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Léo Malet

Baraonda agli Champs-Élysées

Traduzione di Federica Angelini


1956 Leo Malet
1982 Editions Fleuve Noir
2004 Fazi Editore srl
Titolo originale: Corrida aux Champs-Élysées
Traduzione dal francese di Federica Angelini
Grafica di copertina di Maurizio Ceccato
In copertina, illustrazione ©Jacques Tardi
ISBN: 88-8112-543-9
Le inchieste di Nestor Burma /I nuovi misteri di Parigi, edizione
italiana a cura di Luigi Bernardi
www.fazieditore.it
In relazione all’immagine di copertina, l’editore è a disposizione
degli aventi diritto che non è riuscito a rintracciare.
Mappa dell'VIII° Arrondissement
Capitolo I

Ferita al seno

Lasciai Marc Covet, il giornalista-spugna, in contemplazione


davanti al grande bicchiere appannato pieno di un liquido color
ambra in cui tintinnavano cubetti di ghiaccio, attraversai l’ampia e
lussuosa stanza, gustandomi il piacere di calpestare con i miei piedi
plebei il tappeto che ricopriva il parquet, e, con la pipa in bocca, uscii
sul balcone.
Il sole di giugno inondava gli Champs-Élysées, facendo scintillare
la carrozzeria delle sontuose auto che scorrevano in un flusso
continuo. I marciapiedi erano pieni di gente e la terrazza del
Fouquet’s, di fronte, traboccava di avventori. In fondo alla strada, si
vedevano svettare i turisti in cima all’Arc de Triomphe. Gli alberi, la
gente, le cose, tutto sapeva di gioia di vivere. Quattro piani sotto,
proprio davanti al Cosmopolitan Hotel, era stato di recente aperto un
cantiere di non so cosa, in modo da rispettare la tradizione che vuole
Parigi perennemente turbata da qualche lavoro alla rete stradale, e
perfino i manovali che trasportavano sacchi di sabbia sembravano
partecipare all’allegria generale. Sempre meglio sgobbare sugli
Champs-Élysées che a Ménilmuche, anche se dalle belle signore a
passeggio non si può sperare di ricevere più di uno sguardo
vagamente curioso. Sì, meglio comunque sudare lì, dove tra due colpi
di piccone e due carriole da trasportare si potevano sfiorare quelle
stoffe eleganti.
Tornai da Marc Covet e mi servii da bere a mia volta.
Peccato! Era partita. Non l’avrei sicuramente mai più rivista.
Never more, come si dice nella sua lingua. Una traccia del suo
profumo aleggiava ancora nella stanza, ma si sarebbe ben presto
dissolta. Strinsi le spalle. Il redattore del «Crépuscule» alzò su di me
due occhi acquosi:
«Le ha fatto prendere paura?», chiese.
«A chi?».
«Di chi mai potrei parlare? Di Miss Greis Standford,
naturalmente!».
«Grace», lo corressi. «Non imiti quei maledetti speaker alla radio.
Io pronuncio il suo nome come si scrive. È più… grazioso».
«Effettivamente».
«Non le ho fatto prendere nessuna paura. È stata richiamata
improvvisamente a Hollywood».
«E lei si sente abbandonato?».
«Lo confesso».
Finii il bicchiere, liberai una poltrona dalle riviste in diverse
lingue che la ingombravano, pubblicazioni da cui la star mondiale
Miss Grace Standford sorrideva gentilmente, mi sedetti, mi allentai la
cravatta e mi asciugai la fronte. Marc Covet riprese:
«Non si sarà innamorato, per caso?».
«Per la miseria», risi, «mi sa proprio di sì. Cosa vuole, non si può
essere originali fino alla fine dei propri giorni. Se ho una cotta per
quell’attrice, condivido quel sentimento solo con un’altra decina di
milioni di uomini, no? Per Dio, Covet, la prego, non approfitti di
questa confidenza per farci un articolo di cronaca mondana».
«Senta, Nestor Burma. Ho già tirato fuori abbastanza notizie su
questa americana e il suo giro grazie alla sua posizione privilegiata di
guardia del corpo. Il mio caporedattore non ne vuole più sentir
parlare. Quindi stia tranquillo…». (Il giornalista s’interruppe per
versarsi di nuovo da bere. Si umettò la glottide e riprese). «Per quanto
tempo ha lavorato per lei? Quando l’ho incontrata in aprile, al
Festival di Cannes, aveva appena iniziato?».
«Dall’8 marzo, allora risiedeva in incognito a Parigi».
«Tre mesi buoni», disse Covet che possiede un ottimo talento da
contabile, oltre a quello di informatore e cronista parigino. Già, tre
mesi…
«Basta, parliamo d’altro. Non voglio farne una malattia. È stato
solo un momento di malinconia, perché non mi aspettavo che partisse
così presto. Credevo che sarebbe rimasta ancora un mese o due in
Francia ma, come sa bene, hanno avuto improvvisamente bisogno di
lei a Hollywood e ieri è dovuta partire».
«E adesso lei deve trovarsi un nuovo incarico».
«Oh! Non ho tutta questa fretta. Credo che mi concederò invece
una vacanza. È da tanto che non lo faccio. L’agenzia Fiat Lux è
chiusa. Hélène è andata a trovare i suoi fuori città. Sono tutto solo
soletto».
«Raggiunga Hélène».
«Nel buco sperduto in cui abita? Cosa le ha fatto la mia segretaria
per volerle rovinare così la reputazione?».
«Dove pensa di andare allora?».
«Proprio qui. Amo Parigi. Soffro a staccare le suole da queste
strade. Mi farò le vacanze agli Champs-Élysées. È un posto come un
altro».
«Oh, non c’è dubbio! Ma… qui? Al Cosmopolitan?».
«Questo appartamento, che occupavo in quanto guardia del corpo
di Miss Standford, è pagato fino alla fine del mese. E ho preso certe
abitudini…».
«Quella donna fa proprio le cose come si deve», fece notare Covet.
«Sì», assentii. «Mi passi la bottiglia. Ho voglia di iniziare
ubriacandomi. Lei partecipa a questa piccola baldoria, vero?».
«Temo proprio di no», replicò il giornalista alzando la mano. «Mi
aspetta una serata mondana e vorrei potermi reggere sulle gambe.
Ma, dopo la visione, sono tutto suo».
«Che visione?».
«Be’, sicuramente saprà – visto che ormai fa parte della grande
famiglia del cinema – che a Cannes non sono stati presentati due film
molto importanti: uno è Sourdes menaces e l’altro Le pain jeté aux
oiseaux. Allora non erano pronti, ma adesso lo sono. I rispettivi
produttori di questi film hanno deciso di approfittare della grande
stagione parigina per farli uscire in prima mondiale al François I e al
Ruban-Bleu-Cinéma. Questa sera sono invitato a vedere Sourdes
menaces. Ma il vero evento è previsto per domani: Le pain jeté aux
oiseaux, del regista Jacques Dody, con Lucie Ponceau».
«Lucie Ponceau?».
«Esatto! Sa come si dice, chiodo scaccia chiodo. Anche lei sarà
stato innamorato di Lucie Ponceau, in passato. Tutti lo sono stati»
«Lucie Ponceau? Credevo fosse morta».
«Si sbagliava. Dopo la più classica caduta nell’oblio, dev’essere
rimasta senza ingaggi per almeno una quindicina d’anni, ma eccola
ora risalire in superficie. Il giovane Jacques Dorly è un idealista. Si è
messo in testa di darle un’ultima occasione e a quanto pare non è
stato deluso. A sentire gli esperti, il suo ritorno promette di essere
eccezionale».
«Non sarà più una ragazzina, eh?».
«Non proprio, ma è ancora in grado di farsi beffe di tutta la nuova
generazione… Be’. Adesso devo proprio andare…» (si alzò). «La lascio
alle sue pene d’amore».
«Oh! Ancora questa storia!».
«Senta, Nestor Burma, perché non mi accompagna alla
presentazione di Sourdes menaces, questa sera, al François I? Posso
farle avere un biglietto. Così non avremo bisogno di darci un
appuntamento per andare a ubriacarci dopo».
«Un modo per risparmiare tempo, eh?», risi io. «Accetto, vecchio
mio. A Cannes mi sono sorbito non so quanti chilometri di pellicola,
ma non ricordo granché. Avevo più spesso gli occhi sulla mia cliente…
sa, il dovere… che sullo schermo. Per una volta che potrò vedere un
film senza preoccupazioni… allora, d’accordo. Dobbiamo travestirci?».
«Ah! Sì. È apprezzato l’abito da sera. Ma tanto lei sta iniziando a
farci l’abitudine».
«Più o meno».
«A stasera».

**
*

…Quasi inconsciamente, Sheila premette il grilletto… L’uomo


crollò a terra… Sheila sparava ancora, meccanicamente… Il suo viso
esprimeva sentimenti contrastanti… Ora il viso patetico di Sheila
sfumava… Una cortina di fumo – quella dell’automatica che
continuava ad azionare, come in un sogno – la nascondeva
progressivamente allo sguardo… Si sentirono le note di una musica
triste.
La parola «FINE», che nasceva al centro dello schermo, si allargò
fino a occupare tutto il rettangolo di tela mentre tornava la luce nella
sala François I, dove era appena stato presentato Sourdes menaces a
un pubblico scelto. Era un film Mondialux, della Rampo Consortium.
Crepitarono applausi da ogni parte, che si fusero a esclamazioni
entusiastiche mentre tutti si alzarono in piedi come se un’orchestra
avesse appena intonato un inno nazionale. Seguii il movimento.
Anche se c’era un sistema di ventilazione, cominciavo ad aver sete,
tanto più che il colletto rigido mi stringeva la gola.
La bella bionda dalle splendide spalle che occupava la poltrona
vicina alla mia, e il cui profilo non mi era affatto sconosciuto, fece
cadere, alzandosi, la minuscola borsetta appoggiata sulle sue
ginocchia. Prima che potessi piegarmi per raccoglierla, fu lei a
chinarsi allo stesso scopo. Fui ampiamente ripagato della mia
galanteria stroncata sul nascere. La sua scollatura asimmetrica, che
lasciava scoperta una buona parte del seno sinistro nascondendo
pudicamente il destro, si aprì fino a profondità vertiginose, in cui
affondarono i miei occhi. Sospesa a una catena, una croce d’oro si
dondolava tra i due ladroni di un Golgota del piacere. La visione
artistica s’interruppe. Ma ebbi il tempo di notare che il seno sottratto
all’ammirazione altrui offriva una strana particolarità. La bionda
recuperò la borsa e si alzò. Finsi di non aver visto nulla e mi feci
strada fino al corridoio centrale. Nella hall del François I girai di
capannello in capannello alla ricerca di Marc Covet da cui, al nostro
arrivo, mi aveva separato una maschera che disponeva
strategicamente gli invitati. Alla fine lo trovai.
«Dove si va?», chiesi, alzando il gomito come per suonare la
carica.
«Che ne dice del Camera-Club?».
«Vada per il Camera-Club».
Scendemmo lungo gli Champs-Élysées, animati come in pieno
giorno, rutilanti di insegne luminose e negozi dalle vetrine illuminate.
Attraversammo al Rond-Point, tra «Jours de France» e «Le Figaro»,
e ci incamminammo sotto il fogliame di avenue Matignon dove, in un
edificio indipendente, si trovava il Camera-Club, luogo di incontro,
dopo mezzanotte, di tutti quelli che contavano nel mondo del cinema.
Il posto era voluttuoso e satinato, immerso in un’atmosfera di lusso,
con specchi immensi come laghi e dorature dappertutto. Nemmeno il
fattorino avrebbe mai confessato, anche sotto tortura, di essere di
Belleville. Era però un lacchè, come tanti altri… altri che non
portavano l’uniforme. Nella sala ristorante, erano occupati molti
tavoli sulle cui tovaglie damascate scintillavano argenteria e cristalli.
Camerieri in giacca andavano dall’uno all’altro. Entrammo nel bar,
brulicante di un’umanità chiassosa. Marc Covet scelse uno sgabello,
quindi mi abbandonò quasi immediatamente per andare a salutare
qualcuno. Mi sedetti, tirai fuori la pipa, la riempii e ordinai da bere.
Poi mi sbottonai il colletto che mi dava fastidio e, tenendolo staccato
dalla pelle con due dita, mi misi a pensare, in quell’elegante posa, a
un seno intravisto furtivamente. «Ni vu ni connu, le temps d’un sein
nu…» come dice il poeta. Attorno a me si discuteva di Sourdes
menaces. Qualcuno dichiarava con voce di testa che era sen-sa-zio-
na-le. Il tizio separava le sillabe, tagliando le parole a fette, come
fossero salsicce, di cui si riempiva la bocca.
«…pletamente d’accordo con lei. Un linguaggio ellittico davvero
riuscito».
«Sì, grande arte. Potrebbe vincere qualsiasi festival».
«Aspetti di vedere Le pain jeté aux oiseaux», lo raggelò un altro.
«Un ottimo potenziale concorrente…».
A quel punto mi raggiunse Marc Covet. Era con un giovane
dall’aria spigliata, i capelli rossi e lo smoking a noleggio.
«Le presento Rabastens», disse Covet. «Un collega. Un mio
collega. Ci tiene a conoscerla».
«Jules Rabastens», aggiunse il rosso sorridendo e tendendomi la
mano. (Gliela strinsi, non si tratta di un grande impegno). «Julot per
le signore e gli amici. Lavoro a “Ciné-Gazette”…». (Si mise a
scuotermi vigorosamente il braccio. Gli brillavano gli occhi). «Ah!
Signor Nestor Burma, sono proprio contento di conoscerla. Piacere.
Davvero un grande piacere. Non può immaginare…».
E ripeté un bel po’ di volte che non potevo immaginare. Malgrado
il chiaro interesse che suscitavo in lui, non mi accordava molto credito
in fatto d’immaginazione, ma conosceva le buone maniere:
«Beviamo qualcosa?», fece.
Non rifiutai.
«E allora?», riprese. «Di chi è la guardia del corpo, adesso che
Grace Standford è tornata in America?».
«Di nessuno. Ma ormai sono lanciato e continuo a frequentare gli
ambienti cinematografici».
«Se ne stancherà presto», sospirò. «Forse le sembrerà strano, ma
non capitano poi grandi cose. Ha raccolto diversi cadaveri attorno a
Grace Standford?».
«Avevo lasciato il carro funebre in garage».
«Come pensavo. Ma forse adesso le cose cambieranno. Glielo dico
perché non mi occupo solo di cinema. Sono corrispondente di nera
per alcuni giornali di provincia. So che Covet ha una specie di
esclusiva con lei, ma, per la miseria! Tutto quello che è stato scritto di
recente su Grace Standford è uscito dalla sua penna. Ormai potrebbe
anche lasciare qualche briciola ai colleghi. Io…».
Marc Covet imprecò. Rabastens proseguì:
«Per farla breve, se le capitasse di imbattersi in un cadavere, me lo
faccia sapere. Ecco il mio biglietto da visita».
Mi diede un cartoncino che infilai in tasca.
«Ma guardi questa nuova generazione», brontolò Marc Covet.
«Ambiziosa. Smisuratamente ambiziosa e pronta a togliere il pane di
bocca agli anziani. Ah! Sconsiderati!».
Stavano per ricoprirsi di ingiurie quando un altro giovanotto, con
occhiali e baffi, una macchina fotografica sulla pancia e il flash in
mano, diede un colpetto sulla spalla del rosso distogliendolo dalla
conversazione:
«Ciao, Rabas. Io vado. Vuoi un passaggio?».
«No», fece l’altro. «Ehi! Fred! Conosci questi signori?».
«Marc Covet, del “Crépuscule”, vero?», disse Fred. «Fred Freddy di
“Radar”».
I due giornalisti si scambiarono una stretta di mano.
«E questo signore è Nestor Burma», articolò Rabastens,
proseguendo le presentazioni.
Fred spalancò gli occhi interessato:
«Ah, sì? Naturalmente! Covet… Burma… il gatto e la volpe, eh?».
«Un bella accoppiata, sì», insisté Marc Covet. «Il detective
d’assalto, ex guardia del corpo della frizzante Grace Standford», disse
Rabastens.
«In persona e in versione originale», dissi modesto.
Un lampo di flash mi fece battere le palpebre. Fred Freddy non
perdeva tempo:
«Ed ecco un bel documento per il tuo archivio personale, Julot»,
rise lui. «Ce l’avrai domani… se mi ricordo. A questo punto merito un
whisky, no?».
«La nota spese serve a questo…», disse Rabastens.
Ordinò un whisky per il fotografo e fece riempire i nostri bicchieri.
Neanche fosse una medicina, Fred Freddy bevve la sua consumazione
tutta d’un fiato, come galateo comanda.
«E adesso vado», disse asciugandosi, sempre all’insegna della
massima eleganza, le labbra con il dorso della mano. «Che schifo di
lavoro! Si fanno sempre le stesse foto. Arrivederci, brava gente».
Si perse nella folla.
«Sì, uno schifo di mestiere», gemette Rabastens, rovistando nella
capigliatura rossa. «Tutto quello che scrivo, da quando lavoro, l’ho già
ripetuto cento volte. Mai che mi capiti di trovare la notizia
sensazionale che possa mettermi in mostra…».
«Non ricominciare a volermi fare le scarpe», mugugnò Marc Covet.
«Basta così», dissi. «A sentirvi parlare, mi pare di essere una
merce».
Rabastens imprecò e ingollò quanto restava del liquido nel suo
bicchiere e in quello di un vicino di bancone, poi ordinò un nuovo giro
di rinfreschi alcolici. Intorno a noi fu pronunciato il nome di Denise
Falaise, che arrivò fino alle orecchie del nostro rosso. Alzò le spalle.
«Mi fanno venire mal di pancia», disse, «con la loro Denise
Falaise…».
Feci schioccare le dita.
«Che ha?», chiese il collega a Covet.
«Niente», dissi. «Era seduta accanto a me al François I. Sapevo
che quel viso non mi era del tutto sconosciuto, ma non riuscivo ad
associarvi alcun nome. Adesso invece ho capito».
«Sì», rise Marc Covet. «Certo, ora la si riconosce dal viso. Sembra
che abbia cambiato politica e non metta più in mostra i seni. E dire
che avevano avuto non poco successo in Stop, frontière».
«Del resto erano i protagonisti assoluti», completò Rabastens.
«Erano ripresi dall’alto, in primo piano, in travelling. Ma nel suo
ultimo film, uscito dieci giorni fa, Mon coeur vole, è più coperta di
una mummia. Si prendono gioco del pubblico, non c’è che dire. Non a
caso il film è stato un fiasco. Giustamente. Se quella Denise continua
così, finirà presto a fare la comparsa…».
«Eccola», dissi.
Con un solo movimento, puntai mento e pipa verso l’ingresso del
bar. Nel locale stava entrando una coppia, salutata da mormorii di
adulazione. L’uomo, un ciccione dal cranio sguarnito di capelli e
madido di sudore, l’avevo già incontrato nei corridoi del
Cosmopolitan. Scortava titubante Denise Falaise, la mia vicina di
posto al cinema, la bella bionda dalle splendide spalle e dalla
scollatura asimmetrica, ed era a lei che si rivolgevano gli omaggi.
Sorrideva, di un sorriso di circostanza, un po’ contratto, stanco,
talmente stanco che non cercava nemmeno di raggiungere gli occhi, i
quali sembravano assenti quanto un debitore privo di denaro il giorno
di scadenza del pagamento. Scoppiarono due o tre flash.
«Champagne per tutti», tuonò il ciccione.
«Cosa vi dicevo?», mugugnò Rabastens. «Se ne vede un po’ del
sinistro e niente del destro. Una vera vergogna».
Finì il bicchiere. Cominciava ad essere piuttosto ubriaco,
probabilmente anche a causa di tanta indignazione.
«Da bere, barman», disse disgustato.
«Stavo per provvedere, signore», disse l’uomo in giacca bianca,
rigido come il proprio colletto.
Ci prese i bicchieri vuoti e dispose davanti a noi tre coppe.
«Cosa significa?», chiese il rosso.
«Non ha sentito, signore? Il signor Laumier offre lo champagne».
«Ah? E allora, prego, caro mio. Del resto ce lo deve».
«Laumier è il tipo grosso e calvo?», m’informai.
«Sì».
«Produttore? Regista?».
«Tutti e due», m’informò Marc Covet. «Il regista è privo di talento
e il produttore di denaro. Ma intanto beviamo. Forse gli fanno
credito».
Con la coppa in mano, Rabastens si diresse verso Laumier. Il
grosso tizio, per quanto appoggiato al bancone, barcollava
pericolosamente. Sudava e sbuffava come un toro, intrattenendo le
persone che facevano cerchio attorno a lui sulla sua prossima
produzione. Pescava di continuo dalla tasca un fazzoletto di seta
giallo che si passava sul cranio, la nuca e le ganasce. Sembrava
parecchio sbronzo.
«…La mort nourrit son homme», bofonchiò con voce gutturale e
impastata. «Che titolo, eh? Appena iniziate le riprese, ieri…».
«Presenterà il film al prossimo festival?», chiese Rabastens.
«Me ne frego dei festival», sbottò lui.
«Nel cast c’è Denise Falaise?».
«Chiaramente».
Rabastens rise con aria subdola, a riprova che aveva una lunga
esperienza di grandi schermi.
«Allora», buttò lì, «sarà un altro film adatto all’oratorio».
«Cosa? Cosa?», sbraitò Laumier. «Cosa vuol dire?».
«Mi ha capito benissimo…» (il rosso alzò in alto la coppa,
rovesciando metà dello champagne sulla manica della giacca). «Alla
vostra!».
«Signore e signori», tuonò Laumier, agitando le braccia tozze,
«signore e signori, ignoro cosa questo individuo abbia voluto
insinuare a proposito della signorina Falaise, la signorina Falaise…»
(nuova apparizione del fazzoletto di seta giallo). «Dov’è la signorina
Falaise?».
«La signorina Falaise se n’è andata, signore», disse una voce
metallica, tagliente come una lama, che dominò la confusione.
Era uno spilungone, dritto come un fuso, piantato sulla porta.
Sembrava un tirapiedi. Gli occhi avevano da tempo assunto la forma
di due buchi della serratura.
«Ah, è lei Jean?», fece Laumier.
«Sì, signore».
«E lei dice che la signorina Falaise…».
«Se n’è andata, signore. Era stanca».
«Deve aver pensato che fossi troppo sbronzo!».
Jean non rispose. Laumier tirò fuori un sigaro dalla tasca sul
petto, lo esaminò e se lo infilò tra i denti, senza accenderlo. Jean
stava sgomitando per avvicinarsi al suo capo:
«Sarebbe meglio che rientrasse anche lei, signore», suggerì.
Il filo della lama non si era smussato. C’era anzi quel pizzico di
disprezzo perché il coltello potesse tagliare perfino meglio.
«D’accordo!», bofonchiò Laumier. (Si frugò in tasca, tirò fuori
qualche banconota che appoggiò sul bancone). «Allora, arrivederci a
tutti».
«Già».
«Il suo Mort non so cosa è un film poliziesco?», chiese il giovane.
«Già».
«Non ha bisogno di una consulenza tecnica? I suoi film sono
sempre un po’ carenti da questo punto di vista. Se le serve un esperto,
le presento il signor Nestor Burma, detective privato».
«Già».
Lo sguardo vago del produttore si spostò da Rabastens a me,
passando da Marc Covet e qualcun altro. Per lui dovevamo essere
almeno sei, se non dodici.
«Al diavolo», disse Laumier a nessuno in particolare.
Chiuse il pugno sinistro e se lo portò quasi sotto l’ascella.
«Signore, signore, la prego!», intervenne il gestore del Camera-
Club.
Troppo tardi! Laumier stese il braccio. Mirava al rosso, ma il tiro
fu impreciso e alla fine colpì me. Non mi fece eccessivamente male,
ma non potevo lasciar correre. C’erano troppe signore in sala. Reagii,
colpendolo nel doppio mento con un pugno che partiva dal basso e
che lo avrebbe mandato al tappeto se non si fosse aggrappato al
bancone e se, alle sue spalle, diverse persone non avessero attutito il
colpo. Il suo sigaro, ridotto in briciole, si sparse tutt’intorno. Davanti
a me si parò Jean, il tirapiedi. Non disse nulla. Mi guardò, alzò le
spalle e si girò. Prese il suo capo per il braccio e lo accompagnò fuori,
tra le esclamazioni, seguito dal gestore del club che, lo si vedeva
dall’arco delle sopracciglia, non aveva gradito l’incidente e voleva
assicurarsi che non si sarebbe rinnovato.

**
*

«Quel Laumier non regge l’alcol», osservai.


«Non è come noi», replicò Marc Covet seccamente, sebbene tutto
si potesse dire tranne che fosse rimasto con la gola secca. «Saremmo
potuti restare al Camera-Club a scroccare ancora un paio di bicchieri.
Perché ha deciso di andare via?».
«Per correttezza. Abbiamo già creato abbastanza scandalo. E poi,
quel Rabastens è un po’ appiccicoso e così ce ne siamo sbarazzati.
Senza contare che prendere una boccata d’aria non può che farci
bene».
«Una boccata d’aria?…» (il mio amico si asciugò il sudore). «Che
aria? Dove ha visto lei dell’aria?».
Con passo tranquillo, leggermente a zigzag, il giornalista e io
percorremmo gli Champs-Élysées, meglio illuminati che all’epoca in
cui Philippe Lebon, il chimico che inventò le lampada a gas, era stato
assassinato là da qualcuno che aveva approfittato del buio. Un vero
paradosso. Marc Covet aveva ragione. Nemmeno un filo d’aria. Gli
alberi sotto cui passavamo sembravano immobili quanto una
scenografia teatrale.
«Andiamo verso la Senna», proposi. «Lì farà più fresco».
Attraversando i giardini che ornano la parte anteriore del Grand
Palais, ci dirigemmo verso pont Alexandre-III, così tipicamente
Novecento, con i suoi famosi pesci San Pietro che danno fiato alle
trombe in cima alle colonne d’ingresso, mentre trattengono focosi
cavalli alati. Quel ponte, maestoso quanto lo zar di cui porta il nome,
è il solo sotto il quale si possa leggere un cartello che proibisce
categoricamente di sbatterci i tappeti. Non so quali, se quelli del Petit
o del Grand Palais.
Ci appoggiammo al parapetto, non lontano dalle due enormi
statue centrali, con la schiena verderame coperta di graffiti. La Senna
scorreva dolcemente, con un perfido mormorio. Non arrivava alcuna
frescura. In prospettiva, le segnalazioni verdi e rosse del pont des
Invalides si riflettevano a zigzag (anche loro) nell’onda nera. A
intervalli regolari, il faro che girava dalla Torre Eiffel spazzava il cielo
chiaro di Parigi.
Fui il primo a rompere il silenzio:
«Mi chiedo proprio cosa me ne possa fregare!», dissi.
«Anch’io», rispose il giornalista. (Si scosse, come se si fosse
risvegliato di colpo dopo essersi assopito). «Ehm… di cosa, a
proposito?».
«Mi parli di Denise Falaise, le spiace?», dissi a mo’ di risposta.
«Denise Falaise? Ha fatto presto a dimenticare Grace Standford!».
«Lei non si preoccupi. Mi parli di Denise Falaise».
«Perché? È faticoso. Qualsiasi settimanale di cinema può dirle più
di quanto possa raccontarle io».
«Le edicole sono chiuse. Non è successo niente a questa Falaise di
recente?».
«Non che io sappia».
«Nessun incidente, tra il film, diciamo, svestito, e il film…
vestito?».
«Incidente?».
Prese delicatamente questo suggerimento tra i due lobi cerebrali,
poi agitò il capo per vedere cosa poteva saltar fuori.
Niente. Servì solo a farlo sbadigliare. Chiuse le mascelle e le riaprì
poco dopo per ripetere:
«Non che io sappia… Se andassimo a bere qualcosa?», aggiunse.
(Indicava il fiume). «Tutta quest’acqua mi ha fatto venir sete».
«Questa Falaise non è di legno eh?».
«Come tutte le falaises, le scogliere».
Tra due singhiozzi, rise della sua battuta e cominciò a canticchiare
La Paimpolaise.
«Lasciamo perdere», dissi allontanandomi dal parapetto. «E
andiamo al Crazy Horse».
«Finalmente un’idea sensata», replicò Covet.

**
*

Al Crazy Horse, mentre ammiravo la splendida Rita Cadillac che


si spogliava al ritmo della musica, i miei pensieri tornarono a Denise
Falaise e mi chiesi se fosse saggio confidarli a Marc Covet. A ben
pensarci no. Era possibile che mi sbagliassi, che avessi visto male…
Visto male? Uhm… Avevo davvero visto così male? Certo non
risparmiavano sulla bolletta della luce, al Cinema François I e,
inoltre, io avevo occhio. No, nessun errore. Se Denise Falaise non
mostrava più con tanta generosità il suo petto nei film girati di
recente e sfoggiava, nelle serate mondane, una scollatura asimmetrica
che le nascondeva molto pudicamente il seno destro, era perché c’era
qualcosa in quel seno destro che ne proibiva l’esibizione. Qualcosa
che io, solito fortunello, avevo visto.
…La cicatrice di una ferita già rimarginata e non prodotta dal
proiettile di una pistola giocattolo.
Capitolo II

La visitatrice notturna

All’uscita del Crazy Horse, Marc Covet fermò un taxi per tornare a
casa e ci separammo. Raggiunsi gli Champs-Élysées a piedi. La hall
del Cosmopolitan, malgrado l’ora inoltrata, era illuminata a giorno.
Dietro il bancone di mogano, il portiere, rasato di fresco, sobrio ed
elegante, dava istruzioni a un giovane fattorino. Dal dancing nel
sottosuolo arrivavano i rumori soffocati di un’orchestra. A quell’ora
era insolito.
«Cosa succede?», chiesi all’impiegato quando mi tese la chiave.
«Gente del cinema, signore», mi spiegò.
Impeccabile, l’ascensorista sembrò spuntare da terra per aprirmi
la porta. L’apparecchio, rapido e silenzioso, mi lasciò al mio piano.
Entrai nell’appartamento, attraversai il salone e andai nella camera
da letto. Accesi la luce e feci qualche passo.
Fu allora che la vidi.

**
*

Non è sempre vero quello che dice la gente. Per esempio che gli
ubriachi soffrono di allucinazioni terribili. Che vedono ratti, ragni,
elefanti o chissà quali altre bestie mostruose e ripugnanti. Non è
sempre vero… oppure io da sbronzo godo di un regime speciale.
Nel mio letto non c’era né un ratto né un ragno. Al massimo una
graziosa pollastrella.
Materiale protetto da Non più di vent’anni. Forse meno. Un
grazioso musetto sapientemente truccato, incorniciato da capelli
castani rossicci. Molto profumata. Calze trasparenti che mettevano in
risalto le belle gambe, smalto sulle unghie e orologio al polso.
Cercai una sedia e mi sedetti. Francamente mi sentivo preso
piuttosto alla sprovvista.
La ragazza nuda sospirò, fece un grazioso broncio, girò la testa sul
cuscino mentre con la mano tastava la metà del letto vuota. Aprì gli
occhi, ma li richiuse immediatamente, infastidita dalla luce. Mi alzai,
spensi il lampadario, accesi una lampada laterale meno abbagliante e
tornai a sedermi, senza dire nulla. La ragazza si mise a sedere sul
letto, si prese la testa tra le mani e si scompigliò i capelli. Sbadigliò,
riaprì finalmente gli occhi e mi guardò. Aveva l’aria infastidita e
confusa come se, vestita da capo a piedi, stesse comprando un
francobollo da un tabaccaio:
«Mi scusi», disse. «Credo… di essermi addormentata…».
La voce era carezzevole, calda, provocante. Studiata.
Maledettamente studiata. Aveva un bel corpicino slanciato, color
ambra. Il ventre piatto, i seni piccoli, ben disegnati e sodi, il viso
gradevole, lo notai una volta di più, ma avevo conosciuto stracci per la
polvere che esprimevano più intelligenza di lei.
«Mi sono addormentata», ripeté
«Sì», dissi io gentilmente. «Sbagliando stanza».
«Oh! Signore… ma…» (sgranò gli occhi) «…ma lei non è… oh!».
Un moto di pudore a scoppio ritardato. Si coprì con il lenzuolo e
mi guardò quasi con spavento: «Chi… è… lei?», balbettò.
«Il mio nome non le direbbe nulla».
«Lei è… nel cinema?».
«Niente affatto», risi, cominciando a capire il motivo del
quiproquo. «Devo essere l’unico, in questo albergo, a non occuparmi
di cinema. Che sfortuna, eh?…». (Mi alzai). «Bisogna che vai a farti
una dormita altrove, tesoro».
«Ma davvero! Che stupida sono!», esclamò lei, senza sapere
quanto avesse ragione.
«Dove sono i suoi abiti?».
«Laggiù».
M’indicò una sedia su cui era appoggiato il suo leggerissimo
equipaggiamento: camicetta scollata, gonna plissettata di colore
chiaro e i pezzi di biancheria intima strettamente indispensabili.
«E non provi a chiedermi di guardare altrove mentre si riveste,
eh?», l’avvertii, dandole per prime le scarpe con il tacco alto raccolte
vicino all’armadio. «Non le darei ascolto».
Scostò il lenzuolo con un gesto rabbioso e saltò sullo scendiletto,
cosciente della propria bellezza e con l’aria di sfida. Le passai gli abiti
uno a uno. Dopo lo strip-tease classico della bella Rita Cadillac,
questo strip-tease alla rovescia non mi dispiaceva affatto. Ma ero un
illuso se credevo di umiliarla.
«Evidentemente lei aspira a lavorare nel cinema», dissi durante
l’operazione.
«Sì».
«E lei conta su questi mezzucci…».
«Sì».
«Non ne esistono altri? Non ha mai sentito parlare di talento, per
esempio?».
Inarcò la schiena prima di allacciare il reggiseno e si osservò
compiaciuta allo specchio, rimirandosi da ogni lato.
«Un tempo», dissi, «il gregge stava dentro il pascolo. Adesso,
invece… ma lasciamo perdere. Come ha fatto a entrare?».
Non mi rispose, occupata com’era a sistemare le arricciature della
scollatura che le scopriva le spalle. Notai che sulla camicetta si
leggeva un nome, Monique, ricamato all’altezza del cuore. Mancavano
solo numero di telefono e orari in cui si poteva trovarla disponibile.
«È pronta? Suvvia, senza rancore, Monique. Un’altra volta sarà
più fortunata, non sbaglierà porta. Più fortunata… se così si può
dire…». (Fui preso da un raptus di collera e afferrai la ragazza per il
braccio). «Razza di stupida, che mi obbliga a farle la morale alle tre di
notte, quando sono pure mezzo sbronzo. Non può lasciar perdere
queste idee stupide e cercare di rifarsi una vita tranquilla, invece di
vendersi a non so quanti porci e magari in cambio di niente? Per Dio!
Ci sono tanti bravi ragazzi in giro per il mondo, magari uno che
lavora per guadagnarsi il pane, un meccanico, non so, un ragazzo
gentile che saprebbe renderla felice e che sarebbe felice lui stesso,
anche lui…».
«Un meccanico?», rise. «Merda! Grazie per l’aragosta!».
La lasciai.
«Si tolga dai piedi», dissi.
La riaccompagnai fino al corridoio, le tenni aperta la porta. Mi
passò davanti asfissiandomi con il suo profumo costoso, lo stesso
usato da Miss Grace Standford, profumo che doveva aver pagato in
natura. Mise un piede nel corridoio. Mi fissò con i suoi occhi caldi e
scuri. Vi si leggeva chiaramente: «Lei è un imbecille».
«Imbecille» a chiare lettere.
Disse:
«Ci vediamo presto, appena avrò trovato il meccanico».
Si allontanò con una camminata nervosa, i fianchi che
ondeggiavano, alla Marylin Monroe. Lo spesso tappeto ammortizzava
il rumore dei tacchi. Non aspettai che avesse raggiunto le scale per
richiudere la porta.
Dopotutto aveva ragione lei. Un meccanico! Per la miseria, stavo
diventando un poeta proletario. Di meccanici ne conoscevo. Le loro
donne erano gentili e carine, ma non erano certo starlette.
Mi diressi verso il bagno. In quel momento sentii – o mi parve di
sentire – un rumore furtivo in corridoio. Stava tornando? Aprii di
nuovo la porta. Il corridoio, nella solita penombra, era deserto.
Tornai al lavandino, bevvi un bicchiere di acqua tiepida e mi
svestii. Il letto conservava ancora l’impronta del corpo della graziosa.
Mi coricai e fui subito avvolto dalle ultime tracce del suo profumo.
Capitolo III

Uno strano fattaccio

Con la testa dolorante e la lingua più ruvida di un asciugamano,


mi svegliai verso mezzogiorno, appena in tempo per ricevere una
comunicazione telefonica da parte di Marc Covet:
«Allora», fece il giornalista, piuttosto giù di corda, «cosa mi ha
raccontato ieri a proposito di Denise Falaise? Un incidente? Ci ho
pensato su tutta la notte e anche oltre».
«Lasci perdere», gli consigliai. «Nulla di importante».
La mia risposta parve soddisfarlo. Disse: «Ah, sì? Bene!», e
riattaccò.
Ma quando, un po’ dopo, scesi nella hall del Cosmopolitan lo
trovai lì ad aspettarmi.
«Non c’è più niente da fare al suo giornale?», chiesi.
«C’è lavoro, ma niente di interessante», disse sorridendo. «Mentre
nell’orbita di Nestor Burma… Credo di aver scoperto qualcosa, ma ho
preferito non parlargliene al telefono. Andiamo a prendere un
aperitivo al Paris?… Credo di aver scoperto qualcosa», ripeté, una
volta che ci fummo seduti davanti ai bicchieri pieni.
«A che proposito?».
«A proposito di Denise Falaise, naturalmente! Lei ha parlato… ero
ubriaco, ma mi è venuta in mente… la possibilità di un incidente. Un
incidente presume un’interruzione del lavoro, no? Ecco, prima di
girare Mon coeur vole, quel film in cui è sepolta sotto tutti quei vestiti
che non lasciano trasparire un centimetro di carne, c’è un vuoto
nell’esistenza della ragazza. Non ho ricordi molto precisi, ma mi
sembra che sia rimasta a lungo lontana dal set. Vuole che prosegua le
ricerche? Io…». (S’interruppe e imprecò). «Non c’è modo di starsene
in pace, per la miseria! Ecco il rompiscatole».
La capigliatura fiammeggiante, che sovrastava lineamenti un po’
stropicciati, si sedette al nostro tavolo. Il signor Rabastens, Julot per
le signore, non del tutto ripresosi dalla sbornia della sera prima.
Aveva cambiato lo smoking con una Lacoste che meglio si adattava ai
suoi capelli. Sotto il braccio portava una busta di carta gialla.
«…‘giorno, bella gente», disse. «Non stavo cercando proprio voi,
ma visto che siete qui. Ditemi, avete per caso visto quel salame di
Laumier? Ma, Dio santo, è davvero astioso. Le dirò che ne parlavano
malissimo, al Camera-Club, dopo che ve ne siete andati anche voi. A
proposito, mi avete abbandonato, eh?».
«Eravamo stanchi», disse Covet. (Un lampo gli illuminò gli occhi).
«Stavamo parlando di Denise Falaise», aggiunse.
«Ah, sì?».
«Sì. Ha fatto colpo su Nestor Burma».
«Ah! Ah! Ha deciso di collezionare vedette, Burma?».
«Perché no?».
«Naturalmente…». (Rabastens tirò fuori qualche foto dalla busta e
ce ne diede una ciascuno). «Ecco il capolavoro di Fred».
«Abbiamo tutti l’aria sufficientemente idiota», osservai dopo un
breve esame dello scatto.
«Sì», riconobbe il rosso. (Si girò verso il collega)… «Questa sera c’è
l’anteprima de Le pain jeté aux oiseaux, al Ruban-Bleu-Cinéma. Con
Lucie Ponceau. Sembra che sia straordinaria. Ci vai?».
«Non so ancora», fece Covet.
Dopo qualche minuto di chiacchiere inutili, Covet tornò a parlare
di Denise Falaise e fece sì che il giovane ci raccontasse praticamente
tutto quello di cui era a conoscenza sull’attrice bionda.
Venni così a sapere che qualche mese prima era improvvisamente
scomparsa dalla circolazione. Era stata una scomparsa piuttosto
misteriosa. Malata? Forse. Che tipo di disturbo? Depressione nervosa,
come capita a tutti nel cinema? Non si sapeva. Le malelingue della
corporazione dicevano che fosse incinta di Laumier e fosse andata ad
abortire, perché avere un bambino dal ciccione non rientrava tra le
imprese di cui si poteva andar fieri, nemmeno a scopo pubblicitario.
Si parlava anche di una crudele delusione professionale. Nulla di
preciso, tuttavia. Rabastens aggiunse che, del resto, non si aveva mai
avuto prova che Laumier e Denise intrattenessero rapporti al di fuori
di quelli, normali, tra produttore o regista e attrice. È vero che
Laumier non spiattellava la propria vita sentimentale ai quattro venti.
Viveva separato dalla moglie, ma era comunque legittimamente
sposato a una megera che aspettava solo l’occasione per chiedere il
divorzio e ottenerlo con un sostanzioso assegno per gli alimenti,
secondo la migliore tradizione cinematografica. Per farla corta e
tornare a Denise Falaise, i puri fatti si riducevano a questo: primo, si
era improvvisamente ritirata dalla scena; secondo, si era rifugiata in
un luogo che nessun giornalista era riuscito a scoprire. Tornata
dall’esilio, per così dire, aveva girato il famoso casto e puro Mon coeur
vole. Rabastens si chiedeva se non si fosse ritirata in un convento
(molte attrici sembravano toccate dalla grazia, quell’anno; una moda
come un’altra), convento che poi avrebbe abbandonato, scoprendo di
non avere fede a sufficienza, ma dal quale avrebbe assorbito uno stile
di vita più sobrio. Comunque fosse, se avesse continuato con la sua
buona condotta, avrebbe finito - di questo Rabastens era
assolutamente certo – con l’andare a fondo. Non aveva abbastanza
talento per restare a galla. Una mancanza di cui peraltro la bionda
soffriva, non essendo affatto stupida. Sembrava che una volta si fosse
confidata con sincerità: il suo più vivo desiderio era quello di imporsi
per le sole capacità drammatiche. Ma certo! Ci aveva provato e sui
risultati era meglio non pronunciarsi…
Il rosso non fece alcuna allusione a un qualsiasi episodio, di
carattere passionale o altro, in cui poteva essere giustificata l’entrata
in scena e in attività di una pistola carica. Presi per un istante in
considerazione, tra me e me, l’intervento dell’irascibile moglie di
Laumier, ma senza insistere. La legittima in questione non avrebbe
permesso che un simile scandalo da lei provocato potesse essere
circondato dal silenzio. Evitai quindi di mettere pulci nelle orecchie
suggerendo questa possibilità a Rabastens, il quale poco dopo ci
lasciò, il lavoro lo chiamava altrove.
«Conclusioni?», chiese Marc Covet dopo aver ordinato altre due
consumazioni.
«Nessuna».
«Ma insomma, Burma! Ci sarà pur qualcosa!».
«Visioni. Visioni cinematografiche».
«Oh! Se preferisce non parlarne».
Ce ne restammo lì, lasciando entrambi perdere. Consumato il
pranzo, Covet lasciò perdere anche me. Se ne andò, forse a informarsi
su Denise Falaise. Rimasto solo, bighellonai senza meta, riflettendo
su quanto ci aveva detto Rabastens. Conclusione, per rispondere al
mio amico in sua assenza, la Falaise non era né entrata in convento
né aveva avuto una maternità. Era andata a farsi curare
clandestinamente la ferita al seno e la depressione che probabilmente
era seguita. Ci poteva essere una spiegazione più semplice a tutte
quelle stranezze? A ogni modo, non ero pagato per scoprirla.

**
*

Tornai al Cosmopolitan a fine pomeriggio. Dall’alto del suo


colletto inamidato, l’impiegato della reception m’informò che il signor
Marc Covet mi aveva telefonato. Ero pregato di richiamarlo al
GUTenberg 80-60. Lo feci immediatamente.
«Novità?», chiesi.
«Niente di particolare», rispose il giornalista. «Ha voglia di
andare al cinema anche questa sera? Le pain jeté aux oiseaux, con
Lucie Ponceau».
«Non mi dispiacerebbe».
«Bene. Allora ci vediamo al Fouquet’s. Vorrei che venisse con la
sua auto».
«Per fare duecento metri? Ha avuto un attacco di paralisi nel
pomeriggio?».
«È possibile che, subito dopo la proiezione, io abbia una
commissione urgente da fare. Le spiegherò questa sera. E mi serve un
mezzo. Posso contare sul suo?».
«Certo».
Riattaccai un po’ deluso. Per un istante avevo accarezzato la
speranza che stesse per rivelarmi non so che segreto su Denise
Falaise. Uscii dalla cabina. Mi venne incontro l’addetto alla reception:
«Mi scusi, signore, ma avevo dimenticato…».
Diede un’occhiata al registro che teneva in mano. Il signor
Laumier… lo conoscevo, vero?… il signor Laumier, il produttore che
alloggiava anche lui nell’hotel… ecco, aveva anche lui telefonato
prima, dai suoi studi. Non aveva chiesto che lo richiamassi, ma mi
aveva comunque lasciato, per ogni evenienza, un numero. Presi nota
ma non richiamai il ciccione: l’ora entro la quale avrei potuto trovarlo,
annotata sul foglio, era passata da un pezzo. D’altra parte, Laumier
non era rientrato.

**
*

Quando, un po’ più tardi, Marc Covet mi raggiunse sulla terrazza


del Fouquet’s sembrava piuttosto agitato. «Ha l’auto?», mi fece a mo’
di saluto.
«Davanti a lei, ma mi chiedo…».
«Vecchio mio, se il film che stiamo per vedere è quello che dicono,
voglio essere il primo a congratularmi con Lucie Ponceau e a farle
un’intervista. Ne verrà fuori un bell’articolo».
«E le serve la macchina? Lucie Ponceau quindi non verrà alla
proiezione?».
«No», fece il giornalista abbassando la voce e guardando di
traverso i nostri vicini di tavolo. «No. Ha fifa. Una fifa blu. Per la
miseria! Si metta al suo posto. Sono quindici anni che non si sente
più parlare di lei, quindici anni che non si vede il suo nome su alcun
manifesto. Non riesce ancora a credere che quello che sta succedendo
sia vero. E non vuole credere, forse per scaramanzia, a tutto quello che
le dicono, che il suo talento è ancora intatto ecc. Vecchio mio, questa
serata sarà il suo trionfo e conosco almeno tre produttori che
aspettano solo la fine di questa proiezione per farle firmare nuovi
contratti, disposti a farle ponti d’oro…». (Si fregò le mani come se
fosse lui il beneficiario di tali mirabolanti contratti). «Questa sera
niente alcol per me, Burma. Mentre un branco di sciocchi
prenderanno d’assalto Jacques Dorly, il regista, io mi fiondo su Lucie
Ponceau. Abita non lontano dal Parc Monceau in una casa, o meglio,
in una villa che faceva parte della dépendance di un palazzo. Che
bizzarro… Ponceau… Monceau, fa rima. Comincerò il mio pezzo con
una nota poetica. Adesso capisce perché ho bisogno della sua auto,
Burma? Bisognerà fare in fretta».
«Verrò con lei», dissi. «Non voglio che me la distrugga».

**
*

Nella hall del Ruban-Bleu-Cinéma, decorato per la circostanza,


cercai Denise Falaise tra le donne eleganti e le celebrità, ma non la
vidi. Covet, dal canto suo, si guardava a destra e a sinistra, attento a
evitare Rabastens o chi per lui. Quella sera nessuna maschera ci
separò, ma la mia vicina di destra fu comunque una graziosa vedette:
la beffarda Jacqueline Pierreux.
Le pain jeté aux oiseaux non era una buona storia. Il soggetto
sapeva di naftalina e i dialoghi avrebbero avuto bisogno di una buona
tazza di caffè per mostrarsi più scattanti. Ma la regia di Jacques Dorly
non era male e l’interpretazione di Lucie Ponceau superava di gran
lunga qualsiasi più rosea aspettativa.
Essere rimasta quindici anni inattiva non l’aveva affatto
arrugginita e sembrava giovane come quando l’avevo vista ne L’ange
blessé, un film che invece non ringiovaniva nessuno. Appena sullo
schermo apparve la parola «FINE», la platea, in piedi, si profuse in
un lungo applauso.
«Andiamo», disse Marc Covet.
Uscimmo a tutta velocità dal cinema. Ero riuscito a parcheggiare lì
davanti. Ci infilammo subito in macchina e misi in moto. La canicola
era opprimente. Il vento della corsa ci scompigliò i capelli, ma senza
rinfrescarci. Era una bella notte, una bella notte calda. Pensai a
Denise Falaise e a quello che aveva – finché l’avrebbe avuto – al posto
del talento. Era confortante pensare che il talento, quello autentico,
anche se a lungo disprezzato, riconquistava qualche diritto…
«Ecco», disse Covet. «Ci siamo».
Davanti a noi c’era la villa, un grazioso edificio di stile
rinascimentale, con un piccolo giardino che lo separava dalla strada.
A una finestra del primo piano c’era la luce accesa.
«OK!», disse il giornalista. «Siamo i primi».
Saltò giù dall’auto e suonò il campanello. Poi, accorgendosi che il
cancello era semichiuso, non aspettò una risposta per precipitarsi sul
vialetto disseminato di ghiaia come chi crede che tutto gli sia
permesso. Nemico del tempo perso, aveva già in mano matita e bloc
notes. Lo seguii. Quando arrivammo in cima alle scale, nessuno aveva
ancora risposto alla scampanellata che annunciava la nostra visita. Il
giornalista del «Crépuscule» cercò, trovò e schiacciò con il pollice il
pulsante di un secondo campanello, che sentimmo risuonare. In
lontananza, si sarebbe detto. Poi, quando il mio amico staccò il dito, il
silenzio. Nient’altro che silenzio. A romperlo solo una brezza. Gli
alberi del Pare Monceau mormoravano, non contenti di essere
disturbati nelle loro fantasticherie. Era un vento tiepido. Continuava
a fare caldo. Forse anche più di prima. Tirai fuori un fazzoletto dalla
tasca per asciugarmi il sudore.
«Nessuno», gridò Covet, deluso. «Sono fregato. False
informazioni…».
Feci un passo indietro, alzai la testa esaminando la facciata. Al
primo piano c’era ancora la luce accesa.
«Nessun domestico?», chiesi.
«Non lo so. Se ce ne sono, non vanno troppo di fretta».
«Non è che sia diventata sorda con l’età?».
«Non saprei».
Si attaccò di nuovo al campanello. Il suono mi parve diverso da
prima: stridulo, spiacevole, quasi ironico.
«Ehi là!», esclamò all’improvviso il giornalista.
Senza pensarci aveva spinto la porta, che ora stava lentamente
girando sui cardini oliati.
«Al punto in cui siamo, entriamo», dissi.
Ci trovammo in un atrio buio.
«Signorina Lucie Ponceau!», chiamò Covet. «Sono un giornalista
del “Crépuscule”. Un trionfo, signorina… un vero e proprio trionfo…».
Le parole si persero nel silenzio ostile delle profondità vischiose.
«Dobbiamo andare a vedere di sopra», dissi. «Dove c’è la luce
accesa».
Salimmo le scale. Sul pianerottolo un raggio di luce filtrava
attraverso l’interstizio di una porta. Una porta che non era più chiusa
di tutte quelle che avevamo aperto fino ad allora. Dava accesso a una
stanza graziosa, comoda e lussuosamente arredata. Una biblioteca
occupava una parte di muro e il ripiano superiore era ingombro di
gingilli e premi. Su un tavolino c’era un apparecchio telefonico. Una
pendola ticchettava timidamente. Sul tappeto di lana a pelo lungo
c’erano due grossi libri rilegati in pelle, come se qualcuno, troppo
stanco per leggere, li avesse lasciati cadere. Il primo, osservai in
seguito, era la raccolta di una rivista cinematografica defunta. Il
secondo riuniva un numero infinito di ritagli di giornale ingialliti che
cantavano le lodi della vedette nel momento di massima gloria.
Accanto alla biblioteca erano appesi due quadri. Firmati da nomi
celebri, rappresentavano entrambi Lucie Ponceau. Qua e là, sotto
vetro, c’erano foto dell’artista, ai tempi del suo splendore, sola o in
compagnia di colleghe. L’attrice in persona riposava sul letto, gli
occhi chiusi, il viso illuminato dalla luce di un elegante abat-jour. Era
una donna vecchia, più vecchia di quanto non indicasse lo stato civile,
ben più vecchia di quanto non l’avessi vista, un quarto d’ora prima,
sul grande schermo del Ruban-Bleu-Cinéma. Indossava un pigiama
di seta, con decorazioni fuori moda, in uno stile finto cinese. I capelli
tinti disegnavano, intorno al suo volto pallido ed emaciato, un cuscino
disordinato.
«Per Dio!», si strangolò Marc Covet, con le dita contratte su bloc
notes e penna.
«Non è morta», dissi io.
Ma non stava molto meglio. Il polso era impercettibile e respirava
debolmente, anche se con un ritmo spezzato, come se avesse fretta.
Aveva ragione di avere fretta. Non le restava molto tempo.
Capitolo IV

L’ombra del dubbio

Tesi la mano verso il telefono, che sembrava non aspettare litro


per suonare. Risposi: «Pronto!».
«Pronto! Ehm…» (il mio interlocutore sembrò piuttosto stupito di
sentire una voce maschile all’altro capo del filo) «ehm… casa della
signorina Lucie Ponceau?».
«Chi parla?».
«Norbert, l’assistente di Jacques Dorly. Io…».
«Chi cerca?».
«La signorina Ponceau».
«La signorina Ponceau non c’è».
«Come non c’è? Vuol dire che ho sbagliato numero?».
«Non lo so. Cosa ho detto?».
«Oh! Merda!», fece lui.
«Era quello che pensavo anch’io», risposi.
Riattaccò. Altrettanto feci io. Ripresi la cornetta e composi il
numero personale del mio vecchio amico, il commissario Florimond
Faroux. Non era a casa. Chiamai il Quai des Orfèvres.
«Il commissario Faroux, per favore. Da parte di Nestor Burma».
«Pronto! Burma?», fece qualche secondo dopo la voce burbera
dello sbirro. «Le sembra l’ora…».
«Poco importa l’ora, visto che mi trovo al posto giusto nel
momento giusto».
«E dove si trova?».
«A casa di Lucie Ponceau, l’attrice…» (gli diedi l’indirizzo).
«Venga immediatamente con un’ambulanza e un medico. È tutto
quello che posso dirle. Forse c’è una possibilità di salvarla…».
«Per Dio, Burma, io…».
«Imprecherà più tardi».
Riattaccai e tornai da Lucie Ponceau, stesa sul letto. Era ancora
viva. Una piccola possibilità. Molto piccola. Troppo piccola. Avrebbe
faticato a crescere.
«Per la miseria!», imprecò Covet. «Cosa crede che…».
Alzai le spalle:
«Non ne ho idea».
«E però non siamo ubriachi!».
«Per fortuna. Io…».
M’interruppe lo squillo del telefono. Presi la cornetta: «Pronto!».
«Oh! Le chiedo scusa».
«Non fa niente. Cosa…».
Riattaccò. Feci altrettanto.
«Cosa c’era ancora?», chiese Marc Covet.
«Una donna».
«Cosa voleva?».
«Non l’ha detto».
«Uhm…». (Si passò la lingua sulle labbra secche). «Berrei
volentieri qualcosa».
«Anch’io».
«Oh! Questo telefono!».
In effetti stava di nuovo squillando. Maledetta invenzione!
«Pronto!».
«Oh! Merda!».
«L’ha già detto, amico».
«Ma allora! Cosa significa? Che continuo a fare il numero
sbagliato? Accidenti a me».
«Non lo so, amico…». (Riattaccai). «Non vorrei che insieme agli
sbirri arrivasse anche questa gente del cinema», dissi rivolgendomi al
Buon Dio.
Marc Covet, che non è il Buon Dio, non rispose. Aveva appoggiato
una natica circospetta al bordo di un tavolino. Imitai il suo duplice
esempio. Aspettare e sperare, come consiglia Edmond Dantès. Non
c’era altro da fare. Tra un’occhiata e l’altra all’orologio, posai lo
sguardo sulle riviste rilegate, testate non più in circolazione che
strabordavano di complimenti, e l’album con gli elogiativi ritagli di
giornale. Tutto ciò che restava di un passato brillante… I libri erano
scivolati dal letto, lasciati cadere da qualcuno stanco, molto stanco.
Guardai la piccola sveglia, un oggetto di arte antica per assicurare un
risveglio di lusso: la lancetta della suoneria era puntata alle dieci.
Non era da escludere che a quell’ora avesse suonato. Le dieci… le
ventidue… il momento in cui, al Ruban-Bleu-Cinéma… Sussurrai:
«Non ci credeva, eh, Covet?».
«A cosa?».
«Alla sua nuova occasione».
«Gliel’ho detto…». (Scosse la testa). «Lei dubitava. Ha sempre
dubitato, da quello che so».
«In ogni caso, se era alla ricerca di un articolo sensazionale…».
«Oh! Questo è vero!».
Fece riapparire il notes per un istante messo a riposo e andò a
scrivere l’articolo fuori dalla stanza. Non mi mossi. Dalla finestra
aperta sulla notte, penetrava l’odore vegetale del Pare Monceau. Sul
guéridon in stile, la sveglia scandiva il tempo, il poco tempo ancora
concesso a Lucie Ponceau che, sul suo letto, nel pigiama che aveva
“recitato” con lei in L’ange blessé, diveniva di minuto in minuto
sempre più debole. Sentivo sulle spalle il peso della mia incapacità a
soccorrerla, sebbene avessi fatto tutto quanto in mio potere. La
sveglia ticchettava, la lancetta della suoneria ferma sul numero 10…
L’ora in cui, al Ruban-Bleu-Cinéma, invece, scorrevano i titoli del
film in cui la sfortunata era la sola a non credere e che la consacrava a
nuova star. Una dipartita circondata da un po’ di istrionismo? Sì.
Molto istrionismo. Ma era nella sua natura di artista e non potevo
biasimarla.

**
*

Con mio enorme sollievo, le auto che ben presto si fermarono


davanti alla tragica dimora erano quelle della legge. Dalla prima
uscirono un paio di sbirri in uniforme, un paio in borghese, un civile
gracile, che teneva in mano una borsa, e Florimond Faroux, con il
cappello marrone storto. Dalla seconda non uscì nessuno. Era
un’ambulanza. Era lì per raccogliere.
«E allora?», tuonò il commissario. «Si direbbe che è di nuovo in
mezzo ai guai. C’è anche Marc Covet? Fantastico. Cosa fate in
smoking?».
«Non mi rimproveri», dissi. «Il nero si adatta ai funerali».
«Già. Allora? Cosa succede?».
Lo misi al corrente. Come eravamo arrivati, perché e cosa avevamo
scoperto ecc.
«Allora», fece lui. «Dov’è il cadavere?».
«Non è ancora un cadavere. Io…».
«Diciamo il corpo. Dov’è il corpo?».
«Di sopra».
«Andiamo. Venga, dottore. E anche lei, Burma. Covet, lei resti lì.
Mi basta un detective privato, per ora. Nessun bisogno di giornalisti».
Entrammo nella stanza:
«Toccato niente?», chiese il commissario.
«Niente», dichiarai.
«Sembra piacerle il cinema. Guardia del corpo di Grace Standford.
Era anche guardia del corpo di questa?».
«No».
«Lavorava per lei?».
«Sì. Dovevo doppiarla nel prossimo film».
«Non è il momento di scherzare», mugugnò lui stringendosi nelle
spalle.
Il medico con la borsa si avvicinò a Lucie Ponceau e cominciò a
esaminarla. Florimond Faroux, in piedi in mezzo alla stanza,
esaminava invece i muri, i mobili, i quadri. Io mi esaminavo la punta
delle scarpe. Sul pianerottolo, un ispettore, con un fiammifero tra i
denti, si faceva più o meno il proprio esame di coscienza.
«Intossicazione fulminante», enunciò l’esculapio dopo un
momento. «Ecco cosa ho trovato accanto al corpo, commissario. Era
quasi rotolato sotto».
Con precauzione, tese al poliziotto un piccolo barattolo metallico
di cui l’altro s’impossessò. Conteneva dolcetti piatti, di un colore
rossastro, che sprigionavano un forte odore di papavero. Una quantità
sufficiente per far fuori un branco di rinoceronti! O giusto, sottile e
potente oppio!
«C’è un coperchio?», chiese Faroux, come se la scoperta non gli
suggerisse altro.
«Eccolo».
Chiuse la scatola, l’avvolse in un fazzoletto e se la infilò in tasca.
Tossicchiai:
«Se la caverà?», chiesi.
Il medico mi guardò come se venissi dalla luna. «Qui non siamo in
un film», disse. «È morta mentre la visitavo».
Il che gli ricordò che sulla testa aveva un cappello. Se lo tolse con
comica dignità.
«Uhm», scaracchiò Florimond. «Ma dottore, mi dica. Aveva
l’abitudine di prendere queste porcherie?».
«Non sono ancora in grado di dirglielo. Bisogna aspettare
l’autopsia».
«Non si tratta comunque di spuntini che si può essere costretti a
prendere contro la propria volontà, eh?».
«No. E non ho rilevato alcuna traccia di violenza. Deve aver
assunto il veleno volontariamente».
«Suicidio, quindi?».
«Ne ha tutta l’aria».
«Una pazza di più. Anzi, di meno. Cosa ne pensa, Burma?».
«Non pazza», dissi. «Stanca. Abbattuta. Disgustata. Può capitare.
Marc Covet potrà confermarglielo: questa donna era inquieta,
insicura. In particolar modo in questi giorni, in cui affrontava una
svolta della propria esistenza. Ci pensi, Faroux. È rimasta quindici
anni senza praticare la propria arte. Produttori, pubblico, colleghi
l’avevano dimenticata. Ed ecco che un temerario, il giovane regista
Jacques Dorly, le ridà una possibilità. E una bella possibilità. Ho
appena visto il film. L’unica cosa buona è l’interpretazione di questa
donna che pensavamo finita… e che lo è, adesso, ma in un altro senso.
Ormai non sperava più niente. Ha accettato di girare Le pain jeté…
perché questo mestiere ti entra nella pelle e non si rifiuta mai
un’occasione, ma si chiede ogni giorno – ossessivamente, lo ammetto
– se non ha commesso un errore, se non fosse stato meglio restare
nell’ombra. Tutti le dicono che è perfetta, ma è da troppo tempo
nell’ambiente per sapere che è meglio non fidarsi di ciò che senti
dalle persone che ti stanno intorno. E poi, anche ammettendo che con
questo film torni alla ribalta… sarà poi in grado di sostenere il ritmo?
Perché è inevitabile, l’aspetteranno altri impegni. E forse non è poi
così brava, dopotutto se c’è qualcuno che lo sa è proprio lei. Ai nostri
giorni, siamo talmente abituati alle attrici che recitano con le
chiappe, che si grida al genio appena si vestono per recitare una
battuta di due righe. Il nostro giudizio è falsato. Il suo forse è più
intatto, più acuto che mai, non so, è un’idea che mi è venuta così. Per
farla breve, è disposta a qualsiasi cosa piuttosto che ricadere di nuovo,
dopo essere salita così in alto. Allora, la sera in cui presentano il film
al Ruban-Bleu, lei non assiste alla proiezione. Resta a casa, come una
vecchia signora, in mezzo ai ricordi. E in un ultimo colpo di scena
finale, all’ora in cui inizia il film…».
«Basta così», disse Faroux. «È quello che dicevo anch’io. È
completamente suonata. Il suo parere, dottore?».
«Sulla teoria del signore?», sorrise il medico. «È psicologia.
Potrebbe essere tutto vero o solo una montagna di chiacchiere».
«Faccio lavorare il cervello», dissi io. «E adesso, un’altra cosa,
Faroux…».
«Forza, su», mugugnò lui. «Dopo averci più o meno dimostrato il
suicidio, ci dimostri anche che un sadico ha tagliato questa poveretta
a pezzi».
«Non mi spingerò a tanto. Ma la prego di notare che aveva
un’insolita quantità di droga, anche per qualcuno che abbia deciso di
farne indigestione. Se l’autopsia non rivela che era tossicodipendente
– cosa che potrebbe in parte spiegare una tale scorta di oppio –
significa che qualcuno gliel’ha procurata. Un bel porco, quel
qualcuno!».
Florimond Faroux aprì, in primo piano, una bocca enorme. La
riportò lentamente a una dimensione normale per fischiettare:
«Già».
«Faccia lavorare anche lei il suo cervello su questo», dissi io.

**
*

Prima di fornire istruzioni per far portare via il corpo, il


commissario fece perquisire la casa, come impone la routine in questi
casi. In un angolo trovò un terzo album di foto, la maggior parte
decorate da tenere dediche:
«Le piacevano giovani», osservò.
«Tutto dipende dall’epoca in cui sono state scattate», dissi. «Oggi
questi tizi potrebbero anche avere una lunga barba bianca».
In quel momento, rumori provenienti dal pianoterra ci
chiamarono fuori dalla camera mortuaria. Florimond Faroux si chinò
sulla rampa:
«Cosa c’è?».
«I domestici e i cineasti, stando a quello che dicono, capo», spiegò
un ispettore.
«Scendo».
Seguii il commissario. Nel vestibolo, oltre ai rappresentanti della
legge e a Marc Covet, c’erano sei persone, piuttosto attonite.
Innanzitutto, tre tipi in smoking. Scoprimmo in fretta che si
chiamavano rispettivamente: Sammy Bochra, produttore de Le pain
jeté aux oiseaux; Jacques Dorly, regista; Norbert, primo assistente.
Quest’ultimo era il tizio del telefono, che aveva il compito di
imprecare così spesso, mentre sarebbe stato più indicato il silenzio.
Accompagnava il trio una spilungona. Capelli lisci, seno piatto e
scarpe basse, aveva l’aria di una script-girl. Quello che era. Dietro agli
artisti, in secondo piano, due vecchi vestiti a festa. Interpellati,
dichiararono di essere i coniugi Baldi, domestici della signorina
Ponceau.
«Cosa succede?», chiese Jacques Dorly, con una leggera punta di
inquietudine nella voce.
«Niente di favoloso», replicò brusco il commissario. «La signorina
Lucie Ponceau si è suicidata».
I membri dell’equipe cinematografica, maschi e femmina,
imprecarono sonoramente. Imprecazioni neorealiste, che nessun
dialogista preoccupato del proprio avvenire avrebbe mai osato
impiegare per timore della censura. I due vecchi emisero invece un
gemito sordo.
Ne seguì un momento di esitazione, risolto da Faroux che fece
andare tutti in sala, la stanza che gli parve più adatta all’esercizio
delle proprie funzioni. Quindi iniziò a raccogliere le prime
deposizioni.

**
*

Mitragliati di domande, i Baldi, Baptiste e Jeanne, marito e


moglie, spiegarono come la signorina volesse restare sola e avesse
lasciato loro tutta la giornata libera. Erano per l’appunto di ritorno da
Bois-Colombes, dove erano andati a trovare dei parenti. Prima di
partire, avevano preparato il pranzo per la signorina e apparecchiato
la tavola. (Le pietanze furono trovate intatte. Lucie Ponceau non le
aveva toccate, riservando il proprio appetito ad altre sostanze). Sì, la
signorina, oggi, voleva restare sola. Non riusciva a credere che la sua
carriera potesse ricominciare? Ebbene, da qualche giorno sembrava
triste. Ricordava il passato con più frequenza del solito. Ma non
capivano perché la signorina si fosse suicidata. La cosa li sorprendeva
nel modo più assoluto e se avessero avuto anche solo un vago sospetto
delle sue intenzioni, non sarebbero mai andati a Bois-Colombes. La
signorina si drogava? Beveva? I due vecchi protestarono contro simili
supposizioni. Faroux disse che tutte le porte erano aperte, che la casa
sembrava un porto di mare. Era sempre così? I coniugi Baldi risposero
che non era sempre così, ma che di solito non se ne occupava la
signorina. Quindi, in assenza dei domestici, avrebbe anche potuto
dimenticarsene. E poi, se aveva intenzione di suicidarsi, aveva ben
altro a cui pensare.
«È tutto, per il momento», disse Faroux.
Passò a Jacques Dorly. Grossomodo, il giovane regista spiegò:
«La signorina Lucie Ponceau aveva espresso il desiderio di non
assistere alla serata di gala. Aveva paura… Per Dio! Mi chiedo di cosa
dovesse aver paura. È la regina della settima arte, da stasera. Cioè…
uhm, voglio dire, lo era. Per farla breve, avevo rispettato il suo
desiderio, riservandomi di venire personalmente a farle le
congratulazioni all’uscita della proiezione, in compagnia del signor
Bochra, il produttore, della nostra segretaria di produzione e del mio
primo assistente. Se non siamo arrivati prima è perché… sa come
vanno queste cose… non si può mandare tutti a quel paese, nemmeno
i rompiscatole. Ma ho fatto telefonare da Norbert. Inutile. O non
rispondeva nessuno oppure dicevano che era il numero sbagliato…».
Fece una pausa e aggiunse: «Lo stesso numero sbagliato. Curioso,
no?».
Intervenni:
«Nessuno sbaglio. Sono stato io a rispondere. Ma mi era difficile
spiegare al suo assistente che la signorina Ponceau stava
agonizzando. Stavo aspettando la polizia. Il commissario ne è al
corrente».
«Lei è della polizia?».
«Vicino. Solo vicino».
«Vicino di…».
«Vicino della polizia», tagliò corto Faroux. «Torniamo a noi.
Dopodiché, signor Dorly?».
«È tutto», rispose il regista. «Mi scusi, ma non so davvero cosa
potrei aggiungere».
«Sembra che la signorina Ponceau non fosse convinta di poter
ricominciare davvero una carriera. È esatto?».
«In un certo senso sì. Era nervosa, molto impressionabile, molto
artista, insomma! Dubitava di se stessa, sì. Ma ho considerato questo
suo atteggiamento come una specie di civetteria. Non ho creduto a
una vera e propria depressione. E il fatto che non abbia voluto
assistere alla proiezione di questa sera non mi è parso offensivo nei
miei confronti, non so se capisce cosa intendo. Ho pensato che voleva
evitare i complimenti di chi, per quindici anni, l’aveva lasciata
nell’oblio. Era una vendetta legittima».
«Bene…». (Faroux si girò verso di me). «Vada, Nestor Burma».
«Dove?».
«Esponga la sua teoria».
Procedetti. Quando ebbi terminato, nella stanza c’era un pesante
silenzio. Fu il commissario a interromperlo:
«Lei era un suo amico intimo, signor Dorly. Voglio dire, la
conosceva sicuramente meglio di noi. Io l’avevo solo vista al cinema e
un sacco di tempo fa, per giunta. La teoria che ha appena ascoltato si
adatta al carattere della defunta?».
Il regista deglutì e tossicchiò. La sua voce si fece ovattata:
«Quadra. Quadra perfettamente. Non so se sia andata così, ma la
spiegazione è senza dubbio ingegnosa».
«Non si tratta di ingegnosità. È plausibile?».
«Sì. Per Dio!…». (Improvvisamente il cineasta sembrò realizzare
appieno il dramma. I suoi lineamenti si alterarono).
«Avrei dovuto pensarci prima, a un brutto tiro come questo.
Bisogna sempre diffidare. Quella preoccupazione, quei dubbi non
erano normali. Avrei dovuto…».
«Sì, Jacques, avrebbe dovuto», gridò stridulo Sammy Bochra.
Il prossimo film che contava di fare con Lucie Ponceau ormai era
andato e non temeva di mostrare il proprio disappunto. Jacques Dorly
lo guardò di traverso.
«Si drogava?», chiese Faroux.
«Non che io sapessi», rispose l’altro. «Ma c’è chi riesce a
nasconderlo molto bene».
«Allora, l’inchiesta si concluderà verosimilmente confermando
l’ipotesi di suicidio. In ogni caso…» (lo sbirro guardò il produttore)
«la pubblicità del film non ne patirà…». E aggiunse, esattamente
come se stesse sputando: «Al contrario».

**
*

Arrivò il momento in cui Florimond Faroux non ebbe più bisogno


di me, né di Covet. Riprendemmo l’auto.
«Al giornale», disse il giornalista. «Devo far uscire questo super
articolo nelle prime edizioni».
Misi la marcia, evitando per un pelo di urtare la carriola di lusso
che aveva portato Sammy Bochra e compagnia bella. Debordava di
fiori, destinati, al momento dell’acquisto, a celebrare il trionfo di
Lucie Ponceau. Potevano sempre servire per il funerale.
Dopo aver lasciato il giornalista al «Crépuscule», tornai al
Cosmopolitan. Il letto era vuoto. Nessuna starlette o simili ci si era
infilata. Mi dissi che sarebbe andata meglio la notte dopo. Non c’era
nulla di sorprendente nel fatto che le mie nottate nei quartieri chic
della città si susseguissero secondo un principio di alternanza. Prima
una vivace, molto vivace; quella successiva un’agonizzante, che finiva
con il morire del tutto. Andai a letto e dormii come un sasso.
Capitolo V

I figli del paradiso artificiale

Mi svegliai verso le undici, l’indomani, e pregai immediatamente


lo schiavo di servizio di portarmi la collezione dei quotidiani insieme
alla colazione. Marc Covet aveva bruciato tutti i colleghi della stampa
mattutina. «Le Crépu» era il solo che annunciasse il fattaccio di
Plaine Monceau. Lo faceva su tre colonne in prima pagina, a grosse
lettere. Sotto il titolo:

SCONVOLGENTE SUICIDIO DI LUCIE PONCEAU

Lessi un resoconto dettagliato degli avvenimenti della notte,


completo della mia teoria. Ero largamente citato e, per così dire,
dividevo i riflettori con la morta. «France-Soir», che era appena
uscito, raccontava la stessa cosa ma pubblicava, in più, un comunicato
della polizia. Un comunicato molto evasivo, come al solito. Presi il
telefono e mi misi in contatto con Faroux:
«Pronto! Faroux? Sono Nestor Burma».
«Sì. E allora?».
«Fatta l’autopsia?».
«Sì».
«Faceva uso di stupefacenti?».
«No».
«Allora…».
«Sì».
Riattaccò. Terminai la mia tardiva colazione, riempii una pipa e la
fumai riflettendo. Poi mi feci bagno e barba e mi vestii. Mi stavo
allacciando le scarpe quando suonò il telefono. Era Marc Covet.
«Congratulazioni», dissi.
«Un articolo interessante, vero?», si pavoneggiò. «E sono riuscito
a farlo pubblicare anche sull’edizione che va fuori Parigi. Spero di non
fermarmi qui a scrivere articoli interessanti… Grazie a lei».
«Mi sembra di non avere più molto da dirle».
«Niente da fare, Burma. Vedrà. Sento che non andrà così. Ho
appena ricevuto una telefonata dalla segretaria di Montferrier e anche
lei, tra poco, ne riceverà una simile».
«Montferrier? Chi è Montferrier?».
«Un produttore. Jean-Paul Montferrier. Pare che voglia
incontrarla, credo per via della morte di Lucie Ponceau. Penso che
abbia letto il mio articolo e sia rimasto molto impressionato. Si è
rivolto a me per trovare lei, non perché sono giornalista, ma perché
sono suo amico. Aveva chiamato casa sua e il suo ufficio, ma senza
successo, e allora ha pensato a me. Gli ho detto che stava al
Cosmopolitan. Ecco tutto».
«Certo, ecco tutto. Ma si spieghi un po’ meglio».
«Non posso dirle altro perché non so altro. Ma sono sicuro che
Montferrier voglia vederla e che questo Montferrier, secondo le notizie
raccolte, non risiede a Parigi al momento. È da qualche parte sulla
Costa Azzurra. E, se si muove da lì, deve essere per qualcosa di
importante».
«Sicuramente…».
«E se è così importante…».
«Non la dimenticherò. Visto che ci siamo, Covet, mi può fornire
qualche informazione sul personaggio? Ha detto che è un produttore.
Spero non del tipo di Laumier?».
«Per carità, no. Piuttosto giovane, intelligente, ricco, è un uomo
che fa onore alla produzione francese. Attualmente si dice che stia
preparando un film grandioso in tre o quattro dimensioni con Tony
Charente. Ma niente di tutto questo può interessarla. Fa parte del
lavoro di produttore, non di detective».
«Dipende», dissi corrugando la fronte. «Chi ha appena detto?
Tony Charente?».
«Tony Charente, sì».
«Mi dice qualcosa».
«Davvero?», rise il giornalista. «Lei sarebbe il solo a cui non dice
niente. Il duro di Métro Blanche».
Dissi «Capisco», ma non pensavo al film di gangster. Aggiunsi:
«Ebbene, grazie, vecchio mio. Aspetterò la telefonata annunciata.
La terrò al corrente».
Riattaccai, ripresi la pipa e mi sedetti in poltrona. Forse c’era un
avvenire per me, nel cinema. Laumier… Montferrier… La suoneria del
telefono mi risvegliò dai miei sogni a occhi aperti.
«Nestor Burma», dissi.
«Sono la segretaria del signor Jean-Paul Montferrier, della
Montferrier-Globe-Films», rispose una voce tintinnante. «La
signorina Annie. Lei è Nestor Burma…» (stava sicuramente leggendo
qualche appunto) «il detective privato, ex guardia del corpo di Miss
Grace Standford?».
«Sì, signorina».
«E lei, questa notte, ha assistito agli ultimi istanti di vita della
signorina Lucie Ponceau?».
«Sì, signorina».
«Abbiamo avuto il suo numero dal signor Marc Covet, del
“Crépuscule”».
«Lo so. So anche che il signor Montferrier vuole vedermi».
«Sì, signore. Per affidarle un incarico. Potrebbe venire questo
pomeriggio, alle quindici, alla Residenza Montferrier, a Neuilly…».
Mi diede l’indirizzo esatto. Lo annotai, poi:
«Oggi pomeriggio alle quindici?».
«Sì, signore».
«Credevo che il signor Montferrier fosse in Costa Azzurra».
«Il signor Montferrier al momento è in viaggio sul suo aereo
personale».
«Ah! Benissimo. Intesi per le quindici, allora».
«Se non ha l’auto, posso mandare un autista a prenderla al
Cosmopolitan».
«La ringrazio, ho un’auto».
«Perfetto, arrivederci, signore».
«Arrivederla, signorina».
Riappoggiai la cornetta sulla forcella e le feci una smorfia. Aereo
personale? Accipicchia!

**
*

Il sole delle tre brillava sulla Residenza Montferrier. A lume di


naso, era una proprietà sontuosa, appena più piccola di un ministero
di medie dimensioni. L’alto muro di cinta era ricoperto di vegetazione
e, dall’altra parte, si alzava una vera e propria foresta di alberi di ogni
tipo e natura. Mi fermai davanti al monumentale cancello in ferro
battuto. Un portiere, che doveva aver ricevuto istruzioni in merito, me
lo aprì e mi indicò la strada fino alla casa che si riusciva a intravedere
al termine di un viale asfaltato, dell’ampiezza di una statale di medie
dimensioni. Sopra la mia testa, gli alberi formavano una fresca volta.
Parcheggiai l’auto davanti a un edificio sopraelevato color ocra che
sembrava la materializzazione del sogno di un architetto cubista. Il
pianoterra non aveva motivo di temere il rischio di alluvioni, tanto
era rialzato. Vi si accedeva tramite un ampio scalone di varie rampe e
almeno una quarantina di gradini. Gradini fatti di un vetro spesso di
colore glauco che dava la rinfrescante impressione che dell’acqua vi
cascasse sopra di continuo. Alcuni salici piangevano per essere stati
piantati al livello inferiore del monumento. Una vera scenografia da
cinema.
Scesi dall’auto e mi avventurai sulla scala di vetro. La porta a cui
conduceva si aprì e mi apparve il più classico dei camerieri, di un
biondo sgradevole quasi albino, che sembrava aver spiato il mio
arrivo. Ero il signor Nestor Burma? Dissi di sì.
«Il signore l’aspetta. Se vuole seguirmi».
Attraversammo un ampio living-room, climatizzato e silenzioso,
prendemmo un ascensore che ci lasciò al secondo piano e ci
infilammo in un corridoio che poteva servire da pista d’atterraggio per
uno Zatopek. Il cameriere bussò a una porta, mi annunciò, si scansò
per farmi passare. Il signor Jean-Paul Montferrier troneggiava in
cattedra, dietro una scrivania proporzionata all’insieme. La stanza
sembrava un museo, con quadri un po’ dappertutto e mobili freschi
d’antiquario. Le finestre erano aperte sul parco, ma la brezza che
agitava il giornale che il produttore stava leggendo quando entrai
proveniva da un ventilatore invisibile.
«Piacere di conoscerla, signor Nestor Burma», mi salutò il mio
ospite.
Mi venne incontro, con la mano calorosamente tesa. Un metro e
ottanta. Sulla quarantina. Ben piazzato. Capelli corti. Viso
abbronzato. Occhi grigi simpatici brillavano dietro le spesse lenti
degli occhiali cerchiati d’oro. Dettaglio che mi piacque: fumava la
pipa. Spinse verso di me una borsa di tabacco e il giornale già
segnalato. Era «Le Crépu». Ne ero certo. Cominciai a riempire la
pipa.
«Immagino», articolò Montferrier, «che lei abbia letto questo
articolo».
«L’ho addirittura vissuto».
«Sì, per l’appunto. Questo Marc Covet racconta balle?».
«Non più di quanto non esiga la sua professione».
Il telefono, a portata di mano del produttore, fece sentire la
propria presenza.
«Mi scusi», disse. (Sollevò la cornetta). «Sì… sì… ah!…». (Fece un
gesto di esasperazione). «Bene… Allora… me la passi…». (La voce si
fece più amabile). «Buongiorno, carissima. È davvero difficile
mantenere l’incognito. Mi chiedo come facciano i sovrani. È vero che
nel nostro ambiente le notizie viaggiano veloci: a più di ventiquattro
immagini al secondo. Si sa già, sugli Champs-Élysées, che ho fatto un
salto da Cannes a Parigi? È incredibile, ma sì… Sì… sì… Ah! La
produzione è quasi completata, adesso… Non gira? Ah! Lei oggi non è
prevista in nessuna scena… Ma certo, la vedrò con piacere…».
(Consultò l’orologio da polso). «Alle cinque, se per lei può andare…
Sì, bene… Arrivederci, carissima». (Riattaccò borbottando, sollevò di
nuovo la cornetta). «Non ci sono per nessuno, Annie, capito?
Assolutamente per nessuno. Eccetto che per Denise Falaise, che
arriverà tra un paio d’ore. Dia le istruzioni al cancello e mi mandi
Firmin…». (Con la mano ancora sull’apparecchio, mi concesse un
sorriso disteso). «Mi scusi», ripeté «Questi artisti…».
Lasciò la frase in sospeso. Sorrisi anch’io, con complicità. E il mio
sorriso si ampliò ancora di più quando Firmin, il cameriere albino,
apparve spingendo un carrello di bevande. Ci preparò con abilità due
cocktail rinfrescanti e scomparve. Il mio ospite bevve, appoggiò il
bicchiere e indicò di nuovo la copia del «Crépu»:
«Il suo amico giornalista», disse, «fa cenno a una grossa quantità
di oppio trovato in casa di Lucie Ponceau. È esatto?».
«Assolutamente esatto».
«Nessuna esagerazione?».
«Nessuna».
Corrugò le sopracciglia:
«Ecco il punto che mi interessa: quell’enorme quantità di droga.
Devo dirle una cosa, signor Nestor Burma. Conoscevo Lucie Ponceau e
posso dirle che non si drogava».
«L’autopsia l’ha confermato, signore».
«Ah!…». (Tamburellò le dita sull’angolo della scrivania). «Conosce
Tony Charente?», chiese senza dare l’impressione di cambiare
argomento. (E infatti non lo stava cambiando).
«È un grande attore», dissi.
«I grandi attori sono uomini come gli altri», rispose lui con una
smorfia. «Stessi difetti, stesse debolezze e bisogna tenerli sotto
pressione per ottenere qualcosa da loro. Al momento sto lavorando a
un grosso film. Tony Charente ne è il perno centrale e non voglio che
mi crolli prima della fine delle riprese. Ecco perché lo tengo, diciamo,
sequestrato qui, a casa mia. Gli ho messo a disposizione un bungalow,
in fondo alla mia proprietà. Gli concedo tutto ciò che desidera, eccetto
la libertà di commettere sciocchezze. Rappresenta troppi soldi per
me… Le sembro cinico, signor Nestor Burma?».
«Diciamo semplicemente franco, signore».
«Cinico rende meglio, secondo me. Forse perché vivo in un
ambiente dove si ha la tendenza a esagerare tutto. Anche i timori…
Vede, mi preoccupo tanto per Tony anche se, a oggi, non mi ha dato
alcun motivo di farlo…».
Cominciavo a intravedere un rapporto tra il principale
protagonista e la morte di Lucie Ponceau. Decisi di far valere la mia
perspicacia:
«Capisco», dissi. «Si droga».
«Si drogava», mi corresse Montferrier. «Si è drogato. Poi ha
seguito una cura di disintossicazione. Ha mai sentito parlare di
Raymond Mourgues?».
«Anche lui un attore?».
«E anche un drogato. Anche lui guarito dal vizio, fino al giorno in
cui ci è ricascato. Risultato: impossibile riuscire a finire il film in cui
aveva il ruolo da protagonista. Un caso identico è quello di Pierre
Lunel. Stesso copione. Lei capirà facilmente che, l’esperienza insegna,
mi conviene prendere qualche precauzione. La tragica fine della
povera Lucie farà molto scalpore. I giornalisti ne approfitteranno il
più possibile. Si parlerà di droga in lungo e in largo. Mi dispiace che
una donna come Lucie, che non si drogava, sia riuscita a procurarsi
l’enorme quantità di oppio di cui parla il suo amico giornalista. Per
farla breve, temo che tutto questo possa far uscire Tony di testa, fargli
tornare il gusto di riprovarci, capisce?».
«Perfettamente, salvo quello che si aspetta da me, signore».
«Vorrei che lei sorvegliasse Tony, signor Nestor Burma. Che gli
impedisca, se fosse necessario, di ricaderci un’altra volta. Le chiedo di
fargli da guardia del corpo. L’ha fatto per Grace Standford, lo faccia
anche per Tony. Una guardia del corpo un po’ particolare».
Mise il punto finale al discorso vuotando il bicchiere. Mi schiarii la
gola:
«Ehm… Non potrebbe organizzarmi un incontro con Tony
Charente?», chiesi. «Vorrei prima farmi un’idea del personaggio. Sa,
noi detective privati abbiamo tutti qualche piccola mania».

**
*

Il bungalow situato all’estremità del parco della Residenza


Montferrier che il produttore aveva messo a disposizione della sua
star era un edificio grazioso e allegro, abbellito da un caminetto
estremamente decorativo. Si erigeva non lontano da un campo da
tennis e da una piscina ed era immerso tra alberi centenari.
Lo riconobbi subito, il signor Tony Charente. O si è detective o non
lo si è. È vero che era solo, cosa che limitava il rischio di errore. Ma i
suoi lineamenti mi erano familiari per averli avuto sotto gli occhi di
recente – e non all’ingresso di un cinema, sebbene fosse capitato in
occasione di un dramma. Più precisamente l’avevo visto tra gli archivi
sentimentali di Lucie Ponceau dove la sua foto, corredata di una
tenera dedica, si mescolava a centinaia di altre.
Steso sul divano, con addosso solo un paio di short molto short
attorno alle reni, l’attore, quando ci annunciammo, stava leggendo.
Leggeva o fingeva di leggere, perché un cagnolino chiassone non
poteva non aver avvertito il padrone del nostro arrivo. Non è da
escludere che l’attore avesse poi optato per un po’ di messa in scena.
Da sotto un cuscino disposto in tutta fretta si intravedeva qualcosa
che sembrava più un lembo di gonna che una scacchiera. Da un
apparecchio radiotelevisivo usciva una musica dolce.
Come d’accordo, Montferrier mi presentò sotto il nome presunto di
Arthur Martin, attribuendomi per l’occasione non so quale funzione
nel settore cinematografico.
Tony Charente non aveva la grazia della signorina che portava
quasi lo stesso nome, più nota nella storia di Francia sotto quello di
Signora de Montespan. Stava seriamente iniziando a ingrassare.
L’abitudine a esprimere a comando i sentimenti più disparati gli
aveva modellato una maschera troppo mobile per essere penetrabile.
Arrivare ai suoi pensieri – ammesso che ne avesse – era ormai
impossibile. Nell’insieme e malgrado il sorriso a trentadue denti che
sfoggiava, il celebre attore sembrava annoiato a morte, elemento che
rappresentava un certo pericolo per un ex drogato che avesse i mezzi
pecuniari necessari a soddisfare la propria passione, se gliene fosse
tornata la voglia.
Dopo dieci minuti di banale conversazione, nel corso della quale
potei apprezzare il vero charme della famosa voce della star,
Montferrier si ritirò, lasciandomi solo con l’attore. Deciso ad andare
dritto al punto, dissi:
«Ho una confessione da farle, signor Charente. Non mi occupo di
cinema se non in qualità di spettatore. Non lavoro nemmeno in
settori limitrofi, perché non mi chiamo Arthur Martin. Sono stato io a
suggerire al suo produttore di presentarmi sotto questo nome per non
spaventarla perché, di primo acchito, i poliziotti privati in genere non
sono visti di buon’occhio, non so perché. Ora, io sono un poliziotto
privato. Mi chiamo Nestor Burma».
Mi guardò con occhio bovino:
«La conosco», fece alla fine, trattandomi da pari. «È stata la
guardia del corpo di Grace Standford, vero?…» (aggiunse indicando
l’apparecchio radiotelevisivo). «Ed è stato lei a informare gli sbirri del
fattaccio di Plaine Monceau, vero?… Non mi spaventa, ma non mi
spiego la ragione della sua presenza qui…». (Deglutì). «Ho qualcosa a
che vedere con la morte di Lucie Ponceau?».
La voce melodiosa si trasformò lentamente in parlato atono.
Capitolo VI

È affascinante

Esalai una boccata di fumo verso le modanature del soffitto: «Non


si agiti», sussurrai. «Non voglio trattarla da traditore né da ragazzino,
malgrado i pantaloncini. Ho solo voluto informarla. Montferrier vuole
che le faccia da guardia del corpo».
Scoppiò a ridere:
«Guardia del corpo! Mi prende per Grace Standford? Guardia del
corpo?».
«Io la chiamo con un altro nome. Balia asciutta sarebbe più
adatto. Lei non ha niente a che vedere con il suicidio di Lucie
Ponceau, ma è perché Lucie Ponceau è morta in condizioni particolari
che sono qui. Posso parlarle da uomo a uomo, signor Charente?».
Questo finto linguaggio virile, eco dei testi che aveva l’abitudine di
spacciare sotto la giraffa per la presa del suono, sembrò piacergli:
«Affare fatto, amico», fece lui, per restare sulle stesse note.
«Montferrier mi ha informato che lei…». (Feci il gesto di sniffare,
poi di infilarmi un ago nel braccio, a mo’ di sottotitolo). «L’uno o
l’altro. O tutti e due».
Corrugò le sopracciglia:
«Di cosa s’immischia quello?».
«Dei vostri interessi comuni».
«Già. E più in particolare dei milioni che gli faccio guadagnare,
eh?».
«Forse. Ma, contestualmente, anche della sua salute e del suo
avvenire».
«Non si roda il fegato per la mia salute. Ma lei cosa c’entra in tutto
questo?».
«Gliel’ho detto. Dovrei farle da balia asciutta e impedirle di
ricadere in tentazione. È un’idea piuttosto idiota perché io dovrei
incollarmi a lei come un’ombra, cosa che non mi sembra troppo
praticabile. Ecco perché, prima di accettare, ho voluto informarla. E
consigliarla, anche se fare prediche non rientra tra le mie abitudini.
Ma lei mi è simpatico e farò uno sforzo. Ci sarà sempre droga a
portata di mano di chi vorrà farne uso, mentre a lei, se adesso molla,
non capiterà più un film come quello che Montferrier sta preparando.
Allora, facciamo un accordo. Io accetto la proposta del suo produttore
e lei cerca di non fare l’imbecille prima che siano finite le riprese del
film. A quel punto, se vuole farsi una tonnellata di roba, ci daremo da
fare per fornirgliela. Ma avremo tutti e due avuto la nostra grana.
Naturalmente verrò a trovarla di tanto in tanto, per dare
l’impressione di sorvegliarla. Ci sta?».
Le sembro cinico, signor Nestor Burma? Mi aveva chiesto
Montferrier. Per fortuna non mi vedeva in quella scena.
«Hanno tutti una faccia di bronzo così i detective privati?», fece
Tony Charente con una punta d’ammirazione.
Alzai le spalle.
«Non ho la faccia di bronzo. Sono solo un realista, mosso dal buon
senso. Come Saint-Granier».
Mi guardò e si mise a ridere. Un vera risata. Non una risata di
scena:
«Accetti la proposta di Montferrier, Nestor Burma», disse. «È la
gag più divertente che mi sia mai capitata».
«Già. Solo che conto sul suo buonsenso perché non faccia
sciocchezze. Devo confessarglielo lealmente: se lei vuole farsi, non
avrò il potere di impedirglielo».
«Stia tranquillo. Non sto pensando di ripetere l’esperienza della
droga…». (Fece una pausa, tornò serio e proseguì, con aria
trasognata). «Sa, è stato all’inizio della mia carriera. Ho conosciuto
una ragazza come non se ne vedono molte alla Citroen, dove lavoravo
come manovale. Perché ho fatto anche il manovale. Ho fatto il fabbro,
il muratore, il falegname. Tutti i mestieri. E sempre al verde. Sempre
solo…». (La voce d’oro stava riprendendo vigore, si impregnava man
mano del pathos più puro. Andò a spegnere la radio perché nulla
potesse intralciarla). «Passavo le mie serate nei cinema di quartiere, a
rivedermi le imprese dei miei eroi preferiti: Spencer Tracy e Jean
Gabin. Tornato a casa ripetevo le scene davanti allo specchio…» (rise)
«uno specchio incrinato. Rotto…».
«Forse era un presagio».
«Come no! Avevo fatto un po’ di teatro amatoriale, sui diciassette
anni. Un giorno ho avuto un colpo di fortuna. Facevo lo sbruffone in
un film. È una cosa che dà i suoi risultati!».
«Lo so».
«Davvero?».
«Anch’io ho fatto un po’ di tutto».
«Allora saprà anche quanti sono gli imbecilli in questo campo.
Uno di questi imbecilli, volendo intascarsi i pochi spiccioli extra del
mio ingaggio, mi fa fare un provino. Io ce la metto tutta, invoco in mio
aiuto Spencer Tracy e Jean Gabin. Una settimana dopo, un pezzo
grosso che non sapeva come trascorrere un pomeriggio di pioggia,
visiona i provini. Tra cui il mio. Convocazione. Piccolo ruolo. È il solo
ruolo minore che io abbia mai interpretato. Dal secondo film ero già
protagonista. Gente più qualificata di me per giudicare aveva trovato
non so cosa nel mio timbro di voce. Una voce affascinante, sembra.
Per farla breve, è stato durante questa seconda produzione che ho
conosciuto la tizia in questione. Purtroppo fumava. E non Gauloises.
Ero giovane, non molto raffinato. Ho creduto che drogarsi fosse una
cosa da ricchi e ho cominciato. All’inizio perché amavo o credevo di
amare quella donna – e in ogni caso ne ero succube. Poi… diciamo
che ho preso… sì, ho preso anni, denaro ed esperienza. Non molte
cose mi fanno perdere la testa, ormai. In fondo, ho una mentalità da
cafone. Al momento Montferrier mi tiene prigioniero in una gabbia
dorata come fossi Greta Garbo. È una trovata pubblicitaria e non sarò
io a distruggere il piedistallo che mi ha costruito. Non mi annoio. Mi
basta poco per divertirmi. Gliel’ho detto, sono una persona semplice.
Più avanti mi troverò una brava donna, che sappia cucinare e tutto.
Per il momento, non mi annoio…».
Lo ripeté tre volte, tre volte di troppo. Chiaramente non poteva
fare a meno, a tratti, di fare della commedia, tanto per non perdere
l’abitudine.
«E quando mi rompo», riprese, «è facilissimo. Devo solo fare un
cenno e corrono tutte a mangiare dalla mia mano. Dalla mano di
Tony Charente. Perché quando Tony Charente si chiamava,
volgarmente, Dupont, come tutti… è pazzesco, però, eh? Tutte queste
ragazze…».
Non capivo perché mi confidasse tutto ciò. Forse aveva davvero
bisogno di sfogarsi o, più semplicemente, trovandosi di fronte a un
estraneo, entrava in gioco un automatismo che lo costringeva a
fornire il quadro completo di sé, a qualsiasi costo. Era anche possibile
che parlasse molto per dirmi il meno possibile, visto che continuava a
tacere il fatto di essere andato a letto con Lucie Ponceau, benché non
fosse certo una rivelazione che avrebbe potuto scandalizzare
qualcuno! In ogni caso, inveire contro alcune delle sue facili conquiste
femminili ebbe un risultato immediato che non si aspettava. Alle sue
spalle una porta si aprì violentemente e la giovane che stava
origliando entrò nella stanza. A parte la gonna a scacchi, sempre
infilata sotto il cuscino del divano, era, se così si può dire,
interamente vestita. Ma a farla arrossire non era il fatto di mostrarsi
nuda fino alla cintola. Il colorito delle guance nasceva da una viva
indignazione:
«Ah! È così che ci tratta il signore?», guaì furibonda. «Il
rubacuori…».
Parole più dure del chewing-gum, che tanto valeva sputare invece
di masticare. Appena lei riprese fiato, Tony Charente, superata la
sorpresa, rise:
«Che buffo. Ti avevo dimenticata».
«Be’, io non ti dimenticherò di certo. E puoi scordarti di
rivedermi».
Prese la gonna e se la infilò alla meno peggio, mandando al
diavolo l’attore che si offriva di aiutarla.
«Su, su», disse lui rassicurante. «Aspetta, tiro fuori l’auto».
«Lascia perdere l’auto», replicò lei. «Sono abbastanza grande per
prendere l’autobus, andare a piedi o fare l’autostop».
«Allora fa come ti pare, merda!».
Lei bofonchiò qualcosa e uscì in tromba dal bungalow.
«È un po’ colpa mia», dissi.
«Per una persa, ce ne sono dieci ritrovate», rispose, con filosofia.
«E se bevessimo qualcosa?».
Sempre più filosofico. L’alterco con l’amichetta gli aveva seccato la
gola. Non pronunciò più il senso compiuto di una sola frase fino a
quando ci separammo. Ci salutammo da buoni amici. Mentre
percorrevo il viale che mi riportava al castello cubista dove mi
aspettava Montferrier, riflettei. Quella rottura era insperata. Mi
permetteva di introdurre qualcuno di mio. La giovane Monique, se
fossi riuscito a ritrovarla, mi sembrava perfettamente indicata per
quel genere di lavoretto. Mi sarebbe bastato dirle che in vista c’era un
contratto cinematografico. Lei e Tony Charente formavano una bella
coppia. La coppia ideale. Né l’uno né l’altra avevano scoperto l’acqua
calda, ma Nestor Burma era astuto a sufficienza per tutti. Tra cinema
e teatro di burattini, c’era meno differenza di quanto si sarebbe potuto
pensare.
«Allora?», chiese Montferrier.
Era in compagnia di una giovane dall’aspetto di segretaria
competente. E in effetti era la sua, di segretaria, la signorina Annie.
«Accetto», dissi. «Ma lei spreca il suo denaro. Non succederà
nulla».
«Non sottoscrivo un’assicurazione contro gli incendi augurandomi
che la casa vada a fuoco. Che effetto le ha fatto Tony?».
«Simpatico. Un bambinone».
«Esatto. È per questo che credo opportuno tenerlo d’occhio…».
La signorina Annie raccolse una cartellina e se ne andò.
Montferrier si mise a compilare un assegno a me intestato:
«Inutile ripeterle che conto su di lei, vero? Perfetto. Di cosa avete
parlato lei e Tony? Siete rimasti a lungo insieme».
«Gli ho detto chi ero. E per giustificare la mia presenza gli ho
raccontato una frottola».
Non dissi quale.
«D’accordo», fece Montferrier, comprensivo. «È lei l’esperto. Tony
le ha per caso raccontato la storia della sua vita?».
«In parte…».
Aspettai che mi parlasse dell’idillio Lucie-Tony. Zero. Forse non
ne sapeva nulla.
«È un bambinone, come dice lei», si limitò a ripetere.
Guardò l’orologio. Squillò il telefono. Sollevò la cornetta:
«Sì… sì… fatela entrare, per favore…». (Riattaccò, sorrise e si alzò).
«Devo ripartire domani per la Costa Azzurra», disse. «Tenga i contatti
con la signorina Annie, la mia segretaria, che abita qui. Arrivederci,
Nestor Burma».
Mi accompagnò fino alla porta del suo ufficio-museo e mi strinse
la mano. Imboccai l’interminabile corridoio nel quale una corrente
d’aria combatteva la calura. Arrivai davanti all’ascensore nel
momento in cui la cabina, contenente il cameriere albino e Denise
Falaise, si fermava al piano. Con sontuosa semplicità l’attrice, più
bella che mai, indossava una gonna ampia, un prendisole, che le
lasciava braccia e spalle nude e che doveva scoprirle anche la schiena,
e un foulard verde annodato al collo. Firmin aprì il cancello e si
spostò per lasciar passare la signora, la quale non so come fece male i
calcoli. Sta di fatto che inciampò e mi urtò. Sotto l’effetto della
corrente d’aria, il foulard si alzò fino a coprirle il volto,
trasformandola in una moresca bionda.
«Oh, mi scusi tanto», disse gentilmente.
«Si figuri…».
E mi profusi in scuse come deve fare qualsiasi galantuomo a cui è
appena stato pestato l’alluce da un tacco alto. Quando si allontanò
lungo il corridoio, in compagnia del domestico, la seguii con lo
sguardo. Aveva una bella schiena.
Capitolo VII

Un bell’articolo per Rabastens

La vista di Denise Falaise mi fece ripensare a Laumier. Non avevo


avuto tempo di restituirgli la telefonata che mi aveva fatto e non
sapevo ancora perché avesse sentito la necessità di parlarmi dopo il
nostro scambio di pugni. Ma per la miseria! Oggi potevo anche fare il
giro di tutti i produttori. Cercai nel mio taccuino il numero degli studi
da cui mi aveva chiamato. CONcorde 78-56. Arrivato in place de
l’Etoile, mi fermai davanti a un tabaccaio e utilizzai la cabina.
«Studi Sonorécran», disse una voce neutra.
«Il signor Laumier sta girando da voi?».
«Sì, signore. Produzione La mort nourrit son homme».
«E dove sono i vostri studi?».
«Rue Marbeuf. Lo sanno tutti».
«Io non sono tutti».
Salii in auto e presi la direzione di rue Marbeuf.

**
*

A prima vista, si sarebbe potuto pensare che fosse un porto di


mare, ma non era così. Certo, l’ampio portone era aperto, una volta
però parcheggiata l’auto nella parte del grande cortile interno
riservato a quest’uso, cominciavano le difficoltà. Bisognava passare da
un cerbero poco invitante che sonnecchiava, masticando tabacco sotto
un cartello che diceva che non si poteva fumare. Il cerbero squadrò la
mia pipa, ma non disse nulla. Chiesi di Laumier, lui però continuò a
non profferire parola e si limitò a spingere verso di me, sul tavolo che
talvolta gli faceva da cuscino, un blocco dai fogli staccabili. Doveva
essere un vero fan del cinema muto. Compilai la scheda, con tanto di
nome del visitatore e oggetto della visita, scrivendo: «a proposito
della chiamata telefonica», sotto quest’ultima voce. Nel frattempo, il
guardiano aveva spinto un pulsante che aveva fatto accorrere un
fattorino. Il ragazzo prese il mio autografo e scomparve all’interno di
un edificio indicato come Studio D. Tornò poco dopo, accompagnato
da un altro bipede poco più vecchio di lui, vestito in modo
volutamente disordinato e che sapeva da lontano un miglio di
assistente alla regia.
«Il signor Laumier la prega di scusarla un attimo», mi disse il
nuovo arrivato. «È sul set, ma non ne avrà per molto. Mi ha pregato
di accompagnarla al bar, durante l’attesa».
Lo seguii lungo un corridoio molto fresco, piuttosto buio, dove le
comparse disoccupate vagavano trascinando i piedi. La mia guida
spinse una porta, quella del bar in questione. A parte tre macchinisti
che giocavano a 421 all’estremità del bancone, il locale era vuoto. Una
barista non più nel fiore degli anni ascoltava la radio.
«Cosa desidera, signore?», chiese l’assistente.
«Whisky».
«Anche per me, Mélie. Da segnare sul conto del signor Laumier».
Senza altri commenti, la barista servì le consumazioni. Il mio
compagno bevve, esaminandomi con curiosità. Sul bancone furono
rumorosamente lanciati i dadi e uno dei giocatori manifestò
apertamente la gioia di aver vinto.
«Facciamo la bella?», propose la squadra perdente.
«Non vorrei che avessero bisogno di noi sul set…». (Quello
preoccupato vide l’assistente). «Cosa ne pensa, Charlie?».
«Giocate pure», li autorizzò Charlie. «Il signor Laumier ha
bisogno di tempo».
«E lo credo, che ne ha bisogno», rise un altro operaio. «È
pazzesco, sembra che giri al rallentatore».
«Non lamentiamoci», fece un altro. «Siamo pagati alla giornata,
no? E allora, più dura…».
«Si direbbe che voglia risparmiare la pellicola».
«È possibile. Una volta siamo rimasti a secco, perché non ce n’era
abbastanza di riserva».
«Non si trattava sicuramente del signor Laumier», protestò
l’assistente, risentito. «Ne è arrivato un intero stock di vergini, in
questi giorni».
I macchinisti scoppiarono a ridere:
«Sono entrate delle vergini qui dentro?».
«Accidenti! Deve essere stata la prima volta!».
E proseguirono di risata in risata. Charlie si strinse nelle spalle.
La barista lo imitò sollevando gli occhi al soffitto, cosa che le diede
un’aria virginale un tantino ammuffita. Conservò quella posa
eminentemente fotografica fino all’arrivo di un gruppo di comparse. I
macchinisti avevano cominciato un’altra partita. Qualche aspirante
attore seguì l’esempio, altri si limitarono a bere un bicchiere. Uno di
questi si tolse i baffi finti che gli davano noia e dichiarò con
soddisfazione che era convinto che per quel giorno fosse ormai fatta.
Passò un po’ di tempo prima che, dietro la barista, squillasse di nuovo
il telefono sovrastando il brusio delle conversazioni. La donna sollevò
la cornetta, ascoltò, la ripose e disse a Charlie:
«Era il signor Laumier per il signore che vuole vedere il signor
Laumier».
«Se vuole seguirmi», m’invitò l’assistente.
Attraversammo di nuovo il cortile dove altre comparse
parlottavano attorno a una grossa auto appena parcheggiata e Charlie
mi condusse in un labirinto di corridoi dove incrociammo un sacco di
gente dalle occupazioni difficili da definire, ma tutti i molto agitati –
il tipo di ambiente che conoscevo bene. Sempre seguendo il mio
apprendista cineasta, attraversai due set immersi in una triste e
polverosa penombra, sui cui pavimenti serpeggiavano cavi traditori,
salii un gradino e raggiunsi l’ufficio del regista. Charlie bussò alla
porta, l’aprì, mi annunciò e se ne andò. Il cittadino che mi accolse era
più alto di me di una testa intera. Era Jean, lo spilungone che
sembrava esercitare un’innegabile autorità su Laumier, a giudicare
dalla sua condotta di due sere prima, al Camera-Club. Cinquanta per
cento tirapiedi, cinquanta per cento qualcos’altro. Tirapiedi nello
sguardo e nel sorriso – che in mio onore, devo rendergli questa
giustizia, rese umano fino alla cordialità. Qualcos’altro – forse
segretario? – per gli abiti, di buon taglio e portati con disinvoltura.
Un tizio che dava l’impressione, nell’insieme, di essere sempre
vagamente di rappresentanza, come è necessario in un settore in cui
perfino la cassiera della più misera sala di proiezione di periferia si
sente come Michèle Morgan.
La stanza era confortevole, con poltroncine, divano morbido e
bagno attiguo. Al centro della stanza, su un tavolino, poggiavano un
mucchio di giornali, una sfilza di copioni rilegati e una pila di scatole
per pellicola. Un ventilatore agitava fiocchi di cenere di sigaro in
fondo a una coppa di cristallo.
«Entri, signor Nestor Burma», fece il pachidermico produttore,
con una gentilezza un po’ fredda. (Abbandonò il divano su cui era
stravaccato e mi tese una mano umida. L’ampia camicia fantasia era
aperta sul petto villoso. Era rosso e sudava). «Gradisce un aperitivo o
è di rigore la sobrietà quando è in servizio?».
«Non sono in servizio», risposi. «Non so nemmeno cosa intenda
dire, ma berrei volentieri qualcosa».
«OK! Per favore, Jean».
L’interpellato andò nel bagno dove doveva esserci un frigorifero-
pronto soccorso contro la sete, prese anche i bicchieri e tornò per
servirci una bevanda ghiacciata. Nel frattempo, il produttore si era
seduto sul divano e io avevo preso posto in una poltrona. Laumier
tracannò una sorsata:
«Io… uhm…», fece, infine, seguendo con lo sguardo il suo
tirapiedi, indaffarato nella stanza, «uhm… mi scuso per l’altra sera,
l’incidente dell’altra sera, al Camera-Club. Ero ubriaco, ma ricordo di
averle dato un pugno…».
«Gliel’ho restituito», dissi. «Siamo pari».
«Niente affatto. E ci tengo a scusarmi…».
«E in ogni caso, quel pugno non era indirizzato a me, giusto? Lei
voleva colpire il rompiscatole, il giovane giornalista?».
«Ehm… sì… se la vuole mettere così. Ci tengo comunque a
scusarmi. Per questo l’ho chiamata il giorno dopo. Avevo lasciato
intendere che poteva richiamarmi. Ho saputo che aveva ricevuto la
comunicazione, ma… ma lei non si è messo in contatto con me in
alcun modo», aggiunse con un tono di rimprovero.
Per chi si prendeva questo?
«Era troppo tardi per chiamarla, quando ho ricevuto il suo
messaggio», spiegai. «E poi l’ho dimenticato. È stato solo oggi che,
per associazione d’idee…».
«Associazione di idee?».
«Sì. Un produttore mi ha fatto pensare a un altro produttore. Sono
appena stato a trovare un amico, Jean-Paul Montferrier…».
«Montferrier! Ah! Sì, è vero, ho saputo che è rientrato da
Cannes…». (Con un gesto elegante mandò Montferrier all’aeroporto).
«Torniamo a noi. Sì, ho interpretato molto sfavorevolmente il suo
silenzio, signor Nestor Burma…». (S’interruppe, si alzò e andò a
cambiare la direzione del ventilatore, brontolando). «Che caldo!…».
(Tornò a sedersi, asciugandosi le pieghe del collo massiccio con un
fazzoletto di seta giallo). «Sì, molto sfavorevolmente. Già la
sospettavo e il suo atteggiamento non ha potuto che confermare i miei
sospetti. Ne ho concluso che lei non voleva incontrarmi e, da questa
conclusione, ne ho tratte altre. Nel nostro mestiere la chiamiamo
“incrociata”. Comunque, ora lei è qui e possiamo spiegarci in modo
franco».
«Mi sospettava? E di cosa?».
«Non amo particolarmente i detective privati, signore», articolò lui
in tono secco. «Direi anzi che li detesto».
«Non è una risposta».
Alzò all’altezza del mio viso la pala da mulino a vento che aveva al
posto della mano, agitando davanti alle corna della mia pipa a testa
di toro il fazzoletto che, fortunatamente, non era rosso:
«Aspetti… non c’è un detective privato che Rolande non abbia
assunto per farmi spiare. Ecco perché, l’altra sera, quando l’ho vista
davanti a me, mi si è rigirato il sangue nelle vene. La conoscevo.
Sapevo che era stato la guardia del corpo di Grace Standford e che
non lo era più, perché Grace Standford è tornata in America. Ma lei
era ancora nei paraggi. Sarò franco. Non volevo colpire il giornalista.
Se dovessi rompere la faccia a tutti i giornalisti mossi da cattivi
propositi, non farei altro. Avevo invece preso di mira proprio lei. Ero
ubriaco, ho visto cose che non c’erano. Me ne scuso ancora…».
«Visto cosa?».
«Cose».
«Capisco. A proposito di questa Rolande, eh?».
«Mia moglie. La signora Rolande Laumier. Sono da poco giunto a
un accordo con lei, aveva promesso di lasciarmi in pace…».
«Non lavoro per sua moglie», dissi. «Se questo può
rassicurarla…».
«Uhm…», borbottò, «uhm…» (mi squadrò dal basso, con l’aria
sospettosa). «Insomma… in ogni caso, Rolande non avrebbe niente
da guadagnarci. So trattenermi. Mi ha insegnato lei ad andarci piano.
Ci andrò piano».
«Vada piano quanto vuole», sorrisi. «Cosa crede che me ne
importi?».
«Ebbene, non parliamone più», propose con una sorta di sollievo.
«E beviamo un ultimo bicchiere, se non ha nulla in contrario».
Accettai. Jean ci servì e si fece un sorsetto da solo, dietro la tenda
del bagno. Vuotando il mio bicchiere, portai la conversazione sulla
morte di Lucie Ponceau. Laumier non mi disse niente di nuovo e
concluse che era tutto molto triste. Mi unii a lui, ma fui interrotto
dalla suoneria del telefono. Laumier sollevò la cornetta:
«Sì… sì… oh! Merda!… va bene…». (Riattaccò, sempre rosso e
sudato). «È un mestiere in cui gli scocciatori davvero non si fanno
desiderare», disse.
Senza nemmeno prendere fiato, tornò a parlare di Lucie Ponceau,
ripetendo che era davvero triste per un’attrice che aveva appena dato
prova di non aver perso il proprio talento. Approfittai di una sua breve
pausa per tornare al nome di Montferrier e segnalare la visita di
Denise Falaise al produttore.
«Non lo sapevo», sospirò Laumier… (Consultò l’orologio. Orologio
e telefono sono le due mammelle della produzione cinematografica).
«Non dovrebbe dimenticare l’accordo…» (sospirò di nuovo). «Come le
dicevo pochi istanti fa, sono moltissimi i seccatori. I seccatori e gli
ingrati. Sono stato io a farla, Denise. E adesso, lei starà
probabilmente cercando di farsi dare un ruolo nei film di Montferrier.
I miei non le bastano più. Non sono più abbastanza per lei. Ah!
Miseria! Ma anch’io presto farò film importanti, proprio come
Montferrier».
Sospirò di nuovo e fu sommerso da una sorta di vampata di calore.
Sotto il fazzoletto giallo con cui si detergeva, fece una smorfia.
Assomigliava al bebé della reclame del vermifugo, il marmocchio che
stava per piangere.
«Ma insomma… non gliene voglio… è libera… al di fuori del
contratto, beninteso… ma, un contratto, si rompe con una disdetta…
No, non gliene voglio… Da quando è stata depressa, ha momenti in
cui…».
«Ha sofferto di depressione?».
«Sì. Ma nessuno lo sa. Ah! La vita da artista non è sempre
semplice. Per una serie di ragioni, si è preferito non far trapelare la
cosa… Vede, le faccio delle confidenze», rise.
«Può farlo», dissi. «La signora Laumier non è mia cliente».
Scrollò le spalle, con fare da vero fusto. Vuotò il bicchiere, lasciò
perdere la sua volubile vedette e, sempre più ubriaco, mi propose di
accompagnarlo sul set. Stavano per girare una scena che non poteva
non interessarmi, visto la mia professione di detective. Accettai, nella
segreta speranza di incontrare Denise Falaise, che l’accordo in
questione stava per richiamare in studio.
Ebbene, devo dire che non ne vidi poi granché di quelle scene. I
macchinisti avevano ragione. Laumier era piuttosto fiacco, come
regista. Pignolo, confusionario e con la necessità di riflettere prima di
decidere. Alla fine, per la soddisfazione generale, dichiarò che per
quel giorno era abbastanza così. Avevano acceso, spento, riacceso i
proiettori, spostato i mobili, modificato l’arredo, fatto ripetere la scena
un numero infinito di volte, ma non era stato impressionato
nemmeno un centimetro di pellicola. E Denise Falaise, che doveva
passarsela bene in compagnia di Montferrier, aveva mancato
all’accordo. Insomma, Laumier non solo mi aveva fatto perdere
tempo, ma anche permesso di accertare che, dai tempi in cui avevo
fatto la comparsa, il cinema era rimasto identico.
Recuperai l’auto e presi la direzione del Cosmopolitan. Proprio
davanti all’ingresso c’era un’edicola di giornali nuova fiammante,
tutta cromo e vetro. Dopo aver parcheggiato l’auto sul marciapiede, ci
passai davanti e scorsi una faccia nota che mi sorrideva dalla vetrina.
«Hollywood-magazine», una pubblicazione così chiamata perché vi
si nominava raramente Hollywood, con la bella faccia di Monique, la
mia visitatrice notturna, in copertina. Capitava a pennello. Acquistai
la rivista illustrata e mi rifeci gli occhi su quell’affascinante persona
per sei pagine. Vista di schiena, di fronte o di profilo; sola o in
compagnia di un’amica, che facesse cuocere un uovo o sfogliasse un
libro, portava (e così la sua amica) solo lo stretto necessario:
grembiule da cucina fantasia, trasparente e di pizzo, slip, scarpe e
calze. Cercai l’indirizzo della rivista per procurarmi quello di Monique
e lo sguardo si soffermò sulla firma del racconto che illustrava quelle
forme scultoree. Di bene in meglio. L’autore del testo era un tizio di
nome Jules Rabas. Da Rabas a Rabastens non ci voleva molto. Mi
dissi così che, per raggiungere Monique, il giornalista era perfetto,
tanto più che sembrava particolarmente ben disposto nei miei
confronti. Il biglietto da visita che mi aveva dato al Camera-Club non
diceva per quale giornale lavorasse, ma solo il suo indirizzo personale:
216, faubourg Saint-Honoré, vale a dire a un tiro di schioppo. Potevo
sempre andare a informarmi dalla sua portinaia, se non avessi avuto
la fortuna di trovarlo a casa.
Il 216 di Faubourg Saint-Honoré è un edificio non più
recentissimo che si alza non lontano dall’ex ospedale Beaujon,
diventato ora un centro di allenamento per guardiani della pace o una
scuola o qualcosa del genere, e che si trova quasi di fronte all’edificio
Rothschild, all’angolo di rue Berryer, là dove, al momento della
vendita annuale degli scrittori ex combattenti, nel 1932, un tipo di
nome Gorguloff crivellò di colpi, metaforicamente parlando, il signor
Paul Doumer, presidente della Repubblica. Ebbi qualche difficoltà a
trovare l’ingresso dell’edificio, un corridoio stretto tra un negozio
d’antiquariato e un ristorante. La portinaia era nella sua guardiola,
come fosse in penitenza, nel punto in cui il corridoio a cielo aperto
diventava una specie di cortile sviluppato in lunghezza. Il signor Jules
Rabastens? Sì, abitava lì. Era in casa? Sì, c’era.

**
*

C’era e, quando lo vidi, mi tornò in mente una frase pronunciata


dal giovane: «Se le capitasse di imbattersi in un cadavere, me lo faccia
sapere…». Ebbene, ecco il cadavere che il giovane rosso cercava. Solo
che Rabastens non avrebbe potuto ricamarci sopra nessuna storia.
Per quanto un giornalista possa spingere lontano la propria coscienza
professionale, non ne avevo ancora visto nessuno abbastanza abile da
scrivere un articolo sulla propria morte.
Capitolo VIII

Eléphant-boy

Non fu affatto una sorpresa. L’aria imbarazzata della portinaia


lasciava intuire qualcosa di strano. E poi, per le scale, avevo
incontrato uno sbirro di Faroux, e, qualche metro più in là, il
commissario in persona…
«L’ottavo», disse, «era un arrondissement piuttosto tranquillo,
prima che lei decidesse di abitarci. Mi domando se quell’artista di cui
è stato guardia del corpo sia davvero partita per l’America. Forse, a
cercare bene, si potrebbe trovare il suo cadavere da qualche parte».
«Non dica sciocchezze».
«Non dico sciocchezze. A meno che provare a chiederle qualcosa
non sia di per sé una sciocchezza. In effetti volevo vederla. E visto che
lei è qui, il mio lavoro sarà semplificato. Era amico di Rabastens? Tra
le sue cose abbiamo trovato questa…».
Mi aveva allungato la foto scattata da Fred Freddy, di «Radar», al
Camera-Club.
«Marc Covet, lei e Rabastens, no?».
«Esatto».
«Era suo amico?».
«L’ho visto due o tre volte».
«E stava venendo a trovarlo?».
«Si».
«Per quale ragione?».
«Volevo che mi presentasse a qualche pin-up. Sa, m’interessano le
pin-up. Dev’essere l’età».
«Buon Dio! Se solo non si interessasse ad altro. Allora, l’ha
incontrato solo due o tre volte?».
«Sì…».
Avevo spiegato in quali circostanze.
«Vuole rivederlo una quarta?».
E mi portò in presenza del cadavere.

**
*

L’appartamento occupato da Jules Rabastens era composto da una


cucina e due piccole stanze. La cucina e la stanza in fondo si aprivano
sul cortile dell’ex ospedale Beaujon e dalle finestre si vedeva, oltre a
una vetreria in basso, gli attrezzi e i palchetti utilizzati dagli sbirri
nelle loro esercitazioni. Rabastens era steso nella stanza che serviva
da studio-biblioteca, ai piedi di un tavolo su cui si trovava una risma
di carta, alcune penne e una Underwood. Ma ciò non significava che
fosse sul punto di scrivere un messaggio quando era stato sorpreso
dalla morte. C’è sempre della carta sulla scrivania di chi scrive per
professione. Rabastens! Julot per le signore! Venticinque anni al
massimo, mesi di allattamento compresi. Farfalla della stampa che
volteggiava da una vedette a una starlette. Un cranio in cui si
formavano parole e frasi di lode. Un cranio in cui ormai non si
sarebbe formato più nulla. Un cranio orrendamente sfondato.
«Non si è certo ridotto così cercando qualche idea o sbattendo
contro una porta», disse Faroux. «Qualcuno l’ha colpito. Forse un
ladro, forse qualcun altro. In tasca non ha un soldo, ma non mi
sembra che sia stato derubato…» (mi indicò un cofanetto appoggiato
sul tavolo da uno degli ispettori che perquisiva la casa). «Non
abbiamo trovato tracce di furto. Se la ferita fosse stata meno profonda,
avrei forse pensato che fosse stato aggredito da malviventi in strada e
che fosse tornato a crepare a casa sua. Mi è capitato un caso simile, di
recente. La vittima di un’aggressione notturna che si è rialzata, senza
accorgersi della frattura che aveva in testa. Il tizio non aveva nulla di
più urgente da fare che andare alla più vicina stazione di polizia ma
lì, mentre spiega cosa gli è successo, cade a terra, morto stecchito.
Non credo però sia quello che è capitato a Rabastens, vista la
profondità della ferita. Deve essere morto sul colpo».
«Quando?».
«Lo sapremo dall’autopsia».
«Dopotutto, forse aveva un cranio eccezionalmente duro e
malgrado il colpo…».
«No. La sua prima reazione non sarebbe stata quella di tornare a
casa per curarsi (mi chiedo con cosa!), ma di avvisare uno sbirro. È
quello che ha fatto l’altro tizio e quello che farei anch’io».
«Sì, naturalmente. Credo anch’io che sia stato colpito qui.
Insomma, per lei è un’inezia. Non capisco perché quella faccia. La
portinaia non ci metterà molto a dirle chi è venuto a trovarlo di
recente».
«Certo, come no!», sospirò Faroux. «Questa casa è un andirivieni
continuo. C’è uno stampatore in fondo al cortile e una giovane
insegnante di pianoforte al primo piano. I clienti dell’uno e gli allievi
dell’altra passano davanti alla portineria senza dire nulla e non sono
pochi nel corso di una giornata. Nessuno ha chiesto alla portinaia
dove abitava Rabastens».
«Allora si tratta di qualcuno che lo conosceva».
«Anche di questo non ne sono certo. Non ha visto la fila delle
cassette delle lettere in corridoio, prima di arrivare alla portineria?
Sulla sua, Rabastens aveva scritto il piano e qui, sulla porta, avevano
incollato un biglietto da visita. Chiunque poteva arrivarci senza
chiedere indicazioni. A proposito di gente che lo conosceva…».
Mi invitò a dirgli tutto quello che sapevo su Rabastens. Eseguii ma
senza che questo servisse a fornirgli molte informazioni in più.
Conoscevo davvero troppo poco il giornalista. Quando ebbi terminato,
il commissario mi spiegò in che modo avevano scoperto il crimine.
Erano stati dei poliziotti che si arrampicavano come scimmie durante
le esercitazioni. Uno di loro, dall’alto di un palchetto, aveva dato
un’occhiata a quella finestra così vicina e aveva visto un ragazzo in
una posizione non proprio ortodossa. In quel momento, Rabastens
non era steso lì dove lo stavo vedendo io, in attesa di essere trasferito
all’obitorio, dopo i primi rilevamenti. Era seduto, con la parte
superiore del corpo accasciata sul tavolo. Lo sbirro aveva avvisato i
colleghi e, poco dopo, era arrivato sul posto Florimond Faroux:
«Impossibile non fare alcune considerazioni», disse, con uno
sguardo d’accusa e apprestandosi a contare sulle dita. «Mi sono
interessato al caso quando ho saputo che si trattava di un giornalista
che si occupava di cinema. Capisce?…». (Entrarono in azione le dita).
«Rabastens… Lucie Ponceau… entrambi domiciliati in Plaine
Monceau… Ieri, una… oggi, l’altro… Capisce, vero? Qui, faccio altre
considerazioni. Per via di quella foto…». (Il gioco di dita continuò).
«Rabastens, Marc Covet e Nestor Burma si conoscevano. Rabastens si
occupava di cinema, Covet più o meno e Burma anche. Covet e Burma
hanno scoperto Lucie Ponceau agonizzante. Rabastens è appena stato
ammazzato».
«Crede che ci sia un rapporto tra queste due morti?».
«Non credo nulla e non chiedo nulla a lei. Forse si tratta solo di
una coincidenza. Ma è comunque una strana coincidenza».
«A proposito di Lucie Ponceau, a che punto è l’inchiesta?».
«Diamine! Ci lasci respirare. Non sono passate nemmeno
ventiquattr’ore. Finora, non c’era alcun dubbio sul suicidio e,
sinceramente, per me continuano a non essercene, ma la morte di
questo ragazzo rischia di far ripartire l’inchiesta, per quanto riguarda
gli aspetti marginali».
«Quali aspetti marginali?».
«Si sono viste cose più incredibili».
Una riflessione che arrivava come i cavoli a merenda. Dissi:
«Quali?».
«Mi chiedo se Lucie Ponceau non fosse una spacciatrice. Si è visto
di peggio, le ho detto, e molti malviventi si sono camuffati in modo
strano ultimamente. Non c’è dubbio che, nel campo delle sostanze
stupefacenti, l’attività criminale sia rallentata. Circa un anno fa, la
gang della droga è stata decapitata e alcuni avvenimenti hanno
frenato il commercio. Perché non si sarebbe dovuto rimettere in piedi
con nuovi personaggi? Il suicidio di quella donna potrebbe aver
compromesso alcuni piani o potrebbe comprometterli, e se il nostro
Rabastens era venuto a sapere della situazione… Che ne dice, Nestor
Burma?».
«Credo che lei predichi il falso per sapere il vero, ma mi spiace,
Faroux, non posso esserle utile. Non ne so niente. Approfondisca pure
questa idea, ammesso che sia un’idea».
Borbottò qualcosa, ci scambiammo ancora qualche frase e mi
lasciò libero di andare a farmi spremere altrove. Mi fiondai a bere un
bicchiere nei bistrot della zona. Ne avevo bisogno. Mi feci tutti i caffè
di quella parte del quartiere Saint-Honoré, fino all’avenue Hoche.
Passai davanti alla libreria di Denise Verte e quel nome, per un
istante, mi fece pensare all’altra Denise, la vedette bionda. Dopo aver
buttato giù l’ultimo aperitivo al tabaccaio d’angolo, tornai alla mia
auto, parcheggiata davanti al 216.
Rientrai al Cosmopolitan. Il sole stava tramontando. Avevo bevuto
per dimenticare Rabastens, il suo cranio sfracellato e il suo povero e
gracile corpo steso sul tappetino. L’orizzonte a ovest, infuocato, mi
ricordava la sua faccia.
Senza sentirmi davvero sporco, avevo la sensazione che un bel
bagno mi avrebbe giovato. Mi sembrava di lasciarmi dietro un tanfo
di cadavere. M’infilai nella vasca.
Appena ne uscii, arrivò Marc Covet, apparentemente piuttosto
eccitato.
«Niente cinema per me, stasera, vecchio mio», dissi subito.
«Glielo dico nel caso volesse portarmi a un’altra prima o anteprima
mondiale».
«Niente cinema stasera?», rise. «Buona questa! Sa cosa vengo ad
annunciarle? L’ultimissima del “Crépu”, non ancora stampato?».
«Se è la morte di Rabastens, ne sono al corrente».
«Davvero? Sempre rapido, lei, eh?».
«Sì. Esco ora dalla camera mortuaria».
«Davvero…».
Avvicinò una sedia e ci si lasciò cadere sopra asciugandosi il volto:
«Mi racconti un po’! Per Dio! Rabastens! Certo non mi farà più le
scarpe, ma mi dispiace. Non era un cattivo ragazzo ed è comunque
una brutta storia».
Rivestendomi, gli dissi quello che sapevo.
«E chi è stato?», chiese quando ebbi finito. Non attese la risposta
per far schioccare le dita e dire: «…Non sarà stato Laumier, per caso?
Ricorda la scenata al Camera-Club?».
Lo disillusi:
«Ho visto Laumier, prima. Mi ha detto lui stesso che se fosse
necessario pestare – e, aggiungo io, assassinare – tutti i giornalisti
che fanno discorsi scomodi, non basterebbe una vita. E il suo pugno
non era destinato a Rabastens, ma a me…» (spiegai perché).
Aggiunsi: «Faroux crede che la morte di Rabastens sia collegata a
quella di Lucie Ponceau e per certi versi mi trovo a condividere il suo
punto di vista».
«Ma certo!», esclamò Marc Covet. «Avrei dovuto pensarci prima!
Le ho detto che l’ho incontrato ieri, mentre cercava di ottenere più
informazioni possibili su Lucie Ponceau e il suo stato d’animo, il
modo di raggiungerla ecc.? Aveva l’aria di volermi snobbare. “Vecchio
mio, ti farò mangiare la polvere”, mi ha detto, o qualcosa del genere.
Ho pensato che avesse un’informazione – un’informazione diversa da
quelle che avevo io e che, nel tentativo di verificarla o mettere insieme
tutti i pezzi, abbia trovato un osso duro. A quando risale la sua
morte?».
«Non si sa ancora».
«E Lucie Ponceau, allora? Anche il suo sarebbe un omicidio?».
«È un suicidio, ma sono convinto che sia stato un suicidio aiutato,
cosa che cambia tutto. Hanno approfittato di un momento di
depressione di quella povera donna – depressione acuta – per
sbarazzarsene. Chi e perché? Mistero. Faroux non sembra aver preso
in considerazione questo aspetto del problema. Si chiede se Lucie
Ponceau non fosse stata in società con degli spacciatori… se non fosse
lei stessa una spacciatrice… Mentre lui cerca da una parte, io cercherò
dall’altra. Vedremo chi arriverà prima al traguardo. Nel frattempo,
quella che mi serve adesso è una pin-up smaliziata. Ne conosce
qualcuna, per caso?».
«Una pin-up? Per consolarsi della morte altrui?».
«Non è a mio uso personale».
«Bel mestiere! Bel modo di pensare!…». (Tornò serio). «C’entra
qualcosa con questa storia?».
«È un’idea che mi è venuta dopo la visita da Montferrier».
«Montferrier? Ah! È vero! Allora, l’ha incontrato? Sa qualcosa?».
«Non ne ho idea…».
Raccontai del mio incontro con il ricco produttore, Tony Charente
ecc.
«Che strano lavoro ha accettato», commentò il giornalista. «Come
se la caverà?».
«Non si tratta di sapere come me la caverò, ma quello che, sulla
faccenda di Lucie Ponceau, riuscirò a cavar fuori. Voglio trovare il
criminale – non ci sono altre parole – che ha procurato all’attrice i
mezzi per fare il salto. Mi ci sarei impegnato in ogni caso. L’intervento
di Montferrier mi faciliterà il lavoro. Applicherò il mio piano al suo
personale».
«Il suo personale? Non capisco».
«Voglio lavorarmi Tony Charente: parlargli talmente tanto di
droga da fargliene tornar la voglia».
«Esattamente ciò che teme il suo capo?».
«Né più né meno. I tossici rappresentano una vera e propria
massoneria. L’attore sicuramente conosce un paio di buoni indirizzi
sconosciuti alla polizia. So che ne esistono e sono proprio quelli che
mi interessano. Conto su di lui per arrivarci… o farci arrivare la
persona che intendo mettergli alle calcagna per sorvegliarlo. Una
volta che avrò un piede dentro, mi incaricherò del resto».
«Ebbene, vecchio mio, mi scusi, eh!», scoppiò a ridere Covet. «Se
mai dovessi sposarmi e temere che mia moglie mi tradisca, non
manderò certo lei a verificarlo. Ci andrebbe a letto solo per non
contraddirmi».
«Non si scandalizzi troppo in fretta. Il piano potrebbe essere
modificato. Vedremo. Possono verificarsi novità, anzi una si è già
verificata. Quel Tony Charente mi intriga. Sa che in passato è stato
l’amante di Lucie Ponceau?».
«Prima novità. Gliel’ha detto lui?».
«No, ed è per l’appunto questa la stranezza. Faroux ha sfogliato
davanti a me l’album che Lucie Ponceau aveva dedicato ai suoi amori
e dentro c’era anche una foto di Charente con dedica. Una dedica che
non lasciava dubbi, piuttosto esplicita direi. E che non faceva certo
immaginare tutta la discrezione di cui l’attore sta dando prova ora,
invece».
«Forse è un tipo di poche parole».
«Poche parole? Sembra che la metà del dizionario sia stata
inventata per lui. Ma è inutile stare a rompersi la testa adesso. Basta
quella del povero Rabastens…». (Tirai fuori dalla tasca, dove era
rimasta, la copia di «Hollywood-magazine» e la diedi a Marc Covet).
«Contavo su di lui per essere presentato a questa ragazza».
«Graziosa e ben proporzionata. Lei ha buon gusto», commentò il
redattore del «Crépu».
«Si chiama Monique. È una ragazza che un po’ conosco, ma che
non so come rintracciare».
«Ho qualche amico all’“Hollywood-magazine” e so in quale studio
fotografico posano le modelle e le cover girl. Vuole che mi informi?».
«Mi farebbe un favore».
Guardò l’orologio:
«È tardi e tutti quei posti sono chiusi ora, ma forse qualcuno
potrebbe rispondere al telefono».
«Andiamo a mangiare allora», dissi. «Se non ha impegni, la
invito. Tra un piatto e l’altro vedremo se può essermi utile».
Marc Covet si alzò, mi restituì la rivista, che infilai in tasca, e
disse, dopo averci rimuginato un po’ su:
«Le va di andare al Berkeley? Potremmo incontrarci qualcuno di
interessante».
«Chi?».
«Be’… ehm… Faroux sospetta sul serio che Lucie Ponceau fosse in
società con degli spacciatori… se non lei stessa una spacciatrice?».
«Non lo so, ma mi sembra una supposizione un po’ estrema.
Faroux dice che la gang decapitata potrebbe aver trovato un nuovo
capo. Ora, quello che dice Faroux… e soprattutto quello che non
dice!».
«Per l’appunto. Senta, Burma. Ha sentito parlare di Sophie Carlin
e Venturi?».
«Sophie Carlin è la pettegola del suo giornale. Quanto a Venturi…
non capisco».
«È un delinquente internazionale, trafficante di armi, droga,
donne, sigarette, di tutto ciò che le viene in mente. Uno Stavisky in
scala. Si dice che si sia più o meno ritirato dagli affari. Le ripeto
quanto mi è stato detto. Io non lo conosco, perlomeno non di persona.
Ho solo avuto il suo ritratto sotto gli occhi. I miei colleghi del
“Crépu”, che corrono in lungo e in largo per Parigi alla ricerca di
notizie per conto di Sophie, a volte scoprono strane cose, che non
vengono rese pubbliche. Da Moissac, uno della squadra di Sophie, ho
saputo che da qualche tempo Venturi, sotto falso nome, frequenta gli
Champs-Élysées, sta al Charleston e pranza al Berkeley. La polizia
deve saperlo, o perlomeno mi auguro che lo sappia, ma non sembra
esserne particolarmente preoccupata. Forse la sua presenza in zona
non è estranea a tutto il caos che sta capitando da queste parti».
«Vecchio mio», sospirai, «se andassimo a vedere tutti i clienti dei
palazzi dell’arrondissement, sono sicuro che troveremmo anche due o
tre fratelli di questo Venturi. Ho un piano e non lo abbandonerò certo
per correre dietro a un delinquente d’alto bordo che gli sbirri stanno
sicuramente tenendo d’occhio. Ma grazie per l’informazione e
andiamo pure al Berkeley. Non si sa mai».

**
*

Al Berkeley non vidi l’ombra di delinquenti internazionali ma


Marc Covet, grazie al telefono, ottenne da una fonte bene informata
indicazioni piuttosto precise sulla Monique della copertina di
«Hollywood-magazine» e la sua amica.
«Si chiama Monique Grangeon», mi disse, al momento del
dessert, dopo il quarto viaggio alla cabina telefonica. «Quella che
l’aiuta a cucinare, a pagina 6, è Micheline. Posano quasi sempre
insieme. Non hanno saputo dirmi il cognome di Micheline. Non ho
nemmeno il loro indirizzo, ma sembra che frequentino spesso il
dancing L’Eléphant, sotto i portici del Lido. Potremmo farci un salto».
«Magari quando siamo lì, anche più d’uno».

**
*

Ci andammo a piedi, lasciando l’auto parcheggiata non lontano


dal Berkeley. Il dancing era in un sotterraneo, con un ingresso sotto i
portici e un’uscita su rue de Ponthieu. Un elefante al neon segnalava
da lontano la presenza di quel locale gradevole, non troppo lussuoso e
di buon gusto. Tutte le ragazze che c’erano sembravano fare a gara
con le foto di moda. Alcuni uomini erano molto eleganti, altri avevano
sfoderato il vestito buono della domenica, e si vedeva da lontano un
miglio. Ci dirigemmo immediatamente verso il bancone, secondo
un’antica e nobile consuetudine. Covet vide una delle sue conoscenze.
Fece un cenno e il tizio ci raggiunse. Covet procedette con le
presentazioni:
«Marceau, un collega, il tipo che conosce Monique. Questo», fece
indicandomi, «è Nestor Burma, ma inutile farlo sapere in giro.
Vorrebbe conoscere Monique».
«Monique non c’è», fece il ragazzo. «Ma c’è l’altra parte del
tandem: Micheline. Sta ballando con un tizio dalla brutta faccia.
Sicuramente non chiede di meglio che lasciarlo perdere. Le dica che si
occupa di cinema, signor Burma, fa sempre colpo con loro».
«Effettivamente, non è del tutto falso», sorrisi.
Marceau bevve un bicchiere a nostre spese, pronunciò una frase
impietosita sulla sorte di Rabastens che anche lui conosceva (sia la
sorte che Rabastens) e ci lasciò non appena, nella sala da ballo,
l’orchestra eseguì l’ultima nota di un mambo trepidante. Tornò poco
dopo in compagnia di una giovane che doveva essere uscita da una
scatola di profumi, a giudicare dagli effluvi che emanava. Era un po’
spettinata, ma la cosa le donava. Aveva graziosi occhi color nocciola e
un’abbondante capigliatura castana. Sembrava meno sfrontata di
Monique, il modo in cui mi squadrò non aveva nulla di provocante.
Per quello che avevo in mente, avrei preferito Monique. Come lei,
anche questa indossava una camicetta molto scollata che le lasciava
scoperte le spalle. Fatte le presentazioni, le offrii un bicchiere mentre
Marc Covet e il suo collega, in modo discreto, ci lasciarono soli.
Andarono nella sala da ballo in cui l’orchestra stava riprendendo a
suonare. Aprii la bocca per attaccar bottone con Micheline quando le
si avvicinò un tizio:
«E questa», chiese senza preoccuparsi minimamente della mia
presenza, come se non esistessi, «non la vuole ballare con me,
signorina?».
Aveva un accento da bassifondi, mitigato da frequentazioni
modello quartiere Saint-Denis. Portava un completo fil-à-fil, di buon
taglio, ma la cravatta era molto aggressiva. Molte cose, in lui,
facevano trapelare una forte aggressività. Era il cavaliere di
Micheline, quello dalla brutta faccia di cui mi aveva parlato Marceau,
impossibile sbagliarsi. La giovane lo mandò a quel paese. Lui
insistette.
«Lasci perdere», intervenni. «Sta disturbando la signorina».
Mi guardò di traverso:
«Di cosa s’impiccia?», sibilò. «Ha ancora tutti i denti?».
«I miei denti non sono affari tuoi. Sparisci».
«Signori, vi prego», disse il barman. «Questo è un locale
tranquillo».
«Un locale di…», sputò la canaglia.
«Non dovresti agitarti così», dissi. «Non si adatta al quartiere ed è
un genere ormai superato che potrebbe non essere gradito a Venturi»,
aggiunsi un po’ a caso.
Accusò il colpo:
«Venturi? E chi diavolo è questo animale?».
«Non ne ho idea. Contento?».
«Hai l’aria di uno che racconta balle. Dovremmo ritrovarci, in un
locale meno tranquillo».
«Va bene, amico mio. Quando vuoi. Nell’attesa, vai a vedere se
sono fuori».
Bofonchiò, ma si tolse dai piedi. Il barman lo guardò allontanarsi
con sollievo.
«Chi è quel brutto ceffo?», chiesi.
«Non lo so», rispose il cameriere, «ma di certo non un tizio a cui
affiderei la cassa».
Mi girai verso Micheline: «E lei? Lo conosce?».
«Sono ragazzi che cercano di sistemarsi», disse lei alzando le
spalle. «In questi giorni ha fatto il filo a Monique, ma Monique punta
più in alto. Se l’avessi saputo, non avrei accettato di ballare con lui. È
più appiccicoso di quanto credessi ed è uno di quegli uomini che
pensano che, siccome ci muoviamo, parliamo liberamente e posiamo
nude…».
«Capisco…». (All’improvviso mi chiesi se non fossi anch’io uno di
quelli). «Ma ora se ne è liberata. Credo di avergli dato argomenti su
cui riflettere e non verrà più a importunarla».
«Grazie, signore».
«Non c’è di che. Allora, veniamo a noi. Marceau, il giornalista, le
ha detto perché volevo conoscerla, vero? Cerco Monique».
«Sì, me l’ha detto. Per cosa?».
«Ho un contratto per lei. Un contratto un po’ speciale, ma credo
che potrebbe andarle a genio. L’ho vista una sola volta, ma mi è
bastato per giudicarla. Era nel mio letto…».
«Be’, ora probabilmente le toccherà cercarla nel letto di qualcun
altro», disse Micheline. «Stiamo nello stesso hotel. Non la vedo da
ieri a mezzogiorno. Ha dormito fuori e forse farà come durante il
festival, quando si è fatta abbindolare da un tizio che l’ha subito
mollata. Quando è tornata era tutta mogia, ma non credo le sia
servito di lezione. Di che contratto si tratta? Per un film?».
«Diciamo che ha a che fare con la recitazione. Senta, Micheline, lei
mi è simpatica. Troppo simpatica perché le faccia la proposta che
intendevo fare a Monique. Fate lo stesso lavoro e forse avete le stesse
ambizioni, ma siete diverse. Il contratto in questione non è per lei. Ma
resta valido per Monique e quando la rivedrà… le dica di mettersi in
contatto con me. Sto al Cosmopolitan. Vede, voglio farle una
confidenza. Marceau le avrà sicuramente detto che mi occupo di
cinema. Non è affatto vero. Ecco chi sono…».
Le feci vedere il mio tesserino da poliziotto privato.
«Oh! Ma guarda!», disse. «Detective! Nestor Burma! Ho letto il
suo nome sul giornale, a proposito di Lucie Ponceau. Ma cosa…».
«Queste, Micheline, sono faccende da detective, come nei film».
«Mi lasci terminare la frase. Cosa dovrei dire a Monique?».
«Che mi sono dimostrato ben poco galante con lei, l’altra notte, e
voglio riparare… facendole fare la conoscenza di una gloria del grande
schermo: Tony Charente. Chiaramente, la cosa comporta qualche
pericolo. Lei capisce di che genere, vero?».
Quando pronunciai il nome del celebre attore, i suoi occhi si
illuminarono.
«Naturalmente», disse lei.
«Ma immagino che un pericolo del genere non spaventi affatto
Monique, o sbaglio?».
«Non sbaglia».
«Bene. Allora conto su di lei per questa commissione. E ora devo
rientrare».
«Anch’io», fece Micheline sbadigliando. «Ha una macchina?».
«Sì, l’ho lasciata davanti al Berkeley».
«Potrebbe darmi un passaggio? Sto all’hotel Dieppois, rue
d’Amsterdam. È un po’ lontano e non si sa mai che Monique sia
tornata…».
«D’accordo».
Pagai le consumazioni, abbandonai Marc Covet e il suo amico che
stavano ballando tutto quello che sapevano ballare nella sala accanto,
e uscimmo all’aria aperta. A parte le auto parcheggiate lungo il
marciapiede, rue de Ponthieu era deserta. Ma due tizi uscirono dal
vano buio di un portone e si diressero verso di noi.
«Allora, contaballe?», fece uno dei due. «Mi avevi detto di venir
fuori a vedere se c’eri, eh?».
«Non fare l’idiota, Clovis», disse l’altro. «Vacci piano».
Con uno di nome Clovis, avrei dovuto subito pensare a qualcosa
tipo vaso di Soissons 1 . Sentii un colpo violento alla base del cranio…
proprio come quello dato a Rabastens, o poco ci mancava.
Capitolo IX

I rapaci

Tornai in me in un posto che riconobbi subito: un qualsiasi ufficio


impersonale di un qualsiasi edificio a uso commerciale. Ero steso su
un parquet tirato a lucido, un po’ duro, ma le mie costole riuscivano a
reggere all’urto. Non lo stesso si poteva dire della testa. Avevo appena
aperto gli occhi, ma li richiusi gemendo. Due potenti lampade da
ufficio mi inondarono con la loro luce. Qualcuno disse, in tono cortese
e misurato:
«Si sveglia. Guarda bene come è messo, Albert».
Un uomo si chinò su di me, mi scosse per assicurarsi che non fossi
morto. Emisi un secondo gemito:
«Va meglio», fece quello che era stato incaricato di esaminarmi,
un ragazzo con poche pretese, si sarebbe detto.
«Dagli qualcosa da bere», ordinò il tizio dall’accento mondano. «E
fagli un po’ d’ombra».
Ingoiai l’acquavite offerta con tanta sollecitudine, mi misi seduto e
aprii gli occhi, questa volta sul serio. Avevano cambiato la direzione
delle lampade e acceso il lampadario. Tre personaggi mi stavano
guardando mentre riprendevo i sensi: quello che mi aveva colpito, il
suo amico e un altro. Che sembrava essere il capo. Sulla cinquantina.
Ben piazzato. Un po’ grosso di guancia e sottile di baffi. Era in
maniche di camicia, una camicia di seta di un azzurro squisito. Il
pantalone grigio sfoggiava una piega impeccabile, tagliente come un
rasoio.
L’uomo era in piedi, appoggiato a un tavolo enorme. Elegante,
molto sicuro di sé, niente a che fare con un malavitoso di periferia, ma
comunque un malavitoso. Restammo tutti per qualche istante senza
dire nulla, a squadrarci a vicenda nel silenzio dell’edificio deserto.
Istintivamente, mi portai la mano alla tasca sul petto.
«Il suo portafoglio è qui», fece l’incamiciato di seta. (Lo prese dal
tavolo, dietro di lui, e avanzò di un paio di passi per darmelo. Lo
afferrai). Proseguì: «Non è stato tolto nulla. Ma abbiamo voluto
sapere con chi avevamo a che fare. Una curiosità legittima, non le
pare?».
«Molto legittima, signor Venturi».
Sorrise.
«Non dovrebbe andare in giro a fare nomi di gente che non
conosce, signor Nestor Burma. Venturi! Cosa significa, Venturi? Sono
tornato a Parigi in incognito. Vale a dire sotto un altro nome. Gestisco
un piccolo affare che non ha più niente a che vedere con quelli del
passato. Ho solo mantenuto alcuni vecchi amici, con l’idea di
civilizzarli un po’, ma mi chiedo se ci sia riuscito. Clovis ci va sempre
giù piuttosto deciso con il manganello. Ma se lei non avesse fatto il
nome di Venturi in una conversazione dove Venturi non c’entrava,
Clovis non avrebbe cercato di saperne di più. E io nemmeno.
Questione di sputare il rospo, signor detective privato».
«Già, e una pacca sulla schiena può aiutare, eh? Ma non avrete un
po’ esagerato?», risi io.
«Un contaballe di prima scelta», disse Clovis.
«Basta così. Dai una sedia al signore, Albert», disse Venturi.
Albert, il tipo a cui Clovis non aveva dato molto ascolto quando gli
aveva detto di andarci piano, mi portò una sedia e mi aiutò a
sedermicisi sopra. Cominciai a riprendermi in fretta.
«Bisogna», articolò Venturi, «che lei mi dica perché s’immischia
nei miei affari. Dei poliziotti privati mi fido ancora meno che di quelli
ufficiali».
«Vecchio mio», dissi, «non cercherò di sembrare più astuto di
quanto non sono. Non ho alcuna intenzione di farmi gli affari suoi.
Quando quel Clovis è venuto a importunare la ragazza con cui stavo
cortesemente conversando, ho intuito subito con chi avevo a che fare e
siccome avevo sentito parlare di lei ho sparato il suo nome così, a
caso».
«Quindi, lei sapeva che sono in città. Ecco quello che proprio non
mi piace. Come l’ha saputo?».
«Da alcuni giornalisti».
«Me ne frego di loro. Sicuramente lo sanno anche gli sbirri. Ma me
ne frego anche di loro. Non sto facendo nulla, in questo momento, per
cui potrei essere perseguito, però non mi piace essere punzecchiato».
«Se lei non ha fatto nulla di reprensibile, tanto meglio per lei,
perché non tarderà ad avere gli sbirri alle calcagna, e non sto
parlando di una discreta sorveglianza».
L’elegante malfattore assunse un’aria amareggiata.
«Sporgerà denuncia? Sarebbe davvero sconsigliabile per lei,
l’avverto».
Mi misi a ridere. Era meritorio, dato il notevole mal di testa:
«Stia tranquillo. Denunciare non rientra nelle mie abitudini…
ammettendo che me ne lasci la possibilità».
«Non crederà che abbia intenzione di sopprimerla, signore?».
«Chi può saperlo? Rabastens è sicuramente passato a miglior
vita».
«Rabastens?».
«Un giornalista. Si è beccato una bella botta di manganello dietro
le orecchie ed è morto… e mi chiedo se non c’entri Clovis, data la sua
esperienza nel campo degli strumenti contundenti».
«Andiamo, andiamo, così non è serio. Clovis non è il solo a
portarsi in giro un manganello e a utilizzarlo. Perché avrei dovuto far
ammazzare quel giornalista?».
«Forse perché aveva scoperto qualcosa sulla droga».
«Droga?».
«Non vorrà dirmi che non ha mai sentito parlare di droga!».
«È da tempo che non me occupo più».
«Già. Ma se ne è occupato. Ed è per questo che avrà gli sbirri alle
calcagna, Venturi. Sono su un caso di droga e sarebbe ben strano se
non pensassero a lei».
«Ecco cosa significa avere un passato», sospirò. «Impossibile
disfarsene. Per una volta che sto tranquillo… Ma me ne frego, non ho
paura di niente io. Che lei mi creda o no, non ho nulla a che fare con
la morte di questo Rabastens, e nemmeno con questa storia di
droga… su cui le sarei grato se mi fornisse qualche informazione… a
meno che non stia bluffando».
«Non legge i giornali? Si tratta della vicenda di Plaine Monceau. Il
suicidio di Lucie Ponceau».
«Capito. È stato lei a scoprire il fattaccio, vero? Vede che leggo i
giornali? Ma non capisco perché lei la definisca una storia di droga.
Certo, capisco, la donna si è avvelenata con l’oppio… ma non è certo
una storia di droga nel senso in cui la intendo io».
«Andiamo, Venturi. Mi sta prendendo in giro? Lucie Ponceau è
morta per aver ingerito una quantità enorme di oppio. Enorme. Lucie
Ponceau non faceva uso di stupefacenti. Non avrebbe saputo come
procurarsene un solo grammo. Ma qualcuno le ha fatto avere tutto ciò
di cui aveva bisogno, e anche di più, per essere sicuro degli effetti. Ho
visto la scorta che aveva, almeno due etti e mezzo. E chi le ha fatto
quel regalo mortale aveva sia il desiderio di non lesinare per
raggiungere il proprio scopo, sia la possibilità di attingere a un grosso
stock. Conclusione: a capo di tutto questo, c’è uno spacciatore. Solo
uno spacciatore può possedere una tale quantità di droga».
«Uhm», borbottò Venturi. «Così tanta? È sicuro?». Si passò la
lingua sulle labbra. Allo stesso tempo, si perdeva nei suoi pensieri.
L’occhio divenne vago, sognatore. Anche Clovis e Albert borbottarono,
per non essere da meno del loro capo.
«L’ho visto», dissi. «E i giornali…».
«Non mi fido dei giornali. Esagerano sempre…».
«Non questa volta».
Albert imprecò.
«Manganico», disse, quasi involontariamente. Venturi lo guardò.
Albert chiuse subito il becco. A me conveniva non aver sentito.
Manganico. Quel nome non mi diceva nulla, ma poteva tornarmi
utile. Lo immagazzinai in un angolo della mia testolina dolorante e
continuai:
«Anche Florimond Faroux, il commissario incaricato
dell’inchiesta, deve aver fatto questi ragionamenti. E la terrà d’occhio,
per via della sua ex attività nel campo della droga».
«Resterà deluso. Non c’entro nulla in questo casino», ripeté
Venturi, con tono innegabilmente sincero.
«Tanto meglio per lei. Insomma, l’ho avvertita».
«Grazie della sua gentilezza», rise. «A cosa la devo?».
Gli restituii la risata: «Un po’ al suo fascino personale».
«E anche alla fifa di fare la stessa fine di quel Rabastens…».
«Per la miseria! Non si è eroi tutti i giorni».
«Lei mi fa più malvagio di quanto non sia».
«Visto che non è malvagio, vorrebbe lasciarmi andare?».
«Volentieri. Vede come sono generoso. Spero di non aver motivo di
pentirmene».
Mi alzai. Mi girava un po’ tutto in quella stanza dall’aria rarefatta,
con le finestre chiuse dietro le tende tirate, ma non più che dopo
l’assunzione di varie bevande alcoliche.
«Il modo in cui è morta Lucie Ponceau mi disgusta», dissi. «Era
una grande artista, invecchiata, depressa e che voleva farla finita con
un’esistenza a cui non credeva più, che le pesava, ma che poteva
ancora sorriderle. Il suo ultimo film ne è la prova. Io penso che si
debba tagliare la corda dell’impiccato, piuttosto che stringere il nodo.
Quel suicidio è stato aiutato, talmente aiutato che io lo chiamo un
omicidio… Non so se lei capisce questi sentimenti, Venturi».
Sorrise con un pizzico d’ironia. «Le fanno onore».
«Non avrà noie per causa mia. Ma ne avrebbe ancora meno se
questa storia fosse chiusa una volta per tutte».
«Uhm… capisco benissimo quello che vuole dire. Ma mi è difficile
indicarle una pista e per molte ragioni. La droga negli ultimi tempi
non va molto e tutti si nascondono».
«Lo so già», dissi.
«È di pubblico dominio, per questo glielo dico. Così non
comprometto nessuno. E adesso, Clovis la riaccompagnerà. Ciao,
Nestor Burma».
«Ciao, Venturi».
«Vieni, contaballe», disse Clovis.
Non erano assassini. Non quella notte, perlomeno. Solo ragazzi
prudenti. Non volevano che sapessi in che edificio mi avevano
portato. Mentre andavamo verso l’ascensore, lungo un corridoio
interminabile, buio e silenzioso, ricevetti un’altra botta sulla testa e
svenni di nuovo.

**
*

Subito pensai che quei malviventi mi avessero legato. Ero


impigliato in catene, catene enormi, come quelle a cui si attaccano le
ancore. Ma mi accorsi in fretta che invece ero io che mi ci stavo
aggrappando, al lodevole scopo di rimettermi in piedi sulle mie
gambe molli. Scavalcai le catene e mi incamminai sulla ghiaia, gli
occhi spenti, morto di fatica. Non lontano da me brillava una fiamma:
la casa di Pollicino, la casa dell’Orco, un braciere qualsiasi o un posto
di soccorso. Titubante, mi ci avvicinai. I miei passi incerti
risuonavano sulle pietre, sotto una volta sonora. Uno sbirro in
uniforme mi venne incontro.
«Qualcosa non va?», chiese.
«Devo essere stato investito da un’auto mentre attraversavo»,
dissi.
«Già. Non è che sia ubriaco? Non è un posto per gente sbronza,
questo».
Una ventata abbassò la fiamma. Ombre spettrali si agitavano. I
tratti spigolosi dello sbirro si fecero più netti, il naso diventò enorme.
«Non so», dissi, guardando la tomba del Milite Ignoto come se la
vedessi per la prima volta. «No, non sono ubriaco. Solo stordito».
«Ha i documenti?».
Glieli porsi. Li scorse e annuì con il capo.
«Uhm… detective privato… uhm… Abita lontano?».
«Cosmopolitan».
«Dovrebbe rientrare. È in grado?».
«È tutta discesa».

**
*

Una volta nel mio appartamento, mi medicai la testa, poi presi il


telefono e pregai il centralinista di chiamarmi un albergo di rue
d’Amsterdam, il Dieppois o Dieppe, non ricordavo più bene. Dopo un
momento, una voce assonnata annunciò:
«Hotel Dieppois».
«Sono Nestor Burma, del Cosmopolitan. Alloggia da voi una
giovane di nome Micheline? Non so il cognome… vorrei parlarle».
«Un istante».
Una breve attesa, poi:
«Signor Burma, signore?».
«Buonasera, piccola, volevo sapere se stava bene».
«E a lei che…».
«Sto benissimo. Me la cavo sempre in questo tipo di situazioni.
Volevo sapere… ha avvertito la polizia?».
«Sì. Sa, quando ho visto come si mettevano le cose… Ho trovato un
agente a Saint-Philippe-du-Roule. Ma siamo tornati insieme in rue de
Ponthieu, non c’era più nessuno. L’agente ha pensato che mi
prendessi gioco di lui e mi ha consigliato di smetterla, che tanto
valeva che raccontassi di aver perso una collana di perle».
«Ha pronunciato il mio nome?».
«Forse. Non lo so. Non dovevo?».
«Non importa. Buonanotte, Micheline».
«Buonanotte, signore».
Riattaccai, mi cambiai le bende e cercai di riflettere:
«È da lì che avrei dovuto cominciare», borbottai riprendendo in
mano il telefono.
Feci chiedere il numero di Reboul, il mio fedele ausiliario mutilato
dell’agenzia Fiat Lux. Era in vacanza, come il resto della cricca, ma
anche lui amava troppo Parigi per non essere rimasto nella capitale.
Poco dopo mi giunse la sua voce:
«Ha bisogno di me, capo? Ho visto i giornali… Mi creda! Mi
aspettavo una sua telefonata!».
«C’è un caos spaventoso intorno a questa storia, sembra che in
tutta Parigi non ci sia più un grammo di droga. Eppure Lucie Ponceau
ne aveva più di due etti. Se ha ancora degli amici a Pigalle, non è che
le andrebbe di tastare un po’ il terreno?…». (Gli parlai di Venturi).
Poi: «Hanno fatto un nome, davanti a me. Manganico. È strano, ma è
un nome che mi è quasi familiare. All’inizio ho pensato di averlo
sentito per la prima volta, ma adesso mi chiedo… Dev’essere la testa
che mi gioca qualche brutto scherzo».
«Manganico?», fece Reboul. «Legge i giornali?».
«Certo. Non faccio che aumentare la loro tiratura».
«Allora è lì che ha letto il suo nome. Manganico è un trafficante
internazionale, collega di Venturi! Un italiano che è appena stato
arrestato alla frontiera… sul nostro versante».
«Non l’ho letto sul giornale», dissi. «Me ne ricorderei e non
sapevo nulla di questo arresto. Comunque… la cosa si spiegherà al
momento giusto. Nel frattempo, conto su di lei per avere qualche
informazione».
«Farò il necessario».
Riattaccai, mi svestii e andai a letto. Il mal di testa mi fece
dormire male. Per non farmi mancare proprio nulla, mi offrii il lusso
di occupare i momenti di insonnia a riflettere.
Lucie Ponceau ne aveva abbastanza della vita e, invece di
confortarla, un mascalzone l’aveva incoraggiata nel suo progetto e le
aveva fornito il veleno necessario. Quale mascalzone? Non ne avevo
idea. Perché? Mistero. Ma il tizio doveva essere uno spacciatore.
Primo: perché non aveva badato a spese. Secondo: la morte di
Rabastens. Rabastens aveva scoperto un segreto che riguardava quel
suicidio aiutato… Preparazione o esecuzione… Allora? Se la persona
che aveva fornito il veleno a Lucie Ponceau era un criminale
occasionale, di certo non gli piaceva l’idea di essere scoperto, ma non
avrebbe aggravato la sua posizione uccidendo il testimone. Tutto
cambiava se avevamo a che fare con un criminale di professione per il
quale uccidere era un riflesso incondizionato per proteggersi,
soprattutto se doveva nascondere altre cose, oltre alla sua condotta
con Lucie Ponceau, cosa che poteva anche essere possibile. Diciamo
quindi uno spacciatore, per non cercare più lontano. D’accordo,
Nestor?
«Il colpevole», mi risposi, «potrebbe quindi essere un amico
dell’attrice – per il movente: vendetta o altro – o un ex amico e uno
spacciatore di droga».
«Sì».
«Così torna tutto?».
«Non a prima vista».
«Allora, dormi».
«Ci provo».
Capitolo X

La borsetta delle sorprese

Alle otto del mattino ero in piedi, un po’ confuso. Ma non lo sarei
stato di meno se fossi rimasto steso. Feci un bagno e chiesi che mi
portassero aspirine, caffè e acqua minerale, senza dimenticare i
giornali, quelli del giorno, del giorno prima e del giorno prima
ancora. In uno di questi scoprii il trafiletto che riportava l’arresto del
signor Manganico… Enrico Manganico. Non mi disse più di quanto
già non sapessi. Manganico!… Enrico Manganico!… Manganico
Enrico!… Ripetei quel nome che continuava a risvegliare in me strane
risonanze. Più continuavo, più mi sembrava familiare, non c’erano
altre parole. Era sicuramente dovuto ai colpi di manganello di Clovis,
un fenomeno di memoria istantanea… a meno che, semplicemente,
non mi ricordasse, per assonanza, il nome di Silvana Mangano,
l’attrice italiana che faceva vedere le sue belle curve in Riso amaro…
Mi occupavo di cinema, non bisognava dimenticarlo… Interruppe le
mie riflessioni l’impiegato della reception, tramite il telefono. Di sotto
c’era una certa Micheline Colladant che voleva vedermi.
«La faccia salire», dissi.
Aveva abbandonato l’uniforme da pin-up brevettata. Niente più
scollatura alla Berthe. Niente petto provocante. Appena quello che
serviva per attirare l’attenzione, ma senza nulla di aggressivo. Un filo
di trucco. Con la gonna leggera, di buon taglio, pudica per lunghezza
e colore, il portamento riservato, brava una giovane di buona famiglia
in visita per le feste… una giovane di buona famiglia cui però forse
non sarebbe stato il caso di affidare i cuginetti, a guardarla meglio.
«La disturbo, signore?», chiese.
«Niente affatto. Qual buon vento la porta qui?».
«Io… ero preoccupata. Volevo… assicurarmi che non le fosse
capitato nulla di brutto…».
«Credevo di averla rassicurata al telefono».
«Naturalmente, ma… dopotutto, è a causa mia se quegli uomini…
Le hanno fatto male?».
«Non è nulla. Un po’ di caffè?». Chiamai per farmi portare altre
bevande calde.
«Ancora nessuna notizia di Monique», disse Micheline
appoggiando la tazza.
«Nemmeno a me ne sono arrivate», sorrisi. «Lei crede che siccome
sono un detective…».
«Non è questo…». (S’interruppe e, imbarazzata, cominciò a
tracciarsi cerchi immaginari sul ginocchio con la punta del dito. Per
via di quel movimento, la gonna salì un poco, ma non sembrava un
gesto intenzionale). «Cercava Monique per darle un lavoro», si decise
infine a dire. «In mancanza di Monique, qualcuna che le assomigli…
moralmente… e lei ha pensato che io non fossi adatta… invece sono
proprio come lei!».
Me lo disse con un tono di sfida. Le lanciai uno sguardo
addolorato. Lei lo afferrò al volo:
«La deludo, vero, signor Nestor Burma?».
Alzai le spalle.
«Non ho un’opinione in merito», borbottai, burbero.
Oh! Se ce l’avevo, invece. E per nulla lusinghiera. Ma com’era
possibile! Erano tutte uguali? Questa era forse un po’ meno puttana
di Monique… ma cosa non erano disposte a fare per avvicinare Tony
Charente, la gloria dello schermo? Rimasi disgustato da me stesso per
aver pensato a un piano simile, esigendo la partecipazione speciale di
una starlette arrivista. Quando penso che avevo borghesemente
consigliato a Monique di scegliersi un fidanzato meccanico! I
meccanici… All’improvviso scoppiai a ridere e mi sentii meglio.
«Cosa c’è di divertente?», fece Micheline corrugando il naso.
«Niente. Del resto non è questo che mi fa ridere».
Adesso sapevo dove avevo sentito il nome di Manganico. O
pensato di sentirlo. Nessun rapporto con il tizio attualmente dietro le
sbarre o la scultorea protagonista di Riso amaro. Di tutte le frasi
scambiate con Monique, la più strampalata – rivolta a una ragazza di
quello stampo – mi era rimasta confusamente nella memoria, proprio
per via della sua enormità: la parola «meccanico» che avevamo
ripetuto, io per raccomandarne l’impiego, per così dire, lei per
respingerlo con disprezzo. Non c’era altra spiegazione a
quell’ossessione. Fantastico! Se il detective d’assalto iniziava a
impappinarsi così, era proprio pronto per la pensione. L’unica pretesa
possibile. Certo, avevo diritto a qualche attenuante, per via dei colpi
di Clovis… Liberato dalla mia ossessione, tornai a Micheline:
«Allora, vuole candidarsi?».
«Sì».
«Mi chiedo…».
Nel salone entrarono due tipi senza bussare né essersi fatti
annunciare dalla reception, due facce brutte quanto l’entrata del
commissariato: Florimond Faroux e uno dei suoi sbirri.
«Oh! Salve», dissi. «Eccovi qua! Si direbbe che siate della polizia».
«C’è poco da scherzare, Nestor Burma», fece il commissario. «Del
resto, si vede benissimo dalla faccia che non ne ha alcuna voglia.
Sembra stanco».
«Lo sono. E non è…».
«Basta così», tagliò corto lui sollevando una mano. Squadrò
Micheline con significativa insistenza.
«Non sia maleducato», dissi io.
«Non lo sia nemmeno lei e ci presenti».
«Micheline Colladant», borbottai. «Soddisfatto?».
Sul viso del commissario si contrasse un muscolo. «Micheline
Colladant? Benedetto Nestor Burma! Cosa fa nella vita, signorina
Colladant?».
«Artista», dissi io.
«Qualcuno le ha chiesto qualcosa?», ruggì. «Ne ho le scatole piene
degli artisti». (Si girò verso la pin-up)… «Può mostrarmi i
documenti?».
«Cosa significa? Andiamo bene!».
«Di bene in meglio, purtroppo. Può mostrarmi i documenti?»,
ripeté «Ho il diritto di chiederli. Nestor Burma non ha terminato le
presentazioni: sono commissario di polizia».
«Sì, signore», sussurrò Micheline, un po’ spaventata.
«Non abbia paura», intervenni. «Non morde».
«E nemmeno ingoio rospi».
Afferrò la carta d’identità che la ragazza gli porgeva dopo averla
tirata fuori dalla sua minuscola borsetta. La esaminò e la restituì alla
proprietaria.
«Dove abita?».
«Hotel Dieppois, rue d’Amsterdam».
«Buffo, eh, Fabre?», fece Faroux rivolgendosi all’ispettore.
«Sì», annuì l’altro, lugubre.
«Si può sapere…», azzardai io.
L’uomo della Tour Pointue mi fissò.
«Quando è troppo è troppo», disse.
«Sono d’accordo», risi io.
«Parlo di lei. È lei che esagera. 324-AB-75, le dice qualcosa? 324-
AB-75».
Dal tono con cui pronunciava il numero, non si trattava
sicuramente di quello che aveva vinto il primo premio alla lotteria.
«324-AB-75?», dissi.
«Sì».
«Merda! È la targa della mia auto».
«E dov’è la sua auto?».
«Non lontano dal Berkeley. Da ieri sera».
«Errore, vecchio mio. È nel deposito della polizia».
«Nel deposito? Allora continuate? Operazione Gru. Operazione
Farfalla. Op… per Dio! Non mi dica… non mi dica che mi hanno
rubato l’auto e l’hanno usata per rapinare una banca. Sarebbe il
colmo».
«Sì, una rapina in banca aggiungerebbe un tocco al quadretto»,
fece lui, sarcastico. «Ma ancora non ci siamo. Nell’attesa, andiamo a
dare un’occhiata alla macchina. Tutti insieme».
Uscimmo dal Cosmopolitan da una porta sul retro. Una Renault
della prefettura ci aspettava a pochi metri di distanza. Ci salimmo.
L’auto partì.
«Sembra che abbia un bernoccolo alla base del cranio», osservò
Faroux.
«Ho sbattuto contro una porta».
«Camminava all’indietro?».
«Possibile».
«Comincia a darmi sui nervi, Nestor Burma! Mai che faccia una
cosa come gli altri. Quando una donna si suicida, si trova al suo
capezzale; quando un giovane si fa ammazzare, fa di tutto perché sia
una sua conoscenza da bar; quando rubano un’auto, ci mette la
propria… Glielo ripeto: quando è troppo, è troppo».
«È lei che esagera», risposi.
E a quel punto chiudemmo tutti il becco. Micheline cominciava a
pentirsi di avermi fatto visita. Le accarezzai la mano.
Al deposito erano una mezza dozzina a darsi da fare attorno a una
macchina: la mia.
«Allora?», fece Faroux. «Nessun errore, eh? È questa?».
«Sì», risposi. «Ma non aveva quell’ammaccatura sul parafango».
«Effetto di uno scontro».
«Posso chiederle come è finita qui?».
«L’hanno trovata, lungo cours la Reine. Un piccolo problemino al
motore».
«Un piccolo problemino? Vuole dire completamente andata?».
«No. Assolutamente no».
«Meno male. Quando posso riprendermela?».
«Quando avremo finito…». (Si rivolse ai ragazzi che circondavano
l’auto). «Avete preso tutte le impronte?».
«Sì, capo», fece uno dei ragazzi. «Ma non so se servirà a qualcosa.
Ce ne sono tantissime e…».
«Vedremo… E adesso, Nestor Burma, se vuole seguirmi…».
Risalimmo sull’auto ufficiale. Nel frattempo, l’ispettore Fabre e
Micheline erano scomparsi. Chiesi di loro.
«Li vedremo dopo», disse il commissario.
«Dove stiamo andando?».
Non rispose. Corrugai la fronte. E la corrugai ancora di più quando
ci fermammo davanti… all’obitorio, tutto risplendente sotto il sole
caldo di giugno. Ma non dissi nulla. Non so cosa avrei potuto dire.
Sempre in silenzio, eccetto per il rumore dei nostri tacchi sulle
piastrelle splendenti, arrivammo al frigo.
«Il 15», disse Faroux a un impiegato in casacca grigia e volto dello
stesso colore.
L’altro si mise a frugare nei suoi macabri cassetti. Faroux disse:
«Ecco perché credo che stia esagerando, Nestor Burma. Per quello
che conteneva il baule della sua auto».

**
*

Era nuda. Era sempre nuda! Il corpo non aveva più quella delicata
sfumatura color ambra, così calda, ed era sgradevolmente bianco. I
seni, sodi e pieni, sembravano volersi ancora alzare, in un ultimo
sussulto d’orgoglio. La capigliatura castano rossiccio, in disordine, le
nascondeva una parte di viso, poc’anzi così grazioso, sfrontato,
provocante; un bel musetto che era ormai contratto in una smorfia di
terrore, incredulità e dolore e sul quale stava sbiadendo il trucco,
livido e respingente. Nel collo si vedeva un maledetto piccolo orifizio.
Buco minuscolo da cui era fuggita la vita di questo magnifico animale
da piacere. Accidente che aperitivo, Faroux!
«Per Dio!», esclamai. «Monique!».
«Sì. Monique Grangeon», disse il commissario. «Alloggiata
all’hotel Dieppois. Dove sta anche la sua amica, artista come lei.
Micheline Colladant, con la quale lei sembra avere rapporti piuttosto
stretti…». (Indicò il corpo con un improvviso movimento del mento).
«La conosceva bene?».
«L’ho vista una volta».
«La gente che lei frequenta solo accidentalmente non ha fortuna, è
il minimo che si possa dire. Insomma… può richiudere, Alfred. Venga,
Nestor Burma. Andiamo in commissariato».
Lo seguii titubante. Mi sembrava di lasciarmi dietro un odore di
cadavere. Come il giorno prima.

**
*

Florimond Faroux si mise comodo sulla sedia, dietro la scrivania


ingombra di cartacce. Sospirò, si slacciò il bottone del colletto, si
allentò la cravatta e cominciò ad asciugarsi metodicamente nuca,
collo, mento e fronte. Anch’io sudavo. Per il caldo e per altre cose. Ma
non avevo la forza di asciugarmi. Lasciai che le gocce scivolassero in
rivoli lungo il volto e mi bagnassero la camicia. Il commissario si rullò
una sigaretta e l’accese:
«Non fuma?», chiese.
«Ho più voglia di vomitare», confessai.
«Una pipa forse può farle bene».
«Merda. Lasci perdere. Che ne avete fatto di Micheline?».
«È qui. Era un’amica della morta, non lo dimentichi. Ho bisogno
della sua testimonianza… come ho bisogno della sua…». (Si alzò e
andò a sedersi davanti a me, su un angolo del tavolo). «Non la
sospetto di aver ucciso la ragazza che abbiamo visto nel frigo… Nel
frigo!…». (Sospirò, levò gli occhi al cielo e riprese ad asciugarsi). «Ma,
per la miseria! Ammetterà che questo è un mondo… Lei raccoglie
l’ultimo respiro di un’attrice che si suicida con l’oppio; uno dei suoi
amici si fa ammazzare; la sua macchina funge da carro funebre a una
ragazza di cui lei conosce perlomeno il nome, una ragazza che ha
un’amica tra i suoi conoscenti, questa Micheline, che abbiamo trovato
nella sua stanza e dalla quale abbiamo saputo che lei è stato
malmenato da un gruppo di sconosciuti… Sì, questa Micheline ha
avvisato un agente e ha fatto il suo nome… Vediamo, caro il mio
vecchio Burma, qual è il suo ruolo in questa vicenda?».
«Nessuno. Al momento ho un cliente, ma non c’entra. Comunque,
tanto vale che gliene parli. Si chiama Montferrier…».
Gli raccontai i timori del produttore e perché dovevo sorvegliare
Tony Charente. Gli dissi anche del piano che avevo in mente per
l’attore.
«Il suo piano è un’idea», commentò Faroux. «Ma un’idea da
sbirro. Sinceramente non credo che potrebbe portarla lontano. E
quindi, chiaramente, aveva bisogno di una pin-up?».
«Sì, personalmente avrei qualche difficoltà a farmi passare per
Martine Carol, anche di schiena. Molto meglio per me, del resto».
«Sì, quindi ha pensato a questa Monique. Perché?».
«Perché aveva tutte le qualità richieste dal ruolo. Abbastanza
stupida da non capire nulla di ciò che avrebbe visto o sentito, ma in
grado tuttavia di ripetermelo, e abbastanza facile per diventare
l’amante di Tony Charente nei dieci minuti successivi al loro
incontro».
«Non le sembra di esagerare?».
«Se l’avesse conosciuta in una situazione diversa da quella del suo
numero da Folies-Bergère per necrofili, non avrebbe dubbi».
«A proposito, come l’ha conosciuta?».
«Tre giorni fa. Nella mia stanza. Lei… ci dormiva. Alcuni cineasti
– ce ne sono parecchi al Cosmopolitan – avevano affittato il dancing
e organizzato una festicciola. Forse ha voluto riposarsi un po’, si è
sbagliata stanza o si è infilata nella prima aperta… Era un po’
ubriaca, capisce?».
«Nella sua stanza?…». (Mi lanciò uno sguardo salace). «Proprio
fortunato, lei!».
«Incredibilmente fortunato. Vedo una volta questa ragazza per
cinque minuti e la ritrovo cadavere nella mia auto. Non so se sia una
fortuna di buona qualità, ma di certo è eccezionale».
«Torniamo ai nostri polli. Allora, ieri lei cercava Monique per
presentarla a Tony Charente?».
«Sì…». (Raccontai le mosse di Marc Covet, l’appuntamento al
dancing l’Éléphant, il mio incontro con Micheline, quello che mi
aveva detto sulla fuga di Monique, la nostra uscita in rue de
Ponthieu). «A quel punto sono stato aggredito da due tizi».
«Che genere di tizi?».
«Glielo dirò dopo. Mi hanno dato una botta in testa, mi hanno
rapito come se fossi un ricco ereditiere.. ecco perché, quando è
arrivato sul posto lo sbirro avvisato da Micheline, non c’era più
nessuno… e mi hanno portato a parlare con il loro capo. Mi sono
ritrovato, non so quanto tempo dopo, impigliato nelle catene che
circondano l’Are de Triomphe, verosimilmente buttato fuori da
un’auto in corsa. Potrà verificarlo. La mia presenza vicino al Milite
Ignoto è apparsa sospetta a uno degli uomini di guardia, che mi ha
chiesto i documenti».
«Uhm…», fece Faroux. «Che genere di tizi? Che capo?».
«Credo che resterà a bocca aperta», dissi. «Ho promesso di non
denunciarli. Ho promesso anche, più o meno implicitamente, che non
ne avrei fatto cenno alla polizia, ma la morte di quella ragazza cambia
le cose. A parte i colpi di manganello, il mio incontro con quei signori
è stato piuttosto cordiale. Troppo cordiale, a ben pensarci. Mentre
chiacchieravamo, cosa gli impediva di giocarmi un brutto tiro?
Ammettendo che siano stati loro a far fuori Monique… Sembra che
uno dei due le facesse il filo – immagino facilmente a che scopo… – e
che sapessero – l’ho detto a Micheline e loro possono aver sentito la
nostra conversazione – che la mia auto era parcheggiata davanti al
Berkeley. Così, mentre il capo mi tiene occupato, gli altri mi rubano
l’auto, infilano il corpo nel bagagliaio…».
«Per l’ultima volta», gridò Faroux assestando un pugno sul tavolo.
«Che tizi e che capo?».
«Venturi e la sua cricca».
«Venturi?».
Il commissario si incupì.
«Truffatore, per non dire di peggio, internazionale. Alloggiato da
un paio di mesi in un edificio sugli Champs-Élysées. Mi scusi se le
insegno il mestiere, Florimond».
«Non mi sta dicendo nulla di nuovo. Abbiamo l’occhio clinico…».
(Sospirò). «L’occhio! Oh, merda! Venturi si è dato una calmata.
Uccidere non è più il suo genere di cose, ma forse su quel versante c’è
qualcosa da scoprire, perché…». (Fece una pausa). «Lui e i suoi amici
se la sono filata questa mattina. Li pedinavamo, ma devono aver eluso
la sorveglianza, non so. Insomma, se la sono filata…». (Batté di nuovo
il pugno sul tavolo e vomitò delle imprecazioni). «Per Dio! Se mai… ci
sarà qualcuno che si beccherà una lavata di capo».
Aspettai che si calmasse, poi chiesi informazioni sull’omicidio di
Monique.
«Colpo di pistola», disse. «Alla nuca».
«Avete trovato il proiettile?».
«Uscito sotto l’osso mascellare».
«È morta da molto?».
«A prima vista no. Ieri, forse. Con questo caldo e dallo stato del
corpo non è possibile che sia stata uccisa prima».
«Ha qualche ipotesi? A parte quella che consisterebbe
nell’implicarmi, naturalmente!».
Ignorò il sarcasmo:
«Un’ipotesi? Dove vuole che vada a pescarla? Tutto quello che so è
che questa mattina la sua auto è stata trovata abbandonata in cours
la Reine con quella passeggera nel baule. E tutto ciò che riesco a
immaginare sono dei tizi – uomini di Venturi o altri – che ieri
l’hanno ammazzata, hanno cercato di sbarazzarsi del corpo, hanno
utilizzato la sua auto, perché è il suo destino essere sempre
immischiato in storie del genere, e contavano di buttare il corpo nella
Senna, però hanno avuto un guasto al motore che li ha obbligati ad
abbandonare il piano… Ed è la sola certezza che abbiamo», sospirò.
«Guidano da cani, come testimonia il paraurti ammaccato, e non
sono grandi meccanici. La riparazione non richiedeva particolari
abilità…».

**
*

Pensai con amara ironia alle ultime parole di Monique, quando


l’avevo buttata fuori dalla mia stanza: «Ci vediamo presto, appena
avrò trovato il meccanico». Alla fine ne aveva trovati di davvero
scarsi!
«Abbiamo identificato subito la vittima», continuò Florimond
Faroux. «Era schedata. Una sciocchezza di gioventù, anzi, si potrebbe
dire da adolescente. Abbiamo scoperto subito dove alloggiava.
All’hotel Dieppois la padrona ci ha detto che la sua affittuaria non si
vedeva da due giorni, ma le capitava spesso di dormire fuori. Ci ha
indirizzati verso un’amica della morta. La Micheline che ho ritrovato
da lei, al Cosmopolitan, quando sono venuto a chiederle spiegazioni a
proposito della sua auto…».
«Già. E nel baule, lei… era nuda?».
«No. Vuole vedere i vestiti? A noi non hanno detto nulla, ma
magari… Quattro occhi sono meglio di due, e due occhi nuovi…».
(Bussò sulla parete divisoria. Uno dei suoi subordinati apparve sulla
soglia). «Gli abiti della rossa, André. Fabre sta interrogando la sua
amica?».
«Ha appena finito».
«Qualcosa di interessante?».
«No».
«Portami anche la sua deposizione».
Lo sbirro scomparve e tornò con un pacco sotto il braccio e un
foglio battuto a macchina in mano. Lo vidi a disagio mentre sfilava le
scarpe col tacco alto, le calze di nylon, ancora fissate reggicalze, una
cintura elastica nera dal fermaglio dorato, la gonna ampia e leggera,
il corpetto scollato, con una sospetta macina scura nella O del nome
ricamato. Si sentiva ancora il profumo di cui il tutto era stato
impregnato. La borsetta in tinta con la gonna conteneva un rossetto,
due fazzoletti di seta, uno malva e l‘altro giallo, un portacipria. Niente
chiavi, niente carta d’identità, niente soldi. E, nel mucchio, niente
reggiseno, niente…
«Niente slip?», chiesi.
«Niente slip. Forse era più pratico».
«La prego. Nessuna violenza particolare?».
«No… Allora?».
«Allora, niente. Sono proprio gli abiti che le ho visto addosso
quand’era viva. L’esame scientifico?».
«Zero…». (Legò di nuovo il pacco alla meno peggio, lo appoggiò su
una sedia e scorse molto rapidamente la deposizione: Micheline).
«Zero, anche qui», brontolò. «A meno che non insista su un tizio che
faceva il cascamorto con Monique, lo stesso che ha attaccato briga con
lei… Per la miseria! La cricca di Venturi! Anche se ammazzare non
rientra nel loro stile, chiaramente questa partenza improvvisa…». Mi
guardò.
«Non sono in grado di dirle altro», feci. «Cosa farà di Micheline?».
«Cosa vuole che ne faccia? Può portarla a pranzo, se desidera… A
me non interessa! Lucie Ponceau, Rabastens, Monique Grangeon…
Dev’essere tutto collegato, Burma».
«Lo credo anch’io. A proposito di Rabastens, novità?».
«Niente. Eccetto che secondo il medico legale è possibile che abbia
ricevuto il colpo mortale molto dopo una prima botta, che l’avrebbe
invece solo stordito… e che sarebbe morto, di lì a qualche ora, proprio
quando è morta Lucie Ponceau».
«Ah, ah!».
«Ho detto anch’io la stessa cosa».
«È chiaramente insufficiente come deduzione. E su Lucie Ponceau
stessa?».
«Nemmeno lì ci sono novità… Mi dica, quel Tony Charente è stato
suo amante, vero? La foto era nell’album… l’album di famiglia,
potremmo dire. E da quello che mi dice lei, in passato, si drogava,
giusto? Uhm… uhm…».
«Senta, Faroux. Io sono pagato per sorvegliare Tony Charente
e…».
«E io sono pagato per sorvegliare tutti», guaì, «e quando mi ci
metto non sono affatto pigro. Me ne frego dei suoi discorsi e dei suoi
clienti. Farò quello che devo fare».
«La prego», dissi, «non faccia così. Penseranno che le ho dato un
morso».
Poco dopo lasciai il Quai des Orfèvres con Micheline. La povera
ragazza era a pezzi e mi ci volle del bello e del buono per strappare un
sorriso alle sue labbra rosse. Andammo a pranzo insieme, poi tornai
al Cosmopolitan, annientato, distrutto, barcollante. Camminando
urtai alcuni passanti tra la gente a passeggio per gli Champs-Élysées,
feci fuggire i piccioni che non riuscivo nemmeno a vedere e diedi a
tutti, bestie e persone, l’impressione che fossi completamente ubriaco.
«Non ci sono per nessuno», dissi al portiere, cortese, freddo e
compassato. «Per nessuno, capito? Eccetto per un tizio di nome
Reboul, mutilato ma non maldestro».
Entrai nella stanza, mi buttai sul letto vestito e mi addormentai
all’istante.

**
*

Mi svegliò la suoneria del telefono. Aprii gli occhi nel buio.


Consultai il quadrante luminoso del mio orologio. Le dieci e qualcosa.
Sollevai la cornetta.
«Il signor Reboul, signore».
«Lo faccia salire».
«Al telefono, signore».
«Ah! Va bene».
«Sono Reboul», disse Reboul. «Sono con un tizio che ha qualche
informazione. Possiamo venire da lei?».
«Se il suo tizio non è conciato troppo da barbone, sì. Il personale
del Cosmopolitan finirà per guardarmi male se continuo ricevere
gente di ogni tipo. Sbirri, malfattori…».
«L’italiano è un tizio sempre in giacca e cravatta. Una volta lo
chiamavano Mandolino-in-ghingheri. Se ne intuisce ancora motivo».
«Allora vi aspetto».
M’infilai una giacca da camera, riempii una pipa e andai ad
aspettarli nel salone, dopo aver dato istruzioni alla reception. Dieci
minuti dopo, annunciarono il loro arrivo. Mandolino-in-ghingheri
non era in effetti del tutto sgangherato, ma l’abito blu scuro
cominciava a risentire degli effetti del tempo. Si guardò intorno con
aria da intenditore:
«Una volta abitavo in un posto simile, a Milano», disse. Si sedette,
e guardandomi: «Non sono una spia. Tutto quello che le racconterò è
già a conoscenza degli sbirri o è apparso sui giornali. Andando a
consultare la collezione di “Detective” o di altri giornali potrebbe
scoprire le stesse cose. Io le farò solo risparmiare tempo, un servizio
che credo valga qualche biglietto da mille e, onestamente, non mi
dispiace l’idea di riceverli da uno sbirro privato».
«Vada», dissi. «Ecco…».
Quando Mandolino-in-ghingheri se ne andò, carico di un po’ di
soldi e sempre fiancheggiato dal mio mutilato, avevo scoperto quanto
segue (e mi ritornava anche in mente che, all’epoca dei fatti, mi erano
giunte eco frammentate sull’uno o l’altro avvenimento): era poco più
di un anno che le bande della droga erano state decimate in
circostanze drammatiche. Tre bande associate, quella di Lucas, quella
di Grodubois e quella di Verbrouck, avevano uno stock di morfina,
coca, eroina e oppio, il più importante stock mai registrato dagli
annali del traffico di roba. Valutato diverse centinaia di milioni, era
depositato in una villa della periferia parigina e tenuto d’occhio da
veri duri. Ma quei duri, un bel giorno, avevano ricevuto la visita di
altri duri che erano ancora più duri di loro e li avevano ammazzati,
prima di rubare lo stock. Non si sapeva chi aveva fatto il colpo. Ma
circolava una voce tra la teppaglia: il capo degli sconosciuti forse era
un tizio di nome Jerome Blanchard, anche lui improvvisamente
scomparso dalla circolazione. Quel Blanchard non era mai stato
rivisto da allora, e nemmeno la roba. Il furto, intanto, aveva scatenato
una vera e propria guerra tra le bande associate, divenute
all’improvviso rivali, che si accusavano l’un l’altra del colpo. Da allora,
il traffico non aveva mai ripreso su così ampia scala. Era possibile che
Venturi fosse stato affiliato alla gang Grodubois. Mandolino-in-
ghingheri non lo sapeva… o non lo voleva dire. Quanto a Manganico,
aveva stretto rapporti “commerciali” con tutti questi gruppi, senza un
particolare attaccamento a qualcuno.
Mandolino-in-ghingheri mi aveva lealmente avvertito. Non era
una spia. Tutto questo era stato registrato, schedato e raccontato in
lungo e in largo sui giornali, man mano che gli avvenimenti si
succedevano. Mi aveva semplicemente fatto guadagnare tempo,
ammettendo che ci fosse qualcosa d’interessante per me in tutta
quella storia.
Me lo chiedevo.
Capitolo XI

Niente vacanze per Nestor

Mi alzai alle undici, l’indomani mattina. Il sole brillava che era


una meraviglia. Dopo che Reboul e il suo informatore se n’erano
andati, ero tornato a letto mantenendo l’isolamento. Avvertii la
reception che continuavo a non esserci per nessuno. Il portiere mi
disse che aveva telefonato il signor Marc Covet. Risposi che non ne
ero sorpreso. E anche il signor Tony Charente, appena cinque minuti
prima. Ah! Sì? Tony Charente? Per lui ormai non potevo più fare
granché. Non potevo impedire a Florimond Faroux di andare a fargli
qualche domanda. A proposito di Faroux, chiamai il Quai des
Orfèvres:
«Niente di nuovo?», chiesi.
«Niente di nuovo».
«E la mia auto?».
«La teniamo noi ancora per un po’».
«Le impronte hanno dato risultati?».
«Le stanno esaminando».
Riattaccai, poi risollevai la cornetta e chiesi la comunicazione con
la Residenza Montferrier. Il cameriere mi passò Tony Charente.
«Ah! Nestor Burma? Benedetto Nestor Burma!», fece l’attore. «Ho
chiamato…».
«Lo so. Stavo per l’appunto venendo da lei. Capita a proposito».
«Venga quando vuole», rise lui. «Faremo un triangolare».
«Un cosa?».
«La sua segretaria è già qui».
«La mia segretaria? Hélène?».
«No, direi che si chiama Micheline».
«Ah!… ah! Sì, certo. A tra poco».
Lasciai il Cosmopolitan da una porta di servizio per evitare Marc
Covet, nel caso mi aspettasse nella hall. Andai in rue Chateaubriand a
noleggiare un’auto senza autista in un garage specializzato e mi
diressi verso Neuilly.

**
*

«Per fortuna mi aveva detto che sarebbe stato franco con me», fu il
benvenuto che ricevetti da Tony Charente.
«Non mi sgridi», gli consigliai. «Sembra molto nervoso».
«Lo sono. Ha bisogno di spiegazioni?».
«No. Dov’è la mia… segretaria?».
«Nel bungalow. Intatta. Mi sarebbe bastato soffiare per farle
volare via gli abiti, ma non l’ho fatto. Ormai so come vanno queste
cose…». (Bene. L’avevo sottovalutato. A te, Nestor).
«Sembra che abbia dimenticato la pipa…».
Mi avviai verso il bungalow. Micheline era seduta sul divano, che
giocava con il cane del guitto. Era chinata in avanti e una scollatura
da capogiro lasciava vedere più di quanto non avrebbe fatto un
costume da bagno.
«Buongiorno», dissi.
«Buongiorno, signore».
«Ci vuole lasciare un istante soli? Vada a passeggiare dalle parti
della piscina con quel cane e cerchi di annegarlo…».
Lei uscì. Tony Charente abbozzò un sorriso:
«Ebbene!», fece. «Astuto il famoso Nestor Burma! Credevo che la
storia della sorveglianza fosse una finta. L’aveva detto lei stesso. E poi
mi manda una spia. Classico, a parte che di solito le spie sono bionde
e la sua è mora».
«È fatto apposta, per camuffarla meglio. Quanto all’essere franchi,
mi chiedo invece cosa dovrei dire io. Mi ha praticamente raccontato la
storia della sua vita, ma ha dimenticato di dire che era stato l’amante
di Lucie Ponceau».
«Cosa gliene può fregare?».
«Niente. Ma lei, che capisce così in fretta, cerchi di capire anche
questo: gli sbirri spulciano tra le relazioni presenti e passate della
vecchia attrice…».
«Perché? Non è un suicidio?».
«Sì, ma un suicidio particolare. Verranno da lei, con il loro passo
da elefante, perché hanno trovato una sua foto, con tanto di dedica
che non lascia alcun dubbio, sui rapporti che intratteneva con Lucie
Ponceau, non so in che periodo…».
«Tanto tempo fa».
«Tanto o poco, non importa. Sanno anche che, in passato, lei si
drogava. Faccia lei i conti. Non è un’operazione molto difficile».
Si sedette, improvvisamente affranto.
«Merda!», imprecò. «Ma cosa ho fatto di male al Buon Dio? Oh! E
dopotutto, merda! Che vengano, gli sbirri, e che mi arrestino, al
diavolo Montferrier. Se resterà solo quella suonata di Denise Falaise a
salvare il suo film, gli starà proprio bene…».
Imprecò ancora un paio di volte. Ben presto ci saremmo stati
dentro fino al collo.
«Non cerchi di mescolare le carte infilando Denise Falaise in una
storia in cui non c’entra nulla», dissi. «Non vorrà dirmi che fa parte
della produzione?».
«Quasi. Lei che sa tante cose, si è fatto sfuggire questa? Stanno
cercando di rifilarmela. Ha infinocchiato Montferrier, che è ripartito
per la Costa Azzurra portandosela dietro come bagaglio extra. E non
avrò la fortuna che l’aereo precipiti…».
«Pensavo fosse sotto contratto con Laumier. Del resto sta girando
con lui in questo momento».
«Montferrier pagherà la penale. Non è la prima volta che fa una
cosa del genere. E Laumier, che è al verde, sarà contentissimo di avere
la grana. Così, quando avrà finito il film di cui parlava lei adesso, me
la ritroverò io. Una simile stronza! Invidiosa e tutto. E le assicuro che
so di cosa parlo! Sembra che si senta l’animo da grande artista. Ma
non mi faccia ridere. Una grande artista! Da quando?».
«Da sempre, pare».
«Ah, sì? L’ha sentito dire anche lei? Non lo ha mai dimostrato,
però».
Ricominciava a mescolare le carte. Lo interruppi:
«Per tornare a lei, non capisco perché nascondere la sua relazione
con Lucie Ponceau. Se ne vergognava?».
«Certo che no! Non si può che provare orgoglio per aver avuto
come amante una donna di quel genere, una grande attrice, perché lei
sì che lo era, una grande attrice…».
«Allora?».
«Non avevo alcun motivo di dirglielo. E poi, per la miseria!, si
metta al mio posto. La morte di Lucie è stato un brutto colpo, ma non
volevo esserci coinvolto. Da tempo ho recuperato le mie lettere e le
mie foto… evidentemente ne ho dimenticata una. No, ne ero fuori e
volevo restarci, per via delle particolari circostanze del suicidio e delle
mie vecchi abitudini… che riprenderò. Per Dio! Se è l’unico modo per
far ragionare Montferrier.
«Non faccia questa sciocchezza».
«Stavo scherzando. Beviamo qualcosa?».
«Volentieri».
Andò a cercare in frigorifero.
«Chiamiamo la sua spia a bere con noi?».
«Non è una spia. Micheline è una di quelle ragazze che sognano di
fare del cinema e di avvicinare star come lei. Sapeva che io la
conoscevo e si è servita del mio nome per incontrarla… Non gliene
voglia e se anzi un giorno potesse fare qualcosa per lei… Non è affatto
sciocca…».
Non fece né sì né no e riempì i bicchieri.
«Comunque, non avrà più nulla da temere», proseguii. «Lascio
perdere. Restituirò a Montferrier i suoi soldi…».
Non potevo fare altrimenti, dopo aver detto tutto a Faroux.
«Montferrier diventerà pazzo», rise Tony Charente. «Già mi vedrà
strafatto di droga tutti i giorni e si sentirà impotente a evitare la
catastrofe. La mia vendetta inizia con le sue buone parole, Nestor
Burma!».
«Proprio non le va giù che vogliano affiancarle Denise Falaise,
eh?».
«È una rompiscatole. E poi, nelle scene in cui lei si sveste, l’uomo
finisce sempre in secondo piano! A nessuno spettatore è mai
interessato sapere il nome del coprotagonista maschile dei suoi film.
Le sue forme invadono lo schermo».
«È per questo? Buffo! Ma… sembra che si svesta sempre meno».
«Così dicono. Nell’ultimo film, per esempio, e in quello che sta
girando ora. Doveva preparare il terreno ai grandi ruoli vestiti a cui
aspira… Alla sua, Burma, e grazie della sua decisione. Quando
Montferrier verrà a saperlo, sarà talmente preoccupato della mia sorte
che lascerà perdere Denise per correre qui. Quella è capace di farsi
venire un’altra crisi depressiva».
«Le capita spesso?».
«Le è capitato. Sempre per invidia. Era gennaio. Il 12, per la
precisione. Mi ricordo la data perché il giorno prima era stato
presentato Cette nuit sera la mienne, un film in cui aveva trionfato
Paulette Poitou, una ragazza che ha fatto la gavetta contando solo
sulla forza del proprio talento e senza far vedere un centimetro di
pelle. Era più di quanto Denise potesse sopportare. Si è ammalata. E
il rapporto causa-effetto tra la sua depressione e il successo
dell’attrice sconosciuta era talmente lampante che hanno preferito far
passare tutto sotto silenzio. Si poteva ricavarne un po’ di pubblicità,
ma l’origine della malattia era così meschina che poteva rivoltarglisi
contro. Allora, tutti zitti. Denise è andata a farsi curare non si sa
dove».
«E dopo ha girato Mon coeur vole, il film alla nuova maniera?».
«Sì. Uno schifo. Ma una volta presi dalle manie di grandezza…
Adesso, quell’idiota vuole recitare con me, in una produzione
Montferrier. Ci sarà da ridere».
«Bene. Si diverta. Le affido Micheline ancora per qualche istante,
il tempo di andare a licenziarmi dalla signorina Annie».

**
*

Davanti alla scalinata dai gradini glauchi, era parcheggiata una


Cadillac. Salii le scale. Il cameriere albino, quando mi aprì, mi
riconobbe e mi salutò. Gli dissi che volevo vedere la signorina Annie.
Era occupata. Se volevo attendere… Aspettai nella hall buia e fresca,
in poltrona. Undici minuti. Dopo dieci minuti mi passò davanti un
tizio accompagnato dal cameriere. Un tipo di mezza età, ben vestito,
grasso, il volto contrariato, l’aria di uno che stava rimuginando, come
un uomo d’affari. Il cameriere lo accompagnò fuori. Sentii la Cadillac
che si metteva in moto. Un minuto dopo Firmin era ai miei ordini, o
io ai suoi, con quei tipi lì non si sa mai bene. Mi fece entrare
nell’ufficio della segretaria del signor Montferrier. La signorina Annie
indossava un tailleur chiaro, era truccata in modo molto gradevole e
fumava con un bocchino di quindici centimetri. Modello pin-up
competente. E aveva il volto contrariato.
«Buongiorno, signor Burma», disse lei con voce un po’ secca. «Un
rapporto?».
«Nix. Lascio perdere. Se vuole essere così gentile da informare il
signor Montferrier che la cifra a cui ammontava l’assegno è a sua
disposizione. E aggiunga anche, per tranquillizzarlo, che non credo
che Tony Charente farà qualche sciocchezza».
«Nessun’altra spiegazione?».
«Conosco le mie possibilità meglio di chiunque altro».
«Perfetto. Io…». (Parve venirle un’idea). «Signor Nestor Burma…
che ne dice se invece di accettare la restituzione del suo assegno,
gliene offrissi un altro?».
«Rifiuterei».
«Non si tratta più di Tony, signore. Vede, il signor Montferrier si
fida ciecamente di me. Ho il permesso di prendere iniziative e credo
proprio che in questo caso sia necessario. Ha visto la persona che è
appena uscita di qui?».
«Sì».
«Adrien Froment. È un uomo d’affari incaricato degli interessi –
presumo innanzitutto i suoi – del signor Borel, uno scienziato che ha
inventato un procedimento particolare per le riprese. Diciamo che si
tratta di un effetto tridimensionale, grossomodo. Noi abbiamo
un’opzione, ma quel tizio non mi sembra del tutto schietto. Capita che
gente disonesta venda più volte la stessa merce a persone diverse. Mi
chiedo se quel signor Froment non stia combinando qualcosa del
genere, ma prima di informarne il signor Montferrier vorrei esserne
certa. Diversi mesi fa, abbiamo ottenuto un’opzione e l’abbiamo
pagata in contati e adesso quell’invenzione, su cui si basa tutto il film
che stiamo preparando, ci appartiene e abbiamo i mezzi per andare in
tribunale e vincere il processo, se fosse necessario. Ma sono soluzioni
sempre molto estreme. Ora, quel tipo pare voglia praticare una specie
di ricatto: dopo aver perso una grossa cifra al Circolo Vernet, è venuto
da me a chiedermi una somma astronomica che nulla ci obbliga a
versare e che io naturalmente ho rifiutato di dargli. A quel punto mi
ha fatto capire che altre persone potevano essere interessate alla sua
proposta. Non sono stati fatti nomi, ma sembra che abbia sottomano
qualcuno. Se ne vuole occupare, signor Nestor Burma? Si tratta di
identificare i produttori con i quali Froment è entrato in contatto. Li
avvertiremo del pericolo, per limitare i danni».
Nell’entourage di Montferrier sapevano come combattere la
disoccupazione. Appena si lasciava un lavoro, eccone un altro subito
pronto.
«Accetto», dissi dopo un momento di riflessione.
«Perfetto…». (Compilò un assegno e me lo diede). «Froment.
Adrien Froment. Vive in rue Jean-Goujon», disse
riaccompagnandomi. Aggiunse: «Va in giro a bordo di una Cadillac
nera, targata 980-BC-75».
«Complimenti, signorina. Non le sfugge alcun dettaglio».
Sorrise. Un vero sorriso da star, ampio come un ombrello e
scoppiettante come una cartuccia di dinamite:
«Abbiamo prodotto talmente tanti film polizieschi», disse, come
per giustificarsi.
Capitolo XII

Il malocchio

Andai a salutare Tony Charente, che stava ascoltando dei dischi


insieme a Micheline, entrambi seduti sul divano. Non restava che
lasciarli fare amicizia. Recuperai la mia auto a noleggio e tornai al
Cosmopolitan.
Davanti al palazzo era parcheggiata un’auto che attirò il mio
sguardo. Una Cadillac nera, targata 980-BC-75. In quel momento, il
signor Adrien Froment, con l’aria di uno che continuava a rimuginare
un bel po’ di cose, attraversò il corridoio, salì sull’auto e partì a tutto
gas, spaventando i piccioni. Per un momento mi sfiorò il pensiero che
fosse venuto a incaricare proprio me, che ero pagato per smascherare
le sue tortuose manovre, di un’inchiesta sulle possibilità finanziarie
dei produttori che potevano essere interessati all’invenzione dello
scienziato da lui rappresentato. Era un’idiozia, ma con questa gente
del cinema o simili bisogna aspettarsi di tutto. Entrai nell’hotel.
«Nessuno ha chiesto di me?», domandai al tizio della reception.
«No, signore».
«Pensavo che il signore appena uscito… devo averlo confuso con
qualcun altro».
«Credo anch’io, signore».
Presi l’ascensore. L’addetto, appena salimmo di un piano, disse:
«I detective privati non fanno mai domande senza motivo, lo so
perché ho letto tanti polizieschi».
«Complimenti per la scelta», feci. «E allora?».
«Il tizio che è appena uscito voleva vedere Laumier lo spilorcio. Le
interessa?».
«Non lo so. Però la ringrazio».
«Non c’è di che. C’è rimasto male per non averlo trovato. Laumier
è in viaggio. Ha mantenuto l’appartamento, ma non ci dorme da ieri.
Sembra che debba tornare, a me però non la dà a bere. Ho letto
troppo libri. È un modo per evitare le mance. Spedirà quanto deve in
assegno e per noi non ci sarà un soldo. È già capitato».
Eravamo arrivati. Entrai nella mia stanza. Accidenti! Se ne
andavano tutti, ognuno a suo modo. Denise in aereo, Laumier non so
come – probabilmente all’inseguimento della sua infedele prima
donna -, Rabastens con il cranio spaccato e Monique nel bagagliaio di
un’auto… Adrien Froment, lui, chissà dove pensava di poter andare.
Se credeva di poter vendere anche solo un quarto della sua mercanzia
scientifica a Laumier, si sbagliava. A meno che Laumier non fosse
meno al verde di quanto si dicesse in giro. Eh! Per la miseria! Adesso
ricordavo. Laumier mi aveva detto qualcosa sul fatto che presto per lui
sarebbero cambiate le cose. Era buffo. Mentre Laumier cercava di
togliere a Montferrier i diritti che aveva sull’invenzione del professor
Borel, Montferrier gli soffiava Denise. Forse uno sceneggiatore ci
avrebbe tirato fuori una trama da avanspettacolo.
Nel frattempo, la signorina Annie mi aveva pagato per sondare le
intenzioni di Adrien Froment. La cosa migliore era liquidare il tutto il
più rapidamente possibile facendogli una visitina.

**
*

Quel Froment doveva avere delle anguille tra i suoi avi. Non aveva
pari per scivolare tra le dita. Bastava che mi annunciassi in un posto
perché lui sentisse il bisogno di sloggiare sotto i miei occhi. Quando
arrivai in vista del suo domicilio, in rue Jean-Goujon, non lontano
dalla cappella edificata sul luogo occupato dal celebre Bazar della
Carità, si rimise al volante della Cadillac e partì immediatamente. Lo
seguii senza esitare. In ogni caso, mi avrebbe portato da qualche
parte.
Mi portò a Neuilly. Per un momento pensai che stesse tornando
dalla signorina Annie, ma non era così. Prese avenue de Madrid,
boulevard Richard-Wallace – l’uomo che ha lo stesso nome di alcune
fontane -, entrò nel Bois de Boulogne, ne riuscì. Perbacco! Se era in
cerca di una mezz’ora di soddisfazione a basso prezzo, io stavo
perdendo il mio tempo! Alla fine, giunto dalle parti di porte de
Bagatelle, si fermò davanti a una piccola proprietà di lusso con un
grande giardino. Lo vidi scendere dall’auto e suonare al cancello.
Dopo un istante, vennero ad aprirgli e lui e la sua Cadillac
scomparvero dal mio campo visivo.
Rimisi in moto l’auto, passai davanti alla proprietà in questione,
mi fermai un po’ più lontano e tornai sui miei passi, da vero amante
delle passeggiate solitarie. Secondo la targa di rame, fissata a uno dei
pali dell’ingresso, il posto si chiamava Les Pins Parasols. In effetti,
dall’altra parte del cancello erano piantati due grandi pini. Non c’era
alcun nome del proprietario o altro. In fondo a un sentiero cementato
vidi una casa dalle forme eleganti. La Cadillac di Froment era
parcheggiata lì davanti. Non un bipede all’orizzonte. Dal Bois de
Boulogne uscì una farfalla gialla, volteggiò fino a metà del viale, poi,
spaventata da due auto che procedevano spedite, tornò ai suoi
cespugli.
All’improvviso, scoppi di risa turbarono la pace di quel pomeriggio
umido. Sembravano ragazzine a cui stessero facendo il solletico.
Prurito o meno, quella manifestazione di allegria proveniva da una
villa vicina ai Pins Parasols. O perlomeno lo supponevo. Nessuno in
vista, nemmeno lì. Feci qualche altro passo verso un cantiere in
costruzione poco distante. Tra una sorsata e l’altra dalla bottiglia di
vino rosso, un ragazzo impastava del gesso. Lo guardai fare. L’operaio
interruppe il proprio lavoro per guardarmi a sua volta. Nelle
vicinanze, le risa, che si erano placate, ripresero più forti che mai.
Dissi: «C’è chi non si annoia».
«Basta avere soldi e compagnia», fece il tipo.
«Comunista, amico?».
«Accidenti, no. Non da quando quei riccastri del cinema hanno
preso la tessera del Partito, in ogni caso».
«Sono riccastri del cinema?».
«Non so. Ma più in là c’è una che ha fatto dei film: Denise Falaise.
Non l’ho mai vista, ma sembra che ci tenga molto all’abbronzatura!
Allora le altre stanno a spiarla ed è per questo che ridono. Non è che
anche lei è venuto qui per dare un’occhiata e magari sta pensando di
salire sull’impalcatura, per caso? Qualche giorno fa, ho cacciato via
due tizi… Lo dico per avvisarla: a me queste cose non vanno proprio
giù!».
«Più virtuoso di Robespierre», dissi.
«Virtù o non virtù», rispose, «nel cantiere non si può entrare».
Mi distrasse il rumore di un motore. Sempre con il suo modo da
anguilla, Adrien Froment si apprestava a sloggiare. Un uomo, in piedi
vicino al marciapiede, con l’aria di aggrapparsi alla portiera della
Cadillac come un ubriacone al bancone di un bistrot, lo salutava.
Quell’uomo era Laumier.
La Cadillac si diresse verso la Senna. Laumier rientrò ai Pins
Parasols. Io tornai alla mia auto, mi accomodai sul sedile rovente e
rimasi lì, più inattivo di un salame, con la pipa in bocca. Alcune
mosche ronzavano pesanti nell’aria che vibrava per il calore. Nella
villa in cui ci si divertiva, le ragazze a cui facevano il solletico
continuavano a emettere gridolini e ridere come matte. Vediamo…
Denise Falaise viveva ai Pins Parasols. Era partita insieme a
Montferrier alla volta della Costa Azzurra e Laumier aveva preso il
suo posto qui, forse perché l’arredo ispirava più familiarità di una
camera d’albergo, per quanto di lusso, se si avevano affari da
trattare… Che sottile ragionamento, Nestor Burma! Un vero colpo di
genio, hai una carriera davanti a te. Ma attenzione a non buscarti una
meningite con tutto questo spremerti la testa. Meglio rientrare al
Cosmopolitan a bere qualcosa di fresco. Allungai la mano verso il
cambio. Una voce disse:
«Oh!… oh! Ma è il signor Nestor Burma!… Che sorpresa, signore».
Lo era anche per me. Era Jean, il tirapiedi-factotum di Laumier,
che portava a passeggio un cane. Non lo avevo visto avvicinarsi.
Abbozzai un sorriso tirato. Non ero contento della situazione.
«Lei capita a fagiolo per trarmi d’impaccio», dissi. (Era
esattamente il contrario). «Volevo vedere il signor Laumier e mi
chiedevo… è possibile incontrarlo?».
«Direi di sì, signore».
«Ha lasciato il Cosmopolitan…» (assenso con la testa del
tirapiedi) «e ho saputo agli studi che non girava…» (nuovo assenso,
comprensivo e tutto) «e… insomma, sono detective…» (sorriso idiota
da parte mia) «mi sono procurato l’indirizzo del suo rifugio… volevo
vederlo, ecco tutto!».
Altro assenso accompagnato da un movimento della testa:
«Certo signore. Entra con la sua auto o vuole lasciarla qui?».
«Entrerei con l’auto».
«In questo caso, vado ad aprirle il cancello e ad avvertire il signor
Laumier della sua visita».
Facendo manovra, pensai più velocemente che potei. Avevo fornito
una giustificazione plausibile della mia presenza nella zona. Vedere il
suo capo. Ma, adesso, cosa avrei raccontato a Laumier? Impossibile
affrontare la storia del tridimensionale. All’improvviso ebbi un’idea.
Una trovata che avrebbe sistemato tutto. Agli occhi di Laumier la mia
reputazione ne avrebbe sofferto, ma degli occhi di Laumier me ne
fregavo…
…Del resto, a cosa potevano servirgli? Erano distratti, annebbiati.
Ci misero un bel po’ di tempo a mettermi a fuoco. Spaparanzato su
una poltrona del grazioso soggiorno, con il sigaro in bocca, la mano
pelosa alla portata di un vassoio ricolmo di tutto ciò che serviva per
ritrovarsi in balia di un pesante mal di testa il giorno dopo, Laumier
covava un principio di sbronza che chiedeva solo di crescere:
«E allora?», abbaiò. «È un amico di Montferrier, mi ha detto. È
stato lui a mandarla?».
«No. Del resto non è un mio amico. Lo conosco appena. Come
conosco lei. È tutto».
«È uno stronzo».
Prese una bottiglia, si versò da bere senza invitarmi a fargli
compagnia. «Possibile».
«Glielo deve dire. Voglio che glielo dica».
A quel punto, dalle vetrate aperte ci arrivarono grida e risate.
«Senti quei cretini», disse il produttore. «Si vede che hanno la
pappa pronta. Sa cosa cercano di fare? Tra un po’ entreranno
direttamente in casa. Guardano da sopra i muri. Cercano Denise
Falaise. Ma possono cercare quanto vogliono. Me l’hanno portata via,
Denise. Oh! Ma non finirà così! Per Dio! Non la rinchiuderanno
mica».
«Si faccia valere», suggerii. «È il solo modo».
Mi lanciò un’occhiata torva e sputò un insulto. Nessun dubbio, era
rivolto a me. Era un buon pretesto per congedarmi:
«Tornerò quando sarà più socievole», dissi.
«Resti», berciò lui. «E mi dica cos’è venuto a fare qui, visto che
non viene da parte di Montferrier…».
E mi lanciò un’altra ingiuria. Ah! Era così, eh? Ebbene…
«Mi ascolti attentamente», dissi. «Ne vale la pena. L’altro giorno
le ho mentito. Lavoro effettivamente per conto della signora Rolande
Laumier».
«Cosa?».
Mollò tutto. Il sigaro che aveva in bocca e il bicchiere in mano.
Fece un balzo sulla poltrona. Se alle mie spalle ci fosse stato uno
spettro che gli faceva le boccacce non avrebbe sortito lo stesso effetto.
«Sì», proseguii io. «Ma si può trovare qualche scappatoia».
Mi guardò, era tornato quasi sobrio.
«Qualche scappatoia», ripresi. «Non so se capisce cosa intendo…».
«Niente da fare. Non me la bevo».
«D’accordo. In questo caso, non ho più nulla da fare qui».
«Un momento!», guaì.
Il suo sguardo, che si perdeva oltre la finestra, tornò su di me.
«Jean!».
L’uomo di fiducia apparve immediatamente.
«Porti un’altra bottiglia. Credo che il signor Nestor Burma…».
«Niente da fare», feci io a mia volta. «Lei ha detto no. È no. Non
sono un venditore di tappeti. Non voglio perdere tempo a
mercanteggiare».
Mi si offriva l’occasione di filarmela, di tirarmi fuori da quella
situazione spinosa e ridicola. Girai i tacchi e uscii dal soggiorno.
Dietro di me sentii Laumier scoppiare in una risata da ubriaco e bere
dalla bottiglia, o qualcosa del genere. Jean mi seguì senza dire una
parola. Mi aprì il cancello e io mi apprestai a superarlo:
«Arrivederci», dissi.
I suoi occhi erano fissi sui giovani abitanti della casa vicina, gli
allegri ridanciani che vedevamo su una terrazza:
«Marie-Chantal e compagnia», disse lui. «Pigri, parassiti e
guardoni».
Virtuoso anche il tirapiedi. Virtuoso e puritano. C’era proprio di
tutto tra la gente del cinema!

**
*

Ripresi la direzione di Parigi. Adrien Froment forse non mi


sarebbe più scivolato tra le dita. Se era rientrato a casa… Decisi di
andare a dare un’occhiata nei dintorni del suo domicilio. Ma, prima di
raggiungere rue Jean-Goujon, mi fermai davanti a un bistrot di cui
utilizzai la cabina telefonica per chiamare la Residenza Montferrier.
«Già un risultato?», esclamò la signorina Annie, senza nascondere
la propria ammirazione.
La torre campanaria avrebbe ben presto suonato le sei. Erano
appena tre quarti d’ora che mi aveva mandato a caccia. Davo l’idea di
essere piuttosto rapido.
«Non lo so», dissi. «Ho appena visto Laumier, il produttore. Il
capo di Denise Falaise. È furioso per il brutto tiro che Montferrier gli
ha giocato».
«Ah! Ne è al corrente?».
«Sì. È furibondo e non mi stupirei se stesse pensando a qualcosa
per rendere pan per focaccia a Montferrier».
La signorina Annie rise. Una risata priva di qualsiasi volgarità, ma
comunque una risata.
«Davvero? Mi chiedo proprio come!».
«Ha appena incontrato Adrien Froment».
Mi sembrò di vederla sussultare sulla sedia. Gridò, sorpresa:
«Cosa? Froment… Laumier… Ma è impossibile! Laumier non ha
un soldo».
«Così dicono. Io credo piuttosto che sia spilorcio, il che non è la
stessa cosa».
«No, no, no. È al verde. Lo sanno tutti. E un affare come questo,
soprattutto con il signor Montferrier proprietario di un’opzione, è un
giro di milioni…».
«Eppure li trova per fare i suoi film».
«Non c’è paragone… Laumier!…». (La sentii distintamente
tamburellare le dita sulla scrivania). «È l’ultimo a cui avrei pensato. A
meno che… delle due cose l’una, signor Burma: o Laumier ha
intenzione di truffare Froment – cosa che sarebbe piuttosto buffa e
non troppo pericolosa per noi – oppure è l’uomo di paglia – scelto
precisamente perché, data la sua mancanza di denaro, non si
potrebbe sospettarlo di volerci mettere i bastoni tra le ruote -; l’uomo
di paglia, dicevo, il rappresentante di un gruppo… Consideri bene
questa possibilità, signor Nestor Burma».
«Farò del mio meglio, signorina. Un’altra cosa… Laumier e Denise
Falaise… amanti?».
«Non saprei dire. È possibile. Non lo so. La vita sentimentale di
quel signore è avvolta nel mistero».
«Sì, da quel punto di vista, è piuttosto svitato».

**
*

Andai al bancone a bere il bicchiere che avevo ordinato. Sì,


piuttosto svitato, quel Laumier. Temeva davvero sua moglie o se ne
fregava? Sembrava avere ogni giorno un atteggiamento diverso.
Dopotutto non doveva averne tanta paura e non era poi così avvolto
nel mistero. Andare a stare nella casa di Denise Falaise – in sua
assenza, questo è vero – poteva costituire un’arma solida e legittima.
A meno che anche quest’ultima fosse assente. Eravamo in periodo di
vacanze. Laumier… Laumier… Si verificava con lui lo stesso fenomeno
rincretinente che si era prodotto con Enrico Manganico. Il suo nome
– la sua persona – mi sembrava legata a un dettaglio, ma fugace,
confuso e smarrito… Era strano. Era soprattutto un modo per
ribeccarmi un gran mal di testa, ed era meglio trattarla con un po’ di
riguardo la mia testa, soprattutto dopo l’incontro con Clovis. Lasciai
perdere e andai in rue Jean-Goujon.

**
*

Adrien Froment era in casa. A destra di un cortile pieno di alberi,


che si estendeva fino ad avenue Montaigne, l’uomo occupava il
pianoterra di un edificio che doveva essere stato trasformato da sede
d’ambasciata a edificio residenziale dai duri tempi che correvano.
Senza fare alcuna difficoltà, una specie di governante mi accompagnò
dall’uomo d’affari, in una sala. Giocherellando con il biglietto da
visita che gli avevo fatto avere dalla donna, Adrien Froment mi
squadrò con attenzione e sempre con l’aria di rimuginare qualcosa,
anzi parecchie cose!
«Signor Nestor Burma?», disse.
«Sì, signore».
«Detective privato?».
«Sì, signore».
«Ho letto il suo nome sui giornali», fece lui, con prudenza.
«È possibile».
«E a cosa devo l’onore?».
«Un detective privato, signore, si occupa di varie cose.
Pedinamenti, informazioni, divorzi…».
«Non sono sposato», tagliò corto lui. «Ecco perché…» (consultò il
suo lussuoso orologio da polso) «il mio tempo è prezioso. Andiamo al
sodo, signore».
«…divorzi, contatti, transazioni, negoziazioni», continuai a
elencare, calcando sull’ultima parola. «Mi sembra di capire che lei
rappresenta gli interessi del professor Borel, inventore di un
procedimento di ripresa con effetto tridimensionale?».
Lo sguardo s’illuminò per un breve istante:
«Sono il suo rappresentante», disse dopo aver riflettuto.
«OK. Io sono incaricato da un gruppo molto potente di aprire una
trattativa per questa invenzione».
«Quale gruppo?».
La rapidità con cui si gettò sull’osso mi fece perlomeno capire una
cosa: non aveva di certo concluso l’affare con Laumier. Dissi:
«Dovrà rassegnarsi a non conoscere il nome di quei signori, per il
momento. Vorrei sapere se è disposto a esaminare la nostra offerta».
«Non a queste condizioni…» (riprese il controllo di sé con la stessa
rapidità con cui l’aveva perduto) «non finché non saprò chi la
manda».
«Per il momento, sono tenuto alla massima discrezione, glielo
ripeto».
«Allora, mi voglia scusare. Torni… quando non sarà più necessario
l’anonimato».
«Benissimo. Le assicuro che sta perdendo un’occasione a non
volermi ascoltare».
Mi avviai verso l’uscita. Lentamente. Molto lentamente. Poteva
ripensarci. Ci ripensò. Mi accompagnò fino alla porta e, senza aprirla,
appoggiò la mano sul pomo, sbarrandomi la strada:
«Un solo nome», disse. «Perché possa farmi un’idea».
Scossi il capo:
«Impossibile dirle chi fa parte del gruppo, all’ingrosso o al
dettaglio. Ma posso dirle chi non ne fa parte. Laumier».
Storse il naso:
«Senti, senti! Lei è al corrente?».
«Di tutto. Giochiamo a carte scoperte, signor Froment. Sappiamo
che ha concesso un’opzione alle Productions Montferrier, ma il
gruppo che rappresento è sufficientemente potente per fregarsene di
Montferrier e pagare più di Montferrier per realizzare il film prima di
Montferrier. E se, a un certo punto, si andasse in tribunale, ce la
caveremo. Come chiederemo a lei di cavarsela da solo se Montferrier
dovesse sollevare qualche problema nei suoi riguardi, cosa non
soltanto possibile, ma certa».
Scoppiò a ridere. Una grassa risata da truffatore in carne e ben
sicuro di se stesso.
«Stia tranquillo», disse. «So sempre cavarmela. E non temo le
trappole… Nel caso me ne stia tendendo una… cosa anche questa
possibile».
«Ma non perda il suo tempo, visto che è prezioso», proseguii io
come se non avessi sentito. «Laumier è al verde. La prenderà in giro
e, nel frattempo, a lei passeranno sotto il naso le buone occasioni.
Senta, sono sicuro che le ha promesso una grossa cifra e che il giorno
della scadenza non ha pagato, perché il film che sta girando adesso
gli costa caro e i creditori che gli dovevano dei soldi hanno tardato e
che quindi è necessario rinviare… e, di rinvio in rinvio, lei resterà a
becco asciutto».
Quel possibile comportamento di Laumier quadrava con il
Personaggio, ma io non avevo alcuna certezza in merito. Adrien
Froment non disse nulla. Lessi però nel suo sguardo che avevo fatto
centro. Non era una rivelazione sensazionale. Ciononostante era una
conferma della mia idea – che Laumier si muoveva solo – e di quella
della signorina Annie – con pochissimi mezzi. La signorina Annie
sarebbe stata felice di saperlo. Finché ci fosse stato solo Laumier a
tentare di neutralizzare Montferrier, quest’ultimo non avrebbe avuto
nulla da temere.
«A becco asciutto», ripetei, davanti al silenzio del truffatore. «Ci
pensi».
«Buona idea», approvò lui. «Mi dispiacerebbe fare la figura del
pollo con gli uni o con gli altri. E le sue parole danno da riflettere, ne
converrà, che le si prenda in un senso o nell’altro. Quindi…».
Questa volta mi aprì la porta. Gli dissi che poteva telefonarmi al
Cosmopolitan, quando avesse riflettuto, e me ne andai.

**
*

Dalla cabina telefonica di Chez Francis, in place de l’Alma,


chiamai la Residenza Montferrier. La signorina Annie non avrebbe
potuto dire di aver buttato via i propri soldi, sebbene avessi calato le
brache sulla prima missione affidatami dal suo capo:
«Visto Froment», dissi. «Nessun pericolo serio in vista. Lui e
Laumier non arriveranno mai a nulla. Laumier agisce da solo, non ha
soldi e prende tempo con Froment. Per limitare i rischi, mi sono
presentato come delegato di un gruppo che poteva far concorrenza a
Montferrier. È apparso interessato, ma diffidente, come è normale. Mi
terrò in contatto».
«Perfetto», disse lei. «Ma non trascuri Laumier».
«Credo che non ci sia più nulla da temere da lui».
«Non lo so. Dopo la nostra conversazione ci ho riflettuto. Mi sono
tornate in mente certe cose sul suo conto. Ha il malocchio».
Non protestai, rispettando la superstizione che negli ambienti
dello spettacolo è particolarmente diffusa. Pensai solo che, in tal caso,
sarebbe stato più opportuno rivolgersi a un esorcista piuttosto che a
un poliziotto privato. La signorina Annie continuò:
«L’idea che un concorrente, un collega, che dispone di capitali,
voglia portare via, in modo disonesto, i diritti che il signor
Montferrier ha acquisito su questo nuovo metodo di ripresa non mi
provoca la stessa sgradevole sensazione che provo a vedere quel morto
di fame di Laumier che mette gli occhi sull’invenzione».
«Per via del malocchio?».
«Esattamente. E non lo consideri un timore ridicolo, la prego»,
aggiunse lei seccamente.
«Non si preoccupi. Ha qualche prova che avvalli questo timore?».
«Non ho bisogno di prove, so quello che sento. E sono contrariata
dal fatto che il signor Montferrier si sia improvvisamente infatuato di
quella smorfiosa di Denise Falaise e che abbia voluto portarla via a
Laumier. Laumier cercherà di nuocerci. Con il suo comportamento, il
signor Montferrier se l’è definitivamente inimicato. E la cosa non mi
piace, perché Laumier è vendicativo e…».
«E ha il malocchio».
«Ride?».
Non ebbi il tempo di rispondere. Continuò: «Le dicevo che mi
erano tornati in mente alcuni dettagli. Ha mai sentito parlare di
Pierre Lunel?».
«Pierre Lunel?».
Quanto ancora doveva durare quella fantasmagoria di nomi? Era
possibile che, ogni volta che ne sentivo pronunciare uno, i miei sensi
si allertavano, la mente si tendeva, come se dietro quel nome e
l’essere che lo portava ci fosse qualcosa di strano da cogliere?
Manganico… Laumier… Adesso, Pierre Lunel…
«…Vagamente».
«Era un attore. L’ha sicuramente visto recitare. Circa due anni fa
doveva firmare con Laumier. L’affare non è mai stato concluso, perché
Pierre Lunel ha preferito impegnarsi con un altro produttore,
mandando Laumier su tutte le furie. E così Laumier giurò che la cosa
non avrebbe portato bene a nessuno e, neanche a farlo apposta, Pierre
Lunel era un drogato, un drogato guarito, ma…».
«Sì, sì. Ora ricordo, Montferrier mi ha raccontato la storia. Questo
Lunel è ricaduto nel vizio, con più foga di prima, e il film, che era
stato iniziato, non è mai stato finito o è stato finito male e ci hanno
rimesso tutti un sacco di soldi».
«Esattamente».
«E lei teme che Laumier…».
«Ci vedo una dimostrazione del suo malocchio…».
Malocchio? Direi occhio per occhio!
«Ecco perché ritengo utile che lei continui a sorvegliarlo».
«Benissimo. Farò il possibile».
Uscii dalla cabina telefonica madido di sudore. Tornai al
Cosmopolitan e chiesi se, oltre all’elenco telefonico e all’annuario
delle celebrità, non avessero anche il dizionario biografico del cinema.
Ce l’avevano. In caso contrario ne sarei rima sto molto sorpreso.
Cercai in quel libro la voce dedicata a Jacques Dorly, il regista,
annotai i numeri di telefono accanto al suo nome e indirizzo e tornai
alla cornetta. Non trovai Jacques Dorly, ma un’indicazione sul posto
dove avevo la possibilità di trovarlo, verso le nove di sera: il Fouquet’s.
Bene. Approfittai ancora del libro per vedere cosa c’era scritto su
Laumier. Non molto e, in ogni caso, nulla che già non sapessi eccetto
che, in aggiunta ai domicili che già conoscevo (e che non erano
menzionati), vale a dire il Cosmopolitan e i Pins Parasols, il grosso
produttore ne aveva un altro, oltre alla sede della sua ditta. Domicilio
probabilmente coniugale, che doveva aver lasciato alla moglie al
momento della separazione, situato in rue de Moscou. Decisi di
andare a dare un’occhiata, giusto per rendermi conto se la signora
Laumier era o meno una megera.
Un buco nell’acqua. Mi ero preparato tutta una serie di domande
per far parlare la portinaia, ma non mi furono di alcuna utilità.
L’elenco che avevo consultato non era aggiornato. Il signore e la
signora Laumier avevano effettivamente abitato lì, ma si erano
trasferiti da quasi due anni, mi spiegò la comare.
«Lei per caso non ha il nuovo indirizzo?», chiesi.
«L’avevo. Per far arrivare loro la posta, capisce? E devo avercelo
ancora. Ma dovrei cercare tra le mie carte… E dopo due anni…».
Le feci scivolare in mano una banconota.
«Nel caso lo ritrovasse… mi chiamo Burma. Sto al Cosmopolitan,
Champs-Élysées. Grazie in anticipo».
«Grazie a lei. Ci guarderò… ma non le prometto nulla, signore».
«Staremo a vedere. Mi dica, come andava il matrimonio?».
«Come tutti i matrimoni».
«Vale a dire?».
«Litigavano spesso».

**
*

La terrazza del Fouquet’s era strapiena di avventori che si


godevano il caldo davanti a bicchieri appannati pieni di liquidi
multicolori. M’infilai tra i tavoli, sfiorando qualche celebrità della
settima arte: Jacqueline Pierreux, Annette Poivre, Yves Deniaud ecc.
Un cameriere mi indicò gentilmente dove si trovava Jacques Dorly tra
quella folla: all’estremità della terrazza, verso avenue George V, in
compagnia di due signori e di Sophie Desmarets. L’affascinante
ragazza dell’ex direttore del Vél d’Hiv’ stava sicuramente
impreziosendo la conversazione con una delle sue divertenti battute,
perché tutti al suo tavolo stavano ridendo.
«Mi scusi, signor Dorly», dissi.
Mi guardò.
«Ci siamo già incontrati», aggiunsi.
Già rideva molto meno degli altri. All’improvviso smise anche di
sorridere:
«Certo, come posso dimenticarlo», sospirò. «Cosa…».
«Potrei parlarle per un paio di minuti?».
Si alzò, si scusò con i presenti e mi portò sulla strada. «Sì?».
«Vorrei farle qualche domanda», dissi. «A cui lei non è in alcun
modo tenuto a rispondere. Non sono uno sbirro ufficiale…».
«Uhm… perché, gli sbirri ufficiali…». (Corrugò la fronte). «Quindi
ci sono complicazioni?».
«Non proprio. Posso farle le mie domande?».
«D’accordo».
«La signorina Ponceau non lavorava più da anni, quando lei le ha
offerto un ruolo nel suo film. Questo lo so. Ma non era stata
interpellata anche da altri produttori prima di firmare per Le pain
jeté aux oiseaux?».
«Nessuno pensava a Lucie. Sono stato l’unico ad avere l’idea di
riportarla in sella».
«Ne è sicuro?».
«Certissimo».
«Bene. Allora ha girato il film. Ma già durante le riprese correva
voce che la sua vedette fosse assolutamente straordinaria, giusto?».
«Sì».
«In quel momento, alcuni produttori concorrenti non potrebbero
aver tentato di convincere la signorina Ponceau… per il futuro?».
«Sì».
«Sa chi sono?».
«Non so se…».
«Ormai li troverò comunque, signore».
«Uhm… due produttori si fecero avanti: Chaunel e Rouget. Ma
Lucie ha rifiutato e loro non hanno insistito».
«Due produttori?».
«Sì».
«Solo i signori Chaunel e Rouget?».
«Sì».
«Nessun altro? Ci pensi bene, signor Dorly».
«Perché pensarci? Sono comunque più informato di lei sulla
questione, no?».
«Certamente. Ma è che… Vede, mi era parso di capire che il signor
Laumier… il signor Henri Laumier…».
«Laumier?», scoppiò a ridere lui. «Da dove diavolo arriva questa
idea?…». (Mi guardò con gli occhi spalancati e l’aria di pensare: «Be’,
vecchio mio, come detective… speriamo ce ne siano di migliori sulla
piazza, sennò siamo messi proprio male!»).
«Laumier non si è mai interessato a Lucie, né da vicino né da
lontano, e del resto lei non era un’artista che potesse utilizzare».
«Nessun dubbio?».
«Nessun dubbio possibile».
«Allora mi scusi per averla disturbata».
Ci stringemmo la mano e lui tornò dagli amici. Passeggiai un po’
per il viale, succhiando la pipa. Vediamo… Tony Chiarente, un ex
tossico che non sembra interessato a ricominciare… Lucie Ponceau,
una donna che non si era mai drogata ma che si suicida con l’oppio…
Pierre Lunel, un ragazzo che ricade nel proprio vizio e mette tutti nei
casini… E qual era l’altro tizio che aveva la stessa storia, citato da
Montferrier?… Ehm… Raymond Mourgues, eh? Sì, lui. Raymond
Mourgues.
Entrai nel primo bistrot democratico che trovai. Ancora una
telefonata. Se la signorina Annie fosse stata in casa per rispondermi…
C’era.
«Sono ancora io», dissi. «Non la chiamo per darle informazioni,
ma per chiedergliene. Il signor Montferrier, oltre alla storia di Pierre
Lunel, me ne ha raccontata un’altra simile, quella di Raymond
Mourgues. Un altro ex tossico che ha ceduto alla tentazione e
compromesso il film che stava interpretando. Lei meglio di me può
sapere se questo attore abbia avuto, a un certo momento, rapporti con
Laumier. Immagino che lei non sia in grado di rispondere così, di
punto in bianco, vero?».
«No», fece la signorina Annie. «Ma posso informarmi».
«Gliene sarei grato».
«Lo farò domani mattina, per prima cosa. C’entra qualcosa…?».
«Non lo so. Ma vorrei saperlo, ecco tutto».
«Sì, lei vorrebbe sapere se Raymond Mourgues sia stato in
trattativa con Laumier per un film», disse lei lentamente. «E se è
così… se Raymond Mourgues non abbia preferito un altro produttore
a Laumier e se la sua passione per la droga non sia stata conseguente
a questa rottura…».
«Qualcosa del genere, sì».
«E se così fosse», disse lei con aria trionfante. «Alla fine
crederebbe al suo malocchio?».
Risi:
«Ebbene, no, signorina. Meno che mai». E riattaccai.
Capitolo XIII

Agguato al buio

Rientrai al Cosmopolitan, mi feci portare qualcosa da mangiare in


camera, lo divorai e me ne andai a letto. Al momento non avevo nulla
di meglio da fare. Presi un libro e iniziai la lettura fumando la pipa.
L’eroina del romanzo, come molte eroine dei romanzi d’oggi, non
poteva resistere tre pagine senza denudarsi e stava cominciando a
slacciarsi la camicetta quando mi assopii. Davvero appassionante. Il
telefono mi richiamò alle buone maniere. «Pronto!».
«Buonasera, signor Burma. Sono…». Era Adrien Froment.
«Ah! Buonasera», feci io. «Ha già riflettuto?».
«Ecco… pensavo che un altro breve incontro…». S’interruppe,
improvvisamente imbarazzato, come se si stesse pentendo di
qualcosa.
Dissi:
«È a casa? Se vuole posso fare un salto da lei».
Sospirò:
«Se vuole».
Riattaccò. Rivestendomi, pensai che il signor Adrien Froment
stava perdendo la calma. Non aveva concluso l’affare con Laumier e il
bisogno di denaro lo spingeva a fare qualche imprudenza, per quanto
astuto e scaltro fosse. Tanto valeva andarlo a trovare e farlo aspettare
a mia volta fino a quando il signor Montferrier, informato, non
decidesse le misure necessarie. Scesi, tirai fuori dal garage la mia auto
a noleggio e mi diressi verso me Jean-Goujon, prendendo avenue
George V. Arrivai in place de l’Alma.
Non c’era molto traffico. Era un orario tranquillo. Una grossa auto
lampeggiò improvvisamente prima di spegnere i fari e dirigersi verso
di me con tutta l’aria di un bolide malintenzionato. Tentai una
disperata manovra con il volante, ma non sempre si è fortunati. Ci
sono anni in cui place de l’Alma si trasforma in un cantiere. Ci sono
anni in cui brontolo tutte le volte che ci passo. Ho avuto ragione di
brontolare e di vedere di cattivo occhio quei lavori. Per evitare il pazzo
che voleva venirmi addosso, sfondai una protezione, travolgendo le
lanterne rosse che segnalavano il pericolo e, in un frastuono di vetri
rotti, finii dentro una cavità del terreno nauseabonda e umida. Mi
sembrò anche che la mia caduta fosse salutata da uno sparo, ma non
ne sono certo. Dopo l’incontro con Clovis, diversi rumori mi
rimbombavano in testa.

**
*

«Più paura che altro, si direbbe», fece un tizio che era sceso nel
buco e mi guardava di là dal finestrino.
Sembrava il guardiano del cantiere, con una zazzera da
vagabondo. La sua giusta osservazione valeva più o meno anche per
l’auto a noleggio, ma c’era da dubitare che al garage specializzato me
ne avrebbero concessa un’altra. Con il muso era finita contro un
mucchio di detriti, provocato forse dalla sua caduta, evitando per un
pelo una trave che l’avrebbe trafitta da parte a parte. La catastrofe
non si era verificata solo perché l’altro, urtandomi per completare
l’opera, mi aveva fatto deviare. Ma il parabrezza e un parafango erano
da sostituire. Personalmente, avevo avuto la fortuna di essere stato
sbalzato dal sedile, cosa che aveva impedito alla mia cassa toracica di
essere schiacciata dall’impatto con il volante. Mi ero solo un po’
ammaccato la testa, ma niente di grave. Aprii la portiera, il cui
meccanismo non era stato danneggiato, e uscii dalla vettura inclinata.
Attorno al buco erano chinati cinque o sei curiosi, delusi di vedermi
uscire praticamente indenne. Con l’aiuto del guardiano mi issai fuori
dal buco.
«Che botta!», disse qualcuno.
«In effetti», approvai. «Avete visto niente?».
«È stato speronato».
«Da cosa?».
«Una grossa auto».
«Una Cadillac?».
«Non saprei. So solo che era un’auto grossa, come se ne vedono
parecchie».
«Avete avvertito la polizia?».
«Eccola che arriva».
Un’auto di servizio si annunciava a sirene spiegate.
«Dite loro che torno subito», lanciai.
Scartai i curiosi e mi misi a correre. Feci il giro del piccolo
quadrato di place de la Reine-Astrid e mi infilai in rue Jean-Goujon.
A casa del signor Adrien Froment, mi aprì la cameriera:
«Desidererei vedere il suo capo», dissi.
«È uscito, signore».
«Da parecchio?».
«No, da non molto».
«Con la sua auto?».
«Il signor Froment esce sempre in auto».
«Sa dov’è andato?».
«No, signore».
Tornai in place de l’Alma. Si erano aggiunti alcuni curiosi e cinque
o sei poliziotti.
«Ecco il signore», fece il guardiano del cantiere.
«Da dove viene?», fece uno degli sbirri.
«Ho fatto quattro passi per schiarirmi le idee».
«Mi sembra tutto piuttosto strano. Andiamo in commissariato».
Mi fecero salire in auto e arrivammo al commissariato di rue
Clément-Marot. Lì, i poeti del luogo cominciarono a rompermi
talmente le scatole che vidi un solo modo per tirarmene fuori:
chiamare Florimond Faroux in mio soccorso.
«Fatemi telefonare», dissi. «In commissariato o a casa».
«Lo faremo noi», fece un agente.
Poco dopo tornò con un ampio sorriso:
«Casca proprio a fagiolo. Il commissario Faroux la stava
cercando».
E mi afferrò per un braccio, come temesse che prendessi il volo.
Eppure non tirava un alito di vento.

**
*

«E allora?», fece Florimond Faroux, rollando una sigaretta. «Cos’è


questa grana che ha avuto in macchina?… Lei e le sue macchine!».
Accese la sigaretta e soffiò fuori il fumo che, da perpendicolare che
era alla bocca, prese a volteggiare alla luce della lampada da tavolo
per poi sfilacciarsi verso le tenebre del soffitto. Faroux sospirò. La
lampada verde proiettava il riflesso del suo malsano colore sul volto
stanco del commissario.
«Sì, lei e le sue auto! È stato un incidente?».
«Non perdiamo tempo con i giochetti», feci io. «Chiamiamolo pure
attentato. Nell’ambiente del cinema ci si fa facilmente dei nemici».
«Il cinema! Lasci perdere il cinema. Se fosse solo quello! Ha
qualche sospetto?».
«Nessuno».
«Come vuole. In ogni caso, ci ritroveremo come sempre al palo
d’arrivo. Allora… a proposito di cinema e macchine. La sua auto,
quella in mano a noi, è davvero un’auto da film: è sempre al centro di
un colpo di scena. Abbiamo esaminato le impronte rilevate sul suo
carro funebre. A parte due serie – e una di queste impronte non è
ripetuta troppe volte perché si tratta di un tizio prudente – sono tutte
sconosciute alla Scientifica. Nessuna appartiene ai membri dell’ex
cricca di Venturi, per esempio… ma quel delinquente potrebbe sempre
aver rinnovato il personale. Comunque sia, restano altre due serie.
Sorvoliamo sulla prima, che appartiene a un farabutto buono a nulla,
una mezza calzetta di nome Marcel Pommier, che forse ultimamente
ha cercato di fare un po’ di strada e che non tarderemo a prendere. A
quel punto forse non saremo lontani da prendere anche l’altro, che
invece è un tipo scaltro che lascia poche impronte perché lui, che non
è nato ieri, lavora con i guanti. Ma sa, quando fa caldo, come adesso,
si suda e i guanti impicciano…». Riprese fiato:
«L’impronta è un po’ confusa, ma sembra che sia quella giusta. E
se becchiamo questo tizio, sarà anche un po’ grazie a lei e alla sua
abitudine di immischiarsi in cose che non la riguardano. È per questo
che non mi mostrerò troppo ingrato nei suoi confronti».
Gli occhi al soffitto, le mani incrociate sulla pancia, sembrava
prossimo a uno stato d’estasi.
«A sentire lei», dissi, «sembra che si tratti di Adolf Hitler in
persona. Ma credevo che fosse morto».
«Anche questo lo credevamo morto. Ma sembra che non lo sia.
Sembra che Blanchard sia ancora di questo mondo».
«Ma senti, senti!», fischiettai. «Blanchard! Jerome Blanchard,
eh?».
«Sì, lo conosce?».
«Mi sono dedicato a una piccola inchiesta…». E gli ripetei quello
che mi aveva raccontato Mandolino-in-ghingheri, senza nominare il
mio informatore.
«Non è andata proprio così», obiettò Faroux. «Quel Blanchard è
un vero duro. È ricercato dall’Interpol. Le farò vedere la scheda».
Cercò tra le sue carte senza trovare nulla. «Ne ha avuto bisogno
Fabre. Vado a vedere sulla sua scrivania…».
Si alzò, andò nella stanza accanto, lasciandomi solo con la mia
pipa. All’improvviso, mi sembrò di non essere più lì per il mio pseudo-
incidente, per Blanchard, la sua droga, l’Interpol e compagnia bella.
Ero lì per… maledizione. Una fitta nebbia dappertutto. Non c’erano
dubbi! Avevo delle fughe dal cervello. La suoneria del telefono
sgretolò il silenzio notturno. Nell’ufficio vicino, Faroux sollevò la
cornetta, ascoltò, imprecò, riattaccò. Io continuavo a cercare di
coordinare i miei pensieri. Il commissario rientrò di volata,
spegnendo il fuoco fatuo che saltellava dietro la mia fronte corrugata.
Anche lui era corrugato. Si lasciò cadere sulla poltrona e imprecò, poi:
«Fabre si deve essere portato via la scheda di Blanchard. Gliela
farò vedere domani. Ma non credo che lei abbia mai avuto occasione
di incontrare quel delinquente».
«Conclusione di tutto ciò?».
«Conclusione? Lucie Ponceau è morta e non voglio infangare la
sua memoria ma, più vado avanti, più mi convinco che doveva avere
rapporti con tutti questi malviventi che ci ritroviamo tra i piedi da
qualche giorno: i Venturi, i Manganico, i Blanchard. Sebbene ancora
non capisca quali, il suo suicidio ha sicuramente avuto degli effetti».
«Manganico», feci. «Ecco un altro nome che conosco. Uno
spacciatore arrestato alla frontiera, vero?».
«Sì», rispose con una smorfia Faroux.
«Al suo posto, mi concentrerei sul Mangiaspaghetti. Da qualche
tempo, nel settore droga era tutto tranquillo, mentre ora sembra
esserci parecchia agitazione, vero? Riappare Blanchard, il ladro del
più grosso stock mai visto; Venturi, che dice di essersi ritirato dagli
affari, si comporta come un ladro; questo Manganico viene a fare un
giretto in Francia… Io indagherei su di lui. Forse aveva un
appuntamento con Blanchard e attraverso lui…».
«È un’idea», rise dolorosamente il commissario. «Lei ha tante
buone idee. Io ho tante buone idee. Noi abbiamo tante buone idee. Ci
ho pensato a Manganico, vecchio mio. Mi sono messo in contatto con
Lione, dove era in carcere e da dove mi hanno appena telefonato.
Manganico è evaso e c’è stato un agguato. Seguiranno dettagli. Ma io
me ne frego dei loro dettagli!»
Capitolo XIV

Finalmente si fa giorno

Tornai al Cosmopolitan stanco, malmesso e sempre con


l’impressione di aver dimenticato qualcosa al Quai des Orfèvres: una
domanda da fare o un dettaglio da approfondire. Diedi istruzioni alla
reception di non essere svegliato prima di mezzogiorno per nessun
motivo e salii a dormire. Non so se tutto ciò sarebbe piaciuto a Miss
Grace Standford. Era una vedette piuttosto tranquilla.

Mi alzai a mezzogiorno e a mezzogiorno e un quarto si annunciò


Marc Covet.
«Non ci vediamo da un pezzo», disse. «Già».
«Le è capitato qualcosa?». «SI».
Gli dissi cosa. Avevo appena terminato il mio racconto quando fui
chiamato al telefono. Era la signorina Annie, la briosa signorina
Annie:
«Ho delle informazioni su Raymond Mourgues», disse. «Laumier,
come si diceva, non l’ha mai avuto in scuderia. E non ha mai avuto
neanche l’ombra di un progetto di lavoro insieme a lui. Laumier e
Mourgues sono sempre stati due sconosciuti, l’uno per l’altro… dovrò
rivedere la mia teoria sul malocchio», aggiunse allegra e sorridente.
«Forse. Mi scusi per averla disturbata. Oh! Aspetti… la casa di
produzione per cui lavorava quell’attore, quando si è ripreso dalla
droga, non aveva mai avuto guai con Laumier?».
«Oh! Sa… Laumier è sempre stato, in un modo o nell’altro, in
conflitto con i colleghi».
«Ah! Capito. Grazie ancora. Ho intenzione di rivedere il signor
Froment, oggi. La terrò aggiornata».
Riattaccai.
«E allora?», fece Marc Covet, interessato.
«Come vuole il magico mondo del cinema. Comincio anch’io a
collegare… Mi sembra di vedere qualche giornale uscirle dalla
tasca…».
«L’ultima edizione del “Crépu”».
«Si parla dell’evasione di Enrico Manganico?».
«In lungo e in largo».
Presi la copia che mi porgeva. L’evasione era avvenuta mentre il
trafficante veniva trasferito da un penitenziario a un altro. L’auto era
stata attaccata da gangster in motocicletta, dai complici. C’erano due
morti, ma solo uno veniva compianto: il rappresentate dell’ordine che
si chiamava Lavérune. L’altro era un malvivente. Non si chiamava.
Non aveva alcun documento addosso, nessun segno di riconoscimento
sugli abiti, ma, siccome si trattava verosimilmente di un pregiudicato,
non avrebbero tardato a identificarlo. Manganico era scomparso a
bordo del mezzo usato dai complici e tutte le ricerche per ritrovarlo
erano state, per il momento, vane…
Tutto questo già lo sapevo. L’avevo saputo durante la notte, dalla
viva voce di Florimond Faroux. Ma non sapevo chi fosse il malvivente
ucciso. «Le Crépuscule», sempre sensazionale, pubblicava la foto. Era
giovane, con labbra sottili che la morte assottigliava ancora di più. Gli
occhi senza vita, fissi, erano leggermente sporgenti, ma senza nulla di
bovino. Il signor Clovis. Non avrebbe più colpito nessuna preziosa
testa di detective privato. Era…
Il telefono mi riportò al presente. Una voce sconosciuta disse:
«Signor Burma?».
«Sì».
«Sono la signora Michon. Ricorda? La signora Michon. La
portinaia di me de Moscou».
«Ah! Sì, sì. E allora?».
«Ho ritrovato il nuovo indirizzo del signore e della signora
Laumier. Quando sono andati via di qui, si sono trasferiti in
boulevard Malesherbes, 78 bis. Ho perfino il loro numero di telefono e
quello della portinaia. È una casa molto elegante. La portinaia ha il
telefono. Dev’essere molto comodo. Allora, ecco i numeri: MADeleine
12-34 e MADeleine 56-21».
«Grazie, signora Michon…». (Riattaccai). «MADeleine 56-21…
Chiederò comunque alla portinaia se la signora è in città al
momento…».
Feci chiamare MADeleine 56-21 e la portinaia di quell’edificio di
lusso, una persona dalla voce giovane, mi rispose che la signora
Laumier era partita per l’estero il gennaio scorso, tra il 10 e il 15, o
qualcosa del genere. Perfetto. Ecco perché Laumier non temeva, se
non di ostentare il rapporto con Denise Falaise, perlomeno di andare
a stare da lei quando l’attrice non c’era. La sua leonessa era all’estero
dal 10 o dal 15 di gennaio.
«Il 15 gennaio», ripetei. «Oh! Per Dio! Il 15 gennaio. Tra il 10 e il
15 gennaio!».
«E allora?», fece Marc Covet. «Quella data le ricorda qualcosa?».
«Sì. Il termine. Buon Dio! Covet! Devo bere qualcosa di super
forte. Qui hanno tutto ciò che serve ma io ne voglio almeno un litro.
Vada dal venditore di liquori di rue Berri e porti la nitroglicerina più
forte che riesce a trovare…».
È un genere di compito che il giornalista-spugna in genere non
rifiuta. Si diresse immediatamente verso la porta che dava sul
corridoio, l’aprì e, fermandosi sulla soglia:
«Sembra in piena forma», sorrise. «È la data del 15 gennaio o
quella storia di Manganico?».
Emisi una specie di ruggito.
«Ehi!», fece Covet. «Cosa succede?».
«Sto per partorire un’idea… Ripeta quello che ha detto, lo ripeta!».
«Ripetere cosa?».
«Manganico!… Meccanico!… E non si muova, Covet… la vedo… la
vedo…». (Gli tesi le braccia come se volessi procedere all’imposizione
delle mani). «Lei ha proprio un bel faccino, un po’ idiota, ma
grazioso. Labbra rosse, lunga ciglia nere. Una camicetta scollata e una
sontuosa capigliatura castano rossiccio… E sa cosa resta di tutto ciò?
… Niente!».
«Fortunatamente per me», rise. «Se la visione fosse durata…».
«Niente. O così poco. Cinquanta chili di carne fredda all’obitorio…
Vada a prendere quel litro, anzi due. E poi no, scendo con lei. Devo
andare dagli sbirri».
Adesso sapevo cosa volevo trovare alla polizia. Quale dettaglio,
intravisto quand’ero ancora sotto l’effetto della botta di Clovis e che
da allora mi ronzava in testa. Dovevo verificare.

Florimond Faroux non c’era. L’ispettore Fabre non fece alcuna


difficoltà per tirar fuori da un casellario, dove iniziava a prendere
polvere, il pacco contenente gli abiti della povera Monique,
l’imprudente starlette. Mi si strinse il cuore a rivedere le scarpe col
tacco alto, le calze, la gonna, la camicia, gli oggetti che conteneva la
borsa, il rossetto e i due fazzoletti di seta, uno malva e l’altro giallo…
«Un’idea?», fece l’ispettore.
«Sì. Solo un’idea. La ringrazio… Lei può cominciare a temperare le
matite», dissi a Covet, una volta fuori. «Ma prima devo terminare un
lavoro, in me Jean-Goujon».
Lasciai Marc Covet al tabaccaio di place de l’Alma e andai a vedere
se era possibile incontrare Adrien Froment. La governante mi disse di
sì.
«Ebbene», feci, «prima di annunciarmi, mi porti al garage».
«Al garage?».
«Sì, voglio dare un’occhiata alla Cadillac». «Ma…».
«Se non la vedo, manderò la polizia a esaminarla». «La polizia…
va bene».
Mi portò al garage, situato dall’altra parte del cortile, in vecchie
scuderie nascoste da alberi. La Cadillac 980-BC-75 scintillava come
una moneta fresca di conio. Nessuna traccia di ammaccatura da
nessuna parte. Ne ero quasi certo, ma era meglio assicurarsene. Tre
minuti dopo ero davanti al suo proprietario.
«Mi scusi per il ritardo», dissi. «Avevamo appuntamento la notte
scorsa».
«Già», borbottò Froment. «E siccome oggi non è ieri…».
«Esatto, mi ritiro. Ma lei deve capire una cosa. Non cerchi di
fregare Montferrier. Il gruppo che rappresento: tutte balle.
Rappresento Montferrier. Quindi, fili dritto. Altrimenti la faccio
sbattere in galera. E subito. Mi basta chiamare gli sbirri».
«Lei ha l’aria di essere uno strano tipo».
«Insieme facciamo una bella coppia».
«Chiamare gli sbirri! E per chi? Non mi prenda in giro, Nestor
Burma».
«Non scherzo».
«Non possono arrestarmi».
«Sì, amico mio».
«Con quale accusa?».
«Quella che fornirò io. Ieri sera mi ha telefonato al Cosmopolitan
per dirmi di venire da lei. Appena riattacco, lei prende l’auto e se ne
va. Io, nel frattempo, mi appresto a venire qui. Lei mi sta aspettando
al varco… e mi fa sbandare nel cantiere di place de l’Alma, come un
pagliaccio qualsiasi».
«Ma non è vero!».
«Lo so. Non parlo dell’incidente. L’incidente, o meglio, l’attentato,
è successo davvero. Ma lei non c’entra. Quello che le è successo
davvero, glielo spiego subito: lei ha bisogno di soldi; siccome non può
contare su Laumier, pensa: “Posso provare con Burma, che
rappresenta questo gruppo anonimo e pieno di soldi”. Ma, durante la
conversazione, cambia idea, il suo istinto diffidente ha la meglio, la
sua impulsività si attenua. Così accetta che io venga da lei, ma poi fa
anche in modo di non incontrarmi. Peccato che nel frattempo ci sia
stato una specie di attentato alla mia vita. Lei non è un assassino, ma
il tutto sembrava proprio organizzato da lei. Io stesso c’ero cascato».
«Ma ora ha capito il suo errore?».
Sudato e affannato, mi ricordava Laumier, anche se meno laido.
«Sì, ma non sono tenuto a riconoscerlo». «Ho un alibi».
«Benissimo. Stia tranquillo e aspetti un incontro con Montferrier,
in modo da mettervi definitivamente d’accordo su questo brevetto per
le immagini tridimensionali. Resta ancora il cliente migliore. Se saprà
giocare le sue carte, potrà farsi dare anche un milione o due di più.
Non sono forse di buon consiglio?».
«Va bene», disse lui a sua volta. «Ah! Non c’è pace per la gente
onesta!».
«Lei se ne stia tranquillo», dissi. «D’accordo?».
«D’accordo».
«Bene. Laumier è completamente liquidato?». «Completamente».
«Quando doveva concludere l’affare con lui?».
«In questi giorni. La somma annunciata non è arrivata. Ieri ha
preso ancora tempo. Ma lei tutto questo lo sa già, me ne ha parlato
proprio lei».
«Stavo solo facendo delle supposizioni. Sono contento di sentire
che erano corrette».
«Be’, complimenti. Lei è un tipo in gamba!».
«Metto il mistero knock-out. La tiro per le lunghe per giorni e
giorni e poi, zac! A un certo punto, non si sa perché, dalla mia testa
salta fuori una scintilla. Generalmente dopo una bella botta. Ci sono
detective che funzionano ad alcol, birra o tabacco. Io funziono a
tabacco, ma soprattutto a botte in testa. Arrivederci, caro signore».
Lo lasciai, assai frastornato. Andai a recuperare Covet al suo
bistrot, un bistrot con il telefono, tanto per cambiare. Chiamai la
Residenza Montferrier:
«Missione compiuta, signorina Annie», dissi. «Adrien Froment se
ne starà buono buono. È neutralizzato. Ma, se fossi al suo posto,
consiglierei a Montferrier di tornare qui a regolare questa storia una
volta per tutte».
«Grazie, signor Nestor Burma», fece la signorina Annie con voce
dolce.
E riattaccò.
Avevano tutte una voce così dolce, quando volevano. La signorina
Annie… Denise Falaise… Monique… Micheline… E in altri momenti…
una voce secca, competente… un grido di sorpresa e di rabbia…
sospiri d’amore o un singhiozzo d’agonia… Di Micheline non lo
sapevo. E nemmeno di Lucie Ponceau. La sua voce, sullo schermo, era
dolce. Doveva esserlo anche nella realtà. Ma non sentivo che un
sussurro… due sussurri… uno rassegnato e l’altro… tentatore,
insidioso, orrendo. Mi scossi. Avevo ancora in mano la cornetta. La
rimisi a posto.
Restava da fare il peggio.
Capitolo XV

Droga a volontà

È sempre così: quando si ha bisogno di loro, gli sbirri non si fanno


mai trovare. Florimond Faroux non faceva eccezione alla regola.
Riuscii a vederlo solo piuttosto tardi in serata. Non era però il
momento di perdere tempo.
«Quali novità?», chiesi entrando nel suo ufficio, accompagnato da
Covet. (Il giornalista non mi mollava più).
«Nessuna», disse il commissario.
«Allora, forse sono arrivato al palo per primo».
«Ah? Mi dica, sembra che sia venuto a perquisire gli abiti della
morta, eh?».
«Sì. Avevo dimenticato qualcosa».
«E cosa?».
«Un fazzoletto».
«Tra quegli abiti c’è un suo fazzoletto?».
«No, un fazzoletto di Laumier, un produttore cinematografico. Può
preparare un mandato d’arresto a suo nome, per omicidio o
complicità, forse entrambe le cose».
«Cosa sta dicendo?».
«La verità. Ma andiamo per ordine. Il suo Jerome Blanchard,
ladro, a un certo punto, della mia auto, e assassino della piccola
Monique, è fisicamente… Ha ritrovato la sua scheda?».
«Sì, lei…».
«Non me la faccia ancora vedere. È un tipo alto e magro, dai
lineamenti spigolosi, l’aria per niente stupida?».
«Effettivamente…». (Mi tese una scheda antropometrica). «Allora
lei lo conosceva», sospirò.
«Sì, ma ero lungi dal sospettarlo…». (Tamburellai la scheda con
un dito). «È il tirapiedi-factotum-uomo di fiducia-intimo consigliere
di Laumier…».
Faroux si limitò a borbottare.
«È stato identificato il malvivente che ha trovato la morte durante
l’evasione di Manganico?», chiesi.
«Non lo so. Non sono sul posto. Lei, invece, l’avrà già riconosciuto,
non è vero?».
«Sì. È uno della cricca di Venturi. Un tizio di nome Clovis».
«Benissimo», fece il commissario con una calma stupefacente.
«Immagino che lei sia venuto a raccontarmi l’intera storia, giusto?».
«Sì».
«Perfetto, proceda pure».
«Venturi ha fiutato il famoso stock di droga che Blanchard ha
rubato ai complici. Quello che gli ho detto su Lucie Ponceau e il
passaggio di frontiera da parte di Manganico gli ha messo la pulce
nell’orecchio. Perché Manganico non è tipo da spostarsi per niente.
Ma Manganico è in galera, Venturi si dice: “Lo libero…”».
«…e lui mi porterà alla roba».
«Perché la roba? A Venturi la roba non interessa. Ha di meglio da
fare. Chi dice droga dice denaro per comprarla. Manganico non aveva
soldi su di sé quando è stato arrestato, vero?».
«In ogni caso, non la somma necessaria ad acquisti di quel genere.
Si sarebbe saputo».
«Sì, una cifra un po’ superiore al salario base di un addetto alle
pulizie. Da qualche parte in Francia c’è quindi qualcuno che ha dei
soldi. Mettendo le mani su Manganico – perché quell’evasione
assomiglia parecchio a un rapimento – Venturi è sicuro di arrivare a
qualcosa…».
«Qualche anno di galera, sì».
«Non sia spilorcio. Venturi ha immaginato un incontro tra
Manganico e Blanchard e non si è sbagliato. Manganico aveva
appuntamento con Blanchard».
«Chi gliel’ha detto? Manganico o Blanchard?».
«Monique».
«La ragazza era coinvolta?».
«No. E, da viva, non si dedicava a conversazioni tanto serie. È
stato il suo cadavere a dirmelo… la notte in cui l’ho trovata nel mio
letto, lei stava cercando di sedurre Laumier. Aveva sbagliato stanza.
Quando, sulla soglia della mia stanza, scherzando mi ha detto: “A
presto, a quando avrò incontrato il meccanico”, qualcuno ha capito la
frase in altro modo. Laumier stava al mio stesso piano. Laumier o
Blanchard, uno dei due ha capito: “Quando avrò trovato Manganico”.
Ho sorpreso un rumore furtivo, subito dopo aver chiuso la mia porta,
quando Monique non era ancora lontana. Era uno di loro due che
andava in fondo al corridoio per vedere il volto di quella ragazza che
usciva dalla stanza di un detective, incaricata di una precisa missione.
Perché, come tutti, sapevano chi ero – l’ex guardia del corpo di Miss
Grace Standford – e che io abbia in qualche modo tentato di entrare
in rapporto con Laumier al Camera-Club forse li aveva spinti a
tenermi d’occhio. La sera successiva, immagino che Monique abbia
fatto un nuovo tentativo e sia riuscita ad arrivare fino a Laumier. Il
fazzoletto che è ancora nella tasca della sua gonna appartiene a lui».
«E avrebbe sorpreso il loro traffico?».
«Sì. Non dimentichi che deve essere successo la sera in cui Lucie
Ponceau si è suicidata con l’oppio».
«E allora?».
«È stato un suicidio aiutato. Quel Laumier è crudele, vendicativo.
Due esempi di vendetta messi in atto nel passato: ai danni della ditta
X… che gli aveva soffiato l’attore Pierre Lunel. Lui approfitta del fatto
che Lunel è un ex tossico per fargli tornare la voglia di morfina e
oppio, impresa che non deve essere stata difficile. Ed ecco che Pierre
Lunel non riesce più a lavorare seriamente, il film viene bloccato e la
ditta X… avvelenata a sua volta. Il nostro produttore si è vendicato.
Stesso scenario per quanto riguarda l’attore Mourgues, con una sola
variante. Nessuno l’ha portato via a Laumier, ma l’attore lavora con
un produttore con cui il nostro è probabilmente in rotta. E il tallone
d’Achille di questo produttore è proprio Mourgues, anche lui ex
tossicodipendente come Lunel. Basta procurargli la droga a buon
mercato. Laumier è uno spilorcio, ma fa tacere la propria avarizia
quando è spinto dall’odio… è in quel periodo che deve essersi legato a
Blanchard. Blanchard era sicuramente il suo fornitore. In seguito,
dopo il famoso colpo di Blanchard, colpo fatto a scapito dei suoi
complici, devono essere entrati in società, se così si può dire».
Florimond Faroux si lisciò i baffi.
«Prima parlava di Lucie Ponceau», disse lui.
«Invidioso di vederla tornare al successo, deve aver approfittato
del fatto che aveva manifestato la morbosa intenzione di farla finita.
Lei non c’entrava nulla con gli spacciatori».
«Così ne avrebbero parlato, Monique avrebbe sorpreso la loro
conversazione e…».
«Sì. E lo stesso è accaduto a Jules Rabastens. Voleva superare
Marc Covet, qui presente. Essermi più utile di Marc Covet. E non ce
l’ha fatta».
«Uhm… e secondo lei dove sarebbe successo tutto questo? Al
Cosmopolitan, sul serio?».
«Ai Pins Parasols, a Neuilly, in una villa di proprietà di Denise
Falaise, dove lei avrà sicuramente a cuore di andare a verificare
quanto sto dicendo».
«Sì, credo che ce ne saranno parecchie di cose da verificare. Denise
Falaise! Ed è coinvolta anche lei?».
«Niente lo lascia intendere. Sanno come allontanarla, quando
necessario».
«Tanto meglio per lei. Ma le vorrei far notare… Non so se
Monique, che è stata ritrovata nel bagagliaio della sua auto, sia stata
uccisa ai Pins Parasols, ma Rabastens è stato ammazzato a casa sua.
Chiaramente, visto che lei la sa più lunga di me…».
«Non si agiti, vecchio mio. Sa bene che Rabastens è stato ucciso in
due tempi, se così si può dire. Prima riceve un bel colpo in testa, che
serve a farlo stare tranquillo. Ma evidentemente lui riprende i sensi,
riesce a scappare e invece di andare ad avvisare la polizia, come
farebbe una qualsiasi vittima di aggressione notturna, torna a casa
perché, dal punto di vista professionale, ha appena scoperto cose
sensazionali che chiedono solo di essere messe su carta. Ma
Blanchard si accorge che Rabastens è scomparso, corre a casa sua
(conosce l’indirizzo dai documenti del giornalista) e gli rifila un
secondo colpo che lo manda al Creatore».
«Uhm…». (Mugugna spesso Faroux). «Uhm… E Monique? Come
spiega il cadavere nel bagagliaio della sua macchina?».
«Molto semplicemente, sempre se così si può dire. Il corpo di
Monique è ai Pins Parasols – nella ghiacciaia, per esempio, perché
no? – quando si offre loro l’occasione di giocarmi un brutto tiro. Senta
in quali circostanze. Vado a trovare Laumier allo studio. La mia visita
lo coglie di sorpresa. Mi fa aspettare oltre ogni ragionevole limite.
Perché? Per avere il tempo di avvertire e chiamare con sé il vero capo,
Jean il tirapiedi, alias Jerome Blanchard. Quindi, sotto la
sorveglianza di Blanchard, mi racconta la storia della sua tirannica
moglie e dei sospetti che nutre nei miei riguardi. Ci credo perché in
quel momento ignoro che sua moglie è all’estero da gennaio. Non so
se in quel momento si rendono conto che sto semplicemente
rispondendo – in ritardo – alla telefonata di Laumier, telefonata che
lui mi ha fatto per sondare il campo, quando tutto era ancora
tranquillo. Non capiscono che non sto cercando nulla di speciale e si
fanno strane idee in testa. In ogni caso, c’è un modo semplice di
neutralizzarmi. Se nella mia auto viene scoperto un cadavere, gli
sbirri, con cui non sempre sono in ottimi rapporti, mi toglieranno per
un po’ dalla circolazione. Blanchard è un uomo che non ha paura di
niente e riesce a prendere decisioni con estrema rapidità. Senza
annunciarlo, se ne va a mia insaputa. Poi telefona a Laumier,
chiedendogli di trattenermi il più a lungo possibile. Paonazzo e
sudato, Laumier svolge come può quel compito relativamente
semplice. Io sono un tipo curioso. Nel frattempo, al volante della mia
auto, Blanchard si fionda vero i Pins Parasols, mette il cadavere di
Monique nel baule e torna a parcheggiare l’auto là dove l’ha presa,
nel cortile degli studi. Il cerbero degli studi emerge dalla propria
sonnolenza solo per gli estranei all’ingresso. Laumier, spossato dalla
paura, sfinito dalla tensione nervosa, interrompe le riprese del film. E
io me ne vado… con Monique a carico, passeggera clandestina. E
quando torno a casa, più tardi, ho l’impressione di lasciarmi dietro un
odore di cadavere raccolto nell’appartamento di Rabastens».
«Uhm», fece Faroux. «Ma il furto della sua auto? Non c’è stato il
furto?».
«C’è stato. Ma Venturi e compagnia bella non c’entrano nulla.
Quando avrete preso l’altro tizio che ha lasciato le impronte, Poirier o
Pommier…».
«Pommier».
«Vedrà che è lui il ladro. A un certo momento si è accorto di cosa
stava trasportando e ha preferito abbandonare l’impresa».
«Incredibile», disse Marc Covet.
«E insperato per Blanchard», proseguii. «A questo punto è al di
sopra di ogni sospetto. In ogni caso, ieri, quando arrivo ai Pins
Parasols, la mia mossa lo preoccupa. E si sbarazzerebbero volentieri
di me se un gruppo di giovani imbecilli – che siano benedetti – non
avesse gli occhi continuamente fissi sulla villa, nella speranza di
vedere un centimetro quadrato di pelle di Denise Falaise».
«Ma dov’è, questa Falaise?», chiese Faroux.
«Sulla Cosa Azzurra. Montferrier l’ha portata via…».
Spiegai con quali intenzioni.
«E il suo incidente in place de l’Alma?».
«Sicuramente un colpo di Blanchard. Voleva rifarsi dello smacco
pomeridiano».
«Uhm… quindi, secondo lei, Blanchard e Laumier erano soci?».
«Sì. In un ambiente diverso, all’ombra di Laumier, Blanchard
passava inosservato. Cosa che non gli impediva di tenere le antenne
bene all’erta, fuori frontiera, per negoziare lo stock. Laumier pensava
sicuramente che l’incasso di tutta quell’operazione gli avrebbe
permesso di neutralizzare Montferrier e gli altri produttori,
assicurandogli l’esclusiva di un metodo di ripresa tridimensionale.
Credo che la vita umana non abbia alcun valore agli occhi del signor
Blanchard. Per farla breve, l’arresto di Manganico ha compromesso
l’operazione e l’irruzione di Nestor Burma sulla scena non ha certo
aggiustato le cose. E adesso, commissario, è abbastanza informato per
passare all’azione?».
«Uhm…», borbottò. «Tutto questo è molto ben congegnato, ma
bisognerà verificarlo. Quanto all’azione…».
Si alzò e andò alla finestra:
«È notte», disse. «L’ora legale, per questo genere di esercizi, è
passata».
«L’ora legale? Ci scapperanno tra le gambe, Faroux. Anche se io,
poi, in fin dei conti me ne frego… Ma credevo che lei qui avesse
orologi regolati sull’Europa centrale o il Sudamerica, orologi che
mostrano l’ora legale, solo l’ora legale…».
«In effetti, ho due o tre di questi esemplari», sorrise. «Ma vi
ricorriamo solo in circostanze eccezionali. Tutto quello che posso
fare… Dopotutto, la notte è bella e dolce… a un poliziotto non è
vietato approfittarne. Andremo a fare un giretto al Bois de Boulogne.
Può sempre servire».
E difatti servì.
In un cielo senza luna, scintillavano milioni di stelle. Guidavamo
in silenzio in direzione dei Pins Parasols. Eravamo quattro, nella
macchina della Prefettura: Marc Covet, Florimond Faroux, l’ispettore
Fabre e io. Guidava l’ispettore Fabre. All’improvviso, per poco non ci
scontrammo con un’altra auto. L’incidente mi mise sull’attenti. Il
tizio, che arrivava in senso opposto, guidava a zigzag che era una
meraviglia. Piombò verso il fosso e ci sbarrò la strada. L’ispettore
Fabre gli indirizzò un colpo di clacson, cui non ci fu risposta.
Bisognava fermarsi. Ci fermammo.
«Cos’è questa storia?», gridò Faroux, più sbirro che mai. «Vado a
dire due parole a quell’ubriacone».
Scese e si diresse verso l’auto. Lo seguii. L’auto era una Vedette. E
lo era anche il tipo al volante, privo di sensi.
«Buon Dio! Nestor Burma!», esclamò il commissario. «Sembra il
suo cliente».
«Sì», dissi. «È Tony Charente».
«Cosa combina da queste parti?».
«Potremmo chiederglielo».
Aprii la portiera. Una scatola rotonda, metallica, di quelle usate
per le pizze dei film, mi cadde sui piedi. La raccolsi, la appoggiai sul
sedile, accanto a Tony Charente, e cominciai a scuotere l’attore.
«Che cosa ha alle caviglie?», chiese l’ispettore Fabre che, con Marc
Covet, ci aveva raggiunti.
Abbassai lo sguardo:
«Una corda. Una corda rotta…».
«E però non stava girando un film», osservò il giornalista.
«Ne ho abbastanza di cinema e commedie», tagliò corto Faroux.
Continuai a scuotere l’amato dalle donne, il quale aprì prima un
occhio, poi l’altro, quindi li richiuse entrambi e gemette.
«Clovis è morto», dissi, «ma c’è comunque gente in gamba con le
botte in testa».
Tony Charente aprì completamente gli occhi, guardandosi in giro
con aria smarrita. Si portò le mani alla testa: «Maledetto tirapiedi.
Che razza di botta».
«Mi riconosce?», dissi.
Sbadigliò: «Salve, Burma».
«Abbiamo fatto una visitina a Laumier?».
«Non mi parli di quel tizio».
«Puzza di alcol».
«E allora? Verboten? Sempre Verboten…». (Con uno sforzo si tirò
fuori dall’auto. Strinse sotto il braccio la scatola della pellicola, presa
al volo). «Una boccata d’aria non può far male», disse lui, originale
quanto i dialoghi cui era abituato.
«Che cos’è ‘sta roba?», chiese Faroux, indicando la scatola del film
che scambiava forse per un camembert stagionato.
«Giù le zampe!», gridò l’attore improvvisamente furioso. «Questo
è il lavoro di Laumier. Bobine del suo film. Ce n’era un mucchio, in un
angolo della villa. Gliene ho portate via due o tre mentre uscivo,
lasciandolo alla sua festicciola mondana. Devo aver perso le altre per
strada. Guardate, ecco cosa faccio io del lavoro di Laumier. Ecco cosa
ne faccio io, dei suoi stupidi film!».
Prima che potessimo fermarlo, aprì la scatola, con l’intenzione di
distruggere la pellicola. Il coperchio metallico rotolò a terra, andando
a urtare dei sassi.
«Cos’è ‘sta roba?», singhiozzò Tony Charente, come in un’eco
tardiva a Florimond Faroux.
A sua volta gli cadde anche l’altra parte della scatola. La quale non
conteneva un centimetro di pellicola, ma era piena fino all’orlo di
droga.
Capitolo XVI

Il giorno finisce

Seduto in abiti succinti sul divano del suo bungalow inondato di


sole, Tony Charente, con in testa un turbante di panni umidi,
accarezzava il cane chiassone, che al momento scodinzolava in
silenzio. Nemmeno Micheline, promossa infermiera del grande uomo,
diceva nulla.
«Era un buon nascondiglio», sostenne l’attore.
«Pellicola vergine», risi. «Seguendo le mie indicazioni, il
commissario Faroux è andato agli studi a recuperare il resto dello
stock appena arrivato».
«Per fortuna che c’era lei. Sarebbe potuto sembrare sospetto che
un ex drogato andasse in giro con una tale quantità di roba».
«E infatti lo è sembrato, ma non per molto, visto che ora è a casa.
Ancora un po’ d’acqua minerale?».
Tese il bicchiere.
«Ho spiegato agli sbirri cosa doveva essere successo», dissi,
riempiendo anche il mio bicchiere, ma di un liquido meno insipido.
«Che l’idea di condividere le luci della ribalta con Denise Falaise la
disgustava e, convinto che alla base del complotto ci fosse l’ambiguo
Laumier, era andato a sfogare la sua rabbia su di lui, dopo essersi
procurato l’indirizzo ed essersi ubriacato. Ma nel clan Laumier non
amano gli importuni, da qualche tempo a questa parte. Allora le
hanno dato una bella botta in testa e l’hanno nascosta in un angolo,
più o meno legato… Una fortuna che lei sia riuscito a liberarsi e sia
stato abbastanza prudente da non tentare di vendicare quel
trattamento poco ortodosso, ma abbastanza in collera per voler
giocare un brutto tiro a quel porco di Laumier e anche abbastanza
inebetito per non accorgersi che stava portando via scatole di pellicola
vergine, per così dire».
«Cosa è successo, poi? Sono ancora piuttosto inebetito».
«La scoperta della droga e di una riunione da Laumier ha fatto a
Florimond Faroux l’effetto di una scarica elettrica. Ha incaricato il
suo ispettore di chiamare rinforzi e ha fatto circondare la villa. Poi mi
ha mandato in ricognizione. A volte gli investigatori privati servono a
qualcosa. C’erano Laumier, Blanchard, Manganico, Albert, l’amico di
Venturi e altri due tizi. Niente Venturi, su di lui mi sono sbagliato.
L’evasione di Manganico è stata un’iniziativa di Clovis e Albert.
Venturi, dopo il nostro colloquio e di fronte ai progetti dei suoi
compari, ha preferito filarsela per non essere compromesso. Ne
avremo la certezza se mai lo prenderanno. Gli altri malfattori, invece,
discutevano tra loro. Credo che cercassero tutti di fregarsi l’un l’altro.
A un certo punto è uscita un’auto. Non è andata oltre il primo
sbarramento di polizia. Dentro c’erano Albert e i due sconosciuti.
All’alba, Faroux ha dato l’ordine di attaccare: Manganico e Laumier
non hanno opposto resistenza. Blanchard, invece, ha tentato di
fuggire. Gli hanno sparato e lui ha risposto al fuoco. Prima di essere
ferito, ha ridotto male uno sbirro e Laumier. Il poliziotto credo sia
stato colpito per caso e che se la caverà. Ma Laumier… Per lui non c’è
stato nulla da fare. Il tiro è stato incredibilmente preciso».
«Ah!».
«Quel Blanchard è una macchina per uccidere. Hanno trovato
tracce sospette, nella villa, che possono ricondurre alla malaugurata
sorte di Rabastens e Monique».
Micheline sospirò:
«Povera Monique!», disse.
«E l’auto di Blanchard», ripresi io, «la bella vettura che
ammiravano le comparse nel cortile degli studi, mostra tracce di uno
scontro. È stato davvero lui che mi ha spedito nel buco del cantiere, in
place de l’Alma».
Tony Charente tossicchiò:
«E Denise Falaise, che cosa sarà di lei?».
«Lo sapremo oggi pomeriggio. Montferrier la riporterà con il suo
aereo. Non credo ci sia alcuna accusa a suo carico. Potranno solo
rimproverarle le sue cattive frequentazioni. Non credo fosse al
corrente di nulla».
«Insomma, questa storia le darà solo pubblicità!», borbottò lui. «A
meno che…» (malgrado il mal di testa, unito ai postumi da sbornia, il
suo volto si illuminò…) «a meno che non ricada in un’altra
depressione nervosa».
«Sì», dissi. «Una depressione nervosa».

**
*

«Fantastico!», esclamò Montferrier per la decima volta. «Si


potrebbe farne un film!».
Gli occhi gli brillavano dietro le lenti degli occhiali con la
montatura d’oro. Succhiava la pipa con frenesia. Eravamo tutti riuniti
– il nostro ospite, la sua segretaria, Tony Charente e Denise Falaise
(Micheline era rimasta nel bungalow) – in un’ampia sala del suo
castello cubista, particolarmente luminosa, con bevande rinfrescanti a
pochi metri da noi e, dall’altra parte, un po’ più distanti, i fiori del
parco in technicolor. Avevo appena concluso il racconto, in stile
Nestor Burma, di quella storia che il produttore, tra il serio e il faceto,
già immaginava di adattare allo schermo.
«Un film in cui ci sarebbe un ruolo riservato alla mia auto», dissi.
«E anche a lei».
«Oh! Io ho più che altro bisogno di riposo».
Lo sguardo di Montferrier si soffermò su Denise Falaise, pallida,
l’aria distrutta:
«Piccola mia», fece. «Anche lei ha bisogno di riposo. Mi chiedo
come possa aver frequentato gente simile…».
«Oh! La prego», supplicò.
Andai in suo soccorso.
«Sa, gli assassini e i ladri all’inizio sono onesti. E finché non
esplode lo scandalo, niente li distingue da tranquilli e pacifici
cittadini. Tutti si possono sbagliare».
«Grazie, signor Nestor Burma», fece Denise Falaise.
I suoi occhi orlati di lunghe ciglia mi lanciarono uno sguardo
eloquente, che vibrava di gratitudine. Nella stanza vicina, suonò il
telefono. La signorina Annie andò a rispondere. Tornò e disse:
«È il signor Adrien Froment».
«Ah!…». (Il produttore si alzò). «Gli affari ricominciano in fretta.
Vado a rispondere, Annie. Ma lei resti con me. Voglio riesaminare
quel contratto…». (Si girò verso la star bionda). «Lei dovrebbe andare
a stendersi…».
«Sì… forse».
«Torno al bungalow», disse Tony Charente.
«Sembra che ci sia qualcuno ad aspettarla», sorrise Montferrier.
«Mio caro, fintanto che non commetterà sciocchezze di questo tipo…
Mio caro Burma, mi scusi, ma se ha voglia di svuotarmi la cantina, la
prego, faccia come a casa sua».
Uscirono e restai solo con Denise Falaise. Si era avvicinata alla
finestra aperta e guardava il parco. Alcune farfalle volavano da un
fiore all’altro. Si sentiva tubare un colombo e gli uccellini pigolavano
tra gli alberi. Presi la mano dell’attrice tra le mie. Era gelida. Feci
scivolare le dita lungo il suo braccio e cominciai a sbottonarle la
camicetta. Fino a quel momento aveva avuto le reazioni di un pezzo di
legno, era rimasta muta e immobile. Continuò a non dire niente, ma
si agitò un poco. L’attirai verso di me, strappandole il tessuto.
Apparve la ferita, sopra il seno destro, un seno magnifico.
«Se fossi cieco», dissi. «Se non avessi visto questo, Rabastens
sarebbe ancora vivo».
Lei rimase in silenzio. Il seno, rigonfio, si sollevava
tumultuosamente. Non tentò di coprirsi. Dolcemente, come per farle
una carezza, appoggiai un dito sulla sua cicatrice:
«Tra il 10 e il 15 di gennaio, vero? Il 12, per l’esattezza. E non
perché era gelosa di quella ragazza che aveva trionfato in Cette nuit
sera la mietine. Ma pur sempre per gelosia. La gelosia di Rolande
Laumier che ha scelto quel giorno per esplodere. La signora vi ha
sorpresi insieme, Laumier e lei. Lei è rimasta appena ferita da un
proiettile vagante. Ma Rolande Laumier è morta. L’abilissimo
Blanchard, che ci sa fare, deve aver fatto sparire il cadavere,
un’operazione che gli ha permesso di avere definitivamente il
controllo su Laumier. A proposito, Blanchard non parlerà. È un vero
duro. Laumier avrebbe potuto parlare, ma Blanchard l’ha
ammazzato…».
Nemmeno lei parlò. Dalla finestra entrò una farfalla, fece un giro
per la stanza e tornò nel parco soleggiato.
«…la gelosia è una brutta bestia», ripresi. «Lucie Ponceau non le
avrebbe comunque fatto ombra».
Lei trasalì. Un sibilo accompagnava i suoi respiri.
«…Ma rappresentava comunque tutto ciò che lei non avrebbe mai
potuto essere. Usciva dalla tomba. Trionfante. Ma stordita, insicura di
sé. Era così facile giocare su questo sentimento… facilitarle il
passaggio a un altro mondo… Mi sembra di sentirla mentre le
ripeteva che aveva ragione, che la capiva… com’era facile… e dolce…
con l’oppio… E poi, nella notte, ha telefonato, mettendo la sciarpa
sulla cornetta, per sapere se il suo piano era riuscito… e ha
riattaccato, appena ha sentito la voce di un uomo…».
Ancora niente. Aveva chiuso gli occhi. Le labbra erano solo una
linea sanguinolenta. Solo i suoi seni vivevano, sotto i colpi di maglio
del cuore.
«…Il suo trionfo è stato di breve durata. Il suo sgarro non è
piaciuto a Blanchard, che era già teso perché i suoi affari non stavano
prendendo la giusta piega. E per di più, Rabastens, avendo capito che
mi interessavo a lei e volendo scoprirne di più, ficcava il naso in giro
più di quanto non fosse lecito. Quella sera c'è stato un po’ di caos e gli
imprudenti sono stati fatti tacere. Rabastens il ficcanaso e Monique
che non voleva mollare la presa su Laumier, ora che era riuscita ad
avvicinarlo. E lei si è fatta prendere dalla paura… ed è partita con
Montferrier, non tanto per il possibile contratto, quanto piuttosto per
allontanarsi da quegli uomini… e dal teatro dei suoi misfatti… si è
fatta prendere dalla paura… Ormai, non se ne libererà mai più…».
Si mosse appena, aprì gli occhi e mi guardò a lungo, ma senza
dare l’impressione di vedermi. Aveva il petto ancora scoperto, gonfio
di linfa e di vita. Era difficile ammettere che quel petto e quel viso
appartenessero alla stessa persona. Il viso era irrigidito, livido, morto.
Distolsi lo sguardo, riportandolo sul parco così elegante, così
calmo… e fu allora che vidi due sagome sul maestoso viale che portava
all’enorme casa.
«Ecco gli sbirri», mormorai con voce sorda. «Faroux non si è
accontentato di quello che gli ho detto…».
Non aggiunsi che sarebbero stati cattivi. Che si sarebbero
vendicati con lei, giovane, bella e desiderabile, del fatto che le loro
mogli erano malandate, brutte e mal vestite.
«Ecco gli sbirri», ripetei.
Non rispose e io non dissi più nulla. Non avevo più nulla da dire.
Lentamente, con gesti lenti, si chiuse i lembi della camicetta sul petto
denudato. Mi guardò:
«Figlio di puttana!», gridò con la voce rotta dai singhiozzi.
Mi diede uno schiaffo.
Poi, senza fretta, si diresse verso la porta che si aprì prima che lei
riuscisse a raggiungerla. Sulla soglia apparve la sagoma ossuta di
Florimond Faroux.
«La stavo cercando», le disse.
Io, invece, non stavo cercando nessuno. Girai loro la schiena.

Parigi, 1956
1) Episodio storico che coinvolse il re francese Clovis I e che terminò con
la rottura di un vaso e di una testa. ↵

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