Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Keichu, il grande Maestro Zen dell’epoca Meiji, era a capo del Tofuku, un
tempio di Kyoto. Un giorno, il governatore della città decise di incontrarlo per
la prima volta. Al tempio, l’attendente di Keichu mostrò al Maestro il biglietto
del governatore che diceva: “Kitagaki, Governatore di Kyoto”. “Non ho niente
a che vedere con questa persona,” disse Keichu all’attendente. “Digli di
andarsene. L’attendente, scusandosi, riportò il biglietto al governatore. “È
stato un mio errore,” disse il governatore, e con una matita cancellò dal
biglietto le parole “Governatore di Kyoto”. “Chiedi di nuovo al tuo Maestro.”
“Oh, è Kitagaki?” esclamò Keichu quando vide il biglietto. “Voglio proprio
incontrarlo.” L’intera esistenza è una celebrazione continua, a eccezione
dell’uomo. L’esistenza è un carnevale, un’orgia di gioia, ma non per l’uomo.
L’uomo si è autoescluso da questa incredibile festa che continua senza sosta.
L’uomo non ne fa più parte; se ne sta in disparte, alienato, come se avesse
smarrito le proprie radici nell’esistenza. L’uomo è un albero morente, un
albero secco, senza vita; gli uccelli non vi si posano, le nuvole non cantano le
loro canzoni per lui, il vento non danza fra i suoi rami. Cos’è accaduto
all’uomo, e come gli è accaduto? Perché l’uomo si trova in un simile inferno?
Perché ha sempre così tanti problemi? Dev’esserci qualcosa di fondo che
non funziona. L’analisi portata dallo Zen, la sua diagnosi, è che tutto questo
accade perché l’uomo pensa di esistere. L’albero non pensa di esistere, gli
alberi non hanno un sé. Le rocce non pensano, non hanno un sé. Il cielo non
ha un sé, la terra non ha un sé. Senza il sé non esiste la possibilità di essere
infelici; il sé è la porta sull’infelicità – il Buddha ha chiamato il sé atta, l’ego. Ci
sentiamo infelici perché viviamo troppo nell’idea del sé. Cosa significa
quando dico che siamo troppo nel sé e cosa accade esattamente quando
siamo troppo nel sé? Puoi essere radicato nell’esistenza oppure nel sé – non
è possibile essere entrambe le cose contemporaneamente. Essere nel sé
significa che si è separati dall’esistenza, che ci si è messi da parte. Essere
nel sé significa diventare un’isola; significa disegnare una linea di confine
tutto intorno a te. Significa fare una distinzione fra “io sono questo” e “io non
sono questo”: è la definizione, la linea di demarcazione tra “io” e “non io” – il
sé ti isola. Il sé ha la capacità di congelarti: non sei più in grado di fluire. Se
fluisci, il sé non può esistere, ed è per questo che la gente è diventata simile
a cubetti di ghiaccio. Non possiedono alcun calore, non sono mossi da
nessun amore, perché l’amore è calore e la gente ne ha paura. Se l’amore li
toccasse, inizierebbero a sciogliersi e i loro confini sparirebbero. Nell’amore
ogni confine scompare; anche nella gioia ogni confine scompare, perché la
gioia non è fredda. Tranne la morte, nulla è freddo. Il sé è molto freddo. Il sé
è la morte. Coloro che vivono nel sé sono già morti, o forse non sono mai
neppure nati; hanno perso il momento della propria nascita. Essere nati,
essere vivi, significa fluire, significa avere calore, significa sciogliersi,
dissolversi, non conoscere dove tu finisci e l’esistenza inizia, non conoscere
confini, rimanere in quello stato di consapevolezza espansa dove sei
sicuramente consapevole, ma non c’è coscienza del sé: la consapevolezza è
consapevolezza del non sé. La consapevolezza può rendere l’uomo più felice
di qualsiasi altro essere vivente sulla Terra. È una grande opportunità, ma un
pericolo attende in agguato – la consapevolezza può diventare in qualsiasi
momento autocoscienza.
Oggi gli psicologi affermano che, se a una persona ripeti in continuazione una
cosa, la persona diventerà quella cosa – si diventa quello che si crede di
essere. Non che lo si diventi davvero, ma quell’idea sviluppa radici profonde;
questo è il principio su cui si basa ogni condizionamento. Se a un bambino
continui a ripetere che è stupido, diventerà stupido, comincerà a credere di
essere stupido. Non solo, inizierà a comportarsi in modo stupido: deve
conformarsi all’idea che gli viene suggerita. Se tutti pensano che sia stupido,
anche lui inizierà a credere che le cose stanno così. È molto difficile credere
a qualcosa che nessuno pensa di te, è impossibile, hai bisogno di ricevere
delle conferme. Il bambino si sente profondamente privo di sostegno. Si
guarda intorno, guarda nei tuoi occhi... Per lui funzionano da specchio: nei
tuoi occhi vede il suo viso, vede se stesso come tu lo descrivi. Un bambino
può diventare bello, può diventare brutto, può diventare un santo, può
diventare un criminale; dipende dal condizionamento che subisce, dal
condizionamento che gli dai. Ma diventare un santo o un peccatore ha poca
importanza; sarà infelice in entrambe le situazioni – diventare stupido o
intelligente non ha importanza. Ricorda questo punto: qualsiasi
condizionamento porta all’infelicità. Puoi condizionare un bambino a essere
santo e lo diventerà, ma resterà infelice. Prova a guardare i tuoi cosiddetti
santi; non puoi trovare gente più infelice al mondo. I peccatori possono vivere
momenti di felicità, i santi mai: sono così santi... come potrebbero ridere,
come potrebbero mai gioire, come potrebbero danzare, come potrebbero
mettersi a cantare? Come potrebbero comportarsi in modo ordinario, come
qualsiasi altro essere umano? Sono soprannaturali, e restano congelati nel
loro senso di superiorità, il loro non è altro che puro ego. Lo Zen è una
religione completamente diversa dalle altre. Lo Zen porta il senso
dell’umorismo alla religione, porta la dimensione umana; non ha niente a che
fare con il soprannaturale. Tutto ciò di cui si occupa lo Zen è come rendere la
vita ordinaria una benedizione. Le altre religioni cercano di distruggere
l’ordinarietà della tua vita e di renderti straordinario, ma questi sono trip
dell’ego e non potranno mai renderti felice. Le altre religioni ti condizionano e
poi ti considerano degno di rispetto: se sei buono, la società ti considera
degno di rispetto, se sei buono, i tuoi genitori ti considerano degno di rispetto,
se sei buono, i tuoi insegnanti di considerano degno di rispetto, e piano piano
questa idea penetra nella tua mente – se sei buono, tutti ti considereranno
degno di rispetto, se non sei buono, nessuno ti rispetterà. Ma la rispettabilità
non è vita, è un veleno mortale! Un uomo veramente vivo non si preoccupa
della rispettabilità; vive, e vive con autenticità. Quello che gli altri pensano di
lui non lo preoccupa per niente. Gurdjieff diceva ai suoi discepoli: “Ciò che
dicono gli altri non va preso nemmeno in considerazione. Ricordatevi, non
preoccupatevi mai di quello che gli altri dicono di voi, perché il vostro ego
nasce proprio dalla considerazione che date agli altri. Dovete eliminarla alla
radice”. Una volta che il bambino inizia a fissarsi, ha un sé. Questo sé è stato
creato artificialmente, è un surrogato della società. In realtà non ce l’hai, credi
soltanto di averlo; è una credenza, ed è la credenza più pericolosa di tutte. In
realtà non esiste il sé, in realtà non può esistere perché tu non sei separato
dall’esistenza: siamo tutti collegati gli uni agli altri e viviamo in un unico
universo. Questo è il significato della parola universo – ciò che è uno. Non è
una molteplicità, è un’universalità. Noi siamo un’unità: nella morte, nella vita,
nella nascita, nell’amore, nell’odio – siamo tutti un’unità, pulsiamo tutti
insieme. Il respiro che ho appena inspirato proviene da te. Soltanto un
momento fa era il tuo respiro, adesso è diventato il mio. Fra un momento non
sarà più mio, sarà di qualcun altro. Non puoi nemmeno rivendicare il tuo
respiro come tuo, non puoi dire che è mio – il respiro si sposta.
Viviamo nel mare della vita, viviamo l’uno dentro l’altro. Ciò che appartiene a
te può appartenere a me, ciò che appartiene a me apparterrà a te. Poco fa ho
iniziato a parlare: in me c’era qualcosa e ora lo sto riversando in te e
diventerà tuo, diventerà parte della tua consapevolezza, apparterrà alla tua
memoria, alla tua mente; sarà completamente tuo. Quando un pensiero è
ascoltato, quando è compreso, diventa tuo. Non è più soltanto mio; ora siamo
interconnessi. Il sé, quindi, è un’entità fasulla creata dalla società per i propri
scopi. Se comprendi gli scopi della società, puoi continuare a recitare il tuo
ruolo senza esserne ingannato. Nella società tutti hanno bisogno di una carta
d’identità, altrimenti le cose si complicherebbero. Tutti hanno bisogno di un
nome, tutti hanno bisogno di risiedere a un indirizzo, tutti hanno bisogno di un
passaporto, altrimenti le cose sarebbero troppo complicate: come faremmo a
chiamare una persona? Come faremmo a rivolgerci a qualcuno? Queste
sono cose pratiche, necessarie, sicuramente necessarie, ma prive di una
verità intrinseca; sono soltanto delle convenzioni. Chiamiamo un determinato
fiore “rosa”, ma non vuol dire che quello sia il suo nome. I fiori non hanno un
nome, ma dobbiamo pur chiamarli in qualche modo, altrimenti sarebbe
difficile fare una distinzione fra la rosa e il fiore di loto e, se tu volessi una
rosa, senza nomi sarebbe difficile formulare la tua richiesta. Ma queste sono
delle semplici necessità. Certo, hai bisogno di un nome, di un’etichetta; ma tu
non sei né l’etichetta né il nome. In te deve nascere la consapevolezza che
non sei il tuo nome, non sei la forma nella quale vivi; non sei né hindu, né
cristiano, né indiano, né cinese e non appartieni a nessuno, a nessuna setta,
a nessuna organizzazione: il Tutto appartiene a te e tu appartieni al Tutto.
Qualsiasi altra cosa non può essere vera. Con questa comprensione la presa
che l’ego ha su di te diventa sempre meno salda, finché un giorno ti accorgi
che puoi usare l’ego senza essere usato dall’ego. La seconda cosa da
ricordare: l’ego è identificarsi con un ruolo, con una funzione. C’è chi fa
l’impiegato, chi fa il commissario, qualcun altro fa il giardiniere e qualcun altro
ancora fa il governatore. Queste sono funzioni, sono cose che fai; non sono il
tuo essere. Quando qualcuno ti chiede: “Chi sei?” e tu rispondi: “Sono un
ingegnere”, dal punto di vista esistenziale la tua risposta è errata. Come
potresti mai essere un ingegnere? L’ingegnere è ciò che fai, non è ciò che
sei. Non chiuderti troppo nell’idea della funzione che svolgi, perché vorrebbe
dire chiudersi in una prigione. Nel mondo svolgi il lavoro di ingegnere, di
medico o di governatore, ma non significa che sei quelle funzioni. Puoi
smettere di fare l’ingegnere e cominciare a fare il pittore, puoi smettere di fare
il pittore e iniziare a fare il netturbino... tu sei infinito. Quando un bambino
nasce, ha a sua disposizione l’infinito. Piano piano, l’infinito non è più
disponibile così apertamente; il bambino inizia a fissarsi in una determinata
direzione. Quando è appena nato, è una multidimensionalità, ma piano piano
comincia a scegliere; noi lo aiutiamo a scegliere, lo aiutiamo a diventare
qualcuno. Un proverbio cinese dice che l’uomo nasce come un fenomeno
illimitato, ma sono estremamente rare le persone che muoiono con la
medesima qualità: l’uomo nasce come un fenomeno illimitato e muore come
fenomeno limitato. Quando sei nato eri esistenza allo stato puro; se quando
morirai sarai un dottore, un ingegnere o un professore, vuol dire che nella vita
sei stato un perdente.
Quando sei nato, avevi mille alternative, infinite possibilità – potevi diventare
un professore, uno scienziato, un poeta –, milioni di opportunità erano a tua
disposizione, tutte le porte erano aperte. Poi, piano piano, ti sei radicato, sei
diventato un professore – magari un professore di matematica e così hai
sviluppato una mentalità sempre più ristretta; sei diventato un esperto, uno
specialista. Ora sei come un tunnel che continua a restringersi sempre di più.
Sei nato vasto come il cielo, ma ben presto entri in questo tunnel e non ne
esci più. Questo tunnel è l’ego, è l’identificazione con un ruolo. Se si pensa a
un uomo soltanto in termini del suo essere impiegato, gli si arreca una
profonda offesa; è un grande insulto che fai a te stesso se pensi di essere
soltanto un impiegato, è una cosa davvero degradante. Siete tutti degli dei e
delle dee, e qualsiasi cosa al di sotto di questo non è vera; può essere
superiore, ma sicuramente non inferiore. Quando dico che siete tutti degli dei
e delle dee, intendo dire che le vostre possibilità sono illimitate, il vostro
potenziale è infinito. Può darsi che non proverai neppure ad attualizzare il tuo
intero potenziale, nessuno lo può fare: è talmente vasto... tu sei l’intero
universo, sarebbe impossibile. Persino se avessi a tua disposizione l’eternità,
non riusciresti a esprimere tutte le tue potenzialità. Questo è ciò che intendo
quando dico che sei dio: intendo dire che le tue potenzialità sono inesauribili.
Comunque manifesterai una parte di esse. Acquisirai padronanza del
linguaggio, diventerai un oratore. Imparerai le lingue, avrai una sensibilità per
le parole, diventerai un poeta. Oppure avrai un orecchio musicale, amerai la
musica, saprai elaborare i suoni e diventerai un musicista. Ma queste sono
solo una piccolissima parte delle tue possibilità; non pensare che quelli siano
i tuoi confini, nessuno esaurisce mai le proprie possibilità. Qualunque cosa tu
abbia fatto finora non è niente se la paragoni a quello che potresti fare, e
qualsiasi cosa farai non è niente se paragonata a ciò che sei. L’ego significa
identificarsi con un ruolo. Di certo un governatore ha un tipo di ego
particolare: è un governatore e crede di essere arrivato al successo. Un
primo ministro ha un determinato tipo di ego: crede di essere arrivato al
successo; cos’altro potrebbe esserci di più elevato? Ma è un atteggiamento
così sciocco, è talmente stupido... La vita è così vasta che non è possibile
esaurirla, è impossibile! Più ti addentri nella vita, più scopri possibilità sempre
più grandi che ti spalancano le proprie porte. Certo, puoi raggiungere un
picco, ma subito scopri che ce n’è un altro – non finisce mai. Se resta aperto
alle potenzialità del proprio essere, l’uomo continua a rinascere in ogni
momento.
Questa fluidità deve accadere anche nella vita. La vita è un grande dramma
teatrale; sì, il palcoscenico è particolarmente ampio – l’intero pianeta è il tuo
palcoscenico e ogni persona intorno a te è un attore. Nessuno sa come la
trama si sviluppa, cosa accadrà; nessuno conosce già la trama – dev’essere
creata, dev’essere improvvisata momento per momento. Nello Zen esiste una
forma di teatro chiamata No. Sono spettacoli in cui non esiste un copione, ci
sono soltanto gli attori: il sipario si alza, gli attori iniziano a improvvisare e le
cose accadono da sole. Se ci sono delle persone, accade sempre qualcosa;
anche se stanno semplicemente lì a guardarsi, sta accadendo qualcosa.
Qualcosa accade sempre, senza essere stato preparato in anticipo, senza
aver fatto delle prove; qualcosa accade sempre. La vita è proprio così,
momento dopo momento. Continua ad abbandonare il tuo passato e qualsiasi
cosa accada permettile di accadere senza inibizioni, senza alcuna
repressione. Entra in quello che accade il più totalmente possibile e la tua
libertà continuerà a crescere. Un’ultima cosa, prima di addentrarci in questa
storia. L’ego, o il sé, è una parte che pretende di essere il Tutto – proprio
come se la mia mano pretendesse di essere il mio intero corpo; ovviamente
questo farebbe nascere delle difficoltà. Siamo parte di un universo infinito e
iniziamo a far finta di essere il Tutto. L’ego è una sorta di pazzia, è una
nevrosi, è megalomania, e l’ego è veramente folle; se provi ad ascoltarlo,
puoi renderti conto della sua pazzia. Pensa che tutto sia possibile, pensa di
poter conquistare il Tutto, di poter conquistare la natura, di poter conquistare
dio. L’ego pensa in termini di conquista, pensa in termini di aggressione –
pensa che tutto sia possibile e che tutto possa essere fatto. E continua a
diventare sempre più ambizioso, continua a diventare sempre più folle. In
Cina esiste una storia Zen molto antica, La scimmia. La scimmia è uno dei
simboli più antichi per rappresentare la mente, il sé, l’ego. La scimmia è usata
come metafora per la stupidità dell’ego. Storie come questa sono rare;
soltanto la gente dello Zen avrebbe potuto scrivere una storia del genere,
nessun’altra religione potrebbe essere così coraggiosa. Per le altre religioni –
per i cristiani, gli hindu, i musulmani – questa storia potrebbe sembrare un
sacrilegio, mancare di rispetto al Buddha o a dio, ma non è così. La gente
dello Zen ama il Buddha a tal punto che può permettersi persino di scherzare
su di lui: questa storia è frutto dell’immenso amore che provano per lui. La
gente dello Zen non è timorata di dio – ricordalo – è innamorata di dio. E
quando ami qualcuno puoi anche permetterti di scherzare un po’. La gente
dello Zen sa che ridere non sminuisce il Buddha; anzi, la loro risata è una
testimonianza del loro amore.
Ebbene, la scimmia è usata come metafora per l’ego. L’ego pensa di poter
fare tutto, vive con questa illusione: la parte vive nell’illusione di essere il
Tutto. L’ego impotente vive con l’illusione di essere onnipotente. L’ego, che
non esiste assolutamente, pensa di essere il centro dell’universo; da qui
nasce l’infelicità. Noi continuiamo a fare ogni tipo di sforzo e tutti falliscono,
perché proprio il presupposto di base è sbagliato. L’uomo continua a cercare
di avere successo, ma non ci riesce mai; qualsiasi successo porta alla
frustrazione. Abbiamo accumulato denaro, abbiamo accumulato tecnologia,
abbiamo accumulato progresso scientifico, ma l’infelicità continua ad
aumentare. Oggi c’è più infelicità che mai. Non dovrebbe essere così, da un
punto di vista logico non dovrebbe essere così: il nostro è il secolo più
avanzato in campo scientifico; l’uomo non è mai stato così ricco e non ha mai
avuto a disposizione tanta tecnologia per sfruttare la natura, ma allo stesso
tempo l’uomo non è mai stato così infelice. Cos’è andato storto? È andato
storto proprio il presupposto di base. Per il non-sé tutto è possibile, per il sé
niente è possibile. Se vuoi conquistare il mondo, sarai sconfitto; se non vuoi
conquistarlo, diventi il conquistatore – la vittoria consiste nell’arrendersi
all’esistenza. Esercitare la propria volontà non porta al paradiso, soltanto
l’arrendersi è in grado di farlo. Ricorda dunque queste cose... e ora
addentriamoci in questa breve parabola. Keichu, il grande Maestro Zen
dell’epoca Meiji, era a capo del Tofuku, un tempio di Kyoto. Un giorno, il
governatore della città decise di incontrarlo per la prima volta. Al tempio,
l’attendente di Keichu mostrò al Maestro il biglietto del governatore che
diceva: “Kitagaki, Governatore di Kyoto”. “Non ho niente a che vedere con
questa persona,” disse Keichu all’attendente. “Digli di andarsene.”
L’attendente, scusandosi, riportò il biglietto al governatore. “È stato un mio
errore,” disse il governatore, e con una matita cancellò dal biglietto le parole
“Governatore di Kyoto”. “Chiedi di nuovo al tuo Maestro.” “Oh, è Kitagaki?”
esclamò Keichu quando vide il biglietto. “Voglio proprio incontrarlo.” Cos’era
successo? Questa è una storia molto semplice ma di grandissimo rilievo.
Ecco che arriva questo governatore, per incontrare un Maestro Zen. Scrive il
suo nome sul biglietto da visita, Kitagaki, ma non riesce a dimenticare di
essere il governatore di Kyoto. E quando vai da un Maestro, questo è un dato
che devi proprio dimenticare, altrimenti non riusciresti a incontrarlo: potresti
recarti fisicamente da lui, ma spiritualmente saresti lontanissimo, lontano
mille miglia. Il “Governatore” si frapporrebbe tra te e il Maestro, la tua
funzione amministrativa diventerebbe un intoppo. Inoltre, come può un
governatore recarsi da un Maestro Zen? Un uomo ordinario può farlo, una
donna ordinaria può farlo, ma non un governatore. Essere governatore è
soltanto una carica amministrativa... da un Maestro può recarsi soltanto una
consapevolezza, non un ego.
Leggendo il biglietto, il Maestro dice: “Non ho niente a che vedere con questa
persona”. Il governatore ha dimostrato di non aver capito neppure l’ABC dello
Zen; per quale motivo si è scomodato per andare da Keichu? Vai da un
Maestro soltanto animato dalla più profonda umiltà, perché è possibile
imparare unicamente quando si è umili. Da un Maestro vai per imparare, non
per esibire chi sei. Da un Maestro vai per arrenderti, non per metterti in bella
mostra, non per manipolare, non per fare colpo – vai animato dalla più
profonda umiltà. Ci si reca da un Maestro soltanto in questo caso. Se vai con
delle idee preconcette – che sei questo e sei quello –, non riuscirai ad
avvicinarti a lui. Purtroppo ci tiriamo dietro il ruolo che abbiamo nella società
come una maschera, il nostro volto originale resta nascosto: se possiedi tanti
soldi, quel denaro diventa la maschera che indossi e che nasconde il tuo
volto originale. Se godi di un certo prestigio, quel prestigio diventa la
maschera che indossi e che nasconde il tuo vero volto. Se stai perseguendo
delle mete politiche, la politica sarà manifesta nella tua maschera. Un
Maestro Zen non è un insegnante come tanti. Non è un prete, non è un papa,
non è uno shankaracharya – un Maestro Zen non crede nelle gerarchie. Vuol
vedere le cose direttamente e vuole che tu possa vedere lui direttamente;
vuole che fra te e lui non ci sia alcuna barriera, nessun impedimento. In
questa storia il “governatore” era diventato un ostacolo; a causa di questo
“governatore”, Keichu non sarebbe riuscito ad arrivare a Kitagaki e Kitagaki
non sarebbe stato in grado di comprendere Keichu. Questo “governatore”
sarebbe stato una barriera enorme e non avrebbe permesso alcuna
comunicazione. Naturalmente, quando sei il governatore non sei molto
rilassato, sei teso; quando sei il governatore non sei pronto ad ascoltare, sei
pronto a dare ordini. Quando sei un governatore non puoi inchinarti agli altri,
non puoi arrenderti agli altri: vorresti che fosse il Maestro a sottomettersi a te.
Il Maestro ha perfettamente ragione quando dice: “Non ho niente a che
vedere con questa persona. Digli di andarsene”. Sembra una risposta
scortese, ma non lo è. Questa risposta scaturisce da una profonda
compassione. Sembra scortese perché ti sei abituato troppo alle formalità,
ma un Maestro Zen non appartiene più al tuo mondo delle forme esteriori,
ecco perché è un Maestro Zen: vive al di fuori della società, è uno che ha
abbandonato il tuo mondo, è un ribelle. Non si preoccupa delle formalità
perché con le formalità si continuano a perpetrare le bugie, con le formalità si
continua a dare nutrimento all’ego – l’ego è sostenuto da ogni sorta di
formalità. Keichu tira via il tappeto da sotto i piedi al governatore, gli leva
qualsiasi appiglio: dice di non voler vedere quella persona. In superficie
sembra duro, scortese ma, se guardi nel suo intimo, puoi vedere la sua
compassione. Se Keichu non avesse avuto questa immensa compassione,
non gli sarebbe importato niente di Kitagaki, avrebbe detto: “Okay, fallo
entrare”; gli avrebbe permesso di scambiare quattro chiacchiere con lui e la
cosa sarebbe finita lì. Perché mai si sarebbe dovuto preoccupare? Ma il
Maestro desiderava veramente che Kitagaki potesse incontrarlo, e sapeva
che non ci sarebbe riuscito con quell’idea di essere il “governatore” a
sbarrargli la strada. Quell’idea doveva essere lasciata fuori dalla porta, la
vecchia mente doveva essere lasciata fuori dalla porta; Kitagaki doveva
diventare una tabula rasa, doveva entrare nel tempio innocente come un
bambino, senza alcuna idea preconcetta su di sé. Soltanto così qualcosa
poteva accadere, soltanto allora la scintilla del Maestro avrebbe potuto
accendere il fuoco dentro di lui.
Chuang-tzu racconta la storia dello Spirito dell’Oceano che parla allo Spirito
del Fiume e dice: “Non puoi raccontare cos’è l’oceano alla rana dello stagno,
creatura di un ambiente ristretto. Non puoi parlare del ghiaccio a un insetto
estivo, creatura che vive una sola stagione. Non puoi parlare del Tao a un
pedagogo, persona dalla visione troppo limitata. Ma ora che sei emerso dal
tuo ristretto ambito e hai visto il grande oceano, riconosci la tua irrilevanza e
posso parlare con te dei grandi principi”. Questo è ciò che l’oceano dice
quando il fiume sfocia nel mare. Fino a quel momento l’oceano è stato sulle
sue ed è rimasto in silenzio: il fiume è arrivato alla foce, esita se riversarsi nel
mare o no, e l’oceano resta in silenzio. Poi il fiume entra nelle acque del mare
e l’oceano dice: “Ma ora che sei emerso dal tuo ristretto ambito e hai visto il
grande oceano, riconosci la tua irrilevanza e posso parlare con te dei grandi
principi”. È accaduta esattamente la stessa cosa quando Kitagaki ha risposto:
“Sì, ho sbagliato”. Sentire di aver sbagliato innesca un cambiamento radicale.
Per la gente è molto difficile accettare di aver sbagliato; tutti continuano a
difendersi, continuano a razionalizzare ciò che hanno fatto. Per Kitagaki
sarebbe stato molto più semplice pensare che Keichu fosse una persona
arrogante, egoica. Se al posto di Kitagaki ci fossi stato tu, cosa avresti fatto?
Prova a pensarci. Avresti pensato che quello era un uomo arrogante, ma che
genere di Maestro è una persona così? Un Maestro dev’essere umile,
dev’essere l’incarnazione stessa dell’umiltà; quest’uomo invece è egoico e
non ha nemmeno un po’ di buona educazione, è rude e si comporta in modo
incivile. Ti saresti arrabbiato, avresti cercato di razionalizzare la cosa con
mille spiegazioni; la gente insiste nel voler razionalizzare tutto. Preoccupato,
un paziente dice al proprio psichiatra: “Mi sono innamorato del mio cavallo”.
“Non c’è nulla di male,” risponde il dottore. “Molte persone amano gli animali.
Mia moglie e io abbiamo un cane che amiamo molto.” “Ma dottore, quello che
io provo verso il mio cavallo è attrazione fisica!” “Hummmmmmm!” commenta
lo psichiatra. “Che genere di cavallo è? Maschio o femmina?” “Femmina,
ovvio!” replica risentito il paziente. “Crede forse che io sia gay?” È facile
sentirsi in dovere di difendere il proprio punto di vista. Puoi difendere la tua
stupidità, puoi difendere il tuo malessere, puoi difendere le tue nevrosi. Puoi
continuare a difendere lo stato in cui ti trovi e che ti fa soffrire, puoi difendere
la tua sofferenza e la tua infelicità; la gente difende il proprio inferno con
grande accanimento, non ne vuole proprio uscire! Nel momento in cui il
governatore dice: “Sì, ho sbagliato”, il suo intero essere è cambiato. Quando
dici: “Sì, ho sbagliato” ti accorgi di cosa accade? All’improvviso ogni tensione
si scioglie; adesso non sei più sulla difensiva, non hai più bisogno di
difenderti, ora puoi aprirti. Nel momento in cui Kitagaki ha cancellato le parole
“Governatore di Kyoto”, è diventato un uomo diverso. Non è più la stessa
persona, ricordalo. Ecco perché il Maestro dice: “Oh, è Kitagaki? Voglio
proprio incontrarlo”. Adesso è diventato una persona completamente diversa.
Due amici sono seduti in un bar. “Mi voglio licenziare e voglio che vieni con
me,” dice uno dei due all’altro, dopo l’ottavo drink. “Davvero?” chiede l’amico.
“Sì. Conosco un posto in Africa dove c’è un sacco d’oro sparso in giro che
aspetta soltanto che qualcuno lo raccolga.” “Ecco, lo sapevo che c’era una
fregatura!” “Di quale fregatura stai parlando?” “Bisogna chinarsi!”