………......30
2.1.2. Neuroestetica…………………………………………….…...33
2.1.3. Estetica e Studi Culturali…………...……..……………….…36
2.2 Estetica batesoniana……………………………….……………...……...37
2.3 Estetica relazionale……………………………………………….....39
2.4 Un’esperienza estetica con l’LSD……..……………………….…...43
2.5 Una riflessione estetica sul rave party…………………………….…....48

Conclusioni…………………………………………………..…...……...52

Bibliografia …………. ……………………………………………….…55


INTRODUZIONE
Chi è costui che vuole offuscare il consiglio con parole insipienti?
...Sai tu quando figliano le camozze?
…Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?

Libro di Giobbe

Siamo di fronte a un paradosso, in quanto io non so dirvi


come educare i giovani, o voi stessi, nei termini dell’epistemologia
che vi ho proposto, a meno che prima non abbracciate questa epistemologia.
Le risposte devono essere già nella vostra testa e nelle vostre regole di percezione.
Dovete sapere voi la risposta alla vostra domanda perchè io possa darvela.

G. BATESON, Una Sacra Unità

In questo lavoro di tesi si affronterà il pensiero di Gregory Bateson attraverso due campi di
ricerca: la Filosofia della Mente e l’Estetica Contemporanea. Due discipline in cui G.
Bateson è stato precursore per via delle sue linee di ricerca così trasversali. La sua vita
rispecchia in qualche modo il secolo che per buona parte ha attraversato, un XX secolo
ricco non solo di rivoluzioni scientifiche e culturali nel campo del sapere ma anche di
grandi mutazioni in ambito sociale, politico e biologico. Avanguardie artistiche, guerre
mondiali, fisica quantistica, scoperta del DNA, cibernetica, americanizzazione
dell’Occidente, contro-cultura e tanto altro1 hanno portato ad una Weltanshauung
estremamente complessa in cui inter-disciplinarietà e multi-disciplinarietà sono diventati
paradigmi della ricerca scientifica, dell’educazione e della politica. G. Bateson ebbe un
ruolo significativo in vari campi di ricerca, forse la sua burrascosa vita e il suo interesse
per innumerevoli fenomeni fecero sì che sviluppasse il concetto (in qualche modo meta-
disciplinare) più famoso della sua riflessione teoretica: ecologia della mente. Questa
formula-concetto è così attuale perchè restano attuali inanzituttto I problemi prettamente
1 Riportiamo altre due liste ‘simboliche’ trovate durante letture successive alla presentazione di questa
Tesi, la prima riguarda propriamente il XX Secolo, la seconda si estende fino all’inizio del XXI secolo ma
tocca temi per-così-dire ‘perenni’ (problematiche secolari e questioni in-attuali):
Lo so che “piccolo è bello”. Tuttavia mi sia consentito di cominciare dal “grande”, dall’enormità di alcuni eventi che si
sono verificati dagli anni Trenta, e di rievocare alcune di quelle devastanti enormità: la Grande Depressione e le
diffuse manifestazioni di totalitarismo, la Seconda Guerra Mondiale, i suoi pesanti combattimenti con migliaia di carri
armati e migliaia di migliaia di prigionieri, le armate, le invasioni, Hiroshima, Nagasaki e Bikini più luminose di mille
soli. Le guerre di religione in India e in Palestina, le strade ammassate di profughi, tanta gente esiliata.
Superpotenze, superstrade, superpetroliere, supermercati, superbowls, Olimpiadi spettacolari, e tutto il mondo
incollato alla televisione in contemporanea, conglomerati urbani di dieci, dodici, quindici milioni di persone, streminio
di popolazioni in Biafra, in Bangladesh, in Sudan, in Etiopia. Missili titanici, lanci spaziali, megatoni di energia.
Defogliazione, accelleratori lunghi miglia, fisica dell’alta energia, fissione, fusione, superconduttori. Multinazionali
collegate fra loro. Gigantismo nell’agricoltura, nel commercio, nell’industria, nell’architettura. Università di 60.000
studenti, Bilanci di migliaia di dollari e calcolatori capaci di elaborare tali enormità. Droghe che dilatano la mente,
nubi a forma di fungo e visioni prodotte da funghi. Decibel di rock. Ogni anno battuto il record del salto con l’asta, del
disco e dei cento metri piani sempre più in alto, sempre più lontano, sempre più veloce. L’esplosione demografica.
Le periferie che si espandono disordinatamente, chilometri e chilometri di squallore urbano, città infuocate, foreste
che vanno a fuoco, mancanza di abitazioni, fame. Consumismo gargantuesco. Barconi che trasportano rifiuti,
discariche, pesci che muoiono, cieli che muoiono, e specie di età antichissima che si estinguono in massa.
(James Hillman, Politica della Bellezza, a cura di Francesco Donfrancesco, trad. Paola Donfrancesco,
Moretti & Vitali, Bergamo, 2002, pag. 55)
Fu quasi una frustata per i nostri cervelli, rimasti a lungo senza yamba. La conversazione si fece ricca, brillante,
contradditoria, costellata da immense risate: la vita incerta e la morte ancora più incerta, il peperoncino, la
sottrazione dei fondi pubblici, la letteratura, i colpi di Stato, il ballo organizzato per quella sera, le religioni rivelate, la
pena capitale, i caprini responsabili della siccità, Dio, il sadico delle case popolari che ha violentato e strangolato
una ragazzina di nove anni, la democrazia trasformata in corrente di pensiero, l’aria, lo scandalo della sottrazione di
fondi, il mare, le verdure, gli incidenti automobilisti, la moda, Bob Marley, la prostituzione, l’inferno, il paradiso, la
siccità, l’erba, l’apertura democratica, la dissenteria, le foglie degli alberi, i marabutti, il denaro, la scarsità di cibo, gli
interventi stranieri in Africa, la società, i rapporti sessuali, gli animali, i crimini, il deputato uomo d’affari che
speculava sui pomodori, l’articolo 35, l’anno 2000, l’insegnamento, la legge sull’arricchimento illecito dell’ossigeno, il
Corano, l’apartheid, i granelli di sabbia, i magistrati, Kukoi, la settimana di sangue in Gambia, la Confederazione
sene-gambiana…
(Abasse Ndione – Vita a spirale, trad. B. Ferri, Edizioni E/O, 2004 pag. 30)
ecologici che un mondo globalizzato e tecnologizzato si trova ad affrontare in questi “Anni
Dieci”. Gli ostacoli per la risoluzione dei suddetti problemi sono micro-scopici e macro-
scopici ma forse c’è un ‘errore epistemologico’ in nuce, come non si stancava di
sottolineare il nostro Autore, ed esso potrebbe derivare proprio dal modo in cui la nostra
Mente concepisce la (eco)-logica del Mondo. Sicuramente dalla Cibernetica in poi
qualcosa è cambiato, per qualcuno essa ha dato il via alla Terza Rivoluzione Industriale,
computer e sistemi informatici hanno mutato velocemente il nostro ambiente. In questa
nuova scienza, G. Bateson che fu tra I fondatori, vedeva un “latente mezzo per conseguire
una nuova e forse più umana filosofia, un mezzo per cambiare la nostra strategia del
controllo e un mezzo per vedere le nostre follie in una prospettiva più vasta”. Ovvero
quindi un modo per interrogare in profondità il nostro esser parte di sistemi più ampi, inter-
personali, sociali e naturali. Una complessità (ricordiamo l’etimologia che deriva dal latino
‘complexus’ cioè ‘ciò che è tessuto insieme’) che oltre a fondare la scienza della
complessità e la scienza dei sistemi doveva portare probabilmente ad una
riconsiderazione del ruolo delle relazioni. Per il nostro Autore la nozione di relazione è
fondamentale, la trama complessa delle relazioni crea la cosìdetta “struttura che
connette”. Quest’ultimo è un ulteriore concetto coniato da G. Bateson e deriva
principalmente dall’interesse per come le cose sono inter-connesse, specialmente per
quanto riguarda gli organismi viventi (un concetto simile usato dal nostro Autore è quello di
Creatura in senso junghiano, come per altri versi simile a quello di Ipotesi Gaia sviluppato
da J. Lovelock). Ma questi nuovi concetti così generali come vanno interpretati? Qual è il
loro senso? Cosa ce ne facciamo di queste teorie moniste? O in un’ottica più pragmatica:
come può cambiare tutto ciò lo stato delle cose attuali? Tutte domande lecite che per il
momento risponderemo con una specie di monito citando delle parole di G. Bateson
estratte dal documentario prodotta da una delle sue figlie, Nora Bateson: “È ora di moda
pensare, e viene inculcato anche nelle università, che la Psicologia sia differente dalla
Sociologia, che l’Antropologia è una cosa diversa, che l’Estetica o la Critica Artistica siano
ancora cose diverse e che il mondo sia fatto di pezzetti separati di conoscenza su cui, se
siete studenti, potete essere esaminati sulla base di una serie di domande sconnesse, test
basati su Vero/Falso, o roba del genere. Il primo punto su cui desidero fare chiarezza è
che il mondo non è fatto per niente così o per essere più preciso il mondo in cui “io” vivo
non è proprio così, per cui è affar vostro vivere nel mondo che più vi aggrada”2 .
In queste pagine cercheremo di far comunicare il mondo in cui viveva il nostro Autore con
le teorie in cui le prospettive che sono scaturite nei campi di ricerca di cui ci occuperemo
sembrano le più fertili a far sì che il mondo in cui pensava e agiva G. Bateson possa
diventare anche il nostro mondo. Questo tentativo non vuole essere nè esauriente, nè
sistematico, nè lineare, ogni capitolo contiene informazioni parziali in funzione della
visione generale, il carattere della presente ricerca può essere ben definito come
sommario, panoramico e impressionistico. Per uno sguardo d’insieme passiamo infine ora
brevemente in rassegna la Tesi. Nel resto dell’introduzione si definiranno le tappe più
importanti della vita e della carriera del nostro Autore. Nel primo capitolo si cercherà di
illustrare come le attuali basi teoriche su cui si fonda una specifica prospettiva della
Filosofia della Mente, definita esternalismo (1.3), che a nostro parere sembra la più
agguerrita contro l’annosa questione del dualismo cartesiano siano in debito verso la
riflessione batesoniana, quindi saranno ricordati gli Autori che dopo Bateson auspicano
una nuova espistemologia nell’impostazione delle ricerche più recenti sul problema
mente-corpo (1.1). Si darà attenzione all’analisi del linguaggio, dal punto di vista
semantico (1.2), e si continuerà affrontando alcune posizioni teoriche di filosofi
contemporanei che si avvalgono e convergono con delle posizioni e dei risultati di certi
neuro-scienziati, cosìcchè possa apparire urgente una re-impostazione dei problemi-

2 Nora Bateson, An Ecology of Mind, 2010, documentario proiettato nel corso della conferenza con Nora Bateson
tenutasi l’ 11 maggio 2012 presso l’Università di Firenze.
chiave classici come l’origine e la natura della Mente, del Linguaggio, della Cognizione,
della Conoscenza e della Coscienza (1.4). Saranno poi esposti punti di vista di neuro-
biologi, archeologi cognitivi e paleo-antropologi che hanno cercato di introdurre nuove
nozioni per il superamento di una visione riduzionista nelle Scienze della Mente e della
Materia (1.5). Nel secondo capitolo in funzione della speculazione del precedente capitolo
si affronteranno i mutamenti in corso nella disciplina dell’Estetica (2.1, 2.3) con la
concezione dell’ Estetica nelle riflessioni di G. Bateson (2.2) e verrano infine riportati alcuni
studi batesoniani sulle ‘esperienze estetiche’ in alcune pratiche specifiche di
sperimentazione (2.4) e altri studi su fenomeni sociali come quello dei rave che potrebbero
illuminare nuovi modi di comprensione dell’ ‘esperienza estetica’(2.5). In ultimo nella
conclusione menzioneremo gli autori che seppur non inseriti nei capitoli di questo lavoro
hanno ispirato la nostra ricerca, essi sono esponenti del così detto ‘naturalismo americano’
In essi e in Bateson troviamo davvero idee molto consistenti nella riconsiderazione della
Scienza, della Filosofia e della Società contemporanea legata alla riconsiderazione del
concetto di Mente e della sua relazione con la Natura. Dulcis in fundo voglio ringraziare il
mio relatore per avermi fatto scoprire Bateson e tantissimi altri autori, la mia famiglia per
avermi sostenuto in questi anni di studio e tutte le persone con cui ho vissuto questi anni
di università.
Bio-bibliografia minima
Beh, che dire?...Unico erede di generazioni di biologi e genetisti,
avrei dovuto seguire la strada per me prefissata,
ma ben presto la trovai troppo stretta. Colsi quindi l’occasione
di una spedizione in Nuova Guinea per soddisfare la mia curiosità,
e fu in quell’occasione che conobbi Margaret e mi si aprì davanti
un nuovo orizzonte di vita e di ricerca oltre oceano. Certo,
per un inglese come me vivere a contatto con l’accademia americana
non fu facile, ma questo variegato mondo mi diede la possibilità di lavorare
con schizofrenici e delfini, alcolisti e maestri zen, cibernetici e granchi,
per poi vivere I miei ultimi giorni nell’accoglienza un po’ “New Age”
delle comunità californiane. Ora ho questoa occasione per errare in nuovi sentieri virtuali…
E mi chiedo, quale ecologia si va creando in questa sempre più connessa mente globale? 3

A metà Ottocento dopo accurati esperimenti di incrocio con piante di pisello odoroso,
Gregor Mendel, scienziato e frate agostiniano, dedusse l’esistenza di “unità di eredità”, in
seguito chiamate geni. La scoperta di Mendel dischiuse un campo di ricerca del tutto
nuovo: lo studio dell’eredità attraverso l’investigazione della natura chimica e fisica dei
geni. William Bateson, fervente fautore e divulgatore dell’opera di Mendel, nel 1906
chiamò questo nuovo campo genetica e introdusse molti fra i termini oggi usati dai
genetisti. Due anni prima “il padre della genetica” battezzò il suo figlio più giovane Gregor
in onore di Mendel. Gregory Bateson nacque il 9 maggio 1904 a Grantchester, nell’
Inghilterra centro-orientale. W. Bateson era discendente di una di quelle famiglie di classe
medio-alta, che a Cambridge avevano costituito una sorta di aristocrazia intellettuale e che
avevano formato generazioni di studiosi, ne rappresentano altri esempi le famiglie Darwin,
Huxley e Whitehead. I tre figli di W. Bateson furono avviati allo studio delle scienze naturali
ed iscritti a St. John’s College di Cambridge. Gregory, di alcuni anni più giovane dei fratelli,
nonostante gli ottimi risultati scolastici, era considerato da William il meno brillante e
capace dei tre e la sua posizione in famiglia veniva considerata marginale. Doveva essere
il primogenito John, molto simile al padre per carattere e propensioni intellettuali, a
raccogliere il testimone della tradizione familiare per continuare idealmente le ricerche
scientifiche paterne e sopratutto per proseguirne fedelmente l’opera, ma nell’ottobre del
1918 morì giovanissimo al fronte, in Francia, durante la Prima Guerra Mondiale. A questo
punto fu Martin, il secondogenito, a trovarsi investito di tutte le aspettative del padre. Iniziò
pertanto un lungo e doloroso contrasto fra Martin e il padre che opponendosi alle sue
ambizioni di poeta e drammaturgo contribuì al deterioramento del loro rapporto finchè nel
1922 per le difficoltà nel sentirsi accettato e in seguito ad una delusione sentimentale si
suicidò sparandosi a Trafalgar Square lo stesso giorno e la stessa ora in cui era nato il
fratello maggiore John. Tali vicende giocarono, con forti probabilità, un ruolo non
secondario nel sensibilizzare l’attenzione di Gregory verso le patologie delle interazioni
umani. Restò l’ultimo dei figli ad affrontare la pesante eredità familiare. Entrato a
Cambridge nel 1922 Gregory si laureò con lode in Scienze Naturali nel 1924. Nel 1925
partì per il suo primo viaggio di studio, alle Galapagos, e rientrò fortemente deluso e
perplesso circa la propria volontà di continuare con la biologia, disciplina che era andata
ormai trasformandosi: all’esplorazione sul campo e al lavoro nelle serre e negli allevanti si
era ormai sostituita la condizione standardizzata e asettica dell’osservazione al
microscopio in laboratorio che appariva a Gregory troppo oggettivante ed impersonale.
Così decise di dedicarsi all’antropologia, più attenta alla dimensione umana e
singolarmente priva di schemi teorici. Questo cambiamento non implicava una chiusura
totale con la biologia: agli inizi del secolo l’antropologia rientrava ancora nel novero delle
scienze naturali. Egli fu allievo di Bronislaw Malinowski, con il quale fu in disaccordo, e di
Alfred Reginald Radcliffe-Brown, di cui rimase favorevolmente impressionato, tanto da

3 Da www.facebook.com/gregory.bateson.9 pagina Facebook del progetto “La Società delle Menti Estinte” di Luca
Morini presso l’Università di Bergamo (dalla presentazione del progetto:”Un laboratorio in cui grandi umanisti, e
non solo, del ‘900 si sono virtualmente ritrovati per discutere il posto delle riflessioni nella soglia critica dell’ Era
dell’Informazione”).
aderire alla sua teoria struttural-funzionalista che focalizzava l’interesse sui fenomeni che
mantenevano la coesione e la coerenza interna. Le sue prime ricerche in questo campo
furono in Nuova Guinea, dove studio la tribù degli Iatmul, ed in Indonesia, in particolare a
Bali. Quanto ai primi si concentro su un rito degli Iatmul chiamato Naven. Ben presto si
accorse come l’approccio struttural-funzionalista fosse del tutto insufficiente per
comprendere questo rito, sopratutto nei suoi aspetti emotivi. Ne seguì una situazione di
stallo superata grazie all’arrivo sull’isola dell’ antropologa Margaret Mead, in fondamentali
discorsi con lei lo aiuteranno nell’analisi del rituale e frutto della loro collaborazione sarà il
suo primo saggio di antropologia4. Nello stesso anno G. Bateson e M. Mead si sposarono
(ma divorzieranno nel 1951) e dal loro matrimonio nacque Mary Catherine che sarà
antropologa anch’essa ed aiuterà il padre nelle sue ultime opere 5. Quanto ai balinesi e ai
risultati della sua analisi relativa ad essi Bateson dedicò uno dei primi saggi di
antropologia visiva scritto ancora in collaborazione con la Mead 6. Entrambi i lavori si
caratterizzarono per essere tra I primi studi di antropologia ad utilizzare strumenti
fotografici e cinematografici nella documentanzione delle interazioni tra indigeni. Nel 1939
Bateson si trasferì negli Stati Uniti a causa della Seconda Guerra Mondiale durante la
quale lavorò anche in Estremo Oriente all’ Ufficio Studi Strategici come consulente
antropologico per la propaganda. Negli stessi anni, ad opera di ricercatori come Norbert
Wiener, Ross Ashby, John Von Neumann, Warren McCulloch, Arturo Rosenblueth e altri
stava nascendo negli Stati Uniti una nuova disciplina , la Cibernetica. Bateson contribuì sin
dalle origini allo sviluppo di questa scienza che lo influenzerà profondamente. Fu la sua
prima moglie M. Mead a introdurlo in questo gruppo informale di scienziati che negli anni
successivi avrebbero dato il via alle Macy Conferences. Bateson si trovò in sintonia con
questo circolo per l’uso comune dell’analogia tra organismo e società e per la prospettiva
di fondare una scienza genetica della mente dell’uomo che potesse rendere conto delle
variazioni individuali e culturali senza dover ricorrere a nozioni astratte come quella del
libero arbitrio. Dal punto di vista morale egli però non era dal tutto in accordo con il
contesto della Macy Foundation. Come infatti nel 1949 si allontanò da questo circolo di
scienziati in seguito a intimi problemi di coscienza che gli impedivano di condividere le
applicazioni pratiche delle Scienze Umane, come nel caso delle politiche della World
Federation for Mental Health (WFMH) e più in generale nell’antropologia delle Relazioni
Internazionali. Perciò preferì insegnare alla New School for Social Research di Harvard, in
seguito divenne ricercatore associato al Lanley Porter Neuropsichyatric Institute di San
Francisco, fino al suo trasferimento a Palo Altro dove fu docente all’ Università di Stanford
e consulente etnologico per il Veterans Administration Hospital. Qui si occupò di psichiatria
operando con un gruppo di collaboratori: Johm H. Weakland, ingegnere chimico, Jay
Hayley, psicologo sociale e Don Jackson, psichiatra. In particolare Bateson in questo
periodo si concentrò sui problemi della psicosi, elaborando la teoria del double blind
(doppio vincolo o doppio legame), una ipotesi esplicativa della schizofrenia, che viene
collegata ai patterns comunicativi della famiglia e della società, ripresa poi dalla scuola
psichiatrica di Palo Alto e da Paul Watzlawick. Nell’ambito psico-terapeutico Bateson
contribuì ad introdurre un metodo di terapia basato non sul trattamento del singolo malato
ma della sua intera famiglia. Tale metodo ad orientamento sistemico-relazionale fu
denominato terapia familiare. Inoltre fu ispiratore della Psicologia Trans-personale e
studioso del fenomeno dell’umorismo7. Successivamente Bateson si occupò di biologia

4 G. Bateson, Naven. A survey of the Problems suggested by a Composite Picture of the Culture of a New Guinea
Tribe, Cambride University Press, 1936 (trad.it Naven, Un rituale di travestimento in Nuova Guinea, Einaudi,
Torino, 1988)
5 G. Bateson (con M.C. Bateson), Angels Fear: Towards an Epistemology of the Sacred. University of Chicago Press,
1988 (trad. it. Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Adelphi, Milano, 1989)
6 G. Bateson e M. Mead, Balinese Character: A Photographic Analysis, NY Academy of Science, New York, 1942
7 G. Bateson, The Position of Humor in Human Communication, Atherthon, New York, 1953 (trad it. L’umorismo
nella comunicazione umana, Raffaele Cortina, Milano, 2006)
svolgendo ricerche sulla comunicazione degli animali, in particolare dei delfini, all’Istituto
Oceanografico delle Hawaii. Dal 1972 fu professore al Kresge College, università
californiana, il suo corso s’intitolava Ecologia della Mente, tale titolo fu ripreso per l’opera
che lo rese famoso Verso un’Ecologia della Mente8, nella quale si testimonia l’eterogeneità
degli interessi del nostro Autore, trattando di antropologia, psichiatria, cibernetica,
evoluzione biologica, genetica, ecologia e manifestando il carattere unitario ed olistico del
suo approccio. Altre raccolte dei suoi scritti e delle sue conferenze sono Mente e
Natura9.nella quale è esposta nel modo più compiuto la sua teoria e Una Sacra Unità10,
pubblicato postumo. Nell’autunno del 1979, lo stesso anno in cui uscì Mente e Natura,
Bateson fu invitato a tenere una conferenza all’ Institute of Contemporary Arts di Londra, in
cui egli pronunciò la sua last lecture. Fu un excursus auto-biografico. L’incipit del testo
preparatorio, pubblicato solo vari anni dopo, ripete quasi alla lettera alcuni versi dei
Quattro quartetti di Thomas Stearns Eliot: “Torno al luogo da cui sono partito e conosco il
luogo per la prima volta”. Ripercorse l’avventaura straordinaria della sua vita in chiave
circolare: partito dalle scienze biologiche vi ritornava, partito dalla Gran Bretagna vi
ritornava un’ultima volta. In mezzo tra la partenza e il ritorno, I viaggio e gli spaesamenti
antropologici, l’impresa esaltante della cibernetica, gli studi sulla natura relazione della
schizofrenia e più in generale della comuniazione animale e umana, le riflessioni
epistemologiche, estetiche ed ecologiche. La biologia era diventata per lui l’ ecologia della
mente, dove la ragione non era più separata dal cuore, dove l’io non era più separato dagli
altri e dal contensto, dove l’universo antropologico non era più separato dal più ampio
universo creaturale in evoluzione incessante, imprevedibile e creativa. Bateson morì il 4
Luglio 1980 a San Francisco, la cerimonia del suo funerale avvenne sulle scogliere della
costa del Big Sur, dove le sue ceneri furono disseminate nell’oceano.

8 G. Bateson, Steps to an Ecology of Mind: Collected Essays in Anthropology, Psychiatry, Evolution, and
Epistemology, University of Chicago Press, Chicago, Illinois, 1972(trad.it Verso un’Ecologia della Mente, trad. it.
G. Longo, Adelphi, Milano, 1976)
9 G. Bateson, Mind and Nature: A Necessary Unity (Advances in Systems Theory, Complexity, and the Human
Sciences). Hampton Press, 1979 (Mente e Natura, Un’unità necessaria, trad. it. G. Longo, Adelphi, Milano, 1984)
10 G. Bateson, A Sacred Unity: Further Steps to an Ecology of Mind. Harper Collins, 1991 (Una Sacra Unità, Altri
passi verso un’ecologia della mente, trad. it. G. Longo, Adelphi, Milano, 1997)
Altri cenni biografici

Ogni volta che mi imbattevo in una domanda che non riuscivo


ad associare a una precisa disciplina o scuola di pensiero,
annotavo in margine al manoscritto: “Chiedere a Bateson!”

Friotjof Capra

Riportiamo una parte della conversazione avvenuta tra il fisico Fritjof Capra e Gregory
Bateson tenutasi sul terrazzo del ristorante dell’ Esalen Institute 11. Si noterà la personalità
eccentrica del nostro autore, sia dallo scambio di battute che dalla successiva riflessione
di Capra, essa ha fatto sì che Bateson sia stato e tutt’ora resta un’autore poco frequentato
dal mondo dell’accademia, proprio per la sua in-disciplinarietà. E proprio per questo,
scarsamente inserito nei programmi di esami delle Università che adottano sistemi
d’insegnamento incompatibili con la visione dell’educazione che troviamo in Bateson.

“La logica è uno strumento molto elegante” disse Bateson “e noi abbiamo fatto moltissima
strada applicandola per un paio di migliaia di anni. Il guaio è che quando la si applica a
granchi e focene e farfalle, e alla formazione di abitudini” - la sua voce affievolì, ed egli
aggiunse dopo una pausa, lasciando vagare il suo sguardo sulle lontananze dell’oceano -
“sa, a tutte quelle belle cose” e ora, guardando direttamente verso di me: “la logica non va
molto bene”. “No?” “No, non va bene”, continuò con animazione, “perchè l’intero tessuto
delle cose viventi non è fabbricato con la logica. Vede, quando si hanno catene circolari di
cause ed effetti, come avviene sempre nel mondo vivente, l’uso della logica ci fa entrare in
paradossi. Consideri solo il termostato, un organo di senso semplice, no?” Mi guardò,
chiedendomi se lo seguissi, e continuò: “Se è acceso si spegne; se è spento si accende.
Se sì, allora no; se no, allora sì”. A questo punto si fermò lasciando che mi rompessi il
capo nel tentativo di capire quel che aveva detto. La sua ultima frase mi ricordò i
paradossi classici della logica aristotelica, cosa che ovviamente corrispondeva alla sua
intenzione. Perciò arrischiai un salto: “Lei vuole dire che I termostati mentono?” Gli occhi
di Bateson si illuminarono: “Sì-no-sì-no-sì-no. Vede, l’equivalente cibernetico della logica è
l’oscillazione.” Si fermò di nuovo, e in quel momento ebbi improvvisamente un’intuizione,
stabilendo una connessione con qualcosa a cui ero interessato da molto tempo. Fui preso
da una grande eccitazione e dissi con un sorriso provocatorio: “Eraclito lo sapeva!”
“Eraclito lo sapeva”, ripetè Bateson, rispondendo con un sorriso al mio sorriso. “E anche
Lao-Tzu”, rincalzai. “Si, è vero; e anche quegli alberi laggiù. La logica non funziona con
loro.” “E che cosa usano invece?” “La metafora.” “La metafora?” “Si, la metafora. È ad
essa che l’intero tessuto delle inter-connessioni mentali deve la sua compattezza. La
metafora si trova alla base stessa della vita.”12

11 L’Esalen Institute, dal nome della tribù di nativi americani che un tempo abitavano la costa californiana di Big Sur, era
conosciuto semplicemente come Slate’s Hot Springs. La terra venne acquistata nel 1910 da Henry Murphy, un medico di Salinas,
che vi costruì la dimora, oggi nota come Big House, per trascorrervi le vacanze. Per qualche tempo la proprietà languì in uno
stato di abbandono, sino a quando, nel 1962, Michael, figlio del dottor Murphy e Richard Price studenti di psicologia appena
laureati si recarono ad esaminarla e fondarono una comunità con l’intento di studiare e indagare l’essere umano secondo le
nuove teorie di quegli anni rivoluzionari. E il dibattito che vi si svolgeva era di altissimo livello, con interventi del premio Nobel
Linus Pauling, dello psicologo Abram Maslow, dell’antropologo Gregory Bateson, del teorico dei sistemi Fritjof Capra, che vi
trascorsero del tempo e contribuirono a dar forma al corpo di insegnamenti che si seguono ancora. Dopo gli intellettuali, verso la
fine degli anni Sessanta, Esalen era diventato un centro di rinascita, dove venivano a rimettersi in forma musicisti (Joan Baez,
Gorge Harrison, Ringo Starr, John Cage, Bruce Springsteen erano tra gli ospiti), scrittori e poeti (tra loro John Kerouack e Allen
Ginsberg), fotografi (Edward Weston e Anselm Adams). L’istituto ha resistito a tutte le mode e correnti New Age e oggi è ancora
un centro di ricerca importante e ospita una comunità attiva che persegue lo scopo di sempre: la realizzazione della persona
attraverso l’espressione della sua creatività e delle sue potenzialità. www.esalen.org
12 F. Capra, Verso una nuova saggezza: conversazioni con Gregory Bateson, Indira Gandhi, Werner Heisenberg,
Krishnamurti, Ronald David Laing, Ernest F. Schumacher, Alan Watts e altri personaggi straordinari, Feltrinelli,
Milano, 1990, pag. 45
“Era una figura davvero imponente: un gigante intellettualmente ma anche fisicamente.
Molte persone erano intimidite da lui, e anch’io mi sentii in soggezione, almeno in principio
(…) Le mie conversazioni con Bateson erano di un tipo molto speciale, a causa del modo
speciale in cui egli presentava le sue idee. Bateson esponeva una rete di idee sotto forma
di storie, aneddoti, scherzi e osservazioni in apparenza sparse, senza dire nulla in modo
compiuto e diretto. Non gli piaceva spiegare le cose in modo completo, ben sapendo,
forse, che si raggiunge una comprensione migliore quando si è in grado di aferrare
connessioni da sé, in un atto creativo, senza che ci sia nessuno a spiegartele per filo e per
segno. Egli diceva le cose per minimi accenni e ricordo molto bene il lampo nei suoi occhi
e il piacere nella sua voce quando vedeva che ero in grado di seguirlo nella tela delle sue
idee. Io non ero affatto in grado di seguirlo sempre, ma forse, ogni tanto, un po’ più di altre
persone, e questo fatto gli dava un grande piacere. Egli era particolarmente compiaciuto
quando riuscivo ad anticiparlo e a saltare uno o due anelli di congiudzione nella rete. In
quelle rare occasioni I suoi occhi luccicavano, indicando che la mia mente era entrata in
risonanza con la sua (…) Egli aveva un sense of humor inglese molto acuto, e quando
faceva una battuta ne diceva solo il 20 per cento, attendendosi che il suo interlocutore
congetturasse il resto; a volte la riduceva addirittura al 5 per cento. Di conseguenza, molte
delle battute fatte da Bateson nei suoi seminari ottenevano in risposta solo un completo
silenzio, rotto solo dal proprio ridacchiare”.13

13 F. Capra, Ivi, pag. 56


CAPITOLO 1

Gregory Bateson nella Filosofia della Mente


1.1 Un approccio inter-disciplinare al problema mente-corpo
Poichè questo è il grande errore dei nostri giorni,
che i medici separano l’anima dal corpo.

Ippocrate

“Nelle indagini sulla mente è sempre bene tener presente che ci troviamo di fronte ad un
concetto non univocamente definito e pesantemente condizionato dalla cultura in cui, nel
corso del tempo, è stato via via pensato”.14 In questo capitolo affrontiamo brevemente solo
un aspetto, e cioè il così-detto problema mente-corpo (mind-body problem), che consiste
nel problema di spiegare come i nostri stati, eventi e processi mentali sono in relazione
agli stati, eventi e processi fisici nei nostri corpi. Trattare l’argomento è l’obiettivo di un
lavoro lungo parecchi secoli. Nel corso della storia la dicotomia mente-corpo ha assunto
molti nomi e molte maschere ed è una questione che ci si pone da tempo immemore,
come scrive S. Benvenuto: “già i Greci separavano nomos e physis, la norma e la natura,
si è quindi parlato di atomi e nous, materia e forma, anima e corpo, res cogitans e res
extensa e infine mind vs body”15. René Descartes, che lo espresse nelle formule res
cogitans e res extensa ha avuto il merito di porre la questione in termini netti e razionali,
pur lasciando dispute tutt’ora aperte. Questa persistenza della separazione tra due aspetti
complementari del vivente è stata, ormai anche per buona parte del mondo accademico,
un errore epistemologico che ha comportato ostacoli ed errori fondamentali. Questo
giudizio è sottolineato da molti studiosi della mente dell’ultimo secolo, tra questi il
neuroscienziato Antonio Damasio che ha dedicato all’argomento uno studio
paradigmatico16 La battaglia contro questo errore può essere ricondotta ed è per certi versi
sovrapponibile alla storia delle riflessioni sul problema della conoscenza, il logos sulla
conoscenza, ovvero lo studio critico della natura e dei limiti della conoscenza scientifica, e
cioè l’epistemologia. Il problema della conoscenza è caratterizzato da due fenomeni
rilevanti: il primo, che si verifica a partire dal Seicento, consiste nel fatto che la
conoscenza, facendosi scienza, ovvero la nascita della scienza moderna, si identifica con
una scelta drastica e inizialmente vincente: quella di rinunciare a studiare la natura come
un tutto organico e concentrarsi su fenomeni semplici e quantificabili, isolandoli dal resto.
Si tratta di un procedere smontando un meccanismo complesso e riducendolo a tante
parti, sufficientemente piccole da poter essere ben capite nei loro processi evolutivi e
descritte da leggi matematiche semplici. Questo atteggiamento metodologico, che va sotto
il nome di riduzionismo è all’origine dei più impressionanti progressi nella storia della
conoscenza della natura: in poco più di due secoli si scoprirono le leggi della gravitazione
che regolano il moto dei pianeti, le leggi della termodinamica che permisero la costruzione
del motore a combustione interna, le equazioni dell’elettro-magnetismo che stanno alla
base dell’elettro-tecnica, dell’ottica e delle moderne tele-comunicazioni, per finire con la
teoria della relatività e la fisica quantistica che ci svelano il comportamento profondo della
materia, ma anche la storia dell’universo dal Big Bang ad oggi. Questa concezione ha
ignorato il sistema complesso di cui le parti fanno parte. Il riduzionismo da metodologia
vincente si trasformò gradualmente in una visione impoverita della Natura, in una filosofia
della conoscenza altamente inadeguata. Dalla fisica di Galileo Galilei tutto ciò resse fino a
quando.. “tutti i miei tentativi di adattare i fondamenti teorici della fisica a queste (nuove)
acquisizioni fallirono completamente. Era come se ci fosse mancata la terra sotto I piedi, e
non si vedesse da nessuna parte un punto fermo su cui poter costruire” 17 La testimonianza
di Albert Einstein ci illumina su come nuovi campi di ricerca come la fisica relativistica e
quantistica, l’epistemologia evoluzionista e la scienza dei sistemi fecero emergere l’in-

14 E. Canone (a cura di), Per una storia del concetto di mente,Olschki, Firenze, 2005
15 S. Benvenuto, Natura/Cultura: una dicotomia da superare, Lettera Internazionale 82, 2004 pag. 22
16 A. Damasio, L’errore di Cartesio, Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano, 1995
17 A. Einstein in F. Capra, Il punto di svolta:scienza, società e cultura emergente, Feltrinelli, Milano, 1992, pag. 67
sostenibilità dei paradigmi della Scienza Moderna. Nel XX secolo furono fatti vari tentativi
di re-impostazione dei paradigmi della scienza e l’invenzione della cibernetica può essere
considerato un tentativo in questo senso nella ri-considerazione della storia del problema
della conoscenza. Si auspicava allora e si annunciava la sostituzione dell’epistemologia
riduzionista, normativa, classica con una nuova epistemologia che integrasse il paradigma
della complessità. L’apice di questo mutamento fu raggiunto durante gli anni Settanta,
esso consistette nella creazione di un campo, o meglio una rete di discipline, che avesse
come proprio oggetto la conoscenza medesima definita come cognizione, queste furono le
Scienze Cognitive. Questo nuovo progetto racchiuse una rete inter-disciplinare con legami
più o meno forti tra le varie branche per riuscire a studiare la ‘conoscenza della
conoscenza’. Bateson aveva già da tempo riconosciuto i difetti del vecchio sistema di
pensiero che si stava cercando di scardinare e nel 1978 così riassumeva la situazione:
“i presupposti o premesse di pensiero su cui si bassa tutto il nostro insegnamento sono
antiquati e, a mio parere, obsoleti. Mi riferisco a nozioni quali: a) il dualismo cartesiano che
separa la ‘mente’ dalla ‘materia’ b) lo strano fisicalismo delle metafore che usiamo per
descrivere e spiegare i fenomeni mentali: ‘potenza’, ‘tensione’, ‘energia’, ‘forze sociali’,
eccetera. c) il nostro assunto anti-estetico, derivato dall’importanza che un tempo Bacone,
Locke e Newton attribuirono alle scienze fisiche; cioè che tutti I fenomeni (compresi quelli
mentali) possono e devono essere studiati e ‘valutati’ in termini quantitativi. La visione del
mondo – cioè l’epistemologia latente e in parte ‘inconscia’ - generata dall’insieme di queste
idee è superata da tre diversi punti di vista: a) dal punto di vista pragmatico è chiaro che
queste premesse e I loro corollari portano all’avidità, a un mostruoso eccesso di crescita,
alla guerra, alla tirannide e all’inquinamento. In questo senso, le ‘nostre’ premesse si
dimostrano false ogni giorno, e di ciò gli studenti si rendono in parte conto. b) dal punto di
vista ‘intellettuale’, queste premesse sono obsolete in quanto la teoria dei sistemi, la
cibernetica, la medicina olistica, l’ecologia e la psicologia della ‘Gestalt’ offrono modi
manifestamente migliori di comprendere il mondo della biologia e del comportamento. c)
come base per la ‘religione’ le premesse che ho menzionato divennero ‘chiaramente
intollerabili e quindi obsolete’ circa un secolo fa. Dopo l’avvento dell’evoluzione
darwiniana, ciò fu espresso in modo piuttosto chiaro da pensatori come Samuel Butler e il
principe Kropotkin. Ma già nel Settecento William Blake capì che la filosofia di Locke e di
Newton poteva generare solo ‘tenebrosi mulini satanici’.18
L’Occidente dopo la teoria dell’informazione di Shannon e quindi la cibernetica, dopo le
teorie logiche di Bertrand Russell, dopo la teoria dei sistemi di Ludwig Von Bertalanffy e
dopo la teoria dei frattali di Benoit Mandelbrot cominciava a pensare in termini di sistemi,
tipi logici, ricorsività e retro-azione. Bateson insistette sull’ esigenza di un nuovo dizionario
per discutere di presupposti fondamentali da superare come quello del dualismo mente-
corpo. In un meta-logo incompiuto in riferimento agli errori del XIX secolo Bateson afferma
: “i biologi fecero grandi sforzi per s-mentalizzare il corpo e i filosofi dis-incorporarono la
mente”. Così in compenso sta accadendo che tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo
molti sono stati gli autori che hanno elaborato teorie per il tentativo della così-detta in-
corporazione della mente. Un gruppo importanti di autori rappresentano una posizione che
sottolinea gli aspetti della cognizione legati al corpo e l’inter-azione tra corpo e mondo.
L’in-corporamento della mente è traducibile con la formula inglese dell’ embodiment, essa
sottolinea lo stretto accoppiamento tra processi cognitivi, corpo e ambiente. Storicamente,
questa prospettiva di ricerca ha avuto molto interesse dopo che, negli anni Ottanta, l’
intelligenza artificiale classica è entrata in crisi e il modello computazionalista della
percezione è stato affiancato e, a volte, rimpiazzato da modelli situati della percezione.
Per esempio nella così-detta ‘seconda cibernetica’ lo studio del dualismo organismo-
ambiente condusse due biologi cileni, Humberto Maturana e Francisco Varela a scrivere
un testo che divenne paradigmatico nelle Scienze Cognitive, grazie ad una impostazione

18 G. Bateson, Mente e Natura, pag. 295


radicale e rivoluzionaria19. A questa ‘nuove scienze cognitive’ F. Varela in seguito
dedicherà un altro studio anch’esso di importanza capitale per l’evoluzione delle teorie di
cui ci stiamo occupando: The Embodied Mind20. Questa ricerca si rifà ad un celebre e
pioneristico libro del neuro-fisiologo Warren McCollough, Embodiment of Mind21, che è uno
dei testi storici del movimento cibernetico. Il passaggio fu quindi da una Scienza dell’
elaborazione dell’ informazione ad una Scienza del rapporto organismo-ambiente basata
su un approccio sistemico e che utilizza come strumenti teorici quelli che le Scienze
Naturali (Fisica e Biologia in primis) sono riusciti a elaborare da cent’anni a questa parte
per descrivere i sistemi complessi. Ma il problema meta-fisico di re-integrare finalizzazione
e soggettività in una teoria dei processi fisici si è mantenuto. Maturana e Varela per
risolvere questo rompicapo svilupparono il concetto di autopoiesi22 per descrivere il nucleo
della dinamica auto-referenziale sia della mente che della vita che costituisce una
prospettiva osservazionale. La traduzione italiana del titolo del libro di Varela, ‘La Via di
Mezzo della Conoscenza’, è altrettanto significativo poichè pone in evidenza uno dei temi
centrali discussi: l’integrazione tra le moderne conoscenze sulla cognizione e la tradizione
Madhyamika (Colui che segue la Via di Mezzo) del Buddhismo elaborata da Nagarjuna
(250 d.C.). A tal proposito si noti come l’antica saggezza orientale è stata e continua ad
essere una fucina di idee che ha aiutato a vedere sotto altri punti di vista problemi e
ostacoli nell’evoluzione della scienza occidentale:
“Il principio spirituale di un antico insegnamento buddista ‘Esho funi’, secondo il quale
esiste un’unità di vita e ambiente. Questo principio afferma una correlazione ‘solida’ tra il
nostro modo di sentire e percepire l’esterno e il modo in cui l’esterno si manifesta a noi. In
sociologia con alcune varianti è stato affrontato da una molteplicità di prospettive teoriche,
fra cui ad esempio la fenomenologia sociale di Alfred Shutz, oppure la teoria della
costruzione sociale della realtà di Berger e Luckmann, in psicologia dalla scuola di Palo
Alto a partire dalle riflessioni di Paul Watzalawick, in epistemologia se ne è occupato G.
Bateson con il concetto di ‘ecologia della mente’. Per non parlare della filosofia, dove I
contributi sono stati ancora più numerosi. Ci sarebbero poi numerose riflessioni sulle
conseguenze della teoria dei quanti sulla nostra vita quotidiana” 23.
Questa correlazione tra esterno e interno può essere ricondotta alla dicotomia mente-
corpo. Così come nell’antica saggezza orientale si indicava un’unità, così nella storia dell’
Occidente possiamo ritrovare il concetto di unità travestito nel concetto di essere nel libro
di Arthur Lovejoy, The Great Chain of Being,24 in cui si ripercorre la storia di come abbiamo
perduto questo senso di unità dalla filosofia greca classica fino a Immanuel Kant e gli inizi
19 H. Maturana e F. Varela, Autopoiesi e Cognizione – La realizzazione del vivente, Marsilio Editori, Venezia, 1985
20 F. Varela (con E. Thompson e E. Rosch), The Embodied Mind. Cognitive Science and Human Experience, MIT
Press, Cambridge, MA, 1991 (trad.it. La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova, Feltrinelli,
Milano, 1992)
21 W. McCulloch, Embodiments of Mind, MIT Press, Cambridge, MA, 1965
22 Lo scrivere questo saggio ebbe spunto da una conversazione che ebbi con Francisco Varela nella quale egli disse: “Se davvero
l’organizzazione circolare è sufficiente per caratterizzare i sistemi viventi come unità, allora si dovrebbe poterla mettere in
termini più formali”. Ero d’accordo, ma dissi che una formalizzazione poteva solo venire dopo una descrizione linguistica
completa. Tuttavia non eravamo contenti circa l’espressione ‘organizzazione circolare’, e volevamo una parola che da se stessa
trasmettesse il tratto caratteristico centrale dell’organizzazione del vivente, che è l’auto-nomia. Fu in queste circostanze che un
giorno, mentre parlavo con un amico (José Bulnes) di un saggio su don Chisciotte nel quale egli analizzava il dilemma di don
Chisciotte se seguire il sentiero delle armi (praxis, azione) oppure il sentiero delle lettere (poiesis, creazione, produzione), e
nella sua scelta del sentiero della praxis abbandonando ogni tentativo in quello della poiesis capii per la prima volta la
metafora della parola ‘poiesis’ ed inventai la parola che ci occorreva: auto-poiesi. Questa era una parola senza storia, una
parola che poteva direttamente significare ciò che aveva luogo nelle dinamiche dell’autonomia propria dei sistemi viventi.
Curiosamente, ma non sorprendentemente, l’invenzione di questa parola si dimostrò di grande valore. Semplificava
enormemente il compito di parlare dell’organizzazione del vivente senza cadere nella trappola sempre spalancata di non dire
nulla di nuovo perchè il linguaggio non lo permette. Non potevamo sfuggire al fatto di essere immersi in una tradizione, ma con
un linguaggio adeguato potevamo orientarci diversamente e, forse, dalla nuova prospettiva generare una nuova tradizione. ”
Dichiarazione di H. Maturana
23 A.L. Tota, La mente che inquina, Periodico di Ateneo dell’ Università di Roma Tre, Anno XII n° 3, 2011
24 A. Lovejoy, The Great Chain of Being. A Study of the History of an Idea, Harvard, 1936 (trad.it di Lia Formigari,
La grande catena dell’essere, Feltrinelli, Milano, 1966)
dell’idealismo tedesco del XIX secolo. Ulteriore “via di mezzo della conoscenza” per
ritrovare una sacra unità perduta la possiamo rintracciare nel naturalismo critico,
espressione più recente della svolta linguistica in filosofia. Sostiene John Henry McDowell
in proposito che “l’epistemologia moderna concepisce se stessa come se avesse l’obbligo
di ricollegare il soggetto conoscente ad un mondo naturale da cui sembra essersi ritratto. A
sua volta, gran parte della moderna filosofia della mente concepisce se stessa come se
avesse l’obbligo corrispondente di re-integrare il soggetto pensante in un mondo naturale
dal quale ha finito per essere alieno”25. Questo movimento di re-integrazione oscilla, però,
tra due visioni uni-laterali: da un lato il naturalismo scientifico e dall’altro l’ anti-naturalismo.
L’individuazione di una virtuosa via media come la definiscono Mario De Caro e David
Macarthur risulta peculiare seppur impegnativa. Per tale scopo è rilevante una nozione di
esperienza umana che cerchi di evitare sia un anti-naturalismo che pone la mente umana
fuori dalla natura in una specie di platonismo sia un naturalismo scientifico che identifichi
la mente come un oggetto naturale in una sorta di aristotelismo. La ricerca in una via di
mezzo che analizza il processo della conoscenza e dell’auto-conoscenza ha inoltre dato
vita a soluzioni metodologiche al problema difficile degli studi scientifici sulla coscienza,
come per esempio l’ ipotesi neuro-fenomenologica26. In una via di mezzo si situa con una
certa probabilità anche lo spazio in cui cercare di contenere la nostra esperienza specie-
specifica di esseri natural-culturali27 e le sue manifestazioni più caratterizzanti, come
quella dell’ esperienza estetica. La visione riduzionista e meccanicista della medicina,
della fisiologia e della biologia hanno tenuto banco fino ad oggi e in vari ambiti sono
ancora ben radicate. Ma come abbiamo visto ci sono state eccezioni importanti che hanno
lavorato in un’ottica ben diversa, simile a quella di neuroscienziati e biologi contemporanei
come Joseph LeDoux e Gerald Edelman che riprendendo il pensiero di Bateson hanno
contribuito al consolidamento della definizione di mente come relazione. Questa
concezione del processo mentale28 viene estesa dall’uomo anche a tutti quei sistemi -
naturali e artificiali – che sono capaci di auto-regolarsi. Una dinamica basilare di questi
sistemi è l’accoppiamento senso-motorio, mente-corpo-ambiente, che costituisce per
Bateson un’ unità inscindibile, una danza di parti inter-agenti che caratterizza l’approccio
estetico relazionale come un modo di abitare ed essere-al-mondo attraverso relazioni,
pattern, configurazioni, combinazioni di messaggi, livelli logici, grovigli di metafore, climi
emotivi, sensibilità, insomma un nuovo dizionario. Bateson sviluppò un concetto di mente
radicalmente nuovo, che rappresenta secondo alcuni il primo tentativo riuscito di venire
realmente a capo della scissione cartesiana che ha causato un gran numero di problemi
nel pensiero e nella cultura occidentale. Secondo Bateson la mente è una conseguenza
necessaria e inevitabile in un certo grado di complessità, la quale ha inizio molto tempo
prima che degli organismi sviluppino un cervello e un sistema nervoso. Egli sottolineò che
le caratteristiche mentali sono manifeste non solo in singoli organismi ma anche in sistemi
sociali e negli eco-sistemi, che la mente è immanente non solo nel corpo ma anche nelle
vie e nei messaggi fuori dal corpo. Queste osservazioni diventano ancor più significative
se accostate alla teorie del chimico-fisico Ilya Prigogine e alle idee dell’astrofisico Erich
Jantsch. I criteri per la mente sono identici ai criteri per la vita. La mente è l’essenza
dell’esser vivi. Quando Bateson considerava il mondo vivente, ne vedeva I principi di
organizzazione come essenzialmente mentali, con la mente immanente alla materia a tutti
i livelli della vita. Egli pervenne così a una sintesi unica della nozione di mente con la
25 J. McDowell, Il naturalismo in filosofia della mente, in M. De Caro e D. Macarthur (a cura di), La mente e la
natura. Per un naturalismo liberalizzato, Fazi, Roma, 2005 pag. 83
26 F. Varela, Neurofenomenologia, Pluriverso 3, 1997
27 G. Prodi, L’individuo e la sua firma, Il Mulino, Bologna, 1982
28 I criteri di un processo mentale nella riflessione di Bateson sono: 1) una mente è un aggregato di parti o componenti inter-agenti
2) l’interazione tra le parti della mente è attivata dalla differenza 3) il processo mentale richiede un’energia collaterale 4) il
processo mentale richiede catene di determinazione circolari (o più complesse) 5)nel processo mentale gli effetti della differenza
devono essere considerati come trasformati (cioè versioni codificate) della differenza che li ha preceduti 6) la descrizione e la
classificazione di questi processi di trasformazione rivelano una gerarchia di tipi logici immanenti ai fenomeni.
nozione di materia che com’egli sottolineò non era né meccanica né soprannaturale.
Bateson istituì una distinzione chiara tra mente e coscienza, spiegando che la coscienza
non era, o non era ancora, inclusa nel suo concetto di mente. Egli si rifiutò sempre di
parlare della natura della coscienza, dicendo che era una grande questione ancora intatta,
la prossima grande sfida. La maggior parte della letteratura neuro-scientifica assume nei
confronti della questione della coscienza un atteggiamento fisicalista e identitario, ossia
ritengono che gli stati e le proprietà mentali siano identici agli stati e alle proprietà
cerebrali. Data questa impostazione le spiegazioni neuro-scientifiche di questo tipo
risultano riduzionistiche sopratutto nei confronti di fenomeni cognitivi, come per esempio
quelli che riguardano gli aspetti soggettivi della coscienza, definiti qualia in Filosofia della
Mente, che sono così ostici a ridurre ad attività cerebrali da essersi guardagnati
l’appellativo di problema difficile come sopra-accennato e come così teorizzato da David
Chalmers29. In questi casi di ir-riducibilità si tende a parlare di fenomeni emergenti, così
che si possa assumere una prospettiva olistica ritenendo che quando non si riesca a
ridurre un certo fenomeno all’attivazione di una certa area cerebrale, tale fenomeno sia il
risultato delle interazioni tra diverse aree. In effetti nell’esplorazione del cervello, nelle
neuroscienze in generale, seppur si considerano grandi difficoltà vi sono allo stesso tempo
grandi speranze, come scrive Mauro Maldonato: “In poco più di mezzo secolo abbiamo
imparato più cose sul cervello di quanto non ne avessimo imparato nei cinquemila anni
precedenti. Fino alla metà del secolo scorso, l’idea che la ricerca biologica potesse violare
I suoi più reconditi segreti, anche a livello molecolare, non sarebbe stata nemmeno preso
in considerazione. Oggi, l’impaziente sviluppo delle neuroscienze alimenta forti speranze
non solo sulla possibilità di venire a capo di molte malattie neurologiche e psichiatriche,
ma anche di chiarire aspetti sin qui ritenuti inaccessibili e non misurabili come le
preferenze estetiche, il libero arbitrio, l’eterogeneità delle preferenze e dei criteri di scelta,
il ruolo delle emozioni nei processi decisionali ed altro ancora. Nonostante i prodigiosi
progressi, l’Universo della Mente che emerge dall’intricata rete di neuroni resterebbe
incomprensibile se lo si considerasse alla stregua di un sistema formale. La sua
comprensione richiee una ‘nuova alleanza’ tra le discipline che, a diverso titolo,
rivendicano titolarità su tale campo d’indagine.” Quest’ultima riflessione auspica una
collaborazione inter-disciplinare effettiva che in effetti già avviene, come vedremo nel
caso delle neuroscienze cognitive, dell’archeologia cognitiva, della neuroantropologia e
della neuroestetica ma per quanto riguarda la concezione della mente dobbiamo rivolgerci
altrove. Perciò concludiamo il paragrafo, con Michele Di Francesco sintetizzando che nella
Filosofia della Mente attuale “il successo delle teorie biologiche e dei modelli della
cognizione incorporati e distribuiti nell’ambiente, oltrepassano il dualismo mente-corpo, e
producono uno spostamento dell’ asse del mentale in due direzioni solo apparentemente
opposte ma in realtà complementari: l’intrusione della mente nel corpo e l’intrusione della
mente nel mondo30.” Entrambe le direzioni furono preconizzate da Bateson, la prima,
l’embodiment colloca la mente nel corpo, la seconda, l’esternalismo la distribuisce
nell’ambiente. Quest’ultima direzione verrà illustrata nei prossimi capitoli.

29 D. Chalmers, The Conscious Mind: In Search of a Fundamental Theory, Oxford University Press, 1996 (trad.it La
mente cosciente, Mc-Graw Hill, Milano, 1999)
30 M. Di Francesco, Filosofia della Mente, in L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2004, pag. 512
1.2 Da Ludwig Wittgenstein al primo esternalismo

Partiremo dall’analisi linguistico-semantica che Bateson effettua nei confronti nella nozione
di conoscenza, la quale ci permetterà di trovare una chiara analogia con le speculazioni
del filosofo austriaco Wittgenstein che, per iniziare, scrive nei suoi Pensieri diversi: “Io
penso effettivamente con la penna, perchè la mia testa spesso non sa nulla di ciò che la
mia mano scrive..” Lavori sui due autori come quello di Gian Paolo Antonioli 31 indicano che
in entrambi più che una concezione generale del linguaggio c’è una riflessione sugli effetti
della comunicazione, linguistica e non. Una pragmatica della comunicazione o per dirla
con Hilary Putnam un primato della ragion pratica che non diventa mai una concezione
generale del linguaggio. Ma vediamo cosa scrive Bateson in proposito al concetto di
conoscenza: “La nozione generale di ‘conoscenza’ non soltanto è ambigua in quanto
significa sia il ‘conoscere’ (attraverso i sensi, riconoscere o percepire) che il ‘sapere’ (con
la mente), ma cambia – sposta attivamente – il suo significato per ragioni sistemiche
fondamentali. Ciò che percepiamo attraverso i sensi può diventare conoscenza della
mente. ‘Conosco la strada per Cambridge’ potrebbe significare che ho studiato la carta e
posso fornirvi indicazioni; potrebbe significare che sono in grado di ricordare particolari
lungo la strada; potrebbe significare che percorrendo quella strada ‘riconosco’ molti
particolari, anche se prima ero in grado di ricordarne solo pochi; potrebbe significare che,
andando a Cambridge, potrei affidarmi all’’abitudine’, per seguire la strada giusta, senza
dover ‘pensare’ a dove sto andando. E così via”32 Un’analisi simile, che forse ha ispirato
questo passo che abbiamo appena riportato, è quella discussa nelle Ricerche Filosofiche
da Wittgenstein, solo che al posto di conoscenza qui si fa riferimento al concetto di
comprensione, l’autore austriaco si chiede da cosa derivi l’applicazione corretta di
espressioni del genere. Egli analizza l’ipotesi che dietro le manifestazioni soggettive della
comprensione possono esserci stati psicologici33, disposizioni del cervello34 o più in
generale qualche processo psichico più o meno nascosto. In particolare nella prop. 151
delle Ricerche, Wittgenstein ci invita ad un esperimento mentale: “A scriva la successione
numerica 1, 5, 11, 19, 29 e chieda a B di osservare tale successione in modo tale da
scoprire la regola che la governa così da poter poi andare avanti. Ad un certo momento B
dice di saper andare avanti.” Secono l’autore ora molte cose possono essere accadute
che hanno fatto in modo che B sapesse andare avanti nella successione: “a) B attraverso
vari tentativi ha trovato la formula che governa la serie di numeri b) B non pensa alle
formule, mentre guarda in tensione A che scrive la serie, ogni sorta di pensieri confusi
attraversano la sua mente finchè egli si chiede ‘Qual è la succcessione delle differenze?’,
trova questa successione e può dunque proseguire. c) B afferma di conoscere già la
successione e va dunque avanti d) B non dice niente e continua a scrivere la
successione.” Di fronte a queta variegata possibilità di comportamenti Wittgenstein si
chiede: “Ora tentiamo di afferrare il processo psichico del comprendere che sembra
nascondersi dietro quei fenomeni concomitanti più grossolani, e pertanto più appariscenti.
Ma il tentativo non riesce. O, per essere più esatti: non si arriva neppure a un tentativo
vero e proprio. Infatti, anche ammettendo che avessi trovato qualcosa che interviene in
tutti quei casi del comprendere (…), perchè il comprendere dovrebbe essere ‘questo
qualcosa’? Come potrebbe il processo del comprendere essere nascosto, se dicevo ‘ora
comprendo’, appunto ‘perchè’ comprendevo?! E se dico che quel processo è nascosto
(…), come faccio a sapere in che direzione devo cercare? Mi trovo in bell’imbroglio.”35
Wittgenstein rifiuta l’idea che dietro le nostre variegate ed eterogenee manifestazioni che
31 G.P. Antonioli, Il Gioco del linguaggio: una lettura di Bateson attraverso Wittgenstein, in Aa. Vv., Legami con G.
Bateson, Libreria editrice universitaria, Verona, 2006
32 G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, p. 167
33 L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, Einaudi, Torino, 196, prop. 147
34 L. Wittgenstein, Ivi, prop. 149
35 L. Wittgenstein, Ivi, prop. 153
chiamiamo generalmente comprendere debba esserci un processo o un meccanismo di
natura imprecisata che spieghi appunto tali manifestazioni e i comportamenti linguistico-
simbolici concomitanti. E quand’anche noi trovassimo qualcosa che riteniamo essere il
meccanismo del comprendere, non saremmo del tutto certi che vi sia una relazione di
casualità tra questo meccanismo e le eterogenee manifestazioni della comprensione.
Parlando di comprensione, non parliamo di un processo psichico specifico, tutt’al più
esistono processi psichici concomitanti rispetto al comprendere, diciamo che qualcuno
comprende in quanto si comporta in un determinato modo, usiamo cioè criteri
comportamentali e pubblici per attribuire la comprensione; ciò in analogia al modo in cui
usiamo le espressioni ‘sapere’, ‘potere’, ‘essere in grado’; analogamente una persona può
dire di sé che comprende non in base all’ aver esperito qualcosa ma in base alle cir-
costanze in cui ha avuto tale esperienza. La comprensione sembra così essere uno stato
del Soggetto, ma non uno stato psichico, bensì uno stato in cui i soggetti possono
legittimamente essere definiti in base alla ri-conoscibilità pubblica (anche se mai definitiva)
di una loro competenza a fare. Se il mondo che viviamo viene posto innanzi anzichè
essere già dato, la nozione di rappresentazione non ha più un ruolo centrale. Questa è
l’esperienza comune, dove i contesti rilevanti ai quali riferirsi non sono mai già dati ma
piuttosto svelati o posto innanzi da uno sfondo, e quello che risulta come rilevante è ciò
che il senso comune sancisce come tale, sempre in modo contestuale. Per esempio nel
caso della sensazione del dolore, essa è legata alla sua espressione, non tanto alla mera
etichetta linguistica ma piuttosto alla prassi del giuoco linguistico costituito da attività
pragmatiche ed esperienze vissute nelle pratiche sociali. Se questa analisi del linguaggio
wittgensteiniana è condivisibile, allora si potrà constatare come questo discorso sugli usi
psicologici del linguaggio riflette per certi versi la concezione della mente batesoniana, e
l’invariante d’innovazione fondamentale che possiamo estrapolare da questa inter-
polazione è il legame della mente ad un contesto sociale e alle relazioni che si instaurano
in tale contesto attraverso il linguaggio. Una posizione attigua e solidale a questa
concezione che abbiamo cercato di introdurre accostando le riflessioni di Wittgenstein e
Bateson sul significato, nel panorama della filosofia della mente la troviamo come,
abbiamo anticipato, nell’esternalismo o, come denomiato inizialmente e spesso dai filosofi
del linguaggio, esternalismo semantico. Quest’ultima definizione è stata la prima posizione
filosofica a fregiarsi di tale -ismo, si tratta di quella posizione che reputa che il contenuto
semantico degli stati mentali sia definito da condizioni esterne al soggetto. L’esternalismo
semantico propone che il contenuto mentale non dipende solo da ciò che si ha nella testa.
Il termine tecnico preferito per indicare questa dinamica è sopravvenienza, perciò
secondo gli autori di questa prospettiva filosofica, il contenuto semantico non sopr-avviene
su quanto è interno al soggetto (per esempio dentro al cervello) perciò il significato
sarebbe esterno ma in quanto non mette in discussione il fatto che i meccanismi che
corrispondono alla nostra mente siano all’interno del nostro corpo, è tutto sommato una
mossa relativamente cauta. Putnam, negli anni Settanta ha sviluppato la sua forma di
esternalismo semantico attraverso l’ esperimento mentale della Terra Gemella36 da cui lo
slogan ‘meaning’ just ain’t in the head’. Da quest’ultimo stratagemma filosofico ci
sposteremo nel prossimo capitolo sugli sviluppi dell’ esternalismo dagli anni Settanta fino
ad oggi.

36 Si ipotizzi il caso di una Terra Gemella in tutto uguale alla nostra tranne che nella composizione chimica dell’acqua: un
astronauta che vedesse l’acqua della Terra Gemella la chiamerebbe tranquillamente così finché non l’avesse analizzata, scoprendo
che la sua composizione non è H2O bensì XYZ; a questo punto egli affermerebbe che nella Terra Gemella ‘acqua’ non ha lo stesso
significato che sulla nostra Terra, poichè lì significa (cioè si riferisce a) XYZ e qui, da noi, H2O. Se tuttavia non pensiamo
all’astronauta ma a un’ipotetico visitatore terrestre che fosse riuscito a recarsi nella Terra Gemella per esempio nel Settecento (o
comunque anteriormente allo sviluppo della chimica moderna), allora il terrestre e l’abitante della Terra Gemella continuerebbero a
usare lo stesso termine riferendosi (inconsapevolmente) a due sostanze diverse, ma – e questo è essenziale per Putnam – essendo in
possesso delle stesse nozioni sull’acqua: che è incolore, inodore, insapore, che disseta, ecc. Questo esperimento mentale vuole
dimostrare che non sono le conoscenze dei parlanti a determinare il riferimento, ossia che l’estensione del termine non è funzione
esclusiva degli aspetti cognitivi o, in altre parole, che i significati non sono nella testa.
1.3 Le prospettive dell’esternalismo

Come suggerisce William Lycan, da quando è stata scoperta la Terra Gemella


l’esternalismo nella filosofia delle mente si è suddiviso in numerose varianti. Un criterio
importante per sud-dividere le posizioni esternaliste riguarda quale aspetto della mente sia
posto all’esterno del sistema nervoso. Alcuni autori si concentrano esclusivamente sugli
aspetti cognitivi (per esempio Andy Clark e David Chalmers). Altri autori si limitano al
contenuto fenomenico (come William Lycan stesso, Alex Byrne, François Tonneau) mentre
altri ancora considerano processi e meccanismi della mente cosciente (come Ted
Rockwell o Riccardo Manzotti). Per lo più, ma non necessariamente, si ritiene che
esternalizzare la cognizione sia più facile che esternalizzare la coscienza fenomenica.
Precursori di queste posizioni e perciò detti proto-esternalisti, oltre a Bateson con il suo
modello ecologico della mente, sono John Dewey che nella sua teoresi ha sempre rifiutato
la concezione dualista o idealista della mente, elaborando un punto di vista dove
l’ambiente è costitutivo del soggetto, Alfred North Whitehead con la sua ontologia del
processo, James Jerome Gibson con il suo modello della percezione ecologica, tutti e tre
questi autori come vedremo saranno fonti e punti di riferimento per gli autori successivi.
L’esternalismo non nega il fatto ovvio che senza il cervello e il sistema nervoso non si ha
nessuna ‘mente’. Ma mette in discussione: 1) che il cervello sia sufficiente a produrre la
mente 2) che il cervello (o i neuroni e le loro proprietà) sia l’unica base fisica per processi
e/o contenuti mentali. Un gruppo di autori corrisponde a una posizione conosciuta come
mente estesa ( dalla formula inglese extendend mind derivata dal titolo di un famoso
articolo di Clark e Chalmers37. Si tratta di una posizione che, entro certi limiti, estende ed
estremizza un punto di vista presente in certi scritti di Daniel Dennett 38 . Secondo Clark “la
cognizione tracima fuori dal corpo nel mondo circostante”. Per i sostenitori della mente
estesa, la mente non è limitata dalla pelle e dal cranio, poichè in varie attività cognitive
l’organismo umano è collegato con entità esterne in modo tale da creare un sistema
accoppiato che può essere considerato un sistema cognitivo a tutti gli effetti. In un sistema
del genere, tutte le componenti, sia interne che esterne, giocano un ruolo causale attivo e
controllano collettivamente il comportamento. Rimuovendo una componente esterna, si
avrà un decadimento delle competenze comportamentali del sistema, in modo non
dissimile da quando si rimuove una parte del cervello. Clark e Chalmers affermano che
“se, nello svolgere un determinato compito, una parte del mondo funziona come un
processo, che ‘se avvenisse nella testa’ non avremo esitazione a riconoscerlo come parte
del processo cognitivo, allora quella parte del mondo ‘è’ parte del processo cognitivo. I
processi cognitivi non sono (tutti) nella testa!”. Teorie come quelle della mente estesa
stanno rompendo finalmente un tabù riduzionista che limitava alla componente neurale
l’analisi del pensiero. Il cervello, per generare la mente, ha bisogno dell’ambiente esterno.
Un ambiente esterno che con gli oggetti e gli stimoli fa da archivio di dati, da innesco per
processi e da catalizzatore per reazioni psichiche. L’ambiente è parte della mente stessa.
Pensiamo un attimo alla fotografia. Senza le immagini I nostri ricordi spariscono in un
tempo incredibilmente breve, o nel migliore dei casi si confondono e sfumano de-
formandosi e diluendosi. Molte volte abbiamo un ricordo solo perchè il suo stimolo è stato
costantemente rigenerto dalle fotografie. Spesso addirittura non abbiamo il ricordo
dell’evento ma bensì della fotografia di quell’evento. E la mente è fortemente basata sul
ricordo, sulle emozioni e sulle relazioni che stanno dietro al ricordo. Le immagini sono un
esempio diretto di estensione esterna della nostra mente. Quando si usa carta e penna
per portare a termine una complessa operazione matematica, i processi cognitivi sono
estesi agli oggetti utilizzati per l’operazione. In un senso generico nessuno lo negherebbe.

37 A. Clark e D. Chalmers, The Extended Mind, in Analysis, 58, 1998


38 D. Dennett, Making Tools for Thinking, in D. Sperber, Metarepresentations: A Multidisciplinary Perspective,
Oxford University Press, Oxford, 2000
In un senso più preciso è incerto se sia possibile effettivamente estendere i confini della
mente cognitiva alla carta e penna. In ogni caso, però, per i fautori della mente estesa, la
mente fenomenica resta interna al cervello. Lo stesso Chalmers, nella prefazione
dell’ultimo libro di Clark ‘Supersizing the Mind’, scrive che “per quanto riguarda la
domanda più importante: ‘è possibile estendere la coscienza?’ In realtà credo che si
estendano solo le componenti non fenomeniche (non coscienti) degli stati mentali”. Perciò
più impegnativa filosoficamente è la corrente, accennata in precedenza, definita
enattivismo (da enactivism). L’ enattivismo è diventato un framework teoretico ma anche
una metodologia di ricerca che comprende idee chiave come quella dell’autopoiesi, del
determinismo strutturale, dell’ accoppiamento strutturale e della co-emergenza.
L’enattivismo è anche una teoria della mente ma in termini batesoniani nella prospettiva
enattivista “epistemologia, teoria della mente e teoria dell’evoluzione sono in un certo
senso la stessa cosa”. Le basi filosofiche dell’ enattivismo possono essere trovate anche
nello stesso Wittgenstein e nella riflessione del fenomenologo Maurice Marleau-Ponty,
come anche in elementi della psicologia di Jean Piaget e di Lev Vygotsky. Inoltre
possiamo trovare similitudini anche nell’ experientalism di George Lakoff e Mark Johnson
e nei lavori di Eleanor Rosch e Evan Thompson. Per tracciare le linee generali di questa
posizione filosofica partiremo dalla relazione tra entità e contesto. Il primo problema è
‘cos’è che ci fa considerare l’entità separata dal contesto’. La nozione di organizzazione è
usata per descrivere le caratteristiche di un’entità che permette all’osservatore di
distinguerla dal resto. Qualche entità possiede un’organizzazione complessa, come
ricaviamo dalla teoria della complessità. Un sistema è complesso se un buon numero di
agenti in-dipendenti inter-agiscono l’uno con l’altro in un buon numero di modi. I sistemi
complessi creano loro stessi, nel senso che il loro divenire è dovuto anche alle loro
interazioni interne, questi sistemi che creano continuamente loro stessi sono chiamati
autopoietici riprendendo gli studi di Maturana e Varela. La cognizione è vista una
caratteristica di tutti i sistemi viventi, come ‘conoscenza in azione’ come affermano gli
autori cileni: “all doing is knowing and all knowing is doing”. L’errore sta nel vedere
l’ambiente come prescritto alla struttura dell’entità invece di vederlo proscritto a certe
caratteristiche. Secondo l’enattivismo la mente è dipendente o identica con le inter-azioni
tra il mondo e i soggetti. Secondo un articolo dei filosofi Kevin O’Reagan e Alva Noë la
mente è costituita dalle contigenze senso-motorie tra il corpo del soggetto e il mondo
circostante. Una contingenza senso-motoria è qualcosa di simile alle affordance di J.
Gibson: essa è un’occasione di interazione tra il corpo e il mondo circostante, un esempio
banale è quello di una forbice che ha tra le sue contingenze senso-motorie quella di
essere presa infilando il pollice e l’indice e agendo in un certo modo. A. Noë ha accentuato
l’aspetto epistemico della sua versione di enattivismo, suggerendo che anche gli stati
fenomenici non siano altro che ciò che il soggetto sa di poter fare in una certa circostanza:
“quello che la percezione è, tuttavia, non è un processo nel cervello, ma un’attività esperita
da parte dell’organismo come un interno. L’enattivismo sfida le neuroscienze e propone
nuovi modi di intendere le basi neurali della percezione e della coscienza”39. In seguito
Noë ha pubblicato una versione sintetica della sua teoria in cui afferma che il grande
problema è che molti hanno cercato, e continuano cercare, la coscienza dove non c’è:
“Dovremmo invece cercarla là dove essa si trova. La coscienza non è qualcosa che
accade dentro di noi. Piuttosto, è qualcosa che facciamo e creaiamo. Meglio: è qualcosa
che realizziamo. La coscienza assomiglia più alla ‘danza’ che alla ‘digestione’. (…) Dove
finiamo noi, e dove inizia il resto del mondo? Non vi è alcuna ragione per ritenere che il
confine decisivo
sia collocato nei nostri cervelli o sulla nostra pelle.”40 Esiste poi un esternalismo radicale
che si differenzia anche dalll’ enattivismo in quanto suggerisce la necessità di procedere a

39 A. Noë, Action in Perception, MIT Press, Cambridge, MA, 2004


40 A. Noë, Perchè non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza, Raffaello Cortina, Milano, 2010
una totale revisione ontologica delle categorie che descrivono la mente e il mondo fisico.
Un suo esponente, Ted Rockwell ha pubblicato un vivace attacco contro tutte le forme di
dualismo e di internalismo. Secondo Rockwell la mente emerge non solo dall’attività
cerebrale e neurale ma da un insieme articolato composto dal cervello, dal corpo e dal
mondo esterno. Ha contestato alle neuroscienze il fatto di avallare forme più o meno
esplicite di materialismo cartesiano. Rockwell trae ispirazione anche dall’opera di J.
Dewey e sviluppa la tesi secondo cui il cervello, il corpo e l’ambiente diano luogo ad un
sistema dinamico da lui chiamato behavioral field, che potrebbe essere la mente. Un’altra
posizione interessante è stata sviluppata e difesa dal filosofo Ted Honderich, lui stesso l’ha
definita esternalismo radicale in quanto è ben consapevole delle conseguenze ontologiche
della sua teoria. Uno dei suoi esempi preferiti è il seguente: “ciò che è per un soggetto
essere coscienti di una stanza, non è altro che un modo di essere della stanza” 41. Per
questo autore ‘la coscienza è un modo per il mondo di esistere’42. Citiamo ora un’altra
prospettiva di esternalismo così detto fenomenico sviluppato da Riccardo Manzotti. Egli ha
criticato la separazione tra soggetto e oggetto, in quanto potrebbe essere l’esito di
ingiustificati assunti filosofici piuttosto che la manifestazione di una contrapposizione nella
realtà. Il Fossato Galileiano, come è stato definito, potrebbe non essere così profondo: ciò
che chiamiamo esperienza fenomenica e ciò che chiamiamo realtà fisica potrebbero
essere solo due modi diversi (e simmetricamente incompleti) di riferirsi allo stesso
processo. Adottando un’ontologia basata sul processo si potrebbero ri-formulare molti dei
problemi classici che riguardano la mente e la percezione. Scrive Manzotti in
collaborazione con Vincenzo Tagliasco: “Il soggetto è l’insieme delle relazioni intenzionali
che costituiscono il contenuto del sé. La mente non è più qualcosa di distinto dalla realtà
come nella tradizione dualista, non è una funzione trascendentale in senso kantiano, non
è una sostanza separata, non è una costruzione sociale, non è una costruzione a partire
da misteriose entità inspiegabilmente dotate di significato, non è identica a un oggetto
fisico quale il cervello privo di ogni possibilità di produrre qualcosa di etereo come il
significato, non è più solo un concetto linguisticamente utile, non è un insieme di
disposizioni o di funzioni privo di un dichiarato ed esplicito supporto ontologico, ma è una
‘parte della realtà’.”43 Ultima proposta che includiamo in questa breve rassegna delle
prospettive dell’esternalismo è quella del fisico Ignazio Licata, anch’egli considera
l’ontologia dei fatti cognitivi come un’ontologia dei processi alla Whitehead, processi
mentali come fenomeni temporalmente estesi che assumono la forma di complesse
strutture inter-attive. Ciò che chiamiamo mente per Licata non è un mero puzzle di tasselli
neurali. Certo questo puzzle è una condizione necessaria per una fisiologica attività
cognitiva perchè “nessuno di noi ha mai visto andare in giro una mente cosciente senza
cervello come il naso del racconto di Gogol”44. Pur tuttavia, esso non è affatto condizione
sufficiente, perchè lo spazio che individua questa attività non è racchiuso entro confini di
solitarie scatole craniche. Invece esso è al di fuori di questi confini e si costituisce nel
contesto dinamico di interazioni finemente distruibuite tra individui e individui, tra individui
e mondo. Contro le tendenze cranio-centriche, di certa scienza cognitiva, questo autore
propone una visione alternativa dei fatti cognitivi centrata sulle basi sociali ed esperienziali
della mente. Gli aspetti neurali non sono esclusi, pena il paradosso del naso di Gogol,
bensì integrati entro il contesto di un naturalismo minimale: è innegabile che a certi stati
cognitivi corrispondano certi correlati neurali ma la forma di questa corrispondenza non è
univoca né rigidamente determinata. Si tratta piuttosto di corrispondenze fluide, soggette a
imprevedibili e continui mutamenti, che ri-modellano incessantemente il puzzle, un
intricato tessuto di giochi inter-attivi tra agenti cognitivi e mondo.
41 T. Honderich, Radical Externalism, Journal of Consciousness Studies , 13, 2006
42 T. Honderich, On Consciousness, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2004
43 R. Manzotti e V. Tagliasco, Coscienza e realtà. Una teoria della coscienza per costruttori e studiosi di menti e
cervelli, Il Mulino, Bologna, 2001, pag. 237-238
44 I. Licata, La logica aperta della mente, Codice Edizioni, Torino, 2008
1.4 Premesse e risultati delle neuroscienze

I neuroni specchio saranno per la psicologia


quello che il DNA è stato per la biologia.

Vylamanur Ramachandran

Accostando la neurobiologia, la neurofisiologia e la biologia evoluzionistica in questo


paragrafo vedremo come alcune idee di Bateson potrebbero aiutare a riflettere in modo
fecondo su alcuni concetti fondamentali come quelli di evoluzione e apprendimento. Poi ci
dedicheremo brevemente agli studi sui neuroni specchio, un argomento che si ritiene il più
promettente tra quelli che potrebbero spiegare il fenomeno dell’empatia, presentato da
alcuni teorici come la possibile ancora di salvezza per una nuova civiltà. Innanzitutto
partiamo dalle neuroscienze, individueremo il livello di ricera che ci interessa per la nostra
ricerca, ma dando un quadro generale delle suddivisioni di questa disciplina, che in ordine
di complessità crescente sono: 1) neuroscienze molecolari, che studiano il cervello a
livello chimico elementare 2) neuroscienze cellulari, che hanno come bersaglio le cellule
nervose e il loro comportamento 3) neuroscienze dei sistemi, che si occupano delle
costellazioni di neuroni che formano circuiti preposti a funzione semplici quali la visione o il
movimento volontario 4)neuroscienze comportamentali, che esaminano le funzioni
integrate come percezione o coordinazione 5) neuroscienze cognitive, che hanno lo scopo
di capire come il cervello crea la mente.45 Il rischio è quello di ridurre un livello superiore a
quello inferiore, fino ad arrivare al molecolare. In questo modo si cade in un riduzionismo
ingenuo o in un neurocentrismo. La protezione ad un rischio del genere è quella che ci
viene proposta dalla biologia evoluzionista, in particolare affidandoci al concetto di analisi
così come viene illustrato da Ernst Mayr in cui la differenza sostanziale tra analisi e
riduzione è che la prima viene usata per capire sempre più informazioni senza però
sostenere che le parti più piccole possano fornire tutte le risposte mentre nella seconda si
prevede di poter conoscere un sistema complesso conoscendo tutte le componenti più
piccole. Mayr sostiene che molte proprietà biologiche siano emergenti in senso empirico,
ossia generate dall’interazione delle parti, pertanto, anche se da un punto di vista
quantitativo non cambia nulla, dal punto di vista qualitativo emergono nuove proprietà:
l’emergenza di caratteristiche qualitativamente nuove rappresenta la norma nel mondo dei
viventi. I livelli non si esauriscono nel livello precedente, a causa del fallimento della
strategia riduzionista, e ciascun livello è caratterizzato da una maggiore complessità di
elementi che implicano un maggior numero di interazioni quindi di proprietà emergenti,e
anche un più diffuso ruolo del caso. Quindi man mano che si sale di livello verso oggetti di
studio più complessi, l’indagione si allontana progressivamente dal paradigma delle
scienze fisico-chimiche. Le riflessioni di Mayr sulle problematiche epistemologiche
possono aiutarci ad approcciarci al livello che ci interessa, cioè quello delle neuroscienze
cognitive, rifiutando perciò il riduzionismo in quanto espressione del fisicalismo, e
sostenendo l’autonomia epistemologica della biologia. Pertanto se l’indagione è
puramente fisiologica la ricerca rimarr nel campo delle scienze dure/esatte, se invece
l’indagine è sugli aspetti cognitivi, sulla modificazoine del cervello in seguito al rapporto
con l’ambiente, la ricerca assume connotati storici, pertanto il quinto livello, le
neuroscienze cognitive, è paragonabile alla biologia evoluzionistica, dove non esistono
leggi in quanto ci si occupa di fenomeni unici46. Per chi occuperà di neuroscienze cognitive
la classica contrapposizione natura/cultura dovrà essere profondamente ri-considerata.
Vale la pena approfondire questo aspetto, citando, un passo importante verso una visione
unitaria di natura e cultura, Stephen Sheldon Colvin, che scrisse:

45 M. Bear, B. Connors, M. Paradiso, Neuroscience: Exploring the Brain, Lippincott Williams & Wilkins,
Philadelphia, PA, 2001, pag. 13
46 E. Mayr, L'unicità della biologia. Sull'autonomia di una disciplina scientifica, Raffaello Cortina, Milano, 2005
“As a fundamental biological phenomenon, memory signifies the modification of an
organism by contact with its environment. In this way it lies at the very basis of the
learning process.”47 La memoria, senza la quale non potrebbe darsi cultura, è vista in
questo caso un fenomeno biologico di auto-modificazione degli organismi. Anche Dewey
sosteneva un’idea simile quando si esprime dicendo che ogni forma di vita negli organismi
superiori conserva constantemente alcune conseguenze delle sue precedenti esperienze,
e che le decisioni che si compiono, il corso delle nostre azioni, sono in larga misura
dipendenti dall’ambiente che ci modifica e ci stimola a rispondere. In Esperienza e Natura
afferma che ogni spirito (anima) è in connessione con un qualche corpo organizzato, e che
ogni corpo esiste in un ambiente naturale con cui intrattiene relazioni di adattamento. In
questo modo Dewey tentava di risolvere usando in parte nuovi termini il dualismo
cartesiano, dulcis in fundo con la nozione psico-fisico, ossia sostenendo che lo psichico
sia una qualità del fisico: qualità che non è disponibile nell’ in-animato. Perciò la sensibilità
e l’anima (mente) sarebbero delle proprietà che dipendono dall’organizzazione di un
organismo: “ogni volta che le attività delle parti costitutive di uno schema organizzato di
attività sono di natura tale da condurre alla perpetuazione dell’attività schematizzata,
esiste la base per la sensibilità”48. Vediamo ora come Bateson sviluppa la nozione di
adattamento e come sia stata fertile la relazione batesoniana tra evoluzione e
apprendimento nelle neuroscienze cognitive. Il contributo di Bateson è fondante in quanto
pone in relazione evoluzione e apprendimento in qualità di due processi stocastici
finalizzati alla sopravvivenza dell’organismo attraverso l’adattamento all’ambiente, perciò
vede l’apprendimento come l’aspetto flessibile dell’adattamento. L’ evoluzione e l’
apprendimento devono conformarsi alle stesse regolarità e meccanismi, in Mente e
Natura sostiene che tanto l’evoluzione quanto l’apprendimento, inteso come una tipologia
di adattamento somatico indotto dall’abitudine e dall’ambiente, siano processi stocastici. Il
cambiamento evolutivo e quello somatico (compreso l’apprendimento), condividono quindi
una natura stocastica che interagisce: un sistema è dentro l’individuo ed è chiamato
apprendimento, l’altro è proprio delle popolazioni ed è definito evoluzione. I due sistemi
lavorano in sinergia e l’unità è necessaria ai fini della sopravvivenza. Egli vede il
parallelismo tra evoluzione biologica e apprendimento mentale riprendendo l’idea che nel
processo creativo debba esserci sempre contenuta una componente casuale, come
spiegava Ashby nell’ Introduzione alla cibernetica secondo cui nessun sistema può
produrre niente di nuovo a meno che non contenga una sorgente di casualità. Il processo
creativo è quindi stocastico, la genesi di nuove idee dipende dalla ri-combinazione e dalla
variazione delle idee che già si possiedono. L’esperienza, imponendo cambiamenti nel
comportamento e nel corpo, crea quella relazione tra organismo e ambiente che viene
definita adattamento. L’ambiente è legato alla mente, l’evoluzione all’apprendimento, la
natura alla cultura. Più specificamente per quanto riguarda il cervello, la scoperta di una
plasticità ereditaria in esso, o più esattamente una plasticità trans-generazionalmente
estesa49, ci indica che l’evoluzione della specie (filogenesi) e lo sviluppo dell’individuo
(ontogenesi) non sono processi separati ma bensì continui e caratterizzati da una
comunanza di meccanismi che è oggetto degli studi della biologia evolutiva dello sviluppo.
La nozione di plasticità verrà ripresa nel prossimo paragrafo per quanto riguarda le
ricerche di archeologia cognitiva. Ora vorremo sviluppare brevemente come anticipato
l’argomento dei neuroni specchio dando credito alle conseguenze teoriche che gli
esponenti di questa scoperta rilevano di importanza capitale nelle teorie sulla cognizione
sociale. Ciò potrà sembrare una spiegazione non solo di alcuni meccanismi
dell’evoluzione umana ma anche di un fenomeno ritenuto fondamentale per la creazione di

47 S.S. Colvin, The Learning Process, The Macmillan company, New York, 1921
48 J. Dewey, Esperienza e Natura, trad. Pietro Bairati, Mursia, Milano, 1973, pag. 312
49 E. Lamm, E. Jablonka, The Nurture of Nature: Hereditary Plasticity in Evolution, Philosophical Psychology, 2008,
21:3, 305-319
una società più solidale e cooperativa, e cioè l’empatia. Ma come vedremo, questo
approccio non può esimirsi dalla collaborazione di alcuni campi specificamente non-
riduzionistici che in questo caso sono rappresentati dalla fenomenologia husserliana e
dalla neurofenomenologia vareliana. La scoperta di questo tipo di neuroni in esame ha
voluto dar prova nelle riflessioni dei suoi fautori di un tessuto di inter-soggettivitò pre-
cognitiva e pre-riflessiva che consentirebbe agli esseri umani di comprendersi e di
identificarsi reciprocamente; un canale di comunicazione intuitivo e immediato, in
quest’ottica caratteri specifici dell’ empatia, che sembra attivo sopratutto in rapporto allo
stato di sofferenza dell’altro. In questo senso l’introspezione e la cognizione non
basterebbero alla produzione del fenomeno empatico seppur affinerebbero tale capacità.
Per quest’ultima sarebbe necessaria l’abilità di leggere gli stati mentali altrui (una così
detta Teoria della Mente), che Vittorio Gallese ed Alvin Goldman hanno ipotizzato si sia
evoluta a partire dal sistema dei neuroni mirror dei primati. Dalle ipotesi confermate poi per
via sperimentale sono nate teorie come la Simulation Theory che propone una Teoria della
Mente legata alla capacità di porsi nei panni dell’altro: inferire gli stati mentali altrui
consisterebbe nel simulare il mondo nella prospettiva dell’altro, sperimentando stati
mentali ‘come se’, replicandoli, senza necessariamente provarli o condividerli 50. Noteremo
come questo approccio sottolinea l’importanza dell’esperienza nella formazione dell’abilità
così detta Teoria della Mente che consente di sapere cosa l’altro sta pensando, sentendo,
facendo. La presenza nel cervello umano dei neuroni specchio in questa visione ha un
immediato rilievo per la concezione della natura umana e per le origini stesse della specie.
Essa infatti fa della socialità una dimensione primaria, in difetto della quale l’ io non
assumerebbe consapevolezza di sé, e porta a pensare che il legame empatico tra esseri
originariamente sprovveduti e consapevoli della loro comune vulnerabilità e precarietà sia
stato lo strumento principale di sopravvivenza e di adattamento attraverso la solidarietà e
la cooperazione all’interno del gruppo. Molti ricercatori in questo campo hanno lavorato
per elaborare una teoria della natura umana e un modelo psico-patologico che implicava
una dimensione tale, facendo riferimento ad un bisogno di appartenenza e di integrazione
sociale primario, geneticamente determinato. Oppure riferendosi al fenomeno empatico
come emozione intuitiva correlata a tale bisogno di socialità, universale ma più spiccata in
alcuni soggetti, per esempio negli intro-versi che spesso pagano questa ricchezza in
termini di disagio ed esclusione51. Si può immaginare quindi dopo queste considerazioni
con quanto entusiasmo è stata accolta la scoperta dei neuroni specchio ma ovviamente
questa non è la soluzione a tutti i mali. Per quanto si possa valutare il legame sociale (il
cosìdetto tessuto inter-soggettivo) come prerogativa neuro-fisiologica di ogni essere
umano il fenomeno empatico non ha solo effetti positivi ma anche negativi come per
esempio l’omologazione culturale, vale a dire la trasmissione e l’interiorizzazione di codici
normativi che, nel loro insieme, oltre a determinare il cosìdetto senso comune, possono
ridurre la varietà dei modi di sentire, di pensare e di agire individuali e perciò avere
un’intrinseca pericolosità nella soppressione le componenti culturalmente innovative
presenti in una cultura. Nonostante questo, le riflessioni dei promotori dei neuroni
specchio sono da lodare per alcune conclusioni filosofiche a cui portano, scrivono per
esempio Giacomo Rizzolatti e Corrado Sinigaglia:
“Il sistema dei neuroni specchio appare così decisivo per l’insorgere di quel terreno
d’esperienza comune che è all’origine della nostra capacità di agire come soggetti non

50 V. Gallese, A. Goldman, Mirror neurons and the simulation theory of mind-reading, Trends in Cognitive Sciences,
1998, 12, 493-501
51 A tal proposito è nata in Italia nel 2006 la Lega Italiana per la tutela dei Diritti degli Introversi (LIDI),
un’Associazione ONLUS nata sulla base della riflessione del dott. Luigi Anapeta sulla condizione degli introversi
nel nostro mondo, esplicata nella stesura del saggio Timido, docile, ardente. Manuale per capire ed accettare valori
e limiti dell’introversione (propria o altrui), la cui lettura ha determinato l’aggregazione di un gruppo di soggetti
interessati al probema e intenzionati ad affrontarlo non solo sul piano personale, ma anche ideologico, sociale,
culturale e politico.
soltanto individuali ma anche e sopratutto sociali.(…) Ciò mostra quanto radicato e
profondo sia il legame che ci unisce agli altri, ovvero quanto bizzarro sia concepire un ‘io’
senza un ‘noi’”.
Il cervello umano perciò non registra semplicemente la realtà ma inter-agisce e co-evolve
con essa. Così noi siamo gli esseri che si fanno accadere (to en-act), gli esseri che si
mettono in atto, in quanto vuoti (“teste vuote rivolte verso il mondo” con una battuta di
Merleau-Ponty), e da quel vuoto traiamo la tensione che ri-nvia ad esser-ci e ad esprimer-
si. Adesso per concludere il paragrafo cercheremo di evidenziare l’importanza per questo
tipo di ricerche della coadiuvazione della fenomenologia, definibile sinteticamente come
quella disciplina che studia l’esperienza cosciente così come è esperita dal soggetto, in
maniera privata, accessibile ed esclusivamente in prima persona. L’approccio
fenomenologico nello studio del cervello (nelle neuroscienze) può essere d’aiuto al fine di
evitare il riduzionismo e di identificare correlati neurali con processi mentali: è infatti
fondamentale individuare con precisione gli aspetti mentali per poi poterli relazionare con
la neurofisiologia, ma proprio grazie all’ approccio fenomenologico si può passare dai livelli
di maggiore complessità a quelli di minore complessità (e questo è il cosidetto approccio
top-down che si contrappone a quello bottom-up) all’interno delle neuroscienze. Le
spiegazioni che cercano di spiegare fenomeni cognitivi superiori con analisi neuro-
scientifiche hanno quindi un limite. Criticheremo brevemente queste analisi perchè
riteniamo che ciò che rende intellegibile le immagini dell’attività del cervello52 è la loro
lettura fenomenologica, per quanto l’osservazione del comportamento esterno sia una
fonte di informazione sull’attività cerebrale è l’esperienza soggettiva che si correla a cosa
vede la persona esaminata che conta e le immagini funzionali del cervello non si correlano
alla realtà esterna ma solo all’esperienza percettiva. La percezione dipende da come si
attivano le nostre aree cerebrali percettive, ma rilevare quest’ultime non permette di
rendere intellegibile l’esperienza della percezione soggettiva. Essa resta al di fuori della
portata di queste nuove scienze e riprendendo il discorso fenomenologico aperto da
Husserl: “descrivendo l’interno mondo in termini oggettivi, la scienza ha relegato l’uomo in
uno spazio anguto, erodendo l’aspetto soggettivo della conoscenza.” Il riduzionismo nelle
neuroscienze cognitive è pertanto il tentativo di rendere oggetto la mente umana. Ma
questo atteggiamento ha perciò forti limiti, l’elemento soggettivo è parte essenziale della
mente, sicchè studiare la mente stessa tentando di espungere la soggettività porterà
sempre a qualcosa di incompleto. Se la sfida e il futuro delle neuroscienze cognitive sarà
quello di esplorare nuove vie in grado di ampliare, e non restringere, la ricerca degli aspetti
soggettivi mantendendo un metodo sperimentale allora in questo senso esse
accoglieranno allora la richiesta husserliana di essere un discorso che risalga all’essenza
del soggetto rispettando-lo, allora troveranno l’umano pur mantenendo la razionalità, ciò
che in alcuni casi è già successo in altri campi del sapere, come quello artistico. Ma invece
ora cerchiamo di vedere come altre discipline stanno provando a far questo.

52 La ricerca nelle neuroscienze cognitive si avvale di diverse tecniche di rilevazione di neuro-immagini, ossia
strumenti in grado di registrare il tipo di attivazione delle varie aree cerebrali, per poi rappresentare l’attività
cerebrale o sotto forma di immagine (come nel caso delle tecniche PET e fMRI) o sotto forma di tracciato (come
nel caso della tecnica EEG).
1.5 Le neuroscienze in archeologia e antropologia

In quest’ultimo paragrafo del primo capitolo vedremo come l’archeologia e l’antropologia si


rapportano alle scoperte neuroscientifiche e quali sono sull’argomento della mente le
proposte più interessanti che ci arrivano da questi campi, da avvalorare o da confutare. Le
neuroscienze hanno apportato un nuovo approcio per la comprensione dell’impatto della
cultura sul sistema nervoso (e viceversa) che ha aperto un nuovo tipo di collaborazione
inter-disciplinare tra archeologia e antropologia. Alla base di questa sinergia vogliamo
concentrarci su temi che abbiamo trattato nei paragrafi precedenti: la neuroplasticità del
cervello e sopratutto la mente estesa. A nostro parere un’importante chiave di
cambiamento in queste ricerche giace nella comprensione inter-disciplinare di alcuni
processi, in particolare su come il nostro plastico e acculturato cervello si costituisce entro
l’ampia rete estesa degli artefatti non-biologici e delle pratiche culturali che delineano i
confini spazio-temporali della mappa della cognizione umana. I concetti di cultura,
cervello, corpo e mente, sono semplicemente termini usati per separare analiticamente
qualcosa che si è evoluto e può solamente esistere in un’inseparabile unità ontologica. Qui
non si vuole più insistere sulle trappole del riduzionismo e del neurocentrismo, ma porre
attenzione alla relazione tra cognizione e cultura. L’archeologo cognitivo, Lambros
Malafouris ci suggerisce che: “we should see culture as the enactive process that bring
forth, envelops and partially constitutes human cognitive and emotional lives. (…) will help
us understand better the reciprocal interaction between brain and culture, is the way
forward but also a big challenge for neuroscience”.Possiamo perciò parlare del co-
intervento costitutivo tra cognizione e cultura materiale come un punto di arrivo che deriva
dalle ricerche e dai risultati dell’archeologia cognitiva. Le soluzioni che sono state
avanzate per sciogliere la complessa ricorsività delle relazioni tra cervello-corpo-cose in
un’unità analitica singola si avvicinano molto alle riflessioni sul concetto di complesso
flessibile organismo-nel-suo-ambiente fatte da Bateson, come per esempio scrive in
Un’Unità Sacra “Abbiamo ormai ottenuto, spero, la dimostrazione empirica che queta
premessa non sta in piedi; in effetti l’unità di sopravvivenza è l’organismo nell’ambiente e
non l’organismo contro l’ambiente.” In questa prospettiva Malafouris afferma che il cervello
umano, da qualche milione di anni, è “profoundly embodied, materially engaged and
culturally situated bio-psycho-social artefact”. Questo autore inoltre ha introdotto la
nozione di brain artefact interface (BAI) per denotare un tipo di mediazione tecnologica
(strutture materiali, processi, oggetti o altri apparati e pratiche socio-materiali) che abilitano
la configurazione di un dinamico allineamento o sintonizzazione tra plasticità neurale e
cambiamento culturale. L’assunzione teorica di fondo dietro l’introduzione del concetto di
BAI è che: “the functional structure and anatomy of the human brain is a dynamic
construct re-modeled in detail by behaviourally important experiences which are mediated,
and often costituted, by the use of material objects and cultural artefacts which for that
reason shoud be seen as continuous integral parts of the human cognitive architecture”53.
Queste riflessioni di Malafouris ci danno un riconoscimento simile a quello di Bateson che
vedeva l’epistemologia in errore perchè per troppo tempo ha valorizzato troppo il versante
del soggetto trascurando l’oggetto. Ma questi studi sull’inter-azione tra mente-corpo-
oggetti stanno dando nuova linfa vitale a questo tipo di ricerche che esplorano gli effetti
temporanei e permanenti di quella che è definita incorporazione di oggetti inanimati e
strumenti in un ‘body schema’54 . E anche nella riflessione storico-filosofica ci sono

53 L. Malafouris, The brain-artefact interface (BAI): a challenge for archaeology and cultural neuroscience,
McDonald Institute for Archaeological Research, University of Cambridge, 2010
54 A. Berti, F. Frassinetti, When far becomes near: remapping of spacec by tool use, Journal of Cognitive
Neuroscience, 2000, 12:3, 415-420
interpreti di un tipo di interpretazione diversa della storia della filosofia che ispirata anche
dalle ricerche di Bateson rivede la stessa filosofia come la riflessione dell’uomo sul proprio
corpo, come una filosofia del corpo55. Ora invece affronteremo brevemente la riflessione di
due autori della letteratura antropologica. Il paleo-antropologo Terrence Deacon come
evento principale che segna la transizione tra cognizione animale e cognizione umana
individua l’introduzione del simbolo. Il simbolo qui è intenso, in senso peirceano, nella
capacità di astrazione, di simbolizzazione, astrar-si fortemente dal contesto. Deacon dirige
la sua ricerca verso una teoria in grado di spiegare la nostra esistenza simbolica senza
materialismi semplicistici e perciò componendo una formulaizione in negativo inserendo
nel suo discorso nozioni come quella di fenomeno en-tenzionale. Un banale esempio
chiarirà in quale senso si situa la ricerca di questo autore; poniamo che la lettura di un
libro può cambiare le idee di una persona. Ma nella stretta dinamica di questo evento non
c’è nulla di fisico, nel senso che l’informazione del libro non passa fisicamente nel cervello
del lettore, dove viene elaborata per diventare contenuto mentale. Non c’è traccia dei
processi chimico-fisici da cui siamo partiti. Secondo questo autore, contro-intuitivamente,
proprio questa mancanza, o assenza, o ancora incompletezza di questi processi semiotici-
teleologici è la fonte della loro peculiare influenza sul mondo fisico. Un po’ come ‘lo zero
nel mondo dei numeri’. Nel ripercorrere l’emergere della mente a partire dalla termo-
dinamica e dall’auto-organizzazione dei sistemi viventi, Deacon vuol dimostrare che tutto
quello che non ha immediatezza fisica, come le dinamiche mentali, può essere potente
proprio come quei processi fisici che generano queste dinamiche. Proprio come ‘la
materia di cui sono fatti i sogni’. In questo autore possiamo troviamo non solo avvalorata la
tesi della ferita dell’eredità cartesiana ma anche uno schizzo di un’approccio che tenta di
reintrodurre fenomeni intenzionali nelle scienze naturali, “per cercare di superare la terra di
nessuno cartesiana che separa lo studio del cervello da quello della mente’ dell’
emergenza della mente dalla materia: proprio mentre ci davano il dominio di tanta parte
del mondo fisico intorno e dentro di noi, i nostri strumenti scientifici ci hanno allo stesso
tempo alienato da questi stessi regni. È tempo di ritrovare la strada di casa ”56. Infine
acceniamo al lavoro del neuroscienziato Merlin Donald che indaga a fondo l’evoluzione
reciproca di linguaggio e cognizione, indicando nella capacità umana di integrare il
linguaggio nel proprio sistema cognitivo (con conseguenti modificazioni biologiche) la sua
specificità. In particolare egli individua tre livelli di sviluppo filogenetico della mente umana:
mimetica, mitica e teorica. Ciascun livello permette lo sviluppo di sistemi semiotici più
complessi che a loro volta permettono un’evoluzione della mente. Il grande sviluppo del
sistema dei neuroni specchio nella storia degli umani invece di essere avvenuto circa
cinquantamila anni in concomitanza con la comparsa delle prime forme di
rappresentazioni visuo-grafiche, come sostiene Ramachandran, potrebbe essere avvenuto
circa un milione e mezzo di anni fa con la comparsa di homo erectus, ed essere stata la
base neurale che permette la nascita del primo stadio, la mente imitativa di cui parla
Donald. Le capacità cognitive che stanno alla base di tale stadio mentale che saranno poi
ereditate dalla mente linguistica: l’intenzionalità, la generatività, la comunicatività, la
referenzialità, l’illimitatività e l’endogenesi sono poi anche quelle che contraddistinguono il
sistema dei neuroni specchio degli esseri umani da quello dei primati. La tesi donaldiana
è che la mente dell’uomo attuale si sia evoluta da quella dei primati attraverso una serie di
grandi adattamenti, ognuno dei quali portò alla comparsa di un nuovo sistema
rappresentativo. Ciascun nuovo sistema di rappresentazione si è conservato intatto
nell’architettura mentale: la nostra mente è quindi un mosaico delle vestigia cognitive dei
primi stadi dell’evoluzione umana.57 Questa struttura rappresentativa della mente umana

55 R. Shusterman, Thinking through the Body: Essays in Somaesthetics, ,Cambridge University Press, Cambridge,
MA, 2012
56 T. Deacon, Natura incompleta. Come la mente è emersa dalla materia, Le Scienze, Roma, 2012
57 M. Donald, L’evoluzione della mente. Per una teoria darwiniana della coscienza, Garzanti, Milano, 2004
racchiude in sè le conquiste sia di tutti i nostri progenitori ominidi sia delle specie di
scimmie antropomorfe, così che la comprensione dell’architettura cognitiva dell’uomo è
intimamente legata alla comprensione del processo evolutivo della cognizione umana.

CAPITOLO 2
Gregory Bateson nell’ Estetica
3.1. Ri-dimensionamenti dell’ Estetica Contemporanea
Interroga la belllezza della terra, interroga la bellezza del mare,
interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo,
interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno;
interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte.
Interroga le fiere che si muovono nell’acqua, che camminano sulla terra,
che volano nell’aria: anime che si nasconodono, corpi che si mostrano;
visibile che si fa guardare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno:”Guardaci, siamo belli!”
La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?

Sant’Agostino

3.1.1. Estetica naturalizzata

Per millenni c’è stata una solidarietà tra bello artistico e bello naturale, essa era il
fondamento implicito della teoria dell’arte come imitazione della natura, teoria che risale al
pensiero di Platone e di Aristotele. Ma a fine Settecento il clima cambiò con Immanuel
Kant, che può essere l’ultimo grande pensatore dell’età moderna il quale ritiene che la
bellezza di un fiore conti di più della bellezza di un quadro. Già con lui l’arte non si fonda
più sull’imitazione, ma viene concepita come creazione geniale dell’artista, ma comunque
nella sua teoria ancora sussite un saldo rapporto tra arte e natura – per Kant il genio è “la
disposizione innata dell’animo per mezzo della quale la natura dà la regola all’arte” 58 - che
in seguito si allenterà fino a spezzarsi. L’idealismo, in seguito, considererà la natura come
un prodotto della capacità creativa dello spirito, del sogetto; di conseguenza, il bello
naturale non verrà concepito come un momento autonomo ma sarà costretto a
sottomettersi al bello artistico. L’estetica diventa perciò quasi esclusivamente filosofia
dell’arte e addirittura le osservazioni sul bello naturale come annota Teodor. W. Adorno
“appaiono codine, noiose, antiquate”59, sempre sul punto di cadere nel banale, nel lezioso
o nel kitsch. Se questi brevi riferimenti a Kant e Adorno ci danno un’idea su come si è
evoluta l’estetica da pressochè la sua nascita fino al Novecento, la situazione l’estetica più
recente come si potrà constatare è cambiata e sta cambiando sorprendentemente.
L’esigenza di tornare a trattare il bello naturale come valore proviene non solo dall’ambito
estetico-filosofico coniugato alle ricerche delle scienze naturali ma anche da un’ etica
ambientale sempre più popolare: perciò una nuova estetica della natura nasce dal bisogno
di reimpostare rapporto con l’ambiente più vivibile ed è perciò impensabile al di fuori del
vasto movimento ecologista diffusosi dagli inizi degli anni Sessanta e Settanta del
Novecento. I confini disciplinari e correlativi orizzonti tematici dell’estetica sono oggi ben
lontanti dall’essere stabilizzati. Ai molteplici tentativi di configurare il dominio dei fatti
estetici come qualcosa di omogeno, corrisponde un movimento centrifugo opposto
rappresentato dalla molteplicità di prospettive che rendono improbabile una definizione
unitaria di questa disciplina. Se, da una parte, possiamo descrivere gli ultimi anni come i
più prolifici per il numero di contributi e pubblicazioni estetologiche, dall’altra i confini di ciò
che è estetico si sono espansi a dismisura. L’estetica si è dimostrata negli ultimi anni, più
di ogni altra disciplina, sensibile alle trasformazioni sociali e culturali della
contemporaneità, accogliendo al proprio interno stimoli e tematiche che l’hanno costretta a
negoziare continuamente la propria identità. Le nozioni di oggetto estetico e di opera
d’arte – protagoniste indiscusse dell’estetica filosofica del Novecento – non costituiscono

58 I. Kant, Critica del giudizio, a cura di A. Bosi, Torino, Utet, 1993, § 46


59 T.W. Adorno, Teoria Estetica, Einaudi, Torino, 1975
oggi un saldo terreno su cui radicarsi per far fronte alle sfide poste da scienze come quelle
cognitive, la biologia evoluzionista o la neurobiologia. Ma la situazione è anora più
radicale: la percezione di uno stato delle cose completamente mutato, l’incapacità di
definire l’estetico a partire dagli oggetti che lo definiscono, è penetrata nelle pratiche
culturali e sociali. L’eterogeneità degli oggetti che affollano musei è l’indice migliore per
misurare la presenza di una molteplicità di codici e di interpretazioni dei fatti estetici.
L’epoca in cui l’insieme degli oggetti provenienti da culture non-occidentali che andava
sotto il nome di esotismo si è conclusa con il realizzarsi dei processi di decolonizzazione e
con la presa di consapevolezza del carattere trans-culturale dei fatti estetici. In
corrispondenza a vari studi etnografici sulle varie dimensioni della produzione simbolica e
culturale delle tradizioni non-occidentali, si è attivato nel cuore stesso della filosofia
occidentale un movimento di superamento della tradizionale configurazione dello spazio
estetico. Sono sorte interpretazioni che mettono a dura prova la legittimità e l’evidenza di
distinzioni come quella tra opera d’rte e artefatto o tra oggetto estetico e strumento d’uso.
Il Duemila si è aperto all’insegna di un generale ribaltamento di prospettive in ambito
estetico. Per esempio la centralità epistemologica ha iniziato a spostarsi dall’estetica
dell’oggetto alle componenti psicologiche della relazione estetica tra osservatore e
oggetto; i metodi e le analisi filosofiche usufruiscono sempre più delle ricerche
sperimentali delle scienze fisiche e biologiche. La consapevolezza che una generale
mutazione antropologica ha investito l’idea stessa di essere umano – non più soggetto
autonomo, erede dell’idea rinascimentale di alter deus e di quella idealista di Io assoluto,
definito dalla sua eccezionalità rispetto al mondo naturale, ma individuo che si caratterizza
biologicamente attraverso disposizioni motorie, capacità cognitive, regole di interazione
sociale – conduce l’estetica contemporanea a cercare la propria identità in una prospettiva
naturalizzata, vale a dire nei termini compatibili con i vincoli della natura biologica
dell’uomo. In altre parole, di fronte a quanto le scienze ci dicono sulle origini biologiche
della cultura umana, l’estetica filosofica si trova a dover accettare “il presupposto
metodologico secondo cui la genesi dell’attenzione estetica e quella dell’attività artistica
devono poter essere collegate a una genealogia culturale radicata nell’evoluzione
biologica della specie umana”60. Henri Bergson, prima, e Merleau-Ponty, poi, hanno
richiamato una via in grado di trovare gli scarti differenziali prodotti tanto nei contesti delle
interazioni tra organismo e mondo, quanto nell’intreccio tra natura e cultura, che sia fuori
dalle polarizzazioni scientiste che finiscono per determinare una forma mentis incapace di
leggere una necessaria estetica della natura. In Italia Enzo Tiezzi è stato uno dei primi a
proporre un’estetica della natura e di una filosofia della natura e forse anche uno dei primi
a riconoscere il ruolo di uno dei più grandi filosofi della natura a Bateson. Solo un
rinnovato punto di vista potrà far superare l’opposizione tra interesse nella natura da una
parte e interesse nell’uomo dall’altra. Come infatti Tiezzi afferma che “se vogliamo
contaminare la scienza con l’arte e l’arte con la scienza è necessario parlare di relazioni,
di strutture che connettono, di interazioni tra il soggetto e l’oggetto osservato. Il colore
verde di una pianta esiste indipendemente dal fatto che lo vediamo, proprio perchè
preesisteva alla menta umana con le sue funzioni da milioni di anni e, prima della
comparsa dell’uomo sulla terra, era riconosciuto da milioni di organismi vegetali e animali.
Ma è anche contemporaneamente vero che, nel guardare una pianta, la nostra mente
inizia una serie di interpretazioni, di sintesi razionali e intuitive e tesse una serie di
relazioni con la pianta stessa e con le emozioni ricevute da questa. E tutto ciò è
influenzato sia dalla nostra cultura sia dal nostro patrimonio genetico. Questo significa
fondere microscopico e macroscopico, superare la visione dicotomica tra riduzionismo e
anti-riduzionismo, studiare i fenomeni biologici in termini di relazioni e di auto-
organizzazione, così da vedere globalmente coerenti i comportamenti individuali delle

60 J.M. Schaeffer, Addio all’estetica, Sellerio, Palerno, 2003


parti”61. Utilizzare una filosofia della natura in cui come abbiamo appena visto il dizionario
dell’ estetica batesoniana è determinante può essere benefico sia per lo studio scientifico
che per le scelte economiche e politiche. Altri punti di vista sono determinanti per creare
nuovi alfabeti nel colloquio tra noi e la natura, dare valore di paradigma ad aspetti messi in
secondo piano. Questo significa con Bateson di demolire “l’assunto anti-estetico, derivato
dall’importanza che un tempo Bacone, Locke e Newton attribuivano alle scienze fisiche,
cioè che tutti i fenomeni possono e devono essere studiati e valutati in termini quantitativi.”
Qualità e forma devono tornare ad avere un valore primario nella scienza e per il
riconoscimento dell’epistemologia distorta che si basa sul dualismo cartesiano, come
sostiene il filosofo Vittorio Hosle : “Qui credo che ci voglia qualcosa come una metafisica
della natura e l’unico grande etico del nostro tempo che ha tentato di lavorare in questa
direzione è stato Hans Jonas: Hans Jonas introduce una metafisica della natura,
dell’organico, secondo la quale e il singolo organismo e la specie organica hanno un
valore intrinseco”62. Jonas, sodale alla tesi anti-cartesiana di Bateson, propone:
“un’interpretazione ontologica dei fenomeni biologici (…) ridando così all’unità psicofisica
della vita il posto nel tutto teoretico che ha perso a partire da Cartesio a causa della
divisione del mentale dal materiale.63 In questo paragrafo abbiamo dato uno scorcio a
come si è evoluta l’ estetica e al suo attuale carattere trans-disciplinario 64, in più ci siamo
aiutati con le riflessioni di filosofia della biologia ad insistere sull’argomento principale
portato avanti nel primo capitolo, cioè il superamento della dicotomia mente-corpo e
l’annullamento della differenza natura/cultura. In questo modo abbiamo cercato di far
continuare sullo stesso binario il discorso iniziato dalla filosofia della mente all’estetica
contemporanea utilizzando la riflessione sulla natura come principale deviatoio. Nel
prossimo sotto-paragrafo toccherà alla neuroestetica e in quello successivo agli studi
culturali.

61 E. Tiezzi, Fermare il tempo. Un’interpretazione estetico-scientifica della natura, Raffaele Cortina, Milano, 1996
62 V. Hosle, I problemi filosofici della morale, Napoli Vivarium, 5 ottobre 1994
63 H. Jonas, Organismo e libertà, Verso una biologia filosofica, Einaudi, Torino, 1999
64 Si veda per esempio: http://www.contempaesthetics.org/
2.1.2 La neuroestetica

Sono convinto che verà un giorno in cui il fisiologo,


il poeta e il filosofo parleranno la stessa lingua e si comprenderanno.

Claude Bernard

La diffusione del nuovo paradigma nello studio della mente e dell’intelligenza che ha preso
il nome di scienze cognitive ha fatto confluire una serie di approcci disciplinari distinti
(psicologia, informatica, neuroscienze…) nel comune obiettivo di studiare i processi
cognitivi in generale. La scienza cognitiva prende in esame che cos’è la cognizione, a che
cosa serve e come funziona nei suoi aspetti essenziali, dal supporto materiale che la
realizza. L’intelligenza artificiale e le neuroscienze sono stati referenti privilegiati,
recentemente sono state prese in considerazione altri modelli più complessi che prendono
in maggiore considerazione il ruolo dell’interazione della mente con l’ambiente o la
struttura biologica delle reti neurali. Le scienze conitive non solo hanno accolto l’apporto di
disciline sempre più eterogenee tra loro (come gli studi socio-culturali del comporamento
umano, l’etologia, l’etica, l’estetica), ma sono venute problematizzando l’assunto
algoritmico-computazionaista della scienza cognitiva in senso forte. Non essendoci stato
ancora alcun lavoro generale e complessiavamente articolato sulla struttura cognitiva delle
esperienze estetiche in tale ambito il panorama risulta più che frammentato. Ma sempre
per la maggiore un approccio nei confrenti dei fatti estetici che adotta una prospettiva
relazionale: ogni attenzione rivolta alla specifica costituzione ontologica degli oggetti
estetici o alle opere d’arte viene accantonata in funzione dell’ indagine sperimentale sulla
relazione cognitiva che lega il soggetto percepiente all’oggetto. Molte sono le prospettive
aperte dallo studio della natura cognitiva dei fatti estetici. Una delle scelte metodologiche
che si possono fare in questo campo è stabilire l’analisi a livello dell’individuo e della sua
attività cognitiva o a livello della collettività e quindi della sua interazione cognitiva
(cognizione sociale). Tra le questioni affrontate in questo paragrafo affronteremo una in
particolare che riguarda la cognizione individuale, quella dei problemi percettivi sollegati
dalle immagini, in particolare delle raffigurazioni pittoriche. In relazione al dibattito sulla
natura delle immagini mentali rimandiamo al confronto fra pittorialisti come Stephen
Kosslyn e descrizionalisti come Zenon Pylyshyn e P. Steven Sangren. Mentre sulla
questione della relazione tra composizione artistica e risposta cognitiva ci soffermiamo sul
lavoro di David Freedberg65 e il conseguente recupero nelle sue opere estetiche della
nozione psicologia di empatia che sta avendo un costante recupero nell’ambito delle
neuroscienze. La relazione empatica con un’immagina, in cui viene generata una risposta
fisica analoga alla rappresentazione figurale percepita, è infatti al centro di un recente
saggio dello storico dell’arte Freedbger in collaborazione con il neuroscienziato Vittorio
Gallese66. In questo lavoro viene proposto un modello interpretativo della risposta
cognitiva al contenuto visivo delle immagini che fa ricorso all’attivazione di meccanismi
neurobiologici (neuroni specchio) incentrati sulla simulazioni di azioni, emozioni e
sensazioni corporee. I neuroni specchio si attivano in risposta a uno stimolo visivo
producendo una rappresentazione interna del corpo come se fosse impegnato nell’azione
rappresentata o nell’esperienza percepita. In altre parole,la percezione di un’immagine,

65 D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Einaudi, Torino,
2009
66 D. Freedberg e V. Gallese, Motion, emotion and empathy in esthetic experience, Trends in Cognitive Sciences, 2007
attiva la medesima regione cerebrale che viene attivata quando l’azione percepita viene
compiuta in prima persona. Sulla base di questa scoperta, gli autori analizzano le
differenti reazioni stimolate da diverse configurazioni visiva: se un quadro astratto di
Jackson Pollock o di Lucio Fontana attiva la simulazione dei gesti dell’artista impliciti
nell’evoluzione formale delle tracce pittoriche, il quadro di Caravaggio Incredulità di San
Tommaso provoca una relazione empatica legata alla sensazione tattile, ovvero la visione
della raffigurazione della persona toccata attiva le stesse aree corticali che normalmente
sono interessate dall’esperienza di essere toccati. Lo scopo del lavoro di Freedberg in
sintesi cerca di capire in che modo le nostre risposte emozionali, viscerali, neurologiche,
precognitive e preconscie possano condizionare le risposte estetiche, la fruizione estetica
e l’esperienza estetica. In questa prospettiva l’autore è stato accusato di riduzionismo
proprio perchè gli approcci neurobiologici alle questioni dell’esperienza estetica sono
caratterizati dall’assunzione, considerata come paradigmatica, che ogni problema artistico-
estetico ha un’origine cerebrale. Semir Zeki, fondatore della neuroestetica 67 così scrive:
“tutte le arti visive sono l’espressione del nostro cervello quindi devono obbedire alle sue
leggi, nell’ideazione, nell’esecuzione o nella valutazione, e nessuna teoria estetica che
non si basi in modo sostanziale sul’attività del cervello potrà mai essere completa, né
profonda”68. La modalità della riduzione dell’estetico ai processi cerebrali può essere più o
meno radicale. L’assunto di partenza della neuroestetica di Zeki è che la funzione dell’arte
sia identica a quella del nostro sistema visivo. Stabilita questa identificazione e descritto il
funzionamento neurofisiologico della visione, l’autore elabora una teoria estetica su basi
neurobiologiche. La funzione principale del cervello visivo è quello di acquisire
conoscenza dal mondo, tale conoscenza, da un punto di vista evlutivo, garantisce
maggiori possibilità di sopravvivenza, vale a dire una memoria delle proprietà costanti,
immutabili, permanenti e specifiche di alcuni oggetti e superifici del mondo esterno. Solo
grazie al reperimento di tali stabilità percettive l’uomo può costruirsi un orizzonte di attesa
affidabile, in cui attuare e progettare la propria azione. Pertanto Zeki nel saggio dedicato a
questi temi scrive: “la visione è un processo attivo che richiede al cervello di non tener
conto dei continui cambiamenti e di astrarre da essi solo ciò che è necessario per la
classificazione degli oggetti”69. La percezione visiva è perciò messa direttamente in
relazione con il riconoscimento percettivo: lo scopo dell’attività percettiva è, infatti,
identificare e classificare l’oggetto o la scena interessata. La funzione del modello della
visione di Zeki viene definita come quella di: “rappresentare le caratteristiche costanti,
durevoli, essenziali e stabili di oggetti, superfici, volti, situazioni e così via, permettendo in
tal modo di acquisire conoscenza”70. Nell’accostamento di questo modello con una teoria
estetica in Zeki è esplicito il rifiuto di ogni modello semiologico-linguistico dell’opera d’arte
in quanto il linguaggio, conquista evolutiva più recente, non ha il tipo di efficienza
raggiunto dal sistema visivo nell’astrarre l’essenziale dall’insieme dei dati disponibili
(Gestalt?). Se la funzione dell’arte – in quanto ricerca dell’essenziale – costituisce
un’estensione della funzione del cervello visivo, allora il processo ricettivo artistico può
essere descritto come strettamente connesso all’attività di particolari sistemi neuronali di
elaborazione visiva. La conseguenza più importante è che l’esperienza estetica attivata
dalle opere d’arte, associata in quanto tale alla funzione visiva, trova una sua
localizzazione in precise aree della corteccia cerebrale. In questo caso si parla di
modularismo dell’estetica. Per questo approccio, esiste un’area precisa della corteccia
cerebrale – la corteccia visiva – responsabile della capacità di attivare esperienze
estetiche. Zeki rifiuta l’idea di un unico senso estetico di tipo visivo e descrive l’esistenza di
molteplici sensi estetici, ciascuno connesso all’attività di un particolare sistema di

67 C. Chiappelletto, Neuroestetica, Laterza Editore, Bari, 2012


68 S. Zeki, La visione dall’interno. Arte e visione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 17
69 S. Zeki, Ivi, pag. 22
70 S. Zeki, Ivi, pag. 26
elaborazione visiva, caratterizzato da una specializzazione funzionale. Vi è allora una
diversa intensità di corrispondenza tra le differenti parti del sistema visivo e le specifiche
modalità di espressione artistica: l’arte cinetica entra più in relazione con l’area della
corteccia cerebrale che reagisce al movimento (area V5), l’arte dei fauves con quella che
reagisce ai colori (area V4), mentre un dipinto di Mondrian sollecita di più Ia parte deputata
a reagire alla vista di linee verticali e orizzontali (area V1). Il reperimento di caratteristiche
percettive permanenti, tuttavia, non riguarda solo le costanti formali, figurative, quali il
colore, la forma o il movimento di un oggetto. Si estende, infatti, la nozione di costanza
anche alle “relazioni tra oggetti, a volti, situazioni e anche a concetti più astratti come
giustizia, onore, patriottismo”71. Uno degli aspetti più interessanti di questo tipo di analisi
neuroscientifiche sono certe funzioni estetiche che con l’introduzione di nuovi concetti
come quello di costanza situazionale – una situazione specifica che, in quanto dotata di
caratteristiche comune con molte altre dello stesso genere, permette al cervello di
classificarla immediatamente come rappresentativa di tutte le altre – arrivano a spiegare
certi tipi di fenomeni che sarebbero peculiarmente rilevanti nella nostra ricezione estetica
dell’opera d’arte. In questo contesto di costanza situazionale la fortuna di un’opera
avrebbe molto a che fare con la capacità dell’opera di attivare la tendenza di ricerca
(seeking) e completamento (filling in) del cervello, che sarebbe una funzione attiva in
massimo grado nella specie umana. Ciò avrebbe permesso ai pittori anche di giocare con
l’assenza o la messa in sospensione di tale costanza, per esempio un’analisi nella
Signora alla spinetta di Jan Vermeer ci permette di individuare il fascino misterioso della
situazione che apparentemente ordinaria viene ricondotto ad una sorta di ambiguità
interpretativa-percettiva. Come infatti il pittore olandese dissemina nella tela un serie di
elementi contradditori che il cervello umano pur riconoscendoli come validi non riesce
tuttatia a integrare in un’interpretazione unitaria che secondo Zeki causa uno choc
cognitivo. In maniera speculare, il reperimento di una costanza implicita, e quindi della
propensione naturale al seeking e al filling in nei non-finiti di Michelangelo spiega il fascino
evocativo che questi creano nello spettatore. L’ambiguità sarebbe garantita da una sorta di
“trucco neurologico per amplificare il potere immaginativo del cervello”, vale a dire dalla
grande libertà di legare l’interpretazione a costanti diverse implicite nell’opera. Queste
capacità del cervello rilevate negli esperimenti di ricezione estetica fanno sì che la
risonanza empatica con l’arte (nei nostri esempi, figurativa) possa essere spiegata con
delle ragioni che solo grazie alle neuroscienze ora possiamo considerare. In questo caso
l’arte assume per questo tipo di ricerche un significato davvero grandioso, può cioè essere
considerato un laboratorio alchemico ricco di materiali da testare. Il neuroscienziato
Vylayanur Ramachandran scrive: “L’arte si è evoluta come simulazione virtuale di una
realtà. Se immaginiamo una cosa, per esempio se pensiamo alla prossima caccia al
bisonte o a un imminente incontro amoroso, si attivano molti degli stessi circuiti neurali che
si attivano, quando si compie l’azione vera e questo ci permette di provare gli scenari con
una simulazione interna. Senza spendere energia e senza correre rischi impliciti
dell’azione vera. Se così fosse, potremmo considerare l’arte la ‘realtà virtuale’ della
Natura.”72 Vedremo come la neuroscienza riuscirà a trovare e spiegare la nostra
esperienza estetica tramite il collegamento tra circuiti neurali umani e opere d’arte. Ma
questa modalità di partecipazione estetica non si limita agli esseri umani, a tal proposito
citiamo una ricerca portata avanti dal neuropsicologo Shigeru Watanabe che una volta
fatto riconoscere a dei piccioni la differenza di stile tra un quadro di Pablo Picasso e uno di
Èdouard Manet ha constatato come essi erano in grado poi di riconoscere altri pittori come
Georges Braque e Claude Monet dalle loro differenze stilistiche, riuscivano perciò a fare
una categorizzazione dei stili da un punto di vista solo percettivo. 73 Abbiamo quindi almeno

71 S. Zeki, Ivi, pag. 40


72 V. Ramachandran, Il cervello artista in Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, Milano, 2003, pag. 46
73 S. Watanabem, J. Sakamoto, M. Wakita, Pigeon’s discrimination of paintings by Monet and Picasso, Journal of the
per quanto riguarda la percezione una configurazione cerebrale condivisa con certi animali
che permetterebbe un processo di classificazione dello stile, che sarebbe in questo senso
non più un fatto solo riguardante l’estetica ma bensì anche la biologia.

2.1.3 Estetica e Studi Culturali

Come abbiamo già cercato di mettere in evidenza l’estetica nell’età contemporanea


sembra frammentarsi e non essere più riducibile ad un’immagine coerente. Eppure la mole
di studi e ricerche estetologiche prodotti nel Novecento ha fatto sì che questo secolo
culminasse con la prima Enciclopedia di Estetica74, dimostrazione di come questa
disciplina ha assunto importanza per la società. Partendo dalla rivalutazione dell’estetica
come filosofia “non-speciale”, usando l’espressione di Emilio Garroni 75, quindi estetica non
solo come “filosofia dell’arte”, secondo l’immagine riduttiva ancor oggi prevalente, ma
estetica come riflessione che affronta l’esperienza sensibile (dal greco aisthesis nel
significato di sensibile) nel suo insieme. I tre oggetti tradizionali dell’estetica (il bello, l’arte
e la conoscenza sensibile) sono un punto d’incrocio di molte e disparate questioni. Nella.
la cultura occidentale moderna l’estetica costituisce un evento unico ignoto al pre-
moderno, essendo fatta risalire la nascita di questa disciplina al filosofo tedesco Alexander
Gottlieb Baumgarten che pubblicò il Trattato "Aesthetica" nel 1750, usando un termine
coniato da lui stesso nel 1735 nella sua tesi di laurea intitolata “Meditazioni filosofiche su
argomenti concernenti la poesia”. La nozione di arte diventa un concetto unitario nel
Rinascimento che raccoglie le nozioni dell’antichità di ars e techne, questo ci fa intuire
come questa disciplina sia stratificata e multiforme, un meeting place come scrive Mario
Perniola. Lo stesso autore precisa un aspetto cruciale della nascita degli Studi culturali e
sottolinea come esso ha fatto sì che il discorso estetico si è allargato alla cultura popolare
e globale, comprese tutte le sotto-culture, quest’ultima verrà affrontata nell’ultimo
paragrafo di questo capitolo. Ma vediamo cosa scrive Perniola: “non si può utilizzare una
metodologia che riduca l’estetica ad un’appendice della critica d’arte o della filosofia
teoretica, per non parlare di chi la considera una faccenda edonistica. (…) Per questo è
significativo il rapporto tra le origini dell’estetica e la sua evoluzione in Inghilterra, la parola
che fu adoperata lì nel Settecento fu infatti criticism, essa evidenzia l’aspetto non-
conformista dell’approccio anglosassone alla società e alle arti. Questo termine manifesta
il diritto di ciascuno a esprimere una valutazione e un apprezzamento indipendenti dai
canoni ufficiali e dalle gerarchie convenzionali, l’estetica così assume un carattere che non
è così evidente nella tradizione continentale. Liberare l’estetica dalla pedanteria è
importante tanto quanto emanciparla dalla frivolezza. In questo senso l’estetica intesa
come critica della cultura , vicina all’indirizzo di studi storici orientati verso la riscoperta dei
modi di sentire e delle sensibilità del passato. (...) Nasce così un’ estetica storica
dell’esperienza sommersa che integra e completa I risultati cui si può giungere attraverso
l’indagine psicoanalitica o attraverso la metodologia decostruttiva. Se l’estetica è un
discorso sulle culture sarà possibile trasformarla da forma di conoscenza tipicamente
eurocentrica e occidentale in un sapere che implica una prospettiva globale. Entrano così
in scena l’estetica africana, caraibica, cinese, giapponese, indiana, islamica, latino-
americana e pre-colombiana, alle quali se ne potrebbero aggiungere molte altre” 76.
Ebbene gli Studi Culturali inaugurati dal sociologo Raymond Williams ed emersi sopratutto
con il Birmingham Centre for Contemporary Studies hanno un aspetto che riprende

Experimental Analysis of Bevavior, 63, 1995, pag. 165-174


74 M. Kelly, Encyclopedia of Aesthetics, Ocford University Press, Oxford, New York, 1998
75 E. Garroni, Senso e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale, Roma-Bari, Laterza, 1986
76 M. Perniola, La svolta culturale dell’estetica. Il lusso, oscuro oggetto del desiderio, Agalma, 2, Roma, 2002
l’estetica schilleriana, come quello della concezione di società organica, dotata di
completezza e di immediatezza. Il progetto estetico degli studi culturali promuove così una
riconciliazione della dimensione estetica con la dimensione sociologica multi-culturale e
globalizzata, l’entrata in scena in questi studi di una riflessione su nuove estetiche è
importante anche per situare molti fenomeni vissuti dalle nuove generazioni che spesso
non assumono dignità di oggetto scientifico e vengono considerate come semplici mode.

2.2 L’Estetica batesoniana

L’estetica è qualcosa a cui ricorrono continuamente


tutti gli organismi, e non solo i critici d’arte e i filosofi.

Gregory Bateson

La parola ‘estetica’ come abbiamo ricordato nel paragrafo precedente deriva dal greco
aisthesis, e vuol dire ‘sentire’, ‘sentire con il corpo’, con I sensi. Bateson paragona il
momento in cui uno ‘sente di far parte di un contesto’, di un sistema equilibrato e vivente,
alla sensazione di ‘essere di fronte al bello’. È come nuotare in un mare caldo e
accogliente. Oppure come quando si va a cavallo o in bicicletta: in ogni istante si è in
equilibrio, ma l’equilibrio è diverso da istante a istante, perchè si devono fare di continuo
piccoli e grandi movimenti per evitare di cadere, cioè di perdere l’equilibrio. O come
l’acrobata sul filo, il quale per non cadere deve continuamente spostare l’asta. Ma non è
un equilibrio statico, sempre uguale a sé stesso, anzi è molto dinamico, pieno di novità, di
emergenze. Il terremoto può far crollare un palazzo, ma non può far crollare un gatto, il
quale è capace di controbilanciare le scosse con i suoi saggi movimenti. Quindi l’equilibrio
dinamico è più “saggio” di quello statico. Anche la natura, cioè il sistema complessivo par
excellance, nella sua saggezza sistemica adotta un equilibrio dinamico e, se viene
perturbata, dopo un tempo più o meno lungo torna in equilibrio, magari a un equilibrio
diverso dal precedente, ma pur sempre un equilibrio. Allora diciamo che la natura ha
capacità auto-medicatrici, oppure che è un sistema dotato di omeostasi. Per Bateson se
percepiamo l’armonia del tutto e quindi abbiamo una ‘sensazione del bello’, ciò significa
che siamo in equilibrio. E se agiamo in modo da mantenere il sistema in equilibrio, magari
modificando questo equilibrio senza sconvolgerlo, allora possiamo continuare a percepire
il bello, un bello variabile, mutevole. E se ci comportiamo così, allora agiamo in modo
etico. Nel rapporto etica-estetica egli vede un legame a doppio filo, un’ inseparabilità. Etica
ed estetica affondando le loro radici nella nostra storia evolutiva. Così prova a definire
entrambi i concetti: “L’estetica è la percezione soggettiva (ma condivisa, quindi
intersoggettiva) del nostro legame immersivo con l’ambiente, immersione caratterizzata da
una profonda ed equilibrata armonia dinamica. L’etica è la capacità, soggettiva e
intersoggettiva, di concepire e compiere azioni capaci di mantenere armonioso ed
equilibrato il legame immersivo con l’ambiente.” 77 Possiamo dire perciò che l’etica e
l’estetica sono due facce della stessa medaglia, perchè sono entrambe il rispecchiamento
in noi della co-evoluzione tra la specie umana e il resto dell’ambiente, anche se questa
separazione tra specie e ambiente non ha molto senso: il sistema è uno solo. Noi siamo
inestricabilmente legati all’ambiente e l’ambiente a noi. Il sistema complessivo si è evoluto
mantenendo tra le sue componenti un’armonia equilibrata. In un metalogo Bateson scrive:
“F- E se sconvolgiamo l’equilibrio? P- Allora il nostro comportamento non è più etico, ma
antietico. E se lo sconvolgimento è troppo violento può darsi che la natura non riesca ad
automedicarsi, e perdiamo la bellezza. Gli uomini compiono molte azioni antietiche, e
generano molta bruttezza. Finora, a quanto pare, non siamo riusciti ancora a sconvolgere
l’equilibrio complessivo, ma ci stiamo provando in molti modi. E la perdita dell’equilibrio
comporterebbe la nostra perdita. F- Quindi nell’agire dobbiamo seguire l’estetica P-

77 G. Bateson, Mente e Natura, pag. 273


Proprio così: l’estetica ci serve da guida nell’operare etico e a sua volta l’etica ci consente
di mantenere l’estetica. Il bello e il buono si sorreggono a vicenda. E si sorreggono
modificandosi continuamente. Etica ed estetica sono storiche, evolutive. Tutto si evolve,
sai.”78 Un poeta come Josif Brodskil nelle sue riflessioni fenomenologiche sulla natura
umana e l’arte parte da una considerazione batesoniana: “L’estetica è la madre dell’etica.
Per un essere umano non c’è altro futuro all’infuori di quello che l’arte promette. Ogni
opera d’arte è il risultato di una solitudine e di una chiusura, dolorose ma inevitabili. Forse
anche di un atteggiamento ombroso e brusco nei confronti del reale. In questo negarsi è
però implicito il segreto di un volersi offrire. Il viaggio può essere travagliato ma assume un
significato profondo nell’impedire che l’ignoranza renda l’uomo vulnerabile ai ritornelli e
agli incantesimi ritmici propri della demagogia politica in tutte le sue versioni.” 79 “Capire” il
‘bello’ può essere diverso dal capire un ‘teorema’. Bisogna accontentarsi della sensazione,
dell’emozione, del piacere che si prova. La sensazione di essere ‘parte di un tutto’. È la
rappresentazione in noi del modo in cui le parti si dispongono tra loro in un ordine
sistemico, estetico ed etico, che si chiama vita, oppure mente. Nella mente bellezza e
bontà coincidono. E la mente in questo senso si chiama anche evoluzione. Forse ci sono
cose più importanti di ciò che chiamiamo conoscenza. Il rispetto e la devozione per
esempio. Il disinteresse per sè e l’interesse per il tutto. Il sacro che è il sistema
complessivo, il ‘tutto’ a cui bisogna accostarsi con timore e reverenza. Nei confronti del
sacro non si può agire in modo arrogante, Bateson attua una dura critica contro il
finalismo consapevole della cultura occidentale. Spesso citava un verso di Alexander
Pope: “Perchè gli stolti si precipitano dove gli angeli temono di posare il piede”. È
l’esitazione che ci dovrebbe cogliere quando proviamo il desiderio di svelare l’arcano e di
fugare le ombre, trattenendoci sulla soglia prima di posare il piede, prima di turbare il
mondo. È il sentimento della ‘sacralità’ che ci sta di fronte, il rispetto per il sistema
complessivo, che esisteva gran tempo prima di noi e che continuerà ad esistere dopo di
noi, se saremo abbastanza saggi da conservarlo. Bateson nella sua opera Mente e Natura
insiste su come nel mondo vi sono state e vi sono molte epistemologie che hanno però
sostenuto tutte l’idea di un’unità di fondo e, benchè ciò sia meno certo, hanno anche
sostenuto l’idea che questa unità di fondo sia estetica. Dal punto di vista dell’ecologia della
mente la salute, l’etica, l’estetica e il sacro sono collegate o sono addirittura la stessa
cosa. Se arrivassimo a considerare tutte queste categorie dal punto di vista del
funzionamento globale dell’organismo-nel-suo-ambiente (l’unità fondamentale
dell’evoluzione), in modo operativo e non prescrittivo, allora potremmo forse giungere noi
stessi a vedere che ciascuna di queste categorie apparentemente separate è avviata
verso un complesso stato dinamico di una tautologia ecologica in evoluzione. Per Bateson
“la perdita del senso dell’unità estetica è stato semplicemente, un nostro sbaglio
epistemologico”. Esisterebbe nel senso comune una dicotomia tra morale ed estetica che
è un prodotto collaterale della divisione tra mente e corpo. Noi occidentali riteniamo di
essere più coscienti e analitici rispetto ai giudizi morali che ai giudizi estetici. De gustibus
non est disputandum, come se l’estetica non si prestasse ai dubbi o all’analisi scientifica.
Eppure conveniamo che certe persone, più abili delle altre in questa materia, sono capaci
di inventare oggetti o suoni che gli altri sono d’accordo nel giudicare belli. Bateson ipotizza
che la miopia sistemica, le forme più grossolane della dicotomia mente/corpo e così via
possano essere evitati ricorrendo a processi mentali in cui tutto l’organismo (o gran parte
di esso) sia usato come metafora: “Se è vero che certe persone sono particolarmente
dotate nell’arte di agire su sistemi complessi con caratteristiche omeostatiche o ecologiche
e che queste persone non operano analizzando l’interazione tra tutte le variabili importanti,
allora costoro debbono usare qualche ecologia delle idee interna come modello analogico
(con “idee” intendo pensieri, presupposti, affetti, percezioni del sè e così via). Quest’abilità

78 G. Bateson, Ibid
79 J. Brodskij, Discorso per il conferimento del premio Nobel per la letteratura, 1987
è, in un certo senso davvero un’arte, allora è possibile che l’ecologia delle idee interna sia
uno stretto sinonimo di quella che potrebbe essere chiamata anche sensibilità estetica.”80
Giungiamo così a ravvisare un principio estetico nel vivente che possiamo ri-trovare in noi
stessi. Bateson aggiunge: “Per estetico intendo sensibile alla struttura che collega.”

2.3 Estetica relazionale

In Verso un’ecologia della mente emerge un concetto-chiave del vocabolario batesoniano:


frame (cornice, contesto). Il frame è parte della Teoria dei Tipi Logici della comunicazione
sviluppata da Bateson o più in generale fa parte della meta-comunicazione, una delle
cinque verità della comunicazione. Senza il frame non si può comprendere la rivoluzione
informatica, l’avvento dei personal computer, smartphone e application. John Cage,
compositore americano, è stato uno dei più acuti sviluppatori di questo concetto. Con la
riflessione cageiana non solo l’ascolto è cambiato ma il nostro stesso modo di pensare
l’arte, la musica, la comunicazione in generale. L’emblema del concetto di frame può
essere illustrato ricordando una delle composizioni più famose di questo autore, 4’33’’.
L’atto principale di Cage in questo brano fu proprio il framing: un incorniciare o racchiudere
suoni ambientali, volontari e non, dentro un momento di attenzione al fine di schiudere la
mente al fatto che ‘tutti i suoni sono musica’. Durante l’esecuzione di 4’33’, cosa ascoltò il
pubblico seduto nella sala della Maverick?’ “Ciò che pensavo fosse il silenzio – ha detto
Cage – si rivelava pieno di suoni accidentali, dal momento che non sapevano come
ascoltare. Durante il primo movimento si poteva sentire il vento che soffiava fuori. Nel
secondo, delle gocce di pioggia cominciarono a tamburellare sul soffitto, e durante il terzo,
infine, fu il pubblico stesso a produrre tutta una serie di suoni interessanti quando
parlavano o se ne andavano”81 Ma ancor prima del lavoro di Cage furono i profetici ready-
made di Marcel Duchamp a porre la questione del frame come una delle principali dell’arte
del XX secolo. Dalle parole di Morton Feldman: “Duchamp ha liberato la mente dall’occhio,
mentre Cage ha liberato le orecchie dalla mente”. Il concetto di frame arriva in seguito
come base fondamentale per la cosìdetta “arte relazionale”. Per addentrarci in questo
discorso partiamo da una metafora batesoniana: “una mente può comprendere l’uomo che
con la sua ascia abbatte un albero. La mente non è solo nell’uomo che abbatte l’albero
come prima della nascita della cibernetica e della teoria dei sistemi eravamo soliti
pensare, bensì la mente è nel circuito che dall’albero va agli organi di senso attraversando
il cervello, i muscoli, l’ascia per poi tornare all’albero, perchè ogni colpo con l’ascia deve
adattarsi all’effetto sull’albero del colpo precedente. 82 Diventa evidente che in questa
nuova prospettiva epistemologica non vedremo più l’uomo opposto all’albero ma l’uomo
come parte di un circuito più complesso di cui non è che una parte. La mente smette di
essere circoscritta all’interno della pelle ma diviene parte di processi molto più vasti, infatti
anche il circuito dell’uomo con l’ascia che abbatte l’albero è una sezione di un circuito più
ampio della ‘struttura che connette’. L’idea di mente appena descritta è alla base
dell’opera d’arte relazionale. Per arte relazionale intendiamo un tipo di arte che coglie il
godimento estetico nella relazione e che consiste nel creare una situazione in cui avviene
uno scambio relazionale con tutti i meccanismi di imprevedibilità ad essa connessi
implicati dal coinvolgimento di più persone. L’opera non sarebbe che il risultato di questo
processo in cui spesso le persone partecipanti vengono chiamate dall’artista a fare o dire
certe cose. Ma dire che l’arte è relazionale è esplicitare una condizione già appartenente
di per sè all’arte. Essa infatti è sempre stata relazionale, lo è per natura. L’opera è opera
solo se è aperta, se lo sguardo dell’altro la ricostruisce, gli aggiunge o gli toglie qualcosa.

80 G. Bateson, Una Sacra Unità, pag. 390


81 M. Belpoliti, Cento anni fa, John Cage, www.doppiozero.com, 11 Agosto 2012
82 G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, pag. 176
La condizione minima per un’opera è che ci sia un osservatore a guardarla. L’opera ha la
caratteristica di essere stravolta dallo sguardo dell’altro. Siamo abituati a concepire l’opera
come qualcosa di concreto, palpabile, un oggetto che ci sta di fronte, da una parte l’opera
e dall’altra noi ad osservarla. La posizione degli eventi/opere degli artisti relazionali si può
considerare come antitetica (almeno come presupposto) all’estremo individualismo della
ricerca di una forma definita e caratterizzante dell’arte più tradizionale, simbolica
dell’esasperazione dell’egocentrismo di cui si è spesso nutrita l’arte, sopratutto negli anni
Ottanta. Nell’arte degli anni Novanta invece la nuova generazione artistica sposta la
propria attenzione dai valori cromatici e narrativi – e dalle abilità tecnico-realizzative legate
alla produzione dell’oggetto artistico – agli aspetti concettuali, contestuali e, appunto,
relazionali, che diventano elementi generativi delle opere di questi anni, nasce cioè
un’estetica relazionale83. Il teorico e curatore Nicolas Bourriad specifica che gli artisti da lui
proposti non hanno in comune uno stile tantomeno cerca di accomunare un gruppo di
artisti sotto una medesima etichetta. Gli artisti relazionali condividono “il medesimo
orizzonte pratico e teorico: la sfera dei rapporti umani” 84. L’opera si crea nell’incontro in
uno spazio noi-centrico. E non sempre è necessario che quest’opera si faccia corpo,
l’opera ha un carattere effimero essendo l’arte relazionale l’espressione più radicale di un
processo di s-materializzazione e di contro-argomentazione e contro-concettualizzazione.
Certamente questo cambio d’orizzonte risponde, in modo critico, alle mutate condizioni
della nostra società – in cui si è chiamati, nella maggior parte dei casi, ad assistere
passivamente a eventi in cui non abbiamo facoltà di controllare alcun parametro – e
all’alienazione che questo sistema produce. Di conseguenza sembra emergere la
necessità di trovare, al di là delle divisioni politiche e sociali, una controparte comunitaria
alla dilagante privatizzazione che conduce l’individuo a confrontarsi in modo solitario con I
grandi temi della vita. La messa in discussione dell’idea dell’autore e della relazione salì
alla ribalta delle tendenze artistiche già nel 1958 con gli happening di Allan Kaprow, poi
negli anni Sessanta con il situazionismo, e con l’uso frequente di nomi multipli. Claire
Bishop sottolinea la presenza di una marcata continuità tra gli artisti relazionali e le
pratiche del movimento Fluxus e di Joseph Beuys, inoltre l’impostazione dell’arte
relazionale non differisce sostanzialmente dall’idea di ‘opera aperta’ che Umberto Eco
aveva teorizzato nei primi anni Sessanta. Negli anni Settanta continua la proliferazione dei
nomi multipli, la mail art e Luther Blisset. Da ricordare poi nel 1980 la mostra del gruppo
americano Gruop material a Manatthan, intitolata People choose in cui il gruppo di artisti e
intellettuali invitò gli abitanti del quartiere consegnando porta a porta una lettera che li
invitava a portare in mostra un oggetto che per loro fosse particolarmente significativo. La
lettera, invitava a portare cose personali che difficilmente potrebbero avere un posto in
una galleria d’arte. Gli abitanti risposero generosamente e intervenendo direttamente
durante la mostra. Tutti questi oggetti offrirono uno spaccato su una comunità
culturalmente marginale. In seguito nel 1992 a Londra, l’artista Cesare Pietroiusti presentò
cento capi di vestiario per indagare lo stereotipo del sex appeal: “Fra tutti i capi di vestiario
che possiedi qual’è quello che senti più attraente e sexy?” fu la domanda posta a persone
tra I 16 e 73 anni. Oltre alla risposta alla persona veniva chiesto di poter esporre il capo
indicato nella mostra. La risposte che poi ha prevalso non è stata quella che ci si
aspetterebbe da una società dominata da stereotipi a cui siamo quotidianamente
sottoposti ma quella del ricordo, per esempio uno dei quei capi era ‘la camicia indossata il
giorno in cui si è conosciuto la propria compagna’. Ma gli esempi presi in esame da
Bourriad, in confronto a questi del passato, sono caratterizzati da una fondamentale e
spiccata centralità su certi aspetti. Una semplice condivisione del cibo con gli altri, come fa
Rirkrit Tiravanija può entrare nella sfera estetica solo se si sposta l’attenzione dall’oggetto
finito al processo e al meccanismo di socialità che ne scaturisce, includendo in questa

83 N. Bourriad, Estetica relazionale, Postmedia Books, Milano, 2010


84 N. Bourriad, Ivi, pag. 44
dimensione alcune delle prerogative che tradizionalmente riguardano il campo dell’etica,
l’artista in questo caso sveglia la sensibilità estetica del partecipante usando cibi di diverse
culture e preparando da mangiare per creare un momento aggregante in un contesto
relazionale festoso. Il gioco e la festa sono elementi che funzionano come aggreganti
situazionali. L’estetica delle relazioni di Bateson sembra perciò un antecedente e
presupposto teorico delle pratiche dell’estetica relazionale di Bourriad. Lo stesso
Pietroiusti sopracitato è esemplarmente legato alla riflessione batesoniana avendo
compiuto studi di psicologia relazionale, in particolare sulla Scuola di Palo Alto. Da questo
retroterra formativo e dalle sue pratiche artistiche emerge la concezione dell’artista
romano, la relazione dell’ autore-opera-fruitore come sistema fondamentale che crea nel
tempo il significato di questo rapporto: “Come in un moto spiraliforme, l’artista si sposta più
avanti e più indietro e torna a ri-vedere e ri-scoprire le sue stesse opere d’arte. Io per
esempio ho capito una mia opera d’arte dieci anni dopo, grazie all’interpretazione di un
altro”. Un altro aspetto centrale della riflessione di Bateson e dell’estetica relazionale è
quello della comunicazione, termine che nell’accezione antica aveva un significato diverso.
Infatti questa parola che deriva dal latino communicare veniva usata per significare
‘partecipare’ (per esempio a un piano d’azione), ‘condividere’ (per esempio un’opinione),
‘invitare’ (per esempio a un banchetto). Lo slittamento del secondo significato qui sopra
riportato, e quindi dalla condivisione di opinioni alla “trasmissione unidirezionale del
messaggio” da una fonte mittente a una ricevente appartiene al sistema di comunicazione
moderno ed è forse legato al prevalere, con il mercantilismo, di istante competitive su
istanze cooperative. O, per altri versi, è dovuto a quello evento rivoluzionario individuato
da Marshall McLuhan nell’invenzione dei caratteri mobili di stampa e della conseguente
produzione del primo vero oggetto di serie, il libro; produzione evidentemente
caratterizzata da trasmissione direzionale, impersonale e non-partecipata del messaggio
differentemente da quanto accadeva nell’antica tradizione orale. L’ostendere, il vendere, il
dare disposizioni, l’informare nel senso mediatico contemporaneo del termine, sono
anch’essi significati vicini a quello di ‘trasmissione unidirezionale’. La seconda metà del XX
secolo è però segnata da una ricomparsa di strutture comunicative interdipendenti e
correlazionali, c’è stato così un ritorno ai modelli poli-direzionali nella diffusione del
‘sapere’: la rete piuttosto che la traiettoria, l’orizzontale piuttosto che il verticale, il
multiplanare piuttosto che il piramidale, il complesso piuttosto che il semplice. Di
conseguenza la ‘comunicazione’ è sempre più intesa come ‘sistema’ in cui meccanismi
come la retroazione, la ricorsività, la flessibilità e l’imprevedibilità degli effetti diventano
essenziali. Pietroiusti ancora afferma che l’idea della comunicazione come trasmissione
unidirezionale di informazione-cultura da un autore a un fruitore è morta, essendo andata
dispersa in una rete in cui risulta sostanzialmente impossibile rintracciare tutti i canali e
risalire a uno specifico soggetto-autore. A quella figura di autore oppne una figura di artista
che più che produrre oggetti-opere, lavora per attivare e favorire la circolazione del
sapere, con la consapevolezza che è nella ‘relazione’ che si produce la ‘conoscenza’.
L’artista come ‘perfetto dilettante’ che non ha specializzazioni ma lavora sui confini, sulle
soglie, sui margini di altre capacità tecniche (discipline). L’arte così creerebbe situazioni
intermedie tra campi del sapere e del potere, e potrebbe riuscire ad evitare
un’etichettatura definitiva che per sua natura non è mai stata possibile grazie alla sua
capacità di re-inventarsi. La figura dell’artista dilettante in quest’ottica tenderà a rinunciare
alla paternità su idee e manufatti, alla pretesa di considerare il suo lavoro secondo
momenti finiti (la mostra, la pubblicazione, ecc.), e non tenderà a distanziare il ruolo e
l’esperienza con l’altro da sè (l’osservatore, il pubblico). Un privilegiamento
dell’orizzontalità partecipativa della pratica artistica, l’utilizzazione strategica del
riconocimento sociale (rispetto al successo come obiettivo di sè). Caratteristiche da far
emergere e già emerse nell’ambito di un’estetica che vede l’artista impegnato nella
relazione vista come il più importante dei fattori umani, l’unità di misura della nostra vista
sono l’imprevedibilità dei contenuti relazionali e l’aspetto conviviale e comunitario di
un’organizzazione partecipativa (rispetto all’espressione di una soggettività individuale).
Bourriad scrive: “Ci sembra possibile rendere conto della specifità dell’arte attuale grazie
all’ausilio della nozione di produzione di relazioni esterne al campo dell’arte” 85. Ma
possiamo trovare altre formulazioni simili nella storia della filosofia, come per esempio nel
concetto di Verhältnissbegriff (concetto di rapporto) in George Simmel, e nella storia
dell’arte, come il caso nell’arte pubblica86 o quello dell’arte viva87. Ma le teorizzazione di
Duchamp anche in questo caso restano insuperate, come quando semplicemente
considereva l’“essere artista” non una specializzazione ma un “fattore umano della vita di
tutti”, della vita di ciascuno.88 Per concludere però riportiamo le riflessioni di Felix Guattari
che è stato un, se non ‘il’, punto di riferimento dell’elaborazioni teoriche di Bourriad, e che
ha proposto un’idea di ‘nuovo paradigma estetico’ in cui non partiva dall’arte pensata
come istituzione ma considerata nelle sue tecniche, dai processi della creazione, dalle
pratiche di diffusione, ci spinge a far evolvere questo campo in altri domini, per ‘giocare’
con essa dal di fuori, al limite o trasversalmente al solito spazio designato dall’istituzione
come arte. Perciò l’arte non deve “preparare o annunciare un mondo futuro”, dal momento
che essa “oggi elabora modelli di universi possibili”. Da ciò appare evidente l’esistenza
della possibilità di lavorare sugli aspetti della quotidianità utilizzandoli nei processi creativi
come occasione effettiva di cambiamento del terreno della realtà concreta, e per
“apprendere ad abitare meglio il mondo” 89.

85 N. Bourriad, Ivi, pag. 26


86 Gabi Scardi, Paesaggio con figura – Arte, sfera pubblica e trasformazione sociale, Allemandi & Co. con
Susaculture project, Torino, 2011
87 “Arte vivo (arte viva) è l’avventura del reale. L’artista insegnerà a vedere non con il quadro bensì con il dito.
Insegnerà a vedere nuovamente quello che succese nella strada. L’arte viva cerca sì l’oggetto ma l’oggetto trovato
lo lascia nel suo luogo, non lo trasforma, non lo migliora, non lo porta in una galleria d’arte. L’Arte viva è
contemplazione e comunicazione diretta. Vuole finire con la premeditazione, che significa galleria e mostra.
Dobbiamo metterci in contatto con gli elementi vivi della nostra realtà. Movimento, tempo, genete, conversazioni,
odori, rumori, luoghi e situazioni. 24 luglio 1962, ore 11:30” in AAVV, Alberto Greco, IVAM Centre Julio
Gonzàlez, Fundación Mapfre, Valencia, 1991
88 “Nella mia carriera ho avuto la fortuna di avere visite da amici scienziati, mi hanno spiegato che la manualità come
possibilità di espressione può far accendere dei particolari meccanismi del cervello. Utilizzare questa mano,
cambiare il modo di camminare su questa superficie, adoperare la nostra fisicità di animali evoluti è una capacità e
possibilità che tutti posseggono e che permette di entrare in uno stato di sperimentazione conoscitiva, ecco perchè
tutti noi siamo artisti” Dichiarazione pubblica di Paolo Base al Simposisio Arte e Neuroscienze, Centro Pecci, Prato,
10 novembre 2012
89 N. Bourriad, Ivi, pag. 12
2.4. Un’esperienza estetica con l’LSD90
Non pare inopportuno ed esagerato comparare il siginificato potenziale dell’ LSD
per la psichiatria e per la psicologia a quello del microscopio
per la medicina o del telescopio per l’astronomia.

Stanislav Grof

Bateson con la sua sperimentazione dell’ LSD sollecitò problmeatiche relative alla filosofia
della mente (in particolare il rapporto mente-materia) e all’estetica. Faremo introdurre il
discorso su questo tema a colui che ha sintetizzato questa sostanza, Albert Hofmann, che
è stato anch’egli esemplare nell’evidenziare e lottare contro il distacco dell’universo della
spiegazione mentale da quello materiale. Il chimico svizzero scrive nella prefazione del
suo libro più famoso: “Nei primi quindici anni dalla sua scoperta l’LSD venne impiegato
quasi esclusivamente in psichiatria e nella ricerca biologica. Durante gli anni Sessanta,
tuttavia, fece sempre più la sua comparsa nel panorama delle droghe, divenendo per un
certo periodo di tempo, sopratutto negli Stati Uniti, la droga di più largo consumo il cui
impiego sconsiderato, che non teneva conto della sua inquietante azione psichica, causò
incidenti e danni psichici ai consumatori. (…) Come tutto ciò che proviene dal regno
vegetale, sono doni del creato alla sua creatura dotata di coscienza, l’essere umano. È di
ciò che dovremmo essere consapevoli, facendo di questo dono assai speciale un uso
rispettoso e sensato.”91 E aggiunge: “Condivido l’opinione di molti contemporanei secondo
cui la crisi di valore che pervade tutti I settori della società industriale occidentale può
essere ostacolata solo da un cambiamento della nostra immagine del mondo. Dovremmo
compiere la transizione dall’idea dualistica dominante, che separa l’uomo dal suo
ambiente, verso la nuova consapevolezza di una realtà onnicomprensiva che includa
anche il sogetto conoscente, affinchè l’uomo si senta unito con la natura vivente ed il
creato intero”92 Sarà interessante notare la posizione di Bateson che come vedremo
dedicò parte delle sue indagini scientifiche a questo particolare argomento. Il tema della
coscienza nel caso dell’LSD si presenta almeno su due livelli. A livello meta-sperimentale
gli studi su questa sostanza hanno generato una dicotomia morale, da una parte c’è chi ha
visto il degrado sociale, la psichiatria invasiva, la manipolazione delle masse e dall’altra
parte c’è invece chi ha visto la prospettiva di una rinascita epocale delle coscienze. A
livello sperimentale in Bateson indusse un tipo di trasformazione che lo aiutò a pensare il
problema del determinismo estetico. Egli stesso disse: “Entrai nella ricerca sull’LSD con
l’intenzione di pensare ai problemi dell’ordine estetico, in quanto distinti da altri tipi di
ordine che nella scienza ci sono più familiari”. Tuttavia non riuscì a sviluppare
quest’indagine fino in fondo, riuscì pertanto ‘solo’ a gettare le basi di una teoria della
mente che permettesse una nuova metodica nello studio dell’estetica e della coscienza
umana. Bateson sperimentò l’LSD in due contesti diversi tra loro, influenzati da diversi
colleghi che utilizzavano la sostanza come farmaco nella loro particolare prospettiva. La
prima esperienza avvenne con Harold Abramson che lavorava in istituti della East Coast e
utilizzava LSD in psicoterapia secondo la tecnica definita ‘psicolitica’, in cui si utilizzava il
farmarco in dosi relativamente piccole (a Bateson somministrò una dose di 30
microgrammi) per facilitare ed accelerare il normale svolgimento della terapia

90 Una parte consistente delle informazioni di questo paragrafo sono state tratte da ricerche di Matteo Saltalamacchia.
91 A. Hofmann, Lsd, il mio bambino difficile. Riflessioni su droghe sacre, misticismo e scienza, Apogeo, Milano, 2005
92 A. Hofmann, Ivi, pag. 10
psicoanalitica. La seconda avvenne con Joe K. Adams che lavorara sulla West Coast e
sosteneva la tecnica definita ‘psichedelica’, in cui si utilizzava il farmaco in dosi elevate
(minimo 100 microgrammi) per provocare un’esperienza eccezionale che avesse di per sè
un’azione terapeutica. La terapia psicolitica e psichedelica avevano presupposti diversi
sebbene entrambe si radicassero nella pratica e nelle letteruatura delle sperimentazioni
con sostanze psicoattive diffuse dagli anni Venti e Trenta sia in Europa che in America
insieme al concetto di ‘psicosi sperimentale’ e che durante gli anni Cinquanta avrebbe
dato alla luce la maggior parte degli psicofarmaci poi entrati in commercio fino ad ora. La
tecnica psiolitica utilizza da Abramson si ricollegava direttamente alla narcoanalisi, che era
la pratica già diffusa di effettuare la psicoanalisi con pazienti in stato alterato di coscienza,
in seguito alla somministrazione di sostanze o all’ipnosi o ad una combinazione di
entrambi. Si cercava quindi di ottenere un rilassamento della coscienza perchè durante
l’analisi potessero emergere più facilmente ricordi dell’infanzia, esperienze traumatiche ed
in generale contenuti inconsci, latenti, repressi e patogeni. A detta degli psichiatri più
entusiasti, grazie alla particolare azione dell’LSD in meno di dieci ore si potevano far
emergere ed analizzare contenuti che in una normale terapia richiedevano anni di lavoro.
Secondo la teoria sviluppata da Abramson si verificava una duplice azione psicologica che
in termini psicoanalitici egli definiva ‘intensificazione-depressione dell’ Io’. L’epistemologia
di questo autore soffriva di quella disintegrazione tra ottica materialista e ottica psicologica
tipica della psichiatria moderna e che Bateson cercò di integrare durante tutta la sua
carriera. Ben diverso fu il rapporto epistemologico tra le idee di Bateson e quelle di Adams.
La prospettiva psichedelica si stava sviluppando e diffondendo a macchia d’olio in
California, proprio dove Bateson risiedeva e lavorava da quasi dieci anni, ed era nata
anch’essa in seno alla sperimentazione sulle psicosi sperimentali ricollegandosi
soprattutto allo studio delle proprietà ‘fantastiche’ della mescalina e di altre piante sacre
del Nuovo Mondo, all’analisi fenomenologica della mente. Nella pratica di Adams si
provocavano esperienze di de-personalizzazione e stravolgimento del normale vissuto
soggettivo che permettevano una nuova visione della propria vita e dell’ambiente
circostante. Durante queste psicosi indotte le percezioni divenivano particolarmente
significative ed eccezionalmente si sfociava in una “Visione Beatifica, Sat Chit Ananda,
Essere – Consapevolezza – Beatitudine”93; di comprensione universale per cui ‘ogni cosa
sembra venir compresa nella sua armonia con il Tutto’. Prendendo esempio dalle culture
indiane delle Americhe che utilizzavano sostanze simili come la mescalina per risolvere
problemi di alcolismi si iniziò l’applicazione terapeutica in questo ambito ottenendo risultati
sorprendenti, poi si tentò di estendere questa tecnica alla cura delle nevrosi e delle
psicosi. Bateson sperimentò l’LSD con Adams non nel contesto della terapia ma
dell’esperimento scientifico, il caso studio rientrava negli esperimenti effettuati dal’MRI di
Palo Alto, effettuati tra il 1958 e 1959 su 29 pazienti e 70 volontari (prevalentemente
scienziati psico-sociali, ricercatori ed intellettuali). L’epistemologia legata a questa pratica
non fu semplicmente riducibile alle scienze di riferimento. Essa può essere ricondotta a
certi atteggiamenti romantici che denotavano bisogno di trascendenza e rifiuto del
razionalismo moderno, in un’ottica antropologica rispettosa della cultura mistica dei popoli
primitivi, se non addirittura ritenuti custodi di dimensioni ultra-terrene, in più nella simpatia
verso fenomeni come la schizofrenia e l’alcolismo, intesi come normali reazioni
comportamentali a ‘particolari’ ambienti sociali, se non addirittura come dignitosi rifiuti delle
categorie ipocrite della società e dell’intelletto occidentale, che avrebbero portato ad uno
stato in un certo senso più genuino, profondo e superiore. Quindi si supportavano vari tipi
di apporccio scientifico allo studio della mente: comportamentismo, psicanalisi, Gestalt,
approccio psico-fisiologico, fenomenologico ecc. Se da una parte questo era un
atteggiamento favorevole alla re-integrazione della mente nel rango dei fenomeni naturali,
dall’altra rivelava l’ignoranza sull’aspetto qualitativo della mente e della coscienza. Come

93 A. Huxley, Le Porte della Percezione, Paradiso e Inferno, Mondadori, Milano, 2014


nel caso dell’ Esalen Institute, baluardo della controcultura fondato su premesse
strettamente connesse all’epistemologia psichedelica californiana: gli esponenti di questo
istituto pensavano di poter promuovere una rivoluzione culturale oltrepassando le
premesse razionali del pensiero cosciente. Il risultato fu un’altra idea paradossale della
coscienza, che affacciandosi alle ultime conquiste intellettuali sprofondava in forme
d’appello al soprannaturale. In quei tempi Bateson conveniva con il movimento
controculturale che poneva necessariamente una riforma delle premesse della cultura
occidentale, che rischiava di condurre alla catastrofe ecologica, ma non era d’accordo che
la terapia dovrebbe essere in qualche modo una distruzione di ogni razionalità, cioè
un’autodistruzione, nè una fuga in un sogno senza garanzie, nè tanto meno una
distruzione in funzione di una restaurazione pianificata. Il disappunto di Bateson verso il
contesto della scienza applicata agli stati alterati di coscienza valeva principalmente per
l’idea che si potesse pianificare l’induzione di stati di coscienza ‘superiori’. Per lui era
assurda la pretesa di imitare di proposito un rituale religioso di un’altra cultura o pianificare
a tavolino la sacralità di un rito, come pretendevano alcuni nel movimento psichedelico
dell’epoca. Infatti, è ugualmente paradossale e patogeno, l’idea di ottenere la Grazia con
un piano architettonico che rientra in una filosofia scientista come era nella maggior parte
dei casi quella degli scienziati dell’epoca. Un esempio di effetti collaterali negativi di queste
contraddizioni la troviamo in un collaboratore di Bateson, John Lilly, che fondendo la
concezione cibernetica della mente e la teoria dei tipi logici della comunicazione propose
una tecnica di meta-programmazione della coscienza tramite sostanze psichedeliche 94. Il
risultato finale del suo accanimento tecnico sulla coscienza basato su premesse
insufficienti fu una sorta di megalomania per cui sosteneva di essere in contatto con delle
entità extraterresti tramite il suo ECCO (Earth Coincidence Control Office), che gli
indicavano le scelte d’azione in base alle coincidenze che gli capitavano. La percezione
delle coincidenze significative che forse è una dinamica propria del determinismo estetico,
se interpretata con un concetto sbagliato di coscienza può generare confusione. Nel caso
di Lilly lo portò a immaginare altre coscienze esterne al mondo. Ma tornando a Bateson,
alla fine degli anni Cinquanta egli si trovò a sperimentare l’LSD in due contesti diversi e
come abbiamo visto sviluppò in tal senso riflessioni sull’epistemologia di questi
esperimenti. Poi ci fu un altro aspetto della ricerca che fu quello di esplorare la natura del
‘bellezza’ in senso biologico, così da affrontare il problema del determinismo estetico alle
sue fondamenta. Come si determinano il giudizio ed il gusto, da cui dipendono poi le
scelte d’azione? Chiarire questo genere di dinamiche è ciò in cui consiste propriamente
l’indagine sul determinismo estetico. Bateson vorrebbe provare ad esperire più
direttamente quel mondo di forme più vasto che è solitamente inaccessibile alla coscienza,
e che è invece familiare agli schizofrenici, ai poeti, ai comici, ecc. Forse sperava anche in
una qualche intuizione sul concetto di bello che poteva costituire il ponte per dare un
fondamento biologico al determinismo estetico. Nell’intossicazione forse si poteva
manifestare rapidamente ed intuitivamente il flusso di pensieri e conoscenze già implicite
nella sua abilità tecnica di pensatore. Sotto effetto della sostanza Bateson rivolgendo
l’attenzione al ‘bello naturale’ nota come innanzitutto è il corpo umano a possedere questa
caratteristica, prodotto dell’evoluzione, cioè delle trasformazioni del genoma. E l’armonia
delle trasformazioni armoniche della musica non è diversa dall’armonia delle
trasformazioni evolutive. Entrambi sono belli e sono frutto di questo processo di
trasformazioni che è nel pensiero. Com’è possibile che siamo in grando di percepire
questa bellezza? Bateson azzarda la fantasia che questo sia possibile proprio per l’affinità
tra questi due processi, proprio per questa sintonia strutturale, noi possiamo percepire ciò
che ci somiglia. In questo senso noi siamo una metafora di ciò che percepiamo. Siamo la
pietra di paragone con cui conosciamo il resto del mondo. Questo atteggiamento diventerà

94 J. Lilly, Programming and Metaprogramming in the Human Biocomputer: Theory and Experiments, Julian Press,
New York, 1967 (dalla vita e le ricerche di Lilly è stato tratto il film Stati di allucinazione di Ken Russell, 1980)
fondamentale nella produzione letteraria dell’ultimo Bateson, anzi negli ultimi anni della
sua vita egli si dedicherà proprio a riorganizzare questa filosofia della mente. L’unità di
pensiero ed evoluzione, di mente e natura. La dottrina dell’uomo come metafora del
cosmo rimanda al filone della filosofia tardo-antica che fu lo gnosticismo. Non è un caso
che Bateson durante la lettura sui Requisiti minimi per una teoria della schizofrenia, tenuta
nei giorni seguenti alla sua esperienza psichedelica, citi alcuni parenti stretti della filosofia
gnostica: Eraclito, gli alchimisti, William Blake e Samuel Butler, che fondavano la ricerca
scientifica sul desiderio di giungere a una visione globale dell’universo in grado di
mostrare cos’è l’Uomo e come egli sia connesso all’Universo. Cercavano cioè di dar vita a
una prospettiva etica-estetica. In essa l’Uomo deve essere connesso al resto dei
fenomeni, non può restare l’osservatore escluso dell’Universo. Cercare un ordine di
spiegazione unico, comprendenti le leggi naturali e I fenomeni considerati prettamenti
umani: simboli, etica, estetica. Per questo durante questa lettura sopracitata Bateson parla
agli psichiatri di come Charles Darwin avesse sedato le polemiche ottocentesce tra vitalisti
e materialisti, e di come la sua polemica con Butler riguardo ai caratteri acquisiti
dall’individuo fosse una questione di carattere religioso , cioè una polemica sul giusto
modo con cui dobbiamo guardare l’universo. Tra l’altro in un altro luogo Bateson svela
come la prima formulazione dell’ evoluzionismo fu probabilmente opera di Alfred Wallace,
che “recatosi a caccia di farfalle nelle foreste pluviali di Ternate, in Indonesia, ebbe un
attacco di malaria che gli procurò un’allucinazione psichedelica (un delirio); e
nell’allucinazione, scoprì la selezione naturale” 95.Bateson durante l’esperienza estetica con
l’LSD incontra due premesse fondamentali del suo pensiero. Una è l’epistemologia
dell’unità di percepiente e percepito: “Vi sono esperienze che possono aiutarmi a
immaginare che effetto farebbe avere questo corretto abito mentale. Sotto l’effetto
dell’LSD ho sperimentato come molti altri, la scomparsa della distinzione tra l’io e la
musica che ascoltavo, questo stato è certo più corretto di quello in cui sembra che ‘io
ascolto la musica’”96. L’altro riguarda il problematico statuto ontologico della mente (della
coscienza in particolare). Sotto l’effetto stupefacente Bateson nota l’insufficienza
dell’aspetto formale dell’esperienza e lo ricollega al problema filosofico del rapporto
mente-materia: “Sarà tutto molto bello, però è banale. Quello che vedo sono solo i piani di
frattura, non la materia. Insomma Prospero ha torto quando dice: ‘Siamo della stessa
materia di cui sono fatti i sogni’. Avrebbe dovuto dire: ‘I sogni sono frammenti della materia
di cui noi siamo fatti’, ma che cosa sia questa materia, Joe, è tutt’altro problema”97 Il
problema assai più profondo raggiunse forse un punto di svolta nella riflessione
batesoniana solo dieci anni dopo, in seguito ad un ulteriore approfondimento del rapporto
coscienza-estetica. L’attenzione verso questo rapporto raggiunse il suo acme nel 1969 ed
è ben espressa dall’invito ai partecipanti alla conferenza su La struttura morale ed estetica
dell’adattamento umano che recitava: “Esiste una struttura generale dell’immoralità, e
analogamente, una struttura generale dei processi mentali che potrebbero evitare questa
miopia. Ciò che manca è una teoria dell’azione all’interno di grandi sistemi complessi,
dove l’agente attivo è a sua volta parte del sistema e ne è un prodotto. Credo tuttavia che
non siamo ancora pronti per affrontare con sicurezza l’immane problema dell’intervento
pianificato. Ritendo che prima di passare a considere le teorie dell’azione dovremmo
dedicare un po’ di tempo al problema del determinismo estetico” 98 Quella conferenza si
risultò un fiasco e ripensando alle ragioni della conferenza Bateson disse: “avevo raccolto
una ventina di pensatori, biologici, antropologi e altri, per cercare di discutere le
motivazioni estetiche nel comportamento umano ed animale. Era lo stesso problema che
mi aveva portato a sperimentare l’LSD: i fattori estetici contribuiscono a modificare ciò che

95 G. Bateson, Una Sacra Unità, pag. 250


96 G. Bateson, Verso un’Ecologia della Mente, pag. 484
97 G. Bateson, Dove gli angeli esitano, pag. 176
98 G. Bateson, Verso un’Ecologia della Mente, pp. 386
gli animali e le persone fanno nell’ambito delle loro relazioni? 99 Gli studiosi di Bateson
spesso parlando di conoscenza ecologica ma non di scelte d’azione ecologiche proprio
perchè questo problema è rimasto insoluto, lo sforzo nella direzione di una spiegazione
del determinismo estetico iniziò con la sperimentazione dell’LSD nel 1959, non si era
risolto nel 1969 ai tempi di quest’ultima conferenza sul tema della coscienza e come terrà
a dire in un’altra occasione lo stesso autore: “Il problema non è rimasto fermo, diciamo al
1880, quando il problema era l’esistenza dei processi mentali inconsci. Nel 1969 il
problema è cosa diavolo sia la coscienza, perchè il processo mentale inconscio di per sè
non presenta alcun nuovo mistero. Il mistero è ciò che chiamiamo coscienza.” 100
Nell’epilogo di Mente e Natura Bateson preciserà perciò di aver lasciato solo alcune
premesse per il lavoro sul rapporto estetica-coscienza, ma come abbiamo visto nel primo
capitolo di questa tesi sono state delle premesse che hanno creato dei binari fondamentali
per la ricerca contemporanea su questi grandi temi.

99 G. Bateson, Ivi, pag. 189


100 G. Bateson, Mente e Natura, pag. 364
2.5 Una riflessione estetica sul rave party

In quest’ultimo paragrafo svolgeremo una riflessione estetica nell’ottica batesoniana su un


oggetto d’esame che si colloca nel rapporto individualità-collettività, nella possibilità di
spiegare un sistema come totalità, come l’emergenza di un sè collettivo, se ripercorreremo
la storia e il significato che può avere il rave, sarà per arrivare più coerenemente a concetti
e metodi che abbiamo provato a ridefinire in vari momenti di questo scritto. Passiamo
all’argomento: il rave party è un fenomeno sociale che si inscrive nell’ambito delle
controculture, nell’evoluzione della musica in senso più ampio. La riflessione di Michel
Maffesoli sulle tribà contemporanee sembra riflettere coerentemente le diverse
componenti che ruotano intorno a nuovi generi musicali e alle loro pratiche, perciò
potremmo sostituire la nozione di “sottocultura” (spesso diffusa dai media mainstream) con
quella di “neotribù”. Lo studioso francese nel suo testo Il tempo delle tribù, stabilisce un
legame strutturale tra il dionisiaco, il tribalismo e il nomadismo, nuove coordinate capaci di
interpretare l’avvenuto declino della categoria dell’identità in seno alla società
contemporanea, e precisa che: “non si tratta più di barricarsi nella fortezza della propria
mente, in un’identità (sessuale, ideologica, professionale) intoccabile, ma al contrario, si
tratta della perdità di sè, del consumo e di altri processi di dispersione che mettono
l’accento sull’apertura, sul dinamismo, sull’alterità e sulla sete d’infinito”. 101 Dalla vitalità
politica o anarchica che aveva animato gruppi avanguardisti, bohemmiens, marginali o
esclusi volontari degli anni Sessanta e Settanta, si è passati negli anni Ottanta ad una fase
di vitalità che mirava alla perdità del sé fine a se stessa, non funzionale ed estatica (ex-
stasi: uscire fuori da se stessi, filosoficamente: trascendere) inaugurata dal movimento
punk. Questa perdita era movimento verso l’altro da sé, che ha incluso, nel corso degli
anni Novanta, il fenomeno dei rave party. Ancora Maffesoli scrive: “A differenza di ciò che
ha prevalso negli anni Settanta oggi non si tratta di aggregarsi ad una banda, a una
famiglia, a una comunità, ma di saltellare da un gruppo all’altro. In opposizione alla
stabilità indotta dal tribalismo classico, il neotribalismo è caratterizzato dalla fluidità, dai
raggruppamenti puntuali e dallo sparpagliamento; è così che possiamo descrivere lo
spettacolo della strada nelle megalopoli moderne.102 A differenza del way of life si potrebbe
parlare di mind-style103. L’evoluzione spaziale di questo fenomeno come delineato dal
modello di Gilles Deleuze e Felix Guattarì ha subito una fase di ri-territorializzazione
inevitabile (stabilizzazione del caos in un nuovo ordine), successiva alla de-
territorializzazione, avvenuta quando non solo la rave music ma anche il punk, la jungle
l’acid house per non scomparire hanno trovato nuovi spazi estetici, sociali e cognitivi. Nella
parabola del rave si possono distinugere una fase iniziale di ricerca dello spazio collettivo
in luoghi dimenticati da tutti (industrie abbandonate, foreste, etc.), seguita in un secondo
periodo da un’inevitabile codificazione e ri-ordinamento del caos da parte dei colossi
industrali del tempo libero. Secondo Michael Hardt e Toni Negri la società contemporanea
è posta tra due poli: la creatività della moltitudine e il fascismo di massa 104. La scena rave

101 M. Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Guerini e Associati,
2004, pag. 22
102 M. Maffesoli, Ivi, pagg. 126-127
103 F. Morace, PreVisioni e PreSentimenti. Stili di pensiero per un futuro ormai presente, Sperling & Kupfer, Milano,
2000
104 M. Hardt e T. Negri, Impero, Rizzoli, Milano, 2002
ha cercato di muoversi nel segno della creatività in quelle città o zone dove si è radicata
più profondamente. Rave è il termine utilizzato per descrivere le prime feste illegali con
musica elettronica caratterizzate da ritmo incalzante e giochi di luce. La nascita risale alla
fine degli anni Ottanta, in un clima di generale contestazione politica e in un momento in
cui negli Stati Uniti così come in Europa si formarono controculture tese a denunciare
problemi politici, difficoltà economiche e disagi sociali. Una delle influenze più marcate fu
la controcultura hippy degli anni Sessanta che ha dato vita al movimento dei travellers,
nomadi che organizzano piccole e grandi fiere gratuite, luogo di incontro per tutti i
movimenti controculturali, dai punk alle crew, che per esempio organizzavano feste di acid
house illegali a Londra. I primi rave trovano vita nelle fabbriche abbandonate delle
metropoli statunitensi, e più precisamente nelle fabbriche di Detroit. Con la momentanea
invasione di un’area industriale in disuso, questi posti diventavano TAZ (ovvero ‘zone
temporaneamente autonome’ dall’inglese Temporary Autonomous Zone). Hakim Bey è
l’autore di questo acronimo che da anche il nome alla raccolta dei suoi scritti più
importanti. Hakim Bey è un teorico anarchico molto discusso e apprezzato tra gli
esponenti intellettuali appassionati delle controculture americane 105. Il suo pensiero si basa
su un “nomadismo psichico”, inteso come abbandono delle appartenenze familiari,
nazionali geografiche e di gruppo politico. Per definire una TAZ Bey parte da una
similitudine: corsari e pirati del XVIII secolo avevano creato una rete informativa che
attraversava il globo, un ordito di rotte capace di contenere rifugi nascosti ed ignoti ai più,
grotte106, isole e anfratti in cui le navi potevano trovare rifugio e rifornimento. Alcune di
queste isole ospitavano intere comunità d’individui che vivevano fuori dalle regole del resto
del mondo. Bey definisce “utopie pirati” queste enclavi ad autonomia temporanea, ovvero
autonome finchè non venivano scoperte107. E quindi una TAZ può essere vista come
un’isola di territorio liberato dalle logiche di dominio economico e mentale capitalista. Nelle
TAZ il tessuto sociale è ricostruito su basi del tutto nuove, e con la presunzione di non
ricreare al loro interno le logiche gerarchiche della società capitalistica – la verticalità del
potere è sostituita da reti orizzontali di rapporti. Questa intuizione teorico-politico permette
alla TAZ di apparire e dissolversi, oltrepassando le puntuali etichettature dei media
capitalisti, pronti a gettarsi su ogni manifestazione di socialità non omologata
trasformandola in moda innocua. Una TAZ può apparire in Internet così come in un Centro
Sociale Occupato, in una comunità di agricoltori biologici come fra gli squatter di una
metropoli, è temporanea per non essere distrutta o normalizzata. E può quindi diventare
anche un cosidetto rave. Uno dei generi musicali caratteristici di questi fenomeni sociali è
la techno, la scelta dei suoni ritrova l’imprescindibile legame che il rave ha con la metropoli
techno-logica, nella quale nasce e si sviluppa. Si tratta spesso di suoni provenienti dalla
realtà urbana, sirene antifurti, suoni di macchinari industriali 108. La musica techno è
segnata fin dalla sua nascita dalla marginalità rispetto alla società, sviluppandosi fra le
minoranze, nei club di Houston e Chicago. Le radici di questo genere affondano in parte
nelle riunioni clandestine fra musicisti jazz della Parigi occupata dai nazisti durante la
seconda guerra mondiale. Nello scenario post-apocalittico e post-industriale della città di
Detroit, il movimento dell’afrofuturismo nato dalla diaspora afroamericana e la black
science fiction contribuirono non poco a fornire ai pionieri della techno le fondamenta per
costuire un solido apparato estetico-critico-politico. Poi avvenne l’espansione di questo
‘movimento musicale’ su scala mondiale e ciò ha conseguito varie derive filosofiche e
sociologiche. Negli anni Novanta la cattiva immagine di questo nuovo genere musicale si
trasformò rapidamente in un fenomeno diffuso e condiviso, col passare del tempo il rave
perse il valore di protesta, diventando una manifestazione legale regolamentanta in
105 M. Sommariva, Pillole situazioniste, Malatempora, Roma, 2005
106 Una di queste grotte utilizzate come rifugio forse dai Saraceni nel XI secolo è la cosìdetta ‘Grotta del Turco’ sita
nella località di Gaeta (Lazio).
107 P. L. Wilson (alias Hakim Bey), Pirate Utopias: Moorish Corsairs & European Renegadoes, Autonomedia, 2003
108 C. Attimonelli, Techno, ritmi afrofuturisti, Meltemi, Milano, 2008
moltissimi locali (è il fenomeno che abbiamo citato come ri-territorializzazione o ri-
ordinamento). Così in Francia a metà anni Novanta, per continuare ad uscire dai circuiti
commerciali, in particolare sulla scia della Spiral Tribe109, iniziarono a diffondersi degli
eventi simil-rave, detti Free Party o Teknival. Ques’ultimi esprimono una percezione
libertaria che appartiene al nomadismo sia psichico che fisico. Il nomade (traveller)
assume una prospettiva esistenziale volutamente fluida, composta da ‘immagini mosse in
continua dissolvenza’. La creatività si fa centrale nel traveller in quanto strumento di
sussitenza e gioco del reinventarsi la vita quotidiana. Cosa significa per i traveller, da un
punto di vista antropologico e semiotico, riunirsi nei rave? “Si può visualizzare il rave come
una forma ipertestuale in cui la propositività si configura come progetto autogestionario
dove l’elaborazione di un’architettura relazionale libera si compone di nodi esistenziali
autobiografici tanti quante le biografie delle entità che danzano in questo spazio-tempo
sprofondato tra i confini delle sintassi dei vecchi poteri e gli affioramenti di produzioni
linguistiche nuove. L’intreccio delle trame esistenziali sono i nodi della rete ipertestuale, I
links possibili sono le definizioni di significato che elabora la mente unica nell’ipertesto
Rave. La produzione cognitiva della mente-rave performa la connettività come shock della
conoscenza, dialogia della diversità, agorafilia metropolitana. Il raver è un’entità errante
che attraversa, in una cerebralità trascendente, la significazione collettiva dell’ipertesto
attraverso i suoi nodi possibili.”110 L’abbandono di sé si riaccende nella ricerca della
significazione del testo esploso in una tempesta di idee percettive, di percetti e prospetti. Il
lettore danza la sua produzione di testo erotizzando la sua zona relazionale con la
struttura aperta del testo collettivo. Il raver legge il suo linguaggio glocale autoproducendo
il testo. Il resto del rave è a sua volta la zona vuota del linguaggio delle organizzazione
politiche, quindi la ferita aperta del suo corpo che gode del non-coagularsi. Per sostenere
queste interpretazioni possiamo rivolgerci anche alle concettualizzazioni del filosofo Pierre
Levy che nel suo saggio sui processi di virtualizzazione introduce le dicotomie
virtuale/attuale e reale/potenziale, dedicando la sua riflessione ai mutamenti antropologici
della contemporaneità, cercando le chiavi per un’azione diretta alla gestione socio-politico,
che legata al fenomeno del rave potremmo interpretare con le sue parole di ‘processo di
virtualizzazione’. Levy interpreta infatti la virtualizzazione come ‘energia dinamica di
problematizzazione del reale’, basandosi sulla radice etimologica latina della parola virtus
ovvero forza, potenza; l’attualizzazione sarebbe il processo di risposta alla
problematizzazione del reale nella sua re-invenzione significativa quindi nella sua radicale
modificazione. La virtualizzazione, usando la percezione del vuoto come ‘elemento in
divenire’, o come motore del processo di attualizzazione, trasforma l’attuale istituito in
problematizzazione esponenziando e fluidificando le differenze. Ancora, il processo di
virtualizzazione propone un’azione di eterodossia cronotopica nel suo svincolarsi dagli
spazi/tempi dell’identità, quindi dall’essere al suo interno. L’idea della virtualizzazione
come problematizzazione nomade, o esodo dalle identità precostituite dagli spazi-tempi
dei poteri tradizionali, va esattamente contro quella filosofia politica tradizionale in cui
l’umanità non può che esprimersi in una definizione spazio-temporale gerarchizzata,
categorizzata, controllata, statica e reale dell’essere: l’esser-ci heideggeriano. Michel
Serres invece parla di una produzione dell’essere tra le cose chiaramente situate,
sedimentate e istituite, opponendo etimologicamente al tedesco dasein (esser-ci) il latino
ex-sistere (esistere al di fuori di). Quindi virtualizzando il proprio senso dell’esistere si pone
al di fuori dei rapporti di potere sé stessi, in una dinamica relazionale accesa da vitalità
passionali composte da progetti, conflitti e intese svincolate dalle griglie politiche sociali
culturali ed economiche moderne. La virtualizzazione in questo senso anima una cultura
nomade glocale nelle sue attualizzazioni spaziotemporali simultanee, frammentate,

109 World Traveller Adventures, Uncivilized World Studio, ottobre 2005 (serie di quattro filmdedicati ai sound system
techno degli anni Novanta)
110 F. @lter8 Macarone Palmieri, Free Party, technoanomia per delinquenza giovanile, Meltemi, Milano, 2002
multicentriche e parallele che destabilizzano l’idea cronologicamente e topograficamente
lineare-ordinata della realtà. “la virtualizzazione mette a dura prova la narrazione
tradizionale”111. Levy con queste parole entra criticamente nella sintassi dei vecchi poteri
moderni. E il raver come forma ipertestuale esprime la lacerazione di questa sintassi
attraverso la sua “complessificazione” virtualizzante in una tensione libertaria. Se il testo
del potere si esprime nell’ortodossia dell’ hic et nunc, l’ipertesto del rave virtualizza i confini
categorici delle identità e moltiplica le frontiere dell’eterodossia cronotopica, diviene
centrale l’abbattimento dell’io e la conseguente molteplicità dell’uno. La pratica del rave,
come moltiplicazione reticolare-rizomatica dell’uno in molteplice e viceversa, si fa progetto
totale di una mente unica pulsante e quindi terreno ottimale di distruzione dell’io come
unità categorizzata e strangolante. Questo concetto rientra nell’ estetica “trans-organica”
dell’antropologia batesoniana, il nostro autore scrive: “Se desideriamo spiegare o
comprendere l’aspetto mentale di un qualunque evento biologico dobbiamo prendere in
considerazione la rete o circuito di sistemi chiusi all’interno del quale quell’evento biologico
è determinato, ma quando cerchiamo di spiegare un comportamento di un uomo o di un
qualunque altro organismo questo sistema non avrà gli stessi limiti dell’io.” 112 Per questo
definiamo raver come multi-viduo, o con-dividuo113, altro da sé in continua espansione. La
prospettiva epistemologica di ispirazione cibernetica adottata da Bateson mostra come
l’armonia del molteplice, nei suoi processi comunicativi, irrompa sul concetto biologico-
sociale di sistema, sul suo equilibrio, sul suo controllo e sul suo governo. Può tornare utile
ritornare alle riflessioni sulle caratteristiche mentali di un sistema: “non è possibile che in
un sistema che manifesti caratteristiche mentali, una qualche parte possa esercitare un
controllo unilaterale sopra il tutto. In altre parole le caratteristiche mentali del sistema sono
immanenti non in qualche parte, ma nel sistema come totalità.” 114 Questa metodologia
accennata da Bateson può tornare utile nell’approccio allo studio degli stati mistici che
inevitabilmente sono legati agli argomenti trattati negli ultimi due paragrafi di questo
capitolo, la visione estetica batesoniana diventa indispensabile per evitare riduzionismi e
giudizi negativi che tra l’altro sono diventati purtroppo la norma per troppo tempo. Non
meraviglia perciò come all’epoca Bateson fu accusato di misticismo, poichè il ruolo del
mistico è quello di colui che trascende il sé, ovvero di colui che supera sistemi simbolici e
sociali che lo definiscono, attraverso un allargamento della visione teso a esperire
l’insondabile miracolo dell’esistenza. Questa capacità è stata rivivifacata dall’esplosione
biochimica e farmacologica proprio alla fine degli anni Cinquanta, che ha ampliato
l’esplorazione delle capacità del cervello e del concetto di coscienza parallelamente allo
studio delle pratiche divinatorie delle culture dette ‘native’ che già scoprirono modificatori
naturali della coscienza prima del sorgere della ‘storia’. In tempi più recenti troviamo
invece nel mondo occidentale le storie dei rave e di fenomeni simili appartententi alla
trance, come bacini di psico-azione o auto-trascendenza spontanea attraverso stimoli
endogeni ed esogeni. Perciò questo tipo di fenomeno può essere letto come
un’esperienza di riappropriazione e autogestione degli infiniti stati di coscienza possibili,
perduti in secoli di storia mitica, religiosa e sociale, in un’ultima analisi una pratica di
integrazione esemplare in quel delicato equilibrio estetico, altresì definito da Bateson
come ‘struttura che connette’.

111 P. Levy, Qu’est-ce que le virtuel?, La Découverte, Paris, 1995 (trad.it Il virtuale, Raffaello Cortina, Milano, 1997,
pag. 86)
112 G. Bateson, Verso un’Ecologia della Mente, pag. 123
113 Questa nozione è tratta dall’intervento della biologa Elena Gagliasso pronunciato in occasione del Seminario
nazionale del Circolo Bateson, Approssimazioni. Riflessioni sull’alterità ed esperienze della diversità nel vivente,
Roma, 26 maggio 2012
114 G. Bateson, Ivi, pa. 128
CONCLUSIONE
“Le idee che sembravano essere me possono anche diventare immanenti in voi. Possano
sopravvivere – se sono vere”, scrisse Bateson. Possiamo ben dire dopo questo lavoro che
almeno nei campi di cui ci siamo occupati, filosofia della mente ed estetica, sono risultate
e sono ancora molto feconde, sicchè siccome sono ancora idee in fase di ‘elaborazione’
lasciamo ad altri il compito di dimostrare la loro verità. Ma sicuramente un’altra
conseguenza delle idee di Bateson è stata proprio la spinta a creare ponti tra varie
discipline, a far emergere confronti tra concetti apparentemente diversi ma in fondo
convergenti. L’esternalismo come corrente filosofica ha beneficiato dell’idea dell’unità
organismo-più-ambiente, le neuroscienze dell’analisi del rapporto evoluzione-
apprendimento, scienziati, filosofi e artisti hanno poi riflettuto sull’idea di una base estetica
di ogni tipo di esperienza umana, l’ecologia della mente ha dato già dei frutti e riuscirà a
dar ancor di più se come indicano molti studiosi si procederà ad una attenta discussione
delle opere batesoniane. Ci auguriamo anche una rivalutazione del naturalismo americano
che con Frederick James Eugene Woodbridge, Gerge Santayana, James Dewey e Alfred
North Whitehead, ha sviluppato tematiche e approcci molto affini e a volte precorritrici a
quella di Bateson. Come infatti, ritroviamo la stessa “rilevanza fondamentale nell’analisi
della dimensione estetica - l’analisi delle fasi emotive e sentimentali dell’ esperienza - vista
come funzione cruciale nell’orientamento e nella costruzione dei percorsi conoscitivi” 115.
Quindi un obiettivo comune a questi autori è quello di ridare un quadro unitario
all’esperienza umana, una crucialità dell’estetica che permetta il superamento del
dualismo mente-corpo e radichi la Mente nella Natura. Il cosìdetto ‘realismo naturale’ in
funzione anti-cartesiana dei filosofi naturalisti americani è stato rivalutato anche in alcune
linee di ricerca della filosofia contemporanea sopratutto grazie alle opere di Putnam.
Questo panorama filosofico ci sembra più lontano nel tempo ma più vicino allo spazio
mentale in cui troviamo necessario una riconsiderazione pervasiva e multidimensionale
della concezione di Vita e di Ambiente. Oggi il pensiero unico di molte teorie economiche,
filosofiche, politiche dominate dalla preoccupazione di selezionare, classificare, controllare
i propri oggetti di studio, ha fatto perdere il senso dello studio, il senso della vita e
dell’ambiente, che forse ‘in altri tempi’ pervade(va) ogni aspetto dell’esperienza umana.
Esso si ritira, producendo quell’atmosfera di disicanto che è uno dei tratti distintivi di molte
vite, che si inquadrano bene nella prospettiva di una società distopica e di una
realizzazione di mondi simili a quello descritti nei romanzi di George Orwell, Aldous Huxley
e Karel Čapek o in un film di genere succeduti a Metropolis di Fritz Lang. Arte, religione e
mito sono diventati residui, scarti, macerie di precedenti età dell’uomo, espressioni del suo
lato irrazionale, pulsionale e primitivo oppure vengono usate come strumenti di dominio,
potere e controllo. Siamo lontani dall’assunto di Bateson che era che questi campi
potevano far emergere la ‘struttura che connette’. L’essenza di tale struttura, lo diciamo
ora a chiare lettere, non può che essere estetica in senso batesoniano, ed è per questa
via che l’arte (il mito e il sacro) dichiarata più volte morta, può ritrovare il suo posto nel
mondo, non solo come espressione del bello quindi, ma come modo di conoscere, dato
che conoscenza e bellezza coincidono. La creatività, l’arte e l’innoazione sono
intimamente connesse. L’ipotesi conclusiva è che la nostra specie sia naturalmente
creativa e che abbia quella continua incompletezza che caratterizza l’essere neotenici,

115 P. Marolda, Filosofia del sentire nel naturalismo americano, Bulzoni, Roma, 2003
una tensione rinviante che ci porta ad inventare continuamente mondi possibili 116. In un
momento del genere appare necessario riconoscere l’esperienza estetica come funzione
basilare del nostro essere e ridare all’arte la funzione di generare l’inedito, di
sperimentazione quotidiana non concepibile o possibile ma effettiva e concreta. La storia
della Natura appare una storia sistemica ed evolutiva, una storia in cui quantità e qualità
sono continuamente co-presenti, una storia in cui l’estetica gioca un ruolo determinante.
Whitehead dando una definizione generale della civiltà indica cinque qualità: “verità,
bellezza, avventura, arte, pace”. Una visione scientista della natura puramente quantitativa
appare fortemente opposta a queste categorie, sopratutto per quanto riguarda la stessa
fondamentale categoria della qualità, e in altro livello sull’importana della bellezza, mentre
una visione ecologica come quella di Bateson fu e resta un pilastro fondamentale per
raggiungere quell’armonia. L’ordine prestabilito mostra tutti i suoi limiti di fronte alla
complessità delle dinamiche temporali della biosfera e dell’ecosistema globale, e
contemporaneamente di fronte alle dinamiche socio-culturali che generano violenza,
movimenti di protesta e ri-assetti radicali. Non possiamo lasciarci infine senza augurarci un
nuovo illuminismo radicale117 che possa coltivare le molteplici relazioni in co-evoluzione,
sostituendo l’assunto antiestetico della nostra epistemologia latente-inconscia con una
verità epistemologica che possa afferma i poli delle opposizioni che dividono le persone
come in realtà necessità dialogiche del mondo vivente.

116 U. Morelli, Mente e Bellezza. Arte, creatività e innovazione, Allemandi, Torino, 2010
117 I. Jonathan, Una rivoluzione della mente. L’Illuminismo radicale e le origini intellettuali della democrazia
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