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Ferita al seno
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La visitatrice notturna
All’uscita del Crazy Horse, Marc Covet fermò un taxi per tornare a
casa e ci separammo. Raggiunsi gli Champs-Élysées a piedi. La hall
del Cosmopolitan, malgrado l’ora inoltrata, era illuminata a giorno.
Dietro il bancone di mogano, il portiere, rasato di fresco, sobrio ed
elegante, dava istruzioni a un giovane fattorino. Dal dancing nel
sottosuolo arrivavano i rumori soffocati di un’orchestra. A quell’ora
era insolito.
«Cosa succede?», chiesi all’impiegato quando mi tese la chiave.
«Gente del cinema, signore», mi spiegò.
Impeccabile, l’ascensorista sembrò spuntare da terra per aprirmi
la porta. L’apparecchio, rapido e silenzioso, mi lasciò al mio piano.
Entrai nell’appartamento, attraversai il salone e andai nella camera
da letto. Accesi la luce e feci qualche passo.
Fu allora che la vidi.
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Non è sempre vero quello che dice la gente. Per esempio che gli
ubriachi soffrono di allucinazioni terribili. Che vedono ratti, ragni,
elefanti o chissà quali altre bestie mostruose e ripugnanti. Non è
sempre vero… oppure io da sbronzo godo di un regime speciale.
Nel mio letto non c’era né un ratto né un ragno. Al massimo una
graziosa pollastrella.
Materiale protetto da Non più di vent’anni. Forse meno. Un
grazioso musetto sapientemente truccato, incorniciato da capelli
castani rossicci. Molto profumata. Calze trasparenti che mettevano in
risalto le belle gambe, smalto sulle unghie e orologio al polso.
Cercai una sedia e mi sedetti. Francamente mi sentivo preso
piuttosto alla sprovvista.
La ragazza nuda sospirò, fece un grazioso broncio, girò la testa sul
cuscino mentre con la mano tastava la metà del letto vuota. Aprì gli
occhi, ma li richiuse immediatamente, infastidita dalla luce. Mi alzai,
spensi il lampadario, accesi una lampada laterale meno abbagliante e
tornai a sedermi, senza dire nulla. La ragazza si mise a sedere sul
letto, si prese la testa tra le mani e si scompigliò i capelli. Sbadigliò,
riaprì finalmente gli occhi e mi guardò. Aveva l’aria infastidita e
confusa come se, vestita da capo a piedi, stesse comprando un
francobollo da un tabaccaio:
«Mi scusi», disse. «Credo… di essermi addormentata…».
La voce era carezzevole, calda, provocante. Studiata.
Maledettamente studiata. Aveva un bel corpicino slanciato, color
ambra. Il ventre piatto, i seni piccoli, ben disegnati e sodi, il viso
gradevole, lo notai una volta di più, ma avevo conosciuto stracci per la
polvere che esprimevano più intelligenza di lei.
«Mi sono addormentata», ripeté
«Sì», dissi io gentilmente. «Sbagliando stanza».
«Oh! Signore… ma…» (sgranò gli occhi) «…ma lei non è… oh!».
Un moto di pudore a scoppio ritardato. Si coprì con il lenzuolo e
mi guardò quasi con spavento: «Chi… è… lei?», balbettò.
«Il mio nome non le direbbe nulla».
«Lei è… nel cinema?».
«Niente affatto», risi, cominciando a capire il motivo del
quiproquo. «Devo essere l’unico, in questo albergo, a non occuparmi
di cinema. Che sfortuna, eh?…». (Mi alzai). «Bisogna che vai a farti
una dormita altrove, tesoro».
«Ma davvero! Che stupida sono!», esclamò lei, senza sapere
quanto avesse ragione.
«Dove sono i suoi abiti?».
«Laggiù».
M’indicò una sedia su cui era appoggiato il suo leggerissimo
equipaggiamento: camicetta scollata, gonna plissettata di colore
chiaro e i pezzi di biancheria intima strettamente indispensabili.
«E non provi a chiedermi di guardare altrove mentre si riveste,
eh?», l’avvertii, dandole per prime le scarpe con il tacco alto raccolte
vicino all’armadio. «Non le darei ascolto».
Scostò il lenzuolo con un gesto rabbioso e saltò sullo scendiletto,
cosciente della propria bellezza e con l’aria di sfida. Le passai gli abiti
uno a uno. Dopo lo strip-tease classico della bella Rita Cadillac,
questo strip-tease alla rovescia non mi dispiaceva affatto. Ma ero un
illuso se credevo di umiliarla.
«Evidentemente lei aspira a lavorare nel cinema», dissi durante
l’operazione.
«Sì».
«E lei conta su questi mezzucci…».
«Sì».
«Non ne esistono altri? Non ha mai sentito parlare di talento, per
esempio?».
Inarcò la schiena prima di allacciare il reggiseno e si osservò
compiaciuta allo specchio, rimirandosi da ogni lato.
«Un tempo», dissi, «il gregge stava dentro il pascolo. Adesso,
invece… ma lasciamo perdere. Come ha fatto a entrare?».
Non mi rispose, occupata com’era a sistemare le arricciature della
scollatura che le scopriva le spalle. Notai che sulla camicetta si
leggeva un nome, Monique, ricamato all’altezza del cuore. Mancavano
solo numero di telefono e orari in cui si poteva trovarla disponibile.
«È pronta? Suvvia, senza rancore, Monique. Un’altra volta sarà
più fortunata, non sbaglierà porta. Più fortunata… se così si può
dire…». (Fui preso da un raptus di collera e afferrai la ragazza per il
braccio). «Razza di stupida, che mi obbliga a farle la morale alle tre di
notte, quando sono pure mezzo sbronzo. Non può lasciar perdere
queste idee stupide e cercare di rifarsi una vita tranquilla, invece di
vendersi a non so quanti porci e magari in cambio di niente? Per Dio!
Ci sono tanti bravi ragazzi in giro per il mondo, magari uno che
lavora per guadagnarsi il pane, un meccanico, non so, un ragazzo
gentile che saprebbe renderla felice e che sarebbe felice lui stesso,
anche lui…».
«Un meccanico?», rise. «Merda! Grazie per l’aragosta!».
La lasciai.
«Si tolga dai piedi», dissi.
La riaccompagnai fino al corridoio, le tenni aperta la porta. Mi
passò davanti asfissiandomi con il suo profumo costoso, lo stesso
usato da Miss Grace Standford, profumo che doveva aver pagato in
natura. Mise un piede nel corridoio. Mi fissò con i suoi occhi caldi e
scuri. Vi si leggeva chiaramente: «Lei è un imbecille».
«Imbecille» a chiare lettere.
Disse:
«Ci vediamo presto, appena avrò trovato il meccanico».
Si allontanò con una camminata nervosa, i fianchi che
ondeggiavano, alla Marylin Monroe. Lo spesso tappeto ammortizzava
il rumore dei tacchi. Non aspettai che avesse raggiunto le scale per
richiudere la porta.
Dopotutto aveva ragione lei. Un meccanico! Per la miseria, stavo
diventando un poeta proletario. Di meccanici ne conoscevo. Le loro
donne erano gentili e carine, ma non erano certo starlette.
Mi diressi verso il bagno. In quel momento sentii – o mi parve di
sentire – un rumore furtivo in corridoio. Stava tornando? Aprii di
nuovo la porta. Il corridoio, nella solita penombra, era deserto.
Tornai al lavandino, bevvi un bicchiere di acqua tiepida e mi
svestii. Il letto conservava ancora l’impronta del corpo della graziosa.
Mi coricai e fui subito avvolto dalle ultime tracce del suo profumo.
Capitolo III
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È affascinante
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Eléphant-boy
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I rapaci
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Alle otto del mattino ero in piedi, un po’ confuso. Ma non lo sarei
stato di meno se fossi rimasto steso. Feci un bagno e chiesi che mi
portassero aspirine, caffè e acqua minerale, senza dimenticare i
giornali, quelli del giorno, del giorno prima e del giorno prima
ancora. In uno di questi scoprii il trafiletto che riportava l’arresto del
signor Manganico… Enrico Manganico. Non mi disse più di quanto
già non sapessi. Manganico!… Enrico Manganico!… Manganico
Enrico!… Ripetei quel nome che continuava a risvegliare in me strane
risonanze. Più continuavo, più mi sembrava familiare, non c’erano
altre parole. Era sicuramente dovuto ai colpi di manganello di Clovis,
un fenomeno di memoria istantanea… a meno che, semplicemente,
non mi ricordasse, per assonanza, il nome di Silvana Mangano,
l’attrice italiana che faceva vedere le sue belle curve in Riso amaro…
Mi occupavo di cinema, non bisognava dimenticarlo… Interruppe le
mie riflessioni l’impiegato della reception, tramite il telefono. Di sotto
c’era una certa Micheline Colladant che voleva vedermi.
«La faccia salire», dissi.
Aveva abbandonato l’uniforme da pin-up brevettata. Niente più
scollatura alla Berthe. Niente petto provocante. Appena quello che
serviva per attirare l’attenzione, ma senza nulla di aggressivo. Un filo
di trucco. Con la gonna leggera, di buon taglio, pudica per lunghezza
e colore, il portamento riservato, brava una giovane di buona famiglia
in visita per le feste… una giovane di buona famiglia cui però forse
non sarebbe stato il caso di affidare i cuginetti, a guardarla meglio.
«La disturbo, signore?», chiese.
«Niente affatto. Qual buon vento la porta qui?».
«Io… ero preoccupata. Volevo… assicurarmi che non le fosse
capitato nulla di brutto…».
«Credevo di averla rassicurata al telefono».
«Naturalmente, ma… dopotutto, è a causa mia se quegli uomini…
Le hanno fatto male?».
«Non è nulla. Un po’ di caffè?». Chiamai per farmi portare altre
bevande calde.
«Ancora nessuna notizia di Monique», disse Micheline
appoggiando la tazza.
«Nemmeno a me ne sono arrivate», sorrisi. «Lei crede che siccome
sono un detective…».
«Non è questo…». (S’interruppe e, imbarazzata, cominciò a
tracciarsi cerchi immaginari sul ginocchio con la punta del dito. Per
via di quel movimento, la gonna salì un poco, ma non sembrava un
gesto intenzionale). «Cercava Monique per darle un lavoro», si decise
infine a dire. «In mancanza di Monique, qualcuna che le assomigli…
moralmente… e lei ha pensato che io non fossi adatta… invece sono
proprio come lei!».
Me lo disse con un tono di sfida. Le lanciai uno sguardo
addolorato. Lei lo afferrò al volo:
«La deludo, vero, signor Nestor Burma?».
Alzai le spalle.
«Non ho un’opinione in merito», borbottai, burbero.
Oh! Se ce l’avevo, invece. E per nulla lusinghiera. Ma com’era
possibile! Erano tutte uguali? Questa era forse un po’ meno puttana
di Monique… ma cosa non erano disposte a fare per avvicinare Tony
Charente, la gloria dello schermo? Rimasi disgustato da me stesso per
aver pensato a un piano simile, esigendo la partecipazione speciale di
una starlette arrivista. Quando penso che avevo borghesemente
consigliato a Monique di scegliersi un fidanzato meccanico! I
meccanici… All’improvviso scoppiai a ridere e mi sentii meglio.
«Cosa c’è di divertente?», fece Micheline corrugando il naso.
«Niente. Del resto non è questo che mi fa ridere».
Adesso sapevo dove avevo sentito il nome di Manganico. O
pensato di sentirlo. Nessun rapporto con il tizio attualmente dietro le
sbarre o la scultorea protagonista di Riso amaro. Di tutte le frasi
scambiate con Monique, la più strampalata – rivolta a una ragazza di
quello stampo – mi era rimasta confusamente nella memoria, proprio
per via della sua enormità: la parola «meccanico» che avevamo
ripetuto, io per raccomandarne l’impiego, per così dire, lei per
respingerlo con disprezzo. Non c’era altra spiegazione a
quell’ossessione. Fantastico! Se il detective d’assalto iniziava a
impappinarsi così, era proprio pronto per la pensione. L’unica pretesa
possibile. Certo, avevo diritto a qualche attenuante, per via dei colpi
di Clovis… Liberato dalla mia ossessione, tornai a Micheline:
«Allora, vuole candidarsi?».
«Sì».
«Mi chiedo…».
Nel salone entrarono due tipi senza bussare né essersi fatti
annunciare dalla reception, due facce brutte quanto l’entrata del
commissariato: Florimond Faroux e uno dei suoi sbirri.
«Oh! Salve», dissi. «Eccovi qua! Si direbbe che siate della polizia».
«C’è poco da scherzare, Nestor Burma», fece il commissario. «Del
resto, si vede benissimo dalla faccia che non ne ha alcuna voglia.
Sembra stanco».
«Lo sono. E non è…».
«Basta così», tagliò corto lui sollevando una mano. Squadrò
Micheline con significativa insistenza.
«Non sia maleducato», dissi io.
«Non lo sia nemmeno lei e ci presenti».
«Micheline Colladant», borbottai. «Soddisfatto?».
Sul viso del commissario si contrasse un muscolo. «Micheline
Colladant? Benedetto Nestor Burma! Cosa fa nella vita, signorina
Colladant?».
«Artista», dissi io.
«Qualcuno le ha chiesto qualcosa?», ruggì. «Ne ho le scatole piene
degli artisti». (Si girò verso la pin-up)… «Può mostrarmi i
documenti?».
«Cosa significa? Andiamo bene!».
«Di bene in meglio, purtroppo. Può mostrarmi i documenti?»,
ripeté «Ho il diritto di chiederli. Nestor Burma non ha terminato le
presentazioni: sono commissario di polizia».
«Sì, signore», sussurrò Micheline, un po’ spaventata.
«Non abbia paura», intervenni. «Non morde».
«E nemmeno ingoio rospi».
Afferrò la carta d’identità che la ragazza gli porgeva dopo averla
tirata fuori dalla sua minuscola borsetta. La esaminò e la restituì alla
proprietaria.
«Dove abita?».
«Hotel Dieppois, rue d’Amsterdam».
«Buffo, eh, Fabre?», fece Faroux rivolgendosi all’ispettore.
«Sì», annuì l’altro, lugubre.
«Si può sapere…», azzardai io.
L’uomo della Tour Pointue mi fissò.
«Quando è troppo è troppo», disse.
«Sono d’accordo», risi io.
«Parlo di lei. È lei che esagera. 324-AB-75, le dice qualcosa? 324-
AB-75».
Dal tono con cui pronunciava il numero, non si trattava
sicuramente di quello che aveva vinto il primo premio alla lotteria.
«324-AB-75?», dissi.
«Sì».
«Merda! È la targa della mia auto».
«E dov’è la sua auto?».
«Non lontano dal Berkeley. Da ieri sera».
«Errore, vecchio mio. È nel deposito della polizia».
«Nel deposito? Allora continuate? Operazione Gru. Operazione
Farfalla. Op… per Dio! Non mi dica… non mi dica che mi hanno
rubato l’auto e l’hanno usata per rapinare una banca. Sarebbe il
colmo».
«Sì, una rapina in banca aggiungerebbe un tocco al quadretto»,
fece lui, sarcastico. «Ma ancora non ci siamo. Nell’attesa, andiamo a
dare un’occhiata alla macchina. Tutti insieme».
Uscimmo dal Cosmopolitan da una porta sul retro. Una Renault
della prefettura ci aspettava a pochi metri di distanza. Ci salimmo.
L’auto partì.
«Sembra che abbia un bernoccolo alla base del cranio», osservò
Faroux.
«Ho sbattuto contro una porta».
«Camminava all’indietro?».
«Possibile».
«Comincia a darmi sui nervi, Nestor Burma! Mai che faccia una
cosa come gli altri. Quando una donna si suicida, si trova al suo
capezzale; quando un giovane si fa ammazzare, fa di tutto perché sia
una sua conoscenza da bar; quando rubano un’auto, ci mette la
propria… Glielo ripeto: quando è troppo, è troppo».
«È lei che esagera», risposi.
E a quel punto chiudemmo tutti il becco. Micheline cominciava a
pentirsi di avermi fatto visita. Le accarezzai la mano.
Al deposito erano una mezza dozzina a darsi da fare attorno a una
macchina: la mia.
«Allora?», fece Faroux. «Nessun errore, eh? È questa?».
«Sì», risposi. «Ma non aveva quell’ammaccatura sul parafango».
«Effetto di uno scontro».
«Posso chiederle come è finita qui?».
«L’hanno trovata, lungo cours la Reine. Un piccolo problemino al
motore».
«Un piccolo problemino? Vuole dire completamente andata?».
«No. Assolutamente no».
«Meno male. Quando posso riprendermela?».
«Quando avremo finito…». (Si rivolse ai ragazzi che circondavano
l’auto). «Avete preso tutte le impronte?».
«Sì, capo», fece uno dei ragazzi. «Ma non so se servirà a qualcosa.
Ce ne sono tantissime e…».
«Vedremo… E adesso, Nestor Burma, se vuole seguirmi…».
Risalimmo sull’auto ufficiale. Nel frattempo, l’ispettore Fabre e
Micheline erano scomparsi. Chiesi di loro.
«Li vedremo dopo», disse il commissario.
«Dove stiamo andando?».
Non rispose. Corrugai la fronte. E la corrugai ancora di più quando
ci fermammo davanti… all’obitorio, tutto risplendente sotto il sole
caldo di giugno. Ma non dissi nulla. Non so cosa avrei potuto dire.
Sempre in silenzio, eccetto per il rumore dei nostri tacchi sulle
piastrelle splendenti, arrivammo al frigo.
«Il 15», disse Faroux a un impiegato in casacca grigia e volto dello
stesso colore.
L’altro si mise a frugare nei suoi macabri cassetti. Faroux disse:
«Ecco perché credo che stia esagerando, Nestor Burma. Per quello
che conteneva il baule della sua auto».
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Era nuda. Era sempre nuda! Il corpo non aveva più quella delicata
sfumatura color ambra, così calda, ed era sgradevolmente bianco. I
seni, sodi e pieni, sembravano volersi ancora alzare, in un ultimo
sussulto d’orgoglio. La capigliatura castano rossiccio, in disordine, le
nascondeva una parte di viso, poc’anzi così grazioso, sfrontato,
provocante; un bel musetto che era ormai contratto in una smorfia di
terrore, incredulità e dolore e sul quale stava sbiadendo il trucco,
livido e respingente. Nel collo si vedeva un maledetto piccolo orifizio.
Buco minuscolo da cui era fuggita la vita di questo magnifico animale
da piacere. Accidente che aperitivo, Faroux!
«Per Dio!», esclamai. «Monique!».
«Sì. Monique Grangeon», disse il commissario. «Alloggiata
all’hotel Dieppois. Dove sta anche la sua amica, artista come lei.
Micheline Colladant, con la quale lei sembra avere rapporti piuttosto
stretti…». (Indicò il corpo con un improvviso movimento del mento).
«La conosceva bene?».
«L’ho vista una volta».
«La gente che lei frequenta solo accidentalmente non ha fortuna, è
il minimo che si possa dire. Insomma… può richiudere, Alfred. Venga,
Nestor Burma. Andiamo in commissariato».
Lo seguii titubante. Mi sembrava di lasciarmi dietro un odore di
cadavere. Come il giorno prima.
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«Per fortuna mi aveva detto che sarebbe stato franco con me», fu il
benvenuto che ricevetti da Tony Charente.
«Non mi sgridi», gli consigliai. «Sembra molto nervoso».
«Lo sono. Ha bisogno di spiegazioni?».
«No. Dov’è la mia… segretaria?».
«Nel bungalow. Intatta. Mi sarebbe bastato soffiare per farle
volare via gli abiti, ma non l’ho fatto. Ormai so come vanno queste
cose…». (Bene. L’avevo sottovalutato. A te, Nestor).
«Sembra che abbia dimenticato la pipa…».
Mi avviai verso il bungalow. Micheline era seduta sul divano, che
giocava con il cane del guitto. Era chinata in avanti e una scollatura
da capogiro lasciava vedere più di quanto non avrebbe fatto un
costume da bagno.
«Buongiorno», dissi.
«Buongiorno, signore».
«Ci vuole lasciare un istante soli? Vada a passeggiare dalle parti
della piscina con quel cane e cerchi di annegarlo…».
Lei uscì. Tony Charente abbozzò un sorriso:
«Ebbene!», fece. «Astuto il famoso Nestor Burma! Credevo che la
storia della sorveglianza fosse una finta. L’aveva detto lei stesso. E poi
mi manda una spia. Classico, a parte che di solito le spie sono bionde
e la sua è mora».
«È fatto apposta, per camuffarla meglio. Quanto all’essere franchi,
mi chiedo invece cosa dovrei dire io. Mi ha praticamente raccontato la
storia della sua vita, ma ha dimenticato di dire che era stato l’amante
di Lucie Ponceau».
«Cosa gliene può fregare?».
«Niente. Ma lei, che capisce così in fretta, cerchi di capire anche
questo: gli sbirri spulciano tra le relazioni presenti e passate della
vecchia attrice…».
«Perché? Non è un suicidio?».
«Sì, ma un suicidio particolare. Verranno da lei, con il loro passo
da elefante, perché hanno trovato una sua foto, con tanto di dedica
che non lascia alcun dubbio, sui rapporti che intratteneva con Lucie
Ponceau, non so in che periodo…».
«Tanto tempo fa».
«Tanto o poco, non importa. Sanno anche che, in passato, lei si
drogava. Faccia lei i conti. Non è un’operazione molto difficile».
Si sedette, improvvisamente affranto.
«Merda!», imprecò. «Ma cosa ho fatto di male al Buon Dio? Oh! E
dopotutto, merda! Che vengano, gli sbirri, e che mi arrestino, al
diavolo Montferrier. Se resterà solo quella suonata di Denise Falaise a
salvare il suo film, gli starà proprio bene…».
Imprecò ancora un paio di volte. Ben presto ci saremmo stati
dentro fino al collo.
«Non cerchi di mescolare le carte infilando Denise Falaise in una
storia in cui non c’entra nulla», dissi. «Non vorrà dirmi che fa parte
della produzione?».
«Quasi. Lei che sa tante cose, si è fatto sfuggire questa? Stanno
cercando di rifilarmela. Ha infinocchiato Montferrier, che è ripartito
per la Costa Azzurra portandosela dietro come bagaglio extra. E non
avrò la fortuna che l’aereo precipiti…».
«Pensavo fosse sotto contratto con Laumier. Del resto sta girando
con lui in questo momento».
«Montferrier pagherà la penale. Non è la prima volta che fa una
cosa del genere. E Laumier, che è al verde, sarà contentissimo di avere
la grana. Così, quando avrà finito il film di cui parlava lei adesso, me
la ritroverò io. Una simile stronza! Invidiosa e tutto. E le assicuro che
so di cosa parlo! Sembra che si senta l’animo da grande artista. Ma
non mi faccia ridere. Una grande artista! Da quando?».
«Da sempre, pare».
«Ah, sì? L’ha sentito dire anche lei? Non lo ha mai dimostrato,
però».
Ricominciava a mescolare le carte. Lo interruppi:
«Per tornare a lei, non capisco perché nascondere la sua relazione
con Lucie Ponceau. Se ne vergognava?».
«Certo che no! Non si può che provare orgoglio per aver avuto
come amante una donna di quel genere, una grande attrice, perché lei
sì che lo era, una grande attrice…».
«Allora?».
«Non avevo alcun motivo di dirglielo. E poi, per la miseria!, si
metta al mio posto. La morte di Lucie è stato un brutto colpo, ma non
volevo esserci coinvolto. Da tempo ho recuperato le mie lettere e le
mie foto… evidentemente ne ho dimenticata una. No, ne ero fuori e
volevo restarci, per via delle particolari circostanze del suicidio e delle
mie vecchi abitudini… che riprenderò. Per Dio! Se è l’unico modo per
far ragionare Montferrier.
«Non faccia questa sciocchezza».
«Stavo scherzando. Beviamo qualcosa?».
«Volentieri».
Andò a cercare in frigorifero.
«Chiamiamo la sua spia a bere con noi?».
«Non è una spia. Micheline è una di quelle ragazze che sognano di
fare del cinema e di avvicinare star come lei. Sapeva che io la
conoscevo e si è servita del mio nome per incontrarla… Non gliene
voglia e se anzi un giorno potesse fare qualcosa per lei… Non è affatto
sciocca…».
Non fece né sì né no e riempì i bicchieri.
«Comunque, non avrà più nulla da temere», proseguii. «Lascio
perdere. Restituirò a Montferrier i suoi soldi…».
Non potevo fare altrimenti, dopo aver detto tutto a Faroux.
«Montferrier diventerà pazzo», rise Tony Charente. «Già mi vedrà
strafatto di droga tutti i giorni e si sentirà impotente a evitare la
catastrofe. La mia vendetta inizia con le sue buone parole, Nestor
Burma!».
«Proprio non le va giù che vogliano affiancarle Denise Falaise,
eh?».
«È una rompiscatole. E poi, nelle scene in cui lei si sveste, l’uomo
finisce sempre in secondo piano! A nessuno spettatore è mai
interessato sapere il nome del coprotagonista maschile dei suoi film.
Le sue forme invadono lo schermo».
«È per questo? Buffo! Ma… sembra che si svesta sempre meno».
«Così dicono. Nell’ultimo film, per esempio, e in quello che sta
girando ora. Doveva preparare il terreno ai grandi ruoli vestiti a cui
aspira… Alla sua, Burma, e grazie della sua decisione. Quando
Montferrier verrà a saperlo, sarà talmente preoccupato della mia sorte
che lascerà perdere Denise per correre qui. Quella è capace di farsi
venire un’altra crisi depressiva».
«Le capita spesso?».
«Le è capitato. Sempre per invidia. Era gennaio. Il 12, per la
precisione. Mi ricordo la data perché il giorno prima era stato
presentato Cette nuit sera la mienne, un film in cui aveva trionfato
Paulette Poitou, una ragazza che ha fatto la gavetta contando solo
sulla forza del proprio talento e senza far vedere un centimetro di
pelle. Era più di quanto Denise potesse sopportare. Si è ammalata. E
il rapporto causa-effetto tra la sua depressione e il successo
dell’attrice sconosciuta era talmente lampante che hanno preferito far
passare tutto sotto silenzio. Si poteva ricavarne un po’ di pubblicità,
ma l’origine della malattia era così meschina che poteva rivoltarglisi
contro. Allora, tutti zitti. Denise è andata a farsi curare non si sa
dove».
«E dopo ha girato Mon coeur vole, il film alla nuova maniera?».
«Sì. Uno schifo. Ma una volta presi dalle manie di grandezza…
Adesso, quell’idiota vuole recitare con me, in una produzione
Montferrier. Ci sarà da ridere».
«Bene. Si diverta. Le affido Micheline ancora per qualche istante,
il tempo di andare a licenziarmi dalla signorina Annie».
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Il malocchio
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Quel Froment doveva avere delle anguille tra i suoi avi. Non aveva
pari per scivolare tra le dita. Bastava che mi annunciassi in un posto
perché lui sentisse il bisogno di sloggiare sotto i miei occhi. Quando
arrivai in vista del suo domicilio, in rue Jean-Goujon, non lontano
dalla cappella edificata sul luogo occupato dal celebre Bazar della
Carità, si rimise al volante della Cadillac e partì immediatamente. Lo
seguii senza esitare. In ogni caso, mi avrebbe portato da qualche
parte.
Mi portò a Neuilly. Per un momento pensai che stesse tornando
dalla signorina Annie, ma non era così. Prese avenue de Madrid,
boulevard Richard-Wallace – l’uomo che ha lo stesso nome di alcune
fontane -, entrò nel Bois de Boulogne, ne riuscì. Perbacco! Se era in
cerca di una mezz’ora di soddisfazione a basso prezzo, io stavo
perdendo il mio tempo! Alla fine, giunto dalle parti di porte de
Bagatelle, si fermò davanti a una piccola proprietà di lusso con un
grande giardino. Lo vidi scendere dall’auto e suonare al cancello.
Dopo un istante, vennero ad aprirgli e lui e la sua Cadillac
scomparvero dal mio campo visivo.
Rimisi in moto l’auto, passai davanti alla proprietà in questione,
mi fermai un po’ più lontano e tornai sui miei passi, da vero amante
delle passeggiate solitarie. Secondo la targa di rame, fissata a uno dei
pali dell’ingresso, il posto si chiamava Les Pins Parasols. In effetti,
dall’altra parte del cancello erano piantati due grandi pini. Non c’era
alcun nome del proprietario o altro. In fondo a un sentiero cementato
vidi una casa dalle forme eleganti. La Cadillac di Froment era
parcheggiata lì davanti. Non un bipede all’orizzonte. Dal Bois de
Boulogne uscì una farfalla gialla, volteggiò fino a metà del viale, poi,
spaventata da due auto che procedevano spedite, tornò ai suoi
cespugli.
All’improvviso, scoppi di risa turbarono la pace di quel pomeriggio
umido. Sembravano ragazzine a cui stessero facendo il solletico.
Prurito o meno, quella manifestazione di allegria proveniva da una
villa vicina ai Pins Parasols. O perlomeno lo supponevo. Nessuno in
vista, nemmeno lì. Feci qualche altro passo verso un cantiere in
costruzione poco distante. Tra una sorsata e l’altra dalla bottiglia di
vino rosso, un ragazzo impastava del gesso. Lo guardai fare. L’operaio
interruppe il proprio lavoro per guardarmi a sua volta. Nelle
vicinanze, le risa, che si erano placate, ripresero più forti che mai.
Dissi: «C’è chi non si annoia».
«Basta avere soldi e compagnia», fece il tipo.
«Comunista, amico?».
«Accidenti, no. Non da quando quei riccastri del cinema hanno
preso la tessera del Partito, in ogni caso».
«Sono riccastri del cinema?».
«Non so. Ma più in là c’è una che ha fatto dei film: Denise Falaise.
Non l’ho mai vista, ma sembra che ci tenga molto all’abbronzatura!
Allora le altre stanno a spiarla ed è per questo che ridono. Non è che
anche lei è venuto qui per dare un’occhiata e magari sta pensando di
salire sull’impalcatura, per caso? Qualche giorno fa, ho cacciato via
due tizi… Lo dico per avvisarla: a me queste cose non vanno proprio
giù!».
«Più virtuoso di Robespierre», dissi.
«Virtù o non virtù», rispose, «nel cantiere non si può entrare».
Mi distrasse il rumore di un motore. Sempre con il suo modo da
anguilla, Adrien Froment si apprestava a sloggiare. Un uomo, in piedi
vicino al marciapiede, con l’aria di aggrapparsi alla portiera della
Cadillac come un ubriacone al bancone di un bistrot, lo salutava.
Quell’uomo era Laumier.
La Cadillac si diresse verso la Senna. Laumier rientrò ai Pins
Parasols. Io tornai alla mia auto, mi accomodai sul sedile rovente e
rimasi lì, più inattivo di un salame, con la pipa in bocca. Alcune
mosche ronzavano pesanti nell’aria che vibrava per il calore. Nella
villa in cui ci si divertiva, le ragazze a cui facevano il solletico
continuavano a emettere gridolini e ridere come matte. Vediamo…
Denise Falaise viveva ai Pins Parasols. Era partita insieme a
Montferrier alla volta della Costa Azzurra e Laumier aveva preso il
suo posto qui, forse perché l’arredo ispirava più familiarità di una
camera d’albergo, per quanto di lusso, se si avevano affari da
trattare… Che sottile ragionamento, Nestor Burma! Un vero colpo di
genio, hai una carriera davanti a te. Ma attenzione a non buscarti una
meningite con tutto questo spremerti la testa. Meglio rientrare al
Cosmopolitan a bere qualcosa di fresco. Allungai la mano verso il
cambio. Una voce disse:
«Oh!… oh! Ma è il signor Nestor Burma!… Che sorpresa, signore».
Lo era anche per me. Era Jean, il tirapiedi-factotum di Laumier,
che portava a passeggio un cane. Non lo avevo visto avvicinarsi.
Abbozzai un sorriso tirato. Non ero contento della situazione.
«Lei capita a fagiolo per trarmi d’impaccio», dissi. (Era
esattamente il contrario). «Volevo vedere il signor Laumier e mi
chiedevo… è possibile incontrarlo?».
«Direi di sì, signore».
«Ha lasciato il Cosmopolitan…» (assenso con la testa del
tirapiedi) «e ho saputo agli studi che non girava…» (nuovo assenso,
comprensivo e tutto) «e… insomma, sono detective…» (sorriso idiota
da parte mia) «mi sono procurato l’indirizzo del suo rifugio… volevo
vederlo, ecco tutto!».
Altro assenso accompagnato da un movimento della testa:
«Certo signore. Entra con la sua auto o vuole lasciarla qui?».
«Entrerei con l’auto».
«In questo caso, vado ad aprirle il cancello e ad avvertire il signor
Laumier della sua visita».
Facendo manovra, pensai più velocemente che potei. Avevo fornito
una giustificazione plausibile della mia presenza nella zona. Vedere il
suo capo. Ma, adesso, cosa avrei raccontato a Laumier? Impossibile
affrontare la storia del tridimensionale. All’improvviso ebbi un’idea.
Una trovata che avrebbe sistemato tutto. Agli occhi di Laumier la mia
reputazione ne avrebbe sofferto, ma degli occhi di Laumier me ne
fregavo…
…Del resto, a cosa potevano servirgli? Erano distratti, annebbiati.
Ci misero un bel po’ di tempo a mettermi a fuoco. Spaparanzato su
una poltrona del grazioso soggiorno, con il sigaro in bocca, la mano
pelosa alla portata di un vassoio ricolmo di tutto ciò che serviva per
ritrovarsi in balia di un pesante mal di testa il giorno dopo, Laumier
covava un principio di sbronza che chiedeva solo di crescere:
«E allora?», abbaiò. «È un amico di Montferrier, mi ha detto. È
stato lui a mandarla?».
«No. Del resto non è un mio amico. Lo conosco appena. Come
conosco lei. È tutto».
«È uno stronzo».
Prese una bottiglia, si versò da bere senza invitarmi a fargli
compagnia. «Possibile».
«Glielo deve dire. Voglio che glielo dica».
A quel punto, dalle vetrate aperte ci arrivarono grida e risate.
«Senti quei cretini», disse il produttore. «Si vede che hanno la
pappa pronta. Sa cosa cercano di fare? Tra un po’ entreranno
direttamente in casa. Guardano da sopra i muri. Cercano Denise
Falaise. Ma possono cercare quanto vogliono. Me l’hanno portata via,
Denise. Oh! Ma non finirà così! Per Dio! Non la rinchiuderanno
mica».
«Si faccia valere», suggerii. «È il solo modo».
Mi lanciò un’occhiata torva e sputò un insulto. Nessun dubbio, era
rivolto a me. Era un buon pretesto per congedarmi:
«Tornerò quando sarà più socievole», dissi.
«Resti», berciò lui. «E mi dica cos’è venuto a fare qui, visto che
non viene da parte di Montferrier…».
E mi lanciò un’altra ingiuria. Ah! Era così, eh? Ebbene…
«Mi ascolti attentamente», dissi. «Ne vale la pena. L’altro giorno
le ho mentito. Lavoro effettivamente per conto della signora Rolande
Laumier».
«Cosa?».
Mollò tutto. Il sigaro che aveva in bocca e il bicchiere in mano.
Fece un balzo sulla poltrona. Se alle mie spalle ci fosse stato uno
spettro che gli faceva le boccacce non avrebbe sortito lo stesso effetto.
«Sì», proseguii io. «Ma si può trovare qualche scappatoia».
Mi guardò, era tornato quasi sobrio.
«Qualche scappatoia», ripresi. «Non so se capisce cosa intendo…».
«Niente da fare. Non me la bevo».
«D’accordo. In questo caso, non ho più nulla da fare qui».
«Un momento!», guaì.
Il suo sguardo, che si perdeva oltre la finestra, tornò su di me.
«Jean!».
L’uomo di fiducia apparve immediatamente.
«Porti un’altra bottiglia. Credo che il signor Nestor Burma…».
«Niente da fare», feci io a mia volta. «Lei ha detto no. È no. Non
sono un venditore di tappeti. Non voglio perdere tempo a
mercanteggiare».
Mi si offriva l’occasione di filarmela, di tirarmi fuori da quella
situazione spinosa e ridicola. Girai i tacchi e uscii dal soggiorno.
Dietro di me sentii Laumier scoppiare in una risata da ubriaco e bere
dalla bottiglia, o qualcosa del genere. Jean mi seguì senza dire una
parola. Mi aprì il cancello e io mi apprestai a superarlo:
«Arrivederci», dissi.
I suoi occhi erano fissi sui giovani abitanti della casa vicina, gli
allegri ridanciani che vedevamo su una terrazza:
«Marie-Chantal e compagnia», disse lui. «Pigri, parassiti e
guardoni».
Virtuoso anche il tirapiedi. Virtuoso e puritano. C’era proprio di
tutto tra la gente del cinema!
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Agguato al buio
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«Più paura che altro, si direbbe», fece un tizio che era sceso nel
buco e mi guardava di là dal finestrino.
Sembrava il guardiano del cantiere, con una zazzera da
vagabondo. La sua giusta osservazione valeva più o meno anche per
l’auto a noleggio, ma c’era da dubitare che al garage specializzato me
ne avrebbero concessa un’altra. Con il muso era finita contro un
mucchio di detriti, provocato forse dalla sua caduta, evitando per un
pelo una trave che l’avrebbe trafitta da parte a parte. La catastrofe
non si era verificata solo perché l’altro, urtandomi per completare
l’opera, mi aveva fatto deviare. Ma il parabrezza e un parafango erano
da sostituire. Personalmente, avevo avuto la fortuna di essere stato
sbalzato dal sedile, cosa che aveva impedito alla mia cassa toracica di
essere schiacciata dall’impatto con il volante. Mi ero solo un po’
ammaccato la testa, ma niente di grave. Aprii la portiera, il cui
meccanismo non era stato danneggiato, e uscii dalla vettura inclinata.
Attorno al buco erano chinati cinque o sei curiosi, delusi di vedermi
uscire praticamente indenne. Con l’aiuto del guardiano mi issai fuori
dal buco.
«Che botta!», disse qualcuno.
«In effetti», approvai. «Avete visto niente?».
«È stato speronato».
«Da cosa?».
«Una grossa auto».
«Una Cadillac?».
«Non saprei. So solo che era un’auto grossa, come se ne vedono
parecchie».
«Avete avvertito la polizia?».
«Eccola che arriva».
Un’auto di servizio si annunciava a sirene spiegate.
«Dite loro che torno subito», lanciai.
Scartai i curiosi e mi misi a correre. Feci il giro del piccolo
quadrato di place de la Reine-Astrid e mi infilai in rue Jean-Goujon.
A casa del signor Adrien Froment, mi aprì la cameriera:
«Desidererei vedere il suo capo», dissi.
«È uscito, signore».
«Da parecchio?».
«No, da non molto».
«Con la sua auto?».
«Il signor Froment esce sempre in auto».
«Sa dov’è andato?».
«No, signore».
Tornai in place de l’Alma. Si erano aggiunti alcuni curiosi e cinque
o sei poliziotti.
«Ecco il signore», fece il guardiano del cantiere.
«Da dove viene?», fece uno degli sbirri.
«Ho fatto quattro passi per schiarirmi le idee».
«Mi sembra tutto piuttosto strano. Andiamo in commissariato».
Mi fecero salire in auto e arrivammo al commissariato di rue
Clément-Marot. Lì, i poeti del luogo cominciarono a rompermi
talmente le scatole che vidi un solo modo per tirarmene fuori:
chiamare Florimond Faroux in mio soccorso.
«Fatemi telefonare», dissi. «In commissariato o a casa».
«Lo faremo noi», fece un agente.
Poco dopo tornò con un ampio sorriso:
«Casca proprio a fagiolo. Il commissario Faroux la stava
cercando».
E mi afferrò per un braccio, come temesse che prendessi il volo.
Eppure non tirava un alito di vento.
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Finalmente si fa giorno
Droga a volontà
Il giorno finisce
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Parigi, 1956
1) Episodio storico che coinvolse il re francese Clovis I e che terminò con
la rottura di un vaso e di una testa. ↵