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CHARLES DUCHAUSSOIS

Flash Katmandu il grande viaggio

romanzo
SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE – TORINO
Prima edizione, maggio 1972
Seconda edizione, giugno 1972
Terza edizione, luglio 1972
Quarta edizione, luglio 1972
Quinta edizione, aprile 1977
Sesta edizione, settembre 1979
Settima edizione, aprile 1980
Ottava edizione, giugno 1981
Nona edizione, ottobre 1982
Decima edizione, giugno 1983
Undicesima edizione, maggio 1984
Dodicesima edizione, giugno 1985
Tredicesima edizione, aprile 1987
Quattordicesima edizione, maggio 1989
Quindicesima edizione, maggio 1991

Titolo originale dell'opera:


Flash ou le grand voyage
© Libraire Arthème Fayard, Paris

Traduzione di Ferruccio Voglino

© by SEI • Società Editrice Internazionale Torino 1972


Stabilimento Grafico SEI • Torino
ISBN 88-05-04787-2
A Bernard Touchais,
che mi ha strappato
questa confessione
PRESENTAZIONE
Flash, in inglese, vuol dire: lampo.
Per un drogato, vuol dire: spasimo.
Il flash è ciò che succede nel corpo di un drogato quando la droga, spinta dallo stantuffo della
siringa, entra nelle vene.
Ha la violenza del lampo e l'intensità dello spasimo.
Un giorno ho dato a una ragazza quella polvere appiccicaticcia, giallognola, che scorre quasi a
fatica nel palmo della mano, e che è l'eroina, il «cavallo».
La ragazza stava per venir meno.
Piangeva torcendosi le mani, mentre preparavo l'iniezione.
L'ho calmata, dolcemente, con parole tenere, mentre riempivo la siringa.
Le ho legato il braccio, le ho bucato una vena sporgente nella piega del gomito, ho infuso quel
liquido, fatto d'una mescolanza d'acqua e di polvere.
Più il liquido entrava nella sua vena, più la ragazza si rovesciava all'indietro, i suoi occhi si
velavano, le sue gote arrossivano, e lei ansimava.
Infine si lasciò andare, gemendo di piacere, sul letto.
Poi sembrò che si addormentasse, placata, felice.
Aveva avuto il suo flash.
Era «partita», «viaggiava», stava «sprofondando».
Allora, a mia volta, mi ero fatto l'iniezione. E a mia volta avevo avuto il mio flash, avevo
viaggiato, ero sprofondato.
Non c'è che l'iniezione — lo shoot — che dà il flash.
Ecco perché il vero drogato, un giorno o l'altro, giunge fatalmente all'iniezione.
E diventa un junkie.
Un dio.
O uno straccio.
A scelta.
UNA VALIGIA PIENA DI SABBIA

Prima parte

1.
Per me, il cammino della droga e cominciato con una scheggia d'obice nell'occhio, quando non
ero ancora cosciente. Avevo quattro mesi e otto giorni, quel mattino del giugno 1940, quando gli
aerei tedeschi bombardarono la stazione di smistamento di Busigny vicino a Cambrai.
I miei nonni paterni possedevano una piccola fattoria. Avevano accolto in essa mia madre, mio
fratello maggiore, e me, dopo la notizia che mio padre, ufficiale, era stato fatto prigioniero sulla
Mosella. I bombardamenti, mi hanno raccontato più tardi, si succedevano sulla stazione da alcuni
giorni con tale frequenza, che quel mattino, all'alba, mio nonno aveva riempito la sua auto di valige
e noi eravamo così entrati nella lunga colonna di profughi che rifluiva verso il sud.
Siamo appena partiti, che una gragnuola di bombe fuori bersaglio rade al suolo la nostra fattoria.
Poi gli Stukas sono risaliti, con le sirene urlanti. Hanno fatto tre passaggi prima di ripartire
definitivamente verso l'est, e mi hanno detto che mia nonna pregava a voce spiegata per ringraziare
il cielo di averci risparmiati. Poi mia madre si è messa a gridare.
Nell'improvviso silenzio io, allungato in fondo al fosso in cui avevano coricato mio fratello e me,
strillavo con tutta la potenza dei miei piccoli polmoni. Il lato sinistro del mio viso era in un bagno di
sangue.
Mi hanno lavato con l'acqua d'un thermos. Una fenditura, piccola ma netta e ben visibile, solcava
il mio globo oculare nella sua lunghezza.
Non c'erano medici nella colonna di profughi. Quattro giorni dopo, al nostro arrivo a Parigi, la
piaga era cicatrizzata, ma l'occhio aveva preso la tinta lattiginosa che ha ancora adesso.
Se fosse stato curato subito, il mio occhio sarebbe stato salvato, perché la scheggia lo aveva
appena scalfito. Ora non c'era più niente da fare. Io ero orbo.
«Orbo», «sgorbio». Sono, tra gli altri, i nomignoli che mi hanno accompagnato nella scuola,
dalle elementari fino alle superiori.
Per quanto risalga indietro nei miei ricordi, mi trovo sempre «scartato». I sarcasmi degli uni, e le
gentilezze esasperanti degli altri, m'hanno fatto accumulare una solida diffidenza verso il prossimo.
E mi viene una voglia, che cresce sempre di più, di non fare nulla come gli altri, dato che io «non
sono come gli altri».
Tuttavia cerco di «integrarmi». Dopo aver dato l'esame di ammissione, entro all'istituto tecnico
commerciale. Persuaso dai miei genitori, i quali pensano che col mio handicap non possa aspirare
ad altro che a un impiego in ufficio, voglio diventare ragioniere. A vent'anni, mentre preparo questo
diploma, lavoro alla Pile Zoé di Chàtillon. I miei genitori sono contenti di me: il bambino solitario,
da duro e chiuso che era, sembra guarito. E il mio volto «scartato», invece di nuocermi, mi procura
grossi successi presso le ragazze.
È la faccenda della mia patente di guida che scatena il vulcano, la cui ultima eruzione mi getterà,
scheletrito e bruciante di febbre, su un aereo dell'Air France con destinazione Orly, il 10 gennaio
1970, rimpatriato a spese dell'ambasciata di Francia da Katmandu.
La scena si svolge nell'aprile 1962, sui viali della periferia di Parigi.
Con i miei risparmi ho appena finito di pagarmi un'auto. Una volta presa la patente, l'auto sarà
mia.
Mi piace guidare, e conosco il codice sulla punta delle dita. All'esame non commetto alcun
errore.
Salvo quello di voltare la testa, sorridendo, verso l'esaminatore alla mia destra, mentre riempie il
foglio rosa del permesso provvisorio intestato al mio nome.
«Ciò cambia tutto — mi dice facendosi scuro. — Bisogna che passi una visita medica. Poi
tornerà».
E straccia il foglio rosa.
Uscendo dall'auto, io odio il mondo intero; ma quella sera annuncio con tono trascurato ai miei
amici che ho superato l'esame «a mani alzate». In fondo è vero.
Qualche giorno più tardi la vettura, una «ID 19», è intestata a mio nome, e le sue chiavi sono in
tasca mia.
Non taglio i ponti tutto d'un colpo. Saranno le mie difficoltà di «autista senza patente» a
decidermi progressivamente a passare dall'altra parte della barriera.
Com'era inevitabile, un giorno mi faccio pescare da un controllo della polizia. Me la cavo, riesco
ad aggiustare la faccenda. Continuo a guidare, e i fastidi ricominciano.
Ma molto presto prendo un gusto formidabile a non essere in regola. A pensarci bene, non è che
un altro modo di essere orbo…
Poi le cose precipitano. Dapprima prendo l'abitudine di ospitare in casa i complici delle mie
baldorie. Il mio appartamento in Rue des Frères-Keller diventa il centro d'una festa perpetua.
Accumulo debiti, e allaccio cattive relazioni.
Nel novembre 1962 l'ID 19 mi viene definitivamente confiscata. Il lunedì seguente non vado più
in ufficio. Con 500 franchi in tasca, in blue-jeans, bavero rialzato e blouson addosso, uno zaino
sulle spalle, occhiali neri sul naso, prendo il metrò per Porta d'Orléans e parto in autostop alla volta
di Marsiglia. Sono solo.
L'avventura comincia…
2.
Da allora, fino al mio primo shilom di hashish (all'Old Gulhane Hotel, nel vecchio quartiere
d'Istanbul, nel gennaio 1969), sono otto anni di vagabondaggio: assegni rubati, truffe con cambiali a
90 giorni, furti con scasso a ville, due o tre «visite» al Palazzo di giustizia per traffico di carte
d'identità e altri documenti, «colpi» un po' dappertutto in Europa e in Africa. Anche due anni di
prigione, a Tolosa e a Nizza.
Nel maggio 1968 a Mentone, passando attraverso la terrazza, entro nell'appartamento di un
collezionista. Gli rubo quindici statuette orientali in giada, che rivendo per 4000 franchi a un
ricettatore. Sospettato, parto per Marsiglia e vi lavoro otto giorni come barman presso un amico,
Christian (quattro anni prima avevamo giocato ai Robinson Crusoe insieme a una ragazza, per dei
mesi, nei boschi della Corsica); poi Gérard, un altro compagno di Nizza partito per il Libano, mi
manda un telegramma proponendomi di andare a raggiungerlo. È il 12 giugno.
In treno fino a Ventimiglia, poi in autostop attraverso la Iugoslavia e la Grecia, poi in battello,
arrivo a Beirut ai primi di luglio. Gérard mi aspetta in un camping in riva al mare, a 45 chilometri
da Beirut. Il tempo è bello e fa caldo, il Mediterraneo si frange giorno e notte sulla striscia di sabbia
ai piedi della scogliera. Accanto al camping c'è una lussuosa villa, dove «Mercedes» e auto sportive
riversano quasi ogni giorno gruppi di ragazzi e graziose ragazze. Gérard vi è già introdotto. Divento
anch'io uno dei frequentatori della Zuleilla.
Il padrone si chiama Aruache. Sposato a Gill, una graziosa inglesina rossa, è un armeno di
quarant'anni dal pelo nero e fitto, solido come una guardia del corpo. È spesso in viaggio, e quando
è in casa si dà alla pesca subacquea. Ne avevo fatta anch'io molta a Cassis, vicino a Marsiglia.
Diventiamo amici.
Tra l'altro, egli fa il trafficante d'armi. Un giorno mi propone un lavoro: scortare fino a Tangeri
un piccolo cargo, che laggiù imbarcherà delle casse di armi. Al ritorno, il battello si fermerà a poche
gomene dalle coste libanesi. Chiamati con segnali ottici, che ci scambieremo con loro, falsi
doganieri di Beirut verranno con le vedette del porto e prenderanno la mercanzia. A me toccheranno
un milione, un milione e mezzo di vecchi franchi per viaggio. Il primo trasporto è per il principio di
dicembre.
Tutto fila liscio come l'olio. Quest'affare del traffico d'armi mi mette certe idee… Idee da ricco.
È all'hashish, però, che io penso. Il Libano ne è un grosso produttore, più o meno clandestino
senza dubbio, ma pur sempre un grosso produttore.
Perché non moltiplicare per venti, trenta e forse più, ciò che mi frutterà il traffico d'armi,
acquistando con quel guadagno l'hashish direttamente dal produttore, per rivenderlo al consumatore
con il minimo d'inintermediari? Il mio amico Christian, per esempio…
I vantaggi saranno enormi. In pochi mesi sarò ricco a decine di milioni.
II primo problema è di andar a cercare l'hashish, comperarlo e immagazzinarlo.
Poi, penserò al modo di spacciarlo. Aruache non può aiutarmi. Non vuole immischiarsi nel
traffico dell'hashish. Troppo pericoloso, dice. E il suo traffico d'armi, allora? A ogni modo io non
gliene parlerò più. Collerico com'è, è capace di mandare a monte il nostro progetto comune.
Nel Libano tutto ciò che gravita attorno agli ambienti un po' bizzarri, e anche attorno agli altri
del resto, è più o meno implicato in faccende di hashish.
Così, niente mi è più facile che incontrare una sera, in un bar di Beirut, un certo tipo che se ne
occupa.
Qualche giorno più tardi, una volta fatta conoscenza, egli accetta volentieri di informarmi. La
cosa migliore, mi spiega, è salire fino a Baalbeck, dove c'è un grosso rivenditore (e mi dà
l'indirizzo), che cerca uomini disposti a lavorare per lui. Non è la mia intenzione, io voglio lavorare
per conto mio, ma la cosa può essere interessante.
In capo a tre giorni, salgo dunque a Baalbeck dal rivenditore. Un certo signor Fawziad.
Abita in una grande casa nella parte antica della città; è grosso e sudato, ha una risata fragorosa
da far scappare un bambino gridando all'orco, ma mi apre.
Lo spettacolo m'inchioda sulla soglia per la sorpresa. Mi trovo in una grande stanza rustica,
molto rustica (il suolo è in terra battuta), e ammobiliata con vecchi cassoni lavorati. Lungo tutti i
muri ci sono enormi cubi avvolti in plastica. Fawziad me ne apre uno. Un odore molto forte, che dà
alla testa, mi sale su per le narici. Un odore di humus, di pelle selvatica, si potrebbe dire.
Osservo il cubo: è fatto d'una pasta color rosso cupo, con riflessi verdastri, in cui il mio dito
s'imprime come nella creta.
È hashish.
Fawziad, al quale il nostro intermediario ha fatto pervenire informazioni sul mio conto, mi
domanda d'improvviso se voglio lavorare per lui. Gli do il mio assenso in linea di massima.
Ciò che lui vuole da me, dato che sono abituato a fare l'autostop e il giramondo, è di andar a
gironzolare nell'alta valle di Baalbeck. Da quando le autorità hanno obbligato i contadini a sostituire
la coltura dell'hashish con quella del girasole, tutto si è complicato. La maggior parte dei contadini
continua a coltivare l'hashish: una fila di girasole, una fila di hashish, eccetera. Il girasole, più alto,
nasconde la piantina di hashish che non supera i 50 centimetri, e il gioco è fatto. Ma ciò ha
sconvolto le abitudini e il mercato.
Bisogna rifare il censimento dei produttori. Tanto più che là in alto cominciano a volare fucilate.
I contadini hanno finito per subodorare che li si sfruttava. C'è da ricominciare tutto da capo.
E per questo, occorre in primo luogo che un tipo dritto vada a vedere sul posto, domandi,
s'informi.
Ora è il momento buono, la raccolta dell'hashish si farà tra quindici giorni.
Voglio essere io questo dritto? Avrò del denaro. Solo bisogna che resti lassù almeno un mese.
D'accordo?
«D'accordo», dico.
È proprio quel che mi ci vuole. Il traffico d'armi non comincerà che al principio di novembre, al
più presto. Ho tutto il tempo che occorre, e sono libero come l'aria.
Negli ultimi giorni di settembre, zaino sulle spalle e stivali da viaggio ai piedi, arrivo sugli
altopiani. Il paesaggio è grandioso. In basso la vallata, con l'erba e gli alberi, fa pensare a una valle
europea. A sinistra e a destra i primi pendii della montagna, che man mano si fanno sempre più
scoscesi, più aridi, con colture a spalliera, come se ne vedono nel mezzogiorno della Francia. E
queste colture sono dappertutto piante di girasole, con i loro fiori enormi, trasudanti olio, che
pesano sugli steli, nello sforzo di orientarsi verso il sole. Dietro, le montagne.
Mi trovo a 500 metri dall'ultimo villaggio: una trentina di casupole con le mura d'argilla e paglia,
con tetti a terrazza. Sembra di essere in un villaggio dell'Atlante marocchino.
Per arrivare fin qui ho dovuto affrontare una strada pietrosa tutta giravolte per una buona
quindicina di chilometri. Quando arrivo, è mezzogiorno. Fa caldo, ma non troppo: l'altitudine
attenua l'ardore del sole. Siamo a più di 1000 metri di quota.
Sfinito, poso lo zaino nella polvere, sul bordo della fontana, e tuffo il viso nell'acqua. Poi bevo,
avidamente.
Infine mi rialzo, e solo allora m'accorgo che sono circondato da una dozzina di arabi. Con i
lunghi vestiti bianchi, e i turbanti, hanno l'aspetto di veri arabi, come nei libri. Ma le donne (ce ne
sono due) non sono velate. Ne avrò la spiegazione più tardi: questi musulmani sono cristianizzati.
Mi trovo in una regione che è stata a lungo sotto la dominazione dei Crociati, e più recentemente
dei francesi.
Uno degli uomini parla bene il francese. Un tipo alto, secco, ben piantato, dai capelli brizzolati,
sulla cinquantina.
Sorridendo mi tende una tazza e mi dice:
«Prendi e bevi, viaggiatore. Tu sei a Saliet. È il nome di questo villaggio».
Non ho più sete, ma per non contrariarlo bevo nella sua tazza.
«Molte grazie. La strada è dura, fin quassù…».
Scrolla la testa sorridendo, e aggiunge:
«Vai lontano?».
Faccio un gesto vago con la mano, indicando le montagne.
«Non so — dico. — Vado. Visito il paese. Sono un turista a piedi, ecco».
Egli ride di nuovo. Attorno a noi, ora, c'è una ventina di curiosi. Il mio amico traduce per loro la
mia risposta, ed essi mi divorano con gli occhi.
«Hai fame?».
«Oh, sì! Ho del denaro, sai».
Scrolla le spalle, e aggiunge:
«Si vedrà dopo. Ora vieni con me».
È così che scopro la leggendaria ospitalità araba. Ospitalità che non ritroverò mai più, né in
Afghanistan, né in India, né nel Nepal…
Pochi istanti dopo mi trovo seduto a tavola in casa sua, sopra una stuoia stesa per terra, davanti a
una cuccuma di tè e a una specie di minestra di mais mescolato con un po' di carne, molto piccante.
La moglie del mio ospite me l'ha servita, e ora si accoccola davanti a me, accanto a suo marito.
Lui mi lascia terminare il pasto, poi:
«Mi chiamo Alì — dice. — E tu?».
«Charles».
Allora mi fa una domanda dopo l'altra. Mi tengo fedele al personaggio che mi sono fabbricato.
Sono uno studente in vacanza che visita il Libano. È tutto.
Alì è il capo del villaggio. È un vecchio soldato dell'esercito francese, del tempo in cui il Libano
era sotto il protettorato della Francia. Era sotto le armi con il generale Dentz ai tempi dei famosi
combattimenti contro i gollisti.
Ha una figlia di quattordici anni, Salima, che al momento è in un altro villaggio, in visita a certi
cugini.
Sento che pende su di me una vera e propria inchiesta. Ma rispondo con calma. Le mie risposte
sembrano soddisfacenti, perché egli conclude prendendomi per le spalle:
«Amico, resta qui tutto il tempo che vuoi, se hai bisogno di riposarti».
Io protesto.
«Sì, resta. Mi fa piacere vedere un francese. Tu sei mio ospite».
Ho un bell'insistere, dire che almeno voglio pagare la mia parte; lui non ne vuole sapere.
«Sei stanco, riposati. Ecco, se vuoi fare la siesta, lì c'è la tua stuoia».
Mi indica una stuoia di corda, in un angolo della stanza.
Non c'è praticamente nulla in questa stanza, a parte un forno in terra per la cucina. Nient'altro
che stuoie sul pavimento. Appena una cassapanca in un angolo, e delle scansie in bell'ordine, con
qualche utensile in un vano del muro.
Non mi faccio pregare. Cado dal sonno. L'ultima notte, sotto le stelle, al riparo di un albero, sono
stato risvegliato di continuo da lunghi ululati provenienti dalla montagna; sciacalli, ne sono sicuro.
Appena allungato sulla stuoia, con la testa sul mio sacco, m'addormento.
3.
Otto giorni dopo, sono ancora qui. Alì e io siamo diventati veri amici. Una sera, a lume di
candela, mi ha fatto vedere il suo ripostiglio, e fin dall'entrata ho potuto riconoscere l'odore
selvatico dell'hashish. Ma il ripostiglio è vuoto.
«Vedi, fratello — mi dice Alì. — Tra una quindicina di giorni questo ripostiglio sarà pieno di
hashish, il raccolto di tutto il villaggio. Lo rivenderò. Il mercante verrà da Baalbeck, e si porterà via
tutto».
Alì si fa scuro in volto.
«Senza pagare troppo, però — aggiunge. — Ci derubano, ma che possiamo farci? Non ho un
autocarro per fare il trasporto io stesso, come fanno loro, di notte, fino alle piccole insenature del
mare, da dove partono i battelli a luci spente.
«E non vogliono che si cerchi di far loro concorrenza. Un uomo è stato trovato morto, per
questo, l'anno scorso, laggiù in quel villaggio dall'altra parte della valle. Per di più, essi si fanno
fuori tra loro, ora, per sfruttarci meglio.
«Cosi per noi è più dura di prima. Ci hanno fatto sradicare tutte le piante, e obbligati a sostituirle
con il girasole. Allora bisognò imbrogliare, per piantare dell'hashish. Ti farò vedere domani».
L'indomani Alì mi porta ai campi. Ci avviciniamo a una piantagione di girasoli. Hanno ben due
metri d'altezza, e i fiori sono molto grossi.
«Vieni», mi dice Alì, penetrando fra due filari di girasole.
E li vedo, fra le piante giganti, un filare di altre piante ben nascoste. Somigliano un po' alla
patata. In cima a ogni pianta c'è un fiore molto grosso, simile alla margherita, con petali bianchi.
Alì ne carezza uno.
«Presto sarà maturo. Farai la raccolta con noi?».
«Ma sicuro, Alì. Voglio imparare tutto».
Qualche giorno dopo, ho uno choc.
Vedo arrivare una meravigliosa ragazzina di quattordici anni. È Salima, la figlia di Alì. È
graziosa come un bocciolo e m'innamoro subito di lei. Raramente ho visto una piccola araba così
bella, con i suoi immensi occhi neri a mandorla, le ciglia fini, i capelli ricci e quasi inanellati, e la
bocca umida finemente orlata.
Sotto il lungo vestito di lino ha un corpo flessuoso e ondeggiante, che mi fa subito perdere la
testa. Anche i suoi piedi sono straordinari. Piccolissimi, molto greci, col secondo dito più lungo di
tutti gli altri, le unghie color rosa e madreperla.
Se non fossi l'amico di Alì, credo che le farei subito la corte. Ma non posso tradire Alì. Non
importa, quella notte sogno a lungo il piccolo corpo di Salima…
A ogni modo diventiamo molto presto amici.
Salima mi conduce a passeggio, mi fa visitare i dintorni del villaggio. Non ci parliamo. Lei non
comprende una sola parola di francese o d'inglese, e quanto al mio arabo… Ci accontentiamo di
sorriderci, e di ridere, quasi a scrosci.
Come mi aveva annunciato Alì, la raccolta dell'hashish comincia. Un mattino tutto il villaggio va
tra i filari e inizia il lavoro.
Anch'io, si capisce, sono della comitiva. Faccio parte del gruppo di Salima. È lei che l'ha voluto.
Mi domando se la piccola non si sia un po' innamorata del grande europeo barbuto…
Alì è con noi; ciascuno con il suo grande orcio di terra. Entriamo fra due filari di girasole.
«Vedi — mi spiega Alì, — è un lavoro facile. Ti chini, afferri il gambo dell'hashish con due
mani, alla base, stringendo bene; ti rialzi tirando verso l'alto. Tutto quel che ti resta tra le mani,
foglie e fiori, è buono. Lo butti nell'orcio, e passi a un'altra pianta».
Ognuno prende un filare e la raccolta comincia…
Il secondo giorno, Alì è chiamato al villaggio. C'è un mercante, vuole una stima del raccolto. Alì
parte con il messaggero che è venuto a cercarlo.
Giuro che non l'ho voluto… Ma è proprio così, ciò che donna vuole, vuole; e Salima, per quanto
giovane e piccola sia, è già una donna…
Suo padre è partito appena da cinque minuti, e io vedo sbucare la sua testa dal filare, tra due
grandi girasoli.
Mi sorride, le ricambio il sorriso.
Passa in mezzo ai girasoli, viene verso di me, lentamente. Ha un'aria curiosa, un'aria che non
bisogna essere un genio per capire. Mi si avvicina e, ridendo, asciuga con la manica il sudore che
m'imperla la fronte, mentre sono chino davanti al mio orcio e pigio a due mani ciò che ho raccolto.
L'hashish inebria già quando lo si raccoglie? Non lo so, ma tutto me lo fa credere.
In questa specie di riparo nascosto anche al sole, in mezzo ai lunghi fusti spessi dei girasole,
l'odore delle piccole piante velenose è forte e stordente. E Salima è così civettuola e carezzevole
davanti a me…
La stoffa del suo lungo vestito bianco, stretto alla vita da una cintura di cuoio orlato, disegna i
suoi seni piccoli e duri. La sua anca è tonda, i suoi piedi graziosi sono impolverati. Ha caldo anche
lei, e la sua fronte liscia è madida.
Mi siedo, troppo turbato per continuar a lavorare, e la guardo.
Allora Salima mi viene vicina vicina, fa un'adorabile smorfia con la boccuccia, alza un po' le
spalle come per dire «Inch Allah» e si stringe nelle mie braccia.
La sera, a cena, oso appena guardarla. Se Alì, suo padre, sapesse… Mi butterebbe fuori, senza
dubbio. Non è questo che mi fa paura, ma lo sguardo che avrebbe, lo sguardo di un amico della cui
confidenza si è abusato. Senza pensare al colpo di pugnale che si dà facilmente da queste parti per
un tradimento del genere.
Quattro o cinque giorni più tardi, la raccolta è terminata. Salima e io non abbiamo più avuto
occasione di ritrovarci soli. Meglio così.
Per fortuna l'attività febbrile che regna nel villaggio ci viene in aiuto. Si tratta ora di preparare la
pasta che, una volta essiccata, sarà l'hashish tal quale si fuma e si mangia.
Partecipo anche a questo lavoro. Non è difficile da capire e da eseguire.
Sulla piazza del villaggio gli uomini portano un grosso mortaio fatto di pietre cave, che vengono
riempite fino all'orlo con quel miscuglio di foglie e fiori. Poi con pestelli di legno si pesta il tutto fin
che non sia completamente spappolato.
Ne viene fuori una sorta di segatura grossolana, molle e trasudante, gonfia di succhi, brunastra e
molto odorante.
Intanto le donne stendono al sole grandi drappi, e ogni volta che un mortaio è pronto, si vuota
sopra un drappo. Poi si sparpaglia bene la pasta, e si lascia al sole per qualche giorno.
Quando è ritenuta abbastanza priva di umidità, viene il lavoro dell'impastatura.
Tutti quanti, uomini, donne, e anche i bambini, vi prendono parte. Ognuno afferra a piene mani
quel che è divenuto ora una pasta untuosa e pesante, molto densa. Bisogna impastare questa massa a
lungo, per ore, per renderla fine.
Il gesto è un po' quello del panettiere che impasta il pane. Ne viene fuori un impasto elastico e
soffice, simile ai pasticcini che i confetturieri delle fiere impastano e stirano, prima di tagliarli con
le loro grandi cesoie.
Quando la pasta è ben raffinata, la si taglia in cubi, in rettangoli, in barre, secondo l'ordine del
compratore, si sistema il tutto entro la plastica e si chiude. L'hashish è pronto. Ci sono in Libano
altri modi di prepararlo. Per esempio, si può raccogliere solo il succo. Dipende dalle regioni.
Quest'anno a Saliet il raccolto è di circa 800 chili di hashish. Prima di essere tagliato, l'hashish
viene collocato, in grossi blocchi di 20 chili, dentro il ripostiglio di Alì.
Il giorno dopo, un autocarro arriva da Baalbeck. Quattro tipacci dalla faccia patibolare ne
discendono. Due hanno la pistola alla cintola. Caricano e pagano il capo del villaggio.
Io li osservo di nascosto dalla casa di Alì, perché è meglio che non vedano un bianco da queste
parti. Conosco questo genere di individui. Non c'è dubbio, appartengono al giro del racket.
«Lo vedi — mi dice Alì ritornando, — il villaggio vivrà praticamente tutto l'anno sulla vendita di
questo raccolto, fino al prossimo. A 50 lire libanesi il chilo, (circa 10.000 lire italiane) non fa poi
molto per ciascun abitante».
«Noi — continua Alì — siamo qui un centinaio. Il calcolo è facile da fare. Sono all'ingrosso 400
lire libanesi per persona all'anno. Il prezzo di 8 chili».
Quattrocento lire libanesi, cioè 600 franchi (80.000 lire italiane). Chiaro che non è una cuccagna,
anche se si ha il proprio orticello, il pollaio, e qualche capra…
Ma io faccio anche un altro calcolo, non troppo fraterno, devo ammetterlo.
Cinquanta lire libanesi al chilo, fanno circa 75 franchi al chilo. A Parigi, un chilo di hashish si
rivende attorno ai 3000 franchi (quasi 400.000 lire italiane). Perbacco!
Se potessi mettermi d'accordo con Ali e comperare io l'intero raccolto del suo villaggio, anche
pagandolo il doppio del prezzo degli altri, che vantaggio, cari miei! Venti volte di più! Ecco,
pagarlo il doppio, è proprio quello che bisogna fare.
E lo potrò fare facilmente, quando sarò riuscito a fare qualche viaggetto con il traffico d'armi a
Tangeri. Anche quello, facile.
Mi farà piacere rendere un servizio a questa brava gente che è così ospitale con me, e per la quale
ora nutro una vera amicizia. Senza contare quel che Salima rappresenta per me!
E poi è senza dubbio il solo modo per deciderli a non vendere più ai loro mercanti abituali. Il che
non sarà facile, detto tra noi. Perché questi mercanti sono gente organizzata, che non retrocede
davanti a niente, pur di tenere ben saldo in mano il proprio mercato.
Il mio progetto è molto delicato, me ne rendo conto appena l'ho abbozzato. In ogni caso, non sarà
possibile realizzarlo prima dell'anno prossimo. Ma non è mai troppo presto per cominciar a fare
qualcosa.
Così una sera decido di giocare il tutto per tutto con Alì. È un uomo che ormai ho imparato a
conoscere, e so che è senza preconcetti. E poi qui in Oriente trafficare, vendere o acquistare armi o
hashish, non è così immorale come in Occidente. In questi paesi è considerato normale.
E così gli dico tutto: chi sono, l'incarico che mi è stato affidato a Baalbeck, e ciò che vorrei fare
in realtà.
E poi, in uno slancio di sincerità, gli confesso anche che amo sua figlia e che lei mi ama.
Diavolo d'un Alì! Lui sorride quando ho finito di parlare. E mi dice:
«Mi sono accorto subito che tu non eri uno studente. Ne ho già visti, di studenti veri. Hanno
sempre almeno due o tre libri nel loro bagaglio. E non possono fare a meno di tirarli fuori e di
leggerli. Tu invece non hai mai letto un libro.
«E poi, tu non hai l'aria di uno studente. Lo si vede subito. Gli studenti sono bambini, magari
bambini vecchi, ma sempre bambini. Tu invece sei un uomo. Si vede che hai vissuto e sofferto.
«Non credere che me la sia presa con te per questa piccola bugia. Non ha nessuna importanza.
Ognuno ha il diritto di conservare i propri segreti per sé, se si comporta bene con gli altri. Tu ti sei
comportato bene. E me lo hai provato una volta di più parlandomi con confidenza.
«E con coraggio, anche. Perché io avrei potuto andare in bestia per quel che mi dici riguardo a
Salima.
«Anche di questa faccenda, pur senza esserne certo, io avevo cominciato a nutrire qualche
sospetto, sai. Quando una ragazza è innamorata glielo si legge negli occhi, e Salima da qualche
tempo ha gli occhi di ragazza innamorata.
«Ora bisogna lasciare che il tempo confermi i sentimenti. Il tempo darà il suo verdetto su Salima
e te. Ma io te lo posso dire già subito: te la do in moglie con gioia. Tu sei un francese, sei un uomo
solido e sperimentato, sarai un buon marito per Salima».
Le parole di Alì mi riempiono di gioia, e anche di confusione. Saprò essere all'altezza di
quest'uomo saggio e stupefacente?
Con un gesto caccio via questi dubbi. Il tempo, come dice Alì, darà il suo verdetto, e io saprò fra
qualche settimana che decisione prendere.
«Aspetta, fratello — mi dice Alì. — Vado a cercare mia moglie e Salima. Voglio dir loro, davanti
a te, che tu ormai fai parte della famiglia».
Quando sua moglie e sua figlia sono arrivate, Alì riprende a parlare:
«Salima, io voglio che tu ami Charles. Sei d'accordo?».
Per tutta risposta Salima, con gli occhi pieni di lacrime, corre a gettarsi nelle mie braccia.
Alì si volta verso sua moglie.
«E tu, Irada, sei d'accordo?».
Irada sorride senza rispondere, e accenna di sì con la testa.
«Molto bene — conclude Alì. — Ora, come dite voi in Francia, bisogna fare le pubblicazioni».
Mezz'ora più tardi tutto il villaggio è riunito sulla piazza. Alì ha messo Salima e me l'uno accanto
all'altra, e parla. Di ciò che dice in arabo non capisco una parola, è naturale. Ma non ho bisogno che
mi venga tradotto.
Grida di gioia salutano le «pubblicazioni», e qualcuno esplode colpi in aria.
«Questa sera — mi dice Alì — si farà un gran banchetto».
È così che Salima e io ci siamo fidanzati.
A sera, la festa è sontuosa. Non si sono uccisi meno di cinque montoni, e le ragazze del villaggio
hanno danzato attorno al fuoco. Poi, Salima ottiene il diritto di venire a dormire con me.
Per lasciarci soli, suo padre ci ha installati nel fienile. Un mucchio di fieno è il nostro letto…
L'indomani Alì mi guida lungo un sentiero che porta verso la valle.
«Charles — mi dice» — questa notte ho riflettuto sul tuo progetto. Io sono d'accordo, lo sai, di
riservarti la produzione del villaggio. Ma in questo modo ci mettiamo in un'impresa rischiosa.
«Ci occorrono armi. Molte. È il solo modo di farci rispettare. Purtroppo abbiamo solo qualche
schioppo, qui. Ma mi è venuta un'idea».
Si ferma e mi prende la mano.
«Guarda lassù — mi dice, puntando il dito verso la montagna. — Vedi quella valle là in alto, con
un picco roccioso sulla sinistra?».
«Sì, la vedo».
«Ci sono armi là sotto, nascoste in fondo a un tunnel».
Stupefatto, esclamo:
«Armi? In un tunnel?».
«Ora ti spiego. Durante quella guerra disgraziata, quando i francesi si battevano tra loro, i soldati
del generale Dentz avevano fortificato questa linea di creste. Avevano cominciato a costruire delle
postazioni, a scavare trincee e rifugi, ad ammucchiarvi munizioni, armi e cannoni.
«Ma sono sopravvenuti i combattimenti… Tu lo sai, Dentz è stato battuto. E — aggiunge Alì con
un gesto largo — tutto questo è stato abbandonato.
«Io non ero qui, ero sull'altopiano. Ecco perché non so dove sono le armi. Ma il capo del
villaggio che mi ha preceduto, lui lo sapeva.
«Prima di morire, me l'ha detto. Vieni, torniamo a Saliet. Mia moglie ci sta preparando da
mangiare per questa sera e domani. Dormiremo sul posto, e torneremo a casa in giornata».
Salima ha il cuore gonfio a lasciarmi partire per una notte, ma suo padre ha comandato…
Per sentieri da capre cominciamo la scalata della montagna. Verso le quattro del pomeriggio, a
1500 o 1600 metri d'altitudine, in un paesaggio di pietrame, rocce e arbusti intisichiti, simile a
quello delle montagne secche del sud della Corsica, arriviamo vicino a un ammasso di rovine.
S'indovinano ancora i lineamenti di una piccola fortificazione, delle trincee riempite a metà dal
terreno franato.
«È qui — mi dice Alì. — Il vecchio mi ha rivelato che c'è da qualche parte, qua sotto, un
nascondiglio sotterraneo, un tunnel, del quale i soldati hanno fatto saltare l'ingresso prima di
ritirarsi. E sembra che dentro ci sia un grosso stock di fucili con relative munizioni in casse
ermetiche.
«Se riusciamo a scoprire il deposito d'armi, Charles, allora sì che potremo lavorare con te. Allora
saremo abbastanza forti per dire di no ai mercanti di Baalbeck. E chissà, forse il nostro esempio farà
riflettere gli altri villaggi, e a loro volta anch'essi diranno di no a quei luridi che ci impongono la
loro legge e ci pigliano per la gola».
Alì s'infiamma, stringe i pugni.
«Allora saremo noi, i contadini, che imporremo la nostra legge ai mercanti, e non loro!».
Si ferma di colpo, e scoppia a ridere.
«Per ora, bisogna trovare l'entrata del tunnel. Vieni, cerchiamo».
Fino al cadere della sera Alì e io solleviamo pietre, facciamo risuonare le rocce a colpi di tallone.
La notte sopravviene, e non abbiamo trovato nulla. D'improvviso fa freddo. Un grande fuoco ci
riscalda. Mangiamo il pasto preparato da Irada. Poi, avvolti lui in una coperta e io nel mio sacco a
pelo, costruiamo a lungo castelli in aria prima di addormentarci sotto le stelle.
È verso le undici del mattino, il giorno dopo, che Alì lancia d'improvviso un grido. Ha trovato
una roccia che risuona chiaro, mentre le altre hanno un suono sordo.
La percuotiamo con una grossa pietra. Non c'è dubbio, si sente il vuoto sotto.
È di sicuro qua. Del resto è circondata da grosse pietre con gli spigoli vivi, come a scheggia,
mentre le altre pietre sono come logore dall'erosione.
Hanno fatto saltare una carica di dinamite da queste parti, di sicuro. Sfortunatamente la roccia
che deve tappare l'entrata è troppo pesante perché possiamo sollevarla in due.
Bisogna tornare qui in molti. Alì decide di mobilitare gli uomini più robusti del villaggio, che
verranno con pali e picconi.
Otto giorni più tardi, la grossa roccia è rimossa e l'entrata è sgombra dei detriti che la ostruivano.
Alì e io, con la torcia in mano, entriamo nel tunnel.
Vittoria! In fondo, a dieci metri appena dall'entrata, la torcia illumina cinque grosse casse di
legno. Sono le armi!
Sì, sono loro. Tirate fuori le casse, le sventriamo e, avvolti in tela cerata e sacchi
abbondantemente ingrassati, vengono alla luce, uno dopo l'altro, tra urla di gioia e danze selvagge,
ventidue fucili Lebel;
quattordici fucili MAS 36;
quattro fucili mitragliatori;
sette pistole d'ordinanza;
cinquanta granate difensive.
Due delle casse sono piene di munizioni adatte a ciascun modello delle armi.
Alì viene verso di me.
«Fratello — mi dice, ora tocca a te fare la tua parte. Noi siamo forti a sufficienza».
Ora tocca a me: ciò vuol dire molte cose.
Primo: bisogna che mi occupi di quel farabutto di Baalbeck. Non so ancora cosa dovrò
raccontargli. La cosa migliore, senza dubbio, è cercar di rifilargli una frottola (quale, resta da
vedere) per tenerlo tranquillo fino all'anno prossimo.
Secondo: bisogna che metta seriamente a punto il piano di rivendita dell'hashish. Partenza dal
villaggio, custodia in un deposito, uscita dal Libano. Non è una cosa facile. Però ho tempo fino
all'anno prossimo per risolvere il problema.
Terzo: più che mai, è importante che il traffico d'armi di Aruache vada in porto.
Spiego tutto ad Alì, mentre ritorniamo al villaggio armati fino ai denti.
La cosa migliore, a mio parere, è che io scenda a Baalbeck, per saggiare il terreno nei confronti
del mercante.
Salima si fa in quattro, appena è al corrente, per ottenere il permesso di accompagnarmi. Suo
padre finisce per acconsentire.
Ma il mattino prima di partire, mi consegna di nascosto una pistola d'ordinanza e una quindicina
di proiettili.
«Charles — mi dice, — non fidarti. Non si sa mai quel che può capitare. Soprattutto perché
viaggi con una ragazza. Gli uomini della valle sono caproni in fregola. Nove su dieci sono senza
donne, perché i ricchi le accaparrano tutte. Sii prudente. Non deve capitare nulla, né a Salima né a
te».
Ci abbracciamo. Irada piange. Sa che ne avremo per pochi giorni, ma è inquieta lo stesso.
Presto, col sacco in spalle, la grossa pistola cacciata sotto la giacca, la canna infilata nella
cintura, tenendo Salima per mano, prendo la strada verso Baalbeck.
Salima è in uno stato di gioia indescrivibile. Sgambetta al mio fianco come un capriolo e canta a
squarciagola. «Sono felice, felice, felice!», ripete senza fermarsi. Le ho insegnato qualche parola
francese, e naturalmente sa anche dire: «Ti amo». Me lo ripete a ogni svolta della strada.
A piccole tappe scendiamo verso la città. La notte, dormiamo sotto un albero. Salima è così
piccola, che stiamo tutt'e due nel sacco a pelo. Di solito a mezzogiorno pranziamo in qualche
locanda, e la sera facciamo uno spuntino attorno a un fuoco.
Finalmente Baalbeck è in vista. Quando arriviamo alle prime case, mi fermo al bordo della strada
e dico a Salima: «Hai capito bene quel che ha detto tuo padre?». Lei fa di sì con la testa. Ciò che
suo padre le ha detto, è il piano di lavoro. È semplice, del resto: prenderemo posto all'albergo. Lei
mi aspetterà, e io andrò dal mercante. Un giorno e una notte a Baalbeck dovrebbero bastare.
In una stradicciola del centro troviamo un piccolo albergo dall'aspetto non troppo rassicurante,
ma che mi pare adatto. Salima fa gli occhi grossi così: non era mai stata in città. Un albergo,
neppure sapeva che esistesse: non immaginava che qualcuno potesse affittare la propria casa ai
viaggiatori.
Ce la lascio, proibendole di uscire dalla camera. Me lo promette.
Vado da Fawziad. Per fortuna c'è. «Ah, eccoci, signor Charles! — mi dice, contento di vedermi.
— Che rapporto ha da farmi?».
Mi siedo accanto a lui, e gli spiego che la situazione è del tutto rassicurante. Ho visitato, gli dico,
parecchi villaggi, facendomi passare per un turista cui piace camminare a piedi. Dappertutto
l'atmosfera mi è parsa calma. I malumori di cui mi aveva parlato non sono che reazioni superficiali
senza conseguenze.
In realtà i contadini sono contenti. Si ha torto di credere che essi contino unicamente sull'hashish
per sopravvivere. Vivono molto bene con i prodotti della loro terra. Inutile agitare gli spiriti con
ispezioni e inchieste non necessarie. Sarebbe un grosso errore, che rischierebbe di mettere alla gente
la pulce nell'orecchio.
E per dare alle mie affermazioni una miglior patina di verità, cito nomi di villaggi che Alì mi ha
fornito, nomi di capi di villaggio, cifre di raccolti, eccetera.
Il mio discorso fa effetto su Fawziad. Ha un'aria evidentemente sollevata.
«Non è tutto, — mi dice. — Vorrei parlarle di un'altra cosa. Le interessa veramente lavorare con
me?».
Io drizzo le orecchie:
«Come sarebbe a dire?».
E cerco di assumere l'aria più tranquilla possibile.
«Sarebbe a dire che i miei servizi di raccolta dell'hashish sono un po' troppo anarchici. Sono
sicuro che ci sono delle fughe, degli individui che se ne vanno con le tasche piene di hashish.
«Mi ci vorrebbe un tipo intraprendente e serio che sorvegliasse tutto. Il guadagno per lui sarebbe
grosso».
«Potrei vedere se è un lavoro possibile — dico. — Ma, per assicurarmene, bisognerebbe che
facessi un sopralluogo per conoscere gli individui e tutta la trafila».
«D'accordo. Quando i raccolti in corso di ammassamento saranno sistemati e ci sarà un po' di
calma, la metterò in contatto con i miei uomini».
«Allora, appuntamento a fine dicembre. Va bene?».
Perfetto. Per me va tutto molto bene. Prima di allora, avrò avuto modo di fare un viaggio a
Tangeri e avrò un milione e mezzo in tasca. Perfetto, perfetto.
Lascio Fawziad molto soddisfatto. Tutto dovrebbe andare a gonfie vele.
Come arrivo all'albergo, vedo che qualche cosa non va.
Salima è seduta nella sala del ristorante, circondata da tre grossi individui allegri che non mi
dicono niente di buono.
Aggrotto le sopracciglia.
«Salima! Ti avevo detto di restare nella tua camera! Vieni!».
Capisco cos'è capitato. Spinta dalla curiosità, ha voluto discendere, e i tre individui le sono
piombati addosso.
Con aria mogia, Salima si alza, ma mentre fa per venire, uno dei tre l'afferra a un polso.
«Resta!», dice.
Parla in arabo, ma ho capito quel che le ha detto.
Nello stesso tempo si volta verso di me, e sorridendo mi dice in inglese:
«Questa qui è sua?».
Faccio di si con la testa.
«Carina — continua l'altro, con l'aria di valutarla, ma senza lasciarla. — Dove pensa di farla
lavorare?».
Dunque mi ha preso per un magnaccia europeo venuto a comperare una piccola araba per
metterla in un bordello!
«La lasci stare», gli grido irritato.
Con rincrescimento ubbidisce, e Salima si rifugia tra le mie braccia.
«Ah! Ah! — esplode l'altro. — La piccola vuol tanto bene al suo protettore! Presto rimarrà ben
delusa…».
Io gli mostro i pugni.
«Stia zitto o le spacco il muso!».
Ma lui continua a ridere, forte. Allora, facendo finta di niente, apro la giacca e la mia pistola fa
capolino.
L'effetto è immediato, l'individuo smette subito.
Con la massima calma, prendo posto a un tavolino per pranzare con Salima. Lei è fuori di sé
dalla gioia. Non ha mai visto delle posate. Non sa usarle. Io fatico sette camicie per insegnarle.
I tre tipacci non hanno più fiatato, e se ne sono andati alla chetichella. Siamo soli. Mi sento bene.
E non oso dire a Salima che presto dovremo separarci. Evidentemente non posso condurla con me a
Beirut. Sono dunque contento di poterle offrire una cena e una notte in albergo. E per lei questa
festicciola è una grande festa!
Quattro o cinque giorni dopo, siamo di ritorno a Saliet. Racconto tutto ad Alì e gli restituisco la
pistola. Non ho troppa simpatia per questi aggeggi. È dare un pretesto alla polizia per arrestarti se,
per una ragione o un'altra, hai che fare con essa.
Alì capisce benissimo che devo ritornare a Beirut.
Ma Salima no.
È un torrente di lacrime, quando le annuncio la mia partenza.
L'indomani all'alba, ci abbracciamo ancora appassionatamente. Devo strapparmela di dosso.
Singhiozza… Anch'io ho il cuore gonfio quando, giù nella valle, Saliet dietro a me appare come
un mucchietto di macchioline nere.
4.
Mai avrei dovuto ritornare a Beirut! Tutto andava così bene! E purtroppo ho finito per
commettere l'errore.
Un errore che provocherà il crollo di tutte le mie speranze, e di conseguenza in conseguenza
causerà la mia partenza per l'Oriente e la mia caduta nella droga…
Quando arrivo da Aruache, lui non c'è. Sta viaggiando in qualche parte dell'Europa. Gill, sua
moglie, è sola.
Anche lei è bella, dolce e tenera…
Divento il suo amante.
Durante un lungo mese viviamo felici, senza nascondere la nostra felicità.
È un errore imperdonabile, una follia.
Un mattino, ai primi di dicembre, qualcuno mi scuote mentre mi rosolo al sole sulla spiaggia del
camping.
È Gérard.
«Squagliatela in fretta! — mi grida. — Io non so chi ti abbia tradito, ma Aruache è tornato e è
pazzo di rabbia. Sa che gli hai soffiato la moglie.
«È sbarcato a casa con due scagnozzi. Crede che ti sia nascosto là dentro. Sta frugando tutta la
casa, gridando che ti ammazza. E i due tipi hanno la rivoltella.
«Da un momento all'altro ti arrivano sulle croste. Sbrigati, diamine. Fila, sparisci!».
Mi vesto in un niente, mi butto lo zaino in spalla. Neanche il tempo di dire addio a Gill.
Gérard mi aspetta con l'auto. Salto dentro, e mi deposita a Beirut con un po' di denaro, in un
albergo in cui mi rintanerò per qualche tempo. Tornerà domani a informarmi.
L'indomani, quando torna, ha un'aria catastrofica.
Aruache ha appioppato alla moglie una scarica di legnate, e, quanto a me, ha giurato che mi
ritroverà. Ha messo in allarme tutta la sua rete di sorveglianza, e ha distribuito i miei connotati.
Accidenti! Questa volta ho proprio paura, e a mezzogiorno senza più attendere altro, salto sul
treno che porta a Baalbeck.
Meglio andare a mettersi al sicuro per qualche tempo a Saliet.
Lassù, com'è naturale, Salima è folle di gioia nel rivedermi, ma Alì è sorpreso del mio ritorno
anticipato.
Povero Alì, come confessargli quel che mi è capitato? Gli racconto che va tutto bene, che ero
stanco e sono tornato per riposarmi un po' a casa sua.
«Casa mia e di Salima», conclude Alì ridendo.
Io non ho alcuna voglia di ridere. Non vedo proprio come rimediare al disastro combinato. È
proprio la fine di tutto!
Fine del traffico d'armi. Fine del traffico di hashish con Alì. Che bestia sono stato! E Salima?
Salima nuota nella felicità. Per parte mia faccio del mio meglio per non apparirle preoccupato,
ma per quanto tempo riuscirò a recitare la commedia? Del resto bisogna che pensi seriamente al mio
avvenire.
Per prima cosa, voglio attendere qui un mese o due. Può darsi che Aruache si calmi. Ma non lo
spero troppo. Testardo e spietato com'è negli affari, dev'esserlo altrettanto nei suoi rancori.
Brr… Purché non trovi le mie tracce!
Un mattino capita qualcosa di strano: una jeep della polizia arriva al villaggio, e i poliziotti
entrano da Alì. Io sono presente. E sono io che essi vogliono. Devo seguirli subito.
Che cosa succede? Non capisco. Ma non penso minimamente ad Aruache. Salgo sulla jeep,
mentre tutto il villaggio viene a vedere.
Allora il poliziotto a fianco del conducente si volta verso di me e mi punta la pistola sul naso!
«Mettiti lungo e disteso nella jeep, presto!», mi comanda in inglese.
Un brivido mi percorre dalla testa ai piedi, mentre indovino tutto d'improvviso. Non sono
poliziotti. Sono uomini di Aruache travestiti da poliziotti. Come hanno fatto a rintracciarmi, non è la
cosa che in quel momento mi interessi di più. Ciò che conta, ora, è cercar di scappare.
Grido:
«Alì! Falsi poliziotti!».
Ma avrei anche potuto fare a meno di gridare. In un batter d'occhio la jeep è circondata dagli
abitanti del villaggio, e — non so proprio come abbiano potuto fare così in fretta — una dozzina di
uomini tengono il fucile in mano. I fucili nascosti dalle truppe di Dentz.
«Lasciatelo! — ordina Alì, — o siete morti. E sloggiate di qui in fretta».
I falsi poliziotti non insistono, e la jeep scompare in un nugolo di polvere. Senza di me.
Che respiro! Mi butto nelle braccia di Alì.
«Grazie, mi hai salvato la vita».
«Che cos'era, figliolo? — mi domanda preoccupato. — Delle noie per causa nostra?».
«In un certo senso, sì — gli rispondo. — Il nostro progetto solleva qualche difficoltà. A Beirut la
mafia dell'hashish si è allarmata, vedendo che mi sto dando da fare. Non te ne parlavo per non
inquietarti, sperando che tutto si calmasse… Ma essa deve aver deciso di farmi fuori».
Mi vergogno di mentire ad Alì. Ma cos'altro posso fare?
«Noi ti difenderemo — dice Alì. — Conta su di noi».
La notte, non faccio che voltarmi e rivoltarmi nel letto. Questa volta le cose hanno preso una
piega troppo brutta. La mia vita è veramente in pericolo. Non posso più restare qui. Non ho il diritto
di mettere questa brava gente nei guai per causa mia.
Meglio che me ne vada.
Non ho il coraggio di farlo di giorno.
Visto che Salima dorme sodo, mi levo senza far rumore, e chiudo il mio zaino.
Scrivo due parole per Alì: due sole parole, per domandargli perdono di partire in questo modo, e
per promettergli che ritornerò quando tutto sarà calmo. E aggiungo quest'altro, che cancella la mia
promessa: «Di' a Salima che cerchi di dimenticarmi…».
Prendo la strada della montagna, verso il nord-est. Non so dove sto andando. Verso la Siria, in
ogni modo, per ora.
Fa molto freddo sulla montagna. E soffro molto, prima di arrivare in Siria.
Passata la frontiera siriana e risalito verso la Turchia, sugli altopiani, poco prima di Ankara, mi
sento morire di freddo.
Ho commesso l'errore di voler fare l'autostop al cadere della notte, sperando in un autocarro che
mi avrebbe fatto fare un lungo tragitto (il più delle volte, con le auto, non si fanno che piccoli tratti).
Sfortunatamente non passa alcun autocarro, e mi trovo in aperta campagna, a un incrocio, a
pestare i piedi nella neve.
A mezzanotte sono ancora lì. Tira un vento glaciale. Batto i denti. Alla fine mi decido a cercare
un riparo.
In lontananza, un lume. Marcio in quella direzione. Il vento raddoppia. Cammino piegato in due:
com'è da prevedere, il vento soffia contro di me.
Presto la luce si spegne.
A tastoni, brancolando nella tormenta, costeggio il bordo della strada e alla fine, quasi alle tre del
mattino, arrivo davanti a una massa nera.
È la casa.
Busso alla porta gridando. Finalmente mi aprono.
È una locanda. Caritatevole, il padrone sveglia tutti quanti. Mi svestono, accendono un gran
fuoco, mi frizionano con panni imbevuti d'alcool.
Era tempo, ho già i piedi bluastri per il freddo.
Ingozzato di minestra e di alcool, avvolto in quattro coperte (la pelle ora è rossa come un
gambero), m'addormento davanti al fuoco.
Mi hanno offerto una camera, ma io non ne ho voluto sapere: dormire di fronte al fuoco, è tutto
quel che mi occorre. Non c'è nulla di più dolce al mondo!
5.
Ai primi di gennaio 1969 arrivo a Istanbul. Perché Istanbul? Non ho nessun piano prestabilito.
Non so se sto per rientrare in Europa o restare in Oriente. Semplicemente, Istanbul è una città in cui
può capitare di tutto, ed è appunto quello che ho sempre cercato. E poi è anche la città di ogni sorta
di traffici. Penso che c'è di sicuro qualcosa che fa al caso mio. Nel mio taccuino ho segnato
l'indirizzo di un albergo che mi aveva dato un tale, per strada, in Grecia, a Salonicco: l'Old Gulhane
Hotel. Mi aveva detto: «Non è caro, è buono, e puoi farci incontri molto interessanti».
Questo sì, d'incontri ne ho fatti davvero, all'Old Gulhane! Ed è lì che la mia discesa all'inferno è
cominciata.
Quando arrivo a Istanbul, nevica. Attraverso il Bosforo sotto grossi fiocchi bianchi che turbinano
attorno al traghetto prima di ammassarsi a mucchietti sul mio zaino. Fa un freddo cane, e non sono
per niente allegro.
Non mi resta più molto in tasca, ma peggio per me: prendo un tassì. Come dico al conducente il
nome dell'albergo, si illumina in un largo sorriso:
«Hippy!» esclama, e parte.
Il conducente è un turco che parla inglese. Mentre guida, mi spiega. L'Old Gulhane Hotel si trova
non lontano dalla Moschea Azzurra, da Santa Sofia e dal Gran Bazar, in un vecchio quartiere di
Istanbul, a nord del Parco Gulhane (di qui il suo nome), in una stradicciola che dà sull'avenue
Sultana Meth.
In capo a un quarto d'ora, il tassì mi scarica con il mio lardello in una stradetta medioevale senza
marciapiedi, in terra battuta, piena di ragazzi dal cranio rapato, che corrono e schiamazzano
dappertutto, a piedi nudi nella neve che continua a cadere. Mi trovo di fronte una casa dai muri in
terra compressa, screpolati, molto stretta. Alzo gli occhi e sulla porticina in legno massiccio leggo
l'insegna, in lettere nere scolorite, fantasiose e con fregi: «Gulhane Hotel». Ci sono.
Guardo un po' meglio. Sono tre piani, e due finestre per piano. In alto una terrazza circondata di
rete metallica, coperta per metà da un tetto sommario di latta ondulata e cartone. Sull'altra metà, un
telone.
Spingo la porta, entro in un corridoio nero e sporco. In fondo, una porta dà su un giardinetto
incolto pieno di immondizia ammassata. Puzza in modo stomachevole.
Chiamo. Nessuna risposta. A destra c'è una porta. Busso. Giro la maniglia, invano. È chiusa. A
sinistra invece la porta si apre. C'è uno stanzino con un grande mastello di legno sulla terra battuta.
Anch'esso è vuoto.
Mi avventuro per le scale dai vecchi gradini scricchiolanti, e al primo piano mi trovo in una
stanza di circa quattro metri per cinque. Come topaia, raramente ho visto di meglio. Al soffitto, travi
annerite. Al suolo, coperto di polvere e rifiuti sospetti, un pavimento rudimentale. Le pareti,
naturalmente, sono in terra compressa. Su quattro vetri alla finestra, tre sono mancanti e il quarto è
attraversato dal tubo di una stufa a segatura, di ferro. Nessun letto. Tutto in giro lungo le pareti, tanti
pagliericci in tela di iuta, ciascuno con una sudicia coperta araba. Tutte le coperte sono stranamente
tagliuzzate. Saprò in seguito perché. Qua e là, zaini e valige.
Nell'aria una forte puzza. È un tanfo di sudore e di orina, un po' come in uno zoo. E un vago
odore d'incenso e di hashish.
Solo allora il mio sguardo, che si sta abituando a poco a poco all'oscurità, scopre che nell'angolo
più buio della stanza c'è qualcuno. Un'interminabile sagoma coricata. È un ragazzo, un europeo
scheletrito, barbuto, dai capelli lunghi e inanellati. È a piedi nudi, e i suoi piedi sono molto sporchi.
Alle gambe ha pantaloni di tela che doveva essere bianca una volta, e indossa una camicia ampia,
anch'essa bianca, senza colletto, con grandi maniche larghe.
Accenno un saluto. Nessuna risposta. Mi avvicino. Il ragazzo mi getta uno sguardo distratto e
abbozza un vago sorriso. Ho l'impressione che mi abbia appena intravisto. Del resto, ha ben altro da
fare. E assisto a una strana operazione.
Sostenendosi su un gomito, e tossendo con tosse secca e rapida, tira fuori una siringa dal suo
sacco, poi una piccola scatola di cartone, tipo prodotti farmaceutici. Posa la siringa, che ha già l'ago
infilato, per terra, sul pavimento, accanto a sé. Senza curarsi affatto della mia presenza, apre la
scatola, ne estrae un tubetto, lo apre e fa cadere nel palmo della mano cinque o sei pastigliette
rotonde e bianche che posa per terra, accanto alla siringa. Fruga di nuovo nel suo sacco, ne cava
fuori un pezzo di carta di giornale, lo posa vicino alle pastiglie e gliele mette sopra. Poi afferra un
bicchiere slabbrato, e a piccoli colpi polverizza le pastiglie una per una.
Io lo guardo, affascinato. Mi sporgo un po' e leggo sulla scatola questa parola: Metedrina. È, so
bene, un potente eccitante, del genere maxiton.
Ora il drogato, per la prima volta, sembra accorgersi che ci sono anch'io. Mi tende il bicchiere e,
in un inglese perfetto, mi chiede di metterci un dito d'acqua.
«Dove la prendo?», domando, facendo con lo sguardo il giro della stanza.
«Al rubinetto, sul pianerottolo», mi spiega.
Vado, e in un angolo del pianerottolo, vicino a un buco da cui esce un tanfo di pozzo nero, trovo
un vecchio rubinetto di rame, corroso e gocciolante. Prendo il dito di acqua richiesto.
«Thanks», mi dice il drogato, con un sorriso sfuggente: grazie.
Abilmente piega il giornale a imbuto, e fa scivolare la polverina bianca nel bicchiere. Col dito
rimescola la miscela per un momento. Prende la siringa e aspira il liquido attraverso l'ovatta. Poi
tira ancora fuori dal sacco un cinghietto, arrotola la manica sinistra della camicia, avvolge il
cinghietto attorno a quel poco di bicipite che ancora gli resta, appena sopra il gomito. E stringe.
Ma non ci riesce. Mi fa segno di aiutarlo.
«Stringi qui, per favore?», mi dice.
Io stringo. Le vene risaltano in fuori, tutte rigonfie di piccole ernie, con punti nerastri di sangue
secco un po' dappertutto, e lividi sotto la pelle.
Lui affonda la siringa ben diritta, senza esitare. Tira indietro lo stantuffo. Un po' di sangue
arrossa l'interno della siringa.
Soddisfatto, si inietta ora tutto il miscuglio, rimette a posto in fretta le sue cose e si ricorica,
girato verso la parte del muro.
Non si muove più.
Un po' sconcertato, poso il mio sacco su un pagliericcio che mi pare non occupato, e torno verso
di lui. Lo scuoto.
«Ehi, di' un po'. Sei solo, qui? C'è nessun padrone?».
Gira la testa verso di me e mormora che c'è, e dev'essere di sopra, o in giardino, lui non sa.
Seguo la sua indicazione e salgo al secondo piano. Anche lì c'è un dormitorio, altrettanto sporco,
altrettanto puzzolente. Un grosso topo mi passa tra i piedi. Ma non c'è nessuno. Salgo al terzo piano.
Stessa scena, con in più un altro individuo del tutto somigliante al drogato del primo piano, e
anche lui immobile.
Arrivo sulla terrazza. Anche lì ci sono dei pagliericci, dalla parte coperta con la latta ondulata.
Continua a nevicare.
Finalmente vedo una figura in piedi. È un uomo molto vecchio, molto magro, con il pizzo e
capelli grigi arruffati. Indossa pantaloni turchi di tela, molto larghi, ciabatte ai piedi, e una giacca
europea. Sta borbottando chissà cosa attorno a un mucchio di rifiuti. Porta su di me uno sguardo
tranquillo, udendo i miei passi sul pavimento.
«È lei il padrone?», dico in inglese. «Yes».
«E… Posso prendere posto?».
«Dove le piace».
Insisto:
«Ma dove? È tutto vuoto».
Fa un gesto vago con la mano.
«Questa sera», risponde.
«E quanto fa?».
«Una lira sulla terrazza, due lire in basso» (si tratta della “ lira turca “, che equivale a 40-45 lire
italiane).
E aggiunge senza che gli abbia domandato nulla:
«Si paga quando si vuole».
«E per il mangiare? — gli dico ancora. — Si può mangiare qui?».
Mi risponde con un inintelligibile brontolio in cui mi pare di distinguere la parola pudding e si
rituffa nel suo mucchio di rifiuti.
Sono le tre del pomeriggio, e non ho mangiato niente dall'alba. Dovrò cavarmela da solo, se ho
capito bene. Me ne vado. Do un ultimo colpo d'occhio al drogato del primo piano, affidandogli la
custodia del mio zaino, dato che tutto sommato sembra che abbia già la sorveglianza su tutto il
resto, e che il mio zaino non contiene — purtroppo — nessun tesoro.
Fuori, fatti cento metri, sbocco in un grande viale fiancheggiato da alberi, dall'aspetto quasi
accettabile. Lo attraverso, seguendo il flusso dei passanti. Trovo un caffè aperto, ed entro. Mi
servono da mangiare e, rinvigorito, me ne vado a bighellonare per la città.
«Questa sera», ha detto il padrone del Gulhane. Vuol dire che questa sera ci sarà un sacco di
gente all'albergo. Dunque, rientrerò per la sera.
Effettivamente, quando rientro verso le nove, dopo aver fatto il turista a Santa Sofia, non
riconosco più il mio deserto. È intasato di gente.
Nella mia camera, dove il drogato perpetuo è sempre immobile, sono in una dozzina seduti in
cerchio sui pagliericci. Ragazzi e ragazze. Tutti hippies. Vestiti stravaganti, capelli lunghi, collane,
camicie indiane, piedi nudi. Tutti giovani, tutti sporchi, tutti uguali.
Io, con le mie scarpe, i miei calzoni e il mio colletto rialzato, stono visibilmente. Ma nessuno ha
l'aria di considerarmi un intruso. Mi si fa un po' di posto, e mi siedo anch'io sul pagliericcio, col mio
abito europeo, in mezzo agli altri.
Hanno acceso la stufa, che ronfa. Ma fuma anche spaventosamente. È insopportabile. Mi alzo, la
regolo, la sistemo. Il fumo finisce. Riscuoto qualche sorriso di ringraziamento.
Allora mi guardo un po' meglio intorno. E vedo delle cose curiose. Accanto a me c'è un
individuo vestito di bianco, ancora più magro forse di quell'altro nell'angolo, al quale nessuno fa
attenzione.
Ha una scimmietta sulle spalle.
E la scimmietta lo spidocchia meticolosamente. Ogni volta che acchiappa un pidocchio,
squittisce e lo dà al suo «proprietario», che si volta verso la sua vicina. Questa, una biondona
tedesca, danese o svedese, indossa una divisa da marinaio sbottonata sul petto. Attorno al collo ha
qualcosa di arrotolato. Qualcosa che, lo vedo subito, è un serpente. Un cobra, nientemeno.
Lei prende il pidocchio e lo passa al cobra, che lo ingoia in un soffio.
Un altro tipo viene avanti. Ha un topo in mano, vivo. Lo consegna alla ragazza, che lo passa al
cobra, il quale lo ingoia tutto intero.
La ragazza mi sorride e io mi faccio coraggio: le indico il drogato disteso nella stessa posizione
di questo pomeriggio.
«È malato?» domando, sempre in inglese, perché sembra che tutti parlino inglese, qui.
La ragazza alza le spalle.
«Johnny? — fa lei ridendo. — Sono tre mesi che non si muove di lì».
«Tre mesi?».
«Eh, sì!».
La cosa non sembra stupirla per niente. Ondeggia un po' sui fianchi, e canticchia guardando il
drogato:
«Johnny junkie, Johnny junkie».
Non le ho chiesto che cosa vuol dire junkie. Ma lo imparerò fin troppo in fretta: è il nome che si
dà ai drogati all'ultimo stadio, quelli che non hanno più altra scelta tra la porta dell'ospedale e quella
del cimitero.
Un nome che ascolterò anch'io, bisbigliato al mio passaggio, una notte di follia inimmaginabile a
Katmandu…
Ma d'improvviso si crea una specie d'agitazione. Tra gli accessi di tosse (ho dimenticato di dire
che, da quando sono rientrato, sento tossire dappertutto, la stessa tosse breve, secca, acuta, la tosse
dei fumatori di hashish), si leva una musica attutita.
Uno ha tirato fuori la chitarra da sotto il pagliericcio, ha cominciato a suonare. Una melodia
indiana, aspra e dolce insieme, lancinante.
Gli altri si restringono un poco, e uno di loro fruga nel suo sacco. Ne tira fuori un pacchetto di
sigarette americane; poi una specie di cono vuoto, di marmo bianco, lungo un palmo e annerito
all'interno; poi, da un involto di plastica, una placca d'una materia bruna, dura e opaca, che
riconosco subito. È hashish.
Ne taglia un pezzetto con il temperino, e mette via con cura il resto.
Poi toglie una sigaretta dal pacchetto e, arrotolandola tra le dita, la svuota a poco a poco, facendo
cadere il tabacco nel palmo aperto. Poi infila l'hashish sulla punta del temperino e lo scalda alla
fiamma d'un fiammifero, girando il temperino per quindici o venti secondi.
Poi sbriciola l'hashish, sempre nella palma aperta, un po' piegata per fare conca, e col pollice
mescola tutto.
Intanto la ragazza che gli sta accanto taglia un quadratino di carta stagnola dal suo pacchetto di
sigarette, fa bruciare la carta perché non rimanga più che la lamina metallica, la arrotola a pallina e
la colloca in fondo al cono.
Poi taglia un pezzo, della dimensione di due o tre francobolli, dalla coperta del suo pagliericcio
(capisco d'improvviso perché esse sono tutte tagliuzzate).
Umetta di saliva il lembo di stoffa e lo avvolge attorno all'estremità inferiore del cono.
«Passami lo shilom», dice il ragazzo.
Lei gli porge il cono. Shilom, è dunque il nome di quell'oggetto. Ne avrò presto anch'io una
dozzina… Sono sopravvissuti a tutte le mie peripezie. Li ho conservati.
Il ragazzo versa il suo miscuglio di tabacco e hashish nello shilom, lo preme un poco, accende un
cerino, gli dà fuoco, preme ancora perché la brace rimanga ben compressa, poi riversando la testa
all'indietro e tenendo a due mani lo shilom, nell'atteggiamento di chi soffia nelle palme a imbuto per
scaldarsi, aspira dal di sotto la fumata dell'hashish.
Aspira molto forte, molto profondo.
E passa lo shilom alla sua vicina. Lei fa altrettanto, e lo passa al suo vicino. E così di seguito.
Io li guardo come se fossi d'improvviso trasportato in mezzo ai pellirosse che fumano il calumet
della pace. Ma lo shilom si avvicina a me. Che cosa faranno? Salteranno il mio turno? Mi sembra
logico, e non me la prenderei. Dopo tutto, non mi conoscono neppure, e si tratta del loro hashish,
non del mio.
E se mi porgeranno lo shilom?
Mi prende un po' di panico. Come comportarmi, se me lo passano? Lo sento confusamente, ma
con certezza: non sarebbe certo il caso di rifiutare. Ho l'impressione che non sono cose da farsi.
Ma io non so come si fuma, ecco il pasticcio!
Non importa: il mio vicino, dopo aver tirato la sua boccata, mi ha passato l'arnese. Ho fatto ben
attenzione a come hanno fatto gli altri. E mi butto. Affettando la maggior naturalezza possibile, con
l'aria di far ciò da un'eternità, prendo lo shilom, metto le mani a imbuto di sotto, e tiro una
boccata…
Niente arriva ai miei polmoni. Perché, anche se ho osservato bene il modo con cui fanno gli altri,
io non ce l'ho ancora, questo modo. Passa dell'aria tra le mie giunture, sfugge dalla cavità delle mie
palme. In pratica aspiro per metà l'aria circostante, e per metà il fumo dello shilom.
Stringo un po' più le dita, e mi contraggo tutto. Questa volta va meglio, ottengo una boccata
migliore. Passo lo shilom al mio vicino, e continuo a studiare, con la coda dell'occhio, come fanno
gli altri.
Lo shilom fa un giro completo, e torna a me. Questa volta ho capito il meccanismo. Aspiro quasi
interamente il fumo, ma non è facile. E poi, non oso tirare così forte come fanno gli altri. Il fumo è
molto aspro. Bisogna avere una gola blindata per non sputare polmoni e budella, quando questa
roba ti entra nella gola. Del resto tossisco già un po', ma senza rendermi ridicolo.
In tutto questo tempo lo shilom ritorna al suo punto di partenza. E l'individuo che lo riprende,
non lo mette più in circolo. Lo abbandona al suo fianco. Un altro shilom intanto è partito, e sta
facendo il giro.
Capisco che il primo è finito. Quando il secondo arriva a me, mi faccio coraggio e aspiro una
buona boccata. Funziona: non tossisco affatto, e aspiro pochissima aria.
E poi, comincia a fare effetto. Da qualche minuto mi sento bene. Ho l'impressione di «planare».
Non conosco parola più adatta per descrivere questa sensazione. Attorno a me tutto sfuma
lentamente in un mare di ovatta. Se voglio, posso non osservare né sentire più niente del mondo
esterno. Mi basta volerlo, e ops mi trovo tutto solo al mondo. Ma se voglio fissare l'attenzione su
qualche cosa, un oggetto, un suono o un pensiero, è facile; d'improvviso viene in primo piano, e il
resto non esiste più. Mi sento beato, la vita è bella e morbida, il mondo è perfetto e malleabile, e io
volo dolcemente al di sopra di tutto. Basta che io immagini di volare, e mi sento volare veramente.
Quanto alle preoccupazioni, addio! Non ho più soldi in tasca? Al diavolo i soldi! Ci s'aggiusterà
sempre.
Forse è Aruache il vero proprietario del Gulhane Hotel? Ebbene, lo sia: non me ne importa
proprio niente.
Ora è la quinta volta che lo shilom torna a me. E io mi sento sempre più felice. L'individuo della
chitarra suona sempre le stesse arie agrodolci, e io non ho mai sentito musica più bella.
Di tanto in tanto, come in un sogno in cui si crede di volare, mi offro un piccolo ritorno sulla
terra. Allora noto Johnny il junkie sempre rivolto verso il muro, e mi prende un'immensa simpatia
per lui. Vedo altri individui che si fanno iniezioni, pur continuando a fumare. Anche a loro vorrei
dare delle pacche amichevoli.
Tutt'a un tratto mi viene voglia di ridere. Rido. E stupefatto, mi sento ridere, d'un riso
incoercibile, come non ho mai riso in vita mia, francamente, con tutto il cuore, a gola spiegata, a
gorgheggi lunghi e acuti da far saltare quel che resta dei vetri alle finestre della camera.
Ciò mi sveglia. Mi fermo, un po' vergognoso. Getto uno sguardo di traverso agli altri. Non mi
hanno neppure degnato di uno sguardo. Di colpo ricomincio a ridere, perché ne ho voglia, una
voglia violenta, inspiegabile, più forte di me.
Ma ecco, arriva il mio sesto shilom. A questo punto non mi fa più paura, lo prendo con sicurezza.
Fieramente, vuoto i polmoni il più possibile, e aspiro profondo, come gli altri.
Era da prevederlo: esplodo.
Con i polmoni devastati da un bruciore irresistibile, tossisco da farmi scoppiare la cassa toracica.
Impiego cinque buoni minuti per rimettermi, e devo saltare un giro di shilom. Ma anche questa
volta, nessuno fa attenzione a me. Ognuno è troppo assorto nei suoi voli. Quel che può capitare agli
altri, che importanza può avere?
Lo shilom torna ancora una volta. Io resto perfettamente cosciente, e mi dico che sto per farmi
cacciar via, che mi si domanderà perché non tiro fuori anch'io il mio hashish, perché non partecipo
alle spese. È impossibile che non mi trattino da scroccone!
Ma no, nessuno mi chiede nulla, nessuno mi parla. Una volta o due mi si domanda una sigaretta
o un pezzo della carta del pacchetto, per metterlo in fondo allo shilom. Ma è tutto. Sono già stato
accettato.
È una cosa che noterò lungo tutto il mio viaggio nel mondo della droga. Mai in un gruppo si
rifiuta la droga a qualcuno. Tutto è in comune. Chi ne ha, ne dà. Chi non ne ha, ne prende. È la
fraternità più completa.
Ancora una volta lo shilom è nelle mie mani. Quante volte mi è già arrivato? Non lo so. Non
conto più. Sono completamente «partito». E non ho alcuna voglia di fermarmi. Del resto si continua
ad andare avanti.
Quando smettiamo di fumare, quando non c'è più hashish nel sacchetto, è mezzogiorno
dell'indomani…
Ho fumato per quasi quindici ore consecutive!
E mi sento meravigliosamente bene. Per nulla affaticato, senza la minima voglia di dormire. Né
gola che brucia, né testa pesante. Perfettamente in forma, sento anche fame, una fame da divorare
un bue. Bisogna assolutamente che vada a mangiare. Lo dico. Altri sono d'accordo. Qualcuno
decide:
«Andiamo al Pudding Shop».
Seguo gli altri. Eccoci in cinque o sei, fuori, sotto la neve che cade sempre, io in sandali, gli altri
a piedi nudi, calzoni e camicia di tela, senza niente d'altro, ma non abbiamo freddo.
Guardo la neve che cade. Sono anch'io come uno dei fiocchi che volteggiano al vento, e che
cerchiamo di afferrare correndo, scossi da scoppi di risa, nell'Avenue Sultana Meth, in mezzo alle
vetture che sterzano per evitarci.
Dopo 300 metri, arriviamo a una specie di bar dalla facciata a vetri, preceduta da una piazzuola.
C'è un sacco di gente sul marciapiede, nonostante la neve, e sono tutti hippies. Alcuni entrano, altri
escono, restano lì, con le braccia ballonzolanti, incerti, poi se ne vanno.
Noi entriamo. L'interno è molto chic. Pannelli di legno lungo i muri, lampadari dorati un po'
dappertutto. A destra un lungo banco di fòrmica a pannelli blu, crema e ocra, con una vetrina
obliqua piena di tappeti orientali ed europei. A destra, una lunga fila di tavolini tra gli specchi a
muro.
Il locale ha un'aria molto europea. Tanto più che è pieno di norvegesi, tedeschi, svedesi,
americani, inglesi, eccetera.
Una ragazza discute animatamente con un cameriere, al primo tavolo. Mi pare di capire che è lì
da un paio d'ore e che non ha ancora ordinato nulla. Deve sloggiare, malgrado le sue proteste
veementi. Ci siamo appena accomodati al suo tavolo, che lei ritorna trionfante con un biglietto. Ci si
restringe per restituirle il suo posto. E come lei, anche noi ordiniamo creme al cioccolato e
caramello, con un eccellente pudding inglese (presto ne avrò mangiati così tanti, da non poterli più
vedere).
Paghiamo in contanti. È piuttosto caro. Eppure è proprio questo Pudding Shop, dove ci si
aspetterebbe di vedere vecchie turiste americane venute a fare lo spuntino, il principale luogo di
convegno degli hippies di Istanbul.
Io mi trovo bene. L'hashish fa sempre il suo effetto, ma con dolcezza, quel tanto che basta per
tenermi perfettamente fresco e sveglio. Comincio a simpatizzare con i miei compagni della notte, ai
quali devo la mia iniziazione alla droga. Non cerco più di nascondere loro che è stata la mia prima
esperienza. Del resto mi dicono che se ne sono accorti subito, dal modo in cui tenevo lo shilom.
Dico loro di dove vengo e chi sono. Non sembra che li interessi molto. Ma mi trattano da amici.
Dopo tutto, sono io che pago questa visita al bar. Ma ero in debito con loro.
Poi si mettono a conversare. L'argomento è l'India, il Nepal, soprattutto Katmandu. Pochi ci sono
andati e tutti spasimano di partire, o di ripartire. Ci sono anche storie di lasciapassare che non
arrivano, di persone bloccate da qualche parte, per mancanza di denaro, in Iugoslavia o in
Afghanistan. E, si capisce, si parla di droga, di fornitori, di miscugli, di prezzi.
Sento per la prima volta termini che mi diventeranno presto familiari. Si parla di trip e di acide,
di grass e di joint. Cioè, da quel che capisco, si tratta del «viaggio», dell'LSD, e della marijuana.
Quanto al joint, è una sigaretta di tabacco e hashish mescolati.
Ma molte altre parole per me sono ancora cinese. Solo più tardi imparerò che to drop vuol dire
prendere LSD, che bread non è il pane, contrariamente a quel che si potrebbe credere, ma il denaro.
Che quando si crasche è quando si dorme. Che i downers sono i tranquillanti. Che è groovy vuol
dire è «una pacchia». Che essere stoned è essere sotto l'effetto della droga. Che l'eroina si chiama
smack. Che un poliziotto è un man. Che un mike è un microgramma, misura dell'LSD (una capsula
ne contiene in media da 250 a 500).
Si parla anche del drogato che ho trovato ieri all'arrivo. Uno dei presenti è stufo di lui. Ha
accettato l'incarico di trovargli dei crystals (della metedrina), e l'altro lo supplica di comperargliela
in fiale e non più in pastiglie (di cui l'ho visto servirsi ieri). In fiale è molto più nice (bello,
efficace), solo che costa molto più cara. Per di più, il finto medico che gli prescrive le indispensabili
ricette si è fatto pizzicare dai men (plurale di man, vedere sopra).
Poi si passa all'hash, alla «mostarda», perché è così che si chiama l'hashish. Per quale motivo?
Penso che è un termine dialettale inventato per evitare di farsi scoprire da orecchie indiscrete… o
poliziesche. Nel gruppo, più nessuno ne ha. Urge trovarne. Purché il change-money passi presto.
Capisco subito che si tratta di un trafficante turco che, più che un cambiamonete, è un uomo
tuttofare, un intermediario.
In capo a un'ora, arriva. È un piccolo turco dallo sguardo sfuggente, vestito all'europea, sulla
quarantina. Siede con noi e tira fuori di tasca un sacchetto di plastica. Dentro, quando lo apre, vedo
una grossa placca di hashish rossastro, non molto somigliante a quello che abbiamo usato ieri.
«To', è di quello libanese», dico io.
Gli altri si voltano verso di me, stupefatti.
«Allora te ne intendi?».
La mia frase ha prodotto il suo effetto.
Ne sono lietissimo, ma cerco di non farlo troppo vedere. E continuo:
«E posso anche dirvi che questo non è granché. È vecchio, non ha meno di un anno».
Gli batto sopra con l'unghia dell'indice.
«Vedete, è duro, non ha più il suo bel riflesso verde. E non odora più molto».
«Hai ragione — mi dice Terry l'americano. — Ma come fai a sapere queste cose?».
«Ho fatto la raccolta dell'hashish a settembre nella valle di Baalbeck, in Libano».
Terry si volta verso il change-money, che mi sta lanciando occhiate feroci.
«Be', non hai niente di meglio?», gli dice.
L'altro dice di no, che i tempi sono duri, ma che è disposto a diminuire il prezzo.
Si contratta. È disposto a non farlo pagare al prezzo solito, di 20 lire turche (attorno alle 900 lire
italiane) per tholla (misura corrispondente a 11-12 grammi).
Dato che un chilo fa all' incirca 90 tholla, e che una tholla permette di fare 30 sigarette, o da 10 a
15 shilom (press'a poco quel che abbiamo fumato la notte scorsa), l'infera nottata ci è venuta a
costare 10 franchi (circa 1.200 lire italiane), mentre a Parigi per la stessa quantità se ne sarebbero
spesi 200 (quasi 25.000 lire italiane)!
Invece di 20 lire turche per tholla, il change-money è disposto a scendere fino a 12, ma non di
più.
«Dodici lire per una tholla della tua vecchia marmellata? Mi fai ridere! — ribatte Terry. — No,
grazie. Bye, bye».
Il change-money brontola qualche minaccia, poi se ne va.
«Non si rischia niente — commenta Terry, rivolgendosi a me. — Si andrà da Liener. Ne ha
sempre, lui. Ma dimmi, spiega un po' come è andata la raccolta della "mostarda". Se è così, bisogna
che ci vada anch'io».
Non mi faccio pregare, e snocciolo tutte le mie avventure. Aruache, Baalbeck, Saliet, Ali,
eccetera.
«Credevo che la coltivazione dell'hashish fosse proibita, ora, in Libano», interviene una ragazza.
«Sì, l'hanno sostituita con quella del girasole, ma essi aggirano l'ostacolo».
E spiego la faccenda delle piante piccole nascoste sotto quelle grandi, la loro raccolta, pigiatura,
eccetera.
«Di' un po', hai visto molto hashish, lassù?», mi domanda Terry.
«A Baalbeck, presso un rivenditore, in un suo magazzino, ce n'era, ammucchiato lungo un muro,
alto come me».
«E non hai pensato a prenderne un poco?».
Sorrido, imbarazzato.
«Capisci, allora non pensavo a fumare».
Restano senza parola per due minuti, come un piccolo borghese a cui raccontino che è stato
acceso il fuoco nel camino con le sue azioni.
Ma star lì a fantasticare non serve a nulla, bisogna andar a cercare l'hashish. E ci rimettiamo in
marcia.
Cammin facendo, Terry mi spiega dove si va. Liener è il proprietario di un piccolo ristorante
frequentato dagli hippies, qualcosa come il Pudding Shop. Vende hashish, e ne fuma lui stesso.
In due minuti arriviamo in una stradicciola che porta a un angolino in disparte, invaso da un
grosso albero morto a metà. Ci sono tavolini sul pavimento in cemento, ma sono vuoti a causa della
neve. A destra, una piccola scala porta a una bottega stretta e sudicia, senza insegna. I muri sono
tappezzati di tela di sacco grigia. È molto buio. Per l'illuminazione non ci sono che due o tre deboli
lampadine che pendono nude dal soffitto. A sinistra una grande tavola, e a destra due tavolini a due
posti. La stanza non misura che sei o sette metri di profondità. In fondo, una cucina stretta, con una
vetrina di paste e un'altra di piatti.
Sono le otto di sera. C'è un mucchio di gente, ma noi siamo solo in tre: io, la ragazza che si
chiama Kacha, e Terry, e troviamo un po' di posto. Terry ordina da mangiare. Ci portano due piatti
ciascuno. Nel primo, un misto di legumi, zucchini, patate e fagioli verdi, il tutto molto piccante; e
nel secondo una porzione di vitello bollito. Come al Pudding Shop, si paga in contanti: 3 lire a
persona, più un tè, mezza lira.
Presto, a un segno di Terry, un uomo ben piantato, con grossi baffi, il gesto misurato, il passo
assolutamente sicuro di sé, si avvicina. È Liener, il proprietario. Sì, lui ha della «mostarda». Al
prezzo normale. Ed è veramente buona quella che ci fa vedere, molto buona, molto odorosa, non
troppo dura.
«Dammene per 6 tholla», dice Terry.
Liener taglia e pesa su una piccola bilancia. Fa 90 lire.
Rifletto in fretta. Capisco che bisogna fare un gesto, se voglio veramente entrare a far parte del
gruppo. Mi restano in tasca 400 lire, niente più.
«È per me», dico.
E pago.
Terry e la ragazza non protestano. Io intasco l'hashish.
«Adagio — mi dice Terry sorridendo. — Ne fumiamo un poco, no?».
Getto un'occhiata attorno a me.
«Ma qui non si può», osservo.
«Certo, non con lo shilom. Hai delle sigarette?».
Tiro fuori un pacchetto di americane.
Terry ne prende tre, le arrotola tra il pollice e l'indice per farne cadere il tabacco. Lo mescola con
l'hashish e riempie le sigarette. Sono diventate dei joints.
Abbiamo finito di mangiare, e fumiamo. È molto meno forte che con lo shilom, evidentemente
(dato che con un tholla si possono fare trenta sigarette, contro una quindicina di shilom soltanto),
ma ognuno ha una sigaretta tutta per sé.
Ben presto tutto va a gonfie vele, io sto planando.
Ho la pancia piena, un buon joint in bocca, ho passato una notte in bianco, ma mi trovo
perfettamente in forma, completamente stoned. Viva la «mostarda»!
Verso le nove si rientra al Gulhane… per piombare nel bel mezzo di un'invasione di poliziotti. Ci
sono dei men dappertutto, alcuni con la pistola in mano. Verificano i documenti di ognuno. Terry ci
trattiene in tempo.
«È da scemi entrare — dice. — Non si sa mai, con quelli lì. Ci impacchettano per un niente.
Andiamo all'isola. Ci passeremo molto bene la notte».
Andiamo nell'isola? Andiamoci. Quale isola? Poco importa, si vedrà.
È questo, la droga: niente conta più, si è disponibili a tutto.
Si riparte tutt'e tre: Kacha, Terry e io. Si costeggia il Gulhane Park, si taglia a sinistra, oltre la
stazione, e presto si è sul Bosforo. Nevica che Dio la manda. Ma siamo completamente insensibili
al freddo.
Per strada ci siamo preparati ancora dei joints.
Attraversiamo un braccio del Bosforo su un ponte, lo costeggiamo fino ai sobborghi, e
finalmente Terry trova un pescatore che ritira la sua barca. Nonostante la notte e la neve, riesce a
convincerlo, con l'aiuto di 3 lire, di condurci nell'isola.
Saliamo a bordo di una lunga barca, con panche per traverso, e il pescatore si mette a vogare
all'indietro.
L'acqua è immobile sotto la neve, dei gabbiani passano mollemente gridando nella luce del
nostro fanale. Un accesso folle di riso, come ieri sera, mi prende. Ora so che è caratteristico dei
fumatori dilettanti, ma io me ne impipo. Fa tanto nice, ridere.
6.
Dopo un quarto d'ora, la barca urta un piccolo imbarcadero di legno. Di fronte a noi distinguo a
tratti dei barlumi tremolanti, come di candele.
Terry ci guida, e arriviamo presto davanti a una grotta nel fianco della collina. È di lì che
vengono i bagliori.
Avanzo, passo sotto una volta alta tre o quattro metri, e sbocco in una grande cavità, profonda
una quindicina di metri, rischiarata da una luminaria fantastica. Da un posto all'altro, grosse candele
che fumano, flambeaux e bugie posate su casse o sul suolo in terra battuta. Le pareti della grotta
sono di granito.
Ci saranno da 50 a 60 hippies, ragazzi e ragazze, alcuni seduti, altri stesi, o intenti a ravvivare i
lumi. Tutti indossano vestiti dai colori vistosi, sciarpe attorno al collo, bende che cingono le fronti.
Le ragazze hanno segni strani tracciati sulla fronte, di rossetto, ma anche di tutti i colori. Molti
hanno vestiti di pelle, con l'orlo a frangia, ricamati con disegni orientali. Alcuni, come il mio junkie
di ieri, sono tutt'in bianco. Sono i più smagriti, e hanno lo sguardo febbricitante. Molti altri portano
serti di fiori, o fiori nei capelli, soprattutto le ragazze. Sono grosse margherite gialle. Come fanno, a
questa stagione, sotto la neve, a trovare questi fiori? Non lo saprò mai.
In un angolo, un chitarrista suona canticchiando. Un po' più lontano, un flautista lo accompagna.
Ha un flauto bizzarro. Lungo 40-50 centimetri, con quattro o cinque fori soltanto, e bruscamente
rigonfio dalla parte della bocca. È una specie di piccola zucca secca, gialla, venata di bruno, con
una conchiglia incastonata in mezzo. Terry mi spiega che è un flauto per incantare i cobra.
Il suono è acidulo, lancinante, snervante; da principio lo trovo molto sgradevole, ma mi ci
abituerò in fretta. Terry mi spiega ancora che ci sono otto o nove grotte in tutto nell'isola e che un
centinaio di hippies le abitano. Noi ci installiamo in un angolo e, sempre ascoltando il chitarrista e il
flautista, ricominciamo a fumare.
Terry ha con sé uno shilom di terracotta, tutto annerito. Lo prepara con cura, e tutt'e tre aspiriamo
dallo shilom. Non siamo i soli, ma ne vedo altri che anche si fanno iniezioni, qua e là. Nessuno
parla, o quasi. Nessuno mangia o fa qualcosa. Semplicemente si fuma o ci si fa iniezioni, stretti gli
uni agli altri, nella luce gialla e rossa che proietta grandi ombre fantomatiche sulle pareti, cullati
dalle bizzarre melodie del flautista e del chitarrista.
Poco lontano da me, sotto una candela che la rischiara perfettamente, ho notato una graziosa
biondina in blue-jeans azzurri e pullover verde-azzurro chiaro, che sembra sola. L'ho notata perché
assomiglia a una ragazza che ho conosciuto in Francia.
Allora concentro la mia attenzione su di lei. Tutti gli altri pensieri svaniscono, non vedo che lei, e
mi metto a sognare che è la francesina di allora. Molto presto i miei sogni diventano precisi.
Comincio ad abituarmi alla droga, riesco a dirigere meglio i miei sogni. Mio Dio, com'è gradevole!
In capo a un'ora o due, non so quanto, la ragazza si muove e si siede.
La vedo tirar fuori una siringa dal suo sacco, poi tre fiale d'un liquido incolore. Caccio via i miei
sogni e decido di rientrare nella realtà.
Fatto, sono rientrato, è facile.
Osservo la ragazza attentamente. Rompe — una dopo l'altra — le tre fiale e riempie la siringa.
Poi si fa un laccio con un foulard indiano di cui tiene i capi con i denti, e si fa l'iniezione in
profondità nel gomito.
Ritira la siringa e allora, bruscamente, s'irrigidisce, con la siringa in mano.
Diventa livida, si mette a respirare molto forte, ansima sempre più.
Due o tre hippies che l'hanno vista si alzano e vanno verso di lei. La sostengono, cercano di farla
respirare. L'ha presa un malore, di sicuro.
Soffoca sempre più. Ora è completamente bluastra.
D'improvviso si riversa indietro, e strabuzza gli occhi.
Le prendo il polso. Non batte più.
Sono passati appena tre o quattro minuti, da quando s'è fatta l'iniezione. È morta.
Allora nella grotta molti si alzano, vengono verso di lei. Si è fatto silenzio. Ciascuno, a turno, la
guarda. Si cercano sue notizie. Chi è? Chi la conosce? Nessuno. Non si sa il suo nome. È arrivata
tre giorni fa e si è sempre fatta iniezioni. È tutto.
Non ha sopportato un 'overdose (eccesso di droga).
Sul volto dei presenti non noto alcuna emozione. Niente.
Una ragazza è morta, lì, tutta sola, sembra una danese, o una norvegese, diciotto o vent'anni, e
nessuno ne sembra turbato.
Il chitarrista ha smesso di suonare. Ma non il flautista. Nel silenzio generale, lo strepito acidulo
del suo flauto continua. Viene anche lui vicino alla ragazza e continua a suonare, mentre la guarda
tranquillamente di tanto in tanto.
Una ragazza alta e bruna si avvicina e chiude gli occhi della morta, dolcemente. Poi, aiutata da
un ragazzo, la stende sul suo sacco a pelo, le braccia lungo il corpo.
Un'altra ragazza viene, si toglie il serto di fiori, e lo posa sul cadavere.
Una ragazza arriva con una lunga sciarpa di seta gialla, dai disegni neri lungo tutto l'orlo e
sovrimpressi in mezzo (ho saputo più tardi che era una sciarpa sacra di Benares). Stende la sciarpa
sul corpo della morta, lasciando il viso scoperto.
Altri vengono ancora, e presto la morta è coperta di fiori.
Attorno al corpo piantano bastoncini d'incenso. Ce ne sono una cinquantina.
E la morta resta lì, illuminata dalla luce rossastra dei bastoncini, il volto bluastro, contratto, le
mani accartocciate che escono da sotto la sciarpa.
Nel giro di un'ora il suo viso si distende e comincia a impallidire.
Allora ritorna molto bella…
Intorno, la vita ha ripreso.
Ognuno è tornato al suo posto. Gli shilom hanno ricominciato a circolare, e le siringhe a
funzionare.
Il flautista suona senza interruzione. Il chitarrista di nuovo lo accompagna.
Finalmente l'alba imbianca l'ingresso della grotta, e vedo che continua a nevicare. Due ragazzi
vanno verso la morta, rifanno il suo fagotto, frugano in un sacchetto di cuoio e tirano fuori i suoi
documenti.
Poi afferrano il suo corpo, uno alle spalle e l'altro ai piedi. Tutti fanno largo; essi escono.
Qualcuno dev'essere andato a cercare una barca: è lì fuori, simile a quella che ha portato noi. Vi
caricano il corpo, posandolo di traverso sulle panche. I due ragazzi che lo porteranno alla polizia
salgono a bordo e si siedono ai lati.
La ragazza è sempre coperta con la sciarpa, e ornata delle grosse margherite gialle.
Il barcaiolo, un vecchio piccolo e secco, fa leva sul remo di coda e la barca si stacca. Va verso
Istanbul, sotto la neve che cade, circondata da un volo di gabbiani gridanti, nella luce lattea
dell'alba.
7.
Una decina di giorni più tardi, mi sento perfettamente integrato nella banda degli hippies.
Integrato, forse è una parola un po' forte. Accettato, sarebbe più giusto. Perché infatti io non sono
uno di loro.
Per il vestito, tanto per cominciare. Porto abiti da viaggiatore, da autostoppista classico, io.
Stivali di cuoio, calzoni, maglietta e giacca normali. Unica mia leziosaggine è che vesto in nero (e
presto mi chiameranno l'uomo in nero). E poi non ho i capelli lunghi. Anche quello che chiamo il
mio vestito della festa, è classico. Ben sistemati in fondo allo zaino, messi da parte per le grandi
occasioni, tengo un paio di pantaloni chiari, una giacca chiara, una camicia nera con una cravatta
rigata nera e bianca, e scarpe di corda.
E poi, la filosofia hippy: non è la mia. Io non dico «Do your thing» (Fatti gli affari tuoi), una
specie di slogan che significa grosso modo: «Fa' tutto quel che ti piace, e il resto non conta». Io non
ho un guru né un inner space (spazio psichico interiore). Mio motto non è Plant your seed (Pianta il
tuo seme), ossia: diffondi la filosofia hippy con l'esempio e l'amore universale. Io non cerco a
qualsiasi costo la white light, la luce bianca, la scoperta dell'io interiore. Io non cerco di zap the
cops, di sommergere i poliziotti di tenerezza. In parole povere, io sono uno straight, uno che è fuori
della comunità hippy.
E tuttavia mi accettano, parlano davanti a me senza segreti. Hanno convenuto che sono piuttosto
un avventuriero. Questo per me «il mio affare», e ogni «affare», dopo tutto, vale «quanto qualsiasi
altro.
Per il momento io mi sono buttato nell'hashish francamente, e questo a loro piace.
E la vita continua, cullata dalle chitarre, profumata dal buon odore dell'hashish che brucia nel
crogiolo dello shilom. Qualche volta ci si batte con i topi che vengono a rosicchiarci le orecchie
mentre si dorme. Si va al Pudding Shop o da Liener, a mangiare e cercare hashish, si va in giro per
il Gran Bazar a comperare ciondoli e a scambiare i dollari.
Un pomeriggio, al primo piano del Pudding Shop, dei poliziotti sbucano fuori in gruppo, mi
piombano addosso e mi portano in gattabuia.
Mi dibatto come un diavolo scatenato. Che ho fatto di male? Ho fumato? Ma fumano tutti. Ho
uno shilom in tasca? E chi non ce l'ha? Per fortuna la vista del mio passaporto li calma
immediatamente. Mi liberano sorridendo, e mi spiegano: mi hanno scambiato per un americano che
aveva ucciso due di loro. Soltanto!
Mentre la vita scorre così, dolce e tranquilla, il mio portafoglio si svuota paurosamente.
Non mi restano più che 200 lire turche. Bisogna che faccia qualcosa. Dopo tutto sono venuto a
Istanbul per vedere se non si poteva tentare qualche «colpo». Ormai è tempo che mi dia da fare. È
chiaro che dovrà trattarsi di un traffico di droga. Sì, ma che colpo?
È allora che il caso mi viene in aiuto e mi permette di tentare, e di realizzare, un colpo molto
bello, che — grazie alla sua riuscita e al piccolo malloppo che mi procura — deciderà di tutto: della
morte di due ragazzi di vent'anni, del confino per tutta la vita di un terzo dentro un letto d'ospedale,
e per me, della mia partenza verso l'Oriente. E anche del mio sprofondamento a larghe bracciate,
sempre più in basso, nella droga, fino in fondo.
8.
Un mattino, da Liener, entrando trovo un tipo tutto solo in fondo alla bottega. Ha l'aria molto
abbattuta. Lo guardo meglio e vedo che piange.
È un ragazzo d'una ventina d'anni, vestito da hippy, ma non troppo sgargiante. Cioè, ha dei blue-
jeans normali, dei Clarks ai piedi; la sua camicia è variopinta, ma la sua giacca in pelle di montone
con le maniche bianche non porta alcun fregio. Capelli castano-chiari, molto ricciuti, lunghi ma non
troppo. Ha il volto roseo, è molto giovane. Ed è piuttosto slanciato.
Mi sembra ridicolo veder piangere un ragazzo così. Vado verso di lui e in inglese gli domando:
«Qualcosa non gira? Posso aiutarti?». Solleva la testa, e, dato che ha subito capito che sono francese
per via dell'accento, mi risponde in francese:
«Mi preoccupo per i miei compagni. Sono partiti in treno per cercare un'auto a Lione. Un mese
fa. Dovrebbero essere tornati da un pezzo. Non ho più notizie, né denaro, né niente». E aggiunge,
gettando uno sguardo disperato verso la cucina: «E Liener rifiuta di darmi da mangiare… Sono
proprio finito».
Si chiama René, e mi racconta la sua storia. Erano quattro amici, di Lione. Vengono a Istanbul da
molto tempo. Questa Volta hanno deciso di passare il Bosforo e di continuare verso l'Asia. Per
questo gli altri tre — Yvon, Romain e Taras Bulba — nono tornati in treno a Lione: per comperare
un'auto usata. Da allora, più nessuna notizia.
Gli pago la colazione, e gli presto 50 lire delle poche che mi restano. Mentre chiacchieriamo,
ecco che René viene fuori con qualcosa che fa tilt nelle mie orecchie.
Prima di partire — mi dice, — Yvon si è imbattuto in un individuo incredibile. Un canadese-
francese di trenta-trentacinque anni, venuto con le tasche foderate di dollari all'Hilton di Istanbul,
che va in giro da ogni parte gridando che vuole comperare 25 chili di hashish a 100 dollari il chilo,
più 500 dollari per l'intermediario, cioè in tutto 3000 dollari!
Ha chiesto a Yvon e a René di trovarglielo, ma il colpo è sembrato loro troppo grosso, hanno
avuto paura di cadere nella trappola di un provocatore e hanno eluso la proposta.
Il canadese insisteva e gridava forte che aveva il denaro e il biglietto di ritorno per Montreal, ma
più gridava e meno gli credevano.
E intanto invitava Yvon, e gli pagava il ristorante.
Questa storia mi turbina nella testa. È strano. Un vero provocatore, una spia, non fa tutto quel
chiasso. Si dimostra più furbo, più discreto. Non so perché, ma subodoro l'occasione da non
mancare e il pollo da spennare.
Domando a René:
«Dove si può trovare questo canadese, oltre che all'Hilton?».
«Da un po' di tempo non lo si vede più tanto. Aspetta Yvon, che ti metterà in contatto con lui».
L'indomani uno dei compagni di René, Romain, arriva solo. Racconta: a 80 chilometri da
Istanbul l'auto, una vecchia Frégate commerciale verde, acquistata per 60.000 vecchi franchi, è stata
bloccata dalla neve. Yvon e Taras Bulba sono restati là.
Lui, Romain, è rientrato per avvertire René. Appena la strada sarà sgombra, l'auto arriverà.
Nella bottega c'è un altro francese di venticinque anni, proveniente da Ginevra, un piccoletto
robusto dai capelli castani tirati all'indietro a mo' di casco. Si chiama Guy. Vuole andare in Israele a
lavorare in un kibbuz, e mettere insieme il denaro necessario per tornare nell'India, che conosce già.
A Ginevra trafficava in auto, ma gli affari gli sono andati male. Allora è partito. Sì, anche lui ha
sentito parlare del canadese. Ma bisogna aspettare Yvon.
Due giorni più tardi siamo al Pudding Shop, quando i due mancanti, Taras Bulba e Yvon,
arrivano. A piedi. L'auto è in panne, non si riesce più a cambiare le marce. Lasciando la vettura sul
posto, sono venuti in autostop. Domani, dopo aver cercato in un garage l'occorrente per riparare
l'auto, ripartiranno.
Taras Bulba è il fusto della banda: ventiquattro-venticinque anni, capelli neri arruffati, enormi
baffoni e grosse gambe robuste. Con i suoi occhi d'un blu metallico, le palpebre a mandorla un po'
alla cinese, gli zigomi sporgenti e la carnagione scura, sembra un vero selvaggio, un unno. E, dato
che porta anche un berretto russo in pelle con paraorecchi ricongiunti in alto, stivali di cuoio col
pelo che fuoriesce, calzoni di cuoio rossastro, un grosso cinturone e guanti di cuoio foderato, il suo
soprannome gli sta a pennello. Dimenticavo: attorno al collo ha anche una grossa catena di ferro,
che lui stesso si è fabbricato.
Romain invece è elegante, il distinto, l'Aramis di questi moschettieri, se Taras Bulba ne è il
Porthos. Molto bello, abbastanza alto, è biondo con bei ricci. I suoi stivali di cuoio rosso fanno
molto chic sopra i pantaloni di velluto nero. E ha una camicia arancione che lui stesso si è dipinta,
con gusto raffinato, in stile psichedelico. Come spada ha la chitarra, nella sua fodera, sempre a
tracolla. Non la lascia mai.
Ma è soprattutto Yvon che io osservo, poiché è lui il «contatto» che deve condurmi al canadese.
È molto giovane, ha l'aria ancora di un ragazzino, di forse diciassette anni. Alto come me, il volto
affilato come una lama, ha zigomi sporgenti, e sul grande naso gli occhiali rotondi da miope, con le
lenti molto spesse, L'abbigliamento: blue-jeans rappezzati, maglietta a brandelli, giaccone da
pastore in pelle di montone senza maniche, e attorno al collo — a mo' di sciarpa — uno straccio.
Dal primo colpo d'occhio ho visto che è influenzabile e senza molta esperienza. Non mi
dovrebbe essere difficile farlo parlare.
Gli offro un joint di hashish, come pure agli altri. E, mentre fumiamo, lo interrogo sul canadese.
Mi dice che l'ha incontrato al Gran Bazar. Che l'altro gli ha parlato subito dei 25 chili di hashish.
Che gli ha pagato più volte le consumazioni, e gli ha anche promesso un bell'anello per convincerlo.
Yvon mi assicura che ha paura.
Gli replico che la cosa m'interessa e che, se vuole aiutarmi, avrà la sua parte.
Mi sembra molto scosso. Domani, promette, andrà all'Hilton Per vedere se c'è il canadese, cosa
di cui non dubita.
Il giorno dopo, Taras Bulba e Romain ripartono per riparare l'auto. Yvon invece va all'Hilton.
Ritorna con una buona notizia: ha potuto vedere il canadese, gli ha detto che conosce qualcuno
capace di trovargli quel che lui cerca e che questo qualcuno era pronto a incontrarsi con lui.
Non voglio far vedere il canadese agli hippies (non si sa mai, qualcuno potrebbe soffiarmelo),
perciò catechizzo per bene Yvon. Niente appuntamenti al Pudding Shop o da Liener. Sono troppo
frequentati. Mi trovi una piccola bettola fuori mano.
È quel che fa. L'appuntamento viene fissato per la sera stessa, alle otto, in un ristorante turco, di
fianco al Gran Bazar.
Arrivo insieme a Yvon, con venti minuti di ritardo. Apposta. Se il canadese c'è ancora, è segno
che ci tiene davvero all'affare.
C'è, e sento subito che la mia intuizione è giusta.
È un ciccione paffuto, molto paffuto, dal faccione florido, capelli molto corti e molto biondi. Le
sue parole confermano in pieno il suo aspetto: è un ingenuo innocuo.
Mi ripete la sua filastrocca. È venuto apposta da Montreal a Istanbul per comperare 25 chili di
hashish. Ha del denaro: 3000 dollari. Paga 100 dollari al chilo e, se io gliene fornisco, mi toccano
500 dollari a titolo di mediazione.
E subito domanda:
«Lei ha dell'hashish?
Io bluffo. Sicuro che ne ho! Non cosi su due piedi, è difficile trovarne 25 chili d'un colpo. Si
vede raramente un'ordinazione del genere (lui sorride, con una certa fierezza), ma a ogni modo
voglio provare. Credo di potergli assicurare di trovargliene almeno 20.
«Di bene in meglio», dice col tono di uno che se n'intende.
«Di questo tipo — aggiungo, tirando fuori di tasca una piccola tavoletta. — È tutto così, e è
buono, credimi, io non fumo porcherie».
Me lo prende di mano, lo esamina con aria da intenditore, lo annusa, lo posa.
«Di questo?», dice.
«Di questo».
Poggia i gomiti sul tavolo e, con ciglia aggrottate, lo sguardo duro, sibila:
«Ho fretta».
«Eh, adagio! — replico. — Non posso mica prometterti per domani, né per dopodomani. Vedrò
di fare il possibile, ecco».
Faccio una pausa e domando:
«A quanto lo rivenderai nel tuo paese?».
«1500-2000 dollari», dice tutto impettito.
«Caspita! Rende bene, eh?».
«Sì, benino», risponde, fingendo modestia.
Ci mettiamo d'accordo che, appena io avrò delle novità, andrò a trovarlo all'Hilton. Ma appena si
alza, lo fermo.
«Non è tutto — gli dico. — Ho fiducia in te, ma… vorrei vedere il denaro. Vengo con te. Vieni
anche tu, Yvon?».
Il canadese si fa paonazzo, ondeggia sulle grosse zampe. Le mie parole sono andate a segno.
Bisogna sempre intimidire i clienti, ciò li disarma.
«Bene — dice un po' offeso. — Andiamo».
Ma appena nella strada ritrova il suo sorriso. Ora sembra del tutto soddisfatto della piega che
prendono gli avvenimenti.
Estrae un biglietto da visita e me lo porge:
«Ecco il mio nome e il mio indirizzo — mi dice. Si chiama O'Brian, curioso nome per un
canadese-francese. — Quando si sarà fatto l'affare e io sarò tornato a casa, tu mi spedirai
dell'hashish tutti i mesi. Ma sta' tranquillo: ti pagherò in anticipo. Trecento dollari al chilo, ti va?».
Delle due l'una: o questo individuo è matto, o è davvero un sempliciotto. Non vedo altre
spiegazioni per il suo caso, e propendo per la seconda. Perché, ora ne sono del tutto sicuro, non è né
un poliziotto né una spia. Mai costoro tenterebbero di adescarmi con metodi così grossolani.
All'Hilton saliamo diritto in camera sua. Una bella camera di lusso con moquette, bagno e tutto
quel che ci vuole per vivere comodi.
Dall'armadio O'Brian tira fuori, con aria da cospiratore, una valigia di pelle marrone, ne cava una
scatoletta, l'apre, e saltano fuori i 3000 dollari in biglietti da 100. Li conta, davanti Yvon e a me.
«Basta, va bene — dico, cercando di non avere gli occhi troppo lucidi davanti a quei bei biglietti
nuovi che crocchiano nelle sue mani. — Ci si rivede domani, nel pomeriggio. Prima di allora spero
di avere notizie per te».
Ce ne andiamo fregandoci le mani. I 3000 dollari saranno presto nelle nostre tasche… se tutto
andrà bene.
Perché si tratta ora di mettere a punto un piano serio e impeccabile, che faccia cadere di sicuro
quel bel denaro nelle nostre tasche.
Neanche a pensarci, infatti, di trovare i 25 chili di hashish.
Ciò che occorre, è turlupinare in grande il nostro uomo.
Sì, ma come?
Rientrando verso Sultana Meth, mi concentro più che posso. A poco a poco il piano mi si delinea
nella testa. Mi occorre un intermediario, un piccolo trafficante a cui darò qualcosa e che presenterò
a O'Brian come il padrone dell'hashish. Poi si fisserà un appuntamento, e allora farò io la mia parte.
Al Gran Bazar faccio in fretta a trovare Neiman. È un change-money con cui abbiamo avuto
molte volte che fare.
Sulla cinquantina, ben conservato, è molto furbo, e parla anche un po' di francese. Due qualità
importanti per quel che ho da chiedergli.
Andiamo a bere insieme un tè e a mangiare due paste. E intanto gli spiego il piano, che ora è
tutto ben elaborato.
Per cominciare, gli racconto in fretta la storia del canadese, dei 25 chili di hashish a 100 dollari il
chilo, l'ingenuità del cliente, eccetera.
Lui è subito d'accordo.
«Benone — gli dico. — Ecco come io vedo la messinscena. Domani pomeriggio vado dal
canadese. Gli dico che ho trovato un rivenditore capace di mettere insieme 25; forse solo 20 (perché
la polizia sta con gli occhi aperti, i tempi sono duri, eccetera), e che ci incontreremo con lui sul far
della sera, sempre domani.
«Alle sette, ci ritroviamo tutti qui: tu, Yvon, io e il canadese. Si tratterà ora di fargli paura, ora di
infondergli fiducia; e tutto questo, si capisce, per poterlo turlupinare meglio.
Tu ci condurrai da te — dico ancora a Neiman. — Da te, cioè in una camera d'albergo, un
piccolo albergo di periferia. Ma ci arriveremo facendo dei lunghi giri, sorvegliando senza sosta a
sinistra, a destra, alle spalle, come se si avesse paura di essere pedinati.
Una volta nella camera, tocca a te fare la tua parte, Dapprima tu ripeterai che 25 chili è difficile,
è molto difficile poterli trovare, che a ogni modo ti ci proverai. Che tu rischi grosso, ma che lo fai
per me, perché mi conosci da tanto tempo. Del resto tu non vuoi aver che fare con altri che con me,
tu non parli che con me. Non al canadese. Tu, lui non lo conosci. Tu diffidi. Tutto questo per fare
scena, capisci?».
Certo che capisce. E ride sotto i baffi.
Io continuo:
«Poi, tu domandi a me come lui vuole il suo hashish. In polvere o in barre? E in quanti pacchi?
Eccetera. Poi si regola la faccenda del prezzo. Tu mi chiedi il denaro. A me, dico, non a lui. È molto
importante, per quel che avverrà dopo. Poi dici che vai a metterti in cerca dei 25 chili, e vai a
preparare la valigia. Alle dieci di sera ci si ritrova sul posto, all'angolo del Parco Gulhane. Tu arrivi
in tassì, con la tua valigia piena di sabbia, o di segatura, di quel che vuoi tu, purché sia molto
pesante, e si fila insieme verso il luogo dove faremo l'affare, tutti sul tassì. Poi "gireremo" la scena
della consegna dell' "hashish". Essa deve svolgersi su una spiaggia deserta. Bisognerà essere
terribilmente inquieti, fingere di temere che possano arrivare i poliziotti. E soprattutto, particolare
essenziale, bisognerà che il change-money continui a rivolgersi sempre e soltanto a me. Perché sarò
io che avrò il denaro addosso, e io che gli pagherò la merce».
Dopo due ore ci si lascia. Tutto è previsto, tutto dovrebbe filare liscio. La scelta di Neiman mi
pare buona. Sembra in tutto e per tutto l'uomo che fa per me.
Il giorno dopo, 27 gennaio 1969 (è il giorno del mio ventinovesimo compleanno, me ne accorgo
partendo per l'Hilton), telefono a O'Brian alle undici esatte. Mi aspetti lì, arrivo subito.
Mezz'ora più tardi trovo il mio canadese eccitato e tremante, come un fidanzato al momento
d'incontrarsi per la prima volta con suo suocero.
Lo calmo e gli spiego che bisogna avere sangue freddo, perché l'impresa sarà difficile da
condurre in porto.
Gli ho trovato il suo uomo. Abbiamo un appuntamento questa sera alle sette. Tutto dovrebbe
concludersi prima di mezzanotte…
«Bene — gli dico ancora. — A partire da questo momento, bisogna che tu faccia esattamente
tutto quello che ti dico. È indispensabile: basta il minimo passo falso per mandare tutto a monte.
«Per cominciare, lasciami parlare con il rivenditore. Lui mi conosce. Abbiamo già fatto insieme
parecchi affari. Ha fiducia in me. Poiché non ti conosce, diffida, è normale. Dunque sarò io a
condurre la trattativa.
«E dato che lui, il rivenditore, non vuole aver che fare che con me, capirai che si fiderà solo se
sono io ad avere il denaro. Logico, no?».
O'Brian fa di sì con la testa. «Logico — dice, — e poi?».
«Be' — aggiungo, — vuol dire che bisogna che tu mi dia il denaro fin d'ora, mentre nessuno ci
vede. Oh, non aver paura! Non scapperò. Tu starai sempre con me, e così potrai sorvegliarmi».
«Oh, non è questo!», mormora con un sorriso impacciato.
«Ma sì, ma sì, è normale. Al tuo posto, io farei altrettanto. Hai qui il denaro?».
Tira di nuovo fuori la valigia, ne estrae la scatoletta, e con qualche esitazione mi porge il fascio
di biglietti.
«Vedi che non controllo neppure se ci sono tutti — gli dico, infilando i biglietti in tasca. — Io ho
fiducia in te».
Facendo cosi, corro il piccolo rischio che i 3000 dollari non siano al completo. Ma si tratta d'un
rischio molto piccolo, sapendo che tipo è il mio uomo.
«Benissimo — dico. — E ora, non ci si lascia più fino alle sette. A quell'ora si vedrà il
rivenditore, e si metterà tutto a punto nei minimi dettagli. Tu gli dirai come vuoi l'hashish, in quale
formato, e come confezionato. E lui andrà a cercarlo».
«Posso dirti subito come lo voglio», esclama eccitato.
«No, no, è inutile. È al rivenditore che dovrai dirlo».
E usciamo, O'Brian, Yvon e io. Ho dimenticato di dire che Yvon è sempre con me; ormai fa parte
del colpo anche lui, gli ho promesso i 500 dollari della mediazione. Esattamente ciò che mi offre il
canadese per il mio lavoro…
Da mezzogiorno alle sette, tutt'e tre non ci lasciamo più.
O'Brian ci invita a pranzo, poi passeggiamo per il Gran Bazar dove offre a Yvon un bell'anello
d'oro con una pietra nera e una croce incisa, che lasciamo al gioielliere fino a domani perché
dev'essere incastonata.
Andiamo a prendere un tè, e ricominciamo a passeggiare. Insomma faccio di tutto per tenere
occupato il mio uomo, parlando di ogni argomento, soprattutto di droga, di individui scaltrissimi
che si sono fatti acciuffare come bambini, e delle difficoltà sempre crescenti del traffico.
Alla sera, O'Brian è lavorato a puntino. Secondo i momenti, tremante di paura o di eccitazione.
Le sette. All'angolo del Parco Gulhane, Neiman è fermo e aspetta sotto un albero.
Sta gettando occhiate furtive in tutte le direzioni, è visibilmente inquieto. Recita a meraviglia!
Faccio rapidamente le presentazioni.
«Ecco il signore di cui ti ho parlato», dico.
«Molto bene, molto bene — mormora inquieto. — Andiamo via di qui».
E ci trascina nella città vecchia. In fondo alla prima stradicciola volta a sinistra, poi ancora a
sinistra, poi taglia bruscamente a destra. Poi ci spinge sotto un portone e ci fa segno di attendere
nell'ombra.
Lui esce fuori, va fino ai due angoli della strada, e ritorna.
«Tutto bene — dice con un sospiro di sollievo. — Niente da segnalare».
Ripartiamo. Per un buon quarto d'ora camminiamo in piccole vie sordide e pidocchiose, mentre
Neiman non smette di sorvegliare in tutte le direzioni. A un tratto vede due poliziotti.
Eccoci di nuovo sotto un portone. Neiman si massaggia la nuca, aggrotta le ciglia. È più che
perfetto. Mi pare che stia strafacendo. Ma no, il canadese beve tutto avidamente. È in pieno
romanzo giallo. È pallido, ma estasiato.
Usciamo e raggiungiamo una piazzuola. Neiman ci ferma, si dirige verso un albergo
sgangherato, entra. Due minuti più tardi ne esce e ci fa segno che la via è libera. Possiamo andare.
Al terzo piano, in cima a una scala ripida come se fosse a pioli, eccoci in una stanza più sporca
che al Gulhane Hotel. Neiman chiude la porta dietro di sé, a doppia mandata, e mi dirige un sorriso
di sollievo.
«Bene — dico. — Ecco, questo signore è americano. Vorrebbe 25 chili di hashish. Credi che sarà
possibile?».
Neiman punta un occhio sospettoso verso O'Brian. Poi mi guarda con aria interrogativa. Io
sorrido.
«Puoi fidarti — dico. — Rispondo io di lui, è un amico».
«Si, sì — interviene O'Brian, sorridendo con tutti i suoi denti. — Sono un amico, io».
Neiman esita un poco, poi quasi con dispiacere fa segno di sì. E mi domanda:
«Hai il denaro?».
Estraggo i 3000 dollari e li conto sotto i suoi occhi.
Neiman finalmente si degna di sorridere al canadese, ma subito dopo torna a voltarsi verso di
me.
«E come vuoi la merce?», mi domanda.
«Come la vuoi?», dico a mia volta al canadese.
O'Brian si precipita:
«Ecco, io faccio conto di nascondere l'hashish dentro delle bambole. Ufficialmente io sono
venuto a Istanbul per comperare bambole turche».
«Parla meno forte, tu sei matto! — dico, decisamente contrariato. — I muri possono avere
orecchie!».
Lui arrossisce:
«Scusatemi», dice.
Io riprendo, rivolto a Neiman:
«È in polvere che gli serve. Non ti pare?».
«Va bene — dice Neiman. — Ma lo vuole in sacchetti o in scatole?».
«Non ha importanza — bisbiglia O'Brian. — Ciò che conta è che sia in polvere».
È francamente comico. Questa volta ci ha parlato quasi sottovoce! Io guardo Yvon. Il ragazzo si
morde le labbra, talmente ha voglia di ridere. Gli lancio un'occhiataccia, poi mi rivolgo di nuovo al
change-money:
«Allora, credi che riuscirai a trovarmi questa roba?».
Il change-money scuote la testa, con l'aria di essere schiacciato da tutta la miseria del mondo. Sta
recitando a perfezione la scena che abbiamo studiato ieri per mettere il nostro «pollo» in perfetta
condizione psicologica per farsi spennare.
«Venticinque chili — finisce per dire, — non lo so. Con i tempi che corrono… Ma per te,
Charles, ti assicuro che farò del mio meglio. Venticinque, onestamente, non mi sento di prometterli.
Ma 20, credo di farcela. Sì, credo di potercela fare.
«Bene — aggiunge dopo una pausa, — ora è tempo di separarci. Voi andrete ad aspettarmi da
qualche parte. E io, vado dal mio mercante, per cercare di riunire tutta questa roba. Ah, non sarà
facile! Il tuo amico non può aspettare qualche giorno?».
«No, no! — esclama O'Brian. — Ho molta fretta».
Evidentemente tutto il nostro «cinema» ha effetto su di lui. Comincia ad avere molta paura.
«E va bene — borbotta il change-money, — vado a cercare. Nel giro di due ore, prevedo, dovrei
mettere insieme qualcosa. Ma ascoltami bene, Charles».
Mi prende per mano e mi parla con apprensione, come se la vita dei suoi figli dipendesse da
quelle parole.
«Io non voglio complicazioni — mi dice. — Costa troppo salato farsi pigliare. Alle dieci fatevi
trovare all'angolo del Parco, là dove ci siamo incontrati prima. Se alle dieci e dieci non sono ancora
arrivato, andatevene. Tornerete alle dieci e trenta, e così di seguito, tutte le mezze ore».
È un attore formidabile. Recita la sua parte a meraviglia. O'Brian lo guarda affascinato, senza
muoversi.
«Io arriverò in tassì — riprende Neiman. — Vi farò un segno, e voi monterete in fretta sul tassì.
Voi non direte nulla, eh? Parlo io al tassista, e io solo. Ci condurrà in riva al Bosforo, in un posticino
tranquillo. Là si fa l'affare e ci si separa, ciascuno per suo conto. Da quel momento, non ci siamo
mai visti, non ci siamo mai conosciuti. Capisci, Charles?».
Io protesto con l'aria offesa di un amico in cui non si ha più fiducia:
«Ascolta, ti ho forse già tradito qualche volta?».
«È vero, è vero — replica Neiman, — però…».
E getta ancora uno sguardo furtivo a O'Brian.
«Rispondo io di lui, te l'ho già detto — intervengo con voce esasperata. — A ogni modo, siamo
d'accordo? Allora si va? A fra poco, e buona fortuna».
E Neiman ci fa uscire tutt'e tre. Lui, se ne va dopo.
Tra le otto e le dieci il mio canadese è una pila elettrica che si scarica a grande velocità.
Al ristorante, mentre Yvon e io mangiamo con l'appetito di condannati ai lavori forzati dopo una
giornata di faticacce, lui tocca appena il piatto. Io lo riscaldo ancora, lo incoraggio, lo rassicuro.
Anche stavolta paga lui il conto.
Alle dieci, eccoci all'angolo del Parco Gulhane.
Alle dieci e dieci, ancora nessuno. (Anche questo fa parte del piano studiato ieri).
Dieci e trenta. Dopo aver passeggiato dall'altra parte del viale, con O'Brian sempre più nervoso, e
noi anche un poco ora, ma non per le stesse ragioni, ci portiamo di nuovo al posto
dell'appuntamento…
Dieci e trentacinque, un tassì arriva. Un grosso tassì nero, di marca inglese, con una valigia sul
sedile posteriore.
Neiman è dentro. Ci chiama con un segno furtivo da cospiratore, e noi ci affrettiamo a prendere
posto con lui.
Il tassì riparte in direzione del Bosforo. Aggira il Parco Gulhane, costeggia la stazione, taglia a
sinistra e imbocca un lungo viale che fiancheggia il mare.
Neiman deve aver dato precise istruzioni al tassista, perché costui ferma, senza che nessuno gli
dica nulla, dopo 300 metri, all'altezza di un vecchio quartiere.
Con prontezza O'Brian tira fuori del denaro dalla tasca e paga il tassista che si profonde in
ringraziamenti alla vista della mancia. Eccoci tutti sul viale, con Neiman che si piega sotto il peso
della sua valigia.
«Tu sei matto — dico furioso a O'Brian, — a lasciare una mancia così grossa al tassista. Quello
si ricorderà bene di noi!».
La botta va a segno, O'Brian smoccola tra i denti.
«In fretta — ci dice Neiman, — seguitemi».
E ci trascina attraverso il viale verso la spiaggia.
È circondata di scogliere e coperta di grossi ciottoli rotondi sui quali quasi ci sloghiamo le
caviglie, perché non li abbiamo visti: sono coperti dalla neve. È buio pesto. Una scarsa luce giunge
da lontano in riverbero, e c'è il riflesso del mare che schiaffeggia lentamente i sassi. È proprio il
posto adatto.
In pochi istanti ci riuniamo dietro una scogliera. Neiman posa a terra la valigia.
«Ne ho solo 18 chili — dice precipitosamente. — Non ho potuto trovarne di più».
Ha l'aria sinceramente desolata. È formidabile.
O'Brian trasale.
«Pazienza — dice con gli occhi luccicanti. — Li prendo».
Ora tocca a me fare la mia parte. Bisogna agire in fretta e bene.
«Va' a metterti di guardia», dico a Neiman.
Anche questo rientra nei piani. Il change-money ha il compito di far perdere la testa a O'Brian.
Deve fingere di avere paura.
«Si, vado — risponde. — Ma tu sbrigati, eh?».
E va a tener d'occhio il viale.
Prima di scendere dal tassì io avevo preso dal fondo della mia tasca una pugnata di hashish in
polvere, e l'ho tenuta accuratamente stretta nella sinistra.
Tutto dipenderà da questa manciata di hashish.
Con l'altra mano apro la valigia e vi trovo, come previsto, dei sacchetti di tela di iuta.
«Ecco la merce — dico. — Ora te la mostro».
In questo momento, dalla scarpata, il change-money ci grida con voce soffocata:
«Abbassatevi! Abbassatevi!».
Ci si schiaccia tutti nella neve.
«Sbrigatevi! Ci sono troppe vetture!», grida ancora Neiman.
«Capisci? — dico a O'Brian, che comincia a perdere davvero la testa. — Verifichiamo in fretta».
Intanto apro rapidamente uno dei sacchi. Tuffo la mano sinistra chiusa dentro, e la ritiro aperta,
con l'hashish che avevo in pugno.
«Tieni — dico, — assaggia».
E gliene rifilo un pizzico sulla lingua. Lui sputacchia.
«Allora, che te ne pare? È buono? Ti piace? Deciditi in fretta!».
«Sì, sì, mi va», farfuglia O'Brian guardando da tutte le parti.
Alle nostre spalle Neiman si spazientisce sempre più. Io domando a Yvon:
«Che cosa dice?».
«Non capisco. Sembra che dica che un momento fa è passata un'auto della polizia».
Mi volto verso O'Brian.
«Aspetta un attimo. Vado a pagare l'uomo e poi ci mettiamo in salvo. Ognuno per conto suo».
Corro dal change-money e gli metto in mano un biglietto da 100 dollari.
Lo intasca e fila via di corsa. Credo che questa volta, a forza di fingersi impaurito, abbia paura
davvero.
Torno verso O'Brian e Yvon.
«Questa è fatta, l'ho pagato. È già scappato, il fifone!
«E ora a noi. Tu, O'Brian, te ne vai da questa parte col tuo hashish, prendi una viuzza, e scappi
con un tassì più lontano che puoi. Tu non ci hai mai visti. Tu non ci conosci, eh? Se ti fai prendere,
tieni la lingua a posto. Parti, arrivederci, ci scriveremo quando sarai tornato a casa. Salve!».
Non si fa pregare. Prende la valigia, la solleva e se ne va verso il viale, piegato sotto il peso.
Allora capita qualcosa che ci fa scoppiare a ridere, Yvon e io. Arrivato nel bel mezzo del viale, la
maniglia della valigia si rompe. Quello spilorcio di Neiman gli ha anche rifilato una valigia di
cartapesta!
Per un po', gettando sguardi impauriti attorno, O'Brian la trascina per terra. Poi la solleva, se la
carica in spalla, e scompare correndo dietro l'angolo della strada.
Yvon e io ridiamo fino alle convulsioni.
«Ma senti un po' — mi dice Yvon quando può riprendere fiato. — Lo abbiamo derubato, anche».
«Come sarebbe?».
«Sì, perché ti ha lasciato i suoi 3000 dollari. Ciò non fa 100 dollari al chilo, ma molto di più,
dato che ne ha solo 18».
È vero, non ci avevo pensato, lì per lì, nel calore dell'azione. Non solo O'Brian se n'è andato con
una valigia di cartapesta, piena, fino a sfasciarsi, di sabbia o di chissà cosa che egli ritiene hashish
di ottima qualità, ma in più, nella sua grande paura, mi ha lasciato tutto il denaro!
In vita mia non avevo mai incontrato un «pollo» simile…
Non è ancora finita, bisogna che ce ne andiamo anche noi. Do, secondo il convenuto, 500 dollari
a Yvon, e rientriamo nell'albergo dove posso contare (finalmente!) i miei biglietti. C'erano proprio
3000 dollari all'inizio, e me ne restano 2400. Una vera fortuna, in Turchia. Mi sono fatto un
bellissimo regalo per il mio compleanno.
Poro dopo ritroviamo Guy e René, e offro a tutti una festa. Una bella festa con pranzo, hashish e
tutto il resto, che ci manda a letto, russanti come suonatori, alle sette del mattino.
Il giorno dopo, colpo di scena.
La giornata tuttavia comincia bene, con un piccolo consiglio di guerra. Bisogna decidere quel
che faremo ora. Per ciò che mi riguarda, io devo partire, è evidente. Non si può sapere quel che
O'Brian deciderà di fare, una volta scoperto che i suoi 18 chili di hashish non sono altro che sabbia.
Yvon, anche lui, non ha più interesse a circolare per Istanbul. E dato che Yvon e René sono come
due dita della stessa mano, anche René partirà. Quanto a Guy, poiché vuole andarsene verso
l'Oriente, non ci sono problemi.
Non resta più che attendere il ritorno di Taras Bulba e di Romain con la Frégate. Quando saranno
arrivati, ci si imbarcherà tutti sopra, e via verso l'Oriente e i suoi paradisi!
Mentre aspettiamo, Yvon decide di andar a prendere dal gioielliere del Gran Bazar l'anello del
canadese. Dev'essere già pronto, a quest'ora.
Ci andiamo tutti… e contro chi si va a sbattere in pieno Gran Bazar, appena dopo aver ricuperato
l'anello?
Nel canadese.
Preso dalla paura, vorrei scappare.
Ho torto.
Il canadese si avvicina, sembra distrutto.
«Sai — mi dice a precipizio, — credo che ci siamo lasciati truffare».
Sentendo che parla al plurale, capisco tutto. L'imbecille non ha immaginato neppure per un
attimo che sia stato io a truffarlo. Pensa che tutt'e due siamo vittime del change-money.
È troppo! Costui è ancor più ingenuo di quanto potessi sperare. È il vertice dell'imbecillità.
Mette la mano in tasca, e la estrae costernato. È piena di sabbia.
«Oh, no! Non è possibile! — esclamo fingendo stupore. — Non è la roba che ti ho fatto vedere là
sulla spiaggia!».
Alza le braccia al cielo.
«No. Ci si è fatti truffare. Lui, ti aveva messo un po' di vero hashish proprio in cima».
E mormora cupamente:
«Tutto il resto, sabbia…
«Ma di' un po' — riprende. — Tu lo conosci bene, quel tipo? Avevi già combinato affari con
lui?».
Non so come fare per non ridergli in faccia.
«Si capisce che lo conosco — rispondo. — Sono anni ormai che lavoro con lui. E non capisco
proprio che cosa gli abbia preso. Però, questa me la paga, brutto mascalzone!».
Ora sono tornato perfettamente padrone di me. Dato che lui è così bestia, tanto vale profittarne
fino in fondo.
«Dimmi, O'Brian — continuo a ciglia aggrottate, rovesciando le parti. — Non sarai mica tu, per
caso, che mi stai giocando la commedia? Sei ben sicuro che si tratta di sabbia? Quasi quasi mi viene
voglia di andar a controllare all'Hilton come stanno le cose. Perché, te lo ripeto, sarebbe la prima
volta che il mio uomo mi tradisce».
O'Brian protesta con tanta buona fede, che alla fine rinuncio:
«Va bene, ti credo. Ma allora la cosa non va. Bisogna che io ritrovi la merce. Tu l'hai pagata, e tu
devi averla. Non preoccuparti, io la troverò. Vado a vedere il change-money».
«Bene — dice. — Vengo anch'io».
«Assolutamente no! Lasciami fare da solo. — E ci diamo l'appuntamento fra due o tre ore al
Pudding Shop. — D'accordo?».
«Come vuoi — dice esitando. — A presto, al Pudding Shop».
E se ne va mogio mogio.
Due ore più tardi, nella corriera che viaggia in direzione di Edirne (Turchia europea), ci sono due
«carichi» di hashish che sonnecchiano scossi dai sobbalzi della strada: Yvon e io.
Abbiamo lasciato senza perdere un minuto Istanbul, e andiamo a raggiungere Taras Bulba e
René.
Guy e Romain sono restati a Istanbul. Romain ha difficoltà i mettere in regola il suo passaporto,
e Guy non ha voluto lasciarlo solo.
Prima di partire abbiamo tracciato il nostro itinerario, perché al momento non sappiamo nulla di
come si mettano le cose riguardo all'auto. È già riparata? O ci vorrà ancora un sacco di tempo? Ci
siamo dunque messi d'accordo con Guy e Romain di fissare parecchi appuntamenti lungo la strada
per l'Oriente. Il primo a Ismit, poco dopo aver attraversato il Bosforo, il secondo ad Ankara, e così
di seguito fino a Bagdad. Ciascun gruppo, quello a piedi e quello in auto, una volta giunto a una
località di appuntamento, andrà all'ufficio postale per vedere se ci sono dei messaggi.
Ma l'essenziale è partire al più presto. O'Brian sarà un imbecille, ma ha un fratello più anziano,
un autentico giramondo della malavita, che viene sovente a Istanbul. È capace di farsi vivo,
chiamato dal fratellino. Ed è inutile correre rischi.
Una bella sorpresa quando ritroviamo Taras Bulba e René: Taras ha riparato da solo la vettura,
con fil di ferro e chiodi!
Raccontiamo loro la nostra storia, che li rende allegri, e il più presto possibile riprendiamo la
strada. Il giorno dopo attraversiamo il Bosforo sul traghetto, senza passare per Istanbul, sempre per
evitare O'Brian, e puntiamo verso Ismit, sotto la neve che ha ripreso a cadere, e su un rischioso
fondo ghiacciato.
Siamo pieni di eccitazione.
Abbiamo denaro, molto denaro, ogni svolta di strada ci allontana da O'Brian, l'avvenire è nostro.
La catastrofe ci aspetta di lì a una settimana, in piena Turchia.
9.
Per essere una carcassa, va fin troppo bene, questa vecchia vettura ballonzolante che arranca
verso Ankara.
Attorno a noi la circolazione si fa sempre più rara, la neve si accumula con regolarità e la strada
diventa sempre più una superficie ghiacciata.
Naturalmente noi non abbiamo le catene. Ma ci mancano ben altre cose! Il cambio delle marce
funziona quando crede bene. I freni non rispondono più, e anche il tergicristallo è in panne.
Conseguenza: bisogna viaggiare con il finestrino aperto, e chi guida deve tirar fuori continuamente
la mano per spazzare via la neve dal parabrezza. Dentro, si capisce, fa un freddo cane. Abbiamo un
bell'essere tutt'e quattro rimpinzati di hashish, geliamo lo stesso. Per i passeggeri può ancora andare.
Sprofondati nei sacchi a pelo, non teniamo fuori che il naso. Ma René, che guida, trema di freddo
malgrado tutte le coperte in cui si è avvolto.
Quando arriviamo a Ismit, qualche decina di chilometri da Istanbul, primo luogo di
appuntamento con Guy e Romain,suscitiamo un certo interesse. Immaginate, emergenti da un
blocco di ghiaccio montato su pneumatici, quattro tipi dal naso rosso porpora, che si liberano
penosamente dei loro sacchi a pelo per apparire… in tenuta hippy. A Ismit non si era mai visto nulla
del genere.
Ismit è una cittadina sperduta in mezzo alla campagna. Bisogna vedere lo stupore soprattutto dei
bambini. Mentre andiamo a zonzo divertendoci (e siamo sempre, non va dimenticato, sotto l'effetto
dell'hashish), i monelli ci seguono come dalle nostre parti, seguono il circo che fa il giro di
propaganda prima dello spettacolo. E può darsi che ci scambino davvero per l'anteprima d'un circo.
Soprattutto Taras Bulba fa su loro un effetto straordinario, con la sua zazzera, la catena e gli stivali
sbalorditivi. Quanto a me, devono prendermi per il diavolo, tutto vestito di nero, con la barba
trapuntata di goccioline gelate e l'occhio spento. Nel giro di mezz'ora sono già una trentina attorno a
noi, silenziosi, a bocca aperta.
Ci siamo trovati un piccolo albergo, scalcinato quanto basta, e René è andato all'ufficio postale
per vedere se c'è una lettera di Guy e Romain. Perché potrebbero essere già passati per Ismit. Ma
non c'è niente. Allora lascia l'auto davanti alla posta, con l'indirizzo del nostro albergo sul
parabrezza. Così, se arrivano, ci ritrovano facilmente, una volta vista l'auto che si scorge da lontano,
sulla piazza della posta, come il naso in mezzo alla faccia.
E cominciamo ad aspettarli. Bighelloniamo nei paraggi, fumiamo senza smettere. Taras Bulba fa
il buffone ovunque passa, e presto tutta la città crede che sia davvero arrivato il circo.
Ma la cosa non passa sempre liscia con i giovanotti del paese, che ci tengono d'occhio dal
mattino alla sera. Un pomeriggio alcuni di essi, gelosi senza dubbio dei nostri costumi, si mettono a
prenderci in giro. Così non può andare. Con una scarica di pugni all'aria Taras Bulba fa loro capire
che il maciste del circo è lui. Ora siamo circondati dal più profondo rispetto.
Ma ci annoiamo a morte. Cerchiamo di riparare la vettura, di trovare delle catene. Niente da fare.
Non c'è nessun garage a Ismit.
Nel frattempo Taras Bulba, sempre lui, per non venir meno alla sua reputazione fa l'imbecille più
del solito. Non la smette di provocare la gente, pronto a picchiare quando qualcuno non gli va a
genio. Presto i negozianti, scocciati, rifiutano di servirci. Un pomeriggio, quasi finisce male.
Taras entra in una bottega, ubriaco di hashish. Vuole del formaggio. Lo mettono fuori. Rientra.
Dei turchi vanno a dare man forte ai commessi. Accorriamo anche noi. Baruffa generale… che
finisce al posto di polizia, come è giusto.
Io occupo il tempo andando alla posta, a telefonare a Istanbul in tutti i piccoli alberghi che
conosco, in particolare all'Aghia Sophia, dove Guy e Romain dovrebbero essere. Niente, nessuna
notizia di loro.
Mi racconteranno più tardi quel che è accaduto. Il giorno dopo la nostra partenza, ci sono state
retate della polizia in tutti gli alberghi e caffè frequentati da hippies. Il Gulhane è stato circondato, il
Pudding Shop anche, come pure la bettola di Liener. Un vero e proprio rastrellamento in grande
stile.
Non ho mai potuto sapere cosa sia accaduto esattamente, ma sono quasi sicuro che si tratta di
un'iniziativa del canadese. Immagino che, dopo aver aperto gli occhi, abbia chiamato il suo famoso
fratello in aiuto, e che costui, non potendo farmi ricercare per il vero motivo, abbia raccontato alla
polizia qualche truffa «confessabile», perché lo aiutassero a mettermi le mani addosso.
Per Guy e Romain, non siamo troppo inquieti. Non sono pulcini nella stoppa, e riusciranno a
cavarsela. E poi abbiamo fissato con loro parecchi altri punti d'incontro lungo la strada dell'Oriente.
Il prossimo è Ankara, il successivo è Adana. Infine avevamo convenuto che se non ci incontriamo
né a Istanbul, né ad Ankara, né ad Adana, ci si aspetterà gli uni gli altri a qualsiasi costo a Bagdad.
Lì sarà facile trovarsi: i gruppi di europei vanno sempre negli stessi alberghi, si fermano sempre
negli stessi posti lungo la rotta delle Indie. Basta seguire il grande flusso, e ci si ritrova.
La vita diventa insostenibile a Ismet, con Taras che dà i numeri sempre peggio, e decidiamo di
rimetterci per strada, anche se ha ripreso a nevicare e lo strato di ghiaccio si è fatto più spesso.
Solo un mese più tardi, quando avrò finalmente ritrovato Guy e Romain per un caso incredibile,
alla frontiera turco-siriana, verrò a sapere che non ci siamo incontrati per un solo giorno. Essi
arrivano l'indomani della nostra partenza da Ismit, non trovano l'auto davanti alla posta, ci cercano
dappertutto, e riescono anche in un'impresa incredibile: mobilitano un'auto della polizia munita di
altoparlante, e percorrono la città strombazzando i nostri nomi.
Appena usciti da Ismit, troviamo una strada spaventosa. Il ghiaccio è proibitivo, la neve cade in
grossi fiocchi. A pochi chilometri da Ismit, una sorpresa sgradevole: la strada per Ankara è bloccata.
Essa affronta una regione montagnosa. La neve la rende impraticabile, è impossibile passare. Che
fare? Aspettiamo che la strada ridiventi praticabile, o andiamo ad Ankara? O saltiamo
l'appuntamento di Ankara? Arriviamo presto alla conclusione che, a ogni modo, la strada sarà
bloccata anche per Guy e Romain. A meno che essi non prendano il treno…
Che fare?
Taras Bulba estrae di tasca una moneta. Testa, si torna a Ismit; croce, si salta Ankara e si punta su
Adana.
È croce. Rifacciamo la strada fino a una biforcazione che prende verso il sud.
E fin dall'inizio le cose vanno male. Il freddo è terribile. Tremiamo, dentro i nostri materassini.
Taras e René, i due che guidano, devono alternarsi tutti i momenti al volante per non crepare di
freddo. Le vetture si fanno sempre meno numerose. Quelle poche che incontriamo, hanno tutte le
catene, e marciano al passo.
Noi invece voliamo. In primo luogo, perché più in fretta saremo ad Adana, nel sud della Turchia,
e meno freddo soffriremo. E poi perché l'auto va sempre peggio. Ogni 50 o 60 chilometri bisogna
fermare e sostituire il chiodo che permette di cambiare le marce.
Di mattino presto (ho dimenticato di dire che abbiamo lasciato Ismit sul tardo pomeriggio, e che
abbiamo viaggiato tutta la notte), usciamo di strada e finiamo nel fosso. Un autocarro ci tira fuori
rimorchiandoci con un cavo.
Il giorno dopo, sul mezzogiorno, abbiamo talmente marciato che siamo ormai a pochi chilometri
da Adana, in pieno Tauro.
In più, l'auto ha noie alla batteria. Dobbiamo assolutamente arrivare ad Adana prima della notte.
E andiamo ancora più in fretta.
Verso le tre del pomeriggio ci fermiamo a prendere un caffè, per scaldarci. Partendo, Taras
Bulba, che guidava, invece di riprendere il volante lo cede a René.
Se lo avesse ancora tenuto, non sarebbe capitato niente, perché conduceva con molta prudenza,
per quanto fosse matto…
È dunque René che guida. Lui, è uno spericolato. Di colpo preme allegramente sull'acceleratore,
e l'auto schizza via. Al suo fianco c'è Yvon. Dietro a lui, io; e alla mia destra, Taras Bulba.
Qualche minuto dopo, su un rettilineo, entriamo in un banco di nebbia. René rallenta un poco.
Troppo poco…
D'improvviso appare la parte posteriore d'un autocarro. René si porta a sinistra, per sorpassarlo.
E mentre abbiamo fatto centinaia di chilometri senza quasi incontrare auto in circolazione, ecco
che un altro autocarro ci si presenta davanti!
Disperatamente, René si butta a destra, e frena. Invano. Ci schiantiamo in pieno contro la parte
posteriore del primo autocarro, che va avanti con infinita prudenza…
10.
Quando mi risveglio, sono lungo e disteso sul ghiaccio. Sono insanguinato dappertutto, e ho un
forte mal di capo. Lentamente muovo braccia e gambe, mi sollevo sui gomiti. Non ho nulla di
grave. Cerco di sedermi. La testa mi gira, devo di nuovo distendermi. Davanti a me, l'auto è ritta
sulle quattro ruote, schiacciata come una fisarmonica. Non si è neppure capovolta. Si è fermata di
botto, sul colpo.
Accanto a me vedo René, disteso sul fianco. Non si muove. Un po' più lontano vedo Taras Bulba,
pallidissimo, all'apparenza senza un graffio.
Dei turchi stanno tirando fuori Yvon dal mucchio di ferramenta. Ha il volto e un braccio
sanguinanti. Altri turchi si avvicinano, con un carro basso tirato da un trattore.
Uscendo a poco a poco dal mio semi-coma, vedo che i turchi stanno frugando nelle nostre cose.
Sarà di sicuro per trovare i nostri documenti. Ma io mi inquieto. Mi prende un'idea fissa, dovuta di
sicuro allo choc che ho ricevuto, ma tutto sommato non del tutto stupida. Mi dico: frugano per
vedere se c'è del denaro.
Per i miei 2400 dollari non ho paura: essi non sono nel mio zaino, e non c'è pericolo che me li
trovino in una tasca, se svengo di nuovo. Li ho nascosti a uno a uno, accuratamente piegati e
accavallati l'uno sull'altro, per i due terzi della loro lunghezza, ben avvolti in plastica, nella cintura
dei miei pantaloni. È una cintura cava, dall'aspetto normale se la si guarda, ma attraversata da una
sottile chiusura lampo nella parte interna, che la percorre per tutta la sua lunghezza.
Ma ci sono i 500 dollari di Yvon. Io so che, prima di lasciare Istanbul, li ha affidati a René, suo
compagno inseparabile, perché riteneva che su di lui fossero più al sicuro.
Ma so anche che René nasconde sempre il denaro negli slip…
Mi trascino più in fretta che posso verso René. Lo scuoto.
«Come va? I 500 dollari… Bisogna nasconderli».
René non risponde. È sempre svenuto. Ha un filo di sangue secco a una narice.
Getto due o tre occhiate prudenti attorno a me. Gemendo di dolore, perché sento male
dappertutto, specie alla testa, apro i pantaloni di René, frugo negli slip, e tiro fuori i 500 dollari di
Yvon. Li metto al sicuro in una mia tasca. Per ora stanno bene lì. Più tardi, se sarà necessario, li
metterò con gli altri, nella cintura.
Torno a distendermi. Ben presto, l'uno dopo l'altro, siamo issati sul carro basso. E partiamo nella
nebbia gelida, trainati dal trattore, distesi l'uno sull'altro, sballottati a ogni svolta di strada. Saranno
almeno dieci gradi sotto zero. Ma io sono il solo a battere i denti, gli altri sono sempre privi di sensi.
A tre o quattro chilometri di lì c'è un villaggio con un pronto soccorso. Ci scaricano. Un medico
si avvicina. Vedendomi, ha un soprassalto. Mi esamina per primo. Mi dice in inglese:
«C'è qualcosa all'occhio sinistro».
Io trovo la forza di sorridere:
«No, no, è cosa vecchia. Guardi piuttosto gli altri. Sono sempre svenuti. Io me la sono cavata,
credo».
Il medico osserva René e gli solleva il braccio. Tasta il polso. Si china, ascolta il cuore con lo
stetoscopio. Si rialza e si volta verso di me:
«È morto», dice.
Poi esamina Taras Bulba. Lui, almeno, ha il cuore che batte. Ma il suo stato dev'essere grave, lo
indovino dalla faccia preoccupata del medico. Infatti manda subito un infermiere a telefonare.
Ora si occupa di Yvon. E anche stavolta scuote la testa con aria molto inquieta. Gli domando:
«Che cos'ha? È grave?».
«Ha un braccio molto malmesso e un occhio spappolato».
Mi giro dall'altra parte, e piango come un bambino.
A sera, Taras, Yvon e io ripartiamo su un furgone-tassì (il tassista mi deruba: mi fa pagare 300
lire turche una corsa che ne vale 30 o 40), e ci ritroviamo a 100 o 150 chilometri di lì, nell'ospedale
di Nigde.
Taras al nostro arrivo non ha ancora ripreso conoscenza.
La sera stessa, lasciando Yvon e Taras, che sono stati messi in una camera a due letti
dell'ospedale, vado ad affittare una camera in città, e comincio a compilare i documenti richiesti
dallo stato civile e dalla polizia. Riesco a farmi amico un ufficiale che parla molto bene il francese.
Mi suggerisce il miglior albergo della città e mi trasferisce in esso.
Vado continuamente all'ospedale, al capezzale di Yvon e di Taras, sollecitando i medici e le
infermiere.
Yvon migliora un poco. Ma il suo occhio è perduto per sempre, e il suo braccio non è in
condizioni migliori. Taras è sempre in coma.
Mi reco ad Ankara per parlare col console di Francia (dovrò andarci quattro volte). Si tratta di
rintracciare gli indirizzi delle famiglie in Francia.
Quando torno, mi annunciano che Taras Bulba è morto.
Le formalità per il rimpatrio di René si esauriscono in fretta, e il suo corpo viene imbalsamato.
Per Taras Bulba le cose non vanno avanti. Riusciamo a rintracciare una sua probabile fidanzata,
ma nessuno in Francia vuole assumersi le spese del rimpatrio. Allora il corpo di Taras parte per
Ankara. Più tardi, lo sotterreranno a Istanbul. E c'è ancora adesso, senza dubbio…
Bisogna far rientrare in Francia anche Yvon. I suoi genitori hanno mandato i soldi per il biglietto.
Un mattino lo accompagno alla corriera. Si trascina sulle grucce. Ha il volto sbarrato da una fascia
trasversale, e il braccio al collo. Piange. Fa pietà, vederlo. Gli restituisco il suo anello, e gli do 200
lire turche.
«Buona fortuna, Charles — mi dice. — Per me, tutto è finito».
Guardo la corriera che parte. Ho un nodo alla gola.
Per loro, l'avventura è finita davvero.
Resto io solo…
11.
Allora, per dimenticare, mi do ai bagordi. Durante otto giorni, senza smettere mai. Festini,
dancings, ragazze, eccetera. Ho un bel pagare senza lesinare, intacco appena il contenuto della mia
cintura. Ma tutto ciò mi fa bene. Io che fino a Istanbul sono stato sempre solo, ho viaggiato solo, ho
fatto i miei colpi da solo, mi ero realmente integrato — per la prima volta — in un gruppo e mi ci
sentivo bene…
E cosi mi rimetto a pensare a Guy e a Romain. Chissà cos'è capitato a loro, dove sono ora, che
cosa stanno facendo. Saranno di sicuro a Bagdad, ancora ad aspettarci. O forse si sono separati…
Decido di partire per Bagdad.
Ad Adana, vado nel miglior albergo, frequento il migliore ristorante, danzo nelle sale migliori.
Per ora ho smesso di fumare. Rimasto solo, non mi interessa più.
Ma presto mi interesserà di nuovo…
Ad Adana, prendo un biglietto di prima, con cuccetta, nel treno per Bagdad.
Ed eccomi di nuovo in viaggio, intento a domandarmi dove mai potrò ritrovare Guy e Romain.
L'incontro avverrà molto presto, e in circostanze abbastanza sorprendenti.
Sono arrivato alla frontiera Turchia-Irak, e me ne sto sul treno fermo alla stazione di frontiera,
aspettando, affacciato al finestrino, che venga il mio turno di passare alla dogana. Guardo
distrattamente un treno che arriva nella direzione opposta, da Bagdad, e che si è fermato sul binario
di fronte.
Tutto d'un colpo, davanti a me, sull'altro treno, a un finestrino situato a due metri di distanza
sulla mia sinistra, vedo Guy e Romain!
Che fare? Ho appena il tempo di pensarci un istante. Il loro treno può ripartire da un momento
all'altro. Ma bisogna assolutamente che io racconti loro il dramma capitato, anche se, come
immagino, per Romain sarà uno choc terribile: Taras Bulba era il suo amico inseparabile fin
dall'infanzia.
«Che cos'è capitato? — mi domandano. — Vi abbiamo attesi a Bagdad; non abbiamo più un
soldo, e rientriamo».
«Ascoltatemi — dico molto in fretta. — Non ho tempo per usare i riguardi del caso. È capitato
un incidente d'auto. Taras e René sono morti».
Ho appena il tempo di vedere che Romain sta crollando, e il loro treno riparte.
Ma si ferma un po' più lontano, e il mio… indietreggia!
Ora non siamo più vicini come prima. Corriamo nei corridoi, Guy dalla sua parte e io dalla mia,
urtando tutti per riavvicinarci.
«Su, venite via — dico. — Sbrigatevi: ho del denaro, e torniamo a Bagdad. D'accordo?».
Guy esita un istante, poi mi grida:
«D'accordo. Vado a cercare Romain».
E ci ritroviamo tutt'e tre sul treno di Bagdad, intenti a discutere con il controllore, perché se Guy
ha un biglietto (e neppure fino a Istanbul), Romain non ce l'ha.
Racconto loro l'incidente. Romain fatica a darsi pace. Per fortuna, sul treno, siamo incappati in
altri tre hippies francesi, dei veri hippies questi, con la mentalità, il linguaggio, la sporcizia e tutto il
resto. Essi si prendono cura di Romain, gli spiegano che sta uscendo da una dura prova, ma che in
fondo niente è veramente importante e che è meglio dimenticare tutto al più presto. Lui comincia a
cedere, anche perché lo fanno fumare.
A Bagdad, dove c'installiamo in un albergo hippy, niente d'importante da segnalare. Non ci sono
che hippies. La proprietaria è soprannominata Salam, perché risponde «salam» («buon giorno», in
arabo; di lì l'espressione «far salamelecchi»), facendo un inchino a tutto quel che le si dice.
Le strade sono piene di soldati in armi, perché c'è la guerra con Israele. I nostri compagni di
viaggio si divertono a provocarli, fingendosi spie, scattando foto, facendosi arrestare quasi ogni
giorno.
È meglio ripartire. Ma per dove? La questione merita di essere dibattuta. Perché in realtà non
sappiamo esattamente quel che vogliamo fare. Il grosso problema è il denaro. Io ne ho, ma Guy e
Romain, che non ne hanno più, sono complessati. Vorrebbero andar a lavorare da qualche parte.
Dove? Nel Kuwait, è meglio. In quel piccolo Paese, rimpinzato di petrolio e straricco, c'è di sicuro
qualcosa da fare. Solo che occorrono i visti d'entrata. E il Kuwait li distribuisce col contagocce. E
mai per più di una settimana.
Ci rechiamo all'ambasciata. Sulla porta c'è gente che aspetta da settimane. Noi entriamo e
mostriamo il passaporto. L'impiegato ci ride in faccia:
«Dei visti? Si vedrà domani».
Il giorno dopo ritorniamo.
«Ripassate domani».
E si va avanti così per tre giorni.
Allora io ne ho abbastanza, e vado direttamente a casa dell'ambasciatore.
Quando gli imbrattacarte ti danno dispiaceri, rivolgiti sempre a chi sta più in alto. È una tecnica
che mi è sempre riuscita.
E riesce anche stavolta.
Comincio con l'accapigliarmi con una sentinella. Il chiasso attira un ufficiale. Gli spiego il mio
caso. E due giorni più tardi ho i miei visti, non solo il mio e quelli di Guy e Romain, ma anche
quelli dei tre super hippies. Costoro, non ho avuto il coraggio di presentarli, per via delle loro
zazzere. Abbiamo fatto copie delle foto dei loro passaporti, in cui hanno i capelli corti, e le ho
portate direttamente all'ambasciata.
L'indomani mattina, senza più attendere oltre, ci installiamo tutt'e sei sull'autocarro che va al
Kuwait, in mezzo a montoni, galline e conigli.
L'Oriente non aspetta che noi!
LE TORRI DELLA MORTE

Seconda parte

1.
Il Kuwait è stato una tappa tutta speciale del mio viaggio verso Katmandu. Per prima cosa, una
pausa nella droga, come se inconsciamente avessi voluto prendere un po' di respiro prima di fare il
grande tuffo negli eccitanti. E poi, nel Kuwait la baldoria per tutto un mese non ha conosciuto sosta.
Bacchica. Un vero delirio di sbornie e di avventure amorose. Niente di più facile nell'uno e nell'altro
caso, per un ragazzo libero com'ero io, senza preoccupazioni, il naso al vento in tutte le occasioni.
Libero e disponibile come l'aria. Il Kuwait, per gente come me, è un paradiso. Questo piccolo
principato, reso ricchissimo dal petrolio di cui rigurgitano il suo sottosuolo e la sua costa, scoppia di
denaro e di lusso.
Appena arrivi, un certo numero di dettagli significativi ti saltano agli occhi. Le strade sono
splendide, per cominciare. Dopo aver sobbalzato per giornate intere su piste scassate e disselciate,
eccoti, appena passata la frontiera, su uno straordinario velluto di lucido asfalto, largo come le
nostre autostrade. Attorno a te non ci sono che vetture americane, sbalorditive per il lusso e i colori.
E la città: case sontuose dappertutto.
In tutto il Kuwait non ho visto che un solo rudere in terra compressa. Tutto il resto è nuovo.
Non ci sono poveri, in Kuwait. Sulla facciata di ogni casa, alla finestra di ogni appartamento, e a
volte in ogni finestra, c'è la griglia quadrata dei condizionatori d'aria.
Un po' ovunque, sopra tutti i tetti — quelli dei palazzi e quelli delle casette — grandi cisterne
d'acqua, dipinte, non ho mai saputo il perché, con strisce trasversali bianche e nere. Anche la casa
più piccola ha la sua cisterna d'acqua e i suoi condizionatori d'aria.
In un simile lusso e in una simile abbondanza, è evidente che ci si diverte. E ci si diverte forte in
Kuwait. Forse non tanto tra i suoi veri abitanti, soprattutto all'epoca in cui arriviamo noi (è il
Ramadan), ma nella colonia europea. Le mogli degli ingegneri petroliferi sono vere divoratrici in
agguato dei forestieri.
Noi ci facciamo mettere lo zampino addosso la sera stessa del nostro arrivo.
Abbiamo cercato invano un albergo libero — sono tutti stracolmi di pellegrini in viaggio verso la
Mecca, — e stiamo riflettendo sui gradini della posta, risoluti di chiedere ospitalità alla polizia (l'ho
fatto molte volte in Oriente), quando vediamo arrivare due giovani donne.
Sono due francesi. Ci hanno sentito parlare, e sono venute sorridenti. Sono mogli d'ingegneri. I
loro mariti sono da otto giorni al lavoro sui derriks, in mare, e non torneranno prima di quindici
giorni. Esse sono sole, e si annoiano. Ci invitano per il giorno dopo, ma sono un po' preoccupate,
perché siamo in troppi.
Si accetta tuttavia l'appuntamento, e per quella sera si va a dormire dai poliziotti, sotto un
capannone.
L'indomani mattina, molto gentili, essi ci offrono la prima colazione. Poi Guy, Romain e io
spieghiamo ai nostri tre super hippies che vogliamo metterci a lavorare li in Kuwait e che
intendiamo farci aiutare in ciò, se è possibile, dalle due francesi. Alla parola «lavoro», essi si tirano
indietro come gatti gettati nell'acqua. Si disputa un poco. Noi vorremmo rimanere con le mani
libere… E ci riusciamo: essi se ne vanno, offesi, per conto loro.
Poco dopo siamo dalle due francesine. Si pranza con loro. Sono semplicemente affascinanti.
Francoise è una bella brunetta. L'altra, Jacqueline, ha qualche anno in più ed è bionda ossigenata.
Dopo il pranzo Jacqueline se ne va. Noi restiamo soli con Francoise: parliamo di tutto ed
ascoltiamo musica. La sera ci fermiamo a casa sua.
Il giorno dopo Jacqueline ritorna e annuncia che ci ha trovato un appartamento, quello d'un
celibe, anche lui al mare. Un appartamento che risulta, lo vediamo subito al nostro ingresso,
l'emporio del whisky della colonia francese. In Kuwait l'alcool è proibito. Se ne beve solo nelle case
dei privati (ma molti hanno un bar anche sull'auto). Si butta giù, a dir poco. Meglio, si tracanna.
Ma resta il problema dei visti. Non sono validi che per una settimana, ed è un vero peccato
essere costretti a lasciare questo paradiso al termine degli otto giorni. Ancora una volta Jacqueline,
così irritante con la sua parlantina inarrestabile di incendiaria, ci risolve il problema.
Un mattino ci conduce all'ufficio visti.
Il direttore, che rilascia i visti per il Kuwait, è una grande personalità. Ci accoglie nel suo
gigantesco ufficio imbottito, lussuoso. È un grosso arabo dai baffetti sottili, imponente in mezzo alle
sue tappezzerie e ai suoi mobili stile inglese.
Sembra che conosca bene Jacqueline. Del resto lei, senza un attimo di esitazione, corre
direttamente a sedersi, sotto i nostri occhi, sulle sue ginocchia. Poi gli passa una mano dietro la nuca
e si mette a coccolarlo.
«Ho qui degli amici francesi — cinguetta leziosamente — che bisogna aiutare as-so-lu-ta-men-
te».
«Cara signora — le risponde lui sullo stesso tono, — mi consideri suo servitore».
«Ecco — riprende lei, spettinandolo teneramente, — Lei è semplicemente ridicolo con questi
suoi visti che durano appena una settimana».
Egli ha un sussulto, ma Jacqueline è troppo carezzevole perché possa rifiutarle qualcosa, e per di
più è anche tutto rosso, ora.
«Come vuole che questi studenti abbiano tempo, in otto giorni, di raccogliere tutti i loro appunti
per la tesi?».
Eccoci diventati studenti, alle prese con una tesi.
«Allora li aiuti, prolunghi i loro visti, lo faccia per me!», riprende lei mettendogli la generosa
scollatura sotto il naso.
Qualche minuto più tardi abbiamo tutt'e tre un visto per altri quindici giorni, e il direttore ottiene
in segno di ringraziamento un bacio sulla fronte, ma niente più. Diavolo d'una Jacqueline!
Restiamo ancora per quindici giorni nel nostro appartamento. Quindici giorni di sbornie e di
«parties a sorpresa». Siamo diventati il centro d'attrazione di tutte le francesi, inglesi, americane del
petrolio, trascurate dai loro mariti. Non so come esse se la sbrighino con i mariti quando tornano,
ma si dimostrano diabolicamente astute. Una sola volta un inglese viene a fare uno scandalo, ma
non è neppure un marito, è soltanto fidanzato.
Al termine dei quindici giorni, Jacqueline torna a sedersi sulle ginocchia del direttore dei visti, e
la nostra autorizzazione di soggiorno è prolungata di altri quindici giorni. Ma ora dobbiamo lasciare
1'appartamento, il suo inquilino è tornato. Dove andare? È un grosso problema. Gli alberghi sono
sempre zeppi, e noi abbiamo ormai assimilato così bene l'idea di farci aiutare dagli altri, che il solo
pensiero di metterci a cercare un alloggio da soli ci affatica.
Nel giro di un mese abbiamo avuto modo di fare la conoscenza di tutto il «Kuwait bene», e in
particolare del console di Francia, il solo console francese simpatico (con quello di Katmandu) che
abbia mai visto all'estero. In tutti gli altri posti, nella loro professione, non ho incontrato che dei
bifolchi. E non sono il solo a dirlo. Tutti i ragazzi che viaggiano vi possono dire la stessa cosa.
Per cominciare, questo console fa rifare a nuovo i nostri tre passaporti, in ventiquattr'ore, senza
farceli pagare. Poi prende il telefono, chiama un ministro del Kuwait, non so quale, e… noi
diventiamo boy-scout!
Un centro immenso, completamente nuovo, lussuoso che è una meraviglia, è stato allestito per
gli scout del Kuwait. Ci installano lì dentro, bardandoci il petto di mostrine. Ci sono lì una ventina
di camere, sala da pranzo, un salone, eccetera.
Ci viene assegnato un valletto personale, uno scout, e ci si lascia liberi di fare quel che vogliamo.
Restiamo lì quindici giorni, ma ormai dobbiamo pensare a cosa fare… dopo.
Facendo autostop, un giorno vengo caricato dal direttore del più grande night-club. Vado a
trovarlo e gli domando del lavoro. Accetta, e al momento buono fa molto di più: ci fa rinnovare i
visti per tre mesi.
Eccoci assunti al Gazelle Club, Guy come pilota di scafi per lo sci acquatico, Romain e io come
addetti ai dischi.
È un mestiere che conosco bene. L'ho praticato per anni sulla Costa Azzurra. E ho modo di
prendere presto le cose in mano. Faccio rinnovare la decorazione del club, convinco il proprietario a
installare un karting e dei bungalow, rinnovo la discoteca, faccio installare sulla spiaggia i dischi a
comando telefonico. Presto il Gazelle Club monopolizza la clientela dei festaioli del Kuwait.
Ma va tutto troppo bene per durare. Ksarès, il proprietario, ha una sorella, una vecchia
linguacciuta e bisbetica che vede di cattivo occhio le mie iniziative. Mi ha sulle corna e mi rende la
vita difficile quando suo fratello è assente, cioè molto spesso, perché Ksarès viaggia molto. Dopo
due mesi, nell'aprile 1969, io ne ho abbastanza. Abbiamo un battibecco, e scrivo a Ksarès, che si
trova a Londra, che le cose non vanno e perciò parto.
Guy decide di seguirmi. Romain, di restare. Vuole guadagnare ancora dell'altro denaro, per poter
partire tranquillo alla volta dell'India. E poi anche tra noi non ce l'intendiamo più molto.
Ancora una volta, sono sulla strada. Ho sistemato in fondo al sacco i miei abiti civili, ho rimesso
stivali, camicia e calzoni neri, e ho controllato il mio denaro. Mi restano quasi 2000 dollari di quelli
presi al canadese, tanto la vita costa poco, anche a fare spese pazze, in Oriente. Il denaro è sempre
ben sistemato nella mia cintura. Mi metto il sacco in spalle, e cominciamo ad alzare il pollice, Guy
e io, al bordo del marciapiede, ancora in città.
Non dobbiamo attendere molto. Dopo due minuti una Cadillac si ferma (nel Kuwait l'autostop si
fa dappertutto, anche in pieno centro), e ci conduce fino alla frontiera irakena.
Lì, un'avventura banale. Ho nel sacco dei talkies-walkies (nel Kuwait, zona franca, si può
comperare di tutto, apparecchi fotografici, cineprese, eccetera, per un niente).
I doganieri irakeni subito piombano sui talkies-walkies. Non hanno mai visto cose del genere.
Spiego loro come funzionano. Stupefatti, se ne impossessano, uno di essi si inoltra per un
chilometro nel deserto, e si mettono a giocare come monelli per una buona ora. Cominciamo a
pensare che lo scherzo duri un po' troppo. Finalmente ritornano, discutono tra loro, e me li
restituiscono senza dire una sola parola. Possiamo ripartire.
Proprio all'uscita del posto di frontiera, un automobilista si ferma. Noi saliamo. Va a Abadan, 80
chilometri di lì. Durante il viaggio ci facciamo buona compagnia. Si ascolta la radio, si parla, si
beve il whisky del bar. La vettura ha l'aria condizionata, tutto va a gonfie vele. Arrivati ad Abadan,
l'automobilista ci dice:
«È tardi, vi invito a cena».
«D'accordo».
Ferma davanti a un palazzo. Prendiamo l'ascensore. Suona alla porta d'un appartamento.
L'appartamento è pieno di poliziotti che ci saltano addosso.
E ci ritroviamo in prigione, catalogati come spie. Grazie ai talkies-walkies…
Lì per lì non osiamo protestare. Abbiamo ancora dell'hashish con noi. Appena possiamo,
andiamo a gettarlo in una latrina, c allora mi metto a fare un chiasso del diavolo. Ricorro alla mia
arma classica, domando di vedere il console di Francia e, se non basta, anche l'ambasciatore. Dopo
una notte di discussioni, ci rilasciano e possiamo ripartire.
Ora comincia il periodo dei viaggi in autocarro verso l'Iran. Poi le linee di autocarri si fermano.
Riusciamo a cavarcela, lungo il deserto salato, in mezzo a paesaggi favolosi di montagne dalle cime
innevate e laghi verdi in fondo alle valli disidratate dal sole, facendoci trasportare da camionisti. O
meglio, da banditi a lungo corso, sempre pronti a derubarci alla prima nostra disattenzione. Di notte,
Guy e io dobbiamo darci il cambio e fare i turni di veglia.
Una notte Guy mi scuote. I tre camionisti si aggirano attorno a noi. Anche se il loro colpo
riuscisse, resterebbero a bocca asciutta, a meno che non abbiano l'idea di frugare dentro la mia
cintura…
Estraiamo in fretta i nostri coltelli scout, eredità del Kuwait.
Vedendoli luccicare al chiarore della luna, gli altri fischiettano distrattamente e vengono a offrirci
delle sigarette all'hashish.
Attraversiamo così l'Iran, un deserto trapunto di oasi verdi, erbose come la Normandia, e un
pomeriggio arriviamo a Zahidan, presso la frontiera pakistana.
È la fine dell'aprile 1969.
Tra poco ricomincerò a drogarmi.
Cominciare sarebbe la parola più esatta. Perché quel che ho preso finora non è che uno scherzo,
in confronto ai veleni micidiali che mi aspettano.
La frontiera irano-pakistana, oltre Zahidan, è costituita da una ferrovia che corre in pieno
deserto. Da una parte l'Iran, dall'altra il Pakistan.
Esaurite le solite formalità, bisogna aspettare che arrivi l'autocarro proveniente da Quetta, nel
Pakistan. A volte si aspetta anche otto giorni, ammassati in una baracca a un solo piano, con terra
dappertutto (come suolo, alle pareti, e come tetto), che di albergo ha solo il nome, e un pozzo quasi
secco. Né elettricità, né luce a gas. Appena qualche candela.
E ci si corica direttamente sul terreno. In mezzo agli insetti che brulicano. Gli scarafaggi in
particolare, che escono appena arriva la notte. Si arrampicano sul corpo e bisogna dormire in loro
compagnia, perché l'albergatore (o come chiamarlo) vigila e vuole che nessuno li tocchi: sono
animali sacri. Imbacuccato nei suoi stracci sporchi, egli passeggia lungo il dormitorio e ci sorveglia,
sorridente ma inflessibile.
La sola cosa al mondo che lo interessa sono le sue bestioline. Del traffico della droga se ne
infischia. In Pakistan la vendita della droga è tollerata (anche se in teoria la legge la interdice; in
Iran e Irak invece, se un trafficante si fa beccare, lo fucilano).
Si trova droga dappertutto, con la facilità con cui in Francia si comprano i pasticcini al bar
dell'angolo. Tutti fumano, e bisogna essere santi — o matti — per non farlo. Le poche decine di
hippies e d'altri stranieri che si trovano lì, vi si abbandonano con tutta l'anima.
Per i veri intossicati l'arrivo al Pakistan è la fine di un lungo calvario. Per giorni e giorni hanno
viaggiato a piccole tappe, brucianti d'impazienza e di febbre, facendo acrobazie per procurarsi la
droga. E tutto d'un colpo si spalancano loro le porte del paradiso.
A prezzi che scoraggiano ogni concorrenza, si vedono offrire tutto quel che vogliono:
dall'hashish all'eroina, passando attraverso l'LSD, l'oppio e la ricca gamma delle amfetamine. È
come una polla d'acqua sorgiva che appaia d'improvviso agli occhi d'uno scampato dal deserto, che
da settimane non aveva visto scorrere nient'altro che il suo sudore.
Accanto a me ci sono due drogati — inglesi, credo — che sembrano molto in difficoltà. Si sono
procurata della metedrina, e tremano letteralmente per il desiderio, mentre preparano le loro
siringhe.
Sto per assistere a una delle scene che mi impressioneranno di più.
Dopo aver schiacciato le compresse di metedrina e versato la polvere in una tazza d'acciaio,
cercano dell'acqua per sciogliervela. Non ne hanno. Sono sempre più sul punto di venir meno,
cominciano ad ansimare, bisogna assolutamente che trovino dell'acqua.
Uno di essi finisce per scorgere, frugando lo stanzone con il fascio di luce della pila elettrica, un
secchiello contro il muro. Lo raggiunge. Il secchio è pieno.
L'inglese, d'improvviso calmo, immerge il bordo della tazza, fa entrare un po' di liquido, agita il
suo miscuglio, e attraverso un batuffolo di cotone riempie la siringa. L'altro fa altrettanto. Poi si
mettono al lavoro per fare l'iniezione.
Hanno un bello stringere il legaccio più che possono, e tenere il più possibile vicina la luce della
loro pila, non riescono a trovare la vena. E poi, tremano troppo.
Il primo vede che li osservo. Mi fa un cenno e mi chiede di aiutarli. Io terrò la pila, per
illuminarli quando faranno l'iniezione, più possibile vicino alla piega del gomito, perché la luce è
molto debole.
Faccio come mi chiedono e, volendo mettermi più vicino a loro, afferro il secchio per
allontanarlo.
Un insostenibile odore di urina e di marciume mi sale al naso mentre lo smuovo.
Il secchio, è quello della latrina!
Li dentro hanno preso il liquido che vogliono iniettarsi nelle vene!
Un po' scosso, mi siedo vicino al primo, e accosto la pila fin quasi a toccare la piega del suo
gomito.
La sua carne è deturpata, piena di lividi e di bitorzoli.
Egli buca. Tira indietro lo stantuffo della siringa per vedere se il sangue risale (se no, è segno che
1'ago è penetrato nella carne, e la droga andrebbe perduta). Il sangue non risale. Tira indietro l'ago,
e buca un'altra volta. La vena sfugge e si lacera, il sangue cola. Bestemmia, si asciuga, e ricomincia.
Trema sempre di più. Dovrà ricominciare cinque o sei volte, prima di farcela. E per l'altro, che
l'attesa ha reso con i nervi allo scoperto, succede lo stesso.
Finalmente, in qualche modo, sono riusciti a prendere la propria dose, e tornano a coricarsi.
Passeranno una notte felice.
Anch'io, del resto. Quando ritorno al mio posto, Guy mi tende il suo shilom già acceso. Aspiro
una lunga fumata; il piacere viene presto, più presto ancora che la prima volta a Istanbul. Ne
accendiamo un altro, e ricominciamo.
Una benefica lucidità mi prende.
Come mi sembra lontano il mondo occidentale! Quei due mesi passati nel Kuwait tra le guardie,
le ragazze e l'alcool, che gusto amaro e sporco mi lasciano nella memoria! La droga invece, come
mi sembra pura, nitida e limpida, in confronto con tutto il marciume della civiltà!
Non ho più voglia di bere, il ricordo di tutti quei cadaveri di bottiglie di whisky gettate nella
pattumiera a cinque o sei per volta ogni mattina, mi rivolta lo stomaco almeno quanto l'immagine
del secchio della latrina, poco fa.
Attorno a me, nel silenzio caldo e pesante della notte, tante piccole braci rilucono una dopo
l'altra, seguendo il ritmo delle inspirazioni. Mi sento bene, sono felice. Ho l'odorato abbastanza
penetrante e la bocca abbastanza grande per vedere e mangiare tutte le cose buone di questo mondo.
La natura intera mi sembra un paradiso terrestre fatto per essere divorato a grandi morsi voraci,
stretto e posseduto con tutto il mio corpo.
Domani ripartirò, e l'Oriente mi aprirà le sue porte.
Ormai non starò più un solo giorno, una sola notte, senza drogarmi.
2.
Il più spaventoso dei veicoli che abbia mai visto, è l'autocarro per Quetta, che si fa aspettare solo
tre giorni. Ogni due ore il carico umano discende, tra le grida dei monelli e gli squittii del pollame,
sia per fare i propri bisogni, sia per dire le preghiere. Preghiere o bisogni, la scena è la stessa. C'è
deserto a perdita di vista, ed è inutile cercare di isolarsi o anche di allontanarsi. Tutti si dispongono
in cerchio attorno all'autocarro e si accoccolano chiacchierando. O si appiattiscono sulle stuoie, se è
per la preghiera che ci si è fermati. Poi si riparte.
Il viaggio dura due giorni.
A Quetta facciamo conoscenza con il miglior tè del mondo. Nelle sale da tè, tutti piccoli
ambienti con appena una tavola e dei sedili, si cuoce e ricuoce il tè con il latte parecchie volte. È
delizioso.
Esitiamo parecchio, a Quetta, sulla strada da seguire. Quetta è un crocevia.
Discutiamo con accanimento, Guy e io, e alla fine ci troviamo d'accordo su un progetto: e se si
facesse il giro del mondo?
Sì, ma passando per dove?
Cominciando dall'India? Passando per l'Afghanistan o discendendo a Karachi per prendere il
battello fino a Bombay?
A ogni modo, per quel che riguarda l'hashish, ciò non ha alcuna importanza. Se ne vende
dappertutto, ormai.
Il caso sceglie per noi. Facciamo conoscenza con dei carovanieri che ci offrono di
accompagnarci fino a Karachi. Solo che essi non partono prima di tre settimane. Che importa?
Intanto visiteremo l'Afghanistan, e tanto peggio per i visti che non abbiamo. Passeremo attraverso le
montagne.
Così, metà a piedi e metà in autostop, percorriamo a grandi passi l'Afghanistan, andando
attraverso Kandahar fino a Kabul e a Herat.
Fumiamo sempre di più. Io, dieci shilom al giorno.
Guy ne fa molti di più. Fino a venti il giorno.
L'hashish lo danno per niente. Non costa che 10 dollari al chilo (mentre il canadese a Istanbul lo
pagava 100 dollari). Va detto che l'Afghanistan è, con il Nepal, il principale produttore di hashish
del mondo. E ha un hashish molto pregiato: forte, fresco e profumato.
La vita è meravigliosa. La droga ci mette in uno stato straordinario di forza e di lucidità. Non
siamo mai stanchi.
Al termine delle tre settimane rientriamo a Quetta. I nostri carovanieri sono ancora lì.
Indossiamo anche noi come loro una gellaba bianca (una specie di barracano), e arrotoliamo un
turbante attorno alla testa. Ci appollaiamo ognuno sopra un cammello, ed eccoci partiti, a piccole
tappe, con male al sedere e una vaga nausea perpetua. Ci occorrono tre settimane per raggiungere
Karachi.
Durante queste tre settimane capisco perché in queste regioni dell'Oriente tutti quanti, o quasi, si
drogano. Il clima desertico è così estenuante, esige un tale sforzo, che per resistere si ha bisogno di
aiuto. E l'aiuto lo dà la droga. Attraversare un deserto a dorso di cammello, se non si ha, grazie alla
droga, l'euforia che permette di sopportare il tormento del sole, del calore e della siccità, è un vero
supplizio. Senza i nostri shilom e la nostra riserva di hashish, credo che Guy e io avremmo ceduto
durante il viaggio. Come pure i carovanieri, del resto. Anche se hanno sofferto meno di noi, perché
sono abituati al clima.
Mi riferisco soltanto alle fatiche del viaggio in se stesso. Passare delle giornate intere a
consumarsi il sedere sopra una sella dura, sballottato in modo abominevole come in un battello
sollevato dalla tempesta, è già molto penoso. Ma poi c'è il sole. Il corpo e la testa sono protetti dalla
gellaba e dal turbante. I piedi, li si avvolge in stracci. Ma per le mani non c'è niente da fare. Bisogna
per forza esporle, per tenersi, lassù, in vetta alla gobba del cammello. E così le mani sono bruciate
in continuità dal sole.
In capo a otto giorni le nostre mani non sono più che una piaga. In principio riusciamo a
resistere, ingozzati come siamo di hashish, ma presto è una tortura intollerabile.
Un giorno il capo dei carovanieri ci osserva e scuote la testa. Poi va a cercare degli escrementi di
cammello, e due paia di guanti col solo pollice separato. Li riempie con gli escrementi freschi, e ce
li porge:
«Mettete questi», ci dice.
Meravigliati, lo guardiamo senza comprendere.
Ci spiega che è un rimedio formidabile. Che dobbiamo portare questi guanti pieni d'escrementi
finché le nostre piaghe rimarranno aperte. È il solo modo di guarire.
Obbediamo, superando meglio che ci riesce il disgusto.
Tutti i giorni si rinnova il contenuto dei guanti. Del resto non siamo i soli ad avere male alle
mani. Due carovanieri devono subire lo stesso trattamento. Nel giro di otto giorni non solo le piaghe
sono guarite, ma non ci siamo pigliata nessuna infezione.
La sera, quando ci si ferma, ci massaggiamo la schiena a vicenda. Perché il piacere di montare
un cammello vi procura anche violenti mali di schiena. Come si vede, un vero viaggio turistico! Ma
l'hashish è lì per farci conservare intatto il nostro buon umore, e grazie a lui arriviamo senza aver
ceduto, anche se completamente sfiancati, a Karachi.
Ci crediamo finalmente liberati dai cammelli. Ma non è finita.
Come in India le città sono piene di vacche, così Karachi è intasata di cammelli. Ce ne sono
dappertutto, a tutti i crocevia, in piena circolazione, tra i palazzi di vetro e d'acciaio, che bloccano le
automobili e scompigliano i semafori.
Più in fretta possibile, ci installiamo in un albergo, naturalmente per hippies. Un albergo molto
bello. Non ha niente che vedere con l'Old Gulhane, è tenuto molto meglio. Ha dei dormitori (una
rupia per notte), ma anche delle camere (due rupie). I dormitori sono riservati agli indigeni. Così noi
prendiamo posto in una piccola camera molto curiosa, sulla terrazza. Tutta dipinta con disegni
psichedelici. I quattro muri sono traforati. Sono fatti con mattoni alternati che lasciano passare
l'aria, precauzione indispensabile per non morire di caldo.
Ci buttiamo subito sui letti e tiriamo fuori gli shilom. Ne abbiamo proprio bisogno, per
dimenticare il deserto, i cammelli, il male al sedere e le scottature alle mani.
Ce ne restiamo qui dentro un mese, non uscendo che per mangiare o rinnovare le provviste di
droga.
Qualche volta andiamo a discutere un po' con Jimmy. È un americano che abita nella camera di
fronte alla nostra.
È il secondo junkie che ho visto, e non lo dimenticherò, perché, contrariamente a tutti i junkies, è
pulito.
È tutto bianco. Di pelle innanzi tutto, perché non esce mai. E poi di vestito. Impressiona per la
sua serenità. Sempre sorridente e gentile. Cinque o sei volte al giorno tira fuori una polvere bianca
— sempre pronta — dal suo sacco, ne versa in una siringa, aggiunge acqua e si fa l'iniezione, con
un eterno sorriso sulle labbra. Prende l'eroina, in quantità enormi. Poi si ridistende e non si muove
più. Con la sua lunga barba bionda, i riccioli che gli scendono fino alle spalle, lo si direbbe Gesù
Cristo nel sudario. Quando parla, è per dire che presto partirà per l'Afghanistan. Vuole stabilirsi
sulle montagne. Per fare che? Per finirvi la vita, semplicemente. Non ne fa mistero. Sa che è
arrivato a dosi troppo forti, e che la morte non è lontana. Ci pensa con calma. Ha fatto la sua
scelta…
Ci impressiona al vivo, e ricordo che, osservandolo, giuro a me stesso di fare di tutto per non
arrivare al punto in cui è lui.
Giuramento per «vergogna», beninteso.
A Katmandu anch'io gli assomiglierò, e parlerò di andar a morire tra le montagne.
E partirò perfino…
Ma per il momento non siamo che all'hashish. Non ha ancora soddisfatto tutte le nostre curiosità.
Un mese più tardi, prendiamo il treno per l'India. Alla frontiera, assaggio per la prima volta il
betel. Sopra una bassa bancarella, quasi per terra, un mercante mi mostra delle foglie d'albero,
ciascuna delle quali corrisponde a mucchietti di polveri o di impasti di diversi colori. Mi domanda
se lo voglio forte o meno. Per prudenza gli dico «medio».
Fa un miscuglio, arrotola tutto in una foglia, mi chiede mezza rupia e mi porge l'involto. Lo
porto alla bocca, e comincio a masticarlo. È molto aromatico, amaro, non sgradevole. Presto sto
salivando abbondantemente, e ho la bocca rossa. Attendo che produca un qualche effetto, perché
sono convinto che è una droga. Ma niente. Non è nient'altro che un chewing-gum orientale, proprio
nulla di speciale. Non sarà certo il betel che iscriverò nella lista delle mie esperienze più
stupefacenti!
Nel treno scateniamo una grandiosa battaglia campale. Abbiamo prenotato delle cuccette (mi
rimane ancora parecchio denaro) e, non ho mai capito il perché, ci rifiutano le nostre cuccette. Noi
protestiamo. Una dozzina di indù ci rimbecca vivacemente.
Altri, dei sikh, prendono la nostra difesa.
Sentendoci sostenuti e, in più, ormai ingaggiati nel pieno della contesa, noi replichiamo.
Ed è subito la battaglia. Tutto il vagone, da 25 a 30 persone, si mette a picchiare. Le valige
volano, i colpi piovono. Si va avanti così per un'ora almeno. Una buona piccola baruffa, che finisce
per l'intrusione di un'armata di controllori… che ci cacciano via, Guy e io!
Arriviamo a Dehli e ci installiamo a ciel sereno sopra una terrazza della stazione.
A un chilometro o due di lì, Connect Place.
È il luogo di convegno degli scoiattoli di Delhi. Ce ne sono a migliaia sugli alberi. Sotto, un
sacco di gente e gli hippies. Bisogna fare molta attenzione per comperare l'hashish, perché in India
la droga è proibita e i poliziotti sono sempre con gli occhi aperti.
Tutti gli europei si danno convegno in un immenso caffè, e gli indiani, in particolare i sikh,
vengono a osservare gli europei. Questi ultimi sono per tre quarti ubriachi. Eppure l'alcool è
proibito in India. Ma sulle ginocchia hanno tutti la loro bottiglia, e la vuotano coscienziosamente,
mentre la loro tazza di tè si raffredda, intatta, davanti a loro.
Presto ne abbiamo abbastanza di dormire sotto le stelle, e andiamo a installarci in un albergo. La
proprietaria è un'europea completamente svanita. Si droga da anni ed è visibilmente suonata.
Ce ne accorgiamo fin dal nostro arrivo. Ci porge il registro dell'albergo e ci costringe a scrivere,
Guy e io, dopo i nostri nomi e generalità, questa frase: «I am not Hippy» (io non sono un hippy). È
una sua mania. Anche il più hippy degli hippies, il più zazzeruto e variopinto, deve scrivere quelle
parole, sotto pena di essere immediatamente espulso.
A causa della polizia? Ma la polizia, se viene in casa sua, vede bene che tutti questi «non
hippies» sono hippies nati e sputati…
Non restiamo molto a Delhi. Passando per Accra — la perla dell'India, la città dai più bei palazzi
— ridiscendiamo a Bombay.
Lì ci aspettano alcune piccole avventure un po' banali.
La prima, a momenti, mi porge l'occasione di farmi sgozzare a coltellate. E tutto per non aver
voluto seguire la solita trafila e andare in un albergo frequentato da europei. Volendo fare gli
originali, Guy e io decidiamo di scegliere un albergo frequentato esclusivamente dagli indiani,
sconosciuto dai bianchi.
Ne scoviamo uno dietro la stazione Victoria, una stazione che non porta solo il nome di quella
famosa di Londra, ma ne è anche l'identica copia.
Il nostro arrivo provoca lo stupore generale. Non si è mai visto un europeo entrare lì! E ci
accolgono come dei re. Sfortunatamente non ci sono più camere libere. Allora i proprietari ci
cedono il loro appartamento al terzo piano. Di notte può andare, perché essi dormono in uno
sgabuzzino. Ma di giorno, la moglie del proprietario viene a fare cucina da noi. E Guy, al quale
l'hashish fa perdere anche il minimo rispetto che si deve portare ai propri ospiti, le fa una corte tanto
sfrenata quanto diretta.
In capo a tre giorni il marito ne ha abbastanza, tempesta e minaccia. Cerco di far ragionare Guy,
e lui si calma. Ma la storia si è risaputa in giro e noi siamo considerati come delle bestie rare. Nel
frattempo incontriamo, come e naturale, altri europei, e ben presto gli hippies vengono a trovarci. Il
nostro appartamento diventa un luogo d'incontro, pieno di americani, inglesi, olandesi, danesi,
eccetera. Insomma, un vero «Old Gulhane» stipato di individui della miglior risma.
Ora in una stanza vicina, sullo stesso pianerottolo, c'è un circolo clandestino di giochi d'azzardo.
E i giocatori hanno preso l'abitudine di venire, tra una giocata e l'altra, a darci un'occhiata dalla
soglia della camera, perché non c'è porta. Restano lì impalati, con gli occhi spalancati, e
commentano nel loro dialetto tutto quel che noi facciamo.
Ma un giorno mi salta la mosca al naso. Lì, sulla soglia, ci sono tre indiani che si guardano lo
spettacolo. Dopo dieci minuti grido loro di andarsene. Come non detto, essi restano. Allora li
ricopro d'insulti.
Ed ecco che uno di loro, che ha capito il mio inglese, tira fuori un coltello e mi si scaglia
addosso.
Per fortuna il mio sacco non è troppo lontano, e ho il tempo di afferrare il mio pugnale prima che
l'altro mi abbia raggiunto.
Rotoliamo a terra. Lui tutto vestito, e io tutto nudo, lottando all'arma bianca come nei migliori
film d'avventure. È svelto, e faccio fatica a parare i suoi colpi, perché lui vuole veramente la mia
morte, glielo si legge negli occhi iniettati di sangue.
Quanto a me, drogato come sono, non sono meglio di lui in fatto di buone intenzioni. Per fortuna
siamo di forze pressoché uguali, e ci facciamo solo qualche graffio.
Ma dopo cinque minuti io comincio a riprendere il controllo di me stesso.
Quel che sta capitando è troppo stupido, bisogna smetterla. Guy, vicino a noi, grida che siamo
degli imbecilli. La camera si è riempita di gente e il proprietario saltella da tutte le parti gridando
aiuto.
Riescono a separarci. Io sono inflessibile: costui non metta più piede qua dentro, e la smetta di
fare il guardone. È tutto quel che domando. Il proprietario cerca di convincerlo. Lui dice di sì con la
testa, e mi guarda di traverso. Gli tendo la mano. Ci sorridiamo. È tutto finito.
Allora, mentre mi giro per andar a cercare i miei pantaloni, perché mi sono accorto d'improvviso
che ero ancora tutto nudo, sento Guy che mi grida:
«Attento, Charles!».
Mi abbasso… e quel tipo passandomi sopra va a finire contro il muro.
Porco! Mi butto verso di lui, impugnando il coltello, ma Guy e il padrone mi si avvinghiano al
corpo, mentre alcuni indiani cinturano l'altro.
Stiamo lì, a faccia a faccia, ansimanti.
«Bene, visto come stanno le cose — dico al proprietario, — noi ce ne andiamo via di qui. Non
può durare così. Un albergo di guardoni, dove per di più ti saltano addosso col coltello. Andremo a
protestare al consolato. Vi assicuro che sentirete ancora parlare di noi».
Il padrone impallidisce. È chiaro che, con la sua bisca clandestina, ha terrore di aver che fare con
le autorità, ciò che vuol dire — alla fin fine — con la polizia.
Tutti parlano tra loro in indiano.
Noi europei, con sussiego, ci ritiriamo nel nostro appartamento attendendo il risultato della
discussione.
Dopo dieci minuti sentiamo delle grida, del frastuono giù per le scale, poi la porta dell'albergo
che sbatte. E il padrone ritorna. Cammina curvo, e sorride con tutti i suoi denti. Si sprofonda in
scuse. Noi possiamo restare. Noi non avremo più nulla da temere. L'uomo dal coltello è stato messo
alla porta.
E difatti più nessuno verrà a darci noia. Ora siamo noi, veramente, i padroni.
A essere più preciso, sono io, il padrone. In primo luogo per gli indiani, che la mia colluttazione
ha riempito di rispetto. Ma in un certo modo anche per gli europei. E non tanto per via del coltello,
ma a causa della mia cintura a doppio fondo. Perché mi restano ancora la metà dei miei 2400
dollari. Sono 1400 o 1500, se ricordo bene. In un paese in cui un operaio guadagna in media una
rupia (corrisponde a 83 lire italiane) al giorno, è una fortuna.
È chiaro che non ho detto a nessuno ciò che ho nella mia cintura, e Guy si è guardato bene dal
tradire il mio segreto: una volta o l'altra qualcuno mi avrebbe potuto assalire in qualche posto
solitario e derubare fino all'ultimo centesimo. Ma tutti vedono che io pago, e prendono l'abitudine di
lasciarmi pagare. Del resto lo faccio volentieri. Non sono mai stato uno spilorcio, e ho sempre
trovato normale, in un gruppo, che chi ha del denaro paghi.
E così molto in fretta l'albergo del «francese in nero e con un occhio solo» (questa seconda parte
del soprannome la invento io, perché con le mie orecchie non l'ho mai sentita, ma suppongo che sia
stata reale) diventa celebre nella comunità degli hippies.
Vi si accorre da tutte le parti. L'appartamento che fu del proprietario è ora stipato da 25 o 30
occupanti variopinti, muniti di capelli lunghi, e bardati di flauti, magnetofoni e chitarre. I servi
hanno il loro da fare a portar su piatti pieni e a riportarli giù vuoti. Perché tutti bevono, mangiano,
dormono e si drogano praticamente sul mio conto. Il proprietario è entusiasta, io pago regolarmente,
e nessuno si dà pensiero di sapere di dove escono i dollari, purché continuino a uscire.
È così che per la prima volta faccio veramente parte di una comunità di hippies. Ospito pittori,
poeti, musicisti, ho una corte di ragazze incantevoli che mi dicono «ti amo» in tutte le lingue
dell'Occidente. Per il mio servizio personale ho due ragazzi che il padrone mi ha messo a
disposizione. Un monello di dieci o dodici anni, con un piede storpio, ma che fa di corsa tutte le
commissioni che gli assegno, e dorme per terra davanti al mio letto. E poi un altro, di venticinque
anni, che fa il pittore.
Io sono per lui un dio vivente. Gli ho spiegato alcuni trucchi per vendere i suoi quadri, e hanno
funzionato. È sicuro che lo porterò con me a Parigi. Io non oso dirgli che ha poche possibilità di
arrivarci molto presto, perché Guy e io siamo — al momento ancora fermamente decisi a fare il
nostro giro del mondo.
Secondo i nostri progetti, la prossima tappa sarà la Malaysia. Vogliamo andarci per mare e ci
rechiamo regolarmente al porto per vedere se riusciamo a combinare il viaggio. Ci respingono
dappertutto. Noi non ci scoraggiamo e di notte montiamo a bordo dei carghi, clandestinamente, del
tutto suonati, e svegliamo i comandanti… che ci cacciano via uno dopo l'altro. In quindici giorni,
diventiamo famosi come le bestie rare, siamo conosciuti da tutti i marinai, i doganieri e i poliziotti
del porto di Bombay, ma nessuno vuole saperne di noi.
Quali conseguenze ne vengano, si vedrà più tardi. Per ora, continuiamo per la nostra strada! Fra i
nostri parties di droga e d'amore, le nostre sedute musicali un po' speciali, e le nostre chiacchiere
filosofiche, letterarie e artistiche, ce la ridiamo divertiti guardando le strade bloccate da
imbottigliamenti mostruosi, nelle ore di uscita dagli uffici, perché una vacca sacra distesa in mezzo
alla strada scaccia le mosche con grandi colpi placidi della sacra coda, mentre decine d'indù le
fanno pssit! con la mano, a rispettosa distanza.
Andiamo a farci solleticare dai pulitori di orecchie, andiamo a farci massaggiare. Sorprendenti, i
massaggiatori di Bombay. Sono, si dice, i migliori del mondo, e io lo credo volentieri. Ma
immagino che la loro reputazione venga anche da certi talenti un po' particolari che non esitano a
esercitare sui clienti, che la decenza mi impedisce di descrivere. E la sera, quando ne abbiamo
abbastanza di stare al chiuso, andiamo tutti ad accendere falò sulla spiaggia e facciamo fantastici
bagni di mezzanotte.
Per il resto del tempo c'è un viavai perpetuo fra il nostro albergo e un altro situato a due
chilometri di lì, il Rex Hotel, un albergo tutto in legno con balconi che danno su un piccolo cortile
interno, vicino a un celebre arco di trionfo, il Gate Way, in riva al mare. È un altro albergo di
hippies, accanto all'albergo dell'Esercito della Salvezza, e al Sun Rise (Sol Levante), un caffè che è
il luogo d'incontro preferito dagli europei.
Facciamo continuamente la spola fra il loro albergo e il nostro. A tal punto, che un giorno
assumiamo un tassì soltanto per noi, a prezzo forfettario. Il tassista lavora solo per noi. Staziona in
continuità davanti all'albergo, e ci scarrozza da dieci a quindici volte al giorno tra andate e ritorni.
Noi siamo drogati senza interruzione, e ciò va molto bene; le nostre serate sono indimenticabili. E
l'avventura continua: le relazioni si annodano e si sciolgono, tante vicende, nessuna preoccupazione,
nessuna seccatura.
Una vita formidabile!
Almeno è quel che credo al momento, perché di fatto sto per entrare nel mio secondo periodo,
quello dell'oppio. E ben presto, per quanto straordinaria abbia potuto essere la mia esperienza
dell'hashish, essa non mi lascerà che un ricordo scialbo e incolore. L'hashish, in confronto all'oppio,
è un brodo di legumi a confronto del cognac.
3.
È per caso che arrivo all'oppio. Fino a questo momento, sempre sognando di partire per la
Malaysia, io non sono ancora un vero drogato, cioè uno che non pensa ad altro che alla droga e vive
solo per la droga.
Senza dubbio l'hashish mi regala dei sogni meravigliosi, ma per ora è solo un accessorio della
mia vita, non l'essenziale. A partire dall'oppio, tutto diventa diverso. Dunque un mattino esco a fare
scorta di «Bombay nero». È il nome dell'hashish prodotto a Bombay, ed è il migliore di tutti. Molto
forte e profumato. È l'hashish più famoso. Viene mescolato con un po' di oppio. Occorre molto
meno tempo che con gli altri per «partire». Se ne trova solo nel quartiere cinese. È il solo posto in
tutta Bombay dove la polizia non osi mettere il naso (c'è anche una città in India, dove è consentito
«fumare»: Benares; ma non l'hashish, bensì la «gangia», che è molto più debole).
Il quartiere cinese di Bombay è un labirinto incredibile, tipicamente cinese, ma senza molti
cinesi. Ci sono soprattutto indiani.
Ora il «Bombay nero» si vende nelle fumerie d'oppio. Per trovarne una non occorre avere un
indirizzo: basta avere il naso. Ci si orienta dall'odore. L'oppio si sente da molto lontano. Un odore
che fa pensare al caramello. Il paragone non è mio, ma non ne conosco di più esatti.
Quel giorno dunque me ne vado a spasso con il naso al vento in un dedalo di viuzze, e a un tratto
sento una zaffata di caramello…
Mi fermo, annuso l'aria; avanzo un po'; l'odore si precisa. C'è una casetta metà in legno e metà in
terra compressa, sulla sinistra. Somiglia a tutte le altre case, ma è lei che odora di caramello.
Busso. Nessuno risponde. Apro la porta ed entro in un lungo corridoio. In fondo, una porta.
Picchio con coraggio. Nessuna risposta. Apro. C'è una scala che scende. La infilo. Arrivo in una
cantina.
Sono in una fumeria d'oppio, del quartiere cinese di Bombay.
A prima vista, per il mio desiderio del pittoresco, il colpo è duro. Non è proprio come la
immaginavo. Per me, come per molti in Occidente senza dubbio, una fumeria assomiglia a un
ristorante cinese, con luci smorzate, legni scolpiti, pitture sui muri, eccetera; insomma, un ambiente
molto esotico.
Ce ne sono, forse, che mettono insieme questo genere di decorazione, ma la mia è piuttosto
sordida e deludente.
Piccolissima, tre metri per quattro al massimo, ha muri bisunti e tutto attorno dei tavolacci.
Davanti a ciascuno di essi, una piccola tavola con gli strumenti e una lampadina accesa. L'odore di
caramello è abominevole. Non c'è né uno spiraglio né aerazione d'alcun genere, non si vede un bel
niente. È già molto se mi riesce di distinguere sul tavolaccio di destra un vecchio scheletrito, seduto,
che indossa giacca e calzoni. È circondato da coppe. Attorno a lui, dei fumatori distesi; ce ne sono
cinque o sei, più un altro uomo chino presso un fumatore, che gli prepara la pipa. Il vecchio
scheletrito, da quel che capisco, è il padrone. L'altro, il servitore. Gli altri sono quasi nudi. E tutti i
posti sono occupati.
Il padrone mi dice che gli spiace, ma non c'è più posto. Bisogna che io aspetti.
Gli dico che sono venuto per del «Bombay nero».
Ah, bene! È un altro discorso. Quanto me ne occorre? Glielo dico. Mi serve, e pago.
E me ne vado, molto deluso. Perché d'improvviso mi ha preso una voglia furiosa di assaggiare
l'oppio. Sarà forse perché l'ho sognato da ragazzo, leggendo storie che si svolgevano in Estremo
Oriente (in un Tintin et Milou, non so più quale, non c'è una scena che si svolge in una fumeria?). O
forse sarà perché a forza di fumare il «Bombay nero» mi sono a poco a poco intossicato con l'oppio
che contiene.
Credo che la spiegazione giusta sia piuttosto questa.
A ogni modo bisogna assolutamente che fumi dell'oppio. Faccio qualche passo per la strada,
indeciso. Resto esitante per una mezz'ora. Poi, torno sui miei passi…
Impossibile ritrovare la mia fumeria! Mi sono sperduto nel dedalo delle viuzze, delle piazzole,
dei corridoi e dei cortiletti.
Sono infuriato e cammino in tutte le direzioni, quando d'improvviso eccomi al punto, si sente
odor di caramello!
Questa volta l'odore mi porta verso un'altra casa, non quella di prima. Ha la facciata più bianca
che quella delle altre.
Entro e resto perplesso. Non si vede a un palmo dal naso. A tastoni percorro un corridoio molto
lungo, forse 25 o 30 metri, fiancheggiato da porte a destra e a sinistra. Quale porta sarà?
Con le narici dilatate, percorro il corridoio nei due sensi. È la terza porta a sinistra partendo
dall'ingresso, quella che odora di più.
Ho indovinato. La fumeria è lì, subito dietro la porta. Stesso bugigattolo (tre metri per quattro al
più), stesso scenario sordido, stesso vecchio scheletrito seduto a destra in giacca e calzoni sul suo
tavolaccio, stesso servitore, stessi tipi distesi. Frugo l'ombra con avidità: evviva, c'è un posto vuoto!
A me l'oppio!
Sono un poco preoccupato per il modo in cui lo si fuma. L'ho visto fare già una volta a Karachi,
ma dal vedere al praticare direttamente su di sé ne nassa. Però non me la cavo troppo male.
Una volta disteso, comincio ad abituarmi un poco alla penombra, e vedo nettamente il servo che
viene con la sua coppa. So che lì dentro ce n'è per fare all'incirca quattro pipe, e che lui me le
preparerà.
È un vecchietto rinsecchito, tutto bianco, e mentre mi porge uno sgabello basso che metto sotto il
capo a modo di cuscino, mi accorgo che ha un lato del corpo, quello sinistro, come macerato.
La pelle è striata — spalla, braccio, avambraccio, fianco, coscia e polpaccio — da scanalature
brune, profondamente incrostate, come scavate nella carne.
Affascinato, mi stendo di fianco sul mio tavolaccio per voltarmi verso di lui, e mi faccio un po'
male al gomito. È la paglia della stuoia del tavolaccio che mi entra nella carne.
Allora, in un lampo, comprendo tutto: è la stuoia che ha conciato in quel modo il servo!
Quanti anni saranno occorsi alla stuoia per cesellare così il suo corpo? Lo saprò più tardi, quando
diventerò amico di lui e del padrone, a furia di venire e di condurre dei clienti: il servo è qui da
cinquant'anni, e da cinquant'anni, quando fuma, si corica sempre sul fianco sinistro.
Cinquantanni… Siamo nel 1969. È dunque nel 1919 che ha cominciato a stendersi lì, sopra una
stuoia, sul fianco sinistro. Dal 1919. Cinquantanni sul fianco sinistro. Al momento è chino presso la
mensola dove ha posato la coppa piena d'una pasta molle color verde-bruno: l'oppio. Sulla mensola
si trova anche una lampada a olio con un vetro cilindrico che protegge la fiamma.
Il servo prende una bacchetta d'acciaio lunga e sottile, con essa afferra una pallottolina di oppio
per metterla poi sulla fiamma. A due mani gira la bacchetta per lavorare e impastare l'oppio, per
cuocerlo al punto giusto.
Quando stima che è fatto, prende una pipa.
La sua canna è sottile, lunga come l'avambraccio. È di legno d'ebano, scolpito e incrostato di
pietre.
Da una parte, quella dove si aspira, c'è un bocchino di avorio. Dall'altra il camino. È un camino a
forma di cono, ma dalla parte opposta alla punta, non è aperto come una pipa di tabacco. Da questa
parte, c'è solo un piccolo foro.
Il servo vi pone sopra la pallina, la comprime leggermente perché vi formi come un piccolo
cuscinetto, poi riprende la bacchetta d'acciaio e perfora il cuscinetto perché l'aria dall'esterno
comunichi attraverso l'oppio con la canna della pipa.
Ciò fatto, capovolge la pipa e me la presenta, col camino verso il basso, rigirato sopra la fiamma.
Tocca a me ora fare la mia parte.
So, grosso modo, come fare. Bisogna vuotare completamente i polmoni e tirare, con
un'inspirazione lunga e lenta, lunga il più possibile.
È quel che faccio. Una fumata calda, a seconda dei momenti acre o dolciastra, invade i miei
polmoni. Io aspiro, aspiro. La cosa finisce, il cuscinetto d'oppio è andato tutto in fumo, i miei
polmoni ne sono pieni. Mi ridistendo, un po' ansioso. Il servo, di sua iniziativa, si mette a
prepararmi un'altra pipa.
Ne fumo quattro, che prendo una dopo l'altra, faticando un poco con la terza, cosa che sembra
dispiacergli parecchio, poi gli faccio segno che può bastare. Quando ne vorrò delle altre, mi dice,
non avrò che da dirglielo.
Si vedrà in seguito. Per ora, faccio l'esperimento.
Molto presto prendo il volo. Molto meglio che con l'hashish.
È davvero formidabile. Benessere, potenza, lucidità, sogni che cominciano e finiscono a volontà.
Come ho potuto finora accontentarmi di fumare l'hashish?
Quando rientro all'albergo, è deciso: finito l'hashish, passerò all'oppio. E cerco, come è naturale,
di condurre Guy con me, ma lui rifiuta. A lui l'hashish basta. È arrivato a trenta shilom al giorno, e
si trova bene, non vede perché dovrebbe cambiare. C'è niente che lo convinca, non vuole neppure
provare. Forse ha ragione lui, in fondo. È quel che mi dirò più tardi, quando sarò diventato junkie,
dopo aver assaporato tutte le droghe, anche le più violente e devastatrici, e sentendo che anche in
me la follia sta in agguato in qualche angolo del mio cervello.
Ma per ora concludo che è un fifone. È vero, d'altra parte: forse sono i fifoni che hanno ragione.
Sono destinati a vivere più a lungo!
Quanto a me, io non sono d'accordo, per la mia felicità presente. E per mia disgrazia, senza
dubbio, in futuro. Inch Allah, si è ciò che si è!…
Io esagero in tutto. E se sopravvivo devo dir grazie al fatto che sono una roccia.
Già l'indomani torno alla fumeria, e… non la trovo più. Ne provo un'altra. Poi il giorno seguente
un'altra ancora. Ma è quella in cui ho fumato la mia prima pipa che io voglio. Perché? Non lo so.
Forse a causa dei due vecchi manifesti rappresentanti l'uno Hong Kong e l'altro Gandhi, che mi
hanno fornito lo spunto per le mie prime fantasticherie? È possibile. Sarei portato a crederlo, perché
poi, ritrovata la fumeria, ho fatto di tutto perché il proprietario me li regalasse, in cambio della
pubblicità che gli avevo fatto. E lui ha finito per farlo. Li ho ancora adesso, e li guardo sovente,
appesi al muro della mia cameretta, oggi, a Clamart, aspettando che il caso mi rilanci e mi conduca
su una nuova strada capace di tentarmi e di eccitarmi, il che sarà piuttosto difficile, poiché ora ho
bisogno di "pimenti" molto molto forti, da quando sono ritornato…
Finalmente un giorno ritrovo la mia casa bianca in fondo al labirinto. E disteso sulla stuoia,
aiutato dal servo col fianco macerato, ritrovo più forti che le altre volte le tenebrose delizie della
mia prima pipa.
Uscendo, mi procuro dei punti di riferimento. Ma mi occorrerà parecchio tempo per ritrovare la
casa tutte le volte senza sbagliare, talmente è complicato il dedalo delle stradicciole del quartiere
cinese di Bombay. Dopo cinque o sei volte, io tremerò di rabbia e d'impazienza percorrendo le
viuzze che s'incrociano, che si tagliano e non finiscono mai, allontanandomi inesplicabilmente dal
piccolo paradiso nero, di tre metri per quattro, in cui l'oppio delizioso mi attende per due rupie alla
coppa.
Alla lunga, un sesto senso mi aiuterà, e io finirò per trovare ogni giorno la casa bianca e il suo
corridoio ombroso la cui terza porta a sinistra s'apre, cigolando, sul sorriso sdentato del servo
macerato, al quale getto il mio denaro, sollecitandolo a fare presto ciò di cui ho bisogno.
Poi, mentre egli impasta, gira e rigira la morbida pallina del benefico veleno, io mi svesto molto
in fretta, perché so che presto suderò a goccioloni, tanto calore mi darà l'oppio.
Tengo addosso solo lo slip, e nella penombra in cui nessuno mi vede, solo con la mia frenesia,
comincio ad aspirare, lentamente, profondamente, senza più commettere errori, dalla cannuccia
d'ebano, stringendo il bocchino d'avorio tra le labbra.
Al momento sono arrivato a dieci coppe al giorno, cioè quaranta pipe. Più avanti, arriverò anche
a quindici coppe, ciò che è, e lo so bene, un'enormità. Nella fumeria mi si rispetta. Sono un buon
cliente, pago sempre e fumo bene. M'installo lì per giornate e notti intere. Mi faccio portare da
mangiare e bere. Vivo lì dentro. Vado all'albergo solo per dormire.
Sempre più spesso porto con me ragazzi e ragazze. E prendiamo insieme gigantesche
ubriacature. Uscendo facciamo qualunque cosa, cantiamo, schiamazziamo, andiamo a bagnarci in
mare. E l'alba di solito ci trova intenti a fare l'amore sulla spiaggia dove si frangono le onde
dell'oceano Indiano.
Ben presto la mia cintura, sollecitata con tanta intensità, non pesa più molto. Devo assolutamente
trovare una soluzione.
Il cinema è lì per offrirmela. Tutti gli hippies lo sanno, quando sono in India: è il paese che ha la
seconda produzione cinematografica del mondo, dopo il Giappone. Bombay è piena di studi, e i
cineasti hanno sovente bisogno di europei come comparse, per scene di cabaret in Europa, o per
ruoli di gangsters eccetera.
Perciò tiro fuori la mia famosa tenuta di gala bianca dal sacco, e mi presento a uno «studio». Non
ho difficoltà a farmi ingaggiare, col mio grugno che si nota da lontano, la mia taglia e la mia
andatura gigionesca.
Guy ha meno successo. Soprattutto perché fa troppo l'imbecille. Fuma soltanto hashish, ma
quando è «partito» (e cioè sempre) commette sciocchezze piramidali. Ed è un grosso errore.
Bisogna saper restare lucidi, quando è necessario…
Dunque vengo assunto, e presto guadagno bene: da 40 a rupie al giorno. È una cifra favolosa per
un operaio ordinario indiano, che come ho già detto guadagna in media una rupia al giorno.
Presto negli studi sono ricercato, e divento più che una comparsa. Ci devono essere dei film in
cui il mio ceffo appare in primo piano, accanto agli attori principali!
Va da sé che sul set è proibito fumare. Ma noi non ci badiamo, e troviamo sempre il modo di
arrotolarci un joint tra una ripresa e l'altra, dato che non è possibile servirci di uno shilom e tanto
meno fumare l'oppio.
E lì, negli studi, faccio conoscenza con colei alla quale devo la mia partenza per Katmandu, colei
che mi ha strappato ai miei progetti di giro del mondo.
Si chiama Agathe.
Con Agathe passo il periodo, forse più grande, di felicità della mia vita. Fuma oppio come me.
Prendiamo presto l'abitudine di andare insieme alla fumeria. Si passeggia insieme per giornate
intere, per notti intere. Non possiamo più fare a meno l'uno dell'altra. A volte ci abbracciamo come
fanno le bestie, non importa dove, sotto un portico, in un giardino pubblico, in mezzo agli altri che
dormono, o sulla spiaggia. A volte siamo molto sentimentali, molto dolci, molto teneri. Tutto è
all'estremo, eccessivo, demenziale. Ci si scatena, ci si aggredisce. L'oppio ci rende un po'
masochisti. Non siamo più noi, non sappiamo quel che facciamo.
Guy invece ha problemi sentimentali più classici. In questo mondo di hippies in cui tutto si fa
secondo natura, in cui quando un ragazzo ha voglia d'una ragazza glielo dice, o le fa un segno,
niente più, e se lei è d'accordo si alza e viene, lui continua a usare le maniere europee. Lui fa la
corte come si fa in Europa. Così fa ridere tutti, e non ottiene un bel niente. Gli manca solo di fare il
baciamano, inventa complicati sistemi d'approccio, si studia sorrisi e dichiarazioni. E tutto tra i
vapori della droga, senza rendersi conto che è ridicolo. Povero Guy, non si adatterà mai
all'ambiente.
Già negli studi del cinema. Non riesco mai a ricordare senza ridere i sudori freddi che Agathe e
io facciamo prendere a Guy mentre si gira (in qualche modo ero riuscito a fargli ottenere un ruolo o
due). Lei e io abbiamo trovato un piccolo ridotto fuori mano, e ne abbiamo fatto il nostro rifugio.
Tutte le volte che abbiamo un momento libero tra due riprese, andiamo e ci sprofondiamo in esso, e
giù con la droga!
Poche coperte in un angolo ci servono da letto. Drogati come siamo in continuità, non smettiamo
mai di fare l'amore.
Perché l'oppio, nei primi tempi che lo si prende, è un eccitante formidabile. Poi, è un'altra cosa…
Guy monta la guardia. Trema tutte le volte che qualcuno passa nel corridoio. Ci sommerge con i
suoi «Sbrigatevi! Tocca a voi!». Quando è il momento di comparire sul set, lo mandiamo a spasso
ridendo, e arriviamo tranquilli, col naso al vento, puzzando di droga lontano un miglio, all'ultimo
momento, appena in tempo per fare gli istrioni davanti alle cineprese, e poi di nuovo, appena
terminata la nostra scena, sprofondiamo nel nostro nido d'amore. Quando siamo veramente spossati,
ci mettiamo a dipingere.
Agathe ha portato delle tele e dei pennelli, e dipingiamo quadri incredibili, del tutto demenziali,
capaci di far arrossire un reggimento della legione straniera. E Guy sta alla porta, ci supplica di fare
attenzione, ci ripete che finiremo per farci prendere e mettere in prigione.
Insomma è la vera follia, il sogno in azione, il delirio formidabile. La felicità!
Neanche all'albergo lo sfortunato Guy è a suo agio. Perché tutti si comportano alla nostra
maniera. Quando lui fa la corte a una ragazza, un altro ragazzo la guarda, lei lo guarda. Lui le viene
vicino, l'abbraccia, la interroga con gli occhi. Lei fa di sì con la testa, e i due se ne vanno piantando
in asso Guy col suo corteggiamento di civilizzato inutile e senza effetto, in mezzo alle risate di tutti.
Un'altra cosa che smonta Guy è il modo in cui i drogati, attorno a noi, si procurano il denaro. Per
lui, il denaro si guadagna lavorando. Invece dappertutto ci sono di quelli che ne trovano e
evidentemente non lavorano affatto.
Il tipo più stupefacente — e bisogna ammettere che ci stuzzica un po' tutti — è William, un
inglese rossiccio che è a Bombay da parecchi anni. È un junkie, ha bisogno delle sue otto o dieci
iniezioni al giorno, ma ecco la cosa sorprendente: è un junkie solido e ben piantato. Malgrado la
droga, è rimasto muscoloso, ed è una cosa rarissima tra i junkie. Chiaro che ha bisogno di molto
denaro, anche se la droga a Bombay è lontana dall'attingere i prezzi esorbitanti dell'Europa. A sera
esce per non molto tempo, un'ora o due, e ritorna sempre con le sue 30 o 40 rupie. Dove le prende?
Nessuno lo sa. Va fino al porto. Deve chiedere l'elemosina. Non se ne sa niente. Ma quando torna,
ha sempre di che pagare le sue dieci fiale di morfina per il giorno dopo.
Se mi fermo a parlare di lui, è perché avrà una parte in un momento della mia storia. E poi è
divertente, perché ha un modo poco comune di drogarsi.
Lo si è ribattezzato «Pique du nez» (praticamente intraducibile; in italiano potrebbe somigliare a
"Picchiata col naso"). Quando s'è fatto la sua iniezione, resta sempre lì, seduto sul bordo del letto,
molte volte senza togliersi la siringa dalla vena. E allora si mette a ciondolare con la testa. A poco a
poco la testa cade. Si risveglia di soprassalto, e ricomincia. A volte la testa piomba giù, più bassa del
pagliericcio, talmente scende in picchiata col naso. E resta lì, piegato in due, immobile, in
equilibrio, senza cadere.
Due altri «speciali» sono francesi di vent'anni o poco più, biondissimi, due ragazzi del Nord.
Non un briciolo di intelligenza. Non sono certo loro gli inventori del filo per tagliare il burro.
Grazie a loro, un giorno mi troverò ingolfato nello sterco, nel senso letterale della parola!
Ho avuto la sfortuna di rifilare a uno di loro una puttana indiana. Una sagoma incredibile. Una
vera botte (è del resto il soprannome che le danno). Una ragazza enorme. Un pallone di grasso.
Impomatata e impiastricciata come non ne avevo viste mai. E va a prendersi una cotta proprio per
me. Mi ripete senza sosta che vuole lavorare per me. Confesso che la cosa non mi spiacerebbe in
linea di massima, ma lei è troppo racchia. Si potrebbe anche rischiare di far lavorare una ragazza,
ma che sia almeno passabile!
Così un giorno, per scrollarmela, la dirotto verso Jeannot, uno dei due francesi. Miracolo, a lei il
ragazzo piace. Ed ecco che si mette a portargli tutte le mattine il denaro guadagnato nella notte. Io
ne sono contento. Così almeno lui e il suo compagno smetteranno di scroccarmi soldi.
Jeannot è felice. La «botte» lo nutre, lo veste, gli paga la droga. C'è però il rovescio della
medaglia, bisogna che lui almeno di tanto in tanto la accontenti un poco. Ma lui non ce la fa. Ha un
bel tentare tutti i trucchi, è molto se è riuscito a farla felice due o tre volte in tutto.
La ragazza vive in una stamberga dal tetto di latta ondulata, in fondo a una bidonville. Lì riceve i
clienti. E lì fa anche le sue devozioni, come tutti gli indiani. In un angolo della stamberga ha messo
un altarino, statuette, candeline, immaginette, eccetera. All'ora della preghiera, si impiastriccia di
cipria e di petali di fiori.
E il mostro entra in preghiera.
L'effetto è irresistibile. Quando sono annoiato, vado a vederla, e non mi stanco mai dello
spettacolo.
La galleria dei tipi curiosi è molto vasta. C'è per esempio un vecchio indiano, piccolo e magro
come un chiodo, che peserà 35 chili al massimo. Arriva con un suo compagno, sempre lo stesso, un
albino dai capelli bianchi e dagli occhi rossi. Prendono posto accanto alla ragazza e pregano tutt'e
tre, coperti di cipria e di petali. Poi i due amici ritornano da me all'albergo, e fumano.
Il vecchio è straordinario. Ha un modo di fumare lo shilom che non ho mai visto in altri. Magro
come è, ha naturalmente le guance molto scavate, e nient'altro che pelle sulle ossa.
Ma quando prende lo shilom, lo posa ritualmente sulla fronte, e si mette a tossicchiare per
svuotarsi i polmoni prima di aspirare la fumata, allora è unico. Lo stomaco (è sempre a torso nudo,
perciò lo si vede bene) si restringe talmente che di profilo non è più largo che lo spessore della
colonna vertebrale. Lo si potrebbe prendere per la vita con due dita. Quanto alle sue guance, esse si
scavano tanto che sembra le abbia ingoiate. Fa quasi paura.
Poi aspira. E allora con un colpo solo svuota tutto lo shilom. Non ho mai visto nulla di simile.
Non so dove metta la sua fumata, ma il fatto è questo: mentre a chiunque occorrono parecchie
aspirazioni per consumare uno shilom, lui, il vecchio di 35 chili, con una sola fumata si tira dentro
tutto. È finita, lo shilom è bell'e pronto per essere ricaricato.
E la sfilata nell'albergo continua. Tutte le nazionalità, tutte le razze, passano di lì.
Ricorda, tra gli altri, un vietnamita che ha una scimmia sulla spalla. Le fa fumare l'oppio. Ciò
rende la scimmia completamente pazza.
Essa salta dappertutto, vezzeggia tutti, carezza le ragazze. Credo sia diventata realmente pazza,
questa scimmia.
E il vietnamita non sta molto meglio.
4.
Un giorno le cose si mettono male per me.
Vedo arrivare un indiano grande e grosso, e furioso, con gli occhi iniettati di sangue, che mi si
pianta davanti e dice che devo fare i conti con lui.
Farfuglia un inglese spaventoso, ma in qualche maniera riesco a capire che è il magnaccia della
«botte», che è di ritorno da un viaggio, che la ragazza gli ha dichiarato che io, mi occupavo di lei.
Mi minaccia. Non solo, mi intima di non mettere più piede nella catapecchia della ragazza, e
pretende che gli paghi un risarcimento.
Gli rispondo che la sua ragazza può tenersela, che è troppo racchia per me, che se qualcuno se ne
è occupato durante la sua assenza non sono stato io, ma un certo Jeannot, al quale farà bene a
rivolgersi.
Lui non vuole credere una parola delle mie spiegazioni. La «botte» gli ha parlato di me (andate a
capire il perché), è con me che lui ce l'ha, e non con altri.
Questa sera stessa devo versargli il risarcimento: 500 rupie.
È troppo! Mi alzo, lo prendo per le spalle e lo sbatto fuori dicendogli che non voglio più
incontrarlo sulla mia strada. Altrimenti…
Sparisce mugugnando minacce.
Il giorno dopo, di mattino, vado nella bidonville da un rivenditore di oppio. È un cinese che abita
ai limiti della bidonville, non molto lontano dalla Gate Way e dai quartieri ricchi, sulla spiaggia.
Non mi ero mai aggirato da quelle parti. Quel che vedo, nelle prime stradicciole, quasi mi fa dar di
volta allo stomaco, tanto è sporco, marcio e pestilenziale.
Prendo dal cinese la mia provvista di oppio, esco, e chi vedo nella viuzza, deciso a chiudermi il
rientro in città? Il mio indiano, che mi ha seguito.
Ha un coltello in mano…
Anch'io, si capisce, ho il mio. Non me ne separo mai.
Ma non sono matto. Non ho nessuna voglia di imbarcarmi in una zuffa tanto stupida, né di
prendermi una coltellata, per una puttana grassa e pidocchiosa.
Mi giro sui tacchi e mi butto nella bidonville. Penso che non mi sarà difficile, nel dedalo delle
viuzze, seminare quel matto furioso.
Vado avanti, e finisco nella più incredibile «corte dei miracoli» che abbia mai visto.
Una montagna di immondizie. Le viuzze sono degli scarichi. Gli scarichi sono viuzze.
Dappertutto brulicano pezzenti, monelli coperti di pustole, animali morti e in putrefazione. Avanzo
tappandomi il naso.
Poi le viuzze finiscono. Non so più dove andare. Non vedo neppure più il cielo, tanto ci sono, al
di sopra di me, tappezzerie, teloni, cartoni e latte ondulate.
Sto sguazzando in una cloaca infetta. I topi mi passano tra le gambe. Si sente dappertutto l'urina,
lo sterco e la morte.
E dietro a me, l'indiano mi segue sempre.
Inciampo in un corpo di ragazzo nudo, col ventre gonfio e un nugolo di mosche che gli
succhiano l'ombelico. Taglio a sinistra e mi trovo in una baracca. Sopra un giaciglio, un vecchio
rantola. Attorno a lui delle donne pregano. Si sentono, tra un rantolo e l'altro, dei bambini che
piangono. Come luce, quella debole e fumosa di alcune candele. Mi guardano senza dire niente.
Esco. L'indiano non c'è più.
Finalmente ce l'ho fatta, l'ho seminato…
Ma non è finita, ora mi tocca ritrovare la strada. Il che è un altro paio di maniche. Mi sono del
tutto smarrito.
Allora approfitto d'un piccolo cortile per alzare il naso al cielo e cercare dove si trova il sole.
Bene, sono all'incirca le dieci del mattino. Il sole è da questa parte. Il mare dev'essere dall'altra.
Mi avvio in questa direzione. Quando avrò trovato il mare, non avrò che da costeggiare il molo,
o la spiaggia, secondo quel che trovo, e neanche il diavolo potrà impedirmi di rintracciare da
qualche parte la mia strada. La bidonville a un certo punto dovrà pur finire!
Infatti dopo un quarto d'ora arrivo al mare, su una specie di terrapieno con reti da pesca.
Appena arrivo sul terrapieno, quasi mi metto a vomitare.
Dappertutto, per terra, negli angoli, sulle rocce, sulla sabbia dove battono dolcemente le onde, c'è
dello sterco.
Mucchi di sterco, spessi strati, fumanti al sole.
E al di sopra, volano le mosche. Nugoli di mosche azzurre, che ronzano a migliaia attorno a me,
stordite dal puzzo insostenibile.
Resto lì interdetto, cercando di scrollare penosamente dagli stivali lo sterco a ogni passo,
domandandomi come uscire da quest'incubo, quando d'improvviso ricevo nella schiena una violenta
spinta.
Sono sbalzato in avanti, per poco non finisco nella cloaca. Mi volto di scatto.
Il mio indiano è lì, lo sguardo più torvo che mai. E ora siamo completamente soli!
In fretta estraggo il coltello, e lo aspetto.
Lui gira attorno a me. È a piedi nudi. Vedo i suoi piedi sguazzare nello sterco. Di tanto in tanto,
con il dorso della mano scaccia una mosca. Non dice una parola.
È chiaro, vuole farmi fuori.
E la danza comincia. Saltando a destra e a sinistra, schivando, volteggiando, cominciamo le
prime schermaglie.
Andiamo avanti così per cinque buoni minuti, e un paio di volte corro il rischio di farmi infilzare,
quando d'improvviso il mio uomo scivola e sprofonda in tutta la sua lunghezza. Mi precipito su di
lui per disarmarlo. Mi va male, scivolo a mia volta e gli rovino addosso.
Ci arrotoliamo due o tre volte come maiali, ansimando, ingoiando sterco a bocca piena.
Cerco di disarmarlo. Ma è forte, e resiste come un demonio.
Di colpo, non riesco a capire perché, sento che si va afflosciando. Emette un sospiro, riversa gli
occhi, è scosso da tremiti. S'irrigidisce.
Mi alzo… Non si muove più. Che cosa gli è accaduto?
Lo smuovo col piede… È morto!
E mentre il suo corpo si piega un poco sul fianco, vedo apparire in una buca, nello sterco,
prodotta da una pietra che l'indiano deve aver rimosso con la schiena, un nido di serpenti che
brulicano, piccolissimi, lunghi appena un dito!
Tremando di disgusto e di nausea, corro come un folle fino al mare e mi tuffo, nuotando a grandi
bracciate verso il largo, grattandomi, stropicciandomi, sputando, cercando disperatamente di
scrollarmi di dosso tutta questo sterco che mi ricopre dalla testa ai piedi…
Quando rientro all'albergo, due ore più tardi, dopo aver aggirato la bidonville lungo il litorale,
sussulto ancora per il voltastomaco e per la fifa provata.
La camera è vuota. Non c'è che «Pique du nez», tutto solo.
Mentre controllo che il denaro della mia cintura non si sia inzuppato (ma no, la plastica in cui è
avvolto l'ha protetto bene), gli racconto come è andata. Lui scuote placidamente la testa, con l'aria
di uno che ne ha viste ben altre. E mi dichiara solennemente, mentre mi svesto per lavarmi sotto
l'abbondante getto d'acqua del rubinetto:
«È il momento di festeggiare la tua vittoria. Che ne diresti di una buona iniezione di morfina?».
Non l'ho mai provata. Ma ha ragione, l'occasione mi sembra buona.
Sorrido. Almeno servirà a cacciar via la voglia di vomitare.
«Pique du nez» mi tira vicino a sé, sul suo pagliericcio. Prepara la siringa, mi lega il braccio…
E, per la prima volta in vita mia, provo il piccolo dolore acuto dell'ago che entra nelle mie vene.
«Aspetta un poco — mi dice "Pique du nez", spingendo lentamente lo stantuffo. — Sarà una
cosa extra».
Io aspetto. Non succede niente. Aspetto ancora…
E una violenta voglia di vomitare mi prende d'improvviso!
Devo alzarmi precipitosamente per correre alla latrina. Oh, sì: per essere extra, è stata davvero
extra!
«Non è nulla — conclude tranquillamente "Pique du nez" mentre si fa la sua iniezione. — La
prossima funzionerà. Hai avuto troppe emozioni, e non è quel che ci vuole per la morfina».
Mi addormento, mentre lui si mette lentamente a ciondolare col naso in giù.
5.
A Bombay manca poco che una mattina all'alba non la finisca una volta per sempre con
l'avventura, divorato da una muta di molossi. E tutto a causa di un giornalista inglese.
L'affare incomincia in una fumosa «casa del tè». Discutiamo a un tavolo, quando un giovanotto
si siede con noi. Non siamo gente che dia troppa importanza alle presentazioni. Ci basta che uno sia
giovane, trasandato nel vestire quanto basta, un aria disinvolta, e lo accettiamo. Non abbiamo
bisogno di altro biglietto da visita. Gli si fa un po' di posto, ed è tutto.
Il nuovo venuto si sistema, dopo aver posato vicino a sé un piccolo sacco di cuoio rigido che
portava a bandoliera.
Stiamo fumando lo shilom. Quando viene il suo turno, aspira come gli altri. Ma è un novellino.
Lo si vede dal modo in cui prende lo shilom. E poi fa una nuvola di fumo invece di mandarlo giù, e
il poco che trangugia basta a causargli un colpo di tosse.
Tutti ridono. Ma non è un riso cattivo. La prima volta, anche noi abbiamo tossito come lui.
Prendo lo shilom e gli spiego come debba fare. Lo aiuto. Finisce per cavarsela da solo, quasi
correttamente. Ma d'un colpo svuota lo stomaco vomitando tutto sul tavolo!
Questa volta la risata è generale e fragorosa, e tutti ci alziamo, come un volo di passeri, per
cambiare di tavolo, tirandoci dietro l'individuo per le spalle. È veramente messo male. Al punto che
gli propongo di ricondurlo a casa. Accetta senza farsi pregare, e lo conduco con un tassì.
È alloggiato in un piccolo albergo non molto lontano dal mio. Quando vi arriviamo, sta già
meglio. E tutto confuso, per ringraziarmi, m'invita a bere un bicchiere al bar del suo albergo.
Lì mi spiega che è un giornalista free lance, che lavora cioè per suo conto e vende i suoi servizi e
le foto ai giornali. È venuto in India per fare un servizio sugli hippies. Conta di seguirli fino a
Katmandu. Ma se ne lamenta: li trova poco portati a collaborare, e diffidenti. Ha l'impressione che
non riuscirà a concludere molto di buono, e che avrà sprecato inutilmente i soldi del viaggio.
«Ciò che mi occorrerebbe — mi dice — è un grosso colpo. Uno scoop un'esclusiva. Ma è
difficile farlo. Oh!, uno ci sarebbe da fare, ma confesso che mi fa paura. Eppure renderebbe
parecchio…».
To', sento un orecchio che fischia.
«E quale sarebbe, questo colpo?», dico distrattamente.
«Un colpo fotografico, essenzialmente. Un colpo che non è mai stato fatto: fotografare una torre
della morte. Ma da vicino, da sopra. Certo ne verrebbe fuori un mucchio di foto non pubblicabili, a
causa dell'orrore. Ma su un mucchio, se ne potrebbero vendere parecchie, e un reportage simile
renderebbe bene».
Ho già capito quel che vuole fare, o meglio quel che ha paura di fare, e so bene il perché. È
molto, molto arrischiato, e del resto nessuno finora l'ha fatto.
Bombay è il focolaio di una setta religiosa, quella dei Parsi, che hanno la caratteristica di trattare
i morti in modo del tutto speciale.
Non seppelliscono i loro morti, non li bruciano sopra i roghi. Li espongono sopra torri di pietra, e
li abbandonano agli avvoltoi.
Ciò avviene poco fuori della città, sul terreno d'un monastero inviolabile. La proprietà è cintata
da alte mura.
Nessuno, a parte i monaci, ha il diritto di varcare questo recinto. Tutto quel che se ne sa è che dei
molossi fanno buona guardia nei boschi che circondano la collina dove si alzano le due torri della
morte, e che per di più ci sono delle tagliole.
E i monaci ammazzano sul posto chiunque venga sorpreso nel recinto, se i molossi non l'hanno
dilaniato prima.
Brr! Io arrotondo la bocca ed emetto un fischio.
«Ebbene — gli dico, — adesso capisco perché tu esiti».
Lui scuote la testa.
«Si, è un grosso rischio. Ma è un vero peccato. Uno scoop così, lo si potrebbe vendere a 1500
sterline» (più di due milioni di lire italiane).
Caspita! È davvero una bella somma. Così bella che, dopo un momento di silenzio, gli domando:
«Supponiamo che tu faccia il colpo e che esso riesca. Dovresti tornartene a casa, in Inghilterra,
per vendere le foto e l'articolo?».
«No. Mi rivolgerei agli uffici dei corrispondenti di qui, e lascerei fare a loro. Essi
telefonerebbero a Londra e io venderei tutto al miglior offerente, pronta cassa».
«Questo cambia tutto!», gli rispondo.
«Perché?».
Mi chino un po' verso di lui, e lo guardo negli occhi.
«Se facessimo il colpo insieme, divideremmo, fifty-fifty?».
Scoppia a ridere:
«Sì, è chiaro; ma più ci penso e meno ho voglia di provarci. Ci tengo alla pelle».
Al contrario, l'idea mi eccita. Non tanto per il denaro da guadagnare. Al denaro ci penso
seriamente, non c'è dubbio: 750 sterline, in India, sono una fortuna. Ma è soprattutto la mia testa
calda da «cascador» che si è risvegliata. Come sempre, quando c'è un colpo da fare che finora
nessuno ha fatto, è più forte di me, mi stuzzica, bisogna che mi ci butti a capofitto. Su questo punto
non cambierò mai. E sento che un giorno ci lascerò la pelle.
«Ascoltami — dico a Roy (è il suo nome). — Senza impegnarci in niente, possiamo andar a
visitare i posti, per vedere se per caso non c'è una smagliatura nel sistema di sorveglianza. Non si sa
mai».
Sorride.
«Be', se vuoi — mi dice. — Ma solo per farti piacere».
Un'ora più tardi, dopo aver lasciato una piccola strada in terra battuta e camminato 200 o 300
metri lungo un sentiero che attraversa una specie di giungla, arriviamo ai piedi d'un muro di pietra.
È molto alto, quasi 4 metri. Le pietre sono grossi cubi posti l'uno sopra l'altro, senza cemento.
Guardando con attenzione, scopriamo a 2 metri dal suolo una scanalatura dove sarebbe possibile
far entrare un piede. Un'altra è evidente un po' più a sinistra, a un metro circa dalla prima.
«Sali sulle mie spalle», dico a Roy.
Ci prova. È alto ma sottile, e perciò leggero.
Per due volte manca la presa e ricade. La terza volta riesce ad aggrapparsi.
Lo sento lanciare un fischio.
«È peggio di quel che credevo — mi fa. — C'è un altro sbarramento. Un reticolato di filo
spinato. E in alto si piega verso di noi. Si può passare il muro, ma non il reticolato.
«Lascia vedere a me — gli dico. — Torna giù».
Lui salta a terra, lasciandosi penzolare. Salgo a mia volta sulle sue spalle e scalo il muro.
Non ha raccontato frottole. Il reticolato di filo spinato è impressionante. Ma subito osservo i
tralicci. Sono di legno, molto grossi, terminanti con un braccio di sostegno orizzontale che regge il
filo spinato rivolto verso l'esterno.
In lontananza intravedo fra due alberi, a 600-700 metri, una collina, e dietro di essa la sommità
d'una torre di pietra, sormontata da un volo di avvoltoi. È di sicuro una delle due torri della morte.
Una corda con un nodo scorsoio, ecco quel che ci occorre. Si stringerà il cappio attorno
all'estremità del sostegno, e ci si arrampicherà sulla fune, aiutandosi con i piedi, ben protetti da
scarpe robuste, sopra il filo spinato, tra le sue spine. Sarà difficile, ma neppure troppo, mettersi in
equilibrio sul sostegno orizzontale. E poi si scenderà dall'altra parte tenendosi con le mani al
traliccio e con i piedi al filo spinato. Ritengo che si possa fare.
È quel che spiego a Roy. Lui ammette che è possibile, ma arriccia il naso:
«Restano le torri. Sono alte: 7 o 8 metri, sembra».
«Bisogna che siamo in tre, ecco tutto».
«D'accordo, ma chi?».
«Non preoccuparti, si troverà».
«Bene, io sono d'accordo. Ma ci sono anche le tagliole».
«Si farà attenzione».
«Sì, ma tu hai dimenticato un'altra cosa: ci sono i cani… Come farai a evitarli?».
Già. Ma ecco mi viene in mente un ricordo d'infanzia. C'era un canile nel villaggio in cui
passavo le vacanze. E nell'ora in cui il proprietario dava da mangiare ai cani, si sentiva prima un
fischio e poi un assordante concerto di latrati, ai quali succedevano sordi grugniti, per tutto il tempo
che durava il pasto delle bestie.
«La sola difficoltà — dico — sono i cani. Bisogna assolutamente sapere a che ora li nutrono. Di
sicuro in quel momento li si chiama, in un modo o nell'altro, e (credi a me, che ho conosciuto un
canile) allora li si sente molto bene, i cani, quando sono invitati a tavola e accettano l'invito.
«Perciò, ragioniamo con logica. Durante il giorno, ci devono essere anche i monaci a sorvegliare.
Di notte invece devono affidare la guardia esclusivamente ai cani. Ora qual è il modo migliore per
renderli aggressivi e il più possibile cattivi?
È di farli vigilare a digiuno. Secondo me, dev'essere al mattino che li fanno mangiare.
«Allora, se vuoi, facciamo i turni. Sono le cinque della sera, io resto qui in ascolto. Tu vieni a
sostituirmi verso l'una di notte. Okay?».
«Okay! Ma se non ti dispiace, preferirei restare io. Vieni tu a rilevarmi all'una».
«D'accordo! A presto. Intanto mi metto a cercare l'uomo che ci vuole per noi».
Me ne vado pensando che se Roy preferisce restare ora, è perché ha paura di notte, il che non è
un buon segno. È perciò importantissimo che, se qualcuno dovesse venir meno, io mi trovi un uomo
sicuro. Guy? Neanche a pensarci, non ha abbastanza fegato. L'ideale sarebbe un tipo come Hans, un
atletico svizzero di Zurigo, i cui occhi — come direbbe Alphonse Allais — non conoscono i rigori
delle basse temperature. L'ho visto bene, un giorno di baruffe con i poliziotti di Bombay.
Si, bisogna che trovi Hans.
Mi va bene, mi imbatto in lui nel piccolo ristorante dove di solito pranza. È subito d'accordo,
anzi è entusiasta.
«Voglio venirci anch'io, conducetemi», supplica Marlène, la ragazza che è con lui.
La valuto con un colpo d'occhio. È una svizzera grande e bionda, tipo campionessa olimpica di
slalom, con delle spalle e dei polpacci così.
«Ma sicuro — mi dice Hans. — Possiamo prenderla, credimi».
«Okay, verrà anche Marlène».
All'una ritorno sotto il muro. Roy non ha sentito che qualche latrato, niente di ciò che ci
aspettiamo. Io lo sostituisco, e mi metto seduto, con la schiena contro il muro. Accendo uno shilom
e comincio ad attendere.
Il silenzio della notte è impressionante. Di tanto in tanto qualche scricchiolio, qualche ansimare
di bestie che cacciano. Dall'altra parte, non si sente nulla. Neppure il più piccolo abbaiare. Le ore
passano. Verso le sei, il cielo sbianca. Qualche uccello comincia a cinguettare…
E d'improvviso, un fischio lontano, molto acuto, molto lungo, e subito dopo un concerto di latrati
rauchi, alcuni dei quali partono da 20 metri da me, appena dietro il muro.
Diamine! A giudicare dalle loro voci, si deve trattare di molossi formidabili…
Ma ho indovinato: è proprio al mattino che li nutrono.
Sono le sei e dieci. Nel giro di qualche minuto, a una distanza che valuto — a orecchio —
attorno al chilometro, forse più che meno, sento che i latrati convergono, si raggruppano, e a poco a
poco si placano.
E poi non è più possibile sentire niente, perché il sole è sorto e gli uccelli ora tutti svegli fanno
uno schiamazzo infernale.
Così non so quanto dura il pasto dei cani, ma lo valuto una ventina o una trentina di minuti. Poi,
dovranno pur fare una piccola siesta digestiva. Ritengo che avremo quasi un'ora di tranquillità tutta
per noi.
Tornato a Bombay, racconto tutto ai miei complici. E decidiamo di ritrovarci a mezzanotte nel
mio albergo. Di lì andremo in tassì fino all'uscita della città, e faremo il resto a piedi.
Prendo da parte Roy:
«Attento — gli dico. — Gli altri non sanno che noi due ci dividiamo il guadagno. Essi credono
che tu tenti il colpo solo per il gusto di farlo. Noi ti si aiuta da amici, per niente, per divertimento e
basta».
«Per divertimento? — mormora lui. — Bel divertimento!».
«Di' un po', non vorrai mica tirarti indietro, ora che tutto è pronto!».
«No, no, vengo», protesta senza troppo entusiasmo.
Questo qui sta per piantarmi in asso, lo sento, ne sono sicuro. E sarebbe il colmo: è lui che deve
prendere le foto!
«Bene — gli dico freddamente. — Ora noi andiamo a comperare una corda e una sbarretta di
ferro per fare l'uncino che servirà ad agganciare in alto il muro del recinto e la torre. E tu, non
dimenticare di preparare la tua macchina fotografica».
A mezzogiorno ho tutto l'occorrente, e rientro per andare a dormire. Casco dal sonno.
Giorno X, ore cinque del mattino. Ci siamo tutt'e quattro, Hans, Marlène, Roy e io, sotto il muro.
Aspettando che si scateni la sinfonia dei latrati, ricerchiamo con una lampadina tascabile le
fessure del muro, e le allarghiamo una per una, costruendo una specie di gradinata rudimentale, con
l'aiuto dell'uncino di ferro.
Hans, Marlène e io, siamo pronti a entrare in azione. Anche Roy sembra deciso. È un po' troppo
silenzioso, ma credo che la nostra sicurezza debba contagiarlo.
Un po' prima delle sei, aiutandoci gli uni con gli altri, cercando di evitare ogni rumore,
agganciamo l'uncino su in alto, fra due pietre. Ha preso bene, tiene. Ci si arrampicherà in fretta.
Il cielo si sta schiarendo. Le sei… Sei e cinque… Sei e dieci.
Ancora due minuti, e il colpo di fischietto lacera l'aria. Subito un latrato straziante, a 50 metri da
noi.
Ancora qualche minuto, e tutti i cani sono di sicuro laggiù, col naso nella zuppa.
«Presto, andiamo!», dico.
Hans si arrampica per primo, poi Marlène, poi è il turno di Roy. Getta la macchina fotografica a
tracolla, comincia a issarsi, mette un piede nella prima fessura, e… ridiscende.
«Non ce la faccio, Charles — mi dice a testa bassa. — Proprio non ce la faccio».
E lo vedo tremare. Questa è troppo grossa!
Lo esorto, a denti stretti:
«Fatti animo, Roy, ritenta. Sali. Siamo tutti con te».
Niente da fare. Resta lì impalato, paralizzato dalla paura. È inutile insistere, non ne caverò nulla.
«Dammi la macchina».
Esita, e gli strappo la macchina dalle mani. È una Nikon, grandangolo. Ne ho avuta una così.
«In fretta, mettila a posto».
«È già pronta. C'è solo da scattare».
«Apertura? Tempo?».
«Non hai che da puntare l'obiettivo. Guarda».
In fretta mi fa vedere. È semplice, ho capito. Mi getto la macchina a bandoliera e salgo a mia
volta, lasciando Roy a terra.
Hans e Marlène sono già saltati dall'altra parte. Annuncio loro, furibondo:
«Roy non se l'è sentita».
Hans scrolla le spalle, Marlène sghignazza.
Il nodo scorsoio è già pronto. Al terzo tentativo, Hans lo aggancia e lo fissa con uno strattone
secco. Siamo tutti in blue-jeans di tela robusta, e con stivali. Hans arriva facilmente in cima, si
rialza sul sostegno orizzontale e ridiscende dall'altra parte, a ritroso, come giù da una scala.
«Va bene — sbuffa una volta dall'altra parte. — Le spine sono abbastanza distanziate».
Marlène lo segue. È formidabile, questa ragazza. Una vera acrobata.
Due minuti più tardi avanziamo tra gli alberi, l'occhio ai pericoli. Si tratta di non finire tra le
braccia di un monaco nascosto, o con un piede in una tagliola.
Per arrivare sotto la torre impieghiamo un buon quarto d'ora. Io apro la marcia e gli altri mettono
il piede esattamente nelle mie orme. Procedendo rompiamo dei rami, a destra e a sinistra, per
ritrovare la strada al ritorno. Il cuore ci batte forte, ma tutto sommato il morale è alto. Siamo tutt'e
tre ingozzati di hashish. Ci aiuta.
Finalmente eccoci ai piedi della torre, in mezzo a una spianata sgombra di alberi.
Una bella sorpresa ci attende: la torre è meno alta di quanto credessimo, poco più di 5 metri. E le
sue pietre, rudimentali, tagliate all'ingrosso, sono mal giustapposte. Non dovrebbe essere troppo
difficile.
«Puah! Che fetore!», si lamenta Hans.
Ha ragione. L'aria puzza d'un odore spaventoso. Di marcio, di carne in putrefazione. Serra la
gola. Respiriamo con la bocca cercando di attutire la sensazione, ma resta ugualmente insostenibile.
Sopra di noi gli avvoltoi roteano lentamente, in silenzio. Di tanto in tanto uno discende e si posa
sulla torre.
Curioso, quasi non ci sono uccelli tra gli alberi vicino a noi. Sarà il fetore che li tiene lontani? O
piuttosto la presenza degli avvoltoi?
Lontano, molto lontano, forse a 500 metri, sentiamo i grugniti dei cani che mangiano. Il
monastero dev'essere lì, a sinistra, in un avvallamento, dietro la collina. I raggi del sole fanno già
brillare la cima degli alberi. Scatto alcune foto alla torre e ai dintorni. Ma conviene salire.
Io sono il più alto, mi appoggio contro le pietre, a gambe divaricate, e Hans si arrampica sulle
mie spalle. Quando è in piedi, con le mani saldamente aggrappate agli interstizi delle pietre, anche
Marlène si arrampica, aggrappandosi prima a me e poi a Hans. Io cedo un poco sotto il doppio peso,
ma resisto, gambe e schiena arcuati, mascella stretta. Se non fosse per la puzza, potrebbe andare.
Sbuffo:
«Ce la facciamo?».
«Sì — risponde Marlène, che ha la corda arrotolata intorno al collo. — Ora prendo la corda, la
faccio oscillare un poco, e la butto su».
Ma deve tentare cinque o sei volte prima di riuscire ad agganciare con l'uncino in alto.
Sento che il peso sulle mie spalle è diminuito. Marlène ce l'ha fatta, si sta issando. La corda
penzola in tutta la sua lunghezza, e batte contro i miei polpacci. Uff, cominciava a pesare un po'
troppo…
Anche Hans si stacca e s'arrampica. Faccio altrettanto, affrettandomi a raggiungerli lassù.
Mentre sto arrivando, vedo Marlène che si china verso l'esterno, tutta verde.
Vomita, quasi addosso a me.
Fa un gesto, come per cacciare una mosca.
«Non resisto più a guardare — balbetta. — Scendo giù».
Con un ultimo sforzo arrivo a sedermi sulla pietra, e Marlène comincia la sua discesa. Capisco
benissimo perché ha vomitato.
Non ho mai visto nulla di più atroce. Non ho mai immaginato, neppure negli incubi più
angosciosi, uno spettacolo cosi spaventoso.
Lì davanti a me, in un recinto di 15 metri di diametro, contro il muricciolo di pietra che gira tutto
intorno, ci sono, stesi alla rinfusa gli uni sugli altri, deposti sopra mucchi d'ossa, una ventina di
morti.
Alcuni sono intatti, altri scorticati a metà dagli avvoltoi. Altri non sono più che una poltiglia in
putrefazione.
C'è sangue dappertutto, sui vestiti a brandelli, sulle pietre. Degli intestini si srotolano come
stomachevoli serpentelli verdastri. Non si vedono che ventri squarciati, occhiaie scavate, gambe e
braccia scorticate, carni a brandelli, casse toraciche sfondate.
In un angolo un avvoltoio conficca il becco in un'occhiaia e si drizza, guardandomi
tranquillamente, mentre dal becco gli sgocciola della materia cerebrale. Un altro scuote una coscia,
dilaniandola. Tira, inarcandosi sulle zampe, e il cadavere segue, docilmente, le gambe sballottate,
pietoso fantoccio che sembra ancora in vita.
Ci sono vecchi, uomini nel vigore delle forze, giovani…
Hans mi tocca un braccio. Trasalisco così forte, che quasi cado giù. Per una decina di secondi, ho
l'impressione che un avvoltoio si stia posando su di me.
Hans è verde, come del resto devo esserlo io. Mi indica qualcosa col dito, alla mia destra.
A due metri da me, contro il muretto di pietra, che ce l'aveva nascosta, una ragazza morta è
distesa sul dorso, con braccia e gambe incrociate. È nuda. La sua testa posa sopra un mucchio di
ossa, ben diritta, un po' sollevata.
Il sole le illumina in pieno il volto, con luce radente. Essa ha gli occhi chiusi, sembra sorridere. Il
riposo della morte ha ammorbidito i suoi lineamenti. Sembra stia dormendo. È bellissima.
Le sue mani e i suoi piedi sono molto piccoli, molto fini.
D'improvviso delle ali sbattono pesantemente sopra di noi, rimescolando l'aria che ci solleva un
po' i capelli.
L'avvoltoio si abbatte sulla ragazza. Le sue zampe, con gli artigli in fuori, si aggrappano alla
carne delle cosce.
Spaventati, non possiamo staccare lo sguardo dalla scena. L'avvoltoio ripiega le ali, abbassa la
testa. Il becco mostruoso balza in avanti e, con un colpo secco, strappa la metà d'un seno.
All'urto, il corpo ha avuto un sussulto, la testa si gira da un lato, sempre sorridente e tranquilla.
Il becco dell'avvoltoio si abbatte ancora una volta.
«Io me ne vado», dice Hans con un filo di voce.
«Anch'io. Non ne posso più».
Solo allora mi ricordo che ho un apparecchio fotografico. Meccanicamente, senza neppure
controllare, «mitraglio» più in fretta che posso, a destra e a sinistra, finché non mi rimangono che
tre o quattro foto da scattare.
Le conservo per fotografare il filo spinato, il muro e la nostra corda.
Infilo la macchina nella giacca. Sgancio la corda e la lancio nel vuoto, mi spenzolo sulle braccia
e salto.
Un capitombolo, e sono in piedi. Filo dietro a Hans e Marlène, che sono già partiti.
Camminando, guardo l'orologio. Sono le sette meno un quarto.
«Sbrighiamoci!», dico a Hans.
Ma, come era da immaginarsi, non ritroviamo più la strada. E così ci tocca camminare con la
massima prudenza, guardando a ogni passo dove posiamo i piedi, se c'è una tagliola, aspettandoci
da un momento all'altro che uno di noi lanci un urlo mentre una morsa dai denti di ferro prende il
suo piede.
Sono le sette passate quando scorgiamo, a 20 metri da noi, il filo spinato. Respiriamo.
Nello stesso istante, un grugnito sordo ci inchioda sul posto. Lì davanti, fra il reticolato e noi, c'è
un cane. Un molosso, una bestia enorme, dal pelo raso, con una mascella così. Se ne sta
accovacciato, ci guarda con occhi iniettati, ringhia, ha le guance cadenti che fremono.
Impiego venti secondi per capire perché è lì e non a mangiare nel canile, e perché non ci è saltato
addosso da quando ci ha visti.
Tra le zampe anteriori tiene una bestia, qualcosa come una donnola, o un coniglio, non so. E la
zampa anteriore della bestia è presa in una tagliola.
Correndo al richiamo del fischio, il cane ha dovuto imbattersi in essa, e ha preferito questa carne
bella fresca alla zuppa dei monaci.
Con la mano faccio segno a Hans: «Giriamogli attorno».
Lentamente, col cuore che batte all'impazzata, pieghiamo a destra. Io chiudo la marcia e
cammino di fianco, guardando il cane. So che non bisogna mai voltare la schiena a un cane da
guardia.
Metro per metro, ci avviciniamo al reticolato. Presto non è che a 5 o 6 metri.
Il cane, col sangue che cola dalla bocca, ci osserva senza muoversi, sempre grugnendo.
Mormoro con un filo di voce:
«Ognuno al suo traliccio: tu, Marlène, a destra; tu in mezzo, Hans. Io a sinistra. Si farà più in
fretta».
Mi doveva capitare anche questa… Camminando a ritroso, come sto facendo, non vedo dove
metto i piedi. Inciampo contro un tronco e finisco lungo e disteso per terra.
Mi sono appena rialzato, e sento già il latrato del cane e il fracasso dei rami che spezza
avanzando.
Con un balzo sono al mio traliccio. A 3 metri sulla mia sinistra, Marlène e Hans s'arrampicano
freneticamente.
Mi slancio, mi aggrappo al traliccio, mi tiro su, insensibile al filo spinato che mi lacera le mani.
Mi credo ormai in salvo, quando una morsa di ferro mi blocca il piede sinistro.
Il cane ha saltato e ha piantato i suoi denti nel mio stivale. E tira, scuote, ringhia furiosamente.
Sento che sto per cedere. Le sue zanne hanno già quasi attraversato il cuoio dello stivale…
Con uno sforzo disperato, io tiro, tiro verso di me.
Lo stivale si sfila! Il cane rotola indietro urlando di rabbia.
Tre secondi più tardi, io sono al sicuro dall'altra parte.
Uffa, trentasei volte uffa!
Il resto non è che un gioco da bambini.
Indifferente ai latrati assordanti del cane, che ormai non può più nulla, lancio la corda. Il gancio
prende, risaliamo il muro di cinta, ridiscendiamo, chiamiamo Roy che arriva di corsa. Era a 100
metri da lì. E galoppiamo come dei dannati verso la strada, ridendo come matti. Io, zoppicando e
torcendomi di dolore ogni volta che un sasso urta il mio povero piede scalzo.
A mezzogiorno Roy, al quale ho restituito la macchina fotografica perché faccia sviluppare le
foto al più presto, mi ha condotto nello studio del corrispondente locale di un giornale inglese.
Resto con lui per guardare lo sviluppo della pellicola.
Il corrispondente estrae il negativo dall'acqua, e fa luce. Guardiamo.
Non c'è niente. La pellicola è nera.
«Porci! — grida Roy. — Mi hanno rifilato una pellicola troppo vecchia!».
Ne estrae un'altra dal sacco, comperata insieme alla prima, guarda la data che indica la scadenza
per l'uso: «Settembre 1964». Ecco quel che è scritto sulla scatola.
La pellicola è scaduta da cinque anni…
6.
Senza Agathe e il suo influsso, di sicuro io non mi sarei spinto oltre, sulla strada della droga.
Perché, l'ho già detto, anche se tiro dallo shilom senza sosta, anche se ho spinto molto avanti
l'esperienza dell'oppio e ho provato una sera — col successo che si sa — la morfina, per il momento
io non sono ancora un vero drogato. Posso fare marcia indietro. E senza troppa fatica. Basta che
sostituisca alla curiosità della droga quella del viaggiare. E non mi dovrebbe costare troppo
arrivarci. Viaggiare, non è stato da sempre il mio desiderio profondo, la mia vera passione?
Mi rimane sempre ben piantato in testa il progetto del giro del mondo. E ho il compagno ideale
nella persona di Guy.
Su questo, noi due siamo d'accordo: dopo Bombay partiamo per Madras, e di lì c'imbarchiamo
verso l'est. Addio alla droga, grazie per il piacere che ci ha procurato la sua scoperta, un saluto
all'esperienza e agli incontri fatti. Ma ritorniamo alle cose serie. Valigia!
In seguito, molte volte ho sorriso pensando che io, l'uomo che si credeva forte e duro, io che
avevo sempre tagliato netto con le avventure quando duravano troppo, proprio io mi sono lasciato
indurre da una semplice ragazzina a entrare nella coorte dei drogati e a diventare in pochi mesi il
più junkie dei junkie, titubante, solo, scheletrito, febbricitante, coperto di piaghe, tra le montagne
ostili dell'Asia, con un solo scopo: farla finita, una volta per tutte…
Un giorno Agathe e una delle sue amiche, Claudia, decidono di lasciare Bombay e di partire per
Katmandu.
E come se fosse la cosa più naturale del mondo, Agathe mi chiede di partire con lei. Secondo la
sua testolina, innamorati come siamo, nulla è più logico.
La notizia mi coglie di sorpresa. Se ho un po' di curiosità per Katmandu, ne ho molta di più per
l'altra metà del globo — ricca di porti, città, strade, traversate, avventure — che mi resta da
percorrere per completare il mio giro del mondo.
Ma lasciare Agathe, ecco il problema. Convincerla a venire con Guy e me? Neanche a pensarci.
Si viaggia male con una ragazza. E anche se la accettassimo, bisognerebbe prendere pure Claudia,
divenuta da qualche tempo sua amica inseparabile. No, non è possibile.
Allora mi sento, con stupore, rispondere ad Agathe che sì, io vado con lei a Katmandu, ma non
subito…
Le faccio notare che mi ha preso alla sprovvista, che ho qualche faccenda da regolare con Guy
prima di partire. Mi lasci il suo indirizzo di là, e io la raggiungerò tra qualche giorno.
Mi dà un pezzo di carta sul quale ha scritto queste due semplici parole: «Orientai Lodge». È un
albergo.
E parte.
Restato solo, se fossi partito subito con Guy per Madras, penso che avrei presto dimenticato
Agathe, come avevo già dimenticato Salima e Gill.
Solo che il diavolo ci mette la coda. Un tale che viene da Madras mi dice, disgustato, che ha
cercato per tre settimane di farsi imbarcare. Invano. È meglio cercare qualche altra soluzione.
Quanto a me, ho ancora del denaro, potrei pagarmi il biglietto del battello, ma Guy è al verde.
Non mi è stato difficile convincerlo a partire con me per Katmandu. Là ci si fermerà qualche
giorno, poi si vedrà.
Ed eccoci in treno. Passiamo prima per Delhi, molto in fretta, senza fermarci, e arriviamo a
Benares, nostra prima tappa.
Benares, per coloro che l'hanno visitata, è la città dai duemila templi, la città santa. Ed è davvero
una città tutta speciale. A Benares convergono tutte le miserie e tutti i rifiuti dell'umanità. Tutti i
mutilati, tutti i malati. Chiunque è bell'e spacciato, in India, confluisce lì. La città non sembra molto
grande, ma è sovrappopolata. È anche la città dove passa il Gange, il fiume sacro. Infine, è la città
in cui ci si trova immersi, e lo si sente fin dall'arrivo, in piena atmosfera mistica. È un qualcosa che
si respira nell'aria.
Dappertutto si avverte una specie di tensione, di fluido mistico. Tutti sono più o meno in
preghiera, anche durante le occupazioni più comuni della vita, tanto al mercato come per le grandi
strade. Ogni tempio emana un forte odore d'incenso, che prende alla gola. Poi c'è l'odore — dal vivo
— della malattia, della putrefazione e della morte. Morti di fame, morti di colera, morti per un
colpo di coltello in una stradicciola. E al di sopra di tutto, un odore che penetra dappertutto e si
avverte sempre di più, man mano che ci si avvicina al fiume: l'odore delle cremazioni.
Ma per me, al di là di queste violente sensazioni, Benares resterà per sempre la città in cui ho
assistito alla scena più crudele, più barbara, più rivoltante che abbia mai visto.
È accaduto un mattino pieno di sole, sopra uno dei battelli ancorati al molo lungo il celebre
mercato, che si dondolano dolcemente nel fluire del fiume.
Il giorno prima, Guy e io abbiamo lasciato l'albergo in cui ci eravamo sistemati all'arrivo. È
troppo sporco e troppo caro, per quel che ci offre.
Un hippy incontrato in una «sala da tè» ci ha informati che si possono affittare dei letti a bordo di
una specie di battelli-dormitori. Non è per nulla caro lì, ci si trova proprio al centro della città, e si
sta bene.
Eccoci dunque installati sopra un grosso barcone formicolante di pellegrini. Costa praticamente
nulla ed è molto conveniente, perfino meno sporco di quell'altro posto.
Attorno a noi i pellegrini fumano una specie di pipa ad acqua. Non è hashish quel che ci
mettono, ma una pallottola secca simile a tabacco, ma che visibilmente non lo è.
Mi rendo subito conto che è la «gangia», detta anche kif, la marijuana degli indiani. E a Benares
non c'è da doversi nascondere — mi pare di averlo già detto — per fumarla, come invece bisogna
fare nel resto dell'India. A Benares la «gangia» è autorizzata.
Domando al mio vicino dove possiamo procurarcene. Farfuglia qualche parola d'inglese. Mi
spiega che l'ha comperata da un piccolo rivenditore che «fa» i battelli. Tra poco dovrebbe passare.
Infatti venti minuti più tardi vedo arrivare uno scugnizzo di sette od otto anni, coperto di stracci,
con un sacco di iuta a tracolla. È sporco all'inverosimile, senza sosta scaccia macchinalmente le
mosche dagli occhi, che sono bellissimi, e mi scocca un sorriso folgorante, quando gli faccio un
cenno.
Si avvicina di corsa, leggero come un capretto, e si accoccola davanti a me.
«Quanto ne vuoi, sahib?», mi dice in un inglese passabile.
Gli faccio aprire il sacco e ne prendo l'equivalente d'un pacchetto di sigarette, che lui pesa con un
bilancino a due piatti.
Pago, e se ne va saltellando.
Dopo qualche minuto, Guy e io fumiamo da una pipa che ci siamo fatta prestare. È molto buono,
ma molto leggero. Abituati come siamo all'hashish, ci tocca prenderne in proporzione tre volte di
più, per cominciare a «volare» veramente.
Ma una volta partiti, si sta bene. Ci riversiamo sui sacchi a pelo, al sole, con le mani sotto la
nuca, e ci abbandoniamo ai nostri pensieri.
Dopo un'ora, Guy si muove per primo.
«Facciamo un bagno?», mi dice.
«Dove?».
«Nel Gange, diamine».
«Hai guardato l'acqua?».
Guy si china e guarda. Io guardo con lui.
L'acqua è gialla, terrosa. Da lontano, se la si esamina controluce, dà l'impressione di una melma
liquida, molto opaca.
Ma qui alla nostra altezza è abbastanza chiara.
Indico a Guy il rogo delle cremazioni, a monte del nostro battello.
«Ti rendi conto di quel che gettano qua dentro?».
«Be', ceneri», mi dice.
«Ceneri, questa roba?».
A due metri da noi, un braccio passa, calcinato, raccapricciante, con un po' di sangue che cola e
si diluisce nell'acqua. Accanto gli scorrono bucce di verdura, poi un cane morto, col ventre all'aria.
«Puah! — dice Guy con un sobbalzo. — È stomachevole».
Ma poi mi indica, a una ventina di metri da lì, dei monelli che nuotano, tuffandosi come pesci,
ridendo come matti.
«To' — mi dice, — c'è il nostro piccolo venditore di gangia. Lo vedi laggiù?».
Guy ha ragione, il ragazzo è là in mezzo agli altri.
«Conviene chiamarlo — dice Guy. — Non abbiamo quasi più gangia».
Fa segni al ragazzo, gridando.
Il piccolo ci riconosce, si lascia portare fino a noi dalla corrente.
«Gangia? — gli domanda Guy. — Ne hai ancora?».
Fa segno di no, sorridendo. Questa sera ne avrà, e tornerà da noi, lo promette.
E con un gesto, sempre ridendo, ci invita a tuffarci.
Guy e io ci guardiamo, un po' smarriti. Ma il monello insiste.
«Come, come, good…». Venite, venite, è divertente.
Bah! Ciò che fa un ragazzo, lo possiamo fare anche noi, no?
E presto ci ritroviamo nudi nell'acqua, accanto al ragazzo che ride rumorosamente e nuota
davanti a noi, scartando tutto ciò che galleggia per evitare che ci tocchi.
A sera, il ragazzo non viene.
Esprimiamo il nostro stupore ad altri che sono con noi sul battello. Anch'essi sono stupiti. Di
solito, passa tutte le sere. Che cosa gli è capitato? Dopo due o tre ore pensiamo che forse non ha
trovato la gangia, che verrà domani, e dopo un'ultima pipata ci corichiamo, con il sospetto che
anche questo ragazzo sia come tutta la gente orientale, che dimentica facilmente le promesse senza
farsene un dramma.
Ancora adesso provo rimorso di aver avuto questo pensiero.
Perché al mattino presto scopriamo, terrificati, l'atroce verità.
Verso le sei o le sette degli urli c i risvegliano di soprassalto.
È una voce acuta, una voce di bambino. E le grida sono spaventose, insostenibili.
Dapprima stridenti, si trasformano a poco a poco in un lungo pianto spaventoso, che viene dal
fondo della gola, che sale, sale, si arresta, riprende, senza sosta.
«Ma è il nostro ragazzo! — dico. È la sua voce».
«Credi? — risponde Guy. — Sei matto…».
«Sì, te lo assicuro. Ascolta».
Attorno a noi, altri che dormivano si sono svegliati, e rialzandosi sui gomiti stanno ascoltando.
Le grida vengono da poco lontano, tre o quattro battelli sopra di noi, lungo il fiume. Almeno
sembra.
«È da quelle parti che il ragazzo nuotava ieri», dico a Guy.
«Hai ragione, è strano».
«Andiamo a vedere».
Ci ritroviamo sul molo, ai primi raggi del sole. Il più in fretta possibile, risaliamo la riva del
fiume.
La voce, ora attutita, ci guida. Si spegne presto, in una specie di rantolo. Più niente…
Ma non abbiamo più bisogno che ci diriga. Sul ponte del quarto battello a monte del nostro,
uomini e donne stanno raggruppati, chini. Saranno una dozzina.
È lì di sicuro. Saltiamo sul ponte, ci avviciniamo.
E allora, in mezzo al gruppo, vediamo la scena infernale.
Un uomo, con un coltello insanguinato in mano, sta chino sopra un piccolo corpo disteso di
traverso sul ponte, direttamente sul pavimento.
Due altri tengono fermo il corpo, con le braccine distese come in croce; e un terzo gli fissa
solidamente le anche, stando con le ginocchia sulla gamba destra.
Il ragazzo ha la testa ripiegata di fianco. È bianco come un cencio. È svenuto.
È il nostro piccolo venditore.
Nessuno ormai ha più bisogno di tenergli ferma la gamba sinistra.
Essa è tagliata sopra il ginocchio…
Con due o tre rapidi movimenti, l'uomo finisce di tagliare gli ultimi lembi di carne che tengono
ancora unito l'arto alla coscia, estrae un legaccio per arrestare l'emorragia, traffica nella piaga, la
ricopre con uno straccio.
Per un istante immagino che il ragazzo abbia avuto un incidente, e che per questo l'abbiano
amputato.
Ma no: la piccola gamba tagliata, posata nel sangue lì sul ponte, è intatta, perfettamente sana.
È apposta, che hanno mutilato il ragazzo! Sì, ecco quel che si può vedere, in India, nel 1969, in
pieno ventesimo secolo…
Guy e io, sgomenti, credendo appena alla realtà di questo spettacolo da incubo, interroghiamo
l'uomo e la donna, che se ne stanno lì tranquilli, dietro al ragazzo svenuto, abbandonato in pieno
sole.
Ci guardano senza rispondere, con occhi gelidi. «Che è capitato? Cos'avete fatto? Perché?
Perché?». Grido, e scuoto quel carnefice afferrandolo per la camicia. Mi respinge, bofonchia
imprecazioni e minaccia col coltello. Ho una tale rabbia in corpo, che quasi gli salto addosso, ma gli
altri gli si stringono al fianco, e vedo uscire altri coltelli. Gli sguardi sono duri.
Lo so bene, a Benares, ci si fa sgozzare come un coniglio per il solo fatto che si è europei, e
suppongono che si abbia il portafoglio pieno.
Insistere sarebbe una follia. Del resto Guy, terrorizzato, mi tira indietro.
«Vieni via — mi dice. — Non fare l'idiota».
Indietreggiamo, saltiamo sul molo.
Prima di partire, getto un ultimo sguardo al battello.
La donna, china sul ragazzo, lo schiaffeggia per farlo rinvenire.
Il carnefice raccoglie la gamba e la getta nel fiume, dove se ne va a filo d'acqua.
La gamba del mio piccolo venditore di gangia, di otto anni, che non correrà né saltellerà mai più.
Tornati al nostro posto, abbiamo la spiegazione di tutto, dal padrone del nostro battello.
Per farlo mendicare, hanno mutilato il ragazzo…
Perché un mutilatino commuove di più, e porta più denaro. Molto più che a vendere la gangia,
che si trova dappertutto.
Descrivo il carnefice al padrone. Lo conosce.
È il padre del ragazzo.
SEDICI CENTIMETRI CUBI DI MORFINA

Terza parte

1.
Non ci sentiamo più di restare ancora a Benares, la città dove si mutilano i bambini per farli
mendicare. La sera stessa siamo sopra un trenino traballante d'una linea ferroviaria secondaria, che
punta a nord, verso Raxaul.
Appena entrati nel Nepal, prendiamo una sbornia con i fiocchi. L'alcool, difficile da trovare in
India, nel Nepal è invece in libera vendita.
Passeremo poi molto tempo prima di metterci a bere di nuovo, perché se il fumatore di hashish
continua a essere tentato dall'alcool, chi prende altre droghe non avrà più assolutamente voglia di
bere…
Dalla frontiera a Katmandu c'è una sola via di accesso: la strada. E — a parte il tassì che è troppo
caro — non ci sono che due modi di farvisi portare: fare l'autostop (ma le vetture sono rare e quindi
è molto difficile), o prendere l'autocarro.
Il viaggio in autocarro costa sette od otto rupie, e ha sempre qualcosa di epico. Gli autocarri sono
pieni come un uovo. I nepalesi si sistemano come e dove possono, perfino sulla cabina. E poi
l'autocarro è sempre carico di merci. Il nostro è pieno di sacchi di zucchero in polvere, cosa non del
tutto sgradevole, data la strada così malvagia.
Ci sistemiamo in un angolo, e Guy comincia a non star bene. Si sentirà male per tutto il tempo
del viaggio. E la strada non è certo fatta per migliorare le cose. Quasi subito si mette a salire in
tornanti rapidi e stretti come forcine da capelli, sfiorando i precipizi.
Partiti alle sette del mattino, arriviamo a Katmandu verso le quattro o cinque del pomeriggio. È il
4 luglio 1969.
Esattamente fra sei mesi meno sei giorni, sarò sull'aereo che decollerà per Parigi. Mezzo morto.
Ma ora, mentre salto giù dall'autocarro, sono solido, fiducioso, con tutti i sensi in perfetta
efficienza.
Mi trovo in una città asiatica piatta, non molto grande, di poco diversa dalle altre, che come le
altre brulica di gente e ha dappertutto cupole e templi. Ma qualcosa di diverso c'è: l'aria è
straordinariamente leggera. È normale, Katmandu è a 1000 metri d'altitudine, e in lontananza si
vedono le cime innevate dell'Himalaya. Ma è questa la prima impressione, che mi ha colpito subito:
la leggerezza dell'aria. È vivificante, balsamica, molto ossigenata.
E, per ironia della sorte, quando penso a quel che mi è capitato lì, adesso mi dico: «Almeno qui
mi posso ossigenare!».
Senza tardare, Guy e io cerchiamo l'albergo in cui Agathe e Claudia ci hanno dato appuntamento,
l'Orientai Lodge. Lo troviamo poco lontano dall'ufficio turistico, in una stradicciola della città
antica.
Agathe è in albergo.
Abbracci, grida di gioia. E tanto amore…
Io m'installo con Guy in una camera a tre, senza Agathe (restata con Claudia), ma con Michel, un
altro francese.
Al solito, sono io quello che paga. Guy, si sa, è sempre al verde; e quanto a Michel, ha avuto una
disavventura a Delhi. Sulla grande piazza centrale, si è fatto soffiare tutto quel che aveva. Il ragazzo
che l'ha fatto fesso doveva essere formidabile: Michel dormiva sull'erba, con la testa sul sacco e
questo legato al polso. Il che non ha impedito che glielo rubassero con tutto quello che c'era dentro,
senza che si accorgesse di nulla!
Ma Michel ripartirà molto presto. Si è messo in testa di andare in Afghanistan. Ho saputo in
seguito che non c'è arrivato mai. A Calcutta si è talmente imbottito di droga, che è partito per la
tangente. È diventato pazzo. Si è lasciato rubare il denaro. Lo hanno visto gironzolare per qualche
giorno nelle strade come un vagabondo, farfugliando parole senza capo né coda.
E poi, una sera, è scomparso.
Appena arrivati, l'albergo ci fa un'impressione favorevole. Certo è piccolo, con i soffitti molto
bassi (come tutte le case del Nepal, perché i nepalesi misurano un metro e mezzo, un metro e
sessanta al massimo); ma ha graziose camere in legno con ogni confort — water e toeletta — sul
pianerottolo. Una comodità ben rara in Oriente. È in tutto un albergo medio, simile a quelli che si
trovano in Europa.
Ed è caro: 5 rupie per giorno, a persona. Si trova in pieno centro, in una piccola via che dà sulla
Piazza dei Templi, dove c'è l'ufficio turistico e un tempio sul cui balcone appare di tanto in tanto una
ragazzina ornata di pietre preziose e vesti ricamate d'oro, con l'aria di annoiarsi a morte. Ha dieci o
undici anni, è la reincarnazione d'una dea, e tutti gli anni i monaci la sostituiscono con un'altra.
Il primo giorno, come ogni volta che arrivo in una città nuova, faccio per prima cosa il giro delle
camere, per rendermi conto esattamente di che si tratta, chi le occupa; poi vado fuori a individuare i
punti strategici: ristoranti, negozi, alberghi, l'ufficio della posta — molto importante, quando si
viaggia, per via della corrispondenza, — l'ufficio turistico, l'ambasciata di Francia, eccetera.
Insomma, cerco di farmi al più presto un quadro di tutto, senza dimenticare le informazioni sui
fornitori di droga, e cominciando a fiutare se c'è qualche colpo da fare qua e là.
In pochi giorni il giro di ricognizione è fatto, e so l'essenziale.
Ora credo che la cosa migliore, prima di cominciare il racconto vero e proprio delle mie
avventure a Katmandu, sia di descrivere lo scenario in cui si svolgeranno. Altrimenti temo che non
ci si orienterà, tanto ha importanza in se stesso ogni luogo di cui parlerò.
Comincerò perciò con gli alberghi, perché erano in qualche modo i «campi base» della colonia
europea e degli hippies di Katmandu.
Va da sé che non c'è solo l'Orientai Lodge. Gli hippies si distribuiscono nei vari altri alberghi,
secondo i loro gusti, o piuttosto secondo i loro mezzi economici.
Neanche a pensarci, per esempio, che essi vadano a vivere nei due palazzi, il Royal Hotel, e il
Soaltie Hotel.
In essi c'è il gran lusso. Solo i turisti molto ricchi ci vanno. Ci sono stato anch'io, ma non è
ancora il momento di raccontare questo episodio della mia vita a Katmandu.
Il Royal Hotel, molto bello, è un vecchio palazzo donato dal re Mahendra Bir Bikram, molti anni
fa, a un avventuriero europeo di nome Boris. Questo Boris era riuscito a conquistarsi la fiducia del
re, e gli aveva reso molti servizi, al punto che in ringraziamento il re gli aveva fatto dono del
palazzo. E Boris l'aveva trasformato in albergo.
Quanto al secondo palazzo, il Soaltie Hotel, appartiene alla classe internazionale dei celebri
Hilton. Ci entrerò all'epoca in cui frequenterò una stupefacente scrittrice, Éliane M.
Un albergo hippy a Katmandu, il più famoso senza dubbio, è il Quo Vadis. Nel mondo intero
credo non ci sia un solo hippy, che abbia un po' viaggiato, a non conoscerlo almeno di fama.
Il Quo Vadis è a 100 metri dall'Oriental Lodge, direttamente sulla grande piazza centrale, la
Piazza dei Templi.
È il più celebre, anzitutto perché è stato il primo che ha aperto la sua porta agli hippies, ma anche
per ciò che vi capita dentro. Il proprietario, che chiamano «Uncle» (dall'inglese: zio), è
continuamente drogato. Fuma come una ciminiera.
L'unico suo commercio è la vendita ufficiale dell'hashish e dell'oppio. Non fa pagare le camere.
A queste condizioni, è chiaro che l'albergo è pieno zeppo. È davvero la casa della provvidenza.
Eppure molti hippies non riescono a decidersi ad abitarci, perché è troppo sporco.
Dall'esterno, la facciata attira subito l'occhio. Molto stretta, quasi soffocata fra le altre, ha ad ogni
piano — cinque in tutto — dei piccoli balconcini in legno scolpito, molto antichi, ben lavorati,
graziosissimi, una vera trina.
Ma all'interno è una topaia. Camere che sono tali solo di nome. In realtà sono tane oscure,
sporche, dal pavimento per lo più in terra battuta, senza letti: solo pagliericci, gettati sul terreno.
Nessuna comodità, salvo un rubinetto nella lavanderia del pianterreno.
Ma una delle camere è famosa. Si trova al terzo piano, e quando arrivo a Katmandu c'è un
tedesco chiamato Staff che la occupa.
È decorata con garbo. Degli arredi pendono dal soffitto. I muri sono ricoperti di pitture
psichedeliche fatte a spruzzo. È l'ideale per «partire», quando ci si droga.
Più che in qualsiasi altra camera del Quo Vadis, in questa non si smette mai di fumare e di farsi
iniezioni. Ventiquattr'ore su ventiquattro. C'è gente, lì dentro, che non vede il sole da settimane.
È la stanza di Katmandu che ha visto il maggior numero di junkie. Un numero impressionante di
ragazzi e ragazze sono usciti impazziti da questa stanza.
Una notte, una ragazza vi è morta.
La chiamano la camera dei junkie.
Per un altro motivo il Quo Vadis è celebre: Uncle, il proprietario, vi organizza dei parties alla
droga.
Al Quo Vadis io salterò il fosso, passerò dall'altra parte della barriera, con la mia prima iniezione
di metedrina.
Il terzo albergo hippy, quello in cui mi installerò quando la vita all'Orientai Lodge sarà divenuta
insostenibile, è il Garden Hotel.
Il Garden è al limite dei sobborghi, nel cuore del vecchio quartiere, in riva al fiume. La strada è
in terra battuta. L'albergo, all'esterno simile — grosso modo — agli altri, ha un vantaggio: dà su un
grande giardino con un tappeto erboso abbastanza curato.
All'interno è un po' più sporco dell'Orientai Lodge, ma ha delle docce. In tutto, una trentina di
camere, e nel sottotetto due dormitori comuni. Letti nelle camere, pagliericci nei dormitori.
Poi, si cade negli alberghi riservati a chi è veramente in bolletta. E di albergo hanno solo il nome.
Il Jet Sing, e il Match Box.
Ma i più miserabili sono, non lontano dal fiume, sempre nella città vecchia, il Paris Hotel e il
Coltrane Hotel.
Sono press'a poco porcili, stabbi per armenti.
Il soffitto è così basso, che chi è alto come me deve stare piegato in due. Nient'altro che un
pagliericcio sul nudo terreno, con una coperta lacera, resa rigida dalla sporcizia. Niente camere a
posti singoli, solo dormitori.
Il Paris Hotel è molto frequentato. Primo, perché vi fanno funzionare dischi arrivati dall'Europa;
secondo, perché giù nel ristorante si servono piatti a base di gangia.
E poi, due cameriere sono prostitute. Le sole, in pratica, di tutta Katmandu.
Due ragazze molto graziose, pronte ventiquattro ore al giorno per accontentare i clienti. Perché il
ristorante è il solo aperto giorno e notte. Il che non vuole ancora dire che sia facile farsi servire, di
notte. Bisogna risvegliare i domestici, che dormono sui tavoli, o sotto, o da qualche altra parte, tanto
sono drogati. E bisogna poi insistere per saldare il conto, dopo che si è consumato il pasto. Essi non
hanno che un solo desiderio: dormire.
Ma il Paris, a confronto del Coltrane, è quasi un palazzo.
Al Coltrane si va solo quando non si ha più il becco di un quattrino. È ciò che esiste di più a
buon prezzo al mondo: da 20 a 30 pesa (da 15 a 20 lire italiane) per notte. I muri e i pavimenti sono
ancora più sporchi, il soffitto ancora più basso che altrove. La scala di legno ha i gradini traballanti,
e la si può salire solo a testa bassa. Le camere: vere gabbie per conigli, non c'è altro paragone;
attorno ai muri, tramezzi di legno separano le stuoie gettate per terra.
La prima notte che ho passato al Coltrane, sono rimasto così disgustato dalla sporcizia della
camera, che ho preferito dormire per terra nel corridoio.
Molti di questi alberghi danno da mangiare, ma gli hippies hanno anche i loro ristoranti.
Più famoso di tutti è il Cabin Restaurant.
Quando sono arrivato io, era il ristorante alla moda, il luogo d'incontro degli hippies, tutte le
sere.
Si trova nella città vecchia, in fondo a una stradicciola molto buia. Bisogna proprio saperlo, che è
là. L'interno: una stanza lunga, con la cassa a sinistra. I muri sono neri (solo più tardi li si coprirà di
pitture psichedeliche). Da ogni lato tre tavoli di marmo, e in fondo due colonne con due arcate. Di
fianco, un cortile interno con gabinetti immondi dove è necessaria la candela.
E poi una cucina così sporca, che non bisogna mai andare a vederla, perché altrimenti non uno
riesce ancora a ingoiare qualcosa. Il proprietario è di continuo «partito», gli occhi iniettati. Perché
fuma con tutti, oltre allo shilom che fuma per conto suo. È il più grande venditore di hashish,
perfino più grande, credo, che i governement shops gli empori ufficiali.
Altra ragione del successo del Cabin Restaurant: vi si suona la musica europea e di sera i drogati
vengono a sognare ascoltando i Beatles e i Rolling Stones.
Oltre agli hippies, vengono i turisti. È la più grande attrazione di Katmandu, molto più rinomata
che i templi. Tutti i turisti che passano da Katmandu vogliono andare al Cabin, perché lì ci sono gli
hippies che fumano, gli hippies che si drogano, e questa è la cosa veramente straordinaria! Sono
sicuro che un sacco di turisti ripartono da Katmandu con le tasche piene di rotoli di foto scattate agli
hippies, ma senza averne presa una all'Himalaya.
C'è poi tutta una serie di ristoranti meno noti del Cabin, il che non vuol dire che siano
trascurabili. Al contrario.
Sono tutti ammucchiati nello stesso quartiere, la città vecchia, in modo che si può andare dall'uno
all'altro a piedi, a casaccio, seguendo l'estro o gli amici.
Il Capitol, per primo. È un ristorante cinese, il solo di facile accesso. È sulla grande strada.
Il Lido, altro ristorante cinese, è più caro. Ci si va molto di rado, e a volte entrando ci
sbellichiamo dalle risa: sopra di sé, la proprietaria ha scritto su una lavagna il piatto del giorno, in
inglese. Proprio sopra la sua testa. Sembra che l'iscrizione debba applicarsi a lei. Così, secondo i
giorni, è «anitra», «bue» o «porchetta».
L'Indirah: raffinato e caro. Al tempo dell'Orientai, quando ero ancora relativamente ricco, ci
andavo sovente, soprattutto al mattino per la colazione, a degustare un caffè al cioccolato, e quel
che chiamano «toast francese»: mollica di pane ricoperta di uovo e passata al forno, che ha un po' il
gusto del pandorato.
Il Ravi Spot. Piccolino, miserabile, ma pratico perché vicino all'Orientai Lodge.
Il Tashi. Più miserabile del Ravi Spot, ma prepara il miglior dal bat che ci sia: riso cotto
nell'acqua e servito con una tazza di brodo di piselli (e a volte di verdura), che è il piatto nazionale
nepalese. Molti lì non mangiano che questo, tutto l'anno, mattino, mezzogiorno e sera. È entrato
nella consuetudine al punto, che ho conosciuto a Katmandu un nepalese che, avendo ottenuto una
borsa di studio a Parigi per tre mesi, è tornato al suo paese dopo un mese, incapace — me l'ha
confessato lui — di resistere oltre senza il suo dal bat.
Altre specialità del Tashi: una specie di melanzane verdi, preparate in tutte le salse, ma sempre
molto piccanti, le bananas fritters (banane fritte), pan cakes, e tutti i frutti dell'Oriente, datteri rossi
dal gusto aspro, piccole arance molto profumate, manghi rossi, filamentosi e amari.
L'Himali Cold Drink. Questo, chiamato Cold perché è il solo a possedere un frigorifero, ha molto
successo nella stima dei drogati, perché offre una specialità fatta apposta quando a forza di droghe
si perde l'appetito, e i cibi comuni come carne, riso e salse li disgustano: il lassi, a base di latte
cagliato, molto facile da ingoiare. Ben digeribile, viene presentato in una terrina. Una sua variante,
senza dubbio ancor più apprezzata, è il bang lassi: un lassi mescolato con hashish. Un nettare per i
drogati: nutre, e fa «volare» nello stesso tempo.
Il latte che viene usato è latte di capra, così forte che si riesce a berlo solo se tagliato con l'acqua:
metà e metà. I formaggi sono molto maturi e fermentati.
Inoltre, nella maggior parte dei ristoranti — e stupisce, le prime volte, a migliaia di chilometri
dall'Europa, in questa città che ha tutta l'aria di essere in capo al mondo — perfino nei ristoranti
indigeni vi servono bistecche fritte. Fritte con molto olio, e bistecche di bufalo, non di bue. Ma
bistecche. Non ci sono che bufali nel Nepal, e la loro carne è dura come una suola.
Gli spaghetti, però, si trovano dappertutto.
Passiamo alla voce «bevande». A Katmandu, a parte i due palazzi di cui ho parlato, è inutile
chiedere vino. Non esiste. Hanno due sole bevande: acqua e tè.
E due tipi di liquori: uno bianco, fatto con riso germogliato; e un altro che ha il colore del
cognac, ma è amaro e aspro.
Restano da considerare le sale da tè, che vendono una quantità di pasticcini, in gran parte
orientali, fatti con una pasta molto zuccherata, marrone e bianca, a base di tutti i gusti, in particolare
la mandorla.
Queste osservazioni sull'alimentazione valgono solo per Katmandu. Appena lasciata la città, si
entra in pieno Medioevo, in una miseria inimmaginabile.
I villaggi vivono esclusivamente delle loro risorse. La gente non mangia altro che ciò che
raccoglie. Per esempio, un villaggio che coltiva la barbabietola mangerà barbabietola e nient'altro,
per mesi, aspettando la raccolta degli zucchini che lo nutrirà finché non ritorni la raccolta della
barbabietola, eccetera. Di altro, un po' di frutta, un po' di formaggio. È tutto, proprio tutto. Non c'è
neppure del tè.
2.
Il giorno del mio arrivo all'Orientai Lodge, cado in quel che non posso chiamare altrimenti che
un mondo di follia.
Una follia che mi stupisce ancora adesso, ma che doveva diventare ben presto un elemento
normale dell'esistenza anche per me. Questo, non bisogna mai dimenticarlo, quando si cerca di
immaginare che cosa siano stati questi pochi mesi nei quali una colonia di europei drogati si è
abbattuta sulla capitale del Nepal, prima d'essere decimata a poco a poco per la perdita della
ragione, per le overdoses, le epatiti, le espulsioni. A Katmandu, al tempo di cui io parlo, la vita non
era ordinaria. Gli atti più stupefacenti, le conversazioni più demenziali, gli eccessi più sregolati,
erano moneta corrente.
Siamo una piccola società che vive in un'ubriacatura permanente, quella di decine di droghe di
tutti i tipi, che fumiamo, mangiamo, annusiamo, iniettiamo nelle vene. Un'elettricità permanente
regola da sola i nostri rapporti. Mattino, mezzogiorno, pomeriggio, sera, notte, sono parole ormai
senza senso. Il ritmo solare non esiste più. Mangiamo quando abbiamo fame, mai a ore regolari,
dormiamo quando la voglia di dormire si fa più forte che l'eccitazione della droga. Il normale non
esiste più, l'anormale ha preso il suo posto.
E io — oggi che sono tornato nel mondo normale — ritrovo con stupore, nella mia memoria,
questa serie d'avvenimenti fuori del comune nei quali ho turbinato per mesi, come un sonnambulo.
Al mio arrivo all'Orientai Lodge, un gruppo si forma attorno a me, sempre perché ho dei soldi.
Ci sono, l'ho già detto, Guy e Michel, Agathe e Claudia, ma anche Paul, un altro francese di
quarant'anni, bizzarro. Tira fuori grosse enormità sulle cose più ovvie della vita, le snocciola
d'improvviso, ma dopo una riflessione profonda e convinta. Non abbandona mai un bastone da
pastore.
E Agnès, una piccola riccioluta, ha turbe sessuali.
E poi, c'è Barbara. La sera stessa del mio arrivo mi capita subito sulle costole.
Sto dormendo sul pagliericcio, quando un grido mi sveglia di soprassalto.
Davanti a me, una ragazza bionda, non molto alta, completamente svestita, agita le braccia
oscillando in un vago movimento di danza, con una candela in mano.
Mi riempie di calci nelle costole. E strilla:
«Prendimi. Prendimi!».
Ti doveva ancora capitare questa, dico a me stesso mentre la respingo stancamente. Io ho una
voglia sola, quella di dormire, e non sarà proprio questa invasata a farmi cambiare idea.
Ma lei insiste, vuole dormire con me. E ripete, come una nenia, con voce stridula:
«Prendimi… Prendimi…».
Guy e Michel si sono svegliati. Vedo Michel che ride divertito, mentre io, che ho afferrato la
ragazza ai polsi, cerco di tenerla ferma. Ma sguscia come un'anguilla.
«Non è niente — mi dice Michel. — È Barbara».
«Barbara?».
«Sì, finirai per abituarti anche tu. Non è pericolosa. È solo un po' svanita».
Gli rispondo:
«Tu la penserai così, ma io non so che farmene di questa ragazza. Se non la smette, le do un
sacco di legnate e vedrai che si calmerà».
«Esistono maniere più semplici — replica Michel. — Sta' attento, ora ti spiego il trucco per la
prossima volta».
E la chiama dolcemente:
«Barbara… Barbara…».
Subito la ragazza si calma. Guarda Michel da dietro il lume della sua candela. È ancora
ansimante.
«Barbara riprende Michel, — pensa a tuo marito… Tu non devi fare così».
Allora, bruscamente, Barbara si distende. Le lascio i polsi, lei si rialza e si aggiusta i capelli. «È
vero— dice, — hai ragione».
E se ne va!
Michel mi guarda con aria di trionfo, e mi spiega.
Barbara è una tedesca di buona famiglia, che è venuta qui su una 2 CV. Si è drogata troppo, al
punto che è svanita. Un giorno si è innamorata d'un austriaco. E nella sua follia s'è messa in testa di
sposarlo, col rito religioso.
Nessuno sa come abbia fatto, ma è riuscita a convincere i lama del Tempio delle Scimmie, a
Soyambonat (un villaggio sacro a un'ora di marcia da Katmandu), di sposarli.
La cerimonia ha dirottato verso Soyambonat tutta la colonia hippy, ed è stata l'occasione d'un
gigantesco «party alla droga» durante il quale almeno a una decina di essi ha dato di volta il
cervello.
Dopo un po' l'austriaco ne ha avuto abbastanza di lei, e Barbara, restata sola, si è drogata sempre
più, fino al punto che ora è completamente pazza.
Certi giorni, ripete per ore e ore il suo grido: «Prendimi… Prendimi…».
Un giorno qualcuno, seccato, le ha detto per scherzo: «Se tuo marito ti sentisse!», ed è bastato
per farla smettere di colpo, come per miracolo. Da allora, ogni volta che ricomincia, le si parla di
suo marito e lei si calma.
Proprio in quel momento, appena Michel ha finito di raccontarmi la storia di Barbara, dal fondo
del corridoio, improvviso, più stridulo che mai, il grido demenziale ricomincia:
«Prendimi… Prendimi…».
«Ma allora… — esclama Michel scuotendo la testa con aria delusa, — il trucco non funziona
più!».
Ed è così comico che scoppio a ridere.
«Be', almeno cerchiamo di dormire», sospira.
Ma è proprio impossibile, tutti i minuti il grido risale, lancinante, acuto:
«Prendimi… Prendimi…».
Sopporto per un quarto d'ora, poi mi alzo.
«Vieni, andiamo a calmarla sul serio».
Michel mi segue. Usciamo sul corridoio.
Barbara, sempre svestita, ha spalancato la finestra che dà sulla strada. Con le braccia levate al
cielo, la testa ciondolante all'indietro, ripete lentamente il suo ritornello.
Le arriviamo alle spalle in silenzio, e le saltiamo addosso.
«Tienila», dico a Michel. E le mollo un manrovescio con tutta la mia forza. Crolla senza un
grido, senza una lacrima. Per questa volta ha finito.
Allora dal basso, dalla strada, sentiamo un grido generale di protesta. Sono voci maschili. Stupiti,
ci affacciamo a guardare.
Una trentina di nepalesi ci mostrano il pugno, furiosi perché li abbiamo privati dello spettacolo!
Purtroppo non è ancora finita con Barbara. Avrò ancora da sopportarla parecchio.
E non solo lei, tanto per restare nel genere «spogliarelliste urlatrici». Barbara ha un'amica,
Brigitte, anch'essa di buona famiglia, d'origine belga mi pare, che è non meno svitata.
Brigitte non grida «Prendimi» per delle ore, ma la sua specialità è altrettanto sconcertante. Di
tanto in tanto si sveste completamente, va in mezzo alla strada e cammina tra i nepalesi,
gesticolando e lanciando in tutte le direzioni, fra altre frasi irripetibili, i sacri gridi buddisti.
Il che è molto spiacevole, in primo luogo perché esce in bestemmie tali che dobbiamo correrle
dietro e riportarla all'albergo prima che la facciano a pezzi; e poi perché scene del genere a poco a
poco ci mettono in cattiva luce, tutti in blocco, europei e hippies.
Sette o otto giorni più tardi, io rompo con Agathe. Devo dire che è molto cambiata dal suo arrivo
a Katmandu. Ora è passata alle iniezioni e si droga al punto, che l'amore quasi non la interessa più.
Eppure è una crisi di gelosia che porta alla rottura.
A causa di Guy.
Una sera Agathe mi prende in disparte e mi pone un aut-aut senza via di uscita:
«Charles, — mi dice, — lascia perdere Guy e prendi una camera con me. Voglio insegnarti le
iniezioni. Sarà meraviglioso, vedrai».
Io protesto che lei corre troppo in fretta con la droga, che al momento l'hashish e l'oppio mi
bastano.
«E poi — aggiungo — non posso piantare Guy nello stato in cui si trova».
È vero: si è messo piuttosto male. Da quando è all'Oriental Lodge, non lascia più la camera e non
smette più di tirare dal suo shilom.
Ne è divenuto un vero specialista.
È maestro nell'arte di prepararlo. Non c'è alcuno come lui per tostare, impastare, sistemare
l'hashish nello shilom.
In camera nostra c'è una sfilata continua di ragazzi e ragazze che vengono a prendere lezione da
lui.
E Guy non smette, per conto suo, di accendere uno shilom dopo l'altro, giorno e notte,
mangiando quasi nulla, e dormendo meno ancora.
Ricordo queste cose ad Agathe, e le chiedo di comprendere la situazione: Guy, del resto, è mio
amico da Istanbul, un dramma terribile ci ha uniti, non ci siamo più lasciati da sei mesi.
No, io non posso separarmi da lui.
«D'accordo — mi risponde lei seccamente. — L'hai voluto tu».
Si gira sui tacchi e se ne va.
Io alzo le spalle. Questa ragazza, che ho tanto amato a Bombay, mi è diventata ora del tutto
indifferente.
E così il capitolo Agathe è pietosamente chiuso. Resteremo amici, almeno per un po' di tempo,
finché un bel giorno riuscirà a mandarmi fuori dai gangheri.
Ma intanto il risultato è che mi trovo presto con un'altra ragazza sulle spalle.
Agnès.
È una svizzera, slanciata, al momento incollata a un australiano. Sono installati in una camera a
due, ma appena Agnès vede che fra Agathe e me è finita, decide di mettere il suo zampino su di me.
Tutte le notti, quando il suo australiano, impinzato di droga, è piombato nel sonno, lei si alza e
viene a infilarsi nel mio letto.
La cosa in sé non avrebbe nulla di sgradevole, anzi, perché la ragazza è molto graziosa, solo che
ha una fame da lupi. Di cibo, voglio dire.
E mai in ore normali.
Di giorno, al ristorante, non mangia nulla. Ma di notte…
Tutte le notti, è inevitabile, alle tre del mattino mi scuote:
«Charles, ho fame…».
«Ecco, ci risiamo…».
«Vieni, andiamo a mangiare». «Ma sai bene che è tutto chiuso». A quell'epoca ignoro ancora,
come lei, l'esistenza del Paris Restaurant, quello aperto tutto il tempo.
«Non importa. Troveremo qualcosa. Andiamo a bussare al Ravi Spot».
La mia disgrazia è stata di dirle di sì la prima volta.
Brontolando mi alzo, ed eccoci nella strada.
Subito i cani ci sono addosso. Una banda di cani astiosi, cattivi, rognosi, stomachevoli, e molto
grossi, che ci si fanno attorno digrignando i denti, lanciando sordi grugniti, guaiti orripilanti.
Mi tiro subito indietro, ma in fondo la loro presenza non mi sorprende troppo. Li sento sempre
urlare di notte, tutta la notte, dal mio arrivo. I cani di Katmandu sono il solo rumore costante,
incessante, che si senta dal tramonto al levare del sole…
E so anche perché i nepalesi non li ammazzano. Essi mangiano i topi. Senza di loro, la città ne
sarebbe invasa.
Rifletto un momento. Se torno indietro e risalgo in camera, avrò Agnès sulle costole a ripetere
«Ho fame» fino all'alba.
Mentre con un po' di coraggio posso farcela ad arrivare fino alla porta del Ravi Spot, distante una
ventina di metri, quasi in faccia all'Orientai Lodge.
E mentre Agnès batte per svegliare i camerieri, io dovrei farcela a tenere a distanza i cani.
Mi metto così a distribuire pedate sui musi dei più vicini, accompagnandole con pesanti insulti.
Miracolo! I cani scappano come passerotti.
In seguito non ho mai avuto noie, di notte, dai cani di Katmandu. Urlavo più di loro, distribuivo
pedate in tutte le direzioni, e scappavano. Tutt'al più la banda si ricomponeva più lontano, e mi
seguiva a rispettosa distanza nelle mie peregrinazioni notturne, ringhiando sordamente. Ma bastava
girarmi e lanciare un urlo di tanto in tanto, per starmene poi tranquillo per un pezzo.
Perché l'essenziale è non lasciarsi prendere dal panico. I cani se ne accorgono subito e attaccano
senza pietà. Un americano ne è uscito molto malconcio, una notte, per aver commesso l'errore di
scappare di corsa.
Dunque noi due raggiungiamo in fretta la porta del Ravi Spot. Agnès bussa, mentre io assesto
un'ultima pedata all'ultimo cane.
Continuiamo a bussare per cinque buoni minuti. Alla fine aprono. Appare la testa arruffata e
sonnolenta di un ragazzo.
Nello stesso tempo, dall'interno, una voce d'uomo bofonchia in nepalese e, stando al tono di
voce, vuole di sicuro dire: «Ma non si può neppure dormire tranquilli!».
«Mangiare, vogliamo mangiare», dice Agnès in inglese.
Allora si avverte un tramestio all'interno. La luce si accende, la porta si apre, e ci troviamo
davanti un'assemblea di cinque o sei domestici e di due o tre ragazzini che dormivano un po'
dappertutto, sui tavoli, sulle sedie, per terra, e che il solo suono della voce d'una ragazza è riuscito a
svegliare, a rendere sorridenti e cerimoniosi.
«Vedi — conclude Agnès, entrando come una principessa, — basta domandare».
Dieci minuti più tardi siamo a tavola davanti a un piatto pieno di polpette di riso e a una teiera
fumante.
Poi ci friggono delle banane, e per finire preparano a ciascuno un bang lassi, il delizioso latte
cagliato con hashish.
Non so se la dose dell'hashish sia troppo forte o se abbiamo esagerato con gli shilom la sera
precedente all'albergo, ma è certo che il bang lassi ha su di noi un effetto prodigioso.
Dopo pochi istanti siamo completamente «partiti», planiamo nell'aria. Tornare a dormire? Non ci
pensiamo nemmeno.
«Andiamo a spasso», decreta Agnès.
Anch'io sono del suo parere.
Usciamo tenendoci a braccetto, leggeri come piume, con l'impressione di sfiorare appena il
terreno, di poterci librare in aria con un semplice colpo di tallone, come fa il palombaro che risale
dal fondo.
Durante una buona mezz'ora gironzoliamo a casaccio, senza parlare, distribuendo ogni tanto una
pedata a qualche cane.
Arriviamo nella strada centrale, quella che porta alla Piazza dei Templi. Agnès si ferma:
«Guarda!», mi dice, indicandomi un atrio sulla nostra sinistra.
Mi avvicino, perché la luce è scarsa.
«È un tempietto dedicato all'Amore — mi dice Agnès. — Vedi i bassorilievi?».
È proprio così, non ci si può sbagliare. Scolpite nella pietra davanti a noi, delle figurine, uomini e
donne, in tutte le posizioni che l'immaginazione più scatenata può concepire. Tutta l'arte di amare vi
è rappresentata, come in una dispensa per corrispondenza a fumetti.
Avanziamo lentamente sotto l'atrio. In fondo, un cancello socchiuso. Dietro di esso, all'interno,
delle candele tremolano. Avanziamo ancora, facciamo cigolare il cancello aprendolo
completamente.
È straordinario. Siamo in una minuscola cappella dai muri scolpiti con immagini più scapigliate
che quelle viste fuori. Fra le sculture, dappertutto, in mezzo a decine e decine di candele, ci sono
fiori a profusione.
E in una nuvola d'incenso, che col suo odore ci stordisce un po', appare la dea dell'Amore.
«Guarda lì!», grida d'improvviso Agnès, stringendosi a me.
A mia volta, col sangue gelato, scorgo quello che l'ha fatta strillare.
Una decina di ombre nere scorrono sulla statua.
Sono topi.
Quando ci ritroviamo fuori, ancora sconvolti, il giorno comincia a levarsi. Riprendiamo il nostro
cammino, sempre a casaccio, ma ora verso ovest, verso il fiume.
E sbuchiamo in una piazzetta lastricata in pietre, somigliante in ciò alla piazza Fùrstenberg di
Parigi, ma la somiglianza finisce lì.
In questa piazza c'è il mattatoio di Katmandu.
Davanti a noi, con i piedi legati, un bufalo attende la morte. Si vede che capisce ciò che lo
aspetta. Ruota gli occhi spaventati, fuma dalle narici.
Di soppiatto due inservienti si portano dietro a lui, e insieme, con una sola spallata, lo urtano
violentemente.
Il bufalo crolla su un fianco. Mugghia con tutta la forza dei suoi polmoni. Si è rotto qualcosa di
sicuro, almeno le costole.
Ma già il suo boia si china su di lui, e con un gesto rapido gli taglia la gola.
Il sangue zampilla in grossi rigagnoli e se ne va come un ruscello, sul lastricato in discesa, verso
la stradicciola più in basso. Scorre e scorre, non finisce più di scorrere, mentre la bestia a poco a
poco s'immobilizza, rantolando.
Il ruscello di sangue fumante passa davanti ai nostri piedi. Uno sciame di mosche si butta
all'assalto e beve avidamente.
Colpendolo col piede sul muso, il boia si assicura che il bufalo non reagisca più. L'animale è
proprio morto. Allora gli inservienti lo coprono di paglia e sterpi secchi, innaffiano il tutto con
benzina, e appiccano il fuoco.
Le fiamme divampano, il fumo descrive grosse volute, un intollerabile odore di peli bruciati
invade la piazza.
In capo a una ventina di minuti il fuoco è spento. Gli uomini strigliano l'animale e si mettono a
farlo a pezzi.
Sono convinto che se non fossimo storditi dall'hashish, Agnès e io, saremmo già andati via da un
pezzo. Ma l'hashish annulla la nostra volontà. Uno spaventevole incantamento ci tiene lì, con gli
occhi inchiodati su quel corpo, i cui organi fumanti saltano fuori uno dopo l'altro sotto i colpi dei
coltelli.
La macellazione è atroce, l'odore insostenibile, ma noi restiamo. C'è da vergognarsi a dirlo, ma
siamo avidi di questo spettacolo. Ciò che vediamo scatena in noi uno straordinario fuoco d'artificio
di sensazioni violente, appena sostenibili, ma che ci fanno quasi tremare di piacere.
Restiamo lì a lungo. Assistiamo all'uccisione di quattro bufali. Ne vediamo uno inciampare
mentre lo portano sul posto, cadere sulle corde che lo legano, e finire scivolando sul fianco dentro il
sangue, giù nella stradicciola in discesa, urlando a morte.
I macellai ridono mentre fanno a pezzi la carne; la buttano davanti a se stessi, lì per terra,
formando una specie di bancarella primitiva.
Già arrivano le prime massaie. Una bilancia viene estratta da un cassone; si fa il filo ai coltelli, si
chiacchiera, si taglia, si consegna, si paga.
Vedo davanti a me una ragazzina d'una decina d'anni, che se ne torna a casa tenendo in mano un
ripugnante pezzo di carne sporco di terra, che fuma ancora.
Solo ora, la voglia di vomitare mi prende.
«Partiamo — dico stomacato a Agnès. — Andiamo a farci uno shilom».
Lasciamo la piazza, ci sediamo sotto un portone, e ci facciamo due buoni shilom che ci rimettono
completamente in sesto.
Ora non abbiamo proprio più alcuna voglia di andare a dormire.
II sole si è alzato da parecchio, e ovunque nelle strade i nepalesi circolano, portando enormi
gerle di vimini tenute in equilibrio da una cinghia di cuoio che passa sulla gerla e circonda la fronte
del portatore.
Con la massima attenzione, sempre trotterellando, evitano le vacche sacre in cui s'imbattono.
Alcune gerle sono piene di legna, altre di sterco di vacca seccato, altre ancora di volatili
pigolanti. Le donne portano la gerla altrettanto bene che gli uomini.
Sono contadini venuti dai monti a vendere nel mercato.
Quasi tutti hanno in mano un rosario e un «mulino da preghiera»: un cilindro cavo, contenente
una pergamena su cui sono riportati testi sacri, fissato con una cordicella a un manico di legno che
essi fanno ruotare.
Ogni tanto si fermano davanti a un tempio o a uno stupa (una piramide in pietra, ornata con
mulini da preghiera infissi), e con un gesto rapido fanno girare i propri mulini.
Poi ripartono, sempre trotterellando. Quasi tutti sono nudi, con appena un panno nero tra le
gambe, che lascia le natiche scoperte. Le donne, con un solenne vestito nero che scende fino alle
caviglie, portano dei pendagli smisurati alle orecchie, che perforano i lobi e li allungano con il loro
peso. Alcune hanno un anello al naso, che perfora di lato la narice.
Quasi tutti gli uomini hanno i capelli lunghi. Ma ce ne sono che hanno il cranio rasato a zero,
salvo un ciuffo sottile, molto lungo, che pende dal centro del cranio.
Ciò che mi manda in visibilio sono le loro gambe nude.
Sono bellissime. Si vede che sono state esercitate fin dalla nascita alla marcia sui monti, lungo i
piccoli sentieri che tagliano i pendii.
Il loro attacco al tronco è perfetto e ben disegnato. I muscoli giocano sotto la pelle, e la pelle è
lucida di sudore.
Non mi stanco di vederle sfilare davanti a me, e le trovo belle come le gambe delle statue greche.
Ma Agnès mi tira per una manica. Ci risiamo, c'era da aspettarselo: ha di nuovo fame.
Ci mettiamo sulla scia dei portatori, e finiamo in pieno mercato. Il suk. Ovunque bancarelle
colorate: viveri, sacchi di zucchero e di riso, frutta, tessuti, sciarpe multicolori, in un baccano
incessante e in una baraonda indescrivibile.
In mezzo, le vacche sacre passeggiano col sussiego di regine, tuffando il muso nei sacchi di
grano senza che il venditore osi opporsi. Però ho visto uno di essi, esasperato — la vacca gli aveva
divorato un terzo di sacco, che la respingeva, con molto rispetto senza dubbio, ma anche con molta
fermezza.
Ma è pazzo? Non finirà per farsi lapidare, come ho visto che per poco non capitava a un europeo
a Bombay, per aver avuto la sfortuna di urtare senza farlo apposta una vacca sacra?
No: anche altri vengono ad aiutarlo.
Risultato: devo concludere che nel Nepal le vacche non sono poi così sacre come altrove!
Agnès ha trovato quel che cercava: un mercante di formaggio.
Sceglie un formaggio ben maturo, naturalmente di capra.
«Hai dei soldi?», mi domanda.
Ne ho. Tiro fuori un biglietto da una rupia, e lo tendo al mercante.
Lui scuote la testa e mi fa segno che non vuole il mio biglietto.
Perché mai? È un biglietto buono, un'autentica rupia nepalese, diamine!
Protesto in inglese. Egli mi ascolta, non capisce nulla ma resta irremovibile.
Non vuole il mio biglietto e ritira il formaggio dalle mani di Agnès.
Nello stesso tempo parla, vivace, indicandoci col dito qualcosa in fondo alla piazza, dietro i due
immensi stupa a fianco dei templi.
Che vuol dire? Per fortuna Agnès ha capito. Si batte la mano sulla fronte.
«È vero — esclama. — Bisogna che tu vada a scambiare il biglietto».
La guardo stupefatto.
«Vieni!», mi dice.
Arriviamo davanti a un gruppo di quattro o cinque mercanti che hanno, come unica mercanzia
davanti a sé, enormi mucchi di monetine, ciascuno alto un buon metro.
D'autorità Agnès mi prende dalle mani il biglietto d'una rupia, e lo porge al primo commerciante.
Poi pilucca nei mucchi di monetine. Ne prende cinque di 10 pesa (100 pesa fanno una rupia), cinque
di 5 pesa, e venticinque d'una pesa (una rupia nepalese vale al cambio 62 lire italiane; perciò una
pesa vale lire 0,62. Ma in questo caso come in altri il riferimento ai cambi non ha un vero
significato, trattandosi di sistemi economici del tutto diversi). Riconta tutto, e restituisce una pesa al
mercante, prima di deporre il resto nelle mie mani.
«Una pesa — mi spiega — è ciò che gli spetta per il cambio».
E ritorniamo a comperare il formaggio, che costa 8 pesa.
Agnès, mentre mangia seduta sul primo gradino d'uno stupa, mi spiega come stanno le cose.
Nel Nepal la gente guadagna così poco denaro (50-70 pesa al giorno per un lavoratore agricolo,
25 soltanto per un uomo che bituma le strade, per esempio), che una rupia è una cifra di tutto
rispetto. E a meno di andare dai grossi commercianti, dai ristoranti e alberghi di lusso, nessuno ha
mai con sé del denaro. Di qui l'istituzione quasi ufficiale dei mercanti di monete, che vivono con la
piccolissima percentuale che prendono ogni volta.
E con la vendita delle pipe per l'hashish puro, anche.
«Non ne hai mai fumato?», <mi domanda Agnès.
No, finora ho fumato l'hashish solo nello shilom, mescolato al tabacco.
«Allora va' a comperare una pipa. Non costa molto. E poi vedrai».
È quello che faccio. Per 30 pesa, ho una pipa in terracotta il cui fornello ha le dimensioni di una
nocciola di hashish.
La carico, la accendo, e aspiro. Sarà per la fatica della notte passata in bianco o per la forza della
pipa (che è di parecchio superiore allo shilom) o perché da ieri sera ho già preso una quindicina di
shilom, sta di fatto che in un niente mi metto a planare, e volo molto, molto in alto.
«E io? — piagnucola Agnès. — Mi hai dimenticata?».
Mi prende la pipa di mano, se l'accende, e oplà!, eccoci in due a planare, seduti lì, in pieno
mercato centrale di Katmandu, sulla gradinata d'uno stupa.
Ce ne stiamo una buona ora allungati sotto il sole, sulla pietra dello stupa, a fantasticare che è
una meraviglia. D'improvviso sento nel mio sogno delle voci europee. Si parla in inglese. No, in
americano, l'accento non m'inganna. Sono voci maschili, e hanno un tono ridanciano che non mi
piace. Afferro anche qualche battuta, che è decisamente pornografica.
Apro un occhio, giro la testa da una parte sollevandomi un poco, e vedo davanti a me un gruppo
di turisti americani ubriachi, molto eccitati, che mitragliano a colpi di obiettivo lo stupa sopra di me.
Alcuni stanno filmando, l'occhio incollato alla cinepresa. Uno di essi mi guarda con sfrontatezza, e
viene a farmi un primo piano. Io protesto:
«Che diamine! Non si può più stare in pace?».
Fa una grassa risata, e continua a lavorare, indicandomi quel che sta filmando.
«Siete voi, invece, che dovreste fare più attenzione», replica con aria sfottente.
Guardo sopra di me, e vedo quel che sta filmando e prima non avevo notato: la cornice superiore
dello stupa è una serie di bassorilievi erotici, simili a quelli della cappella di questa notte.
Sorrido trinciando l'aria col gesto stanco della mano, e torno a coricarmi.
Ma un istante più tardi riapro gli occhi. L'hashish, di cui sono pieno, mi ha suggerito un'idea.
«Passami la pipa», dico ad Agnès.
La carico ancora una volta, e la vuoto con una sola lunga inspirazione.
È proprio come pensavo: mentre mi ricorico, di fianco questa volta, l'occhio fisso sul fregio
erotico, vedo che d'un colpo i personaggi si animano, e compiono i gesti che abbozzavano nella loro
immobilità di prima…
Mi basta ancora un piccolissimo sforzo di volontà supplementare perché subito i personaggi non
siano più di legno, non siano più nepalesi.
Eccoli che ingrandiscono davanti a me, e si presentano come sopra una scena. A sinistra, c'è una
grande ragazza bionda, con il suo partner. E costui è un fauno antico, con la fronte liscia, due corna
che escono dai suoi riccioli neri, il torso potente, e le zampe di caprone. Dove l'ho già visto? Mi
viene subito in mente. A Londra, molto tempo fa, sulla parete d'una galleria: era un'incisione di
Picasso.
Ora non sento più il fracasso del mercato, né le parole dei turisti che sempre più numerosi si
affollano attorno a noi. Sono solo, col mio «cinema cochon», e diabolicamente felice!
Il piccolo spettacolo dura almeno un'ora, prima che i personaggi a poco a poco si irrigidiscano di
nuovo, ritornando al loro stato inerte, e alla loro dimensione di figurine dagli occhi a mandorla,
ormai fissati nelle pose da cui ho ricavato tante immagini.
Sento la mano di Agnès che mi scuote.
«Sei tutto stravolto — mi dice, preoccupata. — Hai un'aria così strana! Qualcosa che non va?».
Io scoppio a ridere.
«Sì, sì, va. Per andare, va fin troppo!».
Lei scuote la testa. È chiaro che resta della sua opinione: c'è qualcosa in me che non va.
«Mi accompagni alla posta? — finisce per dirmi dopo avermi osservato per un buon minuto. —
Aspetto una lettera».
«Andiamo».
Quando arriviamo, la posta è piena di hippies. Non c'è nulla di straordinario. L'ho già detto: per
la gente della strada, la posta è un luogo di primaria importanza. Non tanto perché vi si possano
trovare notizie dei propri cari (sono rari quelli che s'interessano ancora di ciò che può capitare a
casa loro, in Europa o in America), ma perché la posta può significare denaro in arrivo sotto tutte le
forme: vaglia, travellers' cheques, o semplicemente biglietti infilati nelle buste, in mezzo a carta
carbone se possibile, per sfuggire alla curiosità sempre sveglia dei postini orientali.
C'è infatti da aspettarsi, con la posta, una media del cinquanta per cento circa di perdite.
Ma anche se la lettera è arrivata, non si è ancora giunti al termine delle ansietà.
Perché i postini di Katmandu generalmente sanno appena leggere. E classificano le lettere nelle
caselle in ordine alfabetico dell'ufficio del fermo posta, con una fantasia che sgomenta.
Per quel che mi riguarda, ho imparato molto presto a chiedere all'impiegato di guardare non solo
nella cassetta della «D», che è la prima lettera del mio cognome, ma anche nella «C», la prima
lettera del mio nome, e anche di dare un'occhiata alla casella della «M».
Perché? Perché «M» è la prima lettera di Monsieur, e nella relativa casella una volta una mia
lettera ha atteso più di un mese.
Agnès prende il suo posto nella coda. Davanti a noi, allo sportello, c'è un po' di maretta. Un
tedesco insiste: è sicuro che è arrivata una lettera al suo nome.
L'impiegato gli fa vedere la cassetta corrispondente: non c'è niente.
L'altro, per la sesta volta, gli domanda di guardare nelle altre cassette, non si sa mai.
Il postino rifiuta nettamente. Ne ha abbastanza. Avanti un altro!
Allora vediamo il tedesco saltare sopra il bancone e andare a prendere l'impiegato per il collo.
Quindici altri impiegati arrivano alla riscossa, e almeno venti hippies saltano a fianco del loro
compagno.
Piccolo tafferuglio… Poi ci si separa, ci si guarda nel bianco degli occhi, si parlamenta, tutto
sotto gli occhi dei nepalesi, che stanno stupiti attorno a noi.
Il direttore della posta, accorso, finisce per accogliere (contro voglia e reticente: comprende che,
se il tedesco ha ragione, il ridicolo viene gettato sui suoi servizi) la richiesta del tedesco. E cioè, di
guardare alla lettera «H» (Herr, «signore» in tedesco), se per caso non c'è la lettera che aspetta.
Il tedesco guarda, fruga, e, levando in alto la lettera, lancia uno stridulo grido di vittoria.
Ha ragione lui: la lettera c'era.
Un po' mortificato, il direttore lo spinge al di là del bancone, borbottando qualcosa che in
nepalese dev'essere l'equivalente di: << E va bene, d'accordo, hai vinto, però adesso non cantare
troppo da gallo!».
Ma l'aria di trionfo del tedesco si cambia brutalmente in rabbia.
Ha aperto la busta, e dentro non c'è altro che una lettera.
«Cos'è che non va?», domanda impaziente il direttore.
«Che cosa non va? — urla l'altro col suo formidabile accento teutonico. — C'è che in questa
busta mia sorella aveva messo 25 dollari, e che essi non ci sono più!».
Un risolino di trionfo fiorisce sulle labbra del direttore.
«La sua lettera ha traversato molti paesi, dalla Germania a qui. Dei paesi in cui il servizio postale
non ha, a quanto pare, l'onestà delle poste nepalesi».
Una sghignazzata gli risponde dalle file degli hippies.
Il direttore riprende, sempre col sorriso a fior di labbra:
«Del resto, signore… — c'è da piegarsi in due dalle risa, vedendo a chi viene indirizzata la
qualifica di "signore": il tedesco è a piedi nudi, è vestito con blue-jeans bisunti e a brandelli dal
ginocchio in giù, ha sulle spalle una giacchetta corta da donna, in merletto rosa, che si scuce sotto le
ascelle e si apre davanti, sotto una barba di un anno, sopra un vello di peli rossi. — Signore, lei
saprà di sicuro che i regolamenti postali internazionali proibiscono formalmente l'invio di biglietti
dentro busta».
L'altro sbotta:
«Ma se si manda un vaglia, non arriva mai! Nella busta, invece, qualche volta, qualche
probabilità che arrivi c'è!».
«Si vede, che questa non era per lei la volta buona!», conclude il direttore con un risolino
beffardo, prima di squagliarsela in fretta dietro il bancone.
Il tedesco non è un violento. Abbozza con le spalle un gesto di rassegnazione, e se ne va,
scrollando per dispetto la sua criniera.
Agnès non ha fortuna, neppure lei. La lettera che aspetta non è arrivata.
«Bene — mi dice, — ora non ho più che una soluzione. Prestami 5 pesa, e vado a telefonare».
«A chi?».
Sorride, e mi spiega. Di tanto in tanto accetta la compagnia, in cambio di denaro, di un
funzionario della commissione americana per gli aiuti al Nepal.
«Un vecchio porco — dice, — ma a me fa comodo; ci guadagno parecchio. E per di più, prima
mi fa fare un bagno. È meglio che il lavandino dell'Orientai, non trovi?».
Va a telefonare, e torna con il broncio.
«Non prima di questa sera — mi dice. — È seccante. Ma il mio Peter non ce la fa più. Ha
bisogno della morfina prima di mezzogiorno».
Peter è l'australiano, io lo so. Che posso fare?
«Quanto fa, questa morfina?».
«Cinque rupie. Me le presti? Grazie. Sei proprio chic. Vieni, andiamo in farmacia».
E lì, senza prescrizione medica, senza niente, ottiene il suo flacone.
Rientriamo. Peter è sul suo pagliericcio, eccitatissimo. Esce in un lungo sospiro di sollievo,
vedendo Agnès.
Subito lei prepara la morfina, la siringa, l'ago, dispone il legaccio attorno al braccio di Peter, e
con gesti dolci e teneri, la lingua in fuori, l'aria di una scolaretta diligente, fa l'iniezione.
Man mano che il liquido entra nella vena, Peter riprende i suoi colori, si distende, si calma.
«Grazie», dice alla fine.
E si corica su di un fianco, col naso nel pagliericcio.
3.
Nel giro di una settimana, so tutto su Katmandu. I luoghi in cui ci si diverte, quelli in cui ci si
fornisce di droga, i segreti degli uni e degli altri, gli intrighi, i trucchi, le storie.
Per ora sono ancora fermo all'hashish, qualche volta prendo l'oppio, ma niente iniezioni. Ho
troppo da osservare, troppo da vedere, per essere veramente tentato di avventurarmi oltre nel regno
della droga. Ma non passerà troppo tempo, come si vedrà…
Da quando Agathe e io abbiamo rotto, per così dire, provo una specie di sollievo. È meglio così,
mi sento più libero. E non è forse ciò che in fondo ho sempre desiderato più di tutto? I miei giorni
passano nel fumare lo shilom con Guy, le mie sere nell'andar a sentire musica al Quo Vadis o al
Cabin Restaurant, e nell'esplorare la città.
Mi faccio degli amici un po' dappertutto. In primo luogo nel mondo hippy, si capisce, dove mi è
tanto più facile in quanto si è presto saputo che ho del denaro.
Va da sé che sono un po' sfruttato, e che lo sarò man mano di più. All'Orientai finisco per pagare
non solo per Guy, Michel e per me, ma anche per Agathe e Claudia, Agnès e il suo australiano. Mi
dico che è normale, che andrà avanti così finché avrò denaro, che poi si vedrà.
Ma frequento anche l'altro mondo, il bel mondo.
Un giorno, nel Centro culturale francese in cui sono andato a sfogliare giornali e riviste, faccio
conoscenza con un canadese di lingua francese. Si chiama Pierre, è diplomatico.
Chiacchieriamo, simpatizziamo, mi presta dei libri. Mi invita a pranzo nel suo albergo, il Royal
Hotel.
Ho messo il vestito migliore, sono ben pulito, presentabile.
Riesco così a introdurlo nell'ambiente hippy, senza che ne faccia proprio parte.
Ci vediamo spesso. Avendo denaro, gli restituisco i suoi inviti.
Presto facciamo dell'equitazione insieme.
È così che per la prima volta incontro Jocelyne.
Quel giorno, a cavallo, Pierre e io siamo andati fino a Soyambonat, la città col Tempio delle
Scimmie, sul primo contrafforte della montagna.
A una svolta della strada ci imbattiamo in due ragazze, due europee, che indossano un costume
inverosimile anche per degli hippies.
Sono coperte di cenci, letteralmente. Le vesti sono tutte sfilacciate (saprò più tardi che le
avevano stracciate apposta così), sembrano uscite dalla corte dei miracoli.
E sono sfrontate, per di più. Si aggrappano alle briglie dei nostri cavalli, e ci apostrofano.
In francese:
«Di' un po', Christine — sbotta la prima, che ha i capelli corti, tutti ricci, come se le avessero
raso il cranio un mese prima. — Dammi un'occhiata a questi due!».
«Già, Jocelyne, chiediamo loro di portarci?», risponde Christine.
«Proprio questo! — riprende Jocelyne, battendo le mani. E rivolgendosi a me: — Signore! Mi fai
salire sul tuo bel cavallo?».
«Piano, piano, calmati», dico un po' a disagio, perché voglio tenermi buono Pierre, e non so
come lui prenda la cosa. E poi questa ragazza mi sembra davvero troppo sporca.
Non mi sbaglio. Pierre sta liberandosi della ragazza che si chiama Christine.
«Piantala, lasciami in pace», dico seccato a Jocelyne.
«E va bene — dice lei, — vi lasciamo in pace. Bye, bye».
E giungendo le mani dinanzi al petto, mi lancia in tono ironico:
«Namasté!».
Namasté, in nepalese, vuol dire tutto quel che si vuole, buongiorno, arrivederci, grazie, ma tutto
sommato è una formula di cortesia.
E ci si lascia.
Quindici giorni più tardi, Jocelyne sarà in camera mia…
E ciò, dopo una serata memorabile al Quo Vadis.
Poco dopo prendo un ragazzino a mio servizio, come avevo fatto già a Bombay.
Ma questo, il piccolo Krishna, è molto meglio. È un compagno fedele e devoto, pronto a farsi
ammazzare per me. Non lo dimenticherò mai, il mio piccolo Krishna.
Agathe e Claudia me l'hanno fatto conoscere. L'avevano preso per sé due o tre giorni.
Un giorno, all'Orientai, egli viene a vederle. Io sono lì. Lui mi sorride. E subito vedo che è il
ragazzino che fa per me. Il suo sguardo aperto e il suo sorriso franco non ingannano. Ha al più una
decina d'anni. I genitori? Non sono mai riuscito a sapere se li aveva. Credo che fosse un bambino
abbandonato. È sempre stato molto segreto su quest'argomento, e a ogni modo non imparerà mai
abbastanza francese per arrivare a spiegarsi.
Gli domando se vuole entrare a mio servizio, e salta di gioia.
Gli spiego, aiutato da un hippy che parla un po' il nepalese, quel che mi aspetto da lui: che si
occupi della mia biancheria, mi faccia le commissioni, mi guidi, venga a fare acquisti con me per
evitare di farmi imbrogliare. In cambio io lo nutrirò, gli darò un po' di denaro e lo vestirò.
A quest'ultima clausola batte le mani. È coperto di cenci e supplica che gli procuri subito dei
vestiti.
Lo conduco da un sarto e compero un bel vestitino molto colorato, che lo getta in un accesso di
gioia pazza. Ma questo vestito, sia detto di passaggio, tre giorni più tardi sarà già tutto lacero,
perché il mio Krishna si arrotola dappertutto e non c'è niente da fare per impedirglielo.
Però mi rende dei grossi servizi. Mi segue ovunque.
Nel ristorante, al principio, non riesco a farlo mangiare. Ha vergogna! Quando gli mostro il
menù, comincia col dire che non ha fame, poi si lascia tentare, ma sceglie sempre ciò che c'è di
meno caro. Devo quasi costringerlo a mangiare.
Non solo non mi costa caro, ma mi fa fare anche dei risparmi: quando entro in un magazzino, lui
mi precede e discute il prezzo. E discute da pari a pari, finché il commerciante, vinto, non mi fa lo
sconto che Krishna esige, invece di propinarmi il prezzo turistico abituale con gli europei!
In camera, dorme ai miei piedi. Non per crudeltà da parte mia. È soltanto per una ragione…
tecnica. Krishna fa la pipì a letto. E non c'è niente da fare per correggere quest'abitudine. Perciò,
dopo qualche notte, disperato perché bagna sempre il pagliericcio, decide da solo di dormire sul
nudo pavimento.
Come ho detto, Krishna mi segue ovunque. Il che vuol dire anche di notte, nei miei giri. È inutile
opporsi: quando io me ne vado, non vuole restarsene a dormire. Piange tanto che, per farla finita, mi
sono arreso e lascio che venga con me ovunque vado.
Con me fa il giro dei ristoranti, fa le mie passeggiate e le mie scorribande.
Viene anche al Cabin Restaurant, e devo fare sempre molta attenzione che non gli servano
qualche piatto con l'hashish.
4.
Krishna è con noi la sera famosa in cui costringiamo con la forza un turista a drogarsi.
Quel giorno, un aereo pieno zeppo di turisti americani è atterrato a Katmandu. Quando arriva
mezzanotte, eccoli che si riversano in forza nel nostro ristorante.
Sono una buona ventina, bardati in tutto punto con macchine fotografiche e cineprese, e
sgranano tanto d'occhi.
I turisti, si sa, non sono visti di buon occhio dagli hippies. Vengono ad ammirarli come si
guardano le scimmie allo zoo. Ma quella sera li si accoglie più freddamente del solito, al Cabin.
Barbara e Brigitte, le due invasate, hanno appena finito di fare il loro solito numero. E si può ben
dire che non sono mai state così scatenate.
Per due ore, mentre tutti non aspirano che a una cosa sola cioè a rincantucciarsi ciascuno nel suo
angolino e sognare, chi con lo shilom, chi con le iniezioni, ascoltando i Rolling Stones — esse ci
hanno rotto i timpani a furia di urla, di balletti e di strilli da gatte con la coda pizzicata tra i battenti
della porta. E, come al solito, si sono svestite prima di fare i loro balletti, sempre gli stessi, sempre
fuori tempo rispetto alla musica, e con la grazia di vacche da latte.
Gli hippies, è noto, non sono individui violenti. Così le due sono state sopportate a lungo con
pazienza. Ma alla fine un gigantesco olandese si è alzato, le ha prese di peso, e le ha sbattute fuori.
Poi, caritatevole, ha gettato loro i vestiti.
Finalmente! Vadano a rompere i timpani a qualcun altro.
Un minuto più tardi, siamo in paradiso. Fumate di shilom e di joint, luci smorzate, musica dolce,
e fantasticherie.
Patatrac! La porta si spalanca, e l'infornata dei turisti si riversa dentro.
Brontoliamo un poco. Qualcuno spiega loro che bisogna sedersi quietamente e non muoversi più.
Essi obbediscono.
È l'ora dei ballerini. E soprattutto quella di «Eddy otto dita».
«Eddy otto dita», così chiamato perché gli mancano il pollice e l'indice della mano sinistra, è una
personalità a Katmandu.
Americano, molto alto, dinoccolato, sulla quarantina, divide il suo tempo fra Goa sulla costa
occidentale dell'India, dove ha una casa (aperta a tutti, sia detto tra parentesi), e Katmandu.
Ha la fama di essere ricco, non veste da hippy, si droga, ma non si è mai saputo con che cosa. Ho
sempre pensato che si inietti cocaina o eroina. Però nessuno l'ha mai visto con una siringa in mano.
Fuma, si capisce, ma poco. Eppure è continuamente «partito».
Tutti lo adorano.
È un tipo che passa ore e ore a danzare fra i tavoli. Danza che è una meraviglia, con un eterno
sorriso molto dolce sulle labbra, con grazia perfetta, senza mai un movimento scomposto, senza mai
perdere il ritmo.
Vederlo danzare è uno spettacolo indimenticabile. È sempre in compagnia di altri ragazzi e
ragazze, che si alternano nel ballare con lui — perché lui è inesauribile, — ma per belli che siano
ragazzi e ragazze, è lui, Eddy, che tutti guardano, e non gli altri, talmente è superiore a tutti,
talmente sprigiona un fluido irresistibile.
Solo due, a volte, arrivano alla sua altezza: To, un giovane vietnamita che non lo abbandona mai
e finisce per assimilare un poco della sua grazia e della sua eleganza; e un negro americano,
splendido, completamente svanito: un disertore del Vietnam.
To un giorno mi ha offerto una scatola d'argento per l'hashish, che conservo ancora oggi, vuota si
capisce, ma che mi basta aprire, perché i ricordi affiorino d'improvviso alla mia coscienza.
È una piccola scatola lavorata, con queste parole incise nell'interno: «Ti amo».
Il mio amico non ha destinato a me queste parole. È una ragazza che lo ama, e che vi ha
impresso le parole, perché lui la pensi tutte le volte che apre la scatola per fumare.
È stato da parte di To un gesto grazioso. Mi ha offerto la scatola una notte, per farsi perdonare di
non avermi rimborsato parecchie dosi di morfina che gli avevo pagato.
Ma il coperchio all'interno non ha lo specchietto. La maggior parte delle scatole per hashish —
come l'altra di ferro che mi sono comperata — ne hanno uno. Ed è molto importante. Difatti quando
si fuma l'hashish si è soliti guardarsi a lungo nello specchio. Aiuta a sognare.
Quante volte, centinaia e centinaia, anch'io mi sono contemplato nello specchietto,
giudicandomi, valutandomi, parlandomi, interrogandomi…
Bene. Quella sera c'è festa al Cabin. Eddy, To e il negro di cui non ricordo il nome, si buttano
allo sbaraglio.
Per un quarto d'ora i turisti se ne stanno tranquilli, ma poi non resistono più e i flash delle
macchine fotografiche cominciano a scattare.
Non c'è nulla di più sgradevole, quando si è sotto l'effetto della droga, che quei lampi che
offendono la retina. Con i nervi a fior di pelle, è un vero supplizio.
C'è una protesta generale, e i turisti si calmano.
Ma non per molto. Dopo dieci minuti, clic!, un altro flash.
Viene da un individuo biondo e grosso, sulla trentina, intento a ruminare il suo chewing-gum; è
un texano, industriale del petrolio, affarista, di quelli «a cui nessuno gliela fa».
Qualcuno cerca di convincerlo. Non ne vuole sapere. Continua a mitragliare. Col risultato che
Eddy, To e il negro smettono di danzare.
«Sei contento, ora?», gli grida un ragazzo.
L'altro sorride. Tira fuori una manciata di dollari e la getta fra i tavoli.
«Forza, danzate! Forza, pago io!», erutta eccitato.
È ubriaco, lo si vede bene.
Quel gesto ha gelato la sala. Eddy non è certo il tipo da farsi pagare per ballare. Non fa una
piega.
«E va bene — sbotta l'americano. — Allora ballo io».
E comincia a ballonzolare, nel silenzio generale, berciando canzonette vagamente hawayane.
Disgustati, Eddy e i suoi ballerini se ne vanno.
Vedendo che le cose si mettono male, gli altri turisti cercano di far ragionare lo scocciatore. Ma
proprio non vuole sentir ragione. Lui balla. Lui può fare quel che vuole, no? Perciò continuerà a
ballare.
Gli altri se ne vanno dopo un ultimo tentativo.
Restato solo, neanche allora lo scocciatore la smette. Vista una ragazza che fuma col suo shilom,
glielo prende di mano, prova ad aspirare, non ci riesce, s'ingolfa, tossisce e sputacchia imprecando.
«Ma non è roba da bambini!», lancia una voce.
La frecciata blocca netto l'individuo. Che esplode. Ne dice di tutti i colori: lui non ha paura della
droga, lui è forte, siamo tutti delle canaglie, lui è in grado di fumare quell'arnese e ben altro, si provi
e si vedrà.
Ma guarda un po'! L'idea potrebbe essere divertente. E se provassimo davvero?
Fargli fumare uno shilom, babbeo com'è, non è il caso. Non sarebbe capace.
Una piccola iniezione, allora? Ma proprio piccola, e debole… Un fondo di morfina per esempio,
appena un fondo. Rimpinzato com'è, basterà per procurargli senza pericoli una buona crisetta di
vomito e di coliche.
«Un piccolo shoot, Sir?», gli domanda Harry il canadese.
«Sir» ruota gli occhi bovini.
«Un piccolo che?».
«Un pizzico di morfina, tanto per provare. Una bella esperienza. Da raccontare quando sarà
tornato a casa… — insiste Harry. — Allora, ha paura?».
«Paura?».
Si è drizzato, e gonfia il torace.
«Fammi l'iniezione, coniglio!», gli replica, rimboccandosi la manica.
Bisogna che sia ubriaco fradicio, per non accorgersi che gli preparano uno scherzo feroce.
Harry, sorridente e tranquillo nonostante l'insulto ricevuto, prepara una piccolissima dose, stringe
il legaccio, tasta la vena, la pulisce con l'alcool, e pianta l'ago.
«All right?».
«Certo!», ruggisce l'altro.
Sempre sorridendo, Harry fa scorrere lo stantuffo.
«Ecco fatto, già finito — dice. — Ha sentito male?».
L'altro fa il gesto di sistemare il risvolto del polsino, poi, di colpo, impallidisce.
È il classico colpo di flash, quando il liquido entra.
Ma un flash, quando si hanno le vene piene di alcool, per quanto sia debole, è una dinamite.
Tre minuti più tardi l'individuo si arrotola per terra e piange come un bambino.
Lo si lascia tranquillo finché si calma. Poi una ragazza gli fruga le tasche. Ne tira fuori lo
scontrino del suo albergo.
È sistemato all'Annapurna Hotel.
Dalle sue tasche escono anche dollari a manciate.
«Sempre di questa roba addosso — mormora la ragazza. — Con questo cretino, non è il caso di
avere degli scrupoli».
E fa sparire tutto il denaro.
«E ora che ne facciamo di questo tipo?», dice Harry, gettando uno sguardo disgustato al turista
che sta vomitando e gemendo.
«Lo buttiamo fuori dei piedi», dice la ragazza.
Tre hippies lo sollevano, vanno a deporlo sotto un porticato a 200 metri di lì, dove potrà
vomitare con tutta tranquillità, e ritornano.
Si riaccendono gli shilom, si rimette su la musica, e la serata riprende tranquilla, ora che siamo
soli.
Né il giorno dopo, né in seguito, abbiamo più sentito parlare di quel tale. Si è ben guardato dal
lamentarsi con qualcuno.
E la vita normale riprende.
Cioè, si va dal Cabin al Quo Vadis, e dal Quo Vadis al Cabin, con di tanto in tanto qualche
capatina nella città, nei templi o in quei teatri all'aperto, circondati di tendaggi, in cui a volte di sera
una decina di commedianti danno spettacolo.
Naturalmente si va molto al Quo Vadis. È lì che si può incontrare il più grande assortimento di
ragazzi e ragazze di tutte le nazionalità, di tutti i generi, zazzeruti o col cranio rasato, in sari bianco
o vestiti all'europea.
Tutti sono continuamente «in viaggio», soprattutto la sera quando i soliti ragazzi, anch'essi ben
drogati, si mettono a suonare.
Gli intrattenimenti musicali, quotidiani, e che durano a volte parecchi giorni di seguito senza
interruzione, sono qualcosa d'incredibile.
Per rendersene conto, bisogna cercar d'immaginare che cosa può essere una musica suonata da
individui del tutto fuori di sé. Non ha niente che fare con la musica normale.
È qualcosa d'indefinibile, d'irreale, di mai sentito. Le tonalità e gli accordi più strani si
succedono, i ritmi si mescolano, andando dalla melopea al tam-tam più sincopato. E durante tutto il
tempo, gli spettatori ascoltano immobili, come ammaliati.
Ma ogni nota pizzica i loro nervi con vibrazioni inaudite, ogni suono produce fitte deliziose in
tutto il corpo. Noi siamo allora La Musica, siamo Gli Dei, siamo II Ritmo, siamo II Suono.
5.
Per me, il Quo Vadis resterà per sempre segnato in nero nella mia memoria da tre episodi molto
precisi, di cui mi è penoso anche solo il ricordo.
Il primo è uno spettacolo disgustoso, biasimevole, che mi è capitato di vedere.
Chi vive a Katmandu è per definizione uno che ha visto tutto, sentito tutto, fatto di tutto. La
dignità umana, il rispetto, i princìpi, tutte queste cose sono nozioni dimenticate, preistoriche.
Ebbene, per quanto io fossi indurito, c'è stato tuttavia qualcosa che è riuscito a disgustarmi a
Katmandu.
Questo qualcosa è una donna.
Un'americana. Una grossa donna, sporca, di venticinque anni più o meno.
La prima volta che la vedo, ha un bebé in braccio. Il bambino, sporco quanto lei, ha forse sette
mesi.
È suo figlio.
Fin qui niente di sorprendente. Le colonie degli hippies sono piene di bambini che le loro madri
si tirano dietro dappertutto, e mi sono imbattuto abbastanza spesso in loro per non meravigliarmi
troppo degli uni o delle altre.
Solo che una notte, al Quo Vadis, mi capita di vedere come sua madre gli dà da mangiare, a
questo bimbo innocente che non ha domandato di venire al mondo e non ha fatto nulla di male per
subire ciò che gli fanno subire.
Rivedo la scena come se fosse adesso.
L'americana è seduta in un angolo, e ciondola la testa al ritmo della musica.
Ha il bambino in braccio, avvolto in un mucchio di stracci.
Il bambino si mette a piangere. Ha fame.
Sua madre si alza e lo posa lì per terra. Lui si mette a strillare con quanto fiato ha in gola.
Quando lei ritorna, ha tra le mani, un biberon che è andata a preparare in cucina, con latte di
capra allungato con acqua (suppongo).
Io la guardo, pur continuando a fare moine al bebé, che malgrado il suo pallore e il suo
sudiciume, è un simpatico marmocchio paffuto come una palla. E vedo questo.
Sua madre tira fuori dal fagotto un po' di hashish, ne taglia con le unghie del pollice e dell'indice
un piccolo frammento, e lo sbriciola nel palmo della mano.
Poi lo versa nel biberon.
E lo dà da bere al bambino!
Lui succhia avidamente, fa un piccolo rutto, e subito si addormenta.
Allibito, scuoto la madre, e le dico:
«Tu sei completamente matta! Tu stai ammazzando il tuo bambino!».
Lei sorride:
«Ma no, gli piace. Non può più farne a meno».
«È vero — mi dice una ragazza seduta accanto a lei. — Se non gli mette la sua "mostarda" nel
biberon, il bambino entra in crisi».
Io ripeto:
«Tu lo stai ammazzando!».
Lei alza le spalle.
«E con ciò?», mi risponde.
L'indomani, ben deciso a salvare quel bambino a qualunque costo, vado a domandare consiglio
al Centro culturale francese. Stupore generale. Mi scongiurano di condurre la madre all'Ambasciata
americana, o almeno lì da loro.
Ritorno al Quo Vadis domandandomi con quali parole avrei potuto convincere quella madre
disgraziata.
E vengo a sapere che quel mattino stesso è stata espulsa con il suo bambino dalle autorità
nepalesi. Il suo visto era scaduto, e si è lasciata sorprendere da un controllo di polizia.
In quel momento deve trovarsi sopra un autocarro, con il suo bambino in fasce drogato, sulla
strada che conduce alla frontiera con l'India…
C'è un altro marmocchio a Katmandu, al quale non posso pensare ancora oggi senza provare un
forte sentimento di rimorso, perché non ho fatto nulla per salvarlo. Ma anche se avessi voluto, che
cosa avrei potuto fare? Vivevamo in una tale atmosfera di follia…
Intendo parlare di un bimbetto chiamato Wayne, un adorabile bamboccetto americano molto
bello, con incantevoli capelli biondi tutti ricci, disinvolto, intelligente, divertente.
Ha quattro anni.
Sua madre, una ragazza castana slanciata, incinta di otto mesi, ha esagerato con la droga. È
impazzita. Vive a Soyambonat.
Wayne è stato raccolto da un'amica di sua madre, una graziosa ragazza bionda che per molto
tempo avevo creduto fosse la madre del bambino.
Sempre molto giudizioso, con un paio di pantaloncini ricamati, a torso nudo, un berretto nepalese
piantato spavaldamente sulle ventitré, lui passa da un tavolo all'altro del Quo Vadis o del Cabin, e si
arrampica sulle ginocchia della gente. È amico di tutti, e nessuno lo respinge.
Wayne fuma dei Beelee's, piccoli sigari nepalesi, conici, lunghi come il mignolo di una donna,
confezionati con foglie di tabacco verde.
Il che non gli impedisce, quando gli shilom fanno il giro, di prendere la sua parte.
Bisogna vederlo, Wayne, seduto sulle ginocchia d'uno di noi, mentre aspira dallo shilom come un
adulto. Non è certo lui il bambino schizzinoso che butta la sua parte al gatto!
Sovente è «partito». C'è qualcuno, come me, che si sente a disagio, che prova il voltastomaco
davanti a questo bamboccio di quattro anni che si ubriaca di droga.
Ma ci sono altri che si mettono a ridere fino alle lacrime, che lo fanno fumare e poi si divertono a
sentirlo raccontare le sue fantasmagorie di piccolo drogato di quattro anni…
Del resto lui fa a tal punto parte della comunità, e anche noi siamo sempre così «partiti», che
finiamo per dimenticare la sua età e considerarlo come un compagno uguale agli altri, senza dubbio
più piccolo, ma con diritti uguali in tutto e per tutto.
Oggi, pensando ai disastri che la droga deve aver provocato in questo bravo ometto di quattro
anni, se è ancora vivo, preferisco scacciare queste idee dalla testa e pensare ad altro.
Terzo ricordo, che mi riguarda personalmente, legato al Quo Vadis: in una delle sue camere ho
compiuto il passo irreversibile che fa d'un uomo un vero drogato.
Voglio dire la mia prima iniezione, o shoot, la mia prima dose di metedrina.
La metedrina è la più conosciuta delle amfetamine, le speeds, le «veloci», come dicono gli
americani, perché il loro effetto è molto rapido.
Quel giorno — un paio di settimane dopo il mio arrivo a Katmandu — mi sono trasferito in una
camera del Quo Vadis. La camera detta degli svaniti, lo saprò solo qualche giorno dopo.
A motivo di un'amica di Agnès, Marie-Claude, una graziosissima brunetta che mi è subito
piaciuta e che vive al Quo Vadis.
Dunque vengo a trovarmi nella camera di Marie-Claude con Agnès e il suo australiano Peter,
come pure con quel buon diavolo di Olivier, francese anche lui, un tipo perfettamente a suo agio in
quell'ambiente, e che in seguito svolgerà un ruolo molto importante nella mia vicenda.
Fumiamo tutti lo shilom. Peter, in più, si fa iniezioni di morfina. E Marie-Claude, di metedrina.
Lei dipinge tele molto colorate, astratte, tipo pop-art.
«Vuoi uno shoot? — mi dice. — Ne ho parecchie fiale».
La proposta a dire il vero non mi sorprende. È da parecchio tempo che sento di dover passare a
qualcosa di più forte dell'hashish e dell'oppio (che non solo fumo, ma anche mastico).
«D'accordo — le dico. — Fammi uno shoot di metedrina».
Bisogna sapere che quando si passa allo stadio delle iniezioni, la prima volta ci si fa sempre
aiutare. Farsi l'iniezione da soli è un'arte che non s'impara facilmente, tutt'altro.
«Preferisco che sia Olivier a farti lo shoot — mi dice Marie-Claude, — lui ha la mano più
leggera. D'accordo, Olivier?».
Olivier è d'accordo. Prende la fialetta che Marie-Claude gli porge.
È una fialetta che contiene un centimetro cubo e mezzo d'un liquido incolore.
Mentre sega la fialetta, e la assorbe nella siringa, Olivier mi spiega:
«Vedi, il vantaggio è doppio con la metedrina in fiale. Primo, si fa in fretta. E poi, siccome è
incolore, vedi subito se hai infilato bene la vena. Altra cosa: se sbagli la vena, non ti fa male».
Ora spiego quel che Olivier vuole dire. È questo: quando ci si fa l'iniezione, tutta la difficoltà è di
non attraversare la vena, altrimenti il liquido si riversa fuori di essa, nella carne.
Il solo modo di verificare che si procede bene è — una volta che l'ago sia entrato nella vena — di
tirare un po' indietro lo stantuffo per far risalire una goccia di sangue nella siringa.
Ci vuol poco a capire: con un liquido incolore come la metedrina, la goccia di sangue toglie ogni
dubbio, la si vede bene.
Invece non è questo il caso di parecchie altre droghe. L'oppio per esempio, se è molto carico —
soprattutto se lo si prende in ima stanza male illuminata, il che succede nove volte su dieci a
Katmandu — ha lo stesso colore del sangue.
Quanto al problema del dolore se si pianta male l'ago, ha anch'esso la sua importanza. La
metedrina è una delle poche droghe la cui iniezione, se per caso finisce nella carne, non fa molto
male. Nel caso dell'oppio invece, c'è da soffrire mille dolori.
Olivier mi applica il legaccio, lo stringe…
«Hai delle buone vene», mi dice con aria da intenditore.
Poi prende l'ago che ha sterilizzato alla fiamma di una candela, e allora lo vedo compiere un
gesto tipico, caratteristico, che tutti i drogati del mondo compiono, e che vi garantisce che avete da
fare con un vero drogato. Un gesto che farò anch'io, centinaia e centinaia di volte: prima di
affondare l'ago nella vena, lo passa, con mossa rapida, tra le labbra.
Lo so, è un gesto che manda in bestia tutti i medici, che li fa protestare: «Ma è da idioti! — essi
dicono. — Avete appena sterilizzato l'ago, e lo ricaricate di tutti i microbi che avete in bocca!».
Essi ritengono che questo gesto da solo è responsabile di almeno la metà delle epatiti virali che
menano strage fra i drogati. Infatti non c'è niente di meglio, per provocarle, che. iniettarsi
direttamente nel sangue, scavalcando tutto il sistema di protezione dell'organismo, dei microbi la
cui prima preoccupazione sarà quella di andare all'assalto del fegato.
Ebbene, poco importa: tutti i drogati, sappiano o non sappiano quel che rischiano, succhiano il
loro ago.
È un rito, una superstizione che non si può sradicare.
Lentamente, Olivier tira indietro lo stantuffo della siringa. Tutto bene, un po' di sangue risale.
Mi schiaccia l'occhio. Io sorrido, piuttosto emozionato.
E vedo il liquido uscire a poco a poco dalla siringa sotto la pressione dello stantuffo.
Nei giorni, settimane e mesi seguiti a questo primo vero shoot (quello di Bombay non era stato
che un penoso fallimento), io vedrò centinaia di volte la droga entrare in quel modo nelle mie vene,
sotto la pressione delle mie stesse dita.
Centinaia di volte, appena svuotata la siringa, avrò il mio flash.
Il famoso flash.
Il flash, fenomeno di reazione, sempre brutale, vivo, profondo, dell'organismo all'intrusione della
droga.
Dura qualche decina di secondi al massimo.
È sempre formidabile.
È l'ingresso trionfale della buona droga, della cara compagna che viene nel letto delle vene,
carezzevole, pronta a tutti gli amori che l'immaginazione reclama, benefica, dolce, meravigliosa,
quella che si attendeva febbrilmente, senza la quale la vita non è vita. L'indispensabile nutrimento
che tiranneggia adorabilmente.
Ecco è lì, entrata dentro tutto d'un colpo, e si prova una felicità indicibile, una gioia accanto alla
quale ogni altra gioia è niente.
Ebbene, su centinaia e centinaia di colpi di flash che ho assaporato, nessuno ha mai più attinto
l'intensità di quello, del mio primo flash.
Appena metà della siringa è passata nelle mie vene, e già il flash è in me, qualcosa di molto
strano sta accadendo.
Un enorme, piacevole morso addenta tutti i nervi del mio corpo.
Nello stesso tempo, dei pizzicori mi hanno afferrato alle estremità e alle mucose. Le dita delle
mani e dei piedi cominciano a formicolare. E nello stesso tempo sento caldo, molto caldo.
Dura così alcuni secondi, forse una ventina, ma bastano per lasciarmi palpitante, con la testa che
gira, con un languore meraviglioso in tutto il corpo.
Olivier ritira la siringa. E io comincio a volare.
Sono seduto con la schiena contro il muro. Come da un aereo che vince la gravitazione si vede,
stando inchiodati al sedile, il suolo che sprofonda e si allontana, così io mi sento decollare,
realmente…
Sono molto leggero, volo. Il muro dietro di me, al quale sono appoggiato, non mi tocca più. Il
suolo, su cui le mie mani poggiano, è 100 metri sotto di me. Le pareti e il soffitto sono nuvole grigie
che io attraverso alla velocità d'un caccia supersonico.
A lungo io volo, compio dolci virate, salgo lentamente in candela prima di sentirmi ridiscendere
pian piano a terra.
Presto è finito, sono tornato al mio posto.
Ma non è più come prima. Tutto è bello attorno a me. Agnès resta Agnès, l'amica che conosco,
ma io sono ora amico d'una dea, e Olivier è un dio greco. Ma resta Olivier.
Quanto a Marie-Claude, è la musa della pittura, ciò che dipinge è quanto di più bello abbia mai
visto, i giudizi che le esprimo sono i più intelligenti che mai critico d'arte abbia potuto scrivere.
E restiamo lì a parlare, a bere del tè. Ogni tanto ci fumiamo uno shilom. Olivier mi fa un'altra
iniezione. Il flash è meno forte, ma io decollo di nuovo, meglio di prima.
Poi vedo Olivier, Agnès e Peter che se ne vanno. Resto solo con Marie-Claude. Ha smesso di
dipingere, ora si è stesa nuda sul pagliericcio. Con la massima naturalezza vado a stendermi al suo
fianco, e ci abbracciamo.
Ma non abbiamo alcuna voglia di fare l'amore. Essere l'uno nelle braccia dell'altra, è talmente
meglio!
Sono felice, formidabilmente.
Non ci diciamo nulla. Restiamo incollati l'uno all'altra, tutto lì.
A un tratto Marie-Claude si alza e va a preparare due altre dosi di metedrina.
Ricordo che sono un po' inquieto quando mi somministra la mia. È la terza nel giro di poche ore,
dopo tutto!
Ma alla successiva, che lei m'insegna a farmi da solo, non ho più alcuna inquietudine.
Altre quattro ancora ne prenderemo, senza che ci muoviamo di lì se non per prepararle.
E poi, viene il momento in cui ci addormentiamo. Al risveglio, vedo che si è fatto giorno. Mi
alzo. Marie-Claude mi sorride.
«Ho fame — le dico. — Andiamo da qualche parte a mangiare».
Anche lei ha fame.
Ci vestiamo, usciamo. Andiamo al Ravi Spot.
La prima persona che vediamo è Olivier.
Mi guarda curiosamente.
«Che c'è?», dico. Lui ride.
«Eh, voi due!… Dove siete stati?».
«Siamo stati in camera di Marie-Claude…».
Olivier mi prende per un braccio e mi guarda dritto negli occhi.
«Tutto il tempo?».
«Sicuro. Perché? Tutta la notte». E lui scoppia a ridere.
«Tutta la notte? Ma sai, vecchio mio, che questo pomeriggio saranno tre giorni esatti che t'ho
fatto lo shoot?».
Così, cascando dalle nuvole, vengo a sapere che Marie-Claude e io siamo restati abbracciati,
senza muoverci, due giorni e tre notti!
E io che credevo che lei mi facesse un'iniezione ogni ora! Invece, era solo alla sera e al
mattino…
«Niente di straordinario — conclude Olivier. — Al principio la metedrina è davvero formidabile.
Ma poi ci si abitua, e non è più così».
Come ha ragione, e come si ha presto bisogno di variare i piaceri, di aumentare le dosi, di
intossicarsi a poco a poco sempre di più, di tentare tutte le esperienze!
E com'è facile sprofondare, qui a Katmandu, nella città dove il problema della mancanza di
droga — che è l'ossessione, la croce di tutti i drogati d'Europa — non si pone mai, perché non c'è
mai scarsità di droga, qualunque essa sia…
6.
I giorni che seguono, io torno all'Orientai Lodge con Marie-Claude. Viene anche To il
vietnamita, poi un valente musicista, Larry, specialista della tromba tibetana, uno strumento così
lungo che lo si deve poggiare sopra un mobile o un banco sistemato lontano davanti a sé, per
poterlo suonare.
All'Orientai comincio a essere proprio sfruttato dagli altri. Non solo continuo a pagare per Guy,
Agathe, Agnès, Claudia, eccetera. Ma ormai si è sparsa dappertutto la voce che all'albergo c'è un
pollo da spennare.
Non sono mai stato attaccato al denaro, l'ho già detto, e in principio mi diverte abbastanza poter
mantenere tutta questa brava gente che mangia, dorme e si droga a mie spese.
Ma a un certo punto ne ho le tasche piene! Tanto più che ora mi drogo molto più di prima. Con la
morfina, perché non mi sono fermato alla metedrina, ma ci ritornerò solo più tardi.
E poi è l'epoca in cui i nepalesi cominciano a fare difficoltà per rinnovare i visti di soggiorno.
Quando si entra in Nepal, si ha un visto per quindici giorni soltanto. È lo stesso trattamento per
tutti. In seguito, se si vuole restare più a lungo, bisogna rivolgersi all'ufficio immigrazione.
Ed è lì che cominciano le noie, verso la fine di luglio del 1969.
Perché i nepalesi cominciano ad averne abbastanza di questi hippies, che all'inizio hanno
scambiato per turisti, e che si rivelano ben altra cosa. Così cominciano a fare delle difficoltà per
rinnovare i visti. E quando ci si mettono, questi tipacci, sanno rendersi odiosi.
Perché non bisogna mai dimenticare — e la cosa vale un po' dappertutto quando si lasciano i
paesi europei — che c'è (diciamo la parola giusta) un razzismo a rovescio. Per questi funzionari,
una decina in tutto, dell'ufficio immigrazione, la sensazione di poter tenere in pugno tutti questi
bianchi venuti a domandar loro di rinnovare il passaporto, è qualcosa di inebriante.
E molte volte cominciano a divertirsi, per nessun altro motivo che per spassarsela, negando i
visti.
A uno che va loro a genio, concedono il prolungamento. A uno che non va loro a genio, lo
rifiutano.
Se si domanda una spiegazione, rispondono beffardi che è perché a loro piace cosi, punto e basta.
E tutti quanti, dopo i primi quindici giorni, devono passare da loro.
Fino a luglio essi non fanno le cose tanto complicate. Dopo, la musica cambia: la Corte Reale ha
ordinato che gli hippies siano respinti. Perché i nepalesi, vedendo arrivare i turisti, quelli veri, quelli
dal portafoglio gonfio, che prima non venivano ma sono stati attirati proprio dagli hippies, non
vogliono più che turisti ricchi. Quando vedono una testa che è troppo da hippy, la mandano via. E
proprio a questo riguardo posso constatare che ho ragione a non portare i capelli troppo lunghi e a
non vestirmi con troppo folclore: io non incontro difficoltà a farmi rinnovare il visto. Mi danno
anche dei tricking permits, cioè dei visti speciali per avere il diritto di uscire dalla valle di
Katmandu propriamente detta (il visto concesso a Delhi dall'ambasciata nepalese vale solo per
Katmandu).
Per ora non sono ancora troppo cattivi, ma lo diventeranno presto.
Perché è nel corso del mese di luglio che si verifica uno degli episodi più straordinari della vita
hippy a Katmandu: la festa all'ambasciata di Francia.
Una festa che, qualche giorno più tardi, provocherà un intervento diretto del nostro ambasciatore
presso le autorità nepalesi.
Di questa storia nessun giornale ha pubblicato il resoconto. Eppure se lo sarebbe meritato. Per
tutti gli hippies che vi hanno preso parte è un ricordo indimenticabile, fantastico, pantagruelico.
Quanto all'ambasciatore… ho motivi per ritenere che non gli faccia troppo piacere ricordare quel
famoso 14 luglio 1969.
La vigilia, 13 luglio, un hippy francese di cui ho dimenticato il nome si precipita nel Quo Vadis
eccitato.
«Sapete, ragazzi — annuncia trionfante, — che tutti gli anni il 14 luglio c'è festa alla residenza
dell'ambasciatore di Francia?».
Si è tutti con le orecchie ritte.
«E sapete — continua — che cos'è una festa all'ambasciata di Francia? Significa, razza di
addormentati, che ci sono tavolate di pasticcini, di caviale e salmone affumicato; che il vino, lo
champagne, la vodka, il whisky e il cognac colano a fiotti!».
«Capperi!», esclama una ragazza.
«E significa ancora che ci sono le Gauloises a volontà».
A questo punto l'entusiasmo è generale. Caviale, salmone, whisky e cognac, va bene. Ma le
Gauloises, è formidabile!
Ne siamo privi da mesi. Ora, oltre al gusto del tabacco bruno che ci torna in gola al solo
pensarci, c'è la vista di una buona Gauloise che si rompe e si mescola con l'hashish. Niente di
meglio che uno shilom fatto con tabacco bruno.
«Allora, ci andiamo?», propone quel tipo.
Un urrà generale gli risponde.
Si è pienamente d'accordo. Si andrà alla festa in massa, invitati o no, noi che siamo francesi. E
chi ci ama ci segua.
Nel giro di poche ore tutti gli hippies francesi di Katmandu sono avvertiti.
E l'indomani sera, si parte in massa.
La residenza dell'ambasciatore è a 4 chilometri da Katmandu, sulla strada per Butnath. I ricchi ci
vanno stipati sette od otto per tassì, i curiosi tassì di Katmandu, con una testa di tigre dipinta sulla
carrozzeria. Gli altri, in bicicletta o a piedi.
Ci siamo dati appuntamento davanti ai cancelli del parco.
Infine eccoci riuniti, un buon centinaio. Guardo i miei compagni, e mi prende una folle
irresistibile voglia di ridere. Siamo veramente impagabili!
Dappertutto, sguazzanti nel fango (è la stagione delle piogge, e i monsoni si sono dati alla pazza
gioia per tutto il giorno) non vedo che individui irsuti, a torso nudo alcuni, altri agghindati in tenute
inverosimili, di tutte le stoffe e di tutti i colori, da quello del fango raccolto strada facendo fino ai
più sgargianti. Le ragazze sono in sari variopinti, cariche di ciondoli tintinnanti e di collane di fiori,
la fronte impiastricciata di giallo, rosso, verde, blu.
Alcuni sono arrivati con chitarre, cetre e flauti.
Io sono con Agathe e Claudia, l'una in sari verde mela con una grande cintura floscia arancione,
l'altra in sari bianco che lei stessa ha decorato con grandi macchie d'inchiostro di tutti i colori.
Quanto a me, sono in costume nepalese nero ricamato d'oro, molto attillato, e ho un berretto
ricamato in testa. Siamo un terzetto molto chic.
Davanti a noi, una doppia siepe di guardie nepalesi in gran tenuta fiancheggia il viale che porta
al palazzo, a destra e a sinistra, fino in fondo.
«Andiamo?».
«Andiamo».
Avanziamo.
Le guardie nepalesi si raggruppano e subito ci bloccano il passaggio.
Proteste, grida.
«Siamo francesi! Abbiamo diritto a entrare. Noi entriamo!».
Scombussolate, non sapendo che fare, le guardie esitano, indietreggiano un poco. Noi ne
approfittiamo e forziamo spavaldamente il passaggio. Scavalcate, le guardie ci lasciano entrare.
Ed eccoci lì, l'intera coorte dai piedi scalzi, splendidi e variegati. E ci avviamo sghignazzando fra
le due siepi di guardie!
Più avanziamo e più, là in fondo, c'è lo smarrimento. Poliziotti nepalesi, addetti d'ambasciata e
personale francese corrono in tutte le direzioni. A sinistra una grande tenda è stata montata (a causa
del monsone), e noi vi scorgiamo dentro il fior fiore degli invitati. Donne in abito da sera,
diplomatici in tenuta, alti dignitari nepalesi in costume da cerimonia, ci guardano smarriti. Hanno la
faccia che dovevano avere Luigi XVI e la sua famiglia quando il popolo invase le Tuileries!
D'improvviso, in mezzo a loro riconosciamo il re del Nepal e sua moglie.
Le grida esplodono subito:
«Viva il re, viva la regina! Lunga vita ai sovrani nepalesi!».
Tre metri più avanti, un signore molto elegante se ne sta immobile, le spalle basse per la
costernazione, il volto pallido: sua eccellenza l'ambasciatore di Francia in persona. Se una
montagna gli fosse caduta in testa, non avrebbe un'aria così abbattuta.
«Viva la Francia! Viva l'ambasciatore! Viva De Gaulle! Viva Pompidou! Viva Poher!».
Sento anche un «Viva Pétain!».
Va tutto bene.
Ma davanti a noi hanno ripreso il controllo della situazione. I poliziotti formano ora un cordone,
gomito a gomito, che scorre fra noi e le personalità.
E ci accorgiamo che non sono disposti a tollerare molto: se avanziamo ancora, sarà una zuffa.
Non ne abbiamo affatto voglia. Noi veniamo da amici, da compagni, da francesi, per tracannare lo
champagne, gustare i pasticcini, e fumare — oh! sì, soprattutto per questo — per fumare le
Gauloises.
Glielo gridiamo. Assicuriamo l'ambasciatore dei nostri buoni sentimenti. Ci dia da bere, da
mangiare e da fumare, e noi lo lasceremo in pace. Non vogliamo rompere nulla, siamo hippies e
vogliamo bene a tutti.
Discutono con animazione. Che fare? Cacciarci via? E troppo pericoloso. Potrebbe finire in una
baruffa generale.
L'ambasciatore prende la sola decisione saggia nella situazione in cui si trova. Ci manda il
console, un giovane molto simpatico, come plenipotenziario (avrò personalmente l'occasione, fra
qualche mese, di rendermi conto quanto sia simpatico, questo signor Daniel Omnès, console di
Francia a Katmandu).
E lui ci fa delle promesse. Se noi accettiamo di scendere sul prato erboso un po' più in là, perché
non restiamo troppo in vista, ci serviranno dei rinfreschi.
«Non rinfreschi. Cognac! E Gauloises!».
«Promesso, avrete tutto questo».
«Allora, si è d'accordo?».
«D'accordo».
«Urrà! Viva la Francia!».
E lentamente migriamo verso il prato. Ci si siede a capannelli. I suonatori si mettono in mezzo,
in cerchio, e avanti con la musica.
Intanto i servi portano tavole e cavalletti con tutto quel che ci vuole per riempirci la pancia. Noi
ci precipitiamo. E comincia la danza dei pasticcini, toast, coppe e bicchieri. Una vera fiesta. Quasi
veniamo alle mani per servirci per primi. Le ragazze s'infilano sotto i tavoli e arraffano, di dietro, tra
le gambe dei servi, bottiglie di whisky e cognac, pacchetti di sigarette.
Shilom e joint fanno la loro apparizione. Abbiamo tutto l'occorrente con noi.
Rompiamo le Gauloises, ci arrotoliamo il joint e prepariamo lo shilom. Che cuccagna!
Molto presto, noi che abbiamo perso l'abitudine di bere l'alcool, siamo ubriachi fradici. Ci
arrotoliamo per terra, ci lanciamo in danze frenetiche.
D'improvviso Dominique, uno studente del maggio 1968, ha un'idea geniale: si mette a cantare
«Ça ira».
Non l'avesse mai fatto.
Eccoci tutti in piedi, a berciare in coro:
Ça ira, ça ira,
Les aristocrates, on les aura.
Ça ira, ça ira,
Les aristocrates à la lanterne!
Di nuovo, lassù, piombano nella costernazione più nera. Il loro ricevimento di nuovo sta per
andare a carte quarantotto. Vediamo a un tratto due o tre ragazzine di buona famiglia che si
avvicinano timidamente a noi, piene d'invidia, ma sono presto afferrate per una manica e
rimorchiate indietro.
Dopo un'ora il re se ne va già via, e vediamo l'ambasciatore profondersi in scuse.
Il fior fiore a poco a poco lo segue, fulminandoci con lo sguardo.
Ah, che notte portentosa! Noi ce la spassiamo dappertutto, dentro i giardini, danziamo, beviamo,
fumiamo, siamo ebbri di vino, di hashish e Gauloises. Che pacchia!. Che rivincita per la gente della
strada, tanto spesso insultata e respinta!
Ma tutto ha un fine. Il console di Francia viene, verso l'una del mattino, a trovarci di nuovo.
«Bene, noi abbiamo mantenuto la nostra promessa — ci dice. — Avete avuto da bere e da
mangiare. Avete avuto le Gauloises. Ma ora sta a voi essere di parola. Adesso dovete partire. La
festa è finita. Si chiude».
Come rifiutare una cosa tanto gentilmente domandata? E poi è vero, sono stati di parola.
Abbiamo avuto la nostra parte di festa. Non siamo, in fondo, delle canaglie. Anche se abbiamo le
tasche piene di scatole di caviale, e il salmone affumicato infilato sotto i vestiti, con le stecche di
Gauloise, anche se le ragazze si sono appese bottiglie di cognac e di whisky alla vita, sotto i vestiti,
tra le gambe, con lo spago.
«Viva la Francia! Grazie al signor ambasciatore! Alla prossima volta, eh? Arrivederci!…».
Partiamo lasciandoci alle spalle un prato saccheggiato.
E un ambasciatore seduto, accasciato, con la testa fra le mani.
Il rientro a Katmandu, a piedi, è bacchico. Balli, canti, soste per uno spuntino o uno shilom.
Trasciniamo con noi anche degli allegri nepalesi che partecipano con entusiasmo alla bazza.
Arrivati a Katmandu, non abbiamo ancora smaltito la sbornia. Mettiamo in subbuglio la città,
attraversandola.
Poi ognuno va a divertirsi di qua e di là. Alcuni si sdraiano sotto un portico in attesa che i fumi
dell'alcool si disperdano. Altri vanno nei ristoranti per finirvi la notte. Il Cabin è preso d'assalto.
Claudia, Agathe, io e una dozzina d'altri, ci ritroviamo in una camera del Quo Vadis e beviamo e
fumiamo fino a cascare l'uno sopra l'altro, in mucchio.
Il sole si è levato già da parecchio.
Questa formidabile notte brava, per quanto riuscita, è stata in realtà una gaffe enorme, da parte
nostra.
Essa ci mette l'ambasciata di Francia, finora molto indulgente a nostro riguardo, completamente
contro.
Qualche giorno più tardi l'ambasciatore interviene di persona presso il governo nepalese, perché
venga organizzato un controllo più severo possibile degli hippies, francesi o no.
Ci fa pagare cara la serata che gli abbiamo mandato all'aria.
Il 14 luglio 1969 segna una svolta a Katmandu.
Con quella data il periodo d'oro della vita hippies si chiude in bellezza, ma si chiude.
A partire dalla metà di luglio comincia il periodo della decadenza. Quello della vera follia e della
demenza.
Prima ci saranno le difficoltà per ottenere il rinnovo dei visti, poi l'inizio di una vera caccia agli
hippies.
Una caccia che a poco a poco, nel giro di qualche mese, li farà praticamente espellere tutti dal
Nepal. Essi non lasceranno dietro a sé, nel cimitero di Katmandu e un po' dappertutto sulle
montagne, che i corpi degli impazziti, dei morti per le superdosi, e dei junkie…
7.
Molto presto, infatti, cominciano le sparizioni e le espulsioni. I nepalesi si mettono alla caccia
degli hippies.
La notte piombano nei nostri alberghi, verificano i passaporti, e chi non ha il visto in regola
viene caricato d'ufficio sopra un autocarro e spedito alla frontiera, così come si trova, senza bagagli,
senza nulla in tasca.
Giunto l'autunno, andranno anche oltre: pattuglieranno le strade, bloccheranno gli incroci, e
porteranno via tutti.
Per fortuna si contentano di pattugliare di giorno, mai di notte. Così molti hippies prenderanno
l'abitudine di uscire solo di notte.
Se si tenta di resistere, sono botte. Due ragazze che ho conosciuto, Claudia e Anna-Lisa (parlerò
molto presto di quest'ultima) si faranno pestare dalla polizia femminile prima di essere espulse, per
aver cercato di scappare attraverso una risaia.
All'Orientai Lodge, nel piccolo gruppo di cui io sono il banchiere, il disagio comincia a
diffondersi.
E gli sbafatori a ufo si moltiplicano alle mie calcagna.
Un giorno ne ho fin sopra i capelli. Allora mando Krishna a cercare una camera presso un
privato.
Purtroppo Krishna questa volta fa cilecca: trova delle camere, ma sono troppo piccole per me e il
mio seguito.
E così, per andare in un albergo che sia meno caro, e a quell'epoca meno conosciuto che
l'Orientai Lodge, noi emigriamo al Garden Hotel. Vi prendiamo posto: io, Guy, Michel, Agathe e il
suo nuovo ragazzo (un inglese), Claudia e Anna-Lisa. Quanto alla spesa, non potrebbe costare meno
di così.
Lì al Garden andrò fino in fondo nell'esplorazione della droga, tentando tutte le esperienze.
Quando lo lascerò, il 7 settembre, per partire alla volta delle montagne, avrò tutto provato, tutto
assaporato: oltre all'hashish (che fumerò senza sosta tutti i giorni), anche l'oppio, la morfina, le
amfetamine, l'acido (il famoso LSD), la mescalina, l'eroina. E in tutte le forme: avrò fumato,
mangiato, iniettato. La sola cosa che non ho mai fatto, è annusare.
In principio sono alle prese soprattutto con la morfina.
Io sono stato sempre esagerato, in ogni cosa.
Presto divento una delle più solide colonne della farmacia del dottor Makhan.
Makhan è un vecchio medico nepalese, piccolo e sempre sorridente, dal tratto cordiale, che
esercita al primo piano d'un immobile in una strada stretta della città vecchia.
In realtà il suo titolo e la sua bottega — lui è un po' ciò che in Francia si chiama un
propharmacien (medico autorizzato a distribuire le medicine da lui prescritte ai malati, in zone
sprovviste di farmacia) — non sono che l'alibi di ciò che forma l'essenziale della sua attività: la
vendita della droga, e anche la sua somministrazione ai drogati.
Perché si va da Makhan non solo per acquistare la droga, ma anche per farsela iniettare da lui. È
più pratico, ed è anche più igienico. E lo fa molto bene.
Per arrivare a lui, si salgono tre o quattro gradini e si accede a un corridoio ombroso. In fondo,
un andito in terra battuta porta a una scala traballante.
Lì, davanti alla scala, si trova sempre un ometto vecchio, sporco e stracciato, dai capelli color
pepe e sale molto lunghi (cosa piuttosto rara presso i nepalesi), mani rattrappite con calli, giunture
prominenti e dita contorte.
Sta seduto in terra davanti a un cesto di legno, e alla sua sinistra c'è un grosso sacco di iuta pieno
di nocciole, una specie di grosse nocciole rotonde come biglie, molto dure di scorza, venate da
striature. Sono frutti che i nepalesi masticano o, si strofinano sui denti, tanto per fare qualcosa.
E il lavoro del vecchio consiste nel romperle in due, durante tutto il giorno, con un arnese di
ferro.
Ogni volta che passo di lì gli sorrido e gli faccio un segno di saluto con la mano.
Mi restituisce il saluto, e scopre sorridendo la sua bocca sdentata (non ha più che un dente, da un
lato, in basso).
Poi vado oltre, salgo, ed entro.
Sono nella farmacia propriamente detta.
È una stanza dal soffitto basso, lunga circa 10 metri, larga 3.
L'entrata è una piccola porta bassa a due battenti. In fondo, un'altra porta.
A destra c'è il muro che dà sulla strada, con due finestre. A sinistra, un muro con un armadio a
vetri, tipo biblioteca, pieno di libri e d'una sfilata di medicine.
Questo armadio è l'alibi di Makhan. In pratica non se ne serve mai. Tuttavia ho visto, due o tre
volte, dei malati ordinari venire a trovarlo. Ma lui li sbriga in fretta, ansioso di tornare presto alla
sua vera attività, molto più rimunerativa: la vendita della droga.
Accanto alla cianfrusaglia che si ammucchia in fondo, c'è una panca con due o tre sedie, davanti
a una scrivania.
Makhan è seduto dietro la scrivania e accoglie tutti col più bel sorriso.
Alle sue spalle, un altro armadio a vetro con fiale, flaconi, e siringhe.
A qualunque ora si venga, di mattino, a mezzogiorno o alla sera, c'è sempre gente seduta sulla
panca e sulle sedie, naturalmente europei, che aspettano il loro turno.
Tutti insieme discutono, chiacchierano. Con impazienza, o beatamente, secondo se stanno
aspettando di prendere il proprio shoot o lo hanno già ricevuto.
Io faccio come gli altri, attendo il mio turno. Quando è venuto, mi siedo davanti al medico.
Ho il denaro in mano. Sono 5 rupie per centimetro cubo, il «cc.» come si dice. Bisogna sempre
far vedere il denaro, perché Makhan non si fida. È stato giocato già tante volte!
Mi domanda ciò che voglio.
«Morfina».
«Quanta?».
«Due cc. ora, e un flacone di cinque da portar via». (Si può acquistare anche un flacone di 10
cc.).
Mentre si gira, poi estrae il flacone dall'armadio a vetri e apre il cassetto della scrivania per
prendere la siringa, io tendo il braccio, con la manica rimboccata, attraverso la scrivania.
Makhan mi mette un grosso annuario medico sotto il braccio. Poi sistema il legaccio (è un
legaccio di gomma, da ospedale, che si avvita con una rosetta. Essa stringe una correggia senza
pizzicare la pelle).
Poi strofina il braccio con l'alcool. Prende il flacone di morfina. È un piccolo flacone bianco con
un coperchio di gomma cerchiato di ferro, come se ne vedono ovunque quando ci si mette nelle
mani dei medici all'ospedale.
Makhan fora la gomma con l'ago della siringa per aspirare i 2 cc. richiesti, e me li inietta con la
massima calma.
Incassa il denaro. E avanti un altro.
Una cosa che non gli piace troppo — perché gli fa perdere tempo prezioso — è che ci si fermi lì
sulla sedia.
Cosa che si fa sovente. A causa del flash, molto forte con la morfina, e poi per forza, perché si
hanno le gambe molli.
Quando ci si sente meglio ci si alza, e per lo più si va a sedersi sulla panca o sopra una sedia, con
gli altri.
Si resta lì un poco per ricuperare, e poi si parte, col proprio flacone in mano, per il resto della
giornata, per iniettarselo da soli.
Appena si esce, le cose si complicano.
C'è da scendere la scala. Nel buio. Anche quando si è perfettamente lucidi non è facile, con le
travi del soffitto che sbattono sul cranio, e i gradini sgangherati che vacillano sotto i piedi.
Con 2 cc. di morfina fresca fresca nelle vene, e le gambe molli, è un'impresa giungere in fondo
senza cadere.
Quante volte, arrivando dal medico, ho dovuto tirar su ragazzi e ragazze che avevano messo un
piede in fallo e avevano fatto tutta la scala col fondo della schiena e a zampe all'aria! E quante volte
ho fatto anch'io quella fine!
Per Makhan, io sono un buon cliente. Acquisto sempre di più, e parto sempre con due o tre
flaconi, per me e per la mia banda di sbafatori a ufo. E non gli compero solo questo. Mi fornisce
anche le siringhe e gli aghi per i miei compagni, e la metedrina (fino al giorno in cui mi accorgo che
posso trovarla anche in farmacia e — porco d'un Makhan! — a un prezzo inferiore al suo).
Insomma, lascio da lui un sacco di soldi.
In seguito diventeremo non già amici, ma complici. Andrò molto spesso lassù, ma per
procurarmi il denaro mi sono messo a combinare tutta una serie di piccoli traffici: travellers'
cheques, apparecchi radio, musicassette, cineprese, eccetera. E mi servo di Makhan come
ricettatore.
Egli immagazzina le mie mercanzie nel suo solaio, al terzo piano, sopra il suo appartamento (due
stanze e cucina sommariamente ammobiliate), in un'incredibile confusione di scorte di droghe, di
medicine e di strumenti medici.
Ho detto: diventiamo complici, non amici. Il fatto è che Makhan non mi piace. Più tardi, gli farei
volentieri la pelle. Perché è una vera canaglia.
Un giorno me ne ha dato una prova lampante. E odiosa.
Quel giorno, si spinge oltre ogni limite.
Già da qualche tempo mi disgusta vederlo distribuire le sue iniezioni per diritto e per rovescio,
senza badare per nulla se i ragazzi e le ragazze sono in grado di sopportare la dose, drogando a volte
perfino dei bambini, da vero criminale. Lui se ne impipa completamente se il soggetto è fragile, o
gli si presenta con le vene evidentemente piene di droga. Fa l'iniezione senza nulla domandare,
qualunque dose gli sia stata richiesta, e incassa il denaro.
E avanti un altro.
Ma quel giorno si mostra in pieno per quel che è.
Accade un mattino, verso le otto. A quell'epoca, per non dovermi fare l'iniezione da solo, vengo
da lui tre, quattro e anche cinque volte al giorno. Perciò arrivo di buon mattino. E spesso mi fermo a
lungo da lui, tanto più che abbiamo gli affari in comune.
Stiamo proprio parlando di affari quando entra un giovanotto alto e biondo. È un tedesco.
È già carico di droga. Lo vedo bene, mi sono fatto l'occhio ormai. E mi pare che ne abbia
addosso una buona porzione. Da parecchi giorni lo osservo, e giorno dopo giorno,
matematicamente, lui aumenta le dosi. Non so fin dove voglia arrivare, ma ci dà dentro bene.
Si siede davanti a Makhan.
«Morfina, 2 cc.», dice porgendo il braccio.
Il medico non ci pensa due volte. Guarda il denaro, vede che è la cifra giusta, e zac!, gli propina i
2 cc. nelle vene e va bene così. Il tedesco se ne va.
Due ore dopo, alle dieci, lo vedo ritornare.
Domanda altri 2 cc. Il medico, senza discutere, lo accontenta.
E così sono già quattro cc., più quelli che aveva preso prima. Adesso è proprio «partito». Ha la
testa in processione. E se ne va barcollando.
A mezzogiorno, eccolo di nuovo! Deve aver fatto bene i calcoli: ogni due ore in punto, uno
shoot.
E domanda 2 cc.
Adesso comincia proprio a esagerare.
Ma il medico non esita un secondo, e zac!, gli inietta nel braccio i suoi 2 cc., poi intasca il
denaro. E avanti un altro.
Alle due del pomeriggio, il tedesco ricompare! È pieno fino all'orlo. Ce l'ha già, la sua dose! Tre
per due fanno 6 cc. in tutto, più altri 2 o 3 cc. che secondo me aveva già preso durante la notte.
Come minimo, ha 8 cc. di morfina in corpo. Una dose veramente maiuscola!
Ebbene, senza battere ciglio, domanda 4 cc.
Quattro tutto d'un colpo, con la stessa siringa!
Guardo il ragazzo con vivo interesse. Non ho mai visto nulla del genere. E nello stesso tempo
guardo il medico. Che cosa farà?
Il medico, si capisce, esita un po'. Di sicuro sta facendo anche lui il suo calcolo mentale: due più
due più due, più altri quattro, viene a fare 10 cc. in sei ore, il che non è una bazzecola. È perfino
pericoloso.
«Ma può farcela? È sicuro di sopportare la dose?», domanda, un po' accigliato, al tedesco.
«Certo che ce la faccio… Non abbia paura», farfuglia l'altro, completamente «in viaggio».
E al medico basta questo, che un individuo a due passi dal coma gli dica che ce la farà. La sua
coscienza, ora, è tranquilla.
Infatti prepara i 4 cc.
Il tedesco porge il braccio.
Il medico gli inietta i suoi 4 cc. in una volta sola. Molto lentamente però, sorvegliando il tedesco
con la coda dell'occhio.
Lo guardo anch'io con sgomento. Man mano che il medico spinge avanti lo stantuffo, lo si vede
cambiare di aspetto.
Stringe i denti, sempre più forte. Chiude gli occhi. Si aggrappa alla sedia. Si vede che lotta con
tutte le sue forze. Deve sentirsi proiettato in alto, sempre più in alto, alla velocità di 15 mach. E
deve fargli un male tremendo.
Quattro cc. in una volta sola, più gli altri 6 o 8, più quelli presi prima, fanno una bella dose, Dio
mio!
Finalmente ha assorbito i suoi 4 cc…
E sta lì sulla sedia, affannato, la testa ciondoloni, le spalle curve, emettendo un lungo respiro
gutturale. Resta così a lungo, senza muoversi.
Mi domando se riuscirà ancora a rialzarsi, se non crollerà tutto d'un colpo. Vedo le giunture delle
sue dita tutte bianche a forza di stringere la sedia.
Il suo flash passa, finalmente. È riuscito a incassare la botta. La morfina comincia a scioglierglisi
nelle vene.
Ora, è evidente, sta volando molto, molto alto. Non deve più sentire niente, capire niente. Non so
neanche se riesce a vedere qualcosa.
Il medico ritira il denaro posato sulla scrivania. Con l'aiuto di un altro ragazzo, afferro il tedesco
sotto le ascelle e lo facciamo sedere sulla panca, per far posto a un altro.
Se ne sta lì una buona mezz'ora prima di rientrare in sé.
E riesce a rialzarsi. Titubante, completamente k.o., ce la fa a uscire dalla farmacia.
Due ore dopo, alle quattro del pomeriggio, chi apre la porta, dritto come una I, e gli occhi fissi?
Il tedesco!
Prende posto sulla sedia, porge il braccio, e domanda altri 4 cc. Freddamente.
Questa volta ne sono sicuro, nei minuti che seguiranno ci scapperà il morto, lì, sotto i miei occhi.
Ma questa volta il medico ha paura, per lo meno. E rifiuta nettamente. Senza dubbio deve fargli
male al cuore, perdere il guadagno di 4 cc., ma il rischio ora è troppo grosso.
Il tedesco parla un pessimo inglese. E in più ha la mascella pesante come se fosse di marmo.
Aggrappato alla sedia, con gli occhi semichiusi, ciondola col naso in avanti.
E tuttavia insiste.
«No, questa volta non è possibile — gli risponde il medico. — Sono desolato — e lo è davvero,
non si tratta di una formula di cortesia, — ma questa volta non è possibile, lei non è più in grado di
sopportare altro, ha già superato molto la dose».
«Mi stia a sentire — borbotta lui. — Se non vuole farmi lo shoot di 4 cc., allora deve vendermi
una bottiglia di 10 cc. Questo, non me lo può rifiutare… E io vado a farmi lo shoot a casa».
A queste parole vedo il volto del medico rabbuiarsi un po'. Ci pensa un attimo, e finisce per dire:
«Vede. Io non posso venderle la bottiglia. Nello stato in cui si trova, lei rischia di fare delle
bestialità. Preferisco farle io stesso i 4 cc.».
Porco!
E prepara (non si sa mai) la fiala di un cardiotonico lì sulla scrivania. Mette il legaccio, affonda
l'ago, scioglie il legaccio, impugna la siringa con i 4 cc., e comincia a spingere avanti lo stantuffo.
Tutti i presenti hanno gli occhi puntati sul ragazzo e sul medico.
Vediamo chiaramente il tedesco che cambia di colore. Man mano che i 4 cc. gli entrano nelle
vene, diventa tutto bianco. Ma il suo è molto più che un impallidire. Diventa bianco come un foglio
di carta.
Si aggrappa, si tende, si impenna.
Dev'essere qualcosa di insopportabile.
Un flash terrificante.
Poi si affloscia, si restringe nella sedia, si fa piccolo piccolo, si accartoccia. Ha preso, a dir poco,
da questa mattina, 16 cc. di morfina.
Quando il medico estrae l'ago, il tedesco resta lì, piegato in due, contratto, immobile, gli occhi
chiusi, la mascella inchiodata.
Il medico, con un'altra siringa pronta in mano, si china sopra di lui, gli solleva una palpebra. Il
ragazzo è sempre inerte.
Allora in due lo solleviamo e lo stendiamo sulla panca.
Quando ritorno, l'indomani, è sempre lì immobile.
Non riprende conoscenza che a sera, ventiquattr'ore dopo.
È restato ventiquattr'ore in coma, davanti al medico che ha continuato tranquillamente a fare
iniezioni agli altri, incassando il denaro e, sotto a chi tocca!…
È tanto più schifoso, questo Makhan, perché — come mi confessò un giorno — anch'egli in
passato si drogava con gli shoot. Ma poi ha smesso, e ora si limita a fumare. Dunque sa
perfettamente quello che si fa, il fetente!
8.
Ora sento che è necessario fare una sosta nel racconto vero e proprio delle mie avventure. È
giunto il momento di rispondere alle domande che il lettore di sicuro si sta ponendo. Che cos'è in
sostanza la droga? Quali sono le varie droghe, e qual è il loro effetto particolare? Perché si passa
dall'una all'altra, eccetera?
Si può pensare che a queste domande si troverà senza dubbio una risposta in tutti i libri già
apparsi sulla droga. Per conto mio, io dico: no. Ho letto, com'era logico, tutto quello che si è potuto
scrivere sull'argomento, e con mia gran delusione non vi ho mai trovato quel che cercavo.
Da una parte, avete le opere tecniche dei medici che vi analizzano il soggetto scientificamente, vi
danno senza dubbio delle definizioni esatte e interessanti. Ma non è questo che conta. Manca loro
l'essenziale: l'esperienza diretta, la forza della testimonianza di colui che ha vissuto personalmente
la cosa. Così essi per lo più sfiorano soltanto l'argomento.
D'altra parte, avete le confessioni degli stessi drogati. Solo che esse hanno tutte un punto in
comune: sono condotte sul filo del rimorso. Tutte quante vi dicono: non fate come ho fatto io,
guardate a che punto mi sono ridotto!
E vi descrivono in lungo e in largo il loro progressivo abbruttimento.
Penoso…
Chiaro, sarei un pazzo a negare che anch'io sono caduto ben in basso. Solo che questo non è
parlare della droga, ecco. Questo significa non affrontare completamente l'argomento, non andare al
fondo delle cose.
Bisogna essere più sinceri, non aver paura di dire tutto.
Ed è quello che voglio fare io, perché ho deciso di non nascondere nulla.
Per prima cosa, riguardo alla domanda: perché ci si droga?, rispondo senza andare troppo per le
lunghe.
Perché è bello.
Perché la cosa ti fa felice, ti permette di sopportare meglio la fatica, ti aiuta a vivere, a superare
le difficoltà, a vedere meglio la verità delle cose, ti fa intuire dei rapporti e delle associazioni fra le
cose che avresti impiegato degli anni a scoprire da solo, o che forse non avresti scoperto mai.
Perché — per essere semplice, chiaro e preciso — ti rende più intelligente.
Mi si dirà:
«D'accordo, ma tutto questo all'inizio. Poi, come si sa bene, la droga sfibra e uccide lentamente».
È vero, ma credetemi: io conosco decine di persone che sanno drogarsi «bene». Cioè senza
eccessi. Scaltri, prudenti.
La droga è come il vino. Ha i suoi ubriaconi che crollano sul bancone, e i suoi raffinati
intenditori che sanno apprezzare una buona bottiglia.
Allora, perché io sono crollato?
Perché ho cominciato?
La prima volta, semplicemente, per curiosità. Ogni volta che mi si presenta un'occasione, io la
colgo. L'occasione di fumare l'hashish mi si è presentata a Istanbul. La cosa non ha presentato
alcuna difficoltà per me: ho soltanto colto l'occasione.
Poi, lungo il viaggio, è stata tutt'altra cosa.
È venuta fuori la forza dell'abitudine. Vi trovate sulla strada dell'India, la strada di Katmandu, in
un ambiente in cui tutti si drogano. È proprio come bere un bicchiere, o mangiare un boccone.
È tutto così naturale che non si ha la minima voglia di andare contro corrente.
Soprattutto si è più liberi, più tranquilli. In Europa, il drogato vive sempre nell'ossessione di farsi
pescare. Laggiù no. Nessuna preoccupazione a questo riguardo. Come a riguardo dei rifornimenti:
non si resta mai senza droga, anche se non si possiede il becco d'un quattrino. Ci si aiuta tutti
insieme, come ho già detto.
Dunque, tutti fumano attorno a te. Perché tu no? Ti trovi immerso in pieno nell'ambiente. Perché
non fare come gli altri?
Se non si fuma, allora sì che ci si trova a disagio. Se si è soli ad andare contro corrente, ci si
sente impacciati. È impossibile stare in una camera dove tutti fumano lo shilom, e rimanersene a
guardare, senza fumare. È inconcepibile. Non si è più in sintonia. Non si può nemmeno partecipare
alla conversazione. Si rimane troppo logici, troppo terra-terra, troppo materialisti, mentre gli altri
sono già sopra un altro pianeta. Per qualsiasi soggetto di conversazione, essi hanno un altro modo di
pensare e di ragionare. Bisogna dunque partecipare. O andarsene.
E poi, gli estranei curiosi non sono graditi nella società dei drogati (ciò detto, va aggiunto che,
proprio quando si fuma, si può osservare e studiare meglio, si è perfino più lucidi, più vivi, più
obiettivi che se non si fumasse).
Più avanti (ebbene la parola è stata talmente condita di tutte le salse, soprattutto riguardo alla
droga, che quasi non ha più valore e forse è diventata un po' ridicola, ma resta pur sempre quella
giusta) più avanti si tenta, — anch'io ho tentato — l'«esperienza».
A dire il vero se ne fa presto più di una, perché non si sa mai dove si va a finire.
Questa è stata la mia terza tappa: a Katmandu.
Ho voluto spingere le cose più avanti, ho tentato il massimo.
Per un puntiglio personale, soprattutto, ho voluto provare a me stesso, come avevo già fatto in
tante e tante altre circostanze, e sovente pericolose, che ero capace di spingermi molto lontano, di
arrivare a conoscere il mio limite.
E di vedere se sarei stato capace di fermarmi, quando lo avessi voluto.
È allora che il meccanismo è scattato.
Non sono più stato io il più forte. Ero stato troppo spavaldo. Sono piombato nel baratro e mi
sono rotto le ossa.
Sono sopravvenuti l'assuefazione e il bisogno.
Se fossi partito per Madras, se mi fossi imbarcato per il mio giro del mondo, senza dubbio avrei
potuto, sia pure con pena, tirarmi fuori.
Ma sono partito a cercare Agathe a Katmandu… E Katmandu non è certo il posto adatto per fare
marcia indietro.
Poi altri motivi spiegano la mia caduta. Non li cito a mio discarico, per discolparmi, perché mi fa
ribrezzo la parola pentimento (ho tentato, ho pagato, ecco tutto), ma perché sono stato davvero
molto condizionato da tutti i guai che mi sono capitati.
Se mi fossi trovato in condizioni normali, con la mia forza la mia volontà normali, sarei riuscito
senza dubbio ad avere la meglio.
Ma non bisogna dimenticarlo: la droga non solo indebolisce il corpo, ma intacca anche la
volontà, la forza del carattere. Essa fa drammatizzare le cose, sconvolge il sistema delle reazioni.
Ecco perché ho scambiato per catastrofi degli avvenimenti che in tempo di normalità non mi
avrebbero fatto né caldo né freddo.
Sono cosi arrivato alla morfina e alle amfetamine.
A partire da questo momento, il cerchio vizioso ha preso a girare a piena velocità: assuefazione,
spossatezza, gli shoot per vincerla, e via di seguito.
La decadenza, il fisico scardinato, il morale a pezzi.
Ma ritorniamo alle nostre questioni: le varie droghe.
Ciò che bisogna sapere bene, per prima cosa, è che ci sono due tipi di droga. Non uno, o tre, o
quattro: esattamente due.
Ho tra le mani molte opere scientifiche e vi leggo con interesse che le droghe si classificano in
droghe tradizionali, quelle che si fumano, si mangiano o s'iniettano, o anche si annusano. Poi, che ci
sono le droghe chimiche, poi le droghe farmaceutiche, poi le droghe mediche.
Tutto questo è esatto, ma è falso nello stesso tempo. È il tipo di classificazione proprio dello
studioso, che si china sopra una specie sconosciuta e la studia con la logica che gli è propria.
Nella logica del drogato, le cose sono le stesse in un certo senso, perché è evidente che,
scientificamente parlando, questa classificazione è esatta. Su questo siamo d'accordo, ma
l'importante, l'essenziale, è altrove.
Per il drogato, ci sono due tipi di droghe. E basta.
Quelle che fanno planare.
E quelle che fanno viaggiare.
La differenza è enorme.
Planare significa essere in uno stato felice, piacevole, formidabile, ma senza mai perdere la
nozione della realtà.
Una nozione senza dubbio sublimata, ma è sempre lì.
Un drogato che plana può molto bene aggirarsi per le strade, lavorare, parlarvi.
Può controllarsi, dirigere i suoi gesti e i suoi pensieri.
A parte pochi indizi leggeri — rossore, un po' di nervosismo, occhi lucidi, eccetera, — non
notate nulla di speciale.
È tutto diverso con un drogato che viaggia.
La sua posizione naturale è starsene disteso. Non aspira che a quello. Nel giro di pochi minuti
(usciti dal medico Makhan, bisognava sbrigarsi a rientrare in casa), il drogato non può più pensare,
non può più parlare se non a fatica — e con un violento sforzo di volontà, — non può più essere
«reale».
È altrove. Vive altrove. Completamente. Cosi realmente come se partisse per Marte o non so
quale pianeta del sistema solare. È tutto solo con se stesso, in un mondo a parte.
E importantissimo: non si controlla più. È guidato. Non sa mai dove va.
C'è un limite a tutto ciò: una volta assuefatto, abituato, può di nuovo controllarsi, e vivere sotto
l'effetto della morfina o dell'amfetamina. È quel che mi capiterà quando andrò su per i monti.
Il flash: esso si verifica solo quando "si viaggia". Quando si plana, non c'è flash.
Le droghe che fanno planare? Sono le droghe dell'iniziazione, quelle che di solito (anche se non
sempre) si prendono per prime.
Si tratta anzitutto della marijuana, detta «kif» nell'Africa del Nord, e «gangia» in India. Con
qualche piccola differenza, è poi la stessa cosa: un derivato della canapa indiana, sotto l'orma di
erba secca.
In secondo luogo c'è l'hashish, che è il succo ricavato dalla stessa pianta e trasformato in pasta
(con diversi metodi di preparazione). È tre o quattro volte più forte della marijuana.
La marijuana è la droga meno cara, e la più pratica. È la più fumata dai nativi in Oriente.
Hashish e marijuana si fumano, si mangiano, si bevono, ma non s'iniettano (anche se ho visto dei
drogati che lo facevano).
Sempre nella categoria delle droghe che fanno planare c'è l'oppio, estratto dalle capsule del
papavero. Lo si fuma, mangia, beve e anche lo si inietta.
L'oppio fa soltanto planare.
E tuttavia io, a Bombay, ho raggiunto tali dosi (da 50 a 60 pipe al giorno) che mi è capitato, una
volta o due, di fare un vero e proprio viaggio, con un distacco totale, perdita di coscienza del reale,
eccetera.
La cosa potrà sorprendere, eppure è la stretta verità.
E ora eccomi alle droghe del viaggio propriamente dette.
La più comune è la morfina. La morfina, clinicamente parlando, è nient'altro che un alcaloide
dell'oppio. È stata scoperta all'inizio del secolo ventesimo (vedere Thomas de Quincey e Charles
Baudelaire).
Per noi drogati, è la più comune droga del viaggio, la più usata. Molti non si spingono oltre.
Poi, c'è l'eroina, «horse», anch'essa un derivato dell'oppio. La si può mangiare e bere, ma
soprattutto la si inietta. Notare che pochi hippies se ne servono. Di sicuro perché in Oriente è meno
comune che per esempio negli Stati Uniti.
Da notare anche che, una volta prodottasi l'assuefazione, con la morfina e l'eroina si regredisce:
si ritorna a planare, non si arriva più a viaggiare.
La cocaina, «coco». Poco usata. Ora ci sono droghe che fanno viaggiare più forte.
L'LSD, il famoso LSD, e la mescalina.
E infine le più cattive, che sono una vera porcheria: le amfetamine, la benzedrina, la dexedrina, e
soprattutto la famosa metedrina, «met» o «crystals» (perché ha un aspetto cristallino).
Personalmente, io ho provato tutto.
Quanto al problema delle reazioni a ciascuna droga, è molto difficile dare una risposta. Non si
può generalizzare. Ci sono droghe che sono afrodisiache per alcuni, ma che tolgono ad altri ogni
vigore. E viceversa. Bisogna perciò essere molto prudenti. Io non parlo che del mio caso personale.
Quello di Tizio, Caio o Sempronio, può essere del tutto diverso.
Per esempio ricordo che quando ho fumato per la prima volta dell'hashish, all'inizio ho provato
un rilassamento completo. Tutti i miei nervi, tutti i miei muscoli si sono rilassati. E quando mi sono
rialzato, ho avuto l'impressione fisica di camminare sull'ovatta. Altri non hanno provato nulla del
genere.
All'inizio occorre uno sforzo di volontà per mettersi a fare qualcosa, ma in seguito diventa facile.
Tutto accade lentamente, nella calma. Anche se, visti dall'esterno, i gesti si svolgono a velocità
normale. È proprio di qui che viene l'espressione «planare». Si ha davvero — l'ho già detto e lo
ripeto — l'impressione di planare.
Una proprietà dell'hashish, tra le altre: quando si fuma, ci si identifica con gli oggetti che si
guardano. Si diventa la finestra davanti a sé, il ramo dell'albero che penzola fuori. Si può avere
perfino l'impressione di fumare se stessi.
Moralmente, le cose sono un po' più complesse. Con i sensi divenuti così acuti, si risente, si
registra più fortemente qualunque immagine o suono.
Si giunge anche a reagire male a un suono sgradevole. Per esempio, camminare nelle grandi vie
piene di traffico dopo aver fumato, diventa spesso penoso. Il movimento, il chiasso, l'agitazione,
sono molto molesti per chi vive al rallentatore.
Ciò spiega perché i drogati si trovano così bene nei paesi arabi, in India e nel Nepal. Laggiù,
vivere al rallentatore è naturale. Le persone, per natura, sono calme, lente. È proprio quel che ci
vuole.
E non si può capire a fondo l'Oriente e il suo fascino se non si sa questo: l'Oriente è la regione
del mondo dove la droga e il misticismo scandiscono il ritmo della vita.
Questo discorso vale anche per l'oppio, droga dolce, lenta, misurata, molle.
Ma tutto cambia con la morfina, l'eroina, le amfetamine.
Quando si viaggia, si hanno i nervi allo scoperto. La realtà ambientale diventa nemica, ostile,
aggressiva, traumatizzante. Ciò che occorre, è che essa si cancelli il più possibile, si faccia
dimenticare, scompaia. Non se ne ha più bisogno, per nulla.
C'era una cosa per esempio che mi sconvolgeva dalla testa ai piedi, e a volte mi faceva diventare
cattivo: era che si mangiasse davanti a me, quando mi ero fatto uno shoot.
Il semplice fatto di vedere degli alimenti, vederli tagliare, portare alla bocca, il semplice rumore
della masticazione, erano un'aggressione insopportabile per i nervi della vista, dell'odorato e
dell'udito.
Non che mi sentissi male al cuore, o nausea. No, ma la vista della masticazione, l'odore del cibo,
lo scricchiolio delle mascelle, provocavano in ogni mio senso, e fra di loro, atroci stridii, spaventose
dissonanze, false note laceranti che mi spezzavano letteralmente i nervi.
Questo spiega come sia difficile drogarsi bene.
E spiega anche come — avendo una sensibilità così moltiplicata per cento o per mille — sia
formidabile trovarsi all'interno del viaggio propriamente detto.
Ho raccontato prima che, sotto l'effetto dell'hashish, avevo ottenuto che si animassero davanti ai
miei occhi, e si trasformassero in persone di carne, in persone della mia razza, quella bianca, le
figurine dagli occhi obliqui viste sopra uno stupa nella piazza del mercato di Katmandu. Era grazie
alla volontà che ci riuscivo. Per un fenomeno di sogno controllato.
Invece sotto l'effetto della morfina, dell'eroina o dell'amfetamina, il sogno viene senza volerlo,
senza cercarlo.
È cento volte, mille volte più straordinario. Ma non si è che spettatori affascinati, che si lasciano
condurre per mano.
Una cosa importantissima quando ci si fa uno shoot: bisogna essere ben circondati, in un clima,
in un ambiente favorevole, preparato apposta.
Per questo a Katmandu e in tutte le colonie di hippies ci si riunisce in gruppi per drogarsi.
È per essere sicuri che nessuna nota stonata verrà a disturbare il viaggio.
Questa precisazione ne richiama un'altra. In gruppo, bisogna che tutti prendano la stessa droga,
esattamente la stessa. Perché tutti abbiano le stesse reazioni, e non si rischi di essere messi a disagio
gli uni dagli altri.
Per aver trascurato di osservare questa regola, una volta io e un mio amico abbiamo rovinato
completamente una serata a Katmandu.
Si era in camera mia, e tutti prendevano l'hashish. Tutti meno io e quel mio amico. Noi due
avevamo commesso la grossa sciocchezza di prendere delle amfetamine.
Queste sono molto eccitanti. Bisogna assolutamente che ci si muova, che ci si metta in libertà,
che si parli. Le amfetamine fanno parlare molto.
E gli altri, poveretti, con il loro hashish aspiravano a una cosa sola: starsene in pace…
Non abbiamo smesso di scocciarli per tutta la notte.
Vorrei ora descrivere ciascuna delle principali droghe, una dopo l'altra, sotto un punto di vista
puramente tecnico.
Come si supporrà, ogni droga ha le sue particolarità d'uso, richiede speciali precauzioni.
Non parlerò dei modi di prenderle. L'ho già fatto nel corso del racconto. Ma c'è un certo numero
di regole d'oro che solo i drogati conoscono. Esse sono importantissime, ma poco conosciute dal
profano.
Cominciamo dall'hashish, la sola droga che possa «sposarsi» con tutte le altre.
Ci sono tipi diversi di hashish. Quello libanese, turco, afghano, pakistano, nepalese.
Poco importa la provenienza — direte voi. — Ciò che conta è avere dell'hashish.
Adagio! C'è dell'hashish buono, e ce n'è del cattivo. Tutto dipende dal paese produttore e dall'età
del prodotto. Alcuni sono molto inferiori ad altri, e mi pare utile saperlo.
Secondo me, l'hashish più debole, il meno caro, è quello turco. Poi viene il libanese, almeno
quello che si trova in Francia, perché sul posto è di qualità migliore di quello destinato
all'esportazione.
Poi, sempre in ordine crescente di qualità, vengono l'afghano, il nepalese (soprattutto quello di
Pokhara) e infine il pakistano.
Quest'ultimo è di qualità straordinaria. Proprio in Pakistan si trova l'hashish migliore del mondo,
in un piccolo villaggio chiamato Chitral, a nord di Peshawar, nella parte alta del Pakistan
occidentale. Chitral è la mecca dell'hashish.
Poi, sempre in Pakistan, trovate il «Bombay nero», chiamato così perché è molto nero.
È l'hashish preparato nel quartiere cinese di Bombay.
È speciale. Cioè, non è puro. È una mescolanza di hashish molto forte, prodotto a Shrinagar, la
capitale del Kashmir indiano (non se ne produce altrove in India), e di oppio.
Il «Bombay nero» è eccellente, ma molto potente. A causa dell'oppio che contiene. E bisogna
fare molta attenzione, la prima volta che lo si fuma. Ho visto molti individui aspirarne grandi
boccate, forti della loro esperienza con l'hashish normale, e andar fuori di sé in men che non si dica.
D'accordo — mi direte voi, — ma come riconoscere i diversi tipi di hashish? Come scegliere il
migliore quando ci si vuole drogare?
È molto facile, ma bisogna saperlo.
Quando si chiede dell'hashish in polvere, e vi presentano i soliti sacchetti di plastica (la plastica
conserva meglio l'aroma), potete andarci a occhi chiusi: è libanese o turco, e di nessun'altra
provenienza.
Il libanese è rosso (a dire il vero è piuttosto color ruggine, ma lo si chiama rosso).
Il turco è marrone, quasi kaki.
Gli altri, che vengono presentati in pasta, sono marrone carico. Molto carico, quasi nero
l'afghano, e completamente nero il «Bombay nero».
Ancora una cosa: anche se il libanese e il turco sono venduti in polvere, non è detto che si
trovino soltanto in polvere. Li si può trovare anche in pasta (soprattutto nel Libano); ma in questo
caso è ancora facile riconoscerli, per il loro caratteristico colore.
Anche la forma serve a distinguere i vari tipi di hashish. Ogni paese ha qualche modo tutto suo di
confezionarlo.
Il libanese in pasta è sovente in barre, o a forma di mattoni, se preferite. Mattoni di tutte le
dimensioni, da quella dello zuccherino (e anche più piccola), a quella di un sacco di cemento (e
anche maggiore). Insomma: formato piccolo, medio e grande.
Il turco in pasta è in piastrine molto sottili, anch'esse di tutte le dimensioni.
Il pakistano è a cubi, o a bacchette, tipo «bastoncini da riso», che vengono raggruppate a forma
di fascina, o se si preferisce a fasci di paglia.
L'afghano prende invece tutte le forme immaginabili, perché laggiù a Kabul, la capitale, c'è
un'industria attivissima che fabbrica oggetti-nascondiglio per il suo trasporto clandestino. Trovate in
vendita valige a doppio fondo, borse truccate, e perfino scarpe a doppia suola, in cui si può stipare
un po' di hashish.
Da notare che alcuni hashish portano dei marchi impressi nella loro pasta. Sono quelli apposti
dagli uffici competenti nei paesi che producono ufficialmente l'hashish: Afghanistan, Pakistan,
Nepal.
Ma di solito la forma dell'hashish in pasta non ha grande importanza, perché esso il più delle
volte, durante i suoi viaggi clandestini prima di arrivare in Europa o altrove, ha preso tutte le forme
che i trafficanti hanno ritenuto più adatte per fargli passare le frontiere.
Resta un altro problema, ancora più importante di quello della provenienza: il problema della
qualità.
Un drogato principiante, nove volte su dieci si fa rifilare dell'hashish scadente. Il drogato
sperimentato, mai.
Che cosa fa, quest'ultimo?
Guarda prima il colore. Più l'hashish è intenso, e più è buono (rosso intenso per il libanese, kaki
intenso per il turco, eccetera).
Osserva poi la sua consistenza. L'hashish dev'essere malleabile, quasi come il chewing-gum o la
creta da modellare.
Se è duro, è vecchio e svanito.
Così anche il suo grado di freschezza viene giudicato dall'interno. Se la superficie è liscia,
l'interno dev'essere sempre granuloso. Altrimenti è vecchio.
Ma è soprattutto l'odore che permette di giudicare la qualità dell'hashish.
Più è fresco (e quindi buono), e più il suo odore è forte e potente. Freschissimo, dà perfino alla
testa.
Ultimo segno di riconoscimento, ma che si ha poche possibilità di verificare in Occidente (a
meno che non si prepari personalmente l'hashish): quando è molto fresco, di qualsiasi tipo sia,
qualunque sia il suo colore specifico, ha dentro di sé un riflesso verde, che sparisce con il tempo.
Dunque: malleabilità, odore penetrante e colore intenso, sono i tre segni del buon hashish.
C'è in più il riflesso verde? Allora è un hashish super!
E quali tipi si trovano in Occidente? Soprattutto l'afghano, il turco e il pakistano. Un po' di
libanese, ma non il nepalese né il «Bombay nero».
Quest'ultimo potrebbe arrivare un giorno o l'altro, perché i trafficanti non tarderanno a scoprire
che vendere a qualcuno dell'hashish mescolato all'oppio è una maniera eccellente per iniziarlo
all'oppio, e per farne così a poco a poco un futuro cliente.
L'hashish, come ho detto, si mangia, si fuma e si inietta; ma il modo migliore di prenderlo è di
fumarlo. Con lo shilom. In una sigaretta ce ne sta troppo poco. E poi, con lo shilom va direttamente
nei polmoni, a grandi boccate (sovente fino a farti girare la testa), che riescono a farti planare molto
in fretta.
In Nepal e in Pakistan lo si fuma anche con la pipa ad acqua, in un fornello di terracotta o di
noce di cocco, che assomiglia al narghilè. Ma è complicato. L'uso dello shilom ha invece il
vantaggio di essere d'una semplicità infantile.
Ci sono due sole precauzioni da prendere: mettere una pallina di carta stagnola in fondo al
focolaio — per evitare di aspirare tutto il calore del braciere, tutto quel che c'è nel focolaio — e
mescolare l'hashish con il tabacco. Puro, rovinerebbe i polmoni.
Mangiare l'hashish è possibile, ma sarebbe sprecarlo. Ingerito, perde quasi tutta la sua forza.
Senza contare che fa male allo stomaco e provoca nausee. Mentre nei polmoni è a contatto diretto
con il sangue.
Di qui l'idea, per aumentare i suoi effetti (idea che naturalmente ha avuto molti seguaci), di
iniettarsi l'hashish nelle vene.
Io sostengo che è una bestialità (per non dire peggio), da evitare a tutti i costi.
Non tanto perché sia complicato (bisogna cuocere l'hashish nell'acqua, diluirlo e filtrarlo con una
tela), ma perché è molto pericoloso.
L'hashish è sempre pieno di particelle, d'impurità, di porcherie.
Per quanto lo si filtri bene attraverso la tela, un po' d'impurità finirà sempre dentro la siringa. È
l'infezione garantita.
E poi l'hashish non dà ciò che fa il grande piacere dell'iniezione: il flash. Non c'è mai flash con
l'hashish.
Un'ultima cosa, che i veri amatori dell'hashish conoscono bene: bisogna alternare gli «aromi»,
passare da un tipo all'altro, dall'afghano al pakistano al nepalese, eccetera.
Perché? Prima di tutto per il piacere che produce. A fumare sempre lo stesso hashish, il gusto si
smussa, si stanca. È un po' come per i vini. Berresti sempre e solo del Beaujolais? Finiresti per
averne abbastanza. Alternando i diversi aromi, tu ne rinnovi il piacere. Lo stesso è con l'hashish.
Ogni tipo ha il suo aroma differente.
Altro vantaggio per quelli che non vogliono lasciarsi tentare dalla scalata e passare alle droghe
forti e pericolose: variare i tipi, per far durare il piacere anche solo fumando l'hashish, e non pensare
troppo alle altre droghe.
Un'ultima parola sull'hashish. Secondo me, ha un grandissimo merito: non crea praticamente
alcuna assuefazione. Quando se ne rimane senza, si sta bene lo stesso. Voglio dire che l'organismo
non lo reclama, come capita invece per altre droghe. La voglia rimane, si capisce. Ma non se ne fa
una malattia. Press'a poco come per il tabacco. Il fumatore di tabacco, rimastone privo
improvvisamente, si sente a disagio, ma non è veramente malato. Lo stesso accade press'a poco
quando si è privi di hashish. Niente di più.
Passiamo all'oppio. L'«op», come si dice.
Con l'oppio le cose si fanno più serie.
L'oppio viene dalla Turchia (ma sempre di meno: gli Stati Uniti esercitano vive pressioni sul
governo d'Ankara per fargli limitare la produzione di questa droga, che trova proprio in America il
suo sbocco principale), viene dalla Cina, dal Laos e dalla Thailandia.
Né il Nepal, né l'Afghanistan, né il Pakistan lo producono in quantità sufficiente per esportarlo.
Anzi non arrivano a coprire il loro mercato interno.
L'oppio migliore è quello cinese.
Che aspetto ha? È una pasta molto scura, quasi nera (più è nera e più è buona). Molto più
malleabile dell'hashish, l'oppio assomiglia un po' al vischio. Si appiccica a tutto, in particolare al
tessuto.
Non bisogna mai avvolgerlo in un tessuto. Molto in fretta s'infiltra e trapela attraverso la trama.
Per questo viene di solito presentato anch'esso nella plastica. È la sola sostanza sulla quale si
possa ricuperare, magari raschiandolo con un coltello. È anche il miglior imballaggio perché
conservi il più a lungo possibile il suo profumo.
Altro segno di riconoscimento dell'oppio: il suo odore. Esso è caratteristico. Come definirlo? È
difficile, ma proverò a usare un paragone con un senso diverso dall'odorato: il gusto. Se tu riesci a
«vedere» il gusto del torrone, del caramello? Ebbene, immagina questo gusto trasformato in odore.
Esso ti dà l'odore dell'oppio.
Odore che può essere molto violento quando l'oppio è molto fresco. E allora può anche dare la
nausea, tanto è concentrato. Ti blocca lo stomaco, ti mette a disagio.
Un giorno ho visitato nel Mezzogiorno della Francia una distilleria di lavanda. È buono e
gradevole, l'odore della lavanda… Ma quando si mette il naso sull'essenza di lavanda pura, così
come la si ottiene in una distilleria, essa è così concentrata che ti blocca il respiro. Con l'oppio
fresco (sia pure per un odore differente), succede lo stesso.
I trafficanti, c'è da sospettarlo, cercano di «tagliare» l'oppio, come si taglia il latte. Come fare per
accorgersene? Ahimè, non c'è alcun modo, come pure per l'hashish, prima di averlo acquistato.
L'odore, forse; ma arrivato qui da noi, l'oppio (anche quello puro) ha già perso molto del suo odore.
Invece, dopo averlo comperato da un fornitore, si può sapere se egli adultera la merce o no. Ma
solo dopo.
Basta diluire un po' d'oppio nell'acqua. Si rimescola, lo si lascia depositare…
L'acqua non resta mai del tutto chiara, trasparente, limpida. Ma se è priva di ogni impurità in
sospensione, allora l'oppio è puro.
Se ci sono delle impurità, delle briciole, per piccole che siano, in sospensione, è senza dubbio
perché l'oppio è stato mescolato con hashish (l'hashish, come si sa, è pieno d'impurità) o a chissà
quali altre erbe.
È con l'oppio che l'espressione «planare» acquista tutto il suo valore. Si va molto lontano, ma si
resta capaci di dirigere la propria «planata» (salvo il caso di forte intossicazione, come ho già detto;
ma non ne farei una regola generale, anche se suppongo che le reazioni che ho avuto io debbano
essere le stesse di molti altri grandi drogati di oppio).
L'oppio è fatto soprattutto per essere fumato, come l'hashish, assai più che per essere mangiato o
iniettato.
Si può mangiarlo anche con un certo risultato, ma bisogna prendere una precauzione, piccola e
semplice, se non si vuole sentire in bocca un bruciore e talvolta anche un'amarezza persistente, e
soprattutto non avere dolore di stomaco e nausea.
Basta avvolgere l'oppio in una cartina da sigaretta, e trangugiare tutto d'un colpo.
Lo si ingerisce meglio.
Invece non c'è nulla da fare contro un inconveniente dell'assunzione per bocca: la sete. Si beve
sempre molto.
Ho parlato, poco fa, dei pericoli che le iniezioni di hashish comportano. Essi sono ancora
maggiori con l'oppio.
L'iniezione con l'oppio costituisce un vanto per il drogato. Personalmente, io non l'ho praticata
che quando non potevo fare diversamente, quando non avevo altro da iniettarmi.
Forarsi un braccio, per molti è un'operazione sgradevole e anche dolorosa, e si arriva talvolta a
compiere delle bassezze per sottrarvisi (per esempio… la fuga, quando arriva il furgone dei donatori
di sangue!).
Per un drogato invece, non c'è nulla di meglio.
Nulla equivale a uno shoot. Il fumare, in confronto, è solo uno scherzo.
Un vero drogato preferisce lo shoot a qualsiasi altra cosa. Ne ho conosciuti che, privi di tutto, si
facevano gli shoot con l'acqua (zuccherata o salata, ma mai pura: l'acqua pura uccide), tanto
sentivano il bisogno degli shoot. Anch'io, quando prendevo pastiglie di metedrina, le schiacciavo e
le scioglievo per poi iniettarmele, se mi era possibile, piuttosto che trangugiarle).
Ma mi ci vuole una bella faccia a raccontare queste cose, proprio mentre sto dicendo tutto il male
che posso riguardo alle iniezioni di oppio!
Il fatto è che esse sono troppo pericolose.
L'oppio non è adatto, non è fatto per essere iniettato. È grasso e ingrassa l'ago.
Sovente, molto sovente (ho già detto il perché… farabutti di rivenditori!) esso contiene delle
impurità. Di lì il rischio di ascessi molto seri.
E il flash non è gradevole. Niente volo favoloso, delizioso, ma un'impressione sgradevole.
Pizzicori alle labbra, e in punta delle dita. Vampate di calore che montano alla testa. Notate: c'è
gente a cui piacciono queste cose. Ma sono pochi…
Un solo vantaggio: non c'è in pratica il rischio di una dose eccessiva, con gli shoot di oppio. Si
può caricare molto, senza paura. Il segnale d'allarme viene da solo: si perde la conoscenza. È tutto.
Ma guai all'iniezione fatta fuori della vena!
No, lo shoot con oppio è solo per quando non si ha proprio altro da mettersi nel sangue.
Ma ritorniamo all'oppio fumato. Così, diventa una droga di alta qualità.
In primo luogo l'assuefazione (reale, questo purtroppo è sicuro) è lenta. Poi, l'oppio è molto utile
al vero drogato, quello che tenta tutte le strade e utilizza tutta la tavolozza delle droghe.
L'oppio serve a calmare le reazioni negative del fisico alle altre droghe: dolori di stomaco,
insonnia, freddo alle estremità (questo capita soprattutto con la metedrina).
Si prende l'oppio per placare tutte queste cose, e per riscaldarsi.
Ancora un'osservazione: l'oppio è la droga favorita da quelli che vogliono dirigere le loro
«planate», ma finisce — come ho già detto — per farvi fare delle brevi passeggiate incontrollate.
Ebbene, gli oppiomani sperimentati sanno correggere questo contrattempo.
Appena si sentono partire, prendono in fretta una o due, o anche tre pastiglie di metedrina.
Questo eccitante restituisce loro la lucidità necessaria per contrastare la tendenza pericolosa, senza
cancellare gli effetti dell'oppio.
E ora, la morfina.
Da maneggiare con precauzione. Ma che viaggi!…
Con la morfina si passa al «viaggio» vero e proprio: la passeggiata incontrollata. Avanti, barca
mia, portami nel mondo incantato…
È la droga migliore, la più adatta per fare il viaggio. E tra quelle della sua forza, ha meno
inconvenienti.
Non dà nausea. Non riduce né l'appetito né il sonno (salvo il caso di intossicazione molto
avanzata).
Si resta del tutto lucidi, mai completamente fuori di sé, in grado di seguire i propri fantasmi e
assaporarli.
L'overdose è più rara che con l'eroina.
La morfina si presenta principalmente in forma di liquido limpido. Appena un leggero odore di
farmacia.
La morfina liquida in generale è incolore. A volte è un po' giallognola, ma molto poco. E allora è
della migliore qualità.
Se ne trova anche sotto forma di pastiglie. L'aspetto è quello delle pastiglie di aspirina: rotonde,
piatte, d'un bel bianco-neve, ma per la dimensione sono solo la metà di un'aspirina.
Le pastiglie si possono prendere per bocca (e allora una gran parte dell'effetto, a causa della
digestione, se ne va). Si può anche diluirle, di preferenza in acqua distillata, per poi iniettarle.
La morfina non si mescola con alcun'altra droga.
È d'importanza decisiva, le prime volte che la si prende, mettersi nelle condizioni giuste. Bisogna
essere molto distesi, molto calmi, ben disposti. Se si è nervosi o si sta lì a spiarne troppo gli effetti,
essi non verranno mai. È quanto mi capitò il mio primo shoot di morfina, a Bombay, con «Pique du
nez».
Perché il viaggio duri al massimo, conviene farsi l'iniezione sottocutanea, piuttosto che
endovenosa.
Ma allora si rischia di avere male.
E soprattutto ci si priva del flash.
Il flash della morfina è il più formidabile che ci sia. Non solo in intensità, ma anche in durata. Mi
spiego: non in durata del flash, che è purtroppo sempre tanto breve, ma nel senso che anche dopo
sei mesi, per esempio, il flash continua a prodursi a ogni iniezione. Con la stessa intensità. Il che
non capita per le altre droghe.
Arrivo così all'eroina, il famoso horse, il «cavallo». La più pericolosa di tutte le droghe
tradizionali. Quella che provoca l'assuefazione più rapida e presenta il maggior rischio di overdose.
Ma anche quella che, di tutte le droghe tradizionali, fa fare i viaggi migliori.
L'eroina si presenta a volte in gocce, ma più spesso in polvere.
Una polvere sulla quale gli spacciatori si sbizzarriscono a operare tutte le specie di trucchi per
tagliarla il più possibile.
Il «taglio» più comune è fatto con il lattosio.
Ci sono dei farabutti che osano vendere, col nome di eroina, una polvere che ne contiene sì e no
il 5%!
E hanno ragione, tutto sommato. I drogati sono troppo bestie. Hanno solo da mettersi in guardia.
E non è troppo difficile.
Con o senza lattosio, l'eroina è bianca. Ma ci sono diversi toni di bianco, ed è a questo che il
drogato deve fare attenzione.
La vera eroina, l'eroina pura, è d'un bianco un po' giallo, tendente piuttosto all'ocra.
L'eroina mescolata al lattosio è invece d'un bianco puro. Più questo bianco è puro, più c'è
lattosio.
Anche la sua consistenza ha importanza.
Se la polvere è granulosa, bisogna diffidare: c'è lattosio.
L'eroina pura non è granulosa. È soltanto polvere.
Poi, bisogna prenderne un po' tra le dita, o meglio nel palmo, se ce n'è molta, e farla scorrere.
L'eroina pura scorre male, un po' come quelle farine che contengono ancora parecchio glutine, le
cui particelle aderiscono un istante fra loro prima di decidersi a scorrere; un po' come la sabbia che
resta agglomerata nella clessidra, e poi d'improvviso scorre giù.
Invece l'eroina mescolata al lattosio scorre senza fare storie, piattamente, con uniformità,
stupidamente.
Con l'eroina, quando si sente che si parte troppo in fretta e si viaggia troppo forte, è inutile
cercare rimedio nelle anfetamine. Non servono a nulla.
Il flash dell'eroina ha qualcosa di sontuoso, di regale.
Perciò la si prende il più possibile per iniezione (diluita nell'acqua), e per iniezione endovenosa
(non c'è mai flash — è il caso di ricordarlo — nell'iniezione sottocutanea).
I due grandi problemi dell'eroina sono l'assuefazione e il rischio dell'overdose.
L'assuefazione è molto rapida, e per di più atrocemente tirannica. Bisogna aumentare, aumentare
senza sosta le dosi. Ed è come giocare col fuoco.
Non solo a causa delle devastazioni fisiche che essa arriva a produrre, ma a causa del rischio
dell'overdose.
Ciò che rende maggiore il pericolo, è il dosaggio: è molto delicato. La quantità da prendere si
misura a gradi di precisione estrema.
Il che non è tanto facile quando si è lì, febbrili, anelanti, a prepararsi lo shoot, mentre si sente il
bisogno urgente che galoppa a piena velocità nelle vene!
Il solo modo per sorvegliare l'overdose, il solo segnale di allarme, è il controllo della pupilla.
Davanti a uno specchio, ci si esamina l'occhio. Se esso è molto brillante, e soprattutto se la
pupilla è molto dilatata, allora è meglio ridurre drasticamente la dose successiva: l'overdose è in
agguato.
Altri drogati vanno a fare due passi, per vedere a che punto sono. Vogliono vedere se i loro
riflessi (marcia, equilibrio, facoltà, attenzione alle cose e alla gente) sono ancora normali.
Ma è un rischio.
L'eroina fa perdere la nozione del reale.
Di tanto in tanto, è vero, la lucidità ritorna.
Allora si esce…
Solo che la lucidità può sparire con la stessa velocità con cui è venuta. Senza avvertire.
Quanti individui ho visto, a Katmandu o altrove, che arrivavano al ristorante con l'aria normale,
si mettevano a tavola, ordinavano da mangiare, e poi d'improvviso restavano lì immobili, a volte per
ore intere, completamente dimentichi di dov'erano e di ciò che facevano!
Partiti! Ripartiti per il loro viaggio.
Un giorno ho visto un tale uscire dal nostro covo: «Vado a comperare dei pasticcini dall'altra
parte della strada», dice.
Io ero alla finestra. Si era a Bombay. L'ho visto uscire dalla casa, e avanzare verso il bordo del
marciapiede. La pasticceria era di fronte. Ha atteso che il semaforo dell'incrocio fermasse il
passaggio delle vetture.
Il semaforo verde, la via è libera.
Ma lui non attraversa. Si è seduto, e resta lì.
Il suo momento di lucidità è finito bruscamente. E lui è di nuovo in viaggio.
E io lassù, troppo preso per conto mio dagli effetti della droga per aver voglia di fare qualcosa,
me ne sono rientrato tranquillamente in casa.
Cinque ore più tardi, mi sono rimesso alla finestra per puro caso. Quel tale è ancora lì, seduto sul
gradino del marciapiede, sfiorato dalle vetture.
Ma la più grande sconcezza che esista al mondo sono le amfetamine, queste porcherie che si
comincia a prendere per «combattere» gli effetti pericolosi delle altre droghe, e poi per tirarsi su, ma
alle quali ci si abitua e si finisce per prenderle perché non se ne può più fare a meno, e diventano
così vere droghe.
Eppure non arrivano a far planare né viaggiare.
Al contrario, quando se ne prendono un po' troppe, danno delle allucinazioni. E che
allucinazioni! Ai confini con la follia. Me ne accorgerò io, e le pagherò ben care, verso la fine del
mio soggiorno a Katmandu.
E poi è proprio con le amfetamine che la «discesa» — la famosa discesa che conclude sempre,
inesorabilmente, il viaggio — si fa sgradevole al massimo.
Oh, la discesa delle amfetamine!
Un inferno…
L'overdose è possibile con esse, ma bisogna spingersi molto lontano.
Personalmente, racconterò più avanti in quali condizioni ho raggiunto uno stadio in cui — per
quanto mi è dato sapere — nessuno è mai giunto.
E non ho avuto l'overdose.
Il vero pericolo è altrove: alla lunga esse sgretolano, demoliscono. Sono dei veri arieti che ti
fanno andare a gambe all'aria, ti tolgono il sonno, la salute, l'intelligenza e l'appetito.
Tutti gli appetiti, tutti…
Allora, perché si prendono? Ebbene, perché costano di meno, perché è relativamente facile
procurarsele, e aiutano a sopportare la mancanza di droga.
Ora, l'imperatore delle droghe, il grande, il buono, il formidabile LSD. L'acido.
L'LSD è più di un flash straordinario, di un viaggio sia pure straordinario.
È un flash in continuazione.
La forma più corrente è la pastiglia, simile all'aspirina, ma molto più piccola.
Ma c'è anche l'LSD liquido, incolore, insipido, senza odore, quello di cui si mette una piccola
goccia, niente di più, mai due, sopra uno zuccherino.
L'LSD si mangia o si beve soltanto. Non si fuma, non si inietta.
Ci sono pastiglie di sei tipi diversi. Nell'ordine di colore: bianco, rosa, arancio, marrone, viola
scuro, nero.
A ogni colore corrisponde una concentrazione differente di droga. La bianca è la meno forte, la
nera la più forte, e i colori intermedi in forza crescente.
Il pericolo dell'LSD non è la morte. È la pazzia.
Essa si verifica quando la dose è stata troppo forte, o quando si è preso l'LSD con troppa
frequenza, o anche soltanto a causa di un viaggio cattivo.
È molto facile fare un viaggio cattivo. Basta prendere l'LSD quando si è troppo nervosi, troppo
inquieti, in un ambiente non adatto. Perciò i drogati si aiutano molto tra loro. Quando qualcuno sta
per fare il suo primo viaggio con l'acido (si chiama trip), lo si mette in guardia, non lo si lascia solo.
Sovente lo si prepara con dell'hashish, perché diventi calmo.
Quando si prende l'LSD, si possono prendere insieme anche altre droghe. È una droga
universale, come l'hashish.
Non c'è mai assuefazione, con l'LSD.
Ma quando lo si prende, conviene non avere impegni per il giorno dopo, perché affatica molto, a
causa del dispendio nervoso, che è enorme. Un vero sperpero.
Per questo la vita normale diventa impossibile per un drogato con l'LSD.
E poi uno non può prendere la sua pastiglia o la sua goccia tutti i giorni. È troppo sfibrante.
La dose media, e per drogati già esperti, è una volta o due la settimana.
Di solito, due o tre viaggi al mese sono già parecchio.
Dunque è una droga del tutto a parte. In qualche modo è una festa che ci si può offrire di tanto in
tanto, il «caviale con vodka», o il «fegato d'oca con champagne» del drogato!
E chiudiamo il capitolo.
9.
Vorrei ora rispondere a un'altra domanda che di sicuro viene alla mente.
Come si fa per procurarsi il denaro, quando si è sulla strada, quando si è hippy, o assimilato
hippy, quando si è a Katmandu?
Nel mio caso preciso, lo si sa, io ho avuto per molto tempo del denaro, grazie al famoso colpo
fatto al canadese a Istanbul. Naturalmente non mi è durato all'infinito, soprattutto per colpa della
banda di scrocconi che avevo alle calcagna all'Orientai Lodge e al Garden Hotel.
Mi è stato perciò necessario trovare altre soluzioni. Ne ho già parlato un poco, nell'episodio del
medico non autorizzato. Ci tornerò ancora sopra.
Ma prima voglio trattare dei metodi classici degli hippies e dei ragazzi di strada per procurarsi il
denaro.
E, subito, una precisazione importante. Qualunque sia il metodo adottato, quasi sempre sono le
ragazze che si incaricano di metterlo all'opera. L'hippy di solito ha una ragazza che gli raccoglie il
denaro.
Ciò si chiama «marmitta», nel gergo hippy.
E la marmitta può arrivare a ottimi risultati.
Il primo metodo, per far soldi, è: l'elemosina, la mendicità, né più né meno. Personalmente l'ho
praticata una volta sola, ma non ha funzionato, e ne sono rimasto subito disgustato.
Segno che non avevo ancora lo stomaco abbastanza vuoto.
La mendicità può essere praticata in primo luogo, come è naturale, all'angolo della via, tendendo
la mano ai passanti.
Le ragazze ci riescono molto meglio che i ragazzi. Primo, perché… sono ragazze, e molto spesso
il benefattore dà solo per avere l'occasione di avviare la conversazione, di invitare a cena, eccetera.
D'altra parte, soprattutto in Europa, e in particolare nella Francia, è meglio non tendere la mano a
una donna.
Le donne regalano raramente. E non hanno eguali per farti la morale, cioè l'ultima cosa che in
quel momento si ha voglia di sentire.
La tecnica si impara a poco a poco. Si sa presto che non bisogna domandare da mangiare. Di
solito vi rispondono che, se si ha voglia di mangiare, si deve lavorare come fanno tutti.
Molto meglio chiedere «per pagare la pensione», per esempio. Funziona di più.
Così non bisogna fissare la somma che si desidera. Sovente si hanno delle felici sorprese, quando
si lascia che la gente se la sbrighi da sola, tra il portafoglio e la propria generosità.
In Oriente la questua è praticata su grande scala (basta ricordare l'episodio del bambino amputato
a Benares), ma è più rischiosa per le ragazze.
Soprattutto nei paesi arabi.
Jocelyne, la Jocelyne della passeggiata a cavallo, mi ha raccontato che un giorno a Beirut si è
fatta prendere a schiaffi in mezzo alla strada da un arabo che, dopo averle dato del denaro, non
riusciva a capacitarsi che lei si rifiutasse di andare su in camera con lui.
Soprattutto gli arabi, infatti, si aggrappano alle ragazze che chiedono l'elemosina, privi come
sono di donne, dato che i ricchi se le accaparrano tutte.
I risultati della questa? Molto migliori che non si creda.
Sempre Jocelyne mi ha raccontato che a Beirut normalmente metteva insieme da 50 a 60 lire
libanesi (tra le 9.500 e le 11.500 lire italiane) al giorno, nelle grandi vie, percorrendole nei due
sensi, un marciapiede dopo l'altro.
Dovete ammettere che non è malaccio.
Ma tendere la mano non è la sola maniera di praticare la questua.
Potete anche lavorare di gessetto sul marciapiede. Si disegna qualche cosa per terra, si piazza una
ciotola lì vicino — o non la si piazza affatto, e le cose non cambiano — e si aspetta seduti per terra,
con calma.
Anche questo metodo rende bene.
Io l'ho praticato molte volte, un po' dappertutto in Europa, specie in Olanda e Francia. E ne sono
rimasto sempre soddisfatto.
Un'altra tecnica, dell'accattonaggio, che funziona bene in Francia, è il biglietto del metrò.
Una sola difficoltà: bisogna avere una base di partenza di 7 franchi. Il prezzo di un blocchetto
completo (dieci biglietti) di seconda classe. Poi, tutto fila a gonfie vele.
Comperi il blocchetto, poi ti metti vicino allo sportello d'una biglietteria molto frequentata. Ci
sono sempre persone che fanno la coda. E che hanno fretta.
Offri loro i biglietti al minuto.
Ben contenti di non dover fare la coda, molti li comperano. Un franco per biglietto, è naturale.
Così, quando il blocchetto è terminato, hai guadagnato 3 franchi tondi.
Altro metodo, per le ragazze, è la prostituzione.
Molto praticata. Non professionalmente, si capisce, ma quando capita. Agnès col suo funzionario
americano a Katmandu non era certo un'eccezione.
Sulla strada, le ragazze si offrono con facilità, senza vergogna, senza imbarazzo, senza sentirsi
disonorate.
Alcune lo fanno con stile. Cioè si scelgono un uomo ricco, si fanno mantenere, e quando
ritengono di avere ricevuto abbastanza regali, e di aver pagato abbastanza di persona, se ne tirano
fuori sparendo, un bel mattino, alla chetichella.
A Katmandu la prostituzione era molto praticata.
Non la questua: i nepalesi sono troppo poveri.
Bisognava trovare qualcosa d'altro. In pratica tutto dipendeva dall'abilità del ragazzo.
Perché erano rari ormai quelli che ricevevano ancora denaro dalle famiglie, quando arrivava!
Per conto mio, io mi ero messo in un grande giro di affari. Travellers' cheques, macchine
fotografiche, radio, eccetera.
Immagino che qualcuno non comprenda forse come si possa fare traffico di radio e macchine
fotografiche.
Basta rubarle — o farne incetta a basso prezzo da individui in bolletta — e rivenderle a
commercianti poco scrupolosi, o a dei compagni.
Per i travellers' cheques, invece, bisogna essere un po' più addentro nella faccenda.
Ma non è poi troppo complicato.
Quando mi trovavo a Beirut, mi ero fatto aprire un conto presso una grossa banca americana.
Cioè avevo depositato del denaro alla cassa — erano 500 dollari, se ricordo bene — e in cambio
mi avevano dato un libretto con dieci tagliandi, ciascuno del valore di 50 dollari (in più avevo
pagato le spese dell'operazione: 2 o 3 dollari in tutto).
Questo libretto era in tutto simile a quello degli assegni. Cioè su ogni travellers' cheque il mio
nome era scritto a macchina, e di fianco c'era una copia della mia firma, il cui originale era
depositato presso la banca.
A quel punto, per fare degli acquisti durante i miei viaggi, presso i commercianti che accettassero
i travellers' cheques, per pagare non avevo che da consegnare un tagliando, firmato sotto i loro
occhi perché potessero verificare l'autenticità della firma.
Ogni tagliando, è il caso di ricordarlo, ha un valore nominale stampato (nel mio caso, 50 dollari).
Così per un acquisto, ad esempio di 62 dollari, si dà un travellers' cheque di 50 dollari e si completa
con 12 dollari in contanti.
Ho spiegato così il principio stesso dei travellers' cheques, per coloro che non ne conoscessero
bene il meccanismo.
Ma io a Beirut mi ero offerto il lusso di un libretto per un motivo ben preciso.
Mio scopo era: perderlo.
O meglio, far finta di perderlo.
Difatti un giorno a Bagdad sono andato all'agenzia locale della mia banca. E ho compilato la
dichiarazione della perdita del mio libretto.
Quel libretto che invece tenevo in fondo alla tasca.
Hanno controllato il numero del mio conto, la mia firma, la mia identità.
Mi hanno detto: «Torni fra un paio di giorni».
Due giorni più tardi sono ritornato e mi hanno consegnato un secondo libretto identico al primo,
ma tutto nuovo.
E io mi sono trovato con due libretti in tasca. Due volte 500 dollari di travellers' cheques. Quindi
1000 dollari disponibili, invece di 500.
Così, in un batter d'occhio, avevo raddoppiato i miei capitali.
Facile, no? Sì, e tanto più facile perché la base della pubblicità delle banche è proprio questa:
esse proclamano che i viaggiatori non hanno da temere la perdita o il furto del loro libretto, perché
verrà sostituito ai clienti in qualsiasi parte della terra, nel più breve tempo possibile.
Ma ora, si può supporre, io mi ero «bruciato» nei confronti della banca, e non sarebbe più stato
conveniente — a partire dal momento in cui avessi consumato i miei due libretti e fatto scoprire la
mia truffa — farmi vivo di nuovo.
Ma non è un problema. Ci sono tante altre banche americane che danno i travellers' cheques.
Così ho ricominciato altrove, durante il mio viaggio, l'operazione facile, gradevole e divertente
che consiste nel moltiplicare i propri dollari per due, facendosi dire «Grazie signore, arrivederci
signore» dall'impiegato, mentre lo si sta turlupinando tranquillamente.
Del resto si può anche, se si possiede una faccia veramente di bronzo, ritornare alla stessa banca
e farsi freddamente aprire un altro conto, depositando il denaro ricuperato nella rivendita dei primi
due libretti. Poi riprendere il libretto, eccetera.
Ma in questo caso bisogna agire sotto falsa identità e cambiare di agenzia, e anche di paese.
Certo è più complicato, ma quando riuscite a fare il colpo, voi avete in poco tempo moltiplicato i
vostri dollari all'incirca per tre.
Perché non per quattro?
Perché la rivendita dei travellers' cheques si fa sempre in perdita. I trafficanti a cui li rivendete
non vi danno mai il loro intero valore.
Non li pagano mai più del 45%, sovente appena il 40%.
Senza dubbio è poco, ma ne vale la pena quando è tutto in profitto netto per voi.
Quanto a trafficare la droga, non l'ho mai fatto laggiù. Chi avrebbe voglia di trafficare la droga a
Katmandu? Se ne trova dappertutto.
In pratica, durante tutto l'anno 1969, a parte l'affare del canadese a Istanbul, non ho fatto grossi
colpi. Non ne avevo bisogno. Piccoli affari di 200, 300 o 500 dollari al massimo, di tanto in tanto,
mi bastavano.
Anche perché nel Kuwait avevo messo insieme un bel gruzzolo andando a cercare
clandestinamente, con un battello, a Bahrein o nell'Iran, delle bottiglie di liquore che rivendevo
molto care sul posto: nel Kuwait l'alcool era proibito, e una bottiglia di whisky si rivende facilmente
anche a 100 franchi.
Poi, con il traffico dei travellers' cheques, mi sono accontentato di negoziare in macchine
fotografiche, radio, cineprese. Sapevo dove trovare e piazzare la merce, e quando mi trovavo al
verde, mi davo da fare per qualche giorno, non di più, poi me ne ritornavo tranquillo.
Non ero assolutamente più lo svaligiatore o il corriere dell'oro d'una volta, con 20 chili ricuciti
negli abiti, che faceva la spola tra Hong Kong e l'Europa.
Durante questi dodici mesi non si può neppure dire che io sia stato un vero vagabondo. Tutto
quello che mi sono permesso, come colpo non molto pulito (e non era poi neppure molto grosso), fu
che un giorno in India mi misi a protestare presso l'albergatore sostenendo di essere stato derubato
di un registratore che era in camera mia. Avevo bisogno urgente di denaro, e non avevo tempo per
trovare qualche altra idea.
Ho protestato così bene, e ho gridato così forte, con un tale accento di verità, minacciando di far
arrivare un battaglione di poliziotti, che l'albergatore — non troppo in regola per altre cose — mi ha
pagato in contanti il valore del registratore fantasma.
Ciò detto, per quanto piccoli siano stati i miei colpi, ho sempre avuto denaro sufficiente per
vivere a mio agio, per pagarmi l'albergo, il ristorante, la droga, e per fare onore ai miei amici. E mi
sono anche concesso dei programmi extra, da solo, nei grandi alberghi e negli ambienti frequentati
dai turisti.
Eccetto che alla fine, quando sono diventato un junkie.
Per gli altri, i buoni a poco, o gli sfortunati, restava ancora un ultimo modo di fare denaro:
vendere il proprio sangue.
Non credo di esagerare scrivendo che un buon numero di hippies hanno pagato almeno la metà
del loro viaggio fino a Katmandu, e una buona parte del loro soggiorno in quel posto, vendendo il
loro sangue.
A partire dalla Francia, già. Pochi lo sanno, ma si può vendere anche in Francia il proprio
sangue. C'è un istituto a Parigi, con due succursali, a Lione e a Marsiglia, che pagano 50 franchi per
300 grammi di sangue.
Più avanti, tutti i ragazzi della strada sanno i vari posti dove si può vendere il sangue.
In Italia, si può fare facilmente.
Anche in Iugoslavia, ma solo a Belgrado (almeno per quel che ne so io).
In Grecia, soprattutto in Tessalonica.
A Istanbul, si capisce, come pure a Beirut.
Ma il posto sulla rotta per l'India dove il sangue si vende più caro, è il Kuwait. Lo pagano fino a
28 o 30 dollari per flacone. Non c'è altra spiegazione al fatto che il Kuwait ha visto filare così tanti
hippies.
Anche in India e in Pakistan — a Delhi, Bombay, Karachi — si vende il sangue.
A Katmandu è diverso: non c'è una banca del sangue. Non lo si conserva. Bisogna andare a
iscriversi al centro di trasfusione, lasciare il proprio indirizzo, e attendere che abbiano bisogno di
voi e vi chiamino.
Una regola da non dimenticare: non bisogna mai presentarsi con le braccia coperte dai segni
degli shoot. Si è automaticamente scartati. Un drogato può essere un individuo che ha avuto delle
infezioni, specie di epatite virale, e i medici — com'è logico — in questi casi non ne vogliono
sapere.
Per questo, gli hippies che vendono il loro sangue si fanno le iniezioni non nelle braccia ma
altrove: al collo del piede, nella piega del ginocchio, sulla coscia, eccetera. E così qualche volta
capita che un medico diffidente si faccia mostrare le gambe…
10.
Al Garden Hotel nuovi compagni si sono aggiunti a noi. Di tutti i tipi, di tutte le nazionalità.
Ma il più importante, quello che resterà con me quando tutti gli altri mi avranno abbandonato,
quando mi sarò ridotto a uno straccio, e che mi salverà in extremis dalla morte, è Olivier.
La prima volta che rivedo Olivier dopo che mi ha dato la dose di metedrina al Quo Vadis, è lungo
e disteso sopra un pagliericcio al Garden Hotel.
Sul ventre, e ha il sedere scoperto. Pieno di foruncoli che sta facendo seccare.
Lo guardo, divertito.
«Ne ho proprio abbastanza — mi dice. — Bisogna assolutamente che guariscano. Ah, se si
avesse il diritto di andare in giro svestiti!».
«Attento! Non muoverti», gli dico.
Ho visto un punto nero che passeggia sul suo sedere. È un pidocchio. Sta frugando attorno a un
foruncolo.
Delicatamente lo afferro con due dita, e lo schiaccio tra le unghie.
«Grazie — mi dice Olivier. — Ma sai, uno più, uno meno…».
Ha ragione, in fondo. Nello stato in cui siamo tutti, viviamo con colonie intere di bestioline
addosso, pulci, pidocchi e cimici.
Non vi facciamo più attenzione, non ci grattiamo neppure più.
Gli stessi nepalesi ne hanno in quantità, ed è uno spettacolo normale vedere per le strade le
donne che si spidocchiano a vicenda la lunga capigliatura nera.
Eppure, per quanto sia indurito, mi fa un certo effetto vedere quel pidocchio trafficare in un
foruncolo.
Olivier, discendente da una grande famiglia francese di cui tacerò il nome per l'amicizia che mi
lega a lui, era studente di sociologia. Ha preso la strada dopo gli avvenimenti del maggio 1968. È
grande, molto robusto, ma per sbaglio.
In realtà è un fifone. Lui che potrebbe spaccare il muso a cinque alla volta, evita la battaglia, e si
tira indietro penosamente quando scoppia una discussione. In fondo è un saggio. A che scopo
menare le mani, e che vantaggio c'è ad andarsene alla fine tutto ringalluzzito, con la persuasione di
aver messo a posto il mondo?
Io lo adoro. Ha un piccolo difetto meraviglioso: è mitomane.
Ogni volta che racconto un aneddoto della mia vita, a lui è capitata ancora più grossa.
Io ho fatto traffico di fucili cecoslovacchi con i paesi arabi? Lui ha accompagnato un cargo di
mitragliatrici verso l'Indonesia…
Io un giorno in Africa mi sono battuto con un coccodrillo? Lui è finito nel bel mezzo di una
laguna infestata dagli squali…
È diventato un gioco che ci fa scoppiare tutti dalle risa, e al quale lui si presta con ingenuità
disarmante.
Spesso mi diverto, o lo fanno altri, a raccontare delle avventure rocambolesche.
E ogni volta, zac!, non si lascia scappare l'occasione.
«Ma questo è niente — attacca Olivier, che da cinque minuti freme cercando di interromperci. —
È niente in confronto di quel che è capitato a me. È strano, qualcosa del genere, ma molto più
emozionante. Un giorno…».
Ed eccolo partito. Inarrestabile.
Anche lui ha una specie di adorazione per me. Il mio passato lo affascina. Lui che è stato solo
uno studentello!
Dovunque vado, mi segue come un cagnolino. Krishna ne diventa geloso.
Ma siccome non si può mai essere completamente felici, e c'è sempre qualcosa o qualcuno a
guastare tutto, ecco che Daniel viene a installarsi con noi.
Quando arriva, gli dico come sono solito dire a tutti:
«Non hai più una palanca? Mettiti lì, poi vedremo».
Lui si sistema.
Dio mio, come sono stato ispirato male quel giorno!
Ben presto mi rendo conto che al mio portafoglio si è appiccicata una sanguisuga. E una
sanguisuga che neppure dice «grazie». Per Daniel è tutto normale: che lo si mantenga, lo si nutra,
gli si paghi la droga.
E ne ha bisogno di parecchia: da 5 a 6 cc. di morfina ogni giorno, senza contare gli shilom, e i
vari spuntini qua e là.
All'inizio non dico nulla. Quando vado dal medico, prendo un flacone anche per lui.
Rientrando, lo trovo sempre sul suo pagliericcio. Con un vago sorriso sul volto magro da faina,
mi tende la mano. Gli porgo il flacone, e senza rivolgermi neppure una parola gentile comincia a
farsi lo shoot.
Per tre, quattro, cinque volte, non dico nulla.
Poi perdo le staffe. Se almeno fosse un tipo divertente! O suonasse bene la chitarra, o dipingesse,
o facesse qualcosa che giustificasse la sua presenza in mezzo agli altri!
Ma no, lui tende la mano, prende la morfina, se la inietta, si gira verso il muro, e bye bye fino
alla prossima volta!
Sento che poco per volta sto diventando un vero pollo da spennare.
Tanto più che capita lo stesso quando usciamo.
Per quanto sia assente e in «viaggio» per la droga, lui ha sempre un orecchio dritto, ed è il primo
ad alzarsi quando si parte per andare a mangiare.
È anche quello che mangia di più. E chiede il bis. Senza mai pagare.
Un giorno si spinge al di là di ogni limite. Siamo andati da Bichnù, un pasticciere nepalese in
una viuzza vicina alla città vecchia, che aveva fatto il cuoco presso un americano e ha imparato a
fare delle torte all'europea che sono formidabili. Succulente, perfette. Non è facile nemmeno in
Europa mangiarne di migliori.
Siamo lì in parecchi a fare festa: Guy, Agathe e Kim, un inglese.
E Daniele, che nessuno ha invitato.
Le porzioni sono care: due rupie l'una. Ma voglio offrire due porzioni a ciascuno. Mi trovo in un
periodo fortunato, ho appena avviato un buon colpo con dei travellers' cheques.
Ma devo concludere l'affare, e ho un appuntamento. Mi alzo. Non ho soldi con me, e faccio
mettere la spesa sul mio conto. Poi me ne vado.
Anche gli altri vanno via. Tutti, meno Daniel.
«Non ho ancora finito la torta», dice.
Va bene, si va via senza di lui.
Un giorno o due dopo, ritorno da Bichnù e gli domando quanto gli devo per l'altro giorno.
Ho fatto mentalmente il conto: eravamo in cinque, e abbiamo preso due parti di torta ciascuno;
quindi deve fare 20 rupie.
«Fa 26 rupie», mi dice Bichnù.
«Ventisei rupie?».
«Sì — mi spiega. — Il tuo amico, quello che è rimasto indietro, ha preso altre tre parti, dopo la
vostra partenza».
Che porco… Ne ha mangiate cinque sul mio conto! È troppo. Mi deve almeno 300 rupie, tra la
morfina, il posto all'albergo, e i pasti.
Decido di lasciar perdere, per questa volta. Ma la prossima, non gliela lascerò passare liscia. Lo
metterò con le spalle al muro: o si dà da fare per trovare il denaro e mi rimborsa, o lo sbatto fuori.
Di conseguenza la sera, al Linkesar, non dico nulla quando vedo arrivare Daniel. Lui è sorridente
come al solito. Si china verso di me e mi dice:
«Charles, ho bisogno di parlarti».
Guarda, guarda…
Ci mettiamo in disparte, e lui comincia.
Si sente a disagio. Si rende conto che mi deve molto denaro. Ha deciso di rimborsare il suo
debito.
Fin qui, nulla da eccepire.
«Perciò — riprende — ecco quel che ho intenzione di fare. Voglio comperare un chilo di
''mostarda" e andare a rivenderla in India. Laggiù è proibita, farò un buon guadagno, e al ritorno ti
rimborserò».
Lo osservo un po' preoccupato.
«Ma tu sei al verde. Dove vai a comperare la "mostarda"? Ti viene a costare da 800 a 1000
rupie».
«Lo so — dice tutto sorridente. — Ma se tu mi presti questa somma, io potrò comperarla e
andare a rivenderla al doppio».
Getto tutt'e due le mani sul tavolo, ed esco in un sibilo.
Se c'è qualcosa che non bisogna domandarmi, in questo momento, è proprio del denaro in
prestito per combinare qualche affare.
Sono rimasto giocato due volte, negli ultimi tempi, e non mi è ancora passata. Ce l'ho ancora sul
gozzo.
Quindici giorni prima, una ragazza chiamata Marie-Thérèse, che fabbrica sacchi e cinture per
rivenderle, si è fatta dare 200 rupie di cui non ho mai più visto il colore, con la scusa di voler
comperare la materia prima di cui aveva bisogno per incominciare il lavoro.
A questa ragazza, per pura bontà d'animo, ho poi fatto guadagnare 500 o 600 rupie (non aveva
mai avuto tanti soldi in vita sua) con un traffico di travellers' cheques, senza che in quella
circostanza si ricordasse di restituirmi le mie 200 rupie.
In più mi sono messo in cattiva luce presso l'ufficio d'immigrazione (ne porterò le conseguenze
più tardi, in un momento difficile), perché ho insistito per farle rinnovare il visto di soggiorno.
Ma non è tutto. Una settimana prima, Kim, il ragazzo di Agathe, mi ha chiesto sulla parola 200
rupie per comperare della gangia da rivendere a Benares.
Non ha mai comperato la gangia, non è mai andato a Benares, e l'altro giorno ha mangiato due
porzioni di torta sul mio conto.
No, per Daniel non è proprio questo il momento buono per domandarmi un prestito. Peggio per
lui, questa volta la paga per tutti.
«Mi stai facendo fesso?», gli dico.
Ferito, aggrotta le ciglia.
«Non capisco…», mormora.
«No? Ma tu pensi che io ci possa stare? Tu immagini proprio che io ti possa credere? Vuoi che ti
dica quello che tu farai, se ti do le 800 o 1000 rupie? Tu vai a metterle nel tuo sacco, e domani
mattina di Daniel a Katmandu non c'è neanche più l'ombra. Per sempre».
«Charles, non sei chic, non hai fiducia in me».
«Di questo puoi stare sicuro! Ascoltami. Voglio dirti una cosa interessante. Io passo una spugna
su tutto il passato: sul ristorante, l'albergo, la morfina presa a sbafo, e anche sulle cinque porzioni di
torta… Sì, sì, sono al corrente. Supponevi forse il contrario?…
«Ma ora — aggiungo seccamente, — tu sparisci dalla mia vista. Tu lasci la mia camera. Vai dove
vuoi, ma ti togli dai piedi».
Devo avere un aspetto davvero cattivo, perché si alza senza una parola, pallido. E fila via.
L'indomani, mentre entro al Cabin, lo vedo passare davanti a me e lo sento mormorare:
«Vattene, lurido!».
Ci vedo rosso. Mi alzo, lo agguanto, lo scazzotto per bene, e lo lascio lungo e disteso sul
marciapiede.
In seguito lo incontro ancora, ma ogni volta mi evita. Quando entro da qualche parte, lui si alza e
se ne va. Meno male, me ne sono liberato.
Ma mi sbaglio. Non passerà molto che mi farà uno scherzo vigliacco.
Se racconto tutto questo, è perché si cerchi di capire in quali condizioni di spirito mi trovavo già,
in quell'epoca; e perché otto giorni più tardi arriverò a perdere ogni controllo e a scivolare giù per la
china a tutta velocità. Perché giunge ormai per me il momento in cui il processo d'intossicazione,
molto lento fino allora, accelera d'improvviso.
Sono infatti arrivato al punto in cui, sempre sotto gli effetti della droga, comincio a cambiare
mentalità, e le cose prendono per me un'importanza esagerata.
A poco a poco comincio a rendermi conto che attorno a me si pensa solo a sfruttarmi.
In altri tempi, avrei preso la cosa dal lato buono, e con tutti questi individui che vivono alle mie
spalle mi sarei fatto una specie di corte principesca.
Ma ora sono giunto a dosi massicce di morfina, 6 o 8 cc. al giorno, senza contare il resto.
E mentre me ne sto seduto al posto d'onore nel ristorante, giorno e notte, o sul mio pagliericcio in
camera, continuando a beneficare la mia gente, mi metto a osservarla con più attenzione, e a
giudicarla.
Mi dico che sono semplicemente pietosi con le loro smancerie e i loro salamelecchi da cortigiani.
Mi gironzolano attorno, mi. avvolgono di gentilezze ipocrite, mi coccolano, mi tengono buono, non
mi contraddicono mai. Sono cose che non mi piacciono più. E comincio a irritarmi sul serio.
Non lascio trapelare nulla, ma li osservo bene mentre esagerano in smancerie con me.
Agathe per prima.
È da due o tre giorni che mi vezzeggia e mi butta le braccia al collo.
«Charles! Oh, come si stava bene a Bombay! Ti ricordi? Avrei dovuto ascoltarti, restare con te,
partire per Madras. Sai, Kim non è mica come te. Guardalo, è completamente svanito».
È un tipo di confidenze che mi mette subito un reggimento di pulci nell'orecchio. Tanto più che
quando è con Kim, Agathe ha l'aria di trattarlo con i fiocchi. Al Cabin Restaurant, al Linkesar, al
Ravi Spot, essi se ne stanno sempre in disparte, stretti stretti, e appena si degnano di abbozzare un
grazioso sorriso, di tanto in tanto, quando «zio» Charles mette mano al portafoglio.
Tutta questa messinscena prelude a qualcosa.
Che una sera viene fuori. Con la massima impudenza.
Kim, come per caso, è andato a dormire nella sua camera (che, sia detto di passaggio, io continuo
a pagare).
Al Cabin vedo che arriva Agathe, tutta tenerezza.
Si siede sulla mia panca e mi passa un braccio attorno alle spalle.
«Charles — comincia, — bisogna che ti parli a cuore aperto».
Ci risiamo…
«Sai, ieri ho ricevuto un duro colpo. Mi sono lasciata sgraffignare tutto il mio denaro, qui dentro.
C'è gente ignobile, veramente. Tutti lasciamo il nostro sacco sulla tavola, no? Avessi mai
immaginato una cosa simile!».
Mi sta proprio prendendo in giro. Perché io so perfettamente che il suo denaro (non si va mai a
zonzo con delle grosse somme addosso, a Katmandu; è troppo pericoloso) lei lo tiene sempre
nascosto in camera, nell'angolo del muro, in un buco che ha scavato nella terra battuta, che ogni
volta comprime per livellarla (l'ho vista un giorno per caso, senza che lei se ne accorgesse).
E so perfino quanto ha nel suo nascondiglio. Esattamente 350 rupie. Sono andato io a
cambiargliele, quattro giorni fa, perché lei non ha più il visto e non può svolgere le formalità
necessarie.
«È una bella disdetta — dico con aria dispiaciuta per lei. — Che cosa intendi fare, ora?».
La sento avanzare come la talpa che spinge avanti il suo mucchietto di terra, a poco a poco, in
pieno sole, prima di mostrare la punta del naso.
«Charlie — riprende lei sospirando (e si stringe ancor più addosso a me). — Tu sei un dritto, tu
conosci i trucchi, e hai molto denaro. Prestami 300 rupie».
Di già che c'è, potrebbe chiedermi senz'altro 350 rupie.
«Kim aspetta dei soldi dai suoi genitori — mi spiega. — Devono arrivare da un giorno all'altro».
Io sospiro con aria desolata.
«Trecento rupie!… Ma ti rendi conto?».
«Dai, Charlie, fa' una buona azione…».
Fingo di lasciarmi convincere. Faccio schioccare le dita, e le annuncio:
Va bene, bellezza. Aspettami cinque minuti. Vado in camera a vedere quanto mi è rimasto.
D'accordo?».
Il suo volto s'illumina. E io esco.
Corro al Garden, salgo, ma non in camera mia, bensì nella loro. Quella di Kim e di Agathe. Kim
è lì, sul suo pagliericcio. Lo scuoto, lui farfuglia qualcosa senza muoversi.
È completamente partito, proprio quel che ci vuole. Vado all'angolo della stanza dove un giorno
avevo visto Agathe trafficare, e lancio ancora un'occhiata a Kim. Poi scavo.
È proprio come pensavo. Le 350 rupie sono lì intatte, e le conto prima di intascarle e turare il
buco.
Tre minuti più tardi, con i biglietti ben piegati in tasca, sono di ritorno al Cabin.
«Allora?», mi lancia Agathe con gli occhi lucidi.
«Sei nata con la camicia — le dico. — E ti voglio bene. Prendi, ecco le 300 rupie. In ricordo di
Bombay». E tiro fuori i soldi, meno 50 rupie, che trattengo in tasca.
Vedo subito che lei non se lo aspettava. Sgrana tanto d'occhi, frena a stento un sorriso troppo
trionfale, e mi salta al collo.
«Charles, tu sei un principe, davvero, si può sempre contare su di te».
Io protesto, con galanteria:
«Ma no, ma no, che cosa non farei per te…».
Credete che lei cerchi di salvare almeno le apparenze, continuando un poco la conversazione?
Per niente. Si leva e corre via.
«Bisogna che lo dica subito a Kim», mi grida uscendo, e va verso la brutta sorpresa che la
aspetta.
Per essere una brutta sorpresa, lo dev'essere sul serio, quando i due si metteranno a scavare nel
loro buco per aggiungere le 300 rupie accanto alle altre 350… e non le troveranno più!
Vi assicuro che ci provo un gusto matto a immaginare la scena che si deve svolgere al Garden,
mentre io mi preparo un piccolo shilom al Cabin.
Resta da vedere come andrà a finire.
Mezz'ora più tardi vedo arrivare Agathe. Con Kim.
Mi mordo le labbra per non ridere: tutt'e due hanno un muso lungo così. E si accasciano sulle
sedie.
Io parto subito all'attacco, patetico.
«Lo sai, Kim — dico, — mi sento un po' in imbarazzo con te, ma è solo perché Agathe e io, una
volta… Promettimi che mi restituirai tutto al più presto. Comincio a essere sospettato, qua attorno,
per i miei traffici».
Non racconto una storia. Dal giorno del mio arrivo ho combinato un sacco di colpi (sia pure
piccoli), ho ficcato il naso dappertutto, e mi sono introdotto così bene nel mondo losco dei
truffatori, dei trafficanti, dei cambiavalute, dei teppisti di tutte le risme, che di sicuro quando passo
mi segnano a dito.
Perciò proseguo:
«Allora, giurami che mi renderai presto le 300 rupie. Ormai sono a corto anch'io. E conto su di
te».
Abbozza un sorriso forzato, che mi diverte.
So bene che sono rimasti incastrati. Anche se sospettano (come è molto probabile) che sia stato
io a portare via il malloppo, come volete che osino dirmi qualcosa? Sanno di aver già sbagliato
grosso lasciandoselo soffiare.
D'altra parte sta facendo acqua il loro vero progetto, che io conosco perché qualcuno me ne ha
parlato. Vorrebbero partire per l'India e rientrare in Europa. Ora mi trovo in grado di valutare tutto:
con le 650 rupie che speravano di mettere insieme, avrebbero potuto partire e cavarsela. Ma con le
300 che restano loro adesso, niente da fare.
«Te lo prometto — finisce per dire Kim. — Ti restituirò lutto al più presto».
Sono semplicemente deliziosi, tutti e due.
Ma io un'ora più tardi, sul mio pagliericcio, mi inietto una doppia dose di morfina.
Dopo l'euforia, è venuta la crisi di depressione, che non manca mai ai drogati.
Ho bisogno di un buono shoot per superare la crisi.
Quest'Agathe è davvero una sgualdrinella. E dire che per colpa sua sono finito qui, pieno di
droga fino ai capelli, invece di filare col vento in poppa insieme a Guy verso l'Indonesia per il mio
giro del mondo…
L'indomani decido che è ora di cambiare metodo. Finora mi sono comportato troppo da scemo.
D'ora innanzi non pagherò più le camere agli altri, né quella di Kim e Agathe, né quella di Claudia e
Anna Lisa. Pagherò solo la mia, dove sto con Guy. E basta.
Però non dico nulla a nessuno. Riserverò loro la sorpresa per il momento in cui l'albergatore
porterà i conti.
Ma ecco che mi vedo arrivare Barbara. La Barbara degli strip-teases alla finestra, dei «Prendimi,
prendimi» belati durante tutta la notte.
Arriva, e s'infila direttamente nel mio letto. Io la mando a spasso.
Allora va nel letto di Guy. Guy si mostra seccatissimo. Mi fa ridere. Ma lei resta.
E la scocciatura comincia. Quanto ai suoi «Prendimi, prendimi», sembra che si sia calmata. Non
li tira fuori che due o tre volte, di tanto in tanto, e non si sveste più come prima.
Ma chiacchiera e ciarla, e non la smette più. I suoi nuovi hobbies sono i fiori e i colori. Sembra
che abbia ingoiato tutti i libri di botanica del mondo, e che una tavolozza da pittore abbia preso il
posto del suo cervello.
I girasoli soprattutto la assorbono. Si mette a spiegare per ore intere il meccanismo segreto che li
fa girare per seguire il movimento del sole. Non riesco a capire tutto — e presto mi stanco di starla
a sentire —, ma, a credere a lei, i girasoli sono piante intente a passare dal regno vegetale al regno
animale. Dei muscoli le fanno crescere, la loro linfa si muta in sangue a poco a poco, la fotosintesi
clorofilliana fa nascere nel polline dei loro fiori vere e proprie cellule nervose che sono l'abbozzo
d'un cervello. Di lì, vai a sapere il perché, la loro rotazione sul fusto in direzione del sole.
Poi ci sono i colori. Si è comperata dei gessetti di tutti i colori dell'arcobaleno, e si colora
dappertutto. Si fa le labbra gialle, gli zigomi viola e gli occhi bianchi. Per i suoi capezzoli (nel
dipingerseli, col mento puntato sulla gola, perde la bava e il giallo delle labbra cola dappertutto)
preferisce il verde.
«Il latte — spiega — non è fatto a partire dall'erba, e l'erba non è verde? Perciò la parte da dove
esce il latte, dev'essere verde».
È completamente svanita? O si sta prendendo gioco bellamente di me? Me lo domando ancora
adesso. Credo fosse l'uno e l'altro insieme.
Ma va a finire — e io ci resto di stucco — che Barbara si conquista il mio Guy, e che i due
diventano inseparabili.
Ora sono sempre insieme, ben stretti, si colorano insieme, vanno a cogliere i fiori insieme e
insieme mettono i loro mazzolini psichedelici dappertutto.
Di tanto in tanto Guy mi guarda e mi sorride, un po' impacciato.
Io alzo le spalle. Ora ho proprio visto tutto. Anche Guy finito innamorato d'una matta.
E d'una matta che lo picchia.
Perché madame ha le sue giornate «blu». In quei giorni, Guy deve far sparire in fretta tutto
quello che non è blu nella camera. E i fiori volano dalla finestra. E scompaiono le sciarpe gialle e
rosse. E si schiacciano tutti i gessetti che non sono blu.
Regolarmente la cosa finisce a botte. Poi Guy e Barbara si riconciliano.
Finché Barbara non è ripresa dalla mania dei «Prendimi».
Allora si alza, scende al pian terreno, piomba addosso ai boys dell'albergo, ragazzini di dodici o
tredici anni, e lancia il suo grido di guerra.
Guy la prende per le braccia, la carezza dolcemente, la riporta in camera. Mi fa pena.
Un giorno viene a trovarmi: Barbara ha il visto scaduto, bisogna che io la aiuti. Che lo faccia per
lui…
Intanto Barbara mi danza attorno, gridando: «Io sono la più bella! Io sono la più grande delle
innamorate!».
Veramente seccato, e per avere un po' di pace, vado. Vado all'ufficio immigrazione e chiedo il
visto per Barbara…
Per fortuna c'è Anna Lisa. Anna Lisa è una ragazza molto bella, bionda, un visetto d'angelo, che
avevo già conosciuto a Bombay. Sta con un francese che suona la chitarra in modo meraviglioso ed
è partito per il Pakistan. Ma tornerà, e lei lo aspetta.
Strano, non ho mai pensato di flirtare con lei. Forse mi intimidisce un po'. E poi sono amico del
suo ragazzo. Insomma, l'ho sempre considerata come una compagna, niente più.
E non è adesso che le cose potrebbero cambiare. Intasato di droga come sono, inutile dire che
sessualmente sono ben lontano dalle mie migliori possibilità.
Ma racconto l'episodio del Blue Tibethan perché ci si renda conto di cosa può capitare in un flirt
tra drogati, tra persone alle quali non rimane più altro che il sentimento. Però un sentimento molto
forte, molto violento.
Dunque un giorno noi due siamo al ristorante Blue Tibethan. Siamo a faccia a faccia, a un tavolo.
Tutt'e due partiti.
E d'improvviso una specie di elettricità unisce i nostri sguardi. Impossibile sottrarsi. Né lei, né io.
Ci guardiamo nel bianco degli occhi. Senza muoverci, letteralmente affascinati l'uno dell'altro.
Non una parola. Niente. Solo due sguardi che s'incrociano non possono più staccarsi.
Anna Lisa tiene le mani sul tavolo. Io sento, più che non le diriga, che le mie mani vanno verso
le sue, le voltano. Le nostre mani si stringono.
E ci accarezziamo dolcemente le mani, le dita scorrono lentamente sulle palme, seguendo le vene
del dorso, sfiorandosi.
Sento fisicamente, come si sentono i capelli drizzarsi in una tempesta, l'elettricità di Anna Lisa
che mi penetra, e la mia che va verso di lei, attraverso le sue dita, e risale lungo le braccia, e invade
tutto il suo corpo per concentrarsi negli occhi, i suoi grandi occhi che mi fissano con le pupille
immobili, ben diritto, senza un battito di ciglia, e il suo sguardo mi brucia deliziosamente in fondo
alla retina.
Dopo un'ora siamo ancora lì. E l'elettricità non diminuisce. Al contrario, diventa così intensa, che
una forza irresistibile ci spinge a levarci, a uscire, a rientrare in albergo.
Saliamo in camera sua. Non facciamo altro che baciarci. Sul collo. E ogni bacio è un fuoco
d'artificio per i nervi.
A un tratto Anna Lisa scoppia in singhiozzi e si siede.
È finita, l'incantesimo è rotto. Io la consolo, a lungo. Lei si calma, mi sorride. Tutto davvero
finito…
Il giorno dopo, la droga mi dà di volta al cervello.
11.
Sono le due del pomeriggio. Mi trovo con Guy al Linkesar. Gli spiego che ne ho abbastanza di
Katmandu, che ho un permesso di tricking (con cui posso viaggiare in tutto il Nepal, fuori di
Katmandu), e che voglio profittarne: fare un giro per le montagne.
Anna Lisa, con cui ho parlato poco prima, nella mattinata, è d'accordo di accompagnarmi, ma mi
ha supplicato di non lasciare indietro Claudia. Ho fatto un po' di difficoltà, ma poi ho accettato.
Cosi partiamo la sera stessa, insieme, e facciamo la prima tappa a Soyambonat.
E pongo la domanda a Guy:
«Tu naturalmente vieni con noi?».
Lui tergiversa, incerto.
E alla fine decide di rinunciare:
«Non posso, Charles. Bisogna che te lo dica: voglio restare con Barbara. Andremo a prendere la
sua 2CV e partiremo tutt'e due insieme».
Io insisto, e non riesco a trattenermi dal farlo: ormai, da questo momento, mi trovo di continuo
sotto il pesante effetto della droga, e le mie reazioni sono esasperate, come moltiplicate per cento.
Per questo la frase di Guy mi piomba addosso come una mazzata.
Come! — mi dico. — Mi pianta in asso, lui, il mio compagno di avventura da sei mesi in qua, il
mio amico, il mio fedele amico, il mio fratello!
Non è possibile, non può farmi questo.
Io, quando Agathe mi ha chiesto di scegliere fra Guy e lei, ho scelto Guy!
Come può, lui, fare diversamente da come ho fatto io, ora che tocca a lui fare la sua scelta?
Gli dico tutte queste cose. Reclamo in nome dell'amicizia offesa, distrutta.
Niente da fare.
Barbara lo ha completamente stregato.
«Parto con lei», risponde a denti stretti.
Mettermi a piangere non è nelle mie abitudini.
Mi alzo.
«Salve, Guy. Buona fortuna. Ma stai facendo una sciocchezza».
E me ne vado, sconvolto nel più profondo.
A ogni modo, questa volta sono ben deciso a partire in tricking per la montagna. Ma prima,
bisogna che vada a comperarmi un paio di occhiali da sole (i miei sono rotti), e che scambi del
denaro.
Su per le montagne la gente non ha soldi, meno che altrove, ed è importantissimo avere molti
spiccioli con sé.
Rientro all'albergo e prendo la mia bicicletta.
Questa volta porto con me tutto il denaro, per precauzione. Ma da un po' di tempo non lo tengo
più nella cintura a doppio fondo, perché si è scucita. Ce l'ho nel portafoglio, semplicemente. Ma è
meglio che passi da un sellaio per farmi ricucire la cintura. È più prudente.
Sulla via principale mi compero gli occhiali, poi vado nella piazza del mercato, alla bancarella di
un mercante di monete. Gli do 300 rupie in biglietti di grosso taglio, e mi faccio dare 300 biglietti
da una rupia. Mi dovrebbero bastare per tutto il viaggio.
La bicicletta ha una borsa davanti. Vi sistemo i 300 biglietti da una rupia, e tengo il resto nel
portafoglio, sprofondato nella tasca interna.
Riparto alla ricerca d'un sellaio. Impiego parecchio per trovarne uno, in una viuzza. Poso la
bicicletta davanti alla botteguccia, e mentre entro porto macchinalmente la mano alla tasca interna.
Il portafoglio è scomparso!
Ci sono dentro parecchie centinaia di rupie, e 400 dollari!
Tutto il mio peculio.
Come un pazzo rifaccio la strada, guardando dappertutto, per due ore buone, sperando nel
miracolo.
Ma da parecchio ormai il mio portafoglio dev'essere finito in tasca di qualcuno che in questo
momento fa capriole di gioia, in qualche parte di Katmandu!
È la catastrofe.
Con il portafoglio viene a sparire il mio ultimo, solo vero amico.
Rientro in albergo. Ho il morale sotto i tacchi. Sbrighiamoci, bisogna che parta al più presto per i
monti. Katmandu è una fogna. Ma è scritto che questa sia la giornata nera. Quando arrivo
all'albergo, cado in piena tragedia. L'albergatore, il manager come lo chiamano, urla con quanto
fiato ha in gola che lui chiama la polizia, che ne ha le scatole piene, e che fa sbattere tutti dentro, a
cominciare da Claudia c Anna Lisa.
Le due se ne stanno in un angolo, come pulcini sotto l'uragano.
Mi avvicino ad Anna Lisa e lei mi spiega in due parole. Visto che esse stavano preparando i
bagagli per partire, l'albergatore ha presentato la nota della camera a Claudia.
Claudia ha risposto seccata che avrei pagato io, come avevo fatto sempre.
Ma io qualche giorno prima avevo detto all'albergatore che intendevo pagare solo la mia camera,
e che d'ora innanzi se la vedesse lui con gli altri.
L'albergatore ha un bel gridare, Claudia rimane sulle sue: Charles pagherà.
«No, io non pago», dico a Claudia. «Vigliacco! — esplode lei. — Con tutti i soldi che hai». «Ah,
giungi proprio al momento buono. Appena ora ho perduto i tre quarti di quello che avevo».
«Bugiardo!».
«E tu? Pensi che io non sappia che hai del denaro? Lo so che ne hai. E sono stufo di pagare per
te. Paga la tua parte, io non sgancerò più un centesimo per te».
È uno scandalo! Gli insulti volano, ci si accapiglia. Per più di un'ora.
Una zuffa tale, che Krishna scappa spaventato. Non lo rivedrò più per parecchio tempo.
L'albergatore deve aver mandato sul serio a chiamare le guardie, perché Claudia presa dalla
paura fa venire il cameriere, prima che sia troppo tardi, e si decide con un sospiro ad aprire il suo
borsellino.
Ha dentro più di 600 rupie, la strega! Ne sono stomacato. Mi capita addosso proprio tutto in una
volta: la disonestà attorno a me dilaga, Guy mi pianta, il mio portafoglio è sparito, Claudia getta via
la maschera. Sono stufo, stufo, stufo…
Come un pazzo, corro in camera facendo i gradini a quattro a quattro, e tiro fuori tutta la morfina
che ho: otto pasticche (Makhan non aveva più flaconi, questa mattina). Ne avessi avute quindici, le
avrei prese tutte quindici (e ora non sarei più qui a raccontare le mie avventure).
Furioso per la rabbia, schiaccio le pastiglie, le diluisco nell'acqua, distillo il liquido e me lo
inietto tutto in un colpo solo, con un solo shoot.
Il flash che viene è pazzesco. Ho l'impressione di essere afferrato da un nodo scorsoio per la
gola, e sollevato brutalmente in aria. Salgo, salgo e più salgo, più mi sento soffocare. Ho la gola
strozzata. La bocca, i piedi, le mani provano fitte lancinanti. Sono una caldaia che sta per scoppiare.
Sto morendo…
Sento che discendo lentamente, ma le idee mi sfuggono, non riesco a trattenerle, con le braccia
remo lentamente nell'aria, respiro a fatica come se mi mancasse l'aria.
E cado in pieno coma.
Quando mi risveglio, un'ora dopo, o due, sono solo in camera, ma non riconosco affatto il posto.
Non so più dove sono. Non so neppure chi sono.
Cerco, con disperazione, ma non trovo. Sento che ciò che cerco è lì, molto vicino, come quando
si ha una parola sulla punta della lingua e non viene, e non c'è niente da fare, e intanto le idee e le
parole mi sfuggono, alla velocità delle galassie nell'universo.
Attorno a me non sono che urla, stridii, esplosioni di napalm e bombe dirompenti, lacerazioni di
shrapnels che mi fanno saltare in mille pezzi. Sono nient'altro che una piaga, un atomo disintegrato,
e che ha male, atrocemente male.
Ho preso una overdose.
Sono uscito di senno.
Sono pazzo.
E mi metto a fare pazzie.
Afferro i miei vestiti. Sono come ferri incandescenti, applicati alla mia pelle. Li strappo.
Mi graffio tutto. Migliaia di pidocchi sbavano sulla mia faccia, e più li schiaccio e più ne
vengono.
Mi mangio la lingua, talmente ho sete.
Dai vestiti sparpagliati ovunque, è caduta la mia borsa. La raccolgo.
Tutto il male è lì dentro! Ora l'ho scoperto, finalmente. Sono salvo!
In fretta, liberiamoci di questo demonio che mi possedeva e si nascondeva nel suo rifugio, la mia
borsa!
Prendi, demonio, prendi questa botta, e ancora questa…
Impugno la borsa con una mano, e con l'altra la percuoto con schiaffi e sonori manrovesci.
Essa si straccia, e ne escono centinaia di demoni, che afferro a piene mani e getto dalla finestra
urlando grida di trionfo e di vittoria.
Poi tentenno, perdo l'equilibrio, tutto gira, mi abbatto con la faccia a terra, singhiozzando.
Più tardi saprò cos'erano questi demoni che sono riuscito a strappare dal loro nascondiglio.
Il mio passaporto.
E i 300 biglietti da una rupia. Tutto quel che mi restava.
Li ho gettati nel giardino!
Inutile dire che lì sotto, richiamati dalle mie urla selvagge, sono accorsi l'albergatore, i camerieri
e due o tre clienti dell'albergo.
Anche Guy, che rientrava con Barbara.
I ragazzi si buttano a tuffo sui biglietti che volano, strappandoseli di mano, come furie.
Guy fa quel che può per ricuperare almeno una parte del denaro, e quel poco che riesce a salvare
lo fa mettere nella cassaforte dell'albergo, con una ricevuta.
Per me è cominciata una notte demenziale.
Resto dapprima una mezz'ora a gemere sul pagliericcio.
Poi mi alzo, discendo, mi metto a percorrere il giardino urlando, mi rotolo a terra, singhiozzo,
strappo l'erba a piene mani.
Mangio l'erba.
Risalgo, picchio contro i muri della camera sbavando.
Non c'è più nessuno, sono fuggiti tutti terrorizzati.
Ridiscendo, prendo la bicicletta. Non so come faccio a tenermi in equilibrio. Me ne vado
attraverso la città pedalando come un forsennato, inseguito da una muta di cani che latrano a morte.
Tutto quel che ricordo, è che a un tratto riprendo un po' coscienza.
La bicicletta è rovesciata a terra accanto a me, io sto seduto sopra una grossa pietra e piango a
calde lacrime, supplicando che si smetta di torturarmi, di schiacciarmi il cuore, che non resisto più,
che soffro troppo.
Mi trovo in una stradicciola buia. Ed ecco — questa volta è proprio vero — davanti a me, sotto il
biancore livido d'una lampada ad acetilene appesa a un filo, vedo delle donne in gruppo, che
cantano una melodia lenta, scandita come dal ritmo del tam-tam, nel bel mezzo della strada.
Attorno a loro, un tendaggio fluttua e si muove nella luce fantomatica, che blocca
completamente la strada.
In mezzo al semicerchio che esse formano, si trova un grosso pestello in pietra, d'un metro di
diametro, munito all'estremità superiore di tre barre di legno a forma di raggiera.
Tre donne sorreggono ciascuna una sbarra con la spalla. Altre versano del grano, che hanno
passato al setaccio, nel cavo della pietra.
E le tre donne sollevano e lasciano cadere il pestello.
Tutte cantano, e il movimento del pestello ritma la melodia.
Ora mi sembra di trovarmi lungo e disteso nel cavo della pietra, sotto il pestello, braccia e gambe
penzolanti in fuori, testa riversa all'indietro, e urlo tutte le volte che il pestello ricade pesantemente
sul mio petto, per schiacciarmi a poco a poco la cassa toracica, per schiacciarmi il cuore…
Urlo:
«Basta, basta, non ne posso più, smettetela!».
E grido così forte che tre uomini escono da dietro la tenda, mi vengono vicino e mi prendono a
schiaffi per farmi smettere. Mi rialzo, mi asciugo le lacrime. Guardo il pestello.
Non lo trovo più! Sono sfuggito al supplizio!
Risalgo sulla bicicletta e rientro all'albergo.
Poi, quando mi ritorna un barlume di coscienza, mi trovo sul mio letto. Allucinato. Incapace di
parlare.
Mi guardo attorno. Guy è con Barbara.
E si stanno accapigliando…
Entra qualcuno (quanto tempo dopo?). È Daniel. D'improvviso mi ritorna la parola. Urlo:
«Vattene! Vattene!».
Lui sparisce.
Poi vedo arrivare Claudia. Mi scruta.
«Andiamo ugualmente in tricking — mi dice, — Anna Lisa e io».
«Fate quel che volete, io me ne sbatto».
Lei mi guarda. Non riesco a sopportare il suo sguardo. Col braccio mi nascondo il volto. E urlo:
«No, niente pietà, non voglio pietà!».
Lei se ne va, indifferente.
Ho saputo più tardi che il loro tricking è stato un disastro. Partite senza un soldo, speravano di
farsi invitare nei villaggi.
Come se a Katmandu nessuno sapesse che non esiste l'ospitalità nel Nepal, soprattutto fra le
montagne.
Gironzolano a lungo, affamate, prima di farsi acciuffare in una risaia dalla polizia. Saranno
percosse perché hanno tentato di resistere, ed espulse nel giro di ventiquattr'ore. Senza un bagaglio.
Non ho mai più sentito parlare di loro.
E mi fa ancora male al cuore per Anna Lisa, perché le ho voluto bene, e non guardo mai senza
emozione il ritratto che conservo di lei, dipinta con un fiore in bocca…
Anna Lisa: vedo arrivare anche lei, un po' più tardi, prima della sua partenza per quel tricking.
Le sorrido. Lei si siede ai miei piedi.
Mi guarda.
Come due sere fa al ristorante, sento che i suoi occhi mi trapassano da parte a parte.
Ed è bello, è dolce, è un conforto meraviglioso.
Infine se ne va.
Non la vedrò più…
Qualche ora più tardi mi sento un po' meglio, posso alzarmi, esco nel corridoio appoggiandomi al
muro.
Verso le tre o le quattro del mattino, Agathe viene a trovarmi.
Si stringe fra le mie braccia come per domandarmi perdono di quello che mi ha fatto. Sento che
proprio non ho niente contro di lei.
«Charles — mi dice. — Parto con Kim. Senza pagare, come puoi immaginare. Addio».
Ci abbracciamo. La stringo forte, fino a farle male. Abbiamo tutt'e due le lacrime agli occhi.
Nonostante tutto, Bombay ci ha uniti per sempre…
Deve 300-400 rupie all'albergatore.
Anche lei, non la vedrò più.
Resto tre giorni in semi-coma, con brevi momenti di lucidità, prima di rimettermi del tutto in
salute.
Vicino a me, nella stanza, Guy e Barbara bisticciano più che mai.
E c'è Christina. L'amica d'infanzia di Jocelyne.
Jocelyne, quella che voleva fuggire con me, Jocelyne che mi ha raggiunto a Parigi, e che mi aiuta
a ricordarmi di questi mesi di follia, Jocelyne la sola che mi rimane di tanto rumore, tante grida,
tante risate e tante lacrime.
Quel giorno che io impazzivo, Christina viveva con Jocelyne a Soyambonat.
Ma Jocelyne è stata colta da un attacco di epatite virale. È malata da lasciarci la pelle. In un
accesso, ha scacciato via tutti, anche Christina.
Perciò Christina è scesa a cercare rifugio a Katmandu, al Garden.
Ci conosciamo appena, ma dal momento che mi vede in questo stato decide di restare e di
curarmi. È infermiera di professione.
Vede che ho proprio bisogno di lei.
Mi cura per due notti e tre giorni.
Finalmente esco dalla crisi, torno a rivivere, ridivento me stesso, smagrito, sparuto, incerto, ma
salvo.
Vado alla finestra, c'è il sole, gli alberi oscillano al vento, l'erba del prato è tagliata e verde, l'aria
di Katmandu è leggera, molto ossigenata.
La respiro a pieni polmoni. Ce l'ho fatta, sono salvo.
Solo allora mi accorgo che sul prato, all'ombra, circondato da camerieri che lo servono con
deferenza, comodamente seduto davanti a un festino coi fiocchi, c'è Daniel.
Diamine, che si sia arricchito?
Mi sembra molto strano.
Nello stesso momento l'albergatore bussa alla porta. Mi ha visto alla finestra e ha capito che sto
meglio.
Il furbone non perde il suo tempo.
Ha tre note in mano.
È chiaro, comprendo. Ha paura che mi riprenda la pazzia e che perda per sempre l'uso della
ragione.
Prendo la prima nota. È quella della mia camera e dei miei pasti. È logico, devo pagare.
Alla seconda nota, ho un sussulto.
È quella di Agathe e di Kim.
No, no e poi no! Si tolga dalla testa che io la paghi. Veda di aggiustarsi con loro.
Deve aver tentato il colpo senza crederci troppo, perché non insiste.
«C'è anche questa», dice con un timido sorriso.
E mi porge una nota di più di 60 rupie, spese al ristorante.
Aggrotto le ciglia:
«Che cos'è?».
Allungando il mento in avanti, l'albergatore mi indica la finestra.
«Non capisco».
«Quel signore che mangia lì sotto. Mi ha detto di mettere tutto sul suo conto, come al solito».
Questa è grossa. Così grossa, che scoppio a ridere. Questo Daniel è un mariuolo consumato.
Mentre io ero là fra la morte e la vita, per tre giorni interi, lui se l'è spassata allegramente a mie
spese!
«Mi stia a sentire — dico all'albergatore. — Lei andrà a trovare quel "signore" come l'ha
chiamato, gli dirà che ci pensi lui a pagarsi il conto, e che subito dopo lasci l'albergo. Se lo vedo
ancora qui tra un'ora, io sfascio tutto l'albergo».
Spaventato, l'albergatore indietreggia. E se ne va.
Di spaccare tutto, nelle condizioni in cui mi trovo, non ne sarei stato affatto capace, ma dovevo
avere nello sguardo una così bieca luce da assassino, che mi ha creduto.
Un'ora più tardi Daniel se ne è andato.
Per la porta di servizio, senza pagare il conto.
E con la pancia piena per otto giorni.
Lo rivedrò a Parigi, una sera, dalle parti di rue Saint-André-des-Arts, con il braccio sinistro
paralizzato da uno shoot sbagliato che gli ha tagliato un nervo.
Passata la crisi, Christina resta ancora con me un paio di giorni, per tenermi d'occhio, per
assicurarsi che sono davvero fuori pericolo.
Cambio camera. Mi sistemo sotto i tetti, in una piccola camera più tranquilla dove potrò
rimettermi completamente in salute. Una cameretta graziosa a due letti, senza pagliericci.
Christina, che si annoia, mi domanda di insegnarle a fumare lo shilom. Perché, incredibile per
una ragazza che ha fatto tutta quella strada con Jocelyne, a partire dalla Francia, lei non ha mai
fumato nulla!
Ci prende subito tanto gusto, che non smette di fumare per due giorni di seguito.
L'indomani, visto che sono completamente rimesso, mi dice che vuole ritornare a Soyambonat. È
decisa a strappare Jocelyne all'atmosfera irrespirabile che c'è lassù.
E mi domanda se possono venire a stare tutt'e due con me.
Solo, abbandonato da tutti, io non chiedo di meglio.
E saliamo fino a Soyambonat.
Soyambonat, il villaggio sacro, il villaggio del Tempio delle Scimmie, poco sopra Katmandu, a
circa tre quarti d'ora di marcia.
All'inizio della migrazione degli hippies nel Nepal, era stato il rifugio degli squattrinati. Perché
vi si può vivere per niente.
Da quando l'ufficio immigrazione fa difficoltà a rinnovare i visti di soggiorno, Soyambonat è
molto più affollato. Un sacco di ragazzi e ragazze non in regola sono saliti a rifugiarvisi. Lì stanno
tranquilli. Almeno per il momento, perché nel mese di settembre la polizia andrà a fare retate anche
lassù.
A Soyambonat troviamo Jocelyne in stato pietoso. Si è presa una brutta epatite.
E vive in una casa che è un vero porcile. Non è certo il posto in cui restare, se vuole guarire.
La casa è simile a tutte le altre del villaggio. Piccola, bassa, con due entrate. Una sulla strada,
l'altra dietro, sulla risaia.
È piena zeppa di gente. Una colonia variopinta di straccioni, uno sciame di hippies
ammonticchiati, con chitarre, cetre, shilom e siringhe di tutte le forme, che stipano ogni buco, dal
cortile alla soffitta.
Arriviamo che è l'ora in cui tutti fanno i loro bisogni. E naturalmente non c'è neppure l'ombra di
un servizio igienico.
Per di più tutti hanno la dissenteria.
Lo spettacolo è più che boccaccesco: è incredibile.
Dovunque, agli angoli delle risaie, dietro un boschetto, o tranquillamente sotto gli occhi di tutti,
ragazzi e ragazze se ne stanno accoccolati.
Jocelyne ci mostra la sua terrazza. Ne è molto fiera, perché è lì che tutti vanno a fare la doccia.
Si arriva con una brocca d'acqua riempita alla fontana del villaggio, e ci si fa aiutare dal primo
che capita, ragazzo o ragazza poco importa. Ci si sciacqua sotto il getto dell'acqua fredda, strillando.
Christina deve ricorrere a tutta la sua autorità per convincere Jocelyne a scendere a Katmandu.
Le spiega che solo laggiù si troveranno le medicine di cui ha bisogno.
Partendo, ci imbattiamo in Olivier che — ho dimenticato di dirlo — era sparito dal Garden pochi
giorni prima che mi desse di volta il cervello.
Mi spiega come è andata (un'avventura con una ragazza), poi scrolla le spalle ridendo e dice che
vuole tornare giù con noi.
Un'ora più tardi, eccoci tutt'e quattro sistemati nella nostra cameretta, dove abbiamo fatto mettere
altri due pagliericci.
12.
E avanti con lo shilom e gli shoot!
Comincio a sentire un intenso bisogno degli shoot. E faccio loro buona accoglienza.
Mi abbandono beatamente alla mia felicità tutta nuova, ben deciso a ricominciare tutto da capo, a
non farmi più sfruttare, a profittare al massimo di ogni esperienza.
Ahimè! Farei meglio a riflettere sul serio avvertimento che ho appena ricevuto, e a tentare di
risalire la china…
Ma ormai mi sono spinto troppo lontano. Per tornare indietro dovrei sottopormi a una vera e
propria cura disintossicante. A Katmandu, è l'ultima cosa che sia possibile fare, a meno di recarsi
all'ospedale.
Invece di farlo, io mi tuffo ancor più nella droga. Divento una benedizione per il portafoglio di
Makhan, il medico drogatore. Passo giornate intere da lui, a farmi fare le iniezioni e a combinare
con lui nuovi colpi.
Nel giro di otto giorni mi sono del tutto ripreso dalla overdose.
E così, alla morfina aggiungo la metedrina. Combino le dosi, tento gli esperimenti, passo dalla
morfina alla metedrina, ritorno per un po' all'oppio, continuo sempre a fumare a fondo lo shilom.
Ben presto tutte queste droghe mi sono divenute familiari. So esattamente quale flash mi
procurerà questa, quali sensazioni quell'altra, le particolarità di ciascuna, le precauzioni da prendere,
le condizioni che bisogna rispettare, eccetera.
Ma fatalmente, nello stesso tempo, non ci trovo più alcuna novità, nessuna sorpresa. In un certo
senso avviene come con un'amante che si comincia a conoscere fin troppo bene, e di cui ci si stanca
a poco a poco, anche se non se ne può fare a meno.
Intanto è venuto il momento di provare l'acido, l'LSD.
L'occasione si presenta presto, con un arrivo di acido a Katmandu (non lo si trova in qualsiasi
momento).
E la luna piena si avvicina.
È molto importante. A Katmandu, la consuetudine è di profittare della luna piena per fare il
primo viaggio all'acido. Dicono che è più favorevole: la notte è più bella, più luminosa. Poi, ci
sarebbero certi fluidi particolari, molto propizi…
Mi procuro così una pastiglia di acido, e verso le dieci o le undici, stando in camera, la ingoio.
Comportandomi così, da solo, corro un grosso rischio. Nei gruppi di drogati esiste una
formidabile solidarietà riguardo all'acido. Quando si sa che uno sta per tentare l'esperienza per la
prima volta, lo prevengono, lo mettono in guardia, gli dicono:
«Fa' attenzione, è pericoloso. Se non ti circondi di condizioni favorevoli, calma e tranquillità
assicurate per tutta la notte, assenza di rumori, di vibrazioni soprattutto, presenza di amici attorno a
te, rischi la catastrofe, puoi impazzire».
È davvero molto delicato, un viaggio all'acido. Non si sa mai in quale direzione si parte.
Impossibile controllarsi. È questa la caratteristica principale dell'acido. Mentre con le altre
droghe, anche le più forti, si riesce sempre — almeno un poco — a dirigere il proprio viaggio, non
c'è niente da fare con l'acido.
Vi conduce dove vuole lui, e bisogna seguirlo assolutamente. Non c'è altro da fare.
Ecco perché è meglio stare in compagnia. È più prudente.
Io al solito non voglio fare come fanno gli altri, non dico niente a nessuno, e prendo la pastiglia
da solo, mentre gli altri sono andati a fare cena.
D'improvviso, un'esplosione di mille luci di tutti i colori davanti a me. Un gran bagliore, un vero
fuoco d'artificio.
Poi, impressioni classiche del trip che comincia: leggerezza, spensieratezza, disponibilità,
illuminazioni improvvise, eccetera. Ho già descritto tutto ciò.
Ma questa volta è molto più rapido che con le altre droghe, e la sensazione di onnipotenza e di
invulnerabilità è molto più avvertita.
Resto un'ora, un'ora e mezza forse sul pagliericcio, poi mi prende una voglia irresistibile.
Bisogna che vada a Soyambonat. È indispensabile.
Perché? In realtà qualcosa è risalito fino alla mia memoria: i drogati di Katmandu vanno sovente
a prendere l'LSD a Soyambonat, e lì attendono il levare del sole. Sotto l'effetto dell'acido, sembra
che debba fare un'impressione straordinaria.
Sarà cosi senza dubbio, ma essi ci vanno prima di prendere l'acido, non dopo.
E allora, non sarò io capace di fare quello che gli altri non fanno?
Vado alla finestra, l'apro. La notte è meravigliosa. Le stelle e la Via Lattea danzano con luci
scintillanti nel mio sguardo. La Luna, grossa e bianca, lascia spiovere affettuosamente il suo
chiarore sul mio viso. Che dolcezza, che freschezza!
Io discendo. Sono straordinariamente padrone dei miei movimenti, il mio equilibrio è perfetto.
Sotto il capannone, accanto al giardino, vado a prendere la bicicletta.
È quasi mezzanotte, e imbocco la strada per Soyambonat. In mezz'ora dovrei arrivarci.
Mi metto a pedalare vigorosamente. Il vento mi sferza il volto. Le ruote girano a piena velocità.
Nessuno sforzo, nessuna fatica, è meraviglioso. Una salita si presenta, la divoro senza neppure
dovermi alzare sui pedali, senza fare il minimo sforzo. È lunga, ripida, eppure quando arrivo in
cima non sono per nulla trafelato. È una mezz'ora che pedalo, non devo più essere molto lontano, e
cerco i templi con lo sguardo…
E mi accorgo che ho sbagliato strada!
Soyambonat è almeno 4 chilometri più a nord.
Che sciocchezza ho fatto! Devo aver sbagliato nell'incrocio all'uscita da Katmandu, appena
passato il fiume.
Torno indietro a tutta velocità, e ritrovo il crocevia.
Osservo bene le tre strade che partono di lì in direzione ovest. Prima ho imboccato questa.
Dunque la buona è quest'altra, appena più in alto.
E riparto, sempre molto leggero, sempre pieno di slancio.
In capo a tre quarti d'ora, mi ritrovo intento a pedalare come un Eddy Merckx lungo una bella
strada pianeggiante, in mezzo a risaie che splendono dolcemente sotto la luna.
Ma che cosa faccio, qui, mio Dio?
Soyambonat è sopra un'altura! Lo ricordo bene.
Torno indietro. Ma non riesco più a trovare il crocevia. È comparso. Ed è scomparsa anche
Katmandu. Sono in aperta campagna, smarrito.
È troppo stupido, sto per perdere il sorgere del sole.
Poso la bicicletta, scendo nella risaia e mi sciacquo la faccia con l'acqua. Ritorno sulla strada, e
rifletto.
Curiosamente, ho l'impressione che il mio cervello sia diventato elettronico. «Sento», «vedo» le
idee e i ragionamenti ticchettare impeccabilmente, rimbalzare da un circuito elettronico all'altro,
accendere punti luminosi che lampeggiano gli uni dopo gli altri.
La cosa dura a lungo. Davanti a me, i dati del problema, del tutto simili a quelli che vengono
forniti in codice a un calcolatore, sono ingeriti dal mio cervello divenuto elettronico, mescolati,
catalogati, saggiati, combinati, rivoltati, raggruppati. Si forma un filo conduttore, una corrente
elettrica annoda un groviglio di idee, le elabora, le impasta e… tilt! Il risultato esce fuori. Lo leggo.
Dice:
«Tu non puoi essere altro che a ovest di Katmandu. Ora Soyambonat è a ovest di Katmandu, ma
un briciolo più a nord. Cerca il nord, e cammina verso est-est-nord».
È evidente.
Ma come trovare il nord?
Alzo lo sguardo verso le stelle, come è logico.
Ed ecco che la carta del cielo mi ritorna d'improvviso alla memoria, precisa e completa come sui
manuali scolastici più completi.
Come ho potuto imparare tutte queste cose senza rendermene conto? Erano registrate nel mio
cervello, e io le avevo dimenticate…
In quattro e quattr'otto ho identificato l'Orsa Maggiore, e ho calcolato a occhio e croce cinque
palmi a partire dall'ultima stella del timone.
Centro! Sono giunto alla Stella Polare.
La tengo in punta al mio dito, e abbasso il dito verticalmente. Poi lo faccio ripartire
orizzontalmente verso destra, verso est, di 80 gradi, e cos'è che vedo, ben distinto, nettamente
delineato sotto la luce della luna a un chilometro da me?
Soyambonat.
Mi sarebbe bastato guardarmi attorno con un po' d'attenzione, e lo avrei trovato subito!
Scoppio a ridere, e riparto.
Un quarto d'ora più tardi, dopo aver divorato la salita come un «re della montagna», e anche
meglio, perché non mi sento per nulla stanco, non sento affatto lo sforzo dei muscoli, sono a
Soyambonat.
E solo allora, mentre sistemo la bicicletta in un anfratto sotto le mura del tempio, mi accorgo che
la ruota posteriore è scoppiata.
Ho viaggiato con una gomma a terra senza accorgermene!
Sono le quattro del mattino. Mi siedo, appoggiandomi a una statua del Tempio delle Scimmie, il
famoso Vajra Yogini, dalla parte verso le montagne.
Un breve tentativo per orientarmi, sempre compiuto col cervello elettronico, mi fa decidere:
«Il sole spunterà lì, tra quelle due montagne nere. Quelle due, e non altre».
Mi abbandono, ben sistemato, le mani alla cintola, la testa rivolta verso le mie due montagne, e
aspetto.
La notte è divina. Non c'è una bava di vento, non un bisbiglio. Il silenzio è totale. I galli non
hanno ancora cominciato a cantare, e neppure gli uccelli.
Sento di essere, come mai avevo sentito, un insieme di molecole formanti un corpo in cui risiede
la vita, al momento concentrata attorno a uno sguardo.
E come mai avevo sentito prima, mi sento sulla superficie tormentata, pietrosa, terrosa,
verdeggiante, ma pur sempre blocco minerale e nulla più, d'un pianeta chiamato Terra dagli uomini,
che è poi solo un granello di polvere gravitante nello spazio siderale, nell'infinito delle distanze,
nell'infinito del tempo.
Punto il dito davanti a me. Una linea resta tracciata, che schizza diritta verso lo spazio.
Ho lanciato un segno che non cesserà mai di avanzare…
Mai, mai, mai!…
La coscienza fisica del vuoto dello spazio mi prende alla gola. Dovunque punto il dito, non ci
sarà mai, mai, mai un muro per fermare la linea retta che ne scaturisce…
Assaporo, come non avevo mai assaporato prima, la violenza atroce delle parole di Pascal: «Il
silenzio degli spazi mi sgomenta».
Sì, è proprio così. Un terrore sempre più acuto mi afferra alla gola.
Il segreto del mondo è lì, ed è spaventoso: mai un termine, mai un limite, mai una fine…
Il silenzio, per primo: sempre il silenzio, da tutte le parti, per sempre…
È un supplizio, una tortura!
In fretta, si innalzi attorno a me come un riparo di mura, di volte, gallerie, grotte, per
proteggermi, per impedirmi di esplodere, di dissolvermi nello spazio infinito che mi attrae, che mi
strappa, che mi sbriciola in mille miliardi di particelle che stanno per esplodere da un momento
all'altro come le galassie disintegrano le gigantesche stelle nuove!
Sto per precipitare, per precipitare nello spazio, ne sono sicuro!
Il cielo sopra di me è un baratro che mi attira, mi attira, mi attira, in un turbine lento d'una
insopportabile vertigine, che mi strappa a poco a poco dalla superficie del globo terrestre, dalla mia
terra, dalla mia madre feconda a cui mi aggrappo ora con le unghie, gridando!
Il sole mi salva.
D'improvviso, fra le due montagne, esattamente quelle che avevo scelto, il cielo è sbiancato.
Nella vallata un gallo ha lanciato il suo primo chicchirichì, e io sento che grida «Katmandu-u-u-
u»…
Strani vapori velano le colline, carezzano le risaie. La luce opaca della luna si è ravvivata, s'è
fatta gialla, d'arancio.
Sotto di me ho l'impressione che il sangue si metta a pulsare nelle vene della terra.
Nel giorno che sale, i monti e le colline, immobili al suolo sotto la luna, prendono ora movenze
di spalle, di ventri, di seni.
L'abisso lassù diventa un soffitto, una volta cristallina protettrice, vellutata.
Come mi sento bene! Come sto al calduccio, protetto, fiducioso.
D'un colpo si leva il sipario.
Senza che un'alba vera e propria, lunga e progressiva come in Europa, lo abbia preceduto, il sole
sorge.
Lo guardo in faccia, rosso come la gola d'un altoforno, e lui scatena un delirio assordante di
sinfonie, di inni, di cori.
Sale nello splendore della sua maestà come un dio che si offre agli uomini. E più sale, più il
sangue pulsa nelle mie vene, più la terra s'inturgidisce di sangue e di linfa sotto di me, più l'aria si
carica di pollini, di profumi, di molecole di vita e di riproduzione.
In basso, nella valle, i galli si rispondono a squarciagola. Attorno a me gli uccelli urlano tutti
insieme sugli alberi.
Lacrime di gioia mi scendono dagli occhi. Finalmente la vita è ritornata, è risuscitata! I fantasmi
sono spariti, i pensieri oscuri sono spazzati via.
Mi sento risorto, nasco una seconda volta.
Mi alzo e corro lungo il tempio, verso sud. Lì c'è una grande terrazza con una balaustrata. Mi
appoggio e guardo Katmandu sotto di me.
La città si sveglia, le prime fumate salgono dai tetti, le auto si mettono in movimento. Sento il
loro ronzio nel silenzio del mattino.
Attorno alla città le risaie, alcune nel pianoro della valle, altre disposte a gradini sui pendii,
luccicano sotto i raggi obliqui.
I nepalesi partono già per il lavoro.
Lungo i sentieri si formano le file, come formiche in marcia.
Formiche variopinte: vedo gli abiti dai colori vivaci degli uomini, quelli neri delle donne.
Sì, è proprio questo, la città: è un formicaio.
Lo vedo, e lo sento, un formicaio con i suoi depositi, con le formiche di guardia, le formiche-
soldati. Con i suoi vizi, le sue follie, i suoi traffici e i suoi orrori.
Vedo tutto netto, come la mia mano.
E ho paura di appartenere a questa razza mai in riposo, questa razza di formiche senza pietà.
Una scimmia viene a consolarmi. Una delle migliaia di scimmie del tempio, che si sono svegliate
e deambulano attorno a me.
Sono selvatiche. Mi girano attorno senza avvicinarsi. E non bisogna assolutamente cercare di
toccarle. Mordono.
Ma ne vedo una che si stacca dal gruppo e si avvicina.
Stando in guardia, la osservo con l'occhio.
Si ferma a due metri da me.
Mi preparo a difendermi, se le viene l'idea di attaccarmi.
Fa ancora un salto, e finisce per fermarsi a 50 centimetri davanti a me.
È una scimmietta piccola come un bambino di due anni, con una bella testa clownesca.
Mi guarda senza muoversi. Non guarda né a destra né a sinistra, né sopra né sotto; mi guarda
diritto negli occhi.
Ha uno sguardo umano.
Mi scuoto e mi dico: è un'allucinazione, è l'LSD. Ma no. Presto ne ho la prova.
La scimmia si avvicina e viene a sedersi sui miei piedi. Gli occhi sempre fissi su di me.
E continuando a guardarmi, si mette a carezzarmi la gamba!
Resta così per dieci minuti. Poi se ne va, guardando indietro di tanto in tanto.
Poi, l'effetto dell'LSD si calma, e io torno a poco a poco al mio stato normale.
Una grande stanchezza mi prende. Inforco la bicicletta e ridiscendo a Katmandu, col mio
pneumatico scoppiato e sbrindellato che si lamenta a ogni giro di ruota.
13.
Il mio primo trip con l'LSD avviene quando Jocelyne e io siamo diventati ormai inseparabili.
Con lei, per la prima volta, io mi sento veramente bene. Non è la ragazza che mi sfrutti, che
abusi di me. È perfetta, è la compagna che ho sempre sognato, e di cui sento che non posso più fare
a meno. Devo dire la parola: ci amiamo.
Ma ci amiamo «alla droga». Cioè, più ci droghiamo insieme, e più stiamo bene insieme.
Allora, inesorabilmente, io forzo nelle dosi. Oltre alle visite dal falso medico, io rastrello le
farmacie, divento fanatico per la metedrina. Pago somme ingenti. La fiala costa una rupia e mezzo,
e dieci pastiglie una rupia.
Gli effetti non tardano a farsi sentire.
Deperisco giorno per giorno. Il sonno mi abbandona. Non ho più appetito. Quasi non dormo più,
solo poche ore di tanto in tanto, quando la fatica è troppo forte. Non mangio praticamente nulla. Le
mie ossa sporgono da ogni parte.
Fatalmente anche il morale ne risente.
I bisticci di Guy e Barbara mi provocano crisi di depressione terribili.
La minima parola pronunciata ad alta voce m'irrita in modo incredibile.
Non ho più alcun desiderio, alcuna volontà.
Ma una cosa mi ossessiona: vedo che sono in pieno sfacelo, e non posso sopportare l'idea che
Jocelyne assista al mio disfacimento.
Non si può andare avanti così. Bisogna che succeda qualcosa.
I funzionari dell'ufficio immigrazione s'incaricheranno di decidere per me.
Siamo alla fine di agosto del 1969, e da qualche giorno le cose peggiorano per gli hippies e i
ragazzi della strada.
Ho già detto prima qualcosa a questo riguardo, ma è adesso che le faccende si fanno serie.
Comincia la vera caccia agli hippies. Le strade sono rastrellate. Anche Soyambonat diventa
pericoloso.
Uno per uno, anche a gruppi, gli hippies sono schiaffati in prigione e poi espulsi.
Inutile cercare di farsi rinnovare i visti, anche per me. Il mio vale solo per una decina di giorni,
come quello di Olivier.
Quelli di Michel, di Jocelyne e di Christina sono scaduti da parecchio. Così essi escono solo con
precauzioni da Sioux. Non si è tranquilli che di notte: i poliziotti non pattugliano dopo il tramonto.
Anche Olivier e io, che pure abbiamo i visti in regola, dobbiamo essere prudenti.
Io esco malgrado tutto, perché non ho l'aria d'un hippy. Con il mio famoso vestito di gala, che
tengo sempre in fondo allo zaino, e che indosso ormai ogni volta che lascio il Garden, posso passare
per un turista. Un turista molto magro, che balla nei suoi vestiti troppo larghi, ma pur sempre un
turista.
E vado da Makhan o in farmacia, a cercare flaconi, fiale e pastiglie per tutti. Sono appena
riuscito a condurre in porto un buon colpo con i travellers' cheques, economicamente mi trovo bene.
La sera, col favore delle tenebre, possiamo finalmente uscire tutti quanti.
I nostri luoghi d'incontro si rarefanno.
Il primo, il Quo Vadis, è stato chiuso dalla polizia. Altri lo saranno presto. Noi, ultimo drappello
dei drogati di Katmandu, ci ritroviamo al Cabin Restaurant.
Le nostre serate sono demenziali. I nostri gusti si sono esagerati in tutto. Siamo ormai troppo
stanchi per guardare dei ballerini o per ascoltare dei suonatori. Ci bastano i dischi.
Avviene una selezione. I Beatles e altri complessi ci sembrano sdolcinati. Solo i Rolling Stones
vanno forte. Ma davvero. Ascoltiamo lo stesso brano venti volte di seguito, ritorniamo sullo stesso
motivo instancabilmente, facendo scricchiolare la puntina del giradischi. Allora le ragazze entrano
in trance, alcune singhiozzano di gioia.
La follia ci contagia, e ci mettiamo tutti a piangere.
Da parecchio tempo non possiamo più ingoiare cibi solidi. Ci facciamo servire il milk bang, un
miscuglio di latte e hashish.
È così duro da mandar giù, che a volte mi prendono i singulti e risputo tutto. Nell'indifferenza
generale. Senza fretta i camerieri vengono a ripulire il tavolo. Ci sono abituati, non fanno storie.
Quando usciamo nella viuzza, inciampando nei sassi, andiamo a buttarci sui gradini delle
botteghe. Completamente partiti. I nepalesi si avvicinano, ci guardano, e se ne vanno scuotendo la
testa.
Poi, girovagando, ci ritroviamo nelle camere degli uni o degli altri, a caso, secondo il ghiribizzo
o le circostanze.
A volte finiamo ruzzoloni, nella notte, su qualcuno lungo e disteso in mezzo alla strada. Lo
tiriamo su, lo scuotiamo. «Dov'è la tua tana?». Lui balbetta il nome di un albergo o di una pensione.
Qualcuno che va nella stessa direzione lo riconduce, per evitargli di farsi beccare dai poliziotti
l'indomani mattina.
Sovente, ritornando al Garden, io sono così sfinito che non riesco più a salire le scale. Impiego a
volte venti minuti a salire un gradino, due gradini, cinque gradini, per ritrovarmi seduto in terra,
scivolato fino in fondo. Imprecando mi tiro su, per tentare ancora una volta di salire.
Finalmente sono in camera mia. Essa è stipata di ragazzi e ragazze. In un angolo Krishna, che è
tornato, dorme acciambellato come un cagnolino. Shilom e joint ricominciano a girare, così come il
tè, un tè al limone. Una musicassetta si mette in marcia, il ritmo del pop riprende. Ragazzi e ragazze
si mescolano, coricati non importa dove, castamente. Nessuna orgia. Le ragazze sono mamme a cui
piace coccolarci e consolarci. E noi le lasciamo fare, come se fossimo bambini. La droga esalta
presso le une i sentimenti materni, e presso gli altri una specie di infantilismo.
Le ragazze si trasformano anche in infermiere. A causa degli shoot, siamo tutti pieni di foruncoli,
sui quali uno sciame di mosche si batte contro pulci, pidocchi e cimici. Braccia e gambe ne sono
farciti.
Il monsone non migliora le cose, anzi favorisce il dischiudersi delle piaghe, infettate dal fango in
cui sguazziamo. Gli escrementi umani, e degli animali che vivono in piena libertà per le strade in
cui ci aggiriamo a piedi nudi, aggravano le infezioni.
Non abbiamo niente per curarci. Qualche volta andiamo a farci pennellare di iodio all'ospedale,
ma non bisogna mai fermarcisi troppo, perché le guardie vengono subito avvertite e arrivano a
pigliarci.
Di solito non facciamo alcuna attenzione alle bestiole che portiamo addosso. Solo quelli che si
iniettano l'oppio si grattano. L'oppio provoca prurito. E, infettando le loro piaghe, essi si grattano a
più non posso.
Giorno dopo giorno io mi sento sempre più giù. Non voglio che Jocelyne assista a questo
spettacolo. Per la prima volta mi metto a pensare seriamente di partire e andare a finire i miei giorni
sulle montagne. Al punto in cui sono arrivato, non posso più risalire la china. Meglio farla finita.
Ma da solo, senza testimoni, da vero junkie.
Supplico Jocelyne di partire. Lei non ne vuole sapere. Ci picchiamo perfino, usciamo a pezzi
dalle nostre dispute.
E aumento furiosamente le dosi di metedrina. Arrivo a prenderne delle quantità spaventose:
termino uno shoot e subito ne preparo un altro.
La metedrina mi gela le estremità. Ho i piedi e le mani continuamente gonfi, violacei. È
impossibile riscaldarli. Per darmi talvolta un po' di calore, alterno la metedrina con l'oppio.
E ripeto:
«Jocelyne, parti, parti, bisogna che tu parta!».
Lei piange, dice di no con la testa, minuti e minuti di seguito, senza una parola.
Alla fine, senza più forze per resistere, accetta di partire, ma a una condizione: che le prometta di
raggiungerla al più presto. Mi aspetterà a Delhi.
Io prometto tutto quel che vuole. Così facendo, la guardo e mi dico: Non la rivedrò mai più.
Poi lei si rimangia tutto quello che ha detto. Per due giorni successivamente: «Parto», poi: «No,
non parto».
Alla fine, si decide.
Passiamo la notte a fumare lo shilom e a farci iniezioni.
All'alba si butta nelle mie braccia. Ci baciamo piangendo. La droga ci rende letteralmente folli di
dolore.
Il proprietario dell'albergo è con noi. Gli ho fatto uno shoot. Sta «vivendo» il suo flash; appena
riprende coscienza, ci vede abbracciati, si scusa e se ne va.
Scendiamo poco dopo di lui nel giardino, senza dire una parola, stretti l'uno contro l'altra.
Sulla porta, col volto disfatto, Jocelyne mi dice:
«Se fossi sicura di rivederti, partirei».
«Ci rivedremo, parti, parti in fretta!».
Ci abbracciamo ancora; lei si svincola brutalmente e se ne va di corsa. Si volta indietro, mi
guarda a lungo.
Krishna corre e si aggrappa a lei, piangendo.
Li vedo sparire ambedue all'angolo della strada, e ritorno in camera. Mi butto sul letto.
Quando Krishna ritorna, ha gli occhi rossi. Ha accompagnato Jocelyne fino all'autocarro sul
quale Christina era già salita.
«Ti prenderai cura di Charles, me lo prometti?», gli ha detto Jocelyne.
Lui ha promesso. E ha visto l'autocarro sparire sobbalzando in direzione sud, verso l'India.
Se qualcuno mi dicesse, in questo momento, mentre rompo una fiala di metedrina, che nove mesi
più tardi, nel maggio 1970, avrei ritrovato Jocelyne in persona, io ben vivo, in mezzo ai viaggiatori
insonnoliti, un mattino verso le sette, alla Gare de Lyon, credo che gli avrei sghignazzato in faccia.
Ne sono sicuro, Jocelyne è scomparsa dalla mia vita per sempre, e la mia vita ormai non durerà più
a lungo.
Dopo la partenza di Jocelyne, io ho un curioso ritorno di vitalità.
Mi dico che non posso continuare a vivere nell'illegalità, che devo a tutti i costi trovare una
soluzione.
Il mio visto di soggiorno è spirato da tre giorni. E so che ora non me lo rinnoveranno più. Sono
schedato come un drogato, come un vagabondo.
Se mi presento all'ufficio immigrazione, sono spacciato. Nel giro di cinque minuti la polizia mi
mette le mani addosso.
Ma ho ancora una via d'uscita. Posso telefonare a un capoufficio che conosco bene. E so quanto è
venale. Non avrò che da fargli scivolare in mano qualche biglietto da 10 rupie, e lui mi prolungherà
il visto.
Però le probabilità che accetti sono poche, perché, stupidamente, quindici giorni fa mi sono
scontrato con lui per la faccenda di un permesso di tricking. Ero andato a chiedergliene uno per
partire verso la montagna. Lo volevo per un mese. Lui non voleva accordarmelo che per una
settimana. Abbiamo alzato la voce e io me ne sono andato sbattendo la porta.
Se torno a farmi vivo, per quanto sia venale potrebbe preferire, al piacere di sentirsi scricchiolare
i biglietti in mano, il piacere di farmi sbattere dentro.
Devo perciò trovare qualche altra soluzione. A proposito, il proprietario del Cabin Restaurant ha
un parente in un ministero, che è molto influente.
Mi mette in contatto con lui. Gli parlo. Egli accetta di raccomandarmi, ma mi chiede 200 rupie.
D'accordo. Appuntamento fissato per l'indomani.
Il giorno dopo, quando vado all'appuntamento, quel bel tipo ha una sorpresa per me. Ora vuole
600 rupie per fare qualcosa in mio favore. Deve aver chiesto informazioni e saputo che ho molto
denaro.
Ho sempre provato schifo per chi vuole prendersi gioco di me. Alzo i tacchi e me ne vado.
E ora sono spacciato. Non mi rimane che fare molta attenzione, e nascondermi. Assolutamente
proibito uscire di giorno.
Krishna, il piccolo Krishna che si è votato tutto a me, andrà a cercare per me la droga. Ora che
non posso più farlo io.
Sono sempre più deciso a partire per la montagna. Ora è solo questione di denaro. Il mio
portafoglio si svuota sempre più, e non posso partire in tricking senza le provviste: una farmacia
portatile, e soprattutto una buona scorta di droghe.
Me ne andrò, camminerò a casaccio, continuando a drogarmi. E quando non sarò più che
un'ombra di me stesso, allora addio, Charles. Ti sistemerai in un angolo fuori mano, perché nessuno
ti trovi, e ti propinerai un'overdose molto robusta…
Per cominciare, aspettando che mi venga a tiro l'occasione di procurarmi le 5 o 600 rupie che mi
mancano, è necessario che economizzi quello che mi resta: 350-400 rupie.
Perciò cambio albergo e vado a stabilirmi al Coltrane, dalla parte del fiume, il più orribile, ma
anche il meno caro degli alberghi di Katmandu.
Un posto a dormire non costa neppure un quarto di rupia (sulle 15 lire italiane) per notte.
Il perché lo capisco subito, appena arrivato.
«Ecco, lì c'è un posto libero», mi dice il proprietario, che ho seguito fino al terzo piano per una
scala che è la più stretta, la più piccola e la più traballante che abbia mai visto.
Ci troviamo in una grande stanza, tramezzata lungo i muri da specie di ridotti in legno, un po'
simili, ma molto più piccoli, ai box dei cavalli in una scuderia.
Per terra non c'è un vero e proprio pagliericcio, ma solo una stuoia.
Si sente un forte odore di chiuso e non si vede niente, tanto la finestra è piccola.
Olivier è venuto con me. Mi accorgo che esita, che è semplicemente disgustato.
«Va' pure — gli dico. — Non voglio costringerti. Torna al Garden, se vuoi. E avrai Krishna tutto
per te».
Non ho detto a Krishna dove andavo. Gli ho fatto credere che partivo per qualche giorno, e che
sarei rientrato presto.
Olivier è sconvolto.
«Charles, cos'è che vuoi fare? Ho paura per te. Tu hai intenzione di partire per la montagna, ne
sono sicuro».
Io rido:
«Ebbene, vieni con me».
«No, non ho alcuna intenzione di farla finita, io!».
«Allora, lasciami fare quello che mi piace», gli dico seccamente.
Lui tentenna un po' su una gamba, un po' sull'altra.
«Va bene, d'accordo. Io torno al Garden, ma giurami che non partirai senza avvertirmi prima».
«Stammi a sentire — gli dico. — Tu sai bene che per ora non ho il denaro necessario per partire.
Perciò va a dormire tranquillo e non pensarci più».
Mi abbraccia e se ne va. Butto il mio sacco sulla stuoia e mi guardo intorno. È davvero il più
orribile dei dormitori.
Esco dalla camera e vado a fare un giro d'ispezione.
Al secondo piano trovo una porta aperta, infilo la testa e vedo qualcosa d'imprevedibile in tutta
questa miseria e sporcizia: un grande letto a baldacchino dorato, coperto di sculture, con il suo cielo
e le tendine tutto attorno.
Magnifico, sublime. Mi domando come abbiano fatto a montarlo, in una camera così piccola, sia
pure a pezzi staccati.
Sul letto un grande giovanotto biondo dai capelli lunghi, vestito alla nepalese, mi sorride e mi
dice «buongiorno» con accento americano.
Al suo fianco un altro giovanotto, grande e biondo, ma vestito di stracci, molto sporco,
scheletrico, risponde in francese al mio saluto.
È seduto davanti a un deschetto da incisore. Sta incidendo nel legno immagini sacre. Ne ha pieni
i muri.
Alla mia sinistra una bacinella è colma d'inchiostro nero.
Il francese ha le braccia nere d'inchiostro. Ne ha anche in faccia.
Da una musicassetta esce musica tibetana.
Parliamo un poco, essi mi informano sulle abitudini del luogo. Vengo a sapere che c'è anche una
doccia-lavabo-water, tutto concentrato nello stesso bugigattolo.
Vado a prendere una doccia. Il corridoio è basso e devo procedere a capo chino.
Vedendo la doccia, ho uno choc: il soffitto è ancora più basso, e — una volta svestito — devo
mettermi in ginocchio sotto il getto dell'acqua.
La sera, quando mi corico sulla mia stuoia, sento qualcosa che mi si arrampica lungo il braccio.
Lì per lì non mi muovo. Sono abituato ai pidocchi, non mi danno troppo fastidio.
Ma cominciano a correre anche sulle gambe, poi nell'incavo dei reni, dappertutto.
E mi sembrano più grossi, più pesanti che i pidocchi.
Brontolando accendo una candela. Sono scarafaggi enormi!
Ah, no! Questi proprio non mi piacciono.
Sollevo la stuoia: sono coricato esattamente sopra un nido di scarafaggi. Essi escono dal buco in
fila indiana, con regolarità, mentre io li schiaccio a colpi di pugno, stomacato.
Mi alzo, e con la candela in mano faccio il giro dei box per vedere se ce n'è uno libero. Non ho
fortuna, sono tutti occupati.
Esco, e vado a coricarmi sul pianerottolo.
Nei giorni seguenti, passo in rassegna tutti i modi che mi rimangono per procurarmi del denaro.
Riprendere i miei traffici è troppo rischioso. Rubare? Ma a chi? Sono più ricco di tutti i ragazzi che
stanno con me in questa stamberga.
La fortuna mi viene in aiuto in una maniera piuttosto banale. Di fronte al mio dormitorio, un
indiano si è installato con due giovani europei, tedeschi.
Non so perché, ma mi dico che costui dovrebbe avere del denaro. Bisogna che vada a vedere, e
da vicino.
Aspetto fin verso mezzogiorno, che l'albergo sia vuoto. Poi esco dal mio dormitorio e busso alla
porta in faccia. Nessuna risposta. Faccio girare lentamente la maniglia della porta, ed entro.
Con le orecchie ritte, mi metto a frugare sotto il letto, negli angoli, dappertutto. Esamino i
pagliericci. Niente.
Non è possibile!
Sono in tre nella stanza, e sembra per lo meno strano che neppure uno abbia nascosto del denaro.
Eppure è così, mi vedo costretto a uscirmene a mani vuote.
Mentre me ne vado, mi viene voglia di fare la pipì. Così scendo giù nel lavabo-doccia-water.
Lì, macchinalmente, mentre mi sto sbottonando, in ginocchio e so per esperienza che un'infinità
di cose a volte vengono nascoste nei waters, sopra la vaschetta dell'acqua, o in un angolino, o dietro
le tubature, — mi metto a frugare dappertutto.
Ecco che in una scanalatura, fra la parte alta del muro e il soffitto, sotto una trave, le mie dita
toccano un oggetto.
È di legno. È rotondo.
Interessante. Riesco a tirarlo fuori. È un piccolo cilindro a due parti. Tiro con le mani, i pantaloni
sempre sbottonati, e vedo con stupore che il cilindro è cavo, che è pieno di biglietti arrotolati, stretti
gli uni gli altri.
Conto febbrilmente. Ci sono in tutto 2000 rupie indiane (circa 170.000 lire italiane)!Una piccola
fortuna.
È il colmo. Cinque minuti prima cercavo il malloppo in camera di tre individui, e me ne sono
tornato a mani vuote. Ora vado a orinare, e scopro 2000 rupie indiane!
Bene, il denaro non ha odore. Mi riabbottono, metto il cilindro in tasca e torno nel mio box. Mi
corico e comincio a elaborare il piano della partenza per la montagna.
Non sono ancora passati dieci minuti, che sento dei passi, molti passi su per le scale.
È già da un po', del resto, che avverto un tramestio e grida concitate giù in basso, all'ingresso.
Dev'essere cominciato quando ero alle docce.
Inquieto, guardo verso la porta aperta.
E vedo passare due poliziotti.
Non ci mancava che questa! Se mi vedono, se mi domandano i documenti, si rendono subito
conto che non ho più il visto: mi espellono e mi mandano in India. E sarebbe la catastrofe. Nello
stato d'intossicazione in cui mi trovo, in India, dove la droga è proibita, io sono spacciato. Crepo in
un niente, tra orribili sofferenze. Non posso infatti sperare di rimettermi in salute al punto da
procurarmi morfina e metedrina, oramai non sono più in condizione di farlo.
Il panico mi prende. Questa volta, non c'è dubbio, fanno una retata nell'albergo. E io ci casco…
Mi ridistendo, col cuore che batte come un tamburo; chiudo gli occhi e attendo il ciclone.
Ma è strano quel che succede… Un poliziotto entra nel dormitorio, mi vede di sicuro (io lo
osservo, pallido, attraverso le ciglia semichiuse), ma subito se ne va.
Che cosa vorrà dire?
Ora sono riuniti tutti nella camera di fronte, quella dell'indiano.
L'indiano è con loro, e lo sento strillare in inglese, dice che gli hanno soffiato 2000 rupie e che
lui le aveva nascoste in un cilindro di legno ricucito nel suo pagliericcio.
Urla che sono stati di sicuro i due tedeschi a derubarlo.
È chiaro: difatti sono scomparsi.
Sentendolo, faccio fatica a non scoppiare a ridere.
Non è cosa da poco. Io ho voluto derubare costui. Non ci sono riuscito. Eppure il suo denaro mi
è cascato bel caldo nelle mani, per puro caso! Ora ne sono ben sicuro, sono stati i due tedeschi che
hanno fatto il colpo, e che hanno nascosto il cilindro nel water.
Certo la cosa non finisce lì, e voglio a tutti i costi vedere, nient'altro che per curiosità, quel che
capiterà quando i due tedeschi torneranno a prendersi il denaro. E non mi muovo.
Installato sulla mia stuoia, tranquillo, sornione, tiro fuori le 2000 rupie dal cilindro, mi sfilo la
cintura a doppio fondo (che finalmente ho fatto aggiustare), e vi infilo i biglietti, ben piegati per
lungo, a uno a uno, accavallati l'uno all'altro, sopra quelli che vi tenevo già.
Poi infilo di nuovo la cintura attorno alla vita, la stringo, e ridiscendo al water per rimettere il
cilindro dove l'ho trovato. Vuoto, ora.
Un'ora più tardi sento, giù all'ingresso, grida e colpi sordi.
Esco sul corridoio per udire meglio.
Uno dei due tedeschi è tornato. I poliziotti si erano appostati, e gli sono saltati addosso.
Lui si difende come un demonio, urla che non ha rubato nulla e non posso che dargli ragione:
solo un incallito come me avrebbe avuto l'idea di frugare sotto le travi di un water dove si è costretti
a stare in ginocchio…
«Frugatemi! Frugatemi! — grida. — E vi convincerete che non ho preso nulla».
È proprio quello che i poliziotti fanno. E com'è logico, non trovano nulla.
Ma decidono di aspettare l'altro tedesco. Dovrà ben tornare anche lui, all'albergo.
Le ore passano, ma lui non si fa vivo.
Comincio a stancarmi di aspettare, e mi dico che i poliziotti, forza di annoiarsi, non si sa mai,
potrebbero mettersi anche, solo per passare il tempo, a verificare il registro dell'albergo e i
passaporti dei clienti.
La finiscano una buona volta! Questo tale ritorni, e chiuso!
Verso le sette od otto di sera, sento uno scricchiolio sopra di me, sui tetti.
Strano… Che cosa sarà mai?
Lo scricchiolio si sposta fin sopra il corridoio, alle mie spalle. Tendo l'orecchio. Mi ricordo che
c'è un finestrino da quella parte.
Accade come supponevo: il finestrino cigola e sento il tonfo smorzato d'un corpo che cade con
elasticità sul pavimento del corridoio.
Scivolo fino alla porta, la schiena contro il muro, facendomi piccolo il più possibile.
Un'ombra scorre a passi felpati e se ne va verso la scala. Ho riconosciuto il secondo tedesco.
Non devo spremermi troppo le meningi, ho capito quello che accade. Tornando all'albergo, ha
dovuto vedere sulla strada l'auto della polizia davanti all'albergo (in Francia, per lo meno, i flics non
sono così bestie). Ha mangiato la foglia e viene di nascosto, attraverso la casa accanto, per
ricuperare il suo cilindro e andare a nasconderlo da qualche altra parte. Poi, a seconda dell'amicizia
che ha per il suo collega, delle due l'una: o filerà via tutto solo, o ritornerà a cercarlo.
Appena ha infilato la scala, io corro a piedi nudi nel corridoio, mi penzolo in fuori e ascolto.
La porta del water, al piano inferiore, cigola. Trascorrono una trentina di secondi. Di nuovo la
porta cigola.
Torno in fretta nel mio dormitorio, mi nascondo dietro il muro.
L'ombra ripassa. Sento il rumore di una sedia spostata, sulla quale qualcuno monta, poi il sospiro
per lo sforzo fatto nel tirarsi su. Il finestrino si richiude dolcemente, gli scricchiolii sul tetto si
allontanano e scompaiono.
Trascorre un'ora. Poi un'altra…
E d'improvviso delle grida, in basso, mi dicono che il tedesco è tornato.
Corbezzoli! è un vero camerata, ed è molto sicuro di sé!
In cima al corridoio io ascolto tutta la discussione. Lui fa l'innocente, come l'altro. Lo frugano,
non trovano niente.
«Lasciateci tranquilli, allora! — dice uno dei due. — Noi siamo in regola, abbiamo i visti ancora
per dieci giorni».
Non hanno fortuna. I poliziotti neppure li ascoltano. Con o senza visti, li impacchettano e li
portano via.
Il giorno dopo, il proprietario mi racconta che sono stati espulsi.
Forse ci si stupirà, avendo letto questa piccola avventura, quando dirò che da quel giorno
comincio a preparare la mia partenza per la montagna. Mi si dirà che non sono caduto poi così in
basso come dico, dato che sono ancora capace di fare un colpo come quello che mi è appena
riuscito (metà per fortuna, lo devo riconoscere!).
Eppure è così. Per quanto sia stato piacevole portare a buon termine il mio piccolo colpo,
perfetto come una stoccata di fioretto, niente cambia la decisione di andar a finire i miei giorni tra le
montagne.
Mi dico semplicemente: Charles, il tuo ultimo colpo è stato bello. Ed è tutto.
La sola energia che mi è rimasta, la sola volontà che mi spinge, è di partire, andare, farmi gli
shoot e attendere il momento decisivo.
Perciò decido, freddamente, di correre i miei rischi.
Bisogna assolutamente che esca dalla mia tana. E di giorno.
Primo, ho da completare il mio materiale da camping. Oltre il sacco a pelo e la coperta che ho
già, mi occorre un piccolo fornello ad alcool (soprattutto per le iniezioni di oppio), una scatola
metallica o due, e qualche piccolo arnese, spago, filo da cucire, eccetera.
Secondo, bisogna che allestisca una piccola farmacia portatile. So bene che i nepalesi dei monti
sono molto inospitali, e che il solo modo per rabbonirli è di curarli. Le occasioni non mancano di
sicuro, perché vivono in condizioni igieniche deplorevoli. Devo perciò comperare cotone, garza,
disinfettanti, calmanti, sulfamidici, fiale di penicillina e il necessario per somministrarla, alcool e
antiveleno (è più prudente, su per le montagne).
La prospettiva di fare il medico girovago non mi imbarazza. L'ho già fatto altre volte, soprattutto
in Africa.
Terzo, devo mettere insieme una grossa riserva di droghe. Mi occorre almeno un chilo di hashish,
una libbra di oppio, un buon centinaio di cc. di morfina, un altro centinaio di fiale di metedrina, poi
l'LSD, l'eroina. È il gran finale, diamine. Non voglio privarmi di nulla, per chiudere in bellezza.
Così una specie di forza oscura e selvaggia s'impossessa di me, l'indomani mattina, quando mi
trovo lavato, ben sbarbato, con camicia, cravatta e un bel vestito bianco indosso.
Sono perfettamente presentabile, quasi elegante.
Non ho nessuna paura di farmi prendere.
Passo nella strada accanto ai poliziotti, tranquillo e sorridente.
Per prima cosa vado al Garden, dove trovo Olivier.
«Parto — gli dico. — Vieni anche tu?».
Disperatamente cerca di impedirmelo. Con un gesto secco taglio corto alle sue geremiadi.
«È inutile — gli dico, — stai sprecando il fiato. Vieni con me, o no?».
Ha capito che è inutile insistere. Abbassa il capo.
«Non vengo», dice.
«Dov'è Krishna?».
«È andato a fare delle commissioni. Piange tutto il tempo, sai, e non smette di domandare di te».
Provo un piccolo sollievo nel sapere che Krishna non c'è. Dirgli addio sarebbe stato troppo
penoso.
«Allora è deciso, parti davvero?», tenta ancora una volta Olivier.
Mi fa compassione. Gli dico una bugia.
«Sì, ma non inquietarti. Credo che andrò verso il Sikkim e il Bhutan, poi verso la Birmania.
Voglio uscire da Katmandu. Non ne posso più».
Bisogna che la droga mi abbia completamente trasformato, perché proprio io, che non avevo mai
avuto paura, sia arrivato ora, a ventinove anni, al punto da voler morire, tutto solo come un cane, tra
le montagne…
Olivier si getta fra le mie braccia. Siamo sconvolti, tutt'e due. Mi strappo da lui, e me ne vado
senza voltarmi.
Povero Olivier, gli volevo bene…
Per tutta la mattina corro da una bottega all'altra, dopo aver scambiato le rupie indiane. A
mezzogiorno la farmacia portatile e la scorta di droghe sono al completo, e gli arnesi per il camping
tutti trovati. In una farmacia mi sono pesato, per una curiosità morbosa. Tocco appena i 48 chili —
sì, proprio 48… — per un metro e 84 di statura!
Porto tutto all'albergo, e ne esco ancora una volta. Mi manca una cosa: qualche fiala di
antiveleno.
Per assurdo che possa sembrare, le cose stanno così: neppure una farmacia in tutta Katmandu ne
ha in vendita.
Vado all'ospedale nepalese. Niente antiveleno anche lì.
Corro all'ospedale americano: di sicuro lì ce ne sarà. Niente, come negli altri posti!
Un farmacista, dispiaciuto di non potermene servire, mi ha detto: «Vada sulla piazza accanto alla
posta. Troverà dei mercanti di erbe. Forse essi hanno quello che lei cerca».
Mi domando che cosa possa avere un mercante d'erbe come antiveleno, ma non fosse che per
curiosità vado a vedere.
Effettivamente sulla piazza della posta ci sono dei tali che vendono le erbe, e un po' di tutto nel
genere delle piante medicinali.
Facendomi aiutare da un sikh che farfuglia un po' d'inglese, spiego al mercante ciò che voglio.
Lui tira fuori un pezzetto di legno, grosso come il pollice e lungo come l'indice. Un pezzo di
legno, la cosa più ordinaria che ci sia.
Sorrido. E dico al sikh:
«No, non è questo che voglio. Spiegagli che voglio qualcosa contro i morsi dei serpenti, un
preparato».
Il sikh ripete la mia domanda. I due discutono un poco. Il mercante brandisce sempre il suo
pezzo di legno.
«Dice che è proprio questo — finisce per tradurre il sikh. — Dice che se vieni morso, per prima
cosa devi fregare il punto con questo pezzo di legno, poi raschi il pezzo con un coltello, e la
segatura che ottieni la metti sopra il morso e fasci ben stretto. Dice che non c'è nulla di meglio al
mondo».
Può anche darsi. Al punto in cui sono arrivato, tanto vale prendere il pezzo di legno. E se dopo
tutto — non si sa mai — questo ciarlatano avesse ragione?
Me ne vado così, col mio pezzo di legno fatato.
Prima di rientrare al Coltrane Hotel, passo al Cabin Restaurant per salutare il padrone. Gli dico
che vado a fare del tricking per distrarmi un poco.
Lui mi guarda fissamente. Non crede a una sola delle parole che gli dico, lo vedo bene.
Ne ha già visti tanti individui come me, drogati a morte, fisicamente e moralmente al lumicino
come sono io, che gli hanno detto come me che andavano a fare un po' di tricking, e se ne sono
andati strascinando il passo.
E non sono tornati…
Ma non lascia trapelare nulla dei suoi pensieri.
«Mangi qualcosa? — mi dice semplicemente. — Offro io».
Accetto. Prendo quelle poche cose che sono ancora in grado di ingoiare, un po' di formaggio di
capra, una fetta di torta, e un milk bang. Un grosso milk bang pieno di hashish.
Che mi rinvigorisce tutto. Ora mi sento meglio.
Mi regala anche qualche provvista per il viaggio: gallette, frutta secca, carne affumicata, del tè.
Lo ringrazio. Lui mi stringe a lungo la mano.
«A presto», gli dico.
«Sì, a presto», risponde, guardandomi con tristezza.
Rientrato nel mio dormitorio, mi svesto, mi faccio un'iniezione di metedrina, poi, passato il flash
(come sono diventati deboli, ora, e senza forza, i miei flash!), piego con cura il vestito di gala e le
scarpe da città, e li infilo nel loro involucro di plastica. Poi li sistemo in fondo allo zaino. Sopra,
metto la farmacia ambulante, poi i miei vari arnesi, e il mio tesoro: la riserva di droga. Ricopro tutto
con la coperta del sacco a pelo, e tiro i legacci dello zaino.
Addosso ho ora i calzoni neri, il maglione nero, la giacca nera, e gli stivali. Attorno alla vita la
mia cintura, e in essa la mia fortuna.
Infilata nella cintura, ripiegata sotto la giacca, ho la custodia dei documenti, e il pugnale. Avvolta
nella plastica trasparente: la carta del Nepal a est di Katmandu.
Mi butto con fatica lo zaino sulle spalle. Com'è pesante! Dico arrivederci ai ragazzi del
dormitorio, passo a dire «arrivederci» anche all'americano e al francese.
«Good luck, Charles, buona fortuna», mi dicono.
Inutile raccontare loro qualsiasi cosa. Essi capiscono. Anche per loro, io sono uno dei tanti che
sparisce, che la droga si porta via, ecco tutto. Chissà? Forse sentono che sta venendo anche per loro
il proprio turno…
Sceso giù, pago il conto e vado alla porta.
È notte. Ho aspettato apposta che si facesse buio. Finiti i rischi inutili, ora. Più presto avrò
lasciato Katmandu, e meglio sarà.
Guardo l'orologio: è quasi mezzanotte.
Esco. L'acciottolato risuona sotto i miei passi. Poi il rumore si smorza. Ho imboccato una strada
in terra battuta.
Sbuca fuori una muta di cani. Li respingo a pedate. Se ne vanno con lunghi guaiti.
Oltrepasso le ultime case. Alla luce di un cerino, do un ultimo sguardo alla carta delle strade che
portano fuori città. Sono di sicuro sul buon cammino, la strada delle montagne, verso nord-est.
E riparto, i pollici infilati nei passanti dello zaino.
Mezzanotte e dieci, del 7 settembre 1969.
Ho ventinove anni e mezzo, peso 48 chili.
Sono un junkie che va a morire sulle montagne.
Non sono né felice né infelice, né ansioso né tormentato.
Ho in me la fatalità degli orientali.
Non mi do più di tre settimane di vita.
LA MORTE DELL'AMERICANO

Quarta parte

1.
A un chilometro da Katmandu, io sono già entrato in un altro mondo: ai primi contrafforti della
montagna comincia l'universo dei contadini, l'universo del pericolo, dei vagabondi, dei ladri. Più ci
si allontana, più si lascia la civiltà, più i rischi aumentano. Lo so: se per caso riesco a giungere nel
Butan o nel Sikkim, se passo la frontiera, allora rischierò la pelle a ogni passo. C'è la guerra con la
Cina, laggiù. Si spara a vista su tutto quello che si muove.
Ma queste prospettive sinistre, questi rischi, sono l'ultima delle mie preoccupazioni. Me ne
infischio di venire attaccato, di essere centrato dal mirino di un soldato.
Sento crescere in me, ora, e man mano che lentamente vado avanti per la mia strada, una specie
di felicità selvaggia.
Cammino con pena, sono costretto a fermarmi ogni momento per riprendere fiato. I muscoli
delle gambe spolpate, disabituate alla fatica, sono indolenziti. Ma non me ne curo.
Sono libero! Ho l'impressione di essermi sbarazzato delle mille pesanti catene che mi
trattenevano. Sono partito appena da due ore, e già tutto il resto è lontano, infinitamente lontano da
me. Katmandu, gli alberghi, i ritrovi notturni, i ristoranti, i ragazzi, le ragazze, non esiste più nulla e
nessuno. Agathe, Agnès, Claudia, Barbara, Daniel, Michel, Guy, tutto questo piccolo mondo di
intrighi e di vigliaccherie, è svanito.
Solo di tanto in tanto mi tornano alla mente i volti sfuggenti di Olivier, di Anna Lisa, di Cristina,
di Jocelyne, sopratutto di Jocelyne. Quelli che non mi hanno tradito.
Ma nessun rimpianto, nessuna amarezza. Anche gli amici sono solo il ricordo d'un tempo
lontano, come tutto ciò che c'è stato, in quelle settimane di follia, di bene, di male, di brutto, Più
niente di niente.
Quando l'alba arriva e il sole squarcia la notte, mi siedo al bordo della strada. Tiro fuori il
fornello ad alcool, mi scaldo un tè, sgranocchio qualche pasticcino, un frutto o due. Mi faccio forza,
non ho fame.
Il bisogno della metedrina formicola in me.
Mi faccio uno shoot. Mi stendo sul dorso, incapace di dormire.
Di lì a un'ora, un sordo ticchettio mi fa alzare la testa. Sono i portatori che scendono dalla
montagna. Passano davanti a me: gli uomini nudi, salvo il loro longhi passato fra le gambe e che
lascia scoperte le natiche. Le donne tutte in nero.
Uomini o donne, portano carichi di uguale pesantezza.
Li guardo passare, con la nuca tesa sotto la trazione della cinghia di cuoio che taglia loro la
fronte, con le due mani dietro, sotto la gerla, i bicipiti turgidi, per alleviare il peso.
Avanzano, distanti due metri l'uno dall'altro, saltando di pietra in pietra sull'orlo della scarpata,
senza mai esitare, senza mai sbagliare, col piede sicuro, come fossero stambecchi.
Passandomi accanto mi gettano un'occhiata, senza animosità, ma anche senza amicizia:
indifferenti.
E io guardo le loro meravigliose gambe di statue viventi, muscolose, fini, potenti, eleganti, sulle
quali il sudore luccica ai raggi obliqui del sole mattutino.
In capo a cinque minuti sono scomparsi, nella loro discesa alla volta di Katmandu.
Porto lo sguardo verso la città sotto di me. È lì, molto vicina, a 4 o 5 chilometri, non di più.
È tutto quello che sono riuscito a percorrere nella notte…
Con uno sforzo di volontà mi rialzo, mi metto in spalle lo zaino. E riparto.
Cammino. Per quasi una settimana cammino, giorno e notte, a piccoli passi, lentamente.
Presto trovo l'andatura giusta, la sola che mi consenta di andare avanti.
Cammino due ore, mi fermo un'ora, e riparto. Due ore di marcia, una di sosta.
I piedi, gelidi per la metedrina, mi fanno soffrire molto. Avanzo con pena, col fiato corto,
l'occhio fisso davanti a me, attento a scansare le pietre che rendono più faticosa la strada in salita.
Sto attraversando paesaggi sublimi: valli incassate, torrenti che scorrono tra alberi centenari, e
come fondale le nevi eterne dell'Himalaya.
Ma non vedo niente. Me ne infischio della bellezza del paesaggio. Il giorno e la notte non hanno
alcuna importanza per me, né il freddo o il caldo. Dormo un po' durante le soste, un quarto d'ora,
mezz'ora, raramente di più. Mi faccio iniezioni, rosicchio qualcosa, e riparto.
Ogni tanto mi fermo davanti a una cascina, o a una catapecchia. I cani abbaiano alle mie
calcagna; vedo arrivare il contadino, sospettoso, ostile. Gli mostro del denaro. Gli faccio segno che
ho fame. Una volta su due mi scacciano, anche vedendo il denaro.
Quando mi si vende qualcosa, sono melanzane o mele, o pannocchie di granturco. Niente altro.
Una volta sola, riesco a farmi vendere tre uova. Ma c'è voluto un lungo conciliabolo tra l'uomo e
sua moglie. Vedo che lei insiste presso il marito. È chiaro che le faccio compassione. Ma io me ne
infischio. Prendo le uova, dico grazie, e riparto.
Mi è tutto indifferente, ormai, anche uno sguardo pietoso. Cammino, e in testa ho un solo
pensiero:
Charles, tu hai sprecato la tua vita. La droga ti porta via. Tu sei un junkie, come quello che
guardavi con tanta curiosità, senza capire, quando eri a Karachi. Ricordi? Ora sei finito. Sei un gatto
che sente la morte e va a morire in disparte.
Dopo una settimana sono in piena montagna.
Un mattino, a una svolta del sentiero, sbocco sopra una valle incassata, verdeggiante, piena
d'alberi.
In fondo, due piccole colline, con una quindicina di case.
Decido: cercherò di fermarmi un poco in questo villaggio.
Prendo un sentiero da capre, e infine arrivo alle prime case.
Ma è strano: il sentiero, giunto al villaggio, entra diritto in una casa. Impossibile andare avanti
senza passare per la casa. Come se essa sola avesse diritto a una strada.
Passo sotto l'atrio, e sbocco in un cortile, che dà su un altro atrio, e via di seguito.
Così vado avanti, attraverso questo strano villaggio che non ha vie né piazze, dove le case si
toccano tutte e bisogna attraversarle a una a una per andare dove si vuole.
Desidero fare tappa qui, riposarmi un poco. Ne ho bisogno, per rimettermi in forze. Sono ancora
troppo vicino a Katmandu. Voglio farcela ad arrivare sulle vere montagne.
Da ieri mi frulla in testa un'idea. Voglio andare fino alle nevi eterne, ora. Voglio farmi il mio
ultimo shoot a quell'altitudine, in mezzo alla neve, in pieno Himalaya. Costi quel che costi, devo
resistere fin là.
A quanto pare, nessuno qui nel villaggio ha mai visto un europeo. Oppure io incuto terrore, tutto
vestito di nero, con la barba lunga, lo zaino, e gli occhiali neri sul naso.
Uno dopo l'altro i contadini cominciano ad avvicinarsi. Ora sono una ventina, a scrutarmi, stando
sulle difensive.
Abbozzo un sorriso, e poso lo zaino accanto a me. Tiro fuori del denaro, lo mostro, e faccio
segno che ho fame. Anche se non è proprio vero.
Nessuna reazione. Le cose si stanno facendo difficili. Compio un nuovo tentativo, cerco di
spiegare, farfugliando le poche parole di nepalese che conosco, che sono un viaggiatore e visito le
montagne. Che vengo da lontano. Che sono un amico.
Mi capiscono, di sicuro. Ma non si muovono.
Decido di giocare la mia ultima carta. Sciolgo le corde dello zaino, estraggo la mia farmacia, e la
dispongo in ordine davanti a me, sulla mia coperta.
Mostro le fiale, i flaconi, le siringhe.
«Medico — dico. — Io sono medico… Io curo… Io guarisco…».
Finalmente il gelo si scioglie. Qualcuno di loro si avvicina, si china a guardare, tocca. Li lascio
fare, e sorrido. Ripeto:
«Io curo, guarisco. Medico…».
Ed ecco d'improvviso un'esplosione di voci. Tutti parlano e gesticolano. Sento che ho vinto.
Almeno, il primo round. Ora di sicuro mi porteranno dei malati. Purché ciò di cui soffrono sia
alla mia portata…
Ed ecco arrivare un povero diavolo, un adolescente.
Vedendolo, sospiro di sollievo. Ho già visto che cos'ha. Posso fare qualcosa per lui.
Ma non è per nulla invitante. Il ragazzo ha una gamba piena di piaghe purulente, e uno sciame di
mosche che succhiano sulla carne viva.
Sulle piaghe c'è un'incrostazione bruna e untuosa, che si screpola e si stacca qua e là. È d'una
pasta fatta senza dubbio con erbe e argilla, e gliel'hanno spalmata dappertutto.
Mi capiterà sovente ancora di vedere individui conciati come lui, con le stesse piaghe infettate:
andando a gambe nude, i portatori si graffiano e si feriscono sovente, e mi domando se non è la loro
infernale pomata che provoca le infezioni, su delle graffiature che altrimenti dovrebbero guarire
abbastanza in fretta.
Attorno a me ora sono in una cinquantina a osservarmi. Mi sorvegliano, mi tengono d'occhio. Ma
cominciano a sorridermi.
Almeno gli uomini, perché le donne mi guardano con aria di diffidenza, per niente simpatica.
La prima cosa da fare è portar via tutta quella crosta. Affare che disgusterebbe di sicuro un sacco
di gente, ma non me. Mi sono sempre detto che avrei potuto diventare un ottimo medico. Mi piace
alleviare le sofferenze altrui. E quando ci si china sopra un malato con questo sentimento, più niente
risulta disgustoso.
Certo non è una cosa simpatica da guardare. Il ragazzo ha l'interno del polpaccio, per una
superficie larga come la mano, completamente intaccato. Inoltre l'infezione è penetrata nell'interno
in diversi punti, attorno alla piaga centrale.
Se raschio sul vivo, si metterà a urlare come un dannato. Le donne che mi spiano aizzeranno
contro di me tutto il villaggio, e verrò cacciato via.
Così decido di fare al ragazzo un'iniezione di calmante. Ma temo che la sola vista della siringa e
dell'iniezione basti a provocare il panico generale, e preferisco far loro vedere su di me che
l'iniezione è roba da niente.
Se me ne faccio io una, essi prenderanno fiducia.
Del resto sento proprio bisogno di farmi uno shoot. Rompo una fiala di metedrina — del tutto
simile a quella del calmante — e vuoto il liquido nella siringa. Poi, a gesti, faccio loro capire che
farò un'iniezione al malato, ma che prima la faccio su di me perché essi non abbiano a temere.
Silenzio generale. Facce chiuse. Occhi fissi a guardarmi.
L'iniezione che mi preparo non rischia in alcun modo di farmi perdere la lucidità necessaria per
proseguire la medicazione. I flash che provo sono ormai molto deboli e, dopo, è proprio sotto
l'effetto della metedrina che mi sento veramente me stesso…
Affondo l'ago in una vena del collo del mio piede (non voglio che vedano le mie braccia coperte
di segni) e inietto la dose.
Un piccolo annebbiamento, presto passato. Ritorno padrone di me.
Prendo un'altra siringa, vi verso il calmante, la faccio vedere a tutti, e più a gesti che a parole
spiego che ora farò al malato quello che ho fatto su di me.
Sorrisi su tutti i volti. Hanno capito.
Faccio con tutta tranquillità l'iniezione al ragazzo.
Quando stimo che il calmante abbia cominciato a fare effetto, chiedo a due uomini vigorosi di
tenere ferma la gamba del malato. Non si sa mai, potrebbe muoversi.
Intanto ho anche fatto preparare dell'acqua calda.
Inumidisco della garza e mi metto a sfregare delicatamente per togliere la pomata nepalese. Il
ragazzo si muove un poco, ma non troppo. Posso lavorare tranquillo. E ci metto un buon dieci
minuti a ripulire tutto.
Quindi spennello la piaga con mercurocromo, la cospargo con un sulfamidico, faccio
un'abbondante fasciatura, la fisso con un cerotto.
E concludo l'operazione con un'iniezione intramuscolare di penicillina.
Poi, dico a gesti che ho fame e che vorrei dormire.
Mi sorridono, e mi portano in uno stanzino buio. Al mio ingresso tre polli schizzano fuori
schiamazzando. Mi indicano in un angolo una lettiera di paglia.
Per me va bene, non chiedo di più. Getto lo zaino sulla paglia e mi siedo.
L'uomo che mi ha accompagnato non si è mosso. Aspetta. Capisco cosa vuole. Tiro fuori di tasca
una moneta da 5 pesa e gliela do. La prende, sorride. E mi fa un gesto che significa «mangiare», con
aria interrogativa.
Sì, mi porti qualcosa.
Ritorna con una ciotola piena di melanzane bollite, molto piccanti, e una tazza di tè infame. Posa
tutto davanti a me, e mi tende la mano ancora una volta.
Gli do altri 5 pesa. E parte contento.
Che farabutti! Forse che io ho fatto pagare loro i medicinali e l'onorario?
L'indomani mi portano un ragazzo che ha gli occhi infettati di pus. Che cosa posso fare di
veramente utile? Gli lavo gli occhi con acqua bollita, gli faccio un'iniezione di penicillina. Dico che
me lo riconducano alla sera. Quando torna, ho un'ispirazione: disciolgo un sulfamidico in polvere
dentro un po' d'acqua, e gli pratico dei bagni oculari. Rinnovo il trattamento mattino e sera, per tre
giorni.
Guarisce!
Come anche il ragazzo dalla gamba in putrefazione, e lo dico con una certa fierezza. Anche a lui
ho fatto applicazioni quotidiane di sulfamidici, e iniezioni di penicillina.
Quando me ne vado, il quarto giorno, abbastanza riposato, mi vedo circondato come da un corteo
regale fino all'uscita del villaggio.
E riprendo la mia strada, avanzando a piccoli passi, in una continua vertigine, guardando ogni
tanto le nevi eterne, lontano davanti a me, verso il nord.
Vallate e montagne si succedono le une alle altre. Mi arrampico, discendo. Mi arrampico,
ridiscendo. Ho l'impressione di sprofondare inesorabilmente in un inferno di solitudine e di dolore. I
piedi mi fanno sempre più male. Cominciano a sanguinare. Quando ho troppo male, mi fermo e mi
faccio un'iniezione. La droga ormai mi serve solo come calmante e come sostegno. Se smetto di
prenderne, divento madido di sudore a furia di sentire male dappertutto, prima ai piedi, ma poi in
ogni parte, e soprattutto nei muscoli indolenziti delle gambe e della schiena, dove lo zaino, anche se
divenuto leggero, pesa in continuità.
I miei pensieri si offuscano, s'incupiscono a poco a poco. Non ho più che vaghi ricordi del
passato. La mia infanzia e adolescenza sono così lontane… La mia giovinezza avventurosa, i colpi
che ho compiuto, le volte che sono finito in prigione, com'è vecchio tutto questo, diluito nel tempo,
cancellato come un acquerello che la pioggia abbia a lungo lavato…
A volte mi succede il contrario. Alcune scene mi tornano in mente con una limpidezza
allucinante. Le passo al setaccio per ore e ore, molte volte, come si riascolta un disco. Così durante
una giornata intera rivivo venti volte di seguito, nei suoi minimi dettagli, un naufragio al quale ero
sfuggito per miracolo, cinque o sei anni fa, sulla Costa Azzurra, su uno yacht.
II battello, gettato dal mistral sulla costa, dopo aver perso l'alberatura (e non avevamo motore), si
era sfracellato sugli scogli. Mi ero ritrovato in acqua, sollevato dalle onde, proiettato contro uno
scoglio. Mi ero aggrappato a esso, ma le onde cercavano di strapparmi, tornando furiosamente.
A un certo punto ero riuscito a rizzarmi in piedi contro lo scoglio; per tenermivi aggrappato mi
strappavo le unghie a metà, e intanto cercavo di arrampicarmi con la forza della disperazione.
E le onde tornavano, mi schiacciavano la testa contro la roccia, mi tiravano indietro, per tornare a
schiacciarmi e via di seguito. Stavo per cedere, lo sentivo, e sarei morto là, sfracellato.
Allora, con un ultimo sforzo, spiando con la coda dell'occhio il ritorno dell'onda, avevo fatto un
balzo gigantesco ed ero riuscito ad aggrapparmi a una radice, sopra di me.
L'onda, tornando pesante, aveva tentato di avvolgermi le gambe, di risucchiarmi. Il risucchio era
stato formidabile, ma io avevo resistito e, centimetro per centimetro, morendo di fatica, ero riuscito
a issarmi con la forza delle braccia lungo la radice e a guadagnare la parte alta della scogliera, dove
mi ero abbattuto, semi svenuto, con la testa fra i sassi e in bocca il sapore della terra che era il
sapore della salvezza ritrovata.
Mentre cammino e rivivo istante per istante il mio naufragio, stringo i denti. Tutto è come allora.
La fatica, la spossatezza, mi tagliano le gambe, e io lotto per andare avanti, per salire. Mi aggrappo
con lo sguardo alle nevi dell'Himalaya, lassù. Passo dopo passo mi avvicino.
No, non cederò!
Arriverò lassù! Mi calerò nel fondo di una morena, là dove finiscono le ultime erbe e comincia il
primo nevaio. Riempirò la siringa di veleno, una volta, due volte, tante volte quante occorreranno a
sfuggire per sempre a tutto, al rimprovero furioso di questa vita scatenata e frantumata, che non
voglio abbandonare prima di aver vinto le ultime tempeste.
Per otto giorni ancora io cammino, rubando mele, cogliendo granturco o melanzane.
Una sera, scorgendo una baita abbandonata, mi ci dirigo. Avvicinandomi, vedo del fumo che esce
da un foro del tetto. È strano, perché non sento i belati delle capre, non vedo i bufali. Non sono
pastori.
Entro.
Due volti irsuti si schiariscono nella luce del sole che tramontando penetra nella baita.
Sono due europei. Mi guardano con occhi febbricitanti, sprofondati nelle orbite.
Si stanno scaldando al fuoco di un po' di legna, acceso in mezzo alla stanza. Sono a piedi nudi, e
i loro piedi hanno lividi bluastri come i miei.
Mi fanno segno di entrare. Mi siedo accanto a loro, mi sfilo le scarpe, tendo i piedi indolenziti
alla fiamma. Meraviglioso. Mi sento meglio. Sorrido.
Non li ho mai visti a Katmandu. E anche se li avessi visti, posso benissimo non riconoscerli.
Sembrano uomini della foresta, nei loro stracci. Uno di essi ha una pelle di capra sulle spalle, così
mal conciata che vi si vedono ancora brandelli di carne. Deve avere abbattuto e scuoiato la bestia da
solo.
Non parliamo, non facciamo nessuna domanda. A che scopo? Sappiamo esattamente, gli uni
degli altri, che cosa siamo.
Mi offrono del tè. Io medico un foruncolo che uno di essi ha alla piega del gomito, e che gli
gonfia il braccio in modo pauroso. Gli lascio dei sulfamidici e della penicillina. Saprà farsi le
iniezioni da solo, o gliele farà il compagno.
Quando riparto, non so neppure il loro nome, né dove vanno, né la loro nazionalità.
Le poche parole che abbiamo scambiato, le abbiamo pronunciate in inglese. Ma lo parlano male.
Credo che fossero svedesi o danesi, ma non ne so niente, e me ne infischio. Essi fanno la loro
strada, io la mia, ci siamo incrociati e nulla più. Non era il caso di intavolare conversazioni.
Qualche giorno più tardi vedo un altro villaggio, più grosso del precedente. Da lontano, sembra
strano. Vedo disseminati tutto attorno, sull'erba della collina, dei puntini d'un bel rosso vivo.
Per un istante credo di avere delle allucinazioni. Ma no, più mi avvicino e più i punti rossi
ingrandiscono. Diventano macchie.
Presto vedo meglio: decine di lenzuola bianche sono posate sull'erba, e su ogni lenzuolo c'è un
ammasso di punti rossi.
Arrivo vicino a un lenzuolo. Sopra, tanti peperoncini seccano al sole.
Entro nel villaggio e ho una bella sorpresa.
Appena sono dentro, subito vengo circondato. Gli abitanti lanciano grida. La gente si fa alle
finestre e chiama altri perché vengano a vedere.
Ho presto la spiegazione di questa accoglienza incredibile. Uno del villaggio parla un po'
d'inglese, è vissuto un anno a Katmandu.
Una specie di «telegrafo della foresta» deve aver funzionato da quando ho curato e guarito quei
due nell'altro villaggio. Ora tutti sanno, a decine di chilometri tutto intorno, che uno straniero alto e
barbuto, vestito di nero e con un occhio solo, cura i malati e li guarisce!
Con deferenza mi prendono per mano e mi conducono in una casa.
È una stalla piena di capre e montoni.
Mettono per me della paglia pulita, la ricoprono con una stuoia di vimini, mi fanno segno che è lì
che devo installarmi, e mi tendono la mano!
Con un sospiro, estraggo i soliti 5 pesa, che spariscono in una tasca.
La stalla in cui mi trovo fa parte d'una casa molto bassa, che ha sull'esterno una specie di
negozietto tenuto da una donna. Vende solo qualche derrata di prima necessità: tè, sigarette,
zucchero, sale, pepe e, strano, della mostarda. È tutto.
Resto lì una decina di giorni, senza allontanarmi, senza uscire. E ogni giorno c'è la sfilata dei
malati.
Ne curo almeno cinque o sei al giorno.
E mai nessuno di loro che mi faccia il più piccolo regalo.
Ma non me la prendo. Mi basta rendermi utile. Non lo faccio per essere ringraziato o pagato.
Eppure un giorno esito. Mi hanno condotto un uomo sulla trentina, che ha l'orecchio destro, la
guancia e la base del collo, atrocemente enfiati. Sul male tiene uno straccio dal quale sbava la solita
mistura putrefatta.
Tolgo la «benda» e indietreggio.
È orribile. L'uomo ha un ascesso purulento dentro l'orecchio. E l'ascesso si apre sotto il lobo, tra
la mascella e la scatola cranica. Si è formata lì un'enorme escrescenza marrone, con macchie
biancastre, alcune dischiuse, dalle quali il pus cola giù.
Appena lo tocco, l'uomo trasale e geme.
È in condizioni disperate.
Io non sono capace di curarlo. È troppo pericoloso. Può morirmi tra le braccia mentre lo opero.
No, io non ho mai fatto cose del genere. Non è possibile.
Mi metto a spiegarlo al mio interprete. Lui assume un'aria catastrofica. Gli altri attorno a lui
(tutta la famiglia del malato è nella stalla, con le candele in mano) guardano muti.
«Sahib — mi dice l'interprete, — bisogna che tu lo curi».
«Ma ti dico che non posso, che non sono un chirurgo. Non ho neppure l'occorrente».
Lui insiste:
«Curalo… Tu devi curarlo».
E si china verso di me, per parlarmi a bassa voce, quasi che gli altri potessero capire.
«Se non lo curi, essi ti ammazzeranno».
Impreco. È vero che voglio farla finita, ma non così, sgozzato al buio, in una tana piena di fumo!
Io voglio che la mia morte sia quella che ho scelto: in pieno sole, sulla neve, con le cime
dell'Himalaya davanti a me, e un'ultima formidabile orgia di droga dentro di me.
Insisto:
«Di' loro, tu che sei stato in città, e capisci queste cose. Diglielo che sono pazzi, che ci sono dei
limiti a quello che un uomo può fare».
Il suo sguardo si fa malvagio. Stringe i pugni. Digrigna i denti.
«Straniero: curalo, ti dico».
Va bene, ho capito. Non ho scelta, bisogna che lo faccia. Se va male, quell'energumeno là in
fondo, col lungo coltello ricurvo infilato nella cintura, sarà il primo a volarmi addosso.
Dispongo in ordine davanti a me tutta la mia farmacia. E comincio, sempre per dare loro fiducia,
col farmi un'iniezione.
Ma questa volta è indispensabile. Ne ho un maledetto bisogno, per diventare lucido il più
possibile.
Comincio col praticare al malato la solita iniezione di penicillina. Poi lo imbottisco di sonnifero.
Man mano, spiego all'interprete ciò che sto facendo, e lui traduce. Gli altri accennano di sì col
capo, a ogni frase.
Il malato è presto k.o., quasi addormentato. Ma chiedo lo stesso che tre del villaggio vengano a
tenerlo fermo. Per quanto sia forte la dose del sonnifero, essa non sostituirà mai in pieno l'anestesia
vera e propria che sarebbe necessaria.
L'interprete traduce le mie frasi: ciò che gli ho somministrato, è perché soffra di meno, ma di
sicuro si metterà a gridare, molto forte, e si dibatterà. Per questo bisogna tenerlo fermo.
Hanno capito. I tre immobilizzano il paziente, con la testa poggiata sul lato sinistro, tenuta ferma
tra due sassi.
Affilo il coltello meglio che posso, lo passo sulla fiamma, poi nell'alcool.
Taglio i capelli attorno all'orecchio, ripulisco con l'alcool, inondo di mercurocromo.
Tutto è pronto per l'incisione. Faccio cenno che lo tengano bene. Se fossi credente, farei il segno
della croce. Mi limito a pensare: purché vada!
E incido l'ascesso.
Non dall'interno, perché ho paura che tutto coli dentro l'orecchio.
Taglio, con un colpo secco, dietro l'orecchio.
L'uomo si risveglia urlando. Si dibatte talmente che i tre che lo tengono non bastano. Due altri
individui robusti vengono a dare una mano. L'infelice è bagnato di sudore, è scosso da tremiti.
Assesto un secondo colpo di coltello, perpendicolare al precedente. Di nuovo urla.
Il pus zampilla verdastro, spesso, filamentoso. Il fetore è insostenibile. Io premo attorno
all'ascesso, il pus continua a schizzare fuori. La sacca dev'essere enorme, e deve spingersi molto in
profondità nella testa, sotto la base cranica. Il pus continua a colare. Ne estraggo un buon bicchiere.
E cola ancora. Di sicuro c'è una rete di sacche annesse, ramificate dalla principale. Bisogna
aprire anche queste.
Ma l'uomo reggerà? Non lo prenderà una sincope, non mi morirà sotto i ferri? Se solo avessi un
cardiotonico da dargli!
Ma non ho altre scelte. Quindici paia di occhi mi spiano, attenti, ostili. L'uomo è giovane, deve
avere il cuore forte. È una fortuna. Prendo un fiammifero, ne avvolgo un'estremità con ovatta, e lo
immergo nella sacca. Giro, scavo, frugo. Sento le membrane delle sacche interne che scoppiano,
una dopo l'altra. E il pus continua a colare, senza interruzione.
L'uomo non si muove più. Respira affannosamente. Ogni tanto un tremito lo scuote. Purché
tenga!
Purché tenga anch'io! Respira a fatica, la testa mi gira, ho degli annebbiamenti.
Una cosa soprattutto non va. Mi rendo conto che c'è ancora una grossa sacca che non riesco a
raggiungere, molto profonda, dalla parte dell'orecchio interno.
La situazione si fa grave. Ho quel tanto di conoscenze anatomiche che mi bastano per saperlo: lì
si trova il labirinto, con gli organi dell'equilibrio. Se taglio in quel punto, rischio di toccare un
centro vitale — e anche il cervello, così vicino; — allora il mio paziente non sarà più che uno
straccio, incapace di reggersi in piedi, perfino di sedersi.
E per me, allora, è finita.
Ma pure bisogna che io incida. Riempio con tamponi di ovatta le sacche che ho già aperto.
Aguzzo ancora il coltello, e affondo la punta direttamente dentro l'orecchio. Spingo.
Il malato compie un balzo di 50 centimetri. Per fortuna gli hanno tenuto bene la testa, che non si
è mossa.
È andata bene: il pus zampilla.
Ma con questo colpo, il malato ha perso i sensi.
Ne approfitto per far uscire quanto più pus è possibile, mentre non soffre.
Accidenti! D'improvviso uno zampillo di sangue. Una vera emorragia.
È una scalogna nera. Avevo quasi finito, e adesso questo disgraziato corre il rischio di morirmi
dissanguato come un bue al macello. Tampono febbrilmente con l'ovatta, ne faccio entrare nella
ferita una quantità enorme. L'ovatta si tinge di rosso. Ne metto ancora dell'altra… Finalmente non si
arrossa più.
Attendo dieci buoni minuti, poi comincio a tirar via l'ovatta, pian piano. Il sangue ha smesso di
uscire. Cospargo le sacche di sulfamidici, con abbondanza, poi copro di ovatta. Metto sopra tutto
una garza imbevuta di disinfettanti, poi le bende, e alla fine gli inietto un sedativo.
I suoi compagni lo portano via. Rimango solo, mi corico, e per la prima volta da non so quanto
tempo, dormo regolarmente.
Quando mi risveglio, è notte. Mi faccio uno shoot. Mi alzo per uscire.
II mio interprete è lì con due accoliti, e mi sbarrano la porta.
Sono disposti a darmi da mangiare, ma non devo uscire.
«Non puoi partire prima che sia guarito», mi dice l'interprete.
Stringo i pugni. E rientro.
Mi portano la solita pannocchia di granturco bollito, una ciotola di zucchini piccanti e un
bicchiere di tè. Mi tendono la mano. Pago, e mangio, ripetendomi tra i denti che sono capitato in un
paese di autentici farabutti.
Il giorno dopo, di mattino, mi riportano il malato.
Sta decisamente meglio.
Cambio le bende, rinnovo i sulfamidici, la penicillina e i calmanti.
Se dei medici mi leggono, forse adesso grideranno al falso. Eppure giuro che è la verità nuda e
cruda: cinque giorni più tardi, quel povero diavolo è in piedi.
Soltanto allora mi si lascia uscire dalla mia tana, e posso riprendere la strada.
Un corteggio regale mi accompagna per 500 metri, e poi mi aspetta una bella sorpresa.
Al momento di separarci, l'interprete tira fuori da sotto il vestito un pacchetto, e me lo porge.
È un pollo, già cotto.
Apprezzo il gesto. Un pollo, in villaggi così miserabili, è un capitale…
2.
La sera, sotto un albero, quando addento il mio pollo, mi sfugge un'imprecazione. La carne è così
piccante, che mi brucia la gola. Lo faccio bollire, tagliato a pezzi, nel mio pentolino. Adesso è un
po' più mangiabile. Ma devo bere un paio di litri di tè per spegnere la sete che mi ha causato.
Ora sono molto in alto, quasi a 2500 metri. L'altitudine aumenta il mio sfinimento. Mi trascino.
Quasi non posso mangiare.
Cammino solo perché la neve immacolata mi attira a sé come un'amante. I piedi vanno sempre
peggio. Sono diventato uno scheletro.
A ogni fermata devo farmi uno shoot. Ho notato che l'oppio mi tiene su più di ogni altra cosa.
Allora esco fuori strada, mi nascondo dietro i cespugli, e accendo il fuoco con la legna (la mia
scorta di alcool sta per finire). Faccio cuocere l'oppio in un cucchiaio, lo diluisco, lo lascio
raffreddare, lo metto nella siringa e me lo inietto.
Mi nascondo perché in questa zona c'è un andirivieni continuo di portatori lungo la strada. Se mi
vedessero, proverei imbarazzo.
Diversamente dai contadini, essi non sono ostili. Come tutti i poveri diavoli di questo mondo,
simpatizzano subito. Sovente nelle soste ci parliamo, a gesti, mentre si riposano un istante prima di
ripartire. Hanno fiducia.
Fanno da 30 a 40 chilometri, e anche più, al giorno, con la loro gerla o una catasta di legna sulla
schiena.
E guadagnano neanche mezza rupia al giorno (meno di 30 lire).
Il più delle volte, quando si fermano, non si tolgono il carico di dosso. Sarebbe troppo faticoso
rimetterlo su. Si siedono, lo appoggiano a una roccia, e riprendono fiato.
Mi fanno pena. Sono quanto di più miserabile abbia mai visto. Ma una miseria che resta bella.
Queste statue viventi dagli occhi a mandorla mi sconvolgono.
Un giorno in una taverna, dove sto bevendo un bicchiere di tè vicino a diversi portatori, ho una
prova lampante della loro povertà.
È la prima volta che entro in una taverna su per la montagna.
Due portatori arrivano mentre io sono stato appena servito.
Il primo comanda un bicchiere di tè. Il secondo niente.
Ed ecco quello che accade: il primo portatore beve il bicchiere fino a metà, poi lo porge all'altro,
che lo finisce.
Poi ripartono.
Non hanno neppure di che pagarsi un bicchiere ciascuno!
E dire che un bicchiere di tè costa appena 10 pesa (sei lire italiane).
Questi due non sono un'eccezione. Ho visto che la maggior parte dei portatori fanno così. Mezzo
bicchiere a testa, e basta.
La cosa mi sconvolge al punto che un giorno, in una taverna dove ci sono una decina di portatori
con me, tiro fuori il pacchetto delle sigarette e gliene offro.
Tendo il pacchetto al primo.
Stupefatto, esita, si mette a ridere, alla fine si decide e prende una sigaretta.
Offro al secondo. Rifiuta. Niente da fare.
Passo al terzo. Rifiuta anche lui.
Il quarto prende una sigaretta, e anche un altro. Tutto lì. (Mi altri non vogliono.
Allora accade una scena incredibile.
Mentre il primo portatore accende la sua sigaretta, gli altri due mettono via la loro.
Il primo tira una boccata, passa la sigaretta al secondo, che tira una boccata, e la passa al terzo.
Così di seguito fino al decimo.
Poi la sigaretta riparte per il secondo giro. Al termine, non è che una cicca che scotta le dita. È
finita.
Ciascun portatore ha avuto diritto a due boccate in tutto.
Ripartono profondendosi in ringraziamenti, e conservando le altre due sigarette per le tappe
successive.
A volte lungo la strada incrocio dei palanchini portati da quattro uomini.
Sopra, grossi ciccioni riccamente vestiti, trasudati come i loro portatori, ma non per lo stesso
motivo.
Gli equipaggi avanzano trotterellando sull'orlo del precipizio — le scarpate si fanno sempre più
ripide; — vedo i piedi dei portatori balzare vivacemente da una pietra all'altra senza mai
inciampare, senza che il palanchino subisca scosse. Come mai non gettano nel torrente, con una
spallata, quel porco che li sfrutta?…
A volte, appena superato un palanchino, torno sui miei passi e infilo una sigaretta o due nella
cintura degli ultimi due portatori, facendo attenzione di non essere notato dal ciccione. Mi
ringraziano in silenzio, con un sorriso appena accennato sopra la spalla, e scompaiono dietro una.
svolta.
Perché dovrei continuare a vivere in un mondo dove è permessa tanta crudeltà? Questo genere di
pensieri mi sostiene, mi dà forza di avanzare ancora, ogni giorno un po' di più.
Ma ora ho raggiunto un livello di spossatezza pauroso. Sono scosso quasi in continuità da
fremiti. Non sempre riesco a mettere un piede davanti all'altro.
I miei piedi sono in condizioni spaventose, gonfi e gelati per la metedrina che prendo sempre,
insieme con l'oppio. La pelle si è lacerata in più punti, e lo sfregamento del cuoio degli stivali la fa
sanguinare.
Un mattino, che ho dormito due ore di seguito, talmente sono stanco, non ce la faccio più a
uscire dal sacco a pelo e devo trascinarmi fino allo zaino per prendere la metedrina e farmi lo shoot
che mi darà un po' di vigore.
Tento di rimettermi gli stivali. I piedi non vogliono più entrarci. Sono bluastri, raddoppiati di
volume, e coperti di croste sanguinolente.
Mi viene in mente un film visto una volta in una cineteca.
Era la storia di un soldato prigioniero in qualche Stato dalle parti del Tibet. Evade, traversando
l'Himalaya a piedi.
Molto presto le sue scarpe cadono a pezzi. Allora avvolge degli stracci intorno ai piedi, si
fabbrica ciò che il commentatore del film chiama «calze russe», le pezze da piedi.
E riprende la sua strada.
Io faccio altrettanto. Strappo la mia coperta, mi avvolgo i brandelli attorno ai piedi, e riparto, con
gli stivali nello zaino.
Cammino molto meglio, mi sento leggero. E i piedi stanno al caldo.
Ho deciso: non metterò più gli stivali.
3.
Quest'epoca della mia vita è come avvolta in una nuvola d'incoscienza e di delirio, al punto che
oggi non so più se è prima o dopo di aver adottato le pezze da piedi, che arrivo in un villaggio dove
un uomo, un americano, un altro junkie, mi muore tra le braccia.
Ricordo vagamente che il villaggio era molto piccolo, e che quando arrivai il tempo era
splendido.
Ma ricordo perfettamente il locale assegnatomi quando arrivai.
Ancora una volta, una stalla. Ma la più sudicia che abbia mai conosciuto. Non c'è neppure una
separazione tra i montoni e il mio mucchio di paglia.
Poso il sacco a pelo direttamente sulla paglia e la felce che coprono il suolo. La stalla non
dev'essere stata mai pulita. Sotto di me c'è una specie di humus che puzza di escrementi e urina, 20
centimetri di letame.
Nugoli di mosche ronzano, topi e sorci passeggiano. I montoni vengono a posare il muso su di
me, mi spingono dolcemente, belando, e tornano al loro posto.
Giudicato con l'occhio dell'occidentale, può sembrare inammissibile che ci si possa coricare lì
sopra, su un mucchio di letame, come il Giobbe della Bibbia.
Ma io lassù, in quel villaggio sperduto dell'Himalaya, non provo il minimo disgusto. Sono
abituato. E la droga produce in me una mentalità d'indifferenza generale. Al punto che mi posso
coricare tranquillo sul letame, con il senso di sollievo che deve provare un escursionista quando,
dopo 30 chilometri di marcia, a sera s'infila in un buon letto tra lenzuola fresche di bucato.
Di lì a un poco, dei monelli affacciano il loro musetto alla porta della stalla.
Mi sto facendo uno shoot.
Mi guardano, e si mettono a parlarmi con vivacità. Non comprendo nulla, evidentemente. Allora
si spiegano a gesti. E finisco per capire.
Più avanti, in un'altra casa del villaggio, c'è un altro bianco come me, che si fa anche lui le
iniezioni nel braccio, e che sta sempre coricato. È molto magro, ha i capelli lunghi, e non si muove
mai.
Dev'essere un junkie, come quelli che ho già incontrato più in basso. Ma così lontano da
Katmandu, così in alto, e così addentro nella montagna… M'interessa. Mi alzo e seguo i ragazzi.
È una scena orribile e straziante, quella che mi attende.
La casa è molto piccola. E anche graziosa, contrariamente a quelle che la circondano. È perfino
civettuola. I muri, di argilla, pietre e paglia, non sono panciuti ma diritti. Le proporzioni sono
armoniche, il tetto di paglia scende molto in basso, ed è pulito; sembra una capanna normanna. Ai
finestrini, in legno scolpito — cosa piuttosto rara in montagna — ci sono i fiori. Davanti alla casa,
un prato incolto. Dietro, alberi da frutta. È una casa da cui quasi ci si aspetta di veder uscire una
mamma felice, graziosa, con i bambini paffuti tenuti per mano. E i bimbi mandano baci al babbo
che torna dal lavoro.
Una casa che evoca immagini di calma e di pace.
Una casa dove sarebbe bello ritirarsi per finire i propri giorni lontano dai rumori del mondo, per
invecchiare dolcemente in una felicità frugale e senza storia…
I ragazzini mi conducono fino a una porta a due battenti. Entro. A destra c'è un muro. A sinistra
uno steccato di legno a mezza altezza, oltre il quale stanno i montoni e le capre, sulla loro lettiera di
paglia.
In fondo, una scala di legno che sale al primo piano.
II muro di destra si ferma a metà per svoltare ad angolo retto, formando un locale indipendente.
Nella penombra, un po' a tastoni, seguo questo muro. Arrivo in fondo, e lì, a destra della scala, in
un cantuccio d'una decina di metri quadrati e illuminato da un finestrino attraverso cui il sole riversa
un vigoroso fascio di luce, vedo, sul pavimento in terra battuta, un quadro stupefacente.
Sopra una stuoia, sbucano da una coperta investita in pieno dalla luce del sole, brutalmente
illuminati, due piedi.
Sono ricoperti da una trina di sudiciume, ma tra le sue maglie la pelle è molto bianca.
I piedi sono quasi scheletrici. La pelle aderisce stretta alle ossa delle dita.
Posso seguire con lo sguardo il profilo di ciascun osso, ogni giuntura delle dita, i tendini, le
vene…
I piedi sono inerti, abbandonati.
Sono molto belli.
Avanzo ancora, e comincio a distinguere la silhouette del corpo, immerso nella penombra.
Quel che ho preso per una coperta, è in realtà un grande sari bianco, quasi pulito.
Esso sottolinea la straordinaria magrezza del corpo. Vedo le ginocchia che puntano sotto il
tessuto; e più su, là dove ci dovrebbe essere il rigonfiamento dei muscoli, il tessuto ricade, lungo
una coscia che non è più grossa della gamba d'un tavolo. Più in alto il ventre forma, con le ossa
delle anche sporgenti ad ansa, una cavità profonda.
Su questo sudario (il paragone mi balza subito alla mente), le mani giacciono incrociate. I polsi
escono un poco dalle maniche larghe della camicia, quanto basta per lasciare chiaramente vedere le
due ossa, il radio e il cubito, con l'ombra segnata in mezzo.
Le sue mani mi fanno pensare a quelle delle statue giacenti sui monumenti funebri delle chiese:
così disincarnate, sembrano uno scheletro nel suo astuccio di pelle.
Infine, il volto…
Nel mondo degli hippies, in cui si portano i capelli lunghi e la barba mai tagliata, molti ragazzi
quando sono biondi e magri vengono chiamati «Gesù».
Questo che mi sta davanti, è il solo hippy che abbia diritto di essere paragonato a Gesù.
Un brivido mi assale, tanto la somiglianza con i ritratti del Cristo è straordinaria.
Non solo ha, come lui, i capelli biondi e ricciuti che scendono fino alle spalle, la barba anch'essa
a riccioli, i tratti fini e regolari, la bocca molto bella, il naso diritto, gli occhi a mandorla molto
allungati, ma ha anche l'espressione del Cristo.
Per quanto sia magro, per quanto siano scavate le sue orbite e le sue guance, dai suoi lineamenti
emana l'impressione di una dolcezza infinita.
Ha un'aria molto intelligente, molto buona. È sereno.
Sembra posseduto da una specie di fuoco che gli cova dentro, dolce ma potente.
Sembra molto giovane, di venti, ventitré anni, al massimo venticinque. È disteso come il Cristo
deposto dalla croce, cui hanno congiunto le mani sul petto, e giace a occhi chiusi, il capo reclinato
all'indietro, immerso nel suo sudario.
È molto alto, di sicuro più alto di me, ma cosi disteso in tutta la sua lunghezza, sembra non finire
più. E man mano che mi avvicino a lui, ho l'impressione che continui a distendersi.
Per un attimo, talmente giace immobile come una statua, ho l'impressione che sia morto.
Ma il suo petto si solleva un poco, regolarmente, per effetto di inspirazioni lente e deboli.
Arrivo accanto a lui. Mi chino.
D'improvviso il suo volto si contrae. Stringe i denti, molto forte. Resta così per qualche decina di
secondi, poi si distende e ritrova la sua serena immobilità di statua.
Solo allora vedo che accanto a lui, dall'altra parte della stanza, ci sono tre donne e due uomini
che discutono a bassa voce. Parlano di lui, sicuramente.
A sinistra un piccolo zaino nepalese quasi vuoto. E, sparso dappertutto, l'armamentario del
perfetto junkie: aghi, siringhe di tutte le misure e di tutte le forme, bottigliette, sacchetti. Rimasugli
di cibo: briciole di gallette e di pasticcini. Un fornellino, sigarette. La scatola dell'hashish
rovesciata, aperta, col suo specchietto all'interno del coperchio.
Mi siedo e poso la mano sulla sua spalla.
Mi sente, socchiude un poco le palpebre, molto lentamente, al rallentatore. Guarda il mio volto
chino sopra il suo.
E colgo nei suoi occhi un bagliore fuggitivo di gioia, di contentezza. Sembra gli faccia
enormemente piacere il vedere un bianco, uno della sua razza.
Stando a ciò che mi diranno più tardi i nepalesi, da settimane e settimane è lì, tutto solo.
Riapre gli occhi, mi guarda ancora. Mi sorride.
Gli domando in francese:
«Come stai?».
Non risponde, e chiude pian piano gli occhi.
Compie solo un gesto, un gesto che mi sconvolge fin nelle viscere.
Ho detto che ha le mani incrociate sul petto. Ora gira un braccio, molto lentamente, e me ne
mostra la parte interna. Vedendola, faccio fatica a non compiere un passo indietro.
Mai visto nulla di simile.
Dal polso fino alla spalla c'è una crosta di sangue ininterrotta, spessa, nerastra, rappresa tra i peli
del braccio.
Se non sapessi che sono stati gli shoot a causarla, direi che il suo braccio è tutto in cancrena.
Dev'essersi fatto migliaia di iniezioni.
Rimane col braccio teso, senza muoversi, con gli occhi chiusi. Incapace di parlare, resto lì per
lunghi minuti a guardare, soggiogato e spaventato.
Perché mi mostra il braccio? A poco a poco cerco di indovinare. Forse, divenuto incapace di
parlare per la sua troppa debolezza, cerca di farmi capire in che stato si è ridotto.
Ma io reagisco. Bisogna che lo medichi. Mando due ragazzi a prendere il mio zaino nella stalla,
e quando me lo portano tiro fuori la borsa delle medicine.
Ha aperto gli occhi. Vede quello che faccio. Ritira il braccio e lo rimette sul petto. Non vuole che
lo tocchi.
Sempre in francese, cerco di convincerlo, di spiegargli che dovrebbe lasciarmi fare.
Scuote la testa da destra a sinistra, e finisce per mormorare molto debolmente: «No».
Gli domando se è francese. Mi fa di no con la testa. Inglese? Neppure. Americano? Sì.
Allora gli parlo in inglese e gli dico che voglio aiutarlo, dargli sollievo. Continua a rifiutare
categoricamente, si volta di lato e mi indica le sue siringhe.
Ho capito. Vuole che gli prepari uno shoot.
Do un'occhiata a quello che ha. Un po' di tutto. Pastiglie di LSD, eroina in polvere, oppio,
hashish da mangiare o bere, morfina, amfetamine. Ha proprio tutto.
«Vuoi davvero che ti faccia uno shoot?».
«Yes…».
E un po' a gesti, un po' a parole, con frasi senza costrutto, riesce a farmi capire che è troppo
stremato per farsi l'iniezione da solo.
Mi sento molto a disagio. Se lo accontento, come faccio a sapere che non gli do troppa droga?
Non potrei ammazzarlo? Non voglio essere io la causa della sua morte.
Gli propongo piuttosto qualcosa da bere o da mangiare. Gli indico l'hashish. Anche perché fargli
un'iniezione nella sua e rosta di sangue seccato mi sembra praticamente impossibile. Non riuscirei
mai a trovargli una vena. Devono essere tutte lacerate e sconquassate.
Sono anch'io sotto l'effetto della droga, certo, come sempre da quando sono partito, ma rimango
lucido quel tanto che basta per rendermi conto del pericolo.
Ma lui rifiuta l'hashish. Vuole uno shoot.
Con la testa dolorosamente sollevata, insiste.
Con la testa gli rispondo decisamente di no.
Non posso decidermi a fargli l'iniezione. Lui si lascia ricadere con un sospiro di disperazione.
E assisto a uno spettacolo pietoso.
Lentamente, con sforzi giganteschi, comincia a girarsi sul fianco.
Attorno a noi il chiacchierio è finito. Sono tutti lì a guardare questo morto-vivente, venuto di là
dai mari a naufragare in questo villaggio sperduto nell'Himalaya, che tenta di sollevarsi, e può
anche morire in quest'ultimo sforzo.
Alla fine riesce a girarsi. Tende adagio il braccio verso l'oppio. Le dita scarne si stringono come
artigli sulla palla d'oppio. Respira a piccoli colpi rapidi, ansimando. Sta facendo uno sforzo
superiore alle sue forze.
Ciò che è più lungo, più difficile da preparare, e più doloroso se si sbaglia, è proprio lo shoot di
oppio. Ed è proprio uno shoot di oppio che lui vuole farsi, nello stato in cui si trova!
Mi prende una grande compassione. Se volesse farsi una morfina o un'amfetamina, qualcosa di
rapido, che lo rinvigorisca anche solo per un poco, passi. Non direi niente.
Ma no. Come se volesse farsi sempre più male, accopparsi del tutto, lui vuole l'oppio!
Arrotola una pallina di oppio, accende il fornellino ad alcool, ricominciando diverse volte prima
di riuscirci, cerca di far scaldare l'acqua in un cucchiaio da minestra. Ma non riesce a tenerlo fermo
sopra la fiamma, e il liquido si versa.
Gli faccio un segno. Gli indico il resto del suo armamentario, gli dico:
«Fatti qualcosa d'altro. Una fiala. È più pratico. Io te la rompo, te la metto nella siringa».
No, niente da fare. Vuole l'oppio.
Per tre volte rovescia il cucchiaio, e per tre volte, stoicamente, ricomincia.
Allora non ne posso più. Gli prendo di mano la pallina d'oppio e gliela faccio cuocere.
Mi sorveglia con la coda dell'occhio, attento. Osserva se faccio giusto, se sono pratico. Sembra
che sia soddisfatto. Mi sorride un poco.
E gli preparo lo shoot. Ma prima, gli pulisco le siringhe. Sono tutte molto sporche, gli aghi sono
ostruiti da grumi di sangue secco. Li sturo, e lavo tutto bene. Metto l'oppio in una siringa, e gliela
presento.
Accenna di sì con la testa.
Gli presento anche un batuffolo di ovatta imbevuta di alcool, con cui vorrei pulire il braccio nel
punto in cui vorrà cercare la vena.
No, lui non ne vuole sapere.
Esclamo:
«Ma non posso bucarti attraverso la crosta di sangue!».
Invece sì, vuole proprio così. Prende un legaccio e in qualche modo riesce a metterselo attorno a
ciò che gli resta del bicipite. Il legaccio è di gomma. Salta via e cade giù. Lo riprende, se lo rimette.
E di nuovo salta via.
Lui lo abbandona, raccoglie un pezzo di cintura, lo arrotola intorno al braccio, passa un capo fra i
denti e tira.
Non ha più forza per tirare. La cintura gli scorre tra i denti che non riesce più a stringere
abbastanza forte.
Riafferra la cintura, la mette attorno al ginocchio per farsi l'iniezione alla gamba, e tirando col
braccio tenta di stringere quanto basta.
Cerco di aiutarlo. Ma, ogni volta che avanzo la mano, mi respinge. Non vuole il mio aiuto, vuole
fare tutto da solo. Ha appena tollerato che io gli abbia preparato la siringa.
Ma ha presunto troppo delle sue forze. Ricade all'indietro, abbandonando il legaccio. A ogni
modo, con o senza legaccio, le vene non appaiono.
E si mette a fare con la siringa qualcosa che mi sconvolge. La prende e, guardando appena il suo
braccio, si mette a bucare attraverso la crosta. L'ago affonda diritto.
Tira indietro lo stantuffo.
Nella siringa appare una bolla d'aria.
Estrae l'ago, lo conficca in un altro posto, e tira lo stantuffo.
Una bolla d'aria.
Ripianta altrove. Una bolla d'aria.
Conficca ancora, vicino. Una bolla d'aria.
Otto volte, dieci volte. Non riesce a trovare la vena.
Io penso che la trovi, perché deve conoscere il suo braccio a memoria, ma non riesce a
controllare il gesto, e deve attraversare la vena da parte a parte. E poi non si rende più conto che
pianta male, troppo diritto, troppo perpendicolarmente.
Più si buca, e più il suo stato si fa febbrile. Il sangue sgorga un po' dappertutto, e forma nuovi
strati sulla crosta.
È atroce, è mostruoso. È una barbarie insostenibile.
A un tratto non ne posso più, e gli strappo la siringa di mano.
«Provo io — gli dico.— Ma prima bisogna togliere questa crosta che hai sul braccio».
No, non vuole. Mi afferra ai polsi, vuole riprendersi la siringa.
«Ascoltami — gli dico. — Se non mi lasci fare, ti porto via la siringa e tutto».
Ha paura. Mi lascia fare.
Gli giro il braccio. Mi è venuta l'idea di provare sul dorso della mano, molto meno devastata.
Scarnificata com'è, la mano mi presenta fra i tendini e le ossa delle vene quasi visibili. Riesco a
trovarne una. E gli faccio lo shoot.
Si allunga sulla stuoia, calmo, disteso.
Allora una profonda prostrazione mi assale. Non reggo più davanti a un quadro così orribile.
Bisogna che dimentichi, che pensi a qualcos'altro.
Ho bisogno anch'io di uno shoot, di un grande shoot.
Prendo due fiale di morfina e me le inietto in un colpo solo.
Ora va meglio, sopporto più facilmente il sentimento di orrore che si è impossessato di me.
Oltre alla pietà che provo per questo disgraziato a un passo dalla morte, mi sta invadendo una
specie di terrore. Ora non vedo più soltanto la situazione di questo junkie. Vedo anche la mia
situazione, ciò che sarò io fra qualche tempo, se continuo al ritmo con cui mi drogo, senza sosta,
quasi ogni due ore.
Finora non mi ero ancora fatto un quadro dello sfacelo che mi attende. Ma ecco che ce l'ho
davanti, reale. Sì, come quest'americano, questo scheletro che tiene l'anima coi denti, che ne avrà
ancora per qualche giorno, forse solo per poche ore, così sarò io, presto…
La fine, l'avevo sempre immaginata più rapida, più pulita. Non avevo previsto tutte queste
sofferenze.
Quanto deve soffrire, questo americano, come deve essere torturato da sofferenze atroci…
Per lui la droga ora non è più il viaggio, il sogno, le illuminazioni. Tutto questo è finito. Gli è
rimasto soltanto il lato spaventoso della droga: la miseria fisiologica, lo sfacelo disgustoso, le crisi
da astinenza, il dolore.
Vedo per la prima volta che l'assuefazione del corpo alla droga è la cosa più orribile che ci sia.
E poi, mi tormenta la mia impotenza ad aiutare questo disgraziato. Per salvarlo, bisognerebbe
trasportarlo subito, senza tardare un'ora, in un ospedale, bisognerebbe che un elicottero venisse a
prenderlo. Inutile fantasticare, non può accadere. Quanto a portarlo a Katmandu a dorso d'uomo,
anche questo sarebbe impossibile. Anche andando in fretta, ci vuole una buona settimana, con abili
portatori. E lui muore prima di arrivare.
Aiutarlo a disintossicarsi qui? Impossibile. Al punto di assuefazione alla droga a cui è arrivato, ci
vogliono i medici, i trattamenti speciali. E poi ancora… La droga gli è diventata indispensabile
come il pane e l'acqua. Privarlo, anche poco per volta, equivale a ucciderlo.
Non posso fare nulla per lui, nient'altro che tentare di alleviare i suoi ultimi istanti. Vado a
prendere tutta la mia roba, e mi sistemo accanto a lui. Non mi rimane che aspettare accanto.
Di tanto in tanto l'americano apre gli occhi, guarda attorno a sé, sorride vagamente. Ma non sono
sicuro che mi veda.
Anch'io sono in uno stato di febbre terribile. Mi drogo di continuo. Senza droga impazzirei,
accanto a questo moribondo.
Le ore passano, interminabili. Ogni ora, ogni mezz'ora (dipende dal tempo in cui resta prostrato),
gli faccio uno shoot.
A volte anche solo dopo un quarto d'ora si rimette a tremare, come una foglia. È il segno della
crisi da astinenza. È intossicato al punto che, un quarto d'ora dopo aver preso uno shoot da
ammazzare un cavallo, ha di nuovo bisogno di droga!
Per tutto il pomeriggio e tutta la notte lo veglio e gli somministro gli shoot.
So che più glie ne do, più accelero la sua morte. Ma come fare diversamente? Privarlo della
droga, anche solo farlo aspettare un poco, equivale a farlo soffrire in modo atroce.
Il più delle volte gli pratico l'iniezione sul dorso della mano. Con morfina, ma soprattutto con
oppio. È ciò che mi domanda di più. Eppure l'oppio lo fa soffrire moltissimo. Le sue vene sono tutte
bucate, in più punti lacerate, e anche se faccio l'iniezione nel modo più corretto, anche se l'ago entra
bene nella vena, l'oppio filtra nella carne e gli brucia tutto il braccio.
L'indomani, poco prima del levare del sole, gli pratico ancora un'iniezione di oppio.
Cinque minuti più tardi lo prendono dei sussulti nervosi. Sputa catarro e una bava sanguinolenta.
Poi, anche restando immobile, una schiuma di sangue comincia a salirgli alla bocca semiaperta.
Lo asciugo di continuo.
Verso le sei, per alleviargli il dolore, lo rialzo e lo tengo sollevato fra le braccia.
Sembra che gli faccia bene. Si addormenta. Sfinito, mi sento afferrare a mia volta dal sonno, e
restiamo così abbracciati, immobili. Ora dalla sua bocca il sangue cola in continuità.
Verso le sette si rimette a tremare. Gli preparo ancora uno shoot di oppio, mentre con un braccio
lo tengo sollevato. La sua testa poggia sulla mia spalla, come un bambino che dorme in braccio a
sua madre.
Lo riprendono dei sussulti violenti, e io mi accosto di più a lui; stringendo con una gamba le sue,
cerco di tenerlo calmo.
Prendo il suo braccio e gli faccio l'iniezione al polso. Spingo lentamente lo stantuffo.
Man mano che l'oppio entra, l'americano si rilassa, si distende…
Lì per lì non capisco ciò che succede. Lui tiene gli occhi chiusi, ma a dire il vero li ha tenuti
chiusi tutto il tempo, e mi dico che l'oppio, attenuando un istante i suoi dolori, gli dà sollievo,
scioglie i suoi muscoli, distende i suoi nervi.
Solo quando lo sollevo un poco per sistemarlo meglio al mio fianco, mi accorgo che ha terminato
il suo ultimo grande viaggio.
Finora, tutte le volte che lo avevo spostato, lo avevo trovato tanto leggero.
Per la prima volta lo sento pesante.
La sua testa ciondola all'indietro, sopra il mio braccio.
È morto…
Lo poso sulla stuoia, e resto lì, senza reagire.
Ho male, molto male.
Questo morto al mio fianco, sono io, tale quale come sarò fra qualche tempo, nella neve, quando
mi sarò fatto la mia overdose…
Un odio sordo contro la droga mi invade. Ma è troppo tardi per tornare indietro. Ho giocato, ho
perduto. Sì, ripartirò, e andrò a farla finita, lassù, una volta raggiunte le prime nevi.
Ma non sarà una fine come la sua.
Morirò per una decisione liberamente presa, in piena coscienza, nell'ora, nel giorno e nel luogo
che avrò scelto io.
Rimango prostrato fino a sera accanto al cadavere, senza poter rispondere alle domande di cui i
nepalesi mi tempestano senza sosta. Mi sono fatta un'iniezione molto forte, dopo la morte
dell'americano, e solo verso le cinque o sei di sera ne esco completamente.
Prendo il suo zaino, e lo esamino. Non c'è nulla, dentro, neppure il più piccolo documento,
neppure una lettera, una parola, che permetta di identificarlo. Chiudo lo zaino, dopo averci messo
dentro tutte le sue cose.
È un piccolo zaino, leggerissimo, in cui siringhe e flaconi tintinnano mentre cammino portandolo
a spalla, dietro i due nepalesi che trasportano il cadavere fuori del villaggio.
Al bordo di un campo da cui si vede tutta la valle, scavo io stesso la fossa con una vanga che mi
hanno prestato. Impiego più di un'ora a scavare, tanto sono stanco.
Poi dispongo la stuoia in fondo alla fossa, vi stendo sopra il morto, coricato sul dorso, con le
mani lungo il corpo. Dispongo lo zaino vicino alla sua testa. E lo ricopro con la terra.
Non sono né credente né praticante. Ma lui forse lo era.
Fabbrico una croce, la pianto sulla tomba, e senza più voltarmi, con un nodo alla gola, torno al
villaggio a prendere le mie cose. Mi butto in spalla lo zaino e riparto subito per la montagna. Non
sono capace di rimanere un quarto d'ora di più, in questo villaggio.
Mentre mi arrampico a piccoli passi stanchi su per il sentiero da capre che serpeggia lungo la
montagna, cerco di scacciare un'immagine che mi perseguita.
Il volto di quest'uomo di vent'anni, in fondo alla sua tomba. Questo volto che ho seppellito per
sempre, sotto palate di terra.
Questo volto che mai più nessuno vedrà…
Allora, come per un'illuminazione improvvisa, mi appare un altro volto.
Quello di una donna di quarant'anni, forse cinquanta, non di più.
Io non la conosco, non l'ho mai vista.
Ma i figli di solito non assomigliano alle madri?
A poco a poco i lineamenti del morto si addolciscono, diventano quelli di una donna.
È sua madre quella che ora vedo.
Sua madre inquieta, torturata, che in qualche parte dell'America deve rodersi al pensiero di
questo figlio, di cui senza dubbio non ha notizia da molto tempo, che lei non vedrà più, di cui non
conoscerà mai la fine atroce…
Sua madre, che deve avvelenarsi il sangue.
Come del resto anche la mia.
4.
Per tre giorni non smetto di camminare. E mi drogo a più non posso. Mi arrampico come un
sonnambulo verso il nord. La notte e il giorno non si distinguono più che per il cambiamento dei
colori e di temperatura. Avanzo come una bestia che ha un'idea fissa nel cervello: le nevi eterne
lassù, da raggiungere a ogni costo…
Incrocio molti portatori, e ogni tanto qualche ricco, qualche ciccione sul suo palanchino. Mi
faccio da parte sull'orlo della strada, e lo guardo passare. E di nuovo, quando posso, infilo delle
sigarette nella cintura dei portatori.
Arrivo in una regione più popolata. Divento diffidente, perché scorgo ogni tanto qualche
poliziotto. Bisogna che faccia molta attenzione. Se mi vedono, mi chiedono il permesso di tricking,
che non ho. E mi rispediscono a Katmandu. Là, delle due l'una: o mi ricoverano all'ospedale, o mi
gettano sopra un autocarro che mi scaricherà in India.
Perciò lascio le strade frequentate e mi inoltro direttamente per la montagna, avanzando per
sentieri da capra che a volte si perdono nei boschi.
Un giorno sbocco sopra una strada. Una strada di pietra, non asfaltata, ma comunque una vera e
propria strada.
Va verso nord. Sono stanco, e la tentazione mi vince. Prendo la strada. Come si cammina bene!
D'improvviso, mentre percorro un rettilineo, mi imbatto in una jeep della polizia. Mi passa
accanto. Le volto la schiena. Ma a che serve? È chiaro che sono un europeo, lo si vede se non altro
dalla statura. E un europeo che a loro non piace. Irsuto e macilento, con gli abiti ridotti a brandelli
dai cespugli, con le pezze ai piedi, sono un vero vagabondo, un accattone.
La jeep mi passa accanto, divorando la discesa a piena velocità. Sono in due a bordo. Purché non
abbiano fatto attenzione a me! Il cuore mi batte fino a scoppiare. Non oso voltarmi indietro.
È finita! Sento uno stridio di freni. Mi volto. La jeep ha fermato 100 metri più in basso. I due
saltano a terra e mi chiamano.
Stanno freschi, non ho nessuna intenzione di farmi prendere. Sono a otto giorni di marcia dalle
nevi eterne. Un ritorno formidabile di volontà mi prende, e trovo non so come la forza di correre
verso la scarpata, di arrampicarmi. Più avanti c'è un bosco di cespugli.
I poliziotti urlano dietro di me. A quattro mani mi tiro su fra i sassi. Devo raggiungere i cespugli,
devo, devo, devo.
Mi guardo alle spalle. Sono proprio decisi. Uno ha estratto la pistola. Stringo la testa fra le spalle,
mi isso, pietra dopo pietra. Non ne posso più, ho l'impressione di non andare avanti. Uno, due, tre
colpi esplodono.
Devono aver tirato i primi due in aria, ma al terzo il proiettile ha fatto schizzare il terreno a un
metro da me, sulla mia sinistra.
Con una spinta disperata supero l'orlo della scarpata, mi tuffo tra i cespugli e, sempre a quattro
zampe, vado avanti, lacerato dalle spine, dai sassi, dai rami che mi sferzano al passaggio.
I cespugli si fanno arbusti, poi alberi. Avanzo sempre, con l'impressione che il mio cuore scoppi.
Dietro a me sento i richiami dei poliziotti. Le voci tacciono… Devono stare in ascolto, ora. Mi
fermo, ansimando in silenzio.
Voglio ripartire. Ma non posso. Non ho più la forza. Tutto quello che riesco a fare, è trascinarmi
sotto un abete gigantesco, dalle radici enormi, nodose, che escono dal suolo. Scivolo sugli aghi
d'abete, sprofondo, ce ne dev'essere uno strato molto spesso.
Saranno 500 anni che gli aghi si accumulano gli uni sugli altri, anno dopo anno.
Mi viene un'idea. Questi aghi mi salveranno! Raggiungo una radice grossa come il corpo di un
uomo. Scavo sotto di essa una specie di volta. Non ho sbagliato: c'è almeno un metro di spessore di
aghi. Scavo come un cane, febbrilmente.
Non voglio che i poliziotti mi trovino, non voglio che mi riconducano a Katmandu, non voglio
ritrovarmi in un ospedale, non voglio che mi disintossichino, non voglio che mi salvino!
In due minuti il mio buco è fatto, mi ci nascondo, con lo zaino in spalla, mi ricopro di aghi e non
mi muovo più. Almeno, cerco di non muovermi, di dominare l'affanno e il tremore.
Mi viene in mente l'immagine dell'americano nella sua tomba. Io sono come lui, interrato. Ho
l'impressione che il mio cuore cederà da un momento all'altro, e allora rimarrò qui per sempre, nella
mia tomba di aghi di abete. Bel destino, per un drogato! Morire avvolto da migliaia di aghi…
Dei passi si avvicinano. Mi afferro le spalle con le mani, mi tiro giù, mi faccio piccolo. Devo
stare fermo, fermo, fermo.
I passi fanno il giro dell'albero, si allontanano, poi ritornano, esitano. Le voci risuonano di
nuovo. Non capisco le parole, ma dall'intonazione devono voler dire: «Andiamo via, torniamo.
Pazienza».
Tre minuti più tardi, dappertutto è silenzio. Tiro fuori la testa. Sono salvo, salvo dalla guarigione
e dalla vita che non voglio più.
Mi faccio uno shoot, un altro mezz'ora dopo, e mi sento meglio. Posso alzarmi e partire. Ma da
questa volta, basta con l'aggirarmi attorno ai grossi centri. Devo perdermi nelle regioni più
abbandonate.
Impiego sei giorni a raggiungere un villaggio 30 chilometri più avanti.
Se non avessi incontrato, a metà strada, un campo di patate (ne ho cotte due o tre sotto la cenere,
facendo fuoco senza fumo, come avevo imparato in Africa), sarei morto di fame prima di arrivare.
Entrando nel villaggio, ho una sorpresa gradevole, e insieme seccante.
Sono accolto con inchini e salamelecchi.
Ancora!
Sì, per straordinario che possa sembrare, è la pura verità: i contadini, come mi vedono, sanno chi
sono. Il telegrafo della foresta ha funzionato fin qui, riguardo al medico straniero.
Ahimè, sanno anche che la polizia mi cerca…
E li vedo divisi tra la curiosità interessata e la diffidenza.
Al momento, ha la meglio il loro tornaconto. Me ne accorgo subito.
Non sono passati cinque minuti dal mio arrivo, che mi conducono un uomo, trascinato da due
contadini. Ha il volto bluastro, la bocca spalancata, e cerca di respirare senza riuscirvi.
Mi spiegano che gli è andato qualcosa nella gola.
Comincio col fargli un'iniezione di calmante, poi chiedo che me lo tengano ben fermo. Gli
spalanco con forza la bocca, prendo un pezzo di legno, lo introduco, lo giro perché resti fisso tra i
denti in alto e in basso. Ne prendo un altro, un rametto, lo taglio col coltello per farne una specie di
linguetta, lo appoggio sulla lingua e guardo.
L'interno è viola, gonfio. Le pareti si toccano. Introduco un dito. Non riesco a farlo passare. Mi
domando come faccia costui a respirare ancora. Di sicuro morirà prima di notte.
Attorno a me, gli altri mi fanno dei segni. Finisco per capire che deve aver ingoiato qualcosa che
si è bloccato nella gola e ha fatto infezione.
Cerco ancora di introdurre il dito. Niente da fare, non trovo nulla.
Non c'è che una soluzione: perforargli l'esofago perché possa respirare, cioè fargli una
tracheotomia, e poi cercare l'oggetto, di sicuro una lisca.
Se non fossi drogato, mai oserei tentare un'operazione simile. È molto pericolosa, e io non sono
un chirurgo. Ma la droga mi dà la fiducia che mi occorre. E poi ne ho già fatte tante, ormai. Una
più, una meno…
E poi… sono in ballo. Se rifiuto, di sicuro mi saltano addosso, mi legano mani e piedi, e mi
consegnano alla polizia.
Tanto vale operare.
Ho già descritto in precedenza un'operazione, quella dell'ascesso nell'orecchio. Non credo valga
la spesa di fare il racconto dettagliato di un'altra operazione.
Voglio solo dire come ho potuto, una volta piantato il coltello fra due cartilagini dell'esofago,
praticare un orifizio abbastanza largo per permettere al poveretto di respirare.
Ho introdotto nel taglio un tubo di plastica rigida, una guaina di filo elettrico che un contadino è
andato a cercare quando ho chiesto qualcosa che assomigliasse a un tubo. Per quale mistero, in
questo villaggio tagliato fuori dal mondo, in cui non si sa cosa sia l'elettricità, si trovi un filo della
luce, me lo domando ancora adesso.
Sta di fatto che appena introdotto il tubo nella gola, e fissatolo con due piccoli cerotti ricuperati
dalla mia borsa dei medicinali, il malcapitato ritorna alla vita. Ora respira come un nuotatore che ha
tenuto la testa sott'acqua per tre minuti. Riprende i suoi colori, risuscita a poco a poco.
Finalmente posso cominciare la vera e propria operazione.
In dieci minuti è fatta. Ho potuto estrarre l'oggetto. È molto più che una lisca di pesce: è un
pezzo di colonna vertebrale, grosso come un pollice. Come diavolo avrà fatto a ingoiarlo?
Ripulisco, spennello, aspergo di disinfettante, e ordino al malato di tenere il suo tubo per almeno
due giorni.
A furia di iniezioni di penicillina, l'infezione è domata in due giorni. Il gonfiore dà giù, posso
togliere il tubo.
Ne turo l'apertura col dito. Tutto a posto, il mio paziente respira normalmente. Si tratta ora di
chiudere il buco.
Ma non ho nulla, né ago, né filo.
A forza di parlare e gesticolare, riesco a farmi capire. Una donna mi porta una spina indurita al
fuoco. Io tiro un filo dalla mia camicia. E ricucio la pelle, sopra il buco della cartilagine che, a mio
avviso, dovrebbe chiudersi da solo. Ho legato il filo attorno alla spina.
Quando tiro l'ago-spina, fa fatica a passare. E il malato geme. Ma finisco per farcela, il buco è
turato.
L'indomani curo due o tre cose da nulla, piccole piaghe normali, foruncoli alle gambe, tagli qua e
là. Così il giorno dopo.
Al quarto giorno, tolgo i punti al mio operato. È a posto, la ferita è cicatrizzata. Guarito. Bravo
Charles, meriti il diploma di medico della foresta, questa volta!
E posso partire. Me ne vado via subito. Non si sa mai, questi tipacci, ora che non hanno più
bisogno di me, possono benissimo consegnarmi ai poliziotti. Ne sono capaci di sicuro.
E rieccomi sulla strada che sale verso l'Himalaya.
Sono tre settimane che ho lasciato Katmandu.
Gli otto giorni seguenti, li ricordo come un incubo spaventoso.
Un giorno, in un villaggio, incontro un bianco, un francese convertito al buddismo, che vive
mendicando. È quel che chiamano un sadù. Non si taglia i capelli né la barba, che gli scendono sulla
schiena e sul petto. E non si lava mai.
Scambiamo poche parole. Mi benedice, e ripartiamo ciascuno per la sua strada, ciascuno alla
realizzazione del suo sogno. O del suo incubo.
Quarantotto ore più tardi ne incontro un altro, sempre europeo.
Quando lo vedo, nella stalla dove i contadini mi conducono, sta vomitando sangue a grossi fiotti.
Non saprò mai cosa gli è capitato, perché è incapace di parlare. È agitato da fremiti spasmodici, e
ogni volta il sangue zampilla.
Seduto sul suo giaciglio, si comprime il petto a due mani, e spira d'improvviso.
I suoi vestiti sono inondati di sangue, e le mosche ronzano furiosamente attorno a lui.
Una nausea sconvolgente mi prende. Sono dunque perseguitato, assediato dalle sofferenze e dalla
morte! Non c'è altro che morte, sangue e dolore su questa terra…
Questo disgraziato si spegne tra le mie braccia, senza una parola, quando ha finito di versare il
suo sangue ed è diventato tutto bianco.
Sotterro anche lui, e pianto una croce di legno sulla sua tomba.
Non ha documenti, come l'americano. Un altro vagabondo uscito dall'Occidente, che ha voluto
sprofondare e perdersi nell'Oriente, senza che si possa più identificarlo…
E la mia fuga in avanti riprende.
5.
Ormai sono divenuto come pazzo.
Quando mi fermo, tutte le ore, per farmi lo shoot, tiro fuori la scatola dell'hashish, l'apro e mi
guardo nel suo specchietto.
Ho una faccia che fa paura. I miei capelli sono lunghi come quelli degli hippies, la barba, mai
tagliata, mi nasconde il viso. Sono d'un pallore cadaverico.
Un giorno mi prende un accesso di curiosità insana. Immagino qualcosa che è un capriccio da
drogato fino ai denti.
Poso la scatola metallica dell'hashish sopra una pietra, ben in equilibrio, inclino il coperchio per
sbieco, e mi spoglio. Completamente.
Voglio vedere il mio corpo, rendermi conto a che punto sono arrivato.
Vedere se è venuto il momento di farmi l'overdose.
Perché ho paura di non farcela fino alle nevi, e soprattutto non voglio cadere inanimato, incapace
come l'americano di farmi l'ultimo shoot, non voglio morire di spossatezza lì sulle pietre.
Una volta svestito, indietreggio, cercando la mia immagine nello specchio non più grande di una
scatola di cerini.
Devo tornare quattro o cinque volte a regolare l'inclinazione dello specchio.
Finalmente mi vedo tutto intero, piccola silhouette sfocata nella luce del sole.
Vedo le ossa delle anche sporgenti in modo pauroso, e tutte le costole che spuntano.
Sono esattamente come i deportati che gli Alleati hanno trovato al loro arrivo nei campi nazisti.
Mio vecchio Charles — mi dico a voce alta — è finita. Non ce la fai più a salire. Tanto peggio
per la morte romantica sulle nevi dell'Himalaya. Ti farai l'overdose proprio qui.
Mi rivesto e comincio i miei preparativi funebri.
Mi trovo in un piccolo vallone, a 200-300 metri dalla strada. Poco lontano da me, un filo d'acqua
discende con un vivace gorgoglio. L'erba è morbida, gli alberi chinano le fronde al passaggio della
brezza che scende dalla montagna.
Almeno — mi dico, — avrai una bella tomba…
Tiro fuori il fornellino e le droghe. Con quali devo uccidermi? Quale mi può dare la morte più
dolce, più gradevole? L'oppio? La metedrina? La morfina? L'LSD?
Guardo a lungo la pallottola dell'oppio, le pastiglie di LSD, le fiale e le pillole di morfina e
metedrina…
Nel leggere questo racconto, mi si dirà che ero pazzo, che ero del tutto demente. Ed è vero.
Anch'io, ora, nella mia camera vicino a Parigi, mentre poco lontano il campanile di una chiesa
suona le ore nella notte, non riesco a convincermi che sia realmente accaduto.
Eppure…
Una rabbia selvaggia mi prende osservando le droghe.
Esse devono uccidermi tutte. Si, tutte insieme!
Prima mi farò uno shilom con l'hashish, poi un'iniezione di morfina, poi di metedrina, e finirò
ingoiando tutte le pastiglie di LSD.
E che questo cocktail mi faccia esplodere!
Ho già svuotato lo shilom, quando mi prende un'idea: me ne andrò senza lasciare nulla, né una
lettera, né un addio, né un messaggio a qualcuno?
Ma a chi scrivere? A Olivier? A Jocelyne? Mah! E a che scopo?
Ai miei genitori? Mi giro e rigiro a lungo quest'idea nella testa. Ma cosa dire loro? Dove trovare
le parole?
No, non posso. Non è possibile.
Ma sì, bisogna, è a loro che scriverò, che spiegherò tutto. Solo essi capiranno.
In fondo allo zaino ho un piccolo taccuino in cui una volta avevo segnato degli indirizzi, dei
prezzi, anche delle riflessioni personali. Al taccuino è unita una matita.
Prendo il taccuino, stacco qualche pagina e comincio a scrivere.
«Cari genitori, se mai leggerete queste poche righe, voglio che sappiate come e perché sono
morto…».
L'ho già detto una volta: da parecchio non ho più la nozione del tempo, del giorno e della notte.
Mentre riempio il primo foglio coi miei scarabocchi, la notte arriva, come sempre a queste
latitudini, d'improvviso.
E mi trovo al buio prima di aver potuto scrivere un quarto di ciò che ho da dire.
Accendo il fornellino ad alcool. La luce non è sufficiente.
Prendo della legna e accendo un fuoco. Ora ci vedo abbastanza, posso continuare.
E allora, sarà il calore del fuoco, o il dolce scricchiolio dei rami che si spezzano bruciando, o la
fatica che si abbatte su di me? Mentre scrivo, la testa comincia a cadermi ciondoloni. E mi
addormento!
Quando mi sveglio, stupefatto, non comprendendo niente, è giorno fatto!
Per la prima volta, da settimane e settimane, ho dormito una notte intera.
Rileggo ciò che ho scritto.
La notte di sonno mi ha fatto riprendere coscienza. Questa confessione è troppo stupida!
Butto rabbiosamente i fogli nella brace rimasta, ed essi bruciano in un niente.
Mi sento meglio. Il sonno mi ha rinvigorito.
No, la mia ora non è ancora venuta, posso tentare di salire ancora. Posso ancora raggiungere le
nevi eterne!
Questo sonno, a cui non ero più abituato da tanto tempo, mi ha messo in uno stato curioso.
Per la prima volta ho l'impressione di riprendere coscienza.
Seduto sull'erba umida di rugiada, sgrano gli occhi, cerco di scacciare i vapori dal mio cervello,
di lacerare la nera coltre che mi annebbia lo sguardo. Mi scuoto, come un cane legato che cerca di
sfilare la testa dal suo collare.
D'un colpo, ci riesco. La testa passa, il collare ricade in fondo alla catena, il velo nero si lacera, e
io vedo!
Vedo come se vedessi per la prima volta, come se fossi il primo uomo a scoprire la bellezza
originale del mondo.
Una brezza leggera arriccia l'erba del prato selvaggio attorno a me. Un po' più in basso, di là dal
ruscello, i rami dei salici si piegano lenti al ritmo del vento. Dei fremiti li dominano. Le loro foglie
si agitano, migliaia di linguette d'un verde dolce e tenero, e sono altrettanti specchi coperti d'una
peluria d'ovatta in cui il sole lascia riflessi lunari. Alle mie spalle, il suolo risale, erboso, poi
sassoso, verso scarpate rocciose, 200 metri sopra di me.
Mi volto. È così, erba fine, poi pietraie, poi rocce, molto alte, stagliate nel cielo. Verso sud, un
gomito della valle mi nasconde il paesaggio.
A nord, fra i due spioventi d'una gola che non finisce più, vedo le nevi dell'alta montagna.
Da bambino avevo visitato un monastero rinchiuso nel profondo di una valle di dove non si
vedeva che il cielo.
Qui è lo stesso. Mi trovo in un luogo raccolto, che è la piega, l'inguine del mondo. E io potrei
essere l'eremita che, dopo tanto cammino, si ferma e dice: «Qui costruirò la mia abitazione, e
fonderò il mio monastero».
Gli uccelli cinguettano sugli alberi. Non ci siamo che noi, loro e io, e il soffio dolce e potente del
vento.
Vado al ruscello e mi lavo la faccia. Una trota salta nei gorghi dell'acqua. Cerco di prenderla con
le mani, mi sfugge, e rido. Una piccola diga di terra forma una superficie piana, un laghetto liscio in
cui mi guardo.
Io sono Adamo, il primo uomo che si guarda nel primo specchio del mondo.
Io sono nel paradiso terrestre.
Ma dov'è il mio Dio? Chi è? Chi mi dirige, chi mi guida e mi sostiene?
Torno presso le braci. Un filo di fumo s'innalza per un paio di metri, e poi è dissolto dalla brezza
del mattino. Guardo il mio armamentario di drogato, le fiale, le pastiglie, le siringhe, la palla di
oppio, il fornellino…
È lo spettacolo della notte e delle tenebre, esposto d'improvviso nella piena luce del sole. Cado in
ginocchio e dei singulti mi afferrano alla gola.
Li tocco a uno a uno, questi oggetti demoniaci, li sollevo davanti a me, li guardo, così anodini,
insignificanti, mentre brillano nel sole.
I miei carnefici…
Come sembrano inoffensivi, nella luce del giorno! Come credere che questa ridicola
cianfrusaglia sia il rifugio segreto di una forza infernale, d'un diluvio apocalittico che si scatena non
appena l'ago mi penetra nelle vene e io vi faccio scorrere il veleno?
Ma questi intrugli del diavolo li ha voluti la natura, essa li ha creati, li nasconde in sé, li fabbrica
con la sua linfa che sale lungo le arterie delle piante! L'hashish, è una bella margherita tutta
speciale, che il sole si premura di far schiudere; sul papavero la rugiada dell'alba si posa innocente
come su tutti i fiori, ma il papavero col suo succo dà origine all'oppio, alla morfina, all'eroina…
Dio, se esiste, perché si prende gioco degli uomini, perché mette l'atroce tentazione del peccato
nei fiori più belli?
Mi trovo nel paradiso terrestre, ma questo prato di erbe innocenti potrebbe contenere hashish e
papaveri, e l'alba divina si leverebbe su questi campi avvelenati altrettanto bella, altrettanto pura,
come si leva su quest'erba rigogliosa, tenera e nutriente…
Che tradimento! Che impostura! Perché la natura si adorna di vesti così splendide, e poi mi
strozza in gola il grido d'ammirazione, insegnandomi — a mie spese — che i succhi più avvelenati
nascono anch'essi dalla terra, dall'acqua, dal sole?
No, la lucidità di quest'alba non mi libera dai fantasmi della notte, più che non lo faccia la droga.
No, io non ho alcuna ragione per vivere in questo mondo di menzogna, drappeggiato in splendori
così loschi!
No, io non voglio continuare a vivere.
Mi vendicherò di Dio!
Mi ucciderò, per annientare la sua creatura.
Ora ho capito il vero significato del mondo, la sua impudente menzogna. Mi sento un vero hippy.
Ho capito tutto! Dio non mi avrà più.
Febbrilmente faccio su il mio equipaggiamento, mi butto lo zaino in spalla, riprendo il cammino,
salgo nella valle, lungo il ruscello, guardando lassù le nevi eterne.
Quel gigantesco campo di neve è così lontano. Ci arriverò? Avrò la forza di raggiungerlo?
Mi metto a ridere. La «neve», nel gergo dei drogati, è la cocaina. L'idea che l'intero Himalaya sia
un'immensa riserva di cocaina, mi mette addosso una voglia matta di ridere.
Sarei proprio uno stupido a voler morire qui, sull'erba. È lassù che la mia morte sarà perfetta:
nuotando, con l'overdose mortale nelle vene, in un materasso di cocaina bianca come la neve, in
pieno sole!
6.
Poco prima di sera arrivo a un villaggio. Vorrei evitarlo, aggirarlo, ma non so cosa mi capita, mi
sento stanco, stanco… Non mi sono mai sentito stanco cosi. Sono madido di sudore, anche se l'aria
è fresca. Provo una fitta al cuore, la testa mi gira. Ho l'impressione che il sangue faccia fatica a
circolare nelle vene. Lo sento martellare nel petto, nelle braccia, alle tempie. Vacillo sulle gambe.
Mi trascino fino al villaggio. Di sicuro sono malato. Ho bisogno d'un tetto, di mura attorno a me,
di un letto, e di distendermi.
Entro in una taverna e domando un pagliericcio, un mucchio di paglia, qualsiasi cosa, alla
padrona, una donna sui quarant'anni, che sembra vivere sola con un ragazzo di una dozzina d'anni.
La donna mi conduce nella stalla. Pago in anticipo. Non voglio mangiare né niente. Voglio solo
dormire. Tremo troppo.
Per una notte, un giorno, e un'altra notte, resto lì, malato da crepare, inzuppando di sudore il
pagliericcio. Deliro, e di tanto in tanto, riprendendo coscienza, vedo chino su di me il volto inquieto
della padrona.
Al mattino del terzo giorno sto un po' meglio. Bevo a grandi sorsate un'intera caraffa di tè che
hanno posato vicino a me, e che si è raffreddato. È così buono che quasi piango di felicità.
Che cosa posso avere? Una crisi di paludismo, come ne ho a volte da quando sono stato in
Africa?
Non sono mai state crisi così forti. Un'infezione? Non ho alcun ascesso, né foruncoli. Una paura
mi prende. Bisogna assolutamente che controlli.
Prendo ancora una volta la mia scatola dell'hashish. La apro, mi guardo nello specchio. Non vedo
niente. Mi trascino fino alla porta, e lì alla luce vedo.
Il bianco degli occhi è diventato giallo.
Ho un'epatite.
Per otto giorni lotto, tutto solo, facendomi preparare del brodo dalla padrona, e sudando sette
camicie per convincerla a non farlo troppo piccante.
A volte mi riprende la voglia di lasciarmi andare. È così violenta, che mi abbandono sul
pagliericcio e mi dico: Muori subito, e sia finita per sempre!
Poi l'immagine delle nevi intraviste dalla valle del paradiso terrestre mi torna in mente.
È lassù che voglio morire! Non qui, non sopra questo giaciglio che pullula di vermi. Non voglio
morire sopra questo mucchio di letame!
Del resto, io non sono ancora arrivato agli sgoccioli come l'americano.
Io sono, nello stesso tempo, il condannato a morte gravemente ferito che viene curato per poterlo
condurre vivo davanti al plotone di esecuzione, e anche il boia che si affanna a guarirlo con
macabra premura.
Per la prima volta in un villaggio, un po' di umanità mi circonda. La padrona mi cura come una
mamma. Dei visitatori vengono attorno al mio giaciglio. E finisco per sapere dove mi trovo.
Il villaggio si chiama Kalikula. È composto di diversi gruppi di case. Un centinaio di abitanti,
che si chiamano tutti Kalikula.
È un'unica famiglia, e ha dato il proprio nome al villaggio. Sono tutti più o meno consanguinei.
Ne vedo alcuni che, nati da parenti troppo prossimi, sono tarati.
Alla testa del villaggio c'è un vecchio patriarca, che è in pratica il capostipite di tutti, calvo,
secco, con una lunga barba fluente e un eterno sorriso. Viene a sedersi al mio capezzale. Mi vuole
bene. Sa che sono io «lo straniero con un occhio solo che guarisce i malati».
A segni mi fa capire che è stupito che io non guarisca ancora. Mi indica le mie siringhe con aria
interrogativa, e approva quando mi faccio uno shoot, credendo che si tratti di quei medicamenti,
diventati famosi, che inietto ai malati. Ma ha fiducia. È chiaro che io non posso non guarire, con
tutta la mia scienza e i miei mezzi.
Lui intanto fuma la sua pipa ad acqua, che riempie di gangia. Fuma come una ciminiera. Ed è
continuamente in «viaggio».
Finalmente posso alzarmi. Non sono ancora guarito (so che da un'epatite si guarisce molto
lentamente, e la mia me la tirerò dietro per mesi), ma almeno va meglio.
Vado fino all'uscio, e l'aria fresca mi inebria. Sono traballante, le gambe non mi reggono. Guardo
verso l'Himalaya. La vista delle nevi mi rincuora. Coraggio, forse ci arriverò.
Rientro e mi corico di nuovo.
Qualche giorno più tardi posso andare e venire. Ho ricominciato a drogarmi regolarmente,
perché la crisi da astinenza si è di nuovo fatta sentire, e molto presto.
Allora il vecchio patriarca, per festeggiare la mia guarigione, m'insegna a usare la pipa ad acqua.
Lo faccio trasecolare. Per quanto sia male in arnese, fumo almeno cinque volte più forte di lui!
Evidentemente lui non è passato attraverso gli shoot. Non può immaginare che la gangia, a me, fa
l'effetto dell'acqua zuccherata.
Mi guarda con un'ammirazione non dissimulata. Sono un vero campione della gangia. Sono un
uomo, un vero uomo!
Ma bisogna passare alle cose serie: l'indomani mattina comincia la sfilata dei malati.
Quando riparto, tre giorni dopo, ne ho curati più di una ventina, venuti da tutta la valle.
Il vecchio, in pompa magna, mi accompagna fino all'uscita del villaggio, e mi offre come dono di
addio molta gangia, qualcosa come due etti e mezzo.
Ma ho presunto troppo delle mie forze. Ho avuto torto a considerarmi quasi ristabilito. Non si
scherza con l'epatite. Dopo aver passato due notti a ciel sereno, ho un sospiro di sollievo nel vedere
un altro villaggio.
Questa volta non è più la febbre che mi dà supplementi di energia, che mi spinge fino al
villaggio. È la disperazione. Me ne rendo conto bruscamente: mai arriverò alle nevi eterne.
Più avanzo, e più sembrano allontanarsi. È la fine, ho fallito il mio grande progetto.
La mia disfatta è consumata. Sono un uomo inutile, un parassita, uno di troppo. Non ho più nulla
da fare su questa terra. Finito l'orgoglio. Facciamola finita al più presto, non importa dove. Addio
nevi, non arriverò fino a voi.
Entro come un automa nella stalla riservata ai viaggiatori, e mi abbandono sul mio mucchio di
paglia, senza avere la forza di aprire il sacco a pelo e infilarmi dentro.
E mi dico che non mi rialzerò più.
La scena attorno a me è più scoraggiante di quella in cui l'americano è morto nelle mie braccia.
Ma che importa? Non è il momento di andare per il sottile.
Buttato così lungo e disteso, faccio lavorare la memoria. Rivedo l'americano giacente come
Cristo sul sudario bianco, i piedi in fuori, le mani in croce sul petto…
I miei piedi non sono nudi, ma avvolti in stracci. Io non sono vestito di bianco, ma tutto di nero.
Mi viene da ridere: lui, era il Cristo; e io sono la negazione di Cristo, sono l'Anticristo, il
peccatore vinto dalla droga, che muore con tutto il nero della sua vita che viene in superficie.
Ma che stupido, fare questi paragoni assurdi! Devo smetterla di perdermi in romanticherie.
Trovo in me ancora un po' di forza. Mi volto lentamente sul mio strato di paglia, e apro le riserve
di droga.
Non ne ho più granché. Continuando con il ritmo attuale, tra otto o dieci giorni l'avrò terminata.
Allora sarà la morte, fra atroci sofferenze…
Prendo venti fiale di metedrina e le metto da parte. Con le fiale, sarà più facile. Ho una grossa
siringa. In tre o quattro volte, mi sarò iniettato tutto. A condizione di resistere al primo flash.
Saranno le mie ultime cartucce. Le sistemo con infinita precauzione.
Poi prendo la mia palla di oppio, e mi preparo uno shoot.
Un po' di benessere mi calma in pieno, mentre il liquido scuro si spande nelle mie vene.
Ma perché non mi si lascia morire in pace? L'indomani, mentre sto rifiutando l'intruglio pepato
all'eccesso, e quindi immangiabile, della padrona, vedo sbarcare nella mia taverna un reggimento di
persone.
In testa, il mio vecchio Kalikula. E con lui sei o sette donne. Ne spinge avanti una, vecchia, e con
gesti, indicando il ventre, mi fa comprendere che ha qualcosa che non va.
Io non ne voglio sapere. Ne ho abbastanza.
Ma lui insiste. Fa stendere la donna sulla paglia, davanti a me, e la scopre. Vedo uno spaventoso
rigonfiamento in suppurazione.
Ma basta, non ne voglio più vedere di questi spettacoli! Smettetela. Andatevene!
Sono troppo debole per protestare, per mandarli via.
Dico di no con la testa, lentamente. Faccio capire che sono senza forze, che non sono più buono
a niente.
Il vecchio insiste ancora. Intercede, patetico. Mi rendo conto che mi scongiura in nome della
nostra amicizia.
Resto irremovibile.
Apre un pacchetto. Estrae quattro pannocchie di gangia (la gangia viene confezionata in cilindri
avvolti in erbe secche, che si sbucciano come si sfoglia il granturco), e me le mostra.
Ce n'è un buon chilo. Rifletto.
Con la gangia, posso guadagnare — fumando a più non posso, per sostituire gli shoot — otto
giorni di vita. Voglio morire senza dubbio, ma non si rifiutano otto giorni di vita.
Dico di sì. Sono affaticato, stanco, ma dico di sì.
Per darmi un po' di forza, comincio col farmi un doppio shoot. Poi esamino la donna. Brutta
faccenda. Dev'essersi ferita, ora l'infezione si fa pericolosa, e come al solito l'impiastro di erbe e
argilla ha aggravato tutto.
Lo rinnovo, e libero la piaga purulenta. Poi faccio il mio solito lavoro. Penicillina,
mercurocromo, sulfamidici e bende.
Ho finito. Addio, tribù Kalikula, e grazie per la gangia.
Mi corico di nuovo. Mi faccio uno shoot. E aspetto…
7.
Un mattino di pioggia, mentre un rigagnolo formatosi attraverso le porosità del muro comincia a
inzupparmi di acqua il sacco a pelo, il mio «angelo custode» arriva a salvarmi.
Sono coricato sul dorso, e non cerco neppure di tentare di spostare il mio giaciglio per mettermi
sull'asciutto, quando intravedo un'ombra che s'inquadra nella luce della porta. Dietro a essa, lo
scintillio dei rigagnoli d'acqua che sgocciolano dall'architrave.
Non gli faccio caso. Senza sosta i contadini vengono a guardarmi, come guardavano l'americano
nell'altro villaggio.
Chiudo gli occhi. Sto male. Il bisogno della droga serpeggia nelle mie vene, ma io rimando il
momento di farmi lo shoot.
Sono arrivato a tale stato di prostrazione, che farmi lo shoot diventa ogni volta uno sforzo
sovrumano.
Ma il bisogno alla fine la vince. Mi sollevo sui gomiti, tiro fuori il necessario, prendo una pallina
di oppio, il cucchiaio, e accendo il fornellino. (Nel villaggio ho trovato dell'alcool).
Mentre sto riscaldando l'oppio sulla fiamma, getto uno sguardo alla porta.
La forma umana è sempre lì, con una spalla appoggiata al muro di destra. È strano: la sua testa
tocca l'architrave della porta. L'uomo è un po' troppo alto, per essere un nepalese.
Allora non è uno di loro…
E riconosco Olivier!
È lui, grande e grosso come prima, forse un po' smagrito. Mi guarda intensamente, senza
muoversi, con l'aria di dirmi: «Ti ho trovato, finalmente!».
Si avvicina. Mi sorride. Io lo osservo senza dire niente.
Non mi mancava che questa! Perché ci si mette anche lui, ora, per non lasciarmi morire in santa
pace? Vada al diavolo! Torni indietro. Non voglio vederlo.
Senza dirgli una parola, continuo nei miei preparativi. Sono così eccitato, che non riesco a
sistemarmi il legaccio.
Olivier si avvicina. Non ci siamo ancora detti nulla.
Prende il legaccio e stringe. Mi porge la siringa per l'iniezione, e mi osserva, standosene
accoccolato davanti a me, muto.
Evito di guardarlo. La mia decisione è presa. Quando il flash sarà passato e mi sentirò meglio,
raccoglierò la mia roba e me ne andrò, proibendogli di seguirmi. Mi ha sempre obbedito, mi
obbedirà anche questa volta.
Il flash passa, riempio lo zaino e mi alzo. Sono debole, ma stringo i denti. Passo una cinghia
attorno alla spalla, e mi dirigo verso l'uscita.
«Ti proibisco di seguirmi!», dico a voce bassa e secca, passando davanti a Olivier.
Non si muove.
Arrivo alla porta, alzo il piede per varcare la soglia… e cado lungo e disteso, incapace di andare
oltre.
Prima di perdere i sensi, un'idea mi traversa la mente alla velocità d'un lampo: questa volta è
finita. La morte che volevo per me, mi è stata rubata. Non so perché, ma sento che Olivier finirà per
salvarmi. È destino che vada così. Ho fallito il mio scopo.
E svengo.
Quando torno in me, Olivier è al mio capezzale. Mi porge un tè bollente, e bianche fettine, di
pollo.
Dove è andato a prendere questa roba?
Mi parla dolcemente. Mi racconta che, sentendosi inquieto per non vedermi tornare dopo tre
settimane di assenza, ha voluto venirmi a cercare. Ha rifatto, anche lui a piedi, la mia strada. Ma
senza bagagli, più in salute di me, e per di più conoscendo il nepalese (il furbacchione, molto dotato
per le lingue, ha imparato a parlarlo quasi correntemente). Così è andato molto in fretta.
Subito, in un villaggio, gli hanno parlato dello straniero che ha un occhio solo e che cura i malati.
Di villaggio in villaggio ha seguito la mia traccia e ha finito per trovarmi.
Sconvolto, lo abbraccio. Ora mi fa un bene enorme vedermelo davanti.
Non voglio più morire!
«Come sei sporco! — mi dice. — Lascia che ti lavi».
E mi lava come una mamma…
Per quanto tempo Olivier mi cura? Non lo so. E dato che non l'ho più rivisto dopo la sua
espulsione da Katmandu, più nessuno me lo potrà dire. Stando ai miei ricordi, mi pare che sia
durato qualche mese. Ma in realtà non poteva essere più di una decina di giorni.
Nel villaggio e per le cascine attorno, lui se la cava bene con la gente, e riesce a trovare cibi sani:
uova, legumi freschi, polli.
Mi costringe a mangiare e a dormire, mi obbliga a ridurre un poco le spaventose dosi di droga a
cui sono arrivato.
Presto mi sento meglio. Mi rimetto in carne. E posso uscire, andare fino alla fontana del cortile,
lasciarmi scorrere a lungo il getto dell'acqua fresca sulla testa. Poi riesco a fare passeggiate. Poi mi
rimetto a curare i contadini.
E il giorno in cui Olivier mi propone di tornare a Katmandu, non gli dico di no. Non penso più
alle nevi eterne. Sono guarito, salvato dal suicidio.
Ma l'idea di rifare a piedi il cammino del ritorno mi spaventa. Sono ancora troppo debole. Non
arriverò mai.
Eppure bisogna fare in fretta: non abbiamo quasi più droga. Ce n'è appena per due o tre giorni.
Allora Olivier mi svela ciò che ignoravo fino a quel momento: per ironia della sorte, io che
volevo morire sperduto nel cuore delle montagne selvagge, sono finito in un villaggio che costeggia
una strada carrozzabile, la sola a nord di Katmandu. E come se non bastasse, mi rivela anche che
questa strada presto sarà allargata con i bulldozer e diventerà la famosa autostrada Katmandu-
Lhassa, nel Tibet, di cui si parla da tanto tempo.
Olivier mi propone:
«Torniamo seguendo la strada. Non ci sono che tre giorni di viaggio. Domani, è il giorno
dell'autocarro settimanale».
«Sei matto! — gli dico. — Sai che né tu né io abbiamo il visto di tricking, e che ci sono posti di
blocco della polizia lungo tutta la strada».
«Ce la caveremo», risponde.
«No, è troppo rischioso. Non voglio farmi beccare e sbattere alla frontiera, nello stato in cui mi
trovo».
Ma dobbiamo procurarci droga a qualsiasi costo, e Olivier decide di tentare. Scenderà a
Katmandu, comprerà la droga, e tornerà indietro.
Io sono troppo debole per oppormi.
L'indomani parte con l'autocarro.
Cento volte, durante i due giorni e le tre notti che dura l'attesa, mi rimprovero amaramente di
averlo lasciato partire. Di sicuro si è fatto prendere, e l'hanno espulso.
Il mattino del terzo giorno, mi rimane solo più una pallina di oppio, quattro fiale di metedrina (ho
anche attinto alle mie «ultime cartucce»), e un centinaio di grammi di gangia.
Se Olivier questa sera non torna, io sono spacciato. Una fine orribile mi aspetta, nelle torture
della crisi da astinenza.
Passo la giornata in uno stato d'ansietà indescrivibile.
Mentre si fa notte, l'autocarro ritorna. Sopra, c'è Olivier!
Prima di tutto, prima ancora di salutarlo, gli domando:
«Ne hai?».
«Si capisce!».
«Presto, dammene».
E mi drogo subito. Mi ero fatto l'ultimo shoot a mezzogiorno. Non ne potevo più.
Olivier mi racconta. Sull'autocarro ha chiesto all'autista di aiutarlo. Per 30 rupie costui ha
accettato, e a ogni posto di blocco, mentre Olivier si faceva piccolo nel suo sedile, ha detto ai
poliziotti che non aveva europei a bordo. (Infatti, non ci sono controlli se non per gli europei; i
nepalesi non hanno bisogno di permessi di tricking).
A Katmandu, è andato subito in una farmacia, e due ore dopo era già sull'autocarro del ritorno.
Qualche giorno più tardi, non sentendomi ancora in condizione di partire a piedi per la via dei
sentieri, decido di rischiare anch'io, visto che Olivier ce l'ha fatta.
L'autista accetta di nuovo di nasconderci, ma questa volta per 50 rupie, dato che siamo in due.
8.
Arriviamo senza difficoltà a Katmandu.
Un problema molto serio ci aspetta. Olivier mi ha raccontato che, durante la mia assenza, la
caccia agli hippies e ai ragazzi di strada ha preso dimensioni allarmanti. È il panico generale. Ogni
giorno da dieci a venti hippies si fanno acciuffare e sono ricondotti alla frontiera dopo una notte
trascorsa al posto di polizia. (Non più di una notte, perché i nepalesi si sono accorti che, se li
trattengono a lungo, rischiano di farsi battere in velocità dalle ambasciate. Esse si danno da fare per
noi. Quando l'ambasciatore di Francia è informato che un hippy francese è stato preso, interviene, e
fa quanto può per sottrarlo alla polizia; se ci riesce, provvede a rimpatriarlo in condizioni decenti).
Per gli altri c'è un autocarro pronto ogni mattina, che li porta oltre il confine con l'India.
Anche «Eddy otto dita» si è fatto espellere. I poliziotti sono venuti a cercarlo un giorno al Cabin
Restaurant. La cosa ha suscitato un baccano del diavolo. Gli hippies presenti facevano ressa attorno
ai poliziotti, urlando. Non volevano che portassero via il loro Eddy! La sua partenza era la fine di
Katmandu.
Così tutti quanti sono stati imbarcati. Ci sono voluti due autocarri, l'indomani mattina.
Perciò dobbiamo essere molto guardinghi. Facciamo il giro dei soliti alberghi, a uno a uno,
guardandoci bene attorno ogni volta, per assicurarci che non ci sia la polizia nei paraggi.
Come sono cambiate le cose… Nessun albergatore accetta di prenderci senza dichiararci sui suoi
registri.
Ma pure è indispensabile: i nostri nomi non devono figurare su nessun registro. È di lì che le
guardie cominciano le loro ricerche.
Al sesto o settimo albergo (ho dimenticato il suo nome) il proprietario ci dice che è d'accordo.
Niente nomi sul registro. Possiamo salire.
Ma ha un'aria poco rassicurante. Un'aria da perfetto impostore, che non può ingannare il mio
fiuto di vecchia volpe abituata ai sotterfugi e all'illegalità.
Dico a Olivier, che mi accompagna su per le scale:
«Mentre salgo a dare un'occhiata, resta un po' giù a tenerlo d'occhio, a vedere che cosa
combina».
L'ho proprio indovinata: Olivier è appena sceso, che vede il proprietario uscire. Lo segue da
lontano fino all'angolo della strada…
E lo vede entrare al commissariato lì vicino!
Olivier torna indietro a precipizio. Afferriamo le nostre cose, divoriamo le scale, usciamo, e
cerchiamo rifugio sotto un portone.
Il nostro albergatore ritorna, accompagnato da due guardie.
Accidenti!
Il colpo per me è troppo forte. Le gambe non mi reggono. Devo sedermi e aspettare che mi passi,
per un quarto d'ora.
Ci rimane solo un albergo in cui provare. Il Coltrane, quello che ho lasciato partendo da
Katmandu. Ci andiamo. Il proprietario mi è sempre stato simpatico. Per fortuna accetta. E ho
fiducia in lui. Non credo che ci tradirà.
Prendiamo posto nella camera in cui era l'indiano al quale il mese scorso ho rubato 2000 rupie
indiane, senza sapere che fossero sue.
Il dormitorio di fronte è pieno zeppo di ragazzi della strada. E ci rassicuriamo che si può avere
fiducia nel padrone. Non è un traditore. Quando le guardie vengono a fare un controllo, lui chiude
dall'esterno i ragazzi sotto chiave, in una camera.
Le guardie, vedendo la porta chiusa, credono al padrone quando dice loro che non c'è nessuno,
che la camera è vuota.
Del resto è proprio quello che capita la sera stessa. Arriva una ronda. Il proprietario ci chiude a
chiave. Ma la porta è fatta di assi sconnesse, e noi preferiamo tenerci ai due lati a ridosso dei muri,
quando sentiamo i passi dei poliziotti che arrivano. E ci va bene: sentiamo il respiro di un poliziotto
che si china per guardare attraverso le fessure.
Potremmo trovarci molto comodi, al Coltrane, Olivier e io… In pratica, tutto concorre: la
tranquillità durante il giorno nell'albergo, e durante la sera al Cabin quando ci andiamo (le guardie
non fanno mai la ronda di notte). Poi, io mi riposo, torno a mangiare, aumento di peso giorno per
giorno.
Ho un solo rimpianto, di non riuscire a trovare Krishna. Perché è scomparso. Ed è impossibile
sapere dove sia.
Quanto a Olivier e io, siamo amici. Non ci rimane che rimetterci completamente in sesto, e
cercar di ottenere dall'ambasciata di Francia, attraverso le persone influenti che conosco, un visto di
uscita che ci consenta di partire con tutte le nostre cose nel giorno e nell'ora che decideremo noi.
Nel frattempo io troverò certo un colpo o due da fare, per mettere insieme un po' di soldi. Anche per
Olivier. Perché sono pieno di gratitudine per lui, l'amico che mi ha salvato.
Ma perché mai bisogna che il suo demone del furto s'impossessi di nuovo di lui? E perché mai
bisogna che il mio demone del sospetto e della diffidenza torni a invasarmi?
L'ho già detto, mi pare, che Olivier è un po' cleptomane, che è maniaco del furto. È più forte di
lui, non può fare a meno di rubare, quando si presenta l'occasione. Piccoli furtarelli, ma continui.
E se si contentasse di derubare estranei, pazienza. Ma con me!
Comincia con delle bazzecole. Lo mando a fare una commissione, gli do dei soldi. Quando torna
e mi dà il resto, mi accorgo sempre più spesso che i conti non tornano. Io conosco i prezzi delle
merci, mi basta un rapido calcolo per accorgermi che mancano 50 pesa qui, una rupia là…
Al principio non dico nulla. Ma m'innervosisco a poco a poco. Comincio ad arrabbiarmi. Non ho
ancora i nervi abbastanza a posto per prendere la cosa dal lato buono. Al contrario, mi esaspero
sempre più. Mi chieda francamente del denaro, diamine. Non gliel'ho mai rifiutato. Ma che me lo
spilli a quel modo, mentre continuo a pagare per due, è disgustoso.
Un giorno gli do alcuni dollari perché vada a cambiarli da un mercante di stoffe che fa in piccolo
anche questo genere di operazioni.
Tornando, Olivier mi dice:
«Il cambiamonete non aveva abbastanza denaro. Mancano 5 rupie. Me le darà la prossima
volta».
Va bene, siamo nell'ordine delle cose possibili, non dico nulla.
Non ci penso più, quando, tre giorni più tardi, passo con Olivier davanti al negozio del mercante
di stoffe. (Da qualche tempo ci siamo fatti coraggio, e qualche volta usciamo: le guardie sembrano
essere un po' più calme. E poi, la tentazione di uscire ci divora).
«A proposito — dico spontaneamente, senza per nulla pensare a fare l'inquisitore, — ti ha
restituito le 5 rupie?».
La mia domanda raggiunge Olivier come un colpo basso. Impallidisce.
«To', è vero — finisce per dire con finta disinvoltura, — ho dimenticato di chiedergliele».
«È l'occasione buona, no?».
«Ah, si… Hai ragione. Vado».
Il mercante è sul gradino dell'uscio. Da lontano lo vedo discutere con Olivier. Poi entrano.
Olivier esce con 5 rupie in mano, sorridente.
Le intasco e non ci penso più.
Qualche giorno più tardi, sono nella strada del mercante di stoffe, tutto solo, quando vedo in
fondo alla strada un'auto della polizia con due guardie. Via!, è un controllo. Se mi vedono, sono
fritto.
Mi rifugio dal mercante di stoffe. Facendo finta di niente, dico:
«Oh, buongiorno! Passavo per caso. Vorrei fare due chiacchiere… Posso?».
Si, posso. Parlottiamo un poco. Mi fa vedere l'ultimo stock di tessuti che ha appena ricevuto.
Alcuni sono molto belli. Di lì a un poco, mi dice:
«Non è che mi trovi in difficoltà, ma quel suo amico doveva rendermi da tre giorni le 5 rupie che
gli ho prestato l'altra sera. Non è più tornato… Siccome mi ha detto che erano per lei, le spiacerebbe
rendermele?».
Ma allora ha una faccia di bronzo, questo Olivier! In un attimo ho capito tutto: la faccenda del
mercante che non aveva le 5 rupie, la faccenda della loro restituzione l'altra sera. Che fetente!
Incasso il colpo. Sono su tutte le furie, ma mi controllo e rimborso le 5 rupie.
Quando le guardie se ne sono andate — c'è voluta una buona ora — rientro in fretta all'albergo
ben deciso a mettere le carte in tavola con Olivier. Non voglio che continui a farmi fesso in questo
modo.
All'ingresso vedo un individuo della categoria hippy, ma di lusso. Lo si nota subito da tanti
piccoli particolari: bei sandali alla moda, ricercatezza nel vestito e nel pettinarsi. Sta trattando con il
proprietario.
Io salgo. Al primo piano, quello delle camere migliori, vedo uno zaino posato nel corridoio. Un
grazioso zaino di cuoio ornato con frange. Guarda, guarda… Deve appartenere a quel tale.
Macchinalmente — una volta, quando ero un furfante, avrei detto: professionalmente — apro lo
zaino e guardo dentro. Caspita! C'è una macchina fotografica giapponese che è una meraviglia!
Chiudo lo zaino senza toccare nulla. Mi è venuta un'idea.
Giunto in camera, trovo Olivier e comincio subito:
«Senti, tu che ti trovi in difficoltà economiche. Ho un buon colpo per te. Nel corridoio del primo
piano c'è uno zaino, e dentro una macchina fotografica giapponese. Un'ottima macchina. Tu che non
hai scrupoli, perché non vai a sgraffignarla? Niente di più facile. Apri lo zaino, e la prendi…».
Olivier esita. È abbastanza pericoloso. Ma, in fondo, è vero: lui non ha scrupoli di sorta, l'ho già
visto almeno venti volte rubare agli altri. A me, per esempio…
Scende giù. E due minuti più tardi risale con la macchina fotografica nascosta sotto il maglione,
molto fiero di sé.
Perfetto. Il primo atto del mio piano è terminato. Passiamo all'atto secondo.
«Bravo! — gli dico. — Ora ci si deve liberare al più presto della macchina. Conosco un
ricettatore che te la prenderà. Vengo io con te. Vedrai che ti ottengo un buon prezzo».
Il ricettatore ha fatto sovente affari con me, e non discute nemmeno. Prende l'apparecchio di
Olivier per 800 rupie. Una somma enorme agli occhi di Olivier, che è sempre vissuto di piccole
rapine da 4 o 5 rupie al massimo.
Non sta più nella pelle.
«Hai visto, eh? — esclama, tutto pimpante. — È stato un bel colpo, no?».
E continua a ciarlare, non prevedendo il seguito. L'atto secondo è recitato, passiamo al terzo.
Rientriamo, e — devo ammetterlo — Olivier mi mette nel sacco.
Mentre mi preparo ad attaccarlo pian piano riguardo ai suoi debiti verso di me, e penso di
domandargli che gliene paia dell'idea di restituirmi qualcosa di quello che mi deve (e non è poco,
alcune centinaia di rupie, perché oltre a vitto e alloggio è lo zio Charles che paga anche la droga),
ecco che lui mi batte sul tempo e comincia a espormi i suoi progetti.
Agitando le 800 rupie, mi racconta che è una cosa meravigliosa, che finalmente potrà andarsene
da Katmandu.
Prima Delhi, poi Bombay, poi il ritorno in Francia. Basta con l'esperienza hippy. Vuole tornare a
casa e riprendere gli studi. Insomma, sta costruendo castelli in aria a tutto spiano.
E conclude:
«Ora esco. Ho qualcuno da salutare prima di partire. Perché me ne vado domani».
Continuando a sorridere, gli mostro il broncio.
«Ma no, Olivier, non partire così, senza neppure dare un addio al tuo vecchio Charles. Riservami
almeno la tua ultima serata. Facciamo insieme un pranzetto d'addio. Avrai poi tutto il tempo per
andare a vedere gli altri. Non conto proprio niente per te?».
Rimane interdetto. Esita:
«Ma Charles…».
«Andiamo, niente storie. Tu resti, e passiamo insieme la serata, noi due. D'accordo?».
«D'accordo» concede, arrendendosi.
Mi faccio portare su delle paste, del bang lassi, tè e una buona minestrina.
Mangiamo in un pesante clima di silenzio, pieno di disagio.
E finisco per domandare, con aria trascurata:
«Così, te ne vai da solo?».
Mi guarda interdetto.
«Si capisce. Ottocento rupie sono appena sufficienti per uno. Se si è in due…».
Eccolo qui, lo scroccone! L'ho nutrito e drogato per settimane intere a mie spese. Mi deve
centinaia di rupie. Gli ho appena fatto guadagnare 800 rupie che lui da solo non sarebbe stato
capace di guadagnare. E ora che ha dei soldi in tasca, mi dice: «Bye bye, me ne vado, sbrigatela da
te».
Mi domino a fatica e gli faccio notare:
«Ma Olivier, tu mi devi del denaro. E molto, anche. Tu lo sai…».
Lui aggrotta le ciglia. Sembra ferito.
«Charles — dice. — Ho pagato il mio debito. Moralmente. Non basta?».
Ah, è così! Capisco cosa vuol dire. Ritiene che il fatto di essere venuto a cercarmi sulla
montagna l'abbia assolto da tutti i suoi debiti!
E io che credevo lo avesse fatto per amicizia!
Che porco! Era per interesse. È venuto fin lassù perché era al verde. Allora non è venuto per
salvare Charles, ma per cercare zio Charles, perché continuasse a mantenerlo! E perché lui, Olivier,
potesse continuare ancora con i suoi furtarelli!
La mia collera contro di lui — fragile di nervi come sono, a causa della droga — prende
proporzioni incontenibili.
A un tratto esplodo. Lo afferro al collo. Lo spingo in un angolo della stanza, lo costringo a
sedersi.
E fa il coniglio, per di più! È nel pieno delle forze, mentre io sono convalescente. Potrebbe
schiacciarmi con un colpo di pollice, e si lascia malmenare, terrorizzato.
«Bene — gli dico tra i denti. — Tu ora non ti muovi di lì e mi stai a sentire. Ne ho, di cose da
dirti».
E comincio — tanto per metterlo subito con le spalle al muro — con la faccenda delle 5 rupie del
mercante di stoffe. Poi continuo con tutte le scrocconerie e i furtarelli che mi ha fatto, e che io ho
ingoiato senza dire niente. I biglietti che si volatilizzano, i conti delle spese maggiorati. Le piccole
sparizioni nella riserva della droga, eccetera.
Vuoto il sacco. Niente riesce a fermarmi. Ho un peso troppo grosso sullo stomaco.
Olivier incassa tutto, senza muoversi, accartocciato nel suo angolo, bianco di paura.
Alla fine gli ordino di darmi 300 delle sue rupie. Obbedisce senza fiatare. Ne prendo 100, e gli
butto il resto.
«Quel che prendo — gli dico — è per principio. E se ti rendo il resto, è perché tu ne abbia
abbastanza per sloggiare. Perché ora sloggi di qui. E presto. Non ti voglio più vedere».
In quel momento mi accorgo che il cielo si schiarisce dietro le imposte. Le apro. È l'alba! Ho
impiegato tutta la notte a svuotare il sacco!
Un'ora più tardi, Olivier ha finito di legare il suo zaino. E se ne va. Non ci siamo più detti una
parola, dalla fine del nostro regolamento di conti…
Con Olivier è finita per sempre. Non lo rivedrò mai più.
Ma mi sbaglio. Tre o quattro ore più tardi capita qualcosa che non riuscirò mai a chiarire, e che
mi lascerà sempre un dubbio penoso nel cuore.
Sono uscito, e tornando all'albergo, che cosa vedo venire verso di me? Un tassì.
E dentro, seduto fra due poliziotti, riconosco Olivier!
Faccio appena in tempo a nascondermi.
Olivier si è fatto prendere! Sarà espulso.
Il tassì ferma davanti all'albergo. Olivier e le guardie scendono, e varcano la porta.
Ne escono dopo cinque o sei minuti, e il tassì riparte.
Ma perché Olivier è ritornato all'albergo? Aveva tutte le sue cose con sé…
Sarà a causa della macchina fotografica? Non siamo stati interrogati. L'hippy di lusso è ripartito
senza fermarsi. Non deve essersi accorto della sparizione del suo apparecchio prima di aver preso
un'altra camera altrove.
E allora? Che Olivier mi abbia tradito?
Avrà detto ai poliziotti che un tale di nome Duchaussois era lì senza visto? Avrà voluto, con
questo tradimento, guadagnarsi un'espulsione più umana?
Non saprò mai la verità, e ancora oggi non oso propendere per la penosa ipotesi che farebbe di
Olivier un traditore…
Al momento non ho tempo da perdere in indagini del genere, devo piuttosto pensare a lasciare al
più presto il Coltrane. Puzza troppo di pericolo.
Partito il tassì, mi precipito nell'albergo, salgo in camera mia, raccolgo le mie cose, e via a rotta
di collo. Il proprietario non è presente. Saldo il conto con un cameriere. Parla solo il nepalese,
perciò è inutile domandargli che cosa è capitato. Non ne caverei niente. (Più tardi tornerò a
interrogare il proprietario, ma stranamente neanche da lui otterrò qualche schiarimento).
Cinque minuti dopo, mi trovo per la strada…
Questa volta la situazione è più che delicata. È drammatica. Andare a zonzo in pieno giorno, io,
un europeo dagli stivali scalcagnati e dai vestiti malandati, con uno zaino in spalle, per le strade di
Katmandu, è pura follia.
A ogni istante mi aspetto di cadere in una retata della polizia, o di sentire lo stridio dei freni d'una
vettura carica di poliziotti che si ferma accanto a me.
Dove andare? Gli alberghi ormai sono delle trappole. Quanto a nascondermi nell'abitato, non c'è
neppure da pensarci.
Eppure un posto c'è: Bichnù, il pasticciere dalle torte all'europea. Eravamo molto amici…
È la mia ultima tavola di salvezza. E mi affretto a casa sua.
Quando arrivo, è dietro il suo bancone, sorridente come sempre. Ci abbracciamo. E subito:
«Bichnù, bisogna che tu mi aiuti. Non so più dove andare. Se mi faccio prendere ora, mi
espellono, e sarebbe la fine. Nascondimi per un po' di tempo, finché non trovo una soluzione. Tu sei
la mia ultima speranza».
Meraviglioso Bichnù! Non esita un secondo.
«Puoi contare su di me — mi dice. — Io ti sono amico. Vado a cercare qualcosa che fa al caso
tuo».
Si lava le mani, posa il grembiule, abbandona la pasta per le torte, ed esce. Torna di lì a mezz'ora.
«Ho trovato ciò che fa per te. Puoi sistemarti in casa di mia sorella. È qui vicino. Ti troverai
bene, starai tranquillo. Vieni».
A 100 metri da casa sua, in una stradetta che fiancheggia il fiume, si ferma davanti a una piccola
casa dai muri panciuti, che mi piace subito.
Entriamo. La sorella di Bichnù ci aspetta. È una piccola donna d'una trentina d'anni, con lo stesso
sguardo franco e lo stesso sorriso buono del fratello. Subito mi sento a mio agio.
Ringrazio di tutto cuore.
Guardo attorno a me, e ho uno choc. Mi trovo in una stanza da soggiorno che è anche un
tempietto: un muro intero è occupato da un altare. Attorno alla statua di una divinità ci sono decine
di mazzi di fiori, ghirlande, drappi ornati d'oro. I bastoni d'incenso bruciano ovunque. È fantastico.
La sorella di Bichnù mi fa segno di seguirla.
Nell'angolo della stanza c'è una scala, con i gradini molto distanziati, come se fosse a pioli.
Saliamo, arriviamo al corridoio del primo piano. Prendiamo un'altra scala ed eccoci al secondo
piano. Il soffitto è basso come al Coltrane, e sono costretto a tenere la testa china. La sorella di
Bichnù apre una porta a destra. Abbasso ancor più la testa, ed entro.
Servendomi un buco in cui nascondermi, io ero disposto ad accettare qualsiasi cosa, anche un
giaciglio in fondo a una stalla, come ho fatto in montagna.
E mi si offre un palazzo!
La stanza è molto lunga, 5 o 6 metri, larga 4. In fondo, dentro una specie di alcova, un letto, un
letto vero! A sinistra un armadio a muro; a destra, rientranti, i servizi. Poi una finestra, e, all'altezza
del suo parapetto, infisso alla parete spessa un buon metro, davanti alle imposte, un lavabo.
Per pavimento niente terra battuta, ma un impiantito. In un angolo, dei cuscini formano un
divano.
A parte le due notti passate all'Hotel Soaltie di Katmandu con Eliane M., non ho mai più avuto
una simile camera, dalla mia partenza dal Kuwait in poi.
Rimango senza fiato. Non so come ringraziare Bichnù e sua sorella, che mi guardano sorridendo.
Balbetto: «È troppo bello, è troppo bello». Bichnù, con un gesto, mi fa smettere. Gli domando:
«Quanto ti devo?».
«Non preoccuparti di questo — mi replica. — A pagare c'è tempo. Non è per denaro che ti diamo
questa camera. È perché sei nostro amico».
Che brava gente! Non potete immaginare come sollevi il cuore, quando si è braccati come lupi,
vedere qualcuno che ti tende la mano!
Essi escono, e io, un po' per la stanchezza e un po' per la felicità mi butto sul letto e subito mi
addormento.
9.
Quella sera, a tavola da Bichnù, con lo stomaco riempito di torta, ricomincio a vedere la vita
color rosa. Quel che mi sta accadendo è al di là delle mie speranze. Sta a me saperne approfittare.
Nel senso buono della parola.
Le mie avventure in montagna, il mio salvataggio in extremis, mi hanno richiamato alla realtà,
mi hanno restituito un po' di sale in zucca. Si tratta, ora, di non buttare al vento le possibilità che mi
vengono offerte.
Devo ridurre gli shoot. Devo assolutamente liberarmi della droga. Con essa mi sono spinto
avanti quanto era necessario per soddisfare ogni curiosità. Ora per me la droga è solo un'abitudine,
tirannica, ma niente più che un'abitudine. Ma sarò ancora capace di ridurre i miei shoot, o non più?
Quel che devo fare, è arrivare a contentarmi dello shilom. Non è pericoloso. Si può vivere
normalmente, con lo shilom.
Dunque, il traguardo è: basta con gli shoot. Ma come arrivarci? Al momento ne faccio da otto a
dieci al giorno (e ho già diminuito le dosi, in confronto alla montagna). Faccio il calcolo: su
ventiquattr'ore, non contando le quattro o cinque ore per notte che riesco a trascorrere nel sonno,
vuol dire uno shoot ogni due ore. È troppo. Bisogna, per cominciare, che mi faccia non più di
un'iniezione ogni tre ore. Se non resisto, avanti con lo shilom. Shilom in continuità, finché la crisi da
astinenza non divenga sopportabile. E via di questo passo.
In tal modo penso che in quindici giorni arriverò a non più di due o tre shoot al giorno. In un
mese dovrei smetterla del tutto con le iniezioni. Sarà duro, ma sento in me una volontà molto forte e
decisa.
Poi ci sono altri due problemi non meno delicati.
Il primo è come ritrovare il sonno, arrivar a dormire almeno sei o sette ore per notte, e così
rimettermi del tutto in salute. Penso che la cosa migliore sia riprendere le abitudini alimentari
normali. Pranzo, il più abbondante possibile, e poi siesta. Cena anch'essa abbondante, e due o tre
shilom per calmarmi e dispormi al sonno.
Secondo problema, bisogna che durante la giornata mi dia da fare. Altrimenti la voglia di
drogarmi sarà troppo acuta. Sotto questo aspetto, le cose dovrebbero andare bene. Decido, da una
parte, di proporre a Bichnù di aiutarlo nel suo lavoro, e d'altra parte di andare il più possibile al
Centro Culturale francese dove sono conosciuto e ho degli amici. Non avrò che il problema
dell'andata e ritorno, per evitare le retate. Dentro il Centro le guardie non verranno mai, perché è
«territorio francese».
L'idea del Centro mi entusiasma. Mi dico che devo sbrigarmi a trovare un lavoro in esso, fosse
pure per poco tempo. Avrò del denaro, e il problema del visto non sarà più che una formalità.
Espongo il mio piano a Bichnù. Lo approva per intero e accetta di impiegarmi tre o quattro ore
ogni mattina, per aiutarlo a preparare la pasta, lavare i piatti, cucinare, eccetera.
Comincio il mio lavoro già l'indomani. In cambio, lui mi passa il vitto. Per la camera da sua
sorella, non vuole sentire parlare di soldi. Quando andrò via, se ho del denaro gliene darò.
Altrimenti, non ha importanza.
Nel pomeriggio indosso il vestito di gala e vado al Centro. Per strada il cuore mi batte forte
quando arrivo sulla New Road, la via principale. Le guardie sono appostate all'incrocio, attente agli
europei che passano.
Devo essere coraggioso e tentare il tutto per tutto, verificare se la mia «tenuta di gala» mi dà
l'aria di turista o no.
La fortuna mi viene in aiuto. Un gruppo di turisti americani sta passando. Mi mescolo a loro. I
poliziotti ci guardano, cercando le teste di hippy. Non sono stupidi, sanno che gli hippies possono
mescolarsi ai turisti.
Siamo in una decina. Fanno in fretta a osservare le nostre teste. Io passo davanti alle guardie, a
fronte alta. Essi mi guardano… e voltano la testa gettando l'occhio su chi viene dopo.
È andata! Posso farmi passare per turista. Bisogna però che perfezioni la faccenda. Nei giorni
seguenti mi comprerò un vestito nuovo e una camicia aperta sul collo, una vera camicia da turista.
Al Centro Culturale sono accolto a braccia aperte. «Di dove arrivi? Com'è andata? Che brutta
faccia hai!».
Spiego che sono stato malato, ma non nascondo che sono andato in montagna. Per un'ora buona
racconto gli aneddoti di lassù, i più pittoreschi. Soprattutto le storie delle operazioni chirurgiche
interessano il mio uditorio.
Quando smetto, a sera, sono diventato l'attrazione, il re del Centro Culturale.
Rientro per cenare da Bichnù, poi vado a fare un giro al Cabin Restaurant. Ma rientro presto.
Due shilom, e a cuccia.
Ce l'ho fatta, sono riuscito a farmi gli shoot solo ogni tre ore, senza troppi inconvenienti.
Ho il sonno agitato, interrotto da bruschi risvegli, ma tutto sommato è un passo avanti. Resto a
letto quasi sette ore senza drogarmi.
Dopo quattro giorni soltanto di questo regime, sento che le cose vanno meglio. Uno shoot ogni
tre ore, ma niente più, e mi trovo bene. L'appetito mi ritorna, dormo sodo. Nello specchio vedo che
la mia faccia si fa più presentabile. Non canto ancora vittoria, sono molto lontano dal traguardo
finale, ma tutto questo mi incoraggia, e sono fiero di me.
E poi anche il mio nuovo vestito da turista, che ho appena acquistato, mi dà fiducia. Quando
esco, mi sento un altro uomo, non più il vagabondo pauroso che teme di farsi acciuffare.
Un mattino, da Bichnù, chi mi vedo arrivare? Krishna!
Il monello mi si butta fra le braccia e piange di gioia. Non ha un rimprovero, non me ne vuole
perché l'ho abbandonato. Si era aggirato a lungo dalle parti del Cabin Restaurant. Aveva girato tutti
gli alberghi, ma presto si era convinto che non era lì che doveva cercarmi. Allora da solo, tentando
tutte le ipotesi, fino a scervellarsi, era arrivato alla conclusione che ormai solo da Bichnù avrebbe
potuto ritrovarmi. Che testolina, il mio Krishna!
Mi supplica di tenerlo con me. Io ne sono entusiasta. Sentivo la sua mancanza.
In camera mia lo sistemo sopra una stuoia ai piedi del letto, perché mentre dorme continua a fare
la pipì. Gli affido i miei vestiti perché li tenga puliti e li raccomodi, gli do commissioni da fare.
Insomma tutto continua come prima, con la differenza che ora io sono solo, giudizioso, e ritirato
dagli «affari»!
Krishna, si capisce, viene anche lui con me a sgobbare da Bichnù, e sua sorella lo tratta come se
fosse un figlio.
Mi do da fare anche al Centro Culturale, di pomeriggio. Il periodo delle vacanze è finito, gli
studenti che vi lavoravano sono partiti. Ma il lavoro non è diminuito. I turisti europei a Katmandu si
fanno sempre più numerosi, e il Centro prende un grande sviluppo. La scarsità di personale si fa
sentire in modo acuto.
Sono contentissimi della mia venuta. Le cose presto vanno molto lontano: il direttore del Centro,
che simpatizza molto con me, giunge a farmi una proposta. Vuole affidarmi la sua successione al
Centro. Mi fa perfino incontrare l'ambasciatore in persona, per parlarne.
Le loro proposte mi riempiono di gioia. Quel che mi sta capitando è straordinario. Avrò un vero
lavoro, che mi interessa molto, un vero salario, e se voglio potrò essere alloggiato al Centro.
C'è solo un problema: il mio visto. Ne parlo a cuore aperto al direttore del Centro. Dice che
sistemerà la cosa. Non gli sarà difficile.
Nella mia testa si scatena una ridda di idee che cozzano fra loro. E se, dopo tutto, invece di
lasciare Katmandu, ci restassi? Perché no? Non c'è nessun motivo perché non possa stabilirmici, se
ho una funzione e un'esistenza ufficiale.
Potrei anche diventare ricco. Osservando il lavoro di Bichnù, mi è venuta un'idea.
Quest'individuo, con le sue torte all'europea, che è il solo a fare in tutta Katmandu, ha nelle sue
mani una gallina dalle uova d'oro. Basterebbe che lasciasse il quartiere sperduto in cui si trova, per
trasferirsi in una via frequentata, come la New Road. E la sua nuova pasticceria, ben in vista,
sarebbe presto famosa presso i turisti, e sempre affollata di gente.
Perché non associarmi a lui, per organizzare la trasformazione del suo negozio?
Mi vedo già rispettato, a mio agio, in Katmandu.
E questo avvenire roseo moltiplica i miei sforzi per progredire nella disintossicazione.
Al Centro Culturale, intanto, il direttore mi annuncia che la mia assunzione è solo una questione
amministrativa. Ha fatto domanda a chi di dovere, a mio riguardo. Le sue promesse valgono
sempre, sarà mio compito organizzare delle conferenze per i nepalesi, in un primo tempo in inglese,
ma poi a poco a poco anche in francese. Sarà anche mio compito ordinare i libri, le riviste, e i film
per le riunioni culturali o ricreative.
Vitto e alloggio, un passato dimenticato, un salario che si aggirerà sulle 300-400 rupie al mese
(da 20 a 25.000 lire italiane), un trattamento con i fiocchi in Nepal!
Navigo nella gioia e nei buoni propositi. Finite per sempre le ribalderie, le avventure più o meno
losche, i vagabondaggi e le bestialità in serie. Sto per diventare una persona per bene. E non è
troppo tardi. Sarà una buona maniera per svoltare il tornante degli anni trenta.
Così, nel mio entusiasmo, arrivo a drogarmi solo in limiti molto ragionevoli. L'hashish, si
capisce, tutti i giorni, ma quasi niente altro!
Più che mai, è il momento di non farmi prendere dalla polizia. Sarebbe da idiota farmi espellere
per mancanza di visto, mentre tutto per me sta entrando nella piena regolarità. Il direttore del Centro
mi ha promesso che mi farà avere un visto in regola, e duraturo, ma non potrà ottenerlo finché non
sarò assunto ufficialmente.
Nell'attesa, raddoppio le precauzioni. Mi sembra che anche con gli abiti da turista i rischi siano
troppo grandi. Decido di uscire solo di sera, quando le guardie sono a letto, dato che non fanno mai
la ronda di notte.
Il custode del Centro è stato avvertito di lasciare la chiave a mia disposizione in un nascondiglio,
quando vengo. Scesa la notte, io esco di casa lasciando Krishna alla famiglia Bichnù, e corro al
Centro. A volte vi trovo il direttore, la sua segretaria, e un medico francese che fa pratica a
Katmandu. Con loro ci sono dei nepalesi di buona società. Questo bel mondo conversa amabilmente
sorseggiando il tè, ascolta dischi francesi, o guarda un film. Ma più spesso non c'è nessuno, a parte
il custode (un nepalese), e il medico francese nel suo appartamento al primo piano, a meno che non
sia di turno in città.
Mi installo e comincio a mettere ordine in questo ufficio, che il passaggio degli studenti e delle
studentesse durante l'estate ha restituito al caos primordiale.
Io, che non ho mai lavorato, mi applico con ardore e convinzione, sono fiero di me, mi ammiro.
Se i miei genitori mi vedessero, stenterebbero a riconoscermi!
Così, per quindici giorni, entro a poco a poco in questa «famiglia» del Centro. Divento amico di
tutti e di tutte.
M. Français, l'ambasciatore, mi chiama «monsieur Duchaussois» quando viene al Centro; e io mi
lego di vera amicizia al console, un giovanotto molto simpatico di ventisette o ventotto anni, Daniel
Omnès (quello della festa all'ambasciata), arrivato da poco a Katmandu con la moglie.
Se l'amministrazione francese l'avesse voluto, sono sicuro che ancora adesso sarei a Katmandu,
sistemato e rispettabile. Riscattato… Perché aspiro sinceramente a questo lavoro, al quale mi abituo
a poco a poco, e che mi strappa alla droga.
Ma l'amministrazione è drastica. Non c'è posto per me nelle colonne delle sue cifre, nei suoi
organigrammi.
Una sera il direttore del Centro, con la desolazione dipinta in volto, mi comunica il fallimento
dei suoi sforzi. Non è riuscito a ottenere alcun aiuto finanziario. Per assumermi, dovrebbe
aggiustarsi col suo attuale budget. Cioè dovrebbe licenziare la sua segretaria. E capisco benissimo
che è fuori discussione.
L'anno prossimo, mi spiega, forse riuscirà a farsi aumentare il budget del Centro Culturale di
Katmandu, ma per ora non c'è niente da fare.
Naturalmente io sarò sempre il benvenuto al Centro, che continuerà a restare aperto per me,
giorno e notte, e lui si augura che io continui sempre a collaborare.
È la tegola fra capo e collo.
Perché, anche se è mia intenzione continuare a frequentare il Centro, io devo pur vivere! E io,
per fare denaro, non so altro che combinare colpi e furti! Dovrò mettermi di nuovo a rubare? Non
vedo altra soluzione…
O rientrare in Francia? Mi mancano i soldi per il biglietto dell'aereo.
O ritornare sulla strada? Non posso farlo senza avere in tasca un gruzzolo un po' consistente. Ma
le mie riserve sono agli sgoccioli…
Mi trovo senza via di uscita. Se finora sono riuscito a sfuggire al controllo dei visti, una volta o
l'altra la fortuna mi volta le spalle e io ci casco. È tanto più probabile perché, dovendomi procurare
del denaro, sarò costretto a uscire più spesso dalla mia tana.
Domando un consiglio al console. Gli espongo il mio problema.
Quest'uomo formidabile e senza pregiudizi comprende in pieno la mia situazione, e
conoscendomi come mi conosce, è più di ogni altro in grado di valutare il rischio che il mio scacco
al Centro Culturale mi fa correre.
Insieme, cerchiamo i modi puliti per uscire onestamente da questa situazione impossibile.
E insieme dobbiamo riconoscere che non ce ne sono.
La sola cosa che Omnès possa garantirmi, è che userà tutta la sua influenza presso l'ambasciatore
per farmi avere un visto di soggiorno che mi duri il tempo che occorre a ottenere l'aumento dei
crediti al Centro, o a trovare un sistema per rimpatriarmi.
Per parte mia gli prometto che non farò sciocchezze, che non riprenderò le mie antiche attività. E
dopo una calorosa stretta di mano, che nonostante tutto mi fa del bene, ci lasciamo.
Rientro a casa.
E mi butto sul letto, disperato…
I SOTTERRANEI DI DELLI-BAZAR

Quinta parte

1.
Per quello che ormai accadrà in seguito, io non cerco scuse. Non voglio sottrarmi alle mie
responsabilità. La mia debolezza è la sola causa della vera demenza che presiede allo svolgersi dei
due mesi che vengono, allo scacco del mio tentativo di salvataggio morale. E solo il caso, aiutato
però dalla generosità e solidarietà umana di alcune persone, mi permetterà di venirne fuori.
Quella famosa sera di novembre del 1969, rientrando dal Centro Culturale dove mi hanno appena
detto che nei loro bilanci non c'è posto per me, sfilo la mia cintura-portafoglio, la apro in due
rabbiosamente, ne tiro fuori una manciata di biglietti ed esco di casa.
Direzione: la farmacia di Makhan, il falso medico.
Progetto: farmi iniettare tanta droga da rimanerci secco.
So che mi si rimprovererà d'essermi lasciato abbattere troppo in fretta dalle avversità. Mi si dirà
che, in fondo, non ho molta volontà né tenacia. Che non si ricasca nella droga tutto d'un colpo, in
questa maniera, col pretesto che non si ottiene subito il posto che si desidera. Che se tutti quelli che
non ottengono ciò che vogliono si scoraggiassero così facilmente, il mondo sarebbe pieno di stracci
ambulanti.
D'accordo. Ma chi non è mai andato a sbronzarsi all'osteria, o a casa sua, per dimenticare un
grosso dispiacere? Chi non ha mai avuto dei momenti di abbattimento? Chi non ha mai avuto voglia
di piantar lì tutto?
Ma c'è altro. La droga. L'esistenza della droga. La coscienza che la droga esiste. E la debolezza
del drogato appena guarito, con i nervi, il cervello e tutti i suoi organi che restano impregnati del
delizioso ricordo della droga. Perché si dimenticano sempre facilmente i momenti sgradevoli e
dolorosi del passato, le sofferenze, le torture, le afflizioni. Ma non si dimenticano mai i momenti di
felicità e di piacere. Solo essi rimangono. Ed è il dramma dei drogati, quando smettono: il ricordo
del loro calvario si è presto cancellato, quello dei loro godimenti si acuisce senza sosta, sempre più.
Allora basta ben poco, anche la minima contrarietà, perché subito le barriere della loro volontà
saltino ed essi ripiombino nel loro vizio. Come l'uomo che ha smesso di bere, e ricomincia il giorno
in cui trova delle difficoltà sul lavoro. Come il fumatore, che si rimette a fumare il giorno in cui ha
litigato con la moglie.
Makhan sta già chiudendo bottega, quando arrivo. Vedendo il mio denaro non ha difficoltà a
prolungare di qualche minuto la sua giornata lavorativa.
Per cominciare, gli chiedo un'iniezione di morfina. Una buona dose. Due centimetri cubi d'un
colpo.
Febbrilmente, mi siedo davanti a lui, col braccio denudato steso sul grosso libro che ha messo
sulla scrivania.
Un sudore d'impazienza mi viene alla fronte, mentre lo guardo preparare il flacone e la siringa.
Non provo il minimo rimorso. Sto per cancellare d'un colpo settimane di sforzi e di lotte contro la
droga, ma me ne infischio. Nel mio corpo il sangue ribolle d'impazienza, chiama la droga a ogni suo
battito, a ogni suo flusso.
Il legaccio strangola il mio bicipite, e la sua morsa brutale mi sembra deliziosa.
Vedo l'ago che s'affonda. Entra nelle mie carni. La sua punta offende un poco la vena gonfia.
Questo piccolo dolore acuto, com'è dolce! Fremo di felicità.
Makhan preme sullo stantuffo, adagio, con l'abilità consumata di un professionista dell'iniezione
e della droga. Riverso sulla sedia, io non mi muovo. Ma dentro di me è come un gigantesco pozzo
artesiano che scarica tutta la sua pressione e la sua violenza nel mio sistema sanguigno.
Una vampata di calore investe il mio volto. Ho l'impressione di stare per scoppiare.
Ma è bello, è bello, è indicibilmente bello! Uno spasimo, che posso paragonare solo a quello
dell'amore, mi elettrifica, e io mi venderei a tutti i diavoli del creato perché duri ancora, ancora,
ancora…
A poco a poco si placa, si attenua; una dolce gioia placida e felice ora subentra.
Finito, il mio flash è passato.
Non ne avevo avuti mai più di così formidabili, dopo il primo.
A me adesso le ore della dolce estasi, del viaggio. In fretta, bisogna che rientri subito, mentre
sono ancora lucido. Non devo correre il rischio di perdere coscienza mentre sono in mezzo alla
strada.
Prima di partire faccio rifornimento, faccio il pieno di droga. Un grosso flacone di morfina,
oppio, metedrina per dirigere meglio i miei viaggi. Arrivederci, Makhan, a presto…
Ho abbastanza droga per tirare avanti almeno quindici giorni.
Nei giorni che vengono, mi drogo a un ritmo tale, che una settimana più tardi devo tornare a fare
il pieno.
Sono ripiombato in fondo all'abisso, senza controllo né ritegno. Aumento le dosi sempre più. A
volte crollo nel bel mezzo di un'iniezione, e mi risveglio dopo un'ora, due ore o tre, non so dire, e
mi ritrovo per terra, con l'ago ancora nel braccio, e la siringa che ricade.
Allora, se rimane qualcosa ancora da iniettare, premo sullo stantuffo senza alzarmi da terra.
Ho lasciato perdere il mio lavoro da Bichnù. Non esco quasi più, mando via chi bussa alla mia
porta.
Lo stesso Krishna non ha più diritto di entrare in camera mia, se non per portarmi latte, tè, frutta
e paste. Non voglio vedere altri all'infuori di lui.
Bichnù un giorno viene per vedere come sto, e io lo caccio fuori, e non provo il minimo rimorso.
Me ne infischio di tutti.
A volte, di notte, vado a fare un giro. Erro, pieno di droga, a caso per le strade. Una specie
d'istinto di conservazione mi impedisce di andare troppo lontano da casa. Mi capita spesso di
riprendere coscienza bruscamente, in qualche parte dove non ricordo di essere mai stato.
La sola vera lucidità rimastami è che non esco mai di giorno. Per provvedermi di droga vado di
notte a svegliare Makhan. Lui non protesta: la rarefazione degli hippies lo ha reso mansueto come
un agnello con quelli che restano.
Sovente i miei passi mi conducono verso la passerella sospesa che attraversa il fiume, non
lontano da Bichnù. Ho una predilezione per questa passerella rudimentale, fatta di assi per traverso
tenute insieme da un sistema di corde. Quando si cammina sopra, essa ballonzola, vibra, entra in
risonanza. Ho imparato a scuola che si può far crollare un ponte sospeso con nient'altro che la
cadenza d'una truppa di soldati in marcia.
Voglio aumentare i miei guai. Tento, nella notte, da solo, di fare entrare la passerella in
risonanza. Va da sé che non ci riesco. Ma non importa, domani ricomincerò…
Una sera, però, rientro un poco in me stesso. La droga mi ha appena fatto fare qualcosa di
disgustoso. Mi ha fatto diventare vigliacco e cattivo. Ha fatto di me proprio ciò che ho sempre
odiato: un individuo senza dignità, che si diverte delle sventure altrui.
È stata una cosa veramente sporca, e devo farmi violenza per raccontarla.
Quella sera, sono uscito dal quartiere per la prima volta da molto tempo. Ho avuto voglia di
andar a vedere un po' di gente al Cabin Restaurant, e ho accettato che Krishna mi accompagnasse.
Ho preso molta metedrina, e quindi la testa non è troppo fra le nuvole. Almeno, lo spero.
Appena arrivato, mi siedo a un tavolo e comando delle paste. Non c'è più molta gente che
conosca, al Cabin. Una decina di hippies appena. Ma ci sono parecchi turisti, in compenso.
Katmandu è veramente alla fine. Il Louvre e Notre Dame con i viaggi organizzati, le guide, gli
interpreti, e presto le vecchie zitelle inglesi e le comitive scolastiche!
Al tavolo vicino al mio, una ragazza bionda sui diciannove o vent'anni è con degli studenti.
Chiacchieriamo. Io sono entrato sempre con facilità, e in fretta, in relazione con la gente. Questa
volta non mi è stato più difficile del solito. La ragazza è gentile e ha l'aria intelligente. E mi piace
parecchio. Mi dice che si chiama Monique L., e che è belga. Che sua madre, alla fine di settembre,
prima dell'inizio dell'università, le ha pagato un viaggio organizzato in India. Lei ha deciso, una
volta sul posto, di non rientrare. Invece di riprendere l'aereo per Bruxelles con il suo gruppo, ha
preso l'aereo per Katmandu. Ma ora è triste e un po' smarrita. Katmandu non è più ciò che lei
credeva, ma per orgoglio o per pigrizia, non ha ancora deciso di ritornare.
Krishna le piace molto. Gli offre delle paste, cerca di scambiare qualche parola con lui.
Insomma, stiamo diventando tre buoni amici.
Ma lei ha promesso a degli amici di andar a finire la serata con loro. Fissiamo un appuntamento
per il giorno dopo, e lei se ne va con una parte dei turisti che la accompagnavano. Gli altri restano, e
Krishna — su loro invito — prende posto in mezzo a loro.
Io, nel mio angolo, ho perduto un po' di lucidità. Mi sento stanco da morire. Mi lascio andare sul
tavolo, allungato fra i piatti e i bicchieri, che ho spinto pian piano col gomito. A braccia incrociate, e
con la testa sugli avambracci, entro in una specie di dormiveglia.
Avverto vagamente di tanto in tanto, lì vicino, le risa di Krishna e dei suoi nuovi amici. Sembra
che se la intendano molto bene… Ma strane visioni mi visitano… Chiudo del tutto gli occhi… E mi
sento partire, pian piano…
Un brutale scoppio di voci mi fa sobbalzare. Che succede? Dove sono? Ah! sì, sono al Cabin…
Ma dov'è Krishna? Sollevo a fatica le ciglia, e vedo.
Uno dei turisti, un francese, o belga, o svizzero, insomma uno che parla francese, ha preso
Krishna da parte.
Il ragazzo, tremante, è in piedi davanti al suo tavolo. Costui lo tiene per un polso e grida:
«Brutto macaco! Vuoi restituirmi questo biglietto, sì o no?». E sento Krishna, che risponde con
un filo di voce, per il terrore:
«Io, non rubare… Non rubare…».
«Sì — grida l'altro, — tu mi hai rubato un biglietto di 10 rupie. L'avevo in questa tasca, e tu ti sei
seduto proprio da questa parte. Restituiscilo, o te ne do un sacco e una sporta».
Krishna, che non capisce una parola di tutto questo sfogo furioso, continua a ripetere, mentre
l'altro lo scuote come una fronda:
«Io, non rubare… Non rubare…».
«Bene — sibila quell'altro, un omaccione rubicondo. — Allora voglio frugarti».
Uno dei suoi amici scoppia a ridere: «Mi stupirebbe, se riuscissi a trovare qualcosa su di lui.
Questi monelli sono dei furbacchioni. Non penserai mica che abbia conservato su di sé il tuo
biglietto! Non hai notato che cinque minuti fa è uscito fuori? Il tuo biglietto, vecchio mio, ormai è
sparito. Volatilizzato!».
L'altro si fa sempre più rosso di collera, e replica: «È possibile, ma può anche darsi che ce l'abbia
ancora». Afferra Krishna, lo solleva da terra, lo distende sul tavolo si mette a frugarlo senza troppi
riguardi. Io ne sono sicuro, Krishna non ha rubato quel biglietto. Non ruba mai. È di un'onestà
scrupolosa. Tutti quelli che lo conoscono lo sanno.
E allora che cosa aspetto, diamine, per dirlo a questo tanghero paonazzo? Non vorrò certo
lasciare che il mio Krishna venga malmenato per un furto che non ha commesso. Forse il biglietto è
scivolato via di tasca, a quell'individuo. E allora può essere finito in terra, sotto la sua sedia.
Getto un colpo d'occhio, così, tanto per controllare…
E distinguo nettamente un biglietto piegato in due, con un lembo un po' sollevato, sotto il tavolo,
dalla parte dell'uomo che strilla.
Ma sì, diamine, che cosa aspetto a gridargli: «Smettila di picchiare questo ragazzo, e guarda
piuttosto sotto la tua sedia»?
Cos'è che mi impedisce di aiutare Krishna?
Io non dico nulla! Guardo il monello che le piglia, e non dico nulla, non faccio un solo gesto per
aiutarlo!
L'omaccione, ora, per la rabbia gli assesta un manrovescio.
«Me lo vuoi dire? Mi vuoi dire dove hai nascosto i miei soldi, brutto mascalzone?».
E io lo lascio fare! E sorrido!
Krishna mi chiama in suo aiuto. E io non mi muovo.
Semplicemente, non ho voglia di muovermi. Me ne sto bene così, a smaltire la mia droga, e mi
diverto a vedere un omaccione che infierisce sopra un marmocchio. E che importa se questo
ragazzo è il mio Krishna, il mio piccolo fedele compagno? Che importa se è innocente del furto di
cui lo accusano?
Ha solo da cavarsela da solo, dopo tutto: sono affari suoi, non miei.
«Charles! Charles!», chiama sempre Krishna.
L'uomo si volta verso di me:
«Lei conosce questo piccolo delinquente?».
Io faccio di si con la testa, e rido:
«Sì, lo conosco bene. Ma continui pure, è proprio un piccolo delinquente».
Come ho potuto dire una cosa simile? Come posso spiegare questo mio comportamento così
meschino?
Arrossisco di vergogna ancora oggi, quando me ne ricordo. Ecco che cosa può fare la droga di
me… Spaventoso! Io che so battermi, io che ho un pugno da picchiatore, io che adoro i bambini e
mi farei uccidere per difenderne uno… Sono bastate poche dosi di droga per fare di me una specie
di mostro di sadismo e di vigliaccheria, un mostro contento di vedere quel bambino che ama,
picchiato sotto i suoi occhi, per niente!…
Sono così fuori di me stesso, là in fondo al ristorante, che non mi rendo neppure conto che
Krishna può finire accoppato da questo grosso bestione, che la polizia può mettercisi di mezzo, che
possono espellerlo dal Nepal, e io con lui. Ho proprio perduto ogni controllo, ogni misura.
Per fortuna il caso si incarica di salvare la situazione.
Sotto uno schiaffo più violento degli altri, Krishna rotola a terra, sotto il tavolo…
Col naso sul biglietto!
Tra due singhiozzi ha tempo di vederlo. Lo raccoglie, si rialza, e grida:
«Io trovare! Biglietto trovato!».
«Ah, piccolo furfante! È lì che lo avevi nascosto! — sibila l'altro. — Finalmente hai confessato!
To', prendi ancora due ceffoni, e sparisci».
Tramortito da due formidabili manate, Krishna va a sbattere contro il mio tavolo. La sua fronte si
mette a sanguinare.
Mi mordo le dita a raccontare queste cose. Come ho potuto non volare addosso al bestione che
l'ha conciato a quel modo per 10 rupie?
Sempre sorridendo, rialzo Krishna.
«Su, vieni — gli dico. — Torniamo a casa».
Lo prendo per un braccio e lo trascino verso l'uscita…
Arrivato a casa, finalmente mi ritorna un briciolo di umanità. Prendo Krishna fra le braccia, gli
lavo la ferita della fronte, gli medico le guance gonfie. Scosso di tanto in tanto dai singulti, lui si
rannicchia contro di me. Non ce l'ha con me perché ho lasciato che lo picchiassero. Che cosa deve
passare per la testolina di questo bambino? Tutto quello che io faccio, buono o cattivo, è sempre
buono per lui!
Per addormentarlo gli canticchio qualche strofetta di una ninna-nanna che ricordo della mia
infanzia. E Krishna finisce per assopirsi…
Allora, vedendolo così debole, così martirizzato, d'improvviso sento atrocemente vergogna di
me. Tutta la scena orribile del Cabin Restaurant mi ritorna, netta, davanti agli occhi. No, non è
possibile… Possibile che io sia rimasto lì, seduto, senza far nulla, come un vile, a ridere, a
incoraggiare perfino quel bestione a picchiare Krishna? La droga mi tiene ormai sotto il suo
dominio al punto che divento capace di simili cose?
Quando si ritorna in sé dopo una vicenda tanto penosa, delle due 1'una. O l'orrore di se stessi vi
fa buttare dalla finestra fiale, flaconi, pastiglie e siringhe, e giurare, e mantenere la parola, che non
toccherete mai più una droga, anche la più innocua… Oppure vi dite: sono davvero spacciato, non
sono più che uno straccio, è la fine. Tanto peggio. A che scopo tentar di risalire la china, al punto in
cui ormai sono arrivato?…
E io scelgo questa seconda soluzione. Il che prova fino a che punto la droga mi tiene fra le sue
grinfie. Non ho più che un'idea: dimenticare queste cose, il cui ricordo mi diventa insopportabile. In
fretta, la siringa, il legaccio, le fiale. In fretta, dimentichiamo che sono uno straccio, un vigliacco,
uno schifo!
Formidabile, paradisiaco, il flash della morfina mi strappa ai miei rimorsi e alla mia vergogna. È
fatta, sono di nuovo calmo, tranquillo. Più niente ha importanza. Krishna ha sofferto? È la vita che
lo vuole… Io sono un vigliacco? È la vita, la forza delle cose… Ma adesso basta con queste storie.
Mi si lasci in pace…
Come sto bene tutto solo, col mio sangue che ribolle deliziosamente…
La sera seguente, al Cabin, dove sono tornato da solo (Krishna, col viso gonfio, è restato a letto,
curato dalla moglie di Bichnù, che s'affanna attorno a lui con tenerezza e pietà), trovo Monique. Ha
una richiesta da farmi. Vuole che le insegni gli shoot. Finora ha solo fumato gli shilom di hashish.
Ma vuole andare più lontano.
Se avessi un po di sale in testa, le griderei:
«Non tentare! Guardami bene, e rifletti. Vuoi sapere come la droga è capace a ridurre un uomo?
…».
E le racconterei tutto: lo sfacelo fisico, psichico e sessuale. Le racconterei anche la spaventosa
serata di ieri, dopo la sua partenza dal Cabin.
Ma la droga ha succhiato la mia volontà, la mia dignità, il mio buon senso. Non ho più nulla,
nella testa. Le dico:
«D'accordo, vieni, ti insegnerò. Vedrai, se segui bene i miei consigli, sarà bello».
Un quarto d'ora più tardi, nella mia camera, accanto a Krishna che dorme gemendo ogni tanto nel
sonno, arrotolato nella sua coperta, su dei cuscini, ai piedi del mio letto, io faccio a Monique la sua
prima iniezione di morfina.
Impiego tutta la mia scienza e tutto il mio talento di drogato. Sono un apostolo meraviglioso. Mi
sta a cuore di essere il miglior professore di droga che ci sia, di aiutare questa ragazza a evitare tutti
gli errori che ho commesso io, ad arrivare il più presto possibile alla felicità del viaggio.
Così comincio col placare la sua piccola angoscia, molto normale. Metto nella musicassetta un
nastro di musica dolce, molto calma, molto tenera. È quel che ci vuole per i suoi nervi. Poi la
depongo sul mio letto, la stendo fra i cuscini, ben allungata, con la testa appena sollevata.
«Distenditi — le dico, — pensa solo a cose piacevoli. Ora non hai più nessun problema, stai
bene, e vedrai com'è bello».
Nello stesso tempo le preparo uno shilom di hashish, e le spiego che deve fumarne un poco, non
troppo, quel che basta per rilassarsi.
Mentre fuma, io preparo il suo shoot sopra il lavabo. Un piccolo shoot. Se troppo forte, potrebbe
farle male. Ed è ciò che bisogna assolutamente evitare.
Torno da lei con la siringa e il legaccio. Passo il legaccio attorno al suo braccio. Stringo.
«Ecco fatto, sei pronta… Hai delle belle vene, sarà facile… Non aver paura. Ecco, io buco, tolgo
il legaccio… Tutto bene?».
Fa segno di sì, sorridendo.
«Ora la morfina… Lasciati andare, rilassati. Vedrai, tra poco proverai il flash. Ne sono
sicuro…».
Non ho succhiato l'ago prima dello shoot. Non voglio che, a causa di questo gesto rituale, la sua
prima iniezione la infetti e le procuri un ascesso.
Lentamente premo lo stantuffo, molto lentamente, spiando le sue reazioni.
Fiduciosa, lei si abbandona in tutta la sua lunghezza, gli occhi semichiusi, respirando a brevi
tratti.
D'improvviso la sua respirazione accelera, vedo il suo volto colorirsi di rosa, lei geme un poco,
ma senza cessare di sorridere.
Premo ancora sullo stantuffo. A goccia a goccia le infondo la morfina e vedo, sento che ogni
goccia le porta una goccia di quella felicità indicibile che solo l'amore e la droga possono donare a
un essere.
Poi, quando la siringa è vuota, ritiro delicatamente l'ago. Con un batuffolo di ovatta pulisco con
cura il puntino rosso che le è rimasto alla piega del gomito.
Allora torno al lavabo, preparo un altro shoot, questa volta per me.
E mi stendo accanto a Monique, mi stringo contro di lei, la carezzo con tenerezza e amicizia.
2.
In pochi giorni ho insegnato a Monique tutto. È diventata una perfetta morfinomane. Viviamo
come fratello e sorella nella droga, io con dosi inverosimili, lei più ragionevolmente, ma, nuova
com'è, e ancora in piena forza, già in grado di attingere estasi come le mie.
Krishna, che è guarito, e non sa assolutamente cosa sia il rancore, non è per nulla geloso di
Monique. Ci serve tutt'e due con la stessa deferenza, con devozione perfino.
Monique, il cui organismo non sente ancora i morsi del veleno, mi meraviglia per la sua salute e
freschezza. So che presto tutto questo sparirà, ma per ora è praticamente indenne. Mangia, e
soprattutto dorme.
Per parte mia, è da parecchio ormai che quasi non riesco più a chiudere occhio. In pratica sono
giunto allo stato di spossatezza che mi aveva preso sulla montagna.
Un giorno il console Omnès mi fa recapitare due righe, in cui dice che è inquieto per me. Mi
sento scosso, voglio uscire, andare all'appuntamento che mi fissa a casa sua: mi ha invitato a cena.
Sua moglie, mi dice, ha preparato per me una cenetta squisitamente francese.
Monique mi invoglia ad andarci. Mi lavo, mi preparo. Indosso la tenuta di gala.
Mezz'ora prima di cena, mi avvio.
Per le scale, d'improvviso, l'immagine di ciò che può essere una vera cena francese invade la mia
mente. Vedo come se fosse sotto i miei occhi un'enorme padella, con patatine fritte oleose e
croccanti, e una bistecca al punto giusto di cottura, su cui una noce di burro fonde mollemente in
mezzo al prezzemolo.
La nausea mi prende. Risalgo le scale. Mi butto sul letto, con lo stomaco sconvolto. L'immagine
della padella mi perseguita per tutta la notte, in uno spaventoso incubo di carne sanguinolenta e di
grasso ripugnante.
Il mattino seguente, per la prima volta, la follia, la vera follia che mi spiava da tanto tempo,
comincia ad afferrarmi.
Un improvviso raggio di sole sul muro, davanti a me, mi tira fuori dal torpore in cui sono
piombato dopo la notte insonne.
La linea di confine tra ombra e luce taglia in due il ritratto che un amico pittore mi aveva fatto a
Bombay, e che ho appeso al muro.
Col movimento del sole, la linea ombra-luce si sposta sul mio ritratto, raggiunge la narice destra,
taglia lo zigomo destro, illumina l'occhio destro, quello buono, che ci vede.
Mi drogo ancora una volta, fremendo di piacere al momento del flash. Mi ridistendo nel letto.
Bisogna assolutamente che studi il movimento del sole. Guardo: la linea avanza. Avanza. Avanza.
Guadagna millimetro su millimetro.
Bisogna che faccia qualcosa per fermarla! E mi alzo. La blocco col dito. Aspetto. Avanza ancora.
Tiro più indietro il dito. Avanza sempre. Tiro ancora indietro il dito…
Vittoria! Il sole ha obbedito. La linea della luce si è finalmente. arrestata!
Con un segno di matita sul mio ritratto, prendo atto della mia vittoria.
Domani all'alba, si vedrà se il sole ha ancora voglia di lottare con me!
L'indomani, all'alba, vittoria! Il sole è indietreggiato! La linea della luce si è fermata due
millimetri prima del tratto segnato ieri.
E il giorno dopo, ancora due millimetri più indietro!
In quattro giorni il sole è indietreggiato, davanti a me, di otto millimetri. Il mio indice fa paura al
sole! Io sono più forte del sole!
La stessa sera di questo «trionfo», riprendo coscienza nonostante tutto. Vedendo quei segni di
matita sul mio ritratto che amo, e che ho conservato con tanta cura da Bombay fino adesso, entro in
una crisi di rabbia contro di me. Sono dunque diventato matto da legare! Come ho potuto non
rendermi conto di una cosa tanto semplice? Il sole orienta i suoi raggi in modo differente, giorno
dopo giorno, per la semplice ragione che la terra gira attorno al sole e oscilla sul suo asse!
Le cose ora vanno veramente male, sono giunto al limite della resistenza nervosa e mentale.
Allora, in fretta uno shoot, per dimenticare che sto per smarrire completamente la ragione!
3.
Tre colpi vigorosi assestati alla porta mi strappano al mio letargo. Mi sollevo. Che succede?
«Krishna, va' a vedere…».
Krishna non c'è.
«Monique?».
Neanche Monique è presente. Che ora è? Sono le nove. Già, è vero, è l'ora in cui vanno al
mercato. Il sole inonda il muro di fondo, dopo di essere passato sul mio ritratto. Chi può bussare
con tanta insistenza?
Penosamente mi alzo, vado fino alla porta e la apro.
Due poliziotti si precipitano nella camera!
Sto facendo la fine del topo.
Per un secondo penso di saltare dalla finestra, ma sono nudo. E dove andrei? Ci dev'essere
un'auto della polizia lì sotto. E poi, stupido che sono: la camera è al secondo piano, mi romperei il
collo.
Ci sono cascato, la trappola è scattata. Indovino che cosa è capitato. Il poliziotto dell'ufficio
immigrazione mi ha venduto. Lui solo conosceva il mio indirizzo. È andato a trovare i suoi
compagni funzionari, ed essi ben volentieri sono venuti ad acciuffare nel letto il francese che non ha
più il visto di soggiorno.
Sono troppo inebetito per reagire. Come un automa mi vesto, prendo le mie carte e il mio denaro,
e seguo i poliziotti.
Di sotto, in mezzo alla calca, dove in prima fila la moglie di Bichnù mi guarda con aria desolata,
scorgo un francese, il medico del Centro Culturale.
Che cos'è venuto a fare, costui? Ma sono troppo spossato e frastornato per farmi altre domande.
Salgo sulla vettura della polizia, docilmente, senza tentar di scappare via di corsa.
Durante il tragitto, a poco a poco, cerco di rimettere le idee in ordine.
Senza dubbio è andata proprio così: l'uomo dell'ufficio immigrazione mi ha tradito. E ora sarò
espulso.
Maledizione! Doveva pur capitarmi, una volta o l'altra. L'importante è che riesca a non farmi
espellere senza la mia roba. Perché, oltre ai bagagli, ho dovuto lasciare a casa l'armamentario della
droga. E non posso farne a meno, col rischio di lasciarci la pelle.
Nei quartieri ovest di Katmandu, l'auto rallenta davanti a un terreno incolto. Avanza al piccolo
trotto, si ferma davanti a un lungo edificio basso, d'un solo piano. È il commissariato centrale della
polizia di Katmandu. Senza troppi riguardi, i miei accompagnatori mi spingono in una stanza buia,
dove mi ritrovo in compagnia di furfanti e borseggiatori.
Qualche panca. Mi siedo, e attendo. Sono sicuro di non dover attendere a lungo. Le espulsioni
sono rapide a Katmandu, tanto più che i poliziotti nepalesi, come si sa, cercano di mandarci via
prima che la nostra ambasciata sia stata avvertita: a partire da quel momento le cose si
complicherebbero per loro, e — come è logico — cercano di evitarlo.
In capo a due ore sono ancora lì, e per me non va troppo bene. Da parecchio avrei dovuto farmi
un altro shoot. L'astinenza comincia a farsi sentire, ed è molto sgradevole.
Ogni dieci minuti circa, un poliziotto viene a prendere uno dei prigionieri.
È chiaro che c'è una specie di turno. Ce ne sono ancora un dieci davanti a me. Un rapido calcolo
mi fa comprendere che se passo per ultimo come sembra probabile, dato che sono arrivato per
ultimo — ho da attendere ancora un paio d'ore.
Impossibile. Devo prendere la mia dose prima, altrimenti sarà l'inferno.
Vado al finestrino, mi aggrappo alle sbarre e guardo fuori, per cercare di calmarmi e di
raccapezzarmi un poco. I poliziotti vanno e vengono. Questi poliziotti nepalesi trasandati e sporchi,
che sarebbero la vergogna di tutte le polizie del mondo. La loro uniforme: calzoni kaki stretti alle
gambe, alcuni troppo corti, altri troppo lunghi, e col risvolto in basso. In alto, sopra una camicia
bisunta, un maglione kaki scende sui calzoni ed e stretto alla vita da un pesante cinturone.
Ho paura. So che c'è poco da sperare da questa gentaglia che vive alla rinfusa in un casermone,
dorme su pagliericci buttati in un angolo e mangia riso tutti i giorni, per 60 miserabili rupie al mese.
Si sa che sono quasi tutti individui sospetti, dei trafficanti, anche drogati (ne avrò più tardi la prova,
e in modo molto spiacevole).
Ancora un'ora di attesa, e non ce la faccio più. Ho il fuoco nel sangue. Vado alla porta, la scuoto,
grido. Inutile, non viene nessuno. Grido con tutto il fiato che ho in canna. La porta finisce per
aprirsi e due poliziotti entrano. Mi immobilizzano e mi sbattono contro il muro. Escono. Appena la
porta è rinchiusa, mi rimetto a urlare a squarciagola. Ritornano, e mi sbattono di nuovo contro il
muro. Il giochetto si ripete sette od otto volte, e comincio a sentirmi la schiena piena di lividi. Senza
risultati. Bisogna che cambi metodo.
Ricomincio a urlare, ma intanto ho calcolato il tempo che essi impiegano a tornare. Questa volta,
quando aprono la porta, io non sono più al mio posto ma contro il muro, accanto all'uscio.
Entrano. Li sposto con una spallata, mi precipito nel corridoio e m'infilo nella porta di fondo.
Apro, e vedo che sono capitato proprio nell'ufficio del commissario.
È quello che cercavo, la fortuna mi ha permesso di arrivarci prima del previsto.
Costui deve sapere di sicuro l'inglese. Mi rivolgo a lui, chiedendogli perché sono finito lì, con
quale diritto mi hanno arrestato, imponendogli di dirmi che cosa si vuole da me, minacciando di
mobilitare il consolato e l'ambasciata, e se è necessario il mondo intero, se non si risolve il mio caso
il più in fretta possibile.
Inoltre esigo che mi si lasci andare a prendere la mia roba dove abito.
Urlo e tempesto a tal punto, che il commissario, esasperato, fa segno ai suoi sbirri, che mi sono
saltati addosso e cercano di immobilizzarmi, di lasciarmi libero.
Il suo intervento mi calma. Ansimando, lo guardo e cerco di indovinare che cosa mi dirà.
«Drogato?», mi domanda.
Faccio di sì con la testa.
Scuote la testa a sua volta, ma come per dire: «Capisco».
Ciò che capisce è che sto entrando in crisi, e che se non mi si dà della droga al più presto io
metterò a fuoco e fiamme il commissariato.
Che io abbia o no una crisi da astinenza, gliene importa un bel niente. Ma non vuole che gli
pianti grane.
«Bene — mi dice. — Ora ci occupiamo di lei. La mando subito a Delli-Bazar».
Delli-Bazar? E perché a Delli-Bazar? È la corte di giustizia, lo so bene. Ma che c'entro io? Non è
lì, che io sappia, che si trattano le espulsioni. Di sicuro mi sta capitando qualcosa di molto strano.
Più in fretta si chiariranno le cose, e meglio sarà.
Così, senza protestare, mi lascio caricare sull'auto della polizia.
Delli-Bazar, fuori città, è un vecchio monastero, una grossa costruzione quadrata con un cortile
centrale coperto di erba ingiallita e spelacchiata. Tutti gli affari giudiziari di Katmandu vengono
trattati lì, ed è anche una prigione.
Quando arrivo, il cortile è pieno di contendenti, venuti lì con mogli, bambini e anche bestiame.
Mi scaricano in un angolo, sotto la vigilanza di due poliziotti, e l'attesa ricomincia.
Uno dei due farfuglia un po' d'inglese, e risponde alle mie proteste spiegandomi ogni volta che
bisogna aspettare, che il mio turno verrà.
Ma deve venire subito, perché non ne posso più.
Allora, poiché mi è riuscito così bene prima, ricomincio a drammatizzare la mia crisi.
Ci riesco a meraviglia. Mi rotolo nell'erba. Raccolgo pietre e ne getto dappertutto intorno a me.
Lancio grida da far accapponare la pelle. Attorno si fa il vuoto, tutti scappano, i due poliziotti
sudano sette camicie per tenermi fermo. Ma la rabbia e la crisi mi danno forze erculee. Li mando a
gambe all'aria, mi alzo urlando a più non posso, mi precipito verso l'uscita. Bisogna che si mettano
in cinque o sei per fermarmi e immobilizzarmi.
Sono spossato, tremo come una foglia, soffoco, sto per svenire, ma almeno, ancora una volta,
ottengo quello che voglio: mi avvertono che sarò giudicato subito, e mi conducono al tribunale.
Curioso tribunale: una stanzetta buia, dai muri di pietra stillanti umidità.
Dietro il suo scrittoio, il giudice.
Mi lascia in piedi tra i due poliziotti, e comincia a interrogarmi in un cattivo inglese.
Mi domanda prima le informazioni sulla mia identità, che cosa faccio nel Nepal, eccetera.
L'interrogatorio classico, al quale rispondo sforzandomi di restare il più calmo possibile. Mi tengo a
questa versione: sono uno studente venuto ad approfondire le civiltà orientali, e se mi drogo è per
penetrare più a fondo nel loro spirito. (Questa risposta non è fatta per sorprenderlo, perché — come
ho già detto più volte — la droga in Nepal non è proibita).
D'improvviso, la musica cambia.
Mentre mi aspetto che mi domandi perché non ho più il visto di soggiorno, e perché allora mi
trovo ancora nel Nepal, mentre mi aspetto che mi dica che con suo grande dispiacere è costretto a
espellermi, ecco invece che mi dice:
«Mi parli un po' di questo furto».
«Quale furto?», domando stupefatto.
Veramente cado dalle nuvole. Di furti ne ho commessi a Katmandu, è vero, ma sono almeno due
mesi che non rubo nulla, e i piccoli colpi, i piccoli traffici del periodo precedente la partenza per la
montagna, sono cose passate. No, davvero, non so proprio di che cosa vuole parlare.
A meno che non sia la storia del Coltrane Hotel, prima che partissi per i monti? O qualcuno dei
traffici di travellers' cheques, o di macchine fotografiche, al tempo del Garden?… È possibile, ma
francamente mi stupirebbe. Se avessi dovuto essere perseguito per quelle cose, sarebbe già
avvenuto da tempo.
«Di che furto intende parlare?», dico.
Il giudice si appoggia al tavolo e incrocia le dita guardandomi negli occhi (decisamente, tutti i
giudici del mondo si assomigliano).
«Il furto dell'apparecchio fotografico al medico del Centro Culturale», dice.
Per la sorpresa dimentico d'un colpo tutti i dolori e tutti i brividi che la crisi fa aumentare in me.
È come se una doccia gelata mi inondasse brutalmente.
Rivedo il medico che accompagna i poliziotti da Bichnù, e comprendo tutto.
Gli hanno rubato la sua macchina fotografica, una macchina molto cara, che io conosco bene (ce
ne siamo serviti insieme, per prendere delle foto in una serata culturale del Centro). E ora accusano
me!
Mentre, una volta tanto, non c'entro per nulla!
Stupefatto, sento il giudice che mi racconta, col tono cortese ma annoiato di chi ti espone
qualcosa di cui pensa che tu sia già al corrente, che tre notti fa al Centro Culturale, dopo la
proiezione d'un film, Fanfan la Tulipe (il modo in cui pronuncia il titolo del film mi farebbe
scoppiare a ridere, in altre circostanze), io mi sono introdotto nel Centro e ho svaligiato
l'appartamento del medico, dove ho rubato soprattutto quell'apparecchio fotografico!
E dato che sono perfettamente in grado di sapere che non sono stato io a fare il colpo, immagino
facilmente come le cose devono essere andate. Secondo me, sono degli invitati nepalesi che hanno
alleggerito il medico, profittando del trambusto della serata. E di sicuro è durante la proiezione della
pellicola che hanno dovuto eclissarsi dalla sala delle conferenze, salire ai piani superiori e «visitare»
l'appartamento.
È ciò che spiego al giudice.
Lui ride.
«Per prima cosa sappia, signore — replica, — che si può avere la massima fiducia in questi
invitati del mio paese che il direttore del Centro Culturale francese ha il piacere di ricevere a casa
sua.
«Poi, noi sappiamo che solo lei ha la chiave del Centro a sua disposizione, durante la notte. Non
vedo chi, oltre a Lei, avrebbe potuto introdursi nel Centro. Il medico è formale: il suo appartamento
è stato visitato durante la notte.
«Infine, e questo da solo dovrebbe bastare per farla confessare, il fotografo di New Road al quale
Lei ha rivenduto l'apparecchio, ha ammesso che è stato lei a portarglielo.
«Sembra del resto che Lei non sia uno sconosciuto, per lui. Non è così?».
Questa volta sono in un bel pasticcio. Sono conciato per le feste. Eppure tutto quanto — eccetto
che io conosco il fotografo — è falso, è arcifalso! Non ho derubato questo medico, non ho
rivenduto il suo apparecchio al fotografo. La verità, la indovino con rabbia: torchiato dalla polizia, il
fotografo ha dovuto fare il mio nome. Era più facile. Non aveva niente da temere, accusandomi: una
volta espulso, dopo aver scontato la pena, non sarò certo io a dargli delle noie. E lui potrà
continuare impunemente con i suoi traffici non troppo puliti.
Come in un vortice, misuro tutta la grandezza della catastrofe. Se mi va bene, me la cavo con una
quindicina di giorni di carcere. Ma chi me lo assicura? Nel Nepal, come ovunque in Oriente, la
nozione del tempo non esiste, e mi possono tranquillamente mandar a marcire in fondo a un
sotterraneo per cinque o dieci anni, se al giudice salta il ghiribizzo di dimenticarmi laggiù.
A ogni modo morirei molto prima. Nello stato di privazione di droga in cui mi trovo, uno
svezzamento improvviso è così brutale che mi può uccidere in pochi giorni.
La sola cosa da fare, se non voglio finire lì dentro sbavando come un cane idrofobo, è procurarmi
della droga, e far avvertire il mio solo amico, il signor Omnès, perché mi venga in aiuto.
Rifletto in fretta. Se resto in prigione, mi sarà quasi impossibile raggiungere qualcuno all'esterno.
Bisogna che mi faccia mandare all'ospedale. E poi ho un'altra ragione per farmi mandare
all'ospedale: là, ho qualche possibilità di trovare della droga, o almeno di essere disintossicato
normalmente, senza pericolo, e non svezzato brutalmente.
Perciò decido di giocare a carte scoperte col giudice. Gli spiego che sono drogato forte, che
potrei impazzire e anche morire, se mi si mette in prigione senza droga. Gli chiedo di farmi
mandare all'ospedale americano di Katmandu. Là mi cureranno, sotto sorveglianza se occorre, e io
sarei in grado perfino di aiutarlo a condurre in porto la sua inchiesta. Non è evidente?
Mi guarda e scuote la testa.
«I ladri vanno in prigione, non all'ospedale», sentenzia.
La rabbia mi annebbia la vista. Urlo:
«Ma io non ho rubato!… E Lei mi uccide, se mi mette in prigione!
«E anche se fossi un ladro, non si punisce con la pena di morte, in Nepal, uno che ha rubato una
macchina fotografica!
«Lei non ha il diritto di fare ciò. Le leggi internazionali glielo impediscono. Io avvertirò il mio
ambasciatore. La Francia non permetterà una cosa simile. E Lei dovrà rendere conto di quello che
fa!».
Ormai mi ha preso un furioso accesso di collera. I miei nervi, messi alla frusta dalla crisi di
astinenza, che cresce e si acuisce in me di minuto in minuto, esplodono tutto d'un colpo.
I dolori sordi che mi attanagliavano le viscere da un'ora o due, si scatenano. Ho l'impressione di
essere una massa incandescente. Una spaventosa energia si diffonde nelle mie membra. Vedo rosso.
Sento che sto per sconquassare tutto, che mi prende un'irresistibile crisi di follia. Ricordo bene, il
mio ultimo pensiero prima di scatenarmi è questo:
«Così sarà costretto a mandarmi all'ospedale…».
E non mi controllo più. Una forza demoniaca mi invasa. Anche se cercassi di frenarmi, non
potrei. Crisi da astinenza, più rabbia di essere arrestato per un furto che non ho commesso, mi
trasformano in una belva selvaggia.
Solo più tardi, da un poliziotto che mi sorveglierà, verrò a sapere che cosa ho combinato. Ho
fracassato lo scrittoio del giudice, la sua poltrona, l'armadio dei documenti lungo il muro. Ho messo
k.o. i due poliziotti che mi erano vicino, e, quando mi hanno immobilizzato — erano stati necessari,
sembra, cinque o sei uomini —, ero intento a scuotere il giudice per il collo, come un albero da
sradicare.
Al risveglio, la mia prima impressione è un dolore intenso. Sono pesto dalla testa ai piedi. E non
solo a causa dei colpi che ho dovuto ricevere: i miei muscoli, spossati dall'enorme sforzo che la crisi
ha loro imposto, sono duri come il legno. Ho molto freddo, e tremo. Lo stomaco mi brucia
atrocemente. Presto, venga un medico e mi dia un calmante!
A fatica apro gli occhi, e guardo attorno a me…
Non è possibile! È un incubo. Una sala d'ospedale questa?
Lentamente mi abituo all'oscurità, e presto scopro con orrore la verità.
Sono lungo e disteso sopra un tavolaccio di legno, senza materasso, senza una coperta. Sopra di
me una volta di pietre trasudanti. Volta e tavolaccio sono lunghi in tutto circa 15 metri, per 3 metri
di larghezza. Tra il bordo del tavolaccio, ai miei piedi, e la parete di fronte, perché serva da
passaggio da un capo all'altro del sotterraneo, non c'è più di un metro.
Siamo in una decina, stesi come me. E alcuni, due o tre, non ci vedo bene, sono incatenati al
muro.
Da una delle due estremità, una gradinata sale verso una porta aperta che dà sul cortile interno,
circondato da alti muri, con un po' d'erba e due o tre alberi.
Un poliziotto armato monta la guardia sulla porta.
Non sono all'ospedale.
Sono in prigione.
In Nepal, saprò più tardi, i pazzi non sono considerati come malati, ma come criminali che
bisogna rinchiudere, per impedir loro di fare del male. Medioevo nel 1969. Io ho avuto una crisi di
follia, e sono rinchiuso come pazzo.
Lo choc è così forte, che resto un'ora e più sprofondato in uno stato di completa ebetudine. Quasi
non avverto neppure l'astinenza. Mai mi ero trovato in una situazione così drammatica. Sento che
sto piombando nella disperazione.
Devo reagire, assolutamente! Ma come?
Sconvolto, osservo gli altri detenuti. Poveri diavoli rivestiti di stracci, magri e pallidi, sdraiati sul
tavolaccio. Alcuni dormono avvolti in una coperta. Altri si spidocchiano a vicenda. Accanto alla
porta, un detenuto fa scaldare dell'acqua sopra un fornello rudimentale il cui fumo riempie il
sotterraneo e brucia gli occhi. Prepara del tè. I suoi compagni vanno, ciascuno con una tazza in
mano, a farsi servire.
La gola secca mi fa molto male. Bere, sia pure un po' di tè bollente, mi darà sollievo. Mi alzo
anch'io. O meglio, cerco di alzarmi. Le gambe si rifiutano di reggermi. Devo prima disanchilosarmi
le gambe, a poco a poco, e poi riesco a sollevarmi, adagio. Mi appoggio al muro dove pendono delle
catene. Catena dopo catena, trascinandomi più che camminando, riesco ad arrivare fino al cuoco.
E lì mi accorgo con stupore che ogni volta che riempie la tazza di uno dei suoi compagni, tende
l'altra mano e si fa pagare.
Dieci pesa.
Bisogna pagare per bere, in questa prigione!
Non mi sono ancora accertato se mi hanno perquisito dopo la mia crisi, quando ho perduto
conoscenza. Perché sono dovuto svenire di sicuro, dato che non ricordo come sono finito quaggiù.
Di scatto porto la mano alla vita. Miracolo! Mi hanno lasciato la cintura. Il mio tesoro segreto è
tutto con me.
Poi mi frugo le tasche. È straordinario. Non mi hanno perquisito! C'è tutto. Il portafoglio, il
taccuino, l'accendisigari, e perfino una cinepresa in miniatura, una «Minox» che porto, chissà poi
perché, in fondo a una tasca. Sono arrestato sotto accusa di furto d'un apparecchio fotografico, e mi
lasciano addosso una cinepresa. Questa polizia nepalese è davvero strana…
Bene, l'essenziale per ora è che ho di che pagare la mia tazza di tè. Ed è importante. Sembrano
intrattabili fra loro, questi detenuti. Il disgraziato che è davanti a me non ha più un soldo, e ha un
bel supplicare: il cuciniere rifiuta secco di versargli il tè.
Pago per lui. Lui mi guarda, così sorpreso dal mio gesto che non pensa nemmeno di ringraziarmi.
Deve credermi davvero pazzo, anche lui. Ma prende la sua tazza e va a consumarla nel suo angolo.
Il tè bollente mi fa bene, e quando torno a stendermi sul tavolaccio, tremo un po' meno.
Ma l'umidità del sotterraneo è glaciale, e mezz'ora più tardi batto di nuovo i denti. Anche la
mancanza di droga mi fa battere i denti. Proprio le cose non vanno. Ho bisogno di uno shoot,
bisogno, bisogno davvero. O me lo fanno, o finisco per morire!
Ma che almeno muoia senza aver freddo! Questi brividi, questi tremiti, si fanno atroci,
insostenibili. Se almeno avessi qualcosa per coprirmi…
Striscio sul tavolaccio in cerca d'una coperta. Ne trovo una in mezzo a due detenuti, che sembra
abbandonata. Mi corico fra i due, mi avvolgo nella coperta e cerco di dormire. Ma non serve a
niente, tremo sempre di più. Sento i denti che battono.
Quasi incosciente, tiro la coperta del mio vicino di destra. Ne ho bisogno, assolutamente. Quello
si dibatte, la tira verso di sé. Cerco di parlargli. Invano. Le parole non mi escono dalla bocca,
talmente i denti battono forte.
Allora mi frugo in tasca, tiro fuori 3 o 4 rupie, gliele porgo indicando col dito la sua coperta.
Lui ha un largo sorriso, e me la dà farfugliando qualcosa che non capisco.
Anche con due coperte, tremo come prima. Sento che comincio a delirare, tanto forte si sta
facendo la crisi da astinenza. Un'idea fissa s'impossessa di me: devo procurarmi tutte le coperte
della prigione, tutte! Afferro quella del mio vicino di sinistra, e tiro. Resiste. Tiro. E lui gridando mi
vola addosso. Cerco di fargli capire che sono disposto a pagare, cerco i soldi, ma non riesco
nemmeno a trovare le tasche.
Mi dibatto così forte che rotoliamo a terra tutt'e due, urlando, e facendo baccano. Il poliziotto di
guardia accorre. Ci separa prendendoci selvaggiamente a pedate. Io rotolo a terra, ansimando,
scosso da fremiti incoercibili.
Tutti i detenuti sono in piedi attorno a me, e strillano. Capisco che non mi stanno certo dicendo
cortesie. Nessuno sembra che mi abbia in simpatia, quaggiù…
Il poliziotto meno degli altri. A grandi pedate nelle costole mi spinge verso il tavolaccio, in
disparte. Sono troppo debole per resistere. Mi lascio spingere, e poi mi tiro su come una bestia.
Dopo, ci sono ore e ore di vuoto nella mia memoria…
Ricordo vagamente che a un certo punto ho bisogno della latrina. Il poliziotto mi conduce in
fondo al cortile in un bugigattolo indecente, che mi fa vomitare. Sono così debole al ritorno, che
devo passare un braccio attorno alle spalle del poliziotto. Più che sostenermi, mi trascina, perché è
alto un metro e mezzo o poco più, mentre io sono un metro e ottantaquattro. Dobbiamo formare una
ben strana pariglia!
Un po' più tardi, mi prende un accesso di sudorazione. Il mio corpo intero si mette a colare
acqua, letteralmente. Accartocciato sul bancone, avvolto in una coperta che in qualche modo sono
riuscito a recuperare, non riesco a reprimere i tremiti del corpo. Sotto di me il sudore cade a goccia
a goccia sul tavolaccio. Ho l'impressione di essere una spugna, che una forza invisibile strizza e che
si vuota di tutta la sua acqua.
Dolori lancinanti mi attanagliano le reni. Lo stomaco è come un blocco infuocato, la testa è
trafitta da punte acuminate. Ho freddo, un freddo spaventoso alle braccia e alle gambe, soprattutto
alle gambe. Ho l'impressione che i miei piedi non esistono più, tanto sono gelidi.
La coperta è da torcere. È madida come se l'avessero immersa in un mastello d'acqua. In cambio
di 4 rupie il mio vicino consente a darmi la sua, e presto finisce anch'essa inzuppata di sudore.
Una sete inestinguibile mi prende. Sono incapace di muovermi, e tratto col mio vicino a gesti. In
cambio di 5 rupie, una fortuna per lui, accetta di andare a cercarmi un secchio d'acqua e una tazza.
Poi un'altra tazza, questa volta di riso, perché il cuoco ora prepara da mangiare.
Riesco a mangiare quasi tutto il riso, fetido e mal cotto, e soprattutto bevo. Vuoto più di mezzo
secchio.
Mi fa enormemente bene, e riesco ad assopirmi per qualche tempo.
Ma presto, imperioso e spietato, il bisogno della droga torna a svegliarmi, con appelli sempre più
dolorosi.
La notte è caduta. Nel buio mi contorco sul tavolaccio.
Urlo, incapace di resistere. Lancio lunghi gemiti che devono perforare i timpani a 100 metri
intorno.
I miei compagni di prigione protestano furiosi. Io continuo a urlare. Anche se volessi smettere,
non potrei. Essi mi vengono vicino e mi tempestano di pugni e calci. Io urlo sempre più. Cerco di
difendermi, ma le mie braccia battono l'aria senza forza. E i colpi continuano a piovermi addosso.
Urlo così forte, che tre poliziotti accorrono. A scudisciate disperdono i miei assalitori, e si
piantano davanti a me con lo sguardo truce.
Uno di essi alza una lampada sopra la mia testa. Nel delirio sento che parlano di me. Discutono
preoccupati.
Quello che sembra un graduato si china:
«Tu, fa' silenzio… — minaccia in un pessimo inglese, — altrimenti…».
E brandisce lo scudiscio.
Disperatamente cerco di spiegargli che ho una crisi da astinenza, che ho bisogno subito, il più
presto possibile, di un'iniezione di morfina. Lo prego di chiamare un medico. Lui gli spiegherà che
non sto mentendo, che se mi lasciano così, finirò per morire…
Non so dove trovo la forza di parlare, ma arrivo anche ad aggiungere:
«Se io muoio, l'ambasciata di Francia farà un'inchiesta. Il vostro Paese dovrà rendere conto.
Avrete delle noie, voi!».
Il graduato alza le spalle.
«Ah, tu vuoi droga? È cosi?…».
E ride.
«Dovevi dirlo subito. Ah, ah!».
E se ne va, lasciandomi sotto la guardia degli altri due.
Avrà davvero capito? Andrà proprio a prendermi della droga?
Lo seguo con l'occhio, spio la porta, il rettangolo bianco che luccica debolmente per effetto di
una lampada esterna. Attendo. Non sono più che una carcassa tesa nella speranza.
Dopo cinque minuti il graduato ritorna. Sono riuscito a sedermi. Lo divoro con lo sguardo.
Ha una siringa in una mano, e una fiala nell'altra!
Riconosco una fiala di morfina di 2 cc.
Finalmente! Il mio incubo è terminato. Finalmente avrò il mio shoot! Presto, non perda più
tempo, faccia in fretta!
Glielo dico. Quasi glielo grido:
«Presto! Presto!».
Lui ride:
«Eh, aspetta! Preparazione lunga!».
Fa segno ai suoi due compagni di tenermi. Essi saltano sul tavolaccio e mi afferrano ciascuno per
un braccio.
Ma perché? Non ha nulla da temere. Non cercherò certo di sottrarmi alla sua iniezione. Che
strano, costui…
Allora vedo qualcosa d'infernale, che mi inchioda nella morsa dei miei due guardiani, incapace
di emettere il più piccolo gemito.
Il poliziotto, alla luce della lampada che ha sospeso a un chiodo del muro, si rimbocca la manica.
La «sua» manica.
Stringe il suo braccio sinistro con un legaccio che si è portato dietro. Stringe forte.
Con mano abile, il che dimostra che è pratico.
Inchiodato dallo stupore, io lo guardo fisso.
Si avvicina a me, fin quasi sotto il mio naso, e affonda l'ago nella grossa vena sporgente nella
piega del suo gomito.
E si inietta i 2 cc. di morfina.
Poi sghignazza.
«Good, drugy good… No?». Buona, la droga. Buona. No?
Che farabutto!
Non avevo mai visto una cosa simile. Un drogato che fa subire a un altro drogato il supplizio di
Tantalo. Non lo avrei mai creduto possibile. Per la prima volta vedo un drogato rompere, e nel
modo più sadico che ci sia, il tacito patto di aiuto reciproco che unisce tutti i drogati del mondo.
Che farabutto.
Ora si è fatto un po' rosso. Si siede sul bordo del tavolaccio. È in pieno nel suo flash. Si sistema
per bene. Come dev'essere soddisfatto…
Che farabutto.
La mia immaginazione galoppa. Vedo, istante per istante, tutto il succedersi delle sue sensazioni,
mentre la dolce droga si spande nelle sue vene.
Mai ho sofferto così. Mai è stato imposto un simile supplizio al mio organismo, che scoppia per
il bisogno di droga.
Per un momento, mi prende un'orribile tentazione di viltà. Guardo la fiala vuota rotolata per
terra. Almeno me la dessero, me la lasciassero leccare, potessi succhiarne l'interno con la lingua…
Almeno potessi ricuperare anche solo una goccia di morfina!
Il graduato ora è uscito dal suo flash. Si rialza, un po' barcollante. Si china verso di me e mi dà
un buffetto sulla guancia.
«Good boy — dice ridendo. — Bravo ragazzo. Giudizioso, ora, no?».
Una rabbia d'una violenza titanica mi prende. Una crisi, in confronto alla quale quelle di
stamattina e del pomeriggio sono niente. Mi sento addosso le forze di un energumeno. Gli urlo:
«Porco! Porco! Porco!».
Le mie gambe, che un momento fa non riuscivano a muoversi, si sollevano e si distendono con la
velocità d'una balestra.
Colpito in pieno stomaco, il mio sbirro va a sbattere contro il muro alle sue spalle, e si affloscia a
terra come un sacco, vomitando il desinare.
Gli altri due latrano come cani. Ma niente da fare, la crisi mi rende più forte di loro. Strappo le
mie braccia alla loro stretta, li mando a sbattere contro il muro, li investo con una scarica di pugni e
calci. E mi precipito urlando nel cortile.
Davanti a me, un muro di pietra alto 4 metri. Mi butto alla disperata, tentando di scalarlo.
Le unghie trovano presa, si aggrappano come artigli. I piedi scavano il cemento friabile tra le
pietre. Mi arrampico ansimando come un toro, centimetro su centimetro.
Una volontà demenziale mi dirige. Nella testa, lo ricordo bene, un'idea mi domina: da Bichnù c'è
il mio letto, e sopra di esso decine di fiale e ampolle e pastiglie di morfina, eroina, metedrina, che
mi aspettano, e che chiamo con tutto il mio sangue.
Ma anche con tutta la mia voce. Mi arrampico, lanciando grida da belva ferita.
D'improvviso una luce mi acceca, cancellando la mia visione di paradiso.
Sento un dolore terribile alla nuca. La faccia mi si schiaccia violentemente nella pietra del muro.
Ricado all'indietro.
Svengo.
Più tardi, sempre da uno dei poliziotti che mi sorveglierà durante le settimane d'internamento che
seguiranno, verrò a sapere che cosa è capitato.
Richiamato dal baccano generale, un soldato del posto di guardia è accorso.
Io non ero riuscito ad arrampicarmi oltre un metro dal suolo.
Lui ha preso il fucile per la canna, l'ha sollevato a due mani, e bang mi ha colpito col calcio sulla
nuca, schiacciandomi la faccia contro il muro.
Poi, non hanno dovuto far altro che raccattarmi.
Quando riprendo conoscenza, sono di nuovo sul bancone. Voglio sollevarmi. Non ci riesco. Mi
hanno legato.
Ma cos'è questo strano rumore di catene, quando mi muovo?
Mi hanno incatenato!
Le mie caviglie sono incatenate, i miei polsi sono incatenati, e ho anche un collare di ferro
attorno al collo.
Tutto quello che posso fare, è girarmi un poco sul fianco, o alzarmi sui gomiti. Non ho più di 50
centimetri di spazio per i movimenti delle braccia e delle gambe. Le catene delle gambe sono fissate
al piede del tavolaccio. Quelle delle braccia, ai lati delle spalle, sono fisse al muro. Quanto al
collare, è collegato a un grosso chiodo murato sopra di me, mediante una grossa catena lunga una
quarantina di centimetri.
Il più penoso da sopportare è il peso della catena saldata al collare. Quando non tengo la testa del
tutto appoggiata al tavolato, quando la sollevo anche solo un poco, la catena grava pesante per il
mio collo, e il collare quasi mi strangola.
Con una mano mi asciugo la tempia destra, che mi fa male: ho il viso insanguinato.
Quanto alla nuca, anch'essa mi fa soffrire.
Che cosa mi è capitato? Non lo so ancora, ma non mi è difficile farmi un'idea abbastanza vicina
al vero.
Per ora ciò che conta non è di cercare il perché e il come delle cose. Una sola domanda è
importante: riuscirò o no a liberarmi da queste catene?
Se ci riesco, tenterò di scivolare fuori del sotterraneo senza far rumore, senza svegliare nessuno,
senza attirare l'attenzione del posto di guardia, e ricomincerò la scalata del muro. E mi sto
accorgendo che la cosa non è poi impossibile.
Mi si dirà che sono pazzo a credermi in grado di liberarmi dalle catene e di ritentare l'evasione,
che è segno di un cervello reso malato dalla crisi di astinenza.
Non è del tutto cosi. Quelli a cui è capitato di avere le manette ai polsi, ve lo possono dire: far
saltare le manette è difficile, ma è possibile quando si ha a disposizione qualche oggetto metallico
aguzzo.
È ancor più facile quando si hanno catene rudimentali come le mie. Devo riuscirci.
Perché ho quello che mi occorre: la fibbia della mia cintura ha un ferretto che dovrebbe fare al
caso. E anche se si rivelasse inefficace, ho ancora la cinepresa. Questi aggeggi, se li si sfascia,
forniscono in abbondanza molle e ferretti adatti.
Tentiamo prima con la fibbia della cintura.
Sgomento! Me l'hanno presa!
Febbrilmente tasto le mie tasche.
Più niente. Mi hanno preso tutto!
Ora faccio la fine del topo.
Ora ho l'impressione che la mia testa vacilli veramente. Non so più quello che mi faccio.
Mi metto a scuotere le catene come un dannato, senza più smetterla, facendo un baccano del
diavolo.
Gli altri prigionieri, risvegliati ancora una volta, protestano, poi si alzano e tornano a imbottirmi
di calci. Non me ne importa niente, sono insensibile ai colpi. Ormai tutto mi è indifferente.
La nuca mi fa male, il viso è in un bagno di sangue. La lingua mi si è irrigidita in bocca, dura
come un pezzo di legno. Le reni mi fanno soffrire atrocemente, lo stomaco mi brucia più che mai.
Ho ricominciato a sudare, come se fossi in una sauna, ho sete, sete di droga.
Energie insospettabili sono ancora in me. Scuoto le catene, batto l'aria con le braccia, scalcio in
ogni direzione, grido con tutta la potenza dei miei polmoni.
Gli altri detenuti mi picchiano dall'alto. I poliziotti di guardia mi afferrano e mi immobilizzano.
Li mando a gambe all'aria, in un formidabile tintinnio di catene.
Nello stesso tempo grido da farmi scoppiare le vene:
«L'ospedale! L'ospedale! Voglio andare all'ospedale!».
Dopo un quarto d'ora di questa scenata, tutti quelli che dormivano, non solo nella prigione ma
anche nell'intero Delli-Bazar, sono svegli, in piedi, corrono e si precipitano per i corridoi.
Purché serva a qualcosa, accidenti! Sento che le forze mi abbandonano a poco a poco. Mi riesce
sempre più difficile scuotere le catene, la voce mi si fa rauca. Se non capita qualcosa di nuovo,
finisco per piombare in coma, e allora addio, Charles…
Ma qualcosa di nuovo sta capitando!
Dal fondo del sotterraneo vedo, inquadrato nella porta d'ingresso, una specie di corteo.
Personaggi in pigiama, con l'aria tronfia e seccata di funzionari tirati giù dal letto in pieno sonno.
Tutta questa gente di alta classe bofonchia e gesticola. Me la conducono davanti.
Io raddoppio i miei sforzi, fino a farmi venire le vertigini; decine di punti neri danzano nel mio
sguardo mentre urlo e scuoto le catene. E grido:
«Voglio andare all'ospedale! All'ospedale! Sono molto malato!».
Lo spettacolo che offro sgomenta visibilmente tutti questi personaggi illustri. Se ne stanno lì con
il braccio teso a reggere le lampade puntate su di me, e con la mandibola penzolante. Nessuno ha
voglia di ridere.
Sono davvero mal messo, in certi momenti mi domando se non sto per morire.
Dopo un lungo parlottare, uno dei personaggi si stacca dal gruppo e mi si avvicina.
«Mister Duchaussois — si azzarda a dire, — listen to me» (Mi stia a sentire).
Gli getto uno sguardo con la coda dell'occhio e drizzo le orecchie.
«Listen to me», ripete.
Smetto di fare baccano.
«Abbiamo chiamato un medico — riprende. — Abbia pazienza. Sta per arrivare. Presto».
Io esplodo:
«Finalmente! Ma faccia solo in fretta. Bisogna far saltare la baracca, qui, per essere trattato come
un essere umano?».
Le mie parole aggressive lo fanno retrocedere.
«Abbia un po' di pazienza — dice ancora. — Il medico sta per arrivare».
«Almeno levatemi le catene, banda di selvaggi!».
Col gesto cerca di calmarmi, ma resta a prudente distanza.
«Pazienza, pazienza. Il dottore arriva».
Effettivamente, dieci minuti più tardi, un medico arriva di corsa, vestito a metà, con la borsa in
mano.
Non gli lascio il tempo di aprire bocca. Gli grido con rabbia:
«Voglio un'iniezione di morfina: 2 cc. Subito».
«Ma — protesta il medico nel suo pessimo inglese — prima almeno si lasci visitare».
«È inutile. Sono drogato. E sono in crisi da astinenza. Le morirò sotto gli occhi se non si sbriga a
farmi un'iniezione. Non prendo droga da ventiquattro ore. Non le dice niente, questo?».
«Il guaio — borbotta con evidente disagio — è che non ho droga, io».
Con un gesto del mento carico d'odio, indico il poliziotto che poco prima è venuto a farsi lo
shoot davanti a me:
«La chieda a quello li. Lui ce l'ha».
Il graduato impallidisce, protesta non so cosa, e finisce per spiegare: «Sì, ho della droga, ma è
uno stock preso a degli hippies».
A buon conto si allontana, e ritorna subito con un flacone di morfina. A vederlo, non ne posso
più.
«Si sbrighi, che cosa aspetta? Su, in fretta, mi faccia l'iniezione!».
Pressato dalle mie insistenze, il medico tira fuori in fretta ago, siringa e legaccio.
Due minuti più tardi, ricevo nelle mie vene la morfina tanto attesa, come si riceve un dio.
Ah, com'è buona! Che gioia, che risurrezione!
Era tempo, non ne potevo proprio più, stavo davvero per andarmene all'altro mondo.
Quando il flash è passato, e non mi resta più che una dolce euforia che mi dà l'impressione di
essere il padrone del mondo e di dominare tutte queste marionette spregevoli che mi guardano,
allora io, il grande bianco barbuto che freme in catene, ordino al medico:
«E ora mi faccia sciogliere».
Soggiogato, egli dà gli ordini. Mi si scioglie. Mi metto a sedere sul tavolaccio.
«Mi disinfetti le piaghe — aggiungo. — Non vede che sono ferito al volto?».
Si mette al lavoro. Gli altri sono sempre lì, come al circo, funzionari, poliziotti e detenuti,
mescolati insieme, gomito a gomito.
Quando le mie ferite sono ben spennellate di mercurocromo, riprendo all'indirizzo del medico:
«Dottore, Lei ha visto bene, credo, l'effetto che l'iniezione ha fatto su di me. Capisce che è
indispensabile che io venga curato.
«Allora lo domando a Lei, perché Lei è il solo qua dentro con cui io posso parlare: mi faccia
trasportare all'ospedale americano. Solo là io potrò guarire. Non è ragionevole lasciarmi qui…».
Difendo appassionatamente la mia causa. La dose di morfina mi ha rimesso del tutto a posto. Ma
so che è un beneficio transitorio, che tra due ore al massimo rientrerò in crisi. E proprio per questo
devo fare in fretta. Devo assolutamente convincere il medico a farmi ospedalizzare.
Vittoria! Mi promette che farà tutto il necessario. Si volta verso i funzionari. Tutti borbottano
animatamente, gesticolando.
Alla fine quello che sembra il capo, che prima mi ha supplicato di stare calmo e di ascoltarlo, di
nuovo mi si avvicina.
«Mister Duchaussois — ricomincia, — la faremo ospedalizzare, glielo prometto. Ma sono le
quattro del mattino, bisogna aspettare fino alle otto. Mi prometta, a sua volta, che starà calmo».
«D'accordo — replico, — ma a tre condizioni. Primo, che intanto mi si faccia uscire di qui.
Voglio andar via, in un posto dove ci sia un letto.
«Poi, voglio che mi si dia ovatta, alcool, una siringa e un flacone di 10 cc. di morfina».
«Ma, mister Duchaussois — m'interrompe l'altro, stupefatto, — si rende conto di ciò che
chiede?».
Mi giro verso il medico:
«Dottore, per favore, gli spieghi…».
Nuovi conciliaboli e nuove promesse.
«D'accordo, andrà a terminare la notte al posto di guardia, e le faremo portare quello che ha
chiesto».
Io replico:
«Aspetti! Non è tutto. Mi hanno preso le mie cose. La mia cintura — mi guardo bene dal dire che
contiene del denaro, — i documenti, una cinepresa… Voglio che mi venga restituito tutto. È un
furto!».
Mi promettono anche questo. E barcollando, sostenuto da due sbirri visibilmente inquieti di
trovarsi così vicini all'energumeno che sono io, me ne vado verso il posto di guardia.
Lì, poco dopo il mio arrivo, giungono anche l'attrezzatura per la droga e tutte le mie cose. E la
cintura è intatta, non l'hanno aperta.
Poco prima delle otto mi faccio un altro shoot di morfina e mi sento perfettamente in forma (o
meglio, quasi…).
Due poliziotti vengono a prelevarmi. Il personaggio importante è con loro. Porge ai poliziotti un
documento coperto di timbri ufficiali. E quando me ne vado, sorride. Ha l'aria felice di chi riesce a
liberarsi d'un seccatore.
«Le auguro che possa provare la sua innocenza!», mi dice, mentre esco dalla porta.
Se potessi, lo strangolerei. Ma i miei sorveglianti mi spingono avanti. Sulla strada, un tassì mi
attende. Salgo, in mezzo ai due sbirri.
«American Hospital!», dico.
Anche i poliziotti parlano al tassista. Penso che gli stiano traducendo il mio ordine. A ogni modo,
lui scuote la testa in segno di assenso, e parte.
La strada per l'American Hospital, io la conosco. Così, è con molta inquietudine che vedo il
tassista di lì a un poco svoltare a destra.
Ah, no! È all'American Hospital che io voglio andare, non altrove! Voglio andare dagli europei,
io, non dai nepalesi!
«Hospital, yes, yes», ripetono i poliziotti quando li interrogo. E io insisto:
«No, American Hospital! American, I said» (Americano, dico io).
Essi accennano di sì con la testa, sorridenti. «Yes, yes», mi fanno, con l'aria stupida d'una vacca
sacra. Capisco che non c'è nulla da fare. Hanno l'ordine di condurmi all'ospedale nepalese. Ora, c'è
tanta differenza, a Katmandu, fra l'ospedale nepalese e l'ospedale americano, quanta ce n'è tra un
porcile e la camera di Jacqueline Onassis.
Il tassì finisce per fermarsi davanti a un grande edificio. Visto dall'esterno, sembra moderno e
dignitoso, ma so — da alcuni hippies che vi si sono fatti curare — che l'interno è del tutto diverso.
Mi preparo a scendere, quando l'autista mi batte sulla mano.
«Money, sahib!», mi fa con tono di comando.
Denaro? Che cosa vuol dire? Sono i detenuti che devono pagarsi i trasferimenti? Non ci
mancherebbe che questa!
Ma uno degli sbirri mi dà una gomitata.
«Money!», mi dice anche lui.
E devo pagare. Otto rupie mi domanda, quella sanguisuga!
Scortato dai miei due angeli custodi, mi dirigo verso l'ingresso principale. Sono così furioso di
non essere finito all'ospedale americano, che neppure mi guardo attorno. E quasi portato di peso dai
due sbirri, entro nel grande edificio.
Dovevano essere avvertiti del mio arrivo, perché all'ufficio di ricevimento due altri poliziotti si
alzano, vedendoci arrivare, e ci vengono incontro seguiti da due o tre camici bianchi.
Tutta questa brava gente mi fa scorta e mi conduce attraverso un cortile interno, invaso
dall'immancabile battaglione di vacche sacre, polli, bambini e donne, che si trovano ammassati in
tutti i luoghi, pubblici o no, in Oriente.
La sala comune, dove il nostro corteggio si ferma, somiglierebbe a qualunque sala comune
d'ospedale in Europa, se non fosse anch'essa stipata di un'accozzaglia di rifiuti umani degni della
«corte dei miracoli».
Ai due lati della sezione centrale, corpi distesi sui letti. Ce n'è di ogni tipo. Vecchi e giovani. Ma
solo uomini. Non una donna, neppure una bambina.
Mi indicano un letto vuoto, e mi corico.
I quattro poliziotti però non se ne vanno. Due si accoccolano alla mia testa, e due ai miei piedi.
E finalmente mi addormento.
4.
Resterò circa tre settimane all'ospedale di Katmandu, prima di essere liberato. Tre settimane del
tutto demenziali.
Anzitutto, non vengo curato. In tre settimane, le sole medicine che riceverò sono pastiglie di
aspirina. Tutto qua dentro è curato con l'aspirina. È la panacea universale. È anche il solo
medicamento gratuito.
All'ospedale di Katmandu, quando il medico vi prescrive la tale o tal altra medicina, tocca a voi
andarla a comperare. Se siete abbastanza in forze per stare in piedi, e se avete denaro, uscite con la
vostra ricetta, e andate alla farmacia più vicina.
E se non avete denaro? In questo caso fate a meno delle medicine, vi fate curare con l'aspirina ed
è tutto.
All'ospedale di Katmandu ho sentito davvero il vento della follia passare sopra di me.
In primo luogo, perché non ho mai smesso di drogarmi, e sotto questo aspetto il mio stato non ha
fatto che peggiorare.
Non mi è mai mancata la droga, nella sala comune.
Miei fornitori? Chiunque. Anche due dei poliziotti che mi sorvegliano, e che si drogano a loro
volta. Lo fanno molto meno di me, si capisce, altrimenti si troverebbero anch'essi coricati sopra un
pagliericcio, appena capaci di andare fino ai servizi igienici.
In breve io ritorno un junkie, condannato all'immobilità dal mio stesso vizio e dagli ordini della
polizia. Ma un junkie che fa lavorare il cervello a tutto gas!
La mia testa macina le idee senza sosta. All'inizio in maniera abbastanza coerente, e anche
efficace, perché riuscirò a togliermi dagli impicci, ma alla fine arriverò proprio a sragionare.
Ancor oggi una quantità di fatti, di cause, effetti, motivazioni, gesti, parole, mi restano
incomprensibili.
Ma credo di poter dividere — grosso modo — questo periodo in tre parti.
La prima settimana, la rabbia d'essere messo dentro per un furto non commesso mi fa trovare la
forza e la lucidità di lottare.
La seconda settimana, un colpo inatteso e molto spiacevole mi getta in una disperazione contro
la quale lotto ancora un po'.
La terza settimana, comincio davvero a impazzire.
Se classifico le cose tanto nettamente, e all'ingrosso, è perché non si perda troppo il filo del mio
racconto.
Fin dal primo giorno mi butto nella mischia.
Per cominciare, domando carta e il necessario per scrivere. Conciliabolo. Perdo la pazienza.
Accondiscendono alla mia richiesta. Non avrò mai più difficoltà a questo riguardo. Avrò tutta la
carta che vorrò, e potrò inondare tutti con le mie lettere. E non mancherò di farlo.
Scrivo subito a Monique. Le racconto la mia avventura e la supplico di venire al più presto a
vedermi, perché ho assoluto bisogno di lei per uscire di qui.
Poi scrivo all'ambasciatore. Una bella lettera, ben studiata, che mi fa consumare molta materia
grigia.
Poi, mi rivolgo al signor Omnès, il console. Lo scongiuro di prendere in mano le cose
personalmente. Se non viene lui in mio soccorso, chi lo farà? Gli giuro su ciò che ho più caro al
mondo che sono innocente, che è tutto una tragica macchinazione, che il fotografo ha dovuto dare il
mio nome solo per liberarsi della polizia. Essendo un trafficante, non aveva interesse che frugassero
troppo nei suoi affari. Il mio nome gli è venuto in mente perché, è vero (mea culpa…), ho trafficato
anch'io prima, ma lo ripeto, ora ho smesso, ora non avevo che uno scopo: quello di entrare al Centro
Culturale. In queste condizioni, dovrei essere proprio un citrullo ad andarvi a rubare quella
maledetta macchina fotografica.
E gli spiego come, secondo me, devono essere andate le cose.
Per finire, mando una lunga lettera a Robert A… Robert è un amico parigino che mi aveva teso
la mano in passato, quando ero uscito di prigione a Nizza. Non L'ho mai dimenticato. Non ha avuto
paura di sostenermi, di rilanciarmi nella vita. È un brav'uomo.
Con lui posso confidarmi a cuore aperto. Gli racconto tutto, e gli confesso che ho bisogno dei
suoi consigli e del suo sostegno morale. Metto tutto il mio sentimento a spiegargli in quale mare di
difficoltà il mio gusto per l'avventura e per l'esperienza mi ha buttato. Gli chiedo di scrivermi, di
non abbandonarmi. Ne ho troppo bisogno.
Ed è vero. Nel vortice in cui mi sono gettato (per sola colpa mia, me ne rendo conto), ho assoluto
bisogno del sostegno di persone equilibrate e oneste. E non ne conosco che due, che m'abbiano fatto
capire che si può contare sempre su di loro: il signor Omnès, e il mio amico Robert, soprattutto il
mio amico Robert.
Un fattorino dell'ospedale va a imbucare la lettera per Robert, e a portare a mano le altre ai
destinatari.
Prima, uno dei poliziotti le ha scorse con l'occhio. Ha fatto finta, dovrei dire. Perché scoprirò
poco dopo, parlandogli in francese, che non ne capisce una parola…
Il giorno dopo, Monique è al mio capezzale. La abbraccio. La ringrazio perché non mi
abbandona. Lei piange, vedendo in che stato sono ridotto.
Senza più aspettare, combino con lei il mio piano di battaglia.
«Ascoltami bene — le dico. — Il solo modo di provare la mia innocenza è di confondere questo
fotografo, al quale, secondo le sue parole, io avrei venduto la macchina fotografica.
«Ho un'idea. Il medico francese del Centro crede che io l'abbia rubata, perché mi aveva fatto
entrare nel suo appartamento e fatto vedere le sue cose. Ma ha anche un binocolo molto bello. E di
sicuro è sparito anche quello.
«Ora, non mi si accusa del furto del binocolo. Perché? Perché il medico non lo ha visto, dal
fotografo. Ora io penso che ci sia.
«Dunque, tu vai a trovare il medico, gli dici di descriverti il binocolo e di darti il suo numero
d'identificazione. Spero che accetterà.
«Poi, andrai dal fotografo e domanderai se non ha un binocolo d'occasione da venderti. Se c'è, lo
dovresti riconoscere. Allora, comperalo. Fatti dare dei soldi da Omnès, sono sicuro che te li darà.
Nella mia lettera gli ho già spiegato tutto.
«Dopo, tornate in forze dal fotografo, con Omnès e il medico, e sottoponetelo a interrogatorio,
domandandogli se io ho rubato anche il binocolo, facendogli comprendere tutti i rischi che corre se
rilascia una falsa deposizione, eccetera. Mi stupirebbe se continuasse a mantenere le sue accuse
contro di me. Infatti, se con l'apparecchio fotografico ha comperato anche il binocolo, perché non
l'ha dichiarato?
«Perciò, se io riesco a provare che ce l'ha, proverò nello stesso tempo che egli ha mentito almeno
su di un punto. Allora, perché non avrebbe potuto mentire anche riguardo al resto?
«Capisci? Lui ora mi crede in fondo ai sotterranei di Delli-Bazar, senza contatto con alcuno. Il
fatto di vedere che io sono difeso, e fuori dei muri della prigione, dovrebbe farlo riflettere. Vedi
quindi che ho motivo di sperare».
Monique mi promette di fare esattamente tutto quello che le domando. E se ne va, con tutte le
mie speranze.
L'indomani, Monique non si fa vedere. Solo due parole da parte di Krishna: «Coraggio, credo
che andrà tutto bene». Questo biglietto mi porta il morale alle stelle. E anche la venuta di Krishna.
Che bravo ragazzo! Dopo quello che gli ho fatto quella sera, non esita un istante a venirmi in aiuto.
Ne provo vergogna.
Poco dopo la sua partenza, un ragazzo dell'ambasciata mi porta un messaggio del signor Omnès.
Mi aiuterà!
Passo la notte in uno stato di eccitazione febbrile. Non riesco a chiudere occhio. Sul fare del
mattino chiedo a uno dei miei sorveglianti, che si chiama Chandra, di trovarmi dell'oppio per
dormire un poco. Sono fortunato, Chandra è uno sbirro simpatico. Mi trova una pallottolina di
oppio, che faccio cuocere sulla fiamma di una lampada, prima di diluirla nell'acqua per iniettarmela.
Due giorni dopo il mio arrivo all'ospedale, Monique ritorna. Vittoria! Il binocolo era proprio dal
fotografo, e lui, preso in contropiede, ha dovuto confessare che si era sbagliato, quando mi aveva
accusato!
«Il medico è stato molto chic — mi racconta Monique. — Per fortuna si ricordava del numero
del binocolo, 14140, e la marca, che doveva essere "Alpha" o "Eagle". Non era sicuro.
«Allora sono andata dal fotografo. Gli ho domandato un binocolo d'occasione. Me ne ha
presentato uno. Non era quello. Gli ho domandato se ne aveva altri. E lui me ne ha tirati fuori venti
o trenta!
«Li ho passati uno per uno, e l'ho trovato. Era "Alpha 14140", non "Eagle". L'ho acquistato con
50 rupie che Omnès mi aveva dato, e senza più dire nulla al fotografo sono tornata subito dal
medico e da Omnès.
«Il fatto che il fotografo avesse tutti quei binocoli li ha lasciati perplessi. Si convinsero che egli è
un ricettatore.
«Allora hanno chiamato la polizia, e tutti insieme siamo andati dal fotografo. Messo alle strette,
ha ammesso che tu sei innocente, e ha fatto il nome del vero rivenditore. Proprio un tale che era
andato al Centro la sera che proiettarono Fanfan la Tulipe».
Io mi metto a gridare:
«Urrà! Sono libero! Adesso dovranno tirarmi fuori di qui!».
Accanto a me, anche i miei angeli custodi sono felici. Chandra si mette anche a ridere, con una
bella risata a gola spiegata, come se fosse lui a venire liberato. Che brav'uomo!
Ma non vado troppo in fretta nel prevedere un imminente «lieto fine».
Questa sala comune in cui mi vedevo già marcire per lunghe giornate, e che mi faceva orrore, ora
mi appare come una pittoresca assemblea, da descrivere bene un giorno agli amici avidi di cose
esotiche.
I quattro sbirri che mi esasperavano sono allegri amiconi che quasi mi spiace lasciare.
Tutti questi malati pallidi e scheletriti, che prima giudicavo carichi di microbi, di peste, colera e
ogni specie di malattie, ora sono brava gente in osservazione, che mi viene voglia di confortare,
dicendo loro: «Niente paura, tutto andrà bene, solo un po' di pazienza…».
Passa il medico. Due piccole infermiere, nepalesi come lui, lo accompagnano. Due piccoli sgorbi
bisunti che distribuiscono, l'uno a destra, l'altro a sinistra, le pastiglie d'aspirina che pescano in
grosse scatole.
Interpello allegramente il medico:
«Sa, dottore, ora ci lasceremo! Se vuole, può tenersi le sue pastiglie».
Il medico si volta, incuriosito.
Chandra gli spiega, con foga. Lui approva a lungo con la testa, guardandomi dritto negli occhi.
«Good luck — mi dice, — buona fortuna».
Lo afferro per la manica, prima che riparta.
«Mi dica, dottore. Lo sa che questa notte un topo grosso come un gattone mi è passato sulla
pancia?».
Ha un sobbalzo.
«Proprio così, dottore. E non è il primo. Formicola di topi, il suo ospedale. Lei pensa che sia
molto igienico?».
Si fa subito nero in faccia.
«Noi facciamo quello che possiamo, signore», mi dice con tono sostenuto.
Scoppio a ridere.
«Ah, ah! Perché non date aspirina ai topi? Forse servirà a farli morire…».
Il medico non sembra gradire la mia battuta, piuttosto pesante (soprattutto perché il brav'uomo fa
meglio che può, ed è quasi del tutto sprovvisto di mezzi). Ma è stato più forte di me: l'idea di essere
presto in libertà mi ha fatto dire questa sciocchezza.
Il medico si volta verso di me:
«Lei è francese, vero?», mi domanda in francese, con un accento quasi passabile.
«Si, perché?».
Si raddrizza e mi trafigge con lo sguardo:
«Perché, signore, io avere fatto tirocinio in grande ospedale di Parigi, e grande ospedale era
pieno di scarafaggi. Ovunque scarafaggi, ovunque, letti, malati, gabinetti, biancheria, eccetera.
Allora: a voi scarafaggi, e a noi topi, non è così? Arrivederci, signore».
Sciocco che sono, me l'ha fatta! Monique e io scoppiamo a ridere da morire.
Subito i quattro poliziotti ridono con noi.
La sala intera si mette a ridere. È un'allegria contagiosa. Ci pieghiamo in due per il ridere, come i
monelli al circo davanti ai clowns. Succede un tale baccano, che il medico torna indietro e affaccia
una testa sbigottita alla porta.
Gli grido:
«Non è niente, dottore. Hanno visto passare un topo in camice bianco cavalcato da uno
scarafaggio bianco con la croce rossa sulla schiena!».
Scoppia a ridere anche lui, ed eccoci divenuti amici.
Monique è ancora con me quando arriva Krishna. Mi porta un cartoccio enorme pieno di paste,
che Bichnù ha preparato apposta per me. Rimando indietro Krishna, perché vada a prepararmi la
camera per il mio ritorno.
Faccio partecipare al festino anche i miei quattro sbirri e i malati più vicini.
Mentre ci stiamo leccando i baffi, arriva un ufficiale di polizia. Gli dico:
«Allora, ha visto che sono innocente?».
«È vero — riconosce. — Il fotografo ha ammesso che si è sbagliato».
«Bene, non ne parliamo più — dico io, con magnanimità. — Immagino che ora mi libererà».
«Sicuro — mi dice. — Vengo ad annunciarle la sua liberazione. Le formalità sono in corso.
Entro un'ora al più, il mandato di scarcerazione sarà emesso, e Lei potrà tornare a casa…
A meno che non voglia restare qui per farsi curare. Con la massima libertà, si capisce».
«Eh! Direi che… Sa, ho qui il mio medico francese…».
Scuote la testa.
«Capisco, lei preferisce farsi curare da un compatriota».
Sorrido.
«Sì, press'a poco…».
«Va bene, allora. Le domando solo un po' di pazienza. E tutto sarà presto sistemato».
«Tutto? — domando. — Proprio tutto?».
«Che intende dire?
«Be', che il mio visto di soggiorno è scaduto, e che, se voglio farmi curare, me ne occorre un
altro. Posso contare su di Lei per ottenerlo?».
«Si capisce!».
Alle sei di sera, sono sempre in attesa. Sono quasi due ore che l'ufficiale di polizia è venuto. Ma
è così per tutte le polizie del mondo: lentezza e pesantezza pachidermiche.
Sei e trenta. Krishna arriva, senza fiato. Ha corso da casa fin qui.
Che succede? Qualcosa d'imprevisto, certamente… Non mi sbaglio. Ecco che cosa Krishna è
venuto a dirmi.
Quando è tornato a casa, ha trovato la mia camera piena di poliziotti. Stavano frugando
dappertutto, vuotavano l'armadio, alzavano il letto, guardavano nei cuscini.
Sembrava che s'interessassero soprattutto dei miei documenti.
Uno di loro li aveva presi in consegna, un interprete evidentemente, e leggeva con cura le mie
lettere, note, eccetera.
Io impreco, ma mi riprendo subito. Che cosa ho da temere, in fondo, da questa perquisizione?
Non ho nulla di compromettente. È da molto che non traffico più in nulla… La droga che ho in
casa? Nel Nepal è in libera vendita. Non c'è nulla da rimproverarmi al riguardo. Le mie lettere, i
miei appunti? Neppure lì ho qualcosa da temere, sono cose ordinarie e banali. Respiro, sollevato…
Allora, ho capito. Quei farabutti, indispettiti per essere costretti a rimettermi in libertà, cercano di
mettermi nei pasticci in qualche altro modo.
Ma non riusciranno!
È ciò che mi dico stringendo i pugni e sghignazzando. No, non me la faranno.
Quel che mi è chiaro, in tutta la faccenda, è che in questo modo ci vorrà del tempo prima di
essere rimesso in libertà. Ma allora perché quell'ufficiale è venuto poco fa? Era al corrente che
stavano per perquisire casa mia? O l'iniziativa è stata presa a sua insaputa? Tutto è possibile, come
sempre e ovunque, con tutte le polizie del mondo.
Non mi meraviglio troppo, quella sera, di non vedere alcuno portarmi il mio mandato di
liberazione.
Però le ore passano, e comincio a farmi il sangue cattivo. E se capitasse qualcosa di peggio? Se il
fotografo, per esempio, fosse tornato sulle sue dichiarazioni di prima?
Mi monto sempre più la testa, anche perché sono rimasto solo. Monique e Krishna hanno dovuto
ripartire. Due dei «miei» poliziotti, anche. (Ho dimenticato di dire che durante la notte si alternano
nel fare i turni di guardia).
Si russa pesantemente intorno a me. E si geme, anche. Nel pomeriggio hanno portato due
uomini, vittime di un incidente, due muratori caduti da un tetto, mi pare, che non smettono di
piangere. Di tanto in tanto vedo passare un topo, come ogni notte. I miei due custodi sonnecchiano
vagamente, seduti vicino a me. Comincio ad averne le scatole piene, ma proprio piene, di tutto
quanto!
Come al solito, per calmarmi un poco i nervi non trovo di meglio che drogarmi al massimo.
Scuoto uno dei miei guardiani e lo obbligo ad accompagnarmi ai servizi. Lì mi faccio lo shoot, in
piedi, appoggiato al muro. Lui mi guarda, indifferente.
Al mattino mi sento su tutte le furie. Perché in qualche modo ho finito per rendermi conto d'una
cosa tanto semplice: che è impossibile, assolutamente impossibile, che un individuo riconosciuto
innocente non venga subito liberato su due piedi.
Vuol dire che c'è sotto qualcosa d'altro. Sì, ma cosa?
Il fatto che non arrivo a indovinare, e l'incertezza in cui mi lasciano, innestano i miei nervi su
una linea ad alta tensione.
Alle otto, niente. Alle nove, niente. Alle dieci, niente. Sono sempre lì, in mezzo ai miei quattro
sbirri.
Finalmente, poco prima delle undici, la porta della sala si apre solennemente. Tre ufficiali della
polizia fanno il loro ingresso a lunghi passi, scortati da due poliziotti senza grado. Uno di essi porta
un dossier sotto il braccio.
L'altro avanza verso di me e mi dice, in un eccellente francese:
«Signor Duchaussois, abbiamo qualcosa da farle vedere».
«Il mio ordine di liberazione, immagino?».
Ho cercato di rendere il tono della mia voce il più possibile sicuro, ma so benissimo che si tratta
d'altro, che non ci si rivolge in quel modo a uno che viene messo in libertà.
«Non ancora, signor Duchaussois. Non ancora», mi risponde sorridendo, come solo gli asiatici
sanno sorridere.
Io esplodo:
«Come, non ancora? Che cosa sono tutte queste storie? Sono innocente, sì o no? Vi state
prendendo gioco di me? Non ve la lascerò passare liscia, sapete, questa volta! Esigo che mi si liberi,
e subito. E poi ne ho abbastanza del vostro ospedale della malora, dove i topi mi corrono sulla
pancia di notte, e dove per curarsi non c'è altro che aspirina! Io ho bisogno di essere curato da veri
medici, in un vero ospedale. Io esigo, capite?, esigo di uscire di qui libero, immediatamente! E con
le vostre scuse!».
Quando smetto di vociferare, ansimando dopo questo che è stato un grande sforzo per lo stato in
cui mi trovo, un pesante silenzio mi circonda.
Le guardie stanno lì, impalate davanti a me, e mi guardano fisse.
Anche tutti i malati mi guardano. Nessuno fiata.
Si sentono solo i miei ansimi, mentre cerco di riprendere fiato.
Uno degli ufficiali fa un segno all'interprete.
«Signor Duchaussois — comincia l'interprete, — non la mettono ancora in libertà, perché nel suo
appartamento è stato trovato questo».
Fa un segno all'altro non graduato, che apre il dossier, ne estrae dei fogli e me li porge.
Meravigliato, li prendo. Sono due lettere.
Una è scritta su carta azzurrina, l'altra su carta bianca. Sono tutt'e due molto lunghe. Sono tutt'e
due datate da Katmandu.
Una è indirizzata a Christian, l'amico marsigliese col quale mi ero fermato prima di prendere la
strada per l'Oriente, più di un anno fa. L'altra è indirizzata a O'Brian, il canadese d'Istanbul.
E tutt'e due sono con la mia calligrafia!
Stupefatto, alzo il naso verso i poliziotti.
«Ma — dico — non capisco niente. Che cos'è?…».
«Legga».
Leggo. Impiego una buona ventina di minuti, e vengo a scoprire che di mio proprio pugno
(perché non c'è dubbio possibile al riguardo, è proprio la mia scrittura) ho scritto quelle lettere a
Christian e a O'Brian, per proporre loro dei rocamboleschi traffici di droga!
Al primo propongo, in venti pagine fitte fitte, un piano di forniture d'oppio, di morfina ed eroina,
che lui s'incaricherà di smerciare a Marsiglia e in Francia.
Quanto all'altro, gli propongo di spedirgli delle quantità esorbitanti di hashish!
Resto col fiato mozzo.
Perché non ricordo affatto di aver scritto queste lettere. Eppure sono proprio mie!
Ma è tutto così assurdo! Christian sarà in gamba fin che si vuole, ma non è per nulla capace di
fare il trafficante di droga. Quanto a O'Brian, l'ho fatto fesso a Istanbul. Dovrei essere matto per
andare a mettermi con lui, proponendogli di «lavorare» insieme!
Matto. È la parola esatta, non ce ne sono altre.
Ho dovuto scrivere queste lettere sotto effetto della droga, in un momento di follia.
LSD, senza dubbio. Solo l'LSD può combinare scherzi del genere. Sì, è proprio andata così. Una
sera, sotto gli effetti dell'LSD, ho dovuto montarmi nella testa quei progetti inverosimili. Mi sono
venuti in mente due nomi, Christian e O'Brian…
E metodicamente, diligentemente, mi sono messo a tavolino e ho scritto.
Poi, una volta tornato al mio stato normale, non ricordandomi di nulla, non ho più pensato alle
lettere, non le ho spedite.
Come sono finite tra le mie carte? Di sicuro perché, una volta finito di scriverle, devo averle
nascoste con cura, in modo che nessuno le potesse vedere.
E perché non le ho trovate prima io? Perché tutte le mie cose, da parecchio tempo ormai, sono in
un caos indescrivibile.
Ma ora mi trovo con una bella matassa da sbrogliare. Il mio passato non depone più a mio
favore. Se la polizia fa rintracciare O'Brian per mezzo dell'Interpol, costui confermerà che io gli ho
venduto dell'hashish, o almeno qualcosa che gli somigliava. E Christian, anche se non è un
trafficante di droga, non è neppure innocente come un chierichetto.
Mi sono ficcato in un bel pasticcio.
La polizia nepalese ha di sicuro preso contatto. — o lo farà quanto prima — con l'Interpol e la
Sezione Stupefacenti. Il Nepal, paese che ha problemi internazionali in quanto produttore e
venditore di droghe, sarà felice di mostrare agli stranieri che vigila con efficacia per non far
«marcire» il resto del mondo con i suoi allucinogeni, e che controlla attentamente che cosa accada
in casa sua. Insomma, sto diventando lo zimbello di una situazione in cui tutti avranno da
guadagnarci…
«Allora? — mi domanda l'interprete. — Si rende conto adesso?».
Non mi muovo per niente. Mi occorre un po' di tempo per raccapezzarmi.
Alla fine alzo la testa e cerco di essere calmo. Con la massima ponderatezza possibile cerco di
spiegare ciò che ritengo senza dubbio la verità. L'LSD, le lettere scritte in stato d'incoscienza,
eccetera. Però mi guardo bene dal parlare dell'affare d'Istanbul. Sarei proprio una bestia. Di O'Brian
ce ne dev'essere un sacco in Canada e altrove, e la mia lettera non fornisce alcuna informazione che
permetta di identificare il mio uomo. Quanto a Christian, anche lui non è identificabile, perché
anche il suo è un nome molto comune.
A lungo dimostro la mia buona fede, ammetto l'errore di aver tentato un'esperienza con un
prodotto così pericoloso come l'LSD. E quello che dico, lo penso sinceramente.
Per finire, domando che mi si tolga almeno da questo ospedale, in cui non sono curato come si
deve. Dico che, nello stato di sfinimento in cui mi trovo, non li posso neppure aiutare a far avanzare
la loro inchiesta. Proprio non vogliono capire che mi devono trasportare nell'ospedale americano?
Conciliabolo tra i poliziotti.
«Non è neanche il caso di pensarci — conclude l'interprete. — Lei qui è curato fin troppo bene.
Lei non si muoverà. L'inchiesta sta seguendo il suo corso ugualmente».
E tutti se ne vanno, lasciandomi solo nella mia catastrofe.
5.
Per i miei nervi e il mio cervello, esacerbati da mesi di droga a oltranza e di eccessi d'ogni
genere, lo choc è troppo violento.
In altri tempi avrei sopportato il colpo, sarei rimasto a galla.
Ma in altri tempi non avrei neppure scritto come un sonnambulo due lettere inverosimili che
bastano da sole a dimostrare lo sconquasso che la droga ha provocato nel mio essere.
Questo è più atroce di tutto: ho avuto la prova che posso cadere in momenti d'incontrollabile
follia. Che non sono più sicuro di dominarmi in qualsiasi momento. Allora sorge il problema
terribile: chi mi dice che non mi capiterà più? Che non avrò più altri attacchi di follia?
L'eroina e la morfina che prendo ora, non basteranno da sole a sconvolgere un organismo ormai
così dissestato come il mio?
Sento con terrore che non posso più fare affidamento sulla mia ragione.
Più tardi, in Francia, un medico mi spiegherà che per fortuna le cose non sono così gravi. Per il
fatto che la droga, in alcuni momenti di eccessivo consumo, fa andare fuori di sé, non è ancora detto
che «si vada fuori» per sempre.
Ma, al momento, non c'è nessuno accanto a me che mi dica queste cose e mi rassicuri.
E il panico mi prende.
Tutto questo accade press'a poco tra il 15 e il 20 novembre 1969. Entro in un periodo di vero
squilibrio. Oggi non sono più in grado di raccontare i fatti nella loro esatta successione. Ma
cercherò ugualmente di dare un'idea del calvario che è cominciato allora e che è terminato solo,
miracolosamente, con la mia partenza per Parigi, il 10 gennaio 1970.
Di una cosa sono sicuro: che Monique viene a vedermi tutti i giorni all'ospedale.
La vedo arrivare ogni pomeriggio. Si ferma con me diverse ore. Mi porta qualcosa di decente da
mangiare. Se dovessi contare solo su ciò che passa l'ospedale…
Monique è il mio solo legame con il mondo esterno (per parecchi giorni non vedrò più gli
ufficiali di polizia). La incarico di tenermi in contatto con l'ambasciata, e con il console. Non è
possibile che mi lascino dibattere tutto solo nel mio incubo.
In pratica, per mia sfortuna, mi accorgerò presto che non posso più contare che su di me. E mi
rendo sempre più conto che sono preso in trappola.
Mi è facile sospettarlo: l'annuncio della scoperta di queste famose lettere ha dovuto fare un
pessimo effetto nell'ambiente francese. Non mi ci vuole molto per capire che sono fritto.
Ormai non ho più speranza di essere un giorno assunto al Centro Culturale. Anche se esco
innocente dalla faccenda della macchina fotografica, l'inchiesta sta frugando nel mio passato. E io
non ho raccontato tutto all'ambasciatore, né al console, né al direttore del Centro… Per quanto siano
ben intenzionati al mio riguardo, finiranno per diffidare tutti di me…
Eccomi sistemato per le feste.
Accusato a torto, perseguitato per lettere che neppure ricordo d'aver scritto, circondato dalla
diffidenza generale, spossato da sei mesi di droga e di vagabondaggio senza fine, bravo Charles, ti
sei proprio fatto una posizione nella vita!
Puoi essere fiero di te.
Eccoti ora con una nuova etichetta: trafficante di droga.
Ma no! È troppo stupido!
Nella mia testa giro e rigiro la matassa delle mie idee, senza riuscire a trovarne il bandolo.
Giorno dopo giorno, la fatica, la spossatezza, lo snervamento, il furore — e la droga — mi fanno
sragionare sempre più.
E mi metto a inondare di lettere e messaggi tutti quelli che conosco a Katmandu. Scrivo a tutti.
Al capo della polizia, al procuratore generale, all'ambasciatore di Francia, al direttore del Centro
Culturale, al medico che mi ha messo nei pasticci. Scrivo soprattutto a Omnès. Sommergo tutti di
proteste, suppliche e dimostrazioni — come due più due fa quattro — della mia innocenza. Sono
diventato uno scribacchino che gratta sulla carta senza posa.
Scrivo perfino al re del Nepal!
In principio le mie lettere sono rabbiose, minacciose, furiose, ma sensate.
Poi, a poco a poco si riempiono di vaneggiamenti.
Mi viene fuori una calligrafia da malato mentale. Stretta, in corsivo, piena di strani svolazzi,
senza gli «a capo». Allineo frase dopo frase, capoverso dopo capoverso, senza riprendere fiato,
saltando da un'idea all'altra.
Il signor Omnès, più tardi, mi renderà la maggior parte delle lettere che ha ricevuto da me. Non
riesco a rileggerle senza provarne sbigottimento. Mi rendo conto di ciò che ero diventato allora: un
eccitato in preda al delirio di persecuzione.
Vedo spie ovunque. Diffido dei miei sbirri. Li sottopongo a dei tests per sapere se capiscono il
francese. Tests negativi. Al massimo, comprendono due o tre parole d'inglese. Ma non si sa mai,
diffidiamo, diffidiamo!
Essi sono incaricati di fare rapporto sui miei gesti, ma chi mi dice che non mi stiano a spiare
anche quando parlo con Monique?
Ne divento sempre più sicuro: ci sono dei finti malati, qui. Quali? Quello là a destra, che infila le
sue preghiere una sull'altra? O quest'altro, un po' più vicino, che passa le giornate a fissarmi con
sguardo tetro? Oppure quel vecchio incartapecorito che ogni mattina mi stupisco di ritrovare ancora
in vita? Passo ore a osservare tutti, a studiarli. Invano, nessuno si tradisce.
Una sera, la soluzione mi viene da sola. Mi batto la mano sulla fronte. Come sono bestia! Perché
cercare «chi» tra loro è la spia? Come se ci fosse una spia sola! Eppure era cosi chiaro: tutti sono
spie! Sono tutti lì per annotare ciò che dico e faccio, e quando escono dalla sala comune, non è per
andare al w.c. o a spasso per il cortile.
Vanno a fare il loro rapporto!
Conclusione: diffidare di tutti i nepalesi.
Lo scrivo in lettere alte 3 centimetri sopra un foglio del mio taccuino.
D'ora innanzi, quando Monique viene, esigo che ci parliamo sottovoce. E poi ci sono certe frasi
che preferisco scrivere sulla carta, invece di pronunciarle. Appena lei le ha lette, strappo il foglio in
mille pezzettini. E li mangio.
Così, giorno per giorno, il mio delirio aumenta e io sprofondo sempre più nella demenza.
Un mattino arriva dalla polizia un questionario, che mi conferma ancor più nella mia persuasione
di essere perseguitato da una banda che ha deciso di perdermi a tutti i costi.
In una delle mie lettere ho parlato di un contact, cioè di un «intermediario della droga», un
europeo che ho incontrato a Katmandu.
La polizia lo sta cercando dappertutto. Inutilmente.
Ora viene a chiedermi maggiori informazioni sul suo conto.
L'interprete è lì, davanti a me.
Lo guardo ridendo. Questa volta li metto nel sacco! Stanno tutti mentendo. Cercano di giocarmi,
ma non ci riusciranno!
«Domando loro perdono — dico con un tono distaccato, — ma vorrei che rileggessero meglio le
lettere. Loro le hanno fatte leggere a me. E io non ho parlato di alcun trafficante europeo incontrato
a Katmandu».
L'interprete tira fuori una fotocopia delle lettere, e ne segna con la matita un brano. E leggo,
costernato, che ho proposto a Christian, come intermediario fra lui e me, un tale, un inglese, che ha
un traffico d'import-export tra l'Oriente e l'Europa, e che sarà il trasportatore ideale della droga.
Con tutta probabilità devo aver saltato quel brano nel corso della mia prima lettura, fatta nello
sconvolgimento di una violenta emozione.
Ma era avvenuto una decina di giorni fa. Da allora, le «bestioline nere» che trotterellano nella
mia testa hanno fatto tanta strada.
E, contro ogni logica, mi convinco che il brano sia solo un trucco, che sia stato inserito, che
abbiano imitato la mia scrittura.
Grido tutte queste cose all'interprete. Mi scaglio contro di lui, quasi lo strangolo.
I miei quattro angeli custodi mi immobilizzano. Schiumo per la rabbia.
Mi fanno un'iniezione.
Al risveglio, Monique è lì che mi carezza la fronte dolcemente. Scoppio a piangere.
Sono veramente troppo infelice.
6.
Quando ho deciso di evadere?
Neanche questo lo ricordo bene. Tutto quel che ne so oggi, è che un giorno chiedo a Monique di
tenersi pronta, quella sera stessa a mezzanotte, con un tassì, sotto il muro est dell'ospedale. In
occasione di una passeggiata nel cortile all'inizio del mio soggiorno (più avanti non mi muoverò più
dalla sala comune, salvo che per andare al w.c.), ho scoperto una porta che sembra senza serratura.
All'ora fissata, domando a Chandra (è lui di guardia) di accompagnarmi ai servizi. Mi propongo,
nello svoltare il corridoio, di saltare da una finestra che è sempre aperta, giù nel cortile, un metro
più basso, di correre fino alla porta, di aprirla e scappare.
Appena svoltato, salto giù bruscamente.
Le mie gambe sono così deboli, che mi ritrovo seduto in terra, dall'altra parte, senza più la forza
di rialzarmi!
«Non bene, sahib, non bene!», mi dice Chandra, tirandomi su. Mi guarda, scuote la testa, ha
compassione di me.
Dopo questo colpo fallito, sono così mortificato, che me ne resto quieto per tutto il giorno
seguente. Un giorno nero: Monique non viene. E non verrà più. Che cosa le è capitato? Ha paura di
aver noie, frequentandomi? L'hanno messa in guardia nei miei confronti all'ambasciata o al Centro
Culturale? O la polizia l'ha arrestata?
Trascorre una settimana all'incirca, senza che io sappia nulla. Me ne resto tutto il tempo sul mio
giaciglio, abbattuto.
Un giorno un medico francese, il dottor Armand, viene a vedermi. Sembra molto preoccupato per
il mio stato. Mi scongiura di cercare almeno di ridurre la droga.
Niente di quello che mi dice mi tocca. Sono troppo a terra per reagire a qualsiasi cosa. Della sua
visita ricordo una cosa sola: che cercherà di convincere la polizia a farmi trasportare all'ospedale
americano. È tutto quel che può fare per me.
E poi, un bel mattino, vedo ritornare l'interprete. Ha un foglio in mano, coperto di timbri.
«Signor Duchaussois — mi dice, — lei ora viene rimesso in libertà».
Lo guardo a bocca aperta. Che diamine! Ancora un inganno. E perché? Si prende gioco di me,
costui.
«No, no, — replica l'interprete, — non è uno scherzo. Mi segua. Andiamo al commissariato per
le ultime formalità».
Sostenuto da Chandra e da un altro dei miei guardiani, lo seguo, frastornato. Ma allora, questa
volta sembra che facciano sul serio!
Saliamo tutti sopra un tassì, ed eccoci presto arrivati davanti al commissariato, in cui ero stato
condotto subito dopo il mio arresto. E non mi fanno pagare il tassì. Niente meno!
Il commissario mi attende nel suo ufficio, e mi fa entrare subito.
«Abbiamo deciso, signor Duchaussois — comincia senza preamboli, in inglese, — che era
inutile ancora trattenerla, visto il suo stato di salute. La nostra è una misura umanitaria, e speriamo
che la sappia apprezzare».
«Troppo gentile», faccio io, acidulo.
Finge di non rilevare l'interruzione, e riprende:
«Lei dunque è libero di andare a casa, o, se vuole, di farsi curare in uno stabilimento di suo
gusto.
«Noi abbiamo fatto la nostra inchiesta. La persona di cui Lei ha parlato nella lettera è risultata al
di sopra di ogni sospetto. Lei aveva ragione: fu proprio in un momento di… hem!… di distrazione,
che le lettere sono state scritte».
Mi ha fatto sedere davanti a sé. Lo guardo attentamente, e per quanto sia divenuto squilibrato,
riesco a trovare nelle sue dichiarazioni qualcosa che non mi convince.
«Vuol dire che la faccenda è chiusa, che io sono completamente libero, e riconosciuto
innocente?».
Mi sorride con tutti i suoi denti.
«Certo, signore».
«Ma allora è il giudice che dovrebbe parlarmi, non lei».
«È lo stesso, signore, nel nostro paese».
«Ah, bene! Molto bene! Ma… Io non ho più il permesso di soggiorno».
«Eccolo».
E mi porge un visto perfettamente in regola, valido tre mesi.
Tre mesi? Non avevo mai avuto tanto! No davvero, tutto questo non mi convince per niente.
Ma presto o tardi vedrò se ciò che suppongo è vero, o se i miei sospetti sono ancora uno scherzo
della pazzia.
E cioè: a mio parere, mi si rimette in libertà solo perché l'inchiesta non ha dato risultati. Ma essi
sono sempre convinti che io sia un trafficante di droga, e vogliono darmi l'occasione di
compromettermi da solo. Ne sono sicuro, mi pedineranno dovunque andrò.
Va da sé che non dico nulla al riguardo. E, sorridendo, riprendo i miei documenti, con il bel visto
tutto nuovo.
Hanno spinto la loro amabilità fino a mettere a mia disposizione una vettura della polizia, che mi
conduce da Bichnù e mi lascia davanti alla porta.
Due poliziotti mi aiutano a salire.
Ho un solo desiderio: coricarmi, farmi uno shoot, dire addio al reale. Mi guardo attorno. Hanno
rovistato dappertutto, è evidente, ma hanno rimesso ogni cosa a suo posto. Do un'occhiata alla mia
«farmacia»: è intatta. Tutte le mie droghe sono lì.
Allora soltanto apro la finestra e guardo.
Non immaginavo che avrebbero cominciato così presto a sorvegliarmi: sul marciapiede di fronte,
due persone in borghese, che non hanno per nulla l'aria di civili, vanno avanti e indietro…
7.
Sparita Monique, non posso contare che su Krishna e la moglie di Bichnù. Non mi piantano in
asso né l'uno né l'altra. Dopo il mio ritorno Krishna è ricomparso, e io vedo il suo bel volto
sorridente chinarsi su di me. La moglie di Bichnù mi prepara squisiti pietanzini possibilmente alla
francese. E quasi ci riesce. E si capisce, ho diritto anche alle meravigliose torte di suo marito.
Ho mandato Krishna a portare una lettera al Centro Culturale. Invoco soccorso. Un medico
francese viene a vedermi. Credo sia il dottor Armand, se i miei ricordi sono esatti, quello che è già
venuto a vedermi all'ospedale. Mi prescrive una cura da cavallo. Molto caritatevole, cerca anche di
ricaricarmi il morale, ma questa è un'altra faccenda. Mi fa promettere che mi curerò seriamente.
Dopo la sua partenza frugo nella mia cintura-portafoglio, e faccio i conti. Tragico. Mi rimangono
155 rupie, in tutto e per tutto. Devo già 60 rupie a Bichnù per l'affitto dei mesi passati, mai saldato.
Calcolo che dovrò spendere da 15 a 20 rupie in medicine. E la droga, con che cosa la pago? È
passato il tempo in cui potevo andare in giro a combinare colpi. Posso appena camminare. E poi,
sorvegliato come sono, cosa posso fare?…
Farò a meno delle medicine. Mi curerò a modo mio.
La morfina è diventata troppo cara per me. Farò come fanno tutti i drogati quando sono al verde.
Userò al massimo gli eccitanti. La metedrina.
Mando Krishna a comperarne un grosso quantitativo. Ma anche un flacone, uno solo, di morfina,
che cercherò di far durare il più possibile.
In capo a sette od otto giorni, rimesso in sesto dalle cure dei Bichnù, posso ricominciare a uscire.
Faccio una breve passeggiata. Va abbastanza bene.
Che fare, ora? Sono costretto ad ammetterlo: proprio non lo so. Per la prima volta in vita mia, mi
trovo senza più uno scopo. Salvo quello di tirare avanti un giorno dopo l'altro, e di sperare che si
compia un miracolo.
Questa fine del mio soggiorno a Katmandu, questo mese e mezzo circa che mi resta da passare
nella capitale nepalese prima del mio rimpatrio sanitario verso la Francia, resterà nei miei ricordi
come una fitta nebbia lacerata da lampi di demenza brutale e a volte, ma raramente, di lucidità.
Ricordo sofferenze intollerabili, disperazioni spaventose, disillusioni incessanti. Non è possibile
raccontare giorno per giorno uno sgretolamento sempre più rapido. Sarebbe occorso un testimone
accanto a me. Ci sono, è vero, i poliziotti che mi seguono quando esco. C'è Krishna che mi cura. Ma
chi di loro parlerà? I francesi del Centro Culturale e dell'ambasciata, il dottor Armand, il signor
Omnès? Si sono comportati tutti con carità verso di me, ma che cosa potrebbero dire? Che hanno
visto un ragazzo di ventinove anni, diventato junkie, distruggersi a poco a poco, trasformarsi
fisicamente e moralmente in uno straccio? Ne sono sicuro, hanno preferito dimenticare queste cose.
Non piace loro ricordarsi, e meno ancora parlarne, d'un così penoso decadimento umano.
Junkie, sì, ormai non ci sono più dubbi. Sono diventato un vero junkie. Molto più che sui monti,
dove avevo ancora un rimasuglio di ragione e un briciolo di volontà.
Non fosse altro che la volontà di morire.
Ora non ho nemmeno più questa.
Non ho più volontà alcuna. Sono guidato solo dagli istinti.
Il cervello mi funziona come un motore scassato che passa da accelerazioni folli a rallentamenti
inspiegabili, e cala sempre più di giri, per ripartire d'improvviso, a casaccio, Dio solo sa perché.
Un'ossessione mi attanaglia: sono braccato. Il mondo intero ce l'ha con me. La prova? Il mondo
ha delegato due sbirri per sorvegliare i miei atti. E chi mi dice che tutti gli altri, Bichnù, sua moglie,
non siano anch'essi delle spie? E lo stesso Krishna? Perché se ne sta sempre qui, vicino a me,
attento a ogni mio più piccolo desiderio, cercando perfino di prevenirlo? È strano, molto strano,
questo monello che vive a mie spese col pretesto di servirmi…
Un mattino, scoppio. Krishna ha deciso, di sua iniziativa, di mettere ordine nella camera. Si dà
da fare, rapido, efficace. Sistema le mie cose, fa le pulizie. Si avvicina al tavolo, e si mette a
riordinare le mie carte.
Stando «sul chi vive», lo osservo dal letto. Che cosa sta facendo, costui?
Niente di speciale, mi pare. Ma guardiamolo con maggiore attenzione. Perché gira e rigira in
quel modo le mie carte? Perché impiega tanto tempo? No, no e poi no! Non mi piace per niente.
«Krishna!».
Si volta di scatto.
«Sì, Charles?».
«Che cosa fai, lì?».
«Io mettere ordine, sahib».
«Perché vuoi mettere ordine? Io non ti ho chiesto di mettere ordine. Lascia un po' stare quella
roba».
Spaventato dal mio tono, il ragazzo indietreggia.
«Che cos'hai in mano?».
Krishna tiene alcuni fogli. L'ho fermato nel momento in cui stava riordinando i miei appunti e le
mie lettere.
«Fa' un po' vedere».
Mi porge con uno scatto i fogli, e io glieli strappo di mano.
Sono appunti per una lettera da mandare al commissario di polizia.
Allora dimentico tutto. Che Krishna non sa leggere l'inglese (gli appunti erano in inglese), che
questo ragazzino mi ha dato mille e mille prove di fedeltà, che non ho alcun motivo per dubitare di
lui. Vedo una cosa sola: ha tra le mani uno scritto destinato alla polizia.
Esplodo:
«Ah, mi stai spiando anche tu! Ah, è così? Il tuo affetto, la tua gentilezza, sono una frottola!
Anche tu sei al servizio della polizia! Quanto ti pagano? Quanto?».
L'ho afferrato con le mani sotto le ascelle, e lo scuoto violentemente.
Scoppia in singulti, e io prendo le sue lacrime come una confessione.
«Vedi, eh?, ti ho scoperto, piccola carogna! Anche tu mi stai spiando! Sloggia di qua. Non voglio
più vederti. Taglia la corda, o ti ammazzo».
Parlo troppo in fretta, e grido troppo forte, perché possa capire una sola parola di quello che gli
dico. Ma ha paura. E a ragione: sono capace di tutto. Lo butto a terra.
Si rialza, indietreggiando raggiunge la porta. E sparisce.
«Vattene pure, sporco moccioso, spione che non sei altro!».
Ritto in piedi, sto urlando come un dannato. Lo strepito della porta che si chiude mi calma un
attimo. Mi siedo sul letto. Soffio come un mantice. E sghignazzo soddisfatto:
«Me ne sono sbarazzato, finalmente!».
Al baccano che ho fatto, la moglie di Bichnù è accorsa. Mi trova accasciato sul letto, ansimante.
Non oso dirle che cosa è capitato, perché in un istante di lucidità ho già vagamente intuito che ho
commesso una pazzia. Mi contento di chiederle del tè.
E poi la pazzia, dopo pochi minuti, mi riprende. Sono di nuovo sicuro che, liberandomi di
Krishna, ho cacciato via uno spione che i miei nemici erano riusciti a far penetrare in camera mia.
Questa fortezza, che essi assediano.
8.
Due o tre giorni più tardi, mi accorgo della «camera» per le riprese televisive.
Sono intento a scrivere una lettera al signor Omnès quando, riflettendo sulle parole che sto per
vergare, alzo gli occhi verso il soffitto.
Ho un sobbalzo.
Nel bel centro del soffitto c'è l'obiettivo, nero e lucente, d'una telecamera!
Impreco. Che canaglie! Ecco che ora filmano quello che faccio!
Ah, ma attenzione!… Bisogna che io non lasci capire che mi sono accorto della telecamera. No,
sarebbe un grosso errore.
Devo continuare a fare come prima. Conservare un comportamento naturale, come se non
sospettassi di nulla.
Credono che riusciranno a farmela? Poverini. Non è facile mettere nel sacco Charles!
Sta' calmo, dominati, sii più forte del nemico.
Riabbasso la testa e continuo a scrivere.
Prudenza! Prudenza! La telecamera legge di sicuro quello che sto scrivendo.
Allora, ecco la soluzione. Scrivere delle frottole… Perché le credano vere… Diamine, per chi mi
prendono? Per un ingenuo?
Straccio il foglio sul quale stavo scrivendo, e comincio su un altro foglio:
«Caro signor Omnès, va tutto bene. Mi sono rimesso perfettamente, e lei può smettere di
preoccuparsi a mio riguardo…».
Riempio tre pagine intere e ben fitte di dichiarazioni tranquillanti riguardo la mia situazione.
Mentre avevo intenzione di scrivere al console un'invocazione di aiuto!
Una volta scritta la falsa lettera, la piego con cura, la metto in una busta. Scrivo sopra il nome del
console, poi vado alla porta, l'apro, chiamo sottovoce: «Krishna!». Faccio finta di attendere che
arrivi, di consegnargli la lettera. Invece la nascondo in fretta sotto la camicia. E ritorno, come se
nulla fosse, al mio posto.
Getto un'occhiata alla telecamera. Non si è mossa. Reprimo un sorriso di trionfo.
Ma non basta. Ora devo scrivere una vera lettera a Omnès. Sì, ma come? La telecamera mi sta
spiando.
E se chiudessi la finestra e scrivessi al lume di candela? La telecamera non arriverebbe a leggere.
Non ci sarebbe illuminazione sufficiente.
Adagio… Un momento! Sono gente molto astuta. La loro telecamera dev'essere ultramoderna, e
capace di leggere anche le scritture microscopiche, e anche a lume di candela.
Quel che occorre, è voltare la schiena all'obiettivo e scrivere sulle ginocchia, stando chino,
nascondendo il foglio con il corpo.
Adagio… Un momento! E se hanno una telecamera ai raggi infrarossi? È molto probabile!
In questo caso, poco importa che la mia schiena nasconda il foglio! Essi leggeranno ugualmente,
attraverso il mio corpo.
Farabutti! Mi alzo, e gesticolo gridando.
Tocco, senza accorgermi, la tenda del baldacchino sopra il letto.
Oh! Perché la tenda si muove? Che cosa vuol dire?
Afferro la tenda, l'apro con un colpo secco, e mi arresto, incapace di fare un movimento in più.
Davanti a me, prima nascosti dalla tenda, sono apparsi due poliziotti nepalesi in uniforme.
Sono immobili. Uno di essi ha un apparecchio fotografico a bandoliera, l'altro un registratore.
Indietreggio, stupefatto. Farabutti! Hanno il coraggio di venire perfino in camera mia!
Sul comodino c'è una grande anfora cinese, di porcellana, molto bella, che un giorno ho
comperato in un negozio di Katmandu.
L'afferro.
Lo sbirro di destra ha sfilato la macchina fotografica e mi mitraglia: clic, clic, clic. Non smette
più di fotografare!
«Porco! Porco! Porco!».
L'altro tende il microfono verso di me, e fa partire la bobina del nastro magnetico.
Lanciata a tutta forza, l'anfora si sfascia contro di loro.
I frantumi della porcellana brillano in ogni parte della camera.
I poliziotti sono svaniti come per incanto. Mi precipito dove si trovavano prima. Più niente. Sono
scomparsi. Dietro a loro, il muro è screpolato nel punto d'impatto dell'anfora. E i cocci sono sparsi
dappertutto.
Sono dei diavoli! Sono braccato dai diavoli!
Alzo gli occhi. La telecamera è ancora lì.
E mi segue, come il mirino d'un fucile, in ogni mio movimento!
Impossibile restare qua dentro. Bisogna che me ne vada, a qualsiasi costo.
Corro fuori della camera. Divoro le scale, varco l'entrata. Una nuova forza sostiene le mie
gambe, che poco prima mi reggevano appena.
È notte, fuori. Sul marciapiede di fronte, all'altra parte della strada, i due sbirri di guardia sono lì
nei loro falsi abiti civili.
Ma sono veri, essi. E proprio perché sono veri, la loro vista non mi fa dubitare un istante della
realtà dei miraggi visti lassù poco fa. Nello stato di follia in cui mi trovo, come potrei immaginare
di aver avuto delle allucinazioni, in camera mia, ora che ho la prova che sono davvero tenuto
d'occhio?
Attraverso la strada, tiro fuori di tasca una sigaretta, mi avvicino alle due guardie in borghese.
Faccio loro segno che cerco del fuoco. Uno di essi me lo offre.
Accendo la sigaretta. Dico: «Thank you», e me ne vado.
Con la coda dell'occhio vedo che i due segugi mi pedinano a distanza.
La sigaretta mi sfrigola tra le labbra. Allora è tutto vero. Non sono visioni, le mie. Sono proprio
poliziotti quelli che mi seguono. E allora ne ho anche altri, lassù, nella mia camera, che forse in
questo stesso momento si stanno stendendo sui miei cuscini, tranquilli, e mentre aspettano il mio
ritorno ricaricano la telecamera.
Devo andar a trovare Omnès, a ogni costo. Bisogna che mi aiuti. Non si può andare avanti così.
Non hanno il diritto di far subire questo supplizio a un innocente.
A metà strada verso l'ambasciata, mi ricordo che è notte, che gli uffici sono chiusi. Non troverei
Omnès. È meglio che vada a scrivergli una lettera autentica, senza spie alle mie spalle.
Sì, ma dove?
Al Cabin! Solo là ho possibilità di stare tranquillo! Questa volta gliela faccio vedere io! Non
avranno mica messo una telecamera anche là!
Mi dirigo al Cabin Restaurant, mi sistemo a un tavolino in fondo, con la schiena rivolta al muro.
I miei due pedinatori — quelli veri, in carne e ossa — prendono posto quattro tavoli più in là.
Comincio la lettera. Scrivo, scrivo senza sosta, vuoto tutta la mia collera e la mia angoscia,
supplico che mi si aiuti, che mi si tiri fuori da questo ginepraio. Quando ho finito, mi alzo e vado
verso l'uscita.
Una specie di presentimento mi fa guardare indietro.
L'occhio nero di una telecamera esce dal muro, proprio sopra il posto che ho lasciato…
Rabbiosamente, appena giunto sulla strada, lacero la lettera.
Credo di non essere più uscito di casa nei cinque o sei giorni seguenti. Mi ricordo seduto sul
letto, giorno e notte. Ogni tanto la moglie di Bichnù bussa, e posa sul pavimento un vassoio con
latte, tè e biscotti.
Non ho più morfina. Per fortuna ho ancora quasi duecento pastiglie di metedrina. Ne prendo ora
in quantità: da quindici a venti al giorno. Non vedo più poliziotti, nella mia camera, ma l'obiettivo è
sempre puntato su di me.
Esaminandolo bene, mi accorgo che il suo «campo» non arriva fino al lavandino presso la
finestra, né al w.c.
Allora combino il trucco. Mi sistemo sul letto, e sotto l'occhio della telecamera — sotto l'«occhio
di Mosca», come lo chiamo ora — e di tutti i Giuda che immagino nascosti nel muro, comincio
delle lettere false.
Poi, quando le ho terminate, vado alla finestra, e lì scrivo quelle vere. Quelle che i Giuda e
l'occhio di Mosca non possono vedere.
E le faccio imbucare dalla moglie di Bichnù.
Sempre più preoccupata, essa non sa più dove sbattere la testa.
Un giorno vedo arrivare suo marito. Il povero diavolo cerca di farmi ragionare.
Gli urlo:
«Spia! Spione!».
A quelle grida, batte in ritirata. E di nuovo mi tuffo nelle mie lettere, quelle false, quelle vere.
Orno di fiori le pagine che l'occhio di Mosca e dei Giuda possono vedere.
E subito dopo, mi rifugio presso la finestra e ricomincio:
«Quello che ho scritto fin qui è falso. Non bisognerà tenerne conto. Era per gli sbirri. La verità è
sulle pagine seguenti, e non altrove».
Poi mi prende la paura. E se uno sbirro, dalla casa di fronte, mi guardasse con un binocolo?
Non riuscirà a farmela.
Applico ai vetri delle protezioni di cartone, che nascondono il mio foglio. Non lo si può più
vedere che dal cielo. Verranno in elicottero? Sentirei l'elicottero, e mi nasconderei in tempo.
Ho trovato miracolosamente, in fondo allo zaino, quando sono tornato a Parigi, decine e decine
di fogli, sgualciti, piccoli e grandi, in gran parte illeggibili, perché scritti su una carta pessima che
ha assorbito l'inchiostro.
Ecco qualche pagina, ricavata da questo taccuino infernale. Non ne cambio neppure una parola.
E tremo di sbigottimento, rileggendo ciò che ho potuto scrivere.
Questo, per esempio.
«Finalmente! La "grande farsa" è al termine. O piuttosto, reciprocamente, la commedia è finita!
«Ne conosco, dietro i loro Giuda, alcuni che devono essere piuttosto furax (dal latino "rapace") e
"disorientati". [Questo dev'essere stato scritto alla finestra, quando "sfuggivo" alla sorveglianza
della telecamera-allucinazione]. Mi è capitato anche di sentirli parlare, segno che non dormono, e
che io ho ragione. Perché questa sera io sono così sicuro di essere visto e sentito, quanto sono certo
— o no, o non di più — di essere qui.
«Tutto questo prova senz'ombra di dubbio, dopo ieri e oggi, che non vado più avanti alla
leggera…».
Un poco più oltre:
«Egli [il poliziotto] spera che io creda che non è più nascosto nella mia camera. Ha dovuto
affrettarsi a far sparire il suo "materiale" durante la mia assenza. In ogni caso, oggi me ne sono
assicurato per bene. È stato necessario che io mi divertissi tutto il giorno a… ridecorare la mia
camera solo per questo, e per trovare questi maledetti Giuda…
«Nella grande casa del guardiano, c'è pure un tale con un formidabile binocolo, che deve leggere
attraverso la finestra una gran parte dei miei scritti…
«A ogni modo, io ho frugato e rifrugato a lungo, oggi, a palmo a palmo, buco per buco, chiodo
per chiodo, fessura per fessura… per essere sicuro del fatto mio. Il fruscio sentito qui vicino solo
pochi minuti fa [senza dubbio era la signora Bichnù che sfaccendava nel corridoio] mi prova da una
parte il loro imbarazzo, e d'altra parte mi conferma riguardo ai Giuda, che ho pure scoperto oggi.
Uno tutto in basso, nell'angolo del piede del mio letto, un altro in alto, sopra il cucinino, un altro
sotto l'alfabeto nepalese [lo avevo appuntato con spilli al muro, come un poster], e uno che non ho
visto ma sono sicuro che si nasconde sotto il grande manifesto sopra la brocca e la pattumiera.
«Bene! Ora so come comportarmi. Perché in più so anche come e in quale misura sono seguito.
Ho studiato molto bene e con metodo i loro maneggi, questa sera, e so che sono pedinato molto da
vicino…
«Dunque, io so ora come, e molto esattamente perché, e a essere sincero da chi…
«Il che non sarà troppo imbarazzante, se ne esco fuori. E ci conto più che mai, ora che so
esattamente dove metto i piedi. Il solo fatto di scrivere così pericolosamente mi obbliga del resto a
riuscire, altrimenti guai a te, Charles!
«Ma il morale, dopo che è passato attraverso le più differenti angosce, è eccellente, soprattutto
dopo quattro giorni d'una tensione nervosa estrema, senza aver potuto sfogarmi sulla carta. Questa
sera, finalmente rassicurato, mi rilasso un poco, e soprattutto, con tutte le mie carte da giocare, le
mie informazioni e le mie idee ben a posto, in ordine, e definite!
«Farò del mio meglio, insegnerò a tutta la "gente bene" di Katmandu ciò che un paranoico,
colpito da "pubblica notorietà" sul posto, e senza dubbio "nemico pubblico numero uno" in questo
adorabile paese, può ancora fare, anche se è solo (o quasi…), e straniero, per dimostrare a questa
gente di qui e d'altrove…
«Non canto ancora vittoria, e non voglio vendere la pelle dell'orso prima di averlo ammazzato,
ma… senza esagerare, bisognerà, per farmi cedere le armi, che prima siano un po' più "discreti", e
più "psicologi" di quanto non siano stati finora…
«Checché ne sia, il dado ormai è gettato, e quest'ultima mano di poker deve o farmi perdere
anche la camicia (se li ho sottovalutati), oppure far saltare il banco!».
Quanto a sapere quale fosse questa decisiva «mano di poker» che mi avrebbe fatto perdere la
camicia o fatto saltare il banco, non ne ho il minimo ricordo, oggi…
Ho anche ritrovato una serie di poesie scritte durante quelle folli giornate.
Ascoltate che cosa ha potuto combinare la metedrina nello spirito di un drogato.
«Vita
Ebbi sete d'un me
e ho bevuto in te
ma anche da re
m'ha fuggito la fe'
perché amare in sé
subire la tua legge
non è cattivo gusto
che un chi
che un quando
che un che cosa».
Altrove mi pongo la domanda:
«Essere o non essere?
Mondo così basso ma vasto
fa' gridare in giro
dai tuoi pori vomitanti
nei tuoi abissi angoscianti
attraverso i tuoi deserti ardenti
sui tuoi oceani grondanti
che il piacere di calpestarti
in un bel mattino rugiadoso
sotto la tua aura di luce
brillante per mille polveri
non deve mai far dimenticare
all'orgoglioso bipede
che lui passa e trapassa
sulla tua pelle che mai si stanca».
Un ultimo estratto, da questo carnet di «divagazioni sotto metedrina».
«Bilancia
Giudizio finale
equilibrio
nozione dei valori
esattezza d'una cosa stabilita
influenza faraonica nell'al di là
verità orizzontale
padronanza nell'arte di tagliare
controbilanciamento.
«Sempre uguale la distanza motrice di due punti sopra una linea orizzontale.
«Questi due punti essendo collegati a uguale distanza logica, simmetrica ma non obbligatoria, a
parte due linee moventi dall'alto al basso e da B in H…».
La continuazione di questo testo è andata persa, ma era di sicuro molto lungo! Ho un vago
ricordo di quando l'ho composto, e mi pare di averlo scritto perché avevo «scoperto» la bilancia
ideale, perfetta, che non sbaglia mai, e che bisognava assolutamente descrivere subito, al più presto,
perché non ne andasse perduto il segreto.
Oggi, quando rileggo queste pagine, ricordandomi che sono stato io a scriverle, mi vengono i
brividi…
A ogni modo, se dei medici mi fanno l'onore di leggermi, sappiano che, nell'interesse delle loro
ricerche sulla droga e sui suoi effetti, io ho un vasto dossier di questo tipo da far loro vedere.
In questo dossier trovo anche alcune lettere datate 11 e 12 dicembre 1969.
Una è indirizzata all'ambasciatore, l'altra al console. Essi sono stati così gentili da restituirmele,
in seguito.
Nelle lettere annuncio la mia brutale intenzione di suicidarmi.
Non ho più un soldo. Mi restano solo trenta pastiglie di metedrina. Decido di prenderle tutte in
una volta, e di attendere la morte.
Dico addio ai miei corrispondenti, li ringrazio del loro aiuto, e li prego di scusarmi per le tante
preoccupazioni che ho loro procurato.
Il 12 dicembre, a sera, prima di mettere in esecuzione il mio progetto, scrivo anche questa lettera
di addio a Monique:
«Carissima Monique. Nessun commento. Nessuna spiegazione. Non ne sono più capace, e ad
ogni modo non ce n'è bisogno.
«Avendo paura di lasciare dei debiti dietro di me, mi permetto di rimborsarti le spese che hai
fatto all'ospedale.
«Utilizza questo biglietto solo se ne hai veramente bisogno. Altrimenti conservalo come ricordo
di un ragazzo che non è stato capace di amarti. Non sorridere. Peccato che non possa più spiegarti
nulla…
«Ti abbraccio. Charles».
Senza dubbio non ho mai spedito la lettera, né il denaro che (se devo credere al mio secondo
capoverso) avrebbe dovuto accompagnarla, poiché ho ancora il testo e non ricordo di aver rivisto
Monique.
La sera, esco di casa con le mie trenta pastiglie di metedrina in tasca, e un biglietto d'una rupia,
tutto quel che mi resta, oltre a pochi spiccioli.
Al Cabin Restaurant, mi offro con questa somma un ultimo caffelatte.
I miei due sbirri sono al loro posto, qualche tavolo più in là.
A metà del «pasto», prendo cinque pastiglie. Alla fine, altre cinque.
II freddo comincia a invadere le mie estremità, ma sono straordinariamente lucido, persino
felice.
Ho voglia di scherzare. A un tavolo vicino scorgo due ragazze giovani e graziose, due nuove
arrivate, che si fanno passare per studentesse, e sono in compagnia di Jean-Marie, un hippy che vive
fabbricando ciondoli.
Le due ragazze mi guardano stupefatte. È vero che non devo essere molto bello da vedere.
Spolpato, febbricitante, con capelli e barba a cespugli, vestito come un vagabondo, devo aver l'aria
di un pietoso spaventapasseri.
D'un colpo, ingoio dieci pastiglie.
L'hippy che le accompagna si china all'orecchio della bionda e le mormora qualcosa.
La bionda si china verso la sua vicina e le parla a voce bassissima.
L'altra tende l'orecchio.
«Come? Che cosa dici?», le chiede.
Io sento, sempre bisbigliato, ma abbastanza forte, questa volta, per capire:
«Lo vedi? Questo è un junkie…».
Allora una furia selvaggia mi scuote. Comincio, sghignazzando e urlando:
«Si, questo è un junkie! Volevate vederne uno, piccole sgualdrine, turiste fallite? Ebbene,
guardatemi!
«Sono bello, eh? To', biondina, vuoi vedere il mio braccio?».
Mi tiro su la manica e le mostro il braccio sinistro, con le vene segnate dalle iniezioni e dai
rigonfiamenti.
Alla piega del gomito ho un ascesso che sta maturando, rosso e duro. E un altro si apre accanto al
primo.
«Guarda! Guarda! E poi tocca, se vuoi!».
Le prendo la mano, e la costringo a toccare l'ascesso con il dito.
Lei indietreggia, con un grido di terrore.
«Ah, ah! Hai paura, eh? Si vuole vedere, ma non toccare! Chissà che non sia contagioso!».
E continuo così per dieci minuti. Vi metto di tutto, invettive, insulti, minacce al mondo intero. Si
è formato un capannello attorno a me, i turisti mi fotografano.
Alla fine, assalito da un accesso violento di tosse che mi strappa i polmoni, mi abbatto sul tavolo,
con la testa fra le braccia.
Il flash di una macchina fotografica mi fa sussultare, alzo la testa. Un altro flash mi abbaglia.
Scuoto la testa e inveisco di nuovo:
«Banda di sporcaccioni! Luridi turisti! Vi state divertendo, eh? Avrete delle belle foto da portare
a casa! Ma non avrete il coraggio di metterle nei vostri album… Perché siete dei vigliacchi, dei
vigliacchi!…».
Mi alzo, non ho più voglia di attaccare battaglia, non ho più la forza di gridare.
E che dire, del resto? Nessuno di loro sarebbe capace di capirmi. Nessuno può capire. Nessuno.
Io sono solo. Solo!
Tutti si fanno da parte. Una doppia siepe si forma, e io passo in mezzo, barcollando sulle gambe
che si piegano e che sento appena. Tanto sono gelide per la metedrina.
Qualche giorno prima della mia partenza da Katmandu, rivedrò le due ragazze all'ambasciata. E
mi informeranno che una delle due è agente della Sezione Stupefacenti.
Fuori, la notte di Katmandu mi attende. Mi tuffo nelle viuzze senza illuminazione, a caso.
Un cane arriva. Poi un altro. Presto sono una decina e mi seguono abbaiando. Uno di essi mi
afferra un polpaccio con le sue zanne.
Con uno scatto rabbioso lo scaravento lontano.
Fugge gemendo. Né quello né gli altri osano più avvicinarsi.
Ingoio altre cinque compresse di metedrina.
Ancora cinque, e saranno trenta.
Trenta! È la morte, ne sono sicuro. Spero di non dover soffrire troppo.
Erro di strada in strada. Per ore… A poco a poco le gambe mi si fanno pesanti. Non posso più
avanzare. Le mani sono di ghiaccio, i piedi anche. Le idee mi sfuggono.
Riesco a raggiungere una piazza, è la Piazza dei Templi. Mi trascino fino al primo tempio, e mi
siedo sul primo gradino della grande piramide. Comincio ad aspettare la morte.
Sta per venire, la sento. Ho già dovuto distendermi sulla pietra… Sono un blocco di ghiaccio…
In fretta, prima di essere completamente paralizzato, bisogna che ingoi le ultime cinque pastiglie di
metedrina.
Ci riesco, è fatta. Ne ho trenta nello stomaco. Addio…
Alle sei del mattino, i primi mercanti venuti a montare le loro bancarelle arrivano. Uno si installa
vicino a me. Gli ho preso il posto.
Borbottando mi spinge in là, col piede. Rotolo per terra.
E l'urto mi sveglia.
Non sono morto!
Ho le braccia e le gambe come di legno, la testa attraversata da stilettate, e un male terribile allo
stomaco, ma sono vivo!
Ho trangugiato trenta compresse di metedrina, una dose da stroncare quattro cavalli in una volta,
e sono ancora vivo!
Avevo soltanto dimenticato una cosa: assuefatto com'è alla droga, il mio organismo è diventato
capace di resistere anche a trenta compresse di metedrina…
9.
13 dicembre 1969. Mi resta un mese da vivere a Katmandu, dato che il 10 gennaio sarà il giorno
del mio rimpatrio.
Quattro settimane: un turbinio di episodi inspiegabili, di lacrime, grida, drammi. Un diluvio di
lettere e di suppliche.
Ricordo che continuo a essere pedinato dalla polizia, e che vedo sempre i miei Giuda e la mia
telecamera, il mio «occhio di Mosca».
Ricordo che due volte il signor Omnès mi ha mandato denaro.
Ricordo che Krishna è tornato per qualche giorno, poi è sparito di nuovo.
Ricordo infine che, a volte, un medico francese viene a vedermi.
Conservo anche qualche annotazione su un piccolo taccuino, riguardante quei giorni.
«18 dicembre 1969, ore 13,30.
«Il loro pedinamento continua, poco discreto come al solito. Ieri sera, una vera danza cose da
vaudeville, cose da crepare dal ridere, se non fossero così stupide. Insomma la grande farsa continua
più che mai, e spero che terminerà quando andrò dal console. Gli estorcerò, se occorrerà con uno
scandalo, il "perché" di tutto… Se potrò recarmi da lui, si capisce».
Un po' più avanti nel taccuino trovo queste spiegazioni senza capo né coda.
«Il risultato della faccenda con Omnès è incomprensibile! E il seguito?
«Il fotografo che prende cantonate?
«La telefonata a Omnès?
«Non si dice nulla. La Fortuna continua».
Diffido talmente di tutto e di tutti, che il 19 dicembre non rispondo alla lettera del signor Omnès,
portata da Krishna, in cui mi offre di farmi curare: cosa che gli avevo chiesto con suppliche e
scongiuri.
Ho ancora la sua lettera. È intestata «Ambasciata di Francia in Nepal», e porta la data del 19.
Dice:
«Signor Charles Duchaussois, sono desolato che non possa venire all'ambasciata per incontrare il
dottor Armand. Dovendo egli tornare all'ambasciata alle 12,30, Le propongo di rimandare questo
ragazzo verso tale ora, perché accompagni il dottor Armand da Lei.
«Attendo una sua risposta. Intanto riceva i miei vivi auguri di pronta guarigione».
Barricato nella mia tana, io non voglio più muovermi…
Qualche giorno più tardi scrivo ancora sul mio taccuino:
«Notte fra il 22 e il 23 dicembre 1969. Ore 22 circa.
«Niente più orologio. Già disorientato, ho perso ancor più la nozione del tempo, perché dopo il
mio scacco di sabato [quale scacco? Nessun ricordo] ho scritto tutta la notte, fino a domenica
mattina, e allora, completamente stremato per la notte passata in bianco, con in più un troppo
grande supplemento di droga, e ancora in più la mancanza di una nutrizione regolare e adeguata (le
mie gambe in particolare, ieri sera, mi hanno fatto terribilmente soffrire)…
«Tensione nervosa a sbalzi, secondo gli avvenimenti lieti o tristi, e di ora in ora sempre più acuta.
«Il colpo di mazza [quale colpo di mazza?…] è stato tale che mi sono lasciato andare come un
sacco vuoto e ho dormito per non so neppure quanto tempo. Spesso mi svegliavo da un sogno
cattivo, ma in realtà non posso dire esattamente se ho dormito, e male, per due giorni e due notti,
cioè fino a martedì mattino. Una cosa in ogni caso mi è sembrata anormale in questo sonno
malvagio troppo lungo, e per di più con la mia reazione ormai imprevedibile alle amfetamine che
poi ho preso. Non avendo più fiale, né di che comperarne, mi arrabatto con le pastiglie. In più ho
preso qualche shoot di oppio, che alla lunga addormenta, più che dare vigore.
«Non vedo altro, all'infuori di questo strano "tè nero", che possa spiegare il mio stato. Perché
sembra che mi abbia alterato il gusto, o che me l'abbia distrutto. Come pure non sento più alcun
profumo.
«E come se non bastasse, non piaccio più nemmeno al signor Krishna!
«La sua improvvisa sparizione proprio in questo momento conferma appunto che era costretto
dagli sbirri a restarmi sempre al fianco per sorvegliarmi, e che secondo il loro piano l'hanno ritirato
dalla circolazione per isolarmi di più, e ridurmi alla fame nel mio "buco".
«Eppure, anche se egli era mandato a studiarmi più da vicino di quanto possano fare loro…,
continuando a compiere la sua missione e a fornire il suo rapporto sul mio "occhio vivo", sul mio
"colorito sano", e sulla mia "aria decisa", essi logicamente, non devono impedirgli di rendermi un
ultimo servizio, di portare cioè questa lettera all'ambasciata di Francia dal signor Omnès in persona.
«Non posso permettermi la sfacciataggine di domandare questo favore ai miei proprietari, mentre
— senza parlare di tutto il resto — devo loro già molte settimane di affitto. Il che mi costringe più
che altro a evitarli.
«Come fare? In che bordello sono finito!».
Più avanti sul mio taccuino, senza indicazione di data.
«Ore 18 circa. Sto per decidermi a uscire, per spedire io stesso la lettera.
Mi sento abbastanza in forma. Mi sono vestito, continuando a fumare pipe di gangia una dopo
l'altra per dare tono ai miei nervi, perché l'oppio mi fa solo dormire, e quanto alle amfetamine oggi
ne ho già prese dieci.
«Lascio sempre con apprensione questa camera, non sapendo mai se potrò tornare a vederla…
Come faccio a saperlo, con tutti costoro intorno? È possibile che, vedendomi uscire, credano che mi
sono deciso [a che cosa?], e che mi preparino la trappola…».
La lettera al signor Omnès di cui parlo, è una lettera con gli auguri di buon Natale e Capodanno,
per lui e sua moglie.
Una lettera in cui supplico anche che mi mandi un medico.
Ne ho ritrovato solo l'ultima parte. Sopra una facciata ho disegnato una mappa dettagliata del
quartiere e della strada in cui abito, perché il medico se ne serva quando verrà. Sull'altra facciata ho
scritto:
«Auguri di un cenone gioioso e pantagruelico…
«Post scriptum. Non avendo più il mio orologio con la data, lasciato sabato in pegno al
ristorante, e dopo una molto misteriosa sparizione del denaro che lei mi aveva così generosamente
regalato, ed essendo rimasto poi continuamente a letto, ho quasi perduto la nozione del tempo. Così
non so più esattamente in che giorno siamo. Credo di essere a metà pomeriggio del 23 o 24 di
dicembre 1969.
«Il che mi fa supporre che questa sera o domani sera comincia la famosa notte del cenone di
Natale.
«Tutti, proprio tutti beneficiano, in quest'occasione unica, di una tregua sacra… Non ne avrò
diritto anch'io?».
Qualche ora più tardi, rientrato, scrivo sul taccuino:
«Ecco fatto! Ora aspetto. Non mi resta altro da fare…
«Attendo: o il dottore, o che mi vengano ad arrestare.
«Attendere!
«Non posso più fare altro.
«Più mi fanno credere nel loro forcing, e più io mi sento pronto e attendo…».
Quella sera, d'improvviso, bussano alla porta. La signora Bichnù introduce svelta un pacco, e
richiude.
Diffidente, salto giù e prendo il pacco. Lo scruto… Che cosa sarà mai? Il sudore mi imperla la
fronte. Attenzione, ci vuole molta attenzione.
Che sia un tranello degli sbirri?
È chiaro, hanno deciso di uccidermi, questa volta!
Soluzione geniale, no? Ma che ingenui. Che cosa credono? Che io ci caschi? Mi credono così
ingenuo da non immaginare che il pacco contiene un ordigno? E che salta tutto all'aria se lo apro?
Mi metto a ridere. Che scemi! Non sanno con chi hanno a che fare. Con un vecchio furfante!
Le serrature a combinazione, le chiusure nascoste, tutto io conosco.
Ora faccio vedere loro qualcosa che loro proprio non si aspettano da me.
Mi volto verso la telecamera, e mi metto a insultarla.
«Guarda bene. Riprendi tutto bene, implacabile occhio di Mosca. Tu credi di poter filmare la mia
morte? Come resterai delusa, poverina…».
Mi rivolgo poi alle quattro pareti, e urlo:
«Anche voi, sbirri nascosti dietro i traditori, guardatemi bene, e registrate tutto. Ora vi riservo
una bella sorpresa!».
Prendo il coltellino e, seduto a terra, senza nascondermi ai Giuda e all'occhio di Mosca, comincio
a far saltare lo spago. Con esso, nessun pericolo. Il meccanismo dev'essere dentro.
Delicatamente apro la carta che avvolge il pacco.
Appare un secondo foglio, incollato.
Stringo i denti:
«Ecco il momento cruciale! Diffidiamo… Ascoltiamo il meccanismo».
Accosto l'orecchio al pacco.
Niente. Strano…
Che abbiano un sistema segreto?
È quel che vedrò.
Lentamente lacero il secondo foglio, scoprendo man mano una scatola di cartone.
Sulla scatola c'è un foglio piegato in quattro.
Attraverso il foglio si vede l'inchiostro delle parole scritte sull'altra facciata, che la carta ha
bevuto come se fosse assorbente.
Interessato, prendo il foglio e leggo:
«Non potendo a quest'ora [sono le 21] raggiungere il dottor Armand, cercherò domattina [25
dicembre 1969] di parlargli.
«Questa roba la aiuti a pazientare.
«Ringraziandola dei suoi auguri, glieli ricambio per un lieto Natale. Daniel Omnès».
Lì per lì resto muto, a bocca aperta.
Ma mi scuoto, strappo la scatola e ne tiro fuori: primo, un pollo arrosto; secondo, una scatola di
fegato d'oca; terzo, due bottiglie di champagne.
Per contenere degli «ordigni», certo il pacco ne contiene!
Ah, che brav'uomo! Così, grazie a lui, avrò anch'io diritto alla sacra tregua di Natale…
Mi vengono le lacrime agli occhi. Mi fa un bene enorme, questo dono del signor Omnès.
Apro in fretta la scatola di fegato d'oca, e comincio il mio cenone di Natale, tutto solo nella mia
camera.
Faccio fuori tutto: il fegato d'oca, il pollo, le due bottiglie di champagne.
Risultato: mi addormento per terra, come se fossi di piombo, e il giorno dopo mi sveglio con la
gola di legno più secca che abbia mai avuto in vita mia.
Bere champagne dopo tanta droga, mi ha buttato a terra più che le trenta compresse di metedrina
dell'altro giorno.
10.
Dopo Natale tutto si accelera. Il dono del signor Omnès ha avuto su di me un effetto che
sembrerà incredibile, e che invece è reale. Questo gesto generoso mi ha richiamato alla realtà. Vedo
più chiaro dentro di me. I miei fantasmi tacciono.
Fra Natale e Capodanno incontro il signor Omnès. Ha una grande notizia per me.
A Parigi un organismo ufficiale, il Comitato Antidroga, da poco creato, è stato messo al corrente
delle mie sventure dal mio amico Robert!
Egli ha talmente perorato la mia causa, che hanno deciso il mio rimpatrio.
Il denaro per comperarmi il biglietto è in arrivo. Mi viene prestato. Lo rimborserò dopo il mio
ritorno in Francia, quando sarò guarito.
Le cose corrono più in fretta dal previsto. Il giorno dopo, sempre su carta intestata
dell'ambasciata, il console mi scrive:
«Signore, può presentarsi da noi il 2 gennaio alle dieci? È per il suo rimpatrio. Firmato: Daniel
Omnès».
Poi, sotto il timbro viola della «French Embassy, Katmandu», aggiunge:
«NB. Le faccio recapitare dal latore della presente alcuni libri, che spero leggerà volentieri. Con
i migliori auguri di un buon anno. D. O.».
Non riesco a capacitarmi…
Il 2 gennaio sono all'ambasciata. Si, tutto è davvero pronto. Mi consegnano il biglietto d'aereo.
Bisogna che mi procuri anche l'autorizzazione per l'uscita, della polizia nepalese.
Una sorpresa mi attende.
«Non si preoccupi — mi dicono col più bel sorriso. — Tutto è chiuso, a questo riguardo. Lei è
riconosciuto innocente. Ce ne siamo già occupati noi».
E mi danno anche 100 rupie, con cui saldare tutti i miei debiti.
Rientrando dall'ambasciata, ho la sorpresa di vedere i miei due angeli custodi che mi sorridono!
L'ambasciata non ha mentito. Alla polizia me lo confermano: sono completamente libero. Il mio
dossier è archiviato. Mi porgono le loro scuse.
Lo stupore mi fa dimenticare di colpo tutta la mia rabbia, le mie collere, i miei scatti degli ultimi
due mesi.
Da gran signore, dimentico tutto.
Senza rancore. Bye, bye!
E cosi, nel giro di pochi minuti, il mio delirio di persecuzione è svanito.
II mio aereo partirà il 10 gennaio. Prima di allora ho tempo per sistemare ogni cosa.
Non sto a raccontare i miei addii (e le mie scuse) a Bichnù e a sua moglie.
Impossibile ritrovare Krishna. Ne proverò rimorso…
Per l'ultima volta faccio il giro di Katmandu, bevo un'ultima tazza di tè al Cabin Restaurant…
Il 9 gennaio mi compero un grosso flacone di eroina pura (480 dosi), e una riserva di metedrina.
Drogato come sono, ho paura, una volta a Parigi, di trovarmi senza droga.
Il 10 gennaio 1970 il mio aereo spicca il volo dalla pista di Katmandu.
Io sono a bordo.
Scali a Delhi (dove passo in un Boeing 707), Karachi, Tel Aviv e Roma.
Il 12 gennaio, sotto una pioggia glaciale, scendo dall'aereo sulla pista di Orly, rabbrividendo nei
miei abiti di tela.
L'eroina e la metedrina sono in fondo allo zaino, in tutta semplicità.
Ritrovo lo zaino sul disco rotante della dogana.
Non c'è neppure un doganiere…
Esco.
Un uomo alto e biondo si precipita verso di me e mi afferra per le spalle. È Robert.
Nel tassi che mi porta verso Parigi, non dico una parola. Un'ondata di pensieri mi soffoca.
Eccomi dunque ritornato, salvato, tirato fuori dal baratro. Sono il primo superstite «sanitario» di
Katmandu. Non credo che ce ne siano stati molti altri… Ho avuto una fortuna sfacciata. E degli
amici meravigliosi.
Io so che laggiù sono restati decine di altri ragazzi e ragazze come me, che non hanno avuto la
mia fortuna.
I più moriranno, junkies, vinti dalla droga e dai loro sogni falliti.
Ora devo imparare nuovamente a vivere. E per questo dovrei avere il coraggio di disintossicarmi.
Palpo il mio zaino, dove tengo l'eroina e la metedrina. Questo coraggio, l'avrò?…
EPILOGO
Con questa domanda si chiude la confessione di Charles Duchaussois.
Allora, l'avrà o no, questo coraggio?
Non prima di mesi e mesi.
Ricuperato dal suo amico, rimesso in sesto, curato, non può sottrarsi alla tentazione.
Entrato nel Comitato Antidroga in Rue de Tilsitt, aiuta a salvare altri drogati.
Ma continua a drogarsi.
Si chiude nei lavandini del Comitato, e si inietta la droga.
Sovente la dose è così forte, che ricade con la testa in avanti, e si ferisce la fronte sul lavabo.
Deve mentire. Dire che lo ha preso un malore.
Dopo due mesi lascia il Comitato. Grazie alla «piccola pubblicità» trova un posto di
sorvegliante notturno in un albergo di Montparnasse.
Questo albergo è anche una pensione per vecchie signore.
Esse vanno matte per lo strano sorvegliante notturno che racconta appassionanti viaggi nel
deserto a dorso di cammello, e di strane peregrinazioni sulla strada delle Indie e in ogni dove.
Nel tardo pomeriggio, prima di cominciare il suo lavoro, Charles si droga.
A mezzanotte, quando è completamente solo, si droga di nuovo. E ricomincia prima di andare a
letto, al termine della nottata.
Presto la riserva di eroina va alla fine. Bisogna trovare dell'altro.
Al Comitato Antidroga un attore del cinema in pensione, che la droga ha condotto a un pauroso
sfacelo, gli ha spiegato che ci sono in libera vendita supposte a base di oppio, col dosaggio di 10
milligrammi di oppio per supposta.
Basta far fondere le supposte, raschiare lo strato di gelatina che si forma in superficie col
raffreddamento, diluire l'oppio rimasto in fondo dentro l'acqua, e filtrare prima di iniettare nelle
vene.
Intanto Charles ha potuto rintracciare Jocelyne, la sua amica espulsa in settembre da
Katmandu. Era rientrata in Francia dopo mesi di peregrinazioni attraverso l'India, l'Afghanistan,
l'lran, la Giordania e il Libano.
Durante l'inverno 1970 aveva lavorato in un asilo infantile a Megève. Ogni sera si iniettava
morfina.
Poi ha fatto la lavapiatti a Hyères. Un telegramma di Charles la fa ritornare a Parigi. Egli le va
incontro alla Gare de Lyon.
Jocelyne, ora, ha smesso di drogarsi, ma il suo arrivo scatena in Charles un processo
inarrestabile.
Jocelyne può sostituirlo nella sorveglianza in albergo, e lui prende l'abitudine di drogarsi
sempre più.
Presto gli occorrono da 15 a 20 scatole di supposte d'Omopavine al giorno, ogni scatola non
contenendo che cinque supposte.
Comincia una corsa affannosa attraverso le farmacie di Parigi. Jocelyne e Charles si alternano.
Hanno diviso Parigi in zone e costruito delle mappe sommarie in cui le farmacie sono segnate con
un punto rosso.
Così possono acquistare tutta l'Omopavine che vogliono senza destare sospetti.
Una scatola di supposte d'Omopavine a 10 milligrammi di oppio costa 2,60 franchi.
L'oppio viene così a costare da 40 a 50 franchi al giorno. Ogni mese, da 1200 a 1500 franchi
(da 150 a 190.000 lire italiane).
A luglio un'iniezione sbagliata causa a Charles un enorme ascesso al braccio. Deve cercare un
medico.
Il caso lo fa imbattere, a due passi dal suo albergo, in un giovane medico intelligente, che decide
di aiutarlo nella lotta contro la droga.
Ci vorranno due mesi prima che ci riesca.
Non si può far subire una cura di disintossicazione a un drogato, contro la sua volontà. Bisogna
che sia consenziente.
A settembre Charles è in condizioni critiche. Le fobie e le allucinazioni di Katmandu sono
ricominciate.
Rifiuta più che mai di essere curato.
All'albergo vive coricato. Jocelyne lavora al suo posto di notte, e di giorno visita le farmacie in
cerca d'Omopavine.
Per la direzione dell'albergo, Charles è affetto di paludismo, va soggetto ad attacchi frequenti e
molto violenti.
Alla fine di settembre Charles dice di essere braccato, e scappa.
Per una decina di giorni si aggira per Parigi, passando una giornata in un albergo e
lasciandolo il giorno dopo, per passare in un altro.
A volte si rifugia in più di un albergo al giorno.
Una notte chiama Jocelyne, che riesce a restare in contatto con lui.
Spaventata dallo stato disastroso di Charles, temendo il peggio, lei decide di farlo ospedalizzare
d'ufficio.
Chiama la polizia.
Niente da fare: non si ricovera uno che sia drogato fino a quel punto. Lei insiste, bussa alla
porta di parecchi ospedali.
È inutile, nessuno vuole saperne di Charles. Deve decidere lui, e lui solo, per la sua
ospedalizzazione.
Jocelyne si fa in quattro per spiegare che lui non è in grado di decidere; nessuno si muove.
Il medico di Charles è in vacanza, purtroppo.
Ma una notte Charles, che Jocelyne ha potuto rivedere, le fa un tale scandalo in piena strada,
davanti al Senato, che lei riesce a convincere la polizia a occuparsene.
Charles si lascia arrestare senza offrire resistenza.
Ma all'ospedale dove lo conducono, egli riesce a perorare così bene la sua causa davanti al
medico di guardia, che si fa liberare.
E ricomincia la fuga attraverso Parigi.
Poi un mattino il suo medico, che è ritornato ed è stato avvertito, chiama Charles. (Jocelyne,
dopo averlo perso di vista per parecchi giorni, era riuscita a scoprire il suo nuovo indirizzo).
Charles accetta un incontro con il medico.
Egli riesce a convincerlo: si sottoporrà a una cura di disintossicazione.
Entra nell'ospedale Fernand-Widal.
Quando ne esce, sulla fine di ottobre, è un altro uomo. Sfuggito al suo incubo, ritornato dai suoi,
va a riposarsi a Clamart, in un piccolo appartamento.
Lì esce, passeggia nella foresta di Meudon, e per il resto del tempo afferra il suo registratore e
parla febbrilmente, senza tregua, davanti al microfono.
Alla fine di novembre 1970, i diciotto nastri registrati (ventisette ore di registrazione in tutto)
sono sul nostro tavolo.

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