Sei sulla pagina 1di 472

Questa è la storia di un attivista per caso.

Bill Browder
non ha trascorso la sua vita tra volontariato e bene-
ficenza. Bill si è formato in università prestigiose ed
è diventato un genio degli affari costruendo la sua
fortuna sulle macerie del comunismo, nell’ex Unione
Sovietica, con uno dei fondi d’investimento più pro-
duttivi di sempre.
Ma accanto ai buoni affari possono arrivare anche
quelli cattivi e, quando Bill decide di denunciare la
corruzione all’ombra del Cremlino grazie all’azione del
suo amico e avvocato Sergei Magnitsky, la battaglia
contro il sistema ha inizio. Una lotta senza esclusione
di colpi, da subito: Bill viene espulso dal Paese men-
tre Sergei è incarcerato, torturato e ucciso. Un evento
così drammatico da cambiare radicalmente la vita di
Bill che, da quel momento, si dedica anima e corpo
alla lotta per la verità in nome dell’amico.
A metà tra crime thriller, biografia e manifesto di de-
nuncia, Red Notice è la storia di un uomo alla ricerca
di giustizia e che, senza saperlo, trova il significato
profondo della sua esistenza.
Bill Browder
Red Notice
Scacco al Cremlino

Traduzione di
Franco Lombini
A Sergei Magnitsky, l’uomo più coraggioso
che abbia mai conosciuto
INDICE

1. Persona non grata 11


2. Come ribellarsi a una famiglia di comunisti 24
3. Chip e Winthrop 31
4. Possiamo trovarle una donna che le tenga caldo la notte 40
5. Assegno in bianco 57
6. La flotta di pescherecci a strascico di Murmansk 72
7. La Leopolda 87
8. Greenacres 102
9. Dormire sul pavimento a Davos 113
10. Azioni preferenziali 121
11. Sidanco 133
12. Il pesce magico 145
13. Avvocati, soldi e pistole 155
14. Addio Villa d’Este 165
15. Tutti giù per terra 173
16. I martedì col professore 179
17. Analisi del furto 191
18. Cinquanta per cento 202
19. Una minaccia per la sicurezza nazionale 211
20. Vogue Café 216
21. Il G8 227
22. Le incursioni 235
23. Dipartimento K 248
24. «Le storie russe non hanno mai un lieto fine» 253
25. Disturbatore ad alta frequenza 265
26. Il rebus 279
27. DHL 288
28. Khabarovsk 299
29. Il nono comandamento 309
30. 16 novembre 2009 326
31. Il principio di Katyn 337
32. La guerra di Kyle Parker 349
33. Russell 241 359
34. Gli intoccabili 373
35. I conti in Svizzera 380
36. La zarina del Fisco 389
37. Il tritacarne 393
38. La delegazione Malkin 409
39. Giustizia per Sergei 419
40. Chi umilia e chi viene umiliato 427
41. Red Notice 435
42. Emozioni 444

Ringraziamenti 455

Immagini 457
Pur essendo veri, i fatti narrati in questo libro offenderanno senza
dubbio qualche personaggio potente e pericoloso. Nell’intento di
proteggere gli innocenti, alcuni nomi e luoghi sono stati cambiati.

Red Notice: viene così definita una comunicazione rilasciata


dall’Interpol che ordina l’arresto di un ricercato in vista dell’estradi-
zione. Un Red Notice è lo strumento più usato al giorno d’oggi per
emettere ed eseguire un mandato d’arresto internazionale.
1. PERSONA NON GRATA

13 novembre 2005

Visto che mi piacciono i numeri, ecco qui quelli importanti:


260, 1 e 4.500.000.000.
Mi spiego meglio: un fine settimana ogni due viaggia-
vo da Mosca, la città dove abitavo, a Londra, la città che
consideravo casa. Negli ultimi dieci anni avevo fatto quella
tratta 260 volte. Il motivo numero «1» di quel viaggio era
fare visita a mio figlio David, che all’epoca aveva otto anni
e abitava con la mia ex moglie a Hampstead. Quando ave-
vamo divorziato mi ero impegnato ad andare a trovarlo un
fine settimana sì e uno no, a qualsiasi costo, ed ero riuscito a
mantenere la promessa. C’erano 4.500.000.000 ragioni per
tornare a Mosca così spesso.
Quello era il valore in dollari dei capitali che la mia so-
cietà, la Hermitage Capital, aveva in gestione. Ne ero il
fondatore e l’amministratore delegato e durante il decennio
precedente avevo fatto arricchire molte persone. Nel 2000
l’Hermitage Fund era il fondo d’investimento che aveva
ottenuto i migliori risultati nei mercati emergenti a livel-
lo mondiale. Avevamo generato tassi di rendimento pari al
1500% per gli investitori che erano stati con noi dal lancio
del fondo nel 1996. Il successo della mia attività era andato
oltre le mie più rosee previsioni. Nella Russia post sovietica
le opportunità d’investimento erano state tra le più feno-
menali nella storia dei mercati finanziari, e lavorare in quel

11
Paese si era rivelata un’esperienza tanto avventurosa quanto
remunerativa e talvolta anche pericolosa. Mai noiosa.
Avevo fatto il viaggio da Londra a Mosca così tante vol-
te che lo conoscevo come il palmo della mia mano: sape-
vo quanto ci voleva per passare i controlli di sicurezza a
Heathrow, quando tempo occorreva per imbarcarsi sull’a-
eromobile dell’Aeroflot e quanto tempo era necessario per
decollare in direzione est, verso quel paese dove, a metà
novembre, cominciava a diventare buio presto e il freddo
dell’inverno bussava alle porte. La durata del volo era di 270
minuti, tempo sufficiente per sfogliare il Financial Times, il
Sunday Telegraph, Forbes e il Wall Street Journal e per con-
trollare qualche email e documento importante.
L’aereo salì in quota e io aprii la ventiquattrore per tirare
fuori le letture del giorno. Oltre a pratiche, giornali e riviste
patinate, c’era una cartellina portadocumenti in pelle con
dentro 7500 dollari in tagli da 100. Con quelli in tasca avrei
avuto più possibilità di salire sul proverbiale ultimo volo
da Mosca, come coloro che erano riusciti per miracolo a
fuggire da Phnom Penh o da Saigon prima che quei paesi
finissero nel caos e andassero in rovina.
Io però non stavo fuggendo da Mosca, ci stavo tornando.
Per lavoro. Per questo volevo aggiornarmi sugli ultimi avve-
nimenti del fine settimana.
Un articolo di Forbes che ho letto verso la fine del volo
mi colpì in modo particolare. Parlava di un uomo, un certo
Jude Shao, un sino-americano che come me aveva conse-
guito un MBA alla Stanford. Aveva studiato alla Business
School qualche anno dopo di me. Non lo conoscevo, ma
avevamo in comune il fatto di essere due uomini d’affari di
successo in un Paese straniero. Nel suo caso, la Cina.
Era entrato in conflitto con alcuni funzionari corrotti ci-
nesi e nell’aprile del 1998, Shao era stato arrestato dopo
essersi rifiutato di pagare una tangente di 60.000 dollari a

12
un esattore delle tesse a Shanghai. A Shao sono state mosse
accuse infondate e infine fu condannato a sedici anni di
reclusione. Alcuni ex studenti della Stanford avevano or-
ganizzato una campagna lobbistica per farlo uscire, senza
alcun risultato. Mentre leggevo Shao stava marcendo in una
lurida prigione cinese.
Quell’articolo mi fece accapponare la pelle. Per quel che
riguardava il mondo degli affari, la Cina era dieci volte più
sicura della Russia. Per qualche minuto, mentre l’aereo scen-
deva sotto i tremila metri verso l’aeroporto di Sheremetyevo,
mi chiesi se per caso non mi stessi comportando da stupido.
Per anni, il mio approccio agli investimenti si era sempre
basato sull’attivismo degli azionisti. In Russia ciò signifi-
cava sfidare la corruzione degli oligarchi, quella ventina di
uomini che si presumeva avesse derubato il 39% del Paese
dopo la caduta del comunismo e che diventando miliarda-
ria quasi dal giorno alla notte. Gli oligarchi controllavano
all’incirca la totalità degli scambi in borsa delle imprese e
spesso le riducevano sul lastrico. In generale ero riuscito a
vincere quasi tutte le mie battaglie contro di loro, e se da un
lato quella strategia aveva dato buoni frutti, in quel modo
mi ero anche creato dei nemici.
Finito di leggere la storia di Shao, pensai: forse dovrei dar-
mi una regolata, ho dei buoni motivi per vivere. Oltre a David
avevo anche una nuova moglie a Londra. Elena era russa,
bellissima, incredibilmente intelligente e di lì a poco avreb-
be dato alla luce il nostro primo figlio. Forse avrei dovuto
darci un taglio.
Poi però le ruote toccarono terra, riposi le riviste, acce-
si il BlackBerry e chiusi la valigetta. Controllai le email.
Dimenticati Jude Shao e gli oligarchi, mi concentrai su
quello che mi ero perso mentre ero in volo. Dovevo passare
la dogana, prendere l’auto dal parcheggio e andare a casa.
L’aeroporto di Sheremetyevo era un luogo strano. Il

13
terminale che conoscevo meglio, Sheremetyevo-2, era sta-
to costruito per le Olimpiadi estive del 1980. All’epoca
dell’inaugurazione doveva essere stato impressionante, ma
nel 2005 era proprio conciato male. Puzzava di sudore e
tabacco da quattro soldi. Il soffitto era decorato con una
fila dopo l’altra di cilindri metallici che sembravano latti-
ne arrugginite. Al controllo passaporti non c’era una coda
vera e propria, quindi bisognava sgomitare per farsi largo
e stare attenti che nessuno ti passasse davanti. Se per caso
avevi avuto la malaugurata idea di imbarcare la valigia,
una volta timbrato il passaporto dovevi aspettare un’altra
ora per ritirarla. Dopo un volo di oltre quattro ore non
era certo il modo più divertente per entrare in territorio
russo, soprattutto se come me ci venivi una volta ogni due
settimane.
Lo facevo dal 1996 ma, attorno al 2000, un amico mi
spiegò del cosiddetto servizio vip. Pagando un po’ di più si
risparmiava un’ora, a volte due. Niente di lussuoso, ma ne
valeva la pena.
Andai direttamente dall’aereo alla sala vip. Il soffitto e
le pareti erano dipinte di un colore verde pisello. Il pa-
vimento era di linoleum marrone chiaro. Le poltrone ri-
vestite di pelle color mogano erano abbastanza comode.
Nell’attesa il personale addetto serviva caffè slavato o tè
nero come la pece. Optai per una tazza di tè con una
fettina di limone e consegnai il passaporto al funzionario
addetto all’immigrazione. Nel giro di qualche secondo
tornai di nuovo sulla valanga di email sul BlackBerry.
Non mi resi conto quando il mio autista Alexei, che aveva
l’autorizzazione ad accedere nella sala vip, entrò nella stan-
za e cominciò a chiacchierare con il funzionario dell’im-
migrazione. Alexei aveva quarantun anni come me, però
lui era alto oltre 1,95, pesava 108 chili, era biondo e con i
lineamenti duri. Era un ex colonnello della Polizia stradale

14
moscovita e non spiccicava una parola di inglese. Puntuale
come un orologio svizzero, riusciva sempre a trovare una
soluzione a qualsiasi intoppo con la polizia stradale.
Ignorai la loro conversazione, risposi alle email e sorseg-
giai il tè tiepido. Poco dopo annunciarono all’altoparlante
che potevamo ritirare i bagagli.
In quel momento alzai lo sguardo e pensai: Sono qui già
da un’ora?
Guardai l’orologio, era già passata un’ora. Il mio volo era
atterrato alle 19 e 30 e ora erano le 20 e 32. Gli altri due
passeggeri sul mio stesso volo nella sala vip se ne erano an-
dati già da un bel po’. Lanciai un’occhiata ad Alexei. Lui mi
guardò come a dire Vado a controllare.
Mentre lui parlava all’agente, io chiamai Elena. A Londra
erano solo le 17 e 32, sapevo che era a casa. Durante la te-
lefonata tenevo sott’occhio Alexei e il funzionario addetto
all’immigrazione. La loro conversazione si trasformò presto
in un litigio. Alexei batté i pugni sul tavolo mentre l’agente
lo gelò con lo sguardo. «C’è qualcosa che non va», dissi a
Elena. Mi alzai e mi avvicinai al banco, più irritato che pre-
occupato, per chiedere cosa stesse succedendo.
Mentre mi avvicinavo, mi resi conto che la questione era
grave. Misi Elena in vivavoce perché traducesse. Le lingue
non erano il mio forte, dopo ben dieci anni, il mio russo
non andava oltre una banale conversazione da taxi.
Quella discussione sembrava non avere fine. Guardavo
i due come durante una partita di tennis, girando la testa
dall’uno all’altro. A un certo punto Elena disse: «Credo che
si tratti di un problema di visto, però l’agente non lo dice».
In quel preciso istante entrarono nella sala due funzionari
addetti all’immigrazione in divisa. Uno indicò il mio telefo-
no e l’altro i miei bagagli.
Dissi a Elena: «Ci sono due ufficiali che mi stanno dicen-
do di riattaccare e di seguirli. Ti richiamo appena possibile».

15
Riagganciai. Un funzionario prese i miei bagagli, l’altro i
miei documenti per l’immigrazione. Prima di seguirli guar-
dai Alexei. Aveva le spalle ricurve e guardava in basso, la
bocca semiaperta. Era disorientato. Sapeva che in Russia,
quando le cose si mettevano male, erano guai seri.
Gli agenti mi condussero attraverso il labirinto di corridoi
del Sheremetyevo-2 verso la normale sala immigrazione. Feci
loro delle domande nel mio pessimo russo, non risposero e
mi accompagnarono in una stanza di detenzione generica. La
luce era accecante. File di sedie di plastica modellata fissate
a terra. Sulle pareti, la pittura beige era tutta scrostata. Altri
detenuti dall’aria furiosa gironzolavano nella stanza. Nessuno
parlava. Fumavano tutti.
I funzionari se ne andarono. In fondo alla stanza c’era
una schiera di agenti in divisa trincerati dietro un banco
con una parete divisoria in vetro. Decisi di sedermi vicino a
loro cercando di capire cosa stesse succedendo.
Per qualche motivo mi permisero di tenere tutti i miei
effetti personali, tra cui il telefonino, che stranamente aveva
campo. Lo presi come un buon segno. Cercai di mettermi a
mio agio, ma non riuscivo a togliermi dalla mente la storia
di Jude Shao.
Controllai l’ora: erano le 20 e 45.
Richiamai Elena. Non era preoccupata. Mi disse che sta-
va preparando un fax informativo per i funzionari dell’am-
basciata britannica a Mosca e che l’avrebbe spedito appena
pronto.
Chiamai Ariel, un ex agente israeliano del Mossad che
lavorava come consulente di sicurezza per la mia società a
Mosca. Era considerato il migliore del Paese nel suo campo,
per questo ero sicuro che avrebbe trovato una soluzione.
Ariel rimase stupito quando gli raccontai cosa stava suc-
cedendo. Disse che avrebbe fatto un giro di telefonate e poi
mi avrebbe richiamato.

16
Verso le 22 e 30 telefonai all’ambasciata britannica e par-
lai con un uomo, un certo Chris Bowers, della sezione con-
solare. Aveva ricevuto il fax da Elena ed era già al corrente
della mia situazione, o perlomeno ne sapeva quanto me.
Verificò tutti i miei dati: data di nascita, numero di passa-
porto, data di emissione del visto, tutto. Disse che siccome
era domenica sera, forse non sarebbe riuscito a fare molto,
ma che avrebbe fatto il possibile.
Prima di riattaccare mi domandò: «Mr. Browder, le han-
no offerto qualcosa da bere o da mangiare?»
«No», risposi. Lui registrò l’informazione e io lo ringra-
ziai prima di salutarlo.
Cercai di trovare una posizione comoda in quella sedia
di plastica ma non ci riuscii. Il tempo non passava mai. Mi
alzai. Camminavo su e giù attraverso una fitta cortina di
fumo di sigaretta. Cercavo di non incrociare gli sguardi va-
cui degli altri detenuti. Controllai le email. Chiamai Ariel,
ma non rispose. Mi avvicinai alla parete di vetro e cominciai
a parlare con i funzionari nel mio pessimo russo. Mi igno-
rarono. Per loro non ero nessuno. Peggio ancora, ero già un
carcerato.
Va detto che in Russia non c’è rispetto per l’individuo e
i suoi diritti. Il singolo può essere sacrificato per i bisogni
dello stato, usato come scudo, pedina o carne da macello. Se
necessario, chiunque è sacrificabile. Una famosa espressione
di Stalin riassume bene il concetto: «Se non c’è l’uomo, non
c’è il problema».
In quel preciso istante mi tornò in mente l’articolo di
Forbes su Jude Shao. Avrei dovuto essere più cauto in pas-
sato? Mi ero così abituato a lottare contro gli oligarchi e la
corruzione dei funzionari russi che mi ero rassegnato alla
possibilità che, se qualcuno davvero l’avesse voluto, anch’io
sarei potuto sparire.
Scossi il capo per cercare di togliermi Shao dalla testa.

17
Tornai dalle guardie per cercare di carpire qualche infor-
mazione – qualsiasi cosa – ma invano. Mi rimisi a sedere.
Richiamai Ariel, questa volta rispose.
«Cosa succede, Ariel?»
«Ho parlato con tante persone ma nessuno mi dice nien-
te.»
«Cosa vuol dire che nessuno ti dice niente?»
«Che nessuno mi dice niente. Mi dispiace, Bill, ma
dammi un altro po’ di tempo. È domenica sera. Non c’è
nessuno.»
«Okay. Fatti sentire appena sai qualcosa.»
«Okay.»
Riattaccammo. Richiamai l’ambasciata. Anche loro non
avevano fatto progressi. Ci stavano andando con i piedi di
piombo, oppure non avevano ancora i miei dati, o entram-
be le cose. Prima di riattaccare, il console mi domandò di
nuovo: «Le hanno offerto qualcosa da bere o da mangiare?»
«No», ribadii. Sembrava una domanda così assurda, ma
Chris Bowers forse la pensava in un altro modo. Di sicuro
aveva già avuto esperienze simili e mi sembrava una tattica
tipicamente russa quella di non offrire da bere o da mangiare.
Entrarono altri detenuti nella stanza e intanto era passata
la mezzanotte. Erano tutti uomini, sembrava che venissero
dalle ex repubbliche sovietiche. Dalla Georgia, Kazakistan,
Azerbaigian, Armenia. Come bagaglio, ammesso che ne
avessero uno, avevano un semplice borsone da viaggio op-
pure delle grandi sporte di nylon tutte chiuse con del nastro
adesivo. Fumavano tutti come delle ciminiere. Alcuni si
esprimevano a sussurri. Nessuno sembrava agitato o preoc-
cupato. Come per le guardie, anche per loro ero un fanta-
sma e in effetti ero davvero un pesce fuor d’acqua: nervoso,
in giacca blu, Blackberry e valigia nera con rotelle.
Richiamai Elena: «Ci sono novità lì?»
«No. E lì?» rispose con un sospiro.

18
«Nulla.»
Aveva sicuramente avvertito la preoccupazione nella mia
voce. «Andrà tutto bene, Bill. Se è solo questione di visto
sarai di ritorno domani e sistemerai tutto. Ne sono sicura.»
La sua calma servì a qualcosa. «Vai a letto tesoro. Tu e il
bambino avete bisogno di riposare.»
«Okay. Se ho delle informazioni ti chiamo subito.»
«Anch’io».
«Buonanotte.»
«Buonanotte. Ti amo», aggiunsi ma lei aveva già riat-
taccato.
Un dubbio si insinuò in me. E se non fosse stata una banale
questione di visto? Sarei ritornato da Elena? Avrei mai cono-
sciuto il nostro figlio non ancora nato? Avrei mai più riabbrac-
ciato mio figlio David?
Mentre reprimevo quegli atroci pensieri, cercai di siste-
marmi su quelle sedie dure usando la giacca come cusci-
no, ma sembravano fatte apposta per non poterci dormire.
E poi ero circondato da un branco di persone minacciose.
Come potevo appisolarmi vicino a quei soggetti?
Impossibile.
Mi misi a sedere e cominciai a scorrere sul BlackBerry
liste di persone incontrate nel corso degli anni in Russia,
Gran Bretagna e America che avrebbero potuto aiutarmi:
politici, imprenditori, giornalisti.
Mi chiamò un’ultima volta Chris Bowers prima della fine
del suo turno in ambasciata. Mi assicurò che chi lo avrebbe
sostituito, sarebbe stato informato a dovere. Voleva ancora
sapere se mi avevano offerto da bere o da mangiare. Non
lo avevano fatto. Si scusò, anche se non c’era niente che
potesse fare. Era chiaro che stava scrivendo un verbale per
maltrattamento, nel caso ce ne fosse stato bisogno. Dopo
aver riattaccato, pensai, merda!
A quel punto si erano fatte le due o le tre della mattina,

19
spensi il BlackBerry per risparmiare batterie e provai di nuo-
vo ad addormentarmi. Tirai fuori una camicia dalla valigia
e me la misi sugli occhi. Ingoiai due pastiglie di Nurofen
senz’acqua, cominciavo ad accusare i sintomi del mal di testa.
Cercai di non pensare a nulla. Tentai di convincermi che sarei
ripartito l’indomani. Era solo un problema di visto. In un
modo o in un altro, me ne sarei andato dalla Russia.
Poco dopo mi addormentai.
Mi svegliai verso le 6 e 30 quando entrò un’altra ondata
di detenuti. Stessa cosa. Nessuno come me. Altre sigaret-
te, ancora sussurri. Il tanfo di sudore aveva raggiunto livelli
stratosferici. Mi sentivo un saporaccio in bocca e, per la pri-
ma volta, mi resi conto di quanto avessi sete. Chris Bowers
aveva ragione ad avermi chiesto se mi avessero offerto acqua
o cibo. Avevamo accesso a un bagno lurido, ma quei fara-
butti avrebbero dovuto darci da bere e da mangiare.
Ciononostante mi ero svegliato di umore positivo pen-
sando che fosse solo un malinteso burocratico. Chiamai
Ariel. Non era ancora riuscito a venire a capo della situazio-
ne, però disse che il primo volo per Londra sarebbe partito
alle 11 e 15. Avevo solo due possibilità. Mi avrebbero arre-
stato oppure deportato, quindi cercai di convincermi che
sarei salito su quel volo.
Tentai con tutto me stesso di tenermi impegnato. Risposi
ad alcune email come se fosse stata una normale giornata di
lavoro. Contattai l’ambasciata. Il console di turno mi assi-
curò che non appena avessero iniziato a sbrigare le questioni
di quella giornata, si sarebbero occupati del mio caso. Presi
tutte le mie cose e provai ancora una volta a parlare alle
guardie. Chiesi loro il mio passaporto, ma fu come parlare
al vento. Sembrava che quello fosse il loro unico lavoro:
starsene dietro alla parete di vetro a ignorare i detenuti.
Camminai avanti e indietro per la stanza: 9, 9 e 15,
9 e 24, 9 e 37. Ormai ero un fascio di nervi. Volevo chia-

20
mare Elena, però era troppo presto a Londra. Telefonai
ad Ariel, ma non sapeva ancora niente. Smisi di fare te-
lefonate.
Alle 10 e 30 iniziai a battere i pugni sulla parete di vetro
e i funzionari continuarono ancora a ignorami con grande
professionalità.
Mi chiamò Elena. Questa volta non riuscì a consolarmi.
Mi promise che avremmo risolto tutto insieme, ma comin-
ciai a pensare che non avesse alcuna importanza. Ormai lo
spettro di Jude Shao aleggiava minaccioso su di me.
10 e 45. Cominciai ad andare nel panico.
10 e 51. Come avevo potuto essere così stupido? Perché un
uomo semplice del South Side di Chicago pensava di farla fran-
ca dopo aver cercato di fare abbassare la cresta a un oligarca
russo dopo l’altro?
10 e 58. Stupido, stupido, stupido! BILL, SEI UNO STUPIDO
ARROGANTE! SEI UNO STUPIDO ARROGANTE FATTO E
FINITO!
11 e 02. Finirò in una prigione russa, finirò in una prigione
russa, finirò in una prigione russa!
11 e 05. Due agenti con indosso stivali militari irruppero
nella sala e vennero dritti verso di me. Mi afferrarono per
le braccia, presero le mie cose e mi trascinarono via dalla
stanza di detenzione. Mi portarono fuori, giù per i corridoi,
su per una rampa di scale. Era la fine. Mi avrebbero sbattuto
dentro a un cellulare e portato via.
Poi, però, spalancarono la porta con un calcio. Eravamo
arrivati al terminale delle partenze e andavamo di gran
carriera. Mi risollevai un po’ quando passammo davanti
alle uscite degli imbarchi tra gli sguardi inebetiti dei pas-
seggeri. Arrivammo all’uscita del volo per Londra delle
11 e 15, mi accompagnarono lungo la passerella fino all’ae-
reo, mi spintonarono attraverso la business e mi buttarono
su un sedile in economica. I funzionari non dissero una sola

21
parola e misero la mia borsa nel portabagagli in alto. Non
mi restituirono il passaporto e girarono i tacchi.
Gli altri passeggeri cercavano di non puntarmi gli occhi
addosso, ma come era possibile? Li ignorai. Non sarei finito
in una prigione russa.
Inviai un sms a Elena dicendo che sarei arrivato a casa e
che l’avrei rivista di lì a poco. Le ho scritto che l’amavo.
Decollammo. Quando sentii le ruote ritrarsi nella fuso-
liera fui colto dal più grande senso di sollievo che avessi
mai provato in vita mia. Accumulare o perdere centinaia di
milioni di dollari era nulla a confronto.
Raggiungemmo la quota di crociera e passò il carrello con
i pasti. Non mangiavo da ventiquattrore. Quel giorno, per
pranzo, c’era una versione orrenda di manzo alla Stroganoff:
la cosa migliore che avessi mai mangiato. Chiesi dell’altro
pane. Trangugiai quattro bottiglie d’acqua e poi crollai dal
sonno.
Non riaprii gli occhi fino a quando l’aereo toccò il suolo
inglese. Mentre eravamo in fase di rullaggio, mentalmente
ho fatto una lista di tutte le cose di cui mi sarei dovuto occu-
pare. Innanzitutto avrei dovuto passare la dogana britannica
senza passaporto. Ma quello non era un grosso problema. In
Inghilterra ero a casa e, da quando avevo preso la cittadinanza
britannica alla fine degli anni Novanta, ero anche nella mia
patria adottiva. Il problema principale era la Russia. Come
sarei uscito da quel ginepraio? Chi era il responsabile? Chi
potevo contattare in Russia? E chi in Occidente?
L’aereo si fermò, dall’altoparlante si udì un segnale acu-
stico e il segnale luminoso Allacciare le cinture di sicurezza
si spense. Quando arrivò il mio turno mi incamminai lun-
go il corridoio verso l’uscita. Ero molto pensieroso. Mentre
mi avvicinavo al portellone, notai che il capitano salutava i
passeggeri che scendevano. Quando mi trovai davanti a lui,
l’uomo allungò la mano e in quel momento smisi di pensa-

22
re. La guardai. Riconobbi il mio passaporto britannico. Lo
afferrai senza dire una parola.
Ci misi cinque minuti a fare dogana. Salii su un taxi e rag-
giunsi il mio appartamento di Londra. Quando arrivai diedi
un lungo abbraccio a Elena. Non avevo mai provato un senso
di gratitudine così forte tra le braccia di un’altra persona.
Le dissi quanto l’amavo. Mi guardò con quei suoi oc-
chioni dolci. Parlammo della mia disavventura mentre,
mano nella mano, andavamo verso la nostra casa-ufficio. Ci
sedemmo alle nostre scrivanie. Accendemmo i computer,
prendemmo i telefoni a ci mettemmo al lavoro.
Dovevo capire come fare per tornare in Russia.

23
2. COME RIBELLARSI A UNA FAMIGLIA DI COMUNISTI

Se mi sentiste parlare in questo momento, forse vi chiede-


reste: «Come ha fatto quest’uomo con accento americano e
passaporto britannico a diventare prima il più grande inve-
stitore straniero in Russia e poi a essere sbattuto fuori?»
È una storia lunga che di fatto cominciò negli Stati
Uniti, in un’insolita famiglia americana. Mio nonno, Earl
Browder, era un organizzatore del sindacato dei lavoratori
di Wichita, Kansas. Era così bravo nel suo lavoro, che fu
invitato dai comunisti ad andare in Unione Sovietica nel
1926. Poco tempo dopo il suo arrivo, fece quello che quasi
tutti gli americani focosi fanno a Mosca: incontrò una bella
ragazza russa. Si chiamava Raisa Berkman, una delle prime
avvocatesse russe. Si innamorarono e si sposarono. Ebbero
tre figli; il primo fu mio padre, Felix, che nacque nella capi-
tale russa nel luglio del 1927.
Nel 1932 Earl tornò negli Stati Uniti e trasferì la fami-
glia a Yonkers, New York, dove guidò il Partito Comunista
americano. Si candidò due volte alla presidenza, nel 1936
e nel 1940, tra le fila del partito comunista. Sebbene avesse
ottenuto appena ottantamila voti in ogni elezione, la sua
candidatura si basava sull’America degli anni della depres-
sione e sui fallimenti del capitalismo dominante: riuscì a
convincere tutti gli attori politici a spingere le loro azioni a
sinistra. Fu talmente efficace che la sua immagine apparve
sulla copertina della rivista Time nel 1938, con la didascalia
«Il compagno Earl Browder».

24
Fu quella stessa efficacia ad attirare le ire del presiden-
te Roosevelt. Nel 1941, dopo che mio nonno fu arrestato
e incriminato di «irregolarità nel passaporto», cominciò a
scontare la pena di quattro anni nel Penitenziario federale
di Atlanta, Georgia. Per fortuna, grazie all’alleanza della se-
conda guerra mondiale tra Stati Uniti e Unione Sovietica,
un anno dopo gli fu concessa la grazia.
Finita la guerra, Earl trascorse qualche anno nel caos poli-
tico – fino a quando il senatore Joseph McCarthy cominciò
la sua scellerata caccia alla streghe, nel tentativo di liberare
il Paese da tutti i comunisti rimasti. Negli anni Cinquanta
ci fu una vera e propria psicosi in America; poco importava
che fossi un comunista buono o cattivo, eri pur sempre un
comunista. Earl fu citato in giudizio e interrogato per mesi
dalla Commissione per le attività antiamericane.
Il credo e la persecuzione politica di mio nonno ebbe-
ro forti ripercussioni sul resto della famiglia. Mia nonna
era un’intellettuale ebrea russa e desiderava che nessuno dei
suoi figli entrasse nel mondo sporco della politica. Per lei,
il richiamo più potente era quello del mondo accademico,
in particolare quello della scienza e della matematica. Felix,
mio padre, dotato di grande senso del dovere, fu all’altezza
e addirittura superò le aspettative della madre, entrando al
MIT all’età di sedici anni. Era molto diligente, si laureò in
meno di due anni e poi frequentò un corso postlaurea in
matematica alla Princeton. A soli vent’anni gli fu conferito
il dottorato in ricerca.
Sebbene mio padre fosse uno dei matematici più brillan-
ti degli Stati Uniti, era pur sempre figlio di Earl Browder.
Quando il presidente Truman introdusse il servizio di leva
dopo la Seconda guerra mondiale, Felix chiese il rinvio,
ma il suo datore di lavoro, l’Institute for Advanced Study
di Princeton, si rifiutò di scrivergli una lettera di referen-
ze. Nessuno dei suoi superiori voleva essere pubblicamente

25
associato al figlio di un famoso comunista. In assenza di
domanda di rinvio, Felix fu subito arruolato nell’esercito
nel 1953.
Dopo un addestramento di base, mio padre fu assegnato
ai servizi segreti dell’esercito a Fort Monmouth, nel New
Jersey, dove operò per diverse settimane prima che il suo
ufficiale comandante si rendesse conto di chi era. Ci fu un
cambiamento repentino. A notte fonda, Felix fu tirato giù
dalla branda, sbattuto in un veicolo militare e trasportato a
Fort Bragg, nella Carolina del nord, dove lavorò al distri-
butore di benzina in fondo alla base militare per i due anni
successivi.
Nel 1955, quando fu congedato, fece domanda per il
primo lavoro accademico disponibile: assistente universi-
tario alla Brandeis University. Al consiglio di facoltà della
Brandeis non sembrava vero che un brillante matematico
della Princeton avesse fatto domanda per insegnare nel loro
ateneo. Però, dopo averlo proposto, il Consiglio di facoltà si
mostrò riluttante all’idea di sostenere il figlio dell’ex-leader
del Partito comunista americano.
All’epoca Eleanor Roosevelt era presidente del Consiglio
di facoltà e sebbene suo marito fosse stato responsabile
dell’incarcerazione di mio nonno, disse che sarebbe stata
«la cosa più antiamericana che avrebbero potuto fare, quella
di negare a un grande scienziato la possibilità di svolgere la
sua professione a causa di chi era figlio, il che gli valse un
posto di lavoro alla Yale, alla Princeton e all’Università di
Chicago, dove in seguito diventò presidente della facoltà di
matematica. Ebbe una lunga carriera coronata da successi e
nel 1999 il presidente Clinton gli conferì la Medaglia na-
zionale della scienza, l’onorificenza in matematica più pre-
stigiosa degli Stati Uniti.
La storia di mia madre non è da meno. Eva nacque a
Vienna nel 1929, da una ragazza madre ebrea. Nel 1938

26
era già evidente che i nazisti stavano prendendo di mira gli
ebrei, quindi in molti fuggirono il più lontano possibile
dall’Europa. Poiché un gran numero di persone cercava di
andarsene, ottenere un visto per gli Stati Uniti era presso-
ché impossibile e mia nonna, a malincuore, decise di dare
mia madre in adozione, per far sì che potesse avere una vita
migliore in America.
Gli Applebaum, una buona famiglia ebraica di Belmont,
Massachusetts, accettarono di adottarla. All’età di nove anni
viaggiò sola per l’Europa in treno, si imbarcò su un pirosca-
fo per raggiungere gli Stati Uniti dove avrebbe conosciuto la
sua nuova famiglia. Una volta arrivata, si rese conto di aver
trovato un tesoro. Per qualche anno, mia madre visse in una
casa confortevole, tra gli agi della sua cameretta, un cocker
spaniel, il prato del giardino sempre ben curato e al riparo
da guerre genocide.
Quando Eva si stava abituando al suo nuovo stile di vita,
mia nonna Erna, riuscì a fuggire dall’Austria e a raggiungere
il Regno Unito. La lontananza da sua figlia era insoppor-
tabile. Tentò ogni giorno di ottenere un visto per gli Stati
Uniti per ricongiungersi a Eva. Dopo tre anni, arrivò fi-
nalmente il visto. Andò dall’Inghilterra a Boston e si pre-
sentò alla porta degli Applebaum a Belmont, aspettandosi
una riunione gioiosa. Invece, mia nonna fu accolta da una
figlia che conosceva appena, una bambina americana che
si era talmente abituata agli Applebaum e che non se ne
voleva andare. Dopo una lotta traumatica, mia nonna ebbe
la meglio, madre e figlia si trasferirono in un appartamen-
to con una stanza da letto a Brookline, nel Massachusetts.
Mia nonna lavorava ottanta ore la settimana come sarta per
cercare di mantenersi, ma erano così povere che il lusso più
grande che potevano permettersi era una pirofila di roast-
beef e puré di patate una volta la settimana in una mensa
del quartiere. Passare dalla povertà all’agio per poi ritornare

27
alla povertà fu così traumatico che, ancora oggi, mia ma-
dre conserva le bustine di zucchero e si riempie la borsa
di panini sottratti dai cestini dei ristoranti. Nonostante la
vita grama della sua adolescenza, mamma aveva un talento
accademico e le fu offerta una borsa di studio al MIT, dove
incontrò Felix nel 1948. Dopo qualche mese si sposarono.
Sono nato nel 1964 in una strana famiglia di accademici di
sinistra. I principali argomenti di conversazione a tavola era-
no teoremi di matematica e come il mondo stesse andando a
rotoli a causa di imprenditori corrotti. Mio fratello maggiore,
Thomas, seguì le orme di mio padre e frequentò l’università
di Chicago – all’età di quindici anni. Si laureò (con il massi-
mo dei voti, neanche a dirlo), in fisica. Continuò a studiare
per il dottorato di ricerca all’età di diciannove anni e oggi è
uno dei più importanti fisici delle particelle.
Io, invece, mi trovavo all’estremo accademico opposto.
Quando avevo dodici anni, i miei genitori annunciarono
che si sarebbero presi un anno sabbatico e mi chiesero di
scegliere se andare con loro oppure in collegio. Scelsi la se-
conda opzione.
Sentendosi in colpa, mia madre mi permise di scegliere
la scuola che preferivo. Siccome il mondo accademico non
mi interessava, a me piaceva sciare, cercai le scuole che era-
no vicine a località sciistiche. Ne trovai una, la Whiteman
School, a Steamboat Springs, nel Colorado.
I miei genitori erano talmente immersi nel loro mondo
accademico che non si erano neppure preoccupati di fare
delle ricerche sulla scuola. Se l’avessero fatto, avrebbero sco-
perto che la Whiteman non era una scuola molto selettiva
e che attirava molti studenti problematici: in genere ragazzi
che erano stati espulsi da altre scuole o che avevano avuto
problemi con la legge.
Per frequentare quel collegio ho dovuto saltare la terza
media, quindi arrivai alla Whiteman School che ero un tre-

28
dicenne minuto, lo studente più giovane ed esile dell’isti-
tuto. Quando gli altri videro questo ragazzino magrolino
vestito con un blazer blu, lo identificarono subito come
una possibile vittima. La prima sera, un branco di studen-
ti entrò nella mia stanza e cominciò a frugare nei cassetti,
prendendo tutto quello che volevano. Osai aver qualcosa da
ridire, così mi aggredirono bloccandomi a terra ripetendo la
stessa tiritera: «E adesso… una bella strizzatina di capezzoli,
Billy Browder!»
Durante le prime settimane, questa storia si ripeteva qua-
si ogni sera. Avevo lividi dappertutto e mi sentivo umiliato.
Appena si spegnevano le luci, il pensiero di quello che quei
ragazzacci potevano farmi mi terrorizzava.
Mia madre mi venne a trovare all’inizio di ottobre. Per
orgoglio non le avevo detto niente di quello che succedeva.
Anche se non lo sopportavo credevo di potermela cavare da
solo.
Invece, appena salii sulla macchina di mia madre per an-
dare a cena, scoppiai a piangere.
Preoccupata, mi chiese cosa stesse succedendo.
«Odio questo posto!» gridai in lacrime. «È un inferno!»
Non le dissi che mi picchiavano tutte le sere o delle striz-
zate dei capezzoli e non sapevo se avesse dei sospetti, però
disse: «Bill, se non vuoi rimanere, devi solo dirlo. Ti riporto
in Europa con me».
Mi presi un po’ di tempo per pensarci. Mentre ci avvi-
cinavamo al ristorante, decisi che se da un lato tornare vi-
cino al grembo di mia madre poteva sembrare la cosa più
bella del mondo in quel momento, non volevo lasciare la
Whiteman a testa bassa.
Ci sedemmo a un tavolo e ordinammo. Mentre mangia-
vamo mi calmai e a un certo punto dissi: «Senti, ho deciso
di rimanere. Me la caverò».
Passammo il fine settimana insieme, lontano dalla scuola,

29
poi lei mi riportò indietro domenica sera. Dopo i saluti ri-
tornai nella mia stanza e, mentre passavo davanti alle came-
rate del secondo anno, sentii un paio di ragazzi bisbigliare:
«Strizziamogli i capezzoli».
Accelerai il passo ma due dei ragazzi si alzarono e mi se-
guirono. Ero così pieno di rabbia e umiliazione che, poco
prima di voltare l’angolo per entrare nella mia stanza, mi gi-
rai e sferrai un pugno al ragazzo più piccolo. Lo colpii dritto
al naso. Lui cadde a terra e io gli saltai sopra continuando
a picchiarlo a più non posso, aveva la faccia tutta sporca di
sangue, finché il suo amico mi afferrò per le spalle e mi tirò
indietro. Poi tutti e due mi pestarono per benino prima che
il direttore arrivasse per porre fine alla lite.
Da quel momento in avanti, nessuno mi mise più le mani
addosso alla Whiteman School.
Passò un intero anno e imparai tantissime cose di cui non
avevo mai sentito parlare. Cominciai a fumare sigarette, a
fare fughe notturne e a portare alcolici in dormitorio. Ne
combinai talmente tante che alla fine dell’anno fui espulso.
Ritornai dalla mia famiglia a Chicago, ma non ero più lo
stesso Billy Browder.
Se nella mia famiglia non eri un prodigio, non c’era posto
per te sulla terra. Ero talmente fuori dai binari che i miei
genitori non sapevano più come comportarsi con me. Mi
mandarono da una caterva di psichiatri, psicologi e medici
per cercare di «curarmi». Più continuavano e più mi ribel-
lavo. Il rifiuto della scuola era un buon inizio, ma se volevo
davvero fare arrabbiare i miei genitori avrei dovuto inven-
tarmi qualcos’altro.
Poi, verso la fine delle superiori, mi venne un’idea. Mi
sarei messo in giacca e cravatta e sarei diventato un capita-
lista. Non c’era niente che avrebbe fatto incavolare di più i
miei genitori.

30
3. CHIP E WINTHROP*

C’era solo un problema: siccome ero un pessimo studente,


tutte le università che cercai di contattare rifiutarono la mia
domanda. Fu solo grazie all’aiuto di un consulente della
scuola che riuscii ad assicurarmi un posto all’Università del
Colorado a Boulder, presentando ricorso. Benché entrare
per il rotto della cuffia all’università di Boulder fosse umi-
liante, mi ripresi subito dallo shock quando scoprii che era
l’ateneo in vetta alle classifiche per numero di feste in tutto
il Paese, secondo i dati della rivista Playboy.
Dopo aver visto svariate volte il film Animal House, decisi
che se dovevo andare a una festa universitaria l’avrei fatto
come si doveva, entrando in una confraternita. Fui ammes-
so alla Delta Upsilon dopo i classici riti di iniziazione. Tutti
avevano un soprannome – Scintilla, Fiuto, Fermaporta,
Osso e io ero detto Brillo, come la marca della paglietta per
pulire, per via dei miei capelli neri ricci.
Essere conosciuto con quel nomignolo era divertente, ma
dopo settimane di birre, ragazze, scherzi ridicoli e ore tra-
scorse incollati alla televisione a guardare sport, cominciai a
pensare che se avessi continuato in quel modo, l’unico tipo
di capitalista che sarei diventato era quello che prendeva le
mance come posteggiatore. La situazione precipitò quando

* Si tratta di due nomi tipici di bianchi anglosassoni protestanti (WASP -


WHITE ANGLO-SAXON PROTESTANT). Sono i rappresentanti per anto-
nomasia dell’élite della società americana in opposizione al ceto medio ebraico.
[N.d.T.]

31
un ragazzo della confraternita, il mio idolo, fu arrestato per
una rapina alla United Bank di Boulder per finanziare le
sue abitudini da cocainomane. La severa pena detentiva a
cui fu condannato rappresentò per me un vero campanello
d’allarme. Mi resi conto che se avessi continuato su quella
strada l’unica persona che ci avrebbe rimesso da quel tipo di
ribellione sarei stato io.
Da quel momento in avanti smisi di andare alle feste,
trascorsi tutte le sere in biblioteca e cominciai a prendere il
massimo dei voti. Alla fine del secondo anno feci domanda
per entrare nelle migliori università degli Stati Uniti e mi
accettarono all’Università di Chicago.
Lì studiai ancora di più e sviluppai nuove ambizioni.
Quando si avvicinò il momento della laurea sentii un biso-
gno impellente di capire cosa volevo fare della mia vita. In
che modo sarei stato un capitalista? Mentre ci pensavo vidi
l’annuncio di una conferenza del preside di facoltà di una
scuola di specializzazione post laurea in economia azien-
dale. Siccome ero intenzionato a entrare nel mondo degli
affari, in qualche modo decisi di andare ad ascoltarlo. Il di-
scorso verteva sugli sbocchi lavorativi dei laureati alla scuo-
la di specializzazione in economia aziendale di Chicago. Si
trattava per la totalità di professioni interessanti e ben retri-
buite. Quindi decisi che quella scuola sarebbe stata la mia
prossima tappa.
Secondo il preside di facoltà, il modo migliore per esse-
re accettato da una delle migliori scuole di specializzazione
in economia aziendale era trascorrere due anni, prima di
frequentare la scuola, presso un’azienda tipo la McKinsey
o la Goldman Sachs, o una delle venticinque altre aziende
con profili simili. Le bombardai tutte di lettere e telefonate
in cerca di un lavoro. Non era semplice, perché tutti gli al-
tri studenti con ambizioni analoghe facevano la stessa cosa.
Alla fine ricevetti ventiquattro lettere di rifiuto e una sola

32
offerta di lavoro dalla Bain & Company di Boston, una del-
le migliori società di consulenza aziendale degli Stati Uniti.
Non mi fu chiaro come avessi potuto attirare la loro atten-
zione, però ci riuscii e accettai la loro offerta senza pensarci
due volte.
La Bain selezionava laureati con il massimo dei voti
provenienti da ottime università, pronti a lavorare sedici
ore al giorno, sette giorni alla settimana, per due anni.
In cambio promettevano che saresti entrato in una del-
le migliori scuole di specializzazione in economia azien-
dale. Però quell’anno ci fu un intoppo. Gli affari della
Bain andavano a gonfie vele, così assunsero centoventi
bravi «studenti schiavi», anziché i soliti venti come tutte
le altre aziende che aderivano ai programmi biennali pre-
MBA. Purtroppo, questo vanificò l’accordo implicito che
la Bain aveva con le scuole di economia aziendale. Questi
istituti intendevano sì ammettere giovani consulenti dalla
Bain, però avevano anche accordi con McKinsey, Boston
Consulting Group, Morgan Stanley, Goldman Sachs e de-
cine di altre «fabbriche» di giovani capitalisti ambiziosi.
Quindi, nella migliore delle ipotesi, queste scuole pote-
vano accettare solo venti persone dalla Bain, non tutti i
centoventi. In pratica la Bain offriva l’opportunità di farsi
la gavetta per 28.000 dollari l’anno e il 16% di possibilità
di entrare a Harvard o a Stanford.
Le conseguenti candidature alle scuole di economia azien-
dale crearono una crisi all’interno della Bain. Per settimane
ci guardammo con sospetto, cercando di trovare un modo
per essere notati. Non ero certo meglio dei miei compagni
di studi. Molti avevano frequentato l’università di Harvard,
Princeton o Yale e molti avevano ottenuto risultati migliori
di me alla Bain.
Poi ho avuto una specie di epifania. I miei colleghi pote-
vano avere anche un curriculum migliore del mio, ma chi

33
altri era il nipote del leader del Partito comunista degli Stati
Uniti? Io, nessun altro.
Feci domanda per due università, Harvard e Stanford,
spiegando loro la storia di mio nonno. La Harvard mi scar-
tò subito, invece, con mia grande sorpresa la Stanford mi
accettò. Quell’anno fui uno dei tre dipendenti della Bain a
essere accettato alla Stanford.
Nel 1987, a fine agosto, caricai tutti i miei bagagli sulla
mia Toyota Tercel e mi diressi verso la California. Quando
arrivai a Palo Alto, da El Camino Real svoltai a destra e
imboccai Palm Drive che portava direttamente al campus
principale della Stanford. La strada era costeggiata da una
doppia fila di palme su entrambi i lati e terminava davanti
a una serie di edifici in stile spagnolo con tegole in cot-
to. C’era un bel sole e il cielo era azzurro. Ero arrivato in
California, mi sembrava il paradiso.
Di lì a poco mi resi conto che era davvero un paradiso.
L’aria era pulita, il cielo era azzurro e ogni giorno mi sem-
brava di toccarlo con un dito. Tutti avevano sudato sette
camicie per essere a Stanford, lavorando ottanta ore la
settimana in «miniere» come la Bain, spulciando tabulati,
crollando dal sonno sulle nostre scrivanie e sacrificando il
divertimento sull’altare del successo. Avevamo tutti delle
ambizioni ed eravamo stati in competizione tra di noi per
assicurarci quel posto, ma una volta ottenuto, la situa-
zione cambiò. Alla Stanford non era permesso mostrare
i propri voti a un potenziale datore di lavoro. Tutte le
assunzioni avvenivano sulla base di colloqui e di esperien-
ze precedenti. Di conseguenza, la normale competizione
accademica fu sostituita da qualcosa che nessuno di noi
si aspettava: un’atmosfera di cooperazione, cameratismo e
amicizia. Mi resi subito conto che il successo alla Stanford
non dipendeva dai risultati ottenuti, ma dal semplice fat-
to di trovarsi lì. Tutto il resto fu una pacchia. Per me e per

34
tutti i miei compagni di studio furono i migliori due anni
della nostra vita.
A parte godersi quell’esperienza, l’altra finalità della
Stanford era di capire cosa si intendeva fare una volta finita
la Business School. Dal primo giorno, i miei compagni e io
frequentammo lezioni quotidiane su informazioni azienda-
li, discutevamo durante le pause pranzo, ricevimenti serali,
cene e colloqui, cercando di scegliere quale lavoro, tra le
migliaia possibili, fosse quello giusto.
Partecipai a un’affollatissima conferenza della Procter &
Gamble e ascoltai tre giovani direttori di marketing donna
– che indossavano gonna blu plissettata, camicia bianca e
cravatta – parlare con termini tecnici di tutti i modi mera-
vigliosi per vendere saponette.
Andai a un aperitivo organizzato da Trammel Crow. Mi
sentii un pesce fuor d’acqua. Non sapevo come comportarmi
in mezzo a una folla di bellissimi texani che si davano pacche
sulle spalle parlando di baseball, grandi capitali e del mercato
immobiliare (il settore in cui opera la Trammel Crow).
Poi ci fu l’evento organizzato dalla Drexel Burnham
Lambert dove cercai di restare sveglio mentre un marea di
broker di titoli azionari, con una calvizie incipiente e ve-
stiti di tutto punto, non finivano più di parlare del magico
mondo dei titoli ad alto rendimento che gestivano dal loro
ufficio di Beverly Hills.
No, no e poi no, pensai tra me e me.
Più frequentavo l’ambiente e più mi sentivo fuori po-
sto. Fu durante un colloquio per un lavoro estivo con JP
Morgan che mi si accese la lampadina. Non desideravo quel
lavoro in particolare, ma come potevo rifiutarmi di fare un
colloquio con JP Morgan, una delle imprese più importanti
di Wall Street?
Entrai in una stanzina nel centro per le assunzioni e fui
accolto da due uomini alti sulla trentina con la mascella

35
squadrata e le spalle larghe. Uno era biondo, l’altro aveva i
capelli castani, entrambi indossavano camicie eleganti con
le iniziali, completi firmati Brook Brothers e bretelle rosse.
Quando il biondo mi tese la mano notai un Rolex dall’a-
spetto molto costoso. Entrambi mi porsero il loro biglietto
da visita prendendolo da un mucchietto sulla scrivania. Si
chiamavano con nomi tipo Jake Chip Brant III e Winthrop
Higgins IV.
Il colloquio iniziò con la domanda più ovvia: «Perché
vuoi lavorare per JP Morgan?» Valutai se rispondere dicen-
do: perché mi avete invitato e ho bisogno di un lavoro estivo,
però sapevo che non era quello che dovevo dire. Invece ri-
sposi: «Perché JP Morgan ha le migliori qualità come banca
commerciale e d’investimento e ritengo che questa combi-
nazione sia la formula vincente per Wall Street».
Pensai: Sono stato davvero io a rispondere così? Ma che dia-
volo significava?
Anche Chip e Winthrop non furono impressionati dalla
mia risposta. Continuarono con altre domande di rito a cui
risposi con altrettante risposte insulse. Winthrop concluse
con una domanda innocua, offrendomi un modo per tro-
vare un terreno comune. «Bill, mi dici quali sport praticavi
all’università?»
Domanda facile – non avevo praticato sport all’univer-
sità. Ero così secchione che non avevo nemmeno tempo di
mangiare e andare al bagno, figuriamoci per praticare uno
sport. Risposi sottotono: «Be’, in realtà nessuno… però mi
piace sciare e l’escursionismo», sperando che quei due sport
fossero abbastanza fighi per i due intervistatori.
Non lo erano. Chip e Winthrop rimasero in silenzio e
non si degnarono neppure di alzare lo sguardo dalla pila di
curriculum. Fine del colloquio.
Mentre uscivo dall’edificio, mi resi conto che a quei
due non interessavano le mie risposte. Quel che voleva-

36
no sapere era se rientravo nella mentalità di JP Morgan.
Ovviamente no.
Mi diressi verso la mensa, mi sentivo strano e abbattuto.
Feci la fila, presi qualcosa da mettere sotto i denti, mi misi
a sedere a un tavolo e mangiai distrattamente. Finito il pa-
nino entrò il mio migliore amico, Ken Hersh, in giacca e
cravatta, segno inconfondibile che anche lui ere reduce da
un colloquio di lavoro.
«Ehi, Ken. Da dove vieni?» gli domandai.
Tirò indietro una sedia. «Ho appena fatto un colloquio
con JP Morgan.»
«Davvero? Hai conosciuto anche tu Chip e Winthrop?
Com’è andata?»
Ken scoppiò a ridere per quei soprannomi e si strinse nel-
le spalle. «Non saprei. Non stava andando benissimo, poi
quando ho detto a Chip che poteva usare i miei cavalli da
polo al club nelle Hamptons questa estate, le cose hanno
preso una svolta positiva», rispose sorridendo Ken.
Era un giovane ebreo benestante di bassa statura di Dallas.
Al massimo i cavalli da polo li aveva visti sul logo di Ralph
Lauren al centro commerciale Galleria di Dallas. «E tu?»
«Allora saremo colleghi! Sono sicuro che mi daranno il
lavoro perché ho detto a Winthrop che lo porterò sulla mia
barca ormeggiata allo yacht club di Kennebunkport.»
Entrambi non ottenemmo il lavoro, ma da quel giorno in
poi Ken mi chiamò Chip e io lo chiamai Winthrop.
Dopo l’esperienza con JP Morgan mi domandai come
avrei continuato a sopportare di essere scartato dai Chip
e Winthrop del mondo. Non ero come loro e non volevo
lavorare per loro. Avevo scelto di intraprendere quella strada
come reazione ai miei genitori e alla mia educazione, ma
non potevo cancellare il fatto che fossi un Browder.
In seguito cominciai a cercare un posto di lavoro più con-
sono ai miei gusti personali. Partecipai alla conferenza di un

37
leader dei sindacati dei metalmeccanici che mi fece un’otti-
ma impressione. Mentre lo ascoltavo parlare sentivo la voce
di mio nonno, un uomo con i capelli bianchi e i baffi di cui
mantengo vivo il ricordo di quando se ne stava seduto nel
suo studio, circondato dai libri, l’aroma dolciastro del tabacco
da pipa che impregnava ogni cosa. Fui talmente ispirato che,
dopo quel discorso, mi rivolsi al relatore domandandogli se
potesse assumermi per partecipare alle trattative con i datori
di lavoro delle grande aziende che sfruttavano i dipendenti.
Mi ringraziò per il mio interesse, ma disse che assume-
vano solo metalmeccanici nella sede centrale del sindacato.
Continuai imperturbato a considerare altri aspetti della
vita di mio nonno che potevo emulare e mi venne in mente
l’Europa dell’Est. Mio nonno aveva trascorso diversi anni
della sua vita nel blocco sovietico e la sua esperienza in quei
luoghi gli aveva fatto guadagnare il rispetto di molti a livello
globale. Se quello era il luogo dove mio nonno si era rita-
gliato uno spazio, forse potevo farlo anch’io.
Stiamo parlando dello stesso Ken Hersh che poi gestì la
Natural Gas Partners, una delle società energetiche di priva-
te equity di maggior successo al mondo.
In questa ricerca avevo anche accumulato delle offerte di
lavoro, nell’eventualità che la realtà utopistica che cercavo
non andasse a buon fine. Una era con la Boston Consulting
Group nella sua sede centrale del Midwest a Chicago. Io ero
di Chicago e avevo lavorato come consulente alla Bain, ciò
significava che avevo tutte le carte in regola per essere assunto.
Però non volevo tornare a Chicago. Volevo girare il mon-
do, anzi, desideravo lavorare nel mondo (quel che davvero
desideravo era essere Mel Gibson in Un anno vissuto perico-
losamente, il mio film preferito). Nel tentativo di convincer-
mi ad accettare l’offerta, la BCG mi pagò il biglietto aereo
per un colloquio insieme ad altri aspiranti. Ci sottoposero a
una serie infinita di incontri con brillanti consulenti che la-

38
voravano per l’azienda da uno o due anni e che ci racconta-
rono le loro vite piene di successo con la BCG. Interessante,
ma non ci cascai.
L’incontro successivo fu con il direttore Carl Stern.
Doveva essere la fine della procedura, la fase in cui avrei do-
vuto stringere la sua grossa mano e, dopo averlo ringraziato
a profusione, dirgli sì.
Quando entrai nel suo ufficio mi domandò cordialmen-
te: «Allora, Bill, cosa ne dici? Vuoi essere dei nostri? Qui
tutti ti adorano». Mi sentii lusingato ma non avrei mai ac-
cettato. «Sono davvero spiacente. Siete stati davvero tutti
molto disponibili, ma il fatto è che non riesco a immaginare
di vivere e lavorare a Chicago.»
Era un po’ confuso perché non avevo mai sollevato obie-
zioni contro Chicago durante le fasi del colloquio. «Dunque,
niente a che vedere con la BCG?»
«No, direi di no.»
Si chinò in avanti. «In questo caso, dimmi, dove ti piace-
rebbe lavorare?»
Era giunto il momento. Se davvero volevo ottenere qual-
cosa, dovevo dirglielo.
«Europa dell’est.»
«Ah!» esclamò lui, colto di sorpresa. Non gliel’aveva mai
detto nessuno. Si tirò indietro appoggiandosi allo schiena-
le della sedia e guardò il soffitto. «Vediamo un po’… sì…
come ben saprai, non abbiamo uffici in Europa dell’Est, ma
c’è qualcuno nella nostra sede di Londra che è specializzato
in quella regione, si chiama John Lindquist. Ti possiamo
organizzare un incontro, se pensi che questo possa aiutarti
a cambiare idea.»
«Sì, potrebbe.»
«Ottimo. Vedo quando è disponibile e fisso un appunta-
mento.»
Due settimane dopo presi un volo per Londra.

39
4. POSSIAMO TROVARLE UNA DONNA CHE LE TENGA
CALDO LA NOTTE

A Londra, gli uffici della BCG si trovavano proprio sopra la


stazione della metropolitana di Green Park sulla Piccadilly
line nel cuore di Mayfair. Mi presentai alla reception e fui
accompagnato nell’ufficio di John Lindquist che assomi-
gliava a quello di un professore sbadato, con pile di libri e
carte dappertutto.
Quando lo vidi capii subito che John era una specie di
anomalia. Americano, sembrava una versione più raffinata
di Chip o Winthrop con il suo vestito di Savile Row, la
cravatta di Hermès e gli occhiali con la montatura di corno.
Ma aveva anche una strana aria da bibliofilo. A differenza
dei sui subalterni di sangue blu da JP Morgan, John parlava
sottovoce e non guardava mai diritto negli occhi.
Dopo essermi accomodato nel suo ufficio disse: «A
Chicago mi dicono che vuole lavorare in Europa dell’Est,
vero? È la prima persona che incontro alla BCG che vuole
lavorare lì».
«Sì, le sembrerà strano, ma è quello che voglio.»
«Perché?»
Gli raccontai la storia di mio nonno che era vissuto a
Mosca per poi tornare negli Stati Uniti e candidarsi per
la presidenza diventando alla fine il volto del comunismo
americano. «Voglio fare qualcosa di interessante come lui.
Qualcosa di adatto a me e al tipo di persona che sono.»
«Be’, sarebbe il primo comunista a lavorare per la BCG»,
disse con una strizzatina d’occhio. Si ricompose. «Al mo-

40
mento, non abbiamo nessuna attività in Europa dell’Est,
però ho un’idea. Se viene a lavorare qui, la prima oppor-
tunità che si presenterà in Europa dell’Est sarà sua, vero?»
Capii subito che era uno che diceva vero alla fine di ogni
frase, un specie di tic.
Non sapevo esattamente perché ma John mi piaceva.
Accettai la sua offerta all’istante e diventai il primo di-
pendente del gruppo sperimentale della BCG per l’Europa
dell’Est.
Mi trasferii a Londra nell’agosto del 1989. Presi in affitto
una casetta a Chelsea con altri miei due compagni di corso
della Stanford, anche loro avevano trovato lavoro a Londra.
Il primo lunedì di settembre salii sulla Piccadilly line con le
farfalle nello stomaco per l’agitazione e pronto a conquista-
re l’Europa dell’Est alla BCG.
L’unico problema era che non c’era nessun lavoro in
Europa dell’Est, perlomeno non ancora. Ma poi il 10 no-
vembre di quell’anno, mentre me ne stavo seduto nel no-
stro salottino a guardare la televisione con i miei amici della
Stanford, il mondo sotto i miei piedi vacillò. Era appena
crollato il muro di Berlino. I tedeschi dell’Est e quelli dell’O-
vest, armati di mazze e scalpelli, cominciarono a demolirlo
pezzo per pezzo. Davanti ai nostri occhi stavano prendendo
forma nuovi capitoli di storia. Nel giro di qualche settima-
na, in Cecoslovacchia prese piede la Rivoluzione di velluto
che segnò la fine del governo comunista.
Le tessere del domino stavano cadendo, presto l’Euro-
pa dell’Est sarebbe stata libera. Mio nonno era stato il più
grande comunista americano e io, assistendo a questi eventi,
decisi che sarei diventato il più grande capitalista in Europa
dell’Est.
La mia prima opportunità si presentò nel giugno del
1990 quando John, infilando la testa nel mio ufficio, disse:
«Ehi, Bill, eri tu quello che voleva andare in Europa dell’Est,

41
vero?» Annuii. «Benissimo. La Banca Mondiale sta cercando
consulenti di riorganizzazione per andare in Polonia. Devi
preparare una proposta per salvare una ditta polacca di au-
tobus in crisi, vero?»
«Va bene, ma non ho mai fatto una proposta. Come devo
procedere?»
«Vai da Wolfgang. Te lo dirà lui.»
Wolfgang. Wolfgang Schmidt. Solo il suono di quel nome
mi faceva accapponare la pelle.
Wolfgang era un direttore della BCG che si occupava della
gestione quotidiana dei vari gruppi di lavoro. Era famoso
per essere uno dei direttori con cui era più difficile lavorare
nell’ufficio di Londra. Un austriaco sulla trentina, amava
gridare, lavorare fino a notte fonda e sbranare i giovani con-
sulenti. Nessuno voleva avere a che fare con lui. Se però
volevo davvero andare in Polonia, avrei dovuto lavorare per
Wolfgang. Non ero mai stato nel suo ufficio, ma sapevo
dove si trovava. Tutti lo sapevano, anche solo per il semplice
motivo di evitarlo.
Ci andai e mi trovai di fronte a un gran disordine – la
stanza era cosparsa di cartoni di pizza vuoti, fogli accartoc-
ciati e pile di relazioni. Wolfgang era curvo su un enorme
raccoglitore ad anelli e stava sfogliando le pagine. La sua
fronte sudata luccicava nella luce fluorescente e aveva i ca-
pelli tutti arruffati. Indossava una costosa camicia di sarto-
ria fuori dai pantaloni, e da un lato si vedeva la pelle scoper-
ta del suo pancione.
Mi schiarii la voce.
Alzò la testa verso di me. «Chi sei?»
«Bill Browder.»
«Cosa vuoi? Non vedi che ho da fare?»
In effetti avrebbe avuto il suo bel da fare se avesse voluto
ripulire quella porcilaia che chiamava ufficio, ma non dissi
nulla. «Devo preparare una proposta per la riorganizzazione

42
di una ditta polacca di autobus. John Lindquist mi ha sug-
gerito di venire a parlare con lei.»
«Santo cielo», borbottò. «Senti Browner, comincia a tro-
vare i cv dei consulenti della BCG che hanno esperienza di
camion, autobus, auto, di qualsiasi cosa che pensi possa es-
serti utile. Trovane il più possibile.»
«Va bene. Poi li devo portare a lei…?»
«Fallo e basta!» Si chinò di nuovo sul raccoglitore ad anel-
li e ricominciò a leggere.
Uscii dall’ufficio e andai in biblioteca. Sfogliando il libro
dei cv mi resi contò delle ragioni per cui la BCG aveva una
tale fama internazionale. C’era personale con esperienza in
tutti i settori e in tutti gli angoli del mondo. Nell’ufficio
di Cleveland c’era un’équipe di consulenti specializzati in
produzione di autoveicoli; a Tokyo c’era un gruppo che si
era occupato dell’applicazione di politiche di gestione delle
scorte «just in time» nelle compagnie automobilistiche giap-
ponesi; alcuni consulenti di Los Angeles erano specializzati
in ricerca operativa. Li fotocopiai e tornai subito nell’ufficio
di Wolfgang.
«Già fatto Browner?»
«Veramente mi chiamo Browder…»
«Sì, certo. Senti, stanno arrivando anche un altro paio di
lavori dalla Polonia, quelli che si occupano di quelle propo-
ste ti diranno come procedere. Io non ho tempo. Adesso se
non ti dispiace…»
Con la mano aperta Wolfgang indicò di scatto la porta,
un invito ad andarmene.
Trovai gli altri consulenti e per fortuna erano più che
contenti di aiutarmi. Nelle settimane che seguirono abboz-
zammo tabelle di marcia, piani di lavoro e raccogliemmo
ulteriori informazioni sui pregi della BCG. Una volta termi-
nate le presentazioni erano così perfette e scorrevoli che non
riuscivo a capire come avremmo potuto non guadagnarci il

43
lavoro. Le consegnammo a John Lindquist che le girò alla
Banca Mondiale e rimanemmo tutti in attesa.
Due mesi dopo Wolfgang venne nel mio ufficio con fare
stranamente cordiale e calmo. «Bill, prepara le valigie. Vai
in Polonia.»
«Abbiamo vinto?»
«Certo. Adesso comincia il lavoro vero.»
Ero al settimo cielo. «Devo cominciare a chiamare gli
esperti che abbiamo incluso nella proposta per assicurarmi
che anche loro possano venire in Polonia?»
Wolfgang aggrottò la fronte. «Cosa stai dicendo? Certo
che no. Sei l’unico che si occuperà di questo caso.» Con la
mano diede un colpo della porta, si girò e se ne andò irri-
tato.
Non potevo crederci. Nell’offerta avevo incluso tutti que-
gli esperti e in Polonia ci sarei andato da solo? Un neoassun-
to che non sapeva assolutamente nulla di autobus, anzi di
affari? Ero scioccato, però nascosi i miei dubbi. Era l’incari-
co dei miei sogni. Mi sarei dovuto mordere la lingua e fare
in modo che tutto andasse bene.
Alla fine di ottobre del 1990, quasi un anno dopo la cadu-
ta del muro di Berlino, John, Wolfgang, due altri neoassun-
ti e io ci imbarcammo su un volo della LOT* per Varsavia.
Fummo accolti da quattro uomini della Banca Mondiale
e da due dipendenti della Autosan, la ditta di autobus in
cattive acque che avremmo dovuto salvare dalla bancarotta.
Dopo aver ritirato i bagagli, salimmo a bordo di un autobus
della Autosan e ci dirigemmo verso il quartier generale di
Sanok.
Fu un viaggio lungo. Ben presto Varsavia lasciò il posto
alla campagna polacca che era in preda all’autunno: pit-
toresca ma anche un po’ deprimente. Il regime comunista

* Compagnia aerea di bandiera della Polonia.

44
polacco era crollato da poco e la situazione sul posto era
peggio di quanto immaginassi. Era come entrare in una
macchina del tempo che riportava indietro al 1958. Le
auto erano dei catorci. Lungo i bordi delle strade c’erano
carrozze trainate da cavalli. Le fattorie erano decrepite e
nelle città i palazzi, gli onnipresenti condomini di cemento
in stile sovietico, stavano cadendo a pezzi. I polacchi erano
dilaniati da mancanza di cibo, iperinflazione, blackout e
ogni sorta di disfunzione.
Mentre me ne stavo seduto su quell’autobus rumoroso
con la fronte appoggiata al vetro, pensai Questo è esattamen-
te quello che volevo. Davanti avevo una strada aperta e piena
di possibilità.
Sei ore più tardi, arrivammo a Sanok, una cittadina con
meno di cinquantamila abitanti tra i boschi delle colline
della Polonia sudorientale, a sedici chilometri dalla fron-
tiera con l’Ucraina. Giunti nel ristorante della Autosan en-
trammo per un banchetto con i dirigenti della Autosan e i
rappresentanti della Banca Mondiale. Nessuno degli ospiti
toccò cibo: grasse braciole di maiale, patate stracotte e una
specie di gelatina con dentro pezzi di maiale. Oltre alle pie-
tanze poco appetitose, nell’aria c’era un odore di solvente
chimico proveniente dalla fabbrica nelle vicinanze. Ebbi la
sensazione che tutti quelli che non erano di Sanok volessero
uscire di là il prima possibile. Però i dirigenti della ditta
di autobus non ci avrebbero lasciati andare e continuarono
con i brindisi fino a tarda serata. Finalmente, alle 23 e 15,
mentre servivano il caffè, gli uomini dell’équipe della Banca
Mondiale si alzarono con fare impacciato, si scusarono e
risalirono sull’autobus che li avrebbe portati a Rzeszow, la
cittadina più vicina dotata di un albergo decente.
I miei colleghi della BCG aspettarono fino a quando
l’équipe della Banca Mondiale se ne andò e poi anche loro
si alzarono e si scusarono. Una volta fuori, Wolfgang trattò

45
con due tassisti perché riportassero tutti quella sera stessa a
Varsavia, a sei ora di strada.
Ero l’unico rimasto – un ventiseienne con un master in
direzione aziendale e un anno di esperienza come consulen-
te – a salvare l’azienda dalla rovina. Dopo il caffè, salutai i
dirigenti. Non sembravano essersi resi conto che ero una
nullità in confronto a quelli che se ne erano appena andati.
Fui accompagnato all’albergo Turysta, quello che sarebbe
diventato la mia casa per i mesi a venire.
Il Turysta era un edificio fatiscente di quattro piani a un
paio di isolati dal fiume San. Non c’era l’ascensore e ero
costretto a usare le scale. Il corridoio era stretto e a malape-
na illuminato, la mia stanza era minuscola. Più simile a un
pianerottolo che a una stanza, aveva due letti singoli spinti
contro i muri e l’unico spazio utile era quello tra i due.
Imbullonato al muro c’era un televisore in bianco e nero
di tredici pollici, mentre incastrato tra i due letti, c’era un
semplice comodino da quattro soldi su cui era appoggiata
un abat-jour: sopra si apriva una finestrella che dava su un
parcheggio vuoto.
Non era di certo il Four Seasons, ma ero così entusiasta di
essere in Polonia che non ci feci troppo caso.
Provai il telefono di plastica a disco per vedere se fun-
zionasse, ma la linea era collegata solo a un donnone della
reception che non spiccicava una parola di inglese. Disfai le
valigie e buttai i vestiti nell’armadio. La stanza era fredda e
il radiatore non funzionava, così indossai il parka che avevo
portato per l’inverno ormai alle porte. Accesi il televisore,
c’erano solo tre canali, tutti in polacco. Un canale di notizie,
uno di calcio e uno con un programma di pecore. Spensi il
televisore e armeggiai inutilmente con la manopola di una
radio a onde corte che mi ero portato dietro, ma non riuscii
a sintonizzare nulla e rinunciai.
Mi infilai a letto e cercai di dormire, ma era davvero trop-

46
po freddo. Picchiai il radiatore e girai la valvola vicino al pa-
vimento, ma niente da fare. Di solito avrei chiamato la re-
ception, ma vista la barriera linguistica non sarebbe servito
a nulla. Tirai fuori altri indumenti dal guardaroba, presi le
coperte dell’altro letto e mi infilai sotto a quella montagna.
Anche il parka che ancora indossavo non sembrava essere
di grande aiuto. Mi rigirai tutta la notte senza quasi mai
chiudere occhio. All’alba tentai di farmi una doccia nella
speranza che almeno quella riuscisse a riscaldarmi. Aspettai
e aspettai che il getto d’acqua diventasse caldo, ma rimase
solo tiepido.
Rinunciai alla doccia, mi vestii e scesi nel piccolo risto-
rante del Turysta per il mio primo incontro con l’interprete.
Un uomo snello con un vestito della taglia sbagliata di po-
liestere grigio scattò subito in piedi appena mi vide. Si infilò
un giornale arrotolato sotto il braccio e allungò la mano.
«Mr. William?»
Gli strinsi la mano. «Sì, sono io.»
«Salve. Sono Leschek Sikorski!» esclamò con entusiasmo.
Leschek, un po’ più vecchio e alto di me, aveva i capel-
li castano chiaro, gli occhi verde chiaro e la barba curata.
Avrebbe potuto essere un bell’uomo, ma con quel vestitac-
cio e quei denti storti, non c’era speranza.
«Prego, si accomodi.» Leschek indicò una sedia. «Ha dor-
mito bene?» chiese, quasi gridando alla fine della frase.
«In realtà ho avuto freddo. Nella stanza non c’era il riscal-
damento.»
«Certo, non lo accendono finché non inizia ufficialmente
l’inverno!» Di nuovo gridò l’ultima parola. Parlava un ingle-
se così innaturale che, sono sicuro, l’aveva imparato con le
cassette della Berlitz.
Comparve la cameriera e mi versò una tazza di tè mentre
Leschek le diceva qualcosa in polacco. Quando se ne andò,
chiesi: «Cosa le ha detto?»

47
«Di portarle la colazione.»
«C’è un menù?»
«No, no. C’è solo un tipo di colazione.»
Qualche minuto dopo arrivò la colazione: salsicce stra-
cotte e uno strano formaggio polacco fuso. Ma avevo così
fame che ingurgitai tutto.
Leschek mangiò come se fosse un dovere, senza disgusto
o trasporto. A metà colazione, con la bocca piena, chiese: «È
di Londra, vero?»
«Sì.»
Un sorriso gli illuminò il volto. «Allora, le devo chiedere
un favore.» Abbassando la voce sussurrò: «Potrebbe presen-
tarmi Samantha Fox?» Samantha Fox era la cantante inglese
maggiorata che aveva iniziato la carriera posando in topless
sulla terza pagina del Sun.
Gli lanciai un’occhiata strana. «Mi dispiace, ma non la
conosco.»
Si appoggiò sullo schienale della sedia con aria dubbiosa
e insistette: «Ma come, non è di Londra?»
«Leschek, mi piacerebbe poterla aiutare, ma Londra ha
sette milioni di abitanti.» Non volevo essere scortese, ma
era davvero ridicolo. Come avrei potuto salvare un’azienda
di autobus in crisi se il mio tramite principale con il mondo
esterno era questo tipo strano ossessionato da una modella
inglese in topless?
Finita la colazione Leschek e io uscimmo dall’albergo e
ci infilammo nella minuscola Polski Fiat rossa che la ditta
di autobus mi aveva messo a disposizione per il mio sog-
giorno. Dopo diversi tentativi riuscii ad accendere il mo-
tore. Leschek sorrideva mentre mi dava le indicazioni per
raggiungere la sede della Autosan, un palazzo di cemento
bianco di sette piani vicino al fiume. Parcheggiammo e, at-
traversando l’ingresso, percepii lo stesso odore spiacevole
di solventi chimici che avevo sentito la sera prima a cena.

48
Leschek e io prendemmo l’ascensore per l’ultimo piano e
riuscimmo a trovare l’ufficio del direttore generale. L’uomo
se ne stava sulla soglia come fosse una barricata, le spalle lar-
ghe occupavano quasi tutto lo spazio, aveva dei folti baffoni
da cui spuntava un sorriso radioso. Sembrava che avesse il
doppio della mia età e aveva passato tutta la sua carriera
a lavorare per la Autosan. Mentre mi avvicinai allungò la
sua mano dalle dita tozze, come quelle di un operaio: me
la strizzò così forte che sembrava che la mia piccola mano
sarebbe rimasta intrappolata in una morsa.
Ci fece entrare nel suo ufficio e cominciò a parlare in po-
lacco. «Benvenuto a Sanok», tradusse Leschek parlandogli
sopra. «Vuole sapere se desidera un brandy per festeggiare
il suo arrivo.»
«No, grazie», dissi imbarazzato, domandandomi se stessi
commettendo una gaffe culturale rifiutando la sua offerta di
prendere un superacolico alle dieci di mattina.
Il direttore generale si lanciò in una tirata che esprimeva
di nuovo il suo entusiasmo per la mia presenza. Spiegò che
la Autosan era il datore di lavoro più importante di Sanok.
Se la compagnia fosse fallita, anche il Paese sarebbe andato
a rotoli. Lui e tutti gli altri della Autosan ritenevano che la
BCG, e di conseguenza anch’io, avrebbe salvato tutti dalla
rovina economica. Cercai di sembrare serio e annuii a tutto,
tentando di trasmettere una parvenza di fiducia, ma dentro
di me ero terrorizzato dalla portata dell’impresa e dalla re-
sponsabilità.
Dopo aver finito il suo discorsetto disse: «Mr. Browder,
prima che si metta al lavoro, le devo chiedere: «C’è qualcosa
che possiamo fare per rendere il suo soggiorno a Sanok più
gradevole?»
Appena entrato nel suo ufficio avevo notato quanto fosse
caldo, soprattutto dopo la notte agitata che avevo trascorso
in quella stanza gelida. Nell’angolo vidi una stufetta elet-

49
trica che ronzava ed emetteva un bagliore arancione con-
fortante. Osservandola dissi: «Pensa che potrei avere una
stufetta come quella nella mia stanza?»
Ci fu un attimo di silenzio mentre Leschek traduceva.
Poi il volto del direttore generale s’illuminò. Con le gote
rosse mi fece l’occhiolino e disse: «Mr. Browder, possiamo
fare molto di più. Possiamo trovarle una donna che le tenga
caldo di notte!»
Abbassai lo sguardo imbarazzato e balbettai: «N-no, gra-
zie. Una stufetta è più che sufficiente».
Mi misi subito al lavoro e la mia prima settimana in Polonia
fu il più grande shock culturale mai provato in vita mia. Tutto
a Sanok – gli odori, la lingua, gli usi – era diverso. Ma la cosa
che mi dava più problemi era il cibo. L’unica carne disponi-
bile era l’onnipresente carne di maiale. Salsiccia a colazione,
sandwich con il prosciutto a pranzo, cotolette di maiale per
cena, tutto in un solo giorno. Non c’era né frutta né verdura.
Il pollo era una prelibatezza. Ma la cosa ancora più tremenda
era che tutte le pietanze nuotavano in una sostanza oleosa,
come se fosse stata una sorta di condimento magico che ren-
deva tutto più gustoso, cosa assolutamente falsa.
Al quinto giorno, stavo morendo di fame. Dovevo fare
qualcosa e decisi di andare a Varsavia per vedere se al
Marriott riuscivo a trovare del cibo decente. Appena arri-
vato lasciai la borsa in camera e andai dritto al ristorante.
Non ero mai stato così contento di vedere un buffet di un
albergo in vita mia. Mi riempii il piatto di insalata, pollo
fritto, roastbeef, formaggio e pane francese e mangiai come
un ossesso. Feci il bis e anche il tris. Quando arrivai al des-
sert avevo lo stomaco che brontolava, e sapevo che se non
fossi corso subito in bagno sarebbe successo un disastro.
Mi diressi verso il bagno degli uomini a gambe levate e,
mentre attraversavo la hall, mi ritrovai davanti Wolfgang
Schmidt.

50
«Browner! Che cavolo ci fai a Varsavia?» mi chiese.
Ero così sorpreso di vederlo che non sapevo che cosa dire.
«Pensavo… visto che è venerdì sera…»
«Venerdì sera?» mi apostrofò con tono iroso. «Stai scher-
zando? Muovi il culo e torna a Sanuk.»
«Sanok», lo corressi, cambiando appoggio da un piede
all’altro per l’imbarazzo.
«Va be’, come cazzo si chiama! Devi tornare là e trascor-
rere il fine settimana con il cliente. È così che funziona il
lavoro.»
Avevo la pancia così gonfia che riuscii a malapena a senti-
re Wolfgang. «D’accordo. Tornerò. Mi dispiace. Davvero.»
Il bagno era a due passi, stavo perdendo tempo.
«Benissimo, Browner.» Quando finalmente se ne andò mi
precipitai in bagno.
Dopo l’incontro con Wolfgang ero così intimorito che
non ebbi più il coraggio di mettere piede a Varsavia. Nei
fine settimana andavo, invece, con la mia Polski Fiat a fare
delle scampagnate alla ricerca di cibo. Mi fermavo in diversi
ristorantini, e visto che non spiccicavo una parola di polac-
co, indicavo con il dito tre o quattro primi a caso sul menù
sperando che almeno uno fosse commestibile. Supplicavo
che mi portassero del pollo, e a volte ci riuscivo. Me lo po-
tevo permettere, perché lo złoty polacco valeva così poco
che ogni piatto costava l’equivalente di quarantacinque cen-
tesimi di dollaro. Mi piaceva uscire da Sanok, ma ovunque
andassi il cibo era terribile. In otto settimane persi più di
sei chili.
L’aspetto culinario era un’indicazione di quanto la situa-
zione in Polonia fosse disperata. L’Autosan era allo sbara-
glio, sull’orlo del collasso. In seguito alla «terapia d’urto»
adottata dopo la caduta del comunismo, il governo polacco
cancellò tutti gli ordini di autobus della Autosan. Di con-
seguenza la ditta aveva perso il 90% delle vendite e avrebbe

51
dovuto trovare una nuova base clienti o avrebbe dovuto ta-
gliare i costi drasticamente.
Trovare nuovi clienti sarebbe stato quasi impossibile per-
ché, all’epoca, la Autosan produceva alcuni tra i peggiori au-
tobus al mondo. L’unica alternativa plausibile per evitare la
bancarotta sarebbe stato un licenziamento di massa. Poiché
la Autosan era la fonte di sostentamento di gran parte della
cittadina, questa era l’ultima cosa di cui avevano bisogno ed
era anche l’ultima cosa che avrei voluto annunciare. L’intera
faccenda mi faceva stare male e la mia idea romantica di
lavorare in Europa dell’Est stava svanendo molto veloce-
mente. Non volevo danneggiare quella gente.
Tre settimane prima delle vacanze di Natale, sempre più
preoccupato, incontrai Leschek per la nostra solita colazio-
ne. Avevo imparato a non trovarmi in conversazioni ridi-
cole come quella su Samantha Fox rimanendo zitto, cosa
che lui rispettava. Nonostante l’inizio imbarazzante avevo
capito che Leschek era una persona sincera e disponibile, e
dopo aver passato tutti i giorni insieme per due mesi
cominciava a piacermi. Mi dispiaceva che fosse lui a do-
ver tradurre i miei consigli nefasti al team di dirigenti della
Autosan, e per giunta, sapevo che alla fine, quando me ne
sarei andato da Sanok, mi sarebbe mancato.
Quella mattina, mentre prendevo le fette di salsiccia di
maiale, gettai lo sguardo sul giornale di Leschek dall’altra
parte del tavolo. Pensai che stesse leggendo gli annunci
personali, ma poi guardai più da vicino. Chiusi dentro a
quadratini c’erano dei numeri – delle cifre – circondati da
parole che non riuscivo a leggere.
Mi chinai in avanti e chiesi: «Leschek, cosa sono?»
«Sono le primissime privatizzazioni polacche!» annunciò
orgoglioso.
Avevo sentito che la Polonia stava privatizzando le com-
pagnie di proprietà dello Stato, ma ero così preso della

52
Autosan che non avevo seguito per niente questi eventi.
«Interessante… quel numero cos’è?» chiesi indicando una
cifra in cima alla pagina.
«È il prezzo delle azioni.»
«E questo?»
«Il profitto dell’anno scorso.»
«Quello invece?»
«Il numero di azioni offerte.»
Feci un rapido calcolo. Secondo il prezzo delle azioni, la
compagnia valeva 80 milioni di dollari, mentre il profitto
dell’anno prima era di 160 milioni di dollari, ciò significava
che il governo polacco stava vendendo la compagnia a metà
del guadagno dell’anno precedente! Ero sbalordito. In paro-
le povere, bastava investire in quell’azienda per sei mesi per
recuperare i soldi spesi.
Ripetei le mie domande affinché non mi sfuggisse nulla,
ma era proprio così. Davvero molto interessante. Facemmo
lo stesso per altre aziende sul giornale e i risultati furono più
o meno gli stessi.
Non avevo mai comprato un’azione in vita mia, ma
quella notte, mentre me ne stavo sdraiato a letto, non ri-
uscivo a smettere di pensare alle privatizzazioni polacche.
Pensai, devo farlo. Non è per questo che ho studiato economia
aziendale?
All’epoca il mio patrimonio netto ammontava a 2000
dollari. Dopo avere accertato con John Lindquist che non
ci fossero delle regole che mi vietavano di comprare azioni,
decisi di investire tutto il denaro che avevo in quelle priva-
tizzazioni e chiesi a Leschek se mi poteva aiutare. Durante
la pausa pranzo andammo in una cassa di risparmio locale
e facemmo la fila per cambiare il mio denaro in złoty po-
lacchi, poi ci dirigemmo all’ufficio postale per compilare i
moduli di sottoscrizione alle privatizzazioni. La procedu-
ra era complessa e Leschek dovette tornare quattro volte

53
dall’impiegato allo sportello per chiedere come compilare
quei moduli complicati. Alla fine riuscii a sottoscrivere le
prime privatizzazioni dell’Europa dell’Est.
A metà dicembre, tornai a Londra per preparare il piano
finale della BCG per la Autosan e la Banca Mondiale, che
avremmo presentato dopo le festività. Ero davvero combat-
tuto. La mia analisi dimostrava che la ditta avrebbe dovu-
to licenziare buona parte della forza lavoro se non voleva
fallire. Ma dopo aver passato così tanto tempo con quelle
persone sapevo che i licenziamenti di massa avrebbero fatto
una strage. Non avevo idea di come alcuni sarebbero riusciti
a sopravvivere. Pensai a Leschek e alla sua famiglia allargata,
immaginai le privazioni che già erano costretti a sopporta-
re. Dovevo consigliare i licenziamenti, ma volevo attutire il
colpo. Nella nostra relazione decisi di suggerire l’idea dei li-
cenziamenti come una delle possibili «opzioni strategiche»,
sperando che il governo alla fine avrebbe preso in conside-
razione l’altra opzione: continuare a finanziare la Autosan.
Quando a Londra illustrai la presentazione «addolcita»,
Wolfgang andò su tutte le furie.
«Cos’è ‘sta schifezza?»
«Queste sono le alternative che hanno.»
«Cosa sei, stupido? Non hanno nessuna fottuta alterna-
tiva. Devono licenziare tutti, Browder.» Era stronzo fino al
midollo, ma perlomeno aveva pronunciato bene il mio co-
gnome.
Wolfgang mi costrinse a cancellare tutte le altre alternati-
ve strategiche, poi mi fece consegnare la presentazione a un
altro consulente perché sistemasse l’analisi. Alla fine, la BCG
avrebbe consigliato alla Autosan di licenziare la stragrande
maggioranza dei suoi dipendenti.
Tornammo a Sanok e Wolfgang insistette perché fossi io a
presentare le nostre conclusioni. La BCG, la Banca Mondiale
e tutto il vertice aziendale della Autosan si riunirono nella

54
sala conferenze più grande dell’azienda. Abbassarono le luci
e io accesi il proiettore, con i lucidi pronti. Prima illustrai
le diapositive che riassumevano l’intero quadro dei licen-
ziamenti. Il senso di sorpresa era palpabile. Poi descrissi i
licenziamenti per ogni reparto. Leschek traduceva tutto con
fare nervoso. A ogni nuova diapositiva lo shock diminuiva
e la rabbia aumentava, cominciarono a contestarmi a ogni
piè sospinto. I rappresentanti della Banca Mondiale guar-
darono John e Wolfgang sperando che intervenissero, ma
entrambi evitarono lo sguardo dei clienti e non dissero una
parola. All fine, tutti i presenti nella stanza mi fissarono. Il
direttore generale era particolarmente silenzioso, mi osser-
vava con uno sguardo di profonda delusione.
Avrei dovuto essere il cavaliere della Autosan con l’arma-
tura splendente e invece ero un traditore. Provavo un misto
di rabbia, insicurezza e umiliazione. Forse dopo tutto, l’Eu-
ropa dell’Est non era il posto che faceva per me.
Lasciai la Polonia sicuro di una cosa però: odiavo fare
consulenza.
Nei mesi che seguirono pensai molto alla Autosan, chie-
dendomi cosa fosse successo e se avessi potuto fare qual-
cosa di diverso. Con loro la comunicazione era pressoché
impossibile, ma poi mi giunse voce che il governo polacco
aveva completamente ignorato i consigli della BCG e aveva
continuato a finanziare la Autosan. Di solito i consulenti
sperano che i loro consigli siano seguiti, ma in questo caso,
ero contento che non lo fossero stati.
L’unico legame che mi era rimasto con la Polonia era il
piccolo portfolio azionario che controllavo regolarmente.
Dopo essere partito da Sanok aumentò in maniera costan-
te. Con ogni punto percentuale di crescita ero sempre più
convinto che avevo trovato la mia professione.
Quello che desideravo davvero era diventare un investito-
re nelle privatizzazioni dell’Europa dell’Est.

55
Come volevasi dimostrare, il tempo mi diede ragione.
Nell’anno successivo i miei investimenti raddoppiarono, e
poi ancora. Alla fine decuplicarono, quasi. Per chi non lo
sapesse, la sensazione di trovare un investimento che rende
dieci volte deve essere l’equivalente finanziario di fumare
crack. Una volta provato, vuoi continuare a ripetere l’espe-
rienza ad infinitum.

56
5. ASSEGNO IN BIANCO

Adesso sapevo esattamente cosa volevo fare della mia vita,


ma il campo che mi interessava era pressoché inesistente.
Anche se la cortina di ferro non c’era più, nessuno investiva
in Europa dell’Est. Sapevo che alla fine le cose sarebbero
cambiate, ma nel frattempo la cosa migliore da fare era ri-
manere con la BCG, ammesso che mi volessero.
Dopo essere tornato dall’insuccesso di Sanok tenni un pro-
filo basso, pregando che Wolfgang non volesse farmi sbattere
fuori. Con mio grande sollievo, era troppo distratto o si era
dimenticato, perché nessuno si presentò in ufficio con una
lettera di licenziamento. Capii di essere finalmente fuori pe-
ricolo nel 1991, quando John Lindquist mi propose di scri-
vere un articolo a quattro mani. Se avessero voluto sbarazzarsi
di me, perché mai uno dei soci più importanti dell’azienda
avrebbe voluto scrivere un articolo insieme a me?
Il testo che aveva in mente riguardava gli investimenti
in Europa dell’Est che avremmo sottoposto a Mergers &
Acquisitions Europe, una rivista di settore. Diedi un’occhia-
ta a M&A Europe e sembrava che avesse una distribuzione
pressoché inesistente, ma non mi importava. Ero pronto a
sfruttare qualsiasi espediente che mi permettesse di affer-
marmi come esperto di investimenti in quella regione.
Per scrivere l’articolo analizzai tutto quello su cui riuscii
a mettere mano. Lessi una pila di oltre duecento articoli
di cronaca e di lì a poco scoprii che meno di venti accor-
di erano stati siglati nell’ex Blocco sovietico nel decennio

57
precedente. L’investitore più prolifico fu Robert Maxwell,
il temerario miliardario britannico di oltre centocinquanta
chili di origini cecoslovacche che aveva firmato tre dei venti
accordi.
Pensai che avrei fatto una buona impressione su John se
fossi riuscito a ottenere un’intervista con qualcuno dell’or-
ganizzazione di Maxwell, quindi contattai il suo ufficio
stampa e parlai dell’articolo. Non avevano certamente fatto
ricerche su M&A Europe, perché con mia grande sorpre-
sa mi proposero di andare a parlare con il vice presidente
della Maxwell Communications Corporation (MCC), Jean-
Pierre Anselmini.
La settimana seguente mi presentai alla Maxwell House,
un edificio moderno sulla New Fetter Lane, tra Fleet Street
e Holborn Circus. Anselmini, un francese sulla sessantina
dalle buone maniere che parlava in inglese, mi fece accomo-
dare nel suo sfarzoso ufficio.
Mentre parlavamo del più e del meno, riordinai i docu-
menti e li appoggiai in mezzo al tavolo. Appena stavo per
fargli la prima domanda, però, Anselmini indicò uno dei
miei tabulati e mi chiese: «Che cos’è?»
«È la mia lista di contratti con l’Europa dell’Est», dissi,
contento di essere venuto all’incontro preparato.
«Posso vederli?»
«Certo.» Feci scivolare il tabulato verso di lui.
Li esaminò e si irrigidì. «Mr. Browder, che tipo di giorna-
lista redige contratti di fusioni e acquisizioni?» Non mi era
neppure balenato in testa che forse ero troppo preparato per
quell’incontro. «Mi può dire qualcosa di più sulla rivista per
cui lavora?»
«Be’… non collaboro con una rivista vera e propria.
Lavoro per la Boston Consulting Group. Sto scrivendo un
articolo come freelance perché la prospettiva di investire
nell’Europa dell’Est mi affascina.»

58
Si appoggiò allo schienale della sedia e mi soppesò con lo
sguardo. «Perché è così interessato all’Europa dell’Est?»
Poi gli spiegai di come l’idea di investire nella prima pri-
vatizzazione in Polonia mi entusiasmasse, dell’Autosan e
delle mie ambizioni professionali di fare investimenti nel
blocco sovietico.
Quando capì che non ero lì per fare spionaggio su Maxwell
o sulla sua azienda, Anselmini cominciò a rilassarsi. «Dopo
tutto, questo nostro incontro potrebbe rivelarsi provviden-
ziale.» Si sfregò il mento. «Stiamo creando un fondo d’inve-
stimento denominato Maxwell Central and East European
Partnership. Potrebbe essere il tipo di persona che fa al caso
nostro. Le interesserebbe?»
Certo che sì. Cercai di nascondere il mio entusiasmo,
senza riuscirci, e me ne andai dopo aver ottenuto un ap-
puntamento per un colloquio di lavoro.
Per prepararmi trascorsi le due settimane successive a
cercare qualcuno che potesse dirmi come fosse lavorare per
Robert Maxwell. Era il proprietario del Daily Mirror ed era
considerato non un semplice eccentrico, bensì un arrogan-
te, suscettibile, una persona impossibile con cui trattare,
quindi avevo di che preoccuparmi.
Trovai Sylvia Greene, una ex consulente della BCG che
in passato aveva lavorato per lui. Le telefonai per chiedere
consiglio.
Dopo un lungo silenzio disse: «Senti, Bill, perdonami la
schiettezza, ma secondo me devi proprio essere uscito di
senno per andare a lavorare per Maxwell».
«E perché mai?»
«Robert Maxwell è un mostro. Licenzia sempre tutti»,
disse Sylvia con un certo rancore, facendomi pensare che
forse lei era una di quelle che aveva lasciato a casa.
«Non è molto rassicurante.»
Altro silenzio. «No, affatto. Potrei raccontartene tante,

59
ma c’è una storia tragica che è sulla bocca di tutti. Circa sei
mesi fa, Max era sul suo jet privato a Tampa, Florida. L’aereo
era già in fase di rullaggio pronto per il decollo, lui chiese
alla sua assistente una penna per firmare dei documenti.
Quando lei gli passò una penna biro invece della sua solita
Montblanc, lui fece una scenata e pretese di sapere come
potesse essere così stupida da non avere la penna giusta.
L’assistente non ebbe una risposta adeguata e lui la licenziò
in tronco. Fu scaricata sulla pista. Quella povera segretaria
ventiseienne dell’Essex dovette organizzarsi il viaggio di ri-
torno a Londra tutto da sola.»
Trovai altri tre ex dipendenti di Maxwell con tre aneddoti
bizzarri e particolari quanto il precedente, con un unico de-
nominatore comune: tutti venivano licenziati. Un banchie-
re, un amico alla Goldman Sachs, mi disse: «Le probabilità
che tu resista un anno in quel posto sono pari a zero, Bill».
Via via che il colloquio si avvicinava, presi in seria con-
siderazione tutti i consigli dei miei contatti pur non spa-
ventandomi. E anche se mi avesse licenziato? Avevo un
MBA della Stanford e la BCG in curriculum. Avrei sicura-
mente trovato un altro lavoro se ne avessi avuto bisogno.
Andai al colloquio, poi ad altri due e, qualche giorno
dopo l’ultimo incontro, mi offrirono il lavoro.
Nonostante tutti agli avvertimenti, accettai.
Iniziai nel marzo del 1991. Con uno stipendio più alto,
mi trasferii nella mia nuova casa, un piccolo cottage ad
Hampstead. Da lì, andavo a piedi giù per una stradina, salivo
sulla Northern line fino a Chancery Lane e poi raggiungevo
la Maxwell House. Robert Maxwell aveva acquistato quell’e-
dificio in parte perché era uno dei due palazzi in tutta Londra
ad avere un eliporto sul tetto. Grazie a questo, Maxwell pote-
va andare e venire dalla sua casa di Oxford – la Headington
Hill Hall – all’ufficio in elicottero, evitando il traffico.
L’idea che il capo arrivasse in grande stile era emozionante

60
fino a quando non mi ci trovai davanti la prima volta. Con
le finestre aperte, in una calda giornata di primavera, sentii
il frastuono delle pale dell’elicottero che diventava sempre
più intenso via via che si avvicinava. Quando l’elicottero fu
direttamente sopra le nostre teste, in ufficio i documenti co-
minciarono a svolazzare dappertutto. Tutti furono costretti
a interrompere le conversazioni telefoniche per via del ru-
more. Le cose tornarono alla normalità solo dopo che l’eli-
cottero finalmente atterrò e i rotori furono spenti. Questo
calvario durò quattro minuti.
Il mio primo giorno di lavoro mi dissero che potevo
andare a ritirare una copia del mio contratto da una delle
segretarie di Maxwell. Salii al decimo piano e aspettai che
la segretaria mi venisse a chiamare in sala d’attesa. Mentre
sfogliavo una relazione annuale, Maxwell in persona schizzò
fuori dal suo ufficio. Aveva il volto paonazzo e due evidenti
aloni di sudore sotto le ascelle.
«Perché non hai ancora telefonato a Sir John Morgan!»
gridò alla sua assistente, una bionda imperturbabile con
una gonna scura per nulla sorpresa né offesa da quell’acces-
so d’ira.
«Non mi aveva detto che voleva parlare con lui», disse
con calma guardandolo da sopra gli occhiali.
Maxwell ringhiò: «Senti, bellezza, non ho tempo di dirti
tutto. Se non impari a prendere l’iniziativa, io e te non an-
diamo d’accordo».
Cercai di rendermi invisibile sulla sedia e Maxwell si in-
filò dentro il suo ufficio con la stessa rapidità con cui era
uscito. L’assistente finì quello che stava facendo e poi mi
passò una busta con uno sguardo d’intesa. L’afferrai e tornai
all’ottavo piano.
Più tardi, quello stesso giorno, parlai dell’accaduto a una
delle segretarie vicino alla mia scrivania. «E questo è nien-
te», sbuffò. «Qualche settimana fa si è messo a gridare così

61
tanto con un giornalista ungherese che gli ha fatto venire un
infarto a quel poveraccio.»
Tornai alla mia scrivania e, all’improvviso, era come se
il contratto fosse diventato un macigno tra le mie mani.
Quella sera, a conferma di quello che tutti pensavano vera-
mente di Maxwell, appena si sentì il ronzio delle pale d’e-
licottero, tutto l’ufficio esultò. La domanda nacque spon-
taneamente: Ho commesso un grandissimo errore a venire a
lavorare qui?
Il lunedì della mia seconda settimana, arrivai in ufficio
e trovai un nuovo «acquisto», un inglese dai capelli chia-
ri un po’ più attempato di me, seduto a un’altra scriva-
nia libera. Si alzò e mi diede la mano. «Salve, mi chiamo
George. George Ireland. Condivideremo l’ufficio.» Il suo
accento inglese era così altisonante e marcato che all’inizio
pensavo fosse una messinscena. George indossava un com-
pleto tre pezzi e aveva una copia del Daily Telegraph sulla
scrivania. Appoggiato al suo schedario c’era un ombrello
perfettamente arrotolato. Mi sembrava una caricatura del
perfetto gentleman inglese.
In seguito mi dissero che George aveva già lavorato come
segretario personale di Maxwell ma, a differenza di altri in
quella posizione, lui se n’era andato prima di essere licen-
ziato. Era infatti un amico intimo d’infanzia ed era stato
compagno di stanza a Oxford di Kevin, il figlio di Maxwell,
che gli aveva trovato un altro lavoro. Strano, ma per quan-
te umiliazioni Maxwell infliggesse sul personale, aveva uno
spiccato senso della famiglia, in cui era compreso anche
George.
Però, sin dal primo momento, nutrivo qualche sospetto
su George. Avrebbe fatto la spia al capo su tutto quello che
dicevo?
Dopo le presentazioni, George e io ci sistemammo alle
rispettive scrivanie e dopo qualche minuto mi domandò:

62
«Bill, hai visto Eugene in giro?» Eugene Katz era uno dei
portaborse di Maxwell che lavorava a una scrivania lì vicino.
«No», risposi bruscamente. «Ho sentito che Maxwell l’ha
mandato a fare delle operazioni di dovuta diligenza in una
ditta degli Stati Uniti.»
George sogghignò incredulo. «Dovuta diligenza in una dit-
ta! La cosa più ridicola che abbia mai sentito. Eugene non sa
niente della realtà aziendale. A quel punto potresti benissimo
mandare il proprietario del pub locale per quella dovuta dili-
genza», disse scandendo bene le ultime due parole.
Durante la nostra prima giornata insieme, George pensò
bene di escludere ogni possibilità di rispetto verso chiunque
in quell’organizzazione. Sapeva riconoscere le assurdità e le
ipocrisie a un miglio di distanza e, con quel suo un umori-
smo tagliente, riusciva a farmi ridere ogni volta che si parla-
va di uno dei pezzi grossi di Maxwell.
Ecco come capii che George non era una spia.
Dalle cronache in diretta di George, era chiaro che
Maxwell gestisse la sua azienda più come una bottega che
come una grande multinazionale. Si respirava un’aria stan-
tia di nepotismo, cattiva gestione e pessima attività decisio-
nale. Ciononostante avevo ancora l’impressione di essermi
guadagnato il miglior posto di lavoro al mondo. Avevo rag-
giunto il mio obiettivo di essere un investitore in Europa
dell’Est. Maxwell era l’unica persona a fare investimenti in
quella regione e, chiunque volesse incrementare il capitale,
doveva rivolgersi a noi. Siccome ero quello che esamina-
va tutti gli accordi commerciali, di fatto tutte le operazio-
ni finanziarie di quella parte del mondo dovevano avere la
mia approvazione – tutto questo alla tenera età di ventisette
anni.
Nell’autunno del 1991 avevo passato in rassegna più di
trecento accordi, avevo viaggiato in tutti i paesi dell’ex bloc-
co sovietico ed ero responsabile di importanti investimenti

63
per il nostro fondo. Mi trovavo esattamente dove volevo
essere.
Poi però, il 5 novembre, dopo essere tornato dalla pausa
pranzo, accesi il computer e mi ritrovai sullo schermo un
titolo della Reuters in rosso: «Maxwell disperso in mare».
Risi sotto i baffi e feci un giro completo sulla sedia. «Ehi,
George, come hai fatto?» George era sempre stato un ma-
estro negli scherzi e pensai che fosse opera sua.
Senza alzare lo sguardo da quello che stava facendo, disse:
«Di che diavolo stai parlando, Bill?»
«Quel messaggio sulla mia schermata della Reuters.
Sembra quasi vero.»
«Che cosa dice?» Fece scivolare le ruote della sedia e si
avvicinò alla mia scrivania… «Io…» disse lento. «In quel
momento mi resi conto che non si trattava affatto di uno
scherzo.
Il nostro piccolo ufficio aveva le pareti interne di vetro e
vidi Eugene, bianco come un cencio, che correva verso gli
ascensori. Poi qualche altro dirigente ci sfrecciò davanti,
in preda al panico. Robert Maxwell era davvero disperso
in mare. Una notizia terribile. Maxwell poteva anche esse-
re un grandissimo stronzo, però era il patriarca indiscusso
dell’organizzazione e adesso, nel bene o nel male, non c’e-
ra più.
Nessuno in ufficio sapeva cosa fosse successo, quindi
George e io restammo incollati alla pagina della Reuters
(negli anni prima dell’avvento di internet, la Reuters era l’u-
nico mezzo che avevamo per diffondere le notizie). Sei ore
dopo la pubblicazione delle prime notizie, ci comunicarono
che il corpo di Maxwell era stato recuperato dall’Oceano
Atlantico al largo delle Canarie da un elicottero dei soccor-
si marittimi spagnoli. Aveva sessantotto anni. A tutt’oggi,
nessuno sa se si sia trattato di un incidente, di un suicidio o
di un omicidio.

64
Il giorno dopo la morte di Maxwell, il prezzo delle azioni
della MCC precipitò. C’era da aspettarselo, ma la peggio-
re delle cose ci fu che Maxwell aveva usato le obbligazioni
delle sue aziende come garanzia per prendere a prestito del
denaro per sostenere il prezzo delle azioni della MCC. Le
banche ora avevano richiesto il rimborso anticipato dei pre-
stiti e nessuno sapeva cosa poteva essere restituito e cosa no.
L’effetto più evidente di tutta quell’incertezza era la pro-
cessione chilometrica di banchieri vestiti di tutto punto e
ansiosi di parlare con Eugene, nel tentativo disperato di re-
cuperare i prestiti elargiti.
Se da un lato eravamo tutti sotto shock per la morte di
Maxwell, non potevamo fare a meno di preoccuparci anche
per il futuro. I nostri posti di lavoro sarebbero stati garan-
titi? Avremmo ricevuto i bonus di fine anno? E l’azienda,
sarebbe sopravvissuta?
Poco più di una settimana dopo la morte di Maxwell, il
mio capo mi convocò in ufficio e mi disse: «Bill, quest’anno
pagheremo i bonus in anticipo. Hai fatto un buon lavoro e
per questo ti daremo cinquantamila sterline».
Rimasi sbalordito. Era più di quanto avessi mai visto in
tutta la mia vita e il doppio di quello che mi aspettavo.
«Caspita! Grazie.»
Mi consegnò l’assegno, non uno compilato a macchina
emesso dal reparto contabilità, ma scritto a mano. «È molto
importante che tu vada in banca e te lo faccia versare subito
sul tuo conto. Appena avrai fatto, torna qui e fammi sapere
com’è andata.»
Lasciai l’ufficio, mi diressi alla Barclays sulla High
Holborn e con un po’ di apprensione presentai l’assegno al
cassiere, chiedendogli di depositarlo sul mio conto imme-
diatamente.
«Si accomodi pure», mi disse l’impiegato prima di sparire.
Mi voltai e mi misi a sedere su un vecchio divano marrone.

65
Continuavo a battere i piedi mentre leggevo un opuscolo sui
conti di risparmio. Passarono cinque minuti. Presi un altro
dépliant sui fondi comuni d’investimento ma non riuscivo
a concentrarmi. Cominciai a pensare al viaggio in Tailandia
che avrei prenotato per le vacanze di Natale, quando sareb-
be finito tutto. Passarono trenta minuti. C’era qualcosa che
non andava. Perché ci voleva così tanto? Finalmente, dopo
un’ora, l’impiegato tornò con un uomo pelato di mezza età
con un completo marrone.
«Mr. Browder, sono il direttore», disse strusciando i piedi
a terra e guardandosi le punte dei piedi prima di guardarmi
circospetto. «Mi dispiace ma non ci sono fondi sufficienti
sul conto per liquidare l’assegno.»
Stentavo a crederci. Come poteva la MCC, un’azienda
multimiliardaria, non avere abbastanza fondi per coprire
un assegno da cinquantamila sterline? Presi l’assegno non
incassato e tornai subito in ufficio per dare la notizia al mio
capo. Il suo bonus sarebbe stato ben più alto del e dire che
era scontento era poco.
Quella sera tornai a casa a tasta bassa. Nonostante gli svi-
luppi drammatici al lavoro, toccava a me ospitare gli amici
per una partita a poker tra espatriati. Avevo i nervi a pezzi,
ne avrei fatto volentieri a meno, ma alla fine della giorna-
ta lavorativa sei dei miei amici stavano già venendo al mio
cottage. Nell’epoca prima dei telefoni cellulari sarebbe stato
impossibile contattarli per disdire tutto.
Arrivai a casa e uno dopo l’altro si presentarono i miei
amici, quasi tutti banchieri o consulenti e in più c’era una
faccia nuova del Wall Street Journal. Una volta arrivati tutti,
aprimmo delle birre e cominciammo a giocare. Dopo qual-
che mano, il mio amico Dan, un australiano che lavorava
alla Merrill Lynch, era già sotto di cinquecento sterline, il
che era una perdita consistente per i nostri standard. Molti
di noi pensavamo che avrebbe piantato lì tutto e se ne sa-

66
rebbe andato a casa, invece fece buon viso a cattivo gioco.
«Nessun problema, amici», disse spavaldo. «Tra poco mi
riprendo. E poi, stanno per arrivare i bonus, quindi cosa
volete che siano cinquecento sterline?»
La combinazione di qualche birretta, i discorsi da spac-
cone e il giorno di paga imminente di Dan mi impedirono
di tenere la bocca chiusa. Mi guardai attorno e dissi: «Ehi!
Sapete cosa mi è successo oggi?»
Cominciai a raccontare l’episodio ma prima di continua-
re aggiunsi: «Dovete promettermi che questa storia rimarrà
tra noi». Tutti fecero cenno di sì con la testa e io continuai
a raccontare la mia tragedia. I miei amici banchieri erano
allibiti. I bonus sono l’unica cosa che interessa ai promotori
finanziari e la prospettiva di ricevere un assegno per poi non
poterlo incassare, è il loro peggiore incubo.
La partita finì poco dopo la mezzanotte, Dan non recu-
però i soldi persi e tutti andarono a casa. Anche se avevo
chiuso sotto di duecentocinquanta sterline, ero soddisfatto,
sicuro di averli allietati con la miglior storia della serata.
Quella settimana continuai ad andare al lavoro come
se non fosse successo niente, ma le cose si stavano met-
tendo male alla Maxwell. Poi, due giorni dopo la serata
del poker, mentre camminavo verso la fermata della me-
tropolitana di Hampstead, presi una copia del Wall Street
Journal. Poco sopra la piega, il titolo recitava «Assegno a
vuoto» firmato Tony Horwitz, il giornalista con cui avevo
giocato a poker.
Comprai il giornale e lo aprii. Lì, nero su bianco, c’era la
storia per filo e per segno che avevo raccontato attorno al
tavolo da cucina.
Che gran figlio di puttana!
Salii sulla metropolitana e rilessi l’articolo, mortificato per
quello che avevo fatto. Pensavo che quel giornalista avrebbe
tenuto la bocca chiusa, invece mi aveva fottuto. Per quanto

67
l’azienda stesse attraversando una crisi, non c’era verso che
potessi togliermi da quel pasticcio colossale.
Quando arrivai sul posto di lavoro guardai dritto davanti
a me, evitando le occhiate dei colleghi. Avrei voluto avere
una linea di difesa plausibile per il mio operato, ma non fu
così. George arrivò qualche minuto più tardi, ignaro della
mia indiscrezione. Prima di avere la possibilità di spiegargli
che molto probabilmente quel giorno sarei stato licenziato,
guardai attraverso i divisori di vetro dell’ufficio e notai uno
strano drappello di uomini riuniti alla reception. Erano così
fuori luogo che ne parlai con George. Fece scivolare le ruote
della sedia, si avvicinò alla mia scrivania e li osservammo
insieme: per un momento mi dimenticai dell’articolo del
Wall Street Journal.
A differenza della parata di banchieri di prima con i loro
completi scuri, questi indossavano giacche e impermeabili
della taglia sbagliata e non sembravano affatto a loro agio.
Si radunarono brevemente prima di sparpagliarsi nei no-
stri uffici. Un giovanotto sui venticinque anni entrò nella
nostra stanza. «Buongiorno, signori», disse con un forte ac-
cento cockney. «Forse non sapete perché siamo qui. Sono
l’agente Jones e questa, adesso – facendo un gesto plateale
con la mano – è una scena del crimine.»
Per un istante mi sentii sollevato che non si trattasse della
mia stupidità e del Wall Street Journal. Ma quella sensazione
durò poco, la situazione era comunque grave.
L’agente Jones si annotò i nostri dati e mentre George
e io lo osservavamo, cominciò a sigillare con del nastro
bianco della polizia le scrivanie, gli schermi del computer
e le ventiquattrore. Poi ci invitò a lasciare i locali.
«Quando possiamo tornare?» domandai nervoso.
«Non sono in grado di risponderle. Posso solo dirle che se
ne deve andare immediatamente.»
«Posso prendere la mia ventiquattrore?»

68
«No, quella fa parte delle indagini.»
George e io ci guardammo, afferrammo i cappotti e in
fretta e furia lasciammo l’edificio. Appena fuori fummo as-
saliti da una marea di giornalisti ammassati all’entrata.
«Siete implicati nella frode?» gridò uno, sbattendomi il
microfono sotto il naso.
«Dove sono i soldi dei pensionati?» domandò un altro
con una telecamera in spalla.
«Alla Maxwell, di cosa si occupava?» urlò un terzo.
Non riuscivo neppure a pensare mentre cercavo di distri-
carmi tra quei giornalisti.
Molti di loro ci seguirono per metà isolato prima di de-
sistere. Non sapevamo cosa fare, così ci dirigemmo a lun-
ghi passi verso la Lincoln’s Inn Fields e sgattaiolammo den-
tro alla casa-museo di Sir John Soane. Una volta in salvo,
George scoppiò a ridere. Pensava che tutta quella storia fos-
se una messinscena. Io invece ero in stato di shock. Come
avevo potuto essere così stupido da non ascoltare i consigli
che mi avevano dato tutti su Maxwell?
Nel pomeriggio tornai a casa e accesi la televisione. Al
telegiornale, il servizio di apertura su tutti i canali parlava
dell’ammanco di 460 milioni di dollari nel fondo pensio-
ne della MCC. Maxwell aveva prosciugato il fondo nel ten-
tativo di rialzare il prezzo delle azioni che stava calando e,
ora, trentaduemila pensionati avevano perso i loro rispar-
mi. Sulla BBC, vidi la ressa all’ingresso del nostro edificio e
mi riconobbi mentre cercavo di farmi largo tra la folla. Più
tardi, la sera stessa, la BBC confermò che quella di Maxwell
era la più grande frode nella storia della Gran Bretagna.
L’indomani ero indeciso: dovevo andare a lavorare op-
pure no? Dopo aver riflettuto per un’ora decisi di andare.
Abbandonai la tranquillità del mio cottage, salii sulla me-
tropolitana e ancora una volta fui costretto a farmi largo tra
la calca di giornalisti all’ingresso principale della Maxwell

69
House. Quando arrivai all’ottavo piano, fui accolto alla re-
ception da un nuovo gruppo di sconosciuti. Questa volta
erano i curatori fallimentari. Uno di loro mi fermò prima
che potessi entrare in ufficio e ordinò: «Vada all’auditorio.
Tra poco verrà fatto un annuncio importante».
Seguii le sue istruzioni e trovai un posto libero vicino a
George. Una mezz’oretta dopo, comparve un uomo di mez-
za età con una cartellina. Aveva le maniche della camicia
arrotolate, senza cravatta e i capelli arruffati, come se si fosse
passato le mani tra i capelli più volte. Salì sul palco e comin-
ciò a leggere una dichiarazione scritta in precedenza.
«Buongiorno a tutti. Mi chiamo David Solent, della
Arthur Andersen. Ieri sera, la Maxwell Communications
Corporation e tutte le sue filiali sono state poste sotto
amministrazione controllata. Il tribunale ha nominato
Arthur Andersen curatore fallimentare per liquidare l’a-
zienda. Secondo la prassi, ora dobbiamo procedere all’an-
nuncio dei licenziamenti.» Poi cominciò a leggere i nomi
dei licenziati in ordine alfabetico. Ci furono alcune se-
gretarie che scoppiarono in lacrime. Un uomo si alzò in
piedi, gridò delle oscenità e cercò di avvicinarsi al palco,
ma fu fermato da un paio di guardie che lo accompagna-
rono fuori. Poi fu annunciato il nome di George e quello
di Kevin, il figlio di Maxwell e quasi tutti gli altri che
conoscevo.
Con mia grande sorpresa, il mio nome non fu fatto. Tra
tutte le cose di cui ero stato messo in guardia, il mio licen-
ziamento mi era stato dato come una certezza assoluta e
invece non accadde. Poco dopo scoprii che i curatori mi
avevano tenuto perché non avevano idea di cosa fare con gli
investimenti in Europa dell’Est. Avevano bisogno di qual-
cuno che se ne occupasse.
Mi aggrappai a questa piccola vittoria, pensando che
mi avrebbe reso le cose più facili quando un domani avrei

70
dovuto trovare un altro lavoro. Purtroppo mi sbagliavo di
grosso. Non ero più il ragazzo prodigio di una volta. Avere
Maxwell sul proprio curriculum era la cosa più tossica che
potessi immaginare e di lì a poco mi resi conto che nessuno
a Londra era disposto ad avere a che fare con me.

71
6. LA FLOTTA DI PESCHERECCI A STRASCICO DI MURMANSK

Nessuno voleva avere a che fare con me, tranne una società:
la Salomon Brothers.
Se nel 1991 la Maxwell aveva destato grande scandalo in
Gran Bretagna, la Salomon Brothers fece altrettanto negli
Usa. L’autunno precedente, la Commissione di controllo del-
la Borsa (SEC) aveva scoperto che gli operatori della Salomon
cercavano di manipolare il mercato statunitense dei buoni
del Tesoro. Non era chiaro se la SEC avrebbe portato avanti il
caso e persino se la Salomon sarebbe sopravvissuta. Lo stesso
accadde un anno dopo a un’altra società, la Drexel Burnham
Lambert, che andò a fallire lasciando molte persone disoccu-
pate. Temendo la stessa sorte per la Salomon, molti dipen-
denti diligenti erano andati a lavorare altrove.
Alla Salomon questo aveva lasciato posti vacanti che do-
vevano essere occupati e io avevo un bisogno disperato di
trovare un lavoro. In tempi migliori, la Salomon non mi
avrebbe degnato di uno sguardo, ma anche loro, come me,
erano disperati e dopo un intenso giro di colloqui, mi offri-
rono un posto come consulente nel team della banca d’in-
vestimento per l’Europa dell’Est a Londra. Non era esatta-
mente quello che volevo. Il sogno era quello di diventare un
investitore – la persona che decide quali azioni comprare
– non un funzionario della banca d’investimento, chi or-
ganizza la vendita delle azioni. Inoltre il mio titolo non era
prestigioso come quello alla Maxwell e comportava anche
una drastica riduzione di salario. Ma chi è in uno stato di

72
bisogno non può fare lo schizzinoso, quindi accettai volen-
tieri l’offerta. Ero deciso ad abbassare la testa e fare tutto il
necessario per rimettere in sesto la mia carriera.
Purtroppo la Salomon era forse la meno adatta per far-
lo. Se avete letto Il grande scoperto, saprete che la Salomon
Brothers era una delle società più spietate di Wall Street.
Dire che il mio primo giorno ero nervoso sarebbe un eufe-
mismo.
Arrivai negli uffici della Salomon sopra la stazione di
Victoria sulla Buckingham Palace Road nel giugno del
1992. Era un giorno insolitamente caldo e soleggiato, entrai
da un paio di portoni in ferro battuto e salii tre rampe con
una lunga scala mobile che portava al ricevimento princi-
pale. Fui accolto dal vice presidente, un uomo ben vestito
con qualche anno più di me. Brusco e impaziente, sembra-
va seccato che gli fosse stato affidato il compito di venire ad
accogliermi. Attraversammo l’atrio, passammo delle porte
di vetro che portavano alla banca d’investimento. Mi mo-
strò la mia scrivania e mi indicò una scatola di biglietti da
visita. «Le cose qui sono molto semplici. Se nei prossimi
dodici mesi generi cinque volte il tuo salario, tutto bene.
Altrimenti sarai licenziato. Chiaro?»
Annuì e se ne andò. Tutto qui. Niente preparazione, pro-
gramma, nessun mentore o orientamento. Datti da fare o
sei licenziato.
Cercai di accomodarmi nella poltrona di quel «ring», l’o-
pen space dove erano seduti tutti i dipendenti subalterni,
incerto sul da farsi. Mentre sfogliavo il manuale dei dipen-
denti della Salomon Brothers notai una segretaria seduta lì
vicino che al telefono parlava ad alta voce di voli per l’Un-
gheria. Quando riagganciò andai da lei. «Mi dispiace di
aver origliato, sono un neoassunto e ho sentito che parlava
dell’Ungheria. Sa per caso di cosa si è occupata la società da
quelle parti?»

73
«Oh, non si preoccupi», disse con tono rassicurante.
«Ascoltiamo tutti le conversazioni degli altri. Stavo facendo
delle prenotazioni per il team di privatizzazione della Malev
per andare a Budapest la prossima settimana.»
«Chi se ne occupa?»
«Lo può vedere con i suoi occhi.» Indicò un gruppo di
uomini seduti in una delle sale conferenze con le finestre
di vetro oltre il ring. Anche se ero arrivato solo da poche
ore, sapevo che se volevo fare strada dovevo prendere l’i-
niziativa. Ringraziai la segretaria e mi diressi subito verso
la sala conferenze. Appena aprii la porta, le sei persone del
team della Malev smisero di parlare, si girarono verso di me
fissandomi.
«Salve, mi chiamo Bill Browder», dissi, cercando di ce-
lare il mio impaccio. «Sono nuovo nel team dell’Europa
dell’Est. Forse posso darvi una mano.» Il silenzio imbaraz-
zante fu interrotto da due giovani membri del team che
ridacchiarono sotto i baffi. Poi il responsabile del team
rispose cortese: «Grazie per essere venuto Bill, purtroppo
siamo già al completo».
Un po’ imbarazzante, ma non mi scoraggiai. Con gli oc-
chi ben aperti chiesi in giro e qualche giorno dopo trovai
un’altra opportunità. Il team di privatizzazione della com-
pagnia telefonica polacca era in riunione per discutere la
fase successiva del progetto. Sapevo che la loro parcella era
molto più elevata di quella del team della Malev, quindi
immaginai che non sarebbero stati così restii ad avvalersi
dell’aiuto di un’altra persona.
Quando mi presentai alla riunione, il responsabile si ri-
velò molto meno gentile di quello della Malev. «Chi le ha
detto di venire qui?» mi chiese. «Non abbiamo bisogno di
lei per questo o per qualsiasi altro progetto che abbiamo in
Polonia!»
Nessuno voleva condividere il suo reddito con me perché

74
tutti, io compreso, stavamo lottando con la stessa formula
del «cinque volte tanto» per proteggere il nostro territorio
in Europa dell’Est. Per diverse settimane mi arrovellai per
cercare di capire come riuscire a sopravvivere alla Salomon.
Poi però notai qualcosa di interessante. Nessuno si stava oc-
cupando della Russia, questo significava che non avrei do-
vuto litigare con nessuno. Decisi di prendermi il rischio. Mi
spacciai per il banchiere d’investimento responsabile della
Russia, trattenni il fiato e aspettai per vedere se qualcuno
avrebbe avuto da obiettare. Nessuno disse nulla.
Da quel momento in poi la Russia divenne il mio terri-
torio.
Però c’era un buon motivo per cui nessuno si occupa-
va della Russia: non c’erano servizi d’investimento pagati.
Forse la Russia dal punto di vista politico era un Paese libe-
ro, ma sotto ogni altro aspetto era ancora in preda al sistema
dei Soviet, incluso l’utilizzo delle banche d’investimento.
Con coraggio, ignorai tutto e cominciai a cercare qualsiasi
tipo di opportunità di lavoro. Girai tutta Londra, andando
a conferenze, riunioni, pranzi di lavoro ed eventi per la cre-
azione di una rete di contatti, sperando di ritrovarmi fra le
mani qualche opportunità.
Tre mesi dopo, non avevo ancora generato nemmeno un
penny per la Salomon e le mie prospettive non erano molto
promettenti. Poi però, un avvocato che avevo incontrato
a un evento per allargare la rete di contatti, mi informò di
una posizione come consulente per la flotta di pescherecci a
strascico di Murmansk, un’azienda ittica russa trecentottan-
ta chilometri a nord del circolo polare artico. La flotta aveva
indetto una gara d’appalto per trovare un consulente per la
privatizzazione. Non sapevo assolutamente nulla di pesca,
ma alla BCG avevo imparato a redigere proposte eccellenti e
così mi misi all’opera.
Esaminai la banca dati delle offerte della Salomon alla

75
ricerca di qualcosa che avesse a che vedere con i pescherec-
ci a strascico o la pesca. Incredibile, quindici anni prima
l’ufficio di Tokyo si era occupato di diverse operazioni con
compagnie ittiche giapponesi. Quindici anni sembravano
un’eternità e quelli erano accordi per la gestione dei debiti
e non privatizzazioni, ma non aveva importanza? Nella mia
proposta inclusi tutte le conoscenze acquisite da quelle ope-
razioni in Giappone e la inviai a Murmansk.
Qualche settimana dopo suonò il telefono. Una signora
di nome Irina mi stava chiamando per conto del presidente
della flotta di motopescherecci di Murmansk.
«Mr. Browder», disse con un forte accento russo, «vor-
remmo comunicarle che abbiamo accettato la sua propo-
sta». Per un attimo, mi chiesi se fosse stata l’unica che
avevano ricevuto. «Quando può venire a Murmansk per
iniziare a lavorare?» domandò impacciata. Sembrava fosse
la prima volta che parlava con un banchiere d’investimen-
to occidentale.
Ero estasiato – avevo portato a casa il mio primo vero
affare – ma la gara d’appalto non diceva quanto avrebbero
pagato. Poiché non avevo fatto alcun progresso verso l’o-
biettivo di guadagnare cinque volte il mio stipendio, spe-
ravo che fosse una somma cospicua. Con voce impostata
e formale, nella speranza che mi facesse sembrare più at-
tempato e credibile, dissi: «Sono molto onorato che abbiate
scelto la nostra società. Potrei chiederle quanto proponete
di pagare per questo incarico?»
In sottofondo, Irina parlò con qualcuno in russo, e poi
disse: «Mr. Browder, per questo incarico abbiamo un bud-
get di cinquantamila dollari per due mesi. Potrebbe andarle
bene?»
Mi sentii mancare. È difficile descrivere quanto possa es-
sere esigua la somma di cinquantamila dollari per un banca
d’investimento. Linda Evangelista, la super modella degli

76
anni Ottanta e Novanta, come tutti sanno, una volta ha di-
chiarato: «Non mi alzo da letto per meno di diecimila dol-
lari al giorno.» Per una banca d’investimento, quella som-
ma ammonta a 1 milione di dollari. Ma finora non avevo
guadagnato niente per la Salomon, e cinquantamila dollari
erano meglio di niente, quindi accettai.
Una settimana dopo partii per Murmansk. La prima
tratta del viaggio iniziava alle 9 e 30 con un volo British
Airways per San Pietroburgo. La durata fu di quattro ore e
mezzo e con una differenza di fuso di tre ore. Arrivai all’ae-
roporto Pulkovo di San Pietroburgo nel tardo pomeriggio.
Fissai fuori dal finestrino mentre l’aereo rullava verso il ter-
minal e rimasi sorpreso nel vedere la carcassa incendiata di
un aereo passeggeri della Aeroflot accanto alla pista. Non
avevo idea del perché si trovasse lì. Evidentemente, per le
autorità aeroportuali era una seccatura farlo rimuovere.
Benvenuti in Russia.
Poiché molti voli interni della Aeroflot partivano nel cuo-
re della notte, dovevo restare in aeroporto per altre dieci ore
fino alle 3 e 30 per prendere la coincidenza per Murmansk.
Aspettare tutto quel tempo sarebbe stato fastidioso in qual-
siasi aeroporto, ma lo era ancora di più al Pulkovo. Non
c’era l’aria condizionata e, pur essendo così a nord, c’era
un caldo soffocante. Tutti fumavano e sudavano. Cercai di
allontanarmi da quei corpi e dalle sigarette, ma anche dopo
aver trovato una fila di poltrone vuote, un uomo corpulento
si piazzò di fianco a me. Non disse una parola, ma mi spinse
il gomito giù dal bracciolo e si accese subito una sigaretta,
mettendocela tutta per soffiare il fumo verso di me.
Mi alzai e mi spostai.
Alla fine, mi imbarcai su un vecchio Tupolev 134 della
Aeroflot poco prima delle 3 e 30. I sedili erano logori e in-
fossati. La cabina odorava di tabacco e di cibo stantio. Mi
accomodai su un sedile vicino al finestrino, ma lo schienale

77
non rimaneva in posizione verticale, e ogni volta che mi
appoggiavo si reclinava sulle ginocchia del passeggero dietro
di me, quindi evitai.
Chiusero il portellone e ci muovemmo verso la pista di
decollo senza neanche l’ombra delle istruzioni di sicurezza.
Decollammo e il volo, benché breve, fu molto turbolento.
Quando l’aereo si avvicinò a Murmansk, il pilota fece un
annuncio in russo. Un altro passeggero che parlava inglese
mi spiegò che eravamo stati dirottati su un aeroporto mi-
litare a un’ora e mezzo di auto da Murmansk per via di un
problema all’aeroporto municipale.
Tirai un sospiro di sollievo quando, infine, l’aereo toccò
terra, ma la mia consolazione fu di breve durata. La pista
era così piena di buche e avvallamenti che l’atterraggio
diede l’impressione che le ruote si fossero staccate dall’a-
ereo.
Quando finalmente sbarcai alle 5 e 30 ero distrutto. Visto
che ero così a nord, il sole di fine estate era ancora basso
all’orizzonte senza quasi tramontare. All’aeroporto militare
non c’era il terminal – c’era solo una specie di piccolo ma-
gazzino con un parcheggio – ma ero contento di vedere il
presidente della flotta di pescherecci, Yuri Prutkov, che era
venuto ad accogliermi. C’era anche Irina, una biondona se-
riosa truccata all’eccesso. Prutkov era quasi la fotocopia del
direttore generale della Autosan – sulla sessantina, robusto
e con una stretta di mano che sembrava una morsa. Lui e
io ci accomodammo sui sedili posteriori dell’auto aziendale
mentre Irina, che occupava il sedile del passeggero, si con-
torceva per tradurre. L’autista partì attraverso una tundra
desolata che sembrava la luna. Dopo novanta minuti, arri-
vammo a Murmansk.
Mi portarono nel miglior albergo: l’Artic. Mi registrai e
andai in camera. Il bagno puzzava di urina, non c’era la
tavoletta del water e il lavandino era tutto sbeccato, la zan-

78
zariera della stanza era rotta, così gli insetti, grossi come
palline da golf, entravano liberamente. Non c’erano tende
per impedire alla luce del sole di entrare e il materasso era
bitorzoluto e infossato nel mezzo, come se non fosse stato
cambiato da venticinque anni. Non disfai nemmeno le vali-
gie. Il mio unico pensiero era andarmene da quel postaccio.
Qualche ora più tardi Prutkov tornò e mi condusse in auto
al porto per farmi fare un tour della flotta. Attraversammo
una plancia di sbarco arrugginita e salimmo su uno dei
motopescherecci a strascico. Era una lunga fabbrica gal-
leggiante che si estendeva per centinaia metri, vantava un
equipaggio di un centinaio di uomini ed era in grado di tra-
sportare migliaia di tonnellate di pesce e ghiaccio. Quando
ci dirigemmo più in basso, fui colto da un odore di rancido
insopportabile, di pesce marcio che appestava l’aria. Tutto il
tempo che parlai con Prutkov ebbi un forte senso di vomi-
to. Stranamente, lui sembrava non essere infastidito dall’o-
dore. Provai compassione per quei poveretti che dovevano
lavorare su queste navi per sei mesi di fila senza tregua.
Ci aggirammo sull’imbarcazione per venti minuti e poi
ci dirigemmo verso gli uffici della flotta che si trovavano al
numero 12 della Tralovaya. Anche questi erano decrepiti
e fatiscenti come le navi, ma per fortuna non puzzavano.
Nel corridoio c’era una fioca luce verde e i muri della sala
sembrava non vedessero la vernice da decenni. Non pote-
vo fare a meno di pensare che in quella società, tutto fosse
un insulto ai sensi, ma poi, quando ci accomodammo per
prendere una tazza di tè tiepido, cominciammo a discutere
la situazione finanziaria della compagnia e le mie preoccu-
pazioni iniziarono a sparire.
«Mi dica Mr. Prutokov, quanto costa una di quelle navi?»
chiesi, mentre Irina stava ancora traducendo.
«Le abbiamo acquistate per venti milioni, nuove appena
uscite da un cantiere navale in Germania dell’Est», rispose.

79
«Quante ne avete?»
«Un centinaio.»
«E quanti anni hanno?»
«In media, sette.»
Feci una mano di conti. Cento motopescherecci a venti
milioni di dollari l’uno voleva dire che avevano un valore in
navi di due miliardi di dollari. Se la flotta aveva sette anni il
deprezzamento era del 50%, ciò significava che con l’attuale
valore di mercato, avevano un capitale in navi che ammon-
tava a un miliardo di dollari.
Ero stupefatto. Mi avevano assunto per consigliare se
esercitare il diritto secondo il programma di privatizzazione
russo di acquistare la flotta per 2,5 milioni di dollari. Due
milioni e mezzo di dollari! Per una partecipazione al 50%
in una flotta che valeva oltre un miliardo di dollari! Certo
che avrebbero dovuto. Era ovvio. Non capivo perché aves-
sero bisogno di qualcuno che glielo dicesse. Ma soprattutto,
avrei voluto avere la possibilità di partecipare all’acquisto
del 51%.
Prutkov e io esaminammo a fondo il tutto, nello stoma-
co sentivo la stessa sensazione che avevo provato in Polonia
davanti a quell’investimento che avrebbe reso dieci volte
di più. Mi chiedevo se quell’accordo fosse stato riservato alla
flotta di pescherecci di Murmansk o se invece avesse riguar-
dato tutta la Russia. E se fosse stato così, come avrei potuto
partecipare?
Sarei dovuto ritornare a Londra il giorno dopo, ma ero
così elettrizzato che, invece, comprai un biglietto di sola
andata per Mosca. Dovevo scoprire se le azioni di tutte le
altre compagnie russe erano a buon mercato come questa. A
Londra non sarei mancato a nessuno, sapevano a malapena
della mia esistenza.
Dopo essere arrivato a Mosca e aver ritirato i bagagli
andai in un edicola e comprai un elenco telefonico delle

80
aziende in inglese. Non ero mai stato a Mosca, non spic-
cicavo una parola di russo e non conoscevo quasi nessuno.
Salii su un taxi dell’aeroporto e dissi all’autista che volevo
andare al Metropol Hotel sulla Piazza Rossa (doveva essersi
reso conto che ero una preda facile perché scoprii più tardi
che mi aveva fatto pagare quattro volte la tariffa normale).
Eravamo fermi, bloccati nel traffico sulla Leningradsky, un
viale più largo di un campo da football. Ci muovevamo
lentamente costeggiando centinaia di appartamenti dell’era
sovietica tutti uguali e cartelloni che pubblicizzavano azien-
de dai nomi strani.
Due ore più tardi il taxi arrivò al Metropol, davanti al
teatro Bolshoi. Dopo aver preso la stanza telefonai a un
amico di Londra che lavorava a Mosca: mi diede il numero
di un autista e di un interprete, entrambi si facevano paga-
re cinquanta dollari al giorno. Il mattino seguente, sfogliai
l’elenco telefonico e cominciai a fare chiamate a freddo
a tutti quelli che sembravano adatti, per capire se erano
interessati a discutere con me il programma russo di pri-
vatizzazione. Incontrai diverse persone, tra cui funzionari
dell’ambasciata americana, alcuni dipendenti di Ernest &
Young, un funzionario subalterno russo del Ministero per
la privatizzazione e un laureato alla Stanford che lavora-
va per la American Express. In quattro giorni fissai trenta
appuntamenti, e così riuscii a ricavarne un quadro com-
pleto di quello che stava succedendo nelle privatizzazioni
in Russia.
Scoprii che nel passaggio dal comunismo al capitalismo,
il governo russo aveva deciso di distribuire ai privati gran
parte delle proprietà dello Stato. Il governo lo faceva in
diversi modi, ma quello più interessante era la cosiddetta
privatizzazione a voucher. In questa parte del programma
il governo rilasciava un certificato di privatizzazione a ogni
cittadino russo, per un totale di centocinquanta milioni di

81
persone, che insieme potevano essere scambiati per il 30%
di quasi tutte le aziende russe.
Centocinquanta milioni di voucher moltiplicati per venti
dollari – il prezzo di mercato dei voucher – ammontava a
tre miliardi di dollari. Poiché questi voucher potevano essere
scambiati per circa il 30% delle azioni di tutte le compagnie
russe, questo voleva dire l’intera economia russa era stata va-
lutata solo dieci miliardi di dollari! Un sesto del valore di Wal-
Mart! Per vedere le cose nella giusta prospettiva, tra le atre
tante cose basti pensare che la Russia possedeva il 24% delle
riserve di gas naturale a livello mondiale, il 9% di quelle di
petrolio e produceva, tra l’altro, il 6,6% di acciaio. Eppure
questa incredibile ricchezza era in vendita per soli dieci mi-
liardi di dollari!
Ancora più sorprendente era il fatto che non c’erano restri-
zioni su chi poteva acquistare questi voucher. Li potevo com-
prare io, la Salomon, chiunque poteva farlo. Se quello che era
successo in Polonia era lucroso, questo era l’Eldorado.
Tornai a Londra in preda all’euforia. Volevo dirlo a tut-
ti quelli della Salomon che in Russia stavano distribuendo
soldi gratuitamente. Parlai della mia scoperta per primo a
uno di quelli dell’ufficio che si occupava degli investimenti
in Europa dell’Est. Ma invece di farmi i complimenti, disse
con disapprovazione: «A quanto ammontano le commissioni
di consulenza?» Come poteva non capire che avrebbe potuto
centuplicare? Le commissioni di consulenza? Faceva sul serio?
A chi importava delle commissioni di consulenza?
Poi andai a parlare con un tizio dell’ufficio per la gestione
degli investimenti, aspettandomi che mi avrebbe abbrac-
ciato per aver condiviso l’opportunità di investimento più
stupefacente che avrebbe mai visto in vita sua. Invece, mi
guardò come se avessi suggerito che la società investisse su
Marte.
Dopodiché mi rivolsi a uno degli investitori dell’ufficio

82
mercati emergenti, ma mi fissò perplesso e mi chiese: «A
quanto ammonta lo spread e il volume degli scambi di que-
sti voucher?» Cosa? Chi se ne importa se sono dell’1% o del
10%. Sto parlando di ricavare il 10.000%!
Nessuno alla Salomon era disposto a lasciarsi alle spalle i
limiti della loro forma mentis ristretta. Forse se fossi stato
più diplomatico e intelligente avrei potuto trovare un modo
per superare la loro miopia, ma non lo ero. Non avevo capa-
cità politiche e per settimane continuai a presentare la mia
idea, sperando che a forza di ripeterla alla fine qualcuno
avrebbe capito.
Invece mi rovinai completamente la reputazione alla
Salomon Brothers. Nessuno voleva avere niente a che fare
con me perché ero quel «pazzo furioso che non la smetteva
mai di parlare della Russia». Gli altri colleghi con cui uscivo
smisero di invitarmi a pranzo e a bere qualcosa dopo il lavoro.
Era l’ottobre del 1993 ed ero alla Salomon da oltre un
anno. Ero lo zimbello di tutta la Salomon, e cosa ancora
peggiore, in tutto avevo procurato solo cinquantamila dol-
lari per la compagnia, ciò significava che sarei stato licenzia-
to da un momento all’altro. Mentre ero disperato per il mio
triste destino, squillò il telefono. Non riconobbi l’interno di
New York: 2723. Risposi. L’uomo dall’altra parte della linea
aveva un forte accento americano, sembrava un poliziotto
della Georgia. «Salve. Parlo con Bill Browder?»
«Sì. Con chi parlo?»
«Mi chiamo Bobby Ludwig. Mi hanno detto che ha per
le mani qualcosa in Russia.»
Non avevo mai sentito parlare di questo tizio prima e mi
chiedevo chi fosse. «Certo. Lavora per la società?»
«Sì. A New York. Mi chiedevo se mi potesse fare il favore
di venire a parlarmi di quello che sta facendo.»
«Ah, come no. Posso controllare la mia agenda e richia-
marla?»

83
«Certo.»
Riattaccammo. Chiamai subito un contatto nell’ufficio
dei mercati emergenti che aveva lavorato a New York e gli
chiesi informazioni su Ludwig.
«Bobby Ludwig?» chiese, come se fossi stupido a non sa-
pere chi fosse. «È uno dei dipendenti più produttivi della
società. Un tipo strano però. Alcuni pensano che sia pazzo.
Ma tutti gli anni genera profitti e quindi fa un po’ quello
che vuole. Perché vuoi saperlo?»
«Così. Grazie.»
Bobby era la persona giusta che mi serviva per farmi usci-
re dalla routine. Lo richiamai subito. «Salve. Sono di nuovo
Bill. Mi piacerebbe moltissimo venire a New York per pre-
sentarle il mio progetto per la Russia.»
«Venerdì le potrebbe andare bene?»
«Certo. Non mancherò. Ci vediamo.»
Rimasi sveglio due notti di fila per preparare una presen-
tazione PowerPoint sui titoli russi. Quel giovedì presi il volo
British Airways delle 18 per New York, e invece di guarda-
re i film riesaminai la presentazione più volte. Non potevo
buttare via quell’opportunità.
Arrivai alla sede centrale della Salomon del World Trade
Center venerdì mattina. La luce brillante del sole che pro-
veniva da sud ovest faceva scintillare le Torri Gemelle. Fui
mandato al trentaseiesimo piano e incontrai la segretaria di
Bobby. Mi accolse e mi portò subito alla sala contrattazio-
ni. Era enorme, scrivanie a perdita d’occhio e l’energia era
palpabile. Capitalismo allo stato puro, aggressivo fino al mi-
dollo.
Camminammo lungo il lato della sala, passammo una
dozzina di scrivanie e poi un corridoietto che portava all’uf-
ficio di Bobby. La sua segretaria mi annunciò e poi se ne
andò. Bobby era dietro alla scrivania e stava guardando fuo-
ri della finestra verso il porto di New York. Era sulla cin-

84
quantina, ma sembrava molto più vecchio con quei capelli
rossi arruffati e i baffi lunghi e radi che gli incorniciavano
gli angoli della bocca. A parte un mucchio di pile disordi-
nate di relazioni, l’ufficio era spartano: oltre alla scrivania
e alla poltrona c’era un tavolinetto rotondo con altre due
sedie. Quando Bobby mi invitò ad accomodarmi, notai che
indossava un paio di ciabatte di pelle malridotte e una cra-
vatta rossa macchiata. Scoprii poi che era la sua cravatta
fortunata: l’aveva indossata quasi tutti i giorni da quando
aveva guadagnato cinquanta milioni di dollari con un’unica
contrattazione. Bobby si sedette dietro alla scrivania, io tirai
fuori la mia presentazione, appoggiai una copia davanti a
lui e cominciai a parlare.
Di solito durante le presentazioni, si vede se il pubblico è
interessato, annoiato e curioso, ma Bobby era imperscruta-
bile. Osservava con aria assente le tabelle e i grafici mentre
parlavo. Non c’erano ah-ah, cenni con il capo o altri atteg-
giamenti, indicazioni che il mio messaggio gli stesse arri-
vando, solo uno sguardo vuoto. Era straniante. Poi, quando
ero circa a metà delle diapositive, Bobby si alzò all’improv-
viso e, senza dire una parola, uscì dall’ufficio.
Non sapevo cosa pensare. Questa era la mia ultima possi-
bilità di salvare la mia carriera alla Salomon e la stavo sciu-
pando. Cosa ho sbagliato? Come posso salvare questo incontro?
Devo accelerare la presentazione? Devo andare più piano? Che
diavolo devo fare?
Per quasi quaranta minuti me ne rimasi lì nell’ansia e
nell’incertezza, ma poi vidi che Bobby ritornare. Si fermò a
dire qualcosa alla segretaria e pian piano tornò dentro. Ero
lì, pronto a implorarlo se fosse servito.
Ma prima ancora di riuscire a proferire parola, Bobby dis-
se: «Browder, è la cosa più straordinaria che abbiamo mai
sentito. Sono sceso alla commissione rischi e mi sono fatto
dare venticinque milioni di dollari da investire in Russia.

85
Non perda tempo a fare altre cose. Torni a Mosca e met-
tiamo subito il denaro a frutto prima che sia troppo tardi,
intesi?»
Sì. Certo. Messaggio ricevuto, forte e chiaro.

86
7. LA LEOPOLDA

Le parole di Bobby mi cambiarono la vita. Feci come aveva


detto: tornai a Londra e mi diedi da fare per investire 25
milioni di dollari della Salomon Brothers. Purtroppo, sic-
come ero in Russia, non potevo chiamare il mio broker. In
Russia non c’era neppure un mercato azionario. Se volevo
investire dovevo inventarmi tutto di sana pianta.
Il lunedì, dopo essere tornato da New York, ero sedu-
to alla scrivania dell’ufficio, intento a fare delle telefonate
ai miei contatti per cercare di capire come muovermi. Alla
quinta chiamata notai un uomo di mezza età che si avvici-
nava a lunghi passi verso di me con uno sguardo serio, af-
fiancato da due guardie del corpo. Quando si fece più vici-
no ringhiò: «Mr. Browder, sono il responsabile del controllo
interno. Potrei sapere cosa sta facendo?»
«Prego? Ho fatto qualcosa di sbagliato?»
Annuì. «Abbiamo saputo che lei sta contrattando dei titoli
dall’interno della banca d’investimento. Come saprà, questo
non è conforme al codice deontologico dei dipendenti.»
Per chi non è del mestiere, le banche d’investimento sono
divise in due metà: il reparto di vendita e intermediazione
finanziaria, dove avviene la compravendita di titoli, e il re-
parto di servizi bancari d’investimento, dove si forniscono
consulenze alle aziende in merito a fusioni ed emissione di
azioni. Queste due metà sono separate da una cosiddetta
muraglia cinese, così chi scambia titoli non può farlo con
informazioni segrete che i promotori finanziari hanno ac-

87
quisito da altri clienti. Io lavoravo nella banca d’investi-
mento, pertanto non potevo contrattare titoli. In termini
pratici, ciò significava che quando finalmente avessimo ca-
pito come comprare titoli russi, avrei dovuto andare in sala
contrattazioni. Ma eravamo ancora indietro con i lavori.
«Non sto comprando titoli», tentai di spiegare. «Sto solo
cercando di capire come si fa.»
«Come lei lo definisce non mi interessa, Mr. Browder.
Deve interrompere quello che sta facendo subito», ordinò il
responsabile del controllo interno.
«Ma io non sto investendo, sto cercando di elaborare un
piano per farlo. È stato tutto approvato dagli alti dirigenti
di New York. Non sto facendo niente di male», dichiarai.
Dopo lo scandalo dei buoni del Tesoro che l’aveva quasi
ridotta sul lastrico, la Salomon non voleva più correre ri-
schi. «Mi dispiace. Deve andarsene», disse in tono burbero
e facendo un cenno alle due guardie di sicurezza. «Non può
più rimanere nella banca d’investimento.»
Mentre raccoglievo le mie cose, le guardie si fecero avanti
e incrociarono le braccia, molto contenti di mostrare tutta
la loro determinazione. Poi mi accompagnarono fuori dalla
porta che separava la banca d’investimento dalla sala contrat-
tazioni. Passammo davanti a uno dei giovani del team unghe-
rese. Mi fece l’occhiolino prima di mimare con la bocca un
vaffanculo. Non avevo dubbi su chi avesse fatto una soffiata.
Una volta arrivati alla sala contrattazioni, le guardie di
sicurezza mi chiesero di consegnare il mio pass per accedere
alla banca d’investimento e mi piantarono lì con le scatole
per terra. Gli speculatori mi passavano davanti con gli occhi
puntati. Mi sentivo profondamente umiliato, proprio come
il mio primo giorno in collegio. Non avevo idea di cosa
avrei dovuto fare, così spinsi le scatole sotto una scrivania lì
vicino, trovai un telefono e chiamai Bobby.
«Bobby», dissi trafelato. «Il reparto del controllo inter-

88
no mi ha appena sbattuto fuori dalla banca d’investimento.
Sono in sala riunioni e non so dove sedermi. Cosa devo
fare?»
Non sembrava affatto preoccupato del mio dilemma, esi-
bendo la stessa mancanza di empatia che aveva dimostrato
quando gli avevo presentato il mio progetto per la Russia la
settimana prima. «Non so cosa dirti. Trova un altro posto
dove sederti. Ho un’altra persona in linea», rispose inter-
rompendomi e poi riattaccò.
Lanciai un’occhiata all’enorme sala riunioni. Era grande
come un campo da football. File su file di persone sedute
dietro una scrivania che gridavano al telefono, sventolava-
no le braccia in alto e indicavano gli schermi del compu-
ter, cercando di centellinare piccole differenze nei prezzi
di tutti gli strumenti finanziari possibili e immaginabili.
In questo alveare c’era qualche scrivania vuota, però non
potevi sceglierne una a caso. Ci voleva il permesso di qual-
cuno.
Cercai di celare il mio disagio e mi avvicinai alla sezio-
ne dei titoli dei mercati emergenti, conoscevo il direttore.
Spiegai il mio problema e lui si mostrò solidale, solo che non
aveva spazio, quindi mi mandò all’ufficio dei titoli azionari
europei. Stessa storia. Provai quindi il reparto derivati, visto
che avevano dei posti vuoti. Mi rivolsi al direttore del repar-
to con tutta la faccia tosta che mi era rimasta, mi presentai,
nominando Bobby Ludwig. Lui non si girò neppure per
guardarmi. Fui costretto a parlare alla sua pelata.
Quando finii, si voltò sulla sedia e si appoggiò sullo schie-
nale. «Eccheccazzo!» esclamò. «Non puoi venire qui e chie-
dermi una scrivania. È ridicolo. Se ti serve un posto dove
sederti rivolgiti alla direzione.» Sbuffando si voltò di nuovo
sulla sedia verso gli schermi e rispose al telefono che stava
squillando.
Me ne andai frastornato. Va bene che gli speculatori non

89
sono famosi per le loro buone maniere però… Richiamai
Bobby. «Bobby, ci ho provato, nessuno è disposto a darmi
una scrivania. Puoi fare qualcosa al riguardo per cortesia?»
Questa volta Bobby era arrabbiato. «Bill, perché mi di-
sturbi per questa cosa? Se non ti concedono una scrivania,
lavora da casa. A me non importa dove lo fai. Stiamo par-
lando di investire in Russia, non di scrivanie.»
«Okay, okay», dissi, cercando di mantenermi in buoni
rapporti con Bobby. «Ma come faccio a farmi autorizzare le
trasferte, a farmi rimborsare le spese e tutte quelle cose lì?»
«Ci penso io», mi assicurò riattaccando.
Il giorno dopo arrivò a casa mia un pacco che conte-
neva venti moduli di autorizzazione di viaggi pre-firmati.
Compilai un modulo con i miei dati, lo spedii per fax al
reparto trasferte e ottenni un biglietto per Mosca con par-
tenza due giorni dopo.
Arrivato a Mosca creai un ufficio temporaneo in una
stanza al Baltschug Kempinski Hotel sulla riva sud della
Moscova, di fronte alla Cattedrale di San Basilio. Per pri-
ma cosa dovevo fare arrivare i soldi in Russia: per questo ci
voleva qualcuno che potesse ricevere i contanti e aiutarci a
comprare i voucher. Per fortuna trovammo una banca russa
di proprietà di uno dei dipendenti della Salomon. Bobby
pensò che fosse meglio così, anziché trasferire del denaro in
una banca russa sconosciuta, quindi fece preparare la docu-
mentazione dall’amministrazione e autorizzò il bonifico di
un milione di dollari, come esperimento.
Dieci giorni dopo cominciammo ad acquistare voucher.
Il primo passo era prendere i contanti alla banca. Osservai
mentre gli impiegati ritirarono i soldi dalla cassaforte in bi-
gliettoni da cento dollari e li misero in un sacco di canapa,
grande come un borsone da palestra. Era la prima volta che
vedevo un milione di dollari in contanti, strano ma non mi
fece effetto più di tanto. Poi, una squadra di guardie di si-

90
curezza lo portò via con un veicolo blindato nel luogo dove
avrebbero cambiato le banconote in voucher.
A Mosca il luogo di cambio dei voucher si trovava in un
vecchia sala per conferenze davanti ai magazzini GUM*, a
diversi isolati dalla Piazza Rossa. Era organizzato in una
serie di cerchi concentrici di tavoli da picnic sotto un ta-
bellone elettronico per la compravendita di titoli appeso
al soffitto. Tutte le operazioni venivano fatte in contanti,
e siccome era aperto al pubblico, chiunque poteva entrare
con liquidi o voucher. Non c’erano servizi di sicurezza, per
cui la banca si portò appresso le proprie guardie per tutta la
durata dell’operazione.
Come questi voucher fossero arrivati a Mosca, era una
storia a parte. I russi non avevano idea di cosa fare con i
voucher che avevano ricevuto dallo Stato e molto spesso li
scambiavano per una bottiglia di vodka da sette dollari o per
qualche pezzo di maiale. Qualche individuo intraprendente
comprava voucher in blocco in piccoli paesi e li vendeva a
dodici dollari l’uno a colleghi di città più grandi; poteva poi
andare a Mosca per vendere un pacchetto di duemila voucher
su uno dei tavoli da picnic nelle retrovie per diciotto dollari
l’uno. Infine, un intermediario finanziario ancora più grande
li consolidava in pacchetti da venticinquemila voucher o più
rivendendoli a venti dollari nei tavoli centrali. Talvolta alcuni
cercavano di aggirare questa procedura e si appostavano nelle
retrovie cercando di trovare buoni prezzi per piccoli lotti. In
quella profusione di contanti e scartoffie c’erano traffichini,
uomini d’affari, banchieri, truffaldini, guardie armate, bro-
ker, moscoviti, compratori e venditori dalle province, tutti
cowboy di una nuova frontiera.
La nostra prima offerta fu di 19,85 dollari a voucher per

* I GUM erano tra i maggiori grandi magazzini della capitale, simili alla nostra
Rinascente [N.d.T.]

91
diecimila unità. Dopo aver annunciato la nostra offerta,
ci fu un clamore generale e un uomo alzò un cartello con
stampato il numero dodici. Seguii i dipendenti della banca
e le guardie verso un tavolo da picnic con sopra un cartello
con scritto dodici, dove il nostro team favorì i contanti in
cambio dei voucher. I venditori presero le nostre mazzette
da diecimila dollari in banconote da cento e le passarono
una dopo l’altra sul banco dentro la macchina per contar-
li. Il contatore turbinò finché si fermò a 198.500 dollari.
Allo stesso tempo, due di noi ispezionarono i voucher, per
vedere che non ci fossero dei falsi. Dopo circa trenta mi-
nuti l’affare fu concluso. Portammo i voucher alla nostra
automobile blindata e l’intermediario numero dodici portò
i contanti alla sua.
Ripetemmo questa operazione tante volte per svariate set-
timane finché la Salomon ebbe comprato venticinque mi-
lioni di dollari in voucher, ed eravamo solo a metà dell’im-
presa. Dopodiché, dovevamo investire i voucher in azioni
di aziende russe, cosa che avveniva nelle cosiddette aste di
voucher. Erano davvero strane perché il compratore non sa-
peva il prezzo che doveva pagare fino alla chiusura dell’asta.
Se si presentava una sola persona con un solo voucher, al-
lora l’intero pacchetto azionario messo all’asta veniva scam-
biato per quel voucher. Per contro, se si presentava l’intera
popolazione moscovita con tutti i suoi voucher, il pacchetto
azionario veniva diviso per tutti i voucher di chi aveva par-
tecipato all’asta.
I tempi erano maturi per la corruzione e molte imprese
che vendevano le proprie azioni facevano di tutto per sco-
raggiare la partecipazione alle aste dei voucher, in questo
modo, chi era ben informato poteva comprare le azioni a
buon mercato. Correvano voci che la Surgutneftegaz, una
compagnia petrolifera che operava in Siberia, fosse stata re-
sponsabile della chiusura dell’aeroporto la sera prima della

92
loro asta di voucher. Si diceva anche che un’altra compagnia
petrolifera avesse causato un blocco stradale incendiando
degli pneumatici il giorno della loro asta, per evitare che i
cittadini partecipassero.
Poiché queste aste erano davvero strane e difficili da
analizzare, pochi partecipavano, men che meno gli oc-
cidentali. Ciò portò a una grave mancanza di domanda,
il che significava che i prezzi erano notevolmente bassi,
anche per gli standard russi. Sebbene la Salomon di fat-
to facesse offerte alla cieca in ogni asta, avevo analizzato
molto bene tutte le maggiori aste precedenti e in ogni caso
le quotazioni dei titoli partivano da un prezzo molto più
alto rispetto al prezzo pagato all’asta, a volte il doppio o
il triplo. A meno che qualcosa non fosse cambiato di lì in
avanti, l’azienda poteva essere certa di ricavare un buon
profitto partecipando all’asta.
Una volta accumulati diversi voucher, con occhio di falco
tenevo sotto controllo tutti gli annunci delle aste governati-
ve. Alla fine consigliai a Bobby di partecipare a sei aste, tra
cui quella della vendita della Lukoil, una compagnia petro-
lifera, della Unified Energy System (UES), la compagnia per
la rete elettrica nazionale, e della Rostelecom, la compagnia
telefonica.
Alla fine, la Salomon Brothers, attraverso quelle aste, di-
ventò proprietaria di venticinque milioni di dollari delle
azioni più sottovalutate mai offerte nella storia. Io e Bobby
eravamo convinti che la Salomon ne avrebbe ricavato una
fortuna. Bastava solo aspettare.
E non aspettammo a lungo. Nel maggio 1994 l’Econo-
mist pubblicò un articolo intitolato: «È ora di scommettere in
Russia» dove venivano illustrati in termini semplici gli stessi
calcoli matematici sulle valutazioni delle imprese russe che
avevo appreso durante il mio primo viaggio a Mosca. I gior-
ni seguenti, miliardari, gestori di fondi speculativi e altri in-

93
vestitori cominciarono a chiamare i loro broker chiedendo
di considerare i titoli russi. Grazie a questo, il mercato russo
cominciò a muoversi in maniera decisa.
Nel giro di poco, il nostro portfolio di venticinque mi-
lioni di dollari si trasformò in centoventicinque milioni.
Avevamo guadagnato cento milioni di dollari!
Dopo questo successo diventai un eroe nella sala contrat-
tazioni della Salomon Brothers, dove finalmente avevo tro-
vato una scrivania. Gli stessi «amici» che non mi invitavano
più a pranzo o a bere qualcosa con loro, adesso erano in fila
tutte le mattine davanti alla mia scrivania prima che arri-
vassi, nella speranza che gli lanciassi un ossicino per aiutare
a quintuplicare i loro introiti nel mercato azionario russo.
Le settimane seguenti, i principali speculatori istituzio-
nali della Salomon si fecero vivi, chiedendomi se fossi stato
disposto a parlare con i loro migliori clienti. «Bill, mi faresti
un gran favore se potessi venire a parlare con George Soros.»
«Bill, Julian Robertson* avrebbe molto piacere di parlare
della Russia con te.» «Bill, avresti un po’ di tempo da dedi-
care a Sir John Templeton?»
Certo che potevo! Era ridicolo. Io, un vicepresidente
di ventinove anni** contornato dai più importanti inve-
stitori a livello globale che volevano ascoltare la mia opi-
nione. Volavo in tutto il mondo in prima classe a spese
della Salomon Brothers. Andai a San Francisco, Parigi,
Los Angeles, Ginevra, Chicago, Toronto, New York, alle
Bahamas, a Zurigo e a Boston. Dopo quasi tutti gli incontri
mi chiedevano sempre: «Bill, potresti gestire del denaro per
noi in Russia?»
Non avevo una risposta pronta. All’epoca il nostro ufficio

* Il fondatore del Tiger Management Corp, uno degli hedge fund più produttivi
di sempre.
** Anche se il titolo può sembrare rilevante, in realtà alla Salomon c’erano più
vicepresidenti che segretarie.

94
era organizzato solo per gestire il denaro dell’azienda e non
potevo accettare capitale esterno. «Non lo so», era la mia
risposta. «Ne parlerò ai boss e vediamo se lo permettono.»
Quel tipo di decisione non spettava a Bobby. Magari era
anche il migliore investitore dell’azienda, ma non aveva
l’autorità per decidere su questioni organizzative. Così, tor-
nato a Londra, andai nell’ufficio del direttore delle vendite
e scambi e gli parlai del progetto. A differenza delle mie
esperienze precedenti quando nessuno voleva saperne della
Russia, mi riservò un’accoglienza molto calorosa. «È un’otti-
ma idea, Bill. Mi piace molto. Ti dico una cosa. Formeremo
una task force per analizzarla.»
Una task force! Pensai. Che esagerati! Devono sempre com-
plicarsi la vita. Avevano un’occasione d’oro da cogliere al
volo e ci mettevano di mezzo tutta la loro inutile macchina
organizzativa.
Tornai alla mia scrivania e dieci minuti dopo squillò il te-
lefono, numero sconosciuto. Accettai la chiamata. Era Beny
Steinmetz, un carismatico miliardario israeliano che avevo
conosciuto durante il mio giro del mondo con la Salomon.
Beny avrà avuto una quarantina d’anni, occhi di un grigio
intenso e capelli castani ispidi e rasati. Aveva ereditato l’a-
zienda di famiglia di taglio di diamanti grezzi ed era uno dei
maggiori clienti privati della Salomon.
«Bill, ho pensato molto alla presentazione che hai fatto a
New York qualche settimana fa. Sono a Londra e vorrei che
ci incontrassimo al Four Seasons con altri colleghi.»
«Quando?»
«Adesso.»
Beny non faceva domande, solo richieste.
Avevo degli appuntamenti in programma quel pomerig-
gio, ma non erano tanto importanti quanto un miliarda-
rio che voleva investire in Russia, quindi li annullai e saltai
su un taxi, direzione Hyde Park Corner. Entrai nella hall

95
dell’albergo dove trovai Beny seduto con un gruppo di per-
sone che lavoravano nella sua azienda di diamanti. Fece le
presentazioni. C’era Nir dal Sudafrica, Dave da Anversa e
Moishe da Tel Aviv.
Ci accomodammo. Beny non perse tempo in inutili
smancerie. «Bill, dobbiamo metterci in affari.»
Ero lusingato che una persona ricca come Beny avesse
avuto una reazione così forte alle mie idee, però lanciai
un’occhiata a lui e ai suoi colleghi commercianti di diamanti
e pensai che non c’era verso che potessimo diventare soci in
affari: era un gruppo di persone troppo eterogeneo. Prima
che potessi proferire parola Beny continuò: «Io ci metto i
venticinque milioni iniziali. Che ne dici?»
Dovetti riflettere un attimo. «È una proposta interessan-
te. Come pensi di impostare questa nostra collaborazione?»
Beny e colleghi si imbarcarono in una conversazione
che mi fece capire che non avevano la più pallida idea di
cosa fosse una società di gestione patrimoniale. Sapevano
solo che avevano del denaro e ne volevano di più. Alla fine
dell’incontro ero entusiasta e deluso al tempo stesso.
Uscito dall’albergo pensai che quella era proprio la cosa che
intendevo fare, ma non con quelle persone. Trascorsi il resto
di quella giornata e tutta la nottata a rimuginare su quel di-
lemma. Se avessi iniziato l’attività da solo avrei avuto bisogno
di un capitale iniziale, ma era impossibile che una società con
Beny e i suoi uomini andasse a buon fine, perché non avevano
alcuna esperienza di gestione patrimoniale, e nemmeno io. A
conti fatti, dovevo rifiutare la proposta di Beny.
L’indomani lo chiamai e mi preparai al peggio, dire di no
a un miliardario non era facile. «Beny, sono davvero tenta-
to dalla tua offerta, però non posso accettare. Mi dispiace,
però ho bisogno di un socio che sappia gestire i capitali. Per
quanto tu sia un uomo esperto, questo non è il tuo campo.
Spero che tu capisca.»

96
Nessuno ha il coraggio di rifiutare le proposte di Beny
Steinmetz, che senza l’ombra di disappunto replicò: «Certo,
Bill, se ti serve qualcuno con esperienza nella gestione patri-
moniale, lo troviamo».
Sussultai sentendo pronunciare quelle parole. Già me lo
vedevo a tornare con un cugino che lavorava in una picco-
la società di intermediazione azionaria, mettendomi in una
posizione ancora più imbarazzante: ho dovuto dire di no
una seconda volta.
Poi, venti minuti dopo, mi telefonò di nuovo. «Cosa ne
dici se Edmond Safra si unisce a noi, Bill?»
Edmond Safra! Safra era il proprietario della Republic
National Bank di New York e il suo nome valeva oro nel
mondo delle banche private. Se Edmond Safra fosse entrato
in società con noi, sarebbe stato come vincere alla lotteria.
«Sì, sarebbe perfetto. Sono molto interessato, Beny.»
«Bene. Organizzo un incontro.»
Quello stesso pomeriggio chiamò. «Tutto a posto. Prendi
un volo per Nizza e fatti trovare sul molo del Carlton a
Cannes domani pomeriggio.»
Ma io lavoro domani, pensai. «Beny, possiamo fare un
giorno della prossima settimana così posso…»
«Safra è disposto a vederti domani, Bill», mi interruppe
Beny irritato. «Credi che sia facile fissare un appuntamento
con lui?»
«Certo che no. Va bene, ci sarò.»
Comprai un biglietto. L’indomani mi alzai, indossai un
completo, mi diressi a Heathrow e presi il volo delle 7 e 45
per Nizza. Prima di imbarcarmi, chiamai la sala contratta-
zioni fingendo di avere mal di gola e informai che avevo
bisogno di un giorno di riposo.
Arrivai a Nizza e seguendo le indicazioni di Beny, presi un
taxi per il Carlton di Cannes. Il fattorino dell’albergo pensò
che volessi registrarmi, invece gli domandai come raggiun-

97
gere il molo. Indicò un lungo ponte grigio sull’altro lato
della Croisette che dalla spiaggia si estendeva nel blu del
Mediterraneo. Attraversai la strada con gli occhi socchiusi
per via del sole (avevo dimenticato gli occhiali nella nuvolosa
Londra) e andai sul molo. Camminai sopra le assi passan-
do vicino a bagnanti abbronzati con i loro costumi succinti.
Ero completamente fuori luogo con il mio completo scuro di
lana che non si abbinava alla mia pelle diafana. Arrivai in fon-
do tutto sudato, controllai l’ora. Mezzogiorno meno cinque.
Un paio di minuti dopo, notai un motoscafo fiammante
venire da ovest. Quando si fece più vicino, riconobbi Beny.
Accostò lo yacht – un Sunseeker bianco e blu di tredici me-
tri – al bordo del molo e disse ridacchiando: «Bill, salta su!»
Beny era vestito da playboy della Costa Azzurra, con una
camicia color albicocca chiaro e pantaloni bianchi di lino,
in stridente contrasto con la mia tenuta. Salii a bordo bar-
collando. «Togliti le scarpe!» ordinò. Obbedii, mostrando i
calzini tirati sopra le caviglie.
Beny fece manovra e finito il limite, prese velocità. Cercai
di parlare dell’incontro e di Safra, ma il motore e il vento
facevano così tanto rumore che era impossibile dialogare. Ci
dirigemmo a est verso Nizza e continuammo a navigare per
mezz’ora, lambendo la penisola di Antibes e attraversando la
Baia degli Angeli prima di arrivare al porto di Villefranche-
sur-Mer.
Beny attraccò in una banchina libera, tirò le cime attorno
all’ormeggio e scambiò due parole in fretta e furia con il co-
mandante del porto in francese, per lasciare lo yacht ormeg-
giato per il pomeriggio. Poi ci dirigemmo verso il parcheg-
gio, dove un paio di agenti di sicurezza armati ci fecero stra-
da verso due Mercedes in attesa. Le auto si inerpicarono su
una strada tortuosa verso le zone più alte sopra Villefranche.
Alla fine entrammo nel parco di una vasta residenza privata,
che in seguito scoprì essere la casa più costosa del mondo:

98
La Leopolda. Assomigliava molto al Palais de Versailles, con
l’unica differenza che lì, decine di ex guardie del corpo del
Mossad con i loro completi neri tattici pattugliavano il par-
co armati di Uzi e SIG Sauer.
Scendemmo dall’auto e ci accompagnarono attraverso un
giardino di mille colori con al centro una fontana zampil-
lante circondata da cipressi affusolati. Ci fecero entrare in
un’ampia stanza riccamente decorata con vista sul mare. I
muri erano tappezzati di tele a olio settecentesche con corni-
ci in legno dorato e un enorme lampadario di cristallo pen-
dente dal soffitto. A quel punto, avevo capito che l’etichetta
del classico miliardario voleva che prima dovessero arrivare
gli ospiti per prepararsi all’incontro e solo dopo sarebbe ar-
rivato il magnate, per non perdere tempo. Poiché Beny si
trovava su un gradino inferiore nella scala gerarchica dei mi-
liardari, anche lui dovette subire lo stesso trattamento.
Quindici minuti dopo entrò Safra. Ci alzammo in piedi
per salutarlo.
Safra era un uomo di bassa statura, calvo e con il viso
paffuto, le guance rosate e un sorriso cordiale. «Salve,
Mr. Browder», disse, con un forte accento mediorientale.
«Prego, si accomodi.»
Non avevo mai visto Safra prima di allora, nemmeno in
fotografia, e non sembrava affatto l’archetipo del Signore
dell’Universo, con la mandibola squadrata, che quasi tut-
ti si sarebbero immaginati. Indossava un paio di pantaloni
beige informali e un’elegante camicia italiana confezionata
a mano, senza cravatta. I vari Chip e Winthrop del mondo
erano vestiti di tutto punto, con le loro bretelle rosse e il
Rolex. A Safra quelle cose non interessavano. Lui non dove-
va dimostrare nulla.
Dopo un piccolo preambolo di Beny, feci la mia solita
presentazione a Safra. La sua soglia di attenzione era molto
breve e, ogni cinque minuti, o rispondeva al telefono op-

99
pure faceva una chiamata per una questione che non aveva
niente a che vedere con quello di cui si stava parlando. Alla
fine del nostro incontro, ero stato interrotto così tante volte
che non sapevo quanto avesse assimilato del mio discorso.
Terminata l’esposizione, Safra si alzò indicando che la ri-
unione era finita. Mi ringraziò per il tempo che gli avevo
dedicato e mi salutò. Punto e basta.
Uno degli assistenti di Safra chiamò un taxi per ripor-
tarmi in aeroporto e, mentre attendevo sul vialetto, Beny
disse: «Mi pare che sia andata bene».
«Davvero? A me no.»
«Conosco Edmond. Fidati, è andata bene», disse Beny in
tono rassicurante.
Arrivò il taxi, salii e andai a casa.
Il venerdì seguente era il giorno della riunione della task for-
ce della Salomon. Andai a lavorare e poi dritto in sala riunioni.
Mi stupii che avessero prenotato una sala così grande. Intorno
alle dieci la sala cominciò a riempirsi e nel giro di un quarto
d’ora erano arrivate cinquanta persone, quasi tutte facce nuo-
ve. C’erano alti dirigenti, amministratori delegati, direttori,
vicepresidenti senior, e io. Quando entrammo nel vivo del di-
scorso ci fu un’accesa discussione su chi si sarebbe accaparrato
il merito economico dell’attività in Russia. Era come osservare
una lite tra animali in gabbia: era impressionante vedere come
persone che non avevano assolutamente nulla a che fare con
quella nuova avventura in Russia, potessero uscirsene con di-
scorsi convincenti sul perché avessero diritto a una quota dei
guadagni futuri. Non avevo idea di chi avrebbe vinto quello
scontro, ma sapevo per certo chi l’avrebbe perso: io.
Quella riunione fu così sconvolgente che non riuscii a
dormire per diverse notti. Non avevo fatto guadagnare cin-
que volte il mio stipendio all’azienda, bensì cinquecento vol-
te e non avrei certo permesso a un pivello senza arte né parte
di sottrarmi il frutto del mio lavoro.

100
Presi una decisione. Il lunedì dopo la riunione, andai a
lavorare, presi il coraggio a quattro mani, parlai al Direttore
Commerciale e diedi le dimissioni. Sarei andato a Mosca
e avrei creato la mia società di investimento: la Hermitage
Capital.

101
8. GREENACRES

Anche se ero convinto che lasciare la Salomon fosse la cosa


giusta, non potevo fare a meno di preoccuparmi che la vita
là fuori sarebbe stata molto più dura. Mi avrebbero spa-
lancato le porte senza il biglietto da visita della Salomon?
Mi avrebbero preso seriamente? Che cosa stavo dando per
scontato decidendo di agire da solo?
Mi frullavano in testa tutte queste domande mentre nel
mio cottage a Hampstead ero impegnato nel redigere un
prospetto e una presentazione per il mio nuovo fondo. Una
volta abbozzati questi documenti, comprai un biglietto su-
per economico per New York e cominciai a chiamare gli
investitori per fissare gli appuntamenti.
Il primo fu un francese gioviale di nome Jean Karoubi.
Jean era un finanziere di cinquant’anni che dirigeva una
società di gestione patrimoniale specializzata in fondi spe-
culativi. Ci eravamo incontrati su un volo per Mosca la pri-
mavera precedente e aveva detto che se avessi voluto avviare
un fondo in proprio, avrei dovuto contattarlo.
Andai nel suo ufficio nel Crown Building tra la Quinta e la
Cinquantasettesima, a un solo isolato da Bergdorf Goodman.
Quando arrivai mi accolse come un vecchio amico. Tirai fuori
la mia presentazione e la appoggiai sulla scrivania. Si mise gli
occhiali e mi seguì con diligenza mentre la esponevo pagina
per pagina. Quando finii, si abbassò gli occhiali sulla punta del
naso e mi guardò soddisfatto. «Ottimo, Bill, e io sono interes-
sato. Dimmi, quanti soldi sei riuscito a raccogliere finora?»

102
«Be’, in realtà, niente. Questo è il mio primo appunta-
mento.»
Si strofinò il mento meditabondo. «Ti dico una cosa. Se
riesci a raccogliere almeno venticinque milioni, io entro in
affari con tre, va bene?»
La sua offerta era davvero ragionevole. Non voleva in-
vestire in un fondo che non sarebbe partito, a prescindere
da quanto promettenti potessero essere gli investimenti sot-
tostanti. Tutti i miei appuntamenti a New York andarono
così. A quasi tutti piaceva l’idea e alcuni erano interessati,
ma nessuno voleva impegnarsi a meno di dare forti garanzie
sulla raccolta di capitale.
In sostanza avevo bisogno di qualcuno che mi staccas-
se un assegno sostanzioso per avviare la mia startup. In un
mondo ideale, quella persona sarebbe stato Edmond Safra,
ma non si era mai più fatto risentire dal nostro incontro alla
Leopolda. Questo voleva dire che dovevo trovare un altro
investitore primario, quindi gettai le reti in lungo e in largo.
Qualche settimana dopo ricevetti la mia prima proposta
concreta da un banchiere di investimento inglese, Robert
Fleming. Come è noto, la Flemings aveva avuto molto suc-
cesso nei mercati emergenti e stava prendendo in conside-
razione l’idea di investire in Russia, quindi mi invitarono a
una riunione con diversi dirigenti del team di Londra.
Il colloquio andò bene e mi invitarono di nuovo per
fare la stessa presentazione a uno dei loro dirigenti. Tornai
la settimana dopo e all’ingresso fui accolto da un addetto
alla sicurezza che mi accompagnò nella sala del consiglio
di amministrazione. Era esattamente come un arreda-
tore d’interni avrebbe immaginato che fosse una banca
d’affari inglese del vecchio continente. C’erano tappeti
orientali scuri, un tavolo da conferenze d’antiquariato in
mogano e le pareti erano tappezzate di dipinti a olio di
diversi membri della famiglia Fleming. Un maggiordomo

103
in giacca bianca mi offrì il tè in una tazza di porcellana.
Non riuscivo a non pensare che tutto questo sfoggio di
alta borghesia inglese fosse concepito per far sentire le
persone come me degli estranei.
Qualche minuto più tardi apparve un uomo sulla cin-
quantina che mi diede una stretta di mano flaccida. Aveva
i capelli grigi e la forfora sulle spalle del vestito di sarto-
ria un po’ stropicciato. Ci accomodammo, lui estrasse un
promemoria da una cartella trasparente e lo posò davanti
a sé, con cura. Lessi il titolo al rovescio: «Proposta per il
fondo di Browder».
«Mr. Browder, la ringrazio molto per essere venuto», disse
con un accento inglese che era l’esatta copia di quello di
George Ireland, il mio ex collega alla Maxwell. «Io e i miei
colleghi siamo rimasti piuttosto colpiti dalle opportunità in
Russia che ci ha presentato la settimana scorsa. Potremmo
parlare delle sue aspettative di stipendio e bonus.»
Aspettative di stipendio e bonus? Da dove cavolo si era fat-
to l’idea che fossi lì per un colloquio di lavoro? Dopo aver
sopportato quel covo di vipere della Salomon Brothers, ci
mancava solo che diventassi il servitore di un manipolo di
dilettanti aristocratici che fingevano di essere uomini d’affa-
ri, e il cui termine più gettonato era piuttosto.
«Temo che ci sia un malinteso», dissi, tenendo salda la
voce. «Non sono venuto per un colloquio di lavoro. Sono
qui per discutere della possibilità che la Flemings possa di-
ventare un investitore primario nel mio nuovo fondo.»
«Ah.» Aveva un’espressione confusa e armeggiava con la
relazione informativa. Questo non faceva parte del copione.
«Bene, che genere di affare sperava di concludere con noi?»
Lo fissai dritto negli occhi. «Sto cercando un investimen-
to da venticinque milioni di dollari in cambio del 50%
dell’attività.»
Si guardò intorno evitando di incrociare il mio sguardo.

104
«Uhm. Ma se noi prendiamo il 50% dell’attività, l’altro cin-
quanta a chi andrà?»
Non ero sicuro se stesse parlando sul serio. «A me.»
S’irrigidì. «Ma se il mercato salirà come sostiene, lei gua-
dagnerà milioni.»
«Certo, il punto è proprio questo, ma anche voi.»
«Sono molto spiacente Mr. Browder. Questo genere di
accordo non sarebbe molto ben accetto da queste parti»,
disse senza riconoscere nemmeno lontanamente quanto
fosse ridicola tale affermazione. Ai suoi occhi, sembrava
che arricchire un estraneo novellino andasse oltre le regole
dell’antiquato sistema classista inglese, che preferiva far per-
dere alla sua banca l’occasione di guadagnare una fortuna.
Chiudemmo il colloquio in maniera educata, ma quando
uscii giurai a me stesso che non sarei mai più ritornato da
una di queste banche presuntuose.
Ci furono molti altri vicoli ciechi e false partenze nelle
settimane che seguirono prima di trovare un cliente pro-
mettente: il miliardario americano Ron Burkle. Un ex in-
termediario finanziario della Salomon, Ken Abdallah, mi
aveva presentato Burkle nella speranza di prendersi una per-
centuale sull’affare per averci fatto conoscere.
Burkle era un single californiano di quarantatré anni,
aveva i capelli castano chiaro e una bella abbronzatura. Era
uno dei personaggi più importanti del settore delle private
equity della costa occidentale. Aveva condotto una serie di
operazioni di leveraged buyout di supermercati e da aiu-
tante alla cassa era diventato uno degli americani più ricchi
della lista di Forbes. Oltre al successo negli affari, appariva
spesso nelle pagine di cronaca mondana accanto a celebri-
tà hollywoodiane e a politici importanti come il presidente
Clinton.
Arrivai a Los Angeles un bel mattino di settembre del
1995. Dopo aver preso l’auto a noleggio ed essermi regi-

105
strato in albergo, guardai l’indirizzo di Burkle: 1740 Green
Acres Drive, Beverly Hills. Tornai alla macchina e girai
per le colline sopra Los Angeles, passando davanti a case
recintate con giardini traboccanti di fiori. C’erano alberi
ovunque: palme, aceri, querce e qualche platano d’America.
Green Acres Drive si trovava a circa un chilometro e mezzo
da Sunset Boulevard, e il numero 1740 era alla fine di una
strada senza uscita. Con l’auto mi avvicinai al cancello di
ferro nero, suonai il citofono e mi fu detto di entrare e di
parcheggiare. «Bill, ti vengo a prendere alla porta d’entrata»,
disse una voce maschile.
I cancelli si aprirono e con l’auto salii il vialetto protet-
to da file di cipressi appuntiti su entrambi i lati. Quando
arrivai nel parcheggio principale, mi trovai davanti a una
villa appariscente che non avevo mai vista prima. Forse la
Leopolda era la casa più costosa al mondo, ma la Greenacres,
costruita dalla stella del cinema muto Harold Lloyd alla fine
degli anni Venti, era una delle più grandi. L’edificio prin-
cipale aveva quarantaquattro stanze, un palazzo all’italiana
di 4200 metri quadrati circondato da prati ben curati, un
campo da tennis, una piscina, fontane e ogni possibile sfog-
gio di ricchezza. Non ho mai provato timore reverenziale
per ciò che le persone possiedono, ma fu difficile non essere
colpito dalla Greenacres. Burkle era una persona normale di
Ponoma in California, che era passato dal non avere nulla a
vivere come un principe saudita.
Suonai il campanello. Rispose Burkle in persona, e pro-
prio dietro di lui c’era Ken Abdallah. Burkle mi fece entrare
e dopo un breve tour, andammo tutti e tre nel suo studio per
discutere dei termini dell’accordo. Con mia grande sorpre-
sa, Burkle era rilassato e in pratica accettò le mie condizioni:
un investimento da 25 milioni di dollari per partecipare al
50% nel fondo. Per quanto riguardava i termini meno im-
portanti come la data di inizio, il controllo delle assunzioni

106
e il capitale netto d’esercizio per l’ufficio, non ebbe molto
da aggiungere. Per un tipo che aveva la reputazione di es-
sere uno dei più spietati di Wall Street, mi sembrava molto
tranquillo.
Una volta concluse le trattative ci portò a cena e poi nel
suo nightclub preferito. Fui colpito da quanto Burkle fosse
una persona piacevole. Non aveva per niente quella spaval-
deria caratteristica di Wall Street che mi aspettavo. Mentre
stavo salendo a bordo della mia auto a fine serata, mi pro-
mise che i suoi legali avrebbero abbozzato il contratto e me
lo avrebbe spedito a Londra entro breve. Il giorno dopo, sul
volo di ritorno, avevo la sensazione di aver rimosso l’ostaco-
lo principale per cominciare la mia attività. In aereo sorseg-
giai un calice di vino rosso, brindando in silenzio alla mia
buona stella, guardai un pezzo di un film e mi addormentai.
Come promesso, quattro giorni dopo, nel mio cottage
ad Hampstead il fax sputò un lungo documento dei le-
gali di Burkle. Lo afferrai nervoso e cominciai a leggerlo
per assicurarmi che fosse tutto a posto. La prima pagina
andava bene, come pure la seconda, la terza invece così
così. Nel paragrafo intitolato «Capitale del fondo», dove
avrebbe dovuto esserci scritto: «Yucaipa* impegna 25 mi-
lioni di dollari nel fondo», diceva: «Yucaipa cercherà di
fare tutto il possibile per raccogliere 25 milioni di dollari
per il fondo». Cosa voleva dire «fare tutto il possibile»? Gli
accordi non erano quelli. Rilessi il contratto per assicurar-
mi di non essermi sbagliato. Avevo visto bene. Burkle non
impegnava il suo denaro, prometteva solo di raccogliere
denaro se poteva. In cambio di fare tutto il possibile, voleva
il 50% della mia società.
Ecco perché era così rilassato durante la contrattazione.
Non rischiava nulla!

* Il nome della società d’investimento di Burkle.

107
Chiamai subito il suo ufficio. Educatamente la segreta-
ria mi rispose che non era disponibile. Telefonai altre tre
volte ed era sempre occupato. Decisi di chiamare Ken
Abdallah.
«Lo so che hai cercato di contattare Ron», disse Ken con
un leggero accento californiano, come se fosse appena rien-
trato dalla spiaggia. «Come posso aiutarti?»
«Senti, Ken. Ho appena ricevuto il contratto e dice che
Ron in realtà non impegnerà soldi per il fondo, ma mi offre
solo il suo aiuto per raccogliere denaro. Non eravamo d’ac-
cordo così», dissi candidamente.
«Bill, io ero presente, ed è esattamente quello che Ron ha
concordato», disse con un tono di voce molto più alto che
si sostituì a quello del californiano imperturbabile.
«Ma cosa succede se non riesce a raccogliere il denaro?»
«Semplice. Il suo 50% può tornare a te.»
Ma a che gioco pensavano di giocare? In sostanza, Burkle
avrebbe avuto la scelta di prendersi gratuitamente il 50%
della mia società riuscendo a raccogliere i fondi con qual-
che telefonata. Se era troppo occupato per chiamare e i
suoi amici non volevano investire, me ne sarei stato seduto
nell’ufficio vuoto a Mosca.
Ken sentiva che ero turbato, ma non voleva che l’accordo
andasse in fumo e rischiare di perdere la sua quota. «Senti
Bill, non preoccuparti. Ron è uno dei finanzieri di maggior
successo del Paese. Se dice che raccoglierà venticinque mi-
lioni di dollari, lo farà. Riesce a organizzare affari per venti
volte quella somma a occhi chiusi. Rilassati. Andrà tutto
bene, ne sono sicuro.»
Io non lo ero affatto. Ma ci pensai su. Forse ero stato così
ansioso di sentirmi dire quello che volevo sentirmi dire, che
mi ero immaginato che Burkle impegnasse senza dubbio i
25 milioni di dollari. In ogni caso, non mi piaceva la pie-
ga che le cose stavano prendendo. Avrei detto di no subito

108
all’accordo, ma non avevo nessuna alternativa e il tempo
passava. Le opportunità in Russia erano deperibili. Una
volta che il mercato russo cominciava a salire, avrei perso
l’opportunità di quella che sembrava l’occasione che capita
una sola volta nella vita di guadagnare una fortuna.
Era Edmond Safra la persona con cui volevo davvero lavo-
rare, non Burkle, e quindi decisi di fare un ultimo tentativo
con Safra. Non potevo telefonargli direttamente, così rin-
tracciai Beny ad Anversa. Alzò la cornetta al primo squillo.
«Ciao Beny, sono Bill. Lo so che è un po’ che non ci
sentiamo, ma a titolo di cortesia volevo dirti che sto pen-
sando di fare un accordo con Ron Burkle per creare un
fondo russo.»
Per un po’ non disse nulla. Lo sapevamo entrambi che
non era una telefonata di cortesia.
«Cosa hai detto? Chi è Burkle?»
«Un miliardario americano nel settore dei supermercati.»
«Ma pensavo che volessi qualcuno che se ne intendesse di
gestione patrimoniale. Questo Burkle che cosa ne sa?»
«Non lo so, ma tu e Safra sembrate aver perso interesse.»
Dopo un altro silenzio Beny disse: «Aspetta, Bill. Non
abbiamo perso interesse. Non fare niente finché non mi fac-
cio risentire. Chiamo subito Edmond».
Riagganciai e percorsi a grandi passi il mio cottage di
Hampstead, aspettando con ansia.
Dopo un’ora, Beny mi richiamò. «Bill, ho appena parlato
con Edmond. È pronto a collaborare con te.»
«Davvero? Sei sicuro? Così, come se niente fosse?»
«Sì, Bill. Si è offerto di mandare il suo uomo di fidu-
cia, Sandy Koifman, a Londra da Ginevra dopodomani.
Prenderò un volo e verrò anch’io. Ci sedemmo per arrivare
a un accordo.»
Questa era la tipica psicologia da miliardario. Se non aves-
si ricevuto un’offerta dalla concorrenza, Safra non avrebbe

109
fatto niente. Ma visto che sul tavolo c’era un altro accordo,
Safra non seppe resistere.
Due giorni dopo, alle 11, incontrai Beny e Sandy nella so-
fisticata villa di città a sei piani di Edmond Safra a Berkeley
Square. Sandy aveva quarant’anni, era alto un metro e ot-
tantatré, con la carnagione scura e i tratti mediterranei. Un
ex pilota di caccia dell’aeronautica israeliana, aveva la re-
putazione di rischiare grosso sui mercati finanziari, guida-
va una Ferrari e si adoperava affinché Safra non finisse nei
guai. Mentre ci accomodavamo nella biblioteca, ho avverti-
to che Sandy mi stava studiando. Gli piaceva torchiare tutti
prima di qualsiasi affare, ma Safra gli aveva detto di arrivare
a un accordo, e così è andata.
L’offerta era chiara ed equa: Edmond Safra e Beny
Steinmetz avrebbero stanziato 25 milioni di dollari per il
fondo e fornito del capitale d’avviamento per le operazioni
della società. La banca di Safra avrebbe condotto le opera-
zioni di negoziazione, valutato il fondo e si sarebbe occupata
di tutto l’aspetto burocratico. Cosa ancora più importante,
se avessi fatto un buon lavoro, Safra mi avrebbe presentato
a tutti i suoi clienti, alcune delle famiglie più ricche e im-
portanti del mondo. In cambio Safra si sarebbe preso metà
della società e avrebbe ceduto alcune delle sue azioni a Beny
per averci fatto incontrare. Non ci voleva molto a capire che
l’offerta era ottima e accettai immediatamente.
Quello che la rendeva particolarmente appetibile era che
Safra aveva la reputazione di fare affari solo con persone che
lui e la sua famiglia conoscevano da generazioni: era una no-
vità fare affari con uno sconosciuto come me. Non era chia-
ro perché avesse fatto questa eccezione, ma non sarei andato
a sindacare la mia buona sorte. Come se Sandy mi leggesse
nel pensiero, dopo l’accordo disse: «Congratulazioni Bill.
Lo so che Edmond è entusiasta per questo affare, ma ti terrò
d’occhio».

110
A differenza del contratto di Burkle, quello che ricevetti
dai legali di Safra una settimana dopo diceva esattamen-
te quello che pensavo avrebbe detto, e lo firmai subito.
Quando dissi a Burkle che non avrei fatto l’accordo con lui,
perse le staffe, mi insultò e minacciò di querelarmi. Non
successe nulla di tutto questo, ma alla fine venne fuori la
natura arrogante per cui era famoso.
Adesso ero pronto a partire. Trascorsi i mesi prima di
Natale a cercare di fare gli ultimi ritocchi e mi preparai per
trasferirmi a Mosca. Ma non sarei stato solo io a dovermi
trasferire: avevo incontrato una donna.
Si chiamava Sabrina, ci eravamo conosciuti sei mesi prima
a una festa scatenata a Camden Town. Era bellissima, una
ragazza ebrea con i capelli scuri del nord ovest di Londra,
diversa da tutte quelle che avevo conosciuto prima. Dietro
al suo aspetto piacente, c’era una combinazione di ardente
determinazione e delicata fragilità che trovavo irresistibile.
Era orfana dalla nascita ed era stata adottata da una famiglia
povera dell’est di Londra, ma in qualche modo era riuscita
a lasciarsi alle spalle l’Est End, a perdere l’accento cockney e
a diventare un’attrice di soap opera inglesi. La sera in cui ci
incontrammo, lasciammo la festa insieme e andammo drit-
ti a casa sua e da quel momento diventammo inseparabili.
Due settimane dopo le diedi le chiavi del mio cottage e, il
giorno successivo, quando tornai dalla mia solita corsetta
trovai due enormi valige in corridoio. Senza nemmeno par-
larne avevamo cominciato a vivere insieme. In circostanze
normali ci sarei andato con i piedi di piombo, ma ero così
attratto da lei, che le avrei permesso di fare tutto quello che
voleva.
Dopo aver firmato l’accordo con Safra, la chiamai dallo
studio legale e le chiesi di incontrarci quella sera da Ken
Lo, il nostro ristorante cinese preferito vicino a Victoria
Station, per festeggiare. Durante la cena era stranamente

111
triste e non capivo cosa stesse succedendo. Ma poi, mentre
stavamo consumando il dessert, si chinò in avanti e disse:
«Sono molto contenta per te, ma non voglio perderti».
«Non mi perderai. Verrai con me!» dissi con passione.
«Bill, se mi stai chiedendo di rinunciare a tutto per tra-
sferirmi a Mosca, devi impegnarti a sposarmi. Ho trenta-
cinque anni e voglio avere figli prima che sia troppo tardi.
Non posso andare in giro per il mondo con te a divertirmi.»
Dietro a quella ragazza spensierata, sexy e pazza c’era una
normale ragazza ebrea che voleva mettere su famiglia: venne
fuori tutto quella sera da Ken Lo. Non volevo rompere, ma
sposarla dopo averla conosciuta solo da un anno mi sembra-
va un po’ azzardato. Non risposi e quando andammo a casa
cominciò a fare le valige.
Il taxi arrivò e, senza dire nemmeno una parola, aprì la
porta e con fare goffo trascinò le valige giù per il vialetto di
ghiaia fino alla strada.
Ero così sopraffatto dal pensiero che mi lasciasse che de-
cisi, Accidenti, – abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno, e
la rincorsi. Le saltai davanti e le bloccai la strada. «Sabrina,
anch’io non voglio perderti. Sposiamoci, trasferiamoci a
Mosca e mettiamo su casa.» Le si riempirono gli occhi di
lacrime. Lasciò le valige, mi si gettò tra le braccia e mi baciò.
«Sì, Bill. Ti voglio seguire ovunque, fare tutto con te. Ti
amo. Sì. Sì. Sì.»

112
9. DORMIRE SUL PAVIMENTO A DAVOS

Le cose si stavano incastrando alla perfezione. Safra mi ave-


va offerto 25 milioni di dollari, io avevo grandi progetti
d’investimento e stavo per imbarcarmi in un’incredibile av-
ventura a Mosca con la donna che amavo. Ma un grosso
inconveniente poteva rovinare tutto: le imminenti elezioni
presidenziali russe che si sarebbero tenute nel giugno del
1996.
Boris Yeltsin, il primo presidente della Russia eletto de-
mocraticamente, si era ricandidato alla presidenza, anche
se le previsioni non muovevano a suo favore. Il suo piano
di portare il Paese dal comunismo al capitalismo era mise-
ramente fallito. A dividersi il bottino della privatizzazione
di massa, non furono i centocinquanta milioni di russi: il
Paese finì nelle mani di ventidue oligarchi che detenevano
il 39% dell’economia e tutti gli altri vivevano in povertà.
Per sbarcare il lunario, i professori universitari dovettero di-
ventare tassisti, le infermiere si diedero alla prostituzione
e i musei d’arte vendevano quadri staccandoli direttamen-
te dalle pareti. Quasi tutti i russi subirono intimidazioni e
umiliazioni, per questo odiavano Yeltsin. Quando mi pre-
parai a trasferirmi a Mosca nel dicembre del 1995, Yeltsin
godeva di un indice di popolarità di appena il 5,6%. Invece,
Gennady Zyuganov, il suo rivale comunista, stava incon-
trando sempre più i favori dei cittadini, riscuotendo il più
alto indice di popolarità tra i candidati.
Se Zyuganov fosse diventato presidente, molti temevano

113
che avrebbe espropriato tutto ciò che era stato privatizzato.
Potevo sopportare molte cose negative della Russia tra cui
l’iperinflazione, gli scioperi, le carenze alimentari e anche la
criminalità di strada, però sarebbe stato tutto diverso e se il
governo avesse confiscato ogni cosa dichiarando la fine del
capitalismo.
Che cosa dovevo fare? C’era ancora una possibilità che
Yeltsin vincesse, quindi non mi sarei ritirato dall’accordo
preso con Safra. Allo stesso tempo, non avrei dovuto inve-
stire il denaro di Safra in un Paese che poteva sottrarglielo
dall’oggi al domani. Decisi che la cosa migliore da fare era
trasferirmi a Mosca e da lì avrei valutato il da farsi. Il fondo
avrebbe tenuto tutto il denaro in contanti finché non era
chiaro chi avrebbe vinto le elezioni. Nel peggiore dei casi
avrei potuto piantare tutto lì, il fondo avrebbe restituito il
denaro a Safra e io sarei potuto tornare a Londra e ricomin-
ciare tutto da capo.
A prescindere dai miei piani, Sandy Koifman aveva le sue
idee su come proteggere gli interessi di Safra. Nel gennaio
1996, mi chiamò per dirmi che dovevo presentare un “ma-
nuale delle procedure operative” prima che mi elargissero
il denaro. Che diavolo era un manuale delle procedure ope-
rative? pensai. Non era previsto dal contratto. Safra si stava
facendo prendere dal panico e quella sembrava una richie-
sta elegante per prendere tempo, mentre decideva se andare
avanti o se invece tirarsi indietro.
Avrei potuto obiettare con Sandy, ma non volevo forzare
troppo la mano. Cominciai a lavorare al progetto di Sandy
mentre seguivo i sondaggi demoscopici russi per vedere se
la situazione volgeva in mio favore.
Una settimana dopo aver iniziato a redigere il manuale
delle procedure operative, ricevetti una chiamata dal mio
amico Marc Holtzman. Marc e io ci eravamo conosciuti a
Budapest cinque anni prima quando lavoravo per Maxwell.

114
Gestiva delle banche d’investimento esclusive specializzate
nell’Est europeo e Russia ed era il numero uno in fatto di
pubbliche relazioni. Si buttava a capofitto in qualsiasi paese
in via di sviluppo e, nel giro di ventiquattrore, riusciva a
ottenere appuntamenti con il presidente, il ministro degli
Esteri e il direttore della Banca centrale. Sebbene avesse più
o meno la mia età, io mi sentivo un dilettante al confronto
quando sfoderava il suo talento politico affinato alla perfe-
zione.
«Ehi, Bill», disse Marc appena sollevai il ricevitore. «Io
vado a Davos, vuoi venire con me?»
Marc si stava riferendo al Forum economico mondiale di
Davos, in Svizzera, un appuntamento annuale frequentato
da amministratori delegati, miliardari e capi di stato. Era
il non plus ultra delle kermesse del mondo degli affari e i
requisiti di ammissione – essere a capo di uno stato o di una
multinazionale famosa in tutto il mondo e una quota d’i-
scrizione pari a cinquantamila dollari – facevano sì che gen-
te di poco conto come me e Marc non potesse partecipare.
«Sarebbe bellissimo, Marc, ma non sono stato invitato»,
risposi con tutta sincerità.
«E allora? Se è per questo nemmeno io!»
Scossi la testa per quella combinazione unica di spa-
valderia, spensieratezza e senso dell’avventura. «Va bene,
ma dove ci fermeremo a dormire?» Quello era un altro
ostacolo: tutti gli alberghi nel raggio di chilometri erano
prenotati.
«Per quello non ti devi preoccupare. Ho trovato una sin-
gola al Beau Séjour Hotel, in pieno centro. È spartano, ma
ci divertiremo. Allora?»
Non ero sicuro. Avevo un sacco di lavoro da sbrigare,
poi Marc mi disse pieno di entusiasmo: «Bill, devi ve-
nire, ho organizzato una cena con i fiocchi per Gennady
Zyuganov».

115
Gennady Zyuganov? E come aveva fatto Marc?
A quanto pareva, Marc aveva avuto la lungimiranza di
tenersi buono Zyuganov molto prima che fosse intercet-
tato dal radar politico generale. Quando era stato annun-
ciato che Zyuganov avrebbe partecipato a Davos, Marc lo
chiamò e gli disse: «Molti miliardari e gli amministratori
delegati della Fortune 500 che conosco, non vedono l’ora
di incontrarla. Le interesserebbe venire a una cena privata
con noi a Davos?» Certo che Zyuganov era interessato.
Dopodiché Marc si è mise a scrivere a tutti i miliardari
e amministratori delegati che partecipavano a Davos di-
cendo: «Gennady Zyuganov, il probabile prossimo presi-
dente della Russia, vorrebbe incontrarla personalmente. È
disponibile per una cena il 26 gennaio?» Ovviamente sì.
Ecco come otteneva le cose Marc. La strategia era primiti-
va, ma molto efficace.
Dopo aver saputo di Zyuganov, presi la palla al balzo.
Il martedì successivo andammo a Zurigo e prendemmo il
treno per Davos. Davos aveva la reputazione di essere una
località esclusiva, invece mi stupì che non fosse affatto chic.
Nella città regnava un’atmosfera industriale, funzionale.
Era una dei centri urbani più popolati delle alpi svizzere,
contornato da ampi condomini funzionali più simili a case
popolari che alle tipiche e pittoresche costruzioni di una
località sciistica.
Marc e io arrivammo al Beau Séjour. L’addetto al rice-
vimento ci guardò male mentre registrava i nostri nomi –
due uomini adulti che condividevano una stanza con un
letto singolo – ma lasciammo correre. Salimmo le scale e
sistemammo le valige. Lui prese il letto e a me toccò il pa-
vimento.
Eravamo ridicoli. Due infiltrati belli e buoni. Non erava-
mo stati invitati, non avevamo pagato la quota di iscrizione
e non avevamo credenziali per entrare nel centro conferenze

116
vero e proprio. Ma poco importava perché ciò che ci inte-
ressava era al Sunstar Parkhotel, dove tutti i russi si raduna-
vano nella hall per fare delle riunioni.
Appena sistemati andammo al Sunstar e perlustrammo
la hall. C’erano russi di tutti i tipi. Riconobbi subito un
manager che conoscevo, un certo Boris Fyodorov, il presi-
dente di una piccola società di intermediazione finanziaria
di Mosca, che era stato il ministro delle Finanze russo dal
1993 al 1994. Era grassottello e aveva i capelli castani cor-
ti, guance paffute e occhietti penetranti incorniciati da un
paio di occhiali con la montatura quadrata. Fyodorov aveva
un’assurda aria arrogante, tanto più che non aveva neppure
quarant’anni. Mentre io e Marc ci avvicinavamo al tavolo
dove lui stava prendendo un caffè, ci lanciò un’occhiata di
sufficienza e disse in inglese: «E voi, cosa ci fate qui?»
Mi riportò ai tempi della scuola. Fyodorov sarà stato an-
che il Ministro delle finanze russo, ma al momento era solo
un piccolo operatore di borsa moscovita.
«Ho venticinque milioni di dollari da investire in Russia»,
dissi come se niente fosse. «Però, prima di investirli, ho mol-
te domande su come andranno le cose per Yeltsin durante le
elezioni. Ecco perché sono qui.»
Appena pronunciai le parole «venticinque milioni di dol-
lari», il modo di fare di Fyodorov all’improvviso cambiò.
«Prego, prego, Bill. Come si chiama il tuo amico?» Gli pre-
sentai Marc e ci sedemmo. Subito dopo Fyodorov aggiunse:
«Non ti preoccupare delle elezioni, Bill. Yeltsin vincerà di
sicuro».
«Come fai a saperlo?» domandò Marc. Il suo indice di
popolarità è di appena il 6%.»
Fyodorov protese la mano e con un movimento del dito
indicò la hall. «Sistemeranno tutto loro.»
Seguii la sua mano e riconobbi tre uomini: Bors
Berezovsky, Vladimir Gusinsky e Anatoly Chubais.

117
L’inseparabile trio se ne stava in un angolo. Berezovsky
e Gusinsky erano due dei più famosi oligarchi russi. Erano
arrivati in alto facendosi strada, dal nulla, con le unghie e
con i denti, passando sopra a chiunque si mettesse in mez-
zo. Erano diventati miliardari proprietari di banche, canali
televisivi e altri vasti capitali industriali. Chubais era uno
degli operatori politici più astuti della Russia. Aveva archi-
tettato le riforme economiche di Yeltsin, tra cui il disastro-
so programma di privatizzazione di massa. Nel gennaio
del 1996 si era dimesso dal governo, concentrando tutto
se stesso nel tentativo di rimediare la campagna fallimen-
tare di Yeltsin.
All’epoca non lo sapevo, ma quella scena nella hall del
Sunstar Parkhotel fu il famigerato «Patto col diavolo», in
cui gli oligarchi decisero di investire tutte le loro risorse fi-
nanziarie e mediatiche nella rielezione di Yeltsin. In cambio,
avrebbero ottenuto ciò che rimaneva delle aziende russe
non ancora privatizzate per un’inezia.
Mentre io e Marc perlustravamo la stanza, svariati altri
oligarchi e «minigarchi» con cui parlammo, continuavano
a dire, come Fyodorov, che Yeltsin sarebbe stato rieletto.
Forse avevano ragione, ma magari la loro era una previsione
basata sulle loro speranze. Già, gli oligarchi russi non sono
credibili in circostanze normali e Yeltsin ne aveva di strada
da fare se voleva raggiungere il 51% necessario per vincere
le elezioni.
Pensai che fosse molto meglio valutare le intenzioni del
candidato dato come favorito, anziché ascoltare i sogni im-
possibili di gente che aveva tutto da perdere dalla sconfitta
di Yeltsin. In quell’occasione lo scopo del nostro viaggio era
quello di sondare il terreno con Zyuganov e ne avrei avuto
l’opportunità alla cena di Marc.
Arrivò la sera della famosa cena nella sala da pranzo gre-
mita della Bridge Room presso il Flüela Hotel. L’albergo era

118
uno dei due hotel a cinque stelle di Davos e per Marc era
stato un vero e proprio colpo da maestro essere riuscito a
organizzare la serata proprio lì. Quella sera, la cena di Marc
era l’evento più ambito della città.
Avevano sistemato il tavolo a quadrato, con le sedie
all’esterno. Esaminai le facce degli ospiti, mentre arrivava-
no e si accomodavano. Non avevo mai visto in vita mia
tante persone importanti in una volta, tra cui: George
Soros, Heinrich von Pierer, l’amministratore delegato della
Siemens, Jack Welch, l’amministratore delegato della GE, e
Percy Barnevik, amministratore delegato dell’Asea Brown
Boveri. In totale c’era più di una ventina di miliardari e
amministratori delegati più noi. Indossai il mio abito mi-
gliore, sforzandomi di non sfigurare, anche se sapevo che
ero l’unica persona in quella sala che avrebbe dormito sul
pavimento quella notte.
Dopo qualche minuto, quando tutti si furono sistemati,
Zyuganov fece il suo ingresso accompagnato da un tradut-
tore e un paio di guardie del corpo, e si accomodò. Marc
fece tintinnare il bicchiere e si alzò in piedi.
«Vi ringrazio molto per essere venuti questa sera. Sono
molto onorato di aver organizzato questa cena per Gennady
Zyuganov, il leader del partito comunista russo e candidato
alla presidenza.» Quando ormai Zyuganov credette che fos-
se venuto il suo turno di alzarsi, Marc aggiunse spontaneo:
«Vorrei anche ringraziare Bill Browder che mi ha aiutato a
rendere possibile questa serata». Marc allungò la mano con
il palmo rivolto verso l’alto. «Bill?»
Accennai ad alzarmi, feci un breve saluto con la mano
e tornai a sedere subito. Ero mortificato. Era stato un bel
gesto quello di Marc, ma in quel momento se avessi potuto
mi sarei sepolto.
Finito di mangiare il piatto forte, Zyuganov si alzò e parlò
attraverso il suo interprete. Zyuganov fece una gran filip-

119
pica, parlando di dettagli insignificanti e poi disse: «Chi è
preoccupato di una mia nazionalizzazione dei capitali non
ha nulla da temere».
Mi illuminai.
E continuò: «Oggigiorno la parola comunista è solo un’e-
tichetta. In Russia si è avviato un processo di privatizzazio-
ne che non può più tornare indietro. Se dovessimo nazio-
nalizzare i capitali, si creerebbe un malcontento popolare da
Kaliningrad a Khabarovsk», dichiarò annuendo. «Spero di
incontrarvi di nuovo quando sarò Presidente della Russia».
In quel silenzio generale, Zyuganov si sedette, prese il cuc-
chiaino d’argento e lo affondò nel dessert.
Aveva appena escluso la nazionalizzazione? Sembrava pro-
prio di sì.
Di lì a poco la cena terminò, Marc e io alla fine tornammo
in camera nostra. Disteso sul pavimento la mente continuava
a vagare. Se quello che Zyuganov diceva era vero, a prescin-
dere da chi avrebbe vinto le elezioni, io avrei ricominciato la
mia attività. Dovevo dirlo a Sandy Koifman quanto prima.
Lo chiamai a Ginevra l’indomani mattina presto e gli rac-
contai la storia, ma lui non rimase favorevolmente colpito.
«Non dirmi che gli credi, Bill. Quelle sono persone che di-
rebbero di tutto.»
«Ma Sandy, Zyuganov l’ha detto davanti agli uomini d’af-
fari più importanti del mondo! Conterà pure qualcosa, no?»
«Non vuol dire nulla. La gente mente, i politici raccon-
tano frottole, tutti diciamo bugie. E poi stiamo parlando di
un politico russo. Se io credessi a tutto quello che mi dicono
i politici, Safra sarebbe già ridotto sul lastrico.»
Non sapevo cosa pensare, però tutto quello che avevo
sentito a Davos mi lasciava credere che c’era una remota
possibilità che le cose funzionassero, e io volevo fare del mio
meglio perché tutto andasse liscio.

120
10. AZIONI PREFERENZIALI

Riuscii finalmente a terminare il manuale delle procedure


operative per Sandy sei settimane dopo Davos. O Sandy
inviava il denaro che Safra aveva impegnato per il fondo o
avrebbe dovuto ritirarsi dall’accordo.
Se l’indice di popolarità di Yeltsin fosse rimasto al
5,6%, senza dubbio Sandy non avrebbe rispettato l’ac-
cordo. Ma il piano degli oligarchi sembrava funzionare.
Ai primi di marzo l’indice di popolarità di Yeltsin era
salito al 14% e ciò mise Sandy di fronte a un dilemma.
Una clausola del contratto prevedeva che se Safra si fosse
ritirato, avrebbe dovuto pagare una penale di svariati mi-
lioni di dollari. Se invece Sandy avesse sbloccato il denaro
e Yeltsin non fosse stato rieletto, Safra avrebbe rischiato
di perdere una cifra ancora maggiore. Per guadagnare un
po’ di tempo, Sandy fece arrivare centomila dollari del
capitale d’avviamento, permettendomi almeno di aprire
l’ufficio a Mosca.
Anch’io ero di fronte a un dilemma. Non mi piaceva l’i-
dea di trasferirmi a Mosca senza una vera attività, ma non
potevo forzare la mano. Se Safra decideva di ritirarsi adesso,
non sarei stato in grado di trovare un altro investitore con
venticinque milioni di dollari in tre mesi prima delle elezio-
ni in Russia.
Continuai a lavorare e a preparami per trasferirmi a Mosca
con Sabrina, ma tra noi le cose si erano fatte più complicate.
Era rimasta incinta appena le avevo chiesto di sposarmi e

121
ora era in preda alle nausee mattutine. Stava così male che la
dovetti portare diverse volte all’ospedale per farla reidratare.
Mentre preparavamo le valige nella nostra stanza da letto
la sera prima del nostro viaggio a Mosca, mi confessò quello
che temevo.
«Bill, sono stata in piedi tutta la notte a pensare, mi…»
«Cosa c’è?»
«Mi dispiace, ma non posso venire a Mosca.»
«Per via delle nausee mattutina?»
«Sì, e…»
«Cosa? Verrai quando ti è passata, vero?»
Si girò, aveva l’aria confusa. «Sì, cioè penso di sì. Bill non
lo so. Davvero non lo so.»
Anche se la volevo con me a Mosca, non potevo biasi-
marla. Sarebbe diventata mia moglie e aveva in grembo mio
figlio. Indipendentemente dai nostri accordi precedenti,
doveva essere felice e a suo agio: questa era la cosa più im-
portante.
Accettai che rimanesse a Londra e il mattino seguente
Sabrina mi accompagnò in auto a Heathrow. Ci salutammo
sul bordo del marciapiede e le promisi di chiamarla due vol-
te al giorno, tutti i giorni. La baciai e attraversai l’aeroporto
sperando che mi raggiungesse presto.
Continuai a pensarci per tutto il mio volo verso est. Ma
quando atterrai a Sheremetyevo e mi ritrovai davanti al caos
e alla folla, mi concentrai su come affrontare la vita di tutti
i giorni a Mosca.
Avevo una lista di cose da fare lunga due pagine e la prima
era trovare un ufficio. Dopo essermi registrato al National
Hotel, chiamai Marc Holtzman che aveva da poco aperto il
suo ufficio a Mosca. Mi disse che c’era una stanza vuota nel
corridoio dove si trovava il suo e presi un appuntamento per
andare a vederla subito.
Il mattino seguente, uscii dall’albergo e fermai un taxi

122
con un cenno. Appena misi fuori la mano, un’ambulanza
sterzò pericolosamente dalla corsia centrale e inchiodò da-
vanti a me. L’autista si chinò, abbassò il finestrino e disse:
«Kuda vy edete?» Voleva sapere dove ero diretto.
«Parus Business Centre», gli dissi senza nemmeno l’om-
bra di un accento russo. «Tverskaya Yamskaya dvacet tre», –
l’indirizzo della via. Questo era tutto quello che sapevo dire.
A differenza di molti altri occidentali a Mosca, non avevo
mai studiato letteratura russa né avevo fatto l’addestramen-
to per diventare una spia o qualcosa di utile per prepararmi
a vivere in Russia.
«Piat teesich rublei», disse, cinquemila rubli, all’incirca un
dollaro, per percorrere poco più di tre chilometri. Mentre
parlava, altre quattro auto di passaggio si fermarono, in fila,
in caso avessi deciso di non accettare l’ambulanza. Andavo
di fretta e quindi saltai su. Mi guardai alle spalle mentre
mi accomodavo sul sedile del passeggero, sperando che die-
tro non ci fossero cadaveri o feriti. Grazie al cielo era vuo-
ta. Chiusi la portiera e ci buttammo nel traffico, direzione
Tverskaya.
Ben presto scoprii che a Mosca non era raro che un’am-
bulanza si fermasse per offrire passaggi agli autostoppisti.
Ogni veicolo era un potenziale taxi. Auto private, camion
della nettezza urbana, auto della polizia – avevano un biso-
gno così disperato di soldi che avrebbero caricato qualsiasi
passeggero.
Dieci minuti dopo ci fermammo di fronte al Parus
Business Centre. Diedi i soldi all’autista, scesi, imboccai
il sottopassaggio e attraversai la strada. Entrai nel palazzo
passando per una concessionaria della Chevy al piano terra
e incontrai l’amministratore dell’edificio, un austriaco che
parlava a macchinetta.
Mi accompagnò nell’ufficio vuoto al quarto piano. Erano
solo 18,5 metri quadrati, grande come una camera da letto

123
matrimoniale media. Le finestre con i vetri a specchio si
aprivano solo di qualche centimetro e davano su un par-
cheggio a ovest e su un complesso di vecchi condomini
sovietici fatiscenti. Non era un bel posto, ma funziona-
le, aveva diverse prese telefoniche ed era a pochi passi da
Marc. L’austriaco chiedeva quattromila dollari al mese,
questo lo rendeva l’ufficio più costoso al metro quadrato
di Mosca. Cercai di trattare, ma l’austriaco mi rise in fac-
cia. Discutemmo ancora un po’, ma poi cedetti e firmai il
contratto di affitto.
Ora che avevo l’ufficio avevo anche bisogno di persona-
le per farlo funzionare. Nonostante milioni di russi fossero
alla ricerca di un lavoro per sopravvivere, trovare un dipen-
dente che parlasse bene in inglese era pressoché impossibile
a Mosca. Settant’anni di comunismo avevano distrutto l’e-
tica del lavoro di un’intera nazione. Milioni di russi erano
stati confinati nei gulag per aver mostrato anche il minimo
segno di iniziativa personale. I Soviet punivano severamen-
te gli spiriti indipendenti, così la reazione naturale di au-
toconservazione fu di fare il minimo possibile sperando di
non essere notati. In Russia, questo era stato inculcato nella
psiche dei cittadini comuni fin dalla tenerissima età. Per ge-
stire un’attività alla maniera occidentale, bisognava quindi
o fare un lavaggio del cervello completo a un giovane russo
sulle virtù dell’efficienza e del ragionamento lucido, o trova-
re miracolosamente una persona la cui psicologia naturale si
era opposta alle pressioni del comunismo.
Ebbi un colpo di fortuna. Una società di intermediazione
mobiliare locale con un certo numero di dipendenti addestrati
all’occidentale era da poco fallita e poco più di una settimana
dopo essere arrivato a Mosca riuscii ad assumere tre persone
in gamba: Clive, un giovane speculatore e ricercatore ingle-
se, Svetlana, una segretaria che parlava un inglese perfetto, e
Alexei, un autista esperto che parlava solo russo.

124
Dopo averli fatti venire in ufficio, mandai Svetlana a cer-
care dei mobili. Era una lituana di ventidue anni, piccola,
carina, solare con i capelli scuri, che si imbarcò nella mis-
sione con entusiasmo. Quando arrivò al negozio di mobili,
mi chiamò e mi disse che c’erano delle belle sedie italiane e
delle scrivanie che erano perfette per l’ufficio.
«Quanto?» chiesi.
«Circa quindicimila dollari.»
«Quindicimila dollari? Ma stai scherzando? Cos’altro
hanno?»
«Non molto. Degli orribili tavolini da picnic di plastica e
delle sedie pieghevoli.»
«Quanto costano?»
«Circa seicento dollari.»
«Affare fatto.»
Alla fine della giornata avevamo quattro tavolini da pic-
nic e otto sedie pieghevoli, più una pianta da appartamento
che Svetlana aveva comprato di sua iniziativa. Acquistammo
alcuni computer e sistemammo i cablaggi, e alla fine della
settimana la mia neonata società era pronta a decollare.
Mentre mi stavo preparando, i sondaggi d’opinione su
Yeltsin continuavano a muoversi nella direzione giusta, ma
mancavano ancora dieci settimane alle elezioni e Sandy non
aveva ancora sbloccato altri fondi. Nel frattempo, mi misi
alla ricerca di società per il fondo, supponendo che alla fine
Safra avrebbe onorato la sua promessa di venticinque milio-
ni di dollari.
La prima azienda a cui mi rivolsi fu la raffineria di petro-
lio di Mosca, conosciuta come MNPZ. Alla Salomon ave-
vamo guadagnato un sacco di soldi con le compagnie russe
legate al mondo del petrolio, quindi una grande raffineria
di Mosca mi sembrava un posto molto promettente da cui
iniziare.
Svetlana fissò un appuntamento con il capo contabile

125
della MNPZ e agli inizi di aprile andammo a incontrarla
nella sede della sua azienda. Ad accoglierci all’ingresso di un
orrendo edificio fatiscente c’era una bionda grassottella sul-
la cinquantina – con un tailleur pantalone color bordeaux
fuori moda – che ci fece strada verso l’ufficio. Il posto aveva
sicuramente visto giorni migliori. La luce andava e veniva,
sul pavimento mancavano delle piastrelle e le pareti erano
sudice.
Una volta nel suo ufficio le feci una serie di domande
di base: «Che fatturato avete fatto l’anno scorso?» «Quanto
profitto?» «Potrebbe dirmi quante azioni sono ancora in cir-
colazione?» Queste domande potrebbero sembrare banali,
ma in Russia non erano disponibili informazioni pubbliche
sulle aziende, e l’unico modo per averle era di andare a chie-
derle di persona.
Svetlana tradusse mentre la contabile rispondeva alle mie
domande sul fatturato e gli utili, ma quando arrivammo
alla domanda sulle azioni ancora in circolazione, chiese:
«Intende azioni ordinarie o azioni preferenziali?»
Avevo già sentito il termine «azioni preferenziali», ma
non sapevo di cosa stesse parlando. «Cosa sono?»
«Le azioni preferenziali sono state date ai dipendenti du-
rante il processo di privatizzazione.»
«Qual è la differenza con quelle ordinarie?»
«Pagano 40% del profitto in dividendi.»
«Quanto fruttano quelle ordinarie?»
«Vediamo.» La contabile afferrò un grande raccoglitore
dalla sua scrivania, esaminò diversi fogli di carta macchiata
e disse: «Qui dicono che l’anno scorso non hanno fruttato
niente.»
«Quindi le azioni preferenziali hanno pagato dividendi
pari al 40% dei profitti e quelle ordinarie niente», ricapito-
lai, non capendo bene la discrepanza.
«Esatto.»

126
Appena terminato l’appuntamento, Svetlana e io saltam-
mo sulla Zhiguli malconcia di Alexei – una piccola auto
sovietica squadrata, onnipresente a Mosca – e tornammo
pian piano in ufficio. Mentre procedevamo lentamente nel
traffico di mezzogiorno chiamai Yuri Burzinski, uno dei
miei speculatori locali preferiti. Yuri era un profugo russo
di New York che si era da poco ritrasferito a Mosca per la-
vorare per l’agente di cambio Creditanstalt-Grant. Non era
come gli altri intermediari che bazzicavano in quello che io
definivo turismo borsistico, l’equivalente bancario di vendere
cocchi a dieci dollari l’uno su una spiaggia alle Fiji quando
la gente del posto li comprava in città per venti centesimi.
Yuri aveva poco più di vent’anni e parlava con voce sof-
fusa, come se stesse sempre raccontando dei segreti. Spesso
era difficile comprendere quello che diceva, ma quando lo
capivo, di solito le sue informazioni erano interessanti.
«Ehi Yuri, sai il prezzo delle azioni preferenziali della
MNPZ?» domandai.
«Non lo so. Forse. Aspetta.» Coprì il ricevitore con la
mano e mormorò qualcosa al suo operatore di borsa. In sot-
tofondo sentii delle grida confuse e Yuri ritornò al telefono.
«Sì. Te ne posso procurare centomila a cinquanta centesimi
l’una.» Parlò così piano che gli dovetti chiedere di ripetere.
«Quanto costano le azioni ordinarie?»
Borbottò di nuovo qualcos’altro e la risposta fu:
«Centomila a sette dollari l’una».
«Sei sicuro?»
«Sì, i prezzi sono questi.»
Non volevo scoprire le mie carte, ma il cuore cominciò a
battermi forte. «Ti farò sapere.»
Riagganciai e mi domandai: Queste azioni preferenziali
sembrano molto più appetibili di quelle ordinarie. C’è forse
qualcosa sotto? Perché si vendono al 95% in meno rispetto a
quelle ordinarie?

127
Quando alla fine tornai in ufficio, mandai di nuovo
Svetlana alla MNPZ a prendere una copia dello statuto
societario che avrebbe contenuto i dettagli dei diritti dei
diversi tipi di azioni. Ritornò due ora più tardi e lo stu-
diammo attentamente. L’unica differenza sostanziale tra
le azioni preferenziali e quelle ordinarie era che le prime
non avevano il diritto di voto. Quello però non sembrava
rappresentare un problema visto che in Russia gli investi-
tori stranieri come noi, non votavano mai alle assemblee
generali annuali.
Ero convinto che ci dovesse essere qualche altra spiega-
zione per quell’enorme sconto e passai i giorni successivi a
cercarla. Le azioni preferenziali avevano forse un valore no-
minale diverso? No. Potevano possederle solo i dipendenti?
No. I dividendi più elevati potevano essere arbitrariamente
cambiati o cancellati dalla compagnia? No. Rappresentavano
solo una minuscola parte del capitale azionario? No. Non
c’era nessuna spiegazione. L’unico motivo del loro prezzo così
basso che potevo immaginare era che non ci fosse domanda,
finché non arrivai io.
Con mia grande sorpresa scoprii che questa anomalia non
si limitava alla MNPZ. Quasi tutte le aziende russe avevano
azioni preferenziali e quasi tutte venivano scambiate a prez-
zi molto inferiori rispetto a quelle ordinarie. Una potenziale
miniera d’oro.
Avevo intenzione di lasciare Sandy in pace fino a dopo le
elezioni, ma questa questione era troppo urgente. Le azio-
ni preferenziali erano scambiate al 95% in meno rispetto a
quelle ordinarie, e le azioni ordinarie venivano scambiate a
un prezzo inferiore del 90-99% rispetto alle azioni di im-
prese occidentali simili. Qualunque fossero le preoccupa-
zioni di Sandy su Zyuganov, anomalie di valutazione come
queste erano troppo rare per essere ignorate. Si è fortunati
se si riesce a trovare qualcosa con un prezzo scontato del

128
30%, forse anche del 50%, ma prezzi del genere erano inau-
diti. Ne dovevo parlare subito con Sandy.
Quando gli riferii le cifre, si ringalluzzì immediatamente
e cominciò a torchiarmi per avere ulteriori informazioni.
Dopo la nostra conversazione riuscivo quasi a sentire i pen-
sieri che gli passavano per la testa per giustificare questo
investimento a Safra.
Due giorni più tardi, l’istituto demoscopico Levada* pub-
blicò gli ultimi indici di popolarità di Yeltsin. Erano balzati
dal quattordici al 22%. Tre minuti dopo la pubblicazione
dei risultati mi squillò il telefono. «Bill», disse Sandy tutto
eccitato «hai visto i sondaggi?»
«Sì. Straordinario, vero?»
«Senti Bill, credo che dovremmo cominciare a comprare
alcune di quelle azioni preferenziali. Ti invio due milioni
oggi.»
Riferii la buona notizia a Clive e Svetlana e diedi il cin-
que. Andai persino da Alexei che nel suo lavoro precedente
presso la Polizia stradale di Mosca non aveva imparato a
battere il cinque. Con fare goffo gli presi il braccio, lo alzai
in aria e gli colpii la mano. Mi contraccambiò con un gran
sorriso. Sembrava contento di partecipare a quel nuovo e
strano rituale americano.
Eravamo a cavallo. Il giorno dopo, il fondo aveva già in-
vestito tutto il nuovo denaro in azioni preferenziali russe.
Nelle tre settimane successive, l’indice di popolarità di
Yeltsin balzò dal ventidue al 28%. Per la prima volta da
quando era cominciata la sua campagna, i cittadini ini-
ziavano a prendere in considerazione la possibilità reale
che Yeltsin avrebbe vinto. Nel mercato azionario fecero il
loro ingresso nuovi acquirenti e il mio fondo aumentò del
15%.

* L’equivalente russo della Doxa in Italia [N.d.T.]

129
A differenza di altre decisioni che si prendono nella vita,
con gli investimenti si capisce subito se si è fatto bene o
male, basta solo guardare i prezzi di mercato. Non c’è am-
biguità. I trecentomila dollari di profitto che Sandy realizzò
con i suoi primi due milioni gli diedero molta più fiducia di
qualsiasi discorso o analisi. Mi chiamò sabato al cellulare e
mi disse che lunedì mattina avrebbe versato altri tre milioni
di dollari nel fondo.
Ora che le possibilità di un’apocalisse stavano scemando
e il mercato cominciava a reagire positivamente, altri inve-
stitori non volevano lasciarsi sfuggire l’occasione: un nu-
mero sempre maggiore cominciò a entrare subito in questo
piccolo mercato azionario. Iniziarono gli acquisti frenetici.
La settimana dopo Safra inviò altri tre milioni di dollari e il
prezzo del fondo aumentò di un ulteriore 21%. Da quando
avevamo cominciato a investire qualche settimana prima,
in totale il fondo era salito del 40%, il che nel mondo dei
fondi d’investimento speculativo sarebbe stato un anno ec-
cezionale, ma noi avevamo raggiunto quei risultati in tre
settimane!
Il lunedì seguente Sandy inviò altri cinque milioni di dol-
lari senza neanche avvertirmi.
In tutta quell’euforia dovevo anche andare a un matri-
monio: il mio. Sabrina e io ci saremmo sposati il 26 maggio
del 1996, a sole tre settimane dalle elezioni presidenziali
in Russia. Mi precipitai a Londra il mercoledì prima della
cerimonia per prepararmi.
Avevamo duecentocinquanta invitati da tutto il mondo e,
quando sul bimah della Sinagoga di Marble Arch, Sabrina
mi promise di amarmi e onorarmi per il resto dei suoi gior-
ni, mi commossi. Mi sembravano le parole più sincere che
avessi mai sentito. Mentre pronunciavo le mie promesse
matrimoniali, fissavo la mia bellissima moglie con gli occhi
pieni di lacrime. Dopo la cerimonia festeggiammo con un

130
gruppo israeliano che esordì con «Hava Nagila». Gli invitati
ci portarono in spalla seduti su una sedia e ballammo tutta
la notte. Fu un matrimonio fantastico: insieme ad amici e
familiari, avevo la sensazione che tutti i pianeti si fossero
allineati in nostro onore.
Avevo promesso a Sabrina una luna di miele ma avrei
potuto solo dopo le elezioni, e così presi un volo per
tornare a Mosca il lunedì successivo, esausto ma felice.
Quando arrivai in ufficio, Clive mi disse che Safra aveva
inviato altri cinque milioni sul conto. Nelle due settimane
successive arrivarono altre due tranche da cinque milioni
l’una. La seconda settimana di giugno, una sola settimana
dalla elezioni presidenziali, Safra aveva già investito l’in-
tera somma di venticinque milioni di dollari che aveva
promesso, e l’Hermitage Fund era cresciuto del 65% dalla
sua creazione.
Il 16 giugno ci fu il primo turno delle elezioni presi-
denziali russe. Clive, Svetlana, Alexei e io arrivammo in
ufficio alle 6 per seguire i risultati dell’estremo oriente
della Russia, sette ore più avanti di Mosca. Per Yeltsin
le cose si mettevano bene. A Sakhalin, aveva ottenuto il
29,9% rispetto al 26,9% di Zyuganov. I risultati si spo-
starono verso occidente e a Krasnoyarsk, Yeltsin raggiunse
il 34%. Alla fine arrivarono i risultati di Mosca, dove si
aggiudicò il 61,7% dei voti. In totale, Yeltsin aveva battu-
to Zyuganov 35,3% contro 32%, il resto dei voti era an-
dato ad altri candidati marginali. Aveva vinto, ma poiché
la costituzione russa richiede che un candidato ottenga il
51% dei voti, ci sarebbe stato un ballottaggio il 3 luglio.
Nelle due settimane successive, tutti quelli che avevano
interesse che Yeltsin fosse rieletto fecero del loro meglio.
Temevo che i candidati fossero fermi in un serratissimo te-
sta a testa per poter esultare, ma non ce n’era motivo. A
mezzogiorno del 3 luglio era chiaro che Yeltsin sarebbe stato

131
rieletto. Dal conteggio finale dei voti emerse che aveva bat-
tuto Zyuganov di quasi quattordici punti percentuali.
I mercati impazzirono e il fondo aumentò del 125% dal
lancio. Non c’era dubbio, ero proprio a cavallo.

132
11. SIDANCO

Nel tardo pomeriggio di un venerdì d’agosto del 1996 in-


dividuai un’altra opportunità d’investimento allettante. La
canicola era insopportabile. Nel nostro ufficio si sentiva
solo il fruscio di sottofondo dei computer, il brusio del con-
dizionatore e il ronzio intermittente di un grosso tafano.
Fuori la città sembrava stranamente immobile. In estate, il
venerdì, tutti i moscoviti si riversavano nelle loro dimore di
campagna, le dace. Quel pomeriggio sembrava che fossimo
gli unici a essere rimasti in città.
Mentre la mia piccola squadra stava per andarsene per il
fine settimana, squillò il telefono. «Hermitage, zdravstvui-
te», disse Svetlana con un tono annoiato. Girò su se stessa
sulla sedia e tappò la cornetta con una mano. «Bill, è Yuri.»
«Yuri? Passamelo.»
Sollevai la cornetta e lui sussurrò: «Ehi, Bill. Ho il 4%
del pacchetto azionario della Sidanco. Ti interessa?»
«Che cos’è?»
«È una grande compagnia petrolifera nella Siberia occi-
dentale di cui nessuno ha mai sentito parlare.»
«Chi la controlla?»
«Un gruppo diretto da Potanin.» Tutti conoscevano
Vladimir Potanin: un oligarca miliardario russo dall’aspetto
duro e con il volto butterato, anche lui un vice primo mi-
nistro in Russia.
«Quanto vogliono per il 4%?»
«Trentasei milioni e seicentomila.» Sebbene il mio fondo

133
fosse in espansione non poteva comprare un pacchetto così
grande, nonostante fosse molto allettante.
Tuttavia, se i titoli erano interessanti, il fondo poteva
comprare parte del pacchetto. Pensai.
«Se non ti interessa, non preoccuparti», disse Yuri.
«No, no, Yuri, mi potrebbe interessare solo che devo fare
delle ricerche.»
«Nessun problema.»
«Quanto tempo ho a disposizione?»
«Non lo so. Forse posso tenerlo buono per una settimana,
prima che il venditore cominci a farmi delle pressioni, però
non è che ci sia tanta domanda di titoli di minor valore.»
Riattaccai con Yuri. La mia piccola squadra e io lasciam-
mo l’ufficio per il fine settimana. Mentre mi dirigevo verso
casa, sentii una strana tensione allo stomaco, simile a quando
avevo visto i miei duemila dollari investiti in Polonia decupli-
carsi, o a quando avevo scoperto il programma dei voucher
russi per la prima volta. Sapevo che Yuri non avrebbe fatto un
patto con qualcun altro di nascosto, ma ero anche sicuro che
un’occasione d’oro non sarebbe durata a lungo.
Tornai in ufficio sabato mattina presto e cominciai a
sfogliare rapporti di analisi e articoli per vedere di trovare
notizie sulla Sidanco, ma dai nostri file non risultava nul-
la. Appena tornarono i miei colleghi il lunedì mattina feci
cenno a Clive di venire alla mia scrivania. «Ho cercato di
reperire informazioni sulla Sidanco, ma non sono riuscito
a trovare nulla. Puoi fare un giro di chiamate per vedere se
qualcuno dei nostri intermediari sa qualcosa?»
Mi disse che l’avrebbe fatto subito.
Presenziai a una serie di riunioni e quando a mezzogiorno
tornai, domandai a Clive se aveva scoperto qualcosa, ma la
risposta fu negativa. Non c’erano rapporti di ricerca, articoli,
dati o pettegolezzi affidabili. Niente di niente sulla Sidanco.
Anche se frustrante, era comprensibile. Un’impresa come

134
la Lukoil che aveva il 67% delle proprie azioni quotate in
borsa rappresentava un capitale liquido e generava moltis-
sime provvigioni per gli intermediari finanziari. Con tali
proventi si pagavano analisti di ricerca affinché scrivessero
rapporti per gli investitori in cerca di azioni. Per contro, nel
caso della Sidanco, con una quotazione in borsa pari a solo
il 4% dei suoi titoli, non c’erano abbastanza provvigioni per
far sì che un analista perdesse tempo a scrivere rapporti di
ricerca.
«Be’, in questo caso dovremo procurarci le informazioni da
soli», dissi.
Cercare informazioni in Russia era come precipitare
nella tana del Bianconiglio. Se facevi una domanda, ti
rispondevano con un enigma. Se inseguivi una pista, ti
ritrovavi con la faccia contro un muro. Non c’era niente
di chiaro e lampante. Dopo settant’anni di paranoie in-
culcate attraverso il KGB, i russi si tenevano le informa-
zioni ben strette. Persino chiedere della salute personale,
a volte, sembrava di domandare a qualcuno di rivelare un
segreto di stato, per questo sapevo che cercare di ottenere
informazioni sulle condizioni di un’impresa sarebbe stato
ben più complicato.
Ma non mi lasciavo scoraggiare. Una volta cominciato
mi ricordai che uno dei miei compagni di università alla
Stanford gestiva una rivista mensile specializzata in petrolio
e gas. Forse lui poteva avere informazioni sulla Sidanco. Lo
chiamai, ma invece di parlare della Sidanco, cercò di con-
vincermi ad abbonarmi alla rivista. «Costa solo diecimila
dollari!» mi disse con nonchalance.
Non avevo alcun interesse a farlo. «È leggermente sopra
il mio budget.»
Scoppiò a ridere. «Facciamo così, Bill. Visto che erava-
mo alla Stanford insieme, ti spedisco alcuni numeri arretrati
gratis.»

135
«Ottimo. Grazie.»
Poi scartabellai tra i biglietti da visita sulla mia scrivania.
Se fossi stato il proprietario di una banca d’investimento a
Londra, il mio Rolodex sarebbe stato pieno di biglietti da
visita goffrati in carta spessa. In Russia la mia collezione era
molto più ridotta. Alcuni erano stampati su cartone. Altri
erano arancioni, verdi o azzurri. Altri ancora sembrava che
fossero stati stampati in casa con un computer. Due biglietti
erano incollati insieme per via dell’inchiostro scadente. Ma
io continuavo a rovistare comunque.
Staccai un paio di biglietti appiccicati insieme e mi ven-
ne in mente una persona che mi ero dimenticato: Dmitry
Serenov, un consulente presso una società finanziaria russa.
Avevo conosciuto Dmitry mentre ero alla Salomon Brothers
e mi venne in mente che si occupava di offrire consulenza
alla compagnie petrolifere russe su come ottenere prestiti
dalle banche. Pensai che forse avrebbe saputo qualcosa della
Sidanco. Alzai la cornetta, chiamai il suo ufficio e chiesi un
appuntamento. Non sembrava che fosse una persona molto
richiesta, quindi riuscii a vederlo subito.
L’ufficio di Dmitry era in un condominio residenziale in
una silenziosa stradina laterale a nord del Cremlino, una
delle zone più ambite di Mosca. All’ingresso, in guardiola,
c’era un solo gendarme di sorveglianza che fumava una si-
garetta vestito con una divisa nera. Sarebbe potuto passare
per un soldato delle Forze Speciali, se non fosse stato per i
sandali di gomma. Senza nemmeno alzare lo sguardo, mi
fece cenno di andare verso l’ascensore.
Estrassi l’indirizzo che Svetlana aveva annotato e inarcai
le sopracciglia. L’ufficio di Dmitry era situato al piano quat-
tro e mezzo. Non avevo idea di cosa significasse. Dovevo
prendere l’ascensore fino al quarto piano e poi salire a piedi,
oppure dovevo andare al quinto e poi scendere?
Mi passò accanto un uomo e premette il pulsante della

136
chiamata. L’ascensore era lentissimo e angusto come una
cabina telefonica. Dovetti stringermi accanto all’uomo per
non aspettare altri dieci minuti. Aveva premuto «4» guar-
dandomi sospettoso. Io tenevo gli occhi fissi sul pavimento
e non dissi una parola.
Uscimmo dall’ascensore e andammo in direzioni diverse.
Io seguii una scia di mozziconi di sigaretta su per mezza
rampa di scale. Lassù, un’anziana signora in carne mi fece
entrare nell’appartamento e mi chiesi se fosse la madre di
Dmitry o la sua segretaria. Mi annunciò che lui stava pran-
zando e mi fece strada verso la cucina.
«Siediti pure», disse quando entrai, spostando da un lato
un cesto di pane grigio e un vasetto di vetro pieno di zuc-
chero. Io ero seduto su una sedia di vinile davanti a lui cer-
cando di non guardarlo mentre ingurgitava la sua zuppa di
cavoli con il pane. «Cosa posso fare per te?» mi domandò tra
un boccone e l’altro.
«Sto facendo delle ricerche su alcune compagnie petro-
lifere.»
«Bene! Sei venuto nel posto giusto.»
«Mi sai dire qualcosa della Sidanco?»
«Certo. So tutto della Sidanco.» Si alzò e uscì dalla cucina
e poco dopo tornò con un tabulato.
«Cosa vuoi sapere?»
«Cominciamo dalle loro riserve.»
Guardammo insieme il tabulato e lui indicò una colonna.
Secondo i suoi dati, la Sidanco aveva sei miliardi di barili di
riserve di petrolio. Moltiplicando il prezzo del pacchetto del
4% per venticinque, ottenni il prezzo dell’intera azienda.
915 milioni di dollari. Divisi quella cifra per il numero di
barili di petrolio nel suolo, il che mi rivelò che la Sidanco
era quotata a 0,15 centesimi di dollaro al barile di riserve
di petrolio. Una follia, perché all’epoca il prezzo di mercato
per un barile di petrolio era di venti dollari.

137
Ero confuso. C’era qualcosa che non andava. Se quei
numeri erano corretti, la Sidanco era infinitamente a buon
mercato.
«Incredibile», mormorai.
Ringraziai Dmitry e me ne andai. Quando tornai in uffi-
cio, Clive aveva trovato la valutazione della Lukoil, la com-
pagnia petrolifera più seguita in Russia. Dopo aver riattac-
cato con un intermediario finanziario, Clive mi passò i suoi
calcoli.
Fissai quei numeri per svariati secondi. «Non possono es-
sere giusti.»
«Sono i numeri che mi ha dato l’intermediario».
Ciò che non sembrava giusto era che la Lukoil era quota-
ta a un prezzo sei volte superiore a quello della Sidanco per
barile di riserva di petrolio, eppure sembravano compagnie
dello stesso livello.
«Perché la valutazione della Lukoil è molto più alta?»
Clive cercò di riflettere. «Forse la Sidanco ha qualche pro-
blema?»
«Forse. E se invece non ne avesse? Potrebbe essere solo più
economica.»
«Sarebbe fantastico. Come facciamo a saperlo per certo?»
«Glielo chiederemo. E se non ce lo dicono, lo domande-
remo a qualcun altro finché non lo scopriremo.»
L’indomani iniziammo le indagini.
Cominciammo con la Sidanco. I suoi uffici erano ubi-
cati in un ex palazzo dello zar sulla riva occidentale della
Moscova, non lontano dalla residenza dell’ambasciatore
britannico. Mi portai anche Svetlana. Nella reception ci ac-
colse una bella segretaria dai capelli biondi lunghi e tacchi
a spillo e ci accompagnò in una sala conferenze stile anni
Settanta, rivestita ai lati con pannelli di legno e con divani
di velluto sbiadito. Ci informò che un manager sarebbe ar-
rivato a momenti.

138
Ci fecero attendere mezz’ora prima che un dirigente del
reparto dello sviluppo strategico entrasse nella stanza. Aveva
un’aria da presidente di commissione annoiato, come se
fosse entrato e uscito da un’assemblea a un’altra per tutta la
mattina. Era alto e magro, avrà avuto una trentina d’anni
e aveva già un principio di calvizie. Farfugliò qualcosa in
russo che io non capii.
«Gli dispiace averti fatto attendere», tradusse Svetlana.
«Vuole sapere in che modo può esserti utile.»
«Pozhalujsta», disse l’uomo. «Chai?»
«Vuole sapere se ti va una tazza di tè», continuò Svetlana,
seduta in posizione scomoda su una poltrona in pelle in
mezzo a noi.
L’uomo guardò l’orologio al polso. Il tempo stringeva.
Rifiutai l’offerta del tè.
«Digli che voglio sapere quanto sono grandi le loro ri-
serve di petrolio», dissi. Avevo già un numero, volevo solo
vedere se era giusto.
Si divincolò sulla sedia, come se mi avesse capito, però
aspettò la traduzione di Svetlana. Mi fece un sorriso tirato,
accavallò una gamba sopra l’altra e cominciò a spiegare.
Dopo qualche minuto, fece una pausa per dare il tempo
a Svetlana di parlare. «Dice che la cosa più importante per
le riserve di petrolio sono le tecniche estrattive della compa-
gnia. Dice che la Sidanco possiede le attrezzature più all’a-
vanguardia e i migliori ingegneri del Paese.»
Prima che potessi interromperlo alzò la mano per zit-
tirmi. Continuò il suo discorso infinito sulle trivellazioni,
gli ostacoli per gli oleodotti e le filiali di marketing, che
Svetlana tradusse con diligenza.
«Domanda se è tutto qui», disse Svetlana all’improvviso.
«Gli puoi chiedere delle riserve di petrolio?»
«L’ho già fatto», rispose confusa.
«Sì, però non ha risposto. Chiedi di nuovo.»

139
Svetlana si voltò verso di lui, rossa in viso. Lui era appog-
giato allo schienale della poltrona e aspettava che finisse. Poi
annuì, come se finalmente avesse capito la mia domanda e
stesse per rivelare tutto.
Parlò ancora per un po’. Quando mi resi conto che non
stava facendo pause per consentire a Svetlana di tradurre, le
diedi un foglio e una penna. Cominciò subito a prendere
appunti. Dopo cinque minuti mi lanciò un’occhiata ner-
vosa per vedere se doveva continuare a scrivere. Dopo dieci
minuti smise di scrivere.
Alla fine, concluse la sua filippica e si sporse in avanti.
Con un cenno del capo permise a Svetlana di tradurre.
Lei guardò i suoi appunti. «Dice che in Russia il petro-
lio migliore viene dalla Siberia occidentale, molto meglio
del greggio pesante dalle province centrali del Tatarstan e
Bashkortostan. Dice…»
«Ha detto di che dimensioni sono le riserve?» domandai
interrompendola.
«No.»
«Sei sicura?»
«Sì.»
«Chiedilo ancora.»
Svetlana si immobilizzò.
«Forza», la incitai. «Non ti preoccupare.»
Si voltò lentamente verso di lui. Adesso l’uomo non sor-
rideva più. Indispettito, tirò fuori il cellulare dalla tasca e
cominciò a scorrere il menù. Con molta umiltà lei gli do-
mandò la stessa cosa per la terza volta.
Lui si alzò e farfugliò qualcosa a Svetlana.
«Dice che è in ritardo, ha un’altra riunione», tradusse lei
sottovoce. Era evidente che non aveva alcuna intenzione
di rispondere alla mia domanda. Non capivo perché avesse
paura di rivelare l’ammontare delle loro riserve. Forse non
le sapeva neppure lui, ma in Russia, la saggezza popolare

140
riteneva che rivelare informazioni vere agli altri fosse la
causa di tutti i mali. Il modo migliore per i russi di affron-
tare le domande dirette era di continuare a blaterare per
ore per aggirare l’ostacolo. La maggior parte delle persone
è troppo educata e non insiste, spesso così si dimentica
della domanda iniziale. Con un bravo dissimulatore russo
bisogna essere molto concentrati per ottenere ciò di cui si
ha bisogno.
«Dice che spera di averti detto tutto quello di cui hai bi-
sogno.»
L’uomo fece per stringermi la mano. «La prego di tornare
a trovarmi», disse in perfetto inglese. «Ci fa sempre piacere
incontrare investitori occidentali.»
Era evidente che quelli della Sidanco non avrebbero rive-
lato alcuna informazione sulla loro azienda. Quindi comin-
ciai a organizzare incontri con altre compagnie petrolifere
per vedere se sapevano qualcosa della loro concorrente.
Alla Lukoil mi perquisirono, i miei effetti personali
passarono sotto la macchina a raggi X e mi trattennero
passaporto e cellulare fin quando non me ne andai. Poi
mi consegnarono a un ex ufficiale del KGB che era stato
assunto dal reparto relazioni con gli investitori per trattare
con gli stranieri. Mi fece assistere a una presentazione con
PowerPoint di un’ora in cui si vedevano pozzi di petrolio
con tanto di dirigenti aziendali in perfetta posa con i loro
caschi protettivi.
Alla compagnia petrolifera Yuganskneftegaz, l’ufficiale a
capo dei servizi finanziari cercò di convincermi a prestare
all’impresa 1,5 miliardi di dollari per pagare la loro nuova
raffineria.
All’ufficio di Mosca di Tafnet, una grande (seppur più
piccola) compagnia petrolifera con sede in Tatarstan, mi
invitarono ad aiutarli a costruire una superstrada. Ogni
incontro, la stessa cosa. Cominciavo pieno di speranze e

141
ottimismo, poi venivo bombardato di informazioni irri-
levanti e me andavo a mani vuote con un niente di fatto.
A quel punto, il mio interesse per la Sidanco si era trasfor-
mato in un dispendio di energie e di tempo troppo elevato.
Cosa volevo scoprire quando tutti gli analisti e le banche
d’investimento avevano dato la Sidanco per spacciata? Forse
c’era un buon motivo per cui nessuno era interessato al loro
pacchetto del 4%.
Quando tornai in ufficio dopo il mio ultimo incontro,
pronto ad arrendermi, Svetlana mi consegnò una busta
marrone.
«È appena arrivata dagli Stati Uniti», disse entusiasta.
«Da quel tipo della rivista di settore con cui hai parlato.»
«Puoi buttarla nel bidone», dissi senza neppure guardare
la busta. Pensai che si trattasse di altro materiale pubblici-
tario che promuoveva i benefici di investire in pozzi di pe-
trolio. Poi mi ricredetti. Forse c’era qualcosa di interessante.
«Aspetta», le urlai. «Riportala qui.»
Mente sfogliavo la rivista, mi resi conto che il mio com-
pagno di studi alla Stanford mi aveva spedito un tesoro,
il biglietto vincente che avrebbe risolto tutto. Quell’oscura
rivista patinata sulle compagnie petrolifere aveva un’appen-
dice con tutti i dati relativi alle compagnie petrolifere russe,
tra cui la fantomatica Sidanco. Tutto quel che volevo sape-
re era lì: riserve petrolifere, produzione, raffinazione, tutto.
Era tutto lì e sembrava attendibile e preciso.
Tirai fuori un foglio di carta e tracciai due colonne. La
prima la intitolai Sidanco e la seconda Lukoil e annotai
tutti i dati di ogni azienda che riuscii a trovare sulla rivista.
Una volta terminato, diedi un’occhiata alle informazioni
accumulate. In pratica, non c’erano differenze tra le due
compagnie. Poche infrastrutture erano state sviluppate
dalla caduta dell’Unione Sovietica; entrambe avevano le
stesse torri di perforazione arrugginite e utilizzavano gli

142
stessi oleodotti malandati; entrambe avevano gli stessi di-
pendenti improduttivi che percepivano gli stessi salari da
fame.
L’unica differenza che saltava all’occhio tra le due imprese
era che la Lukoil era molto nota e godeva di diversi rappor-
ti di intermediatori finanziari, mentre la Sidanco non ne
aveva. Dopo aver fatto un confronto delle informazioni dei
rapporti e averli paragonati ai dati sulla Lukoil della rivista,
combaciavano alla perfezione. Ciò mi fece pensare che an-
che le informazioni sulla Sidanco fossero affidabili.
Fu una scoperta notevole. Tutti sapevano che la Lukoil
era un affare, perché controllava lo stesso quantitativo di
petrolio e di gas della British Petroleum, però era dieci volte
più a buon mercato. E poi c’era la Sidanco, che aveva un po’
meno petrolio della Lukoil ma era sei volte più economica.
In altre parole, la Sidanco era sessanta volte più conveniente
della BP!
Era una delle idee d’investimento più interessanti che
avessi mai visto. Il mio fondo comprò l’1,2% dell’impresa
cominciando da quattro dollari per azione, per una spe-
sa complessiva di circa undici milioni di dollari. Era la
scelta d’investimento più consistente di tutta la mia vita.
Quando Edmond Safra venne a sapere cosa stava succe-
dendo, volle investire anche lui e comprò subito la stessa
quantità.
Di solito, quando le azioni di un’impresa sono quota-
te in borsa, il prezzo viene stabilito dal mercato. Però, nel
caso della Sidanco, dove il 96% era di un gruppo di inve-
stimento e il 4% detenuto da azionisti di minoranza, tra cui
noi, la contrattazione dei titoli era pressoché zero. Pertanto
non avevamo idea se fosse stato un buon affare oppure no.
Per un certo periodo mi sentii abbastanza sicuro, però con
il passare dei mesi cominciai a preoccuparmi sempre più.
Buona capacità di ricerca e fiducia in se stessi erano positive,

143
però se avessi commesso un errore clamoroso, avrei man-
dato all’aria gran parte del fondo. Con il tempo, cominciai
a chiedermi se non avessi dovuto ascoltare la saggezza po-
polare, senza avventurarmi in una cosa più grande di me.
Cercai di dominare quell’ansia e sperai che ne sarebbe usci-
to qualcosa di buono. Alla fine, poco più di un anno dopo,
ci furono i primi risultati.
Il 14 ottobre 1997, la BP annunciò l’acquisto del 10%
del 96% del pacchetto azionario di Vladimir Potanin della
Sidanco, pagando le azioni a un prezzo superiore del 600%
rispetto a quanto le avevamo comprate noi un anno prima.
Un colpo da maestro.

144
12. IL PESCE MAGICO

Era stato un anno ricco di avvenimenti. Non solo la società


era decollata, ma cosa ancora più importante, nel novembre
del 1996 era nato mio figlio David. Come aveva promesso,
Sabrina lo portò a Mosca subito dopo il parto e da quel
momento diventammo una vera famiglia. Decorò la sua ca-
meretta, confezionò persino le tende e i cuscini e trovò altre
mamme espatriate con cui fare amicizia.
Nonostante tutto l’impegno, Mosca non fece mai breccia
nel suo cuore. Nel 1997 andava sempre più spesso a Londra
e attorno al primo anno di vita di nostro figlio, lei e David
non erano quasi mai a Mosca. Non ero contento, ma non
potevo costringerla a rimanere se era infelice. Quindi torna-
vo a Londra un fine settimana sì e uno no per stare con loro.
Quel Natale, Sabrina insistette perché andassimo in
vacanza a Città del Capo. Ero cresciuto associando il
Sudafrica all’apartheid e al razzismo, quindi non avevo
nessuna voglia di andarci. L’ostinazione di Sabrina però
si rivelò più forte dei miei pregiudizi e alla fine accettai.
Il luogo mi era indifferente, visto che dovevo continuare
a lavorare, l’importante era che il cellulare avesse campo e
avessi accesso a un fax.
Prendemmo un volo per Città del Capo il 19 dicembre e
soggiornammo al Mount Nelson Hotel. Le mie basse aspet-
tative scomparvero. Non avevo mai visto niente del genere.
Il Mount Nelson era un imponente edificio coloniale in-
glese all’ombra di quella specie di fortezza che era la Table

145
Mountain. Tutti i giorni a Città del Capo splendeva il sole
e i prati verdissimi circondati da ondeggianti palme scure si
estendevano a perdita d’occhio. La piscina era piena di bam-
bini che sguazzavano allegramente mentre i genitori oziavano
nelle vicinanze. Tra le tovaglie bianche della zona da pranzo
all’aperto soffiava un’incessante brezza calda e i camerieri, con
fare impeccabile e pieni di premure, erano pronti a servire
drink, cibo o qualsiasi cosa desiderassimo. Il Mount Nelson
era un paradiso. In dicembre era l’esatto contrario di Mosca.
Ci sistemammo, e per la prima volta da anni cominciai a
rilassarmi. Disteso sul solarium a bordo piscina osservando
David che giocava su un telo, mi resi conto di quanto ero
stanco. Scivolai in uno stato di completo relax. Aveva fatto
proprio bene Sabrina a scegliere quel posto. Chiusi gli oc-
chi. Sarei potuto stare lì sdraiato a crogiolarmi al sole per
giorni.
Ma qualche giorno dopo il nostro arrivo, mentre mi stavo
davvero rilassando, mi squillò il cellulare. Era Vadim, il mio
nuovo responsabile della ricerche. Vadim era un analista fi-
nanziario di ventisette anni con un dottorato in Economia
presso la migliore università di Mosca, che avevo assunto
cinque mesi prima per professionalizzare la mia nuova so-
cietà. Portava occhiali con lenti spesse come fondi di botti-
glia, aveva una zazzera scura riccioluta e riusciva a risolvere i
problemi economici più complessi nel giro di pochi minuti.
«Bill», disse, «la Reuters ha annunciato una notizia allar-
mante.»
«Cosa c’è?»
«La Sidanco emette nuovi titoli. Triplicherà quasi il nu-
mero totale delle azioni, le svende, 95% in meno rispetto al
prezzo corrente.»
Non capivo. «È positivo o negativo?» Se tutti potevano
comprare le nuove azioni, forse era una cosa neutra o forse
leggermente positiva per noi.

146
«Molto negativo, negativissimo. Permettono a tutti gli
azionisti, eccetto noi, di comprare questi nuovi titoli.»
Assurdo. Se la Sidanco era in grado di ampliare il nu-
mero totale di azioni di quasi tre volte senza permetterci
di partecipare, allora Safra e il fondo, in realtà, sarebbero
passati dal detenere il 2,4% della compagnia allo 0,9%
senza ottenere niente in cambio. Sotto gli occhi di tutti,
Potanin e il suo entourage avrebbero sottratto 87 milioni
di dollari del valore da Safra e dai miei clienti con una
semplice firma.
Mi sedetti. «È incredibile! Sei sicuro, Vadim? Forse la
Reuters ha capito male o qualcosa del genere.»
«Non credo, Bill. Temo che sia vero.»
«Va’ a prendere i documenti originali e traduci. Non può
essere.»
Ero sconvolto. Se questa emissione diluitiva di azioni an-
dava a finire male, la credibilità che mi ero costruito sco-
prendo la Sidanco sarebbe evaporata causando perdite in-
genti ai miei investitori.
Ero anche confuso. Non riuscivo a capire perché
Potanin avrebbe fatto qualcosa del genere. Qual era il suo
intento? Perché diluire il valore delle nostre azioni e crea-
re uno scandalo quando anche lui aveva appena ricevuto
uno strepitoso guadagno inaspettato? E dopo la grande
vendita alla BP, possedeva ancora l’86% della compagnia,
e da questa diluzione da noi avrebbe ottenuto solo un
beneficio dell’1,5%. Dal punto di vista finanziario non
aveva senso.
Poi mi venne in mente il motivo più probabile: era così
che si facevano le cose in Russia.
C’è una famosa parabola russa per questo tipo di com-
portamento. Un giorno, un povero contadino trova un pe-
sce magico che è pronto a esaudire uno solo dei suoi deside-
ri. Felicissimo, il contadino si trova di fronte a un dilemma:

147
«Forse un castello? O ancora meglio: mille lingotti d’oro?
Perché non una nave per girare il mondo?» Mentre il con-
tadino sta per decidere, il pesce lo interrompe e lo avverte
di una cosa importante: qualsiasi cosa scelga, il suo vici-
no ne avrà il doppio. Senza batter ciglio, il contadino dice:
«Allora, cavami un occhio».
La morale è molto semplice: quando si tratta di denaro, i
russi sono contenti, anzi felicissimi, di sacrificare il proprio
successo pur di danneggiare il prossimo.
Questo era esattamente il principio che Potanin e il suo
gruppo di controllo sembravano aver adottato. Poco im-
portava che avessero guadagnato quaranta volte più denaro
di noi, per loro era intollerabile che un gruppo di stranieri
senza amicizie influenti avesse avuto un enorme successo
economico. Questo non doveva succedere, semplice. Non
era… russo.
Mandarsi in rovina era russo, esattamente quello che mi
sarebbe capitato se non fossi tornato a Mosca per porre ri-
medio alla situazione. Passai le notti successive a Città del
Capo cercando di dimenticare i miei problemi, ma senza
riuscirci.
Quando la nostra vacanza finì, Sabrina, che non voleva
avere niente a che fare con l’inverno russo, prese David e lo
portò a Londra. Arrivai a Mosca il 12 gennaio del 1998, la
vigilia del nuovo anno russo (la Russia celebra l’anno nuovo
il primo gennaio secondo il calendario gregoriano e tredici
giorni più tardi, il 13 gennaio, festeggia ancora la vigilia del
nuovo anno, secondo il calendario giuliano). Parlai subito
con Vadim che mi confermò tutto: la diluizione delle azioni
sarebbe avvenuta in circa sei settimane per non dare nell’oc-
chio all’ente di controllo, ma l’accordo sarebbe andato in
porto.
Dovevo fare qualcosa per fermarlo.
Il giorno dopo, il 13 gennaio, si presentò l’opportuni-

148
tà. Ricevetti una chiamata da un amico che mi informò di
una festa per il nuovo anno russo a casa di Nick Jordan, un
ricco banchiere russo-americano per la JP Morgan. Nick
aveva un fratello, Boris, che era il consulente finanziario di
Potanin e dirigente di una nuova banca d’investimento, la
Renaissance Capital. Li conoscevo entrambi di vista e con-
vinsi il mio amico a portarmi con lui.
La festa si teneva in un enorme appartamento lussuo-
so dell’epoca brezneviana a qualche isolato dal Cremlino,
il tipo di abitazione per cui le banche d’investimento pa-
gavano fino a quindicimila dollari al mese affinché i loro
dipendenti stranieri potessero «sopportare le privazioni di
Mosca». Non ci volle molto a riconoscere Boris in mezzo a
quella folla di russo-americani che si abbuffavano di caviale
e trangugiavano champagne. Per molti versi, Boris Jordan
era quello che i russi consideravano il classico americano:
un chiassoso, paffuto cordialone della stessa stoffa del tipico
speculatore di Wall Street.
Andai dritto da lui. Quando mi vide fu senza dubbio sor-
preso, ma non ebbe reazioni eccessive. Mi diede il benve-
nuto senza tanti preamboli con una forte stretta di mano.
«Bill, come va la vitaccia?»
Andai subito al sodo. «Non bene, Boris. Cos’è successo
alla Sidanco? Se questa diluizione delle azioni va in porto,
per me sarà un gran problema.»
Boris rimase di stucco. Non voleva litigare alla festa di
Capodanno di suo fratello. Guardò gli altri ospiti con un
grande sorriso stampato in faccia. «Bill, si tratta di un grosso
malinteso.»
Rivolse la sua attenzione a un vassoio d’argento pieno di
tartine e ne scelse una con cura. Evitando il mio sguardo,
aggiunse: «Ho un’idea. Vieni domani alla Renaissance alle
quattro e mezzo e risolviamo la faccenda». Si mise in bocca
lo stuzzichino e parlò senza problemi con la bocca piena.

149
«Davvero, Bill. Andrà tutto bene. Bevi qualcosa. È una festa
di Capodanno!»
La cosa finì lì. Fu così convincente, e io volevo credergli
a tutti i costi, che mi trattenni per un po’ e me ne andai
leggermente rincuorato.
La mattina dopo mi svegliai che era ancora buio (in gen-
naio a Mosca il sole sorge dopo le dieci) e andai al lavoro.
Quando andai nell’ufficio di Boris era di nuovo buio. Alle
16 e 30 in punto entrai nella Renaissance Capital, che si
trovava in un moderno edificio di vetro vicino alla Casa
Bianca russa, l’enorme palazzo bianco dove ha sede il go-
verno. Fui accolto senza tante cerimonie e accompagnato in
una sala conferenze senza finestre. Non mi fu offerto nulla,
né da mangiare né da bere, quindi mi accomodai e aspettai.
E aspettai.
E aspettai.
Dopo un’ora la mia paranoia cominciò a prendere il
sopravvento. Mi sentivo come un pesce in un acquario e
iniziai a guardarmi attorno alla ricerca di telecamere na-
scoste, anche se non riuscivo a vederne. Ciononostante,
pensavo che Boris avesse mentito. Non sarebbe andato
tutto liscio.
Ero pronto ad andarmene quando finalmente la por-
ta si aprì: non era Boris. Era Leonid Rozhetskin, un rus-
so di trentun’anni che aveva studiato legge in un’università
dell’Ivy League e che avevo incontrato in diverse occasioni
(e che un decennio dopo sarebbe stato assassinato a Jurmula
in Lettonia, dopo avere litigato con diverse persone con cui
faceva affari).
Leonid, che aveva senza dubbio visto il film Wall Street
troppe volte, aveva i capelli tirati indietro alla Gordon
Gekko, sfoggiava un paio di bretelle rosse su una camicia di
alta sartoria con le iniziali. Si accomodò sulla sedia a capo-
tavola e appoggiò una mano su un ginocchio.

150
«Mi dispiace, ma Boris non ce l’ha fatta a venire», disse
con un lieve accento inglese. «Ha da fare.»
«Anch’io.»
«Lo so. Per quale motivo sei venuto qui oggi?»
«Be’, Leonid, sono qui per parlare della Sidanco.»
«Sì. Di cosa esattamente?»
«Se la diluizione va in porto, costerà a me e ai miei in-
vestitori, compreso Edmond Safra, ottantasette milioni di
dollari.»
«Sì, lo sappiamo. Lo scopo è proprio questo, Bill.»
«Cosa?»
«Lo scopo è proprio questo», ripeté prosaico.
«State intenzionalmente cercando di rovinarci?»
«Sì», rispose battendo le palpebre.
«Ma come potete farlo? È illegale!»
Indietreggiò lievemente. «Qui siamo in Russia. Credi che
ci preoccupiamo di queste cose?»
Pensai a tutti i miei clienti. Pensai a Edmond. Non pote-
vo crederci. Mi dimenai sulla sedia. «Leonid, potete metter-
lo in culo a me, ma alcuni dei nomi più importanti di Wall
Street hanno investito nel mio fondo. Il sasso cadrà qui, ma
l’onda avrà ripercussioni ovunque.»
«Bill, queste sono cose che non ci riguardano.»
Rimanemmo seduti in silenzio mentre cercavo di valutare
la situazione.
Si guardò l’orologio e si alzò. «Se non c’è altro, io dovrei
andare.»
Sconvolto, cercai di pensare a qualcos’altro da dire e mi
lasciai scappare di bocca: «Leonid, se lo farete, sarò costretto
a farvi la guerra».
Restò di sasso, e io pure. Dopo qualche secondo scoppiò
a ridere. Quello che avevo detto era assurdo, lo sapevamo
entrambi. Però, anche se non volevo rimangiarmi le parole,
mi chiesi cosa avevo voluto dire esattamente. Fare la guer-

151
ra? Contro un oligarca? In Russia? Solo un pazzo l’avrebbe
fatto.
Avevo i nervi a fior di pelle, ma riuscii a rimanere immo-
bile. Quando anche Leonid si ricompose, dichiarò: «Ah, è
così? Buona fortuna, Bill.» Poi si girò e se ne andò.
Ero così in crisi che, per qualche secondo, non riuscii a
muovermi, e quando poi ci riuscii, tremai per l’umiliazio-
ne, lo shock e una tonnellata di ansia. Uscii in fretta dalla
Renaissance, inebetito. Nella gelida notte moscovita c’erano
quindici gradi sottozero. Salii sulla mia auto, una Chevy
Balzer di seconda mano che avevo acquistato da poco,
Alexei ingranò la marcia e ci dirigemmo verso il mio appar-
tamento.
Dopo qualche minuto di silenzio presi il cellulare e cercai
di chiamare Edmond a New York. I miei primi tentativi
fallirono ma alla fine riuscii a trovarlo. La sua segretaria mi
disse che era occupato, insistetti che gli dovevo parlare. Ero
agitato all’idea di affrontarlo, ma ora che era chiaro che ci
avrebbero fatto perdere 87 milioni di dollari, dovevo spie-
gargli come stavano le cose. Era calmo, ma chiaramente
adirato. A nessuno piace buttare via soldi ed Edmond era
famoso per non saper perdere. Quando ebbi finito chiese:
«Cosa facciamo, Bill?»
«Combatteremo contro questi bastardi, ecco cosa faremo.
Dichiareremo guerra.»
Anche se quelle parole erano uscite dalla mia bocca, sem-
brava che non le avessi pronunciate io.
Seguì un lungo silenzio. Ci fu un’interferenza. «Cosa stai
dicendo Bill?» chiese Edmond serio. «Sei in Russia. Ti uc-
cideranno.»
Mi ripresi. «Forse lo farò, forse no. Ma non gliela farò
passare liscia.» Non m’importava se ero coraggioso o stu-
pido, o se c’era qualche differenza. Ero stato messo con le
spalle al muro ed ero determinato.

152
«Bill, non posso darti il mio appoggio», disse piano, al
sicuro a New York a 7480 chilometri di distanza.
Io però non ero al sicuro e avevo l’adrenalina a mille.
Sarei andato avanti per la mia strada. «Edmond», dissi men-
tre Alexei imboccava la Bolshaya Ordynka, la via in cui vi-
vevo «sei il mio partner, non il mio capo. Farò la guerra a
questi tipi con o senza di te.»
Non aveva nient’altro da dire e riagganciammo. Alexei
parcheggiò davanti al mio palazzo, il motore al minimo e
il riscaldamento al massimo. Uscii e andai di sopra. Quella
notte non chiusi occhio.
L’indomani mattina, a testa bassa, andai nel mio nuovo
ufficio a piedi, un ambiente più grande in cui ci eravamo
trasferiti qualche mese prima. Durante la notte, insieme
all’incertezza, ero stato colto anche dal rimorso. Arrivato
alla reception, una grande confusione mi distolse dai miei
pensieri. Stipate nella stanza c’erano più di dodici guardie
del corpo armate. L’uomo al comando venne da me, con la
mano protesa e con un accento israeliano disse: «Mi chiamo
Ariel Bouzada, Mr. Browder. Siamo stai mandati da Mr.
Safra. Abbiamo quattro auto blindate e quindici uomini.
Staremo con lei finché sarà necessario».
Strinsi la mano ad Ariel. Aveva circa la mia età e pur es-
sendo più basso di me, era più duro, più forte e più mi-
naccioso di quanto io avrei mai potuto essere. Camminava
con un’aria autoritaria e intimidatoria. A quanto sembrava,
Edmond dopotutto avrebbe combattuto al mio fianco.
Dopo aver incontrato tutte le guardie del corpo mi ritirai
nel mio ufficio e mi sedetti alla scrivania. Afferrai la testa
tra le mani. Come farò ad affrontare un oligarca? Come farò
ad affrontare un oligarca? Come cavolo farò ad affrontare un
oligarca?
Prendendolo di petto, ecco come.
Radunai il mio team nella saletta per le conferenze. Poi

153
andai nell’armadietto della cancelleria e presi una risma di
carta bianca e del nastro. La lasciai cadere sulla scrivania e
diedi il nastro alla squadra, invitandoli a tappezzare i muri,
dovevamo trasformare l’intera stanza in una lavagna bianca.
«Tirate fuori i pennarelli», dissi. «Dobbiamo trovare del-
le idee per infliggere danni economici a Vladimir Potanin
maggiori rispetto ai benefici che ne trarrà dal rovinarci.
Ogni idea è buona. Diamoci da fare.»

154
13. AVVOCATI, SOLDI E PISTOLE

Escogitammo un piano in tre fasi che avrebbe fatto aumen-


tare le pressioni su Potanin in sequenza.
La prima consisteva nel rendere visibile la diluizione delle
azioni ai partner commerciali occidentali di Potanin. Come
oligarca miliardario aveva molti interessi economici non
espressamente collegati alla Sidanco, tra cui investimenti
congiunti con uomini come George Soros e istituzioni quali
le riserve finanziarie della Harvard University e il fondo pen-
sione della Weyehaeuser, il gigante americano del legname.
Io ed Edmond ci dividemmo la lista e telefonammo a
tutti personalmente. Dopo averne parlato, abbiamo spedito
loro una presentazione con PowerPoint illustrando la que-
stione della diluizione del capitale azionario. Il nostro mes-
saggio era semplice: ecco come Potanin ci sta rovinando. Se
non lo fermate, i prossimi potreste essere voi.
Quasi tutti contattarono Potanin e si lamentarono. Non
sapevo cosa si dicessero, però immaginavo che parlassero
dell’effetto diluitivo e di come avrebbe compromesso il va-
lore dei loro investimenti e che lui avrebbe dovuto smettere
di danneggiarci, anche nel suo interesse.
Aspettammo la reazione di Potanin, pensando che forse
si sarebbe ricreduto e invece non fu così. Anzi, la situazione
peggiorò. Forse pensò: Chi è questo stronzetto di Chicago?
C’ho messo tempo ed energia per coltivare queste relazioni e
adesso lui vuole infangare il mio buon nome? Com’è possibile
che stia accadendo?

155
Bella domanda. Una volta su due che uno straniero ve-
niva fregato in Russia, si facevano riunioni a porte chiuse
cercando di capire come resistere (proprio come avevamo
fatto noi). Però poi gli avvocati e i consulenti dicevano che
la ritorsione era pericolosa e impraticabile (come aveva fatto
Edmond all’inizio) e dopo accese discussioni si andava via
con la coda tra le gambe.
Ma qui non si trattava di una volta sì e una no, io non
ero dipendente di una grande banca d’investimento o di
un’impresa della Fortune 500. Ero uno dei responsabili del
mio fondo speculativo. Potanin non capì che non avrei mai
permesso che mi rovinasse senza opporre resistenza.
Un’altra persona che non lo capì fu Sabrina. Era piena-
mente consapevole delle mie intenzioni e sin dall’inizio non
era contenta. Le avevo parlato la sera stessa in cui l’avevo
detto a Edmond e per poco non le venne un attacco isteri-
co. «Bill, come puoi farci questo?» gridò al telefono.
«Tesoro, non ho scelta. Non posso permettere che la fac-
ciano franca.»
«Come puoi dire questo? Come puoi essere così egoista?
Sei un marito e anche un padre. Quelli ti uccideranno!»
«Spero di no, però ho delle responsabilità verso chi mi ha
dato fiducia perché investissi il loro denaro. Li ho cacciati in
questo pasticcio e ora devo tirarli fuori.»
«Ma chi se ne importa di loro? Tu hai una famiglia. Non
capisco perché tu non possa avere un lavoro normale a
Londra come tutti gli quelli che conosciamo!»
Sulla famiglia aveva ragione, però ero così indignato con
Potanin che non riuscivo a darle retta.
Riattaccammo senza venire a capo di nulla, nel bene o
nel male non potevo soffermarmi troppo a rimuginare sulle
parole di Sabrina. Stavo per cominciare una battaglia e do-
vevo continuarla.
Purtroppo la prima fase era andata male. Però almeno

156
avevo attirato l’attenzione di Potanin. Avevo aperto una
vena e ora il sangue fuoriusciva in acqua e alla fine di quella
settimana Boris Jordan, lo squalo di Potanin, si fece vivo.
Potanin aveva dovuto dargli una bella lavata di capo, per-
ché quando Boris chiamò era inferocito. «B-Bill», tartagliò,
«perché diavolo stai chiamando i nostri investitori?»
«Leonid non ti ha detto del nostro incontro?» risposi si-
mulando un tono tranquillo e pacato.
«Sì, ma credevo che avessi capito la situazione.»
Continuai la messinscena pregando che la voce non mi
tradisse.
«Quale situazione?»
«Bill, mi sembra che tu non stia capendo, non stai rispet-
tando le regole!»
Lanciai un’occhiata a una delle robuste guardie russe
all’ingresso dell’ufficio. Che avessi paura o meno, di certo
non avevo imboccato la strada della cautela quando avevo
deciso di fare la guerra a queste persone.
Mi stupii della mia stessa disinvoltura quando dissi:
«Boris, se pensi che non stia rispettando le regole adesso,
aspetta la mia prossima mossa». Riattaccai senza attendere
la sua risposta. Mi sentivo in preda all’euforia.
Passammo alla seconda fase, quella in cui avremmo reso
pubblica l’intera vicenda.
I giornalisti stranieri abbondavano tra la comunità de-
gli espatriati a Mosca e ne conoscevo diversi, alcuni anche
molto bene. Una era Chrystia Freeland, la responsabile del-
la redazione di Mosca del Financial Times. Una mora di
bell’aspetto più giovane di me di qualche anno sul metro e
cinquanta o giù di lì. Però non sembrava bassa, aveva una
specie di fuoco liquido nello stomaco e quello che la natura
le aveva tolto in altezza gliel’aveva dato nel suo modo di
prendere la vita. In varie occasioni, Chrystia aveva messo
in chiaro come bramasse un articolo sugli oligarchi, però

157
non era riuscita a trovare qualcuno abbastanza coraggioso
(o stupido, a seconda della prospettiva) che ne parlasse pub-
blicamente – fino a quel momento.
La chiamai e ci incontrammo nel mio ristorante preferito
di Mosca, il Semiramis, un locale mediorientale. Mentre
ordinavamo tirò fuori un piccolo registratore nero e lo ap-
poggiò in mezzo al tavolo. Non avevo mai collaborato con
la stampa prima di allora. Per me era una grande novità
e così cominciai a raccontarle tutto dall’inizio. I camerie-
ri portarono hummus e baba ghanoush, e Chrystia prese
qualche appunto mentre parlavo tra un boccone e l’altro.
Poi arrivarono i kebab di agnello. Io continuavo a parlare e
lei ascoltava. Finalmente arrivai in fondo alla storia. La sua
reticenza era un tantino imbarazzante e una vocina dentro
di me continuava a dubitare che la mia storia fosse interes-
sante come pensavo. Quando arrivarono il tè alla menta e il
baklava domandai: «Allora, cosa ne pensi?»
Cercai di non agitarmi quando lei con tutta calma prese
il bicchiere di tè con il manico dorato alzando lo sguardo.
«Bill, è straordinario. È da una vita che aspettavo una storia
del genere.»
L’indomani Chrystia chiamò Potanin per sentire la sua
versione dei fatti e lui, neanche a dirlo, reagì in perfetto stile
russo.
In circostanze normali, a questo punto avrebbe dovuto
tirare i remi in barca. Potanin stava facendo soldi a palate
dopo il recente successo ottenuto con la BP. Perché rischiare
tutto per spillare a noi qualche spicciolo? Ma quelle non
erano circostanze normali. Eravamo in Russia e la cosa più
importante era non mostrare le proprie debolezze.
Da quell’esperienza stavo imparando che la cultura degli
affari in Russia era simile a quella di un cortile in una pri-
gione. In galera, la reputazione è tutto ciò che si possiede: si
guadagna una posizione con grande fatica e non la si lascia

158
facilmente. Quando qualcuno viene verso di te dall’altra
parte del cortile, non puoi startene con le mani in mano.
Devi ucciderlo tu prima che lo faccia lui. Se non lo fai e
riesci a sopravvivere alla sua aggressione, verrai considerato
un debole e in men che non si dica perderai il rispetto e
diventerai lo zimbello di qualcuno. Questo è il calcolo che
tutti gli oligarchi e i politici russi devono fare tutti i giorni.
La reazione logica di Potanin alle domande di Chrystia
avrebbe dovuto essere: «Ms. Freeland, si tratta di un gros-
so equivoco. Mr. Browder ha visto le prime versioni dell’e-
missione di azioni che non sarebbero mai dovute andare in
mano ai regolatori finanziari. La segretaria che le ha rese
note è stata licenziata. Stia tranquilla che gli azionisti go-
dranno di un trattamento equo in questa emissione, com-
presi gli investitori di Mr. Browder e Mr. Safra».
Tuttavia, poiché eravamo in Russia, Potanin non poteva
permettere l’irriverenza di uno smidollato investitore stra-
niero, quindi dovette per forza rincarare la dose. Quindi,
la sua reazione fu più o meno questa: «Bill Browder è un
pessimo gestore del fondo, un irresponsabile. Se avesse fatto
il suo lavoro come si deve, avrebbe saputo prevedere le mie
mosse. I suoi clienti dovrebbero fargli causa e spennarlo».
Il che significava ammettere che voleva rovinarci, tutto
documentato.
Chrystia preparò un lungo articolo quella settimana che
fu prontamente riportato da Reuters, Bloomberg, il Wall
Street Journal e il quotidiano locale in lingua inglese, The
Moscow Times. Nelle settimane successive, la diluizione del
pacchetto azionario della Sidanco diventò il tema scottante
sulla bocca di tutti gli operatori dei mercati finanziari russi.
Le stesse persone si chiedevano anche quanto tempo ancora
sarei sopravvissuto.
Secondo il mio modesto parere, Potanin a quel punto
poteva battere in ritirata e annullare l’emissione di azioni

159
oppure includere anche noi nell’operazione. Ma anziché ce-
dere, Potanin aumentò la posta. Insieme a Boris Jordan ten-
ne una serie di conferenze stampa e riunioni nel tentativo
di giustificare le loro azioni. Però, invece di convincere tutti
che lui era nel giusto e che io avevo torto, non fece altro che
alimentare le congetture.
Il grande svantaggio del mio operato era che stavo deni-
grando un oligarca russo in pubblico e questo aveva portato
a effetti letali in passato. L’immaginazione è il peggior ne-
mico quando si crede che qualcuno ci possa uccidere.
Autobomba? Cecchino? Veleno? L’unico momento in cui
mi sentivo davvero al sicuro era quando scendevo dall’aereo
a Heathrow durante le mie visite a Londra.
Il fatto che fosse accaduto di recente un episodio simile
al mio aggravava la situazione. Paul Tatum, un americano a
Mosca dal 1985, fu coinvolto in un’efferata lite per il diritto
di proprietà del Radisson Slavyanskaya Hotel di Mosca. Nel
corso della diatriba, pubblicò un articolo a tutta pagina su
un giornale locale in cui accusava il suo socio di estorsione –
non molto diverso da quello che avevo fatto io nell’accusare
Potanin di aver tentato di sottrarmi del denaro. Il 3 novem-
bre del 1996, subito dopo la pubblicazione dell’articolo e
nonostante indossasse un giubbotto antiproiettile, Tatum
fu ucciso con un colpo di arma da fuoco in un sottopassag-
gio vicino all’albergo. Nessuno è stato ancora accusato per
il suo omicidio.
Non ci voleva molto per capire che avrei potuto essere il
prossimo Paul Tatum.
Ovviamente prendevo delle precauzioni e mi fidavo delle
quindici guardie del corpo che Edmond mi aveva assegnato.
Durante la disputa, quando andavo in giro per Mosca, mi
muovevo con una scorta formata da un’auto davanti, due di
fianco e una di dietro. Vicino a casa, la macchina in testa
spariva in modo che due delle guardie potessero arrivare

160
qualche minuto prima delle altre per controllare che non
ci fossero esplosivi o cecchini. Poi si avvicinavano le altre
auto e il resto delle guardie saltava fuori creando un cordone
protettivo per accompagnarmi dentro l’edificio. Una volta
di sopra, due uomini rimanevano seduti sul divano con due
mitra carichi mentre io cercavo di dormire. Alcuni dei miei
amici americani pensavano che quella fosse una buona si-
stemazione, ma per quanto mi riguardava non c’era niente
di buono nell’avere due enormi guardie del corpo armate
fino ai denti in casa a tutte le ore del giorno e della notte,
anche se lo facevano per la tua sicurezza.
Fallita anche la seconda fase, scattò la terza fase del piano
per fermare Potanin. Ci giocavamo il tutto per tutto e se
non fosse andata a buon fine non sapevo cosa avrei fatto o
se il fondo sarebbe sopravvissuto.
L’ultima impresa cominciò con l’incontro con Dmitry
Vasiliev, presidente della Commissione di controllo della
borsa della Federazione russa (FSEC).
Incontrai Vasiliev, un uomo esile con un paio di oc-
chiali con la montatura di metallo e uno sguardo intenso,
nel suo ufficio in un complesso di edifici governativi che
risaliva all’epoca sovietica e gli raccontai tutto. Ascoltò
con attenzione e, una volta terminato, gli chiesi se poteva
fare qualcosa.
Rispose con una semplice domanda: «Hanno infranto la
legge?»
«Certo.»
Si tolse gli occhiali per pulire una delle lenti con un fazzo-
letto di stoffa ben ripiegato. «Ecco come funziona. Se crede
di poter sporgere una denuncia in buona fede, metta a ver-
bale una descrizione delle violazioni e la porti qui. Noi poi
la esamineremo e le faremo sapere quanto prima.»
Non ero sicuro se mi stesse incoraggiando oppure liqui-
dando, però decisi di prenderlo in parola. Mi precipitai in

161
ufficio, convocai una squadra di avvocati a cui chiesi di
preparare una denuncia dettagliata. Una volta completata,
avevamo un documento di duecento pagine in russo dove
venivano citate tutte le leggi che secondo noi l’emissione
azionaria diluitiva aveva infranto. La presentai il giorno
stesso in cui fu completata, ansioso di vedere il risultato.
Con mia grande sorpresa, due giorni dopo un articolo in
rosso apparve sugli schermi della Reuters: «La FSEC aprirà
un’inchiesta su casi di violazione dei diritti degli investito-
ri». Eravamo sconvolti. Vasiliev aveva tutta l’aria di voler
affrontare Potanin.
Nonostante tutto, non ero sicuro di cosa sarebbe successo
durante l’inchiesta. Non si trattava più dello straniero con-
tro l’oligarca. Ora era entrato in scena anche Vasiliev e in
quanto russo forse era anche più vulnerabile. Poco impor-
tava che fosse il capo della FSEC. Poteva succedere di tutto.
Nelle settimane successive, mentre Vasiliev faceva il suo
lavoro, ebbi uno scambio d’informazioni con gli assisten-
ti di Edmond a New York sulla Sidanco e fui obbligato a
fornire loro rapporti sempre più edulcorati. Appresi che
Edmond aveva cominciato a perdere fiducia nella mia capa-
cità di risolvere la situazione.
Non sapevo cosa stesse combinando Edmond, ma la tre-
pidazione nella sua voce e la frequenza delle chiamate tra
Sandy e il suo team legale di New York mi fece pensare che
c’era qualcosa che non andava.
Fu tutto molto più chiaro quando uno dei miei interme-
diari finanziari mi chiamò per dirmi che aveva visto Sandy
nella hall del Kempinski Hotel. C’era solo un motivo per
cui potesse essere a Mosca a mia insaputa: per trattare con
Potanin alle mie spalle.
Da non credere. Se fosse stato così, ciò avrebbe dimostra-
to la nostra debolezza. Potanin e Boris Jordan magari se la
stavano ridendo per il nostro caos interno.

162
Chiamai il responsabile legale di Safra a New York e do-
mandai: «Ha inviato Sandy a Mosca per delle trattative con
Potanin?» Silenzio di tomba. Non avrei dovuto saperlo e lui
era imbarazzato. Si ricompose prima di rispondermi: «Bill,
mi dispiace, ma stai navigando in acque troppo profonde.
Sono affari seri, stiamo parlando di tanti quattrini. Forse
sarebbe meglio se ti facessi da parte e lasciassi fare a noi da
adesso in avanti».
Avrebbe potuto avere ragione se fossimo stati a New York,
dove i tribunali funzionavano e un avvocato di sessantadue
anni di Wall Street era più capace di un gestore di un fondo
d’investimento di trentadue anni, ma eravamo in Russia e le
regole del gioco erano ben altre. Risposi: «Con tutto il rispet-
to, voi non avete idea di cosa fare qui. Se dimostrate il benché
minimo segno di debolezza, i nostri investitori perderanno
tutto e poi ve la dovrete vedere voi». Mi dimostrai solidale e
gli chiesi di concedermi almeno un po’ di tempo per portare
a termine il mio piano. Non sembrava molto propenso, però
disse che ne avrebbe parlato con Edmond. Mi richiamò in tar-
da serata e risentito mi disse: «Edmond ti concederà altri dieci
giorni. Dopodiché, se non succede niente, subentriamo noi».
L’indomani chiamai l’ufficio di Vasiliev per cercare di ve-
dere a che punto era con le indagini, ma la sua segretaria mi
disse che non era disponibile. Telefonai ai nostri avvocati e
domandai se potevano fare una stima di quanto tempo ci
avrebbe impiegato l’FSEC per prendere una decisione. Non
ne avevano idea.
Intanto i giorni passavano e quotidianamente mi sentivo
al telefono con il rappresentante legale di Safra. Le cose non
promettevano bene. Il sesto giorno mi disse: «Senti Bill, ti
abbiamo promesso dieci giorni, però qui sembra che non
stia succedendo nulla. Sandy tornerà a Mosca lunedì per
incontrarsi con Potanin. Apprezziamo molto quello che hai
fatto, però non sta funzionando».

163
Quella sera andai a casa, mi sentivo abbattuto come non
mai. Non solo i russi mi stavano rovinando, ma il mio socio
in affari stava perdendo fiducia in me. Avremmo ottenuto
forse il 10 o 21% di quanto Potanin si stava prendendo se
eravamo fortunati e quella sarebbe stata la fine della mia
collaborazione con Safra. Era a tutti gli effetti la fine della
Hermitage Capital.
L’indomani mattina mi trascinai in ufficio con l’inten-
zione di arginare il danno come potevo. Invece non dovetti
farlo. Senza alcun preavviso arrivò un fax con la prima pagi-
na del Financial Times. Il titolo recitava: «L’autorità di con-
trollo invalida l’emissione azionaria della Sidanco». Vasiliev
aveva annullato l’intera emissione di azioni con effetto di-
luitivo.
Fine della storia.
Avevo vinto. Quel pivello del South Side di Chicago ave-
va sconfitto l’oligarca russo in casa. Edmond Safra chiamò
per congratularsi con me. Anche il rappresentante legale
capo ammise che ci avevo visto lungo.
Con la strada ufficialmente sbarrata, Potanin fece dietro-
front. Quella reazione non poteva essere più russa di così,
proprio come il desiderio iniziale di scagliarsi contro di me:
una volta che non c’era più denaro da prendere, non c’era
più motivo di lottare.
Avevo affrontato l’oligarca nel cortile della prigione e mi
ero guadagnato un certo rispetto. E, cosa ancora più impor-
tante, avevo imparato a combattere contro i russi, che non
erano così invincibili come volevano sembrare.

164
14. ADDIO VILLA D’ESTE

Oltre alla mia vittoria su Potanin, tutto in Russia sembrava


andare secondo i miei piani. Nel 1997, l’Hermitage Fund
fu considerato il miglior fondo d’investimento, un aumento
del 235% in un anno e del 718% dalla sua creazione. Il pa-
trimonio che gestivamo era passato dagli iniziali 25 milioni
a oltre 1 miliardo di dollari. Il New York Times, il Business
Week, il Financial Times e il Time magazine mi descriveva-
no tutti come l’enfant prodige della finanza moderna. I miei
clienti facevano a gara per invitarmi nei loro yacht nel sud
della Francia, e in qualsiasi città in cui mettevo piede mi of-
frivano lauti pasti. Era tutto davvero entusiasmante, e stava
succedendo proprio a me, un trentatreenne che si era messo
in proprio solo qualche anno prima.
Col senno di poi, avrei dovuto essere un po’ più cauto.
Tutte queste acquisizioni erano un motivo per celebrare, ma
nel complesso, per usare il gergo di Wall Street, erano un
«segnale per vendere». A livello mentale lo capivo, ma di
pancia desideravo che la mia fortuna continuasse all’infin-
to. Quindi, mantenni tutti gli investimenti, pensando che
tutto sarebbe andato avanti come aveva fatto fino ad allora.
Però c’erano altri che non condividevano il mio ottimi-
smo, soprattutto Edmond Safra.
Agli inizi di aprile del 1998 mi chiamò e disse: «Bill, sono
preoccupato per tutto quello che sta accadendo in Asia.
Non credi che dovremmo liquidare le nostre posizioni?» Si
stava riferendo alla crisi economica in Asia che era iniziata

165
nell’estate del 1997, in cui Tailandia, Indonesia, Malesia e
Corea del Sud furono interessate da massicce svalutazioni
delle loro valute nazionali, insolvenza azionaria e gravi re-
cessioni.
«Credo che dovremmo tenere duro e aspettare che questo
uragano passi, Edmond. La Russia non avrà problemi.»
«Come puoi esserne certo, Bill? Abbiamo già incassato un
duro colpo.»
Aveva ragione a essere preoccupato. Nel gennaio del
1998, il fondo aveva perso il 25% del suo valore, ma in
aprile aveva già recuperato metà delle perdite ed ero convin-
to che le cose stessero migliorando.
«Il mercato adesso è in ripresa. Quando le acque si saran-
no calmate, recupereremo tutto.»
«Dimmi perché la pensi così», disse, non sembrava con-
vinto.
«Perché la paura che la Russia sia sull’orlo del precipizio
è proprio così, solo paura. Sono solo sensazioni, non c’è
niente di concreto.»
«Cosa vuoi dire?»
«Be’, prima di tutto la Russia non commercia molto
con l’Asia. Secondo, la Russia non fa concorrenza all’Asia.
Terzo, gli asiatici non investono in Russia. Non vedo come
i problemi in Asia potrebbero arrivare anche qui.»
Edmond ci impiegò qualche secondo a rispondere e poi
disse: «Spero tanto che tu abbia ragione Bill.»
Anch’io lo speravo.
Invece, purtroppo, avevo torto marcio.
Mi era sfuggito il fatto che il mondo è un grande mare
di liquidità. Se la marea cala in un posto, cala dappertutto.
Quando i grandi investitori cominciarono a perdere soldi
in Asia, iniziarono a sbarazzarsi delle obbligazioni a rischio
dei loro portfolio in tutto il resto del mondo e tutto quello
che aveva a che fare con la Russia, era in cima alla lista.

166
Questo creò una situazione tossica per il governo russo.
Negli anni precedenti la Russia, avendo un deficit di bi-
lancio enorme per pagare per i servizi pubblici, aveva pre-
so a prestito quaranta miliardi di dollari emettendo titoli
di Stato in rubli a tre mesi. Ciò significava che, solo per
rimanere a galla, ogni tre mesi il governo doveva vendere
quaranta miliardi di dollari di nuovi titoli per ripagare i
quaranta miliardi di dollari. Per giunta, la Russia doveva
pagare tassi di interesse di oltre il 30% per attirare i com-
pratori, quindi il debito continuava ad aumentare.
Questa non sarebbe stata una strategia finanziaria pru-
dente quando le cose andavano bene, ma divenne un vero e
proprio suicidio quando le cose andavano male.
L’unica cosa che ora poteva salvare la Russia era il Fondo
monetario internazionale (FMI). Nella primavera del 1998,
a Mosca gli speculatori e gli investitori non facevano altro
che parlare dell’intervento dell’FMI.
Strano a dirsi, ma il governo russo non condivideva la
nostra ossessione. Non so se si trattasse di arroganza o di
stupidità, ma il Cremlino faceva il gioco duro con l’FMI
quando invece si sarebbero dovuto inginocchiare e chie-
dere aiuto. A metà maggio, Larry Summers, l’allora vice
segretario del Tesoro degli Usa, si recò in Russia per vedere
se avrebbe dovuto gestire quello che sembrava un tracollo
finanziario imminente. Poiché gli Usa erano il membro
principale dell’FMI, l’opinione di Summers avrebbe in re-
altà determinato il risultato. Benché tutti i politici occi-
dentali capissero che era uno dei più influenti pezzi grossi
della finanza a livello mondiale, quando il primo ministro
russo, Sergei Kiriyenko, vide che Summers era un sem-
plice «vice segretario», si sentì umiliato e si rifiutò di in-
contrarlo. Qualche giorno dopo, il 23 maggio del 1998,
la missione dell’FMI che era andata i Russia per negoziare
un pacchetto di salvataggio finanziario da venti miliardi

167
di dollari fu presa dalla stessa ostinazione e rinunciò alle
trattative. Summers e l’FMI lasciarono il Paese senza rag-
giungere un accordo.
Senza il denaro dell’FMI a sostenere il mercato obbliga-
zionario, il governo russo alzò il tasso d’interesse che pagava
sui titoli di Stato dal trenta al 44% per attrarre i comprato-
ri. Però, anziché attirare investitori, ebbe l’effetto contrario.
Wall Street fiutò il sangue. «Se la Russia deve aumentare i
tassi dal trenta al 44%», pensavano, «ci deve essere qualcosa
di serio che non va e quindi non vogliamo averci niente a
che fare.»
Questa mancanza di fiducia fece crollare il mercato azio-
nario russo e in maggio il mio fondo perse un incredibile
33%, un perdita del 50% per l’intero anno.
Aveva ragione Edmond.
Perdere così tanto denaro mi mandò in crisi. Dovevamo
vendere quando avevamo già perso il 50%. O dovevamo tenere
duro e aspettare che ci fosse una ripresa? Il solo pensiero di do-
vere accettare una perdita del 50% era umiliante. Pensavo
che il mercato avesse toccato il fondo, quindi consigliai di
tenere duro e di aspettare un salvataggio finanziario da parte
dell’FMI.
Agli inizi di giugno correvano voci che l’FMI fosse ritor-
nato al tavolo delle trattative. I mercati subirono un’impen-
nata e il fondo aumentò del 9% in una sola settimana. Ma
la settimana successiva, cominciarono a circolare di nuovo
voci negative e il fondo scese dell’8%.
In luglio, i tassi di interesse dei titoli russi raggiunsero
uno sbalorditivo 120%. La Russia sarebbe senza dubbio an-
data in default se non fosse intervenuto l’FMI. Persone come
Larry Summers e i tecnocrati dell’FMI potevano anche esse-
re indignati con il governo russo per essere così arrogante,
ma sapevano che, in Russia, un’insolvenza sovrana sregolata
sarebbe stata una catastrofe. All’ultimo minuto gli Usa ap-

168
poggiarono un enorme pacchetto di salvataggio finanziario.
Il 20 luglio, intervennero l’FMI e la Banca mondiale con un
pacchetto da 22,6 miliardi di dollari, svincolando immedia-
tamente la prima tranche da 4,8 miliardi di dollari.
Quando vidi i titoli, fui preso da un irresistibile senso di
sollievo. Avevo i nervi consumati dal tam tam delle cattive
notizie, ma ora c’era una rete di protezione. Sembrava che
questa operazione potesse salvare la Russia, come pure il de-
naro dei miei clienti. La settimana dopo, il fondo recuperò
il 22% delle perdite. Il telefono cominciò a squillare, ri-
spondevo alle chiamate dei clienti sollevati e cominciammo
a discutere di come sarebbe avvenuta la ripresa.
Ma avevo cantato vittoria troppo presto. Il pacchetto di
salvataggio era grande, ma gli oligarchi russi non lo vedeva-
no come una rete di protezione, bensì come un salvadanaio
che potevano sfruttare per convertire i loro rubli in dollari
per portare via il denaro dalla Russia il più in fretta possi-
bile. Nelle quattro settimane successive, gli oligarchi rus-
si convertirono in rubli un corrispettivo di 6,5 miliardi di
dollari. Come se niente fosse, il Paese era ritornato al punto
dove si trovava prima dell’intervento dell’FMI.
E come se questi turbini finanziari non bastassero, anche
il mio matrimonio si stava sgretolando. Dall’episodio della
Sidanco, Sabrina era diventata sempre più ostile nei miei
confronti. Percepiva la mia decisione di lottare con Potanin
come un tradimento e voleva che tornassi a Londra. Le ri-
cordai che nonostante tutti i problemi, era lei che aveva ac-
cettato di traferirsi a Mosca, ma non la pensava così. Inoltre
era completamente indifferente alle argomentazioni sulle
mie responsabilità verso gli investitori.
Facevamo molta fatica a trovare un modo per comunicare
in maniera efficace. Oltre a prendersi cura di David, cosa che
faceva egregiamente, l’unico altro aspetto del nostro matrimo-
nio a cui si interessava era programmare le vacanze di famiglia.

169
Erano le uniche occasioni in cui Sabrina e io passavamo più
di una settimana insieme, quindi le diedi carta bianca, nella
speranza che quei viaggi ci facessero riavvicinare.
Agli inizi dell’estate, prima del crollo del mercato finan-
ziario russo, Sabrina aveva prenotato un appartamento al
Villa d’Este sul lago di Como. Una suite in questo albergo
a cinque stelle costava 1200 dollari a notte, più di quanto
avevo speso in un’intera estate appena terminata l’universi-
tà. Quelle vacanze esageratamente costose, anche se me le
potevo permettere, non facevano per me. Mia madre, che
era sopravvissuta all’Olocausto, mi aveva inculcato l’idea
che spendere soldi in lussi era stupido e irresponsabile. Vista
la mia condizione, era una cosa irrazionale, ma era ancora
difficile accettare di pagare trenta dollari per una prima co-
lazione continentale. Spesso adducevo una scusa per saltare
la colazione e chiedevo a Sabrina di portarmi qualche pani-
no perché mi sentivo in colpa a «sprecare denaro».
Quella vacanza in particolare non avrebbe potuto cadere
in un periodo peggiore. I mercati avevano oscillazioni gior-
naliere del 5% e non avrei dovuto allontanarmi dalla mia
scrivania. Ma se l’avessi contrariata, avrei mandato in crisi il
matrimonio. Così, a metà agosto, presi un volo per Milano,
noleggiai un’auto e raggiunsi Sabrina e David sul lago di
Como.
Il contrasto tra il lago di Como e Mosca era abissale.
Mentre in Russia tutti erano aggressivi e infuriati, in Italia
erano tutti abbronzati, rilassati e felici. Prendemmo la no-
stra suite con due camere da letto, e dopo esserci sistemati
andai a sedermi in terrazzo. Ammirai le acque cristalline di
quel lago alpino, le ondulate Prealpi e osservai le persone
che sguazzavano e ridevano in acqua. L’aria era calma, calda
e profumava di pino. Sembrava tutto surreale.
Cercai di liberami la mente e di non farmi ossessionare da
ogni piccolo movimento del mercato, ma era impossibile.

170
Riuscivo a trovare qualche momento di pace solo allo spun-
tare del giorno quando David si svegliava. Lo vestivo, gli ri-
empivo il biberon di latte e passavo un paio di ore tranquille
passeggiando per i giardini ben curati dell’albergo mentre
Sabrina dormiva.
Mi sono goduto davvero quei momenti intimi, ma poi il
18 agosto, dopo la nostra passeggiata mattutina, quando io
e David eravamo sul balcone che si affacciava sul lago men-
tre Sabrina si stava facendo il bagno, Vadim mi chiamò da
Mosca in preda al panico.
«Bill, ci siamo.»
«Ci siamo cosa?» chiesi non capendo il contesto.
«Il rublo è in caduta libera. Il governo non sostiene più
la valuta. Gli analisti dicono che si stabilizzerà quando avrà
perso il 75%.»
«Oddio.» Appoggiai la bottiglia d’acqua sul tavolo di me-
tallo. Ero sconvolto. Un uccello nero passò veloce, virando
verso l’acqua. David gorgheggiò felice.
«E c’è di peggio, Bill. Hanno anche annunciato che non
ripagheranno il debito pubblico.»
«Cosa? Perché devono andare in default quando possono
stampare denaro e ripagarlo? Non ha senso.»
«Bill, niente di quello che fanno ha senso», disse Vadim
con tono di rassegnazione.
«I mercati come stanno reagendo?» chiesi preparandomi
al peggio.
«È uno sfacelo totale. Le offerte di acquisto sono svani-
te. C’è qualche sporadica contrattazione, con quotazioni
dall’80% al 95% in meno.»
Riagganciai senza aggiungere altro, presi David in brac-
cio e uscii. Persino nei miei peggiori incubi non avevo
previsto una cosa del genere. Prima della mia conversa-
zione con Vadim, pensavo che il mercato avesse toccato
il fondo.

171
In quel preciso instante capii che dovevo proprio tornare
a Mosca.
Quando lo dissi a Sabrina mi chiese perché non pote-
vo occuparmene dall’albergo. Cercai di spiegarle la gravità
della situazione e che era imperativo che fossi a Mosca, ma
non riusciva a capire. Preparai in fretta le valigie e una volta
pronto cercai di abbracciare Sabrina, ma mi respinse. Presi
in braccio David e lo strinsi forte.
Tornai a Mosca quella notte e quando finalmente le ac-
que si calmarono, il fondo registrava una perdita di 900
milioni di dollari, un calo del 90%. Adesso aveva raggiunto
il fondo.
È difficile descrivere come ci si sente a perdere 900 milio-
ni di dollari. Me lo sentivo nelle pareti dello stomaco, come
se mi avessero tolto le viscere. Per settimane provai un bru-
ciore alle scapole, come se stessi fisicamente portando quella
perdita sulle spalle. E non era solo un tracollo finanziario.
Avevo passato gli ultimi due anni a decantare le virtù di
investire in Russia e ora avevo deluso tutti i miei investitori
in maniera plateale.
Era anche un’umiliazione pubblica. Gli stessi giornalisti
che mi avevano osannato durante la mia ascesa, ora non
vedevano l’ora di sbandierare ai quattro venti tutti i cruenti
dettagli della mia caduta.
Però, in cuor mio, sapevo che non avevo altra scelta se
non quella di restare. Dovevo recuperare tutto il denaro che
avevo fatto perdere ai miei clienti. Non me ne sarei andato
dalla Russia con la coda tra le gambe. Non volevo essere
ricordato così.

172
15. TUTTI GIÙ PER TERRA

Mi detestavo per tutte le cose che erano andate storte e in-


vece, con mio grande stupore, molti dei miei clienti no.
Avevano problemi ben più grossi. Poiché i titoli di Stato
russi avevano reso più del 30% prima della crisi ed erano
considerati meno rischiosi nell’immaginario popolare ri-
spetto alle azioni, l’investitore medio del mio fondo aveva
investito cinque volte di più nel mercato dei titoli di Stato
russi rispetto all’Hermitage Fund. Prima che andasse tutto
a rotoli, le rendite dei titoli erano così allettanti che molti
investitori si indebitarono per acquistarne altri. Sebbene i
miei clienti capissero che nella peggiore delle ipotesi i loro
investimenti nell’Hermitage potessero scendere a zero, non
avevano mai pensato che il portfolio di titoli di Stato russi
potesse arrivare a quel livello. Eppure fu quello che accadde
in molti casi.
Una delle maggiori vittime fu Beny Steinmetz, il ma-
gnate israeliano dei diamanti che mi aveva fatto incontrare
Edmond. Dopo la perdita dei Titoli, dovette cedere i suoi
interessi finanziari all’Hermitage Fund e all’azienda. Perdere
Beny come socio fu un duro colpo, ma per fortuna Edmond
era ancora dei nostri.
O almeno così pensavo.
Nel maggio del 1999, durante un viaggio di lavoro a
Londra, acquistai una copia del Financial Times e lessi che
Edmond Safra aveva venduto la Republic National Bank al-
l’HSBC. Come Beny, anche la banca di Edmond aveva effet-

173
tuato ingenti investimenti in titoli di Stato in Russia e aveva
perso. In una fase precedente della sua vita, Edmond, che
aveva attraversato più cicli di mercato di quanti io fossi in
grado di pensare, non era interessato, ma si era ammalato di
Parkinson. All’epoca in cui eravamo soci, notai un costante
peggioramento della malattia, al punto che era persino dif-
ficile tenere una normale conversazione con lui. Per qualche
motivo Edmond non aveva fatto un piano di successione,
quindi se si fosse ritirato non ci sarebbe stato nessuno a por-
tare avanti l’attività. Per questo era stato obbligato a vendere
la banca prima possibile e la HSBC era subentrata per con-
cludere l’affare.
L’uscita di Edmond fu un durissimo colpo. Era uno dei
migliori finanzieri a livello globale e non era più il mio socio
in affari. Anche la mia vita personale si stava disintegrando.
Le cose con Sabrina erano andate di male in peggio dalla
mia fuga da Villa d’Este. La separazione, lo stress e la distan-
za avevano un peso sempre maggiore sulla nostra relazione.
Tutte le volte che tornavo a Londra per il fine settimana, li-
tigavamo. Non c’era dubbio che fossimo sulla strada del di-
vorzio, anche se cercavo di fare di tutto per evitarlo. Proposi
di andare da un consulente di coppia. Ci rivolgemmo a tre
psicologi, ma nessuno ci colpì in particolare. Provai a pro-
lungare la mia permanenza a casa nei fine settimana da tre
a quattro giorni, ma la mia presenza anziché darle piacere
la infastidiva.
Malgrado tutto questo, pianificò un viaggio di famiglia
nell’agosto del 1999. Sabrina scelse un club in Grecia che
si chiamava Elounda Beach Hotel. Era entusiasta del posto
e appena arrivammo fu molto ben disposta nei miei con-
fronti. Era persino dolce. Quell’atteggiamento mi colse in
contropiede. Non mi lanciava delle occhiatacce, non mi fa-
ceva sfuriate su questioni di lavoro, sulla Russia o sui miei
clienti; la seconda sera prendemmo persino una babysitter

174
per accudire David mentre noi trascorremmo la serata in
una taverna locale. A cena le parlai un po’ della Russia e lei
continuò a raccontarmi di come fosse meraviglioso David:
per poche ore pensai Allora non siamo messi poi così male. È
tutto come prima. Ero sul punto di domandarle se fosse suc-
cesso qualcosa che le avesse fatto cambiare atteggiamento in
maniera così netta, ma poi decisi di godermi la serata. Mi
ricordo che si mise persino a ridere quando feci una battuta
sciocca al momento del dolce.
Il giorno dopo la situazione era immutata. Trascorremmo
tutta la giornata in spiaggia a giocare sulla sabbia e ordi-
nammo il pranzo direttamente sulle sdraio. Al tramonto,
quando ritornammo in stanza per mettere a letto presto
David, pensai che forse, per qualche strano motivo, Sabrina
avesse superato il periodo più brutto e le cose si sarebbero
appianate.
Quando David si fu addormentato, mi feci una doccia
per togliermi di dosso la crema solare e la sabbia. Poi mi
misi davanti al lavabo, aprii il rubinetto dell’acqua calda e
cominciai a radermi. Sabrina, che si era rinfrescata mentre
io raccontavo una storia a David, era in camera che leggeva
una rivista. Il ritratto della perfetta famiglia in vacanza.
Mentre stavo per finire di radermi sul collo, comparve
Sabrina sulla soglia: «Bill, dobbiamo parlare».
Misi il rasoio sotto il rubinetto per risciacquarlo, guar-
dandola allo specchio. «Certo, di cosa si tratta?»
Con tutta calma mi disse: «Non voglio più essere tua mo-
glie».
Mi cadde il rasoio dalle mani e a tentoni cercai di rac-
coglierlo. Chiusi il rubinetto, presi un asciugamano e mi
voltai verso di lei. «Cosa?»
«Non voglio più essere tua moglie. Non ce la faccio più.»
«Mi sembrava che stessimo così bene», aggiunsi con un
fil di voce.

175
«Sì, prima… e anche adesso. Ero di buon umore per-
ché… ho preso una decisione. Non vedo il motivo per
cui rimanere ancora arrabbiata.» Abbozzò un sorriso, si
voltò e tornò a letto, lasciandomi solo con i miei pen-
sieri.
Ero distrutto, ma anche sollevato. Avevamo raggiunto un
punto morto. Non volevo vivere una «vita normale con un
lavoro normale», a Londra, come desiderava lei e Sabrina
non voleva avere niente a che fare con la vita forsennata che
avevo a Mosca. Non eravamo una coppia nel senso vero del
termine e rimanere insieme perché io non volevo un falli-
mento coniugale era il motivo sbagliato per restare uniti.
In un certo senso, le ero riconoscente per il fatto che aveva
avuto, al contrario di me, il coraggio di farla finita.
Portammo a termine la nostra vacanza greca e nonostante
la nuvola nera sopra il nostro matrimonio, continuammo a
stare bene in compagnia l’uno dell’altra e con nostro figlio.
È come se all’improvviso fossimo diventati liberi di essere
tornati amici, anziché due coniugi estranei che non si po-
tevano quasi sopportare. Terminata la vacanza, andammo
in aeroporto e prima di dirigerci verso le nostre rispettive
uscite per l’imbarco, Sabrina disse: «Bill, lo so che è colpa
mia. Mi dispiace tanto».
«Non preoccuparti», la rassicurai, pensando che anche se
era stato carino da parte sua dire quelle parole, in cuor mio
sapevo che almeno metà della colpa era anche mia.
«Siamo due persone per bene, Bill. Sei un buon padre e
io credo di essere una madre amorevole. È solo che le cose
sono andate così.»
«Lo so.»
Mi baciò sulla guancia, mi disse addio e se ne andò, spin-
gendo il passeggino con a bordo David. Mentre si allon-
tanavano, il senso di abbandono che mi era così familiare
ebbe la meglio. Ancora una volta, sentii una voragine aprirsi

176
nello stomaco, ma quella volta fu ancora peggio. Perdere
l’amore era anche peggio di perdere il denaro.
Tornai in Russia. Era arrivato l’autunno e a Mosca sen-
tivo un freddo e una solitudine mai provate prima. L’unica
consolazione era che, nonostante le perdite colossali, la mia
azienda era ancora in piedi. Stranamente, nel mondo dei
fondi speculativi, se sei sotto del 30 o 40%, i clienti riti-
rano tutti i loro investimenti e devi chiudere in quattro e
quattr’otto. Però, quando sei sotto del 90%, come l’Hermi-
tage Fund nel 1999, quasi tutti i clienti pensano: «Peggio
di così non può andare, vediamo almeno se si riprende».
Nonostante la performance disastrosa, il fondo aveva anco-
ra in gestione 100 milioni dollari. Ciò generava abbastanza
provvigioni per pagare l’affitto e il personale per tenere a
galla l’azienda.
Solo che non c’era proprio niente da fare. Dal picco del
mercato agli inizi del 1999, i volumi delle contrattazioni
erano calati del 99%, da 100 milioni di dollari al giorno
a 1 milione e quasi tutte le posizioni erano diventate così
illiquide che non potevano essere vendute neanche volendo.
Era anche impossibile fissare appuntamenti con clienti esi-
stenti o probabili. Chi aveva tanto desiderato invitarmi sul
suo yacht, adesso non aveva nemmeno quindici minuti per
una tazza di tè nel suo ufficio.
La parte più difficile del giorno era alle 18, quando la
giornata lavorativa volgeva al termine e si tornava a casa.
Abitavo in un appartamento di lusso ristrutturato non lon-
tano dal Cremlino. Avevo una cucina Poggenpohl e un ba-
gno con sauna e idromassaggio. Sarebbe stata una casa fa-
volosa, però mancava il tocco di una donna e c’erano pochi
effetti personali. Era fredda, sterile e poco accogliente, il che
acuiva il mio senso di isolamento.
I giorni passavano tutti uguali, ma il 3 dicembre, dopo
un’altra giornata passata a osservare un mercato moribon-

177
do, squillò il telefono. Era Sandy Koifman, il braccio destro
di Edmond. Sandy si era licenziato dalla Republic dopo che
la HSBC l’aveva rilevata, ma noi eravamo rimasti in contat-
to. Di solito aveva una voce profonda e sicura, ma quando
mi salutò, il tono era completamente diverso.
«Bill, ti devo dare una brutta notizia.»
Negli ultimi tempi sembrava che non arrivasse altro. «Di
cosa si tratta?»
«È morto Edmond.» Fece fatica a pronunciare quelle pa-
role e sentivo che Sandy – l’ex pilota di caccia israeliano –
aveva un nodo in gola.
«Cosa?»
«È morto, Bill.»
«C-come?»
«In un incendio nel suo appartamento di Monaco, ieri.»
«Un incendio? Cioè?»
«Le notizie sono ancora frammentarie», aggiunse Sandy,
ricomponendosi. «La polizia non rilascia informazioni e Lily
– la moglie di Edmond – è in stato di shock. Da quello che
possiamo capire, uno dei suoi infermieri per l’assistenza not-
turna avrebbe simulato un’irruzione in casa per poi appiccare
il fuoco ed Edmond e un altro dei suoi infermieri, chiusi in
una camera blindata, sarebbero morti per le esalazioni.»
Ero senza parole. E anche Sandy.
«Oddio, Sandy!» esclamai alla fine. «Una notizia tremen-
da… Mi dispiace davvero tanto.»
«Grazie, Bill. Mi farò vivo quando avremo maggiori in-
formazioni. Ho pensato fosse meglio che lo sapessi da me.»
Riattaccai in silenzio. Quello fu il colpo di grazia. Avevo
già accettato di aver perso Edmond come socio, ma era sta-
to più di un compagno d’affari. Edmond Safra era diventa-
to il mio mentore e modello di riferimento.
E ora non c’era più.

178
16. I MARTEDÌ COL PROFESSORE

Il 1999 fu il peggior anno della mia vita e speravo che il


nuovo millennio avrebbe portato cambiamenti positivi. Ma
con l’arrivo del nuovo anno, non riuscii a vedere come la
situazione sarebbe potuta migliorare.
Il fatto che tutte le persone che conoscevo a Mosca se
ne fossero andate, certo non aiutò. Il giovedì sera andavo a
giocare a poker con gli espatriati e i russi che parlavano in-
glese: ai tempi d’oro, verso le metà del 1997, c’erano tredici
giocatori fissi. Nel gennaio del 2000 ero l’unico rimasto.
Era come essere l’ultimo passeggero al nastro dei bagagli in
un aeroporto. Tutti avevano preso le loro valigie ed erano
andati a casa, mentre io ero lì da solo, a guardare il nastro
di metallo cigolante che continuava a girare e ad aspettare
il bagaglio, sapendo che era andato perduto e non sarebbe
mai arrivato.
Ero rimasto a Mosca per un motivo molto semplice: avrei
recuperato il denaro dei miei clienti, a ogni costo.
In teoria, le condizioni post crollo economico avrebbero
dovuto facilitare le cose. Il fondo possedeva enormi posizio-
ni in gran parte delle compagnie petrolifere e gassifere delle
Russia. Queste aziende vedevano il petrolio in dollari ma
pagavano le spese in rubli. Le loro vendite non erano dimi-
nuite, ma i costi erano calati del 75% per via del tracollo
della valuta. In parole povere, quando le spese di un’azienda
diminuiscono, i profitti aumentano. Calcolai che i profitti
delle imprese del nostro portfolio sarebbero aumentati dal

179
100 al 700% a causa della svalutazione. Se tutto il resto ri-
maneva invariato, ciò avrebbe dovuto portare a una ripresa
spettacolare delle loro azioni.
Il problema fu che tutto il resto non rimase invariato.
Prima del crollo, gli oligarchi, che erano gli azionisti di
maggioranza di queste compagnie, si erano quasi sempre
comportati onestamente nei confronti degli azionisti di mi-
noranza. Perché? Perché volevano ottenere quello che con-
sideravano «denaro gratis» da Wall Street. All’epoca, le ban-
che occidentali d’investimento dicevano loro: «Possiamo
raccogliere un sacco di denaro per voi, ma se lo volete, non
dovete scandalizzare i vostri investitori». Per questo non l’a-
vevano fatto.
Questo patto aveva funzionato prima della crisi ed era
riuscito a tenere a freno gli oligarchi. Ma dopo il crollo,
tutti i banchieri che avevano avuto qualcosa a che fare con
la Russia furono licenziati e «i superstiti» giurarono ai loro
capi con la mano sul cuore che non avevano mai sentito
parlare della Russia. Quando nel 1999 gli oligarchi chia-
marono i banchieri alla ricerca di «denaro gratis», nessuno
rispose. Da un giorno all’altro erano diventati indesiderati.
Wall Street aveva chiuso le porte agli oligarchi russi.
Senza nessun altro incentivo a comportarsi bene, e con
tutti quei profitti che si accumulavano dopo la svalutazione,
non c’era più nessuno stimolo a non rubare. Perché condi-
videre i profitti con gli investitori di minoranza? Cosa ave-
vano fatto per aiutare? Niente.
A briglia sciolta, gli oligarchi s’imbarcarono in un’orgia
di furti. Gli strumenti che usarono furono diversi, e senza
nessuno che facesse rispettare la legge e li fermasse, si sbiz-
zarrirono. Si diedero allo scorporo delle attività, alla dilui-
zione, all’appropriazione indebita e al transfer pricing, per
nominare solo alcuni dei loro trucchetti.
Questo era un grande problema che ossessionava tutti gli

180
uomini d’affari in Russia e poiché mi ero fatto un nome
dopo la mia battaglia con la Sidanco, agli inizi di gennaio
2000, fui invitato dalla Camera di commercio americana a
Mosca a tenere una presentazione per il mondo degli affari
locale sugli abusi del governo d’impresa. Sembrava che fossi
l’unica persona a Mosca così pazzo da parlare in pubblico
dei misfatti degli oligarchi russi.
Decisi di usare la compagnia petrolifera Yukos come
studio di un caso specifico. Avrei potuto scegliere qualsi-
asi azienda russa, ma la Yukos era interessante perché ave-
va avuto tanti scandali che avevano coinvolto gli azionisti
di minoranza. Intitolai la mia presentazione «Abuso del-
le Forze armate e del governo d’impresa», per descrivere i
tanti modi con cui gli oligarchi fregavano gli azionisti di
minoranza. L’«Esercito» era il transfer pricing; la «Marina»,
lo scorporo delle attività e i «Marines», le diluizioni degli
azionisti.
La presentazione era prevista per le 8 di un mattino ne-
voso di gennaio. Quando la sveglia suonò alle 6 e 30 riuscii
a malapena a trascinarmi giù dal letto. Fuori, c’erano 20
gradi sottozero e le strade erano ricoperte da un manto di
neve fresca e il sole non era ancora sorto. Poiché la Borsa
di Mosca apriva dopo le 11, di solito non andavo in ufficio
prima delle 10 e 30. Non ero proprio abituato ad alzarmi
così presto. Inoltre, chi sarebbe andato a una presentazione
alle 8 di un mattino nevoso a Mosca? Non ci sarei andato
nemmeno io se non fossi stato il relatore.
Alexei passò a prendermi con l’auto alle 7 e 45 e per-
corremmo il breve tragitto verso la Camera di commercio
americana. Quando arrivai, fui sorpreso nel vedere la sala
conferenze gremita. Entrai e mi mischiai alla folla di uomi-
ni di mezza età tutti uguali con i loro vestiti grigi. In mezzo
a quel mare di grigio, notai una bellissima ragazza con un
vestito rosso e arancione, portava i capelli raccolti in uno

181
chignon sopra la testa come una ballerina. All’improvviso,
ebbi la sensazione di essermi alzato all’alba per un buon
motivo. Mentre mi dirigevo verso la parte anteriore delle
stanza, mi avvicinai a lei.
Quando la raggiunsi, allungai la mano. «Salve. Mi chia-
mo Bill Browder.»
Aveva una stretta ferma, le dita erano infreddolite. «Sono
Elena Molokova», disse con fare professionale.
«Qual buon vento la porta qui a così di buon’ora?»
«Sono interessata al clima degli investimenti in Russia.»
Le diedi il biglietto da visita. Con riluttanza aprì la bor-
setta e mi diede il suo. Lo guardai e vidi che lavorava per
una ditta americana di pubbliche relazioni che faceva con-
sulenza a Mikhail Khodorkovsky, nientemeno che l’ammi-
nistratore delegato della Yukos. Adesso i conti tornavano.
Stavo per mettere sulla graticola il miglior cliente della sua
ditta e avevano mandato qualcuno a periziare i danni.
«Siete interessati al clima degli investimenti?» chiesi, con
un tono che forse lasciava trasparire un po’ troppo la mia
sorpresa.
«Certo, Mr. Browder», rispose impassibile.
«Allora sono contento che sia venuta.»
Mi allontanai con una strana sensazione, come se lei in
qualche modo mi stesse ancora attirando a sé. Non ero
sicuro, ma tra noi sembrava esserci una scintilla. Anche se
era ancora troppo presto, mi sentii nuovamente motivato
a dare il meglio di me stesso in quella presentazione. Misi
molto più pathos e passione del solito, e tutti furono con-
tenti. Elena però sembrava impassibile. Mentre parlavo, le
lanciai molte più occhiate di quanto avrei dovuto, ma la
sua espressione rimase inalterata: professionale e seriosa.
Dopo aver finito, avrei voluto parlarle di nuovo, ma fui
avvicinato da diversi uomini nella sala che facevano da
barriera tra me ed Elena. Con la coda dell’occhio, la vidi

182
sgattaiolare via dalla stanza, e dalla mia vita, con il suo
vestito sgargiante.
Ma avevo ancora il suo biglietto da visita.
Morivo dalla voglia di rivederla. Volevo chiamarla appena
tornato in ufficio, ma ebbi il buon senso di aspettare un’ora.
Mi sentivo un po’ come un adolescente delle superiori che
stava escogitando il miglior modo per chiedere a una ragaz-
za di uscire senza sembrare troppo disperato.
Il suo telefono doveva avere squillato sette volte prima
che rispondesse. Non sembrava nemmeno lontanamente
entusiasta di sentirmi come invece lo ero io di parlarle, ma
riuscii lo stesso a invitarla a pranzo, anche se il tono della
sua voce non lasciava ombra di dubbio: sarebbe stato solo
un pranzo di lavoro e niente più. Be’, dovevo pur iniziare da
qualche parte. Perlomeno ero riuscito a fare il primo passo.
Pranzammo insieme una settimana dopo in un ristorante
svedese, lo Scandinavia, proprio dietro alla Tverskaya, vi-
cino a Piazza Pushkin. All’inizio eravamo un po’ a disagio
perché nessuno di noi due sapeva che cosa aveva in serbo
l’altro. Forse si aspettava che le parlassi del mondo degli af-
fari in Russia, della Yukos e del governo d’impresa e rimase
disorientata quando cominciai ad andare più sul personale,
lei glissò con astuzia. A metà pranzo entrambi capimmo che
eravamo su lunghezze d’onda diverse, ciononostante, la mia
insistenza cominciò a dare i suoi frutti. Non si aprì comple-
tamente, ma a fine serata mi ero reso conto che Elena non
era solo bellissima ma anche molto intelligente. Si era laure-
ata a pieni voti all’Università Statale di Mosca (l’equivalente
russo di Oxford o Cambridge) e aveva un paio di dottorati,
uno in Economia e l’altro in Scienze Politiche. Che lavo-
rasse per il nemico la rendeva irresistibilmente attraente ai
miei occhi, ancora di più di quando l’avevo adocchiata la
prima volta.
In un modo o nell’altro, dovevo riuscire a conquistarla.

183
Se fosse stata una delle tante russe, non sarebbe stato così
difficile. A Mosca, gli occidentali, soprattutto quelli con i
soldi, erano l’equivalente maschile delle super modelle. Le
ragazze russe ti si gettavano tra le braccia e volevano venire
a letto con te appena le incontravi. Non c’era alcun diverti-
mento, nessuna caccia, nessun corteggiamento. Bastava un
«ciao» e in un attimo una ragazza sensuale, snella, con le
labbra perfette e gli occhi misteriosi ti si avvinghiava mentre
tu pensavi dove trovare il letto più vicino, o una stanza con
un po’ di privacy.
Elena era diversa. Era come una qualsiasi professionista di
Londra, Parigi o New York. Non aveva bisogno di un uomo
per i soldi, e certamente non per sentirsi meglio con se stes-
sa. Conquistarla non sarebbe stato così facile. Però non mi
scoraggiai. Subito dopo il nostro appuntamento per pranzo,
la chiamai di nuovo e le chiesi di uscire, questa volta a cena.
Dovevo aver fatto qualcosa di giusto. Anche se non disse di
sì subito, accettò.
Andammo al Mao, un ristorante cinese; lei era più di-
staccata che mai. Sapeva che avevo secondi fini ed era cauta.
Attraversando il ristorante per andare al nostro tavolo sem-
brò che non fosse interessata.
Questo, naturalmente, me la fece desiderare ancor di più.
Chiacchierammo del più e del meno per un po’ e poi
le chiesi: «Hai visto l’articolo di Lee Wolosky su Foreign
Affairs? Su come l’America dovrebbe trattare gli oligarchi?»
Elena storse il naso con un impercettibile gesto di disap-
provazione. «No, non l’ho visto.»
«È molto interessante.» Assaporai un sorso di vino. «Lo
scrittore sostiene che il governo americano dovrebbe revo-
care il visto agli oligarchi in modo che non possano andare
in America.»
Elena aveva una carnagione bianca perfetta, un lungo
collo regale e mentre parlavo, sulla pelle cominciarono ad

184
apparire delle macchioline rosse. «Perché gli americani do-
vrebbero prendersela così con i russi? Il mondo è pieno di
cattivi. Sarebbe da ipocriti», dichiarò, come se l’avessi in-
sultata.
«No, non è vero. Gli oligarchi sono dei mostri e bisogna
pure cominciare da qualche parte», risposi prosaico.
L’avevo colpita sul vivo, il tono della cena cambiò. Perché
ero andato a tirare fuori quell’articolo del Foreign Affairs?
Volevo conquistarmi la fiducia e l’affetto di Elena, non era
mia intenzione contrariarla. Lasciai perdere e provai a cam-
biare discorso, ma ormai il danno era fatto. Quella sera ci
salutammo con un doppio bacio fugace sulla guancia. Non
importava quanto mi piacesse, avevo fatto una critica gra-
tuita alla sua patria. Quando quella sera me ne andai, ero
sicuro che non l’avrei mai più rivista.
Per il resto della serata non riuscii a smettere di rimpro-
verami per aver rovinato il nostro appuntamento, e non fui
nemmeno capace di togliermi dalla testa l’idea che il mio
debole tentativo di avere una storia d’amore, altro non fos-
se che un riflesso di tutti gli altri miei problemi. Il fondo
languiva, l’economia russa era in ginocchio e pareva che gli
oligarchi stessero per derubarmi fino all’ultimo centesimo
del fondo. Sembrava una battaglia persa, non solo sul lavoro
ma anche con questa donna irraggiungibile. Mi coricai in
preda all’ansia. Dopo essermi dimenato per un’ora, presi il
telefono e chiamai il mio amico Alan Cullison del Wall Strett
Journal. Era quasi mezzanotte, ma non importava. Alan sta-
va sempre alzato fino a tardi e potevo contare su di lui per
parlare. Gli spiegai del fallimento del mio appuntamento e
lui mi ascoltò dicendomi le solite cose per consolarmi. Poi,
circa a metà della conversazione, feci il nome di Elena.
«Aspetta, sei uscito con Elena Molokova?» mi interruppe
Alan.
«Sì, due volte.»

185
«Cavoli Bill, è già un ottimo risultato. Ha un sacco di
pretendenti.»
«Be’, allora avanti il prossimo, io credo di aver toppato.»
«Eh, chi se ne importa… ci sono milioni di belle ragazze
a Mosca.»
Strinsi le spalle e dissi: «Sì, ma niente a che vedere con
lei».
Alan non mi dimostrò molta solidarietà e dopo un po’
riagganciammo. Alla fine riuscii ad addormentarmi e mi
svegliai il mattino seguente, determinato a continuare con
la mia vita. Avrei semplicemente cercato di dimenticare
Elena. Ero un uomo pieno d’impegni e c’erano altre donne,
se questo era quello che volevo…
Solo che non era tutto lì. Cercai di dimenticare Elena
con tutte le mie forze, ma non ci riuscii, e in capo a una
settimana decisi che dovevo fare qualcosa per rimediare alla
situazione.
Ma cosa? Come potevo contattarla senza sembrare di-
sperato o patetico? Tutto quello che mi ricordavo, oltre al
suo risentimento per la mia posizione sugli oligarchi, era la
storia di come era morto suo padre. Era stato stroncato tre
anni prima da un infarto improvviso e inaspettato. La sua
morte l’aveva colta alla sprovvista e ricordo che mi aveva
detto che la cosa più terribile era stata non avergli detto
addio. Troppe cose erano rimaste in sospeso.
La storia della morte di suo padre mi ricordava un libro
che avevo letto di recente, I martedì col professore. Scrissi un
breve messaggio a Elena e lo attaccai sulla copertina della
mia copia del romanzo. Lo incartai e lo feci recapitare nel
suo ufficio da Alexei. Il messaggio recitava: «Cara Elena,
dopo che mi hai raccontato di tuo padre, non ho potuto
fare a meno di pensare a te e a questo libro. Parla di un
uomo in punto di morte che cerca di dire tutte le cose che
vuole dire prima di non esserne più capace. Non so se avrai

186
tempo di leggerlo, ma spero che tu lo faccia perché potreb-
be commuoverti come ha fatto con me. Con affetto, Bill».
In verità, questa era una pia illusione anche se a me il
libro aveva fatto un grande effetto. Era semplice, diretto e
davvero commovente. Mentre glielo stavo spedendo, teme-
vo che l’avrebbe visto come qualcosa di diverso, un piccolo
cavallo di Troia con cui cercavo di far breccia nel suo cuore.
Passò un’altra settimana senza risposta ed ero sicuro di
aver fallito completamente. Ma poi, una settimana dopo,
Svetlana si chinò sopra la mia scrivania e disse: «Bill, c’è una
chiamata da Elena Molokova».
Ebbi un tuffo al cuore e presi la telefonata. «Pronto?»
«Salve Bill.»
«Salve Elena. Hai… hai ricevuto il libro che ti ho fatto
recapitare?»
«Sì.»
«Sei riuscita a leggerlo?»
«Sì.» Non aveva mai avuto la voce così dolce. Non ne ero
sicuro, ma era come la sua corazza stesse cedendo.
«E ti è piaciuto?»
Sospirò. «Moltissimo Bill. L’ho appena finito. Proprio
ora. Mi ha toccata nel profondo. Grazie.»
«Sono contento, mi fa piacere.»
«È stato anche una sorpresa.» Ci fu un cambio di tono
nella sua voce, come se volesse farmi entrare, per la prima
volta, nel suo mondo.
«Ah? E perché?»
«Be’, non credevo che fossi un uomo così sensibile, Bill.
Per niente.» La sentii sorridere dall’altra capo del telefono.
«A dire la verità, non so se sono così sensibile.» Ci fu una
pausa. «Senti, ti piacerebbe… ti piacerebbe venire a cena
con me di nuovo?»
«Sì, certo. Mi piacerebbe molto.»
Un paio di sere dopo, ci incontrammo da Mario, un

187
lussuoso ristorante italiano frequentato dalla mafia russa,
ma dove si trovava anche il miglior cibo italiano di Mosca.
Arrivai per primo e mi sedetti al banco e quando il maître
dell’hotel accompagnò Elena, non credetti ai miei occhi.
Era trasformata. Non aveva più i capelli biondo chiaro
raccolti in uno chignon, ma le scendevano morbidi sulle
spalle. Aveva un rossetto più sgargiante e il vestito nero
che indossava la rendeva più aggraziata ed elegante di
qualsiasi cosa le avessi mai visto addosso. Non era solo
bella. Era sexy. Era chiaro che per lei era quello il nostro
primo appuntamento.
Ci accomodammo e cenammo. Non parlammo degli oli-
garchi russi o del governo d’impresa o delle pratiche azien-
dali: parlammo solo delle nostre famiglie, delle nostre vite
e delle nostre aspirazioni, quello di cui tutti parlano quan-
do vogliono conoscere un’altra persona. Fu meraviglioso.
Prima di salutarci quella sera, la afferrai per la vita, l’attirai a
me e senza alcuna resistenza ci scambiammo il nostro primo
vero bacio.
Dopo quella sera ci sentimmo tutti i giorni, sarei stato
felice di vederla anche tutti i giorni, ma aveva tempo di in-
contrarmi solo una volta alla settimana, in alcuni casi anche
una volta ogni due settimane. Continuammo così per tre
mesi: belle cene, conversazioni ancora più belle e un bacio
vero prima di salutarci. Volevo di più e sembrava che anche
lei desiderasse di più, ma non riuscivo a capire come far
breccia nelle sue difese. Quindi decisi che avrei dovuto fare
qualcosa di avventato e romantico.
Le vacanze di maggio – una cosa molto importante in
Russia quando tutto chiude i battenti per dieci giorni – era-
no ormai alle porte. Un pomeriggio la chiamai. «Ti piace-
rebbe venire con me a Parigi per le feste?»
Esitò. Di sicuro non ero il primo uomo a chiederle di
portarla via per una breve vacanza improvvisata, ed en-

188
trambi sapevamo cosa sarebbe successo se avesse accettato.
Qualche secondo dopo disse: «Fammici pensare Bill».
Dieci minuti più tardi, mi richiamò. «Mi piacerebbe ve-
nire con te se riesco a ottenere il visto.» Una sensazione di
calore mi riempì il petto e lo stomaco quando sentii Mi
piacerebbe, ma fu subito smorzata dalle parole se riesco a ot-
tenere il visto. Per le ragazze russe sotto i trent’anni ottene-
re un visto per l’Europa occidentale non era un’impresa da
poco. Di solito ci voleva qualche settimana e una valanga
di documenti per dimostrare che la richiedente non aveva
intenzione di rimanere in Occidente. La cosa brutta era che
avevamo solo quattro giorni per farlo prima che comincias-
sero le vacanze.
Elena chiamò alcune agenzie di viaggio, per fortuna una
di queste stava organizzando un tour di gruppo a Parigi ed
era in procinto di contattare l’ambasciata francese quel po-
meriggio con trenta passaporti per il visto. Se Elena fosse
riuscita a consegnare i documenti in tempo, avrebbe potuto
partire con me. Preparò tutto il necessario e, cosa incredibi-
le, la sua domanda fu approvata il giorno dopo. A meno di
una settimana dalla mia proposta, eravamo seduti vicini su
volo della Air France per Parigi.
Nel tentativo di stupire Elena prenotai una suite all’Hôtel
Le Bristol, uno degli alberghi più sontuosi di Francia, se
non del mondo. Un paio di portieri con i guanti bianchi
presero i nostri piccoli bagagli e ci accompagnarono nella
nostra camera. Camminavo dietro a Elena lungo i corri-
doi con la moquette azzurra, decorati con poltrone Luigi
XV e applique, spiandola da dietro la spalla per sondare la
sua reazione. Aveva un sorrisetto sulle labbra, ma sembrava
sempre sorridere, a prescindere dall’umore. Arrivammo di
fronte alla camera. Il primo portiere aprì la porta ed en-
trammo in una delle più sfarzose stanze d’albergo che avessi
mai visto, e ne avevo viste proprio tante. Diedi la mancia ai

189
facchini, li ringraziai nel mio francese maccheronico e mi
girai verso Elena.
Non sembrava colpita, o se lo era, il suo solito sorrisetto
lo mascherava alla perfezione. «Usciamo», disse.
Ci rinfrescammo, scendemmo e uscimmo sulla Avenue
Matignon. Parigi è fatta per passeggiare, quindi cammi-
nammo lenti, parlando ogni tanto, di niente in particolare.
A volte ci tenevamo per mano, ma mai abbastanza a lun-
go da darmi la sensazione di averla finalmente conquistata.
Mentre passeggiavamo, il cielo si fece minaccioso e quando
arrivammo agli Champs-Elysées, le nuvole sopra le nostre
teste si fecero pesanti e la pioggia pronta a cadere copiosa.
«C’è odore di pioggia nell’aria», disse Elena.
«Già.»
Scegliemmo un cafè che aveva degli ombrelloni sui tavoli
all’aperto e ci sedemmo. Il cameriere ci portò del pane caldo
e ordinai una bottiglia di Bordeaux. Prendemmo le cozze al
vino bianco e una bella porzione di frites. La pioggia tardava
ancora. Io ordinai una crème brûlée e un tè inglese, e quan-
do arrivò il dessert, grosse gocce di pioggia cominciarono a
picchiettare sul marciapiede e sugli ombrelloni. Il parasole
non era grande, quindi spostai la mia sedia in fretta e con
un braccio strinsi la vita di Elena per non farla bagnare.
Ridacchiammo come scolaretti mentre il cielo si aprì e co-
minciò a piovere a catinelle. Mi tirai Elena sulle ginocchia e
lei appoggiò le braccia sulle mie e ci stringemmo forte.
In quel momento capii che lei era tutta mia e io tutto suo.

190
17. ANALISI DEL FURTO

È incredibile come l’amore cambi tutto. Quando Elena


e io tornammo a Mosca, mi sentii tutto rinvigorito. Con
Elena al mio fianco, mi sembrava di poter affrontare qual-
siasi sfida.
All’epoca, la mia massima preoccupazione era di por-
re fine all’enorme furto ai danni del portfolio del fondo.
L’Hermitage Fund aveva già perso il 90% del suo valore per
via dello stato d’insolvenza della Russia e ora gli oligarchi
stavano estorcendo il rimanente 10%. Se non avessi fatto
qualcosa, il fondo sarebbe stato dilapidato.
Quei furti accadevano in tutti i settori economici, dalle
banche alle risorse naturali, ma l’azienda che si distingueva
più di tutte era la più grande di Russia: la Gazprom, il gi-
gante di gas e petrolio.
In termini di produzione e d’importanza strategica, la
Gazprom era una delle imprese più importanti al mon-
do. Eppure l’intero valore di mercato dell’azienda – 12
miliardi di dollari – era inferiore alle imprese medie di
gas e petrolio degli Stati Uniti. Quanto alle riserve di
idrocarburi, la Gazprom era otto volte più grande della
ExxonMobil e dodici volte più grande della BP, le mag-
giori compagnie petrolifere del mondo: eppure vendeva
le sue azioni per barile di riserve scontate del 99,7% ri-
spetto a quelle compagnie.
Perché erano così a buon mercato? Semplice, quasi tutti
gli investitori credevano che il 99,7% dei capitali dell’a-

191
zienda fosse stato sottratto. Ma com’era possibile rubare
tutto da una delle maggiori aziende nazionali? Nessuno lo
sapeva con certezza, ma tutti lo accettavano come un dato
di fatto.
Benché sapessi come potessero essere corrotti i russi,
non potevo accettare che i dirigenti della Gazprom aves-
sero rubato tutto. Se in qualche modo potevo provare che
il mercato si sbagliava, la posta in gioco in termini fi-
nanziari era altissima. Dovevo analizzare quell’azienda e
capire cosa stava succedendo. Dovevo fare «un’analisi del
furto».
Ma come è possibile fare un’analisi di quel tipo in un’a-
zienda russa? Non era una cosa che ti insegnavano alla
Stanford Business School. Di sicuro non potevo rivolgermi
ai dirigenti della Gazprom. Non potevo nemmeno chiedere
agli analisti ricercatori presso le più importanti banche d’in-
vestimento internazionali. A loro interessavano solo lavori
pagati a provvigione, il che voleva dire che le loro labbra
erano incollate ai sederi dei dirigenti della Gazprom che
non avrebbero mai riconosciuto pubblicamente i vergogno-
si furti che venivano perpetrati sotto il loro naso.
Mentre riflettevo su come procedere, mi resi conto che la
mia esperienza alla BCG poteva rivelarsi preziosa in quella
situazione. Come consulente aziendale avevo imparato che
il modo migliore per rispondere a quesiti difficili era trovare
le persone che avevano le risposte e intervistarli.
Così stilai una lista di persone in possesso di dati sul-
la Gazprom: concorrenti, clienti, fornitori, ex dipendenti,
ispettori governativi e via dicendo. Poi invitai ognuno di
loro a colazione, pranzo, cena, merenda o per un dolce.
Non volevo spaventarli prima del tempo, quindi non ri-
velavo loro lo scopo delle mie interviste. Dicevo solo che
ero un investitore occidentale interessato a scambiare del-
le opinioni con loro. Con mia grande sorpresa, circa i tre

192
quarti della quarantina di persone che invitai accettarono
di parlare con me.
Il mio primo incontro fu con il responsabile della pia-
nificazione presso una piccola azienda concorrente della
Gazprom. Pelato e un po’ sovrappeso, indossava un oro-
logio sovietico e un abito grigio sgualcito. Vadim e io an-
dammo a pranzo in un ristorante italiano che si chiamava
Dorian Gray, proprio di fronte alla Moscova, all’altezza di
Piazza Bolotnaya.
Dopo una breve conversazione dissi secco: «Volevamo
parlarle perché stiamo cercando di capire quello che è stato
sottratto alla Gazprom. Lei è uno degli esperti in questo
campo e mi chiedevo se potesse condividere parte delle sue
conoscenze con noi».
Ci fu un momento di silenzio e per un attimo pensai di
aver fatto il passo più lungo della gamba. Però poi la sua
faccia s’illuminò. Appoggiò le mani sulla tovaglia bianca e si
chinò in avanti. «Sono così contento che l’abbiate doman-
dato. I dirigenti della Gazprom sono corrotti all’inverosimi-
le. Rubano tutto.»
«Tipo?» domandò Vadim.
«Pensiamo alla Tarkosaleneftegaz», proseguì l’uomo, sbat-
tendo il cucchiaio sul tavolo. «L’hanno sottratta tutta alla
Gazprom.»
Vadim domandò: «Cos’è la Tarko…?»
«Tarko Saley», continuò Vadim interrompendolo. «È un
giacimento di gas nella regione dello Yamalo-Nenets. Vanta
ben quattrocento miliardi di metri cubi di gas.»
Vadim tirò fuori la calcolatrice e convertì quel nume-
ro in barili di petrolio equivalente*. Il numero che otten-
ne – 2,7 miliardi di barili di petrolio – significava che la

* Barili di petrolio equivalente (BEP) è un’unità di misura dell’energia che mette


a confronto i metri cubi di gas con i barili di petrolio.

193
Tarko Saley era più grande della Occidental Petroleum,
la compagnia petrolifera statunitense con un capitale di 9
miliardi di dollari.
Avevo la pelle dura, ma sottrarre alla Gazprom un’im-
presa che valeva 9 miliardi di dollari mi sconvolse. Mentre
l’uomo entrava nel dettaglio, fece nomi, date e ci raccontò
di altri giacimenti di gas che stavano rubando. Cercammo
di fargli quante più domande possibile e riempimmo sette
pagine di un blocco per appunti. Alla fine dovemmo inter-
rompere il pranzo dopo due ore, altrimenti saremmo andati
avanti per sempre.
Senza saperlo, eravamo incappati in uno dei più impor-
tanti fenomeni culturali della Russia post sovietica – l’au-
mento esponenziale del divario in termini di ricchezza. In
epoca sovietica, il più abbiente della Russia era sei volte più
ricco del più povero. Magari i membri del Politburo avran-
no anche avuto appartamenti più grandi, un’automobile e
una bella dacia, ma la cosa finiva più o meno lì. Invece, nel
2000, il più ricco era diventato 250.000 volte più ricco del
più povero. Questa disparità di ricchezza era stata creata
in un periodo così breve da avvelenare la psicologia della
nazione. La popolazione era così indignata che non vedeva
l’ora di parlarne con chiunque ne avesse voglia.
Quasi tutti i nostri appuntamenti andarono a finire nello
stesso modo. Ci incontrammo con un consulente industria-
le di una compagnia di gas che ci raccontò del furto di un
altro giacimento di gas. Da un incontro con un altro diri-
gente di un gasdotto emerse che la Gazprom aveva dirottato
tutte le proprie vendite di gas dall’ex Unione Sovietica a un
losco intermediario. Parlammo con un ex dipendente che
descrisse come la Gazprom avesse concesso ampi prestiti
sotto il prezzo di mercato ad amici dei dirigenti. In tutto,
riempimmo due blocchi per appunti con accuse schiaccian-
ti di furto e frode.

194
Se dovevamo credere a tutte le informazioni raccolte, si
trattava forse del più grande furto nella storia economica.
Ma c’era un inghippo. Non eravamo certi che quelle accuse
fossero fondate. Quello che ci avevano raccontato poteva
essere dettato da vecchi rancori, esagerazioni o menzogne.
Dovevamo trovare un modo per confermare quello che ave-
vamo sentito.
Ma com’era possibile verificare qualcosa in Russia? Non
era forse quella l’essenza del problema che stavamo affron-
tando riguardo alla Gazprom? La Russia non era forse un
luogo così opaco che a volte non riuscivi neppure a vedere
a un palmo dal naso?
Sembrava, ma in realtà non era affatto così opaca. Bastava
grattare la superficie per vedere che la Russia era stranamen-
te uno dei posti più trasparenti del mondo, se si sapeva
come ottenere le informazioni. Noi lo capimmo quasi per
caso qualche settimana dopo aver finito le interviste della
Gazprom.
Vadim, al volante della sua Golf, stava andando al lavoro
quando si trovò imbottigliato nel traffico nel punto in cui
l’Anello dei Boulevard si interseca con la Tverskaya all’altez-
za di Piazza Pushkin. All’incrocio, tutte le macchine devono
girare o a destra o a sinistra, creando un ingorgo a qualsiasi
ora del giorno. Con tutti gli automobilisti fermi in macchi-
na a volte anche per un’ora, un piccolo esercito di ladrunco-
li di strada gli si era avvicinato per vendere di tutto, da dvd
taroccati a giornali e accendini.
Mentre Vadim era imbottigliato, si avvicinò un ragazzo
sventolando la sua mercanzia. Vadim non era interessato,
ma il giovane insisteva.
«Va bene, cos’hai da vendere?» domandò Vadim circo-
spetto.
Il ragazzo si aprì il sudicio parca blu per mostrare la colle-
zione di cd-rom in un astuccio di plastica. «Database.»

195
Vadim drizzò le orecchie. «Che tipo di database?»
«Di ogni tipo. Elenchi di numeri di cellulari, dichiara-
zioni dei redditi, violazioni stradali, informazioni su fondi
pensione, tutto quello che vuoi.»
«Interessante. Quanto?»
«Dipende. Da cinque a cinquanta dollari.»
Vadim cercò di leggere le postille sulla collezione di dischi
nel portfolio del ragazzo e ne vide una intitolata «Camera di
registrazione di Mosca.» Vadim ebbe una reazione a scoppio
ritardato. La Camera di registrazione di Mosca è l’organiz-
zazione che raccoglie e archivia le informazioni dei proprie-
tari delle aziende con sede a Mosca.
Vadim indicò il disco. «Quanto vuoi per quello?»
«Quello? Cinque dollari.»
Vadim diede al ragazzo una banconota da cinque dollari
americani e prese il disco.
Appena Vadim arrivò in ufficio, andò al computer per
vedere se aveva appena speso cinque dollari per un disco
vuoto. Ma proprio come aveva promesso il ragazzo, gli ap-
parve un menù che permise a Vadim di cercare i beneficiari
effettivi di tutte le aziende moscovite.
Fu in quel momento che scoprimmo il secondo fenome-
no culturale più interessante della Russia: era uno dei luo-
ghi più burocratici del mondo. A causa della pianificazione
centralizzata dei Soviet, Mosca aveva bisogno di dati su ogni
aspetto della vita affinché i suoi burocrati potessero decide-
re su tutto, da quante uova servissero a Krasnoyarsk a quan-
ta elettricità occorresse a Vladivostock. Il fatto che il regime
sovietico fosse caduto non aveva cambiato nulla, i ministri
di Mosca continuavano a esistere e le loro burocrazie face-
vano di tutto per rispondere del loro operato.
Dopo l’acquisto casuale di Vadim a Piazza Pushkin, di-
ventammo bravissimi a trovare molti altri dati per aiutarci
a verificare le accuse che avevamo raccolto con le interviste

196
della Gazprom. Utilizzando quei database, calcolammo che
i dirigenti della Gazprom avevano venduto sette grandi gia-
cimenti di gas tra il 1996 e il 1999 per cifre irrisorie.
Tali trasferimenti di capitali non erano solo enormi, era-
no scandalosi, effettuati senza il benché minimo senso di
vergogna. I nuovi proprietari dei beni rubati non facevano
nessuno sforzo per nascondere le loro acquisizioni.
Uno degli esempi più eclatanti fu la storia della Sibneftegaz,
una filiale della Gazprom. Nel 1988, la Sibneftegaz, un pro-
duttore siberiano di gas, ottenne le licenze per un giacimen-
to di gas che conteneva 1,6 miliardi di barili di petrolio
equivalente. Sulla base di stime estremamente prudenziali,
determinammo che la filiale valeva sui 530 milioni di dol-
lari, eppure un gruppo di acquirenti comprò il 53% della
Sibneftegaz per un totale di 1,3 milioni di dollari, il 99,7%
in meno rispetto ai nostri calcoli del suo valore equo!
Chi erano questi fortunati compratori? Uno era Gennady
Vyakhirev, il fratello di Rem Vyakhirev, l’amministratore
delegato della Gazprom. Gennady, insieme al figlio Andrey,
usò un’azienda per comprare il 5% della Sibneftegaz per
87.600 dollari.
Un altro pacchetto del 18% fu acquistato per 158.000
dollari da un’azienda il cui comproprietario era un cer-
to Victor Bryanskih, un dirigente del reparto dello svi-
luppo strategico della Gazprom. Un ulteriore 10% della
Sibneftegaz fu acquistato da un’azienda di proprietà di
Vyacheslav Kuznetsov e la moglie Natalie. Vyacheslav era il
direttore del reparto del controllo interno della Gazprom,
proprio chi doveva assicurarsi che quelle cose non succe-
dessero.
Portammo alla luce altri sei importanti trasferimenti
di capitale utilizzando le stesse tecniche. Quando Vadim
sommò le riserve di gas e petrolio sul bilancio lasciato dal-
la Gazprom, riscontrò che l’azienda aveva effettivamente

197
venduto riserve grandi quanto quelle del Kuwait. Si erano
combattute guerre per molto meno.
Quel che era più sorprendente, però, fu che per quan-
to quelle riserve fossero grandi, Vadim aveva determinato
che rappresentavano solo il 9,65% del totale delle riserve
della Gazprom. In altre parole, oltre il 90% delle riserve
della Gazprom non era stato rubato. Nessun altro inve-
stitore l’aveva capito. I mercati avevano dato per scontato
che alla compagnia fossero stati sottratti ogni metro cubo
di gas e goccia di petrolio, ecco perché era quotata 99,7%
in meno rispetto alle concorrenti occidentali. Però aveva-
mo già provato che ce n’era ancora oltre il 90%, e nessun
altro lo sapeva.
Cosa dovrebbe fare un investitore in una situazione del
genere? Comprare tutto, fino all’ultimo centesimo.
In un mondo dove si lottava con le unghie e con i denti
per arrivare al 20%, noi avevamo appena scoperto qualcosa
che poteva generare il 1000% o persino il 5000%. Era così
lampante che il fondo aumentò i suoi investimenti nella
Gazprom fino al 20% di limite, la più grande percentuale
per un solo titolo consentita dal fondo.
Per quasi tutti gli investitori professionisti, questo era il li-
mite massimo. Si fanno le analisi, si investe e poi si aspettava
che altri venissero a conoscenza di ciò che si era appreso. Ma
io non riuscivo a farlo. Le nostre scoperte sulla Gazprom era-
no troppo scottanti. Dovevo condividerle con il mondo.
Poi feci qualcosa di molto insolito per la mia professione.
Divisi il dossier della Gazprom in sei parti consegnandone
ognuna a un’agenzia stampa. I giornalisti e i redattori capi-
rono subito l’impatto che questa storia poteva avere e la no-
stra ricerca era così esaustiva che non riuscirono a resistere.
Gli avevamo risparmiato mesi di lavoro investigativo e non
ci volle molto prima che trasformassero la nostra ricerca in
una serie di articoli sconvolgenti.

198
Il primo fu pubblicato sul Wall Street Journal il 24 otto-
bre 2000, intitolato «Gas Guzzler?» (Pozzo senza fondo?).
Descriveva come i giacimenti di gas avevano abbastanza
gas naturale «da poter alimentare tutta l’Europa per cinque
anni.» Il giorno dopo, il Financial Times pubblicò la cronaca:
«Gazprom Directors to Meet over Governance» (I direttori
della Gazprom organizzano incontro per parlare di governan-
ce). Quell’articolo illustrava tutte le operazioni «con amici e
familiari» della Gazprom. Il 28 ottobre, il New York Times
pubblicò: «Directors Act on Asset Sales at Gazprom» (I diret-
tori intervengono sulle vendite di capitali alla Gazprom) nella
sua rubrica di affari internazionali. A meno di un mese di di-
stanza, il 20 novembre, il BusinessWeek pubblicò: «Gazprom
on the Grill» (Gazprom sotto torchio). E il 24 dicembre,
il Washington Post pubblicò: «Asset Transfers May Provide
Challenge to Putin». (Il trasferimento di capitali potrebbe
rappresentare una sfida per Putin.)
Il pubblico in Russia e all’estero rimase scioccato dal li-
vello di corruzione della Gazprom. Nei sei mesi successivi
ci furono oltre 500 articoli in russo e 275 in inglese che de-
nunciavano quanto noi avevamo scoperto sulla Gazprom.
Tale copertura ebbe un notevole effetto in Russia. In
astratto, i russi accettavano il concetto di corruzione e bu-
starelle, però quando vennero fatti esempi concreti di chi e
quanti soldi prendeva, si infuriarono. Nel gennaio del 2001
erano così inferociti che il parlamento russo convocò una
serie di dibattiti per discutere della situazione alla Gazprom
da cui scaturì un mandato affinché la Audit Chamber, (l’e-
quivalente russo della Corte dei Conti in Italia) conducesse
un’indagine sulla Gazprom.
In risposta alle indagini della Audit Chamber, il
consiglio di amministrazione della Gazprom istruì la
PricewaterhouseCoopers, la grande impresa contabile ame-
ricana, per condurre un’indagine indipendente.

199
Dopo diverse settimane, l’Audit Chamber annunciò i ri-
sultati della sua indagine. Non sorprese affatto l’annuncio
che non trovarono illeciti nella condotta dei dirigenti della
Gazprom. Giustificarono i trasferimenti di capitali dicendo:
«La Gazprom era a corto di fondi e aveva bisogno di capi-
tale esterno».
Ci rimaneva solo il rapporto della PWC. La ditta di conta-
bilità stava facendo milioni di dollari l’anno con la Gazprom
come revisore contabile per cui ogni accusa mossa contro la
Gazprom era come farla contro se stessi. Come volevasi di-
mostrare, anche loro scagionarono la Gazprom. Se ne usci-
rono con tesi ottuse e irrazionali per spiegare perché tutte le
cose che avevamo reso pubbliche erano ragionevoli e legali.
Benché non fossero risultati del tutto inattesi, ero così
esasperato da tutta quella situazione che non volevo per nes-
sun motivo trovarmi a Mosca quando la Gazprom avrebbe
tenuto la sua assemblea generale annuale il 30 giugno del
2001. Sapevo che nonostante tutto quello che avevamo sco-
perto, i dirigenti si sarebbero pavoneggiati dicendo al mon-
do intero quanto fosse sana la gestione dell’azienda.
Volevo evitare quella farsa, quindi chiesi a Elena se voleva
andare via da Mosca per un weekend lungo. Aveva appena
finito un grosso progetto al lavoro e accettò, quindi prenotai
due biglietti per Istanbul, uno dei pochi posti desiderabili
in cui potevamo andare senza che Elena dovesse richiedere
un visto.
Il nostro volo coincise con il giorno dell’assemblea an-
nuale della Gazprom e, dopo essere arrivati all’aeroporto
Atatürk, prendemmo un taxi per il Ciragan Palace Hotel,
un ex palazzo del sultano sul lato europeo del Bosforo. Era
una bellissima giornata d’estate. Andammo in veranda vici-
no alla piscina e pranzammo sotto un ombrellone bianco,
con il sole che spaccava le pietre. Imbarcazioni di tutte le
dimensioni passavano lente sotto i nostri occhi mentre en-

200
travano e uscivano dal mar di Marmara. Il volo era durato
appena tre ore, ma i suoni e le viste della Turchia mescolate
alla presenza rassicurante di Elena, mi fecero sentire a mille
miglia di distanza dalla gretta disonestà della Russia.
Mentre ordinavamo il tè alla menta e il dessert, squillò il
cellulare. Non volevo rispondere, però era Vadim, quindi
presi la chiamata.
Aveva notizie sorprendenti.
I dirigenti della Gazprom non si pavoneggiarono affatto
all’assemblea generale. Vyakhirev era appena stato licenzia-
to come amministratore delegato dal Presidente Vladimir
Putin in persona.
Putin aveva sostituito Vyakhirev con un uomo pressoché
sconosciuto, un certo Alexey Miller. Non appena Miller en-
trò in carica, annunciò che avrebbe messo al sicuro i capitali
rimanenti sul bilancio della Gazprom e avrebbe recuperato
tutto ciò che era stato sottratto. In risposta a questo, i prezzi
delle azioni salirono del 134% in un giorno.
Nei due anni che seguirono, raddoppiarono ancora e poi
di nuovo… Nel 2005, le quotazioni della Gazprom erano
centuplicate rispetto al prezzo che la Hermitage Fund le
aveva comprate la prima volta. Non il 100%, cento volte in
più. La nostra piccola campagna era servita a sbarazzarsi di
uno dei più corrotti oligarchi del Paese. Fu, senza ombra
di dubbio, il miglior investimento che avessi mai fatto in
vita mia.

201
18. CINQUANTA PER CENTO

A parte il lavoro e passare del tempo con Elena, una delle


cose che mi godevo di più a Mosca era giocare a tennis, at-
tività a cui mi dedicavo spesso.
In un freddo sabato di febbraio 2002, ero in ritardo per
una partita con un amico agente di cambio. Alexei guidava
veloce, Elena e io ci tenevamo per mano sul sedile posterio-
re della Blazer. Quando l’auto imboccò l’ultimo pezzo di
strada che portava al campo da tennis, vidi un enorme og-
getto scuro in mezzo alla strada. Le auto sterzavano a destra
e a sinistra per evitarlo. Credevo che fosse un sacco di tela
caduto da un camion, ma quando ci avvicinammo vidi che
non era affatto un sacco, ma un uomo.
«Alexei, fermati», gridai.
Non disse nulla, né fece qualcosa per rallentare.
«Dannazione, fermati!» insistetti e riluttante lui accostò
vicino all’uomo. Aprii la portiera e saltai giù. Elena mi se-
guì e quando Alexei vide che non poteva togliersi da quella
situazione, scese anche lui. Mi inginocchiai vicino all’uo-
mo con le auto che sfrecciavano e suonavano il clacson.
Sanguinava ma era cosciente e notai che si dimenava e aveva
la schiuma che gli usciva dalla bocca. Non sapevo cosa fosse
successo, ma perlomeno era vivo.
Mi chinai e gli passai il braccio attorno alle spalle. Alexei
mi aiutò a sollevarlo ed Elena gli afferrò i piedi. Assieme lo
spostammo sul ciglio della strada.
Sul marciapiede, trovammo un cumulo di neve soffice su

202
cui lo appoggiammo. Cominciò a riprendersi. «Epilessia», lo
sentimmo borbottare. «Epilessia.»
«Va tutto bene», gli disse Elena in russo, appoggiando
una mano sulla sua spalla.
Qualcuno doveva aver chiamato un numero di emergen-
za perché arrivarono tre auto della polizia. Da non credere,
gli agenti non prestarono nessuna attenzione all’uomo e co-
minciarono a guardarsi intorno sul marciapiede cercando
qualcuno da incolpare. Dopo aver sentito che parlavo ingle-
se e dedotto che ero uno straniero, passarono ai russi nella
folla che si era radunata attorno. I poliziotti poi si concen-
trarono su Alexei e lo accusarono di avere investito l’uomo
con l’auto. Il ferito, che ora era completamente cosciente,
provò a spiegare che non era stato investito e che Alexei
stava cercando di aiutarlo, ma i poliziotti lo ignorarono.
Chiesero ad Alexei di favorire i documenti e lo costrinsero a
soffiare in un etilometro. Poi discussero animatamente con
Alexei per quindici minuti. Alla fine, quando capirono che
era tutto a posto, salirono sulle pantere e se ne andarono.
L’uomo ci ringraziò e salì sull’ambulanza che era arrivata
mentre Alexei stava parlando con la polizia e noi risalimmo
sulla Blazer.
Mentre ce ne andavamo, Alexei spiegò perché era stato
restio a prestare soccorso ed Elena tradusse: «In Russia è
sempre la stessa storia. Non importa che quel tipo fosse sta-
to investito o meno. Una volta intervenuta, la polizia deve
dare la colpa a qualcuno e basta».
Per fortuna che Alexei era stato un colonello della polizia
stradale ed era riuscito a districarsi. Ma per il moscovita
medio, un’azione da buon samaritano poteva costare una
condanna a sette anni di carcere. E tutti i russi lo sapevano.
In Russia le cose funzionavano così.
Andai alla partita di tennis, ma per quanto ci provassi,
non riuscivo a togliermi quell’episodio dalla testa. Cosa

203
sarebbe successo se non ci fossimo fermati? Prima o poi
un’auto non avrebbe sterzato e l’uomo sarebbe stato grave-
mente ferito o ucciso. Cose del genere dovevano succedere
tutti i giorni in Russia, al solo pensiero mi vennero i brividi.
Questo comportamento irragionevole non si limitava solo
alla sicurezza stradale. Accadeva dappertutto: negli affari,
nelle agenzie immobiliari, nell’assistenza sanitaria, nei corti-
li per la ricreazione. Ovunque succedeva qualcosa di grave,
le persone non si immischiavano per salvarsi la pelle. Non
era perché la gente non aveva senso civico, era solo che il
prezzo da pagare per intervenire era una punizione anziché
un elogio.
Forse avrei dovuto considerare questo avvenimento come
un presagio. Magari in Russia mi sarei dovuto fare gli affari
miei e non cercare di sistemare le aziende corrotte in cui
investivo. Ma credevo di poter fare qualcosa. Visto che non
ero russo, la polizia mi ignorava appena sentiva che parlavo
inglese, così pensavo di poter fare cose che ai russi nelle mia
posizione non sarebbero mai state permesse.

Questo spiega perché, dopo aver visto il successo della


nostra campagna alla Gazprom, decisi di dare la caccia alla
corruzione nelle altre grandi società del nostro portfolio.
Diedi la caccia alla UES, la società elettrica nazionale, e
alla Sberbank, la cassa di risparmi nazionale, tanto per fare
qualche nome. Come nel caso della Gazprom, passai mesi
a investigare come avvenivano i furti. Raccolsi i risultati in
presentazioni semplici da capire e le condivisi con i media
internazionali.
Come con la Gazprom, quando le campagne si facevano
scottanti, interveniva il governo di Putin con tutta la sua
forza.
Quando rivelai che l’amministratore delegato della UES
stava tentando di vendere il patrimonio aziendale a prezzi di

204
super favore a diversi oligarchi, il Cremlino introdusse una
moratoria sulla vendita del patrimonio aziendale. Dopo
aver fatto causa alla Sberbank e al suo consiglio di ammini-
strazione per avere venduto azioni scontate a soci e ad amici
a scapito degli azionisti di minoranza, la Russia modificò la
legge sull’emissione abusiva di azioni.
Vi chiederete perché Vladimir Putin mi permetteva di
fare queste cose. La risposta è che per un po’ i nostri in-
teressi coincisero. Quando Putin divenne Presidente nel
gennaio del 2000, gli fu conferito il titolo di Presidente
della Federazione russa, ma il vero potere della presidenza
era stato usurpato dagli oligarchi, dai governi locali e dalla
criminalità organizzata. Appena si insediò, la sua priorità
numero uno divenne strappare il potere a questi uomini e
riportarlo nella sua legittima sede, il Cremlino, o per essere
più precisi, nelle sue mani.
In sostanza, per quanto riguardava me e le mie campa-
gne anticorruzione, Putin stava agendo secondo lo slogan
politico «il nemico del tuo nemico è tuo amico», e quindi
si serviva regolarmente del mio operato come pretesto per
togliere di mezzo i suoi nemici oligarchi.
Ero così preso dal mio successo e dai profitti clamorosi
del fondo che non me ne resi conto. Da ingenuo, pensavo
che Putin agisse per l’interesse nazionale e stesse tentando
davvero di ripulire la Russia.
Molte persone hanno chiesto perché gli oligarchi non mi
hanno ucciso per avere denunciato la loro corruzione. Bella
domanda. In Russia si uccide per molto meno. Era una so-
cietà in preda all’anarchia dove poteva succedere di tutto, e
dove spesso accadeva davvero di tutto.
Quello che mi salvò non fu la paura della legge ma la
paranoia. La Russia è un Paese che vive di teorie del com-
plotto. Ci sono montagne di spiegazioni del perché le cose
succedono, nessuna delle quali è semplice. Nella mente del

205
russo medio, era inconcepibile che un modesto americano
che spiccicava a malapena quattro parole di russo, desse da
solo una caccia così spietata ai più potenti oligarchi russi.
L’unica spiegazione plausibile era che dovevo agire per con-
to di qualche potente. Visto che ognuna delle mie batta-
glie contro gli oligarchi portava all’intervento di Putin o del
governo, molti ritenevano che quel qualcuno fosse proprio
Putin. Era una teoria ridicola. Non avevo mai incontrato
Putin in vita mia. Ma poiché tutti pensavano che fossi il
«pupillo di Putin», nessuno si azzardava a toccarmi.
Le nostre campagne e gli interventi di Putin garantirono
al mio fondo una ripresa spettacolare. Alla fine del 2003, il
fondo era aumentato del 1200% da quando il mercato ave-
va toccato il minimo. Avevo recuperato tutte le mie perdite
dal 1998. C’erano voluti cinque anni di sforzi erculei, ma
avevo raggiunto l’obiettivo di tirare fuori i miei clienti da
quella situazione disastrosa. Oltre a provare che avevo ragio-
ne, avevo la sensazione di aver scoperto il modello impren-
ditoriale perfetto: non solo stavo guadagnando un sacco di
soldi, ma contribuivo anche a rendere la Russia un posto
migliore. Ci sono poche attività al mondo che ti permetto-
no di guadagnare e di fare del bene allo stesso tempo, ma io
in quel senso ero fortunato.
Sembrava che fosse tutto troppo bello per essere vero, e
lo era.
Di buon’ora, un sabato di ottobre del 2003, stavo cor-
rendo sul tapis roulant nel mio appartamento guardando la
CNN quando sullo schermo apparvero i titoli delle notizie
straordinarie: Mikhail Khodorkovsky, l’amministratore de-
legato della Yukos e l’uomo più ricco della Russia, era stato
arrestato.
Saltai giù dal tapis roulant, mi asciugai il sudore dalla fronte
e mi precipitai in cucina dove Elena stava preparando la cola-
zione. «Hai sentito la notizia?» gridai ancora senza fiato.

206
«Sì, l’ho sentita alla radio. È incredibile.»
«Cosa pensi che accadrà?»
«Non ne ho idea, ma tanto prima di lunedì mattina sarà
già fuori. In Russia i ricchi di solito non passano molto tem-
po in prigione.»
Non sapevo come interpretare l’arresto di Khodorkovsky.
Nel breve periodo, il mercato russo avrebbe accusato un
duro colpo e il mio fondo avrebbe perso soldi se fosse ri-
masto in prigione anche solo per qualche giorno. Nel lungo
periodo, però, se per miracolo fosse rimasto in carcere e
questo avesse segnato l’inizio del giro di vite per gli oligar-
chi, voleva dire che la Russia avrebbe avuto la possibilità di
diventare un paese normale.
Alla fine sarebbe stato positivo non solo per il fondo ma
anche per tutti gli abitanti della Russia.
Quando arrivai in ufficio lunedì mattina, Khodorkovsky
era ancora in prigione e il mercato aveva aperto al ribasso,
perdendo il 10%. Il suo arresto e la sua detenzione erano
sulla prima pagina di tutti i maggiori quotidiani del mon-
do. I miei clienti cominciarono a farsi prendere dal panico
e dovetti passare tutto il giorno a rispondere alle loro chia-
mate. Cosa voleva dire? Cosa sarebbe successo? Avrebbero
dovuto portare via il loro denaro dalla Russia?
Non lo sapevo, nessuno poteva saperlo. Si ridusse tut-
to alle trattative personali tra Vladimir Putin e Mikhail
Khodorkovsky, negoziati in cui né la logica né la legge gio-
carono alcun ruolo.
Per motivi che nessuno saprà mai davvero, questa trat-
tativa andò molto male per Khodorkovsky e alla fine del-
la settimana era ancora in carcere. Poi il governo russo
aggravò la situazione confiscando il 36% della Yukos che
Khodorkovsky deteneva.
Una fatto senza precedenti. Non era un disastro solo per
Khodorkovsky sul piano personale, ma lo era anche per

207
l’intero mercato finanziario. La paura di confisca era nei
pensieri di tutti gli investitori, e ora stava accadendo sotto
Vladimir Putin. Nei quattro giorni lavorativi successivi, il
mercato calò di un altro 16,5% e la Yukos perse il 27, 7%
del suo valore.
Perché Putin si comportava così? La teoria più gettonata
era che Khodorkovsky fosse venuto meno alla regola d’o-
ro di Putin: «Stai fuori dalla politica e i tuoi guadagni il-
leciti non verranno toccati». Khodorkovsky aveva violato
questa regola quando aveva stanziato milioni di dollari ai
partiti dell’opposizione nelle imminenti elezioni parlamen-
tari e aveva cominciato a fare dichiarazioni chiaramente
anti Putin. Putin è un uomo che crede ai simboli, e poiché
Khodorkovsky aveva passato il segno, Putin doveva inflig-
gergli una punizione esemplare.
E perché non ci fossero dubbi, Putin si lanciò in una vera
e propria caccia alle streghe con chiunque avesse a che fare
con Khodorkovsky. Nelle settimane che seguirono il suo
arresto, le forze dell’ordine diedero la caccia ai partiti che
aveva finanziato, alle sue organizzazioni benefiche e a mol-
tissimi suoi dipendenti.
Nel giugno del 2004, Khodorkovsky e il suo socio in af-
fari, Platon Lebedev, furono processati e condannati per sei
capi d’accusa di frode, due per evasione fiscale e uno per
furto. Entrambi furono condannati a nove anni di reclu-
sione. Poiché era tutta una questione di simbolismo, Putin
fece qualcosa senza precedenti: permise alle telecamere del-
la televisione di entrare in aula e di riprendere l’uomo più
ricco della Russia seduto in silenzio dentro alla gabbia del
tribunale.
Un’immagine molto forte. Provate a immaginare di essere
il diciassettesimo oligarca più ricco della Russia. Siete su
uno yacht ancorato al largo dell’Hôtel du Cap ad Antibes
in Costa Azzurra. Avete appena finito di scopare la vostra

208
amante e uscite dalla cabina privata per andare in cambusa
a prendere due calici di champagne Cristal e del caviale.
Afferrate il telecomando e accendete la CNN. Lì, davanti ai
vostri occhi, vedete uno dei vostri compari, un uomo molto
più ricco, intelligente e potente di voi seduto in una gabbia.
Quale sarebbe la vostra reazione naturale? Cosa fareste?
Di tutto per assicurarvi di non finire in quella gabbia.
Dopo che Khodorkovsky fu condannato, molti oligar-
chi russi andarono uno a uno da Putin e dissero: «Vladimir
Vladimirovich, cosa posso fare per assicurarmi che tu non
mi sbatta in gabbia?»
Io non c’ero, quindi le mie sono solo speculazioni, ma
immagino che la risposta di Putin sia stata qualcosa del
tipo: «50%».
Non 50% al governo o 50% all’amministrazione presi-
denziale, ma 50% a Vladimir Putin. Non posso saperlo con
certezza. Potrebbe essere stato il 30% o il 70% o qualche
altro tipo di accordo. Quello che so è che dopo la condanna
di Khodorkovsky, i miei interessi non corrisposero più a
quelli di Putin. Trasformò gli oligarchi nelle sue «puttanel-
le», consolidò il suo potere, e secondo molte stime, divenne
l’uomo più ricco del mondo.
Purtroppo non mi ero accorto che Putin e io erava-
mo in rotta di collisione. Dopo l’arresto e la condanna di
Khodorkovsky non cambiai per niente il mio comporta-
mento. Continuai come avevo sempre fatto, discreditando
pubblicamente gli oligarchi russi. Però questa volta era di-
verso. Questa volta anziché dare la caccia ai nemici di Putin,
davo la caccia ai suoi interessi economici.
Vi chiederete come non me ne resi conto. Dipendeva tut-
to da quell’episodio dell’uomo sulla strada. Quel giorno la
polizia mi aveva ignorato perché non ero russo. Credevo
che, in quanto straniero, in qualche modo ero libero dalle
regole informali che governavano la vita di tutti gli altri in

209
Russia. Se fossi stato un cittadino russo impegnato contro
la corruzione, sarei sicuramente stato arrestato, picchiato e
assassinato.
Ma all’epoca Putin non era così impudente com’è ades-
so. Allora uccidere uno straniero sarebbe stata una mossa
troppo avventata. Mettermi in prigione avrebbe reso Putin
un ostaggio della situazione quanto me. Se l’avesse fatto,
ogni capo di stato occidentale sarebbe stato costretto a pas-
sare un terzo dei suoi incontri con Putin per discutere della
mia liberazione. Alla fine, Putin arrivò a un compromesso
che accontentava tutti nella sua cerchia: il 13 novembre del
2005, al mio rientro a Mosca da Londra, mi fermarono nel-
la sala d’aspetto di prima classe dello Sheremetyevo-2, fui
detenuto per quindici ore ed espulso dal Paese.

210
19. UNA MINACCIA PER LA SICUREZZA NAZIONALE

Appena scesi come deportato dall’aereo da Mosca, feci un


giro di chiamate per vedere cos’era andato storto. Elena,
che era incinta di otto mesi, cercò di aiutarmi come meglio
poteva. Avevo trascorso i dieci anni precedenti a costrui-
re la mia azienda mattone su mattone, rinunciando a una
vita sociale, ossessionato dai movimenti di borsa, ignoran-
do i fine settimana e tutto questo per creare una società di
consulenza d’investimento da 4,5 miliardi di dollari. Non
potevo permettere che l’annullamento del visto distruggesse
tutto in un solo colpo.
Per prima cosa mi rivolsi a un avvocato per l’immigrazio-
ne di Londra ben introdotto. Ascoltò la mia storia e ne ri-
mase colpito. Aveva appena saputo che a un altro cittadino
britannico, un certo Bill Bowring, un avvocato per i diritti
umani, era stato negato l’accesso in Russia il giorno dopo di
me e, secondo lui, la mia espulsione era dovuta a un caso di
scambio d’identità. Pensai che fosse un’ipotesi un po’ azzar-
data, ma dovevo sempre tenere presente che avevamo a che
fare con la Russia.
Poi andai all’HSBC, il mio partner commerciale dopo che
Edmond aveva venduto la banca. Come grande istituto di
credito burocratico, non erano una fonte d’ispirazione sot-
to l’aspetto lucrativo, ma erano imbattibili nel trattare con
l’establishment britannico.
Prima parlai all’amministratore delegato della banca pri-
vata dell’HSBC, Clive Bannister. Nel giro di quindici minuti

211
mi mise in contatto con Sir Roderic Lyne, un ex ambascia-
tore britannico in Russia che si occupata di questioni simili
per la HSBC. Sir Roderic promise di aiutarmi a districarmi
nel labirinto degli uffici del governo britannico. Quindici
minuti dopo avergli parlato, ottenni un appuntamento con
Simon Smith, direttore del Russian Directorate del ministe-
ro degli Affari Esteri e per il Commonwealth.
Un paio di giorni dopo andai al ministero degli Affari
Esteri di Londra, un maestoso edificio neoclassico con ric-
che decorazioni ubicato a King Charles Street, a due pas-
si da Downing Street. Dopo essermi presentato al ricevi-
mento, fui accompagnato dall’altra parte del cortile verso
l’ingresso principale. All’interno c’erano soffitti a volta, co-
lonne di marmo e dettagli dell’epoca imperiale vittoriana.
Quel luogo era stato progettato nel momento di massimo
splendore dell’impero britannico per intimidire, stupire e
meravigliare i visitatori e per quanto avessi incontrato mol-
ti amministratori delegati di aziende, politici e miliardari,
ebbe lo stesso effetto anche su di me.
Simon Smith arrivò qualche minuto dopo. Avrà avuto
cinque anni più di me, con una bella testa di capelli grigi
e occhiali senza montatura che facevano da cornice a un
volto rubizzo. «Salve, Mr. Browder. Sono contento che sia
riuscito a venire», disse in tono gioviale, con un accento da
persona colta. Ci sedemmo e lui versò del tè da una teiera
di porcellana blu e bianca. Con l’aroma del tè di Ceylon che
aleggiava nella stanza, Smith affermò: «E così pare che si sia
andato a cacciare nei guai con i nostri amici di Mosca».
«Sì, sembrerebbe proprio così.»
«Be’, le farà piacere sapere che ci stiamo già occupando
del suo caso», aggiunse in tono professionale. «Il nostro mi-
nistro per l’Europa è a Mosca in questo momento. Parlerà
del suo caso domani Sergei Prikhodko, il consulente di po-
litica estera di Putin.»

212
Mi sentii rassicurato. «Splendido. Quando pensa che si
possa sapere l’esito di quell’incontro?»
Smith strinse le spalle. «Presto, spero.» Poi si chinò in
avanti tenendo la tazza di tè con entrambe le mani. «Bill, c’è
una cosa importante però…»
«Sì?»
«Ho osservato le campagne di diritti dei tuoi azionisti con
grande ammirazione quando ero all’ambasciata a Mosca e
so quanto tu sia riuscito a usare bene la stampa per perorare
le tue cause. Però in questo caso devi tenerti alla larga dalla
stampa, nel modo più assoluto. Se questa storia sarà divul-
gata, non potremmo più aiutarti. I russi si intestardiranno
e la tua questione non verrà mai più risolta. I russi hanno
sempre bisogno di un modo per salvare la faccia.»
Appoggiai il tè e tentai di dissimulare il mio disagio. Per
me, seguire il suo consiglio sarebbe stata una cosa del tutto
innaturale. Però mi trovavo di fronte al problema più grosso
della mia carriera professionale, con il governo britannico
pronto a intervenire per me. Compresi che dovevo onorare
la richiesta di Smith, quindi accettai e chiudemmo così il
nostro incontro.
Il pomeriggio seguente, Smith mi chiamò con un aggior-
namento. «Prikhodko ha ammesso di non avere idea del
motivo per cui ti abbiano deportato, però ha promesso di
indagare.»
Smith lo disse come se fosse una bella notizia. Pensai che
fosse piuttosto improbabile che il consulente di politica
estera numero uno di Putin non sapesse dell’espulsione del
più grande investitore straniero in Russia.
«E, Bill», continuò Smith «abbiamo deciso di coinvolge-
re Tony Brenton, il nostro ambasciatore a Mosca. Avrebbe
piacere di parlarti quanto prima.»
L’indomani chiamai Brenton. Cominciai a raccontare la
mia storia, ma dopo qualche secondo mi interruppe. «Non

213
c’è bisogno che continui, Bill. So tutto di te e dell’Hermita-
ge. Credo che i russi siano piuttosto stupidi ad alienare un
investitore così importante come te.»
«Spero che si tratti di un errore.»
«Anch’io. Devo dire che sono abbastanza ottimista. La
questione del visto si risolverà quando parlerò alle persone
giuste. Stai tranquillo, sei in buone mani.»
Non potevo fare a meno di pensare che ero davvero fi-
nito in buone mani. Stimavo Tony Brenton. Come Smith,
sembrava sincero quando diceva che voleva risolvere il pro-
blema. Non sapevo se la perdita del visto fosse un caso di
scambio d’identità o se uno dei bersagli delle mie campagne
anticorruzione si stesse vendicando, però avevo la sensazio-
ne che con il governo britannico al mio fianco, alla fine
l’avrei spuntata.
La prima cosa che Brenton fece fu di inviare una richiesta
al ministero degli Esteri russo di una spiegazione formale.
Se l’annullamento del mio visto era davvero dovuto a un
equivoco di nomi, sarebbe stato chiaro subito.
Una settimana dopo, la segretaria di Tony Brenton chia-
mò per dire che avevano ricevuto una risposta dal ministero
degli Esteri. Mi spedì una copia via fax. Appena arrivò, la
diedi a Elena perché me la traducesse.
Si schiarì la voce e me la lesse: «Abbiamo l’onore di infor-
marvi che la decisione di negare l’ingresso nella Federazione
russa al suddito della Gran Bretagna William Browder è sta-
ta presa da autorità competenti in conformità alla Sezione
Uno, articolo ventisette, della legge federale».
«Cos’è l’articolo ventisette della legge federale?»
Elena si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea.»
Chiamai Vadim che era a Mosca e glielo domandai.
«Aspetta un attimo.» Lo sentii digitare qualcosa al com-
puter. Dopo circa un minuto tornò in linea. «Bill, l’articolo
ventisette autorizza il governo russo a vietare l’ingresso a

214
persone che ritiene possano costituire una minaccia per la
sicurezza nazionale.»
«Cosa?»
«Una minaccia per la sicurezza nazionale», ripeté Vadim.
«Cazzo!» bisbigliai. «Non butta bene.»
«Direi di no.»
Bastò quella lettera per capire che il visto non mi era stato
negato per uno scambio d’identità. Non mi avevano affatto
confuso per Bill Bowring. Qualcuno d’importante voleva
vietarmi l’ingresso in Russia.

215
20. VOGUE CAFÉ

Quando raccontai a Tony Brenton che in Russia ero stato


dichiarato una minaccia per la sicurezza nazionale, disse:
«Peccato Bill, ma non preoccuparti. Continueremo ad agire
per vie diplomatiche. Ho fissato un appuntamento con Igor
Shuvalov, uno dei massimi consulenti economici di Putin.
Penso che sarà bendisposto nei tuoi confronti. Però, a que-
sto punto, sarebbe opportuno che tu coinvolgessi anche i
tuoi contatti».
Ero d’accordo, così Vadim e io cominciammo a stilare
una lista di funzionari russi di mia conoscenza che avrebbe-
ro potuto darmi una mano.
Da quando ci eravamo incontrati a Mosca cinque anni
prima, Elena e io eravamo andati a convivere, ci eravamo
sposati e ora era incinta del nostro primo figlio. Era rimasta
a Londra i due mesi prima della data prevista del parto.
Mentre ero seduto a letto la sera del 15 dicembre 2005 ad
aggiungere nomi alla lista, Elena uscì dal bagno con l’accap-
patoio stretto intorno al suo bel pancione. «Bill», disse con
un’espressione un po’ allarmata «credo che si siano rotte le
acque».
Saltai in piedi sparpagliando i documenti sul copriletto e
per terra, non sapevo cosa fare. Sabrina, la mia ex moglie,
aveva partorito David con un taglio cesareo programmato,
quindi avevo poca esperienza di parti naturali e per Elena
quella era la sua prima gravidanza. Avevamo letto tutti i
libri e frequentato tutte le lezioni, ma quando arrivammo

216
al dunque, tutto quello che avevamo imparato andò a farsi
benedire. Con una mano presi la borsa dell’ospedale prepa-
rata da tempo e con l’altra abbracciai Elena, accompagnan-
dola in fretta verso gli ascensori e poi al garage vicino al
nostro palazzo per salire in auto. Il St John and St Elizabeth
Hospital si trovava a pochi minuti di auto, ma nella confu-
sione presi la svolta sbagliata sulla Lisson Grove e finimmo
in una strada a senso unico da cui non sapevo come uscire.
Mentre guardavo disperato da tutte le parti, Elena, di solito
gentile e calma, cominciò a gridare delle parole che non
avevo mai sentito uscirle di bocca. Evidentemente erano co-
minciate le contrazioni.
Dieci minuti più tardi arrivammo all’ospedale. Per fortu-
na non aveva partorito sul sedile del passeggero. Il resto fu
un turbine di emozioni, ma dieci ore dopo nacque nostra
figlia, Jessica, una bambina sana di tre chili e trecentoqua-
rantacinque grammi. La gioia che provai per la nascita di
Jessica mi fece dimenticare tutte le preoccupazioni per il
visto.
Uscimmo dall’ospedale due giorni dopo. Gli amici co-
minciarono a farci visita nel nostro appartamento portando
fiori, dolci e regali per la neonata. David, che aveva appe-
na compiuto nove anni, si affezionò subito alla sorellina.
Guardarlo abbracciare Jessica nella copertina dell’ospedale
e baciarla per la prima volta sarà per sempre uno dei miei
più bei ricordi. Passò il Natale, che celebriamo nonostante
David e io siamo ebrei, e per circa una settimana non pensai
ai miei problemi.
Passammo anche il Capodanno tranquilli e beati. Dalla
Russia non giungevano notizie perché l’intero Paese era in
ferie per il Natale ortodosso, ma poi, il mattino del 14 gen-
naio 2006, Vadim chiamò da Mosca di buon’ora. «Bill ho
appena parlato con il vice di Gref.»
Herman Gref era il ministro dello Sviluppo economico e

217
rappresentava una della riforme più visibili del governo di
Putin. Vadim aveva contattato il suo vice prima di Natale
chiedendogli aiuto per il visto.
«Allora? Cosa ha detto?»
«Dice che Gref è riuscito ad arrivare abbastanza in alto,
addirittura a Nikolai Patrushev, il direttore dell’FSB, per di-
scutere del tuo caso.»
«Wow», dissi, sorpreso ma allo stesso tempo anche un
po’ spaventato. L’FSB erano i Servizi russi per la sicurezza
federale, la loro polizia segreta che durante l’era sovietica era
conosciuta quanto il famigerato KGB. Come se questo non
fosse abbastanza sinistro, Patrushev aveva la reputazione di
essere uno degli uomini più spietati della ristretta cerchia di
Putin.
«Sembra che abbia detto a Gref, e qui cito: “Stanne fuori.
Non dovresti ficcare il naso in affari che non ti riguarda-
no”.» Vadim fece una pausa mentre metabolizzavo la notizia
e, come se non fosse stato già abbastanza chiaro, aggiunse:
«Dietro a tutto questo ci sono dei pezzi grossi Bill».
Sentire quelle parole fu come farsi una doccia gelata.
Tutte le sensazioni positive delle feste, la nascita di Jessica e
la mia famiglia che si allargava passarono in secondo piano
e fui sbattuto sul duro pavimento della realtà.
Una settimana dopo, Tony Brenton mi chiamò con altre
notizie sconfortanti. «Shuvalov era bendisposto ma ha detto
che ha le mani legate.»
Benché tutti questi messaggi fossero scoraggianti,
Oleg Vyugin, il presidente dell’equivalente russo della
Commissione per il controllo della borsa, si stava ancora oc-
cupando del mio caso. Aveva scritto al vice primo ministro
chiedendogli che mi venisse ripristinato il visto. Sarebbe
dovuto venire a Londra a metà febbraio per una conferen-
za internazionale sugli investimenti e speravo che portasse
notizie migliori.

218
Ci accordammo per vederci a Mayfair al bar dell’Hotel
Claridge la prima sera del suo soggiorno. Ma quando lo
vidi, capii subito che c’era qualcosa che non andava. Ci ac-
comodammo sui bassi sgabelli di velluto e ordinammo da
bere. Mentre aspettavamo dissi: «Grazie per il tono deciso
della lettera che hai scritto al vice primo ministro».
«Bill, non mi devi ringraziare», disse nel suo ottimo in-
glese. «Ma purtroppo non sono riuscito a ottenere nulla.
Per quanto riguarda il tuo visto, il governo si è impuntato.»
Mi sentii mancare. «Impuntato quanto?»
Mi fissò e alzò leggermente le sopracciglia. Poi con una
delle sue dita sottili indicò il soffitto e non aggiunse altro.
Voleva dire Putin? Non era chiaro, ma quello era l’unico
modo in cui potevo interpretare quel gesto misterioso. Se
era davvero la decisione di Putin, non ci sarebbe stato ri-
medio.
Quando raccontai a Vadim dell’incontro, non rimase
deluso quanto me. «Se dietro a questo c’è davvero Putin,
gli devono essere state fornite informazioni false sul tuo
conto. Troveremo qualcuno vicino a Putin che possa dirgli
la verità.»
Vadim fu carino a trovare un modo positivo per rivoltare
quella brutta situazione, ma non gli credetti. «Chi potrebbe
farlo?» domandai scettico.
«Che ne dici di Dvorkovich?» suggerì Vadim. Arkady
Dvorkovich era il capo consigliere economico di Putin e
Vadim l’aveva incontrato durante la nostra campagna per
fermare lo scorporo delle attività della compagnia elettrica
nazionale. Eravamo in buoni rapporti con Dvorkovich, ma,
cosa ancora più importante, il presidente gli dava ascolto.
«Vale la pena provarci», dissi.
Vadim contattò Dvorkovich e con nostra grande sorpresa
accettò di aiutarci.
Nonostante tutte le buone intenzioni di Vadim, non ave-

219
vamo molte altre alternative. Molti giorni dopo che avevo
condiviso le cattive notizie con il commissario della borsa,
Vadim ricevette una chiamata nel nostro ufficio di Mosca
da un uomo che si rifiutava di indentificarsi e che sosteneva
di avere importanti informazioni circa il rifiuto del mio vi-
sto. Ci avrebbe rivelato quelle informazioni solo di persona
e voleva sapere quando potevano incontrarsi.
Vadim chiese cosa doveva fare. Di solito ci saremmo te-
nuti alla larga da un russo che telefonava all’improvviso e
chiedeva di incontrarsi, ma con tutti gli ostacoli che aveva-
mo di fronte, un po’ di fortuna non guastava. «È possibile
incontrarlo in un luogo pubblico?» chiesi.
«Non vedo perché no», rispose Vadim.
«Allora forse potrebbe valerne la pena», dissi per tastare
il terreno.
Il giorno dopo, lo sconosciuto richiamò e si accordò di
incontrare Vadim al Vogue Café sul Kuznetsky Most, un
locale alla moda frequentato dagli oligarchi russi e dalle
loro bellissime ventenni. Erano circondati da innumere-
voli guardie del corpo armate, il che rendeva questo posto
ideale.
Durante il loro incontro, camminai a grandi passi tra le
stanze del mio appartamento a Londra in attesa di notizie.
Durò oltre due ore e Vadim chiamo subito dopo le 11, ora
di Londra. Aveva la voce bassa e seria. «Bill è stato davvero
inquietante. Questo tipo aveva molte cose da dire.»
«Va bene, ma prima di tutto, chi è?»
«Non lo so. Non ha voluto dirmi il suo vero nome, ma
mi ha detto di chiamarlo Aslan. Sicuramente è uno del
Governo. Forse dell’FSB.»
«Perché dovremmo credere a uno che rifiuta di indentifi-
carsi?» chiesi scettico.
«Perché sapeva tutto. Proprio tutto, Bill. Sapeva dei no-
stri tentativi con Gref, Vyugin, Shuvalov, Prikhodko. Aveva

220
con sé un documento con tutti i dettagli della tua detenzio-
ne in aeroporto, una copia della lettera di Brenton, tutto.
Preoccupante.»
Mi si accapponò la pelle. «Cosa ha detto con esattezza?»
«Ha detto che è tutto sotto il controllo dell’FSB e che la
revoca del tuo visto è solo l’inizio.»
«Come solo l’inizio?»
«Ha detto così. Ha detto che l’FSB è interessato a, e cito,
privare la Hermitage dei suoi capitali, fine della citazione.»
«Cazzo.»
«Sì. E c’è di peggio. Non riguarda solo la società, ma an-
che noi. Me. Sembra che l’FSB stia controllando tutto quel-
lo che faccio, e lui sostiene che a breve sarò arrestato», disse
Vadim calmo, parlava sempre con calma, come se stesse de-
scrivendo cose che erano successe a qualcun altro.
Mi alzai di scatto, ribaltando la sedia. «Gli credi?»
«Non lo so, ma sembra molto credibile.»
«Per quale motivo questo Aslan vorrebbe condividere le
loro intenzioni con noi?»
«Sostiene che c’è una guerra in corso all’interno del
Governo, e il suo gruppo è in conflitto con le persone che
ce l’hanno con noi.»
Non avevo la più pallida idea se fosse la verità o se si
stessero prendendo gioco di noi, ma di una cosa ero sicu-
ro: Vadim doveva venire via dalla Russia. «Senti, credo che
sarebbe meglio se tu venissi qui il prima possibile. Se c’è
anche solo una remota possibilità che questo tizio dica la
verità, non possiamo lasciarti arrestare.»
«Aspetta, un attimo Bill. Sangue freddo.»
«Hai voglia di scherzare, Vadim? Vieni via subito. Sei in
Russia. Russia! In Russia con il sangue freddo non vai da
nessuna parte.»
Riagganciammo, ma Vadim non voleva partire. Sapeva
che se avesse lasciato la Russia in quel momento, forse non

221
sarebbe mai più tornato. Secondo lui, non poteva andare in
esilio solo per quello che gli aveva detto un anonimo scono-
sciuto quel pomeriggio. Voleva altre informazioni.
La pensavo diversamente e supplicai Vadim di parlare
con Vladimir Pastukhov, un avvocato di Mosca di cui la
Hermitage si era servita come consulente esterno negli ul-
timi anni. Vladimir era la persona più saggia che io cono-
scessi e più di ogni altra persona che avrei mai conosciuto.
Era quasi cieco e gli occhiali a fondo di bottiglia di Coca
Cola che indossava lo facevano sembrare lo scrivano di un
romanzo di Dickens. Però, per via della sua disabilità, ave-
va la mente più acuta, determinata ed eclettica di qualsiasi
persona io abbia mai incontrato. Aveva un raro talento: la
capacità di capire in profondità e nei minimi dettagli qual-
siasi situazione complessa. Era come un grande giocatore di
scacchi, capace di anticipare tutte le mosse dell’avversario
non solo prima che le facesse, ma addirittura ancora prima
che si rendesse conto che erano possibili.
Anche se Vadim non voleva venire via, accettò di par-
lare con Vladimir. Quando Vladimir aprì la porta del suo
appartamento poco prima di mezzanotte, Vadim si portò
l’indice alle labbra facendogli segno di non parlare nel caso
ci fossero state delle microspie. Si spostò e Vadim entrò. In
silenzio andarono al computer di Vladimir, Vadim si sedette
e cominciò a scrivere.
Sono stato avvisato da qualcuno del governo che mi arreste-
ranno. Lo possono fare?
Vladimir si mise alla tastiera. Me lo chiedi come avvocato
o da amico?
Entrambi.
Da avvocato, la risposta è no. Non hanno motivi per arre-
starti. Da amico, sì. Assolutamente. Sono capaci di tutto.
Devo andarmene?
Quanto è credibile la tua fonte?

222
Molto. Penso.
Allora te ne dovresti andare.
Quando?
Subito.
Vadim tornò a casa, fece in fretta la valigia e andò all’a-
eroporto per prendere il volo British Airways delle 5 e 40
per Londra. Non riuscii a dormire tutta la notte finché non
ricevetti un sms alle 2 e 30 ora di Londra che Vadim era
sull’aereo e stava per decollare.
Arrivò a Londra quella mattina e venne direttamente al
mio appartamento. Eravamo entrambi scioccati. Non pote-
vamo credere quanto in fretta la situazione fosse degenerata.
Mentre eravamo seduti nel mio studio a discutere degli
eventi drammatici del giorno precedente, Vadim ricevette
un messaggio che Arkady Dvorkovich, il consigliere eco-
nomico di Putin, si era preso a cuore la nostra richiesta di
aiuto. Dvorkovich disse che aveva convinto diverse persone
dell’amministrazione presidenziale che avrebbe danneggia-
to il panorama degli investimenti in Russia se non mi aves-
sero ripristinato il visto. Cosa più importante, il messaggio
affermava che il rilascio del mio visto sarebbe stato inserito
nel programma dell’incontro del Consiglio per la sicurezza
nazionale con il presidente Putin il sabato seguente.
Dopo la chiamata, Vadim e io cercammo di capire le no-
tizie contraddittorie provenienti dalla Russia. Come pote-
va essere che persone come il ministro dell’economia o il
presidente della commissione per il controllo della borsa
dicessero che la mia situazione era senza speranza mentre
il consigliere economico del presidente riteneva di portemi
aiutare a risolvere la questione del visto al consiglio per la
sicurezza nazionale?
Mi venne in mente che forse tutti ci raccontavano quello
che pensavano fosse vero, ma il governo russo era pieno di
diverse fazioni e ognuna esprimeva la propria opinione.

223
Qualunque cosa stesse davvero succedendo, tutto quello
che potevo sperare era che la fazione di Dvorkovich vincesse
e che la riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale
desse i suoi frutti.
Però, quattro giorni prima del grande incontro, sulla sce-
na fece la sua comparsa un nuovo elemento quando ricevet-
ti una email da Peter Finn, il caporedattore del Washington
Post a Mosca. «Salve Bill. Spero che vada tutto bene. Mi di-
spiace disturbarti ma circolano voci che hai problemi con il vi-
sto. È vero? Se sì, sei disposto a parlarne? Per un investitore del
tuo calibro sarebbe una cosa molto importante. Grazie, Peter.»
Merda! Come aveva fatto a sapere del mio visto? Non an-
dava bene. L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era il moni-
to di Simon Smith: i russi si sarebbero impuntati se questa
storia fosse diventata di dominio pubblico. Non risposi a
Finn e per fortuna lui non insistette.
Purtroppo però giovedì mi telefonò un altro reporter,
Arkady Ostrovsky del Financial Times. Anche lui aveva sen-
tito le voci. «È vero che ti è stato negato l’ingresso in Russia,
Bill?»
Tesi i muscoli dello stomaco. «Arkady, mi dispiace, non
posso fare commenti su questo.»
«Dai Bill. Questa è una notizia scottante. Devo sapere
cosa sta succedendo.»
Arkady e io eravamo in confidenza perché era uno dei
giornalisti che erano stati determinanti nella denuncia della
Gazprom. Pur non potendo negare ad Arkady quello che
stava succedendo, dovevo prendere tempo. «Se fosse vero»,
dissi, «e ti concedessi l’esclusiva, mi daresti altri quattro
giorni?»
Non gli piacque, ma era meglio di niente e ci accordam-
mo che l’avrei richiamato lunedì.
Dopo aver parlato con Arkady avevo i nervi a fior di pelle.
I reporter stavano fiutando odore di bruciato, dovevo solo

224
riuscire a passare le trentasei ore successive senza che nessu-
no di loro mi chiamasse. Ma poi alle 10 e 30 di venerdì, una
giornalista di nome Elif Kaban della Reuters mi lasciò un
messaggio in segreteria. Non disse perché mi aveva contat-
tato, ma poi ritelefonò alle 11 e 45.
Quel pomeriggio avevo in programma di pranzare con
un vecchio amico di Washington e uscii dall’ufficio senza ri-
chiamarla. Incontrai il mio amico in un ristorante dim sum
a Chinatown e spensi il cellulare, ma posai il BlackBerry sul
tavolo per controllare la situazione della Reuters, per tutta
sicurezza. Dopo aver preso qualche pietanza dal carrello, il
BlackBerry cominciò a lampeggiare con un messaggio della
mia segretaria: «Bill, Elif Kaban sta cercando di chiamarti.
Dice che la Reuters ha ricevuto informazioni affidabili che
non ti è più permesso tornare in Russia e vorrebbero darti
la possibilità di fare la tua prima dichiarazione. Richiamali
il prima possibile. Oggi hanno già telefonato quattro volte.
Elif Kaban è MOLTO insistente!!!»
Fissai l’email con lo sguardo assente per diversi secondi,
mi infilai il BlackBerry in tasca e cercai di godermi il resto
del pranzo. Sapevo che sarebbe scoppiato un finimondo,
ma volevo ancora qualche minuto di pace.
Dopo essere uscito dal ristorante, feci una deviazione per
Green Park. Era una giornata di primavera limpida e fresca,
uno di quei giorni in cui era piacevole essere un londinese.
Respirai l’aria frizzante e mi guardai attorno osservando le
persone spensierate che camminavano per il parco, gente a
cui non sarebbe cambiata totalmente la vita.
Finita la passeggiata tornai alla mia scrivania. Dopo
qualche minuto, la Reuters pubblicò un titolo in rosso:
«Browder, amministratore delegato della Hermitage, espul-
so dalla Russia».
Il segreto era di domino pubblico. Il telefono s’illuminò
immediatamente come un albero di Natale. Chiamate dal

225
Financial Times, dal Daily Telegraph, dall’Independent, dal
Wall Street Journal, da Forbes, da Kommersant, da Vedomosti,
dal Dow Jones, da AP, dal New York Times e da circa altre
venti agenzie di stampa. Purtroppo le previsioni di Simon
Smith si stavano avverando. I russi non avrebbero potuto
salvare la faccia o tirarsi indietro. La riunione del Consiglio
per la sicurezza nazionale non avrebbe portato a niente. Il
mio destino era stato deciso e da quel momento in poi sape-
vo che era ufficiale: con la Russia avevo chiuso.
Solo che la Russia non aveva chiuso con me.

226
21. IL G8

Quando il governo russo ti si rivolta contro, non va troppo per


il sottile, i suoi pregiudizi sono estremi. Mikhail Khodorkovsky
e la Yukos ne erano il classico esempio. La punizione per aver
sfidato Vladimir Putin si estese da Khodorkovsky a chiunque
avesse avuto a che fare con lui: i suoi alti dirigenti, avvoca-
ti, contabili, fornitori e persino le società di beneficenza. Nel
2006 dieci persone associate alla Yukos si trovavano in una
prigione russa: altre decine di persone erano fuggite dal Paese
e svariati miliardi di dollari di capitali erano stati confiscati
dalle autorità russe. La considerai una dimostrazione pratica,
non avrei permesso che i russi mi facessero una cosa simile.
Dovevo trasferire le persone che mi stavano cuore e il denaro
dei miei clienti fuori dalla Russia quanto prima.
Portai il direttore generale della Hermitage, Ivan
Cherkasov, a Londra per aiutarmi nelle operazioni. Ivan era
arrivato alla Hermitage cinque anni prima dalla JP Morgan,
e fu lui a dare la caccia agli intermediari finanziari, a solleci-
tare le banche e a organizzare gli stipendi. Aveva trentanove
anni, alto e telegenico, parlava un inglese americano perfet-
to e svolgeva le sue mansioni in maniera impeccabile.
Ivan creò un centro di comando nei nostri uffici attrezzati
a Tavistock Street a Covent Garden e si mise al lavoro. Il
trasferimento dei nostri dipendenti fu una cosa tutto som-
mato facile. Nel giro di un mese, alla Hermitage, tutti quelli
che ritenevo fossero a rischio e famiglie furono trasferiti al
sicuro, fuori dalla Russia.

227
L’impresa più ardua fu vendere miliardi di dollari in ti-
toli russi senza che nessuno se ne accorgesse. Se il mercato
avesse colto il benché minimo segnale di ciò che stavamo
facendo, gli intermediari e gli speculatori avrebbero avviato
la pratica del cosiddetto «front running»*. Nel nostro caso,
se gli intermediari avessero saputo che la Hermitage era in
procinto di vendere tutte le sue partecipazioni azionarie
nella Gazprom, quei broker avrebbero tentato di vendere
i propri titoli per primi, spingendo al ribasso il prezzo per
cercare di provocare una perdita di svariati milioni di dollari
ai clienti della Hermitage.
Per evitare questo, dovevamo trovare un intermediario fi-
nanziario che potesse effettuare l’ordine di vendita del fondo
nel completo anonimato e in maniera discreta. Tuttavia, di
solito gli intermediari di borsa non sono soggetti affidabili e
quelli russi sono assai disonesti. Inoltre, non potevamo sce-
gliere un grosso intermediario finanziario occidentale con
cui avevamo collaborato in precedenza perché, non appena
avesse cominciato a eseguire le nostre operazioni, gli altri
broker avrebbero fatto due più due e avrebbero concluso
che la Hermitage stava vendendo, portandoli a sbarazzarsi
delle proprie azioni.
Non ci restavano molte alternative. Guardammo chi c’era
rimasto e ci concentrammo su un intermediario di tren-
tadue anni che dirigeva un ufficio di compravendita con
due dipendenti presso una delle grandi banche europee a
Mosca. Erano anni che ci stava alle costole e ora gli offriva-
mo quello che voleva su un piatto d’argento.
Ivan lo chiamò dicendogli che la sua perseveranza avreb-

* Si dice che un operatore si trova in front running nel momento in cui, a co-
noscenza di una futura compravendita di notevoli dimensioni, ci si muove in
anticipo con una operazione personale, così da beneficiare dell’oscillazione di
prezzo dovuta al volume della contrattazione che si verificherà in un secondo
momento.

228
be dato dei frutti. «Una cosa, però, possiamo concludere
l’affare solo se giuri di tenere la bocca chiusa.»
«Certo», ci assicurò. «Non vi deluderò.»
Il giorno dopo, l’intermediario ricevette un ordine di ven-
dita di cento milioni di dollari. Forse si aspettava un milio-
ne o cinque al massimo, ma cento milioni di dollari no, nel
modo più assoluto. Era di sicuro l’ordine più consistente
che gli avessero mai commissionato in tutta la sua carriera.
Nella settimana successiva, vendette cento milioni di dol-
lari delle nostre azioni senza alcun impatto di mercato e
senza fare soffiate. Tutto orgoglioso, ci informò dei risulta-
ti, pensando che avesse finito il suo lavoro, invece con sua
grande sorpresa gli affidammo un altro ordine di vendita
di cento milioni di dollari. Ancora una volta andò tutto
liscio come l’olio. Nei due mesi successivi continuò a rice-
vere ordini importanti dal Fondo e alla fine vendette svariati
miliardi di dollari in titoli russi senza che trapelasse nessuna
informazione. L’operazione trasformò la sua piccola attività
nell’ufficio di contrattazioni europee di maggior successo
della sua banca.
La cosa più importante fu che la Hermitage era riuscita
a trasferire tutte le sue finanze dalla Russia senza che i suoi
nemici se ne accorgessero.
Una volta che denaro e persone furono al sicuro, aveva-
mo eliminato le leve che il governo russo poteva usare per
colpirci. Qualsiasi altra mossa potessero fare, non sembrava
costituire un grosso problema.
Mi sentivo già meglio, però affrontare la perdita di fidu-
cia dei nostri clienti era un altro scoglio. Quasi tutti aveva-
no investito nella Hermitage perché io operavo da Mosca.
Quando c’ero io potevo individuare investimenti remune-
rativi e proteggere il loro capitale nel caso qualcosa fosse
andato storto. Adesso, all’improvviso, non potevo fare nes-
suna delle due cose.

229
La prima persona a sollevare la questione fu Jean Karoubi,
l’uomo con cui avevo parlato per la prima volta come inve-
stitore di banca nel 1996. Jean era diventato uno dei miei
più fidati confidenti nel corso degli anni e aveva sempre
i mercati sotto controllo. Quando il 17 marzo la Reuters
divulgò la questione del visto, Jean mi chiamò quasi subito
per dirmi con un tono stranamente serio: «Bill, abbiamo
fatto grandi cose insieme, però mi riesce difficile trovare un
buon motivo per tenere i miei soldi nel fondo da quando sei
ai ferri corti con il governo russo».
Sentirmi dire quelle parole da uno dei primi e più fervidi
sostenitori fu un bello shock, però aveva ragione. Lungi da
me volerlo convincere a tenere il suo denaro nel fondo per
poi magari assistere a un deterioramento della situazione
con i russi. La cosa più logica da fare era portarsi a casa le
vincite dal tavolo da gioco.
Nei giorni seguenti molti altri clienti che erano giunti alla
stessa conclusione mi informarono delle loro intenzioni.
Come mi aspettavo: una valanga di ordini di riscatto.
La prima data disponibile in cui gli investitori potevano
ritirare il denaro dal fondo era il 26 maggio e dovevano pre-
sentare domanda con otto settimane di anticipo. Quindi, il
31 marzo, avrei avuto un’idea del danno subito.
Quel giorno, alle 17 e 20, ricevetti il tabulato dei rim-
borsi dalla HSBC che amministrava il fondo. Normalmente,
sottoscrizioni e rimborsi occupavano una sola pagina. In
un trimestre molto movimentato potevano essere due o tre
pagine. Ma quel tabulato era lungo dieci pagine, con 240
nomi di persone che volevano ritirare i loro soldi. Lo lessi
tutto e feci un po’ di conti. Stavano riscattando oltre il 20%
del Fondo!
Un’enormità da qualsiasi punto di vista e sapevo che
quello era solo l’inizio. Ero sull’orlo del precipizio. Tutto
quello che avevo costruito se ne stava andando in fumo.

230
L’unica cosa che avrebbe potuto risollevare le sorti della si-
tuazione era riuscire a farmi rilasciare il visto. Però ormai
non ci speravo più.
E invece il governo britannico sì. Verso la metà di giu-
gno del 2006 ricevetti una telefonata da Simon Smith, di-
rettore dell’ufficio russo del ministero degli Esteri: «Stiamo
seguendo una pista interessante per cercare di risolvere il
tuo problema, Bill. Volevamo assicurarci che tu fossi ancora
interessato a tornare in Russia, prima di procedere».
«Certo che sono interessato, Simon!» esclamai con entu-
siasmo. «Solo che pensavo che non mi avreste più aiutato
dopo la farsa mediatica.»
«La stampa non è certo stata di aiuto, questo è poco ma
sicuro. Però non ci siamo arresi», asserì Smith in tono ras-
sicurante.
«Che cos’hai in mente?»
«Come ben saprai, la Russia ospiterà il Summit del G8
a San Pietroburgo il 15 luglio. Pensavamo di inserire il tuo
caso nell’ordine del giorno del primo ministro tra le cose da
discutere con Putin.»
«Davvero? Sarebbe fantastico, Simon.»
«Non ci sperare troppo. Non è niente di certo, Bill, però
stiamo facendo il possibile.»
Riattaccammo e io rimasi con lo sguardo fisso fuori dalla
finestra. Come potevo non sperarci? Così come un visto ne-
gato mi aveva rovinato la carriera, una sua nuova emissione
avrebbe potuto farla risorgere.
Via via che il G8 si avvicinava, l’ansia aumentava. Un
risultato positivo del Primo ministro Tony Blair mi avrebbe
cambiato la vita. Però, con il passare dei giorni, cominciaro-
no a venirmi dei dubbi. Non ero riuscito a contattare Smith.
Cercavo di mantenere la calma, però non capivo perché pri-
ma era stato così incoraggiante e perché all’improvviso era
calato un silenzio di tomba.

231
Quando la situazione si fece insopportabile, chiamai Sir
Roderic Lyne, l’ex ambasciatore britannico in Russia che
prestava consulenza alla HSBC, per sentire se aveva notizie.
Era sorpreso che Smith avesse pensato di mettere la mia
questione all’ordine del giorno del Primo ministro e mi in-
coraggiò a non sperarci troppo. Sulla base della sua espe-
rienza, ai summit saltavano sempre fuori questioni più im-
portanti che mandavano all’aria tutti i programmi.
Cercai di seguire i suoi consigli, ma sei giorni prima del
summit Elena e io pranzammo al Richoux, un ristorante
sulla Circus Road a St. John’s Wood. Mentre eravamo se-
duti al tavolo, lei prese una copia dell’Observer e la sfogliò.
Le si illuminarono gli occhi, poi disse: «Bill, guarda que-
sto titolo: “Blair discuterà il caso del gestore del fondo con
Putin!”»
Le strappai il giornale di mano e cominciai a leggere. La
conferma inequivocabile di ciò che mi aveva detto Smith.
La frase più importante diceva: «Il Primo ministro userà il
summit del G8 a San Pietroburgo del prossimo fine setti-
mana per chiedere al presidente russo di revocare tutte le
restrizioni su Browder».
Elena mi guardò sconvolta. «Incredibile!» esclamò.
L’articolo dell’Observer colse di sorpresa anche i miei
clienti e alcuni rimandarono le loro decisioni di rimborso a
dopo il G8.
Il mio umore era alle stelle e poi tre giorni prima del sum-
mit, Vadim mi prese da parte. «Bill, vieni a vedere», disse
indicando un titolo della Bloomberg sullo schermo del suo
computer. Mi chinai in avanti e scorsi la storia dei militanti
di Hezbollah in Libano che avevano lanciato missili anti-
carro contro Israele. Tre soldati israeliani erano morti e altri
cinque erano stati rapiti e portati in Libano.
«E questo cosa c’entra con noi?» gli domandai incredulo.
«Non lo so, però pare che stia scoppiando una guerra in

232
Medioriente. Questo potrebbe deviare l’attenzione di Blair
verso altre questioni al G8, lasciando da parte la questione
del tuo visto.»
E infatti, il giorno dopo Israele sferrò un attacco missi-
listico su alcuni obiettivi in Libano, tra cui l’aeroporto di
Beirut, che causò la morte di quarantaquattro civili. Russia,
Francia, Gran Bretagna e Italia criticarono subito Israele per
il suo uso «sproporzionato» della forza e gli Stati Uniti con-
dannarono pubblicamente i miliziani di Hezbollah. Vadim
aveva ragione. Il summit del G8 si sarebbe potuto trasfor-
mare in un disperato vertice per la pace in Medioriente,
sovvertendo i programmi di Blair.
Quando il sabato seguente iniziò il summit, non sapevo
cosa sarebbe successo e non riuscii a contattare nessuno del
governo britannico nel fine settimana. Il summit si protras-
se, ma tutte le cronache dei telegiornali parlavano di Israele
e Libano, del mio visto nemmeno l’ombra.
Finito il summit, Putin doveva tenere la conferenza stam-
pa conclusiva. La sala era gremita. Centinaia di giornalisti
da tutto il mondo speravano di poter fare una domanda a
Putin.
Dopo circa venti minuti di domande innocue, Putin
diede la parola a Catherine Belton, una trentatreenne gior-
nalista britannica, carina e minuta del Moscow Times. Lei
prese il microfono e con qualche titubanza disse a Putin:
«Di recente, a Bill Browder è stato negato un visto di in-
gresso in Russia. Molti investitori e diplomatici occiden-
tali sono preoccupati di questo e non capiscono perché sia
successo. Può spiegarci il motivo per cui gli è stato negato
il visto di ingresso senza alcuna spiegazione?» Poi si sedette
con il blocco per gli appunti sulle ginocchia e aspettò la
risposta.
Nella stanza calò un silenzio imbarazzante. Tutti sapeva-
no che Putin era stato colto di sorpresa. Dopo qualche se-

233
condo disse: «Può ripetere per cortesia? A chi sarebbe stato
negato il visto?»
Catherine si alzò di nuovo. «Bill Browder. L’amministratore
delegato della Hermitage Fund, il più grande investitore del
mercato azionario russo. Mi risulta che il Primo ministro
del Regno Unito gliene dovrebbe aver parlato oggi.»
Putin alzò le sopracciglia e rispose caustico: «In tutta one-
stà, non so per quale motivo si possa negare a qualcuno
l’ingresso nella Federazione russa. Posso immaginare che
quell’uomo forse abbia violato le leggi del nostro Paese».
Non aggiunse altro. Immaginai quindi che Blair non
avesse parlato del mio caso e che il mio visto non sarebbe
stato rilasciato. Cosa ancora più importante, in parole pove-
re, la risposta di Putin era chiarissima: «Non facciamo mai
il nome dei nostri nemici, compreso Bill Browder. Ora darò
istruzioni alle forze di polizia di aprire quante più indagini
possibili contro di lui».
Se pensate che questa interpretazione sia frutto della pa-
ranoia o di un’esagerazione, non è così. Semmai, non ero
paranoico abbastanza.

234
22. LE INCURSIONI

Dopo le osservazioni di Putin, i miei clienti trassero le loro


conclusioni. In Russia non sarebbe successo niente di posi-
tivo. Il 25 agosto sarebbe stata la prossima data di riscatto
e questa volta altri 215 clienti ritirarono oltre il 30% dei
loro capitali dal Fondo. Nel mio settore, questo si chiama
assalto al fondo, e come una corsa agli sportelli, una volta
cominciato è impossibile fermarlo. A meno che non riuscis-
si a tirare fuori un coniglio dal cappello, la Hermitage Fund
presto sarebbe stata costretta a fallire.
Avevo affrontato centinaia di alti e bassi nella mia car-
riera. I titoli spesso fluttuano senza motivo e avevo fatto la
pelle dura alle cattive notizie continuando senza perdere la
fiducia. Non mi ero scoraggiato nel 1998 quando il Fondo
aveva perso il 90% del suo valore ed ero stato premiato per
avere resistito quando si era ripreso completamente.
Però questa volta era diverso.
Avevo forgiato tutta la mia vita professionale per essere
un investitore in Russia. Non avevo mai pensato ad altro.
Ma ora, visto che non potevo più operare in Russia, ero
costretto a pensare a qualcos’altro. Che opzioni avevo? Non
mi passava neanche per l’anticamera del cervello di ritor-
nare in America a competere con migliaia di persone come
me. Non potevo nemmeno trasferirmi in un nuovo posto,
per esempio in Cina, dove avrei dovuto passare un decennio
a cercare di affermarmi.
E di certo non avrei gettato la spugna. A quarantadue

235
anni ero ancora nel pieno delle mie energie. Nessuna del-
le alternative che avevo a disposizione era allettante, più ci
pensavo, più la mia situazione sembrava disperata.
Il fatto che probabilmente la Hermitage sarebbe fallita
era ancora più sconvolgente per i miei dipendenti. Dopo
tutta l’eccitazione e i risultati delle nostre attività in Russia,
nessuno del nostro team voleva chiudere i battenti ed essere
costretto a ritornare a lavori normali presso banche di inve-
stimento o società di intermediazione mobiliare.
Esaminando i nostri punti di forza era lampante che era-
vamo bravi a trovare investimenti sottovalutati. Avevamo
anche esperti nel proteggere quegli investimenti da dirigen-
ti truffaldini. Ritenevo che avremmo potuto usare quelle
due doti in altri mercati emergenti.
Decisi di mandare Vadim e altri quattro analisti in
Brasile, negli Emirati Arabi Uniti, in Kuwait, in Turchia e in
Tailandia per vedere se sarebbero riusciti a trovare idee d’in-
vestimento interessanti. Incontrarono i rappresentanti delle
venti società più economiche di ogni Paese. Parteciparono a
un centinaio di incontri, analizzarono seriamente dieci so-
cietà e alla fine identificarono tre opportunità valide.
Una era una società telefonica brasiliana valutata tre volte
gli utili dell’anno precedente, la più economica nel mondo
della telefonia; la seconda era una raffineria petrolifera turca
quotata al 72% in meno rispetto al prezzo di altre raffinerie;
e la terza era un’agenzia immobiliare con sede negli Emirati
valutata al 60% in meno rispetto al suo valore patrimoniale
netto.
Cominciai a investire il denaro della società in questi
titoli e condivisi l’analisi con il mio amico Jean Karoubi.
Potevo sempre contare su di lui come bravo consigliere e la
sua reazione fu molto più positiva di quanto mi aspettassi:
«Bill, queste idee mi piacciono molto. Secondo me è questo
il settore che dovresti cercare di ampliare».

236
Aveva ragione. Le mie capacità come investitore potevano
essere applicate ovunque, soprattutto in Paesi con problemi
simili a quelli della Russia. Non avevo bisogno di rimanere
in Russia per avere successo.
Quando condivisi queste idee di investimento con gli altri
clienti, molti ebbero esattamente la stessa reazione di Jean.
Nell’autunno del 2006 mi sentivo così sicuro che cominciai
a stendere un prospetto per un nuovo fondo, la Hermitage
Global.
L’intenzione era quella di averlo pronto per il Forum
Mondiale dell’Economia di Davos alla fine di gennaio 2007.
Non c’è un posto migliore al mondo per raccogliere fondi.
La mia sorte era cambiata dalla mia prima incursione nel
1996. Non dovevo più dormire sul pavimento o gironzolare
per le hall degli alberghi nella speranza di incontrare perso-
ne importanti. Dal 2000 ero membro ufficiale del Forum e
non ne avevo perso nemmeno uno.
Questa volta decisi di portare Elena con me. Era nel
primo trimestre della seconda gravidanza e pensai che le
conferenze interessanti e i ricevimenti di Davos sarebbero
stati una pausa gradita alla routine tra le mura domestiche.
Volammo a Zurigo e prendemmo il treno per Davos, come
avevamo fatto io e Marc Holtzman tutti quegli anni prima,
e ci registrammo al Derby Hotel. Appena arrivati, comin-
ciai a prendere appuntamenti.
Come aveva previsto Jean, gli investitori erano molto
interessati alla Hermitage Global. Il secondo giorno, dopo
avere presentato il progetto a uno dei miei vecchi clienti, lui
mi disse: «Allora Bill, domani sera vai alla cena russa?»
«Quale cena russa?» Sapevo che a Davos c’era una compa-
gine russa ben nutrita, ma con tutto quello che stava succe-
dendo non avevo sentito parlare di quella serata.
«È una cosa grossa. Ci saranno tutti i funzionari russi più
importanti.»

237
«Dubito che mi permetteranno di partecipare», dissi con
un sorriso.
«Bill, il bello è proprio questo. Non saranno i russi a deci-
dere chi parteciperà, ma il Forum Mondiale dell’Economia.
Ti devi solo iscrivere.»
Un’idea interessante. Dopo il nostro incontro, andai su-
bito alla postazione dei computer dove ci si poteva iscrivere
agli eventi. Entrai nel sito e con diversi click registrai sia me
sia Elena alla cena.
La sera dopo arrivammo dieci minuti prima, ma quasi tutti
i tavoli erano occupati. Perlustrammo la sala e ci sedemmo
negli ultimi due posti vicini disponibili. Ogni tavolo era pa-
trocinato da un vip russo, mentre mi guardavo attorno, con
mio grande orrore scoprii che l’anfitrione del nostro tavolo
era l’amministratore delegato del reparto esportazioni della
Gazprom. Non avrei potuto trovare un posto più imbaraz-
zante dove sederci. Il lavoro anticorruzione della Hermitage
alla Gazprom probabilmente era stato il catalizzatore della
mia espulsione dalla Russia, e ora ero qui pronto ad assapora-
re un’elegante cena a base di scaloppine di vitello, rösti e torta
di carote con uno degli alti dirigenti della compagnia.
Il direttore della Gazprom e io passammo tutto il tem-
po a cercare di non incrociare lo sguardo, durante la cena
fu tutto un susseguirsi di discorsi di funzionari e oligarchi
russi. Ogni discorso era più insipido, inutile e pieno di luo-
ghi comuni del precedente. I russi hanno il dono di parlare
senza dire niente, e quella serata ne fu un esempio eclatante.
Sul finire della cena, tra rumore di posate e l’andirivieni di
camerieri, ci fu un gran trambusto vicino alla porta quando
entrarono nella sala venti guardie di sicurezza dall’aspetto
duro che formarono un cordone mobile attorno a un pic-
coletto. Non riuscii a vedere chi era finché non arrivò al suo
tavolo, niente di meno che Dmitri Medvedev, il vice pri-
mo ministro russo. Medvedev si era candidato alle elezioni

238
per sostituire Putin, il cui secondo mandato sarebbe finito
nel giugno del 2008, e Davos era la prima opportunità per
Medvedev di presentarsi alla comunità internazionale.
Dopo il secondo, Medvedev si alzò e prese in mano il
microfono davanti a tutti. Parlò per diversi minuti in russo
(ascoltai la traduzione con l’auricolare), il suo discorso era
ancora più noioso e privo di sostanza degli altri. Non vede-
vo l’ora che arrivasse in fondo.
Appena Medvedev ebbe finito, i camerieri attraversarono
leggiadri la sala e servirono i piattini con la torta di carote
e tazze di tè e caffè. Mentre bevevo il tè e toglievo la glassa
dalla torta di carote, Elena mi strattonò la giacca e mi bi-
sbigliò: «Bill, mi è appena venuta un’idea fantastica. Perché
non chiedi a Medvedev di darti una mano con il visto?»
Le lanciai un’occhiataccia. «Non essere ridicola.» Avevo
provato tutte le strade per riottenere il visto, compreso
Putin. Dopo il G8, avevo considerato quel capitolo della
mia vita definitivamente chiuso. Inoltre, non riuscivo a
immaginare una cosa più umiliante di dovere supplicare
Medvedev per riavere il visto.
Cercai di spiegarlo a Elena, ma lei non mi ascoltava.
Insisteva. «Dico sul serio. Non sta parlando con nessuno.
Andiamo.»
Sì alzò e mi guardò dritto negli occhi. Sfidare Elena mi
spaventava di più che un incontro spiacevole con Medvedev
e quindi mi alzai anch’io. Riluttante la seguii attraverso la
stanza e quando arrivammo da Medvedev allungai la mano e
dissi: «Salve Signor vice primo ministro. Sono Bill Browder.
Si ricorda di me per caso?»
Elena tradusse. Medvedev si alzò e mi strinse la mano.
Nella sala, ci fu un brusio generale quando la gente si rese
conto di quello che stava succedendo. Se io potevo parlare
con Medvedev, allora potevano farlo anche loro. Le perso-
ne cominciarono ad alzarsi e a venire verso di noi.

239
«Certo che mi ricordo di lei. Come sta Mr. Browder?»
«Bene, ma come saprà, è da più di un anno che non ho il
permesso di venire in Russia. Mi chiedevo se per caso potes-
se aiutarmi a farmi riottenere il visto.»
Mentre pronunciavo quelle parole, fummo circondati da
un gruppo di persone, tra cui un giornalista della Bloomberg e
uno del New York Times. Se Davos era il debutto di Medvedev
sulla scena internazionale, quella conversazione sarebbe stata
uno dei momenti clou dell’intera conferenza.
Medvedev diede un’occhiata alle persone che si stavano
raggruppando attorno a noi e dovette prendere una decisio-
ne su due piedi. Avrebbe potuto rifiutare la mia richiesta,
cosa interessante che avrebbe fatto scalpore, o avrebbe potu-
to aiutarmi, il che non sarebbe stato da meno. Si fermò per
un attimo prima di rispondere: «Con molto piacere, Mr.
Browder. Se mi fa pervenire una copia della sua domanda
del visto, la presenterò all’Agenzia federale delle dogane rac-
comandandomi che l’approvino.»
Tutto fatto. I giornalisti si avvicinarono a Medvedev e
mentre Elena e io sgattaiolavamo via dalla folla lei mi strin-
se la mano. «Vedi. Avevo ragione.»
Tornammo direttamente all’albergo e telefonai subito a
Londra. Di solito servono tre o quattro giorni per raccoglie-
re tutti i documenti necessari per la domanda di un visto
russo, ma il team ci lavorò sopra tutta la notte e alle 8 del
mattino, il fax dell’albergo sputò tutti i documenti di cui
avevo bisogno.
Quella mattina avevo una scaletta di incontri con gli in-
vestitori molto serrata, quindi Elena andò in una saletta del
centro conferenze dove Medvedev avrebbe dovuto tenere
un discorso e attese vicino al podio. Con tutti quegli agenti
di sicurezza, era molto improbabile che sarebbe riuscita ad
avere un contatto diretto con Medvedev, ma vide Arkady
Dvorkovich, il consigliere di Putin che aveva cercato di aiu-

240
tarmi in passato. Gli chiese se avrebbe consegnato la do-
manda. Dvorkovich la prese promettendo che l’avrebbe
fatto.
Il Forum si concluse il giorno seguente, ed Elena e io
tornammo a Londra, orgogliosi di quell’intervento casuale
ad alto livello.
Ci vollero alcune settimane, ma il 19 febbraio ricevetti
un messaggio da Mosca circa il mio visto. Però non pro-
veniva dall’Agenzia federale delle dogane. Era stato invece
inviato da un certo Tenente colonnello Artem Kuznetsov
dell’ufficio moscovita del ministero degli Interni. Strano.
Il ministero degli Interni si occupava di indagini non di vi-
sti. Poiché non parlavo russo, chiesi a Vadim di richiamare
Kuznetsov.
Vadim gli spiegò che lavorava per me e Kuznetsov disse:
«Va bene. Le spiegherò come stanno le cose».
«Benissimo.»
«Da quanto ne so, Mr. Browder ha inviato una richiesta
di permesso per entrare nel territorio della Federazione rus-
sa.»
«Sì, sì, abbiamo inviato quei documenti.»
«Vorrei parlarne di persona, se è possibile», disse Kuznetsov
con disinvoltura.
«Però, vede, il problema è che al momento non sono a
Mosca», rispose Vadim. «Quindi se potesse inviarmi le do-
mande, potremmo cercare di farle avere le risposte.»
«Non posso spedirgliele, preferirei parlarne di persona»,
aggiunse Kuznetsov stizzito.
Questa non era una normale richiesta di informazioni.
In un accertamento legittimo, i funzionari russi spedivano
sempre le loro domande per iscritto. Dal mio decennio tra-
scorso in Russia avevo capito chiaramente che quando un
funzionario richiedeva un incontro informale, significava
solo una cosa: voleva una mazzetta. Tutte le volte che i fun-

241
zionari avevano cercato di estorcermi del denaro, li avevo
ignorati tutti e mi avevano sempre lasciato in pace.
Kuznetsov concluse con: «Prima risponderete a queste
domande e prima risolverete i vostri problemi».
Come avevo fatto in passato con richieste simili, decisi di
ignorarla.
Quella telefonata mi avrebbe dato più fastidio se il lancio
della Hermitage Global non fosse andato così bene, e quin-
di me ne dimenticai quasi subito. Uno a uno, i miei vecchi
clienti e molti nuovi cominciarono a investire nel fondo.
Alla fine di aprile 2007, avevo raccolto 625 milioni di dol-
lari. Non potevano certo sostituire la quantità di denaro
prelevata dal fondo russo, ma voleva dire che ero riuscito
ad arrestare l’emorragia e che la società non avrebbe chiuso
i battenti.
Il 4 giugno 2007 avevo in programma di presentare i ri-
sultati del lancio della Hermitage Global al consiglio di am-
ministrazione al Westin Hotel a Parigi. Dopo tutte le cattive
notizie degli ultimi due anni, era la prima volta da quando
ero stato espulso dalla Russia che avevo delle buone notizie
per il consiglio.
Ivan e io arrivammo la sera del 3 per prepararci. Il mat-
tino dopo mi alzai alle 6, andai in palestra e dopo una doc-
cia feci una colazione leggera. Per le 8 ero già al telefono
che litigavo con uno speculatore per dei titoli di Dubai che
avrebbe dovuto vendere molti giorni prima. C’era stato un
problema tecnico alla Borsa di Dubai e questo aveva causa-
to il ritardo nella vendita. Adesso il prezzo stava scendendo
a picco ed ero furibondo che non riuscisse a venderli prima
che cominciassimo a perdere denaro. Stava adducendo scu-
se e io mi agitavo sempre di più.
Mentre stavamo discutendo, mi arrivò il segnale che c’era
una chiamata in attesa. Guardai il display di identificazione
delle chiamate solo perché temevo che potesse essere Elena,

242
avrebbe dovuto dare la luce al nostro secondo figlio a fine
mese. Invece non era Elena ma Emma, la segretaria del-
la Hermitage Fund a Mosca. Emma era una ragazza russa
di provincia di ventunanni che però ne dimostrava molti
di meno. Onesta, solerte, gestiva l’ufficio con diligenza. Di
rado mi chiamava direttamente, quindi dissi allo speculato-
re di rimanere in attesa e cambiai linea. «Emma, puoi aspet-
tare?»
«No, Bill», disse in perfetto inglese. «Ci sono venticinque
poliziotti in borghese che stanno mettendo sottosopra l’uf-
ficio!»
«Cosa?»
Ripeté quello che aveva appena detto.
«Cazzo. Aspetta.» Ripresi la linea con lo speculatore, gli
dissi che l’avrei dovuto richiamare e continuai la conversa-
zione con Emma. «Cosa stanno cercando?»
«Non lo so, il capo dell’operazione è Artem Kuznetsov
e…»
«Hai detto Kuznetsov?»
«Sì.»
Doveva essere lo stesso Artem Kuznetsov che aveva cerca-
to di estorcerci dei soldi qualche mese prima. «Ha un man-
dato di perquisizione?»
«Sì. Me l’ha mostrato, ma non vuole consegnarmelo.»
«Riesci a copiare quello che c’è scritto?»
«Ci proverò.»
Riagganciai, telefonai a Ivan e gli raccontai quello che
stava succedendo. Anche lui era altrettanto preoccupato e
richiamò Emma. Poi telefonai al mio avvocato a Mosca,
Jamison Firestone. Jamison – un bell’americano in forma
di quarantunanni con gli occhi chiari, i capelli castani e una
faccia da ragazzino – era un russofilo ed era in Russia dal
1991. Era il socio gerente della Firestone Duncan, un stu-
dio legale che aveva fondato con un altro americano, Terry

243
Duncan. Nel 1993, durante il tentato colpo di stato in
Russia, Terry era andato alla torre della tv di Ostankino ad
aiutare i manifestanti. Quando le autorità aprirono il fuoco
su di loro, cercò di evacuare i feriti, ma fu colpito anche lui
e poi morì. Dopodiché Jamison aveva portato avanti l’atti-
vità da solo.
Jamison mi piacque subito appena lo incontrai, non solo
perché era un americano senza peli sulla lingua, ma anche
perché, a differenza di molti avvocati, non mi aveva mai
spennato. Negli anni avevamo fatto molti affari insieme ed
entrambi avevamo avuto successo.
Appena alzò il telefono, saltai i convenevoli. «Jamie, ho
appena ricevuto una telefonata dalla nostra segretaria di
Mosca. C’è…»
«Bill, ti stavo per chiamare…»
«Jamie, ci sono venticinque poliziotti che stanno metten-
do sottosopra l’ufficio.»
«Anche da te.»
«Jamie, cosa stai dicendo?»
«Ci sono una ventina di poliziotti in borghese che stanno
rovistando anche nel mio ufficio. Hanno un mandato di
perquisizione per la Kameya.»
Era come se mi avessero dato un pugno in faccia. «Santo
cielo!»
La Kameya era una società russa di proprietà di uno dei
nostri clienti a cui facevamo consulenza sugli investimen-
ti sui titoli russi. Poiché la polizia stava facendo irruzioni
simultanee nei nostri uffici e in quello di Jamison, potevo
solo concludere che le forze dell’ordine stessero prendendo
di mira la Hermitage.
«Cazzo, Jamie. Cosa facciamo?»
«Non lo so, Bill. Ci stanno tenendo prigionieri nella
nostra sala conferenze. Non ci lasciano nemmeno andare
in bagno. Il mandato non sembra valido. La polizia non

244
ha il permesso di perquisire finché non arrivano i nostri
avvocati difensori, ma stanno mettendo tutto sottosopra
lo stesso.»
«Mi puoi richiamare appena sai qualcosa?»
«Certo.»
Riagganciammo. Ora ero in ritardo per la riunione con
il consiglio di amministrazione. Presi il fascicolo con il pro-
gramma e le presentazioni e scesi le scale alla svelta. Avevo
l’adrenalina alle stelle, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare
erano le irruzioni.
Entrai nella stanza e i quattro membri del nostro consi-
glio di amministrazione, uomini sulla cinquantina e sulla
sessantina che erano arrivati da diverse parti dell’Europa,
avevano l’aria rilassata e felice mentre sorseggiavano il
caffè, mangiavano croissant e chiacchieravano dei mer-
cati. Spezzai l’incantesimo raccontando loro cosa stava
succedendo a Mosca. Mentre parlavo, Ivan irruppe nella
stanza come un fantasma. Uno dei membri del consiglio
ci chiese se sapevamo qualcos’altro. Poiché non avevo
altre notizie, decisi di chiamare Emma e di attivare il
vivavoce.
Rispose e anche lei con il vivavoce. Ascoltammo in diret-
ta a duemilasettecento chilometri di distanza uomini che
gridavano, che svuotavano una a una le scatole, il rumore
di passi pesanti e persino quando trapanarono la nostra cas-
saforte.
Passarono dieci minuti. Venti. Trenta. Eravamo sconvol-
ti ma anche sorpresi dal fatto che Emma cercasse di tene-
re la situazione sotto controllo gridando agli agenti: «Non
potete bere il nostro caffè! … Mettete giù quel computer!
… Lasciatelo in pace! Lui non c’entra con la Hermitage!»
Si stava riferendo al dipendente della Deutsche Bank che
aveva avuto la sfortuna di presentarsi quella mattina per
consegnare dei documenti. La polizia lo aveva costretto a

245
rimanere, si era rintanato nella saletta delle conferenze e se
la stava facendo sotto dalla paura.
L’incursione era inquietante e avvincente al tempo stesso.
A Parigi rassicurai i membri del consiglio che non potevano
prendere niente dall’ufficio: non c’erano informazioni utili,
dossier segreti o soprattutto non c’erano beni. Tutte le cose
importanti erano state portate al sicuro fuori dal Paese l’e-
state prima.
Mentre continuavamo ad ascoltare l’irruzione all’ufficio
della Hermitage, mi squillò il telefono. Era Jamison. Uscii
dalla stanza per prendere la telefonata.
«B-Bill. È su-successa una cosa terribile!»
«Jamison, calmati.» Era sconvolto e in preda alle emozio-
ni. Era un avvocato specializzato in diritto societario con
quindici anni di esperienza e non l’avevo mai sentito così.
«Cosa sta succedendo?»
«Maxim, uno dei miei giovani avvocati, ha fatto notare
che il mandato non era valido e che potevano prendere solo
cose che avevano a che vedere con la Kameya.»
«E cos’è successo?»
«L’hanno picchiato a sangue! Sta andando all’ospedale in
questo momento.»
«Cazzo. Sta bene?»
«Non lo so.»
Mi venne un nodo in gola. «Jamie, devi documentare tut-
to quello che stanno facendo. Non permetteremo a quei
bastardi di passarla liscia.»
«Bill, non è solo Maxim. Stanno prendendo quasi tutto.»
«Tutto cosa?»
«Prendono i dossier dei clienti che non hanno niente a
che vedere con la Kameya. Qua davanti hanno due furgoni.
Ci hanno preso quasi tutti i computer, i server, i timbri e i
sigilli aziendali che teniamo in custodia per i nostri clienti.
Non ha alcun senso. Per alcuni dei nostri clienti sarà diffi-

246
cile operare senza i documenti e i sigilli. Non so nemmeno
come potremmo continuare a lavorare dopo. Non possiamo
nemmeno scaricare le email!»
Non sapevo cosa dire. «Mi… mi dispiace moltissimo
Jamie. Supereremo tutto insieme. Te lo prometto. Cosa più
importante, fammi sapere come sta Maxim appena hai no-
tizie.»
«Va bene. Lo farò.»
Ritornai nella sala conferenze completamente stravolto.
Tutti mi guardarono. «Riattacca.» Ivan salutò Emma e ri-
agganciò. Poi raccontai cosa stava succedendo alla Firestone
Duncan. Nessuno di noi disse una parola.
Eravamo nella merda fino al collo, e se conoscevo abba-
stanza della Russia, quello era solo l’inizio.

247
23. DIPARTIMENTO K

Ivan e io prendemmo l’Eurostar delle 15 per tornare a


Londra. Dovevamo parlare senza che nessuno ci sentisse e
l’unico luogo disponibile era tra un vagone e l’altro. Fuori
dalla porta, vedevamo passare in rapida successione il pae-
saggio verde e grigio della Francia del nord. Provammo a
chiamare Mosca e Londra, ma la connessione non era buo-
na, il treno entrava e usciva dalle gallerie, così tornammo
a sederci sui nostri sedili, in silenzio, fino a destinazione.
Sebbene sapessi che la Russia era un luogo violento sin dal
primo giorno che ci avevo messo piede nel 1992, né io né
i miei cari eravamo mai stati colpiti di persona. Ora, tutto
d’un tratto, il pericolo era tangibile.
La mia massima preoccupazione era Maxim. Appena arri-
vato a casa, chiamai Jamie per chiedergli un aggiornamento.
Per fortuna le sue ferite non erano mortali. Implorai Jamie
di sporgere denuncia, ma lui non volle. «Maxim ha paura,
Bill. Gli ufficiali che lo hanno pestato, hanno detto che lo
avrebbero accusato di essere stati minacciati con un coltello
e che lo avrebbero sbattuto in carcere se avesse cantato.»
Come potevo biasimarlo per questo? Almeno se la sareb-
be cavata.
L’indomani arrivai di buonora in ufficio. Ivan stava già
ispezionando una copia scritta a mano del mandato di per-
quisizione che Emma aveva inviato via fax. La sua calligrafia
era chiarissima e tondeggiante, come quella di una scolaret-
ta, invece il contenuto del mandato era tutt’altro che inno-

248
cente. Diceva che il dipartimento per i reati fiscali del mini-
stero degli Interni di Mosca aveva aperto una causa penale
contro Ivan, accusandolo di evasione per quarantaquattro
milioni di dollari in ritenute d’acconto sui dividendi della
Kameya. Si inventarono un credito fiscale arbitrario dell’a-
zienda e poiché Ivan amministrava l’impresa per conto del
nostro cliente, la polizia lo ritenne responsabile.
Per quanto illegittimo il sistema legale russo di giustizia
penale possa sembrare dall’esterno, la Russia è ancora uno
Stato sovrano con cui quasi tutti i governi occidentali coo-
perano con richieste di estradizione, Red Notice dell’Inter-
pol e congelamenti di beni internazionali. Sebbene fossimo
a Londra, ignorare una causa penale del genere avrebbe po-
tuto portare a conseguenze gravi per Ivan.
Il mandato era infondato – la Kameya aveva applicato la
stessa aliquota fiscale come tutte le altre società – e accusare
Ivan di illeciti era del tutto ingiusto. Se c’era uno che viveva
rispettando le regole, quello era Ivan Cherkasov. Era un bra-
vo marito, padre, amico e collega. Indossava sempre abiti
stirati alla perfezione, non aveva mai un capello fuori posto
ed era sempre puntuale. Vederlo camminare nervosamente
su e giù per l’ufficio per le accuse infondate contro di lui
mi faceva infuriare e mi ripromisi di fare tutto quello che
potevo per toglierlo da quel pasticcio.
Per prima cosa contattai il miglior fiscalista che conosce-
vo a Mosca, un avvocato trentacinquenne che rispondeva
al nome di Sergei Magnitsky. Era il direttore dell’ufficio
di pratiche fiscali presso la Firestone Duncan, e aveva una
conoscenza enciclopedica del diritto tributario russo. Da
quando aveva cominciato a lavorare lì, correvano voci che
non avesse mai perso una causa.
Assoldato Sergei, gli chiedemmo di capire se avessimo
fatto qualcosa di sbagliato. Ivan era sempre stato ligio e
io avevo dato per scontato che le tasse fossero state pagate

249
correttamente, ma siccome il ministero degli Interni stava
muovendo accuse così gravi, dovevamo esserne certi.
Sergei richiese tutte le dichiarazioni dei redditi della
Kameya con relativi documenti di supporto. Le analizzò
fino a notte fonda e l’indomani chiamò con l’analisi: «Ho
analizzato tutti gli aspetti fiscali della Kameya. Ivan non ha
fatto nulla di sbagliato».
Per quanto Sergei potesse aiutarci a comprendere le nor-
mative fiscali, Ivan aveva anche bisogno di un penalista
che lo aiutasse con la polizia. Poi ci rivolgemmo a Eduard
Khayretdinov, un ex investigatore di polizia e giudice, av-
vocato difensore dal 1992. Aveva quarantotto anni, alto
un metro e ottantasette, capelli grigi, baffi folti e un bel
paio di mani. Mi ricordava la versione russa dell’uomo della
Marlboro. Era il tipo d’uomo che avresti voluto avere come
amico in Russia se le cose si fossero messe male. Aveva di-
feso e vinto alcune delle cause penali più famose e senza
speranza in Russia e, in un Paese dove la percentuale delle
condanne supera il 99%, era un vero miracolo.
Eduard si offrì volontario per andare alla stazione di po-
lizia per vedere che cosa stessero combinando gli agenti.
Quando arrivò, fu accompagnato dall’investigatore capo
che si occupava del caso, Pavel Karpov, un Maggiore di
trent’anni. Eduard chiese a Karpov di mostrargli alcuni dei
fascicoli del caso che, secondo la normativa russa, l’avvocato
difensore ha il diritto di vedere. Karpov si rifiutò. Davvero
insolito. Nei suoi quindici anni da avvocato difensore, a
Eduard non era mai capitato.
L’avvocato trovò frustrante l’ostruzionismo di Karpov, in-
vece io lo interpretai come un segnale positivo. Pensai che
se Karpov aveva paura nel mostrarci le pratiche, significava
che le accuse erano infondate.
Purtroppo, la mia teoria ottimistica sfumò nel giro di
poco. Il 14 giugno ricevetti una chiamata da Catherine

250
Belton, la giornalista del G8 del 2006 che aveva chiesto a
Putin perché ero stato sbattuto fuori dal Paese. Ora lei col-
laborava con il Financial Times e voleva sapere se avessi dei
commenti da rilasciare sulle incursioni del ministero degli
Interni. Diedi la mia risposta e sperai che l’articolo mostras-
se la nostra versione dei fatti.
L’indomani raccolsi i giornali dalla porta di ingresso e
mi imbattei in un titolo sulla prima pagina dell’FT che
recitava: «Russia indaga società di Browder per questioni
fiscali». Mi sedetti sulla panca in corridoio e rilessi l’ar-
ticolo tre volte. Era pieno di invenzioni e insinuazioni
del ministero degli Interni, ma l’unica cosa che mi saltò
all’occhio fu un’unica frase nella parte centrale dell’artico-
lo: «Gli investigatori prendono di mira Browder poiché lo
ritengono complice».
Non demordevano. Avevano piani ben più grandi. Quel
che stava succedendo a Ivan e alla Kameya era solo il pre-
ludio di un piano ancor più vasto la cui vittima designata
ero io.
Era inquietante ed eravamo in una posizione di assoluto
svantaggio. Certo, avevamo i migliori avvocati della Russia,
ma non importava, perché i nostri rivali erano ufficiali delle
forze dell’ordine che operavano al di sopra dalle leggi. Ciò
che ci serviva più di ogni altra cosa erano le informazio-
ni segrete a cui aveva accesso l’FSB. Avevamo bisogno della
fonte di Vadim, Aslan, l’uomo che aveva avvertito Vadim
di lasciare la Russia nel 2006 dopo che la situazione si era
aggravata a seguito della mia espulsione dal Paese.
Non avevamo idea se il conflitto governativo interno che
aveva spinto Aslan a rivolgersi a Vadim fosse ancora in atto
o se sarebbe stato disposto ad aiutarci di nuovo, però valeva
la pena di tentare.
Vadim gli spedì un semplice messaggio in cui gli chiedeva
di parlare.

251
Trenta minuti dopo, ricevemmo una risposta: «Cosa vuoi
sapere?»
«Spero che tu mi possa dire chi c’è dietro alle incursioni
della scorsa settimana e se sai che cos’hanno in mente di
fare», scrisse Vadim.
Qualche minuto dopo arrivò un altro messaggio: «Sì, lo
so. Il Dipartimento K dell’FSB è l’artefice di tutto. Vogliono
fare abbassare la cresta a Browder e confiscargli tutti i beni.
Questa causa non è che l’inizio, ne seguiranno molte altre».
Quando Vadim mi tradusse il messaggio, cominciarono
a tremarmi le gambe in maniera convulsa. Il messaggio di
Aslan non lasciava spazio a equivoci, era agghiacciante, spe-
ravo con tutto me stesso che si stesse sbagliando.
Avevo un milione di domande, a cominciare da: che cos’e-
ra il Dipartimento K?
Lo domandai a Vadim ma non lo sapeva. Andammo alla
sua scrivania nella remota speranza di poter trovare qual-
che informazione su internet. Con nostra grande sorpresa,
dopo aver cliccato su svariati link, ci imbattemmo in un
organigramma sul sito dell’FSB. Il Dipartimento K era il
reparto di controspionaggio economico dell’FSB.
Tornai alla scrivania trascinandomi i piedi e mi accasciai
sulla poltrona. Dissi alla segretaria di non passarmi chiama-
te. Dovevo riflettere. Il pensiero di essere perseguitato dal
Dipartimento K era davvero inquietante.
Lì seduto, pensai: sono perseguitato dalla polizia segreta
russa e non ci posso fare nulla. Non posso denunciarli e non
posso richiedere le pratiche della mia causa. Si tratta della po-
lizia segreta e purtroppo ha accesso a ogni strumento immagi-
nabile, legittimo e non. L’FSB non emette mandati di arresto o
richieste di estradizione – ti sguinzaglia dietro i sicari.

252
24. «LE STORIE RUSSE NON HANNO MAI UN LIETO FINE»

Mentre ero seduto alla scrivania cercando di fare mente lo-


cale, la mia segretaria senza fare rumore mi posò un messag-
gio vicino al gomito. «Ha telefonato Elena. Non è urgente.»
Di solito l’avrei richiamata subito, ma avevo così tanti pen-
sieri per la testa che non lo feci.
Circa un’ora più tardi, Elena telefonò di nuovo. Risposi.
Prima che riuscissi a dire qualcosa gridò: «Perché non mi
hai chiamata?»
«Cosa c’è? Avevi detto che non era urgente.»
«No. Avevo detto che era urgente. Bill, sono cominciate
le doglie. Sono in ospedale!»
«Oddio! Vengo subito!» Mi alzai di scatto e corsi verso la
porta. Non aspettai l’ascensore e mi precipitai giù per le sca-
le, girando un angolo quasi scivolai per via della suola liscia
dei mocassini. Corsi fuori nel sole pomeridiano, dimenti-
candomi tutto d’un tratto del Dipartimento K, dell’FSB e
della Russia.
Covent Garden è un labirinto di stradine che portano
alla zona pedonale della Piazza. Chiamare un taxi sarebbe
stato inutile perché ci avrebbe impiegato venti minuti solo
per uscire da quella zona, quindi corsi verso Charing Cross
Road, ma quando arrivai non c’era nemmeno un taxi libero
in circolazione. Continuai a correre in direzione dell’ospe-
dale, tenendo d’occhio se per caso vedevo un taxi. Zigzagai
tra i passanti e il traffico londinese: camion, autobus a due
piani e scooter. Sembrava che tutti i taxi di Londra fos-

253
sero occupati. Era troppo lontano per andare a piedi ma
continuai a correre e alla fine riuscii a trovare un taxi su
Shaftesbury Avenue.
Quindici minuti dopo, irruppi in ospedale. Ero conciato
malissimo e salii al quarto piano in sala parto. Elena era
nelle ultime fasi del travaglio. Gridava e aveva la faccia pa-
onazza per le contrazioni. Non ebbe tempo di essere arrab-
biata con me né di pensarmi. Le presi la mano e lei strinse
la mia così forte che pensavo che con le unghie mi avrebbe
fatto sanguinare. Venti minuti più tardi, nacque la nostra
secondogenita, Veronica.
A differenza della nascita di Jessica, quando la felicità per
la neonata mi aveva fatto dimenticare i problemi in Russia,
questa volta ero in guai così seri che non riuscivo a non pen-
sarci. Appena seppi che Elena e Veronica stavano bene i pro-
blemi russi invasero di nuovo la mia mente come un’orda.
Non avrei condiviso le cattive notizie del Dipartimento
K con Elena, perlomeno non in quel momento. Decisi di
lasciarla riposare e di stabilire un legame affettivo con la
nostra nuova figlia. Andammo a casa il giorno dopo e feci
buon viso a cattivo gioco quando gli amici vennero a fare
visita alla neonata e a congratularsi con noi. Ma non riusci-
vo mai a dimenticare quello che stava succedendo dietro le
quinte. Fino ad allora Elena era il motivo per cui ero riu-
scito a reggere psicologicamente. La nostra relazione era ca-
ratterizzata da una strana alternanza di emozioni. Quando
io ero in preda al panico, lei era calma e viceversa. Fino a
quel momento aveva funzionato alla perfezione, ma questa
notizia era così sconvolgente che secondo me quella routine
non avrebbe retto.
Due giorni dopo essere tornati a casa, non riuscivo più
a non dirglielo. Quella sera, dopo avere addormentato
Veronica cullandola, andai sul nostro letto e mi sedetti di
fianco a Elena. «Ti devo dire una cosa.»

254
Mi prese la mano e mi guardò negli occhi. «Cosa c’è?»
Le raccontai dell’ultimo messaggio di Aslan sul
Dipartimento K.
Veronica addormentata nella culla di vimini ogni tanto
mi interrompeva con un gridolino o un sospiro sincopato
tipici dei neonati: ah-ah-ah-ahhh. Quando ebbi finito chiesi
a Elena: «Secondo te, cosa dovremmo fare?»
L’espressione del suo volto rimase imperturbata, la stessa
calma incredibile di sempre. Disse pacata: «Vediamo qua-
le sarà la loro prossima mossa e poi decideremo cosa fare.
Sono persone cattive, ma anche loro sono solo umani, come
tutti. Commetteranno degli errori».
Elena mi strinse la mano e mi regalò uno dei suoi sorrisi
delicati.
«E la nostra vacanza?» chiesi. Avevamo programmato una
gita di famiglia appena la neonata avesse potuto viaggiare.
«Semplice, Bill. Andiamo. Continuiamo con le nostre
vite.»
Per fortuna, al lavoro le settimane seguenti furono cal-
me, senza notizie allarmanti dalla Russia. A metà agosto
del 2007, salimmo su un aereo per Marsiglia. Durante il
breve volo, Veronica dormì tutto il tempo mentre io giocai
con Jessica con una bottiglia di plastica e un sacchetto con
dentro mezza dozzina di palline di carta. David ci passò
i biberon, le pezze, i giochi preferiti e gli spuntini e tra
una cosa e l’altra continuava a fare i compiti. Atterrammo
a Marsiglia e automaticamente accessi il BlackBerry per
vedere se avevo ricevuto delle chiamate o delle email. Non
c’era nulla, niente di importante, un buon presagio per la
vacanza.
Sbarcammo e attraversammo l’aeroporto. Andammo a
ritirare i bagagli e uscimmo per aspettare il nostro furgon-
cino. Appena mettemmo piede fuori dall’aeroporto, fum-
mo travolti da un calore intenso, opprimente e piacevole.

255
L’autista ci aiutò a caricare le nostre cose e salimmo. Mentre
stavamo partendo, mi squillò il cellulare. Era Ivan.
«Bill, ci risiamo», disse in preda al panico.
Senza nemmeno sapere che cosa avrebbe detto, la gamba
cominciò a tremarmi. Il suo panico era contagioso. «Cosa
succede?»
«La polizia ha fatto irruzione nella Credit Suisse a Mosca.»
«Cosa c’entra con noi?»
«Stanno cercando qualsiasi cosa che abbia a che vedere
con la Hermitage.»
«Ma là non abbiamo nulla», gli feci notare.
«Vero, ma la polizia sembra non esserne al corrente.»
«Ma cosa stanno cercando?»
«Aspetta. Ho una copia del mandato di perquisizione.»
Si allontanò dal telefono e tornò dopo una trentina di se-
condi. «Stanno cercando qualsiasi cosa che appartenga alla
Hermitage Capital Management, alla Hermitage Capital
Services, alla Hermitage Capital Asset Management e alla
Hermitage Asset Management… ce ne sono altre due pagine.
Vuoi che continui?»
«No.»
Sembrava che la polizia stesse giocando una strana partita
di battaglia navale, usando tutti i possibili nomi della nostra
società nella speranza di colpirci e affondarci. Quel dilettan-
tismo mi fece quasi sorridere.
«Chi dirige le irruzioni?»
«È questo l’aspetto più incredibile, Bill. È Artem
Kuznetsov.»
Cazzo! Artem Kuznetsov? Sembrava avere lo zampino in
tutte le cose brutte che ci stavano succedendo in Russia.
Riagganciammo, ma sapevo che si era appena aperto un
nuovo capitolo. Aslan, la nostra fonte, aveva ragione: que-
sti volevano davvero il nostro patrimonio. L’unica cosa che
non riuscivo a capire era perché non sapevano che non ave-

256
vamo più capitali in Russia. La polizia segreta russa avrebbe
dovuto essere più furba di così. Forse no. Come aveva fatto
notare Elena, forse anche loro non erano infallibili.
Kuznetsov se ne andò a mani vuote dalla Credit Suisse,
ma continuò a dare la caccia ai patrimoni della Hermitage.
Nelle due settimane successive, mentre cercavo di godermi
il calore del sud della Francia, Kuznetsov fece irruzione in
altre banche a Mosca. Saccheggiò la HSBC, la Citybank e la
ING e in tutti i casi non trovò nulla.
Via via che venivo a sapere di ognuna di queste incursio-
ni, mi allontanavo sempre di più dalla mia famiglia. Invece
di rilassarmi, di cantare ninnenanne a Veronica e Jessica e di
giocare in piscina con David, passavo gran parte del tempo
in teleconferenze cercando di capire quale sarebbe stata la
prossima mossa dei nostri avversari.
Finita la mia «vacanza», tornai a Londra e mi trincerai
con il mio team per escogitare un piano. L’aspetto legale più
importante era la causa penale contro Ivan. Non me ne im-
portava molto delle incursioni nelle banche, ma ero molto
preoccupato per qualsiasi cosa che avrebbe potuto portare
all’arresto o all’estradizione di Ivan.
Poiché Eduard aveva visto che il maggiore Karpov era pa-
recchio reticente a fornire dettagli sul caso di Ivan, a Sergei
venne in mente un’idea interessante per cercare di ottenere
maggiori informazioni. «Se la polizia non ci vuole rivelare il
motivo per cui lo fanno, perché non ci rivolgiamo diretta-
mente all’amministrazione fiscale e vediamo cosa dicono?»
Fu una buona idea e incaricammo il nostro studio conta-
bile di spedire una lettera all’ufficio delle imposte di Mosca
dove la Kameya aveva presentato le sue dichiarazioni dei
redditi chiedendo se erano dovute delle imposte.
Il 13 settembre, Sergei richiamò Ivan quasi in preda
all’entusiasmo. «I commercialisti hanno ricevuto una lette-
ra di risposta. Non ci crederai ma dice che la Kameya non

257
deve nulla. Anzi, dice che la Kameya è a credito di imposta
di centoquarantamila dollari!»
Quando Ivan me lo raccontò rimasi stupito. Questa era
la prova schiacciante che le accuse nei suoi confronti erano
completamente false. Era come se Scotland Yard avesse fatto
incursione in un ufficio della City con sospetto di evasione
fiscale quando secondo l’agenzia delle entrate tutto era re-
golare. Nonostante il sistema legale russo fosse così distorto,
quella lettera scagionava completamente Ivan.
Dopo questo, cominciai a rilassarmi per la prima volta
da mesi. Settembre finì e arrivò ottobre senza altre cattive
notizie dalla Russia. Da tempo operavo in modalità «crisi
conclamata» ma durante l’autunno, poco a poco, alle riu-
nioni sulla mia crisi in Russia cominciarono a sostituirsi i
regolari meeting d’investimento. Fu un grande sollievo par-
lare con gli analisti dei titoli anziché con gli avvocati delle
incursioni.
Un altro Paese di cui si parlava sempre in queste riunioni
era la Corea del Sud.
La Corea del Sud non è esattamente un Paese in via di
sviluppo come la Tailandia o l’Indonesia, ma sulla base del
rapporto prezzo/profitto, i suoi titoli erano quotati al 40%
in meno rispetto a quelli americani. Questo li rendeva in-
teressanti per un investitore come me. Se non riuscivo a
trovare un buon motivo per questa discrepanza, allora certi
titoli coreani, potenzialmente, avrebbero potuto riposizio-
narsi. In ottobre decisi di prendere un volo e di andare a fare
visita ad alcune compagnie coreane per determinare perché
le loro azioni erano così a buon mercato.
Arrivai a Seoul domenica 14 ottobre in serata. Dopo un
volo di dodici ore e un viaggio in auto di due dall’aeroporto
di Incheon al centro città, mi registrai all’Intercontinental
e disfai le valigie. Anche se a Seoul erano le 23, per il mio
corpo era ancora il primo pomeriggio. Passai gran parte di

258
quella notte a cercare di addormentarmi senza successo e
alla fine mi arresi. Mi trascinai giù dal letto, mi sedetti alla
finestra che dava sulle luci di Seoul. Là fuori, la città – lu-
minosa, sfavillante e decisamente esotica – sembrava una
scena di un film. Che sia Tokyo, Pechino, Hong Kong o
Bangkok, tutti i viaggiatori occidentali in preda al jet lag
vivono uno di questi momenti nel cuore della notte appena
arrivati in Asia.
Quella notte riuscii a dormire solo qualche ora e il mat-
tino seguente mi costò molta fatica alzarmi per andare a
incontrare Kevin Park, uno speculatore coreano di tren-
tacinque anni che mi avrebbe portato a visitare diverse
imprese. Aveva organizzato incontri con banche, società
immobiliari e fornitori di ricambi per auto. Il jet lag rese
difficile ogni incontro, in pratica dovetti pizzicarmi sot-
to al tavolo per rimanere sveglio. Fu una giornata molto
dura.
Quando si fece sera ero pronto a crollare, ma Kevin
insistette per portarmi a un barbecue coreano. Si era dato
molto da fare per organizzarmi il viaggio e quindi non
potevo rifiutare. Consumai due Diet Coke in camera,
mi spruzzai la faccia con l’acqua fredda e scesi nella hall
dell’albergo. Al ristorante ordinammo bulgogi, bibimbap
e kimchi. Dopo cena, quando finalmente ero pronto a
ritornare all’albergo per andare a letto, Kevin mi disse
che dovevamo andare a bere qualcosa con i suoi colleghi
di lavoro in un bar karaoke nelle vicinanze. Fu una cosa
atroce perché lui e i suoi amici continuarono a offrirmi
Johnnie Walker Black Label mentre si davano il turno al
karaoke. Finalmente, a mezzanotte quando non riuscivo
più a tenere gli occhi aperti, ebbe pietà di me e mi mise
su un taxi che mi riportò all’albergo.
Il giorno dopo seguirono altri incontri e altro cibo, ma
nonostante il malessere e l’ospitalità eccessiva, mi divertii a

259
fare di nuovo il normale analista finanziario e mi godetti la
tregua momentanea estraniandomi dalle nefandezze della
Russia.
Alla fine tornai all’Intercontinental per controllare i
messaggi. I cellulari britannici non funzionano in Corea,
così il mio ufficio mi inoltrava i messaggi all’albergo.
Nell’ascensore, mentre sfogliavo un mucchio di fogli bian-
chi, ne vidi uno di Vadim che diceva: «Chiamami appena lo
ricevi. Urgente».
Vadim non aveva mai reazioni esagerate, quindi se aveva
detto «urgente», voleva dire che era davvero così. Il cuore
cominciò a battermi all’impazzata e corsi in stanza a chia-
marlo.
Rispose al primo squillo. «Bill, questa mattina presto ab-
biamo ricevuto una telefonata da un ufficiale giudiziario
del tribunale di San Pietroburgo. Dice che c’è una sentenza
contro una delle nostre società russe d’investimento e vuo-
le sapere dove può trovare il denaro per pagarla.» Benché
avessimo venduto tutti i nostri titoli in Russia, dovevamo
mantenere le società finanziarie vuote aperte per tre anni
per chiuderle a norma di legge.
«Sentenza? Che sentenza? Di cosa sta parlando?»
«Non lo so.»
«Lo sai se questa persona esiste davvero?» Era possibilissi-
mo che fosse una goffa montatura.
«No, non credo che dovremmo ignorarlo.»
«Certo che no. Di che somma si tratta?» Pensavo che non
avessimo pagato una fattura da duecento dollari di un cor-
riere e che in qualche modo la questione fosse finita in tri-
bunale.
«Settantuno milioni di dollari.»
Settantuno milioni di dollari? «È una follia Vadim! Di cosa
di tratta?»
«Non ne ho idea, Bill.»

260
«Vadim, metti subito Eduard e Sergei al lavoro. Dobbiamo
sapere cosa sta succedendo.»
«Lo farò.»
La mia settimana di svago era andata in fumo. I russi non
demordevano.
L’intera faccenda dell’ufficiale giudiziario era assurda. Da
dove cavolo saltava fuori quella richiesta? Chi c’era dietro?
Come potevano avanzare delle richieste su un patrimonio
che non era più in Russia? Non potevano. O forse sì?
Non riuscivo quasi più a pensare alla Corea. Dovevo tor-
nare a Londra il prima possibile. Chiamai Kevin, mi profusi
in scuse per non poter andare a cena e gli chiesi di cancellare
il resto degli appuntamenti. Poi telefonai alla Korean Air e
prenotai il primo volo per Londra il mattino seguente.
Dopo il lungo volo, andai dritto in ufficio per incontrar-
mi con Vadim e Ivan. Ci accomodammo nella sala confe-
renze e mi misero al corrente su quello che avevano scoper-
to mentre io ero in volo.
La prima cosa era che la sentenza era senza dubbio vera.
Eduard era andato in treno a San Pietroburgo, si era recato
in tribunale, si era fatto portare il fascicolo del caso e aveva
fotografato i documenti con una macchina fotografica digi-
tale. Vadim estrasse una di quelle foto da una pila di carte e
me la posò davanti. Indicò una parola sulla pagina. «Questo
dice Mahaon», una delle holding di investimento dormienti
del fondo. «E questo è il totale.» Era in rubli, ma feci un
rapido calcolo mentale e constatai che ammontava a circa
71 milioni di dollari.
«Come potevamo non esserne a conoscenza?» chiesi, pen-
sando che fosse una svista colossale da parte nostra.
«Sergei si è chiesto la stessa cosa», disse Vadim. «Mentre
Eduard era a San Pietroburgo, Sergei ha controllato la ban-
ca dati del registro delle imprese.»
«Quindi?» chiesi sentendomi venire meno.

261
Ivan sospirò. «La Mahaon è stata rubata, Bill.»
«Cosa vuol dire rubata? Come si può rubare una società?»
Ivan, che conosceva gli aspetti del processo di registra-
zione delle imprese, disse: «Non è semplice. Ma in pratica
i proprietari di una società possono essere cambiati illegal-
mente senza che si sappia se la persona che rileva la società
abbia i sigilli, i certificati di proprietà e le pratiche di regi-
strazione originali.»
Per me fu un duro colpo. «Quelli sono i documenti
che sono stati sequestrati dalla polizia», dissi a bassa voce.
«Quando hanno fatto irruzione nell’ufficio di Jamie.»
«Esatto», confermò Ivan.
Mi spiegò che una volta fatto quello, i nuovi proprie-
tari potevano agire come qualsiasi altro proprietario della
società. Potevano amministrarla, liquidarla, impossessarsi
del patrimonio, trasferirla, potevano fare tutto quello che
volevano.
Ora tutto era chiaro. Eravamo le vittime di quella che
si definiva «un’irruzione russa.» Di solito erano coinvolti
ufficiali di polizia corrotti che inventavano cause pena-
li, giudici corrotti che approvavano il sequestro dei beni
e cosche criminali che si assicuravano che nessuno fosse
d’intralcio. Era una pratica così comune che il Vedomosti,
il quotidiano russo indipendente, aveva pubblicato un
menù dei servizi di «irruzione» con tanto di prezzi: conge-
lamento dei beni – 50.000 dollari; apertura di una causa
penale – 50.000 dollari; garantire un’ordinanza del tribu-
nale – 300.000 dollari eccetera. L’unico modo di contra-
stare efficacemente queste irruzioni russe era di reagire con
estrema violenza, ma per noi quella non era di sicuro una
strada percorribile.
Sergei passò tutta la notte a fare ricerche e il giorno dopo
ci telefonò per spiegare come era successo: «La Mahaon e
altre due società di nostra proprietà erano state ri-registrate

262
dalla Pluton, una compagnia con sede a Kazan.» Kazan è il
capoluogo del Tatarstan, una provincia semiautonoma della
Russia centrale.
«Chi è il titolare della Pluton?» chiesi.
«Un certo Viktor Markelov, che, secondo la banca dati
del casellario, è stato condannato per omicidio nel 2001.»
«Incredibile!» esclamai. «Quindi la polizia fa irruzione nei
nostri uffici, sequestra una tonnellata di documenti e poi si
serve di una persona condannata per omicidio per ri-regi-
strare le nostre società in modo fraudolento?»
«Questo è esattamente quanto è successo», disse Sergei.
«E c’è di peggio. Quei documenti sono poi stati usati per
falsificare un sacco di contratti retrodatati per provare che
la tua società deve settantuno milioni di dollari a una ditta
fantasma con cui tu non hai mai fatto affari.»
«Oddio!» esclamai.
«Aspetta. Adesso viene il bello. Quei contratti falsificati
sono stati portati in tribunale da un avvocato che tu non
hai assoldato e che si è presentato a difendere le tue società.
Appena iniziato il processo, si è dichiarato colpevole ricono-
scendo un debito di settantuno milioni di dollari.»
Per quanto marcia e incomprensibile fosse tutta quella
faccenda, ora tutto aveva senso. Via via che quella storia si
dipanava davanti ai miei occhi, cominciai a ridere. Prima
a fior di labbra e poi fragorosamente. Non c’era niente di
divertente in tutto quello che stava accedendo, ma ridevo
per puro sollievo. All’inizio tutti rimasero zitti, ma poi Ivan
si unì a me seguito da Vadim.
Ora sapevamo con certezza cosa stavano combinando e
avevano fallito in pieno. Volevano il denaro della Hermitage,
ma lì non ne trovarono. Secondo il listino prezzi delle irruzio-
ni aziendali, avevano speso milioni di dollari per corrompere
giudici, poliziotti e assistenti giudiziari senza ottenere nulla.
L’unica persona che non rideva era Sergei. «Non rilassarti

263
Bill», disse con fare sinistro in vivavoce. «La storia non fi-
nisce qui.»
«Cosa vuoi dire?» chiese Vadim.
«Non lo so», rispose Sergei, la linea del cellulare era un
po’ disturbata. «Ma le storie russe non hanno mai un lieto
fine.»

264
25. DISTURBATORE AD ALTA FREQUENZA

Avremmo potuto toglierci da quell’impaccio su due piedi.


C’era solo un piccolo problema: la causa penale ai danni di
Ivan.
Gli avevano fatto causa Kuznetsov e Karpov, entrambi
coinvolti nel furto delle nostre società. Per smascherare il
fatto, decidemmo di sporgere denuncia penale nei loro con-
fronti alle autorità russe. Poiché il nostro ufficio legale era
oberato oltre misura, ci rivolgemmo a Vladimir Pastukhov,
il legale che aveva incoraggiato Vadim a fuggire dalla Russia
nel 2006.
Arrivò a Londra e si sistemò nella sala conferenze dei no-
stri nuovi uffici. Con il lancio fortunato della Hermitage
Global, ci eravamo trasferiti in un edificio completamente
ristrutturato a Golden Square, proprio dietro a Piccadilly
Circus, e non eravamo più stipati in un dedalo di uffici ar-
redati a Covent Garden.
Vladimir era sommerso dalle nostre pratiche e nel giro
di qualche giorno riuscì a intervistarci tutti. Poi cominciò
a stilare una lunga denuncia sul furto delle nostre società e
sulla creazione di esosi debiti fasulli. Una sezione speciale
descriveva come la frode si servisse di documenti e file elet-
tronici che erano stati sottratti durante le incursioni della
polizia dirette da Kuznetsov e che Karpov aveva in custodia.
Mentre Vladimir lavorava sull’illecito, Eduard era in Russia
a occuparsi della difesa. Erano cinque mesi che tentava di en-
trare in possesso delle parti rilevanti dei fascicoli della cau-

265
sa contro Ivan per preparare la sua difesa e per cinque mesi
il Maggiore Karpov aveva bellamente rifiutato di rilasciare.
Eduard lo aveva denunciato al pubblico ministero e ai suoi
superiori, senza ottenere alcun risultato. A ogni rifiuto, la sua
frustrazione aumentava. Per Eduard, non era solo una que-
stione professionale, cominciava a diventare personale.
Poi però, il 29 novembre, Eduard ricevette una chiama-
ta inaspettata da Karpov: era finalmente disposto a forni-
re parte dei documenti che Eduard gli richiedeva da mesi.
Eduard si liberò subito dagli impegni e si precipitò alla sede
del ministero degli Interni di Mosca sulla Novoslobodskaya
Ulitsa. Karpov lo incontrò all’ingresso e quando raggiunse-
ro il suo piccolo ufficio, questi indicò una sedia vuota.
Eduard si accomodò.
«So che hai richiesto i documenti di Cherkasov e sono
pronto a fornirtene altri oggi», affermò Karpov con un sor-
riso magnanimo.
Eduard guardava Karpov con esasperazione mista a di-
sprezzo. «Avresti dovuto darmeli molto tempo fa.»
«Pazienza. Te li do adesso. Apprezza.» Poi Karpov si alzò
in piedi, prese con entrambe le mani una pila di documenti
alta venticinque centimetri, raggiunse l’altro lato della scri-
vania e li sbatté di fronte a Eduard. «Una cosa, però. La
fotocopiatrice è rotta, quindi se vuoi delle copie, le dovrai
fare a mano.»
Eduard normalmente era compassato e professionale,
però c’era un poliziotto sulla trentina che andava su e giù
con il suo abito italiano da tremila dollari, orologio lussuoso
e unghie ben curate che lo derideva come un bullo del liceo.
Dopo aver cercato per cinque mesi di ottenere quelle infor-
mazioni, quel comportamento fu la goccia che fece traboc-
care il vaso per Eduard. Era stato anche lui un investigatore
del ministero degli Interni, ma non aveva mai trattato nes-
suno in quel modo.

266
Eduard aveva i nervi a fior di pelle e urlò: «Non so cosa tu
stia credendo di fare! Ti abbiamo beccato. Sappiamo tutto
quello che è successo a San Pietroburgo».
Karpov sbiancò. «C-cosa? Cos’è successo a San
Pietroburgo?» disse fingendo di cadere dalle nuvole.
«Abbiamo tutte le prove. I documenti che hai in custodia
sono stati usati per rubare tre aziende e creare esosi debiti
fasulli. Come penalista, posso dirti che non avrò troppe dif-
ficoltà a provarlo in tribunale.»
Karpov incrociò le braccia e si chinò in avanti con lo
sguardo che saettava per la stanza. Dopo qualche secondo
fece cenno a Eduard di venire dalla sua parte della scrivania.
Eduard lo assecondò. Senza proferir parola, Karpov comin-
ciò a digitare come un forsennato sul portatile, forse pen-
sando che nel suo ufficio ci fossero delle microspie.
Dopo che Karpov ebbe finito, Eduard si sporse in avanti
per leggere il messaggio. Non sono stato io. L’idea è stata di
Kuznetsov.
Poi Karpov cancellò tutto quanto dallo schermo.
Nel giro di qualche secondo, Karpov era passato dall’arro-
ganza alla condiscendenza e scelse persino alcuni dei docu-
menti più importanti dalla pratica di Ivan affinché Eduard
li copiasse.
Eduard non seppe come interpretare quel cambiamento
repentino, ma non si sarebbe lasciato sfuggire l’opportunità
di ottenere i documenti per Ivan.
Copiò a mano i documenti come un matto, poi però do-
vette smettere quando Karpov annunciò che doveva andare
a un altro incontro. Karpov, contrariamente al suo solito, lo
accompagnò all’ingresso dell’edificio e continuò a seguirlo
fino alla macchina: sperava di scucire qualcosa di più da
Eduard di quello che sapevamo.
Salito in auto, si rese conto che aveva commesso un gros-
so errore. Non l’avevamo autorizzato a parlare delle nostre

267
scoperte con altri. Avendo perso la pazienza, aveva spiffera-
to ai delinquenti che eravamo alle loro calcagna.
Dopo essersi calmato, Eduard chiamò Londra per rac-
contarci cos’era successo. Aveva fatto davvero un grande
sbaglio, ma considerata l’ostinazione di Karpov, non riu-
scivo ad avercela con Eduard. Dopo essersi scusato, Eduard
ci informò che dovevamo sporgere denuncia quanto prima
poiché il nostro ormai non era più un segreto. Quando do-
mandai a Vladimir quanto tempo ancora gli servisse, mi
disse: «Quattro giorni», il che voleva dire lunedì, il 3 dicem-
bre del 2007.
Nel frattempo, dovetti andare a Ginevra per un pranzo
con un cliente il 30 novembre. Viste tutte le cose che stava-
no succedendo, avrei preferito rimanere a Londra, ma l’in-
contro era troppo importante per essere disdetto. Presi il
primo volo della mattina e rientrai con l’ultimo della sera al
City Airport di Londra. Mentre il taxi zigzagava tra le viuz-
ze di Canary Wharf diretto a casa, la segretaria mi chiamò
con i messaggi.
Mi fece l’elenco di chi aveva chiamato e poi aggiunse: «Ti
ha cercato Igor Sagiryan. Vuoi che te lo passi adesso?»
«Sagiryan?» Cercai di fare mente locale. Quel nome non
mi era nuovo. Mentre scorrevo la lista dei miei contatti sul
BlackBerry mi ricordai che era uno dei pezzi grossi della
Renaissance Capital, la ditta che gestiva Boris Jordan duran-
te la mia disputa con la Sidanco. Avevo incontrato Sagiryan
solo una volta, a una conferenza sugli investimenti qualche
anno prima, quindi mi chiesi perché mi stesse cercando.
«Certo. Passamelo pure.»
Lo chiamò e lo mise in linea. «Igor. Sono Bill Browder.
Come stai?»
«Tutto bene, se così si può dire di questi tempi. Senti,
quando sarai a Londra? Vorrei parlarti, anche per poco, ma
preferirei un incontro a tu per tu invece che al telefono.»

268
Era una richiesta strana. Lo conoscevo a malapena e lui
era pronto a volare da Mosca per un incontro. «Certo. Cosa
succede?»
«Non molto, ma come ben sai, tutti hanno problemucci,
quindi volevo parlare con te di possibili alternative visto
che lavoriamo parecchio insieme, al momento ci sono delle
seccature, ma è meglio non averne affatto.»
La sua risposta non aveva senso. Non avevo idea di qua-
li fossero i suoi «problemucci», e «seccature» e comincia-
vo a sospettare che avessero a che vedere con l’incontro di
Eduard e Karpov.
«C’è qualcosa in particolare di cui vuoi parlare adesso?»
«Be’, il fatto è che sono al cellulare. Tu sei fortunato, vivi
nel Regno Unito, ma io sono in Russia e preferirei che ci
incontrassimo di persona.»
I conti non mi tornavano. Forse Sagiryan stava tentando
di inviarmi un messaggio dai farabutti oppure di trattare
per loro. Quale che fosse stato il suo intento, la sua richiesta
non mi sembrò una coincidenza, perciò accettai di incon-
trarlo al Dorchester Hotel l’11 dicembre, subito dopo essere
tornato da un viaggio di lavoro in Medioriente che avrei
intrapreso l’indomani.
Andai in Arabia Saudita il giorno seguente e il lunedì
dopo il nostro ufficio legale presentò una denuncia di due-
centoquarantaquattro pagine alle autorità russe. Due co-
pie andarono al procuratore generale; due al direttore del
Comitato investigativo di stato e due al dipartimento degli
Affari interni del ministero degli Interni.
Mi aspettavo una reazione alla denuncia dopo l’inizio
dell’anno nuovo, invece due giorni dopo, mentre ero nella
hall del Four Seasons a Riyadh, ricevetti una telefonata da
Famison Firestone in fibrillazione, ancora a Mosca. «Bill,
posso parlare?»
«Cosa?»

269
«Il telefono non è sotto controllo?»
«Non ne ho idea. Sono in Arabia Saudita. Perché?»
«Ho appena avuto un colloquio stranissimo con un certo
Igor Sagiryan.»
«Sagiryan?»
«Sì. Il presidente della Renaissance Capital…»
«So chi è. Perché ti ha chiamato?»
«Voleva parlare di te, Bill.»
«Cosa?»
«Una cosa strana. Sapeva tutto della tua situazione.
Quando sono andato nel suo ufficio, aveva una pila di do-
cumenti su di te sulla scrivania. Ha preso un foglio e ha
fatto un gesto strano da cui ho capito che la situazione era
grave. Ha detto che era coinvolta della gentaglia che può
essere molto cattiva. Tipi con la fedina penale sporca.»
«Cosa voleva?» domandai.
«Qui viene il bello. Voleva che ti convincessi a permettere
alla Renaissance di liquidare le tue società rubate.»
«Liquidare le nostre società rubate? Assurdo. E perché mai
vorrebbe che facessimo una cosa del genere? Come farebbe?»
«Non ne no idea. Non capisco come la loro liquidazione
aiuterebbe Ivan. Inoltre, come farebbe Sagiryan a liquidare
qualcosa che non controlla?»
Riattaccammo. Quello era davvero uno sviluppo strano.
Da dove aveva preso quelle informazioni Sagiryan? Non di
certo da noi. Ciò significava che il mio prossimo incontro
con lui sarebbe stato un’occasione d’oro per sapere cosa sta-
vano combinando i nostri nemici. Cercai di sbrigare i miei
affari in Medioriente. Quando tornai a Londra, mi preparai
all’incontro con Ivan e Vadim. Se possibile, volevo prendere
Sagiryan in contropiede.
Dovevamo anche registrare la nostra conversazione così po-
tevamo analizzare ogni singola parola che diceva. Due giorni
prima dell’incontro, chiamai Steven Beck, un ex ufficiale delle

270
Forze speciali britanniche e un esperto di sicurezza che con-
sultavo per quel tipo di situazioni. Venne in ufficio con due
specialisti della sorveglianza. Uno di loro volle il mio blazer di
cashmere che io gli consegnai a malincuore: dovetti stringere i
denti quando lo vidi lacerare la cucitura del bavero per inserirci
un microfono, poi lo ricucì e me lo restituì. Dopodiché fece
passare un filo attraverso la giacca fino alla tasca sinistra, dove
posizionò un sottilissimo registratore digitale.
L’avrei usato per registrare l’incontro con Sagiryan.
Il giorno dell’appuntamento arrivò. Uscii dai nostri uffici
di Golden Square, salii su un taxi e accesi il registratore non
appena ci allontanammo dal marciapiede. Ero un fascio di
nervi. Stavo per avere un incontro a tu per tu con qualcuno
sospettato di appartenere a una delle maggiori cospirazioni
criminali. Avevo avuto a che fare con una caterva di furfanti
finanziari e altri farabutti nel corso delle mia carriera, ma
mai in vita mia mi ero messo in una situazione potenzial-
mente così pericolosa e ostile. Dovetti impegnarmi a fondo
per mantenere la calma.
Il taxi arrivò al Dorchester Hotel a Park Lane, accostò sul
vialetto a tre corsie tra una Bentley argentata e una Ferrari
rossa. Non erano fuori posto data l’ostentata natura degli
oligarchi russi e degli sceicchi mediorientali che prediligeva-
no quell’albergo. Ero in anticipo. Entrai nella hall e mi ac-
comodai su una poltrona verde oliva, osservando la sala con
le sue colonne di marmo rosso e le tende in tinta, cercando
di riconoscere Sagiryan tra la folla. Alle 7 e 10 circa entrò
di corsa, con l’aria di uno che era in ritardo per un normale
incontro di lavoro. Un po’ più alto di me, Sagiryan era un
uomo d’affari di cinquantacinque anni con i capelli grigi,
guance cadenti e un marcato doppio mento che gli pog-
giava sul collo. Sembrava il classico nonnino, non il losco
figuro coinvolto in tutti i problemi che avevamo in Russia
come sospettavo.

271
Chiacchierammo un po’ di Londra, del tempo, di Mosca
e di politica, sorvolando il vero motivo del nostro incon-
tro. Alla fine, domandai che cosa c’era di così importante
che l’aveva fatto viaggiare fino in Inghilterra per incon-
trarmi.
Sospirò e mi raccontò dell’irruzione della polizia alla
Renaissance. Mi disse che l’incursione era avvenuta perché
la Renaissance aveva avuto a che fare con noi. Ripeté quel-
lo che aveva detto a Jamison, suggerendo che se gli avessi
permesso di liquidare le imprese rubate della Hermitage,
avrebbe risolto tutti i problemi che assillavano lui e la
Renaissance.
Non riuscivo davvero a capire. In primo luogo erano
anni che la Hermitage non aveva rapporti d’affari con la
Renaissance. Secondo, come potevo autorizzarlo a liquidare
le nostre imprese se non erano più nostre? Terzo, anche se
avessi potuto dargli il permesso, quali vantaggi avremmo
avuto noi e in particolare Ivan, su cui pendeva ancora una
causa penale? In cuor mio, pensai che Sagiryan fosse o uno
stolto oppure che avesse un piano segreto. Ero più propenso
a pensare che si trattasse della seconda ipotesi.
Cercai di spremerlo il più possibile, per la registrazione.
Però, a ogni domanda diretta rispondeva con un discorso
evasivo o incomprensibile, simile a come mi aveva parlato
al telefono la prima volta che mi aveva chiamato.
La nostra conversazione giunse al termine quando guardò
l’orologio e si alzò in piedi di scatto. «Sono in ritardo per la
cena, Bill. Buone vacanze.»
Ci stringemmo la mano e sfrecciò via con la stessa veloci-
tà con cui era entrato. Lo seguii nella hall, uscii dalla porta
e salii su un taxi per ritornare in ufficio con la registrazione.
Quando arrivai a Golden Square, tutta la squadra, Steven
e uno degli esperti di sorveglianza mi stavano aspettando
nella sala conferenze. Estrassi il registratore dalla tasca, stac-

272
cai il filo e lo consegnai a Steven. Lo mise sul tavolo e pre-
mette «play».
Ci chinammo. Sentimmo la mia voce quando avevo par-
lato al primo tassista che mi aveva condotto al Dorchester.
Sentimmo i miei passi sul marciapiede e i saluti del portiere
dell’albergo. Ascoltammo i suoni della hall del Dorchester.
E poi, alle 7 e 10 sentimmo un rumore di fondo che coprì
tutto.
Steven prese il registratore, pensando che avesse un pro-
blema. Lo fece tornare indietro e premette ancora «play».
Stessa cosa. Lo mandò avanti veloce, sperando di ascoltare
altri pezzi, ma c’era sempre quel rumore di fondo, che sparì
solo quando ero uscito dall’albergo chiedendo al portiere di
chiamarmi un taxi. Steven premette di nuovo «stop».
Lo guardai. «Cos’era?»
Alzò le sopracciglia, voltando il registratore sul palmo
della mano. «Non lo so. Potrebbe essere un guasto oppure
Sagiryan ha usato un disturbatore ad alta frequenza.»
«Santo cielo. Disturbatore? Ma da dove l’ha tirato fuo-
ri?» Non è facile. Di solito lo usano i servizi speciali come
l’FSB.
Lo trovavo inquietante. Pensavo di essere stato furbo ad
assumere Steven e ad aver giocato a fare spionaggio, ma for-
se ero andato a un appuntamento con una spia vera. Decisi
su due piedi che quella doveva essere la mia prima e ultima
esperienza di spionaggio stile cappa e spada. Sagiryan era
un mistero, non avevamo idea di cosa volessero combinare
i nostri nemici. Ora, tutte le nostre speranze erano riposte
nelle denunce che avevamo sporto alle autorità russe.
Il giorno dopo l’incontro con Sagiryan, ricevemmo la no-
stra prima risposta ufficiale dalla filiale di San Pietroburgo
del Comitato investigativo della Russia. Vadim la stampò,
scorse veloce la parte tecnica e andò al dunque. «Senti que-
sta, Bill. Dice: “Niente di strano è successo in questo tri-

273
bunale di San Pietroburgo e la richiesta di aprire una causa
penale viene respinta perché il reato non sussiste”».
«“Il reato non sussiste?” Le nostre società sono state ru-
bate!»
«Aspetta, non è finita. Dicono anche che non procede-
ranno contro il nostro avvocato, Eduard, per aver sporto
denuncia», disse Vadim sarcastico.
Il giorno dopo ricevemmo un’altra risposta. Questa vol-
ta dal Dipartimento degli affari interni del ministero degli
Interni, che avrebbe dovuto essere molto interessato all’af-
fare losco di Kuznetsov e Karpov.
«Apri bene le orecchie», continuò Vadim. «Gli Affari in-
terni passeranno la nostra denuncia a Pavel Karpov in per-
sona affinché apra un’indagine!»
«Stai scherzando?»
«Niente affatto. Lo dice qui.»
La settimana seguente ricevemmo altre tre risposte, tutte
inutili.
Nell’anno nuovo, ci rimaneva solo una denuncia a cui non
era stata data risposta. Non avevo motivo per pensare che la
reazione non sarebbe stata uguale. Ma la mattina del 9 gen-
naio del 2008, Eduard ricevette una chiamata da un investi-
gatore di nome Rostislav Rassokhov del Dipartimento dei
reati gravi del Comitato investigativo di stato. Rassokhov
era stato incaricato di occuparsi della denuncia e aveva chie-
sto a Eduard di recarsi alla sede del Comitato investigativo
per parlarne.
Una volta arrivato, Eduard fu accolto da un uomo più o
meno della sua età. Rassokhov indossava un vestito sgual-
cito in poliestere e un orologio da quattro soldi. Aveva un
pessimo taglio di capelli, tutti segnali incoraggianti in un
Paese corrotto come la Russia. Andarono nell’ufficio di
Rassokhov, si sedettero e esaminarono la denuncia riga per
riga: Rassokhov fece domande precise, gelido come il mar-

274
mo. Alla fine dell’incontro, disse che avrebbe aperto un’in-
dagine preliminare sulle nostre accuse contro Kuznetsov e
Karpov e che avrebbe fatto degli interrogatori.
Belle notizie. Avrei voluto vedere le facce di Kuznetsov e
Karpov quando ricevettero la richiesta di convocazione al
Comitato investigativo. Dopo tutte le cattiverie che ci ave-
vano fatto, sembrava che la situazione gli si stesse rivoltando
contro.
Mi crogiolai in quella sensazione per circa due mesi, fin-
ché una sera, agli inizi di marzo, Vadim entrò nel mio uffi-
cio trafelato.
«Ho appena ricevuto un messaggio dalla mia fonte,
Aslan.»
«Di cosa si tratta?» domandai nervoso. Mi stavo mio mal-
grado abituando al fatto che Vadim fosse sempre foriero
di brutte notizie, in modo particolare quando venivano da
Aslan.
Mi lanciò il messaggio di Aslan di fronte e indicò le pa-
role in russo. «Dice: “Causa penale aperta contro Browder.
Caso n. 401052. Repubblica dei Calmucchi. Grave evasio-
ne fiscale”.»
Era come se qualcuno mi avesse tolto tutta l’aria che ave-
vo nei polmoni. Sembrava che Kuznetsov e Karpov si stesse-
ro vendicando per essere stati interrogati. C’erano centinaia
di domande che avrei voluto fare, ma erano le 19 e 30 e
purtroppo Elena e io dovevamo andare a una cena mezzora
dopo, era programmata da mesi. Un vecchio amico della
Salomon Brothers e la sua fidanzata avevano fatto di tutto
per prenotare un tavolo in un ristorante nuovo di Londra,
l’Atelier de Joël Robuchon, e non potevo disdire all’ultimo
momento.
Sulla strada per il ristorante chiamai Elena per dirle del
messaggio di Aslan. Per la prima volta da quando era ini-
ziata la crisi, i nostri ritmi emotivi si erano sincronizzati ed

275
entrambi fummo colti dal panico. Quando arrivammo al
ristorante i nostri amici erano già lì, seduti al riparo di un
separé tutti sorridenti. Ci dissero che si erano presi la li-
bertà di ordinare il menù degustazione di sette portate per
tutti e quattro, tre ore assicurate di cena. Per tutta la serata
cercai di non dare a vedere il mio stato di panico, mentre
loro parlavano felici di locali per matrimoni, programmi
per la luna di miele e altri ristoranti sublimi di Londra.
Non vedevo l’ora di andarmene. Quando portarono il se-
condo dessert, Elena mi strinse il ginocchio sotto il tavolo
e con la scusa dei bambini disse che dovevamo rientrare.
Ci precipitammo fuori. Sul taxi diretto verso casa rima-
nemmo in silenzio.
Dovevamo escogitare qualcosa per questa nuova causa
penale contro di me. L’indomani dissi a Eduard di lasciare lì
tutto e di andare a Elista, la capitale della Calmucchia, per
cercare di carpire quante più informazioni possibili.
Di buonora, il giorno dopo Eduard prese un aereo per
Volgograd, e con un taxi raggiunse Elista che si trovava a
quattro ore di distanza. Il paesaggio della Calmucchia –
una delle repubbliche meridionali della Federazione russa
sul Mar Caspio popolata da buddisti asiatici – era tra i più
desolati che avessi mai visto. Era un’immensa pianura arida,
senza alberi né erba, terra marrone e cieli grigi a perdita
d’occhio. A rompere la monotonia c’erano solo alcuni edi-
fici fatiscenti a quindici, trenta chilometri di distanza l’uno
dall’altro.
Arrivato a Elista, andò dritto al ministero degli Interni
sulla Pushkina Ulitsa. L’edificio a quattro piani, pulito
e moderno era dall’altra parte di una piazza pubblica che
ospitava una pagoda dorata.
Entrò, presentandosi all’impiegato del ricevimento e do-
mandò se poteva parlare con l’investigatore che si occupa-
va del caso n. 401052. Qualche minuto dopo, apparve un

276
ometto asiatico di mezz’età, con le gambe arcuate e un gilet
di pelle che disse: «Come posso esserle utile?»
Eduard gli strinse la mano. «Avete un caso aperto contro
William Browder?»
L’inquirente, Nuskhinov, soppesò Eduard con lo sguardo.
«E lei chi è?»
«Mi scusi. Vengo da Mosca. Sono il rappresentante legale
di Mr. Browder.» Eduard mostrò all’investigatore la dele-
ga e domandò: «Potrebbe dirmi in cosa consiste la causa
contro il mio assistito?» L’inquirente si rilassò. «Sì, certo. Si
accomodi nel mio ufficio.» I due uomini camminarono giù
per il lungo corridoio verso una stanzetta colma di oggetti,
dove l’inquirente permise a Eduard di dare un’occhiata alla
pratica.
Le autorità russe mi imputavano due capi d’accusa di
evasione fiscale nel 2001. La Calmucchia aveva sgravi fi-
scali non dissimili da quelli di Jersey o dell’Isola di Man e
il fondo aveva registrato due delle nostre società d’investi-
mento in quella Repubblica. Le accuse erano palesemente
infondate. Dentro alla pratica, Eduard trovò delle revisioni
contabili dal Fisco in cui risultava che le tasse erano state
versate regolarmente.
Eduard lo fece notare all’investigatore, che emise un pro-
fondo sospiro.
«Senta, io non volevo avere niente a che fare con questa
faccenda. Mi hanno fatto rientrare dalle vacanze per parlare
con una delegazione di alto livello da Mosca.»
«Quale delegazione di alto livello?»
«Erano in quattro. Hanno voluto che facessimo causa a
tutti i costi. Dissero che erano istruzioni dall’alto, che ri-
guardavano relazioni che si stavano deteriorando tra Gran
Bretagna e Russia. Non ho avuto scelta» disse Nuskhinov,
visibilmente preoccupato per tutte le leggi che aveva infran-
to seguendo i loro ordini. Poi venimmo a sapere che la dele-

277
gazione consisteva di Karpov, due subordinati di Kuznetsov
e un ufficiale del Dipartimento K dell’FSB.
«Quindi com’è la situazione attuale?» domandò Eduard.
«L’abbiamo fatta e abbiamo emesso un mandato di per-
quisizione federale ai danni di Browder.»
Quando Eduard tornò a Mosca la sera dopo, ci chiamò e
raccontò tutto. Aslan aveva ragione. La causa penale contro
Ivan era solo l’inizio, e c’erano buoni motivi per credere che
ne sarebbero seguite molte altre.

278
26. IL REBUS

Il primo ottobre del 1939, Winston Churchill pronunciò


il suo celebre discorso in cui ventilò la possibilità che la
Russia intervenisse nella seconda guerra mondiale: «Non
posso predirvi l’azione della Russia. Essa è un rebus avvolto
nel mistero di un enigma; ma forse esiste una chiave. Tale
chiave è l’interesse nazionale russo».
Facciamo un salto in avanti al 2008. Le osservazioni di
Churchill sulla Russia erano ancora attuali, però con una
grande differenza. Le azioni della Russia non erano più
guidate dall’interesse nazionale ma dal denaro, soprattutto
dall’appropriamento indebito di denaro da parte dei fun-
zionari statali.
Tutta la nostra faccenda era un rebus. Perché Karpov e i
suoi tre colleghi avrebbero preso un aereo e fatto centinaia
di chilometri per andare in Calmucchia per avviare un pro-
cedimento penale contro di me, solo per vendetta? Perché
avrebbero fatto causa a Ivan se per loro non portava alcun
beneficio? Perché prendersi la briga di fare irruzione in tutte
quelle banche se i beni della Hermitage non erano più in
Russia?
Non riuscivo a capire.
Più riflettevo, più ero convinto che la risposta al rebus si
trovasse nelle spoglie delle nostre ex società d’investimento
che erano state ri-registrate in maniera fraudolenta. Non
avevano molto valore da un punto di vista economico, ma
se in qualche modo fossimo riusciti a riappropriarcene,

279
avremmo avuto il diritto di richiedere tutte le informazioni
del caso al governo. Da lì, avremmo potuto scoprire esatta-
mente, perché non c’era dubbio che fossero coinvolti solo
Kuznetsov e Karpov, chi c’era dietro a quella truffa.
Per farlo, intraprendemmo un’azione legale presso il
tribunale arbitrale di Mosca per farci restituire le società.
Questa deve essere stata una sorpresa per gli artefici del-
la frode perché ci fecero subito una contro causa presso il
tribunale arbitrale di Kazan, e il processo fu così trasferito
in Tatarstan. Forse credevano che il tribunale di Kazan si
sarebbe dimostrato più ben disposto nei loro confronti.
Avevo i miei dubbi circa le possibilità di successo in un
tribunale russo di provincia, ma ero contento di vedere
che i nostri avversari si erano messi subito sulla difensiva.
Avevamo di sicuro toccato un tasto delicato. Eduard e un
giurista junior presero subito un volo per Kazan. Arrivarono
in una fredda giornata di marzo e andarono in tribunale, un
palazzo elegante all’interno del «Cremlino» della Repubblica
del Tatarstan. Eduard era abituato a passare tempo in tribu-
nali penali fuligginosi dove le persone erano aggressive e la
tensione nell’aria si tagliava con il coltello, ma questo era un
tribunale civile. Era un ambiente molto più accogliente, le
persone erano più gentili e molto ma molto più civili.
Il giorno prima dell’udienza, Eduard andò dal cancelliere
del tribunale a richiedere il fascicolo della causa. Inserì il
nome delle nostre società nella banca dati e domandò cor-
diale: «Ci sono due querele contro queste società. Le vuole
entrambe?»
Questa era la prima volta che Eduard sentiva parlare di
una seconda causa, ma deliberatamente non ebbe nessuna
reazione alla sua domanda e si limitò a sorridere. «Sì, en-
trambe per favore.»
Andò nell’archivio e ritornò con una scatola piena di do-
cumenti suggerendo che forse per Eduard sarebbe stato più

280
facile consultarli su un tavolo in fondo alla sala. La ringra-
ziò, andò al tavolo ed esaminò i fascicoli. La prima causa era
la controquerela per cui Eduard era andato là. Ma la secon-
da causa qualcosa che non aveva mai visto. Una sentenza
da 581 milioni di dollari contro la Parfenion, un’altra delle
nostre società d’investimento rubate.
Sfogliò i documenti in stato ipnotico. La sentenza era l’e-
satta copia di quella di San Pietroburgo: si erano avvalsi
dello stesso avvocato e degli stessi contratti falsificati che
contenevano le stesse informazioni di cui si era impossessata
la polizia per avallarla.
Nel momento i cui venni a sapere della condanna a paga-
re altri 581 milioni di dollari, mi chiesi quanti altri tribunali
russi avessero simili condanne fraudolente contro le società
che ci avevano sottratto. Condivisi le mie preoccupazioni
con tutto il personale del team e Sergei cominciò a consul-
tare le banche dati dei tribunali di tutta la Russia. Nel giro
di una settimana, scoprì un’altra sentenza da 321 milioni di
dollari presso il tribunale arbitrale di Mosca.
In totale, le società che ci avevano rubato erano state con-
dannate a pagare circa un miliardo di dollari usando sempre
la stessa tecnica.
Tutte queste scoperte non fecero altro che complicare il
rebus. Non era ancora chiaro come quei criminali avrebbero
potuto fare soldi con queste rivendicazioni. Il solo fatto che
dovevano «avere» quelle somme di denaro non significava
che quei soldi sarebbero comparsi come per magia nei loro
conti correnti. Non c’erano fondi per pagarli! Sono sicuro che
avessero un altro fine. Ma quale?
Non era chiaro, e capii che dovevo fare un passo indietro
e riconsiderare il tutto per vedere se riuscivo a scoprire delle
costanti o dei collegamenti che mi erano sfuggiti.
Un sabato mattina agli inizi di maggio 2008, chiesi a Ivan
di venire nel mio ufficio e di portare tutti i documenti le-

281
gali, gli estratti conto e i certificati di sottoscrizione nella
grande sala del consiglio di amministrazione. Posammo la
scatola con tutti i documenti sul lungo tavolo di legno e
creammo delle pile. Una per ogni sentenza, una per ogni
irruzione in banca e una per ogni causa penale. Dopo aver
diviso tutto, cominciammo a costruire una sequenza tem-
porale degli eventi.
«A quando risale l’ultima incursione di Kuznetsov nelle
nostre banche?» domandai.
Ivan scartabellò nella pila di documenti. «Diciassette ago-
sto.»
«Va bene. Le date dei falsi provvedimenti giudiziari?»
«A San Pietroburgo il tre settembre, a Kazan il tredici
novembre e a Mosca l’undici dicembre.»
«Fammi capire, i “cattivi” si sono rivolti a tutti i tribunali
senza badare a spese per fare emettere queste sentenze pur sa-
pendo che le nostre società non avevano né beni né liquidi?»
«Sembra proprio così», rispose Ivan, notando anche lui
per la prima volta quella contraddizione.
«Per quale motivo l’avrebbero fatto?»
«Forse volevano usare quelle sentenze come garanzie col-
laterali per ottenere prestiti», suggerì Ivan.
«Ma è ridicolo. Nessuna banca concederebbe un prestito
sulla base di queste sentenze amatoriali.»
«E se cercassero di appropriarsi dei tuo beni all’estero?»
Il solo pensiero di quell’ipotesi era agghiacciante, ma sa-
pevo che era impossibile. Avevo controllato con i miei legali
in Inghilterra appena avevo saputo delle rivendicazioni di
San Pietroburgo.
Rimanemmo seduti in silenzio per qualche minuto, poi
mi si accese una lampadina in testa. «Quanti profitti ha fat-
to la Hermitage nel 2006?»
«Un attimo.» Ivan aprì il portatile e recuperò il file. «973
milioni di dollari.»

282
«E quando abbiamo versato di tasse quell’anno?»
Consultò di nuovo il portatile. «230 milioni di dollari.»
«Potrà sembrare una follia. Ma non credi… non credi
che stiano cercando di farsi rimborsare quei 230 milioni di
dollari?»
«È una follia, Bill. Il Fisco non farebbe mai una cosa del
genere.»
«Non lo so. Credo che dovremmo chiederlo a Sergei.»
Quel lunedì, Ivan chiamò Sergei per controllare la no-
stra teoria. Ma come Ivan anche Sergei la liquidò subito.
«Impossibile», disse senza nemmeno pensarci. «L’idea che
qualcuno possa rubare le tasse versate è assurda.»
Ma un’ora dopo Sergei richiamò. «Forse sono stato trop-
po avventato. Ho dato un’occhiata al testo unico delle im-
poste sui redditi e quello che descrivi tu in teoria è possibile.
Anche se in pratica non riesco a immaginare come potrebbe
succedere.»
In quelle settimane mentre me ne stavo seduto nel mio
ufficio a escogitare teorie, Sergei era indaffarato a svolgere
le sue indagini. Più di ogni altra cosa, voleva sapere chi
era coinvolto in questo reato. Aveva scritto all’ufficio go-
vernativo a Mosca dove erano registrate le nostre società
rubate, chiedendo che gli fornissero tutte le informazioni
di cui erano in possesso. Non ricevette nessuna risposta,
ma gli accusatori fecero qualcosa che lasciava trasparire le
loro preoccupazioni. Trasferirono subito le società rubate
a Novocherkassk, una cittadina sconosciuta della Russia
meridionale. La lettera di Sergei li aveva di sicuro spaven-
tati. Poi scrisse all’ufficio di registrazione delle compa-
gnie di Novocherkassk richiedendo le stesse informazioni.
Anche lì i funzionari non risposero come quelli di Mosca
e i criminali trasferirono di nuovo le società. Questa volta
a Khimki, un sobborgo di Mosca. Era chiaro che questo
gioco del gatto con il topo dava fastidio a quei criminali e

283
Sergei continuò e scrisse anche all’addetto alle registrazio-
ni di Khimki.
Sergei capì che mentre le persone con cui stavamo com-
battendo non avevano nessun rispetto per la legge, avevano
un rispetto quasi servile per le procedure e la burocrazia.
Così come Sergei aveva messo in subbuglio quei criminali
costringendoli a trasferire le società di qua e di là, credeva
anche di riuscire a intimorire i poliziotti includendo nel fa-
scicolo della causa altre prove del loro coinvolgimento in
quella truffa. Sergei sapeva che una volta inserite nel fasci-
colo, secondo la prassi le informazioni sarebbero rimaste
per sempre. Sergei sperava che, anche se le indagini sulle
nostre società rubate non sarebbero andate da nessuna par-
te, in futuro sarebbe potuto arrivare un liquidatore onesto
che avrebbe fatto la cosa giusta. Questa remota possibilità
avrebbe tenuto i cospiratori sempre all’erta.
Sergei fissò un appuntamento con la commissione d’in-
chiesta per il 5 giugno 2008. Quando arrivò nel loro palaz-
zo fu accolto da un ispettore capo che lo accompagnò nel
proprio ufficio. Prima che l’ispettore aprisse la porta, Sergei
notò che all’uomo tremava la mano per la tensione.
Spinse e aprì la porta e il mistero fu subito svelato. Seduto
alla scrivania c’era il Tenente colonnello Artem Kuznetsov.
Sergei trasalì. Fissò l’ispettore dritto negli occhi e disse:
«Lui cosa ci fa qui?»
L’ispettore schivò lo sguardo di Sergei e aggiunse: «Al
Tenente colonello Kuznetsov è stato affidato il compito di
assistere il team investigativo che si occupa di questo caso.»
Prima le indagini erano state affidate a Karpov e ora stava
succedendo lo stesso con Kuznetsov!
«Mi rifiuto di parlare in sua presenza», disse Sergei deciso.
«Va bene», rispose l’ispettore titubante. «Allora dovrà at-
tendere in corridoio finché non avremo finito il nostro col-
loquio.»

284
Sergei rimase a sedere su una scomoda sedia di metallo per
un’ora, tenendosi stretto il fascicolo sulle ginocchia. Forse
Kuznetsov e l’ispettore speravano che Sergei desistesse, ma
non lo fece. Quando Kuznetsov alla fine se ne andò, Sergei
si alzò ed entrò. Si accomodò sulla sedia, fornì le prove e
la sua deposizione, accusando esplicitamente Kuznetsov e
Karpov. Secondo la procedura, l’ispettore non ebbe scelta e
dovette accettare le accuse e metterle agli atti.
Sergei uscì dal quartier generale della commissione d’in-
chiesta e salì sulla metropolitana. Quello che era appena
successo aveva dell’incredibile. Sergei pensava che la sua de-
posizione non avrebbe portato da nessuna parte. Si aspet-
tava che la sua dichiarazione fosse ignorata. Si era persino
aspettato di essere trattato male. Quello che non aveva pre-
visto era che nel team d’inchiesta ci fosse proprio l’uomo
contro cui stava testimoniando.
Sergei ci impiegò tutto il viaggio di ritorno e un paio di
giri dell’isolato per calmarsi, ma quando arrivò alla sua scri-
vania alla Firestone Duncan, trovò dell’altro che non aveva
previsto. Un lettera dall’ufficio delle imposte di Khimki,
uno degli uffici di registrazione a cui aveva in precedenza
inviato una lettera per ottenere informazioni sulle nostre
società rubate.
Sergei la aprì. Per una volta qualcuno o qualcuna ave-
va fatto il suo lavoro. C’erano le informazioni, i nomi, ma
cosa più importante, la lettera mostrava che le persone
che avevano rubato le nostre società avevano aperto conti
in due banche misteriose: la Universal Savings Bank e la
Intercommerz Bank.
Questo era un importante passo avanti. Perché tre società
con falsi debiti per un miliardo di dollari e senza nessun
bene avrebbero avuto bisogno di conti in banca? Sergei ac-
cedette subito al sito della Banca centrale. Digitò Universal
Savings Bank e scoprì che era così minuscola che aveva un

285
capitale di soli 1,5 milioni di dollari. L’Intercommerz era
appena più grande, con un capitale di dodici milioni di dol-
lari. A malapena potevano definirsi banche.
Ma poi notò qualcosa di molto interessante. Poiché le due
banche erano così piccole, appena ricevevano del denaro si
notava subito l’impennata dei depositi sul sito web. E c’erano
dei flussi di denaro molto importanti. Alla fine di dicembre
del 2007, subito dopo che quei conti erano stati aperti per le
nostre società rubate, nella Universal Savings Bank erano sta-
ti depositati 97 milioni di dollari e nella Intercommerz 147.
Fu allora che Sergei si ricordò della nostra domanda circa
i rimborsi fiscali. Le somme che le banche avevano rice-
vuto ammontavano all’incirca a quella che le società della
Hermitage avevano versato in tasse nel 2006. Questa non
poteva essere una semplice coincidenza. Raccolse in fretta
tutte le sentenze e le dispose fianco a fianco con i rimborsi
fiscali delle nostre società. In quel momento Sergei ebbe
un’epifania.
La sentenza di San Pietroburgo contro la Mahaon am-
montava a 71 milioni di dollari, e neanche a farlo apposta
gli utili della Mahaon nel 2006 erano proprio di 71 milioni.
La sentenza contro la Parfenion a Kazan era di 581 milioni
di dollari, e gli utili nel 2006 erano identici. Stessa cosa a
Mosca con la nostra terza società rubata, la Rilend. In to-
tale, i delinquenti avevano creato sentenze per 973 milioni
di dollari per controbilanciare gli utili reali di 973 milioni
di dollari.
Sergei chiamò subito Ivan e dopo qualche minuto di spie-
gazioni Ivan balzò i piedi e fece segno con la mano a me e
a Vadim di avvicinarci. «Guardate qui», disse Ivan euforico,
indicando lo schermo.
Ivan caricò il sito web della Banca centrale russa e osser-
vammo quei due picchi nei depositi che Sergei aveva sco-
perto.

286
«Figlio di puttana!» esclamai.
«Bill, Sergei ha fatto un ottimo lavoro», disse Ivan.
«Benissimo, ma come possiamo provare che effettiva-
mente quel denaro proviene dal Fisco?» domandai.
Vadim disse: «Chiederò a diverse fonti a Mosca se posso-
no verificare i bonifici. Ora che sappiamo i nomi delle ban-
che, forse riusciremo a scoprire da dove proviene il denaro.»
Due giorni dopo, Vadim si precipitò in ufficio e stese di-
versi fogli di carta sulla mia scrivania. «Questi sono i boni-
fici», disse con un ampio sorriso soddisfatto.
Afferrai i documenti, ma erano tutti in russo. «Cosa c’è
scritto?»
Andò all’ultima pagina. «Questo conferma un pagamen-
to di 139 milioni di dollari a favore della Parfenion per un
rimborso delle imposte da parte del Fisco russo. Questo è
di 75 milioni a favore della Rilend. E questo è di 16 milio-
ni a favore della Mahaon. Per un totale di 230 milioni di
dollari.»
Questa era la stessa somma di denaro, duecentotrenta mi-
lioni di dollari, che avevamo versato in tasse. Identica.
Ci riunimmo nel mio ufficio e chiamammo Sergei per
congratularci per il suo splendido lavoro di investigazione,
ma pur avendo risolto il rebus era sconvolto. Quella gente
aveva rubato dai contribuenti russi, da lui, dalla sua fami-
glia e dai suoi amici. Da tutti quelli che conosceva.
«È senza dubbio l’atto più cinico che io abbia mai visto»,
disse.
Era il maggiore rimborso delle imposte della storia della
Russia. Era così enorme e spudorato che eravamo sicuri di
averli incastrati. Era senza dubbio una truffa, e ora aveva-
mo le prove per smascherarla e assicurare quella gente alla
giustizia.
Ed era proprio quello che avevamo intenzione di fare.

287
27. DHL

Ero del parere che Vladimir Putin avesse autorizzato la mia


espulsione dalla Russia e che avesse approvato i tentativi
di sottrarre i nostri beni, però trovavo inconcepibile che
permettesse ai funzionari di Stato di rubare 230 milioni
di dollari dal suo stesso governo. Ero convinto che appena
avessimo presentato le prove dei reati alle autorità russe, i
buoni avrebbero vinto sui cattivi e la storia sarebbe finita lì.
Nonostante tutto quello che era successo, credevo ancora
che ci fossero delle brave persone in Russia. Quindi, il 23
luglio del 2008, cominciammo a sporgere denunce detta-
gliate sulla frode del rimborso fiscale, inviandole a tutti gli
enti regolatori e alle agenzie di ordine pubblico della Russia.
Spedimmo anche i dettagli della vicenda al New York
Times e al giornale indipendente più in voga in Russia,
Vedemosti. Gli articoli erano esplosivi e la notizia si diffuse
molto presto sia in Russia sia all’estero.
Diversi giorni dopo la pubblicazione della notizia, fui in-
vitato da Echo Moscow, la stazione radio indipendente più
importante della Russia, a rilasciare un’intervista telefonica
di quarantacinque minuti. Accettai e, in una trasmissione
in diretta, il 29 luglio dovetti ripercorrere passo a passo tut-
to il calvario: le incursioni della polizia, il furto delle nostre
società, le false sentenze dei tribunali, il coinvolgimento di
pregiudicati, la complicità della polizia e, cosa ancora più
importante, il furto di 230 milioni di dollari dei contri-
buenti. L’intervistatore, Matvei Ganapolsky, un giornali-

288
sta veterano con anni di esperienza sulla corruzione della
Russia era visibilmente sconvolto. Quando ebbi terminato
disse: «Se non hanno oscurato la nostra trasmissione, doma-
ni scatteranno degli arresti».
Anch’io la pensavo così, ma non successe nulla di tut-
to ciò. Le ore si trasformarono in giorni, ancora niente. I
giorni diventarono settimane, sempre niente. Era difficile
credere che un fatto così grave come il furto di denaro di
Stato non suscitasse alcuna reazione.
Poi ci fu uno sviluppo inaspettato. Il 21 agosto 2008, du-
rante un’insolita torrida giornata estiva a Londra, squillò il
telefono nel mio ufficio. Prima fu Sergei, che chiamava dal-
la Firestone Duncan; poi fu la volta di Vladimir Pastukhov,
che chiamava dal suo ufficio di casa e infine Eduard, dalla
dacia fuori Mosca. Tutti i nostri avvocati avevano ricevuto
lo stesso messaggio: una squadra del ministero degli Interni
russo avrebbe perquisito il loro ufficio.
Il messaggio di Eduard fu il più inquietante. Mentre era
fuori ufficio, arrivò un pacco della DHL alle 16 e 56. Meno
di un’ora dopo, un drappello di poliziotti piombò nel suo
ufficio per condurre delle ricerche. Appena ebbero comin-
ciato la perquisizione «trovarono» il pacco della DHL e lo
confiscarono. Una volta nelle loro mani, conclusero la per-
quisizione e se ne andarono.
Era evidente che tutta la vicenda era architettata attorno
all’arrivo del pacco misterioso. Grazie al cielo, la segretaria
di Eduard aveva avuto l’accortezza di fare una copia della
bolla di accompagnamento che inviò via fax. Rimanemmo
sconvolti quando visitammo il sito della DHL e inserim-
mo il numero di bolla ottenendo l’indirizzo del mittente:
Grafton House, 2-3 Golden Square, London W1F 9HR.
Il nostro indirizzo di Londra.
Non era di certo stato spedito dal nostro ufficio. Però,
secondo i dati in bolla, era stato spedito da un magazzino

289
della DHL nel sud di Londra, quindi contattammo subito
la Metropolitan Police di Londra per spiegare l’accaduto.
Qualche ora più tardi, il detective, Sergente Richard Norten,
un giovane ufficiale con una giacca di pelle e gli occhiali da
sole da aviatore, entrò a larghi passi nei nostri uffici.
Mi presentai e domandai se fosse riuscito a scoprire il
mittente del pacco.
Strinse le spalle e si sfilò un dvd dalla giacca. «No, però ho
la registrazione della videocamera di sorveglianza della DHL
di Lambeth», disse. «Forse lei può identificarli.»
Indicai la mia scrivania. Vadim, Ivan e io ci radunammo
lì di fronte mentre Norten caricò il disco sul mio computer.
Afferrò il mouse, aprì il file e scorse veloce le immagini vi-
deo a bassa risoluzione in cui si vedeva un viavai di persone
dal banco delle consegne della DHL. Poi premette «play».
Eccoci.
Osservammo arrivare alla DHL due uomini, forse dell’Eu-
ropa dell’Est. Uno portava una sporta di plastica con il logo
di un grande magazzino di Kazan in Tatarstan. La borsa era
piena di documenti. L’uomo li schiaffò dentro una scatola
della DHL e la chiuse, mentre l’altro compilò la bolla di
accompagnamento e pagò in contanti perché la spedisse-
ro all’ufficio di Eduard. Una volta terminato, voltarono le
spalle alla telecamera e scomparvero dalla visuale.
Finito di vedere la registrazione, Norten domandò:
«Riconoscete qualcuno?»
Guardai Ivan e Vadim. Scossero la testa. «No», risposi.
«Nessuno.»
«Bene, se mi date i nomi delle persone che vi danno pro-
blemi in Russia, posso fare un controllo incrociato con la
lista passeggeri negli aeroporti di Heathrow e Gatwick della
settimana scorsa per vedere se salta fuori qualcosa.»
Non avevo molte speranze, ma gli lasciammo comunque
la lista di nomi e lui se ne andò.

290
Non ebbi tempo, però, di rimuginare sulla DHL, perché
le autorità russe si stavano muovendo rapidamente. Oltre
a perquisire gli uffici dei nostri avvocati, convocarono
Vladimir ed Eduard dicendo che si dovevano presentare alla
sede del ministero degli Interni di Kazan tre giorni dopo, di
sabato, per essere interrogati.
Non solo quelle convocazioni erano illegali – gli avvocati
non possono essere obbligati a fornire prove sui loro clien-
ti – erano proprio un brutto segno. Le forze di polizia di
Kazan erano note per essere le più medievali e corrotte della
Russia. A confronto, Fuga di mezzanotte era l’Holiday Inn.
Chi ci lavorava aveva la brutta fama di torturare i prigionie-
ri e di sodomizzarli con bottiglie di champagne per estorce-
re loro informazioni. Inoltre, invitando Vladimir ed Eduard
di sabato, sarebbero stati fuori radar fino al lunedì dopo e
in quel lasso di tempo il ministero degli Interni di Kazan
poteva fare tutto quel che voleva, più o meno indisturbato.
Ero terrorizzato. La cosa aveva raggiunto livelli senza pre-
cedenti. Avevo portato Ivan, Vadim e altri dipendenti della
Hermitage fuori dalla Russia proprio per evitare questo tipo
di cose, ma non avrei mai immaginato nemmeno nel peg-
giore dei miei incubi che i miei avvocati sarebbero potuti
diventare dei bersagli.
Per via della salute cagionevole di Vladimir, ero preoc-
cupato che lo sbattessero dentro. Lo chiamai subito. «Sono
preoccupato per te, Vladimir», dissi con tono ansioso.
Ma Vladimir non sembrava affatto pensieroso. Affrontò
quella situazione come se fosse un problema accademico,
che poteva esaminare e analizzare, come se non stesse suc-
cedendo a lui. «Non preoccuparti, Bill. Sono protetto come
avvocato. Non mi possono convocare per un interrogato-
rio. Ho parlato con l’ordine degli avvocati di Mosca e loro
risponderanno per me. Kazan non la vedrò nemmeno col
binocolo.»

291
«Facciamo finta che tu abbia torto e che ti portino via co-
munque. In galera non sopravvivresti più di una settimana,
visto il tuo stato di salute.»
«Ma Bill, è una vergogna. Non possono cominciare a per-
seguitare gli avvocati.»
Rimasi impassibile. «Senti, Vladimir. Sei stato tu a con-
vincere Vadim a evacuare nel cuore della notte un paio di
anni fa, ora è il tuo turno. Almeno vieni a Londra, così
possiamo parlarne di persona.»
Fece una pausa. «Ci penserò su.»
Vadim ebbe una conversazione simile con Eduard, anche
lui non voleva andarsene. Entrambi gli avvocati sapevano
che quei mandati di comparizione erano illegali e che ave-
vano motivi validi per rifiutarsi, quindi nessuno dei due si
presentò all’interrogatorio.
Il fatidico sabato arrivò e passò senza che accadesse nulla.
Stessa cosa per domenica. Lunedì mattina chiamai Vladimir.
«Okay, questo fine settimana l’hai passata liscia, però adesso
hai avuto modo di pensarci su, quando vieni a Londra?»
«Non so se verrò. Tutti mi hanno detto la stessa cosa.
Andarmene dalla Russia sarebbe la cosa peggiore che potrei
fare. Sarebbe come ammettere di essere colpevole di qualco-
sa. E poi la mia vita è qui. Tutti i miei clienti sono qui. Non
posso andarmene così su due piedi, Bill.»
Compresi la sua riluttanza, però mi pareva che rimanen-
do in Russia, il livello di pericolo sarebbe salito oltre misu-
ra. Dietro tutto questo c’erano dei criminali e si compor-
tavano come se avessero pieno controllo della polizia. «Ma
Vladimir, se ti incastrano, non importa che tu sia innocente
o colpevole. Devi venirtene via. Se non per sempre, alme-
no fino a quando questa storia non sarà finita. È da pazzi
restare lì!»
Nonostante le mie preoccupazioni, era convinto di re-
stare, finché non mi chiamò il mercoledì, con molte meno

292
certezze. «Bill, ho appena ricevuto un mandato di compari-
zione da Kazan.»
«E allora?»
«Ho chiamato l’inquirente che l’ha firmato e gli ho detto
che era illegale. Mi ha risposto che se non mi presento, mi
preleveranno di persona con la forza. Ho provato a parlargli
del mio stato di salute, ma non ne ha voluto sapere. Parlava
come un gangster, non come un ufficiale di polizia.»
«Adesso verrai…»
«Ma il peggio deve ancora venire, Bill. Per via dello stress,
ieri sera ho avuto un problema all’occhio. È come se avessi
una palla di fuoco in testa. Devo vedere il mio specialista il
prima possibile, però è in Italia.»
«Allora vai in Italia.»
«Lo farò non appena potrò volare.»
Qualche ora dopo venimmo a sapere che anche Eduard
aveva ricevuto un secondo mandato di comparizione.
Pensava che l’ordine degli avvocati di Mosca potesse evitar-
glielo, ma nemmeno loro c’erano riusciti.
Poiché Eduard era stato un investigatore e un giudice in
passato, pensava di potersi avvalere delle sue conoscenze per
scoprire chi c’era dietro quegli attacchi, ma nessuno poteva
saperlo.
Uno dopo l’altro gli avevano detto: «Finché non ti è chia-
ra la situazione, faresti meglio a tagliare la corda, Eduard».
Per la prima volta in vita sua, Eduard si sentì un pesce
fuor d’acqua. Era quel tipo di persona a cui tutti si rivolge-
vano per cercare aiuto, non il contrario. Eduard era un pe-
nalista dal 1992, aveva difeso molti clienti in Russia e aveva
un curriculum di tutto rispetto. Eppure, anche se sapeva
come districarsi all’interno del sistema legale, non era in
grado di sparire. Per fortuna, Eduard aveva molti ex clienti
che sapevano come fare e quando vennero a sapere che era
nei guai, si offrirono di aiutarlo.

293
Giovedì 28 agosto 2008 – due giorni prima della data
di comparizione a Kazan – Eduard chiamò Vadim. «Forse
non mi farò sentire per un po’. Se dovesse succedere, non
preoccuparti. Niente di grave.» Vadim gli domandò cosa
volesse dire, ma Eduard lo interruppe e disse: «Devo anda-
re», e riattaccò.
Dopo la chiamata, Eduard tolse la batteria dal cellulare e
andò nel suo appartamento vicino a Vorobyovy Gory, a sud
di Mosca. Sapeva che lo stavano pedinando da settimane.
Chi lo faceva non si era nemmeno preso la briga di nascon-
derlo. C’era una macchina parcheggiata tutte le notti fuori
dal suo palazzo e due uomini tenevano sott’occhio il suo
appartamento. Era tremendo perché non sapeva se fossero
della mafia russa o della polizia. In ogni caso, non voleva
scoprirlo.
Dopo aver mangiato un boccone, quella sera Eduard e
la moglie uscirono per la loro solita passeggiata serale. La
squadra di sorveglianza non li aveva seguiti perché Eduard
e la moglie facevano quella passeggiata tutte le sere e torna-
vano sempre.
Passeggiarono lentamente lungo l’ampio viale per circa
mezz’ora, mano nella mano, ma invece di tornare come fa-
cevano di solito, tirò sua moglie per la mano e attraver-
sarono in fretta la strada. Lì ad aspettarli c’era una grossa
berlina, un’Audi A8 nera con i vetri oscurati. La moglie di
Eduard sapeva che le cose si erano messe male per il marito,
ma era all’oscuro dei suoi piani. Si voltò verso di lei, la prese
per mano e disse in fretta: «È giunto il momento».
Quella era la notte in cui sarebbe scomparso.
Lei lo prese per le spalle e si sporse per dargli un bacio.
Nessuno dei due sapeva quando si sarebbero rivisti. Dopo
il bacio, Eduard salì sul sedile posteriore della berlina, si
distese e l’auto sfrecciò via.
La moglie riattraversò la strada, affondò le mani nelle ta-

294
sche e si incamminò verso casa da sola, sbattendo le pal-
pebre per evitare le lacrime. Non si era resa conto che la
squadra di sorveglianza aveva avuto dei sospetti. Ci volle
qualche ora prima che capissero, ma verso mezzanotte, tre
persone si presentarono nel suo appartamento chiedendo di
Eduard.
La moglie, però, non aveva idea di dove fosse ed è quello
che disse loro.
Se Eduard, con tutti i suoi contatti e conoscenze di diritto
penale aveva deciso di darsi alla macchia, non c’erano dubbi
che Vladimir, un accademico con gravi disabilità, doveva
fuggire subito dalla Russia.
Chiamai Vladimir seduta stante, seccato che fosse ancora
a Mosca. «Vladimir, Eduard se n’e andato. Quando hai in-
tenzione di farlo anche tu?»
«Bill, mi dispiace, non me la sento ancora di viaggiare.
Ma quello che dici non fa una piega.» Non sapevo esatta-
mente a cosa si riferisse e si rifiutò di spiegarsi meglio, però
sembrava che avesse intenzione di partire.
Di sicuro era quello che speravo. Ero pressoché certo che
quando lui ed Eduard non si sarebbero presentati a Kazan
sabato per il secondo mandato di comparizione, quegli sbirri
corrotti avrebbero emesso un ordine d’arresto per entrambi.
Quel che Vladimir non poté dirmi era che stava valu-
tando le alternative per uscire dalla Russia. Tra quelle più
allettanti c’era il valico di confine via terra o via mare. Il
servizio transfrontaliero russo era così antiquato che mol-
ti dei passaggi più isolati non avevano tecnologie avanzate
per scoprire i fuggiaschi. Di solito, in quei posti di blocco
ci lavorava chi era stato scartato dai servizi di frontiera. In
pratica, pigrizia e alcolismo erano due requisiti per queste
posizioni e di norma si lasciavano sfuggire persone sulla lista
dei ricercati. Sulla base di quei criteri, i due punti migliori
erano il valico di Nekhoteevka al confine con l’Ucraina e il

295
traghetto da Sochi a Istanbul. Purtroppo per Vladimir, il
viaggio in auto verso entrambe quelle località remote po-
teva aggravare i sui problemi all’occhio. In Russia, le stra-
de sono notoriamente pessime, con enormi buche e lunghi
tratti sterrati e un viaggio su un percorso accidentato avreb-
be potuto rendere Vladimir, che soffriva di problemi alla
retina, cieco in maniera permanente.
Dopo aver scartato queste ipotesi, Vladimir capì quella
che era l’unica opportunità. In Russia, le vacanze estive fini-
vano domenica 31 agosto. Orde di gente entravano e usci-
vano dal Paese. In quel caos, Vladimir sperava che il servizio
di frontiera non controllasse tutti i passaporti come doveva.
Era un’ipotesi improbabile che qualsiasi persona priva di
disabilità avrebbe scartato subito, ma Vladimir non poteva
permettersi quel lusso.
Arrivò sabato 30 agosto – giorno in cui Vladimir ed
Eduard dovevano presentarsi all’interrogatorio a Kazan – e
io ero con il fiato sospeso, in attesa di una chiamata dalla
moglie di Vladimir che mi diceva che lo avevano arrestato.
Invece non ricevetti alcuna telefonata dalla Russia. Fui ten-
tato di chiamare domenica mattina presto, ma non volevo
far capire a chiunque tenesse sotto controllo le chiamate di
Vladimir che lui era ancora lì.
Quel giorno, Vladimir con moglie e figlio prenotarono
il volo Alitalia delle 23 dall’aeroporto di Sheremetyevo a
Milano. Uscirono di casa alle 16 e 40 con solo il bagaglio a
mano. A differenza di Eduard, nessun losco figuro li stava
tenendo d’occhio. La famiglia prese un taxi per l’aeroporto,
ma a causa del traffico di fine estate, ci vollero due ore e mez-
za per giungere a destinazione. Arrivarono a Sheremetyevo
alle sette di sera e si misero in fila all’accettazione. In aero-
porto regnava il caos. Gente ovunque, nessuno che faceva la
fila e valige che bloccavano quasi tutti i corridoi. La gente
aveva i nervi a fior di pelle per la paura di perdere il volo.

296
Quello era il tipo di situazione in cui Vladimir aveva
sperato. Impiegarono oltre un’ora per fare il check in. Poi
fu la volta dei controlli di sicurezza. Un’altra ora solo per
controllare i bagagli. Erano già le 22 quando Vladimir e
famiglia si trovarono in fila al controllo passaporti. Anche lì
il caos regnava sovrano: gente ammassata da tutte le parti,
sgomitate a destra e a manca, tutti che rivendicavano il di-
ritto a passare per primi.
Quando Vladimir e famiglia arrivarono in testa alla fila,
la gravità della situazione lo assalì. Se non avesse funziona-
to, era probabile che l’avrebbero arrestato. E se così fosse
stato, sarebbe morto in prigione. Non era un’esagerazione
concludere che, per Vladimir, il passaggio della dogana era
una questione di vita o di morte.
A meno di quaranta minuti dal decollo, Vladimir e fami-
glia oltrepassarono la linea rossa sul pavimento e si presenta-
rono di fronte alla cabina del controllo passaporti. L’agente
era un giovanotto con le guance rossicce, gli occhi chiari e
un velo di sudore sulla fronte.
«Documenti», disse in russo senza sollevare lo sguardo dal
terminale.
Vladimir frugò nell’astuccio da viaggio per cercare i pas-
saporti della sua famiglia e le carte d’imbarco. «Che caos
stasera in aeroporto», buttò là dissimulando una certa di-
sinvoltura.
La guardia di frontiera borbottò qualcosa di incompren-
sibile. In attesa dei documenti, guardò Vladimir con la
fronte corrugata.
«Prego.» Vladimir gli consegnò tutto.
Quelli erano forse i cinquecentesimi documenti che gli
erano passati sotto agli occhi quel giorno. Di solito gli uf-
ficiali d’immigrazione russi sono meticolosi nel controlla-
re i passaporti. Digitano i dati sulla tastiera del computer,
aspettano il risultato e poi timbrano il passaporto. Ma se

297
avessero applicato quel livello di attenzione anche quel gior-
no, ci sarebbero stati ritardi di dodici ore e metà passeggeri
avrebbero perso il volo.
Tralasciando le normali procedure, la guardia afferrò il
timbro, sfogliò tutti i passaporti e li stampigliò con l’in-
chiostro rosso autorizzando l’uscita. Poi riconsegnò tutto a
Vladimir. «Avanti il prossimo!» gridò.
Vladimir prese a braccetto suo figlio e tutti e tre sgatta-
iolarono via. Arrivarono all’aereo appena quindici minuti
prima della partenza, salirono a bordo, si allacciarono le
cinture di sicurezza e ringraziarono il cielo per avercela fat-
ta. L’aereo decollò e dopo qualche ora arrivarono in Italia.
Quella sera, sul tardi, mi chiamò subito appena atterrato.
«Bill, siamo a Milano!» esclamò.
Vladimir era sano e salvo, provai un profondo senso di
sollievo.

298
28. KHABAROVSK

Mentre Vladimir era al sicuro, Eduard era ancora da qual-


che parte in Russia ma non avevamo idea dove.
Nemmeno sua moglie lo sapeva. Dopo averla lasciata nel-
la Universitetsky Prospekt, Eduard fu portato nell’apparta-
mento di un amico nella parte orientale della città appena
fuori dall’Anello dei parchi. Quella notte la trascorse lì e an-
che quella successiva. Non uscì mai, nemmeno per fare una
telefonata. Misurava l’appartamento a larghi passi e quando
il suo amico era a casa gli parlava della propria situazione
e valutava le alternative. Non era pronto a lasciare il Paese.
Non ancora.
Prima dell’alba del terzo giorno, Eduard salì sull’auto di
un altro amico e fu accompagnato in un altro appartamento.
Arrivarono facendo un lungo giro. Eduard era sdraiato sul
sedile posteriore e solo dopo essersi assicurati che nessuno
li inseguiva, proseguirono verso la destinazione successiva.
Eduard trascorse lì due notti. Tutti quegli spostamenti
gli stavano pensando. Eduard era abituato a fare le cose da
solo, e ora all’improvviso doveva dipendere completamente
dagli altri. Non poteva usare il suo telefono o inviare email.
Poteva solo dare un’occhiata alle notizie e andare su è giù
per l’appartamento come un animale in gabbia, sempre più
stressato.
Verso la fine della prima settimana, Eduard ricevette un
messaggio da uno dei suoi amici. Cattive notizie. Il numero
di uomini alle sue calcagna era aumentato.

299
Le persone che lo cercavano si stavano avvicinando e
Mosca stava diventando troppo pericolosa.
Non era pronto a lasciare la Russia e ammettere la scon-
fitta, quindi doveva trovare un’altra città in cui nascondersi.
Valutò l’idea di andare a Voronezh o a Nizhny Novgorod,
entrambe a una notte di viaggio in treno da Mosca. Ma in
entrambi i posti sarebbe stato da solo. Era un avvocato di
talento, non un bravo fuggitivo e forse non avrebbe resistito
una settimana. Capì che aveva bisogno di due cose: un luo-
go lontano da Mosca e qualcuno di cui fidarsi che lo potesse
nascondere.
Esaminò i suoi contatti e uno spiccava fra tutti: un certo
Mikhail che viveva nella città di Khabarovsk nell’estremo
oriente della Russia. Dieci anni prima, Eduard aveva tirato
fuori Mikhail da un grosso pasticcio legale evitandogli una
lunga pena detentiva.
Chiamò Mikhail con un cellulare prepagato e gli spiegò
la situazione. Dopo che ebbe finito, Mikhail disse: «Se riesci
a trovare un modo per venire a Khabarovsk, posso tenerti
nascosto per tutto il tempo che vuoi.»
Khabarovsk soddisfaceva sicuramente il requisito della
lontananza. Si trovava a 6115 chilometri da Mosca, 480
chilometri in più della distanza di Londra dall’equatore. Il
problema era arrivarci. Andarci in auto avrebbe richiesto
troppo tempo e prima o poi Eduard sarebbe stato fermato
e perquisito da capo a piedi da dei poliziotti locali corrotti,
il che sarebbe stato un disastro. Anche il treno era proble-
matico perché avrebbe dovuto comprare un biglietto inse-
rendo il suo nome nel sistema, e poi sedersi in una scatola
di metallo mobile per una settimana mentre quei gangster
facevano due più due.
La soluzione migliore era quella di prendere un volo.
Anche questo avrebbe significato inserire il suo nome nel
sistema, ma il volo sarebbe stato di poco più di otto ore,

300
dando dunque meno tempo di reagire a chi gli stava alle
calcagna.
Per aumentare le possibilità di farlo senza rischi, Eduard de-
cise di viaggiare un venerdì sera tardi. Sperava che i tipi che lo
pedinavano avessero cominciato il loro weekend di bisboccia,
così era improbabile che avrebbero ricevuto le informazioni, le
avrebbero elaborate e agito prima che lui atterrasse.
Arrivò all’aeroporto Domodedovo di Mosca, da dove
partono quasi tutti i voli interni, novanta minuti prima
della partenza e andò al banco per comprare un biglietto.
L’addetta alla biglietteria gli disse il prezzo – 56.890 rubli,
poco meno di 1500 dollari – e Eduard estrasse il portafoglio
e contò le banconote. Le consegnò il denaro con tutta la
disinvoltura di cui fu capace, il cuore gli martellava in petto.
Era una bella somma in contanti, ma lei li prese senza nes-
suna reazione, continuò a scrivere e poi gli diede il biglietto
con un sorriso e disse: «Buon viaggio».
Primo ostacolo superato.
Seguirono i controlli di sicurezza, il check-in alla porta
d’imbarco e poi il decollo. Andò tutto liscio, ma c’era un
altro ostacolo. L’acquisto del biglietto avrebbe potuto fare
scattare un messaggio ed era molto probabile che uno di
quei gangster lo aspettasse all’aeroporto di Khabarovsk al
suo arrivo. Cercò di dormire durante quel volo notturno
che attraversava sette fusi orari, ma gli fu impossibile.
Finalmente, stanco e provato, Eduard atterrò a
Khabarovsk. Dopo la fase di rullaggio, l’aereo si fermò.
L’autoscala si avvicinò all’aeromobile. Aprirono il portello-
ne e i pochi passeggeri scesero e si diressero verso il ter-
minale. Quando Eduard, per la sua alta statura, abbassò la
testa per passare dalla porta dell’aereo, vide che sulla pista
di atterraggio c’era un’auto che aspettava. Ebbe un tuffo al
cuore, ma poi notò Mikhail che lo attendeva lì vicino con
un sorriso di benvenuto.

301
Eduard scese la scaletta con in mano il suo piccolo trolley
e senza mettere piede nel terminal fu portato di corsa in un
albergo anonimo in un sobborgo dove Mikhail lo registrò
sotto falso nome.

Non sapevamo dove fosse Eduard, cosa stesse facendo o


se fosse al sicuro. Anche se non potevamo fare nulla per
aiutarlo in Russia, questo non voleva dire che non potes-
simo reperire altre informazioni sulle strategie che stavano
adottando per incastrarlo.
All’inizio di settembre, ricevemmo copie del materiale dal
tribunale di Kazan. Il documento più preoccupante era una
deposizione di Viktor Markelov, il condannato per omici-
dio che aveva rubato le nostre società. Aveva giurato di aver
fatto tutto sotto la guida di un certo Oktai Gasanov che era
morto per un attacco di cuore due mesi prima del furto.
Inoltre, Markelov dichiarava che Gasanov riceveva tutte le
istruzioni da Eduard Khayretdinov e che Eduard riceveva
ordini da me.
Ora avevamo capito esattamente cosa sarebbe successo se
Eduard fosse rimasto in Russia. I funzionari corrotti del mi-
nistero degli Interni alla fine lo avrebbero trovato e arrestato.
Una volta in custodia cautelare, sarebbe stato torturato finché
non avesse testimoniato coinvolgendoci entrambi nel furto di
230 milioni di dollari. Se avesse collaborato, forse avrebbero
avuto un occhio di riguardo e l’avrebbero condannato solo a
qualche anno in una colonia penale. Se si fosse rifiutato, l’a-
vrebbero ucciso e tutto quello che Markelov sosteneva sarebbe
stato accettato come «verità» ufficiale in Russia.
Dovevamo trovare un modo per fargli pervenire le infor-
mazioni. Vadim inviò un messaggio semplice ai conoscen-
ti di Eduard a Mosca in caso fossero in contatto con lui:
«Sono venute alla luce nuove informazioni. Sei in pericolo
di vita. Scappa il prima possibile».

302
A nostra insaputa, Eduard alla fine ricevette quel messag-
gio. Ma anche allora, non era ancora pronto ad arrendersi.
Riteneva che se le nostre denunce per il furto di 230 milioni
di dollari fossero state riesaminate da un pezzo grosso del
governo, tutto si sarebbe risolto.
Ma persino Mikhail che lo ospitava era nervoso e pen-
sava che stava diventando troppo pericoloso per Eduard
rimanere a Khabarovsk. Assegnò a Eduard due guardie
armate che si trasferirono con lui nella dacia di Mikhail
in mezzo ai boschi, a centinaia di chilometri dalla città.
Lì Eduard aveva elettricità generata da un gruppo elettro-
geno, un telefono satellitare e un’auto. Era un paesaggio
pittoresco, ricoperto di conifere e betulle e punteggiato di
laghetti pieni di pesci.
Dopo due settimane in campagna, Eduard ricevette un
messaggio da Mikhail. Uno dei confidenti più fidati di
Eduard si stava recando appositamente a Khabarovsk per
portare un messaggio di persona a Eduard. Eduard lo in-
terpretò come un segnale positivo, perché qualcuno avreb-
be fatto tutta quella strada per andare nell’estremo oriente
del Paese per portare una cattiva notizia? Due giorni dopo,
Eduard e le guardie salirono su un’auto, lasciarono la da-
cia per andare a incontrare l’uomo da Mosca in un caffè
nella periferia di Khabarovsk. Quando arrivò il suo amico,
Eduard perse le speranze quasi subito. L’amico gli strinse
la mano con un’aria molto preoccupata. Si accomodarono,
ordinarono un tè e cominciarono a parlare.
«Le abbiamo provate tutte», disse l’uomo. «Sono coinvol-
te persone molto potenti. Non cambierà nulla. Il problema
rimarrà.»
«Ma perché hai fatto tutta questa strada per venirmi a
dire questo?»
L’uomo si chinò in avanti. «Perché, Eduard, te lo vole-
vo dire faccia a faccia: devi andartene dalla Russia. Corri il

303
rischio di essere ucciso. Quelle persone che ti stanno alle
calcagna non si fermeranno davanti a niente.»
Questo scosse Eduard nel profondo. Dopo l’incontro,
chiamò Mikhail e gli disse: «Devo andarmene dalla Russia.
Mi puoi aiutare?»
«Farò tutto quello che posso», rispose Mikhail.
Essendo la Russia un Paese così decentralizzato, il potere
di un uomo d’affari in alcune zone può essere paragona-
bile a quello del Ministro degli interni di Mosca. Mikhail
era uno dei più importanti uomini d’affari della regione e
Eduard non poteva fare altro che contare sull’influenza di
Mikhail. Doveva sperare che lo aiutasse a superare i control-
li di sicurezza e la dogana che tutti i viaggiatori dovevano
affrontare per poter uscire dal Paese.
Mikhail prese accordi con un faccendiere del posto affin-
ché scortasse Eduard in aeroporto fino all’uscita d’imbarco.
Eduard chiese più volte se questo faccendiere sarebbe riu-
scito a convincere gli agenti della dogana a lasciarlo passare.
Mikhail gli disse di stare tranquillo. Però Eduard non pote-
va fare a meno di preoccuparsi.
Il 18 ottobre 2008, alle 10, Eduard si recò in aeroporto e
incontrò il faccendiere, un piccoletto con lo sguardo affa-
bile che indossava un vestito grigio di buon taglio. Eduard
aveva già un visto per il Regno Unito, quindi andò alla
biglietteria della Asiana e comprò un biglietto di andata
e ritorno per Londra via Seoul. Eduard fece il check-in e
aspettò fino all’ultimo momento prima di avviarsi verso i
controlli di sicurezza e dei passaporti. Quando non poté
più attendere, lui e il faccendiere si avviarono verso i con-
trolli di sicurezza.
Andarono dritti in testa alla fila dei controlli di sicurez-
za e passarono. Il faccendiere rimase con Eduard tutto il
tempo, ammiccando e strizzando l’occhio agli addetti alla
sicurezza, stringendo anche qualche mano. Eduard posò le

304
sue borse sul nastro della macchina a raggi X, esibì la carta
d’imbarco e attraversò il metal detector.
Dopo si spostarono verso il controllo passaporti e quan-
do arrivarono al posto d’ispezione, il faccendiere strinse la
mano all’ufficiale di dogana a cui fece seguito uno scambio
di convenevoli.
La guardia poi prese il passaporto di Eduard. Lo appog-
giò sul banco e fissò Eduard, dopodiché tornò a guardare il
faccendiere, trovò uno spazio vuoto sul passaporto, sbatté il
timbro su un tampone di inchiostro rosso e gli stampigliò
il passaporto. Non si prese nemmeno la briga di controllare
nel computer. Chiuse il passaporto e lo restituì. Lo sguar-
do di Eduard incrociò quello del faccendiere che gli fece
l’occhiolino. «Grazie», disse Eduard. Si voltò e si precipitò
verso l’uscita. Erano rimasti solo pochi minuti prima che
chiudessero le porte.
Riuscì a salire sul volo e l’aereo decollò. Solo due ore
dopo, quando si rese conto che l’aereo stava sorvolando il
mar del Giappone e che quindi erano fuori dallo spazio ae-
reo russo, finalmente, dopo tutte quelle settimane, Eduard
cominciò a sentirsi a suo agio.
Era fuori dalla Russia.

Quel giorno, più tardi, a Londra il telefono di Vadim


squillò con un prefisso internazionale che non riconobbe.
Rispose. «Pronto?»
«Vadim! Sono Eduard.»
Vadim saltò dalla sedia. Erano quasi due mesi che non
avevamo notizie da Eduard. Ogni giorno eravamo passati
dalla speranza alla disperazione, chiedendoci se fosse vivo o
morto o in uno stato intermedio. «Eduard!» esclamò Vadim.
«Dove sei? Stai bene?»
«Sì. Sono a Seoul.»
«Seoul?»

305
«Sì, Seoul. Parto per Heathrow con il prossimo volo della
Asiana. Arrivo domani.»
«Sei al sicuro?»
«Sì, sì. Abbiamo un sacco di cose di cui parlare. A presto.»
Il mattino dopo alle sette, un’auto andò a prendere
Eduard a Heathrow e lo portò dritto agli uffici a Golden
Square. Appena entrò dalla porta, a turno lo abbracciammo
calorosamente. Anche se l’avevo visto una sola volta in vita
mia, era come se avessi ritrovato un fratello perso di vista da
tanti anni.
Quando alla fine ci calmammo, Eduard ci raccontò la
sua avventura, Vadim e Ivan facevano a turno a tradurre.
Eravamo estasiati e quando finì dissi: «È incredibile Eduard.
Davvero incredibile. Grazie a Dio che ce l’hai fatta.»
Fece un cenno con la testa. «Sì, proprio così, grazie a Dio.»
Quella sera mi concessi un po’ di tempo per godermi la
presenza di Eduard, ma i nostri problemi non erano nean-
che lontanamente finiti.
Mentre Eduard si era dato alla macchia, Sergei era ancora
in pericolo a Mosca. Alla fine di settembre avevamo visto
un articolo sul Delovoi Vtornik, un oscuro settimanale di
affari moscovita. Il titolo del pezzo era «Quintessenza della
frode all’inglese». Ripeteva l’ormai familiare affermazione –
cioè che Eduard e io eravamo le menti dietro a quella frode
– ma aggiungeva anche un nome che prima non era mai
apparso sui giornali: Sergei Magnitsky.
Dopo questo, Vadim cercò di convincere Sergei a lasciare
la Russia, ma Sergei si rifiutò categoricamente. Insistette che
non gli sarebbe successo nulla perché non aveva fatto niente
di male. Era anche indignato che quelle persone avessero
rubato così tanto denaro al suo Paese. Era così risoluto e
credeva così fermamente nella legge che il 7 ottobre ritornò
alla Commissione di inchiesta dello Stato russo a rilascia-
re una seconda testimonianza giurata. Cercò di nuovo di

306
usare la procedura per inserire nuove prove nei documenti
ufficiali, e questa volta fornì un certo numero di dettagli
aggiuntivi sulla truffa e su chi c’era dietro.
Questa fu una mossa avventata. E anche preoccupante.
Pur non potendo fare a meno di essere colpito dalla de-
terminazione di Sergei e dalla sua integrità, visto quello
che avevano cercato di fare a Eduard e Vladimir, ero ter-
rorizzato dal fatto che l’avrebbero arrestato su due piedi.
Stranamente, non lo fecero.
La mattina del 20 ottobre del 2008, Ivan tentò di nuovo
di convincere Sergei: «Ascoltami, stanno prendendo di mira
tutti i nostri legali. Abbiamo visto materiale con sopra il tuo
nome. Credo che ti accadrà qualcosa di brutto se rimani,
Sergei.»
«Ma perché dovrebbe succedermi qualcosa?» chiese Sergei
ostinato. «Non ho infranto la legge. Vogliono solo Eduard
e Vladimir perché hanno portato avanti la causa contro le
azioni legali fraudolente. Io non l’ho mai fatto. Non c’è mo-
tivo per cui me ne debba andare.»
«Ma te ne devi andare, Sergei. Ti arresteranno. Per favore.
Ti prego.»
«Mi dispiace Ivan. La legge mi proteggerà. Non siamo
nel 1937», disse Sergei facendo riferimento alle purghe sta-
liniane dove la gente spariva da tutte le parti per mano della
polizia segreta.
Non c’era modo di fare cambiare idea a Sergei. Sarebbe
rimasto in Russia e noi non potevamo farci nulla. Era di
un’altra generazione rispetto a Vladimir e Eduard. Questi
ultimi due erano stati adulti durante l’era sovietica e ave-
vano visto con i loro occhi quanto poteva essere volubile
il governo russo. Se i potenti ti volevano fare arrestare, lo
facevano. La legge non aveva nessuna importanza. Sergei,
d’altro canto, aveva trentasei anni ed era cresciuto in un
periodo in cui le cose avevano cominciato a migliorare.

307
Non aveva visto la Russia com’era, ma come voleva che
fosse.
Per questo non capiva che in Russia non erano gli uomini
a dovere sottostare alla legge, ma la legge agli uomini.
E quegli uomini erano dei truffatori.

308
29. IL NONO COMANDAMENTO

All’alba del 24 novembre del 2008, tre squadre di ufficiali


del ministero degli Interni sottoposti agli ordini del Tenente
colonnello Artem Kusnetsov si sparpagliarono per Mosca.
Una squadra si diresse verso l’abitazione di Sergei. Le altre
due andarono dritte agli appartamenti dei giovani avvocati
alle dipendenze di Sergei presso la Firestone Duncan.
Quando Irina Perikhina, una delle tirocinanti, sentì bus-
sare alla porta, era seduta di fronte al comò. Come qualsiasi
donna russa con un minimo di rispetto di sé, non avrebbe
mai ricevuto nessuno senza essersi messa almeno un filo di
trucco. Invece di rispondere, continuò a mettersi rimmel e
rossetto. Quando ebbe finito andò alla porta ma non trovò
nessuno. La polizia si era spazientita e se n’era andata, pen-
sando che l’appartamento fosse vuoto.
Boris Samolov, un altro avvocato di Sergei, per fortuna
non abitava all’indirizzo dichiarato quando bussarono alla
sua porta. Così non dovette affrontare la polizia.
Sergei, invece, era a casa con Nikita, il figlio di otto anni.
Sergei si stata preparando per andare al lavoro e Nikita, a
scuola. Il figlio maggiore, Stanislav, era già uscito. La moglie
di Sergei, Natasha, non si era sentita bene quella mattina ed
era andata a farsi visitare dal medico.
Quando bussarono alla porta, Sergei aprì e si trovò di
fronte tre ufficiali. Si fece da parte e li lasciò entrare.
La famiglia Magnitsky viveva in un modesto appartamento
con due stanze da letto sulla Pokrovka, nel centro di Mosca.

309
Nelle otto ore successive, i poliziotti misero a soqquadro l’in-
tero appartamento. Al ritorno dal medico, Natasha rimase
sconvolta per lo shock, Sergei invece no. Seduti in camera di
Nikita, lui le sussurrò: «Non preoccuparti. Non ho fatto nul-
la di male. Non mi possono fare niente». C’era ancora la po-
lizia quando Stanislav tornò da scuola. Era un fascio di nervi,
ma Sergei, con il suo tono pacato, lo rassicurò dicendogli che
tutto sarebbe tornato a posto. La polizia finì la perquisizione
alle 16. Confiscarono tutti i file personali di Sergei, i compu-
ter, le foto di famiglia, una pila di dvd per bambini e persino
una collezione di aeroplanini di carta e un album da disegno
di Nikita. Poi arrestarono Sergei. Mentre lo accompagnavano
fuori, lui si voltò verso la moglie e i figli, abbozzò un sorriso e
disse che sarebbe tornato presto.
Così cominciò la tragica disavventura di Sergei Magnitsky.
Venni a conoscenza dell’accaduto a spizzichi e bocconi nel
giro di diversi mesi, ma è una tragedia che non mi è mai più
lasciato la mia mente.
Seppi in tempo reale che gli avevano perquisito la casa.
A metà pomeriggio del 24 novembre, Vadim si precipitò
alla mia scrivania con uno sguardo terrorizzato: «Bill, devi
venire subito in sala conferenze!»
Lo seguii. Sapevo cosa mi avrebbe detto. Ivan, Eduard e
Vladimir erano già lì. Appena chiusi la porta, Vadim disse:
«Sergei è stato arrestato!»
«Cazzo!» Sprofondai nella sedia più vicina, avevo la bocca
secca. Mi balenarono in testa decine di domande e immagi-
ni. In quale prigione lo avevano sbattuto? Per quali motivi
lo avevano arrestato? Come avevano fatto a incastrarlo?
«E adesso cosa succederà, Eduard?» domandai.
«Ci sarà un’udienza per la custodia cautelare in cui gli
concederanno il rilascio dietro cauzione oppure verrà mes-
so in un centro di detenzione. La seconda ipotesi è la più
probabile.»

310
«Di cosa si tratta?»
«Per quanto possono trattenerlo?»
«Fino a un anno.»
«Un anno? Senza condannarlo?»
«Sì.»
Continuavo a immaginare cose assurde, il mio pensiero
corse al programma televisivo americano Oz, in cui un av-
vocato che aveva studiato ad Harvard viene recluso con altri
delinquenti violenti in un riformatorio fittizio nello Stato
di New York. Era solo un programma televisivo, ma le cose
indicibili che succedevano a quel personaggio mi fecero
rabbrividire quando pensavo a quello che stava per affron-
tare Sergei. Le autorità lo avrebbero torturato? Lo avrebbe-
ro violentato? Come avrebbe fatto un avvocato borghese,
acculturato e gentile come lui a sopportare una situazione
del genere?
Dovevo fare tutto quel che potevo per tirarlo fuori di lì.
La mia prima mossa fu quella di procurargli un avvoca-
to. Lui richiese un famoso rappresentante legale della sua
città natale, un certo Dmitri Kharitonov. Lo ingaggiammo
subito. Diedi per scontato che Dmitri avrebbe condiviso
le informazioni di cui veniva a conoscenza sulla situazione
di Sergei, invece si dimostrò molto riservato. Era sicuro di
avere il telefono sotto controllo e che spiassero la sua posta
elettronica. Comunicava con noi solo di persona, quindi
solo quando sarebbe arrivato a Londra a metà gennaio. Non
mi piaceva affatto quella situazione, ma se quello era l’avvo-
cato preferito di Sergei, non potevo farci niente.
La mossa successiva fu quella di vedere il direttore
dell’ufficio russo presso il ministero degli Esteri, Michael
Davenport, un avvocato che aveva studiato a Cambridge,
più o meno della mia età. A differenza del suo predecessore,
Simon Smith, Davenport non mi entusiasmava. L’avevo già
incontrato altre volte per informarlo dei nostri guai con i

311
russi, ma lui sembrava che mi vedesse come un uomo d’af-
fari che se l’era andata a cercare in Russia e che non si meri-
tava le attenzioni del governo britannico.
Ora che si trattava di un essere umano vulnerabile, spera-
vo che il suo atteggiamento fosse diverso.
Andai nel suo ufficio sulla King Charles e lui mi fece ac-
comodare. Indicò il suo tavolo da conferenze in legno e ci
sedemmo uno di fronte all’altro. Chiese alla sua assistente
di portarci del tè e poi domandò: «Cosa posso fare per lei,
Mr. Browder?»
«Ho cattive notizie dalla Russia», sussurrai.
«Cos’è successo?»
«Uno dei miei avvocati, Sergei Magnitsky, è stato arresta-
to.»
Davenport si irrigidì. «Uno dei suoi avvocati, ha detto?»
«Sì, Sergei ha smascherato la frode sui rimborsi fiscali di
cui le avevo parlato all’inizio dell’anno. Ora i funzionari del
ministero degli Interni che hanno commesso i crimini lo
hanno arrestato.»
«Per quali motivi?»
«Dobbiamo ancora capirlo. Ma posso ipotizzare che si trat-
ti di evasione fiscale. Ecco come agiscono quelle persone.»
«Un gran bel pasticcio. La prego di dirmi tutto quello che
sa.»
Gli rivelai i particolari e lui si annotò tutto. Quando ebbi
finito, lui promise con tono autoritario: «Solleveremo la
questione al momento opportuno con le nostre controparti
in Russia».
A quel punto avevo incontrato abbastanza diplomatici
per sapere che quelle erano le solite parole del ministero
degli Esteri per dire: «Non faremo un fico secco per lei».
L’incontro non durò molto di più. Mi precipitai fuori,
salii su un taxi e ritornai in ufficio. Mentre attraversavo
Trafalgar Square, squillò il telefono. Era Vadim.

312
«Bill, ho appena ricevuto cattive notizie dalla mia fonte,
Aslan.»
«Di cosa si tratta?»
«Mi ha detto che il ministero degli Interni ha assegnato
nove investigatori esperti al caso di Sergei, Bill. Nove!»
«Cosa significa?»
«Un delinquente normale ne ha uno o due. Nei casi più
eclatanti si arriva a tre o quattro. Solo un caso politico ecce-
zionale come la Yukos ne ha avuti nove.»
«Accidenti!»
«C’è dell’altro. Ha detto anche che Victor Voronin, il
direttore del Dipartimento K dell’FSB, è il responsabile
dell’arresto di Sergei.»
«Cazzo!» mormorai e riattaccai.
Sergei era in guai seri.
L’udienza per il rilascio dietro cauzione si tenne al tribu-
nale del Distretto Tverskoy di Mosca due giorni dopo il suo
arresto. La polizia non aveva alcuna prova che fosse stato
commesso un reato e nessun fondamento legale per conti-
nuare a trattenerlo in stato di fermo. Sergei e i suoi avvocati
pensavano che, con un caso così debole, sarebbe di sicuro
stato rilasciato dietro cauzione.
Quando si riunirono in tribunale, dovettero affrontare un
nuovo inquirente dal ministero degli Interni, un Maggiore
di trentun’anni di nome Oleg Silchenko, con la faccia da
fanciullo che sembrava persino impossibile potesse avere
le qualifiche per testimoniare in tribunale. Avrebbe potu-
to essere un tirocinante nel reparto tributario di Sergei alla
Firestone Duncan, o uno studente all’Università Statale di
Mosca. Invece Silchenko indossava una divisa impeccabile
blu mentre presentava la sua accusa, dimostrando tutta la
sua grinta da funzionario del ministero degli Interni.
Silchenko sostenne che Sergei era a rischio di fuga sven-
tolando un «rapporto» del Dipartimento K come prova,

313
in cui c’era scritto che Sergei aveva fatto domanda di visto
per il Regno Unito e aveva prenotato un biglietto aereo per
Kiev. Entrambe le accuse erano inventate. Sergei puntua-
lizzò che non aveva richiesto un visto per il Regno Unito
e che potevano verificare facendo una semplice telefonata
all’ambasciata britannica. Poi Sergei rispose alla presunta
prenotazione per Kiev, ma il giudice non lo lasciò finire.
«Non ho motivo di mettere in dubbio le informazioni for-
nite dagli inquirenti ufficiali», dichiarò il giudice. Poi decise
di mettere Sergei in custodia cautelare. Sergei fu accompa-
gnato fuori dall’aula, ammanettato e caricato su un cellula-
re. Trascorse dieci giorni in una località segreta e poi lo tra-
sferirono nel luogo dove sarebbe stato detenuto per almeno
i due mesi successivi, un carcere conosciuto semplicemente
come Centro di detenzione numero 5 di Mosca.
Quando arrivò fu sbattuto in cella con altri quattordici
detenuti e solo otto letti. Le luci rimanevano accese ven-
tiquattrore al giorno e i carcerati dormivano a turno. Lo
facevano per imporre la privazione del sonno a lui e agli
altri compagni di cella. Silchenko forse pensava che dopo
aver lottato per una settimana con delinquenti incalliti per
un materasso, Sergei, un colto fiscalista, avrebbe fatto tutto
quello che voleva Silchenko.
Ma si sbagliava.
Nei due mesi seguenti, continuarono a trasferire Sergei
da un posto all’altro. Ogni cella era peggio della preceden-
te. Una non aveva il riscaldamento e i vetri alle finestre per
bloccare l’aria polare. Faceva così freddo che Sergei per poco
non morì assiderato. Le latrine – che consistevano in un
buco nel pavimento – non erano separate dalla zona not-
te. Le fognature a volte straripavano sul pavimento. In una
cella, le uniche prese elettriche erano posizionate proprio
vicino alla turca, quindi doveva bollire l’acqua in piedi sul-
la latrina maleodorante. In un’altra cella Sergei riparò un

314
bagno intasato con un bicchiere di plastica, ma un topo di
fogna lo prese a morsi, così la mattina si ritrovarono con
il pavimento allagato dalle acque nere, quindi lui e i suoi
compagni di cella dovettero arrampicarsi sul letto e sulle
sedie come scimmie.
Per Sergei, la tortura psicologica era peggio del disagio
fisico. Era un bravo padre di famiglia e Silchenko lo tor-
mentò negandogli ogni contatto con i suoi cari. Quando
Sergei fece richiesta di una visita da parte di sua moglie e
di sua madre, Silchenko rispose: «Richiesta respinta. Non è
utile alle indagini».
Sergei poi chiese il permesso di parlare a suo figlio di otto
anni al telefono. «Non possiamo accogliere la sua richiesta»,
disse Silchenko. «Suo figlio è troppo giovane perché lei pos-
sa parlargli al telefono.» Silchenko rifiutò anche la richiesta
della zia di Sergei di visitarlo perché Sergei «non poteva pro-
vare» che lei fosse una parente.
Lo scopo di tutto l’operato di Silchenko era sempli-
ce: obbligare Sergei a ritirare la sua testimonianza contro
Kuznetsov e Karpov. Ma Sergei non l’avrebbe mai fatto, e
ogni volta che si rifiutava, Silchenko gli rendeva la vita sem-
pre più difficile, isolandolo sempre più dalla vita che cono-
sceva e dalla libertà di cui aveva goduto tanto di recente.
Fu solo durante l’udienza per la custodia cautelare nel
gennaio del 2009 che venimmo a conoscenza delle sue ter-
ribili condizioni di vita, del suo completo isolamento dalla
famiglia e dei maltrattamenti perpetrati da Silchenko. Fu
solo allora che ci fu chiara la sua determinazione a non ri-
trattare. Fu solo allora che la forza di Sergei prese forma.
Secondo gran parte delle informazioni che avevamo, il
mese di gennaio avrebbe dovuto essere particolarmente dif-
ficile, ma una notizia positiva arrivò. A forza di trasferirlo
di cella, andò a finire con un armeno accusato di furto con
scasso. L’armeno si stava preparando al processo e aveva un

315
disperato bisogno di una consulenza legale. Senza i suoi te-
sti legali o altre risorse, Sergei imbastì comunque un’ottima
difesa per il suo compagno di cella. Quando l’armeno andò
in tribunale, con grande sorpresa fu assolto e liberato. Una
volta che si venne a sapere, la popolarità di Sergei tra gli
altri detenuti salì alle stelle. Da un giorno all’altro, divenne
il beniamino dell’intero centro di detenzione.
Le terribili immagini di Oz non mi assillavano più così
tanto e dormivo un po’ più tranquillo dopo aver saputo che
i compagni di cella di Sergei non lo trattavano male.
Lo stesso discorso non valeva per le autorità.
Alla fine di febbraio, Silchenko trasferì in segreto Sergei
in un’altra struttura chiamata IVS1. Era un penitenziario
temporaneo fuori dal circuito detentivo principale, dove la
polizia faceva il buono e il cattivo tempo con i detenuti.
Sospettammo che quello fosse il luogo dove Silchenko e
l’FSB tentassero di obbligare Sergei a firmare una falsa con-
fessione. Non avevamo idea di ciò che gli facevano in quel
carcere, ma immaginavamo il peggio.
Per i due o tre mesi successivi non arrivarono notizie.
Tutto quello che sapevamo per certo era che nonostante
ciò che Silchenko e gli altri funzionari del ministero degli
Interni facevano a Sergei, lui si rifiutò di firmare qualsia-
si cosa che gli proposero. Quando Silchenko gli chiedeva
di fare il nome di qualcuno, Sergei diceva: «Farò i nomi
dei funzionari che hanno commesso il reato». Alla fine,
Silchenko si sarà reso conto che aveva davvero sottovalutato
quel fiscalista dai modi gentili.
Più cose gli facevano, più rafforzavano il suo spirito. In
una lettera a sua madre, scrisse: «Mamma, non preoccuparti
per me più di tanto. La mia resistenza psicologica a volte
sorprende anche me. Mi sembra di poter sopportare qual-
siasi cosa».
Sergei non si sarebbe spezzato. Però, se da un lato la sua

316
volontà era indistruttibile, il suo corpo non lo era. Agli inizi
di aprile, lo trasferirono di nuovo, questa volta in un centro
di detenzione chiamato Matrosskaya Tishina. Là cominciò
ad accusare dolori acuti all’addome. Gli episodi duravano
per ore e sfociavano in violenti conati di vomito. Verso metà
giugno, aveva perso oltre venti chili.
Sergei era malato. Di cosa, non lo sapevamo.

Quando la detenzione di Sergei si protrasse per tutta la


primavera, una parte di me desiderò che fornisse al ministe-
ro degli Interni quel che volevano. Se l’avesse fatto per me
i problemi con le autorità russe sarebbero aumentati, ma
quello sarebbe stato nulla se Sergei fosse riuscito a uscire da
quella bolgia infernale e avesse potuto riabbracciare la sua
famiglia.
Con il passare dei giorni, le mie speranze di farlo uscire di
galera scemarono sempre più. Poiché in Russia non avevo
alcun potere, non mi rimaneva che usare tutte le risorse a
mia disposizione in Occidente.
Il governo britannico aveva detto a chiare lettere che non
avrebbe fatto molto per aiutare Sergei, quindi cominciai a
cercare alcune organizzazioni internazionali che avrebbe-
ro potuto assisterci. Il primo segnale venne dal Consiglio
d’Europa, un’organizzazione multilaterale che si occupa-
va nello specifico di questioni di diritti umani. Con sede
a Strasburgo, si componeva di quarantasette paesi europei,
compresa la Russia. A un deputato tedesco ed ex Ministro
della giustizia, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, era ap-
pena stata affidata dal Consiglio la missione di condurre
un’indagine sul sistema penale russo e stava cercando casi di
alto profilo per il suo rapporto.
Eravamo consapevoli di essere in competizione con molte
altre vittime russe per ottenere la sua attenzione. All’epoca,
c’erano circa 300.000 persone incarcerate ingiustamente in

317
Russia, quindi non avevamo grandi speranze, ma i nostri
avvocati contattarono i suoi uffici e riuscirono a ottenere
un incontro. Prima dell’appuntamento, passai una settima-
na a organizzare una presentazione che illustrasse ogni fase
del reato, come avesse portato alla carcerazione di Sergei
e come quest’ultimo fosse stato maltrattato mentre era in
custodia. Quando vide i fatti illustrati in maniera chiara e
supportati da prove, accettò di rappresentare il caso.
Nell’aprile del 2009, si rivolse all’Agenzia russe per l’or-
dine pubblico con una lunga lista di domande. Si trattò di
uno sviluppo positivo, perché il solo fatto che il Consiglio
d’Europa avesse chiesto al governo russo di Sergei, poteva
in teoria essere sufficiente a liberarlo, o almeno a offrirgli
condizioni migliori.
Purtroppo, non si verificò nessuna delle due ipotesi.
Le autorità russe rifiutarono un incontro di persona con
Sabine Leutheusser-Schnarrenberger quindi fu costretta a
sottoporre le sue domande per iscritto. Dopo un lungo si-
lenzio, le risposero.
La sua prima domanda era molto semplice: «Perché avete
arrestato Sergei Magnitsky?»
La risposta: «Sergei Magnitsky non è stato arrestato».
Certo che lo era. Si trovava nelle loro prigioni. Non riu-
scivo a immaginare a cosa stessero pensando i russi quando
le dissero quelle cose. La seconda domanda di Sabine fu:
«Perché è stato arrestato dal funzionario del ministero degli
Interni Kuznetsov, contro cui aveva rilasciato una testimo-
nianza prima dell’arresto?»
Le diedero una risposta altrettanto ridicola: «L’ufficiale
con quel nome non lavora al ministero degli Interni russo».
Avevamo le prove che Kuznetsov lavorava al Ministero
da molti anni! Avranno pensato che Leutheusser-
Schnarrenberger fosse stupida.
Quasi tutte le altre risposte erano altrettanto sciocche o false.

318
Leutheusser-Schnarrenberger avrebbe messo tutte quelle
menzogne e assurdità nel suo rapporto finale, che però non
sarebbe stato pronto prima di agosto e Sergei non poteva
permettersi di aspettare così tanto tempo. Continuai a fare
pressioni su altre organizzazioni e trovai due potenti asso-
ciazioni legali che forse potevano intervenire: l’Associazio-
ne forense internazionale degli avvocati (IBA) e la Società
di giuristi del Regno Unito. Dopo aver sentito la storia di
Sergei e aver vagliato la nostra documentazione, entrambe
le organizzazioni spedirono lettere al presidente Medvedev
e al Procuratore Generale Yuri Chaika, richiedendo la libe-
razione di Sergei.
Ancora una volta, speravo molto che questi interventi
servissero a qualcosa, invece caddero nel vuoto. L’ufficio del
Procuratore Generale rispose alla Società di giuristi dicen-
do: «Abbiamo preso in considerazione la vostra domanda e
non abbiamo riscontrato alcun motivo per un intervento
processuale». Le autorità russe non risposero neppure alle
altre lettere.
Continuai le mie ricerche, questa volta in America. Nel
giugno del 2009 fui invitato a Washington D.C. per testi-
moniare davanti alla Commissione Helsinki Usa, un’agen-
zia governativa indipendente la cui missione è monitorare
i diritti umani nell’ex blocco sovietico. All’epoca, era di-
retta dal senatore democratico del Maryland al suo primo
mandato, Ben Cardin. Lo scopo dell’udienza era di decide-
re se potessero essere inclusi nel pacchetto informativo del
presidente Obama per l’incontro previsto con il presidente
Medvedev.
Quella era la prima opportunità che avevo avuto di con-
dividere il caso di Sergei con un’associazione di così alto
profilo nel panorama politico statunitense. Feci la mia pre-
sentazione, i senatori e i membri del Congresso rimasero
sconvolti dall’esperienza di Sergei. Purtroppo, un membro

319
del Comitato Helsinki, un giovane uomo di nome Kyle
Parker, decise di non includere la storia di Sergei nella let-
tera della Commissione al presidente Obama. Parker pensò
che ci fossero molte altre questioni ben più urgenti.
Dopodiché, ritenni che ciò di cui avevamo davvero più
bisogno per attirare l’attenzione popolare sulla storia di
Sergei fosse attraverso la copertura mediatica. Solo una
manciata di articoli erano stati scritti su Sergei e tutti era-
no stati pubblicati subito dopo il suo arresto. Nonostante i
miei tentativi, i giornalisti non erano interessati. Con tutte
le ignominie che succedevano in Russia, un avvocato in pri-
gione ritenevano che non facesse notizia. Qualsiasi sforzo di
spiegare la storia intricata del caso di Sergei non faceva altro
che annoiare i giornalisti.
Avevo esaurito la mia lista di giornalisti russi quando
all’improvviso mi imbattei in un reporter del Washington
Post, un certo Philip Pan. A differenza degli altri, era da
poco a Mosca e non era insensibile. Riconobbe subito l’im-
portanza della storia di Sergei.
Dagli inizi di giugno fino ad agosto 2009, intervistò i
membri della nostra squadra, verificò i nostri documenti e
tentò al meglio delle sue abilità di provocare una reazione
nelle autorità russe. Agli inizi di agosto, aveva preparato un
esposto schiacciante.
Il 13 agosto, il Washington Post pubblicò il suo pezzo in-
titolato «Tre avvocati presi di mira dopo aver smascherato
un furto di società.» Accusò il governo russo di grave fro-
de finanziaria e spiegò come avessero preso di mira Sergei,
Eduard e Vladimir per insabbiare il reato.
Di solito, una denuncia di corruzione come quella avreb-
be gettato scompiglio, ma in quell’occasione ci fu un si-
lenzio di tomba. I russi rimasero impassibili, senza ritegno.
Peggio ancora, la stampa russa non lo riportò neppure nei
suoi giornali. In Russia, i giornalisti sembravano avere trop-

320
pa paura di scrivere cose su di me. Ero semplicemente trop-
po radioattivo.
In contemporanea all’uscita dell’articolo sul Washington
Post, Leutheusser-Schnarrenberger pubblicò il suo rappor-
to. Come Pan, elencò anche lei, una dopo l’altra, tutte le
menzogne dei russi, la frode del rimborso fiscale e come
Sergei fosse stato ingiustamente arrestato e maltrattato nel-
le prigioni russe. Poi concluse: «Non posso fare a meno di
sospettare che questo attacco coordinato debba godere del
supporto di alti funzionari. Pare che essi si avvalgano delle
debolezze del sistema di giustizia penale nella Federazione
russa».
Il suo rapporto era definitivo e incontrovertibile, ma non
ebbe alcun impatto e fu accolto dai russi con totale indiffe-
renza. Gli aguzzini di Sergei rimasero impassibili.
Discutemmo su quale sarebbe stata la nostra prossima
mossa. Con i classici strumenti di difesa dei diritti non sta-
vamo andando da nessuna parte ed eravamo a corto di idee.
Poi però la nostra segretaria ventiquattrenne venne in uffi-
cio e disse: «Scusate se interrompo, ma non ho potuto fare
a meno di ascoltare quello che stavate dicendo. Avete mai
pensato di pubblicare un video su YouTube?»

Nel 2009 sapevo a malapena cos’era YouTube, quindi lei


portò al lavoro il suo portatile e ci mostrò come funzionava.
Visto il nostro fallimento generale, ci sembrò che ne po-
tesse valere la pena. Organizzammo le informazioni sulla
frode, stendemmo un copione e preparammo un video di
quattordici minuti in cui spiegavamo in termini semplici
come la polizia e i criminali fossero riusciti a rubare 230
milioni di dollari dalle casse del ministero del Tesoro russo e
di come avessero arrestato Sergei quando aveva denunciato
il reato. Ne facemmo due versioni, una in russo e una in
inglese. Era più chiaro e comprensibile di tutte le cose che

321
avevamo preparato in precedenza e conteneva immaginai
che avrebbe avuto un grande impatto una volta pubblicato.
Non vedevo l’ora di caricarlo in rete, però prima volevo
che Sergei lo approvasse, perché era quello più esposto a
eventuali ripercussioni. Feci avere una copia della sceneg-
giatura al suo avvocato e aspettai con trepidazione per sape-
re se avevo il suo benestare.
Ma Sergei doveva affrontare questioni ben più urgenti.
Nell’estate del 2009, la salute di Sergei era molto dete-
riorata. I dottori dell’ala medica al Matrosskaya Tishina
gli diagnosticarono una pancreatite, calcoli alla cistifellea e
coliche biliari. Gli prescrissero un esame a ultrasuoni e un
probabile intervento chirurgico il primo agosto del 2009.
Tuttavia, una settimana prima dell’esame, il Maggiore
Silchenko decise di trasferire Sergei da Matrosskaya Tishina
a Butyrka, un carcere di massima sicurezza che in epoca
sovietica era stato un punto intermedio verso i gulag. Quel
luogo godeva di una pessima fama in tutta la Russia. Peggio
di Alcatraz. In più, il Butyrka non offriva alcuna struttura
medica dove curarsi.
Ciò che Sergei fu obbligato a sopportare a Butyrka era
ben rappresentato in Arcipelago Gulag di Solženicyn.
Appena varcò le porte di Butyrka il 25 luglio, Sergei chie-
se alle autorità carcerarie di provvedere alle cure mediche
che doveva ricevere. Lo ignorarono. Per settimane patì le
pene dell’inferno nella sua cella, il dolore aumentava ogni
giorno sempre più.
Poi, alle 16 del 24 agosto, il dolore allo stomaco diventò
così acuto che non poteva stendersi. In ogni posizione sen-
tiva delle fitte lancinanti al plesso solare e al petto. L’unico
sollievo era starsene raggomitolato a palla con le ginocchia
contro il petto, rotolandosi da una parte all’altra.
Alle 17 e 30 di quel giorno il suo compagno di cella,
Erik, tornò da un interrogatorio. Sergei era sul letto nella

322
sua posizione raggomitolata, dolorante. Erik gli domandò
cosa c’era che non andava, ma Sergei era così dilaniato dal
dolore che non riuscì a rispondere. Erik chiamò un dottore
a squarciagola. La guardia lo sentì e promise di chiamarne
uno, ma non accadde nulla. Mezz’ora dopo, Erik sbatté sul-
le sbarre per attirare l’attenzione della guardia, ma ancora
una volta nessuna reazione.
Un’ora dopo, Erik sentì delle voci maschili: «Quale cella?»
Erik gridò: «Duecentosessantasette! Venite subito!» Ma
nessuno arrivò.
Il dolore di Sergei divenne atroce nelle ore successive. Si
teneva stretto, con le lacrime che gli scendevano sul viso.
Poi, finalmente, alle 21 e 30 si fecero vive due guardie, apri-
rono la porta della cella e lo portarono in infermeria.
Quando arrivò lo fecero attendere mezzora mentre l’in-
fermiera terminava di compilare dei moduli. Sergei se ne
stava rannicchiato con le ginocchia appoggiate al petto per
lenire il dolore. Quando l’infermiera ebbe finito, lei grugnì
in tono accusatorio: «Okay. Perché sei venuto qui?»
Sergei tremava e a denti stretti le scandì: «Ho un dolore
lancinante. Nonostante le mie ripetute richieste, non sono
stato visitato da alcun dottore da quando sono arrivato il
mese scorso».
L’infermiera era visibilmente scocciata. «Cosa vuoi dire
che nessuno ti ha visitato? L’hanno fatto nel centro detenti-
vo in cui eri prima!»
«Sì, e mi avevano prescritto medicine e un intervento chi-
rurgico. Ma qui non è successo niente di tutto questo.»
«Quando sei arrivato da noi? Appena un mese fa! Che
cosa vuoi? Che ti curiamo tutti i mesi? Avresti dovuto cu-
rarti quando eri libero.»
«Non stavo male quando ero libero. Ho sviluppato queste
malattie in carcere.»
«Non dire stronzate.» Poi lo liquidò senza somministrar-

323
gli niente. Le sue ultime parole furono: «Se hai bisogno di
attenzioni mediche, scrivi un’altra lettera al dottore».
Le guardie lo riportarono in cella. Alla fine, il dolore si
placò e riuscì a farsi un bel sonno ristoratore.
Era evidente che le autorità ritardavano di proposito le
attenzioni mediche a Sergei. Usavano le malattie che aveva
contratto in carcere come un manganello per infliggergli
dolore. Sapevano che i calcoli alla cistifellea erano uno dei
disturbi più dolorosi che si potessero avere. In Occidente,
dopo due ore ti portano subito al pronto soccorso, dove i
dottori ti iniettano immediatamente una dose di morfina
prima di curarti. Sergei, invece, dovette sopportare i calcoli
alla cistifellea per quattro mesi senza antidolorifici. La soffe-
renza a cui era stato sottoposto era inimmaginabile.
Sergei e i suoi avvocati inviarono oltre venti richieste a
ogni ramo dei sistemi giudiziari penali e dell’ordine pub-
blico in Russia, implorandoli di offrire assistenza medica.
Quasi tutte le loro petizioni furono ignorate, ma le risposte
che ricevette furono sconvolgenti.
Il Maggiore Oleg Silchenko scrisse: «Nego in toto la ri-
chiesta di visita medica».
Aleksey Krivoruchko, un giudice del distretto Tverskoi
rispose: «Con la presente si nega la sua richiesta di conside-
rare la denuncia per mancata offerta di assistenza medica e
trattamento crudele».
Andrei Pechegin del pubblico ministero rispose: «Non c’è
motivo per cui il pubblico ministero debba intervenire».
Il giudice Yelena Stashina, uno dei giudici che aveva ordi-
nato la detenzione continuativa, affermò: «Con la presente
si delibera che la sua richiesta di considerare le condizioni
detentive e mediche è irrilevante».
Sebbene Sergei fosse torturato in maniera sistematica, co-
minciò a ricevere visite regolari da un uomo che non volle
identificare né se stesso né la sua organizzazione. Tutte le

324
volte che veniva, le guardie trascinavano Sergei dalla cella in
una stanza soffocante senza finestre. Gli incontri erano bre-
vi perché l’uomo aveva solo un messaggio: «Fai quello che
vogliamo noi o per te le cose continueranno a peggiorare e
ad aggravarsi».
Tutte le volte Sergei guardava quell’uomo dall’altra parte
del tavolo e si rifiutava di cooperare.
Non si sa quante cose si possano sopportare prima di an-
dare contro alla propria volontà. Io non so come mi sarei
comportato nei suoi panni e forse non lo sapeva neppure
Sergei prima di trovarsi in quella situazione. Eppure, nono-
stante tutte le difficoltà, si rifiutò sempre di testimoniare il
falso. Sergei era religioso e non avrebbe violato il nono co-
mandamento: «Non pronunciare falsa testimonianza contro
il prossimo tuo». Per nulla al mondo avrebbe mai ammesso
di essere colpevole di un reato che non aveva commesso e
non avrebbe nemmeno mentito per accusarmi. Per Sergei,
sembrava che questo fosse più tossico e doloroso di tutte le
altre torture fisiche.
Era un innocente, privato di ogni contatto con i suoi cari,
tradito dalla legge, ricusato dalla burocrazia, torturato den-
tro le mura del carcere e sempre più malato. Persino in quel-
le condizioni atroci, quando aveva tutti i motivi del mondo
per fornire ai suoi tormentatori quello che volevano, non lo
fece. Nonostante la perdita di libertà, salute, sanità mentale
e persino della sua stessa vita, non scese mai a compromessi
con i suoi ideali o la sua fede.
Non si arrese.

325
30. 16 NOVEMBRE 2009

Mentre Sergei era chiuso in quell’incubo, io vivevo in uno


stato di stordimento. I sabato mattina erano i peggiori. Mi
svegliavo presto e mi giravo verso Elena per osservarla nel
nostro lettone. Al di là del bordo del letto c’era una finestra e
oltre quella, Londra. Ero libero, a mio agio e amato. Potevo
ancora toccare l’amore a piene mani mentre per Sergei era
solo un ricordo. Questo mi faceva stare male. Il desiderio
di rappacificare l’eredità comunista della mia famiglia con
le mie ambizioni capitaliste mi aveva portato in Russia ma,
ingenuamente, non avevo mai pensato che questa ricerca
avrebbe avuto come conseguenza il fatto che qualcuno a cui
tenevo sarebbe stato preso in ostaggio.
In giorni come quelli, mi svegliavo, mi trascinavo in ba-
gno, aprivo il rubinetto della doccia ed entravo nel box.
L’acqua calda avrebbe dovuto pulirmi, ma in realtà non lo
faceva: lo sporco scivolava via, ma il senso di colpa mi rico-
priva come pece. Se era fortunato, Sergei si faceva la doccia
una volta la settimana, a volte ne doveva aspettare anche tre.
Si doveva lavare con acqua fredda e sapone, e quando c’era,
era di pessima qualità. Le celle dove era prigioniero erano
maleodoranti e la sua salute sempre più cagionevole. Più di
una volta dovetti soffocare gli accessi di nausea. Ancora oggi
non riesco ad andare in bagno senza pensare a Sergei.
Io però la doccia me la facevo, ogni sabato mi alzavo da
letto, alla mia famiglia volevo bene e dopo avere ricevu-
to altre notizie preoccupanti sulle condizioni di Sergei, mi

326
battevo ancora con più decisione. La sua situazione stava
diventando preoccupante.
Nell’ottobre del 2009, tornai a Washington e New York
per continuare la mia battaglia per lui. Nessuno era davve-
ro interessato, ma non mi arresi. Dovevo riuscire a trovare
un modo per fare sapere al mondo intero quello che stava
succedendo a Sergei. Anche se in tutta onestà non sapevo
come.
Poi, una sera mentre mi stavo imbarcando su un volo
British Airways per tornare a Londra, il telefono squillò.
Era Elena.
Risposi, ma ancora prima che riuscisse a parlare dissi:
«Tesoro, sto salendo sull’aereo. Puoi aspettare?»
«No, non posso. Il ministero degli Interni ha emesso
un’accusa formale!»
Mi feci da parte per lasciare passare gli altri passeggeri.
«Contro Sergei?»
«Sì.» Fece una pausa. «E contro di te. Vi stanno dando la
caccia.»
Quello scenario era sempre stato una possibilità, ma ri-
masi sconvolto al sentire quelle parole. «Quindi hanno in-
tenzione di andare avanti?»
«Sì. Ne faranno un grande processo politico.»
Rimasi in silenzio per un attimo prima di chiederle: «Per
caso sai cosa succederà dopo?»
«Eduard ritiene che Sergei sarà condannato a sei anni e
tu lo stesso, in contumacia. Ha detto che poi la Russia chie-
derà all’Interpol di emettere un Red Notice e cercherà di
ottenere la tua estradizione dal Regno Unito.»
Un Red Notice dell’Interpol è un mandato di cattura in-
ternazionale. Se ne fosse stato emesso uno nei miei con-
fronti, avrei potuto essere detenuto a qualsiasi frontiera il
momento in cui presentavo il passaporto. I russi avrebbero
poi richiesto la mia estradizione, che molto probabilmente

327
sarebbe stata concessa. Dopodiché sarei stato mandato in
Russia dove avrei subito lo stesso trattamento di Sergei.
«Bill, dobbiamo pubblicare subito un comunicato stam-
pa per contraddire le loro bugie.»
«Va bene.» L’idea che sarei stato processato ebbe un ef-
fetto fisico su di me, quando mi riunii alla fila di persone
che stavano salendo sull’aereo ero in preda all’agitazione.
«Scriverò qualcosa in volo e poi lo leggeremo insieme quan-
do atterro.»
«Fai buon volo, tesoro. Ti voglio bene.»
«Anch’io.»
Arrivai al mio posto e rimasi lì con lo sguardo fisso nel vuo-
to davanti a me, assorto nei miei pensieri. Sapevo che cosa
mi riservava il futuro: un sacco di spiacevoli titoli di giornale
del tipo: «Browder e Magnitsky sotto processo per evasio-
ne fiscale» oppure «La Russia emetterà un Red Notice nei
confronti di Browder.» Qualsiasi nostra confutazione sarebbe
stata riportata nell’ultimo paragrafo, che spesso non veniva
mai letto. In poche parole, la polizia russa corrotta agiva così:
abusava del suo potere per rubare i soldi e terrorizzare le vit-
time. Si nascondevano dietro a un muro di legittimità che
derivava dal loro status di forze dell’ordine. La stampa riferiva
sempre le dichiarazioni ufficiali come se fossero la verità per-
ché in gran parte dei paesi la polizia non mente apertamente.
Questo però per noi era un grosso problema. Dovevo trovare
un modo per fare conoscere la vera storia.
L’aereo raggiunse l’altitudine di crociera, le luci si spense-
ro per la notte e cercai di mettermi comodo sul mio sedile.
Mentre fissavo la luce fioca del segnale «NO SMOKING»,
all’improvviso mi ricordai del video che avevamo preparato
per YouTube. Sergei ci aveva dato il suo benestare solo una
settimana prima, ed eravamo pronti a pubblicarlo. Pensai,
perché pubblicare un comunicato stampa quando c’è un modo
molto più efficace di raccontare la storia?

328
Quando atterrai a Londra, salii su un taxi e mi precipitai
in ufficio. Presi l’hard drive dalla mensola che conteneva il
video e lo caricai su YouTube. Lo intitolai «La Hermitage
svela la truffa della polizia russa» e in un batter d’occhio si
diffuse ovunque. 11.000 visualizzazioni solo il primo gior-
no, 20.000 in tre giorni e 47.000 in una settimana. Per un
video su un reato complicato e su un caso di violazione dei
diritti umani, quelle erano cifre esorbitanti. In passato ave-
vo dovuto ragguagliare le persone una a una sul nostro caso
in una serie infinita di incontri da quarantacinque minuti.
Ora, invece, migliaia di persone venivano a conoscenza del
nostro caso in un attimo.
Appena il video fu pubblicato, cominciai a ricevere te-
lefonate da amici, colleghi e conoscenti. Tutti sorpresi da
quanto l’intera faccenda fosse contorta. Avevano sentito
parlare della situazione in cui si trovava Sergei, ma non l’a-
vevano capita del tutto prima di vedere il video. Tra queste
telefonate c’erano anche quelle dei giornalisti. Ben presto
il filmato cominciò a suscitare scalpore. Per la prima volte
le persone si resero conto che il ministero degli Interni rus-
so non era un’organizzazione di forza pubblica rispettabile,
bensì un gruppo di funzionari che abusava del proprio po-
tere per commettere enormi frodi finanziarie. Con questo
filmato, riuscimmo a fare il primo passo per cercare di dire
la verità su quello che era successo ed esercitare pressione
contro i nostri nemici.
Da dentro la cella, Sergei cercava coraggiosamente di
dire la verità anche dopo tutte le torture a cui era stato
sottoposto.
Il 14 ottobre del 2009, depositò una testimonianza for-
male di dodici pagine presso il ministero degli Interni in cui
forniva ulteriori prove del ruolo dei funzionari nella frode
finanziaria e del successivo insabbiamento. Fece nomi, luo-
ghi e date, non lasciando nulla all’immaginazione. Alla fine

329
scrisse: «Ritengo che i membri del team di indagine stiano
seguendo gli ordini criminali di qualcuno».
Un documento eccezionale che rese pubblico con grande
coraggio. È difficile descrivere a qualcuno che non conosce
la Russia quanto fosse pericoloso per lui portare avanti quel
tipo di iniziativa. In Russia si uccidono persone per avere
detto molto meno. Che Sergei lo dichiarasse dalla prigione,
dove era alla mercé delle persone che l’avevano incarcerato
e contro cui aveva testimoniato, dimostrò la sua determi-
nazione nel denunciare il marciume delle forze pubbliche
russe e di incriminare i suoi persecutori.
Nel bel mezzo di tutto questo, mi ero impegnato a te-
nere una conferenza alla Stanford sui pericoli di investire
in Russia. Decisi di portare mio figlio David, che all’epoca
aveva dodici anni. Non era mai stato alla mia alma mater,
e con tutte le brutte cose che stavano succedendo, volevo
condividere con lui uno dei luoghi dove avevo trascorso al-
cuni degli anni più felici della mia vita.
Ci imbarcammo sul volo per San Francisco, io cercai di
dimenticare tutto quello che stava accadendo in Russia. Ma
in qualsiasi fuso orario o parte del mondo mi trovassi, il
caso di Sergei mi seguiva ovunque, riempendomi di tristez-
za e di sensi di colpa. L’unica cosa che mi avrebbe davvero
dato un po’ di sollievo sarebbe stato vederlo libero.
Tenni la mia conferenza il giorno dopo essere arriva-
ti. Raccontai al pubblico la mia esperienza di affarista in
Russia, raggiungendo l’apice con gli eventi che nell’ultimo
anno mi avevano distrutto la vita. Proiettai anche il video
della Hermitage di YouTube, che strappò qualche lacrima.
David e io uscimmo dalla sala conferenze e fummo av-
volti dal tepore dell’aria californiana, in quel momento mi
sentii un po’ meglio. Anche se il video era stato visionato
migliaia di volte su internet, non avevo avuto la possibilità
di interagire con le persone, vedere nelle loro facce e per-

330
cepire nelle loro voci quanto fossero scioccati: ciò mi fece
sentire meno solo in questa battaglia.
Poi mentre David e io attraversavamo il campus, mi
squillò il telefono. Era Vladimir Pastukhov, sapevo che non
sarebbero state buone notizie. «Bill, è successa una cosa dav-
vero terribile.»
«Cosa?»
«Ho ricevuto un messaggio sul BlackBerry. È in russo.
Dice: “Cos’è peggio: la prigione o la morte?”»
Cominciai a camminare avanti e indietro. «Era diretto a
te?»
«Non lo so.»
«Potrebbe essere diretto a me, a Vadim… a Sergei?»
«Non lo so. Forse.»
«Chi l’ha inviato?»
«Non è chiaro.»
«Come hanno fatto a ottenere il tuo recapito? Nessuno ha
il numero del tuo BlackBerry.»
«Non lo so, Bill.»
David mi fissò preoccupato. Mi fermai e cercai di rassi-
curarlo abbozzando un sorriso. «È possibile rintracciarlo?
Scoprire chi l’ha inviato?»
«Forse. Ci proverò. Ti richiamo appena so qualcosa di
nuovo.»
«Grazie.»
Qualsiasi sensazione positiva avessi, evaporò nei sessanta
secondi di quella chiamata. Il viaggio di ritorno a Londra
fu lungo e deprimente. Non avevo idea di come valutare
quella minaccia, a chi fosse diretta o come agire. Sembrava
seria ed era molto preoccupante.
Nel giro di pochi giorni, Vladimir ricevette un secondo
sms, sempre in russo. «Treni, treni per tutta la notte, treni,
treni senza sosta.» Vladimir mi spiegò che era la frase di una
famosa poesia di prigionieri russi che alludeva ai treni che

331
senza sosta si dirigevano verso i gulag negli Urali con i vago-
ni pieni di carne umana che andava incontro a morte certa.
Dopo qualche giorno ricevetti una chiamata inaspettata
da Philip Fulton, un vecchio cliente. Era mio amico e confi-
dente fin dall’epoca della Gazprom. Lui e la moglie erano a
Londra e volevano vedere Elena e i bambini. Ci incontram-
mo per un delizioso brunch nel ristorante al quinto piano
di Harvey Nichols e per un paio di ore riuscii a mettere da
parte le mie preoccupazioni. Philip e la moglie fecero un
sacco di feste alle mie due piccole, fu davvero un incontro
meraviglioso. Anche se non volevo ammetterlo, per un po’
mi sentii bene. Sapevo che i nostri problemi non sarebbero
spariti, ma ero anche consapevole che era accettabile, forse
anche preferibile, dimenticarseli per un po’ e fare finta che
tutto andasse bene.
Però, mentre stavamo per andarcene, Vladimir richiamò.
«Bill, è arrivato un nuovo messaggio.»
«Cos’è?»
«È una citazione dal Padrino: “La storia ci ha insegnato
che si può uccidere chiunque”».
Feci una pausa. «Cazzo!» dissi con le mani che comincia-
vano a tremarmi.
Riagganciammo.
Ero davvero spaventato. Il mattino seguente di buono-
ra raccolsi i messaggi del BlackBerry di Vladimir, con gli
orari delle chiamate, e feci una denuncia alla SO15, l’unità
antiterrorismo di Scotland Yard. Mandarono un team di
investigatori a intervistare me e Vladimir e i loro tecnici
rintracciarono le telefonate. Ogni chiamata proveniva da un
numero russo anonimo, cosa strana. Steven Beck, il nostro
specialista della sicurezza, ci disse più tardi che le uniche
persone in Russia che avevano accesso a numeri anonimi
erano i membri dell’FSB.

332
Sergei doveva comparire in tribunale giovedì 12 novem-
bre per un’altra udienza sul fermo. Andare in tribunale non
era mai cosa facile. Di solito si cominciava alle 5 quando le
guardie prelevavano gli uomini dalle celle e li caricavano sul
blindato. Circa una ventina di persone venivano ammassate
sul furgone di trasferta progettato per contenerne la metà.
Poi il cellulare se ne stava per qualche ora parcheggiato
mentre un funzionario compilava i moduli nell’ufficio del
carcere. Sergei e gli altri prigionieri furono costretti a stare
in piedi stipati come sardine nel furgone e aspettare, senza
bere acqua, respirare aria fresca o andare alla toilette. Lo
stesso iter si sarebbe ripetuto a fine giornata dopo essere sta-
ti in tribunale, e gli uomini sarebbero arrivati nelle loro celle
solo dopo mezzanotte. Durante il giorno non veniva dato
loro nulla da mangiare, spesso i prigionieri rimanevano fino
a trentasei ore senza cibo. In pratica, andare in tribunale era
in sé una forma di tortura studiata per scoraggiare e demo-
ralizzare i prigionieri mentre si battevano per la possibilità,
pressoché inesistente, di essere assolti.
Quel giorno, Sergei arrivò in tribunale a metà mattinata.
Fu portato in un corridoio e incatenato a un termosifone.
Mentre se ne stava seduto ripassando le petizioni che aveva
preparato nelle ultime due settimane, apparve Silchenko e
disse con un ghigno: «Ho consegnato al tribunale i docu-
menti che ha richiesto».
Nelle ultime sei settimane, Sergei aveva chiesto di visio-
nare parecchi documenti sulla causa in cinque diverse oc-
casioni. Gli servivano per approntare una difesa adeguata,
ma ora, a soli dieci minuti dall’udienza, Silchenko li ave-
va finalmente inseriti nel dossier della causa e Sergei non
avrebbe potuto vederli prima dell’inizio dell’udienza. Prima
che Sergei riuscisse a rendersi bene conto dell’accaduto, le
guardie sciolsero le catene, lo accompagnarono in aula e lo
misero nella gabbia degli imputati.

333
Lì seduto, Sergei vide sua madre e sua zia in prima fila
tra gli spettatori. Le salutò con un lieve cenno della mano,
cercando di fare buon viso a cattivo gioco.
Il giudice, Yelena Stashina, diede inizio all’udienza. Per pri-
ma cosa Sergei lesse la sua denuncia per non avere ricevuto
cure mediche adeguate. Il giudice Stashina la respinse. Poi
lesse la denuncia per la falsità delle prove usate nella causa, e
lei respinse anche quella. Quando cominciò a leggere la de-
nuncia per arresto illegale, Stashina lo interruppe a metà frase
respingendo anche quella. In tutto, respinse oltre una dozzi-
na delle denunce di Sergei. Quando Sergei chiese più tempo
per esaminare il «nuovo materiale» che Silchenko aveva pre-
sentato al tribunale, Stashina gli impose il silenzio.
Ma Sergei non obbedì. Si alzò in piedi dentro alla gabbia e
con voce profonda che non rispecchiava per nulla il suo stato
fisico, la accusò di violazione della legge e dei suoi diritti.
Terminò il suo discorso dicendo: «Mi rifiuto di partecipare e
di ascoltare la sentenza di oggi in quanto tutte le mie istanze
per difendere i miei diritti sono state semplicemente ignorate
da questo tribunale». Si sedette e voltò le spalle al giudice,
ma l’udienza continuò senza di lui. Stashina era impassibile.
Esaminò qualche aspetto tecnico e poi freddamente prolun-
gò la custodia cautelare di Sergei. Finita l’udienza, le guardie
entrarono nella gabbia. Mentre lo portavano via non ebbe
nemmeno la forza di abbozzare un sorriso alla famiglia.
Fu ricondotto in corridoio e incatenato allo stesso termo-
sifone. Per il resto della serata, non fu permesso né all’av-
vocato né alla famiglia di vederlo. La madre e la zia aspet-
tarono al freddo per ore il furgone che l’avrebbe riportato a
Butyrka per potergli fare un cenno con la mano e dirgli che
gli volevano bene. Alle 21 non si era ancora visto il cellulare.
Erano dilaniate dal freddo, dalla disperazione e dalla tristez-
za. Alla fine cedettero e andarono a casa.

334
Scoprii tutto questo il mattino seguente. Quando lo rac-
contai a Elena cominciò ad angosciarsi. «Bill, non mi piace
per niente. Proprio per niente.»
Ero d’accordo.
«Dobbiamo mandare qualcuno a Butyrka», insistette.
«Qualcuno deve fare visita a Sergei, oggi.»
Ma nessuno poteva. Il suo avvocato, che era l’unica per-
sona a cui era permesso fargli visita, era fuori città e non
sarebbe ritornato fino a lunedì.
Quella notte, a mezzanotte e un quarto, vibrò la suoneria
della posta vocale del mio BlackBerry. Nessuno aveva quel
numero. Guardai Elena e digitai il numero della posta vo-
cale. C’era un messaggio.
Sentii un uomo nel mezzo di un pestaggio a sangue.
Gridava e supplicava. La registrazione durava circa due
minuti e s’interrompeva nel mezzo di un lamento. Lo feci
ascoltare a Elena. Dopo di che restammo seduti a letto, sen-
za riuscire a chiudere occhio, immaginando tutti i racca-
priccianti scenari possibili.
Appena si fece giorno, telefonai a tutti quelli che cono-
scevo. Stavano tutti bene. L’unica persona che non potevo
chiamare era Sergei.

Lunedì 16 novembre 2009, l’avvocato di Sergei, Dmitri,


andò a fargli visita a Butyrka. Le guardie carcerarie però gli
dissero che non avrebbero portato fuori Sergei perché «era
troppo indisposto per uscire dalla cella». Quando Dmitri
chiese il referto medico di Sergei, gli dissero di rivolgersi a
Silchenko. Lo chiamò e chiese una copia ma Silchenko gli
rispose che il referto «era una questione interna alle indagi-
ni» e si rifiutò di fornire qualsiasi dettaglio a Dmitri.
Facevano le orecchie da mercante con Dmitri: Sergei era
molto più che «indisposto». Dopo mesi di pancreatite non
curata, di calcoli e colecisti, alla fine il corpo di Sergei aveva

335
ceduto e ora versava in condizioni critiche. Anche se in pas-
sato le guardie carcerarie di Butyrka avevano rifiutato le sue
numerose richieste di cure mediche, quel giorno finalmente
lo mandarono al centro medico di Matrosskaya Tishina per
farlo curare d’urgenza.
Però quando arrivò, anziché essere portato nel reparto
medico, fu condotto nella cella di isolamento e ammanet-
tato alla sponda di sicurezza di un letto. Lì gli fecero visita
otto guardie vestite da capo a piedi in tenuta da sommossa.
Sergei chiese all’ispettore capo di chiamare il suo avvocato
e quello dell’accusa. Sergei disse: «Sono qui perché ho de-
nunciato i 5,4 miliardi di rubli che sono stati rubati dagli
ufficiali di polizia». Ma le guardie antisommossa non erano
venute per aiutarlo, erano lì per picchiarlo. E lo colpirono
brutalmente con i manganelli di gomma.
Un’ora e diciotto minuti dopo, arrivò un dottore civile e
trovò Sergei Magnitsky morto sul pavimento.
La moglie non avrebbe mai più risentito la sua voce, la
madre non avrebbe mai più rivisto il suo sorriso, i figli non
avrebbero mai più sentito la stretta delle sue morbide mani.
«Tenermi in custodia cautelare», aveva scritto Sergei nel
suo diario di prigione «non ha niente a che vedere con lo
scopo legale della custodia cautelare. È una punizione im-
posta per il solo fatto di avere difeso gli interessi del mio
cliente e gli interessi dello Stato russo.»
Sergei Magnitsky fu assassinato per i suoi ideali. Fu as-
sassinato perché credeva nella legge. Fu assassinato perché
amava il suo popolo e perché amava la Russia. Aveva tren-
tasette anni.

336
31. IL PRINCIPIO DI KATYN

Nell’aprile 1940, all’inizio della seconda guerra mondiale, a


un ufficiale sovietico dell’NKVD* in missione in Bielorussia
che rispondeva al nome di Vasili Mikhailovich Blokhin fu
affidato l’incarico di giustiziare quanti più prigionieri di
guerra polacchi possibile. Per svolgere il suo compito in
maniera efficiente e senza allertare i prigionieri del triste
destino che li attendeva, Blokhin allestì una baracca nel
campo di prigionia, con una porta d’entrata e una d’uscita,
circondata da sacchi di sabbia. I prigionieri venivano por-
tati dentro la baracca dalla porta d’ingresso uno alla volta e
veniva chiesto loro di mettersi in ginocchio. Poi Blokhin gli
puntava la pistola alla nuca e premeva il grilletto. Il cadavere
veniva trascinato fuori dalla porta posteriore e caricato su
un camion. Una volta pieno, il veicolo si dirigeva in una
foresta dove i corpi erano scaricati in una fossa comune.
Blokhin svolgeva il suo lavoro in maniera irreprensibi-
le. Era nottambulo e lavorava sodo, dall’alba al tramonto.
All’inizio, quando cominciò la sua missione, usò il suo re-
volver sovietico d’ordinanza, poi però passò a una Walther
PPK di fabbricazione tedesca. Aveva meno rinculo e non gli
faceva male alla mano. Nel giro di ventotto giorni e conce-
dendosi solo qualche giorno di vacanza nel mese di maggio,
Blokhin assassinò settemila prigionieri polacchi. Un giusti-
ziere prolifico, però pur sempre un semplice individuo in

* Il precursore del Kgb e dell’Fsb.

337
un massacro di soldati e ufficiali polacchi, diretto da Stalin
e sostenuto dal Soviet, in cui persero la vita ventiduemila
uomini. La stragrande maggioranza di loro fu sepolta nella
foresta di Katyn.
Finita la guerra, quando le fosse comuni furono scoper-
te, i sovietici sostennero che i responsabili di quell’atrocità
fossero i tedeschi. Il mondo era al corrente di tutte le cose
terribili e inimmaginabili che i tedeschi avevano commesso
durante la guerra, quindi quella menzogna purtroppo era
plausibile. Per suffragare tale ipotesi, i sovietici si inventaro-
no delle prove, emisero rapporti ufficiali e ripeterono le loro
accuse così tante volte e in così tanti luoghi, tra cui il famo-
so Processo di Norimberga, che la loro versione dei eventi
venne presa per veritiera. Solo decenni dopo, agli inizi degli
anni Novanta, quando l’Unione Sovietica era sull’orlo del
collasso e non ebbe più il coraggio di continuare a insabbia-
re l’accaduto, confessarono ciò che era successo nella foresta
di Katyn.
Sarebbe lecito pensare che con l’ingresso della Russia nel
ventunesimo secolo il governo avesse abbandonato questo
tipo di comportamento. Invece, quando Vladimir Putin salì
al potere nel 2000, anziché smantellare quella macchina di
menzogne e montature, la modificò rendendola ancora più
potente.
L’assassinio di Sergei Magnitsky era un esempio eclatante
di tale approccio, che ci offrì un’opportunità unica di assi-
stere al funzionamento degli ingranaggi di quella macchina.
Il mattino del 17 novembre del 2009, alcune ore prima
dell’alba, la madre di Sergei, Natalia, come tutte le settima-
ne si recò al centro di detenzione di Butyrka per consegnare
un pacco di alimenti e medicine al figlio. Si incontrò insie-
me ad altri familiari dei detenuti presso una piccola entrata
laterale alle 5 e 30. Arrivavano presto perché il martedì la
prigione accettava vettovaglie tra le 9 e le 11. Se Natalia

338
perdeva quella fascia oraria, doveva aspettare fino alla setti-
mana seguente. Poiché quasi tutti i prigionieri non poteva-
no sopravvivere senza quei pacchi, Natalia non era mai in
ritardo.
Quella mattina la fila si muoveva a rilento. Natalia si con-
tendeva la coda con una cinquantina di altri familiari nel-
lo stretto corridoio malsano che conduceva all’ufficio dove
due agenti di custodia accettavano i pacchi. Finalmente ar-
rivò in testa alla fila alle 9 e 40. Consegnò all’agente un
modulo in cui erano specificati gli articoli che consegnava.
La donna lo guardò e scosse il capo in modo fastidioso.
«Quel detenuto non è più in questa struttura. L’hanno
trasferito a Matrosskaya Tishina ieri sera.»
«In ospedale?» domandò Natalia in apprensione. Visto
l’aspetto malato del figlio all’udienza in tribunale di qualche
giorno prima, era preoccupata per la sua salute e sperava che
non ci fosse stata un’emergenza.
«Non lo so», decretò l’agente perentoria.
Natalia si mise il pacco di Sergei sotto braccio e si dileguò.
Salì sulla metro e arrivò all’ufficio pacchi di Matrosskaya
Tishina alle 10 e 30. Per fortuna, c’erano solo tre persone in
fila. Quando arrivò allo sportello, disse all’impiegato: «Mi
hanno detto che mio figlio, Sergei Magnitsky, è qui».
Senza controllare un registro o aver digitato il nome sul
computer, la guardia rispose: «Sì, è stato trasferito qui ieri
sera in condizioni pessime».
Natalia cominciò a preoccuparsi. «Sta bene? Cosa gli è
successo?»
L’impiegata lasciò passare qualche secondo prima di ri-
spondere: «Temo di no. È morto alle 21 di ieri sera».
Natalia gridò. «C-c-cosa? Cos’è successo?»
«È morto di necrosi pancreatica, rottura della membra-
na addominale e shock tossico», rispose l’impiegata con un
tono piatto. «Mi dispiace molto per la sua perdita.» Natalia

339
cominciò a tremare, ma non riusciva a muovere i piedi. Si
appoggiò al banco, scossa da quella notizia. Le venne da
piangere.
«Signora, si faccia da parte. Devo occuparmi della prossi-
ma persona in fila», disse l’impiegata impassibile.
Natalia non riuscì neppure a guardarla.
«Deve farsi da parte», ripeté lei indicando una sedia di
plastica rigida appoggiata al muro. Natalia seguì il suo dito
e si trascinò verso la sedia, sotto gli occhi puntati delle per-
sone in fila dietro di lei che non sapevano cosa fare.
Natalia si accasciò sulla sedia e scoppiò a piangere. Dopo
qualche minuto si ricompose, giusto il tempo necessario
per chiamare Dmitri, l’avvocato di Sergei, che aveva l’uffi-
cio lì vicino. Quando quindici minuti dopo arrivò Dmitri,
Natalia non era più in grado di parlare. Dmitri prese in
mano la situazione e chiese un colloquio con il medico di
turno. Dopo qualche minuto, si presentò un uomo in ca-
mice. Ripeté la causa del decesso e disse che la salma di
Sergei era stata trasferita all’obitorio n.11 e che se volevano
ulteriori informazioni dovevano rivolgersi a loro.
Quella mattina, il mio telefono squillò alle 7 e 45, 10 e
45 ora di Mosca. Presi la chiamata, era Eduard che parlava
in russo a una velocità inaudita. Passai il telefono a Elena.
Ascoltò. Sospirò e le venne da piangere. Poi cominciò a ur-
lare. Non in russo e neanche in inglese, un lamento ance-
strale. Non avevo mai sentito nessuno emettere un suono
del genere in vita mia.
Quando mi disse che Sergei era morto, scattai in piedi e
cominciai a girare in tondo come un animale in gabbia.
La morte di Sergei andava ben oltre i miei peggiori incubi,
non sapevo come affrontarla. Provai un dolore fisico, come
se qualcuno mi avesse affondato una lama nelle viscere.
Dopo alcuni minuti di iperventilazione, camminando su
e giù e cercando di trattenere le lacrime, mi ricomposi ab-

340
bastanza per fare delle telefonate. Prima di tutto chiamai
Vladimir. Lui sapeva sempre cosa fare, cosa dire, chi contat-
tare, ma non quella volta. Quando gli diedi la notizia, ci fu
un silenzio di tomba dall’altro capo del telefono. Non c’era
niente che potesse dire. Poi sussurrò un semplice: «Bill, è
tremendo».
Senza farmi una doccia, mi misi i pantaloni, afferrai una
camicia, mi precipitai fuori dalla porta d’ingresso e presi un
taxi fino al lavoro. Fui il primo ad arrivare, ma nel giro di
venti minuti vennero tutti, distrutti dal dolore.
In tutte le maggiori crisi, ciò che si fa nelle prime ore ha
un effetto permanente. Preparammo subito un comunica-
to stampa in inglese e russo. Allegammo un documento di
quaranta pagine scritto a mano e redatto da Sergei in cui
illustrava le sue torture, il rifiuto di concedergli assistenza
medica e tutte le avversità a cui lo avevano sottoposto le au-
torità carcerarie. Poi inviammo tutto, sperando e pregando
che in quell’occasione ci ascoltassero.
E, quella volta, tutti aprirono bene le orecchie.
La maggior parte delle testate più importanti diede no-
tizia dell’accaduto e chiese alle autorità russe di rilasciare
un commento. L’addetto stampa al ministero degli Interni
era una bionda corpulenta sulla quarantina che si chiamava
Irina Dudukina. Subito dopo che cominciarono ad arrivare
delle telefonate, rese pubblica la versione dei fatti del mini-
stero degli Interni. Secondo lei, Sergei non era morto di ne-
crosi pancreatica e shock tossico come aveva detto l’ufficiale
carcerario a Natalia in precedenza, ma di «arresto cardiaco,
senza segni di violenza.»
Più tardi, quel giorno, Dudukina pubblicò una dichia-
razione ufficiale sul sito del ministero degli Interni in cui
diceva: «Nella pratica della sua causa penale, non risultano
lamentele di Magnitsky sul suo stato di salute». E «la sua
morte improvvisa è stato uno shock per gli inquirenti».

341
Bugie belle e buone. Non solo la sua pratica era piena di
lamentele, ma c’erano anche rifiuti specifici del Maggiore
Silchenko e altri funzionari capi che negavano qualsiasi as-
sistenza medica.
Dudukina mentì anche sull’ora e il luogo del decesso
di Sergei. Dichiarò che Sergei era morto alle 21 e 50 su
un letto del pronto soccorso di Matrosskaya Tishina men-
tre i dottori cercavano di rianimarlo. Ciò fu smentito dal
medico civile che per primo prestò soccorso. Secondo lui,
Sergei era morto verso le 21 sul pavimento di una cella di
isolamento.
Non avevo mai conosciuto né la madre né la moglie di
Sergei. Avevo sempre avuto un contatto diretto con Sergei
o, durante il suo periodo in carcere, con il suo avvocato, ma
ora la sua famiglia e io saremmo stati uniti per sempre.
Chiamai Natalia, sua madre, per la prima volta il 17 no-
vembre. Vadim tradusse. Non solo volevo porgerle le mie
più sentite condoglianze, ma anche dirle che mi sentivo
personalmente responsabile di ciò che era successo al figlio
e che non era sola. A tutt’oggi, rimane una delle conversa-
zioni più difficili che io abbia mai intrattenuto in vita mia.
Natalia era inconsolabile. Sergei era il suo unico figlio e rap-
presentava tutto il suo mondo. Tutte le volte che comincia-
va a parlare, scoppiava a piangere. Non volevo provocarle
ancora più dolore, ma desideravo farle sapere che avrei svol-
to io il ruolo di Sergei e mi sarei occupato di lei e della fa-
miglia. E, cosa ancora più importante, dovevo dirle che mi
sarei accertato che chiunque avesse torturato e ucciso Sergei
sarebbe stato punito dalla legge e che non mi sarei messo il
cuore in pace finché così non fosse stato.
Purtroppo, non potevo essere a Mosca ad aiutarli, quin-
di la famiglia dovette affrontare i postumi della morte di
Sergei da sola. Il giorno dopo il decesso, richiesero che un
patologo indipendente fosse presente all’autopsia di Stato,

342
ma il pubblico ministero negò subito la loro richiesta dicen-
do: «Tutti i nostri patologi sono altrettanto indipendenti».
Due giorni dopo, Natalia richiese la salma affinché po-
tessero condurre un’autopsia. Anche questo le fu negato
adducendo che «non c’erano motivi di dubitare il risultato
dell’autopsia di Stato.»
Più tardi, quello stesso giorno, Natalia andò all’obitorio
n.11. Quando arrivò, le fu detto che la salma era in una cel-
la frigo perché la camera ardente aveva troppi cadaveri e che
il corpo si sarebbe decomposto se non fosse stato sepolto
subito. Quando Natalia chiese se la salma di Sergei poteva
essere affidata alla famiglia affinché potessero svolgere il rito
religioso a bara aperta, il funzionario si rifiutò categorica-
mente: «Il cadavere verrà consegnato solo al cimitero».
La famiglia di Sergei dovette organizzare la sepoltura il
giorno seguente. Natalia, insieme alla vedova di Sergei e alla
zia, andò all’obitorio per consegnare un abito scuro, una
camicia bianca e una cravatta a righe blu. Speravano di po-
ter vedere Sergei un’ultima volta. Il coroner, a malincuore,
accettò. Scesero insieme una rampa di scale e, passando per
un corridoio, arrivarono a una stanza nel sotterraneo. La
camera era scura, con un forte odore nauseabondo di for-
maldeide e morte. Quindici minuti dopo, il coroner portò
all’interno il corpo di Sergei su un lettino a ruote e disse:
«Ora potete dirvi addio».
Sergei era coperto fino al collo con un lenzuolo bianco.
Natalia aveva una candela che voleva mettergli tra le dita se-
condo la tradizione della sepoltura ortodossa. Quando tirò
giù il lenzuolo, rimase sconvolta davanti ai lividi neri sulle
nocche e le profonde lacerazioni ai polsi. Dopo quella visio-
ne, tutt’e tre le donne scoppiarono a piangere.
Baciarono Sergei sulla fronte, piansero e gli strinsero le
mani ferite. Consegnarono i vestiti di Sergei al coroner e se
ne andarono.

343
Il 20 novembre del 2009, dall’obitorio n.11 emerse una
bara di legno marrone che fu caricata su un carro. La fami-
glia lo seguì fino al cimitero Preobrazhensky, a nord est di
Mosca. Gli amici di Sergei estrassero il feretro dal veicolo
e lo posizionarono su un carrello. La processione si diresse
verso la tomba, molti dei suoi amici e familiari portavano
ghirlande di fiori. Quando la bara fu sistemata vicino alla
fossa, aprirono il coperchio e lo appoggiarono ai piedi del
feretro. Sergei era vestito alla perfezione. Era coperto da un
lenzuolo di candido cotone che gli arrivava al petto. Aveva
un bel colorito. Benché tutti potessero vedere i segni di vio-
lenza su polsi e nocche, sembrava in pace, e così sarebbe
stato sepolto.
A turno, amici e familiari lo salutarono e gli gettarono
rose ai piedi. Natalia e la vedova, Natasha, gli posizionarono
una ghirlanda di rose bianche attorno alla testa. Non smet-
tevano più di piangere, richiusero il coperchio e lo calarono
nella fossa.
La morte di Sergei puzzava di insabbiamento per mano
delle forze dell’ordine russe. Il 18 novembre, il Comitato
investigativo di stato annunciò: «Non sono stati identificati
motivi sufficienti per giustificare un’indagine penale a se-
guito del decesso di Magnitsky». Il 23 novembre, tre giorni
dopo la sepoltura, il Procuratore generale russo pubblicò
una dichiarazione in cui affermava che «non aveva riscon-
trato alcun illecito nel comportamento dei funzionari e
nessuna violazione della legge. La morte era sopraggiunta
per arresto cardiaco.» Infine, il 24 novembre, il direttore del
Matrosskaya Tishina dichiarò: «Non sono state riscontrate
violazioni. Le indagini sulla morte di Magnitsky si dichiara-
no pertanto concluse. Si proceda all’archiviazione del caso».
Ma il caso di Sergei non sarebbe stato dimenticato. Ogni
detenuto aveva il suo modo per affrontare le avversità della
reclusione e Sergei si era rifugiato nella scrittura. Nei suoi

344
358 giorni di reclusione, lui e i suoi avvocati avevano pre-
sentato 450 denunce che documentavano minuziosamente
chi gli faceva cosa, quando, come e dove. Tali denunce e le
prove che da allora sono trapelate rendono l’assassinio di
Sergei il caso di violazione di diritti umani meglio docu-
mentato mai uscito dalla Russia negli ultimi trentacinque
anni.
La settimana dopo la morte di Sergei, repressi tutte le mie
emozioni. Avevo fatto il possibile per ottenere giustizia in
Russia, ma la lunga serie di rifiuti era davvero demoralizzan-
te. Quanto tornai a casa la sera del 25 novembre, mi sedetti
al tavolo con Elena. Mi misi la testa fra le mani e chiusi gli
occhi. Speravo che mi massaggiasse il collo o dicesse qualco-
sa per farmi stare meglio, come aveva fatto tante altre volte.
Ma in quel momento era distratta.
Alzai lo sguardo e notai che era assorta nella lettura di
un’email sul BlackBerry. «Cosa succede?»
Alzò una mano, continuò a leggere ancora un po’ e poi
disse: «Medvedev ha appena richiesto un’indagine sulla
morte di Sergei»!
«Cosa?»
«Il presidente Medvedev sta per avviare un’indagine!»
«Davvero?»
«Sì. Ha detto che è stato informato di questo caso dal
Commissario per i diritti umani e che ha chiesto al pro-
curatore generale e al ministro di giustizia di svolgere delle
indagini.»
Subito dopo che Elena mi informò, squillò il cellulare.
Era Vladimir. «Bill, hai sentito le notizie di Medvedev?»
«Sì, Elena e io le stiamo leggendo adesso. Cosa ne dici?»
«Sai, Bill, non credo mai a una parola di quello che dicono
queste persone, ma come potrebbe essere una cosa brutta?»
«Non è possibile», dissi. Anche se niente poteva cambiare
il fatto che Sergei era morto, quello era un segno che for-

345
se c’era una crepa nelle fondamenta malvage della Russia.
Forse, e sottolineo forse, nel caso di Sergei, la Russia non
operava secondo il principio di Katyn: mentire a ogni costo.
Due settimane dopo, l’11 dicembre, la portavoce di
Medvedev annunciò che venti agenti penitenziari sarebbero
stati licenziati «a causa» della morte di Sergei. Quando ne
ebbi notizia cominciai a immaginare gli aguzzini di Sergei
che venivano arrestati a casa loro e sbattuti nelle stesse celle
in cui avevano relegato Sergei.
Purtroppo, qualche ora dopo, Vadim venne alla mia scri-
vania con uno sguardo cupo, stringendo in mano dei fogli.
«Cosa c’è?» gli domandai con un cenno del mento verso
i documenti.
«I nomi degli agenti penitenziari licenziati. Diciannove
non avevano niente a che fare con Sergei. Alcuni lavora-
vano in carceri lontane, tipo Vladivostock e Novosibirsk»,
entrambe a migliaia di chilometri da Mosca.
«Qualcuno di loro aveva a che fare con lui in qualche
modo?»
«Uno. Ma è tutta una messinscena, una copertura.»
Oltre ai numerosi rifiuti e ai licenziamenti fasulli ci fu la
reazione del rapporto della Commissione di Mosca per gli
errori pubblici (MPOC) che fu pubblicata il 28 dicembre.
L’MPOC è un’organizzazione non governativa il cui obiettivo
è svolgere indagini sulla brutalità e sulle morti sospette nelle
prigioni russe. Subito dopo la morte di Sergei, istituirono
un’indagine privata sul decesso, diretta da un uomo incor-
ruttibile chiamato Valery Borschev. Questi intervistò guar-
die, dottori e prigionieri che avevano avuto a che fare con
Sergei. Lui e i colleghi lessero anche le denunce di Sergei e i
fascicoli ufficiali scritti su di lui. Le loro conclusioni furono
definitive. Secondo il rapporto dell’MPOC, a Sergei «era sta-
ta sistematicamente negata l’assistenza medica», «era stato
vittima di torture fisiche e psicologiche», «il suo diritto alla

346
vita era stato violato dallo stato», «investigatori, Pubblico
ministero e giudici avevano contribuito alle sue strazianti
condizioni» e infine «dopo la sua morte, i funzionari di sta-
to avevano mentito e occultato la verità sulle sue torture e
sulle circostanze della sua morte.»
Borschev spedì il rapporto a cinque agenzie governative
diverse, tra cui l’Amministrazione presidenziale, il Ministero
di giustizia e l’Ufficio del Procuratore generale.
Nessuno rispose.
Alle autorità non importava che la Novaya Gazeta avesse
pubblicato i diari integrali scritti in prigione in prima pagi-
na e che tutti li avessero letti.
Poco importava che dalla sua morte, il nome di Sergei
fosse comparso in 1148 articoli in Russia e 1257 articoli in
Occidente.
Poco importava che l’assassinio di Sergei violasse il con-
tratto sociale che tutti avevano accettato: bastava non la-
sciarsi coinvolgere in qualcosa di controverso – politica,
diritti umani o qualsiasi cosa a che vedere con la Cecenia
– e la vita sarebbe stata tranquilla tra i frutti del regime
autoritario.
Le autorità russe erano così prese a insabbiare tutto che
ignoravano gli aspetti più emotivi della storia di Sergei. Era
un semplice fiscalista del ceto medio che prendeva il suo
bel caffè da Starbucks tutte le mattine, amava la famiglia
e svolgeva il suo lavoro in ufficio. La sua grande sfortuna
fu quella di imbattersi in un sistema governativo corrotto
e denunciarlo come un buon patriota russo avrebbe fatto.
Per questo fu sottratto dalla sua vita, incarcerato in uno dei
penitenziari più lugubri del Paese per poi essere torturato in
maniera sistematica fino alla morte.
Poco importava che qualsiasi russo avrebbe potuto essere
Sergei Magnitsky.
Sospesi l’incredulità, nella felice illusione che la Russia

347
avesse superato il principio di Katyn in cui lo Stato era par-
tecipe di un’enorme menzogna, ma non era così. Il male
non era stato estirpato nonostante adesso fosse sotto gli oc-
chi di tutti.
Se volevo ottenere un po’ di giustizia per Sergei, dovevo
trovare un modo per farlo fuori dalla Russia.

348
32. LA GUERRA DI KYLE PARKER

Ma come si fa a ottenere giustizia in Occidente per torture


e un omicidio commessi in Russia?
Poiché il governo britannico non si era rivelato di alcun
aiuto, dovevo allargare il campo d’azione. Vista la mia storia
personale, l’altro luogo logico dove chiedere aiuto erano gli
Usa.
Fissai diversi appuntamenti a Washington D.C. per gli
inizi di marzo 2010 e arrivai il due del mese. A Washington
il tempo era freddo e piovigginoso. La prima persona che
incontrai fu Jonathan Winer, un famoso penalista interna-
zionale. Prima di mettersi in proprio, Jonathan era stato
vice assistente del segretario di Stato per gli stupefacenti e
il mantenimento dell’ordine pubblico, meglio conosciuto a
Washington come DASS, servizi speciali per le narcodipen-
denze e l’alcolismo. Era stato il responsabile della politica
estera americana sui narcotrafficanti e la mafia russa. Un
tipo tosto ed efficiente.
Andai nel suo ufficio in centro città la mattina del 3 mar-
zo. A giudicare dalla sua reputazione, mi aspettavo una sor-
ta di Clint Eastwood, alto e dai lineamenti marcati, quindi
quando arrivai nel suo ufficio pensai di essere finito nel po-
sto sbagliato. Mi ritrovai davanti un uomo di mezza età, alto
un metro e settanta, mezzo pelato e con una faccia lunga e
stretta che mi ricordava uno dei miei professori di economia
preferiti dell’università. Non assomigliava per niente al su-
pereroe della lotta contro il crimine che mi ero immaginato.

349
Jonathan mi fece entrare nel suo ufficio. Ci accomodam-
mo e mi chiese gentilmente di raccontargli tutta la storia.
Ascoltava attento, ogni tanto prendeva appunti su una
scheda senza dire una parola. Solo dopo che ebbi finito co-
minciò a parlare e fu allora che iniziai a capire come si era
guadagnato quella reputazione.
«Sei già stato alla Commissione affari esteri del Senato?»
mi chiese con voce bassa e cadenzata.
«No. Avrei dovuto?»
«Sì. Aggiungila alla lista.» Spuntò una nota che aveva
scritto sulla scheda. «E la Commissione d’inchiesta della
Camera?»
«No. Cos’è?» Cominciavo a non sentirmi all’altezza.
«È una commissione della Camera con poteri di cita-
zione pressoché illimitati. Aggiungi anche questa alla lista.
L’ufficio della Commissione Helsinki Usa?»
«Sì, ci vado l’ultimo giorno che sarò a Washington.» Mi
sentii un po’ meglio perché, dopo tutto non era un falli-
mento totale. In qualche modo volevo la sua approvazione
anche se l’avevo appena conosciuto.
«Bene. È importante. Voglio essere messo al corrente ap-
pena avrai concluso l’incontro.» Spuntò un’altra delle sue
note. «E al ministero degli Esteri hai fissato un appunta-
mento con qualcuno?»
«Sì, domani. Un certo Kyle Scott. È il responsabile
dell’Ufficio per la Russia.»
«È già qualcosa. Avrai accesso a qualcuno più importante
solo in un secondo momento, ma per adesso va bene così. È
fondamentale che tu sappia quello che dirai a Kyle Scott.»
Jonathan fece una pausa. «Hai un piano?»
Da ogni sua domanda capivo sempre di più che non ave-
vo idea di quello che stavo facendo. «Be’, era mia intenzione
raccontargli la storia di quello che è successo a Sergei», dissi
ossequioso.

350
Jonathan mi fece un sorriso benevolo come se stesse par-
lando con un bambino. «Bill, Scott sarà già in possesso di
un rapporto dettagliato dei servizi segreti su di te e Sergei.
Con i mezzi del governo americano, forse saprà più lui della
tua storia di te. Per quanto riguarda il ministero degli Esteri,
lo scopo primario di questo incontro è il contenimento dei
danni. Cercheranno di capire se la situazione è abbastanza
seria da fare intervenire il governo. Il tuo scopo è quello di
provare loro che lo è.»
«Va bene. E come faccio?»
«Dipende tutto da quello che vuoi Bill.»
«Quello che voglio veramente è farla pagare agli assassini
di Sergei.»
Jonathan si strofinò il mento per qualche secondo. «Bene,
se vuoi sollevare un vespaio, io chiederei che applicassero la
Proclamation 7750. Permette al ministero degli Esteri di
imporre restrizioni sul rilascio dei visti a funzionari esteri
corrotti. L’ha creata Bush nel 2004. Farebbe indignare i rus-
si se fosse applicata.»
L’idea della Proclamation 7750 era fantastica. La restri-
zione dei visti avrebbe colpito i criminali russi sul vivo. Con
la fine del comunismo, i funzionari russi si erano sparsi per
il mondo, riempiendo tutti gli alberghi a cinque stelle da
Monte Carlo a Beverly Hills e sperperando come se fosse
stato il loro ultimo giorno su questa Terra. Riuscire a con-
vincere il governo statunitense a limitare i loro spostamenti
avrebbe creato inquietudine all’interno dell’élite russa.
«Il ministero degli Esteri potrebbe davvero farlo?» chiesi.
Jonathan si strinse nelle spalle. «Forse no, ma vale la pena
provarci. La 7750 è stata usata raramente, ma esiste e sarà
interessante vedere come giustificheranno la sua non appli-
cazione con le prove che hai su questo caso.»
Mi alzai. «Allora lo farò. Grazie mille.» Uscii dall’ufficio
di Jonathan sentendomi davvero potente. Ero sempre un

351
estraneo nell’ambiente di Washington, ma perlomeno ades-
so avevo un piano e un alleato.
Il mattino dopo mi recai al ministero degli Esteri a C
Street. Quell’edificio semplice e squadrato assomigliava di
più a un mattone allungato che alla sede del potere diplo-
matico degli Usa. Dopo i lunghi controlli di sicurezza, fui
ricevuto dalla segretaria di Kyle Scott che, con il ticchettio
cadenzato dei suoi alti tacchi neri, mi accompagnò attra-
verso una serie di monotoni corridoi con il pavimento di
linoleum. Alla fine arrivammo a un porta con su scritto
UFFICIO DEGLI AFFARI RUSSI.
La segretaria aprì la porta e protese un braccio. «Prego.»
Entrai nella piccola suite, poi mi fece strada verso l’ufficio
principale. «Mr. Scott sarà qui a momenti.»
Di solito l’ufficio principale dovrebbe trasmettere una
sorta di autorevolezza, ma quando mi accomodai capii che
nel caso di Kyle Scott era solo una facciata. La sua stanza era
angusta, c’era appena posto per una scrivania, un divano a
due posti, un tavolinetto e un paio di poltrone. Mi sedetti
sul divano e aspettai.
Dopo qualche minuto entrò Kyle Scott con un’assistente
al seguito. «Salve Mr. Browder.» Alto circa come me e più o
meno della mia età, Kyle Scott aveva gli occhi marroni molto
accostati. Era vestito da tipico burocrate statunitense: camicia
bianca, cravatta rossa e abito grigio. «Grazie mille per essere
riuscito a incontrarmi oggi» disse grato, senza rendersi conto
che in realtà ero stato io a chiedergli quell’appuntamento.
«No. Grazie a lei per essere riuscito a trovare il tempo per
me», risposi.
«Ho qualcosa che credo la renderà molto felice», disse
con un sorriso cospiratorio. L’assistente, una ragazza che in-
dossava un tailleur pantalone grigio e con al collo una sciar-
pa di seta rossa, prendeva appunti su un block-notes. Scott
si girò per prendere dalla scrivania un raccoglitore in carta

352
di manilla strapieno, un faldone che senza dubbio contene-
va tutte le informazioni che aveva raccolto su me e Sergei,
come preannunciato da Jonathan. Scott strinse le gambe,
appoggiò il raccoglitore sulle ginocchia ed estrasse un foglio
di carta.
Ero incuriosito. «Cos’è?»
«Mr. Browder, ogni anno il ministero degli Esteri pubbli-
ca una relazione sui diritti umani, e quest’anno nella rela-
zione ci sono due paragrafi molto duri sul caso Magnitsky.»
Avevo sentito che organizzazioni come Human Rights
Watch e Amnesty International avevano interi team che si
davano da fare tutto l’anno per riuscire a inserire i loro casi
in questo documento, e Kyle Scott me lo stava servendo su
un piatto d’argento.
Per altri casi sarebbe stato molto importante, ma non per
il nostro. Al governo russo non avrebbe potuto importare di
meno di due paragrafi in una relazione sui diritti umani del
governo statunitense. I russi stavano cercando di coprire in
tutti i modi un crimine enorme, e la sola cosa di cui si pre-
occupavano, la sola che avrebbe attirato la loro attenzione,
sarebbero state le conseguenze nella vita reale.
Kyle Scott mi fissò in trepidante attesa di una reazione da
parte mia.
«Posso leggere cosa c’è scritto?»
Mi porse il foglio di carta. I paragrafi erano abbastanza
incisivi, ma erano solo parole.
Guardai Scott e con garbo dissi: «Sono davvero fantastici.
Grazie mille. Ma c’è qualcos’altro che le vorrei chiedere.»
Scott si rigirò a disagio sulla sedia e l’assistente alzò lo
sguardo dagli appunti. «Certo, mi dica.»
«In realtà, Mr. Scott mi hanno parlato di una legge ame-
ricana che credo sarebbe perfetta per il caso Magnitsky: la
Proclamation 7750, quella che può essere applicata per im-
pedire ai funzionari russi corrotti di entrare negli Usa.»

353
S’irrigidì. «Sono al corrente di quel divieto. Ma come può
essere applicabile a questo caso?» domandò sulle difensive.
«Lo è perché quelli che hanno ucciso Sergei sono senza
dubbio corrotti e quindi si potrebbe applicare quella legge.
Il segretario di Stato dovrebbe vietare loro l’ingresso negli
Usa.»
L’assistente scriveva freneticamente, come se avessi par-
lato a tripla velocità. Non avevano previsto che l’incontro
prendesse quella piega. Jonathan Winer ci aveva visto lungo.
Non era quello che volevano sentirsi dire perché da quan-
do Barack Obama era diventato presidente nel 2009, la po-
litica principale del governo americano nei confronti della
Russia era di appeasement. Il governo aveva persino creato
un nuovo termine: «reset». Questa politica voleva ripristina-
re i rapporti incrinati tra la Russia e gli Usa, ma in termini
pratici significava che gli Usa non avrebbero menzionato
fatti sgradevoli sulla Russia purché quest’ultima si fosse
comportata bene nei rapporti commerciali, nel disarmo
nucleare e in molti altri campi. Come no, il governo ame-
ricano poteva inserire qualche paragrafo in una relazione
per dimostrare la sua preoccupazione circa la violazione dei
diritti umani, ma la politica principale degli Usa era di non
fare assolutamente nulla.
Stavo chiedendo qualcosa che era in contrasto con quella
politica e all’improvviso Scott si era ritrovato in una po-
sizione scomoda. «Mi dispiace Mr. Browder, ma ancora
non riesco a capire come la 7750 possa riguardare il caso
Magnitsky», disse in modo vago.
Mi rendevo conto che per Scott era una questione delica-
ta, ma anziché fare marcia indietro insistetti ancora di più.
«Come può sostenere questo? Quei funzionari hanno ruba-
to duecentotrenta milioni di dollari ai russi e hanno ucciso
chi ha rivelato pubblicamente i loro illeciti. Hanno ricicla-
to tutto quel denaro, e ora fazioni del governo russo sono

354
impegnate in una grandissima operazione di copertura. La
7750 calza a pennello in un caso come questo.»
«Ma, Mr. Browder, non… ma sarebbe impossibile pro-
vare che queste persone hanno fatto ciò che lei sostiene»,
disse.
Cercai di mantenere la calma, ma mi riusciva sempre più
difficile.
«I due paragrafi che mi ha appena mostrato citano per
nome molti di questi funzionari», risposi tagliente.
«Io… io…»
Cominciai ad alzare la voce. «Mr. Scott, questa è la vio-
lazione dei diritti umani meglio documentata dalla fine
dell’Unione Sovietica. Il coinvolgimento nella morte di
Sergei di diversi funzionari russi è stato riconosciuto da nu-
merose fonti indipendenti. Sarei più che contento di illu-
strarle.»
Per Scott quell’incontro aveva preso una piega del tutto
sbagliata e ora voleva che finisse. Fece un cenno alla sua as-
sistente che smise di scrivere e si alzò. Anch’io mi alzai. «Mi
dispiace Mr. Browder», disse accompagnandomi alla porta
«ma ho un altro appuntamento. Mi piacerebbe discuterne
un’altra volta, ma al momento non posso. Grazie ancora di
essere venuto.»
Gli strinsi la mano, sapendo benissimo che non sarei ri-
tornato nel suo ufficio in tempi brevi. La sua assistente im-
pacciata mi accompagnò all’uscita senza dire una parola.
Me ne andai dal ministero degli Esteri deluso e irritato.
Girovagai in direzione est per andare al mio prossimo ap-
puntamento vicino al Campidoglio e alla fine mi ritrovai
a passeggiare lungo il National Mall sotto un cielo plum-
beo. Nel bel mezzo di un’accesa discussione, due giovanot-
ti, entrambi ventenni, in giacca blu con i bottoni dorati e
pantaloni beige, si diressero verso di me. Avevano ancora i
brufoli, eppure erano già qui a Washington a giocare a fare

355
i politici. Questo non era il mio mondo. Chi mi credevo
di essere per pensare che sarei riuscito a ottenere qualcosa a
Washington? Dall’incontro con Jonathan era chiaro quanto
poco sapessi e lo spiacevole incontro con Kyle Scott ne fu
la riprova.
Quel giorno andai ad altri appuntamenti in uno stato di
stordimento e nessuno portò a risultati concreti. L’unica cosa
a cui riuscivo a pensare era al volo di ritorno per Londra.
Prima di partire da Washington, andai al mio ultimo
incontro, con un certo Kyle Parker della Commissione
Helsinki Usa. Era la stessa persona che non aveva inserito
il caso di Sergei nella relazione informativa del presiden-
te Obama quando Sergei era ancora vivo, quindi non mi
aspettavo un’accoglienza calorosa. Mantenni l’appunta-
mento solo perché Jonathan Winer aveva insistito molto
quando gli avevo illustrato le persone che intendevo in-
contrare.
Me lo ricordavo come un uomo sulla trentina con occhi
stanchi che sembrava avere visto molte più cose di quelle
di uno della sua età. Parlava perfettamente in russo e aveva
una profonda conoscenza di tutto quello che succedeva in
Russia. Se non avesse lavorato per questa Commissione sco-
nosciuta del Congresso per i diritti umani, avrebbe potuto
essere tranquillamente un agente della CIA.
Mi diressi al Ford House Office Building sulla D Street, a
un isolato di distanza dai binari della ferrovia e dall’autostra-
da. Quell’orrendo edificio quadrato privo di qualsiasi char-
me architettonico era lontano dal centro del Campidoglio e
senza dubbio il palazzo più brutto del governo americano.
Mentre entravo nell’edificio, non potei fare a meno di pen-
sare che fosse il luogo dove sbattevano tutte le istituzioni
orfane del Congresso che non appartenevano alle cerchie
tradizionali di potere.
Kyle Parker mi accolse ai controlli di sicurezza e mi portò

356
in una sala conferenze riscaldata con ogni sorta di cimeli so-
vietici in bella mostra sulle mensole. Si accomodò a capota-
vola, il silenzio era imbarazzante. Feci un respiro profondo
per spezzarlo, ma mi interruppe.
«Bill, volevo dirti che mi dispiace molto non avere fatto
di più l’anno scorso per aiutare Sergei. Non so dirti quanto
spesso ho pensato a lui da quando è morto.»
Non era quello che mi aspettavo, ci pensai un attimo pri-
ma di dire: «Noi, ci abbiamo provato, Kyle.»
Poi disse qualcosa che non era per nulla in stile Washington
e che ancora oggi stento a credere. «Quando hai spedito
l’elogio per Sergei dopo la sua morte, l’ho letto e riletto
in metropolitana mentre tornavo a casa. Ero straziato. Eri
venuto quattro mesi prima a chiedere aiuto. Sul treno ho
pianto. Quando sono arrivato a casa l’ho letto a mia moglie.
Ha pianto anche lei. Questo omicidio è una delle cose più
brutte che sia capitata dall’inizio della mia carriera.»
Ero sbalordito. Non avevo mai sentito un funzionario go-
vernativo parlare in modo così umano e commosso. «Kyle,
non so davvero cosa dire. Anche per me è stata una cosa
orribile. L’unico motivo per cui riesco ad alzarmi la mattina
è per dare la caccia a quelli che hanno fatto questo a Sergei.»
«Lo so e io ti aiuterò.»
Feci un respiro profondo. Quel Kyle era diverso da tutte
le persone che avevo incontrato a Washington.
Volevo raccontargli cosa era successo al ministero degli
Esteri ma prima che riuscissi a farlo, Kyle si lanciò in un
brainstorming unidirezionale. «Bill, voglio fare una lista di
tutte le persone implicate nell’arresto illegale, nelle tortura
e nella morte di Sergei. Non solo Kuznetsov e Karpov e
gli altri delinquenti del ministero degli Interni, ma anche
dei medici che hanno ignorato le suppliche di Sergei, dei
giudici che hanno approvato a occhi chiusi la sua custodia
cautelare e i funzionari del Fisco che hanno rubato i soldi

357
russi. Tutti quelli che sono direttamente responsabili della
morte di Sergei.»
«È facile Kyle. Abbiamo le informazioni e i documenti
per provarlo. Ma come avresti intenzione di usarli?»
«Ti dico cosa farei. Organizzerei un viaggio a Mosca,
un’indagine conoscitiva del Congresso e farei chiamare
dall’Ambasciata americana tutte le persone su quella lista
richiedendo un incontro per parlare del caso Magnitsky.
Non credo che molti accetterebbero, ma il fatto che gli Usa
prestino così tanta attenzione alla morte di Magnitsky spa-
venterebbe le autorità russe.»
«Mi piace come idea, ma secondo me ci sono un sacco di
motivi per cui non andrà da nessuna parte. Però potremmo
usare la lista in un altro modo.»
«Sono tutto orecchie.»
Gli parlai di Jonathan Winer, della Proclamation 7750 e
dell’incontro con Scott al ministero degli Esteri.
Mentre parlavo, Kyle si annotava tutto. «Idea grandiosa.»
Con la punta della penna picchiettò sul block notes. «Come
ha reagito quello del Ministero?»
«Non bene. Appena ho detto: “7750” ha cercato di de-
viare, di confondere le acque e mi ha mandato via dal suo
ufficio».
«Facciamo così. Parlerò con il senatore Cardin e gli chie-
derò di spedire una lettera al Segretario di stato Clinton
richiedendole di appellarsi alla 7750.»
Kyle fece una pausa e mi guardò dritto negli occhi.
«Vediamo se tratteranno così anche un senatore americano.»

358
33. RUSSELL 241

Tornato a Londra, convocai una riunione del personale per


raccontare a tutti com’era andata a Washington. Sapevo
che avevano bisogno di buone notizie. Tutto quello che
avevamo fatto in Russia non ci aveva portati da nessuna
parte. Quando si sedettero, non cercai di addolcire la pil-
lola. Mi limitai invece a raccontare loro dell’esperienza di
Washington e conclusi l’incontro accennando alle possibili
sanzioni sui visti e alla lettera del senatore Cardin a Hillary
Clinton.
«Bill, ti rendi conto dell’importanza di tutto questo,
vero?» domandò Ivan quando ebbi finito. «Se andrà in por-
to, significa che avremo il governo statunitense dalla nostra
parte!»
«Lo so bene, Ivan.»
Risollevò il morale generale, specialmente quello dei rus-
si. Chiunque abbia letto Cechov, Gogol o Dostoevskij vi
dirà – e anche Sergei ce lo aveva ricordato – che le storie
russe non sono mai a lieto fine. I russi sono abituati alle sof-
ferenze, alle asperità e alla disperazione, non al successo e di
certo non alla giustizia. Non sorprende che ciò abbia gene-
rato in molti russi un profondo fatalismo in cui il mondo è
malvagio, sarà sempre tale e qualsiasi tentativo di cambiare
le cose è destinato a fallire.
Ciononostante, un giovane americano che rispondeva al
nome di Kyle Parker stava sfidando tale fatalismo.
Purtroppo, passò una settimana, poi due e alla fine tre

359
senza che Kyle si facesse sentire. Ogni giorno che passava
vedevo Ivan, Vadim e Vladimir regredire nel loro assetto
fatalistico e alla terza settimana anch’io ero stato contagiato
dal pessimismo russo. Resistetti alla tentazione di chiamare
Kyle per paura di spaventarlo. Mentre le possibilità di un
incontro con Kyle erano sempre più remote, mi chiedevo se
avessi interpretato bene quel che aveva detto.
Poi, invece, alla fine di marzo del 2010, mi decisi.
Composi il numero di Kyle che rispose al primo squillo,
come se vivesse attaccato al telefono.
«Pronto?» disse a piena voce.
«Ciao, Kyle. Sono Bill Browder. Mi spiace disturbarti,
ma mi chiedevo se sapessi quando spediranno la lettera del
senatore Cardin. Sarebbe determinante per la campagna…
anzi, ne cambierebbe completamente le sorti.»
«Mi dispiace, ma le cose non vanno sempre secondo i
piani da queste parti. Però non preoccuparti, Bill, porta pa-
zienza. Conta su di me.»
«Va bene, ci proverò», risposi, un po’ più rilassato. «Però se
c’è qualcosa, qualsiasi cosa che posso fare, fammelo sapere.»
«Certo.»
Per quanto credessi che Kyle fosse davvero sconvolto per
la morte di Sergei, pensai che tutto quel parlare di esse-
re pazienti fosse un modo come un altro per deludermi
a rate. Ero sicuro che molti a Washington non volessero
sanzioni e che alla fine non ci sarebbe stata alcuna lettera
di Cardin.
Un venerdì di qualche settimana dopo, in uno dei rari
momenti in cui non mi stavo occupando della campagna,
portai Elena e David al cinema a Leicester Square. Neanche
a farlo apposta, era un thriller politico – L’uomo nell’ombra,
per la regia di Roman Polanski. Nel buio della sala, mentre
guardavamo le anteprime sgranocchiando popcorn, mi vi-
brò il telefono. Controllai il numero. Era Kyle Parker.

360
Sussurrai a Elena che sarei rientrato subito e uscii nell’a-
trio.
«Pronto?»
«Bill, ho buone notizie. È pronta. Sarà spedita al Segretario
Clinton lunedì mattina.»
«La lettera? Te ne occupi tu?»
«Sì. Stiamo solo apportando le ultime modifiche. Te la
spedisco tra un’ora.»
Riattaccammo. «Guardai», il film, anche se non riuscii
quasi a seguire la trama. Poi ci precipitammo a casa, andai al
computer e stampai la lettera indirizzata a Hillary Clinton.
Tenendola con entrambe le mani, la lessi diverse volte.
Era scritta molto bene, succinta e persuasiva. Il paragrafo
conclusivo recitava:
La esorto ad annullare e revocare in modo permanente i pri-
vilegi del visto statunitense a tutti quelli implicati in questo
crimine, eventuali figli a carico e familiari. Ciò garantirà una
certa giustizia per il defunto Mr. Magnitsky e i familiari an-
cora in vita e invierà un importante messaggio ai funzionari
corrotti in Russia e altrove sul fatto che gli Usa sono seriamente
impegnati a combattere la corruzione straniera e i danni da
essa causati.

Chiamai subito Kyle. «Incredibile. Per me ha davvero un


significato enorme e anche per tutti quelli che conoscevano
Sergei…»
«Te l’avevo detto che ce l’avremmo fatta, Bill, lo sapevo.
Mi è dispiaciuto davvero tanto quando ho saputo che ave-
vano ucciso Sergei. Voglio fare in modo che il suo sacrificio
non sia stato invano», disse Kyle con la voce rotta.
«E adesso cosa facciamo?»
«La lettera sarà spedita alla Clinton lunedì. La pubbliche-
remo sul sito della Commissione appena l’avremo inviata.»
«Fantastico. Riparliamone lunedì. Buon fine settimana.»

361
Mi ci vollero almeno due ore per addormentarmi quella
sera. Cardin l’avrebbe fatto sul serio? Quelle cose potevano
essere disdette all’ultimo momento? E se l’avesse spedita,
cos’avrebbe fatto la Clinton? E i russi?
Arrivò lunedì mattina. Andai in ufficio di buon ora,
mi sedetti alla scrivania e aprii il sito della Commissione
Helsinki. Nulla. Però il fuso di Londra era cinque ore avan-
ti rispetto a quello di Washington, quindi era ragionevole
pensare che la lettera sarebbe stata pubblicata qualche ora
più tardi.
Controllai ancora a mezzogiorno, ora di Londra, anco-
ra niente. Misuravo l’ufficio a larghi passi e notai che non
ero l’unico a controllare spasmodicamente il sito della
Commissione Helsinki Usa. Vadim, Ivan e Vladimir aveva-
no tutti la homepage sullo schermo, ma nonostante tutte le
volte che premevano il tasto «aggiorna» continuava a com-
parire la stessa pagina.
Finalmente, alle 14 e 12 – 9 e 12 ora di Washington
– apparì una nuova schermata. Davanti ai miei occhi,
comparvero due foto segnaletiche, una di Kuznetsov e
l’altra di Karpov, insieme alla lettera del senatore Cardin
al Segretario di stato Hillary Clinton. Allegata alla lettera
c’era una lista di sessanta funzionari coinvolti nel decesso
di Sergei e nella frode fiscale, e accanto a ogni nome c’era
il reparto d’appartenenza, il grado, la data di nascita e il
ruolo nel caso Magnitsky. Cardin richiedeva che a tutti i
sessanta fosse tolto per sempre il privilegio di entrare negli
Stati Uniti.
Mi appoggiai allo schienale della sedia.
Era vero. Stava succedendo, proprio sotto gli occhi del
mondo intero. Finalmente era stato fatto qualcosa affinché
chi aveva assassinato Sergei rispondesse delle proprie azio-
ni. Guardando lo schermo, mi venne un nodo in gola. Se
Sergei ci stava guardando da lassù, avrebbe visto che le sue

362
lettere strazianti scritte dal carcere, dove aveva implorato
aiuto, finalmente erano state ascoltate.
Nel giro di dieci minuti, le agenzie di stampa russe divul-
garono la notizia. Di lì a trenta minuti, la stampa occidenta-
le iniziò a parlarne. Alla fine della giornata era stato coniato
un nuovo termine: la lista Cardin.
In Russia nessuno aveva mai sentito parlare di Ben Cardin,
ma dopo il 26 aprile 2010, a furor di popolo, il senatore del
Maryland era considerato il politico più importante d’Ame-
rica. Gli attivisti russi per i diritti umani e i politici dell’op-
posizione rincararono la dose, scrivendo lettere al presidente
Obama e al Presidente della UE, per sostenere la lista Cardin.
Era dai tempi di Ronald Reagan che i russi non vedevano un
rappresentante di politica estera agire con tanta determinazio-
ne per una questione di diritti umani in Russia. La triste realtà
era che quasi tutte le atrocità commesse in Russia passavano
sempre inosservate al mondo esterno, e quelle rare volte in cui
varcavano il confine, i governi esteri non facevano quasi mai
nulla. Invece adesso, all’improvviso, un senatore statunitense
aveva richiesto la revoca del visto statunitense a sessanta fun-
zionari russi per via del loro coinvolgimento in atroci violazio-
ni dei diritti umani. Un evento senza precedenti.
Mentre il russo medio gioiva, gli alti funzionari di Putin
erano furibondi. Tutti i suoi tenenti avevano approfittato
delle loro cariche per fare soldi a palate e molti avevano
compiuto illeciti vergognosi pur di arricchirsi. In teoria, la
lista Cardin significava che anche loro sarebbero stati pas-
sibili di sanzioni in futuro. Per quanto li riguardava, la lista
stava cambiando la loro vita.
Ma, per il momento, non si dovevano preoccupare. A
Washington, il ministero degli Esteri non voleva fare niente
in risposta alla lettera Cardin e sperava che con un po’ di
indifferenza e ignorando il senatore il problema si sarebbe
risolto.

363
Invece no. Se il ministero degli Esteri avesse ignora-
to il senatore Cardin, Kyle avrebbe alzato la posta. Fece
in modo che io testimoniassi sul caso Magnitsky davanti
alla Commissione Tom Lantos per i diritti umani presso la
Camera dei rappresentanti agli inizi di maggio.
L’udienza era programmata per il 6 maggio al Rayburn
House Office Building, a sud ovest del Campidoglio.
Terminato nel 1965, l’edificio era in sobrio stile neoclas-
sico, tipico di tutta l’architettura di Washington, anche se
l’interno non era come gli altri edifici parlamentari. Non
sfoggiava svettanti colonne in marmo, cupole o pannelli in
legno di ciliegio alle pareti. C’erano invece pavimenti di li-
noleum, soffitti bassi e elementi decorativi cromati su oro-
logi e ascensori.
Io non c’ero mai stato, quindi arrivai con largo anticipo,
molto prima delle 10, per farmi un’idea del luogo. Entrai dalla
Independence Avenue, passando dal piccolo controllo di sicu-
rezza presidiato da due agenti della polizia capitolina. Mi di-
ressi verso la stanza 2255 e diedi un’occhiata dentro. L’ampia
sala delle udienze aveva un palco a ferro di cavallo per i mem-
bri della Commissione, due tavoli lunghi per i relatori ospiti
e una galleria per il pubblico dietro i conferenzieri con posti
a sedere per settantacinque persone. Il presidente – un parla-
mentare del Massachusetts di nome Jim McGovern – non era
ancora arrivato, ma aiutanti, membri dello staff e altre persone
gironzolavano parlando del più e del meno. Ritornai in corri-
doio e ripassai gli eventi salienti della storia di Sergei.
Quando rientrai nella stanza, dei foglietti piegati a mo’ di
V rovesciata erano stati messi sui tavoli dei relatori. C’erano
rappresentanti di prestigiose organizzazioni di diritti umani
– il Comitato per la protezione dei giornalisti, la Human
Rights Watch e l’International Protection Centre – io mi
sentivo leggermente fuori luogo come uomo d’affari in
mezzo a tutti quegli attivisti per i diritti umani.

364
Quando entrò il membro del Congresso McGovern, no-
tai Kyle Parker seduto in disparte su un lato della galleria. Il
deputato era un uomo affabile con un’evidente pelata e un
viso da ragazzo. Salutò tutti i testimoni con una bella stretta
di mano e uno spiccato accento bostoniano. C’era qualcosa
di lui che mi colpì subito. Ci invitò ad accomodarci, la se-
duta iniziò puntuale.
La prima relatrice si occupava di giornalisti perseguita-
ti in Russia. Espose una dichiarazione scritta ed era molto
preparata, citò molti dati e numeri su uccisioni e rapimenti
di giornalisti che avevano divulgato informazioni sui crimi-
ni del regime russo. L’enormità della sua testimonianza e
la sua competenza in merito a questioni politiche mi mise
quasi in soggezione. Io parlavo di un caso specifico, di un
uomo, e non avevo preparato alcun discorso.
L’intervento successivo fu di una rappresentante della
Human Rights Watch, in cui la relatrice ripeté molte del-
le litanie sulle violazioni dei diritti umani in Russia docu-
mentate dalla sua organizzazione. Fece anche riferimento a
molti casi famosi, tra cui l’assassinio di Anna Politkovskaya
e Natalia Estemirova. Avevo ben presenti entrambi i casi e
apprezzai molto il suo intervento. Quando ebbe finito mi
sentii ancora più inadeguato.
Il personale di servizio in giro per la sala era meno com-
mosso. Ne avevano sentiti tanti di casi simili. Avevano il
naso incollato ai loro piccoli schermi sui palmi delle mani,
con le dita che svolazzavano sulle tastiere dei BlackBerry,
non si rendevano nemmeno conto del cambio degli oratori.
Poi arrivò il mio turno. Non avevo statistiche, tabulati
o raccomandazioni politiche. Ero lì in piedi, a disagio, e
continuavo a tirarmi i polsini della giacca, poi cominciai a
parlare. Esordii con qualche informazione su di me e poi
raccontati alla Commissione la vicenda macabra e intensa
di Sergei Magnitsky. Il membro del congresso McGovern e

365
io ci guardammo dritto negli occhi. Passo dopo passo, rac-
contai a lui e agli altri di come Sergei avesse scoperto un re-
ato, di come fosse stato arrestato dopo aver testimoniato, di
come quei sadici lo avessero torturato in carcere e di come,
alla fine, fosse stato assassinato.
Mentre parlavo, notai che i giovani membri del personale
avevano smesso di digitare sui BlackBerry. Conclusi il mio
intervento chiedendo alla Commissione di sostenere il se-
natore Cardin nella sua richiesta al ministero degli Esteri di
imporre sanzioni sui visti agli assassini di Sergei. Conclusi
dicendo: «Sergei Magnitsky è solo un caso individuale, ma
di Sergei ce ne sono a migliaia. E tali atrocità continueran-
no a essere perpetrate a meno che qualcuno non li fermi
mostrando loro che l’impunità non esiste».
Mi sedetti e lanciai un’occhiata all’orologio. Il mio di-
scorso era durato otto minuti. Passai le mani sul tavolo e mi
guardai attorno. C’erano molti con le lacrime agli occhi, tra
cui molti attivisti per i diritti umani. Aspettai che qualcuno
parlasse, ma nella stanza era calato un silenzio di tomba.
Poi, dopo venti secondi circa, McGovern intrecciò le dita e
si chinò in avanti. «Ho il privilegio di essere il co-presidente di
questa Commissione da oltre vent’anni e ho imparato molte
cose. Siamo continuamente sommersi da valanghe di statisti-
che e dati, che a volte perdiamo la capacità umana di sentirne
la gravità, Mr. Browder. Ecco perché le sono grato che sia ve-
nuto a parlarci del caso di Mr. Magnitsky. È una storia davvero
tragica. Ritengo che chi commette un omicidio non dovrebbe
godere del diritto di entrare nel nostro Paese e investire dena-
ro. Ci dovrebbero essere delle conseguenze. Quindi una delle
cose che vorrei fare è non solo spedire una lettera a Hillary
Clinton, ma credo che dovremmo introdurre delle leggi in cui
viene fatta una lista di quelle sessanta persone che verrà sot-
toposta alla Commissione, poi faremo una raccomandazione
formale del Congresso che verrà discussa dall’amministrazio-

366
ne. Queste sono le conseguenze a cui mi riferisco. Bisogna
agire in questo modo, altrimenti non cambierà nulla. Ha la
mia parola, lo faremo.»
Finita l’udienza, Kyle e io uscimmo dall’aula in totale si-
lenzio. Jim McGovern aveva appena promesso di presentare
una Legge Magnitsky? Già, proprio così. Andava talmente
oltre ogni mia aspettativa che non mi sembrava vero.
Arrivati al piano di sotto domandai: «Kyle, secondo te
Cardin farà la stessa cosa in Senato?»
Kyle si fermò e rispose: «Visto quello che è appena succes-
so, Bill, non vedo perché Cardin non dovrebbe».
Più tardi, nel pomeriggio, Kyle chiamò per confermare
che Cardin era disposto a promuovere la causa in Senato.
All’improvviso, si prospettava una remota, seppur reale,
possibilità di fare una legge in nome di Sergei – la Legge
Sergei Magnitsky.
Tuttavia, dall’idea di fare una legge alla sua reale approva-
zione c’era ancora molta strada da fare. Prima di tutto ci ser-
viva un documento effettivo che Cardin e McGovern potes-
sero presentare. Una volta pronto, tale documento doveva
essere approvato da una commissione sia in Senato sia alla
Camera dei rappresentanti. Dopodiché sarebbe stato messo
ai voti in entrambe le Camere del Congresso. Se entrambe
le Camere avessero passato la proposta di legge, tutto sareb-
be stato sottoposto al Presidente per la promulgazione.
Ogni anno, migliaia di proposte di legge vengono pre-
sentate al Congresso e solo poche decine vengono poi tra-
sformate in leggi effettive. Pertanto era fondamentale che
la proposta di legge che Cardin e McGovern avrebbero
presentato ai loro colleghi fosse inattaccabile da eventuali
detrattori. Kyle trascorse tutta l’estate a lavorarci su e fu
così che sviluppammo una profonda amicizia. Ci sentivamo
tutti i giorni, a volte anche due volte, imparando quante più
cose possibili sulle leggi statunitensi in materia di sanzioni.

367
Agli inizi di settembre, avevamo preparato una buona
proposta di legge.
Quando Kyle me la spedì, domandai: «Quanto ci vor-
rà prima che Cardin possa programmare una votazione in
Senato?»
Kyle scoppiò a ridere. «Non è così semplice, Bill. A
Washington, perché una legge venga approvata, occorre il
supporto bipartisan. Abbiamo bisogno del sostegno di un
potente senatore senior repubblicano, che co-sponsorizzi la
proposta per farla partire. Solo così potremo avviare la pro-
cedura.»
«Ci penserà Cardin a trovare quella persona?»
«Forse, però, se vuoi accelerare le cose, puoi farlo anche
tu. La tua storia personale con Sergei è molto convincente.»
Non volevo lasciare niente di intentato, così dopo aver
parlato con Kyle cominciai a passare in rassegna la lista dei
senatori repubblicani che avrebbero potuto offrire il loro
co-patrocinio, e un nome mi saltò subito all’occhio: John
McCain.
Se c’era un senatore in grado di capire cosa volesse dire es-
sere torturati in carcere, quello era John McCain. Era stato
un pilota di caccia nella Marina militare durante la guerra
del Vietnam. Dopo l’abbattimento del suo aereo, fu fatto
prigioniero, detenuto e torturato in un campo di prigionia
per cinque anni prima di essere liberato. Non c’erano dubbi
che avrebbe capito gli orrori a cui Sergei era stato sottoposto
e di sicuro ci avrebbe voluto fare qualcosa.
Ma come avrei fatto a organizzare un incontro con John
McCain? L’accesso a Washington è super controllato e, più
una persona era importante, più era inaccessibile. Attorno
a questo è sorta una vera e propria industria lobbistica.
Quando cominciai a chiedere in giro se qualcuno potesse
presentarmi a McCain, mi guardavano come se avessi chie-
sto un milione di dollari in cambio di niente.

368
Poi però mi venne in mente che conoscevo una persona
che forse avrebbe potuto aiutarmi. Si chiamava Juleanna
Glover, una bella donna di alta statura, con i capelli ondulati
color rame, stile impeccabile e alla mano. Avevo conosciu-
to Juleanna attraverso un amico in comune a Washington
nel 2006, subito dopo che mi avevano revocato il visto. Mi
aveva invitato a una grande cena di gruppo al Café Milano,
un ristorante italiano alla moda a Georgetown. Ci eravamo
scambiati i biglietti da visita alla fine della serata ma solo
dopo essere tornato all’albergo e aver fatto una ricerca su
Google digitando il suo nome mi resi conto che avevo cena-
to con una delle lobbiste più influenti di Washington.
Juleanna aveva un curriculum di tutto rispetto. Era sta-
ta responsabile dei rapporti con la stampa del vice presi-
dente Dick Cheney e poi esperta consulente politica per
il Procuratore generale John Ashcroft. Quando Ashcroft
lasciò la sua carica governativa, lo seguì per gestire il suo
studio legale di Washington, l’Ashcroft Group. Godeva di
molta stima, nel 2012 la rivista Elle la nominò come una
delle dieci donne più potenti di Washington.
Pare che anche lei quella sera dopo cena fosse andata a
casa e avesse fatto delle ricerche su di me su Google, ve-
nendo a sapere dei miei problemi sempre più gravi con il
governo russo. Mi chiamò il giorno dopo offrendomi il
suo aiuto e da quel momento diventammo amici. Quando
Sergei morì, una delle prime telefonate di condoglianze che
ricevetti fu da Juleanna e John Ashcroft. «Sappiamo quanto
ti senti male, Bill», aveva detto Ashcroft. «Però devi sapere
che non sei solo in questa faccenda. Se c’è qualsiasi cosa che
possiamo fare per aiutare te o la famiglia di Sergei, molto
volentieri, chiama quando vuoi.»
Era arrivato il momento in cui avevo bisogno di aiuto.
Mi serviva qualcuno che mi organizzasse un appuntamento
con John McCain.

369
Chiamai Juleanna e le raccontai la situazione. Disse che
non aveva problemi a mettermi in contatto con McCain.
Era davvero così facile per lei? Riattaccammo e mi ritelefo-
nò nel giro di dieci minuti.
«Bill, il senatore McCain vuole vederti alle 3 e 15 il 22 di
settembre.»
Sì, per lei era davvero così facile.
Presi un volo per Washington il 21 settembre e Juleanna
venne a prendermi in albergo il pomeriggio seguente.
Prendemmo un taxi per il Campidoglio, passammo dai con-
trolli di sicurezza e ci dirigemmo verso l’ufficio di McCain
– Russell 241. Visto il ruolo importante che ricopriva in
Senato, il suo ufficio era in una posizione prestigiosa e oc-
cupava una serie di stanze dai soffitti alti. Un assistente ci
annunciò e poi ci accompagnò in una sala d’attesa. Il consu-
lente politico principale di McCain – Chris Brose, un uomo
alto e slanciato dai capelli rossi con un sorriso cordiale – ci
accolse e scambiò i soliti convenevoli in attesa del senatore.
Dopo mezz’ora, il senatore McCain fu pronto per riceverci.
McCain ci venne incontro alla porta con una cordiale
stretta di mano e un sorriso caloroso. Ci accompagnò nel
suo ufficio – un ambiente sontuoso con un divano in pelle,
luci calde e una lunga libreria stipata di volumi. C’era una
spiccata atmosfera dell’ovest americano. Se non fosse stato
per i soffitti alti e l’ampia finestra dietro la sua scrivania,
sarebbe potuta passare per l’ufficio di casa di un ricco diri-
gente bibliofilo di Phoenix.
Mi sedetti sul divano e lui si appollaiò su una poltrona
di fianco a un tavolino. Si schiarì la voce. «Grazie per essere
venuto, Mr. Browder. Mi è stato riferito che mi vuole rac-
contare un po’ di cose che stanno succedendo in Russia.»
Forse si aspettava che gli facessi pressioni per alcune que-
stioni d’affari.
«Sì, è così, senatore.»

370
E così gli raccontati la storia di Sergei e McCain capì subi-
to che era tutta un’altra cosa rispetto agli altri suoi incontri.
Dopo circa due minuti, alzò la mano per chiedere la data
dell’arresto di Sergei. Gliela dissi e proseguii. Poco dopo mi
interruppe ancora per chiedere spiegazioni sulle condizioni
della vita in carcere di Sergei. Risposi e continuai finché
non mi interruppe di nuovo. Andammo avanti così fino
allo scadere dei miei quindici minuti, quando la segretaria
si affacciò per dire che era tutto pronto per l’appuntamento
successivo. Mi irrigidii. Non potevo perdere quell’opportu-
nità di chiedergli di co-patrocinare la legge.
«Mi serve ancora un po’ di tempo con Mr. Browder», sus-
surrò McCain. La sua segretaria se ne andò e McCain mi
dedicò ancora la sua attenzione. «La prego di continuare.»
E così feci. Altre domande, altre risposte. Quindici mi-
nuti dopo la segretaria rientrò. Ancora una volta, McCain
le fece segno di andarsene in maniera educata. Ripetemmo
la stessa sequenza ancora una volta, e quando terminai il
racconto mi resi conto che ero rimasto nel suo ufficio quasi
un’ora.
«Bill, la storia di Sergei è scioccante, davvero agghiaccian-
te. Mi dispiace tanto per quello che è successo a lui, a te e a
tutti gli altri coinvolti.»
«Grazie, senatore.»
«Mi dica, cosa posso fare per aiutarla?»
Gli raccontai di Cardin e McGovern e delle proposte
per la legge Magnitsky. Poi aggiunsi: «Visto che il senatore
Cardin è un democratico, sarebbe molto utile avere il pa-
trocinio di un importante senatore repubblicano per questa
proposta di legge. Speravo che quella persona potesse essere
lei».
McCain si appoggiò allo schienale della poltrona, con la
faccia pensierosa e serena. «Certo che lo farò. È il minimo
che possa fare.» Si voltò dal suo assistente, Chris Brose, che

371
aveva ascoltato tutta la conversazione. «Chris, mettiti d’ac-
cordo subito con il senatore Cardin affinché possa parte-
cipare alla proposta di legge.» McCain poi si girò verso di
me. «Questa è una dimostrazione di amicizia profonda nei
confronti di Sergei. Pochi farebbero quello che sta facendo
lei, ha tutta la mia stima. Farò tutto quello che è in mio
potere per aiutarla a ottenere giustizia per Sergei. Che Dio
la benedica.»

372
34. GLI INTOCCABILI

Mentre io continuavo ad andare avanti e indietro da


Washington per tentare di agire sul fronte politico, il team
di Londra cercava di fare altrettanto su quello russo.
Da quando avevo caricato il nostro primo video su
YouTube nell’ottobre del 2009, avevamo ricevuto telefona-
te ed email da semplici cittadini russi con consigli per il
nostro caso. Una di queste arrivò da una giovane donna,
una certa Ekaterina Mikheeva, che ci raccontò una storia
agghiacciante.
Scoprimmo che quel gruppo di funzionari non aveva
preso di mira solo noi. Secondo lei, due di quegli ufficiali
erano coinvolti nell’incursione nell’ufficio di suo marito nel
2006. Dopo l’accaduto, suo marito, Fyodor, fu arrestato e
portato nella stessa stazione di polizia dove era stato dete-
nuto Sergei. Ma invece di essere tenuto lì, Fyodor era stato
scortato verso un’auto all’esterno. Fu scaraventato sul sedile
posteriore e senza spiegazioni fu portato in una casa a cin-
quanta chilometri da Mosca. Fyodor ben presto si rese con-
to che era stato preso in ostaggio. Ekaterina ci raccontò che
uno dei sequestratori era Viktor Markelov, lo stesso assassi-
no condannato per omicidio che nel 2007 aveva assunto il
controllo delle società che ci avevano rubato.
Poco dopo essere arrivati nella casa, i rapitori chiamarono
il capo di Fyodor per comunicargli le condizioni del rilascio:
venti milioni di dollari. I sequestratori telefonarono anche a
Ekaterina. La ammonirono che se fosse andata dalla polizia

373
avrebbero fatto del male a Fyodor e lei avrebbe ricevuto una
visita da alcuni amici che l’avrebbero stuprata in gruppo.
Ekaterina era terrorizzata, ma si fece coraggio e sfidò
quelle minacce. Si rivolse a una diversa squadra di polizia
che riuscì a individuare il marito. Presero d’assalto la casa,
liberarono Fyodor e arrestarono Markelov e i suoi complici.
Purtroppo, la sua storia non finì lì. Un mese dopo, Fyodor
fu arrestato di nuovo dalla stessa squadra di funzionari e
sbattuto in prigione con uno dei suo ex rapitori. Non sap-
piamo cosa gli accadde là dentro o chi fosse coinvolto, però
sappiamo per certo che Fyodor alla fine fu trovato colpevole
di frode e condannato a undici anni in un campo di prigio-
nia nella regione di Kirov, a ottocento chilometri da Mosca.
Ekaterina aveva trentaquattro anni, lei e Fyodor avevano
due bambini. La loro famiglia fu distrutta. All’improvviso,
quella giovane donna fu costretta e prendersi cura di se stes-
sa e a crescere i bambini da sola mentre il marito marciva
in galera.
Sapevo che avevamo a che fare con gli stessi delinquenti
ma ascoltando la sua storia per me diventò ancora più im-
portante fare in modo che agenti come Kuznetsov e Karpov
venissero fermati.
Da quel momento, il nostro team si diede anima e corpo
per trovare tutto quello che era possibile su Kuznetsov e
Karpov. Frugarono tra estratti conto, fascicoli dei proces-
si, sentenze, documenti di registrazione, lettere e messaggi
per cercare di indentificare qualsiasi bene appartenesse ai
due agenti. Eravamo certi che avremmo trovato qualcosa.
Kuznetsov e Karpov indossavano abiti eleganti, portavano
orologi costosi e guidavano auto di lusso anche se entram-
bi guadagnavano meno di 1500 dollari al mese. Trovare le
prove delle loro pazze spese ci avrebbe dato un grande van-
taggio nella nostra battaglia contro quei due uomini.
Iniziammo l’indagine inserendo i loro nomi nelle stesse

374
banche dati che avevamo usato durante la nostra campagna
di governo d’impresa in Russia. Purtroppo, non trovammo
nulla con i loro nomi specifici. Però, controllando i nomi
dei loro genitori nella banca dati, scoprimmo parecchi dati
curiosi. La mancanza di discrezione di Kuznetsov e Karpov
era incredibile, soprattutto visto che erano due agenti di
polizia.
Una delle scoperte più interessanti fu una proprietà in-
testata alla madre di Kuznetsov, un appartamento di cen-
tocinquantacinque metri quadrati nel prestigioso condo-
minio Edelweiss a pochi passi dalla Kutuzovsky Prospekt,
gli Champs-Élysées di Mosca. Aveva la vista sul Parco della
Vittoria e valeva circa 1,6 milioni di dollari.
Scoprimmo anche che il padre di Kuznetsov era il pro-
prietario di un appartamento di ottantaquattro metri qua-
drati del valore commerciale di circa 750.000 dollari, in un
palazzo chiamato Capital Constellation Tower.
Oltre a questi edifici di lusso, la madre di Kuznetsov era
proprietaria di tre lotti di terreno nel quartiere di Noginsky,
appena fuori Mosca, del valore di circa 180.000 dollari.
In teoria, il possesso di tutti quegli immobili avrebbe
potuto essere legittimo, ma il reddito mensile dei genitori
di Kuznetsov era di appena 4500 dollari, ciò non poteva
neanche lontanamente giustificare l’acquisto di quei beni.
Secondo noi, c’era una sola spiegazione possibile: gli immo-
bili erano stati pagati da Artem, il figlio.
I Kuznetsov non possedevano solo edifici e terreni costo-
si. Secondo gli archivi della polizia stradale di Mosca, la ma-
dre di Kuznetsov aveva una Land Rover Freelander nuova
fiammante del valore di 65.000 dollari mentre la moglie di
Kuznetsov possedeva una Range Rover da 115.000 dollari e
una Mercedes-Benz SLK 200 da 81.000 dollari.
L’archivio dell’Agenzia russa delle dogane rivelò aspetti
ancora più interessanti sullo stile di vita di Kuznetsov. Nel

375
2006, Artem e la moglie cominciarono a viaggiare per il
mondo come celebrità del jet set internazionale. In cinque
anni fecero più di trenta viaggi in otto Paesi diversi, tra cui
Dubai, Francia, Italia e Regno Unito. Erano persino andati
a Cipro con un jet privato.
Secondo le nostre ricerche, il valore totale dei beni in
possesso della famiglia Kuznetsov ammontava a circa 2,6
milioni di dollari. Facendo una mano di conti, Kuznetsov
avrebbe dovuto lavorare 145 anni con il suo stipendio da
funzionario del ministero degli Interni per riuscire ad accu-
mulare quella somma.
Le informazioni che scoprimmo su Karpov erano al-
trettanto sbalorditive e seguivano lo stesso pattern: un lus-
suoso appartamento da 930.000 dollari intestato a nome
della madre pensionata; un’Audi A3 nuova di zecca, una
Porsche 911 sempre intestate alla madre e una Mercedes-
Benz E280 a suo nome. I dati sui suoi viaggi mostravano
che dal 2006 era stato nel Regno Unito, in Italia, ai Caraibi,
in Spagna, in Austria, in Grecia, a Cipro, in Oman e in
Turchia. Frequentava i nightclub più esclusivi di Mosca, si
faceva fotografare con ragazze bellissime e amici dagli abi-
ti eleganti. E non si faceva problemi a condividere tutto
questo, pubblicava foto dove sorrideva a trentadue denti su
tutti i social network.
Erano persone disgustose. Se i russi medi avessero potuto
vedere le foto dello stile di vita che Kuznetsov e Karpov
conducevano – le case, le vacanze, le auto – sarebbe venuto
loro un colpo apoplettico. Le foto avrebbero avuto molto
più impatto di qualsiasi articolo di giornale o intervista ra-
dio. Dovevamo mostrare come questi quadri intermedi delle
forze di polizia si arricchivano disonestamente grazie al loro
lavoro. Non potevano avere la botte piena e la moglie ubria-
ca. Non potevano rovinare la vita della gente il mattino e di
sera andare a cenare in ristoranti stellati Michelin.

376
Decisi di realizzare altri video per YouTube, questa volta
con Artem Kuznetsov e Pavel Karpov come protagonisti.
Ci mettemmo subito al lavoro e furono pronti per giugno
2010, proprio mentre a Washington si stava preparando la
Legge Magnitsky. Aspettavamo solo il momento giusto per
diffonderli.
Il momento arrivò quando Oleg Logunov, il Generale
del ministero degli Interni che aveva autorizzato l’arresto
di Sergei, diede inizio a una campagna mediatica per giu-
stificare l’arresto e la morte di Sergei. Quando una famosa
stazione radio gli chiese se su Sergei fossero state esercitate
pressioni mentre si trovava in prigione, Logunov affermò
con leggerezza: «Il fatto che gli investigatori siano interessati
a ottenere delle testimonianze è normale. È così in tutti i
Paesi», come se quello che era successo a Sergei fosse stata la
cosa più banale al mondo.
La loro copertura stava acquistando forza e dovevamo fare
qualcosa, quindi il 22 giugno caricai il video di Kuznetsov
su YouTube. In contemporanea, la nostra campagna lanciò
un nuovo sito, www.russian-untouchables.com, dove forni-
vamo documenti e prove che suffragavano le nostre accuse
dell’incredibile stile di vita di questi funzionari in modo che
tutto il mondo potesse venirne a conoscenza.
Il primo giorno, il video su Kuznetsov totalizzò oltre
50.000 visualizzazioni, più del totale delle visualizzazioni
del primo video che avevamo realizzato sulla truffa e cari-
cato su YouTube. In una settimana, 170.000 persone guar-
darono il video su Kuznetsov e in Russia diventò uno dei
video politici più guardati. La rivista New Times (un setti-
manale russo di opposizione) scrisse un articolone intito-
lato «Jet privati per il Tenente colonello». La ricchezza di
Kuznetsov era un storia così appetibile che fece notizia per-
sino nel Regno Unito sul Sunday Express, che non si occupa
quasi mai di affari esteri.

377
Mentre tutti parlavano, scrivevano sui giornali e sui blog
riguardo a ciò che avevano visto nel video, un gruppo di at-
tivisti russi si fece giustizia da solo. Si presentarono davanti
al palazzo di Kuznetsov e attaccarono una foto di Sergei con
su scritto il nome di Kuznetsov sulle porte di tutti gli appar-
tamenti. Appesero anche un enorme striscione sul condo-
minio di fronte all’appartamento di Kuznetsov.
Per continuare a esercitare pressioni sulle autorità russe,
poco prima che noi pubblicassimo il video, Jamie Firestone
inoltrò una denuncia penale presso l’Ufficio del procuratore
generale e il ministero degli Interni, contestando la ricchez-
za inspiegata di Kuznetsov.
Nonostante le prove inconfutabili, le autorità serrarono
i ranghi per proteggere il funzionario delle forze di polizia.
Tirarono fuori il viceministro degli Interni Alexei Anichin il
quale affermò che «non rientra nel nostro ambito di compe-
tenze», svolgere indagini sulle ricchezze di Kuznetsov.
Nonostante non ci fosse stata una reazione ufficiale, il vi-
deo aveva chiaramente dato fastidio. L’11 giugno 2010, Pavel
Karpov presentò un denuncia per calunnia in Russia contro
di me e i miei colleghi. Nella denuncia diceva: «William
Browder, Eduard Khayretdinov, Jamison Firestone e Sergei
Magnitsky hanno condotto una campagna informativa per
screditare me e Artem Kuznetsov oltre che per coprire le
tracce delle loro attività criminali». E aggiunse anche: «La
sola persona che ha tratto beneficio dal furto delle sue so-
cietà, dal rimborso fiscale e dalla morte di Magnitsky è stato
William Browder».
Esatto: ora Karpov sosteneva che fossi io il responsabile
delle morte di Sergei.
Forse Karpov pensava che attaccandomi avrei fatto mar-
cia indietro, invece ottenne proprio l’effetto contrario. Il
giorno dopo essere venuti a conoscenza di questa denuncia,
pubblicammo il video su di lui. Da un punto di vista cine-

378
matografico, questo era ancora più spettacolare del video
su Kuznetsov. C’erano tutte foto degli immobili, delle auto
ma anche molte foto di Karpov in nightclub, ristoranti e
discoteche scattate in tutta Mosca. I russi onesti del ceto
medio vedendo come viveva un poliziotto normale sarebbe-
ro rimasti scioccati, e lo furono tutti.
Jamie presentò anche un’altra serie di denunce penali con-
tro Karpov. Questa volta in realtà il Dipartimento degli af-
fari interni del ministero degli Interni interrogò Kuznetsov
e Karpov, ma alla fine affermarono che il dipartimento non
era autorizzato a controllare i redditi dei genitori e che non
avevano riscontrato nulla di anomalo.
Kuznetsov e Karpov forse erano intoccabili per le forze
dell’ordine, ma nel tribunale dell’opinione pubblica era-
no tutt’altro che intoccabili. Nel giro di tre mesi, più di
400.000 persone avevano guardato i video. Nonostante tut-
te le bugie delle autorità russe, chiunque avrebbe potuto
puntare il dito e dire: «Sì, ma se Kuznetsov e Karpov non
sono corrotti, come hanno fatto ad arricchirsi così? Come
si spiega? Come hanno fatto ad accumulare tutte quelle ric-
chezze?»

379
35. I CONTI IN SVIZZERA

Quell’agosto portai David in campagna per un fine setti-


mana tra padre e figlio. Un giorno, mentre stavamo percor-
rendo un sentiero lungo una scarpata a picco sul mare in
Cornovaglia, mi arrivò un dono dal cielo: una telefonata da
Jamie Firestone.
Jamie era così entusiasta che non riusciva quasi a parlare.
«Ehi, Bill, posso rallegrarti la giornata?»
«Fai pure.» Ripresi fiato dopo la salita mentre David si
fermò in un posto all’ombra per bere un sorso d’acqua.
«Cos’è successo?»
«Ho appena ricevuto un’email da qualcuno che sostiene di
avere le prove che una donna all’Ufficio delle imposte numero
28 di Mosca si è intascata milioni grazie alla frode.»
«Da chi hai ricevuto l’email?»
«Da un certo Alejandro Sanches.»
«Non sembra molto russo. Come fai a sapere che non si
tratti di una bufala?»
«Non lo so. Però mi ha mandato gli estratti conto di una
banca svizzera e alcuni documenti di una ditta offshore.»
«Che cosa c’è scritto?»
«Riportano una serie di bonifici su conti bancari che sem-
brano essere intestati al marito di Olga Stepanova, la signo-
ra all’Ufficio delle imposte che ha autorizzato il rimborso.»
«Fantastico! Pensi che siano veri?»
“Non lo so. Però Sanches ha detto che se siamo interessati
è disposto a incontrarci.»

380
«A te va bene?»
«Certo», disse Jamie senza nemmeno pensarci. Anche
dopo tutto quello che era successo, Jamie non aveva perso il
suo ottimismo. «Non preoccuparti, Bill.»
Riattaccammo, mandai giù un po’ d’acqua. David e io
continuammo a camminare a testa bassa, senza quasi notare
le meravigliose vedute sulla spiaggia. Mi girava la testa. La
nostra campagna aveva bisogno di una svolta del genere,
però ero preoccupato per l’incolumità di Jamie.
Nessun luogo era sicuro, in particolare Londra, dove c’era
un’invasione di russi. Nel 2006, Alexander Litvinenko, un
ex agente dell’FSB e un noto critico di Putin, fu avvelenato
da un agente dell’FSB al Millenium Hotel, proprio di fronte
all’ambasciata americana.
Jamie e Sanches si scambiarono qualche altra email e si
diedero appuntamento per il 27 agosto del 2010. Il piano
era quello di parlare e, se Sanches fosse sembrato attendibi-
le, Jamie avrebbe chiamato Vadim per esaminare insieme i
documenti.
Sanches propose il Polo Bar al Westbury Hotel a Mayfair,
che era pericolosamente vicino al luogo in cui era stato
avvelenato Litvinenko. Terrorizzato che potesse succedere
qualcosa di brutto, chiamai il nostro addetto alla sicurezza,
Steven Beck, perché mi suggerisse un piano.
Steven perlustrò la zona e decise di fare intervenire quat-
tro uomini che avrebbero sorvegliato Jamie e Vadim. Due
erano ex agenti delle Forze speciali e due erano ex funzio-
nari dei servizi segreti britannici. Alle 14 e 30 del 27, quegli
uomini entrarono uno dopo l’altro al Polo Bar. Occuparono
posizioni strategiche – due vicino all’uscita, uno vicino al
tavolo dove si sarebbe svolto l’incontro e uno in fondo al
banco del bar. Si mimetizzarono tra la folla. Uno portava
un dispositivo che poteva identificare e disattivare qualsiasi
strumento di sorveglianza, simile a quello che pensavamo

381
Sagiryan avesse usato all’incontro al Dorchester Hotel. Un
altro fece un giro di perlustrazione con un contatore Geiger
per controllare il livello di radiazioni, poiché Litvinenko era
stato avvelenato con un isotopo radioattivo del polonio al-
tamente tossico.
Non c’erano garanzie, però sapevo che se le cose si fossero
messe male, gli uomini di Steven avrebbero subito messo in
salvo Jamie e Vadim.
Jamie arrivò al Polo Bar in anticipo, entrando da una delle
porte a due battenti in acciaio e vetro. Attraversò il salone dai
soffitti bassi in art déco e si diresse verso il tavolo prenotato. Si
accomodò su una delle poltrone dai grossi braccioli di velluto
azzurro con la schiena rivolta al muro e un quadro dell’Empire
State Building appeso alla parete sopra le sue spalle. La posi-
zione era strategica, secondo Steven il posto più sicuro della
stanza. Jamie cercò di individuare le guardie tra la folla di tu-
risti, però era in difficoltà. Osservò tutto il banco di marmo
verde e nero mentre il barista shakerava un martini e lo versava
in un bicchiere satinato. Una cameriera gli portò un vassoietto
di stuzzichini e lui adocchiò subito le mandorle affumicate,
ma poi ci ripensò. Ordinò una coca light con una fettina di
limone. Quando arrivò, la lasciò sul tavolo senza toccarla.
Tutto poteva essere avvelenato.
Sanches arrivò con quindici minuti di ritardo. Sulla qua-
rantina, alto un metro e settantotto, con un po’ di pancetta.
Indossava una giacca sportiva beige, pantaloni scuri e cami-
cia bianca senza cravatta. Aveva i capelli castani tutti arruf-
fati, di carnagione chiarissima, sguardo intenso e nervoso.
Appena aprì bocca, si capì subito che non era Alejandro
Sanches.
«La prego di scusarmi per lo pseudonimo, Mr. Firestone»,
disse in russo, «però devo stare attento.»
«Capisco», rispose Jamie in russo, chiedendosi se tutte le
altre persone nel bar fossero guardie di sicurezza di Sanches.

382
«Il mio nome vero è Alexander Perepilichnyy.»
Jamie fece un cenno alla cameriera mentre Perepilichnyy
si accomodò in una poltrona. Ordinò un tè verde mentre
Jamie cercava di studiarlo. E Perepilichnyy fece altrettanto
con Jamie.
Portarono il tè.
Perepilichnyy disse: «Grazie per aver accettato di incon-
trarmi».
«Si figuri. Ci interessa quello che ha da dire.»
Perepilichnyy alzò la tazza di tè e, circospetto, ne bevve
un sorso. Poi la appoggiò. Entrambi si osservavano in un si-
lenzio imbarazzante. Poi Perepilichnyy disse: «Ho deciso di
contattarla perché ho visto i video su Kuznetsov e Karpov.
La morte di Magnitsky è stata uno shock. Tutti i russi accet-
tano la corruzione, ma torturare un uomo innocente fino
alla morte è oltrepassare il limite».
Balle, pensò Jamie. Sapeva che oggigiorno quasi tut-
ti i russi non erano mossi da così nobili principi. Tutto
in Russia ruotava intorno al denaro. Fare soldi, mantene-
re la ricchezza e assicurarsi che nessuno te la portasse via.
Jamie non aveva idea di quale fossero le vere intenzione di
Perepilichnyy, ma di una cosa era certo: non era lì perché gli
stava a cuore Sergei.
«Le informazioni nella sua email sono valide ma non
complete», asserì Jamie. «Ha altri documenti?»
«Sì, ma non qui», rispose Perepilichnyy.
Jamie si rilassò sulla poltrona, il ghiaccio nella sua Coca
Light cambiava forma via via che si scioglieva. «Le dispia-
cerebbe se ci raggiungesse un mio collega? Vorrei che desse
un’occhiata ai documenti che lei ha fornito. Quando sare-
mo sicuri di avere capito di cosa si tratta, le diremo cos’altro
ci serve.»
Perepilichnyy accettò. Jamie estrasse il telefonino dalla
tasca e spedì un messaggio a Vadim, in attesa a New Bond

383
Street, dietro l’angolo. Due minuti dopo, Vadim entrò nel
locale, andò verso il tavolo e si presentò.
Mentre Vadim si sedeva, Jamie tirò fuori i documenti di
Perepilichnyy. Vadim li sfogliò e domandò: «Le dispiace il-
lustrarmeli?»
«Certo. Questo è un estratto conto della Credit Suisse
di un conto intestato a Vladen Stepanov, il marito di Olga
Stepanova.» Perepilichnyy indicò una riga a metà pagina.
«Qui c’è un bonifico di un milione e cinquecentomila euro
effettuato il 26 maggio. E qui un altro di un milione e set-
tecentomila il 6 giugno. Poi un altro ancora di un milione
e trecentomila il 7 giugno.» Scorse il dito sopra altre opera-
zioni. In tutto, tra maggio e giugno 2008, nel conto erano
stati trasferiti 7,1 milioni di euro.
Jamie strizzò gli occhi per vedere meglio il documento.
«Da dove li ha presi?»
Perepilichnyy sembrò a disagio. «Diciamo che ho delle
conoscenze.»
A Jamie e Vadim non piacque quello che videro, ma non
vollero spaventare Perepilichnyy, quindi non lo incalzarono.
Vadim diede una rapida occhiata ai documenti. «Questo
potrebbe essere molto utile, però non vedo il nome di
Vladen Stepanov su nessun estratto conto. In che modo
sono associati a lui?»
«Semplice. Il conto appartiene a una società cipriota di
proprietà di Vladen.» Perepilichnyy indicò un documento
di proprietà che riportava il nome di Vladen, ma non la sua
firma.
Vadim abbassò gli occhiali. Erano tredici anni che con-
duceva indagini sulle frodi aziendali e di prassi presuppo-
neva che tutto fosse una menzogna fino a prova contraria.
«Grazie. In assenza di prove, però, Stepanov è il titolare
dell’azienda e quindi non ci possiamo fare molto. Ci ser-
vono copie di documenti firmati che provino il possesso.»

384
«Capisco», disse Perepilichnyy. «Questo voleva solo essere
un primo appuntamento. Posso tornare con quello che ri-
chiedete se ritenete opportuno rincontrarci.»
«Sì, a noi andrebbe benissimo», disse Jamie. E con quelle
parole conclusero il loro incontro, si strinsero la mano e
Perepilichnyy si alzò e se ne andò.
Quando Vadim ritornò in ufficio per riferire cosa era suc-
cesso, io mi insospettii e dissi: «A me sembra una fregatura».
«Forse. Però se quel che dice è vero, questa sarebbe la
prima vera occasione per denunciare come questa gente ha
rubato denaro attraverso la frode del rimborso fiscale.»
«Va bene, allora vediamo se Perepilichnyy riesce a procu-
rarsi quello che ha promesso.»
Una settimana dopo si misero d’accordo per veder-
si di nuovo. Questa volta ci sarebbe stato anche Vladimir
Pastukhov, che grazie alla sua quasi cecità, aveva un incredi-
bile sesto senso per la gente.
Il martedì seguente, Vadim e Vladimir si incontrarono
ancora al Polo Bar con Perepilichnyy. Fedele alla sua pro-
messa, Perepilichnyy gli mostrò una copia firmata di un
documento in cui si attestava che Vladen Stepanov era il
proprietario della società cipriota, l’intestataria degli estratti
conto della Credit Suisse.
Quando Vadim e Vladimir tornarono in ufficio per farmi
vedere i documenti, non rimasi affatto colpito. A me sem-
brava un semplice pezzo di carta che riportava una firma
illeggibile. Chiunque avrebbe potuto farla o falsificarla.
«Che cos’è? Si legge a malapena.»
«Viene dal revisore contabile di Stepanov», disse Vadim.
Mi pareva che fossero troppo pronti a credere a
Perepilichnyy.
«Potrebbe essere la firma di chiunque. Pensate davvero
che dovremmo fidarci di lui?»
«Io sì», rispose Vadim. «Credo che non stia mentendo.»

385
«E tu cosa ne pensi, Vladimir?»
«Anch’io gli credo. Mi sembra sincero.»
Continuarono a vedersi per tutte le settimane successi-
ve e scoprimmo cose interessanti. Oltre ai conti svizzeri,
Perepilichnyy ci raccontò di come gli Stepanov avessero
comprato una villa con sei stanze da letto e due apparta-
menti di lusso a Dubai sul Palm Jumeirah, un enorme ar-
cipelago artificiale a forma di palma. Il valore di mercato
di quegli immobili si aggirava sui sette milioni di dollari.
In Russia, gli Stepanov avevano costruito un’abitazione di
lusso nella zona più esclusiva alla periferia di Mosca, stimata
attorno ai venti milioni di dollari. In totale, avevano accu-
mulato conti bancari e immobili per un valore complessivo
di quasi quaranta milioni di dollari.
Per illustrare meglio le spese folli degli Stepanov, Vadim
si era procurato le loro dichiarazioni dei redditi da cui tra-
spariva che nel 2006 il reddito annuale medio era di soli
38.281 dollari.
Quelle informazioni erano talmente scottanti che se le
avessimo caricate su un video di YouTube avrebbero scate-
nato un putiferio. Aggiungere Olga Stepanova alla nostra
collezione di intoccabili russi avrebbe scosso l’élite dalle
fondamenta.
Però c’era un problema.
La storia di Perepilichnyy non era solo credibile, era in-
credibile!
Era del tutto plausibile che Perepilichnyy lavorasse per
l’FSB e che quella fosse un’operazione progettata per di-
struggere la mia credibilità. Tutto secondo copione: creare
un personaggio con una storia credibile; fargli comunicare
informazioni importanti al bersaglio, aspettare che questi
rendesse le informazioni di dominio pubblico e poi mostra-
re come tali dati fossero falsi.
Se tutto fosse andato secondo i piani, avrebbe compro-

386
messo l’intero lavoro che avevamo fatto negli ultimi tre
anni con giornalisti e governi di tutto il mondo. Non sa-
rebbe passato molto tempo prima che i politici chiedessero:
«Perché sosteniamo questo bugiardo compromettendo così
la nostra importante relazione con la Russia?»
Se avessimo fatto un video sugli Stepanov, avrei dovuto
accertarmi della veridicità di ciò che diceva Perepilichnyy, e
dovevo sapere anche come aveva ottenuto quelle informa-
zioni.
Per molto tempo agì con circospezione, ma alla fine ab-
bassò la guardia. Ci disse che il motivo per cui aveva così
tanti documenti finanziari era che si occupava della gestio-
ne patrimoniale di molti russi, tra cui gli Stepanov.
Quell’attività aveva dato buoni frutti a Perepilichnyy fino
al 2008. Poi, con la crisi finanziaria, fece perdere molti soldi
agli Stepanov. A detta di Perepilichnyy, invece di accettare
quelle perdite, gli Stepanov lo accusarono di aver sottratto
loro del denaro e pretesero di essere rimborsati. Siccome
Perepilichnyy non aveva alcuna intenzione di risarcire le loro
perdite di mercato, Olga Stepanova approfittò della sua po-
sizione di dirigente dell’ufficio tributario per intentare una
causa penale per evasione fiscale ai danni di Perepilichnyy.
Questi fuggì subito dalla Russia per evitare di essere ar-
restato. Si trasferì con la famiglia in una casa in affitto in
Surrey, dove mantenne un basso profilo. Fu allora che per la
prima volta guardò i video di Kuznetsov e Karpov e gli ven-
ne un’idea. Se ci avesse convinto a realizzare un video degli
intoccabili russi su Olga Stepanova e il marito, li avrebbe
forse compromessi a tal punto che avrebbe risolto i propri
problemi.
Quando Vladimir me ne parlò, capii meglio la situazione
e mi convinsi a utilizzare le sue informazioni per realizzare
un video.
Appena cominciammo a dare fiducia a Perepilichnyy,

387
ricevemmo un nuovo messaggio dalla nostra fonte, Aslan:
«Dipartimento K furioso per video di Kuznetsov e Karpov.
In programma nuova grande operazione contro l’Hermita-
ge e Browder.»
Chiedemmo chiarimenti, ma Aslan non aveva ulteriori
informazioni. I miei timori che Perepilichnyy facesse parte
di un complotto dell’FSB ritornarono alla carica. Forse tutto
si stava svolgendo secondo i piani. Non importava quan-
to fossero scottanti le sue informazioni. Prima di procedere
dovevo sapere con assoluta certezza che non stavamo caden-
do a capofitto in una trappola dell’FSB.

388
36. LA ZARINA DEL FISCO

Una delle nostre massime priorità nell’autunno 2010 fu


quella di accertarci che Perepilichnyy non ci stesse imbro-
gliando.
Per prima cosa controllammo l’immobile fuori Mosca e
scoprimmo subito che la tenuta di circa 5945 metri quadra-
ti su cui la loro villa di periferia era costruita apparteneva
all’anziana madre di Vladen Stepanov, una pensionata di
ottantacinque anni. Con un reddito di appena 3500 dollari
l’anno, si ritrovava su un lotto con un valore di mercato di
dodici milioni di dollari e tutto questo ancora prima che ci
costruissero.
E gli Stepanov ci avevano costruito. Avevano ingaggiato
uno dei più bravi architetti di Mosca per progettare una se-
rie di edifici modernisti e spigolosi di 1115 metri quadrati.
Erano fatti di granito tedesco, vetro strutturale e metallo lu-
cido. Quando vidi le foto delle abitazioni, pensai che appar-
tenessero a un importante gestore di un fondo speculativo
più che a una semplice esattrice fiscale russa e a suo marito.
Poi, passammo a Dubai. Avvalendoci di una banca dati
immobiliare online, ottenemmo la conferma che la vil-
la, comprata per 767.123 dollari, era davvero intestata a
Vladen Stepanov. Purtroppo, gli altri due appartamenti,
che complessivamente ammontavano a un valore di sei mi-
lioni di dollari, erano ancora in costruzione e non erano
stati ancora intestati. Sapevamo solo della loro esistenza per
via di alcuni bonifici dai conti svizzeri degli Stepanov.

389
I conti svizzeri erano i fili che tenevano tutto quanto lega-
to insieme. Non solo erano stati usati per quelle spese pazze,
ma contenevano gli oltre dieci milioni di dollari in contanti
che, secondo Perepilichnyy, erano stati trasferiti nel periodo
in cui si era verificata la frode del rimborso fiscale. Con la
conferma che quei conti erano reali, avremmo potuto pre-
parare un video sugli intoccabili russi su Olga Stepanova e il
marito che avrebbe acceso gli animi dei moscoviti.
Tutto adesso dipendeva dall’autenticità dei conti svizzeri.
In un mondo ideale, sarei potuto andare alla Credit Suisse a
chiedere se gli estratti conto erano autentici, ma i banchieri
svizzeri sono così riservati che non mi avrebbero detto nulla.
Avrei anche potuto contattare alcune mie conoscenze alla
Credit Suisse, ma non mi avrebbero aiutato. La divulgazio-
ne di informazioni riservate sui clienti era un reato passibile
di licenziamento e non c’era nessuno che conoscessi così
bene da correre quel rischio per me.
L’unica altra alternativa a nostra disposizione era presen-
tare un reclamo contro le autorità svizzere per vedere cosa
avremmo ottenuto. Il mio avvocato di Londra preparò il
reclamo e quando il documento fu pronto per essere spe-
dito, gli domandai quanto ci sarebbe voluto per avere una
risposta.
«Non lo so», replicò. «Da tre mesi a un anno.»
«Da tre mesi a un anno?» Troppo. «C’è un modo per ve-
locizzare le cose?»
«No. Per esperienza personale, le autorità svizzere ci im-
piegano molto, insomma se la prendono comoda.»
Gennaio e febbraio passarono senza che ricevessimo noti-
zie e anche marzo. Verso la metà di marzo del 2011, il video
su Stepanova era terminato ed era migliore di qualsiasi altro
che avessimo mai realizzato. Volevo andare avanti, ma le
autorità svizzere mi bloccavano tutto.
Poi, alla fine di marzo, ci fu un nuovo sviluppo sulla co-

390
pertura russa. Le autorità russe avevano condannato un
pregiudicato, un certo Vyacheslav Khlebnikov, per aver
partecipato alla frode sul rimborso fiscale. Per quel che mi
importava, avrebbero potuto mettere in prigione cento ex
avanzi di galera come capri espiatori per quel reato, ma quel
che davvero contava era cosa c’era scritto nei documenti uf-
ficiali della sentenza. In quelle carte si dichiarava che i fun-
zionari del Fisco erano completamente innocenti ed erano
stati «imbrogliati» e «raggirati» affinché concedessero il più
grande rimborso fiscale nella storia russa in un solo giorno,
la vigilia di Natale del 2007.
Funzionari del Fisco quali Olga Stepanova.
Pensai di darci un taglio, quel che è troppo è troppo! Non
possono continuare a mentire in questo modo. Le informazioni
di Perepilichnyy sono attendibili. Lo so io, lo sanno gli svizzeri
e presto lo saprà anche il mondo intero.
Il video fu pubblicato il 20 aprile del 2011. La reazione fu
immediata e deflagrante, l’impatto fu maggiore di qualsiasi
altra iniziativa che avessimo mai organizzato. Alla fine del
primo giorno, l’avevano visto 200.000 persone. Nella pri-
ma settimana, circa 360.000. Alla fine del mese, l’avevano
guardato oltre 500.000 persone. Olga Stepanova divenne
famosa in tutto il mondo come la zarina del Fisco e i re-
porter di tutta la Russia lanciarono un’invettiva contro lei
e il marito. La NTV, uno dei canali televisivi di Stato, tene-
va d’occhio persino la madre ottantacinquenne di Vladen
Stepanov, che viveva in una stamberga in un condominio
sovietico. Quando le domandarono dei sontuosi immobili
a suo nome, rispose che se li era intestati in cambio di una
donna delle pulizie che l’aiutava a riordinare casa una volta
la settimana. Il figlio miliardario non si prendeva nemmeno
cura dell’anziana madre in maniera adeguata.
Come se non bastasse, tre giorni dopo che avevamo dif-
fuso il video, il Procuratore generale svizzero annunciò

391
che aveva congelato i conti degli Stepanov presso la Credit
Suisse. A nostra insaputa, le autorità elvetiche avevano av-
viato una causa penale per riciclaggio di denaro sporco su-
bito dopo aver ricevuto la nostra denuncia.
Sentivo che la vendetta si era compiuta. Perepilichnyy
ci aveva fornito informazioni veritiere e il denaro era stato
congelato. Avevamo colpito i criminali nel punto più dolo-
roso: i loro conti bancari.

392
37. IL TRITACARNE

I nostri video su YouTube colsero i funzionari russi di sor-


presa, ma il vero colpo di grazia che fece vacillare le autorità
russe fu l’approvazione delle leggi sulle sanzioni negli Stati
Uniti.
In autunno 2010, quando avevamo appena preso con-
tatti con Perepilichnyy, Kyle Parker aveva finito di mette-
re a punto la cosiddetta Legge Magnitsky. Il 29 settembre,
i senatori Ben Cardin, John McCain, Roger Wicker e Joe
Lieberman la sottoposero al Senato. Il linguaggio utilizzato
nel disegno di legge era semplice e diretto – sarebbe stato
reso noto al pubblico il nome dei responsabili dell’arresto
illegale, tortura e morte di Sergei Magnitsky, o dei crimini
che aveva denunciato. Ai responsabili sarebbe stato nega-
to l’ingresso negli Stati Uniti seguito dal congelamento dei
loro capitali sul suolo americano.
La presentazione di tale proposta di legge fece infuriare le
autorità russe che dovettero escogitare modi per contrastare
le misure prese a Washington.
La prima opportunità si presentò il 10 novembre, a
meno di una settimana del primo anniversario della morte
di Sergei. Quel giorno, in Russia si celebrava la Giornata
nazionale delle forze di polizia e il ministero degli Interni
organizzò la cerimonia annuale per il conferimento di pre-
mi agli ufficiali più meritevoli. Dei trentacinque premi as-
segnati, cinque andarono a cinque figure importanti nel
caso Magnitsky tra cui il premio al miglior investigatore per

393
Pavel Karpov e Oleg Silchenko, il funzionario che organiz-
zò la tortura di Sergei in carcere; e un premio speciale per
esprimere gratitudine a Irina Dudukina, la portavoce del
ministero degli Interni che aveva mentito spudoratamente
su Sergei subito dopo la sua morte.
Poi, per rincarare la dose, cinque giorni dopo, il ministe-
ro degli Interni tenne una conferenza stampa per «rivela-
re nuovi dettagli sul caso Magnitsky» con Dudukina come
presidente. Aveva i capelli decolorati, più lunghi e pettinati
rispetto a un anno prima, ma era ancora pienotta e trasan-
data, con la mascella inferiore che sembrava quella del pu-
pazzo di un ventriloquo. Aprì un manifesto improvvisato
composto da venti fogli A4 tenuti insieme con lo scotch e
lo affisse alla lavagna bianca. Nonostante fosse un insieme
disordinato di parole e numeri, quasi tutti illeggibili tanto
erano scritti piccoli, il manifesto «provava» che Sergei aveva
commesso la frode e che aveva ricevuto 230 milioni di dol-
lari di rimborso fiscale. Quando i giornalisti cominciarono
a farle semplici domande sul documento da lei preparato,
non diede risposte credibili e fu chiaro a tutti i presenti che
si trattava di un’invenzione.
Benché quelle tattiche fossero aggressive e grossolane,
confermavano che la nostra legge li aveva toccati sul vivo.
Non ero l’unico a essermene reso conto. In Russia, molte al-
tre vittime di violazioni dei diritti umani la pensavano come
me. Dopo la presentazione del progetto di legge vennero a
Washington o scrissero lettere ai co-sostenitori della Legge
Magnitsky con lo stesso messaggio chiaro: «Avete trovato il
tallone d’Achille del regime di Putin». Poi, uno dopo l’altro,
domandarono: «Potreste aggiungere le persone che hanno
assassinato mio fratello nella Legge Magnitsky?» «Potreste
includere i torturatori di mia madre?» «E i rapitori di mio
marito?» E così via.
Ben presto i senatori si resero conto che erano di fronte

394
a un fenomeno molto più ampio di uno sventurato caso
isolato. Involontariamente, avevano scoperto un nuovo me-
todo per lottare contro le violazioni di diritti umani nei re-
gimi autoritari nel Ventunesimo secolo: sanzioni mirate sui
visti e congelamenti dei capitali.
Dopo aver ricevuto una decina di tali visite e lettere, il
senatore Cardin e i suoi co-sostenitori si riunirono e decise-
ro di ampliare la legge, aggiungendo sessantacinque lemmi
alla Legge Magnitsky. Con tali integrazioni si specificava
che oltre a sanzionare i tormentatori di Sergei, il disegno
di legge avrebbe punito tutti coloro che non rispettavano i
diritti umani in Russia. Con quelle sessantacinque parole,
la mia battaglia personale per la giustizia era diventata la
battaglia di tutti.
Il disegno di legge emendato fu ufficialmente presentato
il 19 maggio del 2011, meno di un mese dopo che aveva-
mo pubblicato il video di Olga Stepanova. La sua presen-
tazione scatenò la discesa di un piccolo esercito di attivisti
russi sul Campidoglio che esercitò pressioni affinché fosse
approvata, parlando con tutti i senatori che diedero loro
udienza. C’era Garry Kasparov, il famoso campione e mae-
stro di scacchi e attivista per i diritti umani, Alexei Navalny,
il più importante leader russo dell’opposizione ed Evgenia
Chirikova, una nota ambientalista russa. Non ci fu bisogno
di convocarli, vennero di loro spontanea volontà.
Quell’iniziativa priva di coordinamento funzionò alla
perfezione. Il numero di senatori co-sostenitori aumentò
rapidamente, ogni mese se ne aggiungevano tre o quattro
che sottoscrivevano il documento. Fu molto facile ottenere
la loro approvazione. A Washington, non c’era un gruppo a
favore di omicidi e torture russe a opporsi. Nessun senatore,
sia tra i liberal-democratici sia tra le fila dei repubblicani più
conservatori, avrebbe perso un solo voto per vietare l’ingres-
so ai torturatori e assassini russi in America.

395
La Legge Magnitsky stava acquistando sempre più slancio,
sembrava quasi inarrestabile. Dal giorno in cui Kyle Scott al
ministero degli Esteri si era dimostrato ostile, sapevo che l’am-
ministrazione era assolutamente contraria, ma ora si trovavano
in una posizione delicata. Se si fossero opposti pubblicamente
alla Legge, agli occhi della gente sarebbe risultato come ap-
poggiare i russi. Invece, se l’avessero sostenuta, avrebbe messo
a repentaglio il «reset» di Obama con la Russia.
Dovevano trovare un’altra soluzione.
Il 20 luglio del 2011, il ministero degli Esteri scoprì le
proprie carte. Inviarono un promemoria al Senato dal tito-
lo «Commenti dell’amministrazione sulla norma giuridica
S.1039 su Sergei Magnitsky.» Anche se non doveva essere
resa pubblica, nel giro di un giorno la notizia trapelò.
Ne presi una copia e sfogliai nervosamente il documento.
Era l’apoteosi dell’ipocrisia di Washington. La tesi sostenuta
dal ministero degli Esteri era che le sanzioni proposte dalla
Legge Magnitsky erano già contemplate dai poteri esecuti-
vi, quindi qual era il motivo di approvare una nuova legge?
Nel tentativo di fare i furbi, diedero il contentino al
Senato. Dissero che l’altro motivo fondamentale per cui il
Senato non doveva sostenere la Legge era che agli assassini
di Magnitsky era già stato vietato l’accesso negli Stati Uniti,
perciò la Legge non era necessaria.
Non ero sicuro che quello fosse uno sviluppo positivo.
Chiamai Kyle Parker per vedere cosa ne pensava.
«Non capiamo nemmeno noi, Bill. Cardin mi ha fatto
chiamare al Dipartimento per verificare chi fosse sulla lista
delle sanzioni per il rilascio del visto, ma non mi hanno
fatto i nomi.»
«Ti hanno detto almeno quante persone c’erano sulla li-
sta?»
«No. Nemmeno quello.»
«E sul congelamento dei capitali?»

396
«Su quello sono stati abbastanza chiari. Non appoggiano
il congelamento dei capitali.»
«Quindi qual è la reazione di Cardin?»
«Abbastanza semplice. Noi non procediamo e lui conti-
nuerà a promuovere la Legge.»
L’8 agosto 2011, Cardin ricusò pubblicamente la posi-
zione dell’Amministrazione riconfermando il suo impegno
per sostenere l’approvazione della Legge Magnitsky in un
editoriale del Washington Post dai toni accesi intitolato «La
responsabilità dell’omicidio di Sergei Magnitsky.» Quello fu
un importante segnale della sua determinazione, poiché
Obama e Cardin erano nello stesso partito. Stava lanciando
il guanto di sfida al Presidente.
Quando l’Amministrazione lesse l’articolo di Cardin par-
ve agitarsi ancora di più. La Casa Bianca aveva così paura
di offendere i russi e di mandare a monte il «reset» che con-
tattarono Cardin e gli altri co-sostenitori proponendo che
il disegno di legge venisse applicato a livello globale e non
solo alla Russia.
I senatori accolsero l’idea con entusiasmo. Ciò che era
iniziato come un disegno di legge su Sergei si era trasforma-
to in una normativa sui diritti umani di importanza storica
e globale.
Poi Cardin si dedicò a portare il disegno di legge in
Senato affinché venisse votato. Per fare ciò, doveva supera-
re un ultimo ostacolo: la Commissione del Senato per gli
Affari esteri. Tutti i disegni di legge devono essere approvati
da una Commissione del Senato prima che possano essere
votati dal plenum del Senato e, poiché la Legge Magnitsky
implicava divieti di rilascio dei visti, doveva passare attra-
verso la Commissione affari esteri. Visto che il disegno di
legge godeva di un vasto supporto e non aveva opposizione
da parte del Senato, sembrava una semplice formalità.
Cardin richiese che il presidente della Commissione, il

397
senatore John Kerry, lo inserisse all’ordine del giorno della
riunione successiva del 9 settembre. Per qualche motivo,
Kerry rifiutò. Cardin rinnovò la stessa richiesta per la riu-
nione del 12 ottobre, ma ancora una volta Kerry non accol-
se la domanda. Non era chiaro quale fosse il problema di
Kerry, però era evidente che c’era qualcosa sotto.
Nel frattempo, ricevemmo notizie macabre da Mosca.
Natalia, la madre di Sergei, aveva finalmente ottenuto acces-
so alle informazioni sul risultato dell’autopsia su Sergei. Tra i
documenti che le fu consentito di fotocopiare c’erano sei foto
a colori del corpo di Sergei subito dopo il decesso. Benché
non fossero una sorpresa, mostravano estesi ematomi lungo
le gambe e le mani e tagli profondi ai polsi – lo stesso tipo di
lesioni che Natalia aveva osservato quando era andata a vede-
re il figlio all’obitorio. Riuscì anche a copiare un documento
ufficiale, firmato dal direttore del Matrosskaya Tishina, che
autorizzava l’uso di manganelli di gomma su Sergei da parte
delle guardie carcerarie la notte del 16 novembre.
Ciò che sapevamo – che Sergei era morto in modo vio-
lento per mano dello Stato – ora non poteva più essere ne-
gato ed era supportato da prove documentate.
Dopo aver visto queste foto e documenti, Natalia sporse
una nuova denuncia in cui invitava le autorità russe ad apri-
re un’indagine sull’assassinio. Come tutte le altre cose che
provavamo a fare in Russia, ci fu negata.
Quando le parlai al telefono, l’unica consolazione che
riuscii a offrirle fu dirle che eravamo sempre più vicini a
ottenere una forma di giustizia negli Stati Uniti. Promisi
che stavo facendo tutto il possibile e, sebbene il divieto di
ingresso e il congelamento dei conti in America non fossero
affatto punizioni commensurabili a ciò che quelle persone
avevano fatto a Sergei, erano sempre meglio della totale im-
punità di cui avevano goduto fino a quel momento.
Il 29 novembre del 2011, la Commissione del Senato

398
per gli Affari esteri fissò la riunione di lavoro successiva.
Quando quel giorno sul sito internet della Commissione
comparve l’ordine del giorno, cliccai sul link sperando di
vedere il nome di Sergei. La prima voce era «Risoluzione per
la protezione del bacino del fiume Mekong.»
Continuai a scorrere più in basso e vidi l’altro tema all’or-
dine del giorno: «Risoluzione che esprime la posizione del
Senato in merito alla pacifica rivoluzione dei gelsomini in
Tunisia.»
Arrivai in fondo. Non c’era nessun Magnitsky.
Chiamai subito Kyle. «Cosa succede? Non vedo la pro-
posta di legge.»
«Non lo so, adesso cercheremo di verificare.»
Cominciai a sospettare che ci fossero state delle operazio-
ni losche dietro le quinte. Kerry sembrava evitare qualsiasi
contatto.
Poiché il problema sembrava riguardare proprio Kerry,
pensai di fissare un appuntamento con lui; la forza della
storia di Sergei forse l’avrebbe travolto come era successo
con McCain e McGovern.
Chiamai Juleanna. Fino ad allora era stata bravissima a
organizzarmi incontri con i senatori, ma quando fu la volta
di Kerry, non ci riuscì. Mi fissò solo un’udienza con il suo
consulente per gli affari russi, un certo Jason Bruder, mem-
bro del Senato.
Presi un volo per Washington e il giorno dopo il mio
arrivo, Juleanna e io andammo al Dirksen Senate Office
Building per incontrare Bruder fuori dalla sala della
Commissione per gli affari esteri. Bruder, un uomo sulla
trentina di media statura con un pizzetto ben curato, ci fece
strada nella sala, un enorme antro con tavoli e scrivanie di-
sposti a ferro di cavallo. Non trovando un buon posto dove
sederci comodi, ognuno di noi si andò a prendere una sedia
dalla platea e formammo un cerchio al centro della sala.

399
Dopo aver ringraziato Bruder per averci incontrati, co-
minciai a raccontargli la storia di Sergei. Alla terza frase,
Bruder mi interruppe. «Sì, sì. Conosco perfettamente il
caso. Mi dispiace molto per ciò che è successo. Lui e la fa-
miglia meritano giustizia.»
«Ed è proprio questo il motivo per cui siamo qui.»
«Sentite. Ho riflettuto a lungo. Io e il senatore vorremmo
davvero aiutarvi con il caso Magnitsky.»
«Benissimo. Il senatore Kerry appoggerà il disegno di leg-
ge promuovendolo alla Commissione?»
Bruder si appoggiò allo schienale, la sedia scricchiolò.
«Be’, non credo che la Legge Magnitsky sia l’approccio giu-
sto per risolvere questi problemi, Mr. Browder.»
Sempre la stessa storia, pensai, ripensando a Kyle Scott e a
tutti gli altri ansiosi arrivisti del governo statunitense. «Che
cosa vuole dire che non è “il giusto approccio”?»
Poi ripeté la solita filippica del ministero degli Esteri,
quasi alla lettera. Tentai di discutere, ma non volle saperne.
Infine, Bruder disse: «Senta, Bill, questo caso è importan-
te per noi. Vorrei che il senatore Kerry parlasse di Magnitsky
direttamente con l’Ambasciatore russo la prossima volta che
lo vedrà».
Parlarne all’Ambasciatore russo? Mi stava prendendo per i
fondelli? Il nome di Sergei era stato sulle prime pagine dei
giornali più importanti del mondo! Il presidente russo e i
suoi alti ministri avevano passato non so mai quante ore
a cercare di minimizzare le ricadute del caso Magnitsky e
Bruder pensava che una conversazione in sordina con l’Am-
basciatore avrebbe risolto?
Me ne andai da quell’incontro imprecando sottovoce.
Poi si scoprì che l’opposizione di Kerry alla Legge
Magnitsky non aveva niente a che vedere con la sua convin-
zione che fosse una politica valida o meno. A Washington,
correvano voci che John Kerry stesse ostacolando il di-

400
segno di legge per un motivo molto semplice: voleva di-
ventare Segretario di Stato quando Hillary Clinton avesse
rassegnato le dimissioni. A quanto avevo capito, una del-
le condizioni perché ottenesse il posto era assicurarsi che
la Legge Magnitsky non venisse mai approvata presso la
Commissione del Senato per gli affari esteri.
Nei mesi successivi, non accadde nulla sulla Legge
Magnitsky. Poi, invece, nella primavera del 2012, ci fe-
cero un dono inaspettato. Dopo quasi vent’anni di nego-
ziati, nell’agosto di quell’anno, la Russia sarebbe entrata a
far parte dell’Organizzazione mondiale per il commercio
(OMC). Nel momento in cui la Russia fosse diventata mem-
bro dell’OMC, tutti gli altri Paesi aderenti avrebbero potuto
commerciare con la Russia alle stesse condizioni, senza dazi
o altri costi, a eccezione di un solo Paese, gli Stati Uniti,
grazie al cosiddetto emendamento Jackson-Vanick.
Quella normativa entrata in vigore trentasette anni prima,
negli anni Settanta, aveva imposto delle sanzioni commer-
ciali all’Unione Sovietica come punizione per non aver per-
messo agli ebrei sovietici di emigrare. Sulle prime, i sovietici
avevano puntato i piedi, ma dopo diversi anni si erano resi
conto che i costi delle sanzioni erano troppo elevati e alla
fine avevano permesso a 1,5 milioni di ebrei di emigrare.
Trentasette anni dopo, l’Unione Sovietica non esisteva
più e gli ebrei russi potevano emigrare liberamente, ma il
Jackson-Vanick era ancora valido. Se fosse rimasto, avrebbe
impedito a multinazionali come Boeing, Caterpillar, Ford
ed esportatori di manzo americano di godere degli stes-
si vantaggi commerciali con la Russia degli altri membri
dell’OMC del resto del mondo.
Per quanto riguardava la comunità imprenditoriale ame-
ricana, il Jackson-Vanik andava eliminato e l’amministra-
zione Obama appoggiava tale idea. Se il Presidente avesse
potuto abrogare l’emendamento Jackson-Vanik da solo,

401
l’avrebbe fatto. Però, per annullarlo aveva bisogno di una
legge del Congresso.
Ero a Washington che lavoravo con Juleanna alla nostra
campagna durante la settimana in cui l’amministrazio-
ne cominciò la sua attività per abrogare l’emendamento
Jackson-Vanick. Dopo una mattinata di incontri, Juleanna
e io eravamo in pausa pranzo in un bar nel corridoio del-
lo scantinato dell’Hart Office Building. Mentre mangiavo
un’insalata seduto a un tavolinetto di alluminio, Juleanna
mi diede un colpetto sul braccio e indicò con discrezione
lungo il corridoio. Là, accompagnato da un drappello di
aiutanti, c’era il senatore Joe Lieberman, uno dei più illustri
co-sostenitori della Legge Magnitsky.
Lei mi sussurrò: «Bill, c’è Lieberman. Secondo me do-
vresti parlargli della questione dell’emendamento Jackson-
Vanik».
«Quando, adesso? Ma è solo di passaggio. Come faccio a
parlargliene come si deve?»
Sebbene abbia imparato a farmi valere quando è neces-
sario, ancora oggi ho qualche difficoltà a impormi a sco-
nosciuti impreparati, in particolare a chi è sempre preso di
mira dal pubblico.
Juleanna, però, ignorò il mio evidente disagio, si alzò in
piedi e in pratica mi sollevò dalla sedia. «Forza, Bill, andia-
mo a parlargli.» Fianco a fianco, attraversammo il corridoio
e ci dirigemmo verso il senatore Lieberman.
Appena fummo vicini abbastanza perché Liberman ci po-
tesse sentire, Juleanna allungò la mano e disse: «Mi dispia-
ce interromperla, senatore, ma vorrei tanto presentarle Bill
Browder, il promotore della Legge Magnitsky».
Lieberman e i suoi aiutanti si fermarono. I senatori han-
no migliaia di cose per la testa e a volte ci mettono qualche
secondo per inquadrare la situazione. Quando riuscì a met-
tere a fuoco le parole Legge Magnitsky, gli si illuminò il vol-

402
to. «Ah, Mr. Browder.» Si voltò verso di me. «Che piacere
conoscerla! Grazie per l’ottimo lavoro che sta svolgendo.»
Mi lusingava che avesse un’idea di chi fossi. «Non avrei
potuto ottenere nulla senza il suo supporto», dissi in tutta
onestà. «Però c’è un problema. Come ben saprà, l’Ammini-
strazione sta spingendo per l’abolizione dell’emendamento
Jackson-Vanik.»
«Sì, ne sta parlando.»
«Secondo me è irragionevole che mentre l’amministrazio-
ne sta abrogando una delle normative sui diritti umani più
importanti della storia, stiano ostacolando la Magnitsky.»
Ci pensò un attimo, poi disse con estrema onestà. «Lei ha
assolutamente ragione. Dobbiamo farci qualcosa.»
«Cosa si può fare?»
«Facciamo così. Diremo all’amministrazione che sospen-
deremo l’abrogazione dell’emendamento Jackson-Vanik a
meno che non interrompano l’ostruzionismo verso la Legge
Magnitsky. Sono sicuro che John, Ben e Roger* si uniranno
a noi.»
«Avrà un effetto dirompente. Grazie.»
«No, Bill. Grazie a lei per tutto quello che ha fatto.» Poi
Lieberman si voltò verso i suoi assistenti, disse a uno di loro
di scrivere la lettera e se ne andò, lasciando me e Juleanna lì
in piedi, circondati dal frastuono di quel corridoio.
Dopo qualche secondo, mi voltai verso di lei. «Dimmi
che è tutto vero.»
«Credo proprio di sì. È così che succedono le cose a
Washington, Bill. Congratulazioni.»
Come promesso, qualche giorno dopo Lieberman e gli
altri co-sostenitori originali della Legge Magnitsky spediro-
no una lettera a Max Baucus, senatore del Montana e pre-
sidente della Commissione finanze del Senato. Così come

* Ovvero i senatori McCain, Cardin e Wicker.

403
gli Affari esteri dovevano dare il benestare per l’approvazio-
ne della Legge Magnitsky, la Commissione finanze doveva
dare l’assenso per l’abrogazione dell’emendamento Jackson-
Vanik. La lettera recitava: «In assenza dell’approvazione del-
la Legge Magnitsky, ci opporremo fermamente alla revoca
dell’emendamento Jackson-Vanik». Per come operava il
Senato, quella lettera era l’equivalente di un veto.
Il senatore Baucus era determinato ad abrogare la nor-
mativa Jackson-Vanik. Gran parte del suo elettorato del
Montana era composto da allevatori di bestiame ed espor-
tatori di manzo. Volevano vendere bistecche e hamburger
alla Russia – il sesto importatore al mondo di manzo dagli
Stati Uniti – senza il timore di trovarsi in una posizione di
svantaggio.
Ciò significava che l’unico modo per abrogare quell’e-
mendamento era di approvare anche la Legge Magnitsky e
dopo una lunga delibera il Senato decise di combinare i due
disegni di legge in un’unica normativa. Prima il disegno di
legge sarebbe stato sottoposto alla Commissione del Senato
degli affari Esteri perché approvassero la Magnitsky e poi
alla Commissione finanze per abrogare l’emendamento
Jackson-Vanik e infine sarebbe stata messa al voto davanti
al plenum del Senato.
Tutto si sarebbe svolto proprio all’insegna della nota
espressione: «Meno si sa su come si fanno salsicce e leggi,
meglio si dorme la notte.» La nostra campagna per i diritti
umani non era la migliore compagna di letto degli alleva-
tori di manzo del Montana, degli attivisti russi per i diritti
umani e dei venditori di aeromobili della Boeing, ma unire
le forze sembrò darci lo slancio necessario per sconfiggere
qualsiasi resistenza residua all’approvazione della Legge.
Con la possibilità che l’emendamento Jackson-Vanik ve-
nisse bloccato, Kerry sollevò il piede dal freno. Fissò un’as-
semblea della Commissione per gli affari esteri del Senato

404
il 26 giugno del 2012, con il preciso intento di approvare
la Magnitsky. Presi un volo per Washington per assistere di
persona a quello spettacolo. L’assemblea era aperta al pubbli-
co e doveva cominciare alle 14 e 15. Arrivai in Campidoglio
con quarantacinque minuti di anticipo per prendere un
buon posto. Però, mentre mi avvicinavo ai controlli di si-
curezza, fui sorpreso nel vedere più di trecento persone in
fila che aspettavano di entrare. Giornalisti, attivisti, studen-
ti volontari, membri del Senato, funzionari dell’ambasciata
russa, insomma c’erano proprio tutti.
Mi misi in coda e qualche minuto dopo sentii grida-
re il mio nome. Riconobbi un laureando della Columbia
University che si era offerto volontario per la nostra campa-
gna. Chiese a uno dei suoi amici di tenergli il posto mentre
si diresse verso di me e mi disse: «Mr. Browder, venga da-
vanti alla fila insieme a me».
Mi tirò da parte e passammo davanti a tutti, poi però uno
dei poliziotti del Campidoglio ci fermò e ci chiese: «Ehi, voi
due, dove credete di andare?»
Mi sentii un po’ in imbarazzo e non dissi nulla, invece
lo studente rispose pieno di entusiasmo: «Agente, questo
è l’artefice della Legge Magnitsky. Lo lasci passare davanti
alla fila».
«Non m’importa cosa abbia fatto.» L’agente mi indicò. Si
deve rimettere in coda.»
«Ma…»
«In fondo alla fila!»
Dissi allo studente che era lo stesso e tornai da dove ero
venuto e mentre camminavo notai un funzionario dell’Am-
basciata russa che conoscevo di vista. A giudicare dalla
smorfia compiaciuta che aveva in volto, gongolava nel ve-
dermi retrocedere.
Quando finalmente arrivai nel corridoio fuori dalla sala
della Commissione, trovai una ressa spaventosa. La stanza

405
aveva una capienza di circa sessanta persone e mi resi conto
che se non mi fossi infilato tra i primi, non sarei entrato
affatto. Una donna bassa e tozza con i capelli castani e una
voce autoritaria e roboante aprì la porta alle 14 e 15 in pun-
to. Chiamò i giornalisti. Un terzo della gente si precipitò
davanti e cercai di intrufolarmi in mezzo a loro, ma quella
formidabile donna, che prendeva il suo lavoro molto seria-
mente, mi fermò quando venne il mio turno e mi doman-
dò: «Dove sono le sue credenziali?»
«Mmm… non le ho. Però mi occupo personalmente del-
la Legge Magnitsky ed è molto importante che io sia pre-
sente.»
Scosse la testa come a dire: Ci hai provato, ma ti è andata
male, e indicò di nuovo la calca.
Cosa potevo fare? Per la seconda volta nello stesso giorno
mi sentii un pesce fuor d’acqua. Mi posizionai dietro a una
corda di velluto mentre senatori e assistenti all’improvviso
fecero la loro comparsa. La folla fece largo e una miriade
di flash si illuminarono da tutte le parti. Uno degli ultimi
senatori ad arrivare fu Ben Cardin, che non mi vide.
Però Fred Turner, il suo assistente numero uno, sì.
Mentre si avvicinavano alla porta, notai che Fred si fer-
mò per bisbigliare qualcosa all’usciere dai capelli castani.
Indicò verso di me e la donna mi venne incontro dicen-
do: «Mr. Browder, mi dispiace. Per lei c’è posto. Prego, da
questa parte».
Mi fece entrare nella sala gremita, la più decorata di tut-
te quelle della Commissione del Senato e mi accompagnò
all’ultima sedia vuota della sala.
Il senatore Kerry entrò da una porta laterale e richiamò
tutti all’ordine. Dal suo linguaggio del corpo si capiva che
quello era l’ultimo posto dove avrebbe voluto essere. Diede
inizio all’incontro con uno strano discorso su come l’Ame-
rica non fosse un Paese perfetto e che i presenti dovevano

406
«essere consapevoli della necessità degli Stati Uniti di non
puntare sempre il dito con tono paternalistico e di essere
più introspettivi nel considerare le cose.»
Passò la parola ad altri senatori e tutti appoggiarono con
i loro commenti il disegno di legge. Quando ebbero finito,
Kerry si rivolse direttamente a Cardin: «Non lo considero un
prodotto finito in tutti i suoi aspetti e non voglio che venga
giudicato come tale». Kerry poi continuò con il suo tono sus-
siegoso da bramino bostoniano con una caterva di conside-
razioni appena intellegibili su come la Magnitsky avrebbe in
teoria potuto compromettere informazioni riservate e sebbe-
ne fosse «assolutamente legittimo fare i nomi dei responsabi-
li» era «preoccupato delle conseguenze indesiderate derivate
dalla richiesta di quel tipo di rapporto dettagliato che implica
una gamma più vasta di informazioni riservate.»
Il suo discorso confuso in diplomatichese mise subito in
chiaro che si trovava lì solo perché doveva esserci e che non
riusciva a rassegnarsi a quello che doveva essere fatto. Tutto
ciò che aveva detto sembrò un malcelato tentativo di riman-
dare un voto sul disegno di legge, in modo tale che slittasse.
Se così fosse stato, tutte quelle salsicce avrebbero dovuto
essere insaccate di nuovo da zero. Il momento era cruciale.
Cardin, senatore al primo mandato, sarebbe riuscito a tener
testa a Kerry, un senatore con ventisette anni di esperienza
in Senato e colonna portante del Partito democratico?
Quando Kerry ebbe terminato la sua tirata, tutti gli sguar-
di si spostarono su Cardin che sembrava nervoso mentre si
apprestava a iniziare il suo discorso.
Ma Cardin non ebbe ripensamenti. Si rifiutò di rive-
dere il disegno di legge in un secondo tempo e invitò la
Commissione a esprimere il voto. Dopo uno scambio serra-
to di cinque minuti, Kerry ne ebbe abbastanza e addirittu-
ra interruppe Cardin a metà frase: «C’è altro da discutere?
Altri commenti, osservazioni?»

407
Nella sala regnava il silenzio.
Kerry invitò la Commissione a votare. Nessuno votò con-
tro.
Kerry annunciò una decisione unanime e dichiarò la
seduta chiusa. L’incontro durò i quindici minuti previsti.
Tutti lasciarono l’aula.
Mi sembrava di volare. Dal 16 novembre del 2009, avevo
trascorso ogni giorno della mia vita al servizio della memo-
ria di Sergei. Quel giorno di giugno del 2012 sembrava che
non ci fosse una sola persona in tutta Washington – la città
più importante nel Paese più potente del mondo – che non
conoscesse il nome di Sergei Magnitsky.

408
38. LA DELEGAZIONE MALKIN

Sembrava che tutti i pianeti si fossero allineati affinché la


Legge Magnitsky passasse senza intoppi. La comunità im-
prenditoriale era favorevole, i paladini dei diritti umani
erano dalla nostra parte e anche l’Amministrazione Obama
era con noi, repubblicani e democratici. Tutti. Non riuscivo
davvero a vedere alcun ostacolo.
Poi però il 9 luglio del 2012, due settimane prima che la
proposta congiunta fosse presentata alla Commissione fi-
nanze del Senato, il governo russo fece un ultimo dispera-
to tentativo di far deragliare il disegno di legge. Avrebbero
inviato una delegazione di alto profilo a Washington per
presentare un’«indagine parlamentare sul caso Magnitsky».
Dichiararono di voler creare una Commissione congiun-
ta tra il Congresso statunitense e il Parlamento russo per
riesaminare il caso, ma come Kerry prima di loro, il vero
obiettivo era di procrastinare la procedura affinché il di-
segno di legge slittasse al Congresso successivo e morisse
lentamente.
La delegazione consisteva di quattro membri del Consiglio
federale, la camera alta del parlamento russo, ed era diretto
dal deputato Vitaly Malkin, un miliardario russo, il numero
1062 sulla lista Forbes.
Quando feci delle ricerche su Malkin, scoprii che nel
2009 era stato segnalato come «membro di un gruppo
coinvolto in attività criminali a livello internazionale» dal
governo canadese e che, nonostante lo negasse con tutto se

409
stesso, gli era stato proibito l’ingresso in Canada. Non capi-
vo come qualcuno con una reputazione del genere potesse
dirigere una delegazione a Washington, poi però trovai
una sua foto sui gradini del Campidoglio in cui, con una
stretta di mano, elargiva una donazione di un milione di
dollari alla Biblioteca del congresso statunitense. Forse un
milione di dollari compra un certo livello di tolleranza a
Washington.
A parte questo retroscena, potevo immaginare come i co-
scienziosi membri del Congresso volessero apprendere tutte
le «nuove informazioni» che questo deputato possedeva sul
caso Magnitsky. Sapevo che nella presentazione di Malkin
ci sarebbero state delle macchinazioni e delle informazioni
false fornite dall’FSB, ma come avrebbe fatto un deputato
del Congresso statunitense a rendersene conto in un’esposi-
zione di trenta minuti?
Trascorsi quasi tutta la giornata del 9 luglio a telefonare a
vari uffici parlamentari, cercando di sapere chi aveva accet-
tato di incontrare la delegazione. Kyle mi disse che Cardin
aveva rifiutato, ma che McCain, Wicker e McGovern ave-
vano accolto la proposta, seppure con una certa riluttan-
za. Kyle aveva anche sentito dire che la delegazione sarebbe
stata ascoltata al Consiglio per la sicurezza nazionale del
Presidente e al ministero degli Esteri. Finiti questi incontri,
la delegazione Malkin avrebbe organizzato una conferen-
za stampa l’11 luglio all’Ambasciata russa per annunciare
«nuovi dettagli sul caso.»
Quasi tutti gli incontri di Malkin avvennero il 10 luglio,
io chiamai come un forsennato tutto quelli che conoscevo a
Washington per sapere come fossero andati, ma senza otte-
nere risultati. Quel giorno non riuscii a contattare neppure
Kyle.
Avrei ripetuto quell’operazione l’11, purtroppo però ave-
vo in programma un viaggio di famiglia a San Diego. Non

410
avrei potuto scegliere il momento più sbagliato, ma non
potevo disdire. Come avevo promesso a Elena quando era
iniziata quella brutta faccenda, non avremmo permesso ai
russi di rovinarci la vita.
Salimmo a bordo dell’aereo a mezzogiorno e anche se
avevo la testa altrove, feci del mio meglio per aiutare Elena
con i bambini. Ci rilassammo, Jessica e io ci inventammo
un gioco con un paio di peluche di giraffa durante il rullag-
gio e il decollo. Poi, mentre salivamo di quota, lei buttò là:
«Papà, chi è Magnitsky?»
Non avevo mai parlato apertamente a Jessica di Sergei,
però aveva sentito quel nome così tante volte che faceva
parte del suo vocabolario quotidiano. Pensai attentamente
prima di rispondere: «Sergei Magnitsky era un mio amico».
«Gli è successo qualcosa?»
«Sì. Delle persone cattive l’hanno messo in prigione e gli
hanno fatto del male, poi gli hanno chiesto di dire delle
bugie.»
«E lui le ha dette?»
«No. Per questo gliene hanno fatte di tutti i colori, a lui e
alla sua famiglia.»
«E perché volevano che dicesse una bugia?» domandò fa-
cendo danzare la sua giraffa sul bracciolo tra i nostri sedili.
«Perché hanno rubato un sacco di soldi e volevano tener-
seli.»
Si lasciò cadere la giraffa sulle ginocchia. Poi dopo un po’
domandò: «Cos’è successo a Magnitsky?»
«Be’, tesoro… è morto.»
«Perché non voleva raccontare bugie?»
«Proprio così. È morto perché non raccontava bugie.»
«Ah.» Poi prese la giraffa e la voltò, dicendole delle paro-
le incomprensibili nella sua lingua segreta di bambina. Io
rimasi lì qualche secondo assorto nei miei pensieri poi lei
continuò: «Spero che non succeda anche a te.»

411
Chiusi le palpebre, cercando di non farmi scendere una
lacrima. «No, non accadrà, te lo prometto, tesoro.»
«Okay.» Il segnale luminoso delle cinture di sicurezza si
spense, Jessica si alzò e parlò a Elena, però la nostra conver-
sazione mi aveva colpito nel profondo. Mi aveva rattristato,
ma più che altro mi aveva fatto arrabbiare. Dovevo sapere
quanto prima cosa stava succedendo a Washington con la
delegazione Malkin.
Quando atterrammo undici ore dopo, accesi il cellulare
e chiamai Kyle, preparandomi al peggio. Rispose al primo
squillo con lo stesso tono disinvolto a cui mi ero abituato:
«Ehi, Bill. Cosa succede?»
«È tutto il giorno che sono in aereo. Cosa combinano i
russi? La Legge c’è ancora?»
«Certo. Il loro intervento, se così si può definire, è stato
un fiasco totale», disse sghignazzando. «Avresti dovuto es-
serci.»
Mi raccontò che la prima osservazione che Malkin ave-
va sottoposto ai senatori era che Sergei era alcolizzato e in
pessima forma e che la sua morte era in qualche modo do-
vuta al suo problema con l’alcool. Non solo era offensivo,
ma i senatori sapevano che si trattava di una menzogna.
Conoscevano bene le dichiarazioni indipendenti secondo
cui Sergei era morto perché era stato torturato e picchiato
e perché non aveva ricevuto le dovute attenzioni mediche.
Malkin fece la sua seconda osservazione dopo aver sbat-
tuto una pila di documenti rimaneggiati – scritti in russo –
davanti ai senatori, dichiarando che quelle carte rappresen-
tavano la «prova schiacciante» che Sergei e io eravamo dei
delinquenti e che avevamo rubato 230 milioni di dollari.
Ma anche quell’espediente cadde nel vuoto. Molti dei se-
natori avevano visto i video sugli intoccabili russi e sapeva-
no tutto della ricchezza inspiegabile di Kuznetov, Karpov e
Stepanova, per non parlare del caso di riciclaggio di denaro

412
sporco in Svizzera e dei milioni congelati che apparteneva-
no al marito di Stepanova. I senatori ricordarono a Malkin
quei dati e lui rispose che le autorità russe avevano svolto
indagini riguardo quelle accuse senza riscontrare alcun ille-
cito.
Poi Kyle mi disse che la conferenza stampa era stata un
disastro ancora più grande. Quando un giornalista del
Chicago Tribune aveva richiesto un commento sui docu-
menti a sostegno del fatto che Sergei fosse stato picchiato da
guardie antisommossa, Malkin rispose sdegnoso: «Sì, forse
l’avranno picchiato una volta o due, ma quella non è la cau-
sa della sua morte».
Nonostante tutto il clamore e lo scompiglio creato at-
torno a quell’ultimo disperato tentativo dei russi, quell’i-
niziativa aveva ottenuto l’effetto contrario. Invece di al-
lontanare l’attenzione dalla Legge Magnitsky, non fece che
attirarla. Il supporto di cui ora godevamo era molto solido
e la Magnitsky sarebbe stata senza dubbio approvata dal-
la Commissione finanze. E così fu: il 18 luglio la Legge
Magnitsky fu approvata senza intoppi. Il passo successivo
sarebbe stata la votazione definitiva in entrambe le Camere
del Congresso statunitense, programmata per dopo la pausa
estiva.
Durante l’estate le acque si calmarono e io mi godetti una
meritata vacanza con i miei figli per la prima volta dopo
anni. Non mi ricordavo neppure a quando risaliva l’ultima
volta che ero riuscito a rilassarmi senza pensare a niente. A
metà della vacanza, i miei figli mi implorarono di portarli
in campeggio. Ci facemmo prestare una tenda e dei sacchi
a pelo e andammo in macchina al Parco di Stato di Paloma
Mountain, a un’ora e mezzo di auto a nord di San Diego,
dove ci accampammo per la notte. Portammo della legna
dalla stazione delle guardie forestali, accendemmo un fuoco
ed esplorammo la foresta. David cucinò per noi una cena

413
a base di spaghetti al sugo di pomodoro e hot dog, servita
su piatti di plastica. Quando calò la notte, si sentirono gufi
bubbolare e altri versi di uccelli dalla cima degli alberi men-
tre nell’aria aleggiava l’odore di legna bruciata. Una serata
così bella non me la ricordavo da tanto tempo.
Quando tornai a Londra mi sentivo ricaricato, pronto
allo scontro finale.
Ma anche i russi lo erano. Il primo giorno dopo il rientro,
arrivò una raccomandata piuttosto voluminosa che conte-
neva una denuncia di duecentocinque pagine, Pavel Karpov
contro William Browder, con l’intestazione dello studio le-
gale Olswang, uno dei più prestigiosi e costosi della Gran
Bretagna. Karpov mi querelava per calunnia alla Corte su-
prema del Regno Unito. Nella causa si sosteneva che i no-
stri video di Youtube su Karpov, Kuznetsov e Stepanova lo
avevano diffamato, con i relativi danni morali.
Meglio riderci su. «Danni morali?» Stava scherzando?
Inoltre, Karpov guadagnava meno di 1500 dollari al
mese, mentre lo studio legale a cui si era rivolto applicava
tariffe di circa 600 sterline l’ora. Ciò significava che solo per
aver fatto redigere il documento e spedirlo, Karpov avrebbe
speso diverse annualità del suo stipendio ufficiale.
Ciò mi sembrò l’ultimo disperato tentativo di mettere
a tacere la nostra campagna, e rientrava perfettamente nel
piano delle istruzioni di Putin al suo governo. Alcuni giorni
dopo aver riassunto l’incarico nel maggio 2012, dopo essere
stato rieletto Presidente in marzo, aveva emesso un ordine
esecutivo in cui dichiarava che una delle massime priorità
della politica estera era di impedire che la Legge Magnitsky
fosse approvata negli Stati Uniti. Secondo me, questo spie-
gava come Karpov avesse miracolosamente potuto permet-
tersi i servizi di questo costoso studio legale di Londra.
Sono sicuro che l’Olswang sarò stato più che contento di
accettare la causa. Immaginavo come un avvocato dalla lin-

414
gua biforcuta avesse potuto fare la paternale a dei russi poco
sofisticati sui benefici che avrebbero tratto dall’investire un
milione di sterline in quella causa per il loro problemi con
Bill Browder e la Legge Magnitsky. Ciò che però l’Olswang
aveva sottovalutato era che un agente di polizia russo, che
non parlava inglese e che era stato nel Regno Unito in va-
canza solo un paio di volte, non avrebbe avuto storia in un
tribunale britannico per cause di diffamazione.
Assunsi un avvocato per contestare la querela, ma non
permisi che tutto questo mi distraesse dal mio obiettivo
principale: ottenere l’approvazione della Legge Magnitsky.
La pausa estiva terminò agli inizi di settembre e io chiamai
Kyle appena tornò in ufficio per sapere quando sarebbe sta-
ta la votazione.
Kyle scoppiò a ridere. «Bill, stiamo per raggiungere il pic-
co della stagione politica, le elezioni presidenziali sono alle
porte. La Legge Magnitsky viene già data per scontata, pro-
grammare una votazione non è necessario.»
«Ma abbiamo il supporto di entrambe le parti. Su questo
tutti sono d’accordo a Washington.»
«È proprio questo il punto, Bill. Ora le elezioni sono in
pieno svolgimento, nessuno vuole parlare di cose su cui tut-
ti sono d’accordo. Nessuno si può permettere di mettere in
buona luce l’avversario.»
«Cosa vuoi dire?»
«Intendo dire che il caso Magnitsky non potrà essere pre-
so in considerazione prima del 6 novembre.»
Feci qualche calcolo mentale. «Quindi significa che avre-
mo sette settimane tra le elezioni e la fine del Congresso.»
«Nemmeno. Se consideri le vacanze, è molto meno.»
Anche se quel ritardo mi preoccupava, non potevo far al-
tro che aspettare. Trascorsi settembre e ottobre a rimettermi
in pari con il personale della Hermitage, che era un’ombra
di quello del passato. Per riportare il fondo ai suoi anti-

415
chi splendori ci sarebbero voluti mesi e mesi di viaggi di
marketing e conferenze su investimenti. Quell’ipotesi non
reggeva il confronto con la possibilità di ottenere giustizia
per Sergei.
Le settimane passarono lente e finalmente arrivarono
le elezioni presidenziali degli Stati Uniti il 6 novembre.
Obama si impose con facilità su Mitt Romney e il giorno
dopo le elezioni chiamai Kyle per chiedergli se la Magnitsky
potesse andare al voto.
Con mia grande sorpresa mi confidò: «Ti stavo proprio
per chiamare, la Camera dei rappresentanti ha appena an-
nunciato che voterà venerdì della settimana prossima».
«Dici sul serio?»
«Sì, finalmente ci siamo!»
Controllai il calendario. «Il 16 novembre…»
Kyle fece una pausa quando si rese conto dell’importanza
di quella data: il 16 novembre 2012 sarebbe stato il ter-
zo anniversario della morte di Sergei. «Sì», disse sottovoce.
«È… ma c’è un altro problema. La Camera insiste affinché
la Magnitsky ritorni alla sua formula iniziale, quella russa,
ecco perché hanno indetto una votazione.»
Quando il senatore Cardin lo ha trasformato in un dise-
gno di legge per i diritti umani a livello globale ha parlato
con entusiasmo della sua importanza storica senza prece-
denti ed è pronto a rischiare tutto pur di ottenere una nor-
mativa globale.
«Significa che Cardin non accetterà la versione limitata
alla Russia al Senato?»
«Forse no.»
Se il Senato avesse una versione diversa della Legge ri-
spetto alla Camera, avrebbero dovuto mettersi d’accordo,
quindi ci sarebbe voluto più tempo… un lusso che non po-
tevamo permetterci. Se Cardin non avesse ceduto, c’erano
buone possibilità che la Legge non fosse approvata.

416
Senza dubbio volevo che la versione globale di Cardin del
disegno di legge fosse approvata. Avere il nome di Sergei su
una norma di importanza internazionale come quella pro-
posta da Cardin sarebbe stato un modo esemplare di ono-
rarlo. Più che altro però volevo che il disegno fosse trasfor-
mato in legge e se ciò significava avere la versione limitata
alla Russia pensai che fosse comunque la cosa giusta da fare.
E speravo che anche Cardin la vedesse come me.
Finalmente arrivò il 16 novembre. Sarebbe stato un gran-
de giorno. Non solo la Camera dei rappresentati avrebbe
votato la Magnitsky, ma quella sera dovevo presentare l’an-
teprima londinese di uno spettacolo dal titolo One Hour
Eighteeen Minutes, una produzione indipendente vincitri-
ce di alcuni premi scritta dalla drammaturga russa Elena
Gremina che illustrava l’ultima ora e diciotto minuti della
vita di Sergei.
Quel pomeriggio, sul tardi, tutti in ufficio si collegarono
al sito di C-SPAN per la diretta dalla camera dei rappresen-
tanti. Prima che la votazione avesse inizio, i deputati pre-
sero la parola e raccontarono per filo e per segno la storia
di Sergei, richiedendo giustizia. Quell’evento epocale stava
succedendo sotto i nostri occhi in quell’ambiente enorme
intriso di storia americana. Quella era la stessa aula in cui si
erano discussi gli emendamenti per abolire la schiavitù e per
conferire il diritto di voto alle donne e dove leggi importanti
per i diritti civili furono approvate. Pensando a tutto quello
che era successo per arrivare lì mi metteva in soggezione.
Alla fine iniziò la votazione. Uno dopo l’altro, arrivarono
i voti, quasi tutti a favore. Tutte le volte che c’era un voto
contrario, si sentivano i fischi di sottofondo, ma erano dav-
vero pochi. Il disegno di legge sarebbe stato approvato con
grande facilità alla camera.
Quando furono a metà dell’appello, mi squillò il telefo-
no. Risposi senza controllare chi aveva chiamato, pensando

417
che fosse Elena o altri che volevano farmi gli auguri per il
risultato di Washington.
«Bill, sono Marcel.» Riconobbi la voce come quel-
la di un contabile che avevamo presentato ad Alexander
Perepilichnyy, l’informatore russo che aveva reso noti i con-
ti svizzeri.
Fui sorpreso di sentirlo perché non aveva niente a che fare
con la Magnitsky o con qualsiasi altra cosa a cui stessi la-
vorando in quel momento. «Ehi, Marcel. Se non è urgente,
possiamo sentirci dopo?»
«Mi dispiace disturbarti, ma è importante.»
«Okay, di cosa si tratta?»
«Bill, non so nemmeno se dovrei dirtelo», disse in tono
misterioso.
Distolsi l’attenzione dalla diretta C-SPAN. «Dirmi cosa?»
«Devi promettermi che non lo dirai a nessuno, nemmeno
in ufficio.»
«Dipende. Di cosa stiamo parlando?»
«Alexander Perepilichnyy è morto.»

418
39. GIUSTIZIA PER SERGEI

Marcel mi disse che Perepilichnyy era morto all’improvviso


davanti a casa sua, in Surrey, mentre era uscito per fare jog-
ging, però non aveva altre informazioni.
Mi ci volle qualche minuto per metabolizzare quella no-
tizia. Il Surrey era a una trentina di chilometri da dove mi
trovavo io. Se si trattava di un delitto, e ne aveva tutte le ap-
parenze, i nostri nemici ci avevano portato il terrore in casa.
La richiesta di Marcel di non farne parola era davvero
irragionevole; convocai subito Vadim, Vladimir e Ivan nel
mio ufficio. Diedi loro la brutta notizia, rimasero sconvolti,
in particolare Vadim e Vladimir, che erano entrati in confi-
denza con Perepilichnyy nell’ultimo anno. Mentre parlava-
mo, Vladimir si accasciò sulla poltrona e bisbigliò qualcosa
in russo che non riuscii a capire.
Mentre parlavamo, la Hermitage esultò e tutti si diedero
il cinque fuori dalla parete di vetro del mio ufficio. Aprii la
porta e chiesi spiegazioni. La mia segretaria si voltò verso di
me e disse: «La Legge Magnitsky è stata appena approvata
alla camera con trecentosessantacinque voti contro quaran-
tatré!»
Era una notizia stratosferica, ma non ero nello stato
mentale giusto per festeggiare. Un’altra persona associata
a quella faccenda era appena morta. Cercai di seppellire i
miei sentimenti per Perepilichnyy al meglio e mi unii ai
festeggiamenti cercando di congratularmi con i colleghi per
il loro duro lavoro. Dedicai qualche minuto a parlare della

419
votazione e delle mosse successive, ma non volevo dar loro
la notizia di Perepilichnyy finché non fossi stato in grado di
valutarne le implicazioni.
Tornai in ufficio, mi presi la testa tra le mani e cer-
cai di dare un senso a quello che avevo appena saputo.
Perepilichnyy era stato assassinato? I criminali erano ancora
nel Regno Unito? Ci avrebbero dato la caccia? Per quan-
to volessi cominciare a fare delle telefonate a persone che
avrebbero potuto aiutarmi a far luce sulla situazione, non ci
riuscii. Dovevo essere al New Diorama Theatre entro qua-
rantacinque minuti per presentare lo spettacolo su Sergei in
programma quella serata.
Andai a teatro e cercai di relegare in un angolo della men-
te tutti i miei pensieri più tetri. Entrai nell’atrio, passando
davanti alle stelle più luminose della comunità londinese per
i diritti umani – deputati, funzionari governativi, celebrità,
artisti e amici intimi. Ci mettemmo a sedere e lo guardam-
mo. Lo spettacolo fu intenso e commovente e quando finì,
tre ospiti speciali e io ci portammo delle sedie pieghevoli sul
palco e iniziò un dibattito. Il gruppo era formato da Tom
Stoppard, il famoso drammaturgo, Vladimir Bukowsky, un
ex prigioniero politico russo, e Bianca Jagger, l’ex moglie di
Mick Jagger e rispettata attivista per i diritti umani.
Stoppard e Bukovsky condivisero la loro storia su come
Stoppard avesse scritto uno spettacolo negli anni Settanta
che aveva contribuito alla liberazione di Bukovsky da un
carcere psichiatrico sovietico. Attraverso la storia di Sergei,
dissero che dopo tutto questo tempo non era cambiato qua-
si niente in Russia.
Il mio intervento fu l’ultimo, mi rivolsi direttamente
al pubblico: «La situazione in Russia è davvero gravissi-
ma, però oggi c’è un barlume di speranza. Poche ore fa,
la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha votato la

420
Legge Magnitsky* per sanzionare i suoi torturatori e assas-
sini. Con immenso orgoglio vi annuncio che il disegno di
legge è stato approvato con l’89% dei voti a favore».
Avevo preventivato un discorso più lungo, ma fui inter-
rotto da uno scroscio di applausi. Uno dopo l’altro, tutti si
alzarono in piedi per applaudire la campagna, ma più che
altro quel briciolo di giustizia per il mondo. Mi commossi,
mi alzai in piedi e cominciai a battere le mani insieme agli
altri.
Strinsi le mani e accettai le congratulazioni mentre uscivo
dal teatro, il mio unico pensiero era quello di rientrare a
casa. Avevo raccontato a Elena di Perepilichnyy venendo a
teatro, però sentivo un forte bisogno di parlarle di persona.
Arrivato a casa, trovai Elena seduta sul divano con lo
sguardo fisso sulla parete del salotto. Non è mai bello vede-
re il terrore sul volto di chi ami, però quello fu lo spettacolo
a cui fui costretto quella sera. Eravamo a casa, i nostri figli
erano addormentati e in teoria eravamo al sicuro, però ero
certo che anche Perepilichnyy avesse pensato la stessa cosa
nella sua casa del Surrey.
L’indomani, parlai con Mary, la mia avvocatessa di
Londra, e decidemmo di allertare la polizia del Surrey quan-
to prima. Dovevano capire che quel caso riguardava la cor-
ruzione e la criminalità organizzata russe ai massimi livelli.
Perepilichnyy non era morto all’improvviso.
Mary abbozzò una lettera, sottolineando che Perepilichnyy
era un testimone che cooperava in un importante caso rus-
so di riciclaggio di denaro ed era probabile che fosse stato
avvelenato come Alexander Litvinenko nel 2006. Esortò la
polizia a effettuare un esame tossicologico quanto prima.
Mary spedì la lettera via fax il sabato, non ebbe alcuna
notizia la domenica e il lunedì chiamò la stazione di polizia

* Si tratta del Sergei Magnitsky Rule of Law Accountability Act [N.d.T.]

421
di Weybridge. L’agente di turno confermò che avevano ri-
cevuto la lettera, ma stranamente le disse che non avevano
nei loro archivi nessun decesso di un certo Perepilichnyy.
Pensai che fosse assurdo e domandai a Mary di farsi pas-
sare un superiore che fosse al corrente degli eventi. Fece un
giro di telefonate e questa volta la polizia le confermò che
Perepilichnyy era morto l’11 novembre sulla strada privata
vicino casa e che non potevano divulgare altri particolari.
Mary disse loro che eravamo in possesso d’informazioni che
sarebbero potute essere utili alle indagini, ma la polizia si
limitò ad annotare il suo numero e la assicurò che l’avrebbe
ricontattata all’occorrenza.
Arrivò mercoledì, ma la polizia non l’aveva ancora con-
tattata. Quel giorno, Marcel mi disse che l’esito dell’autop-
sia era risultato inconcludente. Il coroner non era riuscito a
determinare la causa della morte. Nessun infarto, né ictus
né aneurisma. Perepilichnyy era semplicemente deceduto.
Era preoccupante per un motivo in particolare: poco pri-
ma della sua morte, Perepilichnyy ci aveva confidato di es-
sere sulla lista nera dei russi e che aveva ricevuto minacce di
morte, quindi molto probabilmente nel Regno Unito c’era
un assassino russo a piede libero. Se era riuscito a raggiun-
gere Perepilichnyy, avrebbe potuto arrivare a noi con altret-
tanta facilità.
Mary assillò la polizia per il resto della settimana, senza
ottenere alcun risultato. Il lunedì dopo ero talmente esa-
sperato che le chiesi cosa avremmo potuto fare per farli in-
tervenire. Il suo consiglio fu molto semplice: «Contatta la
stampa». Di solito gli avvocati ti consigliano di tenerti alla
larga dai giornali in situazioni analoghe, ma trattandosi di
una questione di interesse pubblico e poiché la polizia si
era dimostrata così indifferente, secondo lei non avevamo
alternative.
Quel giorno, contattai un giornalista investigativo dell’In-

422
dependent e gli raccontai tutta la storia. Gli passai la docu-
mentazione completa che ci aveva fornito Perepilichnyy e
una lista di numeri telefonici che poteva usare per verificare
varie parti della storia.
Due giorni dopo, l’Independent pubblicò un articolo dal
titolo Informatore con la soluzione per risolvere importante
frode russa trovato morto in Surrey. All’interno delle cinque
pagine venivano descritti tutti i particolari dell’accaduto.
Quella notizia fece il giro di tutti i canali televisivi, stazioni
radio e testate giornalistiche del Regno Unito. Tutti erano
terrorizzati che la criminalità organizzata russa stesse rego-
lando dei conti per le strade di Londra.
Subito dopo la pubblicazione di quelle notizie, la polizia
del Surrey finalmente mandò due detective della omicidi nel
nostro ufficio per parlarci. Poi, ventun giorni dopo la morte
di Perepilichnyy, la polizia annunciò che avrebbe effettuato
un esame tossicologico completo sul cadavere. Secondo me,
era già troppo tardi. Se anche l’avessero avvelenato, non sa-
rebbe più stato possibile verificarlo.
Con un’importante investigazione della omicidi in corso
e la stampa sul pezzo, chiunque avesse commesso il fattaccio
di Perepilichnyy si sarebbe spaventato e se la sarebbe data a
gambe. Benché il livello di pericolo fosse ancora elevato, non
ero più in uno stato di panico e mi sentivo abbastanza a mio
agio per concentrarmi di nuovo sulle mie responsabilità.
Mancavano pochi giorni al voto del senato di Washington.
Anche se non avrei potuto essere presente, sarei stato negli
Stati Uniti per pronunciare un discorso alla Harvard e per
alcuni appuntamenti a New York.
Presi un volo per Boston domenica 2 dicembre e quan-
do sbarcai dall’aereo il BlackBerry mi segnalò un messaggio
urgente da Kyle. Lo chiamai mentre mi dirigevo verso l’im-
migrazione.
«Ehi, Bill. Come va?» mi domandò.

423
«Ho ricevuto il tuo messaggio. C’è qualcosa che non va?»
«Forse. Ci sono una serie di senatori che insistono ancora
a voler mantenere la Magnitsky una legge globale anziché
solo russa.»
«E questo cosa significa per noi?»
«Be’, non si tratta più solo di Cardin. Sempre più sena-
tori diretti da Kyl e Levin sono più propensi alla versione
globale.»
«Ma io credevo che avesse l’appoggio di tutto il Senato.»
«Sul fatto che abbiamo i voti, non ci sono dubbi, Bill.
Però se non c’è un consenso su quale versione proporre,
Harry Reid non fisserà la votazione», disse Kyle, riferendosi
al leader di maggioranza del Senato. «E non c’è più un mi-
nuto da perdere.»
«C’è qualcosa che posso fare?»
«Sì. Prova a contattare i collaboratori di Kyl e Levin e co-
munica a loro perché secondo te la «versione russa», sarebbe
auspicabile. Io farò lo stesso con Cardin.»
«D’accordo. Sono bloccato a Boston e New York nei
prossimi giorni, però lo farò.»
Mi fermai in corridoio prima di raggiungere il controllo
passaporti e parlai a Juleanna. Non era preoccupata come
Kyle, però promise di mettersi in contatto con il personale
addetto alle politiche estere dei senatori per prima cosa il
lunedì mattina.
Passai dal controllo passaporti, feci dogana e andai in al-
bergo. L’indomani mi recai all’Harvard Business School per
presentare uno studio analitico che la scuola aveva scritto
sulle mie esperienze in Russia. Nella prima parte della le-
zione, gli studenti fecero a turno a raccontare al professore
cosa avrebbero fatto se fossero stati al mio posto. Io me ne
stavo seduto in silenzio in ultima fila e prendevo nota di al-
cune buone idee che avrei tanto voluto avere nel momento
del bisogno. Lo studio arrivava fino al 2007, anno in cui

424
fecero irruzione nei nostri uffici, quindi pensavano solo alla
gestione del portfolio e all’attivismo degli azionisti, trala-
sciando la questione criminale e di giustizia. A meno che
non avessero seguito i telegiornali, non avevano idea di cosa
fosse successo dopo.
Salii in cattedra nella seconda metà della lezione e rac-
contai tutta la storia della frode, dell’arresto, delle torture e
della morte di Sergei. Più parlavo e più l’umore nella stanza
cambiava. Alla fine, notai che alcuni studenti piangevano.
Poi il professor Aldo Musacchio mi accompagnò fuori
dell’edificio e mi raccontò che per la prima volta nella sua
carriera alla Harvard Business School aveva visto gli studen-
ti piangere dopo la presentazione di uno studio analitico.
Terminai la mia visita a Harvard e partii alla volta di New
York. L’indomani sera, nonostante l’impegno di Juleanna e
Kyle, la situazione a Washington rimase immutata. Levin
era inamovibile e Cardin non scopriva le carte in tavola.
Andai a dormire presto la sera del 4 dicembre ma mi sve-
gliai alle 2 per via del jet lag e delle incertezze dell’ultima
ora sul Senato. Sapevo che non sarei riuscito a riaddormen-
tarmi, quindi feci una doccia, indossai l’accappatoio dell’al-
bergo, mi sedetti davanti al portatile e digitai Magnitsky sul
motore di ricerca.
La prima cosa che saltò fuori fu un comunicato stampa
dall’ufficio del senatore Cardin. Era stato pubblicato la sera
prima sul tardi. Cliccai sul link e lessi. Cardin era giunto a
un compromesso. Aveva ritirato la sua richiesta che venisse
approvata come legge globale e ciò voleva dire che la vota-
zione ci sarebbe stata.
Mi liberai da tutti gli impegni per giovedì 6 dicembre e
mi collegai alla C-SPAN dal mio computer. Ero solo nella
mia stanza d’albergo, in attesa, camminavo su e giù e conti-
nuavo a ordinare il servizio in camera. Finalmente, intorno
a mezzogiorno, il Senato votò la Legge Magnitsky. Accadde

425
tutto con estrema rapidità. Dopo il conteggio della prima
metà dei voti, era sicuro che il disegno di legge sarebbe stato
approvato. Il conteggio finale fu di 92-4. Levin e altri tre
senatori furono i soli a votare contro.
Fu quasi una delusione. Non ci furono fuochi d’artificio,
né la banda, solo un elenco di nomi e poi si passò subito
all’argomento successivo. Però le implicazioni erano enor-
mi. Dal 2009, erano stati presentati 13.195 disegni di legge
e solo 386 erano stati approvati dalla Commissione e tra-
sformati in legge. I risultati avevano superato tutte le nostre
più rosee aspettative.
C’eravamo riusciti grazie al coraggio di Sergei, al cuore
di Natalia, all’impegno di Kyle, alla guida di Cardin, all’in-
tegrità di McCain, alla lungimiranza di McGovern, alla ge-
nialità di Vadim, alla saggezza di Vladimir, al buon senso
di Juleanna e all’amore di Elena. Era successo grazie a Ivan,
Jonathan, Jamie, Eduard, Perepilichnyy e tantissimi altri,
piccoli e grandi. In qualche modo, la nostra timida idea di
sanzionare chi aveva ucciso Sergei aveva attecchito ed era
cresciuta. La storia di Sergei aveva assunto una dimensione
biblica e, pur non essendo religioso, mentre stavamo scri-
vendo una pagina di storia non potei non pensare che, for-
se, in quel caso fosse intervenuto Dio. Nel mondo c’è tanta
sofferenza, ma nel suo piccolo, la tragedia di Sergei si era
aperta un varco ed era riuscita a farsi ascoltare, al contrario
di quasi tutte le altre.
Il mio desiderio più grande era che niente di tutto quello
fosse mai successo. Avrei tanto voluto che Sergei fosse anco-
ra vivo. Ma non era così e niente avrebbe potuto riportarlo
in vita. Però il suo sacrificio non era stato vano. Era riuscito
a sgonfiare la bolla di impunità che intrappolava la Russia
moderna, lasciando un’eredità di cui lui e la sua famiglia
potevano andare fieri.

426
40. CHI UMILIA E CHI VIENE UMILIATO

La notizia che la Legge era stata approvata mi colse con


estremo stupore.
L’altra persona a rimanere sorpreso fu Vladimir
Vladimirovich Putin.
Negli anni precedenti, Putin era rimasto comodamente
seduto al Cremlino, sapendo che qualsiasi cosa fosse suc-
cessa nel Congresso statunitense, il presidente Obama si
sarebbe opposto alla Legge Magnitsky. Nella sua mente
totalitaria, Putin si sentiva in una botte di ferro e secondo
lui non si sarebbe mai trasformata in legge. Ma quello che
Putin aveva sottovalutato era che gli Stati Uniti non erano
la Russia.
In parole povere, la risposta russa alla Legge Magnitsky
avrebbe dovuto essere una ritorsione stile occhio per occhio,
come negli anni dello spionaggio della guerra fredda. Gli
americani sanzionavano qualche funzionario russo, i russi
rispondevano con la stessa moneta e la cosa finiva lì.
Invece Putin decise di giocarsela in un altro modo.
Appena la Magnitsky fu approvata dal Senato, si scagliò
contro l’America per arrecare il maggior danno possibile.
Gli uomini dell’apparatchik cominciarono a lanciare idee.
La prima fu di proporre una risoluzione parlamentare per
confiscare 3,5 miliardi di dollari di capitali della Citigroup
in Russia. Sarebbe stato sì vendicativo, ma era comunque
un’idea ridicola. Qualcuno si doveva essere reso conto che
se la Russia avesse confiscato i beni della Citigroup, gli Stati

427
Uniti avrebbero sequestrato i capitali russi in America. I no-
stri avversari abbandonarono questa idea e passarono oltre.
L’altra ipotesi che presero in considerazione fu un bloc-
co della Northern Distribution Network, la via che gli
americani usavano per spostare le attrezzature militari in
Afghanistan attraverso la Russia. C’erano solo due modi con
cui gli americani portavano rifornimenti in Afghanistan –
attraverso il Pakistan o passando per la Russia – e Putin
sapeva bene quanto valesse quella via.
Il problema di quell’idea era che se la Russia avesse deciso
di metterla in pratica, i funzionari del Pentagono avrebbero
guardato la cartina chiedendosi dove sarebbero potuti inter-
venire per colpire gli interessi strategici della Russia in ma-
niera analoga. La soluzione più logica sarebbe stata la Siria.
Il governo di Putin aveva investito molto nel sostegno del
dittatore siriano Bashar al-Assad e Putin non avrebbe fatto
nulla per mettere a repentaglio quell’investimento. Quindi
ben presto anche quell’idea sfumò.
Putin doveva escogitare un piano che esulasse dal dena-
ro o dalle forze militari ma che avrebbe comunque colpito
l’America.
La lampadina gli si accese l’11 dicembre 2012, quando mi
trovavo a Toronto per promuovere una versione canadese
della Legge Magnitsky. Quella sera dovevo parlare di fronte
a un gruppo di politici e giornalisti canadesi. Durante la
sessione di domande e risposte, una giovane giornalista si
alzò e domandò: «Oggi, i deputati della Duma* hanno an-
nunciato che intendono proporre una legge che vieterebbe
in modo permanente l’adozione dei bambini russi alle fami-
glie americane. Cosa ne pensa lei, Mr. Browder?»
Era la prima volta che ne sentivo parlare. Ebbi qualche
difficoltà a elaborare la domanda, ma dopo averci riflettuto

* La Camera bassa del parlamento russo.

428
per un attimo risposi: «Coinvolgere gli orfani russi è una
delle cose più immorali che Putin possa fare».
Quella mossa mi mise psicologicamente in difficoltà.
Fino a quel momento, la mia lotta contro i russi era avve-
nuta all’insegna del bianco o nero. Scegliere da che parte
stare era una cosa semplice: o ci si schierava dalla parte della
verità e della giustizia oppure si stava dalla parte dei tortu-
ratori e assassini russi. Adesso, schierarsi dalla parte della
verità e della giustizia, avrebbe comportato arrecare danni
agli orfani russi.
La proposta di divieto di Putin aveva un certo peso, poi-
ché nell’ultimo decennio gli americani avevano adottato ol-
tre 60.000 orfani russi. Di recente, la Russia aveva limitato
le adozioni americane ai bambini malati – affetti da varie
patologie tra cui HIV, sindrome di Down e spina bifida.
Alcuni di quei bambini non sarebbero sopravvissuti senza
l’assistenza medica che avrebbero ricevuto dalle loro nuove
famiglie americane.
Ciò significava che oltre a penalizzare le famiglie ameri-
cane che avrebbero accolto i bambini russi a braccia aper-
te, Putin puniva anche – e potenzialmente li condannava a
morte – orfani indifesi nel suo Paese. Dire che quella era una
proposta crudele era riduttivo. Era cattiveria bella e buona.
Putin aveva raggiunto il suo scopo. Aveva trovato qual-
cosa che gli americani volevano e che lui poteva togliere
senza la minaccia di ritorsioni. Inoltre, aveva trovato un
modo per creare un costo morale al sostegno della campa-
gna Magnitsky.
Mentre Putin si aspettava una brutta reazione da parte
degli Stati Uniti, non aveva idea del vespaio che aveva solle-
vato nel suo Paese. Si può criticare la Russia per molte cose,
ma il loro amore per i bambini non rientra tra quelle. La
Russia è uno dei pochi Paesi al mondo dove si può portare
il proprio figlio che frigna in un ristorante di lusso senza

429
correre il rischio che qualcuno ti guardi male. I russi adora-
no i bambini.
Ma questo non bastò a fermare Putin. La legge sul divieto
di adozione fu presentata per la prima volta al Parlamento
russo il 14 dicembre, lo stesso giorno in cui il presidente
Obama promulgò la Legge Magnitsky.
Le ripercussioni iniziali all’interno della Russia vennero
dai luoghi più insospettati. Dopo la proposta di legge, ci
furono le prime defezioni di alcuni dei confidenti storici di
Putin. La prima fu Olga Golodets, la vice primo ministro
per le politiche sociali. Dichiarò a Forbes che se la Legge
fosse stata approvata «i bambini con patologie gravi che ave-
vano bisogno di operazioni costose non avrebbero avuto la
possibilità di essere adottati.» Poi Anton Siluyanov, il mini-
stro delle Finanze, scrisse un tweet: «La logica del pan per
focaccia è sbagliata perché saranno i bambini a rimetterci.»
Anche Sergei Lavrov, il ministro degli Esteri russo, che ave-
va attuato alcune delle politiche più detestabili di Putin in
tutto il mondo affermò: «Non è giusto e sono certo che alla
fine la Duma prenderà una decisione equilibrata».
Poiché Putin era ben noto per il suo pugno di ferro e vista
la dimostrazione di dissenso senza precedenti, cominciai a
credere che non fosse lui l’artefice del divieto sulle adozioni.
Sperai e pregai che fosse vero e che qualcuno con la mente
un po’ più lucida alla fine avrebbe prevalso. Non bisognava
coinvolgere i bambini indifesi in questo scontro.
Di rado Putin rende pubbliche le sue intenzioni, è uno dei
leader più enigmatici del mondo. L’imprevedibilità è il suo
modus operandi. Da un lato lo fa per non precludersi niente,
ma anche perché così in uno scontro non deve mai cedere o
mostrare il lato debole. Perciò era impossibile prevedere la
sua prossima mossa, però avremmo avuto le idee un po’ più
chiare quando Putin sarebbe salito sul palco per la conferenza
stampa annuale di quattro ore il 20 dicembre del 2012.

430
Quel momento fu organizzato ad hoc coinvolgendo an-
che un direttore artistico: c’era un’animazione sullo sfondo
e riflettori ovunque e molte delle domande erano innocue
osservazioni mosse da giornalisti sponsorizzati dallo stato o
autocensurati. Sebbene nulla di inaspettato quasi mai acca-
deva durante quegli eventi, sapevo che, per la prima volta,
Putin avrebbe dovuto mettere le carte in tavola in merito al
divieto sulle adozioni.
Lo guardai in diretta dall’ufficio. Vadim e Ivan si unirono
a me per vedere cosa Putin avesse da dire e per tradurre.
La prima domanda venne da Ksenia Sokolova, una gior-
nalista di Snob, una rivista patinata: «In risposta alla Legge
Magnitsky americana, la Duma ha adottato delle misure re-
strittive contro i cittadini statunitensi che desiderano adot-
tare orfani russi… Non la turba il fatto che i bambini più
poveri e indifesi diventino uno strumento in questo scontro
politico?»
Putin si sistemò dietro la sua immensa scrivania spigolosa
e cercò di svicolare meglio che poté. Tentò di rimanere im-
passibile, ma quella domanda lo colse del tutto imprepara-
to. «Questo è senza dubbio un atto di ostilità nei confronti
della Federazione russa», disse. «Dai sondaggi d’opinione
risulta che la stragrande maggioranza dei russi non appog-
gia l’adozione di bambini russi da parte di stranieri.» Poi
cominciò a parlare a sproposito di Guantánamo, di Abu
Ghraib e delle prigioni della CIA, come se le colpe dell’Ame-
rica rendessero in qualche modo le azioni abominevoli della
Russia accettabili.
A tre ore dall’inizio della conferenza, sei domande sul-
le quasi cinquanta poste a Putin erano state su Sergei
Magnitsky e sugli orfani russi; era visibilmente irritato.
Infine, verso la conclusione dell’evento, Sergei Loiko del
Los Angeles Times si alzò e disse: «Vorrei tornare su Sergei
Magnitsky, siccome lei ne ha parlato. La Russia ha avuto tre

431
anni di tempo per dare una risposta» – si stava riferendo alle
indagini sulla morte di Sergei – «Cos’è successo? E che dire
dei duecentotrenta milioni di dollari rubati che sono andati
alla polizia? Quel denaro avrebbe potuto essere utilizzato
per ricostruire gli orfanotrofi».
La sala scoppiò in un applauso fragoroso. Putin rimase
attonito. «Perché applaudite?» domandò. Putin non si era
mai trovato in una situazione del genere – la stampa era in
aperta rivolta. Tutti pensavano quelle cose, ma nessuno le
aveva mai dette. Putin alla fine perse il controllo. Abbassò
il tono di voce, corrugò la fronte e aggiunse: «Magnitsky
non è morto per le torture – non è stato torturato. È morto
di infarto. Inoltre, come saprete, non era un attivista per i
diritti umani ma un avvocato per Mr. Browder che è so-
spettato dalle nostre agenzie delle forze dell’ordine di reati
economici in Russia».
Mi vennero le palpitazioni. Sapevo che nell’attimo esatto
in cui Putin aveva pronunciato il mio nome, la mia vita
era cambiata per sempre. In passato, Putin aveva sempre
rifiutato categoricamente di fare il mio nome. I giornalisti
lo avevano affrontato pubblicamente sull’argomento e lui si
era sempre riferito a me come «quell’uomo». Non onorava
mai i suoi nemici chiamandoli per nome. Ma ora le cose
erano cambiate. Sentire Putin pronunciare il mio nome mi
fece gelare il sangue nelle vene e mi preparai al peggio.
L’indomani, il divieto sulle adozioni fu messo ai voti alla
Duma e nonostante il desiderio di Lavrov di una «decisio-
ne equilibrata», 420 deputati votarono a favore e 7 contro.
Una settimana dopo, il 28 dicembre, Vladimir Putin firmò
il divieto sulle adozioni, trasformandolo in legge. C’erano
voluti due anni e mezzo perché la Legge Magnitsky diven-
tasse legge negli Stati Uniti; per la Legge anti-Magnitsky in
Russia c’erano volute solo due settimane e mezzo.
Le ripercussioni immediate di questa nuova legge furono

432
strazianti. Trecento orfani russi che avevano già incontrato
le loro famiglie americane non avrebbero mai visto le ca-
merette che erano state arredate per loro dall’altra parte del
mondo. Le fotografie di quei bambini e le loro storie circo-
larono su tutte le maggiori testate internazionali. I loro po-
tenziali genitori calarono sul Campidoglio gridando: «Non
c’importa della politica internazionale, a noi importa solo
dei nostri bambini!» Non potevo essere più d’accordo.
Appena il divieto sulle adozioni entrò in vigore, comin-
ciai a ricevere chiamate da giornalisti e tutti mi facevano la
stessa domanda: «Si sente responsabile di ciò che sta succe-
dendo a questi orfani e alle loro famiglie americane?»
Io rispondevo: «No, è Putin il responsabile. Solo un co-
dardo userebbe bambini indifesi come scudi umani».
Non ero l’unico a sentirmi in quel modo. Il 14 gennaio –
il Capodanno russo – i cittadini cominciarono a radunarsi
sui viali di Mosca con manifesti e cartelloni preparati a casa
che condannavano Putin. I dimostranti lungo le strade at-
torniati da una massiccia presenza di poliziotti aumentaro-
no sempre di più e alla fine raggiunsero quasi 50.000. Non
si trattava dei soliti attivisti politici, tra i manifestanti c’era-
no nonne, maestri, bambini sulle spalle dei genitori e varie
tipologie di moscoviti. I loro cartelli recitavano cose tipo
VERGNOGNA!, BASTA BUGIE! oppure LA DUMA MANGIA I
BAMBINI! o ancora ERODE! (Ben presto la legge diventò fa-
mosa come la Legge di Erode, che si riferiva allo spietato re
della Giudea che, per rimanere al potere, aveva tentato di
uccidere Gesù bambino ordinando un massacro di tutti i
neonati maschi a Betlemme.)
In generale Putin ignorava le proteste, ma non poté farlo
con quella perché era molto vasta e si prefiggeva di salvare
dei bambini. Il governo non poteva abrogare la legge, ma
dopo la «Marcia contro le canaglie», annunciò che la Russia
avrebbe investito milioni nella rete di orfanotrofi statali. Ero

433
certo che il denaro non sarebbe mai arrivato nelle tasche dei
legittimi destinatari, ma era una dimostrazione di quanto
Putin fosse rimasto colpito.
Però, tutta questa faccenda costò a Putin qualcosa di
molto più caro del denaro: la sua aura di invincibilità.
L’umiliazione è la sua moneta – la usa per ottenere ciò che
vuole e per dare lezioni di vita. Per lui il successo personale
è legato al fallimento del nemico e non è soddisfatto finché
non distrugge l’avversario. Nel mondo di Putin, l’umiliato-
re non può, in nessun caso, diventare l’umiliato. Eppure è
quello che era successo in seguito al divieto sulle adozioni.
E cosa fa un uomo come Putin quando viene umiliato?
Come avevamo già visto tante volte in passato, si scaglia
contro l’umiliatore.
Destino volle che quella persona fossi io.

434
41. RED NOTICE

Alla fine di gennaio 2013 mi ritrovai al Forum economico


mondiale di Davos. Al mio secondo giorno, mentre arran-
cavo tra la neve fuori dal centro conferenze, udii una squil-
lante voce femminile: «Bill! Bill!»
Mi voltai e vidi una donna tarchiata con un grande cap-
pello di pelliccia che camminava svelta verso di me. Quando
si fece più vicina, la riconobbi. Era Chrystia Freeland, la
giornalista che aveva divulgato la notizia della Sidanco tanti
anni prima a Mosca. Ora era redattrice straordinaria per la
Reuters.
Si fermò davanti a me, le guance arrossate per il freddo.
«Ehi, Chrystia!»
«Sono felice di averti riconosciuto», disse trafelata. Di so-
lito, ci saremmo baciati su entrambe le guance e avremmo
fatto quattro chiacchiere, ma a quanto pareva aveva qualco-
sa di importante da dirmi.
«Cosa succede?»
«Bill, sono reduce da un incontro informale con Medvedev
e abbiamo parlato anche di te.»
«Non mi sorprende. Negli ultimi tempi, non godo di
molta popolarità tra i russi.»
«È proprio di questo che ti volevo parlare. Devo raccon-
tarti quello che ha detto, stammi a sentire.» Tirò fuori un
block notes da giornalista dalla tasca, sfogliò le pagine e si
fermò. «Ecco qua. Qualcuno ha chiesto del caso Magnitsky
e Medvedev ha risposto, cito: «Sì, è un peccato che Sergei

435
Magnitsky sia morto e che Bill Browder sia ancora vivo e a
piede libero». Alzò gli occhi verso di me. «Ha detto proprio
così.»
«Era una minaccia?»
«Io l’ho interpretata così.»
«Mi si chiuse lo stomaco dal panico. Ringraziai Chrystia
per avermelo detto e entrai nel centro conferenze con quel-
la spada di Damocle sulla testa. Proseguii con tutti i miei
appuntamenti e quattro altri giornalisti che erano stati allo
stesso incontro mi presero da parte e ripeterono la storia di
Chrystia.
Ero stato minacciato molte volte dai russi, ma mai dal
Primo ministro.* Sapevo che la mia vita era in pericolo, ma
ciò aveva elevato il rischio a livelli senza precedenti. Appena
tornai a Londra chiamai Steven Beck, il nostro esperto di
sicurezza e aumentai in modo sostanziale la mia protezione
personale.
La minaccia era anche un indicatore della mentalità di
Putin e dei suoi uomini. Lo presi come un segnale che non
solo volevano farmi del male a livello fisico, ma desiderava-
no danneggiarmi in qualunque modo.
Il primo assaggio delle loro cattive intenzioni si mani-
festò quando le autorità russe annunciarono la data in cui
avrebbero dato inizio al mio processo per evasione fiscale in
contumacia. Erano anni che usavano la minaccia di questo
caso costruito su misura per spaventarmi affinché lasciassi
perdere tutto, ma l’approvazione della Legge Magnitsky fu
la goccia che fece traboccare il vaso.
Sottopormi a un processo quando non ero in Russia era
una pratica molto inusuale. Sarebbe stata solo la seconda
volta nella storia post-sovietica che la Russia processava un

* Dopo aver ricoperto la carica di presidente, Medvedev ritornò al suo incarico


di Primo ministro nel maggio 2012.

436
occidentale in contumacia. Ma le brutte notizie non fini-
rono lì. Quello che aveva dell’incredibile fu che volevano
sottoporre a processo Sergei Magnitsky.
Sì, proprio così. Volevano processare l’uomo che loro
stessi avevano assassinato. Persino Joseph Stalin, uno dei
più spietati assassini di massa di tutti i tempi, un uomo
responsabile della morte di almeno venti milioni di russi,
non arrivò mai tanto in basso da sottoporre un morto a
processo.
Nel marzo 2013, invece, Vladimir Putin ci riuscì.
Putin stava creando un precedente legale. L’ultima volta
che un morto era stato sottoposto a processo in Europa fu
nell’897 d.C., quando la Chiesa cattolica emise una con-
danna postuma contro Papa Formoso, gli amputò le sue
dita papali e gettò il corpo nel Tevere.
E le crudeltà non finirono lì. Alcuni giorni prima dell’i-
nizio del processo, la NTV, un canale televisivo controllato
dallo Stato, cominciò a pubblicizzare un «documentario» su
di me di un’ora che sarebbe stato trasmesso in prima serata
dal titolo La lista di Browder.
Non mi presi nemmeno la briga di guardarlo quando fu
trasmesso, ma Vladimir mi chiamò e me ne fece un sunto:
«Sono fantasie paranoiche allo stato puro, Bill». Mi disse
che alla fine, non solo Sergei e io eravamo accusati di evasio-
ne fiscale, ma che ero stato anche responsabile della svaluta-
zione del rublo nel 1998, che ero colpevole di aver sottratto
i 4,8 miliardi di dollari di prestito che l’FMI aveva elargito
alla Russia, che avevo ucciso il mio socio in affari Edmond
Safra, che ero un agente dei servizi segreti britannici e che
avevo assassinato Sergei Magnitsky con le mie mani.
Di sicuro mi turbava, ma le loro invenzioni erano talmen-
te grossolane che chiunque l’avesse guardato non avrebbe
creduto a una sola parola. Tuttavia, non era chiaro se per le
autorità russe la credibilità contasse qualcosa. Tutto quello

437
che facevano sembrava uscito da un copione malconcio. La
stessa troupe di NTV realizzò un «documentario» simile nel
tentativo di screditare il movimento di protesta dopo le ri-
elezioni di Putin nel 2012. Ne fecero un altro sul famoso
gruppo punk anti Putin, Pussy Riot. Dopo entrambi i film,
i protagonisti furono arrestati e imprigionati.
Il nostro processo ebbe inizio l’11 marzo presso il
Tribunale Tverskoi con il giudice Igor Alisov come pre-
sidente. La famiglia Magnitsky e io non volevamo averci
niente a che fare, quindi il tribunale nominò un paio di
avvocati d’ufficio contro la nostra volontà. Entrambi tenta-
rono di esimersi quando si resero conto di non essere voluti,
ma furono minacciati di essere radiati dall’albo degli avvo-
cati se non avessero accettato l’incarico.
Qualsiasi governo occidentale, parlamento, organo di
stampa e organizzazione per i diritti umani lo considerò un
clamoroso errore giudiziario. Fummo tutti sbalorditi quan-
do il processo ebbe inizio e l’accusa continuò a fare la sua
arringa per ore davanti a una gabbia vuota.
Chiunque si chiedeva perché Putin lo stesse facendo. Le
implicazioni per la reputazione internazionale della Russia
erano enormi e i vantaggi per il Presidente sembravano li-
mitati. In pratica le possibilità che finissi in una prigione
russa erano pari a zero e Sergei era già morto.
Ma quell’operazione era governata da una logica contor-
ta. Secondo Putin, con una sentenza del tribunale a sfavore
mio e di Sergei, i suoi funzionari avrebbero in seguito fat-
to visita a tutti i governi europei che stavano prendendo
in considerazione la loro versione della Legge Magnitsky e
avrebbe detto loro: «Come potete introdurre una normativa
che porta il nome di un criminale condannato da un nostro
tribunale? E come potete ascoltare il suo difensore, condan-
nato lui stesso dello stesso reato?» Dettagli ostici, come il
fatto che Sergei fosse morto da tre anni e ucciso mentre si

438
trovava in custodia della polizia dopo aver denunciato un
maxi programma di corruzione del governo non fu mai un
aspetto che Putin prese in considerazione.
A metà dell’opera, il processo si dovette interrompere per-
ché i due avvocati d’ufficio non si presentarono più in aula.
Non seppi come interpretare quel comportamento.
Poiché il risultato di quel processo era predeterminato
e controllato da Putin, non riuscivo a immaginare come
quegli avvocati potessero agire di loro spontanea volontà.
Cominciai a pensare che fosse un modo elegante per Putin
di togliersi dall’impaccio di quello spettacolo umiliante che
lui stesso aveva creato.
Ma, invece di cedere, Putin alzò la posta in gioco. Il 22 di
aprile venne emesso dalle autorità russe un mandato di ar-
resto e formalizzate nuove accuse penali nei miei confronti.
Per quanto fosse tragico, non mi sconvolse nel modo in
cui avrebbero voluto i russi. Non c’era verso che potessero
arrestarmi nel Regno Unito. Il governo britannico aveva già
riconosciuto il procedimento come «oltraggioso» e aveva re-
spinto tutte le richieste del governo russo di consegnarmi a
loro. Non riuscivo a immaginare nessun altro Paese civile in
grado di farlo. Perciò, nonostante la prepotenza del governo
russo, andai avanti con le mie campagne per i diritti umani
e proseguii con la mia vita normale.
A metà maggio, fui invitato a pronunciare un discorso
al Forum per le libertà di Oslo, l’equivalente di Davos nel
mondo dei diritti umani. Il giorno dell’evento, poco prima
che salissi sul palco di fronte a trecento persone, controllai il
BlackBerry e vidi un messaggio urgente dalla mia segretaria
con «Interpol» come soggetto.
Lo aprii e lessi: «Bill, siamo appena stati contattati da
che ha ricevuto una copia di un avviso di
allerta generale dell’Interpol per arrestarti! Ti allego il docu-
mento. Chiama in ufficio appena possibile!»

439
Aprii subito il pdf e in effetti vidi che i russi alla fine si
erano rivolti all’Interpol.
Alcuni secondi dopo aver letto il documento, fui chiama-
to sul palco per il mio intervento. Mi sforzai di sorridere,
passai sotto i riflettori e nei dieci minuti successivi raccon-
tati la mia storia, quella di Sergei e della Russia, come avevo
già fatto tante volte. Riuscii a relegare in un angolo della
mente il messaggio dell’Interpol, tanto da poter finire il di-
scorso. Dopo l’applauso, uscii nell’atrio e telefonai subito
al mio avvocato di Londra. Lei mi spiegò che il bollettino
dell’Interpol significava che tutte le volte che varcavo un
confine internazionale, potevo essere arrestato. Dipendeva
dal singolo Stato come comportarsi.
Ero in Norvegia e la situazione poteva essere compli-
cata. Benché il Paese vantasse una condotta impeccabile
in fatto di diritti umani, confinava e condivideva con la
Russia un lungo pezzo di storia, perciò era difficile sape-
re cosa avrebbero fatto i norvegesi in quella situazione.
Chiamai Elena, le dissi cosa stava succedendo e la invitai a
prepararsi al peggio.
Prenotai un volo di ritorno anticipato, presi le valigie e
mi diressi verso l’aeroporto di Oslo. Arrivai con un’ora e
mezzo di anticipo e mi recai al banco accettazione della
SAS. Non potendo più rimandare l’inevitabile, a passo lento
camminai per il lungo corridoio verso il controllo passapor-
ti norvegese.
Come Eduard e Vladimir prima di me, ero un fascio di
nervi, pronto a varcare il confine come ricercato. Cominciai
a immaginare il momento in cui avrei favorito il passaporto
e lo sguardo del funzionario quando avrebbe visto che c’era
un ordine di arresto dell’Interpol a mio nome. Immaginavo
che mi avrebbero messo in un centro di detenzione in
Norvegia, vedevo i mesi che trascorrevo in una cella sparta-
na e i tempi biblici dei procedimenti giudiziari mentre lot-

440
tavo contro la mia estradizione. Vedevo i norvegesi cedere
alle pressioni russe e io che perdevo la battaglia. Scorgevo
l’aereo dell’Aeroflot per Mosca sul quale sarei stato sbattu-
to. Non volevo neppure pensare agli orrori a cui sarei stato
sottoposto dopo.
Al controllo passaporti non c’erano altri passeggeri.
Dovetti scegliere tra due giovani uomini nordici in divisa,
ugualmente annoiati. Optai per quello di sinistra senza un
motivo particolare. Gli diedi il mio passaporto, interrom-
pendo la sua conversazione con l’altro funzionario.
Lo prese distrattamente, lo aprì alla pagina della foto e
lo osservò. Poi alzò gli occhi su di me, chiuse il passaporto
e me lo riconsegnò. Per fortuna non lo strisciò nel lettore
elettronico, quindi il bollettino dell’Interpol non comparve
sullo schermo.
Tutto fatto. Presi il passaporto e mi diressi verso l’aero-
mobile. Quando arrivai in Gran Bretagna, fu diverso. La
polizia di frontiera scansiona tutti i passaporti e il mio non
fece eccezione. Però il governo britannico aveva già deciso,
nel mio caso, di non soddisfare nessuna richiesta da parte
dei russi. Il funzionario dell’immigrazione ci impiegò qual-
che minuto in più per gestire il mio ingresso per via del
messaggio Interpol, ma quando ebbe finito i controlli mi
riconsegnò il passaporto e mi lasciò andare.
Sebbene mi sentissi al sicuro in Gran Bretagna, i russi mi
avevano dove volevano. Avendo emanato un Red Notice,
potevano di fatto impedirmi di viaggiare e in questo modo
speravano di non fare estendere le sanzioni della Legge
Magnitsky al resto dell’Europa.
Non avevo scelta: dovevo affrontare l’Interpol di petto. Il
giorno in cui tornai dalla Norvegia diramai un comunicato
stampa in cui annunciai il mandato che fu subito recepi-
to. Giornalisti e politici cominciarono a chiamare l’Interpol
per chiedere perché si fossero schierati dalla parte dei russi.

441
Di solito l’Interpol non deve rispondere a nessuno del
proprio operato, ma a causa di tutta l’attenzione che stava-
no ricevendo per il mio caso, decisero di indire un incontro
speciale per determinare il mio destino la settimana seguente.
Non ero ottimista. L’Interpol è nota per cooperare con regi-
mi autoritari per stanare i nemici politici. In molti casi l’Inter-
pol aveva fatto la cosa sbagliata. L’esempio più eclatante fu nel
periodo prima della seconda guerra mondiale, quando l’Inter-
pol aiutò i nazisti a scovare ebrei di spicco che erano sfuggiti al
Reich. Da allora c’erano stati altri episodi sconcertanti.
Il giorno prima dell’incontro dell’Interpol, il Daily Telegraph
scrisse un articolo a mio favore dal titolo: L’Interpol lotta per
verità e giustizia o aiuta i delinquenti? Peter Oborne, l’edito-
rialista, usò abilmente il mio caso per illustrare che l’Interpol
aveva la tendenza a essere manipolata da stati canaglia come la
Russia. «È molto probabile che l’Interpol si schieri con l’FSB
e si proclami contro Bill Browder», scrisse. «Ma nel tribunale
dell’opinione internazionale non è Bill Browder a essere sotto
processo: è l’Interpol stessa, per la sua collaborazione con al-
cuni dei regimi più malvagi del mondo.»
Due giorni dopo, il 24 maggio del 2013, ero in ufficio
che scrivevo questo libro quando ricevetti una chiama-
ta dalla mia avvocatessa. Aveva appena ricevuto un’email
dall’Interpol che aveva respinto la richiesta di Red Notice
nei miei confronti da parte dei russi.
Un’ora dopo, l’Interpol pubblicò il proprio rifiuto alla
richiesta russa sul sito internet. Annunciò: «Il segretariato
generale dell’Interpol ha cancellato tutte le informazioni re-
lative a William Browder a seguito di una raccomandazione
della Commissione indipendente per il controllo degli ar-
chivi dell’Interpol». Furono categorici come non lo erano
mai stati in passato. L’Interpol di rado respingeva richieste
di Red Notice, e se lo facevano non lo annunciavano mai
pubblicamente.

442
Tale rifiuto doveva aver fatto infuriare Putin ancora di
più. Ancora una volta, quando si trattava di me o di Sergei
Magnitsky, per lui era un’umiliazione pubblica. Se c’era una
possibilità che Putin avesse rinunciato al processo postumo,
dopo l’imbarazzo dell’Interpol, era svanita del tutto.
Il giudice Alisov portò avanti la causa e il processo si con-
cluse finalmente l’11 luglio 2013. Quel mattino, il giudice
si accomodò sulla sua poltrona nella piccola aula soffocante,
pronto a leggere la sua dichiarazione. Erano presenti anche i
due avvocati assegnati dal tribunale e due rappresentanti del
Pubblico ministero. C’erano sei guardie in basco e uniforme
nera, ma siccome non avevano nessuno da proteggere o da
accompagnare fuori in seguito, furono un’inutile formalità.
Il giudice Alisov bisbigliò la decisione. Non alzò quasi
mai lo sguardo dalle carte. Ci impiegò più di un’ora a de-
scrivere tutte le fantasie di Putin su quello che Sergei e io
avevamo fatto di sbagliato. Quando il giudice ebbe finito,
Sergei e io eravamo risultati colpevoli di evasione fiscale su
larga scala e io fui condannato a nove anni di reclusione.
Era tutta una messinscena, un tribunale fittizio. Questa
è la Russia di oggi. Una stanza soffocante presieduta da un
giudice corrotto, sorvegliata da agenti distratti, con avvocati
che si trovano lì solo per dare l’impressione che si tratti di
un processo vero, con la gabbia dell’imputato vuota. Un
luogo dove le menzogne regnano sovrane, dove due più due
fa sempre cinque, dove il bianco è nero e sopra è sempre
sotto. Un luogo dove le condanne sono una certezza e la
colpevolezza un dato di fatto, dove uno straniero può essere
accusato in contumacia di reati che non ha commesso.
Un luogo dove un uomo innocente è stato assassinato
dallo Stato, un uomo il cui unico crimine è stato quello di
amare troppo la sua patria e a cui è possibile prolungare la
sofferenza anche dopo la morte.
Questa è la Russia di oggi.

443
42. EMOZIONI

Dopo aver letto questa storia, vi chiederete come mi sento.


In parole povere, il dolore che mi provocò la morte di
Sergei fu così intenso che dovetti lottare con tutto me stesso
per non lasciarmi sopraffare. Dopo la morte di Sergei, per
molto tempo chiusi a chiave tutte le emozioni e non appena
mi accorgevo che volevano uscire, le reprimevo subito con
tutte le mie forze. Però, come vi dirà qualsiasi psichiatra,
evitare di soffrire non significa eliminare il dolore. Prima o
poi le emozioni trovano un modo per raggiungere la super-
ficie e più represse sono, più intensa sarà l’esplosione che ne
seguirà.
Nel mio caso, la diga crollò nell’ottobre del 2010, a quasi
un anno di distanza dalla morte di Sergei. Stavo aiutando
due cineasti olandesi che volevano realizzare un documen-
tario a contattare tutte le persone coinvolte nella vicenda
di Sergei. Ci intervistarono tutti, il film sarebbe stato mo-
strato in anteprima in otto parlamenti di tutto il mondo il
16 novembre, il primo anniversario dell’omicidio di Sergei.
Via via che si avvicinava la data dell’anteprima, cominciai
a preoccuparmi che il film non fosse abbastanza valido per
essere mostrato a quelle importanti figure politiche. Diedi
per scontato che, siccome era stato realizzato in tempi re-
cord, non sarebbe stato di alta qualità e temevo che avrebbe
potuto produrre più danni che benefici.
Capendo quanto fossi nervoso e sperando di placare le
mie paure, i produttori invitarono me e Vadim nei Paesi

444
Bassi per vedere la prima versione non definitiva in ottobre.
Andammo a Oosterbeek, un piccolo paese, un’ora a sud-
est di Amsterdam, a casa di Hans Hermans, uno dei registi.
Prima di mostrarci il film, ci servì un pranzo tradiziona-
le olandese nel suo cucinotto a base di formaggio Edam e
aringhe marinate, poi ci invitò ad accomodarci in salotto.
Ci sedemmo su dei cuscini sul pavimento e nel frattempo
Martin Maat, il co-produttore, iniziò la proiezione.
Il film, intitolato Giustizia per Sergei, non fu una proie-
zione facile da guardare. Non mi disse niente che già non
sapevo, però mostrava la vicenda di Sergei sotto una luce
del tutto nuova. Oltre all’orrore del suo calvario, venivano
narrati gli eventi quotidiani della sua vita prima del suo ar-
resto: la devozione verso i figli, l’amore per la letteratura,
la predilezione per Mozart e Beethoven. Quei particolari
erano più difficili per me da mandare giù rispetto al rac-
conto della sua detenzione. Per rendere le cose ancora più
dolorose, il film finisce con Tatyana, la zia, che racconta
la storia di una recente visita alla tomba di Sergei. Dopo
essersene andata dal cimitero, passa davanti a una vecchia
signora alla stazione della metropolitana che vende fiorda-
lisi. «Era tristissima», dice Tatyana. «Le passai davanti, ma
ritornai per comprarle dei fiori, sapendo che sarebbe stato
quello che Sergei avrebbe fatto. Tutte le volte che passava
con sua madre davanti a una signora che vendeva sacchetti
di plastica, ne comprava sempre uno. E quando la signora
gli chiedeva: “Quale preferisci?” Sergei rispondeva: «Quello
che non vuole comprare nessuno”».
Queste sono tra le ultime parole del film, ma non il mes-
saggio finale. Per farlo capire meglio – per trasmettere l’es-
senza del film – ci sono delle immagini in dissolvenza e un
crescendo musicale di chitarra e clarinetto. Vengono pro-
iettati degli spezzoni di riprese domestiche in cui compare
Sergei: durante un brindisi in un raduno di famiglia estivo,

445
in visita a una cascata in vacanza, in piedi sulla soglia del
suo appartamento, mentre intrattiene degli ospiti a cena,
durante un picnic con il suo migliore amico, mentre scher-
za, ride, indicando la videocamera. Era Sergei, vivo come
non lo sarebbe più stato a parte nei cuori e nelle menti di
quelli che lo avevano amato – che lo amavano ancora.
Fino a quel momento mi ero tenuto tutto dentro, terro-
rizzato al pensiero di cosa sarebbe successo se mi fossi la-
sciato andare. In quella stanza di Oosterbeek, abbassai la
guardia e un flusso di lacrime inarrestabile mi bagnò il viso
come non era mai successo prima né accadde mai più dopo.
Piansi a dirotto fin quando non ebbi più lacrime.
Stavo malissimo, ma era anche un bene che finalmente
provassi dolore. Hans, Martin e Vadim stavano seduti in si-
lenzio, cercando di trattenere le lacrime, non sapendo come
comportarsi.
Alla fine, mi ricomposi e mi asciugai gli occhi: «Possiamo
riguardarlo?» domandai sottovoce.
«Certo», rispose Hans.
E così iniziammo di nuovo la proiezione e ricominciai a
piangere. Fu l’inizio della mia guarigione.
Dicono che il lutto passa attraverso cinque fasi e che il
riconoscimento del dolore sia quella più importante. Forse
era vero, ma riprendersi da un omicidio in cui i responsabili
sono ancora a piede libero a godersi appieno i frutti dei loro
atti criminali rendeva il tutto più complicato.
La cosa principale che mi ha un po’ risollevato è stata
l’implacabile ricerca di giustizia. Ogni risoluzione parla-
mentare, ogni nuovo sviluppo, ogni congelamento di capi-
tale, ogni indagine penale, mi lascia con una piccola sensa-
zione di sollievo.
L’altra cosa che mi mette un pochino il cuore in pace è ve-
dere come la storia di Sergei abbia cambiato così tante vite.
Come, a differenza di altre atrocità in Russia, l’omicidio di

446
Sergei sia riuscito a penetrare la cinica corazza dei russi in
un modo fino ad allora inconcepibile. Adesso, in Russia,
le guardie carcerarie si preoccupano di non essere troppo
brutali, nel caso possano essere ritenute responsabili di un
altro Magnitsky. Adesso le vittime di violazioni di diritti
umani in Russia si sentono un po’ più protette dalla giusti-
zia quando impugnano le loro «liste Magnitsky» per punire
i funzionari che li terrorizzano. Oggi la Russia è stata obbli-
gata a occuparsi del terribile maltrattamento di orfani, che
prima erano scomparsi dalla coscienza nazionale. Adesso
il concetto delle sanzioni Magnitsky viene utilizzato come
strumento fondamentale per contrastare la Russia nella sua
invasione illegale dell’Ucraina. Forse, la cosa più importan-
te, è che la storia di Sergei abbia offerto a tutti i russi – e a
milioni di cittadini in tutto il mondo – un quadro detta-
gliato della spietata brutalità del regime di Vladimir Putin.
Questa vicenda ha anche cambiato le cose fuori dalla
Russia. Le autorità russe mi hanno perseguitato con tale
sfrontatezza da rovinarsi la reputazione agli occhi di molte
istituzioni internazionali. Con una mossa del tutto insolita,
le autorità russe hanno fatto appello all’Interpol affinché
emanasse un red notice nei miei confronti e per ben due
volte la loro richiesta è stata respinta. A causa dei maltratta-
menti che ho subito, le richieste di Red Notice da parte della
Russia non sono più accettate in automatico dall’Interpol.
I russi hanno subìto una spettacolare sconfitta per quanto
riguarda l’aspetto diffamatorio. La decisione dell’Alta corte
britannica sul caso di diffamazione sollevata dal maggiore
Pavel Karpov è stata un episodio senza precedenti. Il giu-
dice ha annullato la querela di Karpov, scrivendo un nuovo
capitolo nella storia inglese e creando un precedente che
impedirà ai futuri turisti diffamatori come Karpov di abu-
sare dei tribunali londinesi nel tentativo di mettere a tacere
i detrattori dei regimi autoritari.

447
Tuttavia, per quanto questi sviluppi siano importanti,
spesso ad alcuni dei miei amici e colleghi risulta difficile
capire perché io continui a lottare.
Nel 2012, una domenica d’estate, venne a farci visita il
mio vecchio amico Jean Karoubi. Fu una cena molto pia-
cevole in cui ci aggiornammo sulle rispettive famiglie e vite
lavorative, poi mentre preparavo il tè in cucina, mi raggiun-
se per chiedermi se potevamo parlare in privato. Lo accom-
pagnai in salotto e chiusi la porta.
Si sedette e disse: «Siamo amici da molto tempo, Bill,
sono molto preoccupato. Hai una splendida famiglia, sei un
uomo d’affari di successo, non c’è niente che tu possa fare
per riportare in vita Sergei. Perché non interrompi questa
campagna prima che ti succeda qualcosa di brutto?»
Quella non era la prima volta che ne parlavo e di certo
sono consapevole delle possibili conseguenze di quello che
faccio. Non c’è niente che mi rattristi di più della prospet-
tiva che i miei figli possano crescere senza un padre. Questo
pensiero mi strazia. Tutte le volte che assisto a un saggio del-
la scuola dei miei figli o gioco con loro nel parco, mi chiedo
quante altre volte potrò farlo ancora prima che finisca tutto
tragicamente.
Poi però penso ai figli di Sergei e in particolare al suo gio-
vane figlio Nikita che non rivedrà più suo padre. E penso
a Sergei, che si trovava in una situazione ben più precaria
della mia, ma che non fu disposto a cedere. Che razza di
uomo sarei se decidessi di fare marcia indietro?
«Devo arrivare fino in fondo, Jean. Altrimenti il veleno
dato dall’inattività mi mangerebbe vivo da dentro.»
Di sicuro non lo faccio per coraggio; non sono più valo-
roso di chiunque altro e ho paura come qualsiasi altra per-
sona. Però ho scoperto che per quanto riguarda la paura,
posso essere spaventato quanto voglio ma quella sensazio-
ne non dura. Dopo un po’ se ne va. Come tutti quelli che

448
abitano in una zona di guerra o che svolgono un lavoro
pericoloso vi diranno, il corpo non ha la capacità di provare
paura per un lungo periodo di tempo. Più cose negative ti
capitano, più diventi immune.
Devo presumere che ci sia una possibilità molto reale che
Putin o i membri del suo regime mi facciano assassinare
un giorno o l’altro. Come tutti, non ho alcun desiderio di
morire e non ho nessuna intenzione di permettere che mi
uccidano. Non posso elencarvi tutte le contromisure che
prendo, però possono rivelarvene una: questo libro. Se mi
uccideranno, saprete chi sarà stato. Quando i miei nemici
leggeranno questo libro, sapranno che voi sapete. Quindi se
siete solidali con questa ricerca di giustizia o con il tragico
destino di Sergei, vi prego di condividere questa storia con
quante più persone possibile. Questa semplice azione man-
terrà vivo lo spirito di Sergei Magnitsky e riuscirà a ottenere
molto di più di qualsiasi guardia del corpo per quanto ri-
guarda la mia sicurezza.
L’ultima domanda che tutti si chiedono è come mi sento
rispetto alle perdite che ho subìto a causa di questa ricer-
ca di giustizia. Ho perso l’azienda che avevo costruito con
tanta pazienza, ho perso molti amici che hanno preso le
distanze da me per paura che la mia campagna potesse in-
terferire con i loro interessi economici e ho perso la libertà
di viaggiare senza preoccuparmi di poter essere arrestato e
consegnato ai russi.
Tali perdite hanno avuto un peso determinante su di me?
Per quanto possa sembrare strano, la risposta è no. Tutte
le cose che posso aver perso in alcuni ambiti, le ho poi ri-
conquistate in altri. Tutti i falsi amici che mi hanno abban-
donato come se fossi una passività, sono stati sostituiti da
persone ispirate che stanno cambiato il mondo.
Se non l’avessi fatto, non avrei mai conosciuto Andrew
Rettman, un giornalista politico a Bruxelles che ha sposato

449
incondizionatamente la causa di Sergei. Nonostante la sua
disabilità, ha partecipato a tutti gli incontri più mondani
sul caso Magnitsky alla Commissione europea scrivendo
articoli e assicurandosi che i burocrati non insabbiassero
tutto.
E non avrei nemmeno incontrato il settantenne Valery
Borschev, portavoce dei diritti nelle prigioni russe che, a
due giorni dalla morte di Sergei, aveva usato la propria au-
torità indipendente per entrare nelle prigioni in cui Sergei
era stato detenuto obbligando decine di funzionari a ri-
spondere alle sue domande. Nonostante i rischi estremi per
la sua sicurezza, rese pubbliche le dichiarazioni palesemente
incoerenti e le menzogne delle autorità russe.
Non avrei mai conosciuto Lyudmila Alexeyeva, l’ottan-
taseienne attivista russa per i diritti umani che è stata la
prima persona ad accusare pubblicamente gli agenti di po-
lizia russi di aver assassinato Sergei Magnitsky. Si schierò
dalla parte della madre di Sergei e sporse diverse denunce
penali. Anche quando furono ignorate, non si lasciò mai
scoraggiare.
In questa missione ho incontrato altre centinaia di per-
sone che mi hanno offerto una prospettiva completamente
nuova sull’umanità che non avrei mai conosciuto nel mio
mondo dominato da Wall Street.
Se mi aveste chiesto quando ero alla Stanford Business
School cosa ne pensavo di lasciare la mia vita come gestore
di un fondo speculativo per diventare un attivista per i di-
ritti umani, vi avrei guardato come se foste fuori di senno.
Ma venticinque anni dopo, mi ritrovo a fare proprio que-
sto. Sì, potrei tornare alla mia vita precedente. Però ora che
ho visto questo nuovo mondo, non potrei immaginarmi
a fare nient’altro. Per quanto non ci sia nulla di sbagliato
nell’occuparsi di affari, quel mondo è come guardare la tv in
bianco e nero. Ora, tutto d’un tratto, ho installato un ma-

450
xischermo a colori e la mia vita è diventata più ricca, piena
e più soddisfacente.
Ciò non significa che non abbia rimorsi. Quello più evi-
dente è il fatto che Sergei non sia più tra noi. Se potessi
tornare indietro, innanzitutto non metterei più piede in
Russia. Sarei molto felice di scambiare il mio successo in
affari per la vita di Sergei. Ora capisco perfettamente come
fossi ingenuo a pensare che, come straniero, fossi in qualche
modo immune alle barbarie del sistema russo. Non sono io
a essere morto, ma qualcuno non è più qui per causa mia e
delle mie azioni e non c’è nulla che ci possa fare per ripor-
tarlo indietro. Però posso continuare a creare l’eredità di
Sergei e a perseguire la giustizia per la sua famiglia.
Agli inizi di aprile del 2014, portai Natasha, la vedova di
Sergei, e suo figlio, Nikita, al Parlamento europeo per assi-
stere alla votazione di una Risoluzione per imporre sanzioni
su trentadue complici russi nel caso Magnitsky. Quella era
la prima volta nella storia che il Parlamento europeo votava
una lista di sanzioni pubbliche.
L’anno prima, avevo trasferito la famiglia Magnitsky in
una tranquilla zona residenziale di Londra dove Nikita
poteva frequentare una prestigiosa scuola privata e dove
Natasha non doveva più guardarsi alle spalle tutti i giorni.
Per la prima volta dalla morte di Sergei si erano sentiti al
sicuro e pensai che avrebbe fatto bene al loro processo di
guarigione vedere oltre settecento politici europei prove-
nienti da ventotto Paesi diversi condannare i responsabili
della morte di Sergei.
Il pomeriggio del primo aprile del 2014, prendemmo
l’Eurostar da Londra a Bruxelles. Quando riemergemmo
dal tunnel della Manica a Calais, ricevetti una chiamata ur-
gente da un assistente presso il Parlamento europeo. «Bill, il
Presidente del Parlamento ha appena ricevuto una lettera da
un importante studio legale statunitense per conto di alcuni

451
russi sulla lista delle sanzioni. Minacciano di andare per vie
legali se la votazione non viene annullata. Sostengono che il
parlamento stia violando i diritti di quei russi.»
«Cosa? Loro sarebbero quelli a violare i diritti! Ridicolo.»
«Sono d’accordo. Però ci serve un parere legale da presen-
tare al presidente del parlamento entro le dieci di domani
altrimenti la votazione potrebbe essere annullata.»
Erano già le sei di sera e non potevo nemmeno immagi-
nare di trovare un buon avvocato che avrebbe cambiato i
suoi piani per stare sveglio tutta la notte a scrivere un parere
legale convincente.
Mi sarei arreso senza nemmeno provare, poi però guardai
Nikita che aveva la faccia premuta contro il finestrino del
treno per guardare la campagna francese che scorreva rapida
davanti ai suoi occhi.
Era un Sergei Magnitsky in miniatura.
«Va bene, vediamo cosa posso fare», dissi all’assistente.
Andai nel passaggio intercomunicante tra un vagone e
l’altro, lo stesso posto dove mi ero seduto con Ivan sette
anni prima quando era venuto a sapere che avevano fatto
un blitz nei nostri uffici. Cominciai a fare delle telefonate
e a lasciare messaggi, ma un’ora più tardi e tredici chiamate
dopo non ero ancora riuscito a contattare nessuno. Ritornai
al mio sedile, tormentato dal pensiero di come avrei spiega-
to quella situazione alla vedova di Sergei e a suo figlio.
Poi però prima di arrivare al mio posto, mi squillò il tele-
fono. Era Geoffrey Robertson QC, un avvocato di Londra
che aveva ricevuto uno dei miei messaggi. Nel mondo dei
diritti umani, Geoffrey è una specie di divinità. Sin dall’i-
nizio, era stato uno dei più fervidi e schietti sostenitori bri-
tannici di una Legge Magnitsky globale.
Spiegai la situazione e pregai che la linea non si interrom-
pesse, cosa che per fortuna non accadde, e alla fine lui mi
domandò: «Per quando ti serve?»

452
Ero certo che si aspettava che gli rispondessi nel giro di
due settimane o giù di lì. Invece, con tono imbarazzato,
replicai: «Entro domani mattina alle dieci».
«Ah.» Sembrò sorpreso. «Quanto è importante, Bill?»
«Importantissimo. La vedova di Sergei e suo figlio sono
qui con me sul treno per Bruxelles. Stiamo andando per
assistere alla votazione domani mattina. Ci rimarrebbero
molto male se i russi trovassero un altro modo per negare
loro giustizia.»
Ci fu silenzio dall’altro capo del telefono mentre lui valu-
tava l’ipotesi se rimanere sveglio quella notte per scrivere il
suo parere. «Bill, ce l’avrai per le dieci di domani mattina.
Non permetteremo che i russi portino via anche questo alla
famiglia Magnitsky.»
L’indomani mattina, alle 10 in punto, Geoffrey Robertson
spedì il suo parere legale. Smontò tutte le argomentazioni
dei russi, punto per punto.
Chiamai l’assistente e gli domandai se la lettera era suf-
ficiente. Ritenne che fosse perfetta, però non sapeva se
avrebbe convinto il Presidente del Parlamento a procedere
alla votazione nel tardo pomeriggio. Avevo fatto molto per
proteggere Natasha e Nikita da tutto l’intrigo politico in
Occidente e pregai che tutto andasse per il verso giusto.
Alle 16 incontrai Natasha e Nikita all’ingresso del
Parlamento e li accompagnai nella galleria della sala ple-
naria. Sotto di noi c’erano i 751 scranni dei parlamentari,
disposti in un ampio semicerchio. Una volta seduti, indos-
sammo le cuffie e passammo in rassegna i canali delle circa
venti diverse traduzioni simultanee usate in Parlamento.
Alle 16 e 30, Kristijna Ojuland, l’eurodeputata estone
che appoggiava la risoluzione Magnitsky all’improvviso fece
la sua comparsa in galleria. Senza fiato, ci disse che il parere
di Geoffrey Robertson aveva davvero convinto tutti e che la
votazione ci sarebbe stata come previsto.

453
Poi Kristijna sparì per presentare la Risoluzione. La ri-
conoscemmo subito con il suo vestito viola in quell’alveare
di parlamentari sotto di noi. Si alzò e cominciò a parlare.
Come molti altri discorsi che avevo sentito prima, illustrò
la storia di Sergei e l’insabbiamento del governo russo, poi
però fece qualcosa di inaspettato. Indicò verso di noi e dis-
se: «Signor presidente, oggi qui con noi, nella galleria dei
visitatori, abbiamo la moglie del defunto Sergei Magnitsky
insieme a suo figlio e al suo ex datore di lavoro, Mr. Bill
Browder. Sono lieta di dare il benvenuto ai nostri ospiti».
Poi, in maniera completamente inattesa, l’intera aula di
oltre settecento parlamentari si alzò in piedi, si voltò verso
di noi e scoppiò in un applauso fragoroso. Non furono ap-
plausi di circostanza, ma veri e pieni di entusiasmo, che si
protrassero per circa un minuto. Mi venne un nodo in gola
e mi si accapponò la pelle sulle braccia quando vidi che
Natasha aveva le lacrime agli occhi.
Passarono alla votazione e non ci fu neanche un’obiezione
in tutto il Parlamento europeo. Neppure una.
In questo libro ho accennato all’emozione che mi aveva
dato comprare azioni polacche che poi sono decuplicate in
valore e a come quella fosse stata la cosa più bella della mia
carriera. Ma la sensazione che ho provato in quella galleria a
Bruxelles con la vedova di Sergei e suo figlio, mentre osser-
vavamo l’organo legislativo più vasto d’Europa che ricono-
sceva e condannava le ingiustizie subite da Sergei e famiglia,
è stata infinitamente più bella rispetto a qualsiasi successo
finanziario che abbia mai avuto. Se prima un titolo che de-
cuplicava di valore in Borsa era la cosa più incredibile che
mi potesse capitare, non c’è emozione più grande di ottene-
re un po’ di giustizia in un mondo profondamente ingiusto.

454
RINGRAZIAMENTI

I miei avversari si sono prodigati in folli congetture su come


sia riuscito a ottenere un qualche tipo di giustizia per Sergei
Magnitsky. Il governo russo mi ha accusato di essere un
agente della CIA, una spia dei servizi segreti britannici, un
miliardario che ha corrotto tutti i membri del Congresso e
del Parlamento europeo e complice di un complotto sioni-
sta per dominare il mondo. In realtà la verità è molto più
semplice. Il motivo per cui questa campagna ha funzionato
è perché qualunque persona con un cuore che abbia sentito
parlare del calvario di Sergei ha voluto tendere una mano.
Molti lo hanno fatto in forma pubblica e scrivere questo
libro mi ha dato l’opportunità di riconoscerne tanti. Ma per
ogni persona nominata in queste pagine, ce ne sono mille
altri che non sono stati menzionati, ma il loro instancabile
lavoro dietro le quinte è stato fondamentale per il successo
di questa campagna. La mia speranza era di usare questa
occasione per cogliere per ringraziarli tutti. Tuttavia, è mia
intenzione non rischiare di esporre altri alle intimidazioni,
alle angherie e alle minacce della Russia a cui è sottoposto
chi sostiene pubblicamente il caso Magnitsky. Il momento
di riconoscere tutti quelli che hanno contribuito verrà, ma
solo quando la minaccia di ritorsioni dalla criminalità orga-
nizzata russa e il regime di Putin soccomberanno.
Quindi, per adesso, a tutti quelli di voi che hanno donato
il loro tempo ed energia per la campagna, spero che sappiate
tutti quanto vi sono grato per il vostro sostegno. A tutti i

455
politici negli Stati Uniti, Canada e in Europa, agli uomini e
donne del Parlamento europeo, PACE e OCSE, a tutti i giu-
risti che si sono uniti a me nella lotta per la giustizia, spesso
lavorando pro bono, ai giornalisti che hanno collaborato con
coraggio e diligenza per far affiorare la verità, alle ONG e
ai singoli cittadini di tutto il mondo che hanno spronato
i loro governi a intervenire, ai coraggiosi attivisti russi che
continuano a rischiare la vita per lottare a favore di un mi-
glioramento del loro Paese, ai miei amici e colleghi, il cui
sostegno mi è stato d’aiuto in tutti questi anni, a tutti quelli
che si sono commossi di fronte alla storia di Magnitsky e
che a modo loro hanno espresso il proprio interesse, sap-
piate che non ci sono parole per esprimere la mia ricono-
scenza per i contributi e l’impegno con cui vi siete distinti.
Tutto ha avuto importanza e ha fatto una grande differenza.
I risultati di questa campagna non sarebbero stati possibili
senza di voi.
Infine, cosa ancora più importante, devo ringraziare i veri
eroi di questa storia – la famiglia Magnitsky. Ci ha uniti la
tragedia e, se da un lato darei qualsiasi cosa per cambiare il
corso degli eventi di Sergei, sono anche grato della vostra
amicizia. Il vostro coraggio e determinazione di fronte a un
dolore indicibile è fonte di ispirazione e so che Sergei sareb-
be orgoglioso di ognuno di voi.

456
IMMAGINI
Mio nonno, Earl Browder, in compagnia dei suoi figli intellettuali. Da sinistra: mio padre,
Felix, che divenne Preside della Facoltà di Matematica dell’Università di Chicago e a cui fu
conferita la National Medal of Science nel 1999 e i suoi fratelli minori, Andrew e Bill, anch’es-
si rinomati matematici. Bill è stato presidente dell’American Mathematical Society e Preside
della Facoltà di Matematica della Princeton mentre Andrew è stato Preside della Facoltà di
matematica della Brown University. (© Lotte Jacobi)

Earl Browder, leader del Partito comunista degli Stati Uniti per un decennio, candidato alla
presidenza degli Stati Uniti nella lista del Partito comunista nel 1936. (© AP Photo)
A sinistra. 1970 circa. Mio fratello Tom e io nella nostra casa di South Side a Chicago. Io sono
quello con la chitarra. (Per gentile concessione degli archivi della famiglia Browder)
A destra. 1981. Il giorno del diploma di maturità con mia madre Eva. Adesso potete vedere
perché a scuola mi chiamavano «Brillo» (la famosa marca di pagliette). (Per gentile concessione
degli archivi della famiglia Browder)

Natale 1988. Io, mio padre Felix, e mio fratello Tom nella nostra casa in New Jersey. (Per
gentile concessione degli archivi della famiglia Browder)
1989. Sulla metropolitana di Londra, diretto alla Boston Consulting Group per il mio primo
giorno di lavoro. (Per gentile concessione degli archivi della famiglia Browder)

1991. Arrivato finalmente il successo, in attesa di partire in elicottero da Budapest verso una
città ungherese di provincia per concludere un affare per Robert Maxwell. (Per gentile conces-
sione degli archivi della famiglia Browder)
2004. Attraversando la Piazza Rossa all’apice del successo della Hermitage Fund. (© James Hill)

2008. Sergei Magnitsky – l’uomo più coraggioso che abbia mai conosciuto. (Per gentile conces-
sione degli archivi della famiglia Magnitsky)
Fotografie post mortem del polso e della mano di Sergei Magnitsky scattate il 17 novembre
2009, il giorno dopo la sua morte. Le profonde lacerazioni e le ecchimosi sono la dimostra-
zione del suo disperato tentativo di salvarsi la vita. (Per gentile concessione degli archivi della
famiglia Magnitsky).

La madre di Sergei, Natalia Magnitskaya, piange la morte del figlio durante la sepoltura in un
cimitero di Mosca il 20 novembre 2009. (© Reuters/Mikhail Voskresensky)
A una conferenza stampa nel novembre 2010, la vigilia del primo anniversario dell’omicidio di
Sergei, la portavoce del ministro degli Interni, Irina Dudukina, mostra una tabella raffazzonata
come «prova» che Sergei era colpevole degli illeciti da lui denunciati. (© Dmitry Kostyukov/
AFP/Getty Images)

Il Maggiore Pavel Karpov del ministero degli Interni russo. Il Maggiore Karpov è stato l’in-
vestigatore capo del caso e responsabile dei documenti usati nella frode del rimborso fiscale
da $230 milioni che Sergei Magnitsky aveva scoperto. Il suo tentativo di mettermi a tacere
attraverso una causa per diffamazione nel Regno Unito nel 2012 fallì. (© Sergey Kiselyev/
Kommersant/Getty Images)
L’investigatore Oleg Silchenko del ministero degli Interni russo a una conferenza stampa in
dicembre 2011. Silchenko, responsabile di quasi tutte le torture inferte a Sergei, respinse la
sua richiesta disperata di cure mediche. Allo scadere del primo anniversario dell’omicidio di
Sergei, gli fu conferito il prestigioso premio «Miglior investigatore» dal ministero degli Interni.
(© Reuters/Anton Golubey)

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama firma il Sergei Magnitsky Rule of Law
Accountability Act il 14 dicembre 2012. La legge sanziona gli ufficiali russi responsabi-
li della detenzione, tortura e assassinio di Sergei e anche altri russi violatori di diritti umani.
(© Mandel _Ngan/AFP/Getty Images)
Il presidente russo Vladimir Putin alla sua conferenza annuale nel 2012. Putin risponde in-
fastidito alle insistenti domande sulla nuova legge russa che vieta l’adozione degli orfani rus-
si da parte di famiglie americane, una legge portata avanti come ritorsione contro la Legge
Magnitsky. Putin, per la prima volta, ha fatto il mio nome in pubblico proprio durante questa
conferenza stampa. (© Sasha Mordovets/Getty Images)

La gabbia dell’imputato, sorvegliata con cura benché vuota, durante il processo postumo del
2013 a Sergei Magnitsky, nel quale anch’io sono stato processato in contumacia con false
accuse di evasione fiscale. Questo processo politico è stato universalmente condannato dalla
comunità internazionale. (© Andrey Smirnov/AFP/Getty Images)
Il membro del Senato, Kyle Parker, che ha contribuito all’approvazione della Legge Magnitsky,
accompagna la madre di Sergei in una vista guidata della rotonda del Campidoglio nell’aprile
2013. (© Allison Shelley)

Ricevimento a Washington, nel 2013 per festeggiare l’approvazione della Legge Magnitsky.
Nella foto figurano il membro del Congresso Jim McGovern (che ha presentato la Legge
Magnitsky alla Camera dei Rappresentanti), la madre di Sergei, Natalia e Natasha, la vedova.
(© Allison Shelley)
Il Senatore Ben Cardin riconosce il coraggio della famiglia Magnitsky a una conferenza stampa
nel 2013 in Campidoglio. Sono presenti anche Natasha, Nikita e Natalia (rispettivamente la
vedova, il figlio e la madre di Sergei) e Vadim Kleiner. (© Allison Shelley)

Ringraziando il Senatore John McCain per la sua instancabile lotta per la giustizia a nome di
Sergei durante un incontro con la famiglia di Sergei nel 2013. (© Allison_ Shelley)
Natasha, Nikita e io a un incontro con gli europarlamentari durante la sessione plenaria
del Parlamento europeo il 2 aprile 2014 a Bruxelles in Belgio. Poco dopo questo scatto, il
Parlamento europeo ha approvato una lista di sanzioni per il caso Magnitsky, prevedendo
ulteriori conseguenze per i funzionari russi responsabili dell’omicidio di Sergei. Da sinistra:
l’europarlamentare estone Kristina Ojuland, l’eurodeputato britannico Edward McMillan-
Scott, Nikita Magnitsky, Natasha Magnitsky, l’europarlamentare Guy Verhofstadt e io.
(© ALDE Group)

Potrebbero piacerti anche