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INDICE

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
I GRANDI MISTERI DELLA STORIA
Introduzione
1. Cortine di fumo e giochi di specchi
Giovanna d’Arco: una fantasia francese
Erzsébet Báthory: la vera contessa Dracula
Il dottor James Barry: un travestimento necessario
Fantasmi e volti dipinti: il mito occidentale del ninja vestito di nero
La papessa Giovanna: una donna sul trono del Pescatore
La Rosa di Tokyo: la donna che non è mai esistita
Robin Hood: realtà o folclore?
2. Viaggi di scoperta
Il Milione: le ciarle cinesi di Marco Polo
America: chi c’è arrivato per primo?
La costruzione di una menzogna: chi ha scoperto davvero l’Australia?
L’uomo e il mito: l’ammutinamento del Bounty di Bligh
La nave fantasma: il misterioso abbandono della Mary Celeste
Camminare senza gambe: i monoliti dell’isola di Pasqua
3. Il delitto più efferato
Il cobra di Cleopatra: la morte dell’ultima regina d’Egitto
La sifilide o Salieri: chi ha ucciso veramente Mozart
Il contadino che sapeva troppo: la morte di Rasputin
Il corpo nel seminterrato: il processo farsa del dottor Crippen
Abbandonati al loro destino: i Romanov e la rivoluzione
L’affare Dreyfus: le origini del Tour de France
4. Enigmi di riti e religioni
Il mistero della grande piramide: chi, perché e come
L’Inquisizione spagnola: la leggenda nera
Alzare il tetto: le molte incarnazioni di Stonehenge
5. Conflitto e catastrofe
Il Buco nero di Calcutta: una menzogna costruita sull’avidità
Le invasioni dei conquistadores spagnoli: gli Inca e gli irlandesi
La carica della Brigata leggera: una faida di famiglia
Che cosa scatenò il Grande incendio di Chicago: una mucca o una cometa?
Un suicidio per procura: la morte del generale Gordon
Il bombardamento di Guernica: fotografare la caduta di un soldato
Ringraziamenti
Bibliografia
Copyright
Il libro

U na volta riportata nei documenti, ripetuta abbastanza volte e ampiamente diffusa,


non ci vuole molto perché la versione “addomesticata” di una storia diventi un
fatto accertato. Ma chi ha inventato per primo queste false notizie e perché sono
rapidamente diventate una verità?
Cleopatra, Marco Polo, il Capitano Cook, Giovanna d’Arco, ma anche figure popolari
come i ninja giapponesi e l’Inquisizione spagnola: tutti noi sapremmo citare almeno una
notizia o un luogo comune su questi argomenti. Eppure, se esaminiamo le reali vicende
storiche scopriamo che spesso nulla di ciò che diamo per scontato è vero, che le
inesattezze e le bugie alterano la rappresentazione di molti dei personaggi e degli eventi
cruciali che abbiamo studiato a scuola e che gli interessi personali di chi ha narrato i fatti
hanno avuto un enorme impatto su ciò che è stato ricordato e su quello che invece è stato
opportunamente tralasciato, e per questo dimenticato.
I grandi misteri della storia è una divertente galoppata attraverso i secoli, alla scoperta
degli inganni e delle bugie di un passato che credevamo stabilito per sempre. Perché
conoscere realmente la storia e le sue mistificazioni significa avere gli strumenti per
comprendere meglio ciò che accade oggi, e difendere il nostro racconto per il domani.
L’autore

Graeme Donald è autore di molti libri dedicati alla storia, al linguaggio e ai miti popolari.
Collabora con numerosi giornali.
Graeme Donald

I GRANDI MISTERI DELLA STORIA


Da Stonehenge a Guernica, tutte le risposte che ancora non conosciamo
I GRANDI MISTERI DELLA STORIA
A Rhona – sa lei il perché!
Introduzione

Voltaire liquidò gli storici dicendo che non sono nient’altro che pettegoli che si
burlano dei morti, esaltano chi non se lo merita e diffamano delle persone per
bene che hanno l’unica colpa di non andare a genio ai committenti dei loro libri.
Entro certi limiti, aveva ragione. Ancora oggi, ci sono grandi eventi storici il
cui racconto resta avvolto in un meandro di opinioni parziali e di falsità
contrastanti, così che il lettore moderno, nel tentativo di farsi un’idea di come
siano andate realmente le cose, si ritrova a camminare a tentoni nella nebbia.
Quando riesaminiamo con più attenzione molti importanti personaggi del nostro
passato, alcuni emergono spogliati dal loro presunto alone di nobiltà mentre altri,
in precedenza screditati, ne escono con una reputazione molto meno macchiata.
Tra gli episodi la cui storia è stata riscritta in modo non obiettivo ci sono
quello della carica della Brigata leggera – un fiasco quasi criminale che, per
salvare la faccia, è stato ridipinto come uno sfolgorante esempio dell’indiscusso
eroismo del soldato britannico – e quello del dottor Crippen, un presunto mostro
mandato al patibolo da un giovane scienziato forense determinato a farsi un
nome. Ma c’è anche quello di Erzsébet Báthory, la donna soprannominata
“contessa Dracula”, che in realtà non fu affatto un personaggio abominevole ma,
piuttosto, una vittima della sua enorme ricchezza.
Scrivendo questo libro, ho prestato la massima attenzione a evitare la trappola
di affidarmi a ricostruzioni di parte: così, a prescindere dall’autorevolezza di
ogni fonte, ho controllato e confrontato tutte le informazioni e le date con quelle
riportate da altri autori di opinioni simili e contrarie. Detto questo, qualora un
lettore dovesse trovare un errore, sarei felicissimo di correggerlo.

Graeme Donald
1.
Cortine di fumo e giochi di specchi
Giovanna d’Arco: una fantasia francese

Molte biografie di Giovanna d’Arco la ritraggono come un’eroina dei primi


decenni del Quattrocento, raccontando di come aveva guidato gli eserciti
francesi in innumerevoli vittorie contro gli invasori inglesi e i loro alleati
borgognoni per poi essere infine catturata e messa al rogo come strega sulla
piazza del Mercato Vecchio di Rouen. Di fatto, però, sembra – tra le altre cose –
che non fosse francese, che non abbia mai comandato alcun esercito (o anche
solo combattuto in battaglia) e che non sia stata giustiziata per stregoneria. E
quindi, da dove vengono tutte queste inesattezze, che si sono accumulate fino a
creare un tale personaggio iconico?
Sappiamo che nacque nel 1412 a Domrémy nella Lorena, un ducato
indipendente che sarebbe entrato a far parte della Francia soltanto nel 1766. Suo
padre era Jacques Darce; il suo cognome compare anche nelle varianti Darx,
Darc e persino Tarce, ma non come d’Arc, in quanto nel XV secolo nei nomi
francesi l’apostrofo non si usava e non esisteva nessun posto chiamato “Arc” da
cui potesse venire. Sua madre era Isabelle de Vouthon, e sia lei sia Jacques
adottarono l’appellativo di Romée, anche se non è chiaro chi dei due avesse
compiuto quel pellegrinaggio a Roma che ne avrebbe giustificato l’assunzione.
La loro figlia venne battezzata come Jehannette, non Jeanne; la forma «Jeanne
d’Arc» – Giovanna d’Arco – comparve solo nel XIX secolo con uno
storpiamento di «Darc» (in vita era stata chiamata La Pucelle, “la Pulzella”). I
Romée non erano semplici contadini: Jacques era un agricoltore di gran successo
e un cittadino di spicco che, a quanto pare, aveva minacciato di «strangolarla
[Jehannette] con le mie stesse mani se dovesse andare in Francia». Da questo
possiamo come minimo dedurre che gli abitanti di Domrémy non si
consideravano affatto francesi.
Gran parte di ciò che si dice su Jehannette viene dalle cronache scoperte a
Notre Dame nel XIX secolo, ma non tutti sono convinti dell’autenticità di questi
documenti. Come afferma Roger Caratini, da alcuni considerato come uno dei
più prestigiosi storici francesi:
Temo davvero che solo una piccola parte – per quanto preziosa – di quello che noi francesi
abbiamo imparato a scuola su Giovanna d’Arco corrisponda a verità […] A quanto sembra, la
sua figura è stata quasi interamente creata dal disperato bisogno della Francia del XIX secolo
di trovare una mascotte patriottica. Il Paese voleva un eroe, i miti della rivoluzione erano nel
complesso troppo sanguinosi e la Francia arrivò così più o meno a inventare la storia della sua
santa patrona. La realtà, purtroppo, è un po’ diversa […] Giovanna d’Arco non ebbe alcun
ruolo, o al massimo solo un ruolo molto marginale, nella Guerra dei cent’anni. Non fu la
liberatrice d’Orléans, per la semplice ragione che quella città non venne mai assediata. E gli
inglesi non ebbero nulla a che fare con la sua morte: temo che furono l’Inquisizione e
l’università di Parigi a processarla e condannarla […] Ho paura che, in realtà, fummo noi a
uccidere la nostra eroina nazionale. Magari avremo anche qualche motivo per avercela con gli
inglesi ma, per quanto riguarda Giovanna, loro proprio non c’entrano.

VOCI IMMAGINARIE
Anche nella stessa Francia, l’oscura figura di “Giovanna” non fu mai oggetto di grande
interesse finché Napoleone non decise di resuscitarla come un personaggio iconico. Ma
se guidò davvero i suoi sottocomandanti a tutte quelle straordinarie vittorie nella Guerra
dei cent’anni, dove sono le testimonianze che ne parlano? Di fatto, tutto ciò che abbiamo è
un vago racconto su una giovane donna che sentiva delle voci e “vedeva cose”. Si dice
che sostenesse che le sue due “voci” più importanti fossero quelle di santa Margherita di
Antiochia e santa Caterina di Alessandria; ma anche se ai suoi tempi la realtà storica di
queste figure era accettata, in seguito si è stabilito al di là di ogni dubbio che, di fatto,
nessuna di queste due sante è mai esistita. Quello che ci resta, quindi, è la figura di
un’eroina, probabilmente fittizia, che diceva di essere guidata dalle voci di due altre donne
che in realtà non erano mai esistite. Tutto questo, comunque, non ha impedito che
Giovanna d’Arco venisse canonizzata nel 1920.

Caratini non è certo il solo a ritenere che Giovanna sia un’invenzione


dell’Ottocento o, nella migliore delle ipotesi, «una delle tante ragazze che
seguivano l’esercito, portando una bandiera per la stessa paga giornaliera di un
arciere». A quei tempi, la Francia era in tumulto. Con l’appoggio dei loro alleati
borgognoni, gli inglesi controllavano ampie fette del Paese, col risultato che la
corte francese si era trasferita al sicuro a Chinon, nella valle della Loira. Se
accettassimo l’intera leggenda così com’è, dovremmo credere che una contadina
sedicenne analfabeta – era a malapena in grado di scrivere il proprio nome –
prese il cavallo, andò fino a Chinon e, dopo aver individuato senza
tentennamenti il Delfino (che si era nascosto tra i suoi cortigiani per metterla alla
prova), gli raccontò delle sue “voci”, ripetendogli alcune profezie, per poi essere
promossa sul posto al rango di comandante. E anche se il Delfino fosse stato così
stupido da fare una nomina del genere, è realistico credere che le truppe veterane
assegnate al comando della ragazza si siano messe a seguire docilmente
qualcuno che non sapeva nulla di armi e di tattiche?
Se la Pulzella fosse veramente il personaggio di cui parla la leggenda, ci
sarebbe da stupirsi del fatto che la sua prima biografia sia stata scritta soltanto
nel XVII secolo da Edmond Richer, preside della facoltà di teologia della
Sorbona, a Parigi, dove il suo manoscritto sarebbe rimasto inedito negli archivi
fino al 1911. Dopo Richer, il secondo biografo ad affrontare il soggetto fu
Nicolas Lenglet Du Fresnoy nel 1753, seguito un altro secolo dopo da Jules
Quicherat, che produsse un’opera in cinque volumi considerata dai più come il
lavoro definitivo sulla vita, il processo e la morte della Pulzella. Ma su che cosa
si basano queste tre opere? È difficile considerare una prima biografia del XVII
secolo, una seconda del XVIII e una terza del XIX come una catena ininterrotta
di osservazioni e giudizi in grado di riportarci agli inizi del XV secolo.
Ci sono diversi fraintendimenti nella leggenda del suo processo, che non
nacque dalle accuse di stregoneria mosse contro di lei dall’Inquisizione francese
(una precorritrice della più famigerata Inquisizione spagnola). Stando ai
summenzionati documenti di Notre Dame, l’unico rappresentante
dell’Inquisizione francese presente al processo era Jean LeMaître, che,
ignorando le minacce del contingente inglese, continuava a sollevare obiezioni
sull’illegalità e la caotica confusione del procedimento. La Pulzella venne
processata per aver affermato che le voci che sentiva erano di origine divina e
perché indossava abiti maschili, contravvenendo ai dettami biblici
(Deuteronomio 22:5) che proibivano ogni tipo di travestitismo. Si suppone che ci
fossero altre accuse relative al fatto che portava un’armatura e che si era messa
alla testa di un esercito, ma anche queste non suonano vere, in quanto nel XIV e
nel XV secolo le donne in armatura al comando di eserciti erano molto più
comuni di quanto potremmo immaginare oggi.
Jeanne de Montfort (morta nel 1374) organizzò la difesa di Hennebont per poi
farsi strada combattendo fino a Brest, in armatura e a capo di una colonna di
trecento uomini a cavallo. Nel 1346, Filippa di Hainault, moglie del re inglese
Edoardo III, guidò un esercito contro dodicimila invasori scozzesi in assenza di
suo marito; sempre nel XIV secolo, Jeanne de Belleville, la Leonessa di
Bretagna, divideva il suo tempo tra gli assalti alle navi mercantili inglesi che
passavano nella Manica e le scorribande alla guida delle sue truppe nella Francia
settentrionale; e, nel 1383, nientemeno che il futuro papa Bonifacio IX raccontò
in termini entusiastici le imprese delle donne genovesi che avevano indossato
l’armatura per andare a combattere nelle crociate. Margherita di Danimarca,
Jeanne de Penthièvre, Jacqueline di Baviera, Isabella di Lorena e Jeanne de
Châtillon si misero tutte l’armatura e guidarono degli eserciti. Anche gli infidi
borgognoni, alleati degli invasori inglesi e insistenti nel chiedere la morte della
Pulzella, avevano squadre di artiglieria composte da donne. La Francia era piena
di giovani guerriere in armatura; e se questo non infastidiva neppure il Papa,
perché il clero di Rouen avrebbe dovuto infuriarsi così per un caso tra i tanti?
Ulteriori sospetti nascono dai presunti verbali del processo, che presentano
l’imputata come una persona ben istruita e molto eloquente pronta a sfidare con
eccezionale erudizione i suoi accusatori, dimostrando una comprensione dei più
sottili punti teologici tale da suscitare l’ammirazione – sia pure a denti stretti –
anche di coloro che erano determinati a mandarla al rogo. All’epoca del suo
presunto processo, la Pulzella era una ragazza analfabeta di soli diciannove anni,
cosa che fa sembrare improbabile che possedesse tali conoscenze. Pare inoltre
chiaro che, sempre ammesso che il processo e l’esecuzione siano di fatto
avvenuti, Giovanna – contrariamente a quanto afferma la leggenda – non rimase
ferma sulle sue posizioni fino alla fine. La mattina del 24 maggio 1431 venne
condotta fuori per l’esecuzione e, di fronte alla prospettiva di una morte così
orribile, scelse di ritrattare tutto in cambio del carcere a vita: riconobbe che le
sue “voci” non erano divine e promise che in futuro non si sarebbe mai più
vestita da maschio. La sua abiura venne accolta ma quando, il 29 maggio, i
vescovi le fecero una visita a sorpresa in prigione, la trovarono di nuovo vestita
da uomo e la condannarono subito al rogo come eretica recidiva. Così, stando al
racconto, si suppone che Giovanna sia stata bruciata viva sulla piazza del
Mercato Vecchio di Rouen il 30 maggio 1431.
Per confondere ulteriormente le cose, qualcuno afferma che la cosiddetta
Pulzella non venne bruciata a Rouen, in quanto dei documenti trovati negli
archivi di quella città attestano che, il 1° agosto 1439, le cariche cittadine
avevano autorizzato a versarle un pagamento di 210 livre “per i servizi da lei resi
durante l’assedio della suddetta città” (Metz, NdR). Questi documenti molto
sospetti furono tirati fuori per la prima volta dal politico francese François
Daniel Polluche alla fine del Settecento, e nel secolo successivo furono
accreditati dall’antiquario belga Joseph Octave Delepierre. Nel 1898, il dottor E.
Cobham Brewer, famoso per il Brewer’s Dictionary of Phrase and Fable,
scrisse:

Monsieur Octave Delepierre ha pubblicato un pamphlet, intitolato Doute Historique, per


confutare la tradizione secondo la quale Giovanna d’Arco venne messa al rogo a Rouen per
stregoneria. Cita un documento scoperto da padre Vignier nel XVII secolo, negli archivi di
Metz, per dimostrare che sposò il Sieur des Armoises, con cui andò ad abitare a Metz e da cui
ebbe dei figli. In seguito, Vignier trovò tra i documenti della famiglia il contratto di
matrimonio tra Robert des Armoises, cavaliere, e Jeanne D’Arcy, soprannominata la Pulzella
d’Orléans. Nel 1740, negli archivi della Maison de Ville d’Orléans vennero trovati gli attestati
di diversi pagamenti ad alcuni messaggeri mandati da Giovanna a suo fratello Giovanni, datati
1435 e 1436. C’è inoltre l’attestato di un versamento fatto dal consiglio della città alla
Pulzella per i suoi servizi durante l’assedio (datato 1439). Monsieur Delepierre ha presentato
una sfilza di altri documenti per corroborare questo stesso fatto e mostrare che la storia del
suo martirio venne inventata allo scopo di gettare odio sugli inglesi.

Ci sono altre fonti che affermano che dopo il 1431 Giovanna era ancora viva.
Gli antichi registri della Maison de Ville d’Orléans e La Chronique du Doyen de
Saint-Thibault de Metz fanno entrambi riferimento a una Giovanna post-Rouen.
Polluche presentò le sue argomentazioni nel Problème Historique sur la Pucelle
d’Orléans (1749), che costituisce in parte la base del lavoro di Delepierre, che
pubblicò per la prima volta le sue scoperte sulla rivista «Athenaeum» il 15
settembre 1855. In ogni caso, sembrano esserci parecchi dubbi sulla veridicità
della storia di Giovanna d’Arco, con grandi interrogativi riguardo a ogni
dettaglio, dal suo nome e nazionalità fino alle imprese, al processo e alla morte.
Erzsébet Báthory: la vera contessa Dracula

È probabile che nessun’altra donna nella storia sia mai stata oggetto di tante
calunnie come Erzsébet Báthory. Oggi viene spesso chiamata “la contessa
Dracula”, e molti sono convinti che facesse il bagno nel sangue delle vergini per
conservare la sua grande bellezza e che sia stata una vampira o magari una
licantropa. A quanto si dice, tra il 1600 e il 1610 questa donna ungherese
avrebbe assassinato più di seicentocinquanta vergini di diciassette villaggi che
sorgevano attorno al suo castello e ricadevano sotto il suo controllo feudale; data
la popolazione rurale dell’Ungheria di inizio Seicento, ciò sembra un tantino
esagerato, visto che gli abitanti complessivi di quei villaggi erano meno di
quattrocento. Come nel caso di Vlad Dracula, voivoda quattrocentesco della
Valacchia (una regione dell’odierna Romania), tutte queste storie non sono
nient’altro che pruriginose fantasie.
È interessante notare che il primo accenno al rapimento di quelle
seicentocinquanta vergini per i bagni di sangue della contessa venne fatto solo
nel 1729, ossia più di un secolo dopo la sua morte. In questa stessa fonte
troviamo inoltre accuse di cannibalismo, di orge vampiriche e di torture sadiche
a sfondo sessuale su molte ragazze. Nelle famiglie ungheresi di inizio Seicento,
la sorte dei sottoposti non era certo felice: la più piccola trasgressione veniva
spesso punita con percosse violente, e in questa brutalità la Báthory non si
distingueva dai suoi pari. A segnare la sua condanna, però, furono le sue
ricchezze, e sembra probabile che, alla fine, fu vittima dell’avidità e di manovre
politiche. Ma chi la voleva eliminare, e perché?
Nata in una nobile e ricca famiglia di Nyírbátor, ai confini occidentali
dell’odierna Ungheria, all’età di dieci anni Erzsébet venne promessa in
matrimonio al sedicenne Ferenc Nádasdy; non era un legame d’amore, ma
semplici nozze politiche finalizzate a formare un’alleanza tra le due famiglie più
potenti del regno. Nel giro di pochi anni, Ferenc si ritrovò impegnato in varie
guerre e lasciò la moglie a casa ad approfondire la sua istruzione; nel 1604,
quando il marito morì all’età di quarantotto anni, la Báthory era diventata una
donna straordinaria, che oltre a parlare correntemente diverse lingue – tra cui il
latino e il greco – aveva anche un carattere indipendente e non era disposta a
“starsene buona al proprio posto” in una società allora strettamente dominata dai
maschi. A quell’epoca, i nobili ungheresi in grado anche solo di scrivere il loro
nome erano pochi e, quando c’era da irritare qualcuno, Erzsébet non si tirava
mai indietro; e ora che aveva il controllo sulle ricchezze combinate dei Báthory e
dei Nádasdy, molti occhi avidi iniziarono a posarsi su di lei e la fabbrica delle
dicerie cominciò a lavorare a pieno regime. Dato che tutti i suoi diplomatici e
consiglieri più importanti erano donne, iniziò presto a circolare la voce che la
sua corte non fosse nient’altro che una malcelata congrega di streghe; bisognava
fare qualcosa per rimetterla in riga.
Gli attori principali in questo complotto furono il re Mattia II d’Ungheria e il
suo primo ministro, György Thurzó, che tra l’altro era cugino della Báthory.
Erzsébet, dimostrando forse una scarsa avvedutezza, continuava a importunare
Mattia – un re in bancarotta, oltre che di infima moralità – perché saldasse i suoi
enormi debiti con la famiglia Báthory. Thurzó, dal canto suo, le doveva più di
quanto sarebbe mai stato in grado di ripagare; aveva già cercato di sistemare le
cose con una cinica proposta di matrimonio, ma la contessa gli aveva riso in
faccia. Mattia ordinò a Thurzó di far cadere la Báthory, raccomandandogli però
di agire con cautela in quanto la donna aveva molti potenti alleati in Ungheria e
nella vicina Polonia, che anni prima era stata governata da suo zio, re Stefano I
Báthory. Elaborati i suoi piani, Thurzó fece arrestare la Báthory il 29 dicembre
1609 o 1610 (le fonti sono discordi), affermando di averla letteralmente colta
con le mani rosse di sangue, intenta a torturare una povera ragazza mentre
un’altra vittima giaceva riversa lì accanto. Questo, perlomeno, è ciò che Thurzó
disse a tutti, ma il suo mandato di arresto, che non indicava nel dettaglio nessuna
accusa, venne spiccato dopo la cattura e nessuno poté mai interrogare la ragazza
sopravvissuta o vedere il corpo di quella deceduta. A quanto pare, Thurzó
organizzò tutta la sceneggiata in modo da drammatizzare al massimo l’arresto.
Mentre Erzsébet era agli arresti domiciliari, Thurzó portò via quattro dei
membri più fidati del suo staff – Ilona-Jó, Dóra, Kata e János Ficzkó – per farli
torturare finché non avessero accettato di confermare tutte le accuse da lui
formulate. Dopo l’amputazione di varie parti dei loro corpi e il supplizio del
fuoco, tutti e quattro riconobbero che la Báthory era di fatto una strega che
praticava le arti oscure nel suo castello, dove era solita torturare e uccidere
giovani vergini sul suo altare satanico. Il giudice incaricato del caso era uno
degli amici più stretti di Thurzó, che provvide inoltre a riempire la giuria di
amici e dipendenti; il processo iniziò il 2 gennaio 1611, ma il ministro fece un
tale pasticcio che fu costretto a interrompere il suo stesso disastroso
procedimento.
All’inizio del secondo processo, il 7 gennaio, Thurzó aveva miracolosamente
trovato quello che definì lo spaventoso resoconto, da parte della stessa Báthory,
di tutte le gesta sanguinarie e sataniche di cui si era macchiata; tuttavia, la
calligrafia di quel testo non assomigliava neppure da lontano a quella di altri
documenti scritti dalla donna nello stesso periodo. Per aggirare la possibilità che
qualcuno mettesse scomodamente in dubbio le sue “prove”, Thurzó ordinò che il
processo continuasse in latino, con alcuni dei testimoni condotti in aula legati e
imbavagliati in modo che potessero soltanto annuire o scuotere la testa in
risposta alle domande che venivano loro rivolte. I testimoni a cui fu concesso di
parlare non fecero altro che riportare delle voci che avevano sentito. Il giudice
accolse come prove delle lampanti falsità, confutate da semplici considerazioni
cronologiche, giudicando al contempo inammissibile qualunque elemento che
avrebbe potuto ostacolare un verdetto di colpevolezza. Nessun membro delle
famiglie delle presunte vittime della contessa fu chiamato a testimoniare, e gli
scrivani incaricati di redigere i verbali del processo dovevano stare alzati per
metà notte a riscrivere le loro stesse trascrizioni, in modo da eliminare ogni
fastidiosa incoerenza e contraddizione. Il circo di Thurzó fu una ridicola farsa,
alla quale la Báthory ebbe il buon senso di non partecipare e di non presentare
dichiarazioni.
Com’è ovvio, giocando coi dadi truccati, Thurzó e Mattia ebbero facilmente
partita vinta, e mentre la Báthory veniva giudicata colpevole di tutti i capi
d’accusa, la moglie di Thurzó correva su e giù nel suo castello arraffando ogni
oggetto di valore che le piacesse. I debiti di Mattia e Thurzó furono dichiarati
nulli e cancellati, il grosso delle terre e degli averi della Báthory fu diviso tra le
parti interessate e i quattro testimoni chiave vennero portati fuori per essere
immediatamente giustiziati, così da tenere in ordine le cose. Sapendo di essersi
già spinto ai limiti, Thurzó non fece murare la Báthory in una stanza per lasciarla
morire di fame, come ci racconta la leggenda, ma le permise di restare nel suo
castello di Čachtice, sui Carpazi, purché tenesse la bocca chiusa e non sollevasse
un polverone. Erzsébet rimase lì fino al 1614, quando morì di cause naturali
all’età di cinquantaquattro anni.

LA LEGGENDA NERA
Anche se i suoi presunti crimini furono l’invenzione di uomini che volevano soltanto
mettere le mani sulle sue ricchezze, la figura mitica di Erzsébet Báthory ha dato vita a una
vera e propria industria di libri, rappresentazioni teatrali, film e persino giocattoli e
videogame.
La Báthory compare come uno spettro demoniaco in alcuni dei racconti più tetri dei fratelli
Grimm, e ha anche fornito l’ispirazione al primo romanzo di vampiri a sfondo lesbico,
Carmilla (1871) di Sheridan Le Fanu, che avrebbe a sua volta ispirato Dracula di Bram
Stoker. A lei si è richiamato anche Leopold von Sacher-Masoch (l’uomo che ha dato il
nome al masochismo) nel suo famoso racconto Eterna giovinezza (1874).
In tutto, fino a oggi la Báthory ha ispirato o è comparsa in cinquantotto romanzi, quattro
componimenti poetici e dodici drammi, oltre che in innumerevoli programmi televisivi
(l’ultimo è American Horror Story: Hotel, del 2015, dove Lady Gaga recita la parte della
contessa basata su Erzsébet), quarantasette film, diciotto opere e musical e trentaquattro
canzoni heavy-metal. È anche – cosa un po’ inquietante – un bestseller nella linea di
bambole “Living Dead Dolls”, dove ha superato le vendite di Dracula e di Jack lo
Squartatore.

Tuttavia, per quanto stravaganti fossero le accuse a lei mosse da Thurzó, non
vi si faceva alcun cenno a bagni nel sangue o men che meno a sanguinosi rituali
vampirici; nemmeno lui aveva tutta questa immaginazione. Questa leggenda
nacque invece dalla fantasiosa mente di un gesuita decisamente squilibrato di
nome László Turóczi, che la raccontò nel suo libro del 1729 Ungaria Suis cum
Regibus Compendio Data (Breve descrizione dell’Ungheria e dei suoi re). A
quanto pare, per far sì che la sua opera si leggesse d’un fiato, Turóczi si inventò
tutta la storia dei bagni nel sangue e dei riti satanici. Questa vicenda può essere
presa come una dimostrazione dell’adagio popolare secondo il quale una buona
menzogna fa in tempo ad attraversare metà mondo prima che la verità sia anche
solo riuscita a infilarsi le scarpe.
Il dottor James Barry: un travestimento necessario

Anche se il mito di un papa femmina è privo di fondamento (si veda il capitolo


dedicato alla “papessa Giovanna”), alcune donne sono di fatto riuscite a portare
avanti a lungo delle spettacolari frodi basate sul travestitismo; tra queste,
nessuna ha avuto più successo di quella della ragazza che nel XIX secolo scalò
gli alti ranghi dell’esercito britannico.
Anche se il nome, la data di nascita e i genitori restano tuttora oggetto di
dibattito, la ragazza che sarebbe diventata il dottor James Barry era nata a Cork,
forse nel 1789 o nel 1792, e crebbe nella comunità artistica londinese che faceva
capo al grande artista irlandese James Barry. In quel gruppo c’era anche Mary
Ann Bulkley, la sorella dell’artista, che la giovane Barry chiamava zia (anche se
alcuni sospettano che fosse di fatto sua madre). Della brigata facevano parte
anche il generale Francisco de Miranda, esule rivoluzionario venezuelano, e
David Steuart Erskine, 11° conte di Buchan. Ai margini del gruppo c’erano delle
figure più stabili e potenti, come Fitzroy Somerset, meglio noto come Lord
Raglan, e suo fratello, Lord Charles Somerset, che in seguito sarebbe diventato
governatore della colonia del Capo in Sudafrica. In breve, la ragazza, allora
conosciuta col nome di Margaret, crebbe assieme ad alcuni personaggi molto
ben inseriti il cui appoggio le sarebbe tornato utile in futuro.
A un certo punto, abbandonò il nome di Margaret e scelse di essere chiamata
Miranda in onore del generale venezuelano che, assieme a Erskine (un fervente
sostenitore, anche se un po’ eccentrico, del diritto delle donne all’istruzione), le
aveva fortemente consigliato di impersonare un maschio se voleva davvero
studiare medicina, come si era detta intenzionata a fare. Quando venne proposto
questo stratagemma, ci sarebbero ancora voluti una cinquantina d’anni prima che
alle donne venisse permesso di studiare e praticare la medicina: la prima
dottoressa britannica ufficialmente femmina, Elizabeth Garrett, si sarebbe
laureata nel 1865. In ogni caso, che il “gioco” fosse iniziato come uno scherzo o
che fosse stato una sorta di malaccorto esperimento sociologico ideato da
Erskine, questa scelta venne a tracciare il percorso della vita di Miranda. Grazie
agli insegnamenti del dottor Edward Fryer, che aveva assistito l’artista James
Barry nella sua ultima e fatale malattia, Miranda assimilò le conoscenze mediche
a una velocità tale che, sotto il nome di James Miranda Steuart Barry, entro nella
Medical School dell’università di Edimburgo nel novembre del 1809. Bassa di
statura, esile di costituzione e dai lineamenti delicati, suscitò la diffidenza di
qualche membro della facoltà, ma i loro sospetti erano sbagliati: pensavano
infatti che lo snello e aggraziato Barry fosse ancora soltanto un ragazzo e che
fosse quindi troppo giovane per affrontare gli esami finali nel 1812. Ma Erskine,
dichiarando di sapere per certo che Barry aveva l’età richiesta, mise a tacere le
proteste della facoltà. La Barry superò gli esami finali qualificandosi al primo
posto nella sua classe, con una tesi sulle ernie femorali che aveva scritto
interamente in latino (giusto per dimostrare la sua preparazione) dedicandola a
Erskine.
Tornata a Londra per fare tirocinio al Guy’s e al St Thomas’, due ospedali
della capitale, la Barry, che aveva più o meno vent’anni, venne ammessa al
Royal College of Surgeons – il Collegio reale dei chirurghi – nel 1813 per poi
entrare nel Dipartimento medico dell’esercito, dove si dimostrò estremamente
capace ma anche molto impopolare. Sboccata e incline a una franchezza che
rasentava l’insensibilità, non si tratteneva mai dal criticare gli altri per i loro
errori o la loro inefficienza, qualunque fosse il loro rango, e le vittime dei suoi
attacchi ritenevano di non poter far altro che sopportare quelle umiliazioni per
via dell’influenza che chiaramente esercitava a Londra in generale e negli
ambienti governativi di Whitehall in particolare. Nel 1816, quando la Barry
aveva il grado di chirurgo tenente, venne mandata a Città del Capo, in Sudafrica,
per lavorare come assistente chirurgo all’ospedale militare di Table Bay. Senza
perder tempo nei convenevoli, appena arrivata informò subito il suo ufficiale
superiore, il chirurgo maggiore McNab, che non avrebbe avuto bisogno del
frugale alloggio che le era stato assegnato in quanto sarebbe stata ospite nella
residenza del governatore.
Nel seguente decennio, la Barry e il governatore, Lord Charles Somerset,
diventarono sempre più intimi, al punto che a Città del Capo iniziarono a girare
voci su un possibile rapporto omossessuale. I pettegolezzi si fecero più rumorosi
quando Somerset nominò la giovane Barry all’incarico di Ispettore generale di
tutte le strutture mediche della provincia. Può darsi che la loro relazione si
estendesse anche al piano fisico: alla morte della Barry vennero scoperte delle
smagliature sul suo corpo e, nel 1819, la donna lasciò all’improvviso Città del
Capo per andare a nascondersi per diversi mesi in Gran Bretagna, due cose che
suggeriscono la possibilità di una gravidanza. Inoltre, nel 1829 si allontanò senza
permesso per ritornare in Inghilterra ad assistere il malato Lord Charles
Somerset, che aveva lasciato il governatorato nel 1826 a causa dei suoi problemi
di salute. Questi non furono i suoi unici episodi di assenteismo, ognuno dei quali
sarebbe costato a un altro ufficiale un deferimento alla corte marziale; tuttavia, la
Barry non venne mai messa sotto accusa per aver abbandonato più volte il suo
posto.

GLI SCONTRI CON FLORENCE NIGHTINGALE

Nel 1854, durante la guerra di Crimea, la Barry impose i suoi rigidi protocolli d’igiene,
grazie ai quali tra i feriti trattati nelle strutture sotto il suo diretto controllo si registrarono i
più alti tassi di sopravvivenza. Le sue idee avanzate sul modo di gestire un ospedale la
portarono a ripetuti e violenti scontri con Florence Nightingale. Quest’ultima era una
sostenitrice della teoria dei miasmi, secondo la quale tutte le malattie e le infezioni erano
causate da vapori nocivi; in seguito, avrebbe anche preso in giro Louis Pasteur per aver
detto che le malattie erano provocate dai germi. La Nightingale (la cui unità in Crimea
aveva uno dei tassi di decesso più alti) venne spesso ai ferri corti con la Barry, e “lo”
descrisse come «la persona più brutale che io abbia mai incontrato».

A parte il suo discutibile approccio alla vita militare, il suo lavoro in


Sudafrica fu esemplare. Anticipando i tempi di diversi anni, impose rigorosi
protocolli igienici in tutti gli ospedali militari e istituì un programma di
assistenza sanitaria per le famiglie di tutti i soldati in servizio. Il 25 luglio 1826,
in un’operazione fatta d’urgenza su un tavolo da cucina, eseguì il primo taglio
cesareo di successo mai documentato su una donna europea, Wilhelmina Munnik
(moglie di Thomas Munnik, un mercante del posto); fu una delle prime
procedure di questo tipo in cui sopravvissero sia la madre sia il figlio, che in
segno di riconoscenza venne quindi chiamato James Barry Munnik. Un
discendente di quel ragazzo, James Barry Munnik Hertzog, sarebbe poi diventato
primo ministro del Sudafrica tra il 1924 e il 1939. Per quanto riguarda la vita
privata della Barry, possiamo dire che fu come minimo contraddittoria. Godette
sempre di una grande popolarità fra le donne, che – e non c’è da stupirsi… –
“lo” consideravano come una persona con cui era facile parlare. Non si
tratteneva dagli atteggiamenti civettuoli, e una volta dovette combattere un
duello con le pistole con il capitano Josias Cloete, aiutante di campo del
governatore, per essersi presa un’eccessiva familiarità con la sua fidanzata;
sopravvissero comunque entrambi e diventarono grandi amici.
Dopo un breve viaggio di lavoro in Canada, raggiunto il grado di Ispettore
generale degli ospedali militari (l’equivalente medico di generale di brigata), la
Barry venne dimessa dal servizio per invalidità e ritornò a Londra, dove morì il
25 luglio 1865. Aveva chiesto espressamente di essere seppellita subito con gli
abiti che indossava al momento del decesso, ma una domestica, Sophia Bishop,
decise di ignorare questa richiesta e di preparare la salma nel modo appropriato;
aveva già visto più del dovuto quando il chirurgo maggiore D.R. McKinnon
venne a condurla fuori dalla stanza e stilò quindi un certificato di morte che
dichiarava che la Barry era un uomo deceduto per dissenteria. Subito dietro di lui
giunse una squadra dell’equivalente vittoriano dei reparti speciali della polizia,
arrivati su carrozze non contrassegnate per far sparire fino all’ultimo foglietto
della Barry – e la maggior parte dei suoi oggetti personali – dalla sua casa di
Marylebone. Al suo servitore giamaicano, John, venne intimato nei termini più
perentori di dimenticare tutto ciò che aveva visto o sentito; quindi gli diedero
una busta di soldi e un biglietto di sola andata per il suo Paese, e lo
accompagnarono subito al porto su una delle carrozze. Tre guardie vittoriane
vestite di nero lo tennero in pratica agli arresti nella sua cabina fino alla partenza
della nave, e da quel momento non si ebbero più sue notizie.
Qualche giorno dopo, Sophia Bishop andò da McKinnon per chiedergli di
essere a sua volta pagata per mantenere il silenzio, e quando lui la buttò fuori
dall’ufficio corse subito ai giornali per raccontare la sua storia. La Barry, però,
era ormai già stata sepolta con tutti gli onori militari nel Kensal Green Cemetery
di Londra, e tutti i documenti che la riguardavano sparirono misteriosamente dal
War Office; era come se il buon dottor Barry non fosse mai esistito. Come
potrete immaginare, sono state fatte molte ipotesi scandalistiche sulla vera
identità di James Miranda Steuart Barry: era forse una figlia illegittima nata da
una qualche tresca amorosa della famiglia reale? Di certo, possiamo dire che per
tutta la sua vita ci furono persone molto potenti che vegliarono su di lei.
Fantasmi e volti dipinti: il mito occidentale del ninja vestito di nero

Gran parte di quello che molti di noi pensano di sapere sulla storia culturale del
Giappone è sbagliato. Per esempio, il sushi non è pesce crudo, ma è qualunque
piatto basato sul riso acidulato in aceto di riso, che può contenere oppure no il
sashimi (che è di fatto pesce crudo, talvolta sostituito da carne) tagliato a fette
sottili; il sakè non è vino di riso ma, piuttosto, un prodotto di fermentazione, e
quindi molto più simile a una birra forte. E nessuno in Giappone aveva mai
sentito parlare di ninja prima che questo termine venisse inventato e applicato
erroneamente dagli europei.
Lo stesso nome “Giappone” è di fatto un esonimo di origini cinesi, adottato
solo malvolentieri da certi settori del commercio giapponese desiderosi di
favorire il turismo. Fin dall’antichità, la popolazione indigena aveva chiamato il
Paese Nippon o Nihon, due letture alternative, entrambe accettate, dello stesso
pittogramma che indica “il luogo di nascita del Sole”; delle due varianti, la prima
è più popolare tra le vecchie generazioni e la seconda tra i giovani. Alle orecchie
dei più, “Giappone” suonerebbe come il nome di un tipo di pane. Nei tempi
antichi, la Cina – un Paese molto più grande – indicava il Nippon con il termine
Wa, che significa “piccolo e obbediente”, ma le ripercussioni diplomatiche di
questa terminologia condiscendente costrinsero infine i cinesi ad abbandonarla
in favore di Jihpun (il loro termine per indicare il sorgere del Sole), da cui
emerse anche l’espressione più poetica “Terra del Sol levante”. Questi furono i
due nomi scelti dagli occidentali che commerciavano con la Cina, per i quali le
porte del Giappone erano ancora chiuse.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il Nippon venne travolto da un vero e
proprio tsunami di cultura occidentale, e tutta una serie di oggetti – dai sedili dei
treni all’altezza dei piani di lavoro in cucina – dovettero essere riprogettati in
seguito all’aumento dell’altezza nazionale media dovuto all’adozione di diete di
stampo occidentale che comportavano un maggiore consumo di proteine. Stando
al ministero giapponese dell’Istruzione, oggi i bambini di undici anni sono in
media più alti di ben quindici centimetri rispetto a quelli di mezzo secolo fa.
Tuttavia, nonostante l’invasione di Coca-Cola, hamburger e patatine fritte, ci
sono ancora molti aspetti storici della vita nipponica che gli occidentali
continuano a fraintendere.
Il pubblico cinematografico occidentale ha un insaziabile appetito per i film
che presentano le prodezze ginniche degli agili ninja, capaci di lanciarsi in aria
con un salto di cinque metri per poi piombare a uccidere – a mani nude o con
una bacchetta rotta – una dozzina di avversari. Potremmo così restare sorpresi
scoprendo che, in realtà, il tipico ninja era una donna di mezza età che
trascorreva la maggior parte del suo tempo a sbrigare le faccende domestiche. E
da dove è nata, quindi, l’idea del letale assassino che si aggira furtivamente
indossando un pigiama nero?
Il termine “ninja” fece la sua prima comparsa nella stampa inglese con il
romanzo di Ian Fleming del 1964 You Only Live Twice (trad. it. Si vive solo due
volte, Mondadori, Milano 1991). Negli anni seguenti, comunque, il suo uso
rimase talmente limitato che non venne neppure incluso nei venti volumi della
seconda edizione (del 1989) dell’Oxford English Dictionary. Il termine era
un’invenzione dell’Occidente anglofono del XIX secolo, che trovando troppo
farraginosa l’espressione giapponese shinobi no mono (una persona che agisce
furtivamente), ricorse ai molto più vecchi on’yomi (sinonimi sino-giapponesi) di
nin (furtività) e ja (persona). Apparso per la prima volta in Giappone già
nell’VIII secolo, il termine shinobi denotava un servo in una casa di particolare
importanza – un cuoco, un giardiniere, una cameriera, una concubina ecc. – che
era disposto a vendere informazioni riservate riguardo ai visitatori che andavano
e venivano e alle conversazioni che aveva origliato. Ai shinobi non venivano
mai affidati “lavori sporchi”; se chi usava i loro servigi pensava fosse giunto il
momento di metter fine alla vita del loro padrone, per farlo chiamava un rude
samurai o qualche altra persona del genere. Così, il Giappone aveva senz’altro i
suoi killer a pagamento, ma questi ultimi venivano chiamati con vari altri nomi
traducibili come “assassino” o, in un linguaggio più fiorito, “colui che cammina
nell’ombra”, mai con shinobi e men che meno con il termine di invenzione
occidentale ninja.
L’idea del killer vestito di nero nacque dalle convenzioni della tradizione
teatrale kabuki, dove gli attori non lasciano il palco nei passaggi da una scena
all’altra: allora come oggi, i macchinisti salivano sul palco per effettuare tutti i
cambiamenti necessari, ma erano sempre vestiti di nero per indicare al pubblico
che non facevano parte della storia. Per estensione, se la trama prevedeva che un
killer si infiltrasse nell’azione senza essere visto dagli altri attori, anche lui si
muoveva sul palco in abito nero, proprio per indicare al pubblico la sua
“invisibilità”. Purtroppo, questo espediente lasciò negli spettatori occidentali
delle opere teatrali kabuki l’idea che in Giappone i killer professionisti andassero
sempre in giro vestiti di nero.
Detto questo, la passione occidentale per il mito dei ninja ha dato origine
all’odierno genere dei film sulle arti marziali, che – a sua volta – ha convinto
qualche spettatore che i giapponesi siano in qualche modo anatomicamente
superiori a tutti gli altri terrestri. Tuttavia, nessun giapponese è in grado di
correre sulle fiancate degli edifici o di camminare sull’acqua, e la pratica di
spezzare mattoni o rompere blocchi a testate, che vediamo in alcune arti
marziali, richiede un’attenta preparazione. Com’è ovvio, dato che i ninja non
sono mai esistiti sotto questo nome, tutte le “repliche autentiche” di armi ninja
pubblicizzate su internet sono invenzioni moderne (come, del resto, il
mazzafrusto che si dice venisse brandito con intenzioni omicide dagli antichi
cavalieri inglesi). Pur essendoci di fatto innumerevoli riferimenti storici all’uso
di shuriken (lame nascoste nella mano) da parte di killer e malviventi, sembra
che queste armi non fossero nulla di più sofisticato di semplici dardi acuminati o
lame a doppia punta. Nonostante quello che vediamo nei film, nessuno –
europeo o giapponese che sia – può lanciare un coltello con una forza sufficiente
a conficcarlo nel petto di un qualche cattivo; così, gli shuriken venivano lanciati
solo nella speranza di convincere un inseguitore a desistere. In ogni caso, anche
quel particolare shuriken noto come la “stella ninja” è probabilmente
un’invenzione moderna. Di fatto, gli assassini dell’antico Giappone non erano
tradizionalisti: non appena furono disponibili le armi da fuoco e gli esplosivi, le
presero subito come armi d’elezione. Dato che il loro obiettivo principale era
quello di portare a termine il contratto, a partire dalla metà del Cinquecento le
bombe e le pistole iniziarono a essere preferite alle armi tradizionali.
I samurai, certo, erano un’altra cosa. Anche se la loro effettiva esistenza
storica è fuor di discussione, avevano ben poco a che fare con gli uomini d’onore
rappresentati nelle saghe odierne con la spada e il sakè. Come i cavalieri della
vecchia Inghilterra, che in sostanza erano malviventi in armatura, i samurai
erano un’élite di guerrieri che riservavano il comportamento onorevole a chi era
più in grado di apprezzarlo, ossia loro stessi. Mentre eseguivano senza far
domande gli ordini di chi li pagava, i samurai non sprecavano nessun gesto di
cavalleria o di cortesia con i membri delle classi inferiori; e gran parte dei lavori
che venivano loro affidati erano già di per sé loschi, disonorevoli e infidi. Tutte
le fantasiose idee su un qualche immaginario codice di comportamento chiamato
bushido – la via del guerriero – sono in gran parte un’invenzione dello scrittore e
diplomatico giapponese Nitobe Inazo, autore di Bushido: The Soul of Japan
(1899) (trad. it. Bushido: l’anima del Giappone, Lindau, Torino 2019). Anche se
il termine bushido aveva già fatto qualche comparsa nella letteratura giapponese
prima del Novecento, altri termini come mononofu, tsuwamono o saburau erano
più comuni. Se un samurai aveva perso l’onore, ci si poteva aspettare che
eseguisse il seppuku, la forma di suicidio rituale erroneamente chiamata hara-
kiri dagli occidentali, che però era di rado quello spettacolo raccapricciante che
troviamo nell’immaginazione popolare. Spesso il fatto che il samurai
raccogliesse un coltello veniva preso come indicazione delle sue intenzioni
suicide, e a quel punto un cenno del capo indicava al “testimone” della vittima
che era giunto il momento di decapitare il suo amico.
Per quanto venga spesso ripetuto il contrario, il karate non venne sviluppato
nel Giappone feudale per permettere ai contadini di colpire gli oppressivi
samurai attraverso la loro armatura di bambù: infatti, a parte il fatto che
l’armatura dei samurai non era di bambù ma di cuoio e piastre di metallo, il
karate non è una pratica messa a punto nell’antico Giappone. Furono i monaci
cinesi Shaolin della dinastia Tang (618-907 d.C.) a introdurre questa tecnica in
Giappone durante la loro visita a Okinawa, la principale isola dell’antico e
indipendente regno Ryukyu, dove per secoli venne chiamata la “mano cinese” o
la “mano Tang”. Nel 1922, il ministro giapponese dell’Istruzione invitò il
maestro di arti marziali di Okinawa Gichin Funakoshi a dare una dimostrazione
delle sue abilità e il Giappone impazzì per la mano cinese; tuttavia, date le loro
ostilità passate e presenti con la Cina, i giapponesi decisero di ribattezzare il loro
nuovo hobby karate, che significa “mano vuota”, in modo da nascondere le sue
origini cinesi.

UGUISU NO FUN

In passato, per ottenere la tradizionale maschera bianca delle geishe si usavano cosmetici
a base di piombo, ma una volta scoperti i pericoli di questo metallo si ricorse a preparativi
basati sulla farina di riso. Dato che il contrasto con queste maschere dava ai denti uno
sgradevole colorito giallastro, le geishe erano solite pitturarli di nero.
Per rimuovere la maschera bianca si usava l’uguisu no fun, ossia le feci di usignolo. Nel
romanzo del 1997 di Arthur Golden Memoirs of a Geisha (trad. it. Memorie di una geisha,
Longanesi, Milano 1998), poi adattato in film da Steven Spielberg nel 2005, la purezza e
l’uso dell’uguisu no fun sono di importanza così cruciale per un particolare aspetto della
trama che, dopo aver visto il film, qualcuno è uscito dalla sala con l’erronea convinzione
che gli escrementi di uccello fossero un antico trattamento di bellezza giapponese. Da
allora, diversi personaggi ricchi e famosi sono stati disposti a pagare fino a
duecentocinquanta dollari a seduta per un “trattamento facciale da geisha”, nel quale i loro
volti vengono imbrattati di feci di usignolo; forse qualcuno dovrebbe avvertirli che i piccioni
sarebbero felici di farlo gratis.

E proprio come tutti gli occidentali hanno un’immagine mentale del ninja o
del samurai, allo stesso modo basta citare una geisha per evocare immagini di
donne dal volto bianco e dall’abbigliamento elaborato che, in sostanza, svolgono
il lavoro di prostitute d’alto bordo. Questa idea non è soltanto sbagliata – i
giapponesi la considerano ignorante e offensiva – ma non tiene neppure conto
del fatto che, in origine, tutte le geishe erano maschi (e alcune lo sono tuttora).
Le vere geishe, le cui origini risalgono all’inizio del XIII secolo, non hanno
mai avuto nulla a che fare con l’industria del sesso a pagamento. Il nome indica
una persona abile nelle arti, un rango che viene raggiunto dopo circa cinque anni
di studio non retribuito. Fino al XVIII secolo, tutte le geishe erano maschi che
venivano assunti su base individuale per un piccolo incontro di gruppo in una
casa da tè, col compito di intrattenere gli ospiti con la musica, la poesia o magari
anche con storie piccanti dei tempi antichi. A volte le geishe venivano assunte in
gruppi per assicurarsi che le cerimonie private più grandi andassero bene:
dovevano mescolarsi con gli ospiti, accertandosi che tutti si sentissero benvenuti
e importanti, prima di dare il via alle loro diverse forme di intrattenimento.
Immaginare che una geisha, maschio o femmina, andasse a letto con gli ospiti
dietro compenso è come aspettarsi che una famosa diva dell’opera offra questi
stessi servigi quando viene assunta per cantare a una cerimonia privata d’alta
classe in Occidente.
Il primo caso documentato di una donna tra le file delle geishe fu quello di
Kikuya, un’artista che lavorava nel distretto di Fukagawa a Tokyo. Kikuya, che
era già una cantante e una musicista di successo, diventò una geisha intorno al
1750 e divenne talmente famosa da spingere molte altre donne a seguire le sue
orme. A Tokyo, nel 1770 tra le geishe i maschi erano ancora il doppio delle
femmine, ma nel 1775 il loro rapporto diventò di uno a uno e, a partire dal 1800,
le donne superarono gli uomini. La scalata delle donne continuò fino agli anni
Venti del Novecento, quando in Giappone c’erano circa 75.000 geishe femmina
contro meno di un centinaio di maschi. Oggi le cose sono molto diverse: l’unica
“geisha” che i turisti vedranno è una pallida imitazione di quelle autentiche, una
donna dal volto bianco che si mette in posa per le fotografie delle vacanze
indossando un kimono, mentre le vere geishe si tengono lontano dai riflettori.
L’unico modo per visitare una casa di geishe è dietro invito. Dato che il costo
attuale dei cinque anni di formazione può superare i quattrocentomila euro (che
la maiko – la futura geisha – dovrà ripagare al suo sponsor una volta che avrà
iniziato a lavorare), solo per avere una geisha che vi canti un paio di canzoni
nella privacy vigilata di una casa da tè dovrete sborsare qualcosa come duemila
euro.
La papessa Giovanna: una donna sul trono del Pescatore

Con gran dispiacere del Vaticano, la convinzione che nel IX secolo una papessa,
Giovanna, sia salita al soglio pontificio è dura a morire, e al suo presunto regno
vengono dedicati ancora oggi libri e film. Anche se le antiche testimonianze
presentano alcune differenze, la versione standard della storia ci dice che, dopo
la morte di papa Leone IV (17 luglio 855), una donna travestita da uomo,
spacciandosi per il monaco inglese Giovanni Anglico, riuscì a ingannare i
cardinali e a farsi eleggere papa, mantenendo la carica per circa due anni e
mezzo prima di essere pubblicamente smascherata nel modo più drammatico.
Anche se un rapido controllo della cronologia è sufficiente a demolire la
maggior parte della sua presunta storia (se non tutta), ci resta ancora il dubbio su
chi abbia inventato questo racconto e a quali fini.
La prima menzione dello scandalo compare nell’XI secolo con gli scritti di
Mariano Scoto, monaco dell’abbazia di San Martino di Colonia, dove si afferma
(e si noti l’errore di data): «Nell’854 d.C., Giovanna, una donna, succedette a
[papa] Leone [IV] e regnò per due anni, cinque mesi e quattro giorni». Il
secondo a cimentarsi con questa storia fu il cronista del XII secolo Sigeberto di
Gembloux, che dichiarò: «Si dice che questo Giovanni fosse in realtà una
femmina e che concepì un figlio da uno dei suoi servi». Tra tutte le antiche
menzioni, la più famosa e dettagliata è però quella che si trova nella Cronaca dei
pontefici e degli imperatori del vescovo Martino Polono (morto nel 1278), che
scrisse: «Dopo Leone, Giovanni Anglico, un nativo di Magonza [una città
tedesca della Renania, anche se per altri la donna sarebbe stata nativa di Metz,
nella Francia nord-orientale], regnò per due anni, cinque mesi e quattro giorni. Si
dice che questo Giovanni fosse una donna che, da ragazza, era stata portata ad
Atene in abiti maschili da un amante».
Ad Atene, stando a Martino, Giovanna si affermò in campo scientifico e
filosofico fino a non avere eguali; quindi si trasferì a Roma, dove, mantenendo il
suo travestimento, insegnò a molte delle grandi menti dell’epoca, e la fama della
sua virtù e della sua conoscenza crebbe fino a renderla un candidato naturale per
il ruolo di papa. Martino dichiara inoltre che «Mentre era papa, rimase incinta e,
non conoscendo il momento esatto della nascita, finì per partorire per strada
durante una processione da San Pietro al Laterano, in uno stretto vicolo tra il
Colosseo e la chiesa di San Clemente». A quel punto, stando alla maggior parte
dei racconti, la madre e il neonato vennero uccisi dalla folla indignata. «Il papa
evita sempre questa strada [nelle processioni] e molti credono che lo faccia per
l’orrore suscitato da quell’evento.»
È importante tenere a mente che gli scribi e i cronisti medievali erano le
fotocopiatrici di quell’epoca: riproducevano con diligenza le opere degli altri,
inserendovi talvolta qualche aggiunta per venire incontro ai pregiudizi di
chiunque pagasse per il lavoro finito, e quando un errore involontario o una
deliberata falsità riuscivano a entrare nel testo, erano destinati a essere poi
ripetuti meticolosamente per secoli. Inoltre, le persone che nei secoli successivi
volevano dimostrare una particolare tesi, potevano ricorrere alla pratica comune
di inserire nelle opere più antiche delle aggiunte che corroborassero le loro
falsità; a questo proposito è significativo che, in alcune copie manoscritte del
libro di Martino, l’amante che aveva portato Giovanna ad Atene viene indicato
con un termine d’uso posteriore (di cui non si trovano altri esempi prima del
1290), e che anche per riferirsi alla sua gravidanza viene adottata un’espressione
che sarebbe stata usata soltanto a partire dalla metà del XVII secolo.
Occorre poi tener conto della stessa cronologia dei papi: il buco più lungo tra
due pontificati si ebbe di fatto nell’855, l’anno della presunta ascesa di
Giovanna, quando dopo la morte di Leone IV si aprì un periodo di poco dignitosi
litigi sulla sua successione. La prima scelta cadde su Adriano, cardinale di San
Marco, che ebbe però il buon senso di rifiutare l’incarico. La seconda scelta fu
Benedetto, il cui regno venne subito interrotto da un gruppo di vescovi militanti
che lo rinchiusero in prigione per far spazio al loro candidato, Anastasio, un
macchinatore avvezzo a pugnalare alle spalle i suoi rivali che era stato
anatemizzato ed esiliato da Leone IV; ma quando Anastasio e i suoi sostenitori si
resero conto che il loro colpo era fallito in partenza, Benedetto venne
prontamente liberato e rimesso al suo posto come se nulla fosse successo. Questi
giochi di potere durarono dal 17 luglio al 29 settembre 855; così, al papato di
Leone IV (847-855) seguirono quelli di Benedetto III (855-858) e quindi di
Nicola I (858-867), il che non lascia spazio per alcun pontificato biennale negli
anni Cinquanta del IX secolo. Inoltre, non c’è nemmeno un singolo riferimento
storico contemporaneo a un papa Giovanni o a una papessa Giovanna che
avrebbero regnato in quel decennio, e tantomeno a una loro morte violenta per
mano di una folla inferocita nelle strade di Roma.
Coloro che si ostinano a credere nel mito di una papessa nonostante questa
montagna di prove della sua falsità, sottolineano che le processioni papali, che
un tempo passavano per lo stretto vicolo menzionato da Martino Polono, lo
hanno poi evitato per secoli, e fanno notare come quella strada, che appartiene a
un piccolo gruppo di vicoli simili tra il Colosseo e la chiesa di San Clemente, si
chiamasse proprio “vicolo della papessa”. Questo nome, però, non va letto come
un richiamo a un papa donna: il vicolo, infatti, fu chiamato così solo nel X
secolo, quando gli venne dato un nuovo nome in onore della moglie di un ricco
mercante che abitava lì, Giovanni Papa (così che, di fatto, andrebbe letto come
un più prosaico “vicolo della signora Papa”). Purché non si trattasse di girare in
cerchio per tutta la giornata, le processioni papali erano disposte a onorare del
loro passaggio qualche strada adiacente al loro percorso, ammesso che i residenti
la adornassero in modo appropriato e versassero un sostanzioso contributo nelle
casse del Vaticano. A quanto pare, la signora Papa amava la pomposità della
cerimonia della processione papale e il signor Papa faceva in modo di
accontentarla; una volta morti i coniugi Papa, però, per il Vaticano non ci fu più
nessun incentivo a passare per quello stretto vicolo.
C’è poi la questione enigmatica di una sedia di marmo (in realtà è di porfido,
NdT) simile a un trono, con un grosso buco nella seduta, custodita nel museo
Vaticano (in origine ce n’erano due, e si pensa che l’altra sia stata portata via da
Napoleone). I sostenitori del mito della papessa affermano che queste sedie
vennero costruite dopo l’episodio di Giovanna per assicurarsi che nessun’altra
donna potesse più perpetrare una frode del genere. Stando alla loro ricostruzione,
dopo che il candidato papale era stato scelto, doveva sedersi su una di queste
sedie con i genitali esposti, in modo che l’assemblea degli elettori potesse
controllarli da una speciale camera d’osservazione situata al piano sottostante. A
quel punto, il diacono rimasto di sopra con il candidato doveva mettere una
mano sotto la sedia, tastare gli attributi papali e dichiarare «Testiculos habet et
bene pendentes» («Ha i testicoli, e pendono bene»), tranquillizzando così tutti gli
astanti. È inutile dire che non c’è mai stata nessuna “cerimonia” di questo
genere. Qualcuno sostiene che queste sedie fossero semplicemente delle
comode, ma il fatto che i montanti siano inclinati all’indietro di 45 gradi lo rende
improbabile; altri ritengono che fossero sedie da parto. In ogni caso, risalgono a
molto tempo prima del presunto pontificato di Giovanna e, di fatto, dell’avvento
dello stesso Vaticano, il che ci riporta alla domanda centrale: chi ha inventato
questa sciocca leggenda, e perché?
SUL GRANDE SCHERMO

L’avversione del Vaticano per l’idea che una donna possa aver abbindolato i cardinali
convincendoli a eleggerla papa è stata esacerbata da tutta una serie di libri, film e opere
teatrali che hanno continuato e continuano a presentare questa leggenda come un dato di
fatto.
Il film più recente girato su questo tema è il tedesco La papessa (2009), con Johanna
Wokalek nei panni di Giovanna, che ha suscitato lo sdegno del Vaticano per essere stato
reclamizzato come “una storia vera”. Il quotidiano cattolico «L’Avvenire» lo ha stroncato
come una stupida bufala e un’opera poco visionaria, ma ciò non gli ha impedito di
conquistare il successo al botteghino e di piazzarsi nella top ten cinematografica italiana
per il 2009-2010, collocandosi al secondo posto subito dopo Sex and the City 2.

Agli inizi del XVI secolo, in Europa c’era un crescente malcontento riguardo
al comportamento del Vaticano, in particolare in relazione alla pratica della
vendita delle indulgenze (con le quali i ricchi, pagando, potevano saltare il
periodo che avrebbero dovuto trascorrere in Purgatorio in espiazione dei loro
peccati e andare diritti in Paradiso). Quando vennero introdotte delle indulgenze
che coprivano anche i peccati non ancora commessi – per me due omicidi e uno
stupro, grazie… – fu proprio questa truffa organizzata dal Vaticano per riempire i
suoi forzieri a portare, più di ogni altra cosa, alla nascita del movimento di
riforma protestante e, poco tempo dopo, della Chiesa protestante stessa.
Determinato a farsi strada, questo movimento fece tutto il possibile per infangare
il nome dei suoi avversari a Roma. Il primo colpo propagandistico di successo
dei suoi aderenti fu la diffusione di storie raccapriccianti sull’Inquisizione
spagnola, che non era affatto un’istituzione draconiana o punitiva come venne
dipinta dalla macchina protestante; quindi, escogitarono l’idea di promuovere
una leggenda che per il Vaticano rappresentava l’anatema assoluto, quella di un
papa femmina.
Lo storico Edward Gibbon, autore di The History of the Decline and Fall of
the Roman Empire (1776; trad. it. Declino e caduta dell’impero romano,
Mondadori, Milano 1990), sostenne che l’ispirazione per questa leggenda
potrebbe essere stata data dallo scandalo vaticano noto come la Pornocrazia
(“governo delle prostitute”), che iniziò con l’ascesa di papa Sergio III nel 904, in
un periodo opportunamente vicino a quello del presunto pontificato di Giovanna.
Sergio, un uomo debole e insicuro, cadde subito sotto l’influenza di Teodora, la
bella ma perversa moglie del console romano Teofilatto, conte di Tuscolo, che
sfruttò la propria attrattiva sessuale per piegare alle sue ambizioni Sergio e altre
eminenti figure del Vaticano. Stufatasi presto di essere la concubina di Sergio,
Teodora lasciò quel compito alla sua figlia quindicenne Marozia, che nonostante
la sua giovane età si diede subito da fare nell’orchestrare un gran numero di
omicidi politici in Vaticano, tanto da far sembrare i futuri Borgia come dei
dilettanti.
Il figlio illegittimo da lei avuto con Sergio sarebbe diventato papa Giovanni
XI (931-35), e due dei suoi nipoti, due dei suoi bisnipoti e un suo trisnipote
sarebbero a loro volta saliti sulla cattedra di Pietro (un’impresa senza pari nella
storia del Vaticano). Marozia aveva il titolo di senatrice e patrizia di Roma, che
le era stato conferito da papa Giovanni X (914-28), un altro degli amanti di sua
madre. Dopo la sua morte, nel 937, la Pornocrazia ebbe più o meno termine.
I propagandisti protestanti pensarono che se una donna aveva di fatto stretto
nelle proprie mani il vero potere dietro al trono papale, avrebbero potuto
rielaborare questo scandalo presentandolo nella forma di una papessa vera e
propria; a quel punto, tutto quello che dovevano fare era inserire nei testi antichi
qualche opportuno riferimento alla signora in questione. Ricordate la strana
presenza, in alcune copie dell’opera di Martino Polono, di termini per indicare
l’amante e la gravidanza che fino ad allora non erano mai stati usati? Andrebbe
anche detto che in alcune delle più antiche copie conosciute della sua Cronaca
dei pontefici e degli imperatori, quelle tenute al sicuro dalle manomissioni, non
compare nessuna menzione della papessa Giovanna. Inoltre, molti degli altri
riferimenti a Giovanna presenti in altre opere antiche compaiono sotto forma di
note a piè di pagina o a margine, scritte in una calligrafia del tutto diversa da
quella del corpo del testo. Così, se accettiamo l’idea di Gibbon secondo cui, nel
XVI e XVII secolo, la macchina della propaganda protestante riportò
semplicemente in vita la Pornocrazia sotto la forma della papessa Giovanna e
introdusse delle alterazioni in diversi manoscritti medievali per corroborare
questa leggenda, tutti i conti tornano.
La Rosa di Tokyo: la donna che non è mai esistita

Lo spettro della fantomatica Rosa di Tokyo, che continua tuttora a fare capolino
nella cultura popolare, richiama alla mente l’idea di una seduttrice giapponese
dalla voce vellutata che, durante la Seconda guerra mondiale, trasmetteva ogni
giorno alla radio i suoi messaggi di scherno per le truppe americane che
combattevano l’esercito e la marina giapponesi nel Pacifico. Considerando tutti i
soldati americani che avevano dichiarato di aver dovuto sopportare le sue
provocazioni sulla loro imminente sconfitta e la loro morte, o i suoi scherni sulle
loro mogli che a casa li stavano tradendo, molti resteranno sorpresi di scoprire
che, di fatto, la misteriosa Rosa di Tokyo non è mai esistita. Eppure, alla fine
della guerra, l’amministrazione americana, per evitare il suicidio politico di
bollare i suoi eroi di ritorno dal fronte come una manica di isterici vittime di
un’allucinazione, aveva comunque bisogno di additare qualcuno al pubblico
come la Rosa di Tokyo; il bersaglio scelto dal presidente Truman fu così la
minuta Iva Toguri, arrestata e incarcerata con l’accusa di essere stata quella
donna che in realtà non era mai esistita.
Nata il 4 luglio 1916 da una coppia di giapponesi che abitavano a Los
Angeles, l’americana Iva era una fan sfegatata del baseball e si era laureata
all’università della California con una tesi in zoologia. Nel luglio del 1941, era
andata in Giappone per accudire una zia morente e si era ritrovata bloccata lì in
seguito al bombardamento giapponese di Pearl Harbor, che aveva portato
all’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale. Mentre in America
i suoi genitori venivano internati come stranieri ostili, Iva dovette affrontare un
trattamento simile in Giappone a causa del suo rifiuto di rinunciare alla
cittadinanza americana. Alla fine, venne liberata e trovò lavoro come dattilografa
a Radio Tokyo, dove conobbe e sposò Filipe d’Aquino. La stazione trasmetteva
programmi di propaganda, tra cui in particolare uno show quotidiano intitolato
L’ora zero, condotto da un prigioniero di guerra australiano, il maggiore Charles
Cousens, che prima del conflitto era stato una personalità nell’ambiente
radiofonico di Sydney. Era stato prelevato dal suo campo di prigionia dal
maggiore Shigetsugu Tsuneishi, della Divisione per la guerra psicologica
dell’esercito giapponese, che gli aveva detto che se non avesse collaborato lui e
altri dieci prigionieri scelti a caso sarebbero stati fucilati.
Cousens, deciso a fare tutto il possibile per sabotare l’iniziativa, venne messo
in squadra con il capitano Wallace Ince e il tenente Norman Reyes, dell’esercito
americano. Arrivato a Radio Tokyo, Cousens capì che Iva la pensava come lui e
la “reclutò” nel suo programma, convincendo i giapponesi che la sua familiarità
con la lingua colloquiale americana sarebbe stata una risorsa preziosa. Il compito
di Iva non consisteva in nient’altro che fare qualche collegamento e introdurre i
dischi della selezione musicale, cosa che faceva sotto lo pseudonimo di “Annie
l’orfana”. Usando una combinazione di intonazioni di voce, sottili allusioni e
slang, i quattro facevano tutto il possibile per assicurarsi che gli ascoltatori
americani ridessero a crepapelle. Spesso Iva si rivolgeva ai suoi ascoltatori
chiamandoli “i miei compagni orfani”, prendendosi anche il rischio di ricordare
al pubblico, ogni volta che il controllore giapponese usciva dallo studio, che
stavano ascoltando una trasmissione di propaganda. Spendeva poi gran parte del
suo magro stipendio in medicine di base, che passava sottobanco a Cousens
perché le portasse al campo. Se fosse stata scoperta a fare questo genere di cose,
sarebbe stata con ogni probabilità fucilata.
Nel 1945, dopo la capitolazione del Giappone, il generale MacArthur atterrò
all’aeroporto di Atsugi, a una trentina di chilometri da Yokohama, portando con
sé un gruppo di giornalisti affamati di scoop, tutti determinati a intervistare il
generale Tojo e a rintracciare quel fantasma noto come la Rosa di Tokyo. Due
dei membri più importanti del suo entourage erano Clark Lee, dell’International
News Service, e Harry Brundidge, della rivista «Cosmopolitan»; quest’ultimo
aveva messo in giro la voce che avrebbe dato duecentocinquanta dollari a
chiunque fosse stato in grado di indirizzarlo sulla pista giusta, e altri duemila alla
donna stessa in cambio di un’intervista esclusiva. Data la devastazione
economica in cui versava il Giappone nel 1945, queste somme potevano fare la
differenza tra la vita e la morte: per fare un confronto, la paga di Iva a Radio
Tokyo era l’equivalente di sette dollari al mese. Fu quindi forse inevitabile che
una collega di Iva alla radio, Leslie Nakashima, finisse per vendere il suo nome a
Brundidge.
Non avendo mai sentito parlare della Rosa di Tokyo e avendo lavorato con la
convinzione che i suoi limitati contributi satirici a L’ora zero l’avessero resa una
sorta di eroina agli occhi delle forze americane, Iva, a sua volta pazza di gioia
alla prospettiva di ricevere l’equivalente di cinquantamila dollari odierni per una
singola intervista, accettò con entusiasmo l’offerta di Brundidge, confermandogli
che era di fatto la Rosa di Tokyo. Con crescente sorpresa e agitazione del
giornalista, però, Iva scoppiò a ridere a ogni allusione alla sua voce vellutata da
femme fatale e reagì con violenza alle affermazioni secondo le quali le sue
trasmissioni erano state di detrimento per gli Stati Uniti o le loro forze; tutto ciò
di cui voleva parlare erano i complotti che aveva ordito assieme a Cousens per
far sì che gli ascoltatori capissero che tutto andava letto in chiave ironica.
Quindi, spinto nel panico dal rifiuto dei suoi direttori di sentirsi vincolati dal
contratto che aveva chiaramente firmato con una signora nessuno (verso la quale
si ritrovava così ad avere un debito personale di duemila dollari), Brundidge
portò tutte le sue registrazioni e i suoi appunti al generale Elliott Thorpe,
comandante dell’Intelligence Corps degli Stati Uniti in Giappone, e lo incitò ad
arrestare Iva con l’accusa di essere la traditrice nota come la Rosa di Tokyo.
Inoltre, nel caso Thorpe non si fosse mosso, Brundidge fece anche in modo che
l’ingenua Iva concedesse un’intervista di gruppo a più di trecento reporter,
violando così la clausola di esclusività del loro contratto e rendendolo pertanto
nullo. Iva tenne la sua intervista allo Yokohama Bund Hotel il 5 settembre 1945;
era convinta di essere diventata una celebrità, e tutti i presenti si chiedevano
come mai fosse così contenta. La donna che avevano davanti non aveva
chiaramente alcuna idea su chi o che cosa rappresentasse la Rosa di Tokyo per
gli americani.
Intanto, in America, l’editorialista di destra Walter Winchell, una figura
popolare che sembrava trarre un particolare piacere nell’usare il suo potere
mediatico per stroncare le carriere della gente, si buttò sulla storia, chiedendo
alla radio e alla televisione che Washington facesse arrestare Iva per tradimento
e la riportasse negli Stati Uniti come prigioniera. A Tokyo venne adottata la
strategia del bastone e della carota – minacce e bustarelle – con due dipendenti
di origini americane di Radio Tokyo, Kenkichi Oki e George Mitsushio, che
erano stati superiori di Iva; nelle settimane precedenti il processo della donna,
vennero addestrati con cura a ripetere in aula le esatte parole che erano state loro
insegnate. Così, nel processo che ebbe inizio il 5 luglio 1949, i due
testimoniarono che Iva aveva più volte tradito gli Stati Uniti nelle sue
trasmissioni, menzionando di frequente delle specifiche unità americane e
indicando le loro posizioni. In seguito, quando ammisero che la loro
testimonianza era stata un cumulo di menzogne, in propria difesa i due dissero
che loro, a differenza di Iva, avevano rinunciato alla loro cittadinanza americana,
che erano condannati a rimanere in Giappone sotto l’occupazione degli Stati
Uniti e che i militari gli avevano fatto capire nel modo più chiaro quanto sarebbe
diventata difficile la loro vita e quella delle loro famiglie se non avessero fatto
tutto quello che era stato loro ordinato.

AXIS SALLY
Nata a Portland, nel Maine, Mildred Gillars fu la vera traditrice americana che trasmise dai
microfoni di Berlino durante la Seconda guerra mondiale sotto lo pseudonimo di Axis Sally
(«Sally dell’Asse»), chiudendo spesso i suoi interventi salutando con scherno il presidente
Roosevelt e tutti i suoi “amichetti ebrei”.
Era la Gillars, di fatto, a pungolare i militari americani con i suoi richiami alla loro
imminente sconfitta. Inoltre, faceva regolarmente visita ai campi dei prigionieri di guerra
per raccogliere delle “interviste” demoralizzanti, condotte sotto la minaccia di una pistola,
che avrebbe quindi usato nella sua trasmissione, intitolata Casa dolce casa.
Braccata tra le rovine della Germania postbellica, la Gillars fu infine riconsegnata agli Stati
Uniti, dove, il 10 marzo 1949, venne condannata a un periodo tra i dieci e i trenta anni di
prigione e a un’ammenda di diecimila dollari. Nel 1959 avrebbe potuto ottenere la libertà
condizionale ma, non volendo affrontare il pubblico, si rifiutò di chiederla; così, nel 1961,
l’Alderson Reformatory, nella Virginia Occidentale, dovette in pratica buttarla in strada per
riuscire a sbarazzarsi di lei.
Dopo aver “trovato Dio”, la Gillars andò a vivere nel convento della Nostra Signora di
Betlemme a Columbus, nell’Ohio, dove insegnò il tedesco fino alla sua morte, nel 1988.

Persino il giudice, scelto con attenzione dopo una parolina da Washington,


avrebbe in seguito confessato di aver operato sotto un’agenda politica che aveva
reso il processo a Iva un’autentica vergogna. Il giudice distrettuale americano
Michael Roche riconobbe di aver escluso ogni prova «che avrebbe potuto
confondere la giuria riguardo alla sua colpevolezza» e di aver quindi intimato ai
giurati di dichiarare la donna colpevole riguardo all’ultima accusa rimasta dopo
che questi ultimi lo avevano fatto infuriare dichiarandola innocente in relazione
alle altre sette imputazioni, formulate in modo vago. Tra le prove che Roche non
aveva ammesso c’era quella di Cousens, che dopo essere stato prosciolto da ogni
accusa al suo ritorno in Australia (dove tutti si erano fatti una gran risata
sentendo ciò che lui e Iva avevano organizzato alla radio), era andato negli Stati
Uniti a proprie spese per testimoniare che la donna non aveva fatto altro che
qualche collegamento, mettendoci dentro un po’ di commenti sarcastici. Non
vennero accolti neppure i ripetuti tentativi della difesa di portare come prova un
rapporto dell’Ufficio per l’informazione di guerra degli Stati Uniti dell’agosto
del 1945, pubblicato sul «New York Times», che dichiarava: «Non esiste
nessuna Rosa di Tokyo; questo nome è soltanto un’invenzione dei soldati. I
funzionari del governo che ascoltavano le trasmissioni per ventiquattr’ore al
giorno non hanno mai sentito le parole “Rosa di Tokyo” su nessuna radio
dell’Estremo Oriente controllata dai giapponesi».
Senza dubbio, la giuria sarebbe rimasta confusa anche sentendo che il
generale Theron L. Caudle, viceprocuratore generale dell’esercito americano,
aveva riferito all’ufficio del procuratore generale:

Su questo caso sono state condotte accurate indagini e sembra chiaro che l’identificazione
della Toguri con la “Rosa di Tokyo” sia infondata, in quanto la sua attività non consisteva in
nient’altro che nell’annunciare i pezzi musicali selezionati. Sono stati trovati alcuni nastri e un
gran numero di copioni delle sue trasmissioni, e da questi documenti – nonché dalle
trascrizioni delle puntate del suo programma, monitorate dalla Commissione federale per le
comunicazioni – è emerso che non faceva nient’altro che introdurre i dischi riprodotti. È mia
opinione che le attività della Toguri, soprattutto alla luce della natura innocente delle sue
trasmissioni, non siano sufficienti a metterla sotto accusa per tradimento.

Anche sei mesi prima del suo arresto, i Servizi legali dell’VIII armata
riferivano: «Non ci sono prove che abbia mai salutato le unità per nome, che
abbia indicato la loro posizione o che abbia predetto movimenti o attacchi
militari tali da suggerire che avesse accesso a informazioni e piani militari
segreti, come avrebbe invece fatto la Rosa di Tokyo di cui parlano voci e
leggende».
Nulla di tutto questo poté però salvare Iva dalla determinazione
dell’amministrazione Truman a dare al popolo ciò che voleva; i pochi che
parlarono in sua difesa se ne pentirono, e lei venne gettata in pasto ai lupi con
una condanna a dieci anni di prigione e a diecimila dollari di ammenda.
Paradossalmente, mentre gli americani riversavano la loro bile sulla presunta
“straniera” Iva, del tutto innocente, la vera traditrice radiofonica americana,
Mildred Gillars, venne imprigionata senza nessun clamore. Di fatto, era stata
questa donna bianca del ceto medio nata nel Maine, che trasmetteva da Berlino
con lo pseudonimo di “Axis Sally”, a provocare le truppe americane con storie di
sconfitte e di tradimenti coniugali, il tutto con quella voce sensuale e seducente
che aveva avuto modo di coltivare nell’America prebellica recitando in qualche
ruolo secondario.
Scontata la sua condanna, Iva venne liberata e si stabilì a Chicago, dove nel
1977 ricevette una tardiva ma comunque gradita riabilitazione completa dal
presidente Ford. Poco prima della sua morte, nel 2006, le venne anche assegnato
il premio civico Edward J. Herlihy dal Comitato americano dei veterani della
Seconda guerra mondiale, che la lodò per lo stoico silenzio che aveva mantenuto
nel corso di tutte le prove a cui era stata ingiustamente sottoposta, durante le
quali non aveva mai detto nemmeno una singola parola contro il suo Paese.
Robin Hood: realtà o folclore?

Robin Hood è senza dubbio una delle figure più iconiche della cultura popolare
britannica, ma l’uomo al cuore di questa leggenda (sempre ammesso che sia
esistito, e che non sia una figura composita o il semplice frutto di un’invenzione)
resta impossibile da identificare. Nell’immaginario popolare, Robin sarebbe
stato un contemporaneo di re Riccardo I (che regnò dal 1189 al 1199), il quale,
ansioso di incontrare un suddito così fedele – per quanto un po’ scapestrato – si
camuffò da mercante e si mise a cavalcare nella foresta di Sherwood facendo da
“esca” per attirarlo. Tuttavia, dato che il francofono Riccardo non sapeva dire
una parola in inglese (nel suo intero regno, trascorse solo cinque mesi scarsi in
Inghilterra), l’ipotesi di un qualunque tipo di incontro tra i due è improbabile.
Inoltre, la prima menzione di Robin Hood il fuorilegge si trova in Piers
Plowman (Pietro l’aratore), un poema allegorico scritto da William Langland
sul finire degli anni Settanta del Trecento, e la maggior parte delle ballate
dedicate a Robin Hood, scritte per la prima volta su pergamena negli anni
Cinquanta del Quattrocento, fanno riferimento a un re chiamato “Edoardo”,
senza però specificare il suo numero dinastico.
In linea con la radicata ammirazione del pubblico per i criminali di un certo
tipo – Jessie James, Billy the Kid, Dick Turpin – le persone amano immaginare
Robin come l’uomo che derubava esclusivamente i ricchi per dare ai poveri.
Tuttavia, in tutte le ballate originali c’è soltanto un singolo riferimento a un
simile episodio di benevolenza disinteressata, che sembra quindi essere l’unica
base dell’idea che questo fosse il modo di agire standard di Robin. Di fatto,
stando a queste ballate, né Robin Hood, né Little John, né gli altri membri della
sua allegra compagnia (i “Merry Men”) erano il tipo di gente che uno vorrebbe
incontrare nel cuore della notte. “Merry Men” è una corruzione dell’originale
Merrie Mein o Meinie, dove la prima parola significava allora “adatto allo
scopo” (nobile o meno che fosse) e la seconda denotava un gruppo di individui.
Nella ballata Robin Hood and the Monk, pubblicata per la prima volta nel
1450 ma conosciuta già da prima attraverso la tradizione orale, Robin,
avventuratosi a Nottingham, viene riconosciuto da un monaco che aveva
derubato, che lancia l’allarme facendolo così arrestare dagli uomini dello
sceriffo. Quando lo vengono a sapere, Little John e Much il figlio del mugnaio
tendono un agguato al monaco collaborazionista e lo fanno a pezzi, uccidendo
anche un bambino che aveva assistito alle loro azioni. Per quanto riguarda
Robin, in molti passi delle vecchie ballate si dice che aveva mutilato le sue
vittime e i suoi prigionieri tagliando loro il naso e/o le orecchie; e una volta,
dopo un agguato a un gruppo di cui faceva parte anche un giocoliere, trovò
quest’ultimo talmente noioso che lo inchiodò a un albero per le mani e lo lasciò
lì a morire.
All’epoca la gente si faceva molti meno problemi riguardo alla morte dei suoi
eroi, e queste antiche ballate, tra cui A Gest of Robyn Hode, ci raccontano che,
nei suoi ultimi giorni, Robin, in cattive condizioni di salute, andò a cercar rifugio
da una priora, che per sua sfortuna gli diede un lento veleno che ne accelerò la
morte. Little John, che rimase al suo fianco fino alla fine, aprì la finestra in modo
che Robin potesse scoccare un’ultima freccia e lui, col suo ultimo respiro, lo
implorò di seppellirlo là dove sarebbe caduta. Nel dramma The Downfall of
Robert Earl of Huntingdon, la priora è di Kirklees, e di fatto nei terreni del
monastero di Kirklees (che non si trova nel Nottinghamshire ma nel West
Yorkshire) c’è una tomba a lui dedicata.
Così, il Robin Hood originale era un tipico uomo della sua epoca medievale, e
i racconti delle sue avventure erano pensati per un pubblico di pari brutalità che
ascoltava i resoconti delle sue sanguinarie imprese con divertita ammirazione.
Tutti i riferimenti di questo genere a Robin, inadatti ai gusti più delicati dei
secoli successivi, vennero poi nascosti sotto il tappeto e restano oggi altrettanto
sconosciuti. Di fatto, è il Robin del XVI e del XVII secolo a essersi evoluto nel
personaggio che conosciamo attraverso la cinematografia moderna.
L’elevazione di Robin dalle file dei contadini o dei piccoli proprietari terrieri
compare per la prima volta nelle Chronicles at Large (1569) di Richard Grafton,
tipografo reale sotto Enrico VIII, la stessa fonte che indica per la prima volta
Edoardo di Woodstock come il “Principe nero”, senza però spiegare il perché.
Grafton presenta il suo Robin come un conte caduto in povertà che, dopo aver
perso le sue tenute e la sua fortuna per via di false accuse di tradimento, è
costretto a ritirarsi nei boschi e a vivere da bandito. Questo nuovo e più
complesso Robin delle Chronicles di Grafton venne poi ulteriormente sviluppato
nei drammi di Anthony Munday, che lo presentò come Roberto, conte di
Huntingdon, innamoratosi della graziosa lady Matilda in The Downfall of Robert
Earl of Huntingdon (1598). Questo è il primo accenno a una storia sentimentale
nella vita di Robin; inoltre, Matilda cambia il proprio nome quando si unisce ai
fuorilegge, diventando – nella seconda metà del dramma – lady Marian.
Quest’opera costituisce dunque l’unica fonte autorevole dell’idea di un triangolo
amoroso tra Robin, Marian e il malvagio principe Giovanni, la cui
determinazione a sposare la donna e ad acquisire il suo diritto di nascita al trono
è diventata centrale in moltissime ricostruzioni moderne. Così, sembra che di
fatto Robin fosse un personaggio evanescente, costretto a cambiare con il mutare
dei costumi. Ma è possibile che, alla base di queste leggende, ci fosse una
persona reale?
Nella fioritura dell’industria turistica che accompagnò l’età vittoriana, lo
Yorkshire non sembrava preoccuparsi del fatto che Nottingham insistesse sul
collegamento tra Robin Hood e la foresta di Sherwood; lo Yorkshire poteva
riempire le proprie casse con la zona collinare delle Dales e con l’importante
attrazione delle terme di Harrogate. Solo in tempi più recenti, con più di mezzo
milione di persone che ogni anno si recano a Nottingham per un tour nella
foresta di Sherwood, lo Yorkshire ha dato il via alla battaglia per riprendersi il
proprio figlio nativo. E, sempre ammesso che al cuore della leggenda ci sia una
persona reale, ci sono molti elementi che suggeriscono che questa persona
venisse proprio da quella contea del nord dell’Inghilterra.
A circa otto chilometri a sud di Whitby c’è il pittoresco villaggio di pescatori
di Robin Hood’s Bay, noto con questo nome fin dall’inizio del XIV secolo. Nel
1324, Luigi I, conte delle Fiandre, mandò la prima di molte lettere di lamentela a
Edoardo III, protestando per gli atti di pirateria di cui erano regolarmente vittime
i pescherecci fiamminghi da parte degli abitanti del villaggio, che si prendevano
tutto il loro carico. Il primo riferimento a un uomo chiamato Robin Hood si trova
nei registri dei procedimenti legali dell’Assise di York; il documento, datato
1225, descrive nei dettagli la confisca di proprietà per un valore di trentadue
scellini e sei penny a carico di una persona indicata alternativamente come
Robin Hood o Hod, in pagamento dei debiti con le tenute della chiesa di San
Pietro, prima che venisse messo al bando come fuorilegge.

IL VERDE DI LINCOLN

Per quanto possa sembrare appropriato che i banditi della foresta si vestissero di verde, e
anche se nel corso dei secoli sono stati fatti numerosi riferimenti al colore noto come
“verde di Lincoln” (Lincoln Green) degli abiti di Robin, questa credenza è di fatto il frutto di
un fraintendimento nato da una terminologia molto confusa. Anche se la città di Lincoln
divenne in effetti famosa per un tessuto verde, non ci sono menzioni di questo verde di
Lincoln prima del 1510, ossia un po’ tardi perché Robin possa averlo indossato.
Il tessuto per cui Lincoln era di fatto famosa ai tempi di Robin aveva un colore rosso
luminoso chiamato Lincoln Greyne, o talvolta Grene, un nome che si basava sul fatto che
per ottenere questa tinta scarlatta ben fissata venivano usati dei granelli (grenes) rossi di
carminio, un procedimento che rendeva questo tessuto molto ricercato e costoso.
Gli antichi riferimenti agli abiti di tessuto Lincoln Grene o Lincoln Greyne indossati da
Robin vennero poi fraintesi dai lettori successivi che, alla luce della popolarità acquistata
nel XVI secolo dal verde di Lincoln, presunsero che grene o greyne fossero forme
arcaiche di green.

Stando a David Baldwin – membro della Royal Historical Society e


specialista di storia medievale che aveva ipotizzato che Riccardo III fosse
sepolto sotto il parcheggio del convento dei frati minori di Leicester una trentina
d’anni prima che la sua tomba venisse di fatto scoperta – il più probabile
candidato di York come la persona alla base della leggenda sarebbe Roger
Godberd, un fuorilegge noto per essere stato attivo a Sherwood sul finire degli
anni Sessanta del Duecento. La Great North Way, che collegava Londra a York
passando proprio attraverso la foresta di Sherwood (che, di fatto, non era una
sterminata distesa di boschi quanto piuttosto uno spazio aperto selvaggio; a quei
tempi, forest era il termine usato per indicare una riserva di caccia reale), era una
strada molto trafficata che attirava come una calamita i tipi come Godberd.
Come il Robin Hood della leggenda, quest’ultimo era a capo di una banda di
malviventi che derubavano e uccidevano i viandanti e gli uomini di chiesa a
Sherwood, cacciavano di frodo i cervi del re e una volta vennero catturati dallo
sceriffo di Nottingham, riuscendo però in seguito a fuggire. Molte delle più
antiche ballate affermano che Robin Hood diventò un fuorilegge dopo aver dato
il suo appoggio alla fallita rivolta del 1263 contro Enrico III, guidata da Simon
de Montfort; e, di fatto, sappiamo che Godberd aveva sostenuto quella ribellione
prima di essere costretto a darsi alla macchia. Il Robin della leggenda è
strettamente legato a Loxley, nel South Yorkshire (viene anche indicato come
Robin di Loxley), e Godberd è sepolto a Loxley nel Warwickshire, cosa che –
nonostante la confusione tra le due località omonime – potrebbe costituire un
ulteriore elemento di connessione.
Dati i precedenti successi di Baldwin nello scoprire le sorti dei personaggi
medievali, potremmo scommettere su Godberd; tuttavia, in attesa che lo
Yorkshire si decida sulla sua prossima mossa, il carrozzone di
Nottingham/Sherwood andrà comunque avanti.
2.
Viaggi di scoperta
Il Milione: le ciarle cinesi di Marco Polo

La maggior parte di ciò che sappiamo – o pensiamo di sapere – su Marco Polo


viene dal vecchio ciarlatano stesso e dal racconto del suo viaggio, pubblicato col
titolo di Il Milione (che già i primi scettici avevano ribattezzato “Il milione di
menzogne”). Sostenendo di essere appena tornato da una lunga permanenza in
Cina, Polo riapparve a Venezia nel bel mezzo della guerra tra quella città e
Genova e fu probabilmente catturato dai genovesi nel 1296 al largo delle coste
anatoliche. Affermò di aver dettato il suo libro, noto anche come I viaggi di
Marco Polo, al suo compagno di prigione Rustichello da Pisa, un famoso
scrittore di avventure romanzate che era stato catturato dai genovesi già nel
1284. Se le cose stanno così, è stupefacente che nell’intero manoscritto ci siano
solo diciotto frasi in prima persona; in ogni caso, a prescindere da tutto questo, il
libro – che viene tuttora pubblicato – fruttò a Polo un bel po’ di soldi.
L’opera di Polo, che fu controversa fin dall’inizio, polarizza ancora il dibattito
accademico, con studiosi come Frances Wood, direttrice della sezione cinese
della British Library fino al 2013, tra i principali sostenitori della tesi «non è mai
stato in Cina». Il libro in cui la Wood espone le sue argomentazioni, Did Marco
Polo Go to China? (1995), attira ancora le obiezioni di altri sinologi di pari
fama, come i professori Morris Rossabi e Hans Vogel (rispettivamente, delle
università della Columbia negli Stati Uniti e di Tubinga in Germania). Va detto
che Rossabi e Vogel non sono certo gli unici a sostenere le affermazioni di Polo,
che ai suoi tempi, come potremmo aspettarci, aveva respinto tutti i commenti
negativi dichiarando sul letto di morte: «Non ho scritto la metà di ciò che ho
visto, perché sapevo che non sarei stato creduto». Questo è senza dubbio uno di
quei misteri storici che non troveranno mai una soluzione definitiva.
Nato, a quanto si dice, in una ricca famiglia di mercanti viaggiatori veneziani,
alla matura età di diciassette anni Marco partì per la Cina nel 1271 assieme al
padre Niccolò e allo zio Maffeo; stando al suo racconto, i tre sarebbero stati i
primi europei a essere stati ammessi alla corte del Khan, che all’epoca era
Kublai Khan. Quello stesso anno, il signore della guerra mongolo aveva esteso il
suo dominio sull’odierna Cina settentrionale; avrebbe completato la conquista
del resto del Paese nel 1279, fondando quindi la dinastia Yuan. Stando al
Milione, Marco si guadagnò la piena fiducia del Khan, al punto che quest’ultimo
gli diede una replica del suo sigillo personale e lo mandò a condurre varie
missioni diplomatiche che lo portarono a viaggiare in lungo e in largo. Ancora
nemmeno trentenne, Marco fece da intermediario tra il Khan e papa Gregorio X
dopo che nel primo era nato un interesse per il cristianesimo, e fu per tre anni
governatore della città di Yangzhou.
Anche ammesso che i Polo siano giunti fino in Cina, non sarebbero
comunque stati i primi europei – e neanche solo i primi italiani – a essere
ammessi alla presenza di un Khan. Nel 1246, otto anni prima della nascita di
Marco, l’umbro Giovanni da Pian del Carpine si era infatti già recato da Güyük
Khan, nipote di Genghis Khan, con un messaggio di apertura da parte di papa
Innocenzo IV; Güyük, tuttavia, respinse le richieste di abbracciare il
cristianesimo, dicendo che si aspettava che fossero invece il papa e tutti i leader
occidentali a giurargli fedeltà, e rimandò Giovanni da Innocenzo IV con una
lettera scritta in mongolo, arabo e latino che esponeva la sua posizione nei
termini più chiari. Nel 1254, l’anno della nascita di Marco, l’esploratore e
missionario fiammingo Guglielmo di Rubruck incontrò Batu Khan e Möngke
Khan prima di far ritorno in patria e pubblicare il suo Viaggio di Guglielmo di
Rubruck nelle regioni orientali del mondo, in quaranta capitoli, un bestseller
dell’epoca ancora considerato come un capolavoro della letteratura geografica
medievale. Di fatto, è probabile che sia stato proprio il successo editoriale di
questo libro a incoraggiare Polo ad avventurarsi in un’impresa simile.
Polo, inoltre, esagera di parecchio nel parlare della ricchezza e
dell’importanza della sua famiglia a Venezia. Anche se in seguito lui riuscì di
fatto ad arricchirsi, è chiaro che la sua era una famiglia di piccoli mercanti. E per
quanto riguarda le sue affermazioni sulle missioni diplomatiche che aveva svolto
tra il Khan e il papa, né nei registri cinesi né in quelli vaticani si fa menzione di
tali ambascerie; allo stesso modo, anche le cronache di Yangzhou non accennano
a un suo governatorato.
Anche i suoi racconti dei presunti viaggi in Cina lasciano adito a molti dubbi,
in quanto i tempi impiegati per compierli non corrispondono alle distanze note
tra i punti citati e alla durata di altri viaggi documentati. Inoltre, per quanto
affermi di essersi trattenuto in Cina per più di diciassette anni, non dimostra la
benché minima familiarità con nessuna delle lingue allora parlate nel regno del
Khan; per questa ragione, è improbabile che abbia potuto condurre le numerose
discussioni diplomatiche a cui sostiene di aver preso parte. Per di più, nel suo
libro indica diverse località cinesi usando i loro nomi persiani al posto di quelli
adottati dagli abitanti del posto.

DALLA CROAZIA A VENEZIA


Data la cortina fumogena che circonda la vita di Marco Polo, non c’è da stupirsi che
nessuno sia del tutto sicuro riguardo al luogo di origine della sua famiglia. Alcune fonti
hanno ipotizzato che i Polo si fossero trasferiti a Venezia dalle terre dell’odierna Croazia.
Secondo alcuni storici, i Polo erano una famiglia di mercanti originaria di Korčula, un’isola
che oggi appartiene alla Croazia ma che nel XIII secolo faceva parte della Repubblica di
Venezia. La famiglia, che in origine si chiamava Pilić, si trasferì a Venezia e latinizzò il
proprio nome come Polo (pilić e “polo” sono nomi etimologicamente legati ai termini che, in
croato e in italiano, indicano un pollo).
Nella città di Korčula c’è una casa che, a quanto si dice, dovrebbe essere stata quella
della famiglia Polo; al momento si trova sotto la protezione dell’amministrazione locale,
che progetta di trasformarla in un museo.

Sembrano inoltre esserci delle lacune nella sua conoscenza riguardo


all’ubicazione di alcuni luoghi chiave della Cina. Pur affermando di aver vissuto
nel Fujian, il centro della manifattura della porcellana e della produzione dei libri
attraverso l’antica tecnica di stampa cinese, le sue descrizioni sono caotiche e
sbagliate: sostiene infatti che la produzione della porcellana aveva luogo
nell’inesistente città di Tingui, e non accenna neppure all’uso cinese della
stampa con blocchi di legno molto tempo prima che venisse introdotta in
Europa. Allo stesso modo, non accenna neppure al fatto che i cinesi scrivevano
dall’alto in basso e da destra a sinistra, una pratica nata dal fatto che in origine i
primi testi venivano scritti su canne di bambù. Va poi notato che nel libro Polo
non menziona mai la cucina sauté preferita dalle masse – per le quali il carbone
era troppo costoso e la legna da ardere scarseggiava – che tagliavano il loro cibo
a dadini prima di cuocerlo in quelle pentole che oggi chiamiamo “wok”,
tenendole per breve tempo sopra un piccolo fuoco. Non sottolinea neppure la
sorprendente somiglianza tra la pasta e i ravioli italiani e i tagliolini e i piccoli
involtini ripieni di carne macinata e speziata dei cinesi.
A quell’epoca i cinesi avevano già sviluppato il rituale del tè, eppure Polo non
accenna neanche a questa bevanda; ciò è particolarmente strano, in quanto allora
i funzionari cinesi tenevano a non intrattenere i loro ospiti a casa ma a onorarli
con una visita alle loro case del tè preferite. Dato che Marco dice di essere stato
un funzionario del Khan, dovrebbe aver partecipato a moltissime di queste
cerimonie con altri funzionari, facendo e ricevendo inviti, ed è impossibile che
una persona nella sua presunta posizione non abbia mai fatto caso al complesso
rituale che accompagnava la preparazione, il servizio e il consumo del tè. Inoltre,
anche se afferma di aver governato Yangzhou, non fa mai riferimento neppure
alla Grande muraglia, che corre a nord della città; la cosa è doppiamente
sospetta, in quanto in uno dei suoi viaggi avrebbe percorso la Via della Seta
passando attraverso una delle più imponenti porte di questa monumentale
barriera. Allo stesso modo, non menziona neppure le fasciature dei piedi, i
bastoncini usati per mangiare, il gelato e lo straordinario spettacolo dei cinesi
che mandavano cormorani addestrati a pescare per loro nel fiume appena fuori
dal palazzo del Khan; questa simbiosi uomini e uccelli colpisce ancora oggi i
visitatori, eppure nel libro di Polo non trova spazio.
Polo fa poi un lungo richiamo al Grande ponte di Pechino, dicendo di essersi
fermato lì a contare i suoi ventiquattro archi; tuttavia, il ponte non ne aveva mai
avuti più della metà. Problemi simili emergono anche dal racconto della visita
alla città di Suzhou, nella provincia dello Jiangsu. La città era famosa per essere
la più bella della Cina, con i suoi stili architettonici unici che lasciavano senza
fiato chiunque li ammirasse; Polo, invece, si limita a liquidarla con un richiamo
di una riga in cui dice che era un centro rinomato per la distribuzione di zenzero
e rabarbaro, un commercio a cui quella maestosa città non si era in realtà mai
abbassata.
Uno dei punti più problematici fra tutta la sfilza di errori storici di Polo è dato
dall’affermazione secondo cui avrebbe messo al servizio del Khan le conoscenze
italiane mostrandogli come costruire enormi catapulte con le quali portare a
termine con successo l’assedio di Xiangyang. Anche se queste macchine
vennero di fatto usate in quell’assedio, i documenti cinesi mostrano che erano
state costruite da ingegneri persiani e che, inoltre, al momento del presunto
arrivo di Polo in Cina lo scontro a Xiangyang era già finito da un anno
abbondante. Sempre sul fronte militare, Polo afferma di aver personalmente
assistito alla partenza delle flotte inviate dal Khan contro il Giappone nel 1274 e
poi nel 1281. Nel descrivere le navi, dichiara che avevano cinque alberi (di fatto
ne avevano solo tre) e si lamenta della distruzione della prima flotta a causa di
un tifone non lontano dalle coste giapponesi; in realtà, però, questa fine toccò
alla flotta del 1281, con i giapponesi che chiamarono con riconoscenza il tifone
Kamikaze, ossia “Vento divino”.
Così, la probabilità che Marco Polo abbia mai messo piede in Cina, dove
nessun documento dell’epoca riporta il suo nome, è, per usare un eufemismo,
alquanto remota; secondo molti storici, non si spinse mai al di là del Mar Nero,
dove, dedicandosi a redditizi traffici commerciali con i Paesi più a est, si limitò a
raccogliere delle voci dalle persone con cui faceva affari.
In linea con il suo personaggio, anche la data della morte di Polo resta incerta;
la legge veneziana dell’epoca stabiliva infatti che una giornata terminava al
calare del sole, e non è quindi chiaro se sia morto l’8 o il 9 gennaio del 1324.
Negli ultimi mesi del 1323, Polo, la cui salute era ormai compromessa, mise in
ordine tutti i suoi affari, facendo un testamento che lasciava una cospicua eredità
ai membri della sua famiglia e a varie istituzioni religiose; inoltre, dichiarò che
ogni debito nei suoi confronti sarebbe stato cancellato. È interessante notare che,
dato che all’epoca il Vaticano aveva diritto a incassare una percentuale del
patrimonio di chiunque morisse, gli avidi religiosi prepararono un catalogo
molto dettagliato di tutte le sue proprietà; in quel meticoloso elenco, però, non
c’era nemmeno un singolo oggetto che denotasse un collegamento di Polo con la
Cina. È davvero possibile che abbia speso diciassette anni in un Paese così
affascinante e diverso dall’Europa medievale senza portare a casa neanche un
singolo souvenir?
America: chi c’è arrivato per primo?

A scuola – soprattutto in quelle degli Stati Uniti – ci viene ancora insegnato che
l’America fu scoperta nel 1492 dall’esploratore genovese Cristoforo Colombo,
in missione per conto dei sovrani spagnoli, e che prese il nome dal suo
contemporaneo Amerigo Vespucci. Negli Stati Uniti, dove il nome “Columbus”
viene dato a tutta una serie di cose che vanno dalle città alle missioni spaziali,
l’esploratore genovese è ancora tenuto in grandissima considerazione; ciò risulta
alquanto sorprendente, se teniamo conto che in realtà non ha mai nemmeno
raggiunto le loro coste.
Paradossalmente, furono di fatto i russi a “scoprire” per primi l’America
quando, circa ventimila anni fa, le tribù siberiane attraversarono la striscia di
terra che connetteva la Russia all’Alaska. I secondi a battere Colombo sul tempo
furono probabilmente gli Ainu, i giapponesi originari di Hokkaido, che furono
forse spinti a cercare nuove terre dai polinesiani, meno numerosi ma più
aggressivi. (Gli Ainu vivevano anche in Siberia, ed è quindi anche possibile che
siano semplicemente migrati in America da là.) Colombo venne poi preceduto
anche dai vichinghi, guidati da Leif Erikson.
A differenza di Colombo – che fece davvero quattro viaggi di scoperta, per
quanto limitati, spingendosi fino ai Caraibi e alle coste dell’America centrale –
Amerigo Vespucci, un esploratore fiorentino alle dipendenze del Portogallo, non
ne fece quattro, come avrebbe poi dichiarato, ma soltanto due: il primo e il
quarto avvennero soltanto nella sua testa. Nel “secondo” e nel “terzo” viaggio
(in realtà, il primo e il secondo), rispettivamente del 1499 e del 1501, Vespucci si
spinse oltre i Caraibi per arrivare alle coste settentrionali del Sudamerica,
scendendo quindi lungo la costa orientale per giungere fino alla baia di Rio de
Janeiro; sostenne di essersi spinto a sud fino all’odierna Patagonia, ma dato che
era un famoso bugiardo non gli credette nessuno. Basandosi sugli appunti e sulle
carte di Vespucci, nel 1507 il cartografo tedesco Martin Waldseemüller produsse
una mappa dell’America del Sud; fu la prima volta in cui venne usato il nome
“America”, che stando agli appunti di Waldseemüller sarebbe stato ispirato dal
nome di battesimo di Vespucci. Possiamo ipotizzare che avesse visto quel nome
anche su altre mappe del Nuovo Mondo e che avesse quindi deciso di adeguarsi;
tuttavia, è interessante notare che nelle sue edizioni successive di quella mappa
sostituì “America” con “Terra Incognita”.
È però molto più probabile che all’origine del nome ci sia un personaggio per
il resto poco noto, Robert Amerike, un ricco mercante di Bristol che sponsorizzò
i viaggi di Giovanni Caboto, fornendogli la nave Matthew sulla quale avrebbe
raggiunto il Labrador nel maggio del 1497. Precedendo di più di due anni le
visite di Vespucci nel Nuovo Mondo, Caboto esplorò le coste nordamericane
dalla Nuova Scozia a Terranova e, attenendosi alle vecchie e onorate tradizioni,
avrà senza dubbio dato a quelle terre una forma del cognome del suo sponsor.
Inoltre, sempre per tradizione è raro che i toponimi si basino sul nome di
battesimo di un esploratore o di un suo sponsor: per esempio, agli inizi del XVII
secolo, quando Henry Hudson scoprì un nuovo fiume dove oggi sorge New
York, non lo chiamò “fiume di Henry” bensì “Hudson”; così, se l’onore del
toponimo fosse ricaduto sulle indegne spalle di Amerigo Vespucci, il Nuovo
Mondo sarebbe stato chiamato “Vespuccia” e non “America”. Ma ora, basta
parlare di chi non è mai arrivato in Nordamerica; che cosa possiamo dire, invece,
su quelli che ci sono arrivati?
Circa diecimila anni dopo quei siberiani, i primi che viaggiarono verso il
Nuovo Mondo (e non si limitarono a imbattersi nel continente) furono gli Ainu,
gli abitanti indigeni del Giappone settentrionale e della Siberia. Il Giappone non
è troppo lontano dall’Alaska, che con il suo arcipelago delle isole Aleutine – che
si spingono ben oltre il 180° meridiano, che separa l’emisfero occidentale da
quello orientale – si qualifica come il più settentrionale, occidentale e orientale
degli Stati americani. La più remota di quelle isole, Attu, si trova a circa 1500
chilometri dall’Alaska continentale e grossomodo alla stessa distanza dal
Giappone, così da costituire naturalmente il primo piolo di una scala di isole che
porta fino al continente nordamericano. Il dibattito se siano stati gli indigeni
giapponesi a navigare fino ad Attu – o se siano invece stati gli Ainu siberiani a
giungere in America passando per il ponte di terra a nord – arrivò a un momento
critico il 28 luglio 1996 con il ritrovamento di uno scheletro quasi integro nel
lago Wallula, lungo il corso del fiume Columbia, a Kennewick (nello Stato di
Washington). Si scoprì così che l’Uomo di Kennewick, che stando alla datazione
al radiocarbonio avrebbe circa novemila anni, era strettamente imparentato con
gli Ainu.
Sulla base del Native American Graves Protection and Repatriation Act, ci
furono pressioni perché l’Uomo di Kennewick venisse lasciato alla custodia dei
nativi, che gli avrebbero dato una sepoltura tribale. I gruppi antropologici e
paleontologici, sapendo che ciò lo avrebbe identificato per sempre come un
nativo americano e avrebbe impedito loro di arrivare a fondo di quel mistero,
chiesero al governo di opporsi a tali richieste. Preso tra i due fuochi, il governo
si rifugiò dietro al fatto che la terra su cui erano stati trovati quei resti
apparteneva all’esercito americano e che la loro custodia sarebbe quindi spettata
a quest’ultimo, una mossa che non piacque a nessuno. Una sorta di vittoria per
tutti arrivò nel 2015, quando l’università di Copenaghen, grazie all’esame del
DNA, concluse che i resti presentavano inoppugnabili somiglianze con le tribù
native americane dello Stato di Washington; di fatto, quindi, c’era un
collegamento. Tuttavia, dato che gli Ainu sono stati in America per più di
novemila anni, la conclusione restava ambigua: con gli inevitabili accoppiamenti
fra tutte le antiche popolazioni del continente, non c’è infatti da stupirsi che ci
siano somiglianze genetiche tra le tribù del posto dove è stato rinvenuto l’Uomo
di Kennewick (in fin dei conti, è improbabile che sia arrivato fin lì da solo).
Così, l’università di Copenaghen rispose solo a metà della domanda, senza
indicare quale gruppo fosse di fatto arrivato lì per primo.
La successiva popolazione a insediarsi nel Nordamerica furono i vichinghi
del X secolo, i primi europei a giungere in America. Una piccola flotta di
drakkar – le lunghe navi vichinghe – salpata dalla loro base in Groenlandia sotto
il comando di Leif Erikson, sbarcò all’estremità settentrionale di Terranova nel
1000 d.C., stabilendo un insediamento nel sito oggi noto come L’Anse aux
Meadows. Da lì si pensa che i vichinghi si siano poi spinti nel Nordamerica
continentale, dove nel corso dei due decenni successivi stabilirono altri
insediamenti: la scoperta più recente di un presunto villaggio vichingo è stata
fatta nel 2017 a Minisceongo Creek, vicino allo Hudson (nello Stato di New
York), e dimostrerebbe quindi che i vichinghi avevano esteso la loro influenza a
sud fino al New England. Ciò avvenne quasi mezzo millennio prima che
Colombo non arrivasse in America; pertanto, il vero mistero è come abbia fatto
quest’ultimo a prendersi tutta la gloria della scoperta, e la risposta sta nelle
ostilità transatlantiche fra il Regno Unito e gli emergenti Stati Uniti.

UNA SCORCIATOIA PER L’INDIA

Colombo non era un granché come navigatore: pensava che il mondo misurasse circa la
metà delle sue dimensioni effettive e nel 1492, guidato da questo errore, salpò verso ovest
con l’intenzione di trovare una scorciatoia per l’India e l’Oriente. Quando giunse nei
Caraibi, era convinto di essere arrivato in India; questo fraintendimento fu l’origine di tutta
una serie di toponimi privi di senso, come “Indie Occidentali”, nonché dell’uso del termine
“indiani” per indicare i nativi americani.
L’idea secondo cui il suo viaggio avrebbe dimostrato che la Terra era sferica e non piatta,
invece, è soltanto un’invenzione dell’umorista americano Washington Irving, che nella sua
History of the Life and Voyages of Christopher Columbus (1828) scrisse che il Consiglio
spagnolo di Salamanca si oppose al finanziamento dei viaggi di Colombo dicendo che
sarebbe morto precipitando dai margini estremi della Terra.
In realtà, all’epoca nessuno pensava che il mondo fosse piatto, e il Consiglio di
Salamanca si limitò a mettere in dubbio le stime di Colombo sulle dimensioni della Terra;
e, di fatto, avevano ragione loro.

Dopo il conflitto del 1775-83, chiamato la Guerra d’indipendenza americana


o la Rivoluzione americana (a seconda di quale sia la vostra sponda
dell’Atlantico), gli Stati Uniti non volevano avere più nulla a che fare con le
persone o le cose inglesi. Termini come master (“padrone”) vennero rimpiazzati
con parole derivate dall’olandese come boss, e chiunque fosse abbastanza
incosciente da andare in giro con una parrucca incipriata rischiava aggressioni
verbali o anche fisiche. Così, ignorando le scoperte dei siberiani, degli Ainu e
dei vichinghi, gli americani post-rivoluzionari si trovarono a dover scegliere tra
il non-inglese Colombo e Giovanni Caboto, che era stato finanziato da un
inglese; e il primo, anche se non era mai neppure arrivato alle loro coste, non
poteva che emergere vincitore. Per dissociarsi ulteriormente dagli odiati
britannici durante la Guerra d’indipendenza, i rivoluzionari americani si
riferivano al loro Paese chiamandolo il “Territorio di Colombo”, o “Columbia”;
da qui il nome “Distretto di Columbia” dato alla terra destinata a Washington, la
nuova capitale post-bellica, dove il Congresso si riunì per la prima volta
all’inizio del XIX secolo. Questo nuovo Congresso, ansioso di prendere le
distanze dalla corona britannica con una nuova identità nazionale, promosse
l’immagine di Colombo come quella di un uomo che era salpato verso ovest nel
tentativo di lasciarsi alle spalle il vecchio ordine mondiale e di cercare, come la
loro neonata nazione, un futuro indipendente. A quel punto, tutto venne
“colombificato”: il King’s College di New York, fondato per decreto reale da
Giorgio II nel 1754, fu ribattezzato “Columbia University” e, dopo la guerra,
Hail Columbia di Joseph Hopkinson diventò di fatto l’inno nazionale americano,
cantato in occasione del terzo centenario del viaggio di Colombo del 1492 (la
prima festa nazionale del nuovo Paese).
Una volta che gli americani ebbero rimosso dal quadro della loro fondazione
Caboto e tutti gli altri contendenti, il carrozzone di Colombo proseguì
indisturbato nella sua corsa, spinto anche da organizzazioni come l’ordine
cattolico dei Cavalieri di Colombo, un gruppo cristiano “muscolare”, fondato
negli Stati Uniti nel primo decennio dell’Ottocento, che riuscì a far sì che il 12
ottobre diventasse il “Columbus Day”. Tuttavia, man mano che si diffuse la
conoscenza delle atrocità commesse da Colombo (che era stato infine arrestato
con l’accusa di aver massacrato e schiavizzato le popolazioni di quelle isole che
aveva di fatto scoperto), la sua figura iniziò a perdere la sua attrattiva. A Haiti,
per esempio, all’arrivo di Colombo nel 1492 c’era una sana popolazione di circa
mezzo milione di Aruachi; due anni dopo, più della metà di loro erano morti o
ridotti in catene. Questi crimini, assieme a una crescente consapevolezza delle
mutilazioni e degli stupri di massa imposti da Colombo alle comunità che non
riuscivano a fornirgli tutto l’oro che chiedeva in tributo, hanno portato di recente
a un progressivo abbandono di tutte le celebrazioni in suo onore in America.
Oggi ventuno degli Stati ignorano del tutto la festa, e la stragrande maggioranza
dei restanti ventinove festeggia il 12 ottobre come il Giorno delle popolazioni
indigene. Nel 1964, il Congresso ha presentato formale richiesta al presidente
Lyndon B. Johnson perché dichiarasse il 9 ottobre “Giorno di Leif Erikson”; e,
mentre scrivevo questo libro, era in corso un’imponente manifestazione di
newyorkesi che chiedevano al loro sindaco, Bill de Blasio, di rimuovere la statua
di Colombo da Central Park.
La costruzione di una menzogna: chi ha scoperto davvero l’Australia?

Quando i libri di storia – e in particolare quelli britannici – affermano che un


determinato esploratore è stato il primo uomo ad aver messo piede su una
qualche terra, ciò che in realtà intendono è che è stato il primo uomo bianco. Se
prendete una persona a caso e le chiedete chi ha scoperto l’Australia, molto
probabilmente vi risponderà con sicurezza «il capitano Cook»; in realtà, però, i
primi veri scopritori del continente australiano furono gli africani che arrivarono
lì più di quarantamila anni prima. Gli aborigeni australiani sono gli odierni
discendenti degli africani che si stabilirono lì dopo essere emigrati dalla propria
terra; il loro DNA dimostra inoltre che, passando per l’India, la Malesia e il
Borneo, si mescolarono con le popolazioni locali, accampandosi quindi a Timor
per completare infine il loro viaggio di più di mille chilometri – fatto a bordo di
zattere primitive – con lo sbarco sulle coste settentrionali dell’Australia.
Anche gli antichi cinesi visitarono spesso l’Australia: un documento del 338
a.C. afferma che nello Zoo imperiale di Pechino erano esposti dei canguri, ed è
stato trovato un vaso cinese di duemila anni fa sul quale è disegnata una mappa
delle coste orientali australiane. I cinesi condussero la loro prima esplorazione
generale dell’Australia nel 1422 con l’ammiraglio Zheng, che divise la sua flotta
per perlustrare insieme la costa orientale e quella occidentale. E prima dei cinesi
arrivarono dei cacciatori-mercanti da molte altre parti dell’Asia che, circa
cinquemila anni fa, portarono nel continente i loro cani da caccia addomesticati;
alcuni di questi scapparono e, diventati selvatici, si evolvettero negli odierni
dingo. Quindi, dopo tutta questa gente, arrivarono gli europei, il primo dei quali
fu l’altrimenti poco noto Willem Janszoon (1570-1630), un olandese che navigò
nell’attuale golfo di Carpentaria per gettare l’ancora, il 26 febbraio 1606, presso
il fiume Pennefather, sulla costa occidentale di capo York (nell’Australia
settentrionale). Dopo aver stabilito un rudimentale insediamento, iniziò a
mappare centinaia di chilometri di litorale, ma fu infine costretto ad abbandonare
la sua base a causa della per lui inspiegabile ostilità degli indigeni. Le tradizioni
orali locali, dal canto opposto, affermano che le ostilità nacquero per il fatto che
gli intrusi olandesi avevano rapito delle donne del posto e avevano cercato di
costringere gli uomini a cacciare e a lavorare per loro.
Quindi arrivò l’olandese Dirk Hartog, che nel 1616 navigò nell’area della
Baia degli squali (Australia occidentale); fu il primo a riconoscere che
l’Australia era un continente e non semplicemente un’isola, come aveva invece
supposto Janszoon. Nel 1644, l’olandese Abel Tasman – l’uomo che avrebbe
dato il nome alla Tasmania – esplorò e mappò la maggior parte delle coste
settentrionali australiane; ciò significa che gli olandesi avevano già iniziato a
mappare quella terra che chiamavano Nuova Olanda e a stabilirvi degli
insediamenti un secolo prima della nascita di James Cook (1728-1779). Gli
australiani considerano senza dubbio Janszoon come il primo europeo arrivato
sulle loro spiagge, e hanno commemorato il suo sbarco con una replica della sua
nave, la Duyfken (“Piccola colomba”), attualmente ormeggiata a Perth.

IL CAPITANO JAMES COOK

Pur non potendo rivendicare la scoperta dell’Australia, James Cook fu comunque il più
grande esploratore, cartografo e navigatore del XVIII secolo. Nel suo ultimo e fatale
viaggio, tra il 1776 e il 1779, fu il primo europeo a prendere contatto con i nativi delle
Hawaii. Sospettando che gli hawaiani avessero rubato le loro provviste e forse anche una
scialuppa, Cook marciò verso il villaggio per prendere in ostaggio il re dell’isola, ma venne
ucciso a bastonate assieme ad altri membri della sua squadra da sbarco. Il corpo del
capitano venne quindi arrostito sulla spiaggia e le sue ossa furono poi restituite al suo
equipaggio dell’HMS Resolution per la sepoltura in mare.

Il primo inglese a interessarsi della nuova acquisizione olandese fu il


truculento pirata/corsaro William Dampier (1651-1715), che, dopo essere
sbarcato presso King Sound – sulla costa occidentale – ritornò a Londra per
riferire le sue scoperte all’Ammiragliato. Nel gennaio del 1699, gli venne
assegnato il comando dell’HMS Roebuck e fu rimandato a mappare quasi
millecinquecento chilometri della costa occidentale; pertanto, la tesi secondo cui
nessuno in Gran Bretagna sapesse dell’esistenza dell’Australia prima del viaggio
di Cook del 1768 è semplicemente ridicola.
Quell’anno, il tenente (non capitano) Cook fu assunto dalla Royal Society per
andare a Tahiti e condurre delle osservazioni del transito di Venere sopra
quell’isola, predetto per il 3 giugno 1769; fatto quello, avrebbe dovuto procedere
verso sud-ovest per controllare la Nuova Zelanda, esplorata e mappata per la
prima volta da Abel Tasman nel 1642-43, e stabilire se fosse una terra insulare o
continentale. Cook portò a termine tutti questi incarichi con la sua tipica
diligenza e attenzione ai dettagli, dimostrando che quella scoperta da Tasman era
di fatto un’isola e non una parte del continente australiano. Quindi, per sua
decisione autonoma, Cook salpò verso la punta meridionale della costa orientale
australiana, che avvistò il 19 aprile 1770, per poi seguire la linea costiera verso
nord, evitando per poco di perdere la sua nave sulla Grande barriera corallina.
Nessuno può dubitare che Cook fosse un navigatore intrepido e un meticoloso
cartografo, ma come riuscì a soffiare agli olandesi il merito della scoperta
dell’Australia resta un mistero – o no? All’epoca i britannici erano in forte
competizione – e spesso in guerra aperta – con gli olandesi; così, in pratica,
“addomesticarono” i libri di storia in modo da attribuire la scoperta a Cook e
togliere di mezzo gli olandesi. Il loro unico altro candidato possibile era il
presuntuoso pirata William Dampier, che però non sarebbe andato bene: non era
neppure stato un ufficiale della Royal Navy. Dampier, comunque, è famoso per
almeno un altro motivo: il suo terribile carattere, che avrebbe ispirato Robinson
Crusoe (1719).
Nel 1704, tornato alle sue attività piratesche, Dampier stava navigando al
largo delle coste cilene al comando della St George assieme a Thomas Stradling,
capitano della Cinque Ports. Alla fine, la loro partnership si ruppe a causa del
caratteraccio di Dampier e le due navi andarono ciascuna per la sua strada, cosa
che fece nascere un’ostilità tra Stradling e il membro più importante del suo
equipaggio, Alexander Selkirk, che aveva preso il mare per evitare di essere
processato a Fife per atti osceni nel cimitero di una chiesa, niente meno. Per
ripicca, Selkirk chiese di essere sbarcato all’approdo successivo; sfortuna volle
che fosse l’isola deserta di Juan Fernández, dove rimase così per cinque anni. Il
1° febbraio 1709, quando il capitano Woodes Rogers della Duke gettò l’ancora
presso l’isola alla ricerca di acqua potabile, l’iniziale gioia di Selkirk per il
proprio salvataggio si spense presto: quando la scialuppa della Duke si accostò
alla nave, vide infatti il suo vecchio amico Dampier che ringhiava dalla fiancata.
In un primo momento, Selkirk chiese che lo riportassero sull’isola ma alla fine,
calmatosi, salì a bordo della Duke per ritornare in Inghilterra, dove la sua storia
contribuì a dare a Daniel Defoe l’ispirazione per scrivere il suo classico.
L’uomo e il mito: l’ammutinamento del Bounty di Bligh

Presentato in innumerevoli film e drammi teatrali come il sadico demente al


comando di una nave chiamata HMS Bounty, William Bligh non era un capitano
avanti negli anni ma un tenente trentaquattrenne a capo di un mercantile
convertito chiamato HMAV (Vascello armato di Sua Maestà) Bounty. Il Bounty
venne inviato a Tahiti nel 1787 per raccogliere dei campioni di frutti dell’albero
del pane al fine di vedere se potessero costituire una risorsa sostenibile e a buon
mercato con cui sfamare gli schiavi nelle Indie occidentali. Stando all’idea
tradizionale, Bligh aveva instaurato a bordo un regime in cui trattava il vascello
come un suo dominio personale su cui sfogare il proprio sadismo; l’equipaggio,
protetto entro certi limiti dal nobile primo ufficiale di coperta Fletcher Christian,
subì umiliazioni e punizioni finché quest’ultimo, incapace di tenere a freno il
sempre più scatenato Bligh, fu costretto controvoglia a guidare gli uomini nel
più famoso ammutinamento della storia della marina britannica.
In realtà, Fletcher Christian era un bellimbusto petulante e presuntuoso.
Aveva già navigato sotto Bligh in precedenza e si era unito con entusiasmo alla
sua spedizione a Tahiti. Bligh, altrettanto contento di averlo al suo fianco, aveva
presentato una richiesta scritta al ministero della Marina suggerendo che venisse
nominato primo ufficiale per quel viaggio, ma il ministero, preoccupato per
l’insufficiente anzianità di servizio di Christian, scelse invece un tale John Fryer.
Nel mezzo del viaggio, deluso dalla scarsa efficienza di Fryer, Bligh lo
rimpiazzò con Christian, che promosse inoltre al rango di facente funzione di
tenente di vascello; da questo possiamo concludere che tra i due non c’era
all’epoca alcuna animosità.
Le accuse riguardo al presunto sadismo di Bligh, stando alle quali traeva una
sorta di eccitazione omosessuale dal vedere gli uomini frustrati fin quasi alla
morte, sono a loro volta del tutto infondate. In diverse delle summenzionate
rappresentazioni cinematografiche che lo denigrano, vediamo che il capitano
faceva anche fare dei giri di chiglia ai suoi uomini, ma quella pratica (nella quale
il malcapitato veniva legato mani e piedi a una fune e trascinato da un fianco
all’altro della nave in movimento, passando sotto la chiglia) era stata
abbandonata dalla Royal Navy attorno al 1720, decenni prima della nascita di
Christian e Bligh.
Di fatto, tutti i documenti e le testimonianze degli uomini che scelsero di stare
dalla parte di Bligh durante l’ammutinamento sono concordi nell’indicare che
era stato fin troppo indulgente per gli standard dell’epoca, un capitano che
ricorreva alla frusta solo nei casi di assoluta necessità. Nel corso di quella
spedizione aveva spesso lasciato la sua cabina agli uomini che tornavano
inzuppati e congelati dai turni di guardia, un comportamento che non è certo
quello che ci potremmo aspettare da un sadico senza scrupoli. Mentre
svolgevano la loro missione di raccogliere i frutti dell’albero del pane a Tahiti, la
maggior parte degli uomini rimasero sedotti da quell’accogliente paradiso e
dall’atteggiamento disinibito delle ragazze del posto, tanto che tre membri
dell’equipaggio – Charles Churchill, John Millward e William Muspratt –
disertarono e si nascosero per rimanere lì dopo la partenza del Bounty. Quando
vennero catturati, Bligh, mostrando comprensione per le tentazioni che li
avevano spinti, si limitò a farli frustare; qualunque altro comandante dell’epoca
li avrebbe invece fatti impiccare al pennone. In generale, il diario di bordo
mostra chiaramente che Bligh si limitava a fare dei rimproveri per le mancanze
che quasi ogni altro comandante avrebbe punito con la frusta, e ricorreva alle
punizioni corporali per quei crimini che di norma avrebbero comportato una
condanna a morte.
E quindi, perché oggi abbiamo ancora l’idea errata che Bligh fosse un brutale
sadico e Christian un uomo costretto ad ammutinarsi per salvare l’equipaggio
dalla sua tirannia? La risposta sta negli sforzi fatti dalla famiglia di Christian e
da quella di un altro ammutinato altrettanto ben inserito, Peter Heywood.
Il 28 aprile 1789, quando il Bounty era partito da ventiquattro giorni per il suo
viaggio di ritorno e il richiamo della vita a Tahiti era ancora vivido nelle menti
degli uomini, Christian guidò circa la metà dell’equipaggio in una rivolta che lo
portò a prendere il controllo della nave senza spargimenti di sangue. Mentre
Bligh chiedeva al suo amico di essere ragionevole e di pensare a ciò che stava
per fare, Christian, camminando avanti e indietro sul ponte, non riusciva a far
altro che continuare a ripetere «Sono all’inferno». Così, se volessimo dare al suo
ammutinamento la spiegazione più benevola possibile, potremmo forse dire che
fu il frutto di una sorta di esaurimento nervoso; lo stesso Bligh avrebbe in
seguito dichiarato che Christian era in uno «stato di alienazione». Gli uomini
sopravvissuti al successivo tentativo degli ammutinati di stabilire un
insediamento sull’isola di Pitcairn ricordarono i suoi violenti cambiamenti di
umore e il fatto che trascorreva un sacco di tempo da solo nella sua caverna
preferita, dove lo sentivano piangere o ridere in modo maniacale.
Sia come sia, Bligh e diciotto dei quarantadue uomini dell’equipaggio
vennero ammassati sulla lancia del Bounty con il diario di bordo e una quantità
limitata di provviste e strumenti (ma senza carte nautiche), per poi essere lasciati
alla deriva. Altri membri dell’equipaggio che avevano espresso il desiderio di
rimanere fedeli si sentirono dire da Bligh che non c’era spazio per loro sulla
lancia e che avrebbero dovuto quindi restare sul Bounty, con la promessa che
avrebbe comunque testimoniato a loro favore se fosse riuscito a tornare in
Inghilterra. Il capitano, lasciato in sostanza a morire, riuscì a condurre quella
lancia per seimilasettecento chilometri fino a Timor usando soltanto un sestante,
il suo orologio da taschino e le stelle; questo viaggio, completato in
quarantasette giorni, è ancora internazionalmente riconosciuto come la più
straordinaria impresa nautica nella storia marittima. Al suo ritorno in Gran
Bretagna, nel 1790, Bligh venne accolto da eroe e fu assolto da ogni
responsabilità per la perdita del Bounty; quindi, riprese subito il lavoro con il suo
cosiddetto “Secondo viaggio dei frutti dell’albero del pane”. Questa volta, la sua
missione consisteva nel portare quei frutti da Tahiti alle Indie occidentali per poi
ritornare in Inghilterra con dei campioni di ackee, il frutto della pianta che la
Royal Society avrebbe chiamato Blighia sapida in suo onore.
Un altro forte indizio riguardo allo stato mentale di Christian all’epoca sta nel
fatto che non aveva la benché minima idea sul da farsi: semplicemente, non
aveva studiato un piano. Dopo essere stati accolti con ostilità su un paio di isole,
gli ammutinati tornarono a Tahiti, dove Heywood e una dozzina di altri scelsero
di rimanere mentre Christian, volendo avere dei servi e dei passatempi sessuali,
attirò a bordo diciotto tahitiani (sei uomini e dodici donne) con la falsa promessa
di una festa e salpò quindi verso l’isola di Pitcairn. Va detto che, come rifugio,
era una buona scelta: anche se portava il nome di Robert Pitcairn, che la avvistò
per primo nel 1767 (suo padre, il maggiore John Pitcairn, era stato l’uomo al
comando delle truppe britanniche a Lexington, nel Massachusetts, quando
vennero sparati i primi colpi della Guerra d’indipendenza americana), Christian
sapeva infatti che nelle carte nautiche dell’Ammiragliato la sua posizione era
sbagliata o non era indicata del tutto.

UN ALTRO AMMUTINAMENTO
Pochi sanno che William Bligh fu una figura centrale in un altro – e molto più grande –
ammutinamento che ebbe luogo in Australia dopo la sua nomina a governatore del Nuovo
Galles del Sud, nel 1805. I suoi ordini erano di dare un giro di vite al traffico illegale di rum
in quella colonia. Data la sua immeritata fama di essere “il Bastardo del Bounty”, nessuno
in Australia fu contento del suo arrivo: sia i coloni sia addirittura gli stessi Corpi del Nuovo
Galles del Sud (le truppe che avrebbero dovuto essere sotto il controllo del governatore)
facevano infatti affari d’oro con il traffico del rum, e sapevano che stava venendo per porvi
fine.
Bligh affrontò il problema di petto, cosa che lo portò subito a uno scontro con John
Macarthur, il più importante cittadino di Sydney, che con le sue proteste per le rigide
politiche di Bligh si guadagnò un mandato di arresto; tuttavia, anziché eseguirlo, i Corpi –
al comando del maggiore George Johnston, grande amico di Macarthur e a sua volta
coinvolto nel traffico di rum – marciarono sulla casa del governatore per arrestare
quest’ultimo.
Dopo un breve periodo di reclusione, Bligh tornò nel Regno Unito; contro i ribelli non
venne presa quasi nessuna misura punitiva.

Mentre il drappello di ammutinati di Christian e i loro prigionieri tahitiani si


stabilivano a Pitcairn, l’HMS Pandora arrivò a Tahiti per arrestare Heywood e
gli altri che avevano deciso di restare lì. All’iniziò Heywood cercò di mentire,
precipitandosi con entusiasmo incontro alla nave da guerra e informando gli
ufficiali che era stato uno degli sfortunati uomini che, per quanto leali a Bligh,
non avevano trovato posto sulla lancia ed erano quindi stati confinati
sottocoperta sul Bounty. Il suo tentativo avrebbe anche potuto funzionare, ma sul
ponte incrociò il tenente Thomas Hayward che, avendo fatto il viaggio verso
Timor assieme a Bligh, rivelò al suo capitano che Heywood era stato al fianco di
Christian durante tutto l’ammutinamento. Quando Heywood andò a processo,
nel settembre del 1792, Hayward era però stato mandato in missione all’altro
capo del mondo e così, grazie ai suoi continui spergiuri che ora non potevano più
essere smentiti e alla campagna portata avanti dalla sua famiglia, Heywood
venne graziato e, a differenza dei suoi coimputati, riuscì a evitare la forca.
Da quel momento in poi, le famiglie Christian e Heywood, legate tra di loro e
con molte leve da tirare, si misero a far campagna senza posa per salvare la
propria reputazione e quella dei loro figli infangando quella di Bligh. Heywood
fu presentato come un uomo di grande sensibilità che, pur comprendendo le
ragioni degli ammutinati, era rimasto sempre leale al suo demoniaco capitano,
mentre Christian venne descritto come un uomo spinto a commettere
l’impensabile dalla tirannica brutalità di un megalomane le cui azioni
rasentavano spesso l’omicidio. Anche se queste versioni non godevano di alcun
credito presso l’Ammiragliato, l’opinione pubblica finì per assorbirle al punto
che restano ancora oggi quelle predominanti, continuamente confermate dai
ritratti cinematografici che ci presentano Bligh come un sadico con gli occhi da
invasato mentre Christian viene impersonato da un “fusto” carismatico come
Marlon Brando o, più di recente, Mel Gibson. In realtà, stando alle descrizioni
dell’epoca, Christian era basso e di carnagione scura, con un «aspetto
sgradevolmente sudaticcio, soprattutto le sue mani, che macchiavano tutto ciò
che toccavano».
Una volta sistematisi a Pitcairn, gli ammutinati tornarono al loro usuale
comportamento, trattando i tahitiani maschi come schiavi e le donne come
oggetti sessuali; e, alla fine, furono proprio le donne a guidare la rivolta contro
Christian e i suoi uomini, uccidendo la maggior parte di loro nel sonno.
Per quanto ciò possa sembrare incredibile, l’antagonismo tra i Christian e i
Bligh si è protratto per altri 225 anni. Brenda Christian, diventata sindaco di
Pitcairn dopo che suo fratello Steve era stato incarcerato per stupro di minori,
leggendo le opinioni che Dea Birkett, autrice di Serpent in Paradise (1997),
aveva espresso su Christian e i discendenti degli ammutinati, si infuriò al punto
di dichiarare «Vorrei vederla impiccata». Nel 2014, la Birkett disse: «Anche oggi
non mi arrischierei ad andare a Pitcairn se il mio cognome fosse Bligh».
Analogamente, il famoso chef di Sydney Glynn Christian minacciò di prendere a
pugni in faccia Maurice Bligh perché, alla televisione australiana, aveva fatto dei
commenti poco lusinghieri su Fletcher Christian. Tuttavia, nel maggio del 2004,
Jacqui Christian andò a Tahiti per incontrare Maurice Bligh e gli restituì la
Bibbia di William Bligh, che era stata rubata dalla sua cabina durante
l’ammutinamento; e, simbolicamente, Maurice gliela diede indietro perché
potesse rimanere a Pitcairn per sempre. E, almeno per ora, la cosa si è fermata lì.
La nave fantasma: il misterioso abbandono della Mary Celeste

I fatti noti riguardo all’abbandono in alto mare della Mary Celeste lasciano
molto meno spazio alle congetture e agli enigmi di quanto non facciano gli
abbellimenti che, col passare del tempo, si sono accumulati intorno alla storia di
quello stesso vascello presentato sotto il nome più misterioso ma sbagliato di
“Marie Celeste”.
Costruita sull’isola di Spencer, nella Nuova Scozia, e inizialmente battezzata
col nome di Amazon, la nave poi rinominata Mary Celeste fu varata il 18 maggio
1861, sullo sfondo della Guerra civile americana; e, per la verità, va detto che
sembrò fin da subito una nave maledetta. Il suo primo capitano e
comproprietario, Robert McLellan, si ammalò e morì mentre supervisionava le
operazioni di carico per il suo viaggio inaugurale a Londra, che fu quindi guidato
da un certo capitano John Nutting Parker. All’andata, la Amazon finì contro uno
sbarramento da pesca negli stretti al largo dello Stato del Maine e, durante il
ritorno, si scontrò con un brigantino nello stretto di Dover e lo affondò. Dopo
che i successivi proprietari non erano riusciti a farla rendere, la Amazon finì – in
circostanze alquanto sospette – per arenarsi sulle coste rocciose dell’isola di
Capo Bretone durante una tempesta, nell’ottobre del 1867; i suoi proprietari la
abbandonarono lì come un relitto e intascarono i soldi dell’assicurazione. I resti
della nave furono quindi acquistati dal newyorkese Richard Haines, che dopo
aver speso novemila dollari per rimetterla in condizione di navigare e dopo aver
aumentato la sua capacità di carico, la registrò di nuovo come la Mary Celeste
(un nome ispirato da Maria Celeste, la figlia illegittima di Galileo e della sua
amante Marina Gamba).
Verso la fine di ottobre del 1872, la Mary Celeste era ormeggiata nell’East
River di New York per le operazioni di carico: avrebbe dovuto portare a Genova
1701 barili di alcol denaturato, assicurati per un valore di 35.000 dollari. La nave
salpò il 7 novembre con il suo nuovo capitano e comproprietario, Benjamin
Briggs, al timone; a bordo c’erano anche la moglie e la figlia di Briggs e un
equipaggio di sette uomini. Il 4 dicembre, la nave britannica Dei Gratia,
capitanata da David Morehouse, che aveva lasciato New York una settimana
dopo ed era a sua volta diretta a Genova, si imbatté nella Mary Celeste a circa
metà strada fra le Azzorre e Gibilterra. Aveva ancora le vele spiegate, ma
procedeva in modo molto irregolare; Morehouse ebbe l’impressione che la nave
fosse abbandonata e mandò quindi una squadra a controllare.
Il suo primo ufficiale, Oliver Deveau, riferì che anche se non c’erano segni di
violenza o di un ammutinamento, a bordo non c’era nessuno, ma tutti gli effetti
personali erano al loro posto; sembrava che l’intero equipaggio fosse
semplicemente svanito nell’aria. Da quanto aveva visto Deveau, risultava che
tutto il carico era intatto; tuttavia, le coperture dei portelli che davano accesso
alla stiva erano state rimosse, come se qualcuno avesse cercato di ventilarla. Le
battagliole laterali vicino al punto di aggancio della scialuppa di salvataggio, a
metà della nave, erano state tolte per facilitare il lancio di quell’imbarcazione, e
mancavano il sestante e il cronometro marino di bordo; inoltre, una delle robuste
cime del vascello, la drizza, era stata tirata giù e legata alla poppa, come se per
qualche ragione avessero dovuto rimorchiare la scialuppa. In assenza di idee
migliori, Morehouse – che, per combinazione, era un amico di Briggs – mise un
equipaggio minimo sulla Mary Celeste e le due navi fecero rotta verso
Gibilterra, dove arrivarono il 12 e il 13 dicembre.
Venne subito convocata una commissione d’inchiesta per condurre un esame
della Mary Celeste, dal quale però non emerse nulla di insolito, a parte il fatto
che le dieci persone a bordo erano tutte scomparse. Non c’erano danni interni o
esterni che indicassero che cosa avrebbe potuto spingerle ad abbandonarla, cosa
che avevano chiaramente fatto di fretta, anche se con ordine. Tuttavia, il
procuratore generale di Gibilterra, Frederick Solly-Flood – un uomo pomposo e
arrogante, detestato da tutti – era determinato a trovare un qualche crimine; di
fatto, le sue fantasie gettarono le basi di tutte le strampalate teorie che sarebbero
state avanzate in seguito. Per prima cosa, ipotizzò che l’equipaggio si fosse
ubriacato con il carico e, in preda ai fumi dell’alcol, avesse ucciso il capitano e
la sua famiglia per poi fuggire a bordo della scialuppa. Quando gli fecero notare
che nessuno dei barili era stato aperto e che, in ogni caso, il loro contenuto –
alcol denaturato – era in pratica imbevibile, Solly-Flood iniziò a sostenere che il
capitano Briggs aveva ucciso l’equipaggio aspettando poi che il suo amico
Morehouse trovasse la nave e portasse a termine il loro complotto, finalizzato a
intascare l’indennizzo per il salvataggio. Ipotizzò inoltre che la decisione di
Morehouse di rimanere a Gibilterra per tenersi disponibile durante l’inchiesta,
lasciando che la sua nave proseguisse verso Genova sotto il comando di Deveau,
fosse soltanto uno stratagemma per permettere a Briggs e alla sua famiglia –
rimasti nascosti a bordo – di sparire.
Non essendo stato in grado di dimostrare nessuna delle sue accuse, Solly-
Flood cominciò a ipotizzare che la nave fosse stata attaccata da una piovra o un
calamaro gigante, o che l’intero equipaggio fosse stato risucchiato in mare da
una tromba d’acqua dalle proporzioni spaventose. Anche se nessuna di queste
teorie spiegava la professionalità con cui era avvenuta la rapida evacuazione
dell’equipaggio sulla scialuppa, a Gibilterra – ma anche in Europa e in America
– iniziarono presto a circolare storie sulla nave che era stata attaccata da un
mostro marino o dall’Olandese volante, un vascello fantasma emerso
dall’oceano per portar via tutte le persone a bordo.

LA MALEDIZIONE DELLA FAMIGLIA BRIGGS

L’anno prima di partire per il suo sventurato viaggio sulla Mary Celeste, il capitano
Benjamin Spooner Briggs aveva deciso di lasciarsi alle spalle la vita in mare e aveva quasi
finito per comprare un negozio di ferramenta a New Bedford; col senno di poi, sarebbe
stata una mossa saggia.
Pensando di far loro un regalo, Briggs decise di portare con sé sua moglie Sarah e la loro
figlia Sophia nel viaggio, con la conseguenza che sparirono anche loro assieme a lui. Il
loro figlio, Arthur, era rimasto a terra con dei parenti, in quanto doveva frequentare la
scuola; anche la sua vita, però, si sarebbe in seguito conclusa con una tragedia, quando
venne ucciso da un albero caduto durante una tempesta.
Il resto della famiglia di Briggs non fu più fortunato. Suo padre fu ucciso da un fulmine e
suo fratello Oliver, che dopo aver sentito ciò che era capitato a Benjamin aveva deciso di
lavorare in una ferramenta, andò in mare solo due mesi dopo. L’8 gennaio 1873 la sua
nave, la Julia A. Hallock, fu colta all’improvviso da una tempesta nel golfo di Biscaglia e
affondò nel giro di pochi minuti, portando Oliver con sé.

Dopo che l’inchiesta su ciò che era accaduto all’equipaggio della Mary
Celeste si concluse senza alcun risultato, la nave poté proseguire verso Genova
sotto il comando del capitano Blatchford, fatto arrivare da Boston dai
comproprietari della nave. Purtroppo per Morehouse, la sua reputazione rimase
per sempre macchiata dalle deliranti accuse di Solly-Flood, che lasciò inoltre
agli assicuratori della Mary Celeste la possibilità di offrire come indennizzo per
il salvataggio un irrisorio venti per cento del valore combinato della nave e del
carico (in genere, la quota era del 50 per cento).
Con ogni probabilità, il mondo avrebbe dimenticato la Mary Celeste se non
fosse stato per il giovane Arthur Conan Doyle, che all’epoca pubblicava i suoi
scritti in forma anonima. Il numero di gennaio del 1884 del «Cornhill Magazine»
pubblicò la sua breve versione gotica della vicenda capitata alle persone a bordo
della nave, da lui ribattezzata Marie Celeste; è da questo racconto, apparso sotto
il titolo di La dichiarazione di J. Habakuk Jephson, che vengono tutti gli
abbellimenti caratteristici della storia di una nave fantasma, come i pasti lasciati
a metà, le tazze di tè fumanti e le pipe ancora accese posate con cura sul tavolo.
La storia, presentata come se fosse stata dettata dal personaggio citato nel titolo
– unico superstite della follia demoniaca e omicida che si era impossessata di
tutti gli altri individui a bordo – venne presa da molti come basata sui fatti. Il
«Boston Herald» se la bevve tutta fino all’ultima riga, riproducendola come una
testimonianza attendibile per lasciare ai suoi lettori l’impressione che questo
fosse di fatto stato il terribile destino delle persone a bordo della Mary Celeste.
La scienza moderna sembra aver infine trovato la spiegazione più logica di
ciò che accadde alla nave e al suo equipaggio. Quando la stiva della Mary
Celeste venne scaricata a Genova, nove dei 1701 barili di legno che contenevano
l’alcol furono trovati intatti ma vuoti. Gli altri 1692 barili erano fatti di quercia
bianca, mentre quelli vuoti di quercia rossa; quest’ultima, non avendo i pori
occlusi che rendono impermeabile la quercia bianca, è più adatta alla
conservazione di oggetti asciutti. Gli spedizionieri del carico, Meissner,
Ackermann & Co., avevano accidentalmente usato nove barili che, essendo del
tutto inadatti a contenere un fluido volatile, avevano permesso all’alcol di filtrare
attraverso le pareti e riempire di vapori la stiva. Questo spiegherebbe perché
l’equipaggio aveva rimosso le coperture dei portelli che vi davano accesso;
tuttavia, dato che i fumi dell’alcol sono molto più pesanti dell’aria, ciò non
avrebbe ridotto di molto la pericolosità della loro situazione. L’ipotesi che la
causa dell’evacuazione fosse stata legata alla natura pericolosa del carico era già
stata presa in considerazione, ma era sempre stata scartata in quanto si sapeva
che, durante l’ispezione della nave al suo arrivo a Gibilterra, non erano stati
trovati segni di incendio o di esplosione.
Tuttavia, nel 2006 il dottor Andrea Sella, professore di chimica all’University
College di Londra e uomo di prestigio internazionale nel suo campo, ha costruito
una replica della stiva della Mary Celeste piena di cubi di carta e l’ha riempita di
butano, a cui ha quindi dato fuoco. Nonostante quello che ci potremmo aspettare,
l’esplosione non ha lasciato pareti bruciacchiate e cubi di carta schiacciati e
carbonizzati. Sella, stando alla sua spiegazione, aveva creato un’esplosione
lampo con un’onda d’urto che, per quanto drammatica e terrificante, era
avvenuta in un ambiente con aria relativamente fresca e aveva avuto una durata
talmente breve da non lasciare danni strutturali o segni di bruciature. E, come
sottolineato da Sella, i vapori dell’alcol nella stiva della Mary Celeste sarebbero
dovuti bruciare molto più in fretta e a una temperatura molto più bassa del suo
butano. Se la causa dell’evacuazione fu di fatto questa, possiamo capire il panico
che produsse in un equipaggio che, conoscendo bene la natura pericolosa del
carico trasportato, vide all’improvviso i portelli saltar via con una fiammata
proveniente dalla stiva. Non avendo comprensibilmente voglia di restare lì ad
aspettare che un evento del genere si ripetesse, Briggs e il suo equipaggio
salirono sulla scialuppa, la legarono a rimorchio della Mary Celeste e sperarono
per il meglio; per qualche ragione, però, la fune si staccò dai ganci della
scialuppa e loro si ritrovarono così alla deriva. Pochi giorni dopo, quando
Deveau salì a bordo, tutti i fumi dell’alcol erano spariti e non c’era quindi nessun
odore rivelatore.
La sfortuna continuò a perseguitare la Mary Celeste anche in seguito. Negli
anni Ottanta dell’Ottocento navigò nelle acque delle Indie occidentali, ma anche
allora nessuno riuscì a trarne un profitto; quando tre dei suoi comproprietari
morirono prematuramente, fu bollata come una nave maledetta. Ciò permise
all’infido Gilman C. Parker di comprarla per un nonnulla, e lui era un uomo che
sapeva esattamente come farla fruttare. Nel novembre del 1884, in collusione
con altre persone tra cui il suo primo ufficiale, Parker la riempì fino all’orlo di
oggetti senza valore – per esempio, barili che avrebbero dovuto essere pieni di
buon vino ma che di fatto contenevano acqua – per poi dirigerla a tutta forza
contro la barriera corallina di Rochelais, al largo della costa di Haiti. Quando
cercò di incassare i trentamila dollari di indennizzo dell’assicurazione (che oggi
corrisponderebbero a quasi un milione di dollari), si sentì però dire che sarebbe
stato processato per frode. Tuttavia, sia Parker sia il suo primo ufficiale morirono
prima che venissero spiccati i mandati: Parker si strozzò mentre era ubriaco
fradicio e il primo ufficiale, Fillmore Tyson, venne ucciso in una zuffa con i
coltelli. Agli altri tre coimputati di Parker non andò molto meglio: uno morì, un
altro venne dichiarato pazzo e il terzo si sparò. Davanti al loro triste destino,
prese piede l’idea che la Mary Celeste, dal profondo del mare, fosse riuscita a
vendicarsi di coloro che l’avevano distrutta.
Camminare senza gambe: i monoliti dell’isola di Pasqua

Colonizzata per la prima volta da avventurieri polinesiani attorno al 700 d.C.,


l’isola nota ai suoi odierni abitanti come Rapa Nui riuscì a evitare i contatti con
gli europei fino alla Pasqua del 1722, quando l’esploratore olandese Jacob
Roggeveen finì sulle sue spiagge mentre stava cercando di raggiungere
l’Australia. Il quadro che vi trovò era deprimente ma anche, allo stesso tempo,
intrigante: spoglia e desolata, l’isola ospitava un paio di migliaia di persone
malnutrite e centinaia di statue di pietra dall’aspetto strano, che da allora hanno
continuato a mettere alla prova le menti degli archeologi.
Il numero totale dei Moai (così sono chiamate le statue), inclusi quelli non
completati rimasti alla cava e quelli rotti o abbandonati durante il trasporto,
supera i 1100. Nella stragrande maggioranza dei casi, altezza e peso sono
uniformi (circa quattro metri e quattordici tonnellate), ma ce ne sono alcuni
molto più grandi che misurano fino a dodici metri e pesano più di ottanta
tonnellate. Sono stati tutti ricavati dai grandi depositi di tufo – una roccia
relativamente tenera formata da cenere vulcanica – presenti al centro dell’isola.
Le pietre venivano erette per onorare gli antenati della famiglia che le scolpiva o
che pagava gli scultori, che nel loro lavoro si servivano di accette e ceselli fatti
di basalto (una roccia vulcanica molto più dura formata dalla solidificazione
della lava). Così, i misteri non riguardano il motivo per cui queste statue sono
state scolpite, e neanche il come: l’oggetto del contendere tra gli archeologi
riguarda invece il modo in cui sono state trasportate nelle loro varie posizioni in
giro per l’isola.
Ci sono, com’è ovvio, varie teorie riguardo al modo in cui questi monoliti
sono stati spostati dalla cava centrale e issati come sentinelle imbronciate nei
pressi delle coste di questa sperduta isola dalla forma triangolare, lunga circa
ventidue chilometri e larga undici. Fino a poco tempo fa, la maggior parte delle
persone ritenevano che le statue fossero state spostate dalla cava su slitte fatte
scorrere sopra rulli di legno; una tesi in apparenza logica, che però non
soddisfaceva tutti. Nel 2000, Charles Love – un archeologo e antropologo del
Wyoming – condusse un’ampia ricerca sulla rete di strade che si irradiavano da
quella cava centrale e, dopo aver riportato in luce le sedi stradali originarie
ripulendole da tutta la polvere e la terra che si erano accumulate nel corso dei
secoli, scoprì che avevano tutte una forma a U: erano, cioè, l’immagine invertita
delle strade moderne, che presentano una curvatura convessa. I risultati
dell’indagine di Love misero in crisi la teoria delle slitte, in quanto nelle strade
concave i rulli di legno si sarebbero spezzati a causa dell’assenza di un supporto
centrale; di fatto, se l’intenzione era quella di usare il metodo di slitte e rulli, le
strade avrebbero dovuto essere piane. La scoperta di Love aggiunse l’ultimo
anello a una catena di ipotesi che era stata sviluppata altrove.
Nel 2011, due uomini andarono sull’isola di Pasqua per testare sul campo la
loro teoria: uno era Carl Lipo, allora professore di archeologia alla California
State University, e l’altro era Terry Hunt, un archeologo e antropologo che si
stava specializzando nelle culture del Pacifico. Entrambi erano rimasti colpiti dal
fatto che gli abitanti dell’isola erano uniti nel sostenere, con la loro tradizione
orale, che le statue avevano magicamente camminato dalla cava alle loro attuali
posizioni; c’erano anche diverse canzoni sul “camminare dei Moai”, che
avevano un ritmo accentuato simile a quello dei canti dei marinai, scritti per
segnare il tempo e il ritmo con cui venivano tirate le funi per issare le vele. La
lingua di Rapa Nui include persino l’espressione neke-neke, che significa
“camminare senza gambe”; e, cosa piuttosto interessante, nella lingua maori
neke significa “serpente”. In precedenza, quando l’etnologo e avventuriero Thor
Heyerdahl aveva chiesto a un isolano chiamato Leonardo Haoa Pakomio di
dargli una dimostrazione del neke-neke, il vecchio si era alzato in piedi e,
tenendo le braccia distese lungo i fianchi e tutte le parti del corpo rigide, si era
messo a oscillare da un lato all’altro con le ginocchia bloccate, avanzando
lentamente come una sorta di malevolo pinguino. Dopo aver ripreso una postura
normale, Pakomio spiegò che questo era ciò che l’espressione significava; ma,
chiese, chi mai vorrebbe muoversi in una maniera simile?
Lipo e Hunt rivolsero quindi la loro attenzione a quelle statue che si erano
rotte ed erano state abbandonate accanto alla rete di strade a forma di U scoperta
da Love. La grande maggioranza delle statue rotte e scartate si trovava su sezioni
di strada con una leggera pendenza; quelle trovate sulle sezioni con una
pendenza verso il basso giacevano a faccia in giù, mentre quelle abbandonate
sulle sezioni in salita avevano la faccia rivolta verso l’alto. Ciò rafforzò l’ipotesi
di Lipo-Hunt che durante gli spostamenti le statue fossero tenute in posizione
eretta, cosa che nei tratti in pendenza rendeva il loro equilibrio particolarmente
precario. Notarono inoltre delle sorprendenti differenze tra le statue sistemate in
posizione e quelle abbandonate lungo la strada: queste ultime, infatti,
presentavano una parte inferiore del torso marcatamente più arrotondata, al
punto che viste di profilo sembravano quasi dei birilli da bowling. Osservarono
poi che le basi di tutte le statue abbandonate erano a forma di D (con la linea
diritta della D situata sul retro della statua) e sul davanti erano modellate con un
angolo rivolto verso il basso. In pratica, ciò significava che avevano un centro di
gravità molto più basso di quelle collocate al loro posto ed erano decisamente
“barcollanti”, con l’angolo alla base che le faceva pendere un po’ in avanti
quand’erano in posizione eretta.
All’inizio del 2012, quando arrivò la loro replica di un Moai, Lipo e Hunt
erano pronti a condurre il loro esperimento. Divisero i loro diciotto uomini in tre
squadre, legando una fune attorno alla testa della statua e le altre due attorno alla
sua base in modo che due squadre potessero torcerla da un lato all’altro per farla
“camminare” mentre la terza, analogamente, la faceva oscillare avanti e indietro
sulla sua base. Dopo qualche falsa partenza e un riposizionamento delle funi, in
quaranta minuti riuscirono a far “camminare” la loro statua per cento metri lungo
il solco concavo di una sezione della strada. Tenendo conto dell’abilità in queste
tecniche che gli abitanti dell’isola avevano sviluppato con l’esperienza, Lipo e
Hunt conclusero che gli isolani non avrebbero avuto problemi a far “camminare”
una delle loro statue per almeno un chilometro al giorno. Quindi, una volta che
la statua arrivava alla sua destinazione, la sua base veniva spianata in modo da
eliminare le irregolarità; e, dopo aver completato gli occhi, la dipingevano per
renderla “viva”, riducendo inoltre il suo torso in modo che avesse un profilo più
naturale.
L’ipotesi di Lipo-Hunt suscitò gli applausi di alcuni settori del mondo
accademico archeologico e le accese critiche di altri (soprattutto quelli legati alla
lobby delle slitte e dei rulli). Va detto che la loro ipotesi su come siano state
spostate le statue è fino a oggi l’unica che concorda con la tradizione orale
dell’isola, e spiega sia le strade concave sia la differenza di profili tra le statue
abbandonate per strada e quelle collocate al loro posto. Inoltre, i rulli fatti con il
tronco delle palme, che hanno un interno morbido e spugnoso, si sarebbero
schiacciati e spezzati sotto il peso delle statue, cosa che ci porta alla natura del
disastro ecologico che si abbatté sull’isola.
Un tempo si pensava che gli isolani, per soddisfare la loro passione per le
statue, avessero abbattuto così tanti alberi – destinati alla trasformazione in rulli
– da finire per deforestare il loro stesso habitat. Uno studio più attento dell’isola
ha però messo in luce che quando vi approdarono i primi polinesiani c’erano
qualcosa come venti milioni di palme, il che significa che avrebbero avuto a
disposizione circa ventimila alberi per ciascuna statua. Ipotizzare che abbiano
usato così tanti alberi per ogni statua non è soltanto irrealistico ma, come detto
sopra, anche poco plausibile, in quanto la natura spugnosa e pieghevole del
tronco di palma, che gli permette di sopravvivere alle tempeste tropicali, non
sarebbe stata adatta per creare dei rulli in grado di adempiere al loro scopo su
una superficie stradale concava. L’ecosistema dell’isola di Pasqua – la cui
popolazione raggiunse un picco di dodicimila abitanti nel XV secolo – venne
distrutto da altri fattori, diversi dal presunto uso degli alberi di palma per la
fabbricazione dei rulli: a condannarlo furono la cattiva gestione delle risorse
disponibili e la voracità dei ratti polinesiani. Aggiungete le invasioni di europei e
sudamericani con cannoni, malattie e mire schiaviste, e avrete la tempesta
perfetta, in grado di far sì che nel 1877 la popolazione dell’isola si fosse ridotta a
soli 111 abitanti.
I coloni polinesiani, agricoltori che non sapevano che cosa farsene delle
palme, scelsero di adottare una politica aggressiva di abbattimenti e incendi per
liberare la terra da coltivare; inoltre, finirono per divorare l’intera popolazione di
uccelli terrestri e marini, che fornivano il guano essenziale per la salute e la
propagazione degli alberi rimasti. E poi c’erano i ratti, portati involontariamente
sull’isola da zattere e altre imbarcazioni. In assenza di predatori che ne
controllino il numero e con un’abbondante disponibilità di cibo, come sull’isola
di Pasqua, una singola coppia di ratti può generare una popolazione di svariati
milioni nel giro di tre anni; e lo snack preferito dei ratti erano i semi delle palme.
Così, l’azione combinata di esseri umani e ratti spazzò via tutti gli alberi,
lasciando l’isola vulnerabile all’erosione del vento e della pioggia e portando a
un degrado generale. Nei tempi di ristrettezze che ne seguirono, gli isolani
precipitarono quindi in una guerra civile, o almeno così ci racconta la storia.

IL PASSO STRASCICATO

Anche se furono i primi a identificare la particolare meccanica richiesta per far


“camminare” le statue, gli archeologi Carl Lipo e Terry Hunt non furono i primi a capire che
forse gli isolani le avevano portate in posizione “strascicandole”; il primo a suggerire
questa possibilità fu infatti l’antropologo francese Jean-Michel Schwartz nel suo libro The
Mysteries of Easter Island (1975).
L’ipotesi di Schwartz spinse Pavel Pavel, un ingegnere ceco interessato alle tecniche
usate dagli antichi per spostare grossi pesi, a costruire nel 1982 una sua replica di Moai e
a tentare quindi di farla “camminare”. Nel 1986, Thor Heyerdahl lo invitò ad
accompagnarlo sull’isola per mettere alla prova le sue idee con le statue vere.
Nella maggior parte dei loro tentativi, usarono due piccole squadre per far oscillare un
Moai da un lato all’altro mentre una terza squadra tirava ritmicamente una fune per
trascinare la statua in avanti. Anche se raggiunsero un certo grado di successo, i loro
risultati non furono comunque paragonabili alla facilità di movimento che sarebbe poi stata
ottenuta da Lipo e Hunt con la loro tecnica di applicare una torsione alla base del Moai
mentre la statua veniva fatta oscillare avanti e indietro.

Quest’ultimo aspetto della storia dell’isola arrivò per la prima volta alle
orecchie degli europei attraverso l’esploratore norvegese Thor Heyerdahl,
famoso soprattutto per la sua spedizione alle isole polinesiane del 1947 a bordo
della zattera Kon-Tiki. A quanto pare, sull’isola di Pasqua vivevano due gruppi o
classi sociali distinti: la gente dalle Orecchie Lunghe si riteneva superiore a
quella dalle Orecchie Corte e la ridusse in uno stato di schiavitù, dal quale
quest’ultima si ribellò massacrando i suoi oppressori. Tuttavia, la percezione
occidentale di questa leggenda è leggermente distorta dalla traduzione errata
dell’espressione Hanau Eepe, che propriamente significa “la gente bassa e
tarchiata” ma dove la seconda parola venne confusa con il termine rapanui epe,
che significa “orecchio”; così, lo scontro fittizio non fu tra persone dalle
orecchie lunghe e altre dalle orecchie corte, bensì tra individui bassi e grassi e
altri alti e magri.
Nessuno sa perché, ma l’arrivo dei primi esploratori olandesi nel 1722 portò a
un’immediata cessazione della produzione di statue. Forse gli isolani avevano
pensato che quelle teste collocate lungo le coste avrebbero tenuto alla larga gli
invasori, e visto che così non era stato, le statue persero il loro rispetto: se gli
antenati ci hanno abbandonato, perché non dovremmo abbandonarli anche noi a
nostra volta, fu forse il loro ragionamento. In ogni caso, nel corso di circa un
secolo, con le successive incursioni sull’isola di spedizioni olandesi, spagnole e
britanniche (per non parlare degli schiavisti peruviani), tutte le statue caddero in
quello che gli isolani ricordano come l’Huri Mo’ai, l’“abbattimento dei Moai”.
Alcuni abitanti affermano che la profanazione fu deliberata, mentre altri la
attribuiscono a “uno scuotimento della terra irata”; sia come sia, ora però la
maggior parte delle statue sono state rimesse in piedi dai cinquemila isolani,
sostenuti dall’industria del turismo.
3.
Il delitto più efferato
Il cobra di Cleopatra: la morte dell’ultima regina d’Egitto

È probabilmente vero che se nel 1579 Sir Thomas North non avesse pubblicato
la sua traduzione delle Vite parallele di Plutarco, su cui Shakespeare avrebbe
basato nel 1607 il suo successo Antonio e Cleopatra, oggi sarebbero pochi ad
avere familiarità con questi due personaggi e nella cultura popolare non ci
sarebbe un’immagine così distorta di Cleopatra. La regina egiziana è oggi
condannata a essere rappresentata come la femme fatale del Nilo che usò le armi
della sua seduzione per adescare uomini come Cesare e Marco Antonio, ma
questa immagine frivola nasconde la realtà di una donna dalle grandi capacità
intellettuali e dalla volontà d’acciaio. L’aspetto più affascinante della
complessità di Cleopatra era la sua mente, non il suo talento tra le lenzuola.
La dinastia tolemaica, a cui Cleopatra apparteneva, venne fondata da Tolomeo
Lagide nel 323 a.C. e sarebbe durata per più di tre secoli. Tolomeo era stato un
comandante di Alessandro Magno e forse anche un suo fratellastro, in quanto la
madre di Tolomeo, Arsinoe, era una concubina di Filippo II di Macedonia. In
ogni caso, dopo la morte di Alessandro e con il declino del suo impero, Tolomeo,
appoggiato da un esercito di considerevoli dimensioni, marciò verso l’antico
Egitto per stabilirvi un regno ellenistico di cui si dichiarò re. Fu Tolomeo V a
istituire il titolo regale “Cleopatra” (che in greco significa “gloria del padre”),
che sarebbe poi stato portato da una quindicina di regine o aspiranti tali. La
signora in questione era Cleopatra VII (69-30 a.C.), figlia di Tolomeo XII, e si
chiamava “Thea Philopator”, che in greco significa “Dea che ama il padre”.
Sarebbe stata l’ultima monarca assoluta dell’antico Egitto.
Dopo l’assassinio di Giulio Cesare, il principale sostenitore di Cleopatra,
quest’ultima organizzò un incontro con Marco Antonio a Tarso, in Asia Minore,
e fu lì che, nel 41 a.C., i due iniziarono a progettare il loro fatale tentativo di
isolare l’Egitto dal controllo romano. Nel giro di quattro anni ottennero il
controllo sull’Egitto e Marco Antonio dichiarò di fatto l’indipendenza da Roma.
Ottaviano – il futuro imperatore Augusto – si mosse contro di loro segnando il
destino di entrambi con la distruzione della flotta egiziana nella battaglia di Azio
(31 a.C.), al largo delle coste greche. La coppia fuggì inseguita da Ottaviano, ma
una volta tornato in Egitto Antonio scoprì che le sue forze di terra lo avevano
abbandonato. Quando Ottaviano li raggiunse, nell’agosto del 30 a.C., Antonio si
era nascosto mentre Cleopatra era rimasta nel suo palazzo. Ciò che accadde a
quel punto è avvolto nel mistero: venne uccisa o si uccise?
Stando allo storico romano Plutarco (e, in seguito, a Cassio Dione), il fatto
che Cleopatra fosse ancora viva e rinchiusa nel suo mausoleo poneva Ottaviano
di fronte a un dilemma: la sua uccisione presentava vantaggi e svantaggi, ma in
ogni caso Ottaviano non poteva mostrarsi macchiato del suo sangue. In qualche
modo, uno dei servi di Cleopatra portò un messaggio a Marco Antonio in cui si
diceva che la regina si era suicidata e che lui avrebbe fatto meglio a seguire il
suo esempio. Non è chiaro se questo messaggio fosse stato inviato apertamente
da Ottaviano, da Ottaviano che fingeva di essere Cleopatra oppure dalla regina
stessa; in quest’ultimo caso, sarebbe in linea con le testimonianze dei negoziati
preliminari tra Ottaviano e Cleopatra, nei quali a quest’ultima venne
(falsamente) promesso che sarebbe anche potuta rimanere sul trono egiziano, ma
sotto un più stretto controllo da parte di Roma; per poter procedere in questa
direzione, però, avrebbe dovuto innanzitutto assicurarsi la morte di Marco
Antonio. In ogni caso, il messaggio sortì l’effetto sperato e Marco Antonio si
suicidò.
Sempre grazie a Plutarco e Dione, sappiamo che Ottaviano aveva carezzato
l’idea di trascinare Cleopatra in catene per le strade di Roma nella parata
trionfale che avrebbe accompagnato il suo ritorno. Tuttavia, si ricordava bene
che quando Giulio Cesare aveva fatto una cosa del genere con la sorellastra di
Cleopatra, Arsinoe, l’episodio gli si era ritorto contro, in quanto la fragile dignità
della donna aveva mosso a compassione la folla e le urla di disapprovazione
erano state molto più numerose degli applausi. Consapevole dell’importanza
dell’appoggio popolare, Ottaviano non voleva rischiare una simile gaffe sul
piano delle relazioni pubbliche. Ma se Cleopatra avesse pensato che quello era il
destino che l’attendeva? Di certo avrebbe “fatto la cosa più decente” e si sarebbe
uccisa. Così, o per caso o intenzionalmente, le voci di questa sorte giunsero di
certo alle orecchie di Cleopatra, che a quel punto – pare – avrebbe deciso che la
morte immediata fosse l’opzione preferibile.
L’idea che a dare la morte a lei e alle sue due ancelle sia stato un aspide – il
cobra egiziano – è del tutto insostenibile. Sappiamo che chiamò un servo per
portare un messaggio a Ottaviano con cui lo informava della propria decisione, e
lui – i cui appartamenti erano solo a pochi minuti di distanza – corse subito lì
trovandola ormai nell’abbraccio sereno della morte. Ora, il cobra egiziano è
giustamente temuto perché il suo veleno neurotossico/necrotossico provoca un
forte rigonfiamento, con lividi e vesciche, nel punto del morso, a cui seguono
attacchi di nausea, vomito, diarrea e convulsioni, fino alla paralisi. La morte non
è né piacevole né veloce, e prima del suo sopraggiungere possono volerci tra le
due e le otto ore, nelle quali le vittime si contorcono nell’agonia e non hanno
certo quella serena compostezza che sarebbe stata riscontrata in Cleopatra. Se la
regina si suicidò, quindi, lo fece probabilmente con altri mezzi: ai suoi tempi,
ogni governante si teneva a portata di mano un veleno ad azione rapida da
prendere quando non ci fossero più state vie di scampo, e Cleopatra non faceva
eccezione. Si sapeva che teneva un veleno del genere in una spilla che portava
tra i capelli. Dunque, da dove è nata la stupida idea del serpente?

L’EREDITÀ
Cleopatra aveva quattro figli, il più vecchio dei quali era Cesarione; si diceva che suo
padre fosse Giulio Cesare, anche se quest’ultimo lo aveva sempre negato. Undici giorni
dopo la morte della regina, Ottaviano fece uccidere Cesarione, giusto per non correre il
rischio che fosse davvero il figlio di Cesare e quindi un contendente per il trono di Roma.
Cleopatra aveva inoltre avuto da Marco Antonio due figli maschi, Alessandro e Tolomeo
Filadelfo, e una femmina, Cleopatra Selene.
Dopo la morte di Cleopatra, questi tre bambini furono portati a Roma da Ottaviano e
mandati a vivere con sua sorella Ottavia, che era stata moglie di Marco Antonio prima di
essere da lui abbandonata. In seguito dei due ragazzi si persero le tracce, ed è del tutto
possibile che Selene – tenendo alte le vecchie tradizioni di famiglia – li abbia eliminati per
sgombrarsi il campo.
Nel 26 a.C., Ottaviano, diventato l’imperatore Augusto, diede a Selene un’enorme dote per
sposare re Giuba di Numidia (l’odierna Algeria), a condizione che giurasse fedeltà a
Roma; in seguito, presero assieme le redini della provincia romana della Mauretania che,
sotto l’abile mano di Selene, diventò il regno del Marocco.

Felice di correre il rischio di portare Cleopatra in parata sulle strade di Roma


ora che poteva farlo in effige, Ottaviano fece scolpire una statua che la ritraeva
distesa su un divano con un cobra egiziano avvolto attorno al suo bicipite destro,
con la testa sul suo seno. Il serpente non intendeva indicare il modo in cui era
morta, ma era soltanto un simbolo della dinastia che Ottaviano aveva
sottomesso; le persone, però, lo interpretarono male. Detto questo, quando l’idea
che la regina fosse stata uccisa dal morso di un cobra mise radici, Ottaviano e
altri fecero tutto il possibile per confermarla. Cleopatra veniva dipinta come una
spregevole strega che aveva schiavizzato gli uomini ricorrendo alla magia nera
sessuale, come una “furia lussuriosa” che era stata “la vergogna dell’Egitto”. La
storia del serpente si adattava bene a questa narrazione e venne ulteriormente
arricchita dicendo che quella creatura era stata introdotta di nascosto nei suoi
appartamenti dentro un cesto di fichi. Di fatto, anche quest’ultima era
un’allusione oscena: il simbolismo sessuale del serpente non ha bisogno di
spiegazioni, ma nell’antica Roma anche il fico era un simbolo sessuale
altrettanto forte. L’equivalente romano del saluto col dito medio era il gesto della
manus fica, fatto estendendo il pollice tra l’indice e il medio del pugno chiuso.
(Chi dice «Non me ne importa un fico» di qualcosa sta quindi usando
un’espressione più volgare di quanto potrebbe pensare.)
Questo per quanto riguarda la morte di Antonio e Cleopatra; ma dove sono
sepolti i loro corpi? I documenti dicono che Ottaviano accolse il loro desiderio di
essere seppelliti assieme, ma purtroppo non indicano l’esatta posizione della loro
tomba; forse si tratta di un’omissione deliberata da parte del futuro imperatore,
che non voleva che la loro tomba diventasse un punto di riferimento per una
qualche rivoluzione. Se vennero sepolti vicino allo splendido palazzo di
Cleopatra ad Alessandria, la loro tomba è perduta per sempre, in quanto tale
palazzo è oggi inabissato nel golfo di fronte alla città. Il dottor Zahi Hawass, un
eminente – anche se controverso – archeologo egiziano che fino al 2001 era
ministro delle Antichità, sta concentrando le sue ricerche presso le rovine del
tempio di Osiride a Taposiris Magna, una cinquantina di chilometri
nell’entroterra. Qui non ha soltanto trovato diverse monete con l’effige di
Cleopatra e altre con quella di Marco Antonio, ma ha anche scoperto che tutte le
mummie nelle camere nascoste che circondano il tempio sono state seppellite
con la testa girata verso il tempio di Osiride, cosa che indica che lì ci doveva
essere qualcuno di importante.
La sifilide o Salieri: chi ha ucciso veramente Mozart

Il fatto che Mozart fosse un genio della musica è probabilmente fuori


discussione. Bambino prodigio, riempiva spartiti prima ancora di riuscire a
scrivere il suo nome e creò la metà di tutte le sue sinfonie tra gli otto e i
diciannove anni. Era anche una sorta di pervertito, con un’ossessione scatologica
che sfiorava il patologico; i contenuti delle lettere da lui scambiate con sua
madre, che coltivava inclinazioni simili, sarebbero semplicemente irriferibili in
questa sede. Diciamo solo che dalla stessa mente che creò la Eine Kleine
Nachtmusik (“Piccola serenata notturna”) nacque anche il meno famoso Leck
mich im Arsch (“Leccami il culo”), un canone in si bemolle maggiore, numero di
catalogo K231, del quale scrisse anche un seguito con un titolo che è meglio non
citare. Ma, a parte questo, venne davvero ucciso dal suo rivale presumibilmente
invidioso, Antonio Salieri? Questa popolare teoria è stata presentata come un
fatto nel film Amadeus (1984), un’opera pluripremiata e di grande successo su
cui si basa la percezione che le nuove generazioni hanno dell’intera saga di
Mozart-Salieri.
In quel film, e in accordo con l’immagine popolare di Mozart e Salieri, il
primo è impersonato da un giovane Tom Hulce e il secondo dal più anziano F.
Murray Abraham, che recita la parte di un vecchio ormai esaurito alle prese con
il giovane genio arrogante che vuole fargli le scarpe. In realtà, i due avevano
quasi la stessa età – Mozart era nato nel 1756 e Salieri nel 1750 – e, all’epoca del
loro incontro a Vienna, il secondo occupava la prestigiosa posizione di
Kapellmeister della città ed era al culmine del successo. L’unica rivalità musicale
nella città era quella, molto ampia, tra la fazione tedesca e quella italiana; non ci
sono prove di forti animosità personali, e di certo non tra Mozart e Salieri, che
erano ognuno il faro della propria fazione.
Mozart, che non aveva mai goduto di un’ottima salute – può darsi che avesse
già sofferto di sifilide, tifo, vaiolo, bronchite, polmonite e tre attacchi di febbre
reumatica – andò incontro a un’improvvisa fase di rapido declino nel novembre
del 1791, quando aveva solo trentacinque anni. Stando a tutti i testimoni oculari,
aveva una febbre alta accompagnata da nausea, doppia incontinenza e forte
sudorazione, e nella sua stanza aleggiava il lezzo della putrefazione. Dopo due
settimane, il suo intero corpo sembrava una massa rigonfia, e prima di morire
entrò in coma. Va detto che, all’inizio di quella malattia, era stato lui stesso a
mettere in giro per primo la voce di un avvelenamento, farneticando con sua
moglie, Constanze, che qualcuno della fazione italiana doveva avergli rifilato
una dose di Acqua tofana, una letale miscela incolore e insapore (tanto da essere
indistinguibile dall’acqua) di arsenico, piombo e belladonna. Questo insidioso
veleno, che si riteneva fosse stato inventato all’inizio del XVII secolo da una
certa Giulia Tofana di Palermo e che ancora oggi molti ritengono davvero
esistente, è in realtà una pura fantasia. L’eminente filosofo A.C. Grayling,
direttore del New College of Humanities di Londra, se n’è occupato nel suo libro
del 2006 The Heart of Things (trad. it. Al cuore delle cose, Longanesi, Milano
2007), affermando che l’Acqua tofana non era nient’altro che una leggenda
urbana usata per spaventare le corti europee e solleticarne le fantasie. Se un
veleno del genere fosse esistito e fosse stato dato a Mozart, quest’ultimo non
avrebbe potuto dir niente a nessuno.
Anche fermandoci solo al normale arsenico, se Mozart avesse ricevuto una
singola dose letale sarebbe morto nel giro di ore o, al massimo, di un paio di
giorni. Alcuni avvelenatori preferivano ricorrere a dosi incrementali, cosa che
però richiedeva un ripetuto accesso alla vittima; tuttavia, le uniche persone che
rimasero assieme a Mozart durante l’intero e ben documentato periodo del suo
declino furono i suoi parenti stretti e il suo medico, il dottor Nikolaus Closset.
Dato che i sintomi sofferti da Mozart non corrispondono a quelli
dell’avvelenamento da arsenico, qualcuno ha ipotizzato che il musicista sia stato
una delle numerose vittime di un’infezione da streptococco molto aggressiva che
all’epoca circolava a Vienna. Una teoria alternativa, avanzata nel 2001 dal
professor Jan Hirschmann (della facoltà di medicina dell’università di
Washington) e ritenuta da molti probabile, identifica il colpevole nella trichinosi,
un’infezione che si può contrarre mangiando carne (contaminata) di maiale,
della quale Mozart era straordinariamente ghiotto. L’ingestione della trichina, un
verme parassita che spesso infesta la carne di maiale e che può sopravvivere se
quest’ultima non viene cotta in modo adeguato, provoca di fatto dei sintomi
simili a quelli sperimentati da Mozart. Le diagnosi retrospettive non sono certo
una scienza esatta, e sono più utili per escludere alcune cause di morte che non
per individuare quella effettiva, ma l’articolo di Hirschmann è di particolare
interesse, in quanto si sofferma nel dettaglio a spiegare perché né l’arsenico né
nessun altro veleno dell’epoca avrebbero potuto provocare quegli effetti.
Un altro mito popolare è quello di un Mozart senza un centesimo che venne
sepolto in una tomba da poveri durante una bufera di neve, alla presenza di un
numero molto ridotto di persone. In realtà, Mozart venne seppellito nella
maniera prescritta per tutti dai regolamenti funebri di Vienna, stabiliti per
decreto dell’imperatore Giuseppe nel 1784: a causa di una carenza di spazio, si
era deciso che tutti – tranne, com’è ovvio, le élite – venissero sepolti in una fossa
che sarebbe quindi stata riaperta ogni dieci anni, in modo da poterla ripulire dai
resti ancora presenti per poi riutilizzarla. Il suo funerale fu organizzato dal
barone Gottfried van Swieten e vi parteciparono numerose persone, tra cui
Salieri e altri musicisti importanti. Tutta la storia della tempesta di neve venne
poi inventata da Joseph Deiner, un giornalista che, sostenendo falsamente di
essere stato presente, scrisse un articolo sul «Morgen-Post» di Vienna il 28
gennaio 1856, raccontando dello sparuto gruppo di persone in lutto che, alla fine,
vennero spinte via dalla furiosa tempesta. I registri dell’Osservatorio di Vienna,
però, affermano che il 6 dicembre 1791 il tempo era stato «mite, con frequenti
foschie; la temperatura è stata di 2-3 gradi Celsius, con un debole vento da est
per l’intera giornata».

L’EREDITÀ DI MOZART
Anche se noi lo conosciamo come Wolfgang Amadeus Mozart, il compositore era stato
battezzato come Johannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart, un nome lungo
da pronunciare; per questo motivo, probabilmente, sua moglie e i suoi amici intimi lo
chiamavano soltanto “Wolferl”.
Lui e Constanze ebbero sei figli, ma solo due arrivarono all’età adulta: Karl Thomas, che
morì nel 1858, e Franz Xaver, che si spense nel 1844, entrambi senza essersi mai sposati
e senza aver avuto figli. Franz ebbe un limitato successo come compositore-direttore
d’orchestra, mentre Karl trascorse la maggior parte della sua vita dedicandosi a lavori
d’ufficio dopo aver fatto fallimento con un negozio di pianoforti a Livorno. Con lui morì
l’ultimo erede diretto di Mozart.
I discendenti indiretti, però, arrivarono fino al XX secolo con Bertha Forschter (la bisnipote
della sorella di Mozart, Maria Anna), che morì nel 1917, e con Karoline Grau (la trisnipote
del padre di Mozart, Leopold), spentasi nel 1965.

Dopo il funerale, la voce delle farneticazioni paranoidi di Mozart


sull’avvelenamento si sparse per le vie di Vienna, ingigantendosi: si sussurrava
che Salieri, capo in via ufficiosa della fazione italiana, avesse ucciso il giovane
genio per rancore e invidia. Sua moglie Constanze, che molti film biografici
presentano in modo irritante come una testa vuota, non diede alcun credito a quei
pettegolezzi: pochi anni dopo la morte di Mozart, infatti, mandò suo figlio Franz
da Salieri perché lo istruisse, cosa che di certo non avrebbe fatto se avesse
pensato che fosse l’assassino del marito. Fu Constanze, donna poliglotta e
soprano di talento, a organizzare una serie di concerti in memoria di Mozart in
tutta Europa e a custodire con cura il suo catalogo di composizioni per
assicurarsi che la morte del marito fosse soltanto l’inizio della sua fama.
Per quanto riguarda Salieri, i malevoli pettegolezzi che lo bollarono come un
assassino e le risatine di scherno che accompagnarono la sua carriera ebbero un
pesante impatto sulla sua psiche: ricoverato nel 1823 con sintomi di demenza,
nelle sue ore più buie vagava sconvolto, gridando che era stato lui a uccidere
Mozart. Nel 1830, Puškin scrisse un melodramma, Mozart e Salieri, in cui lo
accusava esplicitamente di aver ordito l’omicidio, dramma che Rimskij-
Korsakov trasformò poi nel libretto per la sua opera omonima del 1897. Nel
1979, Peter Shaffer usò il testo originale di Puškin come base per il suo dramma
Amadeus, poi trasposto nel film da cui oggi la maggior parte delle persone trae la
propria visione dei due protagonisti.
Ma i misteri che circondano Mozart non finiscono qui: che cosa è successo al
suo teschio? Stando a un aneddoto, al momento di celebrare le esequie di Mozart
il becchino del cimitero di San Marx, Joseph Rothmayr, legò un filo metallico
attorno al suo collo per facilitare la sua successiva identificazione; quindi,
all’esumazione dei cadaveri di quella fossa comune, un decennio più tardi, rubò
il teschio per tenerlo come ricordo. Quando andò in pensione, Rothmayr lasciò il
suo raccapricciante trofeo al suo successore, Joseph Radshopf, che nel 1842 lo
passò a un cesellatore viennese chiamato Jakob Hyrtl. Trovando inquietante il
teschio che lo “fissava” dalla sua scrivania, Hyrtl lo diede a suo fratello Joseph,
professore di anatomia all’università di Vienna, che coltivava un interesse per
l’oggi screditata “scienza” della frenologia e possedeva quindi una notevole
collezione di teschi. Dopo aver rifiutato di vendere il teschio alla città natale di
Mozart, Salisburgo, nonostante una principesca offerta di duecento talleri
d’argento, la famiglia di Hyrtl lo donò infine alla Fondazione Internazionale
Mozarteum di quella città. Ma il mistero non era ancora finito.
Nel 2006, la televisione di Stato austriaca (ORF, Österreichischer Rundfunk)
assunse un team di genetisti per determinare se il teschio custodito dalla
Mozarteum fosse veramente quello del celebre compositore. I test confrontarono
i campioni di DNA presi dai resti di sua nipote Jeanette e della sua nonna
materna Eva Rosine Pertl, esumate presso il cimitero di San Sebastian a
Salisburgo, con uno estratto dai denti del teschio; tuttavia, tra lo stupore
generale, non emerse alcun collegamento genetico tra nessuno di questi tre
campioni. Se gli altri membri della famiglia Mozart erano promiscui come lui,
non ci si dovrebbe sorprendere della dilagante presenza di figli illegittimi tra le
loro file; tuttavia, è anche possibile che il teschio della Mozarteum non sia quello
del compositore. Nei circoli musicali di Vienna e di Salisburgo circola una
battuta secondo la quale al mondo ci potrebbero essere una dozzina di teschi di
Mozart, ma solo tre di loro sono autentici.
Il contadino che sapeva troppo: la morte di Rasputin

Nato nel 1869, Grigorij Rasputin era un macchinatore carismatico e


machiavellico ritenuto in grado di controllare l’emofilia dello zarevic attraverso
l’ipnosi. Grazie a questa sua capacità, nel 1905 era entrato a far parte del circolo
più ristretto dello zar, una posizione di cui, a quanto pare, abusò sfruttando
quello stesso potere ipnotico per sedurre la zarina, uno scandalo che portò infine
alla sua morte per mano della nobiltà russa. Il terrificante racconto del suo
assassinio è stato trasposto in molti film nei quali i congiurati avvelenano lo
scapigliato mistico, gli sparano, lo pugnalano e lo colpiscono con ogni sorta di
cosa, ma nonostante tutto questo lui è ancora vivo quando viene avvolto in un
tappeto e gettato nelle gelide acque della Neva. Tutto questo melodramma
sembra però essere una mera invenzione: di fatto, pare che Rasputin sia stato
assassinato nel 1916 dai Servizi segreti britannici (SIS). Ma come aveva fatto
questo maleodorante contadino a insinuarsi nelle alte sfere della più grande corte
di quell’epoca?
La corte reale russa di Nicola II e Alessandra viveva in una ricchezza al di là
di ogni immaginazione, mentre gran parte del Paese era prigioniero in una sorta
di cultura medievale che il resto dell’Europa aveva da tempo abbandonato (in
Russia, la servitù della gleba venne abolita completamente solo nel 1892). Molti
cortigiani erano ossessionati dall’occulto ed erano alla costante ricerca di un
nuovo profeta che facesse da loro intermediario con Dio. Nicola credeva senza
dubbio che Dio parlasse attraverso le bocche di sempliciotti e dementi, cosa che
lo spinse ad accogliere nella sua corte una serie di matti – e di ciarlatani che
fingevano di esserlo – da consultare su questioni di politica interna ed estera. Nel
1903, Eric Weiss – meglio noto come Harry Houdini – venne invitato a esibirsi
davanti alla corte: Nicola andò in estasi e, per quanto Houdini avesse ribadito
che erano soltanto trucchi, proclamò che era l’autentico Volshebnik (“mago” o
“uomo dei miracoli”) che tutti stavano aspettando. Rifiutando garbatamente
l’invito dello zar a fermarsi a corte per rivestire quel ruolo (in seguito, avrebbe
spiegato di aver avuto paura che potessero tenerlo lì prigioniero, come una sorta
di animale da esibizione), Houdini fuggì da San Pietroburgo proprio quando
Rasputin giunse nella città, dove avrebbe trovato il palcoscenico pronto e un
ruolo di Volshebnik disponibile per chi volesse prenderlo.
Avendo sentito parlare dei presunti poteri guaritivi di Rasputin, Alessandra lo
mandò a chiamare per vedere se potesse fare qualcosa per l’emofilia di suo
figlio. Di fatto, Rasputin sembrava in grado di ridurre la gravità delle emorragie
sia interne sia esterne del ragazzo. Qualcuno ha ipotizzato che si servisse
dell’ipnosi per tranquillizzarlo e rallentare così il suo battito cardiaco, ma non ci
sono prove della sua abilità nella mesmerizzazione; più probabilmente, il suo
intervento bastava a tenere a bada i dottori di corte, con le loro sanguisughe e il
loro ricorso a un nuovo, prodigioso farmaco chiamato aspirina, di cui oggi
conosciamo le straordinarie proprietà anticoagulanti e che non era quindi certo il
miglior trattamento possibile per un emofilico. In ogni caso, il ragazzo sembrava
trarre un effettivo giovamento dalla presenza di Rasputin, così che da quel punto
in poi lo zar e la zarina furono alla sua mercé.
Per mantenere il controllo sui reali, Rasputin incoraggiò la loro assunzione
sperimentale di droghe, al punto che Alessandra finì per sviluppare una
dipendenza da barbiturici, cocaina e morfina e Nicola continuava a fumare
sigarette di marijuana tagliate con iosciamina, una sostanza psicotropa ricavata
dal giusquiamo. Ritenendosi in una posizione tale da poter influenzare la politica
estera, Rasputin iniziò quindi a far pressione sullo zar perché si ritirasse dalla
Prima guerra mondiale, cosa che però segnò la sua rovina. Consapevoli del
potere esercitato da Rasputin sullo zar, i SIS cominciarono ad allarmarsi, anche
perché sospettavano – giustamente – che avesse aperto dei canali di
comunicazione con l’intelligence tedesca presentandosi come un mediatore per
la pace. Con il ritiro della Russia dal conflitto, i tedeschi avrebbero potuto
rischierare trecentocinquantamila loro soldati sul fronte occidentale, dove gli
equilibri si sarebbero così spostati in favore di Berlino; Rasputin andava quindi
eliminato.
Dato che le macchinazioni dei servizi segreti sono per loro stessa natura
segrete, non conosceremo mai con certezza i dettagli, ma i più ritengono che la
catena di eventi che condusse alla morte di Rasputin fu la seguente. Verso la fine
del 1916, il capitano del SIS Oswald Rayner ricevette l’ordine di riprendere i
contatti con un suo ex amante, il principe Feliks Jusupov; i due avevano studiato
assieme a Oxford, e Jusupov, un esuberante travestito, era uno dei tanti cortigiani
ansiosi di sbarazzarsi di Rasputin. Rayner, che si trovava già a Pietrogrado (il
nome con cui San Pietroburgo venne ribattezzata all’inizio della Prima guerra
mondiale), il suo vice Stephen Alley (che era nato nel palazzo degli Jusupov, in
quanto suo padre era stato un precettore del giovane Feliks) e un altro ufficiale
del SIS, John Scale, iniziarono a preparare i loro piani. Rayner contattò Jusupov
e, nei giorni che portarono all’assassinio, i due si incontrarono spesso; lo
sappiamo dal registro dell’autista di Rayner, che riporta nel dettaglio le visite al
palazzo Jusupov sulla Mojka, la penultima delle quali risale al giorno prima
dell’omicidio e l’ultima al giorno dopo. Gli accordi erano che Jusupov avrebbe
attirato Rasputin sulla Mojka il 30 dicembre 1916 (il 17 dicembre nel calendario
giuliano allora in vigore in Russia) con la promessa di una notte di bevute
sfrenate. Dopo un violento scontro a cui parteciparono Jusupov e un paio di altri
nobili russi, durante il quale Rasputin venne colpito da un proiettile di piccolo
calibro, Rayner entrò in scena e gli sparò a bruciapelo in mezzo alla fronte con la
sua rivoltella di servizio, una Webley .445. A differenza di quanto raccontano le
leggende, Rasputin non si rifiutò ostinatamente di morire lottando come un
demone, ma andò giù come un sacco di patate. Mentre i russi cercavano di
ricomporsi, Rayner e i suoi compagni legarono il corpo, lo avvolsero in un
tappeto e, col favore delle tenebre, lo gettarono nelle gelide acque del fiume.
Ma, naturalmente, al pubblico venne presentato lo spaventoso racconto
dell’evento fatto da Jusupov, studiato per nascondere il fatto che il principe
aveva coinvolto negli affari interni russi gli agenti di una potenza straniera.
Inoltre, questa versione lo faceva anche apparire come il salvatore della Madre
Russia, che aveva liberato il Paese da un uomo che molti vedevano come
l’incarnazione del diavolo. Jusupov sostenne che, in preparazione della visita di
Rasputin, aveva messo un’abbondante quantità di cianuro in tutti i pasticcini e
nelle bottiglie di Madeira, ma quel demone aveva trangugiato tutto come se non
ci fosse un domani senza riportare alcuna conseguenza. Così, il principe gli
aveva sparato per due volte al cuore da distanza ravvicinata, ma l’unico effetto
era stato quello di farlo infuriare. A quel punto – stando al racconto – si erano
uniti gli altri nobili e, insieme, gli avevano sparato qualche altra volta, lo
avevano pugnalato, lo avevano preso a calci in testa e gli aveva schiacciato la
gola sotto gli stivali. Tuttavia, dopo che lo avevano lasciato lì dandolo per morto,
al loro ritorno con il tappeto Rasputin era saltato su di nuovo per attaccarli, così
che c’era stato bisogno di altri spari, pugnalate, randellate ecc. prima che
potessero portar fuori il mistico – che ringhiava ancora – per affogarlo nel fiume.

IL VERO RASPUTIN
Grigorij Efimovič Novych, nato in Siberia nel 1869, era stato un adolescente problematico,
dedito a comportamenti antisociali e piccoli crimini. Nel 1887 si sposò con Praskov’ja
Dubrovina, dalla quale ebbe sette figli prima di essere costretto a fuggire, nel 1897, dopo
essere stato coinvolto in un furto di cavalli; nonostante questo abbandono, sua moglie gli
sarebbe rimasta devota fino alla fine. Solo tre dei loro figli – Maria, Dmitrij e Varvara –
arrivarono all’età adulta.
Mentre era in fuga dalla giustizia, Grigorij comprese i profitti che avrebbe potuto ricavare
dal diventare un mistico itinerante e adottò l’epiteto di Rasputin (che in russo significa
“licenzioso”), sviluppando quindi il concetto di salvezza attraverso il peccato; è inutile dire
che, sotto questa bandiera dottrinale, non aveva problemi a trovare neofiti.
Nel 1905 si stava facendo strada con il suo fascino negli ambienti di San Pietroburgo,
dove riuscì ad ammaliare le principesse Milica e Anastasia del Montenegro, entrambe
sposate a cugini dello zar; e il resto, come si suol dire, è storia.

Il primo problema nel racconto di Jusupov sta nella sua menzione del vino
Madeira e dei pasticcini, il cui consumo sarebbe stato molto doloroso per
Rasputin anche a prescindere dall’eventuale veleno. Il 29 giugno 1914, il mistico
era infatti stato aggredito da una contadina, Chionija Guseva, che dopo averlo
pugnalato allo stomaco corse per strada gridando di aver ucciso l’Anticristo; la
ferita provocò a Rasputin un’iperacidosi permanente che gli rendeva
estremamente dolorosa l’ingestione di qualunque forma di zucchero. Inoltre,
l’autopsia originale condotta dal professor Dmitrij Kosorotov non trovò alcuna
traccia di veleno nel corpo (pur avendole attivamente cercate, dopo aver sentito
il racconto di Jusupov) e riscontrò l’assenza di acqua nei polmoni; la causa della
morte, pertanto, doveva essere stata un singolo colpo alla fronte sparato con una
pistola di grosso calibro. Questa autopsia venne riesaminata nel 1993 dal dottor
Vladimir Zharov e quindi nel 2005 dall’illustre patologo forense dottor Derrick
Pounder, che non riscontrarono nessuna pecca nel lavoro svolto da Kosorotov.
Nel riesame del 2005 venne interpellato anche il Dipartimento delle armi da
fuoco dell’Imperial War Museum di Londra, che, dopo aver studiato le fotografie
forensi scattate nel 1916 alla testa di Rasputin, commentò «le dimensioni e la
prominenza del margine abraso del punto di ingresso [del colpo fatale] indicano
un grosso proiettile di piombo non rivestito», che secondo le loro ipotesi era
stato sparato da una Webley .445 in dotazione agli ufficiali britannici. All’epoca,
la Gran Bretagna era l’unico Stato che per le sue pistole di servizio usava ancora
i vecchi proiettili di piombo non rivestito.
Temendo per la propria vita, la figlia di Rasputin, Maria, fuggì dapprima a
Bucarest per lavorare come danzatrice “esotica” e quindi negli Stati Uniti, dove
fece la domatrice di leoni nel Ringling Bros Circus. Anche gli Jusupov, a loro
volta, finirono negli Stati Uniti, dove denunciarono la MGM per il film Rasputin
e l’imperatrice (1932), che aveva falsamente presentato Irina Jusupov come una
delle conquiste sessuali di Rasputin (pur cercando in qualche modo di
mascherarla come la principessa Natasha). La MGM dovette piegarsi a un
accordo che comportava il versamento di un pesante indennizzo; questo caso
avrebbe poi spinto tutti i produttori ad aggiungere ai loro film la famosa clausola
di esonero dalle responsabilità: «Questo film è opera di finzione e ogni
riferimento a persone vive o morte è puramente casuale».
Rasputin, dal canto suo, si sarebbe dimostrato più pericoloso da morto che da
vivo. Nel 1917 i tedeschi, ancora infuriati per come i britannici avevano
eliminato l’uomo più vicino a far uscire la Russia dalla guerra, volsero le loro
attenzioni a Lenin, allora in esilio in Svizzera, e a Trockij, che stava languendo a
New York. Dopo aver riempito d’oro le tasche di quest’ultimo e averlo
rimandato in Russia, misero Lenin su un treno piombato con 50 milioni di
marchi-oro, così che anche lui poté ritornare in Russia per prendere il controllo
del caos e far sì che il Paese fosse troppo occupato con le sollevazioni interne
per preoccuparsi della guerra in Europa. Furono soldi ben spesi: di fatto, la
Russia si ritirò dalla Prima guerra mondiale in seguito alla rivoluzione comunista
finanziata dai capitalisti.
Il corpo nel seminterrato: il processo farsa del dottor Crippen

Il fatto che il dottor Hawley Harvey Crippen continui ad avere un posto


importante negli annali del crimine britannico – secondo solo a quello di Jack lo
Squartatore – è già in se stesso un mistero. Nella peggiore delle ipotesi, uccise
soltanto una persona: ai suoi tempi, circolavano altri assassini ben più produttivi
dei quali pochi oggi ricordano i nomi. E, per di più, ora sembra che i resti umani
trovati nel seminterrato della sua casa al n. 39 di Hilldrop Crescent, nel distretto
londinese di Holloway, non fossero di fatto quelli di sua moglie, per il cui
omicidio venne impiccato nel 1910.
Il titolo di “dottore” è un po’ esagerato, in quanto in realtà Crippen si limitò a
studiare omeopatia per un breve periodo nel 1884, prima di “laurearsi”
all’Homeopathy Medical College di Cleveland. Trasferitosi a New York per
aprire uno studio nel 1894, incontrò e sposò Kunigunde Mackamotski, altresì
nota come Cora, una donna dalle irrealistiche ambizioni teatrali e dal vorace
appetito sessuale che inquadrò subito il piccolo e tranquillo Crippen come
l’uomo che avrebbe potuto mantenerla. Determinata a far carriera, spinse
Crippen a trasferirsi a Londra dove, dato che le sue qualifiche mediche non
godevano di alcun riconoscimento, non poté far altro che accettare di lavorare
come rappresentante di medicinali brevettati. Nel 1905, la coppia si era sistemata
in Hilldrop Crescent; per arrotondare le magre entrate di Crippen, erano costretti
ad affittare delle stanze, cosa che garantì a Cora una serie di amanti. Nel 1908,
anche Crippen trovò a sua volta un’amante nella molto più giovane Ethel Neave,
che amava essere chiamata “Ethel Le Neve”. Dopo una festa tenutasi nella loro
casa il 31 gennaio 1910, Cora scomparve e Crippen spiegò la sua assenza
dicendo che era tornata negli Stati Uniti ed era morta all’improvviso in
California.
Insospettite dal trasloco della Neave nella casa di Hilldrop Crescent e dal
fatto che si mostrasse in giro con gli abiti e i gioielli di Cora, le amiche della
moglie scomparsa presentarono degli esposti alla polizia, così che l’ispettore
Dew di Scotland Yard si decise a far visita a Crippen e si sentì dire che la storia
della morte era una menzogna inventata per coprire la vergogna della fuga di
Cora negli Stati Uniti con un attore, Bruce Miller. La polizia se ne andò dopo un
rapido controllo della casa. Preoccupati per quella visita, Crippen e la Neave,
che temevano di essere arrestati per un omicidio che di fatto non avevano
commesso, fuggirono ad Anversa per imbarcarsi sulla SS Montrose, diretta in
Canada; Ethel si era camuffata da ragazzo e viaggiavano come padre e figlio
sotto il nome di Robinson. La loro scomparsa da Londra portò a una
perquisizione più approfondita della casa e, questa volta, la polizia trovò dei resti
umani sotto il pavimento di mattoni del seminterrato. Dopo aver ricevuto un
cablogramma dal capitano della Montrose, che nutriva ormai forti sospetti sul
“ragazzo” Robinson, Dew salì sulla più veloce SS Laurentic in modo da arrivare
in Canada in tempo per arrestare la coppia al loro sbarco.
Crippen venne così riportato in Inghilterra e il suo processo si aprì all’Old
Bailey il 18 ottobre 1910, con Bernard Spilsbury – patologo e scienziato forense
– come testimone chiave dell’accusa. Pur non avendo grandi qualifiche
accademiche, Spilsbury era comunque un uomo affascinante e carismatico che
sapeva imporsi in tribunale, presentando le proprie opinioni con un’autorità tale
che in pochi avevano il coraggio di contraddirlo; di fatto, all’epoca si diceva che
gli bastava mostrarsi in aula perché gli imputati si sentissero già spacciati. Con la
sua tipica assertività, Spilsbury dichiarò che i resti erano quelli di Cora Crippen,
in quanto una cicatrice ancora visibile su uno dei campioni di tessuto
corrispondeva ai suoi referti medici, dai quali risultava che aveva subito un
intervento di appendicectomia. Affermò poi che i resti mostravano alti livelli di
scopolamina, un preparato che Crippen – stando ai registri – aveva acquistato
poco prima che Cora sparisse. Inoltre, assieme ai resti erano stati rinvenuti dei
bigodini nei quali erano impigliati dei capelli compatibili con quelli della
moglie, nonché la cintura di un pigiama trovato nella camera da letto di Crippen;
i pigiami di quella marca erano stati messi in vendita in Inghilterra solo a partire
dal 1908, quindi la finestra temporale corrispondeva. Certo, tutti questi elementi
erano molto incriminanti. Dopo che Spilsbury ebbe finito di presentare le sue
argomentazioni, la giuria si ritirò per soli ventisette minuti prima di pronunciare
un verdetto di colpevolezza, in seguito al quale Crippen venne impiccato il 23
novembre. Il suo corpo fu poi seppellito dentro le mura del carcere di
Pentonville, a Londra.
I successivi riesami di quelle prove in apparenza inoppugnabili hanno però
gettato seri dubbi sulla colpevolezza di Crippen. La scopolamina citata da
Spilsbury era in realtà ampiamente usata per i disturbi gastrointestinali e si
poteva trovare nella maggior parte delle case. E per quanto riguarda la cintura
del pigiama, si pensa che sia stata messa lì dalla polizia, su cui c’erano forti
pressioni perché Crippen venisse incriminato. Inoltre, pare che una lettera
dall’America mandata da Cora, nella quale la donna scherniva Crippen
dicendogli di non avere nessuna intenzione di salvarlo rivelando che fine avesse
fatto, fosse stata “sepolta” dall’accusa e mai mostrata alla difesa durante il
processo. In seguito, sarebbe anche emerso che le dichiarazioni dogmatiche di
Spilsbury, che mandarono al patibolo Crippen e molti altri, erano del tutto
indifendibili o persino “fabbricate” allo scopo di restare alla ribalta nel mondo
forense (o, peggio ancora, perché l’imputato gli stava personalmente antipatico).

SPILSBURY SMASCHERATO
A partire dagli anni Venti, sulla facciata di celebrità di Spilsbury iniziarono a comparire le
prime crepe, con molti che mettevano in dubbio il modo in cui “piegava” le evidenze
forensi per assicurarsi dei verdetti di colpevolezza e la sua insistenza nel voler lavorare da
solo dietro le porte chiuse delle camere mortuarie.
Nel 1923, le prove dogmatiche di Spilsbury portarono a un verdetto di colpevolezza contro
il caporale Albert Dearnley, accusato dell’omicidio del caporale James Ellis. Dopo soli
ventinove minuti di camera di consiglio, Spilsbury riuscì a “dimostrare” che Dearnley aveva
legato e imbavagliato la sua vittima con l’intento di assicurarsi che morisse per
soffocamento.
In realtà, però, i due erano amanti e stavano facendo dei giochi bondage di soffocamento,
un fatto di cui Spilsbury era a conoscenza ma che aveva taciuto per via della sua marcata
omofobia e della sua riluttanza a provocare uno scandalo rivelando che gli uomini delle
forze armate si abbandonavano a tali pratiche. Le prove da lui nascoste vennero però rese
pubbliche in tempo per salvare Dearnley dalla forca; a commento del fatto, Spilsbury si
limitò a dire che il caporale avrebbe dovuto essere impiccato comunque in quanto gay. Nel
1947, quando la sua vita privata e la sua reputazione erano ormai rovinate, Spilsbury si
suicidò col gas nel suo laboratorio all’University College di Londra.

Già all’epoca, diverse altre persone rimasero perplesse. Spilsbury, sottacendo


che il dottor Crippen non era in realtà un medico, aveva insistito molto sul fatto
che i resti mostravano segni di essere stati dissezionati da un individuo dotato di
buone competenze chirurgiche. Ci si potrebbe inoltre chiedere perché mai
l’avrebbe avvelenata e quindi fatta a pezzi: non avrebbe potuto semplicemente
affermare che la vittima aveva assunto accidentalmente un’overdose di
scopolamina? E dopo che era riuscito a far sparire la testa, gli arti e il torso,
perché mai avrebbe dovuto seppellire ciò che restava sotto il pavimento del
seminterrato nella calce viva, sapendo che quest’ultima, quando è bagnata –
come in quel caso – preserva i resti umani?
Applicando delle tecniche forensi più moderne alle prove ancora esistenti, nel
2007 David Foran (professore e direttore del Programma di scienza forense alla
Michigan State University) si mise in squadra con la genealogista americana
Beth Wills, che rintracciò le discendenti di Cora. Lavorando con tre delle
pronipoti di Cora, si giunse alla conclusione che né i capelli né i resti erano
quelli di Cora Crippen, e che la “cicatrice” sul campione di pelle era soltanto una
piega della stessa (mostrava ancora la presenza di follicoli, che sono sempre
assenti nel tessuto cicatriziale). Inoltre, il cromosoma Y individuato nei tessuti
provava senza ombra di dubbio che i resti erano quelli di un uomo; quindi,
perché erano stati trovati assieme a dei bigodini? La cosa più importante,
comunque, è che in seguito a queste scoperte risulta in pratica certo che la
polizia avesse di fatto collaborato a costruire le prove contro Crippen.
E quindi, se non sono di Cora Crippen, a chi appartengono quei resti sepolti
nel seminterrato del n. 39 di Hilldrop Crescent? Come avevano sempre sostenuto
Crippen e la sua difesa, dovevano essere stati messi lì da qualcuno dei precedenti
occupanti. Se lui ed Ethel non fossero scappati dopo la prima visita della polizia,
è probabile che non ci sarebbero state ulteriori indagini. Ethel, dal canto suo, se
la cavò meglio: assolta da ogni accusa di coinvolgimento nell’“omicidio” di
Cora, che in tutta probabilità se l’era di fatto svignata negli Stati Uniti, scivolò in
un rispettabile oblio. Dopo il processo, si nascose per qualche anno in Canada e
negli Stati Uniti per poi tornare a Londra, dove trovò lavoro come dattilografa
all’Hamptons Furniture Store vicino a Trafalgar Square; lì incontrò e sposò un
commesso, Stanley Smith, col quale andò ad abitare a Croydon ed ebbe due
bambini. Morì nel 1967 all’età di ottantaquattro anni, senza che nessuno della
sua nuova famiglia sapesse nulla del suo malfamato passato.
Abbandonati al loro destino: i Romanov e la rivoluzione

Il 15 luglio 1891, il tredicenne Jakov Jurovskij era in mezzo alla folla schierata
lungo la via principale di Tomsk, una delle più vecchie città della Siberia, per
dare il benvenuto al ventitreenne principe Nicola, il primogenito del casato dei
Romanov, la famiglia reale russa. «Ricordo com’era affascinante, con la sua
barba bruna ben curata; mentre passava, mi fece un cenno col capo e rispose al
mio saluto» raccontò Jurovskij. Nel 1918, sarebbe stato lui a uccidere Nicola e la
sua famiglia.
Nel 1897, Jurovskij era diventato un convinto rivoluzionario comunista,
l’irriducibile agitatore che organizzò il primo sciopero generale di Tomsk, un
fiasco di breve durata per il quale venne bandito dalla città. Lasciando al caso la
scelta del proprio destino, Jurovskij prese una cartina, chiuse gli occhi e vi
conficcò uno spillo per decidere quale sarebbe stata la sua nuova casa:
Ekaterinburg, una città negli Urali orientali. Per coincidenza, questa sarebbe
anche stata la città dove l’Armata Rossa avrebbe poi tenuto prigioniero lo zar
Nicola II e la famiglia Romanov, nella palazzina del mercante Ipat’ev (chiamata
dai rivoluzionari con il lugubre nome in codice di “Casa a destinazione
speciale”).
Nel 1917, più o meno quando Jurovskij veniva nominato commissario locale
di Ekaterinburg, Vladimir Lenin stava tornando in Russia aiutato dai tedeschi per
prendere il controllo della rivoluzione. L’Armata Bianca, che combatteva per i
Romanov, aveva ancora una forza di tutto rispetto e, nell’estate del 1918, stava
avanzando su Ekaterinburg. La prospettiva che i Bianchi potessero liberare i
Romanov per metterli formalmente a capo di una controrivoluzione era qualcosa
di inaccettabile; dovevano morire prima. Sapendo che prima o poi questo giorno
sarebbe arrivato, Lenin aveva già identificato Jurovskij come l’assassino
perfetto: non solo era rosso fino al midollo, ma le truppe al suo comando erano
mercenari ungheresi e, come tali, era molto meno probabile che si facessero dei
problemi a falciare la famiglia imperiale, a differenza di quanto sarebbe potuto
accadere con un contingente russo. Inoltre – pensava Lenin – qualora l’uccisione
dei Romanov avesse provocato una sollevazione nazionale o internazionale, lui
avrebbe sempre potuto dare la colpa a un gruppo di stranieri sui quali non aveva
nessun controllo.
Quando prese il comando della casa di Ipat’ev, Jurovskij disse ai Romanov
che sarebbero stati allontanati dagli scontri e che avrebbero dovuto prepararsi a
partire; quando però si presentarono per il trasporto, la notte del 16-17 luglio
1918, furono accolti da una pioggia di proiettili. Il rapporto dettagliato di
Jurovskij assume toni raccapriccianti, soprattutto per quanto riguarda la morte
delle principesse che, pur essendo state colpite diverse volte, parevano illese.
Emerse che avevano talmente tanto filo d’oro avvolto attorno ai loro corpi e così
tanti gioielli cuciti nei loro abiti da renderli in pratica a prova di proiettile; di
conseguenza, per ucciderle fu infine necessario colpirle con le baionette
attraverso le cavità oculari. Ma perché si arrivò a quel punto? Perché Giorgio V
non concesse asilo nel Regno Unito a suo cugino e alla sua famiglia?
Prima che i bolscevichi e l’Armata Rossa si fossero assicurati il pieno potere,
alcuni Paesi erano stati contattati come possibili rifugi ma solo la Gran Bretagna
aveva inizialmente accettato. Pur avendo pubblicamente applaudito la
rivoluzione in Russia, il primo ministro laburista David Lloyd George aveva
ritenuto – erroneamente – che il re Giorgio V, in qualità di cugino e amico intimo
dello zar, sarebbe stato felice di offrire asilo alla famiglia reale. Di fatto, però, la
regina consorte, Maria di Teck, puntò i piedi. Gore Vidal, amico e confidente
della principessa Margaret e del duca di Windsor (il re Edoardo VIII, che abdicò
nel 1936), raccontò nelle sue memorie una conversazione che aveva avuto con
quest’ultimo nel 1952 nella villa di Capri della contessa Mona von Bismarck.
Vidal venne informato dal duca che mentre stava facendo colazione con i suoi
genitori la mattina dopo che Lloyd George aveva suggerito, di propria iniziativa,
di mandare una nave da guerra britannica a prendere i Romanov, un assistente li
aveva interrotti portando un messaggio che chiedeva l’approvazione reale per
l’impresa. Dopo averlo letto, re Giorgio lo passò a Maria che pronunciò il più
enfatico dei «No»; Giorgio ripeté quindi questa risposta negativa quando
riconsegnò il biglietto all’assistente perché lo riportasse al primo ministro.
Le ragioni del secco rifiuto da parte di Maria erano incentrate sul fatto che il
ricordo della Rivolta di Pasqua in Irlanda era ancora vivo nelle menti di tutti e
che c’era il pericolo che, dando ospitalità all’ultima famiglia di autocrati – che si
stavano dimostrando una spina nel fianco per la grande rivoluzione socialista in
Russia – si sarebbe ulteriormente rafforzata l’ascesa del socialismo nella stessa
Gran Bretagna. Non c’era il rischio che un simile gesto scatenasse una
rivoluzione anche nel Regno Unito? Dietro la decisione di Maria di respingere i
Romanov, però, c’erano forse anche altre motivazioni più meschine. Maria di
Teck, il cui rango nobiliare era inferiore a quello di altri membri dell’élite reale
britannica e internazionale e che era disprezzata dagli inglesi per il suo accento
tedesco, covava da tempo risentimento, in particolare nei confronti della zarina
Alessandra, che – a torto o a ragione – pensava godesse a umiliarla e a guardarla
dall’alto in basso. Va detto, per correttezza, che quando Maria respinse la
proposta di una missione di salvataggio avanzata dal suo primo ministro, i
Romanov erano ancora semplicemente rinchiusi nel palazzo di Carskoe Selo,
dove erano stati confinati dal governo provvisorio di Kerenskij. I bolscevichi
non avevano ancora preso il potere e nessuno poteva quindi immaginare il
destino che sarebbe toccato alla famiglia imperiale; tuttavia, la ripicca di Maria –
se davvero fu una ripicca – contribuì di certo ad avvicinare i Romanov alla
“Casa a destinazione speciale” di Lenin.

I ROMANOV
Nicola e Alessandra Romanov furono gli artefici della loro stessa caduta. Nessuno dei due
brillava per intelligenza, e la disastrosa inettitudine del loro governo non era certo
temperata dalla loro dipendenza da barbiturici, oppio e cocaina, o dalla loro ossessione
per l’occulto (che li portò sotto il malevolo controllo di Rasputin, un uomo considerato da
molti come un ciarlatano religioso con una pericolosa influenza sullo zar e la sua famiglia).
Durante la Prima guerra mondiale, Nicola II assunse il controllo dell’esercito russo; questa
scelta venne apprezzata soltanto dai tedeschi, contenti che il comando non fosse stato
delegato a dei generali che sapevano quello che stavano facendo. In sua assenza,
Alessandra portò definitivamente il Paese allo sfacelo: quando la gente affamata iniziò a
rivoltarsi, mandò contro di loro le brigate della cavalleria cosacca, cosa che non la rese
certo più popolare. I cosacchi, tuttavia, si ammutinarono per unirsi alla gente che
avrebbero dovuto attaccare, segnando così l’inizio della fine della dinastia Romanov; altre
unità militari seguirono infatti il loro esempio e andarono a ingrossare le file della
rivoluzione russa. Nel marzo del 1917, Nicola fu costretto ad abdicare, mettendo fine ai tre
secoli di regno dei Romanov.

Poco tempo dopo, re Giorgio, tornando sui propri passi, chiese a Lloyd
George di dar corso alla sua offerta di portare in salvo i Romanov, ma questa
volta fu il primo ministro a fare un voltafaccia. In quel momento, stava
apertamente elogiando i rivoluzionari russi in Parlamento e stava tentando di
cementare delle strette relazioni con i nuovi leader della Russia; così, offrire
rifugio ai Romanov non gli sembrava più una scelta assennata. A quanto pare,
l’iniziale entusiasmo di Lloyd George (che era stato bollato come un “pericoloso
rivoluzionario socialista” da Edoardo VII) per l’idea di portare i Romanov in
Gran Bretagna era stato motivato da quello stesso pensiero che aveva
inizialmente spinto Giorgio e Maria a rifiutare l’offerta: l’idea, cioè, che la loro
presenza potesse scatenare una rivoluzione socialista nel Regno Unito, cosa che
per lui, a differenza che per i monarchi, non rappresentava però una minaccia ma
piuttosto una speranza. Inoltre, argomentò, con i bolscevichi ormai saldamente al
potere, mandare una nave da guerra britannica nelle acque territoriali russe
sarebbe stato fuori discussione. Così, i Romanov furono abbandonati al loro
destino.
L’affare Dreyfus: le origini del Tour de France

Nel settembre del 1894, una spia francese che lavorava all’ambasciata tedesca di
Parigi come addetta alle pulizie trovò in un cestino della carta una nota scritta a
mano da un anonimo ufficiale dell’esercito francese, che si offriva di vendere ai
tedeschi i dettagli della nuova artiglieria. Per quanto fosse strappato, il foglio
venne rimesso insieme con facilità e nel mese successivo tutti i sospetti si
concentrarono su Alfred Dreyfus, un capitano d’artiglieria la cui calligrafia era
vagamente simile a quella della nota. Dreyfus non godeva di grande popolarità:
nonostante la sua indiscutibile intelligenza, era una persona fredda e molto
noiosa e, peggio ancora, la sua famiglia veniva dall’Alsazia, che faceva allora
parte della Germania.
L’esercito mise in piedi in fretta e furia una corte marziale dove non venne
presentata alcuna prova sostanziale e il grafologo che smentiva che la calligrafia
fosse quella di Dreyfus non fu preso in considerazione. L’imputato venne
giudicato colpevole e fu mandato all’isola del Diavolo, una colonia penale al
largo delle coste della Guyana francese il cui nome non derivava da presenze o
attività diaboliche ma dalle infide correnti delle acque che la circondavano,
infestate dagli squali. Se nelle altre colonie penali francesi la vita dei detenuti era
qualcosa di infernale, i prigionieri politici dell’isola del Diavolo godevano di un
relativo comfort. L’isola, lunga più o meno 1,2 chilometri e larga mezzo
chilometro, aveva una superficie di quattordici ettari, più della metà del quali
erano inabitabili, e non ospitò mai più di tredici prigionieri politici per volta.
Ognuno di loro aveva una propria capanna e poteva coltivare un orto, gli era
concesso di mandare e ricevere posta e riceveva regolari controlli medici;
tuttavia, per un detenuto innocente una prigione resta pur sempre una prigione, e
in Francia l’affare Dreyfus stava montando.
La destra e la sinistra francesi si erano nettamente divise riguardo a questa
vicenda, e le fazioni pro-Dreyfus e anti-Dreyfus si davano battaglia nei viali e
nei parchi. Nel 1899, l’industriale automobilistico conte de Dion e il magnate
degli pneumatici Édouard Michelin vennero entrambi arrestati presso
l’ippodromo di Auteuil per aver dato il via a una sommossa durante la quale il
presidente francese Émile Loubet fu colpito alla testa con un bastone da
passeggio. Di fatto, Loubet aveva da poco preso il posto di Félix Faure, morto il
16 febbraio 1899 in circostanze così insolite che molti sospettavano fosse stato
vittima di un complotto pro-dreyfusiano: era al palazzo dell’Eliseo in compagnia
della sua giovane amante, Marguerite Steinheil, quando venne colpito da un ictus
mentre la donna stava compiendo su di lui ciò che potremmo qui definire come
“quell’amore di cui non si può dire il nome”. Ma dato che Faure era un noto
antisemita ed era determinato a far restare Dreyfus in prigione, c’era il forte
sospetto che la Steinheil, che aveva collegamenti con la lobby pro-dreyfusiana,
potesse aver versato qualcosa nel suo bicchiere per simulare un attacco cardiaco,
calandogli poi i pantaloni per dare la colpa alla troppa eccitazione.
Nell’agosto del 1896, il maggiore Ferdinand Esterhazy – il vero traditore che
aveva offerto informazioni ai tedeschi – venne smascherato dopo la scoperta, da
parte di Marie Georges Picquart (dei servizi segreti dell’esercito francese), della
sua corrispondenza con Maximilian von Schwartzkoppen, l’attaché militare
tedesco a Parigi; tuttavia, anziché agire di conseguenza, le autorità spedirono
Picquart a svolgere oscure mansioni in Tunisia, con l’ordine di tenere la bocca
chiusa. Lui mandò quindi tutte le sue prove agli avvocati di Dreyfus, scatenando
una nuova ondata di rivolte, ma i militari continuarono a rifiutarsi di tornare sui
loro passi. Determinato a non far annullare la condanna di Dreyfus, l’Alto
comando francese organizzò una corte marziale a porte chiuse che dichiarò
l’innocenza di Esterhazy, facendo scoppiare altre sommosse sulle strade; il vero
traditore poté andarsene tranquillamente in Inghilterra e stabilirsi nella verde
Harpenden, nell’Hertfordshire, dove avrebbe ingannato il tempo scrivendo deliri
antisemiti fino al momento della sua morte, nel 1923. L’unico risultato positivo
dello smascheramento di Esterhazy fu che provocò un’escalation delle ostilità tra
le fazioni contrapposte, al punto da costringere il presidente Loubet a offrire a
Dreyfus un’amnistia nel 1899; i termini erano prendere o lasciare (e rimanere
quindi sull’isola del Diavolo), e Dreyfus accettò senza farselo ripetere.
In questo modo, però, restava di fatto un traditore amnistiato anziché un
uomo innocente; di conseguenza, la situazione non cambiò di molto e, col
proseguire delle ostilità tra le fazioni, il più illustre degli intellettuali francesi,
Émile Zola, avrebbe presto pagato con la vita il suo appoggio a Dreyfus. Nel
settembre del 1902, Zola e sua moglie fecero una vacanza in campagna; al
ritorno nel loro appartamento di Parigi, al n. 21 di Rue de Bruxelles, prima di
ritirarsi per la notte accesero il camino della camera da letto. La mattina dopo,
Émile era morto e Alexandrine versava in condizioni critiche; i sintomi erano di
un avvelenamento da monossido di carbonio. La polizia condusse dei test,
provando a riaccendere il camino e chiudendo nella stanza dei topi in gabbia, che
però sopravvissero tutti. Sembrava che la morte di Zola fosse stata un tragico
incidente, ma questi risultati non convincevano tutti. Anche lo stesso
commissario responsabile delle indagini, Pierre Cornette, aveva i suoi dubbi in
proposito, ma gli venne ordinato di chiudere il caso come un decesso accidentale
e di tenere la bocca chiusa, se non voleva rischiare lavoro e pensione. Nel 1928,
però, l’assassino di Zola confessò sul letto di morte: la data del ritorno di Zola a
Parigi era di pubblico dominio e, nei giorni prima, Henri-Charles Buronfosse, un
addetto alla manutenzione dei camini, stava lavorando sui tetti dei caseggiati
lungo Rue de Bruxelles. La sera del ritorno della coppia, mise deliberatamente
un tappetino sul comignolo di Zola, rimuovendolo poi la mattina seguente in
modo da non destare sospetti. All’epoca della morte di Zola, Buronfosse era un
membro di spicco della Lega dei patrioti di Paul Déroulède (una sorta di Fronte
nazionale francese), per il quale svolgeva anche la funzione di guardia del corpo.
Diverse persone ricordavano anche le minacce di morte che aveva lanciato dopo
aver letto il famoso J’Accuse! di Zola, l’articolo con cui l’intellettuale aveva
condannato senza mezzi termini l’insabbiamento del caso Dreyfus.
In seguito alla morte di Zola, i media si riempirono di accuse. All’epoca, i
pro-dreyfusiani e gli anti-dreyfusiani si potevano distinguere in base ai giornali
sportivi che acquistavano: i sostenitori di Dreyfus tendevano a comprare «Le
Vélo», mentre i loro nemici preferivano «L’Auto». Il primo era stampato su una
carta economica di colore verde e il secondo su carta gialla; i due giornali
continuarono a provocarsi a vicenda sulla morte di Zola finché, nella primavera
dell’anno seguente, le fazioni decisero di confrontarsi in una gara ciclistica a
tappe che chiamarono “Tour de France”. Dato che l’evento era organizzato da
«Le Vélo» e «L’Auto», fu il colore dei quotidiani a dare origine alla pratica di
assegnare la maglia gialla al vincitore del tour e quella verde al vincitore della
tappa. Vista l’importanza sociopolitica della corsa, andare in bicicletta coi colori
giusti diventò all’improvviso un modo popolare di mostrare pubblicamente la
propria posizione riguardo a Dreyfus, e in tutta la Francia ci fu un fiorire di club
ciclistici partigiani.

J’ACCUSE!

L’articolo del 13 gennaio 1898, che occupava l’intera prima pagina del giornale di sinistra
«L’Aurore», con cui Émile Zola condannò apertamente la persecuzione antisemita del
capitano Dreyfus e la corruzione generale era diretto al presidente Félix Faure. Zola non
aveva intitolato il proprio articolo: fu il direttore del giornale, Georges Clemenceau (che in
seguito sarebbe diventato primo ministro), a trovare il titolo a effetto di J’Accuse!,
un’espressione da allora entrata nella retorica politica di molte nazioni.
Il mese seguente, Zola venne arrestato con l’accusa di sedizione e mandato a processo
per diffamazione; sapendo che avrebbe dovuto scontare una lunga pena in carcere, si
affrettò a raggiungere la stazione di Parigi Nord per arrivare infine alla stazione Victoria di
Londra, con solo gli abiti che aveva indosso.
Soggiornando in una serie di hotel economici e affidandosi al buon cuore di sostenitori e
sconosciuti, Zola trascorse diversi mesi nel distretto sud-orientale londinese di Upper
Norwood; sarebbe ritornato a Parigi soltanto nel giugno del 1899, quattro mesi dopo la
spettacolare caduta del governo di Faure.

Alfred Dreyfus, dal canto suo, venne infine assolto da una commissione
militare convocata il 12 luglio 1906. Tuttavia, le vecchie animosità non si erano
ancora sopite nel giugno del 1908, quando presenziò alla cerimonia del
trasferimento delle spoglie di Zola dal cimitero di Montmartre al Pantheon, nel V
arrondissement. Dreyfus subì un attentato mentre era in piedi accanto all’amante
di Zola, Jeanne Rozerot (che era stata cordialmente invitata dalla vedova assieme
ai figli che aveva avuto dallo scrittore): facendosi largo tra la folla gridando
slogan antisemiti, il giornalista Louis Grégori gli sparò un paio di colpi, ma
riuscì soltanto a ferirlo al braccio. E, a dimostrazione di come in Francia la follia
di destra era ancora diffusa, il suo processo durò solo poche ore prima che, l’11
settembre 1908, Grégori – che aveva sparato di fronte a centinaia di testimoni –
venisse giudicato non colpevole da un giudice e una giuria selezionati con cura.
Il 12 luglio 1935, ventinove anni dopo la sua assoluzione e nell’ora esatta di
quel verdetto, Dreyfus si spense serenamente a Parigi per poi essere seppellito
con gli onori militari normalmente accordati a ufficiali di grado ben superiore al
suo, di tenente colonnello. Mentre il suo corteo funebre procedeva verso il
cimitero di Montmartre, gli venne concesso – in una sorta di scuse ufficiali – di
passare attraverso le file di funzionari e dignitari radunati nella Place de la
Concorde per le celebrazioni del giorno della presa della Bastiglia.
4.
Enigmi di riti e religioni
Il mistero della grande piramide: chi, perché e come

Non c’è da stupirsi che delle strutture così imponenti come le piramidi, erette
intorno a quattromilacinquecento anni fa alla periferia di Giza (una città sulle
sponde occidentali del Nilo), abbiano suscitato lunghi dibattiti su come siano
state costruite e su chi, di preciso, abbia lavorato alla loro edificazione. La più
grande delle tre, la Grande piramide alta 146 metri commissionata dal faraone
Cheope (della IV dinastia), è stata per quasi quattromila anni la struttura più alta
costruita dall’uomo. Il suo primato venne infine battuto nel primo decennio del
XIV secolo con il completamento della cattedrale di Lincoln, che con la guglia
della sua torre centrale raggiungeva i 159 metri di altezza; la Grande piramide,
però, riconquistò il suo titolo nel 1549, quando l’usurpatrice crollò durante una
tempesta.
La Grande piramide da sola è formata da qualcosa come 2,3 milioni di
blocchi di pietra, la maggior parte dei quali sono di roccia calcarea e pesano in
media 2,5 tonnellate (all’interno ci sono però anche diversi blocchi di granito, il
cui peso va dalle 15 fino alle 70 tonnellate). E quindi, come fece un popolo
vissuto prima dell’età del ferro a tagliare così tanti blocchi calcarei con una
precisione tale da avere un margine di tolleranza di meno di due millimetri,
nonostante le asimmetrie delle facce di contatto delle pietre? L’unico metallo che
gli egiziani avevano a loro disposizione all’epoca era il rame, che è di gran lunga
troppo tenero per questo genere di lavori. Inoltre, c’è il problema di come queste
pietre siano state trasportate dalla cava e sollevate lungo i fianchi sempre più alti
della piramide in costruzione; gli egiziani, infatti, non avevano carrucole o
veicoli da trasporto dotati di ruote. Conoscevano senza dubbio il principio della
ruota, in quanto avevano ruote da vasai e da irrigazione, ma anche qualora
avessero pensato di spostare le pietre usando dei carri trainati dagli animali, per
portare simili pesi avrebbero avuto bisogno di assi di ferro: quelli di rame,
infatti, si sarebbero piegati o spezzati sotto il primo carico.
La teoria più popolare riguardo al metodo di costruzione delle piramidi
afferma che la forza lavoro doveva essere stata suddivisa in quattro gruppi
principali. Il primo, nella catena di approvvigionamento, era formato dai
lavoratori che tagliavano e modellavano i blocchi di pietra calcarea nelle cave
vicine. Il secondo gruppo usava rulli di legno o slitte tirate dai buoi per
trascinare le pietre fino al sito di edificazione, dove il terzo gruppo aveva
costruito delle enormi rampe che salivano lungo i fianchi della piramide e
permettevano di portare i blocchi ai lavoratori del quarto gruppo, che usando
delle leve o altri mezzi le mettevano infine in posizione per l’eternità. Una volta
completato il lavoro, le rampe esterne vennero rimosse per rivelare la struttura
finita, pronta per il rivestimento finale con delle lastre bianche ormai sparite da
tempo immemorabile. Questa teoria è senz’altro ben costruita, ma non risolve i
problemi di come vennero tagliati i milioni di blocchi calcarei o di come furono
“limati” in modo tale da farli aderire così perfettamente l’uno all’altro, tenendo
conto delle irregolarità di ciascuno di essi (questo ammesso che le piramidi siano
state di fatto costruite usando dei blocchi di pietra naturali, una tesi che non tutti
accettano).

PIRAMIDOLOGIA

Il misticismo associato alle piramidi è nato dalla pseudoscienza ottocentesca della


piramidologia, con l’astronomo reale scozzese Charles Piazzi Smyth che trascorse gli anni
Settanta dell’Ottocento a misurare ogni aspetto e ogni angolo della Grande piramide allo
scopo di dimostrare come quella gigantesca struttura fosse in realtà un calcolatore
astronomico.
Dopo aver preso tutte le sue misurazioni, Smyth se ne servì per ricavare una presunta
unità di misura di base, il cosiddetto “Pollice sacro”, equivalente a 1,00106 pollici britannici
(2,5427 centimetri); da qui, “stabilì” che il perimetro della Grande piramide, secondo la sua
misurazione, era esattamente di 36.524,2 Pollici sacri, ossia cento volte il numero dei
giorni nell’anno solare. Dividendo l’altezza – espressa in Pollici sacri – di qualunque lato
della struttura, così da arrivare al suo “Sacro cubito”, la risposta era 365,242, e così via.
Nel 1883, l’egittologo Sir William Flinders Petrie stabilì al di là di ogni dubbio che tutte le
misurazioni della Grande piramide fatte da Smyth erano tremendamente imprecise, ed
erano state allungate o accorciate per adeguarle al letto di Procuste della sua teoria del
Sacro pollice e del Sacro cubito.

I blocchi di granito provenienti dalle cave di Assuan erano quasi certamente


frutto di una laboriosa opera di intaglio fatta a mano: il granito, un materiale
relativamente più tenero, poteva infatti essere modellato usando dei cunei di
roccia ignea dalla durezza eccezionale. Tagliati per formare gli architravi sopra i
punti d’accesso, le gallerie e le camere interne, questi blocchi venivano
trasportati a circa ottocento chilometri di distanza prima sul Nilo e quindi su
canali artificiali, in modo da farli arrivare il più vicino possibile al sito di
costruzione, dove venivano infine messi in posizione sfruttando la mera forza del
gran numero di lavoratori. Una soluzione del genere, però, non sarebbe stata
semplicemente possibile per i blocchi di pietra calcarea. L’edificazione della
Grande piramide durò circa vent’anni, cosa che significa che ogni giorno si
dovevano produrre e installare più di quattrocento blocchi. Nel corso degli anni,
sono state avanzate le stime più diverse riguardo alla forza lavoro messa
all’opera per la Grande piramide, che secondo alcuni avrebbe superato
addirittura i centomila uomini; nel 2002, però, almeno questo problema ha
trovato una risposta grazie al Giza Plateau Mapping Project.
Gestito dalle università di Chicago e Harvard, il progetto è stato guidato
dall’archeologo Mark Lehner, che ha scoperto un complesso di abitazioni
individuali e di aree comuni (chiamato informalmente “Pyramid City”) che era
stato edificato allo scopo di ospitare quella forza lavoro. Secondo le stime di
Lehner, quella città poteva offrire alloggio a non più di ventimila persone; tolte
le mogli e i bambini, potremmo quindi ipotizzare che la forza lavoro vera e
propria si aggirasse attorno alle diecimila unità. Anche aggiungendo a questo
nucleo di lavoratori stabili alcuni degli agricoltori che rimanevano disoccupati
durante le inondazioni annuali del Nilo (da luglio a settembre), un numero del
genere è in linea con le stime su quanti uomini potrebbero fisicamente stare in un
sito di costruzione come questo senza inciampare l’uno nell’altro: la base della
Grande piramide, infatti, è un quadrato largo soltanto 230 metri. E quindi, come
è possibile che una forza lavoro dalle dimensioni così ridotte producesse,
trasportasse e installasse quattrocento blocchi di pietra al giorno? È qualcosa di
estremamente improbabile. Più di recente, però, è stata avanzata una teoria che
taglia il nodo gordiano di tutti i misteri che circondano la costruzione delle
piramidi.
Il professor Joseph Davidovits, uno scienziato dei materiali francese di fama
internazionale che ha anche il merito di aver fondato la chimica dei geopolimeri,
si era inizialmente incuriosito per l’assenza di schegge e blocchi rotti in tutte le
cave di pietra calcarea, sia a monte della Grande piramide sia presso l’uadi (una
gola scavata dall’acqua) a valle. La pietra calcarea è famosa per la sua tendenza
a spezzarsi quando viene lavorata; di conseguenza, dopo la produzione di quasi
tre milioni di blocchi ci si sarebbe potuti aspettare di trovare milioni e milioni di
schegge e frammenti, eppure lui non ne aveva trovato neanche uno. Come
membro dell’Associazione internazionale degli egittologi, Davidovits iniziò a
esaminare la composizione caratteristica della pietra calcare dei blocchi della
Grande piramide e si accorse presto che corrispondeva perfettamente a quella
della pietra calcarea dell’uadi, cosa che lo spinse a chiedersi perché mai gli
egiziani avessero deciso di rendere molto più arduo il trasporto usando i blocchi
di una cava a valle. Arrivato all’uadi, si rese subito conto che era una cava di
pietra calcarea tenera che non mostrava tracce di estrazione o di intaglio, ma di
un gentile processo di erosione e dilavamento che lasciava le superfici lisce e
ondulate. Quindi, scoprì dei geroglifici che parlavano di una “pietra liquida”, con
disegni di uomini che sembravano compattare il contenuto di involucri di legno.
A quel punto, rivolse di nuovo la sua attenzione ai blocchi che costituivano la
Grande piramide e notò che i depositi di gusci fossili che si trovano
normalmente nella pietra calcarea non erano ben allineati come nei depositi
sedimentari naturali, ma erano invece disposti alla rinfusa, come se fossero stati
mescolati in una forma fluida. Inoltre, c’erano evidenze inconfutabili di una
reazione chimica. Era quindi possibile che quelle “pietre” fossero di fatto dei
blocchi creati dall’uomo?
Davidovits ipotizzò così che gli egiziani prendessero dall’uadi polvere e
pietrisco calcarei per dissolverli in enormi pozze riempite con l’acqua del Nilo e
mescolarli quindi con il natron, una forma di carbonato di sodio abbondante in
Egitto (dove veniva usato anche nell’imbalsamazione delle mummie). Una volta
evaporata l’acqua, i costruttori si ritrovavano con una sorta di cemento calcareo
che raccoglievano in cesti e portavano sulla struttura per versarlo in stampi fatti
di sottili stecche di legno, ben oliate all’interno in modo che non si attaccassero
al blocco durante il processo di asciugatura. Dopo che questi primi blocchi si
erano rapidamente essiccati sotto il sole egiziano, venivano a loro volta a
formare le pareti degli stampi per i blocchi successivi. Durante la loro
asciugatura, ognuno di questi nuovi blocchi veniva a contrarsi subendo un
restringimento infinitesimale, così da lasciare una linea di uno o due millimetri
dai suoi vicini che avevano fatto da stampo; chi ammira il lavoro finito ha
l’impressione che la giuntura tra i blocchi sia stata creata con grande maestria (e,
in effetti, è proprio così, anche se il procedimento adottato non è quello
dell’intaglio). Passando quindi allo stadio sperimentale, Davidovits produsse
alcuni blocchi di pietra calcarea seguendo questa procedura, e vide che non solo
presentavano delle linee di giunzione identiche a quelle che possiamo osservare
nella Grande piramide, ma anche che a occhio nudo erano indistinguibili dalla
pietra calcarea naturale.
Nel 2009, il Geopolymer Institute pubblicò il libro riveduto di Davidovits
Why the Pharaohs Built the Pyramids with Fake Stone, dove venivano presentati
tutti i dati scientifici a sostegno della sua teoria. Quello stesso anno, Michel
Barsoum, professore di scienza dei materiali alla Drexel University e in
precedenza all’American University del Cairo, decise di scansionare alcune
pietre delle piramidi di Giza con un microscopio elettronico nel tentativo di
dimostrare che il suo collega aveva torto. Barsoum rimase a dir poco sorpreso
quando l’esame rivelò all’interno dei blocchi studiati la presenza di bolle d’aria e
fibre naturali, due cose che nella pietra calcarea naturale non si ritrovano mai.
Quindi, possiamo ora passare al problema di chi ha di fatto costruito le piramidi.
Nel corso della sua visita distensiva al Cairo del 1979, il primo ministro
israeliano Menachem Begin irritò i padroni di casa affermando con nonchalance,
di fronte alle piramidi: «Certo, le abbiamo costruite noi». Il mito secondo il
quale le piramidi sarebbero state costruite con il lavoro degli schiavi ebrei gode
di un certo rilievo soltanto nella cultura ebraico-cristiana, cosa che risulta
sorprendente alla luce del fatto che quelle strutture non vengono neppure
menzionate nella Bibbia o nella Torah. Trasformato in una verità ampiamente
accettata da innumerevoli film e altre opere, questo mito ha la sua origine negli
scritti dello storico romano-ebraico Flavio Giuseppe (del I secolo d.C.), che
aveva preso come punto di partenza le opere composte da Erodoto nel V secolo
a.C.
Entrambi gli storici avevano una loro agenda da portare avanti. Erodoto, che
visitò l’Egitto tra il 449 e il 430 a.C., intendeva espressamente denigrare la già
macchiata reputazione di Cheope, noto ai suoi tempi come Khufu, l’uomo che
aveva commissionato la Grande piramide. Elencando le numerose – e perlopiù
immaginarie – crudeltà di Khufu, Erodoto aggiunse che era odiato dal suo stesso
popolo per averli ridotti in schiavitù al fine di costruire la Grande piramide, un
monumento alla sua vanità.
Gli obiettivi perseguiti da Flavio Giuseppe erano nell’insieme più sottili e più
complessi. Nato Yosef ben Matityahu, era stato il comandante delle forze
ebraiche in Galilea durante la Prima guerra romano-giudaica (66-73 d.C.), ma
venne catturato dall’imperatore Vespasiano che se lo tenne vicino come
traduttore e consigliere. Dopo aver infine assunto la cittadinanza romana, scrisse
diverse opere sulla storia degli ebrei, determinato a presentarli alla sua nazione
adottiva come un popolo nobile e pieno di risorse con una sincera e giustificata
fede in un unico Dio. Ora che i romani avevano già incorporato l’Egitto nel loro
impero, e molti di loro viaggiavano per vedere la più vecchia delle Sette
meraviglie del mondo antico, era facile trasformare gli “schiavi” menzionati da
Erodoto in schiavi ebrei, da presentare ai lettori romani come ingegneri dotati di
una straordinaria abilità. Ma già Erodoto, prima di lui, si era sbagliato nel dire
che le piramidi erano state costruite con il lavoro degli schiavi, come stabilito da
Lehner attraverso l’esame del complesso abitativo dei lavoratori da lui scoperto
con il Giza Plateau Mapping Project. Le discariche dei rifiuti vicino alle aree di
ristoro – un po’ come una sorta di mense aziendali – mostrano che i costruttori
avevano una dieta ricca e variegata, e le camere sepolcrali dei lavoratori di rango
più elevato indicano un rispetto e una riverenza che non sarebbero mai stati
riservati a uno schiavo. Inoltre, l’arrivo dei primi ebrei sul suolo egiziano è citato
nei Papiri di Elefantina, una raccolta di 175 rotoli portati alla luce nell’ultima
parte del XIX secolo presso le rovine delle antiche fortezze di Elefantina
(un’isola nel Nilo vicino ad Assuan) e presso la fortezza di Syene, nella stessa
Assuan. Questi papiri citano la reazione locale all’arrivo sull’isola di un buon
numero di mercenari ebrei nel 650 a.C., quando occuparono il forte per poi
mettere al lavoro i loro schiavi egiziani per la costruzione di una sinagoga.
Così, le evidenze indicano che le piramidi furono costruite da lavoratori
egiziani liberi e dediti al proprio compito che, se il professor Davidovits ha
ragione, usarono un cemento calcareo per creare i loro mattoni “Lego”,
impilandone un numero via via minore man mano che la struttura cresceva in
altezza.
L’Inquisizione spagnola: la leggenda nera

Fin dagli ultimi decenni del XVI secolo, il semplice accenno al nome
dell’Inquisizione spagnola – un ufficio della Chiesa cattolica fondato nel 1478 da
Ferdinando II d’Aragona e da sua moglie Isabella I di Castiglia – ha richiamato
alla mente immagini di crudeltà e persecuzione. Abbiamo tutti visto qualche film
con ecclesiastici incappucciati intenti a torturare una donna terrorizzata e nuda, o
una delle innumerevoli rappresentazioni – che richiamano lo stile di Bruegel – di
una camera per gli interrogatori dell’Inquisizione. La realtà, però, era molto
diversa; quindi, chi ha messo in giro queste menzogne e perché?
Dato che l’aggettivo “spagnola” accompagna inesorabilmente il termine
“Inquisizione”, molti di noi hanno finito per credere che quello spagnolo fosse
l’unico ufficio di questo genere. Di fatto, però, la Spagna iniziò piuttosto tardi,
visto che la prima Inquisizione venne istituita nella Francia del XII secolo per
affrontare l’ascesa del movimento ereticale dei catari. Chi prima chi dopo, ogni
Paese cattolico – dal Portogallo al Perù – fondò una sua Inquisizione; quindi,
perché quella spagnola ha finito per essere la più malfamata di tutte, nonostante
sia stata forse la più indulgente? La risposta sta nell’orrore con cui il resto
dell’Europa guardava l’ascesa della Spagna cinquecentesca a una posizione di
supremazia militare e marittima, e nelle attività sovversive di quegli stessi
propagandisti protestanti che abbiamo già visto all’opera nella creazione del
mito della papessa Giovanna (si veda p. 40). Anche se va certo detto che gli
inquisitori spagnoli non erano i tipi dalla mente più aperta che uno potesse
incontrare in Spagna nel XV e nel XVI secolo, si rivelarono il capro espiatorio
perfetto per il resto dell’Europa occidentale, desiderosa di infangare il nome
della Spagna e di distrarre l’attenzione dal fatto che i Paesi protestanti stavano
iniziando a torturare e a mettere al rogo streghe ed eretici su una scala tale da far
impallidire qualunque inquisitore.
All’inizio, i protestanti mandarono i loro eserciti ad attaccare le forze
spagnole nel modo convenzionale, ma dopo la loro disastrosa sconfitta nella
battaglia di Mühlberg del 1547 per mano di Carlo – il nipote di Ferdinando e
Isabella – si resero conto che sarebbe stato meglio tentare un’altra strada e
scelsero quindi di attaccare la Spagna con un’arma contro la quale non aveva
quasi nessuna difesa: la stampa. Iniziarono a sfornare migliaia di pamphlet e
incisioni all’acquaforte dai toni gotici per macchiare il nome della Spagna e
quello della sua Inquisizione, presentando al lettore racconti e immagini di una
crudeltà talmente assurda che c’è da stupirsi di come qualcuno potesse crederci.
Molti dei miti ancora circolanti che riguardano le antiche torture risalgono
proprio a quei pamphlet (per esempio, quello della Vergine di ferro, in realtà mai
esistita): di fatto, gli strumenti di tortura usati all’epoca erano barbaramente
semplici, anche se molto efficaci. Alla fine, i propagandisti protestanti giocarono
il loro asso con la pubblicazione, nel 1567, di un libro intitolato Sanctae
Inquisitionis Hispanicae arti aliquot detectae (“La scoperta di alcune pratiche
della Santa Inquisizione spagnola”), attribuito a un tal Reginaldus Montanus, che
sosteneva di aver affrontato in prima persona la brutalità dell’Inquisizione
spagnola e di aver assistito coi propri occhi agli indicibili orrori subiti da altri,
soprattutto donne. Anche se il libro era un cumulo di stupidaggini e il suo autore
era di fatto irrintracciabile, l’opera venne subito tradotta per la distribuzione in
tutta Europa, dove disseminò quella che gli spagnoli chiamano ancora la
“Leggenda nera”. Il fatto che le copie di quel libro siano ancora in vendita nella
maggior parte delle librerie online illustra bene il suo impatto.
In realtà, l’Inquisizione spagnola era forse la più equa e la meno brutale di
tutte le istituzioni simili, come è emerso da una meticolosa analisi dei suoi
documenti conservati a Salamanca. Queste carte, esaminate da molti ricercatori –
tra cui, soprattutto, i professori Henry Kamen e Jaime Contreras, rispettivamente
del Consiglio superiore delle ricerche scientifiche di Barcellona e dell’università
di Alcalá – dimostrano che l’Inquisizione spagnola non è mai stata il teatro
d’azione di ecclesiastici pervertiti che indossavano cappelli a punta come quelli
del Ku Klux Klan. La stragrande maggioranza degli inquisitori spagnoli era
composta da giuristi laici che non solo insistevano sulla necessità di solide prove
degli eventuali crimini, ma che dovevano anche lavorare nel rispetto di alcuni
parametri chiaramente definiti. Inoltre, l’Inquisizione non era uno strumento
finalizzato a perseguitare gli ebrei, i musulmani e i membri di altre fedi: la sua
giurisdizione, infatti, si estendeva soltanto ai cattolici (anche se alcuni di questi
erano in realtà degli ebrei che erano stati costretti a convertirsi).
Oltre a occuparsi di eresie o crimini di fede, l’Inquisizione era attiva anche
nella lotta all’adulterio, alla bigamia e alla sodomia, nonché sul fronte di altre
questioni morali che arrivavano fino alla rottura delle promesse, all’ubriacarsi in
pubblico e all’imprecare in chiesa. L’indulgenza abbiamo accennato la rendeva
un’alternativa di gran lunga preferibile per coloro che finivano nelle mani della
giustizia secolare, tanto che molti di questi ultimi sceglievano di mettersi a
bestemmiare in tribunale finché il giudice non era costretto a consegnarli
all’Inquisizione, le cui prigioni erano le migliori in Europa. Il tanto vituperato
Grande inquisitore Tomás de Torquemada insisteva per un regime di pulizia,
cibo adeguato e vestiti di ricambio per tutti i prigionieri, e garantiva alle detenute
una notevole protezione dalle attenzioni non richieste dei loro carcerieri e degli
altri prigionieri. È un dato di fatto che in almeno due occasioni, quando le carceri
dell’Inquisizione a Barcellona e Salamanca erano strapiene, entrambe si
rifiutarono di consegnare una parte dei loro detenuti alle prigioni secolari del
posto, ritenendo che le loro condizioni fossero disumane; si limitarono così a
lasciar andare alcuni dei prigionieri meno pericolosi, sulla promessa che
sarebbero tornati dopo qualche mese. Chi veniva processato dall’Inquisizione
spagnola aveva molte più chance di salvarsi rispetto a chi finiva nelle mani dei
tribunali civili, che spesso non erano nient’altro che una sottile maschera di
legalità dietro alla quale si nascondeva una folla assetata di linciaggi.
Detto questo, va però aggiunto che trovarsi addosso l’attenzione
dell’Inquisizione spagnola nei suoi primi tempi non era comunque una cosa da
ridere: i suoi denti erano senza dubbio molto aguzzi, e non aveva nessuna remora
a usarli. Era nata dal desiderio di Ferdinando e Isabella di vedere una Spagna
unita nella fede; così, alla numerosa comunità ebraica spagnola venne offerto un
periodo di grazia per decidere se lasciare il Paese o rimanere come conversos,
ossia ebrei convertiti alla fede cattolica. Alcuni spagnoli ritenevano – non senza
ragione – che molti conversos avessero aderito solo a parole al cattolicesimo,
continuando a praticare la loro vera fede in segreto. E, com’è ovvio, c’era anche
la solita invidia antisemita per la loro ricchezza, che sarebbe stata confiscata nel
caso fossero stati giudicati colpevoli di tali crimini. Dato che l’Inquisizione
spagnola era strutturata in modo da finanziarsi autonomamente attraverso le
multe e le confische imposte con i suoi verdetti, ci saranno senz’altro stati dei
processi infondati; tuttavia, nel complesso, va anche detto che in quei primi
quindici anni le esecuzioni furono solo circa centotrenta all’anno (un numero
tremendo per gli standard moderni, ma che va visto nel contesto dell’epoca).
Molti degli imputati erano di fatto giudicati colpevoli di eresia, che allora era
considerata un grave crimine. Per contro, le streghe e gli eretici uccisi nel resto
dell’Europa occidentale in quello stesso periodo furono forse sessantamila. Per
quanto venga oggi presentato come un gran bravo ragazzo, il re inglese Enrico
VIII era un criminale paranoico: oltre alle persone giustiziate per ragioni di fede
o di eresia, durante i suoi trentasette anni di regno impose decine di migliaia di
altre esecuzioni secolari.
Il 18 aprile 1482, papa Sisto IV mandò una lettera al Consiglio dei vescovi
spagnoli per invitarli a guardarsi dall’avarizia che macchiava la loro Inquisizione
con i processi arbitrari a carico di ebrei convertiti o altri ricchi bersagli percepiti
come vulnerabili. Anche se Ferdinando rispose alla lettera del papa dicendogli,
senza mezzi termini, che tali accuse erano infondate e che avrebbe dovuto farsi i
santi affari suoi, nel 1483 il re affidò comunque a Tomás de Torquemada
l’incarico di supervisionare le azioni dell’Inquisizione spagnola e di assicurarsi
che non fosse mai suscettibile di accuse come quelle.
Anche se nelle grandi città l’Inquisizione aveva degli uffici stabili, c’erano
pure degli uffici itineranti che viaggiavano per paesi e villaggi troppo piccoli per
potersi permettere una sede permanente; e, a ulteriore conferma dell’indulgenza
dell’Inquisizione spagnola, questi uffici itineranti finirono quasi per mandare in
rovina l’istituzione. Sapendo che il contadino spagnolo medio era perlopiù
ignaro dell’esistenza dell’Inquisizione e della sfera dei suoi giudizi, gli uffici
itineranti ritenevano corretto avvertire paesi e villaggi del loro imminente arrivo,
annunciando con un editto che avrebbero concesso a tutti trenta giorni di tempo
per stilare un elenco di ogni colpa o trasgressione minore che avessero sulla
coscienza così da potersi presentare, all’arrivo degli inquisitori, per la
confessione e l’assoluzione. Questa benevolenza si dimostrò però molto
controproducente. I contadini spagnoli, spaventati a morte, correvano infatti
incontro all’Inquisizione a ogni sua tappa con interminabili liste di trasgressioni
che avevano di fatto commesso, di trasgressioni di cui altri potevano ritenerli
colpevoli o anche di qualunque falsa accusa che i loro nemici avrebbero potuto
scagliare contro di loro. Così, il carico di lavoro diventava tale che spesso gli
uffici itineranti dell’Inquisizione decidevano di concedere un’assoluzione a
tappeto a ogni anima vivente di quella zona e di battere quindi velocemente in
ritirata davanti allo tsunami di aspiranti penitenti che stava per abbattersi su di
loro. Questo fu l’inizio del processo che portò l’Inquisizione a diventare una
vittima della sua stessa benevolenza.

TOMÁS DE TORQUEMADA

Con la prima parte del suo cognome che, ironicamente, aveva un forte collegamento
etimologico con altri termini come “torcere” e “tortura”, Tomás de Torquemada diventò
forse un bersaglio scontato per la macchina della propaganda nera protestante.
Frate domenicano di discendenza ebrea, Torquemada venne nominato Grande inquisitore
nel 1483, all’età di sessantatré anni; e per quanto il suo nome basti a richiamare alla
mente immagini di migliaia di persone messe al rogo, in realtà tenne la sua carica solo per
quindici anni, negli ultimi cinque dei quali fu costretto a letto per ragioni di salute.
L’Inquisizione spagnola, d’altro canto, rimase operativa per più di trecentocinquant’anni.
Pur essendo un inflessibile persecutore degli eretici, Torquemada, stando a tutte le
testimonianze, era un uomo severo ma giusto, che si preoccupava che le prigioni
dell’Inquisizione venissero tenute in buone condizioni igieniche e che i suoi processi
fossero equi, con l’onere della prova sulle spalle dell’accusa.

Anche se l’Inquisizione spagnola era stata progettata in modo da


autofinanziarsi attraverso le multe e le confische, i vari uffici, ciascuno con un
suo consulente legale, un conestabile, un pubblico ministero e una dozzina di
persone di supporto, finivano spesso per dover chiedere sussidi alla Corona
anche solo per pagare i salari. Nei suoi trecentocinquant’anni di attività,
l’Inquisizione spagnola celebrò poco meno di duecentocinquantamila processi,
che portarono a circa quattromila esecuzioni (in media, una dozzina all’anno).
La stragrande maggioranza dei processi si chiudevano con un’assoluzione. È
vero che l’Inquisizione spagnola ricorreva alla tortura, ma all’epoca lo facevano
tutti e i registri mostrano che la utilizzò solo in meno del due per cento di tutti i
casi. La tortura era comunque limitata a sessioni di un massimo di quindici
minuti, che potevano essere ripetute soltanto una volta; nessuno subì mai una
terza sessione, e solo la metà del citato due per cento andò incontro alla seconda.
A quei tempi, le celle inglesi erano sempre piene di cremagliere e
schiacciapollici, e sulle strade di Londra un orfano denutrito poteva essere preso
e impiccato per aver rubato una fetta di pane. Tra il XVI e il XVII secolo, in
Inghilterra furono impiccate tra le quattrocento e le duemila “streghe”
(nonostante quello che vediamo nei film, comunque, in Inghilterra non venivano
mai messe al rogo), e nella Germania protestante il numero fu molto più alto. Per
contro, l’Inquisizione spagnola aveva dichiarato fin dall’inizio che la credenza
nelle streghe e nella stregoneria era una stupidaggine per la quale nessuno poteva
essere processato o punito in alcun modo; anzi, si spinse fino ad avvertire che
chiunque avesse mosso immaginarie accuse di stregoneria contro qualcun altro
sarebbe stato incriminato. Così, per quanto le attività dell’Inquisizione spagnola
siano certo scioccanti alla luce degli standard odierni, se le confrontiamo con
quelle degli altri Paesi dell’Europa occidentale di quell’epoca risulta chiaro che
il mito che la circonda non corrisponde alla realtà.
Alzare il tetto: le molte incarnazioni di Stonehenge

Seconda solo alle piramidi egiziane, Stonehenge è stata oggetto di più congetture
di qualunque altra struttura sulla Terra. Nel corso degli ultimi secoli, diverse
sottoculture – a partire dai neo-druidi, dal movimento Wicca e da vari gruppi
pagani – hanno tentato di appropriarsi di questo cerchio di pietre, affermando
che era stato un tempio o un punto di ritrovo per la loro fede. Tuttavia, non ci
sono prove che indichino che Stonehenge abbia mai avuto una funzione del
genere. Per quanto riguarda il motivo del fascino esercitato da questa struttura
megalitica, la risposta migliore è forse quella data dalla defunta archeologa
britannica Jacquetta Hawkes, moglie di J.B. Priestley e prima donna ad aver
studiato archeologia all’università di Cambridge. Vedendo il sito come uno
specchio su cui diverse culture successive hanno proiettato le loro paure o i loro
sogni, la Hawkes disse, con una famosa battuta, che ogni epoca ha la Stonehenge
che si merita. Nel medioevo, si credeva che fosse stata costruita da giganti che
lavoravano sotto la direzione di Merlino; nel XVIII e nel XIX secolo, con
l’ascesa dell’interesse per la cultura druidica, era un posto dove i druidi
pregavano e celebravano i loro sacrifici; e negli anni Sessanta del Novecento,
alle soglie dell’era dei computer, Stonehenge era vista come un gigantesco
calcolatore.
Detto questo, alla luce delle tracce, nelle immediate vicinanze, di altre opere
di costruzione risalenti a circa novemila anni fa, possiamo affermare che
Stonehenge non era un singolo progetto ma, piuttosto, un insieme di imprese
completate in quattro fasi distinte nel corso di millecinquecento anni. C’è un
acceso dibattito riguardo alla datazione di questi stadi di costruzione, con alcuni
che preferiscono dividere la terza fase in più stadi; tuttavia, per non complicare
troppo le cose, in questa sede ci atterremo all’ipotesi dei quattro stadi con una
datazione approssimativa.
La prima fase ebbe inizio attorno al 3000 a.C. con la creazione del terrapieno
e del fossato circolari, nonché del cerchio di cinquantasei pozzetti di un metro
quadrato scavati nella roccia calcarea, forse per piantarvi degli alti pali di legno;
questi buchi sono oggi noti come i “buchi di Aubrey”, dal nome dell’antiquario
seicentesco John Aubrey che scrisse per primo delle fosse e degli avvallamenti
di Stonehenge. Oggi, però, ci sono molti dubbi riguardo al fatto che le fosse
menzionate brevemente da Aubrey fossero le stesse che comprendono questo
cerchio appositamente progettato di pozzetti, dal diametro complessivo di circa
ottantasette metri, che circonda le pietre posate in seguito. La seconda fase
cominciò intorno al 2500 a.C. con l’importazione di un’ottantina di cosiddette
“pietre blu” dai monti Preseli, nel Galles sud-occidentale, a circa quattrocento
chilometri di distanza. Già lo stesso trasporto di tali pietre, dal peso
approssimativo di quattro tonnellate ciascuna, costituì di per sé un’impresa
logistica ragguardevole. Sembra che i lavori, svolti con l’intenzione di formare
due cerchi concentrici di monoliti verticali, si siano arrestati lasciando uno di
questi cerchi incompleto. Fu durante questa fase che venne aperta un’ampia
breccia nel terrapieno circolare per consentire l’accesso al sito interno. La terza
fase vide l’arrivo delle imponenti pietre verticali e degli architravi importati dalle
cave di Avebury, nel Wiltshire, una quarantina di chilometri a nord. È stato
stimato che per portare ogni pietra fino al sito, facendole slittare su rulli di legno,
sarà occorso il lavoro di circa cinquecento uomini; arrivate a destinazione,
vennero disposte in un cerchio interno di cinque triliti. Quindi, durante la quarta
fase (terminata nel 1500 a.C. circa) il cerchio incompleto di pietre blu venne
risistemato in forma di ferro di cavallo all’interno del cerchio completato delle
altre, prima che il sito subisse ulteriori cambiamenti. Stonehenge venne quindi
abbandonata al suo lungo e lento processo di deterioramento.
È importante tenere a mente queste cose quando si valutano le asserzioni
riguardo allo scopo di Stonehenge (era un computer? Era un inseguitore solare?
Era un osservatorio astronomico?), in quanto queste ipotesi vengono avanzate
come se la costruzione del monumento sia stata il frutto di un singolo progetto
supervisionato da un’unica cultura che seguiva i dettami di una specifica agenda.
Stonehenge, invece, è il risultato di un progetto in più stadi portato a termine nel
corso di secoli, in cui le persone che lavoravano nelle fasi successive non
conoscevano lo scopo o le intenzioni dei loro predecessori e non se ne curavano.
I lavori iniziali, con il fossato e il terrapieno circolari, furono eseguiti dal popolo
di Windmill Hill, un’antica cultura della piana di Salisbury di cui sappiamo poco
altro; quindi arrivarono la cultura del vaso campaniforme e la cultura del
Wessex, che aggiunsero gli ultimi ritocchi attorno al 1500 a.C. Inoltre, quello
che vediamo oggi a Stonehenge non è la struttura nella sua forma originale,
ormai perduta per sempre. Molti pensano che, come nel caso del cerchio di
pietre presso la vicina Avebury (dove erano state prese le pietre più grandi per
Stonehenge), ciò che vediamo oggi sia di fatto una creazione del XX secolo.
Tanto per Stonehenge quanto per Avebury, la protezione del National Trust o
dell’English Heritage è arrivata soltanto all’inizio del XX secolo; prima di allora,
e quasi certamente nel caso di Avebury, le pietre erano considerate o come dei
fastidiosi impedimenti all’aratura delle terre o come pietre “liberamente
disponibili”, che potevano essere prese e ridotte a pezzi più piccoli per altri
lavori. Nel 1934, il magnate della marmellata Alexander Keiller usò la sua
considerevole ricchezza per acquistare l’intero sito (di quasi quattro chilometri
quadrati) di Avebury e avviò quello che potremmo descrivere come un
programma di ricostruzione distruttiva con lo scopo di ricreare l’aspetto che,
secondo lui, quel sito doveva aver avuto intorno a cinquemila anni prima. Libero
da quei vincoli di bilancio che sono spesso la rovina dei progetti archeologici più
formali, l’esuberante Keiller si mise a ricostruire il suo cerchio di pietre
“neolitico”, dalla circonferenza di circa un chilometro e mezzo, con i suoi due
anelli interni, procedendo in un modo che avrebbe fatto sbiancare i capelli a ogni
archeologo moderno.
I suoi lavori vennero filmati tra il 1937 e il 1939 da un residente di Avebury,
Percy Lawes, e trasferiti su video negli anni Settanta a beneficio dei posteri. I
film mostrano Keiller e il suo team che demoliscono dozzine di case e edifici
agricoli per far spazio alla struttura da lui concepita, con le pietre sbagliate che
venivano installate dentro le buche esistenti (pesantemente rimodellate in modo
che potessero accoglierle) e le “nuove” pietre sistemate in buche scavate apposta
per completare lo schema che Keiller aveva in mente. È ora emerso che la
visione di Keiller era di fatto sbagliata. Un progetto congiunto condotto nel 2017
dalle università di Leicester e Southampton ha infatti rivelato, usando le ultime
scoperte nel campo dell’analisi georadar, che in origine, al centro del sito, c’era
un quadrato di pietre largo trenta metri disposto attorno al monolito centrale.
Secondo il dottor Mark Gillings (direttore del dipartimento di archeologia
all’università di Leicester), una tale deviazione dallo schema circolare è qualcosa
di unico nei monumenti megalitici.
Per quanto riguarda Stonehenge, anche se il sito è notevolmente più piccolo
di quello di Avebury, è probabile che siano state imposte delle “rielaborazioni”
simili, anche se in misura minore. Ogni lettore che abbia voglia di fare una
rapida ricerca su Internet della rappresentazione del sito fatta nel 1835 da John
Constable potrà vedere che la maggioranza delle pietre erano cadute e quelle
ancora in piedi erano pericolosamente inclinate. Era chiaro che non si trattava di
un’interpretazione artistica dei danni prodotti dal tempo, come confermato dalle
prime fotografie del sito che mostrano le pietre in uno stato di deterioramento
ancora più marcato. Nel 1901, con il sito che attirava ormai un vasto interesse
nazionale e internazionale, iniziarono i lavori per “rassettare” il monumento, una
mossa che in molti ambienti venne accolta con ostilità. La rubrica delle lettere
del «Times» era piena di proteste contro una simile “profanazione”, ma il
restauro proseguì comunque con ulteriori fasi nel 1919, nel 1920 e quindi nel
1958-59. Gli ultimi ritocchi furono infine portati nel 1964, quando erano ormai
stati aggiunti anche i “nuovi” architravi; e, stando a Christopher Chippindale
(sovrintendente al museo di archeologia dell’università di Cambridge), in pratica
tutte le altre pietre furono mosse o riposizionate in qualche modo prima di essere
fissate.
Così, quello che di fatto abbiamo è un’idea novecentesca dell’aspetto che il
monumento potrebbe aver avuto migliaia di anni fa. All’alba del XXI secolo,
David Batchelor, archeologo anziano all’English Heritage, ha riconosciuto come
negli anni Sessanta del Novecento fosse stata presa la decisione di non indicare
dettagliatamente nelle guide i rinnovamenti e i restauri fatti, ritenendo che fosse
giunto il momento di porre rimedio a quell’errore di omissione. Questi pesanti
interventi di restauro e di riposizionamento delle pietre mettono in discussione
anche le varie tesi sui loro allineamenti solari e celesti, in quanto la disposizione
originale potrebbe essere stata diversa. A questo punto, ci resta quindi soltanto
un’ultima domanda: Stonehenge ha mai avuto un tetto?

LOTTO N. 15
Stonehenge appartenne alla prioria di Amesbury fino al 1536, quando Enrico VIII confiscò
tutte le proprietà monastiche e assegnò le tenute di Amesbury al conte di Hereford; in
seguito le terre, assieme al monumento abbandonato, passarono per le mani di diverse
famiglie nobiliari, tra cui quella del marchese di Queensberry.
Nel 1824, il monumento e i dodici ettari di terra circostante furono comprati dalla famiglia
Antrobus del Cheshire, che costruì diversi cottage e persino un caffè (poi demolito) vicino
alle pietre. Quando l’ultimo discendente degli Antrobus venne ucciso nella Prima guerra
mondiale, l’intero appezzamento di terreno fu messo all’asta nel settembre del 1915.
Presentato come il “Lotto n. 15”, venne comprato per seimila sterline da Sir Cecil Chubb,
che era stato mandato all’asta da sua moglie, interessata all’acquisto di un tavolo da
pranzo con sedie di cui aveva visto la pubblicità. A quanto pare, Lady Chubb non fu molto
entusiasta del suo acquisto, e nel 1918 Sir Cecil finì per donare quelle terre alla nazione.
Come i cambiamenti nella moda alimentano le vendite nei negozi di vestiti, le
nuove teorie sono la linfa vitale dell’archeologia accademica. La più recente
ipotesi riguardo a Stonehenge afferma che il monumento non è stato sempre un
mero cerchio di pietre ma che, per un certo periodo, è stato un edificio vero e
proprio. Per parafrasare Sarah Ewbank, la famosa architetta paesaggista
interessata da tempo a questo sito, perché fare tutto lo sforzo di erigere un
semplice cerchio di pietre dove indossare le pelli di capra e danzare ai solstizi
d’inverno e d’estate, quando sarebbe stato possibile metterci sopra un tetto e
usare l’edificio durante l’intero anno? La Ewbank non è la sola a fare questo
genere di ipotesi. Sul finire degli anni Novanta, il dottor Timothy Darvill,
professore di archeologia all’università di Bournemouth e autorevole esperto su
Stonehenge, ha preso temporaneamente in considerazione la teoria del tetto,
abbandonandola però in seguito. Il dottor Julian Spalding, che è stato direttore di
alcuni dei più importanti musei del Regno Unito, propende per l’ipotesi che il
cerchio esterno di pietre abbia fatto per un certo tempo da supporto a una
qualche sorta di sovrastruttura, mentre il dottor Aubrey Burl (ex professore di
archeologia all’Hull College e rinomato esperto di monumenti neolitici) ha
prudentemente affermato che la teoria del tetto non è priva di meriti e non può
essere esclusa.
I sostenitori della teoria del tetto sottolineano che gli architravi del cerchio
esterno erano fissati sulla sommità delle pietre verticali con doppie giunzioni a
tenone e mortasa, come se dovessero assorbire quel genere di spinta laterale che
sarebbe stata esercitata da una volta di legno che sosteneva un tetto di paglia;
quelle giunzioni hanno senso solo in un progetto che prevedeva l’aggiunta di una
sovrastruttura, in quanto, in caso contrario, il peso delle pietre stesse sarebbe
stato sufficiente a tenerle in posizione. Si è anche ventilata la possibilità che i
pali di legno collocati nei “buchi di Aubrey” sostenessero una qualche sorta di
veranda esterna che circondava la struttura finita. Tuttavia, almeno per ora, la
teoria del tetto è destinata a languire nel regno delle mere ipotesi, dato che quegli
eventuali supporti di legno e la copertura di paglia che sostenevano sono marciti
da tempo immemorabile.
5.
Conflitto e catastrofe
Il Buco nero di Calcutta: una menzogna costruita sull’avidità

Gli elementi più importanti di questa presunta atrocità sono ben noti tanto nel
Regno Unito quanto in India, ma ciò non toglie che l’episodio venne
quantomeno ingigantito – e, nella peggiore delle ipotesi, cinicamente inventato –
dalla Compagnia delle Indie Orientali (EIC, East India Company), ansiosa di
ottenere l’appoggio del governo e dell’opinione pubblica per l’espansione della
sua già colossale influenza nel subcontinente.
Fondata con un decreto reale da Elisabetta I il 31 dicembre 1600, nel XVIII
secolo l’EIC era cresciuta fino a diventare un colosso tale da far impallidire
qualsiasi conglomerato odierno. A giudizio di molti, comunque, la cosa più
preoccupante era che la compagnia non aveva soltanto raggiunto delle
dimensioni tali da sfuggire al controllo di ogni governo, ma possedeva anche un
proprio esercito e una propria marina superiori a quelli delle forze regolari
britanniche. Al culmine della sua potenza, negli anni Cinquanta dell’Ottocento,
l’EIC aveva al suo comando più di duecentosettantunomila soldati e un numero
di navi di molto superiore a quello della marina britannica. Nel 1756 stava
spadroneggiando a Calcutta, violando gli accordi che aveva raggiunto con il
governante (o nababbo) del Bengala, Siraj ud-Daulah, e interferendo con gli
affari interni del suo regno. Quando la compagnia avviò una grande espansione
di Fort William, la sua base fortificata in città, i sospetti più che fondati di Siraj
ud-Daulah sulle sue vere intenzioni lo spinsero ad attaccare l’istallazione il 20
giugno.
La maggior parte dei soldati della compagnia e delle reclute locali disertarono
e si diedero alla fuga, così che quando le forze del nababbo assaltarono il forte,
al suo interno erano rimasti relativamente pochi soldati; il numero preciso di
europei che vennero rinchiusi nella cella di Fort William nota agli abitanti del
posto come il “Buco nero” resta tutt’oggi sconosciuto. Appena entrato nel forte,
il nababbo informò subito l’ufficiale dell’EIC di grado più alto presente sul
posto, John Zephaniah Holwell, che non sarebbe stato fatto loro alcun male e
che, se avessero promesso di comportarsi bene, sarebbero stati liberi di muoversi
all’interno dei confini della struttura. Tuttavia, non appena Siraj se ne fu andato,
gli europei si fecero così petulanti ed esigenti che gli uomini del nababbo
decisero di dar loro una lezione gettando i loro capi – tra cui lo stesso Holwell,
se dobbiamo credere al suo racconto – nella nauseante cella della compagnia.
Stando alle stime più basse, questo gruppo era composto da nove uomini, tre dei
quali non arrivarono alla mattina seguente; a ucciderli, però, non furono i loro
carcerieri ma le ferite che avevano riportato il giorno prima durante la loro breve
e fiacca difesa del forte. Ciononostante, Holwell, infuriato e determinato a far sì
che l’EIC riaffermasse il proprio controllo sull’area ed estendesse i suoi tentacoli
anche nelle province vicine, ritornò a Londra per pubblicare il suo pamphlet A
Genuine Narrative of the Deplorable Deaths of English Gentlemen and Others
Who Were Suffocated in The Black Hole (“Racconto autentico delle incresciose
morti dei gentiluomini inglesi e degli altri lasciati a soffocare nel Buco nero”).
Stando a questo racconto – scritto da Holwell assieme ad altri dirigenti
dell’EIC che al momento dei fatti non si trovavano neppure in India – nel Buco
nero vennero rinchiuse centoquarantasei persone, e solo ventitré di loro ne
uscirono vive la mattina seguente. Tuttavia, a parte il fatto che il numero degli
europei presenti nel forte al momento della sua caduta era di gran lunga
inferiore, il Buco stesso misurava solo circa quattro metri per cinque: anche
volendo, quindi, sarebbe stato impossibile farvi entrare tutta quella gente. Lo
spaventoso racconto di quella notte di terrore scritto da Holwell presentava
inoltre altri problemi. Infiorando la sua testimonianza di particolari ridicoli,
descrisse nel dettaglio i volti dei suoi compagni, segnati dal dolore e dalla
disperazione, di fronte all’acqua che i loro maliziosi carcerieri continuavano a
versare nella sabbia davanti ai loro occhi, e così via. Il problema, però, è che
quella cella non era chiamata “Buco nero” per niente: c’erano solo due piccole
feritoie per la ventilazione. Come avrebbe fatto, quindi, a vedere quei dettagli
nella totale oscurità da cui la cella prendeva il nome? Di fronte al racconto da
due soldi di Holwell, però, il pubblico britannico non era in vena di soffermarsi
su questo genere di considerazioni logiche: il nababbo aveva semplicemente
bisogno di una gran bella lezione. Era il momento di scatenare la bestia nota
come Robert Clive, o «Clive d’India».
Era proprio la reazione in cui sperava l’EIC: il pubblico era talmente
scalmanato nel chiedere una sanguinosa vendetta che nessuno al governo ebbe il
coraggio di imporre restrizioni alla reazione dell’EIC, che trovò in Robert Clive
l’uomo giusto a cui affidare quel compito. Nato nelle terre della sua famiglia a
Market Drayton, nello Shropshire, Clive aveva una fama di malvivente con una
passione per le risse di strada. Era anche dedito al racket della protezione in città
e nelle aree circostanti: i proprietari di negozi e imprese dovevano pagarlo se
non volevano che qualche incendio devastasse le loro attività. Quando compì
diciott’anni, Market Drayton in generale e la sua famiglia in particolare ne
avevano avuto abbastanza e decisero quindi di mandarlo in India con una
mansione nell’EIC; in seguito, sarebbe entrato nell’esercito della compagnia, di
cui scalò rapidamente i ranghi. Gli altri lo vedevano erroneamente come un
comandante audace e valoroso, ma in realtà era ancora un malvivente, con
l’unica differenza che ora poteva giocare con un esercito anziché con una banda
di teppisti di strada. Già dipendente dall’oppio, mostrava una noncuranza quasi
criminale per la propria incolumità e per quella degli altri.

LA FINE DI ROBERT CLIVE

Nonostante tutta la sua malguadagnata ricchezza, Robert Clive finì per morire a Londra in
circostanze misteriose. Il suo cadavere venne trovato nel suo palazzo in Berkeley Square
il 22 novembre 1774. Stranamente non ci fu nessuna inchiesta, e giravano voci secondo le
quali si era tagliato la gola o era morto dopo aver assunto un’overdose di oppio. Chi lo sa,
forse alla fine qualcuna delle sue vecchie vittime di Market Drayton era riuscita a fargliela
pagare; in ogni caso, venne sepolto in una tomba senza nome nella chiesa parrocchiale di
Moreton Say, vicino al suo luogo di nascita. Per rendere l’idea della quantità di ricchezze
che aveva saccheggiato, ci basti ricordare che, nel 2004, i suoi discendenti misero all’asta
da Christie’s sei dei suoi capolavori di arte moghul, venduti per 4,7 milioni di sterline: non
male per un bulletto di provincia!

Dopo aver riconquistato Fort William e aver spazzato via le forze del
nababbo, Clive portò altre province sotto il controllo dell’EIC ricorrendo, in
pratica, alle stesse tattiche che aveva utilizzato da adolescente a Market Drayton:
chi voleva collaborare con la compagnia nelle vesti di governante fantoccio,
doveva pagargli un’enorme tangente in cambio dell’uso del suo esercito per
schiacciare chi si opponeva a tale prospettiva. Queste tangenti, a cui si
aggiungevano i saccheggi fatti qua e là, permisero a Clive di tornare nel Regno
Unito con una ricchezza spropositata. Con gran parte dell’India ricondotta sotto
il malvagio e avido dominio dell’EIC, pochi osarono mettere in dubbio la
veridicità del racconto di Holwell che aveva istigato la vendetta guidata da
Clive. La prima stringente confutazione del suo pamphlet apparve solo nel 1915
con il libro The Black Hole – The Question of Holwell’s Veracity, pubblicato da
J.H. Little, segretario della Società storica di Calcutta. Qualche decennio dopo, il
volume venne seguito da alcuni dettagliati articoli scritti da autori come Ramesh
Chandra Majumdar, vicerettore dell’università di Dacca, e Basudeb
Chattopadhyay, professore di storia indiana moderna e direttore degli archivi di
Stato del Bengala occidentale. Quando i britannici iniziarono infine il loro
disastroso ritiro dall’India, nel 1947, il monumento del Buco nero eretto a
ricordo della brutalità e dell’ingratitudine degli indiani fu uno dei primi ricordi
offensivi della loro presenza a essere abbattuto dalla folla.
Le invasioni dei conquistadores spagnoli: gli Inca e gli irlandesi

Il più grande mistero per chi visita per la prima volta il Sudamerica è la marcata
influenza irlandese su quella cultura. In Cile, per esempio, si possono vedere
diverse statue dedicate a Bernardo O’Higgins (1778-1842), la cui famiglia
proveniva dalla contea irlandese di Sligo, che è ancora venerato come il padre
dell’indipendenza cilena e il primo Direttore supremo (capo di Stato) del Paese
dopo la sua emancipazione dal controllo spagnolo. Allo stesso modo, i turisti in
Argentina potrebbero restare altrettanto sorpresi dalla moltitudine di ristoranti e
pub irlandesi; e un discorso del genere si può fare anche per il Brasile, dove ogni
anno la statua del Cristo Redentore che svetta sopra Rio de Janeiro viene
illuminata con una luce verde trifoglio in occasione della festa di san Patrizio,
accompagnata da grandiose celebrazioni cittadine. Le radici di questi perduranti
legami tra il Sudamerica e l’Irlanda risalgono ai primi anni del Cinquecento,
quando la Spagna e le contee del sud dell’Irlanda strinsero forti rapporti
commerciali che – per quanto il fatto sia poco noto – portarono numerosi
irlandesi a seguire le orme dei conquistadores spagnoli che invasero il Messico e
il Sudamerica nel corso di quel secolo.
Gli elementi fondamentali della storia delle invasioni spagnole del Messico
con Hernan Cortéz nel 1519 e del Sudamerica con Francisco Pizarro negli anni
Venti del Cinquecento sono risaputi, anche se spesso vengono presentati in modo
distorto. In entrambi i casi, si crede che gli invasori, pur disponendo di forze
molto esigue, abbiano trionfato grazie alla loro innata superiorità sugli Inca e
sugli Aztechi del Messico, talmente ottenebrati da pensare che gli spagnoli, con
la loro pelle più pallida, fossero incarnazioni delle loro divinità pagane. È inutile
dire che le cose andarono in un modo molto diverso. Di fatto, già il semplice
parlare di due forze di invasione spagnole significa spingersi troppo oltre: gli
spagnoli, a quei tempi, non si consideravano certo tali. Quella che oggi
chiamiamo Spagna era all’epoca una traballante alleanza di regni indipendenti a
cui solo il matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, nel
1469, aveva dato una maschera di unità; restavano però ancora fuori la
Catalogna, i Paesi Baschi, Murcia, Andalusia, Valencia e diverse altre regioni
storiche della “Spagna”, che sarebbero state gradualmente costrette a entrare in
un’unione alla quale avevano ben poca voglia di appartenere. La difficoltà di
questa unificazione è ancora evidente nella Spagna di oggi, come emerge dalla
campagna terroristica condotta dai separatisti baschi dell’ETA e dal voto del
2017 che ha sancito l’indipendenza della Catalogna. Allora, come di fatto anche
oggi, la maggior parte degli spagnoli si identificava innanzitutto con la propria
regione di origine.
Cortéz veniva dall’Estremadura e Pizarro dalla Castiglia. Molti immaginano
che Pizarro sia semplicemente sbarcato in Perù e abbia conquistato il Paese di
punto in bianco; in realtà, però, era un pirata avventuriero che aveva già fatto
diversi viaggi in Sudamerica e a Panama aveva sentito che in Perù c’erano
immense quantità di oro. Il suo tentativo di invadere il Paese nel 1524 era
tuttavia fallito a causa della resistenza dei nativi. Ci provò di nuovo nel 1526, ma
non appena sbarcato venne richiamato da una nave che il governatore di
Panama, Pedro de los Rios, aveva mandato a seguirlo. Narra la leggenda che a
quel punto Pizarro, non volendo ritirarsi un’altra volta, estrasse la spada e tracciò
con la sua punta una linea sulla sabbia della spiaggia, invitando “tutti i buoni
castigliani” presenti a oltrepassarla per mostrare la loro intenzione di restare in
Perù assieme a lui. I pochi che scelsero di rimanere al suo fianco sono celebrati
nella storiografia spagnola come i “Famosi tredici”, cosa che contribuì alla
promozione del mito secondo il quale Pizarro avrebbe sottomesso l’intero Perù
con l’aiuto di solo una dozzina di uomini. Di fatto, però, anche questo tentativo
di stabilire una testa di ponte peruviana non ebbe successo, e Pizarro dovette
tornare a Panama assieme ai Famosi tredici con la proverbiale coda fra le gambe.
Senza lasciarsi scoraggiare, lasciò quindi lì i suoi uomini e tornò a Madrid per
convincere Carlo I di Spagna (che era anche, al contempo, Carlo V del Sacro
Romano Impero) che in Perù c’era un sacco d’oro che attendeva solo d’essere
preso. Il re gli concesse l’autorizzazione, dandogli tre navi pienamente
equipaggiate, diversi cannoni e 180 uomini armati.
Con queste forze, Pizarro tornò quindi in Perù, dove, sapendo che a nessuna
delle altre tribù importava dei prepotenti Inca, riuscì presto a formare un esercito
nativo di oltre 35.000 uomini. Le cose andarono più o meno allo stesso modo per
Cortéz, che a sua volta non trovò difficoltà ad arruolare più di 200.000 nativi
perché lo assistessero nelle sue campagne contro i potenti Aztechi. Questo per
quanto riguarda il mito.
Per quanto riguarda le idee, altrettanto diffuse, che l’imperatore azteco
Montezuma vedesse Cortéz come l’incarnazione del dio Quetzalcóatl (il serpente
piumato), che gli Inca considerassero Pizarro come l’immagine vivente del loro
dio Viracocha e che entrambe le tribù abbiano coperto d’oro i loro invasori, non
sono nient’altro che invenzioni della storiografia spagnola per coprire i massacri
perpetrati dai due conquistadores nella loro brutale ricerca di sempre più
ricchezza. Non c’è nessuna prova a sostegno di queste idee, mentre ci sono
molte evidenze che le smentiscono. La leggenda apparve solo decenni dopo gli
eventi, ed è difficile credere che gli Inca e gli Aztechi abbiano potuto scambiare
il tremendo comportamento dei loro invasori e le loro brame decisamente
mortali per un qualcosa di divino.
Pizarro e coloro che lo seguirono nei suoi massacri non riuscirono inoltre a
trovare l’unica cosa che tutti cercavano: la favolosa città da loro chiamata “El
Dorado”. Questo non perché El Dorado non esistesse, ma perché gli spagnoli
avevano preso un granchio colossale nell’interpretazione della leggenda: El
Dorado, infatti, non era una città, bensì un uomo. Prima dell’inaugurazione del
suo regno, il futuro monarca degli Inca doveva trascorrere diversi giorni in
meditazione da solo; quindi, veniva spogliato e ricoperto di miele o d’olio in
modo che tutta la polvere d’oro che gli avrebbero riversato addosso restasse
attaccata al suo corpo al momento della sua presentazione al popolo come il Re
d’oro o “Il dorato”. Gli spagnoli, invece, si erano convinti che El Dorado fosse il
nome di una città fatta d’oro e iniziarono a interrogare i prigionieri per scoprire
la sua ubicazione. Il problema con la tortura, però, è che la vittima, pur di far
cessare le sofferenze, finisce presto per dirvi qualunque cosa vogliate sentire;
così, innumerevoli Inca continuavano a dire ai loro torturatori che El Dorado
esisteva davvero, ma che era molto, molto lontana.

GUEVARA A LIMERICK

Patrick Lynch di Galway si trasferì a Buenos Aires nel 1749; un suo diretto discendente,
Ernesto Lynch, nato nel 1928, sarebbe in seguito diventato noto al mondo come il
rivoluzionario marxista Che Guevara. Straordinariamente orgoglioso delle sue origini
irlandesi, il 13 marzo 1965 Guevara fece scalo all’aeroporto di Shannon durante il suo volo
Praga-New York in modo da potersi unire alle celebrazioni che precedevano la festa di san
Patrizio nella vicina Limerick. Gli ospiti dell’Hanratty’s Hotel rimasero a bocca aperta
quando lo videro arrivare al bar nella sua inconfondibile divisa mimetica per ordinare una
pinta di Guinness.
Da lì fece un giro dei pub assieme ad Arthur Quinlan, del «Sunday Tribune» di Dublino, e i
due finirono al White Horse di O’Connell Street con Guevara talmente ubriaco da reggersi
a malapena in piedi. Quinlan disse che lui aveva deciso di restare sobrio nella speranza di
potergli carpire qualche informazione, ma il suo compagno non si era lasciato sfuggire
nulla (a parte il fatto che parlava l’inglese, una cosa che nelle interviste aveva sempre
negato).

Così, gli spagnoli andarono in Sudamerica alla ricerca di oro e i loro partner
commerciali irlandesi si unirono all’impresa, con la conseguenza, per esempio,
che oggi in Argentina la comunità irlandese è la quinta al mondo per grandezza.
È risaputo che, in tempi di crisi e di carestia, molti irlandesi andarono a New
York e a Chicago, ma quegli esuli provenivano per la maggior parte dal nord
dell’Irlanda; gli abitanti del sud sceglievano invece la Spagna, il Messico o il
Sudamerica.
Uno di quei primi migranti fu William Lamport della contea di Wexford, che
nel 1630 si imbarcò per la Spagna per poi proseguire verso il Messico, dove nel
1641 prese parte alle lotte del movimento indipendentista; furono probabilmente
le sue gesta teatrali a offrire in seguito l’ispirazione per il personaggio letterario
di Zorro. A Lamport è stata anche dedicata una statua nel Monumento
all’indipendenza di Città del Messico. Durante la guerra del 1846-48 tra Stati
Uniti e Messico, centinaia di soldati irlandesi dell’esercito statunitense
disertarono e passarono in Messico per fondare il battaglione San Patrizio;
vengono tutt’oggi ricordati come combattenti per la libertà tanto in Messico
quanto in Irlanda.
Ma questa fusione ispanico-irlandese può anche essere vista nel verso
opposto. Il primo capo del governo della Repubblica d’Irlanda (fondata nel
1918) fu Eamon de Valera, nato nelle Americhe da madre irlandese e padre
basco. Nel 1806, quando la Gran Bretagna cercò di prendere il controllo di
un’ampia fetta di territorio argentino in quella che divenne nota come l’invasione
del Rio de la Plata, tutti i soldati irlandesi della forza d’invasione disertarono
passando all’esercito argentino. Durante la rivolta di Pasqua del 1916, fu un
argentino a issare la bandiera dell’Irlanda indipendente sopra l’ufficio postale
centrale di Dublino (quando la rivolta fu soffocata, Eamon Bulfin venne
deportato; sarebbe stato in seguito nominato console irlandese a Buenos Aires
dal sopra citato Eamon de Valera). Questi legami sono ancora forti, come è
emerso dalla posizione presa dall’Irlanda durante il conflitto delle Falkland tra il
Regno Unito e l’Argentina: attirandosi accuse di tradimento e slealtà dalla
stampa popolare, il governo Haughey aveva condannato l’affondamento
britannico della General Belgrano e aveva spinto il Consiglio di sicurezza
dell’ONU a chiedere un immediato cessate il fuoco.
Sembra inoltre che questi collegamenti tra la Spagna e l’Irlanda siano più
profondi dei semplici accordi commerciali stretti nel XVI secolo. Con un lavoro
poi ripetuto e confermato da altri studi condotti da università norvegesi e
spagnole, il dottor Daniel G. Bradley (del dipartimento di genetica del Trinity
College di Dublino) ha di recente scoperto che, sul piano genetico, la
popolazione più strettamente imparentata con gli irlandesi sono i baschi della
Spagna settentrionale; ciò è in linea con quanto afferma un’antica leggenda
irlandese, secondo la quale gli abitanti dell’Irlanda sarebbero tutti discendenti
dei figli di un uomo chiamato Milesius, giunto lì dalla Spagna prima della
nascita di Cristo. Una nota più dolente riguarda la Phytophthora infestans, il
fungo che, colpendo le patate, fu responsabile della grande carestia del 1845 e
della conseguente diaspora irlandese; nessuno sapeva come fosse giunto in
Irlanda finché i ricercatori non hanno scoperto che vi era arrivato dal
Sudamerica, probabilmente a bordo di navi mercantili spagnole che facevano
tappa nei porti irlandesi.
La carica della Brigata leggera: una faida di famiglia

Si dice, forse non a torto, che solo i britannici riescono a trasformare un fiasco in
un motivo di orgoglio nazionale, e non c’è nulla che esemplifichi questo
concetto meglio della rovinosa carica della Brigata leggera del 25 ottobre 1854,
durante la guerra di Crimea, che vide lo scontro tra le forze alleate di Turchia,
Francia e Gran Bretagna e quelle dell’impero russo. Ma perché una singola
brigata della cavalleria britannica si lanciò in un assalto frontale contro un intero
schieramento di pezzi d’artiglieria russi, difesi da diverse brigate di cavalleria
cosacca? I britannici scelsero di ricordare l’evento come un esempio della
fermezza di carattere con cui i militari del XIX secolo obbedivano senza
discutere («non stava a loro domandarsi il perché, ma solo eseguire e morire»
per citare la poesia con cui Lord Alfred Tennyson celebrò l’evento). In realtà fu
un errore madornale, tale da mettere in discussione l’intera struttura di comando
dell’esercito britannico. Il fiasco nacque principalmente da una vecchia faida tra
due cognati e dal profondo disgusto con cui l’élite militare guardava l’ascesa
della figura del soldato professionista.
Durante la battaglia di Balaklava, i russi travolsero tre ridotte turche sulle
Causeway Heights. Osservando la situazione dal suo posto di comando, Lord
Raglan, il comandante generale delle forze britanniche nella penisola, pensò che
i russi si stessero preparando a trainare via i pezzi d’artiglieria catturati e si
affrettò quindi a dettare un ordine al brigadiere generale Richard Airey, che si
trovava per caso nei paraggi. Sul pezzo di carta, che esiste tuttora, c’è scritto:
«Lord Raglan desidera che la cavalleria avanzi rapidamente fino al fronte, segua
il nemico e cerchi di impedirgli di portare via i cannoni. L’artiglieria a cavallo
può accompagnarla. La cavalleria francese è alla vostra sinistra. R. Airey.
Eseguite subito». La nota venne passata all’aiutante di campo di Airey, il
capitano Nolan, con l’aggiunta verbale «Dite a Lord Lucan che la cavalleria
deve attaccare immediatamente». Così, Nolan partì al galoppo con quest’ordine
estremamente ambiguo. Nel film del 1968 The Charge of the Light Brigade (in
italiano, I seicento di Balaklava), con Sir John Gielgud nelle vesti di Raglan,
quest’ultimo, mentre guarda Nolan allontanarsi, dichiara che non si fida di lui, in
quanto «conosce troppo bene il suo mestiere. Sarà un triste giorno, Airey, quello
in cui gli eserciti dell’Inghilterra saranno guidati da ufficiali che sanno troppo
bene quello che fanno. Puzza di strage». Secondo i produttori del film, questa
frase sarebbe una citazione testuale di Raglan, ma ciò non trova conferma in
nessun’altra fonte. Tuttavia, anche se queste parole fossero solo un abbellimento
inserito nel film per drammatizzare la scena, esprimerebbero comunque alla
perfezione l’atteggiamento dell’élite militare aristocratica di fronte all’ascesa di
uomini come Nolan, che sapevano quel che facevano sul campo di battaglia.
Nato in Canada, Nolan era un umile cittadino coloniale che aveva prestato
servizio anche in India, svolgendo incarichi che non erano tenuti in grande
considerazione dalla maggior parte degli ufficiali di alto rango. Questi ultimi
erano indispettiti dal suo approccio professionale alla guerra e al mestiere del
soldato. Si preoccupava del benessere degli uomini e dei cavalli, e aveva scritto
molto su questioni di strategia e sulla necessità di ridisegnare le uniformi militari
più diffuse, che con i loro accessori penzolanti davano seri problemi agli uomini
costretti a indossarle mentre cavalcavano, combattevano o si muovevano
attraverso gli arbusti o i terreni boscosi. Inoltre, condannava apertamente il
sistema di vendite che permetteva a chiunque avesse i soldi di comprare un
grado e il comando di un reggimento; per chi frequentava i corridoi del potere,
questo era un modo di assicurarsi che il controllo dell’esercito rimanesse nelle
mani delle classi più elevate, ma il prezzo da pagare era l’inutile sacrificio di
migliaia di soldati regolari a causa dell’ignoranza di molti ufficiali d’alto rango
che non avevano nessuna esperienza bellica e difettavano pure di buon senso.
Lord Cardigan, che aveva acquistato il grado di colonnello e il comando dell’11°
Ussari per quarantamila sterline (prima di spendere un’altra fortuna per renderlo
l’unità più “alla moda” nell’intero esercito), aveva preso le opinioni di Nolan su
questo argomento come un’offesa personale.
Quando Nolan giunse a riferirgli gli ordini di Raglan, Lucan – che aveva il
comando generale delle unità di cavalleria – non era in grado di vedere, dalla sua
posizione, le Causeway Heights, nascoste dalla conformazione del territorio, e
chiese quindi dove fossero quei nemici e quei cannoni di cui si parlava. Nolan,
che era a sua volta di pessimo umore, senza preoccuparsi di quello che stava di
fatto indicando puntò il dito non in direzione delle Causeway Heights ma dritto
in avanti, nella North Valley, dove – a un paio di chilometri di distanza – erano
ammassate le artiglierie russe. «Ecco, signore, i vostri nemici, ed ecco i vostri
cannoni.» La discussione finì lì. Lucan montò a cavallo e andò a portare l’ordine
al suo odiato cognato, Lord Cardigan, che era a capo della Brigata leggera. Ora,
se i due non fossero stati ai ferri corti, ci sarebbe stato perlomeno un dialogo: gli
ordini erano palesemente insensati, e avrebbero quindi chiesto delucidazioni
prima di muoversi. Di fatto, però, si limitarono a ringhiare l’uno contro l’altro,
con Lucan che riusciva a malapena a nascondere la propria contentezza davanti
alla prospettiva che il suo arcinemico stava per finire dritto nelle fauci
dell’inferno, che lo attendeva all’altro capo della North Valley. Anche se avrebbe
dovuto guidare la sua Brigata pesante in supporto di Cardigan, Lucan non aveva
nessuna intenzione di prendere parte a quella pazzia: condusse la propria unità
all’imboccatura della valle e si fermò lì a guardare mentre la Brigata leggera
spariva nel polverone sollevato dai suoi cavalli.
Quando la Brigata leggera iniziò a muoversi nella direzione sbagliata, Nolan,
rendendosi conto che l’ordine era stato frainteso, si lanciò al galoppo dietro di
loro gridando di svoltare a sinistra, ma venne ucciso quasi subito da una
scheggia di un colpo d’artiglieria e la Brigata leggera proseguì così nella corsa
verso il proprio destino. I russi non riuscivano semplicemente a credere ai loro
occhi: una brigata di cavalleria leggera, con 670 uomini, puntava dritta su di
loro; di certo avrebbero cambiato direzione per attaccare da qualche altra parte,
eppure continuavano ad avvicinarsi. Pur essendo sotto fuoco da tre lati, la brigata
arrivò fino all’artiglieria russa e Cardigan, in testa, saltò i cannoni ritrovandosi di
fronte al principe Michail Radziwiłł, un ufficiale dell’esercito russo con cui
prima della guerra era stato in rapporti amichevoli nei circoli di Londra. I due
uomini si scambiarono un rapido saluto, dopodiché Cardigan girò il cavallo,
saltò nuovamente i cannoni e tornò indietro, incrociando gli ultimi ritardatari che
stavano ancora cercando di raggiungere le linee russe. La mentalità di Cardigan
e degli altri come lui è ben illustrata dalla spiegazione che avrebbe dato in
seguito: dopo aver condotto gli uomini al loro obiettivo, riteneva di aver
compiuto il proprio dovere e non vedeva perché mai avrebbe dovuto fermarsi a
«combattere il nemico in mezzo ai soldati semplici». Così, non avendo di meglio
da fare, si ritirò sul suo yacht nel porto di Balaklava a godersi una cena innaffiata
dallo champagne.
I membri della Brigata leggera che riuscirono ad aprirsi un varco attraverso la
linea dei cannoni vennero fatti prigionieri dai russi, che continuavano a chieder
loro se fossero tutti ubriachi: quando gli assicurarono che non lo erano, li
salutarono come eroi e gli diedero tutta la vodka che riuscivano a bere.
Considerate le circostanze, il numero complessivo delle perdite fu
miracolosamente basso: solo 110 soldati vennero uccisi, 161 rimasero feriti e
altri 60 furono fatti prigionieri. Il commento più pertinente sul fiasco fu quello di
un osservatore francese, il generale Bosquet, che quando la Brigata leggera partì
alla carica verso i cannoni esclamò: «C’est magnifique mais ce n’est pas la
guerre. C’est de la follie» («È magnifico, ma questa non è guerra: è follia»). A
quel punto, però, iniziò l’operazione di insabbiamento.
Osservando quella follia dalla sua postazione, Raglan capì subito che qualche
testa sarebbe saltata e, per evitare che fosse la sua, lui e Airey mandarono un
altro aiutante di campo a recuperare da Lord Lucan l’ordine formulato in modo
assurdamente ambiguo. Sir George Paget, comandante del 4° Dragoni leggeri
(che aveva la sfortuna di formare un quarto della Brigata leggera), osservò
all’epoca che anche se avessero attaccato le Causeway Heights, secondo
l’intenzione di Raglan, la loro carica si sarebbe comunque risolta in un disastro;
quindi, si domandava, perché mai era stato dato un ordine così stupido e
insensato?
Purtroppo per Raglan e Airey, anche Lucan aveva capito la potenziale
importanza di quel pezzo di carta e lo aveva quindi consegnato al suo interprete
civile, John Elijah Blunt, con l’incarico di tenerlo al sicuro; di conseguenza,
Raglan e Airey, nonostante le loro ripetute richieste, riuscirono a ottenere
soltanto delle copie del loro ordine, ma mai l’originale. Questo espediente, però,
segnò il destino di Lucan: accusato da Raglan di non aver spiegato chiaramente
l’ordine a Cardigan, venne rimandato in Inghilterra con disonore. Il defunto
Nolan, a sua volta, venne incolpato (non senza ragione) di aver spiegato male
l’ordine a Lucan quando glielo aveva portato. Raglan si rifiutò di essere
chiamato in causa; Lucan, d’altro canto, sentendosi messo ingiustamente alla
berlina (anche qui, non senza ragione), chiese di affrontare un procedimento
davanti alla corte marziale in modo da poter esporre la propria versione dei fatti
e presentare come prova l’ordine originale, ma le sue ripetute richieste vennero
sempre respinte perché Raglan era una figura di grande importanza
nell’establishment.

LA VICTORIA CROSS

Il disastro della carica della Brigata leggera portò all’istituzione, da parte della regina
Vittoria, della Victoria Cross, la prima onorificenza militare d’alto livello aperta a tutti i
ranghi. In teoria, la medaglia dovrebbe essere forgiata solo con il metallo dei cannoni russi
catturati in Crimea; questo è ciò di cui è ancora convinta la maggior parte delle persone.
Purtroppo, però, questo requisito cadde all’arsenale di Woolwich, dove gli addetti,
smaniosi di sbarazzarsi di un paio di cannoni cinesi rotti, tagliarono le loro culatte e
mandarono i pezzi di metallo alla gioielleria Hancocks di Londra, incaricata di forgiare le
medaglie.
I primi veterani della Crimea ricevettero le loro medaglie il 26 giugno 1857 in Hyde Park,
dove la regina Vittoria fece la scelta poco sensata di conferirle rimanendo a cavallo:
arrivata al primo dei sessantadue premiati, il tenente Henry James Raby, scivolò sulla sua
sella laterale mentre si stava abbassando per appuntargli la spilla e finì per infilarla nel
capezzolo del malcapitato. A quanto pare, comunque, Raby dette prova di quella stessa
fortezza d’animo che gli aveva guadagnato l’onorificenza e rimase impassibile senza
emettere nemmeno un lamento.

Mentre il «Times» tuonava che qualcuno aveva commesso un errore


madornale, l’establishment si mise d’accordo per presentare l’evento sotto la
maschera dell’indiscusso eroismo dei soldati britannici; e dopo che anche il
poeta laureato Lord Alfred Tennyson ebbe pubblicato il suo componimento –
piuttosto melenso – The Charge of the Light Brigade, nel dicembre del 1854, il
pubblico britannico scelse di leggere quell’episodio di follia in questa chiave. Il
ricorso alla letteratura bellica fatto con lo scopo di glorificare delle azioni che di
glorioso avrebbero ben poco tende a nascondere la realtà degli eventi; così,
mentre si commuoveva davanti ai versi di Tennyson recitati a teatro, l’opinione
pubblica britannica stendeva deliberatamente un velo sulle incredibili avversità e
la miseria che i veterani della Crimea dovevano ancora sopportare (tanto che, per
risvegliare la coscienza collettiva spingendola a fare qualcosa, sia pure in ritardo,
nel 1890 Rudyard Kipling ritenne necessario pubblicare un componimento, The
Last of the Light Brigade, in cui metteva in luce il coraggio delle truppe mandate
in Crimea e la povertà in cui vivevano i sopravvissuti).
Che cosa scatenò il Grande incendio di Chicago: una mucca o una
cometa?

Nel 1871, la città di Chicago venne devastata da un incendio scoppiato attorno


alle 21 dell’8 ottobre. L’evento fu di straordinaria gravità, uno dei peggiori nella
storia degli incendi urbani negli Stati Uniti: prima che le fiamme venissero
domate, circa dieci chilometri quadrati della città erano stati rasi al suolo, con un
bilancio di trecento morti e più di centomila senzatetto e costi di bonifica di
duecentoventidue milioni di dollari (circa quattro miliardi e mezzo al valore
attuale). I tizzoni non si erano ancora raffreddati che già circolavano voci
secondo le quali la responsabilità della conflagrazione era stata della famiglia
O’Leary di DeKoven Street: stando a quella teoria, l’incendio era partito da un
fienile sul retro di quella proprietà, quando l’inettitudine di Catherine O’Leary,
ubriaca, nel mungere la propria mucca aveva spinto il belligerante bovino a dare
un calcio a una lampada che la donna aveva negligentemente lasciato sul
pavimento coperto di paglia. Questa assurda e maliziosa calunnia venne presto
confutata, ma l’idea che una semplice mucca fosse bastata a mettere in ginocchio
la città di Chicago fece comunque presa sull’immaginazione collettiva: ancora
nel 1967, Brian Wilson scrisse il suo brano Mrs O’Leary’s Cow per l’album dei
Beach Boys SMiLE, rimasto inedito fino al 2011.
Uno dei primi edifici ad andare a fuoco quella notte fu di fatto un fienile
dietro alla residenza degli O’Leary, al n. 137 di DeKoven Street. Il caposquadra
dei vigili del fuoco che se ne occupò avrebbe in seguito testimoniato: «Avevamo
messo l’incendio sotto controllo: le fiamme non si sarebbero propagate
nemmeno di un metro. Subito dopo, però, sono venuti a dirmi che la chiesa di
San Paolo, un paio di isolati più a nord, stava bruciando». I pompieri corsero là
ma al loro arrivo, come raccontò lo stesso caposquadra, «Ci hanno detto che le
fiamme avevano raggiunto la falegnameria Bateham […] degli edifici che si
trovavano molto oltre il fronte dell’incendio, e che non avevano nessun contatto
con esso, prendevano fuoco dall’interno». Come minimo, la testimonianza del
caposquadra dei pompieri rende chiara l’infondatezza della vecchia leggenda
secondo cui il disastro sarebbe stato causato dalla mucca di Catherine O’Leary,
soprattutto alla luce del fatto che il primo giornalista che aveva pubblicato questa
storia ammise in seguito di essersela inventata. Ma dato che la comunità
cattolica irlandese di Chicago non era molto benvoluta dall’élite protestante,
l’idea di usarla come capro espiatorio – o, meglio, mucca espiatoria – ebbe
comunque successo.
I libri si sono concentrati soprattutto sul Grande incendio di Chicago,
tralasciando spesso il fatto che, quella stessa notte, nella regione dei Grandi laghi
scoppiarono anche altri incendi: le contee di Port Huron e White Rock, sulle rive
meridionali del lago Huron, furono entrambe devastate, così come quelle di
Holland e Manistee sul lago Michigan. Sulla sponda del lago opposta rispetto a
Manistee e Holland scoppiò un incendio talmente grande da superare tutti gli
altri messi assieme: quello – poco ricordato – di Peshtigo, che uccise circa
duemilacinquecento persone e distrusse una dozzina di villaggi circostanti, oltre
a più di seimila chilometri quadrati di bosco. Quest’ultimo fu senza dubbio il
peggior incendio nella storia americana; perché, quindi, è stato messo in ombra
da quello di Chicago?
Al culmine dell’incendio di Peshtigo, il muro di fiamme avanzava su un
fronte di otto chilometri a una velocità di circa duecentocinquanta chilometri
all’ora, con temperature che superavano i 1000°C; i treni venivano fusi sul posto,
mentre gli edifici e i loro occupanti finivano carbonizzati prima ancora che
l’incendio li avesse raggiunti. Come nel caso di Chicago, dall’altra parte del
lago, anche l’incendio di Peshtigo fu caratterizzato da molteplici conflagrazioni
indipendenti che scoppiavano a caso su un’area molto vasta, così che la gente
non sapeva neppure in che direzione scappare. Molti di coloro che cercarono
scampo gettandosi nei fiumi e nei laghi vicini morirono annegati o di ipotermia.
Gli studi condotti in seguito sull’incendio, le sue condizioni prevalenti e i
tornado di fuoco da esso creati portarono allo sviluppo di quello che è tuttora
noto come il “paradigma di Peshtigo”. Questi studi, che spiegavano come
riprodurre le condizioni infernali che avevano devastato Peshtigo, vennero usati
durante la Seconda guerra mondiale dalle forze aeree americane e britanniche
per generare le tempeste di fuoco nei loro bombardamenti incendiari di Dresda e
Tokyo, che provocarono un numero di vittime tale da far impallidire quelli di
Hiroshima e Nagasaki messi assieme.
L’aspetto più intrigante della serie di incendi scoppiati in quella notte del
1871 è dato dal fatto che, visti dall’alto o su una mappa, presentano uno schema
di diffusione simile a quello che si ottiene sparando con un fucile da caccia
contro una superficie solida da un angolo basso. Questo dettaglio ha spinto
alcuni ricercatori a prendere in considerazione un colpevole molto più esotico
della mucca della signora O’Leary: la caduta dei frammenti infuocati della
cometa di Biela, disintegratasi quella notte sopra quell’area. Suggerita per la
prima volta nel 1883, la teoria della cometa venne scartata soprattutto perché
l’uomo che l’aveva proposta era Ignatius Loyola Donnelly, un deputato del
Congresso statunitense e appassionato di scienza che dai più era percepito – non
senza ragione – come una persona un po’ fuori di testa. A favore di Donnelly
c’erano però le innumerevoli testimonianze che riferivano di palle di fuoco
cadute dal cielo e di conflagrazioni spontanee di fiamme blu al livello del suolo,
che secondo Donnelly potevano essere spiegate dal metano presente nelle
comete e nei loro frammenti. Più di recente, il fisico americano Robert Wood ha
ripreso la tesi da tempo abbandonata di Donnelly e, nel 2004, ha presentato le
sue conclusioni all’Istituto americano di aeronautica e astronautica, asserendo
che, in fin dei conti, c’erano molti elementi a sostegno dell’idea che quella serie
di incendi fosse stata di fatto scatenata da una pioggia di frammenti della cometa
di Biela; solo questa teoria, infatti, era in linea con tutte le testimonianze oculari
raccolte all’epoca.

LA FORTUNA DEGLI O’LEARY

Anche se la loro casa era sopravvissuta alla catastrofe, la vita degli O’Leary in seguito
all’incendio divenne insostenibile, in quanto erano sempre assediati da giornalisti e da
malintenzionati; così, alla fine, per sfuggire alla persecuzione la famiglia fu costretta a
trasferirsi nel malfamato South Side di Chicago. Di fatto, però, questo esilio forzato
permise agli O’Leary di arricchirsi e gettò le basi della fama di Chicago nel campo del
crimine organizzato. A pochi anni dal loro trasloco, il figlio di Catherine, James, aveva
iniziato a lavorare per gli allibratori locali, organizzando la riscossione forzata dei
pagamenti dovuti dagli scommettitori. Agli inizi del Novecento, Big Jim O’Leary si era
ritagliato un suo impero di scommesse illegali ed estorsioni e, diventato multimilionario,
era una delle “celebrità” più ricche della città. La sua alleanza con il boss mafioso Johnny
Torrio lo condusse a livelli più alti e fece di Chicago il palcoscenico ideale su cui, anni
dopo, si sarebbe mosso il “luogotenente” di Torrio, Al Capone.

Poco dopo gli incendi, John Washington Sheahan e George Putnam Upton,
due storici locali che avevano raccolto e schedato con cura le testimonianze degli
abitanti del posto riguardo a quella notte, pubblicarono The History of the Great
Conflagration (1871), riportando i racconti di quello che era successo in un
villaggio vicino a Peshtigo:

Ma qualche minuto dopo le ventuno, e – per una singolare coincidenza – proprio nel preciso
istante in cui le fiamme iniziavano a divampare a Chicago, gli abitanti del villaggio sentirono
un tremendo frastuono, come quello di un tornado che passa attraverso le foreste. Il cielo,
totalmente buio fino a solo pochi momenti prima, si illuminò all’improvviso di un terribile
bagliore, con nubi di fuoco. Un testimone oculare disse che l’incendio non li raggiunse
gradualmente, passando da alberi e altri oggetti in fiamme situati sopravento, ma si propagò
da un mulinello di fiamme che vorticava in grandi nubi sopra le cime delle piante.

Altri testimoni furono altrettanto chiari nell’affermare che l’incendio si


diffondeva attraverso «grandi fiamme provenienti dal cielo», e menzionarono
anche una «spaventosa pioggia di fuoco e sabbia ardente dal cielo». Molti
parlarono inoltre di «grandi palle di fuoco che cadevano dal cielo. La volta
celeste era piena di quelle masse fumanti, grandi più o meno come un grosso
pallone aerostatico, che viaggiavano a una velocità incredibile. Cadevano a terra
e scoppiavano».
Gli accenni alla sabbia ardente sono stati presi in considerazione nel libro Mrs
O’Leary’s Comet (1985) di Mel Waskin, capo sceneggiatore e direttore
scientifico di produzione per la Coronet Educational Films di Chicago. Sapendo
che le meteore possono portare nella loro scia una pioggia di particelle di silice,
Waskin ha osservato: «C’era sabbia sulle spiagge, ma le spiagge si trovano a est
e il vento soffiava da ovest e da sud. Non c’era sabbia sui terreni boscosi né su
quelli agricoli del Wisconsin».
È vero che, in generale, i detriti provenienti dallo spazio sono di solito freddi
quando raggiungono la terra, e che molti di questi oggetti spaziali di modeste
dimensioni si disintegrano nel passaggio attraverso l’atmosfera, così che di fatto
vengono a cadere sotto forma di “sabbia”. Tuttavia, altri oggetti più grandi
possono di fatto oltrepassare la barriera dell’atmosfera e colpire la terra dando
origine a incendi, cosa che è accaduta anche in tempi recenti: il 29 agosto 2011,
uno di questi oggetti è stato osservato mentre lasciava una scia fiammeggiante
nel suo passaggio sopra la città peruviana di Cusco, per poi schiantarsi sulle
aride foreste a sud del centro abitato mandandole subito a fuoco. Una cosa più o
meno identica è accaduta l’11 agosto 2013 nei boschi adiacenti alla città di
Kepez Çanakkale, in Turchia. In un evento di grande portata, come la
disintegrazione della cometa di Beila, è ipotizzabile che si siano formati
centinaia o persino migliaia di singoli pezzi di dimensioni variabili, alcuni dei
quali potrebbero essere caduti sotto forma di quella sabbia ardente menzionata
dai testimoni di Peshtigo mentre altri, più grandi, potrebbero aver colpito
direttamente la terra dando origine a incendi.
Nel 1893, il giornalista Michael Ahern ammise alla fine di essersi inventato la
storia della mucca degli O’Leary, ma ormai non c’era più nessuno ad ascoltarlo.
Se non altro, dopo più di un secolo la signora O’Leary e la sua mucca sono state
infine ufficialmente assolte dal consiglio comunale di Chicago, che nell’ottobre
del 1997 ha tenuto un po’ in ritardo una cerimonia dai toni piuttosto scherzosi
proclamando che la mucca era stata vittima di una campagna diffamatoria da
parte della stampa.
Un suicidio per procura: la morte del generale Gordon

A detta di tutti, Charles Gordon era un tipo stravagante. Era un fondamentalista


cristiano, animato da una fede che lo portava a condannare inflessibilmente la
sua stessa omosessualità; fu probabilmente questo conflitto interiore, che spesso
lo induceva a scrivere e a dire che avrebbe voluto nascere eunuco, a spingerlo a
desiderare la morte. Nel 1855, quando aveva ancora solo ventidue anni, venne
mandato in guerra contro la Russia nella penisola di Crimea e scrisse a sua
sorella, Augusta, dicendole che era diretto a Balaklava, dove «sperava che gli
capitasse di essere ucciso». Dopo la sua fulminea scalata dei gradi militari,
Gordon sarebbe stato celebrato dal pubblico britannico per la sua repressione
della rivolta dei Taiping (1850-64), una guerra civile che dilaniò la Cina quando
i nazionalisti Taiping (un nome che, ironicamente, si potrebbe tradurre con
“grande pace”) cercarono di abbattere la dinastia Manciù per sostituirla con
quello che chiamavano il “Regno celeste”. Acclamato in patria come “Gordon il
cinese”, non aveva – comprensibilmente – altrettanti estimatori in Cina, dove
viene ancora descritto come poco più di un bulletto imperialista.
Tornato dalla Cina, Gordon si fece sempre più cupo e iniziò a condurre una
vita da recluso; c’erano dei sospetti sui reali motivi per cui dedicasse gran parte
del suo tempo e delle sue ricchezze alla gestione di scuole che si occupavano dei
ragazzi senza famiglia raccolti nei bassifondi di Londra.
La vita da eremita che si era imposto, comunque, non era destinata a durare.
Nel 1883, Muhammad Ahmad, autoproclamatosi Mahdi (una sorta di messia
islamico), aveva portato il Sudan sull’orlo di un conflitto intestino e il pubblico
britannico iniziò a chiedere a gran voce che “Gordon il cinese” andasse a
risolvere la situazione. Nel gennaio del 1884, il governo Gladstone cedette alle
pressioni popolari e mandò Gordon in Africa con l’ordine preciso di organizzare
l’evacuazione di Khartum ma senza trattenersi oltre lo stretto necessario.
Tuttavia, una volta lì le peggiori paure di Gladstone si concretizzarono e Gordon
si ritrovò assediato nella città e impossibilitato a lasciarla.
Quello che Gladstone non sapeva era che Gordon aveva già stabilito che non
avrebbe mai lasciato Khartum: aveva deciso, cioè, che quella città sarebbe stata
il luogo del suo tanto agognato martirio. Si è ipotizzato che Gordon, cupo e
introspettivo fin dagli anni della sua formazione, soffrisse della sindrome di
Asperger; di certo era incline a lunghi periodi di depressione, durante i quali non
leggeva nient’altro che la Bibbia. Sir Evelyn Baring, il console generale
britannico in Egitto, riferì a Westminster che, dato che Gordon sembrava
prendere le proprie istruzioni direttamente dai profeti del Vecchio Testamento,
era molto improbabile che seguisse i dettami di un qualunque mortale; e, in
effetti, pare che avesse ragione. Mentre stava andando a Khartum, Gordon si
fece sempre più messianico, proclamando che avrebbe «abbattuto il Mahdi» e la
sua «congrega di fiacchi e fetidi dervisci», e mandò dei telegrammi alla città
annunciando «Non abbiate paura. Siete uomini, non donne. Io, Gordon, sto
arrivando». Quindi, per assicurarsi che il proprio destino fosse segnato, dopo
aver varcato i confini del Sudan tenne un incontro con i capi delle tribù locali
nella città di Berber, nel nord del Paese; rivelò loro i dettagli dei suoi ordini
segreti di evacuare tutto il personale britannico da Khartum in quanto gli
egiziani, che avevano già delle truppe sul suolo sudanese, avevano annunciato il
loro imminente ritiro di fronte all’escalation delle attività del Mahdi. Alla luce
del fatto che Gordon aveva già dichiarato che «Nel momento in cui si saprà che
abbiamo abbandonato la partita, tutti correranno a unirsi al Mahdi», questa sua
mossa può essere letta solo come una forma di suicidio.
Una volta sistematosi in città, Gordon dichiarò pubblicamente la sua
intenzione di resistere alle forze del Mahdi; organizzò quindi l’evacuazione di
quasi tremila civili, restando così con circa ottomila soldati bene armati,
un’enorme riserva di munizioni e un adeguato supporto di artiglieria. Tuttavia,
era solo questione di tempo: il Mahdi cinse d’assedio la città nel marzo del 1884
e, alla fine dell’anno, la popolazione era ormai stremata per la fame. Gordon
scrisse a sua sorella dicendole che sperava che la volontà di Dio fosse di lasciare
che morisse lì, in quanto «Le gioie mondane si fanno molto deboli, le glorie
terrene sono svanite». Fumava ininterrottamente e, quando non aggrediva i suoi
servi in uno dei suoi sempre più frequenti scatti d’ira, passava più tempo a
discutere dei piani di Dio onnipotente con il topo che si era stabilito nel suo
ufficio che non a orchestrare le difese della città. Nel Regno Unito, intanto, i
cittadini, ignari di quale fosse lo stato mentale di Gordon, attaccavano Gladstone
per la sua decisione di non mandare un contingente a salvare il loro eroe. Alla
fine, dopo che anche la stessa regina Vittoria gli ebbe chiesto di farlo, il primo
ministro dovette cedere e nell’agosto del 1884 nominò il feldmaresciallo Sir
Garnet Wolseley a capo della Spedizione del Nilo, ordinandogli di prepararsi a
marciare su Khartum alla massima velocità possibile; fu a quel punto che entrò
in scena la Thomas Cook Travel.

IL MAHDI
A meno di sei mesi dalla sua vittoria contro Gordon a Khartum, il Madhi Muhammad
Ahmad morì di tifo; la guerra da lui iniziata, però, proseguì finché Lord Kitchener non arrivò
in Sudan a condurre una campagna di vendetta con una brutalità tale da spingere uno dei
suoi giovani tenenti, Winston Churchill, a condannare esplicitamente la sua politica
dell’“ucciderli tutti”.
L’unico tipo di munizioni che Kitchener portò in Sudan erano le pallottole dum-dum, in
seguito messe al bando, un proiettile a punta cava che si espandeva all’impatto
deformandosi; inoltre, fece fucilare su due piedi diversi figli e parenti del Mahdi.
Il figlio sopravvissuto del Mahdi, Sayidd al-Mahdi, nato nell’anno della morte di suo padre,
venne in seguito visto dai britannici come un moderato con cui potevano trattare. Sayidd,
un uomo misurato ed equilibrato, ebbe degli incontri con il re egiziano Fa¯ru¯q che
avrebbero in seguito aperto la strada, negli anni Cinquanta, ai colloqui con il segretario
degli Esteri britannico Sir Anthony Eden e il primo ministro Winston Churchill. Ottimo
negoziatore, il 1° gennaio 1956 riuscì ad assicurare al Sudan l’indipendenza dall’alleanza
egiziano-britannica.

Nato nel Derbyshire nel 1808, Thomas Cook era un convinto predicatore
dell’astinenza dall’alcol e, oltre a organizzare incontri su questo tema,
accompagnava i membri della sua congregazione e altre persone a partecipare a
manifestazioni in giro per il Paese. Sul piano imprenditoriale, il suo primo
successo fu un accordo con le Midland Railways per il trasporto di cinquecento
persone a una di queste manifestazioni a Loughborough il 5 luglio 1841, al costo
di uno scellino a testa (per andata e ritorno). Nel 1870 stava pubblicizzando dei
viaggi attorno al mondo, un’idea da cui Jules Verne avrebbe tratto l’ispirazione
per il suo Il giro del mondo in ottanta giorni. Organizzava inoltre delle
spedizioni archeologiche lungo il corso del Nilo in accordo con vari capi tribù e
signori della guerra locali, che ne garantivano il libero passaggio. Consapevole
dell’esperienza imprenditoriale di Cook nel campo del trasporto di un gran
numero di persone in Paesi stranieri e desideroso di far partire il prima possibile
il contingente di soccorso della Spedizione del Nilo, Gladstone assoldò Thomas
Cook affidandogli la gestione della logistica; l’esercito di Wolseley fu così
probabilmente il primo nella storia a partire per la guerra con l’organizzazione di
un pacchetto vacanze. Tuttavia, nonostante l’efficienza di Cook, i soccorsi
arrivarono due giorni troppo tardi.
La città era infatti ormai stata travolta dalle forze del Mahdi e quasi tutti gli
occupanti erano stati massacrati, incluso Gordon, che, stando ai sopravvissuti,
era morto declamando passi biblici e sparando col suo revolver finché non era
stato abbattuto. Le forze del Mahdi gli tagliarono la testa, la infilarono su una
picca e la portarono per la città nella loro parata della vittoria; quindi, la
incastrarono tra i rami di un albero di modo che i corvi potessero farne scempio.
Il resto del suo corpo venne fatto a pezzi e gettato in un pozzo. Naturalmente,
Gladstone pensava che questa storia non sarebbe stata accolta bene in patria;
così, venne creato un mito secondo il quale Gordon era andato disarmato
incontro alla morte in alta uniforme e la semplice vista della sua serena calma
aveva fatto indietreggiare in preda allo sgomento l’orda degli invasori, finché un
codardo non gli aveva scagliato contro una lancia. All’artista George William
Joy fu affidato il compito di dipingere un quadro che rappresentasse questa
versione degli eventi; il colpo propagandistico ebbe talmente successo che,
ancora oggi, la maggior parte delle persone sono convinte che Gordon sia morto
così. Il dolore dei britannici per la sua scomparsa fu tale che quando venne resa
pubblica una lettera in cui la regina Vittoria rimproverava Gladstone
incolpandolo della sua morte, il primo ministro fu costretto alle dimissioni.
Il bombardamento di Guernica: fotografare la caduta di un soldato

Per la maggior parte delle persone, gli orrori della Guerra civile spagnola (1936-
39) sono riassunti dal bombardamento di Guernica e dalla fotografia “Morte del
miliziano”. Ma siamo sicuri che le notizie sul bombardamento riflettano
accuratamente i fatti e che quella fotografia sia davvero ciò che sembra?
È indiscutibile che il 26 aprile 1937 Guernica sia stata il bersaglio di un
bombardamento aereo, ma la severità, la durata e l’obiettivo dell’attacco sono
oggetto di tesi contrapposte. I Repubblicani, appoggiati dai comunisti,
sostenevano che la città fosse stata obliterata da un bombardamento condotto in
un giorno di mercato, con migliaia di morti, mentre i Nazionalisti, guidati infine
alla vittoria dal generale Franco (appoggiato dalla Germania nazista),
affermavano che la città era stata scelta legittimamente come obiettivo e che il
bombardamento aveva avuto un carattere strategico e una severità limitata.
Inoltre, stando ai Repubblicani, il raid sulla città – che gli abitanti del posto
preferiscono chiamare Gernika – venne condotto dai tedeschi della Legione
Condor (che non negò mai il proprio coinvolgimento) con il presunto obiettivo
nascosto di testare l’efficacia del bombardamento strategico dei civili in
preparazione dell’imminente Seconda guerra mondiale. In linea con questa
agenda nascosta, la Legione Condor, sotto il comando di Wolfram von
Richthofen (cugino del più famoso Barone Rosso), scelse a caso l’“innocente”
città di Guernica e pianificò con cinismo il suo bombardamento in modo che ci
fossero le migliori chance di dare dei numeri imponenti su cui lavorare a chi
avrebbe dovuto poi fare i conti. Tuttavia, non c’è nulla che sostenga questa
ipotesi, mentre ci sono molti elementi che la contraddicono.
Le forze repubblicane in quell’area erano in piena ritirata e, data la direzione
verso cui si stavano muovendo, era evidente a tutti che sarebbero rimaste
imbottigliate a Guernica, nella provincia basca di Vizcaya (Biscaglia). La città,
inoltre, era un importante capolinea ferroviario e ospitava la fabbrica di armi
leggere Astra; pertanto, sarebbe stato un miracolo se non fosse stata presa come
bersaglio. Il giorno in questione era un lunedì, che per Guernica, in circostanze
normali, sarebbe stato un giorno di mercato e quindi con una maggiore presenza
civile; tuttavia, i mercati erano già stati banditi perché tendevano a bloccare le
strade. E anche se non ci fosse stato quel bando, la popolazione delle campagne
circostanti, notando che la presenza dei Repubblicani in città continuava a
crescere, aveva già immaginato che cosa ci sarebbe stato in serbo per Guernica
e, di conseguenza, aveva deciso di tenersene alla larga. L’obiettivo tedesco,
secondo Richthofen, era quello di distruggere i ponti e le infrastrutture stradali
per limitare le possibilità di lasciare la città, a cui le forze nazionaliste di terra si
stavano rapidamente avvicinando.
La forza d’attacco era composta da due Heinkel 111, un Dornier 17, diciotto
Junkers 52 e tre Savoia-Marchetti 79 italiani, che trasportavano in tutto ventidue
tonnellate di bombe convenzionali da duecentocinquanta o cinquanta chili e
bombe incendiarie da un chilo. La prima delle cinque ondate arrivò alle 16.30
con il DO 17, che si avvicinò alla città da sud per sganciare dodici bombe da
cinquanta chili. Quindi giunsero gli SM 79 italiani, con l’ordine esplicito di
bombardare il ponte e le strade a est della città ma non il centro abitato stesso
(una strana deroga, se l’obiettivo primario fosse stato l’obliterazione di
Guernica). Ci furono poi altre tre ondate con gli Heinkel e gli Junkers; l’ultima
finì verso le 18.00, quando, stando ad alcune testimonianze, circa un quarto della
città era stato raso al suolo o stava bruciando. Guernica, che allora era più
piccola di oggi, non è mai stata una grande città e la maggior parte degli esperti
concordano nel ritenere che un risultato del genere è più o meno in linea con
quello che l’esercito tedesco avrebbe potuto ottenere con il carico di bombe
portato dai loro aerei. Inoltre, dovremmo tenere presente che i pesi delle bombe
citati sopra sono i pesi lordi degli ordigni: in media, il carico esplosivo di una
bomba degli anni Trenta era un po’ inferiore al cinquanta per cento del suo peso
complessivo. In totale, quindi, la quantità di esplosivi sganciati ammontava a
circa dieci tonnellate; certo non sarà piacevole per chi si trova lì sotto quando
cadono, ma, nel contesto di una guerra, è difficile considerarlo come un
bombardamento pesante.
Naturalmente, all’epoca i Repubblicani sostennero che più di metà della città
era stata distrutta; ma se ciò fosse stato vero e se l’obiettivo fosse stato la totale
obliterazione di Guernica, perché i tedeschi non lanciarono semplicemente un
altro raid di forza simile così da raggiungere il loro presunto scopo? Inoltre, se
più di metà della città era in macerie, come dicevano i Repubblicani, perché gran
parte delle vecchie strutture architettoniche di Guernica sono ancora in piedi? I
palazzi parlamentari dell’Ottocento sono ancora lì, così come i tribunali, la
chiesa quattrocentesca di Santa Maria e quella duecentesca di San Tommaso. E
per quanto riguarda il bilancio delle vittime? Anche qui, come prevedibile, i
Repubblicani strombazzarono che erano stati uccisi più di duemila civili
innocenti, ma questo è del tutto impossibile. In media, il tasso di uccisioni dei
bombardamenti aerei degli anni Trenta era di circa sette morti per ogni tonnellata
di ordigni sganciati; ora, sette per ventidue (tonnellate) fa 154, un dato che
corrisponde perfettamente al conteggio più accurato dei caduti (153) stabilito
poco dopo l’evento dal Gernikazarra Historia Taldea (Gruppo storico
Gernikazarra). Tuttavia, questa voce ragionevole non riuscì a mettere a tacere le
affermazioni che continuavano a essere fatte da entrambe le parti in causa:
ancora il 30 gennaio 1970, il giornale pro-Franco di Madrid «Arriba» dichiarava
che quel giorno a Guernica c’erano stati solo dodici morti, un’affermazione
ridicola come quelle del campo pro-Repubblicani secondo le quali il bilancio
sarebbe stato di migliaia di vittime.

GLI ENFANTS PERDUS


La Guerra civile spagnola iniziò il 18 luglio 1936, quando il generale Franco, appoggiato
da Hitler e Mussolini, organizzò un golpe contro il governo repubblicano sostenuto dai
comunisti. Solo vista da lontano la causa repubblicana poteva sembrare quell’avventura
romantica descritta da uomini come Ernest Hemingway (che, nonostante tutte le storie di
azioni temerarie che avrebbe in seguito raccontato, trascorse la maggior parte del suo
tempo nell’Hotel Florida di Madrid, bevendo e mandando articoli basati su informazioni di
seconda mano).
Gli stranieri che corsero ad arruolarsi sotto la bandiera repubblicana spinti da motivazioni
idealiste ebbero presto modo di sperimentare la dura realtà della guerra. Quasi tremila
americani si unirono al battaglione Lincoln, dove però, sotto la guida di comandanti
repubblicani, venivano semplicemente usati come enfants perdus per attaccare posizioni
nemiche troppo fortificate per mettere a repentaglio le truppe spagnole addestrate di tutto
punto. Nel 1938, quando il battaglione decise di tornare a casa, più di un terzo dei suoi
soldati erano morti o gravemente feriti. Le altre brigate internazionali, i cui effettivi
ammontavano in tutto a sessantamila uomini, andarono incontro a un destino simile:
anch’esse persero più di un terzo delle loro forze a causa del cinismo con cui vennero
sfruttate.

Il 28 aprile, la spia della Guerra fredda Kim Philby – di cui conosciamo, alla
luce di successive rivelazioni, le indiscutibili simpatie di sinistra per i
Repubblicani appoggiati dai russi – si trovava a Guernica. Già al soldo di Mosca,
gli era stato ordinato da Stalin di organizzare l’assassinio di Franco. Alcune delle
sue attività clandestine destarono i sospetti del corrispondente della Reuters
Ernest Sheepshanks, una minaccia a cui – a quanto pare – Philby pose rimedio
lanciando una granata nella sua auto. Sia come sia, l’articolo che quel giorno
Philby inviò al «Times» recitava:

Si teme che la conflagrazione abbia distrutto gran parte delle prove riguardo alla sua origine,
ma qui si ha l’impressione che rimanga comunque abbastanza per suffragare l’opinione
nazionalista secondo cui la devastazione di Guernica ha più a che fare con gli ordigni
incendiari dei baschi che non con l’aviazione del generale Franco. Sono stati recuperati pochi
frammenti di bombe, le facciate degli edifici ancora in piedi non portano segni e i pochi
crateri che ho ispezionato erano più grandi di tutti quelli finora provocati da qualunque bomba
sganciata in Spagna. A giudicare dalle loro posizioni (che nella maggior parte dei casi
corrispondevano alle ubicazioni delle botole di ispezione lungo le strade) si può inferire che
questi crateri siano stati causati dall’esplosione di mine piazzate con poco criterio scientifico
allo scopo di interrompere le vie di comunicazione. Alla luce di queste circostanze, è difficile
credere che Guernica sia stata il bersaglio di un bombardamento di eccezionale intensità da
parte dei Nazionalisti o di un esperimento condotto con bombe incendiarie, come sostengono i
baschi.

Altri scattarono foto di edifici che erano chiaramente stati messi a fuoco
dall’interno, con le taniche di benzina abbandonate sul posto. Certo, la Legione
Condor lanciò un numero limitato di bombe incendiarie leggere, ciascuna con un
carico esplosivo di circa quattrocentocinquanta grammi; tuttavia, proprio in
quanto sganciate dall’alto, queste bombe tendono a bruciare gli edifici di più
piani a partire dal tetto, mentre la maggior parte dei resti degli edifici bruciati
ispezionati poco dopo il raid mostravano che le fiamme erano partite dal basso.
Molti dei giornalisti stranieri che visitarono la città dopo il bombardamento
sembravano convinti che ci sarebbero volute molte centinaia di bombe per
ottenere quel livello di distruzione. A destare i maggiori sospetti c’era poi il fatto
che il quartiere di Guernica – un tempo capitale dei Paesi Baschi – dove si
ergono tuttora la vecchia sede del Consiglio e la quercia sacra (Gernikako
Arbola, “L’albero di Guernica”) sotto cui l’Assemblea della Biscaglia aveva
ricevuto per la prima volta il suo statuto privilegiato nel medioevo, era rimasto
completamente intatto. L’importanza storica e spirituale che quella parte della
città ha per i baschi fa sorgere una grossa domanda su chi siano stati i veri
responsabili della devastazione di Guernica.
Tuttavia, i repubblicani vinsero la guerra propagandistica commissionando a
Picasso la realizzazione del suo famoso dipinto Guernica, una tela di circa 3,5
per 8 metri, presentata per la prima volta al padiglione spagnolo dell’Esposizione
internazionale del 1937, che mostra allo spettatore una serie di immagini da
incubo. Si dice che un’immagine valga quanto mille parole, e il dipinto di
Picasso disse moltissimo sugli orrori della Guerra civile spagnola agli altri Paesi
e soprattutto agli Stati Uniti, che in qualche modo riuscirono a esprimere una
chiara condanna della guerra in generale e del bombardamento di Guernica in
particolare restando al contempo muti sui piloti americani coinvolti nel primo
bombardamento concentrato di civili della storia, scatenato su una città del tutto
innocente. Aiutando gli spagnoli a reprimere la sollevazione berbera in Marocco
nel 1925, uno squadrone pilotato da americani bombardò l’irrilevante città di
Chefchaouen, provocando un numero impressionante di vittime. La città, che
aveva più o meno le stesse dimensioni di Guernica (con una popolazione di circa
settemila abitanti) ed era priva di qualsiasi importanza militare, venne colpita
all’unico scopo di piegare la volontà dei rivoltosi. Come dicono in quella città
marocchina, “a Chefchaouen tutti hanno sentito parlare di Guernica, ma a
Guernica nessuno ha mai sentito parlare di Chefchaouen”.
È probabilmente corretto dire che sono pochi i libri o i film che non
ritraggono i membri delle forze franchiste-tedesche come stereotipi del cattivo
fascista e i Repubblicani come nobili idealisti che lottavano contro un nemico
determinato e sadico. È raro che qualcuno menzioni i cinquantamila civili
assassinati da quei nobili idealisti, che nelle loro atrocità mettevano tutto
l’entusiasmo dei Nazionalisti. Da buoni comunisti, i Repubblicani nutrivano un
particolare odio per la Chiesa, con la conseguenza che circa settemila preti e
suore vennero stuprati, crocifissi, gettati ai tori nelle arene, bruciati vivi o
castrati e gettati nei pozzi con la speranza di avvelenare le falde acquifere locali.
Uno dei personaggi più attivi sul fronte dell’uccisione dei religiosi fu una donna
nota solo come “la Pecosa” (“la Lentigginosa”), che, a quanto pare, si divertiva
particolarmente nell’organizzare stupri di gruppo di suore prima della loro
esecuzione. La notte del 19 luglio 1936, la milizia repubblicana si scatenò su
Barcellona, dando fuoco a cinquanta chiese cittadine e lasciandone in piedi
soltanto otto più la cattedrale. Nella città aragonese di Barbastro venne
assassinato più del novanta per cento del clero e a Lérida circa il sessantadue per
cento; Tortosa in Catalogna, Segorbe in Valencia, Málaga, Minorca e Toledo se
la cavarono perdendo solo il cinquanta per cento dei loro ecclesiastici. Come
sempre accade in questo genere di guerre civili, nessuno ne uscì con le mani
pulite.
Il 5 settembre 1936, Endre Friedmann, che avrebbe conquistato la fama
internazionale come fotografo e corrispondente di guerra sotto lo pseudonimo di
Robert Capa, dichiarò di essere riuscito a fotografare per caso un miliziano
repubblicano fuori dal villaggio di Cerro Muriano proprio nell’istante in cui era
stato colpito alla testa da un cecchino. L’immagine diventò subito un’icona, con
il giovane soldato che si accascia all’indietro, con le braccia aperte e il fucile che
gli cade dalla mano destra. Nessuno ebbe nulla da obiettare riguardo alla foto di
Capa (che è tuttora un poster popolare) fino al 1975, quando alcuni geografi e
storici spagnoli esaminarono più attentamente sia la figura centrale sia la
configurazione del declivio sullo sfondo. Il soldato caduto dovrebbe essere
Federico Borrell García, un volontario anarchico, ma i primi sospetti nacquero
per il fatto che anche se era stato di fatto ucciso fuori da Cerro Muriano il 5
settembre 1936, tutti i suoi compagni erano concordi nell’affermare che gli
avevano sparato mentre si stava riparando dietro a un albero. Ora, non solo nella
fotografia di Capa non ci sono alberi, ma non risulta neppure che il fotografo
fosse presente in zona in quel momento.
Sul piano geografico, la configurazione del retroterra sullo sfondo non
assomiglia a nulla che si possa vedere da un qualunque punto attorno a Cerro
Muriano. Stando a José Manuel Susperregui Etxebeste, professore di
comunicazioni audiovisive all’università dei Paesi Baschi, che ha scritto molto
sull’eredità fotografica del conflitto, la fotografia corrisponde esattamente
all’orizzonte geografico visibile a Espejo, a circa cinquanta chilometri a sud-est
di Cerro Muriano. Nel 1936, l’unico scontro nei pressi di quella città ebbe luogo
tra il 22 e il 25 settembre, quando García era già morto da circa tre settimane e
Capa, di nuovo, non era presente nell’area. A quanto pare, quindi, è impossibile
che la fotografia ritragga García e che sia stata scattata a Cerro Muriano. Per di
più, sempre stando a Etxebeste la foto dev’essere stata scattata diverse settimane
prima della data indicata da Capa e non con la sua famosa Leica, ma con la
Rolleiflex della sua socia e all’epoca amante Gerda Taro; inoltre, al momento di
scattare la macchina doveva essere stata montata su un treppiede. In altri termini,
era stata tutta una messinscena.
Comunque, a prescindere dal fatto che la foto sia stata inscenata e che a
scattarla sia stato Capa oppure la Taro, l’immagine mantiene senza dubbio il suo
valore iconico. Gli italiani hanno un detto, “Se non è vero, è ben trovato” (nel
senso di “inventato”), e di certo possiamo dire che la foto di Capa è “ben
trovata”.
Ringraziamenti

Un ringraziamento particolare al dottor Karl Kruszelnicki, del dipartimento di


fisica dell’università di Sidney, che si è preso gentilmente il tempo di spiegarmi
di persona perché gli allineamenti celesti o solari che possono verificarsi oggi a
Stonehenge non sono comunque quelli di cinquemila anni fa.
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I grandi misteri della storia


di Graeme Donald
Proprietà letteraria riservata
© 2018 Michael O’Mara Books Limited
First published in Great Britain in 2018 by Michael O’Mara Books Limited
All rights reserved
© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo originale dell’opera: The Mysteries of Story
Traduzione di Daniele Didero
Pubblicato per BUR Rizzoli da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788831804486

COPERTINA || FOTOGRAFIA: © GETTY IMAGES | ART DIRECTOR: FRANCESCA LEONESCHI | PROGETTO GRAFICO: EMILIO
IGNOZZA / THEWORLDOFDOT

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