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Gianni Bessi

HOUSE OF ZAR

La geopolitica al tempo di Putin e Trump



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Indice


pag 5 introduzione

pag 7 A tutto gas, la nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Russia

pag 9 I trilogia: Elezioni e pallone, il quarto gol dello zar

pag 13 II trilogia: Putin il Grande e il suo nuovo Rasputin

pag 18 III trilogia: La guerra fredda… si scalda col gas

pag 22 intermezzo: Bye Bye Mercedes, adesso Putin viaggia su una Kortezh

pag 24 IV trilogia: La mosca sul muro dei potenti

pag 29 V trilogia: Anche il gas ha una… pista bulgara

pag 33 VI trilogia: Russia Arabia, palla al centro e vinca chi ha più gas

pag 37 VII trilogia: Mondiali 2018, vince la Francia… anzi Putin

pag 41 VIII trilogia: Il potere si veste di nuove ideologie

pag 46 IX trilogia: Un tubo si aggira per l’Europa

pag 52 Breaking news (da Copenaghen e Berlino): Passaggio a nord est per il
gas russo

pag 54 X trilogia: Un autunno caldo… africano

pag 58 XI trilogia: Le Termopili di Trump

pag 63 XII trilogia: Tutto ha un prezzo, soprattutto il petrolio

pag 67 conclusioni

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Introduzione

Una mosca su un muro, ma non un muro qualsiasi: uno dei muri della stanza di un potente della
terra. In questo caso Vladimir Vladimirovič Putin (all’anagrafe Владимир Владимирович
Путин). Con House of zar, che riprende il titolo di una celebre seria televisiva, guarda a caso
con protagonista un potente della terra…, mi sono immaginato di essere una mosca a Mosca, un
intruso su un muro per potere ascoltare, ma in realtà immaginare o riscostruire, i dialoghi che
il novello Czar della grade repubblica europeo-asiatica ha condiviso con i suoi pari.
Ne è nata una serie di trilogie, ospitata su StartMag, nella quale ho provato a gettare uno
sguardo su una realtà a noi vicina ma con cui abbiamo, da europei intendo, un rapporto
conflittuale. Capiamoci, non sono un fan di Putin: in Italia ne ha anche troppi… E non ho
particolari simpatie per il suo modo di intendere la politica. Ma sono un appassionato di
geopolitica, di quell’intreccio di avvenimenti, decisioni, false o vere dichiarazioni, di sotterfugi,
di tattiche che sono il sangue e la carne del mondo. Del nostro mondo. Le storie di House of Zar
non sono invenzioni: si alimentano grazie a un network di persone che conoscono e amano il
mondo dell'energia e che lavorano o hanno lavorato nei grandi spazi del permafrost russo o
vicino alle acque profonde del Mar Nero o del Caspio.
Queste incursioni nella geopolitica non sarebbero però mai partite senza Michele Arnese, un
giornalista che mi ha coinvolto nel progetto editoriale Start Magazine chiedendomi di
continuare, libertà, con le analisi che producevo per formiche.net, di cui era direttore. Il tema?
La nuova guerra fredda che si sta combattendo sull’energia, specialmente sul Gas naturale, che
nel 2018 ha vissuto due eventi politici di primo piano con protagonista la Russia, le elezioni
politiche e i mondiali di calcio. È da qui che è partita House of Zar.
Ecco allora che i tanti protagonisti della politica in House of zar sono diventati personaggi da
saga, delle ‘maschere della politica’, con soprannomi, manie e capricci. Per avvicinarli a noi e
quindi cercare di capirli meglio ho usato la lente dell’ironia. Insieme all’orso Putin sul
palcoscenico della geopolitica c’è anche Donald il cow boy, la cancelliera Frau Merkel, il dragone
cinese Xi Jinping, ma anche filosofi (o presunti tali) e calciatori. Con le loro vanità, i loro colpi di
genio ma anche quelli andati male.
Ma c’è un altro grande personaggio, anzi altri grandi personaggi, di cui si è occupata House of
zar: le terre su cui questi leader governano. A cominciare dalla Madre Russia, un paese che si
estende per 17mila kmq, 11 fusi orari, con le sue infinite materie prime e con l’idea secolare di
essere la potenza di terra del continente euroasiatico. Una terra che ha resistito alla gloria e
alla caduta di imperi, ultimo dei quali quello dei soviet e di cui Dostoevskij aveva detto «Che
volete? Le nostre vie nazionali sono lunghe. La cosiddetta Madre Russia è grande». Come
dall’altra parte sono sterminate sono le praterie americane, quelle che si sono fissate nella
nostra memoria per i film di John Ford. Del resto, non esiste un viaggio se non ci sono terre da
attraversare: e House of zar è un viaggio che dalla Russia arriva in America e ritorno.

Alla fine di tutto questo… ho deciso di riunire tutti gli interventi di questo viaggio perché penso
che siano utili proprio ad avvicinarsi a una dimensione che non compete a noi cittadini normali,
ma che vive delle stesse nostre frustrazioni e manie di grandezza, di errori e di decisioni
azzeccate. Se leggendo vi verrà in mente la parola – usata molto per descrivere il mondo della
politica – di ‘teatrino’ è perché… è un teatro, che non si sa decidere tra tragedia e commedia. Un
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teatro che ha le sue ‘dramatis personae’. Qui di seguito tutti i personaggi che incontrerete in
queste pagine con relativi soprannomi, ma anche i luoghi e le opere:

Vladimir Vladimirovič Putin, Vlad lo Zar di tutte le Russie
Donald Trump il Potus
Angela Merkel das Mädchen (la ragazza)
Xi Jinping il nuovo timoniere del dragone millenario
Teresa May Lady Brexit
Porosenko e i Rus’ di Kiev
Recep Tayyip Erdoğan il Califfo di Istanbul
Hassan Rouhani l’ayatollah
Emanuel Macron le petit champion du monde,
Mohammed bin Salman bin Abdulaziz Al Saud il principe MbS,
Rumen Radev il Bulgaro
Aleksandr Dugin e Steve Bannon i barbuti ideologici,
Kirill il Patriarca di Madre Russia,
Gerhard Schroder il cancelliere dei gasdotti,
Sergey Kuzhugetovich Shoygu, Sergej Borisovič Ivanov, Igor Ivanovich Sechin, Dmitrij
Anatol'evič Medvedev, Aleksej Borisovič Miller: gli eredi impossibili…
i robber barons i predatori, i siloviki gli strongman, i taicun, gli uomini della forza, le spie…
… e ovviamente il triumvirato tricolore edizione 2018: Conte-Salvini-Di Maio

Mosca, Washington, Berlino, Teheran, Londra o Londongrad, San Pietroburgo o Leningrado,
Roma, Yamal la penisola dei ghiacci, Copenaghen, Istanbul, Riad, Vladivostok, Mar Nero, Mar
Caspio, il canale di Panama, Zohr, le rotte artiche, Sochi, Melendugno, Stadio Luzniki…
TurkStream, Tap, Tanap, Power of Siberia, NordStream2 la geopolitica dei tubi, Pioneering
Spirit il mamut dei mari dedicato a Pieter Schelte, le gasiere Star&Strips, MIRV o Avangard,
Gazprom, Rosneft, Total, Eni, Allseas Group, Saipem, Exxonmobil, Shell…
Cristiano Ronaldo CR7 e Oscar Washington Tabarez il maestro,
Modric e la piccola Croazia,
Didier Deschamps il maresciallo della Grande Armeè,
Gianni Infantino lo Zar di tutte le Fifa…
e tanti altri…

Buona lettura

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A tutto gas, la nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Russia

(Vi spiego la guerra fredda del gas tra Stati Uniti e Russia, Start Magazine,15 febbraio 2018)

In campo energetico la novità è che stiamo assistendo a una “guerra fredda del gas”, con gli Stati
Uniti che da semplici clienti sono diventati competitor dei petrostati tradizionali. Ciò grazie alla
potenzialità delle produzioni, sostenute dall’innovazione tecnologica che permette di sfruttare
giacimenti prima “dormienti”, ai nuovi progetti e alle infrastrutture che sta realizzando.
Tutto ciò non è iniziato ora. In principio erano… Tre politici americani, che usando il titolo di
un film di Sergio Leone sono il buono, il brutto e il cattivo. Barack Obama, è “il buono”, quello
che ha rimosso il divieto di esportazione di idrocarburi. Un blocco introdotto nel 1973 da
Richard Nixon, al quale, visto quello di cui si è reso colpevole, possiamo assegnare il titolo di
“brutto” della politica. A suo tempo quella di Tricky Dicky – il 37esimo presidente Usa ha
collezionato un certo numero di nomignoli – fu una mossa storica per rilanciare le compagnie
petrolifere nazionali e di conseguenza anche l’industria.
Oggi tutti guardano a Donald Trump – che, va da sé, si becca l’appellativo di “il cattivo” della
politica – che può continuare a sostenere una geopolitica aggressiva usando le risorse
energetiche nazionali, dalle sabbie bituminose al petrolio e, soprattutto, al gas di scisto.
Ambendo non solo a una ritrovata indipendenza energetica, ma anche a portare gli Usa a
dominare il mercato.
Le stime più recenti confermano la potenzialità dello shale che si prevede che raggiunga i 90
miliardi di metri cubi entro il 2020, rendendo gli USA uno dei primi tre esportatori di Gnl al
mondo.
Perché questa accelerazione imposta dall’amministrazione Trump verso una politica di
“dominio energetico”? A mio parere la ragione principale va cercata nell’esigenza di sostenere
l’economia reale Made in USA che ha perso lungo la strada pezzi della bilancia commerciale,
soprattutto nel settore manifatturiero per la concorrenza di Cina e India.
L’obiettivo anche della presidenza Trump è recuperare risorse grazie alle esportazioni nel
settore energetico per sostenere il budget statale. Che si è indebolito anche per il calo delle
entrate dovuto alla riforma fiscale.
La potenza americana riuscirà ad aumentare il proprio vantaggio competitivo convertendo i
terminali di importazione in terminali di esportazioni nel golfo del Messico, riducendo così i
tempi di trasporto verso l’Oriente. Questo grazie all’allargamento del canale di Panama, che dai
tempi di James Monroe è un po’ come “il cortile di casa”.
L’aumento delle esportazioni di carburante dagli Stati Uniti – ha detto a Reuters il capo dell’ente
governativo del canale – porterà entro settembre a un aumento del 50% del numero di navi
metaniere per il trasporto di gas liquefatto che attraversano il canale.
Il gambler americano, insomma, ha scelto di giocare di forza: Washington non si limita a
guardare verso oriente ma ha anche dato il via a un export aggressivo, con le gasiere cariche di
Gnl che dal terminale di Sabine Pass della compagnia Cheniere Energy partono alla volta dei
terminali polacchi e di quello di Klaipeda in Lituania. È un modo per limare le quote di forniture
russe proprio nei Paesi dell’Europa dell’est.
Sempre in chiave di predominanza energetica, gli Usa utilizzano ogni forma di pressione
geopolitica, dalle sanzioni economiche (Russia o Iran per esempio) alla diplomazia tradizionale.
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L’agenda dell’inviata per gli affari energetici internazionali del dipartimento degli Stati Uniti,
Sue Saarnio, non ha una data libera, com’era quella del resto del suo predecessore Amos
Hochstein, perché la priorità è promuovere la “flessibilità” dell’approvvigionamento di Gnl
made in Usa rispetto alle forniture di gas siberiano.
E qui entra in scena l’orso russo, l’altro grande gambler dei petrostati: la sua economia dipende
in larghissima parte da export energia e di conseguenza il suo budget statale soffre l’ingresso
americano.
Lo stile dei cosacchi è differente: sono raffinati scacchisti che non si limitano a subire il gioco e
per questo sono disponibili a puntare su mosse imprevedibili. Putin, e qui come soprannome ci
sta bene “il freddo della politica”, che è sempre prudente nello studiare le circostanze quanto è
rapido nelle scelte di geopolitica sta operando a tutto campo, non solo per creare nuovi gasdotti
verso l’Europa, dal Nord Stream2 al TurkStream fino al Power of Siberia verso la Cina e il
Giappone, ma anche per stringere nuove alleanze e consolidare quelle vecchie.
Come un alfiere attraversa tutta la scacchiera mondiale e non ha problemi a stringere la mano
agli iraniani o ai sauditi, nonostante le divergenze geopolitiche, alleandosi con loro per
fronteggiare la minaccia del boom degli shale americani.
Questa nuova “guerra fredda” non si limita al gioco “gasdotti” contro “gasiere Gnl” perché i russi
accettano anche la sfida del trasporto via mare. La seconda cisterna di gas naturale liquefatto
russo, la Provalys, sta per essere spedita in New England e secondo l’agenzia Bloomberg
dovrebbe essere arrivata a destinazione il 15 febbraio: è una mossa simbolica ma che fa
emergere lo spiccato senso mediatico di Putin.
Se il canale di Panama garantisce competitività al giocatore americano, le ipotesi di riduzione
della calotta artica modifica gli equilibri dei traffici navali atlantici, permettendo ai Russi di
sfruttare nuove rotte, grazie soprattutto alla tecnologia avanzata applicata alle nuovi nave
rompighiaccio di grande dimensioni che permette di solcare il mare artico, e non solo per il Gnl
dal sito produttivo di Yamal nell’Artico russo. Si prevede che Yamal riesca a produrre 16,5
milioni di tonnellate di Gnl all’anno entro il 2019, il che richiederà un totale di 15 vettori
rompighiaccio di ultima generazione. La prima spedizione del progetto è prevista a brevissimo
e pare che il cliente sia la Cina.
Seguendo l’attuale corsa all’accaparramento delle risorse energetiche la considerazione finale
– tipica di House of gas, che come sempre ascolta, mette insieme i dati e tenta una sintesi – può
essere una sola: il mercato del gas comincia ad assomigliare a quello petrolifero, dove il prezzo
piuttosto che la localizzazione determina il valore delle transazioni. E quindi forse la “guerra
fredda” fra Usa e Russia, come direbbe Gordon Gekko, è tutta una questione di soldi, il resto è
conversazione. Competition is competition…


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I trilogia
Elezioni e pallone, il quarto gol dello zar

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(Gazprom, Putin e non solo, ecco come la Russia si prepara a presidenziali e mondiali di
calcio Start Magazine.it 9 marzo 2018)

Improvvisamente sono arrivati neve e vento freddo; e in ritardo, a fine febbraio, quando in
genere stiamo tirando fuori dai cassetti i vestiti leggeri. Nei bollettini meteo che, impietosi, ci
hanno informato del suo arrivo, questa corrente di aria gelata dalla Siberia ha anche un nome:
Burian. È così che ho capito, dopo tanti anni, da dove viene la parola ‘buriana’ che spesso mio
nonno ripeteva nelle giornate in cui faceva davvero freddo qui in Romagna. Così da una
memoria del passato, con un blando collegamento al più grande produttore di gas del mondo, è
scaturita una domanda sul presente: farà ancora freddo, il 18 di marzo, quando i russi andranno
alle urne per eleggere il loro presidente… O la situazione si scalderà? Sarà comunque una trama
degna di una ‘House of zar’ (tanto per riparafrasare la nostra serie tv preferita).
Prima di rispondere mi chiudo il bavero del cappotto: il Burian sta imperversando. In russo
buran, è un vento di aria gelida, a volte molto forte, che dalle rive del lago Bajkal si propaga in
tutta Europa. Congelandola. E l’etimologia di Bajkal, ‘mare sacro’ fa venire in mente, per una
facile associazione di idee, il concetto di ‘Madre Russia’. Un’idea che è ha resistito alla gloria e
alla caduta di imperi e soviet: Dostoevskij in Delitto e castigo’ così la evoca: ‘Che volete? Le
nostre vie nazionali sono lunghe. La cosiddetta Madre Russia è grande’. Quest’anno la Madre
Russia apparecchia un 2018 con due eventi politici di primo piano, che la mettono non solo
sotto i riflettori della sua dimensione euroasiatica, ma anche di quella globale.
Il 18 marzo le elezioni presidenziali e a giugno i mondiali di calcio che nella partita d’esordio
allo Stadio Lužniki di Mosca vede i padroni di casa russi contro un altro grande petrostato:
l’Arabia Saudita. Il mondo rimarrà sicuramente incollato per la cerimonia d’avvio, organizzata
a Mosca e San Pietroburgo, di un evento che ha risvolti profondi. Tali che un moderno von
Clausewitz potrebbe commentare che dopotutto ‘il calcio non è che la continuazione della
politica con altri mezzi’. Il football non solamente, quindi, come atto ‘generalmente’ politico, ma
come vero strumento della politica, un proseguimento del processo politico con i mezzi
dell’intrattenimento. Per questo l’organizzazione è seguita ai massimi livelli nei minimi dettagli.
E dal calcio al gas il passo è breve.
Citando fonti di House of gas è stato il Ceo Alexey Miller di Gazprom nel giugno 2017, alla vigilia
della scorsa Confederation Cup, a risolvere i problemi di messa in opera del manto erboso dello
Stadio Zenit Arena. Ha licenziato la ditta appaltatrice e con ingaggio milionario ha fatto arrivare
il miglior ‘giardiniere inglese’ di campi da calcio perché fosse tutto perfetto nei sette giorni che
precedevano la partita inaugurale nella sua San Pietroburgo tra Russia e Nuova Zelanda.
Del resto Gazprom non solo è la grande compagnia della produzione russa e mondiale di gas
naturale ma conosce bene il “valore” del football. È proprietaria (e anche sponsor) della squadra
di calcio dello FC Zenit San Pietroburgo e sponsor del Chelsea Football Club, dello Schalke 04 e
della UEFA Champions League. Lo sport torna a essere, come in molte occasioni nella storia, la
vetrina del potere e la consacrazione della capacità di attirare l’attenzione su una grande opera
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strategica. I bookmaker possono avere dubbi sulle quotazioni di chi vincerà i mondiali di calcio,
ma pochi ne hanno su chi trionferà alle elezioni presidenziali del 18 marzo. Un cognome di
cinque lettere, ‘uno’ verticale, come la sua figura che si staglia da 18 anni sulla Madre Russia.

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(Come Putin si sta preparando al quarto mandato da zar in Russia Start Magazine.it 11
marzo 2018)

La soluzione del cruciverba, cinque lettere ‘uno’ verticale è ovviamente Putin: non ci voleva la
mente enigmistica d’un Bartezzaghi per scrivere la definizione. Un Vladimir Putin che, per
offrire un barlume di novità, si presenta alle elezioni da indipendente “Per una Russia forte”
facendo un bagno di folla di 130mila persone allo stadio Luzhniki di Mosca e non da leader di
“Russia unita”, il partito da lui creato. I suoi rivali? Sono sette. (Come i nani di Biancaneve…).
Non è un caso che House of gas si stia interessando di elezioni russe. Il suo impegno principale
è quello di seguire cosa sta attorno – ma anche sotto e sopra – la costruzione delle pipeline che
dal permafrost siberiano si diramano verso ovest e verso sud: insomma – con una battuta – ha
seguito i tubi per non rischiare di non capirci un tubo. E i tubi questa volta non portano solo gas
naturale ma anche un mare di schede, quelle che decideranno il, nome del prossimo presidente
russo. O della grande ‘Madre Russia’, come qualcuno ama chiamarla.
Vi sono elezioni estere che in Italia vengono seguite con passione critica e con partecipazione:
quelle Usa tanto per fare un esempio, col Paese che si è diviso fra Trump e Clinton manco fossero
Coppi e Bartali. Della Russia invece si occupano in pochi: eppure l’esito non ci è indifferente,
non foss’altro perché proprio da lì arriva la maggior parte del gas con cui facciamo funzionare
le centrali elettriche o ci scaldiamo l’acqua per la pasta.
A ogni modo, il 18 marzo le porte del Cremlino si dovrebbero spalancare per il quarto mandato
di Putin, che ha già vinto le elezioni nel 2000 e nel 2004, mentre nel 2008 preferì fare un
momentaneo passo indietro lasciando la presidenza al suo delfino Dmitry Medvedev. Un
passaggio che, per rifarsi alla grande tradizione russa negli scacchi, fu chiamato ‘l’arrocco’, per
poi tornare nelle elezioni del 2012. Ovviamente da vincitore.
Forse vale la pena chiedersi il perché di una così solida longevità politica: Putin il 12 settembre
ha superato la longevità di Breznev e gli mancano pochi anni per superare il record di potere di
Stalin e diventare a sua volta il ‘piccolo padre’ della ‘Madre Russia’. Al suo fianco ci sarà ancora
il filosofo Aleksandr Dugin? L’ideologo conservatore che ha sancito la decadenza dell’Europa,
preda di quelle ideologie liberal politicamente corrette alle quali si stanno contrapponendo sia
la Russia sia Trump. Forse Dugin non è un novello Rasputin, come qualcuno l’ha chiamato, ma
il gemello barbuto dello stratega di Trump – ora caduto in disgrazia – Steve Bannon? Un aiuto
al nuovo zar viene dal sistema elettorale perché il mandato presidenziale è stato allungato a sei
anni: non ci sono tentennamenti sul fatto che Vladimir arriverà al 2024 da presidente.
Accontentiamoci quindi di capire come il 18 marzo sarà incoro…pardon eletto Vladimir
Vladimirovic Putin.
Il sistema russo ricorda quello in vigore in Francia. Nel senso che se al termine dello spoglio
delle schede nessuno dei candidati in lizza dovesse raggiungere la maggioranza assoluta, allora
si dovrà procedere a un secondo turno. Probabilmente non ce ne sarà bisogno. Sarà lui a sedersi
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in tribuna d’onore (vedi atto I) per assistere al calcio di inizio dei mondiali di calcio. Che sono
la mossa di una sensibilità mediatica che è sempre attenta a mantenere la ribalta. Putin in questi
anni, al di là dei giudizi politici e morali, ha mostrato di possedere una visione geopolitica
lungimirante, come anche un’efficace capacità di intervento sull’economia e sull’organizzazione
dello Stato. Seguendo una politica economica pragmatica, che ha nell’export energetico l’asset
principale, ma con l’obiettivo dell’aumento progressivo del reddito del ceto medio. Come le
decisioni di una maggior interazione tra le aziende statali e le piccole e medie imprese e misure
adeguate per il ritorno dei capitali nella giurisdizione Russa proposte da Putin ai 60 uomini
d’affari, capi di aziende pubbliche e private, banche e organizzazioni pubbliche che hanno preso
parte all’incontro annuale attorno al tavolone della sala reale del Cremlino.

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(Come l’Europa e l’Italia scrutano le prossime elezioni in Russia Start Magazine 14 marzo
2018)

Il destino di un Paese non è questione di fortuna ma di scelte, ha detto il politico americano
William Jennings Bryan. In una delle sue molteplici interpretazioni potrebbe significare che
nulla va lasciato al caso ma che bisogna ascoltare, mettere insieme i dati per tentare una sintesi
che permetta di comprendere quello che succede. Un’abitudine che ci viene in aiuto se
affrontiamo le implicazioni dei due grandi eventi politici del 2018 in Russia. Sui quali si stende
l’ombra di una nuova cortina di ferro, che non assomiglia a quella della vecchia guerra fredda,
ma ha una caratteristica più liquida e strisciante: è la sfida fra un capitalismo democratico e uno
autoritario. E l’Europa nel mezzo…
L’Europa sembra essere un’area di contesa tra anglosfera occidentale, con la Brexit come
evento scatenante di un nuovo equilibrio tra Gran Bretagna e Usa, e il blocco Sino-Russo.
L’Europa sta facendo in questo momento la parte del vaso di coccio tra i vasi di ferro di
manzoniana memoria: le aree di frontiera e l’Italia in particolare non hanno capito la portata
della guerra di concorrenza in atto, soprattutto nel campo dell’approvvigionamento del gas,
risorsa strategica e sempre più preziosa. Basta ascoltare le pubblicità delle marche di auto
tedesche che spingono sulle performance dei motori a metano. Chissà se basterà a
controbattere la furia protezionista di Trump… Per Frau Merkel sono problemi, anche se
finalmente ha incamerato l’appoggio Spd per formare un governo di grande coalizione.
Limitandoci all’Italia, non abbiamo ancora capito se intendiamo essere il confine dell’occidente
euroatlantico o l’avamposto dell’ordine russo e cinese e quindi il collante delle nuove relazioni
della zona europacifica. Romano Prodi in un’intervista del 2016 aveva spiegato: “Noi europei
abbiamo tutto l’interesse, pur nella garanzia della nostra sicurezza, di costruire rapporti di
collaborazione con la Russia. Le nostre economie sono infatti fortemente complementari e il
nostro flusso di esportazioni verso il mercato russo è cospicuo, contrariamente al caso degli
Stati Uniti”.
Ma una lettura della competizione tra i due blocchi non spiega ogni cosa. In particolare nelle
élite russe, in quei tavoli di manager nelle relazioni di business (vedi atto II), il Paese a forma di
stivale è considerato un partner storico che potrebbe essere il ‘pontiere’ per una strategia

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diversa, meno rigida. E forse serpeggia il rammarico di essere costretti a stringere alleanze
diverse come con i cinesi o, cosa impensabile fino a poco tempo fa, con la Turchia.
Un articolo pubblicato da Stratfor spiega chiaramente che un’ipotetica unione di tecnologia
europea e risorse russe sarebbe un colpo mortale per gli Usa, che per questo fanno di tutto per
prevenire che accada. Eccola, la nostra ‘guerra fredda 4.0’: come ho scritto proprio su Startmag,
gli Usa hanno scelto di giocare di forza dando il via a un export aggressivo, con le gasiere di Gnl
che partono alla volta dei terminali polacchi e lituani. Un modo per limare le quote di forniture
russe proprio nei Paesi dell’Europa dell’est. Ora le elezioni russe daranno maggior potere a
Putin, che potrebbe usarlo per contrattaccare nella guerra del gas. Che sta per cambiare di
nuovo il mondo così come lo conosciamo.

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II trilogia
Putin il Grande e il suo nuovo Rasputin

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(Che cosa pensa il novello Rasputin della vittoria di Putin in Russia? Start Magazine 28
marzo 2018)

Le elezioni presidenziali in Russia si sono consumate con un plebiscito a favore di Putin. È
successo quello che tutti sapevano. L’unica incertezza era quanti russi sarebbero andati a
votare. Un secondo trionfo. House of Zar aspettando di sedersi a fianco di Vladimir nella tribuna
dello Stadio Lužniki di Mosca per il calcio d’inizio dei mondiali di football continua a puntare la
sua curiosità sugli elementi che mettono la Russia sotto i riflettori della sua dimensione
euroasiatica e anche di quella globale. «Tenere unito il fronte degli alleati». Una dichiarazione
del Premier Britannico Winston Churchill durante gli anni tragici della guerra? No, sono le
parole di Teresa May nelle giornate in cui la tensione è salita dopo l’agguato a Salisbury ai danni
dell’ex spia e doppiogiochista Sergej Skripal e di sua figlia Yulia, poco prima delle elezioni
presidenziali russe.
E qual è stata la risposta, scontata, di Putin, rivolta al suo popolo? «Siamo condannati a vincere».
È il 18 marzo 2018, subito dopo l’incor…pardon l’elezione al suo quarto mandato di presidente
dei 144 milioni cittadini di quella Federazione Russa fatta di immense Oblast (regioni) o Kraj
(territori). E qui serve riprendere la citazione dal Delitto e castigo Dostoevskij: “Che volete? Le
nostre vie nazionali sono lunghe. La cosiddetta Madre Russia è grande”.
Un’analisi del voto? No, passiamo la mano. Il Putin IV affonda le sue profonde radice nella Madre
Russia. Una terra segnata da una storia di invasioni (spesso solo tentate invasioni…), dai
mongoli ai tartari, da Napoleone a Hitler, ma che ha sempre dimostrato resistenza e resilienza
che sono una delle cifre del carattere del suo popolo, anzi dei suoi diversi popoli. Napoleone,
solo in apparenza sprezzante, affermava: «gratta un Russo e trovi un tartaro». Non conosceva,
o confondeva, la storia. Però forse voleva esprimere un’ammirazione nella profonda capacità di
sopportazione, di pazienza e, perché no, di lungimiranza della cultura russa. Della sua coesione
di fronte al pericolo. Una cultura che si nutre di tanti e diversi simboli, immagini, storie,
leggende, ricordi e ossessioni. Un’idea che ha resistito alla gloria e alla caduta di imperi e soviet.
Per questo non ci dobbiamo stupire se l’inno nazionale russo ha la stessa musica di quello
sovietico, solo con parole differenti (ci mancherebbe). Come non ci si deve stupire quando,
mentre le orchestre e i cori ufficiali suonano e cantano il testo ufficiale, le truppe e i cittadini
intonano a voce più forte quello originale della repubblica socialista sovietica. Nostalgia
dell’Urss? È più complicato di così.
Un esempio? Correva l’anno 2016 e molti ricordano la commozione dell’ex Kgb Vladimir Putin
mentre pronuncia la parola “patriota” in relazione della morte del principe Dimitri, l’ultimo dei
Romanov. Chi l’avrebbe mai detto? Eppure, in Russia succede.
Possiamo interpretare questo spirito appoggiandoci alle convinzioni dell’ideologo
conservatore Aleksandr Dugin? Comunque, l’ideologo di Putin ne è un interprete, un
“messaggero”. Dugin non è, come molti insinuano, un novello Rasputin, lo sciamano siberiano
caduto in disgrazia perché trovatosi nel mezzo delle faide dei boiardi zaristi, ma un filosofo che
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con la sua opera, “La quarta teoria Politica”, non solo teorizza la decadenza dell’Europa, che a
suo parere sarebbe vittima delle ideologie liberali, ma esalta lo spirito euroasiatico. Uno
“zeitgeist” che ha influenzato le nuove forze reazionarie che si stanno affermando nel mondo.
Non solo Steve Bannon si è fatto crescere la barba per assomigliargli, ma ha ripreso a piene
mani le tematiche di Dugin. E non stupiamoci se vedremo Dugin, dopo Bannon, presentare “La
quarta teoria Politica” insieme al futuro Presidente del consiglio di un certo Paese
mediterraneo…
Ma niente paura: la Madre Russia è grande, molto più grande di Aleksandr Dugin, che viene
sicuramente letto con attenzione da tutti i generali russi ma che non è l’unico ad affiancare
Vladimir Putin. Vicino allo ‘Zar 4.0’ c’è anche Kirill, il Patriarca ortodosso di Mosca, che tra
prospettive apocalittiche da lui evocate sempre più spesso e l’incontro storico con Papa
Francesco a Cuba, ribadisce la responsabilità della Russia di essere la “coscienza” (sovestlivost’)
della comunità internazionale e la vocazione di diventare la terza Roma.


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(Putin, chi sarà l’erede dello Zar di Russia? Start Magazine 29 marzo 2018)

Il 18 marzo 2018 può diventare un’altra data simbolo. Sancisce l’ultima presidenza di Vladimir.
Visto l’obbligo dei due mandati previsti dalla Costituzione russa o Putin utilizzerà di nuovo il
cosiddetto “arrocco”, per rifarsi alla grande tradizione russa negli scacchi, alleverà un ‘delfino’
per poi lasciargli la presidenza nel 2024? A questa domanda Putin ha fulminato il suo
interlocutore dichiarando che non può governare fino a cento anni. Quindi farà come il suo
omologo cinese Xi e farà cambiare la Costituzione per togliere i due mandati? Diventando a tutti
gli effetti Zar di tutte le Russie?
Putin è sicuramente importante, ma è il frontman di un esercito compatto, formato da ex
militari di esercito, marina, aviazione, Kgb, Gru con solo qualche eccezione proveniente dai
mondi economici, finanziari e culturali. Sono i Siloviki, i Signori della forza.
La storia è nota. L’ha raccontata proprio Putin nella controversa intervista a Oliver Stone. È
finita l’era dei robber barons (Beresovsky, Vladimir Gusinsky, Mikhail Khodorkovsky, Vladimir
Potanin, Mikhail Friedman, Pyotr Aven, Alexander Smolensky) l’oligarchia che con il Presidente
Boris Eltsin conquistò potere e grandissime ricchezze, facendo sprofondare però la Russia in
una crisi economica gravissima.
Proprio Corvo Bianco favorì, con il consenso dei sette Baroni, la velocissima ascesa di Putin,
capo dei servizi segreti nel 1999, e nominato primo ministro ed erede nella notte di capodanno
del 2000 in diretta televisiva. Il nuovo inquilino del Cremlino conquistato il potere, insieme alla
sua squadra di Siloviki, ha però cambiato le regole del gioco.
Questo gruppo per salvare la Russia dalla forza predatoria dei boiardi miliardari prese per
mano la Madre Russia e, con Putin presidente, iniziarono il lungo cammino per uscire dalla crisi
economica. Alcuni oligarchi furono accusati, condannati e incarcerati per evasione fiscale, altri
scapparono senza onore ma con la borsa (anzi borsone) piena? Anche questa è storia nota, come
sono conosciuti i nomi e la capitale dove gli oligarchi e le loro corti si sono stanziati. Cioè Londra,

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dove cambiarono in sterline le enormi ricchezze di rubli e avviarono una nuova ‘swinging era’
facendo ribattezzare la città di Sua Maestà dalle riviste cool: Londongrad.
Oggi i Siloviki hanno saldamente in mano la Madre Russia. I grandi gruppi economici sono
diventati tutti statali e i loro manager raggruppati in squadra seguono gli ordini del Presidente,
come si vede nella riunione di fine anno attorno al grande tavolo nella sala reale del Cremlino.
Quindi chi arriverà dopo Putin? Guardiamo nella schiera più stretta. Sergej Shoigu, generale
d’armata, potente Ministro della Difesa e quindi capo supremo delle forze armate e del GRU il
potente servizio dell’intelligence russa. Ma soprattutto inseparabile compagno di Putin nelle
partite di hockey su ghiaccio, come di ghiaccio, raccontano, è la sua espressione nelle trattative.
Oppure Sergej Ivanov, ricomparso la scorsa estate a fianco di Putin, di cui era braccio destro ai
tempi dei servizi segreti, dopo aver passato una stagione congedato o ‘congelato’ ad appena 63
anni. Un nome su tutti? Igor Sechin capo di Rosneft, la più grande compagnia petrolifera di
proprietà in maggioranza del governo russo dopo aver acquisito all’asta le attività della Yukos.
Yukos acquisita dopo l’incarcerazione di uno dei 7 robber barons Mikhail Khodorkovsky
quando Igor Sechin era capo di gabinetto e braccio operativo di Putin volto a smantellare il
potere degli oligarchi.
Ma forse per trovare l’erede di Putin dobbiamo calarci dentro alla cosiddetta grande Madre
Russia e ai suoi tanti “cognomi”. Guardiamo al cognome Medvedev, come Dimitrj l’ex presidente
protagonista dell’arrocco: la sua radice richiama la parola “orso”, figura evocativa in Russia –
l’Orso Russo – che ne delinea la resistenza, la resilienza tipica del suo popolo, anzi dei suoi
popoli. Oppure Miller, cognome del CEO di Gazprom, che ci riporta a storie di vecchie migrazioni
ebraiche dal centro est Europa in Russia; o leggende di mercenari di origine tedesca assoldati
nei cosacchi dello Zar per la loro assoluta fedeltà.
E se parliamo dello Zar torniamo ai “Vicus”, ai principi, ai signori discendenti da Costantino
Magno, e torniamo a storie e miti di Madre Russia: la parentela stretta dei Romanov con il clan
Putyantins.
Non si può parlare di Zar senza evocare la rivoluzione di ottobre, che ha avuto come strascico
la disputa condotta da un Principe, l’ultimo dei Romanov, Dimitri, che intentò decenni di cause
legali con la City per riportare il tesoro di famiglia in Russia. Ci riuscì solo nel 2014, e Vladimir
Putin forse per questo lo ricevette come un patriota al Cremlino. Quando morì gli furono
concessi i funerali di Stato.
Londra, le ex spie, i signori della City, il Brent, i seven robbers barons richiamano le proposte di
Putin ai 60 uomini d’affari, capi di aziende pubbliche e private, banche e organizzazioni
pubbliche che hanno preso parte all’incontro annuale attorno al tavolone della sala reale del
Cremlino: sono misure adeguate al ritorno dei capitali nella giurisdizione Russa? Sempre il
denaro è la risposta, il resto è solo conversazione.

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3

(Putin, Gazprom e la Guerra Fresca tra America e Russia Start Magazine 30 marzo 2018)

È successo quello che tutti sapevano. L’unica incertezza era quanti russi sarebbero andati a
votare. Un secondo trionfo. Basta guardare le percentuali della Crimea. Del resto questa
campagna elettorale è iniziata proprio dalla regione contesa con l’Ucraina; e proprio il 18
marzo, però del 2014, insieme alla scritta “ritorno della Crimea, è la data incisa nel medaglione
che fu assegnato a coloro che parteciparono all’annessione della penisola alla Madre Russia”. Il
18 marzo tra le guerre in Ucraina e in Siria, è la data che conferma l’ombra di una nuova cortina
di ferro, che non assomiglia a quella della vecchia guerra fredda, ma ha una caratteristica più
liquida e strisciante: è la sfida fra un capitalismo democratico e uno autoritario.
Intanto Putin sta, anzi è già diventato, la vera ossessione dell’occidente, tra ex spie del Kgb
avvelenate nel Regno di Sua Maestà Elisabetta II e intrighi degni della trama di un James Bond
d’annata. Le elezioni americane che hanno celebrato il trionfo di Trump sono un voto
sottosopra? Allora per forza ci deve essere dietro la mano di zio Vlad. In Italia dilagano i
‘populisti’? Ecco che spunta l’accusa ai faker putiniani. E se quest’ultima situazione fosse
limitata all’Italia – come sentenziò Ennio Flaiano – sarebbe grave ma non seria: invece è
estremamente seria. Crescono le tensioni tra Londra e Mosca con un linguaggio e azioni da
Guerra Fredda (vedi le espulsioni di diplomatici russi da Usa e nazioni dell’Ue). Intanto
Gazprom, la compagnia della produzione russa e mondiale di gas naturale ha già chiuso gli uffici
a Londra. Per capire l’importanza della scelta, non va dimenticato che la capitale britannica è
anche la capitale finanziaria del petrolio, del Brent. I segnali di forza aumentano anche tra
America e Russia.
La mossa dell’immortale
Il nome di Putin è composto da “Vlad” ovvero “potere” e da “mer” ovvero “illustre”: significa
“famoso per la sua potenza”. Si richiama direttamente ai Siloviki. i Signori della forza. Chi del
gruppo che ha saldamente in mano la Madre Russia prenderà il posto di “zio Vlad”?
Una voce fuori dal coro ci ricorda le parole di Dostoevskij sulla grandezza della cosiddetta
Madre Russia. C’è una nexgen che sta crescendo. Da una parte una generazione che non ha
conosciuto altra Russia che quella di Putin. Dall’altra all’ombra dei “vecchi” Siloviki si sta
formando una nuova classe dirigente preparata e internazionale in particolare nelle grandi
aziende di Stato dell’energia e non solo. Il 70% del Pil russo è generato da queste aziende. E la
sfida dei prossimi sei anni sarà far crescere l’interazione tra le aziende statali e piccole e medie
imprese. Ricorda qualcosa a noi italiani?
Ma anche nelle lontane terre dell’impero ex-sovietico si stanno mettendo in moto nuove energie
come il gigantesco ricambio generazionale promosso proprio da Zio Vlad che nelle 85 regioni
ha cambiato ben 36 governatori, con i nuovi che sono quasi tutti under 50.
Rifacendoci ancora alla grande tradizione russa degli scacchi, tra sei anni invece della mossa
dell’arrocco vedremo la mossa dell’immortale? Dove il giocatore con coraggiosi sacrifici dei
pezzi più pregiati da scacco matto e vince la partita con i pezzi minori rimasti? E questa mossa
forse la conosceva anche il suo predecessore: il Corvo Bianco.

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Sicuramente le nuove generazioni, sia i giovanissimi sia quelli a capo delle aziende di Stato
o ai vertici della politica vedono in Vladimir Vladimirovic Putin un altro ‘piccolo padre’ della
‘Madre Russia’.
Sceriffo a Washington
L’ascesa dei Signori della forza non vale solo per Madre Russia. La parola Siloviki trova facile
traduzione nella lingua dei cow boys americani: the strongman. Uno degli ultimi siluramenti
che ha fatto Trump, quello di Tillerson che ha ceduto il posto all’ex capo della Cia Pompeo, non
è altro che la sostituzione di un Signore del Petrolio con un Signore della forza. Ormai gli
Strongman hanno occupato tutti i posti di comando della White House. Una città come
Washington che ha assunto i vessilli dell’antica Roma, e che conosce anche i miti e le
superstizioni che erano parte della sua cultura politica, conosce anche l’adagio: Si vis pacem,
para bellum.

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III trilogia
La guerra fredda… si scalda col gas

1

(Vi racconto la nuova guerra fredda tra Usa e Russia a colpi di gas Start Magazine 10
maggio 2018)

Il presidente americano ha un debole per la politica via Twitter. Di recente l’ha utilizzata per
generare lo scompiglio in casa Opec, accusandolo di mantenere i prezzi del petrolio
artificialmente molto alti. La geopolitica necessita di antagonisti, se non di nemici quando è il
caso, e per Trump questa volta sono i Paesi produttori, che con la loro politica dei prezzi
metterebbero in difficoltà gli Usa.
L’impressione però, se si parla di Paesi che operano per mettere in difficoltà il colosso a stelle e
strisce, è che il messaggio sia stato indirizzato al bersaglio sbagliato. Forse il presidente avrebbe
dovuto volgere lo sguardo a una nazione con cui ultimamente piace flirtare: la Francia.
La Total, uno dei champion national – per usare l’espressione di De Gaulle – del settore
energetico, infatti ha acquistato il 19% del capitale di gas Novatek, la società russa guidata da
Leonid Mikhelson e possiede il 20 % del progetto di GNL che viene sviluppato a Yamal, in
Siberia.
Forse Donald Trump avrebbe potuto rivolgere il più acuminato dei suoi tweet contro Emmanuel
Macron, di recente ospite a Washington, dove il presidente francese, ha arringato il congresso
americano sull’esigenza che gli Usa non scelgano una politica isolazionista, si impegnino nella
lotta al cambiamento climatico e restino fedeli al patto con l’Iran, almeno per ora.
Se la Francia dei discorsi ufficiali è uno dei difensori dei valori democratici, è aperta alla
globalizzazione e fedele agli alleati, quella degli affari sta aiutando i suoi campioni nazionali a
vincere la competizione sui mercati. Intanto gli sceicchi hanno commentato poco
favorevolmente l’uscita di Trump, esibendo a seconda dei casi stupore, sarcasmo e anche
disapprovazione netta.
Quest’ultimo sviluppo conferma una costante che il network di House of gas segnala da un po’
di tempo: c’è sempre più competizione tra i petrostati. Ma se tentiamo un approfondimento in
chiave geopolitica scopriamo che al prezzo del petrolio è legato quello del gas naturale… Questo
significa che c’è anche più competizione fra i GasStati, se ci si perdona il neologismo?
Pare di sì. Gli Usa hanno raggiunto il record di produzione di greggio – il più grande aumento
della produzione petrolifera da Eisenhower in poi – continuando a competere nel settore
energetico sulla strada tracciata dalla presidenza Obama.
In campo energetico stiamo assistendo a una nuova “guerra fredda”, che stavolta non ha al suo
centro la contrapposizione ideologica e militare, ma il gas, cioè la fonte fossile più pulita. Al
posto di spie e missili balistici i GasStati si sfidano a colpi di pipeline e gasiere. Ed è ancora
Russia contro Usa, con una domanda centrale che approfondirò nella prossima puntata.




18
2

(Perché il gnl è protagonista della guerra fredda del gas Start Magazine 11 maggio 2018)

La domanda è: il mercato del gas comincia ad assomigliare al mercato petrolifero dove il prezzo
piuttosto che la localizzazione determina il valore delle transazioni? Una risposta la si può
trovare negli sforzi che alcuni Paesi, Usa e Francia per cominciare, stanno facendo per
competere con la Russia nel mercato dell’approvvigionamento di gas. A tutt’oggi il gas russo,
dato il suo basso prezzo e la facilità di consegna, è la componente fondamentale del mix
energetico europeo, ma si trova a competere con altri prodotti, tra cui il più importante è il Gnl.
Finora le importazioni di Gnl da parte dei Paesi Ue sono state condizionate dalle grandi distanze
delle nazioni produttrici e dal prezzo più elevato rispetto al gas naturale veicolato in pipeline,
ma è una situazione destinata a cambiare e gli impianti di Gnl potrebbero aumentare. Anche
perché ci sarebbero effetti positivi in termini di diversificazione delle fonti e di mutamento delle
posizione di contrattazione con la Russia, Ciò limiterebbe le tensioni geopolitiche provocate
dalla dipendenza dalle importazioni di gas naturale. In ogni caso, l’impiego dei terminali Gnl
europei lo scorso anno è stato pari al 27% della capacità produttiva totale. Lo sviluppo del
commercio di Gnl favorisce una crescente internazionalizzazione del sistema e il collegamento
tra le macroaree del mercato del gas, consentendo sia di ampliare e diversificare le fonti
migliorando nel contempo la sicurezza dell’approvvigionamento per i Paesi consumatori.
Inoltre la scelta del Gnl garantisce una maggiore flessibilità delle fonti e dei punti di consegna
per la mancanza di un legame fisico rigido tra produttore e consumatore, cosa che è invece
caratteristica dell’approvvigionamento via gasdotto.
Considerando tutti questi elementi, non è strano che anche una superpotenza economica come
gli Usa stia investendo, fin dall’amministrazione Obama, per diventare esportatrice di Gnl. Ne
fa fede il recente transito della Sakura, una nave cisterna di classe Neopanamax, attraverso il
Canale di Panama con un primo carico di Gnl diretto in Giappone dal terminal di Dominion Cove
Point nel Maryland. È l’inizio di una nuova rotta commerciale per il gas naturale liquefatto tra
gli Stati Uniti e l’Asia – ha specificato in una nota l’Autorità del Canale di Panama (PCA).
Tornando invece all’Europa, i suoi Paesi più lungimiranti, per approfittare di questa massiccia
immissione di Gnl sul mercato, stanno incrementando la capacità ricettiva con nuovi
rigassificatori. L’obiettivo è strappare prezzi più vantaggiosi al produttore in grado di offrire le
migliori condizioni del momento. In sostanza, il gas naturale liquefatto, trasportato dalle
gasiere, può diventare un’opzione importante per differenziare le fonti di importazione: in
questo momento il principale fornitore di Gnl per l’Europa, il Qatar, è quarto nell’elenco dei
fornitori di gas con il 7% del totale.
Il secondo importatore di Gnl in Europa potrebbe diventare la Francia, che tra l’altro
rimetterebbe in gioco la Russia nella competizione per il commercio di Gnl, grazie all’accordo
di cui abbiamo scritto nella prima puntata. Il gas pare davvero protagonista di una nuova guerra
fredda che però non vede opporsi schieramenti definiti ideologici ma definiti in modo
esplicitamente economico. Ed è ancora una volta Usa-Russia, non su un campo di calcio ma in
quello ben più ampio dell’energia.


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3

(Che cosa sta succedendo davvero fra Usa e Russia su Gnl e non solo Start Magazine 13
Maggio 2018)

Il Gas naturale liquefatto sta per diventare il protagonista degli scenari economici che
coinvolgono l’Europa, ma anche un’arma diplomatica potentissima: se i Paesi dell’Ue potranno
fare a meno di acquistare fonti energetiche dalla Russia, importando il Gnl a stelle & strisce,
potranno godere di una maggiore indipendenza nell’approvvigionamento. Perseverando così
con maggior sollievo nell'applicare le sanzioni. Anche se, come cercheremo di spiegare, quella
delle sanzioni è una pratica che farebbe bene a tutti superare, ricominciando a usare la
diplomazia. Se si vuole consolidare la ripresa e mantenere il benessere faticosamente
conquistato non abbiamo bisogno di tensioni ma di accordi di scambio e collaborazione.
Ovviamente il presidente Putin non starà a guardare, subendo passivamente la mossa degli Usa:
ho già spiegato nella precedente puntata che con il progetto del gassificatore a Yamal – in cui è
coinvolta anche la Total francese… gli intrecci della geopolitica… – intende diventare un player
nel campo del Gnl. A quel punto i Paesi energivori potranno comprare dal produttore che
pratica il prezzo migliore. E il giro ricomincia.
La partita che Mosca sta giocando sul Gnl non è limitata all’impianto della penisola di Yamal:
l’obiettivo è costruire una rete integrata al punto che chiamarla internazionale non sarebbe
un’esagerazione e che unisce le pipeline, dal TurkStream al Power of siberia, da quella che
rifornisce il Giappone fino a quella che potrebbe essere una riunificazione economica,
anticipando quella politica, delle due Coree.
Se questa enorme infrastruttura funzionerà, la Russia sarà in grado di collegare tutti i campi a
gas del permafrost siberiano con il terminale di liquefazione di Vladivostok. Da dove, così come
da Yamal, il gas liquefatto potrebbe essere trasportato dappertutto, rendendo globale un
mercato che per ora è subcontinentale. La liquefazione del gas, infatti, permette di rendere
competitivo anche il trasporto su lunga distanza: la Russia sarà quindi in grado di
commercializzare il gas liquefatto al miglior offerente su tutto il pianeta invece di essere
costretta a vender solo gas naturale ai Paesi più vicini. Anzi potrà influenzare tutti e due i ‘listini’
di prezzo.
Qui ritorna il tema delle sanzioni che l’Europa occidentale e gli Stati Uniti hanno imposto su
petrolio e gas russi. L’effetto è stato ridurre in un primo momento le possibilità di Mosca di
sviluppare il settore del Gnl, rendendo complicato reperire il capitale e le tecnologie che
servono alla realizzazione dei terminali necessari. Ma, come abbiamo visto, Mosca è comunque
riuscita a ripartire, anche grazie a investimenti di aziende degli stessi Paesi occidentali che
hanno stabilito le sanzioni, come la Total francese.
Uno degli effetti più significativi delle sanzioni però è andato a beneficio di Vladimir Putin
nutrendo quel nuovo nazionalismo russo che ha in Aleksandr Dugin il suo ideologo. E alle ultime
elezioni la Madre Russia si è stretta attorno al suo leader, riconfermato con un plebiscito.
Lungi dal giustificare le politiche neoimperialiste di Putin, è una dato strategico che l’occidente
forse potrebbe ottenere un ritorno positivo da una nuova stagione di rapporti con Mosca.
Trovando altri modi per diminuire le sue pretese egemoniche, come per esempio
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sconfiggendoli sul campo di calcio ai prossimi mondiali. Germania e Gran Bretagna potranno
tentare di farlo, mentre l’Italia, come anche nella partita del gas, si accontenterà di stare a
guardare. E anche qui pagando sempre profumatamente (i diritti tv).

21
Intermezzo
Bye bye Mercedes, adesso Putin viaggia su una Kortezh

(Vi racconto gli ultimi sfizi dello zar Putin in Russia Start Magazine 15 maggio 2018)

Tutto ama rappresentarsi in grandi proporzioni, tutto quello che c’è: montagne e foreste, visi,
labbra e anche piedi. L’ha scritto Nikolaj Vasil’evič Gogol uno dei grandi della letteratura, un
maestro del realismo ma con una fervente passione per la satira e il grottesco… E spesso
oggigiorno ci sembra di dondolare tra il reale e il grottesco.
Se è vero che tutto ama rappresentarsi in grandi proporzioni, come ci ricorda l’autore del
‘Cappotto’, uno dei simboli della modernità con cui amiamo mostrare il nostro stato sociale è
l’automobile. E uno Zar, anche se eletto a furor di popolo e non per discendenza dinastica, deve
avere una vettura adeguata al proprio status: Vladimir Putin ha abbandonato la tradizionale
Mercedes-Benz S 600 Pullman Guard per puntare su una nuova limousine presidenziale, la
Kortezh, cioè ‘corteo’.
Un mezzo colossale, costruito in Russia dall’ente di stato Nami Research Institute insieme al
colosso russo dell’industria militare Rostec e dalla Sollers JSC, una holding che detiene diverse
aziende tra le quali figurano anche la Uaz e la Kamaz.
Un simbolo che aggiunge forza all’immagine di Vladimir Vladimirovič Putin, Владимир
Владимирович Путин in russo, di cui House of zar ha seguito le ultime vicende con la consueta
curiosità puntata come un cannocchiale.
Di questo ‘zarizzazione’ si è accorta anche la rivista Time, che ha messo il presidente russo in
copertina titolando Rise of strongman, (Link II trilogia Siloviki vs Strongman 30 marzo nda)
comprendendo che nulla è causale nella simbologia putiniana e della nuova Russia, la quale
ritorna a essere sempre più ‘madre’, riprendendosi un passato che la rivoluzione bolscevica
sembrava avere cancellato. Appunto, sembrava…
I giornali, i commentatori, gli analisti stanno esaminando minuziosamente tutti i simboli, i
messaggi, le parole, le premonizioni, i segnali, dell’insediamento dell’uomo forte del Cremlino.
Dall’abbraccio al patriarca Kirill, alla stretta di mano energetica all’inossidabile ex cancelliere
Gerard Schröder presidente del North Stream2, un messaggero per l’appuntamento del 18
maggio nella località sportiva Sochi con frau Merkel leader al terzo mandato in Germania, terra
centrale dell’Europa da dove passano tutti i processi di tensione o di distensione, fino alle parole
su nuovi o vecchi alleati dalla Cina all’Iran.
L’uomo è animale simbolico e anche la geopolitica, materia che in sostanza tratta di statisti e
delle loro decisioni, è anch’essa fatta di simboli. Non è solo documenti e trattati ma anche
capacità mediatica: la domanda che segue a questo tripudio di simboli è “quale tweet starà
bruciando sui polpastrelli del grande concorrente di Putin nella nuova guerra fredda del gas, il
presidente americano Donald Trump?”.
Intanto Putin non recede dalla sua politica economica pragmatica, che ha nell’export energetico
l’asset principale, con l’obiettivo di incrementare progressivamente il reddito del ceto medio.
Come le decisioni a vantaggio di una maggior interazione tra le aziende statali e le piccole e
medie imprese nazionali. A loro volta orientate affinché stabiliscano relazioni di sviluppo
tecnologico con aziende estere. L’ammiraglia Kortezh ne è testimonianza visto che utilizza
diverse componenti fornite da aziende internazionali, comprese le italiane Brembo e
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Blowtherm. Un progetto industriale da 200 milioni di dollari da cui deriveranno altre quattro
tipologie di vetture (Suv, minivan e berline a passo corto o lungo).
Quelli di House of zar segnalano che il primo viaggio di Putin sulla nuova automobile
presidenziale è stato quello per raggiungere il Cremlino. Basta sostituire l’auto con una carrozza
e l’immaginazione fa il resto. Era dai tempi di Michail Gorbačëv che un leader russo non si
sedeva su un automobile progettata e costruita in Russia. E anche questo è politica. Anzi è
Madre Russia, un’idea che ha resistito alla gloria e alla caduta di imperi e soviet.

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IV trilogia
La mosca sul muro dei potenti

1

(Nord Stream 2 e non solo, che cosa succederà fra Merkel, Putin e TrumpStart Magazine
25 maggio 2018)

Avete mai sognato di trasformarvi in una mosca per intrufolarvi di nascosto in una stanza e
assistere non visti a qualche evento storico? Quelli di House of Zar si sono immaginati di
svolazzare sul muro della stanza ovale per spiare Donald Trump. Il comandante in capo è
pensieroso mentre siede alla scrivania che ha visto, tra i suoi predecessori, anche il generale
Eisenhower. Attorno a lui lo staff, formato quasi interamente da militari o da vertici dei servizi
segreti che, riposte nell’armadio le divise piene di medaglie, ora indossano giacca e cravatta, il
completo d’ordinanza dii Washington, o – per usare un'espressione cara a The Donald – la
‘palude’.
Il tema del giorno, su cui ci si confronta appassionatamente, sono le ultime informazioni dei
servizi speciali sull’insediamento di Vladimir Vladimirovič Putin. Parole, simboli, messaggi… e
l’attenzione si focalizza sulla prima uscita dello Zar 3.0 di tutte le Russia del 18 maggio. Il luogo?
Sochi, l’amata località sul Mar Nero dove incontrerà anche la Cancelliera tedesca, Angela Merkel.
Al Potus piace avere attorno i suoi Strongman, gli ‘uomini forti’ che hanno in tasca curriculum
racimolati a West Point o Langley. L’accademia militare l’affascina e suscita ricordi nel
Presidente: ma come racconta Michael Wolf nel best seller Fuoco e Furia, Trump difficilmente
legge i dossier o ascolta le analisi… si affida al suo istinto. Del resto visto il risultato della
campagna elettorale e del primo anno di amministrazione, come dargli torto…
Mentre il suo staff parla i suoi polpastrelli sono nervosi, capta solo alcune parole fuori contesto,
Putin, Sochi, summit, Merkel, sembra distratto ma è solo teso perché sta prendendo una
decisione veloce che vuole condividere con i suoi tweet o tramite una dichiarazione pubblica,
secca e ficcante. «Tutto ciò che è political correct non ci appartiene»: sono le parole di Steve
Bannon, il capo della sua campagna elettorale che ha messo sottosopra l’establishment. Non è
stato Steve, da cui ha divorziato, ad avergli impartito questa lezione, pensa: «ero così anche
prima, mi sono sempre comportato così». Oggi, seguendo l’istinto da gambler, vuole impartire
una lezione e puntare al raddoppio. Che più o meno ha queste parole chiave: dazi, sanzioni,
guerra commerciale, nuova guerra fredda del gas… rilancio. Alla cara – si fa per dire –Germania
chiede di rinunciare al North Stream2 se vuole che l’America non s’impunti sui dazi.
Ma è solo una questione di nuova guerra fredda del gas? La mosca sul muro pensa che è anche
altro. E questo ‘altro’ anche più importante.
Intanto ci stupiamo che molti si stupiscano della posizione americana.
Ma non è una novità. Il Presidente nel corso di un incontro con i leader Baltici definì Berlino
“ipocrita” per il sostegno offerto al progetto Nord Stream2, considerato dalla Casa Bianca una
manovra in favore delle entrate russe, mentre la stessa continua a godere dei benefici
dell’affiliazione alla Nato, con relativo ombrello protettivo contro Mosca (Whitehouse.gov, 3
aprile).

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Sulla scia di questa presa di posizione un gruppo bipartisan di legislatori statunitensi ha
recentemente scritto a Trump esortando la sua amministrazione a bloccare Nord Stream2 e a
colpire le società che ci sono dietro con sanzioni pecuniarie. Il motivo, neanche troppo velato, è
che gli Usa vorrebbero esportare in Europa il proprio gas naturale estratto attraverso il fracking
idraulico e ridimensionare il mercato di Gazprom.
Wilbur Ross, che non solo è il Segretario al commercio statunitense ma è anche legato a Trump
da vicende professionali, ha suggerito all’Europa di correggere la bilancia commerciale
transatlantica nel modo più intelligente possibile, ovverosia acquistando più gas naturale
liquido statunitense (GNL). «Non ho mai visto un progetto commerciale così intensamente
dibattuto ai massimi livelli della politica europea», ha commentato di recente Maros Sefcovic,
vicepresidente della Commissione europea per le questioni energetiche.
La Germania, messa sotto pressione, ha comunque aspettato lo svolgersi delle elezioni
nazionali, la conferma di altri 4 anni di governo con i Socialdemocratici della SPD e quindi ha
mosso la propria forza diplomatica nella speranza di trovare un accordo che possa evitarle di
cadere sotto la mannaia a stelle e strisce. Ha iniziato le danze il ministro degli affari economici
tedesco Peter Altmaier, nei giorni precedenti al vertice di Sochi con una agenda di ‘slot’ serrati,
incontrando a Kiev il primo ministro ucraino Volodymyr Groysman; poi è volato a Mosca per
incontrare il Primo Ministro Dmitrij Medvedev per poi tornare a Kiev. L’intento è convincere gli
ucraini della bontà di un compromesso in grado di mitigare l’opposizione alla costruzione del
gasdotto Nord Stream2 nel Mar Baltico. Altmaier ha messo sul piatto la garanzia tedesca e
dell’UE che il gas continuerà a transitare per il territorio ucraino anche in futuro (è un mercato
che porta all’Ucraina 2 miliardi di dollari all’anno).
L’Ucraina ha chiesto che le garanzie siano certificate direttamente da Bruxelles, questione non
semplice alla luce delle opposizioni al progetto espresse dalle repubbliche baltiche e dal blocco
compatto dei paesi dell’ex Patto di Varsavia. Porošenko, Presidente dell’Ucraina ha quindi
esortato la Germania ad abbandonare i piani per costruire Nord Stream2, affermando che
equivarrebbe a un “blocco economico/energetico” del suo paese.
Ma le sanzioni, i dazi, le pressioni diplomatiche, e altri stratagemmi non spaventano chi ci è
abituato: quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare.

2

(Vi racconto le reali tensioni fra Stati Uniti ed Europa Start Magazine 27 maggio 2018)

Eccoci di nuovo nei panni di una mosca, ma su un muro differente rispetto a quello della prima
puntata. House of zar la volta scorsa era in trasferta nello studio ovale, mentre ora sta spiando
la stanza a Sochi dove si svolge il summit – termine che per la mia generazione rammenta la
guerra fredda del ventesimo secolo… – tra la cancelliera Angela Merkel e Vladimir Putin. Merkel
è al suo terzo mandato: siamo abituati a vederla esperta e paziente, perché sa di aver alle spalle
un ‘sistema’ solido: l’inossidabile Germania e il suo mostruoso avanzo commerciale. Oggi però,
sedendosi di fronte a Putin, la cancelliera ha il viso tirato. E non aiuta che all’incontro sia
presente anche il Chairman of the Board of NordStream 2, il suo connazionale ed ex-cancelliere
Gerhard Schröder, l’ultimo targato SPD.

25
Tra i temi in discussione l’aggiornamento della situazione North Stream2 (nda NS2): nella
partita a scacchi tra i due leader, forte della tradizione scacchista del suo Paese, lo Zar sorride
con la consapevolezza di avere in testa le mosse vincenti. Lungo il fianco sudorientale
dell’Europa, Gazprom ha completato il primo segmento del gasdotto TurkStream, che invierà
gas russo sotto il Mar Nero in Turchia e in Europa meridionale (Rian.com.UA, 30 aprile). I 930-
chilometri di sealine in acque profonde sono stati posati a ritmo record in meno di un anno (sito
ufficiale Gazprom, Gazprom.com, 30 aprile) e il raddoppio della prima linea prenderà il via
entro agosto. E questa è una notizia. Anche le vie del gas sono infinite. Berlino dal canto suo non
vuole deludere le aspettative degli “junker” dell’energia e del sistema industriale, che avevano
subito gravi ripercussioni dopo la decisione di rinunciare al nucleare. Uniper (E.On) e
Wintershall (Basf), hanno nei loro piani industriali la ghiotta opportunità di stringere accordi
vantaggiosi con NS2: sarebbe la scorciatoia più praticabile per ridare loro un ruolo centrale
come player energetici europei e non solo. Il consorzio a fianco delle due società tedesche vede
schierate la francese Engie (GDF Suez), l’austriaca OMV e l’angloolandese Shell: si ricompone
così il gruppo di Paesi europei interessati ad aggirare le sanzioni alla Russia a seguito della crisi
ucraina e a investirsi del ruolo di approvvigionatori dei paesi dell’Est e del sud Europa. Pareva
ci fosse il giusto zeitgeist perché arrivassero importanti annunci risolutivi per il 18 maggio. Ma
non si dovrebbe mai passare troppo tempo a far congetture. Il rischio è quello di distrarsi,
dimenticando i fatti. Già, i fatti. E la verità?
«Non ho mai detto la verità, pertanto non ho mai mentito…» alla mosca non viene in mente una
frase migliore per sintetizzare ciò che ha carpito a Sochi durante la rituale conferenza stampa
al termine dell’incontro fra Angela Merkel e Vladimir. Il quale ha offerto la propria generica
disponibilità a discutere la prosecuzione dei transiti futuri di gas attraverso l’Ucraina nel caso
in cui sia verificata la loro “redditività economica.” “È solo una questione di quantità” ha
commentato al Corriere della Sera Andrey Kortunov, non solo direttore di Russian
International Affairs Council.
L’espressione insoddisfatta della cancelliera era palese in tutta la sua gravità: Merkel non ha
voluto rispondere a domande in merito alle garanzie che Germania e UE avrebbero dovuto
sottoscrivere con il governo ucraino per strappare il consenso alla realizzazione del raddoppio
di NS2.
Come avevamo visto la scorsa volta, ovviamente la posizione degli Stati Uniti è di opposizione
all’accordo che riguarda NS2. La versione ufficiale è che gli Usa in questo modo sostengono
l’Ucraina contro le aggressioni economico-territoriali russe. In realtà l’obiettivo è limitare i
flussi di gas che garantiscono a Putin la forza economica per resistere alle sanzioni occidentali,
spianando nel contempo la via al gas liquefatto americano nell’ambito mercato europeo.
Al presidente ucraino Poroschenko non pare vero di avere alleati così potenti e non perde
occasione per ribadire il dovere dell’Europa di difendere il baluardo orientale rappresentato
dalla democrazia ucraina. Anche lui però gioca su due tavoli, perché non può permettersi il
lusso di rinunciare agli introiti dei miliardi di dollari annui derivanti dalle royalty per il transito
del gas russo. E ovviamente richiede impegni economici precisi da tutti gli attori in scena, prima
di valutare se il prezzo del proprio consenso sia quello giusto o meno.
Sarà possibile per le diplomazie mettere d’accordo gli interessi di tutte le parti in causa,
consentendo il transito attraverso l’Ucraina anche dopo il 2019, sapendo che per allora due
linee di TurkStream saranno operative ed il NS2 potrebbe essere in avanzata fase realizzativa?
Ma, soprattutto, tutto questo è sufficiente?

26
3


(Vi racconto come zar Putin si muove tra gas, difesa e aerospazio Start Magazine 28
maggio 2018)

La mosca in cui House of Zar si è incarnato per carpire i segreti dei potenti mentre parlano di
energia è stanca di volare fra un continente e l’altro, ma non può fare a meno di ritornare al
luogo della scena iniziale, lo studio ovale dove il presidente Trump è ancora in compagnia dei
suoi Strongman. E stavolta sussulta perché le arriva all’orecchio una parola legata non allo
sviluppo energetico ma a quelli missilistico, aereospaziale. Sarmat, il nome del missile balistico
ipersonico continentale capace di trasportare testate MIRV o Avangard. E qui, anche una mosca
se ne accorge, la faccenda si fa seria. Si è arrivati al cuore nero dei rapporti fra superpotenze:
competition is competition.
Per capire i retroscena bisogna partire proprio dall’Ucraina, potenza nucleare dimenticata nel
cuore dell’Europa grazie all’eredità del passato sovietico. Recentemente Kiev ha ‘pagato’ alla
Russia gli arretrati del gas usando come moneta proprio i vettori Avangard. Tutto questo non
solo ha valore in chiave di geopolitica militare ma anche in prospettiva economica perché la
ricerca per sostenere una competizione aerospaziale permette di realizzare anche conquiste
nei settori industriali. Dal 900 a oggi i settori che beneficiano di queste innovazioni sono molti,
da quello agricolo al metalmeccanico, con benefici particolari per quello automobilistico. Poiché
il settore aerospaziale richiede velocità di risposta e di esecuzione, il campo che ha più
consistenti opportunità di evoluzione, con vaste applicazioni quotidiane, è la nuova economia
digitale legata all’intelligenza artificiale (es. Yandex è meglio di Google).
Proprio la storia degli Usa insegna che gli investimenti per lo sviluppo aerospaziale e per
l’innovazione militare hanno ricadute a cascata su tutta l’economia di un Paese. Le sanzioni
mirano quindi proprio a rallentare la Russia in materia di innovazione militare, ma mettono in
crisi anche il sistema Paese, che può contare non solo sulle aziende quotate in borsa come
Gazprom o Rosneft ma anche su un tessuto imprenditoriale di circa 4.000 aziende strategiche
controllate dal Cremlino, che inoltre possiede partecipazioni in altre 2.000 aziende private.
Moltissime di queste società sono guidate dai fedeli Siloviki di Vladimir Putin: è difficile capire
dove inizia la struttura imprenditoriale e dove inizia quella militare. Stessa cosa vale per i
membri del governo o dell’amministrazione delle grandi regioni delle Repubbliche Russe.
L’attenzione quindi è massima da parte di Madre Russia su ogni dettaglio che preservi e faccia
crescere il sistema politico, militare, economico e sociale. Prove di ciò le fornisce la vicenda UC
Rusal e i conseguenti intrecci e risvolti finanziari e azionari internazionali con Norilsk Nickel:
queste aziende hanno un ruolo cruciale non solo nel trade dell’alluminio o del nichel mondiale
ma anche nei progetti aereospaziali.
Allo stesso modo sono collegate, controllate e gestite dal Cremlino le enormi quantità di risorse
naturale della Madre Russia, con la Siberia amministrata e mantenuta in alcune sue aree nella
massima segretezza come area speciale di ‘difesa’ e di sicurezza nazionale.
La Siberia non è solo gas, miniere, sciamani o leggendarie principesse, ma una terra ricchissima
di quelle materie prime, come iridio, indio, germanio, stronzio, rodio e i platinoidi, che sono

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strategiche per lo sviluppo dei progetti aereospaziale e militari di difesa. Lì esistono luoghi
segreti dove si fa ricerca e sviluppo scientifico, come il: Norosibirsk Scientific Center.
Ora la mosca di House of Zar ha scoperto abbastanza e può volare fuori dalla finestra: ci saranno
altre stanze e altri muri su cui posarsi. La geopolitica, come i soldi, non dorme mai.



28
V trilogia
Anche il gas ha una… pista bulgara

1

(Spunta la Bulgaria nella rotta del gas russo per l’Europa Start Magazine 12 giugno 2018)

Nel considerare le scelte geopolitiche e gli intrecci diplomatici relativi alla realizzazione delle
nuove pipeline che dalla Russia porteranno il gas in Europa scopriamo che i protagonisti non
sono sempre e solo i soliti – Germania, Turchia, Francia ecc – ma che il “tubo”, e gli affari che ci
sono legati, fa gola a molte nazioni. Una di queste è la Bulgaria: una repubblica di 8 milioni di
abitanti che apparteneva al Patto di Varsavia e che ora è uno stato membro dell’Unione
Europea, il 14esimo per estensione, e della Nato. Ora che, ad agosto, parte il raddoppio del
TurkStream – che trasporterà il gas naturale fino ai terminali Turchi – il presidente bulgaro
Rumen Radev ha fatto capire di essere interessato a un posto nel tavolo dell’affare.
Radev si è recentemente recato a Mosca in viaggio ufficiale per cercare di recuperare la fiducia
di Vladimir Putin e ripristinare i privilegi energetici e giocare un ruolo nel mercato
dell’approvvigionamento energetico europeo. Radev è stato ricevuto dal primo ministro russo
Dmitry Medvedev. Leggendo i report ci imbattiamo nel consueto linguaggio della diplomazia:
Radev si è sperticato in elogi definendo la Russia “partner strategico” nel settore energetico e
ha messo in evidenza quanto la sicurezza dell’approvvigionamento energetico sia
estremamente importante sia per gli “amici bulgari” sia per l’Unione europea. L’obiettivo,
esplicitamente malcelato, è la speranza che i due governi riesaminino la possibile fornitura
diretta di gas dalla Russia attraverso il Mar Nero. Di tenore analogo, ma ancora più intrise di
retorica, sono state le dichiarazioni di Medvedev.
La Bulgaria sta quindi tentando di entrare in gioco e anche qui, come House of Zar ha capito
seguendo le vicende dell’ex cortina di ferro, non si tratta di una coincidenza: un anno fa il Paese
delle rose ha eletto presidente Rumen Radev, un avvenimento che ha soddisfatto e non poco lo
stesso Putin. Nella biografia del nuovo capo dello stato di Sofia troviamo che è un ex pilota
pluridecorato di Mig 29, i jet militari di fabbricazione russa, che parla correntemente russo oltre
che inglese. Radev ama ricordare che da ex generale della Nato la sua lealtà va agli alleati della
Bulgaria, ma anche che è favorevole dialogo con la Russia. Non è difficile immaginarlo parte del
gruppo degli ‘Strongman’ o dei ‘Siloviki’ prestati alla politica, a seconda del quadrante
geopolitico a cui ci si riferisce.
Forse la sua formazione aeronautica ha giocato un ruolo nel consolidare la sua
consapevolezza circa l’importanza degli approvvigionamenti energetici. Non è stata una
sorpresa che già un anno fa il suo primo atto fu prendere in mano il dossier riguardante il
collegamento al gasdotto che passa sotto il mar Nero: il TurkStream. E vi sono fonti pronte a
giurare che pare abbia esclamato «Da, lo voglio». Così adesso Radev si sta muovendo perché la
terza e quarta stringa della rete di gasdotti “Turkish Stream”, magari con un altro nome (che
potrebbe essere “Balkan” o “Flusso bulgaro”), possano raggiungere il porto di Varna, nel Mar
Nero, invece del territorio europeo della Turchia. Tutto semplice? Non proprio perché gli
ostacoli non mancano. Ce ne occuperemo nella prossima puntata.

29
2

(Perché all’atlantica Bulgaria fa gola il gasdotto Turkstream Start Magazine 13 giugno
2018)

C’è stato un tempo in cui la Bulgaria era uno dei pianeti della galassia sovietica, citata nelle
conversazioni spesso solamente per sottolinearne la predisposizione al plebiscito – ancora oggi
si usa l’espressione “elezione bulgara” – o per essere stata tirata in ballo dal turco Ali Agca
nell’attentato a Papa Wojtyla. L’oggi è ovviamente differente: da gennaio è il Paese che esercita
la Presidenza di turno dell’Ue e avviandosi alla chiusura del semestre che le spetta, e punta a
dimostrare agli altri Stati membri che, dopo dieci anni di adesione all’Unione, i tempi sono
maturi per il suo ingresso nell’area Schengen e l’avvicinamento all’eurozona.
A questa Bulgaria europea e “atlantica” (o almeno si suppone) fa gola il TurkStream, con i suoi
930-chilometri di sealine in acque profonde che sono stati posati a ritmo record in meno di un
anno. E con il raddoppio della prima linea che prenderà il via entro agosto (come abbiamo
scritto su Startmag.it).
Il TurkStream è il figlio di un rifiuto. Nasce quando, nel 2014, fu annullato il progetto del
gasdotto SouthStream, che era stato progettato per portare annualmente 63 miliardi di metri
cubi di gas russo sotto il Mar Nero. A quel tempo la Commissione europea esercitò pressioni
per annullare il progetto: pressioni basate su punti dell’accordo intergovernativo che
contenevano elementi contro la libera concorrenza, Un esempio le promesse che solo le
imprese di casa, insieme a quelle russe e greche, avrebbero costruito il gasdotto nella parte
bulgara.
Fu a quel punto che Putin srotolò sul tavolo del suo ufficio nel Cremlino la cartina geografica
dell’area del Mar Nero, puntando il dito sulla Turchia. Di lì sarebbe passata la nuova pipeline,
dimenticando secoli di guerre – sono state ben 12 tra la Russia Zarista e l’impero Ottomano – e
le rivalità della guerra fredda tra l’Unione Sovietica e il bastione orientale della Nato. Fu il giorno
in cui la diplomazia dell’energia prese il sopravvento sostituendo il SouthStream con il progetto
TurkStream, destinato a portare il gas russo in territori dell’Europa che non fanno parte dell’Ue,
cioè nell’appendice della Turchia europea.
La prima puntata di questa House of Zar bulgara era finita così: con il presidente Radev che sta
lavorando perché la 3a e 4a stringa della rete di gasdotti “Turkish Stream”, possano raggiungere
il porto di Varna, nel Mar Nero, invece del territorio europeo della Turchia. C’è un ostacolo che
dovrà superare perché questa idea diventi realtà: dovrà ottenere il parere favorevole della
Commissione europea, che continua a essere vigile nel suo impegno per scongiurare la
posizione dominante di Gazprom. Ma alla Bulgaria quel gas serve, vista la dipendenza dalla
Russia per l’89% dalla benzina, il 100% del gas naturale e tutto il combustibile nucleare
necessario per la sua centrale nucleare di Kozloduy, che ha due reattori funzionanti.
C’è una frase pronunciata dal primo ministro russo Medvedev che ci illumina su quanto sta
accadendo: la Russia si aspettava una visita a breve del primo ministro Boyko Borissov con la
speranza che servisse a fare crescere ufficialmente i contatti russo-bulgari. È un messaggio
diretto a Rumen Radev che richiama la costituzione bulgara, la quale prevede che i poteri del
presidente siano limitati e che al primo ministro spetti questo tipo di azione politica. Di cosa
probabilmente si è discusso il 30 maggio nelle segrete stanze del Cremlino sarà l’oggetto della
terza puntata.
30
3

(Perché la Bulgaria è al centro della strategia europea sul gas Start Magazine 15 giugno
2018)

L’incontro del 30 maggio fra Vladimir Putin e il premier bulgaro Boyko Borissov ha toccato
diversi argomenti, dalle relazioni economiche fra i due Paesi dell’ex Patto di Varsavia al turismo
per arrivare all’immancabile lotta contro il terrorismo. Ma uno dei temi centrali è stato quello
energetico. Lo stesso presidente russo ha dichiarato di avere confermato al premier di Sofia che
Russia e Turchia sono pronte a sostenere l’estensione del gasdotto TurkStream fino alla
Bulgaria.
Una notizia che mette lo Stato balcanico al centro della strategia europea
dell’approvvigionamento di gas naturale: lo aveva confermato il presidente Radev in
un’intervista, affermando che la richiesta bulgara di un “Bulgarian Stream” non fosse poi così
diversa da quella della Germania per il “NordStream 2”. Aggiungendo così spezie al piatto che
si sta cucinando sulla questione energetica e che aveva visto i due principali chef, Putin e
Merkel, confrontarsi a Sochi. Radev ha aggiunto che entrambi i progetti sarebbero compatibili
con la legislazione dell’UE.
In realtà quest’ultima affermazione non è del tutto vera: le eventuali consegne di gas in Europa
attraverso la “linea bulgara” del TurkStream rimangono potenzialmente vincolate da
un’incertezza normativa costituita dalla conformità con le norme comunitarie relative al terzo
pacchetto energetico.
Un elemento che ha sorpreso gli osservatori è stato la disponibilità di Borissov a sedersi a un
tavolo con lo zar Vlad per discutere di temi strategici, visto che si porta dietro una fama di
avversario della Russia. La visita del primo ministro di Sofia è sembrata quindi un ripensamento
delle sue posizioni, mentre si tratta, come sempre, di un’ennesima declinazione della realpolitik.
Il conservatore Borissov, favorevole alla costruzione di un hub del gas vicino a Varna per
intercettare il flusso di gas del TurkStream, sa perfettamente che tra il suo Paese e Mosca esiste
un legame forte, più che con qualsiasi altra nazione dell’area. Borissov ha tradotto questa
consapevolezza interpretando la sua presidenza di turno dell’UE, ergendosi come baluardo del
gruppo dei Paesi dei Balcani occidentali che non fanno parte dell’unione. I quali, a suo parere,
sarebbero stati emarginati dall’Europa. Nella scelta di organizzare a Sofia il summit del 17
maggio dedicato proprio alle nazioni dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia Herzegovina,
Serbia, Montenegro, Macedonia e Kosovo) il primo ministro ha inteso in realtà rinnovare il
proprio impegno nella metanizzazione dell’area, così importante per il decollo del mezzogiorno
d’Europa, della quale il Paese delle rose potrebbe divenire la base logistica come fornitore
ufficiale di “oro azzurro”.
Una posizione che fa comodo, ovviamente, anche a Mosca, vista la volontà di Angela Merkel sul
NordStream 2, che venga realizzato garantendo anche la prosecuzione dei transiti futuri di gas
attraverso l’Ucraina. Così Mosca domanda alla Bulgaria di combattere in sede UE la battaglia
per indirizzare le linee 3 e 4 del gasdotto verso l’originario approdo di Varna. Tra le ipotesi, ce
n’è una che forse permetterebbe di aggirare l’ostacolo di cui abbiamo parlato all’inizio:
costruire una piattaforma al largo delle acque territoriali bulgare da cui inizierebbe il tratto di
competenza comunitario della pipeline verso la Bulgaria. A questo punto, con una società al
31
100% europea per gestire la nuova ramificazione, potrebbero, forse, sparire i problemi legati
alle norme sulla concorrenza. Forse.
In sintesi la Bulgaria, nella fase finale della sua presidenza di turno UE, sta cercando di gettare
le basi per una rinascita dell’accantonato ma mai cancellato progetto per due ulteriori linee del
cosiddetto SouthStream. O, in alternativa, del TurkStream con una leggera deviazione bulgara.
La Bulgaria nel passato è stata protagonista di clamorosi ‘scismi’ tra occidente e oriente
dell’Europa. Se vorrà riprendersi questo ruolo potrà farlo imputandosi sulla costruzione del
gasdotto. Se sarà Bulgexit, questa volta Sofia avrà ceduto al fascino della città – e del potere che
rappresenta – che si è sempre creduta l’erede di Bisanzio: Mosca la terza Roma.

32
VI trilogia
Russia Arabia, palla al centro e vinca chi ha più gas

1

(Come finirà la vera partita fra Russia e Arabia Saudita Start Magazine 13 giugno 2018)

Si avvicina finalmente il 14 giugno, il giorno del fatidico calcio di inizio dei mondiali di football
2018.
Nella tribuna d’onore dello Stadio Lužniki di Mosca, alla partita d’esordio dei mondiali di calcio
Russia-Arabia Saudita, il padrone di casa Vladimir Putin accoglie gli eredi della dinastia Al Saud.
Sarà forse il principe saudita Mohammed bin Salman, il nuovo uomo forte di Riad, a
rappresentare il regno conosciuto come luogo di origine dell’Islam, nel palco d’onore? Per uno
degli innumerevoli e bizzarri casi del destino, il primo confronto vedrà in scena le nazionali di
calcio di due grandi “petrostati” che insieme detengono la maggior parte delle riserve mondiali
di idrocarburi. Vecchi e nuovi strongman o siloviki accorreranno nella tribuna d’onore a
sgomitare per un inquadratura in mondo visione.
Proprio a Mosca si sta compiendo l’avvenimento più globale della geopolitica moderna: i
mondiali di calcio. Del resto, se Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz nascesse oggi, forse direbbe
che è il gioco con la palla più famoso a non essere altro che la continuazione della (geo)politica
con altri mezzi.
Dalle elezioni presidenziali ai mondiali di calcio, nel 2018 Madre Russia si conferma sotto i
riflettori. Per questo l’organizzazione è curata nei minimi dettagli. Ispirato dalle squadre delle
nazioni che partecipano e dalle visite di Stato vi do appuntamento su Startmag per analizzare
la nuova guerra fredda. Quella tra vecchie e nuove nazioni del petrolio, del gas, dei metalli più
rari e delle nuove tecnologie che determinano la vita o l’ascesa di antichi o moderni imperi
democratici, dittatoriali o dell’inarrestabili democrature globali…
Voglio però strafare, quindi mi avventuro sulla corda sospesa come un funambolo senza rete
del pronostico calcistico.
Sui mondiali di calcio sono sempre fedele alle parole di un grande campione del football
dell’impero Britannico, Gary Lineker: «Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un
pallone per 90 minuti, e alla fine la Germania vince».
“Welcome to Russia2018”, regia e sceneggiatura di quello che possiamo già decretare il
vincitore di questo evento globale: Vladimir Vladimirovič Putin.


33
2

(Opec e non solo, ecco le vere partite che Russia, Arabia Saudita, India e Cina giocano su
petrolio e gas Start Magazine 21 giugno 2018)

Prologo. “In politica non devi essere amato, devi essere rispettato. Di politici teneri e generosi
io non ne ho mai conosciuti, quanto invece di ambiziosi e spietati. D’altronde, se così non fosse,
non porterebbero a compimento nulla”.
Così Michael Dobbs, l’autore che ha ispirato il titolo di House of Zar (e del resto lui stesso ha
confessato che per House of cards si è ispirato nientemeno che a Giulio Cesare), definisce in uno
dei suoi romanzi cosa dev’essere un politico. Certo i protagonisti della geopolitica dell’energia
non sfuggono alla sua regola.
Tribuna d’onore dello Stadio Lužniki di Mosca, partita d’esordio dei mondiali di calcio Russia-
Arabia Saudita: il padrone di casa Vladimir Putin gongola per l’ennesimo gol della sua frizzante
nazionale, ma guardando negli occhi il suo ospite, il principe saudita Mohammed bin Salman, il
nuovo uomo forte di Riad, in segno di rispetto gli porge la mano.
Un gesto che non solo suggella il risultato della partita, ma anche l’epilogo di una lunga giornata
durante la quale i due hanno avuto il tempo di incontrarsi per parlare di affari di Stato. Calcio e
affari, insomma, che spesso vanno a braccetto.
Il summit di Mosca, tra il presidente russo Vladimir Putin con il ministro dell’Energia Alexander
Novak e il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman (MbS) accompagnato dal ministro
saudita dell’Energia Khalid al-Falih, ha preparato la riunione Opec che il 22 giugno vedrà
riunirsi a Vienna i massimi politici dei petrostati.
Quale sarà il punto su cui ruoterà il vertice? Mosca e Riad sono concordi nel ritenere che la
produzione di petrolio dei Paesi Opec e dei loro alleati debba aumentare gradualmente.
A gennaio 2017, l’Opec e altri Paesi produttori di petrolio si erano impegnati a limitare la
produzione per ridurre l’offerta e sostenere i prezzi. Il 22 giugno l’organizzazione e i suoi
partner, 24 Paesi in tutto, compresa la Russia, discutono del futuro dell’accordo, mentre gli
indici Brent e WTI hanno superato a maggio le barriere di 80 e 70 dollari al barile.
Dietro la stretta di mano nel palco d’onore di Mosca potrebbe celarsi un accordo già raggiunto
fra Putin e il principe saudita: la Russia proporrebbe un aumento proporzionale delle quote di
produzione di tutti i Paesi partecipanti all’accordo Opec, magari cercando di tenere sotto
controllo i prezzi.
Alla facile obiezione “ma non è meglio un prezzo alto per i produttori?”, la risposta è un nome e
un cognome: Donald Trump. Alcuni politici americani hanno riesumato il disegno di legge
contro l’Opec e Trump, a differenza di Bush e Obama, lo firmerebbe ben volentieri (lo spiega
bene un articolo di Start Magazine). E forse la manovra di Putin punta proprio a disinnescare le
reazioni Usa.
Anche dalle ‘tigri asiatiche’ arriva una presa di posizione esplicita che stupisce se si tiene conto
della cultura e delle antiche rivalità territoriali. Anche India e Cina schierano gli attaccanti, per
restare nella metafora calcistica, in questo caso i ministri del petrolio che hanno concordato di
lavorare insieme per esprimere la loro opposizione alle manovre Opec e adottare una strategia
per ottenere prezzi più bassi.

34
L’India in particolare acquista l’86% del suo petrolio e il 75% del suo gas dai paesi dell’Opec.
Sono però passati i giorni in cui l’elefante indiano aveva una strategia passiva di importazione.
Adesso si sta muovendo per raggiungere nel 2030 il target del 25% di gas naturale nel mix
energetico, ed è diventata una protagonista della geopolitica delle risorse fossili, come ho
tentato di spiegare, fra tante altre cose che riguardano il panorama energetico attuale, in un mio
libro di prossima uscita.
La catena del valore del gas è quindi una priorità per l’elefante indiano. Se non bastasse, il
governo di Nuova Delhi ha effettuato massicci investimenti per controllare il 30% delle quote
del giacimento mozambicano di Rovuma Area 1 (che è vicino a quello di Area 4, dove azionista
di riferimento è la nostra Eni) attraverso le società controllate Oil India (10%), Bharat Prl
Ventures Mozambique B.V. (10%), Ongc Videsh Limited (10%). E l’ultimo messaggio del
ministro indiano Dharmendra Pradhan sposta ancora più avanti l’obiettivo: “l’energia
rinnovabile sta arrivando a grandi passi”.
Alla fine di questo giro c’è ancora uno degli stadi dove si giocano le partite dei mondiali. E in
campo c’è di nuovo la nazionale russa, che tanto per cambiare sta mettendo sotto l’Egitto, un
altro paese con la mezza luna dell’Islam nella bandiera. Qualificandosi già per gli ottavi.
A tutto gas…

3

(Che cosa cela l’Arabia Saudita di MBS con la quotazione di Aramco Start Magazine 26
giugno 2018)

Aramco e la sua “privatizzazione” del 5% annunciata fin dal 2016 come la più grande
quotazione della storia e i miliardi di dollari che muoverà sono argomento di discussione e di
forti appetiti. Discussioni nel mondo petrolifero, politico e finanziario.
L’estate scorsa, in una trattoria romagnola, un amico esperto di politiche chimico industriali mi
tenne una lezione che ho annotato nel mio personale taccuino. Mi disse di lasciar perdere i
gossip sulla famiglia reale o su quale sarà la piazza finanziaria prescelta (da Londra a New York
o Shangai) fino alle lotte tra le grandi società di consulenza finanziaria che si contendono le
ricche commesse conseguenti.
Il ganglio decisionale era già allora Mohammed Bin Salman (MBS come lo chiamano). Ma il mio
amico mi disse che il principe è il frontman che rappresenta una “generazione” nuova. Una
generazione di giovani della famiglia Said (e le sue gigantesche ramificazioni) che vogliono
vedere e vivere il paese in una prospettiva diversa. Perché quella attuale è in decadenza: come
tutte le vere decadenze è prima di tutto culturale.
È su questa parola cerchiata di rosso che mi introduce una serie di nomi protagonisti di questa
generazione e del loro progetto. Questo aspetto generazionale all’interno della famiglia Said è
stato poco esplorato a livello pubblico e mediatico. Come poco esplorato è il progetto
industriale che la “generazione MBS” sta portando avanti per trasformare l’Arabia Saudita in
una potenza chimica industriale.
La lezione dell’amico, in quanto chimico che ha lavorato e lavora come consulente da anni
nell’area della mezza luna, non poteva che partire dai fondamentali, dalla materia prima. Egli si

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è dilungato nella sua visione di quanto sia importante implementare tutta la filiera chimico
industriale da valle a monte.
Su come facemmo noi negli anni di Mattei si lascia andare con nostalgia. Anche perché le risorse
chimico, fisiche e finanziarie non mancano a MBS. Anche l’opzione di portare in borsa il 5%
della società petrolifera e finanziare la diversificazione dell’economia di Riad va in questa
direzione? Sì se i ricavi possibili della “privatizzazione” saranno re-investiti in Vision 2030 per
il rinnovamento dell’economia saudita.
L’amico evidenziava come tutte le fonti che danno risalto alla volontà di non essere più
dipendenti dal petrolio e diversificare non completano il quadro della vera rivoluzione di MBS.
I problemi sono altri. Intrinseci nelle radici del paese stesso. Nella sua demografia, nella sua
costruzione sociale, nella sua storia (centenaria o poco più). C’è il problema storico della
incapacità culturale industriale lavorativa, unito a quello della ricerca e innovazione scientifica.
Si mandano i giovani a studiare all’estero, nel Regno Unito o negli Usa, e quest’ultimi producono
internamente poco o nulla. Senza poi contare l’esclusione femminile nella vita sociale,
professionale, scientifica, ecc.
In ambito tecnologico il Paese importa tutto. Dipende del tutto o in gran parte dagli Stati Uniti.
Il nuovo Regno degli Said può iniziare a diversificare il patrimonio dell’Aramco, può rinvestire
il 70% delle entrate in nuovi investimenti, nuovi settori, completando una filiera della
petrolchimica o nelle rinnovabili ma così come sono oggi dipenderanno sempre dagli Usa che
abilmente somministrano tecnologia e know-how goccia a goccia. E questo anche dopo la visita
trionfale di Trump dello scorso anno.
La vera sfida che MBS vuole portare nel nuovo Vision 2030 sarà sul piano culturale? Non solo
lo stanno già pianificando ma stanno investendo su nuove risorse umane.
Questa sfida è fondamentale anche per colmare il gap con l’Iran: potenza regionale con una
costruzione sociale diversa e con una storia millenaria, con università e scuole che
arricchiscono e formano una popolazione giovanile in crescita demografica. Non tutto va quindi
sempre visto e analizzato solo sul piano politico, finanziario, militare o “religioso”.
Il problema è in quanto tempo e con quali risorse l’Arabia Saudita riuscirà a colmare questo gap
culturale con il rivale regionale?
Un esempio potrebbe venire sempre da un paese dell’area medio-orientale. Il Libano, diverso
da molti altri dell’area ma da cui dovremmo prendere esempio anche noi europei e in
particolare noi italiani. Conclude così la lezione i mio amico: “Tu che sei un politico vai a vedere
la quota percentuale Pil investimenti del sapere del paese dei cedri”.



36
VII trilogia
Mondiali 2018, vince la Francia… anzi Putin

1

(Come nella politica anche nello sport le gerarchie globali si stanno ribaltando? Start
Magazine 30 giugno 2018)

La prima fase del mondiale russo del gioco della palla più famoso sentenzia che le ‘grandi
squadre’ soffrono. Eliminata la Germania. Non solo detentrice del titolo ma la nazionale con le
statistiche migliori nella storia dei mondiali, smentendo clamorosamente il famoso aforisma di
Gary Lineker.
Sembra che una next generation di nazionali di piccoli o grandi Paesi, ben organizzate a livello
tecnico-tattico-fisico anche senza grandi tradizioni stiano emergendo nella competitività
globale del calcio.
La nazionale di un piccolo paese che ha profonde radici storiche nel pantheon del calcio ha
mostrato però nuova linfa e vitalità.
Se l’Inghilterra è la madre del football, l’Uruguay è il padre, recita l’antico adagio.
Un padre con due mondiali vinti, una grande scuola calcistica quella della ‘Celeste’ che ha il suo
mito nella leggendaria vittoria mondiale del 1950 contro il Brasile, sconvolgendo con i gol di
Schiaffino, Ghiggia e la grinta del capitano Obdulio Varela (detto El Negro), il Maracanazzo e un
intero Paese.
Un paese piccolo ma quando si parla di calcio è tutto gigantesco come la costruzione de “il
Centenario”, lo stadio di Montevideo, costruito allorché il primo presidente della FIFA, Jules
Rimet, incaricò l’Uruguay di organizzare la prima edizione della Coppa del Mondo di calcio nel
1930. Dove la Celeste davanti a 80.000 persone sconfisse 4-2 l’Argentina e divenne la prima
squadra campione del mondo.
Oggi l’Uruguay presenta una solida squadra a punteggio pieno, con un mix di giocatori giovani
e d’esperienza e con due bomber di razza come il Matador Cavani e il Pistolero Suarez.
Ma un mondiale che si gioca nella grande Madre Russia di Dostoyevsky non può non trovare
miti, simboli, storie, leggendari principi o sciamani da presentare.
E l’Uruguay ce l’ha in panchina, Oscar Washington Tabarez detto El Maestro. Il CT con il più alto
numero di presenze in panchina di una nazionale di tutti i tempi.
Il suo volto, le sue stampelle, la sua dignità… e citando l’amico e collega del club dei CT
indivanati: “Se volessimo credere alla vita come a un film non sarebbe male la storia di un
Uruguay stretto attorno al maestro Tabarez che sfidando la malattia e la morte, dopo indicibili
sofferenze conquista la terza sfolgorante stella da appuntare al petto…”
E adesso sotto con il Portogallo di CR7.



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2

(Russia-Croazia a tutto gas Start Magazine 6 luglio 2018)

Da una osservazione del tabellone del mondiale di Russia non solo i più esperti pallonari
capiscono che nella parte sinistra insistono le squadre con più solida base tecnica-tattica e il più
prestigioso palmares, come il Brasile, la Francia, l’Uruguay e con l’aggiunta del Belgio con una
generazione di talenti che cerca la definitiva consacrazione dal 2014.
La parte destra invece conferma quello che un novello Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz oggi
direbbe, ovvero che è il gioco con la palla più famoso a non essere altro che la continuazione
della (geo)politica con altri mezzi.
Per questo, quando le grandi vie di Madre Russia incroceranno quelle di un piccolo paese dei
Balcani come la Croazia, le suggestioni per House of Zar non mancheranno.
La grande nazione che ospita i mondiali 2018, che si estende su due continenti con 11 fusi orari,
con la leadership politica di Vladimir Putin fortissima grazie a una conferma plebiscitaria che si
fonda su mix di valori che spaziano nei binomi comunismo più patriottismo e zarismo più
religione ortodossa. A livello calcistico è la sfavorita del match.
Infatti la giovane piccola Croazia con i suoi 4 milioni di abitanti è un paese talentuoso negli sport
di squadra, un’eredità del periodo della vecchia guerra fredda quando era parte della Jugoslavia
e le sue tante storie come quella del bellissimo Bloch notes di Michele Magno.
Nella globalizzazione dello sport, dal basket, alla pallanuoto fino al calcio i suoi tantissimi atleti
offrono la loro arte nelle squadre più gloriose. Un esempio fra tutti il capitano della nazionale
di football Modric veste la camiseta blanca del campione d’Europa Real Madrid.
La Repubblica croata, con le sue mille isole nell’Adriatico è nata dalla drammatica disgregazione
della Jugoslavia negli anni ’90, è entrata da poco nell’Ue ed è cuore pulsante di Santa Romana
Chiesa nei Balcani. Il suo sogno è fare meglio della mitica nazionale del mondiale di Francia
1998, quella dei Suker, dei Boban, dei Prosinecki che arrivando terzi fecero della Croazia la
miglior esordiente in un mondiale.
Un’altra sfida, dove questi due paesi così diversi si trovano su campi opposti ma questa volta
non da calcio, è quella energetica nei Balcani.
In questa partita lo sviluppo strategico del gasdotto TurkStream vede la Russia estendere i suoi
grandi progetti infrastrutturali puntando a portare l’oro azzurro via pipeline nei Balcani.
Mentre i croati assaporano l’idea di diventare hub energetico per i Balcani grazie al progetto
del rigassificatore di gas liquefatto davanti alle coste dell’isola di Veglia (isola di Krk) con un
finanziamento garantito Ue da oltre 100 milioni di €.
Trovando un alleato nell’altra potenza energetica globale a Stelle e Strisce che vede nello
sviluppo dei gate del Gnl una opportunità per le sue gasiere.
L’argomento energetico interessa anche a noi italiani visto la condivisione del mare Adriatico e
delle sue notevoli riserve e risorse di gas naturale.
Ci riguarda anche visto lo storico legame di Eni con quest’area geopolitica. Lo scorso 20 giugno
il cane a sei zampe è uscito dal business Upstream in Croazia, dove era presente dal 1996 in
partnership con INA-INDUSTRIJA NAFTE vendendo proprio a quest’ultima il 100% di Eni
Croatia.

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Eppure la collaborazione continua come testimonia la notizia del 26 giugno sempre di
quest’anno dove il cane a sei zampe e INDUSTRIJA NAFTE hanno annunciato un accordo di
cooperazione bilaterale (Memorandum of Understanding) per valutare l’opportunità di
realizzare una interconnessione tra Italia e Croazia per il trasporto del gas naturale.
L’iniziativa, molto interessante per House of Gas, mira a fare leva sull’infrastruttura esistente,
oggi deputata alla produzione offshore di gas nell’alto mar Adriatico, per realizzare
un’interconnessione per il trasporto di gas tra i due Paesi.
Ma torniamo ai mondiali di Russia 2018. Li seguiremo non da tifosi per questa o l’altra squadra
allo svolgere dei quarti di finale, con un’annotazione a margine che riguarda sempre la parte
destra del tabellone. Non possiamo non notare che i risultati finali potrebbero riservare
l’incrocio di altre due nazioni di grande interesse per il novello Von Clautzerviz come Inghilterra
e Russia con le loro vecchie e recenti storie di spie.

3

(L’epilogo dei Mondiali di calcio in Russia tra geopolitica ed energia Start Magazine 17
luglio 2018)

È il 15 luglio: si spengono le luci e le insegne pubblicitarie del colosso energetico russo Gazprom
nel grande stadio Lužniki di Mosca, mentre le immagini della premiazione della Francia
campione del mondo continuano a girare sugli schermi televisivi e degli smartphone di tutto il
mondo. Macron è raggiante, abbraccia uno a uno i bleus. Una pioggia battente chiude per i
francesi una campagna di Russia che questa volta è stata vittoriosa e celebrata con tutti gli
onori. Si sprecano commenti, che si nutrono delle retoriche più trite, come quella della
nazionale melting pot francese che ha battuto la piccola Croazia bianca e simbolo dei
nazionalisti… Stiamo sereni perché forse alla fine è solo sport, ma anche questo mondiale ne ha
prodotti di simboli, storie e leggende.
Il giovane presidente a rubare la scena in mondovisione, ma il condottiero francese stavolta – o
ancora una volta… – è un uomo piccolo e fiero. Di origini basche, sarebbe stato perfetto calato
nella divisa da maresciallo della Grande Armée napoleonica. Il suo nome: Didier Deschamps.
Non è nuovo ai successi: era il capitano della Francia che vinse i mondiali del 1998.
Centrocampista dotato tatticamente e tecnicamente di rara sapienza calcistica, che dispensava
generosamente in mezzo al campo. Con questa impresa ha affiancato due altri Mister del calcio
mondiale vincitori sia da giocatori che da commissari tecnici: il “kaiser” Beckenbauer e il
“professore” Zagallo.
Ma torniamo sul palco, perché sotto la pioggia battente si staglia la figura di un altro uomo che
ha messo in cassaforte un altro successo tra i tanti nella sua esistenza. È il leader della Madre
Russia, l’organizzatore del mondiale senza sbavature o imprevisti. Eravamo stati facili profeti
prefigurando che sarebbe uscito da questo mondiale come un trionfatore, che la sua nazionale
avesse vinto o meno.
Che i mondiali sarebbero stati il secondo evento quest’anno, dopo le trionfali elezioni
presidenziali, in cui Vladimir Putin e la Russia sarebbero stati sotto le luci della ribalta globale
era in realtà una profezia abbastanza facile.

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Il mondiale di calcio è stata l’occasione per confermare ancora una volta la sua sensibilità per
la geopolitica, che ha mostrato come al solito usando la capacità mediatica. Mentre Macron
esultava nel palco d’onore, dove era ospitato dal potente presidente della FIFA l’italo-svizzero
Gianni Infantino – incredibilmente somogliante all’AD di Eni Claudio Descalzi, fatto che in alcuni
casi ha tradito anche il più esperto protagonista dell’oil&gas… – Vlad lo zar continuava a
stringere mani (e alleanze…). Come ha fatto per tutta la durata del mondiale con i vari leader
delle nazioni partecipanti, approfittando dell’occasione per tessere alleanze. Come ha fatto con
il principe arabo Mohammed bin Salman col quale, tra un gol e una risata allo stadio , ha
costruito l’accordo per la crescita ‘proporzionale’ di produzione di petrolio che poi è stato
ratificato al summit di Vienna dell’Opec.
Oppure ricevendo con tutti gli onori il premier Sud Coreano al Cremlino, con cui avrà parlato
dei nuovi tubi che attraverseranno la penisola coreana da nord a sud. E confermando che la
diplomazia del gas permette di superare anche le più antiche rivalità.
Putin ha vinto la sua scommessa, che non era vincere il mondiale ma…mentre il centravanti
Dzyuba e il portiere Akinfeed si mettevano in luce e i tavoli prenotati dei bar alla moda di San
Pietroburgo registravano il tutto esaurito, lui ha approfittato della distrazione sportiva per far
introdurre al fido Dmitrij Anatol’evič Medvedev l’aumento dell’età delle pensioni in Russia. Ha
tentato di inserire una misura impopolare mentre il popolo era “anestetizzato” dal calcio: un
popolo di 140 milioni di persone che ha un salario medio di 12mila rubli al mese (170 euro) col
quale fatica a tirare avanti. Per giunta in un Paese dove situazioni ambientali e stili di vita
alimentari non proprio “sani” hanno come risultato un’aspettativa di vita sotto lo standard
europeo, che è meno di 70 anni, circa 13 anni in meno rispetto all’Italia, tanto per fare un
esempio.
Il calcio allora è davvero la prosecuzione della geopolitica con altri mezzi? Guardando alla
Russia si direbbe di sì.
Simboli, storie e leggende, dicevamo… Come quella dell’Uruguay, un piccolo paese di grandi
tradizioni calcistiche. Ci sarebbe piaciuto vederlo, stretto attorno al suo maestro, Oscar Tabarez,
che ha sfidato la malattia e la morte per condurre la Celeste dalla panchina, conquistare la terza
sfolgorante stella da appuntare al petto.
È stata la Francia nei quarti di finale a sconfiggere il nostro sogno, ma le parole di congedo di
Oscar Washington Tabarez confermano che questo ‘Oriental’ delle rive del Rio de la Plata è per
noi il vero Hombre Vertical Campione del Mondo di Russia 2018: «E’ inutile essere campioni
del mondo se poi si scopre che i nostri giovani non sanno dove sia la Russia o perché nella
nazionale francese ci siano tanti giocatori nati in Africa. E’ tempo di realizzare quello che i nostri
governanti ci hanno promesso e raggiungere il 6% del PIL nell’investimento per l’istruzione
pubblica». Ecco di questo ci piacerebbe che i grandi della terra si occupassero.
Chissà se Zio Vlad e The Donald ne hanno parlato a Helsinki…il giorno dopo, il 16 luglio.

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VIII trilogia
Il potere si veste di nuove ideologie

1

(Bannon, gli Usa e Trump. Che fa l’Europa? Start Magazine 23 luglio 2018)

Steve Bannon, come capita spesso agli ideologi accaniti, non si lascia certo demoralizzare da un
licenziamento… anche se è per mano del Potus Donald Trump, che dopo averlo nominato
stratega della campagna elettorale gli aveva affidato un ruolo chiave nel Consiglio di sicurezza
nazionale. Ora l’ex presidente del sito di estrema destra Breitbart news ha deciso che dopo gli
Usa anche l’Europa ha bisogno delle sue idee. Così sta creando una fondazione chiamata The
Movement con l’obiettivo di guidare un ‘cambiamento’ populista di destra in vista delle
prossime elezioni europee: il movimento coinvolgerebbe i leader della destra continentale, da
Marie Le Pen e Viktor Orban per arrivare, e poteva mancare?, Matteo Salvini..
Bannon ha previsto di trascorrere il 50 per cento del suo tempo in Europa… Dietro l’operazione
di marketing personale (libri, conferenze, ecc,) si nasconde qualcosa di più: un attacco al
modello di società europeo – quello che Paul Krugman ha sintetizzato con European-style
welfare – con le prossime elezioni europee come spartiacque di un cambiamento epocale.
Ci riuscirà? La visione di Steve Bannon non viene propagandata con elaborati saggi, ma grazie
a un approccio schematico diretto e disarmante. Quest’uomo “dimenticato” che fino a due anni
fa era solo il boss di un sito reazionario alla periferia del potere dell’informazione americana,
ha scalato i gradini del potere in puro stile ‘american revenge’: in soli pochi mesi dalla sua
nomina a capo della campagna elettorale del candidato alle presidenziali più underdog della
storia a stelle strisce, ha portato Trump a vincere contro i Clinton e a insediarsi alla Casa Bianca.
Peccato che abbia commesso un errore fatale, scontrandosi con Ivanka Trump e Jared Kushner,
la figlia prediletta e il genero del presidente – i “Jaranka” come li chiama Bannon – e si sia dovuto
dimettere. Ma, appunto, non si è lasciato demoralizzare e si è riciclato come guru mondiale della
destra populista, anzi del nazionalpopulismo!
La strategia politica di Bannon si sviluppa su tre livelli, ben descritti in ‘Fuoco e Furia’, il best-
seller di Michael Wolff sulla presidenza Trump. Per illustrarla gli è sempre bastata una semplice
lavagna, prima ospitata nel suo ufficio dirante la campagna elettorale e poi traslocata in quello
della Casa Bianca: il primo livello è puntare sulle insidie legate a sicurezza & immigrazione per
colpire il fronte interno, il secondo alza il tiro per legare la politica economica al nazionalismo
e al protezionismo – dazi e lotta a Cina, Europa, o chiunque altro metta in difficoltà il concetto
di America First – mentre l’ultimo si occupa della politica estera, che deve prevedere un
bilateralismo a trazione USA con tutto il potere al Potus per gestire gli accordi commerciali e
decidere con i partner.
A consolidare l’influenza della cultura del nazionalpopulismo nel mondo e in particolare in
Europa contribuisce il ‘gemello diverso’ di Bannon, quell’Alexander Dugin, filosofo, ideologo e
professore, che con la sua elaborata e corposa IV teoria della politica è divenuto il punto di
riferimento di una ‘destra’ che combatte l’Europa liberale affondando le sue radici nel
nazionalismo, nell’opposizione alle conquiste della società liberali e, a corollario, anche di
quelle della scienza. Con la Russia che in un mondo multipolare avrebbe il ruolo di guida
41
dell’Eurasia, anzi dell’Impero euroasiatico, che andrebbe fondato sul rifiuto dell’atlantismo, del
controllo strategico degli Stati Uniti e dei valori liberali. La sua visione politica anzi geopolitica
prevede anche che la saldatura euroasiatica abbia come perni la Russia e la Germania (quella
che i geopolitici russi definisco la GeRussia che Salvatore Santangelo ha ben descritto nei suoi
libri): e da ciò nascerebbe la IV fase della politica mondiale. Creata la GeRussia, gli altri ‘Paesi’
sarebbero chiamati a scegliere tra un blocco euroasiatico e uno a dominio anglo-americano. Con
Mosca, la III Roma, Capitale, centro economico, politico, culturale e religioso, incontro di tutte
le chiese Cristiane. E con a capo uno ‘Zar’ carismatico e democratico.
E noi europei? Mai come oggi stiamo assistendo passivi a un progetto per la distruzione dell’
Europa e delle sue istituzioni, guidato da forze esterne (Russia Putin e USA Trump) in una
‘coincidentia oppositorum’ che utilizza scelte politiche e strumenti (vedi la voce social network)
per minare la coesione del vecchio continente. Questa “coincidentia oppositorum” si nutre di
una visione comune, quella che l’Europa è il principale concorrente sociale, politico ed
economico (e culturale…) di Usa e Russia. The money never sleeps. Le forze interne
(sovranismo e nazionalismo) vengono usate come maglio per martellare la base del progetto
europeo, addossandole la colpa di ogni ‘crisi’.
Spero che nessuno abbia dubbi sulla validità dell’idea europea, così come anche che senza
Europa ogni singolo Stato sarebbe molto più debole. Ma prendendo a prestito un parallelismo
organizzativo di Richard Normann è venuto il momento di un restyling, di un rinnovamento di
processo e di “prodotto” dell’Europa unita. Invece si sta temporeggiando e non si fa nulla per
contrastare l’insidia della “coincidentia oppositorum” Usa-Russia, alimentando il dubbio che
forse l’attacco sia tutto sommato giusto. Dato questo quadro, sono proprio le forze politiche pro
Europa che contribuiscono a legittimare l’azione della “coincidentia oppositorum”.
C’è una certezza del progetto europeo. Nessun singolo Paese d’Europa può – solitario – trattare
alla pari con USA, Russia e Cina. E neppure con le multinazionali o le aziende Russe o cinesi di
Stato, che spesso hanno un giro di affari pari a quelli dei piccoli Stati europei.
Dobbiamo convincerci che l’Europa siamo noi e non un gruppo di anonimi burocrati. Che ogni
Stato, da solo, non conta nulla e che servirebbe costruire finalmente l’Europa politica dopo
quella economica. Come? Cominciando a comportarci come gli avversari, andando alla ricerca
di una nostra ‘coincidentia’. Altrimenti si perde!


2

(Bannon, Keynes e i socialisti. Come muoversi dopo The Movement in Europa? Start
Magazine 31 luglio 2018)

“Le idee di economisti e filosofi politici, sia quando hanno ragione, sia quando sbagliano sono
più potenti di quanto sia comunemente inteso. In effetti, il mondo è governato da poco altro. Gli
uomini pratici, che credono di essere del tutto esenti da qualsiasi influenza intellettuale, di
solito sono schiavi di qualche economista defunto”. Chi l’ha detto? Lo vedremo alla fine.
Restando alle idee, noi, Socialisti & Democratici europei, confermiamo ogni giorno di averne
poche in questo momento, assistendo passivi e scoordinati a ciò che succede di qui alle elezioni
europee.
42
Anzi a volte in perfetto stile suicida assecondiamo la ‘coincidentia oppositorum’ delle destre
populiste che, pur nutrendosi da fonti contraddittorie, stanno concretizzando un’ascesa
intellettuale inarrestabile che le porterà a de-costruire le istituzioni europee.
Qualcuno le idee invece le ha ben chiare. Con “Bannon, gli USA e Trump. Che fa l’Europa?”
avevamo accostato la vita dell’ex stratega del Potus a quella di un film: sarebbe il perfetto
protagonista di una pellicola in puro stile ‘american revenge’. Il classico ‘uomo dimenticato’, che
fino a pochi anni prima era solo il fondatore di un sito reazionario alla periferia del potere
dell’informazione americana, a cui capita la chance della vita e scala velocemente i gradini del
potere insieme al candidato alle presidenziali più underdog della storia a stelle strisce.
Dopo l’ascesa la caduta. Proprio come nei film. Tutto sembrava perduto per Steve, che viene
sbattuto fuori dalla West Wing. Ma il nostro protagonista non si demoralizza perché come
ripeteva sempre Donald Trump tra il divertito e l’annoiato: ‘Steve…è sempre Steve. Ha sempre
un mucchio di idee in testa’.
Ecco, le idee…
Steve Bannon, come abbiamo spiegato nella prima puntata, si è messo in testa di essere
protagonista delle elezioni europee del 2019. È già al lavoro: gli odiati media hanno fatto
trapelare che sta creando una fondazione chiamata The Movement con l’obiettivo di guidare un
populismo europeo che adattando la sua strategia dei tre livelli della politica riesca a essere
vincente. Per esserlo, non deve chiudersi in un cliché, ma pescare il suo elettorato sia a destra
sia a sinistra. Perché una delle intuizioni del populismo vincente è la “trasversalità” delle
opinioni e dei gusti della società moderna.
Ovviamente a un movimento populista serve un nemico. E questo punto la volta scorsa non lo
avevamo analizzato in modo compiuto. Avere un nemico, anche a costo di crearlo è un altro
mantra della Bannon strategy. Nella sponda atlantica nella famosa lavagna che campeggia nel
suo ufficio, un campo con un lungo elenco vergato con la sua scrittura disordinata era dedicato
ai nemici: i Clinton, gli Obama, i media liberal newyorkesi, la ‘palude’ come definiva Washington
D.C. con un suo epiteto acuminato. Contro questi serve un leader guerriero-vendicatore della
middle-class schiacciata dalla perfidia dell’establishment bugiardo e corrotto.
E dov’è un leader alla Trump in Europa? Steve si vede come il ‘pesce pilota’ dei “capi” populisti
europei, da Marine Le Pen e Viktor Orban per arrivare a Matteo Salvini. Ma soprattutto The
Movement si vuole prefigurare come una piattaforma per uniformare attraverso parole chiave
comuni un universo di associazioni sociopolitiche e culturali nel variegato e pulviscolare mondo
degli ‘anti’: anti aborto, anti gay, anti immigrazione, anti euro, anti Europa, ecc. (tutti compagni
di merende di quei no che fanno la decrescita).
Un nemico europeo… Sicuramente il progetto europeo e le sue istituzioni , ma non basta per
costruire uno scontro in vista delle elezioni europee. Seguendo l’approccio schematico, diretto
e disarmante del ‘Bannon thinking’ azzardiamo una semplice equazione:
immigrazione+Soros+Davos+UE uguale Socialisti & Democratici europei.
Del resto è già in atto in Europa un’orchestrazione mediatica di temi e insinuazioni che
mostrano come vivremmo in un tempo angosciante e torbido. Con un violento conflitto tra
globalismo e nazionalismo, tra establishment e classe media dove il detonatore è
l’immigrazione come invasione progettata a tavolino dalle ingerenze dei filantropi alla George
Soros, tutto shakerato con l’ideologia globalista finanziaria dell’ homo Davos per trasformare
l’Europa in un calderone melting pot.
43
Come pensa Bannon di colpire questo nemico? L’elezione di Trump ha dimostrato come il
potere di una base elettorale piccola ma molto impegnata che si trasforma in un blocco di
attivisti digitali riesca a influenzare e inserire nel dibattito politico una nuova generazione di
parole chiave. Tutto si trasforma in un risultato assimilabile all’azione conosciuta nel gergo
militare: “dominio rapido” del campo. I social network come avatar della politica?
E qui ritorniamo alle parole iniziali. Che se non le avete riconosciute vi dico io chi le ha
pronunciate: John Maynard Keynes.
Servono idee forti per contrastare la “bannonite acuta”. Perché allora non sciogliere tutti i
partiti nazionali Socialisti&Democratici e con un congresso fondare un unico partito
organizzato a livello Europeo? Si ripete stancamente e acriticamente la frase che serve l’Europa
politica, dopo quella economica. No. Serve qualcuno che faccia politica e che si contrapponga a
questo attacco. Serve un socialismo democratico europeo coordinato e riorganizzato, sia
culturalmente che operativamente.

3

(Bannon e Dugin? Gemelli diversi, ma non troppo Start Magazine il 5 Agosto 2018. Filippo
Onoranti, blogger di Start Magazine)

L’Europa, come istituzione culturale prima che come organismo politico, assiste all’espansione
(che in un mondo finito è necessariamente anche una aggressione) della coincidentia
oppositorum tra le destre populiste. Qualche giorno fa su Start Magazine Gianni Bessi si
domandava cosa potesse fare l’Europa davanti alle iniziative di “ideologi accaniti”.
Russia e Usa, alimentandosi con strategie avversarie tra loro, si oppongono su piani che
convergono nel fare del liberalismo europeo un limite da superare. Ad un loro avanzamento
non può che corrispondere una equivalente decostruzione delle istituzioni del vecchio mondo.
Come in una manovra a tenaglia procedono da oriente e da occidente mentre gli itinerari di
questa espansione sono delineati rispettivamente Bannon e Dugin. Un dato che sta emergendo
è l’assenza di alternative organizzate ed efficaci a queste manovre culturali.
Sul primo tra i due si è già avuto modo di riflettere; il dinamismo e la brevità pragmatista – tutta
americana – che ne caratterizzano il pensiero aiutano a decifrarne i progetti. Sul versante
opposto, Alexander Dugin è invece un filosofo quasi continentale, che non lascia al caso alcun
dettaglio del suo pensiero ed offre a chi voglia avventurarsi tra le insidiose pieghe del discorso
politico un’analisi spietata sull’avvenire delle istituzioni liberali.
Dugin non va per il sottile e battezza “quarta” la sua teoria politica con un esplicito attacco alle
fondamenta del liberalismo, il quale non può che produrre per il filosofo – degenerando
inesorabilmente – fascismi o comunismi. Come può un acuto intellettuale e profondo
conoscitore della politica e della filosofia che alla politica soggiace, schierarsi apertamente
contro l’architrave dell’occidente: il liberalismo appunto?
Se il fondamento di questa teoria politica è la tutela del diritto umano di libertà, Dugin afferma
che in realtà ne testimoni un solo aspetto: quello negativo, la cosiddetta “libertà-da” definita
per la prima volta dall’empirista inglese Hobbes (nel De Cive) come “quella parte del diritto
naturale che viene rilasciata ai cittadini in quanto non è limitata dalle leggi civili”. Non a caso è
prevista proprio da uno dei più espliciti teorici della dittatura, e Dugin la concepisce come
44
stendardo “del più rigido nihilismo”, poiché lascia uno spazio di possibilità aperto ma vuoto.
Una simile libertà solo esteriore è autoreferenziale al punto da essere resa inefficace dalla
struttura che nasce per tutelarla: gli stati liberali.
Inoltre si caratterizza per una pratica fortemente totalitaria (e dunque contraddittoria). Si è
infatti “liberi di essere liberali”, ma qualsiasi alternativa viene demonizzata; così come negli
stati totalitari si difende la libertà di essere filo-regnanti, mentre si accusano di tradimento tutte
le forme di opposizione (che sono invece la struttura portante della democrazia autentica). La
sua teoria politica è “quarta” nel senso che mira a trascendere le forme precedenti tutte
equivalentemente inclini al totalitarismo (fascismo, comunismo e liberalismo) raccogliendo la
sfida del mondo “multipolare”. Il rifiuto delle visioni inclini all’omogeneizzazione o
all’annullamento della differenza, si fonda su un’autentica esigenza (ed evidenza)
antropologica: la molteplicità delle culture e l’impossibilità di stabilire una gerarchia tra queste.
“L’eurasiatismo è una descrizione sistematica di un mondo futuro, alternativo al mondo
unipolare globale”.
Così la quarta teoria politica appare come un insegnamento sulla libertà che si confronta con la
“versione razzista” di un globalismo totalitario incarnato nell’egemonia dell’occidente. Una
conseguenza del liberalismo – osservato ante litteram anche da Hegel nel passaggio dalla
famiglia alla società civile – è la distruzione di qualsivoglia forma di identità collettiva, a
vantaggio di una “transumanizzazione” nata dall’annullamento (dall’alto e per questo con
modalità totalitarie) delle differenze.
Dugin sceglie di incamminarsi lungo questo sentiero individuando in esso un percorso
inesorabile: l’istanza umana che il liberalismo distrugge è il bisogno di identità collettiva, il
sentirsi parte-di. L’uomo è un animale sociale – diceva già Aristotele – e il liberalismo letto da
Dugin uccide la socialità proprio in nome della libertà di essere tutti ugualmente indifferenti. Il
drammatico successo dei totalitarismi nasce proprio dal saper soddisfare questo bisogno di
identità, questo desiderio – umano, troppo umano – di appartenenza e di riconoscimento.
Questo istinto non può essere eliminato negandolo, costituisce infatti una parte integrante della
nostra umanità e muta per strisciare fuori dal nostro inconscio collettivo nelle forme più
impensabili – e talvolta perniciose – come il Novecento ha tristemente insegnato (o forse non a
sufficienza?).
La visione globale fa sentire tutti al centro di un universo tristemente vuoto. Siamo così liberi
da non sentirci liberi di fare nulla ed andiamo alla ricerca di alternative a quei confini che tanto
faticosamente abbiamo eliminato invece di comprendere. Maurizio Ferraris nelle sue lezioni
su Kant ricorda l’esempio del filosofo di Konisberg sulla colomba, che sente l’opposizione
dell’aria e dunque fatica a sbattere le ali, eppure senza questa resistenza non potrebbe levarsi
in volo. Così il liberalismo per Dugin ci inserisce in un ambiente vuoto, al punto da non
consentirci di diventare noi stessi e rendendo così più desiderabili di una libertà ineffabile,
catene ordinate e rassicuranti.


45
IX trilogia
Un tubo si aggira per l’Europa

1

(Tap, gli Usa e la Russia. Fatti e scenari Start Magazine 3 agosto 2018)

Le dichiarazioni del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel corso della sua visita ufficiale
di lunedì 30 negli Stati Uniti rappresentano uno dei momenti più alti nell’italica arte politica
dell’equilibrismo. Questa volta la protagonista di tale ingegnosità è la materia energetica.
Fin da quando alla fine del 2013 il Consorzio conosciuto con l’acronimo inglese di Tap, Trans-
Adriatic Pipeline, nato per realizzare il gasdotto di 4000 Km che dovrebbe collegare via terra
l’Azerbaijan all’Italia, ha dato il via libera ai lavori, il progetto ha suscitato una notevole
opposizione di comitati più o meno spontanei (NO Tap) nella zona di atterraggio in Italia presso
Melendugno (Lecce). Il gruppo Tap ha conseguito i necessari permessi da parte dell’allora
governo centrale per costruire le sezioni italiane del progetto e non sono mai apparsi
preoccupati per le crescenti tensioni sul territorio. Inoltre, nel corso dell’ultimo anno, Snam,
azienda che sul trading e la distribuzione di gas può vantare qualche esperienza, è diventata un
azionista del 20 per cento in Tap nel dicembre 2015, ed ha svolto un ruolo sempre più
prominente nell’organizzazione del settore italiano del progetto, forte delle proprie analisi che
prevedono un progressivo aumento del 22% nel consumo di gas da qui al 2030.
La chiara opposizione pre-elettorale alla questione Tap, insieme al Referendum Notriv del
2016, è tra i fattori caratterizzanti del risultato ottenuto in Puglia dal Movimento Cinque Stelle
alle ultime elezioni, dove ha conquistato tutti i 24 seggi uninominali. La Lega apparentemente
si disinteressa della questione, lasciando che sia il partner di governo a mettere la faccia in
materia nei primi passi del nuovo governo giallo verde blu (nda giuramento Governo Conte 1
giugno scorso).
Martedì 12 giugno è la data che segna, a parere unanime del network House of Gas, l’inizio delle
prime vere preoccupazioni in seno al Consorzio Tap. Mentre i pezzi critici del gasdotto sono già
posati, tra cui quasi tutte le sezioni di 765 km onshore in Grecia e in Albania, il collegamento
all’Italia ed ai principali clienti appare ancora una grossa incognita. In particolare, la posa della
condotta sottomarina, 105km dall’Albania all’Italia, deve ancora essere iniziata. Per quanto
alcuni lavori preparatori siano stati effettuati per il micro-tunnel sulla riva italiana destinato a
veicolare il gas per cinque-a-sei km sotto la spiaggia fino al Terminale di ricevimento a San Foca,
il progetto riceve diverse dichiarazioni di contrarietà da parte di autorevoli rappresentanti
della nuova coalizione di governo.
Tuttavia, il tempo della pausa e delle dichiarazioni è giunta al termine ed il Progetto Tap è ora
in forte pericolo, qualora il governo italiano decida di mantenere, come sembra, gli impegni pre-
elettorali revocando le licenze esistenti o trovando qualche altro modo per fermare le
operazioni in Italia o in acque italiane. La retorica di Roma minaccia di minare gli ingenti
investimenti già portati a termine, senza che possa essere identificato un piano B. Se non vi è
alcuna connessione in Italia, il destino di miliardi di dollari di contratti garantiti dalla
compagnia petrolifera statale della Repubblica Azerbaijan (Socar) per le vendite di gas a lungo
termine per i clienti europei sarebbe in pericolo, aprendo nel caso la strada a contenziosi
pecuniari per ottenere gli alti indennizzi da parte di Roma.
46
Peccato per il nostro governo che Donald Trump si sia sempre mostrato favorevole alla
costruzione al Tap (per il semplice fatto che l’Azerbaijan non soltanto è un produttore di gas
ma è anche uno dei pochi stati della regione con cui l’America intrattiene un rapporto molto
amichevole ed in posizione strategica alle porte dell’Iran) e che Vladimir Putin non vi si sia mai
mostrato ostile; entrambi i Paesi sono referenti importanti per un governo in cerca di un ruolo
e di una visibilità internazionale. Nel corso dell’incontro di Washington di lunedì scorso il Potus
tra tanti sorrisi ha ricordato al premier italiano quali siano i nostri (pochi) diritti e (tanti)
doveri.
A questo punto Giuseppe Conte, mostrando una coerenza di cui gli elettori della coalizione che
rappresenta potranno andare fieri, definisce repentinamente il Tap, «un’opera strategica per
l’approvvigionamento dell’Italia e del sud Europa», rinnegando dichiarazioni totalmente
avverse alla realizzazione dell’opera sia in campagna elettorale che nei suoi primi mesi di
governo. Entrato alla Casa Bianca con i timori del caso non ha saputo negare nulla al
cordialissimo anfitrione che, nel tentativo di gettare sabbia nella potente macchina economica
franco-germanica si è sperticato in vacui elogi dell’Italia e del suo “my friend” Giuseppe, forte
della convinzione che a un nuovo amico non si nega alcun piacere. Tanta lusinga ha fatto breccia
nel nostro premier che in men che non si dica ha trasformato in pochi giorni un’opera “inutile,
poiché la domanda di gas è in calo” (cit. Ministro Ambiente Costa) in una indispensabile per gli
sviluppi del Sud Europa. Washington vede con molto favore la continuazione dei lavori per
ultimare l’opera nei tempi previsti e chiede al governo Conte-Di Maio-Salvini il rispetto del
progetto, offrendo in cambio favori geopolitici (forse in Libia?).
Cosa c’entra la Lega in tutto questo se non di riflesso? C’entra eccome, poiché il South Gas
Corridor (SGC), di cui Tap fa parte, è destinato a permettere che il gas del Caspio acceda ai
mercati europei. Tuttavia l’Azerbaijan può essere considerato come fornitore affidabile solo per
una quota iniziale di 6 miliardi metri cubi (BCM) di gas l’anno per consegna alla Turchia e 10
BCM all’anno per i Clienti europei. Né l’Azerbaigian, né qualsiasi altro produttore di gas, al di
fuori della Russia, è in grado di fornire gas per colmare il raddoppio previsto della capacità SGC.
Ciò ha spinto Gazprom, seppur con attenzione e occasionalmente, a far balenare l’idea che
potrebbe essere interessata a usare il sistema del SGC per spedire il gas russo all’Europa
attraverso un collegamento tra il suo attuale progetto di gasdotto turco (TurkStream) e il
sistema Tap già destinati ad intersecarsi nella stazione di Kiyikoy (località balneare sul Mar
Nero nella parte europea turca).
Questo porta ad un pensiero finale intrigante. La capacità del gasdotto più alta della capacità di
esportazione dell’Azerbaijan, offre alla Russia un modo per raggiungere i mercati dell’Europa
occidentale in barba a tutti i veti UE senza dover spendere miliardi di dollari per costruire i
propri gasdotti per connettere il TurkStream ai principali hub del mercato come l’Italia o
l’Austria. Questo ragionamento — e opportunità —spingerebbe la Russia, alla bisogna, a
chiedere supporto all’altro importante elemento del governo di coalizione italiano, la Lega con
la quale ha sviluppato relazioni amichevoli negli ultimi anni.
Visto, come ci ricorda il network House of Zar, lo ‘storico’ accordo della Lega con Russia Unita
dove Salvini si impegna a ‘facilitare’ la cooperazione tra Federazione Russa e la Repubblica
Italiana.
E agli amici, si sa, non si nega mai niente.

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2

(A che punto è il Turk Stream? Start Magazine 10 agosto 2018)

Il morboso interesse tedesco per il raddoppio del gasdotto NordStream che attraversa il Mar
Baltico ha ridato fiato alle aspirazioni della Bulgaria di sviluppare un hub regionale di gas con
l’aiuto russo. Negli ultimi dieci anni, la Bulgaria ha pagato, a causa degli incrementi delle royalty
verso i paesi di transito, in media tra il 20 e il 30 per cento in più rispetto alla Germania per la
fornitura del gas russo.
La Bulgaria è il Paese dell’Europa centrale e orientale culturalmente più vulnerabile a ingerenza
russa per motivi storici e linguistici. Nell’ultimo periodo per amplificare la propria influenza, la
Russia ha schierato una gamma di strumenti soft power, come il sostegno ai partiti politici e la
propaganda mediatica, sfruttando i deficit di governance per esercitare una pressione
geopolitica atta a raggiungere i propri obiettivi strategici nella regione.
La prima linea di TurkStream è completata e destinata a soddisfare le necessità del mercato
turco, la seconda linea sarà terminata entro novembre ed è, nelle intenzioni, destinata a
collegarsi con il South Gas Corridor in direzione Italia.
A cosa potrebbero servire, eventualmente la terza e quarta linea? E verso quale approdo
sarebbero destinate?
Il Primo ministro bulgaro Boyko Borisov ha timidamente riproposto a Putin, nel giugno scorso,
l’idea di costruire un hub del gas balcanico nei pressi della città di Varna, come originariamente
in programma fino alla cancellazione del progetto SouthStream nel dicembre 2014. Borisov
aveva sperato che la Commissione Europea e Gazprom giungessero, alla fine, ad un accordo
sulla conformità del progetto alle leggi dell’UE e che la Bulgaria diventasse un importante paese
di transito per il gas naturale russo beneficiando così delle promesse di Mosca di prezzi bassi,
grandi investimenti (vedi la mai terminata centrale nucleare di Belene il cui progetto il terzo
gabinetto di Borissov si sta preparando a rilanciare dopo aver presentato una mozione in
Parlamento per revocare la moratoria 2012 sulla costruzione dell’impianto) e creazione di
nuovi posti di lavoro.
La maggior parte del progetto Hub prevede la modernizzazione delle infrastrutture di gas
esistenti e la costruzione di un nuovo gasdotto lungo il medesimo percorso di SouthStream. Al
fine di approvarne il progetto, la Commissione Europea ha però stabilito che la Bulgaria divenga
un commerciante di gas e non funga da paese di mero transito verso clienti, garantendo almeno
tre diverse fonti di approvvigionamento di gas naturale per il potenziale Balkan gas Hub (nda
fonte del 27 giugno).
Sofia quindi per aggirare i veti di Bruxelles sta spingendo su Gazprom nel tentativo di ottenere
un accordo fotocopia di quello tedesco per garantirsi la realizzazione di due nuove linee di gas
nel caso in cui la tenacia della cancelliera Merkel porti al via libera autorizzativo per il NS2. In
questo caso cadrebbero analogamente anche le pretestuose condizioni ostative del 2014 e
potrebbe essere riproposto il percorso originario, con un ramo offshore del gasdotto già
attualmente in fase di realizzazione, attraverso il Mar Nero tra Russia e Turchia. Il governo
bulgaro ha timidamente iniziato i sondaggi con la Russia sul potenziale della riproposta di
SouthStream nel 2017, come la denominazione di TurkStream Advanced.

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Tra le opzioni, la più caldeggiata è la realizzazione della terza e quarta linea offshore di
TurkStream che dovrebbero deviare nel Mar Nero a NO al Km 730 in direzione Varna (percorso
già ingegnerizzato come SS), località in cui verrebbe costruito un grande impianto di stoccaggio
e pompaggio del gas.
Sulla possibilità di rinascita di SouthStream, Putin ha detto che “la Russia è pronta per la nuova
rotta”. Ha dichiarato inoltre che il potenziale passaggio di TurkStream II attraverso la Bulgaria
è già stato discusso con la benedizione del presidente turco Erdogan.
Opzioni alternative per l’esportazione del gas russo in Europa potrebbero contemplare
l’utilizzo della capacità di altri gasdotti. Ma nessuna di queste scelte sarebbe vantaggiosa per la
Bulgaria.
Gazprom ha già indicato di volere approfittare della direttiva UE sul gas riservando capacità per
i fornitori di gas di terze parti in tutti i gasdotti europei.
Tuttavia, la capacità iniziale del TAP di 10 BCM è esentata dal regolamento UE per 25 anni; e
quando sarà ampliato a 20 miliardi di BCM in futuro, solo la metà saranno disponibili per i
fornitori alternativi.
Questo rende l’opzione bulgara più valida per Gazprom soprattutto perché il governo bulgaro,
memore dell’occasione perduta con SouthStream Pipeline, è ansioso di avere una seconda
chance di negoziare la materia con l’UE e soddisfare al contempo le richieste di Mosca.
I risultati preliminari di questa analisi da parte di EU Consult sono stati presentati a Bruxelles
nel giugno scorso. La relazione sostiene che 11 paesi sono concretamente interessati allo
sviluppo di un hub di gas balcanico.
Le forniture di gas proverrebbero da tre fonti: Russia, Azerbaigian (via interconnecting turco)
e da piccoli quantitativi di produzione locale di gas in off shore bulgaro e rumeno.
Affinché le tessere del puzzle si combinino nel progetto di metanizzazione dei Balcani, il
gasdotto attraverso il quale il gas russo raggiungerà i consumatori europei prevede la
costruzione da parte di “Gastrans”, ex “SouthStream d.o.o.” proprietà mista russo-serba,
l’attraversamento della Serbia seguendo il percorso originariamente previsto per il gasdotto
SouthStream con l’ingresso in Serbia a Zaječar.
Per gli amanti delle coincidenze la capacità di tale gasdotto sarebbe di 15,75 miliardi di metri
cubi l’anno (la capacità di un unico linea di “TurkStream” è di 15,75 miliardi di metri cubi di gas
l’anno…) ed il relativo studio di fattibilità, per valutare la possibilità effettiva per una sezione
lunga 421 chilometri partendo dal confine bulgaro fino al confine con l’Ungheria, è stato appena
assegnato da Gazprom alla nostra Saipem (probabilmente anche per tentare di mitigare il
contenzioso che ancora le vede contrapposte per la risoluzione del contratto SouthStream a fine
2014).
È previsto dalla Serbia il collegamento per la Croazia mediante un LEG gasdotto di 52 chilometri
e per la Republika B&H. di 105. Nel frattempo i bulgari stanno negoziando per costruire una
LEG verso la Macedonia. I russi, ovviamente, ora sono cauti e non vogliono che queste capacità
di trasporto del gas si presentino come loro gasdotti sui territori stranieri, per non
contravvenire alle direttive UE.
A tal fine il 51% delle società che gestiranno le attività finalizzate alla costruzione e trasporto
del gas saranno di proprietà di compagnie nazionali, magari con un sistema di finanziamento
come quello della partecipata Gastrans d.o.o.

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Finora la Bulgaria ha un contratto con il Consorzio Shah Deniz per la consegna di solo 1 BCM di
gas azero. Questo volume può crescere in futuro ma è improbabile che raggiunga 15 BCM per
far corrispondere le quantità di gas naturale russo che Sofia sta negoziando con Gazprom.
Quindi, le linee di gas della Bulgaria dovranno essere alimentate con gas russo.
Risulterebbe di fatto impossibile per la Commissione EU opporsi alla richiesta bulgara di un
hub regionale di gas qualora Gazprom risulti autorizzata a costruire il gasdotto NordStream 2.
L’indecisione dell’Unione Europea in merito all’espansione del NordStream nel Baltico sta
fissando un precedente che quasi inevitabilmente sarà seguito sul Mar Nero. Ma del
NordStream il network di House of Zar se ne occuperà nella prossima puntata.

3

(Nord Stream 2, come la Russia aggira l’Ucraina Start Magazine 12 agosto 2018)

La battaglia su NordStream 2 che consentirebbe a Gazprom di aggirare l’Ucraina, la Bielorussia
e la Polonia nel trasporto di gas in Occidente portandolo direttamente in Germania senza
utilizzare i gasdotti ucraini è incentrata su come ottenere l’approvazione dei governi per il
transito nelle loro acque territoriali e dell’Unione Europea per il progetto complessivo.
Nonostante le recenti decisioni, prima della Finlandia e poi della Svezia, per consentire al
gasdotto NordStream 2 di utilizzare le loro zone economiche esclusive, il progetto è ancora in
discussione.
All’amministrazione Trump che sta lottando con le unghie e con i denti per fermare il progetto
NS2, i tedeschi rispondono che il NS2 è nel loro interesse nazionale e non recederanno.
Concedono dalla Germania per l’export delle gasiere a stelle strisce la possibilità di sviluppare
un terminale di medie dimensioni nella regione di Amburgo. Basterà a calmare The Donald.
Appare chiaro come dietro la richiesta di Trump ad Angela Merkel di rinunciare a NordStream
2 ci siano ragioni solo commerciali (venderle il proprio gas, che secondo i tedeschi costa il 20
per cento in più di quello russo, per fare degli USA i maggiori produttori di shale gas). Come
appare altrettanto evidente che avendo Berlino già assunto la decisione politica di uscire dal
nucleare e dal carbone, che oggi ancora contribuiscono in larga misura al suo fabbisogno, veda
nel gas russo la sola opzione per mantenere il primato economico in Europa.
Lo scorso 27 marzo, nel pieno della crisi Skripal, Berlino ha dato il suo via libera definitivo al
NordStream 2. Gli Stati Uniti, su tutte le furie, hanno, quindi, introdotto un nuovo fattore critico
nell’equazione NS2.
Il Congresso americano ha approvato sanzioni più severe nei confronti di un elenco di
personaggi riconducibili al cerchio di Putin iper la loro implicita associazione con le politiche
aggressive del Presidente russo.
L’elenco è stato compilato a gennaio e utilizzato come base per sanzioni iniziali il 6 aprile
comprese quelle contro i tycoon Oleg Deripaska (Basic Elements) e Viktor Vekselberg (Renova);
un colpo di avvertimento snervante per l’elite finanziaria di Mosca che stava trattando, tramite
il gruppo Alfa Bank dei fidi Mikhail Maratovich Fridman e Petr Olegovich Aven, l’acquisto di
Wintershall allo scopo di garantire i necessari finanziamenti non russi al progetto NS2.
Il partito socialdemocratico e le imprese tedesche interessate lo sostengono con sempre
maggior forza – Cancelliera Merkel in testa (Unione Cristiano Democratica) e sfacciatamente a
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favore. Come testimonia la visita di Angela a Sochi da Zar Vlad appena insediato al IV mandato
di Presidente di tutte le Russie.
I sostenitori di NS2, tra cui la Francia macroniana, hanno dichiarato le minacce americane
inaccettabili poiché intendono imporre restrizioni alle loro attività economiche.
Il cancelliere riconosce che dopo aver dovuto difendere le sanzioni contro la Russia aveva
bisogno di offrire qualcosa di concreto agli ‘junker’ dell’industria energetica. Esce così allo
scoperto per quella che diviene la sua ultima crociata personale, volta a saldare i pegni per il
supporto ricevuto nel corso dei suoi mandati dal Partito Socialdemocratico di quel Gerhard
Schroeder che prima di lasciare il suo incarico approvò il NordStream I per poi finirne subito
dopo al vertice.
Preoccupazioni in materia vengono espresse non solo da Washington ma anche da molti
partner europei e da Bruxelles, dalla Commissione e dallo stesso presidente del Consiglio UE,
Tusk, (“il gasdotto è contro i nostri interessi strategici, la nostra sicurezza e le nostre regole”),
a cui però finora Berlino è rimasta totalmente sorda.
Gli sforzi della Germania a sostegno NS2 risultano scarsamente popolari in Europa.
I fautori della conduttura non hanno potuto stabilire una posizione unificata dell’UE contro le
sanzioni perché ci sono Paesi nell’Unione Europea che gradirebbe sanzioni più rigide mentre
altri si oppongono al progetto.
Alcuni, come la Polonia e gli Stati baltici, si oppongono perché lo riconoscono come un progetto
geopolitico volto a rendere più facile per Mosca perseguire politiche provocatorie nell’Europa
orientale. Altri, come l’Italia che è stata morbida sulle sanzioni anche prima del nuovo governo,
non sostengono NordStream 2 perché preferirebbero vedere un gasdotto dalla Russia nel
Mediterraneo (vedi prima puntata “Tap, gli Usa e la Russia. Fatti e scenari”).
NordStream 2 affronta anche l’opposizione della Commissione Europea che vorrebbe vedere
l’attuazione di una politica energetica comune dell’UE coerente con la terza carta dell’energia.
Gli oppositori notano le peculiarità della posizione tedesca: mentre Berlino da un lato insiste
sui paesi dell’UE affinché ne rispettino i dettami, dall’altro spinge unilateralmente per la
realizzazione del NordStream 2 giustificandone l’utilità con artifizi e cavilli.
Il Presidente Putin, tra le tante mosse nella sua personalissima scacchiera, intende usare NS2
per consolidare la propria supremazia di fornitore e premiare gli oligarchi colpiti dalle sanzioni
occidentali.
Rapporti in argomento indicano che Arkady Rotenberg (Stoygazmontazh) e Gennady
Timchenko (Volga Group), collaboratori di lunga data del Presidente russo, seppur oggetto di
sanzioni, saranno tra i principali costruttori del pipeline.
Soluzione? Qualche escamotage si troverà. Le divisioni in seno alla UE si manifestano nella
ostinata volontà di privilegiare interessi nazionali a fronte di quelli comunitari.
I nodi energetici dell’Europa sono determinati solo ad assicurarsi vantaggi economici in una
area geografica le cui divisioni la rendono non più “core” per l’America: gli squilibri esistenti in
Europa non sono, infatti, più sostenibili in una nuova fase geopolitica che vede il focus strategico
degli Stati Uniti spostarsi sempre più verso l’Asia per contrastare il vero player del XXI secolo:
la Cina.

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Breaking news da Copenhagen e Berlino

Passaggio a nord est per il gas russo

(Il gasdotto Russia-Germania sembra cercare nuove acque. Breaking news da
Copenaghen Start Magazine 14 Agosto 2018)

C’è del marcio in Danimarca… O forse, stavolta, è solo odore di gas. Se gli altri Paesi della regione
del Baltico – Svezia, Finlandia e Germania – all’inizio di quest’anno hanno rilasciato i permessi
di passaggio per NordStream 2, come abbiamo visto, nella terra della regina Margherita II gli
scenari sono vaghi.
In questo agosto dove un’insolita siccità ha ingiallito Copenaghen – ma a dir la verità tutta la
Scandinavia – il Parlamento danese sembra aver puntato i piedi sul permesso di passaggio del
gasdotto NordStream 2 nelle acque territoriali a est dell’isola di Bornholm.
Come risposta, la società con sede a Zugo in Svizzera ma con maggioranza Gazprom che gestisce
il progetto del gasdotto, il quale pomperebbe gas naturale russo in Germania passando per il
Mar Baltico, venerdì 10 agosto, pur confermando che il percorso attraverso le acque danesi
«rimarrà la rotta preferita», ha presentato una rotta alternativa che le aggirerebbe. Dichiarando
per giunta di esserci stata costretta perché la raccomandazione del ministero degli esteri
danese «è in sospeso da gennaio».
Il percorso alternativo passerebbe comunque attraverso quella che viene chiamata la zona
economica esclusiva della Danimarca: ma ciò non richiederebbe, un voto parlamentare, ma
solamente un’approvazione da parte dell’Agenzia danese per l’energia. La quale attraverso il
suo vice capo Janni Torp Kjaergaard ha dichiarato di aver ricevuto la domanda e l’elaborazione
potrebbe richiedere un anno.
Una situazione di stallo, che si verifica mentre la grande nave Pioneering Spirit ha già registrato
nel suo diario di bordo la rotta che il prossimo novembre la trasferirà, una volta completato il
TurkStream, dal Mar Nero al Mar Baltico per iniziare a posare i tubi marchiati NS2.
Gli amici di House of Gas, mentre dai loro uffici osservano le pale eoliche del Baltico girare
velocemente, ci ricordano che nel 2017 il parlamento danese aveva adottato un testo che
consentiva alla Danimarca di rifiutare l’hosting di NordStream 2 per motivi di sicurezza. Su
questo punto i danesi hanno chiesto aiuto all’Unione europea, sperando che si potesse trovare
una risposta all’interno del quadro dell’UE. Eppure siamo sicuri che in Danimarca, grazie
all’etica protestante e allo spirito del capitalismo, si troverà una soluzione pratica.

2

(Perché Trump borbotta per la saldatura fra Germania e Russia su Nord Stream 2 e non
solo Start Magazine 20 Agosto 2018)

Non ha riservato novità clamorose il summit di sabato fra Angela Merkel e il presidente russo
Putin. Una delle poche cose certe è che la cancelliera ha compreso ogni parola pronunciata dal
suo ospite e senza dovere ricorrere all’interprete, grazie al tedesco fluente esibito ancora una
volta da Vladimir, frutto della sua lunga permanenza in Germania come agente del Kbg.
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La sede scelta per l’ennesimo incontro tra i due leader è caduta sul castello di Meseberg,
l’accogliente guesthouse del governo federale tedesco situata appena fuori Berlino: a differenza
dell’incontro del maggio scorso a Sochi questa volta non c’è stato bisogno di immaginare
d’essere una mosca sul muro della stanza dove i due potenti si sono incontrati, perché House of
gas si trovava già nella bellissima capitale dell’Unione Europea…pardon della Germania, per
una vacanza nella quale respirare aria di modernità e incontrare gli amici berlinesi.
Come previsto, gli argomenti di cui Merkel e Putin hanno parlato si sono rivelati abbastanza
“spremuti”, come confermano le voci di corridoio del Bundestag e le dichiarazioni diplomatiche
di circostanza al termine del vertice. Merkel ha confermato l’importanza del gasdotto
NordStream 2 che una volta completato permetterebbe di raddoppiare il flusso di gas che già
viene pompato direttamente dalla Russia alla Germania attraverso NordStream 1. Ed è già in
programma l’inizio della posa dei tubi nel Mar Baltico da parte della nave Pioneering Spirit della
società svizzero-olandese Allseas. Le questioni ancora aperte che riguardano il suo passaggio
nelle acque danesi le risolverà la diplomazia politico, economica e commerciale tedesca grazie
alla comune “etica protestante” e definendo un accordo coerente con “lo spirito del
capitalismo”.
Dal canto suo Putin ha voluto precisare che il NordStream 2 è un progetto esclusivamente
economico strutturato per ridurre al minimo il rischio di transito delle crescenti esigenze di oro
azzurro della Germania. Non c’entra la politica, quindi, né il problema Ucraina: e non si esclude
di continuare a trasferire il gas usando la pipeline che ne attraversa il territorio.
Filtra poco sui temi critici come l’ipotesi di Putin per un referendum popolare nella regione
ucraina del Donbass o il ruolo delle aziende tedesche nella ricostruzione della Siria.
Cosa rimane da raccontare, quindi? La storia del rapporto tra “das Mädchen” e “Zar Vlad”, che
si è consolidato durante i lunghi anni dei tre mandati del cancelliere e dei quattro del presidente
russo. Il loro rapporto, nonostante la freddezza delle dichiarazioni e consapevoli dell’azzardo,
comincia a ricordare quello franco-tedesco tra il Cancelliere Helmut Kohl e il Presidente
François Mitterrand, nella fase storica della caduta del muro di Berlino e della costruzione della
nuova Europa. O una riedizione dell’Ostpolitik del cancelliere dell’allora Germania ovest Willy
Brandt.
La relazione che non avrà la stessa intensità emotiva sprigionata negli incontri tra “Birne” e “le
Fiorentin” immortalata nell’epica foto dei due statisti mano nella mano durante la Marsigliese
a Verdun; piuttosto il “dialogo permanente” fra i leader di Mosca e Berlino sui “legami
commerciali bilaterali” o sui “grandi progetti commerciali internazionali”, fa pensare che sia in
essere un piano per favorire la saldatura economica euroasiatica con Germania e Russia come
perni. In parole povere, la pianificazione della “GeRussia”; visione geopolitica ben descritta dal
libro di Salvatore Santangelo.
Forse è questo che preoccupa gli Stati Uniti di Donald Trump? Durante l’incontro Nato a
Bruxelles il presidente americano aveva commentato l’incontro definendo la Germania
«totalmente controllata dalla Russia». Rimarcando successivamente come non fosse affatto
sicuro che «l’ampliamento del gasdotto NordStream sia nell’interesse della Germania». La
pianificazione di un nuovo soggetto politico preoccupa la Casa Bianca: non fosse altro perché,
come insegna un gigante della storia quale Winston Churchill, il cui busto The Donald ha
ricollocato nello studio Ovale, in politica o in guerra, la pianificazione è tutto».

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X trilogia
Un autunno caldo… africano

1

(Libia, Italia, Eni e le mosse di Lega e Movimento 5 Stelle Start Magazine 7 Settembre 2018)

Il rapporto fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio, oggi improntato a un agitato compromesso –
ognuno continua a lanciare proclami coerenti con il proprio programma, poi si legifera
insieme… – potrebbe trovare il primo vero ostacolo nel modo in cui si gestirà politicamente,
anzi geopoliticamente, la situazione in Libia. E per il momento è il leader leghista che pare
giocarsela meglio, dimostrando che l’apprendistato alla corte del Senatur è servito così come
forse qualche consiglio di Berlusconi (o del suo sistema di relazioni).
Per cercare di interpretare come Salvini potrebbe muoversi per rubare tutta la scena al
compagno di governo, o meglio costruirsi la statura da leader internazionale, bisogna prima
citare un antefatto riguardante la presenza di Eni nella nazione nordafricana.
Quando sono iniziati i combattimenti Federpetroli ha comunicato che le compagnie oil&gas
operanti in Libia avrebbero abbandonato gli impianti, perché venivano a mancare i requisiti
minimi di sicurezza. In realtà non c’era la certezza che il governo guidato da Faez al Serraj
potesse durare a lungo sotto i colpi delle milizie nemiche. È a questo punto che Matteo Salvini,
dopo avere accusato la Francia di essere la causa della destabilizzazione della Libia, ha
confermato di seguire con particolare attenzione la situazione e che si sta procedendo per
l’organizzazione a novembre della Conferenza sulla Libia.
In pratica, il leader leghista ha sposato la linea dell’Unione europea – o meglio dei popolari
europei – e quindi della cancelliera Merkel: un segnale che la Lega si sta preparando a compiere
un salto di qualità politico?
Non è una novità che la politica europea stia piegando sempre più verso destra e che anche Frau
Angela sta portando la Cdu su posizioni più simili a quelle dei cugini bavaresi. Non ultimo si
nota la candidatura a dopo Jean-Claude Juncker del tedesco popolare Manfred Weber.
Quale potrebbe essere la mossa geopolitica che ha in mente Salvini? Magari trasformare la Lega
in un partito meno “isolato” dai grandi network politici mondiali e più vicino alle posizioni dei
partiti popolari europei, dei quali il più importante è appunto la Cdu di Angela Merkel. Così
facendo potrebbe costruire infine quel ‘partito della nazione’ che da un po’ di tempo a questa
parte è nei sogni di molti leader nazionali (citofonare Matteo Renzi) e conquistare quella
“statura” e “copertura” internazionale necessaria a diventare primo ministro.
Il cammino ovviamente non è in discesa. La Lega dovrà smarcarsi dal movimentismo dei
Cinquestelle, che sono pur sempre ancora i compagni di governo (ma per quanto?). Salvini
qualche segnale ha già cominciato a mandarlo, sostenendo l’utilità di costruire il gasdotto Tap
e appunto impegnandosi per risolvere la questione libica. Nella quale, ovviamente, l’Italia può
giocare una carta importante, cioè la presenza di uno dei due unici protagonisti geopolitici
riconosciuti a livello internazionale: l’Eni. L’altro protagonista è il Vaticano ma qui si apre un
altro file.

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Ci dobbiamo aspettare una Lega più “moderata”, sempre con il vessillo della lotta
all’immigrazione ben in vista ma che gioca su uno scacchiere più ampio di relazioni per puntare
su politiche di respirò internazionale. Fantapolitica? L’impressione è che lo scopriremo a breve.

2


(La minaccia dello scisma della Chiesa ortodossa di Kiev e gli scenari geopolitici ed
economici Start Magazine 21 settembre 2018)

“Il romanzo degli gnomi” con sottotitolo: I protagonisti della finanza italiana e internazionale di
Giancarlo Galli già negli anni ’80 la tocca piano sentenziando che nella penisola a forma di
stivale ci sono solo due “Enti” geopolitici con capacità relazionale di livello mondiale: l’Eni e il
Vaticano.
La battuta non pare aver perso quanto ad attualità e chissà se potrebbe servire – come un
consiglio non richiesto – all’attuale governo per districarsi nel ginepraio della
contemporaneità?
Del ruolo centrale di Eni come centro di gravità geopolitica e geoeconomica, il triunvirato
Conte-Di Maio-Salvini ha preso coscienza come testimoniano le manovre nell’area libica e
nordafricana; chi andando in Egitto, chi accusando la Francia di ingerenza e chi comprendendo
l’importanza dell’organizzazione a novembre della Conferenza sulla Libia.
Dalla finestra di House of gas tali segnali sono stati ben visibili, sia in relazione al confine
meridionale europeo che è il Mediterraneo che, più a est, da dove ancora investono l’Europa:
cioè noi.
Dall’est soffia la minaccia dello scisma della Chiesa ortodossa di Kiev con la possibile autocefalia
della Chiesa ortodossa ucraina ovvero con la richiesta di una chiesa nazionale indipendente dal
Patriarcato di Mosca.
Lasciamo ai teologi le possibili conseguenze religiose e agli storici le dispute sulla
primogenitura millenaria del cristianesimo nella Rus’ di Kiev.
Sottolineiamo che si tratta un problema politico, anzi geopolitico, e per intenderci un evento
culturale da far sembrare la Brexit una scaramuccia.
È sicuramente facile immaginare le conseguenze di come la rivalità tra il Patriarca di Kiev
Filaret con il Patriarca di Mosca, l’apocalittico Kirill e il ruolo di Bortolomeo Patriarca di
Costantinopoli (Istanbul) si intreccia nelle relazioni tra Ucraina e Russia; e a maggior ragione
vista la situazione esplosiva del confitto nel Donbass con i suoi più di 100 mila morti.
Al calderone vanno aggiunto le richieste di Putin presentate in diverse occasioni – come filtra
anche dal recente incontro con la Merkel al Castello di Maseberg – di un possibile referendum
in tale regione.
La posizione del presidente ucraino Petro Porošenko è diversa sul Donbass e anzi
l’indipendenza della chiesa ortodossa ucraina è ben vista anche in coincidenza delle imminenti
elezioni presidenziali.
Siamo placidamente accomodati su una polveriera che lontano dai riflettori e dai media sembra
pronta a scatenarsi con i soliti ingredienti di nazionalismo, incerti confini, dispute energetiche,

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scismi religiosi e antichi spettri del passato? E se tutto precipitasse alla vigilia delle elezioni
europee? E come si comporterebbe al dunque il sedicente Governo del cambiamento?
In questo caso potrebbe tornare utile l’altro “Ente” geopolitico per eccellenza citato ne ‘Il
romanzo degli gnomi” della penisola italica.
Siamo sicuri che la conoscenza (e la preoccupazione) della situazione sia grande al Vaticano,
dove i Nunzi apostolici, le sue Chiese e Monasteri hanno antenne ancora pronte e ricettive per
un quadro aggiornato della condizione di qua e di là del fiume Dnepr…e qualche utile consiglio
da fornire.
Anche in vista della visita del presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Mosca da Vladimir
Putin il 24 ottobre.


3

(Venti di guerra spirano da Russia e Ucraina Start Magazine.it 20 ottobre 2018)

Nell’anno Domini 2018 l’Europa Unita sussulta ad ogni elezione nazionale o regionale, tra dubbi
sulla sua missione unitaria ed echi dei più drammatici nazionalismi.
Come in ogni crisi che si rispetti si parla spesso e drammaticamente volentieri di confini. A nord
la Brexit sta allontanando dal progetto europeo il Regno Unito verso una riconvergenza tra
inglesi e americani in una moderna anglosfera geopolitica.
Nel contempo si accende sempre più nel Regno di Sua Maestà il conflitto tra i millennial che
vivono nel cuore pulsante della capitale britannica – e che ha votato per il remain – con l’anima
più nostalgica dei leave, collocata nel ‘countryside’.
A sud nel Mediterraneo, le vicende libiche sono solo i primi avamposti del subbuglio africano e
del dramma dell’immigrazione; fenomeno che sta cambiando i connotati della rappresentanza
politica nel vecchio mondo.
E a oriente? Mentre Vladimir Putin di Russia ha apparecchiato un 2018 con due eventi “politici”
di primo piano, dalle sue trionfali elezioni presidenziali ai mondiali di calcio, finendo (ben
volentieri) sotto i riflettori sia come player euroasiatico che globale, il limes ucraino sta vivendo
sempre nuove tensioni.
Il 2018 si avvia alla chiusura nel segno della minaccia dello scisma di Kiev dal Patriarcato
Ortodosso di Mosca, un evento culturale solo più taciuto ma non meno cruento del dramma
africano, e minaccioso al punto da far sembrare la Brexit una brutto turno di Risiko.
L’ennesimo segnale arriva da Minsk in Bielorussia, sede del sinodo della Chiesa ortodossa russa,
dove si è consumata la separazione con il Patriarcato di Costantinopoli (Bartolomeo I primus
inter pares e guida spirituale dell’intera ortodossia) colpevole di aver accolto le richieste di
autocefalia, cioè di indipendenza della chiesa ucraina.
Come suggerisce Filippo Onoranti – blogger di Start Magazine che di incenso ne ha respirato
visto il Phd alla Lateranense – “la religione diventa il proseguimento della guerra con altri mezzi
e tirano venti di scissionismo. Autocefalie e rotture di legami eucaristici sono paroloni di un
padre padrone che sbatte i pugni sul tavolo? Un’occasione per soddisfare il bisogno di recinti
senza dubbio; un’occasione anche per i figli di Madre Russia di andare da soli alla ricerca del
proprio posto nel mondo. Non è certo un caso che protagonisti del moto scissionista siano stati
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proprio i più giovani tra i vescovi ucraini, meno interessati a revanscismi di sorta e molto più
lanciati verso il sogno di una libertà dai padri padroni. La pace non è una cosa, ma un modo di
condurre le azioni (politiche, economiche, religiose, etc…) e non si possono fare prigionieri
sperando che questo porti a qualche tipo di armonia. Come una zucca quest’Europa amante dei
confini comincia a suonare vuota, chi la coglierà quando sarà matura?”.
Le antenne di House of zar continuano a captare da qualche tempo segnali di una tempesta che,
come spesso capita all’inevitabile, viene poco annunciata dai nostri media mentre sembra
pronta a scatenarsi con i soliti ingredienti, commensali e vittime.
La vicenda Ucraina, Kiev, il fiume Dnepr, la terra dei Vichinghi, la Rus’ significano più di un
confine nel Donbass o delle royalty per il passaggio dei famosi gasdotti russi.
Il dato: la cifra sicura oggi sono i già oltre 100 mila morti della dimenticata guerra e le migliaia
di famiglie che li piangono.
Le decisioni di Minsk sono un altro segnale della tempesta che si sta per abbattere dall’interno
sui delicati confini d’Europa alla vigilia delle sue prossime elezioni? Tutto fa pensare di sì.
È imminente la visita del presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Mosca da Vladimir Putin,
prevista per il 24 ottobre prossimo; in simili circostanze una culla della civiltà europea quale
l’Italia sarebbe pragmatico che mostrasse il proprio ruolo.
Ma Matteo Salvini precedendo il Premier, nei giorni scorsi con la sua partecipazione e
dichiarazioni a Mosca durante l’assemblea di Confindustria Russia, ha già collocato la posizione
liminare della penisola a forma di stivale nel cuore nel mediterraneo a fianco di Zio Vlad.
Vedremo come la prenderanno Washington e la rinnovata anglosfera.


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XI trilogia
Le Termopili di Trump

1

(Come la Turchia intralcia la strategia di Trump contro il petrolio dell’Iran Start
Magazine.it 23 novembre 2018)

Il ritiro degli Stati Uniti dal JCPOA (Joint Comprehensive Plan Of Action), l’accordo sul nucleare
iraniano, con il conseguente ripristino delle dure sanzioni economiche a Teheran è un grosso
problema per qualsiasi azienda straniera interessata a investire nel settore energetico
persiano.
Il diktat di Trump penalizza, senza che siano ancora state esibite prove certe di misfatto, il più
potente avversario dell’alleato saudita nella regione mediorientale, costringendo le imprese
occidentali a ritirarsi dagli affari con Teheran.
Molte Oil&Gas Companies occidentali hanno già rescisso i contratti siglati con il governo
iraniano mentre altre, comprese quelle italiane – nonostante per ora il Potus le abbia escluse
dall’obbligo di applicare le sanzioni – tergiversano mantenendo un low profile e contatti
discreti nella speranza che il buon senso faccia ripartire gli affari.
L’Iran detiene la seconda riserva di gas naturale del mondo ma attualmente non ha una
adeguata capacità di esportazione (solo 10 BCM verso la Turchia, meno di quanto trasporta una
condotta del TurkStream). Può contare su un elevato consumo nazionale ma risente
pesantemente della mancanza di investimenti esteri, non riesce ad accedere alle nuove
tecnologie mentre le risorse finanziarie sono quelle reperibili grazie alla commercializzazione
estera del gas.
In apparenza sembrerebbe che il piano americano per soffocare l’Iran proceda senza intoppi e
che si rischi il solito noioso racconto sull’imperialismo a stelle e strisce.
Ma c’è un ma.
La Turchia, per alleggerire i conti in costante “profondo rosso” è disposta ad aumentare
l’acquisto di quote di gas naturale dall’Iran a “prezzo agevolato” rispetto a quello ben più
oneroso importato dalla Russia e dalla Repubblica dell’Azerbaijan.
Come non è sfuggito a House of Zar, Erdogan avrà notato che in occasione della cosiddetta ‘judo
diplomacy’ – perché l’incontro è avvenuto durante il recente World Judo Championship 2018 a
Baku – il “dialogo politico bilaterale fra il presidente russo Vladimir Putin e quello
dell’Azerbaijan Ilham Aliyev è stato ad alta intensità”. Il sospetto è che, vista l’occasione,
avranno scelto per l’oro azzurro una Katame-waza, la tecnica del controllo.
Ne consegue che, se Iran e Turchia riusciranno ad accordarsi sul prezzo e se la prima fosse in
grado di soddisfare la richiesta aumentando i volumi, Erdogan preferirà acquistare il gas da
Teheran anziché dagli altri produttori.
L’Iran avrebbe bisogno di circa 7/8 miliardi di dollari per realizzare le infrastrutture necessarie
a portare il gas naturale fino ai confini con la Turchia. Per l’Iran non è economico esportare il
gas via pipeline al prezzo attuale di mercato, mentre la Turchia possiede una buona rete di
gasdotti nazionali e il gas iraniano a basso prezzo approvvigionerebbe la parte sud-orientale
del Paese che ha inverni freddi e uno sviluppo industriale da completare.
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L’affare per Erdogan sarebbe di riuscire a coprire una buona parte dei propri consumi interni
con il gas persiano e fare solo da terra di transito verso gli altri Paesi per quello trasportato dal
TurkStream e dal Tanap, ricevendo in cambio gli introiti derivanti dalle royalty.
Ankara è interessata a importare più quote di gas naturale dall’Iran e continua a recitare più
parti in commedia: amica di Putin quando serve, amica di Trump quando deve, amica
dell’Europa in particolare della Merkel quando fa comodo, amica di Rouhani se il prezzo è
conveniente.
La Turchia esprime senza sforzi la propria secolare natura mercantile, flirtando di volta in volta
con l’interlocutore di turno con il chiaro obbiettivo di ribadire la propria posizione dominante,
quale crocevia naturale dei più importanti mercati mondiali.
Proprio a Istanbul lo scorso lunedì si è svolta la cerimonia per festeggiare il completamento
della sezione marina del gasdotto russo-turco che ha visto un raggiante presidente russo
Vladimir Putin ospite del suo “collega” Recep Tayyip Erdogan.
L’incontro, i due leader si sono visti già tre volte in novembre, non deve suggerire conclusioni
affrettate; l’amicizia fra i due paesi non è inossidabile e Zio Vlad conosce bene il suo
interlocutore, non fosse che per la lunga storia di guerre tra le due nazioni. E come diceva Von
Otto Bismarck: “un russo non si fida neppure di sé stesso”.
Ed è probabile che non si fidi neppure di Mehmet Ogutcu, presidente del Bosphorus Energy
Club, quando ha definito la realizzazione della parte a mare del TurkStream, un grande successo
nonostante che gli Stati Uniti si siano impegnati per bloccare il progetto. Aggiungendo che la
pipeline renderà più solide le relazioni tra Russia e Turchia.
Il TurkStream aveva rappresentato un vero colpo di genio dello Zar nel momento in cui la Russia
era stata messa pericolosamente in un angolo a causa della cancellazione del SouthStream a
causa del veto europeo e del peso degli impegni siglati per svariati miliardi. Eppure nonostante
le dichiarazioni appassionate di oggi non sembra essere più l’opzione più affidabile per il
transito del gas russo verso i mercati del sud-est europeo.
Dato lo scenario attuale Mosca sta prendendo in considerazione di non vincolare la propria
strategia commerciale nel corridoio sud esclusivamente con un interlocutore come la Turchia.
In ottica futura questo significherebbe realizzare ulteriori due condotte sottomarine in
direzione Bulgaria, diversificando l’approccio al mercato europeo e tentando il delicato
equilibrismo di salvaguardare le relazioni con il califfo ottomano.
La Bulgaria, intanto, si è portata avanti con i lavori riformulando la richiesta autorizzativa a
Bruxelles per le nuove linee sottomarine, con un copia e incolla della richiesta che Berlino fece
per Nord Stream2.
Qualcuno dirà no anche questa volta?

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2

(Vi racconto cosa succede sulle rotte del gas tra Caucaso, Anatolia e Balcani Start
Magazine.it 25 novembre 2018)

Il gas naturale è diventato una delle materie prime più importanti al mondo: è in atto una vera
e propria rivoluzione nel campo dell’approvvigionamento energetico – con le richieste che
aumentano in maniera drammatica – e l’oro azzurro si sta ritagliandosi un ruolo preminente.
È buona norma non focalizzarsi solo sui luoghi da dove partono o arrivano i tubi, ma prendere
nota di ogni “terra di passaggio”, perché anche qui si disegnano gli equilibri geopolitici della
‘mappa dell’approvvigionamento’ dell’oro azzurro.
Un esempio concreto è l’area che va dal Caucaso all’Anatolia fino ai Balcani dove, sulle rotte del
gas, stanno salendo alla ribalta nuovi leader e inediti protagonisti.
Ecco allora la Georgia di Bidzina Ivanishvili, leader di “Sogno Georgiano”, il partito che da un
lato sta portando avanti una politica di avvicinamento all’Ue e dall’altra tenta di chiudere un
accordo la distensione con la Russia, per metter la parola fine a una lunga stagione di tensioni
che ha avuto quali protagonisti l’ex presidente Mikheil Saakashvili e l’immancabile Vladimir
Putin.
In questo caso è il rugby e non il judo, com’era nel caso della prima puntata con protagonista la
Turchia, che ci accompagna nello sforzo di capire meglio le dinamiche geopolitiche.
La passione dei Georgiani per la palla ovale si è vista a Firenze in occasione del Test Match
contro l’Italia: ben 8000 supporter hanno riempito le tribune del Franchi per sostenere i
biancorossi di Tbilisi. Si può arrivare a intuire, osservando il calore e la passione che mostrano
pure in un contesto pacifico come una partita di rugby, che hanno alle spalle una tradizione di
difensori di un Paese che ha subito ogni sorta di minaccia e invasione.
Forse proprio in questo va ricercato il primo motivo per cui ai Georgiani piace così tanto il
rugby: uno sport che è combattimento controllato, difesa e conquista del territorio, forza e
scontro, ma che richiede grande intelligenza e disciplina. Caratteristiche che tranquillizzano il
vicino azero perché il Tanap transita in un Paese affidabile, col quale non dovrebbero capitare
imprevisti delle relazioni politiche.
Guardando al Caucaso Minore, i ricchi giacimenti di Shah Deniz vicino a Baku, capitale
dell’Azerbaijan, scopriamo che il South Gas Corridor (SGC) prima di entrare nella penisola
dell’Anatolia passa proprio attraverso la Georgia descrivendo una stretta curva a U per evitare
con cura l’Armenia e quindi connettendosi al Trans-Anatolian Pipeline (Tanap) fino al Trans-
Adriatic Pipeline (Tap).
È quindi normale che le recenti elezioni presidenziali georgiane, tenutesi il 28 ottobre, abbiamo
catalizzato l’attenzione internazionale, in particolare per l’incertezza del risultato: il primo
dicembre è in programma il ballottaggio, che salvo sorprese si risolverà all’ultimo voto.
I due contendenti sono Salome Zurabishvili, che al primo turno ha ottenuto il 38,7% dei voti
contro il 37,7% del principale candidato d’opposizione, Grigol Vashadze. La favorita
Zurabishvili, nata e cresciuta in Francia, è sostenuta da “Sogno Georgiano”. Prima del suo
ingresso nell’agone politico nazionale, Zurabishvili è stata ambasciatrice francese in Georgia:
nel caso si imponesse, sarebbe la prima donna a guidare uno stato del Caucaso meridionale.

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Va da sé, date queste premesse, che la Repubblica caucasica ex sovietica si troverà a giocare un
ruolo ancora più importante negli equilibri di una regione storicamente turbolenta. Soprattutto
se e quando anche l’Iraq e soprattutto l’Iran troveranno uno sbocco continuativo alle proprie
esportazioni attraverso il South Gas Corridor.

3

(Perché Putin sfiderà Trump investendo nel gas naturale dell’Iran Start Magazine.it 2
dicembre 2018)

Tornando con la memoria al 5 novembre, quando gli Stati Uniti hanno reintrodotto sanzioni
secondarie contro il settore petrolifero dell’Iran, il network House of Zar si è convinto che Putin
continuerà a sfidare Trump investendo nel gas naturale dell’Iran.
La repubblica degli ayatollah ha un potenziale accertato di 33,2 Tcm di riserve di gas naturale,
che la rende il secondo produttore più grande del mondo proprio dietro la Russia, che vanta il
18% circa delle riserve dimostrate al mondo (35 mila miliardi metri cubi Tcm).
Le risorse naturali rappresentano per la Russia quasi l’80% dell’esportazione e il 51,7% delle
entrate fiscali. La Gazprom vende due terzi del proprio gas naturale al proprio interno ma i due
terzi degli introiti provengono dalla commercializzazione all’estero.
La cooperazione sulle riserve di gas naturale iraniano rappresenta una opportunità strategica
sia per il Cremlino sia per Teheran. L’investimento russo in tal senso allevia le difficoltà
derivanti dalle sanzioni occidentali, guidate dagli Stati Uniti, che colpiscono entrambi i Paesi.
La cooperazione permetterebbe all’Iran di monetizzare in un periodo di economia stagnante e
di contrastare la strategia dell’Arabia Saudita per mantenere l’egemonia regionale. Viceversa,
l’immissione del gas naturale iraniano nel mercato europeo senza un oculato filtro da parte
della Russia potrebbe rivelarsi controproducente per l’economia di Mosca e per la sua sicurezza
energetica.
L’attuale matrimonio di convenienza tra Russia e Iran deriva dal fatto che la prima considera il
secondo uno strumento provvisorio per contrastare gli Stati Uniti e salvaguardare i propri
interessi economici.
Nel processo di cooperazione, Putin oltre a garantire a Rouhani una pur minima prosperità
economica ha l’opportunità di conseguire vittorie diplomatiche persuadendo i persiani ad
abbandonare la produzione nucleare. Un risultato che potrebbe diminuire le tensioni
internazionali e permettere alla Russia di ottenere due risultati geopolitici importanti: di
ingigantire il suo ruolo di attore chiave in Medio Oriente e consolidare quello di player proattivo
su scala globale, per garantire ai propri interessi energetici di essere adeguatamente
rappresentati.
Le entrate della Russia provenienti dal settore energetico sono sufficienti a preservarne
direttamente la sovranità. Il potenziale del gas naturale iraniano può diventare il fulcro del
futuro ruolo dell’orso russo nel mercato globale del gas naturale. Mentre gli Usa che ambiscono
a scalzare il primato della Federazione Russa si troveranno prima o poi a dover operare scelte
in tema di compromessi per evitare che la coperta, con la quale intendono condizionare il
mercato globale, si riveli drammaticamente corta.

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L’unione di convenienza fra Russia e Iran è maturata a causa dell’isolamento cui sono state
costrette negli ultimi anni ma i loro interessi in fatto di gas rischiano di scontrarsi, come
abbiamo evidenziato nel nostro primo focus, quello riguardante la Turchia.
Geograficamente, materia inevitabile per chi si occupa di scenari politici, la penisola Anatolica
è la porta dell’Iran verso l’Europa e rappresenta la strada meridionale per
l’approvvigionamento all’ambito mercato sud europeo. In questo delicato gioco di incastri gli
Stati Uniti, se vorranno espandere il proprio commercio di Gnl nel mercato europeo a fronte
della scarsa competitività legata ai maggiori costi, saranno costretti a sostenere altri fornitori
regionali di gas naturale verso la Turchia. La Turchia, insomma, è il crocevia per garantire uno
sbocco nel corridoio meridionale per il gas che approvvigiona l’Europa e la conferma come una
forza economica e geopolitica a cavallo tra Europa e Asia.
A Erdogan il compito di capire quale ruolo convenga interpretare alla Turchia nella regione,
mantenendo spericolate relazioni a est come a ovest. In quanto al gas naturale, le risorse turche
non permettono l’indipendenza energetica: il Paese produce solo lo 0,8% di quanto consuma,
difettando, inoltre, di formazioni naturali adatte allo stoccaggio. Tuttavia, ciò che le manca
morfologicamente viene compensato da una posizione geografia ideale, che le permette di non
dovere dipendere da un fornitore singolo.
Già raggiunta dai gasdotti di gas naturale russi e iraniani, la nazione ottomana si è impegnato a
costruirne di nuovi, in particolare il TurkStream e il Trans Anatolian (Tanap), anche se la
capacità delle infrastrutture del Paese risulta già superiore sia alla domanda attuale sia a quella
ipotetica del futuro.
E questo pure tenendo conto che la domanda interna di gas è quasi raddoppiata in una dozzina
di anni, passando da 27 miliardi metri cubi nel 2005 al record di 53,5 miliardi metri cubi nel
2017. A ciò vanno aggiunte le fonti fossili, con una continua crescita di ricorso al carbone e alla
produzione dall’eolico, fonti disponibili localmente e su cui Ankara continua ad investire.
Il caso turco è paradigmatico: conferma che mentre i principali produttori di gas espandono la
produzione per aumentare le opportunità economiche, i consumatori cercano di incrementare
la sicurezza energetica diversificando le fonti di approvvigionamento.


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XII trilogia
Tutto ha un prezzo, soprattutto il petrolio

1

(La partita di Arabia Saudita, Russia e Usa sul petrolio: ok il prezzo è giusto Start
Magazine.it 16 dicembre 2018)

Nel bene e nel male il principe saudita Mohammed bin Salman, nuovo uomo forte di Riad, è uno
dei personaggi principali di questa fine 2018. Lo avevamo già introdotto proprio su queste
pagine come uno dei nuovi protagonisti della geopolitica dell’energia. E allora cominciamo…
con un rewind fino alla scorsa estate. È il 14 giugno 2018, nella tribuna d’onore dello Stadio
Lužniki di Mosca per la partita d’esordio dei mondiali di calcio tra Russia-Arabia Saudita: il
padrone di casa Vladimir Putin sta gongolando per l’ennesimo gol della sua frizzante nazionale,
ma poi si ricorda del suo ospite e, guardandolo negli occhi, in segno di rispetto gli porge la mano.
L’ospite è proprio Mohammed bin Salman.
Il gesto non solo suggella il risultato della partita, ma è l’epilogo di una lunga giornata che i due
leader hanno passato a parlare di affari, accompagnati dai rispettivi ministri dell’Energia
Alexander Novak e Khalid al-Falih. Proprio Falih organizzò quella riunione Opec del 22 giugno
a Vienna fra i rappresentanti dei petrostati in cui si decise l’aumento della produzione per
contenere il prezzo di sua maestà il petrolio.
Un altro rewind e siamo a Buenos Aires. È il 30 novembre e Putin e bin Salman si incontrano
prima che inizino i lavori del G20, salutandosi calorosamente e dandosi un “cinque” con le mani.
L’high five in stile football americano è diventato l’immagine simbolo del vertice dei grandi della
terra, fugando ogni dubbio sul fatto che esista un’alleanza energetica tra Mosca e Riad e che sia
più salda che mai: in vista c’è un altro vertice Opec, il 6 dicembre a Vienna durante il quale si è
discusso di invertire la decisione precedente e tagliare la produzione di oro nero, stavolta per
puntare a un rialzo del prezzo del barile.
Una decisione che era nell’aria, perché il prezzo era sceso del 30 per cento da ottobre. L’unica
complicazione era il come accontentare l’Iran, che chiedeva di essere esentato dai tagli a causa
delle sanzioni degli Stati Uniti. L’accordo è stato raggiunto e la Russia ha giocato un ruolo da
protagonista nella decisione di tagliare la produzione a 1,2 milioni di barili al giorno esentando
Iran, Venezuela e Libia (per motivi differenti).
Vladimir Putin si conferma un mediatore sempre più rilevante in campo di geopolitica
energetica, un funambolo abilissimo nello stare in equilibrio tra gli opposti interessi: dei sauditi
e degli iraniani.
Nella sostanza Mosca negli ultimi anni ha lavorato a stretto contatto con l’Arabia Saudita per
decidere la strategia della produzione petrolifera: e i legami sembrano oggi ancora più saldi. A
conferma di ciò basta ricordare la dichiarazione congiunta, a inizio 2018, sull’ipotesi di creare
un nuovo “super gruppo di Paesi produttori di petrolio” destinato a prendere il posto dell’Opec.
E forse di fatto è già così.
E Donald Trump? Il Potus era determinato a influenzare le decisioni dell’imminente summit
viennese per scongiurare i tagli di produzione. Ha dovuto frenare i polpastrelli pronti a lanciare
il consueto tweet acuminato di critica a una decisione che ha come conseguenza il rialzo del
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prezzo del petrolio e, quindi, anche del gallone di gasoline con cui gli americani riempiono i
serbatoi dei suv per macinare chilometri sulle infinite highway.
Nello stesso tempo Trump conosce l’impatto positivo sull’economia Usa di un rialzo del prezzo
del petrolio, visto il nuovo ruolo di esportatore netto di greggio e di prodotti raffinati che gli
Stati Uniti si sono ritagliati. Cosa deciderà di fare? Forse, da quell’abile gambler che è, ha
semplicemente già usato la propria influenza prima del vertice viennese, continuando a
utilizzare dichiarazioni, tweet e altro per influenzare il prezzo del petrolio giorno dopo giorno.
Gira e rigira… il punto è sempre lo stesso, “tutto dipende dal prezzo del petrolio”. È un tema che
attraversa le nostre vite come un mantra. Possiamo solo intuire che dietro l’apparente banalità
dell’espressione si muovano immense forze, decisioni di investimento o di spesa dove gli
andamenti previsti o imprevisti a volte sono incomprensibili anche ai più esperti.
Nel nostro immaginario di consumatori restano le crisi petrolifere, i bianchi caftani degli
sceicchi del golfo persico che per in non più giovani riportano alla mente gli anni settanta, i
prezzi della benzina alle stelle, le targhe alterne. Mentre per i più ‘giovani’ la memoria ritorna
alla crisi petrolifera di 10 anni fa quando il prezzo del barile da 150 dollari crollò a meno di 40.
Visto che siamo vicini a Natale, facciamoci un regalo e compriamo il libro che risponde alla
domanda delle domande: che cos’è il prezzo del petrolio? Il libro è “C’era una volta il prezzo del
petrolio” di Salvatore Carollo (Libri Scheiwiller editore).

2

(Vi racconto come gioca il Qatar nella partita del petrolio Start Magazine.it 17 dicembre
2018)

A forza di tirare, l’elastico si rompe.
Il fronte energetico ci regala novità tutti i giorni e i giorni prima del vertice Opec di Vienna
hanno visto consumarsi una sorta di Brexit nel campo petrolifero.
Il cartello che reggeva le sorti economiche del mondo energetico è stato scosso nel profondo
delle sue certezze dalla decisione, annunciata dal Ministro dell’energia del Qatar Saad Al-Kaabi,
che il suo Paese abbandonava l’Opec, di cui era membro dal 1961. Per capire la portata della
decisione, l’Opec per il Qatar è come la Ue per un Paese europeo, perché Doha vive solo di
petrolio e gas. Il turismo, l’industria e tutto il resto valgono meno dell’1%.
Con una produzione giornaliera di petrolio che varia da circa 600.000 a 700.000 barili, e con il
più grande giacimento al mondo di gas naturale, il Qatar ha deciso di uscire dall’Organizzazione
dei paesi esportatori di petrolio per sfruttare la crescita del suo portafoglio di gas naturale
liquefatto (Gnl).
«Il Qatar ha deciso di ritirare la sua adesione da OPEC a decorrere da gennaio 2019» ha
dichiarato al-Kaabi, aggiungendo che continuerà a produrre petrolio, ma che «si concentrerà
sulla produzione di gas».
Il Qatar è il più grande esportatore di Gnl al mondo e il rappresentante di Doha dichiara quali
sono i suoi piani a lungo termine per aumentarne la produzione, una volta svincolato da lacci
associazionistici: l’ipotesi è accrescere la produzione di Gnl da 77 a 110 milioni di tonnellate
l’anno.

64
Con questo passo il Qatar tenta di dare più valore al gas, considerando che il mercato del greggio
tradizionale sarà in prospettiva il bersaglio principale dell’ostracismo di quanti insistono per
velocizzare la transizione energetica verso energie rinnovabili. Inoltre, fattore non trascurabile,
il mercato del gas naturale porta entrate quasi 3 volte maggiori rispetto al petrolio.
Al contempo, il Qatar ha trovato un nuovo modo di irritare l’Arabia Saudita. Dal giugno dello
scorso anno, il piccolo stato del Golfo – di 2,6 milioni persone – ha affrontato un duro embargo
da parte del suo ingombrante vicino e dei suoi sodali (EAU, Bahrain ed Egitto) motivato dal
traballante pretesto che il Qatar fornirebbe sostegno al terrorismo (e mai predica fu…). La
rinuncia del Qatar suggerisce che i benefici dell’adesione all’Opec, di cui l’Arabia è il deus ex
machina, stiano divenendo sempre più impalpabili per i suoi affari. E il calo dei costi delle
energie rinnovabili e la crescita della produzione statunitense e russa diminuiranno
inevitabilmente l’influenza del cartello.
Ole Hansen di Saxobank sull’argomento Opec ha dichiarato a Deutsche Welle che: «Il cartello
svolge ancora un ruolo importante, ma sta diventando sempre più chiaro che la direzione del
petrolio è stata fissata dalle decisioni prese dalla troika composta da Stati Uniti, Russia e Arabia
Saudita».
La rivalità con i Sauditi si gioca a tutto campo, partendo dall’informazione: per quanto riguarda
la stampa arabofona, circa il 75% è in linea con i Sauditi e il rimanente 25% con Al Jazeera del
Qatar. Il Qatar ha fatto una scelta, puntando a prepararsi per l’evoluzione del mercato del gas,
che se fino ad ora era un mercato regionale vincolato ai gasdotti, grazie al Lng si sta
globalizzando con i terminali di liquefazione e di rigassificazione che sono geograficamente
svincolati. Così cresce l’importanza del mercato spot (dove i contratti hanno una durata limitata
e i prezzi sottoscritti non sono legati al petrolio, ma si basano sulla dinamica domanda-offerta)
a scapito dei contratti di lunga durata.
Il Qatar quindi punta a giocare un ruolo determinante nel Gas Exporting Countries Forum, che
per il gas è il corrispettivo dell’Opec e che ha sede proprio a Doha: riunisce 16 paesi di quattro
continenti, tra i quali i più influenti sono Iran, Emirati Arabi, Indonesia, Egitto, Libia, Venezuela,
con un’unica eccezione ‘europea’, Federazione Russa, che esprime il Segretario generale del
GEFC, Juri Sentjurin.
Eccola di nuovo qua… la Madre Russia che sempre più è il mediatore della geopolitica energetica
su ogni ‘tavolo’.

3

(Vi racconto la trappola energetica (non solo) del governo M5S-Lega Start Magazine.it il
19 dicembre 2018)

Le questioni di principio sono sostenibili finché non si scontrano con le esigenze economiche,
perché allora queste ultime prendono il sopravvento: pare essere questa la lezione che ci viene
dagli ultimi avvenimenti che stanno attraversando il mondo dell’energia. Come abbiamo
analizzato nella seconda puntata, ha cominciato il Qatar annunciando che dal primo gennaio
non farà più parte dell’Opec. Questione di principio? No, di soldi e potere…
Spostandoci molto più a nord il presidente polacco Duda ha dato un colpo alle buone intenzioni
dell’Unione europea – qualcuno ricorda il 20-20-20? – in materia di salvaguardia dell’ambiente
65
dichiarando che il suo Paese non può permettersi di rinunciare al carbone. La fonte fossile più
inquinante che abbiamo a disposizione. E lo fa proprio mentre a Katowice in Polonia si apre la
Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima.
Intanto a Parigi il movimento dei gilet gialli ha ottenuto che il Governo francese faccia un passo
indietro sull’aumento previsto del prezzo del carburante. Il fronte di chi pareva pronto a tutto
per “salvare il pianeta” dagli effetti dell’inquinamento pare sgretolarsi di fronte alle esigenze
quotidiane, dalla dichiarata impossibilità a rinunciare a bruciare fonti fossili per fare funzionare
fabbriche e trasporti. È la trappola energetica descritta con lungimiranza da Leonardo Maugeri
in un suo scritto: i nostri buoni propositi ambientalisti si scontrano con l’incapacità di fare i
sacrifici necessari a metterli in pratica. È una riedizione moderna del famoso adagio “botte
piena e moglie ubriaca”, nel senso che volgiamo un mondo pulito e un clima non “riscaldato”,
ma continuando a consumare energia come prima.
L’ex ministro del petrolio saudita Yamani, che è stato uno dei protagonisti della storia dell’Opec,
sia quando i Paesi produttori decisero di quadruplicare il prezzo del greggio, sia quando il 21
dicembre del 1975, proprio a Vienna, Carlos lo Sciacallo lo prese in ostaggio insieme ad altri
ministri dei petrostati (su questo evento tornerò con uno “speciale”) amava ripetere: “l’età del
petrolio non finirà perché finirà il petrolio, così come l’età della pietra non è finita per la fine
delle pietre.”
È ancora il concetto della trappola energetica.
Tornando al Qatar, lo strappo epocale con gli altri Stati produttori di petrolio non è dovuto alle
tensioni con i paesi vicini – sfociate da giugno in un embargo – almeno a sentire come hanno
spiegato la situazione i vertici del Governo. Il quale ha invece esibito considerazioni “tecniche e
strategiche” circa le limitate possibilità del paese nel settore petrolifero rispetto alle risorse di
Gnl. Il progetto è di incrementarne la produzione del 43% nel 2019 (vedi II puntata).
E anche la Polonia porta a sostegno esigenze strategiche per opporsi alla decarbonizzazione,
giudicando la materia fossile necessaria per “la sovranità energetica”: oggi copre il suo
fabbisogno per una quota record dell’80%.
Così come le decisioni dell’Opec del 6 e 7 dicembre scorso del taglio della produzione vedono
sempre l’equilibrio degli interessi economici al primo posto.
La domanda che resta aperta per noi consumatori è: energia basso costo e tutela ambientale
sono compatibili? Oppure le esigenze strategiche – ma va letto economiche – sono più forti dei
buoni propositi? In realtà pare che non siamo in grado di rinunciare allo standard di vita
garantito da una società energivora e che un mondo pulito ci piace, basta che questa scelta non
ci tocchi direttamente le tasche.
E venendo al Bel Paese sono curioso di vedere come si sposeranno le ricette ambientali,
economiche e sociali del governo del cambiamento giallo-verde con la ‘trappola energetica’…

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Conclusioni

«Il supremo fatto geopolitico dell’era moderna è che i nordamericani parlino Inglese». Otto Von
Bismarck soprannominato il "Cancelliere di Ferro" per la sua concretezza sommava anche la
dote del visionario. Aveva già visto il futuro: il trionfo dell’area dell’anglosfera e della
convergenza naturale tra il ‘vecchio’ Impero Britannico e i giovani Stati Uniti di America.
Il connubio tra la Gran Bretagna e la sua colonia più importante ha trionfato e segnato il mondo
non solo nella sfera militare, economica e geopolitica ma soprattutto nello spirito, nei
comportamenti e nei gusti. Nella cultura, insomma.
Un insieme di elementi che, per usare un inglesismo, è diventato per l’occidente il pensiero
mainstream.
E oggi un novello Bismarck come commenterebbe i sussulti e i dubbi che investono il pianeta
azzurro in ogni dove? Profetizzerebbe ancora un duello tra le potenze del mare dell’anglosfera
contro quelle di terra dell’euroasia? La risposta che emerge da House of zar è sì e a commento
ci sta una citazione più “pop”: come dice Jena Plissken alla fine di Fuga da Los Angeles «Più le
cose cambiano più restano le stesse»…
Il dato che probabilmente oggi non sfuggirebbe al cancelliere di ferro è quella antropologico. A
parte la crescita inarrestabile degli abitanti del pianeta, sarebbe colpito dal numero di persone
che già vivono seguendo lo spirito ‘americano’ o che aspirano a diventare parte del
mainstream…
È un pericolo vivere seguendo un pensiero forte mainstream? L’unico pericolo che House o zar
suggerisce è che questo pensiero mainstream sia un pensiero unico, senza contraddittorio. E
che non è bene analizzare la realtà limitandosi a guardare i fatti in superfice. Dietro ogni
avvenimento geopolitico c’è un intreccio profondo di motivazioni, scelte, tattiche ecc
E allora, esiste una morale che ci dà una mano di fronte alla complessità del mondo? Più che
una morale quello che serve è un’organizzaizone della civiltà che permetta di difendere la
libertà personale ma all’interno di un contesto di forza. Come quello della Grande Russia di
Putin, dei potenti Usa di Trump, o dell’immane dragone di Xi Jinping.
È l’Europa. Un motivo per tutti: l’Europa in un modo o nell’altro quando c’è una lotta, un
conflitto o una svolta nella civiltà si trova sempre in mezzo alla Storia. E quando c’è di mezzo
l’Europa, è lei a fare la Storia.

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Gianni Bessi, ravennate, sposato, tre figlie. Dal 2014 è consigliere alla Regione Emilia-Romagna
per il Partito Democratico. Autore di Gas naturale. L'energia di domani editore Innovative
Publishing. È Blogger di Startmag.it

Ringraziamenti

Un ringraziamento a Paolo Pingani per l'aiuto nella realizzazione di questa raccolta. A Filippo
Onoranti per la sua attenta rilettura e per l'articolo che mi ha permesso di completare una delle
trilogie. Sono grato infine a tutti coloro, e sono tantissimi del mondo energetico e non solo, che
hanno contribuito con idee, riflessioni e spunti alla realizzazione degli articoli pubblicati nel 2018
su Startmag.it

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